TASCABILI BONANNO FILOSOFIA 2
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Francesco Coniglione
POPPER ADDIO Dalla crisi della filosofia della scienza alla fine del logos occidentale
Bonanno Editore
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INDICE
Prefazione 1. L’idea “ricevuta” di scienza e la sua critica 1.1. La “tradizione ricevuta”: ragione, logica e metodo 1.2. La “Received View” e la sua crisi interna 1.2.1. I caratteri fondamentali della “Received View” – 1.2.2. La critica della “Received View” . 1.3. Thomas Kuhn e i paradigmi scientifici 1.4. Imre Lakatos e i programmi di ricerca scientifici 1.5. L’addio alla ragione di Paul K. Feyerabend
2. Nuove strade e vecchi vicoli ciechi 2.1. La cacciata dal Paradiso 2.2. Il ritorno del descrittivismo: l’epistemologia naturalizzata 2.3. La tesi forte del rimpiazzamento e sua variante debole 2.4. L’epistemologia evoluzionista e Konrad Lorenz 2.5. Il ritorno della sociologia della scienza 2.6. Il costruttivismo e la dissoluzione della realtà 2.7. L’approccio femminista alla scienza 2.8. La morte della razionalità scientifica in Richard Rorty
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PREFAZIONE
Il contenuto di questo volume avrebbe dovuto costituire in origine la parte conclusiva della seconda edizione del mio volume Introduzione alla filosofia della scienza. Un approccio storico (attualmente in fase avanzata di lavorazione; la prima edizione è stata pubblicata nel 2004), che – nella sua prima versione – terminava a dire il vero un po’ bruscamente, lasciando il discorso alle soglie di quella vera e propria rivoluzione nel campo della filosofia della scienza che è iniziata con gli anni ’70 e che non possiamo ancora dire conclusa. Esso si limitava così a presentare quelli che erano i temi “classici” della disciplina, come consegnataci dalla grande stagione che si era aperta col neopositivismo viennese e che poi aveva avuto la sua continuazione e il suo consolidamento disciplinare negli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale. Si arrivavano insomma a delineare le concezioni divenute paradigmatiche di Carnap, Hempel, Nagel e di Popper e di tanti altri filosofi della scienza che con essi dialogarono, polemizzarono, si differenziarono, rimanendo purtuttavia all’interno di una comune visione della razionalità scientifica che – al di là delle differenze e delle enfatizzazioni (come ad es. quella che spesso contrapponeva le concezioni di Popper a quelle degli eredi del neopositivismo) – era condivisa e difesa nella convinzione che fosse possibile individuarne i caratteri metodologicamente caratterizzanti e quindi fosse possibile proporla a modello di ogni altra disciplina che volesse accedere a livelli accettabili di scientificità e di discriminazione critica. Non che non esistessero all’interno di questa tradizione motivi di crisi, punti oscuri e temi in cui si esercitava una vivace polemica; ma si riteneva comunque che ciò avesse carattere “locale” e comunque temporaneo, nella fiducia che la discussione critica e il lavoro dell’analisi potessero risolvere prima o poi ogni questione e che, in ogni caso, per quanto grave fosse il dissidio, esso non intaccasse l’immagine di cristallina razionalità che era incarnata nel modo più eccellente dall’impresa scientifica e il cui piú tipico rappresentante – anche se non unico – è stato Karl Popper. Ma la storia stava in agguato e ben presto tutti i punti critici precipitarono in una crisi generalizzata quando vi fu chi seppe offrire una visione nuova e dissacrante della scienza. Di solito si 7
vede in Thomas Kuhn l’elemento catalizzatore di essa, che assume il carattere di una critica interna (ed a volte esterna) dell’immagine “ricevuta” di scienza consegnata dai grandi maestri del neoempirismo e condivisa da Karl Popper (al di là dei dissensi “locali” su particolari aspetti, come il ruolo dell’induzione, della conferma e della metafisica), che dei suoi caratteri di razionalità è stato il piú significativo, pugnace ed influente difensore. Sicché la crisi inizia proprio con una critica del suo pensiero, visto come il baluardo principale di una visione della scienza irrealista e ormai obsoleta, al punto da poter tratteggiare la storia della riflessione sulla scienza degli ultimi decenni come un “lungo addio” a Popper (il che, tra l’altro, giustifica il titolo di questo libretto). Ed è appunto da qui che doveva cominciare il discorso lasciato in sospeso nella prima edizione della Introduzione. Ma via via il materiale da aggiungere cresceva, si inserivano sempre nuove tematiche e protagonisti e si vedeva che la storia non si poteva affatto concludere con i tre rappresentanti standard della cosiddetta filosofia post-positivista (Kuhn, Lakatos, Feyerabend), in quanto numerose strade erano state nel contempo aperte, innumerevoli problemi erano stati suscitati (o risuscitati) e così la pagine aumentavano sempre più, facendo correre il rischio di una elefantiasi del vecchio volume che finiva per diventare scomodo per il lettore e (ahimè) inadatto per i corsi “a pillole” dell’università degli ultimi anni, alla quale il volume era elettivamente rivolto. Così è maturata la decisione – anche su consiglio dell’Editore – di rendere autonoma questa parte, pubblicandola in un volume più agile e maneggevole, che sia leggibile in modo autonomo ma al contempo costituisca una ideale continuazione del più compassato e didascalico lavoro introduttivo ai temi classici della filosofia della scienza, che nel contempo verrà ripubblicato in modo rinnovato. Così il lettore (e lo studente) può accedere alla complessa problematica della filosofia della scienza del Novecento sia leggendo (e studiando) la presentazione dei suoi classici problemi, sia gettando uno sguardo a quanto è avvenuto successivamente ed è ancora in corso di turbolento divenire. Come potrà notare il lettore che già conosca la mia Introduzione, il tono e l’andamento di questo volumetto è diverso: meno didascalico, più discorsivo e senza gli accorgimenti ivi contenuti (doppio corpo del testo, riquadri esplicativi, frequente paragrafazione ecc.); ciò allo scopo di dare al testo una maggiore agilità (consona anche alla collana in cui esso è inserito) e alla narrazione una più accentuata continuità. Inoltre è inevitabile che esso 8
presupponga la conoscenza almeno degli snodi teorici fondamentali che hanno caratterizzato la filosofia della scienza classica (e che sono stati esposti nella mia Introduzione), anche se – ove necessario – ho cercato di agevolare il lettore ponendo in nota i chiarimenti concettuali ritenuti indispensabile per una piena intellezione del testo. Sempre a tale scopo, ho preferito optare per il sistema di notazione americano (autore, data, pagina), in modo da evitare un appesantimento delle note, riservandole maggiormente alle discussioni ed esplicazioni concettuali e mantenendole per tale motivo a pie’ di pagina. Catania, settembre 2008
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1. L’immagine “ricevuta” di scienza
Nel corso degli anni del secondo dopoguerra si era consolidata una immagine della scienza che costituiva il frutto più maturo e raffinato delle riflessioni originatesi dal Circolo di Vienna e dal movimento neopositivistico (o “positivismo logico”) in generale (ivi compreso il Circolo di Berlino) e che avevano quindi ricevuto sviluppo in terra americana, dopo l’emigrazione dei suoi principali esponenti1. A tale immagine – che 1
W.C. Salmon [2000] distingue “empirismo logico” e “positivismo logico” (o neopositivismo), attribuendo al primo una caratterizzazione prevalentemente berlinese, al secondo una viennese. E nonostante non neghi le similarità tra i due (sino al punto di essere di solito confusi) e le comuni origini, afferma tuttavia che mentre l’empirismo logico ha continuato ad essere un movimento vitale anche nella seconda metà del secolo passato, invece il positivismo logico aveva a quella data già cessato di essere un movimento filosofico vitale. Per quanto riguarda i punti sostanziali di differenza tra i due, Salmon indica le questioni del fenomenalismo (rigettato da Reichenbach nella versione datane da Carnap nell’Aufbau, in favore del fisicalismo), il criterio di significanza cognitiva basato sulla verificabilità (da Reichenbach rifiutato nella sua versione ristretta) e il realismo scientifico (accettato sin dall’inizio da Reichenbach su basi probabilistiche), sul cui sfondo ci stava la stretta connessione con la probabilità stabilita dai berlinesi. Tuttavia, come afferma lo stesso Salmon, v’è continuità – anche personale – tra i due movimenti, in quanto «all of the positivists had changed either their views or their names (i.e. the designation of their philosophical affiliations). Among those early members of the Vienna Circle who began as logical positivist, but evolved into logical empiricist, Carnap, Feigl and Carl G. Hempel have been the most influential» [ib., 234]. Per cui riteniamo tutto sommato ammissibile considerare empirismo logico e positivismo logico come appartenenti ad un’unica tradizione di pensiero che ha forgiato quella che è stata poi definita “received view” delle teorie scientifiche e che ci ha consegnato la “tradizione ricevuta” e l’immagine di scienza che è stata dominante sino agli anni ’60 del ’900 (e che ancora oggi viene condivisa da molti scienziati e filosofi della scienza). Inoltre Salmon, in maniera alquanto restrittiva, giudica l’Aufbau di Carnap come «the zenith of logical positivism» (mentre Hempel [1965] è l’espressione più rappresentativa dell’empirismo logico e Reichenbach [1938] ne sarebbe il primo piú importante Manifesto [cfr. Salmon 1999, 334]), ignorando sia tutti gli altri rappresentanti del circolo viennese, sia l’evoluzione interna del pensiero di Carnap antecedentemente alla sua emigrazione negli Stati Uniti
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ha dominato la filosofia della scienza per piú trenta anni e che aveva come punto di riferimento principale i cambiamenti della fisica avvenuti all’inizio del ’900, con la teoria della relatività di Einstein e la meccanica quantistica – avevano contribuito numerosi autori, alcuni dei quali non si possono certo collocare all’interno del movimento viennese, ma che tuttavia condividono – al di là delle soluzioni tecniche diverse che propongono per alcune questioni – lo spirito generale che ne ha informato l’attività. È questo il caso, ad es., di Karl Popper: benché si sia autolegittimato come l’avversario per eccellenza dei viennesi ed addirittura come l’“assassino” del neopositivismo logico [cfr. Popper 1974, 90-3], tuttavia il suo dissenso ha carattere, per così dire, “locale”, per il resto condividendo le assunzioni di fondo che stanno alla base della immagine della razionalità scientifica affermatesi pienamente negli anni ’60. I principali protagonisti che hanno contribuito ad edificare questa immagine sono stati intellettuali come Moritz Schlick, Rudolf Carnap, Otto Neurath, Hans Reichenbach, Carl G. Hempel, Karl Popper, Ernst Nagel, per citare solo i maggiori, cui si debbono aggiungere gli allievi e tanti altri studiosi che dalle loro opere trassero ispirazione (e che menzioneremo al momento opportuno). È l’“idea di scienza” da loro elaborata che dobbiamo qui brevemente presentare, in quanto è proprio dalla sua critica che traggono alimento, a partire dagli anni Sessanta, molte delle epistemologie e delle filosofie della scienza degli ultimi decenni2, inaugurando un periodo di radicale cambiamento dudel 1935 (come anche il fatto che Hempel in precedenza era stato a Vienna e ne aveva accettato le principali concezioni). 2 Epistemologia e filosofia della scienza sono due cose diverse e ben differenziate nella letteratuta angloamericana: la prima concerne in generale i problemi della conoscenza umana, senza far riferimento a nessuna particolare scienza come suo oggetto privilegiato di studio; la seconda è invece una riflessione critica sulla conoscenza scientifica, della quale cerca di cogliere le caratteristiche metodologiche, formali e in certi casi anche le implicazioni e i presupposti di carattere filosofico [di piú in Coniglione 2004, 11-37; cfr. anche Fuller 1993, 3]. Tuttavia nei paesi latini (come Francia e Italia) il termine epistemologia viene anche usato per riferirsi alla filosofia della scienza, ovvero come teoria della conoscenza scientifica, ingenerando pertanto un po’ di confusione. Tuttavia, nella misura in cui la riflessione critica della filosofia della scienza, assumendo quest’ultima a conoscenza per eccellenza, porta e considerazioni generali su ciò che debba essere la conoscenza in quanto tale, essa ha
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rante il quale le certezze acquisite vengono progressivamente erose per dar luogo ad un nuovo modo di vedere la scienza, la sua evoluzione, i suoi caratteri costitutivi. Di solito si è indicata con la locuzione di “Received View” (RV) questa “immagine ricevuta” di scienza [cfr. Putnam 1962, 240-51, che ha appunto coniato l’espressione, specialmente in riferimento alla concezione delle teorie scientifiche che nel suo seno si è affermata ed è diventata largamente condivisa]. Tuttavia, l’immagine della scienza affermatesi nel secondo dopoguerra non è riassumibile solo nella particolare presentazione delle teorie descritta da Putnam e da tanti altri che su di essa hanno portato la loro attenzione [cfr. Suppe 1974; 1977; 1989, 3877; Aronson 1984, 23-39; Hempel 1969, 1970], anche se indubbiamente questa ne è gran parte, ma comprende aspetti spesso assai generali, altre volte piú specifici e legati a particolari snodi problematici che in seguito saranno forieri di riflessione e motivi di sua crisi travolgente. Di seguito descriveremo brevemente sia gli aspetti piú generali di questa complessiva concezione della scienza, sia quelli piú specifici e interni; indicheremo con la locuzione “tradizione ricevuta” i primi, distinguendo da essa la “Received View” descritta da Putnam, che ha a che fare specificatamente con il modo di intendere la struttura delle teorie scientifiche.
inevitabili ripercussioni epistemologiche, nel senso di dare delle indicazioni sulla conoscenza in quanto tale e quindi anche su quella che viene perseguita in altri campi dell’attività intellettuale dell’uomo. Ciò ad es. giustifica quanto sostiene P. Machamer [2002, 2] quando nel riferirsi alla tradizione neopositivista, afferma che «In many ways, the project of this new philosophy of science was an epistemological one. If one took physics as the paradigmatic science, and if science was the paradigmatic method by which one came to obtain reliable knowledge of the world, then the project for philosophy of science was to describe the structure of science such that its epistemological underpinnings were clear. The two antecedents, that physics was the paradigmatic science and that science was the best method for knowing the world, were taken to be obvious. Once the structure of science was made precise, one could then see how far these lessons from scientific epistemology could be applied to others areas of human endeavor». Pertanto, benché nel seguito cercheremo di attenerci all’accezione anglosassone, saranno inevitabili anche i riferimenti all’epistemologia.
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1.1. La “tradizione ricevuta”: ragione, logica e metodo Il primo tratto peculiare che definisce l’impresa scientifica è la sua razionalità. Sin dalla nascita della scienza moderna con Galileo, v’è stato un consenso pressoché unanime sul fatto che la scienza fosse caratterizzata per la sua natura squisitamente razionale, consistendo semmai la divergenza sulla possibilità di attribuire la razionalità esclusivamente ad essa o se non fosse piuttosto solo un esempio di razionalità, accanto al quale vi erano altre pratiche cognitive altrettanto razionali, come la filosofia, la metafisica o le altre discipline che tematizzano i vari aspetti della natura umana. Già su questo punto, dunque, vi sono delle possibili distinzioni da effettuare. Infatti, secondo una accezione forte della razionalità scientifica, questa costituisce il paradigma per eccellenza dalla ragione, il modo in cui essa si è realizzata nel modo migliore, per cui tutte le altre discipline e scienze che vogliono pervenire ad un analogo grado di precisione ed esattezza e quindi giungere ad una autentica conoscenza del reale, non devono far altro che adeguarsi ed imitare quanto fatto dalla scienza. Ma v’è chi contesta tale assunto e ritiene che la razionalità della scienza non sia che una particolare articolazione – limitata e spesso ingannatrice – di una piú ampia razionalità umana che deve essere colta e definita non facendo ricorso all’analisi delle procedure scientifiche, ma mediante una riflessione filosofica e/o metafisica. O addirittura, v’è chi ha sostenuto il carattere puramente illusorio della razionalità scientifica, che deve la sua apparente efficacia alle procedure manipolatorie e combinatorie loro garantite dall’applicazione del pensiero matematico, che tuttavia non permette di cogliere il reale nella sua autenticità, in quanto si fermerebbe alla sua superficie, limitandosi alla schematizzazione e sintesi economica del flusso dell’esperienza; del tutto diversa l’autentica razionalità – il cui luogo privilegiato è di solito visto nella filosofia – la quale coglierebbe speculativamente l’essenza del reale, andando oltre le apparenze superficiali cui si limita la scienza. Proprio la funzione paradigmatica della scienza hanno avuto presente molti filosofi successivi alla rivoluzione scientifica: Cartesio, che voleva edificare un nuovo metodo conoscitivo a partire da quello che costituiva il nocciolo duro dell’impresa scientifica, la matematica, e a tale scopo dettava le sue quattro “regole”; Spinoza, che voleva edificare la propria concezione fi13
losofica ispirandosi alla geometria euclidea (Ethica ordine geometrico demonstrata, tale il titolo della sua opera principale), intesa come esempio per eccellenza di procedura razionale; Hume, che pensava di fare per le scienze dell’uomo quanto fatto da Newton per quelle della natura, trovando anche per esse il principio cardine intorno al quale edificarle; Leibniz, che pur lasciando alla metafisica un suo ruolo autonomo, tuttavia cercava di costruire una logica che potesse costituire il modello procedurale delle discipline filosofiche, permettendo a queste di pervenire alla medesima scientificità delle scienze naturali, così risolvendo le proprie questioni con un semplice “calculemus”; infine Kant, che prendendo a modello la scienza newtoniana, si preoccupava di carpirne il segreto e di conseguenza condannava a morte la metafisica quale disciplina cognitiva in grado di farci pervenire ad una conoscenza della realtà competitiva con quella delle scienze naturali. Insomma, gran parte del “moderno” è segnato dalla presenza ingombrante della scienza e della sua razionalità, a cui bisogna dare un posto, che bisogna intendere, differenziare, delimitare, esaltare o delimitare; in ogni caso con cui bisogna fare i conti e che non si può far finta di non notare. È tuttavia con la fine dell’Ottocento e con l’inizio del Novecento che si afferma una vera e propria nuova modalità di accostarsi alla scienza che rivendica una sua propria autonomia disciplinare e scientifica rispetto alle tradizionali “teoria della conoscenza” o “gnoseologia”. Con il Circolo di Vienna, fondato da Moritz Schlick nel 1929, la filosofia della scienza tende ad acquisire una fisionomia autonoma. Benché nel suo seno venga spesso ancora adoperata la locuzione “teoria della conoscenza” (o “gnoseologia”), si tende sempre più a vedere nell’epistemologia non lo studio della conoscenza in generale, bensì di quel suo particolare tipo che viene esemplarmente incarnato dalla scienza, di quella scienza che appartiene alla nostra civiltà occidentale e che si è costituita storicamente nei modi che noi conosciamo, da Galilei ai nostri giorni; insomma, come hanno affermato Carnap ed Hempel, la scienza edificata dagli scienziati che appartengono al «nostro circolo culturale», intendendo con ciò appunto la cultura occidentale moderna della quale i membri del Circolo di Vienna si sentono a pieno titolo di far parte [cfr. Carnap 1932; Hempel 1935]. Si assume, pertanto, come dato di fatto che la scienza – e la fisica in particolare – sia la forma conoscitiva par excellence, che ha dato prova concreta 14
di sé nella spiegazione e comprensione della natura e nei risultati tecnici conseguiti, sicché compito del filosofo (che così si identifica con l’epistemologo) è capirne la struttura e il modus operandi, senza pretendere di prevaricarla o influenzarla nei suoi contenuti specifici. E una volta che tale struttura fosse stata precisata, bisognava cercare di applicarne la lezione epistemologica anche alle altre aree dell’attività intellettuale umana. In tal modo il rapporto veniva capovolto: non era la gnoseologia a erigersi a giudice della scienza, ma l’epistemologia a giudicare ogni pretesa conoscitiva diversa da quella incarnata dalla scienza. Insomma, con il neopositivismo si afferma il modo forte di intendere la razionalità scientifica incarnata dalla fisica, la quale viene ora ad essere assunta come pietra di paragone di ogni altra disciplina e pratica cognitiva umana. Ciò è evidente ad es. in Popper, per il quale solo lo studio e la comprensione del metodo scientifico può gettare lumi sulla crescita della conoscenza, con ciò affermando con decisione il carattere paradigmatico attribuito alla scienza come luogo di massima realizzazione della conoscenza e della razionalità umana: «Il problema centrale dell’epistemologia è sempre stato, e ancora è, il problema dell’accrescersi della conoscenza. E l’accrescersi della conoscenza può essere studiato, meglio che in qualsiasi altro modo, studiando l’accrescersi della conoscenza scientifica» [Popper 1934, xxii]. Ma perché la scienza è razionale? Ovvero, in cosa consiste esattamente tale razionalità e da cosa è essa garantita? È ovvio che l’attribuzione alla scienza del carattere di impresa razionale si deve articolare in tutta una serie di requisiti che permettano di dare concretezza ad una “ragione” altrimenti intesa in modo troppo vago se non addirittura in maniera autoritaria (è “razionale” ciò che un gruppo di individui, una comunità, una fonte autorevole o altro ritengono e giudicano tale). Ed è evidente che nell’affrontare il problema della razionalità si tocca uno dei punti centrali della riflessione umana sin dal tempo in cui – con la cultura greca – ci si è posto il problema del “logos” ed è così nato il pensiero filosofico, che si è attribuito il carattere della razionalità per distinguersi dal mito e dalla religione. Come è stato affermato efficacemente, l’immagine ufficiale della scienza di noi uomini dell’Occidente risale al tempo della nostra infanzia in cui parlavamo greco. Ci fu allora insegnato che la scienza è conoscenza vera, alethès logos, perché dice
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come è fatto il mondo; è conoscenza razionale, logos epistemonikòs, perché prova ciò che dice; è conoscenza necessaria, syllogismòs ex anankaion, perché abbliga tutti alle sue prove. [Pera 1994, 54-5]
Tale immagine si afferma innanzi tutto come discorso razionale, come filosofia, e cioè con la pratica della discussione e con l’esigenza di far prevalere una tesi o una posizione su un’altra: vi sono degli uomini che discutono tra loro e che utilizzano il proprio discorso per sostenere tesi diverse, cercando di far prevalere il proprio punto di vista non sferrando un pugno all’interlocutore (sebbene in certi periodi si è pensato che anche ciò significasse argomentare), ma piuttosto pensando che il proprio discorso, fatto di parole, frasi e loro concatenazioni, fosse in grado di mostrare la propria “bontà” rispetto a quello altrui, di esser “più forte”. Ciò significava ritenere che la tesi non si regge per se stessa, per il solo fatto di essere enunciata, ma abbisognasse di un sostegno che solo una argomentazione può fornire. La necessità del discorso in favore di un punto di vista, di una dottrina, di una concezione, nasce solo se questa non è riconosciuta spontaneamente, ovvero non è accettata dall’interlocutore per il fatto stesso di essere profferita, senza discussione alcuna. Bisogna farne vedere la plausibilità perché essa non è dotata di una evidenza “immediata”, che si impone da sè, alla quale non si può che assentire. Era invece caratteristica della “sapienza” prefilosofica quella di presentarsi con una fulminea autoevidenza, tale da sfuggire sia alla necessità di una giustificazione discorsiva, come anche alla possibilità di darne una esplicitazione nei termini di un ragionamento articolato ed articolabile. La “mania” dionisiaca, l’ekstasis come uscire da sé, nel senso letterale della parola, è strumento di liberazione conoscitiva e di accesso ad una realtà che sfugge ogni forma di mediazione concettuale e discorsiva, per configurarsi come “partecipazione” e quindi identificazione intima e panica. Essa ha carattere concreto, come di cosa che si tocca e si percepisce senza interposizione, senza la necessità di una riflessione. Aristotele si riferisce proprio a questo tipo di accesso al vero quando scrive: E l’intuizione dell’intuibile e del non mescolato e del santo, la quale lampeggia attraverso l’anima come un fulmine, permise in un certo tempo di toccare e di contemplare, per una volta sola. Perciò sia Platone sia Aristotele chiamano questa parte della filosofia l’iniziazione suprema, in quanto coloro […] che hanno toccato direttamente la verità pura riguardo a quell’oggetto ritengono di possedere il termi-
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ne ultimo della filosofia, come in una iniziazione. [Eudemo, fr. 10, in Colli 1977, 107].
Ma ciò che per Platone ed Aristotele è già “parte” della filosofia, e pertanto viene recuperato come sua componente, o propedeutica o finale, invece per gli antichi sapienti – anteriormente alla stessa nascita del sapere filosofico – è l’espressione di una dimensione dell’essere non riducibile alla razionalità, ed anzi con quest’ultima in antitesi; almeno fintanto che si intenda la ratio come il potere di articolare logoi. Anche tra i filosofi, tuttavia, si ebbe consapevolezza di tale contrapposizione tra ratio e sapientia, sia pure allo scopo di depotenziare o delegittimare il valore della seconda; ed a lungo esse rimasero in un ambiguo ed incerto rapporto, a volte di complementarità, altre di contrapposizione. La filosofia con fatica e laboriosità avrebbe lentamente abbandonato questo sfondo sapienziale, lasciandolo alle proprie spalle, ricacciato nella irrazionalità o nella “arazionalità”, ma ad un tempo sentendone la nostalgia ed anelando a quella sicurezza e certezza che la fragilità dei discorsi umani sembrava sempre mettere in questione. Tale tensione è evidente in tutti i filosofi presocratici ed è articolata da Platone ed Aristotele ormai all’interno della tramatura del pensiero. Ma è presente anche nel cuore della filosofia più asciuttamente razionale, come vuole essere quella analitica, riemergendo in modo inusitato sia in Russell che in Wittgenstein, come infine nell’insospettabile Schlick [cfr. Coniglione 2002b]. Un contrasto la cui insanabilità è stata avvertita innanzi tutto dalla filosofia classica. È Aristotele a mettere sull’avviso: In qualche modo tutte le cose sono modificate dal divino che è in noi. E il principio del discorso razionale non è un discorso, ma qualcosa di più forte. Che mai, all’infuori del dio, potrà essere più forte sia della scienza sia dell’intuizione? L’eccellenza difatti è strumento dell’intuizione. E per questo, al dire degli antichi, fortunati si chiamano coloro che riescono, ovunque si slancino, senza possedere razionalità, e a loro non conviene prendere decisioni. Possiedono infatti un principio la cui natura è più forte dell’intuizione e della deliberazione. Altri invece possiedono il discorso razionale, ma non hanno il principio suddetto. E i primi possiedono lo stato entusiastico, ma non sono capaci di cogliere il resto. Essendo privi di razionalità, difatti, colgono nel segno. E l’arte divinatoria di questi sagaci e sapienti dev’essere rapida, soltanto non venir assunta dal discorso razionale: piuttosto, tra questi ultimi alcuni si servono dell’esperienza, altri anzi dell’assiduità della contemplazione. Ma tali qua-
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lità appartengono al dio. Il dio vede distintamente tutto ciò, il futuro e ciò che è, e le cose da cui questo discorso razionale si distacca. Perciò le vedono i melancolici e quelli che sognano il vero. Pare infatti che il principio sia più forte del discorso razionale staccato. [Etica Eudema, 1248 a26 - b1, in Colli 1977, 85].
Al carattere “profano” della ragione puramente umana, viene dunque contrapposto ciò che proviene direttamente dal dio, che solo ci elargisce “i più grandi fra i beni”. Ma ad una condizione: che il destinatario di tali doni non sia “padrone dei suoi pensieri”; che la sua intelligenza sia “impedita” o dal sonno o dalla malattia, in modo che essa non possa interferire con quanto proviene dall’alto, rispetto a cui l’individuo è come un “vaso” che deve essere riempito (tale il senso del termine “entusiasmo” o “invasamento”). Ed infatti l’“eccellenza” non è il frutto della fatica della ragione, che procede lentamente e con un incerto passo argomento dopo argomento, bensì è “strumento dell’intuizione”, è il frutto di un apprendimento tacito, come a distanza di millenni suggerirà Polanyi [1966]. Tra razionalità ed eccellenza v’è dunque contrasto e solo coloro che fanno a meno della prima riescono a “cogliere nel segno”, nello stesso modo in cui sa veramente giocare un “gioco linguistico” solo chi non ha avuto bisogno di apprenderne le regole mediante una loro esplicitazione verbale. Ne consegue la contrapposizione tra coloro che sono “sapienti” e comprendono senza la necessità del linguaggio, e coloro che “imparano”, faticosamente articolando logoi. Così Pindaro si esprime: … sotto il gomito tengo molti dardi veloci dentro la faretra, che parlano a coloro che comprendono: ma rispetto al tutto hanno bisogno di interpreti. Sapiente è colui che sa molte cose per natura, ma quelli che hanno imparato, come corvi turbolenti che balbettano… [Olimpiache, 2, 83-87, in Colli 1977, 75-7]
Il sapiente viene contrapposto a “coloro che imparano”, che vengono liquidati in modo sprezzante, perché costoro non hanno accesso alla vera “sapienza” ma al suo pallido riflesso che traluce nell’artificialità dei discorsi. Come avrebbe detto in seguito Aristotele, «gli iniziati non devono imparare qualcosa, bensì subire un’emozione ed essere in un certo stato» [Sulla filosofia, fr. 15, in Colli 1977, 107]. 18
I riti misterici, nel corso dei quali avviene l’iniziazione dell’adepto, hanno un carattere esoterico, una loro segretezza che ne impedisce la divulgazione, la rivelazione al volgo “profano”; essi «non si possono trasgredire né apprendere né proferire» [Omero, Inno a Demetra, 478-9, in Colli 1977, 93), in quanto la loro realtà è estranea alla parola. Ed in ciò non può che essere notato l’evidente punto di contatto con ogni misticismo conoscitivo che si è manifestato in ogni civiltà, sia occidentale che orientale, in momenti diversi, quale fiume carsico che di tanto in tanto torna alla superficie portando con sé il fondo oscuro (o numinoso) di un sapere sapienziale ed iniziatico mai pienamente sconfitto dai “lumi” razionali, dei quali la filosofia s’è fatta teoforo. Ma, appunto, “filo-sofia”, amore della sapienza o saggezza, non suo possesso immediato, come nella esperienza misterica ed iniziatica; sua ricerca, quale di un bene perduto ed agognato, ma che non può essere più recuperato se non passando sotto il giogo, necessario, della mediazione discorsiva. Ma è appunto in contrapposizione alla sapienza misterica e sacerdotale, al mito ed alla religione tradizionale, che nasce la filosofia, che però a lungo di essa conserverà le tracce e le esigenze, che spesso si insinuano nel tessuto più genuino della sua massima articolazione razionale. È nel logos che viene racchiuso il destino dell’Occidente, il cui cammino viene definitivamente segnato dalla razionalità greca e dal suo modo di intendere la conoscenza come mediazione ed articolazione di discorsi; come necessità della giustificazione razionale; come pensiero simbolico ed intersoggettivo, come non si stanca di ripetere Schlick. E in tale distacco dalla sapienza, che è inizio ma che potrebbe essere anche un tramonto, che vine visto da Heidegger l’inizio della filosofia occidentale, come storia della metafisica, dell’oblio dell’essere e dell’erramento. Nell’idea di “oblio dell’essere”, iniziato nell’età dei Greci, si rispecchia la differenza tra la sapienza arcaica e la razionalità logica della filosofia e viene con ciò indicato il carattere proprio dell’Occidente, che ormai è diventato quello dell’intero globo. Onde l’esigenza, per Heidegger, del richiamo profetico alla dimensione del “Sacro” e del “nascosto”, nel tentativo di riportare in vita quella sapienza che la ragione greca ha cacciato nella penombra; ma come può essere ciò realizzato, senza la mediazione dei “discorsi” e quindi di quell’apparato categoriale edificatosi nei millenni 19
della civilizzazione europea? La via di uscita sta, secondo Heidegger, nella grande poesia, solo nella quale può manifestarsi il “sacro”, l’“originario”; solo essa può dare accesso a quell’Essere. Altrimenti l’Essere, catturato nella trama del linguaggio predicativo tipico della metafisica occidentale, viene a darsi all’uomo come essente, cioè come ciò che è manipolabile dalla tecnica ed è esprimibile nelle trame delle argomentazioni razionali, del pensiero “calcolante”. Viceversa, nella poesia viene riconosciuto il luogo in cui rifulge l’“ulteriore”, occultato dalla tecnica e dalla scienza che “non pensa”, quell’Altro che sfugge alla rete simbolica del linguaggio oggettivante. L’arte “disvela un’ulteriorità” che è qualcosa di più dell’umano produrre, allude a un “manifestare luminoso in cui l’uomo prende soggiorno”; nei poeti si adombra poeticamente la verità che “l’essere non è mai un essente”. In tal modo Heidegger – pensatore in cui sono evidenti le influenze delle prospettive mistiche e sapienziali orientali, come quelle del Buddhismo Zen – indica con estrema nettezza, sia pure per rinnegarla, la via che ha intrapreso la ragione occidentale, in quanto identificatasi con l’arte dell’articolazione dei discorsi, cioè come argomentazione, come logica analitica, appunto. Ed è appunto l’argomentazione razionale e logica, questo heideggeriano “pensiero calcolante”, a rappresentare il frutto più genuino, più puro e raffinato della civiltà umana, di quella civiltà che riceviamo in eredità dalla cultura classica. È nel dominio del logos – mai pacifico e senza avversari, sempre insidiato dal riemergere di quella dimensione “Altra”, combattendo la quale esso si è edificato – che bisogna dunque riconoscere l’espressione più elevata dell’umano e della sua ragione, così come essa si è configurata per la prima volta nel mondo ellenico. È grazie ad esso – o meglio, allo spirito che lo informa – che sono state rese possibili tutte le conquiste tecniche e scientifiche di cui l’umanità contemporanea va orgogliosa e che hanno condotto la civiltà europea al dominio del mondo, ricacciando le culture diverse in una situazione di marginalità. Di fronte a tale spettacolare trionfo, sorge legittima la domanda: poteva essere diversamente? Poteva l’umanità, nel momento in cui edificava una società intessuta di rapporti interumani, di traffici, di relazioni sociali, imboccare un cammino diverso da quello che poneva al proprio centro la dimensione della intersoggettività e quindi del dialogo, che non può effettuarsi altrimenti se non mediante l’articolazione di di20
scorsi? Può l’uomo, nel momento in cui fuoriesce dalla solitudine del colloquio con se stesso – quella medesima solitudine ricercata dal mistico – rifiutare di accedere ad una dimensione sociale della comunicazione e quindi prescindere dalla indispensabile mediazione del linguaggio? Era possibile rimanere all’interno di una dimensione immediata, in una comunione cognitiva col mondo che prescinda dal pensiero simbolico, dalla rappresentazione mentale e di conseguenza dal linguaggio, così come viene ipotizzato fosse proprio dell’umanità primitiva che viveva ancora di caccia e raccolta [cfr. Zerzan 2004]? Certo, sarebbe possibile anche rispondere positivamente a queste domande e quindi ipotizzare una umanità e un storia del tutto diversa da quella che abbiamo conosciuto, come anche un futuro che si dipinge con i colori antichi di un passato anteriore alla nascita della civiltà, quando vennero edificate le prime società fondate sul surplus della produzione agricola, come viene proposto dall’anarchico primitivista John Zerzan [2004]; un’umanità ancora in senso al pensiero numinoso, precategoriale, in immediato contatto col divino, così come sembra anche pensare un filosofo del calibro di Heidegger; oppure ipotizzare una tipologia di conoscenza che recuperi il sapere prescientifico abbandonando le astrazioni e le aridità della scienza moderna, come propone Feyerabend disegnando un percorso di critica interna alla filosofia della scienza, che sarà oggetto del nostro interesse. Certo questo è del tutto legittimo ed anche possibile. Ma se vogliamo intendere il peculiare carattere di questa nostra civiltà, così come essa si è storicamente costituita, allora dobbiamo ritrovare nei carattere del logos greco i principi fondanti della razionalità. L’esigenza di argomentare, e quindi di bene argomentare, è l’essenza di tale logos. Ed infatti la logica (il cui ruolo meglio vedremo in seguito) – essa stessa distillato del ragionare umano – può nascere solo supponendo che si diano argomentazioni, il cui scopo sia quello di “dimostrare” o “provare” una certa tesi. Ed a sua volta ciò presuppone che esistano ambiti in cui siano adoperate tali argomentazioni (non ogni discorso è infatti suscettibile di “analisi logica”; ad esempio, come abbiamo visto, sfugge alla possibilità dell’articolazione linguistica la conoscenza iniziatica). A queste, inoltre, deve essere riconosciuta una legittimità, deve essere riconosciuta cioè l’esistenza di ambiti dell’esperienza umana per i quali si am21
mette, ed anche si auspica, un’indagine razionale. Una indagine senza che siano imposti vincoli di tipo religioso che preservino dalla ricerca profana sacri invalicabili recinti, in nome della loro sacralità. Ne segue che in tali ambiti, deve essere attribuita all’argomentazione un potere superiore ad ogni altra autorità precedentemente riconosciuta (tradizionale, religiosa ecc.). Di tale logos è erede la scienza moderna, che di esso raffina ulteriormente l’aspetto dalla razionalità astratta e disincarnata, così come delineata per la prima volta da Galileo e poi fatta propria dalla filosofia dei secoli successivi, rimanendo un punto di riferimento imprescindibile per ogni caratterizzazione del pensiero scientifico. Su questa base s’è edificata la convinzione che non v’è altra conoscenza se non quella che si edifica nella trama del linguaggio, nella comunicazione intersoggettiva, nell’esigenza di convincere e persuadere, nella capacità di portare discorsi contro altri discorsi. Se la ragione è tutta inscritta nei discorsi che l’umanità svolge, resta ancora in sospeso il quesito di cosa faccia sì che un discorso sia “migliore” di un altro. Escluso che ciò possa avvenire in virtù di un potere esterno (è migliore il discorso del piú forte, cioè di colui che sia in grado di esercitare una maggiore coercizione fisica rispetto all’avversario) e messa da parte la pretesa assolutistica dei discorsi religiosi o mitici, la cui autorevolezza dipende tutto dalla fonte di chi li profferisce (il sacerdote, il profeta, l’iniziato o il mistico) o da cui si presume che essi provengano in ultima istanza (la divinità, mediante ispirazione, invasamento o dettatura di un libro, per ciò stesso ritenuto sacro), non resta che da cercare nel discorso stesso, nel modo in cui esso viene organizzato e proposto, le ragioni della sua forza. Nasce la scienza dell’argomentazione logica, lo studio del discorso che per eccellenza si ritiene razionale in quanto segue delle regole comunemente condivise e che non si possono rigettare senza palesamente contraddirsi. Aristotele è stato il primo a compiere questo decisivo passo, proponendo nel suo Organon una prima disamina dell’argomentazione razionale, che per lui era solo quella logicamente condotta con forza apodittica. La logica, da allora in poi, diventa la bussola che regge la navigazione dei filosofi e degli scienziati; e da un certo momento in poi – con Galileo, appunto – la matematica diventa l’organon dell’indagine naturale, della scienza che vuole intendere il mondo, ponendosi al tempo stesso come esemplificazione massima del rigore logico e modello da imitare in ogni 22
discussione razionale. È appunto tale carattere di discussione critica, di analisi razionale degli argomenti, di valutazione logico-analitica della loro forza, di argomentazione intersoggettiva mediante la quale pervenire al consenso su una teoria, una legge, una ipotesi – è appunto tutto ciò che ancora oggi viene ritenuto come tipico della razionalità scientifica e che viene condiviso dai filosofi della scienza e dagli epistemologi del Novecento. Per Popper, infatti, la razionalità delle scienza consiste tutta nella sua capacità di condurre delle discussioni critiche delle varie tesi sostenute, evidenziandone i pro e i contro, onde per lui «il miglior sinonimo di “razionale” è “critico”» [Popper 1974, 90], perché la razionalità e l’obiettività del progresso scientifico non sono dovute alle qualità del singolo scienziato, ma alla capacità di reggere a superare la discussione critica [cfr. Popper 1994, 32], in quanto ciò che […] chiamiamo oggettività della scienza e razionalità della scienza non sono che aspetti della discussione critica delle teorie scientifiche. […] In realtà, non cè niente, penso, che possa spiegare l’idea in qualche modo astratta di razionalità meglio dell’esempio di una discussione crita ben condotta. E una discussione critica è ben condotta se si consacra interamente al suo obiettivo: trovare un’incrinatura alla pretesa che una certa teoria offra una soluzione a un determinato problema. [Ib., 212-3]
In questa capacità di trovare le “incrinature” delle teorie avversarie (cioè di tentarne – per usare la terminologia popperiana – la “falsificazione”), al tempo stesso “corroborando” o sostenendo la propria, consiste appunto l’arte della discussione razionale. E in considerazione del carattere empirico della conoscenza scientifica – per cui sin da Galileo si riconosce ad essa la capacità di “apprendere dall’esperienza” e di controllare le proprie ipotesi sulla base di quello che può essere empiricamente o sperimentalmente constatato – il razionalismo proprio della scienza consiste in «un atteggiamento che cerca di risolvere il maggior numero possibile di problemi mediante un appello alla ragione, cioè al pensiero chiaro e all’esperienza, piuttosto che mediante l’appello alle emozioni e alle passioni» [Popper 1966, II, 296]. Il che a sua volta porta al riconoscimento che esista un «linguaggio comune della ragione» che permette lo scambio intersoggettivo e che implica «il riconoscimento che il genere umano è unito dal fatto che le nostre diverse lingue madri, nella misura in cui sono razionali, pos23
sono essere tradotte l’una nell’altra. Presuppone insomma l’unità della ragione umana» [ib., 314]. Sono così indicate nelle parole di Popper tutta una serie di caratteri che definiscono la natura razionale dell’impresa scientifica e che possono essere articolate – come lo sono state di fatto – in piú precise caratterizzazioni metodologiche che entreranno a far parte di quella RV della scienza che ha raggiunto la sua massima compiutezza – e al tempo stesso il margine oltre il quale inizia il suo tramonto – con gli anni ’60. Da quanto prima detto emerge con chiarezza che il carattere di razionalità della scienza non sta tanto in una facoltà sostanziale dell’uomo e nelle qualità dello scienziato (l’essere piú o meno intelligente o razionale), quanto piuttosto nella capacità di applicare certe procedure standard che – indipendentemente da chi sia a farlo – possano assicurare il raggiungimento dello scopo che ci si prefigge. Ciò significa in sostanza due cose: che il “segreto” della scienza sta nel suo “metodo” e che esso deve essere concepito come una modalità procedurale la cui razionalità consiste nella sua capacità di farci efficacemente raggiungere lo scopo che ci proponiamo. Ma andiamo con ordine. Che la cosa piú importante nel praticare la scienza sia la corretta applicazione del “metodo scientifico” e che sia soltanto tale applicazione a garantire la correttezza ed esattezza dei suoi risultati è opinione comune che si è affermata sin dalla rivoluzione scientifica galileiana e che ha da allora in poi dominato l’immaginazione di tutti gli scienziati e i filosofi che hanno voluto ispirarsi alla scienza per dare dignità razionale e certezza di risultati alla proprie ricerche, in qualunque campo esse si svolgessero. «Non sono i fatti in quanto tali a formare la scienza, ma il metodo con cui essi sono trattati», affermava il matematico e fisico Karl Pearson [1892 12] alla fine dell’800. E in effetti la ricerca del giusto “metodo” conoscitivo che invero era cominciata già in età classica, con Platone, e che già allora aveva ricevuto le prime critiche ad opera dello scetticismo di Sesto Empirico, ma che aveva trovato nuova forza dallo straordinario successo cognitivo della scienza. Questa, con i propri indiscutibili risultati, sembrava mettere a tacere ogni residuo dubbio scettico sulla possibilità di una conoscenza della realtà, dimostrando con la sua prassi e le sue scoperte che di certo una conoscenza – per quanto limitata, parziale e non onnicomprensiva – era a disposizione degli uomini ed era quella messa in atto 24
dagli scienziati che avevano saputo congiungere, contro l’opinione a suo tempo espressa da Aristotele, il rigore delle procedure matematiche con la discretezza e la multiformità dell’esperienza sensibile. La ricerca del metodo trovava così un suo luogo elettivo di ricerca: era alla scienza che bisognava guardare per ricevere ammaestramenti su quale debba essere la via regia alla conoscienza, quella via che anche le altre discipline avrebbero dovuto imboccare se volevano pervenire agli stessi risultati; quel “segreto” che anche la filosofia doveva cogliere e far proprio se voleva attingere essa stessa il medesimo rigore, per divenire filosofia scientifica, allo stesso modo di come la filosofia naturale era diventata fisica sperimentale quando aveva saputo impossessarsi dello strumento matematico3: è la strada indicata agli inizi del secolo da Bertrand Russell, che appunto vedeva nell’adozione del metodo scientifico la via che avrebbe portato la filosofia ad una piú parca vita e a piú modeste ambizioni, ricompensate però da risultati accettati e non piú soggetti alle perenni controversie metafisiche (come ad es. nel caso della soluzione positiva del problema dell’infinito) [cfr. Coniglione 2002]. Ciò viene enunciato con chiarezza da Popper nella sua prima opera: la teoria della conoscenza si dimostra possibile – contro le obiezioni di Nelson (che di fatto riprende quelle a suo tempo fatte da Sesto Empirico) – solo nella misura in cui il suo compito consiste nell’indagare «i metodi delle singole scienze», riconducendo così i tradizionali problemi della teoria 3
La “filosofia scientifica” è un particolare programma filosofico fatto proprio tra fine Ottocento e inizio del Novecento da filosofi e scienziati che insisteva sull’esigenza di riformulare i compiti e la natura della filosofia in stretta connessione col pensiero scientifico, nella convinzione che le conquiste di quest’ultimo non potessero essere ignorate per una filosofia che non si voglia perdere nelle nebulosità della metafisica tradizionale. In particolare tale programma riteneva, in una sua particolare accezione, che la scienza dovesse costituire il modello della filosofia, la quale deve porre e risolvere i suoi problemi secondo gli stessi metodi e criteri, in base alle stesse esigenze di precisione, messe in atto dalle scienze particolari. Per far ciò era ovviamente preliminarmente necessario avere chiara conspevolezza dei metodi messe in atto dalle scienze, per cui spesso i filosofi scientifici si impegnarono in un’accurata disamina della natura e del metodo della scienza, così facendo diventare la scienza l’oggetto della filosofia, la quale diventa così teoria della scienza, metascienza, indagine sulle sue assunzioni, finalità, metodi, ecc. Su tale questione vedi i miei saggi [2002; 2007; 2008].
