Dario Ciraci - Gestisci blog, social e Seo.pdf

April 16, 2017 | Author: burlanescu | Category: N/A
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CAMBIARE CAPPELLO SIGNIFICA CAMBIARE IDEE, AVERE UN’ALTRA VISIONE DEL MONDO. C.G. Jung

Dario Flaccovio Editore

Dario Ciracì

GESTISCI BLOG, SOCIAL E SEO CON IL

CONTENT MARKETING

Prefazione di Giorgio Soffiato

DARIO CIRACÌ GESTISCI BLOG, SOCIAL E SEO CON IL CONTENT MARKETING ISBN 978-88-579-0467-2 © 2015 by Dario Flaccovio Editore s.r.l www.darioflaccovio.it [email protected] www.facebook.com/DarioFlaccovioEditore Prima edizione digitale giugno 2015 Copertina: Illustrazione realizzata da Goran Factory Questo e-book viene ceduto in licenza al solo acquirente. Tutto il materiale contenuto in questo e-book è coperto da copyright. Sono vietati: copiatura, riproduzione, trasferimento, noleggio, distribuzione, trasmissione in pubblico e utilizzo al di fuori di quanto previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi utilizzo non espressamente autorizzato dall’editore costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore ed è sanzionabile sia in campo civile che penale ai sensi della legge 633/1941 e successive modifiche.

Ringraziamenti Scrivere un libro non è affatto semplice. Infatti mi ci è voluto un anno per terminarlo. Il testo che hai tra le mani è frutto di numerose esperienze maturate in questi anni di un’attività che abbiamo costruito praticamente da zero con tanti sacrifici, molta passione e determinazione. Un libro sul web marketing non è mai un punto di arrivo, ma un punto di partenza. Questo settore è così dinamico e mutevole che ti porta a dover studiare sempre e a sperimentare nuovi strumenti e strategie, giorno dopo giorno. Ci sono alcune persone che è doveroso ringraziare. Innanzitutto Maria Pia De Marzo, senza cui tutto questo “Web” non sarebbe mai stato “in Fermento”. Ringrazio Enrico Flaccovio che, dopo aver scoperto e seguito il nostro blog, ha deciso di propormi di scrivere un libro. Un ringraziamento speciale va anche ai contributori di questo libro. Ognuno di loro è un professionista che stimo e che ho voluto coinvolgere per l’esperienza con cui poteva arricchire questo testo. Infine, ringrazio i tantissimi lettori del blog Webinfermento, soprattutto quelli più storici, che continuano a seguire con interesse le novità, gli aggiornamenti e i casi di studio legati al mondo del web marketing che pubblichiamo e ne traggono ispirazione per il loro lavoro.

Contributori

Loro sono dei professionisti stimati, alcuni dei quali miei collaboratori, a cui ho chiesto di condivedere un po’ di esperienza e conoscenza per arricchire questo testo. Giorgio Soffiato

> Prefazione Si occupa di Web Marketing, Formazione e Project Management per PMI, Startup e grandi clienti con particolare attenzione ai settori Food, Finance e Beauty. marketingarena.it

Matteo Ranzi

> Vai al contributo Classe ’73, Freerider nella vita e sul lavoro. Bocconiano appassionato di marketing e creativo. Manager di una multinazionale per 10 anni, Consulente e Presidente di Mille Ottani dal 2009. milleottani.it

Valentina Vellucci

> Vai al contributo

Collabora come Social Media Strategist e Web Marketing Consultant con diverse agenzie. Si occupa di Community Management e Digital PR nell’ambito fashion & beauty. roarmagazine.it

Maria Pia De Marzo

> Vai al contributo 1, 2 Web e Content Developer. Co-Founder di Webinfermento. Si occupa della progettazione strategica di prodotti web finalizzati in strategie di Content Marketing e Community Management. webinfermento.it

Simone Ardoino

> Vai al contributo Studia strategie di marketing e comunicazione per aiutare chiunque abbia un’attività online o offline a migliorare le vendite attraverso i social media e il passaparola online. crearepassaparola.it

Nicola Carmignani

> Vai al contributo

Freelance esperto di Social Media Marketing, SEO, blogging e digital strategy, svolge consulenza per privati e PMI. Ha una grande passione per Instagram e per il caffè senza zucchero. nicolacarmignani.it

Domenico Armatore

> Vai al contributo Papà di CommunityManagerFreelance.it, co-founder di Pinterestitaly e docente di Community Management e Pinterest Marketing per Ninja Marketing, Il Sole 24 Ore e altre realtà italiane. communitymanagerfreelance.it

Riccardo Esposito

> Vai al contributo Webwriter e blogger freelance. Ha iniziato a scrivere nel 2004 in un’agenzia stampa e ha continuato nel 2008 in una web agency. Laureato in Scienze della Comunicazione a Roma. mysocialweb.it

Paolo Ratto

> Vai al contributo Consulente e Formatore in Comunicazione Digitale. Si occupa di pianificare e gestire strategie di comunicazione online per aziende, enti e professionisti di diversi settori di mercato. paoloratto.com

Gianluca Fiorelli

> Vai al contributo Consulente SEO e Inbound Marketing, Moz Associate, con un debole speciale per tutto ciò che è Content Marketing Strategico. Scrive regolarmente su Moz e State of Digital. iloveseo.net

Davide Pozzi

> Vai al contributo

Consulente Web Marketing, SEO molto anomalo, taglia-blogger e internet addicted dal lontano 1995. tagliaerbe.com

Francesco Margherita

> Vai al contributo Sociologo, scrittore, musicista, cultore della materia e assistente alla cattedra di Comunicazione, marketing e pubblicità presso l’Università Federico II di Napoli, consulente e formatore SEO. seogarden.net

Indice

Prefazione di Giorgio Soffiato Premessa Introduzione 1. La necessità del brand di diventare un editore di contenuti 1.1. I benefici di una strategia di contenuti e di social media marketing 1.1.1. Produzione di una comunicazione moderna 1.1.2. Sviluppo e miglioramento del patrimonio della marca (brand equity) 1.1.3. Acquisizione di link in entrata e aumento del traffico dai motori di ricerca 1.1.4. Aumento delle relazioni sociali e delle conversazioni in rete 1.1.5. Miglioramento del rapporto di fiducia tra utente e azienda 1.2. Gli step della Digital Strategy per la costruzione di un brand di successo 1.3. Social Media Marketing: ascolto, interazione, informazione e azioni real-time 1.3.1. Ascolto 1.3.2. Interazione 1.3.3. Informazione 1.3.4. Agire in Real-Time: il newsjacking 2. La presenza nei social media 2.1. Facebook 2.1.1. Ha senso investire in Facebook? Sì 2.1.2. La strategia di contenuti per Facebook 2.1.3. Facebook Ads 2.2. Twitter 2.2.1. La strategia di contenuti per Twitter 2.2.2. Twitter Ads

2.3. Google+ a cura di Maria Pia De Marzo 2.3.1. Il mondo di Google+: statistiche e numeri 2.3.2. Google+ e le aziende 2.3.3. Come un’azienda dovrebbe impostare una content strategy 2.3.3.1. Definizione degli obiettivi e pianificazione delle cerchie per “nicchie di utenti” 2.3.3.2. Creazione pagina profilo ottimizzata e creazione delle cerchie 2.3.3.3. Imparare a dare design ai post 2.3.3.4. Saper scegliere i contenuti (temi caldi) 2.3.3.5. Creare la propria pagina business, scegliere i contenuti migliori per la content strategy e raccogliere i risultati 2.3.3.6. Promuovere la pagina Google+ 2.3.3.7. Correlare una community proprietaria 2.3.3.8. Interagire platealmente e fuori dalla community: Hangout, showcase ed eventi 2.4. LinkedIn 2.4.1. LinkedIn Ads 2.5. Altri canali sociali: Instagram, Vine, Pinterest 2.6. Il Social Media ROI a cura di Paolo Ratto 3. L’importanza del blog 3.1. Corporate Blog: come costruire un sito web 2.0 3.1.1. Il sito web 2.0: integrare un corporate blog nel website aziendale 3.2. Come, cosa e chi: le 3 C del Blog Marketing 3.2.1. Cosa scrivere 3.2.1.1. Suggerimenti per la ricerca degli argomenti 3.2.2. Come scrivere 3.2.3. Come promuovere 4. Relationship Marketing. L’importanza dello sviluppo delle relazioni 4.1. Interagire nelle Community 4.2. Comment Marketing 4.3. Influencer Outreach 4.4. Il Personal Branding degli autori di contenuti 5. Content Ideation

5.1. Obiettivi di una strategia di Content Marketing 5.2. Come scegliere il target di riferimento e gli argomenti da sviluppare 5.3. La raccolta di dati e di informazioni per lo sviluppo delle idee 5.3.1. Ideare un contenuto per la SEO. L’esempio di Zalando.it 5.3.2. Altri tool per l’ideazione di contenuti 6. Content Production. Produci contenuti di successo 6.1. La produzione di contenuti inizia dal tuo sito 6.2. Content Marketing Machine: la regola del 70-20-10 6.3. Tipologie di contenuti 6.3.1. Micro-content per i social media 6.3.2. Gli articoli del blog 6.3.3. I guest post 6.4. Contenuti premium 6.4.1. Data Visualization 6.4.2. Le infografiche 6.4.3. Guide scaricabili, white paper, video virali 6.5. Altre iniziative di Content Marketing non convenzionali 6.5.1. I blog tour 6.5.2. Testimonial e operazioni cause-related marketing 6.6. SEO e acquisizione di link con i contenuti 6.6.1. L’ottimizzazione on site di un sito web 6.6.2. Il cambio di paradigma: da link building a link earning 6.6.2.1. Link earning e Content Marketing 6.6.3. Tre casi di successo di link earning con i contenuti 6.6.3.1. Case study: l’infografica virale su sesso e cibo (Erboristeria Rodiola) 6.6.3.2. Case study: #askarrigo l’Hangout On Air con Arrigo Sacchi (Betclic.it) 6.6.3.3. Case study: il videogioco per i SEO (NetvoucherCodes.co.uk) 7. Content Delivery. Distribuire contenuti a siti e blog d’interesse 7.1. Blog outreach: la ricerca dei blog 7.1.1. Analizzare i siti 7.2. Blog seeding: la distribuzione di contenuti ai blog 7.2.1. Reperire le informazioni di contatto 7.2.2. Il processo di distribuzione

7.3. Le buone pratiche del mail seeding 8. Le metriche da misurare 8.1. Metriche dei social media 8.2. Metriche di Content Marketing 9. Conclusioni 9.1. Il Content Marketing è per tutti? 9.2. Il futuro del Content Marketing Biografia Iscrizione alla mailing list

Prefazione

Dario Ciracì è un bravo ragazzo. Una persona umile, un gentiluomo del web marketing che forse non merita quello cui va incontro, cioè gli strali dei tanti “web guru” (ormai schierati in opposte fazioni come nemmeno i picchieri nel compianto gioco di Age of empires) la cui più gentile provocazione sarà di certo “abbiamo davvero bisogno di un altro libro sul marketing digitale?”. La risposta non c’è perché è la domanda ad essere sbagliata. La verità è che abbiamo bisogno di persone intelligenti, ma soprattutto competenti. Quando la complessità cresce e la strategia è più importante della tattica non è il talento la risposta, bensì la competenza. Dario è una persona che ha studiato, e dopo tanti anni “sotto traccia” può ora raccontare quello che ha imparato. Lungi da me dire che non sia una persona talentuosa, ma di certo è persona che i suoi pensieri non li grida, ma li racconta, qualità rara di questi tempi. Cinque righe prosopopeiche solo per dire che “sì, devi leggere questo libro”. La banalità del Content is King è ormai quasi insostenibile, tutti a raccontarci che dobbiamo diventare dei media, dei magazine, degli storyteller, “ma, cavolo, io faccio il direttore marketing e voglio vendere! Tenetevi la brand awareness, io ho bisogno di portare il mio prodotto nelle case delle persone, o peggio (maledetto, b2b penserà qualcuno) nei magazzini delle aziende”. Questo libro non fugge la richiesta dell’ansioso manager e ci dice due cose, che meritano un focus: DOVE STIAMO ANDANDO: non è facile tracciare una rotta tra mondi che

ogni 6 mesi vengono dati per morti (i blog, l’e-mail marketing, la SEO) e che ci ricordano invece in maniera molto netta la loro vitalità e soprattutto un apporto non rinunciabile a quei KPI che il direttore marketing deve portare a casa; tra le righe scoprirai cosa fare e cosa non fare per tenere dritta la barra di una barca non solo da portare in porto sana e salva

(evitando ad esempio gli umori di Google che sempre più spesso sembra individuare ogni tipo di ricerca di scorciatoie e produzione di contenuti non pensati per l’utente, come ci ricorda Davide Pozzi nel suo guest box), ma da rendere più rapida e filante possibile nel mare della competizione che vede apparire intermediari, nuovi player e agguerriti progetti atti a scalzare le nostre certezze, guadagnate negli anni COME SI FA: vision e cultura sono la base, ma se poi non sai che la portata di un contenuto su Facebook è diversa dalla stessa su un altro social beh, allora di cosa stiamo parlando? L’overview centrale del libro è dedicata ai mezzi, e quindi, una volta definito il piano (ma non prima di averlo fatto), il lettore attento potrà definire anche il proprio “come” oltre che il proprio “cosa”. La verità è che oggi il Content Marketing richiede di dare contemporaneamente un colpo al cerchio della tattica e uno alla botte della strategia, comprendendo come ad esempio un’infografica possa fare senza dubbio al caso nostro in una campagna di seeding ma, al tempo stesso, se la costruzione del team di content management deve essere interna (make) o esterna (buy). Non ultimo motivo per intraprendere questo viaggio con Dario, la qualità dei nomi dei contributi, gente che il web lo ha masticato davvero, e cui di certo i calli nelle mani non mancano per portare all’azienda, al free-lance di domani o allo studente che vuole (e deve) costruirsi in tempo una professionalità, le leve per non sbagliare in un mondo in cui tutti sanno tutto ma nessuno converte abbastanza. Dal Social Media Monitoring alla gestione della responsività al servizio della SEO (e, mannaggia, dell’utente!), questo libro lascerà l’amaro in bocca a più di una persona, agli altri consulenti in primis perché forse avrebbero voluto scriverlo loro, ma soprattutto all’imprenditore che potrebbe concludere con le mani nei capelli il viaggio, comprendendo come le cose da fare sono davvero tante e che forse “mio cugino” non è la persona adatta per dirigere il reparto web marketing, e forse anche che è il caso di portare in-house qualche competenza che di queste cose ne capisce. Non possiamo davvero più pensare di delegare un’attività così strategica, Dario ha il merito di ripetercelo più volte con fermezza e garbo. La checklist che emerge da questo progetto è chiara e netta e porterà le aziende a far meglio, a generare contatti commerciali e a competere con i big

brand nella generazione di contenuti autentici, ma al tempo stesso ingaggianti, promossi nei giusti canali e costruiti secondo i canoni che la rete oggi richiede. Un colpo al cerchio e un colpo alla botte dunque, ma un colpo al cuore sarebbe il non dedicare qualche ora a questa cavalcata che, davvero, farà bene a tutti. Giorgio Soffiato

Premessa

Caro lettore, eccoci qui insieme per un viaggio nel fantastico universo del Content Marketing. Imparerai a scoprire, pagina dopo pagina, quanto importanti siano i contenuti in ogni strategia di web marketing e come questi siano le vere pepite d’oro del web a cui ognuno dovrebbe dare la caccia per farne il proprio tesoro e fare la differenza nei meandri sconfinati del web. Sia che tu ti occupi di Social Media Marketing, di SEO, o di Digital PR, vedrai come in questi settori i contenuti svolgano un ruolo determinante. Mettiti comodo, allacciati le cinture e preparati a volare nell’universo del Content Marketing.

Introduzione

In un periodo come questo in cui la nostra economia inizia a riprendersi, seppur molto lentamente, dalla profonda recessione mondiale che ha messo alle strette anche i Paesi più industrializzati, il web ha rappresentato un canale molto ambito e desiderato da numerose aziende, per promuovere prodotti e servizi. Agli inizi della mia carriera lavorativa, nel 2009, ricordo come “fare marketing sui social media” veniva visto come una sorta di nuova lampada di Aladino a costo zero che ti avrebbe permesso di esaudire tutti i tuoi più importanti obiettivi e desideri di business. Soltanto cinque anni fa c’era infatti molta meno percezione del reale valore dei social media e ancora meno di quello dei contenuti online. Le aziende erano state abituate a un decennio in cui, dopo la bolla delle Dot Com,1 i nuovi media si erano diffusi rendendosi strumenti operativi del web marketing. Canali come l’email marketing, il display advertising e successivamente il pay-per-click – che, per quanto nuovi media, restavano pur sempre strumenti per fare pubblicità online e spesso in modo intrusivo o, per meglio definirlo, interruttivo – crebbero notevolmente in termini di investimenti di marketing. Era quindi una “normalità” che l’utente fosse distratto da un annuncio pubblicitario mentre navigava nel web. La denuncia di tale approccio, di cui era ormai saturo il mercato e a cui il pubblico di riferimento prestava sempre meno attenzione, è stato ripresa più volte da Seth Godin,2 esperto mondiale di marketing, che ha anteposto al concetto di Interruption Marketing quello di Permission Marketing, inteso come approccio strategico secondo il quale è il cliente ad andare di sua spontanea volontà da un’azienda e non viceversa. La diffusione della banda larga, dei social network e dei vari strumenti online di partecipazione ha permesso a milioni di utenti di essere soggetti attivi nella

determinazione del successo o insuccesso di migliaia di prodotti, spot pubblicitari, livelli di qualità dei servizi e, in alcuni casi, anche del fallimento di intere aziende. Non ti stupirà infatti vedere oggi frequenti campagne di digital consumer empowerment3 attivate da diverse aziende proprio grazie al potere comunicativo e di confronto espresso dagli utenti nelle reti sociali. Una delle più recenti è quella che ha permesso di reintrodurre nel mercato il noto Winner Taco di Algida, grazie alle diverse pagine a tema e gruppi che erano sorti su Facebook a sostegno del prodotto fuori produzione ormai da anni.

L’annuncio su Twitter del ritorno del Winner Taco©

I social media hanno quindi in parte invertito la tendenza dei media online di equipararsi a quelli classici e noti ai pubblicitari del mondo offline, quali stampa, radio e tv, dando modo ai fruitori di farsi giudici del messaggio veicolato, del prodotto pubblicizzato o anche del contenitore utilizzato. Tutto quello che fa oggi un’azienda nei social media può essere oggetto di apprezzamento o disprezzo e ogni sua azione può aiutarne lo sviluppo della

reputazione o, al contrario, comprometterla e affossarla. Sempre sulla scia del Permission Marketing, anche il modo di produrre contenuti online è molto cambiato negli ultimi anni. L’utente è stanco di leggere pagine web statiche che descrivono il prodotto e cercano di convincerlo ad acquistarlo, magari evidenziandone soltanto gli aspetti positivi. L’utente è alla ricerca di contenuti informativi che rispondano ai suoi bisogni personali, che soddisfino la sua esigenza di ricerca e a cui spesso accede per mezzo di una query4 su Google, o magari perché nota un contenuto online diffusosi in modo esponenziale nei social media. Anche per i contenuti online vale ormai la regola del Permission Marketing. È necessario smettere di pensare di produrre contenuti che parlano ai clienti in un “linguaggio aziendale” e che altro non sono che claim commerciali e iniziare ad adottare una mentalità volta a soddisfare i bisogni informativi dei propri clienti attuali e potenziali. Sarà poi l’utente, soddisfatto dal contenuto “consumato”, a ricordarsi della tua azienda, all’insorgere del bisogno di acquisto che il tuo prodotto o servizio può soddisfare e a scegliere la tua offerta anziché quella del competitor. L’universo comunicativo delle reti sociali vede oggi un insieme di connessioni predominate dagli utenti e non più dalle aziende. Si pensi per esempio alle caratteristiche dei social network; posso benissimo decidere di nascondere, con un’azione, le conversazioni provenienti da un brand anche se ho deciso di seguirne gli aggiornamenti. Come aziende non stiamo più costruendo delle community a cui invitare come spettatori degli utenti potenziali, dei clienti. SIAMO INVECE OSPITI DI UN PALCOSCENICO DI CONVERSAZIONI RETICOLARI GENERATE DAGLI UTENTI nel quale spesso si parla un linguaggio comune, si condividono idee

e pareri ma sempre avendo al centro un comune denominatore: le conversazioni che si generano sono tra pari. Bisognerebbe quindi ricordarsi che ogni azione troppo intrusiva, soprattutto quando si cerca di raggiungere un utente nel modo e nel momento più sbagliato (pensiamo ad una campagna di advertising su Facebook con una profilazione del target non proprio azzeccata), verrà notata dall’utente che potrà decidere di “zittire” il brand.

Un esempio errato di targeting di una campagna di inserzioni in Facebook

L’unico modo che ha l’azienda per raggiungere un utente senza interromperlo e distoglierlo dalle proprie attività è quello di inserirsi nelle sue conversazioni rispondendo ai suoi bisogni prima con i giusti contenuti informativi e poi con eccellenti prodotti e servizi. L’approccio di cui sto parlando è quello del cosiddetto Inbound Marketing, secondo il quale è l’utente a interessarsi ad un’azienda o ai suoi prodotti a seguito di una serie di attività, contenuti e conversazioni di valore per una nicchia dagli interessi omogenei, realizzate e prodotte dalla marca. Questo libro avrà l’obiettivo di spiegarti come una solida ed efficace presenza nei social media, unita all’ideazione, realizzazione e diffusione di contenuti informativi e la costruzione di network di relazioni con i blogger della propria nicchia, permetterà a qualsiasi azienda di posizionarsi nel web e diventare popolare, migliorare la propria visibilità e reputazione e costruire vantaggi competitivi difendibili e di lungo periodo che le permetteranno di essere sempre un passo avanti rispetto ai competitor. A chi si rivolge questo libro Questo libro è pensato per tutte quelle aziende che sanno di avere prodotti e servizi eccezionali ma non sanno come comunicarlo nel web, a quelle aziende che sono già note nel mercato ma desiderose di aumentare la loro visibilità, a tutte quelle start-up che hanno l’obiettivo di farsi conoscere e di raggiungere

un posizionamento di settore. È un libro che sicuramente troveranno molto utile i consulenti di web marketing che vogliono conoscere il mondo dei social media e dei contenuti, i SEO specialist che vogliono imparare a costruire link al proprio sito in modo naturale e grazie ai contenuti, i social media specialist che hanno bisogno di ottimizzare meglio la strategia di contenuti dei canali che gestiscono, i freelance obbligati a cercare soluzioni innovative e performanti per i loro clienti e, più in generale, tutti coloro che lavorano nel marketing o che si affacciano per la prima volta al mondo del web marketing e vogliono imparare a costruire strategie digitali di successo. Leggendo questo libro verrai a conoscenza dei processi e delle strategie che ho potuto realizzare in questi anni per clienti grandi e piccoli, con progetti innovativi e per settori anche molto diversi tra loro. Ti spiegherò come impostare una digital strategy passando dallo sviluppo di una presenza ottimale nei social media, alla gestione delle digital pr con i blogger, fino alla produzione e distribuzione di contenuti “memorabili” che facciano il giro del web risuonando nelle reti sociali. Non leggerai approfondimenti specifici di ogni singola area tematica di cui si parlerà (es. Social Media Marketing) ma le nozioni più utili per impostare la strategia di contenuti per la tua azienda e i contenuti saranno i veri protagonisti di tutto il percorso strategico che sto per raccontarti. Sarà più un libro che ti spiegherà come sviluppare un percorso strategico di successo, senza elencarti soltanto una serie di strumenti operativi a supporto delle strategie.

La bolla delle Dot Com viene ricordata come la bolla speculativa sviluppatasi tra il 1997 e il 2000 che mandò in fallimento le aziende nate esclusivamente online Seth Godin (1999), Permission Marketing: turning strangers into friends, and riends into customers. New York: Simon & Schuster Digital Consumer Empowerment: utenti/clienti coinvolti in modo parziale nella realizzazione di una o più leve decisionali del marketing aziendale Query: termine utilizzato per indicare una ricerca effettuata su un motore di ricerca 1

2

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1. La necessità del brand di diventare un editore di contenuti

Agli albori del web marketing le aziende erano convinte che fosse sufficiente andare sul web con una vetrina, rappresentata dal classico sito web e, miracolosamente, si sarebbe potuto vendere più di quanto avveniva normalmente nel mondo offline. Dopo il vantaggio competitivo dei primissimi anni, quando, ad esempio, molte aziende sono riuscite a incrementare i loro guadagni legati all’online grazie al posizionamento nei motori di ricerca per parole chiave che all’epoca non avevano molta competizione, presto si è assistito allo sviluppo di uno scenario in cui la competizione gradualmente è andata aumentando e il fatto di possedere soltanto un sito web “vetrina” di rappresentanza o di vendita dei prodotti online non era più sufficiente. L’economia aziendale insegna che, al crescere della competizione tra aziende, il mercato richiede strategie di differenziazione utili a far emergere dei plus identificabili come fattori critici di successo che permettano alle aziende virtuose di conseguire vantaggi competitivi di lungo periodo nella propria nicchia di mercato. Conseguendo un vantaggio competitivo, l’azienda aumenta il suo fatturato e allo stesso tempo costruisce delle barriere all’ingresso, obbligando i competitor della propria nicchia a migliorare il proprio output strategico e produttivo al fine di raggiungere e superare il livello stabilito dall’azienda competitiva. Questo concetto, da decenni valido nell’economia di mercato offline, con l’avvento del web marketing è divenuto utile anche per affrontare le sempre più competitive nicchie di mercato nel mondo online. Per comprendere la natura dinamica di una nicchia di mercato online, basti pensare che in meno di dieci anni si è assistito al passaggio da uno scenario che vedeva inizialmente poche aziende dividersi una domanda di mercato ancora in crescita e fatta principalmente di ricerche sui motori a uno in cui

quasi tutte le aziende hanno una presenza in rete e la competizione si è spostata sullo sviluppo delle più creative strategie in differenti canali, quali social media, motori di ricerca, blog, email marketing, eventi, ecc., per rispondere ad una domanda di mercato che non solo è quintuplicata nel giro di pochi anni, ma è destinata a crescere sempre più, in funzione anche dell’abbattimento dei costi di accesso alle nuove tecnologie per gli utenti. Non stupisce più infatti che i brand più noti e attivi nel web siano anche dei veri e propri editori di contenuti in tutti i principali canali. La competizione non si gioca più soltanto nella presenza in rete per mezzo di un sito web, di un blog e dei canali sociali aziendali, ma si è spostata sul valore aggiunto che si riesce a fornire all’utente con messaggi, informazioni e contenuti rilevanti che lo raggiungono al momento giusto. I brand oggi hanno l’opportunità di raggiungere e coinvolgere un numero crescente di utenti in tutti i vari canali e piattaforme in continua proliferazione. L’industria si è frammentata, i canali e le piattaforme digitali sono raddoppiati e gli utenti hanno ormai capito che le aziende sono sui social per ascoltare i clienti e, di conseguenza, si aspettano di essere coinvolti nel processo di generazione del valore. La creazione di contenuti originali e coinvolgenti sarà la chiave del successo per rendersi visibili e trasformarsi in veri e propri editori web che porterà ad affermare il brand come soggetto economico – costituito da persone – riconosciuto nella rete. Il contenuto può potenzialmente raggiungere l’utente in ogni stadio del suo processo decisionale d’acquisto: un consumatore può, ad esempio, utilizzare il motore di ricerca per comparare prezzi online, visitare lo shop online del fornitore per ottenere maggiori informazioni descrittive sul prodotto, chiedere feedback sul prodotto ai propri amici sui social network, abbonarsi a una newsletter esclusiva che lo informa sulle ultime novità o aggiornamenti e, soltanto alla fine, scegliere uno specifico canale per concludere l’acquisto. Potrebbe anche accadere che il consumatore concluda l’acquisto recandosi nel punto vendita. Ad ogni modo i canali web avranno influenzato la sua decisione d’acquisto. Per questo motivo è importante per l’azienda essere presente come parte attiva in ogni canale online in cui “viaggia” il consumatore prima di completare l’acquisto del prodotto, allo scopo di influenzarlo attraverso contenuti utili e rilevanti che rispondano alle sue esigenze informative.

Il viaggio del consumatore fino all’acquisto finale (fonte: Hugeinc.com)

Il raggiungimento del successo in questo senso, dipenderà dal corretto sviluppo ed integrazione di quattro fattori: processi, contenuti, tecnologia e persone. PROCESSI

Per i brand diventa obbligatorio sviluppare piani editoriali di contenuti che coinvolgano l’utente nelle diverse fasi di influenza della sua decisione d’acquisto e con lo scopo di informare l’utente su base giornaliera, settimanale, mensile, trimestrale, ecc. Ci sono contenuti con un costo di sviluppo alto e altri con costi inferiori, ma solitamente i ritorni economici saranno proporzionali. La pianificazione editoriale deve prevedere di riuscire a raggiungere gli utenti giornalmente (interagendo sui social, menzionando gli utenti, rispondendo ai loro commenti e richieste, ecc.), settimanalmente (pubblicando articoli informativi sul blog aziendale), mensilmente (realizzando mini-guide, video informativi o interviste a esperti del settore) o annualmente (realizzando concorsi a premi, eventi settoriali, blog tour, ecc.). Nel corso di questo libro verranno approfonditi tutti i passaggi esposti nella piramide dei contenuti evidenziando gli obiettivi, gli approcci relazionali e le campagne di contenuti da progettare in funzione degli stadi di sviluppo del tuo brand. CONTENUTI

Costruire un contenuto per il web non corrisponde a riprodurre nel digitale quanto già fatto nel mondo offline. Come ho già anticipato nell’introduzione, quelle forme interruttive, auto-promozionali e non utili all’utente non generano valore e non hanno successo. Il contenuto nel mondo digitale deve sì rispecchiare la voce dell’azienda nel web, ma deve essere in grado di fornire all’utente un motivo per cui valutare un acquisto o l’insorgere di un bisogno d’acquisto. Le aziende dovrebbero chiedersi quale tipologia di contenuti è accettabile e quale no, quali sono le regole per rispettare la voce dell’azienda e, soprattutto, quali obiettivi si vogliono raggiungere con quel contenuto. TECNOLOGIA

Tutta la produzione editoriale del brand, dall’ideazione allo sviluppo fino alla distribuzione, necessiterà di una serie di tecnologie che supporteranno tutto il processo. Soltanto a titolo di esempio, pensiamo a strumenti come tool e software di grafica, CMS (content management system), database complessi, software di email marketing, piattaforme di monitoraggio delle conversazioni e di web analytics, ecc. PERSONE

Le professionalità coinvolte durante tutto il processo che vedrà l’azienda trasformarsi in un editore saranno diverse e ognuna di queste avrà un ruolo determinante in specifici step del processo. Le risorse coinvolte potranno essere interne alla stessa azienda o esterne, come ad esempio nel caso di consulenti o intere web agency. Copywriter, designer, content creator, analisti, community manager, SEO, sviluppatori web, ricercatori e gli stessi dipendenti e amministratori di aziende sono soltanto alcune delle persone da coinvolgere che contribuiranno alla costruzione della strategia editoriale di contenuti del brand. L’unico modo a disposizione di un’azienda per intercettare l’attenzione degli utenti potenzialmente interessati a quello che ha da dire e distinguersi dai competitor è diventare un brand-editore di contenuti riconosciuto nella rete. La scalata al successo di un brand online è ardua e non priva di ostacoli, ma non di certo impossibile. Come vedremo durante il percorso che illustrerò in questo libro, costruire un brand affermato in rete richiederà prima di tutto la fornitura, al potenziale acquirente, di un ottimo prodotto o servizio a cui

dovranno necessariamente seguire impegno, costanza, fiducia, empatia, propensione alla cura delle relazioni e alle conversazioni con gli utenti, buon gusto per il visual design e l’investimento di budget il cui ritorno economico sarà poi più che giustificato. Questo è marketing signori, ed è ciò che metterà le ali e farà decollare nel web un prodotto o un servizio che riesce già da solo a soddisfare le aspettative d’acquisto dei consumatori. Le strategie di cui parlerò serviranno a comunicare la bontà e l’utilità dei prodotti e servizi per il target di consumatori di riferimento, ma se questi sono pessimi e non soddisfano le aspettative dei consumatori, sarà meglio mettere da parte per un po’ il marketing e concentrarsi sul miglioramento del prodotto. Se il prodotto non è valido, le strategie di web marketing si trasformeranno in un effetto boomerang verso la stessa azienda e la reputazione potrebbe esserne compromessa definitivamente. 1.1. I benefici di una strategia di contenuti e di social media marketing Le strategie che combinano social media e content marketing dovrebbero essere viste dai brand non come azioni da effettuare “una tantum” e che producono risultati nel breve periodo, concretizzandosi in aumenti del fatturato, ma come veri e propri percorsi di crescita da intraprendere nel lungo periodo e i cui risultati economici saranno destinati a crescere nel tempo. Content Marketing e Social Media Marketing sono approcci strategici di business online molto diversi da quelli come Email Marketing, Affiliation Marketing, Display Advertising o Search Advertising. L’obiettivo non è quello di sviluppare pubblicità e “colpire” o bersagliare il target di utenti profilato, sperando di ricavarne qualcosa, ovvero prospect trasformati in lead. Nel nostro caso gli obiettivi saranno di due tipi: 1. la creazione di valore informativo ed educativo per l’utente interessato, attraverso la produzione di contenuti che abbraccino l’universo di riferimento in cui il prodotto o servizio è collocabile 2. la creazione di valore informativo e relazionale, mediante sviluppo e la gestione di relazioni sociali che guidino l’utente nella scelta del prodotto. Data la complessità degli obiettivi da raggiungere, come puoi ben comprendere, queste strategie non sono semplificabili e realizzabili nel breve

periodo, richiedono invece di pensare in un’ottica di sviluppo di medio-lungo termine. Ma quali sono i benefici realizzabili da una strategia che combina social media e contenuti? Potremmo riassumerli in cinque punti. 1.1.1. Produzione di una comunicazione moderna Per comprendere questo aspetto, proviamo a ricordare come molte aziende investano ancora oggi sul web replicando semplicemente gli strumenti di advertising già utilizzati nel mondo online (es. trasposizione in pdf di depliant, locandine, ecc.) sminuendo, quasi, il valore che i diversi canali hanno e accomunandoli a semplici contenitori di pubblicità. 1.1.2. Sviluppo e miglioramento del patrimonio della marca (brand equity) Il concetto di brand equity potremmo riassumerlo e sintetizzarlo come l’insieme delle determinanti che contribuiscono a creare il valore e la riconoscibilità di un marchio. Tra queste ci sono fattori come: la percezione da parte del consumatore, che ne indica il posizionamento di mercato l’esperienza d’uso la fedeltà alla marca la qualità percepita. Ci sono aziende che arrivano sul web già con un forte patrimonio di marca, frutto di anni di attività che ha soddisfatto migliaia di clienti. Per loro social media e content marketing possono essere una cassa di risonanza per diffondere valori, idee e percezioni positive già affermati nel mondo offline, andando difatti a rafforzare ancor di più l’identità del brand e portando a conoscenza del marchio, grazie al potere della rete, nuovi utenti e futuri clienti. Ci sono poi altre aziende che sono appena nate o aziende che nascono con lo scopo di vendere esclusivamente online. In questo caso, i contenuti possono permettere anche di posizionare aziende appena costituitesi. Pensiamo ai tanti e-commerce che usano esclusivamente il sito internet per vendere prodotti online. Anche l’e-commerce dovrà costruire un marchio

riconoscibile e, in questo caso, partirà da zero e procederà passo dopo passo verso la costruzione del patrimonio di marca. Attraverso i contenuti prodotti e diffusi sui social media e sui canali istituzionali (es. il corporate blog) è possibile contribuire al posizionamento del marchio appena lanciato. Certo, bisognerà produrre contenuti di qualità in grado di essere apprezzati dagli utenti e che siano suscettibili di generare centinaia di migliaia di condivisioni nelle piattaforme sociali. Di esempi virtuosi in questo senso ce ne sono già davvero tanti. Basti citare Airbnb il portale che mette in contatto chi cerca un alloggio a breve termine con chi possiede spazi da affittare, che con le sue “Guide ai quartieri” ha fornito delle vere e proprie guide di viaggio nelle città utili a coloro che hanno bisogno di sapere cosa c’è da visitare in determinate città, oppure Uber, la startup che, sfruttando un’applicazione mobile, permette agli utenti di usufruire di un sistema di trasporto veloce. Uber ha letteralmente mappato alcune città utilizzando i dati dei viaggi effettuati dagli utenti, condividendo poi i dati raccolti sul proprio corporate blog.

Le guide ai quartieri di Airbnb. Ottimo esempio di Contenuti utili al posizionamento di un brand (fonte: Airbnb.it)

1.1.3. Acquisizione di link in entrata e aumento del traffico dai motori di ricerca La popolarità di un sito web si basa principalmente sull’acquisizione di link da siti a tema e autorevoli, che va a creare quello che in termini SEO viene chiamato link graph. La qualità dei link contribuisce a creare quel concetto

SEO denominato autorità di dominio, che viene poi trasferito sulle pagine del sito e permette loro di posizionarsi meglio per parole e frasi chiave di riferimento. Qual è il ruolo del contenuto in tutto ciò? Il contenuto, se di qualità e di interesse, ha l’indubbio vantaggio di circolare nelle piattaforme sociali da utente a utente fino ad avere la possibilità di essere ripreso da blog e siti web perché ritenuto utile per i propri lettori. Solitamente chi ripubblica o cita il contenuto aziendale ne menzionerà la fonte di appartenenza originaria in segno di attribuzione. La menzione corrisponderà ad un backlink acquisito che andrà a sommarsi a tutti gli altri che costituiscono il profilo link del sito web. Questo cambio di paradigma, nel mondo SEO, viene chiamato link earning, concetto che va ad anteporsi a quello del più noto link building, nel senso che il link viene “guadagnato” e acquisito per merito dell’utilità del contenuto prodotto e non più costruito in modo artificioso. Per portare un esempio concreto e ricollegarmi all’esempio di contenuto di Airbnb visto prima, la sottocartella del siti airbnb.com contenente le guide ai quartieri ha acquisito finora circa 500 link da domini unici (da intendersi come siti web che linkano quella pagina almeno una volta) per un totale di oltre 3000 link. Se noi poi andiamo a digitare su Google una ricerca come “guide ai quartieri” o, se vogliamo essere più dettagliati, “guide ai quartieri di venezia”, perché interessati ad una specifica città, vedremo come, in entrambi i casi, il primo risultato che ci mostrerà Google sarà quello delle guide di Airbnb, merito dei backlink acquisiti a quella pagina grazie alle guide dei quartieri realizzate. Tutto ciò si tradurrà in un aumento del traffico organico e di utenti che magari arrivano, mediante le ricerche da Google, a scoprire Airbnb.

Il primo posto delle guide di Airbnb grazie ai contenuti prodotti e ai link acquisiti

1.1.4. Aumento delle relazioni sociali e delle conversazioni in rete Social media e contenuti possono essere affiancati in modo sinergico. I social

media, se curati e gestiti nel modo in cui vedremo nei prossimi capitoli, possono permettere al brand di far rimbalzare i contenuti sociali diffondendoli da utente ad utente. Allo stesso modo, i contenuti, diffondendosi nei social e nei blog e siti a tema, permettono ai lettori di decidere di seguire il brand nei suoi canali sociali, aumentando così il numero di follower e sostenitori e sviluppando nuove interazioni e conversazioni. 1.1.5. Miglioramento del rapporto di fiducia tra utente e azienda Una maggiore fiducia tra utente e azienda è la vera molla che scatena l’azione di conversione e fidelizzazione di coloro che, soddisfatti dalla presenza online e dalla qualità dei prodotti, decideranno di ritornare dal brand e interagire o acquistare.

Inbound marketing vs Outbound marketing (fonte: Voltier Digital)

1.2. Gli step della Digital Strategy per la costruzione di un brand di successo Costruire una Digital Strategy che permetterà a un’azienda di essere riconoscibile nel proprio settore di riferimento online richiederà tempo, pianificazione, investimenti e l’elaborazione di un percorso da seguire passo dopo passo fino al raggiungimento di specifici risultati. Ogni azione che verrà sviluppata senza aver prima seguito il percorso strategico che delineerò sarà destinata a fallire. Possiamo suddividere in cinque passaggi le fasi che porteranno un’azienda a rendersi riconoscibile online: 1. presenza 2. esperienza 3. relazione 4. influenza 5. vendita. I percorsi strategici che propongo sono da svilupparsi passo dopo passo. È impensabile oggi partire dall’ultimo step, quello della vendita, senza aver sviluppato una presenza influente e riconoscibile nella rete fatta di relazioni sociali, cercando di competere con decine se non centinaia di altre aziende che vendono lo stesso prodotto o servizio. È attraverso la PRESENZA in rete, nei canali istituzionali, acquisiti e a pagamento, che l’azienda manifesta la sua volontà di farsi trovare, di rendersi riconoscibile e di iniziare un dialogo con i propri clienti, attuali e futuri. Attraverso il dialogo bidirezionale – quindi ascolto e conversazione – verrà trasmessa al pubblico la cosiddetta EXPERTIZE settoriale, da intendersi come specializzazione della azienda nella fornitura del prodotto o servizio desiderato dal pubblico. Tuttavia non sarà sufficiente trasmettere al pubblico la propria specializzazione settoriale. Ci sono già diverse aziende che sono in grado di vendere prodotti di qualità, ma al raggiungimento di una parità del livello qualitativo la competizione si sposta su un piano RELAZIONALE ed empatico, fatto di comportamenti attraverso cui l’azienda può, a tutti gli effetti, seguire e “curare” il cliente durante tutto il suo percorso di acquisto, prima, durante e dopo la vendita.

Le relazioni permetteranno di espandere l’INFLUENZA del brand nell’universo di riferimento e i processi di VENDITA si massimizzeranno in maniera quasi del tutto automatica. Vedremo ora, passo dopo passo, come sviluppare i singoli processi portando il brand ad amplificare la visibilità del proprio marchio e l’aumento delle vendite. 1.3. Social Media Marketing: ascolto, interazione, informazione e azioni real-time Non mi dilungherò nello spiegare il concetto di Social Media Marketing. Se stai leggendo questo libro, hai già in mente a grandi linee cosa si intende per marketing nel social web. Sicuramente preme sempre ricordare che ogni azienda che decide di partecipare alle conversazioni che prendono vita nelle piattaforme sociali dovrebbe farlo con uno spirito partecipativo, di condivisione, possibilmente comunicando in maniera non istituzionale e col linguaggio del proprio target (non siamo l’arrotino locale che annuncia la merce in vendita) e consapevoli che i social non sono strumenti di vendita diretta dei propri prodotti o vetrine d’acquisto riservate agli utenti iscritti al canale. Ho intenzione di raccontarti una bella esperienza di community generatasi spontaneamente dal basso e che ha poi coinvolto anche le marche in un processo spontaneo di ascolto, partecipazione, conversazione e co-creazione. Matteo Ranzi, mio collega e partner di lavoro, ha trasformato la sua passione in una community partecipativa, facendo tornare in voga il mito dei Paninari direttamente dagli anni Ottanta. Gli ho chiesto di raccontarmi la sua esperienza di creazione e gestione di una vera e propria community attiva.

Matteo Ranzi “Paninari, la Company” è un gruppo Facebook nato per caso. Avevo creato nel 2012 una pagina sul ritorno dei Paninari che stava diventando

troppo ricca di partecipazioni e mi distoglieva dalla mia professione. Quindi ho creato un gruppo dove chiunque potesse postare e non soltanto un utente. Da quel giorno l’intensità di partecipazione è aumentata a tal punto da diventare uno degli ambiti con maggior numero di post e di commenti al giorno. Dall’ambito social siamo poi passati ai ritrovi dal vivo e il gruppo Facebook è diventato quello che negli anni ‘80 era il “bar cattivello”, cioè il punto di ritrovo per i ragazzi di ogni Company. Gli strumenti che ho utilizzato sono legati solamente alla promozione del libro “Paninari” che parla della Company e che ho pubblicato a ottobre 2014. Quindi ho utilizzato le classiche ADV di Facebook che conducevano al sito del libro. Per il gruppo invece non ho utilizzato nulla: il WOM (word of mouth) è nato spontaneamente. Altri media, radio e carta stampata, hanno iniziato a parlare della Company e ad intervistarci. Questo ha aumentato il buzz spontaneo che ci ha dato visibilità. Proprio come le community che tanto piacciono oggi al marketing, anche i brand hanno iniziato a partecipare. Inizialmente era presente El Charro Cinture con il titolare e la store manager. Questo brand è sempre stato integrato nella Company ed è un caso da manuale di partecipazione e co-creazione. Infatti la maggior parte dei Paninari di oggi ha acquistato da El Charro che, attraverso un dialogo costante con la community, ha creato dei prodotti proprio partendo dalla Company. Come la fibbia “COMPANY” in edizione limitata e numerata. Poi abbiamo aperto un dialogo con Stone Island e con Avirex, che ha ospitato uno dei nostri raduni a Milano. Infine, DI SEGNI che era un negozio di riferimento dei Paninari di tutta Italia, si è avvicinato a me per via del libro tramite il suo titolare che ha partecipato anche a uno dei nostri raduni. Oggi la partecipazione è talmente elevata, a ogni ora del giorno e della notte, che la moderazione potrebbe sembrare un impiego a tempo pieno. Grazie però a un “regolamento condominiale” chiaro e scritto insieme al gruppo, esiste una sorta di auto-moderazione a cura dei partecipanti. I casi di flame che richiedono un mio intervento sono limitati. Sono molte le soddisfazioni che ad oggi ho riscosso dalla community. Dal punto di vista marketing, essendo io un markettaro appassionato, vado fiero di essere riuscito a realizzare una buona parte dei principi presenti nei testi di marketing da quando è nato l’internet partecipativo. Il caso EL Charro è emblematico dei principi di partecipazione, conversazione, ascolto attivo e co-creazione. Dal gruppo Facebook sono nati due libri, un buon numero di interviste in radio e sui media e in poco tempo siamo diventati un caso di studio. Un blogger si è addirittura inserito in maniera silente per effettuare un “test” e degli universitari mi hanno

interpellato per un loro studio sugli anni ‘80. Non male, essendo tra l’altro nato tutto per caso. Ma la cosa di cui sono più soddisfatto è che dai soli rapporti social si è creato un gruppo di amici che si è poi ritrovato in carne ed ossa e ha stretto rapporti personali importanti.

