Dalai Lama - La Compassione e La Purezza

April 13, 2017 | Author: aryavraam | Category: N/A
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I CLASSICI DELLO SPIRITO... IL DALAI LAMA: LA COMPASSIONE E LA PUREZZA... CONVERSAZIONI CON JEAN-CLAUDE CARRIERE. TRADUZIONE DI LAURA DELEIDI FRATELLI FABBRI EDITORI LA COMPASSIONE E LA PUREZZA PREMESSA Queste conversazioni si sono svolte nel febbraio 1994 a McLeod Ganj, vicino a Dharamsala, nel nord dell'India, e più precisamente nel monastero di Thekchen Choeling, dove risiede il Dalai Lama. Essendovi arrivato il 10 febbraio, ho potuto assistere alle feste dell'anno nuovo tibetano, che inizia l'11 febbraio verso le cinque del mattino. Sono rimasto due settimane a McLeod Ganj. L'idea del libro, così come l'organizzazione del viaggio, è di Laurent Laffont. Avevo incontrato il Dalai Lama in due riprese, brevemente, nel corso dei suoi due ultimi viaggi in Francia. Mi misi da principio in contatto con i responsabili dell'Ufficio del Tibet a Parigi, e grazie a loro tutto si svolse facilmente. Quando ripenso a questo viaggio, a parte il lavoro di preparazione c he mi fu evidentemente necessario, e che durò mesi, conservo il ricordo di giornat e molto piacevoli. In particolare l'atmosfera del monastero mi parve al tempo st esso seria e sorridente, senza affanno né tensione. Prima del viaggio, su richiesta del Dalai Lama, gli scrissi diverse lettere in c ui precisavo i temi che desideravo affrontare, tutti concernenti, come si può imma ginare, il possibile ruolo del buddhismo nel mondo d'oggi e l'attrazione sempre più forte che esercita. Volevamo parlare del buddhismo nei suoi rapporti con la v ita di ogni giorno, con la politica, con le altre religioni o tradizioni, ponendo particolare attenzione alla violenz a, all'ambiente e all'educazione. Mi accorsi ben presto e d'altra parte la dot trina afferma che nulla può essere separato da tutto il resto che ogni nostra pa rola era compresa in una trama di relazioni che si estendeva all'infinito. Impos sibile isolare questo o quel soggetto dall'insieme dell'atteggiamento buddhista. A dire il vero dovevo parlare di tutto, evitando di entrare nei complessi dettag li della dottrina, della mitologia, del rituale. Poiché non disponevamo di molto tempo (d'altra parte basterebbe una vita?), propos i al Dalai Lama fin dal nostro primo incontro, ben sapendo che egli è uno degli uo mini al mondo più impegnati, di non interrogarlo su quei punti della dottrina o d ella pratica da lui già sviluppati in numerose opere, e di fare, all'occorrenza, q ualche riferimento a quei libri. Accettò subito e questo ci consentì di procedere più speditamente. A settembre, ci rivedemmo una volta a Parigi, per precisare alcuni punti. Fu immediatamente chiaro che il problema principale sarebbe stato quello del liv ello di lettura. A chi ci saremmo rivolti? Poiché entrambi non volevamo interessar e solo specialisti (ciò che io non sono assolutamente) ma rivolgerci con questo li bro al grande pubblico, ritenni indispensabile fare delle pause nel nostro dialo go. Bisogna dire che il mio interlocutore conosceva in modo ammirevole gli insegname nti cui faceva riferimento, io non ne avevo che qualche vaga nozione e la maggio ranza dei nostri lettori rischiava o di ignorarli, o di comprenderli in modo sup erficiale, cioè falso.

Presi dunque la decisione, in accordo col Dalai Lama, di interrompere le nostre conversazioni ogni volta che io lo ritenessi necessario per precisare questo o quel punto; cosa che feci con l'aiuto delle opere che cito a fine volume, fermo restando che l'insiem e del libro è stato rivisto dal Dalai Lama e dai suoi collaboratori. A tale proposito, sono particolarmente grato ai responsabili dell'Ufficio del Ti bet di Parigi, Dawa Thondup e Wangpo Bashi. A McLeod Ganj, in più incontri con il Dalai Lama, ho potuto precisare alcuni punti con il suo assistente e interprete Lhakdor e con Kelsang Gyaltsen, entrambi molto gentili e competenti. Voglio rin graziare Nahal Tajadod, sinologo e specialista di storia delle religioni dell'As ia centrale, per la sua preziosa assistenza. I nostri incontri si sono svolti nella sala delle udienze di Thekchen Choeling. Duravano ogni volta circa tre ore. Parlavamo in inglese, ma sovente il Dalai Lam a passava bruscamente al tibetano, e domandava allora a Lhakdor di tradurmi quan to aveva detto. Registravo tutto ciò che dicevamo e alla sera trascrivevo la conve rsazione della giornata. A Parigi, nei mesi seguenti il mio ritorno, ho scritto il libro. L'ordine genera le delle nostre discussioni è rispettato, anche se a volte ho ritenuto preferibile unire alcuni temi e articolare meglio domande e risposte. Trattandosi tuttavia di una conversazione, non ci si stupirà di vedervi ripetute talune frasi. Se mi è pa rso necessario conservare queste ripetizioni, è stato per non privare il libro di un certo disordine vivo, che disegna un cammino sinuoso, dapprima semplice, e ch e va a poco a poco ampliandosi in tutte le direzioni. Né lui né io desideravamo pubblicare un nuovo catechismo. Volevamo, al contrario, ce rcare di stabilire un vero dialogo, costantemente aperto e imprevisto, addentran doci in territori solitamente poco frequentati. Ho cercato di evitare sia il ris petto paralizzante sia l'inutile irriverenza. Se mi capita di prendere la parola molto frequentemente e a lungo, ciò avviene perché il mio interlocutore lo sollecit ava. Egli mi interrogava e fatto ben più raro mi ascoltava. Questo libro va preso quindi per ciò che è: una sorta di passeggiata a due, ordinata e disordinata a un tempo, molto attenta, con il migliore compagno possibile e n on per uno studio o un saggio. Lo ripeto, molti punti della dottrina sono appena sfiorati, l'estrema complessità speculativa del Mahayana vi è soltanto accennata. L 'essenziale mi è parso, a proposito di problemi umani che ci toccano oggi come ier i, e talvolta più acutamente di ieri, ascoltare una voce che parla con semplicità, appoggiandosi a ogni istante su più di venti secoli di riflessione e di esperienz a. J. C.C. Chi pone la domanda sbaglia, Chi risponde sbaglia. IL BUDDHA

1 IL MONDO IN CUI VIVIAMO Incomincio con la domanda che ci poniamo tutti (o quasi): "Siamo nel Kali Yuga?". Cioè: viviamo in un'epoca di distruzione? È persa ogni speranza? Il Kali Yuga, secon do la tradizione induista, è in effetti questa epoca nera, che ebbe inizio più di t remila anni fa, all'indomani della morte di Krishna. È la grande oscurità, la fine di ogni virtù, la scomparsa del dharma, cioè del corretto ordine del mondo, il trionfo dell'ambizione, della falsità, del commercio. Inutile opporsi: tutto deve scomparire. È così. Un ciclo si compie nella siccità, nelle cares tie, nelle battaglie, nella distruzione dei legami sociali. Come già è detto nel Mah abharata, ecco il tempo degli uomini senza forza, senza coraggio, spietati. La t erra, morta e calda, diviene allora preda del fuoco. Tutto si compie in una lent a apocalisse. Dopo di che il sonno di Vishnu avvolge il ritrovato nulla e il dio sogna le bellezze di questo mondo, perché non vengano dimenticate. Più tardi, molto più tardi, Brahma il creatore scaturirà dal suo ombelico e a un tratto avrà vita un altro mondo. Seduto accanto a me, colui che tutti qui chiamano Sua Santità, Tenzin Gyatso, il q uattordicesimo Dalai Lama, mi guarda e mi ascolta. È calmo e molto attento. Completo la mia domanda: "Tuttavia un'altra tradizione, credo buddhista, afferma esattamente il contrario . Noi viviamo senza saperlo un'epoca di virtù, di aiuto vicendevole, di miglio re osservanza delle Scritture, un periodo definito fortunato. Fra queste due tra dizioni, quale scegliere?". "Senza esitazione, la seconda." "Per quali motivi?" "Ne vedo almeno tre. Anzitutto mi sembra che il concetto di guerra si sia recent emente modificato. Nel XX secolo, fino agli anni Sessanta Settanta, pensavamo an cora che la decisione finale e indiscutibile dovesse venire da una guerra. Si tr atta di una legge antichissima: il vincitore ha ragione. La vittoria è il segno ch e Dio, o gli dèi, sono dalla sua parte. Di conseguenza, il vincitore impone la pro pria legge al vinto, sovente per mezzo di un trattato, che non si rivelerà che un pretesto di rivincita. Di qui l'importanza degli armamenti, e soprattutto degli armamenti nucleari, elemento centrale del Kali Yuga. Questa corsa alla bomba ha fatto pesare sulla terra una vera minaccia di annientamento." "Le sembra che questa minaccia vada scomparendo?" "Sì, ne sono convinto. La guerra fredda sembrerebbe cessata. Gli arsenali nucleari si riducono. Chi se ne potrebbe lamentare?" "Si contano attualmente, proprio nel momento in cui parliamo, più di cinquanta gu erre nel mondo." Ricordiamo quelle vicine a noi, in Afghanistan, nel Kashmir, gli scontri fra mus ulmani e induisti sul territorio indiano, e altre lotte di cui i giornali occide ntali non parlano quasi mai, la guerriglia del Manipur, o quella che oppone i la

voratori immigrati nepalesi alle forze del re del Bhutan. Gli parlo del turbamento profondo che guerre, "epurazioni" e bombardamenti a tap peto, nella ex Jugoslavia, hanno portato all'Europa esitante. In buona fede, ness uno oserebbe sostenere che si sia meno crudeli di un tempo. "Lo so bene" mi dice. "Queste guerre locali sono veramente crudeli. Ed evidentem ente nefaste. Ogni guerra, piccola o grande che sia, è negativa. Rivela ciò che di p eggio abbiamo, e non porta che a nuovi conflitti. Ma sotto la minaccia nucleare, nessun luogo è sicuro sulla faccia della terra. Perlomeno, le piccole guerre sono limitate. Qui, oggi, a Dharamsala, mi pare che si stia tranquilli." Sorride per un attimo e aggiunge: "È vero che molte di queste guerre sono sorte a causa dell'allontanamento della mi naccia nucleare". "Ha altri motivi di ottimismo?" "Sì. Ecco il secondo: credo, malgrado certe apparenze, che il concetto di ahimsa, d i non violenza, guadagni terreno. Al tempo del Mahatma Gandhi, uomo che venero, la non violenza passava più spesso per debolezza, per rifiuto di agire, quasi per vigliaccheria. Non è più così. La scelta della non violenza è oggi un atto positivo, ch e evoca una vera forza. Guardi il Sudafrica, e anche ciò che hanno fatto Arafat e Rabin. Per molti decenni, palestinesi e israeliani non hanno visto, proclamato, u sato che la forza. Le due parti sono giunte ora ai negoziati pacifici." "Non senza forti remore degli uni e degli altri. E si arriva fino all'assassinio . Fino al massacro tra la folla. Fino ai canti di sterminio che si insegnano ai bambini, di entrambe le parti: prendi il fucile e vai a uccidere l'altro." "Certo. Non occorre dirmi di quali orrori siamo capaci. Ma l'esempio dato dai pa lestinesi e dal governo ebraico è ugualmente un buon esempio, ben accolto nel resto del mondo [nota : Quando ci rivedemmo, in settembre, mettemmo l'accord o tra l'IRA e il governo inglese nella colonna delle "buone notizie", e il dramm a del Ruanda dall'altra parte.] . E ho un'altra sensazione. Credo che, grazie al la stampa, ai media, a tutto ciò che si chiama comunicazione, i gruppi religiosi s i incontrino più spesso, si conoscano meglio d'un tempo." "Questo non vale per certi paesi musulmani, che hanno, al contrario, la tendenza a chiudersi in se stessi, come se volessero cacciare ogni influenza dello strani ero, soprattutto se occidentale. In Algeria, gruppi di attivisti giungono a ucci dere chi è straniero. Azione assurda e sanguinosa, in contrasto con lo spirito del tempo. E che fa nascere altri gruppi, radicalmente opposti, che uccidono coloro c he sono sospettati di aver ucciso, e così via, senza sosta." "L'isolamento non è mai un bene per un paese. Ed è diventato impossibile. All'inizio del secolo, il Tibet aveva pochissimi contatti con altri popoli, con altre trad izioni, e la cosa fu molto dannosa. Il tempo lo lasciava indietro, e questo ci p rocurò un brusco risveglio. Quanto ai paesi musulmani, anche se taluni conservano e anzi rafforzano la loro chiusura, nell'insieme, se si guarda il mondo nel suo co mplesso, l'isolamento perde terreno. In una ventina di anni, ho visitato molti p aesi. Mi dicono ovunque: ci conosciamo meglio." Sotto la tollerante dinastia dei Tang, dal VII al X secolo, esisteva nel nord ov est della Cina, a Dunhuang, nella regione di Turfan, un centro di ricerche dove le religioni dell'Asia centrale, il taoismo, il buddhismo, il nestorianesimo, il manicheismo (queste ultime due giunte dall'Iran) si incontravano, si scambiavano t esti, si sforzavano di conoscersi meglio. "La regola" ricordo "era di sottolineare i punti comuni e di sorvolare sulle dif

ferenze." "Senza dubbio noi manchiamo di tali centri" afferma il Dalai Lama. "E sarebbe ott ima cosa crearne. Da parte mia, per quanto mi è possibile, incontro altri capi relig iosi, passeggiamo insieme, visitiamo questo o quel luogo sacro, qualunque sia la tradizione alla quale si collega, e là meditiamo insieme, condividiamo un attimo di silenzio. Io ne ricavo un grande senso di benessere." In marzo, qualche settimana dopo i nostri colloqui, si è recato in Israele, dove ha incontrato ebrei, musulmani, cristiani, drusi, anche bahai. Ha visitato le chie se cristiane, la moschea di Omar, il muro del pianto e altri luoghi. Ha anche pa rlato molto ma separatamente con palestinesi e israeliani, in favore della pa ce necessaria. Egli reputa che il fossato sia ancora profondo, ma sostiene tutta via di avere colto, da una parte e dall'altra, significative "vibrazioni". "Continuo a credere" dice "che sul piano religioso siamo in progresso rispetto al l'inizio di questo secolo." "Molti commentatori affermano il contrario. Si sente ovunque parlare, anche all' interno del cristianesimo e dell'induismo, dell'avanzata degli integralismi relig iosi." "È un'avanzata reale, e inquietante" mi dice. "Taluni vogliono scorgervi una reazio ne agli antichi terrori della fine del millennio." "O qualche segreta compensazione al crollo delle ideologie. Alcuni si domandano p er quale motivo le speranze ecumeniche degli anni Cinquanta sembrino avere ceduto il posto a una parcellizzazione crescente delle fedi. Ovunque le sette prolifer ano, le differenze si inaspriscono. L'anno scorso, un visionario americano ha pre ferito morire nel fuoco con i suoi adepti, piuttosto che consegnarsi alla polizia . " Aggiungo un esempio personale: "Mi trovavo nel dicembre 1993 a Bombay per assistere a una serie di conferenze te nute da specialisti francesi. Si parlava della storia dello zoroastrismo, un tem po religione dell'Iran, rappresentata oggi da circa ottantamila persone, abitant i per la maggior parte nel Maharashtra, in India". "Sì, i parsi. Li conosco." "Una delle conferenze verteva sulle influenze subite dallo zoroastrismo al tempo del suo esilio verso la Cina, dopo l'invasione dell'Iran da parte degli Arabi nel VII secolo. Una di queste influenze fu esercitata dal manicheismo, altra religio ne già bandita. Le due tradizioni, per adattarsi ai nuovi territori fortemente pene trati dal buddhismo, furono obbligati ad adottare un vocabolario e alcune nozion i buddhiste." "Accade sovente." "Si trattava di una analisi meramente linguistica, basata sulle iscrizioni di qu el tempo. Al termine della conferenza, si vide alzarsi un uomo corpulento, con l' aspetto di uomo d'affari, che dichiarò ad alta voce, in un inglese eccellente, che lo zoroastrismo non aveva potuto modificarsi né subire alcuna influenza, che comun que Ahura Mazdah era il solo vero dio e Zoroastro il solo profeta. Affermazioni unite a qualche considerazione razziale e politica, come ad esempio: noi siamo i soli veri Ariani. Ero stupefatto. Avevo appena scoperto, oggi, un fondamentalism o zoroastriano. Non sapevo come rispondere a quest'uomo." Il Dalai Lama si china leggermente verso di me e mi domanda:

"Che percentuale di parsi rappresentava?". "Da quello che mi hanno detto, circa l'otto per cento." "Ebbene, la risposta è novantadue per cento!" Ride per la prima volta: un riso diretto, spontaneo, che tornerà sovente. Si direbb e un'altra persona che lo abiti segretamente e che si manifesti all'improvviso. Poi aggiunge: "L'umanità è così. È sempre stata così. Non prendiamo in considerazione quest'uomo irritato . Lasciamolo in pace. E se la maggioranza dei parsi rifiuta di seguirlo, diciamo semplicemente: tanto meglio". "Il buddhismo è salvaguardato dall'integralismo?" "I principi stessi del buddhismo sono l'opposto del fondamentalismo. Sostengono al contrario che un grande flutto ci trasporta, che nulla è stabile per sempre. Ciò non impedisce che in questo momento, in Inghilterra, un lama di buona formazione si comporti come un vero capo di setta." "Un lama integralista?" "Ad ogni modo, proibisce tutte le mie opere, ogni contatto con me, ogni immagine del Dalai Lama. Mi accusa di questo e di quello. I suoi fedeli, qualche migliaio, hanno il permesso di leggere solo i suoi libri, di affiggere e venerare solo la sua fotografia. E così via. Ma cosa volete? È umano. Siamo tutti simili, e tutti div ersi. Se la differenza prevale, ciascuno può così scoprire il suo piccolo territorio di verità, e aggrapparvisi con tutte le sue forze." "Talvolta fino alla morte, la propria o quella degli altri." "Ma sì. Siamo così. A questo si aggiunge il gusto del potere, infaticabile corruttor e." Gli dico che conosciamo il medesimo fenomeno in altri ambiti, che la storia dell 'arte e dell'estetica ricorda la storia delle religioni: stessi proclami, esclusi oni, conventicole, visionari. "Ad esempio quando esce un film, o un libro, o un'opera teatrale, accade che si sappia in anticipo ciò che scriverà questo o quel critico. Inutile leggere il suo ar ticolo, sia esso favorevole od ostile. Questo articolo non dipende dall'opera in sé, ma dalla personalità di colui o di colei che l'ha scritto. E questo sovente a su a insaputa". Ripete ancora una volta, calmo: "Sì, l'umanità è così". "Mi pare che il buddhismo offra una via diversa, una forma particolare di toller anza. Può, più facilmente che altre tradizioni, adattarsi all'evoluzione dei tempi e dei costumi? Può anche porgere un aiuto a uomini e donne meno preparati di altri, meno colti, meno intelligenti?" Riflette a lungo prima di rispondere. Siamo comodamente seduti intorno a una grande tavola bassa, nella stanza luminosa dove riceve, ogni giorno, visitatori giunti da tutto il mondo. Di fronte a me,

una immagine del Buddha Sakyamuni, circondato da altre immagini e piccole statue , di cui alcune salvate dal Tibet, al tempo della drammatica partenza del 1959. Fra queste statuette, quella di Padmasambhava, il grande predicatore del Kashmir che fu il vero apostolo del buddhismo nel Tibet, nel VIII secolo della nostra er a. Al centro della stanza, una stufa. Fuori, attraverso le finestre, alberi e le cim e innevate delle prime catene dell'Himalaya. Sovente, grida di corvi. Il Dalai La ma è sempre in compagnia di due assistenti di cui uno, Lhakdor, svolge le funzioni di interprete quando il mio interlocutore passa all'improvviso dall'inglese al t ibetano. All'inizio di ogni incontro il Dalai Lama scioglie i lacci, leva le scarpe e si siede nella posizione del loto sulla sua poltrona. Indossa, come Lhakdor, la semp lice veste rossa dei monaci, dei bhiksu, che lascia scoperto il braccio destro. Dopo un'ora di conversazione, ogni giorno, un monaco sorridente ci serve il tè, su un vassoio. Più tardi, quando il Dalai Lama calza di nuovo le scarpe, è chiaro che la conversazione si avvia alla fine. Tutto è calmo e cordiale. Non si avverte alcuna tensione. In effetti, le guerre che scuo tono il mondo non hanno eco qui. "Nel buddhismo" mi dice "tutto è spesso una questione di livelli, di angolazione. O gni affermazione generale e definitiva ci sembra pericolosa, probabilmente falsa. Lei mi domanda: può il buddhismo, in questa fine del secolo, offrire un rifugio a tutti? Dipende dal vostro atteggiamento e dai vostri bisogni. In ogni caso, biso gna distinguere: fare parte della struttura, o esserne al di fuori." "Fare parte della struttura, significa appartenere a una comunità buddhista?" "Esattamente. Appartenere al sangha, accettare uno studio e una disciplina parti colari." "È possibile per tutti? E non soltanto in Asia?" "Ma certo. A differenza dell'induismo, il buddhismo ha sempre avuto vocazione di universalità. Si è opposto agli dei protettori di un solo popolo, dei il cui potere si arresterebbe a certe frontiere. Il buddhismo si rivolge a tutte le donne, a tu tti gli uomini, a tutti gli esseri, ma attenzione: non allo stesso livello, non a llo stesso modo. Coloro che desiderano aderire al sangha devono agire con grande prudenza. Si tratta di una decisione molto importante, che impegna una vita, e an che più vite. Non si rinuncia impunemente al proprio passato, alle proprie radici . Comunque noi non facciamo nulla per convertire. Non è il nostro fine." "La nozione stessa di missione apostolica, di queste vaste opere di conversione, condotte con risolutezza nel XIX secolo e ancora nel XX, sembra stia scomparendo. " "Non bisogna soprattutto dolersene." "È il secondo livello?" "Il secondo livello è accessibile a tutti. Lezioni e insegnamenti di ogni sorta po ssono essere tratti dal buddhismo senza che questo richieda un'adesione completa. Si può imparare in effet ti la tolleranza, senza la quale nessuna vita è sopportabile, e anche il cammino d ella pace dello spirito, indispensabile per ogni azione giusta. Questa pace dell o spirito è al centro delle nostre ricerche. Essa governa il nostro atteggiamento nei confronti del mondo di cui facciamo parte, nei confronti del nostro prossimo, e anche dei nostri nemici."

"Esistono delle tecniche per giungere a questo?" "Sì. La principale è la meditazione, che è al centro della nostra pratica, e fa parte d el nostro insegnamento." "Sappiamo tutti che un momento di riflessione tranquilla può aiutarci a risolvere un problema che sembrava senza soluzione. E questo vale per il lavoro di gruppo. Qualche minuto di silenzio comune porta più coesione che ore di agitazione. Ma ne lla preparazione di uno spettacolo, non ci si può accontentare di meditare. Bisogna passare alla recitazione, all'improvvisazione, all'espressione della vitalità." "È vero sempre." Aggiunge sorridendo: "Bisogna meditare e agire a un tempo! E tutti insieme! E anche mangiare! Tante c ose ci sono comuni! L'acqua, l'ossigeno!". Cessa di ridere e riflette un istante prima di riprendere: "Una delle cose che la meditazione ci insegna, quando scendiamo lentamente in no i stessi, è che il senso della pace esiste in noi. Ne abbiamo tutti il desiderio p rofondo anche se è sovente nascosto, mascherato, contrastato. I buddhisti credono c he la natura umana, se esaminata attentamente, sia buona, ben disposta, serviziev ole. E mi sembra, sempre per rispondere alla sua prima domanda, che oggi questo s pirito d'armonia si estenda, che il nostro desiderio di vivere insieme tranquilla mente sia sempre più forte, sempre più condiviso". "L'Occidente, in questa fine di secolo, constata, piuttosto, un fallimento. Una grande speranza era nata due o tre secoli fa, all'inizio di questa epoca che noi chiamiamo "moderna". Filosofi come Rousseau e altri proclamavano anch'essi la b ontà, l'innocenza della natura umana. E ne attribuivano la corruzione alla "società". Questa corruzione che i buddhisti chiamano "contaminazione"." "Per altri motivi." "Essi hanno creduto, e affermato, che mutando le condizioni della società per me zzo di riforme, di leggi, di rivoluzioni se necessarie avrebbero restituito all a natura umana le sue qualità originarie e avrebbero condotto gli uomini a una vit a migliore, addirittura alla felicità. Sono passati più di due secoli. Vaste lotte s ociali e politiche hanno permesso, senza dubbio, di migliorare in modo considere vole i rapporti legali, giuridici, la durata media della vita, il suo tenore. In linea di principio, nelle nostre democrazie, ognuno ha ora la propria possibilità d i scelta. Lo Stato si è separato dal potere religioso, e il potere giuridico da qu ello politico. Ciò non accade senza difficoltà, viviamo in questo momento una forte crisi economica, ma nel complesso viviamo meglio, nettamente meglio di un tempo." "Senza dubbio." "Tuttavia la natura umana non sembra essere cambiata di una virgola." "E forse meglio conosciuta." "Forse. E meglio disciplinata da regole. Ma alla prima occasione si rivela la st essa. Le religioni hanno perso, almeno da noi, ogni preminenza, le ideologie polit iche si sono deteriorate. Ma la felicità è ancora lontana e, in fin dei conti, noi s iamo esattamente, e tristemente, gli stessi." Anche qui, riflette. Aggiunge che, in questo disordine, gli anatemi razzisti e gl i integralismi di ogni sorta trovano un terreno fertile e che d'altra parte, qua

ndo si distrugge una ideologia, si assiste al sorgere e all'imporsi del culto esc lusivo del denaro. "Chiunque esclude gli altri si troverà escluso a sua volta" mi dice. "Ogni disputa è folle. Colui che afferma che il proprio dio è l'unico dio commette un'azione peri colosa, nefasta, perché è sulla strada di imporre il proprio credo ad altri, con ogn i mezzo." "E di proclamarsi il popolo eletto." "Che è la cosa peggiore." "La democrazia, come la conosciamo noi, credeva di avere eretto una solida barrie ra mettendo in pratica l'idea molto importante di separazione." "Se allude alla separazione di Stato e Chiesa, mi parrebbe un ottimo principio." "Tuttavia lei, che riunisce tutto il potere nelle sue mani, rappresenta l'esempi o contrario." "No. Il concetto di potere è molto diverso. Lo stesso titolo, l'istituzione del Da lai Lama può scomparire da un giorno all'altro. Non è stabilito per sempre da qualche forza esterna agli uomini e alla terra. Non vi è contraddizione fra buddhismo e de mocrazia." "L'altra separazione" gli dico "la conosce. È quella che definisce e che separa i poteri all'interno dello Stato. È stato detto che la decisione di fare della giust izia un potere, un vero potere, fu un colpo di genio dell'Occidente. Anche se qu esta separazione dei poteri suscita molteplici attriti." "Per ritornare all'integralismo," riprende "al frazionamento delle credenze, all' auto proclamazione dei "popoli eletti", questo è uno dei motivi, senza dubbio, per i quali il buddhismo si è sempre guardato dall'affermare l'esistenza e l'onnipotenz a di un dio creatore. Quando lo si interrogava su questo punto, e su qualche altro, il Buddha Sakyamuni taceva." "Non ha detto che si deve evitare di "fare la corte a dèi stranieri"?" "L'ha detto. E tutte le scuole buddhiste sono oggi d'accordo su questo. Il che no n vuole dire, però, che noi abbiamo razionalizzato le nostre credenze, nel senso c he voi date a questa parola." "Cioè?" "Bene, noi riconosciamo l'esistenza di esseri superiori, in ogni caso di un certo stato superiore dell'essere; crediamo agli oracoli, ai presagi, all'interpretazio ne dei sogni, alla reincarnazione. Ma queste credenze, che per noi sono certezze , non cerchiamo in alcun modo di imporle agli altri. Lo ripeto: non vogliamo con vertire. Il buddhismo si applica anzitutto ai fatti. È un'esperienza, un'esperienza personale. Si rammenti del famosissimo detto di Sakyamuni: "Non aspettatevi null a se non da voi stessi"." Evochiamo per un istante la grande figura del Risvegliato, e la sua raccomandazi one che ha attraversato venticinque secoli: "Come si saggia l'oro sfregandolo, spe zzandolo e fondendolo, così fatevi un giudizio della mia parola. Se l'accettate, c he non sia per semplice rispetto". Parliamo allora dell'aggressività, di Karl Lorenz e di alcuni altri. Si può estrapol are da un lungo e paziente lavoro sul comportamento animale? Si può dire che l'agg ressività sia una componente della nostra natura? Faccio presente che questa nozion

e è sovente presentata come una forza positiva, come un elemento di sopravvivenza, forse addirittura a livello di specie. Senza questa, probabilmente, saremmo scomp arsi. "L'aggressività fa intimamente parte di noi stessi" dice. "È proprio per questo che bisogna lottare." In un altro libro [nota: Ainsi parle le Dalai Lama, Colloqui con Claude B. Leve nsen Balland, 1990.], il Dalai Lama ha parlato di alcuni dei drammi che nel XX se colo hanno insanguinato l'Asia, e particolarmente l'Asia buddhista, da Pol Pot in Cambogia a Sukhe Bator in Mongolia. "Uomini cresciuti in un ambiente rigorosamente non violento" mi dice "hanno potut o diventare i più crudeli massacratori. Segno che l'aggressività più insensata conti nua a vivere nel fondo di noi stessi. Su questo non c'è alcun dubbio." Sottolinea queste parole con un gesto reciso delle mani. E aggiunge subito: "Ma la nostra vera natura è pacifica. Per questo Sakyamuni ci raccomanda di cercar e nel nostro intimo più profondo: perché vi troveremo alla fine il desiderio di pace . Tutti sappiamo che lo spirito umano è sconvolto, in balia di sussulti che fanno p aura. Ma questa agitazione non è la forza dominante. È possibile e indispensabile pad roneggiarla. Nel suo lavoro, quando immagina storie, scene, lei non ha bisogno d i calma?". "Ho bisogno di calma e di agitazione." "Nello stesso momento?" "Quasi nello stesso momento." "Una certa agitazione e necessaria all'invenzione?" "Molti scrittori del XX secolo hanno amato lavorare per esempio nei caffè, tra il r umore e la confusione, a contatto con una vita differente. Il cameriere passa, vie ne urtato, rovescia una tazza di tè: questo incidente può fare scaturire un'idea, che altrimenti dormirebbe per sempre. Dopo di che, certo, sono necessari lunghi mome nti di tranquillità e di riflessione. La calma giudica l'agitazione. A dire il ver o, ciascuno trova il proprio schema, il proprio ritmo, il proprio modo di esprim ersi. Non c'è una regola assoluta" "Lei ha dunque bisogno di trambusto?" "In un certo senso. Tutto comincia sul nostro piccolo palcoscenico interiore, ove compaiono dei personaggi. Noi siamo a volta a volta attori e spettatori. E anche già critici. Ogni tanto bisogna gettarsi senza riserve nella scena, quasi alla ci eca. In altri momenti bisogna allontanarsene, guardarla da lontano, come se l'av esse scritta un altro." Mi ascolta e mi guarda scrollando piano il capo. Aggiungo che, come sceneggiator e, come autore, mi è impossibile vivere continuamente nei buoni sentimenti. Devo ce rcare in me il vizioso e il criminale. Come diceva Luis Bunuel, il bravo scenegg iatore deve ogni giorno uccidere suo padre, violare sua madre e tradire la sua pat ria. Nel suo lavoro, il peccato d'intenzione non esiste, e quando cerca nel fond o di se stesso, non è la calma che trova, ma al contrario il tumulto, la competizi one, la violenza, sovente il sangue. Egli è, per necessità, un inventore di crimini. "Però non li commette."

"Alcuni sostengono che istighi gli spettatori a commetterli." "Conosco questo problema" mi dice. "Non è semplice risolverlo. La stupirò forse, ma n on sono rigorosamente contrario allo spettacolo della violenza e del crimine. Tut to dipende dall'insegnamento che se ne trae." Precisa sorridendo che al centro della tradizione buddhista, l'atteggiamento cos tantemente raccomandato nei nostri rapporti con una realtà sovente qualificata come "relativa" ("Conoscete la sofferenza benché non vi sia nulla da conoscere...") ass omiglia molto a una rappresentazione. Obbligato, dalla sua stessa condizione, a vivere in un mondo la cui realtà non è garantita e che forse è solo una illusione, l'u omo è come un attore che si identifichi, almeno apparentemente, con un ruolo, effim ero come tutti i ruoli. Il Dalai Lama, nonostante le nostre digressioni, segue un piano ben preciso. E m i presenta un terzo motivo di ottimismo: "Quando incontro dei giovani, soprattutto in Europa, credo anche che il concetto dell'umanità come unicum sia assai più forte oggi rispetto a ieri. È un sentimento nu ovo, che esisteva solo molto raramente nel passato. L'altro era il barbaro, il di verso". "Colui che non si può riconoscere come simile." "Esatto. E vedo che questa reazione di diffidenza e di ostilità lentamente scompar e. Si attribuisce una importanza sempre minore alle nazionalità, alle frontiere. L 'unificazione di gran parte dell'Europa, la scomparsa, per esempio, delle atroci battaglie tra francesi e tedeschi, la moltiplicazione dei matrimoni tra donne e uomini di paesi diversi, di diverse lingue e diverse culture, tutto questo mi pa re positivo. Si diffonde una visione globale delle cose, non le pare?" Ciò che dice è indiscutibile. Tuttavia, come non ricordare le nostre persistenti inq uietudini, tutti i paradossi che ci assalgono? Mai abbiamo prodotto tanti beni, e la miseria è alle nostre porte. Mai abbiamo moltiplicato così freneticamente la nos tra specie, e i deserti guadagnano terreno ogni giorno. Mai ci è parso di avvicinar ci tanto all'età dell'oro, all'ozio che ritempra, e la disoccupazione diventa la nos tra prima calamità. Mai abbiamo mostrato così largamente i nostri corpi nudi e le nos tre unioni cosiddette libere, e mai la morte è stata così vicina al sesso. Mai abbia mo inventato tecniche così prodigiose per entrare in contatto gli uni con gli altr i, e mai la solitudine ha trovato accenti più amari. E così via. L'elenco è lungo. Ciascuno può portarvi il proprio timore. E ancora, con la stessa convinzione, con la stessa perseveranza, il Dalai Lama r isponde: "Tutto questo è vero. Ma nulla può aggiustarsi all'improvviso, come per magia. È neces sario del tempo, è necessario un lento cammino nello spirito. Guardi per esempio: gli abitanti della terra, nella prima metà del nostro secolo, non avevano alcun se nso di responsabilità nei confronti del loro pianeta. Fabbriche coprivano a poco a poco il suolo, soprattutto in Occidente, riversando i loro rifiuti nei quattro el ementi. Nessuno, stranamente, se ne curava". "Si comincia a studiare questo accecamento storico. " "Che aveva per risultato" continua "un'ondata gigantesca di estinzione delle spe cie, la più terribile che si sia conosciuta da sessantacinque milioni d'anni. Il c he è per un buddhista un vero abominio." "L'estinzione continua impunemente."

" Lo so. Ma almeno, oggi, abbiamo preso in qualche modo coscienza di questo peric olo. Si sono anche visti nascere partiti politici, che sovente si chiamano Verdi, il cui programma poggia sulla difesa dell'ambiente. Trenta o quaranta anni fa qu esto primo passo sarebbe stato inconcepibile. Ancora: incontro sempre più frequente mente gruppi di uomini d'affari che fino a poco tempo fa, lei lo sa, non manifest avano alcun interesse per il buddhismo, e che oggi vengono a trovarci, a interro garci. Essi mostrano un'attenzione molto viva per i nostri valori. Cercano persin o dei luoghi ove riunirsi, ove andare in ritiro, per condurre sotto la nostra gu ida una vita spirituale, almeno per una settimana o due." "Non è troppo tardi?" "Spero di no. E, comunque, è meglio di niente. Noi corriamo sempre un rischio magg iore: quello di perdere il contatto col resto dell'universo. Dobbiamo invece far e di tutto per conservarlo, e anche per rafforzarlo." "Si può talvolta mettersi la coscienza a posto in una settimana o due di ritiro, e lanciarsi, subito dopo, in uno sfruttamento forsennato della terra. "Lo so bene. " "Avremmo dunque bisogno di un risveglio?" Sorride rispondendomi: "È la parola. È l a parola giusta". 2 EDUCAZIONE E CONTAMINAZIONE Quando il principe Siddharta, all'età di ventinove anni, già sposato e padre di fami glia, lasciò lo splendido palazzo in cui viveva dalla nascita, circondato da fiori, profumi, uomini e donne accuratamente scelti dal padre per la loro giovinezza e bellezza, e s'incamminò per le strade della città chiamata Kapilavastu, incontrò da pr incipio un vecchio curvo per l'età, poi un uomo divorato dalla peste nera, poi un cadavere portato al rogo. Questi tre incontri una scena decisiva nella storia del mondo , l'improvvisa s coperta della vecchiaia, della malattia e della morte, calamità comuni a tutti, port arono poco tempo dopo alla partenza del principe. Impressionato da un religioso c he mendicava il proprio nutrimento, Siddharta Gautama abbandonò segretamente il pal azzo, la famiglia e i doveri regali che l'attendevano. Decise di consacrare tutt e le forze della sua vita alla ricerca di una luce nuova, fino ad allora sconosc iuta, che permettesse agli uomini di liberarsi dalla sofferenza. La sofferenza è la rivelazione del buddhismo. Sofferenza fisica, certo, ma anche s offerenza morale, senso di impotenza, di frustrazione, di inutilità in questo mondo . Soffrire, per il Buddha, "è nascere, invecchiare, ammalarsi, essere uniti a ciò che non si ama, essere separati da ciò che si ama, non poter realizzare i propri desi deri". Per cercare un rimedio a questa sofferenza essenziale che si chiama in sanscrito duhkha, Siddharta percorse una parte dell'India, interrogò uomini reputati saggi, t rascorse sei anni su una montagna, giungendo a un ascetismo estremo. Tutto quest o invano. Fu in se stesso che trovò la risposta, seduto sull'erba, ai piedi di un fico. Quest o mondo che invecchia e che muore, e poi rinasce per invecchiare e morire ancora, è misero. Fu la prima verità. Cercando la causa di questa miseria il buddhismo, fi n da principio, si afferma come una ricerca dei fatti, e delle cause all'origine di questi fatti , trovò la nascita, e il desiderio di nascita: "All'origine di qu esto dolore universale è la sete di esistere, la sete di piaceri che provano i cinq ue sensi esterni e il senso interno, la stessa sete di morire". La sofferenza proviene dunque dal desiderio. Fu la seconda verità. Questo desideri o è come un fuoco, che infiamma colui che desidera. Tutto è fuoco, dice ancora il Bud

dha, l'occhio è fuoco, ciò che esso vede è fuoco, ciò che l'orecchio ode è fuoco, tutto ciò che colpisce i sensi è fuoco. L'illusione ci divora come una fiamma perenne. E que sto fuoco della vita, acceso dalla cupidigia, dalla collera e dall'ignoranza, dev 'essere spento. Più tardi, Siddharta Gautama, divenuto il Buddha, cioè il Risvegliato, completò queste due verità con due altri insegnamenti. È possibile, disse, spegnere questo fuoco e gi ungere così alla cessazione di ogni sofferenza. Infine, quarta rivelazione, esiste una via precisa per giungere a questa cessazione. E indicò questa via. L'insieme costituisce "le quattro nobili verità", che sono il punto di partenza, il fondamento stesso di tutta la ricerca buddhista. Questo risveglio incomparabile, questa rivelazione tratta dall'interno di se stes so (e non ricevuta grazie a un intervento divino o angelico) da un uomo la cui in telligenza e tenacia ci appaiono oggi prodigiosi (anche se i racconti della sua vita sono tutti disseminati di leggende, nessuno sembra mettere in dubbio la sua esistenza storica e l'autenticità della sua lunga predicazione), suppone che tutti gli altri uomini ai quali il Buddha, durante quarantacinque anni, svela il suo insegnamento, vivano nell'ignoranza e di conseguenza nella sofferenza. Anche se ci crediamo felici, anche se cantiamo a squarciagola che la vita è bella, anche se cr ediamo di sapere qualcosa del mondo, anche se abbiamo imparato dall'uno o l'altro maestro, anche se insegniamo agli altri, finché il risveglio interiore, frutto di una esperienza strettamente personale, non ci sarà accordato, vivremo nell'ignoranz a. Questa è la nostra natura e la nostra prigione. Si deve fare di tutto per distr uggerla. Se il Risveglio, per definizione, non può essere insegnato, la via che può condurvi deve esserci mostrata. Per questo, lungo tutta la storia del buddhismo, l'insegnam ento occupa un posto decisivo, centrale. Oggi, a Dharamsala, i tibetani sono fier i delle loro scuole, a buon diritto, e le fanno visitare. Il Dalai Lama ha accura tamente presieduto alla creazione di una università tibetana. Da un lato, i monaci forniscono agli allievi, giunti da ogni parte, un insegnamento buddhista. Dall'a ltro, il Dalai Lama stesso si aggiorna sulla ricerca scientifica contemporanea, è anche avido di informazioni. Egli dice di imparare ogni giorno. Qui potrebbe apparirci una lieve contraddizione: la natura umana è buona, tuttavia è sottomessa all'ignoranza e misera, senza avere fatto nulla per meritarlo. Per un buddhista, non è una semplice contraddizione. È l'espressione stessa della nostra condizione. Sta a noi uscirne. Moderando un po' il proprio ottimismo, il Dalai Lama ammette ora che stiamo attra versando un periodo critico, molto critico. E insiste sull'educazione. "Tutto il nostro sistema educativo è in crisi. Gli è impossibile adeguarsi. A dire i l vero, questa crisi si estende all'attività industriale, alla politica. Tutto semb ra sfuggire al nostro pensiero, e di conseguenza al nostro controllo." "Come reagire?" "Come sempre, in due modi. Possiamo lasciarci andare allo scoraggiamento, e molt o presto all'egoismo. Possiamo dire a noi stessi: tutto è perduto, i tempi diventan o duri, il mondo non sa più dove va, è in effetti il Kali-Yuga che prevale. Allora r itiriamoci nel nostro cantuccio, godiamoci i pochi beni che possiamo avere accum ulato, dimentichiamo il resto, e si vedrà." "Conosco persone che vivono così." "Oh, anch'io!" dice ridendo.

"E l'altro atteggiamento?" "È una presa di coscienza molto semplice e un impegno preciso. Coscienza della nos tra condizione, dei mille pericoli che ci assediano. Impegno chiaro a uscirne. Un atteggiamento che mi sembra oggi più necessario che mai. Gli uomini devono svegli arsi." "Che cosa aspettano?" "Nulla avverrà all'improvviso" mi risponde. "I veri cambiamenti sono lenti e imper cettibili. Per esempio, mi pare che la nuova attrazione per il buddhismo, provata dall'Occidente da qualche anno a questa parte, dipenda da due concetti particol ari, che non hanno nulla di spettacolare, ma sono profondamente sentiti. Il primo è l'ahimsa, la non violenza, che prende posto a poco a poco come una forza. Il se condo è questa nozione di interdipendenza, presente già anticamente nel pensiero budd hista." "E che si ricollega alle nostre preoccupazioni ecologiche?" "Direttamente." Il concetto di una esistenza indipendente degli esseri viventi e delle cose è semp re stato rifiutato dalla quasi totalità delle scuole buddhiste fin dall'origine, da lle parole stesse del fondatore. Nulla esiste separatamente. Tutto, al contrario , è unito a tutto. Tutto è collegato, nell'immensa rete di Indra, il re degli dèi nell a mitologia indu. Questa interdipendenza di tutte le cose compreso il nostro sguardo sulle cose è la prima sorpresa che ci attende sul cammino buddhista. Essa si oppone direttame nte a tutto ciò che noi crediamo di sapere, a una visione analitica del mondo, div isa in oggetti separati: la mia mano, la penna che essa regge, la carta sulla qu ale scrivo, il tavolo ove posa la carta, la casa nella quale si trova il tavolo. .. Nessuno di questi oggetti, ci ripete instancabilmente il buddismo, ha esisten za separata, può essere considerato in sé. L'interdipendenza, che porta in sanscrito il nome di pratitya samuttada, è stata in segnata dal Buddha stesso, più precisamente nell'Avatamsaka Sutra. Impossibile, ci dice questo sutra, trovare un oggetto che non abbia rapporto con tutti gli altr i. Un maestro contemporaneo dello Zen, Thich Nhat Hahn, in una raccolta di testi recenti, prende ad esempio un foglio di carta. Per non parlare della penna e del l'inchiostro, tutto ha un rapporto con questo foglio di carta. Esso è costituito da elementi non carta. Se noi rinviamo tutti questi elementi alla loro fonte, la f ibra al legno, il legno alla foresta, la foresta al boscaiolo, il boscaiolo a su o padre e a sua madre, e così via, constatiamo che, in realtà, il foglio di carta è vu oto. Non ha un sé separato. È costituito da tutti gli elementi non sé, non carta. Se l i si esclude, il foglio è vuoto di un sé si potrebbe dire di un essere indipende nte. Thich Nhat Hahn aggiunge: "Vuoto, in questo senso, significa che la carta è piena di tutte le cose, di tutto il cosmo". Ciò che vale per un foglio di carta vale, naturalmente, per un individuo. Noi siamo costituiti di elementi non individuo. Il maestro zen dice allora che quando uno fra noi medita, non si separa in alcun modo dal resto del mondo. La sofferenza c he porta nel suo cuore è la società stessa. Quando medita, lo fa per tutti gli esser i. Lo fa anche per tutte le cose incapaci di meditare. Siamo qui, in questa eco d'una parola antica, al centro stesso dell'ecologia di oggi. "Nessuna specie," mi dice il Dalai Lama "la specie umana non più di un'altra, può po

rsi fuori dal mondo, fuori dalla ruota dell'universo. Noi siamo uno dei denti di questa ruota." "Una ruota che cigola sempre più forte." Gli rammento i lamenti di Bhumi, la Terra, nel Mahabharata "Ogni giorno sono cal pestata da passi di uomini arroganti... Sono ferita, soffro e mi domando: domani, che cosa mi faranno ancora?". Mi approva scrollando la testa. Conosce Bhumi e i suoi timori. Gli comunico che fui senza dubbio uno dei primi, in Francia, a pubblicare un libro su quel che a torto viene chiamato l'ambiente (a torto, perché la parola sembra indicare che noi siamo al centro delle cose, circondati da queste, mentre in verità ne facciamo pa rte). Siamo su un terreno che interessa entrambi, anche se l'affrontiamo ciascun o a proprio modo. "Lei ha detto che stiamo attraversando una crisi, e ha anche detto che il tempo stringe. È sensibile all'esplosione demografica cui sta assistendo il XX secolo?" "Molto sensibile. È un problema di estrema importanza." "Forse il problema numero uno." "Sì. Lo credo." Ricordiamo l'enorme balzo che ha fatto la popolazione della terra nei cinquanta a nni passati. "Dal 1987" mi dice "ha superato i cinque miliardi. Sette o ottocento milioni vi si sono aggiunti dopo questa data. In meno di trent'anni, questa cifra complessi va può essere raddoppiata." Aggiungo che una previsione molto precisa dell'UNESCO, pubblicata ra progressioni spettacolari. La Cina e l'India raggiungeranno il zo di abitanti. La Nigeria diventerà il terzo paese più popolato to momento, la popolazione della terra aumenta di più di novanta idui all'anno. Un Messico ogni dodici mesi.

nel 1992, most miliardo e mez del mondo. In ques milioni di indiv

Gli domando: "Che fare?". "Per prima cosa" mi dice "bisogna informare chiaramente, senza ipocrisia, senza p reconcetti. Bisogna dire: sei miliardi di abitanti, è troppo. Dal punto di vista m orale è un grave errore, a causa del forte squilibrio fra paesi ricchi e paesi pove ri. E da quello pratico è un dramma." "I sette miliardi sono vicini, e andranno aumentando. Per frenare in modo sensibi le una crescita demografica, sono necessari almeno sessanta anni di sforzi continui." "È un punto veramente critico, tanto più che gli esperti annunciano che le risorse della terra non saranno sufficienti." "Questo punto è discusso" gli dico "perché tutto dipende da quello che si intende pe r "risorse". Gli esperti (ma "esperti" in cosa?) possono in effetti calcolare che la terra è capace di nutrire dieci o dodici miliardi di abitanti. Alcuni parlano anche di cinquanta miliardi. L'agricoltura biogenetica ci promette mari e monti, insalate giganti, carote inesauribili."

