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October 4, 2017 | Author: Anonymous m2wQfyR | Category: Four Noble Truths, Meditation, Truth, Major Depressive Disorder, Feeling
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Sulla motivazione CORRADO PENSA

Discorso tenuto a Pomaia il 2 giugno 2006

E DOPO LA “LUNA DI MIELE”? Nel parlare di “motivazione”, si può distinguere utilmente tra una motivazione iniziale e una motivazione più matura. In questa tradizione la motivazione iniziale è detta “fede brillante”, ad intendere qualcosa di “luccicante” ma ancora superficiale. In questo senso, la motivazione iniziale per la meditazione può essere paragonata alla fase di innamoramento, alla luna di miele, caratterizzate da entusiasmo e fascinazione. Può capitare, a volte, che l’incontro con la meditazione e la pratica non vada oltre questa fase iniziale “brillante”, ma superficiale. Nel caso invece in cui questo non avvenga, si entra in una fase successiva: quella della motivazione più matura. Quando la “luna di miele” con la meditazione finisce (ed è necessario ancor più che auspicabile) si apre il confronto con una realtà “diversa” che può condurre a riflessioni buie, a frustrazione: ciò avviene – il più delle volte – perché abbiamo sviluppato attaccamento verso quella fase entusiastica iniziale che – in quanto molto piacevole – volevamo permanente, definitiva. MOTIVAZIONE E COMPRENSIONE Perché la motivazione alla pratica maturi è necessario che si sviluppi satisampajañña, consapevolezza-comprensione. Quando, infatti, non c’è sufficiente comprensione, la

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motivazione tende ad estinguersi. Ma cos’è che va compreso perché la motivazione alla pratica possa nutrirsi e crescere? Il nucleo stesso dell’insegnamento del Dharma, vale a dire le quattro nobili verità. Ajahn Sumedho ci ricorda che il discorso sulle quattro nobili verità, se ben inteso e compreso, rappresenta l’inizio, la metà e la fine del Dharma, è il Dharma. Comprendere le quattro nobili verità significa andare al di là del semplice enunciato “c’è la sofferenza, ci sono le cause della sofferenza, c’è la fine della sofferenza, c’è una via che conduce alla fine della sofferenza (l’ottuplice sentiero)”. Allora: se comprendere le quattro nobili verità vuol dire superare il loro semplice enunciato, può essere utile riflettere sul modo in cui ci si può fermare al solo enunciato, ostacolando e ritardando una reale comprensione. Nel proprio cammino, ad esempio, un praticante può mettere in atto due diverse modalità rispetto alle quattro nobili verità, che equivalgono, in un certo senso, a due diversi modi di “impantanarsi”. In un primo caso, può esservi l’attitudine, anche inconsapevole, a “sezionare”, ossia a fermarsi solo ad alcune delle verità, scartandone altre e tenendole fuori dalla pratica. In un secondo caso, invece, pur accogliendo e integrando nella pratica il lavoro sulle quattro nobili verità nel loro insieme, tale lavoro viene circoscritto esclusivamente al momento della meditazione, rimanendo fuori dalla vita. La prima nobile verità è che c’è la sofferenza. A mano a mano che si procede nella pratica, comincia ad emergere più chiaramente che dukkha, la sofferenza, è qualcosa di molto più ampio di questa o di quella sofferenza particolare: è, al contrario, uno sfondo di angoscia esistenziale, di insoddisfazione cronica e di grande predisposizione all’insoddisfazione, di preoccupazioni ricorrenti, compulsive. Ossia diventa più evidente l’onnipervasività di dukkha, la sua qualità densa e vischiosa. È a questo punto che si comincia a riconoscere dukkha. Nelle scritture viene detto che c’è la sofferenza, ma che

