Daniela Coppola_Anemoi.morfologia Dei Venti Nell'Immaginario Della Grecia Arcaica
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Daniela Coppola
Anemoi Morfologia dei venti nell’immaginario della Grecia arcaica
Liguori Editore
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Indice
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Premessa
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Introduzione
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Capitolo primo I venti come potenze 1. Morfologia dei venti 9; 2. ‚Anemoi-qu@ella 12; 3. Me@nov aène@mou 17; 4. ‚Iv aène@mou 20; 5. Pnoih# aène@mou 21; 6. Ouùrov 23; 7. ‚Anemov-yuch@ 27.
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Capitolo secondo Mitologia dei venti 1. I venti denominati 35; 2. Zefiro 36; 3. Borea 40; 4. Euro 44; 5. Noto 45; 6. Eolo, tamias dei venti 47; 7. Sacrifici ai venti 52.
61
Capitolo terzo Venti di guerra 1. ‚Anemoi nell’Iliade 61.
73
Capitolo quarto Venti di mare 1. ‚Anemoi nell’Odissea 73.
95
Capitolo quinto Venti e cosmo 1. ‚Anemoi nella Teogonia: la fondazione 95; 2. ‚Anemoi nelle Opere: la pratica 97; 3. L’ultimo vento. Tifeo 105; 4. La voce dei venti come voce del cosmo 113.
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Abbreviazioni bibliografiche
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Bibliografia
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Indice degli autori moderni
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Indice degli autori antichi
Premessa
“Si muovono di notte, silenziosi come carbonari, i cacciatori di bora… Camminano in fila, testa bassa, storti come la statua di Umberto Saba, piegata anch’essa dal vento”1. Sono i membri dell’Associazione “Museo della Bora”, fondata a Trieste nel 1999, che hanno già raccolto cinquantasette venti di tutto il mondo, e prevedono di ampliare l’esposizione aggiungendo a questi venti inscatolati un’ampia sezione scientifica sulla storia e sulle caratteristiche dei venti, sugli strumenti per misurarne la velocità, sui mulini e sulle vele, sulle nuove potenzialità dell’energia eolica. Cacciatori di vento, venditori di vento, maghi del vento. In tutto il mondo e in tutte le epoche gli uomini sono andati alla ricerca di rimedi per governare i fenomeni atmosferici, hanno fantasticato sui venti e hanno creato storie di venti. James Frazer riporta più di cinquanta esempi di metodi impiegati per controllare i venti, estremamente complicati e bizzarri. Una sacerdotessa dei venti è menzionata nella Grecia micenea. Eolo, figlio di Hippotes, residente nell’isola galleggiante, è il tamias dei venti. La sua storia, sospesa tra incantesimo e realtà, è narrata nei poemi omerici. Eolo dà a Odisseo un otre in cui chiude tutti i venti, tranne Zefiro, perché con il suo soffio propizi il ritorno dell’eroe a Itaca. Non mancano in Omero storie di dèi che si servono dei venti per intervenire nel mondo degli uomini: Atena addormenta i venti e li incatena tutti, eccetto Borea, perché soffiando assecondi la rotta marina di Odisseo; Circe invia Borea perché favorisca la discesa dell’eroe all’Ade. Nei porti si vendono borse di venti. Diogene Laerzio racconta che Empedocle, il filosofo-mago, molto famoso e con molte competenze, chiuse 1
R. Bianchin, I cacciatori di venti perduti, “La Repubblica”, 24 settembre 2007, p. 33.
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Anemoi
i venti etesi in otri di pelle d’asino, per evitare che, spirando troppo forte, danneggiassero i raccolti. Per questo motivo, gli fu dato il soprannome di kolysanemas, colui che ferma i venti. Per la loro natura inafferrabile, i venti erano propiziati con pratiche magiche. Esisteva a Corinto un’associazione di anemokoitai, attestata da Esichio e dalla Suda, e ad Atene operavano i boreastai o boreasmoi, che invocavano i venti favorevoli. Un popolo marinaro, come i Greci, dovette ritenere assai importante la conoscenza dei venti, della loro natura e del loro spirare, e dotò le navi di vele quadre, più tardi auriche o latine, a seconda dello spirare dei venti, proprio come accade ancora oggi nelle competizioni veliche. Nella Barcolana, nota regata annuale di Trieste, i velisti ricorrono a vele sempre più grandi per sconfiggere la bonaccia e a chiglie basculanti per affrontare la bora. La conoscenza dei venti è fondamentale per l’orientamento in mare e per la buona riuscita dei viaggi, che costituiscono il mezzo di collegamento più conveniente e confortevole nell’antichità. Il racconto omerico della guerra di Troia e dei nostoi eroici appare pieno di mare e di marineria, ricordo di imprese sul cui sfondo è l’immagine di innumerevoli viaggi tra Oriente e Occidente e il riflesso reale e ideale dei viaggi di naviganti greci. Spesso si fa derivare l’esito delle imprese eroiche dalle nozioni meteorologiche relative al regime dei venti, che agiscono sul percorso marino e condizionano non solo le imprese belliche, ma anche le attività commerciali e agricole. Il mare di Omero è il luogo di scambi commerciali, di migrazioni, di transiti di eserciti, di viaggi di conoscenza. Le condizioni del mare e lo spirare dei venti stabiliscono i ritmi della navigazione, mentre la constatazione che Borea, Zefiro, Euro e Noto soffiano sempre nello stesso periodo e nella stessa direzione offre la possibilità di una prima valutazione scientifica dei venti. Aristotele nel peri anemon fissa la definizione degli anemoi, la loro genesi e la direzione dei soffi secondo il luogo d’origine e i punti cardinali. A Thera, nel santuario di Apollo, su un’iscrizione rupestre dell’VIII secolo a.C. è graffito l’epiteto Boreaios; a Boristene, su un’anfora del VI secolo è incisa la dedica Apolloni Borei e su un vaso a figure nere del V secolo sono menzionati i Boreikoi thiasitai. Ancora oggi Borea designa, come in antico, il vento gelido del Nord, e i venti etesi (detti oggi meltemi) sono i venti che dominano l’Egeo, ostacolando le rotte marine.
Introduzione
Nell’immaginario antico di età arcaica emerge una singolare polimorfia dell’anemos, potenza extraumana che ‘agisce’ nel presente1, legata al mondo degli dèi e destinataria, in seguito, di culti specifici, che non consente di definirne con certezza uno statuto. L’ambiguità della natura dei venti emerge anche dalla tipologia di culto di cui essi sono destinatari, promessa di sacrificio e non thysia divina, e si riflette, a livello omerico, in un bipolarismo funzionale che li rende al tempo stesso benefici e dannosi verso le attività umane. La storiografia dei secoli scorsi ha dedicato ampio spazio allo studio degli anemoi nella Grecia antica, collocandoli sullo sfondo dell’intensa attività di mare dei Greci, e giustificando in tal modo l’aspetto propiziatorio delle invocazioni e delle promesse di sacrifici ai venti.2 L’aspetto cultuale dei venti, ben attestato nelle fonti antiche, è stato ampiamente indagato3. Limitatamente alle fonti greche, rimangono tuttora fondamentali, sebbene datati e metodologicamente superati, gli articoli di Tumpel e di Steuding. Il primo4 ritiene il culto dei venti di matrice eolica (Eolo omerico è l’eponimo degli Eoli)5 e spiega l’analogia cultuale tra rituale dei venti e rituale ctonio come sopravvivenza di un’antica credenza nella collocazione sotterranea degli anemoi e di un loro legame originario con il 1
A. Brelich, Introduzione alla storia delle religioni, Pisa-Roma 1995, pp. 13-30. Fin dai poemi omerici, le partenze sono propiziate mediante euècai@, spondai@, eŒkato@mbai agli dèi, nella cui sfera di potere rientrano i fenomeni atmosferici. Cfr. Hom., Od. II 420-432. 4 L. Preller - C. Robert, Griechische Mythologie, Berlin 1894, I, pp. 470-475; M. P. Nilsson, Griechische Feste von religiöser Bedeutung, Leipzig 1906; L. Robert, Hellenika, IX, Paris 1950, p. 56-66. 4 K. Tumpel, RE, 2176-2179 s.v. Anemoi. 5 K. Tumpel, RE, 1036-1038 s.v. Aiolos. 2
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Anemoi
culto delle anime. La relazione tra anemos e psyche, recuperabile nel noto passo dell’Iliade, in cui Zefiro e Borea, invocati da Achille sul rogo di Patroclo6, intervengono come dai@monev auètexou@sioi per sollevare l’anima dell’eroe, si spiegherebbe riconoscendo all’anima la stessa natura dei venti. Il carattere essenzialmente ctonio del culto dei venti e la coerenza tra tradizione omerica, in cui gli anemoi sono esclusi dalle ecatombi e dai banchetti divini, e le tradizioni successive, inducono invece Steuding a riconoscere nei Windgotter forme divine intermediarie tra l’Ade e il mondo dei viventi7. Nell’opera monumentale di Cook8, frutto di un’attenta e scrupolosa analisi delle fonti antiche, si profilano spunti interessanti, anche se non sempre condivisibili, per la valutazione del rapporto tra fenomeni atmosferici e divinità. Nel definire le figure preposte al controllo dei venti (Zeus, Eolo, i Tritopatores), l’autore sembra condividere le interpretazioni più o meno coeve che identificano i venti con le anime dei morti o con le divinità. Zeus, collegato alla sfera della luce, esercita un evidente controllo sui venti come si ricava dagli epiteti Boreios, Ourios, Ikmenos, Euanemos. Nell’isola galleggiante di Eolo, i venti sono anime dei morti sulle quali il tamias, dopo morto, continua a governare. I Tritopatores, invece, sono anime degli antenati assimilate ai venti. Contributi più recenti, quali quelli di G. Pugliese Carratelli9, M. Ventris e J. Chadwick10, A. Sacconi11, sebbene ispirati a criteri metodologici tra loro diversi, concordano nel tentativo di rintracciare possibili sopravvivenze di un culto miceneo dei venti in età classica, risultante dal carattere marinaro dei Cretesi e dei loro successori Achei, o dalla presenza degli Anemokoitai ed Eudanemoi a Corinto e Atene, o a singole attestazioni di
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Hom., Il. XXIII 193-198. S. Steuding, s. v. Windgotter, in W. H. Roscher, Ausfürliches Lexikon der Grieschischen und Römischen Mythologie, Leipzig-Berlin 1884-1937, VI, 511. 8 A. B. Cook, Zeus. A Study in Ancient Religion, I-III, Cambridge 1914-40, passim. 9 G. Pugliese Carratelli, Riflessi di culti micenei nelle tabelle di Cnosso e di Pilo, in Studi in onore di U.E. Paoli, Firenze 1955, pp. 1-16. 10 M. Ventris - J. Chadwick, Documents in Mycenaean Greek, Cambridge 1956, p. 304. 11 A. Sacconi, Anemoi, “SMSR”, XXXV, 1964, pp. 137-159, analizza le tipologie di offerte destinate alla sacerdotessa dei venti nelle tavolette micenee ritrovate a Cnosso e individua una sopravvivenza di tale culto in quello delle anime degli antenati. 7
Introduzione
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culti degli antenati, Tritopatores, a carattere locale12. Lo studio di Nenci13 sul sacrificio tarantino dell’asino ai venti, attestato in una glossa di Esichio, pur inserendosi nel solco degli studi che collegano il culto dei venti alle attività marinare dei Greci, apre una prospettiva più moderna riconoscendo al sacrificio carattere apotropaico e spiegando il ruolo dell’asino come antagonista dei venti nella navigazione fluviale e marittima. Al contrario, il volume a carattere prevalentemente archeologico di K. Neuser recupera una funzione psicopompa dei venti dal confronto fra tradizione letteraria e tradizione iconografica14. Le indagini sulla tradizione mitica dei venti, da Omero fino alle testimonianze latine, limitate ai venti denominati Borea, Euro, Noto e Zefiro, risalgono a Nielsen15 e a Ruhl16, i quali procedono da un approccio prevalentemente linguistico ma riprendono la distinzione di Steinmetz17 sul criterio di orientamento dei venti nei poemi omerici, limitando all’Odissea la connessione tra vento e punto cardinale. Il Nielsen, esasperando l’interpretazione di Steinmetz, attribuisce l’orientamento nord-sud allo spirare dei venti e collega invece quello est-ovest al sorgere e al tramontare del sole. Le analisi dei due studiosi, anche se metodologicamente diverse, convergono nel fissare una distinzione netta tra Iliade e Odissea e nell’attribuire natura divina a Borea, Euro, Noto e Zefiro. Condizionati dalla lettura scientifica dei testi omerici, Nielsen e Steimetz hanno tentato di individuare soprattutto le incongruenze astronomiche radicalizzando le loro interpretazioni, proprio come, più recentemente, altri studiosi, basandosi su rigidi criteri geografici, hanno tentato di razionalizzare gli spazi immaginari del viaggio di Odisseo. 12
Al riguardo B. Hemberg, Tripa@twr und Trish@rwv. Griechischer Ahnenkult in klassischer und mykenischer Zeit, “Eranos”, LII, 1954, pp. 172-190; cfr. S. Georgoudi, “Ancêtres” de Sélinonte et d’ailleurs: le cas des Tritopatores, in Les Pierres de l’offrande. Autour de l’oeuvre de Christoph W. Clairmont, Zürich 2001, pp. 152-163. 13 G. Nenci, Il sacrificio tarentino dell’asino ai venti (Hesych., s.v. aènemw@tav), “ASNP”, XXIV, 1995, pp. 1345-1358. 14 K. Neuser, Anemoi. Studien zur Darstellung der Winde und Windgottheiten in der Antike, Roma 1982. 15 K. Nielsen, Rémarques sur les noms grecs et latins des vents e des régions du ciel, “C&M”, VII, 1945, pp. 1-113. 16 K. Ruhl, De Graecis ventorum nominibus et fabulis quaestiones selectae, Diss. Marburg 1909. 17 H. Steinmetz, De ventorum descriptionibus apud Graecos Romanosque, Diss. Gottingae 1907.
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Anemoi
La tradizione storiografica moderna ha fissato lo statuto divino dei venti denominati ora sovrapponendo i tardi dati cultuali alla realtà di età arcaica, ora enfatizzando il dato omerico della collocazione dei venti in Tracia e dell’invocazione di Achille a Borea e a Zefiro. Mettendo da parte sia il criterio delle sopravvivenze sia quello della divinizzazione mediante la denominazione, e utilizzando, invece, il criterio antropologico seguito da J.-P. Vernant, è possibile evidenziare una funzione specifica degli anemoi denominati nei poemi omerici. Nell’immaginario politeistico greco ogni potenza divina non è un soggetto isolato, ma si definisce attraverso rapporti di complementarietà e di opposizione con le altre potenze che compongono l’universo divino, senza identificarsi con nessuna di esse né definirsi attraverso le stesse. Per questo motivo i Greci non identificano gli dèi con le forze naturali, né ritengono le forze naturali animate e personificate ma manifestazioni della potenza divina18. Partendo da questa impostazione metodologica, è stato possibile recuperare la natura atmosferica dei venti, riuniti in una collettività extraumana, e definire il rapporto degli anemoi con gli dèi sulla base delle modalità di intervento divino nella sfera umana. La ricerca lessicale ha consentito di costruire un linguaggio omerico dell’anemos e di individuarne morfologia e funzioni anche relativamente alle figure mitiche strettamente associate ai venti, Eolo, Tifone. Le tipologie di vento, nella loro varietà lessicale e semantica, funzionano in Omero secondo una coerenza interna alla narrazione anche quando ricorrono in similitudini. La qu@ella, aggregazione di venti che interferisce con il rapimento in mare e con la morte, si antropomorfizza in figure femminili mostruose (Arpie); il me@nov aène@mou, spirando come raffica incontrollata, manifesta la capacità istintiva delle forze naturali; l’ iòv aène@mou, in cui iòv è termine del lessico anatomico, caratterizza un’innaturale forza direzionale del vento; pnoih# aène@mou, soffio leggero e impalpabile, designa il vento che asseconda l’incedere degli dèi, mentre ouùrov è il vento inviato dalla divinità per favorire gli uomini. Accanto agli anemoi anonimi, ma da essi distinti per denominazioni e orientati nello spazio, la tradizione omerica attesta la presenza di Borea, Noto, Zefiro, Euro, ai quali non sempre corrispondono funzioni positive 18
J.-P. Vernant, Mito e società nell’antica Grecia, tr. it., Torino 1981, pp. 97-114. Cfr. anche Tra mito e politica, tr. it., Milano 1988, pp. 107-118.
Introduzione
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come si ricava dagli epiteti che li qualificano, analoghi a quelli adoperati per gli anemoi. Soltanto Zefiro, come soffio permanente, assume un deciso carattere positivo, funzionale al contesto. La descrizione dello spirare dei venti all’interno della narrazione mostra che la denominazione dei venti non implica per i Greci di età arcaica la loro divinizzazione, ma funziona da orientamento. I nomi propri dei venti coincidono con provenienze diverse anche se le oscillazioni del testo non consentono di fissare un rapporto tra vento denominato e punto cardinale, secondo un criterio rigoroso di coerenza direzionale. In Omero l’unica esplicita regionalizzazione dei venti è la Tracia che sembra funzionare non come realtà geografica ma come spazio liminare. Borea, Euro, Noto e Zefiro, sottratti alla loro specifica funzione di fenomeni naturali, sono collocati in uno spazio altro rispetto al mondo greco, in un’inattività atmosferica che corrisponde all’assenza di venti. Anche il sacrificio compiuto da Achille, riesaminato nelle sue fasi (invocazione, libagione, immolazione), si presenta come un’immolazione anomala, eccedente, non destinata ai venti (ai quali è rivolta una generica promessa), ma solo a vendicare la morte di Patroclo. L’intervento dei venti sulla fiamma è funzionale alla distruzione del cadavere ed è mediato dall’intervento di Iris, messaggera olimpica. La considerazione che l’aònemov non sia mai designato come dai@mwn o qeo@v e che Borea e Zefiro siano esclusi dall’ecatombe offerta agli altri dèi, unitamente alla rilettura dei passi omerici su cui si sono basate le precedenti interpretazioni, favorisce l’ipotesi che l’anemos omerico sia un fenomeno atmosferico, piuttosto che una divinità e che la funzione narrativa abbia reso possibile il passaggio dall’anonimato alla denominazione. Nel politeismo greco ci sono figure intermedie, tra esseri umani e divinità. Tra queste figure extraumane sono collocabili gli anemoi ed Eolo, un essere extraumano, la cui esistenza mitica è condizionata dalla funzione di tamias dei venti, inserito con piena funzionalità nel pantheon politeistico greco. La rilettura dell’episodio omerico ha fornito spunti per una diversa valutazione delle conseguenze dannose della segregazione dei venti cattivi nell’otre e dell’invio di Zefiro. La trasgressione del divieto e l’insuccesso dell’intervento sono espedienti narrativi coerenti con la regola olimpica che consente solo agli dèi di interferire nella sfera umana. Nelle similitudini dell’Iliade i venti sono funzionali alla dimensione bel-
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Anemoi
lica ed etica; in altri contesti, sono strumento diretto del dio nello scontro. Nell’Odissea, invece, i venti accompagnano Odisseo nel suo viaggio e sono strettamente funzionali alla destrutturazione e ricostruzione dell’eroe. Nella Teogonia Zefiro, Borea, Noto (Esiodo non cita Euro) sono inseriti nella genealogia di Astraios ed Eos che garantisce il loro spirare ordinato. Al contrario, gli anemoi anonimi o aggregati in thyellai, la cui umida forza proviene da Tifeo, mostruoso figlio di Gea e di Tartaro, agiscono in modo incontrollato e dannoso nel cosmo di Zeus conformemente alla loro natura. Negli Erga l’anemos è stagionalizzato e intorno al suo spirare periodico si organizzano le attività lavorative dell’uomo e le istruzioni su agricoltura e navigazione, strutturate in una sorta di calendario lavorativo strettamente funzionale allo spirare dei venti. L’analisi della fonazione dei venti ha consentito di definirne le modalità di azione, attraverso le variazioni dei suoni. Nelle risonanze più profonde di grido, sibilo, soffio, fischio, muggito, il vento rivela la sua presenza atmosferica e impone la sua modalità di intervento nella sfera umana: guerra, agricoltura, navigazione, sacrificio agli dèi. I suoni eccedenti rinviano a una sovrapposizione indistinta tra umano e divino, una frontiera in cui si colloca l’anemos, fenomeno atmosferico che interferisce con i due mondi.
Capitolo primo I venti come potenza
1. Morfologia dei venti Nei poemi omerici aònemov, il vento, è designato con una varietà di termini1 che, attraverso oscillazioni semantiche regolari, ne definiscono il carattere polimorfo e multifunzionale di qu@ella (potenza rapitrice), me@nov (furia incontrollabile), iòv (forza fisica), pnoih@ (soffio impalpabile), ouùrov (vento favorevole). Per l’uomo omerico la presenza invisibile e inafferrabile degli aònemoi è un’esperienza essenzialmente atmosferica legata a divinità, e il suo orizzonte è quello mitico-cultuale. Gli aònemoi infatti non sono divinità residuali, né si presentano come autonomi fenomeni atmosferici, ma nella loro essenzialità di esseri extraumani costituiscono una delle modalità di intervento divino nella sfera umana2. Nel cosmo ordinato di Zeus ogni divinità può intervenire per ripristinare l’equilibrio tra le forze naturali3, incatenando, addormentando o calmando i venti4. Nei poemi omerici non vi è traccia di una genealogia divina dei venti e il legame tra venti e dèi appare generico. In assenza di un’esplicita discendenza, la nascita degli aònemoi calepoi@ (venti cattivi), intesa come spirare di
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Cfr. H. Ebeling, Lexicon Homericum, Leipzig 1885, s.v. aònemov. Hom., Il. XXIV 254; Od. V 109, 292; VII 272; XII 312; XXIII 235; XXIV 109-110. Hom., Il. VII 5; Od. IV 585; VII 266; XV 292, 475. Hom., Il. V 524-525; Od. V 383-385.
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soffi avversi e pericolosi per l’uomo, è riassorbita nell’oscurità della notte5 e nella calura del sole6, entrambe potenze atmosferiche dell’ambiguo e dell’informe. Gli epiteti che qualificano il vento rientrano nel campo semantico dell’eccedente: zah@v7 furioso, aèèrgale@ov8 implacabile, la@brov9 impetuoso, dusah@v10 violento, liguro@v11 sonoro, ligu@v12 stridulo, bu@kthv13 urlante. Il vento hèpu@ei14 sibila, eèpibre@mei15 mugghia, klonei^16 romba. La sua sfera d’azione scivola dalla voce agli scorci marini: il vento favorisce l’approdo della nave17, gonfia la vela del navigante, ora assecondando la navigazione18, ora spingendo le navi con l’aiuto di piloti19; ostacola le rotte marine lacerando le vele20; spinge l’onda contro la nave21. Il vento interferisce nelle visioni naturali disperdendo verso il cielo il denso fumo22, vivificando il fuoco e confondendo le direzioni della fiamma23, oppure facendolo turbinare24. Si aggrega a formare l’aène@mou qu@ella25 burrasca, caleph@26 pericolosa, kelainh@27 scura, eèremnh@28 buia; cessa di 5
Hom., Od. XII 286. Al riguardo cfr. B. Moreaux, La nuit, l’ombre et la mort chez Homère, “Phoenix” XXI, 1967, pp. 237-272. 6 Hom., Il. V 865; Arist., de mundo IV 394a 15; 394b 10 specifica che la nascita dei venti è strettamente connessa alla siccità. 7 Hom., Il. XII 157; Od. XII 312. 8 Hom., Il. XIII 795; XIV 254; Od. XI 400; XXIV 110. 9 Hom., Il. II 148. 10 Hom., Il. V 865; Od. V 295; XII 100. 11 Hom., Il. V 526; XIII 590; XXIII 215; Od. XII 44. 12 Hom., Il. XIII 334; XIV 17; XV 620; Od. III 176; IV 567. 13 Hom., Od. X 20. 14 Hom., Il. XIV 398. 15 Hom., Il. XVII 739. 16 Hom., Il. XX 492. 17 Hom., Od. IX 39. 18 Hom., Il. I 481; Od. II 427. 19 Hom., Od. IX 78; XII 153; XIV 256. 20 Hom., Od. IX 71. 21 Hom., Il. XV 382. 22 Hom., Il. VIII 549. 23 Hom., Il. XI 156. 24 Hom., Il. XX 492. 25 Hom., Il. XII 253. 26 Hom., Il. XXI 335; Od. XII 286. 27 Hom., Il. XI 747. 28 Hom., Il. XII 375; XX 51.
I venti come potenza
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soffiare provocando la gale@nh, bonaccia priva di venti29; solleva la pula sulle sacre aie30 separandola dal grano grazie al proprio soffio31; scandisce il ciclo di generazione e distruzione della natura riversando a terra le foglie ingiallite32. In assenza di altri fenomeni atmosferici, un vento strumentale allontana, nell’oscuro Ade, il ramo con frutti dall’avido Tantalo33. Il vento qualifica gli oggetti su cui agisce: quasi imbevuta della sua stessa essenza, l’onda del mare, impregnata di vento, si abbatte sulla nave34; di vento si nutre l’arma bellica di Agamennone35; mediante il vento si qualifica il piede divino di Iris36, si caratterizza la stirpe eroica degli Achei37 e si volatilizza l’incedere dei cavalli divini38. In senso metaforico, nel vento si vanificano le parole39 e la tela di Penelope40. La sua natura impalpabile si materializza nella denominazione della città di Anemoria41 o nella qualificazione, come ventosi, di Ilio42, del Mimante43 e del caprifico44. Anche l’assenza di vento agisce qualificando: l’etere, spazio divino, privo di venti, è lucente di stelle45, l’Olimpo non squassato dai venti è sede sicura degli dèi46, il limen sacro a Forchis, al riparo dai venti è porto protetto47.
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Hom., Od. V 392; XII 168-169. Hom., Il. V 499. 31 Hom., Il. V 501. 32 Hom., Il. VI 146. 33 Hom., Od. XI 592. 34 Hom., Il. XV 625. 35 Hom., Il. XI 256. Cfr. Suda s.v. aènemotrefe@v. 36 Hom., Il. V 353, 368; VIII 409; XV 168, 200; XVIII 166, 183, 196; XXIV 95. 37 Hom., Od. IX 260. 38 Hom., Il. X 437. 39 Hom., Il. IV 355; Od. IV 837. 40 Hom., Od. II 98; XIX 143; XXIV 133. 41 Hom., Il. II 521. 42 Hom., Il. XVIII 174. 43 Hom., Od. III 172. 44 Hom., Il. XXII 145. 45 Hom., Il. VIII 556. 46 Hom., Od. VI 43. 47 Hom., Od. XIII 99. 30
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2. ‚Anemoi-qu@ella Sin nella tradizione più antica, i venti, potenze dell’ordine cosmico, sono associati ma non assimilati alle tempeste48. Omero distingue gli aònemoi da qu@ella o aòella49, entità identificate con le ƒArpuiai50. Gli aònemoi costituenti la qu@ella si caratterizzano come aggregazione di numerosi e indistinguibili venti51 in contrasto tra loro52, oppure come aggregazione violenta di specifici venti denominati, ma sempre distinti dalla tempesta: Zefu@roio kai# No@toio caleph# qu@ella53. Anche Borea, uno degli anemoi denominati, soffia insieme con le qu@ellai, ma non è mai identificato con esse54. Se, a livello visivo, non è possibile cogliere la natura dell’aggregazione di venti provenienti da direzioni indefinibili e confluenti in modo caotico nella qu@ella55, tuttavia lo consentono la tipologia del loro movimento e le conseguenze del loro spirare. La tempesta sopraggiunge repentina56 o si solleva all’improvviso57 e si diffonde nell’aria con la velocità del galoppare equino58; soffia a vortice trascinando ogni cosa, esseri viventi59 e navi60. Appare chiaro che la nozione di qu@ella assume, nell’immaginario greco arcaico, l’accezione negativa di turbine o tempesta burrascosa di venti e ha un potere distruttore analogo a quello del fuoco, altro elemento natu-
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Hom., Il. XII 253; XIII 795. In Omero, l’uso di aòellai e qu@ellai è indistinto. ‚Aella è la tempesta prodotta dal soffio di più venti (Il. XIII 334) e aòellai ceime@riai sono le tempeste invernali che impediscono la navigazione (Il. II 293-294). Nell’Iliade la veemenza della tempesta di venti compare in similitudini di guerra per esprimere il coraggio di Ettore (Il. XII 40) e dei Troiani (Il. XIII 795). 50 Hom., Od. I 241, XIV 371; XX 63, 66, 77. 51 Hom., Od. V 304-305. 52 Hom., Od. V 317. 53 Hom., Il. XXI 335; Od. XII 288, 407-409. 54 Hom., Il. XV 26. 55 La tempesta e la nube hanno una stessa tipologia di aggregazione e producono entrambe un’indistinguibilità visiva (Hom., Il. XXIII 366). 56 Hom., Od. XII 288. 57 Hom., Il. XII 253. 58 Hom., Il. XIII 334. 59 Hom., Il. VI 346. 60 Hom., Od. X 54. 49
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rale, cui qu@ella è associata ma non assimilata61. La sua funzione rapitrice si definisce in maniera più evidente nell’Odissea, dove è esplicita l’identificazione qu@ellai-ƒArpuiai, ma l’utilizzazione dei due concetti è diversa: morte e rapimento mortale non sono mai attributi delle qu@ellai, bensì delle ƒArpuiai62. Se il contesto narrativo riflette il pericolo di essere travolti in mare dai venti, l’azione è attribuita sempre a qu@ella. In prossimità dell’isola dei Feaci, Odisseo teme l’azione violenta e repentina della tempesta63 e rivive, nel racconto ad Alcinoo, l’approdo all’isola di Scheria come conseguenza della spinta favorevole dell’onda marina e delle procelle impetuose64, mentre, nel racconto a Penelope, l’eroe dichiara di essere stato rapito in mare da una procella di vento65 e Penelope impreca pensando che l’azione fulminea della tempesta abbia travolto anche il figlio Telemaco66. Al contrario, il desiderio di essere rapiti dalle raffiche dei venti esprime, in forma quasi topica, la volontà di sottrarsi alle difficili esperienze terrene; non è un caso che la tradizione antica attribuisca l’invocazione a essere sollevati da una tempesta di venti ad Elena ‘colpevole’67 e a Penelope ‘vittima’, che auspica per sé la morte mediante la freccia di Artemide o il rapimento da parte di una thyella come accadde alle figlie di Pandareo68. L’azione delle tempeste di strappare fisicamente le persone alla realtà terrena ha talvolta carattere temporaneo ed è finalizzata a garantirne l’integrità in momenti pericolosi e difficili. In prossimità di Capo Malea Aiace fa naufragio per volere di Poseidone, mentre Agamennone, rapito da una tempesta69 per volontà di
61 Hom., Od. XII 68. I Teucri sono assimilati indistintamente alla tempesta o al fuoco: (Hom., Il. XIII 39). 62 Hesych., s.v. açrpuiai: aiè tw^n aène@mwn sustrofai@, qu@ellai. 63 Hom., Od. V 419. 64 Hom., Od. VI 171. 65 Hom., Od. XXIII 316. 66 Hom., Od. IV 727. Il confronto con Hymn. Hom. ad Ven. 208 in cui Troo impreca non sapendo dove il turbine divino gli avesse rapito il figlio, conferma che alla mentalità arcaica si collega l’idea di venti aggregati come potenze rapitrici, responsabili della scomparsa improvvisa dei viventi. 67 Hom., Il. VI 345-348. 68 Hom., Od. XX 60-66. 69 Hom., Od. IV 515.
