Diego Fusaro-La Farmacia Di Epicuro. La Filosofia Come Terapia Dell'Anima-Il Prato (2006)

October 20, 2017 | Author: Joao Gomes Lume | Category: Plato, Happiness & Self-Help, Pleasure, Thought, Aristotle
Share Embed Donate


Short Description

il senso ultimo del filosofare epicureo si riassume nel celebre tetrafarmaco o quadrifarmaco, e cioè la medicina che cu...

Description

LDB

i cento talleri 3

È vano il ragionamento di quel filosofo, dal quale non venga curata nessuna sofferenza umana: infatti, come la medicina non ha nessuna utilità se non espelle le malattie dal corpo, così non l’ha nemmeno la filosofia, se non espelle il turbamento dall’anima. (Usener, fr. 221)

direttori di collana Jacopo Agnesina, Diego Fusaro

DIEGO FUSARO

LA FARMACIA DI EPICURO. LA FILOSOFIA COME TERAPIA DELL’ANIMA. PRESENTAZIONE DI GIOVANNI REALE

Indice

Presentazione (di Giovanni Reale) 1. Prefazione. 2. Una filosofia in cerca della felicità. 3. La felicità attraverso la fisica. 4. La teoria della conoscenza: come dobbiamo conoscere il mondo per essere felici? 5. La felicità attraverso la meteorologia. 6. La felicità attraverso la «quasi-teologia». 7. Essere felici nonostante la morte e il dolore. 8. La felicità attraverso il piacere. 9. Una filosofia individualista? L’amicizia, la politica, la teoria della giustizia. 10. Riflessioni conclusive: la farmacia di Epicuro. 11. La vita di Epicuro come attuazione della sua filosofia. 12. Una farmacia sempre aperta: breve storia dell’Epicureismo. Bibliografia.

A Enrico Donaggio, per la fiducia

Ringraziamenti Desidero qui ringraziare Giuseppe Girgenti e Salvatore Obinu per l’attenta lettura del mio lavoro e per i preziosissimi suggerimenti che mi hanno dispensato. Senza di loro, questo lavoro non avrebbe mai visto la luce. Ringrazio inoltre il professor Giovanni Reale per aver letto e apprezzato questo mio scritto, e per aver scritto la presentazione. Un ringraziamento va anche al professor Enrico Pasini, uno dei miei maestri presso l’Università di Torino. Un ringraziamento particolare va poi a tutti i miei amici (filosofi e non), che ho preferito non nominare singolarmente per non correre il rischio di scordarne qualcuno. Ciascuno di loro sa che è a lui che è rivolto il mio ringraziamento.

Presentazione Il titolo dato da Diego Fusaro a questo libro, La farmacia di Epicuro, è il più efficace e pertinente: non si tratta infatti di un titolo meramente editoriale, ma dall’impronta fortemente ermeneutica. Lo stesso Epicuro, a mio avviso, darebbe ragione all’autore. In effetti, il senso ultimo del filosofare epicureo si riassume nel celebre tetrafarmaco o quadrifarmaco, e cioè la medicina che cura tutti i mali dell’anima. La formulazione classica è: 1. sono vani il timore e la paura degli dèi e dell’aldilà; 2. è assurda la paura della morte, perché essa non è nulla; 3. il piacere, se inteso in modo corretto, è a disposizione di tutti; 4. i dolori o sono di breve durata o sono facilmente sopportabili. L’uomo che sa applicare questo quadruplice farmaco acquista pace dello spirito, serenità, e dunque felicità. Secondo Epicuro, questo tetrafarmaco è in grado di rendere l’uomo totalmente padrone di sé, al punto che il saggio si rafforza nello spirito, in modo tale da poter affrontare qualunque male o sofferenza. Epicuro sostiene addirittura che «il saggio sarà felice anche tra i tormenti». Seneca, riassumendo questo pensiero fra i più forti espressi dalla cultura dell’età ellenistica (e concordano su questa tesi anche gli altri Stoici, di solito fortemente avversi all’epicureismo), dice che «è dolce ardere tra le fiamme». Questo è, ovviamente, un modo paradossale per affermare che il saggio possiede una imperturbabilità spirituale veramente straordinaria. È attestato che Epicuro stesso dimostrò in prima persona la verità di questo suo asserto, vissuto con autentica intensità: mentre era tormentato dagli spasimi di quel male che lo avrebbe portato alla morte, scriveva a un amico, dandogli l’ultimo saluto, che la vita è sempre dolce e felice. Si comprende anche l’affermazione, da molti ritenuta quasi blasfema, ma che in realtà è in perfetta coerenza con il suo sistema, che il saggio può contendere in felicità perfino con gli dèi, con una sola differenza: per il saggio umano la felicità dura tanto quanto dura la sua vita, mentre per gli dèi essa è eterna. La diversità tra la felicità divina e quella umana è, dunque, solo quantitativa e non qualitativa. Epicuro ha portato alle estreme conseguenze e con grande anticipo quelli che in età moderna sono stati chiamati valori vitali; infatti affermava che il più grande di tutti i beni è la vita, e aggiungeva che l’uomo ha bisogno di pochissimo per mantenerla, e che quel pochissimo è a disposizione di tutti gli uomini. Completava questa affermazione in apparenza paradossale con quest’altra: «tutto il resto è vanità». Tutto sommato si può dire che per Epicuro la vita è il vero «assoluto». Fusaro parte da una affermazione di Francesco Adorno: «il filosofare, inteso come riflessione sulla realtà, ha un senso in quanto aiuti l’uomo, attraverso la comprensione del mondo in cui vive, a rendersi conto della propria natura e delle proprie possibilità restituendo sé a se stesso, liberandosi dai timori e dalle apprensioni di una realtà soprannaturale», ma va oltre: «La “rivoluzione copernicana” compiuta da Epicuro sta appunto nel mutare il punto di vista del pensiero greco, ponendo al cuore dell’indagine filosofica non già la verità, bensì la libertà e la felicità, rispetto alle quali la filosofia stessa viene intesa come uno strumento. L’oggetto cede il passo al soggetto, il mondo all’uomo, la verità alla felicità». Forse sarebbe meglio esprimere questo pensiero, dicendo che la libertà non va contro la verità, ma in qualche modo plasma la verità per rendere possibile in ogni caso la felicità. Comunque ha

perfettamente ragione Fusaro quando sostiene che l’ontologia di Epicuro è costruita in funzione dell’eudaimonia, e quindi l’eudaimonia non viene dedotta dal sistema, bensì il sistema dall’eudaimonia. Si tratta di cercare quella verità delle cose che sono in accordo con la possibilità della felicità. Una conferma dell’interpretazione di Fusaro viene dalla curiosa interpretazione della bipartizione della fisica aristotelica in due parti ben distinte: una prima riguardante i fondamenti e la struttura generale della realtà, e una seconda riguardante la spiegazione dei vari fenomeni particolari. Mentre sulla prima parte Epicuro si esprimeva con sicurezza (in ogni caso sempre condizionata dal presupposto che si è detto), per quanto concerne la spiegazione dei fenomeni particolari, sosteneva la tesi della molteplicità delle possibili spiegazioni, affermando quanto segue: «per ciò che riguarda i fenomeni celesti, le cose vanno diversamente (scil. rispetto alla spiegazione dei principi primi); essi ammettono più spiegazioni causali della loro origine e la possibilità di più spiegazioni della loro essenza, purché in accordo con le sensazioni». La sua è un’interpretazione paradossalmente problematica di fenomeni fisici, su cui c’era molto disaccordo e su cui egli non poteva offrire soluzioni incontrovertibili. A Epicuro interessava solamente guadagnare attraverso tale interpretazione la tesi che i fenomeni non sono prodotti da nature intelligenti, cioè da esseri divini, così come non sono prodotti neppure dalla necessità assoluta. L’interesse scientifico in senso moderno gli era del tutto estraneo. Questo rilievo non è da considerarsi in senso negativo, ma ermeneutico: Epicuro, infatti, aveva perfettamente compreso che il problema della vita non può essere risolto dalla soluzione scientifica dei problemi particolari, da quella che noi oggi chiamiamo scienza. La felicità e la pace dello spirito possono discendere solo da una spiegazione ultimativa delle cose, cioè dai principi supremi della realtà nella sua totalità, vale a dire da quel tipo di spiegazione che noi oggi chiameremmo metafisica o ontologica in senso forte. Ci sembra che Epicuro abbia intravisto una distinzione tra quello che potremmo chiamare filosofia prima e filosofia seconda, ossia tra una ontologia in senso forte e una spiegazione fallibile dei fenomeni particolari. Un ultimo rilievo su questo filosofo, spesso tanto frainteso, è il seguente. La filosofia di Epicuro non è un «edonismo» nel senso comune e riduttivo del termine; l’atteggiamento del nostro filosofo di fronte al piacere è, oserei dire, di carattere ascetico. In questo senso la terapia dell’anima è veramente applicabile, in quanto Epicuro spiega quali siano i piaceri veramente fruibili sempre e da tutti (i piaceri naturali e necessari). Spiega anche come certi altri piaceri possano essere fruiti, ma sempre con grande prudenza (i piaceri naturali ma non necessari). Ma l’anima non può essere curata in nessun modo se ci si abbandona alla terza classe di piaceri (non naturali e non necessari), ai quali moltissimi sono soggetti, con quelle deleterie conseguenze che portano all’infelicità. Ma c’è ancora un punto da mettere in rilievo per capire lo spessore etico del personaggio. Nessun filosofo dell’età ellenistica ha esaltato quanto Epicuro l’amicizia. Scrive infatti che «di tutti i beni che la sapienza procura per la beatitudine di tutta la vita, quello di gran lunga più grande è l’acquisizione dell’amicizia» (Massime capitali, n.27). Per Epicuro l’amicizia comincia da una certa forma di piacere, ma poi trascende il piacere stesso e si colloca sul piano spirituale al più alto livello. Scrive Diogene Laerzio (X, 121) nella Vita di Epicuro: «l’amicizia nasce per utilità; essa deve pur avere un inizio – anche la terra va pur seminata!

–, ma poi maturando, determina una comunione fra coloro che hanno l’ideale della vita piacevole». Epicuro si pone come una delle voci più autentiche della sua età: il suo pensiero e la sua vita si sono imposti come paradigma; il successo che ha riscosso nei cinque secoli successivi ne è la controprova. Ma questo filosofo ha ancora molto da dire anche agli uomini di oggi, più che mai affetti dai mali dell’anima, come questo libro di Fusaro dimostra in modo egregio. Giovanni Reale

1. Prefazione. «Pharmakon, pur significando rimedio, cita recita e fa leggere quello che nella stessa parola significa, in altro luogo e ad altra profondità della scena, veleno» 1.

Il titolo di questo scritto si rifà in maniera evidente al titolo di un celebre libro di Jacques Derrida: La farmacia di Platone. Ma, almeno nelle intenzioni, l’analogia vuole andare anche oltre il titolo, coinvolgendo la sfera dei contenuti. Nel suo libro, Derrida, soffermandosi sull’analisi del Fedro, spiega come in Platone la scrittura sia un φάρμακον, una vox media che compendia in sé tanto il significato di «rimedio» quanto quello di «veleno»: e la scrittura, infatti, nell’ottica platonica nasce come rimedio per vincere l’oblio (mettendo per iscritto le cose, si evita che vengano dimenticate), ma rivela ben presto la sua natura opposta, il suo «supplemento pericoloso»2 di veleno, poiché, una volta che si consolida la possibilità di mettere per iscritto le cose, viene meno il bisogno di sforzarsi di ricordarle. Anche la filosofia di Epicuro è, a ben vedere, un φάρμακον, anche se in tutt’altro senso: essa si propone come rimedio, oserei dire come «medicina» (e del resto l’immagine della filosofia epicurea come «quadrifarmaco» si affermò fin dall’antichità), agli affanni che da sempre travagliano l’uomo impedendogli di condurre un’esistenza serena, ma al tempo stesso è un «veleno» che corrompe la filosofia quale era stata sempre intesa dai Greci, vale a dire come rapporto eminentemente teoretico tra il soggetto e l’oggetto. Con la sua filosofia, Epicuro apre una nuova direzione al pensiero occidentale, che da quel momento non potrà non misurarsi – nei termini ora di un proficuo confronto, ora di un rifiuto senza possibilità di appello, ora di una battaglia senza tregua – con questo nuovo indirizzo di pensiero pratico e interessato, più che all’oggetto conosciuto, al soggetto e alla sua esistenza. In altri termini, per poter curare gli animi, la filosofia deve inevitabilmente mutare natura, divenendo qualcosa di ben diverso da quel che era prima. E questo mutamento di natura a cui Epicuro sottopone la filosofia – che si trasforma significativamente in «prassi filosofica» – è destinato ad esercitare una grande influenza sulla nostra tradizione, fino a trovare nel pensiero di Karl Marx il suo punto di incontro più ricco di conseguenze: chi scava in profondità nelle origini e nelle fonti del pensiero marxiano non può non rinvenire Epicuro, al quale la «concezione materialistica della storia» deve sicuramente più di quanto gli studiosi non siano finora stati disposti a riconoscere. L’idea generale che fa da stella polare a questo lavoro è che Epicuro abbia compiuto quella che anacronisticamente possiamo definire, memori della Critica della ragion pura kantiana, una «rivoluzione copernicana» della filosofia, o, come avrebbe detto Gaston Bachelard, una «rottura epistemologica» con l’intera tradizione greca: una rivoluzione che consiste nell’aver posto al cuore della riflessione filosofica l’uomo e la sua condizione esistenziale, per poi elaborare un sistema filosofico interamente funzionale all’uomo stesso e al suo benessere. Di qui la concezione terapeutica della filosofia a cui allude il sottotitolo di questo lavoro, La filosofia come terapia dell’anima. Con tale sottotitolo, inoltre, intendo richiamarmi all’eccellente opera di Giovanni Reale La filosofia di Seneca come terapia dell’anima3, nel tentativo di mettere in luce come anche Epicuro, non meno di Seneca, attribuisca alla filosofia una valenza terapeutica: ma ci riesca, a mio giudizio, in modo molto più efficace nella misura in cui fa salva la libertà dell’agire e in funzione di essa costruisce ogni parte della sua filosofia; invece, lo Stoicismo a cui Seneca si richiama, come tutte le filosofie che azzerano il libero agire umano riducendolo nella migliore delle ipotesi a «libera necessitas», non

può mai conquistare un’autentica serenità, ma, tutt’al più, una forma di pacifica rassegnazione di fronte all’occorrere degli eventi.

2. Una filosofia in cerca della felicità. «Medita, dunque, questi precetti e quelli ad essi affini, giorno e notte, fra te e te e anche con colui che è simile a te stesso, e mai, né da sveglio né in sogno, sarai turbato, ma vivrai come un dio tra gli uomini» 4.

Invertendo l’ordine con cui abitualmente si procede, partiremo dalla fine e termineremo con l’inizio. Più precisamente, concluderemo il nostro lavoro rendendo conto della vita di Epicuro e degli sviluppi successivi del suo pensiero e lo apriremo prendendo le mosse da quello che il nostro autore presenta come un compendio e, in certa misura, un punto d’arrivo della sua prospettiva filosofica: la Lettera a Meneceo, che può essere letta come un agile manuale per chi vuol essere felice. Questo modo di procedere, che a tutta prima potrà sembrare bizzarro, può essere fin da ora spiegato dicendo che nessun altro filosofo più di Epicuro mise in pratica i propri precetti, rivelando una singolare coerenza e una mirabile armonia tra vita e filosofia; a tal punto che non è scorretto affermare che la sua vita non fu altro che la messa in pratica della sua filosofia, con una coerenza che è davvero rara tra i filosofi di ieri non meno che tra quelli di oggi. La straordinaria importanza della Lettera a Meneceo, di questo «messaggio di cultura e di amore dell’umanità»5, risiede, oltre che nell’inesauribile attualità dei temi che tratta, nel fatto che esso rappresenta il punto d’arrivo della filosofia di Epicuro e il raggiungimento finale dell’obiettivo per cui essa era sorta, quanto meno per quel che possiamo ricostruire dai suoi frammenti: il conseguimento di un armonico equilibrio interno, un allontanamento delle troppe paure che attanagliano il nostro animo e che ci impediscono di condurre una vita serena. Tutte le varie tappe (teoria della conoscenza, teologia, teoria dei corpi celesti) in cui il filosofo greco ha scandito la sua ricerca rivelano nella Lettera a Meneceo la loro effettiva destinazione: la filosofia, quale l’ha concepita Epicuro, non è che un portentoso farmaco contro l’infelicità e le molteplici forme in cui essa ci attacca, ora come insofferenza verso la vita, ora come tristezza, ora come timore della sofferenza e di ciò che sfugge alla nostra conoscenza. È soprattutto su quest’ultimo punto che fa leva Epicuro: ciò che più di ogni altra cosa ci sconvolge, impedendoci di essere felici, è il turbamento che deriva dalla nostra ignoranza; temiamo il dolore, paventiamo la morte, siamo terrorizzati da quelli che ci appaiono come imperscrutabili voleri degli dèi e dall’imprevedibile direzione che sembra in grado di assumere la sorte. Tutto ciò ci rende infelici. Il miglior modo per scacciare queste paure sta nel mostrarne l’infondatezza attraverso un’indagine razionale: a questo deve provvedere la filosofia, che con Epicuro assume la funzione pre-illuministica di distruzione dei pregiudizi, della superstizione e dei residui mitici che sbarrano la via che porta alla verità e, con essa, alla felicità. In quest’ottica, l’invito che il filosofo del Giardino rivolge all’amico e discepolo Meneceo, affinché segua i precetti della filosofia e possa così vivere serenamente, diventa, tra le righe, un invito rivolto a tutti noi, che non meno di Meneceo siamo alla disperata ricerca della felicità. Che sarebbe tuttavia facilmente raggiungibile, se solo non si frapponessero, tra noi ed essa, mille paure immotivate che solo il filosofo, armato del grimaldello della ragione, può scardinare una dopo l’altra. Compiuta con buoni esiti quest’operazione, e dunque guadagnato un sereno stato di imperturbabilità, ci si può proclamare felici, a patto che, accanto all’animo, si abbia anche il corpo sgombro da ogni dolore. E così, rivolgendosi all’amico Meneceo, Epicuro si sta rivolgendo anche a noi, che lo leggiamo dopo più di duemila anni: che ciascuno ricerchi senza sosta questo fantasma che ha nome «felicità» e che mai si lascia afferrare, è provato dall’esperienza quotidiana che facciamo nel mondo: vogliamo ora arricchirci, ora goderci una vacanza in luoghi esotici, ora stare in compagnia degli amici. Tutte

queste attività, evidentemente, non sono fini a se stesse, ma mirano al conseguimento di un qualcosa di superiore, che possiamo etichettare come «felicità»: esse non sono che le strade che dovrebbero condurci ad una condizione esistenziale felice. Già Aristotele aveva diffusamente insistito su questa tematica, mettendo in luce con particolare efficacia la natura strumentale dei tanti beni che cerchiamo di acquisire in vista della felicità6. La loro ragion d’essere risiede nella loro funzionalità al raggiungimento della felicità: invece quest’ultima, dal canto suo, non può essere razionalmente spiegata, in quanto risponde a un desiderio innato dell’uomo, che potremmo in certo senso definire come istintuale. Così, a chi ci domanda perché vogliamo andare in vacanza, non esitiamo a rispondere che lo facciamo per essere felici; ma non possiamo nascondere un certo imbarazzo quando ci viene chiesto perché vogliamo essere felici e, soprattutto, in che cosa effettivamente risieda la felicità. Sappiamo con certezza che cosa vogliamo, ma non siamo in grado di motivare perché lo vogliamo. In altri termini, la felicità «la scegliamo sempre per se stessa e mai in vista di altro, mentre onore e piacere e intelligenza e ogni virtù li scegliamo, sì, anche per se stessi […] ma li scegliamo anche in vista della felicità, perché è per loro mezzo che pensiamo di diventar felici. La felicità, invece, nessuno la sceglie in vista di queste cose, né in generale in vista di altro»7. Se il tema non era propriamente nuovo sul panorama filosofico, sicuramente innovativa è la soluzione che ad esso prospetta Epicuro: Aristotele concludeva che la vita felice, per l’uomo, consiste nel vivere secondo ragione e che il piacere stesso è uno strumento tra i tanti per accostarsi alla felicità. La sua restava un’ottica eudemonistica, senza però essere edonistica. Ora, per Epicuro la filosofia ha eminentemente una funzione terapeutica, ossia volta a curare i mali che albergano nell’anima umana precludendoci il raggiungimento della felicità. Così intesa, l’indagine filosofica non è che una strada – la più efficace – per essere felici: ed essere felici significa innanzitutto possedere un animo sgombro da paure e da false credenze che possano turbarlo. Ne deriva, allora, che una filosofia che decriptasse il mondo senza però riuscire a mitigare l’animo dell’uomo, scacciando le paure che lo occupano, andrebbe gettata a mare in quanto inutile sul piano della prassi. E, di fatto, all’intera filosofia greca, dai cosiddetti Presocratici fino ad Aristotele, era imputabile esattamente questo errore, nella misura in cui aveva posto l’accento – ora con grande enfasi, ora in maniera più moderata – sul primato della teoresi, rispetto alla quale l’etica risultava un momento secondario e di minor valore. La «rivoluzione copernicana» compiuta da Epicuro sta appunto nel mutare il punto di vista del pensiero greco, ponendo al centro dell’indagine filosofica non già la verità, bensì la libertà e la felicità, rispetto alle quali la filosofia stessa viene intesa come uno strumento. L’oggetto cede il passo al soggetto, il mondo all’uomo, la verità alla felicità. Questo punto nodale è stato colto con particolare efficacia da Francesco Adorno: «Il filosofare, inteso come riflessione sulla realtà, ha un senso in quanto aiuti l’uomo, attraverso la comprensione del mondo in cui vive, a rendersi conto della propria natura e delle proprie possibilità restituendo sé a se stesso, liberandosi dai timori e dalle apprensioni di una realtà soprannaturale»8. Fatta valere una simile concezione della filosofia, non stupisce se sono messi al bando da Epicuro tutti i grandi sistemi metafisici che pretendono di disvelare una volta per tutte l’essenza del mondo nella sua enigmatica interezza: infatti, ciò a cui deve mirare la filosofia non è decifrare il mondo in via definitiva, ma, più modestamente, conseguire la felicità per il singolo individuo. Per questo motivo, il filosofo del Giardino non si stanca mai di ripetere che la parola del filosofo è vana, se non

allevia qualche sofferenza umana. Quanto fosse decisivo per Epicuro il primato dell’etica su ogni altra branca della filosofia è del resto provato dalla struttura stessa della Scuola filosofica che egli aveva fondato ai margini della città di Atene nel 306 a.C.: una sorta di comunità di amici (uomini e donne, senza discriminazioni di genere) che conducevano in comune la ricerca della felicità filosofando in un giardino – in greco Κ πος, da cui la scuola prese il nome –, lontani dalla città e dagli affanni ingenerati dalla vita politica. Secondo Epicuro, i grandi sistemi filosofici edificati dai filosofi del passato – in primo luogo da Platone e Aristotele – hanno attribuito un’importanza decisiva all’indagine metafisica, finendo per scordarsi o, nella migliore delle ipotesi, per concedere poco spazio ai problemi materiali dell’esistenza del singolo individuo e dei suoi dilemmi d’ogni giorno, che più che riguardare la struttura dell’universo o del sovrasensibile, sono diretti a tematiche quotidiane e, forse, più prosaiche, come la morte, la sofferenza o il potere degli dèi sulle vicende umane. In questo primato assegnato all’etica e alla vita quotidiana, in opposizione ai grandi quesiti metafisici – astratti e lontanissimi dalla vita reale – che avevano contraddistinto le generazioni filosofiche immediatamente precedenti, Epicuro è figlio del suo tempo, di quell’età che Gustav Droysen9 ha molto appropriatamente etichettato come Ellenismo; a Droysen va tra l’altro il merito di aver chiarito che l’Età ellenistica non fu affatto un’epoca buia e di declino quale era stata fatta ingiustamente passare dalla tradizione umanistica. La misteriosa unità del reale, colta e spiegata dai pensatori presocratici attraverso l’individuazione di un’unica ἀρχή («principio»), era stata frantumata in due mondi distinti (quello trascendente e quello sensibile, pallida e imperfetta copia del primo) dalla serrata dialettica di Socrate e, soprattutto, di Platone. Con la sua riflessione, Aristotele aveva tentato di ricomporli, ma con il poco confortante risultato di una riproposizione, seppure con diverse sembianze, della medesima dicotomia. Ora, i filosofi della nuova stagione ellenistica, poco propensi alla trattazione di problemi metafisici, preferiscono cercare viatici che possano sorreggere l’uomo nel suo peregrinare terreno lungo gli insondabili sentieri tracciati da una Tύχη capricciosissima, che può senza alcun motivo razionale mandare in rovina chi ha precedentemente elevato a signore del mondo e porre sul trono chi inizialmente era stato condannato al ruolo sociale di poveraccio. Così si spiega il primato che all’etica accordano tutti i filosofi ellenistici, pur nella variegata pluralità delle soluzioni prospettate: di fronte alla caoticità di un mondo ossessionato da paure e inquietudini d’ogni genere, tutti aspirano al raggiungimento di uno stato di equilibrio interno coincidente con l’«autosufficienza» (αὐτάρκεια) e con un’incrollabile serenità spirituale. Quest’ultima è declinata ora come «imperturbabilità» (l’ἀταραξία di marca epicurea), ora come «impassibilità» (l’ἀπάθεια degli Stoici), ora come «indifferenza» agli accadimenti (l’ἀδιαφορία tematizzata da Pirrone di Elide): tutte queste varianti confluiranno poi nella latina «tranquillitas animi» tematizzata da Seneca. Il comun denominatore di queste diverse concezioni etiche dev’essere anzitutto ricercato nella costante presa di distanza dal mondo, liquidato ora come ininfluente sul soggetto (lo Stoicismo), ora come sede dell’incertezza (lo Scetticismo); dal canto suo, Epicuro si differenzia dai pensatori del suo tempo e cerca di dominare gnoseologicamente il mondo più che di liquidarlo come realtà di poco conto. Cedendo il passo all’etica, nell’Età ellenistica la metafisica viene detronizzata ed è fatta oggetto di un sostanziale agnosticismo da parte dei nuovi pensatori, che appuntano la loro attenzione su categorie immanentistiche e, spesso, materialistiche che fanno tutte capo al mondo della φύσις. In particolare, Wilhelm Dilthey notava che in tutte le epoche storiche del pensiero vi sono stati momenti nei quali sono intervenute modificazioni a tal punto profonde e radicali che le mutate condizioni

d’esistenza non si lasciavano più comprendere alla luce dei sistemi vigenti10: è in questi periodi di metamorfosi del pensiero che sorgono nuove forme di filosofia, le quali, rinunciando alla prospettiva sistematica e onnicomprensiva, manifestano un soggettivismo attento al problema dell’esistenza; e nel novero di queste filosofie, alle quali dà il nome di «filosofie delle vita», Dilthey non esita ad ascrivere quelle dell’Età ellenistica, con particolare attenzione per lo Stoicismo e per Epicuro. E, prima di Dilthey, già Karl Marx aveva messo in luce come, per quel che riguarda la storia delle idee, dopo i grandi sistemi (quelli di Platone e Aristotele nell’antichità e quello di Hegel nell’Età moderna) che imprigionano nelle loro categorie astratte la realtà, sorgono puntualmente forme di pensiero che, più modestamente, sottopongono al centro della loro riflessione il reale e il problema dell’esistenza11, scendendo dal cielo alla terra. Questo mutato punto di vista che si ha con la filosofia ellenistica dev’essere sicuramente messo in relazione anche con la particolare situazione storica che la Grecia del IV secolo a.C. stava vivendo: dopo le grandi conquiste di Alessandro Magno, l’uomo greco si trova proiettato in un mondo senza confini, che spazia dall’Ellade all’India e all’Egitto e, dinanzi a questo universo sterminato e caotico, il cui baricentro non coincide più col rassicurante perimetro dell’άγορά cittadina, egli prova un misto di fascino e sgomento; e se da un canto non può non sentirsi cittadino del mondo, di cui coglie, al di là dei diversi costumi vigenti presso i diversi popoli, l’unità strutturale, dall’altro tende ad arroccarsi entro se stesso e a cercare nella propria interiorità l’equilibrio smarrito sul piano esterno, facendo del proprio interno la fonte più sicura di ogni certezza; in questo senso, è stato rilevato che «il mondo alessandrino è la vera patria dell’Epicureismo»12. Per poter trovare in sé la fonte di un armonico equilibrio, il greco si vede costretto a sostituire agli antichi valori collettivi tipici della πόλις, quelli più legati alla sfera individuale. In tal modo, cosmopolitismo e individualismo finiscono, paradossalmente, col coesistere in quanto manifestazioni ad un tempo opposte e complementari della stessa condizione spirituale: come i Greci si trovavano improvvisamente proiettati in un mondo senza confini e a tale sconfinatezza rispondevano ripiegando sulla propria interiorità, così gli Stoici si proclamano a gran voce cittadini del mondo, rivendicando una cittadinanza che si spinge ben al di là del recinto chiuso della πόλις classica, mentre Epicuro riconduce l’esistenza umana a una sfera più genuinamente individuale e appartata, pur riconoscendo nell’amicizia, e dunque nella convivenza coi propri simili, il bene supremo: ma anche l’individualismo epicureo, come vedremo, non rinuncia certo all’universalità, nella misura in cui si pone come messaggio rivolto a ogni uomo del mondo. La domanda fondamentale a cui la filosofia, in questa specifica temperie storico-culturale, è dunque tenuta a rispondere è la seguente: come ci si deve comportare in un tale contesto politico, culturale e sociale? Che atteggiamento assumere per poter essere felici? Le risposte avanzate variano non solo a seconda della scuola filosofica di riferimento, ma anche da pensatore a pensatore della medesima scuola. Al di là del ventaglio di risposte fornite, quel che è certo è che tutti i pensatori di quest’Età concepiscono la mèta etica che si prefiggono in termini per lo più negativi: chi come assenza di turbamenti, chi come assenza di passioni, chi come assenza di dolore. Ma se l’obiettivo da raggiungere è l’assenza di turbamenti, di passioni o di dolore, ciò significa che, in partenza, l’uomo è invaso da queste affezioni: si tratta pertanto di scacciarle e, così facendo, di guadagnare l’equilibrio che esse hanno offuscato. La bella quanto efficace immagine che Epicuro adopera per chiarire questo punto è quella del γαληνισμός ovvero della quiete del mare dopo la tempesta: nata dall’infuriare di una tempesta di paure e di turbamenti nell’animo, la filosofia mostra l’infondatezza di quei timori e, per questa via, placa la tempesta, ripristinando lo stato di

bonaccia. In una simile prospettiva, essere felici significa placare la tempesta che è in noi per riguadagnare la serenità. E quando Plutarco, l’irriducibile avversario di Epicuro, vuole attaccarlo al cuore, non fa che muovere guerra alla sua etica, tentando di dimostrare – come recita il titolo di un suo scritto – che «non si può vivere beatamente secondo il pensiero di Epicuro»: se infatti si riuscisse davvero a dimostrare, come Plutarco ritiene di aver fatto, che l’etica di Epicuro non conduce alla felicità, allora crollerebbe immediatamente tutto il suo sistema, che è interamente elaborato al fine di dare fondamento all’etica. Non stupisce, dunque, che la gnoseologia, la fisica e la logica siano intese dai filosofi ellenistici come subordinate all’etica, rispetto alla quale sono, per così dire, «strumentali»: esse non sono che le strade che portano all’unica mèta del vivere felicemente. Ma solo in Epicuro questo passo è compiuto fino in fondo, al punto da piegare le verità teoretiche, teologiche e meteorologiche alle istanze etiche. Né gli Stoici né gli Scettici si spingono così in là. Sicché quella del mondo fisico, della natura degli dèi, dei moti celesti non è una conoscenza fine a se stessa, ma, piuttosto, volta a tranquillizzarci, mostrando o come tutto procede in maniera necessaria (è questa la prospettiva stoica) o come tutto è spiegabile razionalmente, magari ammettendo perfino una pletora di spiegazioni (per Epicuro) o, ancora, come nulla può essere conosciuto e, pertanto, non occorre avere opinioni o pretendere di aver attinto la verità (così sostengono gli Scettici). In tutti questi specifici punti di vista il sapere teoretico è secondario e funzionale rispetto al bene etico: non importa tanto quel che si sa, l’importante è condurre un’esistenza felice. In Epicuro, tale privilegiamento dell’etica trova un suo sviluppo particolarissimo: per liberare l’animo dalle paure che lo travagliano, la filosofia è chiamata a somministrargli un «quadruplice farmaco» (τετραφάρμακος) con cui spegnere la paura della morte, del dolore, degli dèi e dimostrare come la felicità, consistendo semplicemente nel piacere e nell’assenza di turbamenti, sia una mèta facilmente raggiungibile dall’uomo. Secondo la precisa formulazione che del «quadrifarmaco» dà Filodemo di Gadara, «il dio non incute timore, né turbamento la morte, il bene è facilmente ottenibile, il male facilmente sopportabile»13. Se Platone aveva assimilato la medicina alla retorica14, Epicuro non esita a fare della filosofia un potente farmaco in grado di scacciare ogni preoccupazione e di riportare l’animo a un tranquillo stato di serenità. E se la filosofia ha come risultato il conseguimento della felicità, ne segue necessariamente che ognuno di noi, in ogni momento della sua vita, è tenuto a dedicarsi ad essa, poiché ciascuno non mira ad altro che ad una condizione stabilmente felice: il giovane non deve desistere, l’anziano non deve stancarsi, perché smettere di filosofare o non iniziare mai a farlo sarebbe come smettere di essere felici o non cominciare mai ad esserlo: «Né uno quando è giovane esiti a filosofare, né quando è vecchio si stanchi di farlo. Infatti, per nessuno non è ancora il momento, o non lo è più, di acquistare la salute dell’anima. Perché chi afferma che non è ancora il tempo opportuno, o che questo tempo ormai è passato, assomiglia a chi dicesse che non è giunto ancora il momento per la felicità, o che non lo è più»15. Proprio perché ha per obiettivo la conquista della «salute dell’anima» – ecco riaffiorare l’analogia medica –, la filosofia dev’essere praticata da ogni uomo, a prescindere dal genere, dall’età e dalla condizione sociale. Per questa ragione, lungi dall’essere un sapere elitario quale lo concepiva Eraclito, o destinato a una ben precisa fascia d’età, come credeva Platone, la filosofia è un bene universale, alla portata di tutti, giovani, anziani e donne: tutte categorie di persone che, tradizionalmente, si vedevano interdetto l’esercizio dell’attività filosofica e che Epicuro, compiendo

una rivoluzione senza precedenti, riconosce come aventi diritto alla felicità e, dunque, alla ricerca filosofica. Il ragionamento epicureo è chiarissimo e di una coerenza che saremmo tentati di dire «sillogistica»: tutti gli uomini aspirano ad essere felici; la felicità si ottiene tramite la pratica della filosofia; dunque tutti gli uomini devono dedicarsi alla filosofia. Non stupisce che il nostro autore si proclami senza tregua a favore dell’«universalismo» del sapere filosofico, «intendendo la filosofia non come professione, non come specifica scienza, ma come amore del sapere, come continua e vigile riflessione, come consapevolezza critica di sé e, perciò, non come patrimonio di classe, ma come capacità comune a tutti che abbiano appreso a saper ragionare»16: e il «saper ragionare» è, per l’appunto, una qualità non di certi uomini particolari, ma dell’uomo in quanto tale. Sembrerà un paradosso (ma in realtà è la coerente conseguenza del suo modo di intendere la prassi filosofica) il fatto che Epicuro accolga nel suo Giardino addirittura gli ignoranti: anche costoro, infatti, sono in cerca della felicità e devono dunque essere istruiti circa il funzionamento della realtà. Occorre ora esaminare, nello specifico, in che modo riesca la filosofia epicurea a procurare la felicità che abbiamo visto essere la grande mèta fissata dalla Lettera a Meneceo.

3. La felicità attraverso la fisica. «Bisogna ritenere che sia il compito specifico della filosofia della natura quello di cogliere con precisione la causa dei fenomeni più importanti, e il fatto che la beatitudine sta proprio qui, nella conoscenza di quali nature si rivelano in questi fenomeni celesti, e tutte le nozioni che contribuiscono alla conoscenza precisa rivolta a questo scopo della beatitudine» 17.

È curioso come, della ricca produzione – Diogene Laerzio18 parla addirittura, forse esagerando, di trecento opere epicuree – di questo pensatore così poliedrico che crede di essere riuscito ad allontanare una volta per tutte i mali che affliggono l’animo umano, ci sia giunto così poco: la sua monumentale opera Sulla natura, in ben trentasette libri, che doveva costituire un compendio in forma enciclopedica del suo sistema filosofico, è andata perduta e non ne possediamo che i frammenti papiracei rinvenuti negli scavi di Ercolano. Questa perdita, che per il miope giudizio di Georg Wilhelm Friedrich Hegel19, fiero avversario di ogni materialismo e soprattutto dell’Epicureismo, non poteva che essere un bene, a noi appare come una lacuna gravissima, che ci impedisce di ricostruire in maniera completa il mosaico del pensiero epicureo: a Diogene Laerzio, che non nasconde una profonda simpatia per il verbo del filosofo del Giardino, va il merito di averci restituito20 in forma integrale le tre epistole sulla teoria atomistica (ad Erodoto), sulla meteorologia (a Pitocle) e sulla felicità (a Meneceo), nelle quali il nostro autore, scrivendo ai suoi amici e seguaci, richiama senza sosta, dandoli spesso per acquisiti, i capisaldi della sua filosofia. Esse dovevano svolgere la fondamentale funzione di consentire ai principianti di fissare in mente gli elementi fondamentali della filosofia epicurea e ai più progrediti di richiamarli e usarli nelle varie circostanze della vita, avvalorando ancora una volta la tesi dell’assoluta destinazione pratica del sapere filosofico. Indirizzate ai suoi numerosissimi amici sparsi qua e là per il mondo, esse andarono incontro a una diffusione fecondissima, a tal punto che, s’è detto, «nella sua letteratura epistolare indirizzata alle sue comunità sparse in Oriente Epicuro sembra essere il precursore di San Paolo»21; un giudizio poco condivisibile forse – nella misura in cui tende a rileggere il nostro autore alla luce di quel che c’è stato dopo di lui –, ma che comunque coglie bene la straordinaria diffusione a cui andò incontro il messaggio epicureo. A questo scopo di richiamo di punti filosofici già noti obbediscono anche le numerose massime – una specie di raccolta di aforismi, brevi e concisi, da fissare nella memoria – elaborate da Epicuro nel corso della sua vita, e in parte conservateci dallo stesso Diogene Laerzio (le cosiddette Massime capitali) e da un codice vaticano (le cosiddette Sentenze vaticane). Anch’esse, non meno delle epistole, sono di fondamentale importanza per ricostruire il pensiero di Epicuro in assenza delle sue opere principali. La Lettera a Meneceo, avendo per tema portante la felicità e le strategie per raggiungerla, può con buona probabilità collocarsi nella tarda produzione di Epicuro, anche alla luce del fatto che in essa sono date per acquisite tutte le principali dottrine filosofiche elaborate dal nostro autore, dalla «prolessi» alla partizione dei piaceri, dalla concezione teologica a quella fisica: richiamandole rapidamente una ad una, egli mostra come non vi sia parte del suo sistema che non sia connessa con le altre e, soprattutto, come tutte abbiano di mira il comune obiettivo del conseguimento della felicità. Sarà pertanto opportuno ripercorrerle tutte per vedere come esse effettivamente tendano a quest’unico traguardo, rispetto al quale non è esagerato dire che abbiano in certo senso una funzione strumentale. Nella sua vocazione etica, Epicuro rigetta senza mezzi termini ogni parte del grandioso sistema

platonico: assurdo gli appare l’interesse per il mistico e per il religioso, dannosa l’importanza accordata alla gnoseologia e soprattutto alla politica, «tutta contraria alla verità la geometria»22, e addirittura «dannosa» e «inutile»23 la musica. Lo stesso aristotelismo – che il filosofo del Giardino conobbe nella sua forma essoterica e non esoterica, come ha lucidamente colto Ettore Bignone24 – agli occhi impietosi di Epicuro non è che una sciagurata riproposizione del platonismo e della sua dicotomia tra mondano e metafisico: rigettate tutte queste componenti del pensiero platonico/aristotelico, Epicuro non poteva che porre al cuore della sua riflessione la φύσις indagata dai Presocratici, sicché la sua si configura, per usare una terminologia di sapore platonico, come una vera e propria «navigazione a ritroso»: dagli iperuranici lidi delle Idee a cui era approdato Platone con la sua «seconda navigazione» (δεύτερος πλο ς25) alle più rassicuranti sponde della φύσις presocratica, avvertita però con una nuova sensibilità proprio perché contrapposta all’idealismo platonico. Tutta la riflessione epicurea è, a ben vedere, una netta confutazione del platonismo e dei suoi derivati e forse anche – come s’è sforzato di dimostrare Ettore Bignone – di certo aristotelismo. Nel suo famoso L’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro, Bignone cerca di dimostrare l’impegno argomentativo di Epicuro contro il «giovane» Aristotele, quello ancora vicino al platonismo e al suo scetticismo in sede fisica: e anche se è stato detto che «ulteriori lavori, specialmente di Diano e recentemente di Furley, hanno sgomberato il campo da questa inutile ipotesi. Poiché, mentre Bignone era limitato da discutibili interpretazioni su ciò che il “primo” Aristotele insegnava, noi sappiamo invece che esistono precisi parallelismi nel campo dell’etica, della fisica e della psicologia, tra Platone e l’Aristotele dei trattati da una parte, e Epicuro dall’altra»26, ciò non di meno l’opera di Bignone continua ad essere un ineludibile punto di riferimento o, come scrive Domenico Pesce, «una pietra miliare»27 – per ricchezza di riferimenti, profondità argomentativa e chiarezza espositiva – per chi voglia avvicinarsi al pensiero epicureo. Del resto, questa polemica epicurea contro Aristotele e contro Platone s’inscrive pienamente nel clima culturale dell’Età ellenistica, i cui filosofi – dagli Stoici agli Scettici, fino ai Cinici – si misurano incessantemente, ora in negativo criticandoli, ora in positivo assimilandone alcuni aspetti, con gli ineguagliati vertici filosofici raggiunti da Platone e Aristotele, dei quali però tacciono quasi sempre i nomi. Ad accomunare l’Epicureismo alle altre principali scuole dell’età ellenistica è, oltre allo spiccato interesse etico e al costante riferimento al platonismo e all’aristotelismo, la tripartizione a cui sottopongono la filosofia, suddividendola in teoria della conoscenza, fisica ed etica. La puntuale immagine di Posidonio della filosofia come un organismo del quale le ossa sono la logica, il sangue e la carne sono la fisica, e l’anima è l’etica, può in certo modo valere anche per il nostro autore, che non meno di Posidonio accorda il primato alla sfera etica ma senza per questo sminuire le altre parti del sistema. In quest’ottica, l’intero sistema epicureo si configura come ottimamente architettato in vista dell’obiettivo ultimo della felicità, non raggiungibile se non si è preventivamente sgombrato l’animo umano dalle paure che lo occupano e che ci portano a vivere come i bambini28 che, quando calano le tenebre, hanno paura di ogni cosa per il solo fatto che non ne distinguono chiaramente le forme. Si tratterà allora di portare dalle tenebre alla luce del sole il funzionamento fisico e meteorologico dell’universo, la funzione in esso rivestita dagli dèi e dall’uomo, la natura del dolore, del piacere e della morte, fugando in tal modo ogni paura e facendo risplendere ogni cosa con la luce della conoscenza razionale. Dimostrando la razionalità del reale, viene meno la paura di essere succubi di forze oscure e divine e, in questo modo, è aperta la strada alla felicità. In sede fisica, attraverso la mediazione degli insegnamenti di Nausifane, Epicuro recupera la teoria

atomistica formulata nel V secolo a.C. da Democrito: è noto che il filosofo di Abdera, non meno di Empedocle e di Anassagora, aveva cercato di superare l’aporia eleatica della negazione del divenire e, per fare ciò, aveva assunto gli «atomi» (ἄτομοι) e il «vuoto» (κενόν) come unici princìpi in grado di spiegare la realtà nei suoi incessanti movimenti di generazione e di corruzione. Un rapido excursus sull’aporia eleatica ci sarà utile per capire come Democrito sia giunto all’atomismo e come quest’ultimo sia stato ereditato, pur con notevoli modifiche, da Epicuro. Cambiando radicalmente la rotta della tradizione filosofica avviata da Talete, Parmenide aveva abbandonato il campo dell’apparenza fenomenica della natura per spostare l’indagine sul piano della riflessione logica: in questo modo, il tradizionale punto di vista della filosofia – rivolto a ciò che era empiricamente osservabile nel mondo – veniva rimpiazzato da una nuova prospettiva, quella che muoveva da ciò che può essere propriamente pensato e detto. Forte di questo nuovo punto di vista, Parmenide aveva caratterizzato l’essere come ciò che è, è eterno, indivisibile, perfetto, sempre identico a sé; e il suo allievo Zenone si sarebbe poi prodigato per mostrare le spaventose conseguenze che sarebbero derivate dalla negazione delle verità del maestro. Parmenide aveva inoltre distinto tra una via filosofica percorribile (consistente nel dire e nel pensare «ciò che è») e un’altra impercorribile (consistente nel dire e nel pensare «ciò che non è»), segnalando che gli uomini, che alla ragione antepongono i sensi, imboccano una terza via pericolosissima, la via dell’opinione, la quale porta alla pseudoconoscenza che trae origine dal mondo empirico sensorialmente conosciuto. I sensi, infatti, abbagliano gli uomini facendo loro credere che le cose divengano incessantemente, in un costante avvicendarsi di essere e non-essere, in forza del quale le cose non sono sempre state né sempre saranno, bensì sono ora per poi non essere più. Ne nasce l’illusione che l’essere e il non-essere si implichino continuamente a vicenda, là dove la via della verità insegna che essi si elidono mutuamente. Connesse al divenire sono altre due idee fuorvianti generate dall’opinione: quella della molteplicità e quella del movimento. Infatti, il mondo appare agli uomini come una molteplicità di realtà in movimento costante. La posizione parmenidea sfocia inevitabilmente in un monismo radicale, per cui dell’essere si parla in un unico senso ed è nettamente esclusa l’eventualità del divenire, della molteplicità e del moto. Con tale esclusione, il filosofo di Elea si pone al di fuori del novero degli indagatori della natura e, al tempo stesso, costituisce un insormontabile ostacolo per i filosofi della natura successivi, ponendoli nella necessità di contravvenire il suo divieto secondo cui solo «ciò che è» è pensabile e comunicabile. La storia del pensiero di Parmenide, scandita da un’alternanza di parricidi e resurrezioni, giunge fino ai giorni nostri e su di essa s’è scritto moltissimo; ciò che è importante sottolineare, ai fini della nostra trattazione, è che tanto Democrito, quanto Empedocle e Anssagora si trovarono di fronte al problema della rilegittimazione della fisica e dell’esperienza: sarà anche vero che, da un punto di vista meramente logico, le cose non possono divenire, come aveva sostenuto Parmenide; ma è altrettanto vero che nell’esperienza che del mondo facevano quotidianamente, Anassagora, Democrito ed Empedocle vedevano corpi che mutavano, ora trasformandosi in altri, ora disgregandosi. Più precisamente, essi sapevano bene che il mondo è il teatro di sempre nuovi mutamenti continuamente esperibili. Sicché, per salvare i fenomeni senza trasgredire il ferreo divieto logico parmenideo (l’essere è, il non-essere non è), occorreva individuare dei princìpi eterni ed immutabili (al pari dell’essere parmenideo) che, variamente combinandosi, dessero vita a quella realtà fenomenica che vediamo coinvolta nei processi di generazione e di corruzione. A ciò provvedono gli atomi di Democrito, quelle particelle – infinite di numero – costituenti la parte ultima in cui è divisibile la materia. Dunque egli supera l’aporia eleatica assumendo come struttura della realtà invisibile ad occhio nudo

principi (infiniti di numero ma non infinitamente divisibili), pieni e privi di parti. Questi principi, per potersi muovere e per consentire la generazione e la corruzione dei composti che riscontriamo nel mondo fenomenico, devono disporre di uno spazio entro cui muoversi: ed è esattamente per questa ragione che Democrito introduce come secondo principio il vuoto, condizione imprescindibile del moto atomico. Se infatti non esistesse il vuoto e tutto fosse «pieno», non potrebbe avvenire alcun movimento; probabilmente Epicuro e Democrito avrebbero accettato la dimostrazione – gretta ma efficace – dell’esistenza del vuoto portata da Diogene il Cinico, il quale, di fronte a un tale che negava che il vuoto e, di conseguenza, il movimento esistessero, si era alzato e s’era messo a camminare. Gli atomi, queste parti ultime della realtà assimilabili, se vogliamo, a punti non ulteriormente scomponibili, si muovono nel vuoto in ogni direzione e, dal loro incontro casuale, si origina la formazione di aggregati atomici; non è un caso che Democrito chiamasse gli atomi e il vuoto rispettivamente «essere» e «non essere», secondo l’innovativa terminologia introdotta da Parmenide. Ciò evidenzia come quel che per il pensatore di Elea era valido esclusivamente a livello logico, per Democrito – che in questo rivela una certa sensibilità all’insegnamento di un altro allievo di Parmenide, Melisso (di cui l’amico Leucippo stesso forse fu discepolo) – lo diventa anche sul piano della φύσις. Uno dei punti fondamentali della teoria atomistica, che si contraddistingue per la sua incredibile economicità esplicativa (con due soli principi, atomi e vuoto, rende conto di ogni cosa), è la già ricordata infinitezza numerica degli atomi: la prima conseguenza immediata di questo assunto è l’infinita aggregabilità degli atomi stessi, i quali possono dare vita a infinite combinazioni e, di conseguenza, a infiniti mondi; la seconda è l’esistenza di parti vuote all’interno degli aggregati atomici: oltre al vuoto esterno (imprescindibile condizione di movimento per gli atomi), esiste anche un vuoto interno alle strutture atomiche, come è attestato dal fatto che la struttura dei corpi è suscettibile di trasformazioni implicanti movimento. Se i composti non ospitassero il vuoto, non potrebbero subire alcuna modificazione. Ad esempio, la struttura dell’animale è indubbiamente compatta, eppure cresce (ovvero assume materia) e invecchia (cedendo materia), e questo può essere spiegato solamente in base al movimento degli atomi all’interno di questa struttura atomica. A rendere gli atomi diversi fra loro sono caratteristiche geometriche, che nulla hanno a che vedere con le qualità: nel primo libro della Metafisica, Aristotele qualifica gli atomi democritei con l’espressione στοιχεῖα, che letteralmente significa «elementi»29: espressione con la quale i Greci definivano le lettere dell’alfabeto e che lo Stagirita impiega intenzionalmente per mettere in luce come, nella prospettiva atomistica, gli atomi stiano al mondo nello stesso rapporto con cui le lettere stanno all’alfabeto; infatti, come dalla combinazione delle lettere traggono origine le parole di cui ci serviamo per comunicare, così dall’intrecciarsi degli atomi nascono gli aggregati che vediamo intorno a noi in quello che, soprattutto a partire dal Rinascimento (si pensi a Galileo Galilei), sarà detto il «libro della natura». Sempre secondo la preziosa testimonianza di Aristotele30, per «forma» (ῥυθμός) gli atomi democritei si distinguono fra loro come la A si distingue dalla N; per «ordine» (διαθιγή) come AN da NA; per «posizione» (τροπή) come Z da N. Poste queste tre differenze geometriche di base, pare che Democrito ascrivesse agli atomi un numero infinito di differenze31, a tal punto da finire per ammettere bizzarramente l’esistenza di atomi a forma di uncino, di anello e di tridente, suscitando le crasse (e forse non del tutto ingiustificate) risate dei suoi avversari (tanto del pagano Cicerone quanto del cristiano Lattanzio32). Se poi gli atomi fossero effettivamente dotati di un numero infinito di differenze, allora se ne dovrebbe dedurre l’esistenza di atomi di grandezza infinita33, addirittura

