David Donnini - Il Matrimonio Di Gesù
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Un libro di David Donnini...
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David Donnini
Il matrimonio di Gesù SOMMARIO: Introduzione 1 Gerusalemme 5 Il mar morto e il deserto di Giuda 19 Betlemme 26 Un gesto devozionale 30 Al Ayzariyah (Betania) 34 L’ingresso trionfale in Gerusalemme 36 Il processo a Gesù 39 Il Cristo re dei giudei 47 Gesù e gli esseno-zeloti 52 Lazzaro di Betania 57 Le tre Marie 60 Il matrimonio di Cristo 65 Quale Gesù? 69
Introduzione Fra molti dubbi, che sempre accompagnano i tentativi di chiarire la personalità storica di Cristo, una certezza può essere riconosciuta: nell’arco dei secoli è stato profuso un impegno tenace per cancellare la memoria storica dell’uomo Gesù, per seppellire ogni traccia autentica della sua famiglia d’origine, forse anche del suo matrimonio e della sua discendenza. È possibile che la censura nei confronti di questi ultimi aspetti sia stata applicata con particolare durezza, perché del tutto incompatibili con la nuova dottrina che andava diffondendosi nel bacino mediterraneo.
È abbastanza verosimile che l’immagine primitiva del messia oggi noto a tutti i cristiani sia stata creata da San Paolo, verso la metà del primo secolo. Nei due secoli successivi sarebbe stata arricchita da una moltitudine di teologi, più volte in contrasto fra loro, oggi comunemente chiamati padri della chiesa. Quindi la figura di Cristo sarebbe stata definitivamente ridisegnata, all’inizio del quarto secolo, in occasione del concilio di Nicea, energicamente voluto da Costantino. In quella circostanza Gesù venne per così dire omologato ai tanti dèi morenti e risuscitanti che erano già conosciuti e celebrati nei più svariati angoli dell’impero e oltre: incarnazioni divine che nascevano da una madre vergine e che, spesso, erano oggetto del culto teofagico1. L’interesse principale di Costantino non era la celebrazione del cristianesimo nella sua sostanza originale. Piuttosto il contrario: egli voleva che l’immagine sovversiva dell’ebreo nemico di Roma, giustiziato da Pilato come aspirante alla carica di “rex ioudaeorum”, fosse irrevocabilmente trasformata in quella di un santo profeta del tutto apolitico, anzi, in quella del “filius patris” che aveva invitato a dare “a Cesare quel ch’è di Cesare”2. L’uomo vero, il giudeo che aveva predicato solo “alle pecore smarrite della casa di Israele”3, e che fu crocifisso per sovversione davanti ai pellegrini che affollavano Gerusalemme alla vigilia di pèsach, doveva essere completamente dimenticato. Ma soprattutto dovevano essere dimenticati i suoi veri seguaci: quelli che sostenevano l’idea di una dinastia di sangue risalente, attraverso Gesù, fino al grande re Davide, l’antico creatore del regno delle dodici tribù di Israele. Il sangue reale dei messia davidici4 era la minaccia temuta ed odiata dal clero della chiesa di Roma. La dottrina, il dogma, la lotta alle eresie, ma anche le congiure omicide e le guerre sante erano gli strumenti per combatterla. L’espressione santo graal, a cui la fantasia ha attribuito le più svariate accezioni e forme, deriva dalla lingua provenzale antica, nella quale sang raal vuol dire “sangue reale”. Abitualmente è stata associata all’immagine di una coppa, nella quale Giuseppe di Arimatea avrebbe addirittura raccolto il sangue di Cristo che cadeva dalla croce. Ma l’accostamento ha un carattere del tutto metaforico: la coppa, come il vaso, o la terra, è un simbolo ricorrente del ventre femminile, che in questo caso si riferisce alla discendenza di Cristo e, attraverso di lui, alla stirpe del sangue regale di Davide. In pratica il santo graal non è che la linea dinastica originatasi nel 3000 a.C. dal re Davide e da suo figlio Salomone, il primo aveva edificato Gerusalemme come capitale del regno delle dodici tribù di Israele e il secondo vi aveva innalzato un colossale tempio. All’interno delle narrazioni evangeliche
1
Il rito con cui il fedele si cibava del sangue e della carne del dio. “Allora disse loro: Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” Mt, XXII, 21. 3 “Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d'Israele” Mt X, 5-6. 4 Sangue reale = Sang Raal, in provenzale antico) = San Graal (Santo Graal, Holy Grail) 2
Gesù è sovente qualificato come “figlio di Davide” a conferma della sua dignità regale. Lo stesso Luca fa dichiarare all’angelo Gabriele durante l’annunciazione a Maria:
“il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe”5.
Nel medio evo il sang raal avrebbe rappresentato l’ambizione al riscatto dalla terribile sconfitta che i romani avevano inflitto al regno di Israele distruggendolo due volte. Una prima volta nel 70 d.C., quando l’imperatore Tito, dopo un lungo assedio alla città di Gerusalemme, l’aveva messa a ferro e fuoco, prelevando il tesoro del tempio e facendone sfoggio per le vie di Roma al suo ritorno, come trofeo di guerra. Una seconda volta nel 135 d.C., quando un certo Simone “figlio della stella” aveva tentato di risollevare le sorti di Israele, ma fu completamente sopraffatto. In quell’occasione i romani rasero al suolo Gerusalemme, per poi ricostruirla come centro degiudaizzato, affibbiandole un nome latino: Aelia Capitolina. Il destino bimillenario degli ebrei fu quello della diaspora. Sparsi ovunque nel mondo. In difficoltà per mantenere la loro identità etnica e religiosa, ma anche semplicemente per sopravvivere. Frequentemente fatti oggetto di un’autentica persecuzione antisemita, che nella chiesa di Roma trovava il rappresentante per eccellenza. Il potere della chiesa cristiana, dopo Costantino, e soprattutto dopo la caduta dell’impero romano, era cresciuto a dismisura, trasformandosi in un’egemonia assoluta che riguardava, oltre agli aspetti religiosi, quelli politici, economici, giudiziari, etici e culturali. Agli occhi degli ebrei Roma continuava, in un modo o nell’altro, a rappresentare il fulcro dell’antisemitismo. Prima lo era stata con gli imperatori pagani. All’inizio del medio evo lo era coi papi e il clero cristiano. Una brama segreta di vendetta aveva trovato forma nell’idea che la dinastia davidica, anticamente umiliata da Roma, avrebbe rovesciato il destino della città eterna, facendola propria e dominando, non solo sui territori che furono dell’impero, ma sul mondo intero. La convinzione (giusta o sbagliata che fosse) che il sedicente messia giustiziato da Pilato intorno all’anno 30 d.C. avesse lasciato una discendenza era ben viva e presente in ambienti esterni alla chiesa romana. Fu soprattutto in Francia, ma anche in Inghilterra, che quest’idea venne conservata. A noi non interessa quanto autentica e credibile fosse l’identificazione della presunta linea dinastica. Siamo perfettamente consapevoli del fatto che a fianco della leggenda di Gesù figlio di dio, costruita dai teologi cristiani, può essersi sviluppata una leggenda parallela, con altrettanti intrecci di storia e invenzione, costruita da coloro che erano interessati a contrastare il potere 5
Lc I, 32-33.
dell’istituzione ecclesiastica e a sostituirlo col loro. Anzi, pensiamo che l’una e l’altra rappresentazione siano distorsioni ad hoc della verità storica, secondo prospettive e interessi diversi. L’ideale messianico si era evoluto come ricerca ossessiva delle persone appartenenti alla linea dinastica di sangue reale davidico e gesuitico, o più verosimilmente presunte tali, nonché come tentativo di promuovere il loro ingresso nelle famiglie reali europee. Sia chiaro che non intendo difendere in modo partigiano questo ipotetico complotto contro la chiesa romana, ma che sono interessato ad esso nella misura in cui può contribuire ad offrire elementi di chiarificazione sulla personalità storica di Cristo. Nient’altro. E neppure intendo aderire all’idea che esista tuttora, o sia mai esistito, un ipotetico Priorato di Sion, di cui sarebbero stati gran maestri personaggi come Leonardo da Vinci, Isaac Newton …
Gerusalemme Circa tremila anni fa, sopra un colle verdeggiante che svettava coi suoi ottocento metri d’altezza in mezzo a paesaggi desertici, sorgeva un villaggio cananeo. Era fortificato, terrazzato, circondato da antiche mura, e aveva il raro pregio di possedere una sorgente d’acqua: Ghicon. Un posizione felice, perché le piogge non mancavano e il clima era mite in tutte le stagioni. Fu qui che Davide, unto re dal profeta Samuele, individuò il luogo giusto per la capitale del suo regno. Il paese fu sottratto alla popolazione originaria e ribattezzato con un nome che sarebbe stato famoso per le epoche a venire: Gerusalemme, “città della pace”. Il paradosso è fin troppo stridente, da allora quel luogo è sempre stato un inferno di sanguinosi conflitti. Davide, della tribù di Giuda, nato a Betlemme, era riuscito a prendere il posto del suocero Shaul, primo re di Israele, il quale aveva potere sulla tribù di Beniamino a cui apparteneva, su quella di Galaad e su quella di Efraim. In un primo tempo Davide era stato eletto re solo della tribù di Giuda ma, dopo la morte di Shaul, era riuscito ad unificare Giuda e Israele, creando così un regno che comprendeva dodici tribù. Si trattava di genti diverse per lingue, abitudini e tradizioni religiose. Raccoglierle sotto un unico nome, ebrei, e credere che fossero un popolo compatto con origini comuni, è un’operazione forzata che non rispecchia la realtà. Le vicende storiche ci mostrano un regno che, in due millenni, ha saputo restare unito per meno di un secolo, continuamente turbato da conflitti interni e dominazioni straniere. Al tempo di Davide, per favorire l’unione delle tribù e la stabilità del regno, erano necessari elementi di coesione che il sovrano cercò di creare: una capitale gloriosa, una religione comune e, soprattutto, un tempio che fosse il luogo d’aggregazione per tutti i sudditi. Gerusalemme fu scelta in buona posizione strategica e politica. Quindi furono composte leggende a sfondo epico e religioso, attraverso le quali il popolo potesse superare le divergenze tribali, acquisire l’identità collettiva, maturare l’orgoglio del proprio essere. Davide costruì il palazzo reale ma il tempio, per lui, rimase un sogno che si sarebbe avverato solo grazie al figlio Salomone. Lo sforzo di tenere unito il regno fu il punto di partenza delle tradizioni, prima orali e poi scritte, che oggi possiamo trovare nella bibbia: la discendenza dal padre comune Abramo, la schiavitù in terra d’Egitto, la liberazione da parte di Mosè, la conquista della terra promessa dopo un lungo peregrinare nel deserto. In esse realtà e leggenda si mescolano misteriosamente e noi non dobbiamo sempre tenere presente la motivazione che sottintese la composizione e la trasmissione di queste tradizioni. Il valore storico di questa presentazione dell’origine comune delle dodici tribù e della loro appartenenza ad un’etnia coerente è molto debole. Diciamo piuttosto che essa testimonia, non la
realtà, ma le difficoltà incontrate da chi aveva raccolto sotto un unico regno stirpi e progenie diverse. L’elemento più forte che contribuì a determinare l’aggregazione del popolo fu la conversione all’idea monoteista che Mosè, un personaggio autorevole di origini egiziane, aveva mutuato a suo tempo dalla religione solare del faraone Akhenaton (Amenofi IV). Questo modello teologico era stato quindi applicato al popolo dei sudditi di Davide, convincendoli che dio stesso li avesse scelti come figli prediletti, destinatari di una missione spirituale nei confronti del genere umano. In tal modo le loro vicissitudini, guerre, sconfitte, vittorie e conquiste apparivano come momenti del grande melodramma religioso di un popolo dai destini guidati dal cielo. Gerusalemme, nei suoi tre millenni di storia, si è sviluppata portandosi dietro una grande eredità culturale, ed aggiungendone progressivamente, sino a diventare quella che è oggi: il punto di incontro e di scontro fra popoli e religioni, dove la minaccia delle armi costituisce un aspetto quotidiano della vita sociale. Oggi, visitandola con lo sguardo attento e con la mente libera, questa città è un’esperienza sconvolgente, per la molteplicità delle tradizioni che coesistono in essa. In nessun altro luogo del pianeta è possibile, nell’arco di pochi passi, trasferirsi da un universo all’altro e valicare confini che separano civiltà antiche e abissalmente lontane. Molti stranieri raggiungono Gerusalemme dopo un viaggio in autobus da Tel Aviv, che dovrebbe durare meno di un’ora. In realtà, seguendo le buone abitudini di tutte le metropoli moderne, le strade di accesso, sin dalla più lontana periferia, sono intasate dal traffico e l’ingresso in città richiede lunghe attese in coda. Tutto questo, nonché l’edilizia moderna, i negozi, i turisti, fanno di Gerusalemme, nei pressi della stazione dei bus, una normale città occidentale, il cui aspetto è reso singolare solo dalla presenza di alcuni ebrei ortodossi, nel loro caratteristico costume hassidico, col cappotto e il cappello neri, con la folta barba scura o rossiccia e, talvolta, coi riccioli lunghi che scendono dalle tempie fin sulle spalle. Sin qui l’impatto è quasi normale. Se non che, avvicinandosi alla Porta di Damasco una straordinaria esperienza attende il turista. La Porta di Damasco è il varco settentrionale che consente di attraversare le mura antiche e di penetrare nella città vecchia dalla parte del quartiere arabo. Vi si accede da un grande piazzale, una larga scalinata scende verso il ponte che attraversa un fossato, quindi si infila direttamente nella Porta. In alto, seduto su un davanzale di pietra, un militare israeliano, col mitra in mano, controlla pazientemente la confusione sottostante. Il nome da mille e una notte non poteva essere più appropriato per questo passaggio6.
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La descrizione riguarda un’esperienza di viaggio effettuata nel 1997. Da allora le drammatiche vicende politiche possono avere cambiato molto gli scenari della città.
Già sul pontile di accesso un’indescrivibile, brulicante folla, praticamente di soli arabi, maschi e femmine, nei loro costumi orientali, si agita, si accalca ed urla da tutte le parti. Ovunque bancarelle improvvisate, sacchi di melanzane, zucchine, peperoni, scatole piene di pulcini pigolanti. Alcune donne riescono a destreggiarsi tenendo in bilico sulla testa grandi cesti, in mezzo a questo caos senza ritegno. Le voci si mescolano alle musiche: suoni che sembrano provenire dal passato remoto, fatti di arabeschi melodici e di ritmi che invitano alla danza del ventre. Armonie che nessun occidentale potrebbe imitare. Al di là della porta, sui lati della strada, si affacciano botteghe piene delle merci più varie, mentre nel mezzo alcuni trafficanti stendono a terra i loro cenci e mostrano le mercanzie. Da una parte giunge l’odore, forte come una droga, di spezie profumate, che dalle narici raggiunge direttamente il cervello. Gli occhi sono abbagliati dai mille colori delle merci e degli abiti: fucsia, rosso, verde, giallo. Le orecchie sono saturate dai rumori che si diffondono intorno. Dunque la porta di Damasco è uno dei punti di contatto fra i mondi paralleli che coesistono a Gerusalemme, forse il più spettacolare, ma non è né l’unico né il più significativo. In realtà, visitando la città nei particolari, ci si accorge che è composta non solo da mondi paralleli, ma da universi negli universi, come una sorta di bambola russa, complicata quanto basta per non essere comprensibile da alcuno. All’interno della città vecchia, per esempio, si possono distinguere tre realtà principali: il settore islamico, quello ebraico e quello cristiano. Ma ben presto il settore cristiano rivela le sue divisioni: si distinguono un settore cristiano nel quadrante nord-ovest della cittadella e un settore armeno in quello sud-ovest. I seguaci del rito armeno, a loro volta, si dividono in due categorie: quelli cattolici, uniti alla chiesa di Roma, e quelli non cattolici, indipendenti. Nel quadrante nordoccidentale, riconosciamo presenze cattoliche ed ortodosse, le quali convivono e si spartiscono precise aree di competenza; come nella chiesa del Santo Sepolcro, dove la tradizione vuole che si siano svolti gli eventi conclusivi della passione di Cristo: la crocifissione, la sepoltura, la resurrezione. Naturalmente anche nell’area ebraica e in quella musulmana esistono le suddivisioni, che non sempre il turista è in grado di cogliere. È incredibile come a Gerusalemme si possano veder passare, sullo stesso marciapiede e nell’arco di pochi minuti, un rabbino col turbante hassidico, un frate con la toga di tela bruna, un pastore evangelista con l’abito grigio, un pope col cilindro nero, un religioso musulmano, un sacerdote armeno, un cristiano copto con la barbetta riccioluta che biancheggia sulla carnagione scura… Ognuno con la sua fiera sicurezza stampata sul viso.
Una delle prime visite che il turista straniero compie in questa città è senz’altro l’area del cosiddetto “muro del pianto”. Per raggiungerlo bisogna entrare nella città vecchia, sul lato sud, attraverso la Porta dei Magrebini o Dung Gate, oppure, da nord, percorrendo un labirinto di stradine nel quartiere arabo. In entrambi i casi si arriva ad un check point israeliano, simile a quello degli aeroporti. Si passa attraverso un detector magnetico, i militari israeliani invitano i turisti ad aprire le borse e a mostrarne il contenuto, verificando che nessuno introduca ordigni esplosivi o armi. Al tempo dei romani, in modo del tutto analogo, i soldati imperiali controllavano la folla per evitare gli attentati dei sicari, i quali colpivano improvvisamente coi loro pugnali nascosti sotto le tuniche, uccidendo i romani o gli ebrei considerati collaborazionisti e, spesso, riuscendo a dileguarsi senza lasciare traccia. All’interno del grande piazzale antistante il muro c’è sempre molta gente, in parte turisti ma principalmente ebrei. Alcuni di questi indossano semplicemente il kippa, il tipico copricapo, altri indossano cappello, giacca e pantaloni neri, camicia bianca e tzitzit, le frange rituali che scendono lungo i fianchi. In questa zona ci sono anche molti ebrei ortodossi che indossano il costume hassidico: un cappotto nero lungo e stretto, pantaloni neri che arrivano a metà polpaccio, calzettoni e scarpe nere, una camicia bianca, un cappello particolare che sta ritto sulla sommità del capo, perché è di misura stretta, i riccioli intonsi scendono dalle tempie fino alle spalle. Durante lo Shabbat il cappello è sostituito da uno speciale turbante di pelliccia nera. Qualche volta i fedeli indossano scialli di tela bianca con righe scure e frange. Naturalmente mi riferisco agli uomini, perché il ruolo delle donne è meno importante, esse devono semplicemente indossare abiti modesti, che coprano i gomiti e le ginocchia, le donne sposate devono coprirsi la testa col velo. Al centro del muro c’è una transenna che separa il lato degli uomini, a sinistra, dal lato delle donne, a destra. Dinanzi al muro i fedeli recitano i versetti delle scritture, compiendo rapide oscillazioni in avanti e indietro col busto, come per inchinarsi devotamente alle vecchie pietre; alcuni inseriscono bigliettini di carta arrotolata nelle fessure della roccia, contenenti preghiere. Qualche volta si formano gruppi di persone che si abbracciano o si tengono per mano e cantano, quasi ballando al ritmo delle loro cantilene. Alcuni vecchi, con le lunghe barbe bianche, siedono concentrati nella lettura dei testi sacri. Anche i turisti non ebrei possono avvicinarsi al muro, ciascuno nell’area del proprio sesso, purché i maschi indossino un kippa che viene fornito all’ingresso dell’area transennata e le donne si coprano bene le spalle, anche questa volta con uno scialle nero che è fornito all’ingresso. Il muro guarda verso ovest-sud-ovest, per cui è totalmente in ombra nelle ore del mattino, mentre nel pomeriggio prende il sole e, specialmente in estate, accumula grande calore. Subito oltre il muro
si trova l’area sacra ai musulmani e i due mondi, lontani e conflittuali, convivono a soli pochi centimetri di distanza. A separarli ci pensano quelle vecchie pietre, delle quali le più basse, facilmente riconoscibili perché più grandi e consunte, sono esattamente quelle che Erode il Grande, nel 20 a.C., fece mettere nel corso dei lavori di ricostruzione del tempio. Si tratta del secondo tempio, perché il primo era stato edificato dal re Salomone, che era riuscito a realizzare il grande sogno del padre Davide. Salomone aveva utilizzato tutte le risorse del paese, forza lavoro e ricchezza, al punto che la sua intollerabile pressione fiscale aveva prodotto la scissione del paese in due regni, quello di Israele a nord, con capitale Samaria, e quello di Giuda a sud, con capitale Gerusalemme. La separazione avvenne all’incirca nel 933 a.C., meno di un secolo dopo che Davide aveva unificato il paese. I samaritani crearono un tempio alternativo sul monte Garizim, anche se li attendeva, dopo poco più di cento anni, il triste destino della sanguinaria dominazione assira. Il tempio di Salomone durò circa 350 anni, perché nel 587 a. C. il re babilonese Nabucodonosor espugnò Gerusalemme, mise a ferro e fuoco la città, distrusse il tempio e trasse in esilio buona parte della popolazione. È una realtà storica che molti conoscono attraverso la rappresentazione melodrammatica del Nabucco, la famosa opera di Verdi. Dopo la dominazione babilonese fu la volta di quella persiana, a partire dal 539. Fu Ciro a sconfiggere i babilonesi, a permettere il rientro degli ebrei in Palestina e a inglobare la loro terra nell’impero persiano. Quando Alessandro il macedone sconfisse i persiani nel 333 a.C. la dominazione diventò ellenistica, con alterne vicende sotto la dinastia dei Tolomei e poi dei Seleucidi. I romani, infine, subentrarono nel dominio della Palestina quando, nel 63 a.C., Pompeo entrò in Gerusalemme. Allo scopo di governare meglio il paese i romani scelsero inizialmente un re intermediario nella persona di Erode, detto il Grande. In realtà non si trattava di un ebreo, ma di un idumeo, il quale fece il possibile, anche se inutilmente, per legittimare la sua posizione di fronte agli ebrei ed accattivarsene la simpatia. Sposò Mariamme per questo motivo, poiché era asmonea, ovverosia di nobile sangue ebreo, e, sempre per la stessa ragione, decise di costruire un tempio in Gerusalemme, a replica di quello che Salomone aveva fatto erigere nove secoli prima. Gli ebrei chiamano il tempio di Erode “secondo tempio”. I lavori cominciarono nel 20 a.C. e terminarono nel 64 d.C., solo sei anni prima che Tito, allora figlio dell’imperatore Vespasiano, lo distruggesse completamente! Di quella costruzione rimangono in piedi alcune grosse pietre del muro occidentale, ed è proprio di fronte a quelle che oggi gli ebrei vengono a rendere omaggio alla memoria del loro antico luogo
santo. È quello il tempio in cui Gesù avrebbe rovesciato i tavoli dei cambiavalute e avrebbe arringato i sacerdoti coi suoi fatidici «Guai a voi!»7. Perché i romani, i quali avevano lasciato che Erode desse inizio ai lavori e che ne consentirono il proseguimento anche dopo la morte di Erode, fino al completamento del tempio stesso, lo distrussero del tutto nel 70 d.C.? Per rispondere a questa domanda bisogna parlare delle numerose ribellioni susseguitesi durante tutto il periodo della dominazione imperiale, sfociando in una sanguinosa guerra che segnò la disfatta completa di Israele. Fin dai lontani tempi della dominazione assira, profeti come Isaia avevano annunciato la venuta di un nuovo messia, l’Unto del Signore, che avrebbe liberato il paese dai suoi dominatori pagani e che avrebbe ricostruito il “regno di YHWH”. I cristiani usano l’espressione “regno di dio”, o “regno dei cieli”, ma la intendono con un significato diverso da quello che ha nella mentalità e nella spiritualità degli ebrei. Se il regno di dio non è una cosa di questo mondo per i cristiani, ma una condizione spirituale, per gli ebrei si tratta di uno stato da realizzare contemporaneamente nello spirito e nella società, l’ebraismo, diversamente dal cristianesimo è un rigido pragmatismo teocratico; in questa concezione la liberazione spirituale non può essere intesa distintamente dalla liberazione politica. Il messia deve giungere per punire gli empi, cacciare i nemici, ricostruire l’unità del paese, ristabilire il culto. Questa è una precisa volontà del Signore, chiaramente espressa nelle scritture e inequivocabile nel suo significato. Al tempo della dominazione romana esistevano componenti della popolazione ebraica, potremmo chiamarle partiti, che non riconoscevano l’autorità regale della famiglia erodiana, né quella religiosa dei sacerdoti del tempio, i sadducei, accusando gli uni e gli altri di connubio opportunistico ed empio con l’invasore pagano, e che attendevano con ansia l’avvento del messia o, piuttosto, che si sentivano coinvolti nel realizzare materialmente l’avvento del messia. Questo fatto è importantissimo, anzi essenziale, per capire le dinamiche storiche legate alle origini del cristianesimo. Alcune delle parti dissidenti di cui stiamo parlando erano organizzate in sette, fra cui dobbiamo nominare gli esseni, gli zeloti, i sicari, i nazorei o nazareni, gli stessi giudeo-cristiani... Quante e quali fossero queste sette non sarà mai ben chiaro, né riusciremo a capire se le denominazioni che abbiamo appena citato si riferiscano a movimenti distinti, a movimenti collegati, allo stesso movimento, o che altro. Immaginiamo per esempio la grande difficoltà a cui andrebbe incontro colui che volesse redigere una storia dei movimenti marxisti dalla metà del diciannovesimo secolo fino al duemila. Anche soltanto quelli italiani hanno costituito una selva inestricabile e continuano a farlo. 7
Mt XXIII, 13-segg.