"Sì," conferma "se ne parla ovunque. Possiamo arrivare a dare da mangiare, se rius ciamo a ridurre l'onnipotenza del commercio, cosa tutt'altro che semplice. Dare d a bere, è meno sicuro. Ma è comunque sufficiente, per definire la vita, dire che con siste nel mangiare e bere?" "No, di certo." "Dove trovare lavoro? Occupazioni? Svaghi? Tempo a meditazione?"

e spazio

per l'isolamento, l

"Gli esperti non se ne curano affatto. Non se ne curano di più quando parlano di cinquanta miliardi di uomini, dei mezzi per arrestarsi a cinquanta miliardi. A un a tale cifra di popolazione, il tasso di crescita diviene incredibile. Non è più un Messico all'anno, è un continente intero." "E che dire, lo ripeto, dei crescenti scarti fra paesi ricchi e poveri?" "All'inizio del XVIII secolo," gli dico "la data più lontana cui possiamo retroce dere, questo scarto già esisteva. Era, si calcola, di 1 a 5. Alcuni paesi europei, come l'Olanda, erano cinque volte più ricchi dei regni africani o asiatici. Negli anni Sessanta del nostro secolo, questo scarto era di 1 a 80. Oggi sarebbe di 1 a 300, o 400, sempre in favore dell'Occidente, al quale si è aggiunto il Giappone." "E non cessa di allargarsi. Ai ricchi più ricchezza, ai poveri più povertà." "In proporzioni intollerabili." "I due problemi sono strettamente connessi" dice. "La crescita della popolazione è fortemente collegata alla povertà, e la povertà a sua volta saccheggia la terra. Quand o gruppi umani soffrono la fame, mangiano qualsiasi cosa, erba, insetti. Abbatto no gli alberi, lasciano la terra secca e nuda. Ogni altra preoccupazione sparisce . È per questo, senza dubbio, che nei prossimi trent'anni i cosiddetti problemi de ll'ambiente saranno i più gravi che l'umanità dovrà affrontare." Insiste. Ripete a più riprese: "Assolutamente". È molto fermo su questo punto. "Le faccio un semplice esempio. Fino a poco tempo fa, andando all'aeroporto o alt rove, non vedevo polli per le strade, nelle vetrine dei negozi, dei ristoranti. O ra ne vedo ovunque. Benché sia inattuabile, in Tibet, un'alimentazione completamen te vegetariana, mi ripugna uccidere gli animali. Per quanto possibile, mi nutro d i verdura e frutta. Perché queste file di polli massacrati? Perché, se non a causa di una popolazione umana in eccesso? Più gli uomini sono numerosi, più uccidono." "Creano vite per distruggerle." "Un altro punto chiave è evidentemente il denaro, la ricerca ostinata del denaro, per gli uni come per gli altri: per i ricchi a causa dell'avidità, per i poveri a causa della necessità. È anche per denaro che si massacrano gli animali. Ma all'origi ne di tutte le nostre difficoltà, di tutte queste minacce di cui parliamo, prima an cora del denaro, metto la sovrappopolazione." "Lei è dunque a favore del controllo delle nascite?" "Assolutamente. Bisogna farlo conoscere e promuoverlo." "Alcune tradizioni religiose vi si oppongono." "È vero, anche all'interno del buddhismo. Ma è ora di spezzare queste barriere." Riflette un istante e si china verso di me. È chiaro che questo problema lo preocc

upa profondamente. "Consideriamo il nostro atteggiamento nei confronti della vita umana, perché è di que sto che si tratta. Benché sottoposta alla sofferenza, la vita umana, ai nostri occh i, è un fenomeno prezioso, a causa dell'intelligenza che ci anima, e che può elevars i qualitativamente. Da questo punto di vista, il controllo delle nascite è nefasto, perché impedisce a vite umane di esistere." "Da un punto di vista individuale." "Esattamente. Ogni individuo è una possibile meraviglia. E l'aborto è un atto violent o, che noi rifiutiamo. Ma se si guardano le cose da una certa distanza, se ci sfor ziamo, cosa non facile, di giungere a un punto di vista globale, allora vediamo semplicemente che siamo troppo numerosi su questo pianeta, e che domani questo ec cesso si aggraverà. Così, non è più una questione morale, non è più questione di fascino b eato della complessa bellezza del nostro spirito, è veramente una questione di sop ravvivenza. Contiamo in questo momento, sulla terra, più di cinque miliardi di vit e preziose. Questi cinque miliardi di vite preziose si trovano sotto la diretta minaccia di altre vite preziose, che aggiungiamo a milioni." "Non è solo la vita umana ad essere minacciata." "Naturalmente. Gli animali selvatici, gli alberi, tutto deve cedere di fronte al le nostre vite preziose. Nel Tibet, il diboscamento è stato feroce, da trent'anni i n qua. Con un conseguente impoverimento della terra, come ovunque. E la maggior p arte degli animali selvatici che guardavo con stupore nella mia infanzia è scompar sa. Lo sa bene: quante specie si sono estinte a causa dell'espansione della nost ra vita preziosa! " "E senza speranza di rinascita." "Se dunque vogliamo difendere la vita e, più in particolare, i cinque miliardi di vite preziose che si affollano in questo momento sul pianeta, se vogliamo donare loro un po' più di prosperità, di giustizia, di felicità, dobbiamo proibirci di accre scerci numericamente. Non è logico?" Rimpiango oggi che questa voce che non si può accusare né di maltusianesimo, né di l ibertinaggio non abbia potuto farsi ascoltare alla conferenza del Cairo, nel sett embre 1994, dove non era stata invitata. In occasione di questo congresso, che il Dalai Lama giudica "molto importante", le posizioni tradizionalmente rigoriste s i sono, una volta di più , manifestate assai chiaramente: rifiuto di vedere il mond o così com'è, silenzio e sottomissione imposti alla donna, apologia della fedeltà e del l'astinenza, vale a dire dell'assenza dell'amore. Ma almeno e questo è anche il parere del Dalai Lama, espresso nel nostro incontr o di settembre il problema è stato posto pubblicamente, frasi giuste sono state pronunciate. Pochi sono coloro che potranno dire: io non sapevo. Non dimentichiamo nemmeno per un attimo il buddhismo. Non più che il foglio di car ta, la vita umana, agli occhi del Dalai Lama, non ha esistenza indipendente. "Essa è composta da elementi non vita," mi dice " non è in alcun modo separabile dal resto del mondo. Non è "altra". Se presenta ai nostri occhi qualche valore, questo non può essere che relativo, e sempre legato allo spirito. È un errore ancora maggior e, un "errore di fondo" isolare la vita umana, attribuirle una essenza, un in sé." A ciò si aggiunge il timore che, in seguito a un declino sempre possibile della coscienza, gli individui non trovino più la forza, la qualità di spirito necessaria a una prossima reincarnazione.

Gli parlo delle inondazioni che abbiamo conosciuto in Europa, nel 1993 e nel 1994 . "Uscivamo da diversi anni di siccità. Il regime delle piogge ridiventava normale. Mai avevamo così ostinatamente, così ciecamente ricoperto la terra di cemento (autos trade, aeroporti, parcheggi, costruzioni di ogni sorta), e d'altro canto così radic almente abbandonato, soprattutto in montagna, gli antichi metodi di distribuzione delle acque, cosicché queste non possono ormai che scorrere sul terreno senza atta rdarvisi, senza penetrarvi. Di qui, tutta una serie di catastrofi. È ridicolo accus are il cielo. Noi siamo, qui come altrove, i soli colpevoli." Approva. Gli racconto allora un aneddoto che mi colpì, una quindicina di anni fa. Mi trovavo in Messico al tempo della prima visita di papa Giovanni Paolo II. La s era del suo arrivo, un amico medico mi aveva invitato a cena. Giunsi, con un maz zo di fiori in mano, e suonai alla porta. Una donna venne ad aprirmi e vidi che piangeva. Entrai, molto sorpreso. Diverse persone si trovavano lì, uomini e donne ( tra cui molti medici), con l'aria afflitta. Due o tre erano in lacrime. Chiesi l oro il motivo di tanta tristezza. Il mio amico mi disse: "Non hai udito ciò che ha proclamato nel suo primo discorso?". "Chi?" gli domandai. "Il papa!" "Che cosa aveva detto?" mi domanda il Dalai Lama "Quel che dice ovunque "Messicani, messicane, dovete accettare tutti i figli che Dio vi manda!". Con poche frasi, questo uomo anziano, celibe per vocazione, aveva appena distrut to dieci anni di sforzi pazienti, da parte di uomini e donne volenterosi, per qualche cenno di contraccezione in un paese direttamente colpito da quella che g li ecologisti americani chiamano "la bomba P". P sta per popolazione. Per questo g ruppo di medici, bisognava ricominciare tutto da capo." Il Dalai Lama conosce meglio di chiunque altro la responsabilità dei capi religios i, oggi come ieri. Anche se l'influenza del papa è ridotta in Europa, e più partico larmente in Italia, resta considerevole nei paesi cattolici del Terzo Mondo. Ora , egli non perde occasione di mostrarsi intransigente su questo punto, condannan do a una esistenza miserabile milioni di "vite preziose" che egli chiama a nasce re a ogni costo. "Al contrario," proseguo "mi trovavo nel 1992 in Iran, paese islamico, che noi d efiniamo integralista, e con mio grande stupore vidi alla televisione, sul canal e ufficiale, una trasmissione, condotta da donne, che spiegava e consigliava la c ontraccezione." "In Iran?" "Ma sì. E credo che in Egitto esista la stessa cosa. È un genere di informazioni che l'Occidente non ama diffondere. Perché su questo punto siamo in ritardo." "Si assiste anche," mi dice "negli Stati Uniti così come in Europa, a un ritorno d i quello che voi chiamate l'ordine morale." "Esatto. Un ritorno della censura, dell'agitazione convulsa di coloro che, ad ese mpio, si oppongono all'aborto, un atto violento, con ancora più violenza. Come se v olessero l'impossibile, cioè tornare indietro." Smetto a mia volta di parlare, restiamo un momento in silenzio, poi gli domando: "La vita è diventata nemica della vita?". "La vita umana sì. Perché minaccia ogni vita." "Le riflessioni tradizionali, su questo punto, non ci aiutano affatto." "No," mi dice "perché risalgono a un'epoca in cui la vita umana era rara, ricercat a. Numerosi pericoli la minacciavano. I bambini morivano in tenera età. Oggi tutto è

cambiato, soprattutto da una cinquantina di anni a questa parte." "Che dire di quel che ci promette la genetica del secolo venturo? La clonazione, cioè la riproduzione facile, e all'infinito, dell'essere umano, impeccabilmente si mile a se stesso. E, come ultimo sogno, l'immortalità." "Ma questa riproduzione facile e fedele suppone che noi poniamo un limite alle n ostre possibilità di evoluzione. Sosteniamo di essere perfetti e ci fermiamo lì. E d' altra parte, se raggiungeremo l'immortalità, cioè se sopprimeremo la morte, dovremo n el contempo sopprimere la nascita. Poiché la terra diventerebbe troppo rapidamente sovrappopolata." "Un po' ovunque" continuo "il semplice prolungamento della durata media della vit a pone dei problemi insolubili. Come trattare i nuovi vecchi? Come tenerli occupat i? Come pagare la loro pensione?" "Sì" mi dice. "Che fare allora dell'immortalità? Nel nostro rapporto con la vita, il cambiamento è radicale. Anche il cambiamento del nostro pensiero, e di conseguenza del nostro atteggiamento, dev'essere radicale." Affronta per la prima volta questa necessità contemporanea di un cambiamento nei c onfronti della tradizione, e vi ritornerà spesso. Benché porti, d'altra parte con dis involtura, il titolo di "Sua Santità", si mostra sorprendentemente aperto alla fle ssibilità, e anche ai rivolgimenti dell'epoca. "Non è strettamente vincolato alla lettera delle Scritture?" "Al contrario. Bisognerebbe essere folli per conservarle inalterate a ogni costo in un mondo che comporta il movimento del tempo. Ad esempio, se la scienza mostr a che le Scritture si ingannano, bisogna modificare le Scritture." "Per secoli, la Chiesa cattolica ha perseguito una lunga e sterile battaglia per salvaguardare la verità storica della Bibbia di fronte alle scoperte scientifiche. Le pare irrilevante?" "Inutile, in ogni caso. Perché il buddhismo ci dice tutto il contrario. Ed è un tema centrale, che tutte le scuole accettano: noi siamo, nostro malgrado, immersi nel la caducità. Proprio come l'essenza degli esseri, la loro stabilità è un'illusione. La realtà ci sfugge dalle dita, senza che noi possiamo trattenerla." "Questo sentimento dipende dalla certezza che abbiamo della nostra morte?" "No, perché la morte è un semplice passaggio da uno stato a un altro. Si tratta di u na dissoluzione e di una ricomposizione di ogni istante. Il mondo si muove. Nulla di fisso, nulla di stabile vi dimora. Le Scritture, anche se venerabili e sacre, sono relative e caduche, come ogni cosa." Vi è certamente, nel buddhismo, un punto che dapprima ci sorprende, e che poi ci a ttira. Nelle religioni monoteistiche che costituiscono la nostra tradizione, siamo abituati a scritture rivelate, ora da Dio, ora da uno dei suoi angeli o dei suo i profeti. Tutte provengono dall'esterno. L'uomo che le proclamò, o che le scrisse, non era che l'ambasciatore di un ipotetico aldilà. Era, ed è ancora in molti casi, fuori discussione o inimmaginabile modificare, anche solo di poco, una parola con siderata rigorosamente divina. Nulla di tutto questo nel buddhismo. Fu dal profondo di se stesso, bisogna ripete rlo, che il Buddha trasse le sue quattro verità fondamentali e tutto l'insegnamento che ne seguì. Non cessò di ripetere che questo insegnamento doveva essere, in ogni momento, meticolosamente verificato dall'esperienza, addirittura da un'esperienza personale. Sebbene in certe correnti buddhiste, e anche nell'induismo (che volle

riconoscere in Siddharta il nono avatara di Vishnu, dopo Krishna), il Buddha sia stato talvolta considerato come una divinità, resta oggi un uomo. "A tale titolo" dico "è anch'egli dipendente da tutto quello che lo ha circondato? " "Naturalmente. Non ha beneficiato, solo fra tutti, di una vita miracolosamente au tonoma. Era anche lui composto di elementi non Siddharta. E fu così, è così per il suo pensiero." "Per questo c'è flessibilità nella tradizione buddhista?" "Questa flessibilità, come dice lei, proviene anzitutto dall'esperienza. È vero, la n ostra esperienza è antica e molto ricca. Ci ha permesso, a più riprese, di valutare i pericoli dell'isolamento, l'inutilità dell'autorità dogmatica, la vanità dell'integr alismo. Le ripeto, noi accertiamo dapprima i fatti, quelli in ogni caso indiscut ibili, come la crescita della popolazione. Poi cerchiamo di analizzare le cause c he hanno prodotto questi fatti, e le condizioni nelle quali essi si sono verific ati. Senza perdere di vista un solo istante l'interdipendenza e la transitorietà. I nfine, se necessario, cambiamo atteggiamento." Senza dubbio per queste ragioni, il Dalai Lama, immagine stessa della gentilezza , della tolleranza, dà comunque l'impressione di essere attento, avido di apprende re, di conoscere, pronto a cambiare da cima a fondo se necessario. Può consapevolm ente parlare della fascia di ozono e dell'effetto serra. Immagina spesso, lui che proviene da altipiani molto elevati, un innalzamento del livello dei mari, e i disastri che ne seguirebbero. Ritorna costantemente all'attenzione indispensabile, attenzione a se stesso, agli altri, al mondo intero. Dice ad esempio: "Riflettere partendo da un punto di vista antico può esserci di aiuto. Oltre all'esperienza, questo offre al contempo una dottrina e una distanza. Molto spesso ci perdiamo nell'attualità disordinata. A forza di guar dare il nostro mondo troppo da vicino, non lo vediamo più . È bene, ogni giorno, rip artire da lontano". "Ma questo ricorso costante alla tradizione può anche chiuderci gli occhi?" "Certo. Può paralizzarci. Dobbiamo anzitutto restare aperti e sensibili. Poi, se ne abbiamo i mezzi, dobbiamo mostrare agli altri ciò che bisogna fare. È appurato che le vecchie proibizioni religiose si rivelano talvolta un male. Ma come modificarl e? Con quali armi?" Le numerosissime rappresentazioni del Buddha, che si sono succedute in diversi p aesi, attraverso i secoli, poggiano su un complicato simbolismo. La posizione del corpo, i suoi cinque diversi livelli, le particolari caratteristiche fisiche del personaggio, come le orecchie allungate, le spalle larghe, la protuberanza cranic a, tutto ha un significato. Gli scultori e i pittori hanno prestato attenzione so prattutto alle posizioni delle mani, dette mudra, che sono otto. Tra queste otto posizioni, ve n'è una detta "di predicazione" (dharmaciakra mudra): le due mani, u na col palmo girato verso l'esterno, l'altra verso l'interno, con gli indici e i pollici che si toccano, mostrano la ruota del Dharma, cioè dell'ordine del mondo. Si tratta di una ruota (ciakra) che non smette di girare. Inutile lottare contro la forza universale che la muove. Per forti che siano la nostra ostinazione a co struire, la nostra passione per la stabilità, il nostro "tenace desiderio di durar e", questo gesto sta a ricordare il movimento, signore delle cose. Contemporaneo di Eraclito, il Buddha ha perfettamente avvertito ed espresso questo principio. L 'immobilità è illusione, e il nostro corpo ne è il primo esempio. Non cessa, a ogni fr azione di secondo, di degradarsi. Le ultime parole del Risvegliato furono accompa

gnate da un gesto che mostrava il suo corpo rovinato, vittima di una feroce diss enteria: "Tutto ciò che è composito è destinato alla distruzione". I suoi successori hanno ricamato a volontà su questo tema, influenzando nel contemp o vicine correnti di pensiero. In un inno shivaico del VI secolo, ad esempio, si trovano alcuni termini pienamente buddhisti: Ciò che è immobile si disperde e ciò che si muove perdura. Il Dalai Lama stesso si è sovente espresso sulla transitorietà, sui continui cambiam enti che subiscono i fenomeni. Ne trova anche la conferma nel movimento incessant e delle "particelle subatomiche". Anche le nostre coscienze non esistono che tem poraneamente. Ciò che resta fermo, ciò che è sempre fisso, è quello che i buddhisti chiam ano la sesta coscienza mentale, la più profonda, che non ha né inizio né fine, e che s fugge anche alle coordinate abituali dello spazio e del tempo. Ritorneremo ampiam ente su questa "coscienza sottile" quando parleremo dello spirito. Anche se questa coscienza sottile può provvisoriamente cambiare, anche se essa non riesce a sfuggire, secondo le scuole più radicali, all'illusione universale che ci culla, in un certo senso "la sua continuità perdura". Ugualmente, nei molteplici ri volgimenti che subisce la nostra esistenza quotidiana, una sorta di continuità sussi ste, quella della società umana Ma tale continuità è il supporto del cambiamento, che s enza questa sarebbe per noi impercettibile. "Mi pare talvolta che il papa" gli dico "voglia fermare la ruota di questo mondo. La vera risposta non può essergli data dal gesto silenzioso del Buddha?" "Senza dubbio. Il papa, come è normale, è direttamente influenzato dalle tradizioni r eligiose che rappresenta. Così, si aggrappa a un principio: essendo la vita umana u n bene prezioso, il più grande numero di individui deve beneficiarne. Ma a questo si oppone un altro principio, che rappresenta un'altra forma di rispetto per la vita. In base a questo secondo principio, si tratta di difendere ogni vita, e no n soltanto la vita umana. Di quest'ultima, che è in effetti preziosa, si tratta di difendere la qualità. È dunque un principio contro un altro principio. Per noi, nes suna scelta si compie nell'assoluto, per obbedienza servile a un principio. La no stra intelligenza c'è, mi sembra, proprio perché possiamo diventare più flessibili, ada ttabili. Tutto è relativo. Un'intelligenza bloccata non è un'intelligenza." Mi mostra le mani e aggiunge: "Se, per salvare nove dita, bisogna tagliarne uno, io non esito, lo taglio". Ricordiamo per un momento paesi che conosciamo, l'Algeria in particolare, la cui popolazione è triplicata in trent'anni, e vediamo un gruppo di fanatici scegliere il peggio, assassinare gli stranieri, mandare deliberatamente in rovina la propria nazione. "Si vedono qua e là uomini" mi dice il Dalai Lama "compiere sforzi disperati, e sov ente anche criminali, per arrestare il movimento del tempo, per ritagliare e prot eggere uno spazio che noi riteniamo inscindibile." "Al quale si uniscono brame di ogni sorta." "Questo va da sé." "Dal punto di vista della limitazione delle nascite, la Cina non è il solo paese ad aver tentato, su grande scala, una politica sistematica?" "Sì, e da molto tempo. Disgraziatamente, dopo l'occupazione del Tibet, questa poli tica fu estesa ai territori occupati, dove la popolazione indigena era ancora as

sai rada. Furono prese misure molto rigorose, che giunsero fino alla sterilizzazi one forzata delle donne tibetane. Intanto si perseguiva una politica di occupazio ne del suolo, con la deportazione in Tibet di popolazioni cinesi." "Una colonizzazione mascherata?" "Esatto. Il preteso controllo della popolazione, obbligatorio in Tibet come, dic ono, nel "resto della Cina", dissimula una colonizzazione forzata e molto effica ce. Sul territorio dell'antico Stato indipendente del Tibet, gli occupanti cines i sono oggi più numerosi dei tibetani d'origine." Mi do ta ie

viene alla mente una frase di Nietzsche, che non so citare esattamente, secon la quale la terra è un essere vivente. Questo essere vivente ha una pelle, ques pelle è colpita da una malattia mortale, questa malattia mortale si chiama spec umana.

"È certamente" gli dico "una visione estremamente pessimistica. Si può curare questa malattia?" "Lo spero" risponde con una grande risata. "Ma senza eliminare tutta la specie u mana! " All'inizio degli anni Settanta, già più di vent'anni fa, un medico e ingegnere amer icano, James Lovelock, lanciò l'ipotesi Gaia. Portatore, da diversi miliardi di anni , di un fenomeno rarissimo, e forse anche unico, che si chiama vita, il nostro pi aneta reagirebbe a questo fenomeno in modo singolare, con una sorta d'interattivi tà. Esso potrebbe avere, se non una vita personale, almeno reazioni che gli sarebb ero proprie. Accolta senza entusiasmo dalla maggioranza degli scienziati, la teoria Gaia ha s uscitato, presso i lettori, echi molteplici, spesso eccessivi. All'origine di qu esto successo, al di là della distruzione del pianeta alla quale assistiamo (e part ecipiamo) in ogni momento della nostra esistenza, bisogna cercare, come diceva lo stesso Lovelock, ragioni antichissime. La personificazione della terra, sovente al femminile, si incontra ad ogni pagina dei nostri racconti mitologici. In Indi a l'abbiamo già visto si chiama Bhumi. Essa è, come altrove, nostra madre. Nel Mahabharata, immenso poema epico delle origini in cui tutta l'India si ricono sce, una grande battaglia, che oppone ferocemente tutti i popoli conosciuti, mett e in gioco la sopravvivenza della terra stessa, e persino dell'intero universo. Da ambo le parti, infatti, i combattenti sono in possesso dell'arma suprema, chia mata Parasurama, arma ardente e luminosa, capace di annientare in pochi istanti ogni vita. Per questo le piante tremano di paura, come le rocce, come gli dèi. Ed è per lo stesso motivo che in un dato momento, malgrado la sua natura pacifica, Bhumi la Terra - prende parte alla battaglia. Essa afferra, nelle "mani fangos e", la ruota del carro di Karna, uno di questi "uomini arroganti" che può chiamare in causa la temibile arma. Blocca il suo carro, oltre ogni sforzo umano, e manda così a morte il guerriero. Questa partecipazione della terra alle nostre battaglie è, ancora oggi, auspicata q uanto temuta. Alcuni assicurano, non senza ingenuità, che il virus dell'AIDS sia una risposta della "natura" alla nostra trionfante proliferazione, e che altri virus dagli effetti inimmaginabili siano in questo momento in preparazione, nei crogiol i più segreti. Se vi è qualcosa di infantile in queste fantasticherie, esse rivelano comunque le n ostre preoccupazioni e, in uno strano modo, le nostre speranze. "Ma la chiave è nelle nostre mani" mi dice il Dalai Lama. "Non bisogna cercarla alt

rove. È vero che la specie umana è la sola a poter distruggere la terra. Gli uccelli, i conigli non hanno questo potere. Ma se ha il potere di distruggere la terra, ha anche quello di proteggerla." "Ma non intraprende questa strada." Gli narro del fiume del mio paese, nel Midi della Francia, un tempo luogo di sva go, di incontri, di bagni, di pesca, d'irrigazione oggi sporco e abbandonato, d a trent'anni ormai, avvilito e inquinato, assassinato. "Anche qui," gli dico "a Dharamsala, mi ha sorpreso, passeggiando per le foreste, vedere ovunque mucchi di cartacce, scatole di conserva, plastica Sembra che gett ino tutto ovunque." Dice ridendo: "È il contributo della comunità tibetana!". "Ieri, vicino al mio albergo, ho visto un gruppo di bambini tibetani che giocava no rumorosamente. Il loro divertimento consisteva nell'estrarre i rifiuti da un bidone delle immondizie e nello sparpagliarli per terra Mi fermai e mi domandai: che cosa fanno? Perché?" "Hanno sette o otto anni," mi dice "sono nati in un mondo spazzatura, per loro l a natura è piena di plastica, è così, non l'hanno conosciuto prima. Non sanno che il m ondo era bello. Il concetto stesso di bellezza, non lo conosceranno forse mai." Ricordiamo Malthus, naturalmente, e altri personaggi più radicali, come il profeta iraniano Mani che, nel III secolo della nostra era, voleva proibire ogni procreazione umana. D esiderio di morte, come diceva il Buddha, desiderio oscuro che Mani pagò con la vita . Ripeto la domanda: "Che fare, allora?". "Non abbiamo che l'educazione" mi dice. "È la nostra sola arma, insieme all'esempi o che possiamo dare. E questa educazione, dal punto di vista buddhista, comincia con la nozione di interdipendenza Tutto dipende da tutto. La vita di questi fanc iulli che giocano è direttamente collegata alle cartacce che estraggono dalla spaz zatura. Bisogna dirlo, spiegarlo, e soprattutto farlo sperimentare." "È un compito lungo." "Sì, un compito quotidiano, che non terminerà mai. Ma la nostra sopravvivenza, e la qualità della nostra sopravvivenza, hanno questo prezzo. La condivisione di questa presa di coscienza è essenziale se vogliamo migliorare, sia pure di poco, il nostr o atteggiamento, il nostro rapporto col mondo. Dobbiamo vincere l'isolamento del n ostro spirito, dobbiamo rinnovare i nostri contatti con il resto dell'universo. Al trimenti, davvero, siamo perduti. Perduti perché separati. Bisogna mostrare, insta ncabilmente, che il nostro interesse è l'interesse degli altri, che il nostro futur o è il futuro degli altri. E quando dico "gli altri", non penso solamente agli alt ri esseri umani, evidentemente uguali a noi. Penso ad ogni altra forma di vita, su questa terra e fuori di questa terra." "Non è dunque una questione di sentimento, né di morale?" "È anzitutto un fatto."

Tutti coloro che, da vicino o da lontano, si sono interessati al buddhismo, sono stati colpiti dall'affermazione secondo la quale la compassione, fondamento stess o della condotta, non dipende in alcun modo da quello che noi chiamiamo sensibil ità. Anche se non possiamo evitarlo, non serve praticamente a nulla piangere sui nos tri mali o sulle sventure altrui. La compassione buddhista non ha nulla a che ve dere con questo o quel caso particolare. Si basa su un senso molto preciso della nostra appartenenza alla totalità del mondo. Testi venerabili dicono che essa è sen za causa, senza calore, senza passione, instancabile, immutabile. Come ricordava Jacques Bacot nel 1925, "è del tutto obiettiva, fredda e legata a una concezione me tafisica. Non è spontanea, ma conseguente a lunghe meditazioni... Abbraccia tutti g li esseri trasportati dalle passioni nel ciclo delle rinascite. È universale mentre la nostra è particolare". Anzitutto un fatto. Il Dalai Lama insiste sull'evidenza: "Ora, il fatto è che non abbiamo che una terra, nostra madre comune, e che ogni da nno che le provochiamo si ritorce necessariamente contro di noi. Se non prestiamo attenzione alla terra, distruggiamo il nostro stesso futuro". "Possiamo ancora salvarlo?" "Certo. Cominciando dal controllo delle nascite, che bisogna promuovere al più pr esto. Parallelamente, possiamo ripulire i fiumi, e il suolo, e quest'aria che res piriamo. Sì, possiamo farlo! Spetta solo a noi. E non è una questione di sensibilità o di morale. È il nostro futuro a essere in gioco!" Gli ricordo allora altre radici, le nostre, che chiamiamo giudaico cristiane, e q uesto mito dell'inizio della Genesi ove il Dio creatore dà all'uomo il potere su tu tto ciò che è vivente, i pesci dell'acqua, gli uccelli dell'aria, il bestiame, anche sugli animali che strisciano sul suolo. A cui s'aggiungono i frutti della terra, gli alberi. In un racconto decisivo, che sappiamo ora essere stato scritto tardivamente (al ritorn o dall'esilio degli Ebrei a Babilonia, verso il V o IV secolo avanti Cristo), l' uomo si attribuisce, in poche righe, il possesso senza riserve dell'intero piane ta. Lo fa in buona fede, certo, e in nome di un Dio ormai unico. "È difficile valutare" dico "fino a che punto questa parola antica ci influenzi anc or oggi. Sono portato a credere che questa influenza, sottilmente profonda, sia pr esente in ognuno dei nostri gesti." "Davvero?" "Gli occidentali si sono ripetuti, per secoli, di essere la meraviglia del creato , fatti a immagine stessa di Dio. Hanno finito per crederlo. Gli sforzi per liber arci da questo mito, che il buddhismo non ha mai conosciuto, sono lenti e pesant i, si deve sempre ricominciare da capo. Soltanto vent'anni fa, in Occidente, erano pochissimi coloro che si sentivano parte integrante della ruota." "La maggioranza di noi, ed è ancora così, si consideravano al contrario coloro che fa nno girare la ruota." "Certamente. Lei parlava di alcuni gruppi di uomini d'affari che vengono qui a fa re ritiri, e che le chiedono consiglio. Che cosa sono al confronto di tanti milion i di executives organizzati, armati di ventiquattr'ore e di computer portatili, il cui progetto non è che di sfruttare, che di prostrare anzitutto Bhumi?" "È vero che l'Occidente è affascinato dall'efficienza. E senza dubbio, in molti campi , questa efficienza strappa l'ammirazione. Allora pongo una domanda che mi sembra naturale: questa efficienza tecnica, perché non applicarla alla salvaguardia di ogn i forma di vita? Sarebbe un compito entusiasmante per l'umanità, che sembra appunt

o mancare di un grande progetto, di un ideale." "È difficile. La certezza della nostra supremazia ha radici così lontane..." "È difficile, ma indispensabile! Se non si risolve il problema della sopravvivenza , non resterà nessuno nemmeno per sollevare il problema! E il buddhismo può aiutarvi. Dapprima, come ho già detto, grazie all'estrema attenzione che presta al concetto d i interdipendenza. Non lo si ripeterà mai abbastanza. Poi, per l'atteggiamento che adotta nei confronti della verità dottrinale." Abbiamo già ricordato questo punto, ma vi torniamo (la nostra conversazione è come in trecciata, i temi scompaiono e ricompaiono): se la scienza contraddice le Scrittu re, bisogna cambiare le Scritture. Il Dalai Lama riconosce che questo non è facile , anche all'interno del buddhismo. Ma bisogna farlo. Anche noi dobbiamo cominciar e di qui. Importante è risanare. Spesso Sakyamuni si è presentato come un medico: "Come l'ocean o intero è impregnato dal sapore del sale, così tutto il mio messaggio non ha che un sapore, la liberazione". "D'altro canto poco importa" mi dice il Dalai Lama "l'identità del medico e il rime dio che prescrive. Il Buddha ha fornito l'esempio celebre dell'uomo colpito da u na freccia avvelenata. Non vuole farsi medicare prima di aver conosciuto il nome dell'uomo che l'ha colpito, prima di sapere a quale casta appartiene, a quale fa miglia, se è di costituzione robusta o minuta, in quale legno la freccia è stata intag liata. E muore prima che lo si possa curare." Questo atteggiamento positivo, pragmatico, che suppone una verifica costante del modo di pensare e di agire, è la spina dorsale del buddhismo dove si ritrovano rigo re e flessibilità. Pur affermando che ogni evento procede da una causa e comporta delle conseguenze, nella grande ruota dove tutto è collegato a tu tto, il buddhismo sa mettere da parte, quando è necessario, la speculazione teorica , che può ritardare le cure che ogni ferita esige. Al limite, il buddhismo riconos ce anche l'oscurità che avvolge alcuni ambiti. È senza dubbio meglio non addentrarvi si mai, come ha raccomandato il Buddha: "Non cercate di misurare l'Incommensurabil e a parole, e nemmeno di affondare la lama del pensiero nell'impenetrabile...". L'insegnamento dipende anche dal livello di comprensione dei discepoli. Il mio in terlocutore torna ad ogni occasione sui concetti di livello, di misura, di adatt amento. Sakyamuni sembra avere sempre diffidato delle posizioni estreme, che poss ono essere interpretate in un senso volto all'eternità (esiste per sempre un'anima indipendente) o, al contrario, nichilista (non esiste nulla). Le sue preoccupazi oni di pedagogo ci sono state tramandate da uno dei suoi continuatori, Maitreya. Vi si vede che il Risvegliato diffidava del proprio prestigio, raccomandando di c onfidare nell'insegnamento propriamente detto, e non nella persona del maestro, e che metteva in guardia anche dalla dolcezza persuasiva delle parole, in altri te rmini di un bel discorso, preferendo la parola esatta e diretta. Infine, a certe domande, è noto come egli rispondesse col silenzio. Queste zone las ciate nell'ombra, ove la lama del pensiero non penetra, si chiamano "le quattord ici viste inesplicate". Per noi, ricercatori occidentali che scaviamo ovunque, che non vogliamo lasciare alcun territorio di conoscenza inesplorato (anche se le conseguenze della ricerc a possono spesso sembrare temibili), questi quattordici punti indiscutibilmente impenetrabili sono un mistero e quasi uno sca ndalo. Dio ci ha affidato tutto, anche l'oscurità da illuminare.

Al mistero di questo atteggiamento lontano, di queste domande in sospeso fin dal l'origine, si aggiunge per noi l'enigma del buddhismo stesso. Ai nostri occhi avi di di un ordine chiaro, di una definizione precisa, il buddhismo appare spesso co me un atteggiamento ambiguo, al limite della contraddizione, ove tutte le tendenz e possono convivere. È una religione? È una filosofia, o una morale? Domande senza ri sposta, quasi inopportune. Esso resiste ostinatamente a ogni classificazione, con servando in ultima analisi qualcosa di inafferrabile. Alcuni spiriti possono prova rne ripugnanza (ha senso concepire problemi senza soluzione?), altri, al contrari o, vi si muovono a loro agio. Tutti coloro che lo praticano insistono sulla neces sità dell'esperienza, che risolve le indecisioni teoriche con la grazia della vita stessa, inesplicabile. Il nostro rapporto con la terra rappresenterebbe uno di questi problemi senza so luzione? Si tratterebbe di una quindicesima "vista inesplicata"? "Quello che più mi stupisce" gli dico "è che alcuni miei amici, intelligenti e colt i, sembrano incapaci di vedere. Sembra anche, per alcuni di loro, che un accumul o di conoscenze rafforzi la fiducia in se stessi e li accechi anziché metterli in g uardia. Nulla è più sconcertante dei dibattiti tra scienziati che rifiutano sempre, poniamo si citi la fascia d'ozono, di pronunciarsi. Manca sempre loro un ultimo dettaglio, un piccolo calcolo. Il tempo stringe, come dice lei, il veleno della f reccia produce i suoi effetti, ed essi non si pronunciano. Mentre la cosa è chiara : non si corre alcun rischio a proteggere la terra, anche supponendo che essa non corra alcun pericolo." "In caso contrario, se non facciamo nulla, ogni timore è giustificato." "È la logica stessa. È di primaria necessità fare una scommessa sul peggio. Ma la gent e ascolta, scuote la testa, dice: sì, sì, avete ragione..." "E subito dimentica." "Quanto ai partiti politici che si dichiarano sostenitori dell'ecologia, e ai qua li lei alludeva, capita loro di dividersi." "Sì. Il gusto del potere s'intrufola ovunque." "Anche questo è uno dei problemi che ci inquietano: l'ecologia deve accontentarsi d i un'azione sul campo oppure innalzarsi, col rischio di corrompersi, fino al pian o politico dove si prendono le decisioni? Non abbiamo tutti la stessa risposta." "Né, senza dubbio, la stessa domanda." "Ho letto con piacere, in uno dei suoi libri, che lei spegne la luce quando lasc ia la stanza di un albergo." "È vero." "Io faccio la stessa cosa, per abitudine. Durante l'infanzia, quando l'elettrici tà era ancora un lusso, mi hanno educato in questo modo." "So bene" mi dice "che questo gesto non giova alla terra se non in proporzione i nfima. È necessario, comunque, iniziare da qui. Cominciare da se stessi, sperando c he qualcun altro, intorno a noi, ci imiti, e che il cerchio vada allargandosi." "Tuttavia le generazioni che ci seguono, nate nella seconda metà del secolo, hanno altre abitudini. L'elettricità, che fa dimenticare l'antica paura della notte, è di ventata loro familiare. Rarissimi sono i giovani, in Europa, negli Stati Uniti, che spengono la luce uscendo da una stanza."

"Non hanno conosciuto la notte, il mondo oscuro, il chiarore prezioso di una cand ela." "Sono come quei bambini che non hanno conosciuto la terra pulita e bella." "E non dimentichi" mi dice " che quest'ignoranza fa gli interessi di coloro che producono l'elettricità"

"E di coloro che la vendono." Abbiamo altri punti in comune. Come lui, io sono nato in un piccolo paese. Ho abb andonato la pesca e la caccia, che praticavo nella mia infanzia come ogni fanciu llo di campagna. Nato nel 1931, ho quattro anni più di lui. Il Dalai Lama raccont a nelle sue memorie che la seconda guerra mondiale passò per lui quasi inosservata , mentre fu il grande avvenimento della mia infanzia. Egli viveva allora in un al tro mondo, ancora isolato e organizzato da riti, bambino misteriosamente designa to alla funzione che esercita oggi. Tuttavia, in alcuni momenti, ho l'impressione che questo uomo che mi parla, ora serio, ora allegro, e che spesso mi stringe a michevolmente la mano, abbia due o tremila anni più di me. Porta in sé tutto un con tinente di pensieri, immagini, suoni, sentimenti che giungono da un lontano pass ato, conservati da una meditazione quotidiana, e per questo sempre vivi. Riprende la parola: "Non sono un esperto dell'educazione. Sono anzi ignorante in questo campo. Ma so che la vera risposta è qui. I nostri sistemi educativi cambiano nostro malgrado. In Occidente è chiaro che la televisione sta prendendo il posto dei maestri di un tempo . È un bene? È un male?". "Comunque, tutti ne discutono. E vivacemente." "Mi dicono che le nuove generazioni, negli Stati Uniti e anche in Europa, hanno un comportamento sempre più egoista e crudele, mi parlano della giungla delle peri ferie, di bande di giovani teppisti drogati, di pietre omicide gettate dai cavalc avia sulle automobili, e anche di crimini commessi da bambini. È conseguenza d'una decadenza generale, della crisi economica? Oppure lo spettacolo quotidiano della violenza fa emergere la nostra stessa violenza?" "È un altro problema all'ordine del giorno." "Un fatto curioso, ad esempio: trovo che i giovani tibetani, nati e cresciuti in India, siano più miti di quelli del Tibet. Fanno parte dello stesso popolo, della stessa cultura, parlano la stessa lingua, e tuttavia sono diversi. A causa dell' ambiente, immagino." "Però l'India non è un paese particolarmente pacifico." "Chi lo può sapere?" mi dice. "Rifletta. So bene che ci sono problemi, in India, e anche sangue versato! Ma nell'insieme, in India, popoli diversi, che parlano qua si sessanta lingue e che praticano religioni di ogni genere, riescono a convivere . Non è questo un esempio che tutto il pianeta potrebbe seguire? Non esageri nel di pingere negativamente il quadro. Lei, venendo qui, ha attraversato il Punjab. Sc onvolto di recente da lotte, questo Stato è ora pacifico. Ha ritrovato la propria r icchezza. E pensi ai giovani tibetani che in questo momento, in Tibet, devono fa re fronte ogni giorno alla pressione degli occupanti cinesi. Ecco indubbiamente la ragione prima della loro aggressività: una vita senza felicità, una vita costantem ente messa in discussione. Un'oppressione sistematica porta all'insoddisfazione e ben presto all'aggressività." Riflette un istante senza che io lo interrompa e aggiunge: "A tutti noi manca qualcosa. Non so bene cosa, ma lo sento. In Occidente, avete tutto. O almeno lo pensate. Anche se state attraversando in questo momento una cr isi, non manca ogni sorta di beni materiali, senz'altro meglio distribuiti che in passato. Voi ne andate comunque sovente fieri. Ma mi sembra che viviate in una tensione, in una competizione e in un timore incessanti. Coloro che crescono in questa atmosfera mancheranno, per tutta la vita, di qualcosa".

"Di cosa mancheranno?" "Della nostra dimensione più profonda, e anche più gradevole, e più feconda. Rester anno sulla superficie agitata del mare, senza conoscere la calma sulla quale posa no." Il Dalai Lama è venuto per la prima volta in Occidente nel 1973. La conoscenza che ha potuto avere delle nostre condizioni di vita, e del livello del nostro pensier o, è forse limitata così come lo è la nostra quando ritorniamo da un viaggio in India o in Cina. Ogni realtà è complessa e mutevole. Quando parla brevemente dell'Occidente meccanicistico e mercantile, non sempre egli sa evitare i luoghi comuni. Non è aff atto vero che tutti coloro che vivono in Occidente beneficino di tutte le presup poste comodità, di tutte le meraviglie della tecnica. Questa tensione di cui s'è parl ato, questa fretta, questa competizione spietata, non sono senza vaste schiarite , senza ampie zone di serenità. Anche noi abbiamo ricercatori disinteressati, bene fattori, sognatori. Anche da noi Ci sono anacoreti. Inoltre, quando egli parla dell'Occidente, si accontenta talvolta, per comodità, di un'immagine senza sfumature. Noi facciamo lo stesso, regolarmente, quando parlia mo dei paesi arabi, dell'Africa, del Giappone: non cogliamo che il tratto salien te, semplificatore. E il buddhismo ci insegna senza sosta che ogni semplificazion e, sempre che pretenda di descrivere una società, è falsa e, di conseguenza, pericol osa. Quando arriviamo a parlare dei cambiamenti che abbiamo potuto osservare nel cors o della nostra vita, gli cito il celebre libro dell'antropologa americana Margare t Mead, Generazioni in conflitto, che fu uno dei manifesti della fine degli anni Sessanta. Non sembra conoscere questo libro. "Perché dunque era celebre?" "Perché riprendeva, con chiarezza, le idee più diffuse in quegli anni, e anche perc hé poneva un vero problema. Nelle società tradizionali, diceva Margaret Mead, il mond o non cambiava da una generazione all'altra, o cambiava di poco. Anche i vecchi p otevano trasmettere ai giovani, ai nuovi venuti nel gruppo, ogni loro conoscenza sull'ambiente, sul modo di vita, sugli utensili, sui racconti, sui legami sociali . In un mondo immutabile, le nuove generazioni avevano bisogno di questo sapere. Quando le cose sono cominciate a cambiare, sempre più velocemente con i tempi moder ni, lo scarto fra generazioni si è fatto evidente e, in seguito, si è aggravato. È dive ntato un fossato. I nuovi venuti si domandavano perché i vecchi si ostinassero a t rasmettere loro questa o quella tecnica, a far leggere l'uno o l'altro autore, qua ndo quell'autore li annoiava e quella tecnica non aveva più alcuna utilità. Mi ascolta scrollando la testa, con lo sguardo molto attento. "Ad esempio," gli dico "dall'età di sette o otto anni, mio padre mi ha insegnato a d arare con il cavallo. Fra le altre cose Dovevo conoscere tutto sull'ambiente con tadino. Oggi, supponendo di non averlo dimenticato, sono probabilmente uno dei poc hissimi autori europei a saper arare in questo modo." Quest'immagine lo fa ridere. Aggiungo: "In compenso, nel 1945, quando si è saputo dell'esplosione di Hiroshima, le person e del paese più vecchie di me (avevo quattordici anni) sono venute a chiedermi co sa fosse questa bomba straordinaria, capace di distruggere una città in un sol colp o. Andavo a scuola, e loro pensavano che io avessi conoscenze che del resto, in qu esto campo, non avevo. Il sapere cambiava generazione. Accade la stessa cosa, oggi, per quanto riguarda l'elettronica. A mia volta, spesso, chiedo consiglio s u questo argomento a mia figlia".

