Deleuze Marcel Proust e i Segni

March 9, 2017 | Author: Clint Armstrong | Category: N/A
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L'opera di Proust continua a ispirare il pensiero critico con una straordinaria ricchezza di esiti e di approcci. Di quell'itinerario verso le essenze che è la Recherche - ricerca, propriamente, della verità - Deleuze precisa le articolazioni in una serie di piani semiologia e di rigorose rispondenze. Non si propone di estrarre dal racconto una visione del mondo proustiana: esperienza e racconto tracciano in Proust una critica (filosofica) della filosofia, intesa come progetto volonteroso e disinteressato di conoscenza. La ricerca della verità nasce nell'incontro e nella violenza, e ne è garantita; i suoi progressi attraversano una serie di campi di forze. L'esperienza di vita che l'opera fa emergere costituisce il disegno e insieme il prezzo di questa ricerca. La stesura dell'opera è la lettura dei diversi ordini di segni (non significazioni oggettive, stabili ed esplicite, né arbitrarie speculazioni soggettive) in cui si articola il vissuto. Vivere è pensare; ma pensare - dice Deleuze, attraverso Proust — è interpretare, tradurre un geroglifico, scioglierne la doppia struttura simbolica. Descritti e riordinati in questa prospettiva, i temi classici proustiani - della gelosia o dello snobismo, del godimento estetico o dell'omosessualità - acquistano una nuova, persuasiva chiarezza.

Gilles Deleuze è nato a Parigi nel 1925. Ha particolarmente contribuito alla ripresa, in Francia, della problematica nietzschiana. È, accanto a Foucault e a Derrida, tra i principali esponenti di una nuova generazione di studiosi, nel nuovo movimento di pensiero che investe filosofia, psicologia e linguaggio. Oltre a saggi ed articoli usciti su riviste filosofiche e letterarie, e ai profili critici e antologici dedicati a Hume, Nietzsche e Bergson, ha pubblicato: Empirisme et subjectivité, Essai sur la nature humaine se-lon Hume (PUF, Paris 1953), Nietzsche et la philosophie (PUF, Paris 1962; 2

a

edizione riveduta e corretta, 1966), La philosophie critique de Kant (PUF, Paris 1963), Marcel Proust et les signes (PUF, Paris 1964), Le bergsonisme (PUF, Paris 1966), Présentation de Sacher-Masoch (Edi-tions de Minuit, Paris 1967).

LA RICERCA LETTERARIA Serie critica 3.

Titolo originale Marcel Proust et les signes © 1964 Presses Universitaires de France Copyright © 1967 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino Terza edizione Traduzione di Clara Lusignoli

GILLES DELEUZE

MARCEL PROUST E I SEGNI

Giulio Einaudi editore

MARCEL PROUST E I SEGNI

I segni

In che consiste l'unità di Alla ricerca del tempo perduto? Sappiamo almeno in che cosa non consiste. Non consiste nella memoria, nel ricordo, sia pure involontario. L'essenziale della Ricerca non sta nella « madeleine » o nei « pavés ». Da un lato, la Ricerca non è semplicemente uno sforzo per ricordare, una esplorazione della memoria: il termine « ricerca » va preso nel suo senso più forte, come nell'espressione « ricerca della verità ». D'altra parte, il tempo perduto non è semplicemente il tempo passato; è anche il tempo che si perde come nell'espressione « perdere tempo ». La memoria, s'intende, interviene come un mezzo nella ricerca, ma non è il mezzo più profondo; il tempo passato interviene come una struttura del tempo, ma non è la struttura più profonda. In Proust, i campanili di Martinville e la piccola frase di Vinteuil, che pure non fanno intervenire nessun ricordo, nessuna resurrezione del passato, conteranno più della « madeleine » o del selciato di Venezia, che dipendono dalla memoria e, a questo titolo, rimandano ancora a una « spiegazione materiale » '. Si tratta, non già di una esposizione della memoria involontaria, ma del racconto d'un «apprentissage»: quello, precisamente, di un letterato \ Il versante di Méséglise e quello di Guermantes non sono tanto le fonti del ricordo, quanto le materie prime, le direttrici dell'apprendimento: i due versanti di una « formazione ». Proust insiste sem1 Prigioniera, p. 599. I richiami e le citazioni si riferiscono all'edizione integrale della Recherete in traduzione italiana ( MARCEL PROUST, Alla ri cerca del tempo perduto, a cura di Paolo Serini, Einaudi. Torino 1963, 7 voli.). 2 Tempo, p. 245.

pre su un punto: in questo o in quel momento, il protagonista non sapeva ancora una certa cosa, rapprenderà in seguito; era vittima di una certa illusione, di cui finirà per disfarsi. Da qui il movimento delle delusioni e delle rivelazioni, da cui è ritmata l'intera Ricerca. Qualcuno invocherà il platonismo di Proust: apprendere è ancora ricordare. Ma per quanto importante sia la sua funzione, la memoria interviene solo come mezzo di un apprendistato che la sorpassa sia negli scopi che nei principi. La Ricerca è rivolta verso il futuro, e non verso il passato. Apprendere è cosa che concerne essenzialmente i segni. Questi sono appunto oggetto di un apprendimento temporale, non di un sapere astratto. Apprendere significa anzitutto considerare una materia, un oggetto, un essere, come se emettessero segni da decifrare, da interpretare. Non esiste apprendista che non sia « l'egittologo » di qualche cosa. Non si diventa falegnami se non facendosi sensibili ai segni del legno, o medici, a quelli della malattia. La vocazione è sempre predestinazione in rapporto ai segni. Tutto ciò che ci fa apprendere qualcosa emette segni, ogni atto dell'apprendere è un'interpretazione di segni o di geroglifici. L'opera di Proust non si basa sull'esposizione della memoria, ma sull'apprendimento dei segni. Da questo essa trae la sua unità, ed anche il suo straordinario pluralismo. La parola «segno», è tra quelle che s'incontrano più di frequente nella Ricerca, specialmente nella sistematizzazione finale costituita dal Tempo ritrovato. La Ricerca si presenta come l'esplorazione dei vari mondi dei segni, che si organizzano in cerchi, intersecandosi in certi punti. I segni sono infatti specifici e costituiscono la materia di questo o quel mondo. Già lo vediamo nei personaggi secondari : Norpois e il cifrario diplomatico, Saint-Loup e i segni strategici, Cottard e i sintomi medici. Un individuo può mostrarsi abile nel decifrare i segni propri di un campo, ma restare idiota in ogni altro caso: cosi Cottard, il grande clinico. Inoltre, entro lo stesso campo, ci sono diversi mondi separati fra loro: i segni dei Verdurin non hanno corso presso i Guermantes, e viceversa; lo stile di Swann o i geroglifici di Charlus non sono ammessi in casa Verdurin. L'unità di tutti i mondi consi-

ste nel formare sistemi di segni emessi da persone, oggetti, materie: nessuna verità si scopre, nulla si apprende, se non decifrando e interpretando. Ma la pluralità dei mondi sta nel fatto che quei segni non sono tutti dello stesso genere, non si manifestano nella stessa maniera, non si lasciano decifrare nello stesso modo, non hanno un identico rapporto con il loro senso. Dobbiamo qui verificare Tipo-tesi che i segni formino a un tempo l'unità e la pluralità della Ricerca, considerando i mondi cui partecipa direttamente il protagonista.

Il primo mondo della Ricerca è quello della mondanità. Nessun altro ambiente emette tanti segni, entro spazi altrettanto ridotti, a una velocità così grande. Vero è che tali segni non sono omogenei; in un determinato momento, si differenziano, non solo secondo le classi, ma anche secondo « famiglie spirituali » ancora più profonde. Si evolvono da un momento all'altro, si cristallizzano, o danno luogo ad altri segni. Di modo che è compito dell'apprendista comprendere perché taluno venga ammesso in un certo ambiente, perché un altro ne venga escluso; a quali segni obbediscano i vari ambienti, chi siano i loro legislatori e gran sacerdoti. Nell'opera di Proust, Charlus è il personaggio che opera la più prodigiosa emissione di segni, in virtù della sua potenza mondana, del suo orgoglio, del suo senso del teatro, del volto e della voce. Ma, spinto dall'amore, Charlus non è nulla in casa Verdurin; e finirà per non contare più anche nel suo stesso mondo, quando saranno cambiate le leggi implicite che lo reggono. Quale è dunque l'unità dei segni mondani? Un saluto del duca di Guermantes è da interpretare, e i rischi di errore sono altrettanto grandi che in una diagnosi. Lo stesso si può dire di una mimica della signora Verdurin. Il segno mondano appare come in sostituzione di un'azione o di un pensiero. Fa le veci di azione e di pensiero. È quindi un segno che non rimanda a qualche altra cosa, significato trascendente o contenuto ideale, ma che ha u-surpato il valore presunto del suo senso. Appunto per questo, la mondanità, giudicata dal punto di vista delle

azioni, appare deludente e crudele; e, dal punto di vista del pensiero, perfino stupida. In essa, non si pensa, non si agisce: ci « si fa segno ». Non si dice nulla di divertente, in casa della signora Verdurin, e la signora Verdurin non ride; ma Cottard fa segno che sta dicendo una cosa divertente, la signora Verdurin fa segno che ride, e il suo segno è emesso in modo cosi perfetto che il signor Verdurin, per non essere da meno, cerca a sua volta una mimica appropriata. La signora de Guermantes è spesso dura di cuore, debole di pensiero, ma i suoi segni sono sempre incantevoli. Non agisce per i suoi amici, non pensa con loro, fa segni. Il segno mondano non rimanda a qualche cosa, ne « prende il posto», pretende di valere per il suo senso. Anticipa l'azione come il pensiero, annulla il pensiero come l'azione, e si dichiara sufficiente. Da ciò, il suo aspetto stereotipato, la sua vacuità. Non concluderemo per questo che tali segni siano trascurabili. Un apprendimento che non passasse attraverso di essi sarebbe imperfetto e perfino impossibile. I segni sono vuoti, ma questa vacuità conferisce loro una perfezione rituale, quasi un formalismo che non è possibile ritrovare altrove. Solo i segni mondani sono capaci di dare una sorta di esaltazione nervosa, che esprime quale sia su di noi l'effetto delle persone in grado di produrli '.

Il secondo cerchio è quello dell'amore. L'incontro Char-lus-Jupien pone il lettore di fronte al più prodigioso scambio di segni. Innamorarsi vuol dire individualizzare qualcuno attraverso i segni che porta o che emette. Vuol dire diventare sensibile a questi segni, iniziarsi ad essi (come nella lenta individualizzazione di Albertine, entro il gruppo delle fanciulle). L'amicizia può forse nutrirsi di osservazione e di conversazione, ma l'amore nasce e si nutre d'interpretazione silenziosa. L'essere amato appare come un segno, un'«anima»: esprime un mondo possibile a noi sconosciuto. L'amato implica, include, imprigiona un mondo che occorre decifrare, e cioè interpretare. Si tratta 1 Guermantes, pp. 598-603.

anzi di una pluralità di mondi; il pluralismo dell'amore non riguarda soltanto la molteplicità degli esseri amati, ma la molteplicità delle anime o dei mondi racchiusi entro ognuno di essi. Amare è cercare di spiegare, di sviluppare questi mondi sconosciuti che restano avviluppati nell'amato. Per questo ci è tanto facile innamorarci di donne che non appartengono al nostro mondo e neppure al nostro tipo. Per questo le donne amate sono spesso legate a paesaggi che conosciamo tanto da desiderare di vederne il riflesso negli occhi di una donna, ma che si riflettono allora da un punto di vista cosi misterioso da essere per noi come inaccessibili regioni sconosciute: Albertine racchiude in sé, incorpora, amalgama « la plage et le dé-ferlement du flot ». Come potremmo penetrare in un paesaggio che non è più quello che vediamo, ma piuttosto quello in cui siamo visti? « Si elle m'avait vu, qu'avais-je pu lui représenter? Du sein de quel univers me distin-guait-elle? » '. C'è dunque una contraddizione dell'amore. Non possiamo interpretare i segni di un essere amato senza sboccare in mondi che non hanno aspettato noi per formarsi, che si formarono con altre persone, e nei quali siamo dapprima solo un oggetto tra gli altri. L'amante desidera che l'amato gli dedichi le sue preferenze, i suoi gesti, le sue carezze. Ma i gesti dell'amato, nel momento stesso che sono rivolti e dedicati a noi, esprimono ancora quel mondo ignoto che ci esclude. L'amato ci dà segni di preferenza; ma poiché quei segni sono i medesimi che esprimono mondi di cui non facciamo parte, ogni preferenza di cui profittiamo traccia l'immagine del mondo possibile dove altri sarebbero o sono preferiti. « Aussitót sa jalousie, comme si elle était l'ombre de son amour, se complétait du doublé de ce nouveau sourire qu'elle lui avait adressé le soir mé-me, et qui, inverse maintenant, raillait Swann et se char-geait d'amour pour un autre... De sorte qu'il en arrivait à regretter chaque plaisir qu'il goùtait près d'elle, chaque caresse inventée et dont il avait eu l'imprudence de lui

1 Ombra, p. 397. «Se mi aveva visto, che mai avevo rappresentato per lei? Dal grembo di quale universo mi distingueva?»

signaler la douceur, chaque gràce qu'il lui découvrait, car il savait qu'un instant après, elles allaient enrichir d'ins-truments nouveaux son supplice » \ La contraddizione dell'amore consiste in questo: i mezzi su cui contiamo per preservarci dalla gelosia sono gli stessi mezzi che alimentano questa gelosia, conferendole una specie di autonomia, d'indipendenza rispetto al nostro amore. La prima legge dell'amore è soggettiva: soggettivamente la gelosia è più profonda dell'amore, ne contiene la verità. E questo perché la gelosia va più lontano nel cogliere e nell'interpretare i segni. È la destinazione dell'amore, la sua finalità. Infatti è inevitabile che i segni di un essere amato si rivelino ingannevoli appena cerchiamo di « esplicarli»: rivolti a noi, applicati a noi, esprimono però dei mondi da cui siamo esclusi, e che l'amato non vuole, non può farci conoscere; non già per effetto di una cattiva volontà da parte sua, ma in ragione d'una contraddizione più profonda, connessa alla natura dell'amore e alla situazione generale dell'essere amato. I segni amorosi non sono, come quelli mondani, segni vuoti che fanno le veci di pensiero e di azione. Sono segni ingannevoli che possono rivolgersi a noi solo nascondendo ciò che esprimono, cioè l'origine dei mondi sconosciuti, dei pensieri e delle azioni a noi ignoti da cui prendono senso. Non suscitano un'esaltazione nervosa superficiale, ma la sofferenza d'un approfondimento. Le menzogne dell'amato sono i geroglifici dell'amore. L'interprete dei segni amorosi è necessariamente interprete di menzogne. Il suo destino sta tutto nel motto : amare senza essere amato. Che cosa nasconde la menzogna nei segni amorosi? Tutti i segni ingannevoli emessi da una donna amata convergono verso il medesimo mondo segreto: il mondo di Gomorra, che, a sua volta, non dipende da questa o da quel-

1 Strada, p. 296. «Ma subito la sua gelosia, come fosse stata l'ombra del suo amore, si completava del duplicato di quel nuovo sorriso ch'ella gli aveva rivolto la sera stessa, - e che, ora inverso, canzonava Swann ed era colmo d'amore per un altro... Di modo che giungeva a rammaricarsi d'ogni piacere che godeva con lei, d'ogni carezza inventata e di cui aveva avuto l'imprudenza di fargli osservare la soavità, d'ogni grazia che le scopriva, poiché sapeva che un attimo dopo avrebbero arricchito di nuovi strumenti il suo supplizio».

la donna (benché una donna possa incarnarlo meglio di un'altra), ma è la possibilità femminile per eccellenza, come un a priori svelato dalla gelosia. Il mondo espresso dalla donna amata è sempre un mondo che ci esclude, anche quando essa mostra di preferirci. Ma quale, tra tutti i mondi, è il più esclusivo? « C'était une terra incognita terrible où je venais d'atterrir, une phase nouvelle de souffrances insoup^onnées qui s'ouvrait. Et pourtant ce déluge de la réalité qui nous submerge, s'il est enorme auprès de nos timides suppositions, il était pressenti par elles... Le rivai n'était pas semblable à moi, ses armes étaient différentes, je ne pouvais pas lutter sur le mème terrain, donner 1

à Albertine les mèmes plaisirs, ni mème les concevoir exactement» . Interpretiamo tutti i segni della donna amata; ma al termine di questo doloroso decifrare, urtiamo contro il segno di Gomorra, come contro l'espressione più profonda d'una realtà femminile originale. La seconda legge dell'amore proustiano si ricollega alla prima: oggettivamente, gli amori intersessuali sono meno profondi dell'omosessualità, e in questa trovano la loro verità. Se infatti è vero che il segreto della donna amata è il segreto di Gomorra, il segreto dell'amante è quello di Sodoma. Analoghe sono le circostanze in cui il protagonista della Ricerca sorprende la signorina Vinteuil e sorprende Charlus \ Ma la signorina Vinteuil spiega tutte le donne amate, come in Charlus si assommano tutti gli a-manti. All'estremo limite dei nostri amori, sta l'Ermafrodito originale. Ma l'Ermafrodito non è l'essere capace di fecondare se stesso. Invece di congiungere i sessi, li separa, fonte da cui scorrono di continuo le due serie omosessuali divergenti, quella di Sodoma e quella di Gomorra. In lui è la chiave della predizione di Sansone: « Les deux

1 Sodoma, pp. 553, 558. «Era una "terra incognita" terribile quella cui ero or ora approdato, era una nuova fase d'insospettate sofferenze che si apriva. E, tuttavia, questo diluvio della realtà che ci sommerge, se è enor me accanto alle nostre timide ed infime supposizioni, è stato presentito da esse... Il rivale non era simile a me, le sue mani erano differenti, non po tevo lottare sullo stesso terreno, dare ad Albertine gli stessi piaceri, nep pure anzi potevo raffigurarmeli con esattezza». 2 lbid., p. 14.

sexes mourront chacun de son coté » '. A tal punto che gli amori intersessuali sono soltanto l'apparenza che ricopre la destinazione di ciascuno, celando il fondo maledetto dove tutto si elabora. E se le due serie omosessuali rappresentano la profondità più remota, anche ciò avviene in funzione dei segni. I personaggi di Sodoma, i personaggi di Gomorra compensano con l'intensità del segno il segreto cui sono costretti. Di una donna che guarda Albertine, Proust scrive: «On eùt dit qu'elle lui faisait des signes comme à l'aide d'un phare » \ L'intero mondo dell'amore va dai segni rivelatori della menzogna a quelli nascosti di Sodoma e di Gomorra.

Il terzo mondo è quello delle impressioni o delle qualità sensibili. Avviene che una qualità sensibile ci dia una strana gioia, trasmettendoci nello stesso tempo una sorta d'imperativo. Cosi percepita, la qualità non appare più come una proprietà dell'oggetto che la possiede attualmente, ma come il segno di un oggetto completamente diverso't che dobbiamo tentare di decifrare, a prezzo d'uno sforzo sempre sul punto di fallire. È come se la qualità racchiudesse, tenesse prigioniera l'anima di un oggetto diverso da quello attualmente da lei designato. Questa qualità, questa impressione sensibile, siamo noi a « svilupparla », come una di quelle cartine giapponesi che si aprono nell'acqua liberando la forma prigioniera \ Esempi di tal genere sono tra i più celebri della Ricerca, e si accentuano verso la fine (la rivelazione finale del « tempo ritrovato» si fa annunciare dal moltiplicarsi dei segni). Ma di fronte a qualsiasi esempio, « madeleine», campanili, alberi, lastricati, salviette, rumore del cucchiaio o d'una conduttura, assistiamo allo stesso svolgimento. Anzitutto una gioia prodigiosa, per cui questi segni già si distinguono dai precedenti nel loro effetto immediato. E, d'altra parte, un

1 Sodoma, p. 21. «Les deux sexes mourront chacun de son coté» (da A. DE VIGNY, LÀ colere de Samson, v. 80). 1 Ibtd , p. 271. € Pareva le facesse dei segnali come per mezzo d'un faro». 1 Strada, p. 31.

sentimento di intimazione, la necessità di far lavorare il pensiero: cercare il senso del segno (avviene tuttavia che, per pigrizia, ci si sottragga a questo imperativo, o che le ricerche falliscano, per impotenza o per disgrazia: è il caso degli alberi). Poi, il senso del segno appare, svelandoci l'oggetto nascosto - Combray per la « madeleine », le ragazze per i campanili, Venezia per il lastricato... Ma non è detto che lo sforzo dell'interprete si fermi qui. Resta da spiegare perché, sotto la sollecitazione della « madeleine », Combray non si contenta di risorgere quale era apparsa agli occhi del protagonista (semplice associazione d'idee), ma sorge in modo assoluto, in una forma non mai vissuta, nella sua « essenza » o nella sua eternità. O, che in fondo è la stessa cosa, resta da spiegare perché proviamo una gioia così intensa e cosi particolare. In un testo importante, Proust cita la « madeleine » come un caso d'insuccesso: «J'avais alors ajourné de rechercher les causes profondes » \ Eppure, da un certo punto di vista, la « madeleine » appariva come un vero successo: l'interprete ne aveva trovato il senso, non senza fatica, nel ricordo incosciente di Combray. I tre alberi, invece, costituiscono un reale insuccesso, poiché non viene chiarito il loro senso. Dobbiamo dunque credere che, nello scegliere come esempio d'insufficienza la « madeleine », Proust mirasse a una nuova tappa dell'interpretazione, una tappa estrema. Sta di fatto che le qualità sensibili o le impressioni, anche se bene interpretate, non sono ancora in se stesse segni sufficienti. Eppure, non si tratta più di segni vuoti, atti a darci un'esaltazione fittizia, come i segni mondani; né di segni mendaci che ci fanno soffrire, come i segni dell'amore, il cui vero senso ci prepara un dolore sempre più grande. Sono segni veritieri, che ci danno immediatamente una gioia straordinaria, segni pieni, affermativi, esultanti. Ma sono segni materiali; e non semplicemente a causa della loro origine sensibile. Ma, una volta svelato, il loro senso significa Combray, fanciulle, Venezia o Balbec. Non soltanto la loro origine, ma la loro spiegazione, il lo1 Tempo, p. 202. «Avevo allora rinunciato a ricercare le cause profon». de

ro sviluppo restano materiali '. Sentiamo perfettamente che quel Balbec, quella Venezia... non sorgono come il prodotto di un'associazione di idee, ma in persona e nella loro essenza. £ tuttavia non siamo ancora in grado di comprendere in che consista questa essenza ideale, né perché proviamo tanta gioia. « Le goùt de la petite madeleine m'avait rappelé Combray. Mais pourquoi les images de Combray et de Venise m'avaient-elles, à Pun et à l'autre moment, donne une joie pareille à une certitude et suffi-sante sans autres preuves à me rendre la mort indifféren-ce? »\

Alla fine della Ricerca, l'interprete comprende ciò che gli era sfuggito nel caso della «madeleine» o anche dei campanili: il senso materiale non è nulla senza l'essenza ideale che esso incarna. L'errore sta nel credere che i geroglifici rappresentino « solamente oggetti materiali » \ Ma quello che ora permette all'interprete di andare oltre, è il fatto che nel frattempo il problema dell'arte si è posto, e ha trovato una soluzione. Orbene, il mondo dell'arte è appunto il mondo estremo dei segni; e questi, in quanto smaterializzati, trovano il loro senso in una essenza ideale. Da questo punto, il mondo rivelato dell'arte reagisce su tutti gli altri, e specialmente sui segni sensibili, integrandoli, colorandoli di un senso estetico, penetrando quanto restava in essi di opaco. Comprendiamo allora che i segni sensibili ci rimandavano già a un'essenza ideale incarnata nel loro senso materiale. Ma senza l'arte non avremmo potuto capirlo, né oltrepassare il livello d'interpretazione corrispondente all'analisi della « madeleine ». Per questa ragione tutti i segni convergono verso l'arte; tutti gli apprendimenti, per le vie più diverse, sono già apprendimenti incoscienti dell'arte. Al più profondo livello, l'essenziale risiede appunto nei segni dell'arte. 1 Prigioniera, p. 399. 1 Tempo, p. 203. « I l sapore della "maddalenina" mi aveva ricordato Combray. Ma, perché mai le immagini di Combray e di Venezia m'avevano dato, nell'un momento e nell'altro, una gioia simile a una certezza e sufficiente, senza altre prove, a rendermi indifferente la morte? » J Ibid., p. 215.