Il fatto è che i movimenti messianici dell’epoca del secondo tempio hanno dato tanto di quel filo da torcere ai romani che, nella seconda metà del primo secolo, la situazione è degenerata in guerra aperta fra gli ebrei e i romani; conclusasi con l’assedio di Gerusalemme, la sua espugnazione, la distruzione della città e del tempio da parte di Tito (70 d.C.), il massacro di migliaia di ebrei, la riduzione in schiavitù di altrettanti, l’esilio e la diaspora per altri ancora. Ecco perché gli ebrei, oggi, piangono dinanzi al muro. Se all’epoca del secondo tempio esisteva una parte della società giudaica che contestava il governo del paese e la classe sacerdotale, al punto da creare una comunità nella comunità, non dobbiamo credere che qualcosa del genere non accada anche oggi. Possiamo rendercene conto facilmente visitando il quartiere Meah Shearim, dove un grande cartello così si rivolge al turista in procinto di entrare:
“Gentile visitatore, sei decisamente il benvenuto a Meah Shearim ma, per favore, non scandalizzare i nostri abitanti passeggiando per le nostre strade con un abbigliamento indecoroso. La nostra Torah richiede che la donna ebrea sia vestita con abiti decenti. Le maniche che coprono i gomiti (gonne-pantaloni vietate), i calzini, le donne sposate che portano i capelli coperti, ecc., sono sempre state le virtù delle donne ebree attraverso le epoche. Per gentilezza, non offendere i nostri abitanti e evita un disagio non indispensabile per te stesso. Noi ti preghiamo di non infrangere il nostro sistema di vita e il santo codice della legge. Ti invitiamo a usare la discrezione non passando dalle nostre strade vestito secondo una moda indesiderata, agli uomini è richiesto di non entrare senza un copricapo La commissione per il controllo della decenza. Meah Shearim e vicinato. Gerusalemme, la città santa” (affisso all’ingresso di Meah Shearim).
Il cartello non si riferisce ad una zona consacrata, ma ad un normale quartiere abitativo, fra strade di pubblico accesso, in cui risiedono i componenti di una comunità di stretta osservanza ebraica che definiscono se stessi “hassidim”. L’ebreo hassidico indossa vestiti neri, un cappotto stretto e lungo, un cappello di foggia caratteristica, si lascia la barba incolta e ha lunghi riccioli che scendono dalle tempie. Cammina velocemente, con gli occhi fissi in avanti o rivolti in basso; evita di incontrare lo sguardo altrui e non risponde al saluto dello straniero, anche se si tratta di un sorridente “shalom”. La comunità si è formata nel 1875, quando un gruppo di ebrei ortodossi uscì dalla città vecchia sotto la guida del rabbino Auerbach. I hassidici abitano a Gerusalemme da più di un secolo e continuano ad indossare gli stessi abiti che gli ebrei ortodossi usavano nell’Europa centro-orientale
del ‘700. Molte donne portano non solo un copricapo, ma indossano una parrucca, che non ha altro scopo se non quello di nascondere i veri capelli! All’ingresso nel quartiere la prima superficiale impressione del turista che, per buona educazione, ha fatto tutti i suoi sforzi per rispettare le richieste di decenza così chiaramente espresse, è quella di essere circondati da un ambiente paradossalmente indecente: le strade sono sporche, con rifiuti e rottami sparsi ovunque, gli edifici hanno un aspetto fatiscente, gli infissi sono arrugginiti. Le case sono tutte uguali, e tutte ugualmente squallide. Il clima è di grave austerity. I hassidici del quartiere Meah Shearim, come duemila anni fa gli esseni di Khirbet Qumran, associano il proprio isolamento alla dissidenza politica e religiosa nei confronti del paese, dei suoi comuni abitanti e delle sue autorità. Non riconoscono l’attuale stato di Israele, obiettano al servizio militare e, addirittura, rifiutano l’uso della lingua ebraica perché, dicono, è una lingua sacra non adatta alle cose profane, e parlano Yiddish, l’idioma misto delle antiche comunità ebraiche europee. Anche a Khirbet Qumran erano utilizzati elementi culturali diversificanti: il calendario solare in alternativa a quello ufficiale lunare, pratiche cultuali come il saluto mattutino al sole, il rito battesimale, nonché il rito eucaristico prima del pasto comunitario, etc... Persino la moderna xenofobia hassidica è un tratto comune con gli antichi esseni, i quali, negli scritti che hanno affidato alle giare nelle grotte di Qumran, hanno dichiarato esplicitamente che l’umanità è composta dai figli della luce, che hanno accettato la giusta interpretazione della torah cercando di metterla in atto, e dai figli delle tenebre, cioè tutti gli altri, pagani ed ebrei non rigorosamente osservanti, tutti in attesa del loro inevitabile destino. Anche i hassidici sono in attesa del messia che dovrà venire, proprio come gli esseni che, all’epoca del secondo tempio, erano convinti che la venuta del messia fosse imminente, che la gente dovesse prepararsi, partecipando attivamente alle operazioni politiche e militari necessarie per il rovesciamento dei poteri corrotti e la ricostruzione del regno di Israele. La dissidenza ebraica, all’epoca del secondo tempio, era espressa oltre che dagli esseni anche dagli zeloti, ovverosia da coloro che erano caratterizzati da un particolare zelo per il loro dio e che combattevano in suo nome per la liberazione e la purificazione di Israele. Per la verità non è affatto chiaro in quale misura i due movimenti fossero distinti e, personalmente, sono convinto che, almeno a partire da un certo punto, lo siano stati molto meno di quanto non si creda di solito. Il termine zelota era espresso con le parole qannai, o barjona, in aramaico, zelotes o lestes in greco, latro, sicarius e persino galilaeus in latino. Un personaggio famoso, di cui parla spesso Giuseppe Flavio, che è stato il fondatore di una particolare ala del movimento zelota, è un certo Yehuda, molto noto come Giuda il Galileo, veniva da Gamala, una cittadina fortificata che sorgeva su un colle strapiombante, a breve distanza (8 km) da Beth Zayda sulla costa nord orientale del lago di
Tiberiade. Suo padre si chiamava Ezechia, non era solo un sostenitore della lotta antiromana ma un rabbino che sosteneva un’interpretazione molto rigorosa delle profezie messianiche, che si comportava come se fossero giunti i tempi imminenti della loro realizzazione. Egli vantava per sé un diritto particolare di leadership della lotta Yahwista, un autentico diritto dinastico: forse era convinto che il sangue regale di Davide scorresse nelle vene della sua famiglia. Ezechia, che Giuseppe Flavio sempre molto severo nei confronti dell’estremismo Yahwista, definisce sprezzantemente “archilestes” (capo brigante), aveva guidato numerose scorribande nel territorio della Galilea, dove si trovavano alcuni dei più importanti insediamenti delle forze romane. Nel frattempo l’Erode in carriera, non ancora re della Palestina, per farsi notare dai romani compiva le imprese opposte: combatteva duramente i patrioti religiosi e, nel 44 a.C., durante uno dei soliti disordini, ebbe occasione di uccidere lo stesso Ezechia. Da allora, nel cuore della discendenza di Ezechia, un odio profondo e irriducibile per i regnanti Erodiani andò a sommarsi agli ideali della lotta Yahwista, trasformando la causa in una questione familiare, un’autentica rivalità dinastica. E l’eredità di questi sentimenti fu raccolta da Giuda, figlio di Ezechia, che si fece rappresentante di una concezione esasperata della lotta antiromana e dell’osservanza rigorosa della torah. Egli, oltre a fondare un movimento organizzato di lotta armata (certamente il più acceso), invitava gli ebrei alla disobbedienza religiosa nei confronti dei dominatori. La sua attenzione, in particolare, era rivolta alla questione del tributo: sosteneva che pagare la tassa ai romani fosse non solo ingiusto, ma che costituisse un atto sacrilego contro YHWH, poiché implicava il riconoscimento di una autorità, quella imperiale, che spettava solo a dio; tanto più che, a partire da Augusto (27 a.C.), l’imperatore romano aveva espresso la tendenza a divinizzare la propria figura. Secondo Giuda erano empi gli ebrei che consentivano al pagamento delle tasse; figuriamoci i cosiddetti pubblicani, funzionari ebrei incaricati della riscossione dei tributi. Al tempo della morte di Erode il grande, nel 4 a.C., Giuda guidò una grande sommossa, i suoi zeloti partirono da Gamla e raggiunsero la regione della Galilea, dove assalirono gli arsenali regi a Sepphoris (a poca distanza dall’attuale Nazareth); per i rivoltosi era importantissimo impadronirsi delle armi e rifornire gli arsenali zeloti. Alcuni anni più tardi, nel 6 d.C., i romani deponevano il tetrarca della Giudea, Erode Archelao (figlio di Erode il grande) e decidevano di ridurre quella regione a provincia imperiale, sotto la diretta supervisione di un praefectus; il primo della lunga serie, a cui sarebbe appartenuto anche Ponzio Pilato, fu Coponio. In questo periodo i romani decisero di effettuare un censimento della regione, a scopi fiscali, il loro fine era quello di obbligare tutti i giudei a versare la tassa dovuta. Il censimento fu supervisionato dal governatore della Siria, Publio Sulpicio Quirinio. Siamo nel 7 d.C. A questo punto la pazienza di Giuda e dei suoi seguaci
fu portata oltre i limiti: non solo la Giudea era diventata una provincia imperiale di Roma, ma i dominatori si apprestavano a esercitare una stretta politica fiscale. Ne scaturì una violenta ribellione, nota come “la rivolta del censimento”, nella quale migliaia di zeloti persero la vita e furono crocifissi. Lo stesso Giuda il galileo perse la vita. Ma la storia della esaltata famiglia di Gamla, ardente di ideali rivoluzionari e di ambizioni messianiche non era che al suo inizio. All’incirca là dove, in epoca erodiana, sorgeva il tempio ebraico, oggi sorge un’area circondata da mura, detta “spianata del tempio” o Haram esh-Sheriff. È l’angolo più musulmano di Gerusalemme, dal momento che accoglie il terzo luogo santo dell’Islam. Si tratta di una vasta area nella quale sorgono due importanti moschee, la più appariscente, Qubbet es-Sakhra o Cupola della Roccia, interamente ricoperta d’oro, e la più importante, El-Aqsa. Difficilmente gli ebrei entrano in questa zona, trattandosi dell’area che, in passato, apparteneva al secondo tempio e che oggi è occupata dai musulmani, perché è considerata una zona profanata e altamente impura. Nell’immaginario degli ebrei più ortodossi è celata la convinzione che qui, un giorno, sorgerà il terzo tempio. Non credo che una cosa simile sarebbe possibile senza che l’intero mondo islamico si ribelli con violenza. Appena varcata la soglia della spianata ciò che colpisce il visitatore, che ha dovuto attraversare il solito labirinto angusto della vecchia città, è la solarità dell’ambiente. Sotto un cielo abitualmente limpido e luminoso si apre un grande spazio aperto, con aree verdi qua e là, al centro del quale domina la Cupola della Roccia, un edificio ottagonale dalle mura ricoperte di mosaici azzurri e sovrastato da una imponente cupola d’oro. C’è poi l’altra moschea, che a suo tempo fu dimora dei re crociati e dei cavalieri templari, nonché una serie di altre costruzioni minori: la Cupola della Catena, la Cupola dell’Ascensione, la fontana di Qait Bey. C’è anche un museo dell’arte islamica. All’angolo nord-ovest della spianata corrisponde una chiesa francescana detta convento della flagellazione; è il luogo dove si trovava la Torre Antonia, fatta costruire da Erode nel 35 a.C. e distrutta da Tito un secolo dopo. Nell’epoca erodiana la Torre Antonia serviva per tenere sotto controllo la gente che affollava il tempio ebraico e si suppone che fosse la sede del presidio romano, anche se una minoranza di studiosi sostiene, invece, che questo fosse localizzato nei pressi della Porta di Giaffa, ottocento metri più a occidente. Dovunque si trovasse il presidio romano, è certamente il luogo a cui si riferisce la narrazione evangelica, parlando del processo che Gesù subì di fronte a Ponzio Pilato. È anche il luogo che, per comprensibili ragioni, durante i tentativi di rivolta messianica è stato considerato il primo obiettivo da colpire. Lo storico Giuseppe Flavio, nella sua Guerra Giudaica, ci racconta pesanti episodi nel rapporto fra giudei e romani:
“...Pilato provocò un altro tumulto impiegando il tesoro sacro, che si chiamava korbonàs, per un acquedotto che faceva arrivare l’acqua da una distanza di cento stadi. La folla ribolliva di sdegno, e una volta che Pilato si trovava a Gerusalemme ne circondò il tribunale con grandi schiamazzi. Quello, che già sapeva della loro intenzione di tumultuare, aveva sparpagliato tra la folla i soldati, armati e vestiti in abiti civili, con l’ordine di non usare le spade, ma di picchiare con bastoni i dimostranti, e ad un certo punto diede il segnale. I giudei furono percossi, e molti morirono per i colpi ricevuti, molti calpestati da loro stessi nel fuggi fuggi...”8.
“...essendosi la folla raccolta a Gerusalemme per la festa degli Azzimi, ed essendosi schierata la coorte romana sopra al portico del tempio - giacché usavano vigilare in armi in occasione delle feste, per evitare che la folla, raccolta insieme, desse inizio a qualche sommossa - uno dei soldati, sollevatatsi la veste ed inchinatosi con mossa indecente, mostrò ai giudei il suo deretano accompagando il gesto con acconcio rumore. La cosa fece imbestialire la folla che con grandi schiamazzi esigeva da Cumano la punizione del soldato, mentre i giovani con la testa più calda e gli elementi per loro natura più ribelli del popolo si gettarono allo sbaraglio e, afferrate delle pietre, le scagliavano contro i soldati. Cumano, temendo di essere assalito dal popolo intero, fece affluire dei rinforzi. Quando questi arrivarono sotto i portici, i giudei furono presi da un panico irresistibile e, volte le spalle, cercavano di fuggire dal tempio verso la città. Ma la stretta della folla che si accalcava nei presi delle uscite fu tale, che più di trentamila persone morirono calpestandosi e schiacciandosi fra loro...”9.
Mentre si cammina nel quartiere arabo, in direzione ovest, magari accompagnati dal canto del muezzin che invita alla preghiera, quasi improvvisamente ci si trova davanti al luogo più sacro per tutto il mondo cristiano: la chiesa del santo sepolcro. Già in zona musulmana si può avvertire la presenza cristiana, infatti fra quelle caratteristiche vie si snoda il percorso della “via crucis”, che parte dalla zona della torre antonia e arriva al santo sepolcro. Qui i residenti sono abituati a veder passare le comitive dei pellegrini, che percorrono la via dolorosa, spesso recando una croce sulla spalla. I pellegrini, guidati dal sacerdote, camminano cantando e si fermano ad ogni stazione, ove recitano una preghiera. Quindi giungono al luogo in cui si sarebbero svolti i fatti fondamentali che sono alla base della fede cristiana: la crocifissione, la morte, la deposizione e, pochi metri più in là, la sepoltura e la resurrezione di Gesù Cristo. Chi pensa di trovare un monte scoperto, come doveva 8
Giuseppe Flavio, La guerra Giudaica, II, 9.
essere l’ambiente reale della crocifissione, o una cripta in un orto, come doveva essere quello della sepoltura, non può che restare deluso: in mezzo alla fittissima città vecchia sorge una chiesa altrettanto fitta e labirintica. Tutto il culto cristiano della passione si svolge al chiuso, fra edifici e costruzioni posteriori, talvolta anche relativamente recenti, che nessuno spazio hanno lasciato all’immaginazione del luogo descritto dal vangelo; tutto all’interno di una sola chiesa. La molteplicità delle confessioni cristiane si palesa in tutta la sua varietà soltanto qui dove giungono, esclusi i protestanti e oltre ai cattolici romani, gli ortodossi della chiesa greca, di quella russa, e delle numerose altre di rito bizantino, i seguaci del rito antiocheno, di quello caldeo, di quello armeno, di quello copto... (per citare solo una parte delle tante suddivisioni della fede cristiana). Per giungere al luogo presunto della crocifissione è necessario salire una breve ma ripida rampa di scale; qui, in una ambientazione di esemplare gusto ortodosso, un crocifisso mostra il Gesù sofferente, sulla croce su cui è appesa la ben nota iscrizione: “Rex Iudaeorum”, “O Basileus ton Ioudaion”, “Wè-Melek ha-Yehudìm” che, nelle tre lingue latina, greca ed ebraica, significa “Il Re dei Giudei”. La scritta e la stessa crocifissione fanno riflettere, perché se dobbiamo dedurre chi fosse colui che faceva chiamare se stesso Cristo, dalle evidenze della crocifissione romana e dell’insegna che era stata posta come motivo della medesima, possiamo trarre una sola conclusione. Si sarebbe trattato di uno dei numerosi interpreti delle profezie messianiche sulla ricostruzione del Regno di Israele. Il quale vantava una dignità regale. Aveva invitato il popolo a seguirlo in questo progetto di rinnovamento politico e religioso. Metteva seriamente in pericolo la sicurezza del paese col suo movimento. Aveva sollevato discussioni sulla questione del tributo, esattamente come Giuda il galileo10. Che era stato arrestato, processato, condannato e giustiziato dai romani con una tipica esecuzione riservata ai ribelli. Esattamente come tutti gli altri che avevano fatto la stessa cosa: dagli zeloti di Giuda il Galileo, al profeta egiziano, di cui parla Giuseppe Flavio, a Giacomo e Simone figli di Giuda, a Teuda, a Menahem, a Eleazar ben Jair, a Simon bar Kokhba. Nella parte ovest della città, negli ultimi 60 anni, sono cresciuti i quartieri israeliani, che fanno di Gerusalemme una città perfettamente moderna, con grattacieli, lussuosi hotel, centri commerciali. A meno che non sia iniziato lo Shabbat, Gerusalemme è molto viva e presenta il disturbo tipico di tutte le grandi città: gli ingorghi del traffico. Tanto più che molti automobilisti non sono molto pratici di guida, sono arrivati di recente dall’ex Unione Sovietica, e non hanno mai tenuto un volante fra le mani prima di trovarsi in Israele. 9
Giuseppe Flavio, La Guerra Giudaica, II, 12. “Abbiamo trovato costui che sobillava il nostro popolo, impediva di dare tributi a Cesare e affermava di essere il Cristo re” (Lc XXIII, 2) 10
Nella centrale Ben Yehuda street, che per un tratto è interdetta alla circolazione automobilistica, sono presenti i fast food delle catene americane, ma anche caratteristici negozi di cibo ebraico, dove si possono prendere panini ripieni di verdure piccanti e carne d’agnello arrostita. Tranne il venerdì, la via, nelle ore della sera e fino a tarda notte, è affollata di gente e specialmente di gioventù. Il sabato sera è possibile assistere al prodigio della fine dello Shabbat quando, ad un’ora precisa che è possibile conoscere attraverso i giornali, la radio e la TV, nelle strade spopolate comincia a spuntare la gente, si aprono le botteghe e riprende la vita di sempre, con entusiasmo accentuato dal termine del clima di austerity. Ovunque ci sono fucili mitragliatori a tracolla di giovani, maschi e femmine, in divisa e in borghese. I militari in licenza sono obbligati a portare il mitra con sé, anche quando vestono in borghese, inoltre molti giovani appartengono ad una milizia che pattuglia continuamente le vie. Israele è un paese che vive così, sapendo che in ogni istante può essere colpito, e sempre pronto ad intervenire. In mezzo a questi gendarmi tutto si svolge nella maniera più normale. Ci sono turisti e israeliani, alcuni cantano accompagnandosi con la chitarra, qualcuno batte ritmi africani sui tamburelli, una coppia di distinte signore esegue al violino duetti di Mozart, un mendicante chiede l’elemosina attirando l’attenzione con un malinconico mandolino russo amplificato da un piccolo congegno elettrico. Ai tavolini che occupano i lati della strada siedono persone che consumano in allegria la loro cena. Spesso si notano bacheche dove gli israeliani affiggono bigliettini di annunci, in ebraico, in inglese o, in una buona percentuale, in russo: “kvartira v arendu” (appartamento in affitto). Molti russi sono arrivati negli ultimi anni, e continuano ad arrivare, dopo lo smantellamento dell’Unione Sovietica. Ci sono quartieri di Gerusalemme quasi completamente russi, e cittadine, come la meridionale Beer Sheva, dove la lingua principale parlata per le strade è il russo e dove i negozianti espongono le loro insegne in due lingue: ebraico e russo. “my govorim po-russki” (parliamo in russo) sta scritto sulla porta di molti barbieri, bar, negozi di generi alimentari. Molti di questi immigrati arrivano senza un soldo e senza avere la più pallida idea di dove andranno a vivere e che lavoro faranno. Ma il governo offre loro di andare negli insediamenti ed essi sono costretti ad accettare, perché non hanno alternative. Per alcuni aspetti sono fortunati, perché il villaggio è moderno e le case sono graziose, con tutti i comforts; ma la loro condizione assomiglia a quella degli internati, perché gli insediamenti sono rigorosamente circondati da torrette di avvistamento e da un doppio filo spinato, oltre il quale l’islam preme tutt’intorno, con la carica silenziosa, ma esplicita, del suo odio. In vicinanza di Ben Yehuda street sorge il vecchio mercato centrale, Mahaneh Yehuda, che iniziò ad essere creato fin dal lontano 1887. È un mercato di strada, ma è stato coperto e pavimentato, i lati delle vie sono occupati da chioschi e barrocci. In questo luogo c’è un’atmosfera estremamente
vivace: anche qui, come nel mercatino arabo, odori, suoni e colori coinvolgono tutti i sensi. Spezie, frutti esotici e non, pesci, fra cui quello di San Pietro, dal lago di Tiberiade, polli, bigiotteria, giocattoli; ci sono anche le botteghe degli arrotini e dei ciabattini; molti si sbracciano urlando per richiamare l’attenzione della folla, mentre i barbuti ed austeri hassidim sbirciano e frugano nella mercanzia. Solo l’inizio dello Shabbat, verso il tramonto del venerdì, interrompe improvvisamente il brulichio e lascia che il silenzio cada fra quelle vie strette. In questo luogo, pochi minuti dopo le 13.00 di mercoledì 30 luglio 1997, mentre mi trovavo a Gerusalemme, si è avvicinata una macchina lussuosa da cui sono scesi due uomini ben vestiti, in giacca e cravatta nera, ognuno dei quali portava un’elegante borsa scura in mano. I due hanno camminato con calma mescolandosi nella folla e andando a piazzarsi ai due estremi di una delle vie affollate. Un ultimo sguardo reciproco, poi uno dei due è esploso con indescrivibile fragore facendo saltare in aria la gente tutt’intorno. Mentre brandelli umani volavano dappertutto e fiumi di sangue si mescolavano col tritume degli ortaggi, le persone ancora in grado di reggersi in piedi venivano colte da un panico incontrollabile, le urla perforavano l’aria come spade, un fumo acre e irrespirabile li respingeva. Qualcuno, sgomento, cercava i suoi amici o parenti in quella confusione. I componenti della security, colti di sorpresa non hanno avuto il tempo di reagire, avrebbero voluto sparpagliare la gente, per evitare ulteriori concentrazioni di folla, ma il caos li aveva completamente travolti e tutti quelli che potevano correvano all’impazzata verso l’altra uscita. Qualcuno cadeva ed era calpestato dal fuggi fuggi generale. L’altro uomo in nero attendeva, con la sua borsa in mano e coi nervi irrigiditi da un’assurda volontà di morte. Quando la ressa impazzita gli era intorno anch’egli è saltato in aria. Venti secondi dopo la prima esplosione, una seconda ha risuonato nel cuore del mercato, altri corpi sono stati improvvisamente lacerati, un’altra nube di fumo ha trasformato la via in un autentico inferno. Pianto, grida, lamenti, terrore, dolore. Quindici cadaveri giacevano fra le macerie insieme a più di cento feriti. Purtroppo i palestinesi che ricorrono alle azioni disperate del terrorismo sono uomini di passione, non uomini di ragione. Non conoscono a fondo la storia, e se la conoscessero saprebbero che ogni eccesso produce l’effetto contrario. In conseguenza di quel gesto i territori occupati sono stati chiusi, la politica interna si è irrigidita, i pendolari sono rimasti a casa senza lavoro, i risarcimenti fiscali ai palestinesi sono stati sospesi, i loro conti nelle banche congelati, i soldati israeliani hanno intensificato gli arresti e le repressioni, spesso si lasciano andare all’insofferenza e maltrattano, tirano calci, torturano, uccidono indiscriminatamente… I protagonisti dell’intifada dovrebbero imparare dal destino antico dei loro stessi nemici, gli ebrei, le cui sette zelotiche, accecate dal fanatismo, hanno causato la disfatta completa della nazione, la
distruzione di Gerusalemme e del tempio, la diaspora, l’ostilità diffusa nei confronti dei giudei e la nascita di una religione che avrebbe favorito lunghi secoli di penoso antisemitismo. Come ci testimonia ancora Giuseppe Flavio, gli zeloti erano soliti compiere imprese terroristiche a danno dei romani e degli ebrei collaborazionisti:
“...in Gerusalemme nacque una nuova forma di banditismo, quella dei cosiddetti sicari, che commettevano assassinii in pieno giorno e nel bel mezzo della città. Era specialmente in occasione delle feste che essi si mescolavano alla folla, nascondendo nella veste piccoli pugnali, e con questi colpivano i loro avversari; poi, quando questi cadevano, gli assassini si univano a quelli che esprimevano il loro orrore e lo facevano così bene da essere creduti... si studiavano da lontano le mosse degli avversari e non ci si fidava nemmeno degli amici che si avvicinavano, ma pur fra tanti sospetti e cautele la gente continuava a morire, tanto era la sveltezza degli assassini e la loro abilità nel non farsi scoprire...”11
“...minacciando di morte chi si sottometteva al dominio dei romani e promettevano che avrebbero fatto fuori con la violenza chi volontariamente si piegava alla schiavitù. Distribuitisi in squadre per il paese, saccheggiavano le case dei signori, che poi uccidevano, e davano alle fiamme i villaggi, si che tutta la Giudea fu piena delle loro gesta efferate...”12.