Cerco di illustrargli brevemente come, a partire dalla fine degli anni Sessanta, il nostro sistema educativo sia rimasto in uno stato d'incertezza. Da un lato gl i antichi baluardi del sapere si sgretolavano. Tutto un passato ci sembrava all' improvviso inutile. Il latino cadeva nel dimenticatoio, a favore della matematica . L'insegnamento si proclamava aperto, flessibile, superficiale, quasi facoltati vo. In alcuni casi si giungeva a chiedere agli studenti che cosa desiderassero im parare. Atteggiamento che condusse a una pedagogia strana, quasi alla rovescia, e che corse il rischio di formare una o due generazioni di ignoranti. Dopo di che si ebbe la solita reazione, e così via. "In questo momento esitiamo ancora. Come lei dice, avvertiamo chiaramente che l' intero sistema deve cambiare. Ma per andare in quale direzione? Le opinioni divergono." La sua risposta è sorprendente: "Negli aeroporti e nelle stazioni," mi dice "quando la polizia vuole individuare carichi clandestini di eroina, si giova di cani addestrati. E spesso questo funz iona, perché i cani hanno narici molto più fini di quelle dei poliziotti. Ma ciò non significa che i poliziotti debbano considerare i cani come professori". Non posso che approvarlo. Dopo una lunga riflessione aggiunge: "Mi domando veramente se il cambiamento abbia accelerato il suo corso. Quale camb iamento? Il cambiamento di che cosa? Della tecnica, sì. Tutti i nostri strumenti s i sono perfezionati, alcuni sono nuovi, esigono una nuova abilità. Gli abiti cambi ano in funzione della moda, per lo meno i vostri, i mezzi di trasporto si perfezionano, la nostra percezione del mondo, le nostre convinzi oni cambiano, perché viviamo tutti nella transitorietà. Esteriormente, in effetti, le cose cambiano, si modificano in continuazione". Scuote piano la testa prima di aggiungere: "Ma noi, però, non siamo cambiati".

3 NÉ IO NÉ DIO Basato su una esperienza personale, al di là di ogni rivelazione divina, il buddhi smo, secondo le parole stesse del suo fondatore, nega ogni esistenza indipendente dell'io. Paradosso unico nella storia del pensiero: quello che tutte le tradizi oni chiamano "anima", in sanscrito atman, questa entità permanente che sopravvivere bbe a noi per conoscere un'altra vita, o diverse altre vite, questa realtà distinta dal corpo, resistente alla morte, al sonno, alla perdita di coscienza, il buddhi smo la cerca senza trovarla. Anche i concetti contemporanei di un "io", di un "ego", che non presuppongono la sopravvivenza dell'anima dopo la morte ma che stabiliscono un sé tangibile, un ess ere io definito e durevole, sono energicamente confutati. Quando diciamo "il mio corpo" o "il mio spirito", supponiamo l'esistenza di un essere, di una persona ch e possederebbe questo corpo e questo spirito e che, di conseguenza, ne sarebbe car atterizzato. Lo stesso quando diciamo "i miei desideri", "i miei rimpianti", "il mio passato", "il mio coraggio". Ora, questo essere, questo sé, il buddhismo non l o trova da nessuna parte. E addirittura lo condanna, perché vede in questo credo illusorio l'origine dell'ego ismo, dell'attaccamento ai beni, della gelosia, dell'orgoglio, della malevolenza

nei confronti degli altri, che vivono nel medesimo errore. Dai conflitti fra ind ividui alle guerre di sterminio fra nazioni, ogni sventura che ci inquieta nasce i n questa illusione assurda, in questa sensazione di un essere distinto, particol are, forte. Noi siamo, come il foglio di carta, in rapporto porci in un certo numero di elementi: le nostre bra, gli atomi che ci costituiscono, l'attività tali elementi può aspirare alla totalità di un

con tutte le cose. Possiamo scom membra, le parti delle nostre mem del nostro pensiero, ma nessuno di io. Questo continua a sfuggirci.

Per lottare contro questa inconsistenza, che i poeti hanno talvolta magnificament e espresso, gli uomini ci dice il buddhismo hanno inventato due concetti, l'u no di protezione, l'altro di conservazione. Il concetto di protezione si chiama D io, padre onnipresente e onnipotente, che ci rassicura nella nostra debolezza. I l concetto di conservazione si chiama anima, destinata a vivere in eterno, elemen to di consolazione nel cammino della vita. Altri "errori di fondo", profondamente inscritti in noi da noi stessi, l'idea di Dio e l'idea dell'anima sono il segno stesso della nostra ignoranza. Queste ide e sono false e vuote. Esse sono "proiezioni mentali sottili i, abilmente avvolte da parole. Hanno una potenza quasi irresistibile, perché sono nate dalla nostra an goscia e dal nostro bisogno di vivere. L'uomo vi si aggrappa così fortemente da non voler nemmeno sentire una parola che vi si opponga. Pertanto, per giungere al ris veglio, è indispensabile liberarcene. Il Buddha Sakyamuni si è perfettamente reso conto dell'aspetto rivoluzionario, e as sai difficilmente accettabile, di questa critica dei sentimenti e dei pregiudizi. Ha detto: "Gli uomini sommersi dalle passioni e circondati da una massa di oscur ità non possono vedere questa verità che va contro corrente, che è sublime, profonda, s ottile e difficile da comprendere". Andare "contro corrente" è il minimo che si possa dire, perché noi siamo intimamente persuasi di essere individui particolari e permanenti. La maggioranza delle nostr e frasi cominciano con io. Tutto ci dice che siamo fatti delle nostre azioni pas sate, della nostra condizione presente, dei nostri progetti per il futuro, che l e nostre modificazioni non sono che superficiali, che l'essenziale, in ciascuno di noi, sussiste. "Non sei cambiato" è una delle frasi che ascoltiamo più spesso in torno a noi. È sufficiente entrare in una grande libreria e contare le opere esplicative e dimos trative dedicate ai problemi dell'io. Gli scaffali ne traboccano. Opere moltepli ci quanto deludenti, quando capita di immergervisi, perché nessuno dei casi descrit ti, stranamente, sembra applicarsi al nostro. Comunque, non è vicina la fine di questo accumularsi di analisi. Tutta la struttura del diritto occidentale moderno è basata principalmente sull'individuo distinto dal la massa, tanto minacciato quanto prezioso: un individuo percepibile e definibil e. Il buddhismo afferma ostinatamente il contrario. Nessuna traccia di sostanza rima ne, in noi, immutata. Viviamo al centro di una corrente ininterrotta di relazioni, che condizionano a ogni istante la nostra esistenza. Non abbiamo alcuna possibi lità di parlare del nostro io, del nostro essere. I buddhisti non possono seguire Cartesio e il suo famoso "dunque". Nulla ci autorizza a passare dal pensiero all' essere, due elementi in pari grado mutevoli. Invece di affermare "penso, dunque s ono", tutt'al più potremmo dirci, nel momento in cui parliamo: "penso, quindi pens o", oppure, come Nietzsche, "qualcosa pensa". Questa disgregazione dell'ego si accompagna, naturalmente, a una viva critica de lla memoria e del concetto di passato. Questo senso di continuità, che ogni vita d ona, è una illusione supplementare, un compiacente gioco dello spirito. Tutto quel

lo che concerne il nostro passato che ricomponiamo e modifichiamo col pensiero in ogni istante è un'astrazione, una costruzione mentale, come il futuro. Possia mo a malapena parlare del momento presente, e con prudenza. Poiché bisogna comunque ammettere che esistiamo (altrimenti la ricerca del risvegli o diventa incomprensibile), il Buddha ammette che siamo costituiti da "cinque aggr egati". Senza entrare nei particolari, che sono complessi, elenchiamo questi cinqu e aggregati che ci compongono, e che sono il fondamento della nostra presenza nel mondo: il corpo (o carattere materiale), la sensazione, la percezione, la forma zione mentale (o le costruzioni) e la coscienza. Ma il Buddha dice anche, parlando ai suoi primi cinque discepoli: "Il corpo non è il Sé, la sensazione non è il Sé, la percezione non è il Sé, le costruzioni non sono il Sé, nemmeno la coscienza è il Sé...". Nessuno degli aggregati che ci compongono (anche se certe scuole sostengono il co ntrario) può dunque pretendere di essere noi stessi. Ma se bisognasse scegliere? Se avessimo bisogno a tutti i costi di un supporto, di un punto d'appoggio? Allora , dice il Buddha, senza dubbio conviene scegliere il corpo, perché almeno sussiste per un momento, mentre "quel che voi chiamate spirito si produce e si disperde i n un perpetuo cambiamento". Diffidenza, dunque, nei confronti del nostro pensiero. Diffidenza totale nei conf ronti della nostra "anima". Tutti i successori del Risvegliato, a qualsiasi scuola buddhista si rifacessero, hanno insistito su questo punto: l'io è un'illusione, e la vera fonte della soffere nza. Anche il Dalai Lama ha parlato di questa illusione persistente come di un "d emone interiore, il più radicato in noi". E aggiunge: "... Il vero praticante dev' essere un soldato che combatte senza sosta i nemici interiori, il cui capo è questa convinzione dell'io che tutti gli altri att orniano e seguono. Stabilito questo, ripenso alla sua ultima frase: "Ma noi, però, non siamo cambiati". Se non siamo che caducità e illusione, qual è il flusso costante, inafferrabile, che non cambia in noi? Su quali elementi, fra quelli che ci compongono, possono pogg iare i nostri sforzi? Che cosa possiamo modificare in noi? Riprendiamo la conversazione da dove l'abbiamo lasciata. Oggi è un altro giorno. Da ieri il tempo è trascorso, miliardi di eventi sono successi, sulla superficie dell a terra e senza dubbio altrove, di cui noi portiamo segni invisibili. Da ieri contiamo qualche milione di vite in più sul pianeta. Il Dalai Lama ritorn a sull'argomento e mi domanda: "Se un cattolico sincero, preoccupato per la sovrappopolazione come lei e me, in contra un ostacolo nella tradizione, un notevole ostacolo autentico, che non può tr ascurare a cuor leggero, che cosa può fare?". "Intende dire: se crede veramente alla forza di verità delle Scritture?" "Sì." "È un caso abbastanza raro." "Cioè?"

"Ho visto recentemente alla televisione francese un servizio su una famiglia sin ceramente cattolica. Una delle figlie, pur professandosi credente, ammetteva aper tamente di fare l'amore con un giovane al di fuori del matrimonio e di prendere la pillola per non avere figli. Esistono ovunque accomodamenti col cielo. Le Scr itture cristiane, nella maggioranza dei casi, sembrano ormai sorpassate ai crist iani di oggi. Parlo dell'Europa, dove la crescita della popolazione è, in ogni modo , molto limitata. In Africa, o in America Latina, il problema è completamente diver so." "Ma comunque, all'interno del cattolicesimo, esiste una via d'uscita?" "Senza dubbio, ma resta ben nascosta. Il cammino è ancora molto lungo. Quando il pa pa, rivolgendosi agli africani, proclama, come faceva con i messicani e con altri, che devono accettare tutti i figli che Dio manda loro (un modo di parlare che i l buddhismo non ammette), lusinga forse la virilità dei maschi africani e, in un ce rto modo, mitiga la loro paura d'invecchiare. Molte famiglie sono convinte che u n figlio in più un maschio di preferenza, se Dio lo concede costituirà un appog gio supplementare per la loro vecchiaia." "Lo so bene," mi dice "in India e in Cina è la stessa cosa: si ha l'impressione ch e, se una famiglia è numerosa, resisterà meglio alla povertà." "Mentre l'esperienza europea prova evidentemente il contrario. Per lottare contro questa idea, un francese che lei conoscerà sicuramente, il comandante Cousteau..." "Come dice?" I suoi assistenti mi hanno già prevenuto: Sua Santità ricorda molto bene i volti, ma dimentica facilmente i nomi. Lhakdor, in tibetano, gli ricorda chi è Cousteau. "Ah, sì!" esclama. "Lo conosco." "...ha proposto, per lottare contro l'insicurezza che minaccia tutti gli uomini del terzo mondo nella vecchiaia, di garantire a ogni capofamiglia una pensione su fficiente. Così, forse, rinuncerebbero ad accumulare figli, ipotetici sostegni dell a vecchiaia." "Immagino." "È una soluzione indiretta, scaltra, con effetti a lungo termine, molto difficile da mettere in atto." "Dove trovare il denaro? Come distribuirlo?" "Molte altre idee vengono proposte qua e là. E molti volonterosi vi si prodigano. Cominciamo a inserire l'ecologia nelle fabbriche (timidamente), a utilizzare la be nzina senza piombo, a esercitare un controllo sugli apparati di scarico dei veico li, ad acquistare detergenti biodegradabili, carta riciclata, ortaggi e frutta co ltivati senza prodotti chimici. Usciamo a fatica dalla dittatura spietata dell'i ndustria, che i nostri genitori e nonni hanno subito con il sorriso sulle labbra p er più di un secolo. Ma in realtà resta tutto da fare. E non si potrà costruire nulla di rassicurante se la popolazione non viene controllata. Questo è evidente, mi sem bra." "Lo credo anch'io. Ma deve capire che i grandi capi religiosi sono per così dire i ncapaci di modificare le proprie idee."

"È evidente." "Soprattutto" mi dice "se questo cambiamento deve essere brusco. Il papa, ad ese mpio, in tutti i testi che distribuisce ai fedeli cattolici, ripete incessantemen te lo stesso discorso. Discorso che si basa su convinzioni molto antiche. Anche se lui, personalmente, fosse favorevole a qualche cambiamento (noi non ne sappiam o nulla), le istituzioni cui è a capo gli proibiscono di dirlo pubblicamente. Cerc hi di comprendere: è impossibile." "Che cosa si può sperare?" "Tutto deve partire" mi risponde "da quella che si chiama la base. So perfettame nte, per averne parlato con loro, che esistono nelle comunità religiose cattoliche, presso i monaci e anche presso le monache, individui che avvertono il pericolo, che condividono le nostre idee, che affermano la necessità di fare qualcosa, al più presto. È da loro, e anche dai fedeli, che deve partire l'idea di un cambiamento. In altre parole, essi dovrebbero creare un'atmosfera che renda possibile questo cambiamento. Le decisioni indispensabili diventerebbero così, per i loro capi, molt o più facili." "Vi sono anche gli scienziati." "Sì. Lo sforzo principale deve venire da loro." "Ma anch'essi appartengono a istituzioni. La maggior parte vive in mezzo ad agi m ateriali e culturali. Fanno molta fatica a prendere la parola, e i migliori fra loro lo riconoscono." "Devono tuttavia parlare, e parlare a voce alta. Stabilire statistiche chiare, e diffonderle. Devono dirci e ripeterci a quali cifre dobbiamo attenerci." "L'hanno fatto. A dire il vero, abbastanza raramente. Ma noi leggiamo e dimentich iamo subito. Che la Nigeria conti più di seicento milioni di abitanti fra una tren tina di anni, a noi oggi cosa importa?" "Ma il compito degli scienziati non è soltanto quello di ricercare. È anche quello di informare, o la ricerca non ha senso. Quel che vale per la popolazione vale anch e per l'ambiente. Altrimenti lei ha altre idee? Conosce altri mezzi per aiutarci a superare gli ostacoli?" Non so che cosa rispondergli. Gli ripeto che possiamo unicamente fare proposte, c he decide soltanto il potere politico. Mi domanda ancora: "L'Occidente potrebbe veramente cambiare vita? È pensabile?".

"Per ora, vediamo chiaramente che gli occhi di tutti sono puntati sulla disoccup azione, e questo problema immediato nasconde facilmente tutti gli altri. Vediamo anche che i rimedi proposti qua e là giungono tutti dal passato. Non parlano che di crescita e di ripresa economica, cosa che per di più presuppone un aumento di sfr uttamento di un pianeta quasi esaurito. Nessuna idea nuova ed efficace ci sostie ne. Parlare di un cambiamento di vita sembra un viaggio nell'isola di Utopia." "Vede l'Europa unita" mi domanda "come una speranza?" "Da questo punto di vista, sì, forse." "Le minacce dell'ambiente non si arrestano alle frontiere." "Nemmeno i movimenti di popolazione. Schiere di mendicanti percorrono ormai l'Eu ropa, che ha il suo terzo mondo in casa. Ogni paese occidentale conta oggi una s econda e anche una terza popolazione clandestina. Negli Stati Uniti si contano più di venti milioni di indocumentos, immigrati senza permesso, che vivono alla gior nata, spostandosi da un luogo all'altro. Anche in questo caso, che fare? Le solu zioni che prevedono misure di polizia non sono né moralmente auspicabili, né efficac i. Ogni frontiera ha innumerevoli varchi." "Dobbiamo insistere, giorno dopo giorno. Senza mai perderci d'animo. Dobbiamo af fermare: siamo troppo numerosi." Mi stupisco e mi rallegro dell'insistenza con la quale il Dalai Lama ritorna sui problemi della popolazione, dell'ambiente. Non avrei immaginato che queste pr eoccupazioni fossero tanto vive. Così forse si delinea una prima risposta al parado sso del non sé. Cercando invano il proprio io permanente, il Buddha scopre l'uguagl ianza di tutte le cose esistenti, senza alcun posto privilegiato, e le relazioni che le uniscono. Non si tratta di negare l'esistenza del mondo, né di noi stessi. All'opposto di un a visione volta all'eternità (permanenza dell'essenza degli esseri al di là della cor rente dell'esistenza), questo atteggiamento di dubbio radicale condurrebbe al ni chilismo, a concepire il mondo come una semplice costruzione dello spirito. L'idea non manca di seduzione. Ha anche attratto alcuni filosofi occidentali, com e l'irlandese Berkeley (Tre dialoghi tra Hylas e Philonous, 1712). Il mondo non a vrebbe un'esistenza se non tramite la nostra percezione. La netta maggioranza delle scuole buddhiste rifiuta tuttavia questa negazione rad icale della realtà, basandosi su una frase molto categorica di Sakyamuni: "Esiste c erto un non nato, non diventato, non-fatto, non composto, e se non esistesse, non ci sarebbe scampo possibile a ciò che è nato, diventato, fatto e composto". Il Dalai Lama lo dice a suo modo: "Quando dubito di esistere, mi dò un pizzicotto". "Dunque, nessuna preoccupazione: esistiamo?" "Sì. Anche se la nostra conoscenza del mondo e di noi stessi è illusoria, un "non na to", un "non diventato" esistono, senza loro non esisteremmo. Ma noi esistiamo in un modo al contempo relativo (all'attività del nostro spirito) e condizionato (da tutte le altre esistenze)." "Impossibile trovare l'io al di fuori del corpo e dello spirito?" "Impossibile" mi risponde. "Ma impossibile è ugualmente percepire e descrivere la nostra esistenza relativa rigorosamente imprigionata in una trama di cause e di effetti senza percepire nello stesso tempo l'esistenza di tutte le cose." "Dalle quali siamo inseparabili?"

"Esatto. La nostra esistenza non è in alcun modo indipendente. Ma essa è, in se stessa, ogni esistenza." E questo vale anche per il corpo soltanto, come dice ancora Sakyamuni: "È all'inte rno del nostro corpo stesso, mortale e lungo soltanto sei piedi, che esistono il mondo e l'origine del mondo, e la fine del mondo, e similmente il cammino che co nduce al nirvana". Così, le prese di posizione "ecologiche" del Dalai Lama non sono un fenomeno di mod a, il frutto di una rivelazione tardiva di fronte all'evidenza di una distruzion e (come è stato per noi). Esse sono inscritte da molto tempo in quel che il buddhi smo ha di più profondo, forse anche di più originale con il giainismo, un'altra tradizione indiana comparsa nel medesimo momento, quasi nello stesso luogo del bu ddhismo e fedele fino a oggi agli insegnamenti del suo fondatore, Mahavira. Fra q uesti insegnamenti figura, come punto essenziale, il rispetto per ogni forma di v ita. Qua e là per le strade dell'India (mi è capitato andando da Dharamsala a Delhi) si incontrano gruppi di uomini e donne vestiti di bianco, che camminano e mendic ano senza sosta, e che portano sulla bocca una sorta di benda per evitare di ingh iottire per sbaglio qualche zanzara. Ugualmente, prima di sedersi, spolverano il sedile con un leggero scacciamosche per allontanare i piccoli insetti che rischi erebbero di schiacciare. Senza avventurarsi in questi atteggiamenti estremi, il buddhismo condivide lo ste sso sentimento. Noi non siamo una parte separata del mondo, siamo il mondo. Dicendomi "ma noi, però, non siamo cambiati", il Dalai Lama non alludeva ad alcun territorio irriducibile che conserveremmo e proteggeremmo in noi stessi. La sua frase aveva un senso apparentemente più semplice, ma in effetti più sottile e più ampio. Quello che non è cambiato, mi diceva, è il nostro rapporto col mondo. Dopo due secoli di fucilate, di barricate, di scioperi, di conquiste soci ali, di vertigini tecniche, di furori ideologici, di rivolgimenti scientifici, di guerre piccole e grandi, ci scopriamo gli stessi, sempre intimamente legati a qu ello che abbiamo preteso di conoscere e di dominare. E vediamo sorgere con stupor e il pericolo che non ci aspettavamo, quello dell'autodistruzione, tanto più diff icile a scongiurarsi in quanto scaturisce, continuamente, dalla nostra persistente illusione. Lo ascolto in altro modo quando riprende, con un'energia, una convinzione sempre più marcate: "Il vero problema del terzo mondo è l'ignoranza. Insieme al desiderio di possesso e all'odio, l'ignoranza è uno dei tre klesha, uno dei tre veleni dello spirito, che s ono la fonte di ogni malattia mentale. Nel terzo mondo, è senz'altro il più potente. In Occidente, per forza di cose, cominciate a rendervi conto che qualcosa non v a. E, a modo vostro, vi organizzate, lottate". "Una lotta che non servirà a nulla se non diventa mondiale." "Esatto. Bisogna dunque educare le popolazioni del terzo mondo. Poiché esse non sa nno nulla, lo vedo qui intorno a me. E bisogna farlo energicamente, senza reticen za sentimentale. È una necessità immediata, un'urgenza. Bisogna dire loro, con tutto ciò che questo comporta di ambiguo: state sbagliando, la vostra eccessiva crescita demografica vi conduce a una miseria ancora più terribile. Voi desiderate, com'è ovv io, che il vostro tenore di vita migliori. Ma questo non è possibile per tutti. Al contrario." Gli ricordo le argomentazioni di qualche esperto di demografia: alcuni paesi, è il caso dell'India e forse anche del Messico, sembr ano vivere meglio da quando le loro popolazioni hanno raggiunto livelli che non molto tempo fa sembravano inimmaginabili. Le rese agricole sono raddoppiate, si

creano nuove attività. L'India arriva al punto di esportare cereali. Tuttavia questa situazione apparentemente favorevole al commercio non è che l'i mpressione di un momento. Quando si pensa di aver raggiunto l'equilibrio, subito si spezza. Nulla arresta, intorno a noi, e nemmeno in Cina, l'espansione demogr afica; nulla, salvo i meccanismi collettivi poco conosciuti legati al migliorame nto del livello di vita: vivete meglio, vivrete meno numerosi. Ma si tratta evide ntemente di un circolo vizioso. La torta non si può ingrandire all'infinito. E la di visione di questa torta non è più equa oggi di ieri. Le bidonvilles di Bombay trabo ccano, i marciapiedi di Delhi sono ricoperti da una popolazione capitatavi per c aso, eterogenea e senza risorse. La disoccupazione diventa un flagello per l'int ero pianeta, insieme all'accattonaggio, suo vecchio compagno. Gli indiani abband onati del Chiapa si sollevano, armi alla mano. I popoli del Ruanda si massacrano. Presto coloro che avranno "la fortuna" di lavorare lavoreranno per due, o per tr e. A ciò si aggiunge conseguenza praticamente inevitabile, e nella maggioranza d ei casi incontrollata lo sfruttamento sistematico del pianeta. Prosegue: "I paesi del Nord (è così che chiama generalmente l'Occidente: the Northerners) non s ono mai soddisfatti. Hanno tutto, e vogliono ancora di più . Altri paesi, come l'Et iopia, soffrono di carestia cronica. Non hanno niente, e domani avranno meno di n iente. Dobbiamo lottare contro questo scarto crescente". Insiste sulle seguenti parole: "Questo dovrebbe essere il nostro traguardo. Avvicinare i due mondi l'uno all'alt ro fino a renderli paragonabili e, se possibile, uguali. Sì, questo dovrebbe essere il nostro traguardo. È moralmente nobile, e praticamente tutto lo giustifica". "Non è un po' facile a dirsi?" "Certo. Ma bisogna cominciare col dirlo, e dirlo chiaramente. Tutti i problemi c he lei e io ricordiamo, e che ogni individuo incontra nella propria vita di tutti i giorni, fame, disoccupazione, delinquenza, insicurezza, deviazioni psicologic he, epidemie diverse, droga, follia, disperazione, terrorismo, tutto è legato a que sto fossato che va allargandosi fra i popoli, e che si ritrova, beninteso, all'i nterno stesso delle nazioni ricche. Il buddhismo è assolutamente categorico su quest o punto, e la nostra antica esperienza ce lo conferma a ogni istante: tutto è stre ttamente collegato, tutto è inseparabile. Di conseguenza, bisogna ridurre questo sca rto." "Come fare?" "Bisogna dire, con argomenti persuasivi e buona volontà, ma anche con precisione s cientifica, ai popoli del terzo mondo: volete che il vostro livello di vita sia p aragonabile a quello dei paesi del Nord? Bene, cominciate a limitare le nascite. Altrimenti, è inutile provarci." "Torniamo dunque al concetto di educazione." "Di informazione anzitutto, e di educazione poi. Non possiamo evitarlo." "Ma gli emarginati sono così numerosi. Senza alcuna possibilità di parlare. Li diment ichiamo così facilmente. E poi sappiamo bene che il prezzo delle materie prime, su lle quali si basano tutte le economie vacillanti dei paesi del Sud, sappiamo bene che questi prezzi si decidono in Occidente!" "Non ho detto che sia facile. Ne sono ben lontano. Dico solo da dove credo che b isognerebbe cominciare."

"Diversi etnologi e pensatori occidentali, in particolare uno dei più prestigiosi fra loro, Claude Levi Strauss, si sono chiesti se la nostra forma di civiltà non pos sieda in se stessa un fascino fatale, irresistibile." "Cioè?" "A partire dal XVIII secolo, da quando l'Europa, caratterizzata dall'industria, si è lanciata alla conquista del globo, ogni cultura che entra in contatto con la n ostra sembra esserne ben presto sedotta. Desidera acquisire immediatamente le nos tre conoscenze, la nostra competenza tecnica, il dominio che ostentiamo su una na tura sottomessa, e soprattutto gli oggetti che fabbrichiamo. Levi Strauss si doma nda se questa seduzione, che tende a uniformare il mondo, non sia fatale per gli uni come per gli altri. Una civiltà mondiale gli sembrerebbe inimmaginabile e in ogni caso pericolosa. Dice anche, ed è lungi dall'essere il solo, che le culture no n vivono che per la loro diversità, confrontandosi e scontrandosi. L'influenza univ ersale di una di queste culture a detrimento delle altre significherebbe forse la scomparsa, dal punto di vista antropologico, del concetto stesso di cultura." Mi chiede di essere più preciso. Gli racconto alcuni ricordi personali, immagini d i indiani dell'Amazzonia pressoché nudi, adorni di piume, che maneggiavano con dest rezza cineprese. Ci sembra di vedere che tutti i popoli, da circa un secolo, han no adottato la nostra "meccanica". Come dice il filosofo iraniano Daryusch Shaye gan, i popoli non europei, che fino al XIX secolo utilizzavano oggetti di cui co ntrollavano la fabbricazione (e questo vale per le armi da fuoco), hanno dovuto all'improvviso, a partire dalla macchina a vapore e dalla comparsa dell'energia at tiva, indipendente e controllabile, abituarsi a motori, a strumenti, a oggetti c he sfuggivano alle loro conoscenze, di cui non erano più i padroni, che ricevevan o da un altro paese. "Ho l'impressione" gli dico "che questa tendenza continui, e anche che si aggrav i. Tutto il sapere appartiene all'Occidente, che lo protegge e lo affina senza so sta." Riflette piuttosto a lungo in silenzio. Mi sembra, a ognuno di questi silenzi, d i poter sentire la profondità della sua riflessione, come se secoli di altri pensier i, prima del suo, si accumulassero in lui, aiutandolo a esprimersi. Dice con semplicità: "Non sono sicuro di essere del suo parere". "In che senso?" "Abbiamo evidentemente l'impressione che ogni tecnica venga dall'Occidente, e da i paesi collegati all'Occidente, come il Giappone. Ma questa civilizzazione mecca nicistica è intimamente legata all'Occidente? Non credo." Aggiunge: "Gli indiani dell'Amazzonia vogliono una cinepresa: hanno ragione! Questa si addi ce loro così come a un francese, a un tedesco! Per il fatto di non essere stata inv entata e fabbricata da loro, la cinepresa non è loro estranea! Non portano abiti: q uesto non significa che manchino loro abiti! È così, e basta". Ritrovo l'aspetto concreto, fattivo del buddhismo di tutti i tempi. Vorrei sotto lineare che alcuni indiani imitano anche i nostri abiti. Ci chiedono una camicia e la indossano senza mai toglierla. Se piove, continuano a portarla bagnata, non senza rischio di raffreddore o di polmonite.

Ma non ne ho il tempo. Il Dalai Lama prosegue: "Certo, dobbiamo rispettare le tradizioni locali, e non imporre nulla con la for za. Ma l'indigenza che ovunque incontriamo ci sollecita certi gesti. Dobbiamo dar e cibo, medicinali, anche tecnologia. Impossibile fare altrimenti. In se stessa, la tecnica non ha nulla di negativo. Nata in Occidente, ha ricoperto rapidamente tutta la terra. L'Est vi si adatta con facilità. Su alcuni punti, ad esempio in qu el che concerne i costi di produzione, è anche più efficiente. Francamente, non credo che la meccanica possa identificarsi con l'Occidente. Essa è il nostro bene comun e. Chi lo sa? Potrebbe anche avvicinarci e unirci". "Sarebbe pericoloso dividere l'umanità in due unicamente da un punto di vista tecn ico?" "Evidentemente. D'altra parte ogni separazione umana è pericolosa. Il criterio tec nico non è migliore di un altro. Quello che un uomo inventa è positivo per tutti gli u omini." "Resta" gli dico "l'atteggiamento mentale. Il senso di superiorità." "Questo senso esiste, è vero. Nessuno può negarlo. Questo atteggiamento mentale, come ha detto lei, è anche, senza dubbio, occultamente legato al giudeo cristianesimo, al pieno potere sulla natura dato all'uomo dall'uomo stesso, servendosi di Dio come tramite. In questa impresa di dominio, che funzionava a meraviglia fino ai recenti pericoli di contaminazione, la tecnica è l'arma senza pari." "Per dominare la natura, per dominare anche gli altri uomini." "È evidente. E la tecnica è senza pari semplicemente perché ottiene dei risultati. Risu ltati immediati. Non è come la preghiera!" Ride, poi aggiunge: "Se la preghiera dà dei risultati, sono per lo più invisibili! Può ben aspettare!". Toglie per un momento gli occhiali. Il suo viso, bello, dominato da una fronte m olto alta, sembra a un tratto più asiatico, come quello che si potrebbe attribuir e a un maestro zen. Resta così per un attimo, tenendo gli occhiali in mano. Continua, smettendo di rid ere all'improvviso così come ha iniziato: "La gente è attratta dai risultati immediati. Cosa c'è di più normale? Perché privarla di questi? Anche sinceri praticanti del buddhismo hanno cineprese e orologi. Anc h'io ne ho uno. Guardi". "So anche che amava ripararli in gioventù." Sorride a questo ricordo. Nel suo libro di memorie ha raccontato come la scopert a di un carillon rotto, regalo dello zar al suo predecessore, avesse destato in lui, dall'infanzia, una viva passione per il bricolage. Più tardi cominciò a smontar e gli orologi. Alcuni capi di Stato, come Roosevelt, gliene mandavano da riparare . Non sempre vi riusciva. "D'altra parte," mi dice "se un individuo possiede una base spirituale sufficient e, non si lascerà sopraffare dalla tentazione tecnologica e dalla smania del posses so. Saprà trovare il giusto equilibrio, senza troppo chiedere, e dire: ho una cine presa, mi basta, non ne voglio altre. Il pericolo costante è di aprire la porta al l'avidità, uno dei nostri nemici più accaniti. Ed è qui che si compie il vero lavoro dello spirito."

"Questa base spirituale di cui parla non è la cosa meglio distribuita al mondo." "Per niente. Ma noi operiamo per una migliore spartizione. Ci impegniamo tutti i giorni, anche in questo momento. Perché coloro cui manca questo equilibrio, nato da una riflessione, da un lavoro sereno dello spirito, sono gli schiavi designati della tecnica e dell'avidità." "Essi giungono anche a credere che il vero lavoro dello spirito consista nel prod urre questi oggetti meccanici. Vi vedono il trionfo del pensiero, la nostra opera più bella. Si distribuiscono fra loro diplomi e medaglie nei concorsi, incassano i loro profitti, sono soddisfatti." "Lo ripeto: la tecnica non ha nulla di negativo in sé. Non è peccato, come dite voi (il concetto di peccato è estraneo al buddhismo). Non lo è nemmeno il progresso, nel senso di progresso materiale e di progresso delle conoscenze. Ma lo spirito umano , così come ci appare, è capace di adattarsi a questa tecnica, di accontentarsi, di n on lasciarsi inebriare?" "Ogni tecnica è affascinante. Un giorno o l'altro giungerà a proclamare, per bocca d i coloro che la dominano, che essa basta a se stessa, che può fare a meno del pens iero." "Ragione di più per insistere" dice. "Un equilibrio è indispensabile. Ma questo equi librio non bisogna cercarlo abbassando forzatamente il livello della realizzazion e tecnica. Bisogna cercarlo elevando il livello dello spirito." Ci avviciniamo sempre di più all'ambito nel quale il buddhismo, sin dall'origine, concentra l'essenza del suo sforzo, della sua ricerca: il territorio delle operaz ioni dello spirito. Inevitabilmente, tutto ci conduce qui. Ma non voglio affretta re il passo. Sento che il mio interlocutore indugia, sviluppa il suo pensiero. An che se si è già espresso su questo punto, mi piace che egli si ripeta, cerchi formul azioni nuove che ci riconducono alle porte dell'utopia, di questo sogno di edu cazione planetaria che sembra impossibile e senza il quale, tuttavia, tutto sembr a impossibile. Insiste sull'idea che la tecnica, opera umana inevitabile, non sia mai da biasima re. Essa si presta però a impieghi nefasti, e sovente. Ma in questo caso soltanto c hi la usa è colpevole. Non si condanna il fiammifero al posto dell'incendiario. "Una cosa mi colpisce" dice. "I paesi tecnicamente molto evoluti, come il suo, d evono spesso affrontare altre mancanze, una sorta di vuoto di cui mi si parla sp esso. Un vuoto dello spirito, della vita spirituale." "Questa espressione mi sembra ambigua. Nessuno può dire che l'Occidente non faccia lavorare i propri cervelli. Giungiamo a comprarceli, a rubarceli, da un paese all 'altro." "Non è di questo che parlo. I cervelli occidentali lavorano, lavorano anche molto, ma sempre nel senso dell'efficienza. Lo spirito si mette così al servizio del risu ltato. Come ogni servitore, rinuncia alla propria indipendenza. Parlo di un'altra forma di vita spirituale, più distaccata e più profonda, libera dall'ossessione de l fine da raggiungere. In un certo modo, l'invasione universale della tecnologia, ovunque essa passi, sminuisce questa vita dello spirito." "Bisognerebbe dunque ripristinarla?" "Sì. Ed è urgente. Anche da un semplice punto di vista egoistico: abbiamo più bisogno di un aumento di spiritualità che di un aumento di tecnica. La brama del concreto è nella natura umana. Ed è normale. Vogliamo vedere, toccare, ottenere. Sotto questo aspetto, il XX secolo, per ciò che ha realizzato, ha probabilmente superato i nost

ri sogni più antichi. Gli uomini hanno creato oggetti che li hanno sorpresi. Ogni campo del desiderio è stato esplorato e sovente soddisfatto." "Perlomeno in teoria. Bisogna ancora che questi oggetti possano essere acquistat i." "Naturalmente. E si deve aggiungere che nulla è mai stabilito per sempre, che null a è immobile. Il buddhismo è prezioso per questo punto. Ci aiuta a prepararci al croll o degli imperi, dei preconcetti. Al rivolgimento, anche, dei nostri desideri." "Alla fine degli anni Sessanta abbiamo creduto che l'amore fisico si fosse, come per miracolo, sbarazzato delle antiche remore. La medicina permetteva di lottare contro le malattie veneree e, nel contempo, di eliminare, per le donne, il rischi o di una gravidanza. Poi è arrivato l'AIDS, uscito non si sa da dove. La morte leg ata al sesso è ricomparsa, più terrificante che mai." "Esiste una ebbrezza di questo potere che ci diamo sulle cose. Questa ebbrezza ci porta a non poter più controllare i nostri desideri. Vogliamo di più , e ancora d i più . Invece di smorzare il fuoco, lo ravviviamo. Invece di cercare il disarmo in teriore, il solo che importi, noi perfezioniamo, moltiplichiamo i nostri strument i di conquista. Dimentichiamo addirittura di verificare se il compimento del nost ro desiderio è proprio quello che abbiamo auspicato." "Si, questo concetto di verifica è importante, e generalmente poco considerato. Ci accontentiamo spesso di qualunque cosa. È sufficiente che l'immagine dell'oggetto sperato corrisponda ai nostri desideri. Ne dimentichiamo la vera qualità." "Dimentichiamo anche che il desiderio del prossimo non è necessariamente il nostro. " "Sì," gli dico "il nostro mondo, in apparenza, è sempre più uniforme, e tuttavia è diff icile, più difficile che mai, forse, trovarvi qualcosa di universale..." "Come il buddhismo!" E ride. Parliamo per un momento dell'Africa, continente che ad alcuni sembra oggi quasi perduto, alla deriva. Oltre a una dipendenza economica cui è legata la sua sopravvivenza, l'Africa è minacciata nella sua stessa cultura. Ricordo brev emente le difficoltà che un cineasta africano, ad esempio, deve superare per fare un film. Un difficile percorso iniziatico, che giunge raramente a buon fine. Ques to continente dove, in ogni tempo, il posto della parola e della storia, per boc ca dello stregone, è stato preponderante, indispensabile, fa una grande fatica a ra ccontarsi oggi le proprie storie con i mezzi contemporanei, cioè la radio, la tele visione, il libro. Gli abitanti dei paesi africani, almeno quelli che possono gu ardare la televisione, non vi vedono che serials americani, storie inventate in a ltri paesi e che non parlano mai loro di loro stessi. Una delle forme di esclusi one moderna: l'assenza di specchio. Esclusione tanto più pericolosa in quanto l'i mmagine che ricevono dagli Stati Uniti è doppiamente ingannevole. Il mondo non si riduce alla California, lo sanno tutti, ma la stessa California, regione compless a, piena di contrasti e mutevole (il numero degli homeless, dei senza fissa dimor a, è più rilevante a Los Angeles che a Dakar), non può in alcun modo ridursi ai perpe tui conflitti sentimentali che oppongono due bionde sul bordo di una piscina, o a lle avventure sempre vittoriose di un paio di poliziotti seduttori e disinibiti. L'Africa si trova nell'incapacità - senza dubbio accuratamente Occidente di fabbricare i propri oggetti di oggi, cineprese, omputer. Impotenza che si può temere duratura. Essa almeno può o? Una parte della propria saggezza, della propria fantasia, e

salvaguardata dall' trattori, aerei, c dare qualcosa in cambi anche della propr

ia vita spirituale, più profonda di quanto noi pensiamo? Non sono sicuro, e il mi o interlocutore non lo è più di me, che questo scambio sia ancora possibile. Ricevia mo sempre di meno dall'Africa. Molte voci tacciono, non potendosi esprimere. Un in tero continente sembra condannato a tacere e ad essere cancellato. Alla miseria fisica si aggiungono, altrettanto duri, l'isolamento e il bavaglio. "Che cosa possiamo aspettarci dall'Asia?" Vedo che la mia domanda non può avere una risposta precisa. È vaga. Potrei anche dom andare: quali sono oggi i rapporti fra Asia ed Africa? Non esiste nessuno al mon do che possa rispondere a questa domanda. Mentre il Dalai Lama mi guarda in silenzio, gli dico ancora: "Siamo onesti: in Occidente, la religione cristiana non è che di superficie. Una so rta di obbligo o di convenienza sociale" "È una parte del problema" mi dice allora. "La religione non svolge più il proprio ruolo." "Supponendo che l'abbia mai svolto. Tutta la sua storia la mostra più preoccupata dei problemi mondani, e anche dell'esercizio del potere, che dell'ambito più intim amente spirituale." "Questo ambito chiamato spirituale" mi dice "si accontenta spesso della lettura e del commento della Scrittura, qualsiasi sia la tradizione, come se ogni verità de llo spirito, enunciata duemila anni fa, potesse accontentarsi di essere costante mente ripetuta." "Mentre la natura stessa dello spirito, se comprendo quel che lei mi dice, sembra interrogarsi perpetuamente." "In ogni caso, ha la possibilità di farlo." So bene che questa forza delle scritture antiche è ancora chiaramente presente nel buddhismo, ma l'uomo che mi ascolta mi ha già detto, a due riprese, che se una sc operta contemporanea contraddice le Scritture, bisogna subito modificarle. "Vorrei spesso ricevere" gli dico "quel che non posso trovare da noi, nelle nost re religioni, tradizioni e testi. Se leggo san Tommaso o sant'Agostino, non mi pa rlano mai di me. Il presupposto divino condiziona e schiaccia ogni pagina. Ora, mi è impossibile aderire al nostro credo." " Credo?" Non sembra conoscere questa parola. Lhakdor, il suo assistente, gli dà una spiegaz ione, con il mio aiuto. Continuo: "Non posso credere, nemmeno in forma allegorica, che Dio abbia creato il cielo e la terra, poi la luce, poi il giorno e la notte, gli astri eccetera...". Sorride ascoltandomi. "Mi chiedo: che cosa sarebbe dunque il cielo senza gli astri? Cosa sarebbe la lu ce senza il giorno? Conosco i milioni di interrogativi che questi testi mitici, c onsiderati a lungo e da alcuni ancora oggi come testi storici, hanno suscita to. Ma questo non mi interessa. Non vedo in questo laborioso decifrare nulla che mi sembri degno di quella che lei chiama la vita dello spirito. D'altra parte, l

e pongo la domanda: non è un grave errore, un "errore di fondo", confondere vita sp irituale e vita religiosa?" "Sono separate. Non c'è alcun dubbio. Ho avuto sovente l'occasione di dirlo. Le no stre Scritture affermano che la luna si trova cento miglia sopra la terra, e che il centro della terra è il monte Meru. Se questo monte esistesse, avremmo dovuto t rovarlo da tempo, o tutt'al più scoprire indizi della sua esistenza. Poiché non è così, dobbiamo allontanarci dal senso letterale delle Scritture." "E se alcuni rifiutano?" "È affare loro. Inutile perdere tempo a discutere con loro." Un anno fa, alla televisione francese, ho visto un servizio piuttosto inquietant e su una scuola rabbinica, nel centro di Parigi. I professori insegnano agli alli evi, conformemente alle Scritture ebraiche, che la terra è stata creata da Dio poc o più di seimila anni fa, e che tutti i reperti paleontologici, che gli specialist i ricercano e studiano, sono stati posti dal Diavolo al solo fine di traviarci. S trano insegnamento per il XXI secolo. Che cosa ne penserebbe Margaret Mead? Pove ri giovani, che dovranno passare una parte della vita a disimparare quel che ave vano creduto di sapere. Contrariamente alla quasi totalità delle religioni, soprattutto delle religioni mo noteistiche, costruite su una fede che non sollecita il ragionamento, sovente chi amata "cieca", il buddhismo si concentra sui fenomeni che possiamo vedere, tocca re e comprendere. Il termine sanscrito sraddha, che traduciamo generalmente con fe de, significa in primo luogo "fiducia nata dalla convinzione". "La fede, o il credo" mi dice il Dalai Lama "nel senso che lei dà a queste parole, hanno nel buddhismo un posto limitato. Il fondatore stesso ci ha rimandato senza ambiguità alla nostra verifica personale, e il suo insegnamento ci invita sempre a "venire a vedere". Lungi dal bendarci gli occhi ordinandoci di credere, si sforza al contrario di eliminare in noi ogni punto oscuro, di aguzzare, di allungare il nostro sguardo. La fede non comincia che nel momento in cui la vista si arresta. " Rispondendo un giorno a un giovane discepolo che lo interrogava sulle basi antic he della verità, trasmessa dai bramini di generazione in generazione, Sakyamuni lo portò ad ammettere che nessuno di questi bramini aveva, personalmente, visto e toc cato la verità. Tutti si accontentavano di ripeterla come una lezione ben appresa. E il Buddha paragonava queste generazioni di bramini a una lunga fila di uomini ciechi: ognuno si appog gia a colui che precede, e nessuno vede. Naturalmente, è necessaria qualche sfumatura a questo quadro. Si è costituita e perp etuata una tale "fiducia", nei confronti delle parole del Risvegliato, che possi amo ben dire che la verità di questa parola sia l'autentico oggetto di una fede, a lmeno nella devozione popolare. D'altra parte il buddhismo ha analizzato e chiarit o il concetto di fede, come fa per tutti i concetti. Ma al più alto livello, ladd ove la speculazione, il dubbio metodico e le contese oratorie più accanite sono usu ali, il principio di autorità a poco a poco scompare. Nel corso delle nostre conve rsazioni, mai il Dalai Lama mi ha presentato una sola affermazione che potremmo de finire dogmatica. Mai mi ha detto: è così perché è così, o perché l'ha detto il Buddha, o pe rché si trova in questo o quel testo. Mai, salvo forse su un punto, che riguarda la reincarnazione. Ci arriveremo.