Una cosa importante da sottolineare è la differenza tra canali di web marketing di vendita diretta e quelli di vendita indiretta. Mentre per i primi, il bisogno di acquisto è già finalizzato, i secondi perseguono scopi differenti, ma della duplice importanza e comunque collegati ai primi. Pensiamo a canali di vendita più diretta come i motori di ricerca. Se devo acquistare un biglietto per il concerto degli U2 so esattamente quello che desidero. Effettuo quindi una ricerca su Google per mettermi a esaminare alcuni dei siti che possono fornirmi il servizio che cerco. Il mio bisogno d’acquisto è già finalizzato e infatti la ricerca su Google servirà soltanto ad ultimare la mia scelta d’acquisto. Ipotizziamo però che fossi iscritto ad alcune pagine di brand (es. quella ufficiale degli U2), di magazine di musica o di rivenditori di biglietti per concerti e questi, nei due o tre mesi precedenti al mio acquisto, mi hanno mostrato post nel feed (o bacheca) che mi informavano delle date e delle eventuali offerte dei concerti degli U2 in Italia facendo sorgere in me la voglia di andarli a vedere live. Ebbene, in questo caso i social media hanno potuto influenzare la mia decisione d’acquisto che poi si è finalizzata attraverso un altro canale. L’esperienza del mio team e quella di tanti altri colleghi e aziende, nei social media, mi ha insegnato una regola fondamentale: evitare (di tentare) di vendere direttamente nei social. Nella stragrande maggioranza dei casi infatti, salvo per piccole operazioni di temporary shop o offerte limitate, se si avvia una presenza nei social con l’obiettivo di aumentare le vendite – e per esperienza ti dico che molte piccole e medio imprese perseguono questo obiettivo – il fallimento è alle porte. Senza scendere nei dettagli, potrei semplicemente dire che l’utente non si è iscritto ai social network per essere bersagliato da claim commerciali o per essere inseguito dalle marche. Ad esempio io, quando mi sono iscritto a Facebook nel 2008, l’ho fatto per il passaparola dei miei amici e per la possibilità di ritrovare amici che non vedevo o sentivo da un po’ di tempo. Questa è ancora la motivazione del miliardo e mezzo di persone presenti su

Facebook ed è questo il motivo per cui ancora continuano, dopo anni, a connettersi. Certo, con i social network possiamo trovare i brand legati alle nostre passioni e comunicare con essi, interagire con i vip (per chi ama farlo) ma anche conoscere le ultime novità dei nuovi prodotti sul mercato che soddisfano i nostri bisogni. Per questo motivo i social network sono, a tutti gli effetti, dei canali di vendita indiretti. L’azienda deve utilizzare i social network per ascoltare il proprio pubblico, per interagire con gli utenti che chiedono informazioni, per coinvolgere con informazioni rilevanti e, possibilmente, pubblicate “in tempo reale”. 1.3.1. Ascolto Un’azienda nei social può ascoltare due tipologie di conversazioni: quelle dirette e quelle generiche. Tra le dirette rientrano tutte le menzioni, interazioni e commenti che la riguardano direttamente nei canali sociali. Pensiamo a richieste esplicite da parte dei follower, messaggi lasciati sulla pagina facebook, dei tag da parte degli utenti, commenti agli status update o menzioni su Twitter. Quelle generiche o indirette, non meno importanti, sono invece le conversazioni che possono interessare il mercato in cui opera l’azienda. Conversazioni relative a prodotti e servizi, come recensioni, feedback positivi e negativi, lamentele, apprezzamenti, richieste di informazioni su uno specifico prodotto fatte ai propri pari, conversazioni legate alle politiche commerciali del settore, ma anche conversazioni dei competitor possono essere utili da monitorare e ascoltare. Il monitoraggio delle conversazioni è forse l’attività più importante per chi si occupa di Social Media Marketing perché a partire dall’ascolto è possibile raggiungere risultati vincenti nelle restanti attività. Il monitoraggio lo si effettua solitamente nei propri canali sociali, andandosi a spulciare le conversazioni dirette oppure monitorando una serie di “parole chiave” inerenti il proprio business e utilizzando software che scandagliano le principali piattaforme sociali, i blog e i forum settoriali alla ricerca delle parole chiave da noi scelte. I software di monitoraggio sono tanti e il loro costo cambia anche in base alle funzionalità e alla vastità dei dati raccolti. 1.3.2. Interazione

Sui social non bisogna essere soggetti passivi. Ho conosciuto aziende che, pur non avendo una presenza attiva nei social media, investivano nel Social Media Marketing attraverso attività di Reputation Management e Sentiment Analysis. Monitoravano cioè quello che il loro target di riferimento scriveva su prodotti e servizi che componevano la loro offerta, sulle politiche di prezzo, di distribuzione o di promozione e a volte monitoravano anche i competitor. Tutto questo era finalizzato alla raccolta di una quantità di dati soggetti a successiva interpretazione allo scopo di orientare al meglio le proposte commerciali. Anche se questa è un’attività sempre utile, non bisognerebbe secondo me limitarsi ad ascoltare. Bisognerebbe interagire. D’altronde se un utente si iscrive alla fanpage di un’azienda o decide di seguirla è perché è interessato a riceverne aggiornamenti relativi alle ultime novità, chiedere informazioni o assistenza o perché è un acquirente e sostenitore storico dei prodotti o della stessa marca. Se come azienda ci apriamo all’interazione dovremo essere anche consapevoli della possibilità di affrontare eventuali rischi dovuti alla perdita di controllo sulle conversazioni e dovremo sempre essere in grado di agire tempestivamente per evitare di rimetterci la reputazione aziendale. Non mi dilungherò su argomenti relativi alla gestione del rischio o “crisis management” nei social media perché ci si potrebbe scrivere un libro apposito, ma sul mio blog troverai molti approfondimenti e casi di studio analizzati. Ti mostrerò però una grafica che realizzammo qualche tempo fa sul blog, ma tuttora validissima, sulla gestione della “socialetiquette” ovvero su come rispondere ai commenti degli utenti. Fanne buon uso!

La “socialetiquette”. Come rispondere ai commenti sui social media (fonte: Webinfermento)

1.3.3. Informazione Content Is The King! Ricorda sempre che l’utente è sui social per essere informato. L’informazione solitamente è contestuale alla pagina aziendale. Possiamo aggiornare gli utenti con le foto delle ultime novità della gamma produttiva ma anche con notizie riguardanti meno direttamente l’azienda e più da vicino l’universo in cui opera la stessa. L’esempio che utilizzo spesso è quello dell’hotel che evita di informare in continuazione gli utenti sulle offerte delle sue camere per il mese di agosto (ricorda sempre che, come ho scritto prima, l’utente non è sui social per essere bombardato da claim commerciali) ma invece pubblica immagini (tanto meglio se le foto sono state inviate da chi ha già soggiornato nella struttura) che mostrano le bellezze naturalistiche che l’utente, potenziale acquirente di un soggiorno, potrebbe scoprire pianificando in quel posto una vacanza, o ancora suggerendo percorsi o luoghi da visitare, magari scrivendo articoli dettagliati pubblicati prima sul blog aziendale e poi proposti sui canali sociali. Questo è il modo corretto di comunicare sui social. 1.3.4. Agire in Real-Time: il newsjacking Quest’ultimo punto è collegato al primo, quello dell’ascolto. Monitorando costantemente le conversazioni nella rete e avendo sempre un occhio vigile su Twitter e i suoi hashtag, in occasione di determinati eventi o avvenimenti di interesse generale, potremo riuscire a sfruttare il vantaggio di creare contenuti divertenti e al tempo stesso informativi che potrebbero trasformarsi in virali, aumentando così la visibilità del nostro brand. L’azione in real-time può portare a risultati positivi e apprezzabili, come le immagini divertenti realizzate da alcuni brand in occasione degli ultimo Mondiale di Calcio, in seguito al morso dato dal calciatore Suarez all’italiano Chiellini durante la partita Italia-Uruguay. Barilla, oltre ad aver creato una delle immagini più divertenti e virali che siano girate in rete, ha sfruttato il concetto di Real-Time Marketing nel modo più corretto, producendo e postando sui social contenuti a tema con quanto accadeva durante il mondiale che riguardassero da vicino la nostra nazionale. La copertura dell’evento sportivo è stata completa e svolta in real-time. Il prodotto e la marca erano sempre al centro dell’attenzione del contenuto, ma mai in maniera invasiva e il messaggio trasmesso era comunque

contestualizzato “in tempo reale” alla notizia che in quel momento interessava il popolo italiano con la passione del calcio. E cos’altro è questo se non puro ritorno d’immagine, internazionale per Barilla e la sua pasta?

I contenuti divertenti pubblicati da Barilla durante gli ultimi mondiali di calcio (fonte: Barilla)

C’è chi però queste tecniche non le ha sapute sfruttare bene o ha deciso di cavalcare gli hashtag legati ad avvenimenti tragici, come chi ha pensato bene di ironizzare sul terremoto in Emilia-Romagna utilizzando l’hashtag specifico per promuovere un prodotto in vendita. Inutile dire che l’effetto boomerang e di linciaggio, da parte degli utenti, è stato immediato.

Il tweet del tutto fuori luogo di Groupalia Italia (fonte: Repubblica.it)

Su Twitter hanno fallito tutti i brand che hanno tentato di promuovere i loro prodotti e servizi sfruttando gli hashtag, specie se associati a eventi catastrofici. La domanda vera è pero un’altra: il Real-Time Marketing funziona realmente? È quello che si è chiesto Chris Kern che, nel suo libro Trendology, ha cercato di indagare analizzando le attività di quelle aziende che sono state in grado di ottenere picchi di engagement elevati durante determinati eventi sportivi, mediatici, di cronaca, ecc., di interesse generale. Il pattern comune individuato è stato proprio quello di una correlazione positiva tra un tweet di successo e la velocità di copertura di un determinato evento e che riguardava un accadimento imprevisto che si verificava durante l’evento. Ma di cosa stiamo parlando? Ovviamente della velocità di copertura mediatica, utilizzando i social media e, nello specifico, account di aziende, di un evento, costruendo contenuti ad hoc e comunque brandizzati che descrivono in modo ironico l’evento verificatosi. La piattaforma nella quale prendono vita questi esperimenti di marketing è principalmente Twitter e i branded content sono spesso rappresentati da immagini dove il brand è accostato, in maniera divertente e al tempo stesso non invasiva, all’evento appena verificatosi. I fattori critici di successo sono la VELOCITÀ TEMPORALE, LA QUALITÀ

GRAFICA DEL CONTENUTO e l’IDEA IRRIVERENTE DI ACCOSTAMENTO TRA IL BRAND (O SUO PRODOTTO) E L’EVENTO.

Chris Kern ha individuato in molti tweet di successo la presenza di questi fattori ed è proprio l’eccitazione provocata nel pubblico che comporta la produzione di un’interazione di massa, solitamente sotto forma di retweet e preferiti. La pianificazione in questi casi serve poco. È necessario invece un attento monitoraggio da parte di tutto il team creativo e social dell’azienda. Questo vuol dire che se c’è un evento serale e vuoi assicurarti una copertura (che ti permetterà di avere un ritorno in termini di brand engagement) devi essere attivo e produttivo, pronto a cogliere l’opportunità al volo per tutta la durata dell’evento. Il fatto che sia Twitter la piattaforma nella quale prendono vita queste forme di Real-Time Marketing non è una casualità: era infatti emersa, da uno studio pubblicato dallo stesso Twitter, l’esistenza di una commistione tra Twitter e TV. Solitamente chi segue determinati eventi, serie TV, reality show, prime tv, ecc. lo fa twittando e interagendo con un pubblico di appassionati commentando l’episodio, appunto, in tempo reale. Non a caso Twitter ha anche adesso previsto, tra le tipologie di campagne di Twitter ADS, ora disponibili per tutti, la possibilità di targetizzare pubblici che twittano di determinate trasmissioni televisive. Veniamo a qualche esempio di successo. Molto riuscito il tweet di Oreo (forse il brand di maggior successo e apripista nel RTM e Newsjacking) relativo al blackout del SuperBowl 2013, l’evento sportivo più seguito negli States.

Fonte: Twitter.com

Solitamente il tweet vincente ha la caratteristica di avere un’immagine, ben curata e brandizzata, che parla da sé. Il testo a corredo del tweet è quasi secondario ed, eventualmente, un breve testo è inserito all’interno della stessa immagine. Il testo inserito nell’immagine contiene parole chiave rilevanti semanticamente e appartenenti al linguaggio utilizzato nei tweet dagli stessi utenti.

Secondo Kern le opportunità del Real-Time Marketing sono tantissime e quasi sempre a disposizione delle aziende; è necessario essere attenti a monitorare quello che avviene e sfruttare opportunità di costruire e diffondere immediatamente contenuti a tema. Anche notizie che non sono per forza eventi sportivi o televisivi possono essere sfruttate per il Real-Time Marketing. Kern ha infatti individuato queste correlazioni di successo con la copertura di cronaca: la nascita del “royal baby”: +1200% di engagement la morte di Nelson Mandela: +600% di engagement la legalizzazione della marijuana in Colorado: +6000% di aumento di engagement rispetto alla media di Ben&Jerry’s.

2. La presenza nei social media

Nel percorso di trasformazione della tua azienda in un brand riconoscibile e, al tempo stesso, in un editore di contenuti, la costruzione di una presenza attiva ed efficace nei social media rappresenta il primo step del lungo percorso che andrò a spiegare in questo libro. Nelle pagine che seguono non descriverò per filo e per segno come funzionano i social media più noti e quali sono tutte le loro caratteristiche per le aziende, ci sono approfondimenti e ottimi libri monotematici che assolvono a questa funzione. Evidenzierò invece le loro più profonde e note caratteristiche dal punto di vista di utilità strategica per le aziende e quali sono le tipologie di contenuti che per questi canali sarebbe corretto progettare, costruire e diffondere. 2.1. Facebook Con quasi un miliardo e mezzo di iscritti, Facebook è oggi la piattaforma sociale più utilizzata nel mondo. Soltanto questo piccolo (grande) dato sarebbe sufficiente a comprendere come qualsiasi azienda potrebbe trarre vantaggio dall’essere presente su Facebook. Diventato in poco tempo e con la proposta delle pagine aziendali uno strumento “gratuito” a disposizione delle aziende per promuoversi online, generare passaparola e incrementare il seguito di sostenitori (fan o liker), ha visto negli ultimi mesi diversi ritocchi all’algoritmo del Newsfeed (più comunemente noto come algoritmo dell’EdgeRank) che determina la visibilità dei contenuti che postiamo nelle bacheche degli utenti iscritti alla pagina. L’algoritmo del Newsfeed prende sostanzialmente in esame alcuni fattori come affinità, peso del post in termini di engagement e tempo di decadenza del messaggio.

1. AFFINITÀ

L’affinità tra un utente e la pagina Facebook si raggiunge col tempo. Innanzitutto c’è affinità se c’è interesse per la pagina, per il tema trattato o per il brand, prodotto o servizio a cui la pagina fa riferimento. Una spinta molto importante deriva dalla bravura di chi posta contenuti sulla pagina che, oltre ad essere tematici e di interesse per gli utenti, devono essere divertenti, suscitare emozioni e interrogativi. 2. PESO DEL POST

Per peso del post si intende il livello di interazione che questo è in grado di raggiungere. Un post in una pagina Facebook con centinaia di “mi piace”, commenti e condivisioni è per Facebook un segnale di apprezzamento molto forte rispetto a un post con alcuna o poca interazione. Facebook può dunque decidere di fornire un punteggio maggiore a quel post e alla tipologia di post (es. immagine piuttosto che status update o video) della pagina e dargli una spinta in termini di visibilità. Più un post riuscirà a creare engagement, più sarà visibile a molti utenti iscritti alla pagina. 3. TEMPO DI DECADENZA

È un fattore che fa in modo di privilegiare nelle bacheche degli utenti i post pubblicati più recentemente, a meno che quelli meno recenti abbiano avuto un numero molto alto di interazioni e siano stati spinti dall’algoritmo tra i contenuti “popolari” per gli utenti iscritti alla pagina. Per intenderci, questo vuol dire che se io sono in vacanza e mi connetto su Facebook soltanto la sera e il post di una pagina che seguo ha raggiunto un engagement notevole pur essendo stato pubblicato in mattinata, potrei vederlo comparire in cima alla mia bacheca nel momento del mio accesso a Facebook.

I fattori di ranking dell’algoritmo della Newfeed, più noto come EdgeRank (fonte: Janders.com)

A questi tre fattori se ne sono però aggiunti altri due. 4. STORY BUMPING

Ha l’obiettivo di ridare vita a post non molto recenti, perché magari qualche utente continua a commentare o cliccare mi piace su quel post. Mediante lo story bumping un post può rendersi visibile anche a distanza di tempo. In realtà non ho mai visto l’applicazione di questo meccanismo dell’algoritmo se non sui profili dei miei amici Facebook e degli amici in comune. 5. LAST ACTOR

Il last actor prevede di dare priorità ai post pubblicati dalle ultime cinquanta interazioni di un utente con le sue connessioni sociali su Facebook, quindi sia pagine che profili personali, gruppi e applicazioni.

Lo story bumping di Facebook (fonte: Orangetwin.com)

In realtà però, un argomento molto dibattuto tra amministratori di pagine e community manager negli ultimi mesi, relativamente a Facebook, è stato proprio il CALO DELLA PORTATA ORGANICA DEI POST DELLE PAGINE. Ti ricordi infatti quando postando qualcosa, soprattutto immagini che generavano interazioni, potevi essere certo di garantirti tutto il 100% di portata organica dei post della pagina oltre alla portata virale (ovvero di utenti che vedono il tuo post per mezzo di un’interazione fatta da un loro amico sul tuo post)? Dimentica il paradiso della visibilità gratuita su Facebook! È ormai lontano. Pensa ora a Facebook come un vero e proprio “paid media”. Esatto, ora qualunque azienda voglia essere attiva e partecipe su Facebook, con buoni risultati, deve essere disposta ad investire del budget per le inserzioni a pagamento (o sponsorizzate).

In figura puoi vedere come, tra un ritocco all’algoritmo e l’altro, la visibilità organica delle pagine Facebook è diminuita negli ultimi due anni.

Il calo della portata organica dei post delle pagine Facebook (fonte: EdgeRankChecker.com)

Come puoi vedere dal grafico, il calo è stato piuttosto significativo, ma Facebook ha continuato a negare di aver ritoccato i propri algoritmi per favorire un maggior investimento da parte dei marketer, negli strumenti di advertising offerti dalla stessa piattaforma. Guarda caso, i principali cali di visibilità organica sono iniziati proprio a partire dalla quotazione in borsa di Facebook. Facebook ha invece sempre sostenuto che la crescente competizione tra i contenuti di diversi oggetti sociali (persone, pagina, gruppi, applicazioni, ecc.) e le interazioni tra questi oggetti comportano una naturale riduzione del ciclo di vita e dello stesso spazio riservato ai singoli post delle singole pagine rendendo necessario un investimento in advertising che possa “spingere”, a tutti gli effetti, i post delle aziende.

In realtà non sono mai stato convinto di questa motivazione. Se così fosse, vedremmo un graduale calo organico, giorno dopo giorno e probabilmente non lo avvertiremmo neanche. Non nel breve periodo almeno. Tuttavia i principali cali di visibilità organica hanno quasi sempre impattato in modo drastico e gli effetti li si poteva notare esattamente nel giorno in cui veniva annunciato un nuovo update da parte di Facebook. 2.1.1. Ha senso investire in Facebook? Sì In realtà non ci sono ancora alternative migliori a Facebook per un’azienda. Twitter o Google+ non hanno minimamente raggiunto il bacino d’utenza del social blu e se pensiamo a Instagram, che gode di ottima vita, è stato addirittura acquisito da Facebook. Potenzialmente tutto il target di riferimento di qualsiasi azienda è su Facebook e gran parte di questo, soprattutto in Italia, utilizza soltanto tale social. C’è inoltre da aggiungere che, se siamo interessati al traffico referral diretto dai social media al sito web o blog aziendale, Facebook è ancora il social network in grado di garantire il maggior quantitativo di traffico, anche nonostante il calo di visibilità organica delle pagine. L’ultima indagine pubblicata da Shareaholic mostra infatti come Facebook sia addirittura in crescita quale fonte di traffico per i siti web, mentre gli altri social network registrano un piccolo calo.

Social Media Traffic Referrals (June 2013-2014) (fonte: Shareaholic.com)

Facebook è inoltre un utilissimo strumento per l’analisi del target e dei suoi interessi. Sia attraverso le informazioni reperibili dalle statistiche della pagina, che dai dati reperibili nel momento in cui progettiamo una campagna di advertising e definiamo il target per interessi e demografico, possiamo avere a disposizione una mole di informazioni che possono orientarci nell’ottimizzazione delle politiche commerciali. Facebook può poi diventare un ottimo tappeto mobile su cui far scivolare i contenuti prodotti dai brand facendoli trasformare in veri e propri prodotti editoriali virali (e più avanti ti racconterò alcuni casi di successo a cui ho lavorato). Infine, per molte aziende potrebbe trasformarsi in un vero e proprio centro di assistenza clienti; in certi casi la pagina Facebook potrebbe diventare uno strumento di customer care avanzato più utilizzato dello stesso Twitter o dei preistorici call center dell’offline. Ci sono aziende che ricevono decine e decine di messaggi al giorno nella posta privata tra richieste di informazioni e addirittura prenotazioni di appuntamenti, la cui gestione puntale ed efficace a livello anche di cortesia ed empatia nelle risposte ai messaggi produce ritorni importanti in termini di ottimizzazione di tempo e risorse interne. Il successo di un brand su Facebook (ma più in generale su qualsiasi social media) non è soltanto nella produzione di contenuti di qualità che generino engagement, ma passa anche dall’oculata gestione del customer care, nell’attenzione a rispondere sempre alle richieste di informazioni degli utenti, nel modo cortese che deve contraddistinguere e differenziare dai competitor e nella soddisfazione del potenziale acquirente che risponderà ringraziando per aver esaudito la sua richiesta. Anche la sola risposta dell’azienda, chiaramente tempestiva, che va a soddisfare il bisogno informativo di un utente può far sì che quest’ultimo si trasformi, più facilmente, da prospect a lead, da potenziale acquirente in cliente finale. Le aziende che stanno ignorando una presenza su Facebook potrebbero commettere un errore. Ancora peggio quelle aziende che sono su Facebook e ignorano tutti i messaggi degli utenti nella posta privata, nei tag, nei commenti ai post, ecc. Ti assicuro che sono davvero tante le aziende che non si occupano del customer care e stanno letteralmente perdendo clienti consegnandoli ai competitor.

Da prospect a lead con il customer care. Il modo giusto di rispondere alle richieste di informazioni (fonte: Facebook.com)

2.1.2. La strategia di contenuti per Facebook Ci sono due domande che fondamentalmente si pone il community manager o il content manager di una pagina Facebook: cosa pubblicare e quando? Nell’ambito di un approccio al social media marketing, si dà solitamente più attenzione alla creazione del piano editoriale di contenuti per Facebook perché, per la gran parte delle aziende, l’audience che si raggiungerà sarà presente proprio su questo canale. Facebook dà la possibilità di postare status update, immagini, link e video. Negli ultimi anni le ricerche statistiche avevano evidenziato come le immagini, e più in generale il visual storytelling nei social media, ovvero la tecnica di raccontare con immagine evocative e di qualità ciò che ruota attorno ad un brand e al suo mondo, riscuotessero maggior successo in termini di

interazioni. Come forse già sai, più interazioni genera un post di una pagina Facebook, più possibilità ha questo di essere visto da altri utenti, ad esempio dagli amici di quelli iscritti alla pagina, che potrebbero scoprirla e decidere di seguirla. Le immagini risultano ancora vincenti nel generare engagement, ma ultimamente anche i video funzionano piuttosto bene. I video ora hanno superato gli status update in termini di reach. Sono quindi i contenuti che riescono a essere visualizzati da più utenti iscritti alla pagina.

L’engagement dei contenuti per tipologia (fonte: Edgerankchecker.com)

Io consiglio sempre l’utilizzo delle immagini, meglio se ad alta definizione e con colori vivaci, per comunicare su Facebook. L’immagine cattura più facilmente la nostra attenzione mentre scorriamo il feed delle notizie ed è anche la tipologia di contenuto che permetterà al messaggio e alla stessa azienda di raggiungere più persone possibili. Dato però il recente aumento di interesse di Facebook per i contenuti video, grazie anche all’introduzione dell’auto-play dei video nel newsfeed e delle

nuove statistiche che miglioreranno il livello di dati oggi a disposizione dell’amministratore – fornendo dati come le visualizzazioni uniche del video e durata media della visualizzazione –, iniziare a pensare in ottica di produzione e distribuzione di mini-video per Facebook diventa importante. Lo stesso Facebook ha suggerito recentemente agli amministratori di pagina di comunicare con i video per raggiungere più facilmente il loro target e gli ultimi dati condivisi da Edgerankchecker circa la reach media per tipologia di contenuti mostrano come i video siano allo stato attuale i contenuti con maggiore visibilità, superando gli status update attraverso i quali, fino a poco fa, potevamo raggiungere quante più persone possibili.

La portata dei contenuti su Facebook per tipologia (fonte: EdgeRankChecker.com)

Bisognerebbe però fare attenzione al fatto che una maggior portata in termini di reach ce l’hanno solo quei video caricati direttamente su Facebook, dal proprio smartphone o pc e non quelli caricati prima su piattaforme esterne,

come YouTube e poi condivisi su Facebook come link. Una recente indagine di Socialbakers, nota piattaforma di analisi e statistiche per Facebook, ha analizzato le caratteristiche dei video che riscuotono maggior successo su Facebook evidenziando che un video di successo, ovviamente con contenuti coinvolgenti, non deve avere una durata superiore ai 30 secondi. È stato infatti rilevato che circa il 57% degli utenti che inizia a vedere un video ne completa la visualizzazione se questo non supera i 25-30 secondi e che probabilmente questo tasso di completamento della visualizzazione è anche migliore di quello dei video su YouTube.

Fonte: Socialbakers.com

Fonte: Socialbakers.com

Certo, produrre un video costa sicuramente più che scattare una fotografia. Però non necessariamente devono essere spesi centinaia o decine di migliaia di euro per la sua realizzazione. Non dobbiamo per forza realizzare un video

pieno di effetti speciali. Pensiamo ai video amatoriali. Pensiamo a come aggiornare gli iscritti alla fanpage aziendale: anziché con immagini evocative o con link ai post del corporate blog, con dei video amatoriali dove c’è lo stesso amministratore delegato che dialoga con la propria audience. Oltre a essere un modo per l’azienda di metterci la faccia e di parlare realmente tra pari, farebbe variare il piano editoriale pubblicando contenuti in grado di raggiungere più utenti possibili. Il sistema migliore che ha un’azienda per costruire un piano editoriale di contenuti di successo su Facebook è quello di iniziare testando le diverse tipologie di contenuti, i diversi messaggi e testi allegati e i differenti orari di pubblicazione; inoltre è utile permettere alla piattaforma di statistiche di raccogliere i dati per poi analizzarli in ottica di medio e breve periodo. Solo con questo approccio si potrà ottimizzare al meglio il piano editoriale, sapendo quali sono i contenuti più apprezzati dal pubblico, quelli che raggiungono più visualizzazioni e quelli con più interazioni, quelli le cui condivisioni permettono di acquisire nuovi iscritti alla pagina o, ancora, gli orari di pubblicazione migliori per raggiungere il pubblico. Oltre alle statistiche accessibili direttamente nella pagina Facebook, diventate ora molto ricche di informazioni, puoi sfruttare altri tool come SproutSocial, Socialbakers o FanPageKarma. 2.1.3. Facebook Ads Come ho già accennato, è ormai impensabile per un brand raggiungere buoni risultati su Facebook senza investire del budget in campagne di advertising. Queste possono essere di diverso tipo: campagne di acquisizione di nuovi liker profilati, iscritti alla pagina, campagne per aumentare la visibilità e le conseguenti interazioni di un post, campagne per promuovere un’offerta del brand dalla pagina o ancora per promuovere la partecipazione a un evento o l’installazione di un’applicazione. L’ads manager di Facebook ora permette di creare campagne in funzione degli obiettivi da raggiungere. A questi è stata recentemente aggiunta anche la possibilità di spingere le visualizzazioni dei contenuti video.

L’ads manager per la creazione e gestione di campagne di advertising su Facebook (fonte: Facebook.com)

Facebook permette di creare campagne organizzandole in gruppi di annunci che si potranno differenziare a seconda degli obiettivi di business. La caratteristica principale che differenzia Facebook ADS dalle campagne attivabili con Google (Google AdWords) è la presenza del TARGETING PER INTERESSI, che è poi il fiore all’occhiello di Facebook. Le offerte per gli annunci avvengono con gli stessi metodi di pagamento utilizzati nel display adv, ovvero CPC (pago quando clicco e solitamente l’inserzionista può definire un’offerta o scegliere quella consigliata) oppure CPM (costo per mille visualizzazioni). Altre caratteristiche dell’advertising su Facebook sono: 1. la presenza di un ctr (click-through rate) che sembra crescere col passare del tempo 2. la possibilità di circoscrivere la propria inserzione ad un pubblico altamente targettizzato 3. la possibilità di coinvolgere maggiormente un pubblico mobile 4. un costo per conversione del 35% più basso rispetto alla media degli altri canali (che non è poco) 5. la presenza del CPM “ottimizzato” che permette di raggiungere utenti che sono più propensi a effettuare una determinata azione (es. iscriversi a una pagina, compilare un form, ecc.) 6. l’esistenza del CTA (cost per action), con il quale l’inserzionista paga

quando un utente scarica e installa un’applicazione 7. gli annunci sono visibili lateralmente, in piccolo, e come “Notizie sponsorizzate” all’interno del feed in un formato molto più grande e performante. Infatti, diversi studi hanno dimostrato come l’attenzione degli utenti si concentri maggiormente nella bacheca e come questa tipologia di inserzione produca più conversioni dell’annuncio laterale 8. la visibilità ad asta. Nello stesso modo in cui avviene anche per Google AdWords, la visibilità e la frequenza con cui vengono mostrate le inserzioni dipendono dall’offerta fatta dall’inserzionista. Con le campagne di advertising su Facebook ci si può sbizzarrire. Eppure mi capita spesso di vedere nel mio feed annunci di cui non mi può interessare nulla e con alla base una profilazione demografica e per interessi del tutto errata. Anche nella costruzione di campagne di advertising su Facebook deve valere il concetto cardine espresso in tutto questo libro: prima di proporre la vendita di qualcosa, devi farti conoscere. Devi diventare un brand. Sì, anche su Facebook! A mio avviso, se dobbiamo lanciare una campagna su Facebook, dobbiamo farlo con criterio e seguendo un percorso a step che profili l’utente interessato durante il suo ciclo di contatto e acquisto dalla nostra azienda.

Funnel per la creazione di campagne di Facebook Ads (fonte: Webinfermento) 1. CREARE UNA FANBASE PROFILATA

Ci sono diversi modi per acquisire iscritti alla pagina Facebook. Possiamo fare in modo che gli utenti si iscrivano spontaneamente, perché conoscono già la nostra azienda, ne hanno acquistato i prodotti o perché trovano il box del like button sul sito web, oppure possiamo intercettarli con messaggi mirati, non intrusivi e con un’ottima pianificazione per interessi e demografica e invitarli a iscriversi alla nostra pagina. Solitamente consiglio prima di tutto la creazione di un’audience di utenti in target con quello che l’azienda ha da dire (oltre che da vendere) a cui poi iniziare a mostrare contenuti tematici (attraverso la proposta di un piano editoriale di contenuti) che li coinvolga. Ricorda che il primo contatto tra il prospect, potenziale futuro acquirente, e l’azienda avverrà proprio attraverso la decisione dell’utente di iscriversi alla pagina. Fai attenzione a profilare per bene il tuo target group, scegliendo accuratamente il profilo socio-demografico e, soprattutto, gli interessi. È sempre meglio avere poche categorie di interessi, ma precise, e un budget di utenza potenzialmente raggiungibile, ristretto ma realmente interessato, anziché ampio ma con molti utenti non interessati. Eviterai di sprecare budget. 2. CONTENT E COMMUNITY MANAGEMENT

Soprattutto in seguito al calo di visibilità organica dei post delle pagine Facebook di cui ho parlato prima, è diventato necessario prevedere anche un budget giornaliero per campagne di “interazione con i post” col quale promuovere gli ultimi post pubblicati o quelli che riteniamo stiano funzionando meglio in termini di interazioni con i fan della pagina. Bada al fatto che ho scritto “con i fan della pagina” benché potremmo decidere di mostrare i post della pagina, mediante le campagne ads, anche a utenti non ancora iscritti alla nostra fanpage. Questa opzione solitamente non la applico perché ritengo che l’utente che sia già entrato in contatto con la pagina aziendale, attraverso l’iscrizione (o il like), sia già un passo avanti rispetto a chi ancora non abbia conosciuto l’azienda e la probabilità con cui l’utente iscritto interagisca con i post è più alta rispetto al ricevere interazione dall’utente non ancora fan. Questo si traduce, come puoi immagine, nell’ottimizzazione dei costi per interazione. 3. CAMPAGNE PERIODICHE DI LEAD GENERATION

Ricorda, Facebook e tutti gli altri social media non sono strumenti di vendita.

È possibile però prevedere, periodicamente e solo dopo che il target group è entrato in contatto con la pagina Facebook della marca ed è stato coinvolto dai contenuti pubblicati, azioni di Lead Generation rivolte agli utenti già iscritti, già in contatto e già coinvolti. In questo modo il percorso dal contatto alla conversione seguirà un funnell quanto più vicino al concetto di “Permission Marketing” e le possibilità di conversione aumenteranno.

Un esempio di campagna di Lead Generation (fonte: Webinfermento)

Da testare sono sicuramente la creazione del “pubblico personalizzato”, ad esempio grazie ad indirizzi email precedentemente raccolti che vanno ad incrociare gli utenti iscritti a Facebook con quello specifico indirizzo, e il FACEBOOK REMARKETING, ovvero la possibilità di profilare con annunci mirati quegli utenti che hanno già visitato il nostro sito o specifiche pagine di prodotti e servizi.

L’interfaccia per la creazione del pubblico personalizzato da Facebook Ads (fonte: Facebook.com)

Ti

lascio

ora

a un approfondimento tematico sul COMMUNITY MANAGEMENT ad opera di una valida professionista del settore: Valentina Vellucci.

Valentina Vellucci COMMUNITY MANAGEMENT, OVVERO L’ARTE DEL “HAI MAI PROVATO A RISPONDERE GENTILMENTE A CHI NON LO MERITA?”

«Sono d’accordo col fatto che nel mondo non ci sia equità; le persone maleducate infatti sono molto più numerose di quelle ben educate». Salvatore Curtrupi Ci sono diverse filosofie sull’attività di Community Management: ci sono i Flash Gordon che promettono di gestire le attività di CM in soli 18 minuti al giorno, ci sono gli Yoda/Mastrota di turno che manifestano tutto il loro sapere attraverso contenuti estremamente teorici che lasciano quel retrogusto di nulla mischiato col niente, ci sono gli Incredibili Hulk, ovvero quelli che ci provano davvero a spiegarti come funzionano i social ma che dopo un po’, per forza di cose, perdono la pazienza poiché tartassati da una massa poco consapevole di come davvero ci si dovrebbe rapportare in rete. Sul Community Management si potrebbe scrivere tutto e il contrario di tutto senza in realtà dire nulla, tenendoci addirittura su corsi che costano migliaia di euro (questo riferimento è diretto a tutta la fuffa che c’è in giro). Quello che posso limitarmi a raccontarti qui sono le mie esperienze in Community Management fra social media editing, crisis management e rebranding in diversi ambiti: informazione, moda, food, food retail, beauty & fashion, editoria e retail. Nel corso degli anni i diversi ambiti in cui ho operato come community manager non mi hanno permesso di trovare il Sacro Graal, né tanto meno di scoprire la formula perfetta che permette di gestire secondo norme predefinite le community dei brand che ci accingiamo a curare. Sono riuscita però a uscire da alcuni luoghi comuni di cui il cliente (e spesso anche noi CM) è schiavo, trovando delle linee guida da seguire per ottimizzare al meglio le attività di Community Management. In passato, sono sempre partita dal presupposto che un buon CM debba piacere alla community, amarla e sentirsene amato. Ho sempre creduto che per ogni richiesta posta dagli utenti dovesse esserci una risposta del community manager, pronto a servire la rete mentre indossa la sua scintillante armatura. La realtà che mi si è proposta negli anni mi ha fatto ben capire, a suon di potentissime batoste, che quelli da cui partivo erano presupposti sbagliati, di logiche reali applicate al virtuale. Reale e virtuale non sono la stessa cosa: il regno digitale non è un mondo a parte, è semplicemente un “mondo altro”, spin off di quello vero, in cui vanno ricodificate le norme di gestione della massa. Questa consapevolezza appartiene a un CM saggio, che non deve manifestarla con spocchia ma, con grande umiltà, applicarla per capire cosa è meglio per la gestione strategica delle propria community. Le 6 skill di cui ha bisogno un buon CM sono: 1. la padronanza di Excel per profilare le attività della community

2. la padronanza di tool di gestione del content e analisi performance 3. la capacità di sapere scrivere un buon community manifesto, ovvero un piccolo galateo digitale che spieghi agli utenti il valore della community e il perché certe cose non sono ammesse sulla pagina (es: sulla pagina non sono ben accetti comportamenti razzisti poiché il razzismo non ci appartiene) 4. la capacità di scrivere una buona lista blocco moderazione, ovvero la capacità di attivare nel backend delle fan page che si gestiscono la funzione di “moderazione”, un box vuoto dove vanno inserire parole che non gradiamo vengano usate sulla pagina (bestemmie, insulti, ecc.) 5. la capacità di distinguere fra gestione e censura. Dobbiamo infatti capire che cancellare un commento negativo e/o deridere chi critica una nostra scelta editoriale è una forma di bullismo bella e buona. La gestione di una critica è accompagnata da una riflessione e da una analisi dell’utente, del tono di voce usato, delle argomentazioni ecc. In teoria sembra tutto semplice, sul campo però le cose sono diverse. Un esempio pratico? Prova a tenere testa a un cliente che ti chiede di inserire in lista blocco moderazione tutti gli aggettivi negativi che si riferiscono ai suoi prodotti, oppure prova a fronteggiare un utente che in modo gentile ti fa notare una anomalia sul tuo e-commerce. Dove finisce la moderazione e dove inizia la censura? Laddove gestiamo la critica come qualcosa da nascondere, che deve essere per forza smontata, anche a costo di umiliare chi l’ha prodotta pur di spostare il fuoco della discussione e avere ragione beh, lì inizia la censura 6. una rapida capacità decisionale. Ora che abbiamo esaminato brevemente le skill di un buon CM, cerchiamo di capire come dovrebbe orientarsi nel suo rapporto con la community. 1. Il community manager e la capacità di ascolto Un buon CM dovrebbe trasmettere agli utenti che gestisce la sensazione di essere sempre ascoltati senza farli prevalere nella gestione del tempo della community. Per fare ciò è necessario usare tool che ci aiutino a distinguere quando si sta sviluppando un hot topic sulla nostra pagina oppure una semplice trollata quotidiana. La funzionalità “shitstorm” di FanPageKarma può aiutarci in questa tipo di monitoraggio: questa feature dal nome quanto meno esplicito ci invia un alert ogni volta che sulla nostra pagina si sviluppa un numero di commenti superiore alla media. Possiamo stabilire manualmente questa sottile linea rossa, nella piena consapevolezza che di shitstorm non è mai morto nessuno. Ricordiamoci sempre che Facebook è fatto della stessa materia di cui sono fatte le polemiche. 2. Il community manager e la capacità di creare modelli di risposta Quando un CM approccia una community deve essere in grado di profilare le attività utente, catalogandole in macro categorie (es. “discussioni di prodotto positive

frequenti”, “critiche di utenti non in target”). Questo tipo di studio permette al CM di scrivere una sorta di FAQ personalizzata, in cui alle domande più frequenti sono abbinati i modelli di risposta più adatti su cui modellare risposte customizzate. Ricordiamoci sempre che Facebook è fatto della stessa materia di cui sono fatte le domande ripetitive. 3. Il community manager e l’isolamento dei topic negativi I topic negativi sono il reale tessuto di Facebook, vissuto dall’utente medio in target (e non) con il nostro prodotto come un vero e proprio sfogatoio. Se sulla tua pagina non si sviluppano mai topic negativi, o hai targetizzato il pubblico di Fabio Volo, oppure c’è qualcosa che non va. Un topic negativo è caratterizzato dall’insoddisfazione di un cliente che ha provato un tuo servizio e non ne è rimasto soddisfatto: è possibile che il tuo prodotto sia talmente perfetto da non meritare alcuna critica? Rifletti bene sulla tua strategia: se la community che curi non manifesta un lato passionale, vuol dire che devi ancora lavorare molto sulla brand awarness. Un prodotto conosciuto è un prodotto discusso: raramente un prodotto discusso unisce in maniera univoca gli animi. Nemmeno se il prodotto in questione è la pace nel mondo. All’atto pratico, cosa vuol dire isolare un topic negativo? Vuol dire fare in modo che non esca dal post e/o dal social su cui è nato, gestirlo e portarlo in un luogo di controllo (messaggio privato, scambio mail customer care). L’isolamento dei topic negativi ci permette di ragionare sulle debolezze del prodotto, sulla capacità che gli utenti hanno di argomentare contro il nostro disservizio (e capire in questo modo se sono davvero dei potenziali o dei consumer in atto). In generale, l’elaborazione di una “exit strategy” per il contenimento di topic negativi si basa su 5 obiettivi strategici: 1. isolare chi pubblica post dal mood negativo 2. isolare le critiche offensive e/o denigratorie nei confronti del brand, della community e/o di altri utenti 3. valorizzare comunque le critiche negative e costruttive per migliorare l’esperienza degli utenti 4. evitare che fioriscano polemiche inutili 5. non interrompere il confronto eccedendo nella rigidità ma favorire il confronto (quando possibile). Ricordiamoci sempre che Facebook è fatto della stessa materia di cui sono fatte le lagne. 4. Il community manager e l’isolamento dei topic positivi La percentuale degli utenti che fruisce del tuo prodotto e ne è mediamente

soddisfatta, difficilmente andrà sulla timeline della tua community per complimentarsi dell’efficacia di ciò che ha provato. Senza fornire a un utente un valido motivo per scrivere qualcosa di positivo sul tuo prodotto (sconti, premi, agevolazione, visibilità), raramente avrai l’occasione di goderti questi topic. Nel caso in cui accadesse, non limitarti mai a leggerli e basta. Anche un banale like o il tanto – caduto in disuso – “grazie” possono trasformare quell’utente da account virtuale a persona fidelizzata. Ricorda sempre che Facebook è fatto della stessa materia di cui sono fatte le coccole. 5. Il community manager: un essere umano tra altri esseri umani Un buon CM non dovrebbe mai dimenticare che gli utenti non conoscono bene le funzionalità del mondo digitale. Ad esempio, molti utenti non capiscono che mettere in chiaro il numero del proprio cellulare lede la loro stessa privacy, che i link contenuti all’interno dei post sono cliccabili e spesso non sanno nemmeno cos’è un link. Lo usano per emulazione. Un buon CM dovrebbe lasciare a casa la spocchia e spiegare agli utenti cosa dovrebbero e/o non dovrebbero fare su una community, adducendo motivazioni semplici e dirette, aprendosi a suggerimenti sul relativo miglioramento, senza mai cedere troppo terreno alla community stessa. Non esiste una formula perfetta per spiegare agli utenti le logiche del Community Management: sicuramente l’applicazione dei principi del visual storytelling può creare una forte complicità tra CM e community. Ne è un esempio la conversione del community manifesto de La Stampa in un Galateo digitale a fumetti, in cui le regole di contribuzione e i valori della communiy sono mostrati attraverso piccoli sketch visivi.

Fonte: facebook.com/lastampa.it

Nelle attività di Community Management, trasmettiamo attraverso un linguaggio fermo e pacato, che raramente (anzi, quasi mai tranne rare eccezioni) dovrebbe ricadere nel tu, che stiamo procedendo nella gestione della community nel miglior modo possibile e che se siamo sensibilmente umani, professionalmente siamo e rimaniamo voce del brand. Ricordiamoci che Facebook è fatto della stessa sostanza di cui sono fatti “i cugini che fanno tutto a meno e meglio”. Terminato questo breve ritratto del Community Manager ideale, passiamo a esaminare su quali principi andrebbero costruite le regole di contribuzione, ovvero il galateo digitale della pagina che stiamo curando. 1. Consapevolezza Nel momento in cui il clima sulla fan page diventa teso, esprimiamo la nostra consapevolezza sulla delicatezza del contenuto appena pubblicato e poi richiamiamo all’ordine. Se non ci dimostriamo empatici le forme di moderazione saranno viste solo come forme di censura e controllo. 2. Responsabilità e miglioramento Le risposte alla critiche di gestione della community devono far trasparire l’umiltà del community manager. Es: nella piena consapevolezza di non essere perfetti, cerchiamo ogni giorno di raccontarvi il mondo con passione e dedizione per fornirvi spunti di riflessione sulla realtà. 3. Capacità di dire no Nel momento in cui vengono ripetutamente infrante le regole di contribuzione (es: questa pagina non tratta argomenti affini all’alimentazione vegana), avvisiamo gli utenti e non temiamo il ricorso al ban. Esatto: ricorriamo alla rimozione temporanea dell’utente dalla nostra community nel momento in cui i suoi interventi/raid diventano un enorme spreco di energia per noi e fonte di imbarazzo per la community. Discutere con un utente che tutti i giorni a priori insulta il nostro marchio non è una esperienza di Community Management ma una cattiva gestione delle energie. 4. Capacità di mantenere il fuoco della discussione Quando scriviamo delle regole di contribuzione, ricordiamoci che il fine di queste ultime è permettere agli utenti il confronto. Se non siamo in grado di mantenere il topic della conversazione, la nostra community diventerà un’osteria di bassa lega in cui vomitare opinioni. È davvero funzionale tutto questo alla nostra strategia di marketing? 5. Capacità di parlare lo stesso linguaggio della community Spieghiamo bene le motivazioni dei nostri interventi, chiamiamo le parolacce col

loro vero nome (parolacce, volgarità) ed evitiamo un gergo che ci porrebbe “al di sopra” degli utenti. In poche parole, quando scriviamo un galateo digitale, non poniamoci come padroni della community ma come gelosi custodi. 6. Tolleranza ed elasticità Quando immaginiamo delle regole di contribuzione per la nostra community non dimentichiamo la cosa più importante. Non dobbiamo essere amati dalla community, non dobbiamo risultare simpatici né tanto meno insostituibili. Ciò che dobbiamo saper fare è creare un clima di confronto sereno e costruttivo. Il punto cardine della gestione della nostra community deve essere la tolleranza: anche quando l’utente ci spazientisce con un commento acido (magari su un refuso dopo 12 ore di lavoro consecutivo), non evitiamo il confronto. Ringraziamolo per la segnalazione: facciamo un passo oltre la tolleranza e rispondiamo a un commento negativo con la gentilezza di un grazie. Anche l’utente più scurrile, di fronte a una gentilezza inaspettata si sentirà quanto meno spaesato. E se con una mano digiti un “grazie e a presto”, con l’altra devi già avere sottomano il tuo Excel di profilazione attività per schedare cosa è successo. La gentilezza spiazza e ti può far guadagnare quell’ora di spaesamento utente necessaria per elaborare una exit strategy vincente. In conclusione, se una strategia di Community Management punta a far diventare simpatico il tuo marchio, non è detto che il tuo CM debba essere per forza gentile. Fa il Community Manager, non il PR. Nel nostro settore, la parola simpatia va sostituita con il termine empatia: dalla moderazione deve emergere la capacità di chi si è assunto la responsabilità delle attività di community management, di mettersi nei panni degli utenti. Empatia ma non simpatia. Non è consigliabile dare del tu, rispondere con sarcasmo o estrema confidenza ai nostri user Facebook. Non è personalizzando la comunicazione che gestiremo al meglio la nostra community, ma rendendola personale.