Il mar morto e il deserto di Giuda Oltre ad offrire una grande varietà di etnie e di culture, Israele possiede un autentico catalogo di paesaggi e di climi. Lasciando Gerusalemme in direzione est e procedendo sulla strada per Gerico, si passa il posto di blocco di Al-Ayzaryiah e, dopo essersi lasciati alle spalle il villaggio palestinese, si scende ininterrottamente per una trentina di chilometri fino ai dintorni di Gerico e alle sponde del mar morto. In meno di mezzora si copre un dislivello di milleduecento metri, passando dagli ottocento sul livello del mare, responsabili del clima mite e gradevole della capitale, ai quattrocento sotto, responsabili di un clima sahariano. Per il turista l’esperienza è sorprendente. Le carte geografiche sono piatte e, per quanto si sforzino di essere realistiche, non possono aiutare più di tanto a comprendere la violenza di certi impatti. Infatti, durante il tragitto, il paesaggio alberato e dolce dei dintorni della città si trasforma 11
Giuseppe Flavio, La Guerra Giudaica, II, 13, 254-260.
rapidamente. In un primo momento si incontrano villaggi palestinesi e insediamenti ebraici. In questi ultimi le casette moderne e ben curate sembrano indicare un benessere che è pesantemente smentito dalla protezione militare: una realtà bunker fatta di fili spinati, torrette e sentinelle armate. Dopo alcuni minuti tutto questo scompare e ci si trova circondati da colline giallastre, levigate, brulle, che fanno venire in mente i passi incerti dei primi astronauti sulla luna. A colmare la sorpresa per la rapidità del cambiamento contribuiscono i numerosi accampamenti beduini. Si stenta a credere che qualcuno abbia potuto scegliere di vivere in questo ambiente, dove non è visibile un corso d’acqua, né un po’ di verde, né, tanto meno, un albero a cui chiedere riparo dal sole. I beduini hanno costruito villaggi di baracche, con pali di legno, teloni, lamiere, cartoni pressati. Alcune donne siedono in terra, all’ombra di misere tettoie. Viene in mente che questi popoli hanno qualcosa in comune con gli esquimesi perché, con loro, condividono condizioni estreme con le quali hanno familiarizzato. 50 gradi sopra zero per gli uni, 50 sotto per gli altri. I primi hanno bisogno di prendere in un solo giorno tutto il sole che prende un europeo in un anno; i secondi hanno bisogno di bruciare in pochi minuti le calorie che in Europa si bruciano in una settimana. Si possono osservare animali che circolano nell’accampamento o nei dintorni, in quei pascoli impossibili. Capre innanzitutto, ma anche asini, cavalli, dromedari. Dopo una prima impressione che il campo sia sudicio, ci si accorge che la sporcizia non esiste in quell’ambiente. Ce n’è molta di più a Gerusalemme o nei villaggi palestinesi. La polvere asciutta del terreno che è stata arrostita dal sole e trasportata dal vento non è sporcizia. Anzi, la stessa Bibbia la riconosce come il materiale più nobile, al punto da essere stata scelta per creare l’umanità. Non ho avuto il coraggio di fotografare i beduini. Avrei dovuto accostare l’auto al bordo della strada, scendere, inquadrare, trattarli come attrazioni del circo. Ho preferito rispettarli e fotografarli semplicemente con la memoria. La loro dignità, per la frugalità con cui vivono dove noi riusciremmo a cavarcela solo con un fuoristrada e un buon rifornimento d’acqua e di viveri, è tale che essi mi sono apparsi come padroni naturali di quella terra, molto più degli stessi palestinesi e degli israeliani. Continuando a scendere il paesaggio diventa ancora più desertico. I pochi fili d’erba gialla si diradano fino a scomparire. Giunge un momento in cui si apre una vista emozionante: la piana di Gerico e del Giordano è distesa in tutta la sua meraviglia con l’aspetto di un paesaggio extraterrestre. Una luce abbagliante irradia nell’atmosfera che vibra di calore. In lontananza, nelle opacità del deserto, si distingue il profilo dei monti della Giordania. Mentre il mar morto, col suo colore azzurro, se ne sta maestosamente tranquillo, come un re nella sala del trono. 12
Idem, 264-265.
Siamo arrivati nel deserto di Giuda, quello in cui la narrazione dei vangeli sinottici ambienta i quaranta giorni di digiuno del Cristo. Qui Giovanni Battista, la cui immagine si avvicina a quella di un asceta esseno, era solito predicare alla gente, sulle rive del fiume Giordano, invitando alla conversione perché, secondo lui, era imminente la venuta del regno. Coerentemente con la visione messianica degli ebrei, Giovanni si riferiva alla tanto attesa ristrutturazione del regno di YHWH, come risultato di una violenta ribellione messianica. Il profeta reclutava nuovi adepti alla causa col tipico rito qumraniano di iniziazione: il battesimo,
“Vedendo però molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: «Razza di vipere! Chi vi ha suggerito di sottrarvi all'ira imminente? Fate dunque frutti degni di conversione, e non crediate di poter dire fra voi: Abbiamo Abramo per padre. Vi dico che Dio può far sorgere figli di Abramo da queste pietre. Già la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco...»”13.
Ben sappiamo che la setta essena era nemica dei sadducei e dei farisei, in quanto contestava ai primi una grave corruzione, dovuta al connubio opportunistico con l’invasore romano, e ai secondi il fatto di avere assunto una posizione di comodo nei confronti della causa messianica. Giovanni, fedele alle concezioni espresse dal “rotolo della guerra”, pronunciava minacce apocalittiche, parlava di un’ira imminente e di alberi non buoni che sarebbero stati tagliati e gettati nel fuoco. Egli, inoltre, annunciava la venuta di qualcuno che “ha in mano il ventilabro, pulirà la sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma brucerà la pula con un fuoco inestinguibile”14;
anche questa volta i toni sono decisamente sinistri, non possiamo riconoscere il clima di misericordia che la tradizione attribuisce al messaggio cristiano, al contrario, si prevede una spietata pulizia da effettuare nel nuovo regno (il granaio), che eliminerà chi non sarà degno di entrarvi (la pula). Questo personaggio annunciato, che in base a quanto detto sopra ha tutte le caratteristiche di un messia, viene battezzato da Giovanni stesso, ovverosia si sottopone al rito ufficiale di ammissione nella setta. “Subito dopo lo Spirito lo sospinse nel deserto e vi rimase quaranta giorni”15.
13
Mt III, 7-10 Mt III, 12. 15 Mc I, 12-13. 14
Dobbiamo immaginare un’ascesi solitaria? O il fatto di fermarsi nel deserto appena dopo essere stato ammesso nella confraternita e di rimanervi a lungo implica la permanenza di Gesù nel ritiro qumraniano, che sorgeva proprio in quei paraggi? Un tardo pomeriggio, nella regione del deserto di Giuda, ho provato a deviare dalla strada che unisce Gerusalemme col mar morto e ho preso una via che si insinua in piena wilderness (zona selvaggia), lontano da qualsiasi centro abitato. La carreggiata non era neanche segnata sulla mappa. Il paesaggio era di una bellezza indescrivibile, anche se il suo aspetto incuteva un certo timore; che sarebbe successo se la macchina avesse deciso di guastarsi? Non credo che sia piacevole, e nemmeno molto sano, per un cittadino poco avvezzo a questi climi, fare alcuni chilometri a piedi sotto l’incudine del sole, dove non esiste alcuna traccia di riparo ombroso. Intorno era tutto un susseguirsi di dossi rotondegianti, lavorati dal vento e dalle scarse piogge, i colori principali erano il grigio e il giallo sotto il blu del cielo, i fili d’erba rarissimi, e irrimediabilmente secchi. Camminando su quel suolo si capisce che non si tratta di terra, e nemmeno di roccia. È fango secco, molto duro ma facilmente riducibile in polvere. Trattandosi di un’ora non lontana dal tramonto, la luce radente esaltava le forme del paesaggio e lo rendeva ancor più affascinante. Ho cercato di proseguire ma, ad un certo punto, ho incontrato un cartello che intimava l’alt. Subito dopo la curva un doppio recinto di filo spinato delimitava una postazione militare israeliana, con tanto di mezzi corazzati. Ho immediatamente fatto dietro front e sono tornato sui miei passi. L’incontro costituiva quanto di meno rassicurante si potesse immaginare in quel momento. Una deliziosa perla nel quadro desertico è il piccolo centro di Nabi Musa. Molti turisti se la lasciano sfuggire per la posizione seminascosta nel panorama visibile da chi percorre la strada da Gerusalemme a Gerico. Infatti c’è un solo punto in cui, rintanata fra i colli spogli, appare una visione fantastica che sembra un fondale da presepe, di quelli che si comprano in cartoleria e si attaccano al muro, nel quale sono illustrate alcune palme, edifici in stile arabo con le cupole bianche, e tante stelle che brillano nel cielo blu. Si tratta di una moschea in cui la tradizione islamica individua la tomba di Mosè, il profeta che i musulmani amano non meno degli ebrei. La ragione della mia discesa all’area del mar morto non aveva carattere semplicemente turistico, lo scopo principale era quello di visitare Khirbet Qumran, Ain Feksha, En Gedi e Masada. Sono tutti luoghi che, in un modo o nell’altro, hanno qualcosa a che fare con la vita di Gesù. Il primo divenne improvvisamente famoso negli anni ’40 del secolo scorso, quando casualmente vi furono trovate delle grotte contenenti importanti reperti archeologici. Si trattava di giare di terracotta in cui erano chiusi antichi rotoli di carta pecora, pieni di iscrizioni in ebraico antico. L’avventura dei documenti costituì un autentico giallo internazionale16, nel quale il vaticano ebbe un ruolo fondamentale, se 16
Vedi Baigent-Leigh, Il Mistero del Mar Morto, Marco Tropea Editore.
non altro per aver tenuto sotto sequestro i manoscritti per un periodo interminabile, fra le proteste della comunità accademica internazionale. Il timore era probabilmente quello che potessero contenere elementi critici nei confronti della dottrina storica del cristianesimo. Gli autori dei documenti sembrano essere quegli esseni di cui, fino a quel momento, si conosceva l’esistenza attraverso gli scritti di Giuseppe Flavio e Filone Alessandrino. In base alle loro testimonianze si pensava che si trattasse di una setta religiosa ebraica, una comunità ascetica dedita quasi esclusivamente alla preghiera e alla vita monastica. In realtà i manoscritti di Qumran rappresentano una produzione durata un paio di secoli, dal 168 a.C, quando nacque la comunità essena, al 68 d.C., quando fu distrutta dai romani. Può esserci stata un’ultima eventualità dopo un’altra settantina d’anni, nel 135, durante la rivolta di Simon bar Kokhba. Le opinioni degli studiosi riguardo alla comunità che occupava il sito di Khirbet Qumran sono molto varie e persino discordanti. L’indirizzo cristiano cattolico esclude ogni importante relazione con la chiesa primitiva, forte di evidenti divergenze fra le concezioni espresse nei documenti del mar morto e il messaggio dei vangeli canonici. Ma è molto curioso che, accanto a queste distanze, ci siano anche straordinari collegamenti occasionali (linguaggi, terminologie, pratiche e insegnamenti) che non si potrebbero spiegare senza ammettere una connessione e che generano contraddizioni alquanto enigmatiche. In ogni caso, l’osservanza rigorosa delle regole di purità ebraiche mal si concilia con l’elasticità dottrinale del Gesù evangelico, che infrange i divieti del sabato e siede a tavola con gli impuri e coi gentili. Per non parlare poi del fatto che il cristianesimo, ad un certo punto, si è configurato come religione extragiudaica. Mai gli esseni avrebbero potuto pensare una scissione dalla loro religione madre o all’idea che Gesù fosse un’incarnazione divina. Dall’altro lato esistono molti studiosi, di cui uno dei più decisi sembra essere il professor Robert Eisenman della University of California, che vedono un legame fortissimo, praticamente un’identità, fra il movimento giudeo cristiano immediatamente successivo alla crocifissione di Gesù e la comunità qumraniana (si parla quindi del periodo centrale del I secolo d.C.). Il capo della setta sarebbe stato Giacomo, fratello di Cristo, e la sua causa avrebbe avuto un carattere decisamente messianico. Personalmente credo che, nei due secoli di occupazione dell’insediamento di Khirbet Qumran, le caratteristiche della setta siano andate evolvendo e non possiamo immaginare che il termine “esseni” indichi una realtà immobile e sempre uguale a se stessa. Tanto più che un tremendo terremoto, che ha colpito la zona nel 31 a.C. distruggendo buona parte degli edifici e causando un temporaneo spopolamento, costituisce un fattore oggettivo di discontinuità. Nel periodo in cui la giudea fu governata da procuratori romani (dal 7 al 70 d.C.), la comunità assunse un carattere spiccatamente zelotico e, dopo l’esecuzione di Cristo, gli esseni potrebbero essere stati proprio quei
nazareni (nozrim in ebraico), o ebioniti (ebionim = poveri), che rappresentavano la setta ebraica autrice dei perduti vangeli giudeo cristiani (vangelo degli ebrei, dei nazareni, degli ebioniti), in grave disaccordo col fariseo Shaul di Tarso (San Paolo)17. È certo che il “rotolo della guerra”, tra i documenti qumraniani, ha un carattere non solo inequivocabilmente messianico, ma costituisce un manifesto della lotta zelotica che talvolta echeggia le note minacciose della cosiddetta apocalisse di Giovanni. In esso si auspica che i Kittim (i romani) siano sconfitti da un esercito benedetto da YHWH, e con essi siano distrutti tutti i giudei indegni che si sono compromessi con gli invasori. Come si concilierebbe la letteratura cristiana col pensiero esseno? Come possono essere superati gli inequivocabili contrasti di principio che, se non spiegati, rendono insufficienti i punti di contatto e separano irrimediabilmente il Gesù evangelico dalla comunità qumraniana? La risposta non è così difficile come sembra, anche se richiede una comprensione approfondita della dinamica che ha portato alla nascita della fede cristiana come spiritualità extragiudaica e, soprattutto, necessita di una condizione culturale scevra da pregiudizi di qualunque natura. L’elemento decisivo consiste nel dare la giusta importanza al conflitto originario che ha visto i giudeo cristiani da una parte e San Paolo coi suoi discepoli dall’altra. Questo è il nodo della matassa da sciogliere, perché è il punto di partenza dell’immagine di Gesù discordante con la figura messianica che, con tutta probabilità, ha rappresentato nella realtà storica. San Paolo, viaggiando attraverso il mediterraneo, principalmente per motivi professionali e secondariamente per motivi di proselitismo, ha interloquito con un mondo lontano dalla realtà palestinese e dai settarismi che fiorivano intorno a Gerusalemme. Qui egli ha potuto ridipingere la figura del salvatore usando immagini e idee che avrebbe potuto essere accolte, per il semplice fatto che appartenevano già alla cultura religiosa dei popoli mediterranei. Sappiamo bene quanto si siano opposti alla predicazione di San Paolo personaggi come Pietro e Giacomo. La comprensione di questo conflitto, che vede da una parte il fondamentalismo esseno zelota, e dall’altra il libero sincretismo paolino, è fortemente ostacolata da opere come gli “atti degli apostoli”, che furono composte col preciso scopo di ricucire artificiosamente uno strappo che non si è mai saldato, facendo credere che Paolo rappresentasse il vero Gesù e che gli apostoli ebrei fossero culturalmente limitati nel non comprendere il respiro universalistico del messaggio del loro maestro. Ammettendo che questa sia la dinamica storica del cristianesimo primitivo, allora non solo si giustifica la divergenza fra il messia qumraniano e il Gesù evangelico, ma si chiariscono tanti altri
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Di questi vangeli perduti abbiamo solo alcune citazioni denigratorie effettuate dai padri della chiesa (Ireneo, Eusebio, Epifanio, Gerolamo, Origene, Teodoreto), i quali ci forniscono, loro malgrado, preziose informazioni.
aspetti del mistero evangelico. E le sabbie assolate della sponda nord occidentale del mar morto tornano ad essere la culla primitiva del cristianesimo.
Betlemme A breve distanza da Gerusalemme, non più di dieci chilometri in direzione sud, si trova una delle mete più care ai pellegrini cristiani: Betlemme. Si tratta di una città di dimensioni tutt’altro che modeste, sede di un’università, in pieno territorio palestinese occupato. Del resto il suo carattere musulmano è inconfondibile. Per raggiungerla bisogna attraversare un posto di blocco a sud di Gerusalemme, uno dei più rigorosi, dove i militari israeliani eseguono accurati controlli. Da qui, procedendo ancora più a sud, si va verso Hebron, una delle zone politicamente più calde. Anche Betlemme è considerata dagli israeliani come un luogo sospetto, probabile nascondiglio di attivisti palestinesi. La città è molto vecchia, il suo nome, Beth Lehem, significa “casa del pane”, generalmente associato col termine Efrata, ma potrebbe trattarsi dell’adattamento di un nome più antico, Beth Lahamu, che si riferisce ad una divinità babilonese adorata dai cananei. Di Betlemme si parla già nel libro della Genesi a proposito della sepoltura di Rachele, ed anche nei libri di Rut e di Samuele. La sua principale caratteristica storica, oltre al fatto di essere la sede presunta della nascita di Gesù, è quella di avere dato i natali, circa tremila anni fa, al famoso Davide, figlio di Isai (Jesse), che fu unto re da Samuele e creò un regno comprendente tutte e dodici le tribù, con capitale Gerusalemme. Questo fatto ha lasciato sulla città un’importante eredità perché, da quando hanno cominciato a svilupparsi le prime profezie messianiche sul ritorno di un re liberatore, Betlemme è sempre stata considerata la città in cui avrebbe dovuto nascere il messia atteso.
“E tu, Betlemme di Efrata così piccola per essere fra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall'antichità, dai giorni più remoti”18,
così recita un passo di Michea. Questa profezia è stata ripresa anche dal redattore della natività che apre il Vangelo di Matteo con queste parole:
“Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode. Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandavano: «Dov'è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo». All'udire queste parole, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, s'informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Messia. Gli risposero: «A Betlemme 18
Mi V, 1.
di Giudea, perchè così è scritto per mezzo del profeta: E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero il più piccolo capoluogo di Giuda: da te uscirà infatti un capo che pascerà il mio popolo, Israele.”19
I pellegrini si recano dunque alla basilica della natività, all’interno della quale si aprono due porte bronzee, risalenti al tempo dei crociati, che consentono di scendere nella grotta della Nnatività, attualmente gestita dai cristiani ortodossi di rito greco. Qui è possibile ammirare una lastra di marmo nella quale una stella d’argento a quattordici punte indica il luogo esatto in cui sarebbe nato Gesù. Consultando vecchie redazioni dei testi evangelici, si comprende che il testo moderno è stato spesso censurato, specialmente nelle parti da cui si potrebbe dedurre che Giuseppe e Maria hanno avuto più di un figlio. Infatti, se nel testo lucano moderno è stata lasciata l’espressione “diede alla luce il suo figlio primogenito”20,
in quello di Matteo compare la frase “...la quale, senza che egli la conoscesse, partorì un figlio, che egli chiamò Gesù...”21
che è la riduzione di quanto appariva invece nei testi antichi:
“...et non cognoscebat eam donec peperit filium suum primogenitum: et vocavit eius Iesum...”,
che si traduce:
“...e non la conobbe (ovverosia: non ebbe con lei rapporto carnale) finché ella non ebbe partorito il suo figlio primogenito: e lo chiamò Gesù...”.