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Era e con l’intervento di altre divinità olimpiche70, ritorna in patria anche se non è sottratto al suo destino di morte. Quando più concreta è l’ipotesi del rapimento mortale, il pensiero antico dà corpo a questa tipologia di morte associandola alla mostruosità femminile. Omero parla di ƒArpuiai71 non di qu@ellai in riferimento alla probabile morte di Odisseo72 e alla triste sorte delle figlie di Pandareo rapite dalle Arpie e consegnate alle Erinni, delle quali diventano ancelle73. Nei passi omerici citati il plurale ƒArpuiai, che designa il gruppo divino di cui non è specificato il numero né sono indicati i nomi personali, definisce la confluenza di fenomeni naturali antropomorfizzati. La loro modalità di intervento nella sfera degli uomini è espressa attraverso l’aoristo aènhrei@yanto74 che indica l’azione del travolgere in modo violento, e associa la rapidità di movimento alla scomparsa definitiva del vivente. La loro rapacità sembra attenuarsi nell’aoristo aène@lonto75, attribuito alle qu@ellai che, sebbene a livello semantico costituisca quasi un’alternativa al verbo aèènerei@pomai, tuttavia, nell’estensivo uso omerico76, si piega a significative sfumature. Inoltre il prefisso aèna@, presente in entrambe le forme verbali, esprime un evidente riferimento alla caratterizzazione aerea delle Arpie77 quasi confermando l’assimilazione delle Arpie con le tempeste e la comune natura di esseri rapaci. Le Arpie, entità femminili di venti malefici78, non agiscono procurando 70
Hom., Od. IV 520. Cfr. H. Ebeling, op. cit., s.v. ƒArpuiai; Hesych., s.v. ƒArpuiai; Suda, s.v. ƒArpuiai; Etymol. Magn. s.v. ƒArpuia riconducono l’etimologia del nome al verbo aérpa@zw, che nei poemi omerici non è mai associato a queste entità femminili, ma alle più generiche qu@ellai (Od. IV 515; V 419; X 48; XX 63; XXIII 316). 72 Hom., Od. I 241; XIV 371. 73 Hom., Od. XX 77-78. 74 La critica è concorde nel ricondurre l’aoristo al verbo eère@ptomai. Cfr. H. Frisk, Griechisches etymologisches Worterbuch, I, Heidelberg 1954-73; P. Chantraine, DELG, s.v. eère@ptomai; H. Heubeck-S. West, Omero. Odissea, I, Milano 1981, p. 224. Al contrario, l’aoristo aènhrei@yanto è messo in relazione con il verbo aènerei@pomai in H. Ebeling, op. cit., e M. Hofinger, Lexicon Hesiodeum, I, Leiden 1975-78, s.v. aènerei@pomai. 75 Hom., Od. XX 66. 76 Hom., Il. I 301; Od. XVIII 357. 77 Cfr. al riguardo M. R. Calabrese De Feo, A proposito dell’etimologia delle Arpie, Th. 265-269, “SCO”, XLVI, 1996, pp. 331-346. 78 E. Rohde, Psyche. Culto delle anime e fede nell’immortalità presso i Greci, tr. it., Bari 1914-1916, 71
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direttamente la morte ma, sottraendo brutalmente i mortali alla vita terrena79, interferiscono con l’aspetto sociale della morte privandola del kle@ov ed escludendola dall’organizzazione funeraria. Nel discorso di Telemaco emerge il senso preciso di morte eroica, intesa come riappropriazione del cadavere per mezzo della tomba con la conseguente duratura fama terrena80. Questo tipo di rapimento sottrae la persona alla moira, la legge di morte, e al viaggio oltremondano, immaginato nella nekyia di Odisseo come un fluire nelle correnti estreme di Oceano verso l’Ade, dimora comune a tutti i defunti81. Non è casuale che il mondo attuale degli eroi che combattono a Ilio non conosca questo tipo di morte disonorevole per mano delle Arpie rapitrici, ma solo la bella morte eroica che si completa nei riti di sepoltura e si fissa nel mnema di coloro che sopravvivono. Le Arpie, figure femminili, rapaci e veloci82, appartenenti alla stirpe preolimpica di Ponto83, hanno come la sorella Iris un legame nominale con il vento ( ˆAellw@, ˆWkupe@thv, Poda@ rgh)84 ma anche comportamentale in quanto “sanno seguire il soffio del vento e gli uccelli in volo con le ali veloci: tanto rapide infatti si slanciano”85. Tuttavia il rapporto con il vento non caratterizza solo la loro natura bensì anche i rapporti genealogici e la modalità con cui raggiungono la loro collocazione liminare86. L’unica Arpia menzionata da Omero, Poda@rgh (“che rist. 1970, I, p. 75. La concezione che individua nelle tempeste ‘spiriti di vento’ che travolgono e trascinano via i viventi sembra sopravvivere nel mondo contadino della Grecia moderna, cfr. A. Sitting, RE, VII, 2418, s.v. Harpyein. 79 Hom., Od. XX 63; 66; 77. Cfr. E. Rodhe, op. cit., I, p. 74, n. 1; A. Dieterich, Nekyia, Leipzig 1893, p. 56, n. 1, ritiene il rapimento da parte delle Arpie una forma di morte disonorevole, riservata soprattutto alle donne. 80 Hom., Od. I 240-243. 81 Hom., Od. X 508; XI 13. 82 Hom., Od. I 241; XIV 371; XX 77. 83 Hes., Th. 265-269. Sono figlie di Taumante, divinità primordiale, e dell’oceanina Elettra, figlia di Oceano. La stessa genealogia è attestata in Apollodoro, Bibl. I 2, 6. In un frammento di Epimenide, invece, 3 B 7 D.-K. sono figlie di Gaia e, forse, di Oceano o di Urano. In Pherecyd. 7 B 5 D.-K. Arpie e Thyella, figlie di Borea, sono guardiane del Tartaro. 84 Cfr. al riguardo, M. L. West, Hesiod, Theogony, Oxford 1966, pp. 242-243. 85 Hes., Th. 267-269; frr. 18, 76, 151, 155, 156 M.-W. In Esiodo è evidente che i nomi attribuiti alle Arpie, pur con lievi varianti, sono riconducibili alla loro singolare fisionomia di entità vorticose e rapide. Cfr. M. R. Calabrese De Feo, op. cit., pp. 331-346. 86 Ap. Rhod., Arg. II 98. Cfr. al riguardo, A. Ballabriga Le Soleil et le Tartare. L’image mythique du monde en Grèce archaïque, Paris 1986, pp. 113-117.
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ha piedi veloci”), fecondata dal soffio di Zefiro, genera i cavalli di Achille, proverbialmente veloci, Xanto e Balio87, i più bei cavalli di Troia che hanno la capacità di volare insieme al vento88. Già nell’immaginario antico la straordinaria velocità dei cavalli immortali è recepita come il risultato di una nascita anomala da Zefiro, il più veloce dei venti89, e da un’entità femminile che, nel nome, sintetizza la rapidità del movimento. L’appartenenza delle Arpie alla sfera della morte emerge in modo più evidente nel rapporto con le Erinni90, in cui si esalta il versante negativo del vento. L’odiosa Erinni91, torturatrice92, strettamente associata al vento impetuoso e alla bufera di vento, è “colei che vaga nell’aria” (eerophoitis)93. Quando le Arpie strappano il mortale alla vita consegnandolo alle Erinni, ne fissano il definitivo cambiamento di status da vivo a morto94. Si delinea così un asse concettuale immaginario che associa qu@ellai con ƒArpuiai e èErinu@ev, cioè l’aggregazione fisica dei venti con l’azione rapitrice delle Arpie e la funzione infera delle Erinni: una successione che va 87 Hom., Il. XVI 148-151; XIX 400. Lo scolio al verso 150 (Schol. P in Hom. Il. XVI 150 b Erbse) attesta che Zenodoto assimila il termine Poda@rgh all’aggettivo podw@khv, attribuendo la velocità alla rapidità dei piedi. Lo Schol. D in Hom. Il. XVI 150 Erbse intende Poda@rgh come un aggettivo con significato diverso da quello attribuito da Zenodoto, riconducibile al colore bianco dei piedi. Inoltre lo scolio definisce le Arpie, personificazione dei venti (aène@ mou eidù ov) e collega il loro nome al verbo aérpa@zw. 88 Hom., Il. XVI 149; XIX 415-416. 89 Hom., Il. XIX 415. 90 Nelle antiche teogonie le Erinni sono figure preolimpiche. In Hes., Th. 185 esse nascono dal sangue di Urano; in Epimenide 3 B 19 D.-K. Erinni, Afrodite e Moire sono figlie di Crono. In Omero vi è la duplice attestazione di Erinni al singolare (Il. IX 571; XIX 87) e al plurale (Il. XIX 418; Od. XI 280). Due volte, nella formula solenne del giuramento, accanto agli dèi olimpici, sono citate le Erinni “che sottoterra puniscono gli uomini chiunque spergiuri” (Hom., Il. III 278-279; XIX 259-260). Nelle imprecazioni pronunciate dal padre contro Fenice, sono invocate le Erinni (Hom., Il. IX 454) e sono anche definite entità della maledizione (Hom., Il. XXI 412; Od. XVII 475). In Euripide compare per la prima volta l’attestazione ternaria delle Erinni e queste figure preolimpiche diventano personificazione di entità naturali e psicologiche. Esse infatti sono figure del destino (Aesch., Prom. 516) o espressione del rimorso (Eur., Or. 396). Secondo E. Rohde, op. cit., I, p. 273 le Erinni sarebbero state in origine anime di defunti, tornate sulla terra per vendicarsi, e ciò giustificherebbe la loro appartenenza alla sfera infera. 91 Hom., Il. IX 454; Od. XX 78. 92 Hom., Od. XV 234. 93 Hom., Il. IX 571; XIX 97. 94 Hom., Od. XX 78.
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dal rapimento violento alla morte. L’antropomorfizzazione attraverso figure mostruose e marginali di questo tipo di morte repentina, incontrollabile e invisibile, al confine tra presenza e assenza, morte e vita, esprime il rifiuto culturale di questa tipologia di morte, fissando un’interazione liminare tra immaginario mitico del vento e iconografia della morte.
3. Me@nov aène@mou I venti nell’immaginario omerico si presentano talora come un concentrato di me@nov95, potenza non solo fisica, la cui natura è definibile attraverso l’analisi delle modalità di azione in differenti contesti96. Nel tredicesimo libro dell’Iliade (vv. 43-61) Poseidone, sotto le spoglie di Calcante nel corpo e nella voce, si rivolge agli Aiaci mentre gli Achei ripiegano sotto l’assalto troiano. Il dio che avvolge e scuote la terra li incita al combattimento e, percuotendoli entrambi con lo scettro divino, “infuse loro strenuo coraggio (me@nov), rese leggere le membra, le gambe e, sopra, le braccia”. Nei poemi omerici me@nov ha un significato specifico97; designa il potere divino che gli dèi concedono occasionalmente all’eroe per favorirne la supremazia in guerra. Nel momento decisivo del combattimento, il dio conferisce me@nov ad una delle due armate in lotta98. Il beneficiario di questo privilegio, che potenzia straordinariamente membra, gambe e braccia, 95 Cfr. Etymol. Gudian., s.v. me@nov. Du@namiv; Etymol. Magn., s.v. me@nov: para# to# me@nw. Le sedi corporee in cui è collocato me@nov sono fre@nev (Hom., Il. I 103; Od. I 89), qumo@v (Hom., Il. XVI 529; Od. I 321) e sth^qov (Hom., Il. V 513; XIX 202). 96 R. B. Onians, Le origini del pensiero europeo, tr. it., Milano 1998, pp. 75-77 ritiene che me@nov non sia un’astrazione, né una semplice condizione relativa ad altro da sé, ma sia concepito quale sostanza, fluida o gassosa, che possiamo intendere come energia. 97 B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, tr. it., Torino 1963, p. 45 sottolinea che “Omero fa così sovente accenno alle forze, e perciò dispone di tanti vocaboli che noi traduciamo tutti con un’unica parola ‘forza’ (me@nov, sqe@nov, bi@h, ki^kuv, kra@tov, iòv, aèlkh@, du@namiv). Queste parole però hanno un significato concreto, un’evidenza viva, e sono ben lontane dall’indicare la forza in forma astratta. Il me@nov, è una forza attiva delle membra che spinge ad agire”. Il primitivo significato religioso di tali forze sopravvive, secondo lo studioso, in espressioni del tipo iéero#n me@nov ˆAlkino@oio. Cfr. anche E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, tr. it., Torino 1976, II, pp. 337-346. J. Bremmer, The Early Greek Concept of the Soul, Princeton 1983, pp. 57-63 sostiene che il me@nov è “a momentary impulse of one, several, or even all mental and physical organs largely directed toward a specific activity”. 98 Hom., Il. XIII 60.
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è l’intero schieramento acheo, anche se il vigore è trasmesso soltanto ai due eroi. Il me@nov non agisce solo potenziando la capacità fisica dell’eroe e accelerando l’impulso a combattere ma sviluppa, a livello etico, una serie distinta di stati d’animo. Me@nov è l’ira violenta suscitata in Agamennone dalle parole di Calcante99, la rabbia che spinge Achille contro Enea100, l’ardore incessante di Efesto sui cadaveri101, il coraggio degli eroi102, la forza vitale e propulsiva dei viventi103, l’istinto feroce dell’animale104, la furia selvaggia o umida del vento105, la forza distruttrice del fuoco106 e dei fiumi107, la forza incandescente del sole108. Me@nov è anche l’elemento vitale dell’organismo umano, in assenza del quale si è privati della vita. Le yucai@ dei morti formano nell’Ade la folla di aèmenhna# ka@rhna109, teste prive di me@nov, cioè prive dell’energia attiva che in vita è localizzata nel petto o nelle membra e agisce modificando energicamente il comportamento. Come forza istintuale e incontrollabile, associata a personaggi umani o a fenomeni naturali, me@nov è funzionale al movimento e si estende al guerriero, all’animale e ai fenomeni naturali (sole, fuoco, vento). Menelao quando difende il corpo di Patroclo minaccia Euforbo di sciogliere la sua furia, e lo esorta a retrocedere tra la folla110. È evidente che me@nov agendo sulla sfera dei sentimenti si risolve in atteggiamenti diversi, sempre caratterizzati da modalità aggressive. L’utilizzazione del termine in contesti riconducibili alla sfera istintuale e aggressiva consente tuttavia di fissare una distinzione tra ambito umano, in cui lo slittamento semantico conduce alla moralizzazione del termine, e 99
Hom., Il. I 103. Hom., Il. XX 174. 101 Hom., Il. XXI 340. 102 Hom., Il. II 387, XVII 157. 103 Hom., Il. III 294; V 296, 506. 104 Hom., Il. XVII 20, 476, 742; Od. III 450. 105 Hom., Il. V 524; Od. XIX 440. 106 Hom., Od. XI 220; XXIII 177, 238; XXIV 792. 107 Hom., Il. XII 18. 108 Hom., Il. XXIII 190; Od. X 160. 109 Hom., Od. X 521, 536; XI 29, 49. 110 Hom., Il. XVII 29-31. 100
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ambito naturale, collegato più strettamente ai fenomeni atmosferici, che si caratterizza per una connotazione dannosa. Omero designa con la stessa aggressività il furore del vento (me@nov) che si abbatte sul mare, trascinando fuori dalla rotta le navi, contro la cui violenza non c’è difesa per l’uomo. Odisseo, approdato all’isola di Scheria, dopo numerose peripezie in mare, causate dallo spirare di venti contrari, si riposa sotto un cespuglio che sorge al riparo dall’umido me@nov dei venti111, forza violenta e implacabile che produce danni perché soffia con incontrollabile istintualità. In quest’ottica, l’assenza di me@nov è recepita come condizione favorevole ed è utilizzata, a livello letterario, per esprimere la pausa dalle sofferenze in mare dell’eroe. Infatti nella similitudine del quinto libro dell’Iliade i due Aiaci insieme con Odisseo e Diomede sono descritti in una staticità innaturale, simile a quella delle nuvole radunate dal Cronide quando dorme il me@nov di Borea e degli altri venti selvaggi. Me@nov è il privilegio che la divinità concede in dono anche mediante il soffio di vento. Atena e Apollo, nelle diverse fasi della guerra di Troia, soffiano me@nov nei loro protetti perché prevalgano112, oppure l’eroe stesso lo soffia al proprio destriero113. Apollo promette a Ettore di mettere in fuga gli Achei114 e, dopo aver trasmesso me@nov all’eroe, attraverso il soffio divino, “Ettore rapido muoveva i piedi e le gambe, per dare l’ordine ai cavalieri, appena udì la voce del dio”115. Atena invece soffiò me@nov nell’eroe greco Diomede ed egli “prese ad uccidere intorno”116. L’esercito degli Achei combattenti a Troia è uno schieramento di uomini spiranti me@nov117 e per questo motivo è fortemente temuto anche dal vecchio re di Ilio, Priamo118. La Chimera, potenza ibridiforme di stirpe divina119, esprime il suo deino#n me@nov puro#v aièqome@noio attraverso un soffio, aèpopnei@ousa, associando il me@nov con il vento il cui soffio modula l’emissione della terribile fiamma.
111 112 113 114 115 116 117 118 119
Hom., Hom., Hom., Hom., Hom., Hom., Hom., Hom., Hom.,
Od. V 478; XIX 440. Il. X 482; XV 60, 262; XIX 159; XX 110; Od. XXIV 520. Il. XVII 456; XXIV 442. Il. XV 261-262. Il. XV 269-270. Il. X 482. Il. II 536; III 8. Il. XXIV 364. Il. VI 182.
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4. Iò v aène@mou Nel regno di Persefone, la despoina che, non vista, invia fantasmi120 e li disperde121, il phasma di Anticlea122 descrive la condizione dell’uomo dopo la morte, un corpo in cui “i nervi (iùnev) non reggono più la carne e l’ossa ma la furia violenta del fuoco ardente li disfa appena la vita abbandona le bianche ossa”. La psyche, invece, continua a vivere come eidolon nell’Ade, conservando l’aspetto fisico dell’essere umano. Per evitare il rilassamento dei nervi e il conseguente scollamento dei muscoli sottostanti la pelle, Apollo distende una nube plumbea sul terreno su cui è adagiato il cadavere di Ettore preservandolo dal me@nov del sole123. In Omero iòv appartiene al lessico anatomico e designa il vigore e la tensione fisica del corpo umano124. È una forza corporea che ricorre, soprattutto nell’Iliade, per esaltare la capacità fisica di eccezionali guerrieri durante l’azione eroica individuale. Nel duello, un corpo a corpo di singoli eroi, emerge con maggiore chiarezza il campo semantico del termine iòv che esprime ora la forza direzionale di Pàndaro, tiratore d’arco, contro Diomede125, ora la forza impressa da Aiace sul masso scagliato contro lo scudo di Ettore126. Nell’Odissea, Odisseo, seguendo il consiglio di Circe, per sottrarsi al canto seducente ma ingannevole delle Sirene, scioglie la dura cera imprimendo su di essa la straordinaria forza delle mani127. Analogamente Polifemo imprime una forza smisurata sulla pietra scagliata contro la nave di Odisseo128, mentre Agamennone nell’Ade protende le braccia per stringere a sé Odisseo, ma non ritrova più la forza corporea129. Con la stessa valenza semantica di forza direzionale130, ivò modifica la funzione e la qualità del fenomeno atmosferico e delle entità naturali ina120 121 122 123 124 125 126 127 128 129 130
Hom., Od. XI 225-226. Hom., Od. XI 385-386. Hom., Od. XI 219. Hom., Il. XXIII 188-191. Anche iòv come me@nov è usato, talvolta, in perifrasi (Hom., Od. II 409; XVI 476). Hom., Il. V 245. Hom., Il. VII 269. Hom., Od. XII 175. Hom., Od. IX 537-540. Hom., Od. XI 393-394. Hom., Il. XV 383; XVII 739; Od. IX 71; XIX 186.
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nimate (la forza del fiume)131; nell’ iòv aène@moio, si concretizza il movimento diretto e orientato del vento, la cui azione è scandita, a livello uditivo, mediante un suono e, a livello visivo, dal territorio in cui l’azione del vento si dispiega132. Come forza, il vento sembra selezionare l’azione quando fa fremere il fuoco133, spinge l’onda del mare134, lacera la vela135, conduce Odisseo a Itaca136 o a Creta nel falso racconto dell’eroe137. Dalle attestazioni omeriche è evidente che, a differenza di me@nov in cui l’energia attiva opera soprattutto a livello morale, nel termine iòv predomina il senso fisico della forza con un’esplicita connotazione direzionale. Se me@nov esprime il vento incontrollabile, furioso, di cui non è individuabile la direzione, iòv si presenta come la forza del vento che ha in sé la capacità di agire autonomamente verso un bersaglio. L’ iòv aène@mou ha una sua direzione, è controllabile così come i nervi sono controllati dall’uomo. Lo slittamento semantico consente di assimilare me@nov aène@mou al furor, istintualità naturale, e iòv aène@mou a una direzionalità quasi intenzionale.
5. Pnoih# aène@mou Pnoih# è il soffio leggero e impalpabile138, adatto all’incedere degli dèi. Lo spostamento rapido ma impercettibile del dio è sempre assecondato dal soffio del vento, mai sollecitato da iòv o me@nov aène@mou, funzionali piuttosto ad altri contesti. Il campo semantico del soffio di vento si adatta a una molteplicità di immagini afferenti a distinte esperienze divine e oracolari. Pnoih# aène@mou determina una tipologia di vento che agisce sul movimento degli dèi, degli animali divinizzati o oracolari. 131
Hom., Il. XXI 356. Hom., Il. XVII 736-739. 133 Hom., Il. XVII 739. 134 Hom., Il. XV 381-383. 135 Hom., Od. IX 70-71. 136 Hom., Od. XIII 276. 137 Hom., Od. XIX 186. 138 Anche nelle similitudini letterarie, pnoih@ si presenta come una tipologia di vento impalpabile e positivo. In Hom., Il. XIII 590 la freccia di Eleno rimbalza sulla corazza di Menelao come i ceci ai soffi del vento e in Il. XVII 55-56 pnoih@, soffiando costantemente, nutre e alleva la pianta di olivo. 132
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Soprattutto Iris ed Hermes, divinità della comunicazione139, del passaggio, dell’instabilità, dalla sfuggente collocazione in quanto coinvolti nel recapito accelerato dei messaggi divini, sono sempre associati al soffio di vento: sia i movimenti rapidi di …Iriv aèello@pov verso Era e Atena140 nella grotta profonda di Teti141 o verso Priamo142, sia gli spostamenti frettolosi di Hermes verso Calipso143 o verso Priamo144 e il successivo ritorno di entrambe le divinità sull’Olimpo. Anche altre divinità olimpiche sono associate, nei poemi omerici, a pnoih@. Dopo il concilio degli dèi145 Atena ottiene dal Cronide che Odisseo riparta da Ogigia e, insieme con Hermes, dopo aver entrambi indossato i sandali d’oro, volano sul mare: l’una verso Itaca146, l’altro verso Ogigia al soffio del vento147. La presenza della preposizione açma rafforza l’idea di un vento positivo e divino che asseconda e favorisce l’incedere degli dèi. Nell’Odissea l’eidolon femminile, forgiato e inviato da Atena a Penelope, penetra sfiorando la cinghia del paletto nel talamo, si ferma sul capo della sposa di Odisseo148 e, dopo averla rassicurata, svanisce nei soffi del vento149. Dalla leggerezza del soffio divino è contrassegnato il risveglio di Nausica ad opera di Atena150 che, come un soffio di vento, balza sul letto della fanciulla, sotto le spoglie di Dimante, la induce al risveglio, poi risale all’Olimpo. La presenza divina di Atena, funzionando nel contesto narrativo omerico come doppio o assenza, si smaterializza nella leggerezza del soffio di vento. Ad esso è associato anche il volo delle aquile divine, presagio a Telemaco e ai
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L’espressione è acutamente utilizzata da M. Bettini, Le orecchie di Hermes, Torino 2000, pp. 5-51; cfr. anche J.-P.Vernant, Hestia-Hermes. Sull’espressione dello spazio e del movimento presso i Greci, in Mito e pensiero presso i Greci, tr. it., Torino 1970, pp. 147-200. 140 Hom., Il. VIII 409. 141 Hom., Il. XXIV 77-86. 142 Hom., Il. XXIV 159-160. 143 Hom., Od. V 46. 144 Hom., Il. XXIV 342. 145 Hom., Od. I 80-87. 146 Hom., Od. I 98. 147 Hom., Od. V 44-46. 148 Hom., Od. IV 795-803. 149 Hom., Od. IV 839. 150 Hom., Od. VI 20.
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Troiani151, che, inviate da Zeus, volano sui Proci con sguardo di morte dalla cima del monte Olimpo152. La funzione mantica del presagio teriomorfo è chiarita da una serie di elementi narrativi: lo sguardo degli animali, il soffio di vento e le parole profetiche del vecchio Aliterse che sente imminente il ritorno di Odisseo. Analogamente, nell’Iliade, l’aquila di Zeus vola sui Troiani scagliando alla loro sinistra, verso l’ombra nebbiosa, un serpente; poi fugge in volo tra i soffi del vento153. In questo presagio divino Polidamante avverte come imminente la sconfitta troiana. In entrambi i contesti oracolari pnoih@, nella sua impalpabilità, consente la rapidità del movimento, confermando il ruolo attivo delle divinità olimpiche nell’utilizzazione del soffio del vento. Il soffio esprime anche una modalità d’azione della divinità: Atena devia con un soffio l’asta scagliata da Ettore contro Achille154; Efesto con il soffio ingegnoso brucia i cadaveri e la vegetazione lungo il fiume Xanto155 e i cavalli divini di Achille dalla voce umana vanificano la consistenza del loro galoppare volando nei soffi del vento156. La pnoih@ di Zefiro regola anche l’apparizione singolare del dio polimorfo, Proteo, il vecchio verace del mare, dietro la cui doli@h te@cnh si racchiude la conoscenza di tutti gli abissi e di tutte le rotte del mare e un’insolita capacità divinatoria legata al rapporto sapienziale con le profondità marine157.
6. Ouùrov Nel lessico dei venti ouùrov158 è un tipo di vento favorevole scelto dagli dèi per consentire il rapido ritorno degli eroi in patria (Nestore, Menelao, Odisseo). A differenza dell’aène@mou pnoih@ che favorisce gli spazi del movimento 151 Hom., Il. VIII 247; XXIV 315. Anche in queste occasioni Zeus per esprimere il suo assenso alla preghiera invia un’aquila. 152 Hom., Od. II 146-148. 153 Hom., Il. XII 207. 154 Hom., Il. XX 439. 155 Hom., Il. XXI 355. 156 Hom., Il. XVI 149. 157 Hom., Od. IV 400-403. 158 Etymol. Magn., s.v. ouùrov: oè fo@rov aònemov.
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divino, l’ouùrov è inviato dalla divinità per modificare in modo significativamente favorevole le rotte marine159. Le varietà di verbi che accompagnano il sostantivo chiariscono la sua funzione positiva: il dio dà in dono questo tipo di vento160 oppure lo manda161, lo invia innanzi162, lo spedisce nel caso della dèa Circe163 e del dio Apollo164. Quando non è attestata la divinità che ha inviato il vento propizio, la positività del soffio si ricava dagli epiteti o dai verbi che designano l’azione di questo tipo di vento e, soprattutto, dagli avverbi che connotano la direzione favorevole delle sue raffiche: ligu#v ouùrov eèpipnei@hsin oòpisqen165. Al contrario, Zeus166 scaglia il vento nello stesso modo in cui lancia la sua arma infallibile, il kerauno@v, ricorrendo a un’azione tipicamente olimpica, associabile alle armi straordinarie di cui il dio si serve. In quest’ottica le forze naturali, quali vento, tuono, lampo, fulmine, diventano nelle mani di Zeus strumenti di dominio e di mantenimento dell’ordine stabilito. L’uso di ouùrov e, in particolare, il lessico che ne designa l’azione, mostrano che questo vento, come il be@lov, è un’arma di distanza che nel lancio segna una traiettoria. L’azione direzionale del vento è espressa mediante il verbo iaè @llw167, mentre quella del fulmine con i verbi ba@llw168 o pe@tomai169. Tuttavia, se nell’uso delle armi Zeus costituisce il modello del lanciatore infallibile, nel dominio delle forze naturali sembra selezionare il vento idoneo a una traiettoria infallibile. 159 Lo stretto legame tra dèi e venti è presente nell’Hymn. Hom. ad Bacch. VII 22-24, in cui i pirati che hanno rapito Dioniso, individuata la sua natura divina, temono che il dio possa scatenare venti pericolosi. 160 Hom., Il. VII 4-5; Od. IV 585; V 167; XV 34-35; XVII 148. 161 Hom., Od. XV 34-35. 162 Hom., Od. V 268. 163 Hom., Od. XII 149. 164 Hom., Il. I 479. 165 Hom., Od. IV 357. 166 Hom., Od. XV 475. A. B. Cook, op. cit., III pp. 142-160, individua nel rapporto tra Zeus e i fenomeni atmosferici, attestato nelle fonti più tarde (Ap. Rhod., Arg. II 498; IV 1223), una sopravvivenza omerica. La più antica attestazione del culto di Zeus Ourios risale al 475 a. C. (Aesch., Suppl. 591); un santuario dedicato a Zeus Ourios è localizzato in Tracia (Arr., Per. M. Eux. 37). 167 Hom., Od. XV 475. 168 Hes., Th. 515. 169 Hes., Th. 691.
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La positività dell’ouùrov è trasferita dal dio al beneficiario: la rotta della nave di Odisseo è assecondata dalla spinta del vento di Zeus170; le navi sono allietate dal vento di Zeus171; il dono dell’ouùrov da parte degli dèi procura un vantaggio immediato e il sicuro rientro in patria degli eroi: Nestore torna a Pilo172, Menelao a Sparta173, Telemaco a Itaca174, Odisseo a Scheria, ultima tappa prima del rientro in patria175. Nel racconto del vecchio Nestore a Telemaco, le fasi del ritorno in patria sono scandite dal costante intervento divino di cui l’ouùrov è strumento prodigioso (te@rav)176 che soffia senza mai spegnersi fino all’approdo a Pilo177. L’ouùrov potrebbe essere definito il vento dell’approdo. L’assenza di venti marini favorevoli alla navigazione178, conseguenza della punizione divina contro Menelao per non aver offerto ecatombi agli dèi, trattiene l’eroe in Egitto fino all’incontro con Proteo179 e, solo dopo aver compiuto le sacre ecatombi, gli dèi donano l’ouùrov, vento del ritorno, anche a Menelao180. Se il ritorno di Telemaco è favorito dalla volontà di Atena181, l’approdo nel porto di Itaca è determinato dal vento favorevole di Zeus182. Allo stesso modo, il vento mandato da Calipso è finalizzato a favorire il ritorno in patria di Odisseo183, ma subordinato alla volontà degli dèi olimpici. Nelle parole di Calipso è percepibile una gerarchizzazione del potere divino sui venti: figure divinizzate come Calipso possono inviare un vento propizio, ma soltanto un dio può intervenire sui venti modificandone le finalità.
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Hom., Od. XV 475. Hom., Od. V 176. Anche nell’Hymn. Hom. ad Ap., III 436-439 la nave segue la rotta scelta da Apollo che guida col soffio del vento e, lieta per il vento di Zeus, raggiunge il porto di Crisa. 172 Hom., Od. III 176-183. 173 Hom., Od. IV 585-586. 174 Hom., Od. XV 292. 175 Hom., Od. V 268. 176 Hom., Od. III 173. 177 Hom., Od. III 182-183. 178 Hom., Od. IV 360-361. 179 Hom., Od. IV 360. 180 Hom., Od. IV 582-586. 181 Hom., Od. XV 292. 182 Hom., Od. XV 297. 183 Hom., Od. V 167. 171
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L’ouùrov, pur essendo un vento per natura vantaggioso184, è designato sempre, a differenza degli aònemoi e dei venti denominati, con epiteti positivi che ne evidenziano il carattere benefico: aèph@mwn185 propizio, ka@llimov186 bellissimo, ligu@v187 sonoro, aèliah@v188 marino, ikò menov189 favorevole. L’espressione iòkmenov ouùrov190 ricorre nell’Odissea due volte associata ad Atena e Circe, e una volta nell’Iliade associata ad Apollo che lo invia ai Danai dopo l’invocazione di Crise come manifestazione esplicita del suo consenso divino191. Nell’Odissea Atena invia due volte vento propizio a Telemaco per favorire la partenza verso Pilo192 e il rientro a Itaca193; Circe, invece, a Odisseo per consentire l’attraversamento dei confini dell’Oceano, la discesa all’Ade e il ritorno dall’Ade194. L’epiteto iòkmenov non rafforza soltanto l’aspetto favorevole dell’ouùrov ma si dilata fino a esprimere la positività del no@stov, rendendo il vento non solo vantaggioso ma concretamente direzionale per il buon esito dell’impresa. Con l’espressione ouùrov aèph@mwn, che nella litote esprime la sua funzione positiva, Omero qualifica il vento inviato da Circe a Odisseo fino all’isola delle Sirene, dove la situazione atmosferica si modifica. L’improvvisa caduta del vento, il diffondersi di un rigoroso e innaturale silenzio atmosferico, la sedazione divina del mare e il diffondersi della bonaccia annunciano il pericolo imminente. A livello testuale, il passaggio dalla situazione di favore alla situazione di pericolo è scandita da significative variazioni lessicali che modificano la qualità del vento. L’ouùrov aèph@mwn che aveva favorito la rotta marina di Odisseo diventa aònemov interrompendo la positività del soffio divino; 184
Pind., Pyth. I 32-35. Hom., Od. XII 167. 186 Hom., Od. XI 640. 187 Hom., Od. IV 357. 188 Hom., Od. IV 361. 189 Hom., Il. I 479; Od. II 420; XII 149; XV 292. 190 Cfr. anche Hes., Th. 481. L’aggettivo, di incerta etimologia, deriverebbe dal verbo iòkesqai, nella forma di participio aoristo atematico, cfr. P. Chantraine, DELG; E. Boisacq, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, Paris 1938, s.v. iòkmenov. 191 Hom., Il. I 479 192 Hom., Od. II 420. 193 Hom., Od. XV 292. 194 Hom., Od. XI 7, 640. 185
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l’assenza di vento, galh@nh, non è casuale, ma finalizzata a esprimere il cambiamento di status degli dèi verso Odisseo e i compagni. Il rigoroso silenzio della natura, il vento senza soffio, le onde addormentate dal dio, le vele riposte in fondo alla nave, la diffusa bonaccia, tutto concorre all’esperienza pericolosa e traumatizzante delle Sirene.
7. ‚Anemov-yuch@ Occorre tener presente che il termine moderno ‘anima’, che traduce il greco yuch@, risale etimologicamente ad aònemov che, generalmente, nelle fonti antiche designa il soffio, il respiro195. Anche yuch@ occupa il campo semantico del respirare – yu@cein – e la sua funzione è strettamente connessa al vitale soffio corporeo196. In Omero l’anima non è percepita come un’entità autonoma dal corpo né è individuabile nel corpo un segno fisico che leghi sw^ma alla sfera indefinibile di yuch@, slittando verso l’ambito psichico. L’anima, sebbene costituisca il principio di vita, è tuttavia strettamente associata alla morte, perché designa l’ultimo respiro, la vita che sta svanendo197. Il termine yuch@, che ricorre frequentemente nei poemi omerici, rinvia infatti alla connessione anima-morte tipica del pensiero arcaico, in antitesi con il significato che yuch@-sw^ma assumono in epoca più tarda nel pensiero occidentale. L’antitesi corpo-anima che, a partire dal V secolo, fonda la visione 195 Cfr. Suda, s.v. aònemov: to# pneu^ma tou^ aène@mou. Kai# to# stoicei^on eèn w§ pnei^ oè aònemov. L’aònemov è identificato con il proprio soffio. Cfr. H. Ebeling, op. cit., s.v. aònemov; P. Chantraine, DELG, s.v. aònemov indicano la corrispondenza lessicale del termine greco con animus latino e ànila sanscrito. Nell’Etymol. Magn. s.v. aònemov il sostantivo è associato, a livello semantico, ai verbi aòw/pne@w; nel TGL aònemov ha la sua radice etimologica nel verbo greco aòw/aòhmi con lo stesso significato di pne@w. 196 Cfr. H. Ebeling, op. cit., s.v. yuch@. P. Chantraine, DELG, s.v. yuch@, riprendendo la distinzione sostenuta da E. Benveniste, associa il termine greco al verbo yu@cw nell’accezione di ‘souffler’. Lo stesso verbo con l’accezione di ‘refroidir’ forma, secondo P. Chantraine, un gruppo coerente con yucro@v, etimologicamente distinto da yuch@. Al riguardo cfr. J. Jouanna, Le souffle, la vie et le froid: remarques sur la famille de yu@cw d’Homère à Hippocrate, “REG”, II, 1987, pp. 203-224. In Omero il verbo yu@cw è attestato una sola volta nell’Iliade (XX 438-444) con il significato di “soffiare”. Al momento del combattimento tra Ettore e Achille, Atena devia con il soffio (pnoih@) la lancia diretta contro l’eroe greco soffiando (yu@xasa). 197 G. Reale, Corpo, anima e salute, Milano 1999, p. 75.