Non li abbiamo ancora definiti. Chiediamo solo che si riconosca che il problema di Proust è quello dei segni in generale: segni che costituiscono mondi differenti, vacui segni mondani, segni mendaci dell'amore, segni sensibili materiali, e infine segni essenziali dell'arte, capaci di trasformare tutti gli altri.

Segno e verità

La Ricerca del tempo perduto è di fatto una ricerca della verità. S'intitola Ricerca del tempo perduto solo in quanto la verità è in rapporto essenziale col tempo. In amore, nella natura o nell'arte, quello che conta non è il piacere, ma la verità '. O piuttosto, non proviamo che i piaceri e le gioie corrispondenti alla scoperta del vero. Il geloso sente una piccola gioia quando ha saputo decifrare una menzogna dell'amato, proprio come un interprete che riesca a tradurre un testo complicato, anche se, 2

personalmente, la traduzione gli porta una notizia spiacevole e dolorosa . Resta da vedere come Proust definisca la propria ricerca della verità, come l'opponga ad altre ricerche, scientifiche o filosofiche. Chi cerca la verità? E che intende dire chi dice « voglio la verità »? Proust non crede che l'uomo, e nemmeno un presunto spirito puro, senta naturalmente un desiderio del vero, una volontà di scoprire il vero. Cerchiamo la verità quando siamo indotti a farlo in funzione di una situazione concreta, quando subiamo una specie di violenza che ci spinge a questa ricerca. Chi cerca la verità? Il geloso, sotto la pressione delle menzogne dell'amato. È sempre la violenza di un segno, che ci costringe a cercare, togliendoci la pace. Alla verità, non si arriva per affinità o a forza di buon volere: essa si tradisce attraverso segni involontari \ Il torto della filosofia sta nel presupporre in noi una buona volontà di pensare, un desiderio, un amore natu1 Ombra, p. T8. 1 Strada, pp. 293-94. 1 Guermanteiy p. 68.

rale del vero. Perciò la filosofia arriva soltanto a verità astratte, che non compromettono nessuno e non sconvolgono nulla. « Les idées formées par l'intelligence pure n'ont qu'une vérité logique, une vérité possible, leur élec-tion est arbitraire » \ Tali idee restano gratuite, perché nate dall'intelligenza, che conferisce loro una sola possibilità, e non da un incontro o da una violenza che potrebbero garantirne l'autenticità. Le idee dell'intelligenza non valgono che per il loro significato esplicito, quindi convenzionale. Pochi sono i temi su cui Proust insiste tanto quanto su questo: la verità non è mai il prodotto di un buon volere preliminare, ma il risultato di una violenza nel pensiero. I significati espliciti e convenzionali non sono mai profondi; solo il senso è profondo, cosi come si trova ravvolto, implicato in un segno esteriore. All'idea filosofica di « metodo», Proust oppone la duplice idea di « costrizione » e di « caso ». La verità dipende da un incontro con qualche cosa che ci obbliga a pensare, e a cercare il vero. La casualità degli incontri, il premere delle costrizioni sono i due temi fondamentali di Proust. Precisamente, il segno è ciò che è oggetto d'un incontro, che esercita su noi quella violenza. Ed è la casualità dell'incontro a garantire la necessità di quanto viene pensato. Fortuito e inevitabile, dice Proust. « Et je sen-tais que ce devait étre la griffe de leur authenticité. Je n'avais pas été chercher les deux pavés de la cour où j'a-vais buté » \ Che vuole colui che dice « voglio la verità »? La vuole solo in quanto costretto e forzato, solo sotto la presa di un incontro, in rapporto a un segno determinato. Ciò che vuole è interpretare, decifrare, tradurre, trovare il senso del segno. « II me fallati donc rendre leur sens aux moindres signes qui m'entouraient, 3

Guermantes, Alberane, Gilberte, Saint-Loup, Balbec, etc. » . 1 Tempo, p. 216. «Le idee formate dall'intelligenza pura posseggono soltanto una verità logica, una verità possibile, e la loro scelta è arbi traria». 2 Ibid., p. 215. «E intuivo che proprio questo doveva essere il segno della loro autenticità. Non ero stato io a cercare i due ciottoli ineguali del cortile, nei quali ero inciampato». ì lbid.\ p. 235. « I l mio compito era, dunque, quello di restituire ai menomi segni che mi circondavano (i Guermantes, Albertine, Gilberte, Saint-Loup, Balbec, ecc.), il loro significato».

Cercare la verità è interpretare, decifrare, spiegare. Ma questa spiegazione si confonde con l'evolversi del segno in se stesso. Per questa ragione la Ricerca è sempre temporale, e la verità sempre condizionata dal tempo. La sistematizzazione finale ci ricorda che anche il tempo è plurale. La grande distinzione a questo proposito è quella tra Tempo perduto e Tempo ritrovato. Vi sono verità del tempo perduto non meno che del tempo ritrovato. Ma, per maggior precisione, occorre distinguere nel tempo quattro strutture, ognuna delle quali ha la sua verità. Infatti il tempo perduto non è soltanto il tempo che passa, alterando ogni essere, annientando ciò che fu; è anche il tempo che perdiamo (il tempo perso: perché perdere tempo, perché essere mondani, innamorarsi, invece di lavorare e di fare opera d'arte?) E il tempo ritrovato è anzitutto un tempo che ritroviamo in seno al tempo perduto e che ci dà un'immagine dell'eternità; ma è anche un tempo originale assoluto, eternità vera che si afferma nell'arte. Ogni specie di segni ha una linea di tempo previlegiato che le corrisponde. Ma, a moltiplicare le combinazioni, interviene il pluralismo. Ogni specie di segni partecipa in modo ineguale di molte linee di tempo, mentre una stessa linea di tempo mescola in modo ineguale varie specie di segni.

Vi sono segni che ci costringono a pensare il tempo perduto, e cioè il passaggio del tempo, l'annientarsi di ciò che fu, l'alterarsi di ogni essere. Rivedere persone che ci furono familiari è una rivelazione, perché il loro volto, non essendoci più abituale, porta allo stato puro i segni e gli effetti del tempo che ne ha modificato un certo tratto, prolungato, ammorbidito o compresso un altro. Per diventare visibile, il Tempo « cherche des corps et, partout où il les rencontre, s'en empare pour montrer sur eux sa lanterne magique » '. Alla fine della Ricerca, tutta una galleria di volti appare nelle sale di Guermantes. Ma se aves-

1 Tempo, p. 265. «va in cerca di corpi e, dovunque li incontra, se ne impossessa per mostrar su di loro la propria lanterna magica».

simo fatto il necessario tirocinio, avremmo saputo fin dall'inizio che i segni mondani, grazie alla loro vacuità, tradivano qualcosa di precario, ovvero già si irrigidivano, si fissavano per nascondere la loro alterazione; perché la mondanità è in ogni istante alterazione, mutamento. « Les modes changent, étant nées elles-mèmes du besoin de 1

changement» . Alla fine della Ricerca, Proust ci mostra quanto profondamente la società sia stata trasformata dal processo Dreyfus, poi dalla guerra, ma soprattutto dal Tempo. Ma, invece di trarne come conclusione la fine di un « mondo », comprende che il mondo da lui conosciuto ed amato era già di per sé alterazione, mutamento, segno ed effetto di un Tempo perduto (anche i Guermantes non hanno di permanente che il nome). Proust non concepisce affatto il mutamento come una durata bergsoniana, ma piuttosto come una defezione, come una corsa verso la tomba. A maggior ragione, i segni dell'amore anticipano in certo modo la loro alterazione e il loro annientamento; in essi è implicito il tempo perduto allo stato più puro. L'invecchiare dei personaggi del gran mondo è poca cosa paragonato all'incredibile, al geniale invecchiare di Charlus. Ma anche questo, altro non è che una ridistribuzione delle sue anime multiple, che già erano presenti in uno sguardo o in uno scoppio di voce di Charlus più giovane. Per una ragione assai semplice i segni dell'amore e della gelosia portano in sé la propria alterazione: l'amore non smette mai di preparare la propria scomparsa, di mimare la rottura. Avviene nell'amore come per la morte, quando immaginiamo di rimanere vivi ancora abbastanza per poter vedere che faccia faranno quelli che ci avranno perduti. Nello stesso modo immaginiamo che saremo ancora abbastanza innamorati da godere del rimpianto di chi avremo cessato di amare. È ben vero che ripetiamo gli amori trascorsi; ma è anche vero che il nostro amore attuale, in tutta la sua vivezza, ripete (« prova ») la scena della rottura o anticipa la propria fine. Questo è il senso di ciò che

1 Ombra, p. 8. «Le mode cambiano, nate come sono dal bisogno del cambiamento».

chiamiamo una scenata di gelosia. Questa prova generale rivolta verso il futuro, questa prova della fine, la ritroviamo nell'amore di Swann per Òdette, nell'amore per Gil-berte o per Albertine. Di Saint-Loup, Proust dice: « Il souffrait d'avance, sans en oublier une, toutes les douleurs d'une rupture qu'à d'autres moments il croyait pouvoir éviter » '. Desta maggior meraviglia il fatto che i segni sensibili, nonostante la loro pienezza, possano essere anch'essi segni di alterazione e di scomparsa. Eppure Proust cita un caso, lo stivaletto e il ricordo della nonna, che non differisce in sostanza dalla « madeleine » o dal lastricato, ma che ci fa sentire una scomparsa dolorosa e che, invece della pienezza del Tempo che ritroviamo, ci dà il segno di un Tempo perduto per sempre. Curvo sullo stivaletto, egli sente qualcosa di divino; ma gli scorrono lacrime dagli occhi e la memoria involontaria gli porta il ricordo straziante della nonna morta. «Ce n'était qu'à l'instant - plus d'une année après son enterrement, à cause de cet anachronisme qui empèche si souvent le calendrier des faits de coincider avec celui des sentiments - que je venais d'apprendre qu'elle était morte... que je l'avais perdue pour 2

toujours ». Perché, invece di una immagine dell'eternità, il ricordo involontario ci porta il sentimento acuto della morte? Non basta invocare il carattere particolare dell'esempio, in cui riemerge la figura di un essere amato; né il senso di colpa provato dal protagonista riguardo alla nonna. È proprio nel segno sensibile che dobbiamo trovare un'ambivalenza capace di spiegarci come talvolta esso possa tramutarsi in dolore, invece di prolungarsi in gioia. Come la « madeleine », anche lo stivaletto provoca l'intervento della memoria involontaria: una vecchia sensazione tenta di sovrapporsi, di accoppiarsi alla sensazione attuale, estendendola su diverse epoche nello stesso tem1 Gutrmantes, p. 129. «Egli soffriva in anticipo, senza tralasciarne uno solo, di tutti i dolori d'una rottura che in certi altri momenti credeva di poter evitare». 2 Sodoma, pp. 172-73. 174- «Da un attimo soltanto, più d'un anno do po ch'era stata sepolta, a causa di quell'anacronismo che tanto spesso im pedisce al calendario dei fatti di coincidere con quello dei sentimenti, io avevo saputo che era morta... che l'avevo perduta per sempre».

pò. Ma basta che la sensazione attuale opponga all'antica la propria « materialità », perché alla gioia di questa sovrapposizione succeda un sentimento di fuga, di perdita irreparabile, in cui la vecchia sensazione si trova respinta nella profondità del tempo perduto. Così, per il fatto che il protagonista si considera colpevole, la sensazione attuale acquista solo il potere di sottrarsi all'abbraccio dell'antica. Egli prova dapprima la stessa esaltazione del caso della « madeleine », ma subito alla felicità succede la certezza della morte e del nulla. È un caso di quell'ambivalenza, che resta sempre una possibilità della memoria in tutti i segni dove interviene (da ciò, l'inferiorità di tali segni). Certo è che la memoria racchiude in sé «la contra-diction si étrange de la !

survivance et du néant », « la dou-loureuse synthèse de la survivance et du néant » . Anche nella « madeleine » e nei lastricati s'intravede il nulla, dissimulato questa volta dal sovrapporsi delle due sensazioni.

Ancora in un altro modo, i segni mondani, soprattutto, ma anche i segni dell'amore e perfino i segni sensibili, sono i segni di un tempo « perduto »: segni di un tempo che perdiamo. Infatti non è ragionevole andare nel gran mondo, innamorarsi di donne mediocri, e nemmeno fare tanti sforzi davanti a un biancospino. Meglio sarebbe frequentare persone dalla mente profonda, e soprattutto lavorare. L'eroe della Ricerca esprime spesso la propria delusione e quella dei suoi davanti alla sua incapacità di lavorare, d'intraprendere l'opera letteraria annunciata \ Ma un risultato essenziale dell'apprendistato dell'arte è rivelarci che anche quel tempo perso ha le sue verità. Non conta nulla un lavoro intrapreso per uno sforzo di volontà; in letteratura, esso può portarci soltanto a quelle verità dell'intelligenza cui manca l'impronta della necessità e delle quali si ha sempre l'impressione che « avrebbero potuto» essere altre o dette altrimenti. Similmente, ciò 1 Sodoma, pp. 176, 177. «la contraddizione cosi strana della sopravvi venza e del nulla», « l a sintesi dolorosa della sopravvivenza e del nulla». 2 Ombra, pp. 164-66.

che dice un uomo profondo e intelligente ha valore per il suo contenuto manifesto, per il significato esplicito, oggettivo ed elaborato; ma ne trarremo ben poco, nient'al-tro che possibilità astratte, se non avremo saputo raggiungere altre verità per altre vie. Tali vie sono precisamente quelle del segno. Orbene, dal momento che l'amiamo, un essere mediocre o stupido è più ricco in segni dello spirito più profondo e più intelligente. Più una donna è ottusa, limitata, più compensa per mezzo di segni, che a volte la tradiscono e denunciano una menzogna, l'incapacità di formulare giudizi intelligibili o di avere un pensiero coerente. Proust dice degli intellettuali : « La femme mediocre qu'on s'étonnait de les voir aimer, leur enrichit l'uni-vers bien plus que n'eùt 1

fait une femme intelligente» . Esiste un'ebbrezza che ci viene dalle materie e dalle nature rudimentali in quanto sono ricche di segni. Al fianco di una donna mediocre da noi amata, ritorniamo alle origini dell'umanità, ai tempi cioè in cui i segni avevano il sopravvento sul contenuto esplicito, e i geroglifici sulle lettere: quella donna non ci « comunica » niente, ma senza posa produce segni che occorre decifrare. Per questo, quando crediamo di perder tempo, sia per snobismo, sia per dissipazione amorosa, spesso perseguiamo un oscuro apprendimento, fino alla rivelazione di una verità del tempo che si perde. Impossibile sapere come qualcuno apprende; ma in qualunque maniera apprenda, lo farà sempre per il tramite dei segni, perdendo tempo, e non per assimilazione di contenuti oggettivi. Chi sa come fa uno scolaro a diventare da un giorno all'altro « bravo in latino», quali segni (magari amorosi o forse inconfessabili) gli sono serviti da apprendistato? Non impariamo mai nei dizionari offerti da maestri o genitori. Il segno implica un rapporto di eterogeneità. Non impariamo mai facendo come qualcuno, ma facendo con qualcuno, che non ha rapporto di somiglianza con ciò che impariamo. Chi sa come si diventa un grande scrittore? A proposito di Ottave, Proust dice: « Je ne fus pas moins frappe de penser 1 fuggitiva, p. 213. «La donna mediocre, che si e stupiti di vedere amata da costoro, arricchisce il loro universo molto di più di quanto non farebbe una donna intelligente».

que les chefs-d'oeuvre peut-étre les plus extraordinaires de notre epoque sont sortis, non du concours general, d'une éducation modèle, académique, à la de Broglie, mais de la frequentation des pesages et des grands bars » \ Ma non basta perdere tempo. Come trarre fuori le verità del tempo che perdiamo e anche quelle del tempo perduto? E perché Proust dà a tali verità il nome di « verità dell'intelligenza »? Esse, in realtà, si contrappongono alle verità che scopre l'intelligenza quando lavora per buona volontà, e si addossa un compito vietandosi di perdere tempo. A questo proposito, abbiamo visto quale sia il limite delle verità propriamente intellettuali: mancano di « necessità ». Ma in arte o in letteratura, l'intervento dell'intelligenza si produce sempre dopo e mai prima: « L'im-pression est pour Pécrivain ce qu'est l'expérimentation pour le savant, avec cette différence que chez le savant le travail de l'intelligence précède et chez l'écrivain vient après » \ Bisogna provare dapprima l'effetto violento di un segno, in modo che il pensiero sia quasi costretto a cercarne il senso. Nell'opera di Proust, il pensiero appare generalmente sotto varie forme: memoria, desiderio, immaginazione, intelligenza, facoltà delle essenze... Ma nel caso preciso del tempo perso e del tempo perduto, l'intelligenza, e solo l'intelligenza, è capace di compiere lo sforzo del pensiero, o d'interpretare il segno. È l'intelligenza a trovare, a condizione di venire « dopo ». Tra tutte le forme del pensiero, solo l'intelligenza mette allo scoperto le verità di quest'ordine. I segni mondani sono frivoli, i segni dell'amore e della gelosia, dolorosi. Ma chi cercherebbe la verità, se non avesse appreso già da prima che un gesto, un'intonazione, un saluto devono essere interpretati? Chi cercherebbe la verità se già non avesse provato quale sofferenza dà la menzogna di un essere amato? Le idee della intelligenza 1 Fuggitiva, p. 203. «Non fui meno impressionato al pensiero che i capolavori forse più straordinari del nostro tempo fossero usciti non dai concorsi di Stato, da un'educazione modello, accademica, sul tipo di quella del duca di Broglie, ma dalla frequentazione dei pesages e dei grandi bar». 1 Tempo, pp. 216-17. «L'impressione è per lo scrittore ciò che è l'esperimento per lo scienziato: con questa differenza tuttavia, che nello scienziato il lavoro dell'intelligenza precede, nello scrittore segue».

sono spesso i « surrogati » del dolore '. Il dolore spinge l'intelligenza a cercare, come certi piaceri insoliti mettono in moto la memoria. Spetta all'intelligenza comprendere, e farci comprendere, che mentre i segni più frivoli della mondanità ci rimandano a leggi, i segni più dolorosi dell'amore somigliano a prove teatrali. Impariamo allora a servirci degli esseri: frivoli o crudeli, hanno « posato» davanti a noi, non sono più che l'incarnazione di temi che li sorpassano, o i resti di una divinità che non può più niente contro di noi. La scoperta delle leggi mondane dà un senso a segni che, presi isolatamente, restavano senza significato; ma, soprattutto, la comprensione delle nostre prove amorose trasforma in gioia ognuno di quei segni che, presi isolatamente, ci davano tanto dolore. «Car à Tetre que nous avons le plus aimé, nous ne sommes pas si fidèles qu'à nous-mèmes, et nous l'oublions tòt ou tard pour pouvoir, puisque c'est un trait de nous-mèmes, re-commencer d'aimer » \ A uno a uno, gli esseri che abbiamo amato ci hanno fatto soffrire: ma la catena spezzata che formano è un gioioso spettacolo dell'intelligenza. Grazie all'intelligenza, scopriamo allora ciò che in principio non potevamo sapere: che mentre credevamo di perdere tempo, già stavamo facendo pratica di segni. Ci accorgiamo che la nostra vita oziosa faceva tutt'uno con la nostra opera: «e Toute ma vie... une vocation » \

Tempo che perdiamo, tempo perduto, ma anche tempo che ritroviamo e tempo ritrovato. A ogni specie di segni, corrisponde senza dubbio una linea di tempo particolare. I segni mondani implicano soprattutto un tempo che perdiamo, mentre i segni amorosi abbracciano particolarmente il tempo perduto. I segni sensibili ci fanno spesso ritrovare il tempo, ce lo restituiscono in seno al tempo perduto. I segni dell'arte, infine, ci danno un tempo ritrovato,

1 Tempo, p. 245. 1 Ibid , p. 247. «Giacché all'essere che più abbiamo amato non siamo cosi fedeli quanto a noi stessi; e presto o tardi lo dimentichiamo per poter - dacché è un tratto del nostro carattere - ricominciare ad amare». * Ibid , p. 237. «Tutta la mia vita... una vocazione*.

tempo originale assoluto che comprende tutti gli altri. Ma se ogni segno ha una dimensione temporale previlegiata, ognuno di essi si espande anche sulle altre linee, partecipando alle altre dimensioni del tempo. Cosi il tempo che perdiamo si prolunga nelPamore ed anche nei segni sensibili. Il tempo perduto già appare nella mondanità e sussiste anche nei segni della sensibilità. Il tempo che ritroviamo reagisce a sua volta sul tempo che perdiamo e sul tempo perduto. Ma nel tempo assoluto dell'opera d'arte si uniscono tutte le altre dimensioni trovandovi la verità che corrisponde a ciascuna. I mondi dei segni, i cerchi della Ricerca roteano dunque secondo linee di tempo, vere linee di apprendimento; ma su queste linee s'intersecano tra loro, reagendo gli uni sugli altri. Cosi i segni non si sviluppano né si spiegano secondo le linee del tempo, senza una rispondenza o senza un simbolo, senza intersecarsi, senza entrare in combinazioni complesse che costituiscono il sistema della verità.

L'apprentissage

L'opera di Proust non è rivolta verso il passato e le scoperte della memoria, ma verso il futuro e verso i progressi dell'apprendimento. Quello che importa è che il protagonista non sapeva all'inizio certe cose, ma le apprende progressivamente, e riceve infine un'estrema rivelazione. Prova dunque necessariamente delle delusioni: egli «credeva », si faceva delle illusioni, il mondo vacilla entro il corso dell'apprendimento. E in questo modo si attribuisce ancora allo sviluppo della Ricerca un carattere lineare; in realtà, una rivelazione parziale appare in un certo campo di segni, ma accompagnata a volte da regressioni in altri campi, immersa in una delusione più generale, salvo riapparire altrove, altrettanto fragile, fino a che la rivelazione dell'arte non abbia sistematizzato tutto l'insieme. £ può anche avvenire in ogni istante che una particolare delusione rimetta in giuoco la pigrizia in modo da compromettere tutto. Di qui, l'idea fondamentale che il tempo dia forma a serie diverse, e comporti più dimensioni che lo spazio. Ciò che si acquista in una di esse, non è acquistato in un'altra. La Ricerca non è ritmata soltanto dagli apporti o dai sedimenti della memoria, ma anche dalle serie di delusioni discontinue, e perfino dai mezzi messi in opera per superarle all'interno di ogni serie.