Innanzitutto noteremo la scomparsa della parola “primogenito”, molto fastidiosa perché turba l’idea che Gesù sia l’unico figlio. Inoltre dobbiamo convenire che dall’espressione “senza che egli la
19
Mt II, 1-6. Lc II, 7. 21 Mt I, 25. 20
conoscesse” a “non la conobbe finché...” c’è un totale ribaltamento del concetto. Il fatto si commenta da solo. Che Gesù sia nato a Betlemme è solo una simpatica leggenda, riconosciuta come tale anche dagli esegeti cristiani, introdotta dai redattori dei vangeli i quali erano legati alla necessità di accreditare una dignità messianica alla persona Gesù. Del resto, la lettura delle uniche due natività presenti nel nuovo testamento, cioè nei vangeli secondo Matteo e Luca, rivela una tale serie di incongruenze e di contraddizioni da rendere palese l’intento apologetico degli autori, ai quali non interessava raccontare fatti storici bensì, attraverso requisiti di nascita e adempimenti di profezie, attribuire a Gesù determinate qualità teologiche. Matteo, per esempio, ha insistito molto sulla personalità regale del personaggio, l’abbiamo visto con la citazione di cui sopra, in cui si dice chiaramente che Gesù avrebbe dovuto essere il re dei giudei. Proprio per questo motivo Erode si sarebbe preoccupato che qualcuno potesse spodestare lui e la sua famiglia dal trono di Israele a avrebbe cercato di far eliminare il bambino. La presunta persecuzione del re bambino a cui compete una missione di salvezza, che riprende un cliché molto in voga nelle religioni più vecchie del cristianesimo, e il massacro dei bambini di Betlemme non hanno alcun riscontro storico, tutt’al più possono essere considerati come riflessi della crudeltà con cui era solito regnare Erode il Grande. Anche la presunta fuga in Egitto della famiglia perseguitata ha un carattere leggendario che, ancora una volta, corrisponde a vecchie mitologie. Del resto la natività di Luca, sorprendentemente, non fa cenno ad alcuna persecuzione né fuga in Egitto. Secondo il racconto lucano tutto si svolge nella più perfetta tranquillità e il bimbo non solo non viene nascosto, ma viene portato al tempio per la circoncisione pubblica, dove qualcuno lo avrebbe riconosciuto subito come l’atteso messia, senza che questo comportasse l’esposizione al pericolo di essere trovato da Erode. Questo fatto non costituisce l’unica differenza fra le due natività: un’altra riguarda il luogo di residenza della famiglia. Infatti, secondo Matteo, Giuseppe e Maria abitavano a Betlemme prima della fuga in Egitto. Pertanto la famiglia si sarebbe trasferita a Nazareth, per la prima volta nella vita, solo al ritorno dall’esilio egiziano. Gesù, sempre secondo Matteo, fu visitato dai magi nella sua casa di Betlemme, non in una stalla. Luca invece ha dichiarato che i due genitori abitavano a Nazareth fin da prima che il bambino fosse concepito nel ventre della madre e, per farlo nascere a Betlemme, ha escogitato un espediente che non può reggere il confronto critico con l’analisi storica. Egli ha scritto che i genitori, essendo originari di Betlemme, dovettero colà recarsi per essere registrati in occasione del censimento della Palestina che fu effettuato dai romani sotto la supervisione di Publio Sulpicio Quirinio. È una circostanza tristemente famosa. Le cronache storiche ne parlano dettagliatamente informandoci che
essa fu la causa di una sanguinosa rivolta antiromana, nel corso della quale fu ucciso anche il capo zelota Giuda il galileo. Con questa affermazione del vangelo lucano un colossale abisso di inconciliabilità si apre nei confronti della natività di Matteo che, evidentemente, Luca non conosceva. Innanzitutto il censimento suddetto si è svolto nel 7 d.C., undici anni dopo la morte di Erode il Grande, sotto il cui regno, se dobbiamo credere a Matteo, avrebbe dovuto nascere Gesù ed essere perseguitato. Ecco perché Luca non fa cenno alla persecuzione da parte di Erode il grande. Come avrebbe potuto, avendo ambientato la nascita di Gesù in un periodo in cui non solo non c’era più il sovrano, ma addirittura era già stato deposto anche suo figlio Archelao e sostituito con un praefectus romano? È inaccettabile l’idea che i romani si aspettassero dagli ebrei che questi si presentassero spontaneamente per la registrazione. Addirittura, come nel caso di Giuseppe e Maria, facendo un viaggio di 150 chilometri per raggiungere i villaggi di origine della famiglia. Infatti i vangeli ci parlano dei pubblicani, tanto disprezzati da Gesù, ovverosia degli ebrei buoni conoscitori della loro terra e dei loro simili, a cui i romani si affidavano per trovare i capifamiglia là dove abitavano, per censirli e far loro pagare le tasse. E, a rendere ancor più inverosimile il racconto lucano, c’è la circostanza descritta per la nascita del bambino: se i genitori avessero dovuto recarsi a Betlemme in quanto città di origine, per quale motivo non avrebbero trovato fratelli, né parenti, né amici di alcun genere, che potessero evitare alla giovane donna di partorire fra le bestie di un serraglio? Il racconto lucano non solo non dimostra che Betlemme fosse la città di Maria e Giuseppe, al contrario, fa capire che quel luogo era loro totalmente estraneo. L’ultima differenza fra i due racconti, di cui vogliamo parlare adesso, è quella che riguarda le genealogie. I due autori, infatti, pressati dalla necessità di attribuire a Gesù ben autorevoli requisiti, si sono sentiti in dovere, ciascuno per conto proprio, di redigere gli alberi genealogici del bambino. Matteo si è concentrato su una personalità regale e ha creato una lista in cui, fra Abramo e Gesù, sono contenuti tre volte quattordici nomi, per un totale di quarantadue, fra i quali compaiono tutti i re dei giudei. Luca, invece, concentratosi su una personalità sacerdotale, ha creato una lista in cui, fra Abramo e Gesù, sono contenuti quattro volte quattordici nomi, per un totale di cinquantasei, fra i quali compaiono importanti sacerdoti. In particolare, nel tratto che va da Davide a Gesù, i nomi sono completamente diversi rispetto a quelli elencati da Matteo. L’unica conclusione che possiamo trarre è che la redazione delle natività è stata caratterizzata dalla necessità apologetica di rappresentare una figura dotata di caratteristiche messianiche, che riprende modelli leggendari appartenenti ad altri popoli e molto più vecchi della letteratura cristiana.
Un gesto devozionale Accadde una sera che Gesù fu invitato nella casa di un fariseo di nome Simone, in occasione di un banchetto al quale erano presenti numerose persone. L’episodio è riportato nel Vangelo secondo Luca, alla fine del settimo capitolo22. Non sappiamo né dove, né quando si sarebbe svolto il fatto. Sappiamo solo che Gesù accettò e si sedette a tavola, fra gli altri commensali. Improvvisamente, nel corso del convivio, irruppe sulla scena una donna definita semplicemente “una peccatrice di quella città”23.
Era intervenuta di proposito perché aveva saputo che il maestro si trovava in quella casa, ed era accorsa portando con sé “un vasetto di olio profumato”24.
A voler essere precisi le versioni greche e latine del testo lucano non riportano l’espressione “un vasetto di olio profumato”, che lascia immaginare un oggetto di modesto valore, ma specificano: "αλαβαστρων µυπου", "attulit alabastrum unguenti"25.
L’ignota signora aveva con sé un prezioso vaso d’alabastro pieno di unguento. Sembra che i traduttori abbiano preferito svilire l’immagine di quell’oggetto.
22
[Lc VII, 36] Uno dei farisei lo invitò a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola. [37]Ed ecco una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, venne con un vasetto di olio profumato; [38]e fermatasi dietro si rannicchiò piangendo ai piedi di lui e cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato. [39]A quella vista il fariseo che l'aveva invitato pensò tra sè. «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice». [40]Gesù allora gli disse: «Simone, ho una cosa da dirti». Ed egli: «Maestro, dì pure». [41]«Un creditore aveva due debitori: l'uno gli doveva cinquecento denari, l'altro cinquanta. [42]Non avendo essi da restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi dunque di loro lo amerà di più?». [43]Simone rispose: «Suppongo quello a cui ha condonato di più». Gli disse Gesù: «Hai giudicato bene». [44]E volgendosi verso la donna, disse a Simone: «Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e tu non m'hai dato l'acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. [45]Tu non mi hai dato un bacio, lei invece da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i piedi. [46]Tu non mi hai cosparso il capo di olio profumato, ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi. [47]Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, poichè ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco». [48]Poi disse a lei: «Ti sono perdonati i tuoi peccati». [49]Allora i commensali cominciarono a dire tra sè: «Chi è quest'uomo che perdona anche i peccati?». [50]Ma egli disse alla donna: «La tua fede ti ha salvata; và in pace!». 23 Lc VII, 37. 24 idem 25 Novum Testamentum Graece et Latine, a cura di E. Nestle, Stuttgart, 1957.
È singolare che costei sia entrata nella casa del fariseo durante un banchetto cui partecipavano molti invitati, pur essendo nota come una peccatrice di quel villaggio. Dobbiamo forse intenderla come una prostituta? Tanto più che il padrone di casa domandò se Gesù fosse al corrente di “chi e che specie di donna è colei che lo tocca”26.
Una frase decisamente severa. Ma ella, del tutto incontrastata, si era chinata ai piedi del maestro, li aveva unti con l’olio profumato e poi, piangendo, si era messa ad asciugarli coi suoi stessi capelli. Un gesto di semplice devozione? Ambientato in una situazione che, comunque, ci lascia abbastanza perplessi. Non foss’altro perché la donna poco stimata era stata accolta nella casa del fariseo Simone e si era presa grandi libertà nei confronti di un onorevole convitato. Inoltre, era possibile che una vile popolana possedesse un oggetto così prezioso? Ma ecco che i presenti, dopo averla lasciata fare sino a quel momento, espressero alcune osservazioni. A cominciare dal fariseo Simone, il quale mise in dubbio l’autorità dello stesso Gesù, deplorando che si lasciasse toccare da una femmina comunemente disprezzata. Gesù non mancò di rispondere prontamente assumendo le difese della donna. Questa, secondo l’interpretazione cattolica, deve essere identificata come Maria Maddalena. Anche perché un attimo dopo lo stesso evangelista Luca cita “Maria Maddalena, dalla quale erano usciti sette demoni”27.
Stando ai vangeli secondo Marco e Matteo, Gesù, pochi giorni prima della fatidica pèsach, sarebbe stato invitato ad un banchetto nella casa di un certo Simone, questa volta definito “lebbroso” e non “fariseo”. I due racconti sono praticamente identici28, utilizzano quasi le stesse parole29. Anche qui, nel corso del convito, apparve improvvisamente una donna che recava un 26
Lc VII, 39. Lc VIII, 2. 28 [Mc XIV, 3] Gesù si trovava a Betània nella casa di Simone il lebbroso. Mentre stava a mensa, giunse una donna con un vasetto di alabastro, pieno di olio profumato di nardo genuino di gran valore; ruppe il vasetto di alabastro e versò l'unguento sul suo capo. [4]Ci furono alcuni che si sdegnarono fra di loro: «Perchè tutto questo spreco di olio profumato? [5]Si poteva benissimo vendere quest'olio a più di trecento denari e darli ai poveri!». Ed erano infuriati contro di lei. [6]Allora Gesù disse: «Lasciatela stare; perchè le date fastidio? Ella ha compiuto verso di me un'opera buona; [7]i poveri infatti li avete sempre con voi e potete beneficarli quando volete, me invece non mi avete sempre. [8]Essa ha fatto ciò ch'era in suo potere, ungendo in anticipo il mio corpo per la sepoltura. [9]In verità vi dico che dovunque, in tutto il mondo, sarà annunziato il vangelo, si racconterà pure in suo ricordo ciò che ella ha fatto». [10]Allora Giuda Iscariota, uno dei Dodici, si recò dai sommi sacerdoti, per consegnare loro Gesù. [11]Quelli all'udirlo si rallegrarono e promisero di dargli denaro. Ed egli cercava l'occasione opportuna per consegnarlo. 29 [Mt XXVI, 6] Mentre Gesù si trovava a Betània, in casa di Simone il lebbroso, [7]gli si avvicinò una donna con un vaso di alabastro di olio profumato molto prezioso, e glielo versò sul capo mentre stava a mensa. [8]I discepoli vedendo ciò si sdegnarono e dissero: «Perchè questo spreco? [9]Lo si poteva vendere a caro prezzo per darlo ai 27
“vasetto di alabastro di olio profumato di nardo genuino di gran valore”30.
Sembra che le donne ebree possedessero comunemente oggetti pregiati di questo genere. Ella “glielo versò sul capo mentre stava a mensa”31 (con riferimento a Gesù).
Il gesto assomiglia molto a quello che abbiamo visto nel racconto lucano, anche se in quel caso sembra essersi svolto molto prima della pèsach in cui Gesù fu condannato. Inoltre dal racconto lucano la donna può essere identificata nella persona di Maria Maddalena, mentre Marco e Matteo la lasciano del tutto anonima. La conclusione, in ogni caso, è sempre la stessa: i presenti si sdegnarono per il gesto della donna e Gesù ne prese incondizionatamente le difese. È credibile che l’episodio sia doppio, praticamente con lo stesso sviluppo dei fatti, sempre nella casa di un certo Simone? Perché i traduttori del vangelo di Luca hanno censurato l’alabastro, quasi a voler differenziare questo brano da quello dei vangeli di Marco e di Matteo? Un contributo essenziale al chiarimento della questione ci è offerto dal vangelo secondo Giovanni32. Anche qui infatti si parla di un banchetto cui era stato invitato Gesù, nel corso del quale sopraggiunse una donna che
“presa una libbra di olio profumato di vero nardo, assai prezioso, cosparse i piedi di Gesù e li asciugò coi suoi capelli”33.
poveri!». [10]Ma Gesù, accortosene, disse loro: «Perchè infastidite questa donna? Essa ha compiuto un'azione buona verso di me. [11]I poveri infatti li avete sempre con voi, me, invece, non sempre mi avete. [12]Versando questo olio sul mio corpo, lo ha fatto in vista della mia sepoltura. [13]In verità vi dico: dovunque sarà predicato questo vangelo, nel mondo intero, sarà detto anche ciò che essa ha fatto, in ricordo di lei». [14]Allora uno dei Dodici, chiamato Giuda Iscariota, andò dai sommi sacerdoti [15]e disse: «Quanto mi volete dare perchè io ve lo consegni?». E quelli gli fissarono trenta monete d'argento. [16]Da quel momento cercava l'occasione propizia per consegnarlo. 30 Mc XIV, 3. 31 Mt XXVI, 7. 32 [Gv XII ,1] Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betània, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti. [2]E qui gli fecero una cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali. [3]Maria allora, presa una libbra di olio profumato di vero nardo, assai prezioso, cosparse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì del profumo dell'unguento. [4]Allora Giuda Iscariota, uno dei suoi discepoli, che doveva poi tradirlo, disse: [5]«Perché quest'olio profumato non si è venduto per trecento denari per poi darli ai poveri?». [6]Questo egli disse non perché gl'importasse dei poveri, ma perché era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro. [7]Gesù allora disse: «Lasciala fare, perché lo conservi per il giorno della mia sepoltura. [8]I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me». [9]Intanto la gran folla di Giudei venne a sapere che Gesù si trovava là, e accorse non solo per Gesù, ma anche per vedere Lazzaro che egli aveva risuscitato dai morti. [10]I sommi sacerdoti allora deliberarono di uccidere anche Lazzaro, [11]perché molti Giudei se ne andavano a causa di lui e credevano in Gesù. 33 Gv XII, 3.
La scena contiene caratteri che collegano il racconto lucano a quello degli altri due evangelisti sinottici. Come nella versione di Marco e Matteo, si tratta di olio di nardo, molto prezioso. Come nella versione di Luca, il profumo sarebbe stato versato sui piedi e asciugato coi capelli della donna. La convinzione che, in tutti i casi, si stia parlando dello stesso episodio, si fa piuttosto plausibile. Anche perché la conclusione non cambia nemmeno nella versione giovannea: i presenti si indignarono, criticarono Gesù e la donna, il maestro ne prese energicamente le difese. Che difficoltà ci può essere ad ammettere che Luca ha semplicemente anticipato il fatto nella narrazione evangelica? La risposta a questa domanda ci giunge nel momento in cui, leggendo attentamente la versione giovannea, notiamo che essa contiene un’identificazione precisa del tempo, del luogo e dei personaggi. Il tempo è sei giorni prima della pèsach alla cui vigilia Gesù fu condannato. In particolare il banchetto si sarebbe svolto nel giorno precedente il suo ingresso messianico in Gerusalemme, quando la gente lo accolse come il liberatore messianico “figlio di Davide”. Mancava pochissimo alla sua crocifissione. Il luogo è il villaggio di Betania, a poco più di mezz’ora di cammino dalla città santa. I personaggi del convivio sono Lazzaro “che egli aveva risuscitato dai morti”34, nonché le sorelle di lui, Marta e Maria. Proprio quest’ultima sarebbe stata la protagonista del gesto. Normalmente la tradizione cristiana è solita chiamarla “Maria di Betania”. La difficoltà consiste nel fatto che le donne col vasetto d’alabastro sarebbero state, secondo la tradizione cristiana, Maria Maddalena nel racconto lucano e Maria di Betania nel racconto degli altri tre evangelisti. Ammettere l’identità degli episodi significherebbe ammettere l’identità delle due Marie. Significherebbe scoprire che Maria Maddalena, o Maria di Magdala come a volte è definita, la donna che era accorsa al sepolcro ed aveva visto per prima il maestro risorto, altri non era che la sorella di Lazzaro e di Marta, abitante nel villaggio di Betania35. Dopo questi confronti e queste considerazioni ci rendiamo conto che è troppo sbrigativo ammettere che per due volte si sia compiuto l’episodio dell’unzione, con modalità identiche ma con protagoniste diverse, e che in entrambe le circostanze (se di due circostanze si tratta) il significato sia stato semplicemente quello di un gesto devozionale. Comprendiamo quanto sia necessario approfondire l’importanza del villaggio di Betania nella vita di Cristo, e della famiglia che lo accoglieva nella sua casa come fosse stato un parente.
34
Gv XII, 1. “La liturgia latina (diversamente da quella greca) identifica questa Maria Maddalena con Maria di Betania, sorella di Marta e Lazzaro, e con la peccatrice anonima di cui parla Luca (Lc VII, 36-50) festeggiandola il 22 luglio” Dalla voce “Maria Maddalena, Santa” Grande Dizionario Enciclopedico UTET, a cura di Fedele.
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Al Ayzariyah (Betania) Salendo a est di Gerusalemme, per le ripide vie del monte degli ulivi, in breve tempo si giunge alla sommità, dalla quale si può ammirare una stupenda veduta sulla città. La spianata del tempio, la moschea d’oro, le cupole del santo sepolcro e, oltre, i grattacieli della Gerusalemme moderna. Tutto si stende sotto lo sguardo in un panorama di grande respiro. Al giorno d’oggi ci vuole poco per accorgersi che questa è zona palestinese. Iniziando a percorrere le strade che dalla cima del monte scendono verso oriente, si nota la prevalenza di popolazione musulmana, anche se i fianchi della collina sono costellati di conventi e chiese cattoliche. Percorrevo a piedi questo cammino nell’estate del 1997 in cerca del villaggio di Al Ayzariyah (casa di Lazzaro), che il Vangelo chiama Betania (casa di Anania), un luogo importante nella vita e negli spostamenti di Gesù. Sembra infatti che egli ci abitasse nei periodi di visita alla capitale; probabilmente presso la famiglia di Lazzaro, l’uomo che avrebbe ricevuto da Gesù una iniziazione superiore. Qui il maestro avrebbe seccato un fico colpevole di non avergli dato niente da mangiare36. Qui si sarebbe svolto l’episodio della cena con la deprecata unzione. In realtà il villaggio di Betania è una chiave di lettura fondamentale della vicenda di Cristo, tanto che a suo riguardo gli evangelisti hanno svolto severe operazioni di censura. Per esempio i redattori sinottici hanno eliminato Lazzaro dalla narrazione con tutta la sua famiglia, e hanno ridotto l’importanza del villaggio, facendolo apparire come una località occasionale senza particolare rilievo nella vita di Gesù. Non si commetta l’errore di sottovalutare questi fatti ma, al contrario, ci si renda conto delle loro importanti implicazioni. Erano le prime ore del pomeriggio mentre scendevo sul versante est del colle. Il canto del muezzin si spargeva in quel cielo bruciato e il sole picchiava con tutta la forza dell’estate palestinese. Non credetti ai miei occhi nel vedere improvvisamente un cartello, scritto in modo rudimentale, che indicava: “Lazarus’ tomb”. Ero arrivato a Betania. In realtà mi trovavo in un tipico villaggio palestinese: case bianche, quadrate, disadorne e sparpagliate senza un piano urbanistico; rifiuti disseminati tutt’intorno; campi di erba gialla; auto sgangherate posteggiate alla rinfusa; qualche cane randagio che vagava per le vie. A ridosso della tomba di Lazzaro, lungo una strada in discesa, c’era una piccola ma graziosa moschea. Mi sono affacciato sul presunto loculo e ho riconosciuto il trabocchetto per i turisti: una cavità posticcia scendeva nel sottosuolo, una ripida scala si inerpicava in questo budello illuminato da qualche misera lampadina. Accanto si trovava un negozietto di souvenirs. Il padrone mi aveva già individuato e domandava insistentemente: - Italiano? Italiano? -. 36
Mc XI, 12-14.
Se veramente volevo vedere Betania, il villaggio di cui si parla nel vangelo, non mi restava che chiudere gli occhi e lasciare che fosse l’immaginazione a cancellare le automobili e le strade asfaltate, sostituendole con abitazioni antiche, all’ombra dei fichi, degli ulivi e delle viti, immerse nel silenzio del pomeriggio estivo, fra i belati delle capre e l’odore delle stalle. La Betania di oggi, tranne l’ubicazione, non ha niente della Betania di Gesù. In seguito ho ripreso il cammino del ritorno senza risalire la sommità del monte, bensì seguendo il percorso più breve, dove probabilmente passava Gesù, quando di mattina lasciava il villaggio in cui aveva trascorso la notte e raggiungeva Gerusalemme. Qui, lungo la fiancata meridionale del monte degli ulivi, c’è un punto in cui lo sguardo si apre nuovamente a ovest, sulla città santa, e il muro orientale del tempio è di nuovo visibile. Quando gli ebrei ortodossi del tempo presente osservano questo panorama, forse sono portati a voltarsi dall’altra parte, per risparmiarsi l’ennesima pena di constatare che là, dove sorgeva il tempio di Salomone e, mille anni dopo, il secondo tempio edificato da Erode, oggi domina la cupola d’oro della moschea della roccia. Si tratta, ai loro occhi, di una pesante profanazione: un dio e un culto estranei hanno stabilito la loro dimora nel cuore di Israele. Qualcosa di simile deve avere provato duemila anni fa l’uomo che alcuni giudei consideravano l’atteso messia, mentre muoveva i suoi passi su quella via e gli appariva la visione del tempio, in tutta la maestosa bellezza del paesaggio, invaso dai soldati romani, nonché da sacerdoti conniventi con gli occupatori che facevano da padroni nella casa del Signore. Eppure, alla vigilia di quella fatidica pèsach, i pellegrini del popolo erano accorsi a decine di migliaia dai più lontani angoli del paese, accampati intorno a quel tempio profanato, in procinto di lasciarsi raggirare da ministri indegni, i sadducei, che si spacciavano per maestri della sapienza di Israele mentre stringevano accordi col nemico. Quanto rancore nell’animo del rabbi Gesù! Non era quella la sapienza a cui il popolo doveva attingere, non era quello l’albero di cui doveva mangiare i frutti. Si trattava di una pianta arida, di una casta sacerdotale senza giusta autorità. Allora gli venne in mente il “Rotolo della guerra dei figli della luce contro i figli delle tenebre”37, che ben conosceva, e del castigo che avrebbe rimosso gli empi dal seme di Israele. Decise che nessuno in eterno avrebbe mai più mangiato dei frutti di quell’albero. E fu così che sulla via di Betania il fico fu giudicato sterile38.