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antisomatica del soma-sema è già presente in Omero, ma con un significato diverso da quello orfico e platonico. Nell’età arcaica non c’è distinzione tra anima e corpo perché all’elemento corporeo si associano le capacità fisiche e quando queste attività corporee non esercitano più le funzioni vitali, allora il corpo è definito sw^ma, corpo morto, cadavere, destinato al rogo della cremazione e alla sepoltura, non il corpo del vivente che è designato in rapporto alla dinamica corporea198. I due termini yuch@ e sw^ma sono resi qualificanti dall’intervento della morte, il corpo diventa sw^ma e la yuch@ si identifica con l’eiòdwlon199 non solo dopo la morte corporea ma, a differenza del sw^ma, anche durante uno svenimento o in punto di morte. Le potenzialità dell’anima omerica sono tutte strettamente connesse e funzionali al suo distacco dal corpo. È significativo notare che i verbi designanti i comportamenti dell’anima siano tutti separativi, infatti l’anima vola via dal corpo privo di energia attraverso la bocca, il respiro o il sangue della ferita mortale e raggiunge l’Ade, sua ultima dimora. Nei poemi omerici anche qumo@v come yuch@ abbandona il corpo dopo la morte, ma non è attestata una sua destinazione infera. Al contrario, la yuch@ che vive anonima all’interno del corpo ed è priva di sede anatomica200 ha una destinazione oltremondana201. Le formule omeriche che attestano la fuga della yuch@ 202, l’abbandono del corpo203, la discesa nell’Ade204, l’allontanamento dalle membra205 e la sparizione sotto terra206 esprimono questo percorso immaginario dell’anima sottolineandone il distacco dal corpo e la destinazione oltremondana. Nell’Ade la yuch@ dimora come fa@sma, “un doppio debole e incorporeo del vivo”207 che preserva la memoria dell’esperienza 198
In Omero yuch@, qumo@v e no@ov, non sono distinguibili dalle funzioni del corpo, inteso non come involucro esterno dell’anima ma come esecutore di tutti i comportamenti umani. Al riguardo, cfr. B. Snell, op. cit., pp. 19-47; E. R. Dodds, I Greci e l’irrazionale, tr. it., Firenze 1988, pp. 26-28; 162-165. 199 Hom. Il. XXIII 103. 200 Secondo R. B. Onians, op. cit., pp. 121-149 la yuch@ è collocata nella testa. 201 Hom., Il. XXI 569. 202 Hom., Od. XI 222. 203 Hom., Il. V 696. 204 Hom., Il. VII 330; Od. X 560; XI 65. 205 Hom., Il. XVI 855; XXII 362. 206 Hom., Il. XXIII 100. 207 Riporto l’espressione di M. Vegetti, Anima e corpo, in Il sapere degli antichi, (a cura di) M. Vegetti, Torino 1992, pp. 201-228. Cfr. anche M. Vegetti, L’etica degli antichi, Roma-Bari
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fisica nel malinconico passaggio di status208. A questo eiòdwlon209 Omero non attribuisce un’esistenza autonoma né funzioni specifiche se non quella di definirsi nella perenne inconsistenza di fumo210, di sogno o di ombra211 vana che svolazza212 priva di mente213. Passi particolarmente significativi sulla condizione triste della yuch@ nell’Ade ricorrono sia nell’Iliade214 che nell’Odissea215: Achille, nonostante l’egemonia tra le yucai@, lamenta la sua desolata condizione di defunto216 e invita Odisseo a non consolarlo della morte, perché avrebbe preferito servire un padrone senza ricchezze, piuttosto che regnare sulle ombre nell’Ade217. La consapevolezza dell’inconsistenza fisica della yuch@ nel regno infero spiega la disperazione di Achille per la morte di Patroclo218 e lo sgomento di Odisseo che per tre volte tenta di abbracciare la madre “come dentro spingeva il suo animo” e “per tre volte ella vola via dalle sue mani, simile a ombra o a sogno”219. Alla tristezza dell’anima, conscia del proprio status, corrisponde lo sgomento di coloro che sopravvivono. La condizione speculare di sofferenza terrena del vivo e di sofferenza infera del morto conferma, a livello antropologico, l’interferenza mentale tra i due mondi.
1994, pp. 73-108; L’io, l’anima e il soggetto, in I Greci. Storia, cultura arte e società (a cura di S. Settis), I, Torino 1996, pp. 431-467. 208 Hom., Od. XI 541-542. 209 Hom., Il. XXIII 72. Secondo E. Rohde, op. cit., p. 7 la psyche rappresenta un “altro io”. Al contrario W. Otto, Theophania. Lo spirito della religione greca antica, tr. it., Genova 1983, pp. 69-71 definisce la psyche un “essere dell’essere stato” e nega la possibilità di vedere nell’anima una prosecuzione della vita. J. Bremmer, op. cit., pp. 14-19 definisce la yuch@ omerica free soul, espressione della persona vivente al momento della crisi corporea. 210 Hom., Od. XXIII 100. 211 Hom., Od. XI 207. 212 Hom., Od. X 495. 213 Hom., Il. XXIII 104. 214 Hom., Il. XXIII 103-104. 215 Hom., Od. XI 139-224; XXIV 1-14. 216 Al riguardo M. S. Mirto, La morte nel mondo greco: da Omero all’età classica, Roma 2007, p. 16, ritiene che nell’anima di Achille sia possibile scorgere la fusione di due concezioni distinte confluite nell’epica, una più arcaica che vede i morti nell’oltretomba come fantasmi privi di facoltà mentali e l’altra che concepisce i morti come dotati di sentimenti e status gerarchico analoghi alla condizione di vivi. 217 Hom., Od. XI 488-491. 218 Hom., Il. XXIII 103-107. 219 Hom., Od. XI 204-209.
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Allo stesso modo, il legame della yuch@ con la realtà terrena si concretizza nell’immaginario omerico di eiòdwla kamo@ntwn220, anime che nell’Ade conservano fisicamente l’aspetto del vivo e interiormente la conoscenza delle vicende terrene221. I termini adoperati da Omero per designare l’anima: phasma, eidolon, oneiros, skia, rientrano tutti nella categoria psicologica che J.-P. Vernant222 ha definito del “doppio” che presuppone un’organizzazione mentale diversa dalla nostra, strettamente legata all’intervento divino nella sfera umana. Questi doppi non sono prodotti mentali né imitazioni di oggetti reali, ma funzionano come realtà esterne che interferiscono con la vita terrena, sebbene collocati altrove. Sw^ma e yuch@ si definiscono stabilmente solo al compimento dei riti funerari quando il corpo umano, grazie al suo ingresso definitivo nel circuito sociale della morte, assume la forma di una realtà a due facce223, di cui ciascuna implica l’altra. La prima visibile, localizzata, dura e permanente come la pietra; l’altra invisibile, ubiquitaria, inafferrabile e sfuggente, esiliata nel mondo dell’altrove. La yuch@ è simile al sw^ma, rispetto al quale è un doppio; ne conserva l’aspetto, la memoria terrena e la voce, come capacità potenziali, prive di consistenza corporea. L’anima omerica, infatti, non ha un’autonoma sopravvivenza rispetto all’elemento corporeo: nell’Ade, quando ormai è fissato lo status di morte fisica, l’anima beve il sangue, fluido corporeo, per riacquistare la memoria degli eventi terreni. Soltanto Tiresia, che Odisseo consulta per avere notizie circa il proprio ritorno in patria, conserva, per volere di Persefone, mente saggia e intelligenza; gli altri, ombre vane, svolazzano224. Nel caso di morte apparente, determinata da svenimento o da ferimenti, la yuch@, separandosi temporaneamente dal sw^ma, si autonomizza per ritornare nel corpo quando quest’ultimo riprende l’attività vitale senza interferenze esterne oppure mediante l’intervento dei soffi di vento. 220
Hom., Il. XXIII 72; Od. XI 83, 476, 602; XXIV 14. Hom., Od. XI 180-203. 222 J.-P. Vernant, Psychè: simulacro del corpo o immagine del divino?, in La maschera, il doppio, il ritratto, a cura di M. Bettini, Roma-Bari 1992, pp. 3-11; J.-P. Verrnant, L’individuo, la morte, l’amore, tr. it., Milano 2000, pp. 1-10. 223 J.-P. Vernant, Figure, idoli, maschere, tr. it., Milano 2001, pp. 17-52. 224 Hom., Od. X 491-495. 221
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Nello svenimento di Andromaca alla vista del cadavere di Ettore, l’allontanamento della yuch@ dal corpo è momentaneo e il ritorno alla vita non richiede interventi esterni che favoriscano la ripresa dell’attività respiratoria225. Interruzione e ripresa di vita sono espressi mediante i verbi kapu@w e aègei@rw, direttamente riferiti a yuch@ e non a potenze estranee. Al contrario, quando la vita di Sarpedonte si interrompe to#n de# li@pe yuch@, interviene il soffio di Borea per consentire il ritorno in vita226: Lo abbandonarono i sensi, sugli occhi gli scese una nebbia; ma riprese il fiato di nuovo, il soffio di Borea, spirando all’intorno, gli ridava la forza vitale, che annaspava a fatica. L’attività respiratoria della yuch@227, dopo la perdita vitale corporea, è sostituita dal vento Borea che, nella sua essenzialità di soffio, respira intorno al corpo esanime (eèpipnei@ousa), consentendo la ripresa del respiro e rianimando l’eroe228. Il ritorno della yuch@ all’interno del sw^ma è sottinteso nell’uso del verbo eèmpne@w, “riprendo a respirare”, che fa pendant con eèpipne@w, “soffiare”, che indica l’azione del vento di alimentare il respiro dell’eroe dall’esterno, restituendo l’attività respiratoria al corpo. In questa tipologia del respiro come soffio e nel ruolo attivo del vento nella ripresa dell’attività corporea si fissa il rapporto tra aònemov e yuch@, come suggerisce l’uso del verbo analogo. Sul rogo di Patroclo, in seguito all’invocazione di Achille e per intercessione divina di Iris, Zefiro e Borea alimentano la fiamma soffiando per tutta la notte e favoriscono la scissione della yuch@ dal sw^ma e la conseguente, 225
Hom., Il. XXII 466-475. Hom., Il. V 696-698. J. Warden, Yuch@ in Homeric Death Description, “Phoenix” XXV, 1971, pp. 95-103. Il senso di pausa e di ripresa del respiro è evidente anche nel colloquio tra Laerte e Odisseo quando il vecchio, quasi svenuto, abbraccia Odisseo (Hom., Od. XXIV 346-350). 227 Secondo J. Jouanna, art. cit., pp. 203-224, il termine yuch@ che deriva dal verbo yu@cw, in Omero designa propriamente il soffio presente nell’uomo vivente che si libera durante uno svenimento oppure dopo la morte. 228 Cfr. Porph., de antr. Nymph., 25. Il passo omerico in cui Borea rianima Sarpedonte è utilizzato dal filosofo per spiegare l’essenza aerea o ventosa dell’anima e il rapporto dell’anima con il soffio di Borea che, essendo più freddo, la congela e la mantiene nel freddo della generazione terrestre. Cfr. al riguardo l’interpretazione di F. Buffière, Les mythes d’Homère et la pensée grecque, Paris 1956, pp. 257-272. 226
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definitiva destinazione del sw^ma al rituale funebre e della yuch@ nell’Ade229. A differenza dell’intervento diretto di Borea sul corpo di Sarpedonte allo scopo di rianimarlo, il soffio di Zefiro keladeino@v e quello di Borea agiscono sulla fiamma per portare a compimento la cremazione del corpo. Le raffiche dei due venti, provenienti entrambi dalla Tracia, mescolati in un unico soffio stridente, impalpabile, ma modulato e direzionato come si ricava dall’epiteto liguro@v che ne qualifica l’ambigua sonorità eccedente, vivificano il fuoco. Il soffio congiunto di Borea e di Zefiro alimenta la fiamma del rogo per tutta la notte senza modificare la propria direzione. Quando i venti si allontanano dal rogo e tornano nella loro sede, il fuoco della fiamma si esaurisce230. Dall’analisi dei versi omerici emerge una duplice funzione del vento sulla yuch@: all’intervento diretto di Borea che la rianima s’oppone l’intervento indiretto del soffio congiunto di Borea e Zefiro sul fuoco che consente la morte del corpo e la destinazione infera della yuch@ ormai eiòdwlon. Borea nell’Iliade è associato allo spirito vitale dell’uomo, alla vita, ma anche alla morte. Come alimenta la vita, così alimenta il fuoco distruttore della vita. È possibile quindi ricavare un ruolo funzionale di Borea e Zefiro, che intervengono in ogni caso su corpi ormai in fase liminare tra vita e morte per fissare sia lo status di morto favorendo la cremazione231, sia lo status di vivo consentendo la ripresa del respiro232. A questa concezione antropologica che enfatizza il corpo e confina l’anima nell’ambigua sfera dell’indefinito si contrappone l’idea di una radicale svalutazione del corpo teorizzata dal pensiero orfico e pitagorico che afferma l’esistenza di una yuch@ divina e immortale, non più un vuoto eiòdwlon233, ma elemento divino che ciascun uomo porta dentro di sé, incorruttibile e immortale. Nelle laminette auree orfiche234, l’aspirazione del
229
Hom., Il. XXIII 212-218. Hom., Il. XXIII 228. 231 Hom., Il. XXIII 217-218. 232 Hom., Il. V 697. 233 Pind., fr. 131 Snell. 234 Cfr. G. Pugliese Carratelli, Le lamine d’oro orfiche. Istruzioni per il viaggio oltremondano degli iniziati greci, Milano 2001; M. Tortorelli Ghidini, Figli della Terra e del Cielo stellato. Testi orfici con traduzioni e commento, Napoli 2006, pp. 25-148; F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco. Racconto e sapienza dall’Odissea alle lamine misteriche, Torino 2007. 230
I venti come potenza
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mu@sthv a sottrarsi al ciclo delle rinascite e a “volar via dal cerchio che dà pesante affanno e dolore” conferma ciò che attesta Aristotele quando attribuisce agli orfici la concezione secondo la quale “l’anima, portata dai venti, entra dall’universo negli esseri quando respirano”. Entrambe rispondono alla valutazione negativa della vita rispetto alla morte235. Per gli orfici l’anima è il principio divino caduto in un corpo e destinato a reincarnarsi in corpi successivi236 finché, attraverso pratiche di purificazione, si sottrae al ciclo delle rinascite. Introducendo l’idea di un elemento divino e non mortale che proviene dagli dèi, il pensiero orfico svaluta il corpo ridimensionandolo a mero impedimento da cui liberarsi, perché l’essenza dell’uomo è nella yuch@, principio divino che realizza se stesso solo quando il corpo muore.
235 236
Arist., de an. 410 b 27; 411 a 2. Plat., Cratyl. 400c; Gorg. 493c; Phaed., 70c.
Capitolo secondo Mitologia dei venti
1. I venti denominati Accanto agli anemoi, e da essi distinti per denominazioni, la tradizione omerica attesta la presenza di Zefiro, Borea, Euro, Noto, venti regolari che soffiano sempre negli stessi periodi e nella stessa direzione e, in quanto tali, orientano lo spazio. È ipotizzabile che nell’immaginario d’età arcaica dalla funzione di questa collettività di esseri extraumani si sia costituita l’antropomorfizzazione dei venti e il conseguente passaggio alla denominazione. Non sempre ai venti denominati corrispondono funzioni positive. Lo dimostra l’uso degli epiteti ad essi assegnati, designanti sentimenti di livore, violenza, impetuosità, analoghi a quelli adoperati per gli anemoi. Questi venti, probabilmente associabili ai quattro punti cardinali, sono di provenienza più regolare e soffiano per lo più nelle stesse direzioni: Zefiro soffia da ovest1, Borea da nord2, Noto da sud3, Euro da est4. Queste caratteristiche favoriranno, già in Esiodo, la definizione dei venti denominati come venti
1 Hom., Il. II 147; IV 276, 423; VII 63; IX 5; XI 305; XVI 150; XIX 415; XXI 334; XXIII 195, 200, 208; Od. II 421; IV 402, 567; V 295, 332; VII 119; X 25; XII 289, 408, 426; XIV 458; XIX 206. 2 Hom., Il. V 524, 697; IX 5; XIV 395; XVI 26, 171; XIX 358; XX 223; XXI 346; XXIII 195, 208, 692; Od. V 296, 328, 331, 385; IX 67, 81, X 507; XII 110; XIV 253, 299, 475, 533; XIX 200. 3 Hom., Il. II 145, 395; III 10; XI 306; XVI 765; XXI 334; Od. III 295, 331; XII 3, 289, 318-325, 400, 427. 4 Hom., Il. V 295, 332; XII 326; XIX 206; Od. II 145; XVI 765.
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cardinali e stagionali che orientano lo spazio5 e regolano la navigazione, il commercio e il lavoro agricolo, attività che consentono la sopravvivenza dell’uomo. Un ruolo particolare è attribuito a Borea e Zefiro, che in qualità di venti pericolosissimi e violenti, come si ricava dagli epiteti che li designano, si inseriscono spesso nel contesto narrativo dei poemi omerici con la funzione di modificare lo svolgimento degli eventi6. Euro e Noto invece sono menzionati il più delle volte in rapporto agli altri venti denominati come loro antagonisti o spiranti dalla stessa direzione.
2. Zefiro Sebbene l’etimologia di ze@furov appaia ancora incerta7, tuttavia il rapporto con zo@fov8 è generalmente accettato9 e, a partire da Omero, il nome Zefiro è associato, a livello semantico, all’occidente. Negli Inni omerici Zefiro si presenta già come un vento orientato, che soffia per favorire le rotte degli dèi verso Cipro e Delfi, ma le scarse attestazioni non autorizzano a definirlo un vento corrispondente a uno speci5
Galeno (XVI 399K) li definisce tou#v aène@mouv korufai@ouv; Ireneo (contr. haer. III 11, 8) attribuisce alla tradizione arcaica la conoscenza di quattro venti: eèpeidh# te@ssera kli@mata tou^ ko@smou eèn wjù eèsme#n eièsi@, kai# te@ssera kaqolika# pneu@mata; Seneca (Nat. Quaest. V 16) conosce la tradizione relativa ai quattro venti denominati: “venti quattuor sunt in ortum occasum meridiem septentrionemque divisi”. Anche Plinio, (Nat. Hist. II 4, 119), attesta tale conoscenza come diffusa nell’antichità: “veteres quattuor omnino (ventos) servavere per totidem mundi partes; ideo nec Homerus plures nominat”. Aulo Gellio (Noct. Att. II 22), modifica il numero dei venti orientati: “ex his octo ventis alii quattuor detrahunt ventos atque facere se dicunt Homero auctore, qui solus quattuor ventos noverit”. 6 Nell’Etymol. Magn. ze@furov è definito oè aèpo# dusmw^n pne@wn aònemov; secondo Suda, ze@furov è lei÷ov aònemov. 7 E. Boisacq, op. cit. e P. Chantraine, DELG, Paris 1974 definiscono Zefiro un vento dell’ovest o del nord-ovest di tipo violento e piovoso, in rapporto semantico con zo@fov. 8 Il legame tra Zefiro e l’occidente è segnalato già nelle fonti antiche. Nello Schol. F in Hom. Il. XXI 334-335 a Erbse si legge: para# to#n zo@fon. 9 R. Ambrosini, ZEFUROS: un problema etimologico antico e moderno, “ASNSP” XXV, 1956, pp. 142-147, sostiene che il collegamento di ze@furov con zo@fov sia, da un punto di vista semantico, insoddisfacente, e preferisce collegarlo alla radice del verbo oiòfw, fecondare, corrispondente al skr. yàbhati futuit. Anche nella tradizione latina è nota la conoscenza delle capacità fecondatrice di Zefiro cfr. Virgilio (Georg. III, 273-275): “ore omnes versae in Zephyrum stant rupibus altis exceptantque levis auras et saepe sine ullis coniugiis vento gravidae, mirabile dictu”.
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fico punto cardinale10. Nell’Inno omerico ad Afrodite la dèa nata dalla spuma spermatica (aèfro@v) dei genitali di Urano caduti in mare11 è spinta dal vento Zefiro nell’isola di Cipro, sua sede privilegiata12: La dèa augusta dalla corona d’oro io canterò, la bella Afrodite che ha in dominio le mura di tutta Cipro, circondata dal mare, dove la forza di Zefiro che umido soffia, la portò sull’onda del mare risonante tra la soffice spuma. Nell’Inno omerico ad Apollo in cui si racconta il mito di fondazione dell’oracolo del dio, una nave di mercanti che il dio ha rapito perché divengano suoi orgeones e di cui il dio stesso è timoniere naviga pro#v hèw÷ t’hèe@lio@n te. Spinta dal soffio di Noto13, la nave, dopo aver oltrepassato il Capo Malea, non obbedisce al timone che orienta l’approdo alla contrada sacra a Elio, ma prosegue lungo il Peloponneso guidata dal soffio di vento diretto da Apollo14: ma la nave ben costruita non obbediva al timone, anzi, muovendo lungo il Peloponneso fecondo seguiva la sua via, e Apollo, il dio arciere, col soffio del vento, facilmente la dirigeva. Infine, grazie a Zefiro inviato da Zeus, la nave approda al porto di Crisa15:
10 Al riguardo cfr. E. Risch, Zephyros, “MH”, XXV, 1968, pp. 205-213. Lo studioso, dopo aver dimostrato che in Omero Zefiro è un vento occidentale e non uno specifico punto cardinale, dedica un paragrafo alla tavoletta micenea di Pilo (PY Ea 56) nella quale si legge ze-pu2-ro, corrispondente al termine Ze@furov o all’avverbio zefu@rwv, accettando, a livello semantico, il collegamento tra ze@furov e zo@fov. 11 Hes., Theog. 188 ss. Cfr. al riguardo, I. Chirassi Colombo, L’inganno di Afrodite, in I labirinti dell’eros. Incontro di donne sull’immaginario erotico femminile. Atti del Convegno (Firenze, 27-28 ottobre 1984), Firenze 1985 pp. 109-121; I. Chirassi Colombo, Giochi dell’immaginario greco, in I figli della scienza. Riflessioni sulla riproduzione artificiale, Milano 1985, pp. 111-128. 12 Hymn. Hom. ad Ven. 1-5. 13 Hymn. Hom. ad Ap. 408-409. 14 Hymn. Hom. ad Ap. 418-421. 15 Hymn. Hom. ad Ap. 431-435.
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e quando apparve il golfo immenso di Crisa che delimita il Peloponneso fecondo, per volontà di Zeus si levò uno Zefiro possente e sereno che soffiava impetuoso dal cielo, perché al più presto la nave compisse la sua corsa sulle salse acque del mare. Sebbene negli Inni omerici le attestazioni relative ai venti denominati siano limitate, tuttavia è possibile ricavare da alcuni elementi emergenti che i venti funzionano come strumento di potere degli dèi olimpici, come nei poemi omerici. Nell’assetto olimpico, che contempla la divisione degli spazi e l’attribuzione dei ruoli alle divinità nel pantheon, il vento è lo strumento mediante il quale gli dèi intervengono per garantire l’attuazione delle decisioni divine. Significativo è il verso in cui la nave dei mercanti cretesi che intendono approdare all’isola di Elio non può modificare la rotta marina perché tale rotta è assecondata dal soffio di vento inviato dagli dèi ed è guidata direttamente da Apollo. Questo dato testuale favorisce l’interpretazione dei venti denominati come entità orientate, spiranti secondo una precisa volontà olimpica, non autonome personificazioni divine. Nei poemi omerici Zefiro è il vento più frequentemente attestato. Ricorre undici volte nell’Odissea e dodici volte nell’Iliade accompagnato da epiteti ben distinti e spesso di significato opposto, che non consentono di attribuirgli una esplicita natura positiva. Per lo più è designato come vento violento e pericoloso16, anche quando è associato agli altri venti denominati. Si scontra con le nubi prodotte da Noto17, si riunisce con le sue raffiche in pericolose tempeste18 oppure soffia insieme con Borea dalla Tracia19, o spira in direzione opposta a quella di Euro20 o agisce insieme a tutti i venti denominati21. Zefiro è qualificato come violento22, strepitante23, apportatore
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Hom., Il. II 147; XXIII 200; Od. V 295; XII 289, 408-411. Hom., Il. XI 305-306. 18 Hom., Il. XXI 334-335; Od. XII 289. 19 Hom., Il. IX 5; XXIII 195, 208. 20 Hom., Od. XIX 206. 21 Hom., Il. XXIII 200; Od. V 295. 22 Hom., Il. XXIII 200. 23 Hom., Il. XXIII 208. L’epiteto designa anche la dèa Artemide (Hom., Il. XVI 183; XX 70; XXI 511; Od. XI 172). 17
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di pioggia24 e di neve25, distruttore del lavoro dell’uomo26. I pochi epiteti che lo qualificano come vento favorevole o gradevole sono sempre funzionali alla volontà divina e al contesto narrativo. Zefiro diventa aèkrah@v quando è utile alla navigazione27, e spira come vento favorevole (ouùrov) o, nell’episodio di Eolo, come brezza leggera e orientata (pnoih@). Accanto a queste caratteristiche di vento tempestoso e dannoso, la tradizione omerica attribuisce a Zefiro singolari doti di velocità e fecondità28. Zefiro è il più rapido tra i venti29 e genera dall’unione con l’Arpia Podarghe Xanto e Balio30, i cavalli veloci di Achille che volano al pari del vento31. La singolare fecondazione e l’anomala nascita dei cavalli rapidi come il vento sono collocate presso le correnti di Oceano, al di fuori dei contesti spaziali normali. La velocità, motivata geneticamente dalla loro discendenza dal vento e dall’Arpia Podarghe, entità femminile dal ‘piede rapido’32, è un altro elemento di eccezionalità. In assenza di direzione e in qualità di soffio permanente, Zefiro assume un deciso carattere positivo, funzionale ai contesti: soffia sempre sui Campi Elisi33 e nutre sempre i frutti del giardino di Alcinoo34. In questo caso il soffio di Zefiro è definito attraverso la forma aggettivale zefuri@h che ricorre una sola volta nei poemi omerici. Il soffio di Zefiro (zefuri@h) vivifica i giardini di Alcinoo favorendo per tutto l’anno la maturazione e la nascita di frutti rigogliosi: peri, granati, meli, fichi e ulivi. Pausania attesta la presenza di un altare dedicato a Zefiro in un complesso templare incentrato sul mondo 24
Hom., Od. XIV 458. Hom., Od. XIX 206. 26 Hom., Il. II 147. 27 Hom., Od. II 421. 28 G. B. Pighi, Ze@furov. Zo@fov. Sþafôn, “RAIB”, LXIV, 1975-76, pp. 69-85. Lo studioso, partendo dall’analisi degli epiteti di Zefiro e da un’indagine geografica delle rotte marine seguite da Odisseo, distingue nell’Iliade uno Zefiro trace e violento e uno Zefiro oceanico velocissimo. Nell’Odissea individua uno Zefiro della navigazione d’altura, uno Zefiro della navigazione costiera, uno Zefiro della terraferma, uno Zefiro del paradiso egiziano, uno Zefiro spezzatore di navi e nevoso di alcune interpolazioni odissiache. 29 Hom., Il. XIX 415-416. 30 Hom., Il. XVI 150; XIX 400. 31 Hom., Il. XVI 151. 32 Schol. P in Hom. Il. XVI 150 b Erbse. 33 Hom., Od. IV 567. 34 Hom., Od. VII 119. 25
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della produzione agraria che riflette, a livello rituale, la tradizione mitica più antica35. L’altare si eleva vicino al tempio di Demetra e Kore, lungo la sacra via che da Atene conduce a Eleusi, in una località ove si diceva che Phytalos avesse accolto Demetra nella sua casa, ricevendo in compenso dalla dèa la rivelazione della coltura del sacro fico. Il permanente rigoglio di alberi e frutti, riflesso di una realtà umana idealizzata, compare nell’Ade come immagine ingannevole, funzionale alla punizione di uno dei grandi penitenti36, mentre, per volere di Oceano, i soffi sonori di Zefiro rinfrescano e privilegiano coloro che abitano la pianura Elisia, ai confini del mondo37. Se per l’assenza totale di pioggia, neve e freddo la vita nella pianura elisia è analoga alla vita beata e privilegiata degli dèi sull’Olimpo, la presenza nell’Eliso di questa sonora brezza di Zefiro costituisce un rilevante elemento di distinzione. La funzione refrigerante di Zefiro nell’Eliso si distingue da quella vivificante nel giardino di Alcinoo. Ma in ogni caso la fissità del soffio determina la condizione di privilegio degli spazi idealizzati. Nell’immaginario greco gli spazi non umani si definiscono sempre in stretta relazione al vento: nella pianura Elisia e nel giardino di Alcinoo il soffio di Zefiro caratterizza il paesaggio divino, nell’Olimpo invece l’assenza di anemos determina la condizione di privilegio degli dèi e nell’Ade un anemos insidioso condanna Tantalo al supplizio allontanando da lui il cibo desiderato.
3. Borea Borea38, come Zefiro39, è definito in Omero genericamente me@gav aònemov40. Il suo me@nov è associato a quello di analoghi venti selvaggi, spiranti con
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Paus., I 37, 2. Hom., Od. XI 587-592. 37 Hom., Od. IV 567. 38 In Pindaro Borea è basileu#v aène@mwn (Pind., Pyth. IV 323) ed è associato a Zete e Calaide. 39 Secondo Luc., Tim. 54 la tradizione iconografica attribuisce a Borea un aspetto mostruoso. 40 Hom., Od. XIX 200. 36
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raffiche stridenti41; sotto il suo soffio possente cadono grandine e neve dalle nubi42 e si modifica la distesa del mare43. Come gli anemoi, e come gli altri venti denominati, anche Borea è strumento di azione del dio ora dannosa ora benevola verso i mortali o di vendetta contro un’altra divinità. Zeus si serve di Borea per agire contro Odisseo e, sollevando una terribile tempesta44, impedisce all’eroe di doppiare Capo Malea; Menelao, invece, è trascinato dallo stesso vento in Egitto45. Era per vendicarsi della trasgressione di Zeus invia Borea e le rapaci qu@ellai contro Eracle46. Nelle parole di Odisseo a Penelope il sopraggiungere di Borea è percepito come strumento di vendetta di un dio nemico47 e anche Borea, come Zefiro, diventa aèkrah#v kai# kalo@v quando agevola la partenza dell’eroe da Creta48, kraipno@v quando, per volere di Atena, favorisce l’approdo del naufrago Odisseo a Scheria49 e, per volere di Circe, conduce l’eroe fino all’Oceano perché scenda nelle case di Ade50. Borea è l’unico vento di cui è indicata una genealogia atipica a carattere apparentemente formulare. Borea è aièqrhgene@thv51. È probabile che nella cosmologia omerica Etere, come Notte52, si configuri come entità primordiale rispetto al regno di Zeus. Nella Teogonia esiodea Etere appartiene alla fase cosmogonica originaria e discende da Notte nera e da Erebo, coppia di entità oscure, generate direttamente da Caos53. Secondo un preciso schema bipolare, dalla oscura coppia generatrice discende la coppia luminosa, costituita da Etere e Giorno, che si oppone a Erebo e Notte. Generando Giorno, Notte crea per i mortali l’alternanza tra oscurità notturna e lumino41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52 53
Hom., Il. V 524-525. Hom., Il. XV 170-171. Hom., Il. XIV 394-395. Hom., Od. IX 67. Hom., Od. XIV 253. Hom., Il. XV 26. Hom., Od. XIX 200. Hom., Od. XIV 253. Hom., Od. V 385. Hom., Od. X 504-507. Hom., Od. V 296; Il. XV 171; XIX 358. Hom., Il. XIV 258; Od. V 296. Hes., Th. 123-125.
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sità diurna. Al contrario, Erebo generando Etere fissa la luminosità perenne degli dèi olimpici e l’oscurità permanente degli dèi del Tartaro. È possibile che la discendenza di Borea da Etere, nitida e perenne luminosità del cielo, esprima in Omero, attraverso la sfera visiva luminosa, la qualità di Borea come vento orientato. Alla sfera luminosa rinvia anche la collocazione genealogica dei venti denominati in Esiodo come figli di Astraios e di Eos54. Nell’Inno ad Apollo55 Zefiro è il vento che spira eèx aièqe@rov. Sebbene non si possa affermare con certezza che l’espressione indichi una discendenza genealogica, tuttavia è evidente che la tradizione antica suggerisca anche per Zefiro una provenienza individuabile. Dall’esame dei passi citati emerge una relazione tra sfera visiva e venti denominati, confermata nella Teogonia esiodea. Il riferimento costante alla luminosità consente di distinguere le direzioni di provenienza dei soffi di Borea, Euro, Noto e Zefiro, ma non permette di individuare una costante e coerente relazione tra il singolo vento e i punti cardinali. Borea e Zefiro interagiscono anche con la sfera della notte e della morte. Il sopraggiungere improvviso e notturno di Borea accentua il versante negativo della notte rendendola cattiva e gelata56 e sottintende un rapporto oscurità-pericolo nella vita degli uomini. Anche Zefiro, soffiando continuamente nelle ore notturne, modifica la percezione umana della notte57. L’assenza della luminosità lunare, unica possibile fonte di luce notturna, agisce a livello visivo sul buio della notte assimilandolo al buio della morte. Nell’epiteto skotomh@niov che qualifica la notte, che uno Zefiro piovoso rende particolarmente buia, è evidente il riferimento al sostantivo sko@tov che nel mondo omerico designa l’oscurità che scende sull’eroe morente58. Nell’immaginario antico il soffio notturno dei venti è recepito sempre come manifestazione di forze atmosferiche distruttive e mortali. Tale violenza si concretizza, a livello semantico-narrativo, esasperando l’intensità della notte fino a identificarla con il buio della morte. Anche il brivido fri@x di Borea e Zefiro, che si propaga lentamente nell’aria, agisce negli spazi visivi delle en-
54 55 56 57 58
Hes., Th. 378-380. Hymn. Hom. ad Ap. 433-435. Hom., Od. XIV 475. Hom., Od. XIV 457. Hom., Il. IV 461; V 47; XXI 181.