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della conoscenza ai «problemi metodologici generali delle scienze di natura» e quindi ridefinendola come «teoria generale del metodo delle scienze empiriche» [Popper 1930-33, 1112]. Anche per un altro dei padri fondatori della filosofia della scienza del ’900, il berlinese Hans Reichenbach, l’epistemologia non deve più essere intesa come una disciplina che perviene alla conoscenza per mezzo della pura ragione, ma piuttosto come «l’analisi del pensiero scientifico»: la caratteristica chiave della moderna filosofia della scienza è appunto il passare dall’analisi del pensiero che conosce, cioè della conoscenza nel suo farsi, al «prodotto cristallizzato della conoscenza», ovvero alle teorie e leggi che sono il frutto dell’indagine scientifica [Reichenbach 1931, 343]. Ebbene, nonostante le differenze e le soluzioni tecniche che sono state via via proposte, gli autori che possiamo collocare all’interno della “tradizione ricevuta” condividono un comune progetto cartesiano, che consiste in tre tesi fondamentali: (1) che a distinguere la scienza da ogni altra attività intellettuale sia il possesso di un metodo universale e preciso; (2) che la scienza possa raggiungere il proprio scopo (di solito identificato con la conoscenza) solo mediante l’applicazione rigorosa di tale metodo e che, di conseguenza, (3) la scienza (come ogni altra attività intellettuale) perderebbe il proprio carattere di impresa conoscitiva razionale qualora non avesse (o non seguisse) tale metodo. Insomma, o metodo o follia: è questa la sindrome cartesiana, come è stata efficacemente definita [cfr. Pera 1991, 6]. Diventa pertanto cruciale individuare in cosa consista tale metodo – il che dà luogo a tutta una serie di ricerche sulla struttura della scienza e sulla sua evoluzione – e di conseguenza applicarlo e seguirlo (una volta ben chiarito e definito) allo scopo di assicurare alle singole ricerche un carattere razionale e fruttuosamente conoscitivo. Nel primo caso abbiamo a che fare con un compito descrittivo: individuare e specificare nel modo piú esatto possibile il metodo seguito dalla scienza mediante lo studio delle teorie scientifiche e del modo in cui gli scienziati avanzano ipotesi, elaborano leggi e forniscono spiegazioni del reale. Nel secondo caso ci si pone invece sul piano normativo: se il metodo che garantisce la conoscenza razionale e il progresso scientifico è questo, allora ogni scienziato deve applicarlo e chi non lo applica sarà un cattivo ricercatore e le sue conclusioni saranno di certo errate e razionalmente non giustificabili. Ed è il duplice compito della filosofia della scienza – tra de26
scrittività e normatività – che, come vedremo, darà luogo a notevoli dibattiti e sarà uno dei motivi di crisi della tradizione ricevuta. In ogni caso, la individuazione della caratteristica piú propria della scienza nel metodo porta con sé la tesi della sua universalità; ovvero è condivisa per lo piú la tesi della unità metodologica di tutti i saperi. In ogni campo di indagine, il metodo in grado di assicurare l’attingimento del vero è il medesimo di quello applicato nelle scienze naturali; certo, in storia, in archeologia, in filologia sono diverse le tecniche di indagine (non si utilizza il ciclotrone, ma l’analisi delle fonti ecc.), ma è unico il metodo, la cui sola applicazione può permettere la scientificità di una ricerca. Vengono pertanto criticate, ad es., le tesi dello storicismo tedesco, per il quale la conoscenza storica possiede un metodo sui generis del tutto diverso da quello delle scienze empiriche, a causa della peculiarità del proprio oggetto di indagine, ed invece viene ribadito che il modo in cui si spiegano i fatti storici segue lo stesso tipo di spiegazione applicato nelle scienze naturali, così come perfezionato e diffuso da Hempel ed Oppenheim [1948] nel cosiddetto “modello nomologico deduttivo” o per “leggi di copertura” (successivamente perfezionato e sviluppato da Hempel [1965]). Tale posizione è stata spesso definita anche come “naturalismo metodologico”, per sottolineare il carattere metodologicamente unitario di tutte le branche dello scibile umano. Bisogna tuttavia notare che tale posizione non è universalmente condivisa da alcuni studiosi appartenenti alla tradizione analitica i quali, come afferma simpateticamente von Wright [1971, 22], respingono il monismo metodologico e negano che il modello fornito dalle scienze naturali esatte costituisca l’unico e supremo ideale di comprensione razionale della realtà. Generalmente essi mettono in rilievo una dicotomia fra quelle scienze che, come la fisica, la chimica o la fisiologia, hanno di mira generalizzazioni riguardo a fenomeni riproducibili e prevedibili, e quelle che, come la storia, intendono cogliere le caratteristiche individuali e uniche dei propri oggetti.
Tale “reazione” ha trovato alimento in quella grande riscoperta del mondo umano e della sua storia avvenuta nel diciannovesimo secolo nel mondo culturale tedesco – sulla spinta del romanticismo –, che si è concretata nella cosiddetta “Scuola storica”. Avevamo detto all’inizio che il metodo della scienza, e di 27
conseguenza la sua razionalità (che sta tutta nella applicazione del primo), ha carattere procedurale: consiste nel modo più efficace di raggiungere lo scopo che ci si propone. E questa particolare accezione di razionalità ad essere stata fatta propria dalla tradizione ricevuta, rigettando quella visione categorica della ragione che veniva ritenuta come una proprietà tipica di ogni essere umano, una sua “facoltà”, e che lo definisce nella sua essenza e ne costituisce anche il fondamento: secondo la definizione aristotelica, l’uomo è “animale razionale” e la ragione ne costituisce la natura intima, una sorta di sostanza, ousia, che lo caratterizza quale essere del tutto peculiare, differente da ogni altri vivente, così come l’anima definisce ed esaurisce la personalità dell’individuo secondo molte fedi religiose. È questa una particolare accezione del logos greco, diversa da quella (precedentemente fornita) di logos come argomentazione razionale, discorso mediante il quale il pensiero umano viene espresso in una forma intersoggettivamente comunicabile e da quella che intende il logos come legge generale del cosmo, del quale esprime la più profonda natura: tutte accezioni che possiamo ritrovare nei primi filosofi greci e che sono evidenti in Eraclito, nelle quali sono presenti e per così dire si intrecciano, senza che il pensiero arcaico ne avesse chiara consapevolezza, piano psicologico, piano logico-epistemico e piano ontologico. Nel primo caso abbiamo a che fare con ciò che è proprio delle mente umana – di tutti gli uomini e quindi di una sorta di “mente universale” – la cui natura può essere investigata dalla psicologia o dalle scienze cognitive; nel secondo caso abbiamo a che fare con la conoscenza, con la sua prensione concettuale e la sua articolazione in discorsi ed argomentazioni; infine nel terzo caso facciamo riferimento a qualcosa che esiste in natura, indipendentemente dal fatto che noi la conosciamo o la pensiemo e che “è lì” a prescindere dalla soggettività umana, che può solo cogliere nell’atto conoscitivo. Se teniamo presente questa tripartizione, potremmo allora sostenere che mediante la scienza l’umanità si propone di conoscere il logos ontologico mediante un sapere che si articola in un logos logico-epistemico frutto del logos psicologico; o, altrimenti detto, che il logos umano (cioè la ragione umana) mette in atto delle strategie conoscitive fatte di discorsi e teorie (in cui consiste il logos logico-epistemico) allo scopo di pervenire alla conoscenza del logos ontologico, cioè delle leggi e regolarità di natura. 28
Sulla base di questa distinzione, risulta chiaro che il modo in cui la ragione umana manifesta la sua potenza è proprio la sua capacità di articolare una conoscenza (discorsi, argomenti e teorie) in grado di permetterci di possedere intellettualmente ciò che accade (le leggi e le regolarità della natura, il “mondo come è fatto”). È appunto questo logos ad avere carattere procedurale: esso è lo strumento ritenuto migliore per farci ottenere la conoscenza piú affidabile del mondo. In questa accezione la razionalità non è altro che il mezzo piú adeguato per un dato scopo, ed è dunque – come ha evidenziato Giere [1988, 25] – una razionalità ipotetica, intesa come un’azione efficace diretta allo scopo. Un modo di intendere la razionalità che troviamo esplicitamente enunciato nei maggiori rappresentanti della tradizione ricevuta, quando ad es. si afferma che una data azione, o un certo modo di procedere, non può essere qualificata come razionale o irrazionale in quanto tale, ma solo in considerazione dello scopo a cui essa mira. Può essere razionale che un uomo tutto vestito salti giù da un ponte nel fiume sottostante se intende salvare un nuotatore che sta annegando e crede di essere capace di farlo; è irrazionale se vuole raggiungere l’altro lato del fiume quanto piú velocemente possibile. [Hempel 1979, 361].
Insomma ciò che viene ritenuto razionale in un caso, può non esserlo in un altro, a seconda delle circostanze, del fine che ci si propone e delle informazioni di cui si è in possesso. Per cui, anche i principi metodologici, che caratterizzano le procedure scientifiche, «non costituiscono norme assolute o categoriche, ma relative e strumentali: non ci dicono categoricamente che cosa fare, ma quale modo di procedere è razionale nel senso che offre le migliori probabilità di raggiungere un certo obiettivo scientifico» [ibidem]. Un’idea del resto già proposta da Max Weber e sostenuta anche da autori di formazione diversa come John Dewey [1949, 20-2] o Antonio Gramsci [1975, 817] che rifiutano di concepire la razionalità come una ipostasi sostanziale. Bisogna tuttavia notare che questa è una accezione di razionalità rifiutata da altri pensatori, di solito critici verso il pensiero scientifico e più vicini all’ermeneutica o alla filosofia classica tedesca, come nel caso della scuola di Francoforte che, con Adorno e Horkheimer [1966] hanno denunziato l’affermazione della “ragione strumentale”, frutto della “dialettica dell’illuminismo”, la quale non è più in grado di interrogarsi sui fini, sugli scopi che ci proponiamo, per limitarsi solo 29
a individuare, costruire e perfezionare gli strumenti o i mezzi adeguati al raggiungimento di fini stabiliti e controllati da un “sistema” che domina e sovrasta la vita degli uomini. E’ questa per Horkheimer [1962] un vera e propria “eclisse della ragione”, intesa in modo sostanziale e non subordinatamente e fini da lei non stabiliti. Tuttavia, tale critica non esclude il fatto che sia possibile anche discutere razionalmente gli scopi che ci si propone: in tal caso «un’azione o una procedura per la formazione delle credenze è razionale quando fosse strumentalmente efficace nel conseguimento di scopi razionali (non di un qualsiasi scopo arbitrariamente dato). […] La razionalità strumentale non esaurirebbe più l’intero campo della razionalità; vi rientrerebbe anche la razionalità sostantiva degli scopi» [Nozick 1995, 217]. Nel caso della scienza il fine, lo scopo che ci si propone (almeno nella tradizione ricevuta) non è la stipulazione tra un gruppo di individui o la prescrizione esterna di un “sistema” totalitario (come paventano Horkheimer e Adorno), ma l’originale progetto intellettuale inscritto nella civiltà europea, ovvero la «conoscenza della verità, tutta la verità e nient’altro che la verità intorno al mondo» [Hempel 1979, 143]. È questo anche un obiettivo che è stato al centro della riflessione di Popper, almeno da un certo momento in poi, posteriormente alla conoscenza e condivisione della teoria semantica della verià in Tarski [cfr. Popper 1974, 101-2, 145-7]: senza l’obiettivo di pervenire alla verità, anche se questa viene intesa come qualcosa cui ci si può via via avvicinare senza che possa essere del tutto esaurita, la scienza stessa perderebbe la propria ratio essendi: Io sostengo che la ricerca della verità […] è importantissima: tutta la critica razionale è una critica della pretesa che una teoria sia vera, e che sia in grado di risolvere i problemi alla cui soluzione è stata destinata. […] Inoltre sostengo che descrivere una teoria come migliore di un’altra, o superiore ad essa, o che altro, equivale ad indicare che essa appare piú vicina alla verità. [Popper 1984, 53].
E se il fine della ricerca scientifica rimane la “verità assoluta”, come idea regolativa che guida il lavoro dello scienziato sempre alla ricerca di teorie vere, ovvero «uno standard che possiamo non riuscire a raggiungere» [ib., 55], tuttavia siamo anche consapevoli di non essere in grado di esibire della ragioni positive che ci mettano in grado di dire di aver trovato la teoria vera; al piú siamo in grado di trovare delle buone ragioni critiche 30
per scartare le teorie false. Così, mediante una sorta di selezione darwiniana, abbiamo assicurato la sopravvivenza a quelle teorie piú robuste che hanno superato i nostri severi tentativi di falsificazione e che quindi possiamo ritenere piú vicine al vero di quelle che non sono sopravvissute al duro giudizio della discussione critica. Ci si può certo interrogare se il modo particolare in cui la scienza vuole raggiungere questa verità sia quello più adeguato o se la verità come da essa intesa sia quella Verità di cui sono andati in cerca nei secolo pensatori, filosofi, uomini di fede o non piuttosto un suo pallido riflesso, un suo depotenziamento che non risponde affatto a quella autentica Verità che solo un’altra modalità di accesso al reale, un’altra tipologia di pensiero, ci può dare: la filosofia, la dialettica, l’ermeneutica, l’intuizione, l’iniziazione, la rivelazione o quant’altro. È questo un ambito problematico assai vasto e profondo, che concerne il modo stesso in cui si concepisce la Verità e il posto dell’uomo nel mondo e che va ben al di là dell’obiettivo che ci siamo proposti, ovvero mettere in luce il modo particolare di intendere la razionalità all’interno della “tradizione ricevuta”. Tale carattere razionale della scienza si è espresso in particolare nel peso attribuito alla logica, al punto da identificare a volte razionalità e logicità, definendo la prima come quel modo particolare del pensiero che si esprime mediante delle procedure logiche. In tal modo, svolgere una argomentazione razionale significa ipso facto applicare le regole formali definite dalla logica, così come essa si è sviluppata sin da Aristotele ed è stata quindi perfezionata e portata a maturità in età moderna con l’opera di grandi logici come George Boole, Gottlob Frege, Bertrand Russell. Benchè tale identificazione sia stata recentemente contestata (anche allo scopo di difendere una razionalità della scienza meno rigida e quindi meglio in grado di resistere alle obiezioni critiche dei suoi avversari) [cfr. Toulmin 1972; 1974, 611; Nickles 1980, 38-41], è indubbio che la fortuna della tradizione ricevuta deve essere in gran parte attribuita proprio all’uso che programmaticamente venne effettuato della logica, specie quella simbolica o matematica contemporanea, vista come lo strumento che avrebbe permesso la transizione della filosofia dalla speculazione alla scienza e come l’utensile fondamentale per analizzare gli asserti scientifici, chiarendone innanzi tutto la struttura formale. La logica, indipendentemente dall’interesse intrinseco che 31
possono suscitare le sue questioni interne, ha avuto nel corso del ’900 il ruolo di modello razionale, dovuto ai suoi caratteri di chiarezza, precisione e rigore, al punto che molti filosofi ritenevano essenziale emularla nell’affrontare i problemi filosofici [cfr. Stroll 2000, 8-10]. Questa esorbitante presenza della logica e la convinzione della sua fondamentalità per il rigore dell’argomentazione in campo filosofico e scientifico risalgono alla sua rinascita con Boole, che aveva anche dato degli esempi di come potesse essere usata per discutere le argomentazioni di celebri filosofi, allo scopo di valutarne la correttezza. Ma ha un suo vero e proprio propagandista in Russell, che si fa alfiere di una nuova, rinnovata “filosofia scientifica” [cfr. Coniglione 2002], nella quale la logica, mediante una analogia rivelatrice, dà il metodo di ricerca, così come la matematica fornisce il metodo alla fisica. E come la fisica che, da Platone al Rinascimento rimase ferma alle sue posizioni, vaga, e superstiziosa come la filosofia, è divenuta scienza attraverso le nuove osservazioni dei fatti di Galileo e la susseguente manipolazione matematica, così la filosofia d’oggigiorno sta diventando scientifica attraverso la simultanea acquisizione di nuovi fatti e di nuovi metodi logici. [Russell 1924, 221].
Tale programma viene in sostanza ripreso dal fondatore del circolo di Vienna, Moritz Schlick, che viene così illustrato in una sua icastica affermazione: «La filosofia è malata, la sua unica cura è la logica» [Schlick 1962, 200]; in coerenza a cio, egli – analogamente a quanto fatto da Platone con la geometria – impone lo studio della logica e della matematica quale condizione preliminare per la frequenza dei suoi seminari: «Hartmann obbliga i partecipanti ai suoi seminari a conoscere il greco: io li obbligo a conoscere la logica e la matematica. Quelli sanno leggere Platone, questi il mondo» [ib., 199]. Sulla stessa linea anche un altro dei grandi interpreti viennesi, Rudolf Carnap: «se la filosofia ha l’intenzione di incamminarsi per la via della scienza (in senso rigoroso), non potrà rinunziare a questo strumento energico ed efficace per la precisione dei concetti e per la chiarificazione delle situazioni problematiche» [Carnap 1926, 78]. Una influenza che si esercitava in tutti i campi della vita intellettuale europea: Fra il 1910 e il 1960, la pietra di paragone dell’originalità artistica e scientifica era tenuta ferma mediante l’accentuazione dei metodi e degli ideali tecnici specificatamente formali, mediante, cioè, l’assunzione della logica matematica quale fondamento dell’analisi
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filosofica; mediante la riconduzione della fisica teorica agli algoritmi formali del calcolo tensoriale e della meccanica quantistica, lo sviluppo dello stile geometrico-cartesiano in architettura, le modalità non figurative in pittura, le tecniche dodecafoniche in musica - in generale, mediante la conversione della ricca e concreta particolarità della storia e della natura in un mondo teoretico alternativo, metatemporale, di astrazioni, posto al riparo dalle confusioni dell’effettualità storica. [Toulmin 1977, 122-3]
È facile comprendere pertanto quanto fosse ritenuto fondamentale l’utilizzo della logica nello studio e nella comprensione dei concetti, delle leggi e delle teorie della scienza, sino al punto di intendere la stessa sua natura come sostanzialmente di natura formale e pertanto pienamente esplicitabile da una rigorosa sintassi delle sue argomentazioni. Era tale convincimento che stava alla base del programma sintattico di Carnap il quale – abbandonando l’idea prima nutrita che fosse possibile una scientificizzazione della filosofia – ritiene che fosse da perseguire piuttosto una teoria della conoscenza come “sintassi logica” del linguaggio scientifico, in quanto «tutti i problemi epistemologici relativi alla fisica (nella misura in cui non si tratta di pseudo-problemi metafisici) sono, in parte, problemi empirici, che rientrano per lo più nella psicologia, e, in parte, problemi logici, che rientrano nella sintassi» [Carnap 1936, 422]. Si afferma così un modo di affrontare la scienza e di coltivare la filosofia della scienza caratterizzato dall’approccio formalista, per cui il centro focale dell’attenzione era l’astratto, il metatemporale. Filosofi di origine europea emigrati negli Stati Uniti, come Hempel, Feigl, Carnap, Reichenbach, von Neumann e Frank, instaurarono uno stile di pensiero che vedeva nel rigore formale «la pietra di paragone per giudicare dell’adeguatezza dell’attività intellettuale anche in ogni altro settore» [Toulmin 1977, 100]. Tale esigenza viene chiaramente espressa da Patrick Suppes [1968], che evidenzia i vantaggi e l’utilità della formalizzazione delle teorie scientifiche, facendo rilevare come essa sia stata una pratica classicamente impiegata e a cui ogni scienziato del passato ha costantemente aspirato – da Archimede a Newton – per dare ad esse standard di rigore e formalità come quelli posseduti dalle teoria matematiche e geometriche. Certo nel periodo successivo a Newton v’è stato un sempre maggiore iato tra la cosiddetta fisica matematica e la fisica teorica, la quale ultima è praticata in un modo che poco 33
soddisfa gli standard matematici contemporanei: così è avvenuto con la relatività di Einstein e così anche con lo sviluppo della meccanica quantistica di von Neumann, che pure è stato colui che ha cercato di darle maggiore rigore matematico. Tuttavia, Suppes è fiducioso che «l’ampio iato che attualmente separa i metodi usati dalla fisica da quelli della matematica syta cominciando a chiudersi e non si amplierà nella altre discipline empiriche, come l’economia matematica o la psicologia matematica» [ib., 652]. In ogni caso, indipendentamente dall’esito di questo processo, resta indubitabile che è compito della filosofia della scienza (e dell’analisi filosofica in genere) «chiarire i problemi concettuali e rendere esplicito le assunzioni fondamentali di ogni disciplina scientifica» [ib., 653]. E a tale fine, un fondamentale strumento è proprio quello «di formalizzare e assiomatizzare i concetti e le teorie di fondamentale importanza in un dato dominio della scienza» [ibidem], così com’è avvenuto in campo matematico nell’ultimo secolo. Ed infatti, i vantaggi di tale procedura (che si deve basare sul linguaggio insiemistico nella formulazione di Zermelo e non sul troppo semplice apparato della logica del primo ordine) sono evidenti: essa consente di cogliere in modo esplicito il significato dei concetti di una teoria tra loro collegati (come è accaduto con la formalizzazione di Kolmogorov nella teoria della probabilità); permette di standardizzare la terminologia e i metodi dell’analisi concettuale nei differenti rami della scienza, rendendo maggiormente realizzabile l’ideale della scienza unitaria; dà la possibilità di concentrarsi sulle questioni essenziali delle teorie, mettendo da parte gli aspetti inessenziali, legati alle circostanze concrete in cui esse sono state formulate; fornisce un grado di oggettività impossibile altrimenti, specie in campi ancora controversi (come in psicologia); rende possibile mettere in evidenza le assunzioni implicite di ogni teoria che sono “self-contained”, impedendo tra l’altro di aggiungere nuove assunzioni ad hoc; infine, rende possibile una analisi obiettiva di quelle che sono le assunzioni minime necessarie per sostenere una teoria, soddisfacendo anche un senso estetico per la semplicità [ib., 654-6]. Infine, la formalizzazione risulta il modo migliore per risolvere le controversie nel corso dello sviluppo della scienza: La formalizzazione è necessaria allo scopo di conseguire una risoluzione obiettiva dei conflitti. Non v’è alcun altro mezzo per risolvere i conlfitti concettuali nella scienza. Inoltre, in una grande varietà di
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situazioni sperimentali, non v’è modo di risolvere obiettivamente le dispute sulla interpretazione dei dati se non grazie ad un attento ed esplicito uso dei metodi insiemistico-teorici della statistica matematica contemporanea. Ma ciò che è necessario è necessariamente desiderabile, e così avviene per la formalizzazione nella scienza. [ib., 664].
Tuttavia tale accentuazione della dimensione formale della teoria non avviene a scapito della natura empirica delle scienze naturali (facendo ovviamente eccezione per le cosiddette scienze formali, come logica e matematica). Da questo punto di vista la tradizione ricevuta è figlia sia di scienziati come Mach sia dell’empirismo inglese, del quale non dimentica mai la lezione anche quando accoglie in parte alcune indicazioni dell’epistemologia francese di Poincaré e Duhem. In particolare, nella carta d’identità del movimento viennese v’è il rigetto, a seguito della introduzioni della geometrie non-euclidee e della relatività einsteiniana, del sintetico a priori di Kant e l’accettazione della distinzione humiana che ogni proposizione può essere o sintetica, cioè descrittiva di fatti, o analitica, cioè che verte solo sui significati dei concetti e sulla loro struttura formale. Su questo punto l’accordo è unanime: lo si può vedere già dal Manifesto del Circolo di Vienna, la Wissenschaftliche Weltauffassung, in cui si dichiara che «la tesi fondamentale dell’empirismo moderno consiste proprio nell’escludere la possibilità di una conoscenza sintetica a priori» [Hahn, Neurath & Carnap 1929, 79]. Lo dichiara anche uno dei suoi padri spirituali, Philipp Frank, che pure era il più sensibile alle esigenze kantiane, quando afferma che «il nostro gruppo, formato da studenti entusiasti della scienza contemporanea, rifiutava la dottrina di Kant dell’immutabilità delle forme d’esperienza date dalla mente umana, e voleva invece considerarle soggette a una evoluzione, che fosse parallela all’evoluzione della scienza» [Frank 1961, 22].4 Ed è anche la presa di 4
Cfr. anche Neurath [1935, 73-4], dove viene spiegato perché Kant sia stato collocato tra i metafisici nello schema riportato nel testo; ed in cui [p. 61] viene espresso il giudizio negativo sul sintetico a priori. Si veda anche Carnap [1966, 229], dove ancora viene ribadita, e siamo nel 1966, la condanna del kantismo. Più sfumata la posizione di H. Reichenbach che, nel 1921, discutendo la teoria della relatività, ritiene con essa incompatibile l’intuizione pura di Kant, ma poi inclina ad una interpretazione più elastica quando scrive che si «renderebbe un miglior servizio a Kant se, sulla base della fisica moderna, si
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posizione di Schlick, il fondatore del circolo, il quale lungo tutta la sua attività ha sempre contestato la possibilità che possa esistere un a priori fattuale, ovvero una conoscenza che fosse al tempo stessa certa ed empiricamente informativa [cfr. Schlick 1925, 97 ss.; 1930; 1932, 116-9, 126-7]; e di Alfred J. Ayer, uno dei primi e piú influenti divulgatori delle nuove posizioni dell’empirismo logico con la sua celeberrima opera Language, Truth and Logic [cfr. 1936, 64-83]. La distinzione tra analitico e sintetico e la connessa dottrina che non esiste nulla che stia a metà strada tra i due (cioè un “sintetico a priori”) è stata ritenuta alla base non solo del neopositivismo, ma dell’intera filosofia analitica [cfr. Searle 1996, 3-4]. Tuttavia tale assunto è stato criticato come uno dei due “dogmi” dell’empirismo da W.V.O. Quine [1951] in un saggio che ha fatto epoca e che ha costituito una delle prime zeppe che hanno cominciato a scardinare l’edificio della tradizione ricevuta. In ogni caso, l’affermazione del carattere empirico delle scienze naturali ha portato con sè la discussione di tutta una serie di temi relativi al tipo di rapporto che deve esistere tra la struttura formale ed astratta delle teorie scientifiche e l’esperienza: la classica questione dell’induzione – lasciata in eredità da Hume – ora ripresa in stretta connessione alle tecniche probabilistiche; il problema della conferma e del grado di “empiricità” o “affidabilità” che bisogna assegnare alle singole teorie; il problema del significato, o del “significato empirico”, delle proposizioni sul mondo, con il connesso “principio di verificazione”; infine la natura delle regole che servono a connettere i concetti teorici della scienza con l’osservazione sperimentale, che ha grande importanza nella discussione sulla struttura delle teorie scientifiche (cfr. § 1.9). Anche in merito abbandonasse il contenuto delle sue asserzioni e, seguendo lo schema generale del suo sistema, si cercassero per nuove vie le condizioni dell’esperienza, invece di attaccarsi dogmaticamente alle sue specifiche proposizioni» [Reichenbach 1921, 40]. In ogni caso, per una valutazione piú circostanziata dell’eredità kantiana nel circolo di Vienna vedi Paolo Parrini [2002, 31-57] e i saggi contenuti in Parrini [1994]. Un caso a parte quello di Popper, che intende a modo suo la lezione di Kant, nel senso della accettazione del trascendentalismo, pur rigettando il sintetico a priori; ciò è particolarmente evidente nella sua prima opera [1933-34], poi parzialmente andata perduta e riscoperta di recente.
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a tali argomenti si può notare che – pur non rigettando l’ispirazione empiristica fondamentale della tradizione ricevuta – vi sono diversi dissensi “locali” in merito alla soluzione da fornire ai diversi problemi: oltre alla citata critica di Quine alla distinzione analitico-sintetico, bisogna qui menzionare la polemica antinduttivista di Popper, la sostituzione del principio di verificazione inteso come criterio di significanza empirica con quello di falsificabilità, atto a demarcare la scienza dalla metafisica, e il rigetto del concetto di conferma, da lui sostituito con quello di “corroborazione”. Infine, da questo quadro d’insieme si possono trarre ulteriori conseguenze che concernono la natura della scienza come concepita nella tradizione ricevuta. Innanzi tutto si può fare scienza solo quando si mettano da parte i propri sentimenti, le proprie passioni e i propri pregiudizi, di qualsiasi natura essi siano: culturali, religiosi, tradizionali. La ricerca della verità mediante la scienza non può essere subordinata ad autorità religiose o a fonti rilevate, in quanto il suo compito è ben diverso da quello proprio delle religioni. Come ha dichiarato Galileo vincendo la sua causa contro l’autorità della chiesa cattolica – ma perdendola dal punto di vista umano col subire il carcere e forse la tortura – la fisica ci dice «come vadano i cieli, non come si vada in cielo»; ovvero, suo compito è la conoscenza dei fatti di natura, non fornire precetti morali in grado di salvare la nostra anima dall’inferno, compito questo assegnato all’autorità religiosa che può legittimamente ammaestrare i propri fedeli. Ed analogamente, non si può contestare la teoria dell’evoluzione di Darwin – nella nuova sintesi datane nel corso del ’900 – sulla base della sua non congruenza con la creazione divina dell’umanità, che ha come sua unica fonte un testo sacro ritenuto dai suoi fedeli ispirato direttamente da Dio: anche in questo caso a giudicare dell’evoluzionismo devono essere le prove empiriche, le ricerche paleontologiche, i ragionamenti che possono farsi sulla base dell’analisi storica delle specie viventi e di quanto si conosce in genetica. Non a caso Russell nel riferirsi alla scienza, ne valorizza l’aspetto austero, sottolineando la «non pertinenza delle passioni umane e dell’intero apparato soggettivo per quanto riguarda la verità scientifica» [Russell 1917, 50]; appunto in ciò consiste l’essenza del metodo scientifico: «nel rifiuto di considerare i nostri desideri, gusti ed interessi capaci di darci una chiave per comprendere il mondo» [ib., 52]. Infatti, 37
attitudine scientifica della mente significa spazzare via tutti gli altri desideri nell’interesse di quello di sapere; essa significa la soppressione di speranze e paure, di amori e odi, e di tutta la emotiva vita soggettiva, finché non ci assoggettiamo alla cosa materiale, per guardarla francamente, senza preconcetti, senza pregiudizi, senza nessun desiderio tranne quello di vedere la cosa com’è, e senza credere che ciò che essa è può essere determinato da qualche relazione, positiva o negativa, con ciò che noi desidereremmo che essa fosse, o con quel che noi possiamo facilmente immaginare che sia. [Ib., 53]
Liberazione dalle passioni significa anche liberazione dalle considerazioni etiche: «finché non avremo imparato a pensare all’universo in termini eticamente neutrali, non arriveremo ad un atteggiamento scientifico nella filosofia» [ib., 54]. Non v’è alcun dubbio per Russell che i motivi etici e religiosi siano stati complessivamente un ostacolo al progresso della filosofia; non a caso la scienza è pervenuta alla sua maturità liberandosi da tali impacci; ed è «dalla scienza, piuttosto che dall’etica e dalla religione che la filosofia dovrebbe trarre la sua ispirazione» [ib., 100]. Analogamente, Carnap espelle dalla razionalità scientifica ogni considerazione sentimentale, ogni commozione dell’animo: per tali lati della personalità umana – pur riconosciuti come estremamente importanti – vi sono modi piú adatti di espressione: la musica, la poesia, l’arte, persino la metafisica, la quale scaturirebbe – come la magia e il mito (teologia inclusa) – dal tentativo di esprimere le rappresentazioni concomitanti che accompagnano gli asserti dichiarativi e che nulla hanno a che fare col loro valore cognitivo, ovvero dalla confusione tra queste e le rappresentazioni di stati di fatto; così l’uomo ha cercato di comunicare questo contenuto delle rappresentazioni, «non già nella forma dell’arte, o anche semplicemente del modo di dire, bensì nella forma di una teoria che tuttavia non possiede alcun contenuto teorico» [Carnap 1928, 414]. Una linea, questa, sulla quale si riconoscono tutti i protagonisti della filosofia della scienza del ’900, per cui è inutile moltiplicare gli esempi. Ma la scienza è anche priva di genere e di razza, ovvero è indifferente al sesso e al tasso di melanina degli individui: nel valutare una teoria non facciamo caso se ad averla formulata sia stato un uomo o una donna, se un negro o un bianco, ma stiamo solo attenti al suo valore cognitivo e vogliamo accertarci se essa è adeguata ai fatti, se ci permette di spiegare i fenomeni 38
del mondo e di prevedere nuovi eventi; né gli esiti dei controlli che permettono di addivenire a giudicare se una teoria adeguata sia più o meno confermata (o corroborata) dipendono dal sesso o dalla razza di chi effetua i testi e i controlli di laboratorio. Viene insomma esclusa la possibilità che ci possa essere una scienza “femminista” come anche una scienza “africana” o “cinese”: la sua natura è universale e dipende dall’adozione di un metodo che è comune e condiviso da tutti gli scienziati, in quanto espressione di una ragione universale diffusa uniformemente in tutta l’umanità. 1.2. La “Received View” e la sua crisi interna Veniamo ora alla dottrine piú specifiche che fanno parte della RV e che hanno dato origine ad una crisi interna che ne ha pian piano eroso tutti i principali motivi ispiratori e che poi si è diffusa – in certi casi ed autori – sino a coinvolgere quei più generali caratteri della scienza consegnatici dalla “tradizione ricevuta”, esposti nel paragrafo precedente, che fanno parte dell’immagine che in genere di essa si è avuta nella cultura occidentale. Per quanto riguarda le questioni qui affrontate, bisogna notare che non sempre tra i principali rappresentanti della RV v’è stata unanimità di opinioni e inoltre spesso le concezioni si sono evolute facendo tesoro delle critiche via via portate da varie parti; inoltre, molte volte sono stati gli stessi protagonisti a cambiare le proprie concezioni (come ad es. hanno fatto Carnap e ancor piú Hempel), dando prova di una notevole apertura mentale e di disponibilità all’autocritica. Nondimeno – per quanto potrebbero esser accentuati i dissensi o enfatizzati da alcuni (è il caso, ad es. di Popper, che ha tenuto sempre a distinguersi dai filosofi risalenti al ceppo di Vienna-Berlino) – si aveva comunque l’idea che si lavorasse ad un comune progetto e che bisognasse solo perfezionare gli strumenti razionali a disposizione, elaborare piú raffinate concezioni (ad es., nel campo della probabilità e della sua applicazione alla logica della conferma, nel quale si sono spesi ad opera di Carnap tesori di competenza formale e logica), per giungere ad un accordo generalmente condiviso sui principali punti costituenti i luoghi privilegiati d’interesse della RV: il criterio di significanza empirica, il problema della conferma, l’induzione e la connessa logica probabilistica, la questione 39
della spiegazione, la chiarificazione del concetto di legge di natura, la struttura delle teorie scientifiche, la relazione logica esistente tra teorie successive. 1.2.1. I caratteri fondamentali della “Received View” – L’approccio formalista prima descritto è chiaramente evidente nel modo di concepire le teorie scientifiche; è a questa impostazione che si riferiva Putnam nel coniare la locuzione RV, che consiste, in estrema sintesi, nella tesi che «le teorie debbono essere pensate come un “calcolo parzialmente interpretato” nel quale solo i “termini osservativi” sono “direttamente interpretati” (essendo i termini teorici solo “parzialmente interpretati” o, come anche anche si dice, “parzialmente compresi”)» [Putnam 1962, 240]. Sebbene Putnam faccia riferimento essenzialmente a Carnap, tuttavia ad edificare tale concezione hanno contribuito in varia misura diversi filosofi della scienza, i piú importanti dei quali sono stati N.R. Campbell [1920], F.P. Ramsey [1929], Carnap [1939, 1956, 1966], Braithwaite [1953], Nagel [1961], Feigl [1970], ed infine Hempel [1958, 1965, 1966] (anche se quest’ultimo ha in seguito via via rivisto le proprie precedenti impostazioni in merito, senza però abbandonare le caratteristiche generale della tradizione ricevuta prima descritte [cfr. Hempel 1969, 1970, 1973]). Al di fuori della tradizione neopositivista, concezioni analoghe sono state sviluppate da Duhem [1914]. La RV sulle teorie scientifiche (detta anche “concezione standard”) ha un impianto tipicamente formalista e linguistico, coerente con l’impostazione che ha caratterizzato sin dal suo inizio il neopositivismo e la tradizione ricevuta della scienza, ed è stata sviluppata avendo presente essenzialmente le teorie della fisica, anche se poi si è cercato di estenderla anche alla biologia evoluzionistica e alla genetica della popolazione [cfr. Hull 1974; Ruse 1973] e alla psicologia [cfr. Skinner 1945]. Essa ritiene, cioè, che si possano comprendere gli aspetti essenziali di una teoria scientifica mettendone in luce la struttura logica, in particolare la sintassi del suo linguaggio, e specificando il riferimento empirico dei termini in esso occorrenti mediante opportune regole che permettono di collegarli con la base osservativa. Tale posizione formalista – sostenuta anche da W.C. Salmon [1966], I. Scheffler [1963] e P. Suppes [1969] – è stata da par suo argomentata e sistematizzata da Hempel che, pur rigettando alcuni punti cardini del neopositivismo delle 40
origini (ad es., la tesi della completa riducibilità delle teorie e dei termini teorici in esse contenuti alla base empirica), tuttavia ne ha condiviso la concezione secondo la quale l’essenziale delle teorie consiste nella loro struttura logica, che permette loro di organizzare un vasto materiale empirico [cfr. Aronson 1984, 41-2]. Così descrive Hempel [1950, 111] i caratteri di una teoria scientifica: Dal punto di vista formale, una teoria scientifica può venir concepita come un insieme di proposizioni espresse in termini di un vocabolario specifico. Il vocabolario, Vt, di una teoria T consiste dei termini extralogici di T, cioè dei termini non appartenenti al vocabolario della pura logica. In genere alcuni termini di Vt sono definiti per mezzo di altri; ma, pena il delinearsi di un circolo vizioso o di un regresso all’infinito, non è possibile definire tutti i termini di Vt ricorrendo a tale procedura. Pertanto si può supporre che Vt sia suddiviso in due sottoinsiemi: quello dei termini primitivi – ossia non definiti – e quello dei termini definiti. Analogamente molte proposizioni di una teoria sono derivabili da altre mediante i princìpi della logica deduttiva (e delle definizioni dei termini definiti); ma, pena il delinearsi di un circolo vizioso o di un regresso all’infinito nella deduzione, non tutte le proposizioni della teoria possono venir stabilite in questa maniera. Pertanto, l’insieme delle proposizioni asserite da T si divide in due sottoinsiemi: quello delle proposizioni primitive o postulati (o assiomi) e quello delle proposizioni derivate o teoremi. [cfr. anche Hempel 1973, 77-88]
Hempel porta quali esempi classici di sistemi deduttivi così concepiti le assiomatizzazioni di varie teorie matematiche, quali la geometria euclidea e le diverse forme di geometrie noneuclidee e soggiunge che anche nella scienza empirica alcune teorie sono state presentate in forma assiomatica, o approssimativamente tale, ad es. parti della meccanica classica e relativistica, porzioni della biologia e qualche dottrina psicologica. Ma in questo caso, a differenza dei sistemi puramente formali, il sistema deduttivo assume il carattere di teoria empirica quando sia stato interpretato sulla base di fenomeni empirici, mediante un insieme di proposizioni interpretative connettenti certi termini del vocabolario teorico ai termini osservativi. In tal modo una teoria scientifica è vista sostanzialmente come una struttura deduttiva astratta della quale fanno parte: a) un calcolo astratto C, che ne costituisce lo “scheletro logico”, non interpretato, e i cui elementi avranno solo il significato implicitamente loro attribuito dalla struttura relazionale a41
stratta nella quale sono inseriti; b) un insieme di enunciati R che forniscono portata empirica al calcolo, cioè ne danno una “interpretazione”; con ciò la teoria viene collegata agli oggetti osservabili e viene ad assumere funzione esplicativa e predittiva: ad assumersi questo compito sono le cosiddette “regole di corrispondenze”, nella terminologia di Carnap (ma chiamate da altri autori anche “definizioni di corrispondenza”, “correlazioni epistemiche”, ecc.) [cfr. Carnap 1956; 1963, 938-45; 1966, 281-340; Hempel 1952, 4250; 1963; 1969, 49]. Tale concezione può essere schematizzata rappresentanto una teoria cone una coppi ordinata di insiemi di enunciati: T = (C, R) dove C è l’insieme di formule del calcolo e R l’insieme delle regole di corrispondenza [cfr. Hempel 1970, 221]. Una teoria scientifica ha dunque una struttura del tutto simile alle strutture astratte delle scienze formali: a queste si sono ispirati gli epistemologi afferenti alla concezione standard, analogamente a come ha fatto Reichenbach [1951, 133-50] nel caratterizzare la geometria fisica. Ad essere importante è il riferimento delle teorie scientifiche alla realtà empirica, assicurata dall’insieme R, cui va in ultima istanza demandato il giudizio sulla loro accettabilità o meno. Le teoria sono, secondo una bella metafora di Hempel, come reti sospese nello spazio: Una teoria scientifica è pertanto paragonabile a una complessa rete sospesa nello spazio. I suoi termini sono rappresentati dai nodi, mentre i fili colleganti questi corrispondono, in parte, alle definizioni e, in parte, alle ipotesi fondamentali e derivative della teoria. L’intero sistema fluttua, per così dire, sul piano dell’osservazione, cui è ancorato mediante le regole interpretative [altro termine per “regole di corrispondenza”]. Queste possono venir concepite come fili non appartenenti alla rete, ma tali che ne connettono alcuni punti con determinate zone del piano di osservazione. Grazie a siffatte connessioni interpretative, la rete risulta utilizzabile come teoria scientifica: da certi dati empirici è possibile risalire, mediante un filo interpretativo, a qualche punto della rete teorica e di qui procedere, attraverso definizioni ed ipotesi, ad altri punti, dai quali, per mezzo di un altro filo interpretativo, si può infine ridiscendere al piano d’osservazione. [Hempel 1952, 46-7; la prima formulazione di questa metafora è però dovuta a Schlick 1925, 65]
Per rendere piú esplicita e chiara la metafora hempeliana, diremo che i fili di connessione rappresentano le regole di cor42
rispondenza, che agganciano al terreno del direttamente osservabile i termini osservativi (che sono solo alcuni dei “nodi” della rete). Tutti i nodi connessi per mezzo dei fili al terreno costituiscono il “vocabolario osservativo”. Gli altri nodi non connessi direttamente costituirebbero il “vocabolario teorico”. I fili che collegano i nodi tra loro costituirebbero quello “scheletro logico” che abbiamo detto costituisce il calcolo della teoria: grazie a tali connessioni i termini teorici (non direttamente collegati al terreno) vengono definiti implicitamente, oltre ad essere definiti mediante altre connessioni che li collegano ai nodi rappresentanti i termini osservativi. Tutta la rete rappresenta il linguaggio della teoria, formato da quello osservativo (costituito da tutti i nodi collegati al terreno) e quello teorico (i nodi non collegati in modo diretto): ecco perché si dice che le teorie sono delle “entità linguistiche”. Tale distinzione del linguaggio della teoria in osservativo e teorico è fondamentale in tale impostazione e ad essa è stata dedicata molta attenzione, specie da parte di Carnap La concezione standard concepisce, perciò, una teoria come un sistema assiomatico chiuso cui dovrebbe essere fornita una interpretazione (parziale) per mezzo delle regole di corrispondenza che dovrebbero connettere tale sistema ai fenomeni osservabili e quindi fornire ad esso sia contenuto empirico, sia potere predittivo ed esplicativo [cfr. Craver 2002, 56]. Il significato del vocabolario teorico sarebbe perciò determinato in parte dalle regole di corrispondenza ed in parte dai postulati del calcolo (le cosiddette “definizioni implicite”). Ciò viene sinteticamente enunciato da Nagel, che può considerarsi con la sua opera il più lucido teorizzatore della concezione standard e che aggiunge alla definizione prima data un terzo elemento, costituito dal modello, il quale interpreta il calcolo astratto C in termini di principi e concetti che ci sono resi familiari dall’esperienza già posseduta [cfr. anche sulla funzione dei modelli Toulmin 1953, 39-40]: A scopo di analisi, risulta conveniente distinguere tre componenti in una teoria: 1) un calcolo astratto che è lo scheletro logico del sistema esplicativo, e che “definisce implicitamente” le nozioni fondamentali del sistema; 2) un insieme di regole che assegna effettivamente un contenuto empirico al calcolo astratto, col metterlo in relazione a materie concrete di osservazione e di esperimento; 3) un’interpretazione o modello del calcolo astratto, che fornisce per così dire la carne alla struttura scheletrica, in termini di materie con-
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cettuali o visuali più o meno familiari. [Nagel 1961, 97]
Affinché questa caratterizzazione di teoria scientifica possa stare in piedi, sono indispensabili almeno due condizioni: 1) poter distinguere il linguaggio osservativo Lo dal linguaggio teorico Lt: «assumiamo che il linguaggio totale dell scienza, L, sia diviso in due parti, il linguaggio osservativo Lo e il linguaggio teorico Lt» [Carnap 1956, 268] e spiega Carnap [1958, 49]: «il primo contiene enunciati quali “questa cosa è dura, bianca, fredda”, il secondo enunciati quali “nel punto spazio-temporale con le coordinate x, y, z, t le componenti del campo elettrico hanno questi e questi valori”»; 2) poter specificare in modo abbastanza chiaro in cosa consistano le regole di corrispondenza (o C-regole) e come riescano a connettere il calcolo all’esperienza: «è quindi chiaro che la C-regole sono essenziali; senza di esse i termini teorici non avrebbero alcuna portato osservativa» [ib., 276]. Sono questi i due punti critici che segneranno il destino della concezione standard delle teorie scientifiche e che costituiscono i principali punti di attacco dei suoi critici. Tanto piú quando si consideri che essi stanno anche al centro di altre importanti concezioni della RV, legate sia alla considerazione del rapporto tra teorie scientifiche, sia al modo di delimitare la razionalità della scienza mediante la cosiddetta “dottrina dei due contesti”. Cominciamo dal primo punto. È risaputo che nell’ambito della RV e della tradizione dell’empirismo logico si aveva una scarsa considerazione per la dimensione storica dei problemi filosofici e scientifici, che dovevano essere affrontati e risolti solo nella loro configurazione concettuale e logica. Ricorda Hempel [1979, 365] che «la scuola empirista analitica non era molto interessata all’analisi del cambiamento teorico; Popper era una notevole eccezione. L’interesse principale degli altri membri del gruppo andava ad argomenti come l’induzione, la conferma, la probabilità, la spiegazione, la formazione dei concetti e la struttura e funzione delle teorie». Come ebbe ad affermare Reichenbach [1993, 59], «le soluzioni dei problemi non sono mai fornite dalle considerazioni storiche – bisogna far parlare le cose, gli oggetti della riflessione, per trovare l’ordine logico così ardentemente cercato da tutti noi». È una immagine della scienza che viene efficacemente sintetizzata, in tutte le sue implicazioni da Laudan [1984, 9-10]: 44
Durante gli anni Quaranta e Cinquanta, filosofi e sociologi hanno sviluppato una propria raffigurazione del modo in cui la scienza procede. Le esposizioni filosofiche che ho in mente sono quelle degli empiristi logici e di Popper; al modello sociologico è associato principalmente Merton con la sua scuola. Per quanto i resoconti filosofici e sociologici sulla scienza presentati dagli studiosi di quella generazione si distinguessero per le diverse accentuazioni che davano a temi di non poco conto, le rispettive raffigurazioni, viste da una certa distanza complementare, ci appaiono piuttosto simili e del tutto complementari. Queste somiglianze sono meno sorprendenti di quanto potrebbe sembrare a prima vista perché, malgrado di tanto in tanto scoppiassero delle rivalità fra le due discipline, sia i sociologi che i filosofi di quell’epoca condividevano una premessa di base e un problema. La premessa affermava che la scienza è, da un punto di vista culturale, unica e deve essere nettamente demarcata da altre ricerche intellettuali quali la filosofia, la teologia e l’estetica. Il problema centrale che ciascuna disciplina cercava di risolvere era rappresentato dal grado notevolmente alto di accordo presente entro la scienza. Durante gli anni Sessanta e Settanta, comunque, le concezioni che molti sociologi e filosofi della scienza avevano su questi temi cominciano a subire delle trasformazioni. Verso la metà degli anni Settanta la maggior parte delle tesi familiari dell’empirismo logico e della sociologia mertoniana avevano ceduto o erano fortemente scosse.