grandi quanto il mondo e pertanto visibili ad occhio nudo. Per non scivolare in questa contraddizione – l’idea di atomi visibili ad occhio nudo è incompatibile con la nozione stessa di atomo –, Epicuro, nella sua riformulazione dell’atomismo, avrebbe rigettato fermamente il numero infinito delle forme atomiche, sostenendo che esse sono non infinite ma incalcolabili34. Ma bisogna rifiutare anche l’idea di atomi infinitamente piccoli, poiché altrimenti si dissolverebbero nel nulla, tanto più che l’ammissione stessa degli atomi è necessaria per non dover ammettere un’infinita divisibilità della materia (come accadeva ad Anassagora che ammetteva che i «semi» – o «omeome-rie», secondo la definizione aristotelica – costituenti il reale fossero infinitamente divisibili): per scongiurare tale pericolo, Epicuro sostiene ingegnosamente l’esistenza di un «minimo» (ἐλάχιστον) ossia di un limite di piccolezza oltre il quale gli atomi non possono arrivare ad essere. Abbiamo già accennato, en passant, ad alcune modifiche che Epicuro apporta alla dottrina atomistica di Leucippo e Democrito: occorre ribadire che, nonostante la rivendicazione di essere un autodidatta35, Epicuro prende le mosse dalla fisica democritea, che fa sua nelle sue linee essenziali (travasa vino vecchio in botti nuove, potremmo dire con espressione proverbiale), ma correggendone alcuni punti importanti. Ugualmente identificandoli con l’essere e col non-essere di marca parmenidea, anch’egli assume gli atomi e il vuoto come princìpi costitutivi dell’universo, non senza attirarsi l’antipatia di Cicerone («in physicis totus est alienus»36) e di Plutarco («si è appropriato del falso di tutta la filosofia greca, tralasciando il vero»37), oltre che di una lunghissima tradizione che giunge fino ai giorni nostri: ancora in pieno Novecento, Alfred Edward Taylor38 ha liquidato l’Epicureismo come un infelice tentativo, colmo di stravaganze e di paradossi, di mediazione eclettica tra Democrito e Aristotele, come se il nostro autore non avesse fatto altro che plagiare pensatori venuti prima e dalla statura filosofica decisamente superiore rispetto alla sua. Già Plutarco39, del resto, rideva senza sosta dell’indebita estensione di quei due principi – gli atomi e il vuoto – all’intera realtà, come se nulla sfuggisse a essi. L’immagine che forse meglio sintetizza la concezione che del rapporto tra fisica epicurea e fisica democritea si è consolidata presso la tradizione è quella di Cicerone40, per cui, alla fonte di Democrito, limpida e cristallina, Epicuro avrebbe attinto per irrigare i suoi orticelli di poco valore. Tuttavia Epicuro non si è limitato a far sua la fisica democritea senza modificarla di una virgola: la grande innovazione, il vero punto di rottura con la fisica di Democrito sta nel modo in cui il filosofo del Giardino intende il moto atomico. Dunque, per tornare alla metafora vinicola utilizzata poc’anzi, forse si dovrà dire, capovolgendola, che Epicuro ha travasato vino nuovo in botti vecchie, poiché ai termini «atomi» e «vuoto» non corrisponde più esattamente quel che con essi intendeva Democrito. Come è noto, per Democrito gli atomi, in quanto privi di peso, si muovevano vorticosamente nel vuoto in tutte le direzioni, dando vita coi loro incontri casuali alla formazione degli aggregati. L’immagine del mondo che ne risultava era, per usare un’immagine «bassa» ma piuttosto efficace, quella di un tavolo da biliardo sul quale le palle si muovono a caso in tutte le direzioni, talvolta incontrandosi; un movimento non diverso da quello che, a livello macroscopico, scorgiamo nel pulviscolo che si muove senza destinazione nella tenue luce di una stanza ombreggiata. Era in questa maniera espunta la causa finale, e di ciò si ricorderà Dante quando, in prospettiva saldamente aristotelica, qualificherà Democrito come il filosofo «che ‘l mondo a caso pone»41. Epicuro, dal canto suo, si spinge oltre la prospettiva democritea, che agli atomi attribuiva soltanto grandezza e figura: egli, infatti, attribuisce ad essi una terza caratteristica, il peso42, forse in base all’acuta osservazione di Aristotele secondo la quale, se i corpi hanno peso, allora devono averlo

anche i loro elementi costitutivi. Del resto, è evidente a livello empirico che ciò che non ha peso non può muoversi. Ma se dotati di peso, gli atomi non si muoveranno a caso, come voleva Democrito, bensì tenderanno a dirigersi dall’alto verso il basso secondo linee parallele, come fa ogni corpo pesante: all’immagine democritea del tavolo da biliardo si sostituisce allora quella di una pioggia di atomi che precipitano verso il basso; e certo non a torto, si è detto che «quello di Epicuro è un universo perpendicolare»43. Anche se nell’universo infinito non esistono un centro, un alto e un basso assoluti, si possono comunque assumere queste coordinate in maniera relativa, trovandosi così costretti a riconoscere la naturale tendenza degli atomi, in quanto pesanti, a dirigersi dall’alto verso il basso, come fanno appunto tutti gli aggregati atomici: risulta fin troppo evidente come la prospettiva epicurea resti, almeno in questo punto, saldamente ancorata al geocentrismo aristotelico, del quale Epicuro «si trova inconsapevolmente schiavo»44. Si affaccia però un insormontabile problema: se gli atomi, spinti dal loro peso, si muovono lungo linee rette, senza dunque potersi incontrare, come possono allora aggregarsi e dare luogo ai composti che continuamente percepiamo? I testi di Epicuro tràditi dalle fonti non forniscono una risposta a questo dilemma: pertanto, se vogliamo sciogliere l’enigma, dobbiamo rivolgerci al massimo divulgatore a Roma della filosofia epicurea, Lucrezio, «l’unico – come rileva niente poco di meno che Karl Marx – fra tutti gli antichi ad aver capito la fisica epicurea»45. A suo dire, Epicuro, per sfuggire alla contraddizione che gli si parava innanzi, avrebbe introdotto la dottrina del clinamen o «declinazione» (in greco παρέγλισις), attraverso la quale attribuiva agli atomi anche una tendenza a deviare casualmente dal loro moto perpendicolare verso il basso. Secondo tale dottrina, può capitare – senza alcunché di necessitante – che gli atomi, nella loro traiettoria in linee parallele verso il basso, deviino un po’ e si scontrino fra loro. Intendiamoci, non c’è nessun motivo che li induca a compiere questa deviazione: essa è il frutto del caso e, alla luce di ciò, può accadere come può non accadere. Con giudizio severo e un po’ riduttivo, ma almeno in parte non del tutto fuori luogo, Hegel riferisce che Epicuro «ascrisse tutti gli eventi al caso»46 di tale imprevedibile deviazione degli atomi. Si potrebbe però obiettare (e non senza ragione) che non era necessario far ricorso alla bizzarra soluzione del clinamen per giustificare i movimenti di aggregazione degli atomi: infatti, non è forse più ragionevole ammettere che, nel loro moto di caduta lineare, gli atomi più pesanti scendano più rapidamente rispetto a quelli più leggeri e, in tal modo, li urtino dando luogo alle aggregazioni? Ciò permetterebbe, tra l’altro, di evitare quell’insuperabile stuolo di contraddizioni che la dottrina della declinazione – come presto vedremo – comporta in sede fisica. Ma gli Epicurei, a una simile obiezione, rispondevano facendo notare che: «Onde degli atomi il moto ti sia ne la mente ben chiaro, altro vero svelarti ora bramo. Pel peso nativo nel cadere i primordi in basso, diritti, pel vuoto, leggermente devian – né dato è sapere in qual punto o momento –, sì poco, che appena può dirsene flesso il cammino. Mancando un tale poter di spostarsi, come gocce di pioggia, cadrebbero gli atomi al basso nell’abisso del vuoto, né mai per incontro o per urto cozzerebber tra loro, né origine avrebber le cose. Forse dirà taluno che i corpi più gravi, scendendo giù pel vuoto diritti, potran con più rapida corsa i più lievi da l’alto raggiungere e in essi scontrarsi, generando quegli urti, dai quali provengono i moti generatori. O quanto aberran costoro dal vero! Quando cadono i corpi per l’acqua o per l’aria sottile, variano, è vero, la corsa del peso a seconda, ché l’acqua greve o la rara sostanza de l’aria non posson del pari tutti tardarli, ma cedon ai pesi

maggiori più presto. Ma in nessun tempo o parte può invece lo spazio vacante d’ogni materia il passo contendere a corpo che cada; deve, per propria natura, ognora ritrarsi e far luogo. Per l’immobile vano è forza conchiuder che eguale è, nel cader, la marcia di pesi ineguali; né mai posson da l’alto i più gravi raggiungere gli altri ed urtarli da se stessi, onde vari i moti producansi adatti ai creativi nessi. È dunque assoluto bisogno che divergan per poco, cadendo, i primordi»47. Questa perspicace riflessione di Lucrezio, sempre acuto nelle sue osservazioni, è di grandissima importanza perché, oltre a fornire un’irrefutabile giustificazione alla teoria del clinamen, precorre gli sviluppi che la scienza avrà in età moderna, allorché Galileo Galilei negherà la possibilità che la velocità di caduta dei gravi sia proporzionale al loro peso. La stessa teoria del clinamen, dalla quale rampolla un’immagine sfumata del mondo – in cui trovano spazio anche l’imprevedibilità e l’indeterminazione –, si prefigura come una sorprendente anticipazione del «principio di indeterminazione» formulato da Werner Heisenberg, secondo il quale è impossibile conoscere simultaneamente la posizione esatta e la esatta quantità di moto di una particella subatomica poiché, quanto più esattamente si conosca la posizione, tanto meno sicuramente si conoscerà la quantità di moto, e viceversa. È fuor di discussione che il principio di indeterminazione costituisca «un reale richiamo alla deviazione, d’indole speculativa, di Epicuro»48, rivelando il debito della fisica contemporanea all’atomismo epicureo più che democriteo. La correzione apportata da Epicuro alla fisica democritea grazie alla deviazione atomica apparve, fin dall’antichità, un’aberrante revisione del meccanicismo. In particolare, Cicerone non si stanca mai di mettere alla berlina la fisica epicurea, attaccandola nel suo tallone d’Achille: «costui [Epicuro] si rifugiò in una menzogna: disse che l’atomo devia appena un po’; il che peraltro è assolutamente impossibile»49. Anche Plutarco non fa che muovere fino alla noia accuse alla dottrina del clinamen, notando50 come esso, in quanto «movimento privo di causa», di fatto presupponga un’indebita generazione dal non essere, violando dunque ciò che il più cauto Democrito si era ben guardato dal violare: il principio parmenideo per cui l’essere è e il non essere non è. In effetti, non può che risultare aberrante l’intromissione del caso in una dottrina così rigidamente meccanicistica quale è quella atomistica: aberrante perché non solo non necessario, ma addirittura gratuitamente problematico, nella misura in cui fa rientrare dalla finestra ciò che si era fatto uscire dalla porta. Eppure, l’aver innestato nel rigido meccanicismo un principio di casualità spontanea ha conseguenze di primaria importanza soprattutto in sede etica: oltre a permette l’aggregazione dei corpi e, di conseguenza, la formazione degli infiniti mondi possibili, costituisce anche un emendamento di quel determinismo estremo tale per cui ogni nostra azione sarebbe necessitata e, pertanto, priva di ogni libertà. Cicerone ha colto meglio di ogni altro questo punto: «è per questo che Epicuro ha introdotto questa teoria: per il timore che, se l’atomo si fosse mosso sempre in forza del suo peso, in quanto causa naturale e necessaria, noi avremmo finito per non avere nessuna libertà»51. Smarrendo gli eventi – grazie al clinamen – quel carattere di assoluta necessità che presentavano nella fisica di Democrito, sopravvive un margine di casualità al mondo fisico, che si traduce, sul piano etico, in libertà all’agire umano: ogni nostra azione, lungi dall’essere determinata meccanicisticamente dall’ambiente esterno o dallo stato immediatamente precedente, è frutto di una libera decisione ed implica dunque una responsabilità per il soggetto agente. Ne risulta l’immagine di un mondo in cui la maggior parte degli accadimenti si verificano in accordo col principio di causalità, ma alcuni di essi

si scostano da esso e si configurano come casuali. Se tutto accadesse necessariamente, la libertà, la responsabilità e la morale sarebbero vuoti nomi a cui non corrisponderebbe nulla di reale: ma la dottrina del clinamen ha definitivamente scongiurato tale rischio, cosicché diventa possibile dire, con Epicuro, che la necessità è un male, ma che non è necessario vivere nella necessità. Che la libertà esista è, agli occhi di Epicuro, un fatto innegabile, come è provato dalle decisioni che ogni giorno prendiamo: come potremmo decidere se non fossimo liberi? E, allo stesso modo, come potremmo rispondere delle nostre azioni se esse fossero interamente necessitate? Questo problema è stato colto con incredibile lucidità dai versi di Lucrezio: «Se finalmente i moti sian tutti tra loro congiunti sì che dal vecchio il nuovo proceda con ordine fisso, sempre, né il declinar degli atomi a moto novello dia principio, che spezzi la ferrea catena del fato, il serrarsi infinito di causa con causa, di dove nascerebbe, mi chiedo, quel libero senso, di dove, dico, per le animate nature, che vivon nel mondo, quel volere, che ai fati indomito sfugge, pel quale dove il piacere elegge andiamo e, degli atomi al pari, moto cambiam deviando, né ad ora prefissa, né a luogo, liberamente, dove ci aggrada?»52. Anche se, in realtà, è stato rilevato che quella ammessa da Epicuro è una libertà che tende a coincidere col caso più che con la libera scelta, poiché – come ha notato in proposito Giovanni Reale – quest’ultima può essere rinvenuta «solo nella superiore sfera dello spirito»53: detto altrimenti, con Epicuro ci troviamo dinanzi all’ammissione di una libertà che non ha nulla a che vedere con quella «libertas indifferentiae» per la quale non v’è alcun condizionamento che implichi dall’esterno una differenza e che ci indirizzi a scegliere una cosa anziché un’altra; si tratta, piuttosto, di una forma di «libertas a coactione», per dirla in termini scolastici: ossia una libertà che dev’essere intesa in termini negativi più che positivi (è una liberta da, non una libertà di) e che di fatto coincide con la «noncostrizione»; ma del resto, una libertà intesa come «libertas indifferentiae» potrebbe davvero dirsi libertà in senso autentico? O non coinciderebbe, piuttosto, con la casualità tout court? Infatti, nella misura in cui mancasse del tutto un motivo che ci spingesse, poniamo, a scegliere di recarci ad Atene piuttosto che a Corinto, la nostra scelta di una delle due mète non sarebbe forse del tutto casuale e, per l’appunto, immotivata? A ben vedere, solo la «libertas a coactione» può garantire una libertà responsabile e non riconducibile al caso. Nella prospettiva epicurea, pertanto, è vero che tutto quel che accade è determinato dallo stato precedente, secondo il modello causalistico: tuttavia v’è sempre un margine di indeterminatezza dettato dal fatto che gli atomi, nel loro tragitto dall’alto verso il basso, possono sottrarsi alla necessità fisica, con la conseguenza che le nostre stesse decisioni, per quanto fortemente influenzate, potranno sempre vantare un margine di autonomia e di libertà. Non sembra del tutto condivisibile la convinzione di Giovanni Reale, secondo la quale la libertà quale la intende Epicuro tenderebbe a sfumare nel caso e non potrebbe comunque essere identificata con la libertà in senso autentico54; convinzione che è difesa anche da Jean-Paul Sartre, il quale sostiene che la «vera libertà» non può consistere in quella «serie di imprevisti capricciosi»55 a cui l’ha ridotta Epicuro col suo clinamen; eppure, se letta in trasparenza, la libertà esistenzialisticamente intesa come libertà situazionale alla quale fa poi riferimento Sartre presenta non poche analogie con quella di Epicuro. Al di là del modo specifico di interpretare la libertà teorizzata dal filosofo del Giardino, resta certo che egli, in opposizione con Democrito, abbia riconosciuto all’essere umano un’indipendenza dalle costrizioni sia esterne sia interne (le passioni, i sentimenti, ecc). Dunque,

questa forma di libertà scoperta dal filosofo del Giardino, libertà che forse sarebbe più opportuno qualificare come spontaneità e mera assenza di vincoli, permette al nostro autore di far salva l’etica, ossia quello che costituisce il cuore del sistema epicureo e del quale Epicuro stesso non esita a riconoscere la priorità sulla scienza della natura: «Il principio e il più grande bene è la saggezza, la quale risulta perfino più preziosa della filosofia, poiché da essa nascono tutte le altre virtù, in quanto insegna che non è possibile vivere piacevolmente senza vivere anche in modo saggio, onorevole e giusto, e, viceversa, non è neppure possibile vivere in modo saggio, onorevole e giusto senza anche vivere piacevolmente»56. Postulata l’esistenza della libertà, si può legittimamente ammettere un’etica che ci suggerisca come comportarci; cosa che evidentemente non potrebbe accadere là dove mancasse la libertà. In questa situazione paradossale nella quale si afferma l’assoluta necessità del tutto e, al contempo, si forniscono precetti comportamentali cadono gli Stoici e cadrà, parecchi secoli dopo, Baruch Spinoza: i sotterfugi a cui essi ricorrono per non contraddirsi sono geniali, ma francamente poco credibili, come è il caso di Crisippo e della sua distinzione tra una «causa interna» e una «causa esterna»; o come è il caso di Spinoza, la cui etica é coerente fin tanto che si limita a descrivere il comportamento necessario dell’uomo, ma diventa autocontradditoria nel momento in cui assume un tono prescrittivo, invitando l’uomo ad adottare il punto di vista di Dio per poter così guardare il mondo «sub specie aeternitatis». Democrito stesso è incappato, a suo modo, in questa fallacia, nella misura in cui predica in sede fisica la necessità del tutto e in sede etica insegue l’ideale della «tranquillità d’animo» (εὐθυμία), invitando a vivere serenamente e a debita distanza da passioni smodate. Fornendoci una precettistica comportamentale, egli sta di fatto presupponendo quel che in fisica ha drasticamente rigettato: la libertà, la possibilità di agire in un modo piuttosto che in un altro. Sicché la contraddizione epicurea colta da Cicerone in ambito fisico, è da Democrito, dagli Stoici e da Spinoza spostata – ma non superata – in ambito etico: alla perfezione in fisica accompagnata da un’etica contraddittoria di Democrito e degli Stoici fa da contraltare l’imperfezione in fisica di Epicuro, che tuttavia tramite essa riesce a fondare coerentemente l’etica. La domanda implicita che sta a monte del pensiero del nostro autore può così essere riassunta: che senso ha formulare un’etica dopo che si è riconosciuta, in sede fisica, la necessità del tutto? Dunque, se è vero che per Epicuro – che in ciò sembra precorrere le posizioni di certo «pragmatismo» americano –, quando elaboriamo delle teorie sul mondo, lo facciamo al fine di ottenere una concezione che ci offra una soddisfazione personale, è fin troppo evidente che il determinismo assoluto di Democrito – in forza del quale le parti attuali dell’universo determinano senza possibilità di errore quali saranno le parti future – risulta del tutto inadeguato a tale scopo. Dunque, possiamo dire che il nostro autore rigetti il determinismo su basi morali più che fisiche, quasi come se conducesse i suoi studi di carattere fisico chiedendosi quali siano le condizioni della possibilità di un’esperienza morale. Con la teoria del clinamen l’etica è fatta salva, ma la fisica epicurea risulta decisamente indebolita, in quanto privata di quel rapporto di ferrea necessità per cui ad ogni causa segue un determinato effetto: probabilmente Epicuro era perfettamente consapevole di questo depotenziamento, ma era disposto ad ammetterlo pur di salvare la libertà decisionale e, con essa, la possibilità stessa di un’etica, che, come abbiamo visto, era la cosa che più gli stava a cuore. A differenza di Democrito, egli preferisce ammettere contraddizioni fisiche anziché etiche. E ciò alla luce del fatto che l’etica è ciò che più gli interessa e con cui ogni altra parte del sistema filosofico deve armonizzarsi, anche a costo di non essere perfetto se considerato in se stesso. Dunque – nella misura in cui l’etica

presuppone sempre una forma di libertà dell’agire –, non stupisce che Epicuro abbia cercato in ogni modo di tenersi a distanza di sicurezza dal rigido meccanicismo democriteo. Questo punto è compendiato dal nostro autore in un breve passaggio della Lettera a Meneceo: «Sarebbe meglio seguire il mito sugli dei piuttosto che finire schiavi del fato dei filosofi della natura; infatti, quello delinea una speranza di indulgenza come effetto di una devota preghiera, mentre questo ha una necessità inesorabile»57. È proprio la «necessità inflessibile», quella che i Greci chiamano εἱμαρμένη e che etimologicamente rimanda all’idea di una parte ricevuta in sorte e tale da non poter essere mutata, a spaventare Epicuro più di ogni altra cosa: in essa, in quanto negazione di ogni libertà, egli scorge l’annullamento di ogni possibile etica e, pertanto, è disposto a tutto pur di evitarla, perfino ad escogitare una casuale e bizzarra deviazione atomica dalla linea retta; ammissione che, di per sé, in un sistema fisico appare (ed è apparsa a un’intera tradizione filosofica) un’incomprensibile contraddizione. Deviando appena dal loro tragitto, gli atomi spezzano i «fati foedera»58 e aprono uno spiraglio al caso sul piano fisico, alla libertà su quello etico: si può dunque dire che, in Epicuro, «la libertà dell’uomo viene a essere fondata sull’intrinseca indeterminatezza fisica del reale»59, anche alla luce del fatto che, come già abbiamo accennato, tra l’uomo e la natura non c’è discontinuità, essendo ogni ente (uomo compreso) costituito da atomi e vuoto. Con l’ammissione del clinamen, ci rimette evidentemente la fisica, ma ne trae un incredibile vantaggio l’etica: la necessità degli accadimenti viene depotenziata rispetto all’inesorabilità con cui essa si presenta nella fisica democritea, ma con ciò stesso è fatta salva la possibilità di scegliere come comportarsi, senza essere asserviti ad alcun fato. Forse non del tutto a torto l’accademico Carneade60 sostiene che Epicuro avrebbe potuto difendere la libertà dell’agire umano senza però cadere in errori tanto grossolani in sede fisica, magari ponendo fin dall’inizio un moto volontario nell’anima; tuttavia, se così avesse fatto, Epicuro avrebbe creato una non meno problematica frattura dicotomica tra il reale, necessario e sottoposto alla più rigida necessità, e l’anima umana, libera e non soggetta alle leggi di natura. In tal maniera il problema, anziché essere risolto, si sarebbe aggravato. Non è dunque scorretto affermare che Epicuro costruisca la sua fisica col solo obiettivo di rendere possibile l’etica, evitando gli errori democritei e stoici: dal momento che se tutto accadesse necessariamente non resterebbe più spazio per la libertà e per l’etica, occorre far sì che non tutto accada necessariamente e a ciò provvede la teoria del clinamem. Questa incredibile «rivoluzione» nel regno degli atomi – come l’ha mirabilmente battezzata Marx – è caratterizzata dall’assunzione dell’etica come principio di guida della fisica, come se quest’ultima dovesse in tutto e per tutto adeguarsi alle esigenze etiche, quand’anche si trattasse di tradire la verità. Di ciò ha preso atto a suo tempo, tra gli altri, Pierre Bayle, che, dopo aver esposto le conseguenze che deriverebbero da una fisica rigorosamente meccanicistica, ha concluso che nella prospettiva epicurea «era dunque necessario che essi [gli atomi] dovessero deviare dalla linea retta»61. L’indiscussa priorità dell’etica nella riflessione di Epicuro è stata colta, forse meglio che da ogni altro, da Friedrich Nietzsche: «L’epicureo si sceglie la situazione, le persone e perfino gli avvenimenti che si armonizzano con la sua costituzione intellettuale estremamente eccitabile, egli rinuncia al resto, vale a dire al più, perché sarebbe per lui un cibo troppo forte e pesante»62.

In questo senso, ben si capisce come anche la fisica, come ogni altra articolazione del sistema epicureo, sia funzionale all’etica e possa essere compresa solo se riferita ad essa, a tal punto che, come scrive Epicuro: «non avremmo bisogno dello studio della natura, se non ci avessero mai inquietato le paure dei fenomeni celesti, e della morte, il timore che questa possa mai essere qualcosa per noi, e, ancora, se non ci avesse turbato l’ignoranza dei limiti delle sofferenze e dei desideri»63. Non è dunque possibile fare di Epicuro un positivista ante litteram, secondo la linea interpretativa seguita nel XIX secolo da Jean-Marie Guyau64, poiché la scienza, lungi dall’essere di per sé un valore, è riconosciuta necessaria soltanto nella misura in cui è propedeutica all’etica, sconfiggendo l’ignoranza e dunque la paura dei fenomeni naturali, peraltro alimentata dalle menzogne che su di essi veicolano i miti e i poeti che li narrano (Platone stesso era arrivato ad assegnare cittadinanza filosofica ai miti65). La scienza ha senz’altro un grande valore in Epicuro, ma – e questo è il punto – soltanto nella misura in cui contribuisce al conseguimento della felicità. Si può addirittura sostenere che Epicuro «considerava vana, vuota e presuntosa ogni ricerca scientifica fine a se stessa, che non avesse come scopo l’ideale della liberazione dell’uomo da turbamenti e timori»66: col che era evidentemente negata ogni possibile valorizzazione della scienza in quanto tale, con buona pace di Guyau. Il saldo connubio tra etica e gnoseologia si risolve nell’obiettivo epicureo di impadronirsi – secondo la formulazione lucreziana – degli «edita doctrina sapientium templa serena»67, ossia di raggiungere uno stato di atarassia garantito dal pieno possesso, raggiunto per via conoscitiva, della natura; e ciò alla luce del fatto che una natura conosciuta (o conoscibile) in ogni sua parte non desta alcun timore. Non importa molto come sia la realtà in sé: quel che importa è intenderla in maniera tale che essa non possa turbarci e renderci infelici. A rigore, Epicuro nel far fisica non guarda contemplativamente il mondo, descrivendolo secondo leggi tratte dall’osservazione, come aveva invece fatto Democrito, in ciò prototipo della moderna figura di scienziato; quel che egli si propone è, piuttosto, di costruire una fisica che possa essere adatta all’obiettivo etico del raggiungimento della felicità. Sicché egli non si cura di come sia fatto il mondo, quanto piuttosto di come esso debba essere fatto per non turbarci. Il baricentro è spostato dall’oggetto al soggetto e alle sue esigenze pratiche di serenità interiore. Ben si capisce, allora, perché per Epicuro la filosofia si configuri innanzitutto come «un’attività che, con i ragionamenti e le discussioni, riesce a produrre la vita felice»68. Come nota Reale, il punto di partenza della filosofia di Epicuro è sempre l’etica: e se egli aderisce alla teoria atomistica, lo fa in forza del fatto che l’atomismo è sicuramente il «miglior “fondamento” della sua etica»69, nella misura in cui garantisce l’esistenza di un mondo perfettamente e facilmente conoscibile; non diversamente, la logica, la fisica, la teologia e la teoria dei corpi celesti elaborate dal filosofo del Giardino sono asservite all’etica e da essa soltanto dipendono.

4. La teoria della conoscenza: come dobbiamo conoscere il mondo per essere felici? «La nostra vita ha bisogno non già di irrazionalità o di opinioni vacue, bensì solo di poter vivere senza affanni» 70.

Una seconda parte della filosofia epicurea è occupata dalla teoria della conoscenza: su questo punto, la prospettiva aperta da Democrito si pone come diametralmente opposta a quella di Epicuro, il che rappresenterebbe, agli occhi Marx, «un irrisolvibile enigma»71. Com’è possibile, infatti, che assumendo gli stessi princìpi si giunga a dottrine della conoscenza non solo diverse, ma addirittura opposte e mutuamente elidentisi? Se Democrito ed Epicuro assumono gli atomi e il vuoto come costitutivi del reale, perché poi non pervengono a teorie della conoscenza analoghe, bensì sideralmente distanti? Partiamo da Democrito: asserendo che tutto è costituito da atomi, egli presuppone la similarità di struttura tra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto. Tutta la conoscenza, dunque, è riconducibile ad una forma di sensazione e, poiché l’anima stessa è un composto di atomi, la conoscenza di cui essa è responsabile avviene per aggregazione. Aristotele ci riferisce72 che per Democrito l’intelligenza è legata alla presenza di atomi ignei nell’anima, caldi e velocissimi e dunque idonei per spiegare la velocità del pensiero. Nell’ottica democritea, tutto è percezione, persino gli oggetti del pensiero: dal cielo alla terra non ci sono che corpi costituiti da atomi e contenenti il vuoto; e, per ciò stesso, da tali corpi emanano gli εἴδωλα, le «immagini» (in latino «simulacra», da cui «simulacri») delle cose, paragonate da Lucrezio alla pelle dei serpenti che si stacca dai loro corpi o alla corteccia che si separa dagli alberi73. Esse non sono se non atomi che si staccano incessantemente dai corpi e si rendono così a noi percepibili: tali immagini «rendono bene il carattere di unità e di compattezza di un oggetto, e mantengono i reciproci rapporti che avevano nel corpo dal quale provengono, secondo la pressione commisurata alla vibrazione degli atomi presenti nel corpo solido, in tutta la sua profondità»74. La sensazione è allora il prodotto di un flusso atomico che si distacca dall’oggetto esperito formando un’immagine ad esso simile. «Or d’un connesso vero m’accingo a chiarirti l’essenza: come si partan dai corpi ognor simulacri, che hanno di membrane o di lievi involucri nome e figura; ché degli oggetti serban identico aspetto e profilo quelle immagini emesse, che sparse s’aggiran per l’aria. Nella sfera, anzitutto, che ai sensi soggiace, tu vedi emanar molti corpi diversi elementi: dei quali vanno alcuni dispersi, disciolti per l’aere, siccome fumo da legna, calore da fuoco. Rimangono intatti altri, perché più densi e spessi»75. Questi «simulacri» che emanano senza posa dalla realtà si distaccano dalla superficie esterna dei corpi per via di un «pulsare» dei corpi stessi e, volteggiando nell’aria, giungono ai nostri organi di senso, riportando fedelmente la forma superficiale dell’oggetto o, addirittura, l’interno dei corpi da cui provengono e, nel caso che tali corpi siano quelli di esseri umani, anche la disposizione mentale degli individui. Sul perché le cose procedano in questa maniera – perché i simulacri si staccano dai corpi? –, Epicuro e Lucrezio tacciono, anche in forza del fatto che per rispondere a tale interrogativo sarebbe necessario reintrodurre quella causa finale che la teoria atomistica ha accuratamente espunto. Anche il corpo del soggetto percipiente è un aggregato atomico dotato di vuoto o, meglio, di canali vuoti: i «simulacri» si incuneano in questi canali vuoti e rispecchiano l’immagine dell’oggetto

rendendolo percepibile. Si ha dunque una conoscenza per contatto. Il caso estremo è, forse, quello dello specchio: infatti, quando vediamo la nostra immagine riflessa da uno specchio è perché i «simulacri», urtando contro la parete riflettente, vengono respinti da essa e tornano a noi, entrando in contatto coi nostri occhi e dunque riportandoci l’immagine di noi stessi. Naturalmente, anche quando dormiamo abbiamo percezioni e i fenomeni onirici non sono che un fatto percettivo; ma le percezioni cui siamo soggetti nei sogni – a differenza di quelle che ci coinvolgono nella veglia – non sono vere, altrimenti non si spiegherebbe perché ci accade spesso di rivedere in sogno persone decedute o cose irreali, come mostri e altre entità inesistenti. Una conseguenza non priva di importanza che deriva da questa concezione è che non è possibile attribuire ai sogni un significato profetico e sovraumano, come aveva indebitamente fatto certa filosofia. Tuttavia, se i corpi continuano a cedere materia (i «simulacri»), allora ne consegue che essi sussistono fin tanto che la materia ceduta è bilanciata da quella ricevuta: e la mancanza di respiro, ovvero il termine del ricambio di atomi, è la prova lampante della fine dell’esistenza del corpo. Fin qui Epicuro concorda, grosso modo, con Democrito: ma le loro prospettive prendono strade diverse quando i due si domandano se i «simulacri» riportino tale e quale la forma dell’oggetto da cui provengono. Infatti, che cosa ci vieta di pensare che, nello spazio che percorrono per giungere a noi, essi subiscano una modificazione tale per cui riportano un’immagine distorta dell’oggetto da cui si sono staccati? Quando percepiamo un odore o un colore, che cosa ci garantisce che esso risponda veramente alla realtà e non sia piuttosto una sua deformazione, magari dovuta al fatto che gli εἴδωλα, nel loro tragitto, hanno incontrato altri atomi o hanno mutato natura? È interamente da questo punto che dipende la possibile concezione della conoscenza percettiva come infallibile o come ingannevole. A questo quesito Democrito ed Epicuro rispondono in maniera diametralmente opposta. Democrito distingue tra una conoscenza «secondo natura», avente per oggetto gli atomi e il vuoto, e una «secondo convenzione», avente per oggetto gli aggregati atomici: ciò significa che quando percepiamo i colori, vediamo gli oggetti o sentiamo i rumori, stiamo ricevendo una conoscenza illusoria, snaturata e convenzionale, una «falsa conoscenza», giacché – per restare all’esempio olfattivo – il profumo di un fiore è un qualcosa che, a rigore, non sta nel fiore stesso, ma in noi soggetti percipienti. Infatti, gli atomi – come abbiamo precedentemente visto – non hanno qualità e, per ciò, ne segue che essi, che sono mere quantità, suscitano in noi le sensazioni urtando i nostri organi di senso. Perciò, staccandosi dal fiore, i «simulacri» che entrano in contatto coi nostri organi sensoriali, producono la sensazione di profumo, di rosso, ecc. Tutte qualità che, proprio perché tali, non trovano spazio nella natura meramente quantitativa degli atomi. In questo modo, si viene a costituire una conoscenza meramente illusoria, che non fa che distoglierci dai princìpi costitutivi della realtà facendoci credere che a esistere siano il profumo, il rosso, ecc., quando invece, propriamente, soltanto gli atomi e il vuoto hanno un’esistenza oggettiva, esterna al soggetto percipiente e autonoma rispetto ad esso. In questo senso, le «immagini» non ci riportano fedelmente le forme degli oggetti da cui provengono: queste ultime, anzi, sono sempre e di nuovo modificate dai nostri organi di senso. Ecco perché Democrito sostiene che «opinione il dolce, opinione l’amaro, opinione il caldo, opinione il freddo, opinione il colore; verità gli atomi e il vuoto»76. E aggiunge: «vi sono due forme di conoscenza, l’una genuina e l’altra oscura; e a quella oscura appartengono tutti quanti questi oggetti: vista, udito, odorato, gusto e tatto. L’altra forma è la genuina, e gli oggetti di questa sono nascosti [alla conoscenza sensibile od oscura]»77. Di segno opposto è la soluzione prospettata da Epicuro: a suo avviso, le sensazioni non mentono mai

e, per questa ragione, «tutti i sensi sono araldi della verità»78. La via percorsa da Democrito, negando validità oggettiva alle qualità e risolvendole in parvenze fluttuanti, appare a Epicuro troppo pericolosa, giacché porta inesorabilmente a dubitare delle nostre conoscenze e fa scricchiolare ogni sistema filosofico: per far fronte a tale problema, egli distingue sapientemente tra «qualità essenziali» dei corpi e «qualità accidentali». A suo avviso, vi sono cioè qualità senza le quali il corpo non è concepibile (ad esempio, «la statura eretta» nel caso dell’uomo) e altre che sono accessorie e transeunti (il colore dei capelli o degli occhi). Poiché anche le qualità sono percepite insieme ai corpi, non si deve dubitare di esse: tanto più che anch’esse provengono dai «simulacri», i quali riportano informazioni indubitabilmente certe, poiché si muovono con velocità istantanea, uguale a quella del pensiero e dunque tale da non poter essere distorta nel tragitto che li porta dall’oggetto al soggetto. Ne segue allora, con buona pace di Democrito, che non v’è ragione di dubitare delle sensazioni: esse sono tutte ugualmente vere, rispecchiano immancabilmente la realtà e non ci ingannano mai. Nel compiere questo passaggio, tuttavia, Epicuro pare non accorgersi che, facendo della sensazione la fonte di ogni verità, rischia che, così facendo, siano spalancate le porte al soggettivismo relativistico fatto valere a suo tempo da Protagora79, secondo cui «l’uomo è misura di tutte le cose», con la conseguenza che il miele che per me è dolce, può con pari legittimità essere amaro per un altro; l’«uomo» a cui faceva riferimento Protagora non era, infatti, l’uomo con la «u» maiuscola, il genere umano: era piuttosto il singolo uomo in carne e ossa, che vede le cose alla sua maniera e in modo diverso rispetto a ogni altro uomo. Se infatti è vero ciò che viene attestato dai sensi, non è forse altrettanto vero che essi danno attestazioni diverse della stessa cosa a persone diverse o, talvolta, alla stessa persona? La bevanda che per me è amara, per un’altra persona è dolce; o, estremizzando le cose, un cibo che l’anno scorso mi pareva salato, oggi non mi pare più tale. Il soggettivismo relativistico alla Protagora è dietro l’angolo: e se si finisce nelle secche relativistiche, crolla di necessità ogni dogmatismo e, con esso, la tranquillità dell’animo. Il problema è da Epicuro affrontato solo in maniera tangenziale, e per di più senza vere soluzioni, a meno che non si voglia riconoscere che il fare dei «simulacri» gli infallibili depositari del vero sia un’autentica soluzione. Quel che è certo è che il filosofo del Giardino non poteva in alcun caso rinunciare alla certezza delle nostre conoscenze, altrimenti sarebbe ricaduto nell’aporia democritea dell’assoluta dubitabilità degli attestati percettivi. Infatti, lo scetticismo gnoseologico di Democrito – che non è certo assimilabile al relativismo protagoreo80 –, per cui non sappiamo alcunché, «giacendo la verità in fondo al pozzo», con Epicuro trapassa in un iper-dogmatismo in forza del quale «non c’è nulla che possa sconfessare la percezione sensibile»81: ciò ha indotto Giovanni Reale a coniare la felicissima denominazione di «religione laica»82 per la filosofia epicurea, a sottolineare la fede – ancorché si tratti di una fede tutta riservata al sensibile – che la caratterizza: la convinzione dell’assoluta infallibilità dei sensi e della veridicità delle percezioni ha certo, nel pensiero epicureo, tratti fideistici più che razionali; non si dimentichi, poi, che lo stesso verbo di Epicuro era trasmesso in forma iperdogmatica e costituiva per i suoi discepoli vicini e lontani una sorta di «catechismo» da imparare a memoria al fine di conquistare la tanto agognata felicità. Per l’atomista di Abdera, ogni sensazione è una mistificazione della realtà; per il filosofo del Giardino, è invece la verità stessa. Se quel che dice Cicerone83 è vero, il sole per Democrito sarebbe immenso, mentre per Epicuro sarebbe grande due piedi o poco più, perché pensa che esso sia grande tanto quanto appare. Ciò rivelerebbe la sostanziale adesione del filosofo del Giardino a schemi

eleatici tali per cui, come ha acutamente sottolineato Domenico Pesce, si è necessariamente chiamati a scegliere «o il dogmatismo o lo scetticismo, tertium non datur»84. Senza neppure prendere in considerazione una via di mezzo, il nostro autore opta per la soluzione radicale del dogmatismo. Per giustificare la sua fede nelle attestazioni sensibili, Epicuro mobilita più argomenti: in primo luogo, egli rileva come la sensazione, in quanto affezione, è pura passività. Ciò equivale a dire che essa, lungi dal prodursi autonomamente, è prodotta da qualcos’altro, di cui viene ad essere un effetto: per tale ragione, la sensazione dev’essere fedelmente corrispondente a ciò che l’ha prodotta. Proprio perché le accogliamo passivamente, senza possibilità di modificarle, le sensazioni ci giungono intatte. Che esse non possano ingannarci è poi provato dal fatto stesso che siano un prodotto della struttura atomica della realtà: i «simulacri» infatti non sono immagini a sé stanti, ma sono piuttosto frammenti di realtà che, volteggiando nell’aria, giungono a urtare i nostri organi sensoriali, innescando il processo conoscitivo. Detto altrimenti – e forse semplificando un po’ le cose – le sensazioni non distorcono la realtà perché sono esse stesse parti di quella realtà che giungono a noi. Quando vediamo un oggetto dinanzi a noi, ciò avviene appunto in virtù del fatto che da esso si sprigionano atomi che si spingono fino ai nostri occhi, senza alcuna possibilità di errore. A deporre a favore dell’assoluta certezza delle sensazioni è poi il fatto che esse siano «arazionali»85, ossia che siano sottratte ad ogni possibile intervento della ragione (la quale, come vedremo tra poco, è la fonte del possibile errore) prima che giungano a noi: proprio in quanto arazionali, esse non sono in grado di togliere a sé (o di aggiungere) alcunché che le distorca. Assolutamente indipendenti, arazionali e passive, le sensazioni rispecchiano fedelmente la realtà quale è in se stessa; dunque, non ha alcun senso dubitare delle attestazioni sensibili, le quali, nella loro totale attendibilità, rendono possibile quella vita dogmatica, appagata dalla attestazioni sensibili, che Epicuro non si stanca mai di elogiare e di sperimentare in prima persona nel suo Giardino. Tenendo presente quanto siamo venuti dicendo circa il relativismo di Protagora, si potrebbe obiettare che una sensazione può essere sconfessata da una sensazione successiva: e non è certo un’obiezione peregrina; quante volte, infatti, è capitato a tutti noi di sentire freddo o salato ciò che prima avevamo sentito caldo o dolce? Epicuro non si pone il problema e questo è senz’altro un punto debole della sua teoria: è convinto che alle sensazioni non possano opporsi altre sensazioni omogenee, giacché – appunto in quanto omogenee – esse verrebbero necessariamente ad avere il loro stesso valore; né tanto meno si possono opporre sensazioni eterogenee, che, in quanto tali, si riferiscono necessariamente ad altri oggetti. Neppure la ragione può arrogarsi il diritto di smentire le sensazioni, poiché essa dipende in tutto e per tutto da esse, come chiariremo meglio esaminando la nozione di «prolessi». Su questo punto, Lucrezio è di una chiarezza adamantina: «Potrà la ragione, nata da falsi sensi, levarsi lor contro a contesa, quando tutta da lor dipende? Se questi son falsi, ineluttabilmente diventa il pensiero un inganno»86. Poiché prende le mosse dai sensi, e sulla base di essi forgia i suoi concetti di vero e di falso, la ragione non può in alcun caso opporsi ad essi: quanti fanno poggiare i sensi sulla ragione, affidando ad essa l’incarico di giudicare della legittimità delle attestazioni sensibili, ragionano all’incontrario, facendo poggiare la conoscenza sulla testa anziché sui piedi87. Pertanto, quell’ambito della sensazione che Platone aveva liquidato come πίστις, ovvero come cieca

«credenza» (irrazionale e incapace di render conto di sé), poggiante non già sulla certezza della «scienza» (ἐπιστήμη), ma sulla mutevolezza della «opinione» (δόξα), è innalzata da Epicuro a garanzia suprema della veridicità conoscitiva, per ottenere la quale non è dato alcun criterio più certo. In generale, le sensazioni – non si stanca mai di ripetere il filosofo del Giardino – sono contraddistinte da una «evidenza immediata» (ἐνάργεια), proprio perché derivante dall’azione diretta del mondo esterno sui nostri organi sensoriali: per dirla con un linguaggio husserliano che può aiutare a capire, i contenuti delle sensazioni ci si offrono nella loro originaria immediatezza. Sbagliava dunque Democrito a respingerle come opinioni mendaci e contrastanti con la verità cui giunge autonomamente l’intelletto. Ma se è vero che per il filosofo del Giardino le sensazioni non ingannano mai, ciò non di meno non tutte sono evidenti: quelle non evidenti sono incerte e attendono di essere confermate dalle altre, per poter così esse stesse passare ad uno stato di evidenza. È col reiterarsi delle rappresentazioni evidenti che nasce il concetto generale («uomo», «cavallo», ecc): esso è detto da Epicuro anche «prolessi» (πρόληψις, dal verbo greco προλαμβάνω, che letteralmente significa «prendo prima»), ossia «conoscenza anticipata» o «prenozione»: essa, infatti, permette di conoscere in anticipo, sulla base delle sensazioni già ricevute dai singoli oggetti, che cosa li contraddistingue. E così, vedendo un certo oggetto, sarà possibile, sulla base di queste «conoscenze anticipate» e pregresse, riconoscerlo e fare un ragionamento di questo tipo: questo oggetto che ora percepisco, poiché presenta un certo insieme di proprietà già conosciute mediante un determinato concetto, è un cavallo o un uomo, e così via. In altri termini, ho una prolessi quando, ad esempio, dopo aver avuto sensazione almeno una volta di un cavallo, posso successivamente pensarlo pur senza percepirlo effettivamente, proprio in forza del fatto che esso permane nella mia memoria. Sul versante opposto, gli Stoici erano convinti che le nozioni universali, lungi dall’essere acquisite empiricamente, fossero connaturate all’uomo, alla luce del fatto che quest’ultimo è, nella prospettiva stoica, l’unico essere dotato di ragione. Le conseguenze che da questo «innatismo» discendono in sede morale sono, non è difficile capirlo, di estrema importanza e ben lontane dalla prospettiva epicurea. Sulla nozione di prolessi in Epicuro, è fiorita una vivacissima querelle tra gli interpreti, nella quale i principali interlocutori hanno ora accentuato il momento empirico, ora enfatizzato quello aprioristico, facendo in quest’ultimo caso della prolessi un vero e proprio oltrepassamento dell’esperienza in favore del piano razionale: già Immanuel Kant aveva spinto l’interpretazione verso questa seconda direzione, leggendo la prolessi come un indebito scavalcamento dell’empirico in favore del metafisico88, come se Epicuro non avesse preventivamente chiarito che la prolessi ha la sua origine nell’esperienza e in null’altro all’infuori di essa. Fedele alla linea tracciata dal suo maestro ideale, anche il neokantiano Paul Natorp89 ha creduto di poter ravvisare nella nozione di prolessi epicurea una formulazione embrionale dell’apriorismo. Su questa scia, De Witt90 è giunto a conclusioni anche più radicali scorgendo nella prolessi un corrispettivo materialistico dell’anamnesi platonica: secondo questa linea interpretativa – non priva di forzature del testo di Epicuro –, riusciremmo a identificare e a riconoscere gli oggetti nei quali quotidianamente ci imbattiamo nel mondo empirico perché siamo già dotati a priori dei corrispettivi concetti, e l’esperienza non fa che richiamarli. Se De Witt avesse ragione, ne seguirebbe paradossalmente che il nucleo della gnoseologia epicurea sarebbe di matrice innatistica e che il materialismo, di cui Epicuro si proclama a gran voce sostenitore in ogni altro settore della filosofia, non sarebbe altro che un inquinamento di tale innatismo. Margherita Isnardi Parente ha particolarmente insistito sul fatto che, proprio perché è il

canone della conoscenza, la prolessi non dev’essere in alcun caso intesa come mero «riflesso concettuale derivato meccanicamente dall’imprimersi di una serie di immagini o dal loro “immaginarsi” nella mente»91. Ora, tutte queste letture non solo non si conciliano col materialismo di fondo di Epicuro, ma addirittura sono con esso del tutto incompatibili, perché finiscono per reintrodurre un primato del piano noetico su quello fenomenico, riconducendo al platonico mondo delle Idee dal quale Epicuro si era congedato. Se non si vuole uscire dall’alveo del materialismo e della coerenza, la prolessi dev’essere allora intesa nel sopraccitato senso di un’anticipazione dell’esperienza grazie a concetti acquisiti per via puramente empirica: in altri termini, il fatto che ogni prolessi si presenti come un concetto «insito nella mente»92 non toglie che essa si risolva nel «ricordo di un oggetto apparso spesso dall’esterno»93, e che, se non si avesse alcun commercio col mondo esterno, la nostra mente resterebbe come un foglio bianco. Infatti, le sensazioni che abbiamo ricevuto lasciano in noi delle «impronte» (τύποι), grazie alle quali, facendo nuove esperienze, richiamiamo le passate sensazioni e le comprendiamo alla luce delle vecchie. In questa maniera, il processo resta saldamente ancorato all’esperienza, senza mai scavalcarla: nel caso di Epicuro può dunque valere a pieno titolo il motto empiristico «nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu», con cui è messo al bando ogni possibile innatismo. La mente quale la intende Epicuro viene dunque a configurarsi come una «tabula rasa» che, di esperienza in esperienza, si arricchisce di concetti alla luce dei quali interpretare le esperienze successive: ma tali concetti – come abbiamo visto poc’anzi – non cascano dal cielo né sono presenti a priori in noi, bensì li ricaviamo per via empirica da quel mondo esterno con cui ci troviamo in costante rapporto. Il grande problema degli universali, a cui Platone aveva proposto come soluzione la teoria delle Idee e del loro mondo indipendente e di più alta natura, e che Aristotele aveva risolto senza uscire da questo mondo, è da Epicuro recuperato e sciolto attraverso la prolessi, senza nulla concedere all’innatismo platonico: essa viene a costituirsi come salda base su cui poggia ogni nostra riflessione, ogni ragionamento, ogni opinione e più in generale ogni attività razionale, suscettibile di essere vera oppure falsa. L’esperienza si origina dalla conservazione nella memoria di tali concetti estrapolati dalla sfera empirica, e l’errore non nasce mai dalle sensazioni, ma sempre dal ragionamento e dal linguaggio: in particolare, si ha l’errore quando si impiegano parole che significano concetti non corrispondenti all’oggetto percepito, come quando si vede un uomo e si dice «questo è un cavallo»; in altri termini, «la falsità e l’errore […] risiedono sempre nell’aggiungersi dell’opinione a ciò che attende di essere confermato o non smentito»94, inducendo a fare affermazioni prive di un adeguato fondamento empirico. Per meglio chiarire questo punto cardinale, Lucrezio adduce95 un esempio straordinariamente lampante: le torri quadrate di una città, se osservate da lontano, ci paiono tondeggianti non già perché la sensazione ci inganni, bensì perché interviene indebitamente la ragione nel formulare giudizi; infatti, non appena ci si avvicina alle torri rendendo in tal modo più forte la sensazione, subito ci si accorge dell’errore commesso. Così, quando Oreste vedeva le Erinni, non si stava ingannando, giacché l’immagine che gli si presentava era garantita dai simulacri atomici; sbagliava però nella misura in cui pensava che le Erinni esistessero concretamente: ancora una volta, la fonte dell’errore è l’opinione, non la sensazione. Sicché le rappresentazioni evidenti sono il «criterio» (detto anche