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tità naturali modificandoli: oscura mela@nei la distesa marina, capovolgendo violentemente le onde del mare59, si presenta come involucro di morte per gli abitanti marini o favorisce l’apparizione di figure del mare semidivine, come Proteo, Poseida@wnov uépodmw@v60. Borea e Zefiro interferiscono anche direttamente con la sfera della morte; Borea ha un’azione bipolare, vivificante e distruttrice sull’anima; Zefiro agisce solo nella sfera della morte. Quando la vita di Sarpedonte si interrompe, Borea interviene alimentando il respiro dell’eroe61. Per intercessione di Iris Zefiro e Borea soffiano tutta la notte sul rogo di Patroclo, finché il fuoco non consuma completamente il cadavere62. Il vento alimenta il fuoco per distruggere il corpo, ma alimenta anche la vita agendo direttamente sul respiro63. Questa immagine antropomorfizzata di Borea come vento vivificatore si presta ad altre suggestioni quali quella, più letteraria, di “Borea, vento d’autunno che trascina i cardi per la pianura, ed essi si tengono stretti ammucchiati”64 oppure “asciuga di colpo una vigna da poco allagata”65. La capacità fecondante che accomuna l’azione dei due venti si esplica, però, differenziandosi: Zefiro, vento fecondante, si unisce all’Arpia Podarghe e genera i cavalli veloci, senza modificare la sua natura atmosferica; Borea invece, assumendo la forma teriomorfa di cavallo, si unisce alle giumente di Erittonio, e genera dodici puledre, il cui incedere è di vento66: sulla piana gli pascolavano tremila cavalle, tutte femmine, superbe delle loro vivaci puledre. Se ne innamorò Borea, mentre pascevano, e le montava trasformato in cavallo dalla chioma azzurra: s’ingravidarono e partorirono dodici puledre. Queste quando saltavano sopra i campi fecondi sfioravano le spighe del grano, senza spezzarle; 59
Hom., Il. VII 63. Hom., Od. IV 386. 61 Hom., Il. V 696-698. 62 Hom., Il. XXIII 216-217. 63 Secondo E. Rohde, op. cit., I, p. 14, in questa azione vivificante di Borea è percepibile una sopravvivenza di antichi culti. 64 Hom., Od. V 328-329. 65 Hom., Il. XXI 346. Cfr. G. Scalera McClintock, Il pensiero dell’invisibile nella Grecia arcaica, Napoli 1989, p. 44. 66 Hom., Il. XX 221-229. Cfr. anche Verg., Aen. VII 808. 60
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quando saltavano invece sull’ampio dorso del mare, sfioravano allora la cresta dell’onda spumosa. Nel pensiero greco di età classica la tradizione arcaica di venti dotati di forza fecondatrice diventa l’aiòtion mitico del pensiero scientifico67, come mostra la speculazione aristotelica sulla capacità fecondante delle giumente al diffondersi del soffio primaverile di Zefiro68.
4. Euro Rispetto a Borea e a Zefiro che nel pensiero greco, a partire da Omero, sono ampiamente attestati e subiscono significative amplificazioni e modificazioni, nelle fonti letterarie e iconografiche di età più tarda i venti Euro e Noto che ricorrono raramente, già in Omero sono menzionati soprattutto insieme agli altri venti denominati. L’associazione con questi venti accentua il carattere violento di Euro e Noto, in quanto lo spirare combinato di più venti determina sempre un’aggregazione tempestosa. Tuttavia Euro e Noto, come gli altri venti denominati, sono designati con epiteti sia positivi sia negativi. Euro è un vento tempestoso quando esercita la sua azione devastante sul mare o nelle selve69 o quando, soffiando periodicamente in alternanza a Noto, impedisce la navigazione70, ma è mite quando scioglie la neve che Zefiro ha ammucchiata71. Euro, in questo caso, si caratterizza come vento orientato dell’est, direzionalmente opposto a Zefiro72. Con gli altri venti denominati concorre alla formazione della tempesta poseidonica73 e, anche in questo caso, sof67
Arist., Hist. an. VI 560 a 6; de gen. an. III 1, 749 b. Arist., Hist. an. VI 572 a, 14-18; Varr., De re rust. II 1, 19; Verg., Georg. III 271-279; Colum., De re rust. VI 17. 69 Hom., Il. II 145; XVI 765. 70 Hom., Od. XII 326. 71 Hom., Od. XIX 206. 72 Etymol. Magn. s.v. Euùrov. Secondo E. Boisacq, op. cit., s.v. Euùrov, Euro è un vento dell’est o del sud-est. Il legame semantico con il sostantivo auòra spiega meglio il carattere del vento. P. Chantraine, DELG, s.v. Euùrov definisce Euro un vento di sud-est, la cui etimologia è incerta. 73 Hom., Od. V 295. 68
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fia in direzione opposta a Zefiro e agisce come forza di dispersione sulla zattera di Odisseo74. L’esplicita definizione di Euro come vento orientato è limitata, nell’Odissea, a questi due casi ed è comunque in direzione opposta a Zefiro. Nell’Iliade la descrizione di raffiche di Euro e Noto provenienti da direzioni opposte e spiranti in direzione del mare Icario75 o gareggianti contro una selva76 ricorre in similitudini, funzionali a diversi contesti narrativi. Al di là dell’uso letterario in similitudini, la presenza di venti denominati e non di generici aònemoi e la descrizione delle modalità d’intervento dei due venti mostrano chiaramente che si tratta di venti provenienti da direzioni diverse.
5. Noto Noto77 è un vento del sud e del sud-ovest e lessicalmente si caratterizza come vento dannoso o umido78. Si manifesta con un’irruzione di raffiche violente79 e agisce, a livello visivo, producendo e distendendo sui contorni geografici una nebbia di anomala luminosità offuscante, aèrgesth@v, che esprime il senso abbagliante dell’eccesso luminoso80. Il suo soffio intenso può confluire e confondersi con quello di Euro quando agiscono entrambi, sovrapponendosi, su una stessa traiettoria81; al contrario, quando è orientato in direzione opposta a Euro, si distingue da quest’ultimo per la veemenza della raffica82. Soffiando costantemente e a
74
Hom., Od. V 332. Hom., Il. II 145. 76 Hom., Il. XVI 765. 77 E. Boisacq, op. cit., s.v. no@tov definisce Noto un vento del sud, che esprime etimologicamente la natura di vento umido. Secondo P. Chantraine, DELG, s.v. no@tov, Noto è un vento del sud che semanticamente si ricollega alle radici dei verbi nh@cw-ne@w. 78 Cfr. Etymol. Magn. s.v. no@tov. 79 Hom., Il. II 395. 80 Hom., Il. XI 306; XXI 334. 81 Hom., Il. II 145. 82 Hom., Il. XVI 765. 75
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fasi alterne rispetto a Euro83 o a Zefiro84, Noto agisce su Odisseo e i compagni danneggiandoli a livello fisico e morale85. Associato a Zefiro, accentua invece l’aspetto di vento dannoso e violento in quanto forma una tempesta pericolosa86, la cui violenza diventa incontrollabile anche a livello divino87: Ma sorgono venti maligni, che portano rovina alle navi, di notte: come evitare la ripida morte se a un tratto viene un vento furioso, o Noto o Zefiro violento, che maggiormente una nave distruggono, pur non volendo gli dèi sovrani? Zefiro e Noto agiscono insieme ostacolando la navigazione o invertendo le rotte marine88. Nel racconto di Nestore a Telemaco si parla di Noto come di un vento che rende difficili gli approdi a Creta. Menelao infatti, doppiato il Capo Malea, si imbatte in venti funesti ed è trascinato a Creta, nel porto di Gortina, dove il vento Noto non consente l’approdo delle navi in quanto soffia in modo permanente. Noto è il vento divino di Itaca, che dirige il suo soffio perenne verso l’ingresso degli immortali nell’antro collocato nel porto dell’isola. Tale caratteristica, più esplicitamente cardinale, lo contrappone a Borea che, soffiando in modo perenne e direzionale, designa invece l’ingresso dei mortali89. Nei poemi omerici questa esplicita collocazione dei due venti, rispettivamente a nord e a sud, ha indotto molti studiosi a limitare all’Odissea il preciso rapporto tra venti denominati e punti cardinali e ad escluderlo nell’Iliade, dove lo spirare dei venti è descritto in modo più confuso e non è sempre coerentemente orientato secondo i quattro punti cardinali90.
83 84 85 86 87 88 89 90
Hom., Od. XII 325-326. Hom., Od. XII 426. Hom., Od. XII 427. Hom., Il. XXI 334. Hom., Od. XII 286-290. Hom., Od. XII 426-428. Hom., Od. XII 109-112. H. Steinmetz, op. cit., passim; K. Nielsen, op. cit., pp. 1-113.
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6. Eolo, tamias dei venti Eolo91, in quanto tamias dei venti, la cui esistenza mitica è condizionata dalla funzione di custodia e controllo dei venti, costituisce un’altra prospettiva di analisi utile a definire lo statuto dei venti nell’immaginario arcaico. L’isola Eolia, dimora fluttuante di Eolo Ippotade, è uno dei luoghi incontrati da Odisseo nel suo viaggio, che molti studiosi hanno cercato, senza successo, di localizzare e che già le fonti antiche identificavano con siti geografici diversi92. L’isola di Eolo è appartata, solitaria, circondata da mura di bronzo indistruttibile e da nuda roccia93. E arrivammo all’isola Eolia: vi abitava Eolo Ippotade caro agli dèi immortali, su un’isola galleggiante; un muro di bronzo infrangibile la cinge tutta, s’eleva liscia la roccia. La roccia costituita di pietra terrigena94, saldamente connessa alla terra, la dura staticità del bronzo, materiale di cui è costituito il muro di cinta, e la condizione singolare di isola galleggiante che impedisce ogni tipo di localiz-
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Hesych., s.v. Aièoleu@v: oè kaiki@av aònemov. Gli antichi designavano isole eoliche, Lipari, Didime, Strongile e Iera (Thuc., III 88). In quest’ultima collocavano la fucina di Efesto. In Diodoro (V 7) le Eolie sono costituite da sette isole, in una di queste isole di nome Lipari si sarebbe insediato Eolo, figlio di Ippote, e avrebbe sposato Ciane, la figlia del re eponimo Liparo, dalla quale avrebbe avuto sei figli. Secondo Diodoro è questo l’Eolo presso il quale sarebbe giunto Odisseo durante il suo errare, un personaggio pio e ospitale che avrebbe insegnato ai naviganti del luogo l’uso delle vele, grazie alla sua singolare capacità di prevedere con precisione lo spirare di venti attraverso l’osservazione del fuoco. Strabone (VI 2, 10-11) e Plinio (Nat. Hist. III 9, 94) identificano l’isola Eolia con Stroggu@lh. Virgilio (Aen. I 52-56) descrive Eolo come un re, seduto con lo scettro in mano, in un antro, all’interno del quale i venti sono incatenati grazie al suo potere. Apollodoro (I 7, 3) attesta la tradizione secondo la quale Eolo, figlio di Elleno e della ninfa Orseide, fratello di Doro e Xuto, sarebbe stato re delle regioni della Tessaglia e avrebbe chiamato Eoli i suoi abitanti. Pausania (X 8, 4) afferma che i Beoti anticamente abitavano la Tessaglia ed erano chiamati Eoli. Igino (fab. 125, 6) identifica Eolo, re dei venti, con Eolo tessalico, figlio di Elleno e personificazione della stirpe eolica. 93 Hom., Od. X 1-4. 94 P. Faure, Ulisse il cretese, tr. it., Roma 1985, pp. 55-56, negando la possibilità di individuare geograficamente l’isola di Eolo, ipotizza in questa tipologia di casa un modello di caverna cretese. 92
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zazione garantiscono la protezione dell’oikos non umano di Eolo95. Tuttavia fluttuabilità, mura bronzee e roccia nuda sono anche elementi funzionali all’isolamento e alla separazione dell’oikos eccezionale dal resto del mondo. Là vive Eolo insieme alla sua famiglia, senza contatti con il mondo esterno. Nei poemi omerici Eolo non è un qeo@v ma è tami@av tw^n aène@mwn per volere di Zeus. Egli è fi@lov aèqana@toisi, ha per padre un mortale, Hippotes, “cavaliere”, ed esercita funzioni regali e divine nella sua isola galleggiante, frenando e destando i soffi del vento. Il controllo che Eolo esercita sui venti, generalmente collegato nel pensiero arcaico all’intervento di un dio o di figure divine, non è un’eccezione, ma rientra nella concezione olimpica, perché Eolo è tamias e opera all’interno del cosmo di Zeus per volere divino. Egli vive in un oikos chiuso i cui abitanti – i dodici figli – si riproducono attraverso rapporti incestuosi secondo un sistema matrimoniale chiuso. La solitudine estrema, l’isolamento completo e il sistema familiare endogamico di unioni matrimoniali tra fratelli rivelano l’essenziale estraneità del mondo di Eolo rispetto al mondo umano di cui Odisseo è portavoce. La vita che si conduce nell’isola è statica e scandita dal ritmo monotono e costante di banchetti e di pause notturne. Durante il giorno, i figli e le figlie di Eolo insieme con i loro genitori banchettano all’interno dell’atrio con innumerevoli bevande e cibi cotti che riempiono la casa di fumo di grasso; di notte, dormono tra loro in letti a trafori96. L’arrivo di Odisseo umanizza la condizione sovrumana di vita dell’isola di Eolo, punto di confluenza, di separazione e di confusione delle direzioni marine. L’isola fluttuante, priva di organizzazione sociale e politica, al momento dello sbarco di Odisseo è definita polis97 e la residenza di Eolo è descritta come un bel palazzo regale. Il signore dei venti accoglie ospitalmente l’eroe e i compagni, interrompendo il singolare circuito mentale e sociale di vita della propria isola. Attraverso il racconto degli avvenimenti della guerra di Troia, Odisseo instaura un legame culturale tra gli abitanti
95
P. Vidal-Naquet, Mito e religione della terra e del sacrificio nell’Odissea, in Il cacciatore nero, tr. it., Roma 1988, p. 25: “L’isola di Eolo fornisce un altro esempio classico di inumanità”. 96 A. C. Cook, op. cit., III, pp. 106-112: ritiene che gli anemoi dell’isola di Eolo siano anime dei morti ed Eolo, eponimo della stirpe tessala, sia il re defunto che continua, in qualità di anima, a regnare sui suoi sudditi. 97 Hom., Od. X 13.
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dell’isola e il mondo esterno, da cui Eolo è fisicamente separato e moralmente estraneo98. L’accoglienza benevola e il racconto dettagliato (kata# moi^ran)99 di Odisseo segnano il netto contrasto tra l’incontro con Eolo e quello con i Ciclopi, in cui manca ogni forma di cerimoniale100. Dopo la lunga sosta nell’isola, protratta per un mese intero, e dietro sollecitazione costante di Odisseo, Eolo organizza la partenza dell’eroe e gli offre il famoso otre101, da lui stesso preparato con la pelle di un bue di nove anni, che liberandolo dalle difficoltà della navigazione gli consentirà di giungere a Itaca. All’interno dell’otre sono segregati i venti urlanti capaci di trasformarsi in pericolose tempeste; fuori dall’otre rimane il mite e propizio Zefiro che Eolo lascia spirare in modo direzionale per consentire all’eroe una sicura navigazione nel tragitto dall’isola fluttuante sino a Itaca. L’intervento di Eolo sui venti non si compie attraverso un’invocazione ai venti o una recitazione di formule magiche propiziatorie, ma mediante l’azione diretta sui venti: Eolo separa Zefiro dai venti urlanti, incatenati e racchiusi nell’otre perfettamente sigillato da una catenella d’argento affinché nessun soffio fuoriesca102: Un otre mi diede, scuoiatolo da un bue di nove anni, e vi costrinse le rotte dei venti ululanti: perché il Cronide lo fece custode dei venti, sia di arrestare sia d’eccitare quello che vuole. Lo legò nella nave ben cava con un laccio lucente, d’argento, perché neanche un poco ne uscisse. 98
Hom., Od. X 14-16. Hom., Od. X 16. 100 Hom., Od. IX 252-278. 101 Diogene Laerzio (VIII 59-60), attesta un intervento diretto di Empedocle sui venti etesi, mediante segregazione degli stessi in otri di pelle d’asino. Per questo atto sarebbe stato definito kwlusane@mav. R. Stromberg, The Aeolus Episode and Greek Wind Magic, “AUG”, LVI, 1950, pp. 71-81, ritiene l’otre un espediente magico contro i venti, comune ad altri popoli. Cfr. anche R. Hampe, Kult der winde in Athen und Kreta, “SHAW”, I, 1967, pp. 1-32. Secondo D. Page, I racconti popolari dell’Odissea, tr. it., Napoli 1983, pp. 73-77, l’uso di pratiche magiche per propiziare i venti è comune a molti popoli. La storia di Eolo unisce elementi magici ed elementi religiosi ed ha precise analogie con il mago dei porti, un personaggio familiare a molte tradizioni popolari. 102 Hom., Od. X 19-27. Si tratta di un’azione magica negativa, finalizzata ad impedire agli altri venti di arrecare danno alla navigazione. Cfr. al riguardo P. Janni, Eolo? Era il dio dei venti, in Miti e falsi miti (a cura di P. Janni), Bari 2004, pp. 9-35. 99
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A spirare per me mandò il soffio di Zefiro, che portasse le navi e noi stessi: ma non doveva avverarsi, ci perdemmo per la nostra stoltezza. L’incantenamento dei venti kata@desmov, compiuto da Eolo, è un atto tipicamente olimpico al quale ricorre anche Atena per favorire l’approdo di Odisseo a Scheria103. Il dono dell’otre è, come gli altri doni offerti a Odisseo dai Feaci, da Calipso e da Circe, segno di benevolenza nei confronti dell’ospite e garanzia di amicizia104, ma è anche espressione di potere personale e di preminenza sociale105. L’otre dei venti mostra analogie anche con il pithos di Pandora106, un dono speciale offerto da Zeus a Epimeteo, che implica un divieto la cui trasgressione provoca un pericoloso e irreversibile capovolgimento della condizione favorevole del dono. Come il pithos, l’otre è contenitore di mali. Infatti la segregazione dei venti dannosi produce il suo effetto benefico per nove giorni; finché in prossimità dell’isola di Itaca, Odisseo, vedendo le coste della propria patria, cede al sonno e i compagni, per curiosità e invidia del dono, aprono l’otre. I venti, fino ad allora sedati, balzano tutti alla rinfusa e assemblandosi in una qu@ella trascinano la nave lontano da Itaca, invertendo in modo esattamente speculare quella rotta che Zefiro aveva favorito. La qu@ella afferrando navi e compagni li trascina al largo di nuovo all’isola Eolia107: sciolsero l’otre e i venti eruppero tutti, e subito l’uragano rapitili li trascinò verso il mare, piangenti, lontano dalla terra dei padri. Io allora, svegliatomi, fui incerto nel mio nobile animo se uccidermi gettandomi dalla nave nel mare o sopportare in silenzio e restare ancora tra i vivi. Ma sopportai e restai: copertomi, giacqui in fondo alla nave. Dal maligno uragano eran tratte di nuovo verso l’isola Eolia: i compagni piangevano.
103 104 105 106 107
Hom., Od. V 583. L. Gernet, Antropologia della Grecia antica, tr. it., Milano 1983, pp. 75-81. A. Mele, Il mondo omerico, in AAVV, Storia e civiltà dei greci, I, Milano 1978, pp. 25-72. Hes., Op. 94. Cfr. A. C. Cook, op. cit., III, pp. 106-112. Hom., Od. X 47-55.
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L’atteggiamento benevolo di Eolo nei confronti di Odisseo, quando per la prima volta l’eroe approda all’isola, subisce un’inspiegabile e radicale modificazione quando l’eroe ritorna sull’isola. L’equilibrio che rende possibile la condizione fluttuante dell’isola è turbato dal ritorno di Odisseo. Nel mondo di Eolo non vi è possibilità di ritorno. Alla vista dell’eroe lo stupore diffidente del tamias si converte immediatamente in rabbia perché Eolo percepisce nel ritorno di Odisseo la volontà di un demone nemico e individua nell’eroe il peggiore tra i mortali e il nemico degli dèi108: “Odisseo, come tornasti? quale demone cattivo ti invase? Eppure ti rifornimmo con cura, perché tu giungessi nella tua patria e a casa e dove comunque ti è caro”. Così dissero, ed io col cuore addolorato risposi: “Mi rovinarono i vili compagni e con essi un perfido sonno. Ma rimediate voi, cari: è in vostro potere”. Dicevo così, avvolgendoli con parole gentili, ma ammutolirono quelli, e il padre rispose: “Va’ via dall’isola, subito, ignominia dei vivi; non è mio costume ospitare e scortare un uomo che è in odio agli dèi beati. Vattene, perché arrivi qui in odio agli dèi”. Il mutato atteggiamento di Eolo, l’inospitalità con cui l’eroe è accolto quando ritorna nell’isola per la seconda volta e le parole di biasimo di Eolo fissano lo status di Odisseo quale nemico degli dèi. La vanificazione del dono di Eolo per opera dei compagni e la conseguente maledizione del signore dei venti rendono Odisseo consapevole della sua condizione di mortale inviso agli dèi109 perché, come si ricava dalla narrazione omerica, Poseidone vendica l’accecamento di Polifemo110, Zeus vendica il sacrilegio delle vacche di Elio111. Aprendo l’otre dei venti, i compagni di Odisseo hanno determinato una condizione caotica degli elementi naturali, una kakh# qu@ella, segno di inimicizia verso gli dèi. Nel momento in cui Eolo separa i venti ululanti dalla massa degli anemoi su cui esercita il proprio potere e li chiude nell’otre che 108 109 110 111
Hom., Hom., Hom., Hom.,
Od. Od. Od. Od.
X 64-75. X 74-75. IX 526-531. XII 415-419.
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dona a Odisseo, la sua intenzione è quella di rispettare l’ospitalità e favorire il ritorno dello straniero. Ma il dono non utilizzabile diventa un divieto la cui trasgressione è catastrofica per l’eroe. Causa apparente dell’insuccesso è la trasgressione del divieto da parte dei compagni di Odisseo, ma ostacolo reale è il limite dell’intervento di Eolo sui venti, perché solo gli dèi olimpici (Zeus, Atena, Poseidone) possono disporre liberamente dei venti e utilizzarli per favorire il ritorno di Odisseo. L’eccezione romperebbe la regola di Zeus.
7. Sacrifici ai venti Nell’immaginario omerico i venti costituiscono un gruppo antropomorfizzato di esseri extraumani raccolti a banchetto nella casa di Zefiro112, localizzata probabilmente nella Tracia, regione geografica da cui spirano Borea e Zefiro113 e dove i due venti ritornano114 dopo aver animato la fiamma sul rogo di Patroclo. L’insediamento collettivo dei venti nella dimora di Zefiro115 in Tracia è l’unica esplicita localizzazione degli anemoi in Omero. Tale territorio nell’Odissea è il luogo dove si rifugia Ares dopo essere stato liberato dalla trappola di Efesto116, mentre nell’Iliade la Tracia è la regione di provenienza di alcuni eroi troiani117, il territorio da cui i Danai attingono vino118, donde provengono gli ori preziosi di Priamo119, e il luogo di riunione di tutti i venti120. È evidente che per i Greci la Tracia121 non è soltanto una realtà 112
Hom., Il. XXIII 198-202. Hom., Il. IX 4 -5. 114 Hom., Il. XXIII 229-230. 115 È difficile dai pochi accenni omerici individuare la tipologia della casa dei venti, che nella tradizione di V secolo è di pietra. Infatti Sofocle (Ant. 983) colloca la provenienza dei venti da spelonche, ripresa anche nella tradizione latina. Cfr. Seneca (Nat. Quaest. V 14, 1): “edi e specu ventos recessuque interiore terrarum”; Plinio (Nat. Hist. VII 10): “haud procul ab ipso aquilonis exortu specuque eius dicto”. 116 Hom., Od. VIII 361. 117 Hom., Il. XI 222; XIII 30; XX 484-485. 118 Hom., Il. IX 72. 119 Hom., Il. XXIV 234. 120 Hom., Il. XXIII 19. 121 Sul rapporto culturale Grecia-Tracia, cfr. il volume di F. Hiller de Gaertringen, Grae113
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geografica ma anche una sorta di luogo liminare, analogo all’isola di Creta in alcune tradizioni mitiche greche. Borea, Euro, Noto e Zefiro sono collocati infatti in uno spazio altro, in cui la fittizia collettività dei venti, sottratta alla sua specifica funzione, è in una sorta di inattività122 corrispondente alla reale situazione atmosferica di assenza di venti. Accanto alla localizzazione in Tracia, un altro elemento che ha indotto gli studiosi a ritenere divinità i venti denominati è il sacrificio di cui sono destinatari Borea e Zefiro nell’Iliade. Nei poemi omerici sono attestate varie forme di sacrificio alle divinità che, però, non presentano affinità con la promessa di sacrificio di Achille ai venti. Nel primo libro dell’Iliade, ai versi 440-447, il sacerdote Crise, offeso da Agamennone, riottiene la figlia e le vittime per una sacra ecatombe. Si prepara il grande rito di espiazione e Crise pronuncia l’invocazione al dio perché ponga fine al flagello che decima i Danai. La preghiera precede l’immolazione di vittime animali, cosparse di grani d’orzo sul capo, poi sgozzate (vv. 458-61), le cui cosce, separate dalle ossa, sono ricoperte di grasso. Il vecchio sacerdote brucia su ceppi di legna le ossa, il grasso e la carne cruda e vi versa sopra il vino. Offerto il cibo al dio, si procede all’arrostitura dei piccoli pezzi e al banchetto comune123. In questa sequenza cerimoniale, l’arrostimento della carne, la sua distribuzione e consumazione fra gli uomini seguono e precedono i due momenti del sacrificio destinati a placare il dio, a invocarlo e a celebrarlo. Apollo manifesta il suo consenso inviando venti favorevoli ai Greci124. Il rituale sacrificale in onore di Apollo risponde al modello omerico corum fabulis ad Thraces pertinentibus. Quaestiones Criticae, Berlin 1886, che affronta il problema del culto dei venti in Tracia; D. Braund, L’impatto sui Greci di Traci e Sciti: immagini di sfarzo e austerità, in I Greci. Storia, Cultura, Arte, Società, 3, Torino 2001, pp. 5-38. 122 La localizzazione dei venti in Tracia è un problema interpretativo già nell’esegesi antica. Nell’Etymol. Magn. s.v. Qraki@av il termine non indica una localizzazione, ma un tipo di vento. 123 Hom., Il. I 461-468. Sul sacrificio in Grecia cfr. W. Burkert, Homo necans: antropologia del sacrificio cruento nella Grecia antica, tr. it., Torino 1981; M. Detienne-J.-P. Vernant, La cucina del sacrificio in terra greca, tr. it., Torino 1982; C. Grottanelli-N.F. Parise, Sacrificio e società nel mondo antico, Roma-Bari 1988; C. Grottanelli, Il sacrificio, Roma-Bari 1999; S. Georgoudi, R. Kock Piettre, F. Schmidt, La cuisine et l’auteil: les sacrifices en questions dans les sociétés de le Méditerranée ancienne, Turnhout 2005; A. Brelich, Presupposti del sacrificio umano, Roma 2006. 124 Hom., Il. I 474-483. G. Sissa, La vita quotidiana degli dei greci, tr. it., Roma-Bari 1989, pp. 64-65, osserva che la divinità non manifesta sempre, con segni visibili, il suo consenso o il suo rifiuto alle richieste che accompagnano il rito.
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di thysia in onore degli dèi. Prima delle battaglie, per ottenere un’alleanza privilegiata, per sottrarsi alla punizione divina o per scongiurare la collera divina, gli uomini offrono sacrifici agli dèi e consumano il pasto sacrificale. Il sacrificio instaura un rapporto fra il sacrificante e il dio che può anche prevedere la presenza divina al rituale sacrificale svolto dagli uomini. La dèa Atena, sotto le mentite spoglie di Mentore, assiste al rito sacrificale, compiuto da Nestore, in onore di Poseidone, il dio più onorato del regno di Pilo125. In Omero è evidente nel sacrificio un ruolo quasi attivo delle divinità: Apollo, ascoltando la preghiera di Crise che, in seguito all’oltraggio di Agamennone, implora la vendetta divina, agisce contro i Danai126; Zeus, invece, ricorda gli innumerevoli sacrifici a lui offerti da Ettore, nel tentativo di sottrarlo al destino di morte fissato dagli dèi127. Nell’Odissea, durante il concilio degli dèi, la decisione divina di favorire il ritorno di Odisseo, nonostante l’avversità di Poseidone, è motivata dal dio dalla consuetudine dell’eroe di offrire vittime sacrificali agli dèi128. Anche Polifemo invoca Poseidone perché Odisseo non ritorni a Itaca e, se il destino del nostos è già fissato, ne sia ostacolato il ritorno, dopo essere stato privato dei compagni e della nave129. Il sacrificio è un modello di comunicazione, un atto finalizzato a ottenere dal dio un favore terreno. Ciò spiega e giustifica anche il rituale di immolazione differenziata delle vittime animali: prima del duello con Paride, Menelao invita gli Achei a offrire un agnello bianco a Gea, un agnello nero a Elio e un agnello di colore non specificato a Zeus, per separare Teucri e Argivi130. Gli eroi e i capi achei sacrificano ciascuno a una divinità per propiziarla131 o per ringraziarla della supremazia in battaglia: Agamennone immola un bue a Zeus per la vittoria di Aiace132, Odisseo offre un sacrificio ad Atena dopo la morte di Dolone133. Al contrario, le donne sembrano subordinare
125 126 127 128 129 130 131 132 133
Hom., Hom., Hom., Hom., Hom., Hom., Hom., Hom., Hom.,
Od. III 5-8. Il. I 40-52. Il. XXII 168-172. Od. I 65-67. Od. IX 534-537. Il. III 103. Il. II 400. Il. VII 314. Il. X 571.
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esplicitamente il loro sacrificio al conseguimento della richiesta di favore divino: le donne troiane fanno voto ad Atena di immolare una giovenca se la dèa piegherà la lancia di un nemico134. La consuetudine rituale sacrificale agli dèi è anche espressione della natura civilizzata dell’uomo omerico, come emerge dal comportamento di Odisseo che insieme con i compagni immola vittime agli dèi (eè©u@samen) anche all’interno dell’antro di Polifemo135. Ma il sacrificio non è accompagnato dalla divisione alimentare delle carni cotte, bensì da un’alimentazione a base di formaggio in quanto i Ciclopi non mangiano la carne136. Anche il sacrificio offerto nell’isola prossima alla terra dei Ciclopi non è gradito a Zeus, in quanto sono sacrificati i montoni di Polifemo, non allevati dall’uomo137. La thysia compiuta negli spazi immaginari percorsi da Odisseo è recepita dall’uditorio omerico come un sacrificio fuori dalla norma, perché non è eseguito in territorio umano e secondo le norme poleiche138. L’offerta sacrificale ai numi, basata essenzialmente sull’uccisione dell’animale e sulla spartizione delle carni, è espressa, nel mondo omerico, mediante il ricorso al verbo qu@w che, nel lessico sacrificale greco, esprime lo stadio successivo all’uccisione dell’animale, cioè la cottura delle carni139 e l’offerta delle primizie140 o più genericamente l’atto sacrificale141. In Omero il verbo qu@w142 è per lo più correlato all’offerta di carne animale cotta per gli dèi, ed esprime quindi l’atto rituale concreto143. Ai poemi omerici risale anche la più antica attestazione del sacrificio oltremondano, destinato a rianimare, attraverso il sangue sacrificale, le anime dei morti144. Questo tipo di sacrificio in cui il sangue della vittima immolata, filtrando attraverso la terra, raggiunge le anime nell’Ade e restituisce loro la 134
Hom., Il. VI 309-310. Hom., Od. IX 231. 136 Hom., Od. IX 232. 137 Hom., Od. IX 552-555. 138 Al riguardo cfr. P. Vidal-Naquet, op. cit., pp. 17-44. 139 Hom., Il. IX 220. 140 Hom., Od. XIV 446. 141 Hom., Od. XV 260. 142 J. Casabona, Recherches sur le vocabulaire des sacrifices en grec des origines à la fin de l’époque classique, Aix-en-Provence 1966, pp. 69-85. 143 J.-P. Vernant, Théorie générale du sacrifice et mise à mort dans la qusi@a grecque, in J. Rudhardt O. Reverdin, (a cura di), Le sacrifice dans l’antiquité, Vandeuvres-Genève 1980, pp. 1-22. 144 Hom., Od. X 516-537; XI 23-50. 135
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capacità vitale, si contrappone a quello destinato alla divinità. Il sacrificio ai morti, eseguito da Odisseo, secondo le indicazioni della maga Circe, nel regno di Ade prevede una triplice libagione, spargimento di farina bianca, invocazione alle anime dei morti, preghiera ad Ade e Persefone e immolazione all’interno di bothroi di vittime ctonie (montone e pecora nera) ai morti. Scopo del sacrificio è restituire, attraverso il sangue delle vittime, alla collettività anonima delle psychai dell’Ade, e soprattutto a Tiresia, le memorie terrene individuali e consentire il colloquio tra Odisseo e i morti. È evidente che si tratta di un sacrificio esclusivo, funzionale a Odisseo, possibile solo per volontà divina. Anche la tipologia del rituale ctonio si modifica se eseguito in territorio umano e non oltremondano: quando l’eroe, al ritorno in patria, sacrifica a Tiresia, immola soltanto una vacca sterile e un montone nero, senza spargimento di sangue sulla terra145. Nei poemi omerici sono attestate anche consacrazioni di armi nemiche alla divinità in caso di vittoria: Ettore promette di consacrare ad Apollo l’armatura dell’avversario146; Odisseo offre in dono ad Atena il mantello, l’arco e la lancia di Dolone147. Rispetto a queste attestazioni cultuali e sacrificali, l’invocazione ai venti da parte di Achille sul rogo di Patroclo si presenta con caratteristiche completamente diverse, anzi costituisce un hapax. Il rituale funebre in onore di Patroclo è eccedente rispetto ai rituali sacrificali analizzati148. Sul rogo dell’eroe l’immolazione di vittime animali e umane, vive o appena sgozzate, pecore, buoi, cavalli, cani, prigionieri troiani149, è contraddistinta dall’eccesso e dalla follia di Achille per la morte dell’amico e si presenta come una forma di vendetta promessa a Patroclo150. Achille fa un voto ai due venti151; dopo la preghiera invoca Zefiro e Borea promettendo i éera# kala@ allo scopo di far divampare il rogo di Patroclo. È evidente che si tratta di una preghiera funzionale all’intervento dei
145
Hom., Od. X 524-525; XI 30-33. Hom., Il. VII 81. 147 Hom., Il. X 458-464, 570-579. 148 A. Schnapp-Gourbeillon, Les funérailles de Patrocle, in G. Gnoli-J.-P. Vernant (a cura di), La mort, les mortes dans les sociétés anciennes, Cambridge 1982, pp. 77-88; D. Hughes, I sacrifici umani nell’antica Grecia, tr. it., Salerno 1999. 149 Hom., Il. XXIII 166-176. 150 Hom., Il. XVIII 333-337; XXIII 19-23. 151 Hom., Il. XXIII 194-195. 146
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venti in qualità di fenomeni atmosferici, ma è stato anche supposto152 che i venti debbano aiutare l’anima di Patroclo, che è della loro stessa natura, a liberarsi dal corpo153. La preghiera d’invocazione ai venti, sebbene non formulata mediante il verbo euòcomai154, il cui uso non è soltanto in ambito religioso155, ma mediante il più solenne verbo aèra@omai, che accomuna la preghiera di Achille a quella di Crise156 ad Apollo, di Ettore157 agli dèi e di Penelope158 alle Erinni si presta, tuttavia, a un’interpretazione meno rigorosa. L’ultima fase del rituale di Achille è contraddistinta da una libagione159 che, non vincolata a giuramento160, non destinata a divinità161 o al compimento di riti quotidiani162, è diretta al morto163, piuttosto che ai venti. Analogamente, la promessa di sacrificio ai venti non si presenta come una tipica thysia in onore di specifiche divinità o di venti divini, ma è compiuta soltanto in onore di Patroclo e l’anomalia rituale di vittime sacrificali umane, anche vive, è espressione della vendetta di Achille per la morte dell’amico164, mentre ai venti, esclusi dalle ecatombi offerte alle divinità olimpiche165, è riservata una generica promessa (uépi@scomai) di i éera# kala@, priva di contenuto sacrificale. 152
P. Tumpel in RE I 2177-2179, s.v. Anemoi. Interpretazione analoga dà Proclo (in Plat. Remp. III 387d; 391b) secondo il quale Achille prega i venti di aiutare l’anima del suo amico a salire verso l’alto per la sostanziale affinità tra aònemov e yuch@. Secondo E. Rodhe, op. cit. I, pp. 15-33, gli elementi caratterizzanti questo rituale solenne di sepoltura, l’apparizione di Patroclo in sogno ad Achille, il tipo di vittime immolate, le libagioni, le offerte di olio e miele, l’invocazione della psyche di Patroclo, l’invocazione ai venti perché il rogo avvampi, rinvierebbero a una chiara sopravvivenza di “rudimenti di un culto delle anime”. 154 Hom., Il., I 91; II 597; XIV 113; Od. I 180; XIV 199. 155 Hom., Il. I 450; II 411; IV 119. 156 Hom., Il. I 35. 157 Hom., Il. VI 115. 158 Hom., Od. II 135. 159 Hom., Il. XXIII 219-220. Per le libagioni cfr. J. Casabona, op. cit., pp. 231-265. 160 Hom., Il. II 341; IV 159. 161 Hom., Il. XVI 227. 162 Hom., Od. III 334. 163 Hom., Il. XXIII 196. 164 Plat., Resp. III 391b-c: il filosofo nega che Achille avesse compiuto un sacrificio così eccessivo. 165 Hom., Il. XXIII 194. L’esclusione dei venti dalle ecatombi offerte agli dèi, secondo alcuni studiosi, è da mettere in relazione con l’originaria natura divina ctonia dei venti (S. Steuding, in Lexicon Mythologie, s.v. Windgotter). 153
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La forma sostantivata plurale i éera# designa riti166, vittime sacrificali167, oggetti votivi168 e, nel linguaggio rituale omerico, è accompagnata il più delle volte dai verbi eòrdw e re@zw169. Anche nei casi in cui i éera@ non è accompagnato dai due verbi del lessico sacrificale, l’uso del termine è sempre religioso e designa i sacrifici di Ettore170, le vittime immolate da Peleo171, le offerte sacrificali alle divinità olimpiche172. Nell’Odissea il termine esprime sempre la devozione agli dèi173, designa il rito sacro di Nestore a Poseidone174 e forme anomale di sacrificio175. Nel caso delle offerte di i éera# kala@ ai venti, i sacrifici promessi a Borea e Zefiro hanno invece il carattere di una generica promessa di “belle offerte sacrificali”. Il verbo greco uépi@scomai che solo in questo caso ha per oggetto i éera# kala@, non appartiene al lessico sacrificale176, ma ricorre in contesti diversi: è la promessa di Zeus ad Agamennone177, con un evidente rovesciamento tra sfera umana e divina, la promessa di Poseidone a Efesto178, di Ettore ad Achille179. Il verbo indica anche la promessa matrimoniale di Priamo180, la promessa di compimento di una difficile impresa di Menelao181, l’ambigua promessa di Penelope ai Proci182. La limitata presenza del verbo in contesti religiosi e l’estesa utilizzazione in contesti comuni, in cui il verbo
166
Nell’Hymn. Hom. ad Cer. 481: aètelh#v iéerw^ n è “colui che non è iniziato ai riti sacri”. Hom., Il. XI 775; Od. XII 362-364. 168 Hom., Od. XVI 184: cru@sea dw^ra iéera@. 169 Hom., Il. I 147; IX 357; XI 707, 727; Od. I 61; III 5, 159; IV 473; V 102; VII 191; XI 130; XXIII 277. Cfr. al riguardo J. Casabona, op. cit., pp. 5-17. 170 Hom., Il. X 46. 171 Hom., Il. XI 775. 172 Hom., Il. XXII 207. 173 Hom., Od. I 66-67; XVI 184. 174 Hom., Od. III 436. 175 Hom., Od. IX 553: il sacrificio delle greggi del Ciclope; Od. XII 362-364: le vacche del sole immolate dai compagni di Ulisse. 176 L’unico esplicito legame del verbo con un contesto sacrificale è in Hom., Il. VI 93115. 177 Hom., Il. II 112. Cfr. anche Il. XV 374. 178 Hom., Od. VIII 347. 179 Hom., Il. XXII 114. 180 Hom., Il. XIII 375. 181 Hom., Il. X 39, 303; XX 84. 182 Hom., Od. II 91; XIII 380. 167
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designa un vincolo orale tra le persone, problematizza l’interpretazione del sacrificio di Achille ai venti. In questo caso l’invocazione ai venti è una formula funzionale, il sacrificio eccedente è solo manifestazione della vendetta di Achille, non è destinato a Borea e Zefiro. Infine, l’intervento dei venti sulla fiamma è finalizzato alla distruzione del cadavere, ed è comunque mediato dall’intervento della messaggera olimpica. In quest’ottica, sembra difficile attribuire ai venti omerici denominati il carattere di qeoi@ o dai@monev, entità divine indipendenti dal pantheon olimpico, come sostiene la storiografia del secolo scorso183, sovrapponendo probabilmente il dato cultuale più tardo alla realtà dei poemi omerici184. D’altronde l’invocazione ai venti e la promessa sacrificale costituiscono un hapax nei poemi omerici.