La storia della scienza, spesso coltivata da scienziati praticanti, come una sorta di hobby domenicale a margine di più serie ed apprezzate indagini specialistiche, o da anziani ricercatori ormai in pensione, essa veniva per lo più a costituire una sorta di paragrafo storico nelle trattazioni scientifiche sistematiche o nelle storie della filosofia [cfr. Kuhn 1968, 115-6]. Non mutano tale quadro complessivo i lavori pionieristici di Ernst Mach, Paul Tannery, George Sarton, Lynn Thorndike, Pierre Duhem e Charles Singer, il cui contributo tuttavia fece sì che negli anni Cinquanta si avviasse una decisiva svolta nello studio della storia della scienza, con un risoluto aumento di studiosi, sempre più attrezzati culturalmente e professionalmente, dediti a questo campo di ricerca, non più considerato con sufficienza; così negli Stati Uniti dai 5 storici della scienza del dopoguerra si passò ai 25 nel 1960 ed ai più di 125 alla metà degli anni Ottanta [cfr. Baldini 1986, 16-7]. Certo, era questa una storia della scienza ancora di stile “empirista”, prevalentemente votata alla ricostruzione interna dello sviluppo delle teorie e sostanzialmente “continuista”. È ancora quella storia della scienza che oscilla tra le posizioni in45
genuamente “induttiviste” – per le quali i problemi fondamentali sono quelli cronologici, di priorità e di paternità, con scarsa attenzione per l’esistenza all’interno della scienza di scuole di pensiero, di tendenze intellettuali, di controversie filosofiche – e quelle “convenzionaliste”, con l’idea che le teorie scientifiche non sono né vere né false, ma solo utili a conservare l’informazione empirica, e con l’ossessiva ricerca della continuità, della semplicità delle teorie, del progresso a piccoli passi, in cui ogni scienziato ha avuto sempre qualche predecessore che ne ha “anticipato” le idee [cfr. Agassi 1963, 17-20, 49-64 e passim]. Ad essere privilegiato era dunque il fenomeno del consenso all’interno della scienza. Si riteneva un dato di fatto la circostanza che, per quanto fossero profonde le controversie all’interno della comunità scientifica, gli scienziati avrebbero finito prima o poi per mettersi d’accordo [cfr. Laudan 1984, 9-10]. A ciò si collegava la convinzione che, al di là delle divergenze, esistesse un corpus di conoscenze ormai indiscusso, accettato da tutti gli scienziati, per cui le divergenze avevano luogo solo ai confini della ricerca scientifica, alla periferia delle costruzioni teoriche, là dove ancora la ricerca era in fieri. Tuttavia – si pensava – una volta dissodato il terreno, anche in questi nuovi territori si sarebbe pervenuto ad un accettabile corpo di conoscenze e di teorie sufficientemente stabili. Anche ad avviso di Popper, al di là dell’enfasi sul costante rivoluzionamento della scienza, il rapporto sussistente tra teorie successive si collocava all’interno di questo modo di pensare. Bisogna tuttavia precisare che i grandi maestri nel neopositivismo non erano così ciechi da ignorare il semplice dato di fatto che la scienza conosce una storia, che le teorie scientifiche cambiano e che vengono sostituite da nuove concezioni, più precise e generali. E di questo fatto bisognava in qualche modo dar conto. Già in passato – sull’esempio di Poincaré [1902, 241-9] – si era tentato di mettere insieme cambiamento scientifico e accumulazione della conoscenza all’interno di una visione strumentalistica delle teorie scientifiche, distinguendo le affermazioni sulla realtà sottostante ai fenomeni (le “immagini” che ci facciamo della realtà) dalla capacità di codificare questi in un insieme di relazioni coerente, efficiente e semplice, permettendone la predizione: in tale modo teorie successive si sarebbero differenziate solo per l’estensione e la precisione del dominio osservativo in esse ricompreso, per cui il progresso non 46
consisterebbe nella elaborazione di teorie sempre piú profonde e sempre “piú vere”, ma che hanno piuttosto una sempre piú ampia codificazione di sempre piú fenomeni [cfr. Worrall 2002, 31-3]. Tale impostazione venne in parte ripresa (senza la necessità di sposare esplicitamente una posizione strumentalista) nella concezione che ha ricevuto maggior credito nell’ambito della tradizione ricevuta: il cosiddetto progresso delle teorie per riduzione, che rappresenta il modo standard con cui venne affrontata la problematica della dinamica storica della scienza ed il punto di convergenza con l’ideale della scienza unificata, la quale si ritiene possa essere conseguita per mezzo di riduzioni interteoriche (ad es. della biologia alla chimica, di quest’ultima alla fisica, ecc.) da effettuare sul piano linguistico, indipendentemente da ogni presupposto ontologico [cfr. Hempel 1966, 151-64]. Grazie a tale concezione l’evoluzione della scienza viene concettualizzata modo modo tale da liberare il progresso scientifico dall’idea che esso consista nella semplice accumulazione di nuovi dati osservativi [cfr. Egidi 1979, 141-50]. I più consistenti contributi alla problematica della riduzione, dopo l’iniziale formulazione datane da Nagel [1935, 468], sono quelli successivamente forniti da J.H. Woodger [1956], C.G. Hempel [1951; 1969b], G. Bergmann [1954], J.G. Kemeny-P. Oppenheim [1956], da Popper [1957], Quine [1964] e da P. Suppes [1967]. Essi possono essere accorpati in diverse tipologie: quella proposta da Nagel, Woodger e Quine (ai quali può essere associata la posizione di Hempel), che costituisce il cosiddetto “paradigma NWQ”; quella di Kemeny-Oppenheim, che il cosiddetto “paradigma KO”; quella di Suppes 5 e quella di Bergmann [cfr. Egidi 1979, 160-62]. Tuttavia la formulazione più diffusa e nota è quella effettuata da Nagel [1961] in un’opera che può consi5
Segue in parte in tale classificazione Schaffner [1967, 138-9] , anche se a a questi paradigmi aggiunge un quarto, quello di Popper-Feyerabend-Kuhn, che a mio avviso non costituisce un vero e proprio approccio autonomo e unitario. Infatti mentre la posizione di Popper può essere assimilata, come in seguito vedremo, a quella classica del paradigma NWQ, la posizione di Feyerabend segue Popper solo all’inizio della sua carriera nel saggio [1962]. Infine il Kuhn cui si riferisce Schaffner è già quello della Struttura delle rivoluzioni scientifiche che, come vedremo, è già ben lontano dal condividere un progresso della scienza per riduzione.
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derarsi come la massima e più sofisticata espressione della tradizione ricevuta e che pertanto fornisce la dottrina in qualche modo ortodossa della riduzione delle teorie proposta nell’ambito della RV. In questa sua presentazione più matura, vengono da Nagel distinti due tipi diversi di riduzione: la omogenea e l’eterogenea. Nel primo caso v’è omogeneità tra i termini della scienza che viene ridotta (la cosiddetta “scienza secondaria”) e quelli della scienza a cui essa viene ridotta (chiamata “scienza primaria”), per cui essi vengono approssimativamente utilizzati con lo stesso significato in entrambe le scienze. Questo tipo di riduzione – ritenuto da Nagel scarsamente problematico – si ha quando delle teorie che hanno raggiunto un alto grado di conferma per i sistemi fisici ai quali esse sono state applicate con successo vengono estese ad altri ambiti fenomenici: La teoria della meccanica, per esempio, in un primo tempo fu sviluppata per i moti dei punti-massa (vale a dire per i moti di corpi le cui dimensioni sono cosí piccole da poter venire trascurate in rapporto alle distanze fra i corpi) e fu alla fine estesa ai moti dei corpi tanto rigidi quanto deformabili. In tali circostanze se delle leggi sono già state stabilite entro il dominio piú ampio (eventualmente su una base puramente sperimentale e prima dello sviluppo della teoria), queste leggi sono poi ridotte alla teoria. In questi casi, però, c’è una netta somiglianza qualitativa fra i fenomeni che compaiono nell’ambito iniziale e in quello ampliato della teoria. Cosí, i moti dei punti-massa sono del tutto simili a quelli dei corpi rigidi, dal momento che in entrambi i casi i moti implicano solo mutamenti nella posizione spaziale, anche se i corpi rigidi possono presentare una forma di moto (rotazione) che i punti massa non presentano. [cfr. Nagel 1961, 347-8]
Tali teorie sono, pertanto, altamente confermate all’interno di un certo ambito fenomenico, con un determinato grado di precisione e, benché sia sempre in linea di principio possibile che una teoria ben confermata venga improvvisamente rovesciata, ciò in pratica non avviene quasi mai, almeno all’interno dello specificato ambito fenomenico cui si riferisce la teoria e nei limiti di approssimazione stabiliti. Può invece capitare che, estendendo la teoria a nuove specie di fenomeni, la cui spiegazione o addirittura esistenza non era stata inizialmente prevista, essa possa subire delle sconferme, andando incontro a dei fallimenti predittivi. In questo caso, il fatto che si abbia a che fare 48
con nuovi fenomeni impone che la teoria venga modificata corrispondentemente, introducendo nuove tecniche di misura, nuove strumentazioni e quindi nuove regole di corrispondenza che la mettano in grado di trattare i nuovi fenomeni empirici. In tal modo la vecchia teoria viene sostituita con una nuova che abbraccia un ambito fenomenico più vasto del precedente ed il progresso della scienza viene concepito come una successione di teorie il cui ambito esplicativo è via via esteso ad ambiti sempre più vasti ed in cui la teoria che viene per ultima ricomprende in sé tutte le precedenti. Secondo questo approccio, dunque, non v’è autentica falsificazione di una teoria, in quanto quest’ultima è il risultato della illecita, anche se necessaria, estensione della teoria originaria ad un più esteso campo d’esperienza; la vecchia teoria resterà comunque valida all’interno del suo originario ambito fenomenico [cfr. Suppe 1974, 53-4]. Nel caso della riduzione eterogenea, una teoria “secondaria” viene assorbita in una teoria “primaria” più generale, diventandone solo una conseguenza deduttiva; così è ad esempio avvenuto con la riduzione della termodinamica alla meccanica statistica e alla teoria cinetica della materia o con la riduzione delle leggi di Keplero alla dinamica di Newton [Suppe, 54-5]. In questo caso, sostiene Nagel, un insieme di tratti distintivi di un qualche argomento viene assimilato a ciò che è evidentemente un insieme di tratti distintivi assolutamente diversi. In tali casi i tratti distintivi che sono materia della scienza secondaria ricadono nella giurisdizione di una teoria, che all’origine può essere stata destinata a trattare materie qualitativamente diverse e che non include neppure, nel proprio insieme di distinzioni teoriche basilari, alcuni dei termini descrittivi caratteristici della scienza secondaria. La scienza primaria sembra cosí annullare le distinzioni consuete in quanto spurie e affermare che quelle, che risultano prima facie caratteristiche indiscutibilmente differenti delle cose, sono in realtà identiche» [Nagel 1961, 348-9].
Ciò avviene perché «in riduzioni di questo tipo, la scienza secondaria si serve, nella sua formulazione di leggi e teorie, di alcuni predicati descrittivi specifici che non sono inclusi nei termini teorici fondamentali né nelle regole di corrispondenza relative della scienza primaria [ib., 351]. Come Nagel fa notare, mentre nella riduzione omogenea il vocabolario teorico VT in cui sono formulate le leggi della teoria secondaria è il medesimo di quello della teoria primaria, 49
invece nel caso della riduzione eterogenea il vocabolario teorico della scienza secondaria contiene termini che non ricorrono nel vocabolario teorico della scienza primaria. Mentre nel primo caso non sussistono, per Nagel, problemi particolari per la effettuazione della riduzione, invece nel secondo caso egli ritiene sia necessario che vengano rispettati innanzi tutto due requisiti di carattere formale: 1. La condizione di connettibilità: «devono essere introdotte assunzioni di un qualche tipo le quali postulino adeguate relazioni fra ciò che può venir significato da “A” [= termine teorico della scienza secondaria, assente in quella primaria] e i tratti caratteristici rappresentati dai termini teorici già presenti nella scienza primaria» [ib., 363]. In sostanza si richiede l’esistenza di postulati o regole di corrispondenza che facciano in qualche modo da “ponte” tra le due scienze e così permettano di eliminare la “eterogeneità” esistente tra i rispettivi enunciati teorici. 2. La condizione di derivabilità: servendosi delle assunzioni introdotte col precedente requisito, «tutte le leggi della scienza, incluse quelle che contengono il termine “A”, devono risultare logicamente derivabili dalle premesse teoriche e dalle relative definizioni coordinatrici della disciplina primaria» [ibidem]. Ma affinché tali due requisiti possano essere soddisfatti, Nagel indica quella che è una “ovvia esigenza”, e cioè che i termini teorici appartenenti ad entrambe le teorie che entrano nel processo di riduzione «abbiano un significato esente da ambiguità, fissato da regole d’uso codificate o da procedure determinate, proprie di ogni disciplina»[ib., 354]. È questa una semplice esigenza di massima chiarezza, senza la quale sarebbe difficile dire esattamente cosa si riduce e se effettivamente la riduzione ha avuto successo; essa ha carattere “ideale”, nel senso che rappresenta più un compito da raggiungere che una condizione effettivamente presente in ogni scienza, e tuttavia «è di estrema importanza che le espressioni appartenenti ad una scienza possiedano significati che sono fissati dalle sue specifiche procedure di spiegazione» [ib., 361]. A tali requisiti formali Nagel affianca due ulteriori requisiti aventi carattere non-formale: 1. Non è sufficiente che sia possibile dedurre logicamente 50
la scienza secondaria da quella primaria, in quanto ciò potrebbe avvenire anche a partire da premesse arbitrarie che vengono introdotte ad hoc. È ritenuto pertanto ragionevole imporre il requisito che «le assunzioni teoriche della scienza primaria debbano essere convalidate da una prova empirica dotata di un certo grado di efficacia dimostrativa» [ib., 367]. Questo requisito è l’equivalente del terzo requisito di carattere logico introdotto da Hempel per il suo modello della spiegazione nomologico-deduttiva (ovvero, l’explanans deve essere controllabile indipendentemente dall’explanandum) e serve allo stesso scopo: evitare la possibilità di riduzioni o spiegazioni ad hoc. Anche in questo caso esso serve ad assicurare che la riduzione (così come la spiegazione nel caso hempeliano) costituisca un reale progresso cognitivo, in modo che l’incorporazione nella scienza primaria della scienza secondaria porti ad un ulteriore sviluppo di quest’ultima col fornire teoremi «atti ad incrementare o a correggere il patrimonio di leggi della scienza secondaria comunemente accettate» [ib., 367, 370]. 2. Una riduzione si rivela feconda anche quando permette di porre in luce le strette e spesso sorprendenti relazioni che esistono tra le leggi sperimentali appartenenti alle due teorie, come è ad es. avvenuto con la riduzione della termodinamica alla meccanica statistica, nella quale sia il secondo principio della termodinamica, sia la legge di Boyle-Charles sono derivabili dallo stesso insieme di principi teorici della meccanica statistica. Di conseguenza si dimostra che leggi sperimentali apparentemente indipendenti (comprese quelle termiche) implicano una componente invariante comune rappresentata da un parametro teorico che si lega strettamente di volta in volta a tipi diversi di dati sperimentali. Ne consegue che la riduzione della termodinamica alla teoria cinetica non fornisce solo una spiegazione unitaria delle leggi della prima disciplina; essa integra anche queste leggi in modo che la prova direttamente rilevante per ciascuna di esse può servire come prova indiretta per le altre, e che la prova disponibile per ognuna delle leggi rafforza cumulativamente vari postulati teorici della scienza primaria [cfr. ib., 370-1]. È sulla base di questa teoria della riduzione che viene con51
cepito il progresso scientifico. Certo, Nagel evita di pronunziare giudizi ultimativi; la riduzione, infatti, dipende da varie circostanze: dalle fasi di sviluppo delle singole scienze, dalla disponibilità di teorie adatte alla riduzione, dalla opportunità o meno di procedere ad essa, ecc. Per cui ritiene che la riducibilità (come anche la irriducibilità) di una scienza ad un’altra sia storicamente contingente ed in ogni caso richiede che le teorie coinvolte abbiano raggiunto una fase matura di sviluppo [cfr. ib., 371-3]. Il quadro concettuale stabilito della teoria della riduzione può essere sinteticamente presentato con le parole di Suppe: La tesi della riduzione dà luogo al seguente quadro del progresso o sviluppo scientifico: la scienza stabilisce teorie che, se altamente confermate, sono accettate e continuano ad essere accettate come relativamente libere dal pericolo di successive sconferme. Lo sviluppo della scienza consiste nella estensione di tali teorie a più larghi domini (prima forma di riduzione), nello sviluppo di nuove teorie più altamente confermate per domini correlati e nell’incorporazione delle teorie confermate in più comprensive teorie (seconda forma di teoria della riduzione). La scienza è perciò un’impresa cumulativa che estende ed aumenta i vecchi successi con quelli nuovi; le vecchie teorie non sono rigettate e abbandonate una volta che siano state accettate; esse sono solo superate da teorie più comprensive alle quali sono ridotte. [Suppe 1974, 55-6]
È questa la visione dello sviluppo della scienza spesso definita come cumulativa o continuista. Per essa nulla va perduto nel passaggio da una teoria meno generale ad un’altra più generale; le predizioni della vecchia teoria non vengono improvvisamente invalidate, ma solo limitate ad un più preciso ambito, fuori del quale perderebbero il loro valore: così la meccanica newtoniana non è stata spodestata da quella relativistica, ma solo ritenuta valida all’interno di un universo in cui i corpi non abbiano velocità vicine a quella della luce [cfr. Toulmin 1953, 82-3]. Essa allora non è altro che una restrizione della meccanica relativistica da cui, con opportune assunzioni, può essere dedotta. Il modello che sottintende il rapporto tra teorie successive non è altro che una riproposizione del modello di spiegazione nomologico-deduttiva perfezionato da Hempel [1965]: il legame che tiene insieme teorie successive nel tempo è analogo (anzi, identico) a quello che fa derivare l’explanandum dall’explanans. Lo sviluppo scientifico non è che un capitolo della logica della spiegazione scientifica così 52
come è stata canonizzata dai maestri del neoempirismo, primo fra tutti Hempel. È importante notare, inoltre, che a costituire il nucleo centrale dello sviluppo della scienza nella tradizione ricevuta non è tanto la cura con cui si cerca di definire il come avvenga la transizione – e cioè quali siano le caratteristiche logiche, gnoseologiche, psicologiche o sociologiche ritrovabili nella transizione da una teoria all’altra: su questo punto v’è varietà di posizioni che tengono comunque ferma la tradizionale convinzione che tale aspetto appartiene più al contesto della scoperta che a quello della giustificazione (in base alla distinzione che vedremo tra poco). Piuttosto, ad essere importante è, in primo luogo, la valutazione del sostegno empirico di una teoria (ovvero, come vedremo, il problema della verifica o conferma); in secondo luogo – ed è ciò che qui più ci interessa – riuscire a stabilire quali relazioni logiche esistano tra teorie successive, in modo da far vedere come la scienza sia un’impresa unitaria procedente per formulazioni di teorie sempre più generali cui le precedenti, in linea di principio, possono essere ridotte. In questo caso Popper manifesta un suo particolare modo di intendere il rapporto tra teorie successive, quando affronta la questione della relazione esistente tra la fisica terrestre di Galileo (nonché quella celeste di Keplero) e la dinamica di Newton [cfr. Popper 1957]. Popper non mette in discussione il fatto che la dinamica newtoniana abbia realizzato l’unificazione tra fisica terrestre galileiana e fisica celeste kepleriana. Ciò che egli contesta è l’affermazione che sia possibile ricavare per induzione la prima dalle seconde, o addirittura dedurla rigorosamente da tali leggi. In effetti, «da un punto di vista logico, la teoria di Newton, strettamente parlando, contraddice sia quella teoria di Galileo sia quella di Keplero» [Popper 1957, 265; cfr. anche 1984, 159], per cui è impossibile che la prima sia derivabile induttivamente o deduttivamente dalle seconde: «Tutto ciò mostra che la logica, deduttiva o induttiva, non può fare il passo da queste teorie alla dinamica di Newton. Solo il genio può farlo» [Popper 1957, 269]. Insomma, Popper critica ciò che i neopositivisti (nella versione che ne dà Nagel) avevano denominato prima forma di riduzione (o “riduzione omogenea”), in quanto non ritiene che sia possibile ricavare per estensione una nuova teoria da una vecchia. Il che non esclude, però, che, venuti in possesso, mediante l’ingegnosità, della nuova teoria non sia possibile stabilire dei rapporti tra le due teo53
rie: «Solo dopo che disponiamo della teoria di Newton possiamo trovare se e in che senso le vecchie teorie si possono dire sue approssimazioni» [ib., 269; cfr. anche 1984, 163]. 6 La nuova teoria, insomma, spiega quelle vecchie, e cioè le contiene, anche se in modo approssimato; ovverosia, le spiega correggendole. In pratica Popper finisce per assumere una posizione assai simile a quella di Hempel, il quale – dopo aver anche lui constatato che «la legge gravitazionale di Newton, lungi dall’essere una generalizzazione induttiva basata sulle leggi di Keplero, è, strettamente parlando, incompatibile con esse» [Hempel 1965, 344] – parla di spiegazione nomologico-deduttiva approssimata, in cui le leggi ridotte sono implicate solo approssimativamente. 7 Tuttavia né Popper né Hempel chiariscono cosa si intende esattamente per spiegazione deduttiva approssimata: si vuole solo affermare che i risultati numerici delle due teorie sono molto vicini? Ma se fosse solo questo non si capirebbe la necessità di concepire le teorie successive come legate da un rapporto nomologico-deduttivo, giacché anche teorie che non hanno nulla in comune possono benissimo fare delle predizioni numericamente assai simili. Oppure si intende introdurre un tipo di spiegazione diverso da quello proprio del modello nomologico-deduttivo? Ma allora sarebbe chiaro che una spiegazione di tal genere difficilmente potrebbe essere definita “deduttiva” nel senso rigoroso del termine. In ogni caso, riguardo questo punto, possiamo facilmente vedere come Popper rimanga all’interno della strada tracciata dai maestri del neoempirismo, rifiutando solo la prima versione della teoria della riduzione: si perviene ad una nuova teoria non per estensione (induttiva o deduttiva che sia) ma 6
Si può notare, per inciso, che un’impostazione assai simile è propria anche di Gaston Bachelard [1934, 39-40], che pur si è formato all’interno di una tradizione scientifico-filosofica del tutto diversa da quella di Popper. 7 «Quando una teoria scientifica è scalzata da un’altra, nel senso in cui la meccanica classica e l’elettrodinamica sono state superate dalla teoria speciale della relatività, allora la teoria successiva avrà generalmente un più largo ambito esplicativo includendo fenomeni di cui la precedente teoria non dava conto; inoltre essa provvederà di regola spiegazioni approssimate delle leggi empiriche implicate da quelle che la precedevano. Perciò la teoria speciale della relatività implica che le leggi della teoria siano molto da vicino soddisfatte nei casi comportanti il movimento solo a velocità che siano piccole rispetto a quella della luce» [Hempel 1965, 345].
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per sostituzione, in cui la nuova teoria è il frutto della libera creatività dello scienziato, anche se dopo l’invenzione, pure Popper ritiene esista una relazione tra la vecchia la nuova teoria, giacché, egli afferma, affinché la T2 sia migliore della T1 si richiede a) che essa contenga T1 come sua approssimazione di modo che essa possa spiegare il successo di T1, e b) che essa spieghi tutto quello che T1 non riusciva a spiegare almeno meglio di quanto abbia fatto T1 [cfr. Popper 1974b, 1012]. Insomma, al di là della retorica della scienza come rivoluzione permanente, la posizione di Popper di fatto non contraddice l’insegnamento fondamentale della RV (come espresso nella seconda forma della teoria della riduzione), ma solo lo completa col sottolineare vigorosamente le modalità del cambiamento scientifico: per congetture e confutazioni; aspetto, questo normalmente trascurato dal neopositivismo, maggiormente interessato ad indagini sincronico-strutturali delle scienze miranti alla chiarificazione di temi quali la relazione tra teoria ed esperienza (problema della conferma, dell’induzione ecc.) o la relazione logica tra teorie successive (già ben sviluppate e possibilmente assiomatizzate). Ciò a cui si teneva nella RV era la possibilità di conciliare il progresso della scienza (e quindi il cambiamento e la sostituzione delle teorie) con la convinzione che le teorie, anche se superate, mantengono una loro pur limitata validità; ciò allo scopo di assicurare alla scienza quella continuità e cumulatività che sembravano farne un ambito di conoscenza privilegiato rispetto ad altre discipline sempre in continuo rivoluzionamento e per le quali era difficile poter parlare di un progresso nel tempo (come ad es. in filosofia e in metafisica), edificato sul successo o sulle conquiste conseguite grazie alle teorie precedenti. Ciò poteva essere assicurato solo rifiutando di considerare definitivamente “morte” le teorie superate, con l’ammettere ad esempio la falsità delle leggi di Keplero e Galilei, e spiegando mediante la teoria della riduzione in cosa consista il progresso effettuato da Newton. In Popper si ha un atteggiamento più rivoluzionario: il cammino della scienza è cosparso dei cadaveri delle teorie spodestate; eppure ciò è solo un’apparenza, in quanto poi Popper risuscita tali teorie-cadaveri per far vedere come esse, tutto sommato, siano solo un caso particolare della teoria che le ha uccise. In pratica, le vecchie teorie, anche se confutate, hanno ancora una loro validità: la meccanica newtoniana viene ridimensionata nelle sue pretese, senza però 55
cessare di esser vera all’interno di un vasto ambito fenomenico. A voler definire l’adeguatezza di una teoria da un punto di vista metodologico (e cioè in termini di capacità esplicativa e predittiva, di gradi di falsificabilità, universalità, semplicità, ecc.), non v’è dubbio che ogni teoria ben corroborata, anche se poi superata da una successiva, ha una sua validità definitiva (all’interno dell’ambito che sarà specificato chiaramente solo alla luce delle teorie successive), non scalfibile dalla futura evoluzione della scienza: da questo punto di vista nessuna teoria muore veramente. Il fatto che nel tematizzare il cambiamento scientifico si puntasse l’attenzione al rapporto tra due teorie successive, piuttosto che alle motivazioni o cause che avevano portato dall’una all’altra, era la conseguenza di una classica dottrina che si era affermata sin dall’inizio del positivismo logico e che mirava a separare nettamente il momento cognitivo, valutabile mediante un’accurata analisi razionale supportata dagli strumenti formali della logica, e quello invece che ha a che fare con gli aspetti contingenti – di natura psicologica e sociale – che possono avere importanza per l’aneddotica della scoperta scientifica, ma che nulla dicono sulla rilevanza cognitiva delle teorie né sul grado del loro supporto empirico e razionale. Insomma, è la tesi per cui bisogna nettamente distinguere il cosiddetto “contesto della scoperta” dal “contesto della giustificazione”[cfr. Schickore & Steinle 2006]. Effettuata a suo tempo da Kant in termini generali, poi riferita alle teorie scientifiche da Cassirer [1920, 485] ed in seguito fatta propria da Popper [1934], Carnap [1928, 80; 1938] e da Reichenbach [1938, 6-7, 382; 1949, 178-9; 1957, 6-7], tale dottrina costituisce uno dei punti caratterizzanti di tutto il movimento neopositivista e un elemento cruciale della tradizione ricevuta. Essa sottolinea il fatto che nella scienza non hanno tanto importanza le questioni di origine, quanto quelle di validità aventi a che fare con il problema dell’accertamento, una volta che la teoria sia stata “congetturata”, della sua accettabilità per mezzo del controllo empirico. Afferma Popper nella sua Logica della scoperta scientifica [1934, 9-10]: Lo stadio iniziale, l’atto del concepire o dell’inventare una teoria non mi sembra richiedere un’analisi logica né esserne suscettibile. La questione: come accada che a un uomo venga in mente un’idea nuova – un tema musicale, o un conflitto drammatico o una teoria
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scientifica – può rivestire un grande interesse per la psicologia empirica ma è irrilevante per l’analisi logica della conoscenza scientifica. Quest’ultima prende in considerazione non già questioni di fatto (il quid facti? di Kant), ma soltanto questioni di giustificazione o validità (il quid juris? di Kant). Le sue questioni sono del tipo seguente. Può un’asserzione essere giustificata? E, se lo può, in che modo? È possibile sottoporla a controlli? È logicamente dipendente da certe altre asserzioni? O le contraddice? Perché un’asserzione possa essere esaminata logicamente in questo modo, dev’esserci già stata presentata; qualcuno deve averla formulata e sottoposta ad esame logico».
Ne segue che è necessario operare una netta distinzione tra il processo che consiste nel concepire una nuova idea, e i metodi e i risultati dell’esaminarla logicamente. Per quanto riguarda il compito della logica della conoscenza – in quanto distinta dalla psicologia della conoscenza – procederò basandomi sul presupposto che esso consista unicamente nell’investigare i metodi impiegati in quei controlli sistematici ai quali deve essere sottoposta ogni nuova idea che si debba prendere seriamente in considerazione. [...] il mio modo di vedere la cosa – per quel che vale – è che non esista nessun metodo logico per avere nuove idee, e nessuna ricostruzione logica di questo processo. Il mio punto di vista si può esprimere dicendo che ogni scoperta contiene un “elemento irrazionale” o “un’intuizione creativa” nel senso di Bergson [ib., 10-1].
Tale distinzione è stata introdotta allo scopo di combattere innanzi tutto lo psicologismo in campo logico: quando si parla di “legge logica”, sostiene Frege, si intende qualcosa di totalmente diverso da una legge psicologica: quest’ultima descrive il comportamento di fatto tenuto dagli uomini, «il modo comune, intermedio di pensare; allo stesso modo come potrebbe venir indicato in che modo proceda nell’uomo la digestione sana, o in che modo si parli in forma grammaticalmente esatta, o in che modo si vesta modernamente» [Frege 1893, 485-6]. Invece la legge logica enuncia ciò che deve essere, stabilisce come si debba pensare ovunque e ogniqualvolta si voglia giudicare in modo vero; essa ha carattere normativo. Insomma, lo psicologismo avrebbe il vizio capitale di confondere sistematicamente ciò che ha la natura di una regola o di una norma con ciò che invece esprime solo un principio di funzionamento o una legge psicologica. Da questa scelta in favore del normativismo in logica si ebbe un notevole impulso ad operare anche in filosofia della scienza una distinzione analoga con la dottrina dei due contesti [cfr. Engel 2000, 55-7]. In tal modo si procedette a distinguere il campo proprio 57
dell’epistemologia (intesa quale filosofia della scienza) da quello della psicologia (e della sociologia), perché ciò che sta piú a core dei sostenitori della RV è liberare dalla “influenze deformanti” la scienza, in modo da metterne in luce il cucleo razionale: al piú essere a tal fine potevano utili le ricerche di carattere storico e sociologico [cfr. Feigl 1961, 15]. E tale distinzione, col mettere l’accento sul momento del controllo, finisce col privilegiare la fase successiva alla elaborazione delle teorie: la fase in cui queste vengono giustificate e viene eventualmente loro assegnato un certo grado di conferma in base all’esperienza disponibile. La genesi delle teorie viene abbandonata all’atto creativo dello scienziato, ovvero ad un processo psicologico che ha ben poco a che fare con la logica, deduttiva o induttiva che sia. Quest’ultima non può essere in alcun modo giustificata in quanto è di esclusiva pertinenza della psicologia del soggetto, così come aveva già indicato Hume. E difatti per molti filosofi della scienza la posizione del filosofo scozzese rimane una acquisizione insuperabile del pensiero, e non un problema da risolvere con rinnovati tentativi e strumenti logico-formali. O, detta con le parole di Popper, il problema di Hume diventa risolvibile semplicemente ammettendo che «non c’è induzione, perché le teorie universali non sono mai deducibili da asserzioni singolari» [Popper 1934, xv]. Ogni problema di filosofia della scienza doveva pertanto concernere la struttura logica della scienza e delle sue argomentazioni, con una rigida separazione tra il contesto della scoperta – consegnato alla irrazionalità della psicologia – e quello della giustificazione, sul quale dovevano concentrarsi gli sforzi dei filosofi della scienza. Si può sostenere che appunto tale distinzione veniva a costituire il comune presupposto di tutti i filosofi della scienza fino agli anni Sessanta, ivi compreso il contestatore Popper. Come ben evidenzia Toulmin, i convincimenti di fondo erano: (1) che un attento esame analitico delle argomentazioni che emergono nel “contesto della giustificazione” scientifica metterà in luce che la scienza naturale, praticata in modo proprio, deve disporre di un canone, di un “metodo” o organon; (2) che le procedure fondamentali di questo metodo possono essere appropriate ed espresse in algoritmi formali, che correlino le osservazioni empiriche della scienza alle proposizioni teoretiche, nei termini delle quali le prime devono essere spiegate; e (3) che la “razionalità” delle scienze naturali risiede nel loro conformarsi a questo insieme di procedure formalmente valide. [Toulmin 1977, 102]
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Il rifiuto di una logica della scoperta – cioè della possibilità di fornire canoni razionali che guidino lo scienziato nell’arte dell’invenzione o permettano di analizzarne logicamente il comportamento in questa fase della sua attività, lascia come sola possibilità quella concepire una logica della giustificazione nella quale viene recuparata l’induzione su base probabilistica, nel contempo sviluppata all’interno della teoria della probabilità. Come afferma Hempel, «benché nessuna restrizione sia imposta sulla invenzione delle teorie, l’oggettività scientifica è salvaguardata facendo dipendere la loro accettazione dal risultato di accurati controlli. Questi consistono nel derivare dalla teoria delle conseguenze che permettono indagini osservative o sperimentali e quindi nel controllarle con idonee osservazioni o esperimenti» [Hempel 1966b, 32]. Sarebbe in tal modo possibile valutare su basi probabilistiche il supporto empirico che una certa legge o teoria – una volta che sia stata formulata – abbia ricevuto dall’esperienza, in base ai controlli effettuati ed agli esperimenti di laboratorio eseguiti. Ciò spiega la grande cura e il grande sfoggio di intelligenza e sofisticazione logica che in ambito neopositivista e nella tradizione ricevuta si sono esplicati nel tentativo di fornire una valutazione razionale del “grado di conferma” delle leggi e teorie scientifiche, facendo uso dei piú sofisticati strumenti del calcolo probabilistico (ed in ciò è stato maestro Carnap). Sono questi gli aspetti fondamentali che hanno caratterizzato l’immagine tradizionale della scienza come consegnataci dai grandi protagonisti della stagione dell’empirismo logico, alcuni dei quali ripresi da quella “tradizione ricevuta” descritta nel § 1.1 e della quale essi si concepiscono come eredi; altri invece piú specificatamente elaborati nell’ambito della “Received View prima descritta. In sintesi: (a) un approccio che esalta della scienza il suo aspetto razionale (ma non razionalista), la sua natura empirica, e individua nel metodo l’elemento che la rende peculiare e le ha permesso lo straordinario successo nella conoscenza della natura, onde il proposito di estenderne l’applicazione anche alle altre attività intellettuali umane che si pongano il medesimo obiettivo epistemico, come le scienze umane e storiche; (b) una concezione della scienza come asettico rapporto tra il soggetto e l’oggetto, in cui deve essere eliminata ogni considerazione sentimentale e che risulta indifferente a determinazioni sociali, psicologiche, religiose, di genere e razziali, in favore della sua neutralità ed oggettività, intesa come 59
possibilità di accordo intersoggettivo; (c) la esaltazione della logica matematica contemporanea come lo strumento principe per dare rigore alle argomentazioni e per esaminare la struttura della scienza, che viene concepita come un sistema linguistico in cui le teorie sono dei calcoli interpretati e connessi all’esperienza mediante delle regole di corrispondenza; (d) una impresa cognitiva fortemente centrata sulla fisica, che viene assunta a modello di conoscenza, con un interesse precipuo per l’analisi delle sue strutture formali; (e) infine, una visione del legame tra teorie successive basato sulla riduzione, che permetta di conciliare la continuità e l’accumulo della conoscenza con il dato di fatto del cambiamento scientifico. Una visione rassicurante, spesso ancora oggi condivisa da molti scienziati e diffusa tra le persone di media cultura, che supporta una visione della tecnologia come naturale espressione di una conoscenza scientifica neutrale e che consegna allo scienziato la decisione sulla risoluzione dei problemi dell’umanità. Da questo dominio della “espertocrazia” – che trova la propria legittimità nella indiscutibilità della scienza – è sempre pià segnata la società contemporanea, in cui la decisione democrativa viene sempre piú sottratta alla decisioni popolari per essere delegata a chi è in possesso di una conoscenza che si ritiene al di sopra delle parti. Ma come proprio questa concezione entra in crisi a cominciare dagli anni ’60, rimettendo in discussione le certezze che sino ad allora avevano governato sia la comunità degli scienziati e dei filosofi della scienza, sia gli intellettuali che hanno responsabilità nella gestione delle moderne società democratiche. Analizziamone i punti salienti. 1.2.2. La critica della RV – La crisi della RV non avviene tutta in una volta, ma seguito di un lungo processo in cui vengono innanzi tutto modificati i principali punti della sua impostazione, specie in relazione alla questioni riguardanti le regole di corrispondenza, la significanza cognitiva, lo status dei termini teorici con la conseguente distinzione teoria-osservazione, e le regole logiche sottostanti alla formulazione delle teorie, in riferimento particolare ai problemi sollevati dal condizionale materiale [cfr. Suppe 1974, 16-53]. La insoddisfazione per tali tentativi di modifica porta pian piano molti critici a metterne in discussione tutti i capisaldi, a cominciare da quelli piú specifici, concernenti i particolari concetti metodologici e teorici 60
elaborati nel suo seno elaborati. All’inizio, come prima detto, tali critiche erano considerate dei meri dissensi locali che vertevano su punti da chiarire tecnicamente e dei quali si aveva fiducia che il progresso dell’analisi e della riflessione critica sarebbe prima o poi venuta a capo; e spesso erano gli stessi studiosi che si collocavano all’interno di essa a rendersi conto della insufficienza di certe soluzioni, pur mantenendo sempre ferma la fiducia possibilità di una loro soluzioni: un caso di questi è stato appunto Hempel, che nel tempo ha mutato le proprie concezioni, ha progressivamente “liberalizzato” l’originaria impostazione empirista ed ha cercato nuove soluzioni a vecchi problemi, senza tuttavia mai cedere a posizioni di rigetto globale e acritico della tradizione nella quale era cresciuto e mantenendo così sempre vivo “lo spirito dell’empirismo logico” [Salmon 1999]. L’erosione delle posizioni ereditate dal positivismo logico avviene innanzi tutto grazie a un piccolo drappello di studiosi che nel tempo ne hanno criticato alcuni aspetti chiave, pur senza riuscire scuoterne l’edificio. Sono filosofi che hanno pubblicato i loro contributi critici prima dello spartiacque costituito dall’opera di Kuhn [1962] e che sono stati valorizzati solo successivamente quali importanti prodromi del diluvio poi avvenuto; ci riferiamo a pensatori come N.R. Hanson [1958], Michel Polanyi [1958], Stephen Toulmin [1962], Paul K. Feyerabend [1962] e – ancora più lontano nel tempo – Willard v. O. Quine [1951] e Wilfrid Sellars [1956], per non parlare dell’ombra lunga del secondo Wittgenstein [1952] che ha influenzato molti autori nel loro approccio al pensiero scientifico, in particolare Feyerabend col dargli l’abbrivio per cominciare a riflettere sul problema dell’incommensurabilità [cfr. Feyerabend 1977, 44]. Uno dei primi e piú importanti punti di attacco, che ha una funzione dirompente e che tanta fortuna ha conosciuto nella filosofia degli ultimi decenni – sino a diventare un leitmotiv del pensiero contemporaneo suonato sull’accordo fondamentale nietzschiano per cui non esistono fatti ma solo interpretazioni – è la cruciale distinzione fatta nell’ambito della RV tra teorico ed osservativo. Come abbiamo visto, la strategia comune sia a Popper che ai neopositivisti nel concepire il progresso della scienza per mezzo del concetto di riduzione – pur con le differenze evi61
denziate – si fonda sul rispetto di un requisito essenziale indicato da Nagel: che i termini teorici appartenenti alle due teorie che si succedono mantengano il medesimo significato; ovvero che il senso dei termini appartenenti al VT della scienza secondaria deve essere il medesimo di quello da essi posseduto nella scienza primaria, o sia comunque ad esso riducibile mediante opportune regole di traduzione. Inoltre è ritenuto anche necessario che i termini teorici appartenenti ad una teoria siano forniti di significato empirico mediante degli appositi principi di collegamento con la base empirica, cioè che il vocabolario teorico sia collegato da appropriate regole di corrispondenza a quello empirico: collegamento questo quanto mai problematico. Mentre quest’ultima questione ha carattere prevalentemente logico (si tratta di andare ad indagare la struttura di una teoria, differenziarne i vari elementi e quindi trovare le reciproche connessioni; in particolare si tratta di trovare la formula più efficiente che permetta di collegare vocabolario teorico e vocabolario osservativo), il problema della costanza di significato tra i termini teorici di teorie successive ha, invece, un aspetto più caratterizzato in senso storico: bisogna accertarsi se di fatto i termini omonimi in teorie successive hanno mantenuto lo stesso significato oppure ormai denotano cose diverse e sono tra loro inconfrontabili. Si tratta, cioè in quest’ultimo caso, di vedere quanto sia adeguata questa differenziazione a cogliere quanto effettivamente fatto dagli scienziati quando eleborano le loro teorie scientifiche. Già da quest’ultimo punto di vista Popper aveva cominciato a delegittimare – sin dalle sue prime opere – la convinzione di una netta demarcazione tra teorico ed osservativo [cfr. Popper 1934, 101-3], in quanto quasi tutte le asserzioni che facciamo trascendono l’esperienza. Non c’è nessuna linea netta di divisione fra un “linguaggio empirico” e un “linguaggio teorico”: teorizziamo continuamente, anche quando facciamo la piú banale osservazione singolare. […] Così non soltanto le teorie esplicative piú astratte, ma anche le asserzioni singolari piú ordinarie, trascendobno l’esperienza. Infatti, anche le asserzioni singolari ordinarie sono sempre interpretazioni dei “fatti” alla luce di teorie. [Popper 1934, 478-9]
E a tale convincimento egli restò sempre fedele [cfr. Popper 1948; 1975, 101-2], anche se rifiutò di trarne le conseguenze che poi gli altri critici ne ricaveranno. Sulla strada da lui intrapresa si sono avviati altri filosofi della scienza, che l’hanno per62
corsa sino in fondo con maggiore decisione e più agguerrite argomentazioni logiche, portando un critica stringente alla distinzione tra teorico ed osservativo. Dopo la critica serrata operata da Quine già nel 1951 alla distinzione tra analitico e sintetico [cfr. Quine 1951], che però non aveva scosso la fiducia nella possibilità di operare comunque la distinzione tra teoria ed esperienza, sono stati in particolare Peter Achinstein [1965, 1968] e Hilary Putnam [1962] a dimostrare, come nota Suppe [1974, 83], che i significati della maggior parte dei termini non logici in un linguaggio scientifico naturale sono tali da poter essere usati sia in riferimento a ciò che potrebbe plausibilmente esser detto osservabile, come anche in riferimento a ciò che potrebbe altrettanto plausibilmente esser interpretato come non-osservabile. Donde non esiste una divisione naturale dei termini in osservabili e non osservabili.