«canone») che permette di testimoniare a favore o contro i giudizi che mediante i concetti ci formiamo sugli oggetti. Pure l’assenza di una attestazione contraria può fungere da conferma, anche se è dotata di minore potenza dimostrativa: così siamo ad esempio legittimati a sostenere la mortalità degli uomini sulla base del fatto che, almeno fino ad ora, la percezione non ci ha fornito attestazioni contrarie. Connettendo la percezione e i concetti, si ottengono le «inferenze», le quali permettono di risalire da ciò che è chiaro a ciò che non lo è: tale è, ad esempio, il caso della nozione di vuoto, che di per sé è una delle tante «realtà ignote» (ἄδηλα), e che può essere colta esclusivamente per inferenza, ad esempio dal moto degli atomi (il quale necessita appunto di uno spazio vuoto in cui poter avvenire). Proprio nel processo epicureo di inferenza – soffermandosi soprattutto sull’inferenza per analogia – Cyril Bailey96 ha scorto un decisivo tentativo di andare al di là della mera esperienza per cercare di guadagnare un nuovo e più alto territorio su cui far lavorare i concetti in maniera autonoma rispetto al piano empirico da cui si originano: una volta acquisiti per via empirica i concetti, sarebbe dunque possibile dar vita a un loro mondo – situato però nella mente umana e non nell’Iperuranio platonico – in cui essi si confrontano, si congiungono e si scontrano. La stessa nozione di «apprensione intellettiva» (ἐπιβολὴ τ ς διανοίας), che è la particolare inferenza in forza della quale, spingendosi al di là della fenomenicità, si colgono i princìpi costitutivi del reale (gli atomi e il vuoto), non è che un atto puramente razionale: essa muove sì da un’ineludibile osservazione del reale, ma si spinge al di là di esso, per arrivare ad ammettere l’esistenza di ciò che nel reale mai è esperito, ancorché in esso trovi conferma. Su questa scia, ritroviamo con frequenza97 in Epicuro termini come ἐπιλόγισις ed ἐπιλόγισμα, entrambi direttamente connessi col termine λόγος, che rimanda ad una dimensione razionale e non coincidente con l’esperienza sensibile. Anche se di ispirazione materialista, il sistema epicureo riconosce dunque piena dignità alla sfera intellettuale, al pensiero: anzi, a rigore, almeno sul versante etico, è dominante poiché spetta alla ragione selezionare quali piaceri debbano essere seguiti, scartando tutti gli altri. Sicché la posizione di Epicuro non ha nulla a che vedere col futuro «materialismo grossolano» di pensatori come Jacob Moleschott, Ludwig Büchner e Karl Vogt, secondo cui i pensieri sarebbero rispetto al cervello il corrispettivo di quel che la bile è per il fegato o l’urina per i reni. In questo senso, ben si capisce come il piano della logica venga a sovrapporsi a quello della fisica: infatti, i princìpi tramite i quali pensiamo il reale sono gli stessi che fondano la realtà fisica, nella quale rientrano a pieno titolo. Pensiamo in un dato modo perché la realtà è fatta a quel modo e noi non facciamo che modellare su di essa la nostra mente attraverso i concetti che ne ricaviamo: e le proposizioni del nostro linguaggio non fanno che esprimere le relazioni sussistenti nel mondo; se è vero quel che riferisce Cicerone98, Epicuro avrebbe addirittura negato la validità del «giudizio disgiuntivo» – implicante la veridicità di una sola delle due proposizioni chiamate in causa – per mettere in tal maniera al bando la necessità nel mondo fisico e, di conseguenza, del pensiero. Molto più in sintonia con la filosofia della natura epicurea – in particolar modo con la meteorologia – sarà pertanto il «giudizio congiuntivo», che apre un ventaglio di possibilità tutte ammissibili. La dialettica, alla quale tanta importanza aveva dato Aristotele, è del tutto rigettata da Epicuro come oziosa e non indispensabile. Con la prospettiva epicurea, ci troviamo di fronte al crollo di ogni dualità tra realtà materiale e pensiero: essendo gli atomi e il vuoto i princìpi costitutivi di ogni cosa, non è ipotizzabile una dualità tra realtà fisica e mente umana, le quali vengono dunque a coincidere, caratterizzandosi il pensiero come puro epifenomeno della materia. I princìpi della logica combaciano perfettamente coi princìpi

della fisica, nel senso che i princìpi che permettono di pensare rettamente il reale sono gli stessi che fondano la realtà fisica. Proprio per questa ragione, in sede fisica Epicuro fa appello alla massima esattezza terminologica possibile, in quanto espressione di esattezza logica: infatti, come si è detto, data l’impressione di una cosa (sempre vera) la mente ne elabora una rappresentazione (reale, perché fatta di atomi, e sempre vera), che si traduce immediatamente in un «nome» (anch’esso reale e fatto di atomi, e anch’esso sempre vero). Tale nome è dunque la traduzione in suono dell’impressione: e, come l’impressione è a-logica, così il nome è «apofàntico», vale a dire derivante in modo spontaneo e immediato dall’impressione, esattamente come un’interiezione. Lungi dall’essere un’invenzione umana, il linguaggio ha pertanto un’origine meramente naturale99: esso, infatti, non fa altro che dare espressione alle nostre percezioni e affezioni grazie ai mezzi fonici di cui siamo naturalmente equipaggiati. In particolare, i primi uomini avrebbero emesso suoni conformi alle cose a cui intendevano riferirsi; con l’evoluzione storica delle varie civiltà, il linguaggio è tuttavia andato sempre più storicizzandosi e raffinandosi, diventando a poco a poco un qualcosa di convenzionale. È in questo modo possibile render conto delle tante lingue che si parlano nel mondo, tutte facenti capo ad un’unica lingua originaria naturale: tra queste, Epicuro e i suoi discepoli non fecero mai mistero di ritenere il greco la massima espressione di saggezza, a tal punto da riconoscerla come lingua parlata dagli dèi. La prospettiva democritea della dubitabilità del reale è spazzata via a colpi di dogmatismo: e ciò, non meno che in ambito fisico, anche in sede gnoseologica è funzionale all’etica. È infatti come se Epicuro, ancor prima di elaborare la propria dottrina sulla conoscenza, soppesasse attentamente le conseguenze etiche cui porta lo scetticismo democriteo. La conclusione a cui addiviene è evidente: dubitare di tutto non può che condurre ad un’inquietudine a trecentosessanta gradi, ad una guerra dichiarata contro i sensi e contro quell’esperienza che, lungi dal confessarci il vero, ce ne allontana sempre più; se i sensi mentono, allora tutto quel che riceviamo da essi è un grande inganno che, anziché farci conoscere il mondo nella sua reale essenza, ce lo maschera e ce lo fa credere quale ci appare fenomenicamente nella sua falsa sembianza. Prontamente ha colto questo pericolo Michel de Montaigne, che in proposito arriva a dire con grande efficacia: «Chi può spingermi a contraddire i sensi mi tiene per la gola, non riuscirebbe a farmi indietreggiare di più. I sensi sono l’inizio e la fine della conoscenza umana»100. A ben altre conseguenze porta il dogmatismo: accettando come vere tutte le attestazioni sensibili, non si entra in uno stato conflittuale con il reale, che è quale ci appare e pertanto non richiede quello sforzo di andare al di là dei fenomeni che tanto travaglia Democrito. Basta arrestarsi ai fenomeni per cogliere la realtà nella sua essenza: la verità non giace nel fondo del pozzo, come aveva pensato l’atomista di Abdera, ma è anzi a portata di mano per tutti, per i giovani e per gli anziani, insomma per chiunque si dedichi alla filosofia. È così esorcizzato il pericolo di un’antinomia interna all’animo umano – la quale travaglia senza sosta Democrito –, che si trova a cogliere intellettualmente princìpi che contrastano palesemente con la realtà esperita. La realtà quale ci appare è sì una determinazione fenomenica prodotta dall’incontro tra atomi e organi sensoriali, ma si tratta di una fenomenicità che non inganna e di cui è lecito, e anzi doveroso, fidarsi. La forza con cui questa diversa concezione gnoseologica si riverbera sull’etica è suffragata dall’esistenza antitetica condotta dai due filosofi: la vita di Democrito, stando alle fonti antiche e, primariamente, a Cicerone, si risolve in un irrequieto vagabondare alla disperata ricerca del vero, mai rinvenibile nei sensi e dunque sempre sfuggente alla presa del filosofo. Egli congeda ogni

attestazione sensibile come inganno, come menzogna che fa a pugni col concetto di atomo: egli si vede costretto a optare o per il mondo sensibile o per quello concettuale degli atomi, perché la scelta dell’uno implica per ciò stesso l’esclusione dell’altro. Egli è perennemente contrastato da un’antinomia che non gli dà pace tra le verità della sua coscienza e la percezione del mondo fenomenico: la prima attesta soltanto l’esistenza degli atomi e del vuoto; ma la seconda, disvelando un mondo fatto di qualità, di oggetti esterni e di sensazioni, contraddice palesemente la prima e pone la coscienza di Democrito in uno stato di incessante inquietudine. Scegliendo di affidarsi al mondo intellettuale degli atomi, non può che svalutare l’esperienza fenomenica come sede di inganni e di illusioni. La sua è dunque una coscienza infelice perché inappagata dal reale; ne risulta l’immagine di un «vir eruditus»101, versato in ogni campo del sapere, ma che sul piano della prassi si aliena dal reale, da lui inteso come il regno della menzogna e dell’allontanamento dal vero. Se sono vere le voci tramandate sul suo conto, egli sarebbe addirittura giunto ad accecarsi102 per liberarsi dalla sudditanza al sensibile e per poter così esercitare con maggiore libertà l’intelletto, senza esserne distolto dagli abbagli fuorvianti dell’empiria. Si può così spiegare l’immagine, divenuta proverbiale, di Democrito come «il filosofo che ride»103, attestata in Orazio («si foret in terris, rideret Democritus»104), Cicerone105, Seneca106, Giovenale («perpetuo risu pulmonem agitare solebat Democritus»107), Luciano108, Montaigne, e Arthur Schopenhauer109: Democrito, in perpetua lotta con un mondo esterno alle cui attestazioni non può mai credere, finisce per ridere – ma di un riso sofferto, proprio di una coscienza lacerata – di quanti si fidano dei sensi e sperano di poter decifrare il mondo a partire da questi infallibili ingannatori. Il suo è un riso amaro, che tenta di mascherare il disagio e l’inquietudine del filosofo di Abdera, tormentato dal guerreggiare del suo intelletto contro il mondo esterno. In Democrito, del resto, sussiste una seconda ed irrisolvibile antinomia tra gnoseologia ed etica, un’antinomia che affiora in tutta la sua problematicità nel concetto di «tranquillità d’animo», che dell’etica democritea rappresenta il cuore: come si può mantenere un animo tranquillo sapendo che tutto ciò che ci circonda è una menzogna, che la nostra conoscenza non fa che ingannarci e che non abbiamo alcuna libertà? La serenità dell’esistere è irrimediabilmente compromessa dalla coscienza che il mondo in cui viviamo è un grandioso inganno: un inganno che, per di più, non può essere in alcun caso superato, poiché siamo noi stessi a produrlo ogni volta che entriamo in contatto con gli atomi. È un inganno costitutivo dell’essere umano e, per ciò stesso, destinato a non poter essere mai superato, proprio come l’angoscia che ne deriva. Questa contraddizione insanabile è per l’appunto ciò che Epicuro vuole a tutti i costi evitare: la sua «rivoluzione copernicana»110 ante litteram sta, ancora una volta, nell’anteporre l’etica a tutto il resto, perfino alla gnoseologia. La domanda che egli si pone, ancor prima di chiedersi «come conosciamo la realtà?», suona così: «come dobbiamo conoscere la realtà affinché non ne derivi un turbamento per l’anima e sia salvo il nostro stato di felicità? ». Il dogmatismo è la più autentica medicina in grado di lenire e, forse, di sconfiggere l’angoscia dell’esistenza, sostituendola con la placida serenità di chi non è assillato da dubbi e incertezze. La via percorsa da Democrito è troppo pericolosa e pertanto, al quesito, il filosofo del Giardino risponde nel modo sopra esaminato: dobbiamo sempre fidarci dell’esperienza, in modo tale da condurre un’esistenza felice e non travagliata dal dubbio di errare nelle nostre conoscenze. Per questo motivo, sul piano della vita, egli si sente pienamente a casa nella filosofia e conduce un’esistenza in tutto e per tutto finalizzata alla felicità, possibilmente a una felicità che non sia

inferiore a quella degli dèi: se il suo collega di Abdera è in continuo movimento alla ricerca della verità lungo le contrade di mezzo mondo (arrivando forse addirittura in Persia, in Etiopia e in India), egli, una volta che l’ha fondato, se ne sta tranquillamente nel suo Giardino, in compagnia di pochi amici scelti, coi quali discute su quanto sia facile essere felici se si presta ascolto alla rasserenante voce della filosofia. Democrito, per via del suo perenne stato di agitazione e di tensione verso una verità sempre sfuggente, non sta mai a casa; invece Epicuro se ne allontana solo due volte, e non per cercare in terra straniera la verità: semplicemente per recar visita ai suoi amici più cari nelle comunità esterne ad Atene. Il primo cerca per il mondo la verità; il secondo se l’è costruita ad usum sui nel suo Giardino. Al sicuro, sulla terraferma della sua dottrina rassicurante, egli osserva Democrito dibattersi nel tempestoso mare della vita, portato al largo da quello scetticismo che non dà tregua al suo animo. Il filosofo del Giardino, grazie al suo dogmatismo, è riuscito a trovare un equilibrio stabile tra vita e sapere, subordinando il secondo alla prima, anche a costo di indebolirlo; l’atomista di Abdera ha sacrificato la sua vita all’indagine filosofica, all’esplorazione del mondo e al rifiuto delle parvenze fenomeniche; Epicuro ha sacrificato alla tranquillità dell’animo tutto il resto. Questa discrasia tra piano pratico e piano teoretico a cui porta lo scetticismo viene ribadita e ulteriormente chiarita da Lucrezio111: infatti, tra i tanti argomenti che egli propone in favore della dogmatica epicurea, annovera anche quello secondo cui un sano dogmatismo giova all’esistenza, in quanto dona all’animo quella serena tranquillità negatagli dallo scetticismo: quest’ultimo, che si presenta come una roccaforte a cui è facile accedere ma da cui diventa difficile allontanarsi, finisce col rendere impossibile la vita stessa, disseminandola di dubbi inquietanti e di incertezze che tutto producono fuorché quel sereno stato d’animo in cui, troppo fiduciosamente, aveva sperato Pirrone di Elide. E pertanto, alla tranquilla immagine di un Epicuro in pace con se stesso e col mondo, beato nel suo Giardino, si contrappone, secondo Lucrezio, l’inquietante immagine dello scettico (e Lucrezio pensa verosimilmente a Pirrone) che proprio come Democrito percorre da solo in lungo e in largo l’universo alla ricerca di una verità che mai si lascia afferrare e, così facendo, lascia scorrere via la vita senza goderne appieno, ma anzi afflitto da sempre nuovi tormenti: «Tutta infatti per vero la vita rovina d’un tratto, non la sola ragione, se togli la fede nei sensi, e se in questa materia non schivi gli abissi e gli incauti pericolosi passi, seguendo un errato cammino. Tieni dunque per vana l’insulsa di frasi congerie, che a muover guerra ai sensi apprestano ed arman taluni»112. Il riferimento ai precipizi è verosimilmente una frecciata contro Pirrone, il quale sospendendo il giudizio su tutto e non prendendo mai partito su alcunché, finiva per rivelarsi indifferente perfino al precipitare nei dirupi o alle aggressioni dei cani113. Lo stesso Platone, anche se solo in sede fisica, aveva fatto professione di scetticismo, riducendo la φύσις a regno della mutevolezza e dell’imprecisione, di contro all’eterna verità delle Idee, sempre uguali a se stesse: il dogmatismo platonico trovava espressione nel più alto mondo iperuranico, che è esattamente ciò che Epicuro congeda come indebita concessione alla metafisica: ma del resto egli men che mai può accettare quel che del Platonismo era sopravvissuto con gli Accademici: essi avevano perso di vista il platonico mondo delle Idee e avevano limitato la loro indagine al mondo sensibile, concepito sulle orme di Platone come inaffidabile regno di una πίστις mai riconducibile alla scienza.

Ma fare del mondo sensibile un guazzabuglio caotico in balia del dubbio significa paralizzare la vita nell’impossibilità di agire e di godere di una tranquillità scaturente dal possesso di certezze salde e inconfutabili: anziché diffidare delle sensazioni e precludersi la via al dogmatismo, occorre allora prestar fede a ciascuna di esse, poiché se le rifiutiamo crolla anche ogni possibile criterio per giudicare quali siano false e quali vere e, quel che è peggio, viene meno ogni possibilità di vita serena: infatti, «se ti opporrai a tutte le sensazioni, non saprai neppure a che cosa riferirti nel giudicare quelle tra di esse che dirai false»114, dunque non potrai determinare quale sia la verità, fluttuerai nel dubbio e condurrai un’esistenza inquieta, nell’impossibilità di giudicare cosa sia vero, buono, giusto, e così via. Lo scetticismo è ancora una volta additato come pericolo per la tranquillità interiore. Che poi gli Scettici fossero convinti che soltanto dalla sospensione del giudizio e dal dubbio potesse scaturire la vera felicità, poggiante su una positiva assenza di inclinazioni, di opinioni e di turbamenti, è tutto un altro discorso: ed è forse la prova, se non della convinzione ciceroniana secondo cui non c’è stramberia o contraddizione che non sia stata detta da qualche filosofo, almeno del fatto che in filosofia esistono sempre, per ogni argomento, due tesi diametralmente opposte. È molto probabile che Epicuro, non meno di Lucrezio, assumesse come implicito bersaglio della sua serrata polemica antiscettica la figura di Pirrone, di cui forse aveva sentito parlare dal suo antico maestro Nausifane. Bisogna però chiarire quale e come sia la realtà con la quale Epicuro ci invita a rapportarci in maniera dogmatica. Nella prospettiva atomistica epicurea, essa viene a configurarsi come una totalità infinita115, all’interno della quale si dà la possibilità di infiniti altri mondi oltre al nostro: è questa la naturale conseguenza derivante dall’ammissione di atomi infiniti e di un vuoto infinito come costitutivi del reale. Ammettere un cosmo finito sarebbe una grave contraddizione, poiché comporterebbe l’implicita ammissione della possibilità di uno spettatore situato fuori dal mondo. Parimenti contraddittorio sarebbe del resto ipotizzare l’infinità solo di uno dei due princìpi del reale: se infatti fosse infinito soltanto il vuoto, allora gli atomi finiti vi si disperderebbero; e se infiniti fossero soltanto gli atomi, allora non potrebbero in alcun modo essere ospitati nel vuoto finito. Per non scivolare in queste assurde contraddizioni, è dunque necessario ammettere l’infinità di entrambi: da ciò deriva l’immagine di un universo concepito come totalità infinita. La rassicurante immagine, tipicamente greca, di un mondo dai contorni ben definiti, in cui la Terra – e con essa l’uomo – occupa saldamente una posizione centrale nell’economia del cosmo cede il passo a una prospettiva in cui crolla ogni confine e l’universo si estende all’infinito, racchiudendo potenzialmente una quantità infinita di mondi tutti derivanti dall’aggregazione degli atomi nel vuoto. Come si ricorderà, tanto Platone nel Timeo quanto Aristotele nel De caelo avevano escluso la possibilità dell’esistenza di altri mondi: se Platone, intendendolo come un «essere vivente», aveva asserito che il mondo, per essere perfetto, doveva necessariamente essere uno, lo Stagirita, dal canto suo, aveva fatto notare che, se per assurdo, esistesse un ipotetico secondo mondo, esso si troverebbe ad essere costituito dagli stessi elementi costitutivi del nostro; ma, poiché in base alla dottrina dei luoghi naturali ciascun elemento tenderebbe ad esso, con la conseguenza che la terra di questo secondo universo tenderebbe a ricongiungersi con la terra del nostro universo – e così tutti gli altri elementi –, egli aveva potuto affermare con certezza che l’universo non pùo che essere unico, a dispetto di quel che aveva pensato Democrito. Ora, Epicuro, in accordo con la teoria atomistica, è convinto che i mondi siano non soltanto

molteplici, ma addirittura infiniti. In questa maniera, oltre alla tradizionale concezione del mondo, è rimosso anche il tradizionale concetto negativo che i Greci, dai Pitagorici in avanti, passando per Platone e Aristotele, avevano dell’infinito, inteso come un elemento di disordine e di caos stridente con l’assoluta armonicità dell’universo116. Quali sono i riflessi di tale prospettiva sul piano etico? A tutta prima, ci si potrebbe aspettare che un universo infinitamente esteso provochi turbamento per via della mancanza di confini che rassicurino l’animo umano; e tuttavia, se fosse finito, l’universo verrebbe a configurarsi anche come una gabbia di cui l’uomo sarebbe prigioniero, senza possibilità di dare uno spazio infinito alla propria libertà. Dall’ammissione di un universo infinito scaturisce infatti, nella prospettiva epicurea, la possibilità di una libertà infinita per l’uomo, che si trova in questo modo proiettato in un cosmo privo di angusti confini che ne vincolino, almeno virtualmente, il libero agire117.

5. La felicità attraverso la meteorologia. «Bisogna ritenere che il fine da raggiungere con la conoscenza dei fenomeni celesti, sia trattati insieme, nelle loro connessioni, sia isolatamente, non è altro se non l’imperturbabilità e una salda convinzione, come del resto è anche per gli altri studi» 118.

Il luogo in cui traspare con maggiore evidenza la volontà di Epicuro di innalzare l’etica al di sopra di ogni altra parte della filosofia è probabilmente la meteorologia, che il nostro autore affronta soprattutto nella Lettera a Pitocle119. Qui, secondo Marx, Epicuro dà il meglio di sé, distinguendosi dalla prospettiva non soltanto di Democrito, ma dell’intero popolo greco, che nei corpi celesti aveva scorto un che di numinoso, finendo spesso per identificarli con vere e proprie divinità. Era ben nota ad Epicuro l’immagine paradigmatica che degli dèi aveva diffuso Platone nel Timeo, fantasticando che gli astri fossero sede di altrettante divinità120; o ancora, l’idea che tutto il popolo greco aveva del mondo sorretto dalla mitica figura di Atlante. Tutti i Greci, in fondo, alzando lo sguardo verso il cielo, ne avevano contemplato l’assoluta perfezione e non avevano esitato a scorgervi un’impronta divina, un’insuperabile superiorità rispetto al mondo terrestre. Filosoficamente paradigmatica resta, a tal proposito, la prospettiva aristotelica, che godrà di grande fortuna e verrà superata soltanto con la Rivoluzione scientifica: gioverà richiamarne succintamente alcuni punti essenziali per poter poi capire in tutta la sua portata l’attacco frontale che ad essa muoverà Epicuro. Nel De caelo, Aristotele aveva tracciato con precisione il confine tra il mondo terrestre (popolato da corpi in costante divenire e formati dai quattro elementi) e quello celeste (popolato da corpi eterni in quanto composti di «etere» e tali da muoversi di moto circolare), ponendo la luna come linea di confine tra i due mondi; ne risultava l’immagine di due mondi radicalmente diversi tra loro sotto ogni aspetto, ancorché Aristotele ammettesse l’esistenza di una zona intermedia in cui si verificherebbero i fattori meteorologici, spiegati dallo Stagirita tramite le vicissitudini alle quali vanno incontro i quattro elementi costitutivi del reale. Pur verificandosi una tantum (a un terremoto o all’arcobaleno non si assiste certo quotidianamente), i fenomeni meteorologici sono causati dal particolare moto del Sole, il quale avvicinandosi o allontanandosi dalla Terra fa sì che gli elementi si trasformino e diano vita alle stelle cadenti, alle comete, e così via. Dal canto suo, Epicuro rigetta questa prospettiva «dualistica», sgombra il campo dalle false credenze dei poeti e si oppone ad ogni concezione teologica e teleologica dei fenomeni celesti: in primo luogo, mostra come essi possano essere spiegati «in modi molteplici» (πολλαχ ς), mai «in un modo unico ed assoluto» (ἁπλ ς) o facente riferimento ad un fine ad essi intrinseco, come invece credevano Platone e Aristotele. Notiamo, di sfuggita, che la spiegazione di Hegel 121, secondo cui indistintamente tutti i fenomeni, terrestri e celesti, sarebbero secondo Epicuro spiegabili «in modi molteplici», è un errore grossolano e indegno di un filosofo di quella statura: infatti, il nostro autore applica il metodo delle molteplici spiegazioni limitatamente al mondo celeste. In accordo con la teoria della «pluralità delle spiegazioni», il sorgere e il tramontare degli astri, la diversa durata del giorno e della notte, il chiarore della fascia lunare e tutti gli altri fenomeni che interessano il cielo, possono essere spiegati in molteplici modi, a patto che si rifugga dal mito e che essi siano tutte aderenti ai fenomeni. Così, per quel che riguarda i tuoni, «è possibile che si generino sia per l’incanalarsi del vento nelle cavità delle nubi, come nei nostri

recipienti, sia per il rimbombo in essi del fuoco soffiato dal vento, sia per gli squarci e le scissioni delle nubi, sia per gli sfregamenti e le tensioni delle nubi, | che hanno assunto la consistenza del ghiaccio. Sia il complesso delle cose sia questa parte invitano a dire che i fenomeni avvengono per molte cause e in molti modi»122. Non importa in quale modo si renderà conto del tramonto del sole, l’importante è non concedere spazio a quei miti secondo cui i corpi celesti sarebbero presieduti dagli dèi o si muoverebbero in vista di un determinato fine: tali fantasticherie, oltre a non spiegare razionalmente ciò che accade, ingenerano uno stato di paura e soggezione negli uomini verso gli dèi, intesi come architetti e dominatori del cosmo, e alimentano la falsa credenza che tutto nell’universo sia orientato in vista di un determinato fine, come già si illudevano Platone e Aristotele. Se poi dei fenomeni celesti fornissimo una sola spiegazione, questa potrebbe essere facilmente smentita e ciò genererebbe un nuovo stato di confusione e turbamento: per questo motivo, Epicuro non esita a rimproverare123 quanti hanno fornito una sola spiegazione di tutti quei fenomeni chiaribili solamente per via congetturale, aprendo la via a possibili smentite. Se le spiegazioni proliferano, quand’anche una o più di esse venissero smentite, ne resterebbero comunque altre valide e dunque il timore non si impadronirebbe di noi. Il fatto che non conosciamo ogni aspetto dei fenomeni celesti non deve intimorirci, giacché non significa che non possiamo conoscere, ma semplicemente che ancora non conosciamo: e non vieta che in futuro sapremo quel che attualmente ignoriamo. In ogni caso, dobbiamo mantenere il nostro stato di equilibrio interiore di fronte ad un cielo che, anche se non del tutto conosciuto, è comunque razionalmente spiegabile in ogni sua parte. L’irrazionalità, infatti, risiede soltanto nei racconti mitici divulgati dai poeti e accettati dai tanti creduloni che si astengono dal pensare con la propria testa e si affidano allo pseudo-sapere poetico. La stessa polemica che il nostro autore ingaggia contro gli astronomi si incastona in questo contesto: essi accampano la pretesa di conoscere le ragioni dei fenomeni celesti ma si rivelano poi turbati, pieni di timori e, in definitiva, infelici, rendendo con ciò stesso inutile il loro sapere astronomico. Per Epicuro, non ha importanza sapere concretamente come si verifichino le eclissi o come sorga il sole: quel che conta, dal punto di vista dell’etica, è sapere che per ciascuno di quei fenomeni celesti esiste una – o forse più d’una – spiegazione razionale, il che equivale ad ammettere l’inesistenza di zone inaccessibili alla ragione. In questa prospettiva poggiante sul razionalismo e sulla fede nel progresso, si sono spesso scorti i prodromi del positivismo124 e del suo atteggiamento scientistico verso la realtà. E in effetti il punto di vista fatto valere da Epicuro in sede meteorologica richiama, per alcuni versi, il concetto di «verificabilità» di certo neo-positivismo; ma occorre sempre tenere a mente che la posizione di Epicuro è finalizzata all’etica più che alla teoresi. Del resto, la molteplicità delle spiegazioni – che forse Epicuro mutuò da Teofrasto – assolve ad un’altra funzione di primaria importanza per l’etica: oltre a rasserenarci con l’idea che perfino quei fenomeni così distanti da noi e tanto potenti non sfuggono alle leggi della ragione umana, ci tranquillizza nella misura in cui ci suggerisce, sotterraneamente, che i corpi celesti mancano in fondo di una legge unitaria e inflessibile (contrariamente a quel che credevano Platone e Aristotele), ma si comportano ora in un modo, ora in un altro, rendendo in tal maniera possibile una costellazione di spiegazioni tutte plausibili. In altri termini, la molteplicità delle spiegazioni sembra quasi legittimata dal fatto stesso che le realtà celesti si comportano in una pluralità di modi diversi, senza che sia

possibile determinarle una volta per tutte; il che è del resto avvalorato dal fatto che i corpi celesti, anch’essi composti da atomi e vuoto, siano coinvolti dall’indeterminatezza derivante dal clinamen. In questo modo, la ferrea necessità negata in sede fisica è azzerata anche in sede meteorologica, con effetti positivi per l’etica. Dal momento che un cielo retto da leggi inflessibili e perfette ci farebbe sentire inferiori e ci inquieterebbe, Epicuro – fedele fino in fondo alla sua «rivoluzione copernicana» – non esita a capovolgere la prospettiva: in cielo non c’è nulla che si comporti in maniera assolutamente determinata ed unitaria, tutto è razionale ma non perfetto, sicché tra terra e cielo non sussiste alcuna differenza ontologica di rilievo; cade in questo modo la dicotomia che abbiamo visto teorizzata da Aristotele e condivisa da pressoché tutti i filosofi greci. Il cielo è come la terra, e al pari di essa non presenta alcunché degno di essere temuto o venerato come divino. Gli stessi corpi celesti, che Aristotele aveva immaginato costituiti da una materia sui generis – l’etere –, per Epicuro sono aggregati atomici non meno di ogni altro corpo esistente, cosicché quella che ci è restituita dal filosofo del Giardino è l’immagine di un cosmo assolutamente unitario, nel quale tutto si comporta razionalmente ma in maniera non del tutto necessaria o determinabile, proprio come non necessario e non determinabile è l’agire umano. Crolla in questo modo, con parecchi secoli di anticipo sulla Rivoluzione scientifica compiuta dalla modernità, il presupposto della dualità del mondo: la conseguenza più importante che la scienza ne trae è la sostanziale uniformità tra ciò che è terrestre e ciò che non lo è; quella che ne trae Epicuro è che la nostra serenità interiore non può essere scossa neppure dai corpi celesti, dipendenti dalle medesime leggi che regolano ogni altro fenomeno dell’universo. Anticipando in qualche modo – pur coi debiti confronti – la tesi di Max Weber del «disincantamento del mondo»125 prodotto dall’avanzare della razionalizzazione, per Epicuro tutto (anche l’ignoto) può essere dominato dalla ragione, cosicché ogni timore diventa infondato: non si deve neppure provar paura per ciò che ancora resta sconosciuto, poiché si sa per certo che è comunque spiegabile, in un modo o in un altro (o forse in una miriade di modi). Sicché «per quel che concerne l’etica, si tratta di metterla in pratica, in quanto la validità della dottrina sarà immediatamente verificata dall’esperienza della vita vissuta, mentre, per quel che concerne la fisica, poiché questa a differenza dell’etica ha funzione negativa di liberazione piuttosto che positiva di promovimento, non ci sarà nessun bisogno di possedere la dottrina, di conoscere cioè l’effettiva spiegazione dei vari fenomeni, ma basterà sapere che questa spiegazione ci sia»126. La necessità assoluta, il finalismo e il provvidenzialismo sono messi al bando in quanto insidiose minacce per la libertà dell’uomo: infatti, ammettere che il mondo non è interamente necessitato da cause determinanti, né architettato in vista di un fine stabilito a priori, né ordinato dal costante intervento delle divinità, equivale ad aprire un immenso territorio alla libertà umana, di decidere e di agire, di scegliere e di darsi regole comportamentali ben direzionate alla felicità personale. Nella teoria delle meteore, la dottrina di Epicuro, a dire di Marx, avrebbe raggiunto il suo punto più alto e più originale rispetto all’intera tradizione greca, liberandola da quell’atteggiamento di timore e di sudditanza verso il mondo celeste: non meno di Prometeo, Epicuro ha spostato il baricentro dagli dèi all’uomo e alla sua felicità personale, rispetto alla quale tutto il resto è secondario. La sua rivoluzione, come quella compiuta in età moderna da Copernico, muta radicalmente la prospettiva, spostando il punto di vista; ma a differenza di quella dell’astronomo polacco, che finirà col porre l’uomo ai margini dell’universo, quella di Epicuro lo pone in una posizione assolutamente centrale, facendo di esso l’obiettivo stesso della filosofia, il suo principale punto di riflessione. Essa è, innanzitutto, filosofia dell’uomo e per l’uomo, proprio come – in ambito teologico – gli dèi si curano soltanto di sé: in altri termini, come la prospettiva del dio è necessariamente teocentrica, così quella

dell’uomo dev’essere antropocentrica. Copernico sposta il punto di vista dalla Terra al Sole, e in tal maniera decentra l’uomo: Epicuro, al contrario, porta l’attenzione filosofica dalla natura esterna all’uomo, alle cui esigenze subordina tutto il resto (la scienza, la teologia, la gnoseologia, la politica, ecc). Ecco perché, nel suo ricondurre l’uomo al centro del mondo, Epicuro è «nella scienza ciò che Prometeo era nel mito»127. In questo modo, la filosofia cessa di essere un fine e diventa il mezzo tramite il quale conseguire la felicità; per questo motivo, ad avviso di Epicuro, «non bisogna far finta di praticare la filosofia, bensì praticarla veramente. Infatti, non abbiamo bisogno di dare l’impressione di stare bene, bensì di stare bene davvero»128. Oltre al solito paragone tra filosofia e medicina, è interessante, nel passo appena riportato, il riferimento polemico a chi «fa finta» di fare filosofia, intendendola come un’attività meramente teoretica che, nel suo sguardo disinteressato sul mondo, non si cura affatto del soggetto contemplante e della sua esistenza concreta. Contro questa posizione illusoria, il Nostro fa valere quella opposta della «vera filosofia» che ha immediati risvolti pratici e che pone al centro il soggetto e la sua vita; quella di Epicuro è – saremmo tentati di dire con espressione cara a Marx – una filosofia che si fa mondo, che cioè scende dal cielo sulla terra dell’uomo e della prassi. Un’espressione forte, che però adombra efficacemente la rivoluzione filosofica compiuta dal nostro autore. È interessante rilevare che, con la teoria della «molteplicità delle spiegazioni», Epicuro ha inoltre aperto – ancora una volta – notevoli spiragli verso la fisica moderna, che non di rado si è trovata a fornire più spiegazioni dello stesso fenomeno: senza addentrarci nello specifico della questione, ci limitiamo a segnalare che uno dei casi più significativi è probabilmente quello della luce, che soprattutto a partire dal XVII secolo, è stata ora intesa come un fenomeno corpuscolare (pensiamo a Cartesio o a Newton e, molto dopo, a Planck), ora come un fenomeno ondulatorio (pensiamo a Huygens e, successivamente, Young e Fresnel, fino a Maxwell). Sull’importanza delle molteplici spiegazioni per la scienza moderna ha insistito soprattutto Anthony Long: «Entro un determinato limite, è questo [il metodo delle molteplici spiegazioni] un ammirevole principio scientifico: a noi viene fatto di pensare al dibattito alimentato dalle odierne ipotesi circa l’origine dell’universo, che ancora non è stato avviato a composizione sulla base dei dati empirici»129. Con la differenza, naturalmente, che quello di Epicuro resta un approccio funzionale all’etica e al soggetto, mentre la scienza resta saldamente ancorata al primato oggettivistico. Che l’atomismo moderno e, più in generale, il materialismo ottocentesco debba molto a Epicuro e a Democrito è suffragato anche da Friedrich Albert Lange, il quale nella sua Storia del materialismo (1866) va sostenendo che «l’atomistica moderna è uscita dall’atomistica di Democrito, per mezzo di trasformazioni lente e successive»130 in un percorso del quale, a ben vedere, l’Epicureismo rappresenta la prima tappa. Con questa concezione liberatoria della filosofia, l’attacco sferrato da Epicuro al platonismo è frontale e, come già abbiamo avuto modo di accennare, senza esclusione di colpi: della teoria di Platone, Epicuro rigetta ogni punto e lo sostituisce con altrettante concezioni che, se anche non risultano in grado di render conto di ogni cosa con quel rigore dialettico proprio del filosofo delle Idee, riescono comunque a garantire all’animo umano un duraturo stato di atarassia, tale da non poter essere scalfito neppure dagli accadimenti esterni. Così il finalismo platonico è convertito in un meccanicismo che, a differenza di quello democriteo, concede ampi margini di libertà all’agire umano. L’innatismo di Platone cede il passo a un empirismo radicale per cui i concetti di cui via via

si arricchisce la nostra mente sono tutti desunti dal mondo esterno e dal commercio che veniamo a instaurare con esso: al mondo delle Idee si sostituisce quello sensibile, potenzialmente ospitante infiniti altri mondi come quello che abitiamo e ugualmente composti da atomi e da vuoto. Allo scetticismo con cui Platone aveva guardato al mutevole mondo della φύσις si contrappone la visione dogmatica di un mondo perfettamente afferrabile dalla presa della ragione. La stessa riabilitazione di Democrito operata da Epicuro è quanto di più antiplatonico sia possibile: il materialismo democriteo – sebbene il suo fondatore non sia mai citato in tutto il corpus delle opere platoniche – era stato preso di mira da Platone nel Sofista, quando tratteggiava la «gigantomachia intorno all’essere» (γιγαντομαχία περὶ τῆς οὐσίας 131) che vedeva tra loro contrapposti gli «amici delle Idee», che riducevano l’essere al puramente intelligibile, e i «figli della terra», che invece lo risolvevano nella materia: questi ultimi, della cui posizione Democrito è il massimo eroe, ritengono che ad esistere sia soltanto il corporeo e non esitano a «tirar giù» ogni cosa sulla terra, rivelandosi reticenti a ogni discussione con interlocutori che sostengano tesi divergenti dalle loro. «Uomini proprio terribili» li chiama Platone132, e prosegue paragonandoli ai Titani e alla loro spietata lotta contro gli dèi olimpici; la soluzione che alla loro posizione materialista fornisce Platone è una confutazione durissima: alla domanda se la giustizia, il coraggio, la virtù, l’anima – tutte realtà la cui esistenza è provata dal comune consenso degli uomini – siano materia, essi non possono certo rispondere affermativamente e, con ciò stesso, sanciscono la sconfitta della propria teoria. Ad essa Platone oppone la nota tesi secondo cui l’essere è «potenza» (d›namij133) di compiere o di subire azioni, aprendo in tal modo la possibilità dell’esistenza delle Idee. In questo modo, l’atomismo estremo di Democrito poteva dirsi definitivamente confutato, non meno dell’eleatismo parmenideo: spettava ad Epicuro – «figlio della terra» redivivo – dargli nuova vita, recuperando l’atomismo e difendendolo con forza dalla condanna platonica. Contro Platone e i suoi seguaci, Epicuro intraprende una battaglia senza esclusione di colpi e, soprattutto, di insulti, chiamandoli sprezzantemente «adulatori di Dionigi»134; sulla vis polemica del nostro autore si potrebbe aprire una lunga parentesi: ci limiteremo tuttavia a dire che, nel confutare i suoi avversari in filosofia, egli non esitò mai a ricorrere agli insulti più infamanti, chiamando ad esempio Eraclito «mestatore», Aristotele «depravato», Protagora «facchino», Nausifane «mollusco, illetterato, ingannatore e cortigiana», Pirrone «ignorante e incolto»135. Addirittura di Democrito, da cui il Nostro desunse molti punti del suo sistema, viene convertito il nome in «Lerocrito», ossia «chiacchierone insensato»136. Tutti aggettivi alquanto pesanti che tendenzialmente prendono di mira la vita personale dei vari pensatori più che la loro filosofia; il solito Plutarco non perde l’occasione per attaccare il nostro autore, dicendo che sono «dei sofisti e degli impostori quelli che scrivono in maniera così impudente e insolente contro uomini illustri»137; gli unici due pensatori che Epicuro sembra aver elogiato sono Anassagora (la cui dottrina, del resto, presentava forti analogie con quella atomistica) e Archelao138. Tornando alla polemica antiplatonica, il filosofo del Giardino, nello sposare le tesi atomistiche139 di Democrito, non può che, a sua volta, attaccare il platonismo in ogni suo aspetto, compiendo con Platone lo stesso movimento di pensiero che questi aveva compiuto col suo acerrimo nemico Democrito: denunciandone l’illusorietà in sede metafisica, l’infondatezza in ambito religioso, l’inutilità nella sfera politica, egli non conserva alcun aspetto del platonismo. Ma, negata la possibilità di un intelligibile regno delle Idee, quello che resta ad Epicuro non è il mondo degli Accademici, sfuggente a ogni possibile conoscenza umana e oggetto di un’incertezza tale da

richiedere la sospensione del giudizio. Gli resta piuttosto un mondo assolutamente certo, perfettamente conoscibile (anche se non del tutto conosciuto) in ogni sua piega: di fronte ad esso, l’atteggiamento più conveniente da assumere è quello del dogmatico che, consapevole della possibilità di conoscere tutto (compreso ciò che al momento resta ancora ignoto), vive in perfetto equilibrio col mondo esterno, senza tormentarsi l’animo e la mente perché inappagato dal sapere (o, meglio, dal non-sapere) di cui si trova in possesso.

6. La felicità attraverso la «quasi-teologia». «Non ci sfiori l’idea di adottare in alcun caso la natura divina come spiegazione di questi fenomeni: essa deve mantenersi priva di occupazioni e in una completa beatitudine» 140.

Ma se oltre agli accadimenti fisici perfino i fenomeni celesti procedono autonomamente, senza influenze numinose, che ne è degli déi? Possono essere congedati come mere invenzioni della fantasia umana? Dobbiamo liquidarli come ipotesi mentali per spiegare un cosmo che, al primo sguardo, risulta incomprensibilmente enigmatico? O piuttosto dobbiamo credere che siano stati inventati dagli uomini al fine di dare un fondamento al potere politico e di legittimare lo status quo? Epicuro non sceglie alcuna tra queste possibili strade, ma ne intraprende una autonoma che, a tutta prima, può sembrare incompatibile col suo sistema: gli dèi esistono, e quanti hanno tentato di negarne l’esistenza hanno preso dei clamorosi abbagli. Che gli dèi esistano realmente e non solo come finzioni mentali, è avvalorato dal consenso che su questo argomento tutti gli uomini si trovano a condividere: ciò che tutti ammettono come vero, non può essere falso. Dunque gli dèi esistono, nella misura in cui gli uomini si trovano unanimemente (o quasi) d’accordo ad ammetterne l’esistenza. Inoltre, la loro esistenza trova una prova nell’esperienza che di essi facciamo nei sogni, quando ce li rappresentiamo come antropomorfi e felici al massimo grado. Tutti noi – dice Epicuro – vediamo nei nostri sogni gli dèi, che ci appaiono sempre come entità felici e beate. A questo punto, sorge spontaneo chiedersi perché mai ci si dovrebbe fidare dei sogni, i quali non di rado ci ingannano con immagini inesistenti o con situazioni che ci illudono di essere svegli mentre stiamo in realtà dormendo. I sogni non sono forse, in definitiva, tra le esperienze meno affidabili? Su questo punto, Epicuro recupera la dottrina degli εἴδωλα: le immagini degli dèi che riceviamo nei nostri sogni non sarebbero altro che l’incessante emanazione di flussi atomici provenienti da entità realmente esistenti da noi definite «dèi». E dunque, se è vero che gli εἴδωλα riportano fedelmente la configurazione degli oggetti da cui emanano (come Epicuro s’è affaticato a dimostrare in sede di teoria della conoscenza), ne segue che gli dèi devono esistere, poiché le percezioni non ingannano mai: dunque le tante immagini false che sugli dèi mettono in circolo i poeti dipendono non da un’errata percezione, ma piuttosto da un intervento letale dell’opinione, la quale, come s’è visto, è la fonte dell’errore. Una seconda importante conseguenza della dimostrazione epicurea è che anche gli dèi, per poter emanare gli εἴδωλα, dovranno essere composti di atomi e di vuoto, al pari di ogni altra realtà: infatti, non esiste realtà al mondo che non sia composta da atomi e vuoto. Se ne deve allora concludere che, come ogni altro aggregato atomico, anche le divinità vadano incontro ai processi di generazione e di corruzione? Sembrerebbe la necessaria conseguenza della fisica epicurea. Se così fosse, ne ricaveremmo che anche gli dèi nascono e muoiono, con la paradossale conseguenza che – per le ragioni che spiegheremo più avanti – non sarebbe più possibile distinguere tra essere umano e divinità. Per sfuggire a questa aporia, il filosofo del Giardino ricorre ad un’astuzia finissima ammettendo, come costitutivi degli dèi, particolari atomi leggerissimi e tali da costituire un incessante risarcimento atomico all’aggregato, rendendolo imperituro. Dunque, gli dèi, pur essendo aggregati atomici, non sono coinvolti dai processi di generazione e di corruzione. A suffragare ulteriormente l’esistenza degli dèi è poi la cosiddetta prova della «isonomia», secondo la quale «se tanto grande è la moltitudine dei mortali, non minore dev’essere quella degli

immortali»141, poiché altrimenti verrebbe a mancare ogni forma di bilanciamento atomico: quasi come se, per ogni essere umano, dovesse esistere una divinità corrispondente. L’aspetto più interessante di questa prova bizzarra è la conseguenza a cui essa porta: oltre a essere tanti quanti sono gli uomini, gli dèi devono essere suddivisi tra maschi e femmine, devono parlare una lingua uguale o simile al greco (che, con un giudizio che lo accomuna a Hegel, Epicuro considera la lingua per eccellenza dei saggi), insomma devono essere in tutto e per tutto simili agli uomini. E dunque, in rottura con le accese polemiche anti-antropomorfiche con cui aveva tuonato l’antico Senofane, il primo teologo della storia, Epicuro non esita ad ammettere che gli dèi abbiano forma umana: ciò è altresì provato dai sogni, in cui il divino ci appare in sembianze umane, e non contrasta con la ragione, la quale ci suggerisce che agli dèi, per definizione, si addice la più perfetta tra le forme, quale è appunto quella propria dell’uomo (il che costituisce, tra l’altro, un’eccellente prova dell’assoluto antropocentrismo epicureo). In concreto, gli dèi dimorano lontani dal nostro mondo (che è un prodotto non loro, bensì della natura), conducono un’esistenza all’insegna di piaceri sommi ed eterni e non debbono svolgere alcuna attività pratica: essi possono permettersi di vivere secondo l’ideale greco – al quale Epicuro resta in qualche modo legato – della σχολή, del «tempo libero» e non occupato da faccende di vario genere: una condizione d’eccellenza che, com’è noto, ai tempi dei Greci era resa possibile grazie all’esistenza di una classe (gli schiavi) sulle cui spalle gravava il peso del lavoro dell’intera società. Ma ammettere l’esistenza degli dèi non significa forse alimentare la paura che gli uomini nutrono nei loro riguardi? Se così fosse, l’ammissione dell’esistenza degli dèi porrebbe sotto scacco la dottrina epicurea e le sue finalità etiche. Una lunga tradizione, che trova in Omero e in Esiodo i suoi eroi, aveva presentato gli dèi come altamente vendicativi, sempre pronti a punire – non di rado in maniera francamente esagerata – gli uomini per le loro colpe, prima fra tutte la ὕβρις, ossia quella «tracotanza» che induce l’uomo a non riconoscere e, dunque, a valicare il confine tra l’umano e il divino. Le punizioni gravate su Prometeo, su Ulisse e su Agamennone, così note all’immaginario greco, erano esemplari: dimentichi del loro ruolo di soli uomini, essi avevano preteso di ingannare gli dèi, di superarli e di sostituirsi a essi. Si può dire che, almeno in parte, la mitologia greca è narrazione di punizioni inferte dal divino all’umano, tutte volte a richiamare l’insuperabile differenza ontologica tra i due livelli. Il che ben si coniuga con quella che forse può essere definita la principale peculiarità degli dèi greci: l’intervenire incessantemente nel mondo degli uomini per soccorrerli (Achille che uccide Ettore aiutato da Atena), per ostacolarli (si pensi alla navigazione di Ulisse, resa impossibile da Poseidone) o, ancora, per punirli (Apollo che scatena l’epidemia). Ma, ammettendo l’esistenza degli dèi, Epicuro non sta accreditando le dicerie popolari che li vogliono nemici dell’uomo, né quelle dei poeti che li cantano come vendicativi: semplicemente, il nostro autore, sta parlando di altri dèi, a cui perviene non la fantasia ma la ragione. Avevano ragione Aristotele142 e Platone143 a sostenere l’innata tendenza dei poeti a mentire e a riconoscere l’alterità degli dèi del volgo e dei poeti rispetto a quelli dei filosofi. Contro i poeti, dunque, Epicuro conduce incessantemente un’aspra polemica: ad essi, come abbiamo visto, muove l’accusa di diffondere false opinioni circa gli dèi e il funzionamento del mondo, gettando l’animo di chi crede alle loro fandonie in uno stato di agitazione e di inquietudine. Questa critica ai singoli poeti (soprattutto Omero ed Esiodo) si inquadra in una più generale condanna dell’arte poetica che sembra echeggiare quella platonica ma che in realtà è ben distante da essa: infatti, mentre la critica platonica era mossa da un punto di vista eminentemente teoretico (l’arte poetica è esecrabile in quanto, anziché farci conoscere il mondo, ci distoglie dalla vera conoscenza), quella epicurea è condotta, ancora una volta, sul fronte