37
Uno dei celebri manoscritti del Mar Morto rinvenuto a Khirbet Qumran e attribuito alla setta essena. [Mc XI, 12-14] La mattina seguente, mentre uscivano da Betània, ebbe fame. E avendo visto di lontano un fico che aveva delle foglie, si avvicinò per vedere se mai vi trovasse qualche cosa; ma giuntovi sotto, non trovò altro che foglie. Non era infatti quella la stagione dei fichi. E gli disse: «Nessuno possa mai più mangiare i tuoi frutti». E i discepoli l'udirono. 38
L’ingresso trionfale in Gerusalemme Per inquadrare storicamente il senso delle cose che abbiamo detto finora è indispensabile collegare la cena di Betania con l’ingresso messianico in Gerusalemme. Quest’ultimo episodio è ricordato dai cristiani di oggi con la festa detta “domenica delle palme”, che si celebra esattamente una settimana prima di Pasqua. In genere non se ne chiarisce adeguatamente il significato, immaginandolo solo come un’espressione di giubilo popolare nei confronti del maestro Gesù. Leggendolo attentamente scopriamo che la folla non si limitava ad accogliere la figura amata di un profeta, ma esultava per l’avvento del tanto atteso messia che avrebbe dovuto risollevare le sorti del paese, cacciando i nemici e facendosi re in Gerusalemme:
“Il giorno seguente [successivo al banchetto di Betania, n.d.a.], la gran folla che era venuta per la festa, udito che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di palme e uscì incontro a lui gridando: Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele! Gesù, trovato un asinello, vi montò sopra, come sta scritto: Non temere, figlia di Sion! Ecco, il tuo re viene, seduto sopra un puledro d’asina” (Gv XII, 12-15),
“Ora questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato annunziato dal profeta: Dite alla figlia di Sion: Ecco, il tuo re viene a te mite, seduto su un’asina” (Mt XXI, 4),
“Osanna al figlio di Davide” (Mt XXI, 9),
“Benedetto il regno che viene, del nostro padre Davide” (Mc XI, 10),
“Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore” (Lc XIX, 38),
A conferma di tale interpretazione notiamo che l’evangelista Matteo ha collegato esplicitamente l’episodio ad una profezia di stampo messianico. L’immagine del re che torna nella sua città, umilmente seduto in groppa ad un’asina, è ricavata dal profeta Zaccaria39. Il fatto è che gli ebrei avevano subito per secoli diverse dominazioni straniere. Il grande regno delle dodici tribù unificate, creato da Davide, al quale Salomone aveva dato un tempio, si era presto scisso in due (regno di Giuda a sud e regno di Israele a nord) e poi era stato conquistato dagli assiri, 39
[Zc IX,9] Esulta grandemente figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d'asina.
dai babilonesi, dai persiani, dai greci ed infine dai romani. Nel corso di questi secoli era maturata la speranza che un emulo del famoso re Davide, suo discendente diretto, avrebbe sconfitto gli stranieri e ripreso il trono di Israele, per dare agli ebrei un regno libero e felice. La parola che indica tale personalità è “messia”, per la semplice ragione che il termine ebraico mashiah (o l’aramaico meshiha), che significa letteralmente “unto”, rappresenta colui che attraverso una cerimonia ufficiale di unzione viene eletto re di Israele. A suo tempo il pastorello Davide, che era riuscito a strappare il potere dalle mani di Shaul mille anni prima di Cristo, fu cosparso di olio profumato per mano del profeta Samuele e, con questa cerimonia ufficiale, investito re sul trono di Gerusalemme:
“Riempi il corno d'olio e va! Io ti mando da Isai, il betlemita, perché mi sono scelto un re tra i suoi figli”40;
“Il Signore disse: - Orsù, ungilo perché è lui! - Samuele prese dunque il corno dell'olio e lo unse in mezzo ai suoi fratelli. E lo spirito del Signore, da quel punto in avanti, si posò sopra Davide”41 In greco “messia”, o “unto”, si dice “χριστος”, o “χρηστος”, espresso in latino con “christus”, anche “chrestus” e, in italiano, con “cristo”. Ora, poiché in conseguenza dell’unzione di Betania si scatenò un putiferio, con espressioni vivaci di collera e di dissenso da parte degli invitati alla cena, possiamo intuire che l’unzione voleva avere il significato che le è proprio, ovverosia una dichiarazione pubblica della personalità messianica dell’uomo che il giorno dopo sarebbe entrato trionfalmente in Gerusalemme, acclamato dal popolo come il re, “figlio di Davide”. Evidentemente le proteste dei convitati erano dovute al fatto che alcuni non approvavano il piano messianico di Gesù e dei suoi seguaci. Esattamente come era già successo quando Gesù si era dichiarato messia nella sinagoga della sua città, destinatario in prima persona delle profezie bibliche, ed aveva rischiato di essere giustiziato da una folla infuriata42. L’idea che il brano fosse un semplice omaggio, offerto dall’entusiasmo di una devota, inizia a tramontare, sostituita dalla scoperta che i testi evangelici nascondono molte sfumature di significato, deliberatamente velate, quando non degli autentici tentativi di mascherare la verità. Una di queste verità oscure è quella che Gesù non era semplicemente un maestro spirituale, che richiamava gli uomini ad ascoltare la voce del Signore e a seguire la legge dell’amore. I vangeli 40
I Sam XVI, 1. I Sam XVI, 12-13. 42 Lc IV, 16-30 41
come li leggiamo oggi, come documenti filtrati attraverso la dottrina del concilio di Nicea, nello sforzo di negare il ruolo messianico di Cristo finiscono paradossalmente per confermarlo.
Il processo a Gesù Consideriamo l’episodio relativo all’arresto di Gesù, e al processo che sarebbe stato condotto contro di lui dalle autorità ebraiche. L’analisi dei testi evangelici mette in mostra importanti differenze fra il gruppo sinottico (vangeli secondo Marco, Matteo e Luca) e il quarto scritto (vangelo secondo Giovanni). Innanzitutto possiamo notare che i tre vangeli sinottici concordano sull’esistenza di un processo giudaico, ed anche sulle accuse, i testimoni e la sentenza finale: una condanna a morte per il reato di blasfemia, dal momento che Gesù si sarebbe dichiarato in pubblico “figlio di dio”. Relativamente a questa presentazione dei fatti sorgono immediate alcune obiezioni. Per esempio, un autore tedesco, il dr. Weddig Fricke43, ha pubblicato un lavoro in cui si mostra l’impossibilità, secondo l’antica legge giudaica, di condurre un’azione legale nei termini descritti dai vangeli sinottici. Queste sono alcune delle sue principali considerazioni: le azioni legali non potevano essere condotte..
1- …in un’abitazione privata, ma solo nell’area del tempio chiamata “beth din”, la sede del grande sinedrio, a maggior ragione per i reati capitali, 2- …di notte, 3- …durante la vigilia di una festività, 4- inoltre, la sentenza non poteva essere pronunciata sulla base di confessioni estorte, 5- e le sentenze di morte dovevano essere pronunciate quando erano passate almeno 24 ore dal dibattito.
In aggiunta consideriamo il fatto che essersi dichiarato “figlio di dio” probabilmente non era un crimine di blasfemia, né poteva costituire un reato passibile di pena capitale. Infatti l'espressione "figlio di dio" era comune e poteva essere usata per indicare qualunque persona umana: tutti gli ebrei, secondo la torah, erano figli di dio. Tutt’al più poteva indicare una persona molto devota, o qualcuno che era stato iniziato ad una condizione di santità e aveva preso voti religiosi, come i cosiddetti "nazirei". Nella lingua ebraica erano comuni espressioni come "figlio della verità", "figlio della luce", "figlio delle tenebre", ecc... Questi e molti altri fattori fanno pensare che gli evangelisti sinottici, nel descrivere un presunto processo davanti alle autorità ebraiche, abbiano creato una versione che rispettava determinati presupposti dottrinari, ideologici e, perché no, politici, che a loro stavano a cuore.
43
W. Fricke, Il caso Gesù, Rusconi, Milano, 1989.
Molto diversa dalla presentazione sinottica appare la versione offerta dal quarto vangelo: la prima infatti sostiene che al momento dell'arresto era intervenuta una folla di persone non ben identificate, mandate dalle guardie del sommo sacerdote, e non parlano di colui che aveva tentato una resistenza armata. Al contrario il quarto vangelo dice che si trattava di una "cohors" in latino, “speiran” in greco, agli ordini di un "tribunus" in latino, “chiliarcos” in greco, ovverosia di un corpo militare romano di 600 uomini44, e dice chiaramente che ci fu un tentativo di resistenza, del quale fu protagonista anche Pietro, che aveva una spada pronta, con la quale recise di netto l'orecchio di una delle guardie. Da ciò possiamo dedurre che l'intervento era stato voluto da Ponzio Pilato, altrimenti la coorte romana non si sarebbe mossa, in piena notte, solo per catturare un predicatore ebreo inviso all’ortodossia del tempio. Si trattava di un’operazione militare intesa alla repressione di una sommossa, ed è proprio questo il fatto che, al momento della redazione sinottica doveva essere opportunamente censurato. I vangeli sinottici dicono che Gesù sarebbe stato immediatamente portato, notte tempo, nella casa del sommo sacerdote Caifa, mentre il quarto vangelo sostiene che Gesù sarebbe stato portato in casa di Anna, suocero di Caifa. I vangeli sinottici dicono che Gesù, in casa di Caifa, sarebbe stato sottoposto ad un processo ma, chiuso nel suo mutismo, non avrebbe aperto bocca né risposto ad alcuna domanda, eccezion fatta per una secca affermazione nel momento in cui gli venne chiesto se era il "figlio di dio", a questo punto il processo sarebbe giunto rapidamente alla conclusione con l’emissione di una sentenza capitale. Invece, stando alla versione offerta dal quarto vangelo, non ci sarebbe stato alcun processo di fronte agli ebrei, Gesù avrebbe parlato, rispondendo alle domande informali che gli venivano rivolte e avrebbe preso parte ad una discussione ma, naturalmente, poiché non si trattava di un procedimento giudiziario formalmente valido, non sarebbe stata pronunciata alcuna sentenza. La situazione descritta appare come il prologo alla successiva consegna nelle mani del prefetto Ponzio Pilato, la qual cosa confermerebbe che tutta l'operazione non era stata concepita e voluta dagli ebrei, ma dai romani, in eventuale accordo con i sacerdoti. Che cosa abbiamo evidenziato per ora? Due cose principali: la prima è il fatto che i Vangeli sinottici sembrano intenzionati a far apparire l'azione contro Gesù come il frutto di una volontà degli ebrei. Ciò nondimeno, avendo rappresentato un processo e una condanna del tutto irregolari, ed avendo operato censure che mancano nel quarto vangelo, insinuano il sospetto che la loro versione modifichi deliberatamente la sostanza degli eventi perché deve attribuirne la responsabilità ai giudei, mentre i romani devono risultare scagionati. La lettura del quarto vangelo offre, al contrario, ragionevoli elementi per pensare che l'azione contro Gesù fosse voluta e realizzata 44
Gv XVIII, 12.
sostanzialmente dai romani, lasciando intuire, con molta verosimiglianza storica, che il ruolo degli ebrei non si sia spinto oltre la connivenza opportunistica delle autorità del tempio. Basta riflettere sul modo in cui abitualmente venivano trattati i bestemmiatori: venivano forse catturati dai soldati romani? Erano consegnati al prefetto Pilato perché li sottoponesse ad una procedura romana? Venivano frustati dai romani e poi crocifissi? Niente di tutto questo. I bestemmiatori, riconosciuti come tali dopo un regolare procedimento davanti alle autorità ebraiche, venivano lapidati e ai romani di queste beghe non importava niente. Gli stessi scritti del nuovo testamento parlano di lapidazioni nel corso delle quali i romani non sono stati chiamati in causa. Non si può rigirare la frittata quando e come si vuole.In pratica i sinottici hanno raddoppiato il procedimento giudiziario parlando di un primo processo di fronte agli ebrei, e di un secondo processo di fronte al prefetto romano. Dunque confrontiamo la versione secondo Matteo del processo che si sarebbe svolto nella casa di Caifa, con la versione secondo Marco del processo che sarebbe stato condotto da Pilato nel pretorio:
Processo giudaico (Mt XXVI, 62-64)
Processo romano (Mc XIV, 4-5, 2)
Allora il sommo sacerdote gli disse:
Pilato lo interrogò di nuovo:
Non rispondi nulla?
Non rispondi nulla?
Ma Gesù taceva
Ma Gesù non rispose
Allora il sommo sacerdote gli disse:
Allora Pilato prese ad interrogarlo:
Sei tu il Cristo?
Sei tu il re dei Giudei?
Gli rispose Gesù: Tu l’hai detto
Ed egli rispose: Tu lo dici
Sembrano la copia l’uno dell’altro. In palese contrasto col racconto del quarto evangelista secondo cui, come abbiamo già detto, di fronte al sommo sacerdote non ci sarebbe stato alcun processo. Insomma, la fonte sinottica mostra l'esigenza di spostare la responsabilità della condanna di Gesù, ed è per questo che antepone al procedimento di fronte a Pilato un analogo fittizio svoltosi in casa del sommo sacerdote. Evidentemente la responsabilità romana avrebbe avuto implicazioni di carattere politico che non potevano essere tollerate dagli autori sinottici. Perché i romani avrebbero dovuto temere così tanto Gesù? Si trattava di un pericoloso capo ribelle?Prendiamo ancora in considerazione il motivo che, nella versione sinottica, avrebbe portato Gesù ad una condanna a morte: il fatto di essersi dichiarato "figlio di dio". Si tratta, in realtà, di un pretesto funzionale al trasferimento della responsabilità. Anche qui possiamo individuare una pesante operazione di censura. Infatti, se ci domandiamo come suonava l’espressione “figlio di dio” nell'idioma aramaico che era parlato in Palestina a quel tempo, dobbiamo per prima cosa osservare che presso gli ebrei il nome di dio era tabù, e lo è tuttora. Nessuno può pronunciare la parola YHWH pertanto, ogni qual
volta fosse necessario rivolgersi o riferirsi a dio, erano usati termini sostitutivi come adonai, eloah, altissimo, signore, padre, ecc... Proprio quest'ultimo termine (che in ebraico si dice abbà), era quello usato da Gesù e comunemente riportato nei testi evangelici. Basta osservare questa frase dal vangelo secondo Marco: "e diceva: - Abbà, Padre, tutto è possibile a te"45
Esempi del genere sono numerosi. Dunque, l’espressione "figlio di dio" era, in realtà, "figlio del padre", che nella liturgia latina si è conservata come "filius patris" mentre in aramaico è resa dalle parole bar (figlio), e abba, (padre): bar abba, anche in forma compatta: barabba. In pratica, ciò che noi conosciamo come "Gesù, figlio di dio", diventa in aramaico “Jeshu barabba”. Ovviamente questa parola ci ricorda il nome del prigioniero che sarebbe stato liberato al posto di Gesù, cioè Barabba. In realtà, questo fortunato personaggio non si chiamava Barabba, ma "era detto" o "soprannominato" (legomenos) Barabba. Abbiamo modo di conoscere il suo vero nome? Si, perché alcuni antichi manoscritti del Vangelo di Matteo, risalenti al quarto secolo, riportano l’espressione Iesous Barabbas; l'autore del testo non avrebbe fatto altro che trascrivere in caratteri greci l'espressione aramaica Jeshu barabba, che sta per Gesù figlio di Dio46.Perché nelle traduzioni effettuate dal quarto secolo in poi si è preferito lasciare anonimo Barabba, anzi, si è lasciato credere che questo fosse il suo vero nome, piuttosto che un titolo? Che cosa si nasconde dietro al racconto che presenta, nel corso del processo svoltosi di fronte a Ponzio Pilato, due personaggi di cui uno sarebbe stato Gesù figlio di dio (cioè Jeshu barabba), condannato e giustiziato, e l'altro Gesù Barabba (cioè Gesù figlio di dio), scarcerato? Perché i cristiani non sanno che barabba è l'equivalente aramaico dell'italiano figlio di dio? Perché la chiesa sembra costretta a trasmettere le sue verità nascondendo… la verità? La questione comincia a riempirsi di clamorosi enigmi. Anche se, fra le tante cose che non riusciamo a capire, ce n'è una che, invece, appare molto chiara: la narrazione evangelica della passione di Cristo è densa di censure e di stratagemmi letterari finalizzati a distorcere alcuni importanti aspetti storici relativi ai modi e ai motivi per cui Gesù sarebbe stato arrestato, processato, condannato e giustiziato. Altri sospetti sull'attendibilità dei racconti evangelici riguardano il fatto che la tradizione spiega la consegna di Gesù a Pilato da parte degli ebrei con la scusa che questi non potessero eseguire le sentenze di morte. Ma le evidenze mostrano questi fatti:
45
Mc XIV 36
1 - Erode ha eseguito innumerevoli sentenze a carico di ebrei; 2 - la famosa adultera del brano "chi è senza peccato scagli la prima pietra"47 stava per essere lapidata dagli ebrei e si è potuta salvare solo grazie all'intervento di Gesù; 3 - San Paolo ha eseguito la condanna per lapidazione del primo martire cristiano, Santo Stefano (o comunque vi ha assistito); 4 - Giovanni il battista è stato giustiziato dagli ebrei; 5 - all'indomani della morte di Gesù i sinedriti minacciarono gli apostoli di condanna a morte; 6 - l'apostolo Giacomo è stato lapidato a Gerusalemme dagli ebrei; 7 - lo stesso Gesù, a quanto dice il quarto vangelo, era stato minacciato più volte di essere lapidato dagli ebrei48.
Insomma le testimonianze evangeliche delle esecuzioni compiute dagli ebrei sono numerose; si tratterebbe di bugie se poi si sostiene che gli ebrei non avessero la facoltà di giustiziare Gesù e per questo avrebbero dovuto consegnarlo nelle mani del boia romano. Le incongruenze testimoniano la necessità degli evangelisti di dimostrare che, sebbene Gesù sia stato giustiziato dai romani con una tipica esecuzione romana, la crocifissione, e con un ben preciso capo d’accusa, la sedizione, i romani rimangono comunque innocenti della sua morte mentre i colpevoli sarebbero gli ebrei, suoi unici veri nemici. L’immagine di Ponzio Pilato che supplica il popolo di liberare Gesù, mentre la gente si ostina a gridare - Crocifiggilo! Crocifiggilo! -, è quanto mai inammissibile, e ben lo sanno quelli che conoscono il carattere e il comportamento politico del praefectus Iudaeae. Quanti cristiani hanno studiato attentamente il periodo storico in questione? Hanno chiarito se esisteva la consuetudine di liberare un prigioniero in occasione della festa ebraica49? Hanno letto gli scritti degli storici ebrei Filone Alessandrino e Giuseppe Flavio, contemporanei di Gesù? Hanno notato che costoro non parlano di un simile uso, e dipingono Pilato come uno spietato amministratore che non si è mai sottomesso alla volontà popolare dei giudei ma, al contrario, ha governato con cinismo e polso di ferro. Nel caso di Gesù, invece, Pilato insiste per liberare il giovane profeta ma, di fronte alla risolutezza del popolo inferocito, si dichiara sconfitto e annuncia candidamente:
46
Novum Testamentum Graece et Latine, a cura di Augustinus Merk, Ist. Biblico Pontificio, 1933, pag. 101. Gv VIII, 7 48 Gv X, 31-33; Gv XI, 8. 49 Eventualmente l’amnistia non poteva certo essere applicata in occasione di una festa ebraica su un condannato a morte per il reato di sedizione. L’amnistia era applicata in occasione delle feste romane e nei confronti dei colpevoli di reati minori. 47
“Io me ne lavo le mani, non io, ma voi siete responsabili di questo sangue innocente!”50.
A questo punto, in bocca agli ebrei è posta una frase alquanto significativa: “Il suo sangue ricada su noi e sui nostri figli!”51,
offrendo così una giustificazione ideologica alla diaspora, alle persecuzioni da parte dei cristiani, alla santa inquisizione, al marchio infamante "perfidi giudei", ai duemila anni di antisemitismo della chiesa romana. E dopo aver letto ciò, si continua a credere che i vangeli sinottici sarebbero stati scritti, così come li possediamo oggi, da umili ebrei, testimoni oculari dei fatti. Chi ha scritto i vangeli che la chiesa definisce canonici aveva un preciso obiettivo, screditare la razza giudea e riempirla di infamia per avere voluto la morte del "figlio di dio". Questa redazione grida con forza la sua appartenenza ad un contesto cristiano che si era già staccato dal giudaismo e si rivolge a lettori che fanno parte del mondo gentile greco e romano. I suoi legami col giudeo cristianesimo di ambiente palestinese si sono già assottigliati e consistono nel fatto di prelevare frammenti della figura di Gesù, per assemblarli con estrema libertà, secondo una concezione teologica che può esistere solo dopo avere modificato la realtà storica. Eppure, se c'è qualcuno a cui spetta l'infamia di aver voluto la morte di Gesù, ne siamo certi, non è agli ebrei ma ai romani, che a quel tempo avevano annesso la Palestina al loro impero e avevano sottomesso i suoi abitanti quali sudditi del potere imperiale. E che erano molto attenti a reprimere ogni movimento di liberazione nazional-religiosa, specialmente in un paese così difficile da soggiogare. Un paese in cui, da secoli, le profezie parlavano di un messia-re, figlio di Davide, il quale avrebbe dovuto ripetere le gesta dell'antico sovrano che aveva creato il regno unito delle dodici tribù di Israele. Un paese in cui i movimenti messianici (gli esseno-zeloti) si erano risvegliati come mai prima di allora. Cos'è dunque che i redattori evangelici avrebbero voluto nascondere con la loro manipolazione storica? In questo, l'abbiamo capito, si nasconde la verità che cerchiamo. Essa consiste nel fatto che l’uomo giustiziato da Pilato non ha mai inteso fondare una religione extragiudaica, non ha annullato l'antico patto di YHWH col suo popolo, non ha predicato ai non circoncisi. Egli è nato, cresciuto, vissuto, ha operato ed è morto come ebreo, del tutto intenzionato a rimanere tale. Cristo è stato preso di mira dai romani, processato e giustiziato, perché i movimenti messianici del tempo avevano individuato in lui il destinatario delle profezie messianiche: il santo del signore, il figlio di 50
Mt XXVII, 24
Davide, l'unto di YHWH che avrebbe restituito la casa di Israele ai suoi figli, togliendola agli usurpatori pagani, alla odiata stirpe dei monarchi erodiani e alla corrotta casta sacerdotale dei sadducei. Un uomo così non poteva che finire i suoi giorni sul patibolo romano. Dapprima schernito con un drappo rosso addosso e una corona di spine sul capo, a simulare la presunta dignità regale, poi inchiodato sulla croce, con la scritta trilingue che così recitava: Wa Melek ha Yehudim Basileus ton Ioudaion - Rex Iudaeorum, il cui significato è evidente: “il re dei Giudei”52, condannato perché colpevole contro l'autorità imperiale, avendo tentato di ristabilire la dinastia di Davide sul trono di Israele. Poco dopo l'esecuzione dell'aspirante Messia, un certo Shaul, nativo di Tarso in Anatolia, ebreo della diaspora, avvezzo alla convivenza pacifica coi greci e coi romani e motivato più al compromesso che non allo scontro frontale, intuì che era a dir poco pericolosa l'interpretazione tradizionale e radicale delle profezie messianiche, secondo cui un conflitto diretto contro la potenza imperiale avrebbe dovuto risolversi trionfalmente, non ostante la disparità di forze, grazie all'appoggio sovrannaturale. Shaul, che noi chiamiamo San Paolo, sapeva bene che i romani si sarebbero spazientiti e avrebbero adottato una soluzione risolutiva contro l’ostinazione ribelle di questa provincia orientale. Lo pensavano anche i Sadducei i quali, ricchi e pieni d'autorità e di prestigio, preferivano mantenersi su posizioni conniventi coi dominatori stranieri,. Aveva ragione Paolo a temere la catastrofe come conseguenza del fondamentalismo messianista, infatti questa si avverò puntualmente nell’anno 70 del primo secolo, quando i romani massacrarono decine di migliaia di ebrei, distrussero Gerusalemme, saccheggiarono il tempio e deportarono i sopravvissuti come schiavi.