Una conclusione cui è giunto anche Hempel [1973] il quale, nel riferirsi alle “proposizioni osservative” che avrebbero dovuto avere il fardello – nella concezione standard – di assicurare l’inpretazione dei termini teorici contenuti nella teoria e di assicurare una comune base intersoggettiva e pubblica alla scienza, fa osservare come la possibilità di individuare i termini osservativi non dipenda dalle capacità biologiche della specie homo sapiens, ma è un frutto della cultura e la conseguenza di un dato addestramento linguistico e scientifico: un predicato non è “osservativo” tout court,, ma sempre relativamente ad una data persona. La conseguenza è che «non si può ritenere che il carattere pubblico e intersoggettivo dell’evidenza grazie alla quale le teorie scientifiche sono controllate venga assicurato dall’esclusivo uso di predicati osservativi nella descrizione di tale evidenza» [ib., 212]. Inoltre – aggiunge Hempel – la nozione di osservabilità è estremamente artificiosa, perché il controllo di una teoria o il significato dei suoi termini teorici non avviene sulla base di ciò che è intuitivamente dato nell’esperienza, ma in base ad un vocabolario già consolidato ed appartenente a teorie già accettate, per cui la bese empirica di una teoria è di fatto costituita dai predicati già disponbili e che hanno dato prova di sé nella scienza. Anche in questo caso, tuttavia, si ha a che fare con un “concetto storico-pragmatico”, perché il vocabolario “già disponibile” è tale sempre in relazione alla introduzione di una tetoria data: il carattere pubblico ed intersoggettivo di una teoria è legato «all’uniformità con cui il vocabolario già esistente è usato degli scienziati addestrati nel 63
settore» [ib., 213]. Hempel – come anche Popper – è sulla lama di un rasoio: egli infatti non vuole arrivare, con tali correzioni, alla tesi poi sostenuta da Feyerabend (da lui esplicitamente menzionata) che ogni cambiamento teorico comporti un cambiamento nei significati dei termini, in quanto gli pare che ciò porterebbe alla conclusione che i principi teorici sarebbero tali da rendere ogni teoria vera, vanificando con ciò ogni carattere empirico della scienza: una tesi, questa, “insostenibile” e in ogni caso non «sufficientemente chiara da permetterne una valutazione soddisfacente» [ib., 211]. Nondimeno egli abbandona un requisito tipico del punto di vista analitico rigoroso, cioè che una teoria sprovvista di una esplicita interpretazione in termini chiaramente compresi ed empiricamente radicati sia destituita di ogni significato cognitivo; a tale punto di vista troppo restrittivo egli preferisce l’idea che vi siano altri modi, rispetto alla interpretazione linguistica esplicita, per rendere intellegibili i concetti e imparare a usare nuove espressioni, giungendo a un buon accordo interpersonale: non solo – come già detto – grazie «alla formazione di un corpo di principi teorici che connetono i nuovi termini teorici tra loro e ai termini già precedentemente disponibili», ma in quanto la «precisione e l’uniformità nell’uso dei termini teorici sono ulteriormente assicurate attraverso vari tipi di condizionamento grazie a strumenti linguistici non espliciti che gli scienziati ricevono nel corso del loro addestramento professionale» [ib., 216]. E il riferimento alle “suggestive osservazioni” effettuate in merito da Kuhn [1962] è qui estremamente significativo, in quanto fa vedere quanto sia giunto Hempel vicino alle posizione di quest’ultimo, pur rifiutando sempre di accedere ad una visione irrazionalista della scienza. Non a caso Salmon – nel ridimensionare il carattere rivoluzionario dell’opera di Kuhn, cercando di farla rientrare in un empirismo logico inteso in senso ecumenico – ricorda come, nel corso di un simposio del 1983, Hempel, Kuhn e lui abbiano potuto discutere sul problema della razionalità scientifica senza “difficoltà di comunicazione” e finendo per constatare che «il nostro profondo accordo era di gran lunga superiore alle nostre differenze» [Salmon 1999, 348]. Si viene così gradualmente ad affermare l’idea che la classificazione dei termini non logici di una teoria in osservabili e non-osservabili non dipenda dalla cogenza e univocità del fe64
nomeno percettivo, ma piuttosto dalla teoria, o teorie, nel cui contesto, e sulla cui base, viene eseguita l’osservazione. Lo scienziato osserva, insomma, quel che le sue aspettazioni teoriche, formate dalla conoscenza scientifica e dalle credenze metafisiche ad essa connesse, gli fanno osservare.8 Tale tematica, affrontata da Putnam ed Achinstein da un punto di vista prevalentemente logico, è stata approfondita, attraverso una attenta analisi della fenomenologia percettiva, da Norwood R. Hanson [1958, 13]: Consideriamo due microbiologi. Essi osservano un vetrino preparato; quando gli viene chiesto che cosa vedono, possono dare risposte diverse. Uno di loro vede nella cellula che gli sta dinanzi un grumo di materia estranea: è un artefatto, un coagulo risultante da tecniche di colorazione inadeguate. Questo grumo non ha a che fare con la cellula, in vivo, più di quanto abbiamo a che fare con la forma originaria di un antico vaso greco le scalfitture inflittegli dal badile degli archeologi. L’altro biologo identifica nel grumo un organo cellulare, un “apparato di Golgi”. Quanto alle tecniche afferma: “Il modo standard di scoprire un organo cellulare è attraverso la fissazione e la colorazione. Perché accusare questa tecnica di produrre artefatti mentre le altre rivelerebbero organi genuini?”.
La controversia tra i due microbiologi sta nel fatto che ciò che loro “vedono” non dipende solo dai loro occhi, ma anche dalla teoria microscopica accettata, dalle convinzioni di ciascuno circa la definizione di “organo cellulare”, e così via. Si potrebbe obiettare che qui si hanno differenti interpretazioni di un identico atto percettivo; ma, anche concedendo ciò, ed Hanson non lo concede, si può rispondere che nella scienza abbiamo a che fare solo con percezioni significative, dove è assai arduo distinguere quanto concerne il dato e quanto appartiene all’interpretazione del dato, giacché «teorie ed interpretazioni sono “presenti” nella visione fin dal principio» [ib., 21]. Infatti, «vedere non consiste solo nell’avere un’esperienza visiva, bensì anche nel modo in cui si ha quell’esperienza visiva» [ib., 27]. 8
Su tutta la questione della rivalutazione del teorico nella filosofia della scienza contemporanea è ormai assai vasta la letteratura critica. Ad esempio, su questa falsariga è per lo più condotta l’analisi della filosofia della scienza degli ultimi decenni fatta da D. Oldroyd [1986]. Ma si veda anche l’informato volume di R. Lanfredini [1988], dove sono ritrovabili ampie indicazioni bibliografiche.
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Senza contare che vi sono casi e situazioni, accuratamente studiati dalla psicologia della Gestalt, nei quali osservatori con aspettative diverse non riescono letteralmente a vedere “fatti” ad altri chiaramente ed immediatamente evidenti. Appoggiandosi proprio alla Gestalt-Theorie, Hanson ripropone dei classici esempi di ambiguità percettiva (come ad esempio la figura in cui è possibile scorgere due immagini: una bella giovane vista di profilo ed una vecchia). Altre situazioni percettive o esperimenti condotti in laboratorio hanno meso in piena luce anche come ciò che si vede dipende dal contesto in cui l’oggetto è inserito, o dalle aspettative teoriche di chi osserva, o da entrambe le circostanze. Un esperimento di questo tipo, particolarmente significativo sia in se stesso sia anche perché riportato da T. Kuhn [1962, 86-8] (vedremo in seguito il perché), dimostra con chiarezza quanto finora abbiamo detto: In un esperimento psicologico, che meriterebbe di essere più largamente conosciuto al di fuori del suo campo professionale, Bruner e Postman chiesero ai soggetti che si prestavano all’esperimento di identificare una serie di carte da gioco che venivano mostrate per breve tempo ed in maniera controllata. Parecchie delle carte erano normali, ma alcune presentavano qualche anomalia, come ad esempio un sei di picche rosso ed un quattro di cuori nero. Ciascuna serie di esperimenti consisteva nel presentare le carte ad un soggetto facendogliele vedere una per una e per tempi gradualmente crescenti. Ad ogni carta mostrata, veniva chiesto al soggetto che cosa avesse visto e la serie aveva termine quando si ottenevano due successive identificazioni corrette. Parecchi soggetti identificarono la maggior parte delle carte anche quando il tempo di esposizione era fra i più brevi e, dopo un leggero aumento del tempo di esposizione, tutti i soggetti identificarono tutte le carte. Per quanto riguarda le carte normali, queste identificazioni erano solitamente corrette, ma le carte anomale venivano quasi sempre identificate, senza alcuna esitazione o perplessità, come carte normali. Il quattro di cuori nero, ad esempio, poteva venire identificato come quattro di picche o come quattro di cuori. Senza avvertire minimamente una difficoltà, esso veniva fatto rientrare immediatamente entro una delle categorie concettuali preparate dalla esperienza precedente. Non si potrebbe neppure dire che i soggetti avevano visto qualcosa di diverso da quello che identificavano. Col crescere del tempo d’esposizione delle carte anomale, i soggetti cominciavano ad esitare e mostrare coscienza dell’anomalia. Messo di fronte, per esempio, al sei di picche rosso, qualcuno poteva dire: È il sei di picche, ma c’è qualcosa che non va; il nero ha un bordo rosso. Aumentando ancora il perio-
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do di esposizione, si manifestavano una esitazione e una confusione ancora maggiori, finché finalmente, e talvolta abbastanza all’improvviso, la maggior parte dei soggetti dava l’identificazione corretta senza esitazione. Quando poi qualcuno aveva riconosciuto correttamente due o tre delle carte anomale, e non avrebbe trovato difficile fare lo stesso con le altre. Alcuni soggetti, però, non furono mai in grado di operare il necessario riadattamento delle loro categorie. Anche con un tempo di esposizione quaranta volte più lungo di quello normalmente richiesto per riconoscere le carte normali, più del 10 per cento delle carte anomale non vennero identificate correttamente. Ed i soggetti che non riuscivano, spesso provavano un’acuta frustrazione. Uno di essi esclamò: “Non riesco a decifrare il seme, qualunque sia. Questa volta non aveva neppure l’aspetto di una carta. Non so che colore ha ora e se è un picche o un cuori. Non sono neppure sicuro ora su come è fatto un picche. Dio mio!”.
Questa critica nei confronti della dicotomia teorico-osservativo assume anche la consistenza di un argomento decisivo contro uno dei cardini della RV: il modello di sviluppo scientifico per riduzione. Com’è possibile, infatti, ridurre una teoria ad un’altra quando ognuna di esse non è in grado di specificare con esattezza la distinzione tra vocabolario teorico e vocabolario osservativo? Come osserva Achinstein [1968, 76], dire questo è rigettare una fondamentale assunzione del positivismo e precisamente che ci sono, e debbono esserci, dei termini in una teoria (i termini non-teorici) il cui significato può essere dato indipendentemente dalla teoria e che può rimanere costante da teoria a teoria».
La conseguenza della asserita dominanza teorica, per cui le osservazioni sono “cariche di teoria” (theory-laden), e del fatto che il significati dei termini è determinato solo all’interno di un dato quadro concettuale, è l’affermazione che in teorie successive i termini omonimi hanno un significato del tutto diverso. Analogamente Schaffner [1967], Sklar [1967] e Nickles [1973] hanno sollevato numerose difficoltà in merito all’analisi positivistica della riduzione (anche in relazione ai molteplici modi in cui essa può venire intesa), pur non ritendo che l’idea fosse interamente da rigettare e quindi proponendo delle possibili vie alternative. Ma la posizione piú radicale in merito è stata adottata da Paul K. Feyerabend che – dopo aver avuto per breve tempo un atteggiamento piú possibilista e costruttivo, in stile popperiano 67
[cfr. Feyerabend 1962] – finisce per criticare quella che ritiene «una delle pietre angolari dell’odierno empirismo filosofico» [1965, 10], ovvero la teoria della spiegazione, intendendo con ciò la teoria dello sviluppo scientifico per riduzione, nella misura in cui essa è proposta in analogia al modello di spiegazione scientifica proposto da Hempel. In particolare la sua attenzione si concentra sulla critica della due condizioni in essa ritenuta indispensabili (e che abbiamo visto enunciate, anche se con terminologia diversa, da Nagel): la condizione di coerenza e la condizione di invarianza di significato. Ed è significativo che la critica consista innanzi tutto nel dimostrare come «lo sviluppo della scienza reale molto spesso le violi e come lo faccia proprio in quei punti ove si sarebbe portati a diagnosticare un avanzamento della conoscenza» [ib., 11; cfr. anche 1963, 145]. Ciò dimostra uno dei punti in cui si incaglia la visione della scienza sviluppata dalla RV: la sua immagine irrealistica della scienza, che non risponde affatto al modo in cui essa viene effettivamente praticata dagli scienziati in carne ed ossa e come essa si sviluppa. E sarà proprio questo il principale punto di attacco di Kuhn. Ed infatti Feyerabend dimostra come sia la condizione di coerenza, sia l’invarianza di significato sono continuamente smentite e violate nella concreta pratica scientifica: […] se la pratica scientifica effettiva deve essere il metro del metodo, allora la condizione di coerenza è inadeguata […] Qualsiasi siano le parole usate per descrivere la situazione, resta il fatto che la scienza effettiva non osserva il requisito di invarianza di significato [1965, 13, 15; anche 1963, 18, 20]).
Tali condizioni sono inoltre perniciose, se assunte quale rigido canone metodologico, per ogni avanzamento della conoscenza, dando all’empirismo una torsione dogmatica, trasformandolo in una fede, in un mito e quindi ostacolando il progresso della conoscenza grazie all’instaurazione di una nuova metafisica [cfr. ib., 5-7; anche 1963, 7-9]. In particolare in riferimento all’invarianza di significato si sviluppa la sua critica alla possibilità di distinguere un linguaggio osservativo che sia indipendente da quello teorico, la quale si basa sulla erronea concezione che esistano dei fatti aventi una loro autonomia, a disposizione di chiunque voglia controllare o falsificare (nella terminologia popperiana) una teoria. Un presupposto del tutto erroneo: 68
Non solo la descrizione di ogni singolo fatto dipende da qualche teoria (che, naturalmente, può essere molto diversa da quella da verificare), ma esistono anche dei fatti che non possono essere scoperti se non con l’aiuto di alternative alle teorie in questione e che non sono piú disponibili non appena tali alternative vengono eliminate. Ciò suggerisce che l’unità metodologica cui dobbiamo riferirci quando discutiamo questioni di verifica e di contenuto empirico è costituita da tutta una serie di teorie che in parte si sovrappongono e che sono fattualmenteb adeguate ma reciprocamente incoerenti. [ib., 20; anche 1963, 27]
Numerosi sono i luoghi in cui tale canonica distinzione viene da Feyerabend criticata. Si può già risalire alle analisi piú circostanziate e caute di inizio carriera, in cui si contesta l’impossibilità di pervenire alla determinazione del significato osservativo di un termine o di un enunciato sia facendo uso di considerazioni pragmatiche, sia su base fenomenologica, appellandosi a ciò che è “immediatamente dato” [cfr. Feyerabend 1958, 149-60]. Per cui diventa impossibile difendere la tesi della stabilità dell’interpretazione che viene fornita a un linguaggio affinché esso possa essere accettato come mezzo per la descrizione dei risultati osservativi, arrivando al risultato che «l’interpretazione di un linguaggio osservativo è determinata dalle teorie che usiamo per spiegare ciò che osserviamo e cambia non appena quelle teorie cambiano » [ib., 163]. Per arrivare alle posizione piú decise e impegnative dal punto di vista complessivo di età piú tarda, in cui la critica al “doppio linguaggio” conclude «che enunciati osservativi e enunciati teorici hanno nella scienza pari forza argomentativa e che le oscillazioni a favore degli uni o degli altri sono fenomeni locali, creati da una discussione in cui la controparte ha un ruolo essenziale» [Feyerabend 1978d, 351]. Per non parlare delle numerose pagine dedicate a questo argomento nel suo capolavoro, Contro il metodo [1975], dove con piú forza critica l’intera RV, dirigendo il proprio fuoco contro il suo cuore: l’idea che la scienza sia caratterizzata da un metodo che è compito del filosofo mettere in luce, evidenziare e perfezionare a beneficio degli stessi scienziati. In merito a tale questione Feyerabend porta l’esempio del concetto di massa nella fisica classica e in quella relativistica, facendone notare la diversità dei significati [1965, 15], o l’esempio del concetto di lunghezza: Il concetto di lunghezza come è usato in RS [= teoria speciale della
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relatività] e il concetto di lunghezza com’è presupposto in MC [= meccanica classica] sono concetti differenti. Entrambi sono concetti relazionali e per di più concetti relazionali molto complessi […]. Ma la lunghezza relativistica (o la forma relativistica) comporta un elemento che è assente nel concetto classico e che, per principio, ne è escluso. Comporta la velocità relativa dell’oggetto presente in un qualche sistema di riferimento. Ovviamente, è vero che lo schema relativistico ci dà, molto spesso, numeri che sono praticamente identici ai numeri che otteniamo con MC, ma ciò non rende più simili i concetti. Anche il caso c→∞ (o v→0) che dà predizioni strettamente identiche non può essere usato come argomento per mostrare che i concetti devono coincidere almeno in questo caso particolare: differenti grandezze, basate su differenti concetti, possono dare identici valori sulle loro rispettive scale, senza per questo cessare di essere grandezze differenti (la stessa osservazione vale per il tentativo di identificare la massa classica con la massa relativistica in riposo). [1967, 302-3].
È evidente come da ciò discenda una critica che va diritta al cuore del modello di mutamento scientifico elaborato dai maestri dell’empirismo logico, che Feyerabend critica anche nella forma piú evoluta offerta da Nagel [cfr. Feyerabend. Diventa appunto impossibile quella stessa teoria della spiegazione che abbiamo visto essere il presupposto della teoria della riduzione: affinché sia possibile la riduzione di T1 a T2 bisognerebbe rispettare le due condizioni richieste da Nagel, ovvero permettere di tradurre tra loro gli enunciati teorici in esse presenti per mezzo di opportune regole di corrispondenza ed assicurare la derivabilità delle leggi teoriche e dei termini contenuti nella teoria secondaria da quella primaria. Ma, innanzi tutto, i termini descrittivi delle due teorie non coincidono in quanto, analogamente ai termini teorici, pure essi mutano di significato: i sistemi concettuali di teorie diverse sono dunque reciprocamente irriducibili. E, in secondo luogo, sono proprio le regole di corrispondenza a dimostrare tutta la loro fragilità. Infatti, oltre ad una generale critica della possibilità di operare la distinzione tra piano teorico e piano osservativo v’è stata alla base della crisi della concezione standard anche una piú tecnica disamina delle difficoltà logiche e metodologiche cui va incontro il concetto di interpretazione parziale delle teorie mediante regole di corrispondenza in quanto la natura di queste ultime ultime, che avrebbero dovuto avere il compito di connettere il linguaggio teorico della teoria con quello empirico, 70
anche ammettendo che tale distinzione possa essere effettuata su base inequivoca, risulta indeterminata e contraddittoria. Innanzi tutto, la nozione di interpretazione parziale9 – introdotta da Carnap [1939] e che occupa un ruolo centrale nella concezione standard essendo anche intimamente connessa alla distinzione osservativo-teorico – è ritenuta palesemente non chiara sia da Putnam [1962] che da Achinstein [1963; 1968, 85-91]: le diverse esplicazioni che essi ne propongono sono chiaramente inadeguate ed inoltre non riescono a raggiungere uno degli scopi essenziali che si proponevano, quello di distinguere la scienza empirica dalla metafisica. Per cui resta del tutto ingiustificata la pretesa di coloro che accettano tale interpretazione parziale alla scopo di «fornire un quadro accettabile della naura empirica dei termini teorici nella scienza e di distinguere tali termini da quelli che potrebbero fare parte di una teoria non empirica della metafisica speculativa» [Achinstein 1963, 105]. Tuttavia – come fa notare Suppe [1974, 94] – la critica portata all’idea di interpretazione parziale non è tanto valida per i motivi addotti (in effetti si va in alcuni casi fuori bersaglio), quanto in relazione al fatto che essa presuppone la distinzione teorico-osservativo, che è insostenibile. Ma ancora piú stringente è la critica alla possibilità di dare 9
Essa viene così riassunta e spiegata da Achinstein [1963, 90]: «Broadly speaking, the position of those who support the thesis of Partial Interpretation is this. Basic terms in the observational vocabulary of a scientific theory receive an empirical interpretation by means of semantical rules. Such rules, which are formulated in a suitable metalanguage, stipulate that a given term designates a certain observable property. Other terms in the observational vocabulary may then be introduced by utilising these interpreted terms. However, according to the thesis of Partial Interpretation, no semantical rules are given for terms in the theoretical vocabulary of a science; such terms receive no direct empirical interpretation. The empirical significance of theoretical terms results, rather, from their position in the scientific theory considered as a whole. Such terms gain an ‘indirect’ and ‘partial’ empirical meaning in virtue ofthe fact that by means of certain postulates of the theory they are related to sets of observational terms. For example, it is in virtue of a postulate which connects a sentence containing the theoretical term ‘electron’ to a sentence containing the observational term ‘spectral line’ that the former theoretical term gains empirical meaning within the Bohr theory of the atom. In an unempirical theory of speculative metaphysics, on the other hand, postulates do not connect metaphysical terms to observational ones, or at least no such relationships are clearly outlined. For this reason, the metaphysical terms lack empirical significance.»
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una esatta caratterizzazione delle regole di corrispondenza. Senza scendere in tutte le minuzie tecniche che stanno alla base di tali critiche (per le quali si rinvia a Suppe [1974, 102-15]), facciamo solo rilevare come la loro critica abbia coinvolto molti filosofi della scienza: da Suppes, per il quale la trattazione della scienza mediante le regole di corrispondenza ne dà un quadro troppo semplificato, che può essere buono per una esposizione divulgativa delle teorie scientifiche e non per quella che è la pratica effettiva di uno scienziato in laboratorio [Suppes 1967, 57]; da Schaffner [1969], per il quale il trattamento delle regole di corrispondenza deforma il modo in cui di fatto le teorie vengono applicate ai fenomeni; ad Hempel [1974, 252-3], che critica il modo in cui esse vengono di solito definite; per finire con Achinstein [1968, 86-7], per il quale le regole di corrispondenza non riescono ad assolvere il loro compito nell’ambito della interpretazione parziale delle teorie, e con Feyerabend, per il quale le regole di corrispondenza «si rivelano false o senza senso» [1965, 16]. Quanto sinora detto converge in una generale critica della RV che la taccia di eccessiva semplificazione, di “semplicismo”, o di “ipersemplificazione” e che concerne tutti i vari aspetti da essa elaborati: la visione deduttivo-assiomatica delle teorie, il progresso e il cambiamento teorico, la possibilità di distinguere i due linguaggi, il carattere artificioso e irrealistico delle regole di corrispondenza e così via. Già era stato Toulmin [1953, 57-63] a notare come certe forme di semplificazione non siano per nulla adeguate a descrivere lo stato della scienza teorica, ma al piú quello di una sorta di storia naturale in cui hanno il loro luogo naturale le generalizzazione empiriche spesso prese ad esempio di autentiche leggi scientifiche (ad es. quella di concepire la legge scientifica sul modello di un’asserzione di carattere universale del tipo “tutti i corvi sono neri”). Ed è inoltre un errore pensare che le teorie scientifiche possano essere interpretate come un sistema assiomaticodeduttivo [ib., 100-2], sia perché sono ben poche quelle che abbiano subito tale trattamento (in sostanza la sola meccanica classica – la cosiddetta “meccanica razionale” – e non per tutti i suoi aspetti e la geometria fisica) sia perché tale procedura si dimostra – anche nel caso in cui potesse superare i suoi numerosi problemi di realizzabilità – del tutto infruttuosa. Contro tale eccessiva mania dell’assiomatizzazione aveva già messo cau72
tamente sull’avviso Popper [1972, 279-80], anche perché essa può attuarsi solo a condizione che una teoria sia già ben sviluppata e consolidata, esibendo una ben chiara e sistematica connessione tra i suoi concetti fondamentali. Ma – avverte Suppe [1974, 63-4 – è chiaro che tale condizione è in sostanza non soddisfatta da una quantità di teorie attualmente ritenute scientifiche, per cui esse non possono essere sottoposte alla riformulazione assiomatica ritenuta canonica dalla RV. Questo non è tuttavia sufficiente per affermare che, laddove essa sia possibile, non possa risultare utile e fruttuosa: ed appunto questo si sostiene nella RV, per cui tale procedura diventa un obiettivo ideale, un criterio di ottimizzazione scientifica, piuttosto che una pratica effettiva eseguibile sempre e comunque. Tanto piú che già tra i rappresentanti della RV non vi sono consensi unanimi sulla sua utilità; accanto a chi ne giudicava assai positivamente l’impiego, come abbiamo visto con Suppes [1968], v’era chi esprimeva le proprie perplessità, pur avendola prima difesa: Hempel, al solito, proprio riferendosi al saggio prima indicato di Suppes, critica gli esempi da lui portati (la formalizzazione della teoria della probabilità effettuata da Kolmogorov e la teoria della misura delle proprietà intensive), dimostrando come le formalizzazione portate ad esempio colgano solo alcuni aspetti della complessa questione (ad es. nulla dice Kolmogorov sui problemi filosofici sollevati dal significato della probabilità così come posti nelle concezioni di De Finetti, Savage e Carnap), per concludere che in questi casi, come in altri nelle scienze empiriche, «l’assiomatizzazione può venire solo dopo che una teoria sia stata ben sviluppata; essa può servire come mezzo di una precisa esposizione, non come una garanzia della solidità delle concezioni incorporate nella teoria sssiomatizzata» [Hempel 1974, 250]. E già precedentemente, pur non negando l’enorme significato che l’assiomatizzazione aveva svolto in matematica e in metamatematica, ha affermato: Parlando in generale, la formalizzazione dei principi interni come un calcolo non getta luce su ciò che nella costruzione standard è visto come sua interpretazione; getta luce semmai su parte delle teorie scientifiche in questione. E quanto alla tesi che la formalizzazione rende esplicite le assunzioni fondazionali della disciplina scientifica in esame, dovrebbe esser tenuto a mente che l’assiomatizzazione è in sostanza uno strumento espositivo, che determina un insieme di enunciati e ne evidenzia le relazioni logiche, ma non le loro basi e
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connessioni epistemiche. Una teoria scientifica ammette molte differenti assiomatizzazioni e i postulati scelti in una di esse possono come non possono corrispondere a ciò che in un senso piú sostanziale potrebbere essere considerate le assunzioni base della teoria; né necessariamente i termini scelti come primitivi in una data assiomatizzazione rappresentano ciò che su basi epistemologiche o altre basi potrebbero essere qualificati come i concetti base della teoria; né necessariamente le definizioni formali degli altri termini teorici per mezzo dei primitivi scelti corrispondono agli enunciati che nella scienza dovrebbero essere considerati come veri per definizione e perciò analitici. In una assiomatizzazione della meccanica newtoniana, la seconda legge del moto potrebbe ricevere lo status di una definizione, un postulato o un teorema, a piacere; ma il ruolo che le è così assegnato all’interno del sistema assiomatizzato non indica se nel suo uso scientifico essa funziona come una legge vera per definizione, come una legge teorica fondamentale o come una derivata (se in effetti si possa dire che essa abbia solo una di queste funzioni). / Per cui, qualunque sia l’illuminazione filosofica che si può ottenere dal presentare una teoria in forma assiomatizzata, essa verrà solo da una particolare ed appropriata forma di assiomatizzazione piuttosto che da qualsivoglia assiomatizzazione, anche se in modo particolare formalmente economica ed elegante. [Hempel 1970, 224-5]
Insomma, invertendo l’ordine di priorità stabilito da Suppes, per Hempel l’assiomatizzazione di una teoria è posteriore alla sua valutazione epistemica, per cui l’opera di “chiarificazione filosofica” non è resa possibile dalla assiomatizzazione, ma piuttosto ne è una condiizone preliminare. Resta il fatto, tuttavia, che sia nell’ottica di Hempel che di Suppes, v’è una rapporto armonico e fruttuoso tra il filosofo (analitico o della scienza) e lo scienziato: il primo chiarifica ed esplicita la struttura delle teorie, il secondo trae profitto da questo lavoro per ulteriormente svilupparle e migliorarle, offrendo nuovo materiale per il lavoro del filosofo e così via, in una sorta di virtuosa spirale ascendente che incrementa sempre piú il valore cognitivo della scienza. Tuttavia l’introduzione di Hempel della necessità di valutare il valore epistemico delle teorie – e non solo la loro natura formale – introduce un elemento che sarà sempre piú approfondito e che delegittimerà ancor maggiormente l’obiettivo della formalizzazione e/o assiomatizzazione delle teorie, specie quando ad essere sempre piú presa in considerazione – con Hanson, Feyerabend e Kuhn – sarà la dinamica delle teorie, piuttosto che la loro struttura compiuta e sistematizzata. La concezione delle teorie scientifiche della RV – e in gene74
rale della scienza – è pertanto sempre piú giudicata – come afferma lo stesso Suppes [1974, 266] – di «irrealistica semplicita», lontana da quella che è la pratica effettiva degli scienziati, una pallida ed esangue ricostruzione razionale effettuata da filosofi seduti a tavolino, che nulla hanno a che fare e nulla realmente comprendono di quanto fa lo scienziato nel suo laboratorio. Nel bilancio che di questa stagione Feyerabend avrebbe in seguito effettuato, «la teoria della scienza ci offre un’immagine caricaturale della scienza che si allontana da quella vera nella stessa misura in cui le fantasie di un pazzo si allontanano dalla realtà» [1978b, 11]. E in riferimento proprio al metodo dell’analisi filosofica e della chiarificazione razionale, tanto pregiato da Suppes ed Hempel: Il metodo di chiarificazione ha però un effetto completamente diverso da quello desiderato. Sostituisce la pratica scientifica con una caricatura in cui a mala pena si riconosce l’oggetto rappresentato. La caricatura è il risultato della combinazione di certi ideali con una insufficiente conoscenza dei fatti. Gli ideali sono cose altisonanti come “chiarezza”, “intellegibilità”, “precisione”, “razionalità”, “adeguatezza logica”. Il pensiero dovrebbe muoversi secondo traiettorie prestabilite; i suoi risultati dovrebbero possedere precisi tratti caratteristici e il mondo dovrebbe venire rappresentato in questa forma e in nessun’altra. La grave ignoranza dei fatti consente allora di scambiare l’ideale con la realtà. [Feyerabend 1978b, 386]
Del resto proprio questa ignoranza di quanto effettivamente accaduto viene rimproverata agli empiristi logici e ai popperiani, che in storia «sono degli analfabeti» [ib., 45 n.]; ed è un limite che riguarda tutta la metodologia della scienza così come sinora concepita, che ha il difetto di considerare la scienza e i suoi concetti come entità senza tempo, dando così una caricatura del suo molto piú complesso e reale sviluppo storico [cfr. Feyerabend 1978e, 288-9].
Tale artificiosità nel vedere l’effettivo divenire della scienza è tipicamente espressa nella esposta dottrina dei due contesti, che ha avuto origine proprio dalla incapacità di vedere cosa fanno effettivamente gli scienziati. Come affermava infatti Reichenbach nel sostenere tale distinzione, compito dell’epistemologia descrittiva è «la ricostruzione razionale della conoscenza», la quale è connessa alla conoscenza effettiva allo stesso modo di come «l’esposizione di una teoria è connessa ai pensieri reali del suo autore» [1938, 7]. 75
È evidente come questa distinzione abbia un ruolo strategico all’interno della RV: solo mantenendola è possibile affermare che la filosofia della scienza non si occupa della ricostruzione storica, concreta, del modo di operare dello scienziato – oggetto della psicologia o sociologia – e quindi del ruolo del suo framework concettuale, ma solo dei criteri di valutazione della accettabilità di teorie ben formate, intese come prodotto finito; ne segue che la storia della scienza è un affare che riguarda solo le procedure logiche e metodologiche, che da sole dovrebbero essere in grado di render conto di tutti i fattori principali che ne governano lo sviluppo [cfr. Jodkowski 1990, 48-51]. Tale distinzione è insomma funzionale, da una parte, alla esclusione di ogni discorso mirante a destituire di fondamento la scienza col ricordarne la sua condizionatezza storico-sociale, garantendone l’obiettività e la neutralità (pericolo che veniva dal versante della sociologia e del marxismo10); dall’altra, legittima appunto quell’approccio “semplicistico” e mirante alla formalizzazione ed assiomatizzazione delle teorie, della cui critica ci siamo precedentemente occupati. Tuttavia con la critica alle altre nozioni cardine della RV si fa strada anche l’idea di una insostenibilità di tale dicotomia, con la conseguente rivalutazione del contesto della scoperta e la sua liberazione dal limbo dell’irrazionale o arazionale. A tale compito in maniera pioneristica Hanson [1958] aveva dedicato tutto un libro, nel quale cercava di concettualizzare il momento della scoperta utilizzando la logica abduttiva a suo tempo chiarita da Peirce. Successivamente diversi altri filosofi, negli anni ’70 e ’80, hanno cercato di sviluppare una logica della scoperta scientifica, come viene testimoniato nei due volumi curati da Thomas Nickles [1980b, 1980c], in cui viene affrontata la questione se e sino a che punto sia ricostruibile e spiegabile in termini razionali la scoperta scientifica. Lo stesso Nickles, nel suo saggio introduttivo [1980], fa innanzi tutto vedere come sia ambigua tale distinzione e quanti siano i diversi significati che si attribuiscono al termine “scoperta”, distingue le sue diverse fasi, articolandole con maggior cura sulla base delle discussione degli ultimi anni ed infine sostiene come per problemi di basso 10
Sulle “limitazioni” che la storia e la filosofia della scienza si autoimponeva, in periodo maccartista, allo scopo di non venire tacciate di “comunismo” vedi le interessanti notazioni contenute in Toulmin [1977, 105-8].
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livello empirico esistono già tecniche algoritmiche o quasialgoritmiche di manipolazione dei dati (di solito ritenute per questo motivo di scarso interesse per la logica della scoperta) che permettono la generazione di ipotesi: «non è notevole che un problema come quello di determinare le orbite di Marte, che richiese a Keplero anni di duro lavoro, possa essere oggi risolto da un computer in alcuni mituti?» [ib., 25]. Ciò significa che delle logiche della scoperta già esistono (curve fitting techniques, metodi statistici e potenti procedure di programmi euristici) anche se queste tecniche non permetteranno la generazione di « teorie profonde e concettualmente nuove » [ib., 26]. Tuttavia egli ritiene che non sia precluso ai filosofi, unendo i loro sforzi con quelli degli storici e di altri studiosi della scienza, un lavoro fruttuoso in campo epistemologico per rendere intellegibile il processo della scoperta, anche se potrebbe esser questo solo un compito descrittivo senza l’ambizione di fornire agli scienziati una metodologia normativa. Compito di tale logica sarebbe mettere in luce le ragioni specifiche che stanno alla base, nei singoli casi, della formazione delle ipotesi e della generazione dei problemi, che non possono essere così “irrazionali” da sfuggire ad ogni tentativo di spiegazione e relegati nell’aneddoto e nella cronaca [cfr. ib., 30-3]. Bisogna a tale scopo rendersi conto che tale questione si può analizzare solo a partire dal presupposto che il contesto problematico nell’ambito del quale si genera una ipotesi non è fatto di soli dati empirici ma di vincoli di vario genere (come quelli costituiti dai precedenti risultati teorici), che rendono possibile la domanda e quindi la ricerca della soluzione, con ciò superando il classico parodosso platonico del Menone: V’è una via d’uscita da questo puzzle socratico se costruiamo i problemi scientifici come strutture di vincoli (sulla soluzione del problema) più una domanda generale, uno scopo o un ideale esplicativo del programma di ricerca in questione affinchè certi tipi di gap in quella struttura siano colmati. […] Una particolare struttura di vincoli in un certo senso descrive la soluzione del problema di cui si va in cerca, benchè incompletamente, in modo indefinito o non nella forma desiderata, e quindi definisce l’ambito delle possibili risposte, così determinando il problema in questione. […] La struttura è una parziale o anche una imperfetta descrizione della soluzione del problema, e il problema consiste nel trovare un qualcosa che soddisfa quella descrizione. […] È impossibile formulare una genuina questione o un problema senza conoscere alcun vincolo su quella che potrebbe essere la risposta o soluzione adeguata. Ogni problema
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reale può più o meno essere articolato in termini di vincoli. Questi vincoli raramente costituiranno la soluzione del problema nella forma desiderata (a meno che esso non sia banale, come “Di che colore è il cavallo bianco di Washington?”) ma essi implicitamente specificano l’ambito delle risposte accettabili. Per cui si può ben avere un problema definito senza conoscere “la” risposta. I vincoli, in questa analisi così ridimensionata, forniscono normalmente una guida euristica o direttiva. In breve, un problema di per sè indirizza alla via della sua soluzione. [Ib., 37]
Questa “epistemologia dei vincoli” proposta da Nickles cerca di mantenere una via intermedia tra il tradizionale positivismo (e popperismo) e le posizioni di un Feyerabend: in entrambi questi casi v’è l’idea che razionalità equivalga ad obbedienza a rigide regole metodologiche, con la conseguenza o di delegittimare ogni ricerca che non risponda a tale ideale (come fanno i razionalisti popperiani e i positivisti) o di allentare tali regole fino a farle scomparire del tutto, in nome della effettiva pratica scientifica, sino alla messa in discussione della stessa razionalità (come fa Feyerabend). Per Nickles, invece sono tali “vincoli razionali” a guidare la scienza in tutte le sue fasi, dalla scoperta alla giustificazione, anche se a volte, quando si abbiano buoni motivi, può essere anche razionale violarli [cfr. Nickles 1980d, 309-11]. E che le cose stiano così, che lo studio del contesto della scoperta possa darci delle interessanti indicazioni sulla natura della razionalità scientifica, è dimostrato non solo dai contributi contenuti nel volume curato da Nickles (anche se non tutti concordi), ma anche da chi, nell’ambito delle scienze cognitive, ha cercato di elaborare strategie computazionali per dimostrare come sia possibile “fare scoperte” mediante programmi per computer che utilizzano opportune euristiche. Specie nel campo della filosofia della biologia, in coerenza con i contributi raccolti da Nickles, molti hanno cercato di fare un’analisi a grana piú fine di come sono generate, riviste e valutati le diverse concezioni dei meccanismi biologici [cfr. Machamer et al. 2000]. Ma in tutti questi casi, si tratta sempre e comunque di riuscire ad allentare la stretta logicista e deduttiva della RV per riuscire ad estendere il campo della razionalità – una razionalità rivista e non piú consegnata ad una stretta identificazione con la logicità, così come auspicato e sostenuto da Toulmin [1972] – sino ad attribuirle una legislazione, per quanto 78
“morbida” e flessibile anche laddove prima essa era stata esclusa. In tal senso si è mosso il tentativo di Nickles. E del resto la posta era alta: si trattava altrimenti di dare campo libero a quegli storici che – sulla base delle loro competenza sui dati di fatto dello sviluppo scientifico e della assunzione di una razionalità rigidamente subordinata a regole metodologiche troppo prescrittive – finivano per trarre la conclusione che nulla di simile ad una logica, non solo della scoperta, ma persino della giustificazione è possibile rinvenire nella scienza degli scienziati at work. Ed è appunto questa seconda linea che finisce per avere maggior successo e diventare dominante, portando di fatto non tanto alla effettiva scomparsa della dottrina dei due contesti dai dibattiti metodologici, ma ad riorientamento degli interessi di un sempre maggior numero di studiosi per altre questioni, come ad esempio avviene con la crescente fortuna dei “Science and Technological Studies” (STS), dei quali parleremo in seguito. Si è di fatto avuta una scissione in cui da una parte si collocano studiosi che ignorano tale questione, interessandosi a tematiche diverse, dall’altro filosofi piú legati alla tradizione analitica che invece la presuppongono, spesso tacitamente: «solo assai raramente si incontrano espliciti tentativi di gettare un ponte tra le diverse imprese metascientifiche» [cfr. Schickore & Steinle 2006b, x], come ancora cercano di fare, ad es., Nickles [2006] e Hoyningen-Huene [2006]. Non possiamo qui seguire in tutti i suoi tortuosi anfratti la discussione su tale distinzione, in quanto ci basta quanto detto per arrivare ad una conclusione verso la quale convergono anche tutte le critiche della RV prima esaminate: alla metà degli anni ’60 fa irruzione nella tranquilla comunità degli studiosi un ospite inatteso, sino ad allora spinto ai margini della riflessione sulla scienza: la storia ed i problemi da essa posti al concetto di evoluzione o progresso delle teorie scientifiche. Afferma Hacking [1983, 3] che la scienza, che i filosofi avevano reso una mummia, si liberava dalle proprie bende e così si veniva pian piano a scoprire che essa conosce un processo storico di cambiamento e di scoperta. Ma come abbiamo visto, non è che la RV abbia ignorato il fatto dello sviluppo della scienza, ma piuttosto lo aveva reso cognitivamente sterile, immettendolo in quell’ambito della scoperta che nulla aveva da dire al filosofo e allo scienziato in cerca di direttive normative. Ne era venuto che la storia del pensiero scientifico era stata assai poco coltivata da specialisti che non fossero spesso dilettanti o auto79
didatti, rimanendo priva sino agli anni ’50 di un adeguato statuto disciplinare e di una stabile collocazione accademica. Lo sgretolamento della RV, che avviene in gran parte per motivi interni grazie alle critiche di filosofi che spesso in una prima fase si erano collocati al suo interno e che prendono atto delle sue deficienze interne, spingendole alle estreme conseguenze, porta ad una generale ridefinizione del quadro degli studi in filosofia della scienza. Come ricorda Toulmin [1977, 123-4], a differenza degli anni tra il 1910 e il 1960, durante i quali si era avuta l’assunzione della logica-matematica e dei procedimenti formali a pietra di paragone dell’originalità artistica e scientifica ed a fondamento dell’analisi filosofica, negli anni Sessanta «gli specialisti di filosofia della scienza si misero seriamente a studiare lo sviluppo storico della scienza […]; studiosi e scienziati ripresero a confrontarsi con il mondo storico, in tutti i suoi concreti particolari contingenti, abbandonando le astrazioni formali della generazione precedente». Insomma, dall’incontro tra riflessione logico-metodologica e storia della scienza nasce un modo nuovo di concepire la teorizzazione scientifica e la crescita della conoscenza. Tale nuovo quadro si può riassumere con le parole di Machamer [2002, 89]: V’era poco consenso sulla natura della spiegazione, della conferma, del controllo delle teorie o, anche, del cambiamento scientifico. Eppure la scienza di per sè, più che mai, era riconosciuta da gran parte della popolazione come una (se non la) maggiore forza nella vita umana e la filosofia della scienza era diventata una disciplina che ormai stava a fianco dell’etica, dell’epistemologia e della metafisica. Ma nella comunità filosofica in senso ampio v’era un marasma intellettuale sulla sua natura. Di fatto alcuni filosofi, seguendo Feyerabend, prendevano questa confusione intellettuale come una prova che la scienza non aveva strutture identificabili ed esprimevano la visione che in scienza, come in arte “ogni cosa va bene [anything goes]. Ogni evidena e prova è solo retorica e coloro che hanno una migliore retorica, o maggior potere (Foucault), risultano vincitori, cioè le loro teorie diventano quelle accettate. Per fortuna, questo relativismo epistemologico non fu seguito da molti filosofi benché […] in alcune comunità filosofiche contemporanee questa idea ancora è in piena fioritura.