etico. Infatti, per il nostro autore l’arte poetica dev’essere rigettata nella misura in cui non giova alla vita, ma al contrario la sconvolge con false credenze e con immagini fuorvianti che mettono a repentaglio il conseguimento della felicità. Pertanto, se è innegabilmente vero che gli esiti a cui pervengono Platone ed Epicuro nella loro critica dell’arte poetica sono gli stessi – l’esclusione dei poeti dalla città ideale (Platone) e dal Giardino (Epicuro) –, è anche vero che i motivi e gli intenti che animano la loro condanna sono radicalmente diversi. Se torniamo a volgere lo sguardo agli «dèi di Epicuro», scopriamo che essi – al centro della celebre monografia di Festugière, Épicure et ses Dieux144 – non sono né vendicativi né provvidenziali, perché una condizione del genere è tipica di un «soggetto debole» e imperfetto: il loro unico interesse è la propria felicità; di tutto il resto essi si disinteressano nel vero senso della parola. Si tratta dunque, diciamolo pure, di divinità egoiste che non si curano se non della propria felicità personale. Pertanto, all’idea – veicolata dai poeti – degli dèi vendicativi e con lo sguardo sempre fisso sul nostro mondo, si sostituisce quella che li intende come incuranti di tutto e di tutti, paghi della loro beatitudine e, per ciò stesso, disattenti a tutto il resto. Per usare un’espressione nietzscheana, potremmo dire che il «pathos della distanza» è ciò che li contraddistingue. Dovendo tratteggiare questi esseri supremi, il filosofo del Giardino non esita minimamente a riconoscere nella felicità l’ingrediente principale della loro compiuta condizione di beatitudine: in ciò, ancora una volta, egli segnala l’assoluta centralità della felicità nell’economia del suo sistema. Se gli dèi avessero a cuore questo mondo, ne deriverebbero conseguenze assurde: in primis, essi smarrirebbero la loro condizione di beatitudine, vedendola inquinata dalle infime faccende terrene. Aristotele aveva infatti insegnato145 che la divinità, se ha da essere beata, non può occuparsi delle faccende umane, perché ciò – essendo un interessamento rivolto a una realtà di livello inferiore – costituirebbe un decisivo depotenziamento della beatitudine. Detto altrimenti, un dio, per essere tale, deve badare soltanto a realtà divine, vale a dire a se stesso. In secondo luogo, se gli dèi effettivamente intervenissero nel mondo, non si spiegherebbe perché in esso continui a infuriare il male, innanzitutto nella forma della sofferenza fisica: se le divinità intervengono nel mondo, perché non eliminano il male? Di fronte a questo inquietante interrogativo, le risposte possibili assumono la forma di una disgiunzione completa: le divinità non rimuovono il male o perché non possono o perché non vogliono, o perché né possono né vogliono. Ma se non possono, allora gli dèi sono impotenti; e se non vogliono, sono invidiosi, cioè non sono divinità buone. Ma impotenza e invidia sono caratteristiche evidentemente incompatibili con la nozione di divinità, cosicché l’unica soluzione che consente di non attribuire alla divinità caratteristiche negative consiste nel riconoscere che gli dèi non si occupano del mondo e delle vicissitudini umane. Se le cose stanno così, non v’è alcun motivo per temerli: pienamente beati nella loro condizione, essi non hanno alcun interesse per questo mondo col quale non intrattengono alcun rapporto e di cui, anziché essere gli ordinatori o i creatori, sono parte integrante. Dunque essi, attenti solo alla loro felicità, non si curano minimamente del fatto che il nostro mondo sia innervato dal male, che vediamo proliferare in mille forme. È questo un altro modo per mettere al bando quel teleologismo su cui poggiavano i sistemi di Platone, di Aristotele e degli Stoici, quel teleologismo che trovava le sue massime espressioni nella figura del platonico ordinatore divino del mondo e nella convinzione aristotelica secondo cui «se la casa facesse parte dei prodotti naturali, sarebbe generata con le stesse caratteristiche con le quali è ora prodotta dall’arte»146. Abbiamo già riferito dell’espunzione atomistica della causa finale, ma non abbiamo ancora riflettuto sulla rivoluzione teorica che quest’operazione comporta: se per Platone e

per Aristotele l’uomo possiede gli occhi al fine di vedere147, per l’atomismo di Democrito e di Epicuro essi sono il frutto del caso e la funzione stessa della vista è casuale (prima viene l’organo e solo in un secondo momento si sviluppano le sue funzioni: la vista viene prima del vedere, le orecchie prima del sentire, la lingua prima del parlare, e così via). Questo punto è stato icasticamente compendiato da Lucrezio (e sarà ben presente a Spinoza, anch’egli nemico giurato del finalismo148): «Non son gli organi già del corpo che al fine son fatti dei bisogni de l’uomo; son essi che, sorti per caso, creano l’uso. Non nacque innanzi il vedere che l’occhio»149. Rigettato il finalismo, non ha più senso temere gli dèi, né ha senso rivolger loro preghiere volte a ingraziarseli: essi, infatti, non si curano del mondo, né nel male né nel bene; semplicemente, pensano a se stessi. Con un’argomentazione che non può non strapparci un sorriso, Epicuro sosteneva che, se le preghiere fossero efficaci e utili, allora gli uomini sarebbero già morti tutti da un pezzo, perché nelle loro preghiere non fanno altro che richiedere sventure gli uni a danno degli altri. L’ovvia conseguenza che discende dal ragionamento epicureo è che la divinazione, sempre tenuta in gran conto dai filosofi, è del tutto priva di senso: proprio perché gli dèi non si curano del mondo, è assurdo e degno di essere deriso ogni tentativo di leggere il futuro attraverso l’esame di segni esprimenti la volontà divina. Anche i sacrifici, in quest’ottica, non sono che una disumana pratica frutto della superstizione: che senso ha uccidere animali o esseri umani in onore di divinità che non si preoccupano affatto di noi? È soltanto un modo per accrescere il male nel mondo. La più bella raffigurazione dell’assurdità di questi riti è stata compiuta dalla poesia di Lucrezio, il quale descrive con toni commossi e commuoventi l’immolazione di un vitellino, cercato poi disperatamente dalla madre150, e l’assurdo sacrificio della giovane Ifigenia151, volto a garantire venti propizi alla flotta greca. Per portare a compimento questa operazione di purificazione del mondo dal divino, Epicuro compie un’ulteriore mossa decisiva: gli dèi non dimorano in questo mondo, ma tra i μετακόσμια, ossia gli «spazi cosmici» – che Lucrezio e Cicerone152 chiamano «intermundia» – che intervallano gli infiniti mondi esistenti. Non bisogna temere gli dèi e le loro presunte punizioni, poiché essi non si curano del mondo e sono fisicamente lontanissimi rispetto ad esso. Per allontanare la paura degli dèi, Epicuro ne allontana la residenza: essi né intervengono, né si curano di noi, né ci sono vicini. Dunque, ancora una volta, non ha alcun senso temerli. La tradizione successiva farà grandi risate di questi dèi, così egoisti e – in fondo – inutili, che pensano esclusivamente alla loro felicità e che rappresentano l’antitesi sia del Dio creatore cristiano, sia del Demiurgo platonico: tanto Cicerone quanto Hegel ironizzano senza sosta su di loro e, in filigrana, sulla rozza mente che li ha ideati. Ma il tradizionalista Cicerone li deride e, al contempo, teme che essi possano sostituirsi a quelli tradizionali, provvidenziali e degni della venerazione umana, sui quali poggiano gli austeri «mores» romani: per cui, nei suoi tanti scritti dedicati all’argomento, dietro al riso beffardo si nasconde sempre la preoccupazione e la volontà di confutare una volta per tutte l’insidiosa teologia epicurea. Se nel De divinatione, l’Arpinate liquida icasticamente – «sulla natura degli dèi disse cose assurde»153 – la teologia epicurea, nello scritto De natura deorum scende sul campo di battaglia armato di tutto punto e sferra contro gli dèi di Epicuro il più grande attacco che essi abbiano mai subito. L’eclettismo ciceroniano, di matrice stoicoplatonica, lo induce ad accettare di buon occhio le più disparate concezioni filosofiche, eccezion

fatta per l’Epicureismo, in cui ravvisa una perenne insidia per la società romana. Ciò che più diverte il lettore è, forse, il fatto che nel descrivere i suoi dèi Epicuro si riveli visibilmente in imbarazzo: essi sono antropomorfi, ma, per non farli coincidere in toto con gli uomini, finisce per sostenere che non hanno un corpo e un sangue, ma un quasi-corpo e un quasi-sangue154. Possiamo riderne finché vogliamo, ma essi, così intesi, assolvono a un compito fondamentale, che non era sfuggito a Lucrezio: «Mentre l’umana stirpe, aperto spettacol deforme, su la terra giaceva schiacciata, ché, d’incubi grave, la Religione, il capo sporgendo da l’alto dei cieli, con orribile aspetto minace su i vivi incombeva, primo fu un uomo Greco, mortale, che, alzando lo sguardo, conficcoglielo in volto, incontro, a magnanima sfida: né degli dèi la fama, né folgori o rombi minaci l’atterriron dal cielo, ché invece ancor più ne fu scossa dello spirto l’acuta potenza, e la brama più accesa di spezzare per primo le porte sbarrate del mondo»155. Si potrà forse obiettare che Epicuro avrebbe potuto risolvere la questione degli dèi negandoli fin da principio, col medesimo dispendio energetico con cui ha spiegato l’intera struttura dell’universo con due soli princìpi: del resto, almeno in apparenza, egli li crea per poi cacciarli alla periferia del mondo, sordi tanto alle preghiere quanto alle bestemmie. Che senso ha ammettere l’esistenza di dèi siffatti, che non si curano del mondo e lasciano che esso sia pervaso dal male? Eppure egli deve ammetterli perché svolgano una funzione capitale per l’etica: nella loro perfetta felicità, colta perfettamente dalla plasticità delle statue greche, gli dèi rappresentano un inaggirabile ideale per noi che della felicità siamo incessantemente in cerca. Proprio come le statue, che raffigurano un’umanità perfetta e in armonico equilibrio, così le divinità sono paradigmi di perfezione, di una perfezione che – non è difficile capirlo – deve essere emulata e assunta come ideale a cui tendere con ogni sforzo. Aristotele aveva posto il suo dio come «motore immobile»156 dell’universo, ipotizzando che, nella sua perfetta immobilità e perfezione di essere pensante e puramente attuale, egli costituisse per l’intero universo un punto di riferimento a cui tendere non meno di come si tende all’oggetto amato: stando fermo, egli muoveva ogni cosa. La conclusione cui perveniva lo Stagirita era la seguente: «Se, dunque, in questa felice condizione in cui noi ci troviamo talvolta, Dio si trova perennemente, è meraviglioso; e se Egli si trova in una condizione superiore, è ancor più meraviglioso. E in questa condizione Egli effettivamente si trova. Ed Egli è anche vita, perché l’attività dell’intelligenza è vita, ed Egli è appunto quell’attività. E la sua attività, che sussiste di per sé, è vita ottima ed eterna. Diciamo, infatti, che Dio è vivente, eterno e ottimo; cosicché a Dio appartiene una vita perennemente continua ed eterna»157. Similmente, Epicuro concepisce gli dèi come oggetti di desiderio, come paradigmi a cui tendere nel tentativo di raggiungerne la felicità; anche se, in verità, gli dèi quali li intende Epicuro non si limitano a pensare, ma conducono un’esistenza decisamente più completa, svolgendo le attività più disparate e conducendo un’esistenza sociale all’insegna dell’amicizia. Si tratterà allora di modellare la propria esistenza su quella degli dèi, allontanando da sé le tante paure che infestano il nostro animo: per questa via, sarà possibile quella che – con Platone158 – potremmo definire una ὁμοίωσις θε , un «indiarsi» raggiungendo la beatitudine propria degli esseri divini, incuranti del mondo e dotati di una mente sgombra da ogni preoccupazione.

Sì, perché all’uomo è concesso di essere felice al pari degli dèi, ancorché la sua esistenza sia limitata dal limite estremo della morte. Ma il fatto della morte comporta la cessazione della felicità, non una sua diminuzione: e, disgregandosi quel composto atomico che è l’uomo, viene meno la stessa possibilità di provare sensazioni e di essere felici. Ma che importanza può avere se viene meno la felicità quando noi stessi non ci siamo più? Tanto più che al filosofo deve stare a cuore la qualità della vita, non la sua quantità, proprio come nei banchetti si tende a scegliere non la porzione di cibo più grande, ma quella più saporita. Epicuro è del resto saldamente convinto che un tempo infinito contenga la stessa quantità di piacere che uno finito, con la conseguenza che l’uomo può vivere divinamente nel vero senso della parola. Questo punto è trattato con incredibile lucidità sul finale della Lettera a Meneceo: «Medita, dunque, questi precetti e quelli ad essi affini, giorno e notte, fra te e te e anche con colui che è simile a te stesso, e mai, né da sveglio né in sogno, sarai turbato, ma vivrai come un dio tra gli uomini»159. E ritorna nel frammento di una lettera destinata alla madre: «Non é infatti per me cosa piccola o priva di importanza ciò che rende la mia disposizione d’animo simile a quella degli déi e indica che non siamo inferiori alla natura incorruttibile e beata, nonostante la nostra condizione mortale. Perché, da vivi, possiamo godere di una felicità pari a quella degli dèi […] anche se si sia ricevuta una diminuzione; ma se non si é in grado di sentire, in che modo si può ricevere una diminuzione?»160. Se l’uomo riesce a rimuovere le paure che lo affliggono, può innalzarsi a una condizione di beatitudine pari a quella degli dèi: con queste riflessioni, Epicuro resta fedele alla sua «rivoluzione copernicana». Il primo passo sta nell’ammissione del disinteresse divino per le nostre vicissitudini e nel riconoscimento della lontananza materiale – in un universo in cui ogni moto avviene per contatto diretto – degli dèi, remoti abitatori degli «intermundia»; il secondo e decisivo passo consiste nel prendere atto della omogeneità costitutiva tra uomini e dèi: simile è tanto la forma quanto la struttura atomica, e l’unica vera differenza – l’immortalità divina – è di poco conto, poiché di fatto non concorre al conseguimento della felicità né al suo incremento. Ancora una volta, Epicuro ha costruito ad hoc l’oggetto della sua filosofia, in maniera del tutto funzionale all’etica: egli si domanda non già come siano gli dèi, bensì come debbano essere perché la nostra felicità non ne risenta, e a tale quesito risponde inventandosi degli dèi simili a noi, eternamente beati, né vendicativi né benevoli, miranti al piacere fisico e al loro divino vivere associato. Così, nella Lettera a Meneceo, il nostro autore afferma esplicitamente che, a seconda di come si pensino gli dèi, possono venire da loro le più grandi sofferenze come i beni più splendidi: perché allora pensarli come vendicativi e tali da intervenire nel mondo infliggendo punizioni e sofferenze? Ai fini della felicità umana, è molto meglio immaginarli come più ci conviene, vale a dire come modelli perfetti ai quali tendere asintoticamente. Sotto questa luce, la teologia di Epicuro – Feuerbach ante litteram – non è che una grande antropologia, poiché in fin dei conti gli dèi quali egli li intende non sono altro che proiezioni idealizzate dei filosofi giunti al traguardo del processo di purificazione dai timori e del conseguimento della felicità. Non senza motivo, dunque, Cicerone161 si lamenta del fatto che Epicuro

abbia inteso gli dèi simili agli uomini, e non viceversa: anche se, a ben vedere, più che uomini in senso generico, gli dèi del nostro autore sono filosofi giunti al traguardo etico, ossia a una felicità del tutto dispiegata. Quella di Epicuro è, in definitiva, una concessione alla tradizione, che da sempre ammette all’unisono l’esistenza degli dèi: sicché, eliminarli del tutto avrebbe voluto dire, paradossalmente, ingenerare inquietudine e timore nell’animo dei Greci, ancora troppo legati a quella tradizione per staccarsene così bruscamente. La prova del «consensus omnium» – essa stessa di natura spiccatamente etica, in quanto incline a far coincidere la verità con ciò che gli uomini vogliono che sia vero – viene dunque ribaltata in funzione etica: poiché tutti ammettono l’esistenza degli dèi, non possiamo negarla – sembra dire Epicuro –, perché altrimenti i più precipiterebbero in uno stato di timore e di panico che li porterebbe al largo nel mare del turbamento. D’altro canto, se si vuole far salva l’imperturbabilità dell’animo, occorre depurare gli esseri divini dalle tradizionali caratteristiche della vendicatività, della provvidenza, della brama di preghiere e sacrifici: ne nascono degli dèi eternamente felici ed eternamente disinteressati a ciò che li circonda. Allora, di fatto, quello di Epicuro è un «ateismo mancato» solo in parte, perché gli dèi che egli si inventa è come se non ci fossero, non se ne ha esperienza se non in sogno, non ci si deve curare di loro nel proprio agire, se non mirando sempre di nuovo al loro ideale stato di perfezione: il Giardino stesso, il luogo immerso nella quiete della campagna e lontano dal frastuono assordante della città, non è forse la proiezione su questa terra del remoto Olimpo su cui dimorano, eternamente felici, gli dèi? Non è forse un tentativo di creare un piccolo «intermondo» su questa terra, nel quale vivere da dèi pur essendo mortali e porsi al riparo dal caos spaesante delle vicende politiche? Creare una piccola comunità di dèi sembra dunque essere l’obiettivo del pensiero epicureo. Dunque, per Epicuro, con una sorprendente anticipazione della definizione di Dio data da Anselmo di Aosta, «è necessario che esista una natura eccellente, della quale nulla sia migliore»162 e a cui incessantemente guardare come modello di perfezione da imitare: i tanti dèi che popolano l’Olimpo dei poeti, o gli «intermundia» di Epicuro, non sono che altrettanti saggi felici sui quali modellare il più possibile la propria condotta di vita. In questo senso essi sono, kantianamente, un’«idea» della ragion pura, un «concetto» non riempito di esperienza ma utilissimo come fine a cui aspirare: dobbiamo agire come se essi realmente esistessero, anche se mai li esperiamo in se stessi né possiamo dedurne l’esistenza guardando il mondo, che tutto è fuorché un «vestigium dei». Tutte le «società di atei» architettate nella storia, da Bayle a d’Holbach, trovano dunque in Epicuro il loro immancabile riferimento, il loro primo fondatore. La lotta che egli ingaggia non è tanto contro la nozione di divinità in se stessa, quanto piuttosto contro quella diffusa dai poeti e dalle vane opinioni del volgo, la quale è frutto di superstizione e foriera di sempre nuove preoccupazioni per l’animo umano: «è empio – scrive Epicuro – non chi nega gli dèi venerati dai più, ma chi ascrive agli dèi le opinioni dei più»163; chissà poi cosa avrebbe detto il nostro autore se avesse potuto assistere al fiorire dei tre grandi monoteismi, i quali – come David Hume ha sottolineato meglio di ogni altro – affrancano sì l’uomo dall’idolatria e dalla superstizione proprie del politeismo, ma s’accompagnano necessariamente (nella misura in cui sono «religioni del libro» e fanno riferimento a un unico Dio, rispetto al quale ogni altra divinità è un idolo indegno di essere venerato) a un fanatismo e a un’intolleranza sconosciuti alla religione dei Greci164, i quali arrivarono a dedicare altari agli «dèi sconosciuti». Nella lotta epicurea contro la superstizione, nel tentativo di ricondurre tutto sotto la tutela della ragione, si possono scorgere i prodromi del futuro atteggiamento illuministico: Marx stesso, con

un’espressione alquanto felice, ha definito Epicuro «il più grande illuminista greco»165, colui che ha innalzato la ragione umana a legislatrice universale, riconoscendo ad essa pieni poteri conoscitivi. Non esiste un «hic sunt leones» in cui sia impedito l’accesso alla ragione: essa può intervenire su ogni questione, conoscendo, smascherando, chiarendo e tranquillizzando, in ogni caso lavorando come ancella della felicità. Sotto l’egida della ragione, crolla ogni vano timore e scaturisce un’imperturbabile felicità: il mondo che la ragione disvela è un mondo a misura d’uomo, in cui nulla può sfuggire alla presa del raziocinio, e in cui è destinato ad essere conosciuto anche ciò che per il momento resta ignoto.

7. Essere felici nonostante la morte e il dolore. «Il più orribile dei mali, la morte, non è nulla per noi, poiché, per tutto il tempo in cui noi siamo, la morte non è presente; e invece, per tutto il tempo in cui la morte è presente, noi non siamo. Dunque, essa non riguarda né i vivi né i morti, poiché per i primi non c’è, e gli altri non sono più» 166.

Rimuovere il timore dei fenomeni celesti e degli dèi rappresenta un avanzamento verso la felicità: ma restano ancora parecchie paure da allontanare dall’animo umano affinché esso possa raggiungere un tranquillo stato di serenità. Prima fra tutte quella della morte, che in parte già affiorava nella distinzione tra l’essere umano e quello divino: il primo è transeunte, il secondo gode di una felicità imperitura. Tutti i più grandi filosofi si erano confrontati con questo problema, fornendo le soluzioni più disparate: in particolare, per la tradizione che dal l’Orfismo giungeva fino a Platone, la morte costituirebbe la liberazione dell’anima da quella «tomba» (σ μα) che è il «corpo» (σ μα), sicché morendo si nascerebbe a nuova e più alta vita. In questo modo, però, se pure era fugata la paura di una morte intesa come inesorabile fine dell’esistere, sopravviveva il timore dei possibili premi o castighi ultraterreni, delle possibili reincarnazioni in esseri inferiori come – secondo il poco condivisibile giudizio di Platone167 – la donna o i pesci. Ammessa l’esistenza di un altro mondo, il problema della morte era spostato ma non risolto. Dal canto suo, Epicuro intende fare tabula rasa di queste concezioni ancora troppo invischiate nella metafisica classica e, pertanto, troppo inquietanti per l’animo umano: la morte, egli dice, non è che il necessario esito dei processi di generazione e di corruzione a cui gli aggregati atomici sono necessariamente sottoposti. Infatti, la vita, come abbiamo visto, non è che un continuo bilanciamento tra atomi che si allontanano da noi tramite la respirazione, e altri che vengono introdotti attraverso la nutrizione. Quando però viene meno questo equilibrio instabile, si va in passivo e dunque si allontanano da noi più atomi di quanti non ne vengano introdotti: in tal maniera, il nostro corpo va inesorabilmente incontro al decesso. La morte si riduce in questo modo a un mero processo fisico, un processo fisico che accomuna l’uomo a tutti gli altri animali e, in generale, a tutti gli altri esseri, nella misura in cui sono anch’essi composti da atomi e vuoto. Che il corpo umano fosse destinato a morire, era cosa evidente a tutti, non solo ai filosofi. Più dibattuta e spinosa era la questione dell’anima: spentosi il corpo, qual è il suo destino? Su questo interrogativo, le soluzioni dei predecessori di Epicuro erano quanto mai varie e, non di rado, bislacche: c’era chi, come Platone e i Pitagorici, aveva riconosciuto l’immortalità della ψυχή, scorgendo addirittura la massima liberazione nella sua separazione dal corpo; chi, come Democrito e, in maniera diversa, Aristotele l’aveva negata, facendola morire insieme al corpo; e anche chi, come Ermotimo, ne aveva addirittura bizzarramente ipotizzato un’esistenza autonoma già quando il corpo è ancora in vita, come se essa potesse di tanto in tanto, secondo il suo capriccio, uscire dal corpo stesso per poi rientrarvi quando le fosse parso opportuno. Il destino che attende l’anima dipende interamente dal modo in cui la intendiamo: in ciò concordando con Democrito, Epicuro la immagina composta da atomi; ma – compiendo un notevole passo avanti rispetto al suo precursore di Abdera – egli opera una distinzione cardinale tra una parte irrazionale e una razionale. La prima è composta da atomi del tutto particolari, in quanto di natura ignea, aeriforme e ventosa, e di forma sferica, tali da poterne garantire l’assoluta mobilità, che già Platone aveva teorizzato come suo tratto distintivo. Proprio tale mobilità renderebbe conto del calore che contraddistingue la vita e della rapidità del pensiero umano. La parte razionale, poi, è costituita da atomi particolarissimi, nella descrizione dei quali il filosofo del Giardino si trova in grande imbarazzo: a tal punto da

qualificarli come atomi non meglio identificabili, di cui non è possibile fornire una descrizione; il che, al severo sguardo di Plutarco, non poteva che essere la riprova di un’«ignoranza vergognosa»168 anche in sede psicologica. Si è spesso obiettato, inoltre, che il frantumare l’anima in due parti distinte tra loro impedirebbe ad Epicuro di fondare l’unità della coscienza169, cosa che peraltro gli sarebbe stata resa assai ardua già dall’aver fatto dell’anima un aggregato di atomi molteplici: come può l’Io costituire un’unità se è già in partenza diviso tra un parte irrazionale e una razionale? È un problema che, nella teoria epicurea, resta senza soluzione. Ma la conseguenza sicuramente più importante della concezione atomistica dell’anima è che essa, se costituita da atomi e vuoto, al pari di ogni altro aggregato non sfugge ai processi di corruzione: in perfetta sintonia con Democrito, anche Epicuro e i suoi seguaci «l’anima col corpo morta fanno»170, senza postulare alcuna sua sopravvivenza ultraterrena o possibilità di reincarnazione. Con la morte cessa dunque in maniera definitiva l’esistere umano, senza che sussista il rischio di premi o castighi in un’ipotetica «vita dopo la vita». Dunque, l’esistenza umana si gioca tutta su questo mondo, a dispetto di quel che ha creduto la lunga tradizione avviata dall’Orfismo e dai Pitagorici, recuperata da Platone e destinata a rivivere, pur con notevoli modifiche, nel pensiero cristiano. Epicuro è convinto che l’ammissione dell’esistenza di un altro mondo, del quale il nostro sarebbe solo un’anticamera, crei più problemi e timori di quanti non ne tolga di mezzo: l’idea di un mondo ultraterreno – sembra dire Platone e, con lui, la tradizione cristiana – rasserena l’animo, dando la certezza che in un certo senso siamo anche noi immortali e non condannati a diventare polvere; ma proprio quell’idea – nota Epicuro – è fonte di mille altri turbamenti, nella misura in cui finisce per farci vivere sulla terra in un perenne stato di tensione e di paura per quella che sarà la vita ultraterrena. Dunque, soppesando oculatamente le cose, è molto meglio credere che non esista un aldilà; il che, tra l’altro, ci aiuta anche ad attribuire maggior valore all’aldiqua e a ricercare in esso la felicità, senza rimandarla a presunte altre vite. Resta tuttavia un problema non da poco: rimosso il timore di una seconda vita, continua a persistere quello della morte considerata in se stessa. Che cosa proviamo esalando l’ultimo respiro? Si tratta di una sofferenza senza limiti? O piuttosto è un trapasso così rapido da rendere impossibile la percezione di ogni dolore fisico? Da questo punto cruciale dipende il buon esito dell’etica epicurea: per affrontare il problema, Epicuro può puntare tutto sull’etica senza doversi troppo preoccupare della realtà effettiva delle cose, alla luce del fatto che la morte è, secondo l’elegante espressione di William Shakespeare, «quel territorio inesplorato dal cui confine non torna indietro nessun viaggiatore»171: non potendo nessuno testimoniare che cosa realmente accada nel momento del trapasso, lo si può facilmente adeguare alle nostre esigenze etiche mirate a rassicurare l’animo, sicché in nessun altro punto del suo sistema meglio che in questo il filosofo del Giardino può attuare la sua «rivoluzione copernicana». Poiché non la si può mai esperire quando si è in vita – e poiché quando se ne ha esperienza, con ciò stesso si abbandona la vita –, della morte si potrà dire tutto ciò che meglio risponda all’esigenza etica di allontanamento dell’inquietudine. La morte di cui parla Epicuro è dunque una morte idealizzata, immaginata su misura per fugare ogni possibile paura dall’animo umano e per poter essere affrontata nel modo più sereno: alla domanda «che cosa è la morte?» si sostituisce quella: «come dobbiamo pensare che essa sia per poterla affrontare serenamente?». Perché si possa conseguire questo ambizioso obiettivo, si tratta innanzitutto di eliminare due timori inerenti alla morte: in primo luogo, il fatto che essa possa costituire un fatto doloroso per chi la vive; in secondo luogo, che essa sia la porta d’accesso a una nuova e misteriosa forma d’esistenza nella

quale magari vengano assegnati premi o castighi in base alla condotta di vita assunta nel mondo terreno. Questa seconda paura viene meno non appena si consideri la struttura del nostro corpo: non essendo noi altro che composti atomici, la morte equivale alla mera disgregazione del composto, senza possibilità di altre vite dietro la vita. Cessando di sussistere quell’aggregato atomico che è il corpo, giunge al termine la vita e l’anima stessa conclude la propria esistenza. Dunque, nessuna vita ultraterrena di cui aver paura. Che poi la morte non costituisca un evento doloroso, è dimostrabile con altrettanta facilità: infatti – nota Epicuro – si possono provare sensazioni fin tanto che sussiste il corpo come aggregato atomico; ma, con la morte, esso cessa di esistere e in tal modo viene anche meno la possibilità di ricevere sensazioni: «la morte non è nulla per noi: infatti, ciò che è stato dissolto non ha sensazioni; e ciò che non ha sensazioni non è nulla per noi»172. Quanti temono l’incontro con essa, possono rassicurarsi perché, paradossalmente, non la si incontra mai di persona: infatti, ciascuno di noi vive la propria morte sempre e solo come possibilità, mai come fatto; tema su cui ritornerà – in tutt’altro contesto e con intenti ben diversi – Martin Heidegger173. Quand’anche trascorressimo tutta la nostra vita a pensare alla morte e dunque a immaginare la possibilità di incontrarla, ciò non di meno non la incontreremmo mai: infatti – rileva Epicuro174 – quando ci siamo noi non c’è lei, e quando arriva lei non ci siamo più noi. Quello con la morte è allora un incontro mancato, che perciò non deve essere temuto. Infatti, viviamo sempre e solo la morte altrui, cosicché la nostra è sperimentata solo dagli altri, mai da noi stessi: ancora una volta, non appena arriva lei, ce ne andiamo noi. Oltre che di un esasperato ottimismo, la concezione che Epicuro ha della morte come istante e non come processo si sostanzia della prospettiva filosofica degli Eleati, per i quali non sussiste alcunché di intermedio tra il vivere e il morire175: il nostro autore, infatti, non sembra prendere in considerazione l’attimo intermedio tra la vita e la morte, ossia quel concreto momento in cui avviene il trapasso; o si è vivi o non si è più, tertium non datur. Come comportarsi, allora, dinanzi alla morte? L’atteggiamento più adeguato da assumere è sicuramente quello tratteggiato da Lucrezio176 e brillantemente tematizzato da Orazio177; colui che si accinge a morire deve ragionare come un convitato sazio quando finisce il banchetto: se la vita trascorsa é stata colma di gioia, allora ci si può ritirare da essa come un convitato sazio e felice che ha pranzato lucullianamente; se, al contrario, é stata segnata da dolori e tristezze, non ha senso desiderare che essa prosegua, trascinandosi tra nuove sofferenze: dunque, la morte dev’essere accolta con piacere come una liberazione. Ancora una volta, spetta alla ragione decidere e fugare ogni paura. Pertanto, la morte non è nulla per noi, «né affatto ci tocca, / se de l’anima umana caduca e mortale è l’essenza»178: di fronte a essa, dobbiamo assumere l’atteggiamento sereno di chi si accomiata dai suoi cari, appagato dall’aver vissuto felicemente al loro fianco. Se la tradizione non mente, una delle massime di Epicuro sarebbe stata la seguente: «siamo nati una volta sola: non è possibile nascere due volte, e, poi, dovremo non essere più in eterno»179. Una massima che, contrariamente a quanto possa apparire a una prima lettura, è innervata da un profondo ottimismo, che sfocia nell’implicita esortazione a godere nella maggior misura possibile dei beni di questa vita passeggera. Il nulla che sta prima della nostra nascita e dopo la nostra morte è inteso positivamente, ancora una volta in diretta antitesi con le concezioni mitiche veicolate dai poeti e immancabilmente destinate a turbare l’animo umano. La morte è stata posta dalla natura come limite necessario alla vita: ma, più che come un abisso, dev’essere intesa come l’inesorabile fine del tutto; né conviene a chi è saggio lagnarsi della brevità dell’esistenza, giacché essa è sufficientemente lunga per compiere grandi imprese e per eguagliare la

beatitudine di cui godono in eterno gli dèi, tanto più che a contare è la qualità, non la quantità della vita. Un argomento – anche se forse non del tutto convincente – addotto da Lucrezio180 per spegnere la paura della morte o, per lo meno, per consolarci di fronte ad essa, consiste nel notare come essa tocchi in sorte a tutti, anche agli spiriti più illustri, quali Anco Marzio, Serse, Democrito e lo stesso Epicuro. Se essa s’è presa anche questi grandi uomini del passato, perché mai dovremmo temerla anziché sentirci onorati di condividere la loro sorte? In questa maniera, l’Epicureismo avrebbe fatto della morte un fenomeno tra i tanti, ugualmente indegno di essere temuto e ricercato, spalancando le porte alla felicità e alla piena accettazione della vita su questo mondo. Ancora una volta, appare evidente come Epicuro abbia letto la realtà in chiave soggettivista, rendendola a misura d’uomo, anche a scapito della realtà stessa. Il gioco è reso particolarmente agevole dal fatto che la morte è un fenomeno che non percepiamo mai personalmente né può esserci riferito da qualcuno che l’abbia vissuto, a meno che non si ipotizzi, sulla scia di Platone181 e della sua fantasia, un immaginario Er a cui sia concesso di resuscitare e di narrare ciò che ha visto nell’aldilà. A ben vedere, ciò che resta irrisolto, in Epicuro e nei suoi seguaci, è come possa essere vinta la paura della separazione dai propri cari: infatti, quand’anche avessimo effettivamente sconfitto il timore della nostra morte, non resterebbe forse la paura per quella dei nostri cari? Quando un nostro parente o un nostro amico scompare, noi che gli sopravviviamo non siamo forse in preda a uno stato di desolazione e di paura, di sgomento e di tristezza ineliminabile? Il dolore che chi scompare cessa di provare ricade interamente sui suoi cari che gli sopravvivono e che ne esperiscono la morte: Epicuro sembra aver trascurato questo aspetto, che invece è stato intravisto da Lucrezio, quando tratteggia la madre alla disperata ricerca del vitellino appena immolato agli dèi182, cogliendone l’intima sofferenza: egli la coglie, ma non sembra in grado di trovare una valida soluzione ad essa. Giacomo Leopardi, più d’ogni altro, ha colto quanto la morte gravi più su chi sopravvive che su chi parte: «Che se nel vero, Com’io per fermo estimo, Il vivere è sventura, Grazia il morir, chi però mai potrebbe, Quel che pur si dovrebbe, Desiar de’ suoi cari il giorno estremo, Per dover egli scemo Rimaner di se stesso, Veder d’in su la soglia levar via La diletta persona Con chi passato avrà molt’anni insieme, E dire a quella addio senz’altra speme Di riscontrarla ancora Per la mondana via; Poi solitario abbandonato in terra, Guardando attorno, all’ore ai lochi usati Rimemorar la scorsa compagnia?»183

Ancora più difficile risulta però risolvere la questione del male, che era già adombrata a proposito dell’indifferenza degli dèi alle sorti umane: in quanto fatto assolutamente oggettivo e da tutti esperito, esso non può essere negato. Ciascuno di noi fa esperienza del male – sia di quello fisico, sia di quello morale – nella vita di ogni giorno: si tratta, per lo meno, di mostrare come esso non incida affatto sulla felicità dell’uomo e sia anzi un fenomeno del tutto secondario, a cui non conviene dare peso. Ora, secondo Epicuro, esistono due distinti tipi di dolore: vi sono quelli intensi e, accanto a essi, quelli che durano a lungo. Ma quelli che sono intensi, dice Epicuro, durano poco; mentre quelli che durano a lungo non sono intensi: perciò, in questo modo, è mostrata la sopportabilità del dolore fisico, in base alla conoscenza intellettuale della sua natura. Si dà poi il caso di dolori intensissimi: essi, in forza della loro potenza, portano rapidamente alla morte, la quale – come abbiamo visto – non è che assoluta insensibilità e, dunque, cessazione di ogni sofferenza. Il dolore può accanirsi in ogni modo, in durata o in intensità, ma il vero saggio non se ne curerà affatto, felice nella sua incrollabile condizione di atarassia: perfino se messo sotto tortura a bruciare nel toro di Falaride184, il saggio manterrà un’irremovibile condizione di imperturbabilità. Addirittura – con uno slancio di ottimismo – Epicuro fa sua la convinzione secondo cui un dolore duraturo tenderebbe a sfumare in piacere185, quasi come se ci si abituasse a esso e si prendesse gusto a sopportarlo. In questo modo, è messa in luce l’assoluta intangibilità del saggio da parte della natura, che può sì tormentarlo con sofferenze fisiche, ma non potrà mai riuscire a detronizzarlo dalla sua posizione di equilibrio interiore ottenuto grazie all’esercizio della filosofia: ed Epicuro non si limitava ad affidare questi concetti ai suoi scritti, ma li metteva in pratica nella vita di ogni giorno, mantenendo un atteggiamento di serena compostezza e sobria sopportazione di fronte al tremendo male che lo affliggeva (la calcolosi renale). Così egli scrive nella toccante lettera all’amico e discepolo Idomeneo: «Mentre trascorrevamo questo giorno beato, che al contempo era anche l’ultimo della nostra vita, abbiamo scritto a voi questo. E si sono susseguite pene legate alla diuresi e di dissenteria, talmente esagerate da non lasciare adito a un loro possibile accrescimento: ma a tutte queste si è contrapposta la gioia dell’anima per il ricordo delle conversazioni che abbiamo avuto»186. Quale miglior prova della coerenza del filosofo del Giardino, della sua assoluta fedeltà ai princìpi della filosofia? Il futuro invito senecano alla concordanza di teoria e prassi – «verba rebus proba»187 – è rispettato da Epicuro con la massima fedeltà, cosicché la più grande prova a favore della sua filosofia è la vita stessa del suo fondatore: ciò è del resto avvalorato dal fatto che il più grande e dissacrante critico della filosofia – Luciano di Samosata – derida uno dopo l’altro tutti i pensatori della storia per la loro incoerenza tra dottrina e vita pratica senza mai prendere di mira Epicuro, per cui anzi nutre una profonda stima. E come non ricordare, in quel mirabolante caleidoscopio di avventure che punteggiano la Storia vera, lo spassosissimo incontro di Luciano con gli Epicurei, i soli filosofi – insieme ai seguaci di Aristippo – a non uscire distrutti e ridicolizzati dalla spietata quanto esilarante critica lucianea188? E se è vero che la coerenza è l’obbligo principale di un filosofo, allora possiamo ascrivere Epicuro, più di ogni altro, nella cerchia dei filosofi coerenti e fedeli ai propri insegnamenti. Egli è riuscito, più di ogni altro, a rendersi simile a quegli dèi che aveva immaginato beati, incuranti del mondo esterno e in perenne amicizia fra loro: e in questo senso, le frequenti esaltazioni di Epicuro come

divinità messe in versi da Lucrezio appaiono la più fulgida prova dell’avvenuta assimilazione al divino. E del resto, una filosofia interamente votata all’etica che registrasse una discrasia tra la teoria e la prassi, sancirebbe con ciò stesso la propria condanna a morte, rivelando l’inattuabilità dei propri princìpi. Chi sarebbe disposto, infatti, a prestare fede a un filosofo che propaganda le proprie teorie ma si comporta in modo assolutamente incompatibile con esse? In rottura con le tante interpretazioni fuorvianti della sua filosofia, intesa ora come esaltazione sfrenata dei piaceri più dissoluti, ora come dottrina degna dei porci, Epicuro pare aver proposto un’etica sfumante nell’ascetismo, insensibile alle sofferenze e attenta innanzitutto ai piaceri della mente e alla tranquillità interiore: in questo contesto, il piacere fisico e la gioia del corpo non sono l’obiettivo primario della sua etica, ma un necessario completamento. Non senza forzature, Festugière, a proposito di questa tendenza ascetica presente in Epicuro, parla di «una specie di annientamento della personalità, analogo al nirvana buddistico»189. Almeno nella condanna dell’edonismo sfrenato, Epicuro segue le orme della tradizione greca, che dai Pitagorici in avanti aveva condotto contro il piacere smodato una lotta a viso aperto: come è noto, Pitagora aveva imposto ai suoi adepti norme morali di sapore ascetico; Eraclito aveva attaccato duramente la massa dei «dormienti» dedita ai piaceri degni delle bestie190; lo stesso Democrito, che pure era un materialista dichiarato, aveva liquidato la ricchezza e i beni materiali come illusori, incapaci di garantire una forma autentica di felicità; dal canto loro, i Cinici avevano estremizzato l’anti-edonismo socratico nel motto «vorrei piuttosto impazzire che provar piacere», e Platone aveva ridicolizzato gli edonisti accostandoli a botti bucate che non possono mai essere riempite191. Lo stesso Aristotele, nell’Etica nicomachea, aveva efficacemente assimilato gli edonisti agli schiavi che sono costretti a servire un padrone192; per non parlare poi degli Stoici, la cui tematizzazione dell’apatia coincide con la teorizzazione dell’insensibilità al piacere. Contro corrente, i Cirenaici e Aristippo avevano elaborato un’etica schiettamente edonistica: costoro sostenevano fermamente l’incondizionata bontà dei piaceri, consigliando di accettarli senza troppo curarsi dei possibili risvolti futuri; anche se, a onor del vero, lo stesso Aristippo, con la sua massima «posseggo, ma non sono posseduto», sembra aver subodorato il rischio, sempre in agguato, di diventare schiavi dei piaceri anziché liberi fruitori di essi. Alla prospettiva cirenaica si oppone Epicuro che, col suo «calcolo dei piaceri», distingue oculatamente tra piaceri leciti, degni d’essere perseguiti, e piaceri illeciti, da rifiutarsi per via delle spiacevoli conseguenze alle quali immancabilmente conducono (sono cioè da buttare a mare perché, a uno sguardo filosofico, essi risultano «falsi» piaceri); e, nella misura in cui in Epicuro il piacere lecito coincide con l’assenza di dolore, si può con diritto sostenere che la sua posizione si armonizza perfettamente con la tradizione greca e col suo rifiuto dei piaceri smodati. In generale, non è difficile riscontrare come la posizione di Epicuro sia animata al suo interno da un forte «ottimismo», dalla convinzione che la felicità sia facilmente raggiungibile e che, in definitiva, l’esistenza sia un qualcosa di positivo, degno d’essere vissuto, a patto che sia un’esistenza felice. In particolare, il nostro autore se la prende con quanti sostengono che per l’uomo sarebbe stato meglio non nascere e che, una volta venuti al mondo, la cosa più auspicabile è morire presto. Era questa la sciagurata posizione dei poeti (e il nostro autore cita espressamente i versi di Teognide), coi quali il filosofo del Giardino polemizza senza tregua nei contesti più disparati. Bersaglio di questa sua polemica sono anche gli Stoici, i quali, com’è noto, ammettevano la liceità del suicidio, seppure come extrema ratio, ossia come ultima risorsa a cui fare ricorso quando l’esistenza fosse diventata

insopportabile per il saggio. Allorché la vita fosse diventata invivibile, ossia quando non fosse più stato possibile «vivere bene», lo stoico si toglieva la vita (si pensi anche solo alle vicende esistenziali di Seneca). Contro queste due posizioni, Epicuro proclama fieramente che il saggio «né ricusa di vivere, né teme il non-vivere: infatti, non gli dà noia il vivere, e neppure ritiene che il nonvivere sia un male»193; e qualche riga più in giù, egli parla significativamente di «piacevolezza della vita»194, a segnalare come l’esistenza sia in sé un valore, sia degna d’essere vissuta e – perché no? – goduta in quanto di bello e di piacevole può offrire. Certo, perché l’esistenza sia pienamente positiva e vivibile, occorre privarla dei tanti turbamenti che la innervano: ma una volta che si sia compiuta tale operazione, come non accorgersi che non c’è motivo di disprezzare la vita?

8. La felicità attraverso il piacere. «Tanto un tempo infinito quanto uno limitato hanno un identico piacere, purché si misurino con il ragionamento i confini del piacere stesso» 195.

Abbiamo visto che la sopportazione del dolore è facile e, paradossalmente, può tradursi in piacere. E ottenere il piacere vero e proprio è altrettanto facile. Affinché si viva una reale condizione di felicità, esso deve affiancare l’atarassia, rendendo la vita piacevole oltre che tranquilla. E dunque, per realizzare una «felicità» (εὐδαιμονία) a tutto tondo, bisogna che alla liberazione dalle tante paure che albergano nell’animo umano faccia seguito il conseguimento del «piacere» (ἡδουή), che è un prodotto delle sensazioni. Imperturbabilità e piacere sono i due ingredienti principali della ricetta etica epicurea o – per restare in tema col titolo del nostro lavoro – i due farmaci più efficaci che un buon medico deve somministrare ai suoi pazienti per farli stare bene. Secondo Epicuro, anche quelli che noi oggi chiamiamo «sentimenti» (e che tendiamo a riferire a una sfera spirituale che poco o niente ha a che fare coi sensi) e che egli etichettava come πάθη non sono che sensazioni – assolutamente oggettive e indubitabili al pari di tutte le altre –, ma si tratta di sensazioni particolari perché a noi interne: se estinguere la sete con dell’acqua è una forma di piacere esterno, il ricordo di una bella esperienza è una forma di piacere interno, che ridesta un piacere che abbiamo vissuto tempo prima. Grazie alle sensazioni, inoltre, sono determinate le scelte e le ripulse196, nel senso che scegliamo ciò che ci procura un senso di piacere e fuggiamo ciò che ci procura dolore. In altri termini, oltre alla fondamentale funzione di discriminanti del vero e del falso, i sentimenti discriminano anche tra bene e male e, in questa maniera, costituiscono la base dell’agire. Una base che, sembra quasi superfluo notarlo, è a posteriori: solo dopo aver avuto esperienze concrete, e non a tavolino e a prescindere dalla sensibilità, è possibile determinare in che cosa consistano il bene e il male. Non si tratterà allora di alzare platonicamente lo sguardo in direzione di un ipotetico Bene al di là del mondo, ma, piuttosto, di muoversi nel mondo stesso per scoprire empiricamente che cosa è bene (in quanto piacevole) e che cosa è male (in quanto spiacevole): fin dal primo istante in cui siamo al mondo, secondo Epicuro godiamo del piacere e ad esso tendiamo secondo natura. Infatti, ogni sensazione piacevole risulta gradita al composto materiale che siamo, con la conseguenza che essa è ipso facto identificata col bene: viceversa, tutte le sensazioni spiacevoli ci risultano sgradite e vengono perciò etichettate come male. Da questo ragionamento, Epicuro prende le mosse per compiere un passo ulteriore, identificando tout court il male col dolore, e il bene col piacere, mezzo ineludibile per raggiungere la felicità. E il fatto che il piacere vada ricercato e il dolore evitato è il frutto non di un ragionamento, bensì di una percezione, esattamente come si percepisce che il fuoco è caldo o che la neve è fredda: «non c’è nemmeno bisogno di svolgere un’argomentazione a proposito del piacere, in quanto il giudizio su di esso risiede nei sensi»197. Da ciò si capisce perché l’etica epicurea sia non soltanto eudemonistica, ma anche edonistica: felicità e piacere procedono di pari passo, cosicché una felicità senza piacere è del tutto impensabile. Ma questo non significa che tutti i piaceri, indistintamente, portino alla felicità, in opposizione alle accuse che una lunga tradizione s’è illusa di poter muovere a Epicuro: esistono infatti alcuni piaceri che, nel momento in cui li conseguiamo, sono piaceri, ma col passare del tempo si capovolgono in dolori, tradendo la loro natura originaria: banalmente, se ci si abbuffa a tavola – cosa che sul momento può anche risultare piacevole – ci sono buone probabilità di stare male in seguito.