2.2. Twitter Ormai con quasi una decade di vita alle spalle, Twitter si afferma, soprattutto in Italia, come secondo social network con più iscritti ma anche quale piattaforma sociale di ascolto e conversazione per le aziende. Nonostante il suo successo per numero di iscritti, è ancora molto sottovalutato in Italia e utilizzato spesso in modo errato sia dalle stesse aziende che dalle celebrità o personaggi influenti nel web, possiede alcuni elementi caratteristici che lo differenziano da canali come Facebook. Innanzitutto è un OTTIMO STRUMENTO DI CUSTOMER CARE per le aziende. Pensa ai giganti delle compagnie telefoniche. Hanno dedicato del personale

alla gestione dei reclami e delle centinaia di richieste di informazioni che ricevono giornalmente. Tim, 3Italia e la stessa Vodafone utilizzano Twitter proprio per assistere gli utenti nella gestione delle loro richieste. Una volta raccolte, solitamente con conversazioni private in Direct Message, le richieste vengono smistate e girate agli operatori di competenza. Questa è però soltanto una delle peculiarità del Social Media Marketing con Twitter. Quale miglior modo di utilizzare Twitter se non per l’ASCOLTO DI CONVERSAZIONI di interesse su prodotti, servizi e mercato di riferimento del brand? Le conversazioni su Twitter sono pubbliche, a differenza di quelle di Facebook dove questa è un opzione attivabile dall’utente per i profili personali, mentre restano pubblici i post delle pagine. Dal monitoraggio degli hashtag, di utenti influenti del settore e delle stesse parole chiavi d’interesse possono nascere per le aziende opportunità da cogliere e che possono dare il via a ritorni non da poco in termini di visibilità. Twitter inoltre è uno STRUMENTO CROSS-MEDIALE che rende gli spot pubblicitari televisivi più efficaci rafforzando la presenza del brand. Da una ricerca pubblicata dallo stesso Twitter è infatti emerso che i consumatori che guardano solo la televisione sono attratti da una pubblicità nel 43% dei casi, ma chi utilizza anche Twitter è richiamato nel 53% dei casi e non solo: questi spettatori sono il 13% più propensi a discutere sulle trasmissioni televisive e a suggerire di seguire dei programmi (3%). È nota ormai da tempo, infatti, la tendenza degli utenti a commentare eventi di vita quotidiana e trasmissioni televisive in real-time su Twitter. Ci sono diversi tool e software che possono aiutarti nella gestione e monitoraggio delle conversazioni su Twitter. Da SocialBro, che è una piattaforma multi-tool per l’analisi dei competitor, degli hashtag e delle statistiche del proprio account, a Topsy, che ora contiene tutto il database dei tweet dal 2006 (anno di fondazione di Twitter) ad oggi, che è un vero e potentissimo motore di ricerca per l’analisi degli hashtag, nonché di tutti i tweet di un singolo account. Molto utili inoltre, soprattutto per gli eventi, anche TweetReach, che ti permette di creare report avanzati e dettagliatissimi, Finder e Followerwonk, se si è alla ricerca degli account più influenti del proprio settore da iniziare a seguire e con i quali interagire.

Topsy, il motore di ricerca e di analisi dei tweet

2.2.1. La strategia di contenuti per Twitter Il modo migliore per iniziare a condividere contenuti su Twitter è quello di differenziare il piano editoriale da quello degli altri social network. Personalmente, sono tra coloro che preferiscono adibire ogni canale sociale a una specifica funzione con un piano editoriale univoco. Pubblicare gli stessi post di Facebook anche su Twitter, oltre a non essere utile, non permetterà di acquisire un numero di follower degno di nota: tanto vale, a mio avviso, risparmiarci di aprire l’account aziendale su Twitter. Per orientare al meglio una strategia di contenuti su Twitter dovremo prendere in considerazione alcune metriche, dalle quali potremo poi iniziare a valutare l’efficacia del nostro operato: REACH: numero totale di follower e potenza di diffusione dei messaggi TASSO DI RISPOSTA: il numero medio di @mention per ogni tweet BRANDING E AWARENESS: il rumore che si è generato intorno all’azienda o

ai prodotti TWEET GRADE: il livello di influenza complessiva che l’account Twitter

riesce a raggiungere CONVERSIONI: numero di utenti provenienti da Twitter che visitano il sito web aziendale/blog e le cui azioni si convertono in lead o contatto/acquisti. Sono diverse le ricerche che hanno indagato su cosa si nasconde dietro ai tweet di maggior successo. Secondo BuddyMedia un tweet di successo deve: ESSERE BREVE

I tweet che contengono meno di 100 caratteri sono quelli che ottengono il

miglior tasso di risposta, con un +17% di engagement. La motivazione è abbastanza immediata: lasciare un po’ di spazio per commentare un retweet per gli utenti, forse, può spingere lo stesso a ritwittare con più facilità il messaggio personalizzandolo con la propria opinione. CONTENERE HASHTAG, MA SENZA ESAGERAZIONE

Utilizzati per identificare parole chiave che aiutino a capire a colpo d’occhio il contenuto del tweet, gli hashtag hanno anche un valore nell’aumentare l’interazione con i messaggi. È emerso infatti che i tweet che contengono hashtag ricevono un tasso di risposta maggiore rispetto a quelli che non ne hanno. Consideriamo che, anche in questo caso, i brand non sono preparati. Infatti, solo il 24% dei tweet provenienti da brand contiene un hashtag. Resta però la regola di non utilizzare troppi hashtag; infatti l’uso eccessivo anziché favorire l’engagment lo inibisce: tweet con 2 hashtag hanno risposta nel 21% dei casi rispetto a quelli con tre o più hashtag, che fanno registrare un 17% di tasso di risposta. CONTENERE LINK

Certo, non aspettiamoci una mole di traffico referente considerevole alle nostre pagine web. Tuttavia, sembra che inserendo dei link accompagnati da testo nei propri tweet permetta di avere l’86% di tasso di retweet rispetto a quelli che non ne contengono. UTILIZZARE LE IMMAGINI

Come su molti altri social, anche su Twitter le immagini funzionano. È stato riscontrato che i tweet che contengono link a immagini fanno registrare un impatto sul tasso di engagement di due volte superiore rispetto a quelli che non ce l’hanno. Non soltanto! Spingere i propri tweet contenenti link alle proprie pagine web con immagini descrittive di alta qualità permette di aumentare sia il numero di visualizzazioni (perché l’immagine allegata, nello stream di Twitter, viene visualizzata nella sua interezza) sia il numero di retweet e degli stessi click nei link associati. Sicuramente il miglior modo di twittare resta quello di interagire. Twitter infatti si presta meglio alle interazioni one-to-one, grazie alla possibilità di menzionare direttamente il singolo utente. Certo, un’azienda può condividere anche su Twitter le immagini utilizzate già sugli altri canali social per spingere alla lettura degli ultimi articoli del blog aziendale, ma non dovrebbe limitarsi

alla condivisione soltanto del piano di contenuti, ma all’interazione con gli utenti che, grazie all’utilizzo di software e tool di segmentazione e profilazione degli stessi, sappiamo essere il nostro target di riferimento e potenziali futuri acquirenti. Inoltre Twitter è ottimo per entrare in contatto con gli utenti influenti del nostro settore. Solitamente gli influenti settoriali hanno anche un loro blog di settore, spesso molto seguito e con cui potremmo voler attivare in futuro delle collaborazioni in termini di guest posting, organizzazione di eventi o concorsi a premio. Gli utenti influenti inizialmente non ci conosceranno e mostreranno diffidenza nei nostri confronti, dato che comunque ci presenteremo come un’azienda. Questo non toglie però che potremo iniziare a seguirli, a leggere e twittare gli articoli del loro blog, a menzionarli per ringraziarli o condividere con loro idee o opinioni. Questo argomento verrà meglio affrontato nel paragrafo relativo all’Influencer Outreach. Anche Twitter possiede un sistema molto avanzato di statistiche, che recentemente sono state rese disponibili a tutti gli account, anche se non inserzionisti. Accessibili dalla sezione “Twitter Ads” le statistiche di Twitter mostrano un resoconto della nostra attività nell’ultimo mese, con commenti che ci indicano se l’attività abbia avuto aumenti o diminuzioni in termini di visualizzazioni dei nostri tweet rispetto al mese e al giorno precedente, l’andamento relativo all’acquisizione di nuovi follower, le informazioni su uno specifico tweet che ci mostra quanti utenti raggiunge e il numero di retweet, preferiti, di risposte, di click ai link, ecc. Curiosità: NEL 99% DEI CASI LA VISIBILITÀ DI UN TWEET SI ESAURISCE ENTRO UN’ORA DAL SUO INVIO. Infine c’è tutta un’area di statistiche legate alle Twitter Card, che ogni azienda attiva su Twitter e con un blog aziendale dovrebbe implementare. Le Twitter Card sono delle funzionalità di Twitter che permettono di arricchire i contenuti dei propri messaggi consentendo ai follower di avere un’anteprima del contenuto a cui accederanno cliccando sul link associato al nostro tweet. La Twitter Card genera infatti una descrizione aggiuntiva, con annessa immagine estratta dall’articolo, immagine profilo e nome dell’account Twitter

associato. A seconda della tipologia di Twitter Card implementata, la card mostrerà un pulsante di call to action che permetterà di accedere al contenuto nella sua interezza. È possibile scegliere, a seconda dei propri obiettivi di marketing, tra diverse tipologie di Twitter Card: quelle solo con immagini, con immagini e riassunto, con immagini larghe, per applicazioni mobili con link che invitano ad installare l’applicazione o quelle per l’auto-play di contenuti interattivi embeddati nei tweet. Da un punto di vista di marketing, le Twitter Card possono favorire il numero di retweet e click ai link associati. Infatti ogni tweet e retweet dei contenuti mostrerà il link di espansione del tweet con i suoi contenuti aggiuntivi e descrittivi.

Esempio di Twitter Card (fonte: Twitter.com)

Per implementare le Twitter Card nei blog aziendali è necessario aggiungere i meta tag pertinenti nella sezione header delle pagine web (es. gli articoli del blog aziendale) alle quali vogliamo associare le card nel momento in cui gli articoli verranno twittati. Tale operazione può essere fatta manualmente se sei uno sviluppatore o attraverso comodi plugin, se utilizzi Wordpress come CMS per il blog aziendale. Plugin come Yoast Wordpress SEO o JM Twitter Cards permetteranno infatti, molto semplicemente, di settare le impostazioni e

scegliere la tipologia di card per il proprio sito o blog; infine bisognerà richiederne la validazione a Twitter da questo link https://dev.twitter.com/docs/cards/validation/validator in cui inserire il nome dell’account, la tipologia di card scelta e richiedere la verifica, che avverrà in pochi secondi via email.

Il pannello di validazione delle Twitter Card (fonte: Twitter.com)

2.2.2. Twitter Ads Anche Twitter dispone di un’efficace piattaforma di advertising che permette la diffusione dei messaggi aziendali. Pur non avendo ancora la stessa efficacia e un ritorno dell’investimento per nulla paragonabile a quello di Facebook Ads, per grandi aziende che vogliono lanciare nuovi prodotti o per la promozione di determinati eventi di interesse nazionale, può essere un’utile opportunità. L’advertising su Twitter permette di pianificare e lanciare tre tipologie differenti di campagne. 1. ACCOUNT SPONSORIZZATO

Permette di promuovere un account e mostrarlo tra quelli consigliati in funzione del target da noi definito. Il metodo di pagamento è il cost-perfollow.

2. TREND SPONSORIZZATO

Permette di promuovere un hashtag per 24 ore facendolo comparire nella sezione dei trend esponendolo a tutti gli utenti Twitter di un paese. In questo caso è applicato un costo fisso giornaliero e può essere promosso al massimo 1 trend al giorno per ciascun paese. 3. TWEET SPONSORIZZATO

È la tipologia di campagna più utilizzata. Consente di promuovere dei tweet profilando per interessi, parole chiave, tipologia di device, target demografico e geografico e termini di ricerca; tali tweet appariranno in alto nello stream di Twitter, sopra a tutti gli altri. Il metodo di pagamento è il cost-per-engagement.

Tipologie di campagne Twitter Ads (fonte: Twitter.com)

Queste sopra descritte sono le tipologie di advertising che richiedono un contatto commerciale in Twitter per essere gestite. È tuttavia possibile utilizzare la piattaforma di ads che permette anche ai piccoli brand di pianificare campagne. Ci tengo a ribadire che l’advertising su Twitter, per i costi che richiede, è ancora poco accessibile alle piccole e medio imprese. Se invece lavori per una grande azienda e hai disposizione del budget da investire in advertising per condividere contenuti, eventi o iniziative creative e che possono realmente generare “buzz”, allora un pensierino potresti farcelo. 2.3. Google+ A cura di Maria Pia De Marzo

2.3.1. Il mondo di Google+: statistiche e numeri Dal punto di vista del content marketing, forse il canale social più simile a Facebook e che potrebbe essere utilizzato allo stesso modo a livello promozionale, anche in modo parallelo, è Google+. Infatti, dal 2012 il social network di Google può esser considerato a tutti gli effetti uno dei canali da cui è possibile raccogliere l’attenzione di un bel mucchio di utenti potenzialmente interessati. Benché il canale possa ancora sembrare di nicchia, e alle volte ancora poco utilizzato dalle aziende per via della minore attenzione che riscuote in Italia, ci sono numeri interessati che non possono essere tralasciati. Dando un’occhiata ai dati di Google+ nel mondo, si può capire come il social si stia imponendo nel tempo. Nel 2012 il canale contava, nell’ultimo quadrimestre, circa 435 milioni di iscritti di cui 223 milioni attivi mensilmente; nello stesso quadrimestre dell’anno successivo gli utenti iscritti si aggiravano intorno ai 1.15 miliardi mentre gli utenti attivi erano circa 250 milioni, sintomo del fatto che l’interesse degli utenti è aumentato. Alcuni hanno sconsigliato il canale nel corso degli anni ritenendo che il bacino di utenza non fosse abbastanza “di valore”, in quanto viziata dal “comportamento” di Google di associare automaticamente ogni nuovo o esistente account Gmail a quello Google+ creando di fatto due fazioni di utenti: gli inconsapevoli detentori di un profilo Google+ che non sanno neanche cosa sia e come si utilizza, ma di fatto sono a tutti gli effetti degli iscritti, e coloro che effettivamente ne sono consapevoli e che con consapevolezza lo utilizzano. Della porzione di utenti attivi a livello mondiale, l’Italia non mostra un comportamento diverso, anzi. Ragionando ancora per numeri, in Italia si nota lo stesso divario tra utenti iscritti e attivi: risulta che alla fine del 2013 gli utenti effettivamente impegnati nel gestire il proprio profilo sul social si aggirassero intorno ai 3,8 milioni a fronte di più di 11 milioni di utenti registrati. Un dato che può sembrare poco consolante. Ciononostante il canale è abbastanza popolato di contenuti e chi ha la fortuna di viverlo e sfruttarlo quotidianamente può notare che l’interazione non è assolutamente carente, anzi. Ogni settimana vengono caricati più di 1.5 milioni di immagini e il tempo di permanenza sul canale è raddoppiato: in un anno si è passato da 3.30 minuti a quasi 6.50 minuti, numeri in forte competizione con Twitter, dove se ne spendono 170 o Instagram con 274 minuti. In Europa poi, l’Italia si posiziona al terzo posto tra i Paesi che più utilizzano il canale.

Fonte: circlecount.com/statistics

2.3.2. Google+ e le aziende

Dal punto di vista aziendale, sembra che le imprese non siano ancora pronte ad investire nel canale e lo si nota da quanto ancora preferiscano dedicare buona parte del proprio budget per l’online nei classici canali social. A partire dagli ultimi due anni, soprattutto alla luce delle recenti limitazioni che Facebook ha introdotto sulla visibilità dei post, molte aziende, dalle più grandi alle più piccole, hanno deciso di intraprendere una strategia social parallela, di supporto, per differenziare la propria presenza online o per garantire una presenza a 360° tenendo conto anche di quella fetta di utenti che hanno deciso di dissociarsi da Facebook per coltivare solo la presenza Google+. Esistono dunque delle motivazioni fondamentali per essere attivi su Google+? Sicuramente sì. Per ogni obiettivo che si vuole perseguire online, sfruttare un canale per incrementare e accrescere la presenza è utile se non indispensabile, anche per essere competitivi, per questo la motivazione di esser presenti e coltivare la propria presenza sul canale è un comportamento aziendale sicuro, per garantirsi a lungo termine attenzione da parte del pubblico potenzialmente coinvolto. È possibile identificare tre diversi ambiti per il quale il canale mostra tutta la sua efficacia: personal branding, traffico e promozione aziendale. PERSONAL BRANDING

Nell’online è molto importante, prima di parlare come azienda, parlare come essere umano e mostrare personalmente quanto si vale, comunicare le proprie competenze, mostrare le proprie qualità e dialogare alla pari con chi ci ascolta, e, quindi, lavorare per il personal branding. Gli strumenti utili per coltivare la propria presenza sono sicuramente quelli di avere un profilo sul canale, un profilo attivo, cioè pieno di contenuti di valore e inerenti il proprio ambito di posizionamento online, fatto di interazioni con gli utenti e di partecipazione. Garantirsi una presenza sul canale, in più, vuol dire andare anche oltre il canale e mostrare la propria “esistenza online” anche all’esterno di Google+. Non dimentichiamo che Google+ è il social di Google e Google è il padrone delle ricerche online, ed esser presenti su Google+ vuol dire garantirsi anche quella fetta di visibilità che passa dalle SERP, senza contare i vantaggi connessi al fatto che le interazioni su un contenuto condiviso su Google+, rese pubbliche tramite MyAnswers, permettono di guidare l’utente Google+ su quei contenuti condivisi dal sito, dai contatti nelle proprie cerchie.

Fonte: Google.it PROMOZIONE AZIENDALE

Dopo circa 4 mesi dal lancio sono arrivate le pagine business di Google+ che rappresentano il vero modo di fare promozione online attraverso il canale. Con caratteristiche molto simili ai profili personali, le pagine permettono di parlare a nome del brand e di condividere selettivamente i post sulla base di persone selezionate in fase di creazione delle cerchie (ad esempio donne/uomini). La potenzialità delle pagine, rispetto a quelle di Facebook, è che permettono a tutti gli effetti di interagire direttamente con gli utenti consentendo un contatto one to one e accerchiando i seguaci, e di dialogare anche solo con un piccolo gruppo di essi attraverso i contenuti, a patto che ci si segua reciprocamente. Recentemente, con l’introduzione delle statistiche sulle pagine – update che entra nel progetto MY BUSINESS di Google che mira

a fornire più strumenti avanzati per la gestione della presenza online di un brand dai social agli AdWords Express – si ha la possibilità di analizzare gli sforzi compiuti e ottenere anche una buona reportistica sull’attività svolta. In particolare, all’interno del canale si può avere un’ottima panoramica sulle statistiche di Google Analytics del sito e i numeri provenienti dall’attività sul social, sia sommariamente che nel dettaglio per ogni singolo post.

Fonte: plus.google.com TRAFFICO

Facendo una digressione e tornando al discorso dei risultati di Google+ all’interno delle SERP, è importante porre l’accento su questa informazione che è abbastanza significativa per capire quanto i segnali sociali siano di crescente importanza nel posizionamento dei contenuti online.

Il concetto del traffico referral dunque, grazie a Google+, può essere esteso sia all’interno che all’esterno del canale. Per quanto riguarda l’interno, l’azione di condivisione sul proprio profilo espone un contenuto proveniente dal sito (nel caso migliore un contenuto di un blog) e lo sottopone all’attenzione, non filtrata da algoritmi di ordinamento dei risultati, della platea dei propri contatti Google+, si spera profilati e interessati. Se l’attenzione che si è riuscita a maturare, con una pagina business o profilo, è importante e autorevole, automaticamente quel contenuto diviene oggetto di interesse da parte delle proprie cerchie e innesca quel processo di engagment che porta gli utenti a generare un numero di click sul contenuto che si tramutano in traffico referente per il sito. 2.3.3. Come un’azienda dovrebbe impostare una content strategy Il processo, come in molti ambiti della comunicazione, avviene a step che si susseguono e che hanno lo scopo di rendere il lavoro lineare e preciso permettendo di evitare di commettere errori comuni e banali, che darebbero l’idea dell’essere principianti, o di dimenticare informazioni importanti nel tempo. Tutto passa ovviamente dalle attività di analisi del pubblico di riferimento, al quale indirizzare il messaggio, scelta dei contenuti da pubblicare e stesura del piano editoriale, analisi dei risultati ottenuti ed eventuale revisione o miglioramento del piano editoriale. Tutto questo processo una volta creato non è definitivo per il semplice motivo che il pubblico cambia, cambia il rapporto dell’utente con il brand (si evolve in positivo o in negativo) e cambiano anche i suoi desideri. L’obiettivo principale deve esser quello di mantenere l’utente sempre vigile e interessato ai contenuti, in modo che non perda mai l’attenzione verso la pagina e abbia, nel corso del tempo, sempre voglia di interagire, partecipare ed esprimere il proprio consenso. Dunque per creare un rapporto di reciprocità su Google+ con le proprie cerchie è importante prima di tutto conoscere lo strumento, le potenzialità che offre e come sfruttarle al momento opportuno. Un’azienda dovrebbe quanto il più possibile riuscire a conoscere lo strumento sotto il profilo personale, imparare come si usa e maneggiarlo con disinvoltura e decisione, dopodiché il suggerimento è quello di iniziare a pianificare il lavoro attraverso gli strumenti di business che offre il canale: pagine, hangout, showcase e ads.

Fonte: Google Analytics

Come in ogni ambito social, lavorare per un nuovo canale richiede attenzione e dedizione, ma prima di ogni altra cosa conoscenza dello strumento e delle sue potenzialità. Per organizzare il tutto è sufficiente conoscere come procedere. 2.3.3.1. Definizione degli obiettivi e pianificazione delle cerchie per “nicchie di utenti” In fase preliminare, ancor prima di sapere che si abbia a disposizione una pagina business Google+, bisognerebbe analizzare bene il proprio settore di riferimento e definire i propri obiettivi di business. Solitamente questo processo è già stato espletato, soprattutto se si sono creati già dei profili social su canali affini come Facebook. In questo caso, è sufficiente dare una sbirciata a quanto è stato già fatto e adattare gli obiettivi al nuovo canale. Sia che si disponga già dei profili sociali o che, al contrario, non se ne disponga, è importante delineare per bene la tipologia di contenuti da pubblicare, quelli che vogliamo rendere pubblici e quelli da tenere in privato, le tematiche intorno alle quali far ruotare i concetti della pagina e la scelta (approssimativa) della tipologia di contenuti da pubblicare (foto, video, gif e così via). Sempre in questo ambito, diventa essenziale anche capire come impostare il popolamento delle cerchie e diventa interessante abbracciare l’idea di poterle tematizzare, cioè raggrupparle omogeneamente in base alla tipologia di utenti (ad esempio utenti smanettoni, utenti pro-Apple, utenti pro-Android). Tematizzare le cerchie si traduce, infatti, in una tematizzazione della pagina per renderla tagliata su misura sulle esigenze di informazione che l’utente ha, avendo nel proprio streaming contenuti molto più in linea con i propri interessi, il che vuol dire garantirsi una maggiore attenzione, ergo engagment. L’idea principale, dunque, è quella di lavorare “per nicchie di utenti” in modo di raffinare al massimo i contenuti e, ovviamente analizzando l’evolvere dei

comportamenti della community, migliorare e rinnovare in corso d’opera e costantemente il piano di content per il social. 2.3.3.2. Creazione pagina profilo ottimizzata e creazione delle cerchie Una volta costruito e ideato il piano di azione per Google+, il passo successivo è metterlo in opera. Si parte con il costruire la presenza su Google+, ravvivare o dare un tono professionale al proprio profilo personale che magari è stato distrattamente creato e utilizzato più di 2 anni fa. Non sei sicuro di averne uno? Sappi che tutti coloro che dispongono di un account Gmail sono direttamente proprietari di una pagina di profilo che, banalmente, se non ben ottimizzata, resta vuota e priva di utilità. Una volta preso in mano il proprio profilo, il primo step da considerare è quello di iniziare a lavorare sulla sua ottimizzazione in ottica professionale. Probabilmente alcuni campi sono stati compilati tempo addietro, ma al 90% avrai bisogno di metter mano a tutti. In questo è importante essere il più veritieri possibile evitando esagerazioni ed escludendo quei meriti o capacità che non sono in linea con l’obiettivo prefissato da raggiungere. In primis, bisogna iniziare dalle informazioni di base come il Nome-Cognome e la foto profilo. È essenziale evitare l’uso di pseudonimi (non siamo su Twitter) o scegliere immagini di profilo che non ti rappresentano, anche perché in questo Google è molto attento ed ha pensato bene, tramite pattern recognition (vedi figura), di effettuare un controllo, anche se superficiale, sull’immagine per individuarne un volto; in questo modo mira sia a garantire uniformità tra i profili, sia a effettuare uno pseudo-controllo sul fatto che l’utente iscritto corrisponda a una persona reale.

Poi è essenziale compilare ogni campo disponibile. In questo Google+ è molto dettagliato e permette di separare le informazioni personali da quelle lavorative. I campi sono: storia: raccoglie informazioni prettamente personali e lavorative

istruzione, lavoro, informazioni di base e luoghi dove hai vissuto link: è la parte che più di tutte deve esser interessata dall’aggiornamento. In quest’area la parte professionale del proprietario del profilo viene alla luce. Qui è importante, oltre ad effettuare il collegamento con eventuali altri prodotti di Google (come il proprio canale Youtube), inserire i link ai profili social e ai siti per il quale si è contributore. Il fatto di inserire il link al sito, nella pagina, diventa determinante per permettere a Google di identificare con certezza che la pagina business sia in relazione con il sito. Tutto questo

si concretizza sfruttando il tag rel=“publisher”.

informazioni di contatto con relativa verifica della mail.

Per ognuna di queste voci si ha un controllo massimo sulla loro visibilità (vedi figura).

Una volta pronti, è il momento di mettere in opera ciò che è stato definito in fase di pianificazione e quindi si parte con la creazione preliminare delle cerchie. Per cominciare si può scandagliare l’area dedicata alle community, dove già parzialmente è possibile individuare la giusta nicchia di utenti che sono in linea con le tematiche che si vogliono raccontare. Le community possono essere i luoghi ideali nei quali far crescere la propria presenza sul canale attraverso gli ingredienti fondamentali social: partecipazione e condivisione. 2.3.3.3. Imparare a dare design ai post Contrariamente a quanto avviene su altri social, Google+ permette ai post di esser resi più accattivanti alla vista grazie all’editing del testo. Questa però è forse una delle caratteristiche che meno vengono prese in considerazione dai

neofiti di Google+. Essenzialmente è possibile lavorare con la formattazione dei contenuti testuali postati con grassetto, corsivo e barrato. Sembrerà banale, ma avere un’opzione di questo tipo permette di ottimizzare il contenuto presentato migliorandone la tipografia del post e quindi la leggibilità, rendendo anche il contenuto più “visibile” nello streaming delle news. 2.3.3.4. Saper scegliere i contenuti (temi caldi) In questa fase si avrà consapevolezza di tutti gli strumenti offerti dal canale e saremo già ben attivi ed esperti perché avremo coltivato i membri delle nostre cerchie e quindi sapremo già, grazie al monitoraggio delle interazioni, che i contenuti che abbiamo pubblicato precedentementesono validi. A questo punto possiamo fare un passo avanti: puntare AI TEMI CALDI. Su Google+ i temi caldi diventano un modo utilissimo per aumentare la propria popolarità. Ma come riuscire ad entrarci? Solitamente, i temi caldi sono quei contenuti che all’interno del social hanno riscosso molto successo su un profilo. Con successo intendo l’aver ottenuto un numero smisurato di +1 e commenti tale da aggiudicarsi il gradino d’onore ed essere esposti su una vetrina visibile a tutti. Per esperienza personale, il fatto di riuscire ad entrare negli hot trend di Google+ è scatenato solitamente da un’immagine/gif divertente e di carattere virale. Quando mi è capitato di raggiungere questa meta è accaduto utilizzando contenuti riguardanti il mio settore di riferimento. Tendenzialmente non vi è una regola precisa; in linea di massima posso suggerire che entrare nei temi caldi con delle discussioni di settore sicuramente ha dei benefici per quanto riguarda: aumento degli iscritti al proprio profilo, anche se non sempre in target aumento dell’authority del proprio profilo agli occhi dei follower. 2.3.3.5. Creare la propria pagina business, scegliere i contenuti migliori per la content strategy e raccogliere i risultati Una volta che il tuo profilo ha raggiunto il giusto grado di maturazione e quindi la tua professionalità è emersa attraverso i contenuti e le discussioni che sei riuscito a generare, puoi passare al piano B (B di business!). A questo punto è possibile, quando necessario, creare una pagina business per Google+ definendo, come per i profili, sia l’aspetto visuale della pagina con logo e cover image adatti e di qualità, sia la parte riguardante la descrizione aziendale, anche in questo caso seguendo le linee espresse nel punto 2.

Eseguire queste operazioni correttamente permette al brand di: 1. dar di sé un’immagine professionale 2. far conoscere l’azienda in un unico ambiente, essendo presenti in una sola schermata mission, servizi, recapiti e sito web 3. migliorare il posizionamento della brand page su Google. Infatti, il titolo della pagina rappresenterà nei risultati della ricerca di Google il titolo presente nello snippet delle SERP, così come la descrizione. Se avere una pagina ben ottimizzata può servire a essere rintracciati meglio su Google e comunicare professionalità e competenza social agli iscritti, è importante anche accogliere per bene gli utenti che vi giungono. Una content strategy per il canale è la strada migliore per avere una linea guida da seguire. Proprio come ogni altro social, anche Google+ si nutre di contenuto che, avendo un livello di interesse variabile, solitamente connesso al valore che esso ha per la community di ascoltatori, potrebbe circolare tra le cerchie, diffondendosi. Dal punto di vista delle aziende, l’approccio con una content strategy per i social può però trasformarsi in qualcosa di precario e poco consono a una strategia. Quel che pecca, e danneggia, è l’home-made. Dato che in un’azienda che si approccia ai social per la prima volta non esiste la reale percezione di come debba esser organizzato il lavoro, spesso ci si affida all’istinto di comunicazione, legato ai vecchi metodi di promozione che prevedono l’invio di informazioni cattedratiche provenienti dall’azienda: comunicazioni aziendali, comunicati stampa, linguaggi impacchettati e esagerazioni promozionali. Purtroppo questo è uno dei comportamenti più adottati, ma quasi mai efficace perché l’esigenza di incremento degli introiti dell’azienda va paradossalmente contro quello che un utente si aspetta di vivere sui social. Genericamente una regola per un contenuto social di valore o di successo è quella di godere di due caratteristiche fondamentali: essere informativo/divertente ed esser ben confezionato. Può sembrare una banalità, ma non sempre costruire del contenuto adatto per uno specifico social è semplice, soprattutto per il fatto che ci si limita al collaudato copia e incolla, senza considerare poi le dinamiche che si generano all’interno del canale. Tra l’altro, diventa anche importante riuscire a capire quale contenuto per il social “converta” maggiormente, quale goda di maggior visibilità e aiuti a massimizzare il livello di engagement sociale al di là della scelta dei topic di discussione.

Complessivamente sui social, lavorando molto con l’aspetto visivo, i contenuti informativi che vanno per la maggiore sono le immagini. Nello specifico: esistono dei contenuti migliori per Google+? A differenza di altri canali sociali, come Facebook, Google+ non ha un algoritmo di visibilità dei contenuti, un sistema che permetta cioè ai post di esser maggiormente visibili rispetto ad altri, dunque qualsiasi contenuto pubblicato potrà esser ugualmente popolare rispetto a un altro. Link, foto, gif, video hanno tutti la stessa priorità di visualizzazione nello streaming, ma come sempre ci sono post che possono riscuotere più successo di altri. Come è facile comprendere, un’immagine potrà avere un maggior successo rispetto a un testo, come una gif potrà avere più successo di un’immagine statica. Per la scelta del contenuto adatto, possiamo far affidamento sull’analisi statistica di una porzione di pagine business. Una ricerca condotta su 10.000 profili e pagine attivi su Google+, con una mole di più di 8.000.000 di post analizzati, ha evidenziato come più di 4 milioni di post siano immagini (54%), seguiti dai link (27%).

Fonte: it.circlecount.com

Siamo sicuri che questi siano i contenuti che maggiormente funzionano? Le immagini hanno molto più engagment rispetto ad altre tipologie di contenuto. Infatti sono quelle che hanno un maggior numero di +1, commenti e share rispetto a tutti gli altri contenuti. Questo ci porta a capire come parlare con le immagini è sempre la strada migliore quando si vuole comunicare qualcosa attraverso i social. Il mio consiglio però è di non abusarne, perché va bene ottenere attenzione dagli utenti e in modo così semplice, ma interessarli con un contenuto di valore (magari associato all’immagine stessa) è sempre meglio. Per ben tre anni non è stato possibile misurare l’engagement prodotto sulle pagine in modi realmente attendibili. Strumenti utili ce n’erano, molti casalinghi, ma nessuno aveva la capacità di fornire un report dettagliato sul reale successo della pagina. Le statistiche rilasciate a giugno del 2014 rientrano in un grande progetto chiamato MY BUSINESS, un luogo pensato per permettere agli imprenditori di poter gestire tutte le attività legate al brand su Google, quindi pagine locali, foto, AdWords Express ed infine monitoraggio delle pagine. Tralasciando l’aspetto legato alla gestione business delle pagine, le statistiche sono l’elemento che mancava per capire quanto l’attività svolta sul canale stesse producendo successo. Già dalla prima schermata è possibile avere un quadro generale dell’attività del sito. Infatti, vediamo come la schermata degli analytics non si limiti a riportare i dati della pagina ma disponga anche di una integrazione (seppur parziale) con i dati di Google Analytics. Oltre a questo dato, che può sempre tornare utile per fare un raffronto tra il canale web e quello social, troviamo l’area dedicata al monitoring social. Sotto la voce “Statistiche”, troviamo schematizzate le azioni compiute sulla pagina negli ultimi 30 giorni: visualizzazioni, interazioni sui post e numero di nuovi utenti iscritti alla pagina.

Fonte: it.circlecount.com

Fonte: plus.google.com

Esplorando meglio l’area si giunge in un ambiente dedicato al controllo completo dell’attività svolta sui contenuti pubblicati. La sezione Statistiche è suddivisa in aree che differenziano i dati per: 1. visualizzazioni 2. coinvolgimento 3. pubblico. 1. AREA VISUALIZZAZIONI

Con i grafici prodotti e visualizzati in quest’area è possibile tenere sotto controllo le visualizzazioni sui contenuti della pagina. La visualizzazione

generale permette di monitorare l’andamento dell’attività in un range che va da un minimo di 7 giorni fino a 90 giorni, ma anche a partire dall’apertura della pagina. La genericità di questo grafico può aumentare di dettaglio. Espandendo il grafico si ha la possibilità di ottenere informazioni sulle visualizzazioni complessive su foto, profilo e post e interagendo con il grafico possiamo conoscere i picchi di interazioni e le date in cui si sono registrati.

Fonte: plus.google.com 2. AREA COINVOLGIMENTO

Come il nome stesso suggerisce, vengono mostrati i dati riguardanti le performance dei post. Anche in questa sezione c’è la possibilità di esplorare nel complesso le azioni globali, ma è anche permesso di aumentare il livello di dettaglio, che consente di conoscere il numero di +1, commenti o condivisioni sempre in archi temporali che vanno da una settimana a 30/90 giorni, anche se si specifica che i dati possono essere approssimativi.

Fonte: plus.google.com

Sempre nella stessa area, appena sotto, troviamo la tab “post recenti”. Cliccando su ogni singola voce elencata si può conoscere la VELOCITÀ DI PROPAGAZIONE TEMPORALE del post, sia in termini di visualizzazioni che di azioni su di esso, nelle prime 72 ore dalla pubblicazione. I risultati riportano i post recenti, ma è possibile scorrere oltre (probabilmente fino al primo post), visualizzando il numero di visualizzazioni e il totale delle azioni compiute su di esso.

Fonte: plus.google.com

Il livello di dettaglio sul singolo post è un punto di forza di queste statistiche.

Fonte: plus.google.com

Altro dato interessante è la possibilità di conoscere, tra le tipologie di post, quale sia la più gettonata tramite un grafico a barre che, allhover,5 visualizza le percentuali del livello di successo per tipologia di contenuto.

Fonte: plus.google.com

3. AREA PUBBLICO Nell’ultima area, quella DEDICATA AL PUBBLICO, si ha una schermata dell’andamento delle iscrizioni alla pagina sempre per variabili temporali, per nazionalità e infine per genere degli utenti con fasce d’età e per ogni fascia d’eta è possibile conoscere il dettaglio della distribuzione del sesso.

Fonte: plus.google.com

Fonte: plus.google.com

2.3.3.6. Promuovere la pagina Google+ Una volta creata la pagina, diventa importante promuoverla attraverso il profilo privato almeno in fase iniziale. Ovviamente prima di iniziare con la promozione è fondamentale popolare la pagina con contenuti che possano fungere da bigliettino da visita per chi vi approda. Un suggerimento è quello di condividere alcuni post della pagina sul proprio profilo personale per aumentarne la visibilità.

2.3.3.7. Correlare una community proprietaria Abbiamo un profilo e una pagina business. L’expertise possiamo definirla

ormai consolidata tra i contatti. Cosa manca per completare la promozione sul canale? Creare una community Google+! È possibile associare alla propria pagina business una community creandola direttamente attraverso il profilo della pagina business. Cosa vuol dire in termini pratici? Quando nasce una nuova community associata a un profilo business Google+, si crea una sorta di canale alternativo alla pagina in cui far incontrare i propri follower e permetter loro di discutere su argomenti inerenti al settore. Di quest’attività interna alla community, che si autogenera e vive di vita propria, la pagina business e quindi il brand ne sono proprietari e qualsiasi azione o interazione verrà svolta a nome del brand che in questo modo sarà sempre e costantemente in prima linea, autopromuovendosi. La creazione di una community è un’azione sensibilmente interessante per: avviare discussioni, commentare e moderare la community a nome del brand continuare ad accrescere l’importanza del proprio brand e trasmettere fiducia tra i membri della tribù. Importante prima di creare una nuova community è valutare se ne esiste già un’altra che discuta delle medesime argomentazioni. Avere due community che discutono dello stesso argomento potrebbe non esser una scelta sensata, soprattutto se quella già esistente ha una sua storia. L’obiettivo finale è quello di distinguersi e creare aree di discussione il più specifiche possibile. 2.3.3.8. Interagire platealmente e fuori dalla community: hangout, showcase ed eventi Ultimo passo, quando tutti gli utenti delle cerchie, pagine e community hanno imparato a conoscere il brand e siamo sicuri che la reputation è ormai consolidata, è migliorare il rapporto con gli utenti attraverso la pianificazione di azioni mirate al mantenimento dell’importanza del brand e di tutto ciò che ruota intorno. Uno degli strumenti che Google+ offre per raggiungere l’obiettivo sono gli hangout. Gli hangout, conosciuti in Italia come videoritrovi, sono essenzialmente delle call virtuali video-voce con cui è possibile dialogare con una cerchia ristretta di utenti. Nati come strumento per mantenere i contatti tra parenti o conoscenti al fine di accorciare le distanze, gli hangout si sono trasformati presto in un potente strumento di marketing aziendale utilizzato sia per favorire le comunicazioni interne all’azienda, come ad esempio organizzare conference call o meeting a distanza, sia come

strumento per attivare vere e proprie azioni di Content Marketing. Grazie allo strumento Hangout moltissime aziende nel mondo hanno potuto organizzare dei videoritrovi con importanti star dello showbiz o personaggi pubblici e il plus è che, anche se il numero di partecipanti al video ritrovo è limitato, milioni e milioni di altre persone potenzialmente possono assistere commentando ed esprimendo la propria opinione su quanto avviene in diretta. Che sia OnAir o privato, l’hangout si classifica come uno degli strumenti più efficaci per promuoversi online e fare content marketing! Proprio dalla crescente attenzione aziendale per lo strumento, nel 2014 è stata rilasciata Showcase, un’evoluzione d’uso dello stesso, con una serie di componenti aggiuntivi che hanno l’obiettivo di migliorare l’esperienza dell’utente che assiste a un hangout. L’aggiornamento prevede l’introduzione di un nuovo tool per i creatori dell’hangout che permette, attraverso una interfaccia di interazione, di fornire informazioni aggiuntive agli utenti generando, di fatto, nuova conoscenza che dettaglia e approfondisce quanto viene presentato durante la diretta. Il fulcro di tale attività è la “Vetrina” che rappresenta l’area dalla quale l’organizzatore può incollare i suoi contenuti “premium” da far visualizzare ai partecipanti. Qui troviamo link, video, merchandise e contenuti del Play Store che l’utente visualizzerà in una schermata molto semplice e intuitiva.

Fonte: plus.google.com

Durante la diretta all’utente viene mostrata una iconcina a forma di badge, segnalata con un alert, che una volta cliccata apre un mondo di contenuti,

quelli condivisi dall’organizzatore. Dal punto di vista marketing, questo strumento può essere sfruttato in modo non convenzionale o originale. Ad esempio si potrebbero prevedere contenuti speciali per i soli iscritti, o preliminarmente potrebbe esser comunicato che durante l’evento verranno distribuiti sconti ai follower. Il primissimo esperimento è stato fatto per il lancio del film Dawn of The Planet Of The Apes. Insomma, il mondo degli hangout è vastissimo e i modi di utilizzo sono numerosi. Strategicamente potrebbe esser utile organizzare degli Hangout di “incontro virtuale” con i membri partecipanti per discutere apertamente e liberamente su tematiche di interesse e, quando la risposta è importante, organizzare dei veri e propri eventi vis-à-vis sfruttando proprio lo strumento Google eventi a nostra disposizione.

Fonte: plus.google.com

2.4. LinkedIn Con oltre 300 milioni di iscritti nel mondo e circa 7 in Italia, LinkedIn è il numero uno tra i social network dedicati al mondo professionale. Ottimo per proporre e cercare lavoro a livello personale, è tuttavia un po’ meno indicato per fare Social Media Marketing aziendale, nel senso che non possiamo aspettarci lo stesso livello di portata e di engagement raggiungibili con Facebook e Twitter.