L’unico consenso che sembra esistere è quello che una “nuova filosofia della scienza” non può pensare di conoscere cosa sia la scienza senza studiarne la storia. E così l’interesse per la storia della scienza porta l’attenzione alla concreta prassi 80
dello scienziato, a ciò che egli effettivamente fa e pensa e non a quello che dovrebbe fare o pensare in base ai canoni metodologici stabiliti dal filosofo della scienza. Questo spostamento dal piano normativo a quello descrittivo è favorito anche dalla circostanza che in questi anni riceve un grande impulso, quello della psicologia cognitiva11, e delle scienze cognitive in generale, che mettono in luce come le persone non utilizzino nei loro procedimenti inferenziali una sorta di “logica mentale” che applica le regole della logica deduttiva o induttiva (come aveva sostenuto Jean Piaget); che insomma tra la logica formale canonizzata dai manuali e la logica applicata non v’è affatto identità: la gente fa ricorso a strategie di ragionamento che, pur risultando efficaci nella maggior parte dei contesti quotidiani, violano tuttavia le norme della logica formale. Era questo un processo che si affianca a quello che stava accadendo in filosofia della scienza con lo spostamento di interesse verso la storia: grazie ad entrambi questi due slittamenti di attenzione sarebbe stato preparato, in seguito, il terreno per l’affermazione dell’epistemologia naturalizzata (v. § 2.2): così se, per un lato, si tende a privilegiare il ragionamento scientifico effettuato dal comune scienziato nella sua pratica quotidiana, che applica strategie diverse da quelle prescritte dai canoni logici e metodologici che aveva tentato di elaborare la RV, così, per l’altro lato, «la psicologia cognitiva cominciò a fornire un linguaggio per discutere dei problemi epistemologici» [Kitcher 1992, 61]. Per il primo aspetto è stata l’opera di Kuhn a segnare in modo tangibile la svolta, scatenando il temporale preparato dalle tante nuvole nere che si erano addensate nelle regioni sino ad allora governate dalla RV. Nel tracciare nel 1977 un bilancio della discussione sulla RV, Suppe concludeva che […] praticamente tutto il programma positivistico di filosofia della scienza è stato ripudiato dalla contemporanea filosofia della scienza. La Received View è stata rigettata, come lo sono stati anche il suo modo di trattare la spiegazione e la riduzione. I suoi sviluppi nella logica induttiva e della teoria della conferma continuano ad essere influenti, ma il fuoco di tali lavori è passato da un trattamento di tipo positivistico dell’induzione globale allo sviluppo di un trattamento probabilistico dell’induzione locale. Inoltre, l’importanza 11
Cfr. ad es. gli studi contenuti in Kahneman, Slovic & Tversky [1982]. Per una rassegna su tali studi cfr. i saggi contenuti in Girotto-Legrenzi [1999], nonché il volume di Cherubini [2005].
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dell’induzione e della conferma sta venendo fortemente ridimensionata nel pensiero filosofico contemporaneo sull’impresa scientifica e sulla conoscenza che essa fornisce. Il positivismo oggi appartiene in verità della storia della filosofia della scienza e la sua influenza è quella di un movimento storicamente importante nel dare forma al panorama di una filosofia della scienza contemporanea assai diversa. [Suppe 1977, 632]
La disgregazione della RV è accompagnata dall’emergere di diverse alternative spesso elaborate dai loro sostenitori ancor prima che la crisi risultasse evidente con l’opera di Kuhn. Suppe [1974, 120] le raggruppa in tre classi: (a) le analisi descrittive che assumono una posizione scettica in merito alla possibilità di ritrovare caratteri comuni che descrivano in profondità la natura delle teorie scientifiche (e in questa categoria egli colloca Achinstein e Anatol Rapaport); (b) le analisi che concepiscono le teorie in dipendenza di una generale visione del mondo, una Weltanschauung o prospettiva concettuale, da cui viene a dipendere il significato dei termini e dei concetti che in esse sono utilizzati: ed è qui che egli colloca autori come Toulmin, Kuhn, Hanson, Feyerabend, Popper e David Bohm; (c) gli approcci semantici, in cui si posiziona lo stesso Suppe, che si ispira o include in questa categoria altri pensatori, che in varia misura hanno contribuito a sviluppare questa concezione (come ad es. Beth, von Neumann, Suppes, van Fraassen, Bunge), ma che certamente riceverà la sua piú articolata espressione in Suppe [1989]. Certo, si rimane un po’ perplessi nel ritrovare tra le alternative alla RV un autore come Popper che, invece, abbiamo visto è per noi interno ad essa, se questa non viene concepita in modo monolitico e la si inquadra all’interno di una “tradizione ricevuta” piú ampia, da noi descritta nel § 1.1; altrimenti dovremmo includere tra le posizioni alternative anche Hempel. Inoltre il quadro presentato da Suppe non rende giustizia del diverso grado in cui ciascuno dei pensatori da lui menzionati può essere ritenuto “alternativo” alla RV; e certamente non sono comparabili per radicalità le posizione di un Toulmin o di un Hanson con quelle di Feyerabend; o non ha nulla a che vedere la riformulazione olistica dell’immagine della scienza e la reinterpretazione della meccanica quantistica operata da Bohm, che rimane all’interno di una visione razionale della scienza e di una sua valutazione positiva in merito al suo valore cognitivo, con la radicale contestazione della razionalità scienti82
fica operata da Feyerabend o come farà in seguito Richard Rorty (che da Suppe non viene preso in considerazione in quanto egli scrive il suo saggio prima della pubblicazione della principale opera di Rorty [1979]). Ciononostante, tale quadro ci permette di individuare alcuni caratteri della successiva filosofia della scienza: innanti tutti, come vedremo, il cosiddetto ritorno al descrittivismo (vedi § 2.2), che in un certo qual modo eredita in anni successivi il lavoro già compiuto dagli autori menzionati da Suppe; e ci permette di capire meglio quelle tendenze che sono le nipotine delle analisi kuhniane, innestate su altri interessi, e che possono essere collocate all’interno delle cosiddette Weltanschauungen Analyses, come la sociologia forte della scienza e il costruttivismo (v. §§ 2.6 e 2.7) o il collasso della razionalità con Rorty (v. § 2.8). Infine l’approccio semantico alla teorie scientifiche indica una tendenza dell’epistemologia successiva all’opera di Suppe che va in direzione della rivalutazione degli aspetti idealizzazionali e modellistici della scienza, verso i quali si sono mossi autori successivi come Nancy Cartwright, Craig Dilworth e la scuola polacca di Poznań con Leszek Nowak e i suoi allievi. E di quest’ultima tendenza – che a noi sembra la piú promettente – daremo un accenno nelle conclusioni. Ma è giunto il momento di presentare la riflessione del tante volte evocato Kuhn. 1.3. Thomas Kuhn e i paradigmi scientifici A metà degli anni ’60 Thomas Kuhn (1922-1996) fa precipitare la crisi della RV con un’opera che ha fatto epoca e che si può affermare sia stata la più influente sui destini della filosofia della scienza della seconda metà del secolo scorso. È La struttura delle rivoluzioni scientifiche, pubblicata in inglese nel 1962, ma il cui effetto si fa sentire in seguito, specie negli anni ’70, quando si accende un vivace dibattito sulle tesi in essa sostenute. Ed è una ironia della sorte che esso sia stato pubblicato proprio nella collezione della International Encyclopedia of Unified Science, fondata a Vienna dai neopositivisti e ora diretta da Morris e Carnap, il quale ultimo si dichiarò «estremamente entusiasta» dell’opera di Kuhn, nella quale sono contenute proprio le concezioni che – è stato affermato – hanno suonato «la campana a morte» per il modo di intendere la filo83
sofia della scienza in ambito neopositivista, del quale appunto Carnap era stato il maggior rappresentante [cfr. Friedman 2001, 18-9]. 12 Nel suo capolavoro – giudicato «di gran lunga il libro più autorevole sulla natura della scienza che sia stato finora pubblicato nel XX secolo» [Giere 1988, 61] e che ha venduto più di un milione di copie in due dozzine di lingue13 – Kuhn adotta esplicitamente e quasi esclusivamente una prospettiva storica, 12
Tale entusiasmo sarebbe stato espresso da Carnap con due lettere indirizzate a Kuhn – pubblicate da Reisch [1991] – che, unitamente a quando dal primo pubblicato, dimostrerebbero che «Carnap did not see The Structure of Scientific Revolutions as a challenge to his own philosophical views, and further that it should not be seen as such. If Kuhn debunked certain tenets of logical empiricism (namely, a theory/observation distinction and paradigmindependent criteria of theory goodness) partly by suggesting that they were impotent to capture the reasoning involved in episodes of revolutionary scientific change, the fact remains that these tenets do not ground Carnap’s view of revolutionary scientific reasoning. In choices between radically different theories, different conceptual frameworks, or (in his preferred philosophical idiom) different languages, he offers an account that is in fact distinctly analogous to that of Kuhn» [ib., 265]. Sicché s’è sostenuto come in effetti le concezioni di Kuhn non fossero poi molto distanti dalla filosofia dei framework linguistici di Carnap, così come esposta in particolare nella sua Sintassi logica del linguaggio (cfr. anche Earman [1993], Friedman [2003] e in parte anche Salmon [2000, 240]). Questi punti di vista sono stati tuttavia criticati – a mio avvio in modo efficace – da Pinto de Oliveira [2007], il quale sottolinea la «Carnap’s complete indifference towards Kuhn in all his work, particularly in his last book – Philosophical Foundations of Physics [1966] – dedicated precisely to the philosophy of science and published some years after the two letters had been sent» [ib., 150] e sostiene che la sua approvazione dell’opera di Kuhn è dovuta al fatto che egli la considera come un’opera di storia della scienza e quindi – secondo la consueta distinzione tra i due contesti, mai abbandonata – egli la “segrega” all’interno del “contesto della scoperta”, sterilizzandone il significato relativamente alla sua “logica della scienza”, che fa parte del contesto della giustificazione. Ciò spiega come mai Carnap mai abbia citato l’opera di Kuhn, in quanto egli per tutta la sua carriera ha lavorato sempre all’interno del campo definito dal “contesto della giustificazione”, mai interessandosi a questioni di psicologia, sociologia o storia della scienza, se non in modo occasionale e per semplifici riferimenti indiretti. 13 Cfr. Nickles [2003b, 1]. Una delle più autorevoli e complete trattazioni della filosofia della scienza di Kuhn è quella di Hoyningen-Huene [1993]. Altri importanti saggi sulla sua opera sono quelli di Fuller [2000], Andersen [2000], Bird [2000], Horwich [1993], Sardar [2002], von Dietze [2001]. In italiano cfr. Buzzoni [1985], e Giordano [1998].
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dalla quale trae conclusioni in merito agli standard normativi e metodologici della RV. Per formazione storico della scienza, egli parte dall’analisi di concreti episodi storici – come ad es. la rivoluzione copernicana [cfr. Kuhn 1957] – e arriva a conclusioni metodologiche divergenti sia dalla visione della RV, anche nella sua forma piú sofisticata sostenuta da Popper. Con Kuhn il filosofo della scienza va a scuola dello storico della scienza, contribuendo a colmare quel solco che impedisce al primo di prendere in considerazione la scienza reale, a cui viene preferita quella consegnata nei manuali, cioè in quelle opere in cui già è avvenuta una sorta di sua decantazione e purificazione alla luce degli standard metodologici accettati che ne fanno solo un pallido sostituto di quella scienza che invece è realmente praticata dagli scienziati nel loro laboratorio [cfr. Kuhn 1977, 16-22, 132-4 e passim]. In tal modo quest’opera diventa il simbolo di una vera e propria rivoluzione, «segnando la transizione ad un’era post-empirista della filosofia della scienza» [Rouse 2003, 101] e contribueando anche a dare un nuovo significato al modo stesso di intendere tale ambito disciplinare, che ora viene a comprendere anche una storia della scienza teoreticamente orientata [cfr. Bird 2000, 281], rompendo definitivamente gli argini fissati a suo tempo da Carnap [1938]. È pertanto giunto il momento di occuparci delle sue idee. Le intenzioni di Kuhn si manifestano sin dalla prima fase di apertura del suo libro: «La storia, se fosse considerata come qualcosa di piú che un deposito di aneddoti o una cronologia, potrebbe produrre una trasformazione decisiva dell’immagine di scienza dalla quale siamo stati dominati» [Kuhn 1962, 19]. E di questa immagine la Struttura trasforma proprio una delle distinzioni fondamentali, quella tra i due contesti, col mettere in crisi il modello di sviluppo della scienza tipico della teoria della riduzione: la scienza non avanza cumulativamente ma in modo rivoluzionario e tra teorie successive non è possibile stabilire legami logici che le possano tra loro connettere. È cioè insostenibile la concezione della RV del nesso tra teorie successive concepito secondo il modello della riduzione. Per comprendere come si arrivi a questo risultato bisogna focalizzare la propria attenzione sul ruolo centrale che nella concezione di Kuhn ha il concetto di scienza normale: […] “scienza normale” significa una ricerca stabilmente fondata su uno o su più risultati raggiunti dalla scienza del passato, ai quali una
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particolare comunità scientifica, per un certo periodo di tempo, riconosce la capacità di costituire il fondamento della sua prassi ulteriore. [Kuhn 1962, 29]
Un periodo di scienza normale si caratterizza per il fatto che all’interno della comunità scientifica domina un certo paradigma che esemplifica ciò che è ritenuta prassi scientificamente giustificata, e cioè i criteri scientifici condivisi all’interno della comunità. È importante notare che il concetto di paradigma ha appunto la funzione di rappresentare una pratica, piuttosto che una dottrina; esso, infatti, deve essere inteso, nella sua accezione originaria, come «procedura standard di soluzione di problemi scelti», cioè quale «soluzione di problemi esemplari», avendo una funzione analoga a quella che hanno i paradigmi dei verbi. In tale sua accezione originale esso assomiglia molto a quella “dimensione tacita” della ricerca scientifica che era stata illustrata anche dall’epistemologo e microbiologo polacco Ludwig Fleck, verso il quale Kuhn non lesina il proprio riconoscimento e la propria ammirazione14, e della quale parlere indipendentemente anche Michael Polanyi [1966, 1969]. In tale accezione esso indica una dimensione non verbale della conoscenza scientifica, che appartiene solo alla pratica e che non può essere colta mediante una sua esplicita canonizzazione logica o metodologica. Per cui la scienza normale comincia per Kuhn sempre da casi concreti e rimane, anche quando pienamente sviluppata, basata su casi esemplari, piuttosto che su re-
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In effetti la riscoperta di Fleck si deve proprio al fatto che Kuhn [1962, 9] nella prefazione ha scritto sulla «monografia quasi sconosciuta di Ludwik Fleck […] un saggio che anticipa molte delle mie idee. Per merito del lavoro di Fleck […] mi sono reso conto che poteva essere necessario inquadrare quelle idee nella sociologia della comunità scientifica». E nella sua introduzione alla edizione inglese del 1979 dell’unica opera in volume pubblicata da Fleck [1935], ricostruendo l’origine del suo interesse per l’autore polacco, ricorda di essere stato indirizzato ad esso da una nota contenuta in Reichenbach [1957, 224, n. 6] e di avere in ventisei anni incontrato solo due persone che lo avessero letto [cfr. Fleck 1935, 252]. Gli altri scritti principali di Fleck sono pubblicati in Fleck [1986]. Sul suo pensiero è fondamentale la monografia di Schnelle [1982]. In merito alla funzione che la letteratura scientifica ha in Kuhn e Fleck per la formazione degli scienziati e la formazione di una “scienza normale” o “collettivo di pensiero”, cfr. Brorson & Andersen [2001].
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gole esplicitamente e verbalmente stabilite.15 Infatti, sostiene Kuhn, ogni comunità scientifica è caratterizzata dal fatto di possedere un linguaggio comune che è come un suo particolare dialetto, che la contraddistingue dalle altre e che viene appreso grazie alla partecipazione al lavoro nella comunità che permette ai suoi membri di acquistare «un insieme di impegni conoscitivi che non sono, il linea di principio, completamente analizzabili entro i limiti del linguaggio stesso» [Kuhn 1977, xxii]. Sono gli esempi concreti, e non le regole trovate dal filosofo della scienza, a costituire la base dell’assimilazione della conoscenza scientifica da parte dello scienziato in una comunità scientifica [ib., 344-5]. Ed è quest’ultima, non il singolo scienziato, ad essere ora oggetto di studio per comprendere le modalità in cui nasce e si sviluppa la scienza, la quale accresce in tal modo il proprio carattere di impresa sociale e collettiva [cfr. Barnes 2003, 122-3]. Inoltre, una comunità scientifica praticante una data “scienza normale” non è il risultato di un atto di volontà, di una iniziativa singola o di un gruppo che decida, sulla base di criteri metodologici stabiliti convenzionalmente di intraprendere una certa pratica scientifica, ma è il frutto di un processo storico che si sedimenta col tempo. Per cui Kuhn rifiuta l’idea illuministica che sia possibile instaurare una nuova comunità di ricerca col semplice sostituire vecchie tradizioni con nuovi progetti di ricerca scientifica razionalmente pianificati. Da questo punto di vista la sua posizione è pre-illuminista, con una notevole propensione per la volorizzazione della tradizione piuttosto che della innovazione [cfr. Nickles 2003c, 145-7]. È questa ad esempio la funzione che nei manuali ha la misura espressa mediante le tabelle numeriche: esse hanno la sola funzione di fornire una esempio di quell’altrimenti non precisabile “ragionevole accordo” che lo scienziato deve aspettarsi tra le previsioni teoriche e i risultati sperimentali; il fatto di esibire in un manuale condiviso dalla comunità dei valori numerici ritenuti accettabili definisce, per il fatto stesso di comparire in una tabella, l’unico criterio possibile per pervenire ad una de15
Cfr. Nickles [2003c, 151, 158-66] che appunto sostiene sia la sua opera interpretabile come «a theory of case-based and/or model-based reasoning in normal science» (ib., 161), che per certi aspetti è simile al tipo di approccio in seguito praticato nell’ambito delle scienze cognitive, specie nel campo dell’intelligenza artificiale.
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cisione: Quando appaiono in un testo, le tabelle di numeri tratte dalla teoria e dalgli esperimenti non possono dimostrare nulla se non “ragionevole accordo”. Ed anche in questo caso essi lo dimostrano tautologicamente, poiché essi solo forniscono la definizione di “ragionevole accordo” che è stata accettata dalla comunità degli esperti. Questo, credo, è il motivo per cui ci sono le tabelle; esse definiscono il “ragionevole accordo”. Studiandole il lettore impara che cosa ci si può attendere dalla teoria. Una dimestichezza con le tabelle è parte della dimestichezza con la teoria stessa. [Kuhn 1961, 166].
Anche in questo caso, in assenza della possibilità di una esplicita verbalizzazione, assume funzione fondamentale la pratica, l’esempio, ovvero il “paradigma” nella sua accezione originaria, che rinvia a quella dimensione dell’uso, della pratica, da Wittgenstein [1952] valorizzata nella seconda fase del suo pensiero allo scopo di definire il significato; che costituisce per Polanyi la “dimensione tacita” della conoscenza scientifica; e che per Fleck è insita in quell’addestramento “sul campo”, che egli contrappone alla patologica “iperverbalizzazione” tipica di chi vuole ingabbiare la scienza mediante norme e procedure.16 Tuttavia in seguito il paradigma finì per indicare «l’insieme globale di tutti gli impegni condivisi dai membri di una particolare comunità scientifica»17 e in questa accezione più ampia può essere anche costituito da una teoria scientifica che, in una data fase di sviluppo della scienza, viene considerata come fondamentale: è il caso, ad es., della meccanica newtoniana. Il lavoro che svolgono gli scienziati in una fase di scienza normale è quello di articolare e sofisticare sempre più il paradigma in modo da estenderlo a sempre nuovi ambiti fenomenici o risolvere alla sua luce i vari problemi che si possono presentare nella pratica scientifica: è una attività di “puzzle solving”. Infatti, 16
Cfr. Fleck [1946, 205]. Su tale “funzionamento tacito del paradigma” kuhniano, in genere trascurato dalla letteratura, insiste giustamente Jodkowski [1990, cap. 3]. 17 Kuhn [1977, xviii-xix]. Sui molteplici significati che il termine paradigma può assumere nelle opere di Kuhn vedi il saggio di Masterman [1977], che tuttavia esagera un po’ nell’attribuire a Kuhn ben 21 diverse accezioni di paradigma, anche se poi li accorpa in tre tipi principali. Analoghe osservazioni sul suo ambiguo significato erano state fatte anche da Shapere [1964] nella sua recensione all’opera di Kuhn.
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[…] una delle cose che una comunità scientifica acquista con un paradigma è un criterio per scegliere i problemi che, nel tempo in cui si accetta il paradigma, sono ritenuti solubili. In larga misura, questi sono gli unici problemi che la comunità ammetterà come scientifici e che i suoi membri saranno incoraggiati ad affrontare. Altri problemi, compresi alcuni che erano stati usuali in periodi anteriori, vengono respinti come metafisici, come appartenenti ad un’altra disciplina, o talvolta semplicemente come troppo problematici per meritare che si sciupi del tempo attorno ad essi. [Kuhn 1962, 58]
Non esiste, pertanto, un criterio che definisca la scientificità o meno di problemi e teorie, come invece ritiene Popper o si era tentato di fare nella tradizione dell’empirismo logico lavorando sul concetto di “significanza cognitiva”, ma è la data teoria o paradigma a costituire i criteri di scientificità e accettabilità: il rapporto è praticamente capovolto. Al metodologo indicante quali criteri normativi debbano ispirare lo scienziato succede lo storico della scienza che fa vedere come di fatto gli scienziati scelgano prima la teoria paradigmatica dalla quale derivano, poi, i criteri di scientificità. E ciò si spiega appunto col fatto che i paradigmi costituiscono una Weltanschauung che definisce al proprio interno quali siano i “fatti” rilevanti e significativi. Come s’è visto chiaramente dall’esperimento delle carte da gioco prima riportato, ogni osservazione è theory-laden e non esiste una “mente pura” che valuti il peso oggettivo di fatti liberi da ogni condizionamento teorico. Le teorie non si sviluppano in modo disorganico e frammentario per adattarsi a fatti sempre esistiti, ma piuttosto
[…] sorgono, assieme ai fatti dei quali forniscono una spiegazione, da una riformulazione originaria della tradizione scientifica precedente, una tradizione entro la quale il rapporto, mediato dalla conoscenza, tra lo scienziato e la natura era fondamentalmente diverso. [Kuhn 1962, 172]
Ma, come avviene questa “riformulazione rivoluzionaria”, questa transizione da una paradigma all’altro? Poiché richiede una distruzione su larga scala dei paradigmi e modificazioni fondamentali nei problemi e nelle tecniche della scienza normale, l’emergere di nuove teorie è generalmente preceduta da un periodo di profonda incertezza nel campo della specializzazione interessata. Come ci si può aspettare, tale incertezza è generata dalla persistente incapacità della scienza normale a risolvere i problemi che le si presentano, i cosiddetti “rompicapo”. Il fallimento delle regole esistenti è 89
una necessaria preparazione per la ricerca di regole nuove [cfr. ib., 92]. È l’accumularsi di “anomalie”, o problemi, che il paradigma non riesce a risolvere, a generare un periodo di crisi. Nondimeno, bisogna notare, non è facile che la comunità degli scienziati accetti di considerare delle anomalie come sintomi di una crisi e non piuttosto come momentanee “défaillances” tecniche. Infatti (ed è la conclusione che Kuhn trae dal suesposto esperimento delle carte da gioco), nella scienza […] la novità emerge soltanto con difficoltà, che si manifesta attraverso la resistenza, in contrasto con un sottofondo costituito dalla aspettazione. All’inizio, si percepisce soltanto ciò che si accetta e che è usuale, persino in circostanze nelle quali più tardi l’anomalia viene ad essere rilevata. Una osservazione successiva però permette di rendersi conto che c’è qualcosa di sbagliato o collega l’effetto con qualcosa che era sbagliato prima. Tale presa di coscienza dell’anomalia apre un periodo in cui le categorie concettuali vengono riadattate, finché ciò che inizialmente appariva anomalo sia diventato qualcosa che ci si aspetta. A questo punto la scoperta è stata compiuta. [Ib., 88]
Certamente, se «l’anomalia è visibile sullo sfondo fornito dal paradigma» [ib., 89], nondimeno essa non viene scoperta alla prima occhiata né segna immediatamente la resa del vecchio paradigma: la scienza normale è, infatti, fortemente tradizionale, per cui non v’è nulla di patologico se un paradigma convive con più anomalie: «nessuno mise seriamente in discussione la teoria newtoniana a causa della discrepanza, da lungo tempo riconosciuta, delle previsioni derivanti da quella teoria con la velocità del suono o con il movimento di Mercurio». Così, «[…] per suscitare la crisi una anomalia deve di solito essere qualcosa di più di una anomalia pura e semplice» [ib., 108]: essa deve assumere sempre più rilevanza, non essere un semplice rompicapo, avere un valore esemplare. Non è possibile in generale stabilire quando ciò accada: si possono solo fare esempi concreti di casi storici nei quali si è riscontrato tale evento. In ogni caso, l’effetto che si ha è una sempre maggiore indistinzione delle caratteristiche del paradigma, un suo “sfocamento” che porta all’«allentarsi delle regole che governano la ricerca normale». La transizione da un paradigma in crisi ad uno nuovo, dal quale possa emergere una nuova tradizione di scienza normale, è tutt’altro che un processo cumulativo, che si attua attraverso 90
un’articolazione o un’estensione del vecchio paradigma. È piuttosto una ricostruzione del campo su nuove basi, una ricostruzione che modifica alcune delle più elementari generalizzazioni teoriche del campo, così come molti metodi di applicazioni del paradigma [ib., 111]. Ne segue che i paradigmi sono del tutto incommensurabili, cioè non esiste un comune parametro metodologico o razionale che li possa mettere a confronto in modo da decidere su basi logiche o empiriche quale di essi sia la migliore e in che senso il successivo sia lo sviluppo, l’estensione o l’ampliamento del precedente. Introducendo il tema della “incommensurabilità”, Kuhn immette nella discussione uno dei concetti piú accesamente discussi nella filosofia della scienza degli ultimi trent’anni in quanto esso opera una contestazione radicale sia della supposta continuità sempre ritrovabile tra teorie successive mediante opportune tecniche di “riduzione”, sia una prima, sostanziale incrinatura dello sviluppo della scienza come un progressivo articolarsi della razionalità umana che tesse – in una trama comune e condivisa – il carattere progressivo e cumulativo della conoscenza umana. L’equilibrio tra continuità e cambiamento nella scienza, che nella RV si era cercato di garantire mediante la teoria del progresso per riduzione, viene rotto a favore della discontinuità, della rottura rivoluzionaria, della incomunicabilità tra paradigmi successivi. Ma non si tratta solo i far cadere uno dei capisaldi della RV, in quanto la posta in gioco è ora la stessa possibilità di concepire la scienza come la migliore incarnazione della razionalità umana, il luogo prediletto in cui avviene una continua crescita della conoscenza e quindi quella immagine della scienza che era stata comune a tutta la “tradizione ricevuta”. Infatti nel processo di transizione da un paradigma all’altro descritto da Kuhn, in quanto «[…] la questione della scelta di un paradigma non può mai venir risolta inequivocabilmente dalla logica e dall’esperimento da soli» [ib., 122]. Tra vecchio e nuovo paradigma v’è un abisso che rende impossibile una discussione razionale tra le due comunità scientifiche: ognuna possiede propri criteri di scientificità e giudicherà non scientifiche le prove e le argomentazioni dell’altra. Infatti, i criteri che presiedono alla risoluzione dei rompicapo nell’ambito della scienza normale non sono applicabili a paradigmi diversi: è fatale argomentare circolarmente e «ciascun paradigma mostrerà di soddisfare più o meno i criteri che esso stesso si impone e 91
di essere inadeguato rispetto ad alcuni di quelli impostati dal paradigma avversario» [ib., 138]. Ciò deriva dal fatto che «quando mutano i paradigmi, il mondo stesso cambia con essi» [ib., 139] e gli scienziati, svolgendo la loro attività in mondi differenti, vedono cose differenti anche guardando nella stessa direzione. Da ciò ne segue che proprio perché è un passaggio tra incommensurabili, il passaggio da un paradigma ad uno opposto non può essere realizzato con un passo alla volta, né imposto dalla logica o da un’esperienza neutrale. Come il riorientamento gestaltico, esso deve compiersi tutto in una volta (sebbene non necessariamente in un istante) oppure non si compirà affatto. [Ib., 182]
Ma come gli scienziati si convincono a fare questo passo? È proprio qui che cadono tutti gli standard metodologici fissati sia dalla RV sia da quella tradizione ricevuta che aveva caratterizzato sino a quel momento la scienza: per Kuhn non v’è regola che possa spiegare il perché gli scienziati abbraccino un nuovo paradigma. Non si tratta solo di far rilevare l’irrazionalità della scoperta, cosa che – come sappiamo – anche il piú tradizionale dei neopositivisti avrebbe pacificamente accettato, ma piuttosto di far vedere che è proprio all’interno del contesto di giustificazione che mancano criteri puramente razionali di scelta tra teorie diverse. Certamente gli scienziati credono di poter giustificare la propria scelta affermando che il nuovo paradigma è in grado di risolvere i problemi che hanno causato la crisi di quello vecchio; ma questo, osserva Kuhn, è un caso ben raro, giacché spesso l’alternativa teorica non mette in luce i propri vantaggi tanto chiaramente e «di solito è soltanto molto più tardi, dopo che il nuovo paradigma è stato ulteriormente elaborato, accettato, e sfruttato, che compaiono argomentazioni che appaiono decisive» [ib., 188-9]. La verità è che scegliere un paradigma è come fare una scommessa e «una decisione di tal genere può essere presa soltanto sulla base della fede» [ib., 190]. Si potrebbe dire, con Max Planck, che «una nuova verità scientifica non trionfa convincendo i suoi oppositori e facendo loro vedere la luce, ma piuttosto perché i suoi oppositori alla fine muoiono, e cresce una nuova generazione che è abituata ad essa» [ib., 183]. Dalla visione dello sviluppo della scienza sopra delineata deriva tutta una serie di conseguenze metodologiche antitetiche 92
a quelle della RV e in particolare di Popper 18. In sostanza viene destituito di fondamento il ruolo della falsificazione; infatti, a) v’è sempre mancanza di coincidenza tra dati e previsioni teoriche, vi sono sempre dei rompicapi che caratterizzano la scienza normale così che «se qualsiasi insuccesso nello stabilire quell’accordo dovesse essere una ragione sufficiente per abbandonare una teoria, tutte le teorie dovrebbero venire abbandonate ad ogni momento» [Kuhn 1962, 178]; b) nell’ambito della scienza normale il compito degli scienziati è appunto quello di risolvere questi rompicapo, definibili solo all’interno della teoria corrente che costituisce il necessario sfondo, assunto come indiscusso, in base al quale la comunità scientifica definisce i problemi degni di applicazione. Ne consegue che il singolo scienziato controlla solo la sua personale congettura: Se essa fallisce il controllo è impugnata soltanto la sua abilità e non il corpo della scienza corrente. In breve, benché i controlli capitino spesso nella scienza normale, questi controlli sono di un genere particolare, poiché in ultima analisi è lo scienziato come individuo che viene controllato piuttosto che la teoria corrente. [Kuhn 1970, 734]
c) gli esempi di falsificazione cui Popper fa più spesso riferimento sono casi molto rari nella storia della scienza e appartengono in genere a periodi di “ricerca straordinaria”. La scienza è per lo più fatta di scienza normale, mentre Popper «ha caratterizzato l’intera attività scientifica in termini che si riferiscono solo alle sue occasionali componenti rivoluzionarie». Bisogna allora capovolgere il punto di vista di Popper: è proprio l’abbandono del discorso critico che segna la transizione a una scienza. Una volta che un settore ha compiuto questa transizione, il discorso critico riappare solo in momenti di crisi quando le basi del settore sono di nuovo in pericolo. Soltanto quando devono scegliere fra teorie concorrenti, gli scienziati agiscono come filosofi. [Ib., 74-5]
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Il dibattito tra Kuhn e Popper è documentato nel volume di Lakatos & Musgrave [1970], che raccoglie gli atti di un colloquio internazionale avvenuto a Londra nel 1965. Sulle differenze tra Kuhn e Popper vedi Worrall [2003] e Maxwell [2005].
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d) parlare di “confutazione”, “dimostrazione”, “prova”, ecc., e ritenerli dei criteri necessari e sufficienti per la scelta di teorie equivale a richiedere il consenso all’interno di tutta la comunità scientifica. Ma «dove un’intera teoria o spesso anche una legge scientifica è in gioco, i ragionamenti sono di rado così apodittici» [ib., 82-3]. Non solo, ma tali nozioni presuppongono che una teoria sia formulata, o possa essere riformulata senza alterazione in una forma che permetta agli scienziati di classificare ogni evento immaginabile o come un esempio di conferma o come un esempio falsificante o come non pertinente alla teoria. […] In pratica, tuttavia, nessuna teoria scientifica soddisfa queste rigorose richieste, e molti hanno sostenuto che una teoria cesserebbe di essere utile per la ricerca se lo facesse. [Ib., 85-6]
Con queste critiche Kuhn non solo colpisce al cuore l’epistemologia popperiana, costituito dalla falsificazione, ma anche manda in frantumi il progetto che era stato alla base, pur nelle varie differenziazioni, sia della tradizione ricevuta sia della RV: ad essere messa in crisi è la stessa possibilità della discussione razionale, di cui l’impresa scientifica sembrava essere depositaria; viene delegittimata l’idea di una “filosofia scientifica” per lo sgretolarsi dello stesso modello cui essa doveva ispirarsi: la razionalità paradigmatica della scienza, che doveva esser svelata e metodologicamente resa disponibile dal lavoro epistemologico, si rivela dopo la cura a cui è stata sottoposta dalla storiografia kuhniana un concetto infido ed inaffidabile, che con difficoltà può nutrire una ruolo pedagogico verso le altre discipline. Conseguenze talmente devastanti che lo stesso Kuhn ha cercato successivamente, nel vedere le conseguenze relativistiche e nichilistiche tratte dalle sue concezioni, di prendere con nettezza le distanze sia da chi, a partire dal suo pensiero, aveva sviluppato un “programma forte” di sociologia della scienza (v. § 2.5), ritenendolo una sorta di “impazzita decostruzione” del suo pensiero [cfr. 1992, 8-9; cfr. anche Nola 2000], e in particolare cerca di distinguere la propria posizione da quella di Feyerabend: così preferisce sostenere non tanto che la scienza sia irrazionale ma solo che «[…] la nostra nozione di razionalità ha bisogno di una rettifica in qualche punto» [Kuhn 1970b, 416] e successivamente (tra gli anni ’80 e i primi anni ’90) tenterà di apportare alcune correzioni al modo di intendere la incommensurabilità, col distinguerla dalla incomparabilità, sostenendo che essa «è lungi 94
dall’essere una minaccia alla valutazione razionale delle pretese di verità come è stata frequentamenta fatta sembrare» [Kuhn 1991, 3] e che non comporta affatto la tesi dell’impossibilità di confronti razionali tra teorie successive e di conseguenza il relativismo [cfr. Kuhn 1983, 670; 1989, 23; cfr su ciò Hoyningen-Huene 1993, 202-22; Sankey 1993; Chen 1997]. Troppo tardi: l’infezione si era estesa e al di là delle buone intenzioni del suo autore, ormai i concetti introdotti avevao una loro vita autonoma, divenendo punti di partenze di riflessioni che sarebbero andate molto piú lontano di quanto Kuhn potesse mai pensare o l’incolpevole Carnap potesse immaginare quando accettà di pubblicarne l’opera. L’“ampliamento del concetto di razionalità” auspicato da Kuhn tende ad inboccare direzioni la cui direzione era stata proibita RV e dallo stesso Popper: la transizione scientifica, impossibile a capirsi con i soli strumenti logici e metodologici – e perciò “irrazionale” se studiata facendo uso solo di essi – diventava sempre piú un evento che coinvolge i valori, la psicologia e lo status sociologico delle comunità scientifiche e dei singoli scienziati. La irenica e tranquillizzante distinzione tra i due contesti andava in frantumi e nelle tranquille plaghe della giustificazione e della logica irrompevano le furie non disciplinate della pisoclogia individuale e di gruppo, della sociologia e della storia con tutta la idiosincraticità e le peculiarità legate alle “situazioni”, ai “contesti”, alle diverse “tradizioni”. Il problema della razionalità scientifica, pertanto, non può piú essere affrontato come un discorso interno alla scienza, come se in essa fosse possibile ritrovare dei criteri autosufficienti che ne spieghino e giustifichino il divenire. Alla “logica della scienza” deve sostituirsi una psicologia e una sociologia della scoperta, delle quali la prima è un derivato. La definizione di criteri di razionalità scientifica si converte in definizione di criteri sociologici di interpretazione: non è più la sociologia ad essere ancella delle scienze fisiche dalle quali, secondo la RV, avrebbe dovuto mutuarne i metodi, ma, viceversa, sono queste ultime ad essere ancelle della sociologia, ai cui strumenti devono ricorrere per rendere intellegibile il proprio stesso procedere. Era una sfida terribile lanciata a tutta la tradizione ricevuta, non solo alla RV. E per difendere non quest’ultima, ma quella generale immagine della scienza che sembrava dover far parte del codice genetico dell’Occidente, di quella tradizione di cui 95
l’illuminismo e l’empirismo logico avevano rappresentato le voci piú chiare ed elevate, bisognava tentare di approntare delle ulteriori difese su ridotti piú sicuri, operando una ritirata strategica da posizioni ormai ritenute indifendibili per assestarsi su un’ultima difesa della razionalità scientifica operata in nome di un popperismo riformulato e riadattato alla buriana dei nuovi tempi, anche contro la volontà dello stesso Popper, prendendo per le corna il problema piú spinoso: quello della storia. È quanto ha cercato di fare Imre Lakatos. 3. Imre Lakatos e i programmi di ricerca scientifici La metodologia dell’ungherese Imre Lakatos (1922-1974) – emigrato nel 1956 per sfuggire alla persecuzione comunista e quindi stabilitosi nel 1962 come docente alla London School of Economics – si propone come un’articolazione di quella popperiana al fine di eliminarne o riaggiustarne gli aspetti che l’hanno esposta alla critica sia di Kuhn sia dei nuovi filosofi della scienza.19 Per far ciò Lakatos opera una rilettura di Popper che ha lo scopo di scartarne gli elementi di dogmatismo ed “ingenuità” per privilegiarne quelli che a suo avviso sono compatibili con un “falsificazionismo sofisticato”. In ciò si è visto il tentativo di Lakatos di operare una sorta di sintesi tra Kuhn e Popper, una loro “riconciliazione”20. Inoltre è evidente come nella sua opera si sia cercato di innestare la storia all’interno della metodologia, sicchè le sue argomentazioni sono tutte intrinsecamente “storiciste” e il problema fondamenta19
Sull’opera di Lakatos vedi i saggi raccolti nei volumi di Gavroglu, Goudaroulis & Nicolacopoulos [1989], Kempis [2002], e in italiano il volume di Motterlini [2000]. 20 Cfr. Kulka [1977, 325-6], Worrall [2003]. Il venire in soccorso di Lakatos a Popper e la sua reinterpretazione della sua metodologia non risultano affatto graditi a quest’ultimo che lo accusa di non aver compreso la sua teoria, di aver tratto citazioni fuori dal loro contesto, di aver dato rilevanza ad opinioni espresse en passant, trascurando passi fondamentali delle sua opere, e di aver complicato inutilmente e reso incomprensibile il suo pensiero. Non solo, lamenta, ma visto che erano colleghi alla London School of Economics, perchè non domandargli chiarimenti su tali questioni controverse invece di avventurarsi in interpretazioni discutibili? [cfr. Popper 1974b, 999-1000]. Lakatos sintetizza in maniera complessiva la sua interpretazione di Popper in [1974].
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le non diventa quello di accertare in astratto l’esistenza e la quantità di conoscenza di una teoria, bensì di render conto della crescita della conoscenza – sulla cui esistenza Lakatos ritiene ci sia un generale accordo – e di essere in grado di valutare le diverse teorie scientifiche in concorrenza tra loro per scegliere quella che assicura una crescita maggiore rispetto alle altre. Come afferma Lakatos, parafrasando Kuhn, «la filosofia della scienza senza la storia della scienza è vuota. La storia della scienza senza la filosofia della scienza è cieca» [Lakatos 1970, 366]. Non diversamente da quanto avveniva per gli empiristi logici – i quali assumevano il valore conoscitivo della scienza come un fatto indiscutibile del quale era necessario darsi una ragione – così per Lakatos è un fatto indubitabile che vi sia crescita della conoscenza, per cui la metodologia ha per lui lo scopo di analizzare il modo in cui essa avviene. Nel fare un bilancio del popperismo, Lakatos [1978, 3-4] ne individua il limite principale: Il criterio di Popper ignora la notevole tenacia delle teorie scientifiche. Gli scienziati hanno la pelle dura. Non abbandonano una teoria solo perché i fatti la contraddicono. Essi normalmente o inventano delle ipotesi di salvataggio per spiegare ciò che essi possono ritenere una mera anomalia o, se non possono spiegare l’anomalia, la ignorano dirigendo la loro attenzione ad altri problemi.