Essere sensibile ai segni, considerare il mondo come cosa da decifrare, è indubbiamente un dono. Ma tale dono rischierebbe di restare sepolto dentro di noi se non facessimo gl'incontri necessari; incontri che resterebbero privi

di effetto, se non riuscissimo a vincere certi preconcetti. Il primo di questi sta nell'attribuire all'oggetto i segni di cui è portatore. Tutto ci spinge a questo: la 1

percezione, la passione, l'intelligenza, l'abitudine e perfino l'amor proprio . Pensiamo che «l'oggetto» ha in sé il segreto del segno che emette. Ci chiniamo sull'oggetto, torniamo ad esso per decifrare il segno, chiamando, per comodità, oggettivismo una tendenza che ci è naturale o, per lo meno, abituale. Infatti ognuna delle nostre impressioni ha due facce: « À demi engainée dans Pobjet, prolongée en nous-méme par une autre moitié que seul nous pourrions 2

connaitre » . Ogni segno ha due metà: designa un oggetto, significa qualche cosa di differente. La faccia oggettiva, è la faccia del piacere, della fruizione immediata e della pratica. Prendendo questa strada, abbiamo già sacrificato la faccia «verità». Riconosciamo le cose, ma non le conosciamo mai. Confondiamo ciò che il segno significa con l'essere o con l'oggetto da esso designato. Passiamo accanto agli incontri più belli, sottraendoci agli imperativi che ne emanano: all'approfondimento degli incontri abbiamo preferito la facilità delle ricognizioni. E quando proviamo il piacere d'una impressione, come lo splendore d'un segno, non sappiamo far altro che rendere omaggio all'oggetto con espressioni di stupore o di entusiasmo \ Sorpreso dallo strano sapore, il protagonista della Ricerca si china sulla tazza d'infusione, beve un secondo e un terzo sorso, come se l'oggetto stesso fosse sul punto di rivelargli il segreto del segno. Colpito dal nome di un luogo o di una persona, pensa anzitutto agli esseri o ai paesi designati da quei nomi. Già prima di conoscerla, la duchessa di Guermantes gli pare prestigiosa, perché crede che debba avere in sé il segreto del suo nome. Se la raffigura « baignant comme dans un coucher de soleil dans la lumière orangée qui émane de cette dernière syllabe - an1 Tempo, p. 234. 2 Ibid., p. 229. «Per una metà inguainata nell'oggetto, per l'altra pro lungata in noi stessi, che solo potremmo conoscerla». 3 lbid.

tes » '. E quando la vede: « Je me disais que c'était bien elle que désignait pour tout le monde le nom de duchesse de Guermantes; la vie inconcevable que ce nom signifiait, ce corps la contenait bien » \ Prima di entrarvi, il gran mondo gli sembra misterioso: crede che chi emette i segni sia anche capace di comprenderli e ne detenga il cifrario. Durante i suoi primi amori, attribuisce alF« oggetto » tutto quello che prova : ciò che gli appare unico in una persona gli sembra anche che appartenga a quella persona. I primi amori sono propensi alla confessione, che è appunto la forma amorosa dell'omaggio all'oggetto (rendere all'amato quel che crediamo appartenergli). «A l'epoque où j'aimais Gilberte, je croyais encore que l'Amour existait réellement en dehors de nous...; il me semblait que si j'a-vais, de mon chef substitué à la douceur de l'aveu, la si-mulation de l'indifférence, je ne me serais pas seulement prive d'une des joies dont j'avais le plus rèvé, mais que je me serais fabriqué à ma guise un amour factice et sans va-Ieur >► \ La stessa arte, infine, sembra avere il proprio segreto in oggetti da descrivere, cose da designare, personaggi o luoghi da osservare; e se spesso il protagonista dubita delle sue capacità artistiche, è perché si riconosce incapace di osservare, ascoltare, vedere. « L'oggettivismo » non risparmia nessuna specie di segni, perché non risulta da una sola tendenza, ma riunisce un complesso di tendenze. Risolvere un segno nell'oggetto che lo emette, attribuire all'oggetto il beneficio del segno, è in primo luogo la direzione naturale della percezione o della rappresentazione; ma anche la direzione della memoria volontaria, che ricorda le cose e non i segni. È nello stesso tempo la direzione del piacere e dell'attività pratica, che contano sul possesso delle cose o sulla consu1 Strada, p. 183. «immersa come in un tramonto nella luce ranciata che emana dalla sillaba "antes"». 1 Guermantes, p. 221. «Mi dicevo che era proprio quella persona che tutti designavano col nome di "duchessa di Guermantes"». 1 Strada, p. 430. «Nel tempo in cui amavo Gilberte, credevo ancora che l'Amore esistesse effettivamente fuori di noi...; mi pareva che se io, di mia volontà, avessi sostituito alla dolcezza della dichiarazione la simulazione dell'indifferenza, non soltanto mi sarei privato di una delle gioie da me più sognate, ma mi sarei costruito a modo mio un amore fittizio e senza valore».

mazione degli oggetti. È infine, per un altro verso, la tendenza dell'intelligenza. L'intelligenza è portata all'oggettività, come la percezione è portata all'oggetto. L'intelligenza pensa contenuti oggettivi, significati oggettivi espliciti che può riuscire a scoprire, o ricevere, o comunicare con le sue proprie forze. L'intelligenza è dunque oggettivista, e cosi la percezione. Mentre la percezione si assume il compito di cogliere l'oggetto sensibile, l'intelligenza s'incarica di registrare dei significati oggettivi. La percezione infatti crede che la realtà debba essere veduta, osservata; l'intelligenza, invece, crede che debba essere detta e formulata. Che cosa non sa il protagonista della Ricerca all'inizio del suo tirocinio? Non sa « que la vérité n'a pas besoin d'ètre dite pour ètre manifestée, et qu'on peut peut-ètre la recueillir plus sùrement sans attendre les paroles et sans tenir méme aucun compte d'elles, dans mille signes extérieurs, mème dans certains phénomènes in-visibles, analogues dans le monde des caractères à ce que sont, dans la nature physique, les changements atmosphé-riques » \ Altrettanto diverse, le cose, le imprese, i valori cui tende l'intelligenza. Essa ci spinge alla conversazione, cioè a scambiare e a comunicare le idee. Ci incita all'amicizia, basata sulla comunanza delle idee e dei sentimenti. Ci invita al lavoro, grazie al quale riusciremo noi stessi a scoprire nuove verità comunicabili. Ci induce alla filosofia e cioè a un esercizio volontario e premeditato del pensiero per mezzo del quale arriveremo a determinare l'ordine e il contenuto delle significazioni obbiettive. Teniamo a mente questo punto essenziale: l'amicizia e la filosofia sono soggette a una medesima critica. Secondo Proust, gli amici son come spiriti di buona volontà che si accordano esplicitamente sul significato delle cose, delle parole e delle idee; ma anche il filosofo è un essere pensante che presuppone in sé la buona volontà di pensare, offrendo al

1 Guermantes, p. 68. «che la verità non ha bisogno di venir pronunciata per esser detta, e che forse è possibile coglierla con più sicurezza, senza aspettar le parole e anzi senza tenerne alcun conto, da mille segni e-steriori, e persino in certe alterazioni invisibili, analoghe nel mondo dei caratteri a quel che sono, nel mondo fisico, i mutamenti atmosferici».

pensiero l'amore naturale del vero, e alla verità la esplicita determinazione di quanto viene naturalmente pensato. Per questa ragione, Proust contrapporrà alla coppia tradizionale dell'amicizia e della filosofia una coppia più oscura formata dall'amore e dall'arte. Vale più un amore mediocre di una grande amicizia: perché l'amore è ricco di segni e si nutre d'interpretazione silenziosa. Vale più un'opera d'arte di un'opera filosofica; perché ciò che è implicato nel segno è più profondo di tutti i significati espliciti. Quello che ci fa violenza è più ricco di tutti i frutti della buona volontà e del lavoro scrupoloso; più importante del pensiero è « ce qui donne à penser » \ Sotto ogni sua forma, l'intelligenza non arriva da sola, né può farci arrivare, che a verità astratte e convenzionali, che non hanno valore se non possibile. A che valgono quelle verità oggettive risultanti da una combinazione di lavoro, intelligenza e buon volere che si comunicano in quanto si trovano e si trovano in quanto potrebbero venire accolte? Proust ci dice di un'intonazione della Berma: «C'est à cause de sa clarté mème qu'elle ne (me) contentait point. L'intonation était ingénieuse, d'une intention, d'un sens si définis, qu'elle semblait exister en elle mème et que toute artiste intelligente eùt pu 2

l'acquérir » . All'inizio, l'eroe della Ricerca partecipa più o meno a tutte le credenze oggettivistiche. Ma precisamente, il fatto che partecipi in minor misura all'illusione in un certo campo di segni, o che se ne liberi rapidamente a un certo livello, non impedisce all'illusione di persistere a un altro livello, in un altro campo. Ad esempio, non sembra che il protagonista abbia mai avuto un forte senso dell'amicizia: questa gli è apparsa sempre secondaria, e che l'amico valga per lo spettacolo che offre più che per la comunione d'idee o di sentimenti che potrebbe ispirare. Gli «uomini superiori» non gli insegnano nulla: perfino Bergotte o Elstir non possono comunicargli verità tali da esimerlo

1 Gurrmantes, p. 399. «ciò che dà da pensare». 1 Ombra, p. 152. «r Ma proprio a causa della sua chiarezza non lo accontentava affatto. L'intonazione era cosf ingegnosa, d'un'intenzione, d'un significato cosf definiti, che sembrava esistere in se stessa e che qualsiasi artista intelligente avrebbe potuto ritrovarla».

dalla personale esperienza e da evitargli di passare attraverso i segni e le delusioni cui è votato. Ha dunque assai presto il presentimento che né uno spirito superiore né un grande amico valgono più di un breve amore. Ma ecco che in amore, gli è già più difficile di liberarsi dell'illusione oggettivistica corrispondente. L'amore collettivo per le fanciulle, la lenta individualizzazione di Albertine, la casualità nella scelta, è tutto questo a insegnargli che le ragioni di amare non sono mai riposte nella persona che amiamo, ma risalgono a fantasmi, a Terzi, a Temi che s'incarnano in lei secondo leggi complesse. Apprende in uno stesso istante che la confessione non è l'essenziale dell'amore, e che non è necessario né desiderabile confessare: saremo perduti, perderemo ogni nostra libertà, se gratificheremo l'oggetto dei segni e dei significati che lo eccedono. «Depuis le temps des jeux aux Champs-Elysées, ma conception de l'amour était devenue differente, si les ètres auxquels s'attachait successivement mon amour demeuraient presque identiques. D'une part l'aveu, la dé-claration de ma tendresse à celle que j'aimais ne me sem-blait plus une des scènes capitales et nécessaires de l'amour, ni celui-ci, une réalité extérieure... » '. È assai difficile, in ogni campo, rinunciare a una tale credenza in una realtà esterna. I segni sensibili ci tendono un'esca invitandoci a cercare il loro significato nell'oggetto che li porta o li emette: tanto che la possibilità di fallimento, la rinuncia a interpretare è come il #verme nel frutto. E anche se abbiamo vinto le illusioni oggettivistiche nella maggior parte dei casi, esse ancora sussistono in arte, nel cui campo, continuiamo a credere che dovremmo sapere ascoltare, guardare, descrivere, rivolgerci all'oggetto, scomporlo e triturarlo per esternare una verità. Il protagonista della Ricerca, tuttavia, ben conosce i difetti di una letteratura oggettivistica. Spesso egli insi-

1 Ombra, p. 531. «Dai tempi dei giochi ai Champs-Elysées, il mio concetto dell'amore era divenuto diverso, anche se gli esseri cui s'avvinceva successivamente il mio amore restavano quasi identici. Da un lato, la confessione, la dichiarazione del mio affetto a colei che amavo non mi sembrava più una delle scene essenziali e necessarie dell'amore; né questo una realtà esterna...»

ste sulla incapacità di osservare e descrivere. Gli odi di Proust sono celebri: contro Sainte-Beuve, per il quale la scoperta della verità non va mai disgiunta da una « causerie», da un metodo di conversazione che pretende di estrarre una verità dai dati più arbitrari, a cominciare dalle confidenze di chi pretende di aver conosciuto bene qualcuno. Contro i Goncourt, che scompongono un personaggio o un oggetto, lo rivoltano da ogni lato, ne analizzano Parchitettura, ne ripercorrono ogni linea e ogni proiezione per estrarne esotiche verità (i Goncourt credono anch'essi ai miracoli della conversazione). Contro l'arte realista o popolare, che crede ai valori intelligibili, ai significati ben definiti, come pure ai grandi argomenti. Bisogna giudicare i metodi dai risultati ottenuti. Valgano come esempio le cose pietose scritte da Sainte-Beuve a proposito di Balzac, Stendhal o Baudelaire. E che possono capire i Goncourt della coppia Verdurin o di Cottard? Niente, stando al pastiche della Recherche; riferiscono e analizzano quello che è detto espressamente, ma lasciano da parte i segni più evidenti, segno della stupidità di Cottard, mimiche e simboli grotteschi della signora Verdurin. E l'arte popolare e proletaria è caratterizzata dal fatto che prende gli operai per altrettanti imbecilli. Deludente, per natura, è ogni letteratura che interpreti i segni riferendoli a oggetti designabili (osservazione e descrizione), che si circondi delle garanzie pseudo-oggettive della testimonianza e della comunicazione (conversazioni, inchieste), che confonda il senso con significati intelligibili, espliciti e formulati (grandi temi) \ Il protagonista della Ricerca si è sempre sentito estraneo a tale concezione dell'arte e della letteratura. Ma allora, perché prova una delusione cosi viva ogni volta che ne verifica la vacuità? Perché in quella concezione l'arte trovava almeno una destinazione precisa: aderiva alla vita, per esaltarla, per metterne in evidenza il valore e la ve1 Tempo, pp. 225-35. Non si pensi che la critica proustiana dell'oggettivismo possa applicarsi a quello che oggi è chiamato nouveau roman. In esso, i metodi di descrizione dell'oggetto non hanno senso se non in rapporto con le modificazioni soggettive che possono mettere in luce e che, altrimenti, rimarrebbero invisibili. Il nouveau roman resta sotto il segno dei geroglifici e delle verità implicite.

rità. E quando protestiamo contro un'arte fatta di osservazione e di descrizione, chi ci dice che non sia la nostra incapacità di osservare e descrivere ad animare tale protesta? La nostra incapacità di comprendere la vita? Credendo di reagire a una forma illusoria dell'arte, forse reagiamo invece a una deficienza della nostra natura, a una carenza della volontà di vivere. Di modo che la nostra delusione non è data semplicemente dalla letteratura oggettiva, ma dipende anche dalla nostra incapacità di riuscire in questa forma di letteratura \ Nonostante la sua ripugnanza, l'eroe della Ricerca non può dunque vietare a se stesso di sognare doni di osservazione che potrebbero colmare in lui le intermittenze dell'ispirazione. « Mais en me donnant cette consolation d'una observation humaine pos-sible, venant prendre la place d'une inspiration impos-sible, je savais que je cherchais seulement à me donner une consolation... » \ La delusione della letteratura è dunque duplice in modo inscindibile: « la littérature ne pou-vait plus me causer aucune joie, soit par ma faute, étant trop peu doué, soit par la sienne, si elle était en effet moins chargée de réalité que je n'avais cru »\

La delusione è un momento fondamentale della ricerca o dell'apprendimento: in ogni campo di segni, ci sentiamo delusi quando l'oggetto non ci svela il segreto che ci aspettavamo. E la delusione è essa stessa pluralista, varia su ogni linea. Poche sono le cose che non ci deludono la prima volta che le vediamo. La prima volta, infatti, è la volta dell'inesperienza, e non siamo ancora capaci di distinguere il segno dall'oggetto, poiché l'oggetto si frappone e offusca i segni. Delusione nell'ascoltare per la prima volta la musica di Vinteuil, delusione al primo incon1 Tempo, pp. 36-38. 2 Ibid., pp. 188-89. «Tuttavia, offrendo a me stesso la consolazione d'un possibile studio dell'uomo, che avrebbe dovuto sostituire un'ispira zione impossibile, sapevo di cercar soltanto una consolazione...» 3 Ibid., p. 200. «la letteratura non poteva più procurarmi nessuna gio ia, sia per colpa mia, non possedendo io doti sufficienti, sia per colpa della letteratura stessa, se questa era, davvero, meno ricca di verità di quanto avessi creduto».

tro con Bergotte, delusione nel vedere per la prima volta la chiesa di fìalbec. £ non basta tornare sulle cose una seconda volta, perché la memoria volontaria, e questo stesso « ritornare », presentano proprio inconvenienti analoghi a quelli che ci hanno impedito la prima volta di gustare liberamente i segni (sotto altri aspetti, il secondo soggiorno a Balbec non è meno deludente del primo). Come porre, in ogni campo, un rimedio alla delusione? Su tutte le linee del suo apprendimento, il protagonista passa attraverso una esperienza analoga, in momenti diversi: si sforza di trovare una compensazione soggettiva alla delusione datagli dall'oggetto. Nel vedere, e poi nel conoscere la duchessa di Guermantes, si accorge che in lei non è contenuto il senso segreto del suo nome. Quel viso, quel corpo, non sono colorati dalla tinta delle sillabe. Che fare, se non compensare la delusione? Diventare personalmente sensibile a segni meno profondi, ma più appropriati al fascino della duchessa, approfittando delle associazioni d'idee da lei suscitate. « Que Mme de Guermantes fùt pareille aux autres, c'avait été pour moi d'a-bord une déception, c'était presque, par réaction, et tant de bons vins aidant, un émerveillement » '. Il meccanismo della delusione oggettiva e della compensazione soggettiva è particolarmente analizzato nell'esempio del teatro. Il protagonista desidera con tutte le forze di sentire la Berma. Ma quando raggiunge lo scopo, cerca dapprima di riconoscere il talento della Berma, di circoscrivere questo talento, di isolarlo in modo da poterlo designare. È la Berma, « ascolto finalmente la Berma ». Percepisce un'intonazione

particolarmente

intelligente,

di

una

mirabile

pertinenza.

All'improvviso, ecco Fedra, Fedra in persona. Eppure nulla può impedirgli di sentirsi deluso. Perché quell'intonazione ha solo un valore intelligibile, un senso perfettamente definito, non è frutto che dell'intelligenza e del lavoro'. Forse bisognava ascoltarla in altro modo, la Berma. Quei segni che non abbiamo sa1 Guermantes, p. 572. «Che la signora di Guermantes fosse simile alle altre donne, era stata per me sulle prime una delusione, e ora, per reazione, e con l'aiuto di tanti buoni vini, era quasi una meraviglia». 1 Ombra, p. 152.

puto gustare né interpretare finché li abbiamo collegati alla persona della Berma, dobbiamo cercarne il senso altrove: in associazioni che non risiedono né in Fedra né nella Berma. Cosi Bergotte fa notare al protagonista che un certo gesto della Berma rievoca quello di una statuetta arcaica, mai vista dall'attrice, e a cui non ha certo pensato neppure Racine '. Ogni linea di apprendimento attraversa questi due momenti: la delusione causata da un tentativo d'interpretazione oggettiva, poi il tentativo di porre rimedio a questa delusione con un'interpretazione soggettiva, grazie alla quale ricostruiamo sistemi associativi. Questo avviene tanto in amore che in arte, ed è facile capirne il perché: il segno è indubbiamente più profondo dell'oggetto da cui viene emesso, ma è ancora collegato a tale oggetto, quasi inguainato in esso. Il senso del segno, senza dubbio, è più profondo del soggetto che lo interpreta, ma si collega a questo soggetto quasi incarnandosi in lui in una serie di associazioni soggettive. Noi passiamo dall'uno all'altro, saltiamo dall'uno all'altro, colmando la delusione dell'oggetto con una compensazione del soggetto. A questo punto, siamo in grado di presentire che il momento della compensazione resta a sua volta insufficiente, e non ci dà una rivelazione definitiva. Ai valori intelligibili oggettivi ci limitiamo a sostituire un meccanismo soggettivo di associazioni d'idee. Risalendo la scala dei segni, ci appare sempre più chiara l'insufficienza di tale compensazione. Un gesto della Berma sarebbe bello perché può evocare quello di una statuetta. Ma, allo stesso modo, la musica di Vinteuil sarebbe bella perché evocherebbe per noi una passeggiata al bois de Boulogne \ Tutto è permesso, nell'esercizio delle associazioni. Da questo punto di vista, non troveremo differenza di natura tra il piacere dell'arte e il piacere della «madeleine»: dovunque, il corteo delle contiguità trascorse. Indubbiamente, l'esperienza della « madeleine » non si riduce, in verità, a semplici associazioni d'idee; ma non siamo ancora in grado di ca-

1 Ombra, p. 144. 1 Ibid., p. IIJ.

pirne il perché; e se riduciamo la qualità di un'opera d'arte al sapore della «madeleine», ci priviamo per sempre del mezzo per comprenderlo. Invece di guidarci verso una giusta interpretazione dell'arte, la compensazione soggettiva finisce col fare della stessa opera d'arte nient'altro che un semplice anello nelle nostre associazioni d'idee: tale la mania di Swann, che non mostra mai tanta ammirazione per Giotto o per Botticelli come quando ne ritrova lo stile sul volto di una fantesca o d'una donna amata. Oppure, mettiamo insieme un museo personale, in cui il sapore di una « madeleine », la qualità d'una corrente d'aria contano più di ogni bellezza: « J'étais froid devant des beautés qu'ils me signalaient, et m'exaltais de réminiscences confuses... je m'arrètais avec extase à renifler l'odeur d'un vent coulis qui passait par la porte. Je vois que vous aimez les courants d'air, me dirent-ils » '.

Eppure, che cosa altro c'è oltre l'oggetto e il soggetto? Ce lo dice l'esempio della Berma. Il protagonista della Ricerca comprenderà alla fine che né la Berma né Fedra sono persone designabili, ma che non sono neppure elementi di associazione. Fedra è un ruolo teatrale e la Berma fa tutt'uno con esso. £ non nel senso che il ruolo sia ancora un oggetto, o qualche cosa di soggettivo; è invece un mondo, un ambiente spirituale popolato da essenze. La Berma, portatrice di segni, rende questi segni talmente immateriali che si aprono totalmente sulle essenze e se ne colmano. A tal punto che, anche attraverso una parte mediocre, i gesti della Berma ci aprono ancora un mondo di essenze possibili \ Al di là degli oggetti designati, al di là delle verità intelligibili e formulate, ma anche al di là delle catene di associazioni soggettive e delle resurrezioni per somiglianza o contiguità, vi sono le essenze, che sono alogiche o so-

1 Sodoma, p. 370. «Ero freddo davanti a bellezze ch'essi mi indicavano e m'inebriavo di reminiscenze confuse... In compenso m'indugiai a fiutare con escasi l'odore d'uno spiffero che soffiava attraverso la porta. - Vedo che vi piacciono le correnti d'aria, - mi dissero». 1 Guermantes, pp. 47-51.

pra-logiche. Esse oltrepassano gli stati della soggettività non meno che le proprietà dell'oggetto. L'essenza costituisce la vera unità del segno e del senso; essa costituisce il segno, in quanto irriducibile all'oggetto che lo emette; essa costituisce il senso, in quanto irriducibile al soggetto che l'afferra. È l'ultima parola dell'apprendimento o la rivelazione finale. Ma, più che attraverso la Berma, il protagonista della Ricerca arriva a questa rivelazione delle essenze attraverso l'opera d'arte, la pittura e la musica, e soprattutto attraverso il problema della letteratura. I segni mondani, i segni amorosi, perfino i segni sensibili, sono incapaci di darci l'essenza: ci avvicinano ad essa; ma sempre ricadiamo nella trappola dell'oggetto, nella rete della soggettività. Solo al livello dell'arte si rivelano le essenze. Ma una volta che si sono manifestate nell'opera d'arte, reagiscono su tutti gli altri campi; e ci accorgiamo che già s'incarnavano, che erano già presenti in ogni specie di segni, in ogni tipo di apprendimento.