4 È DALL'INTERNO CHE TI ASSOMIGLIO Nel numero 3 della rivista "La Révolution surréaliste", dell'aprile 1925, si trova qu esto articolo, redatto da più autori, dal titolo Petizione al Dalai Lama: Siamo fedelissimi servitori, o Grande Lama, donaci, volgi verso di noi i tuoi lum i, in un linguaggio che i nostri contaminati spiriti europei possano comprendere e, se occorre, cambia il nostro Spirito, donaci uno Spirito pienamente volto ver so queste cime perfette dove lo Spirito dell'Uomo non soffre più . Donaci uno Spirito privo di abitudini, uno Spirito tutto congelato nello Spirito, o uno Spirito con le abitudini più pure, le tue, se esse vanno bene per la liber tà. Siamo circondati da papi rugosi, da letterati, da critici, da cani, il nostro Sp irito è in mezzo a cani, il cui pensiero è direttamente legato alla terra, il cui pe nsiero è incorreggibilmente immerso nel presente. Insegnaci, o Lama, la levitazione materiale dei corpi e come non essere più vinco lati alla terra. Perché tu sai bene a quale liberazione trasparente delle anime, a quale libertà dello Spirito nello Spirito, o Papa gradito, o Papa in spirito di ve rità, noi alludiamo. È con l'occhio interiore che ti guardo, o Papa, nel punto più elevato della mia interiorità. È dall'interno che ti assomiglio, io, im pulso, idea, labbro, levitazione, sogno, grido, rinuncia all'idea, sospeso fra tu tte le forme e non sperando altro che il vento. Questo testo giovanile (Breton, Aragon, Artaud, Eluard, Desnos, i redattori, e g li altri componenti del gruppo avevano allora dai venticinque ai trent'anni) most ra chiaramente, ancor oggi, quel che può affascinare nel buddhismo: non un cambiam ento del credo, né l'abbandono di un rituale per un altro, ma una vera metamorfosi dello spirito, che fu il grido del cuore surrealista. "È dall'interno che ti assomi glio" è, in questo senso, la frase più chiara. Se non riusciamo a immaginarci i componenti del gruppo surrealista intenti a far girare mulini da preghiera, possiamo in compenso immaginarli alla ricerca di "a bitudini più pure" e di una qualità sempre più alta dello spirito che li conduce "nel punto più elevato dell'interiorità". È proprio in questo campo che il buddhismo non cessa di lanciare il proprio richiamo. Mi ritrovo accanto a questo "Papa gradito" e insieme riprendiamo il cammino. Questo cammino passa e ripassa attraverso i temi dell'ignoranza e dell'educazion e. Lontano da ogni illuminazione magica, il Dalai Lama insiste sulla pazienza, s ulla difficoltà e sul lungo lavoro quotidiano. Parliamo ancora del grande disordine di idee che sembra colpire l'Occidente, che egli vede privato di una dimensione, abbandonato alla supremazia incontrastata d ella materia. I nostri papi sono effettivamente rugosi. Mancano di sorriso e di c ordialità. Respingono i cambiamenti. I sogni e le grida, evidentemente, li infastidiscono. Dico al Dalai Lama che non solo la nostra religione ci sembra monotona e sterile, ma che, d'altro canto, nelle tradizioni più recenti, come quelle repubblicane, un certo numero di insegnamenti civici sono scomparsi dalle nostre scuole. Tutto c

iò che poteva fornire un supporto alle nostre esistenze, lo eliminiamo a poco a poco , a vantaggio del sapere concreto e utilitaristico. Forse si pensa che la repubbl ica e la democrazia siano tanto solidamente impresse in ciascuno di noi da non a vere bisogno di questo supporto scolastico. Ma dubito di questa solidità. Vedo, al contrario, la democrazia sottoposta a una costante minaccia. Credo che la sua for za sia reale e che l'esperienza provi questa forza. Ma non tutti sono del mio pa rere. Anch'io ho la tendenza a pensare talvolta che il nostro sistema politico a bbia bisogno di miti, di simboli, forse persino di un catechismo. Dopo mi dico c he, come in altri campi, questi elementi sono inevitabilmente minacciati, a breve scadenza, da una forma di caducità implacabile. Ed è per questo che, come la maggior anza dei miei contemporanei, mi rassegno a vederli scomparire. Il Dalai Lama torna alla mia domanda su vita spirituale e vita religiosa: "Il problema che ha sollevato è di grande importanza. Bisogna riprenderlo. Molti r itengono che queste due attività ne costituiscano una sola. I capi religiosi, qua e là, proclamano a gran voce che occupano questo campo spirituale, che è loro prerogat iva. E per questo, a sentire loro, se qualcuno rifiuta la religione, rifiuta nel medesimo tempo ogni esperienza spirituale". "Cosa del tutto impropria. Perché la vita spirituale dovrebbe essere necessariament e legata a qualche credenza sovrannaturale? Potremmo addirittura affermare il cont rario: che la fede sia l'abbandono dello spirito." "In effetti, si potrebbe affermarlo. Ma non cerco di distogliere nessuno dalla p ropria fede, se la pratica con tolleranza. Guardi tuttavia dove può condurre la conf usione fra religioso e spirituale: immaginiamo un uomo che parli del concetto di benevolenza o di perdono, o ancora di compassione, un atteggiamento che, lo sa, è u no dei fondamenti del buddhismo. Un altro uomo, che non abbia alcun interesse re ligioso, ascolta il primo e dice, alzando le spalle: tutto ciò riguarda la religio ne, non mi interessa." "Ha torto, evidentemente." "Ha assolutamente torto! È caduto in una trappola grossolana di vocabolario. Le par ole "compassione", o "carità", l'hanno accecato. Ma si tratta di qualità umane, puram ente umane. Non abbiamo avuto bisogno di una rivelazione divina per acquisirle o scoprirle. Beninteso, in teoria, tutte le religioni raccomandano la compassione, e anche la tolleranza, la generosità, il gusto della conoscenza, tutte le buone qu alità umane." "Ma le religioni non possono impadronirsene." "In nessun caso. È un atteggiamento ingiustificato. Guardi gli animali: si può dire che manifestino fra loro un certo aiuto reciproco, una certa tolleranza, ed anch e che mostrino compassione. Ma è chiaro che, in questo campo, i sentimenti umani s embrano più profondi e più tenaci. Gli uomini possono anche, quando raggiungono un punto di più alta virtù, mostrare disinteresse, cosa che fra gli animali mi sembra molto più rara, se non totalmente assente. Su questa base specificamente umana, a bbiamo a poco a poco costruito alcuni concetti, che variano da una cultura all'a ltra, come il Dio creatore, il paradiso, l'inferno..." "La vita eterna..." "... il nirvana, la moksa, cioè la liberazione dai nostri impedimenti, ed altro an cora. Questi concetti possono essere proclamati universali, validi per tutti gli esseri umani, senza distinzione di razza, di tradizione, di carattere." "Proclamati, e sovente imposti con la forza."

"Sì, purtroppo. Ma si può dire anche, ed è il caso del buddhismo, che sono tenuti a ri spettare rigorosamente questi precetti solo i veri praticanti. Si può proporli agli altri, ma non imporli. Anche se noi li riteniamo universali, rispettiamo negli altri tutte le caratteristiche che impediscono loro di accettarli. Ciascuno deve essere libero di accettare o di rifiutare una certa credenza o un certo concetto ." "L'uomo resta padrone del proprio assenso?" "Ovviamente." "L'Occidente si è interrogato a lungo su questa pretesa libertà. Non siamo condizion ati dall'ambiente in cui siamo nati, dalle opinioni che ci circondano, dalla nos tra infanzia, da tutti gli elementi più o meno chiari che Ci compongono?" "Certo. Per questo il compito è difficile. Ma posso dire che a un certo livello di riflessione, l'uomo ha sempre la possibilità di scelta. Può acquistare questa libertà, staccarsi da tutto quello che lo blocca. E deve farlo. Ho detto un giorno che, a quel che mi sembra, Dio si è addormentato da qualche parte. Scherzavo, come può imm aginare, perché noi non crediamo in un dio creatore. Ma è vero che, se Dio si è addorm entato, noi dobbiamo svegliarci." "Non si possono riversare tutte le nostre sventure su Dio." "Né sul destino, né sul karma, la nostra legge di concatenazione delle cause, dei fatti e degli effetti. Tutto questo denota un at teggiamento piuttosto vile. Se è vero come credo che la diversità degli atteggiam enti religiosi è un fedele riflesso della diversità umana, non è in un credo che dobbia mo ricercare la nostra unità." "È nell'azione?" "Nell'azione responsabile e ponderata. Su un argomento come quello dell'ambiente, di cui abbiamo parlato a lungo, mi sembra, per semplice buon senso, che tutti do vremmo essere d'accordo, come a dei bambini preme la vita della mamma." "Si può anche vivere senza religione?" "Ma naturalmente. Faccia il conto: siamo più di cinque miliardi sul pianeta. Tre miliardi non hanno alcuna forma di religione. Sui due miliardi che si dicono rel igiosi, un miliardo solo di fedeli, che si proclamano di questa o quella religio ne, mi sembra sincero. Un miliardo su cinque, il che significa una minoranza. È ev identemente per gli altri quattro miliardi che dobbiamo oggi lavorare!" "Lavorare come?" "Tutto parte da noi. Da ciascuno di noi. Le qualità indispensabili sono la pace del lo spirito e la compassione. Senza di queste, è inutile anche tentare. Queste quali tà sono indispensabili, sono anche inevitabili. L'ho detto: le incontriamo sicurame nte in noi, se ci prendiamo la pena di cercarle. Possiamo respingere ogni forma di religione, ma non possiamo rigettare fuori di noi la compassione e la pace del lo spirito." "Tuttavia, alcuni individui sembrano riuscirci facilmente." "Naturalmente, e per più ragioni, di cui una è l'ignoranza. Non parlo mai della tot alità degli esseri umani, so bene che presentano differenze che giungono talvolta f ino a squilibri estremi. Parlo di uomini e donne di buona volontà che desiderano fa re qualcosa della propria vita."

"Aggrapparsi a un dio inconoscibile, irraggiungibile, non significa scaricarsi di questa responsabilità di cui lei parla?" "In alcuni casi, forse. Ma non necessariamente. L'idea di Dio può anche condurre a meravigliosi atti di compassione." "E a divieti, emarginazioni, assassinii." "Rischi di ogni fede." "Quest'obbligo interiore di far partecipare gli altri, forzatamente, a ciò che si c onsidera verità universale, e che non è mai che relativa..." "Come ogni verità!" Nel suo modo tollerante, e tuttavia convinto, ritorna ogni volta, con una digress ione impercettibile, a una constatazione buddhista, come se nel labirinto in cui p rocediamo parlando, delle lampade fisse fossero state poste a intervalli. Ora pas siamo davanti alla lampada della relatività. Questa ci rischiara per un momento. Si può ricordare brevemente tribuisca alla scomparsa di dell'universo, indifferente ta a domandarci perché e da prima risposta.

che l'affermazione di una certa relatività del mondo con Dio. In un contesto religioso, l'esistenza garantita al nostro sguardo, dominatore e impenetrabile, ci por chi questa massa sia stata creata. Dio è evidentemente la

Gli ripeto la mia ammirazione per la frase di Sakyamuni: "Non aspettatevi nulla s e non da voi stessi". Vi ritrovo un modo di sentire che mi aveva colpito, una quin dicina di anni fa, lavorando a un'opera dal titolo La Conference des oiseaux, is pirata a un poema persiano di Farid od din Attar e messa in scena da Peter Brook. Stanchi della propria esistenza mediocre e inutile, gli uccelli si lanciano alla ricerca del loro re mitico, di nome Simorgh. La maggior parte di loro, spossata , delusa, o sedotta dalle sorprese del viaggio e dagli idoli che incontra, si fe rma per strada. Un piccolo gruppo di uccelli ostinati, guidati dall'upupa, attrave rsano il deserto e le sette valli dell'incanto e del terrore. Esausti, con le ali bruciate, giungono infine alla presenza dell'uccello re. Cento tende si scostan o, una viva luce brilla, ma essi non vedono che uno specchio. Una voce dice loro che questo specchio è la sola verità. Questo Simorgh che hanno cercato, è loro stessi . Non bisogna attendere altro. La voce aggiunge una frase magnifica, l'eco della quale risuonerà a lungo nella poesia persiana: "Avete compiuto un lungo viaggio p er giungere al viandante". Penso talvolta che il principe Siddharta, nel corso dei sei anni di ricerca febbr ile e di privazioni estreme, abbia fatto lo stesso viaggio e ricevuto la stessa ri velazione, da parte di una voce proveniente dal suo intimo. Rivelazione molto pe sante da accettare, rivolta solo a un limitato numero di individui, difficile a c omprendersi, ad ammettersi (il Buddha non ha cessato di ripeterlo), ma impossibi le da rinnegare o snaturare, a meno di non tradire se stessi. "C'è forse un dio," mi dice sorridendo "ma non bisogna aspettarsi nulla da lui." "In altre parole, che Dio esista o non esista, non esiste comunque?" "Sì," e il suo sorriso si trasforma in un largo riso "ma è forse lui ad averci riuni to qui!" "Sì, chi lo può sapere?" "Ah, l'ha detto lei!"

Mi prende le mani e ride ancora più forte, come per dirmi: gliel'ho fatta! È consuetudine scrivere che il buddhismo è nato e si è sviluppato in India, due secoli dopo la morte del Buddha, e soprattutto durante il regno dell'imperatore Asoka (273 232 a.C.), in r eazione al brahmanesimo, la religione tradizionale. Ma noi sappiamo poco sul brah manesimo nel V secolo prima della nostra era. La storia parallela di queste due tradizioni, che terminò più tardi, a partire dal VII secolo della nostra era, con l' indebolimento progressivo e la quasi scomparsa del buddhismo in India, e la sua espansione in tutta l'Asia, questa storia è fatta di contrapposizioni ma anche di i nfluenze, di scambi reciproci. Senza addentrarsi in un'analisi comparata, che richiederebbe diversi e ponderosi volumi, è bene sottolineare qualche differenza. Il brahmanesimo, chiamato anche i nduismo, ammette una moltitudine di dèi e di racconti mitologici. A seconda delle t radizioni, la creazione del mondo vi è narrata in più versioni. Senza possedere l'o nnipotenza del dio delle religioni monoteistiche, gli dèi indiani sottomessi ai g randi cicli del tempo, agli yuga possono intervenire nelle faccende umane, e s ono talvolta considerati mortali. Oggi, le trentaseimila divinità del pantheon ind iano, senza contare il mondo dei culti popolari, sono sovente utilizzate come un a sorta di immenso vocabolario, che ci aiuta a parlare del mistero del mondo. La vita umana deve fare i conti con quattro concetti o attività fondamentali, chia mate in sanscrito Dharma, Artha, Kama, Moksa Il Dharma è la grande legge dell'universo, l'ordine al quale dobbiamo piegarci. La peculiarità della tradizione induista è quella di affermare che questa legge universal e si trova anche in ciascuno di noi, che tutti noi possediamo un dharma individuale, che dobbiamo seguire con perspic acia e rigore. In altre parole, è necessario sapere chi siamo (l'idea di una perman enza dell'io è qui presente) e restare fedeli a quel che siamo. Se i nostri dharma particolari vengono rispettati, il Dharma universale sarà preservato. L'induismo in troduce così una sorta di solidarietà fra l'essere umano e il cosmo. Interrogato sui motivi che l'hanno spinto a comporre il Mahabharata, il grande poema del mondo, V yasa, l'autore leggendario, risponde: "Per incidere il Dharma nel cuore degli uo mini". Il buddhismo ha conservato questo concetto caratteristico dell'India. Il Dharma b uddhista costituisce l'insieme dei fenomeni, sottoposti alla legge. Ma il termine ha assunto, più precisamente, il significato di "dottrina, insegnamento del Buddh a, doveri prescritti". Anche se l'aspetto cosmologico si è un po' attenuato, a fav ore di una osservanza umana, il Dharma resta la guida di ogni vita, la conoscenz a indispensabile. Il secondo concetto è quello dell'Artha, termine che significa generalmente i beni , le cose buone della terra. Contrariamente alle dottrine che insistono sulla rin uncia, l'induismo ha piuttosto tendenza ad affermare che i beni di questo mondo ci sono stati dati per essere goduti, che la rinuncia non significa nulla se non sappiamo a cosa rinunciamo. Così, l'induismo consiglia di non lasciare la società pe r diventare un sadhu, un asceta errante che pratica la rinuncia, prima di aver con osciuto i figli dei propri figli. Nel buddhismo, succede che dei bambini vengano designati fin dalla più tenera età e votati alla vita monastica (che possono, comun que, abbandonare senza difficoltà). Il terzo concetto fondamentale è quello di Kama, l'amore, motore dei mondi, e più i n particolare l'amore sessuale. Il dio Kama è una sorta di Cupido, sovente rappresentato con un arco, ali e nell'atto di lanciare frecce fiorite. È l 'azione di Kama che determina il più delle volte il ciclo delle nostre rinascite, il samsara. È colui "che avvelena", "che agita lo spirito", "il conquistatore invin cibile". Nell'induismo, questa forza può estendersi al movimento dell'universo. Il

buddhismo resta, in generale, più cauto

salvo nella tradizione tantrica.

Il quarto concetto, infine, è quello di moksa, la liberazione, lo scioglimento fin ale del ciclo delle rinascite, situato nel più alto grado della coscienza. Nell'i nduismo, questa liberazione conduce alla fusione col Brahman, l'essere universale . Nel buddhismo, dove viene usato il medesimo termine, essa prefigura il nirvana. Al più alto livello concepibile della coscienza, là dove lo spirito diventa sottile , essa può raggiungere il risveglio, lo stato di buddha, che si può tradurre, anche se in modo un po' infelice, con "buddhità". Fra gli esseri perfetti, che aspirano vivamente a questo risveglio e che hanno o gni possibilità di giungervi, la tradizione buddhista detta del Grande Veicolo (Maha yana) quella che ci interessa qui, giacché il buddhismo tibetano vi si richiama pone i bodhisattva. Questi esseri, specie di intermediari fra noi e la buddhità, e che potrebbero ambire alla beatitudine eterna del nirvana, preferiscono rinuncia rvi per poter venire ancora in nostro aiuto. Fino a quando durerà la sofferenza uma na, potremo contare su di loro. Essi operano anche per pura compassione nei nostri confronti. "Bodhisattva, lo conosce?" mi domanda. "Non personalmente." Ride sonoramente, poi verifica in breve le mie conoscenze (non si tratta di un e same, vuole semplicemente sapere a quale livello debba parlare quando dovrà trattare del buddhismo). Prima della sua incarnazione nella persona del principe Siddharta, il Buddha, ne l corso delle sue precedenti esistenze, fu il Bodhisattva per eccellenza. Altri, in gran numero, gli sono succeduti. Il più venerato fra loro, l'essenza stessa de lla compassione (al punto che gli altri bodhisattva vengono talvolta considerati come suoi discendenti, sue manifestazioni) si chiama Avalokitesvara. È "colui che dà da bere agli assetati", il "signore splendente che guarda in basso", "la voce e la luce del mondo", "colui che porta il loto", il più popolare degli intercessor i. Le sue raffigurazioni sono molteplici. Può assumere una grande varietà di aspetti. In questo momento, a Dharamsala, nessuno dubita che abbia assunto le sembianze d i quest'uomo che sta al mio fianco, che mi parla, mi guarda e mi stringe talvolt a le mani. Fra le diverse immagini che si possono vedere nella stanza ove avvengono le nost re conversazioni, alcune sono antiche, salvate dal Tibet al momento dell'esilio nel 1959, altre sono state fatte qui. Presenze dorate, rassicuranti, circondate da piccoli mazzi di fiori artificiali. Fra queste, assai stranamente, non figura alcuna immagine di Avalokitesvara. È vero che è qui, vivente. "Se mettiamo da parte" mi dice "l'idea inverificabile di un dio creatore e sommo giudice, giungiamo alla nozione di ciò che si potrebbe chiamare "una religione umana " (talvolta dice anche "umanista"), cioè nata dalla riflessione umana per rispondere a un bisogno umano. In questo senso, il concetto di bodhisatthva è forse più scient ifico di tutte le costruzioni teologiche." La scienza, nel senso più contemporaneo del termine (che indica spesso più una rice rca che un sapere), s'insinua sempre più nel nostro dialogo. Nulla di più normale, giacché il buddhismo parla costantemente di esperienza, di verifica. Per quanto ri guarda i bodhisatthva, questa esperienza resta estranea alle tradizioni non buddhiste, e in particolare per gli occidentali. Qui, è il frutto di accuratis simi studi. Considerata come dato di un fatto, è inscindibile dalla vita quotidian a. Mi dice ancora:

"La nozione vissuta del bodhisattva è senza dubbio uno degli elementi che, oggi, at trae sempre più spiriti curiosi verso il buddhismo. Credo sinceramente che il bud dhismo sia più profondo, più sofisticato rispetto ad altre religioni o scuole di p ensiero". Aggiunge subito, diffidando sempre di ogni tipo di propaganda: "Ciò non significa che il buddhismo sia superiore, e neanche migliore. Né, soprattutt o, che sia valido per tutti. Per alcuni credenti, il dio creatore è un concetto più potente, forse anche più accessibile, più adatto a certi popoli, a certe culture". "Perché?" "Per la forza stessa dell'abitudine, della tradizione. È assurdo pensare che d'un s ol colpo tutta una tradizione crolli, che tutti gli uomini, come per miracolo, nu trano le stesse speranze, si appoggino alla stessa fede, allo stesso pensiero. Q uando incontriamo un credo molto diverso, e persino opposto, ma profondamente e a utenticamente consolidato, dobbiamo rispettarlo." Mostra il vassoio posato sul tavolo e dice: "È come per il cibo. Non si può dire che questo o quel cibo sia adatto a tutti. Dipe nde dal clima, dalle abitudini alimentari, dall'altitudine, anche dalla nostra età, forse". "Dalle nostre malattie." "Sì, da una grande varietà di circostanze." Parlando dell'alimentazione vegetariana, che continua a essere ideale per i buddh isti, racconta che in India, all'inizio dell'esilio, ha cercato anche lui di div entare vegetariano, il che lo fece ammalare. Dovette adattarvisi molto gradualme nte. "Lo stesso per il concetto di bodhisattva. Credo sinceramente che sia più raziona le, più adatto al mondo d'oggi che molte altre concezioni religiose. Numerosi sono i visitatori che me ne parlano, che si sentono molto vicini a questa forza della compassione, che noi troviamo al livello più costante della nostra incostante natu ra, e che il bodhisattva, in un qualche modo, impersona. Fra questi visitatori, i ncontro abbastanza sovente scienziati. Ma questo interesse non ci dà alcun diritto di giudicare gli altri in base al nostro particolarismo. Non deteniamo la verità universale, non abbiamo da offrire che i frutti di una lunghissima riflessione: l a nostra." "Anche il concetto di bodhisattva sarebbe dunque relativo?" "Certamente. Non abbiamo alcun diritto di applicarlo in generale, di farne un dog ma universale. Quando fornisco un insegnamento, prendo sempre molte precauzioni, dico: "Siate molto attenti, non prendete alla leggera una decisione cruciale. È u na frattura molto seria cambiare religione, modo di vivere, di pensare. Riflette te molto bene"." Questo atteggiamento abbastanza eccezionale si rifà ancora una volta a un episo dio tratto dalla vita di Sakyamuni. Al tempo della sua predicazione, nel nord de ll'India, insegnava anche il fondatore del giainismo, Mahavira, persona degna di rispetto, senz'altro più vecchia di Siddharta. Accadde che Mahavira, avendo sentito parlare degli insegnamenti del nuovo venuto, diversi dai suoi, inviò uno dei suoi discepoli, un ricco laico di nome Upali, ad incontrare Sakyamuni e sfidarlo a un pubblico dibattito sul concetto di Karma.

Nel corso di questa controversia, Upali fu convinto rapidamente dagli argomenti d i Sakyamuni. Nello stesso tempo, gli parve che l'insegnamento ricevuto da anni pe r bocca di Mahavira fosse erroneo. Così chiese al Buddha di accoglierlo come discepolo laico. Sakyamuni gli rispose che questa decisione era troppo affrettata. Gli consigliò di riflettere a fondo. Quando Upali tornò alla carica, il Buddha rifiutò di tenerlo con sé e lo rinviò al suo vecchio maestro, chiedendogli di rispettarlo, di sostenerlo. Il buddhismo non cessa di ripetere che la verità non ha etichette. L'esempio viene da lontano, dal Risvegliato stesso, che rifiutava ogni forma affrettata di adesione, ed anche dall'imperatore Asoka, primo sovrano dell'India a convertirsi al buddhismo, senza per questo smettere di manifestare la propria tolleranza nei confronti delle altr e fedi. Quando, dopo Costantino, gli imperatori romani si convertirono al cristianesimo, il loro atteggiamento nei confronti dei pagani e degli ebrei fu completamente dive rso. Presero a loro volta la via della persecuzione. Le asserzioni buddhiste di oggi non stanno a significare che la storia del buddhi smo fu esente da ogni forma di violenza. La Cina, in particolare, conobbe nel Med ioevo duri scontri. Malgrado la riconosciuta tolleranza dei sovrani Tang, alcuni fra loro, come l'imperatrice Wu (681-705), non esitarono a utilizzare il buddhis mo per brutali scopi politici. L'umanità è fatta così, direbbe il Dalai Lama. Di qui, malgrado la tolleranza ufficial e, una severa vigilanza, e principalmente nei confronti di noi stessi. Da dove viene l'intolleranza? Dall'interno o dal di fuori? Da un attaccamento ferocemente sincero a una convinzione, o da un gusto della po mpa, del potere, dell'adulazione che si leva da grandi folle prosternate? Come sbarazzarci da queste tentazioni, come riprendendo le parole surrealiste crearci "uno Spirito privo di abitudini", come "non essere più vincolati alla ter ra"? 5 VERSO UNA SCIENZA DELLO SPIRITO Destreggiarsi fra i concetti buddhisti e induisti non è cosa agevole, non soltanto a causa dei termini, difficili da tradurre, ma della nostra volontà di conferire lo ro un significato preciso in altre lingue, di trovare parallelismi negli altri si stemi di pensiero. Così il termine dharma, il termine bodhisattva, non sono traduc ibili nelle lingue occidentali. Le radici di queste parole non destano in noi alc una eco. Il significato che diamo loro è secco, scarno e senza colore. Se li conser viamo nella lingua originale, in sanscrito o in pali, ci è necessaria molta pazien za prima di comprenderli e farli nostri. Anche un concetto apparentemente univer sale come quello della compassione assume nel buddhismo una valenza particolare. Lungi dall'apparire come un sentimento naturale, fatto di dolcezza e d'amabilità, s entimentale, abbastanza banale in fondo e talvolta un po' kitsch (per molti lett ori frettolosi, il buddhismo può riassumersi in una frase: "è meglio essere gentili che cattivi"), la compassione è oggetto di studi precisi. Per riprendere un'espress ione di Sogyal Rinpoché, esiste "una logica della compassione", le cui tappe, oper azioni e risultati (sugli altri ma anche su noi stessi), possono essere studiati in modo quasi scientifico. Quando abbiamo cominciato a parlare del concetto di bodhisattva, il mio interlocu

tore si è reso conto della crescente inadeguatezza del vocabolario. Ho cercato di r assicurarlo, spingendolo a non indietreggiare di fronte a ciò che può sembrare compl icato, persino inaccessibile in un semplice libro. Ricordiamo i problemi molto si mili che incontrano gli scienziati, quando vogliono rivolgersi al grande pubblico . Gli parlo di un libro che ho scritto insieme a due astrofisici, Jean Adouze e Michel Cassé, in cui si presentavano le stesse difficoltà. Come, ad esempio, rappres entare un atomo? E le particelle in questo atomo? Descrivo un'immagine suggeritami da questi due studiosi. Prendiamo un'arancia, i ngrandiamo questa arancia fino a giungere alle dimensioni della terra. Dopo, riemp iamo questa gigantesca arancia di ciliegie: abbiamo circa il numero di atomi di cui è costituita un'arancia. Si tratta di una cifra considerevole, intorno a 10 ele vato 20. Ora, se vogliamo giungere al livello dimensionale delle particelle, prendiamo una di queste ciliegie. Immaginiamo di darle le dimensioni della cupola della basil ica di San Pietro, a Roma Poniamo in questa cupola un granello di riso. Abbiamo c osì la dimensione relativa del nucleo stabile dell'atomo, composto da protoni e da neutroni, intorno al quale (nel vuoto della cupola) ruotano gli elettroni. E in q uesto granello di riso risiede una delle forze essenziali dell'universo, la forza nucleare. "Non è che un trucco per cercare di abituare lo spirito a immaginare l'inimmaginab ile, in questo caso l'infinitamente piccolo. E poi, questo ci mostra che la scien za più avanzata, così come il buddhismo, in ultima analisi trova il vuoto." Mi segue attentamente, e ride. "Un'altra cosa lo prova" gli dico. "L'astrofisica ci insegna che noi siamo attra versati a ogni istante da una corrente continua, fatta di miliardi di particelle infinitamente piccole, chiamate neutrini." "Da dove vengono?" "Dal sole e da altre stelle. Passano attraverso la nostra materia con la più tota le indifferenza, come se non esistessimo. Attraversano anche le rocce più dure, l a terra intera e altri corpi celesti, senza essere arrestate né frenate." Molto interessato, chiede al suo assistente di annotare l'esatta grafia della par ola "neutrino" (che deriva da "neutro"). Gli dico che Michel Cassé a volte li chiam a "angeli". Fantastichiamo un istante su questo punto d'incontro, su questo vuoto enigmatico che siamo ai nostri stessi occhi, anche sulla caducità che sembra travolgere ogni co sa, anche quest'onda di particelle invincibili che viaggiano senza fatica nell'un iverso. Penso ad alcune frasi di uno dei più bei testi del buddhismo giapponese, il Kègonkyo, sutra della dottrina Kegon: "Illuminato dalla sua stessa luce, il Buddh a rischiara tutti gli universi. Il suo sguardo puro conosce tutto, e penetra ovu nque. Si rivela nell'infinito, e l'infinito è lui...". Poco più avanti, nello stesso testo, è detto che egli "risiede al centro dell'atomo più minuscolo". Qui, un'antica e duratura intuizione ci parla da vicino. Dapprima , contrariamente alle concezioni limitate dell'Occidente, e in particolare di Ari stotele, che ha condizionato la nostra visione del cosmo almeno fino a Galileo, l'Oriente ha sempre concepito l'universo come illimitato, esteso ovunque. I mondi che esso contiene sono innumerevoli. Il buddhismo lo descrive come una lunga se rie di anelli giganteschi infilati su un asse invisibile, il famoso monte Meru. L'induismo chiama quest'asse il Dharma, e lo immagina sostenuto da Vishnu. Anche qui l'universo, lungi dall'essere limitato alla volta celeste, è di dimensioni grand

iose, che i poeti si affaticano a descrivere. Indra, il re degli dèi, abita in una splendida capitale, Amaravati, sempre in movimento nello spazio. In secondo luogo, dicono i più antichi testi buddhisti, la materia del mondo è costi tuita da particelle molto leggere, dagli anu, termine che si traduce generalmente con "atomo". Queste particelle hanno una massa e sono indivisibili. Alcune scuol e giungono a dire che questi atomi non si toccano e sono tenuti in relazione, for mando degli insiemi, solo dalla forza dell'elemento ventoso. Il vento assicura c osì la coesione degli aggregati di particelle, nozione generalmente tradotta con "m olecola". Queste molecole, in perpetua instabilità (come tutti i corpi composti) c ontengono tutte le sostanze elementari, e tutte le qualità che ne derivano (il gus to, l'odore, la sembianza, la consistenza tangibile, il suono). Inoltre, all'inte rno di queste molecole, e gruppi di molecole, tutti gli elementi coesistono: nell 'acqua c'è fuoco e terra, altrimenti quest'acqua non potrebbe né scaldarsi né gelare. Infine (cito testualmente): "I corpi che essa (la molecola) forma sono così percet tibili e la loro percezione ha luogo quando le molecole obiettive sono raggiunte da molecole simili che risiedono negli organi di senso, ad esempio sulla pupilla per la vista...". Questo mi ricorda una frase di Michel Cassé che parlava del sole, modellatore del nostro occhio: "L'atomo del sole parla all'atomo dell'occhio il linguaggio della l uce". Domando all'improvviso al Dalai Lama: "Il buddhismo sarebbe allora una scienza? Una scienza dello spirito?". Mi risponde subito: "È proprio così!". "Mi parli dello spirito." Scoppia a ridere e, afferrando una manica del mio maglione, risponde: "Bisognerebbe per questo che lei cambiasse abito! Che lei indossasse una veste ro ssa!". "E che mi rasassi la testa?" "E che lei studiasse almeno per dodici anni, non facendo altro che questo!" La scienza dello spirito, del funzionamento dello spirito è, nella storia del budd hismo, un'attività antica e decisamente raffinata. Poiché nulla può essere visto o comp reso senza lo spirito giacché, secondo alcune scuole, tutte le cose dell'univers o possono essere manifestazioni dello spirito questa scienza è necessaria. È al ce ntro di ogni studio. Dato che gli oggetti hanno solo un'esistenza relativa, o convenzionale, e che è imp ossibile considerarli in se stessi, come entità indipendenti e stabili, l'accesso a questi oggetti da parte dei nostri sensi è irto di difficoltà, soggetto a mille err ori e minacciato dalla confusione. Uno dei fondatori del buddhismo Mahayana, Nagar juna che il Dalai Lama cita sovente come uno dei suoi maestri prediletti , sc riveva all'inizio del III secolo della nostra era: Più lontano siamo dal mondo, più reale ci sembra, più ci avviciniamo, meno diviene v isibile e, come un miraggio, diventa senza segno. Si ritrovano al tempo stesso in questo testo l'imperiosa necessità di "vedere" e la confusione inevitabile che provoca ogni tentativo di "vedere da vicino". Il Buddh

a già lo affermava: "La forma è come un'illusione magica e le sensazioni, le percezi oni, i costrutti mentali e le coscienze sono anch'essi illusioni magiche". "Mi sembra" dico "che questa difficoltà a cogliere il reale sia proprio al centro d ello studio buddhista dello spirito." "Sì," mi risponde "senza dubbio. Ne deriva una moltitudine di precauzioni da prend ere, di divisioni e di suddivisioni nelle nostre operazioni di approccio. Ad esem pio, per quel che concerne le percezioni dirette (che non sono le sole), tutte l e tradizioni buddhiste ne distinguono tre tipi: sensoriale, mentale e yogica. Que st'ultima non può essere raggiunta che per mezzo della meditazione." "Ma questi tre tipi di percezione si dividono in più categorie?" "Sì, in più livelli, che a loro volta devono essere messi in relazione con le sei c oscienze, e i cinquantun fattori mentali, che sono solo occasionalmente presenti. Vede perché, se vuole sapere tutto, dovrebbe rasarsi la testa! " Per il semplice gioco delle combinazioni aritmetiche possibili, il numero delle o perazioni percettive diventa ben presto impressionante. E ciascuna di queste oper azioni si trova minuziosamente descritta e analizzata - e sovente criticata, mes sa in dubbio da secoli di studio. Lo stesso accade per le altre operazioni dell o spirito, come la cognizione, il pensiero concettuale, la memoria. La lista non sembra avere fine, cosicché nessun individuo, oggi, può abbracciare tutta questa sci enza. Nessuno spirito può afferrare tutto lo spirito. Questo fascino che lo spirito umano prova nei confronti di se stesso, si collega a un altro sentimento, più semplice a esprimersi, e ripetuto senza sosta: il corp o è condannato a deteriorarsi, e noi non possiamo farci niente. Gli autori buddhist i insistono continuamente sulla caduta dei capelli, sull'indebolimento della vist a, sull'appesantimento delle membra. In compenso, se il corpo inevitabilmente dec lina, possiamo costantemente abbellire lo spirito, e questo fino all'ora estrema. È anche detto che al momento della morte, se siamo ben preparati, possiamo ricever e infine le rivelazioni fondamentali. Altro passo, che rafforza la confusione: il nostro spirito è per natura indiscipli nato. Nella Bhagavadgita, il più bel testo, senza dubbio, che ci ha lasciato l'ind uismo, l'eroe Arjuna, improvvisamente angosciato prima della battaglia, dice a Kr ishna, suo auriga e amico: "Lo spirito è volubile e instabile, è sfuggente, febbrile, turbolento e tenace. Soggiogarlo mi sembra più arduo che domare il vento... Com e decidersi? Come scegliere?". Krishna stesso riconosce che lo spirito è "misterioso e incomprensibile", senza du bbio "più grande dei sensi". Apprendere il funzionamento segreto dello spirito, è av anzare nella "foresta fitta dell'illusione", è cogliere in un solo momento tutto i l cammino del mondo. Il buddhismo ha descritto molte volte, sia direttamente, sia per mezzo di metafor e, questo timore di uno spirito turbine, di uno spirito disordine. "Lo spirito s i manifesta e si disperde in un perpetuo cambiamento" diceva Sakyamuni. "Come una scimmia che si diverte in una foresta afferra un ramo e poi lo lascia per aggra pparsi a un altro, e poi ad altri rami, così quel che voi chiamate spirito, pensie ro, conoscenza, si crea e si dissolve senza posa." Per indisciplina, nella propria attività, lo spirito è irresistibilmente attratto da lle forme dell'illusione. Si inganna continuamente sulla realtà del mondo. L'immag ine della scimmia inquieta ritorna sovente: il nostro spirito è anche una scimmia rinchiusa in una casa vuota, con qualche apertura. Queste aperture sono gli organ i dei nostri sensi. La scimmia getta un colpo d'occhio da una finestra, scorge un angolo del mondo esterno, passa presto a un'altra finestra, senza riflettere, sen za uno sforzo critico o di sintesi. Da qui una percezione frammentaria, mutila, n

ecessariamente falsa, che ci porta ad azioni rapide, brutali, sempre nefaste.

Quanto allo spirito, non offre alcuna caratteristica particolare. Fuori dall'infl uenza aberrante dei sensi, è indifferente come uno specchio, che riflette ciò che gli si presenta davanti. Un maestro indiano dell'XI secolo, Tilopa, lo definisce così: "Lo spirito luminoso non ha né colore, né forma. Non è né scuro' né chiaro, né cattivo, né b no". Inutile attribuirgli una qualità originaria e inseparabile. Si pone al di là di ogni possibilità di essere qualificato. In definitiva, è forse il solo e vero creatore, grazie alla sua stessa funzione. C ostituisce anche un passaggio obbligato. Impossibile giungere al dissolvimento de ll'illusione senza trattare dello spirito. Come dice un altro grande maestro, Sa ntideva (che viveva nel VII secolo): "Se non si è anzitutto compreso il fenomeno co struito dallo spirito, la sua non esistenza non può essere stabilita". I fenomeni costruiti dallo spirito sono tanto più difficili da discernere, infine , quanto più questo spirito possiede una regione misteriosa che chiamiamo oggi l'i nconscio. Questa sorprendente scoperta fu compiuta dal Buddha stesso, fin dall'i nizio. Egli chiamò questo territorio impenetrabile amushaya Come, diceva, le funzion i fisiologiche per esempio la digestione si svolgono a nostra insaputa all'interno del corpo, così il nostro pe nsiero può seppellire in se stesso le preoccupazioni, gli attaccamenti pericolosi tanto più pericolosi quanto più noi li crediamo annientati, mentre essi non sono c he dileguati e nascosti a noi stessi. Anche se offriamo, in superficie, un'appare nza di tranquillità, custodiamo in noi questo vulcano. Sakyamuni dava in poche parole una definizione della amushaya alla quale non c'è n ulla da aggiungere: "Abitudine sotterranea di dipendenza e di avversione". Dopo avermi vivamente sconsigliato di rasarmi la testa e di vestire l'abito del k hiksu, il Dalai Lama mi dice: "Si rassicuri, possiamo parlare dello spirito. Mi accade abbastanza sovente di a ffrontare questo tema con scienziati, neurologi, psichiatri. Ho partecipato a cinq ue o sei convegni in questi ultimi anni". "Cosa succede?" "All'inizio, esitano un poco. Li sento reticenti. Temono evidentemente che io mi limiti a elencare affermazioni dogmatiche. Il secondo o terzo giorno, mentre le discussioni continuano, a poco a poco le reticenze diminuiscono, e talvolta scom paiono del tutto. Ben lontani dal considerare il buddhismo come una religione rig ida, alcuni vogliono rendersi conto se, come lei dice, si tratti di una scienza. E se tale scienza, estremamente complessa, poggi come tutte le scienze sull'esp erienza." "Quali sono gli scienziati che vi sembrano più interessati?" "Gli psicologi, i neurologi, tutti coloro che studiano il cervello e anche i fisi ci e gli astrofisici, coloro che lavorano sulla materia dell'universo e sulle par ticelle elementari." "Lei si è accostato alla meccanica quantistica?" "Sì, per quanto ho potuto." "Lei sa che a livello dell'infinitamente piccolo lo spirito giunge a una zona di incertezza?" "Me l'hanno detto. Ma non mi ha poi stupito troppo."

Gli ricordo che questa incertezza, affermata da Heisenberg e da Niels Bohr, resi ste alla ricerca da più di cinquant'anni. Nella fisica dell'infinitamente piccolo , è impossibile conoscere contemporaneamente la posizione di un elettrone e la sua velocità. Lo spirito deve scegliere. Questo limite imperativo imposto alla conoscen za, e che altre osservazioni confermano, sembra rimettere in causa in modo quasi decisivo il rapporto consueto tra spirito e realtà. Contrariamente alla tradizione orientale, l'Occidente non ha mai messo in dubbio radicalmente l'esistenza del reale. Secondo la nostra tradizione classica, Dio ha posto delle leggi nella natura e compito nostro, come ha detto Cartesio, è scoprir le. Atteggiamento che l'Occidente mette in discussione dall'inizio del XX secolo, dalla scoperta della relatività e della meccanica quantistica. Non senza confusione e stupore. Senza giungere fino a dubitare radicalmente del reale e senza rinunci are a stabilire delle leggi, anche se in taluni campi esse si accompagnano a una frangia di incertezza, i ricercatori contemporanei introducono nel loro lavoro un a nuova dimensione che è proprio il rapporto con lo spirito. L'osservatore, con la sua stessa presenza, con un suo pur minimo intervento, modifica l'oggetto osserv ato. Ogni ricerca, oggi, deve tenerne conto. La relazione diventa più importante de ll'oggetto. In questo territorio, benché segua altre vie, il pensiero orientale ci ha preceduto . Racconto al Dalai Lama che un giorno, quando lavoravamo insieme, chiamai Miche l Cassé per dirgli: "Tutto ciò che esiste, mobile o immobile, proviene dall'unione de l campo e di colui che conosce il campo". L'astrofisico mi rispose senza esitare: "Ma è una delle più belle definizioni della meccanica quantistica che io conosca!". Gli spiegai allora che gli avevo appena letto una frase di Krishna nella Bhagava dgita, frase sovente molto mal tradotta nel XIX secolo (con "unione della materi a e dello spirito" per esempio, mentre le due parole sanscrite sono lo stesso te rmine, kshetra, che significa letteralmente campo, e ksetrajna, colui che conosc e il campo), finché la comparsa della meccanica quantistica permise infine una trad uzione corretta. Frase che non ci consente in alcun modo di affermare che Krishna , o gli autori del poema, conoscessero il principio di Heisenberg e i segreti de lla fisica delle particelle. Sarebbe puro sogno. Ma non si può trascurare il fatto che una intuizione antica, formulata molto spesso nella tradizione indiana e tib etana, sostiene l'inseparabilità del nostro spirito, dei nostri sensi e delle cose . Su questo punto il buddhismo è particolarmente categorico. Il Dalai Lama ha visitato il CERN, ha partecipato a discussioni scientifiche ad Harvard, così come a Grenoble. Questi accostamenti non gli sono estranei. Li accett a senza sorprendersi molto, come se la nostra scienza ritrovasse un cammino anti co ciò che non si deve interpretare come un incontro di tecniche e di conoscenze . Il mondo orientale antico non possedeva segreti tecnici che noi avremmo perduto . Semplicemente, in questo campo essenziale che mette in gioco lo spirito e l'oggetto che lo spirito investiga (oggetto che p uò essere esso stesso), le tradizioni che noi evochiamo hanno rifiutato di separarl i. Oggi, per il semplice scorrere del tempo che plasma anche le nostre idee, l'O riente e l'Occidente giungono a comprendersi, talvolta anche a confondersi. Rimane il fatto che il Dalai Lama, seguace convinto della '`via del giusto mezzo" , ci ripete che dobbiamo diffidare delle posizioni estreme. Egli si domanda se il pensiero occidentale, avido di certezze, oscillante tra il dualismo classico e l a confusione contemporanea, non tenda a trascurare "la zona grigia", questo terri torio del giusto mezzo, dove lo spirito tiene conto dei fatti. Continuando, mi dice: "Credo profondamente che dobbiamo trovare tutti insieme, una spiritualità nuova".