Con ciò Lakatos riconosce la giustezza delle critiche di Kuhn a Popper, connesse con la sua idea di una “scienza normale”. Tuttavia Kuhn era arrivato alla conclusione che il cambiamento scientifico è un evento irrazionale e che, in ogni caso, esso sarebbe comprensibile solo in un contesto più ampio, tenendo conto della psicologia della scopertae così rinunciando ad una storia puramente interna delle teorie scientifiche. Lakatos non vuole seguire Kuhn su questa strada, ma vuole sviluppare e migliorare il progetto popperiano: nel conflitto tra Popper e Kuhn non ha esitazioni per chi prendere partito. Se perciò «Kuhn ha ragione nell’opporsi al falsificazionismo ingenuo, e anche nel porre in risalto la continuità del progresso scientifico e la tenacia di alcune teorie scientifiche», ha tuttavia torto «nel ritenere che una volta demolito il falsificazionismo ingenuo abbia demolito con ciò ogni tipo di falsificazionismo». Così facendo Kuhn, sostiene Lakatos, non può che arrivare ad una psicologia della scoperta, abbandonando il progetto di una sua logica: la “crisi” che porta alla transizione da un paradigma all’altro è «un concetto psicologico, è un panico conta97
gioso» [Lakatos 1970b, 255], anche se Kuhn non è interessato alla psicologia del singolo scienziato ma a quella della comunità scientifica nel suo complesso. Quella di Kuhn è una posizione che Lakatos definisce elitista, distinguendola dallo scetticismo (il cui più recente rappresentante è a suo avviso Feyerabend) e dal demarcazionismo, nel quale si colloca egli stesso insieme a Popper. Gli “elitisti”, diversamente dagli scettici, ritengono, come i demarcazionisti, che sia possibile distinguere la scienza dalla pseudoscienza, ma non perché siano disponibili dei criteri universali di demarcazione: unico giudice sarebbe l’élite degli scienziati. Ovverossia, come ha detto Kuhn, è la comunità scientifica a decidere degli standard di razionalità, in quanto solo essa è in grado di penetrare e comprendere quella inarticolabile “tacita dimensione”, della quale ha parlato Polanyi [1966] e sul cui sfondo prendono significato le regole metodologiche. Il risultato di una posizione simile è che, mentre «per i demarcazionisti una teoria è migliore di un’altra se soddisfa certi criteri oggettivi», invece per gli elitisti «una teoria è migliore di un’altra se la élite scientifica la ritiene tale». Così diventa essenziale studiare come pensa una comunità scientifica e compito dello storico della scienza è passare dalla valutazione dei prodotti alla valutazione dei produttori. Di conseguenza, mentre per un demarcazionista la filosofia della scienza è il cane da guardia degli standard scientifici, per gli elitisti questo ruolo deve essere ricoperto dalla psicologia, sia essa intesa come psicologia sociale o sociologia della scienza [cfr. Lakatos 1978, 113]. Ma sia lo psicologismo sia il sociologismo vanno incontro ad una obiezione di fondo: ciascuno, elitista o no, usa implicitamente od esplicitamente dei criteri normativi al fine di stabilire che cosa è una comunità scientifica e, quindi, anche che cosa debba intendersi per impresa scientifica: Ma se si deve avere qualche idea di cosa sia la scienza prima di decidere quali comunità debbano essere considerate scientifiche, allora si deve prima decidere che cosa costituisce progresso scientifico. Dalla soluzione di questo problema normativo si può allora procedere al problema empirico di quali siano le condizioni sociopsicologiche necessarie (o più favorevoli) per produrre progresso scientifico. Questo è precisamente il modo in cui i demarcazionisti affrontano la sociologia della scienza. [Ib., 114]
Altrimenti bisognerebbe abbandonare del tutto l’idea che possa esservi progresso scientifico, o almeno ritenere che ogni 98
cambiamento all’interno della comunità scientifica (ammesso che sia possibile identificarla) sia ipso facto un progresso. Dove va a finire il progetto popperiano di valutazione del progresso scientifico attraverso i concetti di approssimazione alla Verità e di verosimilitudine? Proprio a questi criteri Kuhn aveva rivolto la sua critica, negando che le varie teoria scientifiche tendano ad approssimarsi sempre più ad una Verità. Lakatos si contrappone appunto a questa prospettiva e, se è vero che anche la storia e la sociologia sono impregnate di norme, allora una valutazione razionale del progresso scientifico deve precedere, non seguire, l’intera articolazione della storia empirica: la storia interna (normativa) è primaria e la storia esterna (empiricodescrittiva) secondaria. Non si può scrivere la storia senza qualche ricostruzione razionale. [Ib., 115-6, 242]
In questa luce, riprendendo quel che gli sembrava giusto delle critiche di Kuhn e degli altri anti-popperiani, Lakatos ritesse la tela della ragione col proporre la sua metodologia dei programmi di ricerca scientifici (Methodology of Scientific Research Programmes, MSRP). Essa, salvaguardando il nucleo del falsificazionismo popperiano, riconosce che è un errore pensare che sia possibile confrontare una singola teoria con la base empirica, in modo da giudicarne astrattamente, in una sorta di isolamento logico, la scientificità e quindi ritenerla falsificata o meno. La razionalità, per Lakatos, non riguarda proposizioni isolate, ma vuole valutare la portata di ogni teoria in relazione ad altre teorie con essa concorrenti: «Richiedo che l’unità descrittiva tipica dei grandi accrescimenti scientifici non sia un’ipotesi isolata ma piuttosto un programma di ricerca. La scienza non è solo una serie di prove ed errori, una serie di congetture e confutazioni» [Lakatos 1978, 4] . È stato proprio questo l’errore di Popper, giacché «il suo criterio di demarcazione è formulato in termini di falsificabilità o infalsificabilità di proposizioni» [Lakatos 1978, 221] piuttosto che di programmi di ricerca in competizione. Dal mio punto di vista, non apprendiamo semplicemente per congetture e confutazioni. La scienza matura non è una procedura di prove ed errori [trial-and-error], consistenti di ipotesi isolate, più la loro conferma o refutazione. Le grandi conquiste, le grandi “teorie”, non sono ipotesi isolate o scoperte di fatti, ma programmi di ricerca. La storia della grande scienza è una storia di programmi di ricerca, e non di prove ed errori, né di ingenuo congetturare.
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Con ciò Lakatos inserisce una dimensione storica nella valutazione delle teorie: ad esser valutata non è la singola teoria ma una serie di teorie che costituiscono il programma di ricerca scientifica (SRP). Ciò porta con sé il fatto che non è più un singolo esperimento a confutare un SRP, né sono più concepibili degli esperimenti cruciali falsificanti capaci di decidere inequivocabilmente tra due teorie appartenenti a diversi SRP: «nessun singolo esperimento può giocare un decisivo, per non dir “cruciale”, ruolo nel far pendere la bilancia tra due programmi di ricerca rivali» [ib., 212]. È questa una concezione dinamica della razionalità scientifica senz’altro mutuata dalla filosofia hegeliana, che influenzò Lakatos durante i suoi trascorsi marxista in Ungheria, dove ebbe la possibilità di seguire anche le lezioni di Lukács [cfr. Motterlini 2000, 14-8, 26-7]. Un SRP si articola in una serie di teorie ed è caratterizzato da un nucleo (hard core) tenacemente protetto dalla confutazione da una vasta “cintura protettiva” (protective belt) di ipotesi ausiliarie, solo contro le quali può essere indirizzata la falsificazione. È questo nucleo a caratterizzare un SRP: un esempio classico è dato dalla teoria gravitazionale di Newton. Qui l’hard core, costituito dalle tre leggi della dinamica e dalla legge di gravitazione, è reso non confutabile per decreto metodologico, mentre le eventuali anomalie, e cioè tutti quei casi in cui si osserva un comportamento deviante rispetto alle previsioni, devono essere spiegate apportando mutamenti solo nella cintura protettiva con l’aiuto di sofisticate tecniche matematiche, di ipotesi ausiliarie sulla rifrazione atmosferica, la propagazione della luce ecc., od anche con ipotesi ad hoc che possano dar conto dell’esperienza. Ciò che è falsificabile, e quindi soggetto a mutamento, è proprio questa cintura protettiva, mentre l’euristica negativa evita l’attacco all’hard core. L’euristica negativa specifica il “nucleo” del programma che in virtù di una decisione metodologica dei suoi protagonisti non è “confutabile”; l’euristica positiva consiste in un insieme abbastanza articolato di proposte o di suggerimenti su come cambiare e sviluppare le “varianti confutabili” del programma di ricerca, su come modificare e sofisticare la cintura protettiva “confutabile”. [Lakatos 1970b, 211]
È questa euristica positiva a permettere allo scienziato di articolare lo SRP attraverso «una catena di modelli sempre più complicati che simulano la realtà» [ib., 211]. Ciò coglie un aspetto tipico delle teorie scientifiche, cioè il fatto di far riferi100
mento a casi ideali non esistenti, per cui le prime varianti di un SRP sono evidentemente “false” in quanto fanno delle assunzioni allo scopo di neutralizzare fatti che si ritengono inessenziali per il fenomeno sotto indagine; sono pertanto inevitabili all’inizio le anomalie e le relative “confutazioni”: «la loro esistenza è pienamente prevista, l’euristica positiva funge qui da strategia che serve sia a prevederle, sia ad assimilarle» [ib., 213; cfr. Motterlini 2000, 71-8]. Solo quando la teoria viene sempre più articolata in modelli via via più concreti, in un progressivo processo di “de-idealizzazione”, la confutazione diventa sempre più incisiva e può portare al rifiuto o rigetto della teoria21. Ciò rende evidente il fatto che un SRP nasce e cresce fra le anomalie; nessun SRP è stato finora libero da esse: «tutte le teorie, in questo senso, sono nate confutate e muoiono confutate» [Lakatos 1978, 5]. Per quanto si lavori con l’euristica positiva sarà impossibile esaurire e spiegare tutte le anomalie; per cui un SRP deve al suo inizio andare avanti ignorando le confutazioni. Contrariamente a quanto pensa Popper, «sono le verificazioni che fanno andare avanti il programma, malgrado gli esempi recalcitranti» [Lakatos 1970b, 213]. Non solo, ma come dimostrano episodi della storia della scienza, un SRP può procedere anche su basi incoerenti, attraverso l’innesto su SRP più vecchi con i quali è chiaramente incompatibile, e mascherando tale “difetto” con stratagemmi ad hoc. Certamente la coerenza è un importante principio regolatore, ma ciò non significa che un SRP debba bloccarsi alla prima incoerenza (o anomalia), e cioè prima ancora che l’articolazione dell’euristica positiva gli abbia dato modo di rivelare la propria fecondità. La storia della scienza è, pertanto, per Lakatos una storia di SRP in competizione, in un clima di reciproca tolleranza me21
Sul carattere idealizzante della scienza e sulle teorie come successioni di modelli via via più concreti, che sono sempre piú falsificabili man mano che aumenta il loro “tasso di concretezza” vedi anche le riflessioni effettuate nell’ambito della concezione idealizzazionale della scienza della scuola polacca di Poznań esposte in numerose opere e su cui abbiamo più volte insistito. Si veda in modo sintetico il mio [2004, 334-372] e per una presentazione piú complessiva, nel contesto della filsoofia polacca, anche [1990], dove è possibile anche trovare tutte le indicazioni bibliografiche necessarie. Qui rinviamo, per le opere della scuola, solo a Nowak [1980] e Nowak & Nowakowa [2000], nei cui volumi sono contenuti numerosi articoli ed ampie indicazioni bibliografiche.
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todologica e di pluralismo teorico [cfr. Lakatos 1970b, 2334]. Ma tra due programmi alternativi bisogna pur scegliere. Si dovrà, allora, far ricorso alla psicologia delle comunità scientifiche, come propone Kuhn, per comprendere come mai un SRP trionfa su un’altro? Assolutamente no. Per Lakatos sono possibili dei criteri di scelta razionali. Un SRP, infatti, può mostrarsi progressivo oppure mantenersi in stagnazione: Un programma di ricerca si dice che è progressivo fintanto che la sua crescita teorica anticipa la sua crescita empirica, cioè fintanto che continua a predire fatti nuovi con qualche successo (“slittamento-di-problema-progressivo”); è in stagnazione se la sua crescita teorica resta indietro rispetto alla sua crescita empirica, cioè fintanto che dà solo spiegazioni post hoc di scoperte casuali o di fatti anticipati da un programma rivale o in questo scoperti (“slittamento-di-problema-regressivo”). Se un programma di ricerca spiega progressivamente più di quanto faccia un programma rivale, lo “supera” e il programma rivale può essere eliminato, o, se si preferisce, “messo da parte” [Lakatos 1970, 377] Il secondo caso è tipico di un programma di ricerca in via di saturazione che non riesce più ad aggiustare le anomalie se non con ipotesi ad hoc che mancano di contenuto empirico eccedente rispetto alle teorie precedenti e che a lungo andare non portano ad alcun aumento di contenuto. Ma ciò che non si può precisare è appunto questo “a lungo andare”: rendendo quanto mai elastica la posizione di Popper, Lakatos afferma che è assai difficile decidere – specie se, come detto, non si può esigere del progresso ad ogni minimo cambiamento – quando un SRP è degenerato senza speranza o quando uno dei due SRP in competizione ha raggiunto un vantaggio decisivo sull’altro; non si può, cioè, decidere razionalmente il momento in cui può essere presa una decisione a favore dell’uno o dell’altro, preferendo una certa durata temporale piuttosto che un’altra. Infatti «non c’è limite prevedibile o accertabile per l’umana immaginazione nell’inventare nuove teorie a contenuto progressivo o per l’“astuzia della ragione” (List der Vernunft) nel premiarle con qualche successo empirico, anche se sono false o anche se la nuova teoria ha meno verosimilitudine – nel senso di Popper – della precedente» [Lakatos 1970b, 235 n.]. E sarà appunto questo uno dei punti su cui porterà la sua critica Feyerabend [1967, 296], il quale avrà buon gioco 102
nel sostenere che è la stessa metodologia lakatosiana a costringere a prendere sul serio la ricerca medianica [cfr. Feyerabend 1976, 376 n.]. Non solo, ma il potere euristico del nuovo SRP dipende in larghissima misura da come costruiamo le “novità fattuali”: «[…] la novità di una proposizione fattuale si può vedere solo dopo che sia trascorso un lungo periodo» [Lakatos 1970b, 232]. Ciò significa due cose: innanzi tutto, il nuovo programma non può essere scartato sul nascere, ma bisogna dargli il tempo di produrre fatti nuovi. È infatti storicamente incontrovertibile che nuovi SRP, poi risultati vincenti, avevano al momento della loro nascita addirittura meno potere esplicativo di quelli vecchi e in ogni caso contraddicevano quelli che erano i “fatti” all’epoca accettati dalla comunità scientifica [cfr. Lakatos 1978, 215]. In secondo luogo, un vecchio SRP non può essere abbandonato del tutto in quanto sarà sempre possibile che produca, dopo una lunga serie di aggiustamenti ad hoc, dei fatti nuovi. Malgrado tutto ciò, per Lakatos è sempre possibile, anche se non si può precisare l’ampiezza del decorso temporale, una decisione razionale ed a lungo andare è il programma di ricerca oggettivamente migliore a trionfare. Come, quando e dove, non è possibile precisare a priori, ma solo constatare a posteriori: «si può essere “consapevoli” solo dopo l’evento» [cfr. Lakatos 1970, 378]. In pratica, nelle sue ultime conseguenze la metodologia lakatosiana finisce di essere una metodologia in quanto non dà nessuna indicazione, qui ed ora, allo scienziato impegnato in un dato programma: serve solo ad interpretare normativamente la storia della scienza sulla base di una qualche teoria della razionalità, di una qualche definizione di scienza in atto dominante, di un programma di ricerca che, in base alla sua supposta fecondità, fornisce i canoni della razionalità. Come dichiara lo stesso Lakatos, rispondendo ai critici, «la mia “metodologia” […] valuta solamente teorie (o programmi di ricerca) pienamente articolati, ma essa non presume indicare agli scienziati né il modo in cui si perviene a buone teorie, né su quale dei due programmi radicali convenga che essi lavorino» [Lakatos 1971, 174]. In tal modo la metodologia di Lakatos è un mero “sguardo rivolto al passato” senza che da tale capacità di valutare ciò che è stato ne scaturisca la possibilità di guardare con lucidità verso il futuro, in avanti [cfr. Hacking 1981, 169; Nickles 1985, 107]. 103
In sostanza lo scienziato, nel suo concreto operare, è abbandonato a se stesso, privo di qualsiasi criterio proprio in quel momento cruciale della indagine scientifica che vede il passaggio da un SRP ad un altro. Così il lakatosiano criterio di progresso, fondato sullo slittamento progressivo o regressivo dei SRP, diventa assai problematico. Per rispondere all’attacco portato da Kuhn alla razionalità scientifica, Lakatos ha indebolito a tal punto gli standard e li ha resi così “flessibili”, da precludersi la possibilità stessa della demarcazione. Come non esser allora tentati di ricadere nella psicologia della scoperta? È lo stesso Lakatos ad affermare: Se due équipes di scienziati sono in competizione e perseguono programmi di ricerca rivali, è probabile che abbiano più successo quelli che hanno più talento creativo, a meno che Dio non li punisca con una estrema scarsità di successo empirico. La direzione della scienza è determinata, in primo luogo, dall’immaginazione creativa e non dall’universo dei fatti che ci circondano. Se la ricerca ha sufficiente spinta, l’immaginazione creativa troverà, probabilmente, nuove evidenze che corroboreranno anche il più assurdo dei programmi. Cercare in questo modo una nuova evidenza confermante è perfettamente lecito. Gli scienziati sognano i loro sogni più fantastici, quindi cercano in modo altamente selettivo i fatti che si adattano alle loro fantasie. Questo processo può essere descritto come “la scienza che crea il proprio universo” […]. Una brillante scuola (appoggiata da una ricca società che finanzi pochi controlli ben pianificati) può con successo mandare avanti qualsiasi programma fantastico, o, se lo desidera, rovesciare invece qualsiasi pilastro di “conoscenza affermata”, scelto ad arbitrio. [Lakatos 1970b, 265-6]
Lakatos così, spostando il problema popperiano della scelta fra teorie rivali alla scelta fra SRP, tuttavia non lo risolve in quanto non fornisce chiare regole per decidere quando un programma è definitivamente degenerato e quindi «non spiega in termini metodologici la transizione da un vecchio a un nuovo programma di ricerca» [Amsterdamski 1975, 32]. Sembra che il tentativo lakatosiano di sfuggire alle conseguenze cui portavano le tesi kuhniane, e a cui perverrà poi anche Feyerabend (non è un caso che questi ritenga Lakatos come colui che, per così dire, lo ha svegliato dal sonno dogmatico del popperismo), sia fallito: come non trarre dalla sua metodologia alimento a posizioni di tipo sociologista e come non fare della scienza una variabile dipendente del sociale? È chiaro, Lakatos rifiuta aspramente tale esito, continuando ancora a vedere la scienza «con gli occhiali di Popper» nella 104
convinzione che la sua crescita – razionalmente ricostruita – abbia luogo «essenzialmente nel mondo delle idee, nel “terzo mondo” di Platone e Popper, nel mondo della conoscenza articolata che è indipendente dai soggetti conoscenti» [Lakatos 1970b, 257]. Così come anche rifiuta aspramente le critiche alla scienza fatte da Marcuse e che negli anni ’70 tanta fortuna avevano avuto nella New Left americana (e non solo in quella), miranti a mettere in luce la responsabilità sociale della scienza: Dal mio punto di vista è la società ad avere una responsabilità – quella di mantenere la tradizione scientifica apolitica e distaccata e favorire la scienza nella sua ricerca della verità nei modi determinati puramente dalla sua più profonda vita. Certamente gli scienziati, come cittadini, hanno la responsabilità, come tutti gli altri cittadini, di fare in modo che la scienza sia applicata a giusti fini politici e sociali. [Lakatos 1978, 258]
Per cui considera come un criminale “tradimento della ragione” «l’attacco intellettuale al valore epistemologico oggettivo delle scienze esatte» [Lakatos 2001, 323] e giudica assai negativamente le rivendicazioni degli studenti della London School of Economics di poter entrare nel merito dei programmi di insegnamento e della nomina dei docenti [ib., 305-13]. Da quanto detto, è chiaro che Lakatos non riesce con la sua proposta metodologica a ridare un senso al modo di intendere lo sviluppo della scienza nella RV e in Popper, in quanto tra due SRP non vi è in pratica alcun rapporto. Essi sono due tradizioni di ricerca indipendenti tra le quali vige per anni «una complessa guerra di usura» [Lakatos 1978, 212], senza che sia mai possibile una riduzione dall’uno all’altro. E in ogni caso, aggiungiamo, due SRP, anche se fosse possibile identificarli in modo netto e collocarli in periodi successivi, sono entità troppo complesse per poter stabilire tra essi quei nitidi e semplici rapporti riduttivi ipotizzati da Nagel e Popper, che non a caso facevano riferimento a singole teorie o a particolari leggi tra queste teorie. Sicché anche per Lakatos il progresso della scienza avviene attraverso delle rivoluzioni [ib., 227], benché ancora egli creda fermamente che tale transizione sia razionale. Infine, con Lakatos la storia della scienza entra a pieno titolo a far parte delle occupazioni del metodologo, che abbandona del tutto la costruzione di astratti modelli sincronici delle teorie scientifiche per dedicarsi allo studio di come cresca la scienza: dal problema della giustificazione e della accettabilità di una proposizione si passa al problema di come essa si è storica105
mente costituita: Il carattere fondamentale della scienza non è dato da uno speciale insieme di proposizioni – siano esse dimostrabili come vere, altamente probabili, semplici, falsificabili oppure degne di credenza razionale – ma dal particolare modo in cui un insieme di proposizioni – o un programma di ricerca – è rimpiazzato da un altro. [Ib., 222-3]
Ma la metodologia di Lakatos sembra troppo spesso restare in bilico tra posizioni non facilmente conciliabili, non riuscendo a tenere insieme la fortemente avvertita esigenza di standard che permettano di valutare, sia pure retrospettivamente, il suggedersi degli SRP, con la constatazione di come in effetti la storia della scienza sia qualcosa di molto più complesso e caotico di tutti gli standard escogitati dai filosofi della scienza. È su questa fragilità che innesterà la propria critica distruttiva Feyerabend. Inoltre, l’ingresso della dimensione storica nell’epistemologia porta Lakatos a concepire, accanto alla metodologia degli SRP, una metodologia dei programmi di ricerca storiografici, attraverso la quale poter valutare la progressività o meno delle diverse ricostruzioni razionali tra loro in concorrenza – in quanto ispirate da diverse metodologie e teorie della razionalità – nella interpretazione di concreti casi di mutamento scientifico. In pratica, ad una certa filosofia della scienza corrisponde una determinata storia della scienza e viceversa, per cui non vanno valutati solo gli SRP in base alla loro progressività o regressività, ma anche le metodologie di cui si fa uso nell’interpretare la storia della scienza. Diversamente da Popper, Lakatos sostiene infatti che anche la metodologia deve essere sottoposta a valutazione, elaborando una sorta di metametodologia che effettua la critica di quella mediante valutazione delle ricostruzioni razionali da essa effettuate. E da questo punto la metodologia dei programmi di ricerca storiografici risulta migliore delle altre metodologie (quelle dell’induttivismo, del convenzionalismo o del falsificazionismo) in quanto riesce a spiegare più episodi reali di storia della scienza, che sono invece rigettate dalle altre nel campo dell’irrazionale o del casuale. È insomma migliore la metodologia che permette di minimizzare i fattori esterni alla scienza (rientranti nel campo della psicologia e della sociologia), ricostruendola quanto più possibile in base a quelli interni, cioè alle sole motivazioni razionali che stanno alla base del suo divenire. Con ciò egli vuole combattere l’irrazionalismo di Kuhn 106
e Feyerabend, i quali spiegano la crescita della scienza facendo ricorso a fattori ad essa esterni: la psicologia delle comunità, la sociologia, le idiosincrasie personali e così via. Infine, il nucleo che sta alla base di un SRP viene a prendere, per Lakatos, il posto che in Popper aveva la metafisica: egli, infatti, afferma di andare di gran lunga oltre Popper nell’attenuare la demarcazione fra scienza e metafisica: «Io non uso più neppure il termine “metafisica”. Parlo soltanto di programmi di ricerca scientifici il cui nucleo non è confutabile, non per ragioni sintattiche, ma per ragioni metodologiche, che non hanno nulla a che fare con la forma logica» [Lakatos 1970b, 262]. Ormai la metafisica, che dai neopositivisti veniva sbattuta fuori dalle porte della cittadella scientifica e che da Popper veniva rivalutata solo nella sua funzione euristica, è da Lakatos riconosciuta come l’autentico cuore della scienza: questa si rivela letteralmente fondata su una metafisica che regge e dirige le ricerche degli inconsapevoli scienziati, i quali, afferma sprezzantemente Lakatos, «si sforzano di capire della scienza poco più di quanto capisce il pesce dell’idrodinamica» [ib., 224 n.]. Ma allora, come non arrivare alla conclusione che non si tratta tanto di scegliere, nella normale attività scientifica, tra teorie diverse in base a severi standard metodologici, quanto dibattere sui meriti delle rispettive filosofie che stanno alla base del lavoro degli scienziati? Giacché, se questi non concordano nella valutazione di una teoria, ciò non dipende dall’ancora equivoca fondazione empirica della stessa, quanto dal fatto che hanno ontologie diverse. Insomma, gli scienziati han finito per trasformarsi in filosofi, e non i filosofi in scienziati come pretendevano l’ingenuo Neurath e i suoi amici del Circolo di Vienna; è la scienza che è stata resa filosofica e non la filosofia a diventare scientifica. Sembra che l’originario programma che stava alla base dell’edificazione di una filosofia scientifica sia pervenuto, con Lakatos, al suo capovolgimento: il lungo viaggio intrapreso dai nostri esploratori dall’epistemologia attraverso il lussureggiante territorio della scienza non solo non ha ritrovato la pietra filosofale capace trasmutare la filosofia da bruco in farfalla per farla volare sulle ali della scientificità, ma ha, in una sorta di nemesi teoretica, fatto ripiombare la scienza nel pantano dalle mille dispute del pensiero filosofico. E come, giunti a questo punto, poter ancora criticare l’approccio dialettico alla realtà quando quello analitico ha mostrato così chiara107
mente e clamorosamente il proprio scacco? 5. L’addio alla ragione di Paul K. Feyerabend I limiti cui va incontro il tentativo di Lakatos di salvare la razionalità della scienza attraverso la sofisticazione del programma popperiano sono alla base delle conclusioni radicali cui giunge Feyerabend (1924-1994) che, con il suo seducente canto di sirena gradito a quanti sono stati sempre freddi e diffidenti verso lo “scientismo” e il “positivismo”, delegittima la stessa possibilità di edificare un qualsivoglia standard metodologico in grado di demarcare la scienza dalla metafisica22. Il confine tra filosofia e scienza è ormai del tutto indeterminato, a favore di una pervasività della filosofia nel lavoro dello scienziato, con il conseguente a dir poco “indebolimento” del concetto di razionalità, al punto da dichiarare Feyerabend che «ciò che resta sono i giudizi estetici, i giudizi di gusto e i nostri desideri soggettivi» [Feyerabend 1975, 113]. Ma Feyerabend non arriva a queste conclusioni spinto solo dalla propria carica dissacratoria nei confronti delle regole metodologiche via via introdotte e modificate dalla filosofia della scienza a lui contemporanea; non è un iksos che im22
In questo paragrafo tratteremo ovviamente del Feyerabend piú noto, cioè quello che assume le vesti del “peggior nemico della scienza” [cfr. Preston, Munevar & Lamb 2000], dell’“anarchico metodologico” e del relativista, il che accade all’incirca dalla metà degli anni ’60 e in particolare ad iniziare dei saggi sui problemi dell’empirismo [cfr. Feyerabend 1965], per diventare progressivamente sempre piú accentuata (Preston [1997] pone la svolta al volgere degli anni ’70). In precedenza le posizioni di Feyerabend erano quelle di un “critico costruttivo” rispetto alle posizioni della RV e in generale rispetto alla tradizione ricevuta, ispirandosi al pensiero di Popper, del quale ne difendeva gli aspetti essenziali (per come si evince anche dalle sue lettere a Kuhn pubblicate da Hoyningen-Huene [1995; 2006b]); era insomma ancora un “filosofo scientifico” che tentava di sviluppare un modello razionale di scienza di stile normativo. Il suo scopo essenziale, in questa prima fase, era quello di evitare che le teorie scientifiche si trasformassero in dogmi, assegnando alla filosofia della scienza il compito popperiano di migliorare con la critica le credenze esistenti, fossero esse scientifiche o del senso comune [cfr. Oberheim & Hoyningen-Huene 2000, 374]. Per un inquadramento complessivo dell’opera di Feyerabend cfr. anche Capecci [1977], Corvi [1992], Munevar [1991], Malolo Dissaké [2001], Farrell [2003].
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provvisamente irrompe in un tranquillo regno i cui abitanti sono intenti senza problemi alle loro quotidiane attività: escogitare “congetture”, andare a caccia di “severe falsificazioni”, articolare “paradigmi” ed avanzare “programmi di ricerca scientifica” per poi valutarne la “progressività” o “regressività”. Niente affatto. Egli piuttosto porta alla chiara luce del sole i limiti interni di tutta un tradizione epistemologica non per proporre nuove regole di “comportamento” che siano in grado di colmare i vuoti teorici della RV e dei vari Popper, Kuhn, Lakatos (coi quali intesse un fitto dialogo fatto di insulti, critiche e argomentazioni razionali e sentimentali) ma piuttosto per portarne alle estreme, paradossali, conseguenze le posizioni facendone scorgere, in un costante riferimento alla pratica scientifica (e non scientifica), le fatali inadeguatezze: della teoria scientifica rispetto alla ricca concretezza del reale e della metodologia rispetto al ricco articolarsi delle pratiche scientifiche. Sicché il discorso critico, in Feyerabend, più che alimentarsi di astratte discussioni “razionali” sulle varie metodologie proposte, si svolge prevalentemente attraverso una densa esplorazione sia delle culture “non scientifiche” (per criticare le pretese di assolutezza della scienza contemporanea e della razionalità occidentale) sia del ricco materiale che si può ritrovare nella storia della scienza (per far vedere la ristrettezza e miopia di ogni regola metodologica) 23. In tal modo ha la sua massima espressione quella svolta verso la “storia” che ha caratterizzato la più recente epistemologia, da Kuhn in poi. Punto di partenza di Feyerabend è la constatazione della inadeguatezza (a) di ogni teoria scientifica rispetto al materiale empirico che essa mira a spiegare; (b) di ogni metodologia ri23
Abbiamo altrove mostrato [cfr. Coniglione 1991] come sia possibile, seguendo questo itinerario feyerabendiano, far vedere che il vicolo cieco cui la sua indagine conduce può essere visto anche come punto di partenza di una considerazione alternativa della scienza; in particolare come sia possibile, alla luce della concezione idealizzazionale della scienza, sviluppata dalla Scuola di Poznań (di cui alla nota precedente), cercare di intendere i molti casi che Feyerabend porta a sostegno del proprio “anarchismo metodologico” e, conseguentemente, tentare una spiegazione dello stesso “caso Feyerabend” come “tipo puro” – anche se in negativo – di una impostazione epistemologica che, da molte parti, viene ormai considerata defunta. A tale lavoro (dal quale abbiamo tratto parte del materiale qui presentato) rinviamo per una più articolata discussione di alcuni temi del pensiero feyerabendiano, come ad es. il suo misticismo epistemologico.
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spetto alle teorie scientifiche che essa dovrebbe riuscire a caratterizzare. Ovviamente la seconda constatazione deriva, almeno logicamente, dalla prima: allo stesso modo di come le teorie scientifiche non riescono a cogliere la “realtà”, troppo complessa per essere da esse ingabbiata, così le metodologie non riescono a cogliere il divenire reale delle teorie scientifiche, a sua volta troppo complesso per poter essere costretto in regole metodologiche. Ciò ha due effetti strettamente correlati. In primo luogo la rivalutazione di scienze, “conoscenze” e culture alternative rispetto alla tradizione razionalista e scientifica occidentale, perché in grado di essere più aderenti alla complessità dell’esperienza. In secondo luogo l’affermazione che non esiste, ed è vano cercare, una “metodologia” che sia capace di indicare normativamente, o anche di descrivere, il divenire della scienza. Per sostenere queste tesi di fondo Feyerabend porta un vasto materiale empirico fatto di indagini a carattere storico sullo sviluppo della scienza e sulle caratteristiche di modi di pensare che normalmente sono ritenuti non scientifici o prescientifici. Per quanto riguarda il primo aspetto, Feyerabend si propone di far vedere come la “teoria della scienza” e, in particolare, le varie strategie epistemologiche proposte dai classici del neopositivismo, ma anche da Popper e da Lakatos, siano costantemente inadeguate a rendere conto del reale sviluppo della scienza; da ciò egli trae la conclusione che ogni metodologia è fatalmente destinata ad essere inadeguata perché finisce per essere una “caricatura” della scienza effettiva. Per quanto laschi possano essere i principi metodologici, ci sarà sempre qualcosa della pratica scientifica che sfugge alla loro presa e che quindi ne “falsifica” ogni pretesa sia descrittiva che, a maggior ragione, normativa, per cui esse finiscono per essere un impedimento al reale progresso della conoscenza: […] se […] passiamo ora alla storia della scienza, vediamo che sviluppi di primissimo piano, come l’ascesa della nuova astronomia di Copernico, Keplero e Galileo o la scomparsa della credenza nelle streghe, si sono verificati in Europa solo perché dei pensatori indipendenti, a dispetto di tutte le regole metodologiche tradizionali, si risolsero a introdurre teorie inusitate e a difenderle in modo illecito. […] La teoria copernicana si trovava in contraddizione con osservazioni del tipo più chiaro e convincente, e anche con principi fisici ragionevoli che in fisiologia, in psicologia e perfino in teologia avevano condotto a risultati sorprendenti. Osservando questo abisso fra realtà scientifica e “castelli in aria” epistemologici, non possiamo
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sottrarci all’impressione che questi abbiano molto in comune con le malattie mentali. Un carattere essenziale del disturbo mentale è la tendenza del malato ad allontanarsi sempre più dalla realtà. Egli non si accorge di questo distacco perché elabora costruzioni mentali che, racchiuse in sé, sono prive di contraddizioni e danno risposte anche alle domande più spiacevoli. Un importante tratto delle costruzioni mentali è il loro carattere formale: determinate formule, gesti inclusi, vengono ripetute all’infinito, ma in modo che non comporti contraddizioni con altre formule. […] È questa la conclusione a cui ci si trova costretti quando si confrontano le metodologie disponibili con l’oggetto che esse descrivono e che forse vorrebbero migliorare. [Feyerabend 1978c, 363]
Il tarlo che corrode ogni tentativo di cercare di catturare la “ricchezza” dell’esperienza scientifica all’interno delle maglie metodologiche è costituito dal processo astrattivo che inevitabilmente si utilizza quando si studia la storia della scienza: La teoria della scienza è un tardo germoglio, estremamente selezionato ed anemico, della preoccupazione di sostituire la ricchezza della natura e del mondo spirituale con modelli ingenui, e gli elastici, maneggevoli concetti plasmati da questa ricchezza con misere astrazioni. [Feyerabend 1978c, 386].
È pertanto la contrapposizione tra concretezza/astrazione, tra ricchezza dell’Essere e povertà della scienza [cfr. 1999, 3-10] , a diventare il fulcro tematico delle osservazioni di Feyerabend. Il processo di chiarificazione che si propone l’epistemologia nei confronti della scienza non arricchisce questa, ma piuttosto sostituisce alla “pratica scientifica” una “caricatura” che è il risultato della combinazione di ideali irrealistici (“chiarezza”, “precisione”, “adeguatezza logica”, ecc.) con una insufficiente conoscenza dei fatti. Appunto per ciò è possibile «scambiare l’ideale con la realtà»: empiristi logici, popperiani, lakatosiani, costruiscono entità immaginare come “nuclei”, “espansioni di nuclei”, e così via, ma se ci avviciniamo alla scena l’impressione cambia completamente. Non troviamo strutture precise, che crescono e declinano sistematicamente, ma brandelli di sistemi che si sommano ad altri brandelli fra loro inconciliabili generando nuove interessanti forme; qua e là vi sono dei principi logici, ma mai con continuità; principi di razionalità vengono creati ad hoc ed altrettanto rapidamente abbandonati […] Ponendo a confronto l’ideale con questa realtà, la reazione dei filosofi della scienza è il rifiuto della realtà […] Ciò significa però che gli epistemologi in fondo non difendono la scienza rea-
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le, ma la cancellano per sostituirla con le immagini pure ma sterili della loro fantasia. [Ib., 387]
Evidentemente, da questo punto di vista, ogni teoria della scienza è inadeguata, in quanto è sempre possibile esibire qualche particolare episodio della storia reale della scienza che ne contraddice qualche principio: è sufficiente, per così dire, utilizzare una lente di ingrandimento più potente e questa ci rivelerà particolari nuovi non inquadrabili nella teoria della scienza corrente. Se le cose stanno così, allora ogni principio esplicativo avrà durata provvisoria, solo il tempo necessario per guardare meglio alla scienza reale. Ne deriva l’impossibilità stessa di una teoria della scienza in generale, in quanto le metodologie sono sistemi chiusi che non evolvono, ma solo scompaiono per far posto ad altre metodologie che con le prime non hanno nulla a che fare. L’incommensurabilità che Feyerabend sostiene a proposito delle teorie scientifiche, come si vede, è pienamente operante anche riguardo alle teorie sulla scienza: è vano affannarsi ad elaborarne, visto che nel momento stesso in cui ne abbiamo delineato i contorni, esse dovranno sparire dietro l’urgere della storia reale della scienza: «la realtà scientifica non ha nulla a che vedere con queste teorie [della scienza] e [...] esse non hanno alcun aggancio con la scienza o, se mai riescono a trovarne uno, la disturbano notevolmente, anzi la distruggono» [ib., 345]. Onde per Feyerabend l’unico principio che non inibisca il progresso è «qualsiasi cosa può andar bene» (anything goes):24 24
Lo slogan anything goes viene usato da Feyerabend una sola volta in Contro il metodo [1975, 25]: «per coloro che non vogliono ignorare il ricco materiale fornito dalla storia, e che non si propongono di impoverirlo per compiacere ai loro istinti più bassi, alla loro brama di sicurezza intellettuale nella forma della chiarezza, della precisione, dell’“obiettività”, della “verità”, diventerà chiaro che c’è un solo principio che possa essere difeso in tutte le circostanze e in tutte le fasi dello sviluppo umano. È il principio: qualsiasi cosa può andar bene». Questa spiegazione, aggiunge Feyerabend in Scienza come arte, è già molto chiara, ma può nondimeno esser letta in due modi: «o nel senso che io adotto lo slogan e lo propongo come una base per il pensiero o nel senso che non lo adotto ma mi limito a descrivere la sorte di una persona innamorata dei principi che voglia tener conto della storia: l’unico principio che le rimane sarà “qualsiasi cosa può andar bene”. In CM [Contro il metodo] (p. 29), io rifiuto esplicitamente la prima interpretazione: “Il mio intento”, scrivo, “non è quello di sostituire un insieme di norme generali con un altro insieme di norme, bensì piuttosto quello di convincere il lettore del fatto che tutte le me-
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L’idea di un metodo che contenga principi fermi, immutabili e assolutamente vincolanti come guida nell’attività scientifica si imbatte in difficoltà considerevoli quando viene messa a confronto con i risultati della ricerca storica. Troviamo infatti che non c’è una singola norma, per quanto plausibile e per quanto saldamente radicata nell’epistemologia, che non sia stata violata in qualche circostanza. Diviene evidente anche che tali violazioni non sono eventi accidentali, che non sono il risultato di un sapere insufficiente o di disattenzioni che avrebbero potuto essere evitate. Al contrario, vediamo che tali violazioni sono necessarie per il progresso scientifico. In effetti, uno fra i caratteri che colpiscono delle recenti discussioni sulla storia e la filosofia della scienza è la presa di coscienza del fatto che eventi e sviluppi come l’invenzione dell’atomismo nell’antichità, la rivoluzione copernicana, l’avvento della teoria atomica moderna (teoria cinetica; teoria della dispersione; stereochimica; teoria quantistica), il graduale emergere della teoria ondulatoria della luce si verificarono solo perché alcuni pensatori o decisero di non lasciarsi vincolare da certe norme metodologiche “ovvie” o perché involontariamente le violarono. [Feyerabend 1975, 21]
È evidente che, dati questi presupposti, Feyerabend si guarda bene dal proporre un nuovo metodo: il suo scopo è piuttosto quello di dimostrare che «tutte le metodologie, anche quelle più ovvie, hanno i loro limiti» [ib., 29]. Sarebbe così errato affermare che anything goes sia il suo principio metodologico supremo; esso vuole solo essere una «presentazione un po’ scherzosa della situazione del razionalista: egli vuole avere principi generali ma in considerazione del materiale da me offerto [tratto dalla storia della scienza] deve svuotarli sempre più di ogni contenuto. “Anything goes” è tutto ciò che rimane» [1978, 82]. La libertà d’azione che così Feyerabend garantisce allo scienziato non è solo un fatto della storia della scienza. Essa è sia ragionevole sia assolutamente necessaria per la crescita del sapere: Ora, se ci sono eventi, non necessariamente argomentazioni, che ci inducono ad adottare nuovi standard, comprese forme di argomentazione nuove e più complesse, non tocca ai difensori dello status quo fornire, non soltanto argomentazioni contrarie, ma anche cause contrarie? (“La virtù senza il terrore è inefficace”, dice Robespierre). E se le vecchie forme di argomentazione si rivelano una causa troptodologie, anche quelle più ovvie, hanno i loro limiti”» [1984, 31-32; cfr. anche 1987, 279-80].