Occorrerà pertanto ricercare solo quei piaceri che siano stabilmente tali, e che Epicuro qualifica come «piaceri catastematici», ovvero «fermi», «stabili», dal verbo greco καθίστημι, che indica fissità ed immutabilità: i piaceri implicanti conseguenze svantaggiose nel tempo – e che Epicuro definisce «cinetici», dal verbo κινέω, «muovere» – devono essere oculatamente evitati, proprio perché in futuro potrebbero tramutarsi in quei dolori che debbono essere fuggiti più di ogni altra cosa. Abbiamo dunque a che fare con un’etica edonistica soltanto a patto che per «edonismo» intendiamo una teoria che riponga nel «piacere catastematico» – e dunque non indistintamente in ogni piacere – il fine della vita umana, il suo perfetto completamento; la virtù stessa, che gli Stoici avevano posto come mèta suprema per il saggio, diventa per Epicuro un gradino per salire alla vetta del piacere: pertanto, per il nostro autore, non c’è virtù che sia gratuita e fine a se stessa, ma sono tutte perseguite in vista del raggiungimento del piacere. Come discernere tra piaceri autentici e piaceri ingannevoli? Quello che il filosofo del Giardino ci chiede di eseguire, nella nostra ricerca della felicità, è un «calcolo razionale dei piaceri», attraverso il quale soppesarli uno a uno e ricercare solo quelli catastematici, evitando tutti gli altri. Spetta dunque alla ragione assumere il controllo della situazione, anche se, ancora una volta, si deve tener presente che essa deve orientarsi sulla base delle esperienze già acquisite: essa può infatti compiere il suo calcolo dei piaceri soltanto alla luce del fatto che già si sono sperimentati empiricamente i piaceri, giacché non avrebbe alcun senso parlare di essi – che sono quanto di più legato ai sensi vi sia – a prescindere dai sensi e dall’effetto che hanno su di essi. Su questo punto, il nostro autore è assai chiaro: commettono un errore gravissimo quanti credono che ogni piacere, e soprattutto quelli del momento, sia indistintamente un bene, senza considerare le conseguenze che possono derivarne. In particolare, erano stati i Cirenaici a intendere tanto il piacere quanto il dolore come movimenti, ancorché nel primo caso si trattasse di un «moto dolce», nel secondo di un «moto violento»: a loro avviso, l’assenza di dolore – che da Epicuro, come vedremo tra poco, viene innalzata a sommo piacere – è una situazione del tutto neutra, non diversa da quella di chi dorme. Ma fare del piacere un movimento significa di fatto identificarlo con quel piacere cinetico che, nella prospettiva epicurea, dev’essere rigettato per le dolorose conseguenze a cui conduce. Se è infatti vero che nessun piacere, nell’immediato, è da considerarsi un male, è anche vero che i mezzi adoperati per procurarsi certi piaceri producono più sofferenze che piaceri, come nel caso di chi, pur di diventare ricco, compie azioni nefande o si affanna in mille modi; in questo caso, come in quello già ricordato dell’abbuffata a tavola, il piacere si capovolge nel suo opposto. Il «calcolo razionale» – che sarà ripreso in età moderna da Jeremy Bentham con la sua «algebra morale»198 – deve indurci a diffidare dei falsi piaceri poiché essi, anziché condurci sulla via della felicità, ci guidano verso la sofferenza e pertanto portano a esiti opposti a quelli per cui li si sceglie: così come si trattava di espellere i timori che attanagliavano l’animo umano, si tratta ora di evitare tutti i dolori che affliggono l’organismo, cosicché il vero piacere – quello catastematico – è da intendersi essenzialmente in negativo, come «privazione di dolore» (ἀπουία): secondo le puntuali parole di Cicerone, «come, infatti, quando fame e sete siano state scacciate grazie a cibi e a bevande, l’eliminazione stessa della sofferenza porta come conseguenza il piacere, così, in ogni caso, la rimozione del dolore produce il risultato del piacere»199. Abbiamo dunque a che fare con un piacere che si configura eminentemente come «non-dolore» e che, per ciò stesso, non richiede grandi sforzi per essere realizzato: basterà evitare tutte le condizioni che generano affanno e sofferenza, limitandosi a godere di quei semplicissimi piaceri richiestici dalla natura, come ad esempio l’estinguere la sete o il placare i morsi della fame. Il che contribuisce a fare dell’etica di Epicuro

un’etica universale, accessibile a tutti gli uomini in quanto uomini, e non a ristrette categorie di individui (fermo restando l’etnocentrismo a cui il nostro autore non riesce a sottrarsi e che affiora, meglio che in ogni altro punto, nella sua convinzione della superiorità assoluta della lingua greca). Il Bene di Platone e la virtù di Aristotele erano, nella loro insuperabile grandezza, mète accessibili solo a pochi, e più precisamente ai filosofi di professione; lo stesso motto stoico, secondo cui il vero saggio virtuoso è più raro dei parti di una mula e meno frequente della fenice200, che nasce ogni cinquecento anni, compendia ottimamente la concezione elitaria che dell’etica avevano i greci: a donne, bambini e schiavi difficilmente era riconosciuta la possibilità di «vivere bene» (ε ζ ν), in maniera veramente umana, proprio perché essi non erano considerati come uomini in senso pieno. Dal canto suo, Epicuro sgombra ancora una volta il campo dalle false credenze: essere felici e raggiungere l’obiettivo dell’etica è un’impresa facile perché non contrastata dalla natura stessa, che anzi ci favorisce mettendoci a disposizione tutto quel che ci occorre per la felicità; per questo motivo, di veri saggi che raggiungono l’obiettivo etico non ne nasce uno ogni cinquecento anni, ma ne nascono tutti i giorni in gran numero, ogni volta che qualcuno riesce a raggiungere una perfetta condizione di «atarassia» e di «aponia», conducendo un’esistenza indisturbatamente felice coi suoi amici più cari, senza lasciarsi toccare neppure tangenzialmente dalle questioni politiche e dai «piaceri cinetici». Un’«etica facile», dunque, e per di più rivolta a tutti o, se preferiamo, all’uomo in quanto uomo, a prescindere dalle differenze di genere, di età, di posizione sociale. A selezionare quali piaceri meritino di essere ricercati è non già la fisicità in quanto tale, che di per sé ci indurrebbe a ricercare indistintamente ogni piacere senza distinzioni di sorta, ma il più lungimirante λόγος, la ragione: il che testimonia ancora una volta dell’«illuminismo»201 epicureo, il suo costante affidarsi alla guida del raziocinio, che non diversamente da come credeva Platone costituisce l’acropoli dell’uomo202. La ragione ci addita solo quelli catastematici come autentici piaceri degni di essere perseguiti: essi coincidono con la completa soddisfazione del «desiderio» (ἐπιθυμία), che di per sé é una condizione dolorosa legata a uno stato di mancanza. Per meglio chiarire questa distinzione cardinale, su cui poggia l’intero sistema epicureo, il nostro autore opera una distinzione decisiva tra a) desideri naturali e necessari, b) desideri naturali ma non necessari, c) desideri non naturali e non necessari. Nella prima tipologia rientrano a pieno titolo quei desideri legati alla conservazione della vita dell’individuo e che, se soddisfatti, espungono il dolore dal corpo umano: si configurano come piaceri nella misura in cui sopprimono un dolore, riportando l’uomo a una condizione di benessere fisico. Come abbiamo in parte già visto, sono di questo tipo la fame, la sete e il sonno, che di per sé sono condizioni dolorose a cui bisogna sopperire mangiando, bevendo e dormendo, dunque soddisfacendo un desiderio che è al contempo naturale e necessario. Come conditio sine qua non per il raggiungimento del piacere fisico, la natura non ci chiede altro che l’eliminazione del dolore, resa particolarmente agevole dal fatto che è la natura stessa a fornirci i rimedi (il cibo, l’acqua, ecc). Nel secondo gruppo – quello dei piaceri naturali ma non necessari – troviamo invece desideri che potremmo qualificare come superflue variazioni dei primi: tali sono, ad esempio, il bere bevande raffinate o il mangiare cibi prelibati e serviti in portate troppo abbondanti. Anche questi desideri, al pari dei primi, sono naturali, giacché derivano anch’essi dalle naturali esigenze fisiche della fame, della sete, ecc: tuttavia non sono necessari, giacché non sottraggono il corpo dal dolore, ma si limitano a variare il piacere e possono essere causa di dolori ben maggiori rispetto a quelli che rimuovono. Abbiamo già chiarito questo punto con l’esempio del lauto banchetto in cui si mangia troppo e, a causa di ciò, si sta male tutto il giorno seguente. Sono piaceri più raffinati ma dalle

conseguenze imprevedibili e, non di rado, nocive. Infine, nell’ultima categoria Epicuro annovera i desideri più insidiosi di tutti: essi non sono né naturali né necessari, ma nascono dalle vane opinioni che gli uomini formulano sulla vita; tali sono, ad esempio, il desiderio di ricchezza, di onore e di potere. Essi devono essere tutti evitati come scogli per il raggiungimento di una serena tranquillità interna. Non ci sono richiesti dalla natura, ma piuttosto vengono prodotti da falsi ragionamenti che pretendono di innalzarli a beni supremi. In particolare, Epicuro aveva in mente quel tremendo desiderio che è la brama della ricchezza, che ci impedisce di vivere sereni e che ci porta a compiere azioni indegne e tali da procurare più affanni che piaceri: tanto più che, se la «vera ricchezza» (quella secondo natura) ha confini ben determinati che di fatto coincidono con l’eliminazione del dolore, la «falsa ricchezza» (quella secondo le opinioni) è inesauribile, non conosce limiti, non può mai essere soddisfatta e per ciò ricade in quel processo all’infinito in forza del quale ogni nuovo bene è visto come gradino per ottenerne di nuovi: a chi non basta poco, non basta nulla. Per raggiungere l’«aponia», basta placare il dolore presente: perciò il desiderio naturale e necessario ha confini tracciati con precisione dalla natura stessa e che coincidono con l’eliminazione del dolore; al contrario, i desideri non naturali né necessari, non essendo finalizzati a far tacere una condizione di sofferenza fisica, sono sconfinati, possono estendersi all’infinito, facendo precipitare l’uomo in un baratro di nuove, tormentose sofferenze. Per questa ragione, Epicuro escogita un efficace antidoto contro la sete di ricchezza: esso è compendiato nell’accorta sentenza secondo la quale «se vivrai secondo natura, non sarai mai povero; se vivrai secondo le opinioni non sarai mai ricco»203. In tanti hanno sperato di trovare nella ricchezza la fine delle loro miserie e il raggiungimento della vera felicità: ci sono realmente riusciti? Senza tentennamenti, Epicuro risponde che la ricchezza «non ha segnato la fine delle loro miserie, ma solo un cambiamento»204, poiché conduce ad una sempre nuova ed esasperata ricerca di beni che incrementino il patrimonio, facendo slittare l’uomo dalla sofferenza causata dalla penuria a quella provocata dalla sete di ricchezza. In questa prospettiva, i desideri necessari e naturali – gli unici a dover essere realizzati – sono naturalmente a portata di mano, non richiedono grandi sacrifici o sforzi e, a maggior ragione, garantiscono una felicità stabile e facilmente raggiungibile da ogni uomo: che cosa c’è infatti di più facile che placare i morsi della fame con un pasto frugale ed estinguere la sete con della semplice acqua? Non occorrono ricche mense imbandite a regola d’arte o ricche libagioni con vini pregiati: esse sono anzi un di più che può nuocere, tramutandosi da piacere in sofferenza. Quanto dice sprezzantemente Clemente Alessandrino di Epicuro – «preferiva il piacere alla verità»205 – è vero, a patto che per piacere si intenda quello catastematico, moderato e senza conseguenze negative. In tal maniera, Epicuro ci invita dunque a godere il più possibile dei piaceri che la natura ci serve ogni giorno, senza rinviarli o senza essere indecisi se dare ascolto ad essi oppure no, giacché la vita si perde nei rinvii, e non di rado si muore senza aver goduto una sola giornata; tematica che sarà eccellentemente tematizzata dal «carpe diem» di Orazio206, per poi trovare in Lorenzo il Magnifico una sua brillante ripresa in età umanistica. Nell’ottica epicurea, è povero non chi ha poco, ma chi vuole di più del necessario. Pertanto, all’immagine tradizionale di un Epicuro gaudente, dissoluto e sfrenato ricercatore di ogni sorta di piacere dobbiamo sostituire quella più sobria di un uomo ponderato e lungimirante, che cerca e segue solo quei piaceri che placano il dolore, evitando tutti quelli che possono accrescerlo: un Epicuro che si accontenta di quel poco che la natura richiede per essere felici e che, secondo la magnifica immagine di Nietzsche, se ne sta nel suo giardino, lontano dalle tempeste politiche, in compagnia di

tre o quattro buoni amici, coi quali divide fichi e qualche pezzo di formaggio. In questa parca cornice di piaceri tenui e limitati si incastona perfettamente l’egemonia accordata da Epicuro ai piaceri dell’animo rispetto a quelli del corpo207: se infatti questi ultimi sono limitati al presente, e precisamente alla sensazione fisica che proviamo hic et nunc e che, attimo dopo attimo, è sempre annullata da quella successiva, i primi – che pure sono originati dal corpo – si estendono invece anche al passato sotto forma di ricordi e al futuro sotto forma di aspettative, vantando in questo modo un più ampio dominio. In questo senso, è lecito ammettere che il ricordo di una gradevole esperienza passata produce maggior piacere rispetto a un pasto: grazie a questa particolare prospettiva, la tesi iper-edonistica propugnata dai Cirenaici è definitivamente spazzata via: non solo, è anche confutata l’infamante accusa mossa agli Epicurei dai loro detrattori, la quale «suppone che gli esseri umani non siano capaci d’altri piaceri che quelli di cui sono capaci i porci»208, mentre Epicuro stesso ha dato la priorità ai piaceri che noi oggi diremmo «intellettuali». Per questo motivo, tanto il privilegiamento del piacere catastematico quanto l’egemonia accordata ai piaceri dell’anima costituiscono la più grande confutazione di tutte le accuse e le calunnie di sfrenato edonismo che, da Cicerone e Plutarco fino ai Padri della Chiesa – che odiano l’Epicureismo più di ogni altra dottrina filosofica –, sono state mosse senza tregua a Epicuro. Perfino in fatto di piaceri carnali, egli non si spinge là dove vorrebbero i filosofi cristiani. Egli ascrive infatti nel novero dei piaceri né necessari né naturali l’amore (ἔρως), che con Platone aveva trovato la sua massima valorizzazione. Presso il fondatore della dottrina delle Idee, infatti, esso non solo rappresentava l’insuperabile condizione dei filosofi, in perenne tensione verso un sapere di cui sono sprovvisti ma a cui tendono con tutte le loro forze, proprio come gli amanti tendono all’oggetto amato ma non posseduto, ma addirittura costituiva un primo passo per innalzarsi all’iperuranico mondo delle Idee, delle quali si coglie, amandola, quella che meglio di ogni altra filtra nel nostro mondo: la Bellezza. Era invece liquidato come secondaria e inferiore forma d’amore rispetto a quello «ideale» il piacere fisico, in quanto mero soddisfacimento di un bisogno carnale e, dunque, tale da imprigionare nel mondo sensibile anziché condurre al di sopra di esso. Ora, Epicuro capovolge nel vero senso della parola la posizione platonica: se c’è un amore da condannare, quello è l’amore sensuale, ideale, provato con l’animo più che col corpo. Infatti, una tale forma d’amore non fa che procurare atroci sofferenze a chi lo sperimenta, poiché lo porta a vivere in un incessante stato di tensione, di apprensione, di preoccupazione, e di anelito verso l’amato, che vorrebbe possedere totalmente ma che mai può fare interamente suo. Dunque, almeno per quel che riguarda l’eros, Epicuro preferisce il piacere fisico rispetto a quello intellettuale. Lo stato di chi ama è l’esatto contrario di quello di chi è felice e imperturbabile: il primo è in perenne tensione, senza mai coincidere del tutto con se stesso; il secondo gode di una tranquillità interiore a tutto tondo. C’era dunque un fondo di verità nel discorso di Lisia – trascritto da Fedro209 –, secondo cui converrebbe di gran lunga concedersi all’amore di chi ci ama senza essere ricambiato, perché in tal modo saremmo esenti dalle sofferenze tipiche di chi prova l’amore sensuale esaltato da Platone. In questo senso, «l’amor platonico» rientra a tutti gli effetti nella categoria dei desideri che non sono né naturali né necessari e che presto degenerano in sofferenza: in quanto tale, esso dev’essere accortamente evitato come possibile fonte di turbamento. Tutt’altro discorso vale per l’amore fisico, che è un piacere richiesto dalla natura umana – un bisogno biologico, diremmo oggi – e che dunque deve essere di necessità soddisfatto: ma, per l’appunto, deve essere soddisfatto senza che siano in gioco i sentimenti, ossia senza un reale coinvolgimento emotivo. In questo senso, tenendo ben distinto l’amore sensuale da quello fisico, si

evita ogni forma di sofferenza e si ricavano solo piaceri catastematici. Si tratterà allora di avere rapporti amorosi puramente carnali, soltanto volti a soddisfare il desiderio e senza quella partecipazione sensuale che produce sofferenze su sofferenze. Non sappiamo con certezza se Epicuro, come Lucrezio, consigliasse la frequentazione di prostitute in vista di questo obiettivo – la pratica sessuale senza coinvolgimento emotivo –, ma Cicerone ci riferisce210, con tono misto a riprovazione e a scherno, che nel Giardino trovava ospitalità anche un’etèra: a lei Epicuro si rivolge direttamente in una lettera con toni di affettuosa confidenza e di profonda intimità, tipici di un amico più che di un innamorato: «O sire Pean, cara piccola Leonzio, di quale strepitosa agitazione ci riempimmo quando leggemmo la tua letterina! »211. Questo, se anche non avvalora la tesi dell’amore vissuto solo come pratica sessuale, sicuramente dà prova della valenza universale del messaggio etico del nostro autore e della sua grande tolleranza, per la quale chiunque, quale che fosse il suo stato sociale, la sua età o il suo genere, era ben accetto all’interno del Giardino in quanto aspirante a una felicità non elitaria, ma anzi raggiungibile da ogni essere umano.

9. Una filosofia individualista? L’amicizia, la politica, la teoria della giustizia. «Di tutti gli strumenti che la sapienza procura per la beatitudine di tutta la vita, quello di gran lunga più grande è l’acquisizione dell’amicizia» 212.

Si è spesso fatto notare, non di rado con intenti polemici, che l’Epicureismo è una filosofia essenzialmente individualista, che mira alla felicità del singolo, trascurando interamente la collettività: così Marx, che pure elogia la filosofia di Epicuro per il grande peso che essa attribuisce all’azione e alla libertà, riconosce con un certo disappunto che in essa «l’autocoscienza è concepita solo sotto l’aspetto dell’individuale»213, senza aperture alla pluralità delle altre autocoscienze, quasi come se nel modo epicureo di intendere l’esistenza dell’individuo come un atomo a sé stante e slegato dagli altri fosse già contenuta, in nuce, l’esistenza tipica della «società civile» (bürgerliche Gesellschaft) che Marx vedrà svilupparsi soprattutto grazie alla Rivoluzione francese. In sintonia col giudizio di Marx, Herbert Marcuse214 riconosce nell’edonismo epicureo una possibile forma di critica della società capitalistica in nome di un piacere che questa, anche con una forma di «repressione addizionale», nega e reprime in ogni modo, ma sottolinea gli insuperabili limiti di un tale individualismo: esso, privilegiando il punto di vista del singolo, isolato dal resto della società, non può che non tradursi in un reale progetto di mutamento del reale, che per avvenire necessita della cooperazione di altri individui in un’organizzazione. Una ribellione che si rifacesse all’individualismo epicureo sarebbe dunque già in partenza condannata allo scacco; ma – prendendo in ciò le distanze da Marcuse – al tempo stesso è bene non dimenticare la portata potenzialmente eversiva del messaggio epicureo, nella misura in cui predica l’allontanamento dalla politica, nella convinzione che essa non sia in grado di risolvere i problemi che angosciano l’uomo: non è certo necessario essere degli anarchici per subodorare che, in questo rifiuto della prassi politica, si annida una fin troppo evidente protesta verso la politica stessa e le istituzioni su cui essa fa leva. Questa protesta, motivata dalla profonda sfiducia nel vivere politicamente, doveva senz’altro avere, in Epicuro, altri importanti risvolti teorici, che tuttavia non è facile ricostruire tramite le sole opere superstiti: un fondamentale ausilio è fornito, ancora una volta, da Lucrezio, che nel quarto libro della sua opera – verosimilmente con la solita aderenza al messaggio originale del maestro – sottopone a dura critica l’uso perverso della tecnica quale si è storicamente realizzato nelle società umane: una critica che ben si inquadra nell’orizzonte epicureo di privilegiamento della natura e della placida esistenza ai margini della società politica. Abbiamo già visto come, nella prospettiva atomistica, la natura crei prima l’organo (l’occhio, l’orecchio, ecc.) e poi la funzione (la vista, l’udito, ecc.), senza mirare ad alcun fine, ma agendo conformemente alle cause; ora, nell’ambito della tecnica, sembra accadere l’esatto opposto, nella misura in cui l’uomo, a differenza della natura, fissa prima il fine e, in seconda battuta, crea l’oggetto per realizzarlo: le frecce, gli scudi, le spade e tutti gli altri ordigni funesti di questo genere rispondono al fine perverso di portare la morte al proprio simile215. Nella condanna lucreziana della tecnica – o, meglio, del suo uso deleterio – è possibile rintracciare una pletora di motivi tipicamente epicurei, che ci permettono di aggiungere qualche tassello nella ricostruzione del pensiero del Nostro: anzitutto, è fin troppo evidente la polemica antiplatonica e antiaristotelica; come infatti si ricorderà, per Platone e, soprattutto, per Aristotele natura e tecnica erano, in un certo senso, le due facce della stessa medaglia, nella misura in cui entrambe erano finalisticamente orientate (a tal punto che, secondo la già citata definizione aristotelica, se la natura stessa producesse le case, le farebbe uguali a come le produce la tecnica); ora, in antitesi con questa

linea di pensiero, l’atomismo epicureo salva la natura (esortando a ritornare ad essa) e, in qualche misura, butta a mare la tecnica quale si è storicamente sviluppata nelle società umane. Semplificando al massimo: nella vita politica che si è sviluppata nelle città, i rapporti tra gli uomini si sono corrotti e della tecnica s’è fatto il più perverso degli usi. Solo nell’esistenza filosofica condotta in un giardino a distanza di sicurezza dalla vita politica – sembra dirci Lucrezio – può svilupparsi un uso saggio della tecnica, perché coerente con la natura e le sue richieste; un uso che, anziché mirare allo sterminio dell’uomo, tenda a rendere veramente felice la sua vita. Anche queste riflessioni sulla tecnica sono, a ben vedere, tutt’altro che inattuali e «sorpassate». Se soffermiamo ancora la nostra attenzione sul modo di intendere l’esistenza individuale, non si deve dimenticare che quello di Epicuro è, sì, un individualismo, che fa del singolo individuo un «atomo» del tutto autonomo e indipendente: ma è anche un «individualismo universale», che si rivolge all’uomo in quanto tale, vale a dire a tutti gli uomini del mondo; il che presenta innegabili tratti in comune col cristianesimo, che – come è noto – non si rivolge a una determinata classe sociale o – e qui sta la differenza rispetto all’ebraismo – a un presunto «popolo eletto»: ma questa analogia non deve essere enfatizzata – come invece troppo spesso si è fatto –, alla luce del fatto che i contenuti veicolati dall’Epicuresimo e dal cristianesimo sono assai distanti, per non dire antitetici. Abbiamo già avuto modo di dire che il Giardino ospitava al suo interno anche donne e uomini di ceti subalterni, tenendo inoltre contatti con gente sparsa per il mondo: è sufficiente volgere lo sguardo alla storia dell’Epicureismo per prendere atto della sorprendete diffusione a cui esso andò incontro, da Roma alla città turca di Enoanda. Non si deve tuttavia intendere questa «universalizzazione» del messaggio filosofico come caratteristica esclusivamente epicurea: piuttosto, la si deve almeno in parte riportare allo specifico clima culturale dell’Età ellenistica, la cui cifra è, in qualche modo, l’universalizzazione, lo spingersi dei Greci oltre gli angusti confini dell’Ellade per conquistare il mondo: lo stesso termine «Ellenismo», del resto, allude esattamente a quel «parlar greco» (ἑλληνίζειν) che si andava estendendo in tutto il mondo conosciuto. Questo punto risulta più che mai evidente negli Stoici, ad avviso dei quali la legge di natura, uguale per tutti e in ogni luogo, ci rende cittadini non di questo o di quello Stato particolare, ma del mondo intero; ma anche le altre correnti filosofiche ellenistiche avevano insistito sull’universalità del loro messaggio filosofico: «patria per me non è una sola torre, non un solo tetto, ma ogni rocca e ogni valle dell’intera terra emersa, sono buone per noi per viverci»216; questo asserto di Cratete di Tebe può essere inteso come il manifesto di un’intera epoca e di un modo di filosofare generale. Per quanto universale possa essere, l’individualismo epicureo resta un individualismo e, proprio perché tale, sembra sacrificare la collettività a vantaggio del singolo. Se consideriamo l’ambito politico, di cui Epicuro fa un momento puramente negativo, non possiamo che concordare coi giudizi di Marx e di Marcuse: di fronte ai mali, alle ingiustizie che dilaniavano la società dei suoi tempi come, seppur diversamente, la nostra, il filosofo greco non trova nessun antidoto reale se non il disinteressamento più totale, ritirandosi extra moenia, in quel mondo fuori del mondo che è il suo Giardino, vera e propria «base di addestramento»217 per la formazione di filosofi in senso epicureo. Il Nostro non si cura della politica, poiché la intende come fonte di turbamenti più che come possibile mezzo per raggiungere una felicità generalizzata: egli non arriva – e ciò si spiega anche in virtù dell’epoca storica in cui è vissuto – a capire che forse è proprio la politica il mezzo per porre fine ai turbamenti e alle contraddizioni. Non stupisce certo il fatto che Diogene Laerzio attesti che Epicuro non intraprese la vita politica: ciò che stupisce è che dice che non la intraprese «per eccesso di modestia»218 e non per incompatibilità con le sue teorie. Con un’espressione alquanto appropriata,

Reale parla di «ethos dell’individuo»219 in riferimento alla posizione epicurea, la quale mira a curare l’esistenza del singolo e non della collettività. E questo disinteressamento per la vita politica dev’essere messo in relazione, come dicevamo, col contesto storico dell’epoca, al quale abbiamo già accennato quando abbiamo cercato di ricostruire lo scenario complessivo delle scuole filosofiche del mondo ellenistico. Cittadino di un mondo senza confini caratterizzato dalla fusione sincretistica di culture, religioni e modi di vivere, l’uomo greco si sente spaesato, avverte che la vita politica non riveste più, per lui, quella centralità tipica dell’Atene periclea: insieme alle mura della πόλις crolla il patriottismo, rimpiazzato dal cosmopolitismo, e l’ἀγορά smarrisce la sua originaria funzione di luogo di discussione politica e filosofica, diventando luogo dei commerci e, talvolta, vestibolo dell’area riservata al re e alle divinità. In un mondo del genere, in cui la vita politica ha smesso di riguardare direttamente i cittadini, Epicuro, proprio come gli dèi che ha immaginato, si astrae, si allontana dal mondo e trova riparo in quell’«intermundum» che è il suo Giardino. E lo fa appunto perché interessarsene equivarrebbe a smarrire la serenità così difficilmente conquistata e che costituisce l’irrinunciabile obiettivo della sua speculazione. Lo stesso Cicerone, uomo impegnatissimo nella vita politica di Roma, non può che farsi beffe dell’agnosticismo politico degli Epicurei, ai quali rimprovera che la loro inattività è resa possibile dal lavoro di chi si «sporca le mani» nella politica, lavoro senza il quale «sarebbe finita anche per loro quella beata inattività ch’è il loro massimo desiderio»220. Secondo la scintillante metafora implicita nell’incipit del primo libro della Repubblica platonica, il filosofo che intenda occuparsi di politica deve compiere una vera e propria «catabasi» in quell’Ade che è il mondo politico, un regno sconfortante, costellato di intrighi e di ingiustizie, per occuparsi delle quali occorre necessariamente, per così dire, sporcarsi le mani. E ciò non di meno, la discesa in quell’Ade era avvertita come necessaria da Platone, che non a caso faceva della politica il cuore della sua riflessione e della sua esistenza: che poi le grandi teorizzazioni da lui elaborate a livello ideale siano miseramente naufragate al contatto con la realtà siracusana, è un fatto che mostra come i voli pindarici della mente dei filosofi rivelino spesso la loro vera natura di voli icarici. Epicuro, dal canto suo, rifiuta senza mezzi termini la politica, anche in virtù del mutato contesto politico e sociale in cui si trova a vivere: contando dal suo punto di vista innanzitutto la felicità del singolo, tutto il resto viene dopo e dev’essere perseguito solo a patto che non si opponga ad essa; e per l’appunto la politica, anziché concorrere al suo raggiungimento o al suo consolidamento, la allontana, arrecando solo turbamenti e sofferenze per l’individuo, facendolo affannare per guadagnare potere e cariche prestigiose. La storia greca è piena di sovrani, di condottieri, di uomini politici che, nel dedicarsi in tutto e per tutto alla πόλις, hanno con ciò stesso rinunciato alla loro individuale felicità, preferendo rincorrere vani fantasmi come la ricchezza, l’onore, il potere, tutte forme di piaceri né necessari né naturali. Hegel dà un’eccellente formulazione di questo principio quando descrive la sorte di quegli «individui storico-universali» che hanno cambiato il mondo e si sono affaccendati in ambito politico ma che «non hanno avuto quella che comunemente si dice felicità»221, proprio perché la politica e la felicità si escludono a vicenda. E dunque Epicuro si guarda bene dallo scendere nell’Ade della politica: preferisce starsene in superficie, godendo di una stabile felicità nel suo Giardino, lontano dalle tempeste della vita e intento a imitare quegli dèi che si è immaginato. Cicerone, che in politica fu attivissimo, non smette mai di attaccarlo per questo motivo, deridendolo per il fatto che «come fanno i bambini viziati, pensa che non ci sia nulla di meglio che starsene in ozio»222, lontano dal cuore pulsante di una città freneticamente attiva: ma sappiamo che la Roma di Cicerone era una realtà ben diversa dall’Atene

dell’Età ellenistica. In questo senso, con Epicuro può dirsi compiuta la progressiva separazione tra uomo e cittadino – perfettamente coincidenti in Socrate – già avviata, almeno in parte, da Platone e proseguita da Aristotele: per Socrate il vero uomo è naturalmente cittadino e prende parte a tutte le vicende della πόλις, a tal punto da non tradirla neppure con l’evasione dal carcere prospettata da Critone; Platone, con l’ingiusta morte del suo maestro e il tragico fallimento del proprio grandioso disegno politico a Siracusa, prende atto dell’incipiente separazione tra l’ambito della politica e quello della filosofia, la quale se si dedica ad essa lo fa soltanto per via utopica, tracciando progetti di città ideali mai realizzabili su questa terra, che è il regno del disordine e delle iniquità. Con Aristotele, il disgiungimento tra cittadino e filosofo è enfatizzato nella misura in cui, pur dedicando ampi studi alla politica ed esprimendosi a favore del governo degli uomini più che per quello delle leggi, egli attribuisce il primato all’uomo teoretico e contemplativo che, non meno di Dio, conduce un’esistenza tutta dedicata alla teoresi, ancorché praticata a intermittenza per via delle esigenze fisiche che necessariamente devono riportarlo, per così dire, coi piedi per terra. Dal canto suo, Epicuro segna il decisivo e naturale punto d’arrivo del declino del vivere politico, da lui concepito come l’inquietante regno di passioni e tradimenti: di fronte ad esso, non bisogna tratteggiare modelli ideali alternativi o riconoscere l’egemonia della contemplazione; ci si deve piuttosto ritirare, appartarsi con pochi amici coi quali condividere tanto le gioie della vita quanto le riflessioni filosofiche. Il fallimento del disegno politico di Platone ha aperto gli occhi ad Epicuro più che ad ogni altro filosofo, facendogli raggiungere la dolorosa consapevolezza che, nella misura in cui è impossibile che i filosofi salgano al potere, la «città giusta» è destinata a restare una chimera: occorre di conseguenza abbandonare la vita politica per ritagliarsi un piccolo spazio – il Giardino – all’interno del quale vivere in accordo coi precetti della filosofia. Una posizione che risulta tanto più interessante e, in certa misura, attuale se si considerano le riflessioni di un Karl Löwith o di una Hannah Arendt, i quali ci hanno insegnato – anche se per strade e con intenti diversi – la storica ostilità tra filosofia e politica da Socrate ai giorni nostri, mettendo peraltro in luce le realizzazioni perverse che sono puntualmente scaturite dall’incontro tra le due. La fuga epicurea dalla politica e dalla sua sede – la πόλις – in qualche modo accomuna il Nostro ai Cinici del suo tempo, ancorché essa in lui non si configuri come anarchismo eversivo o come vagabondaggio eremitico, ma piuttosto come presa di coscienza che la sfera politica non ha nulla a che fare con la felicità dell’individuo. E come nel caso dei Cinici, anche in Epicuro pare che il rifiuto della politica sia un gesto di anticonformismo, di opposizione ai compromessi che la vita politica necessariamente implica per sua natura: aspetto che sarebbe peraltro confermato dal fatto che «soprattutto più tardi nell’Epicureismo si vide il simbolo di una scrittura contro ogni conformismo, l’indicazione del significato della libertà di pensiero»223 in opposizione ad ogni autorità. In questo senso, pare decisamente più fondata una lettura dell’apoliticità epicurea come un invito a impegnarsi in rapporti veramente umani piuttosto che come un’esortazione a condurre un’esistenza eremitica e solitaria: come precisa Francesco Adorno, quello di Epicuro sarebbe non «un appello a vivere una vita individuale e monastica, ma a sfuggire da una vita politica che non è politica, che non è comprensione dell’uomo, di quello che dovrebbe essere il rapporto e la relazione umana»224. Dunque, a differenza di Aristotele, che vede nella «vita teoretica» la forma suprema di esistenza, Epicuro è convinto che il «vivere associato» sia il momento più alto della vita umana, a patto che tale vivere associato non sia corrotto e denso di contraddizioni, come accade nella politica del suo tempo. Questo distanziamento dalla politica si riflette puntualmente sulla prassi, e in

particolare sull’emblematica scelta del luogo in cui tenere le proprie lezioni e convivere con gli amici più fidati: Socrate aveva fatto filosofia sulle affollate piazze di Atene, coinvolgendo i suoi concittadini in questioni di primaria importanza come la natura del coraggio, dell’amicizia, dell’amore; Platone e Aristotele avevano scelto scuole istituzionalizzate e altamente specialistiche, per accedere alle quali occorreva saper già padroneggiare bene lo strumentario concettuale della filosofia: Epicuro, invece, sceglie un giardino ai margini della città e dal suo frastuono, un luogo immerso in quella natura verso la quale Socrate si era dimostrato indifferente225 e che Platone aveva liquidato come sbiadita copia dell’eterno mondo delle Idee, dedicandole uno solo dei suoi dialoghi, il Timeo. Per comprendere in tutta la sua portata la scelta epicurea del luogo adibito alla vita filosofica, possono soccorrerci le note vicende del Candido di Voltaire: dopo una serie di peripezie disastrose che gli fanno prendere atto del male dilagante nel mondo e lo guariscono dalla «teodicea» leibniziana, Candido si congeda dalla vita politica e «mondana», per ritirarsi coi suoi compagni più fidati in un giardino, che ben simboleggia la sfera protetta della vita privata: un porto nel quale porsi al riparo dalle tragiche vicende che si succedono senza sosta nel mondo226. Come Candido, anche Epicuro si rifugia con pochi amici in un giardino ben protetto dai patimenti dell’esistenza politica, intesa in senso ampio come vita nella città. Ma l’individualismo epicureo, lampante se guardiamo all’agnosticismo politico del nostro autore, appare notevolmente ridimensionato se soffermiamo la nostra attenzione sull’amicizia (φιλία), che egli non esita a considerare il maggior bene concesso al genere umano227. In opposizione allo Stoicismo, che vedeva nel saggio un essere del tutto autosufficiente, per Epicuro l’individuo umano non è un essere bastevole a se stesso, ma tende per sua natura ad aggregarsi ad altri individui per dar vita a una comunità di amici, coi quali filosofare e godere dei piaceri che la vita concede giorno per giorno. In questo senso, ciascuno di noi non è un essere isolato dal mondo, non è un puro atomo che se ne sta separato da tutti gli altri: al contrario, cerchiamo sempre amici perché, da soli, non ci sentiamo pienamente realizzati e vogliamo condividere le nostre sensazioni, le nostre gioie, i nostri pensieri con individui simili a noi, nella speranza di instaurare un rapporto di intimità che ci permetta di uscire dalla nostra individualità senza però – e qui sta la differenza fondamentale rispetto alla politica – mettere a rischio la nostra felicità. Rispetto all’amore o alla politica, che sconvolgono l’animo anziché confortarlo, l’amicizia sortisce un effetto del tutto tranquillizzante, in quanto essa, nella sua forma più alta, è – come aveva insegnato Aristotele – un rapporto fondamentalmente disinteressato, che instauriamo non in vista di secondi fini, ma per se stesso, per il piacere di coltivarlo. Il vero rapporto amicale, infatti, pur nascendo in vista di un utile, si trasforma poi in un rapporto fine a se stesso, intrattenuto in maniera pura e disinteressata: per questa via, l’amicizia, che per Platone era uno strumento per costruire uno Stato più solido, si riveste in Epicuro del valore di fine ultimo e di bene superiore a ogni altro. È ancora lecito accusare l’Epicureismo di individualismo, ora che si è adombrato il valore assoluto riconosciuto all’amicizia? Certo, l’amicizia quale la intende il nostro autore dev’essere intesa essenzialmente come «una relazione privata fra pochi individui, curata nella separazione dagli affari pubblici, nella sfera intima del giardino»228 e dunque a distanza di sicurezza dalla politica e dalla grande massa; e tuttavia essa già segnala come la prospettiva epicurea non possa essere del tutto correttamente intesa come una forma di individualismo radicale. Piuttosto, la si potrebbe concepire come un «individualismo socievole», nella misura in cui mira alla felicità dell’individuo e, al tempo stesso, riconosce che non la si può raggiungere se non tramite il contatto coi propri simili. E le tre epistole e i frammenti dell’epistolario di Epicuro rinvenuti nei papiri ci restituiscono

l’immagine di un uomo per il quale l’amicizia non è una vuota nozione da divulgare negli scritti, ma un concreto precetto di vita che egli stesso ha seguito nel corso della sua esistenza, nel suo vivere non contemplativamente avulso da ogni contesto, bensì tra amici e amiche che assiologicamente erano prioritari rispetto a ogni altra cosa, perfino alla filosofia. Si può dire, a ragion veduta, che per Epicuro avesse ragione Aristotele a sostenere229 che solo un dio o le bestie possono condurre una vita solitaria, il primo perché assolutamente perfetto, le seconde perché a tal punto imperfette da non sentire l’esigenza di aprirsi ai propri simili: anche per il filosofo del Giardino, un individuo che vivesse isolato, senza amici, non sarebbe diverso dai lupi o dai leoni, che per loro natura sono esseri solitari e aggressivi. Ma – diversamente da quel che credeva lo Stagirita – non sarebbe affatto simile agli dèi, giacché questi ultimi sono costitutivamente socievoli e trascorrono il loro tempo in compagnia, alla ricerca del piacere, dialogando tra loro, e non come immaginava Aristotele la propria divinità, in assoluta solitudine e occupata solo a pensare se stessa. Del resto, ci siamo già soffermati abbastanza su come gli dèi di Epicuro non fossero altro che uomini ideali e perfetti. Addirittura, la vera amicizia può essere anteposta al raggiungimento del piacere personale: se è vero quel che riferisce Seneca, per Epicuro «devi guardare con chi mangi e bevi prima di guardare che cosa mangi e bevi; infatti, pranzare senza un amico è dividere le carni a modo di leone o di lupo»230. Mai come nel caso di Epicuro può dunque valere l’antico adagio secondo cui «chi trova un amico, trova un tesoro»: infatti, se è vero che l’amicizia – e non l’amore – va ricercata di per se stessa, senza secondi fini, ciò non di meno, una volta che la si sia instaurata, essa finisce col produrre un piacere catastematico doppio di numero (perché goduto da tutti e due gli amici) e di intensità (in quanto il rapporto con l’altro è esso stesso una forma di piacere). Chi cerca un amico, non cerca utilitaristicamente un individuo su cui appoggiarsi al momento del bisogno (si ha in questo caso un rapporto di bassa lega, che non è neppure lecito qualificare come amicizia), ma piuttosto una persona con cui condividere interessi e inclinazioni: e, proprio da tale comunanza con l’amico, deriva anche la certezza di poter contare sul suo aiuto nel caso del bisogno. La stessa scuola filosofica fondata da Epicuro si configura primariamente come una comunità di amici che, desiderosi di vivere felicemente, si interrogano sulle più grandi questioni filosofiche, ma al solo fine di poter coronare la loro amicizia con l’imperturbabilità dell’animo. Come non accorgersi che i massimi beni derivano dall’amicizia e che essa, secondo le magnifiche parole di Epicuro, «percorre danzando la terra, recando a noi tutti l’appello di aprire gli occhi sulla felicità»? Chi non se ne accorge, ignora che la vita umana sia finalizzata alla felicità e che questa sia conseguibile soltanto nella relazione con l’altro. Addirittura essa è superiore alla saggezza, che è un bene soltanto mortale231: l’amicizia che si instaura tra due individui, invece, è destinata a sopravvivere anche dopo la morte di uno dei due. Come ha acutamente sottolineato Domenico Pesce232, anche nella sua concezione dell’amicizia Epicuro si contrappone ad Aristotele e a Platone: contro il filosofo delle Idee, il nostro autore nega la connessione tra amicizia e amore sessuale, connessione in forza della quale, come è noto, l’amicizia tendeva necessariamente a sfumare in un rapporto d’amore; contro Aristotele, per il quale nel rapporto amicale si finisce per amare l’amicizia come valore più che l’amico (come a dire che si è amici dell’amicizia più che dell’amico), Epicuro riconosce il primato dell’amico in quanto tale, facendo dell’amicizia un sentimento e non una virtù; un sentimento che, per l’appunto, non potrebbe esistere se non ci fosse l’amico. Si tratta di una concezione dell’amicizia che è ancora attualissima e che, in fin dei conti, non è così distante da quella novecentesca di George Edward Moore, il quale la concepisce come rapporto sociale tra uomini colti dal quale scaturiscono immancabilmente il piacere

estetico e il «piacere dei rapporti umani» prodotto dalla «fruizione delle cose belle»233. Almeno sul primato dell’amicizia, anche Cicerone poteva concordare con Epicuro e seppellire momentaneamente l’ascia di guerra: pur senza citare mai espressamente l’acerrimo nemico personale, nel suo scritto De amicitia l’Arpinate esalta con toni fondamentalmente epicurei l’amicizia, da lui concepita come «la massima armonia dei desideri, delle inclinazioni, delle idee»234, pur aprendo notevoli spiragli verso il trascendente (cosa che Epicuro si era ben guardato dal fare). Si potrebbe obiettare, tuttavia, che nell’ottica di Epicuro si è in cerca di un amico al solo scopo di ottenere la propria felicità e che pertanto l’amicizia non è intesa come un fine in senso autentico, ma piuttosto come il più alto mezzo per raggiungere la felicità del singolo, il quale resta dunque al vertice del sistema epicureo, avvalorando le accuse di individualismo. L’obiezione, ridotta all’osso, potrebbe suonare così: per Epicuro bisogna avare amici soltanto per poter essere felici noi stessi, in una sorta di egoismo camuffato. Però tale obiezione non sembra convincente: leggendo i testi epicurei, si ha quasi l’impressione che in Epicuro il rapporto di amicizia, col tempo, acquisti sempre più valore fino a risplendere di luce autonoma e a non essere più subordinato al fine della felicità; dapprima esso tende a instaurarsi per fini utilitaristici, siano essi la certezza di godere di un appoggio in caso di avversità o il bisogno di non sentirsi soli; ma in un secondo momento, il rapporto si consolida e quasi acquista vita autonoma, diventando un valore di per sé, per il quale è anche legittimo sacrificare porzioni della propria felicità personale. Questo peso preponderante attribuito all’amicizia non può non attenuare l’accusa di individualismo mossa da più fronti ad Epicuro: e lo stesso invito epicureo all’isolamento – «λάθε βιώσας»235 – dev’essere inteso non tanto come un’esortazione a vivere di nascosto, ché altrimenti ne ricaveremmo la distorta immagine di un Epicuro misantropo non meno del protagonista del Misantropo di Menandro, quanto piuttosto come un invito a vivere appartati, privatamente, lontani dalle vicende politiche ma aperti alle amicizie e in costante rapporto coi propri simili, in una comune ricerca della felicità. È vero che la tradizione ci ha tramandato l’immagine di un Epicuro che si tiene a debita distanza dalla folla, intesa come una massa informe che vive guidata dai pregiudizi e dalle opinioni comuni anziché dalla saggezza filosofica – «ritirati in te stesso specialmente quando sei costretto a stare in mezzo alla folla»236 –, ma è anche vero che il suo disprezzo per la massa non si traduce in una vuota misantropia, ma piuttosto in una ricerca di individui autentici, di persone con le quali costruire una comunità di filosofi. A ben vedere, l’esortazione a tenersi distanti dalla politica sembra quasi tradursi nell’invito a scegliere amici veri, a stringere quei rapporti sociali autentici che la politica non può in alcun caso garantire. Il presupposto di questa concezione è che, da soli, non si può mai essere pienamente felici, perché la natura umana è necessariamente incline alla socievolezza, all’apertura agli altri. Sicché l’uomo epicureo è a pieno titolo un πολιτικòν ζ ον, secondo la calzante definizione aristotelica237: a patto che, naturalmente, si scindano le due componenti insite nel termine πολιτικòν e si faccia dell’uomo epicureo un essere «socievole», ma non «politico». Un essere socievole più che teoretico: infatti, l’amicizia riveste una funzione addirittura superiore alla ricerca della verità, in quanto più di essa garantisce il raggiungimento della felicità: così il noto motto con cui si è proverbialmente compendiato il rapporto di Aristotele col maestro Platone – «amicus Plato, sed magis amica veritas» –, non potrebbe mai essere accettato da Epicuro, che forse lo stravolgerebbe in «amica veritas, sed magis amicus Plato», a sottolineare il ruolo preponderante del vincolo di amicizia. La comunità di amici che si formò attorno alla figura di Epicuro è sembrata ad alcuni238 anticipare

quella che sarà la futura comunità fondata da Bernardo da Chiaravalle: legati al maestro, i suoi seguaci ne mantennero per secoli invariato l’insegnamento, limitandosi a trasmetterlo quale il fondatore l’aveva ideato; ciò farebbe di Epicuro «un profeta più che un filosofo»239, e la tesi è confortata dal fatto che ancora nel II secolo d.C. un suo seguace – Diogene di Enoanda – fece scolpire l’immortale verbo epicureo sul portico d’ingresso della sua città: tale iscrizione, come nota Long, «costituisce un compendio dell’insegnamento di Epicuro, donato da Diogene ai compatrioti e all’intero genere umano come guida alla felicità»240. Lucrezio stesso – è stato fatto notare – nel suo poema non esita a rivolgersi al maestro greco con l’appellativo di «deus»241 e di salvatore del genere umano, rivestendolo di fatto di quelle caratteristiche soteriologiche che saranno proprie del Cristo. Ma quelle di chi azzarda un parallelo tra Epicuro e Bernardo (o, peggio ancora, tra Epicuro e Cristo) sono le posizioni ideologiche tipiche di chi vuole arruolare nel proprio esercito gente che, se potesse, non solo se ne guarderebbe bene, ma forse si arruolerebbe nell’esercito opposto. Contro questi indebiti tentativi di proporre un Epicuro anticipatore del cristianesimo (se non addirittura «cristianizzante» egli stesso), si ricordino gli straordinari versi della Ginestra di Leopardi, nei quali il nostro autore – benché non venga fatto il suo nome – è assunto come eroe «laico» della lotta contro la superstizione e come strenuo difensore dell’umanità242. Dire che secondo Epicuro l’uomo si disinteressa della politica non significa limitarne l’azione sociale al rapporto tra amici: l’epicureo è uomo tra gli uomini e, lungi dal limitarsi a non vivere nella città, si limita a ricercare altrove la felicità, ad esempio nella ristretta cerchia di amici accomunati da interessi e visioni del mondo. Non curarsi delle vicende politiche non significa, allora, condurre una vita eremitica, come sarà quella dei monaci in età cristiana o, con significati e modalità diverse, com’era quella dei filosofi cinici contemporanei ad Epicuro; significa piuttosto disinteressarsi di quel terreno di conflitti e di competizioni che è la città. Viverci senza preoccuparsene: così potrebbe essere compendiato il rapporto dell’Epicureismo con la politica; e se il nostro autore fosse vissuto ai tempi dello splendore della πóλις, forse non avrebbe rigettato la politica con tanto sdegno. Proprio in virtù della sua naturale socievolezza, l’uomo sente l’esigenza di entrare in rapporto con i suoi simili e non solo con pochi amici scelti: in vista di questo scopo, egli fonda la società, e lo fa attraverso la stipula di un patto che permetta di perseguire l’utile dei contraenti. L’ingresso in società, del resto, è uno dei tratti che più distinguono gli uomini dalle bestie, ma anche certe popolazioni da altre, che non giungono alla stipula del patto e perciò non formano una società. Da tale patto originario scaturiscono, secondo Epicuro, la legge e la giustizia: esse presentano dunque un carattere convenzionale nonché artificiale, in quanto frutto di un patto statuito tra gli uomini in vista dell’utilità reciproca. Infatti, fondando la società, sorge immediatamente il problema di regolamentarla secondo leggi: ma poiché «non c’è qualcosa come una giustizia in sè»243, ossia non esiste una «giustizia naturale» – salta in questo modo il giusnaturalismo fatto valere da Aristotele –, esse devono essere istituite assumendo l’utile come criterio fondamentale. Il «giusto secondo natura» è allora un mito che non ha riscontro nella realtà: soltanto l’utile, possibilmente quello della comunità e non solo del singolo (in ciò è ulteriormente ridimensionato l’individualismo epicureo), deve guidare l’azione umana e a esso devono conformarsi le leggi che regolano l’interazione tra gli uomini. Da ciò, si evince che la giustizia sussiste solo dove c’è «un certo accordo nei rapporti reciproci e sempre limitatamente a quei luoghi in cui c’è un impegno a non danneggiare né ad essere danneggiati vicendevolmente»244. Giusto, e perciò degno di essere perseguito, sarà allora tutto ciò che produce effetti utili per gli uomini di quella particolare società e di quel particolare momento storico: ne segue che, poiché l’utile varia a seconda delle circostanze storiche e dei luoghi, sarà possibile

mutare le leggi qualora esse non risultino più conformi al criterio dell’utile. Commette ingiustizia chi viola le leggi, ovvero chi si oppone all’utile generale: in questo senso – nota Epicuro – l’ingiustizia si presenta come un male perché ingenera, in chi la commette, il timore di essere punito attraverso sanzioni. Ben si evince come, nella prospettiva fatta valere dal nostro autore, il giusto, lungi dallo scaturire dalla natura stessa, sia un qualcosa di posto dall’uomo in vista del proprio utile: mi pare dunque che in Epicuro sia possibile scorgere – con i debiti confronti, e tenendo bene a mente la distanza temporale che ci divide dal filosofo del Giardino – un antesignano di quello che in età moderna sarà detto «positivismo giuridico». In particolare, con Epicuro crolla l’idea, sostenuta con forza in quegli anni dagli Stoici, di un giusto universale, eterno e dettato dalla natura: a essa si sostituisce la più modesta idea di un giusto stabilito consensualmente dagli uomini e avente per obiettivo l’utilità (il che, peraltro, già segnala la distanza siderale dal «positivismo giuridico» di un Hans Kelsen), tematica che sarà significativamente ripresa dall’utilitarismo britannico tra XVIII e XIX secolo. Questo confronto con gli esponenti della Stoà ci impone una ricognizione, anche se solo per sommi capi, delle posizioni che in materia di «diritto naturale» avevano elaborato i Greci. Memore della distinzione cardinale operata dai Sofisti tra «natura» e «convenzione», il primo autore a sistematizzare in maniera chiara e puntuale la dicotomia tra il giusto secondo natura e il giusto secondo convenzione è sicuramente Aristotele, il quale scrive nell’Etica nicomachea: «Del giusto in senso politico, poi, ci sono due specie, quella naturale e quella legale: è naturale il giusto che ha dovunque la stessa validità, e non dipende dal fatto che venga o non venga riconosciuto; legale, invece, è quello che originariamente è affatto indifferente che sia in un modo piuttosto che in un altro, ma che non è indifferente una volta che sia stato stabilito»245. Nella prospettiva dello Stagirita, il giusto in senso politico si risolve in una dimensione interna al vivere associato nella πóλις, come se giusto in senso naturale e, dunque, universale fosse ciò che si può riconoscere come giusto all’interno della πóλις stessa: il giusto secondo convenzione si identifica invece nelle diverse legislazioni vigenti nelle diverse πóλεις (Sparta, Atene, ecc). Ora, con la dottrina stoica della giustizia viene superato questo «imperialismo» culturale di Aristotele (il quale di fatto assumeva la realtà specifica della πóλις come universalmente valida) e si approda a un diritto naturale che viene prima rispetto alla πóλις. Gli Stoici sono infatti fermamente convinti che, per definire il giusto, sia fuorviante prendere le mosse dal «recinto chiuso» della πóλις, ma occorra guardare più in là, e precisamente, in ottica cosmopolitica, all’universalità delle genti. Con gli Stoici, pertanto, il «diritto di natura» («ius naturae») viene significativamente a coincidere col «diritto delle genti» («ius gentium») ed è per la prima volta adombrata l’idea che la validità e l’obbligatorietà del diritto positivo debbano essere in accordo con le leggi di natura: detto altrimenti, nella prospettiva stoica il diritto delle città è valido a patto che sia in accordo con le eterne leggi della natura246. Veniamo ora a Epicuro: non si può affermare con certezza, per via delle scarse testimonianze in proposito, se anche la concezione epicurea della giustizia sia funzionale alla mansione terapeutica di pacificazione dell’animo umano: possiamo però azzardare qualche congettura, soppesando da un lato la concezione stoica della giustizia universale e «secondo natura», quale è stata poc’anzi delineata nelle sue linee essenziali, e dall’altro quella epicurea, per la quale il giusto è stabilito inter homines in vista della salvaguardia dell’utile comune. La prima importante conseguenza della concezione stoica è che la legge naturale è la stessa per tutti i

luoghi, per tutti i popoli e per tutti i tempi, proprio perché uno ed eterno è il Λóγος cosmico da cui essa discende: le leggi positive devono conformarsi a essa, non all’utile degli individui che costituiscono la società. In quest’ottica, le leggi di natura sono incommensurabilmente al di sopra del singolo, e anzi di fatto non coincidono con la sua utilità e, di conseguenza, col raggiungimento della felicità individuale. Tra la pratica della virtù e la ricerca della felicità c’è quindi un abisso invalicabile, e riconoscere che dalla pratica dell’una derivi – per dirla con Kant – «analiticamente» anche l’altra, significa peccare di ottimismo, illudersi che la sola virtù sia capace di far emergere da se stessa anche la felicità. Una prospettiva come quella stoica, inoltre, implica che la legge non possa né debba essere modificata sulla base delle circostanze storiche o delle popolazioni considerate: come una sola è la ragione che permea l’universo, così una dev’essere la legge che ne deriva, una e immutabile nell’eternità. Ma abbiamo precedentemente visto come Epicuro tenda a rigettare le spiegazioni assolutistiche e definitive, fino a spingersi – nel caso dei fenomeni celesti e atmosferici – ad ammettere una molteplicità di spiegazioni, tutte parimenti accettabili: ora, ammettere una legge naturale, eterna e universale equivale a ingombrare l’animo di nuove preoccupazioni, di nuovi affanni; infatti, l’idea che la legge così com’è non possa essere in alcun caso corretta, perfezionata, o resa più adeguata all’uomo, non può che provocare turbamento, sgomento e inquietudine. Se la cifra del suo pensiero è l’etica, allora non stupisce che Epicuro, fedele alla sua «rivoluzione copernicana», ricerchi una giustizia che sia modificabile a seconda dei popoli, dei tempi e perfino delle esigenze che di volta in volta affiorano all’interno di una società, buttando a mare l’idea stoica di un «giusto secondo natura»: ora, una tale giustizia, automaticamente messa fuori gioco dal giusnaturalismo stoico, non può che essere ricercata nell’ambito del νóμος, della «convenzione», dell’interazione tra gli uomini, che si uniscono in società e rivolgono lo sguardo non a cosa è giusto in sé, ma a cosa è utile per tutti e in quel dato momento. Abbiamo dunque a che fare con una giustizia fatta ad hominem, convenzionale e suscettibile di sempre nuove modifiche che la migliorino e la rendano più funzionale al vero obiettivo che l’uomo ha su questa terra: essere felice. Quando Voltaire dirà che l’unico dovere dell’uomo è essere felice, non farà altro che recuperare, più o meno consapevolmente, l’etica epicurea. E le leggi, in questa prospettiva, non sono altro che vie istituzionalizzate per accostarsi alla felicità: promuovendo l’utile, esse non fanno che indicarci la via per essere il più felici possibile, ancorché la vera felicità sia raggiungibile esclusivamente all’interno di una piccola comunità di amici intimi e sinceri, che non si lasciano distrarre da quell’inquietante ginepraio che è la politica. Il severo quanto sbrigativo giudizio che sull’individualismo di Epicuro esprime Lattanzio – «non esiste alcuna società umana: ognuno bada a se stesso»247 – e che racchiude in sé lo spirito di una tradizione secolare, oltre a non trovare conferma nei testi epicurei, ne tradisce clamorosamente le intenzioni, facendo surrettiziamente dell’Epicureismo una banale riproposizione del modus vivendi cinico. Ancora una volta, è messa in luce l’egemonia dell’etica nella riflessione di Epicuro: la sua «rivoluzione copernicana» l’ha portato a far slittare l’attenzione dall’oggetto – a cui tutta la tradizione greca era rimasta legata – al soggetto e alla sua condizione considerata ora individualmente, ora in riferimento all’altro; una rivoluzione così radicale da piegare alle esigenze esistenziali dell’individuo perfino le leggi che regolamentano i rapporti all’interno di una comunità.