Ci sono però, come sempre, le dovute eccezioni. LinkedIn infatti sembra essere più utile per aziende che operano in settori B2B (business-to-business) e meno per quelle che si rivolgono al cliente finale (B2C). La peculiarità di LinkedIn è infatti quella di permettere alle aziende B2B di entrare direttamente in contatto con i loro stakeholder (fornitori, distributori, rivenditori locali, ecc.). Pensiamo ad esempio al settore della formazione o a quello del recruitment, le cui aziende possono trovare su LinkedIn il canale ideale per raggiungere il pubblico specifico. Tra gli strumenti a disposizione per le aziende su LinkedIn ci sono i gruppi di discussione, ottimi per incanalare conversazioni sugli argomenti inerenti il settore, le novità e le informazioni di interesse per gli stakeholder e le pagine business. Queste ultime permettono alle aziende di aprire una pagina vetrina, ultimamente diventata molto simile, a livello funzionale, alla pagina Facebook, in quanto permette di essere seguiti dagli utenti, di condividere contenuti e targetizzare i destinatari, di consigliare i contenuti (funzionalità identica al “mi piace” di Facebook), commentarli e metterli in evidenza. La pagina dispone di statistiche interne che mostrano le performance dei post pubblicati in termini di visualizzazioni, clic, interazioni, follower acquisiti e interesse. 2.4.1. LinkedIn Ads La piattaforma di advertising di LinkedIn permette di effettuare due tipologie di campagne: 1. la creazione di un annuncio pubblicitario, che è il classico annuncio profilabile e la cui creatività comprende testo, immagine e/o video 2. la sponsorizzazione dell’aggiornamento di una pagina, che ha l’obiettivo di aumentare visibilità e interazioni dell’aggiornamento esponendolo al target che andiamo a definire. Relativamente al targeting delle campagne, su LinkedIn possiamo profilare per località geografica (in Italia, per ora è possibile il targeting solo per alcune città, come Bologna, Milano, Roma, Torino e Venezia), per tipologia di azienda e per funzione lavorativa o grado di anzianità dei dipendenti. I metodi di pagamento sono gli stessi delle altre principali piattaforme di ads, ovvero è possibile scegliere il cpc (costo per click) o il cpm (costo per mille

visualizzazioni). Quello che risalta da subito è il costo minimo piuttosto elevato sia per click che per visualizzazioni: arriva infatti a 3 euro. Infine, altra cosa da sapere è che Linkedin, a differenza di Facebook Ads o Google Adwords, ti richiede di pagare anche 4 euro per l’attivazione dell’account business ed è possibile decidere se pagare giornalmente una cifra stabilita o inserire un budget totale, se settare la campagna a tempo indeterminato o stabilire una data in cui questa terminerà. Ho avuto modo di testare le campagne LinkedIn Ads e, onestamente, non mi hanno convinto. Probabilmente possono tornare utili, come accennavo sopra, per campagne di recruitment o per particolari aziende che operano nel B2B che possono trovare più riscontro in LinkedIn anziché in Facebook. Se intendiamo però promuovere gli aggiornamenti della pagina, ad oggi i costi sono ancora molto elevati in rapporto al ritorno dell’investimento che potremmo ottenere (soprattutto se pensiamo al costo per i click). 2.5. Altri canali sociali: Instagram, Vine, Pinterest Anche se lato marketing potrebbero rivestire meno importanza rispetto al ben più utilizzato Facebook, i social network dedicati al “visual marketing” come Instagram, Pinterest e Vine possono comunque avere interesse all’interno della social media strategy per determinati business. Il visual storytelling regna ormai tra gli utenti ed è arrivato ad abbracciare tutte le piattaforme sociali. I contenuti infatti più condivisi dagli utenti, su tutte le piattaforme, e che generano il miglior livello di engagement sono proprio LE IMMAGINI. Instagram ha rivoluzionato il concetto di “mobile photography” permettendo a tutti di sentirsi (potenzialmente) fotografi professionisti e facendo storcere il naso a chi il fotografo lo svolge di professione. Per comprendere al meglio quanto importante sia la mobile photography e, più in generale, il visual storytelling, è sufficiente seguire le ultime mosse commerciali dei giganti del social networking. Instagram, la cui crescita di iscritti procedeva a ritmi incontrastati, è stato acquisito da Facebook e ha introdotto anche la possibilità di condividere mini-video proprio nel periodo in cui fu lanciato Vine, di Twitter, che si caratterizzava per i contenuti video di breve durata. Più recentemente i video, soprattutto di breve durata, sono diventati importanti anche per le content strategy su Facebook e su Google+ funzionano molto le gif animate, che spesso finiscono nei “temi caldi” generando migliaia di interazioni. Per non parlare poi dei filtri applicabili alle

immagini ormai presenti, con le loro sfaccettature, in tutti i principali social network. In un periodo in cui sempre più utenti condividono contenuti visuali, le marche devono riuscire a sfruttare queste opportunità producendo e condividendo contenuti che possano essere intercettati dal target di riferimento. Contenuti visuali il cui consumo deve richiedere all’utente soltanto una minima parte del suo tempo, per facilitare poi la condivisione degli stessi nei canali sociali. Potremmo quindi definire come CONTENUTI “FLASH” quei contenuti che richiedono all’utente pochi secondi, solitamente meno di un minuto, per essere consumati e, se apprezzati, condivisi nei social. Immagini su Facebook e Instagram, tweet con link e immagini su Twitter o mini-video su Facebook, Instagram e Vine. Ci sono aziende che si sono lanciate con successo nella sperimentazione dei minivideo sulla piattaforma Vine. Ho chiesto a Simone Ardoino, Digital Strategist per Foscarini, come è nata l’idea di utilizzare un formato pubblicitario innovativo su una piattaforma di nicchia.

Simone Ardoino Riuscire a trasferire la tua identità attraverso un video breve è sicuramente una scelta ambiziosa. Foscarini ha sempre dimostrato di possedere un DNA molto particolare, è un’azienda orientata all’esplorazione, alla continua ricerca di prodotti, materiali e tecnologie innovative, di linguaggi comunicativi sempre nuovi. Nel corso degli ultimi anni le nostre campagne di promozione sul web sono state abbastanza tradizionali, ma oggi il contesto è cambiato e ci sono dei fattori che vanno considerati. Ad esempio, i dati di conversione della pubblicità online “tradizionale”, in generale più bassi di quanto abbiamo realizzato con questa nuova campagna, o il parametro attenzione/tempo sempre più basso, per cui è sempre più difficile riuscire a coinvolgere, stupire e fare interagire le persone con un brand. O anche semplicemente il fatto che un’immagine/un contenuto video vengano processati dal nostro cervello 60.000 volte più velocemente rispetto a un contenuto testuale. Ciò che funziona realmente oggi è il “non convenzionale”, ciò che sorprende. Fare

marketing oggi significa soprattutto testare e sperimentare delle nuove soluzioni per aumentare l’interazione e la condivisione da parte degli utenti stimolando nuove conversazioni tra brand e consumatori. Oltre a questo, i dati di settore ci confortano nella nostra scelta. Leggendo alcune ricerche su Mashable e Wired, scopriamo che: nel corso del 2013 Vine è cresciuto del 403%, diventando l’app con la crescita più rapida dell’anno il numero degli utenti attivi su Instagram negli ultimi 6 mesi è cresciuto del 25% oggi solo il 4% dei contenuti condivisi dai brand su Instagram è in formato video i video su Instagram registrano il 200% di interazioni in più rispetto alle foto entro il 2017 il 66% del traffico Internet sarà costituito da video. I video in stop motion nel nostro caso sono stati molto efficaci nel comunicare messaggi e peculiarità del prodotto e della marca, in quanto hanno permesso di: aumentare l’awareness del brand rivolgendosi a target diversi rispetto a quelli già esistenti presidiare dei nuovi canali, come Instagram e Vine, che stanno crescendo moltissimo in termini di interazioni e coinvolgimento dell’audience sfruttare l’awareness e il posizionamento di questi canali per dare risalto allo stesso brand Foscarini, in coerenza con l’identità e nella continua ricerca di innovazione e nuovi linguaggi comunicativi creare delle conversioni quali/quantitative sugli altri canali digital (fb/sito web) creare nuovi contenuti per la condivisione attraverso attività di remarketing/piattaforme esterne (ebuzzing). La creatività e l’originalità nella realizzazione di un video contano moltissimo. Il fatto di essere stati inseriti nei “6 branded vines you have to watch right know” da Unruly Media insieme a Red Bull, General Electric, Nokia, etc. ci ha sorpreso davvero tanto! Parola d’ordine: LESS IS MORE. La campagna in termini di utilizzo di hashtag/script/call to action è un riflesso del concetto di “minimalismo” espresso dai video in cui abbiamo cercato di emozionare l’utente attraverso l’utilizzo di suggestioni che andassero ben oltre il prodotto. Pubblicare una fotografia o un video su Instagram significa comunicare attraverso emozioni visive, dove la personalità delle lampade diventa l’attore principale.

Con oltre sedici miliardi di foto caricate e circa 150.000 iscritti, Instagram è diventato in poco tempo il vero re tra i social network visuali, caratterizzati

cioè dalla condivisione delle proprie fotografie amatoriali (e successivamente anche mini-video). La disponibilità di vari filtri per differenziare le proprie fotografie e la velocità d’uso e di condivisione di contenuti ha permesso in poco tempo di attirare una platea di utenti molto vasta, tanto da richiamare l’attenzione di un gigante come Facebook, che lo ha successivamente acquistato. Le marche più innovative in ambito social, come Starbucks, Red Bull, FootLocker, General Electric, Sephora, Zappos o Foscarini, hanno subito compreso il potere del visual storytelling e sono riuscite a ideare strategie di contenuti che raccontassero uno stile di vita o riprendessero la stessa marca da dietro le quinte, con un occhio più umano. Queste storie possono essere raccontate sotto forma sia di immagini sia di video, quindi utilizzando social media come Instagram e Vine il cui feed è interamente composto da contenuti visuali. L’obiettivo deve essere il medesimo: RACCONTARE UNA STORIA LUNGA ATTRAVERSO UN MESSAGGIO BREVE AL FINE DI EMOZIONARE L’UTENTE, INVOGLIANDOLO A UN’INTERAZIONE CON LA MARCA, E LASCIARGLI UN RICORDO VIVO DELLA MARCA, SIA EGLI GIÀ CLIENTE O POTENZIALE FUTURO CLIENTE.

Le strategie attuate dalle aziende più virtuose tendevano a comunicare e raccontare, attraverso le immagini, le seguenti “storie”: i prodotti venduti le fasi di realizzazione dei prodotti il backstage delle aziende i benefici dei prodotti gli scoop per i follower circa nuovi prodotti o nuovi punti vendita l’incarnazione di stili di vita utenti/clienti coinvolti nell’ideazione e produzione della stessa offerta commerciale contest fotografici.

OliverWinery mostra come le sue bottiglie di vino vengono realizzate (fonte: Instagram.com)

Per spiegarti meglio le caratteristiche del mercato di Instagram per le aziende, ho voluto coinvolgere Nicola Carmignani, appassionato e addicted del mondo della mobile photography.

Nicola Carmignani Instagram è stato rilasciato alla fine del 2010. Da allora è cresciuto moltissimo, più di altri social network che recentemente stanno sperimentando un certo appiattimento delle proprie curve di crescita. Ad oggi conta oltre 300 milioni di utenti attivi al mese. Il motivo di questo successo è ascrivibile a diverse ragioni. Innanzitutto, Instagram coinvolge potenzialmente, in modo attivo, tutte le persone che siano accomunate dalla passione per la fotografia e dalla voglia di condividere, di esprimere le proprie emozioni e di dare sfogo alla propria creatività. L’interfaccia utente è molto intuitiva e caratterizzata da una notevole semplicità d’uso; i filtri, in costante aggiornamento, tra cui alcuni caratterizzati da un marcato effetto vintage, forniscono ad ogni scatto l’aspetto di una fotografia “ricordo”. Inoltre, Instagram permette la condivisione delle fotografie pubblicate anche su altri social network, come ad esempio Facebook, con grande semplicità. Tutto questo è stato confezionato in un’applicazione mobile gratuita, disponibile per tutti gli smartphone basati sui principali sistemi operativi in uso (iOS, Android e Windows Phone). Ricapitolando è un’app semplice, a costo zero, in un dispositivo che ormai è nelle tasche di tutti. La diffusione della tecnologia mobile è stata, senz’altro, uno dei fattori necessari ma anche determinanti per il successo di questa applicazione. Flickr, ad esempio, si è configurato fin dal suo inizio come un social network fotografico, ma ha sofferto di una limitazione non trascurabile a proposito del caricamento del materiale fotografico da dispostivi mobili, che ha frenato la sua crescita. L’introduzione di un’applicazione mobile da parte di Flickr, per la gestione e l’upload delle fotografie, è stata successiva alla diffusione di Instagram. Inutile sottolineare che tutti i top brand sono stati presenti e molto attivi su Instagram fin dai suoi esordi. In questo modo hanno cercato di guadagnare terreno sulla concorrenza, consolidando la propria immagine e acquisendo la fiducia dei propri follower. I brand più esperti e seguiti su Instagram adottano una strategia piuttosto semplice: condividono post che in qualche modo fanno leva sull’emozionalità dei follower.

Attraverso contenuti semplici e diretti, ogni fotografia cerca di fare leva sulla sensibilità e sul bagaglio esperienziale comune degli utenti e, allo stesso tempo, ha l’obiettivo di raccontare la storia del marchio, del lavoro che viene svolto per l’ideazione, la messa a punto e la commercializzazione di un prodotto. Generalmente viene dato ampio spazio alla passione e alla professionalità dello staff aziendale, che, quotidianamente, si prodiga nel fornire un servizio adeguato agli standard richiesti dalla qualità del brand e dalla clientela fidelizzata. Esistono altre best practice molto sfruttate dai brand per attività promozionali su Instagram. Tra queste, una pratica diffusa è basata sul coinvolgimento di influencer e di utenti che gestiscono profili ad elevata capacità di engagement e che possono avere rilevanza e/o competenza nel settore di riferimento del brand. L’idea su cui si basa questa strategia di promozione “dal basso”è quella di cercare di ottenere un effetto positivo di amplificazione delle attività pubblicitarie del marchio, attraverso la rispettiva rete sociale degli influencer coinvolti. Una campagna pubblicitaria basata sul coinvolgimento di influencer ha spesso una forma differente da quella di una campagna classica e, frequentemente, il materiale generato e veicolato al pubblico ha un aspetto meno professionale rispetto a quello ufficiale (e tal volta patinato) prodotto per la comunicazione tradizione del brand. L’advertising su Instagram I post sponsorizzati sono stati annunciati nel 2013 e la sperimentazione è iniziata per una selezione ristretta di brand, per i soli utenti degli USA. Nel 2014, la sperimentazione è stata estesa anche agli utenti del Regno Unito. Per quanto riguarda il resto dell’Europa, Italia inclusa, siamo ancora in attesa di poter fare advertising per i brand su Instagram. I dati divulgati da Instagram a proposito del primo brand che abbia attivato una campagna di advertisment, Michael Kors, sono stati estremamente promettenti. L’azienda ha raggiunto infatti un alto livello di engagement e guadagnato numerosi nuovi follower nelle poche ore successive alla pubblicazione della sponsorizzazione. Instagram ha recentemente annunciato, attraverso il proprio blog, una nuova suite di business tool, utili a chi vorrà investire nella piattaforma in termini di visibilità. Sono previsti strumenti per la gestione delle campagne pubblicitarie e dati analitici Insights per il profilo aziendale e per gli obiettivi delle singole campagne. In questo, Instagram è però in grande ritardo rispetto a Facebook e Twitter, piattaforme in cui la possibilità di attivare campagne pubblicitarie e la disponibilità di strumenti analitici sono presenti da tempo e paiono piuttosto efficienti. Staremo a vedere se, una volta usciti dal periodo di sperimentazione, Instagram sarà in grado di colmare la distanza con gli altri social network per quanto riguarda le applicazioni per il business.

Anche Pinterest è un social network che si presta benissimo al visual storytelling. Nato nel 2010, si è ben presto caratterizzato come un social network visuale che permetteva agli utenti di creare bacheche (board) di immagini (pin) che rappresentassero gli interessi personali. C’è da dire che negli States ha da subito preso piede ed è ancora molto utilizzato, principalmente però da un pubblico femminile, mentre da noi, dopo la scoperta e la crescita iniziale, ha un po’ rallentato. Una delle caratteristiche che fanno di Pinterest un social media interessante è la possibilità di costruire una specie di vetrina commerciale da cui veicolare del traffico allo shop online che può trasformarsi in vendita. Pinterest sembra infatti essere il social network a partire dal quale si acquista di più. Una ricerca condotta da RichRelevance ha infatti evidenziato che, anche se Facebook vince tra i social network che veicolano traffico referente ai siti web ed ecommerce e, quanto a traffico referente, converte anche più di Pinterest o Twitter, gli utenti guidati agli shop online da Pinterest spendono di più, con un valore medio degli ordini di 168,83 dollari contro i 94,70 dollari per Facebook e 70,84 dollari per Twitter. Ciò che fa di Pinterest una piattaforma interessante per la vendita online sono i RICH PINS o pin dettagliati e i relativi “price tag”. Questi infatti permettono di creare, tra gli altri, pin di immagini che contengono luoghi con mappa, indirizzo e numero di telefono, articoli con liste di articoli da salvare e leggere, pin di ricette, film e prodotti. Al momento esistono cinque tipologie di pin dettagliati. Ai pin di prodotti è possibile assegnare un prezzo, la disponibilità e i luoghi di acquisto in tempo reale e i pinner, coloro cioè che hanno “pinnato” il prodotto, possono anche ricevere notifiche quando il prezzo dei prodotti diminuisce. Il “price tag” è ciò che ha fatto di Pinterest un social network molto utile nei veicolare vendite online. Ritengo che sia un social network molto valido per specifici settori, ad esempio quello legato al fashion, che genera sicuramente più engagement, dato anche il pubblico prevalentemente di sesso femminile di cui il social è composto, e per attività che possono vendere prodotti con uno shop online in tutto il mondo.

Un esempio di Product Pin che mostra prezzo e pagina web linkata da cui acquistare (fonte: Pinterest.com)

Ho chiesto a Domenico Armatore, co-founder di PinterestItaly, cosa ne pensa in merito allo stato attuale di Pinterest, come si stia evolvendo e quali sono le aziende per tipologia di settore che dovrebbero prendere seriamente in considerazione una presenza attiva su Pinterest.

Domenico Armatore Nato nel 2010 da un’idea di Ben Silbermann, Evan Sharp e Paul Sciarra, Pinterest è

un social network basato sulla condivisione di immagini e video trovate in Rete o presenti su un database proprietario. Pinterest è nato perché due dei fondatori, Evan Sharp e Ben Silbermann, erano dei grandi collezionisti. Da qui è scaturita l’idea di voler creare uno spazio online nel quale poter catalogare i propri interessi e le proprie passioni. Un’esigenza personale che ha incontrato il favore di milioni di persone nel mondo. Ad oggi infatti, il social di immagini per eccellenza conta circa 70 milioni di utenti a livello globale. Stati Uniti e India sono i Paesi nei quali si concentra il maggior numero di utenti, come mostra il seguente grafico estrapolato da Alexa.com (settembre 2014).

Fonte: Alexa

In Italia Pinterest conta invece poco più di un milione di iscritti con 700.000 di questi attivi. Ancora oggi nel nostro Paese la piattaforma stenta a decollare, anche se si è rivelata un alleato perfetto per alcune tipologie di brand. A livello demografico, gli utenti Pinterest sono rappresentati per più dell’80% da donne. Come mostra l’analisi di VisionCritical, rispetto a Facebook e Twitter dove la distribuzione dei sessi è più o meno equilibrata, su Pinterest il sesso maschile occupa una posizione nettamente inferiore rispetto a quello femminile.

Fonte: visioncritical.com

Le donne sono le più numerose e allo stesso tempo più attive. Qui di seguito sono mostrate le categorie merceologiche più diffuse, molto utili in fase di valutazione per l’apertura di un canale sulla piattaforma.

Fonte: visioncritical.com

Food, Fai da te, Design e Arte sono alcune delle categorie di prodotto più diffuse, un dato positivo per le aziende italiane che hanno intenzione di aprirsi a un mercato globale. Anche se in Italia Pinterest non ha né i numeri di Twitter né tanto meno quelli di Facebook, può essere un ottimo canale per quelle PMI italiane che operano nei mercati americano, indiano o inglese. L’utilizzo delle immagini come medium

principale può consentire di bypassare l’ostacolo della barriera linguistica. Inoltre Pinterest può rappresentare un’ottima fonte di traffico per quelle aziende che hanno costruito una parte del loro business online, tramite ad esempio una piattaforma e-commerce pronta a vendere anche all’estero. Diversamente da canali come Facebook, Pinterest non è adatto a tutte le tipologie di azienda. Come abbiamo visto, ci sono alcuni settori nei quali può rappresentare un forte alleato per entrare in contatto con potenziali clienti, soprattutto se presenti su mercati stranieri. Qualsiasi attività svolta sul canale – sia strategica che editoriale – deve tener conto di quanto segue: Pinterest è il luogo delle ispirazioni, degli interessi, dei desideri. Pensare quindi di sfruttare il canale soltanto come vetrina dei propri prodotti o servizi è il primo passo verso il fallimento. Bisogna invece lavorare sui contenuti ispirazionali, sulle emozioni, cercando di coinvolgere l’utente con immagini che facciano leva sugli interessi. Infatti, più che un social network Pinterest è un interest network, ovvero una rete all’interno della quale i nodi non sono rappresentati dalle persone, ma dai loro interessi. E proprio su questi bisogna puntare.

2.6. Il Social Media ROI A cura di Paolo Ratto La possibilità di comprensione e di calcolo, più o meno esatto, del ritorno sull’investimento è sempre stato uno dei vantaggi delle attività di marketing e comunicazione digitale. Il ROI è infatti facilmente calcolabile grazie alla sua ormai celebre formula che mette a confronto costi e benefici di una specifica attività. L’avvento del Social Media Marketing ha complicato enormemente le cose, poiché, per loro stessa natura e fisiologia, le attività di comunicazione e marketing legate a questo specifico segmento sono difficili da valutare sia per quanto riguarda i costi (spesso legati all’impiego di risorse umane) sia per quanto riguarda i benefici. Eppure oggi, in una fase in cui il Social Media Marketing sta finalmente superando entusiasmi e scetticismi esagerati e si sta effettivamente “normalizzando”, è fondamentale essere concreti riguardo la valutazione di tutti i risultati, le conseguenze e gli effetti che un’iniziativa di Social Media Marketing produce in un dato periodo di tempo, andando al di là delle cosiddette vanity metrics (ad esempio il numero di “mi piace” di una pagina, dei commenti, dei retweet, ecc.) I problemi principali che si devono affrontare fin da subito sono

essenzialmente due: associare ad ogni attività di Social Media Marketing KPI (key performance indicators) e metriche, adatti a misurare gli obiettivi che ci siamo prefissi in fase di pianificazione strategica

Esempio di modello di Social Media ROI (fonte: Paoloratto.com)

Esempio di applicazione del modello per il Social Media ROI per un’attività su pagina Facebook di un hotel

predisporre “tecnicamente” gli strumenti di misurazione a disposizione affinché possano compiere al meglio il proprio dovere e ci forniscano in seguito i dati salienti rispetto all’attività impostata. In questo senso le attività da svolgere servono essenzialmente per “aiutare” i vari strumenti a dare un’attribuzione corretta ai passaggi di piattaforma (es. quando su Facebook indirizzo un utente a una pagina di un sito devo essere sicuro che Google Analytics ne riconosca la provenienza e che Facebook tracci eventuali conversioni che avverranno all’interno di quello stesso sito e quindi fuori dalla piattaforma). È importante sottolineare quindi che oggi, grazie agli strumenti messi a disposizione dalle stesse piattaforme di social networking, possiamo andare oltre la misurazione di azioni che avvengono all’interno della piattaforma (nel caso di Facebook: like, condivisioni, commenti, ecc.) per soffermarci anche su ciò che gli utenti provenienti dai social network hanno compiuto all’interno delle pagine web su cui sono atterrati anche quando si tratta di conversioni quali download, di registrazioni e di acquisti. Possiamo inoltre predisporre le piattaforme stesse affinché registrino le transazioni economiche fino ad arrivare a stimare con estrema precisione, per esempio, il costo per l’acquisizione di un cliente e il valore degli acquisti fatti da quello stesso

cliente. Restano tuttavia essenzialmente due problematiche che rendono ancora complessa la stima effettiva completa del ritorno sull’investimento da attività di Social Media Marketing: 1. il Social Media Marketing, come dimostrano le statistiche, ha un’influenza estremamente positiva sulle altre attività di comunicazione digitale attivate in contemporanea (parlo soprattutto dell’influenza sul branding e il conseguente aumento delle ricerche organiche e dei click agli annunci sponsorizzati, ma anche della distribuzione dei contenuti di valore che generano citazioni e link building). È poi evidente come tale influenza positiva si estenda anche al di fuori della rete stessa (stiamo o non stiamo parlando del medium della relazione, d’altronde?!?). Tutta questa influenza positiva non è calcolabile a livello matematico, anche se è chiaramente percepibile attraverso analisi di correlazione tra cause ed effetti 2. gli strumenti di Analytics interni alle piattaforme (es. Facebook Insights o Facebook Ads Report) e gli strumenti di Web Analytics (es. Google Analytics) adottano metodi diversi di attribuzione delle conversioni. In questo senso è come se guardassimo a un medesimo fenomeno utilizzando occhiali con lenti di diversi colori. La bravura del professionista del settore deve essere quella di comprendere tali differenze e adottare per ogni specifica azione di comunicazione digitale il modello di attribuzione più consono. Per comprendere meglio i “modelli di attribuzione”, ti rimando all’ottima guida del maestro della Web Analytics, Avinash Kaushik.

Azione che, al passaggio del mouse, visualizza le percentuali del livello di successo per tipologia di contenuto 5

3. L’importanza del blog

Di seguito ti spiegherò come costruire, avviare e gestire un blog aziendale di successo. 3.1. Corporate Blog: come costruire un sito web 2.0 Anche se spesso non viene definito tale, il blog è a tutti gli effetti un social media e probabilmente il più anziano di tutti. Ciò che distingue il blog aziendale da tutti gli altri social media è che mentre questi ultimi possiamo considerarli earned media (seppure Facebook sia diventato oramai un paid media a tutti gli effetti), il blog aziendale resta uno strumento posseduto e gestito dall’azienda, quindi un owned media. La distinzione non è per nulla banale perché gli owned media sono quelli il cui ritorno economico per l’azienda sarà sempre migliore rispetto ai media soggetti a cambiamenti che non si potranno governare e ai quali bisognerà soltanto adattarsi. Il blog resta infatti dell’azienda, che ne gestisce i contenuti e la loro qualità, ne modera i commenti e la scelta dei redattori e del tono comunicativo da assumere, ma non di certo è costretta a pagare lo strumento per massimizzarne la visibilità che, invece, dipenderà esclusivamente da quanto sarà in grado di produrre articoli di qualità, incrementare il numero di lettori giornalieri e mensili, il traffico referente, i link in entrata e, perché no, le vendite a partire da un articolo letto dal blog. Il tutto in un’ottica meritocratica e lungo un processo di Inbound Marketing. Un aspetto importantissimo da non tralasciare è che il blog è il social media che influenza, più di tutti gli altri, le decisioni di acquisto dei consumatori, come emerso dalla ricerca “Blog outranks social networks for Consumer Influence: New Research”, ponendosi al di sopra di Facebook, Twitter o i forum e dietro soltanto ai siti web istituzionali dell’azienda. Questo permette di comprendere quanto importante possa essere gestire un corporate blog attivamente e con un piano editoriale di contenuti ben definito. Di contro,

però, c’è un dato non proprio positivo che riguarda il nostro paese da vicino: soltanto una parte delle grandi aziende e un’ancor più piccolissima parte di quelle piccole possiedono e gestiscono bene un blog aziendale.

I blog tra i primi strumenti ad influenzare decisioni di acquisto (fonte: Technorati.com)

Mi è infatti capitato spesso di vedere blog aziendali aperti e mai gestiti. Oppure aperti e avviati ma poi morti dopo pochi articoli pubblicati. Peggio ancora, mi è capitato di vedere blog aggiornati con poca frequenza e con articoli duplicati da altre fonti o utilizzati come se fossero una sezione news per promuovere gli ultimi prodotti in arrivo o i prodotti in saldo. In casi come questi, meglio non aprire un blog aziendale.

Avviare e gestire un blog aziendale, come per tutti gli altri strumenti del web marketing (e forse anche di più), richiede organizzazione, tempo, passione e un’ottima capacità di scrittura e di competenza negli argomenti che si intende sviluppare. Di seguito ti illustro alcuni dei motivi che dovrebbero spingere ogni azienda a dotarsi di un corporate blog. 1. BRAND AWARENESS OGNI POST SCRITTO IN UN BLOG AZIENDALE EQUIVALE AD UNA TRACCIA INDELEBILE LASCIATA SU GOOGLE. La convinzione che avere un sito statico

e delle pagine web promozionali di prodotti e servizi sia sufficiente dovrebbe scomparire, in quanto la valutazione di un’azienda da parte di un potenziale acquirente passerà sempre più dalla “cura” dei contenuti prodotti dalle aziende e dalla loro capacità di invogliare ad una scelta scartando le potenziali alternative (a meno che non siano Apple o altri lovemark brand). 2. CONTENUTI PARTE DELL’ECOSISTEMA DELLA CONTENT STRATEGY

Gli articoli del blog rappresentano la prima forma autentica di Content Marketing per le aziende. Il posizionamento del brand avviene con una tipologia di contenuti che non si deve però limitare agli articoli scritti sul proprio blog, ma prevedere di produrli anche per altri blog di tematiche affini (guest post), realizzare ricerche settoriali e condividerle, produrre infografiche o altri contenuti visuali utili alla nicchia di riferimento, realizzare video informativi, ecc. Tutti questi contenuti sarà poi facili distribuirli dal blog aziendale. 3. SEO

Si parla tanto di come gli algoritmi di Google (pensiamo al Penguin Update) penalizzino sempre più le pratiche errate di link bulding artificiale e di come invece si dovrebbe investire nella cosiddetta link earning, ovvero l’attrazione di link in maniera spontanea (ergo, il reale voto di apprezzamento di un webmaster al tuo sito per la qualità del tuo contenuto). Bene le strategie di link earning partono proprio dalla gestione ottimale di un blog! Sarà possibile ottenere link citazionali per aver scritto articoli di qualità, informativi, utili al lettore o, perché no, controversi, che verranno poi richiamati e approfonditi da altri blog, link editoriali per iniziative non convenzionali e che innovano lo stato attuale delle cose, messe in atto nel proprio settore di riferimento, link da infografiche o ricerche, ecc.

Gran parte dei link acquisiti diretti al blog aziendale saranno infatti frutto di un’accurata attività di produzione di articoli di qualità apprezzati da utenti e da altri blogger. 4. INFLUENCER OUTREACH

Ogni nicchia verticale al nostro business è composta da utenti che potremmo considerare “influenti” per la qualità dei contenuti da loro prodotti e condivisi e spesso anche per la qualità del loro blog e per il fatto di essere seguiti e reputati esperti da diverse centinaia, se non migliaia, di altri utenti su Facebook e Twitter. Il nostro obiettivo è quello di conoscerli e arrivare a loro, FINENDO TRA I LORO “RADAR”, affinché possa scattare la fatidica condivisione del nostro post o citazione. Tuttavia, se non avremo un blog sarà davvero dura, in quanto un influencer ti riconoscerà “esperto”e ti distinguerà dalla massa di semplici “lettori” se apprezzerà qualche tuo articolo o contenuto prodotto e pubblicato nel blog aziendale. IL BLOG È UN OTTIMO STRUMENTO PER COSTRUIRE RELAZIONI DI BUSINESS. Ricordalo. 5. TRAFFICO

Cosa molto importante, se scrivi contenuti di qualità e gestisci attivamente e con passione i canali sociali della tua azienda, è che potrai permettere agli stessi articoli di “scivolare” nelle piattaforme sociali da utente a utente permettendo al blog di acquisire un traffico considerevole. Lo screenshot qui di seguito è tratto dalle statistiche di un sito web per il quale col mio team abbiamo sviluppato e associato un blog con relativo piano editoriale di articoli, che venivano poi condivisi dall’azienda sui canali sociali, già molto attivi. Da notare l’impennata del traffico complessivo. 6. LEAD GENERATION

Il cliente può diventare tale dopo essere stato un tuo semplice lettore, un utente che è finito sul blog aziendale per un post condiviso in qualche social o che è finito sulla pagina Facebook aziendale per qualche immagine che è divenuta virale. Il blog permette di fare lead generation, trasformando un lettore in prospect e da prospect a lead. 7. SOCIAL MEDIA STRATEGY

Infine, la cosa positiva dei blog è che ti permetterà di dotarti di contenuti da condividere sui tuoi canali sociali e gli utenti avranno contenuti con cui interagire; i benefici torneranno a essere quelli descritti sopra, ovvero più traffico, miglior posizionamento nei motori di ricerca, maggior brand identity,

ecc. fino ad arrivare a raggiungere nel tempo quello che più interessa a tutti: generare più fatturato. 3.1.1. Il sito web 2.0: integrare un corporate blog nel website aziendale Il social web ha introdotto dinamiche relazionali che non si formano più dall’alto verso il basso ma dal basso verso l’alto: in sostanza il consumatore chiede il dialogo con l’impresa e “pretende” che quest’ultima l’ascolti, perché dall’ascolto possono generarsi processi di co-creazione funzionali del prodotto atti a definire un’offerta più performante e più in linea con le specifiche esigenze delle community di consumatori. Questo assunto, oramai noto a tutti, vale anche per il corporate blog. SITO SEPARATO, SOTTODOMINIO O SOTTOCARTELLA?

La prima domanda relativa all’avvio di un blog aziendale a cui rispondere è di tipo tecnico. Mi viene chiesto spesso se conviene avviare un blog esterno al sito o uno integrato nel dominio del sito web aziendale. La risposta è questa: dipende. Ogni scelta ha dei pro e dei contro e solitamente dipende dagli obiettivi di sviluppo del blog. Statisticamente è infatti noto che avviare un blog aziendale su un dominio nuovo e non associato al sito web, se non in maniera sottile, può portare a sviluppare nel lettore meno diffidenza, in quanto il nome del blog sarà solitamente diverso dal nome della marca e l’associazione col brand velata e magari presente soltanto nel footer del blog. Tuttavia, così facendo, sebbene si possa sviluppare un’audience di lettori fedeli più velocemente, si perdono benefici di traffico all’interno del dominio e maggiori possibilità di conversioni. L’alternativa è infatti quella di scegliere di avviare il blog aziendale nello stesso dominio del sito web e, anche qui, è possibile optare per due soluzioni differenti: quella di aprire il blog come sottodominio o come sottocartella. Come sottodominio, l’indirizzo apparirà come segue: blog.sitoweb.com mentre come sottocartella: sitoweb.com/blog A tutti gli effetti, scegliendo la soluzione del sottodominio, il nostro blog

apparirà come un dominio vero e proprio, separato, seppur facente parte di un dominio più grande, che è quello principale. La sottocartella invece sarà una sorta di estensione all’interno della cartella principale del dominio nella quale risiedono i file del sito. Io consiglio sempre di inserire il blog come sottocartella del sito web principale. La motivazione è legata al fatto che tutti i link e il valore di page e trust rank (metriche SEO) che questi si porteranno dietro, ed eventuali segnali sociali nei social media, saranno trasferiti all’intero dominio e daranno beneficio anche alle altre pagine (pensiamo a quelle dei prodotti e servizi o di uno shop on line) dell’intero sito web, migliorandone il ranking per le keyword di nostro interesse. STRUTTURARE UN BLOG “APERTO”

Requisito fondamentale per tutte le aziende che vogliono aprirsi al marketing conversazionale è quello di fare in modo che il sito permetta la partecipazione degli utenti ai contenuti che vengono pubblicati. Il blog è a tutti gli effetti uno spazio nel quale pubblicare contenuti (post o articoli) che non devono basarsi sulla promozione del proprio business ai lettori, perché nessuno vorrà leggere i post di un’azienda che produce divani che, nello stesso articolo, esalta le qualità dei propri divani. Al contrario, è necessario pubblicare contenuti di valore per il lettore che ruotano attorno all’universo esperienziale dell’azienda stessa, ad esempio parlando di temi legati all’ecologia, se i divani sono prodotti con materiali ecologici o se i processi di produzione avvengono in fabbriche alimentate con energia solare o eolica. Stesso discorso vale per il fatto che l’azienda si interessi allo sviluppo di argomenti o news riguardanti il territorio in cui si trova e quindi notizie che possono comunque interessare i lettori. Ricorda che con il social media marketing si costruiscono storie per i consumatori e non per i prodotti e servizi. L’interazione tra blogger o redattori e l’audience di lettori è imperativa. Un sito aperto prevede proprio questo: raccontare una storia, raccogliere le reazioni dei lettori, rispondere a queste reazioni. PREVEDERE LICENZE DI CREATIVE COMMONS

Nell’era della condivisione è importante anche progettare il blog in modo che parte dei contenuti possa essere riutilizzata (siamo o no nell’era della condivisione e riutilizzo dei contenuti?), come ad esempio l’utilizzo delle licenze 2.0 Creative Commons per la possibilità di leggere, condividere e

riutilizzare parte dei contenuti, ovviamente attribuendone la fonte al blog aziendale. ACCOUNT SOCIALI, PULSANTI DI CONDIVISIONI, MARKUP SOCIALI

L’azienda è presente con una pagina Facebook, una Google+ e un account Twitter? Bene, devono essere messi in evidenza sia sul sito (magari sotto forma di icone) che sul blog, con i widget, per permettere a lettori e sostenitori di seguire lo stream dei contenuti che l’azienda pubblicherà. Inoltre è sempre utile inserire i pulsanti di condivisione dei contenuti nei social. A me solitamente piace inserirli sia all’inizio dell’articolo che alla fine e la condivisione dell’articolo deve richiedere al lettore non più di 2 click sul pulsante. Perché avere i pulsanti di condivisione sociale? Perché fondamentalmente sono capaci di INNESCARE MECCANISMI DI DIFFUSIONE VIRALE DEI CONTENUTI CHE ERANO IMPENSABILI FINO A 5 ANNI FA. I contenuti condivisi appaiono nello stream delle bacheche degli utenti Facebook, nello stream di Twitter come retweet, nello stream di LinkedIn, Google+, ecc. Ovviamente quanto più un post sarà di qualità, tante più probabilità avrà di diventare virale! SYNDICATION E ABBONAMENTO AI CONTENUTI

Un blog aziendale deve permettere agli utenti di seguire gli aggiornamenti anche al di fuori dello stesso spazio, attraverso altri supporti. Ricorda quindi di offrire sempre interfacce per l’abbonamento ai contenuti, quindi offri feed RSS e possibilità di iscrizione alla newsletter. Feedburner di Google può essere un ottimo strumento d’aiuto in questo caso. UN OCCHIO DI BUON GUSTO ALLA GRAFICA

Seppure il disporre di una grafica eccellente non si tradurrà nell’aumento diretto delle vendite, l’aspetto gradevole, pulito e fresco di un sito invoglierà l’utente a restare quanto più tempo possibile sulla pagina web, a consultarne i contenuti ed eventualmente a effettuare un’azione. Occhio quindi alla dimensione del testo, che sia di facile lettura, a evitare l’uso di pop-up o eccessivi banner interstitial che distraggono l’utente e, soprattutto, evitare reindirizzamenti ingannevoli di pagina che portano l’utente su una pagina differente da quella che realmente stava cercando. PREDISPORRE IL BLOG PER LA NAVIGAZIONE MOBILE

Oramai la navigazione mobile sta per superare quella desktop. Si legge

ovunque, in treno, in auto, in vacanza, mentre si fa la fila alle poste o si è in bagno. Il mio blog è ad esempio molto letto da tablet e da mobile. Quando mi capita di leggere un blog privo di una versione mobile mi sento un po’ frustrato perché, se realmente interessato alla lettura dell’articolo, sono costretto a zoomare con le dita sullo schermo e sforzarmi per leggere. Sarebbe bastata invece una versione responsiva del blog che adattasse i contenuti alle dimensioni del device, smartphone o tablet. Evita di perdere lettori e potenziali clienti solo perché non disponi di una versione mobile non soltanto del blog, ma dell’interno sito web corporate. 3.2. Come, cosa e chi: le 3 C del Blog Marketing Quando si avvia un corporate blog è necessario rispondere a tre domande fondamentali: 1. cosa scrivere? 2. come scriverlo? 3. come promuoverlo? 3.2.1. Cosa scrivere La scelta dell’argomento è lo step più importante e al quale dedicare maggiore attenzione, perché è da qui che partirà la corretta costruzione del piano editoriale. Una regola fondamentale del blogging, che vale anche per i blog aziendali, è quella di evitare di trattare una moltitudine di tematiche diverse tra loro, focalizzandosi invece su una tematica, una nicchia precisa, e svilupparla a dovere. Più sarà tematizzato l’argomento del blog, più sarà facile farlo crescere. L’obiettivo sarà quello di costruire un piano editoriale di contenuti che rispondano a specifiche esigenze di ricerca di un pubblico. La blogosfera è già abbastanza suddivisa in macro-tematiche, nicchie e micro-nicchie. Pensare di parlare un po’ di tutto non porterà alcun vantaggio in termini di visibilità e apprezzamento al tuo blog, soprattutto perché in ogni caso si inizierà da zero e senza una tematizzazione del blog la competizione per la visibilità sarà elevatissima. “E se ho un’azienda di smaltimento rifiuti di cosa parlo??” Fare blogging equivale già a fare Content Marketing. Se analizziamo qualsiasi azione e campagna di Content Marketing ben riuscita ci rendiamo conto che

nessuna di queste parlava dei propri prodotti o servizi e quindi nessuna avrebbe mai parlato dei costi dei propri servizi di smaltimento rifiuti o delle caratteristiche tecniche dei termosifoni venduti. IL BLOG NON DEVE ESSERE UTILIZZATO COME UNA VETRINA DI NEWS COMMERCIALI.

Anche il blog è un social media e nei social media i claim commerciali hanno sempre avuto vita breve. E così l’azienda di smaltimento rifiuti potrebbe parlare, ad esempio, di ecologia e salvaguardia dell’ambiente, ma anche fare ricerche locali su quanto le sue attività incidono sulla riduzione dell’inquinamento atmosferico o sulla riduzione dell’abbattimento di conifere per la produzione della carta. Ci sono poi nicchie tematiche che, per tipologia di argomenti, si ricollegano ad altre nicchie verticali. Questo ci permetterà di espandere la tipologia di contenuti ampliandola ad altre nicchie correlate. Ad esempio, un blog di benessere potrà produrre contenuti informativi utili anche al pubblico di altre tematiche verticali come moda, sport, food, travel, salute e scienza.

Come un blog aziendale relativo al settore benessere può interagire e produrre contenuti per altre aree tematiche verticali (fonte: Webinfermento)

3.2.1.1. Suggerimenti per la ricerca degli argomenti Esistono diversi metodi per cercare gli argomenti da sviluppare. Il primo consiste nella ricerca di argomenti popolari o di tendenza. Tool gratuiti come

Google Trend utile per conoscere le tendenze relative a macro argomenti o anche lo stesso Google Search Autocomplete possono essere preziose fonti di informazioni. È sufficiente infatti iniziare a stilare una lista di parole chiave di argomenti che vogliamo sviluppare e usare quei tool per sapere se c’è interesse nell’argomento. Il numero di risultati restituiti da una ricerca su Google può essere già un indicatore di interesse del pubblico nell’argomento. Un suggerimento è quello di utilizzare l’autocompletamento della query di Google Search ricercando per frasi più complesse, dette di long tail, e che contengono domande al loro interno. Questo perché lo scopo primario del blog aziendale sarà quello di FORNIRE ARTICOLI INFORMATIVI CHE RISPONDONO A DOMANDE DEL RICERCATORE. Tuttavia Google Search non deve limitarsi a questo tipo di ricerche. Possiamo infatti suddividere i nostri prodotti in categorie e sottocategorie e utilizzarle come query di ricerche per vedere quali siano sia i risultati restituiti da Google sia le ricerche correlate a quei termini.

L’utilizzo di Google Search Autocomplete e delle ricerche correlate di Google per la ricerca di argomenti a tema da sviluppare (fonte: Google.com)

Una volta raccolta una lista copiosa di argomenti suggeriti dallo stesso Google e, quindi, dalle stesse ricerche degli utenti, possiamo utilizzare lo strumento di pianificazione delle parole chiave di Google Adwords, meglio conosciuto come Google Adwords Keyword Planner (ex Google Keyword Tool). Lo strumento è gratuito, ma per accedervi è necessario registrare un account in Google Adwords. Appena si sarà pronti a utilizzare lo strumento, potremo incollarci la lista di idee di parole chiave raccolte e cliccare su “trova idee”, per vederci restituita una lista ancora più ampia di idee di parole chiave e ricerche correlate, la loro stima delle ricerche mensili locali e globali e i trend futuri previsti di ricerca. Queste saranno le idee di parole chiave che si trasformeranno nei titoli degli articoli del blog aziendale. La stima delle ricerche mensili sarà utile per sviluppare articoli solo per quelle chiavi di ricerca che possono realmente portare traffico al nostro blog e che hanno un livello di competizione non molto alto. È sempre infatti utile cavalcare il concetto di coda lunga o long tail, secondo il quale, in ambito web marketing, un insieme di ricerche specifiche e con poca competizione e

poco traffico stimato può apportare a un sito più traffico (e più conversioni) di quanto possa farne una o poche chiavi di ricerca più generiche, con stima di traffico molto elevata ma anche con alta competizione.

Lo strumento di Google Adwords per la pianificazione delle parole chiave (fonte: Google.com)

Il mio consiglio resta comunque quello di raccogliere quante più idee di parole chiave per lo sviluppo degli argomenti del blog prima di lanciarsi nello sviluppo del piano editoriale di articoli. Esistono nel web tanti utili tool, perlopiù gratuiti, per la ricerca di parole chiave. Segnalo, tra gli altri, gli italianissimi Ubersuggest e SuggestMrx e l’utilissimo KeywordTool.io che, sfruttando l’autocomplete di Google Search e YouTube, restituisce tutte le possibile combinazioni di chiavi di ricerca long tail a partire da quella da noi segnalata.