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po debole, questi difensori non devono o rinunciare ad esse o far ricorso a mezzi più forti e più “irrazionali”? (È molto difficile, e forse del tutto impossibile, combattere gli effetti del lavaggio del cervello col ragionamento). Persino il razionalista più rigido sarà allora costretto a smettere di ragionare e usare la propaganda e la coercizione, non perché alcune fra le sue ragioni abbiano cessato di esser valide, ma perché sono scomparse le condizioni psicologiche che le rendevano efficaci e capaci di influire sugli altri. E qual è l’utilità di un’argomentazione che non riesce a convincere la gente? [1975, 223]
Ad essere messa in dubbio da Feyerabend è la stessa possibilità della scienza tout court, intesa come capacità di cogliere e descrivere le strutture del reale, cioè come sua “conoscenza” nel senso forte di questo termine; giacché se si ammettesse che è possibile avere conoscenza scientifica di un oggetto concreto, su quali basi allora si potrebbe rifiutare la possibilità della conoscenza di quell’oggetto concreto che è la scienza stessa? Sarebbe stato, insomma, contraddittorio ammettere, da una parte, l’esistenza di una conoscenza della natura – e cioè la conoscenza di una realtà ben più complessa e concreta di quella costituita dalla scienza – e poi ritenere impossibile una “conoscenza” di questa stessa “conoscenza della natura”. Ovviamente Feyerabend non vuole negare il fatto che la scienza “funziona”, permette predizioni efficaci ed è alla base di una miriade di applicazioni tecniche; non vuole, insomma sostenere che la scienza non permette alla mente umana di “arrivare alla realtà”. Tiene però sempre a sottolineare come, in ogni caso, tale conoscenza sia sempre un sapere “locale”, che concerne limitate porzioni dello spazio-tempo e per giunta assai deformate e semplificate, in quanto le leggi scientifiche sono “astrazioni” ed “idealizzazioni” che poco hanno a che fare col reale; in secondo luogo, sottolinea che è del tutto falso ritenere che gli “oggetti scientifici” siano, essi soli, reali, mentre quelli appartenenti alle altre culture siano pure illusioni. L’importante è non fare «del successo della scienza una misura della realtà e dei suoi ingredienti» [Feyerabend 1987, 123]. In riferimento alla critica di Bellarmino a Galileo, Feyerabend afferma che in termini moderni il suo giusto ammonimento consiste in ciò: gli astronomi si muovono su un terreno sicuro quando affermano che un modello presenta dei vantaggi dal punto di vista predittivo rispetto a un altro modello, ma si cacciano nei guai quando asseriscono che perciò il modello costituisce un’immagine fedele della re-
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altà. O, più in generale: il fatto che un modello funzioni non mostra, in sé, che la realtà è strutturata come il modello». [Ib., 248]
Quest’idea è un «ingrediente elementare della pratica scientifica», in quanto «le approssimazioni sono un luogo comune nella scienza»; ma anche le teorie non sono che «gradini verso una concezione più soddisfacente», per cui non dobbiamo trarre da esse «conseguenze realistiche»: anche le teorie formalmente più perfette e dal sorprendente potere predittivo possono risultare inadeguate quando vengono considerate «come una diretta espressione della realtà». Insomma, le teorie sono solo utili approssimazioni e non possiamo avere idea dell’aspetto della realtà che esse approssimano. L’anarchismo metodologico implicito nell’anything goes presuppone logicamente l’“anarchismo scientifico”: come la teoria della scienza è una caricatura della scienza, allo stesso modo la scienza (e in particolar modo la sua regina, la fisica, ed in ogni caso la scienza che si è sviluppata da Galilei in poi) è una caricatura della realtà. Quello che qui stiamo definendo “anarchismo scientifico” è la conseguenza storica dell’anarchismo metodologico, ma ne è anche il presupposto logico: solo se ci si rende conto della ben più radicale inadeguatezza delle teorie scientifiche rispetto alla ricchezza del mondo concreto è possibile legittimare l’inadeguatezza delle teorie sulle teorie scientifiche rispetto alla ricchezza della storia e della pratica effettiva della scienza. Se per far vedere l’inadeguatezza delle metodologie Feyerabend aveva utilizzato un ricco materiale tratto dalla storia della scienza (e che qui ci siamo astenuti dal riportare per esigenze di sintesi), ora è necessario condurre direttamente il confronto tra teoria e realtà, utilizzando come termine di paragone teorie alternative che non appartengono alla tradizione scientifica occidentale o che da questa sono state giudicate come non-scientifiche o pre-scientifiche. 25 25
Ovviamente i due tipi di considerazione (confronto tra le metodologie e la scienza e confronto tra la scienza e la realtà) a volte si intrecciano strettamente negli scritti di Feyerabend (le constatate insufficienze della metodologia servono a far rilevare l’insufficienza della scienza e viceversa), sicché qui si dà una “chiarificazione razionale” del modo di ragionare feyerabendiano. Feyerabend potrebbe obiettare che così facendo “si deforma” la ricca molteplicità delle sue argomentazioni e che si introducono “astratti principi razionali” per rendere conto della sua pratica argomentativa, ecc. A ciò si potrebbe rispondere che l’unico comportamento alternativo alla esposizione delle sue tesi che
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Un buon punto di partenza per capire questa critica alla possibilità stessa della scienza è costituito dalla distinzione fatta da Feyerabend tra “tradizioni astratte” e “tradizioni storiche”, dove con la prima espressione Feyerabend designa «quelle tradizioni nelle quali spicca l’aspetto logico» e con la seconda le tradizioni con leggi locali, che spesso ammettono eccezioni e che vengono occultate da elementi casuali [cfr. 1978, 51]. Alla domanda di come abbia avuto origine la distinzione tra esse, cioè tra ragione “pura” e materiale “irrazionale”, che deve essere trattato e “razionalizzato” (materiale che si potrebbe definire “prassi”), Feyerabend afferma che la “ragione” non è qualcosa di naturale, ma una tradizione o stile di pensiero (è qui da lui usata la locuzione introdotta da Fleck) che si è imposta su altre tradizioni o stili di pensiero, finendo per assumere una funzione egemonica. In particolare, ragione e prassi non sono due realtà sostanzialmente diverse, ma due diversi tipi di tradizione. Le tradizioni del primo tipo posseggono aspetti formali chiari e facilmente riproducibili; da ciò noi siamo spesso indotti a dimenticare i processi complessi e poco compresi che garantiscono questa semplicità e riproducibilità. Le tradizioni del secondo tipo sono molto più complesse, tanto in superficie, quanto in profondità, i loro tratti formali sono ricoperti da ogni sorta di panni causali, tanto da dar l’impressione che non esistono. [1978, 50-1]
Ad una sostanziale unità delle due tradizioni si sostituisce, però, a causa di una doppia dimenticanza, una supposta estraneità: la complessità, sottostante alla tradizione razionale, viene dimenticata in favore della sua apparente chiarezza ed ineccepibilità formale; viceversa, i tratti formali della seconda vengono persi in favore dei “panni casuali” attraverso i quali essi si manifestano. La sottostante unità tra “ragione” e “prassi” viene sostituita da una supposta estraneità essenziale e una delle due non ne violenti la “ricchezza” sarebbe la riproduzione fedele di tutti suoi scritti (ovvero una ristampa anastatica dei suoi articoli) verso i quali assumere un atteggiamento di mistica contemplazione. In ogni caso, se è vero che Feyerabend normalmente fa l’indossatrice e non il vescovo – «io presento posizioni [metodologiche, filosofiche, ecc.] così come una indossatrice presenta un nuovo modello o un attore una nuova parte e non come un vescovo che, celebrando la messa, presenta il santissimo» [Feyerabend 1978b, 399] – allora certamente non si commetterà un sacrilegio ma al massimo si sarà cattivi intenditori di moda.
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tradizioni prende il sopravvento: l’istanza di una ragione astratta e rigorosa si impone sconfiggendo quella di una prassi flessibile e aderente all’esperienza, costituendosi come la tradizione dominante del pensiero occidentale: in principio v’è il razionalismo presocratico e in seguito le pretese assolutistiche della scienza moderna. Ma le tradizioni del secondo tipo non scompaiono del tutto: esse continuano a vivere una vita sotterranea, occulta, emergendo di tanto in tanto nei momenti di crisi del pensiero scientifico, connotate come non-scientifiche o prescientifiche, primitive e pertanto ricacciate nell’irrazionale. Ebbene, mentre le tradizioni storiche, contro le quali lottano gli intellettuali, grazie al fatto di essere più aderenti alle varie pieghe della quotidianità concreta degli uomini, posseggono concetti che sono adatti alle circostanze della vita, invece le tradizioni astratte non dispongono di concetti del genere. Esse migliorano sì la situazione in alcuni particolari settori limitati, come la matematica, l’astronomia (e anche qui solo dopo lunghe difficoltà), ma in politica, nell’arte, nell’etica, nella religione, nella dottrina dell’anima creano solo confusione. [Ib., 192]
Si può illustrare storicamente la nascita del contrasto tra le due tradizioni e della progressiva affermazione di quella astratta a scapito dell’altra, mediante l’analisi della contrapposizione fra la cosmologia arcaica, che si esprime nel mondo omerico, e la nuova cosmologia presocratica che nasce fra il VII e il V secolo. Nella cosmologia arcaica non esiste la distinzione tra apparenza ed essenza, in quanto essa contiene solo cose, eventi e loro parti, sicché «la conoscenza completa di un oggetto equivale a un’enumerazione completa delle sue parti e delle sue peculiarità» [1975, 216]. Il mondo è pertanto un aggregato “paratattico” in cui tutte le cose hanno eguale dignità e non esiste alcun rapporto di subordinazione, da un punto di vista conoscitivo, di un elemento rispetto ad un altro. Gli elementi della cosmologia arcaica sono parti relativamente indipendenti di oggetti che entrano fra loro in rapporto di tipo esterno. Essi partecipano ad aggregati senza modificare le loro proprietà intrinseche. La “natura” di un aggregato particolare è determinata dalle sue parti e dal modo in cui le parti sono connesse l’una all’altra. Se si enumerano le parti nell’ordine appropriato si ha l’oggetto. Ciò vale per gli aggregati fisici, per gli esseri umani (mente e corpo), per gli animali, ma anche per aggregati sociali come l’onore di un guerriero. [Ib., 219-20].
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La conoscenza, in questo cosmo, può essere paragonata ad un viaggio: il viaggiatore, nel visitare un paese a lui sconosciuto, enumera le parti e gli oggetti che via via incontra, descrivendone le proprietà, le relazioni e narrando gli eventi che gli capitano. L’elenco particolareggiato di ciò di cui si è avuto esperienza, la “lista”, esaurisce la conoscenza dell’oggetto.26 A questa visione arcaica, ben espressa nei poemi omerici [cfr. 1999, 26-43], viene sostituita una nuova visione del mondo, una nuova cosmologia. Si comincia con il “presuntuoso e linguaggiuto” Senofane, tipico prototipo dell’intellettuale [cfr. ib., 51-72; 1987, 94-106], e si prosegue con Parmenide [cfr. 1999, 73-96], il quale parla di due vie della conoscenza, quella della verità e quella dell’apparenza ingannevole, e di due mondi, quello del mutamento e quello dell’immobilità: «questa fu la separazione all’epoca piú chiara e piú radicale di quei domini che piú tardi sarebbero divenuti noti come “apparenza” e “realtà”» [ib., 74]. La nuova concezione improvvisamente contrappone al mondo ricco di eventi, rapporti e descrizioni in unione paratattica, del quale gli uomini acquisiscono conoscenza mediante l’esperienza vissuta, una nuova realtà, ovvero «un mondo da conoscere, un soggetto conoscente ed un rapporto, per il momento molto indeterminato ed astratto, fra i due, cioè la conoscenza. Si tratta di una semplificazione infantile dei fenomeni e della loro interpretazione razionale» [1978b, 137]. Vengono introdotte «dicotomie grossolane, come realtà/apparenza, conoscenza/opinione, virtù/vizio» [1999, 15] e così vengono introdotti i termini di quella che sarà poi la filosofia con i suoi tradizionali problemi, di quella tradizione razionalistica che avrà come sua naturale erede la scienza moderna. Ma i problemi della conoscenza e della realtà che ne risultano «non erano frutto di modi raffinati di pensare: si sono affermati perché questioni delicate sono state comparate con idee rozze e si è scoperto che mancavano di rozzezza» [ib., 15-6]. Il “totalitarismo concettuale” di questa nuova visione del mondo degrada l’esperienza a caos, al quale vuole sostituire un “mondo vero” col far ricorso ad enti e concetti che non fanno più 26
Tali due diverse modalità di conoscenza possono essere paragonate ai due differenti approcci alla geografia esemplificati nell’antichità classica da Strabone (che incarnerebbe l’ideale conoscitivo abbracciato da Feyerabend) e Tolomeo (che invece ha introdotto quel modo “scientifico” ed “astratto” di rappresentare la realtà criticato dal Nostro). Cfr. su ciò Arena [2005, 283-306].
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parte del mondo della vita. Mondo dell’apparenza e mondo dell’essenza (o sostanza) si contrappongono: ad «un’immagine del mondo ricca, sfaccettata, capace di cogliere meglio la molteplicità e l’interdipendenza» [ib., 139] si sostituiscono puerili semplificazioni, idealizzazioni senza alcuna connessione col reale, deformazioni che allontanano dalla realtà come essa è: Alla complessa strutturazione degli avvenimenti dei poemi omerici, i presocratici contrappongono schematizzazioni puerili che essi non difendono con un rinvio all’esperienza o ad esigenze concrete, ma con un accenno a ciò che è possibile collegare nel pensiero. Si fissano determinati concetti molto semplici, come il concetto di essere, e si mostra in quale rapporto si trovino con altri concetti semplici, come quelli di principio o di parte credendo, così di aver compreso l’essenza stessa del mondo. Non si riesce ancor oggi a capire bene come alcuni intellettuali con simili sogni cervellotici siano riusciti a sconfiggere la tradizione omerica […]. Siamo per la prima volta testimoni di una lotta fra una complessa tradizione, legata all’esperienza nel sentimento e nella speranza, e le astrazioni intellettuali di pochi specialisti. I problemi del razionalismo sono già tutti presenti. […] Da una parte abbiamo una immagine del mondo ricca, aperta e tollerante (si potevano facilmente includere nuove idee, anche religiose); dall’altra faziosità puritane e razionalistiche anche in campo morale (si veda la critica di Platone agli dei di Omero, come il dio-mostro di Senofane). [Ib., 398]27
Un tentativo di superare questa scissione tra apparenza e realtà e in un certo qual modo dar ragione all’esperienza recuperando tipiche istanze della tradizione arcaica – cercando di «riconciliare gli schemi astratti di Parmenide (e di Platone) con la ricchezza dell’esperienza quotidiana» [1978b, 140] – è stato quello compiuto dalla scienza di Aristotele. È assai interessante il fatto che Feyerabend analizzi la visione del mondo e l’epistemologia di Aristotele proprio allo scopo di criticare uno dei caratteri attribuito dai popperiani alla scienza: la crescita del contenuto conoscitivo. Il carattere peculiare della scienza aristotelica è, per Feyerabend, quello di essere fondata sul senso comune, del quale ne difende, diversamente da quanto fa la scienza moderna, la validità. Nella teoria dell’esperienza di A27
Si potrebbero moltiplicare le citazioni di Feyerabend di questo tenore, ma ai nostri scopi è sufficiente quanto già riportato. Si veda, comunque, anche [1975, 204-16; 1987, 189-97, 242; 1978b, 135-41; 1987, 94 ss.].
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ristotele gli universali si originano direttamente dalla esperienza sensoriale ed i princìpi della conoscenza sono comparati direttamente con l’osservazione (a differenza della scienza contemporanea dove questa diretta comparazione non è più possibile). Con ciò Aristotele non si allontana dai fenomeni, in quanto «nell’atto di percezione sono presenti nella mente umana le vere forme della natura e non mere immagini di essa. Andare contro la percezione significa perciò andare contro la stessa natura. Viceversa, rimanere fedeli alle percezioni significa dare una vera conoscenza [account] della natura» [1978c, 146]. Nella scienza aristotelica, pertanto, non si creano teorie che si allontanano dall’esperienza, o che la “deformino”, come nel caso della teoria del moto; diversamente da quella galileiana, che semplifica la complessità della natura e crea un inesistente movimento astratto, quella di Aristotele «comprende tutti i tipi di cambiamento, degli esseri viventi come della materia inanimata, e si accorda con l’esperienza nel modo più convincente» [Ib., 146]. Analogamente, la teoria del continuo di Aristotele è più adeguata di quella sostenuta dagli scienziati da Galileo in poi [cfr. 1987, 218-44]. Ciononostante Aristotele è consapevole della fallibilità dei singoli atti percettivi e dei fattori che possono, ad esempio, disturbare la visione dei fenomeni astronomici, e sa anche come sia possibile spiegare queste osservazioni eccezionali ed erronee. Da questo punto di vista egli è epistemologicamente meno ingenuo di quei primi osservatori astronomici che credettero, immediatamente e senza porsi problemi di tale natura, alla fedeltà delle loro osservazioni e che, «ignoranti dei problemi psicologici della visione telescopica, scarsamente familiari con le leggi che governano il comportamento della luce nel telescopio, [...] ambiziosamente cambiarono la nostra visione del mondo» [1978c, 147]. Insomma, l’empirismo di Aristotele era molto più sofisticato di quello dei suoi critici e dei suoi stessi seguaci. La differenza fondamentale tra il suo empirismo e quello della scienza moderna non consiste tanto nel fatto che Aristotele abbia ignorato gli errori osservazionali mentre il secondo ne ha tenuto conto, quanto nel ruolo rispettivamente giocato da tali errori: In Aristotele l’errore confonde e distorce particolari percezioni mentre lascia intatte le caratteristiche generali della conoscenza percettuale. Per quanto grande possa essere l’errore, queste generali caratteristiche possono essere ripristinate ed è proprio da esse che noi riceviamo
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informazioni sul mondo nel quale viviamo. La filosofia di Aristotele corrisponde al senso comune. Il senso comune ammette errori, ma ha trovato i mezzi per trattarli, ivi incluse alcune forme di scienza, ma esso mai ammetterà di essere del tutto in errore. L’errore è un fenomeno locale e non distorce la nostra intera visione. La scienza moderna, d’altra parte […] postula proprio una tale globale distorsione. [Ib., 148]
In tal modo la cosmologia di fondo che regge la concezione della scienza di Aristotele si basa su una fondamentale armonia tra uomo e cosmo, armonia che solamente in casi particolari è disturbata, senza che ne venga compromessa in modo globale la conoscenza percettuale. Le teorie che derivano da tale approccio consistono nel determinare “le caratteristiche comuni” degli esseri in un dato dominio percettuale. Esse non sono «teorie più profonde nel senso di andare al di là delle esperienze» [ib., 150]; sicché è impossibile parlare di incremento di contenuto. Le teorie parlano solo di «correlazioni tra eventi osservabili» [ib., 152] e quindi ogni progresso può avvenire solo a condizione che il senso comune rimanga il centro immutato della nostra conoscenza: La nostra conoscenza non deve essere separata dalla nostra natura come essere pensanti, agenti e percepienti, dove “natura” significa ciò che è comune a tutti e non solo ciò che è accessibile ad una piccola minoranza di intellettuali. L’armonia dell’uomo col mondo non deve essere disturbata dalla ragione. Ovviamente le informazioni che l’uomo acquista crescono continuamente, vi sono scoperte (come quella di Aristotele di un quinto elemento) e precedenti punti di vista sono rivisti e rimpiazzati da altri migliori. Ma tutti questi cambiamenti lasciano intoccata la natura fondamentale dell’uomo e quelle caratteristiche della conoscenza che gli sono adatte. [Ib., 168-9]
La scienza moderna, invece, consiste nel sostituire al mondo delle percezioni un mondo artificiale che porta a disarticolare le varie aree dell’esperienza umana, impedendo l’emergere di un nuovo uomo completo. Al suo posto si formano sempre nuovi gruppi di persone, come teologi, intellettuali, artisti, scienziati che «sviluppano frammenti del loro essere ad un alto grado di perfezione» [ib., 170]. E si domanda polemicamente Feyerabend: che cosa è preferibile? Quale genere di vita dobbiamo scegliere, quella presupposta dalla concezione della scienza di Aristotele o quella cui ci porta la scienza 121
moderna? Feyerabend, abbiamo detto, è interno alla tradizione metodologica che radicalmente contesta e pertanto utilizza – come abbiamo già visto – tutte le difficoltà che in letteratura sono state sollevate sui singoli punti della RV e di Popper. In particolare, la sua critica alla distinzione tra teorico ed osservativo viene in seguito ulteriormente radicalizzata sino a sostenere che non solo il significato non “filtra” dall’ambito dell’osservazione a quello “sovrastante” dei termini teorici, ma neanche filtra dall’alto, cioè dalla teoria, verso il basso, cioè alle osservazioni. Per cui si deve riconoscere che «i concetti osservativi non sono carichi di teoria, essi sono completamente teorici» [Feyerabend 1978b, 50]. Così il processo di rivalutazione della teoria iniziato con Popper è pervenuto alla sua conclusione ed è possibile ora ammettere non solo la possibilità di una «scienza senza esperienza» [cfr. ib., 99-104] ma anche, di converso, di una «esperienza senza scienza». La prima posizione è il frutto dalla constatazione dei limiti interni alla tradizione nella quale inizialmente Feyerabend lavorava (il saggio omonimo è stato scritto già nel 1969); essa è pertanto cronologicamente anteriore alla ben più radicale seconda posizione (che abbiamo prima illustrato), che è invece il risultato della critica alla scienza stessa, con la conseguente rivalutazione dell’esperienza comune e quotidiana e di quelle tradizioni di pensiero che le sono più aderenti (medicina hopi e medicina tradizionale cinese, vudu, ecc.). In tal modo assistiamo in Feyerabend ad una sorta di scissione delle tradizionali componenti facenti parte della RV: l’elemento teorico viene amplificato, diventa sempre più pervasivo, ingloba in sé l’esperienza, che diventa a sua immagine e somiglianza, e quindi perde il contatto col mondo del senso comune. D’altra parte ciò che nella RV era il linguaggio osservativo, o la base percettiva della scienza, viene inteso come il mondo dell’esperienza comune, più vicino alle esigenze vitali degli uomini e per ciò più autentico. Le regole di corrispondenza, che dovevano gettare un ponte tra teoria ed esperienza, non giocano più alcun ruolo, con ciò prendendo Feyerabend atto dell’impossibilità di una loro chiara enunciazione. Si hanno così due mondi che si contrappongono: quello della scienza, artificiale e lontano dal senso comune; e quello del senso comune che in quanto tale richiede, per non essere “deformato”, una scienza diversa, come quella aristotelica. 122
Emerge con ciò in tutta la sua evidenza l’impasse di una delle assunzioni filosofiche di fondo dell’empirismo logico, che non sempre è stata condivisa da tutti i pensatori che si collocano nella RV, cioè il fenomenismo. Questo, teorizzato nel Novecento dall’empiriocriticismo, affonda le sue radici nell’empirismo classico di Locke e Hume: per esso la realtà è “senza spessore” e ogni sua manifestazione ha pari dignità rispetto alla totalità dell’esperienza possibile. Scopo della scienza è allora quello di cogliere solo le connessioni tra fenomeni e cercare generalizzazioni che abbiano come loro base un concetto di astrazione inteso come pura estrazione delle proprietà comuni. Questa prospettiva ontologica, che fu tipica di Wittgenstein, di Mach e quindi adottata all’interno del Circolo di Vienna (il quale la rigorizzerà mediante una sua logicizzazione e la concezione della teoria come calcolo+interpretazione, come ricordato prima) è alle origini delle dispute sull’esistenza dei termini teorici, del cosiddetto “paradosso del teorico” e sta anche alla base dei tentativi eliminativisti di Ramsey e Craig. Ma è anche il tacito assunto della concezione di Popper, anche se in quest’ultimo esso entra in tensione con il suo ipotetismo e la rivalutazione dell’elemento teorico. Infatti, che significato ha in tale contesto calcare la mano sulla importanza della teoria e sulla prefigurazione dell’osservazione da parte d’essa? Se la teoria è “astratta”, nel senso usuale con cui si intende questo termine, allora l’insistere sul teorico non può significare altro che l’allontanarsi sempre più dall’empirico, che sbiadisce nei suoi caratteri costitutivi all’interno di strutture formali che ne colgono solo gli aspetti più generali ed esangui. Onde la doppia reazione di Feyerabend: da una parte riconoscere che, sì la scienza è teorica, dall’altro passare a dire che, appunto perché teorica essa non ha nulla da dire sul concreto mondo dell’uomo. Questa posizione del resto non è nuova e rientra nel panorama delle critiche di varia origine mosse alla scienza a causa della sua astrattezza, della sua rigidezza, della sua lontananza dai bisogni umani (da Husserl a Dilthey, da alcuni momenti della Scuola di Francoforte alla recente esigenza italiana di un «pensiero debole» [cfr. Vattimo & Rovatti 1983] e così via), ma è significativa perché scaturisce proprio dall’interno di un paradigma concettuale che si esaurisce dopo una sua parabola a tratti entusiasmante. È proprio in questo delicato snodo teorico che si innesta il recupero da parte di Feyerabend del pensiero dialettico e della 123
logica di Hegel. Infatti, presupposto comune a tutti i tentativi di elaborazione metodologica è la separazione netta ed irriducibile tra soggetto ed oggetto, tra fatti e teoria, tra metodo e pratica scientifica. In tutto è visto da Feyerabend l’irrigidirsi in categorie prefissate che uccidono sia la ricchezza del procedimento di ricerca come anche quella del reale. Richiamandosi alla critica marcusiana delle categorie tradizionali, che rappresentano il vangelo sia del pensiero comune come di quello scientifico, Feyerabend si fa sostenitore di un pensiero dialettico che hegelianamente «dissolve in nulla le determinazioni dell’intelletto» [Hegel 1968, 6], ivi compresa la stessa logica formale [Feyerabend 1975, 24]. Da questo punto di vista sia la stabilità della conoscenza che quella del metodo, lungi dall’essere un valore, indica il fallimento della ragione: Una delle conseguenze del pluralismo e della proliferazione è che non è più possibile garantire la stabilità della conoscenza. Per quanto convincente sia l’appoggio che una teoria riceve dall’osservazione; per quanto ben fondati siano le sue categorie e i suoi principi basilari; per quanto forte sia l’impatto della stessa esperienza, esiste sempre la possibilità che nuove forme di pensiero dispongano le cose in modo differente e portino a una trasformazione perfino delle impressioni più immediate che riceviamo dal mondo. Considerando questa possibilità, possiamo dire che il successo duraturo delle nostre categorie e l’onnipresenza di un certo punto di vista non sono né il segno di una superiorità, né la prova della definitiva acquisizione della verità o di parte di essa. Sono piuttosto il segno del fallimento della ragione nel trovare alternative adatte che potrebbero essere usate per trascendere uno stadio accidentale e intermedio della nostra conoscenza. [Feyerabend 1970b, 26]28
Sicché Feyerabend può far propria l’affermazione di Hegel, per la quale «quanto più solido, ben definito e splendido è l’edificio eretto dall’intelletto, tanto più impetuosa è la pressione della vita per fuggire via, verso la libertà»29, ed accettare i 28
Questo brano è tratto dalla traduzione della prima edizione di Contro il metodo, pubblicato come saggio nel 1970. In seguito Feyerabend fece una profonda rielaborazione di questo testo che, ampliato ed arricchito è stato tradotto da Feltrinelli. In quest’ultima edizione mancano, però, le più significative parti del suo filohegelismo. 29 Riportiamo la traduzione di Feyerebend contenuta in [1970b, 27]. Nella trad. it. di Hegel [1801, 14] essa suona leggermente diversa: «Quanto piú saldo e splendido è l’edificio dell’intelletto, tanto piú inquieto diviene lo sforzo della vita, racchiusa nell’intelletto come sua parte, per strapparsi da esso e
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tre principi fondamentali della cosmologia di Hegel. Innanti tutto dalla sua prospettiva tipicamente olistica ed anti-analitica, per cui «ogni oggetto, ogni essere determinato, è collegato a tutto il resto» [1970b, 30] non attraverso un rapporto esteriore, ma nel senso che lo contiene effettivamente, di modo che ogni sua descrizione è autocontraddittoria in quanto contiene degli elementi che dicono ciò che l’oggetto è, ma anche altri elementi che dicono ciò che l’oggetto non è. In secondo luogo dallo stretto nesso tra logica e realtà stabilito dal pensatore idealista: […] il movimento dei concetti non è semplicemente un movimento dell’intelletto che, iniziando l’analisi sulla base di alcune determinazioni, se ne allontana per porre la loro negazione. Si tratta anche di uno sviluppo oggettivo causato dal fatto che ogni oggetto, processo, stato, ecc. finito (ben determinato, limitato) tende a sottolineare quegli elementi che sono presenti in lui e tende dunque a diventare ciò che non è». [Ib., 31]
In accordo con Hegel, la verità del finito è il suo perire [cfr. Hegel 1968, 159; 1829, 125]. Infine, terzo principio della cosmologia hegeliana accolto da Feyerabend è che il risultato della negazione, la “negazione della negazione”, non è lo zero, il nulla astratto, ma la negazione determinata [cfr. Feyerabend 1970b, 31; cfr. anche Hegel 1812-16, 36]. Tutto ciò significa che anche «il concetto, dunque, fa parte dello sviluppo generale della Natura, secondo una interpretazione materialistica del pensiero di Hegel» [Feyerabend 1970b, 33]: la conoscenza è soggetta alle leggi naturali della stessa natura e per entrambe valgono le leggi della dialettica. Feyerabend conclude che nella scienza bisogna procedere dialetticamente, cioè tramite l’interazione tra idee e fatti, traendone la lezione metodologica di non lavorare mai con “concetti fisi”, di praticare la controinduzione, di non lasciarsi «sedurre dall’idea di aver finalmente trovato l’esatta descrizione dei “fatti”, mentre quello che si è verificato è soltanto l’adattamento di alcune nuove categorie a vecchie forme di pensiero, ormai tanto familiari da farci prendere le loro strutture per le struttuire del mondo stesso» [ib., 34-5]. Insomma, la dialettica in generale viene rivalutata in quanto sembra a Feyerabend l’unico modo per sciogliere la rigidità della logica tradizionale, per concepire la metodologia in modo giungere alla libertà».
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più fluido ed anarchico, per vedere la realtà e la scienza in modo più complessivo, in direzione di una visione olistica, e per restare più aderenti alla complessità del reale in tutte le sue sfaccettature, di contro alle astrattezze dell’intelletto, da Feyerabend identificato con la ragione scientifica. È così possibile recuperare le «sorprendenti intuizioni circa i limiti delle regole metodologiche» di Lenin e Mao, riprese dalla filosofia hegeliana, che potrebbero «con un po’ di immaginazione» trasformarsi in «consigli per lo scienziato o il filosofo della scienza» [ib., 136]. Oppure vedere nell’allentamento delle regole metodologiche operato da Lakatos un accostarsi al «frutto proibito del leninismo», liberandosi dal «circolo vizioso Nagel-CarnapPopper-Kuhn» [ib., 137], sicché Lakatos (come anche Niels Bohr), non sarebbe che un hegeliano suo malgrado, “inconsapevole” (ha «fatto ottimo uso della sua educazione hegeliana» [ib., 169]), allo stesso modo di come lo è anche il noto fisico David Bohm, anche lui hegeliano (ma non “inconsapevole, in quanto ha studiato a fondo la Logica del pensatore idealista) in quanto concepisce la meccanica quantistica in modo olistico, vedendo Feyerabend in tale approccio una notevole somiglianza con il concetto di totalità di Hegel [cfr. ib., 167]. E così via. È evidente che il ricorso alla dialettica da parte di Feyerabend non deriva da una adesione pregiudiziale ad una filosofia, come quella idealistica, che ha trattenuto rapporti, per così dire, “difficili” con la scienza; non è il rapporto esterno di chi si è formato in una temerie culturale e di pensiero che ha sempre nutrito “inimicizia” verso il pensiero scientifico, ma proviene da chi ha persorso un suo originale e particolare itinerario nella scienza, attraversandone e giudicandone tutte le “stazioni epistemologiche”. Il suo giudizio non giunge calato dall’esterno, nudo di competenze scientifiche (come sappiamo Feyerabend si fornò innanzi tutto come fisico e i suoi primi scritti entrano nel merito dei problemi della microfisica [cfr. Feyerabend 1994, 71-89; 1954; 1957; 1962b]) e senza effettuare un’analisi sia della concreta prassi scientifica sia delle diverse metodologie ed epistemologie elaborate su di essa. Viceversa la scoperta feyerabendiana della dialettica nasce dalle difficoltà inerenti al discorso sulla razionalità scientifica così come è stato condotto nella RV, evento ben diverso da quanto è spesso avvenuto, cioè di filosofi e pensatori (marxisti, idealisti o heideggeriano-ermeneutici) che hanno assunto pregiudizialmente le loro particolari visioni del mondo come una base 126
sufficiente da poter applicare, interpretandola, alla scienza, la conoscenza della quale restava ferma a Galileo o a Newton. In Feyerabend, invece, l’approdo alla dialettica ed all’anarchismo metodologico scaturisce dalla graduale consunzione di una esperienza improntata inizialmente al popperismo, inteso come unico baluardo contro ogni irrazionalismo e in favore della razionalità della scienza e del suo carattere progressivo. Con lui ci troviamo, pertanto, per la prima volta e nel modo piú deciso e clamoroso, di fronte alla dissoluzione interna di un modello di razionalità scientifica che gradualmente è passato dalla critica delle particolari soluzioni approntate dalla RV alla demolizione di quella “tradizione ricevuta” che ha improntato tutta la visione della scienza nel mondo Occidentale e che di solito si fa risalire alla rivoluzione scientifica galileiana (da noi presentata nel § 1.1), con ciò riscoprendo modi di pensiero e tradizioni culturali che fanno parte di quella “conoscenza rifiutata” [cfr. Webb 1976, 17-8] messa ai margini della cultura dalla trionfale ascesa del razionalismo scientifico, che nel logos greco ha avuto la sua prima espressione. E tuttavia, al di là delle affermazioni iconoclaste da lui fatte, v’è in Feyerabend una tacita ed implicita metodologia, anche se assai generale, che non diventa mai sistematica teorizzazione. Ad esempio, egli ritiene sia impossibile inferire dai fatti teorie, posizione tipica dell’antiinduttivismo popperiano [cfr. 1978b, 413]; ammette che esistano teorie “utili” ed “interessanti” che possono anche contraddire i fatti e predire fatti nuovi [cfr. ibidem]; afferma che è possibile vedere se una teoria si conforma o meno alle condizioni più elementari della logica [cfr. ibidem] e che si è in grado di fornire spiegazioni utili di fenomeni (il che significa che si è in grado di sapere quando si è di fronte ad una “spiegazione” e quando questa è “utile”) [ib., 416]; ritiene sia possibile avere un “confronto corretto” tra tradizioni e idee diverse o una ricerca, o argomentazione, in contrapposizione al confronto “scorretto” (facente uso, ad es., delle armi), sicché è possibile attraverso la discussione e l’argomentazione (la “critica razionale” e l’“esame rigoroso”) decidere le questioni [cfr. ib., 416-24]; crede sia possibile identificare periodi di progresso nella scienza [cfr. ib., 416] e che esista, infine, un “giusto metodo” che ci permetta di scegliere tra teorie empiricamente falsificate [cfr. 1975, 55], nonché “ipotesi concrete” degli scienziati che riescono a spiegare una “quantità di fatti” in “modo teoricamente soddisfacente” [cfr. 1978b, 12]. Non so127
lo, ma Feyerabend non disdegna di portare argomentazioni scientifiche fondate su “conoscenze controllate e confermate” per difendere, ad es., l’astrologia dalle critiche di ignoranti scienziati (ignoranti e della astrologia e della loro propria scienza), arrivando così al paradosso che, per combattere l’assolutezza della scienza, rivaluta una tradizione ritenuta ascientifica come l’astrologia, che però viene a sua volta difesa facendo vedere come i suoi asserti apparentemente assurdi siano invece scientificamente spiegabili alla luce della conoscenza scientifica attuale [cfr. ib., 419-21]. Tuttavia Feyerabend non spiega in cosa consista questo “giusto metodo”, quando si ha una “spiegazione” e quando essa è “teoricamente sufficiente”, quando una critica è “razionale” ed un esame è “rigoroso”, e così via. Per questi motivi ritengo si possa sostenere che in fin dei conti sia piú esatto parlare per Feyerabend, piuttosto che di “anarchismo metodologico” (e scientifico), di “misticismo epistemologico” [cfr. Coniglione 1991]: il metodo (e la scienza) sono qualcosa di ineffabile, non comunicabile né razionalizzabile, ma tuttavia esistente, verso il quale ci si rapporta mediante una approccio personale, una frequenza effettiva dei laboratori e dei grandi scienziati; ovvero mediante una sorta di “iniziazione pratica” (piú che teorica) che assomiglia tanto all’itinerario di un monaco Zen piuttosto che a quello di chi viene formato sui manuali e in base all’indottrinamento metodologico. Una dimensione della conoscenza (o non sarebbe meglio parlare di “sapienza”?) che era stata messa ai margini con l’affermazione del logos greco (vedi quanto detto nel § 1.1) e che era stata in parte colta (non sappiamo con quanta consapevolezza di questo piú generale quadro teorico) dal concetto di “paradigma” di Kuhn, e dalla “conoscenza tacita” o “inespressa” di Fleck e Polanyi. Resta però da valutare criticamente la possibilità di utilizzare la dialettica e l’hegelismo, come interpretati da Feyerabend, per conseguire i fini che egli si propone, nel senso che è da discutere se effettivamente il suo misticismo (o “irrazionalismo”) metodologico possa conciliarsi con la razionalità dialettica. Insomma: è la dialettica quello strumento in grado di offrire una copertura ed una giustificazione ad una critica radicale della razionalità scientifica (o alla sua canonizzazione in regole procedurali definite) che sfocia nel misticismo e nell’irrazionalismo, oppure essa non si pone come una superiore istanza di razionalità che, superando i limiti del Verstand (e quindi 128
dell’intelletto scientifico), riesce ad attingere la Vernunft (ovvero la ragione speculativa) che tutto è per Hegel, tranne che torbido misticismo o abdicazione della ragione. La ragione superiore o piú elevata cui egli ci vuol fare pervenire con la sua filosofia – quella ragione in grado di inglobare in sé come suoi momenti inferiori l’arte e la religione – non è anti-ragione, non è mistica dell’ineffabile e dell’inesprimibile, dell’impossibilità del distinto e dell’articolato, ma razionalità pienamente dispiegata in modo così totale da non escludere da sé alcuna manifestazione del reale, finendo per identificarsi con esso. E se Feyerabend sembra indulgere ad una utilizzazione della dialettica che sottolinea il suo momento negativo, la sua forza dirompente verso gli schemi fissi e rigidi, verso le astrattezza dell’intelletto (del Verstand), è invece evidente che in tal modo egli coglie solon una parte di essa, non il senso complessivo del pensiero di Hegel. Infatti, la frase hegeliana che Feyerabend ama citare (vedi sopra) è tratta da un’opera giovanile, quando ancora il filosofo idealista aderiva quasi del tutto alle posizioni dell’amico Schelling – in seguito criticato appunto perché sostenitore di una modalità di conoscenza sfociante nel misticismo della «notte in cui tutte le vacche sono nere» [Hegel 1807, 67], in cui sono annichilite tutte le differenze – e che perciò non è assolutamente rappresentativa delle posizioni tipiche assunte nella piena maturità. Certo, Hegel nella sua opera ha sempre criticato il carattere limitato e sviante dell’intelletto, ma non si può tuttavia negare il fatto che egli abbia difeso, ad esempio, l’esistenza di una razionalità nello svolgimento della storia, avendo per lui la filosofia come unico presupposto la convinzione «che la ragione governa il mondo e la storia si sia svolta razionalmente» [Hegel 1837, 7]. È tale convinzione a permettere lo sforzo interpretativo, altrimenti privo di valore in quanto sin dall’inizio messo in scacco dalla sfiducia di ritrovare qualsiasi razionalità. Verosimilmente tale atteggiamento di fondo della filosofia hegeliana farà sì che successivamente Feyerabend (a cominciare dalla seconda edizione di Contro il metodo) smorzerà di molto i suoi entusiasmi per la dialettica e per il pensiero hegeliano, per finire infine nella critica degli «asettici castelli in aria di Kant ed Hegel» [Feyerabend 1987, 279].30 30
Solo in un caso Feyerabend prende ancora le difese di Hegel: quando si
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tratta di controbattere le accuse contro la dialettica e l’hegelismo in generale portate da Popper ed in generale dai neopositivisti di tutte le tendenze: «La “confutazione” di Hegel da parte di Popper non può essere presa sul serio. Popper dimostra (in modo molto prolisso e diffondendosi per molte pagine) che se si combina la logica proposizionale con Hegel si ottengono conclusioni assurde e ne conclude che Hegel va messo in soffitta. Questa conclusione è press’a poco altrettanto intelligente di quella di mettere in soffitta la teoria della relatività di Einstein perché i calcolatori più semplici non sono alla sua altezza. Hegel più la logica proposizionale danno risultati assu «rdi. Ma perché proprio Hegel dovrebbe essere responsabile di tali assurdità (tanto più che proprio lui ha indicato i limiti della logica proposizionale)? Del resto anche la versione iniziale della teoria quantistica combinata con la logica proposizionale dà risultati assurdi, e ciò vale anche per il calcolo differenziale al tempo di Newton (come dimostrò Berkeley) e così via» [Feyerabend 1978, 71 n.]. Con ciò Feyerabend tocca un punto delicato che era stato il discrimine tra pensiero dialettico e pensiero scientifico. Infatti Popper [1940] non è stato il solo a criticare la dialettica, ma piuttosto è stato la punta più avanzata e virulenta di un generale atteggiamento critico verso il pensiero dialettico avuto non solo dai rappresentanti del razionalismo critico, ma anche da tutti i pensatori di ispirazione analitica e scientifica.
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2. Nuove strade e vecchi vicoli ciechi
2.1. La cacciata dal Paradiso Come abbiamo prima visto, nonostante le divergenze sulla soluzione di una serie di questioni tecniche e le enfatizzazioni che tendevano a sottolineare la divergenza tra l’approccio verificazionista di Carnap e quello falsificazionista di Popper, avevano caratterizzato la tradizione ricevuta alcuni principi che ne avevano motivato la stessa esistenza e che facevano parte, per così dire, del suo “codice genetico”. Innanzi tutto il valore paradigmatico che la scienza aveva sempre avuto come modello di conoscenza; anzi, come quella pratica razionale che unica avrebbe potuto fornire la conoscenza della natura e delle sue leggi, permettendo così la previsione e la programmazione del futuro dell’uomo. E ciò sulla base della convinzione che essa sola possedesse il corretto metodo della conoscenza, metodo la cui scoperta, precisazione ed articolazione era compito dell’epistemologia. A tale presupposto era strettamente connessa una opzione filosofica di fondo che costituiva il necessario complemento del ruolo attribuito alla scienza, e cioè quella in favore dell’empirismo che, grazie alla utilizzazione della logica moderna, sarebbe stato conciliato col razionalismo in modo da pervenire ad una visione complessiva ed equilibrata del modo di procedere della scienza e della stessa natura della razionalità umana. Con Feyerabend l’ancella della scienza – la filosofia della scienza – sembra abbia alla fine portato alla luce gli scheletri nell’armadio della sua padrona. La bancarotta del metodo si lega, però, non solo alla emergenza delle difficoltà interne alla tradizione neopositivista, ma anche alla rinnovata fortuna ed influenza che sulla filosofia angloamericana hanno esercitato – a cominciare dalla metà degli anni Settanta – correnti filosofiche più tipicamente continental-europee che non avevano rinunciato alla coltivazione della filosofia in dispregio dei divieti metodologici ed ai vari criteri di significanza. La filosofia classica tedesca, l’ermeneutica di Gadamer, la filosofia “irrazionalistica” di Nietzsche-Heidegger, la riscoperta nella cultura anglo131
americana di autori dimenticati, come i pragmatisti Dewey e James, nonché la valorizzazione della filosofia dell’ultimo Wittgenstein: tutto ciò rappresentò una ventata di novità che contribuì a spazzar via quella cortina di incomunicabilità tra la filosofia angloamericana di impronta analitica e la filosofia europea più legata a temi speculativi e storicistici che era stata tipica del clima filosofico dal dopoguerra in poi. Il pensiero filosofico e dialettico, cacciato dalla finestra, sembra ora far trionfalmente ritorno dalla porta. Come potranno, ancora, gli scienziati pretendere di dare metodologiche bacchettate sulle dita agli incauti filosofi che osano entrare nei ben solidi e garantiti confini della scientificità? Quei filosofi che osano parlare di “scienze umane”, di statuto scientifico della filosofia e così via, operando sporadiche incursioni in terreni a loro tradizionalmente ostici? Con quale legittimità si potrà ulteriormente indagare sui criteri di scientificità di discipline soft quali la sociologia, la psicologia od anche la psicoanalisi se nella stessa scienza più hard, nella fisica ed addirittura nella matematica, non è possibile demarcare in modo preciso quanto v’è di metafisico da quanto ha indubbio fondamento metodologico e scientifico? Il valore “metaforico” che spesso nelle discipline umanistiche assumeva il termine di “scienza” – per cui esso indicava più un desiderio, un’ambizione o piuttosto una presunzione che qualcosa da paragonarsi a quanto avveniva nelle scienze naturali – sembra ora estendersi alla stessa fisica ed alla matematica, prima ritenute depositarie di un ben determinato significato, metodologicamente precisabile, di tale concetto. Era definitivamente da abbandonare l’idea che potesse esistere un Eden in cui tutto fosse chiaro, cristallino, trasparente e dove gli uomini potessero coltivare una razionalità esente dalle basse contaminazioni della vita comune. Il “terzo mondo” favoleggiato da Frege, da Gödel, da Popper e da tanti altri sostenitori della razionalità scientifica come panacea di ogni male era definitivamente perso. Il metodologo era ormai un Adamo che aveva mangiato la mela del peccato orginale ed era stato cacciato dal Paradiso della Ragione, identificata con la Scienza. Il risultato di questo travaglio della filosofia della scienza contemporanea non è stato però univoco e si articola in una gamma di posizioni i cui poli estremi sono caratterizzati o dal tentativo di rinnovare, senza rinnegarla, la tradizione neopositivista, ponendosi quindi in continuità con i classici temi che 132
erano stati propri della RV; oppure, dal prendere decisamente congedo non solo dalla metodologia, dalla RV, ma via via anche dalla scienza, dalla tradizione ricevuta, che ne aveva fatto il proprio motivo ispiratore, per arrivare al rifiuto dalla stessa razionalità occidentale, del logos greco. Nel primo caso possiamo notare come ancora continuano a sussistere epistemologi e centri di ricerche che continuano a coltivare la filosofia cercando di conservare i capisaldi della RV, pur rinnovandone i concetti e lo strumentario, spesso in direzione di una sempre maggiore sofisticazione dell’apparato tecnico e formale. La filosofia della scienza diventa così un’attività riservata a specialisti che possono acquisire le competenze necessarie con un training scientifico ormai del tutto simile a quello che un fisico o un matematico devono effettuare per apprendere il linguaggio della propria disciplina. In tale ambito è da notare l’opera di Bas C. van Fraassen [1980] e di Clark Glymour [1980] i quali, pur rigettando importanti aspetti della RV, tuttavia ripropongono delle sofisticate e tecnicamente agguerrite concezioni alternative della giustificazione empirica delle teorie, della spiegazione, della probabilità e di altre classiche questioni, che vogliono salvaguardare lo spirito che aveva motivato le concezioni del positivismo logico. A questa linea di riforma nella continuità si affianca anche una tendenza storiografica “revisionista” (con M. Friedman, T. Ryckman, A. Richardson, P. Galison) che cerca di ricostruire la fisionomia originaria del positivismo logico e del Circolo di Vienna, liberandolo dalle incrostazioni e dalle cattive interpretazioni ricevute dai suoi critici (ne è un tema tipico l’accusa rivoltagli di approccio “fondazionalista”) [cfr. Rouse 1998, 85-8]. Nel secondo caso, invece, ci stanno autori che prendono definitivamente congedo – seguendo le orme di Feyerabend, ma facendo un discorso più propriamente filosofico pervaso dagli umori della filosofia continentale europea – dalla stessa tradizione razionalistica occidentale, contestandone la legittimità “fondazionale” rispetto al complessivo sapere umano in una prospettiva esplicitamente “post-analitica”: è questo, ad es. il caso di Richard Rorty, significativo anche perché la sua “apostasia” è – come nel caso di Feyerabend – quella di un intellettuale formatosi all’interno delle concezioni poi rifiutate. Fra queste due posizioni estreme si pongono tutta una serie di tentativi di tener conto della lezione di Kuhn senza sposare gli eccessi di Feyerabend e di altri eterodossi, ed in particolare 133
cercando di evitare l’irrazionalismo e il soggettivismo. Ne è un esempio l’opera di Kuipers [2001] che cerca di conciliare le più recenti acquisizione della filosofia della scienza popperiana e post-popperiana (quelle di Kuhn e Lakatos in particolare), integrandole alla luce di un “approccio neo-classico” che vede nella filosofia della scienza una genuina scienza empirica, una meta-scienza, avente al tempo stesso carattere prescrittivo, sia pure limitatamente ad una funzione euristica. Si cercò in un primo tempo (sino agli inizi degli anni ’70) di far tesoro del nuovo ruolo della storia, sottolineato con forza nell’opera di Kuhn, operando un tentativo di mettere insieme storia e filosofia della scienza, dove quest’ultima viene concepita come una ricostruzione razionale della concreta storia della scienza e non più come la elaborazione di astratti e metatemporali ricostruzioni logiche di teorie scientifiche già formulate nella loro piena maturità [cfr. Kisiel 1974]. Sembrava che stesse per nascere una nuovo campo interdisciplinare, denominato Storia e filosofia della scienza (History and Philosophy of Science – HPS), nella speranza che fosse possibile trarre dalla storia della scienza delle norme metodologiche che avessere valore transtorico: lo storicismo sofisticato di Dudley Shapere [1984] ne è un esempio che però viene seguito da pochi e che ben presto si esaurisce [cfr. Nersessian 1984]. Ad interessare altri studiosi non è piú il tentativo di pervenire storicamente a norme metodologiche generali che possano rispondere ai vecchi problemi posti nel seno dello studio della struttura formale della conferma e dei suoi paradossi o della logica dell’induzione e della probabilità, della natura della spiegazione o della riduzione interteorica, né interessa loro la ricostruzione assiomatica delle teorie (concepite come calcolo + interpretazione); ad attirare è piuttosto la concreta formazione storica di teorie, ontologie, metodi scientifici, ricostruiti nella pratica reale degli scienziati: «la concezione della filosofia della scienza dominante nel Nord America è passata dalla struttura logica della metodologia scientifica alla struttura narrativa della storia delle scienza» [Rouse 1998, 74]. A lavorare in questa direzione sono filosofi della scienza di varia provenienza, che si sono posti anche in modo critico verso molti aspetti della RV, come lo stesso Lakatos, ma anche Toulmin, Achinstein o Larry Laudan e Mary Hesse. Tra costoro è stato Laudan che ha cercato con maggior coerenza di conciliare le tendenze piú estreme di Kuhn con la tra134
dizione positivista della RV, concependo la storia della scienza come una successione di “tradizioni di ricerca” (locuzione che egli preferisce a quella di “paradigma” e a quella di “programma di ricerca scientifico”), concepite un insieme di assunti generali sulle entità e i processi ammissibili in un certo dominio di studi e i metodi piú idoenei per indagarli e costruire delle teorie in tale dominio. Con le parole di Laudan [1977, 1033] In breve, una tradizione di ricerca fornisce un insieme di direttive per la costruzione di teorie scientifiche. Una parte di tali direttive costituiscono un’ontologia, che specifica in maniera generale i tipi di entità fondamentali, che esistono nel dominio o nei domini all’interno dei quali ha a che fare la tradizione di ricerca che è in questione. […] Inoltre questa tradizione di ricerca delinea i diversi modi in cui queste entità possono interagire.[…] Molto spesso una tradizione di ricerca specifica anche alcuni modi di procedere, che costituiscono i legittimi metodi di ricerca, che un ricercatore può seguire all’interno della stessa tradizione. […] Per dirlo in modo semplice, una tradizione di ricerca è un insieme di imperativi e interdizioni ontologici e metodologici.