183 H. Ebeling, op. cit., s.v. No@tov: “venti ab Homero in Iliade dei intellegentur, cum in Thracia habitantes et in domo Zephyri epulantes finguntur. Iidem autem etsi ab hominibus colebantur, in deorum concilium non vocantur. Sed in Odissea non dei cogitantur”. R. Lantier, s.v. ‚Anemoi, in C. Daremberg-E. Saglio, Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, Paris 1877-1912, p. 715 afferma a proposito della natura dei venti in Omero ed Esiodo: “Pour la primière fois se dessinent les figures mythiques de Borée et de Zéphyr, de Notos et d’Euros. Ceux-ci ne sont encore que des forces de la nature divinisée: les dieux du vent du sud et du sud-ouest”. Analogo parere sulla natura divina dei venti hanno espresso H. Steinmetz, op. cit., pp. 6-14 e K. Nielsen, op. cit., p. 7 in cui si legge: “à ce propos il faut surtout retenir que Zéphire, Euros, Notos et Borée ne sont pas exclusivement des noms de vents; ils sont encore des personnages mythologiques. Comme tels ils constituent une famille dont on s’imagine toujours la région d’origine située à l’ouest”. 184 Herodot., VII 178; Aristoph., Ran. 847; Xenoph., Anab. IV 5, 4; Paus., II 12, 1.
Capitolo terzo Venti di guerra
1. ‚Anemoi nell’ Iliade Nell’Iliade gli anemoi agiscono nel tempo e nello spazio degli eroi che combattono a Troia e sono di solito designati con epiteti analoghi a quelli attestati nell’Odissea dove gli anemoi intervengono come elemento narrativo fondante la navigazione tra immaginario e reale. Eccetto poche eccezioni, gli anemoi sono attestati nell’Iliade prevalentemente in similitudini1, e le scene mitiche in cui intervengono sono relegate in parti non strettamente congiunte al racconto, probabilmente appartenenti agli strati più recenti del poema2, senza essere oggetto diretto della narrazione poetica3. Limitati al linguaggio delle similitudini, i venti si inseriscono in contesti il più delle volte estranei allo svolgimento dei fatti, come integrazione del nucleo tematico narrativo del poema, con la funzione di enfatizzare e arricchire le azioni belliche attraverso il ricorso a descrizioni tratte dalla vita quotidiana, dal mondo animale e dal mondo naturale o come ampliamento del nucleo narrativo del poema, rivolto a differenti strati sociali e al mondo della natura4. 1
B. Snell. op. cit., p. 285 giustamente afferma che “poiché l’Iliade parla della lotta fra Greci e Troiani, dunque di vicende che si svolgono fra uomini e uomini, non c’è da meravigliarsi che la natura appaia quasi esclusivamente nelle similitudini, e di rado nella narrazione, limitandosi a fare da sfondo all’azione epica”. 2 G. L. Shipp, Studies in the language of Homer, Cambridge 1953. 3 D. I. N. Lee, The similes of the Iliad and the Odyssey compared, Melbourne 1964. 4 P. Vidal-Naquet, op. cit., p. 19 osserva che sono le similitudini e non il racconto epico ad aprire una finestra sul mondo reale.
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Nell’Odissea il ricorso costante all’anemos, inteso come pericolo incombente sulle rotte marine, è funzionale alla costruzione dell’eroe naufrago, mentre nell’Iliade la metaforizzazione dell’anemos è finalizzata ad esaltare le strategie belliche dei due schieramenti in campo, l’audacia dei singoli eroi, lo stato d’animo dei capi achei e troiani. Nell’Iliade, a differenza delle comparazioni teriomorfe in cui il soggetto è direttamente paragonato all’animale specifico e a lui assimilato nei comportamenti istintuali, le similitudini con il fenomeno atmosferico proiettano il comportamento dell’uomo sull’anemos per evidenziarne i sentimenti e le conflittualità interiori. Il vento, come gli altri fenomeni naturali, è descritto sempre in relazione alla sfera umana ed è legato all’interferenza divina nel cosmo degli uomini. Quando, fuori di metafora, il soffio dei venti spira sugli eserciti in campo, esso è descritto come strumento diretto della volontà degli dèi iliadici e più specificamente di Zeus, Era, Hermes, Poseidone che intervengono condizionando l’evolversi dello scontro tra Achei e Troiani. Attraverso l’eroe terrestre, iliadico, che combatte a Troia e attraverso l’eroe marino odissiaco, che si costruisce nel continuo naufragare tra rotte estranee al mondo degli uomini, è possibile delineare una ricostruzione antropologica della funzione e del ruolo degli anemoi nell’immaginario e nell’uditorio omerico. Nell’Iliade l’azione bellica degli eroi sotto le mura di Troia è frequentemente descritta nei termini di una contesa paragonabile a quella tra le forze naturali del cosmo. Gli eroi che respingono gli assalti dei nemici sono assimilati, per mezzo di ricorrenti similitudini, agli elementi della natura in conflitto tra loro. Nell’ambito di questo immaginario naturale i fenomeni che sono più spesso utilizzati per raffigurare gli eroi sono gli anemoi, quei venti violenti che condizionano e incombono sulla vita quotidiana degli uomini. Il vento è anche il termine di comparazione più frequentemente impiegato per descrivere le virtù eroiche dei guerrieri: forza fisica, coraggio, audacia, ma anche gli stati d’animo dubbiosi e i conflitti interiori. Nell’Iliade il confronto tra Polipete e Leonteo, figli dei Lapiti che resistono mi@mnon all’assalto troiano come le querce che sulle montagne resistono mi@mnousi a vento e pioggia, accentua, mediante il ricorso alla solidità dell’albero esposto ai venti, ma non indebolito nelle sue radici, potenza e capacità fisica dei due eroi5: 5
Hom., Il. XII 127-134.
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pazzi! sulla porta trovarono due ottimi guerrieri, figli valorosissimi dei Lapiti esperti di lancia, il figlio di Piritoo l’uno, Polipete possente, Leonteo l’altro, simile ad Ares massacratore. Stavano entrambi davanti all’altissima porta, come sulle montagne le querce dall’alto fogliame, che intere giornate resistono alla pioggia ed al vento, ben salde sulle radici immense, ramificate: così quei due fidando nella forza e nelle braccia loro stavano fermi all’assalto del gigantesco Asio, e non fuggivano. Al contrario, nel contesto narrativo più articolato dei giochi funebri in onore di Patroclo l’analogia con il vento è più pregnante e si accorda con la caratteristica fisica degli eroi che qualifica. La similitudine tra la fragilità fisica di Eurialo che, colpito da Epeo, vacilla sotto il colpo del nemico, e il guizzare del pesce sotto il brivido del vento Borea6, enfatizza l’azione violenta che si abbatte su entrambi. Lo stesso verbo aènapa@lletai designa la prevaricazione fisica del vento e del lottatore sull’avversario. Nel caso dei giochi celebrati da Aiace Telamonio e Odisseo il ricorso all’azione del vento ha la finalità etica di esaltare l’intensità affettiva che lega i due amici. Gli eroi si afferrano per le braccia con la stessa intensità delle travi di un edificio incastonate fittamente per deviare la forza dei venti bi@av aène@mwn aèlleei@nwn7. Quando i due eserciti, troiano e acheo, combattono ravvicinati in prossimità del muro di difesa degli Achei, la sequenza degli eventi è descritta attraverso una successione incalzante di similitudini. I dardi si riversano dalle mani degli Achei e dei Troiani come “fiocchi di neve che un vento impetuoso, squarciata una nuvola densa, versa giù fitti sopra la terra feconda”8 e “come fiocchi di neve, placati i venti”9 volano anche le pietre di Achei e Troiani. Sia che si combatta con i dardi nella guerra a distanza, sia che lo scontro si presenti nella forma antipoleica e antieroica del lancio di pietre, l’inefficacia del lancio è paragonata alla leggerezza dei fiocchi di neve sottoposti 6 7 8 9
Hom., Hom., Hom., Hom.,
Il. Il. Il. Il.
XXIII 692-695. XXIII 708-713. XII 154-161. XII 278-289.
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all’azione di un vento violento. Anche nella descrizione della ripresa delle armi da parte dell’esercito greco, dopo l’interruzione dell’ira di Achille, elmi, corazze, scudi e aste, portati fuori dalle navi, sono paragonati “ai fiocchi di neve che scendono fitti da Zeus, gelati, sotto la spinta di Borea”10. Al contrario, il ricorso alla metafora delle frecce che rimbalzano come fave ventilate per designare, ironicamente, il fallito lancio della freccia di Eleno contro la corazza di Menelao11 ha un carattere agreste come la metafora della pula biancheggiante che Demetra separa dal grano, grazie al soffio dei venti, utilizzata nel poema per descrivere la condizione degli Achei, avvolti da polvere, al passaggio dei cavalli12. Nella serie di analogie che utilizza i venti denominati la comparazione non è più individuale, ma collettiva e si avvale di una semantica più complessa perché nell’Iliade Zefiro, Borea, Noto ed Euro, singolarmente o associati tra loro, compaiono nel contesto di similitudini finalizzate a esprimere i movimenti della folla troiana e achea in fasi diverse della guerra. Questa tipologia di similitudini, utilizzata a livello letterario per dare maggior risalto all’intensità emotiva degli eserciti in campo, fa ricorso a un lessico e a una terminologia idonei alle azioni violente, impulsive, repentine, funzionali alle fasi più concitate dello scontro. Nel secondo libro dell’Iliade l’assemblea dei Danai, sconvolta dal discorso di Agamennone sui danni conseguenti alla lunga durata della guerra e dall’ingannevole invito a fuggire verso la terra patria, rinunziando a prendere Troia, è paragonata al moto delle onde grandi del mare Icario, provocate dall’azione congiunta di Euro e Noto o allo spirare violento di Zefiro che, soffiando dannoso, sconvolge le alte messi e piega le inermi spighe13: s’agitò l’assemblea, come onde lunghe del mare, del mare Icario, che i venti Euro e Noto abbiano alzato piombando giù dalle nubi del padre Zeus. Come quando viene Zefiro a scuotere un campo folto di grano soffiando violento, e quello si piega con le sue spighe, così la loro assemblea tutta fu mossa. 10 11 12 13
Hom., Hom., Hom., Hom.,
Il. Il. Il. Il.
XIX 357-358. XIII 588-592. V 499-504. II 144-150.
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Nell’immagine della similitudine, articolata su un doppio livello, lo stesso verbo designa il movimento agitato della folla (kinh@qh aègorh@) e il movimento veloce di Zefiro (kinh@shj Ze@furov), proiettandoli in un’unica attitudine comportamentale. Il caso non è isolato. In altre due similitudini i venti denominati rafforzano la descrizione della rottura della tregua e della ripresa dei combattimenti14. Agamennone, passando in rassegna le forze achee schierate, trova Aiace Oileo e Aiace Telamonio armati e seguiti da una nube di fanti paragonata a quella che si delinea sul mare sotto l’urlo di Zefiro, portando tempesta e brivido15. L’imperversare violento del vento in questa comparazione ha una chiara funzione narrativa ed etica. Il paragone tra la nube nera e tempestosa che il capraio vede sopraggiungere dal mare e la compattezza dello schieramento acheo sotto i capi Aiacidi è fissato, anche in questo caso, nel lessico: la nube di fanti (ne@fov) schierata al seguito degli Aiacidi riflette la nube atmosferica (ne@fov) prodotta dall’azione del vento. Nello stesso libro si ricorre a un’altra articolata similitudine16 che equipara il movimento agitato (ki@nunto) e ininterrotto delle schiere dei Danai all’onda del mare spinta dalla furia di Zefiro (kinh@santov Zefu@rou). Zefiro è il vento utilizzato più frequentemente nelle similitudini omeriche e scandisce soprattutto le fasi attive e aggressive delle strategie belliche dei Danai. In un solo caso Zefiro designa una fase di stasi della guerra, quando, nel poema, gli dèi decidono e discutono circa le sorti degli schieramenti, dominandoli visivamente dall’alto, e gli eserciti troiano e acheo appaiono distribuiti sulla pianura in maniera analoga al mare sotto il fri@x di Zefiro17: Come si diffonde sul mare il fremito di Zefiro quando da poco ha preso a spirare, e al suo soffio il mare s’imbruna, proprio così le schiere di Troiani e Achei si stendevano sulla pianura. In questo contesto descrittivo il diffondersi vibrante del vento non produce un moto accelerato delle onde marine ma l’oscuramento della distesa 14 15 16 17
Hom., Hom., Hom., Hom.,
Il. Il. Il. Il.
IV 275-282; 422-432. IV 272-282. IV 422-428. VII 63-66.
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del mare, che ben esprime l’immagine metaforica degli eserciti seduti sul campo di battaglia in una pausa di guerra, ma sempre armati. Al contrario dell’immagine precedente, nel libro XI dell’Iliade, quando il vento della disfatta soffia sugli Achei, l’immaginario antico polarizza l’attenzione sui capi degli eserciti avversari e la descrizione delle diverse modalità di combattimento tra Achei e Troiani, attraverso la metafora dei mietitori intenti a seguire il solco nel campo, esprime la volontà di strage e l’intenzione di entrambi gli schieramenti di non arrendersi18. La sequenza delle similitudini agili, invece, è funzionale alle descrizioni di imprese straordinarie (aèristei@a) di singoli eroi: l’azione solitaria, ma potente del fuoco che, sotto la spinta del vento, sradica i tronchi e fa divampare incendi, è simile all’azione solitaria e feroce di Agamennone sotto le cui armi cadono teste di Troiani19: Come quando su foresta vergine s’abbatte l’incendio distruttore, dappertutto l’espande il vento vorticoso, le piante cadono di schianto, strette dalla furia del fuoco: così sotto Agamennone Atride cadevano le teste dei Troiani in fuga, molti cavalli superbi sbattevano i carri vuoti per i sentieri di guerra, rimpiangendo gli esperti cocchieri; questi giacevano a terra, curati assai più dai rapaci che dalle spose. Alla descrizione delle gesta di Agamennone, interrotte dal suo ferimento e dal conseguente ritorno alle navi, subentra la descrizione delle gesta di Ettore che, stimolato dall’assenza del capo acheo, dopo aver spronato i compagni al contrattacco, entra in combattimento con lo stesso impeto del sopraggiungere della tempesta di venti. Quando, in questa fase della battaglia, Ettore imperversa e fa strage tra la folla achea, il suo ardore bellico viene descritto come analogo alla veemenza con cui Zefiro spazza le nubi (ne@fea Ze@furov stufali@xhj ) del livido Noto, sollevando il mare. Al prevalere di Zefiro sul biancheggiante Noto è associato il prevalere dell’eroe solitario sulla folla degli Achei, le cui teste cadono in successione20:
18 19 20
Hom., Il. XI 67-71. Hom., Il. XI 155-162. Hom., Il. XI 305-309.
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come quando Zefiro spazza le nubi addensate del livido Noto, spingendole in vortice fondo; fitta s’agita l’onda rigonfia, e sull’onda la spuma si spande sotto l’urlo del vento errabondo: fitte così le teste degli uomini cadevano ai colpi d’Ettore. Altrove, all’aggressività di Ettore si oppone la compattezza dei Danai, descritti mentre restano (iòscon) saldi e immobili allo stesso modo di uno scoglio dirupato che resiste (me@nei) all’impetuoso assalto dei venti fischianti21: E voleva sfondare le schiere nemiche, tentando dove più folta vedeva la calca, più agguerrite le armi; ma nemmeno così, per quanto volesse, riusciva a sfondare: restavano compatti a guisa di torre, come uno scoglio scosceso, immenso, che si staglia sul mare spumoso, e resiste alle raffiche rapinose dei venti che fischiano, alle ondate rigonfie, che gli mugghiano contro; proprio così, a piè fermo, i Danai facevano fronte ai Troiani. Come opportunamente sostiene B. Snell22, l’immagine dello scoglio, le cui radici solide resistono all’imperversare del vento e delle onde marine, ha una matrice antropologica che consente di chiarire l’atteggiamento umano attraverso il confronto con l’elemento naturale, paragonando la dura staticità della roccia alla resistenza fisica dei Danai. Nella narrazione iliadica un gruppo di similitudini legate all’azione dei venti denominati è funzionale alla sfera etica e in esse gli stati d’animo dei combattenti e dei capi achei e troiani sono descritti, a livello morale, mediante il ricorso continuo all’azione delle forze naturali e dei fenomeni atmosferici. Quando si vuole sottolineare la diversità dello stato d’animo di Teucri e Achei, conseguente al favore divino, nella comparazione si ricorre prevalentemente all’ouùrov, tipologia di vento positivo, oppure a gale@nh, condizione atmosferica di assenza di venti, entrambi idonei a esprimere il momento favorevole di guerra. Al contrario, per descrivere il dubbio strategico dei capi e degli eroi troiani e greci si utilizzano immagini metafori21 22
Hom., Il. XV 615-622. B. Snell, op. cit., pp. 269-312.
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che di venti denominati provenienti da direzioni opposte oppure caotiche tempeste di vento. Il comportamento degli eroi greci, i due Aiaci, Odisseo, Diomede che incitano i Danai al combattimento e si presentano schierati in un’innaturale staticità, senza temere gli assalti troiani, è paragonato alla condizione atmosferica di assenza di venti. I Danai, confidando nella loro superiorità bellica, attendono i Teucri, immobili come le nuvole radunate da Zeus sui monti, quando dormono il me@nov di Borea e gli altri venti selvaggi23. Nel nono libro dell’Iliade appare più chiaro il passaggio dalla fase descrittiva delle forze guerriere schierate in campo a quella etico-psicologica relativa alla reazione di Achei e Troiani ai diversi risvolti dello scontro. I sentimenti conflittuali dei personaggi iliadici sono descritti prevalentemente attraverso l’azione congiunta o opposta dei venti denominati. Quando Zeus, dopo aver allontanato gli altri dèi dal campo di battaglia e aver pesato le kere dei Troiani e degli Achei, decreta il giorno fatale dei Greci, l’animo degli Achei è sconvolto come il mare dai venti Borea e Zefiro, provenienti dalla Tracia24. Lo stato d’animo dubbioso di Nestore alla vista dello scontro tra Achei e Troiani, dopo l’abbattimento del muro acheo, è descritto con efficacia nelle similitudini con ouùrov, tipologia di vento sempre favorevole25: Come quando immenso il mare si alza in un sordo gonfiore, restando a guardare la corsa rapidissima dei venti che fischiano, fermo così, né di qua né di là si sbilancia, finché decisivo non scenda un soffio da Zeus, così il vecchio era incerto, diviso in cuor suo tra due partiti, se unirsi alla schiera degli Achei dai veloci cavalli, o raggiungere invece Agamennone Atride, pastore di popoli. L’ouùrov è il vento scelto e inviato dalla divinità per favorire gli eroi protetti, un vento che soffia sempre vantaggioso. La presenza di questo vento positivo fa oscillare la metafora su due livelli: l’incertezza di Nestore è simile al mare che s’agita confuso in assenza di un soffio di vento orien23 24 25
Hom., Il. V 519-527. Hom., Il. IX 4-8. Hom., Il. XIV 16-22.
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tato; l’invio dell’ouùrov da parte di Zeus corrisponde metaforicamente alla decisione migliore per il capo greco. Una sorta di logica, interna alle similitudini omeriche, guida verso un’utilizzazione coerente delle tipologie di vento individuate e conferma che, anche a livello di artificio letterario, si ricorre a morfologie di vento specifiche per le diverse situazioni. L’arrivo di Ettore e di Paride tra le fila troiane è salutato dai compagni allo stesso modo in cui i marinai fiaccati dal remare salutano il vento favorevole ouùrov inviato da una divinità26. Al contrario, non v’è traccia di ouùrov quando la narrazione tende a far emergere la violenza e la crudeltà della guerra; in tal caso prevale l’uso di venti denominati. Per esprimere la tensione dei guerrieri negli scontri si ricorre al paragone con le raffiche dei venti Euro e Noto che gareggiano per squassare una selva o allo scontro di venti violenti, provenienti da est e da ovest, o al verbo eèridai@nw in cui emerge la volontà di contesa (eòriv) degli schieramenti sul campo di battaglia27. Se i venti denominati sono utilizzati nelle similitudini per esprimere situazioni conflittuali, emotive ed etiche e l’ouùrov indica situazioni e decisioni favorevoli, la qu@ella, aggregazione violenta di venti, esprime invece i comportamenti eccedenti degli eroi greci, Menelao, Patroclo, Idomeneo, Achille e degli eroi troiani Ettore e Paride che compiono azioni dettate dall’ira e caratterizzate dall’aggressività. L’intensità dello scontro tra Idomeneo e i Teucri è proporzionale al reciproco desiderio di massacrarsi e presenta una chiara analogia con le tempeste di venti striduli che, spirando furiosamente, sollevano vortici di polvere. L’azione istintuale e rapace degli uomini capace di alterare l’ordine delle cose è simile a quella dei turbini di venti28. In forma diversa ma affine alla descrizione precedente, è l’incedere eroico e pericoloso di Ettore e Paride verso lo scontro frontale con gli Achei paragonato a una tempesta (qu@ella) di terribili venti che si abbatte, sotto il tuono di Zeus, sulla pianura troiana e sul mare, confondendo le direzioni29:
26 27 28 29
Hom., Hom., Hom., Hom.,
Il. Il. Il. Il.
VII 4-7. XVI 765-771. XIII 334-339. XIII 795-801.
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Si slanciavano simili a tempesta di venti furiosi, che al tuono di Zeus padre irrompe sulla pianura, e in un immenso boato si mescola al mare, innumerevoli ribollono allora le onde del mare sonoro, gonfie, bianche di spuma, prima altre, poi altre ancora: i Troiani proprio così, accalcati gli uni sugli altri, tutti splendenti di bronzo, seguivano i condottieri. In questa similitudine, attraverso la dettagliata descrizione delle conseguenze dannose del diffondersi del fenomeno atmosferico, si rafforza l’idea della fierezza degli eroi troiani ma si dà anche risalto, indirettamente, all’oggetto su cui agisce il vento che, per metonimia, esprime l’incedere dei Teucri scintillanti di bronzo, al seguito dei propri capi. All’azione devastante e brutale della qu@ella che, sopraggiungendo violenta, sradica rapidamente una pianta d’olivo cresciuta e nutrita nel tempo dalla leggera pnoih@ di vento, sono associati, invece, il comportamento di vendetta di Menelao verso il cadavere di Euforbo e la violenza con cui l’eroe priva delle armi il defunto30. Anche l’ira, suscitata in Achille dal dolore per la morte di Patroclo, spinge l’eroe a comportamenti eccedenti che si concludono con il funerale dell’amico e con l’anomala immolazione sacrificale sul rogo. L’azione continua di ferimento e uccisione di Troiani da parte di Achille, simile a un demone, è paragonata alla potenza distruttrice del fuoco la cui fiamma è vivificata dal continuo rombare del vento31. Anche se il termine qu@ella non è esplicitamente attestato in questo passo tuttavia, attraverso l’uso del verbo klone@w che definisce l’azione dell’aònemov si conferma che il soffio agisce sulla fiamma con modalità simili all’imperversare confuso di una qu@ella. L’azione caotica del vento sul fuoco fa turbinare da ogni parte la fiamma esprimendo efficacemente il movimento continuo dell’asta di Achille contro i nemici. Al contrario, la lotta selvaggia dei Teucri contro gli Achei, impegnati a trascinare fuori dalla mischia il corpo di Patroclo, è simile al fuoco che incendia una città, alimentato dall’iòv aène@mou, forza di vento che agisce direzionalmente e non caoticamente32:
30 31 32
Hom., Il. XVII 53-60. Hom., Il. XX 490-494. Hom., Il. XVII 735-739.
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Così in fretta quei due portavano il morto alle navi ricurve fuor della mischia; la battaglia era incerta dietro di loro, violenta come un incendio, che investe città popolosa e divampato improvviso fiammeggia, vanno distrutte le case in un grande bagliore; lo attizza la forza del vento. Nell’Iliade gli interventi diretti delle divinità nella sfera umana, attraverso gli anemoi, riportano al contesto narrativo. Le divinità olimpiche mediante sistematiche interferenze nella guerra manifestano solidarietà ora verso gli Achei ora verso i Troiani. Nell’immaginario omerico gli dèi agiscono nel mondo degli uomini, orientano i loro comportamenti, neutralizzano l’efficacia di alcuni gesti, sollecitano e influenzano gli eventi attraverso il consiglio, l’invito, l’ordine oppure intervengono direttamente nella sfera delle attività umane attraverso armi divine e forze naturali. L’intervento di Zeus nel combattimento tra Achei e Troiani favorisce i Troiani. Il dio scaglia dai monti dell’Ida una tempesta di vento che confonde le menti achee e favorisce il temporaneo prevalere di Ettore e dei Teucri nello scontro. Zeus non interviene nella battaglia intorno al muro inviando l’ouùrov, un vento che avrebbe favorito i Troiani, ma una qu@ella il cui scopo è quello di produrre scompaginamento e disorientamento tra le file achee. Infatti la rapacità attiva della tempesta incontrollabile agisce sollevando polvere contro le navi dei Greci e procurando confusione nelle menti degli Achei. Nella metafora della tempesta, l’impeto caotico naturale prodotto dall’azione del vento si associa e si confonde con la devastazione mentale33: Detto così, andò avanti per primo, e gli altri vennero dietro con un grido tremendo; Zeus che gode del fulmine scatenò dai monti dell’Ida una tempesta di vento, che alzò un polverone contro le navi: così confondeva la mente degli Achei, mentre ai Troiani e ad Ettore dava la gloria. Al contrario, l’intervento di Era ha il carattere di un esplicito favore verso gli Achei34; la dèa si rivolge a Efesto perché fermi i vortici dello Sca33
Hom., Il. XII 251-255. Nel canto XIV 159-165 dell’Iliade Era per distogliere Zeus dai campi di battaglia ricorre all’aiuto di Afrodite e di Hypnos. Alla prima chiede la passione e il desiderio con cui prevale su tutti, immortali e mortali; al secondo il potere narcotico. 34
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mandro con la fiamma e interviene personalmente diffondendo una qu@ella di Zefiro e Noto per accelerare l’incenerimento dei corpi troiani. L’azione congiunta del soffio pnoih@ di Efesto e della qu@ella prodotta da Era brucia i cadaveri e asciuga la piana con la stessa intensità con cui il soffio autunnale di Borea asciuga un giardino irrigato35. L’intervento diretto di Era nello scontro bellico mediante la qu@ella, insieme di venti aggregati e pericolosi, è funzionale alla volontà della dèa di agire sulla fiamma di Efesto ravvivandola in tutte le direzioni e di fare ribollire l’acqua dello Xanto, colpevole di aver allontanato dai Troiani l’ora della distruzione di Ilio. L’intervento di Poseidone in favore dello schieramento acheo, sebbene non sia mediato dall’utilizzazione di forze naturali, si presenta nella forma di una concreta presenza del dio tra i Danai. L’espediente di Hypnos che addormenta Zeus consente a Poseidone di modificare il corso degli eventi. La presenza del dio produce un eccitamento generale delle forze greche descritto, a livello letterario, mediante similitudini con la rapacità attiva del vento e del fuoco36.
35 36
Hom., Il. XXI 346-349. Hom., Il. XIV 389-401.