KeywordTool.io in azione (fonte: KeywordTool.io)

Infine, anche le tendenze su Facebook, gli hashtag su Twitter e altri strumenti come Google Alert, per ricevere via mail le notizie relative alle parole chiave definite, possono aiutarti a reperire informazioni utili su cui sviluppare articoli per il blog aziendale. 3.2.2. Come scrivere Una volta scelta con accuratezza la tematica del blog, lo step successivo è quello di comprendere in che modo scrivere articoli. Sicuramente andranno evitati errori dozzinali ma molto presenti in centinaia di corporate blog, come: la duplicazione di contenuti parziali o totali da altre fonti l’assenza di elementi di formattazione testuale e visiva nel corpo dell’articolo l’assenza di una storia, di una notizia realmente rilevante e che abbia caratteristiche di novità, originalità e interesse verso i lettori a cui è destinata l’assenza di un autore (e di una pagina autore) che non sia il semplice “admin” o “azienda xy”. Ricordiamoci che la comunicazione aziendale

nell’era dei social (di cui il blog ne è parte) deve essere personale, con una persona reale con un nome e un volto. I consigli da seguire sono quelli classici del SEO COPYWRITING quali: la scrittura di titoli incisivi e attrattivi l’utilizzo di intestazioni che sintetizzino quello che il lettore potrà approfondire leggendo l’articolo l’uso di alcuni tag di formattazione come il bold e il corsivo l’utilizzo degli elenchi per non appesantire la lettura dell’articolo l’ottimizzazione SEO On Page: la parola chiave che rappresenta il titolo dell’articolo deve essere presente nel tag title, nei tag di intestazioni H1, H2, ecc., nell’eventuale attributo “alt” e nel nome del file delle immagini e, con moderazione, nel corpo del testo dell’articolo. Attenzione a non cadere nel keyword stuffing; è una tecnica di spam nella SEO oramai deprecata e che Google sa riconoscere al volo. È sempre bene impostare una categorizzazione tematica per argomenti anche del blog. Partendo dal titolo principale del blog, ad esempio “consigli di arredo per la casa e non solo” che corrisponderà anche alla chiave primaria in ambito SEO, potremo suddividere il blog in macro-categorie, ad esempio arredo casa, arredo giardino, arredo negozio, arredo barca, arredo cottage, arredo ufficio, ecc. per poi sviluppare gli argomenti utilizzando la lista più vasta di idee di frasi chiave che andranno a coprire tutte le esigenze informative del lettore interessato ai nostri argomenti. Un piccolo consiglio che alcune aziende sfruttano già è quello di affidare l’attività di blogging ad autori influenti e specializzati nella scrittura di testi per determinate aree tematiche. Questo aiuterà quelle aziende prive di personale riservato alla scrittura sul web a dotarsi di uno o più autori realmente esperti della nicchia tematica che potranno poi esporre quei contenuti anche alla propria audience. Non limitarti a scrivere articoli striminziti e poco informativi. Meglio avere degli articoli corposi e informativi, poco ridondanti e che approfondiscono, paragrafo per paragrafo, qualcosa di diverso. Ogni paragrafo dell’articolo è bene arricchirlo di sottotitoli (qui potrai usare i tag d’intestazione) descrittivi e che sintetizzino l’argomento e, se possibile, di immagini o video correlati. 3.2.3. Come promuovere

Sulla promozione del blog in realtà ci sarebbe molto da dire, tanto forse da poter scrivere un libro dedicato. Mi preme sottolineare in questo post alcuni punti sintetici: 1. fare networking, online e offline. Nei social network è importante interagire con gli altri attori influenti della propria nicchia, conversare e confrontarsi con loro. Nell’offline il networking può prendere forma in fiere ed eventi settoriali 2. fare Comment Marketing di qualità. Se vogliamo arrivare nelle grazie di un blogger/sito influente non c’è modo migliore di fargli capire che siamo in grado anche noi di offrire contenuti di valore. Il modo in cui iniziare è quello di farsi conoscere, commentando i suoi post e offrendo suggerimenti che vanno ad approfondire quanto da lui scritto. Approfondirò questi due aspetti nel prossimo capitolo 3. utilizzare il blog per produrre altri contenuti di valore. Il blog è l’hub iniziale da cui veicolare i contenuti. Il 70% dei contenuti consisterà in post e articoli informativi, ma considera anche che per il restante 30% potremo veicolare contenuti “premium” come infografiche, mini-video o altre iniziative coinvolgenti 4. ottimizzare il blog nel design, nel possesso dei feed RSS, nella sezione dei commenti e, soprattutto, nella presenza dei tasti di condivisione nei social media. Anche questi piccoli accorgimenti contribuiranno a far crescere un blog che produce articoli di qualità. Ora la parola va a uno che di blog e di scrittura per il web se ne intende: Riccardo Esposito.

Riccardo Esposito CINQUE CONSIGLI PER UN’AZIENDA CHE SI AVVIA ALL’USO DEL BLOG AZIENDALE Il primo consiglio che voglio dare a un’azienda che sta entrando nel magico mondo

del blogging aziendale? Esci fuori dall’azienda, togliti la cravatta, mettiti una camicia colorata e pensa al bene dei tuoi lettori, ovvero dei tuoi clienti. Difficile riuscire in questa impresa? Difficile superare la tua mentalità corporate, ma in realtà il principio è elementare: devi dare contenuti utili ai lettori. Non utili a te, utili al lettore. Utili al cliente. Guarda i blog di Bufferapp e di Crazyegg: sono fantastici perché creano articoli fatti su misura per il potenziale cliente. Non a caso i post di Bufferapp, legati a un’applicazione che permette di organizzare gli aggiornamenti social, toccano anche argomenti legati al time management. Quelli di Crazyegg, invece, si rivolgono a chi ama parlare di conversioni, misurazioni, test. Questi blog scrivono non per spingere il prodotto ma per attirare il pubblico che è potenzialmente interessato al prodotto. Il secondo consiglio? Metti da parte il burocratese. Non serve, non lo puoi usare per comunicare con le persone che visitano il tuo blog. A dire il vero io non lo userei neanche per rispondere alle email. Terzo consiglio: lavora con un blogger professionista, ascoltalo, non pensare di poter gestire la sua professione solo perché è la tua azienda a dover essere portata sulle pagine del blog. Certo, conosci bene la tua realtà aziendale. Ma come hai comunicato finora? Con i comunicati stampa? Con le lettere? Paga un esperto e lascia che sia lui a consigliare la strada da seguire. Quarto consiglio: la creazione di contenuti è una marcia lenta, ma continua. Devi camminare con costanza, per tanto tempo. Non puoi correre, non puoi bruciare le tappe. Non puoi pretendere che le persone si fidino della voce aziendale: le persone hanno pregiudizi duri da risolvere. Ma la costanza e la genuinità dei tuoi contenuti faranno cambiare idea. Ultimo consiglio: dai il massimo. Non aver paura di donare e di condividere. Molte aziende hanno paura di apparire troppo generose perché arrivano da un parametro vecchio stampo: perché devo dare senza ricevere? E qui ti sbagli: riceverai, non subito ma riceverai. Il superamento della crisi creativa del blogger che non sa cosa scrivere Io conosco due metodi: a breve e medio termine. Inizio dal primo: la pratica è un ottimo metodo per superare la crisi creativa. Scrivere ogni giorno vuol dire trovare sempre nuove soluzioni, vuol dire imparare a superare le difficoltà del mestiere. Più scrivi e meglio scrivi: in linea di massima questa è una regola che funziona. Sul medio termine c’è la capacità di trasformare ogni esperienza in articolo utile ai lettori: se lavori nel settore SEO puoi scrivere ogni giorno un articolo e raccontare cosa hai imparato, cosa hai affrontato, quali successi hai collezionato e quante volte hai fallito. Ovviamente per mettere a frutto questa tecnica devi sviluppare una buona capacità di autoanalisi e soprattutto non devi raccontare solo quello che tu reputi interessante. Un consiglio? Una pausa, un fine settimana, due ore di stop forzato lontano dal computer. A volte il cervello ha solo bisogno di una sosta: impara ad ascoltare i segnali che ti manda. Meglio scrivere per l’utente o per i motori di ricerca? Per l’utente. Perché è l’utente che clicca sui risultati del motore. Ok, questa è la

risposta del webwriter idealista. In realtà devi scrivere per gli utenti e per i motori di ricerca, ma se scrivi bene per gli esseri umani lo fai alla grande anche per gli spider di Google. Risposta già sentita, vero? In realtà c’è poco da aggiungere: se ho come scopo principale (dovrebbe essere così) la buona informazione del lettore, devo far capire subito qual è l’argomento del post. Per questo nel tag title ci saranno le keyword più importanti. Questo è un bene per i motori di ricerca ma anche per il lettore. Sopratuttto per il lettore perché deve capire, deve sapere cosa si trova nell’articolo. Poi ci sono le keyword nel testo, l’uso dei sinonimi. Ma tutto questo già fa parte delle buone regole di scrittura. L’uso del dizionario dei sinonimi e contrari è importante: va di pari passo con un uso ponderato della lingua italiana, con la scorrevolezza della lettura. Il concetto è questo: scrivi bene e scrivi per tutti. Per i motori e per gli umanoidi. La formattazione degli articoli, con sottotitoli e immagini contestuali I miei articoli sono formattati con cura, sono ricchi di immagini. Ma è come il trucco per una donna: usato con cura tutto migliora, ma se si esagera il risultato non è il massimo. Anzi, in alcuni casi è pessimo. La formattazione, più in generale il buon equilibrio del post, è fondamentale per migliorare la leggibilità del testo. E la leggibilità è tutto (o quasi): puoi scrivere il miglior articolo di questo mondo, il più completo. Ma alla fine se non sarà formattato con cura, se non ci saranno le giuste immagini e se sarà presentato come un muro di parole beh, il risultato te lo puoi immaginare: zero letture, zero condivisioni, zero link. Anche questo è un male per la SEO.

4. Relationship Marketing L’importanza dello sviluppo delle relazioni

Se hai avviato una presenza nei canali sociali più appropriati e hai iniziato a interagire con i tuoi follower o fan, ad ascoltare le loro richieste e osservazioni e a creare e pubblicare contenuti coinvolgenti, sei già a un buon passo per trasformare la tua azienda in un vero brand riconosciuto, editore di contenuti web. Il prossimo step è quello di SVILUPPARE RELAZIONI E FARE DEL NETWORKING UN IMPEGNO COSTANTE, non soltanto nei canali istituzionali e acquisiti, ma anche esternamente, nelle community d’interesse per la tua marca. Il web ha rivoluzionato il concetto di relazione. Lo ha infatti ampliato a una dimensione che prima non pensavamo possibile. Il web oggi è distinto in aree tematiche popolate da centinaia di blog e personalità di rilievo nei social media che influenzano giornalmente decine di migliaia di persone, plasmandone stili di vita, modi di pensare, passioni personali, idee politiche, fino a determinare le loro scelte d’acquisto presenti o future. Solitamente l’identikit della personalità influente nel web identifica una persona di sesso maschile o femminile che possiede e gestisce un blog specializzato in una determinata nicchia e ha un forte seguito di sostenitori nei principali canali sociali. Ha un piano editoriale di contenuti senza particolari calendari editoriali da rispettare (nel senso che scrive e pubblica quando vuole) e la sua attività spesso si trasforma da passione a vero e proprio mestiere ben retribuito. Un vero business a tutti gli effetti. Pensa alla famosa blogger Chiara Ferragni, che con il suo fashion blog The Blonde Salad è riuscita a creare una startup che fattura circa 8 milioni di euro l’anno. È noto infatti che esistano diversi blogger influenti la cui attività produce

ritorni economici da fare invidia a tutta la restante blogosfera. Per un blog personale, tale successo è frutto di tanto lavoro, passione e un’ottima strategia di Personal Branding. Nel nostro caso, avremo da gestire o da fare consulenza a un’azienda; sarà più difficile trasformarla in un brand influente, ma non impossibile. 4.1. Interagire nelle Community Dobbiamo prima di tutto individuare quali sono quei luoghi virtuali in cui avvengono le conversazioni di nostro interesse. Abbiamo molti canali a disposizione per le nostre ricerche: dai forum settoriali, strumenti datati ma ancora molto validi, ai blog, dai siti di comparazione on line fino ai social network. Ogni social è ormai dotato di strumenti che hanno lo scopo di raggruppare utenti accomunati da specifici interessi e che sviluppano determinati argomenti; dai gruppi Facebook a quelli LinkedIn, dalle liste Twitter alle community Google+ e via dicendo. Ricercando per parole chiave sia su Google che nei motori di ricerca interni ai social network, troveremo forum, blog, community e gruppi di discussione da seguire e nei quali interagire. L’interazione dovrà però sempre essere qualitativa e volta a fornire utili spunti di discussione e di approfondimento. Molto spesso infatti gli utenti postano domande con richieste di informazioni alle quali si aspettano di ricevere risposte utili che soddisfino il loro bisogno. Se si è in grado di rispondere prima degli altri e fornire vero valore informativo, saremo già un passo avanti nel processo di riconoscibilità e gratitudine degli utenti. Tra le buone pratiche dell’interazione di un’azienda nelle community c’è quella di evitare di apparire autoreferenziali, inserendo magari link alle pagine dei propri prodotti e servizi e affermando di avere il prodotto migliore che soddisfa il bisogno dell’utente. Questa non è interazione, ma una vecchia forma di spam che, oltre a creare diffidenza nell’utente, gli arrecherà disturbo e non farà altro che allontanarlo dalla marca. Come azienda dovremo solo cercare di rispondere in modo utile e costruttivo soddisfacendo, possibilmente, il bisogno informativo dell’utente che ha postato una determinata domanda o ha aperto un topic di discussione. Sarà poi l’utente soddisfatto ad approfondire la nostra offerta produttiva ed eventualmente a sceglierci. In questa fase dovremo cercare quanto meglio di influenzare positivamente le intenzioni di acquisto (e di scelta) degli utenti delle community che frequentiamo. Utile è anche aprire topic come azienda e sviluppare discussioni con altri

utenti. 4.2. Comment Marketing Per Comment Marketing si intende quell’attività volta alla pubblicazione di commenti autorevoli e di qualità agli articoli scritti dai blog più influenti facenti parte dell’area tematica nella quale la nostra azienda è inserita. Possiamo decidere di commentare gli articoli di un blog senza lo scopo intenzionale di promuovere il nostro brand; molti utenti, infatti, associano al commento il proprio nickname senza aggiungere il link al proprio sito web, anche se ne è data la possibilità dal webmaster. Abbiamo visto quanto importante possa essere aprire e avviare un blog aziendale e adesso fai attenzione a quanto sto per dirti: il Comment Marketing fatto bene serve proprio a promuovere, prima di tutto, lo stesso blog aziendale. Non finisce qui però, perché i benefici del Comment Marketing di qualità sono molteplici. Innanzitutto può permetterti di DIMOSTRARE DI ESSERE UNA PERSONA AUTOREVOLE NEL SETTORE. L’azienda dovrebbe commentare per nome degli autori degli articoli del corporate blog, più che col nome dell’azienda stessa. Ricordo infatti che è meglio evitare di mettere in primo piano la marca e lasciare al lettore la possibilità di approfondire l’identikit di quella persona che ha scritto un commento molto utile. È sempre meglio quindi firmare il commento con nome e cognome, eventualmente e solo se realmente utile, inserire un link ad un articolo correlato scritto sul blog aziendale e inserire il link alla homepage del corporate blog in firma al commento. Questo farà in modo che quando il lettore del blog o lo stesso blogger cliccheranno sul nome dell’autore del commento potranno avere accesso al link che rimanda al blog aziendale e da lì decidere di averne gli aggiornamenti seguendo l’azienda nei social o abbonandosi ai feed RSS o alla newsletter. Il testo e l’immagine del commento devono essere curati. Relativamente all’avatar, anche qui, evitiamo di inserire il logo dell’azienda ma di dare un volto umano alla persona autore del commento e magari anche autore degli articoli del blog, inserendo una sua fotografia chiara e nitida. Puoi utilizzare un servizio gratuito come Gravatar che ti permette di impostare un profilo autore con fotografia (cerca di utilizzare un’unica fotografia con la quale farti riconoscere in tutti gli altri social media), nome e cognome, link al sito web e indirizzo email. Il comment marketing fatto bene permette di ATTIRARE L’ATTENZIONE DEL

BLOGGER; ricorda che siamo nello step in cui, dopo aver costruito la nostra

presenza nei social, stiamo iniziando a sviluppare relazioni settoriali e il fatto di farsi notare dai blogger autorevoli è uno degli obiettivi che dovrebbe interessarti di più. Possiamo essere d’accordo con quello che scrive il blogger e offrire un nostro punto di vista simile sulla questione, oppure prendere le distanze argomentando per bene le nostre tesi. Solitamente il secondo approccio sarà più utile ad attirare l’attenzione, ma potremmo anche contrariare il blogger che potrebbe decidere di non leggerci più. Meglio quindi la strategia di fornire una discussione a supporto di quanto espresso, permettendo al lettore di trovare, nel nostro commento, ulteriori preziose informazioni quasi a completamento dell’articolo. Vedrai che sarà un’attività apprezzata, specialmente se sarai tra i primi a lasciare il commento. Fare Comment Marketing è il primo vero step che ci permetterà di interagire con i blogger influenti; successivamente potremo intervistarli o avviare attività di guest posting sui loro blog (argomenti che verranno approfonditi in seguito) o coinvolgerli in altre iniziative che andranno a promuovere la marca (es. i blog tour). Potremo inoltre RICEVERE DIVERSI BENEFICI INDIRETTI, come l’aumento del traffico referente derivante dai click dei lettori sul link associato al commento che rimanda al nostro blog, l’esposizione dello stesso brand ma anche l’aumento degli iscritti ai nostri feed, alla newsletter o ai canali sociali. Il Comment Marketing è un’attività che ho svolto soprattutto quando ero intenzionato a far crescere e promuovere il blog Webinfermento. Individuavo i blog di web marketing più autorevoli e storici e condividevo le mie esperienze, ma anche curiosità, domande o altre informazioni che fossero utili per i lettori (e lo stesso blogger). Dimostrare la propria competenza sull’argomento, acquisire autorevolezza, esporre la marca e ricevere traffico referente: questi dovrebbero essere gli OBIETTIVI di un Comment Marketing di qualità. Mi capita di vedere ancora chi utilizza il Comment Marketing per fare spam o per fare link building; in realtà ormai quasi tutti i blog hanno impostato l’attributo rel=”nofollow” ai link nei commenti, che dà l’istruzione al bot dei motori di ricerca di non seguire e trasferire valore al link. Evita anche di lasciare commenti con scritto soltanto “bel post!” o “bravo”. Per quanto segno di apprezzamento, se vuoi farti notare dal blogger e dal suo pubblico questa non è la soluzione migliore. Meglio spendere sempre del tempo. Condividi conoscenza ed esperienza e vedrai che il tutto ti porterà nel tempo notevoli benefici.

Gli articolati commenti di Gianluca Fiorelli ai post di Moz (fonte: Moz.com)

4.3. Influencer Outreach Dopo le attività di Comment Marketing, che andrebbero eseguite anche su quei blog non necessariamente influenti, perché è anche lì che potremmo crearci un pubblico, per raggiungere l’attenzione degli influenti del nostro settore bisogna interagire con loro anche nelle piattaforme sociali. Il nostro brand ha una fanpage e un account Twitter con un bel po’ di follower? Bene, oltre a seguire con i nostri canali ufficiali aziendali quelli del blogger, possiamo leggere gli articoli del blogger che vogliamo “coccolare”, commentare l’articolo all’interno dello stesso post e poi continuare a

“spingere” i suoi contenuti condividendoli sulla nostra fanpage e sul nostro account Twitter, complimentandoci con lui attraverso una menzione della sua fanpage su Facebook e del suo account su Twitter. Così facendo, esporremo i suoi contenuti alla nostra platea permettendogli di avere del traffico in entrata al suo blog o sito web. Questa sarà un’attività che, se eseguita con passione e gentilezza, porterà l’influencer a notarci e magari ad iniziare egli stesso a condividere i nostri articoli del blog, sempre se apprezzati e ritenuti di qualità. Una delle tecniche più utilizzate, anche se a mio avviso un po’ abusata, è quella di INTERVISTARE I BLOG PIÙ INFLUENTI DEL PROPRIO SETTORE. All’azienda è utile perché in questo modo entra in contatto diretto con l’influencer. Per pianificare un’intervista generalmente si scrive al blogger tramite la sua casella email e si sviluppano una serie di domande a cui il blogger risponderà. Non richiedono compensi, a meno che si tenti di intervistare delle vere celebrità, ma è sempre meglio anticipare nella prima mail di contatto quali saranno gli argomenti su cui si svilupperà l’intervista. Una volta pronta e pubblicata l’intervista alla personalità influente del settore sul nostro blog, potremo sperare che quest’ultimo decida di condividerla nei suoi canali sociali, esponendo così la nostra marca alla sua audience e permettendoci di ricevere traffico referente e farci conoscere. Essere intervistati è un’attività utile anche all’influencer, in quanto ha un contenuto da proporre alla propria platea che conferma la fama e la visibilità che si è costruito. Inoltre, acquisisce un link in entrata al suo blog e, se è un minimo consapevole dell’importanza dei link per la visibilità su Google, non potrà che apprezzare di essere stato intervistato. Finora ho parlato di come approcciare blogger influenti, ma spesso la questione più difficile riguarda le modalità di individuazione. Un’azienda può essere interessata a coltivare un influencer del proprio settore che dispone di un blog con migliaia di lettori unici al mese, oppure di uno che non ha un blog, ma ha un forte seguito di sostenitori nei profili sociali. In questo ultimo caso, andremo a vedere quanto il personaggio è in grado di coinvolgere i propri follower e generare conversazioni nei social media. Solitamente un personaggio influente se twitta qualcosa riceve decine o centinaia di retweet e menzioni e se posta sulla sua fanpage riceve centinaia di “mi piace”, commenti e condivisioni. Alcune aziende stanno utilizzando un tool come Klout, che assegna un punteggio di influenza dell’autore in funzione dell’engagement riscosso sui profili sociali che egli ha collegato alla piattaforma.

In realtà è soltanto un indicatore di massima di visibilità e soggetto a manipolazione che io non consiglierei di utilizzare. Ad esempio, Klout permette di modificare il rank tramite un comportamento manipolabile dall’utente, che consiste nell’intavolare discussioni sul proprio profilo Facebook anche in un giorno soltanto, commentando i propri post allo scopo di aumentare il punteggio.

Un esempio di punteggio Klout attribuito a Webinfermento (fonte: Klout.com)

Ad un’azienda interesserà anche che l’influencer disponga di un blog. O almeno, dovrebbe interessare. Se un domani l’influencer verrà coinvolto in qualche campagna di web marketing dell’azienda e dispone soltanto dei profili sociali e non di un blog, ci aspetteremo dei post sui social in real-time (ad esempio un live tweet durante un evento a tema) e dei post con foto o video post evento. Il tutto però avrà una visibilità temporale di cui difficilmente resterà traccia, a lungo termine, nei motori di ricerca e nel web e possiamo comprendere benissimo come a un’azienda debba interessare che l’opinione di un blogger di settore influenzi nel lungo periodo le opinioni degli utenti nel web. Sappiamo tutti, infatti, come Google sia ancora lo strumento d’informazione più utilizzato da tutti. È sempre meglio quindi individuare quelle personalità influenti che dispongono sia di un’ampia platea di sostenitori nei social media sia di un blog aggiornato costantemente e molto seguito e condiviso. Non sarà raro infatti trovare blogger influenti che sono molto seguiti anche nei social. Per individuarli, puoi utilizzare i tool che ho già menzionato, come Finder, Followerwonk e SocialBro ma anche fare un’analisi dello stesso blog ci permetterà di avere un’idea più precisa del possibile ritorno economico dell’investimento che avremo coinvolgendo dei blogger influenti. In un post di Webinfermento ho raccolto alcune metriche alle quali a mio avviso ogni azienda dovrebbe guardare prima di decidere di contattare un blogger. È molto importante evitare di scegliere a casaccio i blogger che

saranno coinvolti nelle campagne di marketing, poiché quasi tutti i blogger vorranno essere retribuiti per essere coinvolti nelle iniziative e di conseguenza bisogna evitare inutili sprechi di budget. TRAFFICO ORGANICO

È una delle metriche più importanti. Se un blog fa poco traffico organico è sintomo anche di scarsa influenza e storicità del dominio, cattiva ottimizzazione SEO on site, scarsità di link autorevoli e a tema in entrata, ecc. Mi è capitato più volte di analizzare blog che mi inviavano il loro “listino prezzi” millantando di fare mezzo milione di visite al mese, addirittura possedendo un blog su domini di terzo livello come Blogspot. Strumenti di stima del traffico come Semrush o Similarweb ti permetteranno di smentirli al volo. METRICHE SEO

Per metriche SEO intendo il classico numerino del Page Rank visibile nella barretta verde, il Domain Authority e Moz Trust di Moz e il Citation Flow e Trust Flow di Majestic. Questi possono darti un’indicazione di massima dell’autorità di un blog, ma vanno presi con le pinze e il perché lo vedremo nel prossimo punto. QUANTITÀ E QUALITÀ DEI COMMENTI AI POST

Non è detto che un blog che ti mostra 5 di Page Rank nella barretta di Google sia autorevole. Il Page Rank è possibile manometterlo se ad esempio quel blog è collegato mediante network ad altri siti e resta comunque una metrica ormai inaffidabile in quanto non sarà più aggiornato da Google. Potrebbe essere anche soggetto a una penalizzazione algoritmica come Penguin o a manuale e in questo caso produrrà così poco traffico dall’organico che sarà difficile che l’articolo che verrà redatto potrà godere in seguito un ottimo posizionamento. Un blog NON-influente lo riconoscerai subito anche dall’ASSENZA DI COMMENTI AI POST! La domanda che ogni manager e consulente dovrebbe farsi è questa: “cosa me ne faccio di un articolo che non ha generato pareri, positivi, negativi o neutrali?”. Ci sono ad esempio mercati, come quello del travel, del food o del fashion che pur non generando molto traffico organico, arrivano a produrre fino a centinaia di commenti quando parlano di una sfilata di moda, di una ricetta o di un consiglio di viaggio. Quando ad esempio in un travel blog i

commentatori ammettono di aver scoperto una destinazione turistica, di essere rimasti entusiasti e di aver sognato ad occhi aperti leggendo il post e che nella prossima vacanza sceglieranno quella destinazione come meta delle proprie vacanze, lì stiamo già convertendo e ci troviamo di fronte ad un’attività di influencer marketing andata a segno. ACCOUNT SOCIALI COLLEGATI AL BLOG ED ENGAGEMENT

Altra cosa a cui guardare è la presenza sociale. Un blog affermato cura anche la sua presenza sociale, perché in grado di riconoscerne i benefici del veicolare traffico al blog e fare da cassa di risonanza ai propri articoli. Solitamente scanso quasi subito quei blog che mostrano account facebook o twitter con migliaia di fan e follower e nessuna interazione ai post condivisi. È indice del fatto che c’è qualcosa che non quadra. Ti accorgerai che, spesso, i blog privi di commenti ai post saranno anche privi di interazioni ai link dei post condivisi nei loro account sociali. PRESENZA DI ECCESSIVA PUBBLICITÀ SUL BLOG

Se devi investire ad esempio nell’acquisto di uno spazio pubblicitario sul blog dovrai farlo, anche qui, con un occhio alla convenienza. Oltre ad analizzare tutte le metriche citate sopra, dovrai vedere quanta pubblicità c’è già sul blog, come banner o post sponsorizzati. Una cosa che ho notato è che i blog con troppa pubblicità, sotto forma di articoli redazionali o banner, perdono nel tempo la fiducia da parte dei lettori e, di conseguenza, la loro influenza e visibilità. 4.4. Il Personal Branding degli autori di contenuti Il Personal Branding è quella strategia perseguita dal singolo individuo al fine di sviluppare il brand di sé stesso. È una strategia nata grazie alla volontà dei singoli professionisti e appassionati di una determinata attività di dare vita a una propria identità per presentarsi come soggetto economico in grado di prestare servizi on line. Non stupisce infatti, ora, vedere molti professionisti nati come blogger e diventati soggetti economici e prestatori di servizi. È un’attività che se portata avanti nel modo corretto, producendo contenuti di qualità e alimentando proficue relazioni, conduce al successo e alla redditività. Finora ti ho parlato di come a un’azienda interessi sviluppare un brand online e quindi una strategia digitale integrata e multi canale, che le permetta di generare una riconoscibilità di marca nel caso in cui l’azienda sia appena nata.

Ciò non toglie che al team editoriale e creativo del brand non debba interessare sviluppare anche il personal brand. Un’azienda può disporre di un team che si occupa di scrivere gli articoli del corporate blog e di un team che gestisce la presenza nei social media. Ognuna di queste persone dovrebbe sviluppare la propria personale autorevolezza, perché i benefici possono essere notevoli sia da un punto di vista personale che per la stessa azienda. Più in generale, potremmo affermare che ogni collaboratore, interno o esterno dell’azienda, farebbe bene a sviluppare la sua visibilità personale. Sviluppare il brand personale è utile all’autore di contenuti per entrare in contatto più facilmente con un blogger influente e coinvolgerlo, successivamente, in iniziative aziendali o anche per farsi accettare una richiesta di pubblicazione di un guest post. Ciò non avverrebbe qualora ci presentassimo come “azienda X”. Un volto umano e riconosciuto è utile anche ai lettori del blog, che sanno così di poter interagire con una persona che ha un nome e un cognome.

5. Content Ideation

Caro lettore, ci troviamo praticamente a metà strada del viaggio verso la costruzione di un brand riconosciuto online. Abbiamo avviato una presenza ottimale nei social media più opportuni con un piano editoriale predefinito e un ascolto costante delle conversazioni degli utenti. Abbiamo anche iniziato a sviluppare conversazioni con gli utenti delle community che potrebbero essere interessati alla nostra offerta produttiva e con i blog settoriali che, come abbiamo visto, sono dei veri e propri opinion leader che potrebbero aiutarci a diffondere i nostri contenuti e ad esporre la nostra marca. Ora inizia ad aver senso SVILUPPARE INIZIATIVE DI CONTENT MARKETING D’IMPATTO che possono richiedere tempistiche, livelli di creatività e costi di sviluppo più elevati. Il ragionamento è piuttosto semplice: è inutile cercare di posizionarsi in una nicchia di mercato pensando di sviluppare sin da subito un’infografica o un video, con la convinzione che questi possano avere ampia diffusione e magari diventare “virali”, accorciando le tempistiche e portando al successo marche, prodotti o servizi praticamente sconosciuti. Sono rari i casi in cui situazioni del genere si sono verificate. È per questo motivo che ho voluto impostare sotto forma di percorsi strategici le buone pratiche raccolte in questo libro che permettono a un’azienda di costruire, mattone dopo mattone, la propria visibilità in rete. I contenuti d’impatto o “premium” (così definiti perché hanno uno sviluppo più complesso, lungo e costoso, ma anche ritorni maggiori), come infografiche, video, ebook, ricerche, eventi settoriali, blog tour, ecc., di maggior successo sono infatti quelli realizzati proprio da aziende che godono già di una certa visibilità in rete. Aziende con alle spalle un team dedicato da anni alla gestione dei profili sociali aziendali, un team che aggiorna il corporate blog e le public relation, un team che si occupa dell’aggiornamento delle pagine del sito e dell’ottimizzazione SEO delle stesse, un team che

gestisce creatività e campagne di email marketing, ecc. Sviluppare la digital strategy per step permetterà anche di massimizzare i risultati raggiungibili per ogni singolo obiettivo prefissato nel corso del percorso. Per convincerti della bontà della mia tesi, ti porto un piccolo esempio. Supponiamo di realizzare un’infografica in ambito web marketing sullo stato dell’uso dei social media in Italia e che a svilupparla sia il mio team, Webinfermento, e una web agency appena nata. Oltre alla necessità di realizzare un prodotto di alta qualità, con una grafica eccezionale e ricca di informazioni di rilievo frutto di indagini accurate, bisognerà ospitare il prodotto su un blog e cercare di diffonderlo in modo da raggiungere alcuni obiettivi molto ambiti nel web marketing: condivisioni nei social media, traffico referente, acquisizioni di link ed esposizioni del brand. Sarà infatti il blog aziendale, lo strumento che rientra tra i media owned, a fare da cassa di risonanza anche per i contenuti d’impatto realizzati. Ora, nel caso di Webinfermento, con una community social interattiva costituita in cinque anni, il personal branding sviluppato da me e dagli altri autori e i tantissimi lettori abbonati ai feed RSS che leggono settimanalmente i nostri articoli, la diffusione dell’infografica avverrà in maniera del tutto spontanea. Non ci sarà neanche bisogno di effettuare attività di outreach e seeding (approfondirò più avanti questi aspetti) perché il contenuto verrà letto, condiviso nei social media, embeddato in altri blog e magari, come già avvenuto più volte, citato anche in eventi offline. Diversamente, la web agency sconosciuta non potrà godere di questa diffusione e successo naturale quasi garantito e, per sostenere lo stesso ritmo e raggiungere gli stessi risultati, dovrà investire in strategie di tipo push (di spinta) in campagne di advertising sui social media, nell’acquisto di campagne di pr online per la diffusione dell’infografica, nell’acquisto di spazi come articoli sponsorizzati in blog che andranno a pubblicarla e via dicendo. Con Webinfermento non avremo speso budget e tempo per la diffusione dell’infografica, cosa che invece avrà dovuto affrontare l’altra agenzia. Come puoi immaginare ci troveremo di fronte a una situazione in cui nel primo caso prevarrà una strategia di Inbound Marketing e nel secondo caso una di Outbound Marketing. Contenuti che “attirano” spontaneamente gli utenti interessati contro contenuti “spinti” verso gli utenti potenzialmente interessati. Lo scopo delle strategie di marketing riportate in questo libro è quello di

attirare spontaneamente il ritorno economico di quanto realizzato nel web dall’azienda attraverso la produzione e diffusione di contenuti e non quello di pagare per costruirlo. Qualche tempo fa, abbiamo voluto realizzare la Piramide dei Contenuti per strategie di SEO e Social Media, un’infografica schematica che rappresenta, sotto forma piramidale, la ripartizione di sforzi, frequenza di sviluppo e pubblicazione dei contenuti, i costi e l’efficacia delle strategie di content e social media marketing. Ogni strategia di content marketing, come puoi vedere, ha un obiettivo differente. Nella base piramidale dell’immagine troverai quei contenuti che è necessario produrre ogni giorno e che hanno l’obiettivo di informare e divertire. Pensiamo ad esempio agli aggiornamenti su Facebook e Twitter, ma anche alle risposte ai commenti. I livelli più bassi della piramide sono ampi e ciò significa che le strategie di Content Marketing riportate devono rappresentare la parte più importante e irrinunciabile per il piano editoriale di ogni azienda, ma sono anche quelle che richiedono un costo di sviluppo più basso. Pensa infatti che modificare un’immagine per brandizzarla o costruire un meme non richiede molto tempo, se non la disponibilità di un buon grafico. È inoltre un’attività che può essere svolta giornalmente. Di contro c’è però che i benefici di queste micro-strategie di content della base della piramide saranno di basso impatto, ma non per questo meno importanti. Salendo di livello, cambiano gli obiettivi, che puntano ora ad avere una maggiore risonanza tra il pubblico e a produrre risultati più rilevanti. Aumenta però anche il costo di sviluppo e di risorse coinvolte e diminuisce la frequenza di realizzazione di tali strategie, che sono sviluppabili in archi temporali più ampi. Nella parte più alta della piramide possiamo quindi trovare quei contenuti “premium” come infografiche, video-infografiche, video virali, ebook, ricerche settoriali, interviste a testimonial, blog tour, ecc., tutti contenuti che, seppur richiederanno alla marca maggiori sforzi creativi di sviluppo e originalità e costi superiori, produrranno quello che viene solitamente citato come effetto “wow”, ovvero quell’esclamazione di entusiasmo da chi resta realmente colpito e soddisfatto da contenuti realmente di qualità. Ti consiglio di stamparti la Piramide dei Contenuti e di averla sempre accanto a te.

La piramide dei Contenuti (fonte: Webinfermento)

5.1. Obiettivi di una strategia di Content Marketing

Ogni campagna di Content Marketing deve essere progettata e avviata soltanto quando si hanno bene in mente gli obiettivi da raggiungere. Nulla va improvvisato. Le risorse economiche richieste non sono poche e ogni risultato raggiunto dovrà poi essere misurato in termini di benefici apportati al brand. Diversi sono gli obiettivi perseguibili con una strategia di Content Marketing e ognuno di questi impatta su aree specifiche del web marketing. Ecco quelli più noti. 1. SPECIALIZZAZIONE SETTORIALE

Mostrare di essere esperti e competenti in una determinata area permette di sviluppare la fiducia negli utenti che può poi trasformarsi in una vera scelta d’acquisto. L’utente si fida più di un’azienda che dimostra di avere esperienza in quello che fa piuttosto che di una che non ha nulla da dimostrare. Ottimi contenuti per dimostrare la propria competenza in materia sono gli articoli pubblicati sul corporate blog, le recensioni di chi è già stato cliente pubblicate sul sito, ma anche gli aggiornamenti e le risposte ai commenti nei social media e i commenti di qualità e che condividono conoscenza, lasciati su altri blog del settore. 2. ACQUISIZIONE DI LINK

Il Content Marketing è anche un’ottima strategia SEO per acquisire link in entrata. Sappiamo quanto importanti siano i link esterni per un sito web; nonostante le innumerevoli evoluzioni algoritmiche dei motori di ricerca, i link esterni, soprattutto se tra pagine a tema e con alto valore, sono infatti i più importanti fattori di ranking utilizzati dai motori per assegnare un punteggio alle pagine web. I contenuti eccezionali hanno l’indubbio vantaggio di riuscire ad attirare l’attenzione di utenti, blogger e testate online che possono decidere di ripubblicare il contenuto nei loro siti linkando il sito dell’azienda che l’ha prodotto. Più link vengono acquisiti, migliore sarà il posizionamento per le parole chiave di interesse. Un miglior posizionamento corrisponde ad un aumento del traffico e, come potrai immaginare, ad un aumento delle vendite. 3. ENGAGEMENT E CONDIVISIONI NEI SOCIAL MEDIA

I contenuti sono utili a generare interazioni all’interno e all’esterno dei social media. Abbiamo infatti visto come la scelta e la cura dei migliori contenuti in un piano editoriale per i social media sia fondamentale per la generazione del valore. Nei social media, alle aziende interessa sviluppare interazione e questa

determina anche la diffusione del brand tra utenti accomunati dagli stessi interessi. Sono infatti tanti i casi di status update, foto e link postati pubblicamente da utenti o pagine Facebook divenuti poi virali. Stessa cosa è accaduta su Twitter e su YouTube. La connessione tra contenuti e social media non finisce però qui! Quante volte hai visto un contenuto pubblicato su qualche blog o sito web diventare virale su Facebook? Ti posso assicurare che se riesci a creare un contenuto virale che parte da una pagina web esterna ai social media, il 99% delle volte questo ti garantirà migliaia di accessi al sito web, acquisizione di link in entrata dovuti al fatto che il contenuto viene ripubblicato in altri siti o blog a tema e diffusione della brand awareness. Il tutto darà vita a un graduale miglioramento e aumento delle vendite. Ti racconterò più avanti un caso di successo di marketing virale con i contenuti al quale ho lavorato. 4. POSIZIONAMENTO DI MERCATO

Ogni settore di mercato è suddiviso in sottoaree, nicchie e micro-nicchie. Ognuna di questa è lucrativa, altrimenti non avrebbe una sua realtà nel web. Ogni nicchia è poi popolata da decine di migliaia di aziende grandi o piccole che competono tra loro per riuscire a piazzare, al miglior rapporto costoricavo, il prodotto nella mente dei consumatori prima, e nelle loro mani poi. Alcune aziende sono in grado di bruciare la concorrenza semplicemente disponendo di prodotti eccezionali che arrivano ai consumatori senza complesse iniziative di marketing. Queste, tuttavia, rappresentano soltanto la minoranza. La gran parte delle marche dispone infatti di un’offerta produttiva di qualità ma che necessita di essere percepita come tale prima di essere consumata dai clienti. Ricorda infatti che il potenziale acquirente è conscio dell’esistenza di un vasto ventaglio di alternative e sa benissimo che ogni azienda può dichiarare di disporre della migliore offerta che soddisfa i suoi bisogni. La sua scelta però ricadrà soltanto sull’offerta produttiva di un’unica azienda. In questo caso i contenuti possono fare la differenza e consentono di catalizzare l’attenzione dell’utente verso un’azienda anziché le altre. Basti pensare al blog aziendale: le aziende che lo usano correttamente scrivendo articoli di qualità, generando un buon numero di condivisioni e con al seguito un buon numero di utenti iscritti ai feed sono ancora molto poche. I contenuti possono quindi essere posizionati nella parte iniziale dell’imbuto che rappresenta il percorso di acquisto di un consumatore, ovvero nello stadio

di scoperta e primo contatto di un utente e futuro potenziale acquirente con l’azienda. Starà poi ad altre strategie di web marketing, come la lead generation portata avanti con i social media o con l’email marketing, “coltivare” l’utente accompagnandolo alla conversione finale. 5. AUMENTO DELLE VENDITE

Sì, voglio proprio dire che il Content Marketing è una strategia che fa aumentare il fatturato di un’azienda. La somma dei quattro punti visti prima permette infatti al sito web principale di aumentare il suo traffico complessivo, grazie alle ricerche sui motori, ai contenuti condivisi sui social, agli articoli dei blog e ai blog che parlano dei contenuti realizzati dall’azienda, attraverso link al sito web. Dobbiamo immaginare il sito web istituzionale di un’azienda come l’hub centrale sul quale deve convogliare tutto il ritorno delle azioni di Content Marketing effettuate. Seppure sia una semplificazione, il ROI del Content Marketing nel web è spesso rappresentato dal traffico; più traffico guadagna l’hub centrale, più sarà naturale e consequenziale l’aumento delle vendite dal sito. Certo, tutto questo a patto che l’esperienza di navigazione e acquisto dell’utente sul sito sia usabile e accessibile, altrimenti i tuoi dati di Analytics registreranno percentuali altissime di utenti che abbandoneranno il sito senza compiere alcuna azione. In figura puoi vedere quali sono gli obiettivi delle campagne di Content Marketing in America, secondo una indagine di Curata.

Fonte: Curata’s 2014 Content Marketing Tactics Planner

5.2. Come scegliere il target di riferimento e gli argomenti da sviluppare Quando si sviluppa un piano di Content Marketing per i social media, il corporate blog o altre azioni di Inbound Marketing, bisognerebbe sempre prendere in considerazione le due macro-categorie di soggetti a cui rivolgersi. Da un lato ci sono gli utenti, nostri potenziali clienti e ai quali vorremmo concentrare la nostra attenzione; dall’altro lato ci sono gli influencer, che non dobbiamo mai sottovalutare, perché anche loro, indirettamente, possono contribuire ad aumentare il nostro fatturato. Per comprendere il target a cui rivolgerci è necessario quindi prima definire gli obiettivi della nostra campagna di Content Marketing. Le domande che solitamente ti porrai in questa fase del percorso saranno due: 1. cosa devo cercare? 2. a chi mi devo rivolgere? A partire da queste due domande, non ti nascondo che sarai obbligato a eseguire una lunga ricerca di dati e di informazioni che dovrai poi analizzare per individuare il buyer persona dei contenuti della tua azienda. Devi immaginare il buyer persona come quell’utente che, indipendentemente dal fatto che acquisterà o meno il tuo prodotto, avrà motivo di entrare in contatto con i contenuti che creerai per la tua azienda. Dovrai quindi comprendere sia come questa persona ricerchi informazioni, discuta e valuti prodotti e servizi sia con quali contenuti settoriali interagisca, che vanno poi ad influenzare la sua decisione d’acquisto. Il miglior modo per iniziare è quello di CAPIRE IL MODO IN CUI IL TUO CLIENTE HA ACCESSO ALLE INFORMAZIONI. Il nuovo cliente può infatti farti comprendere il modo in cui è arrivato a scegliere la tua offerta, quale percorso di navigazione ha seguito, quali alternative ha valutato, a partire da quale canale ti ha notato, ecc. In questo caso non c’è miglior strumento da utilizzare delle INTERVISTE. Queste possono essere svolte già sul sito web, subito dopo che l’utente ha compilato il form sul sito, chiedendogli semplici informazioni, oppure con l’invio di una email successiva all’acquisto di un prodotto. Più complessa e onerosa, ma comunque più utile al reperimento di informazioni dettagliate, è l’opzione di rivolgersi ad un’agenzia per l’esecuzione di una ricerca di mercato settoriale.

Tra le domande a cui rispondere devi considerare sicuramente se i buyer persona: 1. seguono le marche nei social media e interagiscono con i loro post 2. leggono articoli di blog settoriali 3. si abbonano ai feed RSS dei blog 4. amano ricevere servizi di newsletter 5. per usufruire di contenuti settoriali, utilizzano principalmente un pc o un dispositivo mobile e in quali momenti della giornata (al lavoro? a casa? nelle pause? nel weekend? ecc.) 6. accedono ai contenuti tramite buzz online o perché iscritti a community di settore, come forum, o gruppi nei social media 7. ricercano l’informazione scegliendola tra le diverse fonti organiche a disposizione o se l’advertising ha un ruolo nella scoperta di questi contenuti. Un’altra utile fonte di informazioni è quella di cercare di CAPIRE A QUALI ARGOMENTI È INTERESSATO IL TUO TARGET. Le domande da porre in questo caso sono: 1. quali contenuti sta consumando? 2. perché sta consumando quei contenuti? 3. quali formati di contenuto preferisce? Ci sono diversi modi per reperire questi dati. Puoi iniziare chiedendo ad alcuni tuoi amici quali argomenti e formati consultano per valutare l’acquisto di un prodotto, ad esempio, legato all’elettronica. Il metodo migliore resta però quello di analizzare i propri dati di WEB ANALYTICS del sito ma anche le statistiche dei profili sociali. A livello di Web Analytics ci interesserà ad esempio sapere quali sono i prodotti più venduti nel caso di e-commerce, quali gli articoli più letti, quali quelli più condivisi nei social media e quelli che generano più commenti nel caso di un blog e via dicendo. Ti faccio un esempio pratico: l’idea per l’infografica Sesso e Cibo – Istruzioni per l’uso, diventata un contenuto virale e che verrà ripresa più avanti nel caso di studio, è venuta proprio dal fatto che i dati di Web Analytics dello shop dell’erboristeria online mostravano come i prodotti più richiesti e venduti

fossero proprio degli integratori utili alla vita sessuale di coppia. Informazioni come queste, per quanto importanti, non devono però essere le uniche a cui guardare, ma dovrai invece estendere la tua ricerca partendo dal dato appreso, per arrivare a capire quello che cercano e acquistano i tuoi attuali utenti sul sito della tua azienda. Altro consiglio che ti do è quello di ordinare, nel tuo Google Analytics, le pagine del sito per traffico complessivo e traffico proveniente dai social network: sarà un indicatore utile per capire quali sono gli argomenti più apprezzati dal tuo pubblico. Anche i canali sociali dell’azienda possono rivelarsi fonti preziose di informazioni. Spesso infatti saranno gli stessi utenti, con i loro commenti o direct message nell’account Twitter o nella pagina Facebook aziendale, a far emergere informazioni dalle loro richieste. Ad esempio la disponibilità di determinati prodotti, i loro stessi gusti o tendenze. Dovrai iniziare a raccogliere e categorizzare tutte queste informazioni, assegnandogli un punteggio in funzione del loro peso in termini di utilità e rilevanza rispetto all’idea di contenuto che hai in mente. Ogni contenuto ideato, tuttavia, dovrà possedere alcuni attributi che saranno utili a distinguerne l’appeal e le potenzialità che gli consentiranno di fare presa sul pubblico target a cui sarà destinato. L’idea alla base del contenuto deve quindi essere: SEMPLICE

Un’idea ha successo se è semplice da spiegare e raccontare. Non ti scervellare nello sviluppo di idee complesse che potranno magari essere comprese solo da ingegneri super specializzati. Il pubblico è composto da utenti semplici che amano fruire dei contenuti senza dover impazzire per comprenderne il significato. INATTESA

Un’idea che non ti aspetti di vedere realizzata semplicemente ha più propensione a raggiungere il successo. Un’idea che rompe gli schemi e apporta qualcosa di diverso o controverso diventa qualcosa che difficilmente ti aspetteresti di vedere. Nel caso dell’infografica Sesso e Cibo: istruzioni per l’uso l’idea inattesa è stata proprio quella di rompere gli schemi con delle vignette che rappresentassero in maniera comica le principali posizioni del sesso, ma senza scadere nel volgare, fornendo anche un aspetto informativo

correlato; in più, sicuramente nessuno si sarebbe aspettato di vedere un contenuto e un’idea del genere realizzati da un’azienda. PER CREARE IDEE INATTESE DEVI ANCHE ESSERE IN GRADO DI OSARE. CREDIBILE

Se pianifichi di sviluppare un’idea di contenuto dovrai anche fare molta attenzione all’attendibilità dei dati e delle informazioni che raccoglierai. In caso contrario, lo stesso contenuto potrebbe trasformarsi in un’arma boomerang in grado di danneggiare la reputazione e la stessa credibilità dell’azienda. EMOZIONALE

Se l’idea del tuo contenuto suscita uno stato d’animo, stupisce, informa e, più in generale, diventa facile da ricordare per l’utente, allora avrà maggiori possibilità di essere condivisa nei social media, consigliata ad altre persone o essere ripresa in altri blog. IN GRADO DI RACCONTARE UNA STORIA

Proprio come le fiabe che ti raccontavano da bambino, il contenuto che ha successo e suscita emozioni nell’utente è solitamente quello che racconta una storia. L’uso delle storie per descrivere un’idea con informazioni e dati rilevanti permette all’utente di assimilare più facilmente i concetti che vorresti fargli apprendere. La storia farà da contorno all’informazione che vuoi trasmettere. Proprio come la cosiddetta “morale della favola”. Ho chiesto a Gianluca Fiorelli di spiegare meglio il significato di Audience Targeting e di evidenziarne i benefici.