I segni dell'arte e l'Essenza

In che cosa consiste la superiorità dei segni dell'arte su tutti gli altri? Nel fatto che tutti gli altri sono segni materiali. Materiali anzitutto a causa della loro emissione, perché quasi inguainati nell'oggetto che li porta. Le qualità sensibili, i volti amati sono pur sempre materia. (Non per caso le qualità sensibili significative sono soprattutto odori e sapori: le più materiali tra le qualità. Non per caso in un volto amato ci attirano le guance e la qualità della pelle). Solo i segni dell'arte sono immateriali. Senza dubbio la piccola frase di Vinteuil esce dal pianoforte e dal violino. Senza dubbio, possiamo scomporla materialmente: cinque note molto ravvicinate, due delle quali vengono ripetute. Ma anche qui, come in Platone, 3 + 2 non spiega nulla. Il pianoforte non è presente se non come l'immagine spaziale di una tastiera di ben altra natura; le note, come « l'apparenza sonora » di una entità che è solo spirituale. « Comme si les instrumentistes beaucoup moins jouaient la petite phrase qu'ils n'executaient les rites exigés d'elle pour qu'elle appariit... » '. Sotto questo aspetto, la stessa impressione della piccola frase è sine materia \ La Berma, a sua volta, si serve della voce, delle braccia. Ma i suoi gesti, invece di attestare « connessità muscolari », formano un corpo trasparente che rifrange un'essenza, un'Idea. Le attrici mediocri hanno bisogno di piangere per dar segno che la loro parte implica il dolore: « Excé-dent de larmes qu'on voyait couler, parce qu'elles n'a1 Strada, p. 371. «Come se i musicisti, più che suonare la piccola frase, compissero i riti da lei pretesi per apparire...» 1 Ibtd., p. 22J.

vaient pu s'y imbiber, sur la voix de marbré d'Aride ou d'Ismene ». Ma tutte le espressioni della Berma, come nell'esecuzione di un grande violinista, sono diventate qualità di timbro. Nella sua voce, « ne subsistait pas un seul déchet de matière inerte et réfractaire à l'esprit » \ Gli altri segni sono materiali, non solo per l'origine e per il modo in cui restano per metà inguainati nell'oggetto, ma anche per lo sviluppo o per la « spiegazione ». La « madeleine » ci richiama Combray, il lastricato Venezia..., ecc. È indubitabile che le due impressioni, la presente e la passata, hanno una sola e identica qualità; tuttavia sono materialmente due. Cosi, ad ogni intervento della memoria, la spiegazione dei segni ha ancora in sé qualcosa di materiale \ Nell'ordine dei segni sensibili, i campanili di Martinville già formano un esempio meno « materiale » perché fanno appello al desiderio e all'immaginazione, ma non alla memoria \ Tuttavia l'impressione dei campanili si esplica nell'immagine di tre fanciulle; e queste, alla loro volta, benché figlie della nostra immaginazione, non sono materialmente qualcosa di diverso dai campanili. Proust parla spesso, come di una necessità incombente su di lui, del fatto che sempre qualche cosa gli rammenta o gli fa immaginare un'altra cosa. Ma, per quanto sia importante questo processo di analogia, l'arte non trova in esso la sua formula più profonda. Fino a quando continuiamo a scoprire il senso del segno in qualcosa d'altro, sussiste ancora un poco di materia, ribelle allo spirito. L'arte ci dà invece la vera unità: unità di un segno immateriale e di un senso completamente spirituale. L'Essenza è appunto questa unità del segno e del senso, quale ci viene rivelata nell'opera d'arte. Essenze, Idee: ecco quel che ci si svela in ogni segno della piccola frase \ ecco quello che dà alla frase la sua esistenza reale, indipendente dagli strumenti e dai suoni, i quali, più che comporla, la ripro-

1 Guermanles, p. 48. «Quell'esuberanza... di lagrime, che si vedevano scorrere sulle voci di marmo di Arida o di Ismene...» «non sussisteva il minimo avanzo di materia inerte e refrattaria allo spirito». 1 Prigioniera, p. 399. 3 Ibtd. 4 Strada, p. 373-

ducono o l'incarnano. In questo consiste la superiorità dell'arte sulla vita: tutti i segni che incontriamo nella vita sono pur sempre segni materiali, e il loro senso, sempre riposto in qualche altra cosa, non è mai interamente spirituale.

Che cosa è un'essenza, quale ci viene rivelata nell'opera d'arte? Non è altro che una differenza, la Differenza ultima e assoluta. È questa a costituire l'essere e a farcelo concepire. Per questa ragione, soltanto l'arte, in quanto manifesta le essenze, è capace di darci ciò che cercavamo invano nella vita: « La diversità que j'avais en vain cherchée dans la vie, dans le voyage... » \ « Le monde des dif-férences n'existant pas à la surface de la terre, parmi tous les pays que notte perception uniformise, à plus forte rai-son n'existe-t-il pas dans le monde. Existe-t-il, d'ailleurs, quelque part? Le septuor de Vinteuil avait semblé me dire que oui » \ Ma che cos'è una differenza ultima assoluta? Non certo una differenza empirica tra due cose o due oggetti, differenza che è sempre estrinseca. Proust ci dà una prima approssimazione dell'essenza, quando dice che è qualche cosa in un soggetto, come la presenza di una qualità ultima nell'interno di un soggetto: differenza interna, « différen-ce qualitative qu'il y a dans la facon dont nous apparait le monde, différence qui, s'il n'y avait pas l'art, resterait le secret éternel de chacun » \ Sotto questo aspetto, Proust è un seguace di Leibniz: le essenze sono vere monadi, o-gnuna delle quali si definisce secondo il punto di vista dal quale esprime il mondo, mentre ogni punto di vista ci rimanda a una qualità ultima nel fondo della monade. Co-

1 Prigioniera, p. 162. «La diversità cercata invano nella vita, nei viaggi ...» 1 \bìd'., p. 290. «Come il mondo delle differenze non esiste sulla superficie della Terra, tra tutti i paesi che la nostra percezione rende uniformi, coti non esiste a maggior ragione nel "mondo". Esiste d'altronde in qualche luogo? la risposta del Settimmo di Vinteuil m'era sembrata affermativa». 1 Tempo, p. 233. «differenza qualitativa... differenza che, se non ci fosse l'arte, resterebbe l'eterno segreto di ognuno».

me dice Leibniz, esse non hanno né porte né finestre: poiché il punto di vista è la differenza stessa, i vari punti di vista su di un mondo supposto il medesimo differiscono tra loro quanto i mondi più remoti. Per questo la comunicazione instaurata dall'amicizia è sempre una falsa comunicazione, fondata su malintesi, può aprire solo finte finestre. Per questo l'amore, più lucido, rinuncia per principio a ogni comunicazione. Solo le nostre porte, solo le nostre finestre sono tutte spirituali: non esiste intersoggettività se non artistica. Solo l'arte ci dà ciò che avevamo atteso invano da un amico, ciò che invano avremmo atteso da un essere amato. « Par l'art seulement, nous pou-vons sortir de nous, savoir ce que voit un autre de cet uni-vers qui n'est pas le mème que le nótre et dont les paysa-ges nous seraient restés aussi inconnus que ceux qu'il peut y avoir dans la lune. Gràce à l'art, au lieu de voir un seul monde, le nótre, nous le voyons se multiplier, et autant qu'il y a d'artistes originaux, autant nous avons de mon-des à notre disposition, plus différents les uns des autres que ceux qui roulent dans Pinfini... » '. Dobbiamo concludere che l'essenza sia soggettiva, e che la differenza sussista tra soggetti piuttosto che tra oggetti? Trascureremmo in tal modo i testi dove Proust tratta le essenze come Idee platoniche, conferendo loro una realtà indipendente. Anche Vinteuil ha «svelata» la frase, più che averla creata \ Ogni soggetto esprime il mondo da un certo punto di vista. Ma il punto di vista è la differenza stessa, la differenza interna assoluta. Quindi, ogni soggetto esprime un mondo assolutamente differente; e, indubbiamente, il mondo espresso non esiste al di fuori del soggetto da cui viene espresso (ciò che chiamiamo mondo esterno è solo la proiezione deludente, il limite che rende uniformi tutti

1 Tempo, pp. 233-34. «Solo grazie all'arte ci è dato uscire da noi stes si, sapere quel che un altro vede di un universo non identico al nostro e i cui paesaggi ci rimarrebbero altrimenti ignoti come quelli che possono es serci nella Luna. Grazie all'arte, anziché vedere un solo mondo, il nostro, noi lo vediamo moltiplicarsi; e, quanti più sono gli artisti originali, tanti più sono i mondi a nostra disposizione, diversi gli uni dagli altri più an cora dei mondi roteanti nell'infinito...» 2 Strada, pp. 373-76.

i mondi espressi). Ma il mondo espresso non si confonde col soggetto: se ne distingue, precisamente come l'essenza si distingue dall'esistenza, e perfino dalla propria esistenza. Non esiste al di fuori del soggetto che lo esprime, ma è espresso come essenza, non già dello stesso soggetto, ma dell'Essere, o della regione dell'Essere che si rivela al 1

soggetto. Perciò ogni essenza è una patria, un paese : non si riduce a uno stato psicologico, né a una soggettività psicologica, e neppure a una forma qualsiasi di soggettività superiore. L'essenza è proprio la qualità ultima interna a un soggetto; ma tale qualità è più profonda del soggetto, appartiene a un altro ordine: « Qualité inconnue d'un monde unique » \ Non è il soggetto a esplicare l'essenza, ma piuttosto l'essenza a implicarsi, avvilupparsi, ravvolgersi nel soggetto. Più ancora: è proprio l'essenza che, ravvolgendosi su se medesima, costituisce la soggettività. Non gli individui costituiscono i mondi, ma i mondi inviluppati, le essenze, costituiscono gli individui: « Ces mon-des que nous appelons les individus, et que sans l'art nous ne connaitrons jamais » \ Il punto di vista non si confonde con colui che vi si situa, né la qualità interna con il soggetto che essa ha individualizzato. Questa distinzione tra essenza e soggetto è ancora più importante perché Proust vede in essa la sola prova possibile dell'immortalità dell'anima. Nell'anima di chi la svela, o solo la comprende, l'essenza 4

è come una « prigioniera divina » . Le essenze, forse, si sono imprigionate da sole, racchiudendosi in quelle anime da loro stesse individualizzate. Non esistono se non in questo stato di prigionia, ma non si separano dalla « patria sconosciuta » che racchiudono con loro in noi stessi. Sono i nostri « ostaggi »: muoiono se noi moriamo, ma se sono eterne, anche noi siamo in qualche modo immortali. Le essenze rendono dunque meno probabile la morte; la sola prova, la sola probabilità è di ordine estetico. Da ciò, il

1 Prigioniere, p. 269. 1 Ibtd., p. 399. «Qualità incognita di un mondo unico». 1 Ibtd , p. 270. «Quei mondi che noi chiamiamo "gli individui", e che senza l'arte ci rimarrebbero sempre sconosciuti». * Strada, p. 374

profondo legame che unisce due questioni: «Les ques-tions de la réalité de PArt, de la réalité, de l'Eternité de l'àme» '. A questo proposito, diventa simbolica la morte di Bergotte davanti alla parete dipinta in giallo di Ver Meer: «Dans une celeste balance lui apparaissait, char-geant l'un des plateaux, sa propre vie, tandis que l'autre contenait le petit pan de mur si bien peint en jaune. Il sentait qu'il avait imprudemment donne le premier pour le second... Un nouveau coup l'abattit... Il était mort. Mort à jamais? Qui peut le dire? » \

Il mondo implicato dall'essenza è sempre un principio del Mondo in generale, un inizio dell'universo, un comin-ciamento radicale assoluto. « D'abord le piano solitaire se plaignit, comme un oiseau abandonné de sa compagne; le violon l'entendit, lui répondit comme d'un arbre voisin. C'était comme au commencement du monde, comme s'il n'y avait encore eu qu'eux deux sur la terre, ou plutót dans ce monde ferme à tout le reste, construit par la lo-gique d'un créateur et où ils ne seraient jamais que tous les deux: cette sonate » \ Quello che dice Proust del mare, o anche del volto di una fanciulla, è ancora più vero riguardo all'essenza e all'opera d'arte: l'instabile opposizione, « cette perpétuelle récréation des éléments primor-diaux de la nature » \ Ma, cosi definita, l'essenza è la nascita stessa del Tempo. Ciò non significa che il tempo si sia già svolto: non ha ancora le dimensioni distinte secondo le quali potrebbe snodarsi, e neppure le serie separate 1 Prigioniera, p. 397. «I problemi della realtà dell'arte, della realtà, dell'eternità dell'anima». 2 Ibid., p. 192. «In una celeste bilancia gli apparivano, su uno dei piat ti, la sua vita; sull'altro, la piccola ala di muro cosi ben dipinta di giallo. Egli sentiva d'aver dato incautamente la prima per la seconda... Un nuovo colpo lo abbatté... Era morto. Morto per sempre? Chi lo può dire?» J Strada, p. 375. «Dapprima il pianoforte si lamentò solitario, come un uccello abbandonato dalla compagna; il violino lo udì, gli rispose quasi da un albero vicino. Accadeva come al principio del mondo, come se ancora non vi fossero che loro due sulla terra, o piuttosto in quel mondo chiuso a tutto il resto, costruito dalla logica d'un creatore e dove sarebbero sempre stati soli entrambi: quella sonata». * Ombra, p. jn. «quella perpetua creazione degli elementi primordiali della natura».

nelle quali si distribuisce su ritmi differenti. Alcuni neoplatonici si servivano di una parola profonda per indicare lo stato originario che precede ogni sviluppo, ogni dispiegarsi, ogni «esplicazione»: la complicatio, che racchiude il multiplo nell'Uno e afferma l'Uno dal multiplo. A loro, l'eternità non sembrava l'assenza di cambiamento, e neppure il prolungarsi di una esistenza illimitata, ma lo stato « complicato » del tempo stesso (uno ictu mutationes tuas complectitur). Il Verbo, omnia complicans, in cui tutte le essenze sono contenute, era definito come la complicazione suprema, la complicazione dei contrari, l'instabile opposizione... Ne traevano l'idea di un Universo essenzialmente espressivo, che si organizzasse secondo gradi di complicazioni immanenti, e in un ordine di esplicazioni discendenti. Il meno che possiamo dire è che Charlus è « complicato ». Ma tale parola va presa in tutto il suo valore etimologico. Il genio di Charlus sta nel contenere tutte le anime che lo compongono allo stato « complicato » : per questo Charlus ha sempre la freschezza del principio di un mondo, e non smette mai di emettere segni primordiali, segni che l'interprete dovrà decifrare, e cioè esplicare. Tuttavia, se cerchiamo nella vita qualcosa che corrisponda alla situazione delle essenze originarie, non lo troveremo in questo o in quel personaggio, ma piuttosto in uno stato profondo. Tale stato è il sonno. Chi dorme « tient en cercle autour de lui le fil des heures, l'ordre des années et des mondes » ; meravigliosa libertà che cessa solo al risveglio, quando chi dormiva è costretto a scegliere secondo l'ordine del tempo che nuovamente gli si spiega davanti '. Nello stesso modo, il soggetto artista ha la rivelazione di un tempo originale, avvolto, complicato nella stessa essenza, che stringe in un solo abbraccio tutte le sue serie e tutte le sue dimensioni. Questo appunto è il senso del termine « tempo ritrovato ». Il tempo ritrovato, allo stato puro, è compreso nei segni dell'arte. Non va confuso con un altro tempo ritrovato, quello dei segni

1 Strada, p. 7. «tiene intorno a sé in cerchio il filo delle ore, gli ordini degli anni e dei mondi».

sensibili. Quest'ultimo è soltanto un tempo che ritroviamo in seno allo stesso tempo perduto; esso mobilita ogni risorsa della memoria involontaria, e ci offre una semplice immagine dell'eternità. Ma, come il sonno, l'arte è al di là della memoria: fa appello al pensiero puro come facoltà delle essenze. Quello che, grazie all'arte, ritroviamo, è il tempo quale è implicato nell'essenza, identico all'eternità. L'extra-temporale di Proust è questo tempo allo stato nascente, e il soggetto artista che lo ritrova. Possiamo quindi affermare, a stretto vigore, che solo l'opera d'arte ci fa ritrovare il tempo: l'opera !

d'arte, «le seul moyen de retrouver le temps perdu » , portatrice dei segni più alti, il cui senso è situato in una complicazione primordiale, eternità vera, tempo originario assoluto.

Ma in che modo l'essenza s'incarni nell'opera d'arte? O, in altre parole: in che modo un soggetto-artista riesce a « comunicare » l'essenza che l'individualizza e la rende eterna? L'essenza s'incarna in certe materie. Ma queste sono talmente duttili, cosi bene amalgamate e affinate da divenire completamente spirituali. Materie sono indubbiamente il colore per il pittore, come il giallo di Ver Meer, il suono per il musicista, la parola per lo scrittore. Ma più in profondità, si tratta di materie libere che si e-sprimono altrettanto bene attraverso le parole, i suoni e i colori. Nell'opera di Thomas Hardy, ad esempio, i blocchi di pietra, la geometria di questi blocchi, il parallelismo delle linee formano una materia spiritualizzata, da cui anche le parole attingono il loro modo di coordinarsi; in Stendhal, l'altezza è una materia aerea « se 2

liant à la vie spirituelle » . Il vero tema di un'opera non è quindi il soggetto trattato in essa, soggetto cosciente e voluto che si confonde con ciò che designano le parole, ma i temi incoscienti, gli archetipi involontari da cui non solo le parole, ma anche i colori e i suoni prendono senso e vita. L'arte

1 Tempo, p. 237. «il solo mezzo per ritrovare il Tempo perduto». 1 Prigioniera, p. 401. «connesso alla vita spirituale».

è una vera trasformazione della materia. La materia viene spiritualizzata; i mezzi fisici, privati d'ogni materialità, rifrangono l'essenza, vale a dire la qualità di un mondo originario. E tale trattamento della materia fa tutt'uno con lo « stile». Essendo qualità di un mondo, l'essenza non si confonde mai con un oggetto, ma anzi, accosta due oggetti completamente differenti, permettendoci appunto di scorgere che essi hanno questa qualità nel mezzo rivelatore. Nel tempo stesso che l'essenza s'incarna in una materia, la qualità ultima da cui è costituita si esprime come la qualità comune a due oggetti differenti, temprati in quella materia luminosa, tuffati in quel mezzo rifrangente. In questo consiste lo stile: « On peut faire se succeder indéfiniment dans une description les objets qui figuraient dans le lieu décrit, la vérité ne commencera qu'au moment où Pécrivain pren-dra deux objets differente, poserà leur rapport, analogue dans le monde de l'art à celui qu'est le rapport unique de la loi causale dans le monde de la science, et les enfermera dans les anneaux nécessaires d'un beau style » \ Ciò significa che lo stile è essenzialmente metafora. Ma la metafora è essenzialmente metamorfosi; indica come i due oggetti scambiano le loro determinazioni e perfino il nome che li indica, nel nuovo mezzo da cui assumono la qualità comune. Cosi, nei quadri di Elstir, dove il mare diventa terra e la terra mare, in cui la città non viene designata che con « termini marinari», e 1

l'acqua con « termini urbani» . Lo stile infatti, per spiritualizzare la materia e renderla adeguata all'essenza, riproduce l'instabile opposizione, la « complicatio » originaria, la lotta e lo scambio degli elementi primordiali che costituivano la stessa essenza. In Vinteuil, sentiamo lottare due motivi, come in un corpo a corpo: « corps à corps d'énergies seulement, à vrai dire, car si ces étres s'affrontaient, c'est débarassés de 1 Tempo, p. 227. « In una descrizione, possiamo elencare indefinitamente gli oggetti presenti nel luogo descritto; ma la verità comincerà solo quando Io scrittore avrà preso due oggetti differenti, ne avrà stabilito il rapporto, analogo nel campo dell'arte a quello eh'è il rapporto unico della legge causale nel campo scientifico, e li avrà saldati con gli anelli necessari dello stile*. 1 Ombra, pp. 419-4'-

leur corps physique, de leur apparence, de leur nom... » . Un'essenza è sempre una nascita del mondo; ma lo stile è questa nascita continuata e rifratta, questa nascita ritrovata in materie adeguate alle essenze, divenuta metamorfosi di oggetti. Lo stile non è l'uomo, è l'essenza stessa. L'essenza non è soltanto particolare, individuale, ma anche individualizzante. Individualizza essa stessa e determina le materie in cui s'incarna, come gli oggetti che racchiude negli anelli dello stile: tali il rosseggiante setti-mino e la bianca sonata di Vinteuil, o anche la bella diversità nell'opera di Wagner \ L'essenza è in se stessa differenza. Ma non ha la possibilità di rendere e di rendersi diversa, senza avere anche il potere di ripetersi, sempre identica. Che altro si può fare dell'essenza, differenza ultima, se non ripeterla, dal momento che non ha surrogati e nulla può venirle sostituito? Per questo una grande musica può solo essere suonata di nuovo, una lirica, imparata a memoria e recitata. Differenza e ripetizione si oppongono soltanto in apparenza. Non vi è grande artista la cui o-pera non ci spinga a dire: « La mème et pourtant autre » \ La differenza, infatti, come qualità di un mondo, non si afferma se non attraverso una specie di autoripetizione che percorre mezzi svariati, e riunisce oggetti diversi; la ripetizione costituisce i gradi di una differenza originale, ma la diversità rappresenta d'altra parte i livelli di una ripetizione non meno fondamentale. Dell'opera di un grande artista diciamo: è la stessa cosa, salvo la differenza di livello - ma diciamo anche: è un'altra cosa, salvo la somiglianza della statura. In verità, differenza e ripetizione rappresentano le due potenze dell'essenza, inseparabili e correlative. Un artista non invecchia col ripetersi, perché la ripetizione è potenza della differenza, cosi come la differenza è potere della ripetizione. Un artista invecchia quando, per il logorio della mente, giudica più semplice trovare direttamente nella vita, come già fatto, quanto

1 Prigioniera, p. 273. «A corpo a corpo di energie pure, a dir vero: perché quei due esseri si affrontavano liberi del loro corpo fisico, della loro apparenza, del loro nome...» 1 lbid.t p. 162. 1 Ibid., p. 272. «Identica eppur diversa».

non poteva che esprimere nell'opera, quanto avrebbe dovuto distinguere e ripetere con la sua opera '. Invecchiando, l'artista fa affidamento sulla vita, sulla « bellezza della vita »; ma non vi trova che surrogati di quanto costituisce l'arte, ripetizioni divenute meccaniche perché solo esteriori, differenze stereotipe, riaffondate in una materia che non sanno più rendere lieve e spirituale. La vita non ha i due poteri dell'arte; li riceve solo degradandoli, e non riproduce l'essenza se non al più basso livello, al grado più debole.

L'arte ha dunque un privilegio assoluto, che si esprime in molte maniere. Nell'arte, le materie vengono spiritualizzate, i mezzi smaterializzati. L'opera d'arte è dunque un mondo di segni, ma di segni immateriali, che nulla più hanno di opaco: per lo meno, all'occhio e all'orecchio di chi è artista. In secondo luogo, il senso di tali segni è un'essenza, essenza affermata in tutto il suo potere. In terzo luogo, segno e senso, essenza e materia trasformata, si confondono o si uniscono in un perfetto adeguamento. Identità di un segno, come stile, e di un senso come essenza: tale è il carattere dell'opera d'arte. E indubbiamente, l'arte è stata anch'essa oggetto di un apprendistato. Anche per lei, siamo passati attraverso la tentazione oggettivista, attraverso la compensazione soggettiva: come in ogni altro campo. Solo che la rivelazione dell'essenza (al di là dell'oggetto, al di là del soggetto stesso) appartiene unicamente al regno dell'arte. Se deve avvenire, non avverrà che in quello. Per questo appunto l'arte è la finalità del mondo, l'incosciente punto di arrivo dell'apprendista. Ci troviamo dunque di fronte a due ordini d'interrogativi. Che cosa valgono gli altri segni, quelli che sono di dominio della vita? Che cosa c'insegnano da soli? Possiamo dire di loro che già ci introducano sul cammino dell'arte, e in che modo? Ma soprattutto, una volta che avremo ricevuto dall'arte la rivelazione finale, come reagirà tale rivelazione sugli altri campi, e come diverrà il centro di 1 Ombra, p. 456.

un sistema che non lasci nulla al dì fuori? L'essenza è sempre un'essenza artistica. Ma quando sia stata scoperta, non s'incarna soltanto nelle materie spiritualizzate nei segni immateriali dell'opera d'arte; s'incarna anche in altri mondi che, da quel momento, verranno a integrarsi nell'opera d'arte. L'essenza penetra dunque nei mezzi più opachi, nei segni più materiali. Perde in essi alcuni dei suoi caratteri originali, ne acquista altri, che esprimono il calarsi dell'essenza in materie via via più ribelli. Esistono leggi secondo le quali l'essenza si trasforma in rapporto con le varie determinazioni della vita.