"Che non sarebbe "religiosa"?" "Certamente no. Questo nuovo concetto dovrebbe formarsi a fianco delle religioni, in modo tale che tutti gli uomini di buona volontà possano aderirvi." "Anche senza religione o addirittura contro la religione?" "Sì. Un concetto nuovo, una spiritualità laica. Dovremmo promuovere questo concetto con l'aiuto degli scienziati. Potrebbe condurci a fondare ciò che tutti cerchiamo, una morale secolare (sottolinea queste parole). Ci credo profondamente. E ciò per un migliore futuro del mondo." Quest'idea può apparire teorica e anche irrealizzabile (come far applicare questa m orale?), ma egli ne dà subito un esempio personale: "Sperimento ogni giorno i benefici effetti della pace dello spirito. È ottima per il corpo. Lo può vedere, io sono un uomo molto impegnato, mi assumo molte responsab ilità, faccio interventi, viaggi, dichiarazioni, tutto ciò costituisce un fardello mo lto oneroso, e ciononostante la mia pressione arteriosa è quella di un bambino". "Lei è fortunato." "L'anno scorso," dice mostrandomi il suo braccio destro nudo "a Washington, in un ospedale militare, mi hanno misurato la pressione. E il medico ha esclamato: "Ah , vorrei averla io!"" Ride di cuore e prosegue: "Quel che è bene per me è bene per gli altri. Non ho alcun dubbio a questo riguardo. Una sobria alimentazione, una lotta contro ogni desiderio eccessivo, una meditaz ione quotidiana, tutto ciò può condurre alla pace dello spirito, e questa pace dello spirito è una buona cosa per il corpo. Malgrado tutte le difficoltà della vita, che anche a me non sono state risparmiate, tutti possiamo sentire questo effetto". "E la strada è la compassione?" "Esatto. La compassione. Questo sentimento logico che troviamo in noi se cerchiam o in profondità. E che deve esercitarsi nei confronti di ogni altra vita che non si a la nostra. Anche se talvolta ci sembra difficile. Così, in questo momento, mi sfo rzo di provare compassione per coloro che sono chiamati miei nemici, per i cines i che hanno invaso il Tibet. Le azioni che hanno commesso, e che continuano a co mmettere, contribuiscono a formare in loro un cattivo karma, di cui riceveranno un giorno o l'altro il castigo." Si sa che il karma, concetto ereditato dall'induismo ma largamente sviluppato dal buddhismo, è una "legge degli atti". Tutti gli atti che possiamo compiere, e tutti i pensieri che possiamo formulare (il buddhismo si appoggia metodicamente all'af fermazione che non vi sono fatti senza causa, né una causa senza effetto), costitui scono una sorta di energia, di forza, i cui effetti si faranno sentire un giorno , in questa vita o in un'altra vita. Questa forza, per ogni coscienza, condizion a la qualità delle sue future reincarnazioni. Un cattivo karma, un karma negativo, ci allontana anche dalla realizzazione finale, dall'uscita sperata fuori dal cic lo delle rinascite, dal samsara. Alcuni, come Jorge Luis Borges, che vedeva nel karma una "struttura inconcepibil e", si sono domandati da quale autorità, giacché nessun dio creatore vigila sull'osse rvanza di leggi da lui poste, proceda questa "legge degli atti". In altre parole , chi ha stabilito il karma? Chi ne garantisce il funzionamento? Sotto quale form a si presenta questa forza, giacché non esiste nel buddhismo nessuna anima partico

lare che possa trasmigrare da un corpo all'altro? Le risposte variano secondo le scuole. Il Dalai Lama mi darà la sua, un altro gior no. Per ora, insiste sulla compassione, che ritorna come un Leitmotiv nei suoi discor si. Questa insistenza è all'origine, senza dubbio, di una certa ingenuità che si att ribuisce talvolta alle sue frasi, quando vengono pronunciate nella fretta di una intervista. Dire "dobbiamo provare compassione per gli altri" può in effetti passa re per una banalità da catechismo, intrisa dei migliori sentimenti, facile a dirsi e semplicemente utopistica. Questo significa però non capire che questa affermazione, l'esatto contrario di una massima superficiale e applicabile comunque, è in effetti il risultato di una minuz iosissima ricerca. Questa compassione è in noi; in ultima analisi, è anche un sentimen to che ci è proprio e la cui potenza è superiore a quella dei nostri istinti violent i. Ma numerose forze negative, che vediamo manifestarsi costantemente intorno a no i, e anche in noi stessi, oscurano questa energia profonda e la spengono ai nostr i occhi. Così bisogna cercare senza sosta in noi la compassione, riconoscerla ed es ercitarla. "Non sarebbe" mi dice "che con una intenzione egoistica. Perché la compassione che esercito in compenso mi fa del bene. È la migliore delle difese e io ne sono il pr imo beneficiario. Mi assicura la pace interiore, la salute del corpo, giorni fel ici, una lunga vita. Senza parlare delle vite future." "Occupiamoci intanto di questa." "Ha ragione. Comunque, le altre vite dipendono da questa. Ebbene, in questa vita che anima lei e me in questo momento, desideriamo vivere in mezzo a una comunità un ita, godere di buona salute, di una famiglia armoniosa, in breve, avere una vita felice..." "Una morte felice..." "Sì!" "Il che è senza dubbio più difficile." "È un'altra nascita felice!" Anche ora ride con franchezza, sapendo bene che io non credo affatto in un'altra nascita, in un'altra vita. Gli rammento che in Occidente viviamo, almeno da più d i due secoli, basandoci sull'idea che la nostra felicità sia possibile fin da ques ta vita. La frase di Saint Just, "la felicità è un'idea nuova in Europa", mostra chia ramente che la felicità ha costituito una rivoluzione. Si tratterebbe di cambiare v ita, l'unica che conosciamo con certezza. Relegando la felicità, o il suo equivale nte spirituale che si chiama "beatitudine", in "un'altra vita", completamente ip otetica e tuttavia dichiarata eterna, le nostre religioni ci hanno spinto a rasse gnarci alla nostra sorte terrena, in questa triste valle di lacrime. Affermazioni che hanno permesso a tutta una serie di poteri tirannici di esercitarsi senza r estrizioni, brutalmente, avidamente, appoggiandosi, in taluni casi con fede sincer a, su questo o quel credo religioso. Troviamo inevitabilmente nel samsara echi precisi di queste punizioni e ricompens e lontane. L'idea della vita come sofferenza, anche se l'interpretiamo impropria mente, costituisce indubbiamente un ostacolo a una penetrazione più decisiva del b uddhismo in Occidente. Facciamo fatica a credere in un'altra vita, quando vediam o questa schernita, calpestata, oggi come ieri, in nome di un dogma religioso. A questa promessa nebulosa di una ricompensa altrove (in un'altra vita, in un'altr

a coscienza), preferiamo un lavoro accanito per difendere e migliorare questa. Co n i risultati che constatiamo attorno a noi e che abbiamo già ricordato. Abbastanz a curiosamente, d'altronde, il Dalai Lama, che crede in altre vite, trova il mond o in cui viviamo meno minacciato, meno deplorevole di quanto appaia agli occhi de gli stessi occidentali. È ancora una questione di sguardo? Mi ascolta attentamente roprio pensiero:

è un discorso da lui conosciuto, immagino

e torna al p

"Dobbiamo molto alla pace dello spirito. Per noi, si tratta di un fatto. Questo equivale a dire che dobbiamo molto allo spirito stesso. Tutta la storia del buddh ismo ci riporta allo spirito, al nostro spirito. Un considerevole lavoro è stato f atto dallo spirito per lo spirito. E noi continuiamo". "Giungendo fino all'illusione stessa dello spirito?" "Questo vale per alcune scuole." "Ma qual è il senso esatto del termine "illusione"? Si può concepire un'illusione sen za un illusionista?" "Noi diciamo che lo spirito illude se stesso, ad ogni istante, nella percezione sommaria che ha del mondo. E che questa percezione erronea deve necessariamente e ssere corretta, a meno di non scegliere di vivere nell'errore. Noi sosteniamo che l'agitazione ci porta fuori strada, che nessuna vera relazione può essere stabilita col mondo se non perveniamo alla pace dello spirito." Sakyamuni per primo, e centinaia di altri uomini di pensiero e meditazione sulla sua scia, hanno così segnato l'esistenza stessa dello spirito, con una logica impi etosa (il pensatore non deve avere alcuna compassione per il proprio pensiero): poiché il mondo esterno, trapassato dai nostri sensi, è vuoto di ogni realtà intrinsec a, i suoi effetti sui nostri sensi sono ugualmente vuoti, illusori. Le idee, che a loro volta nascono dalle percezioni sensoriali, sono dunque vuote di vero sign ificato, vuote di verità. E infine le nostre decisioni volontarie, che provengono g eneralmente dalle idee, sono così private di ogni solido fondamento. Come scriveva Maurice Percheron: "La sintesi di questi diversi gruppi di element i (che chiamiamo coscienza) è così un puro miraggio". Possiamo anche riprendere una celebre frase che si trova nel Sutra Immutabile: " I fenomeni della vita possono essere paragonati a un sogno, a un fantasma, a una bolla d'aria, a un'ombra, alla rugiada scintillante, al bagliore del lampo, ed è c osì che bisogna contemplarli". Come dunque placare un miraggio? Come esercitare un'azione su una entità lo spiri to che sarebbe nata dalla propria illusione e si compiacerebbe di perpetuarla? Nella sua lunga storia il buddhismo si è appassionato a questo apparente paradosso, riconoscendo in principio come evidente che se lo spirito (forse) non esiste, i n ogni caso le operazioni dello spirito sono concatenate le une con le altre. Non possiamo metterle in dubbio, a meno di postu lare l'assurdo. Per quanto riguarda questa pace dello spirito che si trova in noi il Dalai Lam a insiste volentieri su questo punto , non si tratta di inventarla da cima a fo ndo, si tratta di ritrovarla e, con essa, trovare il cammino della vera conoscen za. Così dice un autore che si chiama Coomaraswami: "Similmente una lampada portata in una stanza buia ci permette di distinguere ciò che già vi si trovava". Noi attend evamo questa pace necessaria e fertile. Nessuna azione positiva può essere intrapre sa al di fuori di quella Aurobindo l'ha definita a suo modo: "Le attività che vengo

no dal di fuori attraverseranno allora la calma dello spirito come un volo d'ucce lli uno spazio senza vento". Il Dalai Lama riprende: "Questa pace dello spirito, lo ripeto, è un fatto. Inutile negarlo, immaginarci co me in balia di energie esclusivamente aggressive, o possessive, o dominatrici. Ben inteso, tutte queste tendenze pericolose esistono in noi, ma al di sotto di ques te, più profonda e più duratura, vi è la pace. Se utilizziamo questa pace come un fat to, possiamo veramente offrire all'umanità il meglio possibile. Ma bisogna prima ric onoscerla, raggiungerla e salvaguardarla". "Malgrado ciò che vede intorno a lei, e quel che lei stesso ha vissuto, continua a pensare che la natura umana sia buona, ben disposta, servizievole?" "Non "lo penso". Non è un'opinione, è un fatto. Numerose sono le circostanze che ci rendono ingiusti, ambiziosi, aggressivi. Intorno a noi tutto ci spinge in tal sens o, sovente a causa di un interesse economico: devo possedere questo o quell'ogget to, altrimenti la mia vita è penosa. Per possedere quest'oggetto, bisogna che guadag ni più denaro. Per ottenere questo denaro, bisogna che lotti, che mi opponga ad a ltri: la mia aggressività, allora, riappare." "In campo commerciale, l'aggressività è considerata una qualità." "Lo so bene. Il mondo ci viene presentato come essenzialmente competitivo, divis o fra "i vincenti" e "i perdenti", ma anche questa è una visione falsa deliberatam ente falsa. È un rapido sguardo di superficie, che elimina ogni discesa in sé, ogni m editazione, ogni riflessione." "Non siamo dunque come ci vediamo noi? Come noi ci raffiguriamo?" "L'immagine che diamo di noi stessi è spesso compiacente. Ci guardiamo con indulgen za. Abbiamo sempre la tendenza, quando ci colpisce un evento spiacevole, ad inco lpare gli altri, o il destino, o un demone, o un dio. Proviamo ripugnanza a scen dere in noi stessi, come il Buddha raccomandava." "E se vi scendiamo, troviamo questa compassione di cui lei parla?" "Inevitabilmente. Lei stesso è sopravvissuto solo grazie all'affetto degli altri. E questo dalla culla, forse anche dal ventre di sua madre, perché si dice che siamo sensibili all'ambiente, e all'affetto che nutrono per noi, ancor prima della nos tra nascita. Sono convinto che una madre felice porti in seno un bimbo felice. Se è calma, se il suo spirito è in pace, suo figlio ne sarà influenzato." "Lo si dice, in effetti. E da tempo." "E questo affetto è spontaneo, naturale (usa il termine inglese genuine, che si tra duce anche con "autentico"). D? suo figlio, la madre non aspetta nulla in cambio. È un affetto puro, senza calcolo. Ma senza questo affetto, il figlio non potrebbe sopravvivere." Resta un attimo in silenzio, poi insiste sugli effetti positivi di questo sentime nto spontaneo: "Tutte le nostre vite sono cominciate avendo, come primo supporto, l'affetto uman o. I bambini che crescono in quest'affetto sono più sorridenti e amabili. Sono gen eralmente più equilibrati. Per coloro cui questo affetto è mancato, succede il cont rario. Sono più duri, e hanno più problemi". "Esistono eccezioni, senza dubbio lo sa. Le influenze che presiedono alla formazi one della nostra personalità sono molteplici, complesse. In alcuni casi trattamenti

cattivi possono, al contrario, renderci agguerriti." "Renderci più aggressivi, più duri." "Senza dimenticare l'ereditarietà, che non controlliamo, benché i biologi vi compiano ricerche. Alcune influenze giungono da molto, molto lontano. Alcuni dicono pers ino: dal tempo in cui non eravamo ancora uomini." "È possibile. Dobbiamo accettare, gliel'ho detto, ciò che insegna la scienza. Diciam o che, in generale, la fretta, la competizione, quello che viene chiamato stress , l'ambizione contrastata, la difficoltà di cogliere il successo, la mancanza di de naro, tutto ciò è nocivo al nostro corpo, al nostro organismo." "Alla nostra pressione arteriosa?" "Fra l'altro. Bisogna capire bene che l'affetto di cui parlo non ha un fine, non è dato con l'intenzione di ricevere. Non è un fatto sentimentale. Similmente, diciamo che la vera compassione è priva di attaccamento. Presti attenzione a questo punto , che contrasta con le nostre abitudini di pensiero. Non è questo o quel caso part icolare che desta la nostra pietà. Non accordiamo la nostra compassione a questa o quella persona in seguito a una scelta. La doniamo spontaneamente, pienamente, se nza nulla sperare in cambio. E a tutti." Già l'induismo insegnava questo distacco nell'azione. Sempre nel Bhagavadgita, Kris hna insegna ad Arjuna che bisogna agire senza preoccuparsi del "frutto delle azio ni", cioè dei risultati, dei vantaggi, materiali o morali. Se questo distacco since ro viene raggiunto, permette un'azione sincera, e nel medesimo tempo irreprensibi le. Anche il desiderio di vittoria, in una battaglia, è da rifiutarsi, come ogni d esiderio. Questo rifiuto riguarda anche la coscienza che potrei avere del mio ste sso valore, se compio questa o quella azione. Non devo impegnarmi con il desideri o di riuscire bene, di trarre da quest'azione una soddisfazione personale, sotto forma di stima per me stesso. Questo desiderio nascosto, difficile da smaschera re, è sufficiente a snaturare quel che facciamo, perché abbiamo allora un attaccament o, un'intenzione, anche segreta. È in questo senso che dobbiamo interpretare una del le frasi del Buddha: "Abbandonate il bene, e a maggior ragione il male. Colui che raggiunge l'altra riva non ha bisogno della zattera". "Che dire dell'amore e del desiderio sessuale?" "Il desiderio sessuale, per definizione, vuole qualcosa, che è la soddisfazione di questo desiderio attraverso il possesso dell'altro. In gran parte, si tratta di un a proiezione mentale, suscitata da una certa emozione. Noi immaginiamo l'altro i n nostro possesso. In questo attimo del desiderio, tutto sembra piacevole e attra ente. Non vi si scorge alcun ostacolo, alcuna reticenza. L'oggetto desiderato ci sembra senza difetto, degno di ogni lode." "Tutto cambia con il possesso?" "Certo. Quando il desiderio scompare sia che lo si ritenga soddisfatto, sia ch e il tempo passi e lo indebolisca non guardiamo più l'altro allo stesso modo. L e sembianze dell'oggetto poco prima desiderabile cambiano, e talvolta rapidamente , improvvisamente. Alcuni se ne riconoscono stupiti. L'emozione del principio si è d issolta, cedendo il posto a un reciproco misconoscimento. Ciascuno scopre la vera natura dell'altro, fino a quel momento nascosta dal proprio desiderio. Di qui t anti matrimoni spezzati, discussioni, processi, odi." Mi guardo bene dal contraddirlo su questo punto, sapendo quali maledizioni, in tu tti i tempi, e nella maggior parte delle tradizioni, si sono riversate sul deside rio sessuale, e più ancora sui nostri sforzi per appagarlo. Le parole del Dalai L ama fanno eco a quelle di sant'Agostino, di Tertulliano e molti altri.

Il buddhismo ha codificato a suo modo le pratiche sessuali. Esiste una pratica co rretta e pratiche scorrette (la fellazione, la sodomia, la masturbazione). L'omos essualità non è scorretta in sé. Lo diventa, ovviamente, se porta a pratiche scorrette. Alcune distinzioni possono stupirci: così il rapporto con una prostituta, se segue la pratica corretta, non è condannabile. A condizione che la donna sia pagata da no i. Se un altro la paga per noi, c'è colpa. Per proteggersi dall'AIDS, il buddhismo ammette il preservativo. Ma il Dalai Lama non smette di dire, anche se lo fa sorridendo, che il mezzo migliore resta il ce libato, la castità. Meglio rinunciare: ecco quello che ci viene sempre detto, che è nel medesimo tempo un'ammissione di sconfitta, un suonare la ritirata. Su questo punto, nulla di nuov o. Ritorna in compenso sull'amore, su questa sorta di "chiara conoscenza" che può svi lupparsi fra due esseri, avendo come condizione il rispetto reciproco. "Si vede apparire allora un sentimento di vicinanza. I due individui che si amano si sentono vicini, talvolta molto vicini l'un l'altro. Da questa vicinanza può nasc ere una compassione vera, come quella della madre per il figlio. Questa compassio ne, o quest'affetto, non si basa su un'idea del tipo "questa persona è vicino a me , è fatta per me, noi ci completiamo in modo magnifico'', oppure "mi è congeniale, mi fa bene, con lei la mia vita sarà migliore". No, si tratta di un affetto spontaneo , libero da ogni calcolo." "Si tratta tuttavia di una scelta. Non provo affetto per una persona qualsiasi, ma per quella persona in particolare." "Sì, ma questo affetto può estendersi. Al di là di questa persona, può portarsi su altri individui. Se è veramente puro, non soffre di alcuna parzialità e smette di sceglie re. Può anche portarsi sui nostri nemici, che come noi ne hanno il diritto." Riflette un istante, poi riprende: "Posso dirlo in altro modo. Questa compassione può esercitarsi a due livelli. Al p rimo livello, il più semplice, posso vedere gli altri come me stesso. Non ho alcu n dubbio che tutti gli esseri umani siano simili, che condividano le stesse emozi oni, le stesse aspirazioni, gli stessi timori. Le differenze fisiologiche (il col ore della pelle, gli occhi a mandorla) o culturali che sembrano separarli mi sem bra li uniscano ancora di più ". "Vuole dire: quel che hanno in comune è più forte, più profondo di quel che li disti ngue?" "Molto più forte. Ed è proprio perché sembrano diversi che la loro comune natura mi b alza agli occhi con più forza. Tutte le teorie razziste, o cultural-razziste, che l a storia del mondo ha visto succedersi, sono assurde e nefaste. Non conducono ch e a sanguinosi vicoli ciechi. Soprattutto oggi, quando ci giungono immagini da ogn i parte della terra, la nostra unità profonda mi sembra evidente. Ogni nuova istitu zione dovrebbe prenderla come punto di partenza, come base." "Il buddhismo si è sempre proclamato universale." "Esatto." "E il secondo livello?" Il mio interlocutore è solito esprimersi per "livelli". In questo, è fedele a tutta u na tradizione, e anzitutto a Sakyamuni, il fondatore. Si dice che questi sceglies

se molto accuratamente le proprie parole in base alla qualità di coloro che lo ascoltavano, riservando certi insegnamenti, cons iderati talvolta come "esoterici", a quelli che gli sembravano meritarlo. Diceva : "Rapporto il mio linguaggio a ciascuno in relazione al suo potere di comprensi one, e correggo gli errori del mio insegnamento parlando per immagini". In seguit o, a più riprese, dei monaci "scoprirono", più spesso in grotte murate, testi del f ondatore che erano stati nascosti là per loro. Si sa che, nei primi secoli del buddhismo, il nuovo insegnamento si diffuse in As ia sotto forme diverse. Gli storici distinguono generalmente il Piccolo Veicolo ( Hinayana), che conquistò soprattutto Ceylon, la Birmania, la Cambogia, conservando i tratti del buddhismo primitivo, estraneo a ogni controversia, a ogni raffinatez za speculativa, e il Grande Veicolo (Mahayana), che si stabilì prevalentemente nel centro e nel nord dell'Asia, in Cina, in Tibet, in Giappone, in Corea. Più comples so, più altamente speculativo, più diversificato in molteplici scuole, inventore di entità nuove come i bodhisattva, di concetti come la vacuità, di formule, il Mahayan a si è tinto anche di magia, di mistica. Ha accolto il tantrismo e si è anche trasfo rmato in Vajrayana, o "veicolo di diamante", che insiste sull'esecuzione fedele dei riti. Storia complicata, di competenza degli storici delle religioni. Un giorno chiacc hieravo con Lhakdor, l'interprete e assistente religioso. Cominciammo a parlare d ei diversi veicoli ed egli mi disse con un sorriso: "Abbiamo queste diverse scuol e all'interno di noi stessi. Alcuni possono attenersi all'Hinayana. Altri prosegu ono fino al Vajrayana". "Il secondo livello" mi risponde il Dalai Lama "introduce una nozione di recipro cità. Ne abbiamo già parlato. Questo equivale a dire, cosa per noi evidente: se nutro dell'odio nei confronti degli altri, sarò odiato a mia volta e soffrirò. Se, al con trario, nutro amore e compassione, un giorno o l'altro ne trarrò beneficio." "Lo stesso meccanismo vale per la tolleranza." "È noto. Il fanatismo conduce al contro fanatismo, altrettanto temibile." "L'umanità non cessa di ripetere, da quando è capace di parlare, che la violenza gen era violenza. E continua a mostrarsi violenta. Impossibile spezzare la catena." "Impossibile" dice "non credo. Ma molto difficile, senza dubbio. La base di ogni insegnamento morale dovrebbe essere non rispondere agli attacchi. Certo, compassi one e tolleranza non sono che parole. E le parole in se stesse non hanno alcuna f orza La nostra prima reazione è quella di replicare, di reagire, talvolta anche di vendicarci, e ciò conduce solo ad altre sofferenze. Per questo il buddhismo dice sempre: sperimentate la quiete. Provate almeno una volta. La meditazione può aiutar vi a scoprire in voi la tolleranza. Quando l'avrete praticata, vi accorgerete di poterne trarre beneficio. E così, grazie al vostro esempio, potrete estenderla int orno a voi." "E se scopriamo l'odio?" "Vuol dire che non avrete cercato abbastanza." In uno i Lama no che guida .

dei suoi libri, anche qui riprendendo a suo modo un antico detto, il Dala scrive: "Colui che vi nuoce non deve essere avvertito soltanto come qualcu ha bisogno della vostra attenzione, deve anche essere visto come la vostra spirituale. Vi accorgerete che il vostro nemico è il vostro supremo maestro"

Gli esprimo un grande apprezzamento per questa visione del nemico come del suprem

o guru sebbene questo atteggiamento sembri molto difficile da mettere in pratica. "Il nostro nemico" mi dice "ci offre una preziosa opportunità, quella di migliorar ci." "Senza un nemico, ci indeboliremmo? Perderemmo delle qualità?" "Senz'altro." "più nemici abbiamo, migliori siamo?" Scoppia a ridere dicendomi: "Con tutti i nemici che abbiamo, oggi siamo certamente di una qualità incomparabile !". Allude evidentemente ai cinesi. Ritorno per un momento all'induismo: "Questo effetto di reciprocità di cui lei parla, lo troviamo formulato nel Mahabha rata in una sola frase, che alcuni commentatori pongono al centro stesso dell'op era, come il diamante da cui tutto irradia". "Quale frase?" "Non può concepirsi se non nel concetto induista del dharma, ove ogni dharma partic olare è come un frammento della garanzia del Dharma cosmico. La frase dice: "Il dh arma, quando è protetto, protegge; quando viene distrutto, distrugge". "Capisco." "Se questa legge misteriosa esiste veramente, se l'ordine cosmico dipende dalle nostre azioni, oppure, come dice la dottrina buddhista, se in ogni modo, in questa vita o in un'altra, ogni azione comporta una conseguenza, non siamo tentati di a gire per un fine? in altri termini, di prevedere un frutto delle nostre azioni? tentati di agire per trarre dalle nostre azioni qualche beneficio?" Mi risponde come fosse evidente: "Ma questo desiderio è naturale! Del tutto naturale! E se ci conduce a un'azione mi gliore, più elevata, più ponderata, tanto meglio!". "Un desiderio può dunque avere in sé del bene?" "Ma naturalmente! Quando Sakyamuni afferma che i nostri desideri necessariamente inappagati contribuiscono a mantenerci in una visione imperfetta del mondo, ques to non significa che tutti i desideri siano da bandire!" "Lui stesso era animato da un ardente desiderio di far ascoltare la sua parola." "Era anche più di un desiderio: una necessità, nata dalla compassione. Cerchiamo di capirci: un desiderio può essere negativo o positivo. Se anche desidero l'acquisi zione di un bene personale diciamo la salute se sono malato, un pugno di riso s e ho fame questo desiderio è pienamente giustificato. E lo stesso è per l'egoismo. " "Esiste un egoismo positivo?"

"Certo. Nella maggioranza dei casi l'affermazione dell'io non conduce che alla de lusione, o meglio al conflitto con altri ego esclusivi come il mio. In particola re quando questo forte sviluppo dell'io porta a capricci e pretese." "Conosciamo strani esempi in qualche diva del cinema." "Anche altrove. L'illusione di un io permanente nasconde un pericolo che ci mina ccia tutti. Voglio questo, voglio quello: si può giungere a uccidere, lo sappiamo bene. L'eccesso di egoismo conduce a perversioni incontrollabili, dall'esito semp re negativo." "Ai limiti della follia." "Invece, un io saldo, sicuro di sé, può essere un elemento molto positivo. Parlavamo l'altro giorno di ambiente, di difesa della terra. È chiaro che se decido di cond urre questa grande battaglia, di salvare il pianeta, devo essere sicuro di me ste sso. Senza una forte coscienza di sé cioè delle proprie qualità, delle proprie possi bilità, della propria convinzione nessuno può assumersi una tale responsabilità. È nece ssaria una grande fiducia in se stessi, è più che evidente. " "Fiducia che, nel migliore dei casi, può condurre a questa convinzione: poiché posso farlo, devo farlo." "Esattamente" dice. "Se ritorno per un momento al bodhisattva, che per noi è l'esse re ideale, colui che può ambire al nirvana, l'assoluto riposo nella luce, ma che r ifiuta di giungervi, che preferisce restare in contatto con questo mondo sofferen te per venire in suo aiuto o, in altre parole, che non potrà trovare il suo vero r iposo finché una traccia di dolore sussisterà nel mondo, se noi prendiamo questo idea le come modello, non basta leggere regolarmente i sutra! Non è sufficiente domanda re: dove si trova questo o quel bodhisattva? In quale direzione mi devo prostern are? Che cosa gli devo dire?" Ride e aggiunge: "Questo bodhisattva dobbiamo produrlo in noi stessi. Se mi dico, con convinzione , che il mio compito è di mettermi al servizio degli esseri, per un periodo di temp o che nulla può determinare, che può anche non avere fine, questo richiede una determ inazione piena e integra. Senza un io molto forte, questa determinazione è impossib ile". "Quanti pericoli minacciano continuamente questa forza dell'io!" Gli racconto un aneddoto spagnolo, riguardante un superiore di convento del XVII secolo, uomo dalle alte aspirazioni alla santità, duro nei confronti degli altri e di se stesso, che disse un giorno: "Io, per quanto riguarda l'umiltà, non temo c onfronti". Questa frase diverte molto il mio interlocutore, che ritorna per un momento sul modello del bodhisattva, indicato dal Mahayana. I bodhisattva vogliono aiutarci a rischio di perdere se stessi, a rischio di "andare all'inferno" in nostra compa gnia, per continuare ad aiutarci. Inutile dire che questo inferno non è il nostro, popolato di demoni che sogghignano intorno a calderoni di olio bollente. Si tratt a qui, nella catena delle rinascite, di uno stato inferiore, che può arrivare fino all'animalità e alla sofferenza fisica, in rapporto con la qualità delle nostre azio ni, del nostro karma Altra differenza: è sempre possibile, per un'altra vita miglio re, lasciare queste regioni sprezzate, dove i bodhisattva si avventurano e soffr ono mentre il nostro inferno ha chiuso la porta a ogni speranza, cosa che l'ha reso sovente inconciliabile con la proclamata bontà di Dio.

"Questa determinazione" prosegue mentre il solito monaco sorridente ci porta il tè "è la combinazione di due desideri: quello di aiutare gli altri, e quello di raggiu ngere la buddhità." "Il secondo può sembrare egoistico." "In un certo senso, sì. Per questo poniamo così in alto il comportamento del bodhisa ttva, che rinuncia allo stato di beatitudine." "Forse perché non è possibile aspirare a entrambi?" "Non nel medesimo tempo. Se un essere di somme virtù decide di mettersi al servizio degli altri, rinuncia alla buddhità. Ha bisogno di tutte le sue forze, di tutte l e sue conoscenze. Come potrebbe una madre senza mani trarre il figlio dal fiume? Se raggiungeremo un giorno lo stato di buddhità, potremo anche essere d'aiuto pien amente, ma in un altro modo, dedicandoci più particolarmente a coloro con i quali siamo stati in stretto contatto. A partire da questo primo stadio sboccia la volo ntà di aiutare tutti gli esseri, senza eccezione." "Siamo dunque portatori di questo desiderio?" "Sì, tutti, anche quando resta segreto. Noi chiamiamo questo desiderio Maitri, che si traduce sovente con "amore". Ma anche in questo caso, non ha nulla di sentimen tale. È una disposizione concreta ad aiutare gli altri. "Che tutti gli esseri sian o felici" ha detto Sakyamuni. Qualcosa ci spinge a contribuire a questa felicità universale. Dobbiamo scoprire e mettere in atto questo Maitri." "È prerogativa della buddhità?" "È la natura stessa della buddhità. Due desideri si congiungono: aiutare tutti gli e sseri viventi e, in questo fine fermamente stabilito, raggiungere lo stato di bud dha. Giungiamo così allo "spirito del risveglio" che noi chiamiamo Bodhicitta" "Il risveglio è dunque inseparabile dalla compassione?" "Assolutamente inseparabile. Ogni attività che giovi agli altri è un atto che rafforz a lo spirito." "E la possibilità di questo risveglio si trova in ciascuno di noi?" "Come la compassione. Senza eccezioni." Un'altra definizione di questo spirito del risveglio dice: "Raggiungere il risve glio a vantaggio degli altri". Siamo senza dubbio qui nel centro più segreto del b uddhismo, che fonde inseparabilmente realizzazione dell'essere e compassione univ ersale. Un grande sforzo di riflessione porta a questo punto preciso: legare str ettamente due concetti che ci sembrano eterogenei. Perché da un lato, in altre trad izioni, incontriamo mille esempi di santi perfetti, cioè seduti presso Dio, in para diso, dopo un oblio totale di questo mondo, e spesso persino grazie a questo obl io, che permette ai fortunati di concentrarsi su Dio solo, sulla "vera vita", il "vero regno", che non sono di questa terra. Dall'altro lato possiamo conoscere i ndividui caritatevoli, pienamente dediti agli altri (ad esempio oggi nelle organ izzazioni umanitarie o ecologiche), ma che, assorbiti nella loro lotta quotidiana , hanno trascurato la propria realizzazione personale. Dall'origine, dalle prime predicazioni del principe Siddharta, che aveva conosciu to personalmente i due estremi, fu chiaro che raccomandava di rifiutare nel conte mpo la vita mondana, sia essa costituita di piaceri o semplicemente di azioni, e altrettanto categoricamente la via della rinuncia e dell'ascetismo, "penosa e ig

nobile" e che non può portare a nulla. Il famoso Sermone di Benares parla anche de lla via del giusto mezzo, "che dona la visione, la conoscenza, che conduce alla p ace, alla scienza, al risveglio e al nirvana". E questo cammino è subito definito da gli otto sentieri che lo compongono, e che bisogna seguire in modo categorico: vi sione giusta, pensiero (o decisione) giusto, parola giusta, azione giusta, vita ( nel senso di mezzi di sussistenza) giusta, sforzo giusto, attenzione giusta, con centrazione giusta". Nella frase successiva, il Buddha passa alle quattro verità fondamentali, di cui la prima è la verità della sofferenza (le altre tre, lo ricordiamo, sono la causa dell a sofferenza, la cessazione della sofferenza e il cammino che porta a questa ces sazione). Il legame tra perfezionamento personale e realtà della sofferenza (che bis ogna consolare, perché il mezzo per farlo esiste) è così stabilito in modo solenne. No n sarà mai più rimesso in questione. Al contrario: tutti i grandi continuatori di Sak yamuni si sforzeranno, e ancora si sforzano, di consolidarlo. Diventare migliori significa aiutare gli altri. Che cosa è la buddhità? Una prima risposta è semplice: è impossibile dirlo a parole. Le parole sono imperfett e e ingannatrici. Le tradizioni indiana e cinese hanno sempre mostrato la più atten ta vigilanza nei confronti delle definizioni. Le migliori sono quelle che non cad ono nella rete delle parole. Per cogliere la buddhità, tutt'al più si può parlare di "qualcosa" che si manifesta, di eterno e universale, e di cui "non sussiste alcuna traccia". Ma è chiaro che ques to qualcosa consiste nel "liberare il proprio spirito e quello degli altri"". Il buddhismo zen ha particolarmente insistito sul fatto che questa illuminazione , questo risveglio, sono fenomeni così naturali e così semplici che non ci è dato alcun indizio del nostro essere diventati buddha. Tuttavia siamo in contatto con la ve rità suprema - alla quale ci avviciniamo a poco a poco nel corso del nostro dialogo , quella della vacuità. La natura del Buddha è in ciascuno di noi, risiede in ogni essere vivente e persino , lo si è già detto, in ogni atomo. Le impurità che accumuliamo nelle nostre diverse e sistenze possono oscurarla, ma non possono distruggerla Così scriveva Nagarjuna: Come un ornamento in metallo macchiato d'impurità dev'essere purificato dal fuoco, e quando è posto nel fuoco bruciano le impurità, ma non lui. Così per lo spirito la c ui natura è chiara luce, ma che è macchiato dalle impurità del desiderio, le impurità so no bruciate dal fuoco della saggezza ma la sua natura, la chiara luce, resta. Lo spirito, la più grande forza dell'universo, può così sfuggire a tutte le contamina zioni, può diventare migliore (o peggiore), può arrivare fino alla buddhità, riconoscend o e coltivando questa natura del Buddha che risiede, inalterabile, in lui stesso . Questa natura del Buddha è dunque un potenziale comune, che dipende solo da noi e per la verità anche dalle circostanze realizzare. Non è ancora la buddhità, che è la fine di ogni illusione, la cessazione di ogni sofferenza, la conoscenza di tutti i particolari del mondo, l'annuncio dell'entrata ormai possibile nel nirvana. E il punto in cui tutto diventa chiaro e tranquillo. Santideva descrive così lo spirito del risveglio: È il nettare sublime per distruggere la morte sovrana, l'inesauribile tesoro per e liminare la miseria del mondo. Lo spirito raggiunge allora lo spirito stesso del Buddha, questa sostanza detta spirito sottile, senza inizio né fine, indipendente dal corpo e dal cervello e sen

za dubbio la causa vera della coscienza. Questo spirito sottile, che si manifest a infine libero da ogni legame, ha totalmente eliminato gli ostacoli che lo cont rapponevano alla visione "della natura ultima di ogni esistenza". Poeti e pensatori, da venticinque secoli, hanno parlato a lungo di ciò che non può e ssere scritto. Ma solo l'esperienza conta. Come domandava Santideva: "Può un malato essere guarito dalla semplice lettura di un testo medico?". Quel che si può afferm are, è che il cammino è lungo, che le modificazioni che si operano in noi richiedono tempo, pazienza, e che il risveglio non è sempre chiaramente percettibile. Tutto so mmato, scuole diverse hanno proposto vie diverse, che si arrestano tutte all'ind icibile, a questo territorio di luce oscura e di silenzio. Ogni dualità scompare, il mondo e noi cessiamo di essere due, e ciascuno sa che il linguaggio, parlato da ll'uno e ascoltato (o letto) dall'altro, poggia per necessità, come ogni tipo di comunicazione, sulla separazione, almeno convenzionale, fra colui c he parla e colui che ascolta. Come dice un bel poema cinese medievale, attribuito a Seng Can (si dice che il ri sveglio lo guarì nello stesso tempo dalla lebbra), e che s'intitola Epigrafe sulla fiducia nello spirito: Autentico spirito: non due non due: autentico spirito ogni discorso cessa. Più nes sun viavai, ora. Torniamo ai nostri desideri. "Coloro che affermano che ogni desiderio è negativo si ingannano. Danno sovente ecc essiva importanza a concetti come l'oblio di sé, il distacco, e questo li porta ad e ccessi, a non pensare mai a loro stessi, a esempio." "La stima di sé, sovente troppo alta, può essere anche troppo bassa?" "Sì. Rischia di raggiungere l'odio di sé, che è un fenomeno sorprendente." "Ma più

diffuso di quanto si possa credere. Che cosa pensa della psicanalisi?"

"Benché l'inconscio, nel buddhismo, sia noto da molto tempo, la psicanalisi non fa parte delle nostre consuetudini. È forse un fenomeno culturale, adatto all'Occiden te: in ogni caso, molto interessante. Ma il buddhismo ama fondarsi su esperienze dirette. La psicanalisi non fa per me. Non l'ho mai praticata, esito dunque a par larne." "Se il buddhismo si è appassionato alla struttura e al funzionamento dello spirito , lo stesso deciso interesse anima oggi l'Occidente." "Ma da un altro punto di vista." "Ha incontrato specialisti della mente?" "Sì, più volte." "Poiché la scienza si è resa conto che ogni ricerca è ormai inseparabile dallo spirito che osserva e analizza, occorre anzitutto conoscere questo spirito. Per conoscer lo, bisogna studiare il cervello, ove riconosciamo la sede di ogni pensiero." "Lo so bene" mi dice. "Nessuno può negare che cervello e spirito siano legati l'un o all'altro. È evidente. Ma il buddhismo non dice che ogni pensiero e ogni coscienz a siano forzatamente legati alle molecole del cervello. Noi distinguiamo più livel li di coscienza. Il livello più elevato sfugge al supporto materiale. Per questo fa tto, tale coscienza è indistruttibile."

"Secondo lei, il pensiero, o diciamo lo spirito, la coscienza, esiste al di là di un supporto corporeo?" "A un certo livello, sì. Senza alcun dubbio. È indipendente dalle particelle fisiche. " La discussione è vecchia. Si è acuita negli ultimi dieci anni e non si è ancora giunti a un generale consenso. Benché un gran numero di neurobiologi sembri concordare s ull'idea di un cervello unico produttore di coscienza e pensiero, la tradizione s piritualista, che separa lo spirito (o l'anima) dalla materia corporea, è ben lungi dall'essere scomparsa, anche tra gli scienziati. Gli psicanalisti si oppongono, n aturalmente, ma anche taluni psichiatri e sociologi. Racconto al Dalai Lama diversi incontri col premio Nobel Gerald Edelman, immunolo go affascinato dallo studio del cervello umano, che egli chiama "l'oggetto più comp lesso dell'universo". Gli parlo anche del lavoro che abbiamo effettuato per tre a nni con più attori, sotto la direzione di Peter Brook, per rappresentare lo spett acolo dal titolo L'Homme qui. Muovendo dalle opere del neurologo inglese Oliver Sachs, abbiamo frequentato per lungo tempo, a New York, a Delhi e soprattutto a Parigi, all'ospedale della Salpetrière, i reparti di neurologia. I medici ci hanno messo in presenza di malati con differenti lesioni cerebrali, affetti da disturb i della mente, afasia, amnesia, agnosia, e anche da comportamenti inclassificabil i, a lungo considerati come strani o singolari, collegati oggi con precise lesio ni. In questa occasione, abbiamo potuto vedere che il cervello e gli organi di senso possono giungere a un completo disaccordo, e che un individuo, che nulla permet terebbe di trattare da "matto", ode voci immaginarie che gli cantano distintamen te canzoni dimenticate dalla più tenera infanzia. Molti pazienti non riconoscono un braccio o una gamba, e tentano di strapparli o di gettarli via. Uno immagina, con convinzione assoluta, di vivere in un sogno, che l'ospedale in cui si trova e i medici che lo curano siano i prodotti di questo sogno da cui spera di desta rsi salendo sul tetto e gettandosi nel vuoto. Un altro, al quale si presenta una rosa, descrive perfettamente lo stelo, le foglie, i petali, ma è incapace di pron unciare la parola "rosa". Un altro non può dire "no", se non lo si minaccia di picc hiarlo. Un altro accende e spegne senza posa una candela solo perché trova dei fia mmiferi a portata di mano. Un altro non vede che la parte destra dell'immagine c he ha davanti agli occhi (entrambi perfettamente funzionanti): non mangia che la metà destra della sua fetta di prosciutto, non si rade che la metà destra del viso. Eccetera. L'elenco è senza fine. Tutti questi comportamenti aberranti provengono da lesioni visibili e possono for se spiegare tutto ciò che la storia oscura dei popoli considera illuminazioni e pos sessioni È come dire che tutti i nostri comportamenti si spiegano con la semplice attività de l nostro cervello? "In realtà" gli dico "il cervello resta ancora il grande sconosciuto. Sappiamo per il momento veramente poche cose sul funzionamento dei nostri cento miliardi di ce llule cerebrali. Edelman suppone la possibilità di una evoluzione, di una sorta di selezione naturale dei neuroni. Altri parlano di una vita in società, identificano questo o quel tipo di neuroni, vi scorgono attrazioni, influenze esterne, combin azioni e repulsioni, scorgono capi, reti e, perché no, delle sette." Gli parlo anche di ciò che la fisica delle particelle afferma oggi, e che parrebbe andare contro le credenze tradizionali. Se i neurobiologi, da un lato, ci dicono che lo spirito muore, o ad ogni modo sembra indebolirsi e morire quando cessano con la morte le operazioni del cervello (non si è mai potuto trovare la sostanza de

llo spirito o del pensiero), d'altro lato i fisici ci assicurano che la nostra ma teria, in ciò che ha di più elementare (cioè le particelle), non muore mai, non può mor ire. Le nostre particelle si ricompongono in altri corpi, vegetali, animali, e al tri esseri che a loro volta potranno conoscere ciò che chiamiamo morte. Il numero di queste particelle è così elevato ci dicono, e ci dimostrano, gli scie nziati che a ogni respiro inspiriamo alcune particelle di Socrate, dei suoi ve stiti, delle cipolle che mangiava, e non soltanto di Socrate e di Giulio Cesare, ma di tutti i milioni e milioni di sconosciuti che hanno camminato su questa ter ra, composti della stessa materia elementare che passa instancabilmente dall'uno all'altro. Così, ogni volta che respira, il Dalai Lama inala particelle che hanno p rovvisoriamente formato il Buddha Sakyamuni in persona. E anche io ne inspiro qua lcuna, e le altre persone che sono nella stanza e tutti gli abitanti della terra . La nostra materia elementare è immortale, mentre il nostro spirito e la nostra cosc ienza sembrano proprio morire quando si arresta il cervello. "Così" mi dice il Dalai Lama "la scienza contemporanea sembrerebbe invertire le ant iche certezze, che stabilivano la materia deperibile e l'anima immortale?" "A dire il vero, con prudenza. Se alcuni scienziati si esprimono in modo radical e, altri preferiscono parlare della propria incertezza e persino della propria ig noranza. Alla domanda: che cosa diventa lo spirito dopo la morte?, rispondono ge neralmente: non lo sappiamo." "Che è " mi dice " un atteggiamento scientifico." "Dicono esattamente: perdiamo le tracce dello spirito, non lo vediamo più , non po ssiamo più dire che sopravviva al cervello." "Ma un giorno, forse, sapranno?" "Lo sperano. Ad ogni modo, perseverano nella ricerca. Dicono di essere solo all' inizio." "I buddhisti saranno sempre pronti ad ascoltarli." "E a cambiare parere?" "Perché no?" Gli domando allora: "È detto sovente, nelle scritture buddhiste, che la mano non può afferrare la mano, che l'occhio non può vedere l'occhio. Può forse lo spirito studiare se stesso?". "È una domanda difficile." Riflette a lungo prima di rispondere: "Forse che lo spirito può solamente vedere lo spirito? Dobbiamo rispondere sì e no. N o, perché lo spirito non può essere contemporaneamente soggetto e oggetto. Ne abbiamo già parlato. Credo che su questo punto, in Oriente e in Occidente, si sia più o me no d'accordo. Lo spirito interviene, che lo voglia o no, che lo sappia o no, in tutto ciò che osserva. A maggior ragione se si tratta di esso stesso. Ma lo spirito non può vedersi interamente. È assolutamente impossibile". "Anche se uno spirito osserva un altro spirito?"

"Anche in questo caso" risponde. "Lei allude al metodo occidentale, fatto di oss ervazione sistematica e di esperienza. Beninteso, giunge a dei risultati, così come la psichiatria, la psicanalisi. Tutti questi approcci sono validi ma parziali." "Sono come eserciti che ponessero l'assedio alla medesima roccaforte, con differ enti macchine." "Ma è sempre lo spirito che osserva lo spirito. E che vuole osservarlo nella sua t otalità. Noi, invece, pensiamo che sia meglio partire dall'interno della roccafort e. E procedere gradualmente da zone differenti." "Da differenti livelli?" "Proprio. E questa tecnica è in parte possibile. Per esempio, oggi il mio spirito può ricordarsi del mio spirito di ieri, dei suoi pensieri, dei suoi interrogativi, delle sue convinzioni. In altre parole, in una certa misura, posso vedere, posso leggere lo stato nel quale il mio spirito si trovava ieri. È un inizio che può cond urmi molto lontano." "Cioè?" "Il buddhismo, nel corso della sua storia, è giunto a distinguere diverse centinaia di migliaia, credo, di operazioni dello spirito." Non è molto sicuro di questa stima e chiede a Lhakdor di confermarla, ed egli lo f a. Gli domando, stupito da questa cifra: "Nessuno può pretendere di conoscere tutte queste operazioni. Non basterebbe una v ita! ". "Molte vite non basterebbero. Ma anche qui sono possibili più livelli di lavoro." Gli ripeto che questa impresa immensa, propria del buddhismo, mi pare unica nell a storia del pensiero. Qualche cosa, mi sembra, ci manca: la tranquilla osservazio ne dello spirito in quanto tale. Non troviamo quasi nulla di simile, per esempio , nella storia del cristianesimo, ove mai lo spirito umano si pone come oggetto d i studio. Tutt'al più posso citare al Dalai Lama san Tommaso d'Aquino, che a lungo studiò l'intelletto agente, distinguendo nell'intelligenza due funzioni, una atti va e l'altra passiva, e gli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola in cui lo s pirito si assoggetta a una disciplina su se stesso, secondo un metodo preciso, pe r raggiungere una superiore devozione. "Le ragioni sono molte" mi dice. "Anzitutto l'importanza che voi date alla fede e al Dio creatore. Quando la fede ci coglie, quando ci è dato un "credo", non c'è più r agione di esaminare lo spirito." "In compenso, quando è il solo padrone a bordo, quando tutto dipende dalla sua unic a esperienza, diventa indispensabile conoscerlo." "Assolutamente indispensabile. Nell'ipotesi (che non è la nostra) di un dio creato re, giudice permanente dei nostri atti, il ruolo dello spirito necessariamente per de d'importanza. Dobbiamo cacciare ogni specie di dubbio e di interrogativo. La f ede ci viene direttamente da Dio e la fede ci conduce direttamente alla compassio ne, o se preferisce, a un atteggiamento morale. Inutile allora cercare di approf ondire questo sentimento di compassione, inutile perdersi in complicazioni inuti li." "E anche pericolose per la fede."