10. Riflessioni conclusive: la farmacia di Epicuro. «È per questo scopo, infatti, che noi facciamo ogni cosa: appunto, al fine di non soffrire e non essere turbati dalla paura. In effetti, una volta che sia tale la nostra condizione, ogni tempesta dell’anima si quieta». 248

Poiché la filosofia deve svolgere una funzione eminentemente «farmacologica», cioè tale da somministrare all’animo umano la giusta dose di tranquillità, ponendolo al riparo dalle tempeste della vita, essa deve annientare ogni possibilità di influenza dell’oggetto sul soggetto: e per fare ciò, non resta che supporre una realtà costituita ad hoc per l’individuo, fatta appositamente perché la sua imperturbabilità non possa essere scalfita. In questo senso, l’intera filosofia di Epicuro si configura come un grandioso tentativo di modellare il mondo esterno sulle esigenze del soggetto e della sua atarassia: ridotta all’osso, la sola domanda a cui si deve rispondere è: «come dev’essere costituito il mondo affinché l’uomo possa condurre in esso un’esistenza felice?». Questo punto, in cui consiste quella che noi abbiamo qualificato come «rivoluzione copernicana» di Epicuro, è stato mirabilmente colto da Nietzsche, che l’ha declinato anche in riferimento alla situazione del suo tempo: «Epicuro, l’acquietatore d’anime della tarda antichità, comprese meravigliosamente, come ancor oggi così raramente si comprende, che per tranquillizzare l’animo non è affatto necessario risolvere le ultime ed estreme questioni teoriche. Sicché a coloro che erano tormentati dalla ‘paura degli dèi’, gli bastava dire: ‘se ci sono gli dèi, essi non si preoccupano di noi’ – invece di disputare sterilmente e da lontano sulla questione suprema, se ci siano in genere dèi. Questa posizione è molto più favorevole e forte: si dànno all’altro alcuni passi di vantaggio, rendendolo così più pronto ad ascoltare e a ponderare. Ma non appena quegli si accinge a dimostrare il contrario, – che gli dèi si preoccupano di noi, – in quali errori e intrichi spinosi non dovrà cadere il misero, affatto da sé, senza astuzia da parte dell’interlocutore? Costui deve solo avere abbastanza umanità e finezza da nascondere la sua compassione per questo spettacolo. Da ultimo l’altro giunge alla nausea, l’argomento più forte contro quella proposizione, alla nausea per la sua stessa affermazione; si raffredda e va via con lo stesso stato d’animo che è anche dell’ateo puro: ‘cosa importa poi a me degli dèi? Che il diavolo se li porti!’. – In altri casi, specie quando un’ipotesi a metà fisica e a metà morale aveva offuscato l’animo, egli non confutava questa ipotesi, bensì ammetteva che poteva essere così, ma che per spiegare lo stesso fenomeno c’era ancora una seconda ipotesi; e che forse la cosa poteva stare ancora diversamente. […] Chi dunque desidera largire conforto, a infelici, malfattori, ipocondriaci, morenti, si ricordi delle due espressioni tranquillizzanti di Epicuro, che si possono applicare a moltissime questioni. Nella forma più semplice esse suonerebbero all’incirca: primo: posto che la cosa stia così, non ce ne importa niente; secondo: può essere così, ma può essere anche diversamente»249. Quello della felicità e dell’obiettivo etico è un problema che ritorna con incredibile frequenza nelle filosofie dell’età ellenistica: se lo pongono tanto gli Stoici, quanto gli Scettici e i Cinici, fornendo però risposte opposte tra loro. Tutte queste scuole filosofiche (posto che nel caso dello Scetticismo sia lecito parlare di «scuola») si pongono il problema di assicurare all’individuo un margine più o meno ampio di libertà all’interno del mondo, in modo tale che si possa riconoscere l’esistenza della responsabilità e della superiorità dell’uomo su tutto l’universo. Hegel ha tracciato questo processo di liberazione dal mondo come una graduale negazione del

medesimo: gli Stoici250, per garantire la felicità all’uomo, hanno fatto della ragione il tratto che distingue l’individuo dal resto del mondo; quest’ultimo non può alcunché sul singolo, giacché l’attività della coscienza stoica è «quella di essere libera sia sul trono sia in catene, in ogni dipendenza della propria esistenza singolare»251; essa «si ritira costantemente nell’essenzialità semplice del pensiero»252, cosicché, anche se ridotto a servitù nel mondo materiale, l’uomo è immancabilmente libero sul superiore piano dello spirito. Questa liberazione dal mondo è portata a compimento dallo Scetticismo, il cui pensiero «annienta l’essere del mondo nella molteplicità delle sue determinatezze, e la negatività dell’autocoscienza libera»253: la negazione del mondo esterno trapassa dialetticamente anche in negazione della certezza del pensiero; da qui deriva quel dubbio onnivoro che caratterizza lo Scetticismo e fa di esso una «assoluta inquietudine dialettica» (absolute dialektische Unruhe254). La soluzione di Epicuro, significativamente taciuta da Hegel nella Fenomenologia dello Spirito, è di segno opposto: anziché negare il mondo e la sua influenza sull’uomo, egli lo adatta all’individuo e alle sue esigenze etiche e, per questa via, riesce a garantire un’effettiva felicità. La conclusione a cui si giunge negando il mondo e, nel caso dello Scetticismo, anche la coscienza interna è la nascita di una «coscienza infelice» perché «irretita nella contraddizione»255; dal canto suo, Epicuro salva i fenomeni e il mondo, e può dunque garantire la nascita di quella che potremmo chiamare, con un’espressione di stampo hegeliano, una «coscienza felice» perché non passata per la negazione e per la contraddizione dialettica: lo stoico e lo scettico fanno leva sul momento negativo della negazione del mondo esterno, con la conseguenza che quella che garantiscono è una libertà meramente astratta, inappagata perché contraddittoria; l’epicureo, invece, fa sua una libertà assolutamente concreta, che per ciò stesso non può che riguardare il singolo individuo, non l’uomo in senso universale. Anziché separarsi dal mondo, egli lo domina conoscitivamente e se ne serve come di un gradino per innalzarsi alla felicità. Allo scettico e allo stoico, il mondo sfugge invece di mano, e non ha grande importanza se esso non incida sulla coscienza dell’Io: quest’ultimo resta in ogni caso intrappolato nella contraddizione di una dicotomia ineliminabile, quella appunto tra Io e mondo. L’epicureo, al contrario, è letteralmente padrone del mondo: così la conoscenza che egli ha della natura è assolutamente infallibile, anche se solo potenzialmente; i corpi celesti, al pari di tutti gli altri, sono costituiti da atomi e vuoto, e possono comportarsi ora in un modo, ora in un altro, in maniera perfettamente simile a come si comportano gli individui; gli dèi – che sarebbe meglio chiamare «uomini perfetti» – sono del tutto incuranti del nostro mondo, e dunque non ha senso tanto il venerarli quanto il temerli; proprio come il saggio epicureo è del tutto incurante della città. L’uomo è dotato di una libertà di scelta che, oltre a garantirgli la responsabilità delle azioni, gli assicura di non essere un burattino manovrato dai fili della necessità naturale; tanto la morte quanto il dolore non precludono affatto la via alla felicità; la legge, lungi dall’essere una ed eterna, può essere comodamente ritoccata a seconda delle esigenze umane; la felicità è a portata di mano, la si raggiunge facilmente liberandosi dai turbamenti interni e dal dolore fisico. L’immagine calzante, a proposito dell’etica epicurea, di un «tetrafarmaco» capace di debellare tutti i mali che impediscono all’uomo di essere felice è il cuore della speculazione del nostro autore: essa è l’infallibile cura scoperta da questo medico delle anime del suo tempo, il più autentico tentativo mai azzardato presso i Greci di fare della filosofia un qualcosa di interamente umano, funzionale al soggetto. Là dove la filosofia smarrisce il suo punto di contatto con l’etica, essa conosce l’universo nella sua interezza ma non sana le ferite dell’animo umano e non riesce a condurre l’uomo alla felicità: è questo il grande errore della filosofia tradizionalmente intesa. In quest’ottica, il momento teoretico è interamente

subordinato a quello etico: infatti, conoscere la natura, il cielo, gli dèi, i dolori significa azzerare l’influenza che essi esercitano su di noi, per diventare noi stessi loro dominatori, recuperando per tale via il pieno controllo della nostra vita. Alla base di questa riflessione sta la considerazione di Epicuro secondo cui per tranquillizzare l’animo non é affatto necessario risolvere le ultime ed estreme questioni teoriche: si tratta piuttosto di accantonarle, o meglio di darne una soluzione che, quand’anche non fosse vera, espleterebbe in ogni caso la funzione di tranquillizzante per gli animi, riconducendoli dallo stato di tempesta a quello di serenità. Molto meglio una teoria falsa ma capace di rasserenare gli animi, piuttosto che una vera ma tale da inquietarli: di questo secondo tipo era, ad esempio, la dottrina democritea, che Epicuro – «questo medico di spiriti»256 – recupera e modella alla luce delle nuove esigenze etiche, dando vita ad un modus vivendi diametralmente opposto a quello del pensatore di Abdera. Democrito sceglie la strada che porta alla verità teoretica, Epicuro è convinto che l’autentica verità sia quella etica, capace di fare dell’uomo un dio. Gli uomini quali egli se li immagina non sono che il riflesso fenomenico, sul piano dell’esistenza, di quegli atomi costituenti il mondo naturale: atomi che hanno una loro esistenza individuale, ma che casualmente possono incontrare altri atomi e dare luogo ad aggregazioni come il rapporto amoroso, la società e – nella forma suprema – l’amicizia. Essi esistono autonomamente, ma trovano la loro più compiuta realizzazione nell’aggregazione coi propri simili, cosicché la filosofia epicurea parte sì dal momento individuale della «autocoscienza astratta», ma subito la supera per guardare al rapporto tra autocoscienze relazionate tra loro, pur nella loro autonomia individuale. Come un atomo che restasse assolutamente in se stesso, senza incontrarne altri, non darebbe vita ad alcunché di apprezzabile, così gli esseri umani trovano la loro compiutezza uscendo dalla loro individualità e passando al vivere associato, dando vita a una comune ricerca di una felicità alla quale, come abbiamo visto, è costitutivo lo stesso vivere associato. Detto altrimenti, come gli atomi, gli individui possono esistere in maniera irrelata, ognuno per proprio conto: ma se vogliono guadagnare un’esistenza felice – ed è questo l’obiettivo primario del vivere – devono associarsi per dar vita ad un’amicizia che nulla abbia a che fare con la sfera politica. Il riferimento al mondo atomico, colto dall’intelletto, è efficace anche per quel che riguarda l’atteggiamento etico epicureo in senso stretto: infatti, proprio come gli atomi declinano dalla linea retta, così l’uomo deve allontanarsi dai vani timori che sconvolgono la sua anima, deve fuggire dal dolore, deve allontanarsi dalle sciocche opinioni del volgo, deve sottrarsi alle tempeste della vita politica, deve tenersi a debita distanza da quella filosofia che lo riduce a un nulla di fronte al tutto. Il modello atomico, con la sua deviazione dalla linea retta, è in certa misura assunto dal nostro autore come paradigma per tutti gli altri ambiti della sua filosofia, al punto che gli individui stessi sono intesi alla stregua di atomi che si muovono nel vuoto e che, per raggiungere la felicità, devono anzitutto allontanarsi dalla «linea retta» della politica, del turbamento, della teologia. Gli dèi stessi, nella loro unica e somma funzione di idee perfette da imitare, non fanno che allontanarsi dal mondo e dalle sue faccende, dimorano in quei «quasi-mondi» che sono gli «intermundia» e badano esclusivamente alla propria felicità personale: essi sono dèi proprio perché hanno raggiunto la piena coscienza dell’assoluta egemonia del momento etico. Ma l’uomo, come abbiamo visto, non è un dio, ancorché possa diventarlo: nella sua vita radicata su questa terra, deve soddisfare quei bisogni che la sua stessa natura gli impone, senza troppo concedere a quelli che non sono né naturali né necessari. Tanto i falsi concetti quanto i piaceri non naturali né necessari costituiscono una minaccia per la felicità e, per questo motivo, devono essere rimossi senza remore: in ciò risiede la vera felicità – innanzitutto intesa in termini negativi come privazione

di un determinato stato – proposta da Epicuro, «l’acquietatore d’anime della tarda antichità»257. E il fatto che gli obiettivi prospettati da Epicuro siano per lo più designati in forma negativa, con termini a cui è preposta l’alfa privativa (atarassia, aponia, ecc.), segnala come, per il nostro autore, si tratti sempre di ripristinare una originaria situazione di felicità che è andata perduta: proprio come se ci trovassimo – per restare fedeli all’immagine «farmacologica» – in preda a una malattia che deve essere debellata somministrando il φάρμακον della filosofia, affinché si renda possibile il ritorno alla condizione di salute precedente; o ancora, è come – per utilizzare un’altra immagine particolarmente cara a Epicuro – se ci trovassimo in mare nel bel mezzo di una tempesta e soltanto la filosofia potesse rasserenare le acque, ripristinando lo stato di quiete. Dietro a quest’immagine elegante quanto efficace, sta, non è difficile capirlo, la salda convinzione che l’uomo sia per natura un essere felice, la cui felicità è però stata compromessa da vani timori che si sono ingenerati nell’animo e che solo la filosofia può eliminare. Dunque, essa deve anzitutto assolvere a una funzione terapeutica per l’anima, deve soccorrere chi è in difficoltà (curiosamente il nome greco ἐπίκουρος, che significa appunto «soccorritore», disvela l’essenza stessa di questo ambizioso programma filosofico) per ricondurlo ad una condizione di serena felicità, non inferiore a quella degli dèi stessi. A questo punto sorge spontanea una domanda: una volta che abbia portato a termine la sua funzione terapeutica, allontanando gli affanni e ottenendo l’atarassia, la filosofia dovrà essere messa da parte? Detto altrimenti: se è vero che la filosofia è uno strumento per procacciarsi la felicità, una volta che quest’ultima è stata conseguita, bisognerà sbarazzarsi dello strumento che ce l’ha fatta acquisire? Una volta che si è saliti in cima all’edificio della tranquillità, occorrerà sbarazzarsi della scala che ci ha portati fin lassù? Epicuro non fornisce una risposta a questi interrogativi: per tentare di rispondere a essi, dobbiamo allora percorrere una strada che egli non ha mai battuto. Il fulcro del problema può essere sintetizzato in questa domanda: una volta che si sia raggiunta la felicità e che ci si sia liberati della filosofia, ritenuta ormai inutile, la condizione felice che abbiamo conseguito con tanta fatica durerà stabilmente e in maniera autonoma? Evidentemente no: infatti, il tempo che avanza porterà con sé sempre nuovi problemi ai quali solo la filosofia potrà tentare di rispondere, conservando in questo modo la felicità scaturente dalla tranquillità interiore; dunque, nella misura in cui i problemi non possono mai essere risolti una volta per tutte, ma ne nascono sempre di nuovi e più complessi, il compito della filosofia sarà inesauribile: essa, pertanto, sarà sempre la condizione ineliminabile della felicità, a tal punto che si potrà essere felici fin tanto che si sarà filosofi.

11. La vita di Epicuro come attuazione della sua filosofia. «Colui che conosce bene i limiti della vita sa come sia facile da procurarsi quanto elimina il dolore che viene dal bisogno e rende perfetta l’intera vita. In tal modo, non ha più alcun bisogno di cose che comportano lotte» 258.

Epicuro rappresenta un caso significativo e, in certo senso, unico nel panorama filosofico greco. Essendo la sua una riflessione eminentemente etica, è bene trattare della sua vita solo dopo aver delineato la sua filosofia. Infatti, la vita che Epicuro condusse non fu altro che un portentoso tentativo di mettere in pratica i propri ammaestramenti, facendo della realtà quotidiana il banco di prova per sondare la validità del proprio sistema filosofico. Pertanto, in questo caso, non è la filosofia a dover essere spiegata sulla base dell’esperienza di vita, ma, viceversa, è la vita a trovar spiegazione nella sua filosofia. La scelta di porre un capitolo sulla vita del nostro autore solo ora che ne abbiamo spiegato il pensiero potrà adesso sembrare meno bizzarra. Egli nacque sull’isola di Samo nel 341 a.C., in una famiglia di coloni ateniesi. Diogene Laerzio, nel decimo libro delle sue Vite e dottrine dei più celebri filosofi, ricorda che ad appena diciotto anni (nel 323) il Nostro si recò ad Atene per l’efebato, che fece insieme al commediografo Menandro: qui si tenevano le lezioni di Senocrate nell’Accademia («Xenocraten audire potuit»259, ci ricorda Cicerone), di Aristotele nel Liceo. Con la morte di Alessandro Magno, tutti i coloni ateniesi furono cacciati da Samo, secondo il volere di Perdicca, e per questo motivo Epicuro dovette riparare a Colofone, da suo padre Neocle: è qui che egli cominciò a radunare intorno a sé i primi discepoli. Allontanatosi in seguito da Colofone, si trasferì a Mitilene e a Lampsaco, dove tenne lezioni per ben cinque anni. Successivamente, fece ritorno ad Atene, la «capitale» della filosofia greca. L’incontro con la filosofia pare essere avvenuto assai precocemente, nel 327, quando Epicuro aveva appena quattordici anni: secondo alcuni (in particolare secondo Apollodoro), l’interesse per la filosofia del sagace quattordicenne sarebbe sorto dalla delusione che nacque in lui dall’ascolto dei maestri di scuola, incapaci di render conto del Caos di cui narra Esiodo. Secondo altre voci, tuttavia, sarebbe stato egli stesso un maestro di scuola e a indirizzarlo verso la filosofia sarebbe stata la lettura diretta dei testi di Democrito: la tesi della frequentazione delle opere dell’atomista di Abdera è avvalorata dal fatto che, in sede fisica, Epicuro ripropone (seppur profondamente modificata, come abbiamo visto) l’antica teoria atomistica di paternità leucippea e democritea. Ciò non di meno, egli sostenne sempre orgogliosamente di essersi accostato alla filosofia da autodidatta, rivendicando con fermezza la propria autonomia di pensiero. Eppure Diogene Laerzio ci dice che ebbe modo di seguire le lezioni di un platonico di nome Panfilo260: ed è inoltre accertato che fu in contatto col filosofo Nausifane, che si faceva portavoce dell’atomismo democriteo. È dunque attraverso questo personaggio che Epicuro venne per la prima volta a conoscenza della dottrina atomistica, che da quel momento mai avrebbe abbandonato. Benché al centro della sua riflessione vi fosse l’amicizia, numerosi furono i suoi nemici in campo filosofico, e non sempre furono «politicamente corretti»: a tal proposito, pare che fiorissero opere attribuite ad Epicuro ma che in realtà erano state scritte da altri al solo fine di distruggere la sua filosofia; il che ci aiuta a capire l’ostilità con cui la tradizione ha sempre guardato all’Epicureismo. Se è vero quel che riferisce Diogene Laerzio, perfino personaggi della statura dello stoico Posidonio di Apamea e dello storico Dionigi di Alicarnasso contribuirono a quest’opera di calunnia, abbagliati dall’odio verso l’edonismo epicureo. Tutti i suoi nemici cercavano di azzerarne l’importanza

filosofica facendo anche leva sulla sua vita personale, mostrando ora la sua assoluta dipendenza da altri autori (in particolare da Democrito in sede fisica e da Aristippo in sede etica), ora la sua ignoranza, ora la vergognosa frequentazione di un’etèra, ora la sua cittadinanza non ateniese, ora il suo edonismo sfrenato, ora il suo opportunismo, che l’avrebbe portato a elogiare i personaggi più potenti sullo scenario politico d’allora al fine di trarne benefici personali. Paradossalmente, anche certi studiosi di Epicuro, che pure hanno preteso di riabilitarlo in opposizione alle accuse stoiche e cristiane, non di rado hanno finito per scorgere nel nostro autore essenzialmente un edonista: è, ad esempio, il caso di Fritz Mauthner, che riduce il filosofo del Giardino a maestro della «joie de vivre», anche se la gioia attribuita al materialista greco avrebbe un superiore segno «spirituale»261; ma, come ci siamo sforzati di dimostrare nei capitoli precedenti, l’edonismo di Epicuro è più moderato di quanto non possa sembrare a prima vista. Insomma, tanto da parte dei detrattori quanto da parte dei presunti seguaci, non c’era accusa che venisse risparmiata al nostro autore e probabilmente, tra tutte queste, molte non rispondevano al vero. Diogene Laerzio, subito dopo aver citato tutte queste infamanti accuse, le liquida una dopo l’altra, probabilmente commettendo l’opposto peccato di idolatria verso Epicuro. Proprio ad Atene, ai margini della città e dunque in netta rottura tanto con la Stoà quanto con l’Accademia platonica e col Liceo aristotelico, Epicuro fondò nel 306 la sua scuola filosofica: il Giardino. Da quel momento, avrebbe cessato di peregrinare per l’Ellade e sarebbe rimasto ininterrottamente nella sua scuola, circondato da amici fidati coi quali condurre un’esistenza all’insegna della filosofia da lui stesso elaborata. Coi discepoli sparsi qua e là per la Grecia, si sarebbe poi tenuto in contatto attraverso una fittissima corrispondenza epistolare e, due o tre volte al massimo, si sarebbe anche allontanato dal Giardino per recar loro visita, fedele fino in fondo alla sua valorizzazione filosofica dell’amicizia. All’interno della comunità filosofica da lui fondata, di cui facevano parte anche donne e schiavi, avrebbe condotto un’esistenza all’insegna della frugalità, accontentandosi di sconfiggere i morsi della fame con del semplice pane e di placare la sete con sola acqua, dando dunque l’assenso soltanto a quei piaceri da lui qualificati come catastematici. Quale miglior prova di coerenza e di fedeltà pratica al proprio messaggio filosofico? Una virtù tanto più apprezzabile se si considera che è rarissima presso i filosofi: Luciano ne deride senza tregua la discrasia, in forza della quale essi pensano in un modo e vivono in quello opposto, confutando essi stessi e senza bisogno di rivali il proprio pensiero filosofico; nei casi più felici, si verifica una non-contraddizione tra pensiero ed esistenza, come nel caso di Cratilo, che si sforzava di indicare le cose col dito anziché nominarle, per non cadere in contraddizione; ma un filosofo che viva in pieno accordo con la propria filosofia è, per riprendere l’immagine stoica, più raro della leggendaria fenice e quelli che hanno effettivamente raggiunto questo armonico equilibrio tra prassi e teoria si contano, probabilmente, sulle dita di una mano. Perfino in punto di morte, Epicuro rimase fedele alla propria filosofia, rivelando un atteggiamento di paziente sopportazione di quel dolore (la calcolosi renale) che, in quanto intenso, doveva necessariamente essere breve, secondo la sua ottimistica teoria. In realtà, le sue sofferenze si protrassero per ben quindici giorni, tra dolori lancinanti che tuttavia non gli impedirono di mantenere quella serena atarassia a cui aveva dedicato tutta la sua vita. Poco prima di esalare l’ultimo respiro, si sarebbe immerso in una tinozza di acqua calda, facendosi portare del vino puro: lo bevve tutto, poi spirò. Era il 270 a.C. Con lui spariva il fondatore di una scuola di pensiero che avrebbe segnato in profondità l’intera cultura occidentale fino ai giorni nostri. I suoi discepoli restarono fedeli alla figura del maestro, che ben presto finì per sfumare nella

leggenda e nel mito, caricandosi addirittura di tratti divini: nel Giardino si conservavano spesso ritratti di Epicuro e il ventesimo giorno di ogni mese si celebrava la memoria del maestro, a cui tutti si sentivano legati da un intimo rapporto di amicizia. Secondo Diogene Laerzio, Epicuro superò ogni altro autore per numero di opere, arrivando a comporne addirittura trecento, e per di più senza mai citare altri autori. Diogene Laerzio fa menzione di quelle che a suo avviso sono le più importanti: Della natura, libri trentasette; Degli atomi e del vuoto; Dell’amore, Compendio dei libri contro i fisici, Contro i Megarici, Casi dubbi; Massime capitali; Delle elezioni e delle avversioni; Del fine; Del criterio o Canone Cheredemo; Degli dèi; Della religione, Egesianatte, Delle vite, libri quattro; Del giusto operare; Neocle, a Temista; Simposio; Euriloco, a Metrodoro; Della vista; Dell’angolo nell’atomo; Del tatto; Del destino; Dei sensi interni, massime a Timocrate; Prognostico; Protrettico; Dei simulacri; Della percezione; Aristobulo; Della musica; Della giustizia e delle altre virtù; Dei doni e della riconoscenza; Polimede; Timocrate, libri tre, Metrodoro libri cinque; Antidoro, libri due; Delle malattie, massime a Mitre; Callistola; Della potestà regale; Anassimene; Lettere. Per quel che riguarda lo stile di Epicuro, è impossibile formulare un giudizio complessivo, poiché ci sono pervenute solo poche sue opere: si può però ragionevolmente cedere la parola ai pensatori del passato che ebbero modo di leggerle tutte (o quasi) e di farsi un’idea sicuramente più completa della nostra circa il modus scribendi epicureo. Ad esempio, Diogene Laerzio encomia a più riprese lo stile di Epicuro, opponendosi alle graffianti critiche di Cicerone, ad avviso del quale Epicuro era «assolutamente privo dell’arte di chiarire ciò che vuole insegnare»262: critiche che erano in verità alquanto diffuse, come testimonia, tra gli altri, Sesto Empirico263. Ma non è da escludere che tanto l’encomio di Diogene quanto la stroncatura di Cicerone siano alimentati da una certa «partigianeria», ancorché di segno opposto: tanto più che, dalle opere superstiti di Epicuro, è possibile comprendere tanto il severo giudizio di Cicerone, quanto quello lusinghiero di Diogene, poiché il nostro autore passa con grande disinvoltura da uno stile all’altro. In alcuni casi, infatti, l’esposizione epicurea risulta brillante, piacevole e in grado di illuminare concetti impegnativi; in altri frangenti, invece, essa risulta un po’ pesante, ridondante e, talvolta, sterile. È molto suggestiva, a questo proposito, la proposta interpretativa avanzata da Schmid, il quale sostiene che i diversi stili adottati da Epicuro debbano essere messi in relazione alla funzione che gli scritti in questione dovevano avere264: così, gli scritti divulgativi rivolti al «grande pubblico» (quelli che, in una terminologia aristotelica, potremmo chiamare «essoterici») dovevano essere caratterizzati da uno stile alto e coinvolgente, mentre gli scritti «scientifici» destinati a una cerchia ristretta di esperti (gli scritti «esoterici», sempre in termini aristotelici) dovevano essere più stringati, privi di artifici retorici e attenti ai contenuti più che alla forma espositiva. Detto altrimenti, Epicuro selezionava lo stile a seconda dei destinatari dei suoi scritti: se si trattava di «profani», egli adottava uno stile piacevole, limpido e ricco di immagini (si pensi all’epistola rivolta a Meneceo), in maniera da far presa – secondo una tecnica già impiegata da Platone – sui lettori e da convincerli ad abbracciare la teoria epicurea; se invece i destinatari erano esperti di filosofia (e tale è sicuramente l’Erodoto dell’epistola sulla dottrina atomistica), allora Epicuro si esprimeva in maniera essenziale, risparmiando precisazioni superflue e badando soprattutto ai concetti, pur senza dimenticare l’importanza della rigorosità terminologica265.

12. Una farmacia sempre aperta: breve storia dell’Epicureismo. «Quando vuoi ridere, vieni a vedermi grasso e lucente, con la pelle curata, porco del gregge di Epicuro» 266.

Si è spesso rilevato che, se quella degli Stoici è una filosofia in fieri, destinata a subire variazioni di rilievo a seconda del periodo storico e dell’autore che l’ha abbracciata, quella di Epicuro è invece eternamente immobile, quasi come se fosse stata fissata una volta per tutte sulla pietra della città di Enoanda su cui la fece incidere Diogene. Per questa ragione, tra le numerose scuole filosofiche dell’antichità, «non ce n’è nessuna che sia stata dominata dal pensiero di un solo uomo come quella di Epicuro. Dopo di lui, nessuno ha più veramente significato»267. Già Numenio di Apamea poteva rilevare che «nessuno ha mai visto gli Epicurei porsi contro Epicuro in nessuna dottrina in alcun modo»268 e che «la scuola di Epicuro è simile ad uno Stato autentico, che non ha sedizioni e possiede un solo spirito e una sola volontà»269. Quella a cui l’Epicureismo andò incontro fu una vera e propria dogmatizzazione, peraltro già implicita nelle dottrine stesse di Epicuro e nella loro pretesa verità: se infatti si fa valere il principio del dogmatismo, non ha poi alcun senso sottoporre a critica o a revisioni la dottrina originaria. Per restare alla metafora che dà il titolo a questo scritto, possiamo dire che, nell’ottica tradizionale, quella epicurea è una farmacia che cambia insegna ma che, di fatto, vende sempre gli stessi farmaci, come se in definitiva le malattie che affliggono l’umanità fossero sempre le stesse. Eppure questa contrapposizione tra uno Stoicismo che cambia e un Epicureismo che resta perennemente immutato è troppo rigida e astratta per essere vera. Che il pensiero stoico sia andato incontro a una miriade di diverse interpretazioni e di notevoli modifiche (talvolta così radicali da rendere irriconoscibile la dottrina originale) nel corso della storia, è fuor di discussione: la stessa classica distinzione tra una «antica», una «media» e una «nuova» Stoà, con il progressivo ammorbidimento del rigorismo etico, è la prova più eclatante di questa proteiformità caratterizzante l’indirizzo stoico. Perfino lo Scetticismo vive fasi alterne, a seconda che prevalga la sua punta estrema (il pirronismo), o quella più attenuata (il cosiddetto «probabilismo accademico»). Ciò che forse, a tutta prima, potrebbe risultare inaspettato, e che mi propongo di mettere in luce, è che anche l’Epicureismo, dietro alla sua facciata sempre uguale, ha subito evoluzioni a tal punto vistose da mutarne completamente la fisionomia originaria; per usare un’espressione particolarmente cara ad Antonio Gramsci, potremmo dire che anche i seguaci di Epicuro hanno sempre cercato, pur con esiti altalenanti, di portare «all’altezza dei tempi» l’insegnamento del maestro. Così intesa, quella epicurea sarebbe dunque una farmacia che muta insegna e anche farmaci, inventandone di sempre nuovi, adatti a curare le nuove malattie che insorgono di epoca in epoca. Una farmacia, per di più, che non ha mai chiuso ma che, anche nelle epoche in cui meno si è fatto ricorso ai suoi farmaci, è rimasta aperta. Il verbo di Epicuro è stato conservato quale era in origine esclusivamente dai suoi immediati successori, che hanno istituito, per così dire, una «scolastica epicurea»: essi infatti, senza apportare alcuna innovazione al sistema del maestro, si sono limitati ad assicurarne una sempre maggiore diffusione anche oltre i confini della Grecia. Ciò è del resto provato dal fatto che i grandi nemici della dottrina epicurea – Plutarco e Cicerone –, quando attaccano i singoli pensatori che si definiscono «epicurei», non esitano ad estendere le loro offensive ad Epicuro stesso, dando per scontato che quanti si dichiarano suoi seguaci siano corifei fedeli del suo pensiero. Tanto Plutarco

nell’Adversus Colotem quanto Cicerone nel De finibus bonorum et malorum si scagliano contro la dottrina epicurea attraverso una sferzante requisitoria condotta contro dei meno noti sostenitori dell’Epicureismo, come se, in definitiva, attaccare Epicuro o i suoi poco originali successori fosse equivalente. Eppure non è difficile scorgere come, nei suoi sviluppi storici in età moderna, la filosofia epicurea sia stata impiegata in maniere spesso diversissime, talvolta inconciliabili: c’è stato chi vi ha ravvisato le avvisaglie di un pensiero materialista e critico, precursore della riflessione illuministica, ma c’è anche stato chi, in senso opposto e certo non senza vistose forzature, ha scorto nel verbo di Epicuro un’insuperabile arma per difendere la dottrina cristiana. Questo lento ma costante allontanamento dal pensiero del fondatore del Giardino dovette già avviarsi presso i suoi immediati successori, che con ogni probabilità accentuarono sempre più il momento del piacere – che Epicuro aveva inteso in termini esclusivamente negativi –, fino a identificarlo con la dissolutezza. Probabilmente, questi nuovi seguaci diedero sempre più peso al piacere cinetico, contribuendo al sorgere di quella communis opinio secondo cui Epicureismo sarebbe sinonimo di ricerca sfrenata di ogni tipo di piacere; un’opinione che si è trascinata fino ai giorni nostri e che riaffiora ogni qual volta etichettiamo come epicureo chi si abbandona anima e corpo alla dissolutezza più radicale. Ma chi furono, in concreto, questi successori di Epicuro? Con la morte di Epicuro, avvenuta nel 270 a.C., si presentò anche per il Giardino il problema che avevano già dovuto affrontare l’Accademia di Platone e il Liceo di Aristotele alla morte dei loro illustri fondatori: chi doveva assumere il ruolo di successore nella scuola? Dalle fonti, sappiamo con certezza che gli allievi più in vista di Epicuro erano soprattutto quattro: Metrodoro, Colote, Polieno ed Ermarco. Il primo di questi fu sicuramente il più fedele all’insegnamento originario del maestro e la leggendaria tradizione secondo cui non si sarebbe mai separato da Epicuro è da prendersi sul serio se riferita al modus philosophandi più che alla reale esperienza di vita: infatti, Metrodoro, che fu un accanito polemista, scrisse soprattutto in difesa delle dottrine epicuree, senza modificarne i contenuti, ma limitandosi a proteggerle dalle tante accuse che venivano mosse da più parti; dunque, interamente assorbito dalla difesa del maestro, Metrodoro ne avrebbe conservato intatto l’insegnamento. Lievemente diverso è il caso di Colote, il quale fu non meno di Metrodoro un amico carissimo di Epicuro, come è testimoniato dagli stessi vezzeggiativi con cui era chiamato dal maestro («Colotino» e «Colotuccio»270): tuttavia, il netto privilegiamento di Colote per la gnoseologia, che in un’ottica strettamente epicurea dovrebbe essere subordinata all’etica, può indurre a pensare a un allontanamento dagli insegnamenti originari del maestro o, per lo meno, a un suo completamento271; eppure rientra del tutto nella cornice epicurea l’attacco che Colote sferrò contro il platonismo e, in particolare, contro la dottrina delle Idee (già ampiamente bersagliata da Epicuro), contro la παιδεία filosofica e contro l’irrazionalismo dei miti platonici272. Quel che conta è che queste possibili novità introdotte da Colote in ambito gnoseologico non hanno neppure sfiorato l’edonistica, cosicché non è lecito supporre che egli abbia accentuato il momento di quel «piacere cinetico» stigmatizzato da Epicuro. Poiché Metrodoro e Colote morirono quando Epicuro era ancora in vita, fu designato suo successore – e dunque secondo «scolarca» del Giardino – Ermarco di Mitiliene, che però pare a sua volta non aver apportato alcuna novità di rilievo alla dottrina epicurea: a tal proposito, nella sua descrizione degli dèi, troviamo esposti in maniera fedelissima gli insegnamenti del maestro: gli dèi respirano, sono costituiti da atomi e vuoto, sono dotati di voce e parlano in greco, la suprema fra le lingue. Si tratta, è evidente, di un riassunto della dottrina teologica di Epicuro. Anche nel caso di Ermarco,

siamo ancora pienamente nell’alveo dell’insegnamento di Epicuro. Ciò è forse motivato anche dal fatto che questi autori erano personalmente legati al maestro e dunque non se la sentivano di modificarne l’impianto filosofico originario, in ossequio al quale avevano condotto la loro esistenza con Epicuro. Anche il terzo scolarca del Giardino – Polistrato – non si allontanò dagli ammaestramenti originari e si dedicò, col suo scritto Sul disprezzo irrazionale delle opinioni popolari273, ad un’accesa polemica – tipicamente epicurea – contro lo scetticismo e le sue minacce per l’esistenza, tema sul quale ci siamo già ampiamente soffermati e che, del resto, Polistrato stesso declina in maniera non particolarmente originale. I successivi scolarchi sono per noi poco più che semplici nomi, date le scarsissime testimonianze di cui siamo in possesso274: Ippoclide, Dionigi, Basilide, Protarco di Bargilia, Apollodoro, Zenone di Sidone, Fedro e Patrone. L’austero Cicerone ebbe modo di ascoltarli tutti e non è dunque impossibile che risalga a essi (o solo ad alcuni) l’accentuamento del momento cinetico del piacere, che concorrerebbe a fare dell’Epicureismo un «gregge di porci», secondo l’ironica, divertente e divertita al tempo stesso, espressione di Orazio. Ma queste sono solo supposizioni che non trovano riscontro nella realtà storica, anche alla luce del fatto che – dalla metà del I sec a.C. – si perdono le tracce della scuola di Epicuro: il Giardino sembra ormai del tutto vuoto e addirittura è venduto il suolo su cui esso sorgeva. Ciò non impedì, tuttavia, che il verbo epicureo si diffondesse con incredibile rapidità tanto verso Oriente (la città di Enoanda, sul cui ingresso Diogene iscrisse il verbo di Epicuro, era in Asia Minore) quanto verso Occidente, dove approdò anche a Roma. Qui, più di ogni altra filosofia, l’Epicureismo incontrò una decisa resistenza, poiché ritenuto assolutamente inconciliabile, nelle sue conclusioni estreme in ambito politico e religioso, con il «mos maiorum» dei Romani, che facevano della religione e della politica i pilastri della loro società, a tal punto da unirli insieme in una politica fondata sulla religione come «instrumentum regni»: nessuna corrente filosofica più dell’Epicureismo era tanto distante dalla vita pubblica di Roma, incentrata sull’armonia tra religione e politica (si ricordi, per inciso, che Cicerone era al tempo stesso uomo politico e religioso) e su una partecipazione attivissima di buona parte dei cittadini; proprio perché, come è stato giustamente sottolineato, «la religione antica non è se non una parte dell’ordine sociale complessivo che abbraccia ugualmente dèi e uomini»275, l’Epicureismo non poteva che essere stigmatizzato come teoria non soltanto empia, ma anche pericolosa per l’ordine politico. Questo punto – centrale per comprendere l’accanimento dei Romani contro l’Epicureismo – è stato colto in modo particolarmente efficace da Hegel, il quale opera una fine distinzione tra la «religione della bellezza» dei Greci e la «religione della finalità» dei Romani: dal momento che la principale caratteristica di quest’ultima risiede nell’immediata identificazione del divino con il fine politico, non è difficile capire perché l’Epicureismo fosse visto, a Roma, come la dottrina più insidiosa, prima che subentrasse il cristianesimo276. Ben si capisce, in quest’ottica, perchè i primi due pensatori (Alceo e Filisco) che tentarono di importare il verbo di Epicuro a Roma, furono addirittura banditi dall’Urbs: e le cause del loro allontanamento sono state significativamente indicate nell’alta considerazione dei piaceri che essi propugnavano. Ma ciò non vuol necessariamente dire che essi fossero alfieri di un edonismo sfrenato: infatti, per lo stomaco raffinato e morigerato della società romana, lo stesso edonismo catastematico di Epicuro era cibo troppo pesante; l’austerità di Catone non era certo un episodio del tutto isolato. Pur incontrando una ferma resistenza, anche a Roma l’Epicureismo riuscì in qualche

misura ad attecchire: come è stato fatto notare, «la filosofia epicurea faceva il maggior numero di proseliti nelle file dei novatori, degli anti-tradizionalisti e con la sua critica spietata alla religione ufficiale assumeva anche la funzione di fermento politico di primaria importanza»277. E nonostante gli sforzi di Cicerone per contrastarne la diffusione, l’Epicureismo – dopo le iniziali difficoltà – andò sempre più affermandosi anche per via dei bisogni insorti in un’epoca inquieta e priva di certezze: «Fra tutte le filosofie che venivano introducendosi e sviluppandosi in Roma, la filosofia epicurea (ce lo dice, con suo rammarico, Cicerone) era quella che prendeva maggiore e più rapida diffusione, perché trovava esatta corrispondenza nei bisogni dell’epoca. Con la sua spiegazione materialistica dell’universo, diretta a placare le passioni, a spegnere il dolore, a togliere di mezzo il timore degli dèi e il timore della morte, essa riusciva straordinariamente accetta a quelle generazioni che erano agitate dal torbido infuriare delle passioni pubbliche e private, oppresse dal terrore delle guerre civili, trafitte dall’angosciosa incertezza del domani»278. In particolare, nell’introduzione dell’Epicureismo a Roma, ebbe un certo successo Amafinio, autore di un trattato finalizzato soprattutto alla divulgazione delle dottrine di Epicuro e, secondo il severo giudizio di Cicerone, sovraccarico di «seducenti lusinghe del piacere»279. Con questo pensatore ci si para dinanzi una curiosa contraddizione: come può egli essere un mero divulgatore dell’Epicureismo originario e, al contempo, tessere le lodi del piacere? L’una cosa esclude l’altra, poiché Epicuro aveva a più riprese sostenuto che il vero piacere è puramente negativo e, precisamente, coincide con la rimozione del dolore. La contraddizione appare tuttavia, se non superata, almeno ridimensionata se teniamo presente, come nel precedente caso di Alceo e Filisco, la particolare mentalità della società romana, che pretendeva di fondarsi su quelle virtù assolutamente incrollabili tematizzate dagli Stoici, ai quali Cicerone stesso si richiama in sede etica: è dunque probabile che Amafinio si limitasse effettivamente a diffondere a Roma il messaggio originario dell’Epicureismo (senza puntare sul piacere cinetico), e che la stessa dottrina del piacere catastematico fosse troppo lasciva e dunque inaccettabile per i Romani. Pur contrastato da pensatori d’eccellenza come Cicerone, il verbo epicureo ottenne una sempre più ampia ricezione anche a Roma. Nella nostra penisola, inoltre, l’Epicureismo trovò un terreno di diffusione particolarmente fertile a Ercolano, nella villa di Calpurnio Pisone: qui si diffuse in una veste meno popolare e decisamente più aristocratica che a Roma, grazie all’apporto fornito da Filodemo di Gadara. Questi ebbe modo di frequentare direttamente lo scolarca Sidone ad Atene e, alla morte di quest’ultimo, si trasferì a Ercolano. L’innovazione della sua riflessione sta nell’aver aperto nuovi territori all’Epicureismo, soffermandosi in particolare sulla logica, sulla retorica, sull’economia e su questioni di filosofia molto tecniche e rimaste del tutto estranee alla divulgazione operata da Amafinio. Ma anche nel caso di Filodemo non ci sono giunte notizie di un accentuamento della dimensione edonistica: e lo stesso Lucrezio, col suo cantare in versi la dottrina di Epicuro, non vi apportò sostanziali novità, ma si limitò piuttosto a renderla meglio accettabile alla società romana grazie alla leggiadra forma della poesia. Addirittura il titolo che Lucrezio pone al suo poema, De rerum natura, è una copia latinizzata di quello della principale opera di Epicuro, Пερί φύσεως. L’obiettivo che il poeta si prefigge è la divulgazione (e non l’innovazione o l’ammodernamento) della filosofia epicurea, una divulgazione in vista della quale non c’è mezzo più efficace della poesia (che può

addolcire il gusto amaro della dottrina filosofica), nella convinzione che destinatari siano tutti gli uomini intesi come soggetti che devono essere liberati dall’angoscia di vivere e dai troppi turbamenti che li attanagliano. Così, dei sei libri che formano l’opera lucreziana, i primi due sono dedicati alla forza generatrice della natura e alla fisica epicurea; il terzo si occupa dell’antropologia di Epicuro e il quarto della sua teoria della conoscenza; il quinto analizza la mortalità del nostro mondo e il sesto, con cui l’opera si chiude, fornisce una spiegazione razionale dei fenomeni fisici, estromettendo la volontà divina; è stata a lungo considerata aporetica la chiusa dell’opera di Lucrezio, con il macabro ritratto della peste di Atene: non è da escludersi che il poema si dovesse in origine chiudere con ulteriori versi finalizzati a dimostrare come l’onnipotente verbo di Epicuro fosse addirittura in grado di rasserenare gli animi di fronte a tragedie quali la peste scatenatasi ad Atene. Quel che a noi più interessa è che, col suo poema didascalico, Lucrezio ribadisce ancora una volta l’universalismo del messaggio epicureo, rivolto a persone di ogni rango sociale e perfino alle donne: lo stesso ricorso al mito, che nel poeta è assai frequente e che Epicuro aveva condannato, dev’essere ricondotto al tentativo di «far colpo» sui lettori, guadagnando la loro simpatia attraverso l’impiego di una forma elegante e poeticamente elevata, tale da rendere più «digeribile» il sistema filosofico epicureo; e non è certo un caso se, all’inizio del quarto libro, il poeta si paragoni a un medico che, per far assumere al malato il poco piacevole (in quanto tale da stravolgere le convinzioni alle quali si è abituati) farmaco della filosofia, lo rende meno sgradevole sviluppandolo nei versi della poesia280. Ancora, la divinizzazione di Epicuro operata da Lucrezio nel poema non deve trarre in inganno, inducendo a pensare che egli si contraddica nella misura in cui ha messo da parte gli dèi tradizionali per venerarne uno nuovo: infatti, fare di Epicuro una sorta di divinità non significa tornare a una nuova forma di venerazione e di assoggettamento al divino; al contrario, vuol dire sostituire l’uomo agli dèi, secondo quella convinzione che sarà tematizzata – e non è certo un caso – da Marx e da Feuerbach, conformemente alla quale l’uomo è per l’uomo l’essenza suprema. Sembra dunque fuorviante – per usare un eufemismo – la lettura che dà Schmid, secondo cui Epicuro verrebbe a essere il «fondatore di una comunità quasi religiosa»281, sostituendosi egli stesso alle antiche divinità olimpiche. Si ricordi poi che la divinizzazione del fondatore di una corrente filosofica non era stata soltanto una «trovata» degli Epicurei: anche lo scettico Timone di Fliunte aveva elogiato come un dio il maestro Pirrone («che solo fra gli uomini è guida alla stregua di un dio»282); una prassi che forse, in generale, può essere vista come volontà di opporsi alla divinizzazione del sovrano – inteso come «salvatore», «benefattore» e «dio manifesto» – che, tipica delle monarchie orientali, aveva preso a diffondersi anche in Grecia nell’Età ellenistica, trovando nella «prosternazione» (προσκύνησις) di fronte al dio-sovrano la sua espressione più insopportabile: in opposizione alla quale varrà sempre il gesto spregiudicato di Diogene il Cinico, che, ben lungi dal prosternarsi dinanzi ad Alessandro Magno, gli chiese seccato di farsi più in là perché gli copriva il sole. Tornando al problema dell’eredità filosofica di Epicuro, da quanto abbiamo detto, risulta chiaro come tutti gli Epicurei romani si trovarono impegnati in una battaglia così ardua nel tentativo di diffondere la voce del maestro greco che non rimase loro alcuna energia intellettuale per tentare di modificarla. L’Epicureismo in sé era dunque inaccettabile per la società romana, anche se a sancirne il tramonto fu soprattutto l’affermarsi dell’insegnamento cristiano. Ancora la vedova di Traiano, Plotina, faceva parte della scuola epicurea di Atene e indirizzò una lettera all’imperatore Adriano, chiedendogli di concedere determinati privilegi agli Epicurei, tra i quali la libera scelta di un successore – anche non romano – alla direzione della scuola. Ora che abbiamo cursoriamente passato in rassegna i continuatori dell’opera di Epicuro, il mistero,