Capitolo quarto Venti di mare
1. A ò nemoi nell’Odissea Nell’Odissea il mondo reale di Itaca, Sparta e Pilo, in cui si compie il viaggio di Telemaco, si contrappone all’universo mitico del viaggio di Odisseo che fa perno su due luoghi irreali: Ogigia e Scheria. Come è stato opportunamente sottolineato1, questi due mondi scorrono paralleli. Infatti tra il viaggio di Odisseo e il viaggio di Telemaco non ci sono interferenze ma solo contatti. Quando Odisseo arriva a Itaca, Telemaco, partito da Sparta, è diretto in patria. L’anemos è l’espediente che guida le rotte marine e consente il viaggio geografico di Telemaco e il passaggio immaginario di Odisseo tra Ogigia, Scheria e Itaca, luoghi che, senza l’intervento di venti favorevoli o contrari alla navigazione, resterebbero disarticolati nello spazio e nel tempo. Queste due rotte delimitano tre spazi marini differenti2. Il primo è quello del viaggio di Telemaco, da Itaca a Pilo, e del viaggio di Nestore, da Troia a Pilo; il secondo appartiene alla lontananza ed è quello del viaggio di Menelao, la cui flotta viene trascinata da Capo Malea verso Creta e verso l’Egitto; il terzo è quello del viaggio immaginario di Odisseo, costituito dagli incontri straordinari dopo il naufragio di Capo Malea. Questo territorio geografico a sud del Peloponneso, sempre temuto dai naviganti per le correnti marine e le raffiche di vento, è il punto geografico di intersezione fra 1
P. Vidal-Naquet, Mito e religione della terra e del sacrificio nell’Odissea, p. 21. F. Hartog, Ulisse e i suoi marinai, in La Grecia antica, (a cura di) C. Mossé, tr. it., Bari 1992, pp. 29-45. 2
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i tre spazi3. Nestore e Telemaco lo oltrepassano senza pericoli; Menelao è trascinato nel mondo della lontananza; Odisseo entra nel mondo irreale dei Lotofagi, in uno spazio di mare sconosciuto, più pericoloso, perché estraneo alle rotte umane, ma esposto, come gli altri, alle bufere di venti. Per uscire dallo spazio delle narrazioni immaginarie e ritornare a Itaca, Odisseo ricorre all’aiuto dei Feaci, popolazione immaginaria di traghettatori che consente il suo ritorno da una lontananza estrema e indefinibile, attraverso un mare inesplorato. In Omero i Feaci, pur muovendosi in spazi irreali, agiscono nel mondo reale, al quale la loro comunità è assimilata da precise affinità. I Feaci sono mortali4, praticano sacrifici agli dèi5 e, sebbene non accolgano volentieri gli stranieri6, sono ospitali verso Odisseo7. Fin dalle prime descrizioni relative al viaggio esploratorio di Telemaco e al rientro da Troia degli eroi greci, Omero dà forte risalto al ruolo dei venti, perché le rotte marine sono strettamente funzionali al loro spirare. L’alternanza ouùrov-qu@ella segna il diverso destino dei reduci bellici: l’ouùrov, vento favorevole che, non mutando la qualità delle proprie raffiche, garantisce la navigazione e il fluire della nave sul mare, contraddistingue il viaggio di partenza e di ritorno di Telemaco, di Nestore e di Menelao, sebbene per quest’ultimo l’assenza di un vento favorevole per lungo periodo dilati i tempi del rientro in patria. Al contrario, la sorte di Aiace e di Agamennone, con esiti diversi, è contrassegnata dalla rapacità mortale, ma salvifica della qu@ella. Il viaggio di Telemaco, conseguente alla decisione del concilio divino di favorire il ritorno di Odisseo, è propiziato dalla dèa Atena mediante l’invio dell’i òkmenov ouùrov, prima della partenza8 da Itaca e contemporaneamente alla partenza da Sparta verso Itaca:
3 La difficoltà di doppiare Capo Malea è più volte sottolineata nei poemi omerici (Hom., Od. III 287; IV 514; IX 80; XIX 186). I Corciresi attribuirono la causa della loro assenza a Salamina a venti sfavorevoli che avevano impedito loro di doppiare Capo Malea (Herod. VII 168). Strab. VIII 6, 20 cita il proverbio “quando doppi Malea, dimentica la casa”. 4 Hom., Od. XIII 59-60. 5 Hom., Od. VII 190-191. 6 Hom., Od. VII 32-33. 7 Hom., Od. VII 167-169. 8 Hom., Od. II 420-421.
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La glaucopide Atena inviò un vento propizio, uno zeffiro fresco, urlante sul mare scuro come vino. Mediante l’invio dell’i òkmenov ouùrov, la dèa garantisce gli spazi e i tempi del viaggio di Telemaco attraverso chiari ed evidenti percorsi geografici, favorendo anche il tempo notturno della navigazione9: pannuci@h me@n réˆ hç ge kai# hèw^ pei^re ke@leuqon. Durante questa navigazione Telemaco e i compagni libano con devozione agli dèi immortali, soprattutto ad Atena, che esercita una protezione costante sulla famiglia di Odisseo. A Pilo nel racconto di Nestore a Telemaco emerge il ruolo determinante degli dèi nel favorire il ritorno in patria di alcuni eroi greci e il carattere punitivo della dispersione in mare degli Achei colpevoli verso gli olimpi10. Il vecchio Nestore dà ampio risalto al ruolo essenziale dei venti favorevoli, “sempre sonori” anche nel suo fortunato rientro; la percezione del soffio vantaggioso da parte del vecchio re si ricava anche dal rituale sacrificale in onore di Poseidone, eseguito, durante il percorso di mare a Geresto, analogo al rituale svolto in mare da Telemaco. Il vento benefico e regolare che scandisce, senza ostacoli, il tempo della navigazione di Nestore e le pause notturne, mediante opportuni approdi, è l’ouùrov, che nel racconto omerico è un vento sempre positivo e associato alla volontà di tutela degli dèi verso i loro protetti11: Si mise a soffiare uno stridulo vento: le navi correvano molto veloci sulle rotte pescose, e approdammo di notte a Geresto. Offrimmo a Posidone molti cosci di tori, per aver superato il gran mare. Era il quarto giorno, quando i compagni del Tidide Diomede che doma cavalli arrestarono le navi librate ad Argo: invece io le tenni su Pilo, né mai si spense il vento, dopoché il dio lo spinse a soffiare. Al contrario, l’Atride Menelao che rientra in patria con Nestore è confinato dalle tempeste inviate da Zeus nelle terre remote dell’isola di Creta e dell’Egitto. La causa dell’interruzione del viaggio dell’eroe è la morte, a 9
Hom., Od. II 434. Hom., Od. III 130-152. 11 Hom., Od. III 176-183. 10
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seguito di una freccia scagliata da Apollo, del timoniere Fronti Onetoríde “colui che superava le stirpi degli uomini nel governare una nave, quando le procelle imperversano”, e il conseguente seppellimento del defunto12. In prossimità di Capo Malea iniziano le peregrinazioni di Menelao perché Zeus converte la rotta in stugerh# oédo@v rovesciandogli contro il soffiare dei venti urlanti e onde di mare alte come montagne13: Ma quando anch’egli, andando sul mare scuro come vino, nelle navi ben cave, giunse correndo al ripido monte Malea, allora Zeus dalla voce possente gli ordì un orribile viaggio: rovesciò su di lui il soffio di striduli venti e marosi rigonfi ed enormi, come montagne. Il racconto di Nestore a Telemaco sottolinea con evidente precisione il diverso effetto degli anemoi sulla propria navigazione e su quella di Menelao, laddove nel racconto di Menelao a Telemaco non si fa menzione del naufragio a Capo Malea e della sorte della flotta dell’eroe spartano, ma la narrazione procede dal territorio egizio, dove egli dichiara di essere stato confinato per venti giorni, a causa dell’assenza dei venti marini14: Gli dèi mi trattennero lì venti giorni, e non apparvero mai a soffiare i venti marini, che delle navi sono la scorta sul dorso vasto del mare. I venti che Menelao auspica sono gli ouùroi aéliae@ev, i venti utili alla navigazione, la cui assenza costringe alla sosta di viaggio e, a livello testuale, induce a uno stop narrativo. L’eroe racconta poi del suo incontro con Proteo, il vecchio verace del mare, immortale15, (ge@rwn açliov nhmerth#v, aèqa@natov), dotato di conoscenza recondita degli abissi marini (qala@sshv pa@shv be@nqea oiùde) e di capacità profetiche, il quale lo informa del destino degli altri Achei, del soggiorno di Odisseo presso Calipso e profetizza a Menelao l’immortalità e la dimora presso la pianura elisia, ai confini del mondo, sede privilegiata, 12 13 14 15
Hom., Hom., Hom., Hom.,
Od. Od. Od. Od.
III 282-283. III 286-290. IV 360-362. IV 382-393.
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caratterizzata dall’assenza di venti, di freddo, di pioggia e dalla presenza del soffio permanente di Zefiro16. I venti accompagnano anche Odisseo nel suo viaggio e sono strettamente funzionali alla destrutturazione dell’eroe nella prima parte del poema, quando privato dei suoi attributi (la nave, i compagni) si sposta dal piano reale a quello mitico, e alla costruzione dell’eroe, nella seconda parte (attraverso l’incontro con la moglie, con il genitore e con il figlio), quando dal piano mitico di Scheria ritorna a quello reale di Itaca. L’aition delle peregrinazioni di Odisseo è l’accecamento di Polifemo e la conseguente collera di Poseidone. Lo testimoniano il discorso di Zeus all’assemblea degli dèi17, il colloquio di Tiresia con Odisseo18 e il discorso di Atena, finalizzato a giustificare la propria scelta di abbandonare Odisseo19. L’azione prende avvio da Ogigia20 che, nell’immaginario mitico omerico, rappresenta l’oèmfalo#v qala@sshv21, corrispettivo marino di Delfi. L’approdo a Ogigia è stabilito dal volere degli dèi, dopo la folgorazione della nave di Odisseo e la dispersione in mare dei compagni da parte di Zeus. Il racconto mitico che va dalla partenza dall’isola di Ogigia fino all’arrivo all’isola immaginaria di Scheria sviluppa il simbolismo del vento. Hermes, il dio dai sandali d’oro, attraversa la terra e il mare al soffio dei venti e, annunziando a Calipso la volontà divina, descrive Odisseo come un uomo infelice, vittima dell’aònemov kako#v kai# ku@mata makra@ inviati da Atena22. Il viaggio di Odisseo da Ogigia è ostacolato dall’intervento avverso di Poseidone attraverso le tempeste di vento23, favorito dall’intervento di Leucotea contro i venti mediante l’espediente del velo24, e di Atena mediante l’inca-
16 Il soffio di Zefiro permanente spira nel frutteto di Alcinoo (Hom., Od. VII 119). Zefiro in qualità di soffio benefico è attestato in Hes., Op. 592-594; Pind., Ol. II 71; Arist., Probl. 943 b 23. 17 Hom., Od. I 68-75. 18 Hom., Od. XI 100-103. 19 Hom., Od. XIII 341-343. 20 Hes., Th. 806. Ogigia è l’eterna acqua di Stige, la più anziana delle figlie di Oceano. 21 Hom., Od. I 50. 22 Hom., Od. V 109. 23 Hom., Od. V 290-305; 324-332. 24 Hom., Od. V 333-364.
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tenamento dei venti25. Infine, dopo l’approdo a Scheria, Odisseo naufrago dorme al riparo dall’umida forza del vento26. La relegazione liminare di Odisseo nella terra estrema, lontana anche per le divinità rapide come il vento27, caratterizzata da una singolare configurazione paesaggistica di vegetazione funeraria28, dura sette anni29 fino alla decisione del concilio divino di favorire il rientro in patria dell’eroe mediante un’azione della ninfa sui venti30: ti invierò dietro un vento, perché possa giungere incolume nella tua terra, se gli dèi che hanno il vasto cielo lo vogliono, che nel pensare ed agire sono più potenti di me. La navigazione solitaria dell’eroe agevolata e favorita dal vento “leggero e propizio” promesso da Calipso31 e dalla rotta orientata tenendo sempre a sinistra le costellazioni delle Pleiadi, Boote, l’Orsa e Orione, è tuttavia subordinata alla volontà olimpica32. Infatti il ritorno di Poseidone dagli Etiopi segna la condanna di Odisseo. Il dio lo scorge da lontano – prerogativa divina – raduna tutti i nembi e gli rovescia contro una furiosa tempesta di tutti i venti, sconvolgendo il mare e oscurando il cielo33: Detto così, spinse insieme le nuvole, agitò il mare, levando con le mani il tridente: aizzò tutti i turbini d’ogni sorta di venti, con le nubi ravvolse e terra e mare. Dal cielo era sorta la notte. 25
Hom., Od. V 382-387. Hom., Od. V 476-485. 27 Hom., Od. V 99-101. Calipso agisce su Odisseo trattenendolo e promettendogli il superamento del limite umano e l’elevamento al rango divino. Al contrario, Circe agisce su Odisseo spingendo i compagni dell’eroe verso il basso. Sono due forme estreme di inversione della dimensione umana. 28 Hom., Od. V 63-70; X 510. I. Chirassi Colombo, Elementi di colture precereali nei miti e riti greci, Roma 1968, pp. 138-9, n. 13 esamina il valore mitico di alcune piante presenti nel giardino di Calipso. 29 Hom., Od. VII 246-247. 30 Hom., Od. V 167-170. 31 Hom., Od. V 268-269. 32 Hom., Od. V 169-170. 33 Hom., Od. V 291-294. 26
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Il naufragio della zattera di Odisseo è raccontato in due scene parallele. Nella prima, l’azione congiunta dei quattro venti costituenti una furiosa tempesta agisce in modo violento sulla nave dell’eroe34: Euro, Noto, Zefiro violento, Borea nato dell’etere s’avventarono insieme, voltolando gran flutto. Al contrario, nei versi successivi, l’azione dei venti si definisce in maniera bipolare e le entità atmosferiche si avventano sulla zattera dell’eroe in modo complementare35: ora Noto gettava la barca a Borea, che la spingesse, ora l’Euro l’abbandonava a Zefiro, che l’inseguisse. L’imperversare incontrollato di venti, il cui sopraggiungere repentino e rumoroso è paragonabile al galoppo animale36, è l’espediente letterario attraverso il quale si costruisce l’immagine dell’eroe solitario, naufrago, privo di respiro e di voce, perseguitato dalle entità naturali, privato dei compagni, privato della nave, ormai distrutta dalle raffiche dei venti. Quando giunge a Scheria, l’eroe è ancora impregnato del vento freddo che ha condizionato il suo viaggio37. Gli anemoi che spirano violenti e le onde marine che, sconquassando la nave, ostacolano le rotte, hanno una valenza fortemente narrativa nel mondo odissiaco, soprattutto nelle scene di naufragio proprio perché funzionali alla destrutturazione sociale dell’eroe38: Lontano dalla zattera cadde, dalle mani lasciò andare il timone: l’albero glielo ruppe a metà un turbine di venti diversi sopraggiunto terribile, vela e antenna caddero in mare, lontano. L’articolata scansione narrativa delle fasi del naufragio, della conseguente distruzione della nave di Odisseo e dell’ostinata lotta dell’eroe è 34 35 36 37 38
Hom., Hom., Hom., Hom., Hom.,
Od. Od. Od. Od. Od.
V V V V V
295-296. 331-332. 304. 469. 315-318.
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la conseguenza dell’azione disgregante dell’imperversare improvviso della qu@ella rispetto alla compattezza che aveva caratterizzato la prima fase della navigazione di Odisseo dopo la partenza da Ogigia, sotto lo spirare dell’ouùrov inviato da Calipso. Il ricorso alle similitudini con scene di azione dei venti in ambiente terrestre rafforza l’intensità descrittiva del naufragio e chiarisce le modalità di azione dei venti; la zattera infatti è trasportata dagli anemoi sulla corrente con la stessa intensità con cui “per la pianura Borea d’autunno trascina i cardi, ed essi si tengono stretti ammucchiati”39. Al contrario, nella successiva metafora, non è più l’azione circoscritta e puntuale dei quattro venti a intervenire sulla zattera, ma il dio “Poseidone che scuote la terra suscitò una grande onda, dolorosa e terribile, inarcata, contro di lui, e lo spinse” con la veemenza di “un vento impetuoso che agita un mucchio di arida pula e la sparpaglia qua e là”40. È evidente che, attraverso la similitudine, si definisce ancora meglio il ruolo degli anemoi sia a livello descrittivo, sia a livello ideologico e si specifica la loro funzione nel corpo della narrazione epica41. Ino, la dèa bianca “che era mortale un tempo, con voce umana”42, consegna a Odisseo, travolto dalle onde, un velo immortale che lo preserva dalla sofferenza e dalla morte ma non lo sottrae all’avventura eroica e solitaria contro le bufere di vento e le tempeste marine inviate da Poseidone43. La dèa lo invita a togliere le vesti e ad abbandonare la zattera ai venti e gli offre un krh@demnon di protezione fino all’approdo e al contatto fisico con la terra dei Feaci. Questo velo, espediente divino salvifico per l’eroe, dovrà essere rigettato nella profondità del mare, lontano dalla terra e dallo sguardo umano, come impone Leucotea. L’incatenamento da parte di Atena “delle altre vie dei venti” e l’imposizione a tutti i venti di placarsi, ad eccezione di Borea che, soffiando in modo direzionale, spiana i flutti del mare, è spia della prevalenza degli altri dèi sul volere di Poseidone e del conseguente ripristino dell’equilibrio atmosferico. 39
Hom., Od. V 327-329. Hom., Od. V 368-371. 41 Al riguardo cfr. P. Moulton, Similes in the Homeric poems, Gottingen 1977, pp. 19-27. 42 Hom., Od. V 334. 43 Hom., Od. V 342-350. V. J. Propp, Morfologia della fiaba, tr. it., Torino 1969, dimostra che queste figure femminili salvifiche sono diffuse nella letteratura popolare. 40
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Le descrizioni narrative che si succedono, dalla tempesta di venti di Poseidone al velo protettivo di Leucotea, all’incatenamento dei venti da parte di Atena, alla spinta del vento e alla sosta al riparo dal vento sulla riva dell’isola di Scheria, sono tutti elementi funzionali. Dopo l’alternanza di raffiche di venti favorevoli e avversi, la cessazione del vento e la condizione innaturale di assenza di forze atmosferiche preludono, come nell’episodio delle Sirene, a un evento particolare: l’eroe raggiunge il ceppo d’olivo al riparo dai venti, dal sole, dalla pioggia. Ormai è nell’isola di Scheria44. Nelle parole di Odisseo a Nausica l’azione avversa delle qu@ellai kraipnai@ nel naufragio della zattera dell’eroe durato venti giorni è contrapposta all’intervento di un dio che, prevalendo sulle qu@ellai, consente l’approdo dell’eroe all’isola dei Feaci45: Solo ieri, al ventesimo giorno, scampai il mare scuro come vino: per tutto il tempo mi portarono l’onda e le procelle impetuose dall’isola di Ogigia: un dio m’ha gettato ora qui, perché anche qui patisca sventure; non credo che finiranno, ma molte ancora ne aggiungeranno gli dèi. Nell’Odissea emerge, gradualmente, la funzione narrativa del vento che consente il capovolgimento di situazioni, lo slittamento dalla realtà nell’immaginario e la riconversione dell’immaginario in realtà. Il carattere del viaggio di Odisseo si ricava proprio da questo sottile legame tra spazio e tempo reale e tra spazio e tempo immaginario: l’informazione veritiera del soggiorno dell’eroe presso Calipso, proveniente dalla voce oracolare di Proteo46, e il ritorno dall’immaginaria Scheria alla realtà geografica di Itaca, attraverso l’intervento dei mitici Feaci, popolazione di intersezione tra i due mondi47. Pietro Janni sostiene che “il lettore attento a questo genere di cose ha l’impressione generale che gli eroi omerici molto spesso non vadano dove volevano loro ma dove li porta il vento” 48, come trapela dalle parole con 44
Hom., Od. V 476-482. Hom., Od. VI 170-174. 46 Hom., Od. IV 554-558. 47 C. P. Segal, The Phaeacians and the Symbolism of Odysseus’ Return, “Arion”, IV, 1962, pp. 17-63. 48 P. Janni, Il mare degli antichi, Bari 1996, p. 99. 45
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cui Odisseo inizia solennemente il racconto delle sue peregrinazioni presso i Feaci: da Ilio il vento mi portò nel paese dei Ciconi. L’azione del vento si esplica dunque su due livelli temporali e narrativi fluidi, il livello narrativo del poeta e il livello narrativo dell’eroe che rievoca le vicissitudini trascorse, ma in entrambi l’intervento del vento è recepito come elemento fondante le vicende dell’eroe in mare. Odisseo non si reca presso i Ciconi, ma è portato dal soffio del vento verso il popolo trace49 presso il quale mangia, saccheggia ricchezze, subisce perdite di compagni. La Tracia dei Ciconi è l’ultimo paese reale che Odisseo e i compagni attraversano. Allontanatosi da questo popolo e sconvolto dalle morti dei compagni, l’eroe si imbatte nel primo naufragio causato dalla tempesta di Borea inviata da Zeus che intende impedire la navigazione50: Contro le navi Zeus che addensa le nubi suscitò Borea con tremendo uragano, e con le nubi ravvolse e terra e mare: dal cielo era sorta la notte. A partire da capo Malea, doppiando l’ultimo sito geografico reale, avviene un rovesciamento: la corrente, le onde, Borea e i venti funesti che soffiano per nove giorni trascinano l’eroe oltre Citera51, verso un mondo che si configura come “mondo dell’altrove”52 rispetto alla società dei mangiatori di pane, un mondo popolato da figure fuori dalla norma, caratterizzate da un diverso codice alimentare. I Lotofagi sono mangiatori di fiori53, i Ciclopi mangiatori di uomini, i Lestrigoni pescatori antropofagi, i Feaci collocati lontano dai mangiatori di pane, Circe e Calipso, il cui codice alimentare prevede solo i cibi dell’immortalità. Il racconto di Odisseo alla corte di Alcinoo, mediante una puntuale sottolineatura delle consuetudini alimentari di popolazioni anomale e fantastiche incontrate, tende a fissare il limite della norma civile di vita e a 49 50 51 52 53
Hom., Od. IX 39. Hom., Od. IX 67-69. Hom., Od. IX 80-81. J.-P. Vernant, L’universo, gli dèi, gli uomini, tr. it., Torino 2000, p. 95. Hom., Od. IX 84.
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delineare una contrapposizione tra la cultura dei mangiatori di pane (l’universo storico) e la selvatichezza dei popoli precerealicoli e degli esseri legati alla sfera mitica (Sirene, Circe, Calipso). I modelli sociali e istituzionali dei popoli ostili e selvaggi, abitatori di terre collocate ai limiti del mondo, sperimentati da Odisseo, positivizzano il vivere nella norma54. I racconti di Odisseo presso Ciconi, Lotofagi, Ciclopi, Eolo, Lestrigoni, Circe, Cimmeri, Ade, Sirene, Scilla e Cariddi, Calipso mettono in evidenza il ruolo costante dei venti e delle tempeste marine non solo nel favorire l’accesso di Odisseo a condizioni di vita meta-umane, ma anche nell’agevolare lo spostamento dell’eroe in diverse dimensioni irreali, fuori dal tempo e dallo spazio umano, dove dimorano popoli o personaggi straordinari. I Lotofagi, alla cui terra l’eroe approda trascinato dai venti funesti55 oèlooi^v aène@moisi, traggono il nome dal frutto di cui questo popolo si nutre e si caratterizzano per l’assenza di storia e mnema. Il frutto di cui si nutrono ha il potere della dimenticanza; chiunque scelga questo codice alimentare è sottratto a ogni legame storico e sociale, perché la memoria è condizione essenziale della natura umana civilizzata. L’incontro con i Lotofagi introduce la prima contrapposizione tra mangiatori di pane e mangiatori di fiori, e la pianta del lwto@v, causa di attrazione e di oblio del ritorno, costituisce il primo pericolo che insidia l’esistenza umana. Il passaggio alla terra dei Ciclopi è segnato invece dall’assenza di vento, dalla condizione visiva di buio56 e dalla presenza di una fitta nebbia che metaforizza la condizione di terra selvaggia e di popolo ferino, omofagico e antropofago. Un dio guidava (tiv qeo#v hégemo@neue)57. I Ciclopi sono presentati con epiteti designanti, in modo negativo, un’assenza e un’eccedenza: la loro condizione di aèqe@mistoi e uéperfi@aloi sottolinea lo stato di selvatichezza in cui vivono. Essi non conoscono l’agricoltura, non hanno assemblee né consiglio né leggi, non hanno abitazioni, ma vivono in grotte 54
F. Frontisi-Ducroux-J.-P. Vernant, Ulisse e lo specchio, tr. it., Roma 1998, p. 17, sottolineano che “il confronto tra Odisseo e le terre lontane dalle rotte marittime, dalle regole e dal tempo della navigazione, sconosciute ai timonieri, chiuse in spazi di solitudine, eppure abitate, non tende a sottolineare il pericolo della lontananza, ma costituisce l’immagine dell’inaccessibile”. 55 Hom., Od. IX 82-84. 56 Hom., Od. IX 142-145. 57 Hom., Od. IX 142.
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profonde, non hanno navi né sono fabbricatori di navi. Tuttavia la loro condizione di allevatori selvatici e privi di istituzioni politiche, incapaci di piantare e seminare58, è sottolineata dalla spontaneità della terra che “tutto fa spuntare senza seme né aratro, il grano, l’orzo, le viti che producono vino di ottimi grappoli, e la pioggia di Zeus glielo fa crescere”59. Allo stesso modo, ma con un’inversione, il facile approdo al porto dei Ciclopi è condizionato dallo spirare dei venti60: C’è un porto con ottimi approdi, dove non occorre la gomena, né gettare le ancore né legare gli ormeggi: ma, approdati, si può rimanere finché l’animo spinga i naviganti a salpare e soffino i venti. Il porto dei Ciclopi, a differenza delle altre sedi idealizzate, poste al riparo dal vento (Olimpo) o privilegiate dal soffio direzionale e positivo di Zefiro (giardino di Alcinoo), non si sottrae allo spirare dei venti né è favorito da esso. Nel falso racconto di Odisseo a Polifemo l’eroe definisce la propria identità attraverso l’imperversare dei venti61: Siamo Achei, di ritorno da Troia! deviati da venti diversi sul grande abisso del mare, bramosi di giungere a casa, altre rotte e altre tappe abbiamo percorso: ha voluto disporre così certo Zeus. Poi, dichiara che la nave è stata spezzata dalla furia di Poseidone e dall’incalzare di tutti i venti62: La nave me l’ha fracassata Poseidone che scuote la terra, gettandola contro gli scogli, ai confini del vostro paese, spingendola su un promontorio: il vento la portava dal largo. Io però, con costoro, ho evitato la ripida morte.
58 59 60 61 62
Hom., Hom., Hom., Hom., Hom.,
Od. Od. Od. Od. Od.
IX IX IX IX IX
108-115. 109-111. 136-139. 259-262. 283-286.
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L’accecamento di Polifemo sotto le mentite spoglie di Nessuno e il rivelamento della propria identità quando l’eroe è ormai fuori pericolo causano la maledizione di Poseidone. Polifemo, figlio del dio che domina sull’elemento umido e su tutto ciò che è sotterraneo, invoca l’intervento del padre contro Odisseo. Da questo momento le peregrinazioni di Odisseo sono determinate dai venti inviati dal dio. Il successivo approdo all’isola galleggiante di Eolo dalle mura di bronzo è un altro esempio di inversione di normalità, in quanto il tamias dei venti non vive in un oikos umano63. Il fallito tentativo di Odisseo di rientrare in patria grazie all’otre di cui Eolo gli fa dono fa emergere il riconoscimento da parte del custode dei venti dello status di Odisseo di eroe inviso agli immortali. Nell’isola dei Lestrigoni, dove si intersecano i sentieri del giorno e della notte64, il porto è privo di venti per la sua particolare conformazione geografica e protetto da una nitida bonaccia, che rende il mare sempre calmo65: Quando arrivammo nel celebre porto, intorno a cui s’alza scoscesa la roccia ininterrottamente ai due lati, e coste sporgenti si allungano opposte tra loro all’imbocco – è angusta l’entrata –, i compagni arrestarono tutti le navi veloci a virare. Erano dunque ormeggiate all’interno del porto incavato, vicine: in esso non s’alza mai l’onda, né molto né poco, e intorno era chiara bonaccia. Anche i Lestrigoni, di aspetto smisurato, non umano ouèk aòndressin eèoiko@tev, aèlla# Gi@gasin forti, primitivi e antropofagi, uccidono con enormi massi di pietra i compagni di Odisseo e, arpionandoli come pesci, se ne nutrono66. Anche in questo incontro emergono i livelli dell’inversione: diversità fisica, diversa norma etica, diverso codice alimentare, eccedente sino al punto da confondere i compagni di Odisseo con un alimento animale. L’approdo all’isola di Eèa, guidato direttamente da un dio, in sostitu63
Hom., Od. X 3-18. A differenza dell’approdo al porto dei Ciclopi, condizionato dallo spirare dei venti, l’approdo al porto dei Lestrigoni è favorito da una condizione atmosferica di bonaccia (Hom., Od. IX 136-139). 65 Hom., Od. X 87-94. 66 Hom., Od. X 82-132. 64
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zione dell’essere extraumano, come nel caso dei Ciclopi, si presenta come una forma di navigazione alternativa a quella determinata e favorita dallo spirare di venti favorevoli. Nell’isola di Circe l’esclusione del piano umano risulta dalla presenza nell’oikos solo di animali snaturati, di indole selvaggia ma addomesticati (lupi-leoni) e resi mansueti da Circe67. La dèa, polufa@rmakov, avvezza a metamorfizzare le nature umane, offre ai compagni di Odisseo la bevanda alterata da fa@rmaka lu@gra che trasforma gli uomini in maiali. Il farmaco agisce sugli uomini e sugli animali, ma secondo diverse modalità. Nel caso degli animali, l’aspetto esterno rimane inalterato e l’indole subisce un rovesciamento; al contrario, negli uomini, il fa@rmakon agisce teriomorfizzando l’uomo ma preservandogli la memoria, qualità umana per eccellenza. Il mw^lu, antidoto donato da Hermes, consente a Odisseo di raggirare il potere di Circe, recuperare l’identità dei compagni e trarre benefici dall’incontro con la dèa. Circe predice a Odisseo il viaggio alle case di Ade, l’incontro con Tiresia, e invia il soffio di Borea68 perché Odisseo possa compiere ciò che a nessun vivente è consentito: restituire l’identità ai morti e colloquiare con essi. Nel discorso di Circe la dèa sottolinea che la discesa nel regno oltremondano è un atto divino che si compie grazie al vento Borea che soffierà per favorire la rotta verso gli estremi confini dell’Oceano e l’approdo ai boschi sacri aòlsea di Persefone, dove è collocata la dimora di Ade. Alla confluenza degli altri fiumi infernali, Piriflegetonte e Cocito, nell’Acheronte Odisseo dovrà compiere il rituale di evocazione dei morti69: Divino figlio di Laerte, Odisseo pieno di astuzie, non ti preoccupi che manchi una guida sulla tua nave: dopoché hai drizzato l’albero e spiegate le bianche vele, siediti: te la porterà il soffio di borea, la nave. La descrizione del viaggio e dell’arrivo di Odisseo all’Ade ricorre due volte, prima che si compia la discesa agli inferi, nelle parole anticipatrici di Circe che indica la via e dà le istruzioni relative al viaggio oltremondano70, 67 68 69 70
Hom., Hom., Hom., Hom.,
Od. Od. Od. Od.
X X X X
212-213. 507. 504-507. 504-540.
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e nella narrazione successiva dell’incontro dell’eroe con le anime dei morti71. Prima della discesa all’Ade Odisseo viaggia per lungo tratto senza ostacoli, favorito dall’ iòkmenov ouùrov di Circe, fino ai confini dell’Oceano72, e si imbatte in una popolazione prossima al paese dei morti, i Cimmeri, che costituiscono un demos e una polis ma sono esclusi dal mondo dei vivi perché, come i morti, non conoscono il sole73. La notte perenne nella quale i Cimmeri sono condannati a vivere è una condizione di confine tra vivi e morti, in cui l’eroe sperimenta l’assenza di luce del regno dei morti. L’incontro con i Cimmeri, infatti, costituisce una sorta di anticipazione della condizione visiva in cui si svolgerà l’incontro con Tiresia e con le anime dell’Ade. I Cimmeri rappresentano l’esatto contrario dei Lestrigoni, incontrati da Odisseo prima di giungere da Circe, e dei mitici Etiopi che vivono una vita felice in una splendente luce solare74. Queste popolazioni, collocate nella luminosità o nell’oscurità permanente, sono esempi di inumanità e radicalizzazioni estreme opposte al vivere umano civilizzato, contraddistinto dall’alternanza luce/buio. Nel caso dei Cimmeri il buio definisce lo stato di mortali infelici, mentre nel caso delle anime che popolano l’Ade e si affollano per bere il sangue sacrificale delle vittime la condanna alla tenebra è conseguenza del cambiamento di status. Il confine tra le anime dell’Ade e i Cimmeri è, tuttavia, impercettibile. Per entrare nella sede dei morti Odisseo attraversa l’Oceano, corrente profonda che segna il limite del mondo abitato, e percorre un tratto a piedi attraverso la zona paludosa, fino alla confluenza dei fiumi infernali. L’incontro con Tiresia e il responso dell’indovino sono funzionali alle informazioni circa il rientro in patria di Odisseo. Nell’incontro con Agamennone, invece, l’eroe trasferisce la propria immagine di eroe vittima dei venti e delle tempeste marine su Agamennone, attribuendo la sua morte ai venti:75 Ti vinse forse Posidone dentro le navi, dopo aver suscitato un aspro uragano di venti? 71 72 73 74 75
Hom., Hom., Hom., Hom., Hom.,
Od. Od. Od. Od. Od.
XI 20-23. XI 13. XI 14-16. I 22. XI 399-400.
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È significativo che questo tipo di morte fosse sentito come una delle circostanze di morte più probabili. Infatti le stesse parole, con valore quasi formulare, Agamennone le rivolge ai Proci quando scendono nell’Ade76. Dopo il colloquio con Achille Odisseo accelera l’uscita dall’Ade evitando lo sguardo della Gorgone che lo avrebbe pietrificato vivo nel regno dei morti e, grazie al ka@llimov ouùrov di Circe, veleggia di nuovo verso l’isola Eèa. L’utilizzazione dell’ i òkmenov ouùrov, vento che favorisce un percorso di andata e ritorno, garantisce il viaggio di Odisseo nel mondo oltremondano e il sicuro ritorno al mondo dei vivi. Allo stesso modo, Circe ricorre all’ouùrov per consentire la partenza definitiva di Odisseo dalla sua isola e l’approdo all’isola delle Sirene: se l’i òkmenov ouùrov che definisce il percorso di andata e ritorno dall’Ade, dipende solo dalla volontà della dèa, l’ouùrov aèph@mwn, inviato da Circe a Odisseo, accompagna il percorso dell’eroe solo fino all’isola delle Sirene, perché Odisseo non ritorna da Circe, né Circe guida più le altre tappe del suo viaggio. La dèa indica la nuova rotta e dà a Odisseo consigli su come affrontare le Sirene, superare i terribili mostri Scilla e Cariddi ed evitare il sacrificio delle vacche di Iperione. Circe terrorizza l’eroe specificando che colui che è vittima della seduzione delle Sirene è condannato al non ritorno, ma che anche esse, come i Lotofagi, possono essere vinte77. L’esperienza drammatica delle Sirene è annunziata dalla variazione del tipo di soffio fino alla successiva, improvvisa, cessazione del vento78: intanto la solida nave rapidamente arrivò all’isola delle Sirene: la spingeva un vento propizio. Subito dopo il vento cessò, successe una calma senza bava di vento, un dio assopiva le onde.