prima di tutto essa va riconosciuta. Ma “riconoscere” è ben diverso da “giudicare”, perché il giudizio – al contrario del riconoscimento – si fonda sull’attaccamento ai nostri concetti, ossia su altra sofferenza. La consapevolezza, invece, è non giudicante, ed è attraverso la consapevolezza che si ha un riconoscimento reale, pulito e strutturalmente sobrio della sofferenza. Un simile riconoscimento è un aspetto importante di quel fondamento della pratica che è l’onestà. Praticare con la sofferenza, allora, è imparare una modalità diversa, data dal riconoscimento onesto di dukkha. Infatti l’onestà, l’assoluta onestà, è qualcosa che va imparata: possiamo essere persone socialmente riconosciute come oneste, ma tessere in realtà con noi stessi una trama fatta di numerose piccole disonestà. Inoltre, pervenire all’assoluta onestà è un’arte, richiede tempo, in quanto spesso le nostre piccole disonestà sono dettate dalla buona fede, e sono inconsapevoli. Come quando, ad esempio, di fronte ad altri si definisce come “rilassato” un proprio stato d’animo leggermente depressivo, e non lo si fa necessariamente per sviare, o dare a tutti i costi un’immagine positiva di sé ma lo si fa in buona fede, appunto, in quanto – all’origine – manca un riconoscimento onesto di quello stato d’animo sofferente. Ma cos’è che, nonostante le nostre migliori intenzioni, ci porta ad essere poco onesti a partire da noi stessi? L’ego in genere. Nel definire “rilassato” un umore un po’ depresso, da qualche parte è in azione l’ego che conclude: “Sono più apprezzabile se sono rilassato”. Inoltre, poiché il Buddha ha detto che c’è la sofferenza e non che tutto è sofferenza, bisogna pervenire a un riconoscimento onesto sia di dukkha, sia di non dukkha. Si tratta di comprendere, poi, che tale riconoscimento non è “una volta per tutte”. È qualcosa che deve essere assimilata, deve entrare gradualmente in circolo, metabolizzata attraverso la pratica: possono cominciare, così, ad emergere (e ad essere riconosciuti) nodi di sofferenza che prima erano nascosti. Riconoscendo dukkha in noi, riconosciamo

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dukkha anche negli altri e ciò può portare a sviluppare empatia verso gli altri, invece di giudizio e critica. La seconda nobile verità è che ci sono le cause della sofferenza. Dopo un riconoscimento, anche se ancora parziale, di dukkha ha inizio una fase di comprensione delle sue cause. L’origine della sofferenza è dentro e non fuori di noi. Pertanto – attraverso la pratica – l’attenzione consapevole, non giudicante, comincia felicemente a spostarsi verso le nostre reazioni alla sofferenza, verso i moti reattivi e le modalità con cui ci aggrappiamo alla sofferenza stessa. Comincia così ad emergere quanto forte sia il nostro attaccamento a dukkha, in tutte le sue forme, e quanto tale attaccamento produca ulteriore dukkha. LE QUATTRO NOBILI VERITÀ E L’ERRONEO APPROCCIO SELETTIVO

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È a questo punto, di fronte alla terza e alla quarta nobile verità, che si affaccia il rischio di mettere in atto quella prima modalità con cui ci impantaniamo nella pratica. Frequentemente, infatti, accantoniamo la terza nobile verità (c’è la fine della sofferenza), estromettendola tout court dalla nostra pratica. Questo perché la fine della sofferenza, la liberazione, il nirváãa vengono spesso etichettati, anche se inconsapevolmente, come “fantascienza”, qualcosa al di là della nostra portata. Allo stesso modo rispetto alla quarta nobile verità (c’è una via che conduce alla fine della sofferenza) può emergere la tendenza a prendere quello che ci piace e a scartare quello che non ci piace. La quarta verità è il cammino, l’ottuplice sentiero: retta comprensione, retta intenzione, retta parola, retta azione, retti mezzi di sussistenza, retto sforzo, retta consapevolezza e retto raccoglimento. Del cammino, ossia di questi otto fattori, prendiamo una parte, ad esempio il retto raccoglimento, perché ci piace la concentrazione, sentiamo un certo “feeling”. Ecco come delle quattro nobili verità abbiamo compre-