Gianluca Fiorelli AUDIENCE TARGETING: SIGNIFICATO E BENEFICI Con audience targeting si intendono tutte quelle azioni il cui scopo è “prendere di

mira” l’utenza, ovvero quel segmento della popolazione che un’azienda considera come potenziale consumatore dei suoi prodotti o servizi, ed è la prima e fondamentale fase di ogni azione di marketing, non solo del web marketing. Infatti, se un’azienda non è in grado di individuare la propria utenza e targetizzarla con prodotti, comunicazione e quant’altro, tutte le azioni di marketing, e, direi, anche il suo stesso business plan, sono destinate al fallimento. A livello di marketing, la fase di individuazione dell’utenza si definisce come audience analysis, e il risultato finale è la profilazione delle differenti sfaccettature che compongono l’audience globale di un’azienda. Queste sfaccettature si definiscono Personas (anglicismo dal latino Personae). Le personas sono dei veri e propri identikit, che presentano le caratteristiche sociodemografiche, culturali ed economiche di un segmento dell’utenza globale. Per esempio, un’azienda che vende strumenti musicali può avere queste Personas come target: 1. musicisti professionisti, attenti alla qualità degli strumenti musicali, che sanno distinguere i pregi e difetti di un prodotto 2. musicisti non professionisti, che non hanno fatto della musica la loro professione, e che dal suonare un pianoforte o una chitarra cercano solamente piacere 3. i genitori che vogliono offrire ai propri figli un’educazione musicale. Come vediamo, tre differenti sfaccettature di un’utenza più ampia (persone amanti della musica), che hanno interessi propri e distinti, tanto che sarebbe miope targetizzare queste tre personas con lo stesso messaggio. Questo significa che quanto più è mirato il targeting tanto più efficace è la comunicazione che un’azienda ha verso la sua utenza. L’azienda che vende strumenti musicali, quindi, dovrà creare contenuti o addirittura linee di prodotto ad hoc per ogni “persona” che ha individuato durante l’audience analysis. Le personas di cui abbiamo parlato finora si definiscono come buyers personas, ovvero persone che nel loro insieme rappresentano l’intero spettro dei potenziali clienti di un’azienda. Esiste, però, anche un secondo tipo di “persona”: l’audience persona. L’audience persona è composta da tutte quelle persone (intese qui in senso letterale), che pur non necessariamente interessate ai prodotti/servizi che un’azienda vende, hanno il potere di influenzare le buyers personas. Per esempio, l’audience personas della nostra azienda di strumenti musicali potrebbero essere: 1) musicisti/concertisti famosi, direttori d’orchestra, critici musicali ecc. 2) professori di musica, pedagoghi, psicologi infantili. È meglio targetizzare i contenuti per i propri utenti/clienti o per i blogger influencer settoriali? Secondo me si dovrebbe targetizzare il contenuto verso entrambi, o comunque essere

capaci di targetizzare entrambi allo stesso tempo, anche se non necessariamente con lo stesso contenuto. Ricorda che “contenuto” non è solamente quello che normalmente si prende in considerazione quando, per esempio, parliamo di Content Marketing (post, guide, infografiche, video ecc.), ma tutto quello che compone un sito e l’identità online/offline di un’azienda. Tutto è contenuto, anche i prodotti! Facciamo un’esempio pratico: un portale di Luxury Travel. Un portale di quel tipo se si concentrasse solo nel targetizzare esclusivamente blogger e influencer, sicuramente avrebbe il vantaggio che quel tipo di endorsement può offrire, però se allo stesso tempo non cura con la stessa attenzione i contenuti indirizzati direttamente verso chi alla fine genera conversioni, allora – per trust e traffico che gli influencer e i blogger possono apportare – gli obiettivi di business non saranno necessariamente raggiunti. Al contrario, se ci si concentra esclusivamente nel targetizzare le buyers personas, allora il raggiungimento degli obiettivi sarà possibile, ma solo in tempi medio/lunghi, tali da non poter essere considerati sopportabili dal punto di vista di puro business aziendale. Per questi due motivi chiedere di scegliere è sbagliato. Non si deve scegliere l’una o l’altra cosa, ma fare entrambe.

5.3. La raccolta di dati e di informazioni per lo sviluppo delle idee Una volta che avrai definito l’idea da sviluppare, è necessario passare alla raccolta delle informazioni. Qui i canali a disposizione sono tanti; potenzialmente tutto il web potrebbe contenere dati, ricerche e informazioni rilevanti che potrebbero esserti utili. Non ti conviene tuttavia perderti nei suoi oceani infiniti ma avere delle linee guida da cui partire. Inizia dalle informazioni che possiedi e che ti sono facili da reperire. Spesso le idee più utili che si trasformano in contenuti di successo partono proprio dall’analisi dei dati del proprio target a disposizione. Guarda quindi nei dati della piattaforma di Web Analytics alla ricerca di informazioni come: le pagine web più visitate i prodotti più venduti le pagine del sito o i post del blog più condivisi nei social media. Passa poi all’analisi dei tuoi account dei social media e del customer service della tua azienda. Quali sono le richieste più frequenti e quali i prodotti o gli stessi micro-contenuti più apprezzati?

Compiuto questo step, analizza i tuoi principali competitor per raccogliere le stesse informazioni che hai ottenuto per la tua azienda. Già dall’analisi di questi dati abbiamo delle informazioni che possiamo sviscerare e approfondire ampliandole, avvalendoci di altri strumenti. Ora inizia a stilare un insieme di idee sviluppate dall’analisi dei dati raccolti e confronta i loro volumi di ricerca su tool gratuiti come Google Trends a livello macro e Google Keyword Planner per stimarne il traffico e l’interesse. Considera che un’idea di contenuto ha successo sia se tratta un argomento che è di costante interesse nel tempo, sia se tratta un trend d’interesse temporaneo. In questo caso bisognerà anche essere tempestivi e sviluppare un’idea di contenuto sfruttando il periodo in cui un determinato trend, che in qualche modo può essere legato al nostro business, si manifesta. Potresti ad esempio tenere d’occhio i social media, spesso inesauribile fonti d’ispirazione. Facebook, per esempio, da qualche tempo fa comparire nel Newsfeed i trend degli argomenti più dibattuti e condivisi sul social network, mentre su Twitter esistono ormai da tempo i trending topic e su Google+ ci sono i temi caldi.

Un esempio di trending topic su Facebook

Puoi anche utilizzare una piattaforma di Sentiment Analysis per monitorare le conversazioni nei social media facendo attenzione a determinati argomenti di tuo interesse. Ti può essere utile sapere che, da una ricerca effettuata da Klout, sono stati

evidenziati gli argomenti che suscitano maggiori reazioni su Facebook e Twitter che, tranne qualche sfaccettatura, sono perlopiù gli stessi argomenti. Lifestyle, entertainment e food sono i macro argomenti più dibattutti nei social media. Molto utile conoscerli per farsi un’idea di massima su quali sono le tematiche macro che più si prestano al buzz e alla condivisione.

Fonte: Klout.com

Google Zeitgeist mette a disposizione inoltre quelle che sono state le ricerche più effettuate sul proprio motore nel corso dell’ultimo anno.

Fonte: google.it/trends/2014

Andando a scavare tra i trend, ti accorgerai che spesso ciò che produce un trend di ricerca è la condivisione di una notizia che introduce aspetti nuovi relativi a un determinato argomento, resi pubblici per la prima volta e che prima non si conoscevano e che dietro tutto c’è una nuova ricerca fatta da qualche Università o istituto di ricerca. L’ideale per la tua azienda sarebbe quindi essere l’ideatrice di una ricerca che evidenzia nuove informazioni per la tua nicchia di riferimento. I benefici sarebbero veramente tanti ma, come puoi immaginare, realizzare una ricerca settoriale richiede tempi, costi e risorse ingenti. Per prendere ispirazione per lo sviluppo di un’idea puoi anche analizzare qualcuna delle ricerche già effettuate da altri enti o istituti e disponibili per la consultazione al sito web archives.org, che offre un corposo database di ricerche che possono essere utilizzate per il reperimento di dati e informazioni, sempre dietro autorizzazione dell’istituto titolare. Infine, un utilissimo tool che voglio consigliarti è Mention, che permette di creare degli alert specifici per monitorare le conversazioni che avvengono nei social media su determinate parole chiave da te indicate.

Fonte: Mention.com

5.3.1. Ideare un contenuto per la SEO. L’esempio di Zalando.it Quando pianificherai la creazione di un contenuto, soprattutto uno di quelli che ho definito “premium” e che si trovano nella parte più alta della Piramide dei Contenuti, non potrai fare a meno di avere un occhio di riguardo per la SEO. Come vedremo più avanti, i contenuti possono anche essere utilizzati per fare Link Earning, ovvero per acquisire link in entrata al proprio sito web, grazie alla condivisione di contenuti con blog e siti web tematici interessati alla loro pubblicazione. In questo caso è molto importante anche pensare all’ideazione di un argomento, che oltre a essere utile all’utente e ai blog a tema, possa essere valido anche per i motori di ricerca e quindi pensare a potenziali argomenti correlati alle parole chiave principali utilizzati dal sito web dell’azienda. Un ottimo esempio viene da Zalando Italia, che ha costruito tre differenti infografiche che avevano l’obiettivo di informare il lettore, i fashion blog e i potenziali acquirenti di Zalando su storia e curiosità varie sul mondo delle scarpe. I contenuti sviluppati sono stati: la tavola periodica delle scarpe da donna tutti pazzi per le scarpe la prima videoinfografica sulla storia delle scarpe.

Come puoi vedere, ogni contenuto utilizza un formato differente: c’è un’infografica statica, una interattiva e una video-infografica. Ogni idea di contenuto affronta anche un argomento differente: una ti parla delle scarpe da donna un’altra di curiosità legate al mondo della scarpe l’ultima ti racconta la storia delle scarpe. Tutte e tre condividono però una cosa: la parola chiave “scarpe”. Ora, sappiamo benissimo che il prodotto “scarpe” è il focus di un big brand come Zalando, ma anche che esistono tanti brand che competono per quella parola chiave. Un modo per ottenere link in entrata che rafforzino, anche in funzione dell’anchor text del link, il posizionamento di Zalando per parole chiave come “scarpe, scarpe online, negozi scarpe online, marche di scarpe” ecc. è quello di ideare e sviluppare contenuti allineati (anche) alle parole chiave di interesse. In questo caso, Zalando ci riesce alla perfezione. Vediamo infatti che il title tag (il più importante fattore di posizionamento SEO On Site) della homepage di Zalando è:

Da qui capiamo già che “abbigliamento” e “scarpe” fanno parte delle main money keywords di Zalando. Da un strumento come Semrush, vediamo anche quali sono le principali keyword organiche che producono maggiore traffico al sito. Come puoi vedere, molte di queste sono legate alla parola principale “scarpe”.

Fonte: it.semrush.com

Ti starai forse domandando dov’è la connessione?

La connessione è proprio nel fatto che Zalando ha realizzato contenuti eccezionali che, oltre a essere di utilità per i propri follower nei social media, per gli acquirenti e per i blogger, sono di utilità anche per il posizionamento organico del sito. Molti dei blog che poi ne andranno a parlare, condividendo in un loro articolo il contenuto, utilizzando magari l’embed code presente, linkeranno la fonte originale utilizzando anche la parola chiave “scarpe” per richiamare il contenuto. L’anchor text di un link in entrata, ovvero il testo sul quale è inserito il collegamento ipertestuale, è infatti ancora il fattore di posizionamento SEO più importante in assoluto per Google e se qualcuno dei blogger ha ripubblicato uno dei contenuti di Zalando inserendo poi dei link su testi come “Zalando e la storia delle scarpe”, oppure “le curiosità di Zalando sulle scarpe” va a rafforzare la tematica e la rilevanza del sito Zalando per la parola chiave “scarpe”. In realtà il benefit lo si avrà anche se non verrà linkata la fonte utilizzando per forza nel testo del link la parola “scarpe”. Questo perché anche soltanto citando il brand con un link sulla parola “Zalando”, il testo di contorno utilizzato dal blogger creerà una certa associazione di rilevanza semantica tra l’argomento e il contenuto linkato.

Un esempio di backlink esterno da parte di un fashion blog che cita uno dei contenuti realizzati da Zalando

Se finora ti ho soltanto confuso non temere, l’argomento SEO e Content Marketing verrà ripreso più avanti. Se sei interessato a conoscere meglio le tattiche di Link Earning con i contenuti di Zalando, ti consiglio di leggere l’intervista che feci al SEO Manager sul mio blog. 5.3.2. Altri tool per l’ideazione di contenuti Ti consiglio di utilizzare un tool gratuito come WikiMindMap che permette di esplorare gli argomenti correlati a quello di tuo interesse utilizzando i link ipertestuali presenti nelle pagine Wikipedia. Utilizzarlo è semplicissimo: basta scegliere la lingua a cui i risultati provenienti da Wikipedia faranno riferimento, inserire la parola chiave da cui partire ed ecco che verranno mostrate idee esplorabili per le quali ideare dei contenuti. Solitamente utilizzo questo strumento soltanto dopo che ho bene in mente quali sono gli argomenti che ho scelto in funzione di tutta l’analisi delle

informazioni e i dati raccolti in precedenza. Ciononostante, non è escluso che possa essere utile servirsene anche in fase iniziale di raccolta di idee.

Fonte: Wikimindmap.org

Nell’esempio in figura trovi una ricerca restituita per la parola chiave “Poker”. Sì, un argomento sensibile e un settore tra i più competitivi nel web, anche per la definizione di idee di contenuto. Però anche soltanto utilizzando WikiMindMap ci vengono forniti degli argomenti correlati sui quali si potrebbero sviluppare contenuti e che coinvolgono aree di argomenti verticali e correlati. Come utilizzare le informazioni di WikiMindMap? Rimanendo sempre nell’esempio del poker, se hai un sito affiliato nel settore del poker online – alta competizione ma anche alto rendimento se ti posizioni al top su Google – e intendi realizzare un contenuto informativo per blogger e giocatori di poker, potresti puntare sullo sviluppo di contenuti come un’infografica sulla storia del poker o, ancora, una su tutte le varianti del poker oppure sui tornei legati al mondo del poker. Ti lascio infine una serie di link a risorse utili che potrai consultare per trovare idee di argomenti da sviluppare: The United Kingdom’s Open Data Project: data.gov.uk Dati provenienti dal governo statunitense: data.gov, census.gov e bls.gov/cex

Google Public Data: google.com/publicdata/directory Google Consumer Surveys: google.com/insights/consumersurveys/home Topsy, il miglior motore di ricerca per Twitter: topsy.com Bottlenose: bottlenose.com Fresh, un tool di Buzzfeed per trovare trending topic, persone ed emozioni sui social media: fre.sh Quora, con una bella discussione su dove trovare dati di ricerche pubbliche: quora.com/Data/Where-can-I-find-large-datasets-open-to-the-public.

6. Content Production Produci contenuti di successo

Come hai visto prima, puoi produrre diverse tipologie di contenuto a seconda degli obiettivi che la tua azienda intende raggiungere. Ti propongo anche questa matrice dei contenuti realizzata da Distilled, che divide i contenuti in funzione sia degli obiettivi aziendali sia della tipologia di impatto che hanno sul pubblico. Nelle pagine seguenti analizzeremo alcune delle principali tipologie di contenuti presenti anche in questa matrice.

Fonte: Distilled.net

6.1. La produzione di contenuti inizia dal tuo sito Potrà sembrarti strano, ma mi è capitato più volte di vedere infografiche bellissime realizzate da qualche azienda e poi, incuriosito, andare sul loro sito principale e vedere un’immagine coordinata totalmente differente – solitamente in peggio – per il loro sito web. Se si fa realizzare un’infografica con molto appeal o un video da un grafico o un’agenzia esterna, si presuppone che anche l’immagine coordinata dell’azienda sia già di qualità e in linea con i contenuti che verranno prodotti.

Per questo motivo, prima di partire con la realizzazione di un fantastico video che speri diventi virale, concentrati sul miglioramento grafico e contenutistico delle pagine web del sito della tua azienda. PENSA ALLA HOMEPAGE

Evita popup che distraggono l’utente, semmai pianificali in funzione dello scorrimento di una pagina, ma, fossi in te, io li eviterei proprio. È uno strumento che reputo fastidiosissimo e che va contro il principio dell’inbound Marketing. Se approdo sul tuo sito cercando un rivenditore di scarpe della Nike non voglio vedermi proposto, al mio arrivo, lo sconto per acquistare le scarpe della Reebok. Non è quello che sto cercando. Non è quello il motivo per cui ho scelto il tuo sito tra quelli proposti nei risultati di Google. Crea fiducia nell’utente che approda sulla tua homepage. Inserisci elementi che testimoniano la tua affidabilità sul campo e la qualità del prodotto. Pensa a testimonianze dei clienti illustri o, se possibile, sfrutta la presenza di un personaggio famoso. Mostra, inoltre, i social network nei quali la tua azienda è presente e attiva. Permetti sempre di contattarti in modo semplice e veloce, anche in real time (usa WhatsApp) e inserisci una sezione di risposta alle domande più frequenti circa i tuoi prodotti. Sfrutta infine la tua homepage per comunicare all’utente, potenziale cliente, nei primissimi secondi, quali sono le caratteristiche distintive del tuo prodotto rispetto alla concorrenza, quali i reali punti di forza e per quale motivo dovrebbe scegliere la tua azienda. PENSA ALLE TUE PAGINE PRODOTTO

Soprattutto se la tua azienda vende online. La creazione di pagine prodotto dettagliate, utili, di facile fruizione e ricche di elementi che denotano fiducia, sono utili all’utente per portare a termine il proprio acquisto e si rivela essere spesso lo step finale che segna la conversione dell’utente verso l’acquisto di un prodotto. Prendi spunto dalle pagine prodotto di Amazon e, più in generale, dalla strutturazione delle categorie del suo immenso sito. Come vedrai, nelle loro schede prodotto non manca proprio nulla. Troverai infatti: titoli, immagini e descrizioni efficaci

il numero di recensioni degli utenti la disponibilità e le facilities per riceverlo il prima possibile offerte speciali e promozioni offerte speciali per acquisti cumulativi di prodotti correlati i prodotti correlati a cui guardano gli utenti che acquistano quello che stai cercando i dettagli del prodotto la possibilità di condividere il prodotto sui social, il carrello per l’acquisto e le condizioni per i pagamenti e le spedizioni. Una scheda prodotto davvero completa.

Un esempio di scheda prodotto di Amazon (fonte: Amazon.it) ARRICCHISCI LA PARTE INFORMATIVA DEL SITO

Pensa a dei video che spieghino come utilizzare il prodotto e tutti gli usi, anche i più creativi, che permetterà di effettuare. Aggiungi anche pagine web che forniscano consigli utili su come sfruttare i prodotti. Come ho detto, il Content Marketing, anche quello creativo, parte proprio dal tuo sito web.

Un esempio di contenuto creativo (il video) che mostra le diverse utilità del prodotto (fonte: Bellroy.com)

6.2. Content Marketing Machine: la regola del 70-20-10 Quando progetti un piano di contenuti, per tutti gli obiettivi e KPI6 che hai definito per la tua azienda, devi strutturarne la pianificazione e lo sviluppo secondo la regola del 70-20-10. Dovrai progettare e costruire una macchina “sforna contenuti” che si auto-alimenti in modo costante e produca valore nel tempo per la tua azienda. Questa, più che una regola, è una buona pratica nel Content Marketing ormai nota da tempo a molti addetti ai lavori, molto simile alla struttura della Piramide dei Contenuti che hai visto prima. Consiste nella ripartizione di tempo, risorse e sforzi in tre macro-aree di contenuti. Il 70% DEI TUOI SFORZI dovrà essere dedicato a quei contenuti che dovrai produrre sempre e in modo costante e faranno parte di quegli argomenti indispensabili per creare e diffondere valore. Tra questi rientrano i post del blog aziendale, gli aggiornamenti nei social network, le newsletter informative, ecc. Anche se potresti pensare che questi contenuti non producano risultati apprezzabili, in realtà stai sbagliando. L’effetto dell’Inbound Marketing è proprio quello di produrre ritorni quando meno te l’aspetti. Potrebbe

beneficiarne il rapporto con i tuoi potenziali clienti, quelli che finora seguono la tua azienda solo nei social, perché troverebbero contenuti di valore, informativi o coinvolgenti con cui riesci a posizionarti nelle loro mappe mentali e a porti come valida alternativa di scelta nella matrice dei competitor presenti nella tua nicchia. Potresti anche essere citato, ripreso da qualche blog tematico perché gestisci egregiamente i social media della tua azienda o hai sviluppato una newsletter creativa. Questo potrebbe valerti anche l’acquisizione di backlink in entrata. Al mio team è capitato di realizzare dei meme divertenti e sempre contestualizzati alle nostre tematiche. Uno di questi è stato poi ripreso da un importante sito a tema che ha citato la fonte linkando il nostro blog, con un ottimo link “dofollow”7.

Fonte: Webnews.it IL 20% DEL TUO TEMPO dovrai investirlo nella pianificazione di contenuti

d’impatto superiore, che richiedono tempi di sviluppo maggiori e ai quali dovrai dedicare solo una piccola parte dei tuoi sforzi, risorse e competenze. Pensa a questa tipologia di contenuti come alla realizzazione di un video, di alcune infografiche complesse, di un ebook, di un concorso a premi, ecc.

Infine, IL 10% DEL TUO TEMPO dovrai destinarlo all’ideazione di qualcosa di veramente geniale e grande che diventi una risorsa evergreen. Non si parla più di una semplice infografica ma di un contenuto utilizzabile realmente, meglio se interattivo. Un esempio è dato dalle visual map che permettono l’esplorazione di determinati fenomeni in alcune aree geografiche, come quello di disastri climatici come terremoti, uragani, alluvioni, ecc. Questa tipologia di contenuti, benché possa essere realmente onerosa e complessa da sviluppare, beneficierà di maggiori ritorni di investimento in termini sia di presa sul pubblico e sui media, sia di ritorni positivi sul brand in termini di immagine, condivisione nei canali sociali e acquisizione di link in entrata.

Un esempio di visual map che permette di esplorare, in modo interattivo, l’evoluzione degli uragani in America (fonte: Wunderground.com)

6.3. Tipologie di contenuti 6.3.1. Micro-content per i social media Il termine micro-content è stato suggerito dal sito americano Visually, una delle più popolari gallery per la creazione e diffusione di infografiche, e si riferisce appunto ai micro contenuti, che andrebbero creati e curati per dare visibilità a contenuti più grandi per attirare l’attenzione dell’utente nei social

media, incuriosirlo e spingerlo ad un click per approfondirlo. Possiamo dire che sono le immagini di anteprima di contenuti più complessi e informativi che possono essere utilizzate per promuovere questi ultimi. Solitamente vengono ideati e pensati proprio per essere utilizzati nei canali sociali di un’azienda, evitando così di limitarsi all’utilizzo dell’immagine estrapolata dai meta dati dell’open graph di Facebook, che ripropone solitamente l’immagine inserita nel post di un blog. In figura, Visually mostra come è possibile creare un micro-contenuto di anteprima di un’infografica più corposa e complessa, da utilizzare per la diffusione dell’infografica tra blog e social media, utilizzando una call-to action a mio avviso molto efficace, che invita proprio gli utenti a condividere il micro-contenuto – al quale sarà allegato un link che rimanda all’infografica completa – se si ritengono inaccettabili alcune informazioni emerse dall’indagine presentata nell’infografica. Se l’argomento è controverso e desta stupore e sensibilità, vedrai che le condivisioni sociali saranno tantissime.

Fonte: Visual.ly

Non finisce qui però. Se hai tempo da investire, potresti anche pensare di realizzare tanti micro-contenuti differenti per promuovere il macro-contenuto nelle varie piattaforme sociali. Se, ad esempio, vuoi dare visibilità a un’infografica anche su social media visuali come Instagram o Vine potrai

realizzare mini video di anteprima della stessa. Ecco un altro bell’esempio da Visually.

Fonte: Visaul.ly

Puoi utilizzare i micro-contenuti per spingere articoli del tuo blog. Ecco un esempio di micro-contenuto utilizzato per diffondere un articolo di Webinfermento.

Fonte: Facebook.com

Come creare i micro-contenuti per i social media? Sicuramente il modo migliore di farlo è quello di chiederlo al tuo grafico di fiducia! Tuttavia, ci sono alcuni tool che potrebbero aiutarti in quest’opera. Tra questi ti consiglio: Canva (canva.com), che permette a chiunque di creare immagini e template grafici in pochi minuti Picmonkey (picmonkey.com), per editare immagini inserendo temi e font personalizzati e divertenti Over (madewithover.com), che ti permette di editare immagini direttamente dallo smartphone aggiungendo testi e artwork

Videohance (videohance.com), che ti permette di applicare filtri ai tuoi video, aggiungere effetti e inserire testi. 6.3.2. Gli articoli del blog All’interno dell’universo complesso del Content Marketing, gli articoli o post del blog rivestono spesso un’importanza superiore. Questo perché principalmente come utenti accediamo alle informazioni leggendo dei testi. È dunque naturale che produrre informazioni di interesse per il target della propria azienda debba essere una delle priorità per qualsiasi imprenditore. Abbiamo visto prima come costruire, ottimizzare e avviare un blog aziendale ma mi sono soffermato poco su alcune tipologie di articoli che potresti sfruttare per ottenere una spinta di visibilità in più e garantirti più traffico in entrata e, forse, anche qualche backlink di qualità. Ecco quali sono alcune tipologie di articoli più diffusi. 1. ARTICOLI DI NEWS

Gli articoli di news hanno l’obiettivo di informare i lettori del blog (e non soltanto loro) su una notizia che riguarda il settore di riferimento. Nel campo del web marketing potrebbe ad esempio esserci una news che riguarda l’ultimo cambiamento algoritmico alla visibilità dei post delle pagine Facebook; nel settore turistico, il blog aziendale di un hotel potrebbe condividere in anteprima i dati sull’andamento delle presenze di turisti nella regione; il blog aziendale di una compagnia assicurativa potrebbe scrivere un articolo che riporta le ultime novità sulle clausole assicurative. Questa tipologia di articoli, pur rivolgendosi a target di utenti appartenenti a settori d’interesse diversi, è caratterizzata dalla VELOCITÀ NELLA CONDIVISIONE DELLA NOTIZIA e dal fatto che spesso il blog che la condivide è tra le prime fonti a farlo nel suo settore. Questa tipologia di articoli può portare il tuo blog a riscuotere molto successo perché, a partire dal tuo articolo, possono generarsi centinaia se non migliaia di condivisioni nei social network e conversazioni tra gli utenti proprio per essere stato la prima fonte d’informazione nel settore. Un po’ come avviene, se ci pensiamo, per le notizie di cronaca o di interesse generale nelle grandi testate online: la prima fonte che rende pubblica, online, la notizia potrà godere di una spinta di visibilità in più che le permetterà di accaparrarsi gran parte dell’attenzione del pubblico e, quindi, del traffico web. Le fonti web che pubblicheranno successivamente avranno sì la loro

attenzione, legata alla loro importanza come brand, ma godranno comunque di un impatto inferiore a seconda del tempo che intercorre tra l’avvenimento (il fatto) e la pubblicazione. Tutto ciò, come potrai immaginare, si tradurrà in un aumento del traffico al blog, proveniente principalmente dai social media, ma anche nella possibilità che altri blog settoriali riprendano la news citando e linkando il tuo blog come fonte primaria. Sarò sincero. Questa tipologia di articoli non è semplice da sviluppare, in quanto richiede molta attenzione alle fonti settoriali autorevoli, sia online e offline e al monitoraggio dell’ambiente competitivo circostante; è necessario cioè accertarsi che non ci siano già stati tanti altri blog o siti web a parlare della stessa notizia. È una tipologia di articoli che PREMIA LA TEMPESTIVITÀ DELL’AUTORE che scrive e condivide l’articolo prima di tutti gli altri. Se tutti i blog parlassero di un avvenimento importante anche a distanza di giorni da quando questo si è verificato, si creerebbe ridondanza e il lettore non leggerebbe l’articolo perché già a conoscenza della notizia. Richiede anche una certa dose di forza di volontà: ad esempio l’essere obbligati a scrivere articoli di sera o a tarda notte solo perché un determinato evento si è verificato in quel momento. Potrà quindi esserti utile monitorare fonti autorevoli in lingua inglese, per eventi di interesse internazionale e provvedere poi alla localizzazione della stessa notizia per il tuo blog aziendale o, ancora meglio, monitorare principalmente i social media, le conversazioni e gli hashtag su Twitter, per cogliere l’opportunità di diventare tu stesso creatore della notizia. 2. INTERVISTE AD ESPERTI

Intervistare gli esperti e gli influenti del tuo settore può permettere al tuo articolo di ricevere un’alta esposizione e ai tuoi lettori di avere un contenuto informativo utile che gli farà apprendere esperienze reali da chi magari opera nel settore da tempo ed è considerato persona autorevole. Puoi sfruttare l’opportunità di interazione con l’influencer già avviata nei social e dal Comment Marketing, visti prima, e proseguirla attraverso una sua intervista. Potrai scrivergli una mail con la quale lo inviti a rispondere ad alcune domande relative alle sue specializzazioni, al modo in cui opera e a farti raccontare alcune curiosità legate allo sviluppo della sua attività e su come sia riuscito a diventare una personalità autorevole nel proprio settore. Solitamente l’esperto sarà ben contento di essere intervistato, i lettori saranno felici di leggere l’intervista e lo stesso blog aziendale potrà godere di una più

ampia esposizione, dato che, generalmente, l’intervistato condividerà l’articolo nei suoi canali sociali esponendolo ai propri follower. 3. TRATTARE ARGOMENTI CONTROVERSI

Hai presente quegli articoli che leggi che affrontano un argomento le cui verità sono assodate e che conosciamo solo in quel determinato modo e lo fanno dandone una versione o un punto di vista totalmente differente andando del tutto controcorrente? La statistica ci dice che spesso questi articoli hanno avuto successo, anche se scritti da blogger poco autorevoli. Alla base del successo ci deve però essere la capacità dell’autore di argomentare e motivare per bene il suo punto di vista “differente” in modo da risultare credibile. Altrimenti si rischia l’effetto opposto, ovvero quello di allontanare il lettore dall’articolo e dallo stesso blog intaccando la sua reputazione. 4. LE LISTE DEI “MIGLIORI”

Le recensioni di determinati prodotti o servizi o le liste dei migliori blog del settore sono tra le tipologie di articoli che funzionano meglio a livello di esposizione del brand. Un’idea può essere quella di individuare i blog personali più influenti nel settore di riferimento della tua azienda e inserirli in una lista evidenziandone le caratteristiche e le motivazioni che ti spingono a definirli tra i migliori. Questi articoli ti permetteranno di sviluppare molto traffico referral dato che, più ampia è la lista, più condivisioni avremo dai blog inseriti che saranno contenti di essere stati scelti tra i “best of”. Attenzione però a non esagerare e ricorda che avrà senso sviluppare questo tipo di articoli una o due volte al massimo. 5. MINI GUIDE RISOLUTIVE

Ricorda che l’utente medio utilizza il motore di ricerca principalmente per cercare risorse informative che soddisfino il suo bisogno di conoscenza e che spesso la ricerca dell’informazione è propedeutica e anticipatrice dell’atto di acquisto del prodotto che, materialmente, andrà a soddisfare il suo bisogno. Scrivere articoli che spiegano, anche in modo dettagliato, come risolvere un determinato problema sarà di utilità sia per l’utente che è alla ricerca delle modalità e degli strumenti che lo aiutino, sia per la tua azienda che potrà utilizzare questa tipologia di articolo con mini-guida o “come fare a...” per attirare l’utente attraverso il contenuto informativo sul sito (il blog). Questi

articoli gli permetteranno di sapere che la tua azienda distribuisce proprio i prodotti e servizi atti al soddisfacimento del suo bisogno. Condizione necessaria per il successo di questa tipologia di articoli è innanzitutto un’attenta analisi alle ricerche effettuate dagli utenti, relative al settore della tua azienda. Ti consiglio una strategia molto utile che utilizzo con successo quando devo sviluppare dei piani editoriali per i corporate blog dei miei clienti o per lo stesso Webinfermento. Ti ricordi il tool Keywordtool.io? Lo abbiamo visto prima ed è arrivato il momento di richiamarlo. Il modo migliore per ideare articoli mini-guida o di “how to” che attraggano lettori interessati (quindi potenziali prospect) è quello di utilizzare Keywordtool.io e di lanciare delle query inserendo l’avverbio “come”, facendolo seguire da tre puntini di sospensione e dal nome della nostra nicchia di riferimento. In figura ti riporto l’esempio dell’insieme di mini guide che potresti realizzare nel settore delle assicurazioni. Come puoi notare, le idee per la realizzazione di articoli guida sono veramente tante.

Fonte: Keywordtool.io

Certo, ci saranno sicuramente altre mini guide on line scritte per altri blog tuoi competitor, ma non demordere. Se una guida è ben dettagliata, ricca di informazioni e soprattutto aggiornata, verrà apprezzata dal pubblico e potrà anche godere di un miglior posizionamento nei motori di ricerca. 6.3.3. I guest post I guest post (o guest article) sono gli articoli scritti da un autore o da un’azienda e ospitati e pubblicati non sul blog aziendale o personale, ma su altri blog a tema. Il guest post nacque proprio come forma primaria di promozione di un blog appena nato, che permetteva di ottenere visibilità su spazi web più autorevoli senza investire in altre forme di advertising a pagamento. In passato erano molti i blogger che aprivano sezioni dedicate ad ospitare dei guest post per dare la possibilità ad altri autori di farsi conoscere e a loro stessi di respirare un attimo, permettendo al proprio blog di essere aggiornato

anche con contributi esterni. Caratteristiche dei guest post sono: l’attinenza tematica con il blog ospite la qualità e originalità dell’articolo. I testi non devono essere duplicati, neanche in modo parziale, da altre fonti la possibilità data al guest blogger di inserire un link al proprio sito e i riferimenti ai propri profili sociali il blog ospitante si riserva la possibilità di scegliere se pubblicare o meno un articolo. I blog molto autorevoli potrebbero infatti essere sommersi da richieste di pubblicazione di articoli che però non rispecchiano il taglio editoriale del blog o che si rivelano essere veri e propri pubbliredazionali che promuovono prodotti e servizi di un’azienda. Mi preme sottolineare che il guest post, per come è stato concepito, è uno strumento differente dai pubbliredazionali o dagli articoli redatti per strategie di article marketing. Mentre pubbliredazionali e article marketing servono a veicolare informazioni promozionali che riguardano un’azienda, un particolare prodotto e/o servizio e ad effettuare una campagna di link building, il guest post è da intendersi come un articolo editoriale vero e proprio, che va ad arricchire i contenuti del blog che lo ospita fornendo il punto di vista di una persona che è sì esterna, ma che si occupa delle stesse attività del blogger o che ne condivide le stesse passioni e interessi. Il guest post non dovrà mai avere quindi uno scopo promozionale ma uno informativo. Immaginalo come un articolo di “how-to” per il tuo blog, come quelli di cui ti ho parlato prima. La differenza è che non lo pubblichi sul tuo blog ma su quello di un blogger più influente di te. Il beneficio per te e la tua azienda sarà quello di avere una certa visibilità in più in quanto, nei riferimenti alla fine dell’articolo, comparirà il nome dell’autore, l’azienda per cui lavora e il link al sito (o al blog) dell’azienda. Con un’azione la tua azienda avrà raggiunto tre obiettivi: esposizione della marca esposizione dell’autore (che potrà essere seguito sui suoi canali sociali dai lettori del blog che lo ha ospitato) acquisizione di un link in entrata di qualità al sito dell’azienda.

Negli ultimi tempi il guest post è stato utilizzato principalmente per acquisire link in entrata. C’è da dire che, come per tutte le strategie SEO operate su larga scala, si è cercato di automatizzare anche il processo di acquisizione link dai guest post e ciò ha portato molti blog a essere sommersi da richieste di pubblicazione di articoli, al punto che molti di questi hanno iniziato a richiedere un compenso economico per la pubblicazione. In casi come questi però il guest post diventa un pubbliredazionale con scarso valore informativo e molta promozione all’azienda e viene perso il senso originario dello strumento, ovvero quello di farsi notare, in modo meritocratico, per la fornitura di un contenuto di alta qualità per i lettori. 6.4. Contenuti premium Nella categoria di contenuti premium faccio rientrare solitamente quegli infoprodotti che, a fronte di un investimento economico più importante e uno sviluppo più complesso, permettono di generare il miglior ritorno dell’investimento in termini di risultati. Sono quei contenuti ai quali l’azienda, all’interno della sua Content Marketing Machine, dovrebbe dedicare il 10-20% dei suoi sforzi. Vediamo quali sono i contenuti premium. 6.4.1. Data Visualization La Data Visualization fonde la statistica e la comunicazione grafica e rappresenta una forma moderna di comunicazione visuale. In parole semplici, ci troviamo di fronte a rappresentazioni visuali di informazioni, prevalentemente numeriche, estratte da ricerche effettuate e arricchite da grafici e tabelle che aiutano il lettore ad analizzare e a ragionare sul significato dei dati e delle evidenze che emergono. Mediante la data visualization, dati e informazioni complessi e disponibili in modo grezzo diventano più accessibili e comprensibili a tutti gli utenti. Solitamente, l’obiettivo di chi crea contenuti di data visualization è quello di far comprendere all’utente determinati paragoni e far emergere principi di casualità raffrontando dati differenti; mentre l’utente è impegnato in questo processo di elaborazione mentale, i grafici lo seguono durante tutto il percorso, facilitandogli la comprensione nonché la fruizione di tutto il contenuto. Non tutti infatti possono avere un background di funzionalità analitiche approfondite, ma tutti possono capire i dati se resi graficamente accattivanti,

comprensibili e, soprattutto condivisibili, magari anche su device mobili. Una necessità del nostro cervello è comprendere le informazioni in maniera “olistica”. I nostri neuroni cercano sempre una visione d’insieme che possa concederci nel modo migliore possibile una capacità di giudizio dopo aver assimilato un quadro globale dei dati. Anche qui, ci vene in aiuto la visualizzazione grafica o figurativa rispetto ai numeri. La Data Visualization integra dati statistici con le cartografie che rappresenteranno poi il contenuto finale. Si va da semplici istogrammi, a bar chart, elaborazioni complesse in 3D, mappe interattive, matrici, fino ad arrivare alle più note infografiche. Gli obiettivi della Data Visualization sono diversi: mostrare dei dati numerici presentare dati complessi in spazi ridotti stimolare il cervello a compiere determinati collegamenti tra gli oggetti e i dati trasmettere al lettore una moltitudine di informazioni e connessioni assorbibili nel minor tempo possibile. 6.4.2. Le infografiche Le infografiche derivano direttamente dal mondo della Data Visualization, della quale ne rappresentano la forma più recente. Si tratta di immagini con dati statistici e grafici a supporto della lettura e comprensione dei dati, per facilitare la lettura delle informazioni o dei fenomeni illustrati. Inizialmente erano pubblicate nei blog e siti di informazione in lingua inglese per sintetizzare evidenze empiriche emerse da studi settoriali. Sono presto diventate un prodotto di successo grazie all’apprezzamento che riscuotevano negli utenti che potevano, per mezzo delle infografiche, assimilare molti concetti senza dover essere costretti a leggere interi report di centinaia di pagine per comprendere uno studio. Caratteristica distintiva dell’infografica è proprio quella di essere un contenuto facilmente fruibile e condivisibile nei social network; essendo spesso – ma non sempre – rappresentata da un file di immagine, può essere realizzata e caricata direttamente sui social, oppure caricata sul server del proprio sito web e condivisa in un articolo del blog. Se la pagina web all’interno della quale è caricata l’infografica dispone dei pulsanti di condivisione nei social e l’infografica risulta essere utile e apprezzata dai lettori, sarà anche probabile notare una spontanea condivisione della stessa nei principali social che, in alcuni casi, potrebbe portare allo sviluppo di inaspettate dinamiche di diffusione virale.

Negli ultimi anni si è fatto un utilizzo massiccio delle infografiche che è presto sfociato in abuso: vengono infatti ormai realizzate così tante infografiche, soprattutto di tipo statico – ovvero solo sotto forma di immagine – che il pubblico delle varie nicchie di mercato è stanco. Le classiche infografiche stanno quindi ormai saturando il mercato, specie in America. L’abuso ha riguardato soprattutto l’utilizzo del prodotto come nuova forma di link building nella SEO. Un’infografica può anche infatti essere condivisa, a partire dal sito del brand che la realizza, attraverso un cosiddetto embed code, da altri blog a tema, copiando e incollando il codice messo a disposizione in un box a ridosso dell’infografica. In questo modo il sito che ripubblica l’infografica linkerà il sito principale, grazie anche al link presente nell’embed code8. Il fatto che l’infografica stia saturando il mercato non deve però trarci in inganno e farci credere che sia un contenuto da abbandonare, tutt’altro! È la scarsa qualità di realizzazione del contenuto – il cosiddetto contenitore – e la non originalità dell’idea in essa rappresentata – il vero contenuto – che sono causa dell’insuccesso di un’infografica. Il terzo fattore di insuccesso di un’infografica è spesso legato anche alle errate strategie di distribuzione e promozione della stessa, strategie che approfondiremo meglio nel capitolo seguente. Tuttavia, se si riesce a sviluppare info-prodotti dall’idea geniale e realizzati perfettamente, dal punto di vista grafico e, eventualmente, della programmazione, il successo è assicurato. Ci sono infatti infografiche che non avranno neanche bisogno di strategie di distribuzione o di campagne di advertising per essere promosse, perché saranno così geniali da innestare la condivisione di massa degli utenti nei social network diventando delle vere e proprie “bombe virali”. Quando parliamo di infografiche non dobbiamo però limitare la nostra creatività e realizzare prodotti che siano delle immagini con statistiche e grafici. Esistono infatti differenti tipologie di infografiche. INFOGRAFICA STATICA

È la tipologia più classica e conosciuta, nonché la prima forma di infografica e il suo formato è un file di immagine. INFOGRAFICA ANIMATA

Utilizzata solitamente per mostrare in tempo reale lo svolgimento di

determinati processi o numeri in scorrimento, può essere realizzata con tecnologia Flash e poi salvata su un file immagine .gif, oppure sviluppata con codice nativo in htlm e css e quindi rappresentare una vera e propria pagina web. INFOGRAFICA IN PARALLAX SCROLLING

È una infografica interattiva nella quale l’utente può interagire direttamente con i dati presenti in essa, anziché fruirli passivamente come avviene per quelle statiche. Questa dinamica può avvenire tramite click sui link, hover sulle immagini e attraverso le azioni di scrolling del mouse. Tutti questi comportamenti innescano la creazione di nuove informazioni generate dinamicamente con l’interazione. Viene sviluppata con tecnologia htlml, css e jquery per le animazioni. VIDEO-INFOGRAFICA

Solitamente hanno un impatto e un successo maggiore rispetto alle infografiche statiche perché l’utente, dopo aver premuto il tasto play, viene a conoscenza di statistiche e informazioni il cui apprendimento è facilitato grazie alla brevità del video ma anche grazie all’accuratezza grafica e alle musiche o agli effetti sonori presenti. A un maggior grado di coinvolgimento dell’utente bisogna però considerare un costo di sviluppo nettamente più alto per via del montaggio video e sonoro.

Un eccezionale contenuto “premium” di Airbnb, la mappa interattiva che mescola video-infografica (l’intro iniziale) e mappa esplorabile e navigabile ricca di

informazioni. Probabilmente il miglior contenuto “premium” presente finora nel web (fonte: airbnb.it/map).

Lascio ora la parola alla mia socia Maria Pia, che ha studiato in modo approfondito la nascita, la crescita/evoluzione e la diffusione delle infografiche, potentissimo strumento di marketing, studio che le ha permesso di imparare a raccontare storie in modo efficace e diretto.