più che risolto, pare enigmaticamente infittirsi: a nessuno di essi, infatti, risulta imputabile l’accusa di aver spostato l’accento dal piacere catastematico a quello cinetico; tutti sono rimasti saldamente fedeli a Epicuro, mantenendo l’egemonia della prima forma di piacere sulla seconda. Eppure, se bisogna – come non si stanca mai di ripetere Epicuro – dirigere la propria attenzione solo su quei piaceri consistenti nella cessazione del dolore, non si capisce come quella lunga tradizione che da Cicerone, passando per il Medioevo, giunge fino a Hegel abbia potuto condannare l’Epicureismo come sfrenata e dissoluta ricerca di piaceri, identificando di fatto l’etica epicurea con la gastrologia di Archestrato, quando Epicuro stesso mette le mani avanti, sostenendo espressamente – anche per quel che concerne il piacere fisico – che: «allorché affermiamo che il piacere è il fine, non facciamo riferimento ai piaceri dei dissoluti e a quelli che risiedono nel godimento dei sensi – come ritengono alcuni ignoranti che non sono d’accordo oppure che interpretano malamente –, ma il non soffrire nel corpo né turbarsi nell’anima. Non sono infatti le bevute e i continui bagordi ininterrotti, né il godimento di ragazzini e donne, né il gustare pesci e altre cibarie, quante ne porta una tavola riccamente imbandita, che possono dar luogo a una vita piacevole, bensì il ragionamento assennato, che esamina le cause di ogni scelta e repulsa, e che elimina le opinioni per effetto delle quali il più grande turbamento attanaglia le anime»283. Pare allora difficile intendere le parole di Cicerone quando, accecato d’ira nei confronti della dottrina epicurea, fa riferimento a «quei molli e voluttuosi piaceri che egli stesso [Epicuro] viene enumerando senza arrossire»284, o quando va sostenendo – con un’immagine forte ma che certo rende bene l’idea – che annoverare il piacere tra le virtù equivale a porre una prostituta in mezzo a signore per bene285: dobbiamo supporre che, in altri luoghi della sua produzione, il nostro autore abbia tradito il proprio assunto iniziale della necessità di soddisfare solo i piaceri naturali e necessari? O piuttosto dobbiamo pensare a un fraintendimento da parte del pur brillante dossografo Cicerone? Possiamo fidarci di chi, a proposito di Epicuro, afferma apertis verbis che «non pensa mai niente di bello, niente di onorevole»286 e che si domanda «quale affermazione ha fatto che avesse non dico dignità filosofica ma almeno un minimo di comune buonsenso? »287 Se così fosse, non si spiegherebbe però perché Cicerone non sia un unicum nel panorama della filosofia, ma sia piuttosto solo uno tra i tanti a muovere simili accuse al filosofo del Giardino: Plutarco e i Cristiani non fanno che ribadire, con toni inaspriti, le accuse già elaborate da Cicerone. Ciò rende piuttosto improbabile ammettere che la condanna del piacere sia dovuta alla particolare società in cui si vive, poiché la società di Cicerone era certo diversa da quella di Plutarco e da quella dei Cristiani. Da dove trarrà mai origine questa condanna universale dell’edonismo epicureo? Come dicevamo, il problema potrebbe risolversi riconoscendo un progressivo allontanamento da parte degli Epicurei dall’insegnamento originario del loro maestro, che tanto aveva insistito nel mettere fuori gioco i piaceri cinetici. Mutatis mutandis, i nuovi filosofi del Giardino avrebbero sempre più riabilitato questi ultimi piaceri, arrivando addirittura ad anteporli a quelli catastematici. Ma abbiamo mostrato come nessuno dei successori di Epicuro, per quel che ne sappiamo, ha compiuto una simile operazione: non è però inverosimile che, al di fuori della «scuola» epicurea, la gente comune o, comunque, quanti avevano una conoscenza indiretta dei testi originari, abbiano distorto il vero messaggio di Epicuro, volendo scorgere nella sua filosofia un invito a godere indistintamente di tutti i piaceri, senza far ricorso ad alcun calcolo razionale. Lo stesso poeta Orazio, facendo professione di Epicureismo, si qualifica come «de Epicuri grege

porcus»288, suffragando di fatto – anche se con intenti comici e non polemici – l’avvenuta identificazione (almeno a livello popolare) di Epicureismo ed edonismo dissoluto. In questa prospettiva, quando l’Arpinate attacca l’edonistica epicurea, non sta allora attaccando frontalmente Epicuro o i suoi numerosi successori, come crede, ma piuttosto i tanti filosofastri che vollero vedere nella sua edonistica la più totale sfrenatezza, dimentichi della distinzione capitale tra piaceri cinetici e piaceri catastematici. Una mistificazione a cui peraltro allude già lo stesso Epicuro (e che dunque doveva già essere stata compiuta nella sua epoca) nel testo che abbiamo poc’anzi citato, quando allude ad «alcuni ignoranti che non sono d’accordo oppure che interpretano malamente». Questo è avvalorato dalla preziosa testimonianza di Seneca, secondo cui ben presto tra le file dell’Epicureismo avrebbero trovato rifugio viziosi di ogni sorta, credendo di trovare nell’Epicureismo una legittimazione al loro agire sfrenato: «Non è dunque Epicuro a spingerli alla lussuria ma, dediti come sono ai vizi, essi nascondono la loro incontinenza tra le pieghe d’una filosofia e convergono verso il luogo in cui sperano di sentir pronunciare un elogio del piacere. Non sanno valutare la schietta frugalità ed asciuttezza del piacere di Epicuro (tale lo reputo, per Ercole), ma si precipitano sulla parola nuda e cruda, facendone un pretesto ed una maschera delle proprie libidini»289. Addirittura il giovane Agostino di Ippona, prima della conversione al cristianesimo, confessa di essere stato tentato dall’Epicureismo, per via della voluttà dei sensi a cui la filosofia di Epicuro, a suo dire, concedeva piena dignità290. Cicerone, che pure conosceva nello specifico la dottrina di Epicuro e la sua condanna dei piaceri cinetici, non potè resistere, in vista dei suoi fini di difesa della rigorosa tradizione romana, alla tentazione di identificare l’Epicureismo «dotto» con quello «di strada»: con tale operazione, ebbe gioco facile a mostrarne l’inaccettabilità; e non cadrebbe in errore chi lo accusasse di aver confutato non l’Epicureismo, bensì la vulgata epicurea. In questa strumentalizzazione, spesso finalizzata a screditare il verbo epicureo, ha poi giocato un ruolo fondamentale il cristianesimo, foriero di valori diametralmente opposti e, per ciò, incompatibili con quelli della dottrina di Epicuro: là dove questi esalta il piacere, i cristiani lo condannano come vano distoglimento dall’unico vero bene, Dio; inoltre gli dèi di Epicuro, insensibili a tutto quel che accade su questa terra, sono un’autentica bestemmia se raffrontati al Dio cristiano, onnipotente, provvidente e tale da farsi uomo per redimere gli uomini. Insomma, si può dire che non c’è filosofia pagana che più si discosti dal cristianesimo e verso la quale esso abbia dimostrato maggiore avversione: il cristianesimo, che in misura massiccia si è sostanziato della filosofia di Platone e di Aristotele, rivela nei confronti dell’Epicureismo un’ostilità che trova solo in Cicerone e in Plutarco i suoi più agguerriti concorrenti. Le parole di Clemente Alessandrino, quando discute le posizioni dei filosofi – «soltanto Epicuro dimenticherò e volentieri, il quale crede, nella sua assoluta empietà, che nulla stia a cuore a Dio»291 –, possono essere assunte a modello del conflittuale rapporto tra cristianesimo ed Epicureismo: un rapporto preferibilmente giocato sulla dimenticanza intenzionale o, tutt’al più, sulla strumentalizzazione ai fini della svalutazione. Secondo la metafora a cui fa ricorso Clemente, la Rivelazione di Cristo è un grande fiume in cui confluiscono i due affluenti del l’Antico Testamento e della filosofia greca, a patto che da quest’ultima venga rimossa la punta più erronea ed esecrabile: l’Epicureismo, che si distingue dalle restanti filosofie della Grecia perché non solo non precede e

non presente l’avvento di Cristo, ma addirittura sembra tracciare una strada opposta e assolutamente inconciliabile con esso. In una prospettiva per cui «intra tutte le bestialitadi quella è stoltissima, vilissima e dannosissima, chi crede dopo questa vita non essere altra vita»292, l’Epicureismo non poteva che trovare un fronte unitariamente accanito e intransigente: pertanto, in quanto «corifeo di ateismo»293 e deificatore del piacere294, il filosofo del Giardino è, più di ogni altro pensatore greco, inconciliabile con la Rivelazione cristiana, con un’etica di svalutazione di questo mondo, con la concezione teistica di un Dio personale col quale dialogare, e con l’ammissione dell’immortalità dell’anima. Le accuse che muove Agostino al nostro autore sono spietate: «filosofo delirante […]; amante della vanità, non della sapienza: lui, che perfino gli stessi filosofi chiamarono “maiale”; lui che identificò il sommo bene con il piacere del corpo, ebbene questo filosofo essi chiamarono “maiale che si voltola nel fango della carne”»295. Non stupisce quindi se agli scritti di Epicuro, in età medievale, toccò l’ingrata sorte di essere distrutti dal primo all’ultimo, come ricorda l’imperatore Giuliano296. Questa transizione dalla filosofia epicurea (assunta emblematicamente come massima espressione del pensiero «pagano») al messaggio cristiano è al centro del celebre romanzo in due volumi Mario l’epicureo, pubblicato nel 1885 dal filologo e poeta inglese Walter Pater; l’opera narra le vicende di un giovane aristocratico che, vissuto all’epoca di Marco Aurelio, trascorre la sua giovinezza sotto l’influenza decisiva della filosofia epicurea, per poi entrare a contatto con il cristianesimo che si va diffondendo nelle catacombe. La figura di Mario è centrale per comprendere i tratti dell’avvento della religione universale cristiana nella cultura romana e la conseguente sconfitta dell’Epicureismo, destinato a tornare in vita nell’Età umanistica dopo il lungo silenzio medievale. Non riuscendo a lenire le sue sofferenze tramite i farmaci epicurei dell’atarassia e del piacere, Mario intraprende la via della semplicità cristiana, di cui apprezza soprattutto la prospettiva fortemente umanistica e contrassegnata da qualità morali sconosciute al paganesimo; la superiorità morale del vivere cristiano sembra essere il motivo determinante per abbandonare la filosofia pagana e sposare il pensiero cristiano. E dietro la cornice narrativa, non è certo difficile scorgere l’antico motivo plutarcheo dell’impossibilità di vivere felicemente in accordo coi dettami della filosofia epicurea. L’Epicureismo diventa il principale «antagonista del cristianesimo» – che nel Medioevo giungerà a condannarlo senza mezze misure –, e resterà tale «anche quando l’intera compagine, coerentemente formata, del suo contenuto dottrinale non era più un fattore operante della vita spirituale, e le sue più note espressioni letterarie, o anche soltanto l’uno o l’altro degli argomenti in esse ricorrenti, dovettero mantenere sempre un valore esemplare per le dispute della teologia o filosofia cristiana con il “mondo”»297. Ma era davvero incompatibile col verbo di Cristo quello di Epicuro? A cavallo tra il XII e il XIII secolo d. C., il filosofo cristiano Guglielmo di Conches, nei suoi scritti La filosofia del mondo e il Dragmaticon Philosophiae, concepisce il mondo come creato da Dio (restando in ciò pienamente nell’alveo della tradizione cristiana) e, al tempo stesso, come temporale e materialmente composto di «elementi»: e benché Guglielmo attacchi a più riprese la dottrina di Epicuro, smascherandone le contraddizioni e gli errori (ancora una volta mantenendosi fedele alla linea cristiana), ciò non di meno egli sostiene che nessuna dottrina filosofica è così falsa da non contenere anche qualcosa di vero. In questo modo, egli può far sua la concezione atomistica epicurea intendendo gli «elementi» di cui è composto il mondo come parti ultime e indivisibili della materia, alle quali Guglielmo attribuisce anche qualità come il caldo e il freddo, il secco e l’umido, riconoscendo tra l’altro che, lungi dall’essere eterni (come invece li riteneva Epicuro), sono il frutto della creazione divina. Con

Guglielmo ci troviamo allora dinanzi a quella che possiamo definire una falla nella compatta dottrina cristiana dell’età medievale: per la prima volta l’Epicureismo, di cui pure venivano condannati gli errori principali, veniva posto – almeno in alcuni suoi spunti – al servizio della «filosofia cristiana». Si trattava di un tentativo destinato a essere ripreso da pensatori di epoche successive: così, infrangendo la tradizione imperante lungo il Medioevo e spingendosi ben oltre le timide aperture del medievale Guglielmo, l’umanista Lorenzo Valla (1407-1457) propugna arditamente, nell’opera De vero bono (1432), la compatibilità tra Epicureismo e cristianesimo, muovendo dalla constatazione che il Paradiso cristiano, inteso come «regno del piacere» («Paradisium voluptatis»), non è che la compiuta realizzazione – ancorché ultraterrena – dell’edonismo epicureo. Il fatto stesso che, al momento del Giudizio Universale, sia previsto il ricongiungimento delle anime coi propri corpi, affinché godano di una piena beatitudine oppure soffrano eternamente, non è forse quanto di più compatibile possa sussistere tra la dottrina dei Cristiani e quella di Epicuro (a patto, naturalmente, che al «piacere terreno» venga anteposto quello «celeste» del Regno dei cieli, superiore perché eterno)? I Cristiani, dunque, possono secondo il Valla essere a pieno titolo epicurei, a patto che antepongano il «piacere del Paradiso» a quello della terra: ma si tratta ancora di Epicureismo? O non è piuttosto un’altra teoria, che col messaggio epicureo ha ben poco a che vedere? L’avvicinamento valliano tra il messaggio epicureo e quello cristiano non può non risultare forzato e avvalora quel noto principio formulato da Blaise Pascal, secondo il quale «non è in Montaigne, ma in me stesso che trovo tutto ciò che vedo in lui»298: detto altrimenti, è possibile (ma forse non così corretto) far dire a un autore tutto, o quasi, quel che vogliamo. Con intenti encomiastici simili a quelli del Valla, un altro umanista – Cosimo Raimondi – comporrà un coraggioso scritto significativamente intitolato Defensio Epicuri (risalente al 1430 circa), a segnalare la riscoperta e la rivalutazione del pensiero epicureo compiuta dalla modernità. Questa, in quanto conversione299 dai cieli della metafisica e della religione alle regioni terrene e alle loro verità, non poteva che ritrovare in Epicuro il suo remoto precursore, il «nuovo Pro meteo», colui che per primo aveva ingaggiato contro ogni metafisica e ogni religione una battaglia ininterrotta in favore della sensibilità, della terra e dell’uomo. È stato soprattutto Howard Jones, nel suo scritto fondamentale La tradizione epicurea, a mettere in luce come l’Epicureismo, dopo l’oblio medievale, torni a occupare un posto centrale nella nostra tradizione a partire dalla modernità300. Da quel momento, Epicuro entrerà a far parte a pieno titolo del pantheon dei filosofi più accreditati e, nei secoli a venire, costituirà il modello di pensatore e di uomo per intere generazioni: dal materialista ateo del Settecento Julien Offray de La Mettrie (1709-1751), che sarà autore di un fortunato Sistema di Epicuro (in cui si dichiara a gran voce seguace dell’edonistica epicurea e tenta addirittura di elaborare un «sistema» in perfetta sintonia con l’insegnamento materialista di Epicuro), fino al giovane Marx. Ma, nel corso della modernità, vi sarà anche chi, sulla scia del Valla, tenterà di fondare una sorta di «cristianesimo epicureo», scegliendo la via della possibile conciliazione tra il verbo di Epicuro e quello di Cristo: è questo il caso del sacerdote e filosofo Gassendi (1592-1655), che scorgerà un possibile superamento delle difficoltà fatte emergere (ma non risolte) dal sistema cartesiano nella filosofia atomistica di Epicuro, ancorché epurata dalle sue punte di maggiore incompatibilità con il cristianesimo: gli atomi di Epicuro sono, ad avviso di Gassendi, perfetti per spiegare i continui mutamenti a cui sono sottoposti i fenomeni fisici, facendo però salva l’immutabilità della materia stessa (gli atomi appunto). La riabilitazione che il sacerdote francese attua del grande nemico del cristianesimo nella sua opera Syntagma philosophicum passa tuttavia attraverso una serie di emendamenti e di espunzioni dell’atomismo classico: gli atomi, anziché essere

eterni quali erano per Epicuro, sono il frutto della creazione divina e, così come sono stati creati, possono anche essere annientati ad opera del Creatore; inoltre la dottrina atomistica, nella lettura gassendiana, non esclude il carattere teleologico della natura (che Epicuro aveva nettamente ripudiato) e, di conseguenza, la possibilità di risalire conoscitivamente da questa al suo Creatore. Inoltre Gassendi, accanto all’anima sensitiva, ammette l’esistenza di un’anima razionale dotata di immortalità (anche questo è, naturalmente, un punto che non troviamo in Epicuro). E l’interesse che Gassendi prova per la figura di Epicuro, oltre che per la sua filosofia, è testimoniata dal suo brillante scritto De vita et moribus Epicuri, in cui compie il tentativo di riabilitare la figura del filosofo greco difendendolo con passione dalle tradizionali accuse di dissolutezza morale, di empietà (che non sarebbe stata maggiore di quella di altri pensatori greci), di ignoranza e di avversione alla cultura. Al di là delle correzioni che il sacerdote apporta al sistema epicureo, importa rilevare che, grazie a lui, la filosofia di Epicuro poteva assumere per la prima volta la funzione di «ancilla theologiae», rivelandosi eccellente per rendere conto di questo mondo compatibilmente con l’esistenza di un Dio creatore. Ma quello di Gassendi, pur nella sua importanza capitale, resta un episodio del tutto marginale all’interno del cristianesimo, che continuerà a ravvisare nel volto di Epicuro i tratti del nemico da combattere più che le sembianze di un alleato con cui scendere a patti. Non è certo un caso se, nella sua critica demolitrice, il libertino Cyrano de Bergerac, in pieno XVII secolo, si richiama all’epicureismo di Gassendi e, al tempo stesso, matura un ateismo radicale (e ogni ateismo, come già abbiamo avuto modo di vedere, è solo parzialmente compatibile con la dottrina epicurea). Come esempio paradigmatico dell’ostilità tra religione cristiana ed Epicureismo, basti ricordare che ancora in piena Età illuministica il principe della Chiesa, cardinal Polignac, accademico di Francia e autore di un poema Antilucrèce, nel quale sottoponeva a una critica impietosa anche Bayle, lottava con tutte le sue forze «contro Lucrezio-Epicuro come la quintessenza di tutte le eresie e di tutti i modernismi nocivi»301. Del resto non possono non permanere forti dubbi (anche presso chi cristiano non è) circa la legittimità dell’operazione di Gassendi: in altri termini, proprio come nel caso di Valla, viene spontaneo chiedersi se il sistema gassendiano possa in definitiva dirsi epicureo, dal momento che dell’originale messaggio di Epicuro mantiene ben pochi punti, peraltro adattandoli (e non senza forzature) al messaggio cristiano. Abbiamo già accennato a come, pur di impedire la diffusione dell’Epicureismo, tanto i Cristiani quanto Cicerone e Plutarco non esitino a far esaltare ad Epicuro ciò che questi aveva espressamente condannato: abbuffate colossali, libagioni senza fine, insomma un turbinio di piaceri sfrenati e dissoluti. Che l’atarassia epicurea non si identifichi con l’apatia stoica, mera impassibilità di fronte alle passioni e ai desideri, non significa che essa coincida tout court con un totale abbandono alle inclinazioni sensibili, alla cui voce presta ascolto, talvolta la segue, spesso la ignora in nome della ragione. L’imitatio Epicuri caldamente consigliata dall’imperatore e filosofo stoico Marco Aurelio302 come sicuro antidoto ai mali dell’esistenza è una testimonianza significativa di come il verbo epicureo potesse trovare adepti anche al di fuori (soprattutto tra i tradizionali nemici stoici) della cerchia dei suoi seguaci in senso stretto; si aggiunga poi che lo stesso Marco Aurelio finanziò col denaro pubblico una cattedra di filosofia epicurea. Lo stesso Seneca, che mai nasconde la sua fede stoica, non esita ad attingere a piene mani dallo scrigno concettuale di Epicuro: e immaginando le possibili accuse di tradimento che potrebbero venirgli mosse dagli Stoici, si giustifica sostenendo che è sua abitudine addentrarsi «nell’accampamento altrui, non come disertore, ma come esploratore»303. E del resto la stessa idea senecana della filosofia come terapia ai mali dell’anima è sicuramente, nelle sue

linee essenziali, di sapore più epicureo che stoico. In una simile prospettiva di riabilitazione del filosofo del Giardino, nel III sec. d. C., Diogene Laerzio, nel ripercorrere per biografie la storia della filosofia greca, mostra una sorta di venerazione per Epicuro (solo a lui e a Platone dedica un libro intero delle sue Vite e dottrine dei più celebri filosofi), con la trattazione del quale si chiude l’opera: ciò ha indotto alcuni critici a ritenere che fosse un epicureo. In effetti, con atteggiamento degno di un seguace entusiasta più che di un disincantato storico della filosofia in senso moderno, Diogene Laerzio sembra fare con Epicuro ciò che Eusebio di Cesarea fa col cristianesimo: infatti, tutta la storia della filosofia, nell’ottica di Diogene, viene a configurarsi come una sorta di «praeparatio epicurea», ossia come un qualcosa di subordinato e funzionale ad Epicuro; similmente a come, per Eusebio, tutta la filosofia non era che una «praeparatio evangelica». In questa decisa riabilitazione del messaggio epicureo, Diogene si oppone fermamente alla sinistra fama a cui il verbo di Epicuro andava sempre più incontro soprattutto in forza dell’affermarsi della dottrina cristiana. Addirittura, Diogene Laerzio passa in rassegna le critiche che gli avversari muovevano ad Epicuro e tenta di smontarle una ad una. L’Epicureismo fu anche ereditato, specialmente per via del suo materialismo radicale, dal marxismo a partire da Marx stesso, il quale, come già abbiamo avuto modo di accennare, si laureò nel 1841 discutendo una tesi con la quale raffrontava Epicuro e Democrito, mettendo in luce la superiorità del primo per l’ampio spazio concesso alla prassi e all’attività umana, ancorché concepita soltanto dal punto di vista del singolo individuo. Il materialismo marxiano trova in Epicuro un suo ineludibile punto di riferimento, anche se spesso trascurato dagli interpreti: questi ultimi hanno insistito troppo enfaticamente sul lato feuerbachiano della concezione materialistica di Marx, scordandosi fatalmente dell’importanze del pensiero greco per la genesi del pensiero marxiano. Senza entrare troppo nello specifico, ci limitiamo a sottolineare come il tratto dell’Epicureismo che più colpì il giovane Marx fu l’insistenza sulla vita concreta e sulla prassi umana, in opposizione agli astratti sistemi di Aristotele e, soprattutto, di Platone, che, pur così perfetti nella loro onnicomprensività, sembravano aver trascurato la vita reale. Abbiamo anche già accennato a come Marcuse scorga nell’edonismo epicureo una prima protesta, anche se inadeguata, contro le storture prodotte dal sistema sociale. Un caso particolarmente significativo di unione tra marxismo ed Epicureismo è quello del filosofo e critico francese Jean Fallot, che, nel suo libro del 1951 Il piacere e la morte nella filosofia di Epicuro304, opera un’attenta lettura dei testi epicurei trovando in essi la risposta alle inquietudini filosofiche e personali che lo travagliano, rivelando per Epicuro quella che nell’introduzione all’opera Sebastiano Timpanaro etichetta come passione «paragonabile all’amore che molti uomini del nostro tempo, anche marxisti, hanno per Freud come “liberatore”, al di là dei dubbio dei dissensi su singoli punti della dottrina freudiana». Fu soprattutto nell’Ottocento, in forza dell’affermarsi di quel «positivismo» che guardava ogni cosa col distacco proprio della scienza, che presero a fiorire gli studi filologici su Epicuro e sulla sua dottrina, nel tentativo di collocare il nostro autore nel suo tempo e in rapporto alle altre scuole a lui contemporanee: nel 1887 venne pubblicata a Lipsia la monumentale opera di Hermann Usener dal titolo Epicurea, nella quale venivano raccolte tutte le testimonianze, gli scritti, i frammenti – quelli allora conosciuti – di Epicuro, in un grandioso lavoro filologico destinato a orientare tutti gli studi successivi. Con questa rapida ricognizione dei molteplici sviluppi storici del pensiero epicureo (ricognizione che non avanza certo pretese di esaustività, anche alla luce del fatto che la trattazione della storia

dell’Epicureismo richiederebbe essa stessa almeno un libro) intendiamo chiudere questo lavoro, sperando di aver restituito il più possibile al lettore la voce di Epicuro, senza troppi fraintendimenti e, al tempo stesso, senza l’arrogante presunzione di comprendere l’autore meglio di quanto egli stesso non si fosse compreso. Se poi siamo anche riusciti a rasserenare l’animo del lettore tramite l’esposizione del pensiero epicureo, non possiamo che esserne felici, alla luce del paragone tra medicina e filosofia sul quale Epicuro stesso ha costruito il proprio sistema: «come la medicina non ha nessuna utilità se non espelle le malattie dal corpo, così non l’ha nemmeno la filosofia, se non espelle il turbamento dall’anima»305.

Bibliografia. Sulla vita di Epicuro. Diogenes Laertius, Vitae Philosophorum, a cura di M. Marcovich, Bibliotheca Teubneriana, Stuggart 1999, vol. I. L’intero libro X dell’opera è dedicato a Epicuro. Dell’opera laerziana, sono attualmente disponibili due complete traduzioni in lingua italiana: M. Gigante (a cura di), Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Laterza, Roma-Bari 1962; Tea, Milano 19914. G. Girgenti – I. Ramelli (a cura di), Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, presentazione di G. Reale, testo greco a fronte, Bompiani, Milano 2005. Una storica rivisitazione della vita e degli insegnamenti di Epicuro, determinante per la rinascita dell’atomismo seicentesco, è quella di Pierre Gassendi, De Vita et moribus Epicuri libri octo, Lugduni, apud Guillelmum Barbier 1657; tr. fr., Vie et moeurs d’Épicure, tr. par Silvie Taussig, Paris, Presses Universitaires de France 2001. Ricordiamo inoltre A. Momigliano, Su alcuni dati della vita di Epicuro, «RFIC» 14, 1935, pp. 302-316, e G. Coppola, Vita di Epicuro, Garzanti, Milano 1942. Glossario epicureo e Indice dei nomi. H. Widmann, Beiträge zur Syntax Epikurs, Stuttgart-Berlin, W. Kohlhammer 1935. H. Usener, Glossarium Epicureum, edendum curaverunt M. Gigante et W. Schmid, Edizioni dell’Ateneo e Bizzarri, Roma 1977. L. Alfano Caranci, L’Atomo nel lessico di Epicuro e di Lucrezio, Loffredo, Napoli 1984. J.-F. Balaudé, Le vocabulaire d’Épicure, Ellipses, Paris 2002. Un fondamentale Index nominum si trova sempre in H. Usener, Epicurea, cit., pp. 399-420. Repertori bibliografici. Un vasto panorama bibliografico su Epicuro e l’epicureismo si troverà in: Association Guillaume Budé, Actes du VIII Congrès (Paris, 510 avril 1968), Societé d’Édition Les Belles Lettres 1969, Paris, pp. 93-168. M. Isnardi Parente, voce Epicuro in V. Mathieu (a cura di), Questioni di storiografia filosofica, Editrice La Scuola, Brescia 1975, pp. 359 ss. H. Usener, Glossarium Epicureum, edizione italiana con integrazioni a cura di M. Gigante e W. Schmid, Edizioni dell’Ateneo e Bizzarri, Roma 1977, pp. XVII-XLVIII. H. J. Mette, Epikuros 1963-1978, in «Lustrum», 21 (1978), pp. 45-114; 22 (1979), pp. 109-114; 26 (1983), pp. 5-6: l’aggiornamento bibliografico si prolunga, nell’ultimo numero della rivista, fino all’anno 1983. F. Ueberweg – H. Flashar, Gundriss der Geschichte der Philosophie. Band 4: Die Hellenistische Philosophie. 4/1: Von M. Erler, Epikur? Die Schule Epikurs? Lukrez, Schwabe & Co. AG Verlag, Basel 1994, pp. 38-43; 53-61; 72-74; 120-125; 170-187; 195-202. Altre opere consultate. Agostino, Confessiones; tr. it. Confessioni, Garzanti, Milano 2004. D. Alighieri, Convivio, Rizzoli, Milano 1993. D. Alighieri, Inferno, La Nuova Italia, Firenze 1955, a cura di N. Sapegno. Aristotele, De anima; tr. it. Anima, Bompiani, Milano 2001, a cura di G. Movia. Aristotele, De caelo; tr. it. Il cielo, Rusconi, Milano 1999, a cura di A. Jori. Aristotele, Etica nicomachea, Bompiani, Milano 2000. Aristotele, Fisica, in Opere, Laterza, Roma-Bari 1973. Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano 2002, a cura di G. Reale. Aristotele, Politica, Laterza, Roma-Bari 2002, a cura di R. Laurenti. Atomisti antichi. Testimonianze e frammenti, Bompiani, Milano 2001, a cura di M. Andolfo. M. Aurelio, I ricordi, VII, 64; XI, 41, Einaudi, Torino 2003. P. Bayle, Dictionnaire historique et critique, alla voce «Epicuro», 1706; tr. it. Dizionario storico-critico, 2 voll., Laterza, Roma-Bari 1976, a cura di G. Cantelli. J. Bentham, Introduction to the Principles of Morals and Legislation, 1789; tr. it. Introduzione ai princìpi della morale e della legislazione, U.T.E.T., Torino 1998. E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, 1959; tr. it. Il principio speranza, Garzanti, Milano 2005, a cura di R. Bodei. E. Bloch, Über Karl Marx, 1968; tr. it. Karl Marx, Il Mulino, Bologna 1972, a cura di R. Bodei. Cicerone, De amicitia; tr. it. L’amicizia, Newton Compton, Roma 1993. Cicerone, De divinatione; tr. it. Della divinazione, Garzanti, Milano 2005. Cicerone, De fato; tr. it. Il fato, Garzanti, Milano 2002. Cicerone, De finibus bonorum et malorum; tr. it. I termini estremi del bene e del male, in Opere politiche e filosofiche di M. Tullio Cicerone, U.T.E.T., Torino 1988, a cura di N. Marinone. Cicerone, De natura deorum; tr. it. La natura divina, Rizzoli, Milano 1994, a cura di C. M. Calcante.

Cicerone, De oratore; tr. it. Dell’oratore, in Opere retoriche, U.T.E.T., Torino 1976, vol. I, a cura di G. Norcio. Cicerone, Tusculanae disputationes; tr. it. Tuscolane, Mondadori, Milano 1995. Clemente Alessandrino, Il Protrettico, in Il Protrettico. Il Pedagogo, U.T.E.T., Torino 1971, a cura di M.G. Bianco. Clemente Alessandrino, Gli Stromati, Edizioni Paoline, Milano 1985, a cura di G. Pini. F. Decleva Caizzi, Timone di Fliunte: i frammenti 74, 75, 76 Diels, in La storia della filosofia come sapere critico. Studi offerti a Mario Dal Pra, Franco Angeli, Milano 1984, pp. 92-105. J. Derrida, La pharmacie de Platon, 1968; tr. it. La farmacia di Platone, Jaca Book, Milano 1985, a cura di R. Balzarotti. W. Dilthey, Das Wesen der Philosophie, 1907; tr. it. L’essenza della filosofia, in Critica della ragione storica, Einaudi, Torino 1994, a cura di P. Rossi, pp. 387-487. G. Droysen, Geschichte des Hellenismus, 2 voll., Leipzig 1836-1843. Eraclito, Tutti i frammenti, Le Monnier, Firenze 1969, a cura di B. Salucci e G. Gilardoni. Giovenale, Saturae; tr. it. Satire, Rizzoli, Milano 1976. G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, 1807; tr. it. Fenomenologia dello spirito, Rusconi, Milano 1995, a cura di V. Cicero. G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Religion, 1832, a cura di G. Lasson, 2 voll.; tr. it. Lezioni sulla filosofia della religione, Laterza, Roma-Bari 1983, 3 voll., a cura di E. Oberti e G. Borruso. G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie [ed. or. 1842], in Id., Vorlesungen. Ausgewählte Nachschriften und Manuskripte, a cura di P. Garniron e W. Jaeschke, F. Meiner, Hamburg 1986. G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, 1837; tr. it. Lezioni sulla filosofia della storia, La Nuova Italia, Firenze 1967, a cura di G. Calogero e C. Fatta, 2 voll. M. Heidegger, Sein und Zeit, 1927; tr. it. Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976, a cura di P. Chiodi. D. Hume, Natural History of Religion, 1757; tr. it. Storia naturale della religione, Laterza, Roma-Bari 1999. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, 1781-1787; tr. it. Critica della ragion pura, Laterza, Roma – Bari 2000. F.A. Lange, Geschichte des Materialismus und Kritik seiner Bedeutung in der Gegenwart, 1866; tr. it. Storia del materialismo, Monanni, Milano 1932, 2 voll., a cura di A. Treves. Lattanzio, Divinae institutiones, in Divinae institutiones. De opificio Dei. De ira Dei, Sansoni, Firenze 1973, a cura di U. Boella. G. Leopardi, Canti, Mondadori, Milano 1987, a cura di G. Ficara. Luciano di Samosata, Dialoghi, U.T.E.T., Torino 1995, a cura di V. Longo, 3 voll. Lucrezio, De rerum natura; tr. it. Il poema della natura, Zanichelli, Bologna 1941, 2 voll., a cura di P. Parrella. H. Marcuse, On Hedonism, 1938, in W. Schirmacher, German 20th-Century Philosophy: The Frankfurt School, Continuum, New York 2000. J. S. Mill, Utilitarism, 1863; tr. it. Utilitarismo, Cappelli, Bologna 1981, a cura di M. Musacchio. R. Mondolfo, L’infinito nel pensiero dei Greci, Le Monnier, Firenze 1934. M. Montaigne, Apologie de Raymond Sebond, 1588; tr. it. Apologia di Raymond Sebond, Bompiani, Milano 2004, a cura di D. Fusaro e S. Obinu. M. Montaigne, Essais, 1588, I, 50.; tr. it. Saggi, 2 voll., Adelphi, Milano 1996, a cura di F. Garavini. G.E. Moore, Principia ethica, 1903; tr. it. Bompiani, Milano 1972, a cura di N. Abbagnano e G. Vattimo. F. Nietzsche, Die fröhliche Wissenschaft, 1882; tr. it. La gaia scienza, Adelphi, Milano 2001, a cura di G. Colli e di F. Masini. F. Nietzsche, Der Wanderer und sein Schatten, 1880; tr. it. Il viandante e la sua ombra, in Umano, troppo umano, Adelphi, Milano 1994, a cura di S. Giametta. Orazio, Tutte le opere, Salerno Editrice, Roma 1993, a cura di L. Paolicchi. E. Paratore, La letteratura latina dell’età repubblicana e augustea, Sansoni-Accademia, Firenze-Milano 1969. L. Pareyson, Ontologia della libertà, Einaudi, Torino 2000, a cura di G. Riconda e G. Vattimo. B. Pascal, Pensées; tr. it. Pensieri, Bompiani, Milano 2003, a cura di A. Bausola. W.H. Pater, Marius The Epicurean, 1885; tr. it. Mario l’epicureo, Rizzoli, Milano 2001. Platone, Tutti gli scritti, Bompiani, Milano 2000, a cura di G. Reale. Plutarco, Moralia, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 1989, a cura di G. Pisani. G. Reale, La filosofia di Seneca come terapia dell’anima, Bompiani, Milano 2003. W. Robertson Smith, The Religion of the Semites (Burnett Lectures, 1888-1889), Edinburgh 1889. J. Rohls, Geschichte der Ethik, 1991; tr. it. Storia dell’etica, Il Mulino, Bologna 1995. A. Ronconi, Da Lucrezio a Tacito, Vallecchi, Firenze 1968. J. P. Sartre, L’être et le néant, Paris 1943; tr. it. L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 2002, a cura di G. Del Bo. A. Schopenhauer, Über die vierfache Wurzel des Satzes vom zureichenden Grunde, 1813; tr. it. La quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, Guerini, Milano 1990, cura di A. Vigorelli. Seneca, Tutte le opere, Bompiani, Milano 2000, a cura di G. Reale.

Sesto Empirico, Contro i matematici, Laterza, Roma-Bari 1972, a cura di A. Russo. W. Shakespeare, Hamlet; tr. it. Amleto, Rizzoli, Milano 2003, a cura di G. Baldini. B. Spinoza, Ethica more geometrico demonstrata, 1677; tr. it. Etica dimostrata con Metodo Geometrico, Editori Riuniti, Roma 20024, a cura di E. Giancotti. Voltaire, Candide, ou l’optimisme, 1759; tr. it. Candido o l’ottimismo, in Voltaire. Tutti i romanzi e i racconti, Newton & Compton, Roma 1995. M. Weber, Wissenschaft als Beruf, 1917; tr. it. La scienza come professione, Rusconi, Milano 1997, a cura di P. Volonté. Opere di Epicuro. Solo alcune opere dell’autore ci sono pervenute integralmente; sono noti, però, anche estesi frammenti. Ne diamo i titoli in latino: - Epistula ad Herodotum (in Diogene Laerzio, libro X) - Epistula ad Pythoclem (in Diogene Laerzio, libro X) - Epistula ad Menoeceum (in Diogene Laerzio, libro X) - Ratae sententiae (in Diogene Laerzio, libro X) - Vaticanae Sententiae (in K. Wotke, Epikurische Spruchsammlung, in «Wiener Studien», 10 [1888] ). - Testamentum ( in Bailey, cfr. infra) - Fragmenta ( in Bailey, cfr. infra) Notizie ampie e precise sullo stato della questione riguardante le edizioni dei testi di Epicuro si possono trovare nell’edizione delle opere dell’autore data da G. Arrighetti, Epicuro, Opere, Torino, Einaudi 19732, pp. XV-XXVI, alla quale si rimandano i lettori. In ogni caso, si tenga presente che l’edizione base delle opere, dei frammenti e delle testimonianze che riguardano Epicuro, e della quale convenzionalmente si indica la paginazione, è quella di H. Usener, Epicurea, Teubner, Leipzig 1887; rist. anast. Roma 1963 e Stuggart 1966; tr. it. di I. Ramelli, Epicurea. Testi di Epicuro e testimonianze epicuree nella raccolta di Hermann Usener, testo greco e latino a fronte, presentazione di G. Reale, Bompiani, Milano 2002. Nell’opera originale dello Usener mancano ovviamente testi e frammenti scoperti in data successiva a quella sua pubblicazione, per i quali si rimanda ad Arrighetti, cit., nonché ai lavori editoriali di C. Bailey, Epicurus, The Extant Remains. With Short Critical Apparatus, Translation and Notes, Clarendon Press, Oxford 1926; rist. anast. Hildesheim, Olms 1970; e S. Laursen, The later parts of Epicurus, in «Cronache Ercolanesi», 27 (1997), pp. 5-83. Una completa edizione italiana dell’intera opera di Epicuro è anche quella di M. Isnardi Parente, Opere di Epicuro, U.T.E.T., Torino 1974. Per quel che concerne le opere di Epicuro, citiamo anche: Scritti morali (a cura di C. Diano), Rizzoli, Milano 1987; e Opere, frammenti, testimonianze sulla sua vita, tr. it. a cura di E. Bignone, Laterza, Roma-Bari 1994. Studi sul pensiero di Epicuro e sulla sua fortuna. F. Adorno, Fisica epicurea, fisica platonica e fisica aristotelica, «Elenchos» 4, 1983, pp. 207-233. A. Alberti, Sensazione e realtà: Epicuro e Gassendi, L.S. Olschki, Firenze 1988. V. E. Alfieri, Atomos Idea, Le Monnier, Firenze 1953. R. Amerio, L’epicureismo e il bene, «Filosofia», 4, Torino 1953, pp. 227-254. J. Annas, Hellenistic philosophy of mind, University of California Press, Berkeley 1992. G. Arrighetti, Sul valore di ἐπιλóγίζομαι, ἐπιλóγισις nel sistema di Epicuro, in «La parola del passato», 7, 1952. G. Arrighetti, Philia e physiologia: I fondamenti dell’amicizia epicurea, in «Materiali e Discussioni per l’Analisi dei Testi Classici», 1: 49-63, 1978. E. Asmis, Epicurus’ scientific method, Cornell University Press, Ithaca 1984. A. Barigazzi, Stoicismo ed Epicureismo nell’età imperiale, in Storia della filosofia, diretta da M. Dal Pra, Vallardi, Milano 1975, vol. IV, capp. III, IV, XI. H.-M. Bartling, Epikur : Theorie der Lebenskunst, 1994. C. Bayley, The greek atomists and Epicurus, 1928. E. Bignone, L’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 1936. J. Bollack – A. Laks, Études sur l’épicurisme antique, 1976. G. Bonelli, Aporie etiche in Epicuro, 1979. P. Boyancé Lucrèce et l’épicureisme, 1963; tr. it. Lucrezio e l’epicureismo, Paideia, Brescia 1970. C. Brescia, Ricerche sulla lingua e sullo stile di Epicuro, Libreria Scientifica Editrice, Napoli 1956. J. Brun, L’épicurisme, 1993, 1981; tr. it. Epicuro, Xenia, Milano 1996. J. Brunschwig, Études sur les philosophies hellénistiques: épicurisme, stoïcisme, scepticisme, 1995. J. Brunschwig, Epicure et le problème du langage privé, 1977. G. Cambiano, L’atomismo antico, «Quaderni di Storia» 23: 5-17, 1997, pp. 5-17. M. Capasso, Comunità senza rivolte. Quattro saggi sull’epicureismo, Bibliopolis, Napoli 1987. I. Cappiello, La filosofia naturale di Epicuro, Liguori, Napoli 1968. D. Clay, Lucretius and Epicurus, Ithaca-New York 1983.

D. Clay, Paradosis and survival: three chapters in the history of Epicurean philosophy, 1998. C. Diano, La psicologia di Epicuro e la teoria delle passioni, «Giornale critico della filosofia italiana», VII, 1939 – X 1942 (poi raccolto in Scritti epicurei, Olschki, Firenze 1974, pp. 129-280). P. Di Vona, Per una storia dell’epicureismo, «La Parola del Passato» 34, 1979, pp. 313-320. J. Fallot, Le plaisir et la mort dans la philosophie d’Epicure, 1951; tr. it. Il piacere e la morte nella filosofia di Epicuro, Einaudi, Torino 1977, a cura di S. Timpanaro. B. Farrington, Che cosa ha veramente detto Epicuro, Ubaldini, Roma 1967. A-J. Festugière, Épicure et ses Dieux, 1946; tr. it. Epicuro e i suoi dèi, Morcelliana, Brescia 1952. G. Freymuth, Zur Lehre von den Götterbildern in der epikureischen Philosophie, 1953. B. Frischer, The Sculpted word: epicureanism and philosophical recruitment in ancient Greece, 1982. D. Furley, Two Studies in the Greek Atomists: Indivisible magnitudes. Aristotle and Epicurus on voluntary action, 1967. B. Gemelli, L’amicizia in Epicuro, «Sandalion» 1: 59–72, 1978. G. Giannantoni, Il piacere cinetico nell’etica epicurea, «Elenchos» 4, 1984, pp. 25-44. G. Giannantoni – M. Gigante (a cura di), Epicureismo greco e romano. Atti del Congresso internazionale (Napoli, 19-26 maggio 1993), Bibliopolis, Napoli 1996, 3 voll. M. Gigante, Scetticismo e epicureismo, Bibliopolis, Napoli 1981. M. Gigante, Cinismo ed epicureismo, Bibliopolis, Napoli 1987. V. Goldschmidt, La doctrine d’Epicure et le droit, 1977. D.R. Gordon – D.B. Suits, Epicurus: his continuing influence and contemporary relevance, 2003. A. Grilli, La posizione di Aristotele, Epicuro e Posidonio nei confronti della storia della civiltà, U. Hoepli, Milano 1953. J-M. Guyau, La morale d’Épicure et ses rapports avec les doctrines contemporaines, Alcan, Paris 1878. R.W. Hibler, Happiness through tranquillity: the school of Epicurus, University Press of America, Lanham 1984. M. Hossenfelder, Epikur, C. H. Beck, München 1991. P. Innocenti, Epicuro, La Nuova Italia, Firenze 1975. M. Isnardi Parente, L’epicureismo, in Questioni di storiografia filosofica, La Scuola, Brescia 1976, vol. I, pp. 359-399. M. Isnardi Parente, La dottrina di Epicuro e il «carattere pratico» della filosofia ellenistica, «RSF» 33, 1978, pp. 3-29. H. Jones, The Epicurean Tradition, 1989; tr. it. La tradizione Epicurea. Atomismo e materialismo dall’Antichità all’Età Moderna, ECIG, Genova 1999. D. Kimmich, Epikureische Aufklärungen: Philosophische und poetische Konzepte der Selbstsorge, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1993. K. Kleve, Gnosis Theon, Die Lehre von der naturlichen Gotteserkenntnis in der epikureischen Theologie, Universitetsforlaget, Osloae 1963. A. Koen, Atoms, pleasure, virtue: the Philosophy of Epicurus, P. Lang, New York-Bern-Paris 1995. H.J. Krämer, Platonismus und hellenistische Philosophie, De Gruyter, Berlin 1971. G. Krüger, Epikur und die Stoa über das Glück, C. F. Müller, Heidelberg 1998. D. Lemke, Die Theologie Epikurs: versuch einer Rekonstruktion, C. H. Beck’sche Verlagsbuchhandlung, München 1973. C. Lévy, Les philosophies hellénistiques, 1997; tr. it. Le filosofie ellenistiche, Einaudi, Torino 2002. A.A. Long, Hellenistic Philosophy, 1986; tr. it. La filosofia ellenistica. Stoici, epicurei, scettici, Il Mulino, Bologna 1991. F. Longo Auricchio, La scuola di Epicuro, «CErc. » 8, Napoli 1978, pp. 21-37. G. Manolidis, Die Rolle der Physiologie in der Philosophie Epikurs, Athenäum, Frankfurt am Main 1987. F. Markovits, Marx dans le jardin d’Épicure, Éd. de Minuit, Paris 1974. K. Marx, Differenz der demokritischen und epikureischen Naturphilosophie, 1841; tr. it. Differenza tra le filosofie della natura di Democrito e di Epicuro, Bompiani, Milano 2004, a cura di D. Fusaro. F. Mauthner, Der Atheismus und seine geschichte im Abenlande, 1920, vol.I, «Epicuro e Lucrezio», Olms 1985, pp. 119-141. Ph. Merlan, Studies in Epicurus and Aristotle, Otto Harrassowitz, Wiesbaden 1960. G. Milanese, Lucida carmina: comunicazione e scrittura da Epicuro a Lucrezio, Vita e pensiero, Milano 1989. P. Mitsis, Epicurus’Ethical Theory. The Pleasures of Invulnerability, Cornell University Press, Ithaca 1988. R. Mondolfo, La coscienza morale da Omero a Epicuro, Ricciardi, Milano-Napoli 1960. P.M. Morel, Atome et nécessité: Démocrite, Épicure, Lucrèce, Presses universitaires de France, Paris 2000. R. Müller, Anthropologie und Ethik in der epikureischen Philosophie, Akademie-Verlag, Berlin 1987. P. Natorp, Forschung zur Geschichte des Erkenntinsproblem im Alterum, 1884. D. Obbink, The Atheism of Epicurus, «GRBS» 30, 1989, pp. 187-223. W.F. Otto, Epicuro, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2001. G. Paganini – E. Tortarolo, Der Garten und die Moderne. Epikureische Moral und Polititik vom Humanismus bis zur Aufklärung,

Frommann-Holzboog, Stuggart-Bad Cannstatt 2004. M.I. Parenti, La filosofia dell’Ellenismo, Loescher, Torino 1977. D. Pesce, Sulla dottrina del piacere in Epicuro, in «Rivista di filosofia neo-scolastica», LXXIV, 1982, 1, pp. 3-26. D. Pesce, Introduzione a Epicuro, Laterza, Roma-Bari 1990. R. Philippson, Studien zu Epikur und den Epikureern, im Anschluss an W. Schmid herausgegeben von C. J. Classen, [repr.] Hildesheim, G. Olms 1983. P. Preuss, Epicurean Ethics: Katastematic Hedonism, Edwin Mellen Press, Lewiston 1994. G. Reale, Storia della filosofia greca e romana, vol. V, Cinismo, Epicureismo e Stoicismo, Bompiani, Milano 2004. J. Rist, Epicurus: an Introduction, 1972; tr. it. Introduzione a Epicuro, Mursia, Milano 1978. G. Rodis-Lewis, Épicure et son école, Gallimard, Paris 1993. M. Rodríguez Donís, El Materialismo de Epicuro y Lucrecio, Universidad, Sevilla 1989. A. Ronconi, Appunti di estetica epicurea, in «Miscellanea Rostagni», Torino 1963, pp. 7-25. A. Rostagni, Storia della letteratura latina, U.T.E.T., Torino 1949, 3 voll. J. Salem, Tel un dieu parmi les hommes. L’Éthique d’Épicure, Librairie philosophique J. Vrin, Paris 1989. J. Salem, Démocrite. Épicure. Lucrèce. La vérité du minuscule, Encre Marine, La Versanne 2000. S. Sambursky, The physical world of the Greeks, 1956; tr. it. Il mondo fisico dei Greci, Feltrinelli, Milano 1983. W.P. Schmid, Epikurs Kritik der platonischen Elementenlehre, O. Harrassowitz, Leipzig 1936. W.P. Schmid, Epikur, in Reallexikon für Antike und Christentum, 1962; tr. it. Epicuro e l’epicureismo cristiano, Paideia, Brescia 1984, a cura di I. Ronca. M. Serres, La Naissance de la Physique dans le Poème de Lucrèce, 1977; tr. it. Lucrezio e l’origine della fisica, Sellerio di Giorgianni, Palermo 1980. R.W. Sharples, Stoics, Epicureans and Sceptics. An Introduction to Hellenistic Philosophy, Routledge, London-New York 1996. M.L. Silvestre, Democrito ed Epicuro. Il senso di una polemica, Loffredo, Napoli 1985. R. Strozier, Epicurus and Hellenistic Philosophy, Rowman & Littlefield, Lanham 1985. A.E. Taylor, Epicurus, Constable and Company Ltd, London 1911. J. Warren, Epicurus and Democritean ethics: an archaeology of ataraxia, Cambridge University Press, Cambridge 2002. J. Warren, Facing Death: Epicurus And His Critics, Oxford University Press, London 2004. NV De Witt, Epicurus and his Philosophy, Univ. of Minnesota Press, Minneapolis 1954. NV De Witt, St. Paul and Epicurus, Univ. of Minnesota Press, Minneapolis 1954. E. Zeller, Die Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlichen Entwicklung, III, 1, O. R. Reisland, Leipzig 1921.