so un po’ le prime due, scartata la terza e “sezionata” la quarta, prendendone solo un frammento. Se siamo approdati al cammino dharmico dopo la ricerca e l’esperienza di diversi approcci spirituali (magari inflazionati), e nel Dharma ci sembra finalmente di non vedere ripudiati i nostri stati d’animo depressivi e sofferenti, può essere che ci si cominci ad adagiare in questa modalità per cui scartiamo quello che non va in direzione della sofferenza, con il risultato che possiamo continuare a soffrire ma con ottime credenziali: soffriamo e coltiviamo il Dharma! E le cose non sembrano andar bene… Come mai? Perché ci siamo impantanati, appunto. Riconosciamo continuamente la sofferenza, riconosciamo parzialmente le cause della sofferenza, accantoniamo la possibilità che la sofferenza abbia fine e lavoriamo molto poco con lo strumento di purificazione dalla sofferenza: invece di un incremento di fiducia, e quindi di motivazione, non può che esserci un incremento di sfiducia. LE QUATTRO NOBILI VERITÀ: IN MEDITAZIONE SÌ, NELLA VITA NO Di fronte alle quattro nobili verità deve essere sviluppato, al contrario, un atteggiamento diverso da quello del “mi piace, non mi piace”. Può, cioè, farsi strada e consolidarsi un interesse per il nucleo dell’insegnamento del Dharma nel suo complesso, e a questo rivolgiamo il lavoro di pratica. A ciò può seguire l’instaurarsi di una pratica di meditazione molto regolare. Nonostante ciò può accadere, però, che una volta conclusa la seduta di meditazione si alzi in noi una sorta di saracinesca, una paratia stagna tra i valori messi in atto in meditazione e i valori che applichiamo nella vita, i quali sembrano riprendere il sopravvento ogni qual volta ci alziamo dal cuscino. Magari nell’immediato periodo successivo alla meditazione manteniamo un atteggiamento di calma, di rilassatezza, di attenzione verso ciò che ci circonda, ma poco dopo torniamo al tran tran della quotidianità fatto di reatti-

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vità, competitività, paragoni, giudizi, ecc. Ma siccome siamo diventati comunque dei praticanti regolari, la sera ci sediamo lasciandoci alle spalle la “guerra combattuta” durante la giornata. Quindi: siamo partiti bene, abbiamo lasciato la giornata allo stato brado, ci siamo ricomposti la sera. Non che alla lunga i due circoscritti momenti di calma di una giornata non abbiamo un effetto positivo, ma una simile attitudine di pratica, la chiusura che scatta al di fuori dello spazio “protetto” della meditazione devono diventare oggetto di riflessione. È come, infatti, se avesse luogo dentro di noi una trattativa inconscia dove in cambio di due rassicuranti sedute di meditazione (la mattina e la sera) si voglia ottenere la possibilità che la giornata continui come sempre, come prima… Questo è chiaramente un secondo modo di impantanarsi nella pratica, visto che non solo non mettiamo olio negli ingranaggi, ma aggiungiamo addirittura sabbia. COMPRENDERE E AVERE FIDUCIA

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Per nutrire la motivazione è necessario, dunque, arrivare ad una comprensione graduale di tutte e quattro le nobili verità, della loro sostanza e di quella dell’ottuplice sentiero. E di tale comprensione bisogna poi permeare non solo la pratica meditativa ma anche la vita stessa, la quotidianità. Da queste due condizioni non può che sorgere fiducia che a sua volta alimenta la motivazione, e viceversa. Come affrontare allora l’ostacolo dato, per esempio, da quella sorta di rifiuto della terza verità? Intanto è bene utilizzare un termine diverso da nirváãa, sia perché esso non appartiene alla nostra cultura, sia perché nella nostra cultura esso viene utilizzato in maniera distorta. La fine della sofferenza, pertanto, può essere intesa e chiamata nel suo significato di “liberazione”: non è un termine meno grande rispetto a nirváãa, ma evoca cose meno sbagliate. Perché non si dovrebbe avere fiducia nella possibilità di