Maria Pia De Marzo COME REALIZZARE UN’INFOGRAFICA Tra gli strumenti di content marketing che riscuotono più successo in rete ci sono le infografiche. Per chi fosse ancora all’asciutto del termine, le infografiche sono dei prodotti web – ma ampiamente utilizzati anche per la carta stampata – che hanno lo scopo di informare il lettore sugli argomenti più disparati. Per farlo si utilizzano dati e informazioni reperite da più fonti, ma la caratteristica distintiva è che tutta la conoscenza è rappresentata in formato grafico, da qui la parola info-grafica. Benché si tratti di un prodotto che viene molto spesso utilizzato in rete per attività inbound, proprio perché la sua natura gli permette di esser altamente condivisibile, quindi social friendly, realizzare una infografica di successo non è alla portata di tutti. Certo l’improvvisazione in rete non manca, ma occorre essere consapevoli che solitamente il successo di una infografica è strettamente connesso alla qualità del lavoro che vi è dietro. Prima di intraprendere il vero e proprio processo creativo, infatti, bisogna avere ben chiaro cosa rappresentare, da quali fonti autorevoli raccogliere informazioni e selezionare gli elementi rilevanti, trovare il filo conduttore tra i dati e creare un racconto, e infine con quale tecnologia realizzare l’infografica. Insomma questo per far intendere che alla base c’è un processo ben studiato e strutturato, con fasi precise, e che non è un lavoro che può esser deciso in un istante da un giorno all’altro o un’attività che possa esser realizzata in poche ore, sull’impulso del momento. Creare un’infografica è un vero è proprio progetto e dunque richiede un team di lavoro dedicato composto dal project manager che si occupa di individuare l’argomento di interesse per l’area in esame, il copy che si occupa della creazione dei testi e della storyboard del “racconto” e il creativo e grafico che ha il compito più importante del progetto, cioè riuscire a rendere il testo visivamente narrativo.

Queste figure lavorano come una catena di montaggio collaborando insieme e ognuna ha un ruolo importantissimo nel costruire il successo dell’infografica. Sulla base di quanto ho appreso nel corso degli anni realizzando infografiche, posso elencare tutte le fasi del processo che permettono di trasformare un’idea studiata in un prodotto di sicuro appeal per l’utente. Ogni fase può esser vista come un check-up che permette di controllare che tutto il processo stia seguendo la strada giusta. 1. Scelta dell’idea La prima fase consiste nella scelta dell’argomento da trattare. Sicuramente questa è una fase cruciale del progetto in quanto rappresenta il tema che avrà modo di interessare il pubblico di lettori e i loro seguaci. L’idea vincente non nasce mai per caso, ma è il frutto di un’analisi dell’attività svolta sui canali sociali e sui siti. Sono proprio i canali di interazione tra azienda e utente che possono diventare veri e propri campi dove raccogliere ispirazione sulla base degli argomenti che hanno riscosso più successo. Importante, dunque, diventa interrogare gli utenti, anche indirettamente con contenuti studiati, per carpire cosa interessa di più nel settore di riferimento: lanciare dei feedback qualche settimana prima per capire cosa maggiormente attira l’utente del prodotto promosso può ad esempio essere una strada giusta. Inoltre per indirizzare la scelta è necessario estrapolare gli argomenti che ruotano intorno alle tematiche di blog e profili social e associare a questo una buona analisi sulle query di ricerca verso il sito e i trend del momento che emergono dalla rete. 2. Ricerca di contenuti di qualità Una volta individuato l’argomento da trattare diventa indispensabile individuare quelle risorse che ne parlano in modo dettagliato e autorevole. Solitamente le ricerche condotte internamente, con il supporto magari di aziende specializzate nella creazione e distribuzione di indagini, raccolta dati e creazione dei cluster, sono quelle che funzionano di più perché raccolgono elementi interessanti e non noti, quindi caratterizzati anche dall’elemento novità. Esistono però altri modi per raccogliere dati come ricercare blog o siti autorevoli che hanno parlato di quell’argomento, scelta strategica anche finalizzata a eventuali azioni di seeding per la pubblicazione, ma fonti interessanti sono anche documenti accademici e white paper. Con tutti questi materiali, l’infografica si sposa benissimo perché consente a dati anche complessi e difficili da interpretare di esser rappresentati con un’unica, semplice, leggibile grafica. 3. Organizzazione del flusso del racconto I dati a disposizione adesso sono utili per la successiva fase: l’organizzazione dei contenuti. Tutte le informazioni raccolte durante la precedente fase sono “destrutturati”; sono solo parole o numeri organizzati sotto forma testuale. In questa fase diventa importante dunque estrapolare da ogni testo le informazioni più salienti da rappresentare, principalmente dati numerici o date e percentuali, e

ovviamente dar loro una struttura coerente al fine di creare un flusso di informazioni leggibili e che somiglino molto ad un racconto. Creare un flusso di informazioni che abbia un incipit, uno svolgimento e una conclusione è assolutamente importante. Il consiglio è di focalizzare l’attenzione su quei dati che si prestano ad essere raffigurati attraverso dei grafici (torta o a barre) che sono di sicuro appeal per l’utente. 4. Lavorare sulla qualità della grafica Qui si entra nella fase vera e propria di realizzazione. Di solito si parte già da una bozza cartacea che rappresenta in modo essenziale come andranno rappresentati i dati a disposizione che, insieme al documento che raccoglie le informazioni del racconto, divengono gli elementi necessari a iniziare il lavoro grafico. In questa fase entrano in gioco non solo la bravura e la creatività del grafico, ma anche la qualità delle risorse che verranno utilizzate. Si può scegliere di realizzare tutto da zero, quindi anche i più piccoli dettagli dell’infografica e i singoli elementi – ed è questa a mio avviso la scelta migliore da intraprendere per garantire originalità al contenuto – ma si può anche ricorrere a risorse disponibili in rete accordando sempre preferenza a quei contenuti premium che solitamente sono molto ben progettati. 5. Check sulla qualità degli strumenti utilizzati Anche gli strumenti che si utilizzano per creare il prodotto infografico sono fondamentali. Certamente esistono infiniti programmi di grafica che ne permettono la realizzazione, paradossalmente anche il Paint lo è, ma la qualità di quello che viene creato è fondamentale. Suggerisco dunque l’uso di strumenti che permettano di elaborare la grafica in modo vettoriale per garantire una qualità alta del prodotto anche a grandi dimensioni, se non altro nell’eventualità in cui se ne voglia avere una copia stampata. Terminato il processo di creazione e osservato il ciclo di vita dell’infografica potrebbe esser interessante, qualora abbia riscosso molto successo, “riusare” l’infografica anche tempo dopo la pubblicazione. Quando il contenuto scelto è intelligente, ovvero studiato, potrebbe avere una seconda vita. Nonostante i dati possano risultare obsoleti nel corso del tempo, il valore dell’infografica resta, per questo prevedere un aggiornamento solo delle informazioni, a distanza di qualche anno, è un’ottima scelta per rilanciare il lavoro, come se fosse nuovo. Un esempio è l’infografica sugli algoritmi di Google realizzata nel 2013 e aggiornata quest’anno al 2015.

6.4.3. Guide scaricabili, white paper, video virali Nella tipologia di contenuti “premium” realizzabili rientrano anche guide o ebook, ricerche o white paper e video virali.

Gli EBOOK nel web italiano non mancano. Ne ho visti molti nel settore web marketing, dove lavoro, ma se ne trovano di ben fatti anche nel travel, nel food, nel design, ecc. La motivazione del loro successo? Il valore e la distribuzione gratuita. Solitamente un ebook non presenta meno di 30 pagine di contenuti, ma ce ne sono altri che superano le 100 pagine e non hanno nulla da invidiare a veri e propri libri. Se a questo aggiungiamo che l’utente può fruirne scaricandone una copia senza dover pagare, possiamo allora comprendere quanto valore e utilità possano avere. Un ebook è contenuto “premium” sia per il valore in esso presente sia per il costo e il tempo di sviluppo richiesto. Realizzare un ebook richiede da un lato la possibilità di disporre di informazioni di qualità, che possono essere prodotte anche in partnership con dei blogger del settore, dall’altro capacità grafiche, in quanto l’ebook ha solitamente uno stile e una formattazione vivace, che si discosta dal classico libro, al fine di risultare d’appeal per il lettore. L’ebook, tranne in alcuni casi, non ha un costo economico per il lettore che, per scaricarne una copia, dovrà rilasciare le proprie informazioni personali e un indirizzo di posta elettronica. I WHITE PAPER sono invece delle vere e proprie ricerche ufficiali prodotte solitamente da enti pubblici o organizzazioni governative, oppure in ambito B2B sotto forma di studi settoriali. Hanno lo scopo di riportare fotografie sullo stato del settore di riferimento, o recenti scoperte o nuovi prodotti e tecnologie che potrebbero contribuire al miglioramento del settore. Spesso, data la corposità del documento, i risultati dello studio vengono sintetizzati attraverso le infografiche, distribuite poi a siti e blog del settore, che si occuperanno della loro diffusione. In questo caso il costo di sviluppo è ancora più alto in quanto verranno coinvolti, con molta probabilità, anche studi di ricerca specializzati nel reperimento delle informazioni. Il successo dei white paper è quasi sempre assicurato in quanto forniscono un quadro del settore aggiornato con informazioni preziosissime a chi opera nello stesso settore. Sono utili per conoscere ad esempio nuovi trend del mercato, big player presenti, aggiornamenti sulla legislazione in materia vigente, nuove strategie di sviluppo, ecc. Non è raro che i white paper, contrariamente agli ebook, possono richiedere

un compenso economico per essere fruiti ed essere quindi venduti come veri e propri beni digitali. I VIDEO VIRALI costituiscono un’altra tipologia di quei contenuti dal fortissimo impatto in termini di immagine per il brand, di traffico generabile, di backlink e di copertura mediatica. C’è soltanto un problema che interessa da vicino i marketer e i progettisti: è realmente difficile sviluppare un video virale. Questo perché è praticamente impossibile prevedere, sin dalla pianificazione del video, se questi avrà successo o meno e soprattutto quantificare il kpi di un successo. Entro quale range di visualizzazioni raggiunte vogliamo ritenere che il video abbia avuto successo ed entro quale range che sia diventato un video virale? Secondo Andrea Febbraio, autore del libro Viral Video, i segreti del successo di un video virale sono da individuarsi in alcune variabili: 1. una storia avvincente 2. la capacità di catturare l’attenzione nei primi 5 secondi 3. il possesso di storytelling emozionale 4. la distribuzione del video (seeding) agli influencer 5. capacità di sorprendere e di non scioccare 6. capacità di raggiungere la massa critica nelle prime 48 ore 7. capacità di generare più condivisioni che visualizzazioni. La realtà non è poi così semplice come appare, in quanto è già impegnativo sviluppare un buon video aziendale che abbia un discreto successo, ma molto più difficile è farne uno che si diffonda in modo virale. Non per niente, spesso i video virali nascono per puro caso e sono video amatoriali realizzati piuttosto artigianalmente da ragazzini e caricati su YouTube senza la minima consapevolezza del potenziale di viralità in esso contenuto. Ci sono però dei casi di aziende che sono riuscite a creare dei video diventati virali. Una di queste è Volvo che, con una serie di mini-video chiamata Volvo Trucks, ha coinvolto l’attore Jean-Claude Van Damme in un’acrobazia ai limiti delle possibilità fisiche. Il video The Epic Split feat. Van Damme, diventando virale, ha poi generato tutta una serie di parodie amatoriali che hanno avuto a loro volta un discreto successo. Il video, ad oggi, conta più di 77 milioni di visualizzazioni.

Fonte: Youtube.com

6.5. Altre iniziative di Content Marketing non convenzionali 6.5.1. I blog tour Non dobbiamo limitare il potenziale dei contenuti soltanto a infografiche, video, ebook, ricerche o altri contenuti visuali. Possono benissimo rientrare nel web marketing anche tutte quelle strategie che permettono di produrre valore, per l’utente e la stessa azienda, nell’online e offline. Pensiamo ad esempio ai BLOG TOUR, diffusisi inizialmente nel settore turistico, ma ora realizzati anche in altri ambiti settoriali. Il blog tour è un evento a cui partecipa – come ospite – un gruppo selezionato di blogger esperti del settore di riferimento. Ai blogger, durante la permanenza (il tour), vengono fatte scoprire e apprezzare le peculiarità del prodotto che si intende promuovere e, solitamente, ricevono un alloggio spesato presso strutture convenzionate. Durante il tour, i blogger si attiveranno nella condivisione di post e fotografie in real-time delle loro esperienze sul territorio e, una volta finito, lo racconteranno per intero evidenziandone aspetti positivi e negativi, esponendone l’oggetto ai loro lettori. L’obiettivo del blog tour è fondamentalmente uno: creare contenuto di valore per un territorio (ad esempio una destinazione turistica, nel turismo), per un settore (ad esempio quello agro-alimentare), per un prodotto (ad esempio un

prodotto culinario facente parte del Presidio Slow Food) o un servizio (come i treni di Ferrovie dello Stato, blog tour che è stato realmente realizzato ma con esiti disastrosi). Del valore generato dai contenuti ne beneficeranno le due tipologie di soggetti coinvolti nel blog tour: gli organizzatori dell’evento e gli stessi utenti e partecipanti all’evento. Questi ultimi potranno usufruire di tutto il materiale online che verrà prodotto (e per questo servono i blogger più o meno influenti), mentre gli organizzatori potranno godere dell’influenza positiva che i contenuti avranno sui lettori di blog e fruitori dei social network, trasformandoli da potenziali lettori interessati ad acquirenti finali. Per capirci e restringendo il tutto al settore turistico, il blog tour genera un ritorno dell’investimento nel momento in cui un utente che ha letto un articolo-racconto di un blogger presente all’evento decide di acquistare un viaggio verso la destinazione promossa, o di acquistare il prodotto o il servizio oggetto del tour. Anche se in questo caso è difficile stabilire se e quando avverrà l’atto di conversione dell’utente, possiamo star certi che i contenuti prodotti durante e dopo il blog tour avranno avuto un ruolo determinante nelle decisioni d’acquisto dell’utente. Tra le tipologie di contenuti prodotti in un blog tour troveremo: le conversazioni nei social media, da cui potrà essere analizzato il sentiment per valutarne anche l’eventuale impatto post blog tour gli articoli prodotti dai blogger partecipanti press release della stampa locale prima e dopo l’evento eventuali video girati e diffusi dagli stessi blogger o realizzati da operatori professionisti. Riassumendo, il blog tour è un’azione strategica di content marketing i cui effetti positivi potremo misurarli in termini di miglioramento della brand identity e della sentiment analysis, ma anche con l’acquisizione di link al sito di presentazione del blog tour. L’azienda, il consorzio di aziende o l’ente pubblico che organizzerà il blog tour, pur non essendo al centro dell’azione di marketing, godrà dei benefici economici e di visibilità derivanti dai contenuti che saranno prodotti e condivisi.

I contenuti prodotti durante il blog tour CeglieFoodCamp, realizzato a Ceglie Messapica (BR) in agosto del 2012 (fonte: Webinfermento)

Il numero di interazioni prodotte durante il CeglieFoodCamp (fonte: Webinfermento)

6.5.2. Testimonial e operazioni cause-related marketing Un’azienda potrebbe ottenere dei benefici in termini di visibilità anche coinvolgendo, magari in chiave ironica, un TESTIMONIAL in uno spot commerciale. Ad esempio come ha fatto PaddyPower coinvolgendo Rocco Siffredi in una serie di video divertenti dal nome Tu e Rocco Siffredi, diventati molto popolari su YouTube. In questo caso è lo stesso testimonial che diventa quasi un supporter del brand e permette ai contenuti di rimbalzare tra utenti solitamente non raggiunti (e interessati) dal gioco digitale. Oppure potrebbe attivarsi nel finanziamento e nella promozione di cause sociali, secondo strategie di CAUSE-RELATED MARKETING, come ha fatto, tra le altre, Ikea, che nel 2005 si è impegnata nella costruzione del nuovo ospedale per bambini a Sesto Fiorentino (Fondazione Ospedale Mayer). Come ritorno dell’investimento, oltre alla copertura sulla stampa locale e in rete, la locale sede dell’Ikea ha ottenuto un aumento del flusso di visitatori

(più di 3 milioni) e degli stessi clienti (più di 1 milione). 6.6. SEO e acquisizione di link con i contenuti Al giorno d’oggi non si dovrebbe parlare di SEO senza guardare ai contenuti, come non si dovrebbe parlare di contenuti senza parlare di SEO. Tutti i contenuti vanno ottimizzati per i motori di ricerca, a partire dalla pagine commerciali del proprio sito web, alle pagine degli articoli del blog aziendale, fino all’ottimizzazione delle pagine web nelle quali verranno caricati contenuti come infografiche, tool, ebook, ecc. Non mi dilungherò troppo sulle strategie di ottimizzazione on site, ci sono già tantissimi libri e risorse online accessibili che affrontano piuttosto bene questi argomenti, quanto sulla capacità dei contenuti di permettere l’acquisizione di link di qualità. Il link esterno è ancora oggi, in assoluto, il più importante fattore di ranking su Google e vedremo che pianificare una corretta strategia di Content Marketing per la SEO può contribuire in maniera determinante a migliorare la popolarità di un sito web, grazie all’acquisizione di link che andranno a migliorare il posizionamento – e il traffico organico –dell’azienda. 6.6.1. L’ottimizzazione on site di un sito web Una distinzione terminologica è necessaria, data la confusione presente spesso anche tra gli addetti ai lavori. Possiamo suddividere le attività SEO in tre categorie: 1. INDICIZZAZIONE

È la fase che indica le attività di scansione di un documento web da parte di software che hanno l’obiettivo di catalogare e archiviare pagine secondo un ordine di pertinenza e rilevanza. Le fasi (e i software) che intervengono in realtà sono più di una (parsing, crawling, indexing, ranking) ma per facilità di comprensione si considera il tutto come fase di indicizzazione. L’indicizzazione non è operata dal SEO, ma dal motore di ricerca, in modo autonomo. Basterà pubblicare una pagina web e il motore di ricerca la assorbirà, prima o poi e in funzione di alcuni fattori. L’unica cosa che può fare il SEO è cercare di favorire la velocità di assorbimento di una pagina web. 2. OTTIMIZZAZIONE

Consiste nell’intervento manuale di un SEO o webmaster sulle pagine di un

sito, per comunicare al motore di ricerca la pertinenza tematica di una pagina web. Questa è un’azione nella quale l’intervento di un SEO può fare la differenza. 3. POSIZIONAMENTO

Questa attività riguarda l’attribuzione del punteggio alla pagina web secondo una serie di algoritmi di proprietà del motore di ricerca. Il posizionamento lo attribuisce il motore di ricerca, come fase ultima del processo di archiviazione, ma può essere migliorato dal SEO o dal webmaster. Quelle di seguito sono le basi dell’ottimizzazione SEO on site che non dovrebbero mancare in nessun sito web che voglia avere la possibilità di godere di buoni posizionamenti in Google. PROGETTAZIONE DELLA STRUTTURA E ALBERATURA DEL SITO

In molti ritengono che il miglior fattore di ranking on site sia il title tag; per me è sicuramente importante ma non è la cosa prioritaria da ottimizzare e ora ti spiego il motivo. L’ottimizzazione SEO di un sito parte dalla progettazione del sito stesso. Quanto più il sito è strutturato in modo più fluido, seguendo una tematica principale che, a partire dalla homepage – che è la risorsa solitamente più importante –, si trasferisce fino alla pagina prodotto, tanto è più facile garantire al bot la scansione e la comprensione del tema e allo stesso SEO di sviluppare degli ottimi posizionamenti. Si parla di solito di struttura a silos o ad albero. Pensa alla struttura SEO del tuo sito come a quella di un albero. Ogni albero ha un tronco, che ne rappresenta la homepage, a cui seguono dei rami, che sono le categorie del sito. Ogni ramo può sviluppare altre ramificazioni, come le sottocategorie, che possono produrre infine un insieme di foglie. Queste ultime rappresentano le pagine prodotto di un sito. Immagina questa struttura anche per capire la complessità strutturale di siti o shop online giganteschi come Amazon, per esempio. Per intenderci, ogni sito web sviluppato da un web designer e un web developer dovrebbe prevedere il supporto di un SEO che ne contribuisca a sviluppare la struttura in funzione degli obiettivi di vendita. Ogni ramificazione della struttura ad albero deve approfondire ed espandere la tematica principale del sito e ogni categoria, sottocategoria e pagina prodotto devono essere ben linkate dall’alto al basso seguendo la struttura gerarchica progettata.

Se la tematica principale di uno shop online è la vendita di cibo per animali, quella dovrà essere la parola chiave primaria con cui dovremo ottimizzare la homepage. Se all’interno di questa macro-categoria di prodotti vendiamo una serie di sottocategorie, come ad esempio cibo per gatti, per cani o per pesci, queste dovranno essere le parole chiave con cui ottimizzare le sottocategorie, fino ad arrivare a pagine prodotto che si differenzieranno ad esempio per il nome del fornitore di una stessa sottocategoria di prodotti. Si parla nel gergo di strutturazione tassonomica di un sito web e lo stesso Google fornisce una base tassonomica con la quale strutturare e ottimizzare il proprio sito web. Per comodità, puoi prendere come riferimento lo schema riportato in figura realizzato dal blog Kissmetrics, per avere sempre a mente la strutturazione SEO di un sito web.

Fonte: Kissmetrics.com IL TAG TITLE

Tra gli elementi on site è sicuramente quello più importante in termini di ranking e che non può mancare nalle tue pagine web. Il tag title dovrà presentare una frase descrittiva che al suo interno contenga la parola chiave di interesse – meglio se posizionata all’inizio della frase – e il nome del brand. Fa’ attenzione a prevedere titoli univoci per ogni pagina, per evitare di inciampare nel filtro della cannibalizzazione che provoca la competizione di più pagine per la stessa parola chiave.

LE DESCRIZIONI

Ogni pagina deve avere una descrizione univoca che fornisce un piccolo riassunto del contenuto. A livello di tag di markup corrisponde alla meta description che, solitamente, ma non necessariamente, viene usato da Google come snippet testuale sotto il titolo dei risultati di ricerca che ci vengono restituiti in seguito ad una query.9 La meta description non incide sul ranking ma può contribuire ad aumentare il tasso di click sui nostri risultati ed è il tag da utilizzare per convincere l’utente a cliccare sul nostro risultato. LINK INTERNI E MENU DI NAVIGAZIONE

Ogni pagina del sito deve poter comunicare con tutte le altre e per farlo servono i link interni nei testi delle pagine, nei prodotti correlati e nei menu di navigazione. Questi ultimi devono essere sempre in formato html, leggibile dai bot, e devono permettere di mantenere una certa pertinenza tematica con le categorie di prodotti del brand (ricorda la strutturazione schematica vista precedentemente). LE INTESTAZIONI

Ogni testo ha bisogno di intestazioni. Le intestazioni dettagliano i paragrafi e servono a rendere più semplice al lettore la comprensione di grandi porzioni di testo. A livello SEO, per le intestazioni vengono utilizzati i tag h1, h2, h3, ecc. fino all’h6. Anche in questo caso, la parola chiave deve essere presente in una frase in modo naturale, senza per forza essere la copia del tag title. LE IMMAGINI

Gli elementi di ottimizzazione SEO delle immagini risiedono nel nome del file, che consiglio di rinominare in funzione della parola chiave di interesse e dell’attributo “alt”. LE URL

Presta molta attenzione anche alla struttura delle url delle pagine. Per quanto si dica che la loro influenza nel posizionamento sia calata nel tempo, noto ancora una certa importanza in termini di ranking nei progetti a cui lavoro che, a parità di ottimizzazione degli altri fattori on site, permette di fare la differenza. Utilizza url brevi, evita, se possibile, di avere la categoria nella url (per il mantenimento del tema dalla home fino alla pagina prodotto utilizza i breadcrumbs, le briciole di pane) e, se non utili, evita le stop words.10 Spesso sfrutto le parole chiave nelle url per rafforzare la chiave principale.

IL TESTO

Il testo deve essere scritto principalmente per gli utenti, senza però tralasciare il ripetere un paio di volte la frase chiave di interesse magari sviluppando, nelle altre varianti, associazioni semantiche che possano poi andare ad intercettare quelle query di tipo long tail effettuate dagli utenti. Consiglio: non fossilizzarti sulla targetizzazione di una parola chiave competitiva per pagina web. Parti da quella parola chiave, espandine le query utilizzando Google Suggest o il già citato Keywordtool.io e crea testi molto densi che presentino molte di queste varianti che andranno a rafforzare il rank della parola chiave principale, ma al tempo stesso permetteranno di posizionarti anche per le ricerche della coda lunga. 6.6.2. Il cambio di paradigma: da link building a link earning Sicuramente hai sentito già parlare di link building o di link popularity. Identifica l’attività di costruzione di link al proprio sito web. La link building si differenzia invece dal concetto più moderno di link earning, che identifica l’acquisizione o il guadagno di link al sito. Con la link building siamo noi marketer o SEO a far puntare dei link alle nostre pagine, mentre attraverso la link earning sono soggetti esterni e non influenzati da noi a linkare spontaneamente una nostra pagina web. Come ho anticipato prima, il link esterno a una nostra pagina che utilizza la parola chiave di nostro interesse come anchor text11 è il più forte segnale di ranking ad oggi utilizzato dai motori di ricerca. Meglio se il sito linkante è autorevole, gode di fiducia da parte di Google (trust) e possiede una certa storicità di dominio e molto traffico all’attivo. Per comodità parlerò di Google e non di motori di ricerca in genere, dato che dalle ultime rilevazioni viene fuori una quota di mercato di Google in Italia pari al 98% e un restante 2% che va a ripartirsi tra Bing, Yahoo e gli altri motori di ricerca minori. Un link esterno può contenere la parola chiave esatta (exact anchor text) o sue varianti parziali (partial match anchor text), o presentare soltanto la url della pagina o sito web (naked url) o il nome del brand (brand anchor text). Tra tutte queste, l’impatto migliore in termini di posizionamento lo trasferisce il link esterno con exact anchor text, soprattutto se la pagina che andrà a linkare sarà stata ottimizzata a dovere per la stessa parola chiave.

Fonte: Seo.com

Non voglio dilungarmi sulla struttura dei link e sul funzionamento del PageRank di Google, anche perché ultimamente è stato annunciato che non verrà più aggiornato il numero della barretta verde che andava da 1 a 10. Ti basti sapere che ogni link tra due siti web equivale a un VOTO EDITORIALE e ogni link trasferisce una porzione del valore della pagina a quella linkata. Tanti link esterni da siti di qualità e a tema con il nostro permettono al sito di diventare a sua volta un sito autorevole e di accrescere il proprio punteggio (rank) in riferimento al topic e alle parole chiave di interesse. Il valore acquisito dai link esterni viene ripartito, per mezzo di quelli interni, tra tutte le pagine del sito, permettendo di migliorare i posizionamenti delle parole chiave che targetizzano. A partire dai primi anni 2000, i SEO hanno capito che era possibile migliorare il posizionamento dei propri siti web facendo puntare dei link da siti esterni a quelli che gestivano. Crebbero di diffusione le directory dove era possibile segnalare aziende, catalogate per settore, fino ad arrivare allo scambio link, una delle tecniche di link building più diffuse e che alcuni praticano ancora oggi. Successivamente si svilupparono tecniche di compra-vendita di link (le cosiddette link farm) che diedero vita a dei veri e propri traffici monetari tra acquirente e venditore. Nacquero vere e proprie aziende specializzate nella vendita settoriale di backlink. Questo circo ha funzionato per un po’ di anni, fino a quando Google si è reso conto che i risultati che forniva agli utenti erano relativi a pagine web eccessivamente “manipolate” dai SEO. Se, infatti, all’inizio (primi anni 2000) Google ha cercato di arginare il problema attribuendo reale valore al link non soltanto in funzione della quantità indifferenziata di link che puntano a un sito, ma anche della tematica e della qualità di questi ultimi, in poco tempo la situazione è sfuggita di mano.

I SEO hanno imparato bene a “scambiarsi” o vendersi i link anche tra siti a tema e di qualità (si valutava un sito di qualità in funzione del suo PageRank: tanto più alto questo fosse, tanto più valeva la pena acquisire un link). In alcuni blog sono ancora visibili oggi le pagine “siti amici” o “scambio link”. Dalla qualità dei risultati restituiti alle ricerche degli utenti dipende l’attuale successo planetario di Google, che ne hanno fatto il miglior motore di ricerca al mondo, ed è proprio per questa ragione che, a partire da alcuni anni, sono stati inaspriti i controlli sulla qualità e modalità di concessione dei link, con l’obiettivo di identificare siti che acquistano e vendono link e penalizzarli. La diffusione della link building si è estesa su larga scala e un controllo umano di tutta l’attività è diventato presto impossibile. La vera batosta però allo spam link l’ha data Penguin, un algoritmo progettato da Google per contrastare lo spam che a partire dall’aprile del 2012 ha iniziato a cambiare radicalmente il modo di concepire la link building. Cosa fa Penguin? Identifica quei siti che abusano di tecniche di sovraottimizzazione dei loro profili link. Se, ad esempio, un hotel di Rimini ha costruito nel corso del tempo una serie di link con anchor text esatta (il tipo di link esterno che, come abbiamo detto, funziona meglio) che gli hanno permesso di conseguire il primo posto su Google per la competitiva chiave “hotel rimini” e di giovare del traffico organico e se questi link rappresentano un’alta percentuale dell’intero profilo, ecco che l’hotel di Rimini avrà una buona probabilità di essere colpito dal Penguin. Tra le altre cose, Penguin prende in esame anche la tipologia di siti linkanti e il posizionamento, all’interno della pagina web, del link esterno. Google vuole che il link editoriale sia posizionato all’interno del corpo del testo, che è la zona di una pagina realmente utile all’utente e non in zone come footer, sidebar o header. Un link posizionato in quell’area è spesso sitewide, ovvero si replica in tutte le pagine che compongono il tema di un sito. Se questi link, artificiali, sono stati costruiti sfruttando parole chiave commerciali nell’anchor text in quasi tutti i siti, avremo un insieme vastissimo di link provenienti da un numero più ridotto di domini unici.12 Se poi aggiungiamo che questi link sono stati costruiti nel corso degli anni sfruttando solo siti e tecniche di bassa qualità come directory, comunicati stampa e article marketing, senza cioè creare differenziazione del profilo,

staremo lanciando dei chiari segnali a Google per dirgli dove siamo. Al contrario però del segnale di Batman, SARÀ GOOGLE A VENIRE DA NOI! È stato così quindi che, a partire dall’aprile del 2012, molti siti che abusavano della link building sono letteralmente crollati. Molte aziende sono fallite. Basti pensare a diversi portali turistici in Italia, il cui fatturato dipendeva per il 90% dal traffico organico su Google, garantito dalla costruzione, perpetrata per anni, di link artificiali e sovraottimizzati. Anche i SEO, colti impreparati dalla mossa algoritmica di Google, hanno capito che un aggiornamento delle strategie si rendeva necessario e benché alcuni di loro continuino oggi a portare avanti pratiche di link building che richiamano il Penguin, altri hanno imparato a guardare oltre e a puntare allo sviluppo di strategie che permettono di acquisire link realmente validi come voti di fiducia. Link acquisiti in modo spontaneo e non più costruiti in modo artificiale. Dai un’occhiata ai trend di ricerca su Google. Nota quello che viene fuori confrontando i termini “link building”, “link earning” e “content marketing”e nota come, dopo il lancio del primo update di Penguin, nell’aprile 2012, nella comunità SEO e web marketing si inizi a parlare di link earning, calano le ricerche per “link building” e crescono, vertiginosamente, quelle per “content marketing”.

Fonte: google.it/trends

6.6.2.1. Link earning e Content Marketing Il termine Link Earning (guadagno di link) è più recente, ma in realtà deriva dal meno recente link baiting, che identifica quelle tecniche che, sfruttando un’esca, riescono a garantire a una pagina web l’acquisizione spontanea di link. Potremmo dire che link baiting e link earning siano sinonimi, anche se la link baiting era utilizzata più che altro in riferimento ad articoli giornalistici o di blog dal contenuto controverso atto a generare discussione e scalpore mediatico e, proprio per la marcata presa di posizione mostrata, essere richiamati e quindi linkati da altri blog o testate online. PERCHÉ GUADAGNARE LINK ANZICHÉ COSTRUIRLI?

Semplicemente perché è quello che Google chiede di fare. Google vorrebbe un motore di ricerca più democratico, che restituisca risultati agli utenti che siano realmente di valore e meritevoli di avere un buon posizionamento. Vorrebbe quindi che una risorsa si posizionasse bene perché ha magari guadagnato una serie di voti editoriali (i link appunto) da altri utenti, blogger e webmaster che l’hanno trovata utile. Qual è la strategia per guadagnare link? Beh, la risposta dovresti già avercela! Non è soltanto attraverso i contenuti che si guadagnano i link. I CONTENUTI RAPPRESENTANO UN MEZZO, MA NON LA STRATEGIA. È mettendo insieme i vari step strategici analizzati fino ad ora in questo libro che riuscirai ad acquisire quanti più link possibili, ma non solo: anche condivisioni nei social media, traffico, potenziamento dell’immagine di marca, miglioramento del sentiment e tutta una serie di altri attributi di cui beneficerà la marca a 360 gradi. Se hai seguito gli step che ti ho indicato finora, avrai imparato a presenziare e ad ascoltare a dovere le reti sociali, a interagire nelle community, con i blog e gli influencer del tuo settore e a farti riconoscere come esperto della tua nicchia. Avrai studiato il tuo target e raccolto tutti i dati utili per la costruzione di contenuti che avrai iniziato a produrre per tutte le aree in cui sei presente, a partire dal tuo sito, fino ad arrivare a progettare e realizzare contenuti “eccezionali” che il tuo pubblico e i tuoi follower vorranno condividere e linkare spontaneamente sia perché sei un brand riconosciuto sia perché i tuoi contenuti sono realmente di valore. Qui arrivo alla differenza tra l’essere un brand riconosciuto, ma soprattutto che gode di fiducia, ed essere magari sempre un brand ma non godere della fiducia delle community e dei blogger, magari perché non si è mai cercato di sviluppare relazioni con loro.

Mentre il brand riconosciuto e di fiducia svilupperà engagement, condivisioni e link ai contenuti che realizza e pubblica in modo del tutto spontaneo, l’altro dovrà lavorare di più sia nella fase di realizzazione del contenuto che dovrà essere in grado di stupire ed essere “semplice, inatteso, credibile, emozionale e in grado di raccontare una storia”, sia – e aggiungo, soprattutto – nella fase di distribuzione del contenuto. Ti porto ancora una volta un esempio personale. Quando quasi 5 anni fa abbiamo lanciato il blog Webinfermento, abbiamo cercato da subito di seguire e sviluppare gli step di cui parlo in questo libro. Prima i social e le relazioni con gli utenti, poi le relazioni e gli scambi di pareri con i blogger, a cui sono seguiti anche dei guest post da parte nostra su altri blog più influenti. Man mano che crescevamo, ci siamo resi conto che stavamo costruendo un seguito e una community di utenti appassionata alle tematiche di web marketing che trattiamo, grazie anche alla qualità degli articoli che scrivevamo e, a distanza di tempo, quando ci capita di realizzare e pubblicare un’infografica, non abbiamo bisogno di impegnarci in campagne di Digital PR per distribuirla ai blogger, perché sono loro stessi, seguendoci nei social o nei feed RSS, a fruire del contenuto e decidere di condividerlo. Non dobbiamo fare nient’altro. Se un contenuto ha valore, viene apprezzato in modo spontaneo dalla tua community. Nel prossimo paragrafo ti racconterò tre casi studio di successo con i contenuti, soprattutto per quanto riguarda la link earning, ma non soltanto! Per comprendere meglio come si sta evolvendo la SEO ho chiesto un parere a uno dei più storici e illuminanti blogger italiani legati alle SEO e al Web Marketing: Davide “Tagliaerbe” Pozzi.

Davide Pozzi LO STATO DI EVOLUZIONE DELLA SEO E I TREND EMERGENTI Personalmente mi trovo molto in sintonia – da sempre, a dire il vero – con il

concetto che ha preso piede con l’avvento di Hummingbird. Sto parlando del fatto di concentrarsi sul “dare risposte”, ovvero sul creare contenuti in grado di rispondere in modo esaustivo alle query degli utenti, che arriveranno sempre più attraverso device di ogni tipo, magari via voce e in mobilità. Se una volta il tormentone era quello di creare unique content, credo che ora debba obbligatoriamente essere quello di creare useful content. L’immagine della forchetta è molto esplicativa: non sempre unico significa utile, e quindi l’obiettivo dovrebbe essere quello di spostarsi sull’utilità, sul valore che il nostro contenuto può trasmettere a chi lo fruisce.

Fonte: Jessica & John Williams

Circa la tipologia dei contenuti, tieni d’occhio i video: ci sono settori (uno su tutti, quello delle ricette) dove i video sono ormai obbligatori per posizionarsi e ottenere grossi volumi di traffico. Se invece parliamo di trend più “tecnici”, sicuramente va considerato che oggi l’utilizzo del web è ormai a “3 livelli”: desktop, tablet e mobile, a seconda delle ore della giornata. Consiglio di aprire Google Analytics e di guardare come sono cambiati gli accessi del tuo sito da 5 anni a questa parte: in certi settori, volenti o nolenti, è ormai assolutamente necessario avere un sito responsive, o comunque fruibile in modo “piacevole” su schermi medio-piccoli.

Cosa c’entra questo con la SEO? Beh, c’entra abbastanza Google, in una guida ufficiale denominata Consigli per la creazione di siti web ottimizzati per smartphone, suggerisce di adottare il Responsive Web Design. E ci sono webmaster che affermano di aver visto decollare gli accessi a seguito del passaggio a responsive (un caso è documentato anche su Think with Google, un altro nella newsletter AdSense Insider di agosto 2014). Consideriamo infine – e anche questo è un punto che potrebbe non essere visto come collegato alla SEO, ma a mio parere, almeno in parte, lo è – l’enorme importanza della user experience. Dobbiamo lavorare per essere ricordati, perché il nostro brand entri nell’immaginario collettivo degli utenti, in modo che quando vedono il nostro nome nelle SERP di Google clicchino immediatamente sul nostro risultato. Una parte di questo risultato è raggiungibile lavorando sulla produzione di fantastici contenuti, ma una parte è anche merito della “confezione” che sta attorno al contenuto stesso: un ottimo layout, un sito pulito, usabile, bello, senza troppi orpelli e fronzoli, con contenuti ordinati e chiari, è certamente un qualcosa che devi adottare al più presto, se non l’hai già fatto: verrà apprezzato dagli utenti e quindi anche dai motori di ricerca.

L’ultimo contributo di questo libro è a opera di Francesco Margherita, uno che è riuscito a conciliare bene nel lavoro SEO e relazioni.

Francesco Margherita LA SEO DELLE RELAZIONI E DELLE INTERAZIONI Ti voglio parlare di una tendenza che credo avrà sempre maggiore peso nel computo dei segnali che Google ritiene importanti ai fini dell’attribuzione di ranking. Quest’ospitata mi consente una volta per tutte di dire qualcosa in più sui segnali sociali che ho già definito in quanto testo che sviluppa un’attribuzione di rilevanza rispetto a una chiave di brand, mettendola in relazione a un contesto preciso pertinente con gli ambiti di ricerca oggetto della campagna SEO. Una cosa importante da capire rispetto ai segnali sociali è che sono tanto più utili per il posizionamento, quanto più spesso provengono da fonti ben inserite nelle due

mappe di cui vado a parlarti. Social Graph È il grafo sociale, vale a dire la mappa delle relazioni che intercorrono tra utenti del web. Alla base delle considerazioni SEO sul social graph c’è il filone degli studi sulla network analysis di matrice antropologica, una scienza sociale che riflette sulle caratteristiche di certi individui all’interno di un network di relazioni, che riescono a sbloccare più facilmente risorse in virtù del fatto di collegare altri punti della rete che non sono in contatto tra loro. Pensaci un momento. Le persone con maggiore potere di influenza, fuori e dentro il web, sono i cosiddetti mediatori, cioè persone che occupano una posizione centrale tra altri individui tra i quali non intercorrono legami relazionali. Quanto più questi ultimi hanno peso nel loro ambito di riferimento, tanto maggiore sarà il potere di chi riuscirà a fare da “tramite” mettendoli insieme. Un mediatore non deve avere competenze specifiche, ma solo occupare quella particolare posizione nel network. Se riesci ad arrivare ad un influencer hai messo a segno un bel colpo, ma se arrivi ad un mediatore hai fatto bingo, perché il mediatore influenza gli influencer. Come puoi immaginare, non esistono strumenti automatici per individuare i mediatori, proprio per la loro natura di eminenze grigie. Si tratta di saper osservare i legami che esistono tra gli influencer che non sono già in rapporto diretto tra loro. Cos’hanno queste persone in comune? Molto si gioca sulle relazioni interpersonali. Molto spesso si tratta solo di mettere gli occhiali giusti, altre volte sono talmente occulti da essere inarrivabili... o quasi. Qual è il vero potere delle relazioni in ottica SEO? Immagina di voler innescare uno o più segnali sociali verso un sito web, intesi come menzioni autorevoli sui social network o articoli su blog di settore molto frequentati, magari prodotti da influencer in un dato settore. Facile certo, a patto di riuscire ad “acchiappare” gli influencer di cui sopra e convincerli a produrre tali segnali. Ebbene, per sfruttare questo potere, non devi rivolgerti agli influencer a meno che tu non li conosca già personalmente, ma ai mediatori che stanno un passo dietro di loro. I mediatori sono spesso eminenze grigie, anonime pur senza nascondersi. Entrare in relazione con queste figure ti consente in un batter d’occhio di liberare le risorse dell’intero network al centro del quale si trovano. Con il minimo sforzo, puoi ottenere un risultato enorme. Se ci pensi, mettendo i siti web al posto delle persone, quello che ottiene link da tanti altri siti influenti che però non sono in contatto tra loro è per sua natura il più trust. Il vero potere di un mediatore (ripeto) è nella sua capacità di influenzare gli influencer. Engagement Graph È il grafo di ingaggio, vale a dire la mappa delle interazioni tra gli utenti e i post. Si legge a due livelli: uno quantitativo, che attiene al numero (in senso assoluto) delle

interazioni degli utenti con i singoli post, un altro qualitativo, che si riferisce invece al potere di influenza o se preferisci alla rilevanza del singolo utente che interagisce con il post, rispetto all’argomento che questo tratta. Sei forte nell’engagement se i tuoi “vagiti” social ottengono tante interazioni come commenti e condivisioni e se fra tutte queste interazioni ce ne sono un buon numero “autorevoli”, vale a dire provenienti da utenti percepiti come influencer nello stesso ambito di cui ti occupi. ... E torniamo a parlare di influencer. È evidente come i due grafi descritti siano collegati tra loro, anche se a certe condizioni sprigionano il loro potere anche indipendentemente l’uno dall’altro. In sostanza è possibile fare SEO sfruttando il fatto che Google investe tantissime delle sue risorse nel tentativo di profilarci, allo scopo neanche troppo nascosto di proporci (venderci) contenuti sempre più vicini alle nostre esigenze e ai nostri gusti. È questo il suo modello di business: Google deve conoscerci quanto più possibile per quello di cui ci occupiamo. Questo è vitale. Quello che ho scoperto è che così come gli utenti si lasciano influenzare da chi ritengono autorevole, allo stesso modo i motori di ricerca tengono in considerazione i contenuti prodotti da autori che occupano posizioni rilevanti nei network di relazioni e che allo stesso tempo ottengono per i loro post una interazione consistente sulla base di quanto detto finora. Sì, in sostanza sto parlando di author rank, un concetto a cui tanti SEO non credono, soprattutto da quando non esiste più l’authorship di Google. Ma quella era solo la punta dell’iceberg... Conclusioni Alla fine di questo ragionamento, possiamo dire che un certo modo di condurre le pubbliche relazioni influenza i risultati proposti da Google nelle sue serp? Non in modo esclusivo, nel senso che social ed engagement sono solo due dei quattro grafi da tener presenti rispetto all’attribuzione di ranking: ce ne sono altri due, cioè il knowledge graph e il link graph, di cui non parlo in questa sede e che sono parimenti importanti. L’invito che ti faccio è approcciare la SEO sotto più punti di vista, cercando di produrre valore da trasmettere sia rispetto alla qualità dei contenuti che produci, sia nel rapporto e nello scambio con altri utenti del web, interagendo con essi, creando legami autentici, basati sull’intenzione reale e sincera di crescere insieme. Tutto qui. L’avresti mai detto che era così semplice?