Condividendo l'opinione dei conservatori giudei il fariseo Shaul, in un primo tempo, fu un accanito persecutore dei messianisti (cioè dei chrestianoi = cristiani); ma, in un secondo tempo, comprese che questa strada non avrebbe frenato i fanatismi nazional-religiosi. Anche le vicende del nostro tempo mostrano dolorosamente che la repressione non può avere ragione di queste forme di integralismo, le quali si rivelano al di là di ogni controllo. Così Shaul maturò il convincimento che non era utile opporre le armi o la forza contro il fondamentalismo esseno zelotico, bensì che occorreva combattere le idee con altre idee. Infatti il fanatismo etnico-religioso soddisfa un'esigenza interiore radicata nel senso dell’identità collettiva e nell’orgoglio popolare, e l'unica cosa che possa competere con ciò è un'altra immagine interiore, un'altra idea capace di soddisfare l’esigenza di identità e di autostima che non siano semplicemente quelle tribali e di appartenenza al gruppo. Paolo giunse alla persuasione che l'unico modo per combattere la pericolosità della speranza messianica di Israele era quella di creare una speranza di salvezza ancora più elevata: l'idea di una salvezza spirituale universale, operata da un salvatore che non dovesse riscattare la casa di Israele dalla sottomissione ai romani, ma tutto il genere umano, specialmente i poveri, gli umili, gli 51
Mt XXVII, 25 “Erano le nove del mattino quando lo crocifissero. E l'iscrizione con il motivo della condanna diceva: Il re dei Giudei. Con lui crocifissero anche due ladroni, uno alla sua destra e uno alla sinistra.” Mc XV, 25-27.
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oppressi, i deboli, i malati, i sofferenti, dalla sottomissione al male. Di esperienze spirituali e religiose cresciute su questa tematica il mondo precristiano era già abbondantemente dotato. E fu così che Shaul reinventò di sana pianta, sulle spoglie del vecchio messia, reale ma politicamente fallito, e sui modelli dei salvatori spirituali orientali, come il soter dei greci, il saoshyant dei persiani e il buddha degli indiani, la figura di un nuovo messia, immaginario ma vincente: nostro signor Gesù Cristo, il risorto. È stata una composizione teologica geniale. Punto di convergenza sincretistica di numerose componenti religiose: egiziane, ebraiche, elleniche, persiane e indiane. Destinata a diventare la guida spirituale dello sviluppo della civiltà occidentale. Anche se Shaul non pensava che ciò potesse verificarsi in una misura così vasta. In pratica, possiamo dire che non fu lui a convertirsi sulla via di Damasco, ma fu il giudeo cristianesimo legato alle antiche profezie messianiche che trovò una nuova dimensione capace di proiettarlo non solo verso il futuro di Israele, ma verso il futuro dell'umanità intera. Compiuta questa revisione ideologica e teologica, che evidentemente trovò molta più rispondenza popolare che non la fede originale dell'aspirante messia di Israele e dei suoi seguaci, la casa di Israele e gli ebrei tradizionalisti (attaccati al loro ideale nazional-religioso) furono visti in ambiente gentile come una zavorra che impediva lo sviluppo del neocristianesimo paolino. Non solo, ma l'immagine dell'aspirante messia storico e del suo sacrificio patriottico erano un ostacolo all'immagine del messia universale, apolitico, puramente spirituale, che prometteva una salvezza nel regno dei cieli, non nei regni della terra.
Il Cristo re dei giudei In cima alla croce su cui Gesù finì di respirare, soffocato dal dolore ma ancor più dalla posizione che impediva i movimenti del torace, era stata affissa un’insegna con la ragione della condanna:
“Al di sopra del suo capo, posero la motivazione scritta della sua condanna: «Questi è Gesù, il re dei Giudei»”53.
In pratica, il procuratore (praefectus) Ponzio Pilato aveva riconosciuto nell’uomo arrestato il grave reato di sedizione e di essersi attribuito illegittimamente l’autorità regale. Ai suoi occhi Gesù era semplicemente un capo di quei latrones, o sicarii, (in greco lestes o zelotes) che tanto filo da torcere davano ai romani nel governare questo angolo ribelle dell’impero. Anzi, era proprio l’aspirante al trono di Israele che, rivendicando un’autentica discendenza davidica, reclamava il diritto di regnare al posto degli usurpatori della famiglia erodiana. I cristiani di oggi sono educati a credere nella figura demessianizzata di Gesù. Lo vedono come un’incarnazione divina, generata nel ventre di una vergine, che muore e risuscita proponendo ai fedeli il rito teofagico della carne e del sangue eucaristici. Ma si tratta di un modello completamente degiudaizzato, coerente con innumerevoli tradizioni in voga nell’impero e persino con alcuni cosiddetti culti misterici, ellenistici e orientali. Di sapore spiccatamente sacrilego in ambiente ebraico e, ancor più, nel contesto del pensiero messianico. Nessun credente è facilmente disposto ad ammettere che questa immagine è il risultato di una lunga e complessa operazione teologica, culminata all’inizio del quarto secolo col concilio di Nicea. Tutto ciò non ostante le tracce rimaste nei racconti evangelici che, se sapute leggere e interpretare, testimoniano la natura messianica del ruolo di Gesù. Innumerevoli volte, come già abbiamo detto, Gesù è definito “figlio di Davide”, a sottolineare la sua appartenenza alla linea dinastica regale. Nel racconto della natività di Matteo lo stesso Erode teme che la nascita del fanciullo designato possa mettere in pericolo la sua posizione sul trono. La nascita betlemita, raffigurata tanto da Matteo che da Luca, costituisce un requisito di autentificazione della dignità regale: Davide era nato a Betlemme dieci secoli prima, al compimento del millennio il nuovo messia liberatore doveva aver visto la luce in quello stesso piccolo villaggio della Giudea.
53
Mt XXVII, 37.
Ovviamente si tratta di pura leggenda. Gesù non è nato né a Betlemme, né a Nazareth54. Si legga ora questo brano di Luca:
“…entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore». Poi arrotolò il volume, lo consegnò all'inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui. Allora cominciò a dire: - Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi - ... All'udire queste cose, tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno; si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio. Ma egli, passando in mezzo a loro, se ne andò”55. Il brano di Isaia56 cui si fa riferimento è una profezia messianica, nella quale si parla di unzione e di liberazione degli oppressi. Gesù ha avuto il coraggio di proclamarsi destinatario della profezia suscitando, anche questa volta, la collera dei presenti. Le ragioni di tale sdegno avevano un duplice carattere. Alcuni potevano considerare la pretesa un atto blasfemo, ma la ragione principale risiede nel fatto che il popolo degli ebrei comuni aveva un terrore folle della repressione romana e, soprattutto, delle rappresaglie che gli occupanti mettevano in atto contro i villaggi nei quali si era svolta qualche attività sediziosa, o si sospettava che si nascondessero gli zeloti, con la protezione dei cittadini. Questo episodio è totalmente assente negli altri Vangeli, come altri importanti dettagli presenti solo nello scritto lucano. Uno di questi è costituito dalle accuse che i giudei contestarono a Gesù, nel momento in cui lo consegnarono a Ponzio Pilato:
54
Vedi le mie precedenti pubblicazioni: “Cristo, una vicenda storica da riscoprire” e “Gesù e i manoscritti del mar morto”. 55 Lc IV, 16-30. 56 [Is LXI, 1-4] Lo spirito del Signore Dio è su di me perché il Signore mi ha consacrato con l'unzione; mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l'anno di misericordia del Signore, un giorno di vendetta per il nostro Dio, per consolare tutti gli afflitti, per allietare gli afflitti di Sion, per dare loro una corona invece della cenere, olio di letizia invece dell'abito da lutto, canto di lode invece di un cuore mesto. Essi si chiameranno querce di giustizia, piantagione del Signore per manifestare la sua gloria. Ricostruiranno le vecchie rovine, rialzeranno gli antichi ruderi, restaureranno le città desolate, devastate da più generazioni.
“Tutta l'assemblea si alzò, lo condussero da Pilato e cominciarono ad accusarlo: «Abbiamo trovato costui che sobillava il nostro popolo, impediva di dare tributi a Cesare e affermava di essere il Cristo re». Pilato lo interrogò: «Sei tu il re dei Giudei?». Ed egli rispose: «Tu lo dici». Pilato disse ai sommi quest'uomo». Ma
sacerdoti e alla folla: «Non trovo nessuna colpa in
essi insistevano: «Costui solleva il popolo, insegnando per tutta la
Giudea, dopo aver cominciato dalla Galilea fino a qui»”57.
Se confrontiamo i due brani troviamo alcuni importanti elementi di concordanza. In entrambi, infatti, Gesù appare caratterizzato da una spiccata personalità messianica. Nel primo è egli stesso che se la attribuisce, scatenando l’ira dei presenti; nel secondo sono i giudei che gliela attribuiscono, usandola come accusa di fronte al prefetto romano. In particolare notiamo che i termini dell’accusa creano un forte parallelismo fra Gesù e il rivoluzionario zelota Giuda di Gamala. Costui, catturato e giustiziato dai romani nel 6/7 d.C., era detto Giuda il galileo, sebbene non fosse affatto galileo, ma golanita, perché le sue prime famose azioni sovversive furono compiute a Sefforis, in Galilea, dove aveva fatto saccheggiare gli arsenali regi per armare i suoi seguaci. Da allora il movimento zelota assunse l’appellativo “galilei” che, tra l’altro, indicava anche il movimento dei seguaci di Gesù. Fra i temi fondamentali dell’azione di Giuda troviamo: l’opposizione al pagamento del tributo ai romani, nel quale egli individuava un atto offensivo nei confronti di YHWH, unico e vero Signore di Israele; l’ambizione regale; il tentativo di sollevare il popolo contro gli invasori. L’ostilità che alcuni giudei mostrarono nel momento in cui, durante la cena di Betania, fu compiuto il rito dell’unzione messianica nei confronti di Gesù, non è dovuta al fatto che essi non desiderassero la liberazione di Israele dal giogo straniero, ma al fatto che il tentativo di effettuare una rivolta nel corso della pèsach appariva ai loro occhi come un’impresa rischiosa, anzi disperata, che avrebbe potuto provocare un inutile massacro di ebrei. Per non parlare poi di coloro che, conniventi coi romani, avevano trovato una comoda posizione nello stato di fatto e godevano di privilegi che non solo avrebbero perduto, se la rivolta avesse avuto successo, ma che sarebbero stati giustiziati dai ribelli come traditori. Basti osservare alcune frasi presenti nel vangelo di Giovanni:
“Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui e verranno i romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione”58,
“Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che perisca un uomo solo per il popolo e non perisca la nazione intera”59. 57
Lc XXIII, 1-7
La convinzione dei cristiani di oggi che Gesù abbia fondato una nuova religione extragiudaica implica di conseguenza che egli non potesse essere un esponente della speranza messianica, legata all’ideale strettamente ebraico del regno davidico che avrebbe dovuto essere restaurato. Al contrario, i cristiani moderni considerano il loro caposcuola come un ebreo che si proietta in modo inconsueto verso il mondo gentile, si distacca dall’idea che il creatore sia il signore esclusivo della casa di Israele e predica un amore senza confini verso tutto il genere umano, al di là delle distinzioni nazionali e razziali. Ma questo è, in realtà, il cristianesimo dei secoli successivi, specialmente quello posteriore al concilio di Nicea, di cui il primo embrione fu fornito da San Paolo. Il Cristo storico fu non solo ebreo di nascita e di educazione, ma lo fu rigorosamente nel comportamento e nella fede, come rappresentante di una delle concezioni più esclusiviste, integraliste e xenofobe dell’ebraismo del suo tempo: il messianismo davidico. Non c’è spazio per l’immagine di un Gesù aperto al mondo extragiudaico dopo avere letto alcune frasi del vangelo. Per esempio, immediatamente dopo avere scelto i suoi dodici apostoli, egli così li arringa:
“Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa di Israele”60,
facendo capire che la loro missione era ristretta all’universo giudaico. Identico significato possiamo dedurre da quest’altro episodio
“Gesù si diresse verso le parti di Tiro e Sidone [Fenicia]. Ed ecco una donna cananea, che veniva da quelle regioni, si mise a gridare: - Pietà di me Signore, figlio di Davide. Mia figlia è crudelmente tormentata da un demonio - Ma egli non le rivolse neppure una parola. Allora i discepoli gli si accostarono implorandolo: - Esaudiscila, vedi come ci grida dietro Ma egli rispose: non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa di Israele -”61.
Da notare che, alle ulteriori insistenze della donna, egli rispose paragonando gli ebrei ai suoi figli e gli stranieri ai cani, e questo non rappresenta certo un esempio di amore universale: “Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini”62. 58
Gv XI, 48 Gv XI, 50 60 Mt X, 5-6 61 Mt XV, 21-24 62 Mt XV, 26; Mc VII, 27 59
L’opposizione fra un ideale ristretto al mondo giudaico e una concezione aperta al mondo gentile si determinò dopo la morte di Gesù, essendo il primo rappresentato dal comportamento e dalla fede dei discepoli che lo avevano seguito quando era ancora vivo, la seconda dal desiderio di mitigare gli ardori rivoluzionari e di trasformare l’anelito alla salvezza da una questione politica e religiosa strettamente ebraica ad una visione etica e spirituale più universale. Gli Atti degli Apostoli testimoniano, cercando goffamente di mitigarlo, il grave contrasto fra uomini come Giacomo e Simone, da una parte, e Shaul-Paolo, dall’altra. In particolare sulla questione della circoncisione, in quanto i primi non accettavano che nella comunità dei fedeli potesse essere ammesso un non circonciso, mentre Shaul-Paolo mostrava una totale disponibilità verso i non ebrei.
Gesù e gli esseno-zeloti Nel periodo in cui Cristo visse e si fece presente nella vita pubblica, la comunità monastica di Qumran ebbe sviluppi decisivi. Sappiamo che la cittadella localizzata in pieno deserto di Giuda, poco a sud di Gerico, in prossimità della riva nord occidentale del Mar Morto, era stata gravemente danneggiata da un terremoto nel 31 a.C., il quale aveva provocato un certo sbandamento nella setta essena. Poco sappiamo dei qumraniani nel periodo del regno di Erode il grande, mentre per quanto riguarda l’intervallo di tempo che va dalla morte di Erode (4 a.C.) all’occupazione romana del sito (68 d.C.), abbiamo elementi che ci consentono di riconoscere la crescente connotazione zelotica della confraternita. In quel periodo i monaci di Qumran maturarono la convinzione che il tempo delle profezie messianiche era giunto e che lo scontro finale coi romani era prossimo ad accadere. Essi proclamavano l’avvento del “regno di dio”, come un fatto imminente, con un significato diverso da quello che è familiare ai cristiani di oggi. Il regno di dio degli esseno-zeloti era la nuova Israele liberata dagli oppressori stranieri e governata da un re di sangue davidico, unto da YHWH per mano di un degno sacerdote. Tutti i documenti qumraniani (i celebri manoscritti del mar morto) sono carichi di questa tensione, ma uno in particolare, il rotolo della guerra, descrive con cura maniacale le modalità dello scontro fra i puri di Israele, da una parte, e i “kittim” (romani), dall’altra, insieme agli israeliti impuri. Sono straordinari alcuni parallelismi fra la letteratura del nuovo testamento e quella qumraniana, al punto da mostrare come le concezioni del cristianesimo primitivo, specialmente di quello cosiddetto giudeo-cristiano, non potevano non avere legami profondi con le idee degli autori dei manoscritti del mar morto63. L’analisi delle identità degli apostoli di Gesù offre numerosi indizi di appartenenza al movimento zelota, almeno per alcuni di loro, e mostra persino l’esistenza di un intento censorio, che ha caratterizzato la redazione evangelica, diretto a nascondere tali personalità mediante il ricorso a omonimie, accorgimenti verbali, omissioni, cambiamenti di nomi, sdoppiamento di personaggi e cattive traduzioni64. Così, ad esempio, si può comprendere che Simon Pietro e Simone zelota, presentati in certi elenchi degli apostoli come due individui distinti, sono in realtà la medesima persona. Si può scoprire, esaminando alcune varianti dei testi in lingua greca, che l'appellativo zelotes poteva accompagnare nomi come Tommaso, o Taddeo. Si vede come alcuni evangelisti hanno 63 64
mascherato
il
compromettente
termine
ebraico
“qu’ana”
(zelota),
riducendolo
Vedi il libro da me precedentemente pubblicato: Gesù e i manoscritti del mar morto, Coniglio Editore, Roma, 2006. Vedi il libro da me precedentemente pubblicato: Cristo una vicenda storica da ricostruire, RM ed., Roma, 1994.
opportunisticamente ad un semplice attributo geografico: “cananeo”. La stessa cosa per l’attributo “barjona” riferito a Simon Pietro, un altro termine ebraico che indicava gli zeloti, che è stato trasformato in “figlio di Giona”. Ma c’è di più: alcuni di questi personaggi probabilmente sdoppiati, Simon Pietro e Simone zelota, Giacomo di Zebedeo e Giacomo d’Alfeo, Giuda Tommaso e Giuda Taddeo, sono i fratelli carnali di Gesù, a dimostrazione del fatto che l’istituto fittizio dei dodici apostoli era nella realtà un gruppo familiare che si attribuiva l’appartenenza alla linea dinastica davidica. Insomma, l’analisi dei testi denuncia in modo macroscopico che la redazione evangelica è stata caratterizzata da un inequivocabile impegno censorio, realizzato su due piani strettamente legati: l’intento di spoliticizzazione, per dissociare Gesù dalla causa messianica degli ebrei, e la contraffazione dei suoi rapporti di parentela, per allontanarlo sia dalla famiglia d’origine che da quella acquisita per matrimonio65. Lo studioso americano Robert Eisenman, della California State University, arriva a sostenere che Giacomo il fratello di Gesù fosse il “maestro di giustizia” di cui parlano i documenti qumraniani, che, dopo la crocifissione di Cristo, avesse preso le redini della chiesa primitiva di Gerusalemme, che questa fosse da identificarsi con la comunità essena, e che il suo antagonista diretto fosse ShaulPaolo, definito “l’uomo di menzogna”66. Adesso siamo pronti a capire quale operazione si nasconde dietro la descrizione dell’unzione di Betania come un semplice occasionale gesto di devozione. L’intento censorio appare più evidente nei vangeli sinottici che, non solo snaturano il significato dell’episodio, ma cancellano le identità dei personaggi e la collocazione del fatto. Rileggendolo alla luce di quanto abbiamo osservato ci appare motivato non solo lo sdegno dei presenti, ma il fatto che a seguito di tale reazione il discepolo Giuda Iscariota si sia allontanato improvvisamente e sia corso a patteggiare la consegna di Gesù. Nel modo in cui i fatti sono presentati, sembra che Giuda abbia deciso di tradire il suo maestro per lo spreco del profumo e dei soldi che si sarebbero ricavati dalla vendita. Questo concatenamento degli eventi, nella loro gravità, appare semplicemente ridicolo. Ma se restituiamo all’episodio il suo senso, ovverosia quello che Gesù, preparandosi all’imminente ingresso trionfale nella città santa e a impadronirsi del trono di Davide, sia stato oggetto di un cerimoniale di unzione messianica, il gesto di Giuda trova un contesto nel quale il significato diventa chiaro e plausibile. Il discepolo si sarebbe spaventato di fronte alla grande resistenza che numerosi strati della popolazione giudea opponevano al progetto messianico, avrebbe prefigurato il fallimento dell’impresa e le tragiche conseguenze per i ribelli, e avrebbe cercato di tutelarsi passando dall’altra parte con un tradimento dell’ultima ora. 65
La prima è legata probabilmente a quella di Giuda di Gamala (il galileo), la seconda è quella di Lazzaro e delle sorelle Marta e Maria, residenti nel villaggio di Betania. 66 R.H.Eisenman, James the brother of Jesus, Penguin Books, 1997.
Ciò non ostante i sediziosi messianisti portarono avanti il loro progetto e, al momento stabilito, si radunarono in armi sul monte degli ulivi, presso il giardino del getsemani. Al giorno d’oggi, uscendo da Gerusalemme vecchia attraverso la porta orientale, si può scendere nella valle del cedron e risalire dall’altra parte, sul monte degli ulivi. È cosa di pochi minuti. Dopodiché ci si trova nel pieno dei pellegrinaggi cristiani: qui c’è la tomba della vergine, la chiesa delle nazioni, la grotta dell’arresto, il presunto giardino del getsemani. Quando sono arrivato personalmente in questo luogo ho sentito il desiderio di fermarmi e di sostare alcuni minuti in contemplazione. Naturalmente non so se quello sia il punto esatto in cui sorgeva l’antico frantoio (questo è il significato del termine getsemani), a cui fa riferimento la narrazione evangelica quando parla dell’assemblea notturna dei discepoli di Gesù e del suo arresto; in ogni caso, se anche non lo fosse, non può essere che una questione di pochi passi più in là, il versante del monte è proprio questo. Anche qui, all’ingresso del cortile, un check point israeliano sottopone i visitatori ad una modesta perquisizione. Ma il fatto non mi ha disturbato, al contrario, mi ha aiutato a calarmi ancor più nella realtà dei tempi degli zeloti, quando le forze romane erano sempre vigilanti sui movimenti del popolo. Il giardino è bello, anche perché a differenza di altri luoghi, dove la vanagloria umana ha voluto lasciare pesanti tracce, l’unico intervento è stato quello di tagliare l’erba e creare qualche vialetto di ghiaia. Per il resto la solennità degli ulivi è singolare: sono talmente possenti e grandi da svelare un’età plurimillenaria e da lasciare l’impressione che si tratti proprio di quelli sotto i quali il figlio di Davide e i suoi seguaci si erano riuniti nella fatidica notte. In quel momento ho chiuso gli occhi e ho cominciato a vedere: innanzi a me sembravano scorrere i fotogrammi di una delle più influenti pagine della storia umana. Allora correva una data vicina al primo plenilunio successivo all’equinozio di primavera. Aprile, con tutta probabilità. Poiché le notti gerosolimitane sono ventilate e molto fresche anche in estate (siamo a circa 800 metri di altezza), in primavera sono piuttosto fredde. Alcuni uomini dal passo clandestino, sussurrando poche laconiche frasi, avevano raggiunto il frantoio sul fianco occidentale del monte, avvolto e nascosto nell’ombra di grandi ulivi. Portavano armi con sé; spade, delle quali evitavano attentamente il luccichio prodotto dai raggi della luna piena, la quale ogni tanto faceva capolino fra le piccole nubi che il vento da ovest è solito trasportare sulla città. Il brillare delle lame avrebbe potuto facilmente tradirli. Li abbracciava il silenzio e la solitudine, nonché l’angoscia di chi va al suo appuntamento con un destino pericoloso e sconosciuto. A meno di duecento metri da loro, al di là del cedron, sulla fiancata del colle sotto le mura del tempio, si stendeva il campo dei pellegrini venuti a decine di migliaia, da lontano, per celebrare la
pasqua nella città santa. Centinaia e centinaia di tende che riparavano dal freddo le famiglie addormentate su miseri giacigli di paglia. Forse qualche belato di capra, il pianto di qualche neonato, l’abbaiare di un cane, il fruscio di un gatto che zampettava nelle frasche. La torre antonia, ancora più in lontananza, si stagliava contro il cielo. Era quello il loro principale obiettivo. Il piano prevedeva più cose contemporaneamente: la sommossa messianica non poteva avere successo con le semplici forze di un manipolo seppur coraggioso, erano esigue le braccia e le armi, in confronto a quelle dei soldati romani e delle guardie del tempio. Ma la circostanza custodiva una potenzialità enorme: per quanti fossero, i soldati non avrebbero mai potuto tenere testa, specialmente nella confusione della notte, ad una folla di centinaia di migliaia di ebrei, sparsi dappertutto, improvvisamente riforniti di armi, esaltati al grido del messia che era giunto, finalmente, mandato dal padre YHWH in persona per liberare il popolo dei suoi figli. Così si configurava il progetto dei ribelli. In un angolo appartato del giardino Gesù pregava e sudava freddo, lo attendevano la corona di Davide o i chiodi dei romani. Bisognava che alcuni assalissero gli arsenali e ne sfondassero le protezioni affinché la folla potesse rifornirsi di armi. Bisognava far scoppiare alcuni incendi contemporanei per disorientare i romani sulla localizzazione dei focolai di rivolta ed anche per suggestionare il popolo sull’estensione della ribellione. Bisognava accendere la scintilla nella moltitudine dei pellegrini, obbligandoli a partecipare, convincendoli che a seguito di una sommossa già in atto i romani stavano giungendo in forze per massacrarli tutti. Se la paura e l’impeto della folla fossero stati scatenati nel modo giusto, e nei tempi giusti, i romani sarebbero stati travolti in breve tempo. Qualcuno di loro, in preda al più implacabile terrore, sarebbe fuggito verso la campagna. I giudei lo avrebbero raggiunto, agguantato e sgozzato come una capra al sacrificio. Questo era l’incubo che disturbava i sogni di qualche centurione, durante le notti trascorse in una terra straniera e nemica, a duemila miglia da casa. Era una partita da giocare nel giro di pochi minuti. Bisognava mostrare la bravura e il tempismo di chi sa sfruttare le dinamiche psicologiche della folla, nonché del panico e dell’esaltazione collettiva. Anche i romani lo sapevano. Ed erano strategicamente preparati ad affrontare proprio questa evenienza. Avevano conquistato tutto il mondo conosciuto dalle colonne d’Ercole all’Europa orientale, dal mare del nord alle dune del sahara. Ed erano esperti di nazioni ribelli e di sommosse popolari: i romani avevano già disposto che qualcuno li avvertisse prontamente, per poter gettare l’acqua sul fienile prima che qualcuno vi gettasse la scintilla. L’aspirante messia aveva sbagliato, qualche giorno prima, a inscenare una grande manifestazione, entrando in Gerusalemme come il re di Sion della profezia di Zaccaria, salutato dalla folla in un tripudio di osanna al figlio di Davide. I romani avevano intuito l’incombenza di una rivolta.