"Naturalmente. Ogni riflessione è pericolosa per la fede." "E ogni fede è pericolosa per lo spirito, che si vede condannato alla pigrizia." I neurologi parlano sovente dell'aspetto riduttivo del nostro cervello, sempre p ronto a lasciarsi sedurre da una soluzione facile e il più delle volte erronea il che non gli impedisce di aggrapparvisi. La tradizione buddhista ci dice esatta mente la stessa cosa, con altre parole. E il Dalai Lama deve ammettere che quest a tradizione, in numerose occasioni, non sfugge alla dittatura automatica di un catechismo, di un formalismo ripetitivo ove lo spirito, anche qui, talvolta si a ssopisce, accontentandosi di poco. "Tuttavia" mi dice "il Buddha ci ha dato l'esempio migliore. Noi lo riteniamo ogg i un essere superiore, giunto al più alto grado possibile della coscienza e dell'e sistenza. Ma all'inizio, prima del suo risveglio e dei quarantacinque anni di pr edicazione, era un uomo come tutti gli altri. Grazie al suo sforzo, alla sua rig orosa applicazione, è diventato il Buddha." Ricordiamo per un momento gli anni di ricerca e di solitudine del principe Siddh arta. Dopo la sua partenza notturna dalla città di Kapilavastu notte magica, in cui tutto il palazzo dormiva e, narra la leggenda, gli dèi tenevano alti gli zocco li del suo cavallo Kanthaka, per evitare il minimo rumore decise dapprima di c ondurre una vita errabonda. Aveva ventinove anni. Tagliò i lunghi capelli, scambiò la veste con un povero cacciatore, allontanò l'auriga Chandaka. Poi, mendicando il pr oprio riso, si mise alla ricerca di un maestro. Seguì dapprima l'insegnamento dello stimato Aruda Kalama, poi di Rudraka Ramaputr a. Giunse a eguagliare facilmente questi due maestri, ma senza raggiungere ciò che ce rcava. Colpito dalle pratiche di rinuncia degli asceti che incontrava, decise di prendere questa via. La seguì rigorosamente per sei anni, in una regione deserta, giungendo a una debol ezza estrema. In punto di morte, non era giunto alla liberazione. Ritornò nel mondo, riprese a ma ngiare in modo leggero una volta al giorno, e ricevette infine l'illuminazione. Ma non la ricevette una volta per tutte. Ogni giorno la sua nuova scienza veniva discussa, rimessa in questione, principalmente da lui stesso. La leggenda mostra Mara, il potente demone, che torna senza sosta alla carica per distogliere Sakya muni dalla sua opera. Abbiamo anche seguito la traccia delle divisioni fra i suo i discepoli, e anche la ribellione di uno di loro chiamato Devadatta, che voleva assassinare il Risvegliato per prendere il suo posto a capo della nascente comu nità. "Durante questi quarantacinque anni" aggiunge il mio interlocutore "egli non ha smesso di interrogarsi, di mettere in guardia i discepoli, di precisare la propri a dottrina, di prevenire una divinizzazione che intuiva (e che gli induisti proc lamarono in effetti, assimilando Sakyamuni alla nona incarnazione di Vishnu). Ciò s ignifica che fino al momento della sua entrata nel nirvana il suo spirito, prodi giosamente sviluppato, non ha cessato di lavorare, di osservarsi, di elevarsi a una estrema finezza. Che dire allora del lavoro da compiere sul nostro spirito?" "Che cosa è il nirvana?" La parola è già tornata a più riprese nelle nostre conversazioni. So, per averlo lett o qua e là, che non si tratta né di un paradiso così come noi lo concepiamo, né della ces sazione completa di ogni vita, di una sorta di scomparsa nell'ipotetico Grande T utto. So anche che i primi commentatori occidentali del buddhismo, soprattutto se cristiani, hanno parlato di un "abisso di ateismo e di nichilismo" (Dahlmann),

di un "annientamento" (Burnouf) e, semplicemente, di "nulla" (Schopenhauer). Sec ondo Rhys Davids, e secondo altri, si tratta di uno stato al quale è impossibile giungere in questa vit a. Per il fatto stesso che colui che è penetrato nel nirvana si trova nell'impossibil ità di descriverlo, il nirvana resta un enigma. Per lo più i commentatori buddhisti parlano di un'uscita fuori dal ciclo fatidico delle rinascite, di un passaggio a un altro modo di vivere, senza condizionamento, senza divenire, senza scomparsa, finalmente liberato dalla legge della caducità, del cambiamento. Sovente riconosc ono l'impotenza delle parole a esprimere quello che per definizione sfugge all'esp ressione: un'esperienza oltre l'umano. Come ha scritto Walpola Rahula: "Il vocabo lario di un pesce non potrebbe contenere termini che esprimano la natura della te rraferma". Lo stesso autore, nello stesso libro, fa notare che il nirvana si definisce gene ralmente in senso negativo (assenza o cessazione di questo o quel fenomeno), senza che esso stesso sia né positivo né negativo, perché sfugge a questi due concetti. Va a nche al di là della concatenazione, pur così fermamente articolata nel buddhismo, del la causa e dell'effetto. Non è prodotto da nulla, esso è, come la verità suprema. "D'altra parte" mi dice il Dalai Lama "il Buddha non ha affatto parlato del nirv ana Sì, ha indicato una liberazione dal ciclo delle rinascite (cosa che, fra paren tesi, rende il concetto comprensibile a un occidentale solo se ammette come un f atto la concatenazione delle trasmigrazioni, il samsara), ma le sue indicazioni s i arrestano qui. Da cui una molteplicità di interpretazioni. Lei mi domanda che co sa sia il nirvana. Le rispondo: una certa qualità dello spirito." "Come raggiungere questa qualità?" "La natura umana è contaminata. Il rapporto che stabiliamo quotidianamente con ciò c he chiamiamo realtà è falso. Dobbiamo sempre tornare su questo punto. Che questa relazione sia fo ndamentalmente erronea, che si fondi su una illusione, è un fatto che non possiamo ammettere se non usciamo proprio da questa illusione." "È tipico di un'illusione essere scambiata per realtà." "Esattamente. E che sia possibile uscire da questa illusione ce lo provano numero si esempi, a cominciare da quello di Sakyamuni. La contaminazione dev'essere cacci ata dal nostro spirito, e può esserlo, lo sappiamo. A partire da questa purificazio ne, da questo risveglio, il nostro spirito può raggiungere questa somma qualità che chiamo nirvana." "Per ottenere ciò, non è dunque necessario morire?" "Assolutamente no. D'altronde, ogni nostra tradizione afferma che questa somma qu alità dello spirito non è toccata dalla morte. Numerosi sono i saggi che hanno raggiun to il nirvana in questa vita." "Dall'inizio dei nostri colloqui" gli dico "sono soprattutto affascinato da ques ta costante fiducia nello spirito. Si direbbe che nulla possa alterarla e che lo spirito, capace del bene e del male, tenga nelle sue mani il proprio destino e in tal modo anche il destino del mondo, al quale è intimamente legato." "Ma questo legame, per stretto che sia, non rende lo spirito prigioniero del mond o o, se vuole, della materia. Con un adeguato sforzo può liberarsi, destarsi e sopr avvivere." Come liberarsi? Il nucleo centrale del metodo buddhista è la meditazione. Dev'esse

re lunga e quotidiana, e molte opere la descrivono. Il mio interlocutore mi assicu ra che le prescrizioni fisiche, sulla posizione o sul ritmo del respiro, sono se condarie. "Dunque lo yoga non è utile?" "Dipende dagli individui. Così risponde sovente il buddhismo. Per taluni lo yoga è u n esercizio difficile, doloroso, che non aiuta per nulla il lavoro dello spirito. Per altri è un metodo più facile, più naturale, che può contribuire al loro benessere generale. Ma (e qui egli insiste) lo strumento principale per purificare lo spiri to è lo spirito. " Continua, usando talvolta il termine strumento (tool), talvolta il termine arma (weapon). Ricorda la scuola Cittamatra, detta dello "Spirito solo", che egli met te talvolta in relazione con la meccanica quantistica. Coglie l'occasione per ric ordare che il Buddha è detto "onnisciente", il che implica obbligatoriamente che ci sia qualcosa da sapere. Poi torna alla prima necessità, che è quella del desiderio. Questo desiderio di risv eglio mette all'opera la volontà, che è una facoltà dello spirito. A dire il vero, tutt a la vita quotidiana, che è una costante produzione di rapporti soggetto oggetti, è r egolata dal lavoro dello spirito. "Se vi prestiamo attenzione," aggiunge "se poniamo mente alle operazioni del nost ro spirito, non possiamo che stupirci scoprendone l'importanza. È al centro di tut to." "Lei ha detto che dev'essere il nostro poliziotto personale." "È il nostro giudice, esattamente. E ne ha tutti i mezzi. Il buddhismo afferma che l'uomo è padrone di se stesso, in ogni caso che ha la possibilità di diventarlo. È la base stessa della filosofia buddhista, e noi abbiamo sottoposto all'esperienza u n gran numero di tecniche per giungere a tale padronanza." "Che è opera dello spirito?" "E di chi altro? Lo spirito è il proprio creatore, a ogni istante. Da qui la sua r esponsabilità, che è essenziale." Se lo spirito riconosce di essere il proprio creatore, e mette in pratica tale po tere, devo supporre che il nostro atteggiamento verso gli altri cambi subito comp letamente?" Mi guarda e risponde con gravità: "Questo è il fine. L'unico fine".

6 FRA L'ESILIO E IL REGNO Parliamo ora dell'esilio. Proprio qui, a McLeod Ganj, villaggio tibetano di facc iata, maschera posta sulla montagna. "Mi sembra" dico al mio ospite "che il XX secolo sia stato quello dell'esilio. L o si è sovente caratterizzato in altro modo, con le guerre totali, gli olocausti, c on il progresso tecnico che naturalmente abbiamo ricordato. Ma si dimentica sove nte l'esilio, volontario o forzato, di decine di milioni di individui, in quaran tena a Ellis Island prima di popolare gli Stati Uniti, soldati coloniali arruolati per forza, lavoratori immigrati richiesti dall'Europa, che oggi li rifiuta, popo lazioni esuli come i nostri "Pieds noirs" di Algeria, "boat people" e molti altri . Nessun secolo mai strappò tante radici.

"Non ci avevo pensato, ma è senz'altro vero." "Sappiamo tuttavia che esiste un legame profondo fra un popolo e la sua terra e c he questo legame è all'origine di mille usanze, comportamenti e anche credenze." "Sì, certo." "Per diverse ragioni, abbiamo incominciato a troncare questo legame qua e là. Lei s tesso vive in esilio da trentacinque anni. I cinesi hanno invaso il Tibet nel 19 50, quando lei aveva quindici anni. Per nove anni, come ha raccontato nel suo li bro [nota: la libertà dell'esilio, cit.], ha cercato di resistere, di trattare, ha incontrato Mao Tse tung, Chu En lai, si è appellato ad altre potenze, tutto questo invano. La Cina non cessava di far pesare un'oppr essione sempre più dura, che andava dal massacro alla colonizzazione. Ha preso all ora la decisione di lasciare il suo paese, il suo popolo, per continuare all'este ro la sua battaglia, secondo i suoi metodi." "Esatto." "La mia domanda è semplice: l'esilio l'ha aiutata? Vi ha trovato una forza?" "Oh, sì! Senza dubbio. Posso cercare di spiegarle perché. Quando, a un certo punto d ella nostra vita, incontriamo la vera tragedia e questo può capitare a ciascuno di noi possiamo reagire in due modi. Possiamo evidentemente perdere la speranz a, lasciarci scivolare nello scoraggiamento, nell'alcool, nella droga, nella tris tezza sconfinata Oppure svegliarci, scoprire in noi stessi un energia nascosta e agire con più chiarezza, con più forza." "Lei ha scelto il secondo modo?" "Lo spero. Ho scoperto all'età di quindici anni la forza brutale della politica. H o scoperto l'imperialismo spietato, il crudele desiderio di conquista, la cosidde tta legge delle armi. Nella mia gioventù, il comunismo ha esercitato su di me un c erto fascino. Mi è anche parso che fosse possibile una sintesi fra comunismo e bud dhismo. Mi sono allora scontrato con le incomprensibili contraddizioni della pol itica cinese, con la frenesia degli slogan, con il lavaggio di milioni di cervel li. Ho conosciuto tutto questo nella mia adolescenza e giovinezza. Dopo sono venu te le delusioni e infine la certezza che Mao non fosse altro che "il distruttore del Dharma"." "Lei aveva solo diciannove anni, nel 1954, quando constatò che l'India, firmando un accordo con la Cina, si asteneva dal ridiscutere l'occupazione militare del Tibe t." "Sì, un'altra delusione. Diplomatica, questa. Ignoravo tutto del gioco diplomatico. Ho conosciuto nella stessa epoca i primi attacchi portati dai cinesi contro la re ligione tibetana, accusata di arcaismo e di barbarie. Attacchi talvolta perfidam ente indiretti, come le campagne di sterminio rivolte contro gli insetti e i ratti , mentre il buddhismo proibisce di uccidere gli animali." "E anche la brutalità, le esecuzioni per delitti politici?" "Sì, i provvedimenti oppressivi, e atrocità di ogni sorta, che rendevano impossibile una collaborazione. Conventi distrutti, opere d'arte messe a sacco, crocifission i, vivisezioni, smembramenti, viscere e lingue strappate. Abbiamo conosciuto tutt i questi orrori, sulla nostra terra. Nel 1959, in pieno smarrimento, seguendo infi ne il consiglio di un oracolo che a più riprese mi aveva consigliato di partire, mi sono deciso per l'esilio." "Trentacinque anni dopo, questo esilio perdura."

"Un aspetto positivo della situazione dell'esule" mi dice "è che si guarda il prop rio paese con occhi diversi. Così, a proposito del Tibet, tutto il rituale che ave va circondato la mia giovinezza ha perso molta della sua importanza. Dal primo a ll'ultimo giorno dell'anno, era un'unica serie di cerimonie, perfettamente regola te, che tutti prendevano molto sul serio. Questo formalismo regolava nei minimi d ettagli la vita di ogni giorno. Bisognava rispettarlo anche parlando, anche camm inando." "L'esilio ha cancellato l'importanza del rituale?" "Sicuramente. L'aspetto solenne mi tocca molto meno. È inevitabile. La fuga e tutt o quello che è seguito, la nostra lotta paziente per farci riconoscere da altre naz ioni, tutti i miei viaggi, tutti gli interventi mi hanno avvicinato alla realtà. Bi sogna dire anche che l'esilio mi ha permesso di scoprire il resto del mondo, di incontrare altri popoli, di conoscere altre tradizioni. Nulla di p iù utile. L'India ci ha accolti. Il nostro insediamento in un paese libero ha faci litato questi incontri, che negli anni Cinquanta erano difficili in Tibet." "L'India, per i buddhisti, è la terra santa?" "È Aryabhami, sì, la terra ove il Buddha Sakyamuni è nato per l'ultima volta, la terra dove ha conosciuto l'illuminazione, dove ha predicato. Abbiamo numerosi centri i n India e ogni anno torno con viva emozione a Bodh Gaya, nel luogo in cui egli c onobbe il risveglio." "Questo esilio di trentacinque anni ha creato, o sviluppato, un sentimento nuovo fra i tibetani?" "Sì, senza dubbio. Una vera "tibetudine". È nata da questo passaggio difficile nella lunga storia del Tibet. Secoli e secoli di radicamento possono far dimenticare q uesto sentimento. I legami con la terra sembrano scontati, intoccabili. Poi sopr aggiunge qualcosa che rimette in discussione questi legami. Si scopre una brutalità cinica, l'uso schiacciante della forza, la propria fragilità. Si parte, infine, si vede il proprio paese da lontano, occupato, devastato, e tuttavia ci si rende cont o che non è scomparso, che sussiste in noi, e che noi ci sentiamo sempre tibetani. Allora ci si comincia a chiedere: cosa significa essere tibetano?" "Di qui, senza dubbio, tutti questi sforzi per aprire scuole, per mantenere la li ngua tibetana, la musica, il canto, la danza?" "Abbiamo creato un'università dove tutto l'insegnamento viene impartito in tibetano , anche nelle discipline scientifiche." "Questo ha sviluppato la lingua?" "Inevitabilmente. E ha rafforzato la nostra coesione. Abbiamo qualcosa da difende re." A questi sforzi si aggiungono pubblicazioni letterarie, sostenute da riviste pubb licate a Dharamsala, come "Jang Chon" (Nuovi germogli) e "Arte e letteratura tibe tana". Dopo il 1959, la polizia cinese ha perseguitato, in Tibet, questa nuova l etteratura, considerata come reazionaria. Ogni opera per la pubblicazione necess itava di autorizzazione, molto difficilmente accordata dalle cellule del partito . Pioniere di questa letteratura, il romanziere Thondup Gyal si è suicidato nel 1985. Era fra coloro che criticavano, abbastanza amaramente, le credenze e le tradizi oni tibetane, responsabili ai suoi occhi dell'asservimento di oggi. Questo mi por ta a domandare al Dalai Lama:

"A proposito del Tibet, lei non ha ricordato, in parecchi suoi libri, un karma c ollettivo?". "Questo fa intimamente parte del nostro insegnamento classico. Quel che vale per un individuo che sentirà in una delle sue esistenze gli effetti, favorevoli o no, del proprio karma - vale per i gruppi, per una famiglia ad esempio, e anche per una nazione, per un popolo." "Il Tibet aveva dunque qualcosa da "pagare"? Questa punizione era inevitabile?" "È possibile chiederselo. Da molto tempo il Tibet si è tagliato fuori dal mondo, ha r ifiutato ogni cambiamento, ogni influsso. Ha voluto credere di essere il solo a possedere la verità, e di poter vivere nell'isolamento." "Ma il mondo si è fatto ricordare da lui." "Molto duramente. E ci domandiamo in effetti se il nostro karma collettivo non c i abbia portati a questo scontro, rivelatosi un disastro." "Si tratterebbe di una forma sottile di responsabilità collettiva?" "Forse." "Oggi, lo crede ancora?" "Come sempre, nel buddhismo, bisogna distinguere le cause e le condizioni. Le cau se principali dell'aggressione, di tante disgrazie e sofferenze, sono da ricercar si nelle vite anteriori e non necessariamente nei tibetani." "Presso altri popoli?" "Forse anche in altre stelle, altre galassie. Tutto è unito al tutto. Nessun event o può essere considerato come isolato, senza rapporto con gli altri. Ne abbiamo già p arlato. Altri esseri sensibili e responsabili, grazie al loro comportamento, han no potuto creare un karma negativo il cui effetto si è fatto sentire in quel momen to. Questa catena illimitata di cause e di effetti è quasi impossibile da chiarire , ma esiste. Tutti i nostri atti hanno un peso. Questo peso si farà sentire, un gi orno o l'altro, qui o là, individualmente o collettivamente. A maggior ragione risp ettiamo la via del Dharma." Così, indirettamente, il buddhismo ritrova quel sentimento di solidarietà universale che l'induismo già affermava. Questo concetto di dharma, caratteristico dell'India ma che si è diffuso in una grande parte dell'Asia - è senza dubbio uno dei punti che separano più radicalmente Occidente e Oriente. La posizione dell'individuo, d el suo status, dei suoi diritti, e di conseguenza l'affermata esistenza del suo i o, frutto di un concorso particolare di circostanze che dobbiamo conoscere e che possiamo modificare, e anche curare, questo individualismo esiste già nella tradiz ione cristiana. Si è anche sostenuto che questa affermazione dell'individuo (esasp erato dalla competizione del mondo d'oggi) si basi su una frase di Cristo, rivolt a a un futuro apostolo: "Tu sei Pietro...". È Pietro, non è Paolo, non è più una parte infima del Grande Tutto, necessariamente lega ta a tutte le altre parti. Il suo destino sarà individuale, limitato nel tempo e n ello spazio, e presto posto nelle sue mani. Anche la salvezza eterna è una questione individuale. L'idea di un popolo int ero destinato ad essere condannato alla gehenna o chiamato al paradiso è abbastanza estranea al cristianesimo. Non se ne trovano echi se non in alcune eresie. L'ind ividuo ha sempre la possibilità di incontrare la verità e di "forgiare la propria sal vezza", o di scegliere l'inferno. Le leggi repubblicane non hanno fatto altro ch e confermare la nostra capacità di scelta.

Qui, a Dharamsala, malgrado l'immenso sforzo richiesto all'individuo perché penetr i, attraverso la meditazione, in se stesso, alla ricerca di questa pace interior e senza la quale ogni azione è vana, nessuno dimentica di essere solo una sostanza instabile, continuamente disfatta e ricomposta, senza un'esistenza individuale in dipendente, e perciò in relazione con tutto il resto del mondo. "E le condizioni?" "Per quanto riguarda le condizioni," mi dice "i tibetani stessi sono certamente responsabili." "Per cecità?" "Senza dubbio. Per ignoranza del resto del mondo, della Cina, dell'India, delle t ensioni politiche, degli sconvolgimenti portati dalla seconda guerra mondiale. M olti tibetani pensavano che il nostro fosse un paese straordinario, che sfuggiss e alle leggi comuni, e anche al trascorrere del tempo." "A causa del buddhismo?" "Sì, in parte a causa del Buddhadharma. Il fatto che un intero popolo seguisse la giusta legge, e compisse fedelmente i riti, doveva necessariamente costituire una protezione per questo stesso popolo." "Tutti gli abitanti del Tibet condividevano questo sentimento?" "Tutti no. Un gran numero. E fra loro, alcuni alti dignitari, responsabili della difesa del paese, che credevano in protettori invisibili."

"Contro aggressori ben visibili." "Si trattava di un'aberrazione, di un accecamento completo di fronte al destino. All'epoca dell'invasione cinese nel 1950, quando la giovane armata comunista ha at traversato le nostre frontiere, questi alti dignitari hanno affidato la nostra d ifesa alle nostre divinità. Un personaggio ufficiale, oggi defunto, mi assicurò che no n avremmo dovuto preoccuparci minimamente. I nostri dèi ci avrebbero protetto dai ci nesi." "Lei aveva quindici anni." "E tutto mi portava a credere a quel che mi si diceva: la mia infanzia, il fatto che fossi stato scelto, la mia meticolosa educazione, la mia vita al Potala, l' incenso che accompagnava le mie passeggiate. I miei occhi si sono aperti molto i n fretta, ma s'immagini! nel mezzo del XX secolo, preghiere contro cannoni?" Questo ricordo non lo fa sorridere. Ritorna ancora una volta sull'accecamento dei responsabili. Dice allora, cosa che mi sorprende un poco: "Il governo confidava negli dèi, ma dall'altro lato ignorava le profezie e gli orac oli". "I responsabili non volevano ascoltare?" "I responsabili non erano responsabili." Mi rammento del ruolo importante che giocano, nella tradizione tibetana, ancora oggi, gli oracoli, le profezie, le visioni e i sogni premonitori. Il Dalai Lama stesso parla sovente degli oracoli del Tibet. Questi oracoli sono monaci, medium che hanno ricevuto una preparazione particolare. Delle divinità possono incarnarsi nei loro corpi, trasformare il loro viso e la loro voce in una sorta di trance, e parlare per bocca loro. In stato di trance, il loro viso si fa rosso, gli occh i si iniettano di sangue, la lingua diventa grossa e pendente. In quel momento so no posseduti da una forza straordinaria che permette loro di piegare spade. Le parole smozzicate che pronunciano vengono raccolte e in terpretate da altri monaci. Il più celebre è l'oracolo di Nechung, che incarna il dio Pehar. Il governo tibetano se ne serve, per così dire, ufficialmente. Il Dalai Lama non sembra mettere in dubbio la verità di questa tradizione, né di alt ri segni che giungono da altri luoghi, come ad esempio una statua che cambia posi zione. Egli scrive che dopo la morte dei grandi lama, le loro ossa si fondono e che è possibile allora scorgervi delle immagini, o leggervi delle lettere che indica no la divinità protettrice dello scomparso. In un pensiero che si considera rigoros o, e che si sforza di non affermare nulla che non sia un fatto che giunge dall'e sperienza, si insinua così quella che chiamiamo la dimensione magica, o sovrannatu rale. Impossibile, e d'altra parte assurdo, fare una distinzione. Dall'analisi p iù approfondita alla credenza più ingenua, tutto appartiene alla stessa struttura, e ogni fibra della dottrina rischiara nel contempo tutte le altre. Riprende la parola: "Non tutti i tibetani, tuttavia, vivono nella stessa illusione. Il mio predecess ore, Thupten Gyatso, il tredicesimo Dalai Lama, quando morì nel 1933, annunciò chiara mente nel suo testamento che un terribile pericolo sarebbe venuto un giorno dal c omunismo. Comprendendo già che non avremmo potuto in alcun modo resistere fisicament e ai nostri grandi vicini, la Cina e l'India, e che bisognava usare un'accorta di plomazia, si rivolse ai nostri vicini più piccoli, il Nepal e il Bhutan".

"Per fare loro quale proposta?" "Una sorta di difesa comune: arruolare un esercito, addestrarlo al meglio." Sorride aggiungendo: "Cosa che, fra noi, non è una pratica rigorosa di non violenza". "Come reagirono il Nepal e il Bhutan?" "Non reagirono. Ignorarono semplicemente questa proposta. Ora vedo tutta la porta ta del presentimento del mio predecessore. Ad esempio, voleva portare a Lhasa giov ani della regione del Kham, all'est regione dura, poco popolata, vicina alla C ina e conferire loro il rango di veri tibetani, con un addestramento militare c ompleto. Politicamente, significava vedere molto lontano. Già avanzava l'idea per c ui la difesa di una terra debba essere garantita da coloro che occupano questa t erra." "Bisogna dunque dare loro armi?" "È quello che diceva. Quest'uomo avvertiva con grande sensibilità il movimento del m ondo intorno a lui. Voleva seguire il cambiamento, non lasciare il proprio paese indietro, o da parte." "Se questa sua intenzione si fosse concretizzata, vent'anni più tardi il Tibet av rebbe potuto resistere?" "Ne sono convinto. Ma non fu ascoltato. I dignitari non seguivano i suoi ordini. Ecco quelle che chiamiamo le condizioni del karma collettivo, si potrebbe anche d ire le circostanze. Perché, nella concezione buddhista dell'azione, nessun evento p uò essere isolato, non può darsi senza una concatenazione di cause, di condizioni e d i conseguenze, noi ricerchiamo ostinatamente le condizioni, più facili a scoprirs i delle cause, sovente molto lontane dall'evento." Continuiamo a parlare del Tibet. Nel 1961 il Dalai Lama - diventato, come dice lui, un "politico suo malgrado" propose una costituzione, che venne accettata. Da allora, non ha cessato di presen tare e difendere la causa del proprio paese, del proprio popolo. Dapprima ha informato. Abbiamo saputo così dello sterminio di più di un milione di t ibetani (su sei), di misure repressive d'ogni sorta, trasferimenti di popolazion i, espropri, prigionia in campi di concentramento, applicazione brutale della pol itica di limitazione delle nascite e sterilizzazione forzata delle donne. A quest o si aggiungono il diboscamento, l'utilizzazione del territorio tibetano come dep osito di rifiuti nucleari e soprattutto una sistematica colonizzazione cinese. La tecnica oggi diventa più raffinata: mentre i giovani cinesi, dopo tre anni di se rvizio militare, devono tornare nelle loro province d'origine, coloro che sono st ati inviati in Tibet hanno l'obbligo di restarvi. Si stima oggi a quasi nove mili oni la popolazione cinese in Tibet: i tibetani sono ora dunque in minoranza nel p roprio paese. La "razza" tibetana è minacciata di estinzione. Negli anni Sessanta le Nazioni Unite votarono nei confronti del Tibet diverse ri soluzioni che restarono lettera morta. Tuttavia, a poco a poco, l'interesse del mo ndo si destava. Nel 1985, novantuno membri del Congresso americano firmarono una lettera di appoggio, indirizzata al presidente dell'Assemblea del popolo, a Pechi no. Nel 1987 il Dalai Lama stesso fu invitato a parlare a Washington, al Comitat o per i diritti dell'uomo. Cosciente di quanto fosse irrealistico esigere oggi un a pura e semplice indipendenza del Tibet, propose un "piano di pace in cinque pu nti". Questo piano prevedeva la trasformazione del Tibet in una zona di pace, l'abbando

no da parte della Cina della sua politica di colonizzazione, il rispetto delle l ibertà democratiche e dei diritti umani fondamentali per il popolo tibetano, il rec upero e la protezione dell'ambiente (tramite l'abbandono, anzitutto, di ogni attiv ità nucleare) e l'apertura, infine, di seri negoziati per il futuro status del Tib et. Nel 1988, al Parlamento europeo a Strasburgo, egli sviluppò e precisò questi cinque punti. Propose, in particolare, di fare del Tibet una vasta zona smilitarizzata e una sorta di parco naturale, il più grande del mondo, dove il recupero dell'ambi ente sarebbe stato esemplare. Tutte le associazioni internazionali operanti per la difesa dei diritti dell'uomo avrebbero la loro sede in questo territorio dell' ahinhsa, della non violenza. Separate da una vasta regione neutrale, l'India e la Cina potrebbero ritirare le truppe che continuano a mantenere con grandi spese nelle regioni himalayane. Nel 1989, l'attribuzione del premio Nobel per la pace sembrò rafforzare queste pro poste. "Molti scoprirono in questa occasione la questione tibetana. Presero delle cartin e, si domandarono: ma, dov'è il Tibet? e che cosa è successo con i cinesi?" "Il premio Nobel ha potuto anche aiutarla presso i capi di stato?" "Naturalmente. Alcuni mi hanno ricevuto ufficialmente, altri come il presidente Mitterrand a titolo personale. Sempre per motivi diplomatici. Comunque, mi div entava più facile incontrare i responsabili e parlare loro." "Anche i responsabili cinesi?" "Sì, anche presso i cinesi il premio Nobel ha giocato un ruolo positivo." Tuttavia, nelle proposte del capo di Stato del Tibet in esilio, che costituiva in torno a sé un ministero, che si organizzava, che raggruppava deputati, che apriva u ffici in diverse capitali estere, i cinesi non vollero vedere che un intervento reazionario e un tentativo di "secessione". Malgrado il ripristino di un contatt o ufficiale nel 1992, la situazione resta immutata. I cinesi continuano a trattar e come "criminali" e a incarcerare i tibetani che si mostrano fedeli alle proprie tradizioni e al Dalai Lama. Coloro che si dichiarano in favore della Cina vengono, al contrario, definiti "progressisti". L 'esilio continua, manifestazioni subito duramente represse (alcune hanno potuto persino essere filmate) scuotono di tanto in tanto Lhasa. "E oggi? Si dice che la situazione sia più critica che mai. È vero?" Scrolla la testa in silenzio. I suoi assistenti accennano, come sola possibilità di un accordo, a una seria crisi nella stessa Cina. Ma nulla la fa presagire. "Il Tibet è stato indipendente per secoli. Non lo è più . Dobbiamo guardare le cose re alisticamente. Noi chiediamo un'autonomia, non sogniamo più un'indipendenza. Ma n on vogliamo negoziare che sulla base di un reciproco rispetto. Le condizioni non sono più quelle del passato e siamo pronti a ispirarci alle parole di Deng Xiao Ping: "Un paese, due sistemi". Ma gli animi cinesi non vanno in questa direzione. Comunque, non in questo momento." "Si dice che gli occupanti demoliscano i vecchi quartieri di Lhasa." "Sì, col pretesto dell'insalubrità." [nota: Il 7 ottobre la Cina ha annunciato la co struzione di una ferrovia in direzione del Tibet, cosa che causerà un notevole aum ento dell'immigrazione cinese. D'altra parte, recentemente sono state proibite tu tte le immagini del Dalai Lama, mentre il governo cinese esige il rientro nel Ti bet di centinaia di bambini tibetani cresciuti in India (rientro obbligatorio, s

otto pena di perdere il diritto di residenza). Il Dalai Lama progetta da parte s ua di organizzare un referendum fra i tibetani, fuori e dentro il Tibet, sul fut uro del paese.] "Che cosa si può fare? La pressione internazionale può avere qualche effetto?" "È essenziale. Non deve anzitutto indebolirsi per il fatto che i cinesi si mostran o talvolta sensibili. Ogni volta che prendo la parola in pubblico, ovunque io sia , vi sono cinesi in sala. Talvolta parlo persino con loro, e sanno essere molto gentili. Questo atteggiamento indica chiaramente che seguono il mio operato, che s i interessano a quello che dico, anche se nei loro giornali mi accusano di cose inimmaginabili." "Di che cosa, per esempio?" "Di ambizione personale, di spirito controrivoluzionario, di voler restaurare una teocrazia. I classici rimproveri." "Lei è ottimista?" "Sì, perché la causa del Tibet è giusta. Ne sono certo. E anche perché la Cina non potrà t enersi eternamente a distanza dalla libertà." Da un lato un vigile realismo, un rinnovato sforzo per adattarsi a questo mondo m utevole sforzo tanto più meritorio in quanto nell'antico Tibet, nel regno della caducità, per un paradosso abbastanza singolare, le cose sembrano per sempre immu tabili. Dall'altro lato la permanenza di un sogno, di una sorta di terra ideale, oltre le catene dell'Himalaya, come il Shangrila di Orizzonti perduti, una terr a miracolosamente protetta dove gli spiriti di pace potrebbero ritrovarsi. Una ter ra che potrebbe essere di esempio per il mondo intero, dove il buddhismo, libera to dall'antico formalismo, potrebbe trovare la sua vera funzione di sentinella e di esploratore. Utopia? Non è detto. I sogni difficili fanno anche parte di noi stessi. Ci attragg ono e ci aiutano. Non potendo condurci verso un paradiso ritrovato, possono insti llare un po' di Tibet in ciascuno di noi. "È possibile conciliare la politica e l'ahimsa?" "Sì, dovrebbe essere possibile. Perché no? Guardiamo il nostro secolo: ha escogitato o sviluppato un ampio campionario di metodi per fare della violenza la regola dei rapporti umani. Si va dalla guerra mondiale, con la distruzione di intere città, all'olocausto, alla tortura istituzionalizzata, al terrorismo come forma di azione. Tutti questi metodi sono falliti, e falliranno sempre." "Perché?" "Perché sono superficiali. Cozzano contro il fondo possente della nostra natura, ch e è fatta di bontà, di generosità. Prendiamo ancora l'esempio degli israeliani, che han no dato vita a quarant'anni di odio. Forzatamente, anche se da entrambe le parti gruppi estremisti continuano a esaltare e a mettere in pratica quest'odio sangui noso e inutile, un giorno o l'altro giungeranno alla pace. Favorire l'odio non po rta a nient'altro che all'odio. La violenza è il peggiore degli arbitri. Il recipr oco rispetto non può essere evitato." Ritorno un istante al Mahabharata Alla fine del poema, il re Yudhisthira sale fi nalmente sul trono. È il figlio di Dharma, e di conseguenza (è un altro dei suoi nom i) "Dharmaraj". Per una volta, è Dharma lui stesso, il re. E il mondo si appresta a conoscere, sotto la sua guida, trentasei anni di tranquillità, di prosperità.

Ma questa guida perfetta non suppone alcun indebolimento della vigilanza regia. S e Yudhisthira si presenta con il Dharma nella mano destra, nella sinistra regge s empre un bastone. E pronto a servirsene. Il re c'è per questo. "Naturalmente," mi dice il Dalai Lama "ma nel mondo di oggi l'autorità si deve ese rcitare nel nome della legge, sotto il controllo della costituzione. E questa au torità dev'essere anzitutto benevola. Non deve punire per il solo gusto di punire. " "Lei è contrario alla pena di morte?" "Fermamente contrario. Il mio predecessore l'aveva abolita in Tibet. Trovo incred ibile che oggi continui a essere presente in grandi paesi come la Cina e l'India. In nome della giustizia, si uccidono ancora degli esseri umani nel paese del Ma hatma Gandhi! Proprio nella terra dove il Buddha ha lasciato il proprio insegnamento! La pena d i morte è pura violenza, una violenza barbara e inutile. È anche pericolosa, perché non può portare che ad altre violenze. Come ogni violenza." "Bisogna dunque limitarsi alla prigione?" "La pena capitale dovrebbe essere l'ergastolo, come da voi. E senza alcuna brutal ità." Improvvisamente si mette a parlare di cinema. "Ho notato che nei film non si uccidono veramente gli animali. Li si addormenta c on una iniezione, perché sembrino morti. Tranne che nei film cinesi: qui li si uccid e veramente, apertamente. Ho visto anche, nei film cinesi a carattere scientific o, dei ratti col cranio aperto. Orribile. E si mostra questo alla televisione!" Vorrei dirgli che la morte vera, sullo schermo, non è prerogativa dei cineasti cin esi. Anche noi uccidiamo sullo schermo i maiali, i polli. Un bue viene squartato vivo in Apocalypse now. Conigli e pernici vengono uccisi in massa ne La regola d el gioco, e in molti altri film. Mi ricordo anche una mula pugnalata a morte in u n film spagnolo. Senza parlare degli insetti, degli uccelli, dei conigli, dei se rvizi scientifici e dei documentari sulla pesca d'altura. A ben guardare, la morte , quella vera, è costantemente presente. Questo spettacolo della morte, in Cina, ha un rapporto diretto con il mantenimen to della pena di morte? È un problema che lo preoccupa. Sì, vi vede senza dubbio un legame. Fa un altro esempio: "I fedeli che vanno in pellegrinaggio alla Mecca devono sacrificare un animale. Ma almeno, questo sacrificio non viene fatto vedere!". "Lo disapprova?" "Rispetto una tradizione religiosa, ma non posso approvare questo spargimento di sangue." Ride di cuore e aggiunge: "Attenzione! Non faccia di me un Salman Rushdie!". "Nessun pericolo. Lei non è musulmano." "Faccio grandi sforzi per raggiungere ovunque un'armonia. Milioni di atti di vio

lenza distruggono a ogni istante quest'armonia. Perché aggiungerne altri? Perché pra ticare e mostrare la violenza quando non è inevitabile? L'uccisione di un animale è un attentato all'armonia universale. Mi fa davvero orrore." "I cinesi indubbiamente non lo fanno per crudeltà. Per loro è qualcosa di naturale, f orse." "Me lo domando. In questo momento, in Tibet, mi dicono che milioni di animali ve ngono uccisi dai cinesi per semplice divertimento. Cani, ad esempio. Si taglia l oro una zampa, o una parte del corpo, oppure si strappa loro la pelle e li si las cia così, finché muoiono. Ecco la mentalità che si diffonde." "E che bisogna combattere?" "Certamente. Come lei ricordava a proposito di Dharmaraj, occorre tenere sempre il bastone in una mano e usarlo se necessario. Sì, in un modo o nell'altro, c'è bisog no di un sistema di disciplina." "Malgrado la bontà della nostra natura?" "Questa bontà naturale fa così fatica a manifestarsi." "È più semplice essere crudeli." "Più semplice per alcuni, sì. Essere crudeli significa arrestarsi lungo il cammino. E rinunciare, per un motivo o per l'altro, a penetrare fin nel profondo di noi ste ssi. È restare attaccati alla nostra superficie irritata o esasperata." "Significa porre la lotta su un terreno sbagliato." "Esatto" mi dice. "Per questo credo che sia necessario attribuire fin dall'infanz ia il posto più importante all'educazione. Lo ripeto in continuazione. A questa ed ucazione devono aggiungersi una pratica dello spirito, sotto forma di meditazione e, se possibile, l'influsso rasserenant e di una famiglia unita, di un matrimonio felice." "È un bel sogno." "Lo so bene. Tuttavia, quest'armonia esiste. La avvertiamo chiaramente, talvolta. È scritta nel profondo di noi stessi. È la nostra tendenza originaria. Ci sono e ci saranno sempre dei malvagi, so anche questo." "Da qui la presenza del bastone?" "La meno brutale possibile." Una bontà scritta nel profondo di noi stessi, una "gentilezza" di fondo e onnipote nte, senza la quale tutto l'edificio buddhista diventa incomprensibile. Bontà che si estende a tutto l'universo, e che ci condurrà un giorno al nirvana, ma una bontà f ragile, poiché l'uccisione di un cane può sconvolgere l'ordine del mondo. Bontà segreta , anche, che si nasconde facilmente sotto l'arroganza, la brutalità e l'avidità, le m aschere che portiamo più di frequente. Il paradosso apparente a che pro questa insistenza sull'educazione, se è sufficie nte confidare nella nostra natura? si risolve senza dubbio con questo pericolo che ci circonda, pericolo nato dall'illusione in cui nasciamo, in cui viviamo. I l nostro persistere nella sventura trae radice, senza dubbio, da tale accecamento . Se questo cessa, o si verifica il risveglio, tutto allora sembra in completa tr anquillità, come se i nostri desideri fossero svaniti.

Almeno, questo è quanto dice il buddhismo. Dopo tutto, se le cause di questa "mentalità" possono definirsi così (a causa della r esponsabilità collettiva e contemporaneamente delle perversioni individuali), come p recisare le condizioni? In altre parole, esistono circostanze particolari che fav oriscono queste crudeltà? Ricordiamo di nuovo, più rapidamente, la sovrappopolazione e la povertà, situazioni riconosciute, contro le quali la lotta è dura. Prendiamo in considerazione il nazio nalismo, vecchio spargitore di sangue, e il gusto del potere che s'impossessa pr esto di questo o quel gruppo di individui, spingendoli ad atti feroci. Giungiamo ben presto a parlare della televisione, di cui si era già discusso. Gli d ico che negli Stati Uniti, da due o tre anni, si levano critiche molto sentite n ei confronti dei ripetuti omicidi sul piccolo schermo. Queste critiche non sono nuove. Prima della televisione hanno preso di mira il cinema, il teatro, la pitt ura, la letteratura a dire il vero la maggioranza delle forme d'espressione a ccusandole di fornire un'immagine del mondo corrotta e sanguinosa, soprattutto ag li occhi indifesi dei bambini, che avrebbero la tendenza a vedere in quel mondo i l mondo reale. Al che i sostenitori della libertà di espressione replicano, con ottimi argomenti, che questa influenza dannosa non è provata e che nessuna censura ha mai risolto un problema sociale. Ma vero è che un bambino americano, o europeo, assiste ogni gio rno a sconcertanti valanghe di uccisioni. L'eroe televisivo trascorre la maggior parte del proprio tempo con un grosso revolver fra le mani a procurare morte ai suoi simili. A buon diritto ci si può interrogare. Ed inquietare. Il Dalai Lama mi risponde per prima cosa: "I governanti e i capi religiosi devono ammettere, oggi, di non essere più i soli a esercitare un potere, e nemmeno una autorità". "Intende parlare del potere dei media?" "Certo. Quello della stampa è noto, analizzato da tempo. Quello della radio, e anc or più della televisione, occupa oggi un posto di primo piano." "È un potere indiretto." "Poco importa" mi dice "il modo in cui si esercita. Diretto o indiretto, è un poter e reale, che agisce su di noi, che modifica i nostri comportamenti, i nostri gus ti e probabilmente il nostro pensiero. Come ogni autorità, non può essere applicato a caso, in qualche modo." "Altrimenti, questo potere diventerebbe arbitrario." "Evidentemente. Arbitrario e irresponsabile." "Tuttavia " dico "vediamo entrare in funzione un po' ovunque canali radio e tele visivi chiamati commerciali dove il senso della responsabilità di cui lei parla sem bra sensibilmente attenuato. Coloro che dirigono questi canali dicono: siamo del le imprese di spettacolo, di svago. Obbediamo a una logica di mercato, di concor renza." "In altre parole, questi dirigenti rifiutano di riconoscere il fatto di esercitar e un vero e proprio potere?" "È l'essenza del loro discorso. Presentano il loro obiettivo come unicamente comme rciale, con lo scopo, come si dice, di "ottenere audience". In alcuni casi, i mez zi usati contano poco. E ogni preoccupazione morale viene deliberatamente messa d

a parte." "È un grave errore" afferma. "Coloro che dirigono questi canali, e coloro che li fi nanziano, esercitano un potere, che lo vogliano o no. Questo potere conferisce lo ro una responsabilità, paragonabile alla responsabilità religiosa o politica. Contrib uiscono a modo loro alla costruzione e al mantenimento di una comunità umana. Il b enessere di questa comunità dev'essere la loro prima preoccupazione." "Su questo" dico "ho qualche dubbio." "Ma il problema è stato posto! Da tempo ormai!" "Si, un po' dovunque nel mondo i governi si interrogano, comitati di sorveglianza e di controllo sono posti all'opera, le leghe degli spettatori protestano, leggi successive si contraddicono. Di fatto, nessuno ha ancora trovato la formula magi ca Forse perché nessuno, a livello decisionale, osa affrontare con franchezza il pr oblema." "Come vede questo problema?" "Non sono in alcun modo" gli dico "sostenitore di un ordine morale, né di una vigi le censura. Sono anzi contrario a tutto ciò. Ma vedendo, come lei, che i direttori dei programmi di un canale televisivo detengono oggi altrettanto potere reale, se non maggiore, del governo in carica, mi capita di pormi delle domande, come tut ti, di fronte allo scatenarsi della volgarità e della violenza che la televisione c i offre. Mi ricordo un produttore cinematografico, qualche anno fa. Usciva dalla p roiezione di un film prodotto da un altro, una sorta di spaghetti western e, prof ondamente turbato, diceva: "Cosa volete fare dopo questo? Diciotto morti prima de i titoli di testa!"." Il Dalai Lama scoppia a ridere e mi domanda: "Li aveva contati?". "Senz'altro." "Era un film destinato alle sale cinematografiche?" "Tutti i film prima o poi arrivano in televisione. È proprio qui che trovano, e di gran lunga, il maggior numero di spettatori." "Questi spettatori" mi dice "non hanno compiuto lo sforzo di uscire, di scegliere un film. Restano in casa propria e guardano quello che si mostra loro." "Sì. Il potere che si esercita su di loro è tanto più efficace quanto più è nascosto, qu anto più si presenta persino sotto una forma distensiva, e sottoposta apparentemen te alla loro discrezione." "Capisco. Questo potere dice loro: avete ogni potere su di me." "E non è vero." "Che cosa la preoccupa di preciso?" mi domanda. "Quello che preoccupa tutti. I bambini trascorrono più ore davanti al televisore c he in classe. Si dice che scoprano il mondo, ma questo mondo non è quello vero, no n è che un'immagine del mondo." "Ma non si può dire che le loro conoscenze siano più vaste?"