76
Hom., Od. XXIV 109-113. Hom., Od. XII 42-43. 78 Hom., Od. XII 166-169. Anche Esiodo (fr. 28 M.-W.) attribuisce alle Sirene la capacità di ammaliare i venti e di esercitare su di essi un potere oscuro. Sull’ipotesi che la sirena omerica producendo galene si configuri come antagonista dei venti, cfr. L. Mancini, Il rovinoso incanto, Bologna 2005, pp. 30, 179-234. Al riguardo cfr. anche M. Bettini-L. Spina, Il mito delle Sirene. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, Torino 2007; M. Bettini - C. Franco, Il mito di Circe. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, Torino 2010. 77
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Un silenzio innaturale, avverso al navigante, fa da sfondo all’ennesima prova cui è chiamato Odisseo. La voce bellissima e suadente delle Sirene e il loro canto ammaliante e veritiero si diffondono nella quiete innaturale, meta umana, di un paesaggio di cadaveri, vittime non divorate, né seppellite, ma destinate a decomporsi sui prati79. L’episodio dei buoi del Sole segue l’esperienza pericolosa di Scilla e Cariddi80. Al primo passaggio Odisseo era riuscito ad evitare Cariddi perché, seguendo il consiglio di Circe, era passato più vicino a Scilla ma, dopo il sacrilegio delle vacche del Sole, il vento Noto spinge l’eroe di nuovo indietro verso lo stretto di mare di Cariddi81: Poi sbatté l’albero contro la chiglia: era gettato su di esso uno strallo fatto di pelle di bue. Legai con esso ambedue, la chiglia con l’albero, e seduto su di essi ero spinto da venti funesti. Quando lo zefiro smise d’impazzare a tempesta, venne rapido il noto a portare nel mio animo l’ansia di dover traversare di nuovo la funesta Cariddi. Anche durante la permanenza presso la terra del Sole gli anemoi giocano un ruolo determinante. La paura dei compagni di Odisseo di navigare nelle ore buie perché l’oscurità della notte è la condizione atmosferica favorevole al sorgere di venti difficili per i naviganti è l’espediente letterario che induce Odisseo e i compagni a rinviare la partenza82: Ma sorgono venti maligni, che portano rovina alle navi, di notte: come evitare la ripida morte se a un tratto viene un vento furioso, o Noto o Zefiro violento, che maggiormente una nave distruggono, pur non volendo gli dei sovrani? Il soggiorno presso l’isola d’Iperione si protrae per un mese a causa di una tempesta violenta di Noto e di Euro che impedisce la partenza del79 Cfr. al riguardo L. Kahn, La mort à visage de femme, in La mort, les morts dans les sociétés anciennes, Cambridge 1982, pp. 133-142. 80 Hom., Od. II 426-446. 81 Hom., Od. XII 422-428. 82 Hom., Od. XII 286-290.
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l’eroe83, e induce i compagni a cercare il cibo e a sacrificare animali che mai avrebbero dovuto sacrificare, con un’evidente regressione a livello narrativo. I compagni di Odisseo infatti violano il divieto suggerito dalla profezia di Tiresia e compiono il sacrilegio segnalato dall’anomalo rituale sacrificale e dal paradossale lamento delle carni crude e cotte delle bestie immortali. Eseguito il misfatto, le onde si placano e il vento smette di soffiare, ma la condizione atmosferica favorevole è solo momentanea perché il Sole ordina a Zeus di perseguitare Odisseo minacciando di illuminare l’Ade con il conseguente annullamento della frontiera tra mondo dei vivi e mondo dei morti. Il sacrilegio commesso dai compagni di Odisseo è violentemente punito dal Cronide con l’invio delle raffiche violente di Zefiro84: Non corse ancora per molto: d’un trattò arrivò urlante lo zefiro, impazzando con grande tempesta, e la furia del vento spezzò entrambi gli stralli dell’albero. Odisseo perde la nave e i compagni e vaga alla deriva su un relitto della zattera per nove giorni fino a raggiungere, di notte, la spiaggia dell’isola di Calipso. L’intensità e la violenza della bufera inviata da Zeus, paragonabile a quella inviata da Poseidone dai monti Solimi, è proporzionale al misfatto compiuto dai compagni: non è possibile per un mortale sfidare gli dèi e sacrificare animali immortali appartenenti a un dio. In questo caso, Zeus nomoteta per non compromettere l’equilibrio cosmico di cui è garante folgora la nave di Odisseo85. L’ultima tappa del viaggio dell’eroe segna l’inizio del racconto omerico: nell’isola di Ogigia, agli estremi confini del mondo abitato, Odisseo rifiuta l’immortalità e compie l’ultimo viaggio verso Scheria, prima del ritorno a Itaca. Da Scheria i marinai feaci lo conducono, vinto dal sonno86, a Itaca e lo depongono sotto l’olivo frondoso, simbolo dell’intersezione e della sovrapposizione del mondo civilizzato e del mondo selvaggio87, descritto anche a Scheria. 83 84 85 86 87
Hom., Od. XII 325-326. Hom., Od. XII 407-409. Hom., Od. XII 415-419. C. P. Segal, Transition and Ritual in Odysseus’ Return, “PdP”, XXII, 1967, pp. 321-342. Hom., Od. V 476-477.
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Se nella mitica Scheria l’olivo è simbolo della doppia natura dei Feaci, collocati al confine tra mondo mitico e mondo reale88, ad Atene, invece, esso è espressione dell’ordine politico-religioso89 e a Itaca indica per metonimia l’ambiente familiare. Giunto dopo il naufragio a Scheria, Odisseo trova riparo all’ombra di un doppio cespuglio, “non attraversato dall’umida forza dei venti soffianti, né dai raggi del sole, né dalla pioggia e qui si addormenta”90. Analogamente, la descrizione omerica del porto di Itaca colloca in primo piano un olivo frondoso, di cui i Feaci hanno conoscenza e in prossimità del quale abbandonano l’eroe addormentato con le ricchezze ricevute in dono91. L’albero compare anche all’interno della casa dell’eroe, dove di robusto olivo è il letto nuziale opera di Odisseo92, le cui solide radici sono inseparabili dall’humus che le accoglie e che permette la ricostruzione dell’eroe attraverso il riconoscimento della moglie. Con la deposizione da parte dei Feaci dell’eroe addormentato93 sulla spiaggia di Itaca, si chiude la dimensione immaginaria del viaggio marino di Odisseo e si apre la dimensione reale dell’approdo terrestre a Itaca. In questa seconda parte del poema che segna la fase di ristrutturazione dell’eroe fondata sul rapporto con gli schiavi di palazzo, con la moglie e con il figlio, Odisseo approda a Itaca, nel porto di Phorkys al riparo dai venti. Qui è collocato l’olivo frondoso e si erge l’antro delle Ninfe, dotato di due ingressi, uno di Borea accessibile ai mortali94 e uno di Noto, accessibile agli immortali95:
88
C. P. Segal, art. cit., pp. 17-63. M. Detienne, Un efebo, un olivo, in La scrittura di Orfeo, tr. it., Roma-Bari 1990, pp. 64-78. 90 Hom., Od. V 476-482. 91 Hom., Od. XIII 120-122. 92 Hom., Od. XXIII 183-204. 93 Hom., Od. XII 119. C. P. Segal, op. cit., pp. 321-342. Cfr. anche P. Scarpi, Il ritorno di Odysseus e la metafora del viaggio iniziatico, in Mélanges Pierre Lévêque, vol. I, Paris 1988, pp. 245-259. 94 L’antro delle Ninfe a Itaca è attestato dai ritrovamenti archeologici. Cfr. al riguardo S. Benton, Excavations in Ithaca III: the cave at Polis, I, “ABSA”, XXXV, 1934-35, pp. 45-73; A. Snodgrass, Les origins du culte des héroes dans la Grèce antique, in La mort, les morts dans les sociétés anciennes, Cambridge 1982, pp. 107-119. 95 Hom., Od. XIII 109-112. 89
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Due entrate ha la grotta, una a Borea è accessibile agli uomini, l’altra al Noto è serbata agli dei: da lì non entrano uomini, ma è la via degli eterni. L’antro divino, aòntron qespe@sion, è descritto due volte in questo libro dell’Odissea: nell’ampia digressione descrittiva della struttura del porto, l’antro è definito amabile e oscuro e dotato di due porte; nella seconda, meno dettagliata, la dèa Atena mostra l’antro sacro alle Ninfe Naiadi a Odisseo che non riconosce gli spazi terrestri della sua isola96. Porfirio97 interpreta la doppia entrata di cui parla Omero come un’allegoria del destino dell’anima nel mondo e del suo ritorno al divino; non crede all’esistenza reale di una caverna ma ritiene che dietro ogni rappresentazione omerica si celi il simbolismo religioso della creazione: l’antro è il cosmo, le Ninfe e le api sono anime, i manti purpurei sono il formarsi del corpo, il miele è la forza della seduzione. Egli condivide la collocazione settentrionale dell’ingresso dei mortali e la collocazione meridionale di quello degli immortali. Le regioni del nord appartengono alle anime che discendono nella generazione e quindi la porta dell’antro volta a nord è accessibile agli uomini; le regioni meridionali non sono luogo degli dèi, ma di chi ritorna agli dèi, e proprio per questo l’ingresso di Noto non è definito antro degli dèi ma degli immortali, espressione che si addice anche alle anime perché sono immortali o in sè o nella loro essenza98. Il passo omerico è controverso, anche prescindendo dalle rielaborazioni neoplatoniche, è difficile spiegare perché il settentrione sia riservato agli uomini e il meridione agli dèi. Si è ipotizzata la sovrapposizione tra descrizione geografica ed esperienza del viaggiatore confluenti in un itine96
Una descrizione accurata dell’antro è in M. Gigante, L’antro itacese delle ninfe: dalla realtà al simbolo, in Scritti sulla poesia greca e latina, vol. I, Napoli 2006, pp. 179-201. 97 Porph., de antr. nymph., 1-3, 5, 14, 17, 31. 98 Porph., de antr. nymph., 23. Secondo F. Buffière, op. cit., pp. 425-459 non è chiaro perché Omero abbia riservato il nord agli uomini e il sud agli dèi, invece di ricorrere, soprattutto in questi versi, all’est e all’ovest. P. Faure, op. cit., pp. 235-276, non ritiene che la descrizione omerica corrisponda a un reale sito geografico, ma a un quadro idealizzato. Cfr. anche G. Scalera Mc Clintock, op. cit., pp. 42-44, secondo la quale la suggestione dell’antro omerico delle Ninfe poggia sull’accostamento tra oggetti funerari e non, e l’intera descrizione è una metafora della rinascita.
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rario unico percorso dall’eroe verso le terre più marginali dove, compiuta l’esperienza di totale inversione, è possibile il nostos99 oppure l’idea di un unico itinerario attraverso il quale si passi da una condizione mortale ad una immortale.100 In ogni caso, i due ingressi sembrano suggerire l’idea che i venti orientati siano in rapporto più esplicito con i punti cardinali e che vi sia una associazione tra anime e soffi di vento.
99
Cfr. P. Scarpi, La fuga e il ritorno, Genova 1992. Dall’analisi dello studioso non emerge una valutazione del ruolo dei venti nella navigazione immaginaria di Odisseo. Tuttavia l’idea di un viaggio inscindibile dal nostos conferma l’ipotesi della nostra lettura. 100 G. Scalera Mc Clintock, op. cit., p. 44, n. 64.
Capitolo quinto Venti e cosmo
1. ‚Anemoi nella Teogonia: la fondazione Se, come è stato osservato1, l’Iliade è il poema della guerra dove spesso gli dèi intervengono per contrastare le fasi di tregua bellica e l’Odissea è il poema della pace in quanto, a differenza dell’Iliade che si conclude con la tregua che consente i funerali di Ettore, termina con la pace tra Odisseo e le famiglie dei pretendenti, tuttavia i due poemi sono essenzialmente lontani dall’universo politico e culturale della Grecia all’interno del quale circolavano. I poemi omerici riflettono il mondo eroico di un passato secolare e delineano un quadro che trae origine dalla tradizione e incorpora memorie e modelli culturali di periodi differenti. Al contrario, le opere esiodee, pur appartenendo cronologicamente alla stessa tradizione antica dei poemi omerici, non descrivono le gesta degli uomini di un passato concluso, né le vicende straordinarie di un eroe solitario. Oggetto della Teogonia sono l’origine del cosmo e la genealogia degli dèi, e nelle Opere si delinea e si definisce la sfera divinizzata del lavoro sociale. Alle genealogie delle prime stirpi divine preolimpiche risale la nascita degli anemoi denominati, la cui madre è Eos, la luce del giorno che si manifesta al sorgere del sole; padre è Astreo, la luce notturna che si diffonde al tramonto del sole2. I progenitori da cui discendono Eos e Astreo sono Gaia e Urano che, come le altre potenze primordiali quali Caos, Eros, Notte, 1 2
P. Vidal-Naquet, Il mondo di Omero, tr. it., Roma 2001, pp. 37-46. Hes., Th. 378-380.
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Oceano e Tartaro, non si esauriscono nella discendenza, ma continuano a esistere come trama e sostrato dell’universo all’interno del quale si dispiegano le generazioni fino ai livelli teogonici più bassi. Dall’unione dei Titanidi, Theia e Iperione, primi figli di Gaia e Urano, nascono gli astri del cielo: Sole, Luna e Eos3, aspetti di una categoria luminosa all’interno della quale il sole è me@gav, la luna è lampra@, Eos è colei che risplende su tutti gli immortali e i mortali. Astreo discende dal titano Crio e da Euribie, figlia di Ponto e di Gaia, che nell’espressione designante la sua natura racchiude il livido adamas della progenitrice materna4. Dall’unione amorosa tra Crio e Euribie nascono Astreo grande, Pallante divina e Perse “che fra tutti risplende per il suo sapere”, divinità collegate alla luminosità astrale. L’unione di Astreo e Eos determina la nascita dei venti Borea, Noto e Zefiro e di altre entità, collegate esplicitamente alla sfera luminosa: l’astro Eosforo che nel nome esprime una chiara esplicitazione della madre, e le Stelle splendenti di cui è coronato il cielo5: A Astreo Aurora partorì i venti dal forte cuore, lo splendente Zefiro e Borea dalla rapida corsa e Noto, lei dèa con un dio congiunta in amore. La discendenza da Eos è il risultato di una nascita (ti@ktw) positiva come si ricava dall’epiteto comune a tutti i venti kartero@qumov e dagli epiteti che designano Zefiro e Borea. Questa genealogia definisce diversi gradi di luminosità: a livello fisico la luce nitida del mattino (Eos) e la luce notturna degli astri; a livello atmosferico la luminosa provenienza dello spirare dei venti denominati. Le qualità visive insite nei progenitori giustificano e garantiscono l’ordinato spirare dei venti denominati e l’immutabilità dei loro percorsi che orientano lo spazio indistinto. Nella Teogonia si fissa quindi in modo più esplicito lo statuto dei venti e si radicalizza la contrapposizione tra venti favorevoli e venti ostili; tra i venti di stirpe divina (eèk qeo@fin), Borea Zefiro e Noto (non è nominato Euro che, invece, Omero conosce), che spirano regolarmente, orientando 3 4 5
Hes., Th. 371-374. Hes., Th. 239. Hes., Th. 378-382.
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lo spazio marino e le attività umane, e l’anonimo gruppo degli anemoi che Esiodo associa alle thyellai del Tartaro. Questi ultimi sorgono all’improvviso, infuriando contemporaneamente da tutti i lati e confondendo nei loro vortici le direzioni dello spazio6. Probabilmente alla mancata denominazione corrispondono l’impossibilità di individuarne la provenienza e la confusione dannosa di cui essi sono generalmente responsabili. Gli anemoi che provengono da Tifeo, figlio di Gea e del Tartaro, in quanto portatori di disordine e di tempeste sono distruttori del lavoro degli uomini7. Anche in Esiodo, come in Omero, l’orientato e ordinato spirare dei venti divini Borea, Noto e Zefiro non corrisponde chiaramente ai quattro punti cardinali, come mostra l’assenza di Euro. Tuttavia la collocazione dei venti denominati in una genealogia che si qualifica attraverso la luminosità potrebbe giustificarsi ritenendo che la luce funzioni come chiara provenienza del loro soffiare Al contrario, aònemoi e qu@ellai, di cui non è individuabile la provenienza dei soffi e delle raffiche, sono associati al buio del Tartaro, sede ultima del mostro Tifeo da cui essi provengono, e definiscono la perfetta polarità rispetto agli altri venti denominati8. In ogni caso i venti sono visti come forme di luminosità o assenza di esso; alla loro qualità luminosa sembra legata la possibilità di denominazione, mentre l’oscurità ne impedisce ogni definizione.
2. Anemoi ò nelle Opere: la pratica Nella Teogonia i venti denominati sono inseriti in una precisa genealogia mentre gli aònemoi kakoi@ sono associati a Tifone. Nelle Opere e i Giorni, invece, è stabilito un nesso tra venti e attività lavorative. L’opera, strutturata secondo lo schema dei testi sapienziali, costituisce una sorta di precettistica di età arcaica in cui è possibile rintracciare, seguendo lo stesso criterio adoperato nell’analisi dei testi in cui i venti sono funzionali ad azioni eroiche o a contesti bellici, il ruolo degli anemoi nell’organizzazione del lavoro. 6 7 8
Hes., Th. 874. Hes., Th. 872-874. Hes., Th. 868.
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In realtà, agricoltura e guerra sono entrambe attività lavorative in cui è percepibile la dipendenza dall’idea di un dio che interferisce con la sfera umana. Senofonte sostiene infatti “che gli dèi sono signori dei lavori dell’agricoltura, non meno che di quelli della guerra”9. Tuttavia l’idea di una presenza divina nel mondo umano caratterizza sia la fase idealizzata e primordiale di una generosa spontaneità della terra, collocata nel passato mitico dell’età dell’oro quando i prodotti erano soltanto doni della natura, sia la fase del lavoro sociale in cui i doni della terra sono il risultato del ponos umano. La terra, come dice J.-P. Vernant10, diventata ormai ‘arativa’, cioè impregnata del lavoro umano, si identifica simbolicamente con Demetra. La dèa non appartiene più all’immaginario mitico della zei@dwrov aòroura, ma partecipa al ponos umano. In Omero Demetra è descritta mentre è intenta a separare la pula e il biondo grano grazie al benefico soffio di vento sul quale esercita il suo potere divino11. Nel mondo degli Erga il grano di Demetra segna il tempo lavorativo da dedicare alla spiga da spulare e da battere sull’aia sacra della dèa12, mentre in Omero la dèa s’identifica con il prodotto macinato13. Il lavoro esiodeo scivola dalla sfera etica verso una forma religiosa di attività, in quanto la quotidianità lavorativa è regolata dalla divinità. Ma la rigorosa eticizzazione dell’attività lavorativa, che fissa la norma secondo cui “lavorando si diventa più caro agli immortali e ai mortali, che molto hanno in odio gli oziosi”14, non implica l’idea di una provenienza esclusivamente divina del lavoro né esclude un’organizzazione umana programmata dell’agricoltura e della navigazione. La dignità del lavoro come strumento doloroso e faticoso di sopravvivenza e di prosperità economica è più volte ribadito negli Erga; si tratta di un lavoro prevalentemente agricolo che diventa espressione della condizione umana e del felice rapporto tra uomini e dèi. In questa dimensione etica in cui l’agricoltura è intesa come esperienza lavorativa e comportamento religioso, si sviluppa un nuovo legame tra l’uomo che lavora e la propria 9
Xenoph., Econ. V 19. J.-P. Vernant, Mito e pensiero presso i Greci, tr. it., Torino 1978, pp. 285-316. 11 Hom., Il. V 500. 12 Hes., Op. 597-599; 805. 13 Hom., Il. XIII 322; Od. II 355. 14 Hes., Op. 309-310. 10
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terra arativa divinizzata, che non esclude il carattere individualistico dell’agricoltura finalizzata alla costituzione del patrimonio familiare. Nonostante l’impostazione didattica ed etica del poemetto, in cui prevale il discorso organizzativo del lavoro, emergono utili informazioni sui venti e soprattutto sull’atteggiamento dell’uomo di fronte al fenomeno atmosferico del vento e sulle conseguenze prodotte dallo spirare dei venti sulle attività lavorative. Negli Erga aònemov, collegato al potere divino, diventa il fenomeno atmosferico in funzione del quale si organizzano le attività lavorative, agricoltura e navigazione, non solo secondo lo spirare orientato, ma soprattutto secondo lo spirare stagionale. Le istruzioni sull’agricoltura e sulla navigazione, strutturate come una sorta di calendario lavorativo, sono quindi strettamente funzionali al regime dei venti, le cui conseguenze sulle distese marine e sui campi arati comportano, in un caso, l’impraticabilità del mare; nell’altro, un’organizzazione ragionata e preventiva dell’attività agricola. Esortazioni, precetti e norme che regolano le attività agricole e marine dell’uomo si fondano infatti su un calendario di giorni propizi e infausti15. Il grido della gru, che annunzia il momento di arare e il tempo piovoso dell’inverno, segnala all’agricoltore che è tempo di attaccare il carro ai buoi, di far pascere gli animali, di preparare la terra per la semina, di invocare Zeus e Demetra, di riparare gli utensili, ma anche di guardarsi dalle raffiche di vento. Nei precetti dedicati al fratello Perse, a proposito dell’attività agricola durante il periodo invernale, il poeta lo invita a prevenire le conseguenze dannose delle fredde giornate di Lenone in cui le raffiche di Borea che soffia dalla Tracia sconvolgono mare, terra, foreste e intimoriscono le fiere e gli animali dotati di vello perché vi penetrano come soffi gelidi. Allora uomini e bestie vivono in casa per sfuggire al gelido del nord16: Mese di Lenone, giornate tutte cattive, da scorticar buoi; da quello guardati, e dalle gelate che sulla terra coi soffi di Borea vengon moleste; Borea, attraverso la Tracia che nutre cavalli, sul vasto mare soffia e lo fa sollevare; gemono la terra e la selva.
15 16
Hes., Op. 309, 780, 826-828. Hes., Op. 504-508.
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L’unico riparo dalla forza del vento Borea (ivò aène@mou Bore@w) che piega il già curvo vecchio, è rifugiarsi all’interno delle proprie dimore come una candida fanciulla virginea17: soffia la forza del vento Borea; ma piega la schiena del vecchio. E della fanciulla fino alle tenere membra non soffia, che dentro la casa presso la cara madre rimane. Nelle prime ore del mattino, quando l’alba è gelida per i soffi di Borea, è consigliabile proteggere il corpo con indumenti particolari e svolgere il lavoro soltanto nelle ore diurne, prima che sopraggiunga il vespero impregnato del soffio piovoso di Borea. In queste giornate fredde Borea agisce sulla nebbia rendendola favorevole al lavoro dell’uomo nelle ore diurne e dannosa nelle ore notturne, quando le nubi sono mosse violentemente dal vento di Tracia. Al contrario, la qu@ella quando agisce sulla nebbia mattutina la converte in pioggia serale18: perché fa freddo al mattino, se Borea imperversa; ma quelle mattine sopra la terra, dal cielo stellato, si spande una nebbia feconda sui lavori dei mortali beati; essa attingendo ai fiumi che scorron perenni, in alto, levata sopra la terra da tempesta di vento, talora come pioggia cade alla sera, e talora soffia quando Borea Tracio le spesse nubi scompiglia. Allora affrettati, compiuto il lavoro, a tornartene a casa, perché dal cielo scura una nube non ti ravvolga, non ti bagni le membra e ti inzuppi i vestiti. Se il soffio freddo di Borea condiziona gli inverni dell’agricoltore, il soffio veloce di Zefiro è la brezza che spira nella stagione estiva apportando refrigerio agli uomini. Al grido invernale delle gru si sostituiscono la fioritura del cardo e il canto della cicala che annunzia la stagione estiva. Durante questo periodo, scandito da pause di riposo, bisogna mettere a riparo il raccolto, ordinare agli schiavi “di pestare il grano sacro di Demetra”, riporlo nei vasi e conservare nel granaio il foraggio per gli animali. Nel mese di 17 18
Hes., Op. 517-520. Hes., Op. 547-555.
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settembre è invece il tempo della vendemmia e della produzione del vino “dono di Dioniso giocondo”19: Quando il cardo fiorisce e la cicala canora stando sull’albero l’acuto suo canto riversa fitto da sotto le ali, nella pesante stagione d’estate, ... e bere il nero vino sedendo all’ombra, saziato nel cuore del tuo festino, la faccia volta incontro al veloce soffio di Zefiro; e d’una fonte che scorre perenne e pura tre parti d’acqua versare, la quarta di vino. Il soffio invernale di Borea, apportatore di gelate, altera gli equilibri della sopravvivenza quotidiana dei contadini e interferisce come vento stagionale con la nebbia e con le piogge. Al contrario, il soffio estivo di Zefiro non interferisce con l’attività produttiva, nemmeno con effetti benefici ma, mitigando il Sole torrido che fiacca le membra del contadino, favorisce le pause dal lavoro agricolo. Esiodo descrive la natura e i suoi cicli produttivi in rapporto all’uomo che lavora la terra e allo stesso modo fa riferimento al cielo, alle costellazioni e ai fenomeni atmosferici in rapporto alla loro interferenza con le vicende delle stagioni agricole. Gli animali invece sono descritti come messaggeri del mutare delle stagioni e compagni dell’uomo nella vita laboriosa. Dietro questo calendario agricolo, scandito dalla vita quotidiana del contadino beota, dai suoi rapporti amichevoli e ostili con i vicini e dalle attività svolte durante l’anno, si cela una situazione di crisi economica del mondo greco verso la fine dell’VIII secolo a.C. La Beozia in questo periodo, come sottolinea C. Mossé20, è caratterizzata da un’economia essenzialmente agricola che consente la sopravvivenza a coloro che svolgono un ponos e non hanno peccato di negligenza verso gli dèi (ponos divino). Tuttavia la vita contadina descritta nel poema esiodeo è quella che si svolge all’interno di un podere esteso con numerosi servitori. L’interlocutore immaginario dispone di beni in eccesso che ripone sulle navi, nel periodo consentito alla navi-
19
Hes., Op. 582-596. C. Mossé, L’uomo e l’economia, in L’uomo greco, (a cura di) J.-P. Vernant, tr. it., Roma-Bari 1991, pp. 25-53. 20
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gazione, e destina all’esportazione e al commercio. La navigazione, sentita dall’uomo esiodeo come un pericolo, è anche fonte di profitti e consente di accumulare fortune21: Tu, o Perse, riguardo al lavoro ricordati sempre di ogni cosa a suo tempo, ma soprattutto nei lavori del mare. Loda la nave piccola, ma su una grossa poni il tuo carico: più grosso il carico maggiore il guadagno aggiunto al guadagno sarà, almeno se i venti i loro soffi cattivi trattengono. E quando, rivolto al commercio il cuore leggero, vorrai fuggire il bisogno e la fame funesta, io ti dirò le leggi del mare che molto risuona, sia pure di navigazione inesperto, e anche di navi. Nella concezione esiodea, all’agricoltura si affianca il commercio marittimo, fortemente collegato e condizionato dall’attività primaria. Si tratta di un commercio stagionale finalizzato alla vendita di prodotti locali in quantità abbondante. Il poeta che ha indicato come condizione ideale quella di “non dover navigare”22, nel momento in cui definisce i tempi della navigazione si ispira invece a criteri di prudenza che non trascurano l’interesse economico derivante dalla attività marinara23: “non porre tutti i tuoi beni sui cavi navigli, ma il più lascia, il meno imbarca”24. Negli Erga la navigazione, considerata con un fondo di diffidenza e intesa come possibilità di lavoro e di guadagno secondaria, occupa tuttavia un posto non trascurabile nell’attività umana, strettamente funzionale allo spirare stagionale degli anemoi. I venti dunque sono elementi condizionanti della vita umana sia sulla terra che sui mari. Tuttavia l’attività lavorativa legata soltanto alla navigazione costituisce, secondo Esiodo, un pericolo di fronte al quale l’uomo non ha possibilità di difesa. Il precetto esiodeo di fissare rigide norme nautiche in una sorta di calendario della navigazione, analogo a quello agricolo, risponde all’esigenza di proiettare ogni tipo di attività umana nel solco di precise finalità. L’intento 21
Hes., Op. 641-649. Hes., Op. 236-237. 23 Cfr. M. L. West, La formazione culturale della polis e la poesia esiodea, in Origine e sviluppo della città, a cura di R. Bianchi Bandinelli, Milano 2000, pp. 254-291. 24 Hes., Op. 689-690. 22
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non è insegnare l’arte nautica ma sollecitare a un attento e prudente uso del mare e al rispetto delle leggi del mare. Come sottolinea P. Janni25, “un contadino che si faceva all’occasione marinaio”, esprime anche i limiti e l’approssimazione del tipo di marineria in età arcaica. Secondo una precettistica fondata sul criterio di prudenza nello svolgimento di ogni attività lavorativa, la condizione atmosferica di assenza di venti è presupposto indispensabile allo svolgimento dell’attività marinara. In questo calendario la stagione della navigazione è fissata soltanto nel periodo che va dal tramonto delle Pleiadi fino al levarsi di Arturo; in ogni altro tempo diventa pericolosa a causa dei venti incontrollati e delle piogge. Naufragi o altri cataclismi, che sono comunque prevedibili anche nel periodo in cui la navigazione è consentita, dipendono solo dalla volontà divina26: Per cinquanta giorni dopo il volgere del sole, quando giunge alla fine l’estate, faticosa stagione, è il tempo propizio ai mortali per navigare; né la nave sconquassa il mare né gli uomini uccide, a meno che Poseidone che scuote la terra, avverso, oppure Zeus, re degli immortali, non li vogliano perdere, perché il compimento è in loro, ugualmente dei beni e dei mali. In questo periodo favorevole, limitato a cinquanta giorni, il mare è relativamente inoffensivo perché spirano venti euèkrine@ev stagionali, orientati e regolari: Allora regolari soffiano i venti e senza pericolo è il mare; sicuro allora, nei venti fidando, la nave veloce spingi nel mare e tutto il carico ponivi sopra; affrettati prima che puoi a casa a tornare. Al contrario, nella stagione primaverile, quando la navigazione è consentita ma precaria perché condizionata dalle variazioni climatiche, essa è dettata solo da esigenze di guadagno ed è vista con diffidenza perché, come afferma il poeta, “è duro morire tra i flutti”27. Nel periodo invernale 25 26 27
P. Janni, Il mare degli antichi, p. 110. Hes., Op. 663-673. Hes., Op. 687.
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la navigazione è vietata a causa dello spirare dei soffi incontrollati di tutti i venti e l’imbarcazione, secondo i precetti esiodei, deve essere protetta dall’azione violenta degli anemoi che, nel periodo in cui il mare non è navigabile, costituiscono un grave pericolo nei porti. Le navi devono essere tirate a terra e circondate da ogni parte con pietre, che le proteggano dall’azione del me@nov aène@mwn28. In conclusione, il calendario nautico definisce un periodo limitato di navigazione di appena cinquanta giorni estivi, in cui il mare è praticabile per tutti; due stagioni intermedie nelle quali non è consigliabile avventurarsi in mare; e la stagione invernale durante la quale naviga solo chi vi è costretto. Quest’ultima infatti è caratterizzata da procelle incontrollabili di tutti i venti (pantoi@wn aène@mwn), mentre la stagione estiva è dominata da venti propizi e da mare sereno. La navigazione avviene sempre confidando nei venti (aène@moisi piqh@sav) e scongiurando il pericolo di venti provenienti solo dagli dèi. Il rientro dalle rotte marine estive deve avvenire prima di settembre, mese autunnale piovoso, e prima del successivo inverno in cui imperversano le raffiche di Noto29: non aspettare il vin nuovo e la pioggia autunnale e l’inverno che viene e i terribili soffi di Noto, che il mare solleva e si accompagna alla pioggia di Zeus che è molta d’autunno e cattivo fa il mare. L’invito a curare la terra nei periodi in cui non è praticabile il mare30, ad attendere il tempo opportuno alla navigazione31, a valutare in ogni periodo il pericolo del sopraggiungere di soffi contrari32 e la scansione precisa dei tempi da dedicare all’attività marinara dimostrano la propensione del poeta per l’attività agricola. Nel calendario esiodeo della navigazione, la delimitazione temporale dell’attività marittima, considerata un’attività minore (perché esercitata dai kakoi@), è anch’essa strettamente funzionale all’attività agricola33. 28 29 30 31 32 33
Hes., Op. 621-626. Hes., Op. 674-677. Hes., Op. 623. Hes., Op. 665. Hes., Op. 645. A. Mele, Il commercio greco arcaico. Prexis ed emporie, Napoli 1979, p. 30.
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Secondo la valutazione stagionale e climatica degli anemoi il lavoro agricolo è favorito da Zefiro e Borea, venti propizi e orientati, mentre la navigazione è ostacolata dalle raffiche di anemoi, venti anonimi, incontrollati e pericolosi. La positività dell’attività agricola emerge anche dal rapporto tra lavoro dei campi e venti stagionali in quanto Borea, vento freddo e dannoso, soffia sempre in inverno, e Zefiro, brezza benevola e benefica, soffia solo in estate. Al contrario, la navigazione è un’attività negativizzata non soltanto perché anemoi 34 o thyellai costituiscono un pericolo incontrollabile e imprevedibile ma anche perché Noto, che è l’unico vento denominato cui il poeta accenni quando definisce i precetti della navigazione, è associato all’inverno, stagione in cui non si deve navigare.