Fu grazie alla soffiata del traditore che non scoppiò alcuna ribelione, che i fuochi non illuminarono la notte di Gerusalemme, che i pellegrini non furono svegliati di soprassalto, che centinaia di loro poterono scampare da sicura morte e risvegliarsi, la mattina dopo, fra i galli che cantavano sotto le mura del tempio, mentre Gesù era già incatenato nelle segrete della torre antonia.
Lazzaro di Betania I racconti evangelici mostrano chiaramente che Betania era il domicilio di Gesù, quando costui veniva a Gerusalemme. Ogni sera tornava a Betania e la mattina dopo ripercorreva quel cammino, della durata di poco più di mezz’ora, che serviva per raggiungere la città santa. Il quarto vangelo ci offre valide ragioni per credere che egli risiedesse nella casa di Lazzaro e delle sorelle Marta e Maria. I vangeli sinottici, al contrario, eliminando sistematicamente queste persone, così importanti nella vita di Gesù, svelano il loro impegno censorio e ci fanno capire quanto fosse importante descrivere un Cristo lontano da quello reale. Non c’è nessun’altra spiegazione plausibile all’assenza della famiglia di Betania nei vangeli secondo Marco e secondo Matteo, o al tentativo di Luca di ridurre le due sorelle al ruolo di fugaci comparse prive di qualunque rilievo significativo. La constatazione dell’esistenza di un intento censorio è l’elemento fondamentale da cui scaturisce la nostra comprensione delle esigenze redazionali che hanno ispirato la penna degli evangelisti, o meglio, dei revisori gentili che hanno prodotto i testi che oggi costituiscono il canone neotestamentario. Un’importante manomissione, forse la più considerevole, è stata effettuata sulla persona di Lazzaro. Come abbiamo già visto, da parte dei sinottici essa consiste nella sua eliminazione. Anche se ulteriori approfondimenti porterebbero a verificare che si tratta della rimozione del nome e non del personaggio in assoluto, il quale compare con ruoli similari ma con un’identità totalmente contraffatta. Devo chiedere scusa a quanti hanno letto i miei precedenti lavori se ora sono costretto a riproporre alcuni ragionamenti, le considerazioni che seguono hanno una tale importanza da rendere irrinunciabile la pena della ripetizione in questo libro. Anche il quarto vangelo, sebbene in più occasioni nomini senza timore Lazzaro e i suoi rapporti di parentela, ha uno strano atteggiamento macchinoso per quanto riguarda la sua identità. In pratica, nel quarto vangelo Lazzaro compare, agli occhi di chi non approfondisce certi dettagli, come due persone distinte. Per la verità il metodo dello sdoppiamento è una procedura ordinaria nella redazione evangelica, numerosi sono i personaggi moltiplicati, come i genitori di Cristo, gli apostoli fratelli, ecc… Tuttavia il caso di Lazzaro ha senz’altro qualcosa di particolare. Per comprendere le ragioni di questa manipolazione dobbiamo partire dall’osservazione che il quarto vangelo fu introdotto nel canone ecclesiastico in un secondo tempo e che ciò avvenne con un certo travaglio. Vi furono numerose opposizioni a questa introduzione e, se oggi lo troviamo comunemente nelle letture domenicali della messa cattolica, è solo perché a suo tempo furono effettuate severe operazioni di correzione, taglio e aggiunta.
Osservando il testo nel suo complesso ci si rende conto che è formato da due parti di dieci capitoli ciascuna. Nella prima parte Giovanni Battista è nominato diciotto volte, è un protagonista fondamentale dello scritto e, sebbene il testo lo glorifichi a cominciare dal celebre inno iniziale al logos, l’impegno prevalente è quello di mostrare la sua subordinazione a Gesù. Questa prima parte termina con una formula letteraria tipica delle conclusioni, nella quale si è soliti affermare che la testimonianza su quanto è stato detto è vera67. Da qui in poi Giovanni Battista scompare dal vangelo, senza dire che è stato arrestato e giustiziato da Erode. Nella seconda parte compare un personaggio che non è mai esistito nella prima, si tratta, appunto, di Lazzaro, il quale è nominato come tale una dozzina di volte. I suoi ruoli sono essenziali: è il beneficiario della resurrezione (l’unica nel quarto vangelo), è uno dei commensali al banchetto dell’unzione, i sommi sacerdoti decidono di uccidere anche lui oltre a Gesù. In realtà Lazzaro appare anche senza essere chiamato esplicitamente per nome. Infatti, sempre e soltanto in questa seconda parte, si parla di un certo “discepolo che Gesù amava”68. Al termine del ventesimo capitolo troviamo la formula conclusiva69, a dimostrazione del fatto che una redazione primitiva del quarto vangelo doveva finire a questo punto, se non che oggi possiamo leggere anche un ventunesimo capitolo. Gli studiosi, cattolici e non, sono unanimi nel riconoscere che questa è un’aggiunta posteriore, tant’è vero che alla sua chiusura troviamo ancora la solita formula70 nella quale, tra l’altro, viene detto che il discepolo prediletto è l’autore del vangelo. La tradizione, com’è ben noto, riconosce l’autore del quarto vangelo, e quindi il discepolo che Gesù amava, nella persona dell’apostolo Giovanni, fratello di Giacomo e figlio di Zebedeo. In verità non c’è alcun elemento, deducibile dal testo, che possa portare ad una simile conclusione. Mentre sussistono elementi chiari e decisivi per riconoscere il discepolo prediletto nella persona di Lazzaro. A rinforzare questa deduzione, come se ce ne fosse bisogno, troviamo un ennesimo atteggiamento censorio, questa volta non da parte dei redattori, ma dei traduttori. In molte versioni del quarto vangelo all’inizio dell’episodio della resurrezione di Lazzaro troviamo queste parole: “Le sorelle mandarono dunque a dirgli: «Signore, ecco, il tuo amico è malato»”71.
Basta prendere un testo latino, o greco, per osservare che la frase originale suonava così: “Domine, ecce quem amas infirmatur”, o "Κυριε, ιδε ον ϕιλεις ασϑενει", e rendersi conto che, in entrambi i casi, la traduzione è “Signore, ecco, colui che ami è malato”. 67
Gv X, 41-42; Gv XX, 30-31; Gv XXI, 24-25. Gv XIII, 23; XIX, 26; XX, 2-8; XXI, 7; XXI, 20. 69 Gv XX, 30-31. 70 Gv XXI, 24-25. 71 Gv XI, 3. 68
Altrove leggiamo: “Gesù amava molto Marta, sua sorella e Lazzaro”72,
e ancora: “Dissero allora i Giudei: – Vedi come lo amava! – [a proposito di Lazzaro; n.d.a.]”73
Da nessun’altra parte, nemmeno nei vangeli sinottici, si trovano dichiarazioni così esplicite dell’amore di Gesù nei confronti di qualche persona specifica. E se, nella missiva che venne recapitata a Gesù per annunciargli che Lazzaro era infermo, fu sufficiente dire “colui che ami è malato”, senza pronunciare il nome, beh… allora è il vangelo stesso a confessarci che “quel discepolo che Gesù amava” era Lazzaro. Il fratello di Maria Maddalena.
72 73
Gv XI, 5. Gv XI, 36.
Le tre Marie Ancora il quarto vangelo scopre le carte su questioni fondamentali che denunciano l’impegno censorio dei sinottici. Mi riferisco alle fasi conclusive della passione in cui, dopo il processo, la condanna e gli scherni dei soldati, il Cristo viene crocifisso al cospetto di alcuni suoi conoscenti e parenti. A questo punto, mettendo a confronto le narrazioni evangeliche, si osserva uno straordinario balletto di incoerenze nei personaggi e nei fatti. Questo è lo schema relativo alle persone presenti durante l’agonia di Gesù sulla croce:
Sinottici MARCO Osservavano da lontano senza avere alcun rapporto diretto con Gesù Maria di Magdala Maria madre di Gesù Maria madre di Giacomo e di Giuseppe Maria di Cleofa, sorella di sua madre Salomè, madre dei figli di Zebedeo Anonime che lo avevano seguito dalla Galilea Il discepolo amato (Lazzaro)
MATTEO Osservavano da lontano senza avere alcun rapporto diretto con Gesù
Si
Si
Si
Si
Si
Si
IV LUCA Osservavano da lontano senza avere alcun rapporto diretto con Gesù
GIOVANNI Si trovavano sotto la croce e dialogarono con Gesù
Si Si Si Si Si
Innanzitutto possiamo notare che, secondo i sinottici, c’è una grande assente: la madre di Gesù. Inoltre è importante il fatto che queste persone si sarebbero trovate in disparte, ad assistere senza alcuna possibilità di interloquire con Gesù. Abbiamo un terzetto di donne secondo Marco e Matteo (Maria Maddalena, Maria madre di Giacomo e Giuseppe, e Salomè), mentre secondo Luca si sarebbe trattato di individualità anonime che “lo avevano seguito dalla Galilea”. La sceneggiatura cambia drasticamente nel quarto vangelo, le identità sono diverse: è presente la madre di Gesù, insieme a Maria Maddalena e Maria di Cleofa, sorella di sua madre. A sorpresa è presente il discepolo amato: Lazzaro. La divergenza consiste nel fatto che secondo questa versione i personaggi interloquirono col condannato, quindi si trovavano sotto la croce, quanto bastava per potergli parlare. E Gesù colse l’occasione per affidare la madre alle cure del discepolo prediletto, “e da quel momento il discepolo la prese nella sua casa”74. Un fatto questo che, insieme ad altri elementi, ci consentirà di trarre le dovute conclusioni. In seguito le donne furono presenti alla sepoltura. Vediamo come si articola questa volta lo schema: Sinottici 74
Gv XIX, 27.
IV
MARCO Osservavano stando davanti al sepolcro
Maria di Magdala Maria madre di Giacomo e di Giuseppe Anonime che lo avevano seguito dalla Galilea Giuseppe di Arimatea
MATTEO Osservavano stando davanti al sepolcro
Si Si
Si Si
Si, chiede il permesso a Pilato, quindi prende il corpo di Gesù e lo depone in una tomba
Si, chiede il permesso a Pilato, quindi prende il corpo di Gesù e lo depone in una sua tomba privata
LUCA Osservavano stando davanti al sepolcro, poi si recarono a prendere gli unguenti ma attesero per il riposo del sabato
Si Si, chiede il permesso a Pilato, quindi prende il corpo di Gesù e lo depone in una tomba
Nicodemo
GIOVANNI Le donne non sono nominate, forse è sottintesa la loro presenza
Si, chiede il permesso a Pilato, prende il corpo di Gesù lo depone in una tomba, lo avvolge in bende e unguenti, agendo insieme a Nicodemo Si, vedi sopra
L’unica differenza significativa tra la narrazione sinottica e quella del quarto vangelo riguarda l’unzione con oli profumati. Nel primo caso, sarebbero state le donne ad occuparsene, procurandosi gli unguenti, ma avrebbero rimandato l’operazione, per rispettare il sabato. Nell’altro caso l’unzione sarebbe stata effettuata subito, da Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo, due sinedriti che mostravano un certo accordo nei confronti di Gesù e della sua cerchia. La terza circostanza è la visita al sepolcro vuoto. Eseguiamo il confronto:
Sinottici
Maria di Magdala Maria madre di Giacomo e di Giuseppe Salomè, madre dei figli di Zebedeo Giovanna moglie di Chusa Pietro Il discepolo amato (Lazzaro)
IV
MARCO
MATTEO
LUCA
Comprano gli aromi per l’unzione della salma, poi trovano un giovane che le avverte: Gesù non è qui, è risorto. Gesù appare solo a Maria Maddalena.
Trovano un angelo che le avverte: Gesù non è qui, è risorto. Gesù appare alle donne.
Portano gli aromi per l’unzione della salma, poi trovano due uomini che le avvertono: Gesù non è qui, è risorto.
Si Si Si
Si Si
Si Si
GIOVANNI Maria Madd. va al sepolcro per prima, poi chiama Pietro e Lazzaro, poi le appaiono due angeli. Gesù appare solo a Maria Madd. Si
Si Si Si
Ancora una volta le differenze fra i sinottici e il quarto vangelo sono importanti. Secondo quest’ultima versione soltanto Maria di Magdala si recò al sepolcro dopo il sabato, prima ancora dell’alba. Qui ella scoprì che la pietra era stata ribaltata e che il sepolcro era aperto, corse dunque a chiamare Simone e Lazzaro i quali giunsero e constatarono la mancanza della salma. Nel frattempo, mentre Maria di Magdala si trovava all’esterno del sepolcro incontrò i due angeli che le chiesero perché piangeva e, subito dopo, le apparve Gesù (a lei solamente). Quali conclusioni possiamo trarre da questi confronti?
1 – la persona presente in tutti i casi, sola o in compagnia, era Maria di Magdala, lei figura come il personaggio dominante in queste scene della passione e della resurrezione; 2 – la madre di Gesù risulta quasi sempre assente, tranne durante l’agonia nel racconto del quarto vangelo; si evidenzia dunque la sua possibile contraffazione da parte dei sinottici con Maria, madre di Giacomo e Giuseppe, in effetti, essendo costoro due fratelli di Gesù, è verosimile che si tratti proprio della madre di Gesù; 3 – delle operazioni di sepoltura si incaricarono due autorevoli personaggi, due sinedriti di nome Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo; 4 – come sempre, il personaggio di Lazzaro è eliminato dai sinottici, al punto che questi non parlano dell’affidamento di Maria, madre di Gesù, a Lazzaro che se la prese in casa; 5 – in ben due casi la prima apparizione di Gesù riguarda solo Maria di Magdala;
In seguito a queste considerazioni, osserveremo un breve passo da un testo apocrifo, uno dei più antichi, noto come vangelo di Pietro. Secondo questa versione, durante l’agonia e la morte di Gesù, le donne del famoso terzetto non avevano potuto piangere e battersi il petto in pubblico “per timore degli ebrei, che bruciavano d’ira”75.
Però, dopo che ormai il maestro era stato sepolto, quando si avvicinava l’alba del giorno successivo al sabato, Maria Maddalena pensò che non ci sarebbe stata alcuna folla di ebrei in prossimità del sepolcro e decise di recarvisi insieme alle amiche. L’elemento di grande significato è dato da questa frase:
“…non avendo fatto alla tomba del Signore quanto solevano fare le donne per i morti da loro amati…”76 (con riferimento a Maria di Magdala). 75
Vangelo di Pietro XII, 50
Il testo non addebita questa inosservanza a tutte le donne che facevano parte del seguito di Gesù, o in particolare a sua madre ma, in modo inequivocabile, riconosce che il compito spettava proprio e soltanto a Maria di Magdala! Chi era dunque Maria di Magdala, per avere personalmente questo dovere? Abbiamo già visto che si tratta di una controfigura di Maria di Betania, sorella di Lazzaro, ora però l’importanza di questa donna comincia a svelarsi in tutto il suo spessore. Si può supporre che tutte le discepole donne amassero il maestro, e ancor più la madre, ma è a Maria di Magdala che appartiene l’incombenza funebre perché, forse, ella lo amava non come lo amavano le altre, bensì come moglie. Cioè come colei che doveva prendersi cura della salma del marito, secondo la consuetudine e la legge. Riconsideriamo la scena dell’agonia, secondo il quarto vangelo, e la richiesta che Gesù espresse al discepolo prediletto (Lazzaro):
“Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco il tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco la tua madre!». E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa”77.
A differenza dei sinottici, che lasciano assente Maria madre di Gesù, la donna c’era insieme ad una presunta sorella di nome Maria (di Cleofa), e a Maria Maddalena (le tre Marie). Accanto a costoro c’era Lazzaro. È abbastanza inconsueto trovare due sorelle omonime, e la cosa potrebbe costituire un’altra contraffazione di identità, che acquista maggior verosimiglianza se osserviamo la seguente affermazione dal vangelo gnostico di Filippo:
“Erano tre che andavano sempre con il Signore: sua madre Maria, sua sorella, e la Maddalena, che è detta sua consorte. Infatti era Maria sua sorella, sua madre, e la sua consorte”78.
Secondo questo testo, il terzetto delle Marie che andavano sempre con il Signore sarebbe stato costituito da tre donne omonime strettamente imparentate con Gesù: sua madre, sua sorella e sua moglie. Se osserviamo che, nelle narrazioni sinottiche, al posto della madre di Gesù sarebbe stata presente una certa Maria, madre di Giacomo e di Giuseppe, nomi che corrispondono a due fratelli di 76 77
Idem Gv XIX, 25-27.
Gesù, possiamo ipotizzare che costei fosse, in realtà, proprio la madre di Gesù la quale, pertanto, non risulterebbe assente nella scena sinottica dell’agonia, ma solo controfigurata. A questo punto dobbiamo aggiungere che Maria di Cleofa, presente nella narrazione del quarto vangelo, invece che sorella della madre di Gesù, avrebbe potuto essere Maria sorella di Gesù e, in tal caso, il quarto vangelo sarebbe perfettamente d’accordo col vangelo di Filippo nel definire le identità delle tre Marie. A chi si riferisce il nome Cleofa? Cleofa e Alfeo sono due sinonimi, praticamente l’anagramma l’uno dell’altro, nei vangeli sinottici lo troviamo nella seconda forma, quando è nominato l’apostolo “Giacomo di Alfeo”, o “il minore”, o “il giusto”, che in letteratura spesso è riferito come “fratello di Gesù”. Se Cleofa e Alfeo fossero la stessa persona, si tratterebbe del padre di Giacomo, ma anche di Maria (sorella di Gesù) e di Gesù. Il rebus sembrerebbe perfettamente risolto. In pratica sotto la croce, al momento dell’agonia, ci sarebbe stata un’autentica riunione familiare: la madre di Gesù, la sorella, la moglie, e il cognato. Il morente, in questa tragica circostanza, avrebbe raccomandato al cognato Lazzaro di prendersi cura della madre, e costui avrebbe acconsentito accogliendola nella sua casa.
78
Vangelo di Filippo, 32 (I vangeli apocrifi, a cura di M. Craveri, Einaudi, Torino 1969)
Il matrimonio di Cristo L’unica testimonianza scritta di un eventuale rapporto matrimoniale fra Gesù e Maria di Magdala appartiene ad uno dei vangeli cosiddetti gnostici, che la chiesa antica aveva fatto sparire dalla faccia della terra e che il caso ha fatto riapparire nel ventesimo secolo, in Egitto, in una giara sepolta nella torba della località di Naj Hammadi. Evidentemente i cristiani copti, sottoposti a pressioni da parte della chiesa romana, che aveva ormai stabilito per legge il contenuto del canone neotestamentario, nascosero alcuni testi affinché non potessero essere rintracciati ed eliminati. Fra questi si trova il cosiddetto vangelo di Filippo, del quale abbiamo già visto il verso 32, in cui Maria Maddalena è definita “sua consorte”. In esso possiamo leggere ancora:
“La Sofia, che è chiamata sterile, è la madre degli angeli. La consorte di Cristo è Maria Maddalena. Il signore amava Maria più di tutti i discepoli e la baciava spesso sulla bocca. Gli altri discepoli allora gli dissero: – Perché ami lei più di tutti noi? – Il Salvatore rispose e disse loro: – Perché non amo voi tutti come lei? –”79.
Personalmente non ritengo che il significato da attribuire alla parola “consorte” sia necessariamente quello di “moglie”. Così come l’espressione “baciare sulla bocca” può essere metaforica. Una delle immagini presenti nei vangeli gnostici è quella della “camera nuziale”, pertanto il concetto di consorte potrebbe appartenere a questo simbolismo e significare ben altro che “moglie” nel senso giuridico. Devo però riconoscere che questi due versi del vangelo di Filippo, insieme a tanti altri elementi di cui abbiamo discusso, ed altri di cui parleremo, contribuiscono a formare i tasselli di un puzzle che inizia ad assumere una fisionomia abbastanza distinta. Cominciamo a vedere le due possibili famiglie di Gesù: quella di origine, composta dai suoi genitori, dai fratelli e dalle sorelle, da cui sarebbe stato tratto l’istituto fittizio dei dodici apostoli (almeno per quanto riguarda alcune delle identità rappresentate), e la famiglia acquisita per matrimonio, quella della moglie Maria di Magdala/Betania, e dei cognati Marta e Lazzaro. Il quarto vangelo, fra i suoi tanti brani esclusivi, comprende la descrizione di un matrimonio avvenuto a Cana, in Galilea80. Per quanto mi riguarda, devo dire che nelle narrazioni evangeliche, o 79
Vangelo di Filippo, 55 (I vangeli apocrifi, op. cit.) “Tre giorni dopo, ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e c'era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno più vino». E Gesù rispose: «Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora». La madre dice ai servi: «Fate quello che vi dirà». Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione dei Giudei, contenenti ciascuna due o tre barili. E Gesù disse loro: «Riempite d'acqua le giare»; e le riempirono fino all'orlo. Disse loro di nuovo: «Ora attingete e portatene al maestro di tavola». Ed essi gliene portarono. E come ebbe assaggiato l'acqua diventata vino, il
80
nella loro interpretazione corrente, ho visto usare tante volte i termini geografici in modo ingannevole. Ad esempio cananaios come “cananeo”, per nascondere “zelota”; galilaeus come “abitante della galilea”, per nascondere “appartenente alla setta zelota di Giuda di Gamala”; nazoraios come “nazaretano”, per nascondere il titolo “nozri” (ebr.), “nazorai” (aram.); iskariot come “uomo di Kerioth”, al posto del più probabile “sicario”. A questo punto, poiché sia cananaios che galilaeus, sono sinonimi di “zelota” non posso non avere qualche sospetto (ma niente più) che anche in questo caso sia in corso un’opera di ripulitura. Resta il fatto che Cana esisteva veramente in Galilea, e che lì avrebbe potuto benissimo svolgersi un matrimonio a cui Gesù era invitato. Il racconto, come lo leggiamo oggi, è strutturato per sembrare un prodigio con cui Gesù avrebbe iniziato a manifestare pubblicamente i suoi poteri sovrannaturali. Tuttavia, l’analisi critica delle narrazioni evangeliche mostra che le descrizioni dei miracoli contengono a dir poco un certo simbolismo, laddove una definizione più adeguata sarebbe persino quella di ermetismo esoterico. Il miracolo del fico seccato è, in realtà, una maledizione lanciata alle autorità sacerdotali di Gerusalemme. La restituzione della vista ai ciechi è il conferimento di una particolare sapienza (visione spirituale) a chi non ce l’ha. Il camminare sicuramente sulle acque è la fermezza nella fede. La resurrezione (“se uno non rinasce dall’alto”81) è l’acquisizione della consapevolezza che sorpassa i confini del vivere materiale ordinario e consente l’accesso ad una condizione di “vita eterna”. Del resto nei vangeli giudeo cristiani il concetto della resurrezione fisica era esplicitamente contestato:
“Coloro che dicono che il Signore prima è morto, poi è risorto, si sbagliano, perché egli prima è resuscitato e poi è morto. Se uno non consegue prima la resurrezione non morirà, perché, come è vero che Dio vive, egli sarà già morto”82;
“Mentre siamo in questo mondo è necessario per noi acquistare la resurrezione, cosicché, quando ci spogliamo della carne, possiamo essere trovati nella Quiete”83;
“Coloro che dicono che prima si muore e poi si risorge, si sbagliano. Se non si riceve prima la resurrezione, mentre si è vivi, quando si muore non si riceverà nulla”84.
maestro di tavola, che non sapeva di dove venisse (ma lo sapevano i servi che avevano attinto l'acqua), chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po’ brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono». Dopo questo fatto, discese a Cafàrnao insieme con sua madre, i fratelli e i suoi discepoli e si fermarono colà solo pochi giorni.” (Gv II, 1-12) 81 Gv III, 3. 82 Vangelo di Filippo, 21; I Vangeli Apocrifi (a cura di M.Craveri), Einaudi, Torino, 1969, pag.514. 83 Ivi, 63; op. cit., p. 523. 84 Ivi, 90; op. cit., p. 530.