"Sì. I bambini privati della televisione mostrano vere lacune, anche nell'attività s colastica." "Ciò che la preoccupa, è la passività? Perché si può rispondere a un maestro, si può interro mperlo e interrogarlo, si può persino contestarlo. Ma come parlare a un oggetto?" "La televisione si è installata fra noi" gli dico "come un nuovo membro della famig lia, imperioso, seducente ed esigente. Anche se la moltiplicazione dei canali le fa perdere autorità, la rende banale, non possiamo più fare a meno di lei. E non so ltanto la guardiamo, ma il giorno dopo, in ufficio o in fabbrica, parliamo di quel lo che abbiamo visto la sera prima. Soprattutto a scuola. Questo diventa una sort a di circolo vizioso. Al punto che la televisione giunge a fare trasmissioni che n on parlano d'altro che di televisione." "E che dimenticano il mondo?" "Che lo dimenticano o che lo falsano." "Questo dipende dai programmi" mi dice. "I media possono fornire un'immagine ecci tante o, al contrario, molto negativa, della terra. E suppongo che la gente, in e ffetti, finisca per vedere il mondo sotto questa falsa forma." "Sì, l'immagine vince sulla realtà. La "rappresentazione" trionfa. Il mondo finisce p er assomigliare a ciò che noi vediamo alla televisione." "Se riceviamo una sovrabbondanza di immagini di violenza, finiamo per credere ch e il mondo sia così." "Lo vediamo così." "Di conseguenza siamo convinti che la natura umana sia aggressiva." "Tutti lo dicono. Bisogna riconoscere che quel che veniamo a sapere degli avveni menti reali, nei giornali, ad esempio, non può che confermare questo sentimento. Ne ssun giornalista sa che cosa sia una "buona notizia". Ogni giorno ci vengono pres entati solo attentati, incidenti, scontri, truffe, catastrofi naturali. Si è saputo di telespettatori colpiti da depressioni nervose per eccesso di informazione. E i programmi che precedono o seguono questi telegiornali non fanno che battere su llo stesso tasto." Sorride allora per dirmi: "Sì, ma è noto che i buoni sentimenti non suscitano che noia e conducono piano piano al sonno. Talvolta, può essere buona cosa mostrare un crimine". "In che senso?" "Poiché abbiamo in noi una compassione naturale, e questa compassione deve manifest arsi, può essere bene destarla. Una violenza fatta su una persona innocente, ad ese mpio, può farci indignare, può scandalizzarci, e nel contempo aiutarci a scoprire la nostra compassione." "Tutto dipende dalla risposta del pubblico." Sono un po' stupito di vederlo prendere le difese, da un punto di vista strettame nte buddhista, di una certa forma di violenza pubblica. Poco prima denunciava al contrario la sofferenza e la morte manifesta degli animali, come se fosse import ante non far vedere. Ora, almeno per quanto riguarda la violenza esercitata su es seri umani, sembra mitigare il proprio atteggiamento.

Aggiunge: "La televisione, grazie alla sua stessa violenza, può mantenerci in stato di aller ta". "Coloro che studiano l'influenza della televisione hanno la tendenza a dire il co ntrario: che essa non fa che aggravare la nostra indifferenza." "In che modo?" "Perché tutto vi è presentato allo stesso livello di interesse. Ora, mi sembra, il n ostro spirito, per essere colpito da un avvenimento e per ricordarsene a lungo, d eve distinguerlo dagli altri." "Sì", mi dice. "Nel bene o nel male." "L'uniformità porta all'oblio. Per questo motivo alcuni osservatori definiscono la televisione una "macchina dell'oblio". Perché essa mette tutto allo stesso livello . Anche la finzione e la realtà tendono sempre più a confondersi. E non soltanto pe r i bambini." "Se la violenza porta alla compassione" mi risponde "è una buona cosa. Se l'accumul o di violenza porta all'indifferenza, è in effetti molto pericoloso." "A ciò si aggiungono strane deviazioni del linguaggio. Come molta gente confonde vi ta spirituale e vita religiosa, così una grande parte del pubblico confonde violen za e azione. Un film d'azione è un film violento, un film con uccisioni di uomini. E con sesso in aggiunta, questo è ovvio. Come potrebbe il sesso, che d'altra part e è sempre più violento, destare la nostra compassione?" Riflette un momento prima di rispondere: "Non lo so. Come distinguere, nei media, ciò che, in fin dei conti, è buono o cattiv o per l'armonia generale del mondo, francamente non lo so. Ma vedo chiaramente ch e il problema esiste". "E che continuerà a esistere per molto tempo ancora." Poco più tardi riprende: "Questa tentazione dell'indifferenza, in cui entrambi vediamo un pericolo, la sen to talvolta in me stesso. Tempo fa, negli anni Sessanta o Settanta, quando mi rac contavano storie tristi e non mancavano, intorno a noi mi sentivo molto comm osso, spesso piangevo. A poco a poco queste storie mi sono diventate familiari, l a mia emozione si è placata e le mie lacrime si sono asciugate per l'abitudine". "Questo capita a tutti." "Nella mia giovinezza, quando vivevo a Lhasa, vedevo i macellai portare gli anim ali al mattatoio. Siccome ero molto sensibile alla sorte degli animali, e dispon evo di un po' di denaro, acquistavo buoi e montoni per salvarli e poi rimetterli in libertà. Era però comunque un problema: dove portare questi superstiti?" "E come proteggerli?" "Avevo stabilito che, ogni volta che uno di questi animali rimessi in libertà mori va, si dovesse portare il suo corpo al Potala, per nutrire i cani. Altrimenti, c hiunque avrebbe potuto ucciderli di nascosto, dichiararli morti e mangiarli, o an che venderli." "Non era un po' ingenuo? In ogni modo, i macellai avrebbero ucciso un numero di a

nimali necessari al consumo." "Era senza dubbio abbastanza ingenuo, ma avevo allora dodici o tredici anni. Ciò ch e voglio dire, è che ho perso il sentimento che mi animava durante la giovinezza. Oggi, in India, vado in un luogo e nell'altro, vedo animali condannati a morte, m igliaia e migliaia di polli, ad esempio, e mi dico talvolta: potrei comprarne alc uni per salvarli, ma dove metterli? Chi se ne occuperebbe?" Aggiunge senza sorridere: "Potrei certo recitare un mantra, dire una preghiera. Cos'altro? Anche qui l'abit udine ha cambiato il mio atteggiamento. D'altra parte è un punto centrale della nos tra dottrina: raggiungere il non attaccamento, ma senza cadere nell'indifferenza" . Parliamo allora di Aristotele. In ogni discussione che ruoti intorno alla violenza, Aristotele fa prima o poi la sua comparsa. Ma la teoria della catarsi teatrale non è familiare al mio interlocutore. Cerco di parlargliene, il più semplicemente possibile. La catarsi, gli dico, è una purificazione. Per Aristotele, se la tragedia si ispira a sentimenti elevati (questa condizione è indispensabile) può, mostrando o raccontando azioni vi olente, provocare questa purificazione, liberare lo spettatore da alcune sue pul sioni aggressive e rimandarlo a casa sua più tranquillo, più corazzato per la vita . Il Dalai Lama mi ascolta con attenzione e mi pone qualche domanda. Cerco di tracc iare a grandi linee la storia della catarsi cosa che, per quanto mi risulta, n on è mai stata fatta , di mostrare ad esempio come i nostri pensatori e autori cla ssici, nel XVII secolo, hanno finito per diffidare, malgrado Aristotele, dello sp ettacolo della violenza sulla scena, preferendo confinarla dietro le quinte e acc ontentarsi della sua narrazione. Gli dico anche che quest'influenza positiva dell'azione tragica, eventualmente vi olenta, riguarda solo il teatro. Ora, il teatro è sempre una finzione, non pretend e di eguagliare la realtà stessa. Gli attori non muoiono veramente, lo sappiamo tu tti. I morti alla fine dello spettacolo si alzano e vengono a salutare. Al cinema, alla televisione, i rapporti sono rovesciati. Si tratta qui di una seq uenza concatenata di fotografie, e una fotografia ci mostra sempre qualcosa che, in un certo momento, è esistito. Il cinema e la televisione sono così, per la tecnic a stessa che utilizzano, espressioni realistiche, se non reali. Il Dalai Lama, sempre attentissimo, sembra molto interessato da questa distinzion e, che comprende immediatamente. Forse si continua ad applicare l'effetto della catarsi in una espressione realistica? Ad esempio, un giornale pieno di immagini di guerra, di fame e di regolamenti di conti fra gangster ci lascia alla fine più calmi e fiduciosi in noi stessi? Si capisce come la discussione sia vivace e lunga. "Tutto dipende spesso" gli di co "dalle nostre convinzioni personali. Se siamo più ottimisti, aperti e portati all'azione, tendiamo all'indulgenza, ci rassicuriamo, diciamo: è meglio che la viol enza sia fuori di noi, che diventi spettacolo e che così le immagini ci liberino d ai nostri stessi orrori. Se siamo più conservatori, chiusi e attirati dalla stabil ità delle istituzioni e dei sentimenti, ci ribelliamo, diciamo: tutto questo non è ch e un commercio vergognoso, che gioca con il nostro turbamento e sveglia in noi q uel che deve dormire." "Per questo dunque ci sono tentativi di censura?" "Non sono mai mancati, nella storia del cinema. Alla fine degli anni Venti, tutta

l'industria hollywoodiana obbediva a un codice rigoroso, che definiva in modo mol to preciso quel che era possibile dire e mostrare. Ma questo codice è crollato ass ai presto." "È comunque difficile imporre una censura in una democrazia." "Vediamo ancora questa censura operante in India. Nei film indiani è permessa una c ruda violenza, e anche un erotismo palese. Le donne possono mostrarsi molto provo canti e i crimini si accumulano come ovunque, d'altronde. Tuttavia, fino a tempi recenti, uomini e donne non si baciavano sulla bocca. Si uccide, non ci si bacia ." Mi dice allora ridendo: "Eppure è più piacevole baciarsi che uccidere!". Fin dall'origine del buddhismo, la teoria della non violenza non si presenta sen za qualche eccezione. L'esempio fu offerto dallo stesso Buddha Sakyamuni. Salito un giorno su una barca che attraversava un fiume, vedendo che un bandito minacci ava la vita degli altri passeggeri, scelse di sacrificare la vita del bandito. Questo e sempio, giunto dall'alto, viene sovente citato. Ma è anche da prendersi con cautel a, perché sappiamo tutti che è facile trattare qualcuno da bandito, trovando così un p retesto per sopprimerlo. Allo stesso modo, nella grande guerra del Mahabharata, dov'è in gioco la vita dell 'universo, succede che gli inganni e anche le menzogne di Krishna (incarnazione t errestre del dio Vishnu) scandalizzino persino i suoi amici. Ricordo spesso, al tempo delle prime rappresentazioni dell'opera nel 1985, la desolazione di Maurice Bénichou, l'attore francese che interpretava proprio il ruolo di Krishna. Avverti va l'ostilità del pubblico e usciva di scena molto abbattuto dicendo: "Sono un dio, vengo per salvare il mondo, e mi detestano!". Fu necessario scrivere diverse nuo ve scene, e modificarne altre, per far sentire che la sua lotta non si limitava alla vittoria dei buoni sui cattivi ma che era molto più vasta, che si svolgeva i n un territorio, in una dimensione ove i sentimenti e la moralità umana possono es sere talvolta sovvertiti. Così, a un certo momento, di fronte alle incomprensioni che lo circondano, Krishna è portato a dire, ma a bassa voce, il più segretamente possibile, che per difendere il Dharma bisogna talvolta dimenticare il Dharma. Frase dai mille pericoli, che ogni dittatore potrebbe volgere a proprio vantaggio, parlando così (come fanno semp re) di stato di necessità, di patria in pericolo, insomma, di una situazione talmen te critica da imporre la sospensione di ogni forma di legalità. Per un momento, ce rto. Ma questi momenti durano spesso tutta una vita. Allora, che fare? Come trattare questa violenza che sentiamo e vediamo intorno a noi? "Forse" dico al Dalai Lama "si tratta anche in questo caso di una vista inesplic ata? Di un'altra domanda senza risposta?" "La vera disciplina" mi risponde "non si impone. Non può venire che dall'interno di noi stessi. E dapprima, in questo caso, da parte di coloro che fanno i film e d i quelli che li proiettano. I primi devono prendere coscienza delle loro respons abilità, che sono più gravi che mai." "Proprio in ragione della diffusione mondiale dei film." "Bisogna che agiscano in un interesse più vasto. È indispensabile. Forse si dovrebb ero anche incoraggiare rapporti tra coloro che fanno i film e coloro che li guarda

no." "Sì, perché tutto va sempre a senso unico, con una sola regola, malauguratamente com merciale: fare quel che piace alla maggioranza. Ciò vale all'interno di un paese, m a anche fra un paese e l'altro. In materia di cinema e di televisione, ad esempi o, gli Stati Uniti esportano molto nel resto del mondo, e non importano quasi nu lla." Ritorniamo un momento su una precedente conversazione. Gli parlo delle lotte che abbiamo condotto, e che conduciamo sempre, affinché l'Europa conservi, anche se fos se necessario proteggerla con delle normative, la capacità di raccontarsi le propr ie storie, con i mezzi di oggi. "Sotto il pretesto" mi dice "di una semplice rivalità commerciale sottoposta alle l eggi del mercato (ma quali leggi? Emanate da chi? E in nome di che cosa?), non d ubito che si tratti di un nuovo tipo di colonizzazione. Ho constatato un fenomen o simile con l'occupazione cinese in Tibet. Il pretesto non era commerciale, ma politico e culturale. Affermavano di portarci la rivoluzione, i tempi nuovi e lum inosi. In realtà, questa propaganda non nascondeva che un desiderio di egemonia." "Quando alcuni distributori americani parlano di una sorta di monopolio dell'imm agine che pensano di stabilire nel resto del mondo (in India si apprestano a diff ondere i loro film in versioni già doppiate, per battere il cinema indiano sul suo stesso terreno), bisogna scorgervi una intenzione nascosta di far penetrare insi eme ai film altri prodotti, automobili, abiti, bevande, musica, tutto ciò che costi tuisce l'American way of life, e così senza dubbio, più segretamente, modelli di com portamento e di pensiero." "Conosco bene questo metodo" mi dice "e lo temo quanto voi. I mezzi di cui si se rve sono seducenti, sovente insospettabili. Chi può svelare esattamente ciò che si nas conde in un film?" "Mi sembra" gli dico "che l'immagine di cui tanto si parla non sia un fenomeno su perficiale. Ogni immagine, anche fuggente e maldestra, è il riflesso di una realtà p rofonda, che senza di essa non comparirebbe. Nel secolo venturo, i popoli che non avranno saputo procurarsi i mezzi per costruire la propria immagine saranno minac ciati di scomparsa." "Sono pienamente d'accordo" mi dice con fermezza. "Ma una cosa è dirlo, un'altra è farlo." Chiudiamo la parentesi e torniamo alla violenza, così come la si vede nei film. "Nei film indiani" mi dice "assistiamo per gran parte del tempo allo svolgimento di una storia d'amore, che è fortemente contrastata, ma in cui alla fine i buoni d i solito si ritrovano e sono premiati, mentre i cattivi vengono puniti." "È vero. Nella storia del cinema, raramente si è osato presentare un criminale del t utto felice sino alla parola "fine". Siamo, da questo punto di vista, sottoposti a una sorta di tacita autocensura, anche se esistono mille modi di aggirarla. I l vero criminale, nei film, viene quasi sempre smascherato e punito. In compenso , l'elenco degli innocenti spogliati e uccisi è lungo." "Tuttavia, per gli animi semplici, esiste senza dubbio un buon uso della televisi one. Vedo un uomo che commette un crimine, quest'uomo è arrestato dalla polizia, è s ottoposto a un processo, viene punito con il carcere. Spesso viene persino ucciso dalla polizia In ogni caso, paga per ciò che ha commesso." "È uno schema molto semplice, che in effetti può funzionare in alcuni casi. Ma altri dicono che il semplice racconto di un furto, di persone prese in ostaggio o di un

attentato politico, può risvegliare tendenze." "Per questo" mi dice "la vera disciplina non può venire che dall'interno. Se vedo un criminale punito dalla polizia, ciò può in effetti dissuadermi dal commettere un c rimine. Ma posso anche dirmi che se sono sufficientemente abile o fortunato, pos so sfuggire alla polizia." "Mentre non si sfugge al Karma." "Esatto. Qualunque cosa noi facciamo, in questa vita o in un'altra, il peso del Karma ci riagguanterà Facciamo sì che questa convinzione dimori in noi, e i pericoli della televisione ci appariranno più lievi." Sono venuto da Delhi con un'auto e un autista, un uomo di quarantatré anni, un Sik h dalla barba tutta nera, rotondetto, molto cordiale. Una sera mi invita a cena con un autista di autobus. Ha cucinato lui stesso un pollo al curry, molto buono , e mangiamo nella cabina del bus, sul motore. Si sono procurati una bottiglia d i un orribile rhum indiano, e beviamo a garganella. Mi parla un po' della propria vita: suo padre ha perso le gambe durante la guerr a fra India e Pakistan. Quanto a lui, è nato a Delhi, si è sposato, ha avuto due figl i, ha aperto un ristorante. In quel tempo Indira Gandhi fu assassinata da una del le sue guardie, un Sikh. Una parte della popolazione di Delhi, per vendetta, ha aggredito i Sikh. Egli ha perso il ristorante, l'appartamento, uno dei figli. Ha vissuto sui marciapiedi, ha cercato lavoro, per fortuna è diventato autista, dipe ndente di un'agenzia. Lavora sodo. Spera un giorno di avere denaro sufficiente pe r riaprire un altro ristorante. Siccome non ho bisogno di lui a Dharamsala, lo lascio andare a far visita a una parte della sua famiglia ad Amritsar. Una intera notte di autobus. Torna quattro giorni dopo, molto contento. Mi porta dei dolci. Un uomo come milioni di altri, alle prese con la durezza della vita, attaccato a lle sue tradizioni e alle sue credenze, fiero del Punjab, the richest state in I ndia! Non è buddhista. Nato in una religione, vi resta fedele. D'altro canto rispet ta "Sua Santità", a very geod man. Mi fa notare che i tibetani in esilio in India sono più ricchi degli indiani, più assistiti, ma lo dice senza astio. È così. Tanto me glio per loro. Mi mostra una fotografia della moglie e dei figli. È un uomo che sorride spesso, u n autista molto sicuro. Gli secca chiedere la strada, cosa che lo porta talvolta a smarrirsi. Nulla di grave. Fa marcia indietro e prova un'altra strada. Ci fermi amo, al ritorno, in un grande ristorante di camionisti, the best restaurant in No rth India. Vi fanno grande uso di spezie. Come potrebbe quest'uomo dimenticare la violenza vissuta? Supponendo che egli lo decida, quanto tempo gli sarebbe necessario per accettare la non violenza, per es sere toccato dal buddhismo? Nella sua vita stretta dal bisogno, dove potrebbe tr ovare il tempo per meditare, per ascoltare, per leggere? Mi domando questo, nell'auto, mentre guardo le sue mani che afferrano il massicc io volante, e il suo turbante blu chiaro avvolto con cura intorno al capo.

7 BIG BANG E REINCARNAZIONE

"Lei è l'ultimo Dalai Lama?" "È molto probabile." "Perché?" "Per due tipi di ragioni. Politiche, anzitutto. I cinesi, da trentacinque anni, ripetono che ho un solo desiderio: restaurare il vecchio regno di un tempo, riotte nere i miei servi, i privilegi e le mille stanze del Potala." "E lei che cosa risponde?" "Che l'istituzione del Dalai Lama non è di mia competenza. Riguarda solo i tibetan i. L'ho detto più volte chiaramente. Se il Tibet ritroverà un giorno la propria ind ipendenza o, in ogni caso, la propria autonomia cosa che mi auguro di tutto cuo re non potrà succedere che in modo democratico. I tibetani vorranno che si perpet ui l'istituzione del Dalai Lama? Lo diranno. Se una maggioranza fra loro si dimo stra contraria, mi ritirerò automaticamente. In questo caso, in effetti, sarò l'ulti mo Dalai Lama." "Ha detto in qualche luogo che, in queste condizioni, finirà i suoi giorni in un co nvento, camminando con l'aiuto di un bastone." "Quest'idea non mi dispiace." "E le altre ragioni?" "Sono storiche. Molti credono che il Dalai Lama sia inseparabile dal popolo tibe tano. È falso. Fino al XVI secolo, il Tibet ha vissuto benissimo senza Dalai Lama. Domani potrebbe accadere la stessa cosa. Lo ripeto: il prossimo governo de l Tibet deve essere eletto democraticamente. È indispensabile." " Potrebbe nascere un altro Dalai Lama fuori dal Tibet?" "Perché no? Già uno era nato in Mongolia." "Quali sono le vostre relazioni con la Mongolia di oggi?" "Molto cordiali, e molto antiche. La Mongolia è un paese fortemente segnato dal bu ddhismo, come il Tibet. L'ho visitato nel 1979, così come altre repubbliche dell'UR SS. La Mongolia era ancora comunista. L'atteggiamento della gente nei miei confron ti mi è parso spontaneo, e persino caloroso, quanto quello dei tibetani. Li ho sent iti vicini a me, e questo mi ha toccato molto. Vi tornerò quest'anno." "Là il buddhismo è ancora vivo?" "Sì, mi pare. Intratteniamo, a questo proposito, rapporti molto stretti. Studenti mongoli, originari di diverse parti del paese, vengono qui, in India, nei nostri diversi centri. Lavorano sotto la direzione di maestri tibetani. E alcuni di no i vanno in Mongolia" "E i vostri rapporti con il Nepal? Il Bhutan?" "Per quanto riguarda le persone, i nostri rapporti sono eccellenti. A livello gov ernativo, è diverso. Da quando il Tibet è stato annesso, questi due paesi hanno una frontiera comune con la Cina. E questo cambia tutto." Che le donne siano nate per fare l'infelicità dell'uomo è un'idea generalmente diffus a nel mondo intero. Questo sembra scontato. Il Buddha, malgrado le sue grandissim e doti di lucidità di pensiero, non sempre è sfuggito alla regola. Come gli altri, ha

considerato la maggioranza delle donne creature "folli e crudeli", feroci "come un brigante" e, s'intende, menzognere per natura. Ha esortato a lungo i suoi prim i discepoli, quelli almeno che volevano diventare monaci, a diffidare delle donne , a non curarsi di loro. Per mesi, ha persino rifiutato di aprire la porta alla seconda moglie di suo padre, sua zia, che l'aveva cresciuto con dolcezza. Vestit a di cenci, ella implorava ogni giorno una parola o uno sguardo. Egli non le risp ondeva. Passarono anni prima che accettasse la fondazione delle comunità femminili. Quanto a stabilire se la donna potesse come l'uomo giungere all'illuminazione, furono n ecessarie discussioni assai lunghe con i discepoli perché Sakyamuni acconsentisse a d ammetterlo, per pentirsene subito dopo. Senza dubbio, dal punto di vista della vita spirituale, la donna era considerata inferiore. Questa esclusione è curiosamente universale. Nel XVI secolo un concilio dividerà la Chiesa cattolica a proposito della qualità dell'anima femminile. La stessa esisten za di quest'anima otterrà solo una maggioranza di pochi voti. Ancora quest'anno, ne l 1994, l'ordinazione di alcune donne prete da parte delle autorità della Chiesa a nglicana ha fatto gridare al tradimento qualche anima pia scandalizzata e il papa ha riaffermato che nella Chiesa cattolica solo gli uomini possono diventare pre ti. L'abito talare non sempre preserva dal maschilismo. Per molto tempo, soprattutto nei paesi dell'Asia meridionale, la donna ha dovuto osservare regole precise nei rapporti con i monaci mendicanti: non toccare gli alimenti nel riempire la ciotola dell'elemosina, non camminare sulla stuoia dove un monaco era seduto, non parlare mai per prima, non spogliarsi mai davanti a lui né sedersi in una posizione che potesse destare desiderio. In alcuni casi, fu persi no proibito ai monaci usare come cavalcatura una giumenta o un'asina. In presenz a di una donna, i bonzi cambogiani nascondevano il viso dietro un ventaglio: per non vedere o per non essere visti? Queste proibizioni furono abbastanza presto mitigate in Cina, in Giappone e più an cora in Tibet (sotto l'influenza, senza dubbio, del tantrismo). Si racconta in G iappone una storia zen di due monaci in viaggio. Entrambi hanno fatto solenne vo to di non toccare mai il corpo di una donna. Arrivano davanti a un fiume in piena. Sopraggiunge una donna preoccupata e chiede loro di aiutarla ad attraversare il tumultuoso corso d'acqua. Di là, sull'altra ri va, c'è sua madre, gravemente malata. Senza esitare, uno dei due monaci afferra la donna e l'aiuta ad attraversare il f iume. Giunta dall'altra parte, la donna li ringrazia e si allontana in fretta. I due monaci proseguono la loro strada l'uno in fianco all'altro, in silenzio. Dopo una mezz'ora di cammino il secondo monaco, a cui la collera non è ancora sboll ita, dice improvvisamente al primo: "Ma come hai potuto infrangere il tuo voto? Co me hai osato toccare il corpo di questa donna?". L'altro lo guarda e dice: "Ah, pensi ancora a lei?". Oggi, se la regola del celibato resta stretta tanto per i monaci quanto per le m onache (bhiksu e bhiksuni), in compenso li si vede camminare in piena libertà nell e strade di McLeod Ganj, entrare nei negozi, chiacchierare con i passanti e le pa ssanti. Non è raro, nei ristoranti, vedere un monaco pranzare, solo con una donna s traniera, che è generalmente un'allieva. È ancora indice di un karma negativo rinascere nel corpo di una donna? "In passato" mi dice "senza dubbio la donna è stata trascurata. Come altri paesi, il Tibet ha stabilito una netta predominanza dell'uomo. Poi, a poco a

poco, le cose sono cambiate. Oggi, se ci confrontiamo con l'India o con la Cina, la condizione della donna è certamente migliore in Tibet. Ma resta ancora molto da fare." Detto questo, mi ricorda che nel buddhismo, e soprattutto nella tradizione Mahay ana, i due sessi sono teoricamente uguali. Bhiksu e bhiksuni dopo l'ordinazione, hanno in linea di principio pari diritti e pari doveri. Si dice che il buddhismo , chiamato semplicemente "la religione", fu propagato con decisione in Tibet dall e due mogli (l'una nepalese e l'altra cinese) del re S'rong T'san Gampo. Alla lo ro morte, si verificò un fenomeno straordinario: Avalokitesvara, il bodhisattva de lla compassione, aveva deciso di salvare il mondo dalla sofferenza, dal ciclo del samsara. Vi riuscì, con uno sforzo estremo, chiudendo gli occhi. Quando fu obbliga to a riaprirli, vide che la sofferenza era sempre lì, che il samsara colmava di nuo vo il mondo. Allora, una lacrima di tristezza e di scoraggiamento scese lungo la sua guancia. Questa lacrima bagnò le due regine, rivelando così il loro destino di consolatrici e protettrici. Vengono chiamate Tara Verde e Tara Bianca. Spesso si confondono in una sola divinità, chiamata Tara, venerata in tutti gli aspetti della vita quotidi ana. Invocata come "madre di tutti i buddha", ella calma e rassicura. Bellissimi testi della poesia tibetana le sono consacrati. Il pantheon buddhista tibetano è troppo complesso perché si pretenda di esaminarlo ne i particolari. Varia, d'altra parte, secondo le scuole. Vi si vedono sovrapposte p iù gerarchie di buddha, talmente frammentate che Maurice Percheron ha potuto parla re di una "miriade di buddha". Cinque entità, che si chiamano "i vittoriosi" (jina ) o i buddha di meditazione, e che corrispondono ai cinque organi di senso, ai cinque colori, al le cinque virtù, dominano questa costruzione. Essi reggono lo spazio e il tempo. Ci ascuno riceve la propria invocazione, i propri attributi. Ciascuno possiede anche una sorta di "figlio", un riflesso spirituale, che è, propriamente parlando, un b odhisattva. Così Avalokitesvara, colui "che guarda in basso", cioè il compassionevol e (di cui il Dalai Lama è la reincarnazione) è stato generato dal jina Amitabha, "la luce infinita", il Signore dell'Ovest. In questa costruzione singolare, raffinata, difficilmente accessibile ai nostri s piriti improntati ad altri concetti, la forza femminile che si chiama Arya Tara occupa uno dei ranghi più elevati. Il Dalai Lama mi fa notare che non vi è giunta per caso: "La sua storia è esattamente quella dell'atteggiamento femminile. Dopo aver raggiun to il primo grado del risveglio, e potendo aspirare a un grado superiore di esiste nza, vedendo la supremazia numerica delle potenze maschili, esclamò: voglio raggiu ngere la buddhità, ma sotto forma di donna! Desiderava in qualche modo dimostrare di poter aspirare a un livello pari a quello di Avalokitesvara. E vi riuscì". Aggiunge che i bhiksu e le bhiksuni osservano in teoria le stesse regole. "Tuttavia" mi dice "una discriminazione sussiste. È difficile precisarne ragioni e limiti, ma le bhiksuni non vengono considerate con la stessa benevolenza e lo s tesso rispetto dei bhiksu." "Perché?" "Non mi è chiaro. Cosciente di questa discriminazione, ho convocato l'anno scorso u na conferenza su questo tema. È durata quattro giorni. Professori sono giunti da og ni parte del mondo, dall'Occidente come dal Giappone. Abbiamo invitato maestri zen. Insieme, abbiamo esaminato un gran numero di problemi, riguardanti in particolare la condizione delle donne, la vita sessuale, gli scandali finanzi

ari che vediamo scoppiare regolarmente in tutto il mondo. Una bhiksuni ha preso la parola per ricordare l'ineguaglianza che grava sulle monache. Un'altra, una d onna anziana, di origine greca, credo, o francese, raccontò la propria storia, con grande semplicità. Questa storia mi toccò così vivamente che mi misi a piangere. Sì, senz a dubbio la situazione può essere migliorata." Ricordiamo per un momento, ma senza soffermarci, la condizione della donna in Occ idente. Se le lotte femministe degli anni Sessanta e Settanta hanno dato qualche risultato, almeno in linea di principio, resta il fatto che continua a sussistere un'altra forma di discriminazione. Questa riguarda ad esempio i salari, la posiz ione nella vita politica (se in Francia contiamo i deputati donna, vediamo che i l loro numero è alquanto esiguo), la gestione dei mezzi di comunicazione, per non parlare degli sconvolgimenti e traumi della vita quotidiana, degli stupri, delle m olestie sessuali. Dopo le speranze di "liberazione" e di "uguaglianza" dei decenn i precedenti, una sorta di disillusione sembra essersi abbattuta su tutta una gene razione di donne, oggi quarantenni, sovente divorziate, senza lavoro, condannate a lla solitudine in una società timorosamente paralizzata da crisi di diversi livell i. Il Dalai Lama ha raccolto echi di queste speranze deluse. Qui, in Asia, le "cond izioni" sono evidentemente diverse. Qualcosa dev'essere fatto. "E per prima cosa" mi dice "nel campo dell'insegnamento. Dobbiamo riconoscere che le donne possiedono le stesse qualità educatrici degli uomini. L'esempio può esserc i fornito da una donna eccezionale vissuta nel XIV secolo, che si chiamava Samding Dorjee Phagmo. Fu riconosciuta come una donna lama e acquisì in questo modo il pot ere di reincarnarsi, secondo le nostre tradizioni. Di conseguenza, diede origine a una stirpe di donne lama che si sono succedute fino ai nostri giorni." "Esistono altre stirpi femminili?" "Sì, quattro o cinque. Dobbiamo anzitutto riflettere su quello che ci hanno portato queste successioni di donne lama, cioè su quello che il loro insegnamento ha potuto presentare di particolare, di prezioso. Dobbiamo anche riflettere sulla poliandr ia, praticata da tempo in Tibet." Non posso evitare di pensare subito a Draupadi, l'energica donna del Mahabharata , che ebbe cinque mariti, i cinque fratelli Pandava, e riuscì ad appagare tutti (a turno) e a dare loro dei figli. Il Dalai Lama ricorda per un istante la poligami a, che non apprezza affatto. Si vede più donne a disposizione di un solo uomo, sov ente trattate e messe da parte come oggetti o animali ammaestrati. Non approva l 'acquisto delle mogli, che si pratica ancora da qualche parte, e conosce gli orro ri che spesso comporta il sistema indiano della dote. Mi domanda se la poliandria

più uomini per una sola donna - esista in Europa.

"Esiste," gli dico "ma per lo più gli uomini non lo sanno." "Naturalmente. Ma questo capita ovunque!" Scoppia a ridere, poi torna al Tibet: "Un'altra consuetudine esiste presso di noi da tempo. Succedeva che l'uomo abita sse presso la famiglia della donna (mentre generalmente accade il contrario) e ch e allora il cognome restasse quello della donna". "Questo cognome veniva trasmesso ai figli?" "Sì. Il cognome della madre. Certo, l'invasione cinese e l'esilio hanno sconvolto queste usanze, che

considero sagge. Ma senza dubbio bisognerebbe riscoprire questa tradizione." Le guerre hanno un effetto rapido sui costumi. Ricordo i massacri che la guerra del 1914 1918 provocò in Europa. Un milione e mezzo di uomini morti, nella sola Fran cia: il che pose molte donne di fronte a responsabilità nuove. Per forza di cose, diventarono imprenditori, dovettero assumersi la responsabilità delle aziende agrico le e se ne mostrarono perfettamente capaci. Il XIX secolo, in cui la donna non se mbra giocare da noi che un ruolo di necessario ornamento, dalla cortigiana adula ta alla domestica o all'operaia schiavizzate, si era concluso sui campi di batta glia. Diventava impossibile ai sistemi occidentali persistere nell'esclusione del le donne. Una seconda guerra mondiale lo confermò. Nel 1944, infine, si accordò alle francesi il diritto di voto. "Bisogna ritrovare le nostre tradizioni," riprende il Dalai Lama "e introdurvi gl i aspetti positivi delle altre tradizioni." "In uno stato dell'India meridionale, il Kerala, esiste una tradizione matriarca le. Le donne sono sovente proprietarie e custodi del patrimonio familiare, che si trasmette per linea femminile." "Sì, anche in Tibet la donna poteva essere erede." "Queste tradizioni sono cambiate con l'esilio?" "Non credo. Sicuramente, oggi, vengono imposte in Tibet le leggi cinesi. Ma le tr adizioni diventano un modo per resistere. Qui, ve l'ho detto, ci sforziamo di mant enerle, perché sono le nostre armi migliori. A mio parere, non v'è dubbio che in fut uro i diritti della donna verranno rigorosamente stabiliti. Dobbiamo anche, in qu esta occasione, prendere una nuova coscienza di quel che può significare "uguaglian za fra uomini e donne"." "Se un controllo delle nascite è indispensabile, come sembra essere, questo passa necessariamente attraverso le donne. Il diritto di donare o no la vita deve spettare a loro." "Lo credo anch'io" mi dice. "L'esistenza di una "mascolinità", suppongo, o di una "femminilità" deve sembrare im possibile nei confronti della transitorietà?" "Come ogni esistenza che goda di una condizione stabile. Queste nozioni non hanno alcun senso per noi. Sono semplicemente legate alle condizioni, alle circostanz e (cioè all'ambiente culturale, storico), e queste circostanze possono cambiare." "Una donna potrebbe essere uno dei prossimi Dalai Lama?" "In teoria, nulla lo impedisce." Ritroviamo qui come altrove, come ad esempio in campo scientifico, questa notevo le capacità di adattamento che presenta oggi il buddhismo, e che spiega senz'altro in gran parte le numerose simpatie che desta. Anche in questo caso, ogni atteggi amento dogmatico sembra bandito. L'estrema elasticità e fluidità del pensiero sembra aderire al movimento del mondo, questo movimento che esso afferma e al quale si sottomette. Ciò che colpisce è che questo adattamento incessante, evidentemente accel erato dal secolo stesso e da tutti gli choc che l'hanno scosso, non altera le bas i antiche del buddhismo la transitorietà, l'interdipendenza, la compassione, il n ecessario risveglio e, anzi, talvolta li rafforza. E arriviamo alla reincarnazione. In questo caso, devo confessare al mio ospite d

i incontrare un forte ostacolo. Dall'inizio dei nostri incontri, abbiamo trovato un certo numero di punti in comune. Ecco un punto di divergenza. In effetti il buddhismo si è costruito e si è mantenuto su un concetto di universalità. Quel che è bene per un uomo è bene per tutti gli uomini. Ora, agli occhi di noi occidentali, abituati da più di un secolo a un approccio etnografico ai comportamenti e alle mentalità (che comprendono le religioni), la reincarnazion e appare come una credenza ereditata dall'India e strettamente limitata, oggi, a una sola parte del mondo. Pitagora, è vero, sosteneva di ricordarsi delle proprie vite precedenti. Platone, f acendo, come Empedocle, eco ai misteri orfici, mostra nel X libro della Repubblic a guerrieri morti che scelgono i corpi della loro prossima vita. In sintonia con la propria personalità, Aiace sceglie di essere un leone, così come il buffone Tersi te sceglie di essere una scimmia. Soltanto Ulisse, l'astuto, sceglie la vita di u n uomo pacifico e ignorato da tutti. Tuttavia è difficile dire che queste credenze, riservate, sembra, a una raffinata m inoranza, siano al centro del pensiero greco. In ogni caso, come per i cabalisti e brei, non sono sopravvissute alla caduta del mondo antico e al trionfo in Occiden te del cristianesimo. In India sono ancora vive. Il buddhismo le ha adottate e sviluppate a proprio us o. Alcune tappe del processo di reincarnazione, come il percorso del bardo dopo quella che chiamiamo la morte, sono spesso limitate al solo Tibet buddhista. L'i dea di universalità ci sembra messa in ombra da quello che non si può non definire pa rticolarismo, folklore. "La reincarnazione" gli dico "non appartiene in alcun modo alle nostre tradizion i religiose, a meno che non si presti fede alla resurrezione finale promessa dai testi antichi del cristianesimo. Ma oltre al fatto che il tema della resurrezion e sembra un po' accantonato dai teologi cristiani contemporanei, questa resurrezi one dei corpi non ha nulla a che vedere con la reincarnazione buddhista che ci r esta estranea, e molto difficile da accettare. Succede anche che susciti ironia o alzate di spalle." Mi ascolta molto attentamente, scrollando la testa. "La seconda difficoltà," gli d ico "strettamente legata alla prima, dipende da questo esame scrupoloso dei fatti che il buddismo ha sempre rivendicato come proprio metodo. Sakyamuni l'ha detto per primo: "Osservate quest'oggetto che è qui, ora". Non bisogna mai accettare null a, si legge nelle vostre scritture, che non sia stabilito, provato e verificato d all'esperienza. Ora, lungi dall'essere verificabile, la reincarnazione ci appare p recisamente come una di queste "credenze" che il buddhismo, in altri campi, invit a sovente a rifiutare. Noi vediamo qui una contraddizione." Scrolla ancora la testa, lasciandomi proseguire: "Esiste una terza difficoltà, che dipende dalla dottrina stessa del buddhismo. Ques ta afferma ad ogni occasione e ne abbiamo lungamente parlato per dire che sembr erebbe del tutto possibile su questo punto un accordo con le conclusioni (provvis orie) dei nostri scienziati che nulla è stabile, né nella materia né nello spirito, che tutto si dissolve e si ricompone senza sosta, che in particolare il nostro " io", così orgogliosamente esibito in Occidente, non è che un soffio di vento, un'illu sione, una realtà sfuggente, rigorosamente irreperibile. Di conseguenza, se nulla s ussiste del nostro io, qual è questo io che si reincarna? Bisogna pure che qualcosa di noi, una qualità che ci è propria, possa sussistere e perpetuarsi. Confesso che q uesto punto resta per me un enigma. Ho letto quasi tutti i suoi libri, l'ho sent ita rispondere a questa domanda, ma molto brevemente, e in un modo che non mi ha mai convinto. Ecco giunto forse il momento di affrontarla". Dopo un momento di riflessione, formulo così la mia domanda:

"Che cosa rappresenta oggi, per lei, la reincarnazione? È un'allegoria o un fatto? E quale forza ne trae lei?". Attende a lungo prima di rispondermi: "I buddhisti dicono che la rinascita è una realtà. È un fatto. Nel ciclo noto delle ri nascite, che noi chiamiamo il samsara, si produce di tanto in tanto il fenomeno della reincarnazione". Impariamo dunque per prima cosa a distinguere. Il ciclo delle rinascite, il samsa ra, è la condizione di ogni vita. Nessuna esistenza gli sfugge, a meno di giungere al nirvana. Questa condizione è dolorosa, perché ci obbliga a rivivere senza sosta, in situazioni che possono essere peggiori di quelle che abbiamo conosciuto. "Se la rinascita è un obbligo," mi dice "la reincarnazione è una scelta. È il potere, d ato ad alcuni individui meritevoli, di controllare la loro futura nascita." "Come fu il caso del Buddha?" "E di molti altri. Quando ha raggiunto un certo grado di qualità, che abbiamo chia mato coscienza sottile, il nostro spirito non può morire, nel senso comune del ter mine. Gli è dato il potere di reincarnarsi in un altro corpo. È, in particolare, il c aso dei bodhisattva, l'abbiamo detto. Proprio sulla porta del nirvana, preferisc ono rinunciarvi per restare nel samsara, e continuare a venirci in aiuto." "Ma come si constata che questo o quell'individuo è la reincarnazione di questo o q uell'altro?" "In effetti è un punto cruciale." Devo dire che a Dharamsala, e in altri centri buddhisti, questa credenza è abbondan temente condivisa. Si chiama talku l'individuo che porta, inequivocabilmente, i se gni di una reincarnazione. E i talku sono numerosi. In un negozio di souvenir, g estito da un indiano, ho incontrato un fotografo tedesco che sta preparando un l ibro sui talku. Ne ha già fotografato diverse decine e mi ha mostrato il questionar io che chiede loro di compilare. Bisogna indicarvi il proprio cognome, nome, dat a di nascita, indirizzo, la scuola buddhista alla quale si appartiene. Poi, su un'altra riga, si vede scr itto: "Reincarnazione di...?". "Innanzitutto" mi dice il Dalai Lama "incontriamo persone che si ricordano con pr ecisione delle loro vite passate." "O che pretendono di ricordarsene. La cosa più curiosa è che nel passato non sono s tati né un rospo, né un misero schiavo. In genere, sono già vissuti nel desiderabile c orpo di una famosa cortigiana o in quello di un grande sacerdote egiziano." "Sicuramente. Ovunque vi sono mentitori." "E d'altra parte, i testi mostrano chiaramente che esistono sei possibili condiz ioni dell'uomo dopo la morte, che si chiamano i cammini di trasmigrazione." "Esatto." Queste condizioni sono quelle di dio, di uomo, di asura (che traduce in modo imp reciso il termine "demone"), di animale, di un essere assetato e affamato, chiama to in sanscrito preta, infine di un essere infernale, che vaga dagli inferni ghi acciati agli inferni infuocati, dall'inferno di bronzo all'inferno di letame all'i nferno di spine.