Funzione secondaria della memoria

I segni mondani e i segni amorosi ricorrono, per essere interpretati, all'intelligenza. È l'intelligenza a decifrarli: ma a condizione di « venire dopo », di essere in certo modo costretta a mettersi in moto, sotto la spinta dell'esaltazione nervosa dataci dalla mondanità, o, ancora più, del dolore ispiratoci dall'amore. L'intelligenza, senza dubbio, mobilita anche altre facoltà. Vediamo ad esempio il geloso mettere tutte le risorse della memoria a servizio dell'interpretazione dei segni dell'amore, vale a dire delle menzogne dell'amato. Ma in questo caso la memoria, non essendo sollecitata direttamente, può solo fornire un apporto volontario. E appunto perché soltanto volontaria, questa memoria arriva sempre troppo tardi rispetto ai segni da decifrare. La memoria del geloso vuole registrare tutto, perché il minimo particolare può rivelarsi un segno o un sintomo di menzogna; vuole immagazzinare tutto affinché l'intelligenza disponga del materiale necessario alle prossime interpretazioni. Perciò vi è qualcosa di sublime, nella memoria del geloso: essa affronta i suoi stessi limiti e si sforza di oltrepassarli, tesa verso l'avvenire. Ma arriva troppo tardi, per non aver saputo distinguere sul momento la frase da ritenere, il gesto di cui non sapeva ancora che avrebbe preso un certo senso '. « Plus tard, devant le mensonge patent, ou pris d'un doute anxieux, j'aurais voulu me rappeler; c'était en vain; ma mémoire n'avait pas été prévenue à temps; elle avait cru inutile de garder

1 Privoniera, p. j8.

copie » '. Insomma, nelPinterpretare i segni dell'amore, la memoria interviene soltanto in una forma volontaria che la condanna a un patetico fallimento. Non è certo lo sforzo della memoria, quale lo vediamo in ogni amore, quello che riesce a decifrare i segni corrispondenti; ma solo la spinta dell'intelligenza, nella serie dei successivi amori, tutta cosparsa di dimenticanze e d'incoscienti ripetizioni.

A quale livello interviene dunque la famosa memoria involontaria? È da notare anzitutto che non interviene se non in funzione di una specie particolare di segni : i segni sensibili. Percepiamo una qualità sensibile come un segno, e un imperativo ci spinge a cercarne il senso. Può accadere allora che la memoria involontaria, direttamente sollecitata dal segno, ci sveli questo senso (così Combray per la « madeleine », Venezia per il lastricato..., ecc.). In secondo luogo constatiamo che questa memoria involontaria non possiede il segreto di tutti i segni sensibili: alcuni si riferiscono invece al desiderio, e a figure dell'immaginazione (cosi i campanili di Martinville). E per questo che Proust distingue con cura due casi di segni sensibili: le reminiscenze e le scoperte: le « résurrections de la mémoire », e le « vérités écrites à l'aide de figures » \ La mattina, il protagonista nell'alzarsi non prova in sé soltanto la pressione dei ricordi involontari che si confondono con una luce o con un odore, ma anche lo slancio dei desideri involontari che s'incarnano in una donna che passa - fornaia, lavandaia o fiera giovinetta, « une image en-fin »... \ In principio, non possiamo nemmeno dire da che parte ci venga il segno. La qualità si rivolge all'immaginazione o semplicemente alla memoria? Per scoprire la facoltà capace di svelarci il senso adeguato, occorre tentare tutto. E in caso di insuccesso, non ci riesce nemmeno di 1 Prigioniera, p. 156. «Più tardi, colpito da una bugia evidente o preso da un dubbio ansioso, tentavo di ricordarmela, ma inutilmente: la mia memoria non ne era stata preavvisata a tempo, e aveva creduto inutile tenerne copia». 1 Tempo, pp. 214-15. «resurrezioni compiute dalla memoria»; «verità scritte con l'ausilio di figure». J Prigioniera, p. 23. «un'immagine, insomma»...

sapere se il senso rimasto velato era una figura di sogno, o un ricordo afiondato nella memoria involontaria. I tre alberi, ad esempio, erano un paesaggio della Memoria o del Sogno? '. I segni sensibili che si esplicano mediante la memoria involontaria sono soggetti a una duplice inferiorità, non solo rispetto ai segni dell'arte, ma anche ai segni sensibili che risalgono all'immaginazione. Da un lato, essendo di materia più opaca e ribelle, trovano una spiegazione troppo materiale; dall'altro, non superano che in apparenza la contraddizione dell'essere e del nulla (come abbiamo visto nel ricordo della nonna). Proust ci dice la pienezza delle reminiscenze o dei ricordi involontari, ci parla della gioia ultraterrena che viene a noi dai segni della memoria, e del tempo che ci fanno ritrovare all'improvviso. È vero: i segni sensibili che si spiegano grazie alla memoria formano un «commencement d'art», ci mettono « sur la voie de l'art » \ Il nostro apprendimento non riuscirebbe mai a sboccare nell'arte, senza passare attraverso questi segni che ci fanno pregustare il tempo ritrovato e ci preparano alla pienezza delle Idee estetiche. Ma non possono che prepararci: semplice inizio. Sono ancora segni della vita, non segni dell'arte \ Superiori ai segni mondani, superiori ai segni dell'amore, tali segni sono tuttavia inferiori a quelli dell'arte. £, anche nel loro genere, restano inferiori ai segni sensibili dell'immaginazione, che maggiormente si avvicinano all'arte (pur continuando ad 4

appartenere alla vita) . Spesso Proust presenta i segni della memoria come decisivi; le reminiscenze gli sembrano costitutive dell'opera d'arte, non solo nella prospettiva del suo progetto personale, ma anche per i grandi precursori, come Chateaubriand, Nerval o Baudelaire. Ma se le reminiscenze si integrano nell'arte come parti costitutive, ciò avviene piuttosto nella misura in cui esse sono elementi conduttori, capaci di guidare il lettore alla comprensione dell'opera e di portare l'artista 1 Ombra, pp. 316-18. 1 Tempo, p. 227. «un principio d'arte», «sul cammino dell'arte». 1 Ibtd * Prigioniere, p. 399.

a concepire il proprio compito e l'unità di tale compito: « Que ce fùt justement et uniquement ce genre de sensa-tions qui dùt conduire à l'oeuvre d'art, j'allais essayer d'en trouver la raison objective » '. Le reminiscenze sono le metafore della vita; le metafore sono le reminiscenze dell'arte. Le une e le altre hanno infatti qualche cosa in comune: determinano un rapporto tra due oggetti completamente differenti, « pour les soustraire aux contingences du temps » \ Ma solo l'arte compie pienamente ciò che la vita ha appena abbozzato. Le reminiscenze della memoria involontaria sono pur sempre vita: arte a livello della vita, quindi cattive metafore. Invece l'arte nella sua essenza, l'arte superiore alla vita, non riposa sulla memoria involontaria; e neppure sull'immaginazione e sulle figure incoscienti. I segni dell'arte si spiegano mediante il pensiero puro come facoltà delle essenze. Quanto ai segni sensibili in generale, sia che si rivolgano alla memoria, sia anche all'immaginazione, dobbiamo dire da un lato che precedono l'arte e che la loro funzione sta solo nel guidarci ad essa; dall'altro che vengono dopo l'arte e ne captano solamente i più vicini riflessi.

Come spiegare il meccanismo complesso delle reminiscenze? Sì tratta, a prima vista, di un meccanismo associativo: da un lato, rassomiglianza tra una sensazione presente e una sensazione passata; da un altro, contiguità della sensazione passata con un insieme da noi vissuto un tempo, che risuscita sotto l'effetto della sensazione presente. Cosi, il sapore della « madeleine » è simile a quello che sentivamo a Combray e fa rivivere Combray dove per la prima volta l'avevamo sentito. È stata spesso rilevata l'importanza formale di una psicologia associazionista in Proust. Ma sarebbe ingiusto muovergliene rimprovero: più ancora dell'associazionismo è inattuale la critica dell'associazionismo. Dobbiamo dunque chiederci da quale 1 Tempo, p. 2^8. «Del fatto che fosse proprio e soltanto quel genere di sensazioni a condurre all'opera d'arte, io dovevo cercar di trovare la ragione oggettiva». 2 Ibid., p. 227. «per sottrarle alle contingenze del tempo».

punto di vista i casi di reminiscenza superino effettivamente i meccanismi di associazione; ma anche da quale punto di vista si riferiscano effettivamente a tali meccanismi. La reminiscenza propone molti problemi che non vengono risolti dall'associazione d'idee. Anzitutto, donde ci viene la gioia straordinaria che già proviamo nella sensazione presente? Gioia tanto violenta che basta a renderci indifferente la morte. In secondo luogo, come spiegare che non vi sia solo una semplice somiglianza tra le due sensazioni, presente e passata? Al di là di una somiglianza, tra le due sensazioni, scopriamo l'identità di una medesima qualità, presente in ambedue. E finalmente, come spiegare che Combray risorga, non quale fu vissuta in contiguità con la sensazione passata, ma in uno splendore e con una «verità» che non ebbero mai equivalente nel reale? Questa gioia del tempo ritrovato, questa identità di qualità, questa verità della reminiscenza noi le proviamo, e sentiamo che vanno al di là di ogni meccanismo associativo. Ma in che modo? Non siamo in grado di dirlo. Constatiamo quello che avviene, senza avere ancora la possibilità di comprenderlo. Sotto il sapore della « madeleine », è sorta Combray in tutto il suo splendore; ma non abbiamo affatto scoperto le cause di tale apparizione. L'impressione dei tre alberi resta inesplicata, mentre invece quella della « madeleine » sembra spiegata da Combray. Eppure, restiamo allo stesso punto: perché quella gioia, perché quello splendore nella risurrezione di Combray? («J'a-vais aiors ajourné de chercher les causes profondes ») \ La memoria volontaria va da un presente attuale a un presente che «è stato», cioè a qualche cosa che fu presente e non lo è più. Il passato della memoria volontaria è dunque doppiamente relativo: relativo al presente che è stato, ma anche relativo al presente rispetto al quale esso è ora passato. Vale a dire che questa memoria non afferra direttamente il passato: lo ricompone per mezzo dei pre-

1 Tempo, p. 202. «Avevo allora rinunciato a ricercare le cause profonde*.

senti. Per tale ragione, Proust rivolge le stesse obiezioni alla memoria volontaria e alla percezione cosciente: questa crede di trovare il segreto dell'impressione nell'oggetto, quella crede di trovare il segreto del ricordo nel succedersi dei presenti; e sono precisamente gli oggetti a distinguere i presenti successivi. La memoria volontaria procede per mezzo di istantanee: « Rien que ce mot me la rendait ennuyeuse comme une exposition de photo-graphies, et je ne me sentais pas plus de goùt, plus de ta-lent, pour décrire maintenant ce que j'avais vu autrefois qu'hier ce que j'observais d'un oeil minutieux et morne, au moment méme » '. È evidente che alla memoria volontaria sfugge qualche cosa di essenziale: l'essere in sé del passato. Essa fa come se il passato si costituisse come tale dopo essere stato presente. Bisognerebbe dunque aspettare un nuovo presente perché quello precedente passi, o diventi passato. Ma così ci sfugge l'essenza del tempo. Poiché se il presente non fosse passato oltre che presente, se il momento stesso non coesistesse con sé come presente e passato, esso non passerebbe mai, e non verrebbe mai a rimpiazzarlo un nuovo presente. Il passato quale è in sé coesiste col presente che è stato, non gli succede. È ben vero che non possiamo cogliere un avvenimento come passato nello stesso momento in cui lo proviamo come presente (salvo nei casi di pa-ramnesia, cui 2

forse corrisponde per Proust la visione dei tre alberi) ; ma ciò avviene perché le esigenze congiunte della percezione cosciente e della memoria volontaria stabiliscono una successione reale là dove, più in profondità, abbiamo una coesistenza virtuale. Se esiste una somiglianza tra la concezione di Bergson e quella di Proust, è a questo livello: non a livello della durata, ma a quello della memoria. Non si risale da un presente attuale al passato, né si ricostruisce il passato per ' Tempo, p. 200. «Bastava questa parola a rendermi uggiosa quella città come una mostra fotografica; né io sentivo in me maggior voglia, maggior disposizione a descrivere ora quel che avevo veduto in passato di quanta ne avessi avuta il giorno precedente nel tentar di descrivere, sul momento stesso, quel che andavo osservando con occhio meticoloso e tetro». 1 Ombra, pp. 316-18.

mezzo dei presenti, ma situandosi alla prima nello stesso passato, il quale non rappresenta qualcosa che è stato, ma semplicemente qualcosa che è e che coesiste con se stesso come presente, non disponendo il passato per la sua conservazione di nuli'altro che di se stesso, poiché esiste in sé, sopravvive e si conserva in sé - tali sono le celebri tesi di Matière et Mémoire. A questo « essere in sé » del passato, Bergson dava la definizione di virtuale. E similmente si esprime Proust a proposito degli stati indotti dai segni della memoria: « Réels sans étre actuels, idéaux sans étre abstraits » '. Ma a partire da questo punto, il problema non è lo stesso per Proust e per Bergson: a Bergson basta sapere che il passato si conserva in sé. Nonostante le pagine profonde sul sogno o sulla paramnesia, Bergson non si domanda essenzialmente in qual modo il passato, quale è in sé, potrebbe venir salvato a nostro profitto. Secondo lui, anche il sogno più profondo implica una degradazione del ricordo puro, una discesa del ricordo in un'immagine che lo deforma. Per Proust, invece, il problema è appunto questo: come salvare per noi il passato, quale si conserva in sé, quale sopravvive in sé? Avviene a Proust di esporre la tesi bergsoniana; non direttamente, ma attraverso un aneddoto « del filosofo norvegese » che a sua volta lo ha udito da Boutroux \ È da notare la reazione di Proust: « Nous possédons tous nos souvenirs, sinon la faculté de nous les rappeler, dit d'après M. Bergson le grand philosophe norvégien... Mais qu'est-ce qu'un souvenir qu'on ne se rappelle pas? » Proust domanda: come salveremo il passato quale è in sé? È a questa domanda che dà una risposta la memoria involontaria. La memoria involontaria sembra basarsi anzitutto sulla somiglianza tra due sensazioni, tra due momenti. Ma più profondamente la somiglianza si traduce in una stretta identità: identità d'una qualità comune alle due sensazio-

1 Tempo, p. 208. «Reali senza essere attuali, ideali senza essere astratti». 1 Sodoma, pp. 413-14. «Noi possediamo tutti i nostri ricordi, se non la facoltà di richiamarli alla memoria: dice, sulle orme di Bergson, il grande filosofo norvegese... Ma che cos'è un ricordo di cui non ci si rammenti?»

ni, o d'una sensazione comune ai due momenti, l'attuale e il passato. Cosi per il sapore potremmo dire che esso contiene un volume di durata che lo estende contemporaneamente su due momenti. Ma, a sua volta, la sensazione, la qualità identica, implica un rapporto con qualche cosa di differente. Il sapore della « madeleine » ha imprigionato e avviluppato nel suo volume Combray. Finché ci limitiamo alla percezione cosciente, la « madeleine » ha soltanto un rapporto di contiguità tutta esteriore con Combray. Finché ci limitiamo alla memoria volontaria, Combray resta al di fuori della « madeleine», come il contesto separabile dalla lontana sensazione. Ma la memoria involontaria ha questa proprietà peculiare: di interiorizzare il contesto, di rendere il contesto antico inseparabile dalla sensazione presente. Allo stesso modo che la somiglianza tra i due momenti è superata verso una identità più profonda, la contiguità che apparteneva al momento passato è superata verso una più profonda differenza. Combray risorge nella sensazione attuale, la sua differenza rispetto all'antica sensazione si è interiorizzata nella sensazione presente, che quindi non possiamo più separare da questo rapporto con l'oggetto differente. L'essenziale nella memoria involontaria non è la somiglianza, e neppure l'identità, semplici condizioni. L'essenziale è la differenza interiorizzata, divenuta immanente. In questo senso, la reminiscenza è l'analogo dell'arte, e la memoria involontaria è l'analogo di una metafora: essa prende « due oggetti differenti », la « madeleine » col suo sapore, Combray con le sue qualità di colore e di temperatura; le ravvolge una nell'altra, facendo del loro rapporto qualche cosa d'interiore. Il sapore, la qualità comune alle due sensazioni, la sensazione comune ai due momenti, non interviene che per ricordare qualcosa d'altro: Combray. Ma a tale richiamo, Combray risuscita sotto una forma assolutamente nuova. Combray non sorge quale è stata presente. Combray sorge come passato, ma questo passato non è più relativo al presente che è stato, né al presente rispetto al quale è a-desso passato. Non si tratta più della Combray della percezione, né di quella della memoria volontaria. Combray

appare quale non poteva essere vissuta: non in realtà, ma nella sua verità; non nei suoi rapporti esteriori e contingenti, ma nella sua differenza interiorizzata, nella sua essenza. Combray appare in un passato puro, che coesiste con i due presenti, ma al di là della loro portata, dove né la memoria volontaria attuale, né la trascorsa 1

percezione cosciente possono raggiungerlo. « Un peu de temps à Pé-tat pur» . E cioè: non una semplice somiglianza tra il presente e il passato, tra un presente che è attuale e un passato che è stato presente; e nemmeno un'identità dei due momenti; ma, al di là di questo, l'essere in sé del passato, più profondo di ogni passato che è stato, di ogni presente che fu. « Un peu de temps à l'état pur », vale a dire l'essenza del tempo localizzata.

« Reali senza essere attuali, ideali senza essere astratti». In questo reale ideale, in questo virtuale consiste l'essenza. L'essenza si realizza o s'incarna nel ricordo involontario. Anche qui, come nell'arte, l'avvolgimento, l'implicazione resta lo stato superiore dell'essenza. £ il ricordo involontario ne conserva i due poteri : la differenza nel momento lontano, la ripetizione nell'attuale. Ma nel ricordo involontario l'essenza si realizza a un livello più basso che nell'arte, s'incarna in una materia più opaca. In primo luogo, l'essenza non appare più come la qualità ultima di un punto di vista singolare, quale era l'essenza artistica, individuale, anzi individualizzante. È qualcosa di particolare; ma è principio di localizzazione più che d'individuazione. Appare come essenza locale: Combray, Balbec, Venezia... È particolare, inoltre, perché rivela la verità differenziale di un luogo, di un momento. Ma, da un altro punto di vista, è già generale, perché introduce questa rivelazione in una sensazione «comune» a due luoghi, a due momenti. Anche nell'arte, la qualità dell'essenza si esprimeva come qualità comune a due oggetti; ma l'essenza artistica non vi perdeva nulla, non alienava nulla della sua singolarità, perché i due oggetti e il loro rappor1 Tempo, p. 208. «Un frammento di tempo allo stato puro».

to erano interamente determinati dal punto di vista dell'essenza, senza alcun margine di contingenza. Non cosi nella memoria involontaria, dove l'essenza comincia a prendere un minimo di generalità. Per questo Proust dice che i segni sensibili già rimandano a un'« essenza generale », come i segni dell'amore o i segni mondani '. Una seconda differenza si coglie dal punto di vista del tempo. L'essenza artistica ci rivela un tempo originale, che oltrepassa le proprie serie e le proprie dimensioni. È un tempo « complicato » nella essenza stessa, identico all'eternità. E quindi, quando parliamo di un « tempo ritrovato » nell'opera d'arte, si tratta di questo tempo primordiale, che si oppone al tempo dispiegato e sviluppato, cioè al tempo successivo che passa, al tempo che si perde in generale. Invece, l'essenza che s'incarna nel ricordo involontario non ci svela più questo tempo originale. Ci fa, si, ritrovare il tempo, ma in tutt'altro modo: quel che ci fa ritrovare è lo stesso tempo perduto. Sopraggiunge bruscamente in un tempo già trascorso, già sviluppato. Ritrova in questo tempo che passa un centro di avvolgimento, ma che ormai è soltanto l'immagine del tempo originale. Per questa ragione le rivelazioni della memoria involontaria sono straordinariamente brevi, e non potrebbero prolungarsi senza nostro danno: «Dans l'étourdisse-ment d'une incertitude pareille à celle qu'on éprouve par-fois devant une vision ineffable, au moment de s'endor-mir » \ La reminiscenza ci presenta il passato puro, l'essere in sé del passato. Questo essere supera indubbiamente tutte le dimensioni empiriche del tempo. Ma è, nella sua stessa ambiguità, il principio a partire dal quale tali dimensioni si snodano nel tempo perduto, come è anche il principio in cui si può ritrovare lo stesso tempo perduto, il centro attorno al quale possiamo avvolgerlo di nuovo per avere un'immagine dell'eternità. Il passato puro è l'istanza che non si riduce a nessun presente che passa, ma anche l'istanza che fa passare tutti i presenti, che presiede 1 Tempo, p. 258. 1 Ibid., p. 211. «Nel capogiro d'una certezza simile a quella che si prova talvolta di fronte a una visione ineffabile, sul punto di addormentarci».

al loro passaggio: in questo senso, esso implica anche la contraddizione tra la sopravvivenza e il nulla. Dalla loro fusione nasce la visione ineffabile. La memoria involontaria ci dà l'eternità, ma in modo tale che non abbiamo la forza di sopportarla più di un istante, né il modo di scoprirne la natura. Quella che ci dà è dunque piuttosto l'immagine istantanea della eternità. E, dal punto di vista delle essenze, ogni Io della memoria involontaria rimane inferiore all'Io dell'arte. Infine, la realizzazione dell'essenza nel ricordo involontario non si può scindere da determinazioni che restano esteriori e contingenti. Non dipende dalle circostanze il fatto che, per il potere della memoria involontaria, qualcosa sorga nella sua essenza o nella sua verità. Ma che questo « qualcosa » sia Combray, Balbec o Venezia; che si tratti di un'essenza piuttosto che di un'altra (essenza selezionata e che trova allora il momento d'incarnarsi) - tutto questo mette in gioco circostanze e contingenze molteplici. Da un lato, è evidente che l'essenza di Combray non si realizzerebbe nel sapore ritrovato della «madeleine», se non ci fosse stata dapprima una contiguità reale tra la « madeleine » quale fu assaporata e Combray quale fu presente. D'altra parte, la « madeleine » col suo sapore, Combray con le sue qualità hanno ancora materie distinte che resistono all'implicazione, alla penetrazione reciproca. Dobbiamo quindi insistere su due punti: un'essenza s'incarna nel ricordo involontario, ma vi trova materie molto meno spiritualizzate, mezzi meno « smaterializzati » di quelli dell'arte. E, a differenza di quanto avviene nell'arte, la selezione e la scelta di questa essenza dipendono in tal caso da dati esteriori all'essenza, rimandano in ultima istanza a stati vissuti, a meccanismi di associazione che restano soggettivi e contingenti. (Altre contiguità avrebbero indotto o selezionato altre essenze). Nella memoria involontaria, la fisica fa valere la resistenza delle materie; la psicologia, l'irriducibilità delle associazioni soggettive. Ecco perché i segni della memoria ci tendono di continuo l'agguato di una interpretazione oggettivistica, ma anche e soprattutto ci tentano a trovare un'interpretazione tutta soggettiva. Ecco perché, infine, le remini-

scenze sono metafore inferiori: invece di riunire due oggetti differenti la cui scelta e il cui rapporto siano interamente determinati da un'essenza incarnata in un mezzo duttile o trasparente, la memoria riunisce due oggetti ancora radicati in una materia opaca, il cui rapporto dipende da un'associazione. In tal modo, l'essenza non è più arbitra della propria incarnazione, della propria scelta, ma viene selezionata attraverso dati che le restano esteriori: e appunto da ciò prende quel minimo di generalità di cui poco fa parlavamo. Ciò equivale a dire che i segni sensibili della memoria sono segni della vita, non dell'arte. La memoria involontaria occupa una posizione centrale, non già la punta estrema. In quanto involontaria, interrompe l'atteggiamento della percezione cosciente e della memoria volontaria. Ci rende sensibili ai segni e, in momenti previlegiati, ci dà l'interpretazione di alcuni tra loro. I segni sensibili che le corrispondono sono perfino superiori ai segni mondani e ai segni dell'amore. Ma restano inferiori ad altri segni non meno sensibili, segni del desiderio, dell'immaginazione o del sogno (questi ultimi hanno già materie più spirituali, e rimandano ad associazioni più profonde, che non dipendono più da contiguità vissute). A maggior ragione, i segni sensibili della memoria involontaria, avendo perduto la perfetta identità del segno e dell'essenza, sono inferiori a quelli dell'arte. Rappresentano solo lo sforzo della vita per prepararci all'arte, e alla rivelazione finale dell'arte. Non si tratta di vedere nell'arte un mezzo più profondo per esplorare la memoria involontaria. Ma di vedere nella memoria involontaria una tappa, che non è neppure la più importante, nel tirocinio dell'arte. Certo è che questa memoria ci mette sul cammino delle essenze. Più ancora, la reminiscenza già è in possesso dell'essenza, ha saputo catturarla. Ma ce la offre in uno stato di rilassamento, uno stato secondo, e in modo cosi oscuro che non siamo capaci di comprendere il dono che ci vien fatto e la gioia che proviamo. Apprendere è ricordare; ma ricordare non è niente più che apprendere,

avere

un

presentimento.

dell'apprendimento, non rag-

Se,

attraverso

le

tappe

successive

giungessimo la rivelazione finale dell'arte, resteremmo incapaci di comprendere l'essenza e perfino di capire che era già li, presente nel ricordo involontario o nella gioia del segno sensibile (saremmo comunque ridotti a « rinviare » l'esame delle cause). Occorre che tutte le tappe facciano capo all'arte, occorre arrivare fino alla rivelazione dell'arte: allora, ridiscendiamo di grado in grado, li integriamo nella stessa opera d'arte, riconosciamo l'essenza nelle sue realizzazioni successive, diamo a ogni grado di realizzazione il posto e il senso che gli spettano nell'opera. Scopriamo cosi la funzione della memoria involontaria e le ragioni di questa funzione, funzione importante, ma secondaria nell'incarnazione delle essenze. I paradossi della memoria involontaria trovano spiegazione in una più alta i-stanza, che va oltre i limiti della memoria, ispira le reminiscenze comunicando ad esse solo una parte del suo segreto.