3. L’ultimo vento: Tifeo Alla prima e all’ultima generazione di Gaia rinviano le genealogie divine dei venti denominati e degli anemoi, i primi luminosi, favorevoli all’uomo; i secondi dannosi perché provenienti dall’oscuro e mostruoso Tifeo. Gaia, unitasi in amore con Tartaro, partorisce l’ultimo figlio, Tifeo35 o Tifone, mostro anguiforme ed antropomorfo dalle braccia possenti, dai piedi infaticabili, dalle teste serpentiformi, dagli occhi di fuoco36: Poi, dopo che i Titani dal cielo Zeus cacciò via, Gaia prodigiosa, come ultimo figlio, generò Typheo, di Tartaro in amore, per causa dell’aurea Afrodite; le sue braccia son fatte per opere di forza e i piedi sono instancabili, di quel forte dio; a lui dalle spalle nascono cento teste di serpe, di serpente terribile, di lingue nere vibranti; e a lui dagli occhi nelle terribili teste, sotto le ciglia, splendeva un ardore di fuoco; da tutte le teste fuoco bruciava insieme allo sguardo, e voci s’alzavano da tutte le terribili teste, 34
Hes., Op. 621-625, 645, 670. Nell’Etymol. Magn., s.v. Tufw@v, il nome di Tifeo è collegato lessicalmente a verbi designanti calore. Si attesta inoltre la doppia tradizione della nascita del mostro da Gaia e da Era. In Suda s.v. tu@fw Tifeo è essenzialmente un mostro violento. Secondo Hesych. s.v. tufw@v Tifeo è un vento o un dio. 36 Hes., Th. 820-835. 35
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che suoni di ogni sorta emettevano, indicibili: ora infatti risuonanti come solo agli dèi è comprensibile, ora invece di voce di toro superbo, alto muggente, dalla forza infrenabile, ora ancora di leone dal cuore spietato, ora poi somigliante alla voce di cani, meraviglia ad udirsi, ora infine fischiava e ne echeggiavano le grandi montagne. Questo mostro, la cui voce polimorfa lo assimila talvolta agli dèi, talvolta alle bestie selvagge, talvolta ancora alle forze della natura, racchiude in sè la potenza del disordine preolimpico. La mostruosità è costruita sull’eccedenza di ogni elemento corporeo: il vigore estremo delle braccia, la mobilità perenne dei piedi (aèka@matoi) che non conoscono fatica, la spaventosa mostruosità delle teste di serpente, collocate sulle spalle che si agitano al di sopra del suo corpo ed emettono in tutte le direzioni sguardi di fuoco. Tifeo non ha una voce specifica, conforme alla sua essenza, ma emette suoni diversi, talvolta parla il linguaggio di un dio, talvolta emette gridi di bestie, toro, leone o cane, talvolta fischi striduli37. L’ultimo figlio di Gaia, nella sua polimorfia ibrida, rappresenta, rispetto alle figure normali e definite del mondo organizzato, il pericoloso ritorno al caos primordiale di cui egli rappresenta un’inversione perché all’indifferenziazione delle forme presenti in Caos oppone la sovrapposizione di forme. Per discendenza materna, egli eredita aspetti ctoni e preolimpici, per discendenza paterna, conserva l’oscurità antiolimpica (hèero@eiv). La duplice eredità consente di definire Tifeo una potenza primordiale che insidia l’universo differenziato e ordinato riproponendo il pericolo di una involuzione del cosmo ‘attuale’, retto dalla basileia di Zeus, verso il Caos primordiale38. Gaia si unisce per la prima e unica volta a uno degli elementi primordiali che, come lei, appartengono al momento costitutivo del cosmo, proiettandosi in una fase che precede anche la propria attività generativa partenogenetica. La scelta di Tartaro, figura antiolimpica per eccellenza, sede sotterranea i cui abitatori sono gli avversari di Zeus, che sopravvivono esclusi dal mondo divino e avvolti in una nebbia spessa, è funzionale al pe37
Sulle connotazioni auditive sonore tipiche delle figure ‘altre’, cfr. J.-P. Vernant, La morte negli occhi. Figure dell’altro nell’antica Grecia., tr. it., Bologna 1987, pp. 43-68. 38 Per una valutazione antropologica del ruolo dei pro@teroi qeoi@ cfr. l’acuta indagine di I. Chirassi Colombo, Morfologia di Zeus, “PdP”, XXX, 1975, pp. 249-277.
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ricolo destabilizzante del caotico. L’oscura visibilità del Tartaro ne definisce lo statuto oppositivo rispetto al cosmo luminoso di Zeus39. Né l’interpretazione di A. Ballabriga secondo il quale Gaia unendosi a Tartaro, entità che racchiude i confini della terra, si unisce con se stessa ritornando al processo primordiale di scissiparità40, né l’interpretazione di F. Blaise secondo il quale l’unione di Tartaro e Gaia esprime l’ultima interferenza della Terra e dei nati dalla terra (gegeneis) nel regno di Zeus per definire il ruolo di Tartaro come mondo sotterraneo41, sembrano condivisibili. Nel momento in cui il cosmo olimpico si è normalizzato e si è consolidato il potere regale, l’unico pericolo possibile per l’ordinamento di Zeus è il ripristino di una primordialità che travalica, escludendoli, i rapporti di discendenza e di parentela degli dèi olimpici. Infatti il ruolo preponderante di Gaia nella Teogonia esiodea si coglie se si considera la dialettica oppositiva di Gé e dei gegeneîs rispetto al cosmo attuale di Zeus. Essi si contrappongono come il passato al presente, il primitivo al contemporaneo, il definitivamente compiuto-mitico all’indefinitivamente aperto-storico. In quest’ottica, come è stato opportunamente sottolineato, Gaia può anche autoriprodursi ricorrendo all’autogenerazione, ma solo per creare mostri, che racchiudono in sé il passato da intendere come il rozzo e il primitivo42, analogo al livello generazionale di forze primordiali come i Titani, nati dall’unione di Gaia e Urano. Non c’è mai unione tra i quattro elementi primordiali non generati ma autogenerantisi: Caos, Gaia, Tartaro ed Eros. La singolare unione di Gaia e Tartaro rompe la regola ancestrale di scissione originaria dei quattro principi cosmogonici, indipendenti e non coinvolti in unioni reciproche, e ha come conseguenza una nascita eccezionalmente negativa, un’entità anomala, fisicamente indistinta come le forze generatrici. La natura ibridiforme ed eccedente di Tifeo è espressione di una capacità fisica pericolosa per l’attuale
39 È difficile distinguere in maniera netta tra Zophos, Erebo, Ade e Tartaro, tuttavia è possibile attribuire il dominio dell’oscurità assoluta all’Ade e al Tartaro, dimore distinte in Omero e destinate rispettivamente ai morti e ai Titani, cioè a coloro che sono ‘esclusi’ in modo definitivo dalla vita (Hom., Il. VIII 13-16; XXIII 51). 40 A. Ballabriga, Le dernier adversaire de Zeus. Le mythe de Thyphon dans l’épopée grecque archaïque, “RHR”, CCVII, 1990, pp. 4-30. 41 F. Blaise, L’épisode de Typhée dans la Théogonie d’Hésiode (v. 820-885): la stabilisation du monde, “REG”, CV, 1992, pp. 349-370. 42 I. Chirassi Colombo, La religione in Grecia, Roma-Bari 1994, pp. 40-41.
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assetto teogonico che ha lasciato dietro di sé la fase iniziale43. L’anomalia di questa unione tra entità primordiali segna un rischioso momento di regresso rispetto alle unioni tra gli dèi olimpici e determina la nascita di un essere che rientra nella tipologia dell’escluso. L’epiteto pelw@rh44 che designa Gaia ha un’accezione negativa perché non è riferito alla sua ininterrotta capacità generativa, ma piuttosto alla sua prodigiosa capacità destabilizzante attraverso la procreazione. L’epiteto è trasmesso geneticamente da Gaia a Tifeo pelw@rov45, il figlio mostruoso che ha la capacità di interferire con il regno di Zeus ribaltando anche l’ordinamento attuale che Gaia ha fissato. Infatti, la prima dèa generatrice ha conservato immutato il suo ruolo cosmogonico anche quando, in seguito al differenziarsi delle stirpi divine, si sono definiti poteri e competenze46: E quel giorno si sarebbe compiuto un evento tremendo e costui (Tifeo) sarebbe divenuto signore dei mortali e degli immortali se di ciò non si fosse subito accorto il padre degli uomini e dèi: tuonò forte e terribile, e attorno la terra tremendamente suonò, e il cielo ampio di sopra e il mare e i flutti d’Oceano e il Tartaro della terra. Lo scontro tra Zeus e Tifeo si compie mediante straordinarie armi atmosferiche: armi di fuoco (kau^ma) di Tifeo bronth@, stero@ph, pu^r, prhsth@rev aònemoi, kerauno@v, e armi ciclopiche di Zeus bronth@, stero@ph, kerauno@v47: tuonò forte e terribile, e attorno alla terra tremendamente suonò, e il cielo ampio di sopra e il mare e i flutti d’Oceano e il Tartaro della terra. E tremò il grande Olimpo sotto i piedi immortali del signore che si levava alla guerra; la terra gemeva. Da una parte e dall’altra avvolgeva il mare viola la vampa del tuono e del lampo e del fuoco del mostro, dei venti infuocati e del fulmine ardente; bolliva la terra tutta, e il cielo e il mare. 43 44 45 46 47
P. Philippson, Origini e forme del mito greco, tr. it., Torino 1983, pp. 31-68. Hes., Th. 159, 173, 479, 505, 731, 821, 858, 861. Hes., Th. 845, 856. Hes., Th. 836-841. Hes., Th. 839-846.
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Le conseguenze di questo pericoloso scontro tra il dio olimpico e il dio antiolimpico rientrano nel campo dell’eccedente. La folgore di Zeus produce un tremito e un riscaldamento cosmico che si irradia fino ai recessi estremi del Tartaro; rende infuocata anche l’umida forza dei venti e provoca un disordine cosmico: terra, mare e cielo ribollono, trema l’Olimpo, geme la terra, e tremano anche Ade e i Titani48. L’azione folgoratrice di Zeus determina la paralisi delle membra di Tifone e il corpo del mostro è gettato nei recessi estremi del Tartaro che l’ha generato. Dal corpo ferito, reso inattivo, fuoriescono venti di tempesta, impetuosi e imprevedibili che, contrariamente a quei venti regolari generati da Eos e Astreo, si abbattono come bufere da ogni parte producendo il disordine totale49: Da Typheo viene l’umida forza dei venti spiranti, all’infuori di Noto, Borea e Zefiro splendente: questi da dèi traggono l’origine, per gli uomini grande vantaggio. I venti tempestosi non hanno un’origine divina olimpica, né provenienza luminosa, né sono in rapporto con gli astri luminosi, al contrario, essi interagiscono con l’oscurità tartarica come gli aònemoi calepoi@ omerici provenienti dalla notte50. I venti tifonici si presentano essenzialmente come venti antagonisti dell’uomo in quanto spirando con raffiche violente condizionano le attività umane legate alla sopravvivenza51: Gli altri venti senza vantaggio soffian sul mare: alcuni abbattendosi sul mare caliginoso, gran danno per gli uomini, infuriano con cattiva tempesta; di qua e di là vanno soffiando e disperdon le navi e uccidono i naviganti; a questo male non esiste difesa per gli uomini che si imbattono in quelli sul mare; 48
In Hes., Th. 706 gli aònemoi sono associati a Zeus. Hes., Th. 869-871. 50 Hom., Od. XII 286. Anche la tempesta di venti è definita kelainh@ (Hom., Il. XI 747) o eèremnh@ (Hom., Il. XII 375; XX 51). Nella tradizione più tarda i venti provengono dal ca@sma pela@geov (Herod., IV 85), dall’eòrebov uçfalon (Soph. Antig. 589) o da bo@©roi (Schol. in Ap. Rhod., I 826 Wendel). 51 Hes., Th. 872-880. 49
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altri poi sulla terra infinita, fiorente, distruggono le amate fatiche degli uomini nati dalla terra, tutto riempiendo di polvere e di dannoso tumulto. Anche gli epiteti che qualificano questi venti li definiscono come entità negative che agiscono nel mondo degli uomini come forza pericolosa per il navigante e dannosa per l’agricoltore. La sconfitta di Tifone52 pone fine alle lotte per la sovranità e dà inizio all’ordine politico di Zeus. Dopo i conflitti per la successione divina e la selvaggia e violenta lotta dei Cronidi contro i Titani, figli di Urano, la nascita di Tifone rappresenta l’ultimo pericolo per l’ordinamento olimpico, non soltanto di regresso alla fase primordiale degli elementi naturali, ma anche di dissoluzione del regno olimpico. L’aspetto fisico del mostro, la sua incontrollabilità, contrapposta all’ordine e alla regolarità del cosmo di Zeus, sono espressione del pericolo, sempre in agguato, del primordiale caotico e anomico. La lotta e la sconfitta di Tifone indicano la definitiva sottomissione delle forze naturali, originarie e incontrollabili, il cui ripristino rappresenterebbe l’esatta inversione del gesto di Zeus che, detronizzando Crono, ha scandito, nell’immaginario greco, il passaggio dal Caos al kosmos organizzato e attuale. Se la sconfitta di Tifone e la sua definitiva relegazione nel Tartaro accanto ai Titani elimina l’ultimo pericolo per la regalità di Zeus (solo dopo la sconfitta di Tifeo egli ripartisce gli onori e le competenze fra gli altri Olimpi)53, non altrettanto avviene per i venti irregolari che provengono dal mostro terrigeno, la cui violenza atmosferica sfugge al controllo di Zeus. Tifeo, escluso dal mondo olimpico contro il quale è inerme, non è, però, escluso dalla sfera umana dove continua ad agire attraverso aònemoi e qu@ellai 52
Il tema del dolos caratterizza le altre tradizioni relative a Tifeo. Secondo Epimenide, 3 B 8 D.-K. (= 53 F Bernabé), Tifeo approfittando del sonno di Zeus si introduce nella reggia e, dopo essersi impadronito delle porte, è folgorato dal dio. Sul frammento epimenideo, cfr. A. Bernabé, Poetae Epici Graeci. Testimonia et fragmenta, II 3, Berolini et Novi Eboraci 2007, pp. 158-159. Soltanto Apollodoro (I 6, 3) accenna a una momentanea sconfitta di Zeus. Cfr. M. Detienne–J.-P. Vernant, Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, tr. it., Roma-Bari 1984, pp. 41-76. Cfr. A. Bernabé, La Teogonia di Epimenide, in Epimenide cretese, Napoli 2001, pp. 195-216; A. Mele, Il corpus epimenideo, in Epimenide cretese, Napoli 2001, pp. 228-278. 53 Per la discussione relativa all’interpolazione della Tifonomachia rinvio al commento e all’appendice di G. Arrighetti, Esiodo. Opere, Torino 1998, pp. 366-368.
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provenienti dal suo corpo, terribile minaccia per gli uomini. Contrariamente ai venti olimpici che sono denominati, gli anemoi provenienti da Tifeo non hanno né direzione né nome; sono venti del disordine e della distruzione come si ricava dalla significativa correlazione aòllote/aòllai54 che conferma la tipologia di soffio ibrido aòllote dˆaòllai aòeisi e presenta una singolare analogia con le voci fwnai@ articolate e alternate di Tifeo e con le modalità di azione delle qu@ellai nell’oscuro Tartaro eònqa kai# eònqa fe@roi pro# qu@ella que@llhv aèrgale@h55. Il Tartaro esiodeo, contrariamente al Tartaro omerico, dimora dei Titani spodestati, collocata nell’estrema lontananza, fuori dal mondo, dove non giunge il sole, né il soffio dei venti56: agli ultimi limiti della terra e del mare, dove Giapeto e Crono siedono senza godere dei raggi del Sole Iperione e neppure dei venti, ma tutto intorno è Tartaro fondo. è caratterizzato da raffiche violente qu@ellai57, analoghe ai venti provenienti da Tifeo, che agiscono sul mondo dei mortali, senza interferire con il mondo degli dèi. Le qu@ellai che interagiscono con la sfera umana provengono dal cadavere di Tifeo, ma non sono manifestazioni di un’attività del Tartaro sulla terra. Le tempeste che soffiano all’interno del Tartaro come forze trascinanti sono funzionali alla tipologia di vita anomala di coloro che vi sono destinati, ma non agiscono mai in territori esterni al Tartaro58. La vittoria di Tifone59, la cui natura disordinata è affine al baratro caotico e oscuro del Tartaro60, avrebbe avuto come conseguenza negativa per uomini e dèi il ritorno al disordine e alla confusione simile allo spazio non orientato che si identifica con il Tartaro, privo di direzioni verso l’alto e il basso, verso destra e verso sinistra61. Per volontà di Zeus l’ingresso del Tartaro è sigillato 54 55 56 57 58 59 60 61
Hes., Th. 875. Hes., Th. 742. Hom., Il. VIII 478-481. Hes., Th. 742. F. Blaise, op. cit., pp. 369-370. M. L. West, Hesiod, Theogony, p. 386. Sull’oscurità che caratterizza il Tartaro come luogo marginale cfr. A. Ballabriga, op. cit. Hes., Th. 732-733.
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da una porta di bronzo, sostenuta da radici che sprofondano senza limiti, opera di Poseidone per impedire ai Titani sconfitti di uscire dalla loro dimora definitiva62. Altre tradizioni, pur inquadrando Tifeo come antagonista di Zeus, lo collegano a Crono e a Era. Nell’Inno omerico ad Apollo63, il flagello dei mortali, è figlio di Era, nato per partenogenesi con l’aiuto di divinità preolimpiche (Gaia, Urano, Tartaro e Crono). Secondo una tradizione più tarda, Gaia, dopo la sconfitta dei Giganti da parte di Zeus, sollecita la vendetta di Era mediante il ricorso a Crono. Il dio, attraverso due uova spalmate col proprio seme e sotterrate nel grembo di Gaia, dà origine al mostro in grado di spodestare Zeus64. La tradizione antica, pur con significative varianti nella genealogia del dio, attribuisce sempre a Tifone il carattere di marginalità e di esclusione dal cosmo olimpico65, anche quando la sua nascita è ambientata nell’antro Coricio66. L’antro è infatti, nell’ideologia antica, il luogo cui sono destinate tutte le figure marginali67, quali Echidna68, le Arpie69, Calipso70. Nel pensiero arcaico la figura di Tifone è presentata prevalentemente come potenza primordiale che, nonostante sia sconfitta da Zeus e collocata nel Tartaro, è sempre in agguato come gli anemoi, associati a Tifeo e provenienti dal suo corpo mostruoso. La tradizione successiva a Esiodo non fa riferimento a questa provenienza, ma la definizione di Tifone come flagello dei mortali e la sua destinazione sotterranea nei recessi dell’Etna o di Cuma suggeriscono il persistere dell’identificazione di Tifeo con fenomeni naturali dannosi71.
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Hes., Th., 730-733. Al riguardo cfr. G. Arrighetti, Esiodo. Opere, p. 193, sostiene che alla mentalità esiodea non appartiene una localizzazione verso il basso di Tartaro, né orizzontale, ma verso l’estremo orizzonte. G. Cerri, Cosmologia dell’Ade in Omero Esiodo e Parmenide, “PdP”, L, 1995, pp. 438-467 verticalizza la collocazione dell’Ade e del Tartaro e distingue le sedi. 63 Hymn. Hom. ad Ap. 305-310. 64 Schol. B in Hom. Il. II 783 a Erbse. 65 Apoll., I 6, 3. 66 Pind., Pyth. I 25-29. 67 Cfr. R. Buxton, La Grecia dell’immaginario. I contesti della mitologia, tr. it., Firenze 1997, pp. 118-128. 68 Hes., Th. 301-302. 69 Ap. Rhod., II 298-299. 70 Hom., Od. V 57-58. 71 Pind., Pyth. I 11-30; Ol. IV 7-25; Apoll. I 6, 3.
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4. La voce dei venti come voce del cosmo Una ricerca linguistica e semantica permette di definire la natura dei suoni emessi dalle raffiche dei venti e di fissarne la voce. Gli epiteti e i verbi che designano gli anemoi appartengono a un campo semantico fortemente legato ai rumori conseguenti all’apparizione del vento ed esprimono diversi livelli di gradualità fonica. Il suono, nella sua essenzialità fisica, agisce in vario modo producendo sensazioni diversificate ed evocando una polimorfia di immagini72. L’emissione di suoni da parte dei venti, analoga quasi ad una voce articolata (phoné )73, priva di spazio e di tempo, invisibile ma presente, assume tratti specifici e significativi e si manifesta con modalità diverse in relazione ai contesti narrativi ai quali è sempre funzionalmente connessa. In Omero non è mai attribuita ai venti una caratteristica fonica specifica. La qualità acustica e fisica del rumore prodotto dal soffiare del vento è recuperabile dagli epiteti che accompagnano sia anemos sia i venti denominati, Borea, Euro, Noto e Zefiro e dai verbi che ne designano l’azione. I termini fwnh@ e fqo@ggov che designano la voce nel lessico greco non sono adoperati per il vento ma sono associati a Tifeo, il mostro glossolalico da cui, secondo la Teogonia esiodea, provengono gli aònemoi kakoi@. Il termine omerico che designa il sibilo sovraumano del vento ièwh@74, “frammento di vocalità extralinguistica”75, esprime la gradualità sonora tendente verso l’alto76 ed è adattabile ai vari livelli di emissione fonica. In Omero il termine ha un uso estensivo, oscillante tra sfera umana e sfera naturale, ed esprime ora il tintinnio solitario della cetra di Achille77, ora l’urlo penetrante di Nestore78, ora 72
Sull’antropologia dei suoni rinvio all’interessante analisi di G. M. Rispoli, Dal suono all’immagine. Poetiche della voce ed estetica dell’eufonia, Pisa-Roma 1995, pp. 162-181. Cfr. anche M. Bettini, Voci. Antropologia sonora del mondo antico, Torino 2008. 73 Arist., Hist. an. IV 7 535 a 28 distingue tra suono, voce, linguaggio. 74 Hom., Il. IV 276; XI 308. 75 Riporto la definizione di I. Chirassi Colombo, I linguaggi speciali degli dèi e la lingua di dio, in Le lingue speciali, Atti del Convegno di Macerata, 1994, Roma 1998, p. 100. 76 Il sostantivo di etimologia incerta, esprime, a livello semantico, un’emissione fonica di tono elevato. Cfr. P. Boisacq, op. cit., s.v. iw è h@ “cri” ou “son qui résonne”. Cfr. anche P. Chantraine, DELG s.v. iw è h@. In LSJ, s.v. ièwh@ si legge: any loud sound, or cry. 77 Hom., Od. XVII 261. 78 Hom., Il. X 139.
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il crepitìo del fuoco spietato79. Quando ièwh@ definisce il grido dell’aònemov, esprime, metonimicamente, mediante l’elevata intensità sonora, l’azione fisica prodotta dallo spirare del soffio sulle altre entità fisiche. Sotto l’urlo di Zefiro scorrono le nubi80 e si solleva vorticosamente l’onda del mare81. In Esiodo invece il termine ièwh@ designa il rimbombo prodotto dall’incedere dei piedi dei Titani82 e, a livello semantico, consente di definire il sibilo degli aònemoi come urlo atmosferico. Lo stridore eccessivo dello spirare dei venti è espresso, invece, dal verbo kla@zein83 che in greco, a livello semantico, designa una tipologia vasta di rumori marginali verso l’alto e verso il basso, tra la sfera divina e quella animale. Il verbo indica il rumore impercettibile delle frecce di Apollo84, il grido notturno dell’airone divino85, il gracchiare rovinoso delle cornacchie86, l’urlo dell’aquila di Zeus ferita87, la voce invernale delle gru esiodee88, il vociare stridulo, smodato e incontenibile di Tersite89 e il rimbombo acustico dell’urlo emesso da Zefiro90. Gli altri verbi utilizzati per definire il suono dei venti hanno un uso più limitato e ricorrono in contesti specifici. ˆHpu@ein esprime suoni appartenenti a fonazioni anomale e ambigue che scandiscono il ripetersi monotono di azioni e gesti: il suono ambiguo e invadente della cetra che accompagna il banchetto perenne dei Proci91, il grido che scandisce il ritmo anomalo di lavoro dei pastori Lestrigoni92, il sibilo stridente del vento contro le querce93. ˆEpibre@mein designa invece la sonorità intesa come onomatopea naturale e ricorre una sola volta nei poemi omerici per esprimere il rumore cupo e prolungato dell’ivò aène@mou che, muggendo, 79 80 81 82 83 84 85 86 87 88 89 90 91 92 93
Hom., Il. XVI 127. Hom., Il. IV 275-276. Hom., Il. XI 307-308. Hes., Th. 681-682. Hom., Od. XII 408. Hom., Il. I 46. Hom., Il. X 276. Hom., Il. XVII 757. Hom., Il. XII 207. Hes., Op. 448-449. Hom., Il. II 222; XVII 88. Hom., Od. XII 408. Hom., Od. XVII 271. Hom., Od. X 83. Hom., Il. XIV 398-399.
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agisce sul fuoco con un’eccezionale e ambigua direzionalità in uno spazio ben definito94. Al contrario, klonei^n, appartenente anch’esso al lessico greco dei suoni, indica il rombare del vento, ma non esprime l’estensione temporale dell’azione del vento, quanto piuttosto, mediante la sonorità cupa, esalta l’intensità e la violenza dell’azione del soffio. Il vento “rombando” fa turbinare la fiamma95, mentre Borea e Zefiro spingono avanti le nuvole96. Allo stesso modo, in altri contesti in cui non figurano le entità naturali, il verbo è adoperato per esprimere la potenza fisica: designa infatti l’azione di Diomede contro le falangi troiane97, di Achille contro Ettore98, delle bestie feroci contro le mandrie99. Come i verbi, anche gli epiteti che qualificano i venti rinviano a una sonorità eccedente. Keladeino@v, epiteto di Zefiro100, conferendo all’elemento naturale una risonanza fonica intensa e prolungata, definisce l’attività del soffio al confine tra natura e sovrannatura. L’epiteto infatti qualifica la voce selvaggia della dèa Artemide durante le danze o nelle attività belliche, invertendo il piano divino e quello naturale101. L’hapax bu@kthv102, che designa i venti racchiusi da Eolo nell’otre e donati a Odisseo103, non si discosta essenzialmente dal campo semantico degli altri epiteti che qualificano il vento ed esprimono nella voce di tono elevato la loro capacità dannosa. Si tratta dunque di venti urlanti che, lasciati incustoditi, determinerebbero bufere di mare. Al contrario, gli epiteti ligu@v e liguro@v rinviano a una sonorità ambigua per l’uso in contesti molto diversi. L’aggettivo ligu@v esprime la flessibilità acustica del linguaggio umano, dall’arguzia dialettica dell’oratore104 94
Hom., Il. XVII 739. Hom., Il. XX 492. 96 Hom., Il. XXIII 213. 97 Hom., Il. V 93-96. 98 Hom., Il. XX 188. 99 Hom., Il. XV 323-325. 100 Hom., Il. XXIII 208. 101 Hom., Il. XVI 183, XX 70; XXI 511. 102 Benché l’etimologia resti incerta, il rapporto con la qualità fisica e acustica del soffio di vento è generalmente ammesso. Cfr. P. Boisacq, op. cit., s.v. bu@kthv. e P. Chantraine, DELG, s.v. bu@kthv. 103 Hom., Od. X 20. 104 Hom., Il. I 248; II 246; XIX 82. 95
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alla sonorità del discorso di Menelao105, all’acutezza del pianto di Achille106, alla voce funebre e commovente delle Muse107, all’armonia della cetra108, alla sonorità dei soffi di vento109. Associato a entità naturali, lo slittamento semantico dell’aggettivo ligu@v rinvia a distinti tipi di sonorità del vento, funzionali ai contesti ma con prevalenza dell’eccesso suadente del suono. Il ligu#v aònemov110, nella sua essenzialità sonora, non umana, indica la rapidità dei venti, lo stridio pericoloso causa di violente tempeste111, il vento teso, favorevole alla navigazione112. L’epiteto liguro@v, quasi equivalente a ligu@v, designa diversi gradi di sonorità particolarmente penetranti: l’acuta vibrazione della frusta113, il canto perforante dell’uccello114, il rumore stridente dei venti che con violenza disperdono le nubi115, il soffio sonoro che fa rimbalzare ceci e fave116, l’anomala sonorità del soffio di vento117. L’epiteto evoca anche l’esperienza ingannevole delle Sirene118 alle quali Omero associa l’utilizzazione di tutti i tipi di “voci”, accomunando la voce del vento al canto delle Sirene con un singolare rovesciamento semantico dalla rapacità attiva che caratterizza la raffica di vento alla seduzione passiva della voce ambigua delle Sirene119. L’aggettivo liguro@v fa scivolare l’ambigua sonorità del canto verso la seduzione (qe@lgein) persuasiva. A Delfi120, centro della comunicazione tra umano e divino, le Sirene simili a khlhdo@nev, riprodotte sul frontone del tempio di Apollo, continuano ad ammaliare con il loro canto gli uomini, e gli dèi sono costretti 105 106 107 108 109 110 111 112 113 114 115 116 117 118 119 120
Hom., Il. III 214. Hom., Il. XIX 5. Hom., Od. XXIV 62. Hom., Il. IX 186; XVIII 569. Hom., Il. XXIII 218. Hom., Il. XIV 17. Hom., Il. XIII 334. Hom., Od. III 176. Hom., Il. XI 532. Hom., Il. XIV 290. Hom., Il. V 526. Hom., Il. XIII 590. Hom., Il. XXIII 215. Hom., Od. XII 44. Cfr. al riguardo G. Scalera McClintock, op. cit., p. 29. Paus., X 5.12.
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a distruggere il tempio. La sonorità suadente che caratterizza la voce delle Sirene è analoga a quella sovrumana dei venti e degli dèi, come si ricava dal carattere sapienziale di queste figure che “conoscono quello che accade sulla terra ferace”121, in un’isola senza nome, nella distesa inesplorata dell’Oceano. La loro voce ammaliante è un richiamo al godimento e all’accrescimento sapienziale ma comporta il distacco dalla vita e l’isolamento sul prato122 della putrefazione umana. La voce delle Sirene, piena di fascino e di seduzione, allontana le vittime da quella immortalità eroica, cantata dalle Muse, destinandole alla irreversibile decomposizione. Solo Odisseo sperimenta il pericolo grazie all’espediente di Circe che ne impedisce il coinvolgimento. I termini usati da Omero in successione per definire il canto delle Sirene sono spia dell’ambiguità di questa voce sonora. Nelle parole di Circe il canto fqo@ggov delle Sirene disgrega i vincoli familiari perché incanta (qe@lgei) gli uomini. Per ascoltare questa voce è necessario scindere la sfera dei sensi dalla sfera corporea: per non essere imprigionato dal canto dolce ma insidioso delle Sirene Odisseo deve imprigionare il proprio corpo. Quando l’eroe riferisce ai compagni il pericolo delle Sirene e del fascino ambiguo della loro voce usa il termine fqo@ggov, che rafforza nella disarticolazione fisica della voce l’idea del rischio. Il termine designa infatti un suono confuso perché recepito come disarticolato e caratterizzato da una pluralità di voci non armoniose, voci di frontiera tra visibile e invisibile, distinte dalle voci umane attraverso l’alternanza di fwnh@ e fqo@ggov. Fwnh@ infatti designa la capacità fisiologica di fonazione123 ed ha un uso estensivo in quanto indica la voce della natura, il suono animale, la voce umana, il suono di strumenti musicali, ma anche il suono emesso da mostri ibridiformi. È la voce instancabile di Agamennone e di Calcante124,
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Hom., Od. XII 191. Nella topografia omerica il prato è uno spazio insicuro, scenario di seduzione ingannevole o violenta, ha un fascino ambiguo proprio come il canto delle Sirene. Sul prato Zeus seduce in modo ingannevole Era (Hom., Il. XIV 347) e Persefone è rapita violentemente da Ade (Hymn. Hom. ad Cer. 1-19). 123 Al riguardo cfr. lo studio di S. Crippa, La voce e la visione. Il linguaggio oracolare femminile nella letteratura antica, in Sibille e linguaggi oracolari. Mito storia tradizione, Atti del Convegno internazionale di studi. Macerata-Norcia, 1994, Pisa-Roma 1998, pp. 159-189. 124 Hom., Il. II 490; XIII 45. 122
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la voce accorata di Priamo125, la potente voce di Atena126, la voce armoniosa dell’usignolo127. Il termine esprime anche la potenza del grido di voci sovrapposte simili a stridore di vento128, la variazione sonora del residuo vocale nei compagni di Odisseo metamorfizzati in porci129, il lamento immortale delle vacche sacre di Elio dopo l’immolazione130, il latrato di Scilla131. A differenza di phone, phthoggos è la sovrapposizione di più phonai che produce un suono indistinto e pericoloso ed ha una particolare qualità fisica ed acustica132, comprensibile solo agli dèi133. Si tratta dunque di un suono differente dalla voce umana: è la voce strategica di Iris134 o la voce seducente delle Sirene135. Lo stesso termine, associato alla voce umana esprime una tonalità più alta: è la voce acuta dei compagni di Odisseo alla vista di Circe136 e di Cariddi137, la voce ferina del Ciclope138, la voce di Penelope139, la voce degli eroi greci in battaglia140, la voce con cui Nestore sveglia Odisseo141. Phthoggos indica il suono disarticolato per la sovrapposizione di più voci; nel caso di Tifeo, il mostro emette da cento teste di serpente, dotate di cento lingue nere, fwnai@ differenti. Nella descrizione delle molteplici voci, Esiodo opera scelte semantiche precise: la singola voce di ogni animale è phone; l’elevato grido indistinto di più phonai è phthoggos, suono ibrido, comprensibile solo agli dèi. L’alternanza sembra scandita chiaramente dalla cor-
125
Hom., Il. III 161. Hom., Il. XVII 555. 127 Hom., Od. XIX 521. 128 Hom., Il. XIV 400. 129 Hom., Od. X 239. 130 Hom., Od. XII 396. 131 Hom., Od. XII 86. 132 Hom., Od. IX 257. 133 Hes., Th. 831. 134 Hom., Il. II 791; XXIV 170. 135 Hom., Od. XII 198. 136 Hom., Od. X 228. 137 Hom., Od. XII 249. 138 Hom., Od. IX 257. 139 Hom., Od. XVIII 199. 140 Hom., Il. X 67; XI 603. 141 Solo il bisbigliare sommesso di Eumeo a Odisseo contraddice la lunga sequenza di esempi in cui il termine esprime il tono della voce elevato perché concitato (Hom., Od. X 139). 126
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relazione aòllote me#n/aòllote dˆauùte. Lo phthoggos di Tifeo142 è il risultato della sovrapposizione di varie voci animali, di toro, di leone, di cane, ed è associato alla voce verbale réoize@w143 che significativamente la tradizione più tarda attribuisce ai rettili. La pluralità di voci di Tifeo è riassorbita in una voce primordiale, preumana in cui si fonde l’eco delle specifiche sonorità animali che la compongono. All’ibridismo polimorfo di Tifeo corrisponde la polifonia ibrida, dissonante, eterogenea delle distinte voci provenienti da un corpo disarticolato ma unitario. I venti provenienti da Tifeo, probabile manifestazione meteorologica delle voci multiple e violente del mostro, presentano le stesse caratteristiche del loro sinistro suono144. “Le entità extraumane possiedono la conoscenza della lingua elementare del cosmo, del suo sound che è un ultimo linguaggio, il linguaggio dell’universo che gli uomini tentano di decifrare”145. Come la voce serpentina del corpo mostruoso di Tifeo è il suono o uno dei suoni base del mondo, anche la voce senza corpo degli anemoi emette specifici rumori cosmici. Le risonanze profonde di grido, sibilo, soffio, fischio, muggito esprimono i movimenti atmosferici nel cosmo e le modalità eccezionali dell’intervento del vento nella sfera umana. Un’analoga sonorità riconduce le voces dei fenomeni atmosferici a quelle dei viventi in una medesima categoria in cui i molteplici e differenti suoni sembrano uniti a formare un unico linguaggio dai diversi risvolti fonologici. I suoni cosmici, nelle loro eccedenze, rinviano a una sovrapposizione indistinta tra umano e divino. Allo stesso modo gli anemoi, capaci di varcare la barriera tra la vita e la morte e di superare la distinzione tra mortali e dèi, si collocano nell’immaginario mitico antico alla frontiera tra mondo reale e mondo irreale.
142
Hes., Th. 826-831. Hes., Th. 835. È interessante l’utilizzazione, in età più tarda, del verbo réoize@w per esprimere i rumori e la lingua del cosmo, cfr. I. Chirassi Colombo, op. cit., pp. 83-103. 144 Hes., Th. 874. 145 I. Chirassi Colombo, op. cit., p. 98. 143
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