"Ora," gli dico "di queste sei condizioni, la più difficile da ottenere è proprio la condizione umana. La sola speranza per raggiungere un giorno la buddhità è di rinas cere uomo, ma è anche la speranza più rara. A titolo di paragone, ci dice un'antica leggenda, si immagini una tartaruga che viva nel fondo dell'oceano, dal quale la sua testa emerge ogni cento anni, e un anello galleggiante sulla superficie mos sa dell'acqua: le possibilità che la testa della tartaruga possa entrare nell'anell o sono poche quanto quelle di un essere umano di reincarnarsi in un altro essere umano. Come dunque spiegare il fatto che tutti coloro che ricordano le loro vit e passate parlino sempre di situazioni umane favorevoli, e che i tulku proliferin o intorno a noi?" La reincarnazione in un essere umano è in effetti difficile, ma molto meno rara di quanto dica la leggenda indiana. Il fenomeno esiste, ne siamo certi. Proprio qui , a Dharamsala, conosciamo alcune persone che hanno ricordi molto chiari delle l oro passate esistenze, e le cui condizioni di vita non avevano allora nulla di st raordinario. In particolare, abbiamo conosciuto due bimbette indiane di tre e qua ttro anni, che raccontavano dettagliatamente episodi di vite anteriori. I loro g enitori non potevano credervi, ma quando le abbiamo portate dove sembravano esser e già vissute, hanno riconosciuto i posti. " Questi esempi di riconoscimento sono citati abbastanza frequentemente. Il Dalai L ama stesso, all'età di tre anni, riconobbe alcuni oggetti appartenuti al suo predec essore, morto qualche anno prima. Come racconta nel suo libro, aveva preso questi oggetti dicendo: "È mio, è mio!", e ognuno fu convinto che fosse davvero la reincarn azione cercata. Altri segni avevano portato coloro che conducevano le ricerche f ino alla casa dei suoi genitori. Quando fu ufficialmente riconosciuto, venne tol to alla famiglia e portato in un convento. Ebbe così inizio la sua formazione di Da lai Lama. Tutto ciò accadeva nel 1938. Alcuni giornalisti superficiali presentano ancora il Dalai Lama come un dio vive nte. Per un buddhista, questa espressione non ha senso. L'istituzione del Dalai L ama, autorità spirituale e temporale, risponde in effetti a due esigenze: dev'esser e la reincarnazione certa di colui che l'ha preceduto, e di conseguenza di tutti gli altri, risalendo fino al XIV secolo. I tibetani tengono molto a questo conce tto di discendenza, di un'altissima energia spirituale che si trasmette da indiv iduo a individuo e che, ogni volta, può rafforzarsi. L'attuale Dalai Lama afferma d i avere discusso a lungo in sogno con il proprio predecessore, e di avere tenuto i n considerazione i suoi consigli. D'altra parte il Dalai Lama, per la sua stessa funzione, è considerato una "manifes tazione" o una "emanazione " di Avalokitesvara, il signore del loto bianco, il gra nde bodhisattva della compassione. Sarebbe così il settantaquattresimo di un'altra discendenza, che risalirebbe a un bambino brahmano vivente nella stessa epoca de l Buddha. Oggi, i buddhisti non sembrano più accettare che esista davvero nel cie lo un "essere", una "persona" che si incarni in una forma umana. Vedono piuttosto questa emanazione come una forza particolare che permette al Dalai Lama di conc entrare in sé le capacità di compassione che ciascuno di noi possiede. Quando gli si domanda se è sicuro, oggi, di appartenere realmente a queste due disc endenze, il Dalai Lama confessa un leggero imbarazzo. La risposta, dice, non è semp lice. Ammette tuttavia che, appoggiandosi alla propria educazione e pratica buddh ista, si sente "spiritualmente legato" ai tredici precedenti Dalai Lama, ad Avalo kiteshvara e allo stesso Buddha Sakyamuni. "Si può anche" continua "considerare la reincarnazione da un altro punto di vista, riflettendo sull'evoluzione del nostro pianeta, e anche del nostro universo. Oggi siamo qui, vediamo il mondo intorno a noi, sappiamo che si estende per distanze inimmaginabili, ma sappiamo anche in ogni caso ce lo dicono gli scienziati che

questo mondo non è sempre esistito." "Si e creduto per lungo tempo che l'universo fosse infinito, eterno. Una delle gr andi scoperte dell'astrofisica nel XX secolo fu di attribuire un'età e una storia a ll'universo." "Intende parlare del Big Bang?" "Sì, di quello che si chiama Big Bang senza ben sapere cosa sia." "Ma come, perché il Big Bang si è prodotto? Questo nessuno lo può dire. Ora, il buddhis mo ha una costante: ogni avvenimento deve avere una causa. Sebbene si estenda ta nto vastamente nello spazio, l'universo è sottoposto alla transitorietà e al samsara . Sebbene risalga a un tempo antichissimo, è necessaria una causa degli eventi." "Supponendo che il Big Bang sia un evento. Tutto quel che vediamo, a un dato mome nto, è uno stato estremamente denso di quello che diventerà la materia che costituis ce le stelle e che ci costituisce Ma non possiamo parlare di una "esplosione" co me la parola Bang sembra indicare." "E oltre a questo stato della materia?" "Non ne sappiamo nulla. È ciò che dicono gli astrofisici. Il Big Bang è il primo punto della nostra possibile lettura della storia dell'universo. Non è necessariamente l 'inizio dell'universo, è l'inizio del nostro discorso sul mondo. Di quel che c'era prima del Big Bang, supponendo che ci fosse qualcosa, non possiamo parlare. Non possiamo che sognarlo, che immaginarlo. Ma come immaginare quello che c'era prim a che ci fosse qualcosa?" "In ogni modo, i buddhisti dicono che il secolo in cui viviamo sia la conseguenz a dei secoli che l'hanno preceduto, e così via fino all'origine dei tempi, venti o venticinque miliardi di anni fa." "Diciamo piuttosto quindici miliardi " "Davvero? Qualche anno fa, in Svizzera, ho conosciuto uno scienziato, che avrebbe più tardi ricevuto il premio Nobel. Parlava di venti miliardi di anni. Ho incontr ato anche un americano, un celebre fisico non ricordo il suo nome, ho una pessi ma memoria per i nomi che parlava di venticinque miliardi." "Cifre enormi sono state in effetti proposte, in varie occasioni. Poi sono un po ' diminuite. Diciamo che in questo momento la moda è di quindici miliardi." "Si può ancora parlare di precisione scientifica?" domanda ridendo. Poi riprende: "Perché dunque il Big Bang? Quale è stata la causa?". "I cristiani hanno una risposta." "La conosco. Per parte mia, ci sono due risposte che non posso accettare. La pri ma consiste nel dire: non v'è alcuna causa. Le cose sono successe così, da sole. Dal nostro punto di vista, è inaccettabile. La seconda risposta è la soluzione divina. Un bel giorno, Dio ha deciso di creare il mondo. Noi non l'accettiamo." "Perché?" "Perché questa risposta solleva un numero eccessivo di domande."

"Ad esempio?" "Perché il creatore ha creato? Chi ha creato il creatore? Si è creato da solo? Il cr eatore ha avuto un inizio? Avrà una fine? Si tratta di una creazione permanente? E così via." "Se il creatore è permanente, anche la creazione sarà permanente." "Questo ci porta ad altre domande, del tipo: il creatore è un essere con una assol uta compassione? Con un assoluto potere? Con una conoscenza assoluta?" "Perché, se è onnipotente, ha creato questo mondo così evidentemente imperfetto? Perché h a creato questo mondo piuttosto che un altro? E perché ha impiegato così tanto tempo a crearlo?" Gli astrofisici ammettono in effetti che la materia che conosciamo si formò in quel la che chiamano "il brodo originario", nel corso di un periodo di un milione di anni, e che le forme prese da questa materia compresa quella che chiamiamo vita si succedettero lentamente nel tempo. Ricordo anche al Dalai Lama la certezza che hanno oggi gli scienziati della prese nza nell'universo di un'altra materia, che chiamano generalmente "la materia oscu ra" o "la materia mancante", e che resta per noi impenetrabile. Non sembra costi tuita da particelle e da atomi, come la nostra, non è nucleare da cui la nostra i mpossibilità di entrare in contatto con essa e di studiarla. Tuttavia esiste. È attestato dall'attrazione che esercita sui corpi celesti. Probab ilmente è persino "in maggioranza" nell'universo. Alcuni specialisti giungono a sos tenere che sia da otto a dieci volte maggiore di tutta la materia nucleare conosc iuta. E siccome ci sfugge, ci affascina. Anche qui, se restiamo all'interno di un sistema voluto da un dio creatore, ci t roviamo di fronte a un'altra vista inesplicata": perché avrebbe creato questa mater ia impenetrabile, perché avrebbe creato due mondi, inconoscibili l'uno per l'altro ? "In effetti," mi dice " dal nostro punto di vista, la teoria del creatore pone m olti più problemi di quanti non ne risolva." "Qual è allora la spiegazione buddhista?" So, per averlo letto in diversi libri, che la questione dell'origine del mondo no n si pone in questi termini nei testi antichi. Come abbiamo detto, l'universo budd hista si compone di una infinità di mondi, specie di dischi infilati su un asse, e questo asse è il mitico monte Meru. Intorno a questo asse sono poste quattro catene di montagne, a ltrettanti oceani, quattro grandi continenti situati ai quattro punti cardinali. Ogni universo possiede nove pianeti, ventisette o ventotto "riferimenti celesti" e molte stelle. Questo aspetto ciclico e ripetitivo dello spazio si ritrova nella concezione ant ica del tempo, che trae la sua origine dal brahmanesimo. I cicli del tempo, yuga e kalpa, si ripetono in eterno. Sono divisi in un certo numero di periodi di in eguale durata, che possono superare i milioni di anni e di cui alcuni sono detti "incalcolabili". Alcuni di questi periodi sono di distruzione, altri di ricostru zione, altri ancora di stabilità. Nel corso dei periodi di ricostruzione, che si chiamano anche 'periodi vuoti", re stano particelle di spazio. Serviranno a ricostruire la materia. L'insieme di que sti movimenti del tempo è contenuto in un grande ciclo, un mahakalpa, che supera la

possibilità di ogni conoscenza e di ogni misura. A queste lunghe descrizioni speculative, elaborate da scuole successive che, d'al tro canto, si trovano abbastanza sovente in contraddizione, si oppone la raccoma ndazione primaria di Sakyamuni di non affondare "la lama del pensiero nell'impene trabile". Il problema dell'eternità dell'universo e di conseguenza della sua orig ine sembra di certo aver fatto parte delle "quattordici viste inesplicate". Eg li ha persino detto: "La conoscenza di tutte le cose non può far fare alcun passo n uovo sul cammino della santità e della pace". Unica risposta: il silenzio. Comunque, come mi ha detto a più riprese il Dalai Lama, da un lato non si può ammet tere che vi siano eventi senza causa, e dall'altro bisogna necessariamente tenere conto dei progressi della scienza per modificare, se necessario, le Scritture. Così non bisogna stupirsi della sua scarsa propensione a ritornare alle teorie anti che. Preferisce attenersi al Big-Bang e cercare di trovare una spiegazione che p ossa accordarsi con l'essenza della dottrina buddhista. A proposito del Big Bang, gli ricordo che questa espressione ironica (dovuta all 'astrofisico Fred Hoyle, che si opponeva a queste teorie) corrisponde a una idea formulata per la prima volta da un prete belga, padre Lemaitre. Fin nelle teorie scientifiche è così possibile trovare traccia, abbastanza sovente, di una "metafisi ca nascosta". L'idea di una "esplosione", di un inizio improvviso e luminoso del mondo, può in effetti accordarsi, mutatis mutandis, con il racconto biblico della c reazione. Il Dalai Lama mi spiega ora, a suo modo, ciò che ha preceduto il Big Bang: "Alcuni esseri (beings) a un certo momento devono essersi compiaciuti dell'esiste nza di questo universo. Ed è per questo che l'universo esiste". "Chi sono, o chi erano questi esseri?" "Non si tratta di esseri umani." "Di extraterrestri?" "Non nel senso che voi date a questo termine. Si tratta di esseri forniti di uno spirito e di sentimenti. Quando parliamo di "spirito", sappiamo che esistono div erse categorie, diversi livelli di spirito. Alcuni di questi livelli sono grosso lani. Lo spirito è allora direttamente legato a un corpo, e cessa di esistere con lui. In questo caso, quando le funzioni del corpo si arrestano, si arrestano anc he le funzioni dello spirito." "Ma abbiamo visto che lo spirito può anche elevarsi." "Fino ai più alti livelli, fino allo "spirito sottile", o "coscienza sottile". Il pensiero concettuale ha dei limiti, che tutti conosciamo. Per questo la maggior parte delle tradizioni ha tentato di imboccare, sul cammino difficile della cono scenza, quella che si potrebbe chiamare una '`via diretta": il misticismo, lo yoga, alcune forme di meditazione e di estasi costellano questa via diretta, il c ui fine è il risveglio." "È lo stato in cui, secondo il buddhismo, ci è data una conoscenza perfetta di tutte le cose?" "Sì, fin nel minimo dettaglio. Secondo la tradizione tibetana, questo to che può condurci attraverso l'esperienza all'origine del mondo difficile. Suppone che il nostro spirito si sia sviluppato e affinato alto grado di sottigliezza, che lo strappa ai cicli temporali. Alcuni ancora viventi hanno conosciuto questi momenti."

accesso diret è estremamente fino al più miei amici

"Ci si ricorda allora di una vita passata?" "Non di una vita, ma di centinaia, di migliaia di vite. Ogni ostacolo, ogni velo del pensiero svanisce. Lo spirito non può essere nato se non dallo spirito. Di co nseguenza lo spirito sottile non può aver avuto inizio. Quando la coscienza sottil e appare in tutta la sua evidenza, i problemi non si pongono più allo stesso modo , l'idea stessa di un inizio scompare." Dogen Zenji, il grande maestro dello Zen, ha raccontato a questo proposito la st oria seguente: Un prete (di chiara fama) si faceva vento. Si avvicinò un monaco e gli domandò: "La natura del vento è permanente, e non v'è alcun luogo che il vento non raggiunga. Allora perché dovete ugualmente farvi vento?". "Anche se comprendi che la natura del vento è permanente," rispose il maestro "non comprendi il significato della sua presenza ovunque." "Qual è il significato della sua presenza ovunque?" domandò il monaco. Il maestro si accontentò di farsi vento. Il monaco si inchinò con profondo rispetto. In altre parole, così lo spiega Dogen Zenji: "Coloro che sostengono che non si dov rebbe usare un ventaglio perché il vento è permanente, e che si dovrebbe conoscere l' esistenza del vento senza usare un ventaglio, non conoscono né la permanenza né la na tura del vento". Mistero, profondità e limite della conoscenza: il risveglio la dà interamente, ma se nza che possa veramente trasmettersi, se non con un gesto come quello del ventagli o. I maestri buddhisti raccomandano di non praticare il buddhismo nella speranza di ricevere la conoscenza in compenso. Sarebbe un passo falso. Il risveglio non è necessariamente dato a colui che crede di averlo meritato. Alcuni lo raggiungono e altri no. In ogni modo (sempre Dogen Zenji): "I limiti del conoscibile sono i nconoscibili". Tutti questi riferimenti girano inutilmente nella mia testa mentre cerco di "com prendere" sapendo che è cosa impossibile quel che mi dice il mio interlocutore , che mi parla nel contempo dello spirito sottile, della reincarnazione e dell'or igine del mondo. Un legame esiste fra questi tre concetti, ma rimane per me abba stanza oscuro. In uno dei suoi libri, il Dalai Lama ha risposto alla domanda: che cosa rinasce? La sua risposta è l'io, al che il suo interlocutore, giustamente stupito, replica di non sapere cosa sia questo "io". "Se rinasco," dice "non so di essere io. Non mi ricordo più cosa fossi prima. Chi sono?" Nella sua risposta, il Dalai Lama fa notare che, anche in questa vita, possiamo ricordarci di alcune esperienze e dimenticarci di altre. A maggior ragione quando si tratta di altre esistenze. "Nulla permette di assicurare" mi dice " che potremmo ricordarci un giorno di que l che abbiamo

vissuto, delle nostre azioni, delle nostre emozioni, degli oggetti che ci hanno circondato. Il fatto che non ci ricordiamo di nulla non permette in alcun modo d i concludere che "non ero io", che sono ora un essere nuovo, unico nella storia del mondo." "Perché la stragrande maggioranza di uomini e donne non si ricorda di nulla?" "Perché, al momento della morte, il livello della coscienza, cioè lo stato intermedi o ove essa si trova fra una vita e un'altra vita, diventa più sottile. È a questo l ivello sottile che si aggrappano, per passare in un'altra vita, i ricordi della vita precedente. Ma per debolezza, per mancanza di slancio, di concentrazione, la maggior parte degli individui resta a livello dello spirito cosciente, che noi d efiniamo grossolano." "Coloro che hanno qualche esperienza della coscienza più profonda hanno dunque mag giori possibilità di ricordarsi delle loro vite passate?" "Sì, senza alcun dubbio." "Se comprendo bene, questa coscienza sottile esiste indipendentemente dal corpo e dal cervello?" "Sì. È legata all'apparizione della coscienza nell'essere umano, ed è sempre presente, sussiste anche quando altri livelli della coscienza sono cancellati." "È dunque indistruttibile?" "In un certo senso. E questa è la ragione della sua reincarnazione. Per ritornare al Big Bang, diciamo all'origine del mondo, si può anche pensare che questo spirito sottile, di una forza ineguagliabile, sia il principio creatore primario." "Il Buddha Sakyamuni, suppongo, ha colto questo spirito sottile?" "Ne era una manifestazione. Benché nato come un principe e vissuto come un mendica nte, sotto gli occhi di migliaia di persone, la sua vita manifestata in quel modo assomigliava un po' a un ruolo. Questo ruolo l'ha rivestito per il t empo di una vita umana, per venire in nostro aiuto. Ma il suo spirito sottile, anc or prima della sua nascita, aveva già eliminato ogni ostacolo alla visione perfett a." Sembra giunto il momento di parlare dei "tre corpi". Questo stato sottile dello spirito (jnanadharmakaya), dotato di una conoscenza totale e causa prima delle co se, è in qualche modo circondato da un corpo ugualmente sottile, che noi non possi amo percepire nello stato attuale della nostra coscienza. Il nome di questo corp o sottile, che esiste in quanto tale fino alla fine del samsara, è Sambhogakaya, " corpo di gioia" o "di beatitudine". È da questo corpo di gioia che proviene il "cor po di manifestazione" (Nirmanakaya), che, come dice il nome, si manifesta in div ersi esseri e senza dubbio in diversi mondi Senza l'esistenza del "corpo sottile", lo spirito sottile, entrato nel nirvana, p otrebbe correre il rischio di non manifestarsi più , di dimenticarci nella nostra sofferenza. Proprio per questo, all'interno del Mahayana le cui speculazioni me tafisiche hanno assai largamente sorpassato la dottrina dell'hinayana questo corp o sottile diventa quello del bodhisattva intercessore e compassionevole. A sua v olta, questo bodhisattva assume una forma manifesta, concreta, umana, come quell a dell'uomo col quale parlo da qualche giorno. A tratti, mentre cerco di seguire la dotta e logica complessità di questa costruzi one dello spirito da parte sua, mi tornano in mente proposizioni e domande della scienza di oggi. Questa scienza riconosce nell'universo l'esistenza di quattro fo

rze fondamentali e continue, la forza di gravità, che governa i movimenti dei corpi nello spazio, la forza elettromagnetica (unificata a partire dal XIX secolo), e due forze nucleari, che reggono la coesione della materia e i movimenti delle par ticelle, la forza nucleare forte e la forza nucleare debole. È così viva la nostra attrazione verso l'unità, verso la spiegazione globale, che un g ran numero di scienziati sogna di unificare queste quattro forze. Questa forza un ica, perpetuamente intatta e dipendente solo da se stessa, ricorda come un sogno di oggi l'antica intuizione buddhista dello spirito sottile, inalterabile, causa p rima di tutte le cose e di conseguenza di se stesso. A parte questo, il buddhismo unisce indissolubilmente a questa forza che, benin teso, è fondamentalmente neutra e sprovvista di sentimenti una dimensione di compa ssione naturale che cercheremmo invano nella gravità, nell'elettricità o nell'energia nucleare. Il Dalai Lama mi indica altre manifestazioni dello spirito sottile: "Ad esempio la conservazione del corpo dopo la morte clinica. Così, il corpo del m io tutore rimase intatto tredici giorni prima di incominciare a decomporsi. Un al tro lama, uomo eccezionale, poté conservare il proprio corpo integro per diciasset te anni". "Come lo spiega?" "Per l'alta qualità dello spirito sottile, che è sempre presente e la cui forza è tale da conservare l'integrità del corpo. Si vede anche talvolta sul viso del defunto così è stato per il mio tutore una maggiore luminosità e serenità. L'ultimo giorno di q uesta specie di sopravvivenza, si vede comparire un po' di liquido, e allora iniz ia la decomposizione. Questo liquido è il segno della partenza dello spirito sotti le." "In cerca di un altro corpo?" "Sì." "È dunque lo spirito sottile che si reincarna?" "Si, ma questo spirito, bisogna ripeterlo, noi non lo chiamiamo atman. Non è l'ani ma, come dite voi, a essere eterna per sua essenza. Noi non riconosciamo alcuna e ssenza particolare, alcuna entità indipendente e stabile unita all'individuo. La no stra coscienza è in perpetuo cambiamento. Nulla è permanente, nulla può trasmettersi sen za profonde modificazioni." "Lei ha detto che la morte, processo normale e inevitabile, è per lei un cambiamen to di abiti vecchi e logori, piuttosto che una vera fine." "Esatto. E se vogliamo morire bene, dobbiamo imparare a vivere bene. L'esperienz a della morte è per noi di estrema importanza, perché lo stato del nostro spirito in quel momento può decidere della qualità della nostra futura rinascita Possiamo anch e, al momento della morte, fare uno sforzo particolare. La meditazione può raggiung ere un vertice ineguagliato, il cui effetto si manifesta attraverso la conservazio ne del corpo. D'altro canto, la speranza di ogni vero buddhista è quella di morire prima del proprio maestro, per essere tranquillizzato e guidato da lui nel momen to estremo." È consuetudine, fra coloro che credono in un'altra vita o in altre forme di vita, c riticare severamente l'atteggiamento materialista, predominante in Occidente, che crede, secondo ogni apparenza, che la morte sia la fine della vita, in ogni cas o di una vita, della nostra vita. Questo atteggiamento, mirabilmente descritto d

a Montaigne in un capitolo degli Essais, condurrebbe a un comportamento brutale, egoista, senza alcun pensiero per il domani e l'avvenire della terra. Questa critica, che talvolta giunge da parte di buddhisti, mi è sempre parsa superf iciale. Oltre al fatto che nulla permette di dire che coloro che credono solo in questa vita non si preoccupino in alcun modo della terra che lasceranno ai loro figli (fino a prova contraria la religione cristiana ha raramente rivolto l'atte nzione alla sorte del pianeta e, a causa del suo rifiuto di ogni limitazione del le nascite, contribuisce anche alla sua distruzione), si può trovare, nei confini s tessi della vita umana, che va dal nulla al nulla, la ragione prima della sua di gnità e della sua bellezza. D'altro canto mi rendo conto chiaramente, e molti sono coloro che l'hanno sottol ineato prima di me, che nella tradizione buddhista, che afferma di poggiare sull 'esperienza e sulla constatazione dei fatti, questa minaccia di una rinascita in corpi inferiori, persino animali e anche esseri infernali, stia come il bastone del gendarme, per esortarci a tenere un migliore comportamento proprio in quella vita che ci è assegnata. Sappiamo quali difficoltà incontra la costruzione di una mora le civile, questa morale laica che il Dalai Lama stesso auspica così frequentemente. Forse abbiamo ancora bisogno almeno quella parte fra noi che non può accettare l 'idea, tuttavia molto semplice, di una morte totale e definitiva (salvo le nostr e particelle elementari, che si ricomporranno) di questa paura di un castigo i n un qualche inferno, o di una ricompensa accordata per sempre. Preferisco non aprire questa discussione, di cui mi sembra che possiamo già dire i risultati. Reputo più interessante proseguire sul cammino buddhista, ove la vita e la morte sono concepite come un tutto. La morte e più precisamente il passag gio, il bardo, che conduce da una vita a un'altra vita è sovente avvertita come lo specchio ove la vita intera si riflette. Così, la morte si impara durante la vit a. Vivere bene, è imparare a ben morire, per meglio rivivere. Il santo poeta Milar epa lo esprimeva così: "Questa cosa chiamata cadavere, e che ci fa così paura, vive con noi, qui e ora". "Abbiamo paura di morire, dice il Dalai Lama, perché non conosciamo né il giorno né l' ora. Perché la morte ci può sorprendere a ogni istante Poiché temiamo il dopo morte, tem iamo di ritrovarci in un luogo spiacevole e sconosciuto, colmo di angoscia." "Anche i buddhisti?" "Certo. Non dimentichi che la necessità di rinascere non è considerata come una ricom pensa. Al contrario. Sto tentando di spiegarle che la reincarnazione, che è una sce lta, è profondamente legata a un certo livello della vita dello spirito. Se questo livello è raggiunto, lo spirito sottile che abbiamo sviluppato ma che è solo una pa rte del nostro essere può scegliere la sua prossima destinazione. È dunque un passo verso la liberazione, un miglioramento possibile. Senza questa scelta, la rinasc ita è un ricadere nel samsara." "La reincarnazione può avvenire in altro luogo che non sia la terra?" "Sicuramente. Su un altro pianeta, e anche in un'altra galassia. La nobiltà dello spirito può estendersi all'infinito. È uno dei nostri insegnamenti fondamentali." "E lo spirito può trasformarsi?" "Lo può e lo deve. Può liberarsi delle impurità che lo contaminano ed elevarsi fino al più alto livello. In partenza abbiamo tutti le stesse capacità, ma alcuni le svilup pano, altri no. Ci abituiamo molto facilmente alla pigrizia dello spirito, tanto più facilmente quanto più questa pigrizia si nasconde sotto un'apparenza di attivi tà: corriamo a destra e a manca, facciamo conti, telefoniamo. Ma queste attività non mettono in opera che i livelli più elementari e più grossolani dello spirito. Ci

nascondono l'essenziale." "Perché lo spirito è legato al corpo?" "Perché tutto quel che cambia deve avere una sostanza. Quando parliamo dello spiri to, sappiamo bene che non si può né vederlo, né misurarlo. Ha bisogno della nostra for ma materiale, che ci giunge dai nostri genitori, secondo le leggi dell'ereditari età. Questa sostanza è organizzata dai cromosomi, credo. Lo spirito rappresenta l'ene rgia sottile e inafferrabile, che prende il corpo come sostanza. Al suo più alto l ivello, come ho detto, questo spirito non può sparire. Viene allora considerato co me una forma di saggezza. È il maestro interiore, il supremo guru. Ha superato lo s pazio e il tempo." Mi rammento a questo proposito una nota storia cinese, che non è sfuggita a Borges : Il Buddha disse un giorno alla scimmia, animale ritenuto astuto e intelligente: "Facciamo una scommessa. Se con un balzo puoi uscire dal palmo della mia mano, t i donerò il trono dell'Imperatore di Giada". La scimmia radunò tutte le proprie forze e fece un enorme salto. La si perse di vi sta. Cadde in un luogo ove si alzavano cinque colonne rosa e credette di essere giunta ai confini dell'universo. Allora si strappò un pelo, lo intinse nell'inchiost ro e scrisse alla base della colonna di mezzo: Il Grande Saggio, colui la cui con oscenza è vasta come il cielo, è giunto fin qui Con un altro balzo ritornò al suo punto di partenza e disse al Buddha: "Ho saltato, sono uscita dalla tua mano, ora sono ritornata. Dammi il trono prome sso". "Tu non sei uscita dal palmo della mia mano" le rispose il Buddha. "Guarda bene. " La scimmia abbassò gli occhi, guardò il palmo della mano e, alla base del medio, les se questa frase: Il Grande Saggio, colui la cui conoscenza è vasta come il cielo, è giunto fin qui. Domando al mio ospite: "E se un giorno la scienza provasse che la reincarnazione non esiste?". "Se lo provasse davvero, dovremmo abbandonarla. E lo faremo. Ma per ora, ai nostr i occhi, la rinascita e la reincarnazione sono realtà, come gli atomi sono realtà. Se alcuni non credono che la rinascita sia una realtà, consideriamo il loro un atteg giamento ignorante." "Non è dunque una fede?" "No, è un fenomeno fisico. Secondo le nostre scritture, particelle sottili esistev ano nello spazio prima del Big Bang. Sono sempre presenti. Queste particelle spiri tuali, che costituivano degli esseri, hanno dato vita al Big Bang. Perché? Come? N on possiamo rispondere." "L'universo è eterno?" "Un universo particolare può esistere e sparire. Cicli immensi possono succedersi. Ma l'universo nel suo insieme, l'universo spirito, c'è sempre." Mostra un mazzo di fiori nella stanza e dice ancora:

"La natura del Buddha esiste in tutte le cose. Ma non possiamo conoscere tutto. Così, non sappiamo se questi fiori possano provare piacere o dolore". Gli narro allora che, nella mia infanzia, ho visto mio nonno, piccolo contadino del Midi francese, piantare in un angolo del suo giardino due piante di pomodori simili, nella stessa terra. Ad ogni pianta dava ogni giorno la stessa razione d'acqua. Ma si soffermava sulla prima, la acc arezzava, le parlava con amore, le rivolgeva mille complimenti. Non concedeva al cuna parola, alcuna attenzione all'altra. "Ogni anno ci mostrava come la prima pianta portasse pomodori più numerosi e più b elli della seconda. Forse mio nonno imbrogliava? Voleva farci credere di essere un simpatico stregone? Non l'ho mai saputo." "Bisognerebbe andare più lontano" mi risponde. "Sapere ad esempio se queste reazio ni provengono dalla pianta stessa, o da qualche essere invisibile." Questa miriade di buddha, questa estrema dissoluzione in ogni cosa di una qualità inalterabile, è un tema che il buddhismo ha illustrato in mille modi, con la specu lazione, con la grafica di alcuni mandala, con la poesia, anche con l'aneddoto. S i racconta in Cina che un monaco entrò in un tempio e sputò su una statua del Buddha . Siccome lo rimproverarono, disse: "Vi prego, mostratemi un luogo in cui non vi sia il Buddha". Il Dalai Lama riprende la parola e dice allora, come per concludere: "Noi crediamo che esista una coscienza sottile, e che essa sia la fonte di tutto quel che chiamiamo la creazione. In ogni individuo, la coscienza sottile dimora dall'inizio del tempo fino all'accesso alla buddhità. È quello che chiamiamo essere (being). Questo essere può prendere differenti forme, animali, uomini ed eventualm ente buddha. È la base della teoria delle rinascite. Lo spirito sottile, nel lungo succedersi dei secoli, di forma in forma, cerca necessariamente la buddhità. Quando raggiunge in un individuo un alto grado di qualità, sceglie la propria successiva f orma. Ecco la reincarnazione". Anche se le nostre tradizioni, religiose o filosofiche, ci impediscono sovente d i aderire a questo pensiero, anche se esso ci resta estraneo, anche se ci manca, p er lo più , l'esperienza diretta della reincarnazione, non si può che ammirare questa visione veramente grandiosa. Torno per un momento alla petizione surrealista, a q uesta "libertà dello Spirito nello Spirito", speranza suprema. Il buddhismo si spi nge il più lontano possibile nella ricerca della più alta forma di questo mistero che è lo spirito. Per riprendere il titolo del poema cinese che ho già citato, tutto il buddhismo è una "iscrizione sulla fiducia nello spirito". Rifiutando di annient arlo, è andato al di là dello stesso mondo. Un altro modo di parlare di questo stato di conoscenza suprema, fine di ogni bud dhista praticante, è l'espressione, per certi versi assai misteriosa e decisamente lontana da noi, di Tathagata. Il termine significa "Colui che è giunto in un certo luogo" o "da qualche luogo", secondo le interpretazioni, e si applica a diversi g randi personaggi, fra i quali Sakyamuni. Possiamo cercare di coglierne il senso partendo dal termine tathata, che signifi ca "il fatto di essere così". Questa parola si traduce talvolta, nelle lingue occi dentali, con barbarismi del tipo "ainsité" oppure "suchness". Ancora una volta, le parole sono un freno e una maschera. Questo "fatto di essere così", è la suprema semplificazione. Lo spirito raggiunge un a qualità tale da dimenticare se stesso. Nulla separa l'essere particolare da se st esso, o dalle cose. È così, è quello. È assimilato al resto del mondo, senza riflessione , senza dubbio e senza distanza. Questa assimilazione è naturale. Il beneficiario p

uò anche non notarla. Come dicono numerosi koun del buddhismo zen, è sufficiente, per raggiungere la ver ità suprema, preparare correttamente il tè, o agitare un ventaglio quando fa caldo. Alcuni viaggiatori incontrano un vecchio che si sposta, nelle acque impetuose di un torrente, con una stupefacente facilità. Salta di pietra in pietra, nuota nei g orghi e tra le cateratte là dove nessun atleta ventenne s'arrischierebbe. Quando gli si domanda il suo segreto, non capisce la domanda. Vive vicino a questo torr ente fin dall'infanzia e non vi fa caso. È diventato la roccia scivolosa, l'acqua v orticosa. Non può più distinguersi da esse. Rileggendo i miei appunti, mi accorgo che abbiamo parlato molto raramente degli dèi: appena qualche fugace allusione. Il buddismo, e più particolarmente il buddismo tibetano, ha tuttavia riconosciuto e moltiplicato le forme divine, a l punto da contarne ancor più del brahmanesimo. Gli dèi sono raggruppati in società e il Dalai Lama stesso ne elenca qualcuna in uno dei suoi libri. La distinzione fondamentale si opera fr a gli dèi "mondani", cioè collegati alle forme del mondo (il sole, la luna, una font e) e gli dèi "extra mondani", che si sono staccati dalle forme sensibili. Queste due categorie si dividono ancora, e Si suddividono. Tutt e queste divinità, i cui caratteri dominanti sono sovente ereditati dal brahmanesimo, non sono ne cessariamente benevole. Alcune possono essere temibili, come la terribile Marici , che si presenta con una testa di leonessa ed è la sposa del re degli inferi. Un'altra dea, Lhamo, che porta gli attributi dell'ind iana e sanguinaria Durga, è al contrario compassionevole e rassicurante. Ci proteg ge dai demoni, anch'essi molteplici, confusi. Tutte queste immagini di divinità, q uesta costellazione di dei, può servire di supporto alla preghiera, alla meditazio ne. A dire il vero questo vale soprattutto per gli strati più popolari. Man mano c he lo spirito si eleva nella percezione di se stesso, guardando all'interno inve ce di smarrirsi all'esterno, percepisce questa infinità di forze e di forme, per ri prendere un'espressione di Maurice Percheron, come "Io sfavillio di un unico dia mante". A poco a poco si rivela l'unità, questa unità inconcepibile, e che tuttavia può essere colta nell'elevata sottigliezza dello spirito. Sembra che, adattandosi con elasticità al movimento quasi inafferrabile del tempo, il buddhismo contemporaneo, al suo livello più puro, abbandoni a poco a poco i co ncetti e le forme antiche, come un viaggiatore che si sbarazzi di accessori dive ntati superflui. Così si allontanano, ma senza fretta, senza rinnegamento, senza r ivoluzione, le superstizioni di un tempo, le avventure mitologiche di dèi e dee, l e credenze inutili e anche oscure, tutto quello che potrebbe passare per sovrann aturale, cioè per esteriore. Al loro posto si impone lo spirito, uno spirito creatore, capace di elevarsi e f requentatore dell'eternità. Secondo gli insegnamenti più raffinati (e più difficili) del tantrismo, questo spirito, sbarazzatosi di ogni inutile bagaglio, vede tutta la verità in questo mondo e nella percezione che ne abbiamo. Inutile, come voleva il Mahayana tradizionale, cercare al di là di questo mondo, in una foresta di invi sibili. Tutto è qui. Il nostro sforzo deve tendere a ricercare la purezza dell'appar enza, cioè i fenomeni che racchiudono ogni verità come messi a nudo, rivelanti l a loro vera natura. Lo spirito diventa così la sua propria macchina, luce e specchio. Le divinità che si possono invocare hanno perso ogni esistenza separata, non sono che

delle espressioni della vera natura di ciò che è. Si può anche considerarle contraddittoria come prolungamenti del nostro pensiero.

cosa non

Come ha scritto un maestro tibetano, Chogyam Trungpa, questo lavoro dello spirit o è "una delle intuizioni più avanzate, più acute e più straordinarie mai sviluppate. È insolito e originale. È potente, magico e oltraggioso. Ma è anche estremamente semp lice". Resta da domandarsi e i maestri del pensiero buddhista non hanno mancato di fa rlo se lo spirito stesso non sia in ultima analisi un'illusione, l'illusione sup rema. Abbiamo già ricordato questa autoesaltazione dello spirito. Che esso si dia u n nome e che si analizzi non prova in alcun modo la sua esistenza (contrariamente all'affermazione di Cartesio). Può benissimo darsi che sia solo uno degli attributi della grande rete della Maya, o anche la rete intera, l'illusione che avvolge t utti, anche gli dei e forse anche i buddha. Ma questa è un'altra avventura. Pur prendendola in considerazione, perché tutto va c onsiderato, il buddhismo generalmente la rifiuta. Esitante fin dall'origine fra la tentazione del gioco che potrebbe chiamarsi il gioco del nulla, questo gioc o ove lo spirito, per la sua agilità stessa, finisce per perdere ogni supporto e p er riconoscere "io sono colui che non è" e la necessità di una morale quotidiana i n questa vita relativa e sofferente che non possiamo evitare, il buddhismo ritorn a sempre all'aspetto pratico, persino pragmatico. Ci indica come vivere. E sogna una landa segreta, dove la luce e il vuoto hanno cominciato, e finiranno, per co nfondersi.

E PER FINIRE, IL VUOTO Le scritture fondamentali del Mahayana costituiscono un centinaio di volumi. Una parte di queste scritture porta il nome di Prajnaparamita. La prajna è una qualità che tutti abbiamo, che di solito sonnecchia ma che possiamo risvegliare. Il più delle volte si traduce questa parola con "saggezza", ma pare inesatto. Si tratta piuttosto di una predisposizione alla saggezza e al risveglio , che possiamo mettere all'opera o lasciare dormire. La Prajnaparamita è il compimento della prajna, l'arrivo alla meta. Una frase, che si attribuisce al Buddha stesso e che viene detta "la grande liberazione", "il mantra senza eguali", dice così: "La forma non è che vuoto, il vuoto non è che forma". Oppure, secondo altre traduzioni: "Là dove c'è la forma, c'è il vuoto, e là dove c'è il vu oto, c'è la forma". Domando al mio ospite: "Posso sperare di comprendere un giorno questo mantra?". Dapprima ride sonoramente. Poi riconosce che il vuoto, sunyata, fra le quattro n ozioni buddhiste fondamentali (le altre tre sono la transitorietà, l'interdipenden za e la sofferenza), è certamente la più misteriosa, la più difficile da cogliere. C he cosa è dunque questo immenso edificio di esperienza del pensiero che non si apr irebbe alla fine se non su un'assenza di sostanza? Quali sarebbero i fondamenti di questo edificio dello sp irito che l'ha costruito? Se il vuoto è la sola realtà a non essere illusoria, a sfu ggire alla rete della Maya, chi ha teso questa rete? Si può vivere in una vertigine ? Immaginare un sogno senza il sognatore?

Il Dalai Lama mi risponde dapprima che il vuoto è una nozione scientifica: "Lei stesso l'ha detto. Noi siamo vuoti, la materia che ci compone è, per così dire, vuota". "È vero, il nucleo di ogni atomo, se è ancora possibile parlare di dimensioni a quest a scala, è infinitesimo rispetto all'atomo stesso. Un granello di riso, l'abbiamo de tto, sotto la cupola della basilica di San Pietro. Lo stesso per l'universo. Se t utta la materia nucleare di miliardi e miliardi di galassie si disperdesse nella d istesa dell'universo, la densità di questa materia sarebbe ridotta praticamente a nulla. Qualche particella per metro cubo. Impercettibile." "Vede bene." "Ma suppongo che la concezione buddhista del vuoto non avesse, per Nagarjuna, un punto di partenza scientifico." "E perché no? Vi è più di una strada che porta alla conoscenza. E talvolta queste str ade si incontrano." "Si può parlare del vuoto senza parlare nel vuoto?" "Lo credo. E bisogna precisare anzitutto che il termine "vuoto" non vuole dire " nulla". A torto alcuni commentatori hanno accusato il buddhismo di "nichilismo". Il mondo, di cui facciamo parte, non è un essere in sé, né un insieme di esseri. È una f luidità. Una corrente di stati. Questo non significa che sia nulla." "Dire "non sono" non significa dire "sono niente"." "Assolutamente. E questo si spiega così: tutte le cose dipendono da altre cose. Nu lla esiste separatamente. Credo d'altra parte che su questo punto la scienza contemporanea proceda sulla nostra stessa strada." "Sono d'accordo. Essa pone più spesso l'accento sulle relazioni tra i fenomeni, p iuttosto che sui fenomeni stessi." "Noi diciamo così: a causa di tutte le influenze che ricevono, le cose appaiono, e sistono e scompaiono. Incessantemente." " In una corrente continua." "Ma esse non esistono mai di per sé. Questa mano, ad esempio..." Apre la mano, palmo in su, la pone sotto i miei occhi. "... dà un'impressione di solidità, di coerenza. Offre allo sguardo una forma precis a. Ha tutte le apparenze di una entità." Tocca ora le diverse parti della propria mano, il palmo, poi le dita, poi le fal angi. "Ma se mi interrogo sul serio, se mi domando: in fondo, che cos'è la mia mano? È que sto dito? È questa parte del dito? No, non posso che rispondere: il dito è il dito, n on è la mano. Ma a sua volta è un insieme di falangi? No, perché posso scomporlo in fa langi e non studiare, guardare, denominare se non ognuna di queste falangi." "D'altronde perché fermarsi alle falangi?" "Naturalmente! Posso scendere sempre più profondamente all'interno di questa mate

ria che è qui senza mai incontrare veramente la mia mano." "Tuttavia, lei si serve della sua mano." "È qui per questo. E ne sono molto contento. Questa combinazione di elementi diver si, ciascuno dei quali si scompone e che, insieme, si riuniscono, la chiamiamo " una mano". È molto semplice. La definiamo così per un consueto procedimento dello spi rito. È ciò che noi chiamiamo realtà relativa." "Che dipende da elementi diversi da se stessa?" "Esatto. Perché nulla esiste senza una causa. La natura profonda di questa mano è qu ella di appartenere a tutta una trama di influenze, di cui nessuna è duratura." "Perciò questa mano cesserà un giorno di essere la sua mano." "Non lo sarà stata che per un periodo molto breve, se la si rapporta all'età del mon do. Un momento fuggente, quasi inafferrabile. Siamo tutti convinti di vivere indi pendenti gli uni dagli altri, che questa mano, questo foglio di carta abbiano un 'esistenza separata." "Il nostro spirito ha bisogno di scomporre e di denominare. Non può accontentarsi di una visione complessa e confusa del mondo." "Visione complessa che bisogna tuttavia ammettere e cercare di cogliere. Senza qu esto scegliamo di rimanere nell'illusione. Se ogni essere vivente, se ogni oggett o godesse di un'esistenza indipendente, nessun altro fattore potrebbe influenzar la. Le relazioni di cui lei parla non esisterebbero. Ora, noi vediamo che queste i nfluenze, queste relazioni sono molteplici e incessanti." "La mancanza di un'esistenza indipendente, è dunque questo che lei chiama "vuoto"? " "Precisamente. La forma è dunque '`vuoto", cioè non separata, non indipendente. Ques ta forma dipende da una molteplicità di altri fattori. È la realtà relativa." "E perché il vuoto è forma?" "Perché ogni forma si sviluppa in questo vuoto, in questa mancanza di esistenza in dipendente. Il vuoto non esiste se non per portare alla forma Non può essere altrim enti. Il vuoto senza la forma non ha senso." Così il foglio di carta sarebbe vuoto. Vuoto, cioè pieno. Pieno di tutto il cosmo. Nella tradizione tantrica del Vajrayana, del "veicolo di diamante", si vede pers ino sparire la distinzione fra realtà assoluta e realtà relativa, fra il "non nato" e il "nato" o, se si preferisce, fra l'essenza e l'esistenza. La verità definitiva e invalicabile può esserci data nel mondo dei sensi, dalla tecnica chiamata di "v isualizzazione sacra". Essa raggiunge il tathata, l'evidenza. I fenomeni cessano di apparire come fenomeni, davvero il problema dell'ignoranza e della distinzio ne non si pone più , tutto ci è dato da questa percezione superiore, nulla dev'esser e cercato oltre. L'unità si impone. È lampante. Nulla separa allora il vuoto e la luce. Veniamo ora ed è quasi inevitabile al delicato concetto di "virtualità" che, da una decina d'anni, si insinua e prende posto persino nell'espressione scientific a, mentre invade le recenti fabbriche di immagini. Rifiutando di ammettere la creazione di un mondo a partire dal nulla, ex nihilo, perché in questo caso il fisico non avrebbe in fondo nulla da dire di fronte all'a ssenza di materia, alcuni scienziati contemporanei più arditi, come Michel Cassé, pa

rlano di un "coraggio davanti allo zero"' e semplicemente rifiutano il nulla. Di stinguono nettamente il vuoto metafisico, o nulla, puro concetto dello spirito, dal vuoto quantico, che vedono popolato da una infinità di "virtualità". Questo vuoto non è "nulla". Suppone l'esistenza di un campo, ma questo campo ci sf ugge, non è individuabile. Possiamo vederne gli effetti, perché collega fra loro le particelle reali, e ci sembra anche in movimento, ma non possiamo osservarlo. È pe r questo che lo chiamiamo vuoto, mentre è pieno. Pieno di virtualità della materia. Per giungere all'esistenza apparente, le unioni di particelle virtuali non atten dono che un'attivazione, e il fatto stesso di osservarle può giocare un ruolo determ inante. Siamo così molto vicini all'assenza di dualità fra l'osservatore e l'osser vato molte volte ripetuta nella storia dell'induismo e del buddhismo. "Per semp re inseparabile dalla cosa che vede è la cosa vista": così diceva, nel XVI secolo, Ku n Khyen Pema Karpo. Michel Cassé, astrofisico, giunge a dire che "la conoscenza dello stato del vuoto è diventata una condizione necessaria per la costruzione di un modello coerente di natura". Vede questo vuoto come "una cosa piena e con un destino" e lo pone "al vertice cosmico e logico del problema delle origini". Scrive anche, nelle ultime pagine del suo libro: "Essere nel vuoto, è essere a casa propria". Nessun insegnante buddhista vi troverebbe nulla da ridire. Per il momento sono abbastanza rari i fisici che si avventurano su questo terren o. La maggior parte preferisce attenersi alla materia così come ci appare. E quest a materia sembra serbare ai loro occhi il suo senso tradizionale: qualcosa di so lido, di pesante, in sintesi, qualcosa di pieno. Il Big Bang sembra loro il limi te rigoroso al di là del quale nulla può essere detto, né pensato, né immaginato. Davver o è difficile considerare la materia come vuoto, come se si fosse, a poco a poco, d opo secoli di osservazione, praticamente smaterializzata. È qui, forse, che l'elasticità del buddhismo può aiutarci ad accettare quello che noi stessi abbiamo scoperto, e che le parole consuete non ci permettono di dire. Tuttavia il Dalai Lama mi fa notare: "Quando abbiamo denominato le cose, allora possiamo dire che dipendono dal nostr o spirito. Così il Big Bang, come la materia, dipende forse dal nostro spirito". "E anche da un bisogno del nostro spirito." "Fa così dunque parte della realtà relativa. Lo chiamiamo oggi il Big Bang. Domani g li daremo senza dubbio un altro nome. Non lasciamoci imprigionare da concetti for mulati con parole. Gli uni e le altre sono effimeri. Accettiamo il vuoto con un sorriso e, poiché tutto dipende dal nostro spirito, confidiamo nel nostro spirito. " Mi ricorda che questa fiducia, evidentemente, non deve essere cieca. Il buddhism o dispone, a questo proposito, di un immenso arsenale di precauzioni, per difend ere lo spirito dallo spirito, e per condurlo al proprio vertice. Il passo suprem o porta alla scomparsa dello spirito, dei demoni, del Buddha stesso. Il vuoto è la grande meta. Quando la verità ultima è raggiunta, ha cantato Milarepa, Non c'è chi medita, né oggetti su cui meditare, non vi sono segni di compimento, non tappe, né vie da percorrere, non sapienza ultima, non corpo del Buddha. Anche il nirvana non esiste. Tutto questo non è che parola, modo di dire. Inutile pretendere di cominciare da questa scomparsa, idealmente sperata, da ques to accesso alla pienezza del vuoto. Se la proclamassimo come prima cosa, non ci c

ondurrebbe che allo scoraggiamento solitario, frutto del nichilismo, o alla viole nza disordinata dell'egoismo: giacché nulla esiste, giacché non sono controllato da a lcuna autorità superiore, perché non abbandonarmi agli istinti più rapaci? "Una cosa non può essere messa in dubbio," mi dice per concludere il Dalai Lama "c ioè che esiste in noi la possibilità di una qualità. È la prajna. Possiamo negare tutto, tranne questa possibilità che abbiamo di diventare migliori. Riflettiamo sempliceme nte su questo." Mi afferra le mani e le tiene a lungo nelle sue. Mi guarda sorridendo. Come ogni conversazione, anche questa ci conduce al silenzio. Fine.

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