liberazione? Per progredire in un cammino di liberazione è necessario domandarsi perché non crediamo nella possibilità della liberazione, visto che inoltre abbiamo a disposizione lo strumento dell’investigazione, che è parte integrante della pratica. Potremmo scoprire, ad esempio, che la sfiducia nella liberazione nasce da nostri concetti particolari sull’illuminazione, sul nirváãa: allora, lasciamo stare i concetti e le teorie, e lavoriamo su ciò che è contrario alla liberazione, ossia la contrazione, la sofferenza non necessaria che produciamo. Accantonare la possibilità di una progressiva liberazione può a volte addirittura ammantarsi di umiltà, erroneamente: “Accantono la possibilità di liberazione perché sono umile, e lavoro sui miei problemi psicologici…”. L’idea che in meditazione si attui un lavoro psicologico è discutibile, in quanto rischiamo in realtà di procedere come al solito: ruminando intorno a questioni psicologiche anche se in una bella postura fisica! Questo non è Dharma, è psicologismo (e non psicologia). Così come non si tratta di umiltà, ma di sfiducia. Anche l’adesione al sentiero, alla via che conduce alla fine della sofferenza, richiede impegno ed energia. Uno degli elementi in comune di tutte le grandi tradizioni spirituali è proprio il riferimento al cammino, alla via; nella confusione dell’esistenza, fatta di un’alternanza continua di luci e ombre, c’è un cammino (ossia una direzione, una traccia, un sentiero tracciato). Se siamo su un cammino spirituale, allora nutrire la fiducia nella possibilità di maturazione interiore è fondamentale, molto di più di quanto non si immagini. Così come Don Abbondio afferma: “Ma il coraggio uno non se lo può dare”, allo stesso modo noi ragioniamo circa la fiducia: “Ma la fiducia uno non se la può dare”. In realtà saddhá, che in páli significa “avere fiducia”, oltre ad essere una delle virtù fondamentali è anche una virtù che si coltiva, ed essa, insieme a paññá (comprendere), forma un binomio cruciale: avere fiducia in ciò che si comprende, accrescere la com-

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prensione grazie alla fiducia. Ma cosa si intende con fiducia? Come l’onestà di cui si parlava prima, anche la fiducia è un’arte, da coltivarsi momento per momento. Sebbene, come effetti collaterali benefici, la fiducia possa portare con sé slanci, progetti, sentimenti, essa è prima di tutto una forza, a volte nascosta, ed è elemento chiave della pratica e della vita: nutrimento ed ingrediente fondamentale nella nostra costituzione di essere umani. Perché allora sembra che così spesso tale ingrediente venga a mancare, nella pratica come nella vita? Ma perché spesso in realtà si ha una certa fiducia nella sfiducia. Sembra, infatti, che di fronte alla sfiducia compulsiva anche il più fine spirito critico esca sconfitto, o perché non viene utilizzato o perché viene messo al servizio della sfiducia stessa: la sfiducia comanda, lo spirito critico obbedisce. Ma allora che spirito critico è se non è libero? Davanti alla sfiducia sembra prendere forza tutta una serie di categorizzazioni e di ragionamenti che ci fanno concludere circa la “bontà” della nostra sfiducia. Razionalizzando la sfiducia la legittimiamo e le diamo un enorme potere. Se, infine, intorno a noi abbiamo persone, amici, conoscenti con cui condividere cupamente questa sfiducia, ne traiamo forza per alimentarla, e troviamo il pieno consenso al nostro essere “giustamente” sfiduciati. Ma la totale obbedienza all’autorità della sfiducia altro non è che avijjá, ignoranza, ossia una delle cause della sofferenza; nella fattispecie, la confusione e la totale mancanza di libertà e di spirito critico rispetto ai nostri “preziosi” sentimenti, soprattutto se negativi. E siccome non si tratta, evidentemente, di far finta di essere fiduciosi, sfoderando magari un gran sorriso, proprio l’insorgere del sentimento della sfiducia si rivela un momento privilegiato di pratica. Se abbiamo un sufficiente retroterra di pratica sul respiro e sul corpo, la consapevolezza può essere portata sulla mente: cosa dice la sfiducia, perché lo dice e in base a cosa, quali