Dunque è ammissibile che anche l’episodio delle nozze di Cana richieda uno sforzo interpretativo. In effetti molti autori, cristiani e non, hanno scritto a questo proposito, talvolta esibendo complicate chiavi di lettura o brillanti voli di fantasia. Personalmente non saprei mai esaurire la discussione sul tema della trasmutazione dell’acqua in vino, né tantomeno limitarmi a credere che Gesù abbia voluto aprire il suo ministero pubblico con un giochetto di prestigio dinanzi ad una folla un po’ ubriaca:
“Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po’ brilli, quello meno buono”85.
In questa sede voglio solo far notare la posizione di Gesù e della madre, che avrebbe dovuto essere quella di ospiti occasionali. Ella dava ordini ai servi della casa: “La madre dice ai servi: «Fate quello che vi dirà»”86,
ed anche Gesù ordinava:
“E Gesù disse loro: «Riempite d'acqua le giare»; e le riempirono fino all'orlo. Disse loro di nuovo: «Ora attingete e portatene al maestro di tavola». Ed essi gliene portarono”87.
Chi era Gesù, in quel contesto, per potersi comportare così? E chi era lo sposo a cui il maestro di tavola parlò complimentandosi dell’approvvigionamento di vino? Non è strano che non si nomini alcuno dei presenti, o il padrone di casa, o gli sposi? Lo sposo poteva essere Gesù stesso. Sebbene queste osservazioni non abbiano alcun carattere probatorio. Ma allora, da cosa possiamo ricavare un’indicazione precisa della condizione maritale di Gesù? Fra le diverse risposte la principale è: dal fatto che egli, più volte nel corso delle narrazioni evangeliche, sia esplicitamente definito “rabbì”88. Questo termine spesso è tradotto con “maestro”, ma la parola non è adatta per esprimere adeguatamente il vero significato ebraico. Il rabbì è una figura solo vagamente somigliante al sacerdote cristiano, rappresenta un personaggio dotato di autorità religiosa che può coprire incarichi proibiti ad altri. Su un fatto la legge giudaica era ed è precisa e 85
Gv II, 10. Gv II, 5. 87 Gv II, 7-8. 88 Mc X, 51; Mc XIV, 45; Mt XXVI, 25; Mt XXVI, 49; Gv I, 38; Gv I, 49; Gv III, 2; Gv III, 26; Gv IV, 31; Gv VI, 25; Gv XIX, 2; XI, 8; Gv XX, 16. 86
categorica: un uomo non sposato non può fregiarsi di questo titolo. Su questo aspetto la concezione ebraica è opposta a quella cristiana. In quest’ultimo contesto, infatti, si richiede che il sacerdote ordinato osservi il voto di castità e sia assolutamente celibe, mentre per gli ebrei non avere moglie, ed anche non avere figli, costituisce un segno di imperfezione che pregiudica l’immagine dell’uomo e gli preclude l’accesso alle cariche religiose. Questa è senz’altro una ragione forte che induce a domandarci come potesse Gesù essere riconosciuto pubblicamente rabbì e, nello stesso tempo, trovarsi nella condizione di celibato. Perché i vangeli non specificano chiaramente che Gesù era celibe? Gli apostoli erano ammogliati. Il silenzio sulla condizione di Gesù equivale ad ambiguità e appare come un espediente per non dire quello che non si deve sapere. Tanto più che i quattro vangeli canonici sono stati redatti ad uso e consumo di un pubblico gentile, poco esperto di questioni ebraiche e che, pertanto, non avrebbe rimuginato sulle implicazioni del titolo “rabbì”. Altre indicazioni sullo stato matrimoniale di Cristo le ricaviamo dall’esistenza di tradizioni, quelle relative al Santo Graal, che implicano come presupposto il fatto che Gesù avesse lasciato una discendenza di sangue reale davidico (Sang Raal, in provenzale antico) il cui destino fosse quello di riprendere la corona, questa volta non solo su Gerusalemme e Israele, ma sul sacro romano impero. Alcune tradizioni sostengono che Maria Maddalena, resa incinta dal marito, sarebbe fuggita dalla Palestina e si sarebbe rifugiata nella Francia meridionale, e che da lei sarebbe derivata non solo una ramificazione del cristianesimo non inquadrata nella chiesa romana e non riconosciuta dal papa, ma una discendenza che sarebbe confluita nella dinastia merovingia. Ora, dopo tanti secoli, distillare la verità dalla leggenda è come trovare il famoso ago nel pagliaio. Basti pensare al lungo periodo delle crociate, un fenomeno che ha coinvolto tutte le principali case regnanti d’Europa, ai cavalieri della tavola rotonda, ai templari, alle infinite lotte per il potere, al conflitto fra impero e papato, alla particolare crociata contro gli albigesi, condotta nella Francia meridionale e non in terra santa, per capire quante cose possono essere state inventate e successivamente smentite, in un groviglio inestricabile di questioni fra cui possiamo includere anche quella del telo sindonico. Noi oggi non abbiamo una documentazione storicamente valida, per dire che Gesù era sposato o non lo era. E dubito che ce l’avremo mai. Ma non abbiamo nemmeno una documentazione storicamente valida per l’affermazione che Gesù non fosse sposato. Perché la certezza che la chiesa romana abbia lavorato nei secoli per costruire un Gesù della fede assai distinto da quello della storia è del tutto indiscutibile. È forse l’unico aspetto della questione su cui possiamo porre un marchio di sereno convincimento.
Quale Gesù? Alla domanda: “Gesù era sposato con Maria Maddalena?” posso rispondere semplicemente affermando che è difficile sciogliere un dilemma basato, a sua volta, su problemi insoluti. Innanzitutto sarebbe necessario rinunciare ad una domanda che viene posta spesso, ma inadeguatamente: “Gesù è esistito oppure no?”. Infatti la questione più opportuna, che pochi si pongono, e troppo poco spesso, è completamente diversa. Ovverosia: il “Nostro Signor Gesù Cristo”, che costituisce il nucleo del nuovo testamento, si riferisce storicamente ad una persona soltanto… o a due persone? Si faccia bene attenzione, se i “Cristi” fossero stati due il quesito sullo stato matrimoniale si potrebbe risolvere in questo senso: era ammogliato il re, o aspirante tale, il messia davidico che avrebbe dovuto guidare la rivolta zelotica e indossare la corona sul trono di Gerusalemme; non lo era il Jeoshua ha nozrì (ebr.), o Jeshu nazorai (aram.), forse iniziato esseno, in legittima condizione di celibato, che avrebbe costituito una figura sacerdotale messianica (messia di Aronne) secondo le regole della comunità qumraniana. Se fra i tanti quadri ipotetici, che è necessario raffigurare per analizzare la questione delle origini cristiane, non si inserisce anche questo con l’importanza che merita, non solo i teologi del vasto arcipelago cristiano continueranno a navigare nell’oceano delle fantasie, ma rischiano di farlo anche gli storici laici. Purtroppo molti lettori non accettano che una questione storica (soprattutto questa) possa essere discussa attraverso la presentazione di ipotesi anche contrastanti fra loro, valutate contemporaneamente, ognuna col suo peso. In genere si gradiscono soluzioni nette, inequivocabili, chiare, semplici, capaci di chiudere la questione e di pacificare l’animo. Ma su questo tema, a prescindere dalla fede, è proprio impossibile. Il problema dei due Cristi, o meglio, dei due Messia (anche se l’espressione ha esattamente lo stesso significato), si pone in diverse circostanze a partire dalla letteratura evangelica, canonica e apocrifa, e si ripropone con i celebri manoscritti del mar morto, i papiri della setta essena che risiedeva a Khirbet Qumran, sulle rive nord occidentali del mar morto. Cominciamo con alcune osservazioni riguardanti i racconti della natività. Nella letteratura canonica abbiamo due sole fonti: Matteo e Luca. Il primo dà un’impronta spiccatamente regale al suo Gesù. Non possiamo dimenticare che Erode il Grande in persona, venuto a conoscenza della nascita di Gesù dai magi89, si sarebbe preoccupato a tal punto della minaccia che il fanciullo, una volta cresciuto, avrebbe potuto costituire per la sovranità della dinastia erodiana, da organizzare una strage dei bambini di Betlemme, al fine di eliminare il pericolo. Ed è per questa ragione che Giuseppe, Maria e Gesù avrebbero dovuto affrontare un viaggio improvviso, lungo e rischioso, fino 89
“Dov’è il neonato re dei Giudei? Poiché abbiamo visto la sua stella in oriente e siamo venuti ad adorarlo” Mt II, 2.
al lontano Egitto, per sfuggire alle ire del monarca. Si tenga presente un fatto spesso lasciato sotto omertoso silenzio: la famiglia, secondo il racconto di Matteo, avrebbe abitato a Betlemme, in una casa: la casa di residenza. E non avrebbe avuto nulla a che fare con Nazareth prima della partenza per l’Egitto. Siamo molto lontani dal quadro abituale del presepe con la capannuccia e i pastori. Anche la genealogia che Matteo offre per presentare gli illustri antenati del bambinello è costituita dalla serie di tutti i re che hanno occupato il trono di Gerusalemme o che avrebbero dovuto occuparlo, per ragioni dinastiche, se la Palestina non fosse stata soggetta alle dominazioni straniere. Dopo Davide, infatti, compare il nome di Salomone e quindi altri ventisei nominativi, compreso Gesù90. Nella natività di Luca le cose sono molto diverse. Lo scenario storico sembra posticipato di almeno undici anni rispetto a quello di Matteo. In quest’ultimo caso, infatti, è vivo Erode il Grande, la cui morte avvenne nel 4 a.C. Nel racconto lucano si parla del censimento della Palestina, di cui fu supervisore il governatore di Siria Publio Sulpicio Quirino. Un fatto che risale al 7 d.C. e che coincide con la terribile rivolta guidata da Giuda il galileo. Il Gesù lucano è figlio di una coppia di genitori che, fin da prima della nascita del bambino, abitavano a Nazareth e che si sarebbero dovuti spostare a Betlemme a causa del censimento. La genealogia offerta da Luca è completamente diversa da quella di Matteo, nel tratto da Davide in poi. Inizia con Natan, al posto di Salomone, e prosegue con una quarantina di nomi (contro i ventisei di Matteo) di personalità sacerdotali91. Le “beatitudini”92 e il “discorso della montagna”93, presenti nei vangeli di Matteo e di Luca, mostrano una personalità sacerdotale piuttosto che una regale. Infine, sullo scenario dell’ultima cena, tutti e tre gli evangelisti sinottici (ma soltanto loro), presentano Gesù nell’atto di spartire il pane e benedire il vino, ancora indicando una personalità sacerdotale:
“Quando fu l'ora, prese posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse: «Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, poichè vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio». E preso un calice, rese grazie e disse: «Prendetelo e distribuitelo tra voi, poiché vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non venga il regno di Dio». Poi, preso un pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: «Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me». Allo stesso modo dopo aver cenato, prese il calice dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi»” (Lc XXII, 14-20). 90
Mt I, 1-17 Lc III, 23-38 92 Mt V, 3-12; Lc VI, 20-26. 91
Il quarto vangelo, a differenza dei sinottici, non conosce alcuna istituzione dell’eucarestia. In pratica i sinottici, attribuiscono a Gesù la presentazione del pane e del vino come sua carne e suo sangue offerti in sacrificio. Ora, il compimento di un noto e antico rito sacrificale pagano, consistente nel cibarsi della carne e del sangue del dio, in aperto e stridente contrasto con le regole ebraiche della purità, sarebbe stata assolutamente improponibile ad una assemblea pasquale di giudei, per il suo significato spiccatamente sacrilego. Per questo siamo seriamente motivati a supporre che tale immagine sia il frutto di una revisione effettuata da autori non giudei, in ambiente non giudaico e per un pubblico gentile. Se togliamo alla cena questo aspetto, il gesto di Gesù si ridimensiona completamente assumendo i caratteri di un tipico rito esseno, abituale nella comunità di Khirbet Qumran, officiato dal sacerdote capo. Si leggano i seguenti passi dai manoscritti del mar morto:
“In ogni luogo in cui saranno dieci uomini del consiglio della comunità, tra di essi non mancherà un sacerdote: si siederanno davanti a lui, ognuno secondo il proprio grado, e così (nello stesso ordine) sarà domandato il loro consiglio in ogni cosa. E allorché disporranno la tavola per mangiare o il vino dolce per bere, il sacerdote stenderà per primo la sua mano per benedire in principio il pane e il vino dolce. Per bere, il sacerdote stenderà per primo la sua mano per benedire in principio il pane e il vino dolce”94
“E quando si raduneranno alla mensa comune oppure a bere il vino dolce, allorché la mensa comune sarà pronta e il vino dolce da bere sarà versato, nessuno stenda la sua mano sulla primizia del pane e del vino prima del sacerdote, giacché egli benedirà la primizia del pane e del vino dolce e stenderà per primo la sua mano sul pane. Dopo, il Messia di Israele stenderà le sue mani sul pane e poi benediranno tutti quelli dell'assemblea della comunità, 93
Mt V, VI; Lc VI, 27-49 Regola della Comunità, VI, 3-5. In questo passo del manoscritto troviamo descritta la modalità caratteristica con cui veniva aperto il pasto comunitario, ovverosia con la cerimonia della benedizione del pane e del vino, da parte del sacerdote capo, e successiva distribuzione ai commensali. In essa riconosciamo la scenografia dell'ultima cena di Gesù. Ora, una delle tante contraddizioni presenti nel Nuovo Testamento riguarda proprio il racconto dell'ultima cena di Gesù, che differisce sostanzialmente fra i testi sinottici e quello giovanneo. In pratica, mentre i tre resoconti sinottici (Marco, Matteo e Luca) sono caratterizzati dall’istituzione del sacramento dell'eucarestia, il quarto Vangelo non dà segni di conoscere tale gesto, compiuto in quella circostanza. Un fatto importante riguardante questo Vangelo, che abbiamo già esaminato, è la datazione dell'ultima cena che, a differenza dei sinottici, risulta coerente non col calendario ufficiale, lunare, degli ebrei del tempo, ma con quello alternativo, solare, degli esseni di Qumran. Queste due differenze (la datazione solare e l'assenza della istituzione dell'eucarestia) ci danno molti buoni motivi per pensare che gli evangelisti della tradizione sinottica, fedeli alla teologia riformistica della scuola paolina, fossero interessati a purgare il racconto da ogni possibile relazione con la tradizione esseno-zelota e ad introdurvi piuttosto le idee antiessene elaborate e propagate da Paolo di Tarso. Gesù non ha fatto altro che svolgere il ruolo prioritario previsto dalla Regola della Comunità durante un pasto comunitario, di cui vedremo testimonianza anche nella cosiddetta Regola dell'Assemblea. Egli si è comportato come un sacerdote capo, che ringrazia il Signore, spezza il pane e lo distribuisce ai fedeli. 94
ognuno secondo la sua dignità. In conformità di questo statuto essi si comporteranno in ogni refezione, allorché converranno insieme almeno dieci uomini”95
Una curiosa indicazione della duplicità messianica la troviamo in alcuni vangeli apocrifi, nei quali il destinatario della persecuzione comandata da Erode il Grande contro i bambini di Betlemme sembra essere Giovanni Battista e non Gesù; oltre al fatto che il Battista e Gesù sarebbero stati destinati a regnare “insieme” su Israele:
"[Erode] cercava Giovanni, e mandò dei ministri da Zaccaria, dicendo: - Dove hai nascosto tuo figlio? -. Rispose loro: Io sono un pubblico ufficiale di Dio e dimoro costantemente nel tempio del Signore, non so dove sia mio figlio -. I ministri se ne ritornarono per riferire tutto ciò a Erode. Adiratosi, Erode disse loro: - E' suo figlio colui che regnerà su Israele! -"96;
"I ministri, ritornati dal colloquio con Zaccaria, riferirono a Erode. Erode dunque, adirato, disse a coloro che gli avevano riferito questo: «Zaccaria si beffa di noi perché suo figlio sta per regnare in Israele con il Cristo»"97;
"Ma quando i servi del re ritornarono e gli riferirono la risposta di Zaccaria, il re furibondo disse ai suoi: «Zaccaria si beffa di noi perché spera che suo figlio regni con il Cristo in Israele»"98.
Forse Gesù e Giovanni hanno rappresentato, almeno in un certo momento della loro storia, le due figure su cui era concentrata l’aspettativa dei messianisti esseno-zeloti? Queste citazioni apocrife ci offrono dei segni curiosi, ma niente più. La duplicità della figura messianica, secondo le concezioni degli Yahwisti, è indicata in modo inequivocabile dai Manoscritti del Mar Morto, come nei due passi che riportiamo di seguito:
“Non usciranno da alcun consiglio della legge per camminare nella ostinazione del loro cuore, saranno invece retti in base alle prime disposizioni nelle quali incominciarono ad essere formati gli uomini della comunità, fino alla venuta del profeta e dei Messia di Aronne e di Israele” 99 95
Regola dell’Assemblea II, 17-22. Protovangelo di Giacomo XXIII, 1-2 97 Codice Arundel 404, 99. 98 Codice Hereford 039, 99. 99 Regola della Comunità 96
“Questa è la regola di abitazione per gli accampamenti per tutto il tempo determinato dell'empietà: coloro che in queste norme non perseveranno non giungeranno ad abitare sulla terra nell'avvento del Messia di Aronne e di Israele, alla fine dei giorni.”100
È possibile che la revisione iniziata presumibilmente da San Paolo, finalizzata alla spoliticizzazione del pensiero messianico Yahwista e alla sua sostituzione con un’ideale che non creasse problemi di compatibilità con la supremazia romana, abbia operato la fusione dei due personaggi in un’unica figura messianica sulla quale ricadeva un compito esclusivamente spirituale. Anche durante lo svolgimento del processo nella versione lucana abbiamo testimonianza di una strana duplicità di aspetti. Il vangelo di Luca è l’unico nel quale non si parla dell’episodio della flagellazione, in cui Gesù è addobbato come un re fantoccio e schernito dai soldati, ma è anche l’unico in cui si parla di una presentazione di Gesù a Erode:
“Udito ciò, Pilato domandò se era galileo e, saputo che apparteneva alla giurisdizione di Erode, lo mandò da Erode che in quei giorni si trovava anch'egli a Gerusalemme. Vedendo Gesù, Erode si rallegrò molto, perché da molto tempo desiderava vederlo per averne sentito parlare e sperava di vedere qualche miracolo fatto da lui. Lo interrogò con molte domande, ma Gesù non gli rispose nulla. C'erano là anche i sommi sacerdoti e gli scribi, e lo accusavano con insistenza. Allora Erode, con i suoi soldati, lo insultò e lo schernì, poi lo rivestì di una splendida veste e lo rimandò a Pilato. In quel giorno Erode e Pilato diventarono amici; prima infatti c'era stata inimicizia tra loro.”101
Il carattere di questo Gesù è assai più sacerdotale che regale e questo episodio, taciuto da tutti gli altri, aggiunge ulteriori indizi a favore dell’ipotesi che i Messia cui fa riferimento la narrazione evangelica fossero veramente due. C’è un’ultima importante considerazione che possiamo fare sulla duplicità della figura messianica, a proposito di quel brano noto come “miracolo” della moltiplicazione dei pani e dei pesci:
"…c'è qui un ragazzo che ha cinque pani d'orzo e due pesci… allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li distribuì a quelli che si erano seduti, e lo stesso fece dei pesci…"102. 100
Documento di Damasco XIII, 20-22 Lc XXIII, 6-12. 102 Gv VI, 9-11. 101
Altrove abbiamo già chiarito che molti brani evangelici comunemente definiti “miracoli” sono, in realtà, degli scenari simbolici che possono essere compresi solo possedendo una chiave di lettura. Anche in questo caso dobbiamo rinunciare all’idea che Gesù abbia sfamato centinaia di persone ricorrendo ad un prodigio. I cinque pani, infatti, non rappresentano un nutrimento corporale, come del resto abbiamo visto spesso nel corso delle narrazioni evangeliche:
"- in verità vi dico: non Mosè vi ha dato il pane dal cielo, ma il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero... Allora gli dissero: - Signore dacci sempre questo pane -. Gesù rispose: Io sono il pane della vita: chi viene a me non avrà più fame e chi crede a me non avrà più sete -"103.
"...i vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno..."104. Le espressioni “mangiare il pane” o “bere l’acqua”105 sono usate spesso come sinonimi del nutrimento spirituale che conduce alla conoscenza. I cinque pani si riferiscono ai cinque libri della Torah (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio) che devono essere del tutto sufficienti a nutrire la fame spirituale del popolo di Israele (rappresentato come un “ragazzo” incapace di nutrirsi). In questo episodio Gesù affianca ai “pani” i cosiddetti “pesci”. Ora, è facile ricordare che il pesce era un simbolo molto comune nel cristianesimo primitivo, esso rappresentava il messia. Esiste anche un curioso gioco di parole nella lingua greca: ΙΧΘΥΣ, che significa appunto "pesce", è una parola composta da lettere che nell'ordine dato sono le iniziali di Ιησους Χριστος Θεου Υιος Σοτηρ (Gesù Cristo, figlio di dio, salvatore). Ecco dunque il Cristo=Pesce. Ma i pesci proposti sono due, coerentemente con la duplice aspettativa messianica dei qumraniani, che distinguevano il messia sacerdotale da quello regale. In pratica l’episodio rappresenta Gesù che propone al popolo di Israele di “sfamarsi” attraverso i cinque libri sacri della Torah e l’avvento dei due salvatori che avrebbero dovuto ricostruire il regno di Davide.
103
Gv VI, 32-35. Gv VI, 49-51. 105 “Rispose Gesù: Chiunque beve di quest'acqua avrà di nuovo sete; ma chi beve dell'acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l'acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna” (Gv IV, 13-14). 104
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