Capitolo sesto Serie e gruppo

L'incarnazione delle essenze procede nei segni amorosi e perfino nei segni mondani. I due poteri dell'essenza restano allora la differenza e la ripetizione. L'essenza in sé rimane irriducibile all'oggetto che porta il segno, ma anche al soggetto che lo percepisce. Non possiamo spiegare i nostri amori attraverso le persone che amiamo e nemmeno attraverso i nostri stati transitori, propri del momento in cui siamo innamorati. Ma come conciliare allora l'idea d'una presenza dell'essenza col carattere ingannevole dei segni dell'amore, e col carattere vacuo dei segni della mondanità? Il fatto si è che l'essenza tende a prendere una forma sempre più generale, una generalità sempre più grande; e, al limite, a confondersi con una « legge » (proprio a proposito dell'amore e della mondanità piace a Proust dichiarare la sua predilezione per la generalità, la sua passione per le leggi). Le essenze possono dunque incarnarsi nei segni amorosi, precisamente come le leggi generali della menzogna; e nei segni mondani, come le leggi del vuoto.

Ai nostri amori presiede una differenza originale. Forse è l'immagine della madre - o per una donna, la figlia di Vinteuil, quella del padre. Più profondamente, è un'immagine lontana, al di là della nostra esperienza, un tema che ci sorpassa, una specie di archetipo. Immagine, idea o essenza tanto ricca da potersi diversificare negli esseri che amiamo, ed anche in un solo essere amato; ma tale anche da ripetersi negli amori successivi, e in ognuno dei nostri amori presi isolatamente. Alberane è la stessa ed è di-

versa, non solo rispetto agli altri amori del protagonista, ma anche rispetto a se stessa. Ci sono tante Albertine che si dovrebbe dare a ciascuna un nome distinto; eppure sono come un solo tema, una medesima qualità, sotto vari aspetti. In ogni amore, dunque, reminiscenze e scoperte sono strettamente mescolate. La memoria e l'immaginazione si danno il cambio e si correggono scambievolmente; ognuna, 1

facendo un passo, spinge l'altra a fare un passo supplementare . A maggior ragione, nei nostri amori successivi: ciascuno di essi arreca una sua differenza, ma questa differenza era già compresa nel precedente, e tutte le differenze sono contenute in un'immagine primordiale, che non cessiamo di riprodurre a livelli diversi, e di ripetere come legge intelligibile di ogni nostro amore. « Ainsi mon amour pour Albertine et tei qu'il en différa, était déjà inscrit dans mon amour pour Gilberte... » \ Nei segni dell'amore, i due poteri dell'essenza cessano di essere riuniti. L'immagine o il tema contengono il carattere particolare dei nostri amori. Ma noi ripetiamo tale immagine tanto più e tanto meglio in quanto di fatto, essa ci sfugge, e rimane incosciente. Qui la ripetizione, invece di esprimere la potenza immediata dell'idea, sta ad indicare che la coscienza e l'idea si allontanano l'una dall'altra, senza più adeguarsi. A nulla ci serve l'esperienza, dal momento che neghiamo di ripetere, credendo sempre a qualcosa di nuovo; ma anche perché ignoriamo la differenza che renderebbe intelligibili i nostri amori, riportandoli a una legge che sarebbe la loro viva sorgente. In a-more, l'inconscio è la separazione dei due aspetti dell'essenza, differenza e ripetizione. La ripetizione amorosa è una ripetizione seriale. Gli a-mori del protagonista, per Gilberte, per la duchessa di Guermantes, per Albertine, formano una serie in cui ogni termine introduce la sua piccola differenza. « Tout au plus, a cet amour celle que nous avons tant aimée a-t-elle ajouté une forme particulière, qui nous fera lui étre fìdèle méme dans l'infidélité. Nous aurons besoin, avec la femme sui1 Ombra, pp. .523-24. 1 Tempo, p. 243. «Cosi il mio amore per Albertine era già inscritto, pur differendone, nel mio amore per Gilberte».

vante, des mèmes promenades du matin, ou de la recon-duire de méme le soir, ou de lui donner cent fois trop d'argent » '. Ma, tra due termini della serie, appaiono anche rapporti di contrasto che complicano la ripetizione: «Ah! combien mon amour pour Albertine, dont j'avais cru que je pourrais prévoir le destin, d'après celui que j'avais eu pour Gilberte, s'était développé en parfait contraste avec ce dernier » \ E soprattutto, quando passiamo da un termine amato all'altro, dobbiamo tener conto di una differenza accumulatasi nel soggetto amoroso, come d'una ragione di progressione nella serie, « indice de va-riation qui s'accuse au fur et à mesure qu'on arrive dans de nouvelles régions, sous d'autres latitudes de la vie » \ Attraverso le piccole differenze e i rapporti di contrasto, la serie si sviluppa in una convergenza verso la propria legge, perché l'innamorato stesso si avvicina sempre più alla comprensione del tema originale; comprensione che non raggiungerà pienamente se non quando avrà cessato di amare, quando non avrà più né il desiderio, né il tempo, né l'età di essere innamorato. Appunto in questo senso, la serie amorosa è un apprendimento: nei primi termini, l'amore appare legato all'oggetto, tanto che la cosa più importante è confessarlo; più tardi apprendiamo la soggettività dell'amore, come la necessità di non confessare, per preservare cosi gli amori futuri. Ma via via che la serie si avvicina alla propria legge, e la nostra capacità di amare si approssima alla fine, presentiamo l'esistenza del tema originale o dell'idea, che supera insieme i nostri stati soggettivi e gli oggetti in cui s'incarna. Non c'è solo una serie degli amori successivi. Ogni a-more assume a sua volta una forma seriale. Le piccole differenze, i rapporti di contrasto che incontriamo tra un a1 Tempo, p. 247. «Se mai, colei che abbiamo amata di più può aggiun gere al nostro amore una forma particolare, che ci permetterà di esserle fe dele anche nell'infedeltà. Con la donna venuta dopo, sentiremo il bisogno delle medesime passeggiate del mattino o di riaccompagnarla, come l'altra, la sera, o di darle cento volte troppo denaro». 2 Fuggitiva, p. 33. « I l mio amore per Albertine, il cui destino avevo creduto di poter prevedere analogo a quello del mio amore per Gilberte, come s'era sviluppato invece in assoluto contrasto con esso! » i Ombra, p. 500. «indice di variazione che si manifesta via via che si giunge in nuove regioni, sotto altre latitudini della vita».

more e l'altro, già li troviamo entro uno stesso amore: tra un'Albertine e l'altra^ poiché Albertine ha molteplici anime e molteplici volti; e precisamente, questi volti e queste anime non sono sullo stesso piano, ma si organizzano in serie (Secondo la legge di contrasto, «le minimum de variété... est de deux. Nous souvenant d'un coup d'oeil énergique, d'un air hardi, c'est inévitablement la fois sui-vante par un profil quasi languide, par une sorte de dou-ceur rèveuse, choses négligées par nous dans le précédent souvenir, que nous serons, à la prochaine rencontre, éton-nés, c'est-à-dire presque uniquement frappés») \ Inoltre, a ogni amore corrisponde un indice di variazione soggettiva; ne misura l'inizio, il corso, la fine. In tutti questi sensi, l'amore per Albertine forma da solo una serie dove sono distinguibili due differenti periodi di gelosia. E alla fine, Albertine viene via via dimenticata nella misura in cui il protagonista ripercorre le fasi che segnarono l'inizio del suo amore: « Je sentais bien maintenant qu'avant de l'ou-blier tout à fait, avant d'atteindre à l'indifférence initiale, il me faudrait, comme un voyageur qui revient par la mème route au point d'où il est parti, traverser en sens inverse tous les sentiments par lesquels j'avais passe avant d'arriver à mon grand amour » \ Cosi tre tappe misurano l'oblio, come una serie alla rovescia: il ritorno all'indivi-sione, ritorno cioè a un gruppo di fanciulle analogo a quello da cui Albertine fu prelevata; la rivelazione delle inclinazioni di Albertine, che in certo modo si ricollega alle prime intuizioni del protagonista, ma al momento in cui la verità non Io può più interessare; finalmente, l'idea che Albertine è ancora viva, idea che gli dà ben poca gioia, in contrasto col dolore provato quando la sapeva morta e l'amava ancora. 1 Ombra, pp. 5*3*4 «il minimo di varietà... è di due. Ricordandoci di un'occhiata energica, di un'aria ardita, inevitabilmente la volta seguente saremo stupiti, cioè quasi unicamente colpiti, da un profilo quasi languido, da una specie di dolcezza pensosa; cose trascurate da noi nel precedente ricordo». 1 Fuggitiva, p. 170. «Adesso sentivo bene che, prima di dimenticarla completamente, prima di raggiungere l'indifferenza iniziale, avrei dovuto - come un viaggiatore che ritorni per la medesima strada al punto da cui è partito - attraversare in senso inverso tutti i sentimenti per i quali rro passato prima di giungere al mio grande amore».

Non soltanto ogni amore forma una serie particolare. Ma, al polo opposto, la serie degli amori va al di là della nostra esperienza personale, si collega con altre esperienze, si apre su una realtà trans-soggettiva. L'amore di Swann per Odette fa già parte della serie che continua con l'amore del protagonista per Gilberte, per la duchessa di Guermantes, per Albertine. Swann ha l'ufficio d'iniziatore, in un destino che non seppe realizzare per conto proprio: «En somme, si j'y réfléchissais, la matière de mon expérience me venait de Swann, non pas seulement par ce qui le concernait lui-méme et Gilberte. Mais c'était lui qui m'avait, dès Combray, donne le désir d'aller à Balbec... Sans Swann je n'aurais pas connu mème les Guermantes... » \ Qui Swann non è che l'occasione, ma senza questa occasione la serie sarebbe stata diversa. E sotto certi aspetti, Swann è molto di più. È lui che, fin dall'inizio, possiede la legge della serie o il segreto della progressione, e lo confida al protagonista in un « avvertimento profetico 2

»: la persona amata come Prigioniera . È sempre lecito trovare l'origine della serie amorosa nell'amore del protagonista per la madre; ma anche qui, incontriamo Swann che, invitato a cena a Combray, priva il fanciullo della presenza materna. E il suo dolore, la sua angoscia relativa alla madre, sono già l'angoscia e il dolore che Swann provava a causa di Odette: « Lui, cette an-goisse qu'il y a à sentir Tètre qu'on aime dans un lieu de plaisir où l'on n'est pas, où l'on ne peut pas le rejoindre, c'est l'amour qui la lui a fait connaitre, l'amour auquel elle est en quelque sorte prédestinée, par lequel elle sera ac-caparée, spécialisée; mais quand, comme pour moi, elle est entrée en nous avant qu'il ait encore 3

fait son appari-tion dans notre vie, elle flotte en l'attendant, vague et libre...» . Ne concluderemo che forse l'immagine della 1 Tempo, p. 2}}. « I n fondo, a ben guardare, la materia della mia esperienza, che avrebbe costituito la materia della mia opera, mi veniva da Swann. E non solo per tutto quanto concerneva lui e Gilberte. Era stato lui ad ispirarmi, sin da Combray, il desiderio di andare a Balbec... Senza Swann non avrei conosciuto nemmeno i Guermantes... » 2 Ombra, p. 148. 1 Strada, p. 34. «quell'angoscia di sentire l'essere amato fra piaceri che noi non dividiamo, in un luogo dove non ci è dato raggiungerlo, fu l'amore a fargliela conoscere, l'amore, al quale è in certo modo predestinata,

madre non è il tema più profondo, né la ragione della serie amorosa: è ben vero che i nostri amori ripetono i sentimenti verso la madre, ma questi già ripetono altri amori che non abbiamo vissuto noi stessi. La madre appare piuttosto come la transizione da un'esperienza a un'altra, la maniera in cui comincia l'esperienza nostra, ma già si riallaccia ad altre esperienze, che furono fatte da altri. Al limite, l'esperienza amorosa è quella dell'intera umanità, attraversata dalla corrente di un'eredità trascendente. Cosi la serie personale dei nostri amori ci rimanda da un lato a una serie più vasta, trans-personale; dall'altro a serie più ristrette, costituite da ogni amore in particolare. Le serie sono dunque implicate le une nelle altre, come anche si sovrappongono gli uni agli altri gli indici di variazione e le leggi di progressione. Quando domandiamo come debbano venire interpretati i segni dell'amore, cerchiamo un'istanza grazie alla quale si esplichino le serie, e si sviluppino indici e leggi. Ora, per quanto sia grande la funzione della memoria e dell'immaginazione, tali facoltà non intervengono che a livello di ogni amore particolare, e più che per interpretarne i segni, per sorprenderli e raccoglierli, per secondare una sensibilità capace di afferrarli. Il passaggio da un amore a un altro trova la propria legge nell'Oblio, e non nella memoria; nella Sensibilità, e non nell'immaginazione. In verità, solo l'intelligenza è facoltà capace d'interpretare i segni e di spiegare le serie dell'amore. Per questo, Proust insiste sul punto seguente: vi sono campi in cui l'intelligenza, coadiuvata dalla sensibilità, è più profonda, più ricca della memoria e dell'immaginazione '. Non che le verità dell'amore facciano parte di quelle verità astratte che potrebbe scoprire un pensatore, puntando su un metodo o su una riflessione libera. L'intelligenza ha bisogno di essere forzata, deve subire una costrizione che non le lasci scelta. Tale costrizione è quella della sensibilità, del segno stesso al livello di ogni amore. Ciò da cui sarà accaparrata, singolarizzata; ma quando, come per me, sia penetrata in noi prima che l'amore sia comparso nella nostra vita, essa onta aspettando vaga e libera... » 1 Tempo, pp. 238-40.

perché i segni dell'amore consistono in altrettanti dolori, dato che implicano sempre una menzogna dell'amato, come un'ambiguità fondamentale di cui profìtta e si nutre la gelosia. Ed è allora che la nostra sensibilità sofferente spinge l'intelligenza a cercare il senso del segno e l'essenza che vi s'incarna. « Un homme né sensible et qui n'au-rait pas d'imagination pourrait malgré cela écrire des ro-mans admirables. La souffrance que les autres lui cause-raient, ses efforts pour la prevenir, les conflits qu'elle et la seconde personne cruelle créeraient, tout cela, interprete par l'intelligence, pourrait faire la matière d'un livre... aussi beau que s'il était imaginé, inventé » \ Interpretare mediante l'intelligenza significa scoprire l'essenza come legge della serie amorosa. Vale a dire che, nel campo dell'amore, l'essenza non si può scindere da un certo tipo di generalità: generalità di serie, generalità propriamente seriale. Ogni sofferenza, in quanto provata, in quanto prodotta da un determinato essere, in seno a un determinato amore, è particolare. Ma poiché tali sofferenze si riproducono e si implicano, l'intelligenza ne e-strae qualcosa di generale, che può anche essere gioia. L'opera d'arte « est signe de bonheur, parce qu'elle nous ap-prend que dans tout amour le general git à coté du parti-culier, et à passer du second au premier par une gymna-stique qui fortifie contre le chagrin en faisant negliger sa cause pour 2

approfondir son essence » . Quello che ripetiamo è ogni volta una sofferenza particolare; ma la ripetizione è in se stessa sempre gioiosa, il fatto della ripetizione forma una gioia generale. O piuttosto, i fatti sono sempre tristi e particolari; ma l'idea che riusciamo ad e-strarne è generale e lieta. Infatti la ripetizione amorosa non è disgiunta da una legge di progressione grazie alla

1 Tempo, p. 239. «Un uomo nato sensibile, ancorché privo d'immagi nazione, potrebbe scrivere romanzi stupendi. Le sofferenze causategli dagli altri, i suoi sforzi per prevenirle, i conflitti insorti fra lui e l'altra persona crudele, tutto questo, interpretato dall'intelligenza, potrebbe fornir mate ria a un libro... altrettanto bello che se fosse stato immaginato, inventato». 2 Ibid.y p. 243. «è segno di felicità, perché c'insegna che, in ogni amore, l'universale sta accanto al particolare, e a passare dal secondo al primo grazie a una ginnastica che fortifica contro il dolore, portandoci a trascurarne la causa per approfondirne l'essenza».

quale ci avviamo a una presa di coscienza che tramuta in gioia le nostre sofferenze. Ci accorgiamo che queste non dipendevano dall'oggetto: erano «beffe» o «tiri birboni » che facevamo a noi stessi, o meglio ancora tranelli e civetterie dell'Idea, scherzi dell'Essenza. C'è qualcosa di tragico in ciò che si ripete, ma c'è una comicità nella ripetizione, e più profondamente una gioia della ripetizione scoperta o della scoperta di una legge. Dai nostri dolori particolari estraiamo un'Idea generale, ma l'Idea c'era già prima, era già presente, come la legge della serie già esiste nei suoi primi termini. L'humour dell'Idea consiste nel manifestarsi nel dolore, nel mostrarsi essa stessa come dolore. Cosi, nel principio c'è già la fine: « Les idées sont des succédanés des chagrins... Succédanés dans l'ordre du temps seulement, d'ailleurs, car il semble que Pélément premier, ce soit l'idée, et le chagrin seulement le mode selon lequel certaines idées entrent d'abord en nous » \ Tale, l'operazione dell'intelligenza: sotto la spinta della sensibilità, essa tramuta in gioia la nostra sofferenza e, nello stesso tempo, il particolare in generale. Solo all'intelligenza è dato scoprire la generalità e trovarla gioiosa. Essa scopre infine ciò che, era presente fin dall'inizio, ma necessariamente incosciente. Che gli esseri amati non furono cause agenti in modo autonomo, ma termini di una serie che sfilava in noi, quadri viventi di uno spettacolo interiore, riflessi di un'essenza. « Chaque personne qui nous fait souffrir peut étre rattachée par nous à une divinité dont elle n'est qu'un reflet fragmentaire et le dernier de-gré, divinité dont la contemplation en tant qu'idée nous donne aussitót de la joie au lieu de la peine que nous a-vions. Tout l'art de vivre, c'est de ne nous servir des per-sonnes qui nous font souffrir que comme d'un degré per-mettant d'accèder à (sa) forme divine et de peupler ainsi journellement notre vie de divinités » \ 1 Tempo, p. 245. « Le idee sono dei surrogati dei dolori... Surrogati, però, solo nell'ordine del tempo, giacché sembra che l'elemento primordiale sia l'idea, e il dolore soltanto il modo come certe idee entrano dapprima in noi*. 1 ìbid.t p. 237. «Ogni persona che ci fa soffrire può essere da noi messa in relazione con una divinità, di cui essa non è che un riflesso frammentario e l'ultimo scalino d'accesso: divinità (Idea) la cui contcmplazio-

L'essenza s'incarna nei segni amorosi, ma necessariamente sotto forma seriale, e quindi generale. L'essenza è sempre differenza. Ma in amore, la differenza è passata nell'inconscio e diventa in certo modo generica o specifica, determinando una ripetizione di cui non si distinguono più i termini, se non per differenze infinitesimali e contrasti sottili. Insomma, l'essenza ha preso la generalità di un Tema o di un'Idea, che fa da legge alla serie dei nostri amori. Per questo l'incarnazione dell'essenza, la selezione dell'essenza che si incarna nei segni amorosi, dipende da condizioni estrinseche e da contingenze soggettive, ancor più che nei segni sensibili. Swann è il grande iniziatore incosciente, il punto di partenza della serie; ma come non rimpiangere i temi sacrificati, le essenze eliminate, simili ai « possibili » leibniziani che non passano all'esistenza e che, in altre circostanze e sotto altre condizioni, avrebbero dato luogo ad altre serie '? È l'idea che determina la serie dei nostri stati soggettivi, ma sono d'altra parte i casi fortuiti delle nostre relazioni soggettive a determinare la selezione dell'Idea. Perciò la tentazione di una interpretazione soggettivistica è ancora più forte in amore che nei segni sensibili: ogni amore si riallaccia ad associazioni d'idee e d'impressioni completamente soggettive; e la fine di un'amore si confonde con l'annientarsi di una «porzione » di associazioni, come in una congestione cerebrale allo spezzarsi di un'arteria consunta \ Nulla ci mostra meglio l'esteriorità della selezione che la contingenza nella scelta dell'essere amato. Non solo vediamo amori mancati, di cui ben sappiamo che sono stati assai prossimi a riuscire (Mlle de Stermaria). Ma anche gli amori che si realizzano, e la serie che formano susseguendosi e cioè incarnando un'essenza piuttosto che un'altra, dipendono da occasioni, circostanze, fattori esterni. Ecco uno dei casi che più ci colpiscono: l'essere amato fa dapprima parte di un gruppo, in cui non è ancora indine ci dà subito gioia in luogo della tristezza che era in noi. Tutta l'arte di vivere consiste nel servirsi delle persone che ci fanno soffrire solo come di uno scalino che ci permette di accedere alla loro forma divina e di popolare cosi gioiosamente la nostra vita di divinità». 1 Tempo, p. 2^6. 2 Fuggitiva, p. 188.

vidualizzato. Chi sarà, in quel gruppo omogeneo, l'amata? E per quale caso Albertine incarna l'essenza, mentre un'altra avrebbe potuto fare altrettanto? O perché non un'altra essenza, incarnata da un'altra fanciulla, cui il protagonista avrebbe potuto essere sensibile, e da cui sarebbe stata modificata la serie dei suoi amori? « Maintenant en-core la vue de l'une me donnait un plaisir où entrait, dans une proportion que je n'aurais pas su dire, de voir les autres la suivre plus tard, et, mème si elles ne venaient pas ce jour-là, de parler d'elles et de savoir qu'il leur serait dit que j'étais alle sur la plage » '. Nel gruppo delle fanciulle, vediamo una commistione, un mescolarsi di essenze, indubbiamente vicine, rispetto alle quali il protagonista è quasi ugualmente disponibile: « Chacune avait pour moi, comme le premier jour, quelque chose de l'essence des autres » \ Albertine entra dunque nella serie amorosa, ma perché estratta da un gruppo, con tutta la contingenza corrispondente a questa estrazione. I piaceri che il protagonista prova nel gruppo sono piaceri sensuali; ma tali piaceri non fanno parte dell'amore. Perché divenga un termine della serie amorosa, Albertine deve essere isolata dal gruppo in cui appare dapprima. Bisogna che sia prescelta: ma tale scelta non avviene senza incertezza e contingenza. Inversamente, l'amore per Albertine non si esaurisce veramente se non con un ritorno al gruppo: sia al primitivo gruppo delle fanciulle, quale Andrée lo simbolizza dopo la morte di Albertine ( « à ce moment-là j'avais plaisir à avoir des demi-relations charnelles avec [Andrée], à cause du coté collectif qu'avait eu au début et que reprenait maintenant mon amour pour les jeunes filles de la petite bande, longtemps 1

indivis entre elles») . Sia a un gruppo analogo, incontrato per strada quando Albertine è morta, 1 Ombra, p. 550. «Ancora adesso la vista dell'una mi dava un piacere in cui entrava in una proporzione che non avrei saputo dire il vedere le altre seguirla più tardi; e, anche se quel giorno non venivano, parlare di loro e sapere che sarebbe stato loro riferito che ero andato sulla spiaggia». 2 Sodoma, p. 350. «Ognuna aveva per me, come il primo giorno, qual cosa dell'essenza delle altre...» 1 Fuggitiva, p. 191. «in quel tempo mi piaceva avere con lei certi rapporti semicarnali, a causa di un certo aspetto collettivo, che nei primi tempi aveva assunto e aveva ripreso di recente - il mio amore per le ragazze della "piccola brigata", a lungo indiviso tra loro».

e che riproduce, ma in senso inverso, una formazione dell'amore, una selezione dell'amata \ Per un verso, gruppo e serie si oppongono; per un altro, sono inseparabili e complementari.