6.6.3. Tre casi di successo di link earning con i contenuti Nella mia agenzia Webinfermento abbiamo abolito la classica link building,

ancora molto diffusa in Italia. Le nostre strategie per permettere alle aziende di acquisire link di qualità prevedono soltanto l’ideazione e lo sviluppo di contenuti di qualità. Questi possono essere articoli mini-guida che intercettano traffico di ricerca organico, guest post di qualità, infografiche di ogni formato e tipologia o anche l’ideazione di iniziative non convenzionali che, pur avendo come obiettivo primario l’acquisizione di link in entrata, riescono a produrre benefici anche a livello di social media, di buzz marketing e di branding. Perché è sempre meglio optare per la link earning piuttosto che per la link building? Ti elenco alcuni valide ragioni: 1. la link earning permette quasi sempre di acquisire link editoriali presenti nel contenuto testuale della pagina. Sono i link che più piacciono a Google 2. maggiore qualità dei link. Se sviluppi contenuti eccezionali hai buone possibilità di arrivare a essere citato e linkato anche da siti molto popolari e autorevoli, come quelli dei grossi quotidiani nazionali online 3. i link editoriali presenti nel contenuto della pagina invieranno traffico referral, soprattutto se il tuo contenuto viene condiviso e linkato su blog molto popolari. Il link costruito non sarà invece in grado di veicolare traffico referral, proprio perché, spesso, questi siti producono volumi molto bassi di traffico. Questo sarà un segnale che Google utilizzerà per comprendere la reale attività che c’è dietro l’acquisizione di link 4. i benefici della link earning non li vedrai soltanto da un punto di vista SEO, ma saranno visibili anche sul rafforzamento dell’identità di marca dell’azienda 5. un link può tirare l’altro. Questo perché, ad esempio, dalla pubblicazione di un’infografica su siti che producono molto traffico globale ne potranno seguire altre con altrettanti link acquisiti 6. rischierai certamente meno di essere penalizzato in futuro. Essendo i link editoriali e senza forzature dell’anchor text – proprio perché inseriti spontaneamente dal blogger – saranno link del tutto naturali e che permetteranno di costruire un profilo a prova di penalizzazioni algoritmiche e manuali. Di seguito ti illustro tre eccezionali case history di successo di Content Marketing per la SEO e, nello specifico, per l’acquisizione di link di qualità, ma di cui poi ha beneficiato l’intero brand. I primi due ho avuto modo di

svilupparli con la mia agenzia, mentre il terzo è un caso di un’azienda inglese che mi ha colpito per l’originalità e la tipologia di contenuto ideato. 6.6.3.1. Case study: l’infografica virale su sesso e cibo (Eboristeria Rodiola)

L’erboristeria Rodiola è uno storico e-commerce online di prodotti erboristici e integratori naturali. Dopo una campagna di content marketing composta da articoli mini-guida pubblicati sul blog e alcune infografiche di discreto successo, volevamo realizzare un prodotto che generasse buzz nei social media. Dal cliente ci fu dato un input importante in fase di brainstorming: tra i prodotti più venduti dello shop online vi erano proprio integratori naturali che aiutavano la vita sessuale di coppia. A questo input di tipo commerciale, ne è stato associato un altro di tipo sociale: gli argomenti in qualche modo legati al sesso sono quelli tra i più dibattuti nei social network e che generano spesso il maggior numero di conversazioni e condivisioni. Si è quindi palesata la possibilità di realizzare un’infografica che parlasse di sesso, facendo però attenzione a non farne un boomerang negativo nei confronti dell’azienda. Questo perché un’azienda di integratori erboristici non può permettersi di inciampare e finire nell’osé. Era quindi necessario associare all’argomento sesso un altro argomento con cui si potevano creare correlazioni statistiche che permettessero di realizzare la parte più utile di un’infografica, quella informativa. In accordo col cliente è stato quindi scelto come argomento il cibo. Il cibo infatti si presta benissimo ad essere associato al sesso: dagli studi sui cibi afrodisiaci a quelli che evidenziano le proprietà di determinati cibi che aiutano l’attività sessuale, la scienza da tempo si interessa al binomio sesso-cibo. Siamo quindi giunti allo sviluppo dell’idea finale: realizzare un’infografica che mostrasse la correlazione tra il numero di calorie consumate praticando

sesso nelle posizioni più note, sia per l’uomo che per la donna, e il loro equivalente calorico in termini di cibo. Abbiamo quindi concentrato la nostra attenzione su alcuni fattori critici di successo: garantire divertimento (humour) e informazione (ricerca sugli studi di consumo calorico delle posizioni sessuali) uscire fuori dagli schemi, osando! Infatti, sull’argomento sesso ci sono molti studi e articoli più o meno attendibili, ma poche infografiche. Quelle presenti mostrano più che altro omini stilizzati e poco espressivi. In accordo col cliente, che ha appoggiato l’iniziativa, abbiamo deciso proprio di disegnare i nostri due omini alla prese con le principali posizioni sessuali, in chiave comica. Questo elemento era ancora originale nel mercato italiano e, in generale, in tutto quello delle infografiche chiudere l’infografica strappando un sorriso. La vignetta finale, che mostra il consumo calorico per la donna adultera colta in flagrante dal marito e fornisce come apporto calorico equivalente non più un cibo ma due mesi di ricovero in ospedale, lascia nell’osservatore un senso di positività e di divertimento tale da invogliarlo ad una condivisione nei social media, per segnalare il contenuto ai propri amici. Sesso e cibo: istruzioni per l’uso [Infografica]. Calorie bruciate con il sesso, questo il titolo dell’infografica. Risultati L’infografica è divenuta “virale” in poche ore dalla sua pubblicazione. Facebook è diventata la vera piattaforma di rimbalzo dell’infografica, le cui condivisioni aumentavano esponenzialmente ad ogni refresh della pagina. Merito anche dell’anteprima visibile su Facebook, che mostrava proprio una delle vignette ironiche e che faceva da click-bait13 per tutti gli amici Facebook della persona che la vedeva sul sito e la condivideva cliccando su “mi piace”. Nelle prime ore dalla sua pubblicazione aveva ricevuto oltre 20.000 visualizzazioni e il giorno successivo aveva superato le 80.000. L’infografica è circolata molto anche negli altri social, finendo nei “temi caldi” di Google+.

I risultati sono stati ottimi soprattutto in termini di link earning, in quanto il contenuto, diventando virale, è stato notato subito da altri blogger e da testate

giornalistiche che, capendone le potenzialità, hanno deciso di ripubblicarla sui loro siti. La cosa grandiosa era che anche gli articoli con l’infografica pubblicati successivamente da altri siti e blogger diventavano a loro volta virali! I link acquisiti da questi siti si trasformavano poi in vettori di traffico referral dato che i lettori manifestavano curiosità e interesse nel conoscere chi era l’azienda che aveva ideato il contenuto. Abbiamo stimato una portata complessiva dell’infografica pari ad oltre 1 MILIONE E MEZZO DI VISUALIZZAZIONI! Una visibilità immensa per una piccola azienda. Sono stati acquisiti più di 200 link da oltre 60 domini unici, tra i quali c’erano anche siti autorevolissimi come Repubblica, Panorama.it, Leggo.it, Vanity Fair ecc. fino ad essere ripresa nella trasmissione radio Asganaway di RadioDeejay. Soltanto la pagina del sito Rodiola dove è caricata l’infografica conta più di 60.000 condivisioni nei social network, di cui 58.000 soltanto su Facebook. A livello SEO, i tanti link di qualità in entrata hanno permesso all’intero sito di migliorare i posizionamenti di un po’ tutte le chiavi di ricerca del sito, sia quelle principali sia quelle secondarie e correlate.

Fonte: Google Webmaster Tools

Ti ricordi quando ti dicevo che bisognerebbe scegliere sempre la link earning con i contenuti anziché la link building, perché la prima strategia permette di

ottenere benefici anche in termini di branding? Ecco, questo è un esempio lampante! Al di là dei link acquisiti e dei posizionamenti SEO migliorati, la marca ne ha giovato a 360 gradi AUMENTANDO IL SUO POSIZIONAMENTO SETTORIALE DI MERCATO. Quando fu pubblicata quest’infografica (settembre 2013) nella comunità SEO alcuni esperti parlavano già del fatto che le infografiche per la SEO e per il web marketing non funzionassero ormai più. Noi li abbiamo smentiti! Un contenitore può anche diventare obsoleto, ma il suo contenuto avrà sempre successo se l’idea in esso presente risulterà vincente. 6.6.3.2. Case study: #askarrigo l’Hangout On Air con Arrigo Sacchi (Betclic.it)

Betclic è una delle più importanti multinazionali operanti nel gioco online. Devi sapere che, a livello SEO, il settore del GAMBLING (o iGaming) è uno di quelli in assoluto più competitivi. Ci sono infatti tantissimi SEO ed agenzie SEO che competono giorno dopo giorno per tentare di aggiudicarsi le prime posizioni su Google di parole chiave come “casinò, casinò online, slot machine, scommesse, scommesse online, ecc.” Sono infatti parole chiave ad elevatissimo volume di traffico. La SEO nel settore del gioco online rende tantissimo e genera fatturati inimmaginabili. C’è però anche da dire che il Gambling è anche un settore molto aggressivo nella SEO e dove lo spam è all’ordine del giorno; è facile imbattersi infatti in serp così piene di spam che se Google dovesse penalizzare qualche sito si ritroverebbe a penalizzare intere serp. Spesso lo spam è relativo alla compravendita di link, ma non di rado riguarda anche tecniche illecite relative all’onpage, come, tra le tante, il testo nascosto mediante il CSS o lo sviluppo di tecniche cloaking.14 Per competere in settori come quello del Gambling servono infatti tanti link con anchor text piuttosto ricchi di parole chiave.

Lavorando anche in questo settore, ti assicuro che ne ho viste talmente tante che si potrebbe scrivere un libro intero sull’argomento. È una porzione di mercato in cui è davvero difficile acquisire link spontaneamente perché i blogger e i siti sanno perfettamente che i bookmaker fatturano tanti soldi. Di conseguenza pretendono di essere pagati se devono linkare uno di questi. Attraverso azioni di Content Marketing, come ad esempio la realizzazione di infografiche, si riesce ad aggirare il problema dell’ottenere dei link spontanei in entrata, ma a volte possono esserci dei limiti. Così diventa necessario armarsi di creatività e ideare soluzioni efficaci che consentano di creare relazioni con i blogger, senza doverli per forza retribuire. Nel novembre del 2013 per rispondere a tale esigenza, abbiamo pensato di dare la possibilità ad alcuni blogger selezionati di intervistare il mitico Arrigo Sacchi, storico CT del Milan e della Nazionale degli anni ‘90, che è anche il testimonial di Betclic per l’Italia. Il nostro obiettivo, come sempre nelle azioni di Content Marketing, non era soltanto quello di acquisire link in entrata, ma anche di fare branding, aumentando la percezione della marca Betclic quale agenzia di scommesse che avvicina i blogger ad un personaggio storico dello sport. Per fare tutto questo, abbiamo utilizzato uno strumento lanciato pochi mesi prima, L’HANGOUT ON AIR DI GOOGLE+, uno strumento gratuito e semplice da utilizzare. Il giorno dell’evento-intervista, chiamato #ASKARRIGO, 10 blogger e giornalisti tra sportivi ed esperti di social media hanno avuto l’opportunità di fare due domande a testa ad Arrigo Sacchi, che rispondeva ad ognuna di queste, elargendo perle di saggezza calcistica derivanti dalla sua esperienza. Ne è venuto fuori un video di 1 ora e mezza che è stato poi ripreso nei vari blog dei partecipanti all’evento e da altri che erano sintonizzati attraverso lo streaming. Sì, perché il punto di forza dell’Hangout On Air di Google+ è proprio quello di permettere la registrazione di un video direttamente sul canale YouTube dell’azienda, di embeddarlo all’interno di una pagina e di permettere la visione in diretta streaming da tutti i canali social o web. L’iniziativa ha avuto molto successo, sia per quanto riguarda l’acquisizione di link che per l’impatto positivo sul brand, grazie all’alto numero di visualizzazioni del video e di utenti collegati in diretta all’Hangout On Air.

Fonte: Betclic.it

6.6.3.3. Case study: il videogioco per i SEO (NetvoucherCodes.co.uk)

Il terzo case study che presento lo considero geniale per la tipologia di contenuto ideato per acquisire link: un vero e proprio VIDEOGAME! NetvoucherCodes è un’azienda inglese che commercializza codici sconto per l’acquisto di diverse categorie di prodotti e servizi. Diversi mesi fa, il loro sito è stato soggetto ad un attacco di Negative SEO,15 attraverso una serie di link esterni che puntavano al sito NetvoucherCodes sull’anchor text “deluso”. Per differenziare il profilo link e contrastare il valore di questi link negativi, hanno deciso che bisognava ideare un contenuto che attirasse link spontanei e che fosse al tempo stesso divertente. Come target di riferimento, essendo l’acquisizione di nuovi link di valore l’obiettivo primario, non hanno scelto i loro utilizzatori, ma proprio i SEO! Hanno così deciso di far sviluppare due videogame di stile retrò, che garantissero minuti (o ore) di divertimento ai SEO. Nel primo DonkeyCutts, puoi scegliere di impersonare uno dei più importanti SEO al mondo e cercare

di raccogliere quanti più punti possibili evitando panda, pinguini, black hat seo e link non naturali, fino ad arrivare a raggiungere il primo posto nelle serp di Google. Nel secondo, ChuckieLinks, devi rimuovere o rinnegare tutti i link di bassa qualità dal tuo sito prima che venga liberato il temibile pinguino! I due giochi sono stati accolti molto positivamente dalla comunità SEO internazionale e diversi sono stati i siti che ne hanno parlato, permettendo a NetvoucherCodes di acquisire circa 80 nuovi link da 75 nuovi domini unici.

KPI: Key Performance Indicators. Sono gli indicatori di successo nel raggiungimento di determinati obiettivi aziendali Il link dofollow è il link che trasferisce valore dalla pagina linkante a quella linkata. Un vero e proprio voto editoriale riconosciuto dai motori di ricerca Embed code: è un codice in formato html che permette di ripubblicare un’immagine in una pagina web senza doverla caricare fisicamente sul proprio server web Query: interrogazione del motore di ricerca Stop Words: sono parole come articoli e congiunzioni spesso filtrate nei processi di elaborazione del linguaggio naturale (NLP) tra uomo e macchina (il computer) 6

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Anchor text: è il testo che contiene il link ad un’altra pagina Per link da dominio unico si intendono quei siti che linkano il nostro almeno una volta. Per questo spesso si parla, nel conteggio dei link esterni, di n link da n domini unici. Click-bait: notizie o contenuti che attirano l’attenzione di un utente spingendolo al click e all’approfondimento grazie all’utilizzo di titoli e immagini che generano curiosità Cloaking: fornire due versioni di una pagina web, una per l’utente ed un’altra sovraottimizzata di keyword per i motori di ricerca Negative SEO: quando un SEO non è in grado di far crescere il proprio sito cerca di affossare quelli dei competitor. È l’insieme di tecniche che cercano di produrre risultati negativi per i siti competitor facendo scattare penalizzazioni algoritmiche o manuali. Quella più utilizzata è l’attacco di link bombing ad un sito utilizzando parole chiave considerate ad alto tasso di spam, come viagra, cialis, levitra, ecc. 11 12

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7. Content Delivery Distribuire contenuti a siti e blog d’interesse

Questo capitolo ha l’obiettivo di fornirti una strategia per individuare siti e blog tematici che potrebbero essere interessati a parlare e condividere i contenuti che hai appena realizzato. Ti indicherò, inoltre, le buone pratiche da utilizzare per contattarli, affinché tutta l’attività generi il più alto ritorno dell’investimento e la campagna di Content Marketing riscuota successo. 7.1. Blog outreach: la ricerca dei blog Con il termine outreach si intende tutta l’attività di ricerca e analisi dei siti cosiddetti prospect, ovvero siti web che, per qualche ragione legata ad uno dei nostri obiettivi di web marketing (organizzazione di eventi o blog tour, buzz marketing per lancio di nuovi prodotti da far testare ai blogger, concorsi a premi o acquisizione di link per la SEO), potrebbe interessarci contattare per l’avvio di una partnership. Alcuni consulenti americani fanno rientrare nel termine outreach tutto il processo di distribuzione del contenuto o dell’eventuale buzz kit. Preferisco però distinguere le due attività e intendere con outreach soltanto le attività di ricerca e di analisi dei siti e blog d’interesse. Diversamente, l’attività vera e propria di distribuzione del contenuto viene chiamata seeding. Queste attività non sono in realtà recentissime. Nascono qualche anno fa con le DIGITAL PR, forma più recente e avanzata delle vecchie PR, come strategie creative che coinvolgevano i blog più influenti affinché si creasse del buzz (o “rumore”) attorno ad un prodotto, una marca o un evento. L’agenzia di turno specializzata solitamente creava il cosiddetto BUZZ KIT, che era rappresentato da un pacco, dal contenuto misterioso, e una serie di indizi,

oppure il prodotto da testare, e lo inviava ai blog selezionati e che accettavano di essere coinvolti nel programma di ambassador. Il buzz kit creava stupore nel blogger (ma anche esclusività, infatti erano selezionati solo alcuni blogger) e aspettativa nei lettori che poi leggevano l’articolo di recensione del prodotto o che descriveva, con testo e foto, il kit ricevuto. Con il passare degli anni queste strategie si sono estese anche ai contenuti digitali, ovvero i buzz kit potevano anche essere dei video e venivano “seminati” (appunto dall’inglese seeding) ai blog pre-selezionati. Più recentemente, queste attività di Digital PR hanno interessato anche la SEO, soprattutto in seguito alla crescita dell’utilizzo di strategie di Content Marketing per l’acquisizione di nuovi link in entrata. Il primo step da affrontare è quello di individuare i migliori blog di riferimento in target con la nicchia d’interesse, a cui seguirà la misurazione delle loro metriche d’influenza/interesse, prima ancora di arrivare al contatto vero e proprio. Siamo quindi, nella fase di BLOG OUTREACH. Ci sono diversi modi per individuare i blog di riferimento. Di seguito ti elenco i principali. 1. ATTRAVERSO LA RICERCA SU GOOGLE

Questo è il metodo più dispendioso, ma anche il più profittevole in termini di risultati che possiamo ottenere e ciò che ti viene in aiuto è la stessa Google Search. Poniamo il caso che tu sia interessato ad individuare dei blog legati al settore della cucina. Per fare questo, puoi semplicemente lanciare su Google una semplice ricerca contenente la frase “blog cucina” e iniziare a esaminare i risultati restituiti. Puoi in alternativa utilizzare gli OPERATORI DI RICERCA AVANZATI DI GOOGLE per trovare pagine web in modo ancora più preciso. Ecco alcuni utilizzi strategici degli operatori di ricerca avanzati: INURL:BLOG CUCINA: che andrà a restituire come risultati quelle pagine

web la cui url presenta le parole “cucina” e “blog” e avrai così già una prima lista di siti da esplorare e sarai certo che si tratterà dei blog di cucina o dei siti che parlano di altri blog di cucina. Questa ricerca però ti restituirà tutti i risultati di Google Search che rispondono a quel comando di ricerca, quindi anche quelli in lingua inglese. Se vuoi filtrare i risultati perché sei interessato soltanto a quelli in lingua italiana puoi cliccare su “Strumenti di

ricerca”, presente nel menu di Google Search, e nel menu a tendina “Qualsiasi Paese” scegliere l’opzione “Paese: Italia” e avrai così soltanto pagine web in italiano. INTITLE:BLOG CUCINA: permetterà di ricercare pagine web le cui parole chiave da te indicate sono presenti anche nel title tag della pagina. INTITLE:CUCINA SITE:.IT INURL:BLOG: permetterà di trovare blog italiani che parlano di cucina soltanto su domini con estensione .it. Sicuramente adesso avrai già tanta carne al fuoco per iniziare una prima analisi. 2. UTILIZZANDO SITI DI CLASSIFICAZIONE TEMATICA DEI BLOG

Esistono diversi siti che aggregano i blog per area tematica in funzione di una sorta di ranking, spesso molto blando e a volte inaffidabile per operazioni di outreach. Meno efficace come strategia della ricerca manuale, può essere comunque un buon punto di partenza per approfondire le analisi in fase successiva. I migliori aggregatori di blog in Italia sono Teads, BlogBabel di Liquida e Blogitalia. 3. UTILIZZANDO TOOL E STRUMENTI ESTERNI

In commercio puoi trovare diversi tool e software, alcuni gratuiti, altri a pagamento, altri ancora in versione freemium, che potrai comunque testare per reperire preziose informazioni da parte di utenti influenti su Twitter, che spesso avranno anche un blog personale d’interesse. Caratteristiche in comune tra questi strumenti è che ti permettono di fare ricerche semantiche sulla base delle keyword che vengono inserite, restituendoti una lista di utenti e i loro profili sociali collegati e le url dei loro blog. Tra i migliori che mi sento di suggerirti troviamo Followerwonk, di Moz, a pagamento ma gratuito (con qualche restrizione) per un account Twitter, Inkybee (a pagamento) e Buzzstream, forse il migliore, soprattutto in ottica link earning, ma comunque sempre a pagamento e con la possibilità di testarlo gratuitamente per un periodo limitato di tempo. 4. ESPLORANDO I BLOGROLL, SITI CONSIGLIATI DAI BLOG

Ci sono ancora siti e blog che si scambiano link contestuali o che hanno sezioni in cui consigliano siti di qualità; è anche in spazi come questi che devi andare a cercare perché le informazioni che troverai spesso non ti deluderanno.

7.1.1. Analizzare i siti Una volta individuato un bel numero di blog di tuo interesse, partirai con la loro analisi. Inizia ora a creare un file Excel, che ti servirà anche in seguito e che chiamerai ad esempio “Blog Outreach”, nelle cui celle inserirai le informazioni di interesse. Solitamente, in un file Excel di Outreach non faccio mai mancare questi elementi, che contrassegnano il nome di ogni colonna: url del sito Domain Authority Facebook like Twitter follower contatto email altri contatti (es. account Twitter o numero di telefono) data di contatto data di pubblicazione url dell’articolo pubblicato. I primi quattro punti del file Excel ti saranno utili in fase di analisi, i restanti in fase di contatto del blogger. Quando si guarda ai blog di interesse, le metriche di riferimento possono essere differenti a seconda che tu sia interessato alla costruzione di una relazione con il blogger per strategie di acquisizione di link o per attività di buzz marketing. Nel primo caso si guarderà piuttosto alle METRICHE SEO, mentre nel secondo caso sarà necessario prestare più attenzione all’INFLUENZA SOCIALE DEI BLOGGER, alla reach delle conversazioni che si sviluppano nei commenti e nei loro account sociali. Il mio consiglio è quello di scegliere i blogger di riferimento in funzione del possesso di apprezzabili metriche di entrambe le tipologia appena discusse. Andiamo quindi ad analizzare i seguenti fattori. METRICHE SEO

Domain Authority e Trust Rank (di Moz), Citation e Trust Flow (di Majestic) e anzianità del dominio. Le metriche Domain Authority e Citation Flow rappresentano un punteggio di popolarità del sito, che va da 0 a 100, mentre Trust Rank e Trust Flow sono punteggi più legati alla fiducia del motore di ricerca rispetto al sito, in base alla vicinanza di quest’ultimo rispetto a siti

considerati “spam” e agli altri più autorevoli. Ci sono poi altre metriche a cui guardare che saranno molto utili soprattutto per attività SEO e di acquisizione di link. TRAFFICO DEL SITO

Non è detto che un sito che presenta buone metriche SEO abbia un traffico interessante. Per avere una stima più o meno attendibile del traffico complessivo e conoscere anche la ripartizione percentuale del traffico di un sito, puoi utilizzare uno strumento come SimilarWeb. Se invece ti interessa più che altro avere una stima del traffico organico di un sito, ti consiglio di utilizzare SemRush (nella versione free permette comunque di avere una buona stima attendibile del traffico organico del sito).

Un esempio di traffico organico di un sito da Semrush (fonte: Semruch.com) ACCOUNT SOCIALI

Certo, non dovrai badare tanto al fatto di trovare migliaia di follower/liker iscritti agli account, quanto ad analizzarne i loro post, i commenti e i like ricevuti, le conversazioni con utenti singoli su Twitter, ecc. È necessario che ci sia un discreto livello di engagement e interazione tra admin e utenti sui post. COMMENTI AGLI ARTICOLI SUL BLOG

Un articolo poco condiviso sui social, ma con molti commenti nel blog, è molto più utile di uno con diverse condivisioni sociali ma che presenta poche conversazioni all’interno dei commenti. I commenti negli articoli sono infatti segno di apprezzamento e seguito da parte dei lettori, che sono abbonati ai feed RSS o iscritti alla newsletter del blog. Ti do un consiglio: al di là di quanto visto finora, presta molta attenzione al

fatto che il sito sia gestito e curato da una redazione vera, composta da autori di qualità che siano anche coinvolti nella condivisioni degli stessi articoli nei loro account sociali. 7.2. Blog seeding: la distribuzione di contenuti ai blog Dopo aver trovato i blog di tuo interesse e averli analizzati per scartare quelli non utili ai tuoi obiettivi di mercato, lo step successivo è la distribuzione dei contenuti. Anche questa attività viene suddivisa in due passaggi: il reperimento delle informazioni di contatto e il processo di distribuzione vero e proprio. 7.2.1. Reperire le informazioni di contatto Questo è forse lo step più critico e impegnativo di tutta l’attività di Digital PR. Se commetti un errore in questo step, manderai in aria tutto il lavoro fatto finora. È essenziale, dunque, prima reperire le informazioni di contatto del blogger e poi iniziare a studiare il processo per contattarli. Potrai trovare tali informazioni manualmente, impiegando decine di ore del tuo tempo, oppure avvalerti dei migliori tool in circolazione. Molti dei tool in circolazione sono a pagamento, ma se sei arrivato ad occuparti di Digital PR avrai anche un budget a disposizione per queste attività. Pianifica quindi di dedicarne una parte all’acquisto delle licenze dei tool. Generalmente i blogger con un minimo di influenza rendono pubbliche le loro informazioni di contatto, in quanto spesso vogliono essere loro stessi a rendersi visibili per partecipare a programmi di brand ambassador.16 Solitamente servirà individuare l’indirizzo mail. Alcune volte sarà possibile trovarlo direttamente nell’header o nel footer di un sito. Altre volte ci sarà un form di contatto al quale inviare una mail. Altre volte ancora non troverai alcun contatto utile. Come fare in questi casi? Puoi sempre provare ad utilizzare il servizio Whois, che fornisce informazioni sull’intestatario del dominio, anno di creazione e, se sei fortunato, potresti anche trovarci un indirizzo email attraverso il quale contattare il webmaster. Qualora non riuscissi in nessun modo a reperire un indirizzo email o un form di contatto sul sito, puoi contattare direttamente qualcuno dei redattori/editori del blog. Solitamente, infatti, troverai i loro account Twitter, Facebook o Google+. Arrivato a questo punto avrai raccolto una mole di informazioni tali con cui

avrai arricchito il tuo file Excel. Avrai aggiornato la tua lista di siti e blog prospect, scartando quelli che non presentavano buone metriche di influenza e quelli di cui ti è stato impossibile trovare delle informazioni di contatto, e ti ritroverai una lista di siti altamente targetizzata, pronta ad essere utilizzata per diffondere i tuoi contenuti. 7.2.2. Il processo di distribuzione Ti suggerisco di iniziare scrivendo delle mail con l’obiettivo di sensibilizzare il destinatario, di ottenere la sua attenzione e possibilmente una sua risposta, meglio ancora se positiva. È infatti qui che potremo misurare la vera e propria conversione, non di tutta la più ampia attività di Digital PR, ma almeno di quella di blogger outreach. Obiettivo del processo di distribuzione è quindi quello di portare il nostro contenuto all’attenzione del webmaster o blogger che potrebbe essere interessato sia a fruirne sia a parlarne nel suo blog, sapendo che i suoi lettori apprezzerebbero. Ti do un ulteriore consiglio: cerca di individuare quei siti che in passato hanno già trattato l’argomento in linea col contenuto che vuoi diffondere. Ci saranno sicuramente maggiori possibilità di ottenere delle pubblicazioni. Prima di procedere oltre, è necessaria una premessa. Non tutte le mail di sensibilizzazione avranno successo, anzi solo una piccola parte di queste permetterà di raggiungere dei KPI, come l’ottenimento di una pubblicazione con un link in entrata o la promozione di un nuovo prodotto da testare o di un evento che verrà organizzato. Tutto questo è naturale. I blogger e i webmaster più influenti sono sempre più bombardati da email contenenti principalmente comunicati stampa del tutto inutili e privi di interesse per loro, che vengono inviati da antiquati uffici stampa a una mole di indirizzi email indistinta. Di conseguenza il blogger tende sempre più facilmente a non fidarsi delle mail che riceve e a cliccare sul tasto “spam”. Bisogna evitare di commettere errori grossolani. Tra le buone pratiche per contattare i blogger c’è sicuramente quella di personalizzare la mail. Le mail massive non hanno mai funzionato molto, basti pensare che quelle che mi arrivano contenenti un generico “gentile editore, gentile redazione, gentile azienda ecc.” suscitano in me l’immediato impulso di un’azione di click sul tasto “spam”.

Chi lavora nelle Digital PR deve almeno prendersi la briga di analizzare i contenuti del blog e gli argomenti trattati. Se sul mio blog si parla di web marketing, di social, di SEO, ecc. perché dovrei mai mettermi a parlare di congressi medici sull’osteopatia?? Sai perché capitano questi episodi? Perché spesso gli uffici stampa acquistano liste di indirizzi email non profilate a basso costo che poi utilizzano nelle loro campagne. Questo è solo un esempio, ma immagina a quante inutili email sono sottoposti giornalmente i tanti blogger a opera di presunti PR specialist. Evitiamo quindi di fare errori del genere e se notiamo che il blogger ha un nome e si chiama Mario, chiamiamolo Mario quando lo contatteremo. Altro errore da evitare è quello di inserire nel campo dedicato al mittente tutti i destinatari. Ti giuro che è una pratica molto diffusa ed è il modo più stupido di bruciarsi la possibilità di ottenere l’attenzione di una persona. Ricorda di utilizzare il ccn (copia nascosta) nelle email se dovrai inviare un messaggio a più indirizzi mail contemporaneamente. 7.3. Le buone pratiche del mail seeding Scrivere delle email e fare in modo che tutte queste producano risultati, come ti ho già anticipato, è praticamente impossibile. Le variabili legati al fatto che un blogger decida di risponderti sono tante. Considera anche che, di tutte le email che invierai, una parte di questa non giungerà mai al destinatario, bloccata dai filtri bayesiani e un’altra parte finirà nello spam o posta indesiderata. Di quelle che il blogger deciderà di aprire e leggere, riceverà una risposta soltanto una parte più piccola. Obiettivo è quindi quello di attirare l’attenzione del blogger sin dal primo elemento visibile: il mittente e l’oggetto. Di seguito alcuni consigli per ottimizzare al meglio il tuo messaggio. 1. IL MITTENTE

Ci sono due modi per presentarti. Puoi farlo come singola persona, e quindi evidenziandolo già dal mittente e poi nella parte di presentazione della mail e nella firma, oppure come azienda. Se ti presenti come azienda nel mittente della mail potrà anche darsi che nel corpo farai riferimento al fatto di essere un dipendente di quell’azienda, quindi ti firmerai con nome e cognome. Fin qui nulla di strano, se non fosse che un blogger influente riceverà moltissime email al giorno e la sua scelta di leggerle dipenderà dal mittente e dall’oggetto di queste. Questi due elementi devono destare curiosità.

Una cosa che ho testato personalmente, lavorando ai progetti della mia agenzia, è che presentarsi come azienda X nel mittente non è sempre la soluzione migliore. Mette in allarme il destinatario, che arriva a pensare che un’azienda voglia vendergli qualcosa o che si tratta di comunicati stampa inviati a centinaia di persone. Diversamente, presentarsi come una singola persona produce risultati, in termini di apertura delle mail, decisamente migliori. 2. L’OGGETTO

L’oggetto della mail avrà l’obiettivo di convincere il destinatario ad aprire e leggere l’email. È qui che dovrai inserire la tua migliore call-to action. Scrivi un oggetto convincente che crei curiosità e che dia l’anteprima del contenuto che stai inviando, come nell’esempio qui sotto.

3. PERSONALIZZA LE EMAIL

Ricorda sempre di personalizzare le email col nome del blogger se gli autori hanno un nome e cognome visibile direttamente nel sito. Non partire con il classico “gentile redazione”, che va bene per i giornali digitali, ma non per dei blog curati da un’unica persona.

4. UTILIZZA GLI INDIRIZZI EMAIL PERSONALI

Cerca sempre indirizzi email degli autori del blog piuttosto che il generico info@. Sarai più sicuro di avere un tasso di apertura maggiore rispetto a quelle caselle email generiche di contatto di un blog.

5. ATTENZIONE AL MESSAGGIO

Presentati e dimostra di conoscere e seguire il blog. Presta molta attenzione nel presentarti sempre, dicendo chi sei, di cosa ti occupi e per chi lavori. Dimostra, subito dopo, di conoscere e seguire il blog in questione. Questo eviterà che il blogger, mentre legge la mail, percepisca il suo come un contatto spassionato e spersonalizzato.

6. ATTENZIONE AL MESSAGGIO

Linka il contenuto, mostra esclusività e selezione del blog. In fase di outreach avrai cercato e analizzato una serie di blog e siti web di interesse. Quelli che ora stai contattando sono i blog che reputi esclusivi. Descrivi sempre brevemente il contenuto e linka la fonte originale. Fornisci anche del materiale editoriale in allegato, come un embed code per infografiche, la versione statica dell’infografica o altro materiale della cartella stampa.

7. LA CHIUSURA DEL MESSAGGIO

In questa ultima fase, ringrazia il destinatario e chiedigli di notificarti l’avvenuta pubblicazione, sul suo blog, del tuo contenuto (articolo, infografica, spot-video, ecc.). Queste che abbiamo visto finora sono le classiche buone pratiche che ogni PR dovrebbe seguire per distribuire dei contenuti di interesse nella blogosfera. Tuttavia è possibile anche testare varianti differenti che potrebbero permettere di raggiungere risultati migliori. Questa osservazione nasce dal fatto che molti blog sono bombardati da email

che, anche se ben scritte e con una certa personalizzazione, vanno dritto all’obiettivo del PR manager: ottenere una pubblicazione o un link (per i SEO). Il processo classico di seeding è quindi piuttosto standardizzato e variarlo potrebbe introdurre un elemento di novità, anche agli occhi di chi riceverà la mail, che potrebbe aumentare il ritorno dell’investimento. Il processo di seeding alternativo che suggerisco parte col pitch iniziale, quindi con l’invio della prima mail, ma a differenza del classico pitch, con questa email non portiamo il nostro contenuto (o l’oggetto della nostra richiesta) subito all’attenzione del blogger, mediante il link. Con questa prima mail ci limitiamo a descrivere il contenuto al blogger e a chiedergli se è interessato ad approfondire il contenuto. Soltanto in caso di risposta, chiedendo maggiori approfondimenti, gli risponderemo inviandogli il link al contenuto e, sempre nella nostra risposta, potremo proporgli l’invio di un breve testo introduttivo originale e unico a corredo del nostro contenuto, che potrà utilizzare per la pubblicazione. Perché il testo introduttivo? Considera che per ogni richiesta che il blogger riceve dovrebbe poi scrivere un articolo. Sono convinto che molte mail di seeding non hanno successo per via anche del fatto che il blogger non abbia voglia di impegnarsi ulteriormente a scrivere un articolo per ogni azienda che gli chiede di farlo, anche se i contenuti sono meritevoli di passaparola. Soprattutto se deve farlo gratuitamente. Proporgli quindi l’invio di un testo introduttivo (almeno 200 parole), unico e originale, permette di ridurgli al minimo l’impegno e di avere un contenuto già pronto per essere schedulato nel calendario editoriale del suo blog, pronto per la pubblicazione.

Fonte: Webinfermento

Considera anche di fare un follow up, sia in fase di pitch iniziale sia in fase di interesse già mostrato, per quei blogger che non hanno più dato risposta. Attendi però almeno 7-10 giorni prima di inviare una nuova email.

Brand ambassador: è un utente coinvolto in attività di buzzing nei confronti di un brand o di un suo prodotto/servizio. Il brand ambassador ha solitamente la capacità di influenzare altri utenti 16

8. Le metriche da misurare

Le strategie finora descritte dovranno essere eseguite in maniera costante e crescente nel tempo, in modo da ottimizzare i risultati che si potranno raggiungere. È però possibile iniziare a misurare i risultati di quanto la tua azienda sta producendo. È bene distinguere tra metriche dei social media, più legate alle attività di ascolto, conversazioni ed engagement sviluppate nelle community, e metriche di Content Marketing, che andranno a misurare i risultati operativi prodotti nel breve e lungo periodo dai contenuti diffusi nella rete. 8.1. Metriche dei social media Per misurare le metriche dei social media un ottimo suggerimento ci viene dal mitico Avinash Kaushik, guru della Web Analytics e Digital Evangelist di Google, che fornisce quattro ottime metriche. 1. CONVERSATION RATE

Il Conversation Rate è dato dal numero medio di commenti (o risposte) per post. Può essere misurato su ogni canale sociale dove l’azienda è attiva (Facebook, Twitter, Google+ ma anche il blog) ed è indice di partecipazione e attività del pubblico con i contenuti proposti dal brand. Secondo Avinash è utile misurarlo in quanto un’alta partecipazione del pubblico è sintomo di ottima comprensione delle preferenze del pubblico. Se riesci a comprendere cosa vuole il tuo pubblico nei social media, hai già ottenuto tre quarti del successo sui social. 2. AMPLIFICATION RATE

L’Amplification Rate vuole misurare il tasso di amplificazione di un messaggio aziendale nei social media. Se la voce di un brand ottiene amplificazione, è indice della sua influenza e autorevolezza nel settore ma

anche del fatto che il pubblico tende a fidarsi dei suoi messaggi. L’Amplification Rate è quindi misurabile con il numero medio di Retweet per post, il numero di condivisioni dei post su Facebook, dei video YouTube, ecc. 3. APPLAUSE RATE

L’Applause Rate è la metrica che permette di conoscere cosa piace al proprio pubblico. Avinash suggerisce di monitorare costantemente i post dei social media che ricevono più mi piace, più favoriti, più +1, ecc. 4. ECONOMIC VALUE

Ogni metrica non ha senso se non viene associata a un valore economico e, quindi, a un ritorno dell’investimento per l’azienda. È per questo motivo che Avinash suggerisce di andare a misurare l’impatto economico dei social media in tutto il processo di vendita innestato dalle attività online, isolandolo dagli altri canali. I social media di solito contribuiscono a generare le MICRO-CONVERSIONI, in quanto impattano nella fase iniziale del processo di acquisto di un utente, svolgendo il ruolo di influenzatori di decisioni d’acquisto. Le email invece rientrano nella macroconversioni, poiché raggiungono l’utente nello step finale del suo percorso d’acquisto e contribuiscono a fargli completare l’acquisto finale.

Fonte: Kaushik.net

Attribuendo un valore economico alle conversioni generate dai social media potremo anche dimostrare come i social riescano a produrre un risultato.

Fonte: Kaushik.net

8.2. Metriche di Content Marketing Quando parliamo di Content Marketing le metriche da analizzare cambiano,

ma in qualche modo sono sempre legate al buzz che è in grado di generare il tuo contenuto. Le metriche di Content Marketing possono essere tantissime, a seconda dell’obiettivo della campagna. Se ad esempio i contenuti sono stati utili alla promozione di una destinazione turistica, attraverso un blog tour, verranno misurati e analizzati gli articoli prodotti, le conversazioni nate sul blog, quelle attraverso i commenti, le condivisioni sociali degli articoli nei social media. Verranno conteggiati i COMMENTI E GLI ALTRI SEGNALI SOCIALI a partire dagli articoli condivisi, il numero di link al sito promotore del blog tour, ecc. Diversamente se l’obiettivo della campagna è quello di testare un nuovo prodotto ancora da lanciare, si farà più attenzione a raccogliere sì le metriche quantitative (numero di post, numero di segnali e condivisioni sociali, numero di commenti, ecc.) ma SOPRATTUTTO AD ANALIZZARE QUELLE QUALITATIVE, ovvero il sentiment delle conversazioni. Sarà necessario quindi approfondire quello che gli utenti pensano del tuo prodotto. Infine, se l’obiettivo primario è quello di acquisire link in entrata per migliorare il posizionamento del sito nei motori di ricerca, bisognerà conteggiare i link acquisiti, la loro autorevolezza, il traffico referrer inviato e l’influenza che avranno nel MIGLIORARE I POSIZIONAMENTI SU GOOGLE DELLE PAGINE WEB. Ci sono tuttavia delle metriche da misurare che possono essere comuni a tutti gli obiettivi delle campagne di Content Marketing. 1. TRAFFICO DELLA PAGINA

Il traffico di una pagina dove viene presentata un’iniziativa, un concorso a premio, un’infografica, un video o un articolo di qualità può essere già il primo indicatore di successo di una campagna, soprattutto se presenta volumi elevati. 2. NUMERO DI CONDIVISIONI SOCIALI DELLA PAGINA

Utile per comprendere quanta diffusione ha avuto un contenuto ospitato su un sito aziendale. 3. TASSO DI RIMBALZO DELLA PAGINA

Se il contenuto è di qualità, il tasso di rimbalzo sarà molto basso e l’utente sarà invogliato ad approfondirlo e poi a condividerlo con la propria cerchia di follower.

4. REFERRAL TRAFFIC

Questa metrica è utile per tutti quei contenuti che vengono condivisi a partire dal sito o blog dell’azienda che li produce, ma che vengono anche ripubblicati su altri blog tematici. Pensa ad esempio a un’infografica ripubblicata su altri blog attraverso un embed code. Tutti gli utenti che cliccheranno sull’infografica verranno reindirizzati sul blog dell’azienda che l’ha prodotta e questo sarà un segnale di apprezzamento del contenuto e di curiosità nel conoscere l’azienda che sta dietro all’iniziativa. 5. AZIONI A PARTIRE DALLA PAGINA

Questa è la metrica più importante fra tutte. Se gli utenti finiscono con l’acquistare un prodotto, compilare un form sul sito o anche soltanto iscriversi ad una mailing list a partire dalla pagina in cui è presente il contenuto, quest’ultimo sarà stato in grado di introdurre l’utente nel funnel di vendita che lo porterà, prima o dopo, a diventare un cliente dell’azienda. Se nella campagna sono state utilizzate anche le DIGITAL PR, cerca di valutarne il risultato, misurando il tasso di apertura delle email e le pubblicazioni e gli articoli ottenuti rispetto al numero di email inviate.

9. Conclusioni

9.1. Il Content Marketing è per tutti? Ricordo un’osservazione che veniva spesso fatta dal pubblico partecipante ai convegni sul web marketing, quando si parlava dell’utilità dei contenuti per la SEO e i social media. In particolare, imprenditori e operatori del web marketing sostenevano che produrre contenuti costasse molto alle imprese e che c’era il rischio che questi potessero non generare i risultati sperati. Dopo i crolli di molti siti web penalizzati dall’algoritmo antispam Penguin di Google, la produzione di contenuti diventava un nuovo approccio più sicuro per acquisire link in entrata e rafforzare la visiblità del brand nella rete e nella blogosfera. Non tutti però avevano le risorse e le capacità per produrre contenuti eccezionali, come un’infografica che permettesse di acquisire link, traffico in entrata e condivisioni e menzioni nei social media. In realtà però, se ben ci pensiamo, bisognerebbe analizzare la questione da un punto di vista differente. In questo libro ho descritto un percorso composto da fasi strategiche da sviluppare una dopo l’altra. Ogni percorso è propedeutico a quello successivo e se provassimo a ottenere risultati partendo dal percorso di produzione e distribuzione di contenuti premium ai blog e ai siti web, ci troveremmo di fronte a due variabili: costi eccessivi e non sostenibili da piccole e medie imprese poca garanzia di raggiungimento dei KPI. Le motivazioni sono facilmente intuibili. Una piccola o media azienda che voglia partire da quello step senza aver prima sviluppato una visibiltà multicanale e un brand riconoscibile dovrà “spingere” maggiormente i propri contenuti affinché attirino l’attenzione del pubblico target. Questo vorrà dire che quei contenuti andranno promossi con advertising, affiliazioni o altri strumenti a pagamento, che diverranno per le aziende un costo vivo e che,

andandosi a sommare ai costi di sviluppo dei contenuti, saranno insormontabili per molte piccole imprese. Il fatto di avere poca visibilità nel web non permetterà di raggiungere i risultati sperati, come ad esempio un numero elevato di condivisioni nei social media del contenuto e di articoli che parlano dello stesso, proprio perché un’azienda visibile costruisce fiducia nel suo pubblico e i blogger parlano più facilmente di aziende conosciute. Rispondendo quindi alla domanda con cui si apriva questo paragrafo, il Content Marketing è per tutti a patto che si rispetti una crescita graduale e strategica che produca risultati che permetteranno di generare quelle risorse utili ad investire nello step successivo. La SOSTENIBILITÀ DELL’INVESTIMENTO deve essere la parola d’ordine. Questo testo si apre con il capitolo dedicato alla presenza nei social media, perché sono convinto che i social siano quei canali in cui l’azienda possa iniziare davvero a farsi conoscere, prima che dalla blogosfera, dal suo pubblico target e, quindi, dai suoi futuri e attuali clienti. LA COSTRUZIONE DELLA REPUTAZIONE DI UNA MARCA INIZIA PROPRIO DAL FEEDBACK LASCIATO DA UN UTENTE SODDISFATTO.

Tutto il resto è secondario. Ricordalo. Costruire un piano editoriale di contenuti per i social media richiede, come sappiamo, degli investimenti che permettono di generare un ritorno economico che darà impulso a nuovi investimenti diretti a sviluppare lo step successivo, quello delle relazioni. Il valore economico prodotto dalle relazioni permetterà a sua volta di aumentare l’identità e la visibilità della marca, che inizierà a ricevere menzioni e link da altri siti, e questo ci porterà allo step successivo, ovvero alla possibilità di sviluppare contenuti eccezionali e di alto valore, che permetteranno alla marca di posizionarsi tra i leader del suo segmento di mercato. 9.2. Il futuro del Content Marketing Il futuro del Content Marketing è in realtà già il suo presente. Il Content Marketing è sempre esistito. Da sempre vengono prodotti e diffusi contenuti dalle aziende, da molto prima che nascesse il digital marketing e il web. Quello che si è evoluto nel tempo sono i loro contenitori, le cui forme sono proliferate nel tempo, e il modo in cui i contenuti vengono fruiti dagli utenti. Il web ha permesso ai contenuti di moltiplicarsi, di amalgamarsi e di avere una realizzazione per certi versi più immediata e semplice, rispetto ai contenuti prodotti nel mondo offline, ma possiamo dire che sono sempre esistiti da

quando esiste il commercio. In fondo cosa è una propaganda commerciale che, oltre a presentare un invito all’azione, fornisce anche delle informazioni utili al lettore, se non un contenuto? È lecito quindi aspettarsi un futuro sempreverde per i contenuti, che continueranno ad esistere e ad avere un peso determinante in tutte le strategie di marketing on line e non solo. Ora è tutto pronto. Metti in moto la tua Content Marketing Machine e preparati a sfornare contenuti di successo con cui conquistare i tuoi clienti.

Dario Ciracì Autore del blog Webinfermento e fondatore dell’omonima digital marketing agency. Laureato in Economia e Marketing all’Università di Urbino, è specializzato nello sviluppo di strategie di Web Marketing volte a creare visibilità alle aziende nei Social Media, nella SEO e nel Content Marketing. Si occupa di web marketing dal 2009 e ha contribuito a trasformare il blog Webinfermento in una delle più autorevoli fonti di informazione sul settore in Italia. Ha lavorato per diverse aziende in settori anche molto differenti, tra i quali: turismo, benessere, arredo, congressuale, luxury, eCommerce, gioco online, B2B, Pubblica Amministrazione. Tra i suoi clienti: Bwin, Betclic.it, Gazzabet (Gazzetta dello Sport - RCS), Targus, Rodiola.it, Comune di Ceglie Messapica, Achab, Pizzicato Eco B&B. Docente in diversi corsi di formazione e master, è spesso chiamato come relatore alle più importanti conferenze nazionali sul web marketing.

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