Collana ICentotalleri 1 Averroé, Il trattato decisivo. A cura di J. Agnesina 2 D. Fusaro, Filosofia e speranza. Ernst Bloch e Karl Löwith interpreti di Marx 3 D. Fusaro, La farmacia di Epicuro. La filosofia come terapia dell’anima, Pres. di G. Reale 4 L. Federici, L’egualitarismo di Filippo Buonarroti. Pref. di L. Canfora 5 R.W. Emerson, Realizzare la vita. Saggi da Society and solitude. Trad., note e app. di B. Soressi 6 S. Ciurlia, Ermeneutica e politica. L’interpretazione come modello di razionalità 7 A. Sangiacomo, La sfida di Parmenide. Verso la rinascenza. Pres. di G. Girgenti 8 D. Fusaro, Marx e l’atomismo greco. Alle radici del materialismo storico. Pref. di G. Vattimo 9 C. Preve, Una approssimazione al pensiero di Karl Marx. Tra materialismo e idealismo. Pres. di D. Fusaro 10 D. Fusaro, Karl Marx e la schiavitù salariata. Uno studio sul lato cattivo della storia. Pref. di A. Tosel 11 V. Agliotti, T. Scappini, G. Tiengo, D. Tione, Excerpta. Voci e testimonianze del pensiero contemporaneo. Pref. di U. Perone. A cura di P.D. Accendere 12 A. Sangiacomo, Scorci. Ontologia e verità nella filosofia del No vecento. Pref. di G. Brianese. 13 L. Grecchi, Chi fu il primo filosofo? E dunque: cos’è la filosofia? Pres. di G. Casertano 14 E. Berti, G. Casertano, D. Fusaro, G. Girgenti, L. Grecchi, C. Preve, M. Vegetti, È veramente noiosa la storia della filosofia antica? A cura di D. Fusaro e L. Grecchi 15 E. Musolino, Potere e paranoia. Il concetto di potere nell’analisi di Elias Canetti. Pref. di I. Adinolfi 16 Thomas Reid, Sintesi critica della logica di Aristotele - 1774. A cura di M. Lucaccini. Pres. di J. Agnesina 17 L. Gasparri, Suicidio e filosofia. Dagli antichi a Leopardi. Pref. di G. Girgenti 18 L. Gasparri, Note alla metafisica dell’immediato. Pres. di M. Donà 19 S. Giametta, Schopenhauer e Nietzsche 20 G. Reale, Il dubbio di Pirrone. Ipotesi sullo scetticismo 21 F. Valagussa, Impossibile sistema. Metafisica e redenzione in Kant e in Hegel. Pref. di E. Severino 22 G. Celeste, Edgar Morin. Cultura e natura nella teoria della complessità. Pref. di A. Quarta 23 L. Grecchi, Occidente: radici, essenza, futuro. Pres. di D. Fusaro

24 A. Della Casa, Contro la tirannia della maggioranza. La democrazia secondo John Stuart Mill. Pres. di S. Ricci 25 S. Giametta, Il volo di Icaro 26 F. Focher, Alexander Von Humboldt. Schizzo Biografico “Dal Vivo”. Pref. R. Pozzo 27 M. Ivaldo, Libertà e moralità. A partire da Kant 28 M. Barison, La Costi tuzione metafisica del Mondo. Pref. di U. Curi. 29 E. Berti, L. Grecchi, A partire dai filosofi antichi. Pres. di C. Vigna 30 E. Lojacono, Cartesio. Dalla magia alla scienza. Pref. di J. Agnesina 31 Adalberto Coltelluccio, Dialettica aporetica. Il Parmenide di Platone nella dialettica hegeliana. Pref. di M. Donà 32 Pietro Chessa, Mircea Eliade e il mito dell’eterno ritorno. Pres. di G. Girgenti 33 Giulio Cesare Vanini, Morire allegramente da filosofi. Piccolo catechismo per atei. A cura di M. Carparelli. Pref. di D.M. Fazio 34 Michele Amoretti, Cicerone e la logica retorica, Pref. di G. Girgenti e M. Marassi 35 Emiliano Alessandroni, La rivoluzione estetica di Antonio Gramsci e György Lukács, Pref. di P. Cataldi 36 Giuseppe Girgenti, Atene e Gerusalemme. Una fusione di Orizzonti 37 Andrea Cusimano, Per una rifondazione della metafisica: Critica Della Ragione Postmoderna, Pres. di D. Fusaro 38 Marco Trainito, Umberto Eco: Odissea nella biblioteca di Babele. Con una intervista dell’autore a U. Eco 39 Ettore Lojacono, Spigolature sullo scetticismo: la sua manifestazione all’inizio della modernità, prima dell’uso di Sesto Empirico. I sicari di Aristotele, Pref. di G. Belgioioso 40 Andrea Vergani, Apocalissi del capitalismo. Considerazioni inattuali sul destino del mondo contemporaneo, Pres. di D. Fusaro 41 Federico Focher, Due atei, un prete e un agnostico. Pranzo a casa Darwin 42 Anacleto Verrecchia, La Batracomachia di Bayreuth. Nietzschiani contro Wagneriani, Pref. di V. Mathieu 43 Enrico Rubetti, La malafede e il nulla. Figure della falsità e della menzogna nel pensiero di Jean-Paul Sartre, Pref. di A. Tagliapietra 44 Vincenzo Cicero, Essere e analogia. 45 Federico Nicolaci, Esserci e musica. Heidegger e l’ermeneutica musicale, Pref. di M. Donà 46 Luciano Dottarelli, Maneggiare assoluti. Immanuel Kant, Primo Levi e altri maestri 47 Federico Croci, Del Principio. Meditazioni su mistica e henologia. Pref. di G. Girgenti

48 Alessandra Pigliaru, Il sangue privato. Vendetta e onore in Scipione Maffei, Pietro Verri e Cesare Beccaria, Pref. di S. Ghisu, Post. di P. Carta 49 Vincenzo Cicero, Parole come gemme. Studi su filosofia e metafora 50 Valentina Cordero, La libertà come riconoscimento: Taylor interprete di Hegel, Pref. di D. Fusaro 51 Marco Bruni, La natura oltre la storia. La filosofia di Karl Löwith, Pref. di A. Tagliapietra, Post. di M. Donà 52 Costanzo Preve, Luigi Tedeschi, Lineamenti per una nuova filosofia della storia. La passione dell’anticapitalismo 53 Andrea Tagliapietra, Gioacchino da Fiore e la filosofia, Pref. di D. Fusaro 54 Massimo Donà, EROTICAmente. Per una filosofia della sessualità 55 Francesco Camera, Andrea Sangiacomo, La ragione della parola. Religione, ermeneutica e linguaggio in Baruch Spinoza 56 Mario Carparelli, Il più bello e il più maligno spirito che io abbia mai conosciuto. Giulio cesare Vanini nei documenti e nelle testimonianze. Pref. di F. Vendemmiati, Appendice a cura di D. Acquaviva 57 Arturo Gortenuti, Religioni, potere e biopotere. Un legame indissolubile ed eterno, Pref. di A. Negri 58 Tommaso Ariemma, Il corpo preso con filosofia. Body building, chirurgia estetica, clonazioni

1 J. Derrida, La pharmacie de Platon, 1968; tr. it. La farmacia di Platone, Jaca Book, Milano 1985, a cura di R. Balzarotti, p. 81. 2 Ivi, p. 93. 3 G. Reale, La filosofia di Seneca come terapia dell’anima, Bompiani, Milano 2003. 4 Epicuro, Lettera a Meneceo, in Epicurea, Bompiani, Milano 2002, a cura di I. Ramelli e G. Reale, p. 185. 5 M. Gigante, introduzione a Epicuro. Epistola a Meneceo, Massa Lubrense 1983, p. 5. 6 Aristotele, Etica nicomachea, Bompiani, Milano 2000, pp. 55 ss.: «su che cosa sia la felicità sono in disaccordo, e la massa non la definisce allo stesso modo dei sapienti. Infatti, alcuni pensano che sia qualcosa di visibile e appariscente, come piacere o ricchezza o onore, altri altra cosa; anzi spesso è il medesimo uomo che l’intende diversamente: quando è ammalato, infatti, l’intende come salute; come ricchezza quando si trova povero». 7 Ibidem. 8 F. Adorno, La filosofia antica, Feltrinelli, Milano 1972, 2 voll., pp. 177-78. 9 G. Droysen, Geschichte des Hellenismus, 2 voll., Leipzig 1836-1843. 10 W. Dilthey, Das Wesen der Philosophie, 1907; tr. it. L’essenza della filosofia, in Critica della ragione storica, Einaudi, Torino 1994, a cura di P. Rossi, pp. 387-487. 11 K. Marx, Differenz der demokritischen und epikureischen Naturphilosophie, 1841; tr. it. Differenza tra le filosofie della natura di Democrito e di Epicuro, Bompiani, Milano 2004, a cura di D. Fusaro. 12 E. Bignone, L’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 1936, p. 40. 13 Pap. Herc., 1005, col. IV, 10-14 Sbord. 14 Platone, Fedro, 270 B; tr. it. in Platone. Tutti gli scritti, Bompiani, Milano 2000, a cura di G. Reale, p. 575. 15 Epicuro, Lettera a Meneceo, cit., p. 171. 16 F. Adorno, Relazione su Epicuro nel suo momento storico. La fisica come scienza. Epicuro da Platone ad Aristotele, in «Congresso Internazionale» su Epicureismo greco e romano, Napoli 19-26 maggio 1993; in Epicuro. Lettere, a cura di N. Russello, Rizzoli, Milano 2000, p. 9. 17 Epicuro, Lettera a Erodoto, in Epicurea, cit., pp. 111-112. 18 Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, Bompiani, Milano 2005, X, 26, p. 1185, a cura di G. Girgenti e I. Ramelli. 19 G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie [ed. or. 1842], in Id., Vorlesungen. Ausgewählte Nachschriften und Manuskripte, a cura di P. Garniron e W. Jaeschke, F. Meiner, Hamburg 1986. 20 Com’è noto, il decimo libro delle Vite dei filosofi è interamente dedicato alla figura di Epicuro, per la quale Diogene rivela un’attenzione incommensurabilmente superiore a quella riservata a tutti gli altri filosofi. 21 B. Farrington, Che cosa ha veramente detto Epicuro, Ubaldini, Roma 1967, p. 141. 22 Sesto Empirico, Contro i matematici, VI, 27; tr. it. Laterza, Roma-Bari 1972, a cura di A. Russo. 23 Ivi, VI, 27. 24 Cfr. E. Bignone, L’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro, cit. 25 Platone, Fedone, 99 E – 101 D; tr. it. in Platone. Tutti gli scritti, cit., pp. 107-109. 26 J. Rist, Epicurus: An Introduction, 1972; tr. it. Introduzione a Epicuro, Mursia, Milano 1978, p. 5. 27 D. Pesce, Introduzione a Epicuro, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 164. Lo stesso Pesce, comunque, riconosce che l’opera di Bignone «è risultata fondamentale più per la scoperta importantissima dell’esatta collocazione di Epicuro nella storia del pensiero antico, che non per una compiuta ricostruzione complessiva del suo pensiero» (ivi, p. 165). 28 Cfr. Lucrezio, De rerum natura, II, 55 ss.; tr. it. Il poema della natura, Zanichelli, Bologna 1941, 2 voll., p. 75, vol. I, a cura di P. Parrella. Tutte le citazioni fino al libro III compreso sono tratte dal primo volume; quelle dal libro quarto in avanti, sono invece tratte dal secondo volume. 29 Aristotele, Metafisica, A 4, 985 b 13 ss.; tr. it. Bompiani, Milano 2002, a cura di G. Reale, pp. 25-27. 30 Ibidem. 31 Aristotele, De caelo, III, 4, 303 a 3-5; tr. it. Il cielo, Rusconi, Milano 1999, a cura di A. Jori, p. 359.

32 Proprio Lattanzio fa notare che è in sé contraddittoria la nozione di «atomi uncinati», poiché, nella misura in cui sporgono e hanno spigoli, tali atomi saranno ulteriormente divisibili e dunque non saranno atomi. Cfr. Lattanzio, De ira dei 10, 5, in Divinae institutiones. De opificio Dei. De ira Dei, Sansoni, Firenze 1973, a cura di U. Boella. 33 Cfr. Lucrezio, De rerum natura, II, 479 ss., cit., pp. 101 ss. 34 Diogene Laerzio, cit., X, 42, p. 1201. 35 Cicerone, De natura deorum, I, 26; tr. it. La natura divina, Rizzoli, Milano 1994, a cura di C. M. Calcante. Diogene Laerzio, cit., X,13; Seneca, Epistulae ad Lucilium, LII, 3; tr. it. Lettere a Lucilio, in Seneca. Tutte le opere, Bompiani, Milano 2000, a cura di G. Reale, p. 776. Plutarco, con la sua solita vena polemica, sostiene che Epicuro finse di essere autodidatta, disconoscendo i suoi maestri, in quanto «pazzamente superbo e smanioso di gloria»: cfr. Plutarco, Non posse suaviter vivi secundum Epicurum, 18, in Moralia, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 1989, a cura di G. Pisani. Tutte le citazioni di Plutarco che seguono sono tratte dai Moralia. 36 Cicerone, De finibus bonorum et malorum, I.5; tr. it. I termini estremi del bene e del male, in Opere politiche e filosofiche di M. Tullio Cicerone, U.T.E.T., Torino 1988, a cura di N. Marinone. 37 Plutarco, Adversus Colotem, cit. 38 A. E. Taylor, Epicurus, Constable and Company Ltd, London 1911. 39 Plutarco, Adversus Colotem, 16, 1116 D, cit. 40 Cicerone, De natura deorum, I, 120, cit. 41 D. Alighieri, Inferno, IV, 136, La Nuova Italia, Firenze 1955, a cura di N. Sapegno, p. 50. 42 Eusebio, Praeparatio Evangelica, XI, 749 B-C. 43 NV. De Witt, Epicurus and his Philosophy, Univ. of Minnesota Press, Minneapolis 1954, p. 168. 44 V. E. Alfieri, Atomos Idea, Le Monnier, Firenze 1953, p. 82. 45 K. Marx, Differenza tra le filosofie della natura di Democrito e di Epicuro, cit., p. 137. 46 G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, 1837; tr. it. Lezioni sulla filosofia della storia, La Nuova Italia, Firenze 1967, a cura di G. Calogero e C. Fatta, 4 voll., vol. 1, p. 17. 47 Lucrezio, De rerum natura, II, 235-242, cit., pp. 85-87. 48 E. Bloch, Über Karl Marx, 1968; tr. it. Karl Marx, Il Mulino, Bologna 1972, a cura di R. Bodei, p. 193. 49 Cicerone, De finibus bonorum et malorum, I, 6, cit. 50 Plutarco, De animae procreatione, 6, 1015 C, in Moralia, cit. 51 Cicerone, De fato, X, 22; tr. it. Il fato, Garzanti, Milano 2002. 52 Lucrezio, De rerum natura, II, 250-260, cit., p. 87. 53 G. Reale, Storia della filosofia greca e romana, vol. V, Cinismo, Epicureismo e Stoicismo, Bompiani, Milano 2004, p.173. 54 Luigi Pareyson notava che, a rigore, la libertà in senso autentico è stata scoperta dai Cristiani e che di fatto i Greci non possedevano neppure una parola per designarla, alla luce del fatto che il termine greco ἐλευθερία indica esclusivamente la «libertà politica», intesa come indipendenza (indipendenza dai Persiani, dai barbari, ecc). Cfr. Ontologia della libertà, Einaudi, Torino 2000, a cura di G. Riconda e G. Vattimo, p. 460. 55 J. P. Sartre, L’être et le néant, Paris 1943; tr. it. L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 2002, a cura di G. Del Bo, p. 509. 56 Epicuro, Lettera a Meneceo, cit., p. 181. 57 Ivi, p. 183. 58 Lucrezio, De rerum natura, II, 251, cit., p. 87. 59 M.I. Parente, Epicuro. Opere, Introduzione, U.T.E.T., Torino 1974, p. 17. 60 Cicerone, De fato, cit., XI. 61 P. Bayle, Dictionnaire historique et critique, alla voce «Epicuro», 1706; tr. it. Dizionario storico-critico, 2 voll., Laterza, RomaBari 1976, a cura di G. Cantelli. 62 F. Nietzsche, Die fröhliche Wissenschaft, 1882, § 306; tr. it. La gaia scienza, Adelphi, Milano 2001, a cura di G. Colli e di F. Masini, p. 221.

63 Epicuro, Massime capitali, 11, in Epicurea, cit., pp. 197-199. Corsivo mio. 64 J-M. Guyau, La morale d’Épicure et ses rapports avec les doctrines contemporaines, Alcan, Paris 1878. 65 Anche se, naturalmente, il ricorso platonico ai miti ha ragioni profonde: non da ultimo, esso si spiega tenendo a mente l’ambiente «infestato» dai sofisti in cui si muoveva Platone. Ricorrere alla narrazione mitica, mettendo temporaneamente da parte l’argomentazione razionale, non era forse il modo più efficace per sottrarsi alle serratissime confutazioni argomentative squadernate dai sofisti? 66 M.I. Parenti, La filosofia dell’Ellenismo, Loescher, Torino 1977, p. 14. 67 Lucrezio, De rerum natura II, 8, cit., p. 72. 68 Usener, fr. 219, in Epicurea, cit., p. 383. 69 G. Reale, Storia della filosofia greca e romana, vol. V, cit., p. 152. 70 Epicuro, Lettera a Pitocle, in Epicurea, cit., p. 127. 71 K. Marx, Differenza tra le filosofie della natura di Democrito e di Epicuro, cit., p. 111. 72 Aristotele, De anima, a 1 404 a; tr. it. Anima, Bompiani, Milano 2001, a cura di G. Movia, p. 65. 73 Lucrezio, De rerum natura, IV, 60 e ss., cit., p. 8. 74 Diogene Laerzio, cit., X, 50, p. 1207. 75 Lucrezio, De rerum natura, IV, 48-57, cit., p. 7. Il brano lucreziano si configura come una fedele trasposizione degli insegnamenti della Lettera a Erodoto. 76 Sesto Empirico, Contro i matematici, VII, 135, cit.. 77 Ivi, VII, 138, 139. 78 Cicerone, De natura deorum, I, 25, 70, cit.. 79 Cfr. E. Zeller, Die Philosophie der Griechen, O. R. Reisland, Leipzig1921, III, 1, p. 406. 80 Infatti, Democrito muove da presupposti e con intenti ben diversi dal noto sofista: certo, è convinto, come Protagora, che il mondo fenomenico sia il regno della parvenza, se non addirittura dell’inganno. Vero è tuttavia che per Democrito la ragione, qualora si spinga oltre i fenomeni, può cogliere il mondo della verità: gli atomi e il vuoto. Di conseguenza occorre diffidare dei sensi e delle false verità che essi contrabbandano. Per Protagora invece, mancando un mondo della verità, diventano vere le attestazioni sensibili, tutte diverse tra loro: la conseguenza paradossale è che le verità vengono moltiplicate all’infinito e diventano, per dirla con Pirandello, una, nessuna e centomila. Non c’è dunque spazio per l’errore, essendo tutto vero: il proliferare delle verità viene accettato positivamente. 81 Diogene Laerzio, cit., X, 31, p. 1191. 82 G. Reale, Storia della filosofia greca e romana, vol. V, Cinismo, Epicureismo e Stoicismo, cit., p. 126. 83 Cicerone, De finibus bonorum et malorum, I, 6, 20, cit. 84 D. Pesce, Saggio su Epicuro, Laterza, Roma-Bari 1974, p. 26. 85 Diogene Laerzio, cit., X, 31, p. 1191. 86 Lucrezio, De rerum natura, IV, 482-485, cit., p. 33. 87 Notiamo, en passant, che la metafora dell’inversione tra testa e piedi verrà impiegata anche da Marx ed Engels per definire il loro rapporto con la dialettica hegeliana: essa, che nella misura in cui assegna il primato all’Idea poggia sulla testa, dev’essere raddrizzata e fatta poggiare sui piedi della materia. 88 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, 1781-1787; tr. it. Critica della ragion pura, Laterza, Roma – Bari 2000, Analitica trascendentale, Libro II, cap. II, sezione III. 89 P. Natorp, Forschung zur Geschichte des Erkenntinsproblem im Alterum, 1884. 90 NV. De Witt, Epicurus and his philosophy, cit. 91 M. I. Parente, Epicuro. Opere, cit., p. 24. 92 Diogene Laerzio, cit., X, 33, p. 1191. 93 Ibidem. 94 Ivi, cit., X, 50, p. 1207. 95 Lucrezio, De rerum natura, IV, 353, cit., p. 24.

96 C. Bayley, The greek atomists and Epicurus, 1928. 97 Cfr. G. Arrighetti, Sul valore di ἐπιλογίζομαι, ἐπιλóγισις nel sistema di Epicuro, in «La parola del passato», 7, 1952, pp. 119-144. 98 Cicerone, De natura deorum, I,25 69-70, cit. Del resto, Cicerone stesso liquida senza riserve la logica di Epicuro, dicendolo «inermis ac nudus» (De finibus bonorum et malorum, I, 7, 22) in quella sfera della filosofia. 99 Epicuro, Lettera a Erodoto, 75 ss., cit., pp. 107 ss. 100 M. Montaigne, Apologie de Raymond Sebond, 1588; tr. it. Apologia di Raymond Sebond, Bompiani, Milano 2004, a cura di D. Fusaro e S. Obinu, p. 465. 101 Cicerone, De finibus bonorum et malorum, I, 6, 20, cit. 102 Cicerone, Tusculanae disputationes, V, 39, 114; tr. it. Tuscolane, Mondadori, Milano 1995; De finibus bonorum et malorum, V, 29, 87, cit. 103 Cfr. M. Montaigne, Essais, 1588, I, 50.; tr. it. Saggi, 2 voll., Adelphi, Milano 1996, a cura di F. Garavini, pp. 390 ss. 104 Orazio, Epistulae, II, 194; tr. it. Epistole, in Orazio. Tutte le opere, Salerno Editrice, Roma 1993, a cura di L. Paolicchi, p. 1017. 105 Cicerone, De oratore, Il 58,235 = 68 A 21; tr. it. Dell’oratore, in Opere retoriche, U.T.E.T., Torino 1976, vol. I, a cura di G. Norcio. 106 Seneca, De tranquillitate animi, XV, 1; tr. it. La tranquillità dell’animo, in Seneca. Tutte le opere, cit., p. 218. 107 Giovenale, Saturae, X, 33-34; tr. it. Satire, Rizzoli, Milano 1976. 108 Luciano di Samosata, Vendita di vite all’incanto, 14, in Dialoghi di Luciano, U.T.E.T., Torino 1995, a cura di V. Longo, vol. I, p. 513. 109 A. Schopenhauer, Über die vierfache Wurzel des Satzes vom zureichenden Grunde, 1813; tr. it. La quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, Guerini, Milano 1990, cura di A. Vigorelli, p. 94. 110 Mi si scuserà se impiego quest’espressione anacronistica in riferimento a un autore vissuto parecchi secoli prima di Copernico e che era ben lungi dal muoversi in una prospettiva eliocentrica: uso quest’espressione in virtù della sua immancabile efficacia, consolidatasi grazie all’uso che ne ha fatto Kant stesso in riferimento alla propria filosofia trascendentale. 111 Lucrezio, De rerum natura, IV, cit. 112 Lucrezio, De rerum natura, IV, 507-512, cit., p. 35. 113 Diogene Laerzio, cit., IX, 62, p. 1217. 114 Epicuro, Massime capitali, 23, cit., p. 203. 115 Epicuro, Lettera a Erodoto, 41, cit.; Cicerone, De divinatione, II, 50, 103; tr. it. Della divinazione, Garzanti, Milano 2005. 116 Cfr. R. Mondolfo, L’infinito nel pensiero dei Greci, Le Monnier, Firenze 1934. 117 Libertà intesa, naturalmente, nel senso sfumato che abbiamo precedentemente chiarito: come assenza di determinazioni che inchiodino l’agire umano a leggi meccaniche. 118 Epicuro, Lettera a Pitocle, cit., p. 127. 119 S’è a lungo dibattuto (e già a partire dall’antichità) sull’autenticità di tale lettera: in tempi recenti, v’è stato chi, come il Bailey, ha sostenuto che si tratta di un «compendio» realizzato da un compilatore maldestro e chi (a mio giudizio portando ragioni piuttosto convincenti), come Arrighetti, ha provato la paternità epicurea dell’epistola, mettendola anche a confronto col libro V del De rerum natura lucreziano. Curiosamente, lo scopo della Lettera a Pitocle è di rivolgersi agli Epicurei «eretici», come Pitocle, i quali s’erano avvicinati alle pericolose idee del platonico Eudosso in materia di teorie astronomiche. 120 Interpretazione destinata a godere di grande fortuna, soprattutto se si considera che, ancora oggi, il nome dei pianeti è quello delle antiche divinità del pantheon greco, poi ereditato dai Romani. 121 G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, alla voce «Epicuro», cit. 122 Epicuro, Lettera a Pitocle, cit., pp. 143-145. 123 Cfr. Seneca, Quaestiones naturales, VI, 20.5; tr. it. Questioni naturali, in Seneca. Tutte le opere, cit. 124 Cfr. J-M. Guyau, La morale d’Épicure et ses rapports avec les doctrines contemporaines, cit. 125 M. Weber, Wissenschaft als Beruf, 1917; tr. it. La scienza come professione, Rusconi, Milano 1997, a cura di P. Volonté. Com’è noto, secondo Max Weber il disincantamento, consistente nel fatto che il mondo si svuota degli dèi e delle forze magiche che un tempo lo

popolavano, è il frutto di quel processo di razionalizzazione che costituisce il destino dell’Occidente, il suo «sviluppo particolare». L’aspetto più interessante è che Weber individua il momento d’inizio del disincantamento nel cristianesimo, che ponendo il divino nei cieli finisce per fare del mondo terreno il mondo dell’uomo e del suo agire razionale. Tuttavia, la prospettiva weberiana non dà il giusto peso alla filosofia greca, che è indubbiamente il primo tentativo (ben anteriore rispetto al cristianesimo) di razionalizzare il mondo: e ciò appare particolarmente evidente nel caso di Epicuro e della sua teoria delle «molteplici spiegazioni», con la quale il filosofo greco sembra giocare un ruolo fondamentale nel disincantamento del mondo, che egli riduce a teatro dell’agire umano, liberandolo dal divino in misura decisamente maggiore rispetto ai Cristiani: se questi, infatti, ammettono pur sempre la possibilità di intervento divino sul mondo (si pensi al miracolo), Epicuro la rigetta in ogni sua forma, intendendo gli dèi come inquilini di remoti «intermondi» e, per di più, totalmente disinteressati alle umane vicende. Proprio come per l’uomo moderno di cui dice Weber, che non sa nulla del tram su cui viaggia ogni giorno ma che, se volesse, potrebbe sapere ogni cosa, anche Epicuro è convinto che, in linea di principio, ogni cosa, anche se non ancora conosciuta, sia comunque conoscibile perché tutto nel mondo procede razionalmente. 126 D. Pesce, Saggio su Epicuro, cit., p. 18. 127 E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, 1959; tr. it. Il principio speranza, Garzanti, Milano 2005, a cura di R. Bodei, p. 1491. 128 Usener, fr. 220, in Epicurea, cit., p. 383. 129 A.A. Long, Hellenistic Philosophy, 1986; tr. it. La filosofia ellenistica. Stoici, epicurei, scettici, Il Mulino, Bologna 1991, p. 42. 130 F.A. Lange, Geschichte des Materialismus und Kritik seiner Bedeutung in der Gegenwart, 1866; tr. it. Storia del materialismo, Monanni, Milano 1932, a cura di A. Treves, I, p. 22. 131 Platone, Sofista, 246 a, in Platone. Tutti gli scritti, cit., p. 290. 132 Ibidem. 133 Ivi, 247 e, p. 292. 134 Diogene Laerzio, cit., X, 8, p. 1169. 135 Ibidem. 136 Ibidem. 137 Plutarco, Adversus Colotem, cit., 29. 138 Diogene Laerzio, cit., X, 12, p. 1173. 139 Naturalmente con le fondamentali modifiche su cui già ci siamo soffermati. 140 Epicuro, Lettera a Pitocle, cit., p. 139. 141 Cicerone, De natura deorum, I, 19, 50, cit. 142 Aristotele, Metafisica, I, 982 B 28 ss., cit., pp. 11 ss. 143 Platone, Repubblica, II, 376 d ss.; in Platone. Tutti gli scritti, cit., pp. 1125 ss. 144 A-J. Festugière, Épicure et ses Dieux, 1946; tr. it. Epicuro e i suoi dèi, Morcelliana, Brescia 1952. A Festugière spetta il merito di aver trattato con profondità il problema teologico in Epicuro, senza scivolare nell’errore – sempre in agguato – di attribuire ad Epicuro una religiosità che a ben vedere gli era del tutto estranea; errore in cui mi pare cadere, tra i tanti, Alessandro Ronconi, quando nel suo pur pregevole Da Lucrezio a Tacito (Vallecchi, Firenze 1968) insiste con enfasi eccessiva sull’ascetismo epicureo, ponendolo direttamente in connessione con una presunta religiosità dello spirito del filosofo del Giardino. 145 Aristotele, Metafisica, XII, 1072 B 10 ss., cit., p. 565. 146 Aristotele, Fisica, II, 8, 199 a, in Aristotele. Opere, Laterza, Roma-Bari 1973, p. 45. 147 Si ricordi la nota controversia circa la mano: ad Anassagora, che – non diversamente dal punto di vista atomistico – sosteneva che essa, frutto del caso, garantiva la superiorità dell’uomo su ogni altro animale, rispose Aristotele, invertendo la prospettiva e asserendo che l’uomo era dotato della mano proprio perché era l’animale più «intelligente». 148 Cfr. B. Spinoza, Ethica more geometrico demonstrata, 1677; tr. it. Etica dimostrata con Metodo Geometrico, Editori Riuniti, Roma 20024, a cura di E. Giancotti, pp. 116-122: «tutti i pregiudizi che qui intraprendo a denunciare dipendono soltanto da questo pregiudizio, che cioè comunemente gli uomini suppongono che tutte le cose naturali, come essi stessi, agiscano in vista di un fine» (p. 116). 149 Lucrezio, De rerum natura, IV, 834-836, cit., p. 53. 150 Ivi, II, 352-366, p. 93.

151 Ivi, I, 84-101, cit., pp. 9-11. 152 Cicerone, De finibus bonorum et malorum, II, 75, cit.; De natura deorum, I, 18, cit. 153 Cicerone, De divinatione I, 3, 5, cit. 154 Seneca, De beneficiis, IV, 4, 1; tr. it. in Seneca. Tutte le opere, cit., pp. 402-403. 155 Lucrezio, De rerum natura, I, 62 ss., cit., pp. 7-9. 156 Aristotele, Metafisica, XII, 7, 1072 a 24 ss., cit., p. 563. 157 Ivi, p. 565. 158 Platone, Teeteto, 176 B; tr. it. in Platone. Tutti gli scritti, cit., p. 224. 159 Epicuro, Lettera a Meneceo, cit., p.185 160 Epicuro, Lettera alla madre, in Epicuro. Lettere, a cura di N. Russello, cit., pp. 169-171. 161 Cicerone, De natura deorum, I, 90, cit. 162 Ivi, II, 17, 46. 163 Epicuro, Lettera a Meneceo, cit., p. 173. 164 Cfr. D. Hume, Natural History of Religion, 1757; tr. it. Storia naturale della religione, Laterza, Roma-Bari 1999. 165 K. Marx, Differenza tra le filosofie della natura di Democrito e di Epicuro, cit., p. 201. 166 Epicuro, Lettera a Meneceo, cit., p. 175. 167 Platone, Timeo, 90 E ss.; tr. it. in Platone. Tutti gli scritti, cit., pp. 1409-1411. 168 Plutarco, Adversus Colotem, 20, 1118 D, cit. 169 Cfr. V. E. Alfieri, Atomos Idea, cit., p. 150. 170 D. Alighieri, Inferno X, 15, cit., p. 110. 171 W. Shakespeare, Hamlet; tr. it. Amleto, Rizzoli, Milano 2003, a cura di G. Baldini, p. 143. 172 Epicuro, Massime capitali, 2, cit., p. 193. 173 Cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit, 1927; tr. it. Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976, a cura di P. Chiodi, pp. 305 ss. Riportiamo qui di seguito un brano heideggeriano particolarmente significativo per l’incredibile vicinanza al tema epicureo della morte come possibilità: «la morte è una possibilità di essere che l’Esserci stesso deve sempre assumersi da sé. Nella morte l’Esserci sovrasta se stesso nel suo poter-essere più proprio. In questa possibilità ne va per l’Esserci puramente e semplicemente del suo essere-nel-mondo. La morte è per l’Esserci la possibilità di non-poter-più-esserci. Poiché in questa possibilità l’Esserci sovrasta se stesso, esso viene completamente rimandato al proprio poter-essere più proprio. In questo sovrastare dell’esserci a se stesso, dileguano tutti i rapporti con gli altri Esserci. Questa possibilità assolutamente propria e incondizionata è, nel contempo, l’estrema. Nella sua qualità di poter-essere, l’Esserci non può superare la possibilità della morte. La morte è la possibilità della pura e semplice impossibilità dell’Esserci. Così la morte si rivela come la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile». 174 Epicuro, Lettera a Meneceo, cit., p. 175. 175 Cfr. D. Pesce, Saggio su Epicuro, cit., p. 61. 176 Lucrezio, De rerum natura, III, 931 ss., cit., p. 203. 177 Orazio, Sermones, I, 1, 118; tr. it. Satire, in Orazio. Tutte le opere, cit., p. 545. 178 Lucrezio, De rerum natura, III, 830-831, cit., p. 197. 179 Cfr. Epicurea, cit., p. 369. 180 Lucrezio, De rerum natura, III, 10024-1052, cit., pp. 207-209. 181 Platone, Repubblica, X, 614 A ss., cit., pp. 1322 ss. 182 Lucrezio, De rerum natura, II, 352-366, cit., p. 92. 183 G. Leopardi, Sopra un bassorilievo antico sepolcrale, dove una giovane morta è rappresentata in atto di partire, accomiatandosi dai suoi, in Canti, Mondadori, Milano 1987, a cura di G. Ficara, p. 202. 184 Seneca, Lettere a Lucilio, 66, 18, cit., p. 806.

185 Epicuro, Massime capitali, 4, cit., p. 195. 186 In Epicurea, fr. 138, cit., p. 331. 187 Seneca, Lettere a Lucilio, 20, 1, cit., p. 725. 188 Cfr. Luciano, Storia vera, in Dialoghi di Luciano, cit., vol. II, p. 167: «i seguaci di Aristippo e di Epicuro erano in quel mondo i più stimati, essendo piacevoli, benvoluti, socievolis simi». 189 A-J. Festugière, Epicuro e i suoi dèi, cit., p. 68. 190 «Scelgono invero una cosa fra tutte i migliori: gloria eterna invece di cose che non durano; il volgo invece si satolla come armenti»: Eraclito, fr. 29 Diels-Kranz, in Tutti i frammenti, Le Monnier, Firenze 1969, a cura di B. Salucci e G. Gilardoni, p. 109. 191 «Io ti voglio riferire un’altra immagine […]. Prova a riflettere sull’uno e sull’altro tipo di vita, quella cioè del temperante e quella del dissoluto, se ti pare di potere paragonarle alle condizioni di due uomini, ciascuno dei quali abbia molti orci […]. Immagina, invece, che il secondo possa, sì, procurarsi i liquidi, ma sempre con difficoltà, e che, per di più, abbia i vasi bucati e consumati e che sia costretto a riempirli continuamente giorno e notte, per evitare le più gravi sofferenze»: Platone, Gorgia, 493 d ss., in Platone. Tutti gli scritti, cit., p. 903. 192 «Gli uomini della massa, i più rozzi, l’identificano {la loro concezione del bene e della felicità} con il piacere e per questo amano la vita di godimento. Sono tre, infatti, i principali tipi di vita: quello or ora menzionato, la vita politica, e, terzo, la vita contemplativa. Orbene, gli uomini della massa si rivelano veri e propri schiavi, scegliendosi una vita da bestie»: Aristotele, Etica nicomachea, 1095 B 15, cit., p. 57. 193 Epicuro, Lettera a Meneceo, cit., p. 175. 194 Ibidem. 195 Epicuro, Massime capitali, cit., p. 201. 196 Diogene Laerzio, X, 34, cit., p. 1193. 197 Cicerone, De finibus bonorum et malorum, cit., III, 1, 3. 198 J. Bentham, Introduction to the Principles of Morals and Legislation, 1789; tr. it. Introduzione ai princìpi della morale e della legislazione, U.T.E.T., Torino 1998. 199 Cicerone, De finibus bonorum et malorum, I, 11, 37, cit. 200 Seneca, Lettere a Lucilio, 42, 1, cit., p. 761. 201 Le virgolette sono mai come in questo caso indispensabili, nella misura in cui si applica ad Epicuro una categoria che, ovviamente, non ha nulla a che fare col suo tempo, ma che in ogni caso rende benissimo l’idea del progetto epicureo di rischiaramento e di razionalizzazione del reale. 202 Platone, Timeo, 70 A, cit., p. 1393. 203 Seneca, Lettere a Lucilio, 16, 7, cit., p. 719. 204 Ivi, 17, 11, p. 721. 205 Clemente Alessandrino, Gli Stromati, I, 12, Edizioni Paoline, Milano 1985, a cura di G. Pini, II, 4. 206 Orazio, Carmina, I, 11, 8; tr. it. Odi, in Orazio. Tutte le opere, cit., p. 57. 207 Cfr. Diogene Laerzio X, 137, cit., pp. 1289-1291; Cicerone, Tusculanae disputationes, V, 34, 95, cit. 208 J. S. Mill, Utilitarism, § II, 1863; tr. it. Utilitarismo, Cappelli, Bologna 1981, a cura di M. Musacchio. 209 Platone, Fedro, 228 A ss., in Platone. Tutti gli scritti, cit., pp. 542-546. 210 Cicerone, De natura deorum, I, 93, cit. 211 In Epicurea, cit., fr. 143, p. 337. 212 Epicuro, Massime capitali, 27, cit., p. 205. 213 K. Marx, Differenza tra le filosofie della natura di Democrito e di Epicuro, cit., p. 201. 214 H. Marcuse, On Hedonism, 1938, in W. Schirmacher, German 20th-Century Philosophy: The Frankfurt School, Continuum, New York 2000. 215 Cfr. Lucrezio, De rerum natura, IV, 843-854, cit., pp. 53-55.

216 Diogene Laerzio, cit., VI, 98, p. 711. 217 B. Farrington, Che cosa ha veramente detto Epicuro, cit., p. 141. 218 Diogene Laerzio, cit., X, 10, p. 1169. 219 G. Reale, Storia della filosofia greca e romana, cit., vol. V, p. 126. 220 Cicerone, De oratore, III, 17, 63, cit. 221 G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, cit., vol. I, parte II, cap. 2. 222 Cicerone, De natura deorum, I, 102, cit. 223 F. Adorno, La filosofia antica, cit., pp. 202-3. 224 Ivi, p. 201. 225 Platone, Fedro, 230 D, cit., p. 541. 226 Emblematica è la risposta che Candido fornisce al maestro Pangloss, che anche quando tutto va male si ostina a sostenere leibnizianamente che tutto procede nel migliore dei modi possibili: «è giusto […] ma bisogna coltivare il nostro giardino». Cfr. Voltaire, Candide, ou l’optimisme, 1759; tr. it. Candido o l’ottimismo, in Voltaire. Tutti i romanzi e i racconti, Newton & Compton, Roma 1995, p. 158. 227 Epicuro, Massime capitali, 27, cit., p. 205. 228 J. Rohls, Geschichte der Ethik, 1991; tr. it. Storia dell’etica, Il Mulino, Bologna 1995, p. 93. 229 Aristotele, Politica, I, 2, 1253 A 29; tr. it. Laterza, Roma-Bari 2002, a cura di R. Laurenti, p. 7. 230 Seneca, Lettere a Lucilio, 19, 10, cit., p. 725. 231 Ivi, 78. 232 D. Pesce, Introduzione a Epicuro, cit., p. 121. 233 G.E. Moore, Principia ethica, 1903; tr. it. Bompiani, Milano 1972, a cura di N. Abbagnano e G. Vattimo. 234 Cicerone, De amicitia; tr. it. L’amicizia, Newton & Compton, Roma 1993, p. 27. 235 Plutarco, De latenter vivendo, 3, 1128, cit. 236 Seneca, Lettere a Lucilio, 26, 6, cit., p. 738. 237 Aristotele, Politica, I, 2, 1253 A 3, cit., p. 6. 238 B. Farrington, Che cosa ha veramente detto Epicuro, cit., p. 18. 239 Ibidem. 240 A.A. Long, La filosofia ellenistica, cit., p. 29. 241 Lucrezio, De rerum natura, V, 8, cit., p. 83. 242 «Nobil natura è quella / Ch’a sollevar s’ardisce / Gli occhi mortali incontra / Al comun fato, e che con franca lingua, / Nulla al ver detraendo, / confessa il mal che ci fu dato in sorte, E il basso stato e frale»: G. Leopardi, La ginestra, o il fiore del deserto, 111-119, in Canti, cit., p. 225. I versi leopardiani sono una vera e propria riproposizione di quelli con cui Lucrezio tratteggia la figura di Epicuro: «primum Graius homo mortalis tendere contra est oculos ausus primusque obsistere contra»: cfr. De rerum natura, I, 66-67, cit., p. 8. 243 Epicuro, Massime capitali, 33, cit., p. 207. 244 Ibidem. 245 Aristotele, Etica nicomachea, V, 1134 B, cit., p. 209. 246 E proprio quest’insistenza stoica sull’eternità delle leggi della natura farà sì che il giusnaturalismo cristiano dell’Età medievale, incentrato sulla «lex aeterna» dettata da Dio, accolga l’eredità stoica per quel che concerne la teoria della giustizia. Così, Agostino può definire la giustizia in questi termini: «lex vero aeterna est ratio divina vel voluntas Dei, ordinem naturalem conservari iubens, perturbari vetans» (Contra Faustum, XXII 27, PL 42, 418). 247 Lattanzio, Divinae institutiones, III, 17, 42, cit. 248 Epicuro, Lettera a Meneceo, cit., p. 177. 249 F. Nietzsche, Der Wanderer und sein Schatten, § 7, 1880; tr. it. Il viandante e la sua ombra, in Umano, troppo umano, Adelphi,

Milano 1994, a cura di S. Giametta, pp. 137-138. 250 G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, 1807; tr. it. Fenomenologia dello spirito, Rusconi, Milano 1995, a cura di V. Cicero, p. 295 ss. 251 Ivi, pp. 295-297. 252 Ivi, p. 297. 253 Ivi, p. 299. 254 Ivi, p. 303. 255 Ivi, p. 307. 256 E. Bignone, L’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro, cit., p. 111. 257 Ibidem. 258 Epicuro, Massime capitali, 21, cit., p. 203. 259 Cicerone, De natura deorum, I, 26, 72, cit. 260 Diogene Laerzio, cit., X, 13, p. 1173. 261 F. Mauthner, Der Atheismus und seine geschichte im Abenlande, 1920, vol.I, «Epicuro e Lucrezio», pp. 119-141. 262 Cicerone, De finibus bonorum et malorum, II, 6, 18, cit. 263 «Epicuro si ritrova spesso criticato perchè ignorante e perchè nemmeno nelle comuni discussioni si esprime con proprietà»: Sesto Empirico, Contro i matematici, I, 1, cit. 264 W.P. Schmid, Epikur, in Reallexikon für Antike und Chri sten tum, 1962; tr. it. Epicuro e l’Epicureismo cristiano, Pandora, Brescia 1984, p. 51. 265 «Occorre in primo luogo cogliere quello che sta a fondamento delle parole, perché, riferendoci a questo, possiamo avere di che giudicare le opinioni sugli oggetti della ricerca o sui problemi irrisolti»: Epicuro, Lettera a Erodoto, 37, cit., pp. 63-65. 266 Orazio, Epistole, I, 4, 15-16, cit., p. 873. 267 P. Boyancé, Lucrèce et l’épicureisme, 1963; tr. it. Lucrezio e l’Epicureismo, Paideia, Brescia 1970, p. 45. 268 Numenio di Apamea, fr. 24 del Places; cfr. G. Reale, Storia della filosofia greca e romana, vol. V, cit., p. 257. 269 Ibidem. 270 Plutarco, Adversus Colotem, 1017 d-e, cit. 271 M. I. Parente, op. cit. p. 71 ss. 272 Cfr. Proclo, In Platonis rempublicam, II. 273 A cura di G. Indelli, Bibliopolis, Napoli 1978. 274 Diogene Laerzio, cit., X, 22, p. 1181. 275 W. Robertson Smith, The Religion of the Semites (Burnett Lectures, 1888-1889), Edinburgh 1889, p. 33, traduzione mia. 276 G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Religion, 1832, a cura di G. Lasson, 2 voll.; tr. it. Lezioni sulla filosofia della religione, Laterza, Roma-Bari 1983, vol. II, a cura di E. Oberti e G. Borruso, pp. 419 ss. 277 E. Paratore, La letteratura latina dell’età repubblicana e augustea, Sansoni-Accademia, Firenze-Milano 1969, p. 274. 278 A. Rostagni, Storia della letteratura latina, U.T.E.T., Torino 1949, 3 voll., pp. 394-95. 279 Cicerone, Tusculanae disputationes, IV, 3, 6-7, cit. 280 Lucrezio, De rerum natura, IV, 10-20, cit., p. 5. 281 W.P. Schmid, Epikur, cit., pp. 99 ss. 282 Diels, 9B 67; in F. Decleva Caizzi, Timone di Fliunte: i frammenti 74, 75, 76 Diels, in La storia della filosofia come sapere critico. Studi offerti a Mario Dal Pra, Franco Angeli, Milano 1984, pp. 92-105. 283 Epicuro, Lettera a Meneceo, cit., p. 181. 284 Cicerone, De finibus bonorum et malorum, II, 12, cit. 285 Ibidem.

286 Cicerone, De divinatione, I 30, 62, cit. 287 Cicerone, De natura deorum, I, 61, cit. 288 Orazio, Epistole, I, 4, 15-16, cit., p. 872. 289 Seneca, De vita beata, 13, 2; tr. La vita felice, in Seneca. Tutte le opere, cit., pp. 169-170. 290 Agostno, Confessiones, VI, 16.26; tr. it. Confessioni, Garzanti, Milano 2004. 291 Clemente Alessandrino, Il Protrettico, cap. 5, in Il Protrettico. Il Pedagogo, U.T.E.T., Torino 1971, a cura di M.G. Bianco. 292 D. Alighieri, Convivio, trattato II, cap. VIII, Rizzoli, Milano 1993. 293 Clemente Alessandrino, Gli Stromati, cit. 294 Ivi, II, 11, 50.6. 295 Agostino, Esegesi del Salmo 73, 25, in Epicurea, cit., p. 499. 296 Giuliano, Lettere, 89, 30 C-D. 297 W.P. Schmid, op. cit., p. 141. 298 B. Pascal, Pensées, fr.79; tr. it. Pensieri, Bompiani, Milano 2003, a cura di A. Bausola, p. 59. 299 L’espressione è di Hegel: cfr. Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie [ed. orig. 1842], in Id., Vorlesungen. Ausgewählte Nachschriften und Manuskripte, vol.IX, parte IV, Philosophie des Mitelalters und der neueren Zeit, a cura di P.Garniron e W. Jaeschke, Hamburg 1986. 300 H. Jones, The Epicurean Tradition, 1989; tr. it. La tradizione Epicurea. Atomismo e materialismo dall’Antichità all’Età Moderna, ECIG, Genova 1999. 301 W.P. Schmid, Epicuro e l’Epicureismo cristiano, cit., p. 148. 302 M. Aurelio, I ricordi, VII, 64; XI, 41, Einaudi, Torino 2003. 303 Seneca, Lettere a Lucilio, 2, cit., p. 696. 304 J. Fallot, Le plaisir et la mort dans la philosophie d’Epicure, 1951; tr. it. Il piacere e la morte nella filosofia di Epicuro, Einaudi, Torino 1977, a cura di S. Timpanaro. 305 Usener, fr. 221, in Epicurea, cit., p. 383.

© il prato publishing house srl - settembre 2013 1° ristampa © il prato - 2006 via Lombardia 43 35020 Saonara (PD) tel. 049 640105 fax 049 8797938 www.ilprato.com • [email protected] studio grafico: il prato ISBN 9788863362305 ebook by ePubMATIC.com

View more...

Comments

Copyright ©2017 KUPDF Inc.
SUPPORT KUPDF