L'essenza, quale s'incarna nei segni amorosi, si manifesta successivamente sotto due aspetti. Dapprima sotto le leggi generali della menzogna. Infatti non è necessario mentire, non siamo indotti a mentire, se non a qualcuno che ci ama. Se la menzogna obbedisce a leggi, ciò avviene perché implica una certa tensione nello stesso mentitore, come un sistema di rapporti fisici tra la verità e i dinieghi o le invenzioni con cui pretende nasconderla: vi sono quindi leggi di contatto, di attrazione e di repulsione, che formano una vera « fisica » della menzogna. In realtà la verità si trova presente nell'amato che mente; egli ne ha una conoscenza permanente, non la dimentica, mentre presto dimentica una menzogna improvvisata. La cosa nascosta agisce in lui in modo tale ch'egli estrae dal suo contesto un particolare autentico destinato a garantire l'insieme della menzogna. Ma è proprio quel particolare a tradirlo, perché i suoi angoli si adattano male col resto, rivelando un'altra origine, l'appartenenza a un altro sistema. O la cosa nascosta agisce, a distanza, e attirando il mentitore che continua ad avvicinarsi ad essa, tracciando asintoti, tentando di rendere insignificante il suo segreto a forza di allusioni diminutive: come Charlus quando dice: « io che ho aspirato alla bellezza in ogni sua forma ». Oppure inventiamo mille particolari verosimili, perché crediamo che la verosimiglianza sia di per sé un'approssimazione del vero; ma ecco che, come troppi piedi in un verso, l'eccesso di verosimiglianza tradisce la nostra menzogna e rivela la presenza del falso. Non solo la cosa nascosta resta presente nel mentitore, « car le plus dangereux de tous les recels, c'est celui de la faute elle-mème dans l'esprit du coupable » \ Ma, poiché 1 Fuggitiva, pp. IJ4-M. 1 Sodoma, p. 129. «poiché il più pericoloso di tutti gli occultamenti è quello della colpa stessa nell'animo del colpevole».

le cose nascoste non cessano di sommarsi le une alle altre crescendo come una nera palla di neve, chi mente è sempre tradito: infatti, incosciente com'è di quella progressione, egli mantiene una stessa distanza tra ciò che confessa e ciò che nega: e, con l'accrescersi di ciò che nega, egli confessa sempre di più. La menzogna perfetta supporrebbe nel mentitore una memoria prodigiosa protesa verso il futuro, capace di lasciar tracce nell'avvenire, come la verità. E soprattutto, la menzogna esigerebbe di essere « totale ». Simili condizioni non sono di questo mondo; e perciò le menzogne fanno parte dei segni, sono precisamente i segni di quelle verità che pretendono 1

nascondere: « Illisibles et divins vestiges» . Illeggibili, ma non inesplicabili o privi di una possibile interpretazione. La donna amata nasconde un segreto, anche se noto a tutti gli altri. L'amante, potente carceriere, nasconde a sua volta l'essere amato. Occorre essere duri, con l'amata, crudeli, senza scrupoli. Difatti, l'amante non mente meno dell'amata: la sequestra, ed evita perfino di rivelarle il suo amore, per meglio continuare a svolgere la sua funzione di poliziotto, di carceriere. Ora, per la donna, l'essenziale è nascondere l'origine dei mondi che racchiude in sé, il punto di partenza dei gesti, delle abitudini, dei gusti che ci dedica temporaneamente. Le donne amate si protendono verso un segreto di Gomorra, come verso un peccato originale: « hideur d'Albertine » \ Ma anche gli a-manti nascondono un segreto corrispondente, un analogo orrore. Cosciente o no, è il segreto di Sodoma. La verità dell'amore è dunque dualista, e la serie amorosa, semplice solo in apparenza, si scinde in due serie più profonde, rappresentate dalla signorina Vinteuil e da Charlus. Il protagonista della Ricerca subisce dunque due rivelazioni sconvolgenti quando, in circostanze simili, sorprende la signo1

rina Vinteuil, e poi Charlus . Che significano queste due serie dell'omosessualità? Proust tenta di dirlo in quel passo di Sodoma e Gomorra dove ricorre continuamente una metafora vegetale. La 1 Strada, p. 310. « Illeggibili e divine vestigia». 1 Fuggitiva, p. 207. «Albertine nella sua ripugnante realtà». 1 Sodoma, p. 13.

verità dell'amore è la separazione tra i sessi. Viviamo sotto la predizione di Sansone: «Les deux sexes mourront chacun de son coté » '. Ma tutto si complica perché i sessi separati, segregati, coesistono nello stesso individuo: «Ermafroditismo iniziale», come in una pianta o in una lumaca, che non possono fecondarsi da soli, « mais peu-vent Tètre par d'autres hermaphrodites » \ Avviene allora che l'intermediario, invece di garantire le comunicazioni tra il maschio e la femmina, sdoppi ogni sesso con se stesso. Simbolo di un'autofecondazione tanto più impressionante in quanto omosessuale, sterile, indiretta. E, più che un'avventura, è l'essenza dell'amore. L'Ermafrodito originale produce continuamente le due serie omosessuali divergenti. Separa i due sessi, invece di congiungerli. Cosicché gli uomini e le donne s'incontrano solo in apparenza. Di tutti gli amanti, di tutte le donne amate, bisogna affermare ciò che solo in certi casi speciali diviene evidente: gli amanti « jouent pour la femme qui aime les femmes le ròle d'une autre femme, et la femme leur offre en méme temps à peu près ce qu'ils trouvent chez l'homme » \ In amore, l'essenza s'incarna anzitutto nelle leggi della menzogna, ma in secondo luogo nei segreti dell'omosessualità: la menzogna non avrebbe la generalità che la rende essenziale e significativa se non fosse riconducibile all'omosessualità come alla verità che nasconde in sé. Tutte le menzogne si organizzano e ruotano intorno ad essa come intorno al proprio centro. L'omosessualità è la verità dell'amore. Ecco perché la serie amorosa è realmente doppia: essa si organizza in due serie che trovano la loro sqr-gente non soltanto nelle immagini materna e paterna, ma in una continuità filogenetica più profonda. L'Ermafroditismo iniziale è la legge continua delle serie divergenti; da una serie all'altra, vediamo di continuo l'amore generare segni che sono quelli di Sodoma e quelli di Gomorra. 1 Sodoma, p. 21. (A. DE VICNY, La colere de Samson, v. 80). 2 ibid , p. 36. «ma possono essere fecondati da altri ermafroditi». 3 Ibid., p. 28. «recitano presso la donna che ama le donne la parte d'un'altra donna, e la donna offre loro nel tempo stesso quasi ciò ch'essi trovano nell'uomo».

La generalità significa due cose: o la legge di una serie (o di più serie) i cui termini differiscono; o il carattere di un gruppo i cui elementi si assomigliano. E, indubbiamente, in amore intervengono i gruppi. L'amante estrae Tessere amato da un insieme preesistente, e interpreta segni che da principio sono collettivi. Meglio ancora, le donne di Gomorra, gli uomini di Sodoma emettono «segni astrali » dai quali si riconoscono, e formano le associazioni maledette che riproducono le due città bibliche '. Resta il fatto che il gruppo non è l'essenziale in amore: offre soltanto delle occasioni. La vera generalità dell'amore è seriale, gli amori non sono profondamente vissuti se non secondo le serie in cui si organizzano. Non avviene lo stesso nella mondanità. Anche nei segni mondani s'incarnano le essenze, ma a un ultimo livello di contingenza e di generalità. Incarnandosi immediatamente nei diversi ambienti, la loro generalità è soltanto una generalità di gruppo: l'ultimo grado dell'essenza. Indubbiamente, il « gran mondo » esprime forze sociali, storiche e politiche. Ma i segni mondani vengono emessi nel vuoto. Succede cosi che essi attraversano distanze astronomiche, di modo che l'osservazione della mondanità non somiglia affatto a uno studio microscopico, ma piuttosto telescopico. E Proust lo dice spesso: a un certo livello delle essenze, quello che l'interessa non è più l'individualità né il particolare, bensì le leggi, le grandi distanze e le grandi generalità. Il telescopio,non il 2

microscopio . È già vero dell'amore; a più forte ragione della mondanità. Il vuoto è precisamente un mezzo apportatore di generalità, mezzo fisico privilegiato per manifestare una legge. Una testa vuota offre migliori leggi statistiche che non una materia più densa: « Les étres les plus bétes, par leurs gestes, leurs propos, leurs sentiments involontairement exprimés, manifestent des lois qu'ils ne percoivent pas, mais que l'artiste surprend en eux » \ Avviene senza dub-

1 Sodoma, p. 271. 1 Tempo, p. J941 Ibid., p. 239. «Gli esseri più stupidi, con i loro gesti, i loro discor-

bio che un genio singolare, uno spirito dirigente presieda al corso degli astri: è il caso di Charlus. Ma come gli astronomi hanno smesso di credere a tali spiriti, anche il gran mondo smette di credere in Charlus. Le leggi che presiedono ai cambiamenti della società mondana sono leggi meccaniche, in cui domina l'Oblio. (In pagine celebri, Proust analizza la potenza dell'oblio sociale, in rapporto all'evoluzione dei salotti, dal processo Dreyfus fino alla guerra del '14. Pochi testi offrono un commento migliore alla frase di Lenin sull'attitudine di una società a sostituire « i vecchi e marci pregiudizi » con pregiudizi nuovissimi, ancora più infami o più stupidi). Vuoto, stupidità, oblio: è la trinità del gruppo mondano. Ma la mondanità vi guadagna rapidità, mobilità nell'emissione dei segni, perfezione nel formalismo, generalità nel senso: tutte cose che ne fanno un mezzo necessario per l'apprendimento. Via via che l'essenza s'incarna sempre più debolmente, i segni prendono una sorta di comica forza. Provocano in noi una specie di esaltazione nervosa sempre più esteriore; eccitano l'intelligenza, perché li interpreti. Nulla infatti dà più da pensare di ciò che accade nella testa di uno sciocco. I pappagalli di un gruppo, sono anche « uccelli profeti »: il loro chiacchiericcio segnala la presenza di una legge '. E se i gruppi offrono ancora un ricco materiale all'interpretazione, è perché hanno affinità nascoste, un contenuto schiettamente incosciente. Le vere famiglie, i veri centri, i veri gruppi sono i centri, i gruppi « intellettuali ». Vale a dire: apparteniamo sempre alla società da cui emanano le idee e i valori cui crediamo. Tra gli errori di Taine o di Sainte-Beuve c'è quello di avere invocato l'influenza immediata di ambienti semplicemente fisici e reali. In verità, l'interprete deve ricomporre i gruppi, scoprendo le famiglie mentali cui sono collegati. A qualche duchessa, o al duca di Guermantes accade di parlare come piccoli borghesi: ciò per il fatto che la legge

si, i loro sentimenti involontariamente espressi, manifestano leggi che essi non scorgono, ma che l'artista coglie in loro». 1 Tempo, p. 239.

della società mondana, e più generalmente del linguaggio, vuole «qu'on s'exprime toujours comme les gens de sa classe mentale et non de sa caste d'origine » '. 1 Cuermantes, p. 234. «(ci obbliga) ad esprimerci come le persone del nostro livello mentale, e non della nostra casta di origine».

Il pluralismo nel sistema dei segni

L# Ricerca del tempo perduto si presenta come un sistema di segni. Ma tale sistema è pluralista. Non soltanto perché la classificazione dei segni mette in gioco criteri multipli, ma perché, nello stabilire questi criteri, dobbiamo conciliare due punti di vista distinti. Da un lato, bisogna considerare i segni dal punto di vista di un apprendimento ancora in corso. Qual è la potenza e l'efficacia di ogni tipo di segni? E cioè: in quale misura contribuisce a prepararci alla rivelazione finale? Che cosa ci fa comprendere, da solo e sul momento, secondo una legge di progressione che differisce da tipo a tipo, e che si riferisce agli altri tipi secondo regole variabili anch'esse? D'altra parte, i segni vanno considerati dal punto di vista della rivelazione finale, che si confonde con l'arte, la specie più elevata di segni. Ma nell'opera d'arte tutti gli altri vengono ripresi, vi si collocano a seconda dell'efficacia raggiunta nel corso dell'apprendimento, e trovano perfino una spiegazione ultima delle caratteristiche che presentavano allora, e che sentivamo senza riuscire a comprenderle pienamente. Tenuto conto di questi punti di vista, il sistema mette in gioco sette criteri. Basterà accennare brevemente ai primi cinque; ma gli ultimi due hanno conseguenze che richiedono di essere sviluppate. i ) La materia in cui è inciso il segno. Tali materie sono più o meno resistenti e opache, più o meno smaterializzate, più o meno spiritualizzate. I segni mondani, pur muovendosi nel vuoto, non per questo sono meno materiali. I segni amorosi non possono essere separati dal peso di un volto, dalla qualità di una pelle, dalla larghezza o dal

rossore di una gota: tutte cose che si spiritualizzano solo mentre l'amato dorme. Anche i segni sensibili consistono in qualità materiali: soprattutto odori e saporì. Soltanto nell'arte il segno diventa immateriale, mentre il suo senso si fa spirituale. 2) La maniera in cui una cosa viene emessa e captata come segno, ma anche i pericoli (che possono derivarne) di una interpretazione a volte oggettivista, a volte soggettivista. Ogni tipo di segni ci riconduce all'oggetto che lo emette, ma anche al soggetto che lo coglie e lo interpreta. Crediamo dapprima che occorra vedere e ascoltare; o,in a-more, confessare (rendere omaggio all'oggetto); o, quanto alle cose sensibili, osservare e descrivere; e lavorare, sforzarsi di pensare per afferrare significati e valori oggettivi. Delusi, ci ri tuffiamo nel gioco delle associazioni soggettive. Ma per ogni specie di segni, questi due momenti dell'apprendimento hanno un ritmo e dei rapporti specifici. 3 ) U effetto del segno su di noi, il genere di emozione che produce. Esaltazione nervosa dei segni mondani; sofferenza e angoscia dei segni amorosi; gioia straordinaria dei segni sensibili (nei quali però affiora ancora l'angoscia come la contraddizione che sussiste tra l'essere e il nulla); gioia pura dei segni dell'arte. 4 ) La natura del senso, e il rapporto del segno col suo senso. I segni mondani sono vuoti, tengono luogo di a-zione e di pensiero, pretendono di valere per il loro senso. I segni amorosi sono ingannevoli : il loro senso è sottoposto alla contraddizione tra ciò che rivelano e ciò che vorrebbero nascondere. I segni sensibili sono veridici, ma in essi permane l'opposizione tra la sopravvivenza e il nulla; e il loro senso è ancora materiale, risiede in altre cose. Tuttavia, man mano che ci eleviamo verso l'arte, il rapporto tra segno e senso diventa sempre più stretto e più intimo. L'arte è la bella unità finale di un segno immateriale e di un senso spirituale. 5 ) La facoltà principale che spiega o interpreta il segno, sviluppandone il senso. L'intelligenza per i segni mondani; ancora l'intelligenza, ma in altro modo, per i segni

amorosi (lo sforzo dell'intelligenza non è più suscitato da un'esaltazione che occorre calmare, ma dalle sofferenze della sensibilità che vanno tramutate in gioia). Per i segni sensibili, ora la memoria involontaria, ora l'immaginazione quale nasce dal desiderio. Per i segni dell'arte, il pensiero puro, in quanto facoltà delle essenze. 6) Le strutture temporali o le linee di tempo implicate nel segno, e il tipo di verità corrispondente. Occorre sempre tempo per interpretare un segno, ogni tempo è il tempo di un'interpretazione, cioè di uno svolgimento. Nel caso dei segni mondani, perdiamo tempo, perché questi segni sono vuoti e si ritrovano, intatti o identici, al termine del loro movimento di sviluppo. Come il mostro, come la spirale, rinascono dalle loro metamorfosi. C'è tuttavia una verità del tempo perso nella maturazione dell'interprete che, di fronte a se stesso, non si ritrova mai identico. Con i segni amorosi, siamo soprattutto nel regno del tempo perduto: tempo che altera esseri e cose, e che li fa passare. Anche qui, vediamo una verità, anzi le verità del tempo perduto. Ma la verità del tempo perduto non è soltanto multipla, approssimativa, equivoca; oltre a questo, essa non è afferrabile se non quando ha già cessato d'interessarci, quando l'io dell'interprete, l'Io che amava, è già scomparso. Cosi per Gilberte, cosi per Albertine: per quel che riguarda l'amore, la verità viene sempre troppo tardi. 11 tempo dell'amore è un tempo perduto, perché il segno non si esplica se non nella misura in cui scompare Pio corrispondente al suo senso. I segni sensibili ci presentano una nuova struttura del tempo: tempo che ritroviamo in seno allo stesso tempo perduto, immagine di eternità. Ciò perché i segni sensibili (al contrario dei segni amorosi) hanno il potere, sia di suscitare per mezzo del desiderio e dell'immaginazione, sia di resuscitare grazie alla memoria involontaria, quell'Io che corrisponde al loro senso. Infine, i segni dell'arte definiscono il tempo ritrovato: tempo primordiale assoluto, vera eternità che riunisce il senso e il segno. Tempo che perdiamo, tempo perduto, tempo che ritroviamo e tempo ritrovato sono le quattro linee del tempo.

Ma è da notare che ogni tipo di segni, pur avendo la sua linea particolare, partecipa tuttavia alle altre linee e, nel suo esplicarsi, ne invade il territorio. È dunque sulle linee del tempo che i segni interferiscono gli uni con gli altri, moltiplicando le loro combinazioni. Il tempo che perdiamo si prolunga su tutti gli altri segni tranne che sui segni dell'arte. Inversamente il tempo perduto è già presente nei segni mondani e li altera compromettendo la loro identità formale. E si ritrova inoltre sotto i segni sensibili, a introdurre il sentimento del nulla anche nelle gioie della sensibilità. Il tempo che ritroviamo, alla sua volta, non è estraneo al tempo perduto, anzi lo ritroviamo in esso. Infine il tempo ritrovato dell'arte ingloba e comprende tutti gli altri; poiché solo in esso ogni linea di tempo trova la sua verità, il suo posto e il suo risultato dal punto di vista della verità. Sotto un certo aspetto, ogni linea di tempo vale per se stessa (« tousces plans différents suivant lesquels le temps, depuis que je venais de le ressaisir dans cette féte, disposai ma vie... » '). Tali strutture temporali sono dunque come « séries différentes et parallèles » \ Ma questo parallelismo o questa autonomia delle serie non escludono, da un altro punto di vista, una specie di gerarchia. Da una linea all'altra, il rapporto del segno e del senso si fa più intimo, più necessario, più profondo. Ricuperiamo ogni volta, sulla linea superiore, quanto restava perduto nelle altre. Tutto avviene come se le linee del tempo si spezzassero, s'incastrassero le une nelle altre. Cosi il Tempo stesso diventa seriale; ogni suo aspetto è ora un termine della serie temporale assoluta, e ci rimanda a un Io che dispone d'un campo di esplorazione sempre più vasto e sempre meglio individualizzato. Il tempo primordiale dell'arte riveste tutti i tempi, l'Io assoluto dell'arte ingloba ogni altro Io. 7) L'essenza. Dai segni mondani ai segni sensibili, il rapporto del segno col suo senso si fa sempre più intimo. 1 Tempo, p. 383. « tutti quei piani diversi sui quali il Tempo, dopo che l'avevo riafferrato durante quel ricevimento, disponeva la mia vita...» 1 Sodome, p. 173. •sequenze diverse e parallele».

Si prospetta cosi ciò che i filosofi chiamerebbero una « dialettica ascendente». Ma solo al livello più profondo, al livello dell'arte, si rivela l'Essenza: come ragione di questo rapporto e delle sue variazioni. Allora, a partire da questa rivelazione finale, possiamo ridiscendere i diversi momenti. Non è che ritorniamo nella vita, nell'amore, nella mondanità. Ma ridiscendiamo la serie del tempo assegnando a ogni linea temporale, a ogni specie di segni, la verità che le è propria. E una volta raggiunta la rivelazione dell'arte, apprendiamo che l'essenza era già là, nei passaggi inferiori. Era l'essenza a determinare in ciascun caso il rapporto tra segno e senso: rapporto tanto più stretto quanto maggiori erano la necessità e l'individualità con cui s'incarnava l'essenza; tanto più allentato, quanto più ampia la generalità assunta dall'essenza e quanto più contingenti i dati in cui s'incarnava. Cosi, nell'arte, l'essenza individualizza il soggetto in cui s'incorpora, e determina in modo assoluto gli oggetti da cui viene espressa. Ma nei segni sensibili, l'essenza comincia ad assumere un minimo di generalità, la sua incarnazione dipende da dati contingenti e da determinazioni esteriori. E più ancora nei segni dell'amore e nei segni mondani : la sua generalità è allora generalità di serie o generalità di gruppo; la sua selezione rimanda sempre più a determinazioni oggettive estrinseche, a meccanismi di associazione soggettivi. Ecco perché non potevamo capire, sul momento, come le Essenze già animassero i segni mondani, i segni amorosi, i segni sensibili. Ma una volta che i segni dell'arte ci hanno dato per loro conto la rivelazione dell'essenza, ne riconosciamo gli effetti negli altri campi. Sappiamo riconoscere le impronte del suo splendore attenuato, allentato; e siamo allora in grado di rendere all'essenza quanto le spetta, e di ricuperare tutte le verità del tempo, ogni specie di segni, per farne le parti integranti dell'opera d'arte. Implicazione ed esplicazione, avvolgimento e svolgimento: tali sono le categorie della Ricerca. Il senso è dapprima implicato nel segno, come una cosa che sia avvolta in un'altra. Il prigioniero, l'anima prigioniera, significano che c'è sempre un incastro, un avvolgimento del diverso. I segni emanano da oggetti paragonabili a scatole, a vasi

chiusi. Gli oggetti racchiudono un'anima prigioniera, l'anima di qualcosa d'altro che 1

si sforza di socchiudere il coperchio . Piace a Proust « l a croyance celtique que les àmes de ceux que nous avons perdus sont captives dans quelque ètre inférieur, dans une bete, un vegetai, une chose inanimée; perdues en effet pour nous jusqu'au jour, qui pour beaucoup vient jamais, où nous nous trouvons passer près de l'arbre, entrer en possession de l'objet qui est leur prison » \ Ma, alle metafore d'implicazione, rispondono d'altra parte le immagini di esplicazione. Il segno infatti si svolge, si sviluppa mentre viene interpretato. L'amante geloso svolge i mondi possibili racchiusi nell'amato. L'uomo sensibile libera le anime implicate nelle cose: un poco come vediamo i pezzetti di carta del giuoco giapponese espandersi nell'acqua, allargarsi o spiegarsi, formando fiori, case, figure umane \ Il senso stesso si confonde con questo svolgersi del segno, come il segno si confonde con l'avvolgersi del senso; di modo che l'Essenza è infine il terzo termine che domina gli altri due, presiedendo al loro movimento: l'essenza avvolge insieme il segno e il senso, li tiene complicati, li mette uno nell'altro. Caso per caso, essa misura il loro rapporto, il loro grado di distanza o di vicinanza, il grado della loro unità. Indubbiamente il segno non si riduce all'oggetto; ma è ancora inguauiato a metà in esso. Indubbiamente, il senso non si riduce al soggetto; ma dipende a metà dal soggetto, dalle circostanze e dalle associazioni soggettive. Al di là del segno e del senso, c'è l'Essenza, come ragione sufficiente degli altri due termini e del loro rapporto.