sono le sue conclusioni e perché noi ci identifichiamo con esse? D’altronde la pratica significa imparare ad esercitare la consapevolezza, e la consapevolezza permette di vedere quanto si crede alla sfiducia, quanto le si obbedisce e, nel non giudizio, aiuta a non sottoscrivere le conclusioni perentorie della sfiducia. Ciò non cancella i diversi sentimenti negativi legati alla sfiducia, ma li rende meno densi, meno potenti, meno autoritari. Non è un caso che si stia diffondendo e consolidando l’incontro tra alcune forme di terapia e l’uso della consapevolezza: l’avvitarsi in stati d’animo depressivi e sfiduciati può essere molto mitigato da un’applicazione sistematica e intelligente della consapevolezza. Lo strumento della consapevolezza allora può portare lontano. Da qui la fiducia nella possibilità di liberazione e la fiducia negli strumenti di liberazione: la capacità di concentrarsi, di fare meditazione, di esercitare la consapevolezza, la capacità di impegnarsi, ossia il cosiddetto “retto sforzo”. Tutto ciò va investito di fiducia, e la fiducia si alimenta praticando anche sulla non fiducia, guardandola in faccia. E guardare in faccia la sfiducia richiede attenzione, impegno ed energia, in quanto essa in realtà non vuole essere guardata in faccia; e ciò avviene perché la sfiducia fa parte – come si diceva – di avijjá, dell’ignoranza, la quale, a differenza di quanto si può pensare se con essa non si ha ancora molta familiarità, è molto attiva, scaltra e ‘intelligente’. In altri termini si può dire che la sfiducia mette in atto molteplici “trucchi” per evitare appunto che la si guardi in faccia. Quando ad esempio concludiamo: “Ma no, ti pare, sono troppo sfiduciato, non medito…”, è la sfiducia che non vuole essere guardata in faccia… È proprio qui, invece, che la consapevolezza ci aiuta a guardare: possiamo sentire la sfiducia nel corpo, nello stomaco, nella testa, nelle sue conclusioni senza appello, nell’alterazione della percezione e del comportamento che tutto ciò comporta. Senza giudicare, senza colpevolizzarci. Se la situazione in cui ci troviamo è estrema, allora è bene affidarsi ad altro, incontrare amici per

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esempio, ma non appena il panico o la situazione si placano torniamo agli strumenti, al cammino, alla consapevolezza. FIDUCIA, SAGGEZZA E SOSTEGNI INTERNI È facile che se parliamo di fiducia intendiamo con essa una sorta di premessa, un’anticamera della realizzazione e della comprensione. Al contrario. Tutte le tradizioni, non solo il Dharma, affermano che la fiducia matura in realizzazione, è un continuum. Pertanto la fiducia non è propedeutica alla realizzazione: fiducia e pratica, fiducia e realizzazione, fiducia e comprensione sono omogenee, si direbbero un tutt’uno. Così come fiducia e saggezza sono cointessute. Che altro non significa se non che la fiducia privata della saggezza non è autentica e la saggezza senza fiducia non è saggezza. Allora la fiducia come anima della saggezza non è una premessa, è un fondamento. E, come si diceva, una forza, una forza primordiale: per vivere, per praticare, per morire. Ecco perché non possiamo inventarla, crearla “a tavolino”, la credenza non è fiducia. Alla domanda “cos’è la fiducia?”, il maestro Zen Uchiyama Roshi non rispose, bensì disegnò un enorme masso e sotto il masso un piccolo filo d’erba che usciva piano piano… A volte sorge la domanda: ma fiducia in che cosa? Nel bene, nella crescita, nel vivere, in più vita. Come quando William James, all’inizio del secolo scorso, definì la santità come “più vita”, diversamente da quanto si può credere, ossia che la santità sia meno vita, oppure una vita diversa. Nonostante gli strumenti siano differenti, la sostanza è la stessa: più vita.

EDITING A CURA DI MANUELA BARONCINI

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