L'essenziale nella Ricerca non è la memoria e il tempo, ma il segno e la verità. L'essenziale non è ricordare, ma apprendere. La memoria infatti non vale se non come una 1 Strade, p. 197 2 Ibtd., p. 49. « la credenza celtica secondo cui le anime di quelli che tbbiimo perduto son prigioniere entro qualche essere inferiore, una be stia, un vegetale, una cosa animata, perdute di fatto per noi fino al gior no, che per molti non giunge mai, che ci troviamo a passare accanto al l'albero, che veniamo in possesso dell'oggetto che le tiene prigioniere». J Ibid.p. 51.

facoltà capace d'interpretare certi segni, il tempo non vale se non come la materia o il tipo di questa o di quella verità. Ed il ricordo, ora volontario ora involontario, interviene soltanto in momenti precisi dell'apprendimento, per contrarne l'effetto o per aprire una nuova via. Le nozioni della Ricerca sono: il segno, il senso, l'essenza; la continuità degli apprendimenti e la subitaneità delle rivelazioni. Riconoscere in Charlus un omosessuale, è cosa che sbalordisce*. Ma occorreva la maturazione progressiva e continua dell'interprete; e poi il salto qualitativo in un nuovo sapere, un nuovo campo di segni. I Leitmotive della Ricerca sono: non sapevo ancora, dovevo capire in seguito; ed anche: non m'interessavo più appena cessavo d'apprendere. I personaggi della Ricerca non hanno importanza se non in quanto emettono segni da decifrare, sopra un ritmo del tempo più o meno profondo. La nonna, Francoise, la signora di Guermantes, Charlus, Albertine: ognuno di essi vale solo per quello che apprendiamo da lui. « La joje avec laquelle je fis mon premier apprentissage quand Francoise... » « D'Albertine, je n'avais plus rien à appren-dre... » Esiste una visione del mondo proustiana. Si definisce anzitutto attraverso quello che esclude: né materia bruta, né spirito volontario; né fisica, né filosofia. La filosofia presuppone enunciati diretti e significati espliciti, frutti di una mente che vuole il vero. La fisica suppone una materia oggettiva e non ambigua, soggetta alle condizioni del reale. Abbiamo torto a credere ai fatti, non ci sono che segni. Abbiamo torto a credere alla verità, non ci sono che interpretazioni. Il segno è un senso sempre equivoco, implicito e implicato. « J'avais suivi dans mon existence une marche inverse de celle des peuples, qui ne se servent de Técriture phonétique qu'après avoir considéré les caractè-res comme une suite de symboles » '. Quello che unisce l'odore di un fiore e lo spettacolo di un salotto, il sapore di una « madeleine » e l'emozione di un amore, è il segno e l'apprendimento corrispondente. L'odore di un fiore che 1 Prigioniera, p. 87. «Nella mia esistenza avevo seguito un cammino inverso a quello dei popoli che si servono della scrittura fonetica solo dopo aver considerato i caratteri come un sistema di simboli».

ci fa segno supera insieme le leggi della materia e le categorie dello spirito. Noi non siamo né fisici né metafisici: dobbiamo essere egittologhi. Non esistono leggi meccaniche tra le cose, né comunicazioni volontarie tra gli spiriti. Tutto è implicato, tutto complicato, tutto è segno, senso, essenza. Tutto resta in quelle zone oscure dove penetriamo come in cripte, per decifrarvi geroglifici e linguaggi segreti. In ogni campo, l'egittologo è chi percorre la via di una iniziazione - l'apprendista. Non esistono né cose né spiriti, ci sono solo dei corpi: corpi astrali, corpi vegetali... La biologia avrebbe ragione, se sapesse che i corpi in sé sono già linguaggio. I linguisti avrebbero ragione, se sapessero che il linguaggio è sempre quello dei corpi. Ogni sintomo è una parola, ma, prima ancora, tutte le parole sono sintomi. « Les paroles elles-mèmes ne me renseignaient qu'à la condition d'ètre inter-prétées à la facon d'un afflux de sang à la figure d'une per-sonne qui se trouble, a la facon encore d'un silence su-bit » '. Non c'è da stupirsi che l'isterico faccia parlare il proprio corpo. Egli ritrova un linguaggio iniziale, il vero linguaggio dei simboli e dei geroglifici. Il suo corpo è un Egitto. Le mimiche della signora Verdurin, la sua paura che le si stacchi la mascella, i suoi atteggiamenti artistici che somigliano a quelli del sonno, il suo naso gomenolato formano per gl'iniziati tutto un alfabeto. 1 Prigioniera, p. 87. «Le stesse parole mi servivano da elementi d'informazione solo in quanto le interpretavo alla stregua d'un afflusso di sangue sul viso d'una persona colta da turbamento oppure di un silenzio improvviso».

L'immagine del pensiero

Se nella Ricerca ha grande importanza il tempo, è perché ogni verità è verità del tempo. Ma la Ricerca è anzitutto ricerca della verità. In questo si manifesta la portata «filosofica» dell'opera di Proust: essa rivaleggia con la filosofia. Proust traccia un'immagine del pensiero che si oppone a quella della filosofia, prendendo di mira quanto è più essenziale a una filosofia classica di tipo razionalista, e i presupposti stessi di questa filosofia. Il filosofo presuppone volentieri che lo spirito in quanto spirito, il pensatore in quanto pensatore voglia il vero, ami o desideri il vero, cerchi naturalmente il vero. Egli si attribuisce in partenza la buona volontà di pensare; fonda tutta la sua ricerca, su una « decisione premeditata ». Da ciò deriva il metodo della filosofia: da un certo punto di vista, la ricerca della verità sarebbe la cosa più naturale e più facile; basterebbe una decisione, e un metodo capace di vincere le influenze esterne che distolgono il pensiero dalla sua vocazione e gli fanno prendere per vero il falso. Si tratterebbe di scoprire e organizzare le idee secondo un ordine che sarebbe quello del pensiero, come altrettanti significati espliciti o verità formulate che verrebbero a compiere la ricerca e ad assicurare l'accordo tra gli spiriti. Nel termine « filosofo » è incluso « amico ». È dunque importante che Proust rivolga la medesima critica alla filosofia e all'amicizia. Gli amici sono, uno rispetto all'altro, come spiriti di buona volontà che si accordano sul significato delle cose e delle parole: comunicano sotto l'effetto di una buona volontà comune. La filosofia è come l'espressione di uno Spirito universale che si accorda con

se stesso per determinare significati espliciti e comunicabili. La critica di Proust tocca l'essenziale: finché si fondano sulla buona volontà di pensare, le verità restano arbitrarie e astratte. Solo il convenzionale è esplicito. Ciò perché la filosofia, come l'amicizia, ignora le zone oscure dove si elaborano le forze affettive che agiscono sul pensiero, le determinazioni che ci costringono a pensare. Per imparare a pensare, non è mai bastata la buona volontà, né un metodo elaborato; né ci basta un amico per accostarci al vero. Gli spiriti non si comunicano che il convenzionale; lo spirito genera solo il possibile. Alle verità della filosofia, manca la necessità, e l'artiglio della necessità. Sta di fatto che la verità non si concede, si tradisce; non si comunica, s'interpreta; non è voluta, ma involontaria. Questo è il grande tema del Tempo ritrovato: la ricerca della verità è l'avventura precipua dell'involontario. Il pensiero non è nulla senza qualcosa che costringa a pensare, che faccia violenza al pensiero. Più importante del pensiero, è ciò che « fa pensare »; più importante del filosofo, il poeta. Nei suoi primi poemi Victor Hugo fa della filosofia, perché « pense encore, au lieu de se contenter, comme la nature, de donner à penser » '. Ma il poeta apprende che l'essenziale è al di fuori del pensiero, in ciò che costringe a pensare. Il Leitmotiv del Tempo ritrovato, è appunto la parola costringere: impressioni che ci costringono a guardare, incontri che ci costringono a interpretare, espressioni che ci costringono a pensare. «e Les vérités que l'intelligence saisit directement à clai-re-voie dans le monde de la pleine lumière ont quelque chose de moins profond, de moins nécessaire que celles que la vie nous a mal gre nous communiqués en une im-pression, matérielle parce qu'elle est entrée par nos sens, mais dont nous pouvons dégager l'esprit... Il fallait tàcher d'interpréter les sensations comme les signes d'autant de lois et d'idées, en essayant de penser, c'est-à dire de faire sortir de la pénombre ce que j'avais senti, de le convertir en un équivalent spiri tue!... Qu'il s'agit de reminiscences

1 Guermémtes, p. 5*9. «pensa ancora, invece di contentarsi, come la natura, di dar da pensare».

dans le gerire du bruit de la fourchette ou du goùt de la madeleine, ou de ces vérités écrites à l'aide de figures dont j'essayais de chercher le sens dans ma tète, où, clochers, herbes folles, elles composaient un grimoire compliqué et fleuri, leur premier caractère était que je n'étais pas libre de les choisir, qu'elles m'étaient données telles quelles. Et je sentais que ce devait ètre la griffe de leur authenticité. Je n'avais pas été chercher les deux pavés de la cour où j'avais buté. Mais justement la facon fortuite, inévitable dont la sensation avait été rencontrée contrólait la vérité d'un passe qu'elle ressuscitait, des images qu'elle déclen-chait, puisque nous sentons son effort pour remonter vers la lumière, que nous sentons la joie du réel retrouvé... Le livre intérieur de ces signes inconnus (de signes en relief, semblait-il, que mon attention allait chercher, heurtait, contournait, comme un plongeur qui sonde), pour sa lec-ture, personne ne pouvait m'aider d'aucune règie, cette lecture consistant en un acte de création où nul ne peut nous suppléer ni mème collaborer aver nous... Les idées formées par l'intelligence pure n'ont qu'une vérité logi-que, une vérité possible, leur élection est arbitraire. Le livre aux caractères figurés, non tracés par nous, est notre seul livre. Non que les idées que nous formons ne puis-sent ètre justes logiquement, mais nous ne savons pas si elles sont vraies. Seule l'impression, si chétive qu'en semble la matière, si invraisemblable la trace, est un critèrium de vérités et à cause de cela mérite seule d'ètre appréhen-dée par l'esprit, car elle est seule capable, s'il sait en déga-ger cette vérité, de l'amener a une plus grande perfection et de lui donner une pure joie » \ 1 Tempo, pp. 215-16. «Le verità che l'intelligenza coglie direttamente, scopertamente, nel mondo della piena luce, hanno qualcosa di meno profondo, di meno necessario di quelle che la vita ci ha comunicate, nostro malgrado, in un'impressione, materiale in quanto entrata in noi attraverso i sensi, ma di cui possiamo enucleare l'intimo spirito... Dovevo cercare d'interpretare le sensazioni come segni di altrettante leggi e idee, sforzandomi di pensare, cioè di far uscire dalla penombra ciò che avevo provato, di convertirlo in un equivalente spirituale... Si trattasse di reminiscenze sul tipo del rumore del cucchiaio, o del sapore della " maddalena ", o di quelle verità scritte con l'ausilio di figure, delle quali cercavo di cogliere il significato nel mio pensiero, in cui - campanili, erbe selvatiche - esse componevano un complicato e fiorito libro di magia, la loro prima caratteristica era ch'io non ero libero di sceglierle, che mi venivan date tali

Quel che ci costringe a pensare è il segno. Il segno è l'oggetto di un incontro; ma è appunto la contingenza dell'incontro ad assicurare la necessità di ciò che dà da pensare. L'atto di pensare non deriva da una semplice possibilità naturale; è invece la sola creazione autentica. La creazione è la genesi dell'atto di pensare nello stesso pensiero. Ora, questa genesi implica qualche cosa che usa violenza al pensiero, strappandolo al suo stupore naturale, alle possibilità soltanto astratte. Pensare è sempre interpretare, e cioè spiegare, sviluppare, decifrare, tradurre un segno. Tradurre, decifrare, sviluppare sono la forma della creazione pura. Nessun significato è esplicito, come nessuna idea è chiara; non abbiamo che sensi implicati in segni; e se il pensiero ha il potere di spiegare il segno, di svilupparlo in un'Idea, ciò avviene perché l'Idea è già presente nel segno, racchiusa e avviluppata, nello stato oscuro di tutto ciò che costringe a pensare. Non cerchiamo la verità se non costretti e sospinti, nel tempo. In cerca di verità è il geloso che sorprende un segno di menzogna sul volto dell'amato. £ l'uomo sensibile, quando s'imbatte in una impressione violenta. È il lettore, è l'ascoltatore, in quanto l'opera d'arte emette segni e lo spingerà forse a creare come il richiamo del genio verso altri geni. Di fronte alle interpretazioni silenziose di un amante, non valgono nulla le comunicazioni dell'amicizia ciarliera. La filosoquali. E intuivo che proprio questo doveva essere il segno della loro autenticità. Non ero stato io a cercare i due ciottoli ineguali del cortile, nei quali ero inciampato. Ma, per l'appunto, il modo fortuito, ineluttabile, con cui ero incappato nella sensazione, garantiva di per sé la verità del passato che essa resuscitava, delle immagini cui dava l'avvio, poiché noi sentiamo il suo sforzo per risalire verso la luce, sentiamo in noi la gioia per la realtà ritrovata... [Il] libro interiore di tali segni sconosciuti (segni in rilievo, sembrava, che la mia attenzione, esplorando il subcosciente, cercava, urtava, contornava come un palombaro che scandagli), nessuno poteva aiutarmi con nessuna regola a decifrarlo: perché la sua lettura consiste in un atto di creazione in cui nessuno può sostituirci, e nemmeno collaborare con noi... Le idee formate dall'intelligenza pura posseggono soltanto una verità logica, una verità possibile, e la loro scelta è arbitraria. Il libro dai caratteri figurati, non tracciati da noi, è l'unico libro nostro. Non che le idee che noi formiamo non possano essere logicamente giuste; ma non sappiamo se sono vere. Solo l'impressione, per quanto infima possa sembrare la materia e inafferrabile la traccia, e un criterio di verità; e solo essa merita perciò di essere appresa dallo spirito, come la sola capace, qualora esso sappia estrame tale verità, di condurlo a una più grande perfezione e di offrirgli una gioia veramente pura».

fia, con tutto il suo metodo e la sua buona volontà, non vale nulla di fronte alle pressioni segrete dell'opera d'arte. Sempre la creazione, in quanto genesi dell'atto di pensare, parte dai segni. L'opera d'arte nasce dai segni, ma anche li fa nascere; come il geloso, il creatore, divino interprete, sorveglia i segni attraverso i quali la verità si tradisce. L'avventura dell'involontario si ritrova a livello di ogni facoltà. In due maniere differenti, i segni mondani e i segni amorosi vengono interpretati dall'intelligenza. Ma non si tratta più di quell'intelligenza astratta e volontaria che pretende di trovare da sola delle verità logiche, di avere un suo proprio ordine e di vincere le pressioni esterne. Si tratta invece di un'intelligenza involontaria, quella che, subendo la pressione dei segni, si anima solo per interpretarli, salvandosi così dal vuoto che la soffoca, dalla sofferenza che la sommerge. In scienza e in filosofia, l'intelligenza viene sempre prima; ma è proprio dei segni fare appello all'intelligenza in quanto viene dopo, deve venire dopo '. Lo stesso avviene per la memoria: i segni sensibili ci spingono a cercare la verità, ma mobilitano cosi una memoria involontaria (o una immaginazione involontaria nata dal desiderio). Infine i segni dell'arte ci spingono a pensare: mobilitano il pensiero puro come facoltà delle essenze. Stimolano nel pensiero ciò che meno dipende dalla buona volontà: lo stesso atto di pensare. I segni mobilitano, costringono una facoltà: intelligenza, memoria o immaginazione. Alla sua volta, questa facoltà mette in moto il pensiero, l'obbliga a pensare all'essenza. Sotto i segni dell'arte, apprendiamo che cosa sia il pensiero puro come facoltà delle essenze, e come l'intelligenza, la memoria o l'immaginazione diversifichino il pensiero rispetto alle altre specie di segni. I termini « volontario » e « involontario » non indicano facoltà differenti, ma piuttosto un differente esercizio delle medesime facoltà. Fino a che si esercitano volontariamente, la percezione, la memoria, l'immaginazione, lo stesso pensiero hanno solo un esercizio contingente: in tal 1 Tempo, p. 217.

caso, ciò che percepiamo, potremmo ugualmente ricordarlo, immaginarlo, pensarlo; e viceversa. Né la percezione, né la memoria volontaria, né il pensiero volontario sono capaci di darci una verità profonda: nient'altro che verità possibili. Qui, nulla ci costringe a interpretare qualche cosa, a decifrare la natura di un segno, nulla ci spinge a tuffarci come un « sommozzatore che operi un sondaggio ». Tutte le facoltà si esercitano armoniosamente, ma sostituendosi a vicenda, nell'arbitrario e nell'astratto. Invece, ogni volta che una facoltà assume la sua forma involontaria, scopre e raggiunge il proprio limite, si eleva a un esercizio trascendente, comprende la propria necessità come un potere insostituibile, cessando cosi di essere intercambiabile. Al posto di una percezione indifferente, ecco una sensibilità che afferra e riceve i segni: il segno è il limite di questa sensibilità, la sua vocazione, l'estremo suo esercizio. Al posto di una intelligenza volontaria, di una memoria volontaria, di una immaginazione volontaria, sorgono queste stesse facoltà sotto la loro forma involontaria e trascendente: allora ognuna di esse scopre di essere sola a potere interpretare, ognuna esplica un tipo di segni che particolarmente le fa violenza. L'esercizio involontario è il limite trascendente o la vocazione di ogni facoltà. Al posto del pensiero volontario, tutto ciò che costringe a pensare, tutto ciò che viene costretto a pensare, tutto il pensiero involontario, che non può pensare se non l'essenza. Solo la sensibilità s'impadronisce del segno in quanto tale; solo l'intelligenza, la memoria o l'immaginazione spiegano il senso, ognuna secondo la corrispondente specie di segni; solo il pensiero puro scopre l'essenza, è costretto a pensare l'essenza come la ragione sufficiente del segno e del suo senso.

Può darsi che la critica della filosofia, quale è condotta da Proust, sia eminentemente filosofica. Quale filosofo non vorrebbe formulare un'immagine del pensiero che non dipenda più dalla buona volontà di chi pensa o da una decisione premeditata? Ben sappiamo, ogni volta che sogniamo un pensiero concreto e pericoloso, quanto esso

non dipenda da una decisione né da un metodo espliciti, ma da una violenza incontrata, rifratta, che ci conduce nostro malgrado, verso le Essenze. Poiché le essenze vivono in zone oscure, e non nelle regioni temperate del chiaro e del distinto. Ravvolte in ciò che costringe a pensare, non rispondono allo sforzo volontario; non si lasciano pensare se non quando siamo costretti a farlo. Proust è un seguace di Platone, ma non in modo vago, dal momento che invoca le essenze e le Idee a proposito della frase di Vinteuil. Platone ci offre un'immagine del pensiero sotto il segno degli incontri e delle violenze. In un testo della Repubblica, Platone distingue nel mondo due specie di cose: quelle che lasciano inattivo il pensiero, o gli danno solo il pretesto per una parvenza di attività; e quelle che fanno pensare, che costringono a pensare '. Le prime sono gli oggetti di ricognizione; su questi oggetti, si esercitano tutte le facoltà, ma in un esercizio contingente, che ci fa dire « è un dito », è una mela, è una casa..., ecc. Altre cose, invece, ci costringono a pensare: non più oggetti riconoscibili, ma cose che fanno violenza, segni incontrati. Si tratta di « percezione contrarie nello stesso tempo», dice Platone. (Proust dirà: sensazioni comuni a due luoghi, a due momenti). Il segno sensibile ci fa violenza: mobilita la memoria, mette l'anima in moto; ma, a sua volta, l'anima smuove il pensiero, gli trasmette la costrizione della sensibilità, lo costringe a pensare l'essenza come la sola cosa che debba essere pensata. Ed ecco le facoltà entrare in un esercizio trascendente, dove ognuna affronta e raggiunge il proprio limite: la sensibilità che afferra il segno; l'anima, la memoria, che lo interpreta; il pensiero, costretto a pensare l'essenza. A buon diritto Socrate può dire: sono l'amore più che l'amico, sono l'amante; più che la filosofia, sono l'arte; più che la buona volontà, sono l'urto, la costrizione, la violenza. Il Convito, il Fedro e il Fedone sono i tre grandi studi dei segni. Ma il demone socratico, l'ironia, sta nel prevenire gl'incontri. In Socrate, l'intelligenza ancora li precede; provocandoli, suscitandoli organizzandoli. L'humour di Proust 1 PLATONE, Repubblica, VII, )2}b-)2}b.

è d'altra natura: humour ebraico contro ironia greca. Occorre essere predisposto ai segni, aprirsi al loro incontro, aprirsi alla loro violenza. L'intelligenza viene sempre dopo, vale quando viene dopo, non vale che allora. Non c'è Logos, ci sono soltanto geroglifici. Pensare è dunque interpretare, è dunque tradurre. Le essenze sono ad un tempo la cosa da tradurre e la traduzione, il segno e il senso. Esse si avvolgono nel segno per spingerci a pensare, si svolgono nel senso per essere necessariamente pensate. Dovunque il geroglifico, il cui duplice senso è il caso dell'incontro e la necessità del pensiero: « fortuito e inevitabile ».

Indice

p. 7

Capitolo primo I segni

18

Capitolo secondo Segno e verità

28

Capitolo terzo L'apprentissage

40

Capitolo quarto I segni dell'arte e l'Essenza

52

Capitolo quinto Funzione secondaria della memoria

65

Capitolo sesto Serie e gruppo

81

Capitolo settimo II pluralismo nel sistema dei segni

89

Conclusione L'immagine del pensiero

Finito di stampare il 26 febbraio 1977 per conto della Giulio Einaudi editore s. p. a. presso le Oficine Fotolitografiche s. p. a., Casarile (Milano) Ristampa identica alla precedente del 22 settembre 1973 C. L. 3IJ-2

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