Le tradizioni di ricerca sono sì tra loro non concettualmente comparabili (o all’interno di ciascuna di esse possono esservi teoria tra loro inconciliabili), ma tuttavia permettono di effettuare una comparazione nei termini di come sono in grado di risolvere i problemi che esse stesse si pongono: l’accento viene posto tutto sulla capacità delle teorie di risolvere i problemi, piuttosto che sulla loro verifica o falsificazione, e di considerare di conseguenza il progresso cognitivo solo in relazione a tali prestazioni risolutive, definendo di conseguenza la razionalità come la capacità di fare quelle scelte teoriche che assicurano il progresso maggiore [cfr. ib., 26]. Così è la razionalità ad essere definita sulla base di una concezione di progresso vista, all’interno di un’ottica strumentale, come capacità di risoluzione dei problemi (dei quali egli distingue quelli empirici e concettuali, fornendone una tassonomia e indicando il modo per valutarne l’importanza). In seguito Laudan modifica tale impianto, per pervenire ad un “modello reticolare della razionalità scientifica” in grado di farci comprendere ad un tempo sia il dissenso nella scienza (enfatizzato da Kuhn e Feyerabend) come anche il consenso, la cui esistenza non può essere messa in dubbio. Il modello da lui proposto prende avvio dalla discussione critica del modello di risoluzione delle controversie 135
scientifiche a strutturazione gerarchica unidirezionale (proprio della RV), secondo il quale si va dai fatti, alle regole metodologiche, ai valori condivisi – per cui «i disaccordi su questioni fattuali devono essere risolti al livello metodologico; le differenze metodologiche devono essere ingabbiate al livello assiologico. Si ritiene che le differenze assiologiche o non esistano […] oppure, qualora esistano, siano irresolvibili» [Laudan 1987, 40-1]. A tale schema viene sostituito un complesso processo di mutuo accomodamento e di mutua giustificazione fra tutti e tre i livelli degli impegni scientifici. La giustificazione scorre nella gerarchia tanto verso l’alto quanto verso il basso, collegando scopi, metodi e asserzioni fattuali. Non dovremmo piú ritenere che uno di questi livelli sia privilegiato e piú fondamentale rispetto agli altri. L’assiologia, la metodologia e le asserzioni fattuali sono inevitabilmente intrecciate secondo relazioni di mutua dipendenza. [Ib., 86]
Per cui tra i tre livelli della discussione non esiste un rapporto biunivoco in quanto ciascuno di essi è sottodeterminato rispetto aagli altri, ovvero le medesime regole metodologiche possono coesistere con una divergenza di accordo sui fatti e un accordo sui valori non implica una necessaria omogeneità nei criteri metodologici. In tal modo il triangolo formato dai tre livelli di fatti, metodi e valori permette di esercitare una razionalità in cui «la scelta tra le alternative che si effettua all’interno di ciascuno di essi è vincolata piuttosto che determinata del corrente stato degli altri livelli» [Grobler 1990, 496]. Tuttavia tale visione reticolare lascia indeciso uno di termini del triangolo, quello dei valori, in quanto su questi non è possibile un confronto razionale che possa stabilire la superiorità degli uni sugli altri e i vincoli interni al triangolo che derivano dei livelli metodologici e fattuali sono troppo deboli per permettere una scelta tra sistemi valoriali diversi; bisognerebbe allora introdurre dei vincoli esterni. Quali? Se quello della “verità” è rigettato da Laudan, sembra proprio che resti poco altro a cui potersi riferire per evitare il riferimento a quei fattori esterni (la società, il consenso delle comunità ecc.) che fuoriescono dal quadro di un modello razionale del cambiamento scientifico. Questi approcci non hanno perciò mantenuto le promesse fatte intravedere e così negli anni successivi i filosofi della scienza cercarono altre strade. Alcuni imboccarono con decisione la via del realismo scientifico, cui pervennero mediante una revisione delle radici fregeane dell’incommensurabilità: la 136
teoria del “riferimento diretto” di Saul Kripke [1972] e Hilary Putnam [1975] sembrava uno strumento per rispondere ai problemi introdotti in filosofia della scienza da Kuhn e Feyerabend, grazie alla eliminazione del “significato” come mediatore tra linguaggio e referente e quindi cancellando il problema della “meaning variance”. E del resto – era questo un argomento utilizzato dai realisti – come spiegare il successo delle teorie scientifiche se non presupponendo la loro capacità di cogliere in modo sempre più approssimato la verità, a meno di non attribuirlo ad un evento prodigioso ed inesplicabile? [cfr. Boyd 1980; 1980b] Il realismo, col suo far uso della “inferenza alla spiegazione migliore” (basata sul procedimento abduttivo) 1 e alla connes1
Tale tipo di “inferenza” è stata avanzata in diverse versioni da autori come W. Sellars [1977], J.J.C. Smart [1968] e G. Harman [1965] (che introdusse tale denominazione) e consiste nella tesi per cui il fatto che una certa ipotesi spiega i dati empirici depone a favore della sua verità e quindi della sua capacità di cogliere il reale: le entità da essa postulate (atomi, elettroni ecc.) esistono veramente e non sono solo strumenti utili alla predizione; sarebbe del tutto irrazionale credere diversamente. Una scia di vapore nel cielo, il rumore del motore di un jet e delle tracce su uno schermo radar ci fanno ipotizzare che vi sia un aereo a reazione nel cielo che non possiamo vedere per la distanza; possiamo esserci di certo sbagliati nell’interpretare questi indizi, ma se essi sono reali e la nostra ipotesi è vera, allora non abbiamo nessun motivo razionale per dubitare dell’esistenza di un aereo a reazione, anche se non lo possiamo osservare direttamente. Più nello specifico, se abbiamo diverse ipotesi in competizione che sono in una qualche misura adeguate per spiegare i fenomeni di un certo dominio, allora dovremmo inferire che è vera l’ipotesi che ci fornisce la loro migliore spiegazione. Tale argomento, basato sul procedimento abduttivo, trae la sua forza dal fatto di essere il modo in cui gli uomini conducono i propri ragionamenti nella vita quotidiana, servendosi del ragionamento induttivo. E sarebbe difficile – sostengono i difensori dell’inferenza alla spiegazione migliore – indicare una procedura razionale migliore di questa, che del resto è di fatto impiegata dagli scienziati quando si tratta di scegliere tra due o più teorie. Del resto se non fosse corretta la tesi che una spiegazione funziona perchè essa è vera, dovremmo allora ammettere che il successo della scienza si basa su un continuo miracolo: è questo il cosiddetto “argomento finale” (o anche “argomento del miracolo”) in difesa del realismo sostenuto da Putnam [1975b, 73]: il successo della scienza nello spiegare fatti avvenuti e nel predire nuovi ed inaspettati eventi, con le conseguenti ricadute tecnologiche, finirebbe per essere qualcosa di inesplicabile se non si ammettesse che le teorie scientifiche siano vere, nel senso che descrivono eventi, entità e processi realmente esistenti indipendentemente dalle nostre menti e dai nostri apparati di misura. Da questo punto di vista il reali-
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sione causale esistente tra parole e cose (in base alla teoria del riferimento diretto), pur essendo stato sottoposto a numerose critiche ed avendo conosciuto numerose varianti che lo riaggiustavano qua e là in relazione alle critiche ricevute, lasciò in eredità alla filosofia della scienza successiva un radicato rifiuto per ogni metodologia scientifica concepita a priori [cfr. Rouse 1998, 84-5], in favore della convergenza verso un approccio naturalizzato all’epistemologia e alla filosofia della scienza, con la conseguente attenzione rivolta alla psicologia cognitiva e alle scienze cognitive in generale [cfr. Callebout 1993]. È su questa base che si sviluppa l’epistemologia naturalizzata ed evoluzionistica, all’interno di una rinascita del descrittivismo (v. § 2.2). Altri pensatori, provenendo dalla coltivazione di scienze più soft rispetto alla fisica e alla matematica, privilegiate dalla RV – da discipline quali la biologia, la psicologia cognitiva o le scienze sociali, l’economia, l’archeologia e così via – sono dell’avviso che sia vano andare in cerca di una generale filosofia della scienza e che si debbano invece privilegiare le filosofie delle singole scienze, ciascuna delle quali viene così a godere di una autonomia metodologica che non soffre di alcuna sudditanza psicologica verso scienze ritenute più “fondamentali”, con ciò abbandonando uno dei motivi ispiratori dell’empirismo logico, perseguito nella RV mediante la coltivazione dell’idea della riduzione interteorica. Ciò non vuol dire che non vengano proseguiti gli studi sulle scienze tradizionalmente privilegiate in passato, la fisica innanzi tutto, che anzi subiscono nuovo impulso dalle loro più recenti acquisizioni, come le teorie del “caos deterministico” [cfr. Gleick 1987], la termodinamica dei processi irreversibili di Ilya Prigogine [1955] o la teoria della complessità [cfr. Nicolis & Prigogine 1987; Waldrop 1992; Villani 2008] che – inizialmente elaborata in modo pionieristico da von Bertalanffy [1969] – di queste opera una generalizzazione e una estensione ad altri campi del sapere. Anzi, si può dire che grazie a queste recenti nuovi sviluppi in campo scientifico (cui devono aggiungersi altri importanti episodi, ad essi strettamente connessi, come la “teoria delle catastrofi di René Thom [1972] e la “geometria frattale” smo scientifico è esso stesso una ipotesi che spiega nel migliore dei modi la storia della scienza e il suo successo straordinario.
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di Benoit Mandelbrot [1972]) è mutata l’immagine della scienza e di conseguenza sono anche cambiati i modi di concettualizzarla, riavvicinandola a quei settori prima rimasti distanti a causa dell’approccio eccessivamente riduzionistico (e “fisicalista”) messo in atto dalla RV, ovvero campi come psicologia, sociologia e in generale scienze umane. Per cui si è ipotizzato un nuovo modo di vedere alla scienza, che transitasse per una “epistemologia della complessità”, il cui grande profeta è stato Edgar Morin [1977; 1980; 1986; 1990] e che in Italia ha parecchi seguaci [cfr. Bocchi & Ceruti 1985; Ceruti 1987; Zanarini 1996]. Ma il più significativo aumento di interesse e di studi concerne la filosofia della biologia che aveva iniziato il suo rinnovamento negli anni ’70 con gli studi di David Hull [1974] e Micheal Ruse [1973], anche sull’onda dei successi fatti conoscere in quegli anni dalla biologia molecolare e dalla nuova sintesi darwiniana (v. § 2.4), che avevano conferito unità, coerenza teorica e rispettabilità filosofica alle scienze biologiche. Campi privilegiati di interesse sono la chiarificazione concettuale e filosofica della biologia evoluzionista, in particolare riferimento ai fattori responsabili della selezione naturale (se essi siano i geni, i tratti fenotipici, gli organismi individuali o i gruppi di popolazione) [cfr. Brandon & Burian 1984; Sober 1984]; la relazione tra genetica classica e genetica molecolare [cfr. Kitcher 1984]; infine, la controversia sui meriti scientifici della sociobiologia [Rosenberg 1981; Kitcher 1985] e del tentativo cristiano di costruire un’alternativa creazionista alla visione evoluzionista [Kitcher 1982]. Era questa anche un modo diverso per affrontare, a partire da un altro punto di vista, tradizionali questioni della filosofia della scienza, come la struttura delle teorie scientifiche, il significato dei termini teorici, il problema della riduzione e la natura della spiegazione, transitando dal piano della discussione generale dei massimi sistemi della filosofia della scienza verso «studi a grana più fine ed empiricamente impegnati delle teorie e della prova in economia, antropologia, archeologia e così via» [Rouse 1998, 80]. A tali approcci nordamericani – che spesso condividono molti punti in comune col naturalismo e con l’epistemologia evoluzionista – devono essere collegati, sempre in campo biologico, i lavori che vengono svolti nell’ambito della cosiddetta scuola di Santiago, i cui più accreditati protagonisti sono Humberto Maturana e Francisco Varela [cfr. Maturana 1993; 139
Maturana & Varela 1985, 1987, 1992; Varela 1987]. In questo caso viene affrontata la questione generale del significato del processo cognitivo, visto come il carattere fondamentale della relazione che lega ogni organismo al suo ambiente, inclinando decisamente verso un approccio antirappresentazionista, per cui non esiste un mondo indipendentemente e predeterminato rispetto all’organismo che lo struttura. Il più significativo e deciso sbocco di tale approccio è costituito dal cosiddetto “costruttivismo radicale” [cfr. Watzlawick 1981], che non solo mette in crisi la possibilità di una discussione razionale sulla realtà e sulla scienza, ma sembra portare al dissolvimento dello stesso reale come punto di riferimento ed ancoraggio di qualsivoglia teorizzazione scientifica e/o filosofica. Infine, i nuovi sviluppi nell’ambito della sociologia della scienza, favoriti sempre dall’accento posto da Kuhn sull’importanza delle comunità scientifiche e dalla ricezione di esperienze aventi una provenienza diversa da quella interna alla RV, hanno sempre piú messo in discussione la tradizionale distinzione tra storia interna e storia esterna della scienza (della quale si era fatto in particolare interprete Lakatos) e han finito per entrare in feconda interazione con altri campi di ricerca prima tenuti ai margini della filosofia della scienza o addirittura ritenuti nocivi alla sua coltivazione razionale: gli studi di genere in ambito femminista, l’approccio antropologico alle culture, il costruttivismo sociologico, la nuova retorica applicata in letteratura, il tutto andando a confluire verso un nuovo e interdisciplinare campo di indagine denominato “Science Studies”, o anche “Cultural Studies”. Non ci soffermeremo ovviamente su tutte le varie articolazioni in cui la filosofia della scienza si dissemina oggi, ma ne prenderemo in esame solo alcune, accennando alle altre nel corso dell’esposizione.
2.2. Il ritorno del descrittivismo: l’epistemologia naturalizzata La strada della naturalizzazione dell’epistemologia è imboccata a seguito di una severa diagnosi sullo stato della filosofia della scienza così come sino allora praticata. Nonostante le grandi speranze verso di essa nutrita per gran parte del secolo 140
scorso, agli inizi degli anni ’80 si doveva onestamente ammettere che la filosofia della scienza non era riuscita a risolvere nessuno dei problemi che essa stessa si era posta: dall’induzione al concetto di legge scientifica, dalla natura della conferma alla falsificabilità, dal tipo di relazione tra teoria ed esperienza alla confrontabilità tra teorie diverse. Tutte queste questioni – e molte altre di cui abbiamo già parlato – non solo non sono state risolte, ma sembravano essere esse stesse diventate quel campo di continue controversie che i filosofi della scienza, all’inizio del loro tragitto, avevano rimproverato alla filosofia. Sembrava proprio di essere giunti al capolinea. Pareva proprio che la scienza, una volta messa nelle mani del filosofo – anche di quello della scienza – fosse destinata a perdere quelle caratteristiche di chiara conoscenza razionale, di indubitabile acquisizione di nuove conoscenze sul mondo – che si trasformavano in efficaci tecniche di sua manipolazione – che tutti, di primo acchito, sono disposte a riconoscerle. Bisogna forse dar ragione a Neurath, nel voler sottrarre la scienza ai filosofi per consegnarla agli scienziati, come riflessione interna alla loro pratica, che nulla ha da spartire con la speculazione filosofica? La scienza dunque agli scienziati, come sostiene R. Giere, il quale afferma che il suo scetticismo è giunto sino al punto che ora credo non ci siano fondamenti filosofici speciali per nessuna scienza. C’è soltanto teoria profonda che è però parte della scienza stessa. E non ci sono metodi filosofici speciali per scandagliare le profondità teoriche di una scienza: esistono soltanto i metodi delle scienze stesse. Inoltre, le persone meglio attrezzate per impegnarsi in tali occupazioni non sono quelle educate come filosofi, ma quelle totalmente immerse in materie di argomento scientifico, cioè gli scienziati. [1988, 8].
È da questa presa d’atto che nel corso degli anni ’70 si parte per riaffermare la necessità di tornare a una filosofia della scienza che, abbandonando ogni pretesa legislativa sul lavoro dello scienziato, torni a guardare umilmente ed onestamente quello che questo fa, che descriva, cioè, nel modo piú accurato ed aderente, come la scienza opera; insomma una filosofia della scienza che assuma consapevolemente un programma descrittivista. Tale programma viene avanzato in esplicita o implicita polemica verso il normativismo attribuito alla tradizionale epistemologia di derivazione cartesiana e verso il fondazionalismo delle filosofie della scienza di derivazione neopositivista. Tale lotta contro il normativismo ed il fondazionalismo – che ha 141
avuto in Rorty il suo più noto alfiere – è stata anche una critica all’immagine della scienza della RV, incentrata sull’induttivismo, sulla possibilità di una giustificazione delle proposizioni scientifiche mediante la loro connessione ad una base indubitabile, sulla distinzione tra analitico e sintetico, sull’idea che compito fondamentale della filosofia della scienza fosse la “ricostruzione logica” della scienza intesa – sulla base della lezione di Frege – come un’entità linguistica, e così via; una immagine che – come ormai ben sappiamo dalle vicende prima narrate – s’è infranta contro formidabili ostacoli che ne hanno spezzato il vigore. Invece le filosofie della scienza descrittive non nutrono più la presunzione di elaborare gli standard mediante i quali dovrebbero essere valutate le teorie scientifiche, pretesa che si era infranta nella babele dei metodi e delle diverse proposte, che nulla ha da invidiare alle tradizionali controversie filosofiche. E, d’altronde, lo scienziato sembra non avere affatto interesse a tali prescrizioni, sicché la sua pratica resta in gran parte indifferente agli affanni del filosofo della scienza, le cui sofisticate teorizzazioni paiono sempre più distanti dal suo concreto lavoro. La riproposta della concezione descrittivista della filosofia della scienza conosce diverse varianti. V’è chi, come Gerald Holton, recupera la lezione della storia (egli stesso comincia la sua carriera con studi su Keplero, Bohr ed Einstein) per sostenere una filosofia della scienza descrittiva che abbia lo scopo di portare alla luce gli standard metodologici e le procedure che effettivamente guidano la pratica scientifica, facendo una attenta analisi storica delle opere dei grandi scienziati, distinguendo ove necessario tra le loro esplicite professioni metodologiche e la loro effettiva pratica di ricerca. È in un certo qual modo la strada già seguita da Kuhn, ma attenta a recuperare gli elementi di continuità nella storia della scienza, piuttosto che quelli di discontinuità, e quindi ad individuare quei principi che hanno fornito alla scienza una identità ed una peculiarità che l’hanno distinta dalla filosofia, facendo prevalere il consenso piuttosto che il dissenso [cfr. Holton 1978, 1989, 1992, 1993]. Con ciò Holton riprende nella sostanza il programma originario della filosofia scientifica [cfr. Coniglione 2002; 2007; 2008], ma senza la pretesa che la lezione tratta dallo studio dei principi metodologici della scienza abbia la possibilità di “rettificare” la filosofia; anzi, effettua una decisa virata in senso sto142
rico, giacché il filosofo della scienza deve essere innanzi tutto uno studioso della storia della scienza, e non un esperto di logica, come era stato tipico di tutti i filosofi riconoscibili nella Concezione Standard. La lezione di Kuhn non è stata vana. Più radicale la posizione dell’epistemologia naturalizzata, che nel porsi il problema della conoscenza – trattato dalla epistemologia in senso classico – vuole riconsegnare alla scienza stessa il compito della sua soluzione: non dunque una riflessione metodologica sulla scienza, allo scopo di svelarne quel “Metodo” che la rende tale e che potrebbe quindi essere beneficamente esportato alle altre discipline, bensì uno studio scientifico del modo in cui avviene effettivamente la conoscenza. Per l’epistemologia naturalizzata è la scienza stessa che deve rispondere al problema della formazione e dello sviluppo della conoscenza, per cui essa si configura come «lo studio scientifico della percezione, dell’apprendimento, del pensiero, dell’acquisizione del linguaggio e della trasmissione e sviluppo storico della conoscenza umana – tutto ciò che possiamo scoprire scientificamente su come veniamo a conoscere ciò che conosciamo» [Stroud 1994, 71]. Quando ci domandiamo se una nostra credenza sia vera o no, perché non rivolgerci alla scienza, la quale sembra avere i titoli maggiori per rispondere alla nostra domanda? Se essa è capace di risolvere i nostri dubbi sulle mille questioni che ci possiamo porre nei più disparati campi, perché non dovrebbe essere in grado di rispondere alle nostre domande epistemologiche, profittando della psicologia cognitiva o della neurobiologia? In fin dei conti «il modo migliore di mostrare che la conoscenza è possibile è, tutto sommato, mostrare che essa è reale» [Crumley 1999, 446]. In sostanza tale naturalizzazione non fa che assumere, per questo aspetto, il progetto della filosofia scientifica (v. § 1.1) – che poi aveva avuto tra le proprie conseguenza la nascita della moderna filosofia della scienza come autonoma disciplina – l’idea che la conoscenza è innanzi tutto un fatto, non un problema; ed che è da questo fatto che bisogna partire; ma una riproposta che mette da parte la celebrata “svolta linguistica” operata da Frege [cfr Dummett 1973] e nega il suo ripudio del naturalismo filosofico, fosse esso ispirato alla biologia o alla psicologia. Una riproposta, dunque, delle posizioni che sempre hanno caratterizzato lo “scientismo”, per cui l’epistemologia naturalizzata viene intesa come una sua nuova incarnazione [cfr. Almeder 1998]; un «ritorno del naturalismo epistemologico condanna143
to da Frege ed etichettato da Wittgenstein come filosofia illegittima» [Kitcher 1992, 55]. L’epistemologia naturalizzata condivide sostanzialmente l’approccio descrittivo in quanto non va in cerca di criteri normativi, di giustificazione o di rifiuto delle nostre credenze, elaborati grazie alla riflessione filosofica o metodologica sulle procedure scientifiche, bensì si propone di studiare empiricamente, allo stesso modo di come una particolare disciplina scientifica studia il proprio oggetto, le procedure che negli esseri viventi, e nell’uomo in particolare, portano alla formazione di particolari contenuti cognitivi che sono loro utili nella manipolazione del mondo circostante; suo compito è cioè quello «di capire la qualità epistemica della conoscenza umana e di specificare le strategie per mezzo delle quali gli esseri umani possono incrementare i propri stati cognitivi» [Pagnini 1977, 156]. Evidente il suo atteggiamento antifondazionalistico, che è al tempo stesso un anticartesianesimo: se la scienza deve pensare a se stessa, allora è ovvio che la filosofia non ha nulla da dire ad essa, né tanto meno può ambire a fondarne la legittimità. Cade pertanto anche un altro atteggiamento tipico dell’epistemologia, che l’ha accompagnata costantemente lungo la sua storia e ne costituisce il cuore: la sua vocazione giustificazionista, che sta alla base delle sue pretese normative e che aveva alimentato la recintazione di un “contesto della giustificazione” nel quale mettere all’opera la ragione umana e gli strumenti della logica. Ma ora «la giustificazione deve essere caratterizzata in termini di connessioni causali o nomolocali che comportano credenze in quanto stati psicologici, e non in termini di proprietà logiche o relazioni che concernono i contenuti di queste credenze» [Kim 1999, 467-8]. Anzi, è proprio il carattere intrinsecamente paradossale della pretesa giustificazionista, con il suo inevitabile incorrere nel circolo vizioso della necessità di giustificare la credenza in una certa definizione di giustificazione, a costituire uno degli argomenti avanzati per decretare la fine dell’epistemologia tradizionale [cfr. Ketchum 1990]. Per certi riguardi l’epistemologia naturalizzata riprende qui il programma originario della filosofia della scienza. Non si era, infatti, anche quest’ultima proposta, alle sue origini, di studiare come la conoscenza scientifica si articolasse? Quale fossero le sue caratteristiche? In che modo lo scienziato elabora le sue teorie e le confronta con l’esperienza? Non v’era, dunque, anche nella filosofia della scienza un intento descrittivo, piutto144
sto che normativo, scaturendo quest’ultimo, semmai, quale proposta operativa formulata sulla base di una constatata, efficace, pratica teorica? Come ha sostenuto Friedman criticando le cattive interpretazione fornite del neopositivismo – e in particolare chi come Kim [1999, 469] ritiene il positivismo logico un movimento tipicamente fondazionalistico in quanto per esso l’osservazione servirebbe a fondare non solo la conoscenza, ma ogni significato cognitivo e quindi costituirebbe un suo fondamento epistemologico e semantico –, i positivisti logici […] hanno respinto con forza una concezione fondazionalista della filosofia rispetto alle scienze speciali. Non v’è alcun punto privilegiato dal quale la filosofia possa sottoporre a giudizio epistemico le scienze speciali: si ritiene piuttosto che essa debba tenere dietro alle scienze speciali in modo da rettificare se stessa in risposta ai risultati da esse acquisiti. [Friedman 1991, 515]
Una posizione del resto ben documentata negli scritti dei maestri del neopositivismo, per i quali era ben chiaro, come sostiene Reichenbach in polemica con l’impostazione neocriticista, che «la pretesa secondo cui la gnoseologia dovrebbe giustificare gli ultimi fondamenti della conoscenza della realtà, nello sviluppo storico della teoria della conoscenza si è dimostrata insostenibile»[1930, 450; cfr. anche 1931b, 109-115]; onde l’avvertenza che «per la teoria della conoscenza non può esservi altro procedimento che stabilire quali siano i principi di fatto impiegati nella conoscenza» [1920, 125]. Sono queste le ragioni che supportano la tesi, largamente condivisa, che vede nell’elaborazione teorica del Circolo di Vienna la nascita della vera e propria epistemologia nel senso odierno, distinta dalla gnoseologia o teoria della conoscenza, ovvero come vera e propria filosofia della scienza. Se questo è vero, in cosa consiste dunque la novità dell’epistemologia naturalizzata? In effetti sembra che il fallimento del progetto della filosofia della scienza faccia ora ritornare i pezzi alla stazione di partenza. Ma nel riproporre le questioni centrali dell’epistemologia, si va in cerca di una risposta diversa sia da quella tentata dalla filosofia della scienza, sia da quella propria dell’epistemologia tradizionale: l’approccio naturalistico all’epistemologia sostiene che non si può rispondere alla domanda su come sia possibile arrivare alla conoscenza indipendentemente dalla risposta a come effettivamente ci arriviamo; ovvero, detto in altri termini, che l’indagine sui modi effettivi in cui la conoscenza avviene non sono piú ritenuti irrilevanti 145
per rispondere alla domanda sulla natura della conoscenza, per cui il contesto della scoperta – con tutte le idiosincrasie dei singoli e delle comunità – non è e non deve esser piú ritenuto un terreno estrneo allo studio della ragione scientifica. Insomma, «i problemi su come realmente perveniamo alle nostre credenze sono rilevanti sulle questioni su come dovremmo arrivare alle nostre credenze» [Kornblith 1994, 3], e il fatto si fa criterio del farsi, l’essere diventa giustificazione della norma. Pertanto, se l’epistemologia naturalizzata è per certi aspetti una sorta di ritorno al progetto originario della filosofia della scienza, ormai smarrito nelle pieghe normative dell’epistemologia di impronta analitica e che ha abbandonato per strada l’impulso iniziale che stava alla base dell’idea di filosofia scientifica, nondimeno il suo aspetto più significativo è un altro, ha una natura diversa. Per l’epistemologia naturalizzata lo studio dei processi cognitivi non è condotto mediante l’applicazione di una comune e universalmente diffusa razionalità umana, di un generale modello di argomentazione e prova, il cui appannaggio è stato tradizionalmente attribuito alla filosofia (o alla “filosofia della scienza”), bensì avviene grazie alla utilizzazione di particolari discipline scientifiche, aventi uno statuto cognitivo ritenuto del tutto consolidato e la cui legittimità non viene messa in discussione nel corso delle ricerche per le quali esse sono impegnate, ma è semplicemente assunta come dato di fatto. I processi conoscitivi dell’uomo (o anche degli animali) sono studiati facendo uso delle tecniche psicologiche, oppure richiamandosi all’antropologia, o anche facendo ricorso a modelli cibernetici, alle neuroscienze, o addirittura facendo uso di analogie e concettualizzazioni biologiche ed ecologiche: insomma ormai lo studio della conoscenza – e quindi il terreno della epistemologia – è il campo di attività delle cosiddette scienze cognitive, che in tal modo ricevono in eredità dalle mani del filosofo la missione che prima l’epistemologia tradizionale, poi la filosofia della scienza, avevano avocata a se stesse senza riuscire ad onorarla sino in fondo. Nessuna meraviglia, dunque, se qualcuno ha parlato di “morte dell’epistemologia” (come ha fatto Rorty; v. § 2.8); solo che per gli epistemologi naturalizzati, si tratta piuttosto di una sua trasfigurazione. Ne segue che certe critiche all’epistemologia naturalizzata non colgono nel segno quando fanno osservare che «i metodi della scienza non possono giustificare i metodi della scienza in modo non circolare e quindi la giustificazione dei metodi della 146
scienza, anche solo come mezzi efficienti per raggiungere obiettivi scientifici stabiliti, deve far appello a qualche concetto di giustificazione o razionalità che precede la pratica scientifica, piuttosto che esserne generato» [Almeder 1998, 35-6]. Tale critica [cfr. anche Sosa 1983] – che è quella classica del circolo vizioso (per studiare il metodo scientifico si presuppone già l’uso di un metodo scientifico) 2 – pone in sostanza la questione della legittimità della conoscenza scientifica ed la domanda se questa ci fornisca o meno una conoscenza del mondo esterno. Ma essa fa fuori bersaglio essenzialmente per due motivi. Innanzi tutto perché gli epistemologi naturalizzati non vogliono affatto giustificare alcunché, e non vogliono in particolare giustificare la scienza perché essi non credono che sia possibile esercitare una sorta di razionalità filosofica, una qualche strategia metascientifica, in grado di porsi in atteggiamento di giudice verso la scienza: per “conoscere la conoscenza”, bisogna semplicemente applicare i consolidati metodi delle scienze già a disposizione: psicologia, neuroscienze, cibernetica, neosintesi darwiniana, linguistica e così via. In secondo luogo, obiettivo fondamentale dell’epistemologia naturalizzata non è quello di scoprire il metodo scientifico da applicare alle attività conoscitive in generale – tale era il compito che ci si poneva appunto nell’ottica della filosofia scientifica o della filosofi della scienza tradizionale – bensì di far uso dei risultati scientifici forniti da altre scienze, che vengono utilizzate sottraendo l’indagine del loro metodo ad ogni interrogativo; ovvero dichiarando immuni da domande epistemologiche le scienze che si ritengono buone per studiare la conoscenza. È una sorta di divieto, analogo a quello posto da Russell per bloccare il paradosso degli insiemi: ingiustificato e non giustificabile razionalmente, ma assai utile pragmaticamente. Ci si potrebbe certamente domandare: ma come facciamo a 2
Così formula in modo piú esplicito tale critica Giere [1998, 153]: «One of the things any study of science must investigate is the methods (criteria, canons, etc.) scientists use in evaluating science. To pursue such an investigation scientifically requires using data about scientific practice to reach conclusions about scientific methods. Thus, any empirical justification aimed at discovering the criteria that scientist use for evaluating evidence would necessarily presuppose at least some of the criteria it was supposedly setting out to discovery. So all the methods the methods of science could be discovered by scientific investigation. At least some must be discoverable by other means».
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individuare quali siano le discipline e le scienze che ci danno dei risultati affidabili per lo studio della conoscenza? Perché la psicologia cognitiva e non – per dirne una – la psicologia del buddhismo Zen? È ovvio che una domanda del genere ci pone nuovamente sulla strada della giustificazione della conoscenza: portare in qualche modo delle ragioni per la superiorità epistemica dell’una rispetto all’altra, all’interno di una preliminare definizione di cosa sia la conoscenza. Ci pone, insomma, all’interno dei problemi tipici dell’epistemologia (che cos’è la conoscenza? Che cosa intendiamo dire quando affermiamo che conosciamo qualcosa? Come dovremmo arrivare ad essa?) e quindi ci porterebbe a ripercorrere la strada del fondazionalismo metodologico che, malgrado tutti i suoi tentativi si è dimostrato un “programma senza speranza” [cfr. Giere 1998, 154-7]. Ma, in primo luogo, sarebbe un errore – in verità assai comune – collassare il progetto della filosofia scientifica e della filosofia della scienza, così come esse sono state concepite dai loro sostenitori nel Circolo di Vienna (e anche di Berlino), su quello dell’epistemologia: era stato proprio per sfuggire ai circoli viziosi tipici di quest’ultima e al vicolo cieco in cui essa si va sempre ad infilare che era stato concepito il programma della filosofia scientifica: la scienza come faktum da assumere come luogo privilegiato in cui domicilia il Metodo invano cercato dell’epistemologia3. Per cui il compito diventa quello tipico della metascienza o della “logica della scienza” (in senso lato) come concepita da Carnap [1934, 53-6]. Inoltre, in secondo luogo, il fondazionalismo metodologico da molti attribuito ai rappresentanti dell’empirismo logico è in parte il frutto di una ibridazione con le tradizionali esigenze empiriste – per lo piú avvenuta in terra americana – ed è inoltre solo parzialmente individuabile in certe fasi e certi protagonisti dell’originaria filosofia del Circolo di Vienna (Schlick e il Carnap dell’Aufbau, influenzato da Russell) [cfr. Uebel 1996]. Per cui il progetto della filosofia della scienza si arena non tanto perché non risponde ai tipici problemi dell’epistemologia e cade nel menzionato circolo vizioso, ma perché non riesce a venire a capo del ben piú modesto compito di chiarire ed individuare quelli 3
Su tali differenze, sul problema della distinzione tra epistemologia, filosofia della scienza, metascienza ecc., nonché sulle diverse fasi del Circolo di Vienna in merito al suo supposto “fondazionalismo”, rinvio a quanto da me detto altrove, in [2002; 2004, 29-34; 2007; 2008].
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che sono i principali concetti di cui fa uso la scienza (leggi, teorie, induzione, spiegazione ecc.); fallisce, insomma, nel suo compito di “teoria della scienza” (o metascienza). E la svolta dell’epistemologia naturalizzata consiste appunto nel dismettere anche questo problema con una duplice mossa: una preliminare che consiste nel rigettare la tradizione fregeana, reimmettendo la scienza nella conoscenza in generale, la quale diventa l’oggetto principale dello studio (finendo la scienza per esserne un’articolazione parziale); la seconda che consiste nel fare della conoscenza l’oggetto di studio delle scienze nel frattempo costituitesi e sviluppatesi come scienze cognitive. È da una parte una ritirata (dalla “logica della scienza” e dalla metascienza, ovvero dalla filosofia della scienza tradizionale, all’epistemologia), ma dall’altra un passo avanti nella accettazione di una prospettiva sempre piú “scientista”. Ed è ad un tempo un modo di rapportarsi alla scienza non piú in senso metodologico (la scienza come modello da cui trarre le procedure valide per ogni conoscenza), ma sostanziale, ovvero intendendo la scienza come deposito (presente e futuro) di conoscenze da utilizzare per la “conoscenza della conoscenza”. Ed a volte ciò avviene in una prospettiva neoriduzionistica, in cui non solo la filosofia viene espulsa dalla scienza, ma si adotta esplicitamente un linguaggio fisicalista. Edoardo Boncinelli, uno degli scienziati italiani piú impegnati nello studio della biologia molecolare, afferma con disarmante franchezza: «[…] per me la filosofia con la scienza non ci deve entrare per niente, né con la fisica, né con la biologia, e credo fermamente che lo scienziato possa fare tutta la vita il suo mestiere senza ricorrere minimamente alla filosofia, almeno fino a oggi; ma questo può non valere per il domani». Nella speranza di essere riammesso in gioco in futuro, il filosofo (di qualunque specie esso sia) può confortarsi col riconoscimento che – benché in genetica, in biologia dello sviluppo fisiologico, persino nell’evoluzionismo «non c’è assolutamente bisogno della filosofia» – nondimeno «una certa dimestichezza con il ragionamento filosofico indubbiamente aiuta» [Boncinelli 2008]; allo stesso modo in cui il camminare favorisce la digestione o lo jogging previene l’infarto o la Settimana Enigmistica mantiene la mente giovane e pronta. L’epistemologia naturalizzata, dunque, solo in parte riprende in mano la bandiera stracciata della filosofia della scienza e dell’epistemologia tradizionale; piuttosto la ripropone in 149
forma del tutto rinnovata, in una sua quasi trasfigurazione, ma a condizione di aggirare la domanda fondamentale su “che cos’è la conoscenza” e di mettere tra parentesi la stessa questione del “metodo”, che aveva tenuto insonni filosofi del calibro di Cartesio e Husserl. Il Metodo, grande convitato di pietra della nuova epistemologia, già messo alla porta da Feyerabendm, viene assunto in maniera irriflessa, come pratica concreta, come utilizzo di tecniche e strumenti, giacché l’epistemologia naturalizzata deve affidarsi tutta, perinde ac cadaver, alla scienza nelle nuove forme che essa ha assunto: neuroscienza, scienza cognitiva, psicologia ecc. Ed a condizione di rimettere a queste la domanda sulla identificazione della conoscenza: è conoscenza quella che queste scienze definiscono come tale. In questa prospettiva è fuori luogo porsi la domanda circa la giustificabilità degli asserti prodotti dalle scienze naturali, dalla psicologia e così via, in quanto queste sono autogiustificanti e non abbisognano di una argomentazione esterna, epistemologica, per ritenere fondate le proprie tesi; esse non sono sottoposte a criteri epistemologici, ma sono piuttosto esse i criteri per giudicare delle tesi epistemologiche. Esse godono di una sorta di estraterritorialità metodologica. Pertanto possiamo parlare in senso proprio di epistemologie naturalizzate (che sono da ritenersi un sottoinsieme delle epistemologie descrittive) quando abbiamo a che fare con un programma di studio della conoscenza che faccia perno sull’utilizzo e l’applicazione di rilevanti teorie scientifiche; una sua forma particolare può essere ritenuta anche la cosiddetta epistemologia sociale (social epistemology) [cfr. Kornblith 1994b]. Se poi si assume come punto di riferimento teorico privilegiato la teoria dell’evoluzione, per cui la crescita della conoscenza segue i modelli dell’evoluzione biologica, allora abbiamo a che fare con le epistemologie evolutive [cfr. Bradie 1989, 394], che sono, pertanto, un sottoinsieme delle epistemologie naturalizzate, che applica per la soluzione dei problemi epistemologici i concetti della teoria darwiniana nei suoi più recenti sviluppi, assumendo come dato di fatto indiscusso la sua correttezza (o, meglio, rimettendo il problema della correttezza o meno della teoria darwiniana al dibattito scientifico in campo biologico e quindi facendone una questione interna alla scienza, senza alcuna pretesa epistemologica su di essa: Boncinelli docet). L’epistemologia naturalizzata come finora descritta – cioè 150
intesa semplicemente come una branca della scienza naturale – rappresenta certamente l’approccio più radicale: essa mira a rimpiazzare l’epistemologia tradizionale col delegittimare alla radice la possibilità di una “prima filosofia”, ovvero di un punto di vista privilegiato, esterno alla scienza, che ci permetta di giudicarne le prestazioni cognitive [cfr. Almeder 1998, 1174]. È questa la posizione di W.V.O. Quine, di R. Rorty e di tutti coloro che vogliono abbandonare il programma fondazionalistico ed ogni privilegio filosofico, per riconsegnare la scienza alla scienza; uno scientismo duro e puro, dunque, che finisce per delegittimare del tutto ogni tipo di lavoro filosofico4. Ma accanto a questa versione forte, se ne è proposta anche una variante debole che non vuole eliminare l’epistemologia tradizionale, bensì trasformarla con il collegarla ai metodi ed alle acquisizioni nel contempo messe a disposizioni dalle scienze cognitive. Sull’impulso originario di Quine l’epistemologia naturalizzata è diventata con gli anni ’80 uno dei temi dell’odierna epistemologia ed oggi copre una serie di posizioni che hanno il loro locus classicus di origine in un saggio del 1969 di Quine e che sono difese, con più o meno radicalità, da un consistente numero di studiosi, tra i più importanti dei quali menzioniamo D.M. Armstrong [1973], C. Cherniak 1986], F. Dretske [1986], A. Goldman [1986, 1992], G. Harman [1986], P. Kitcher [1983, 1993], H. Kornblith [1993], W. Lycan [1988], A. Plantinga [1993], E. Sosa [1991], E. Stein [1996] e S. Stich [1993]. 5 Una possibile obiezione per la tesi del rimpiazzamento è che essa si confuta da sé: se l’epistemologia naturalizzata deve sostituire quella tradizionale e quindi descrivere soltanto i processi che portano alla conoscenza giovandosi di scienze già costituite, in base a quali criteri si selezionano tra le molteplici 4
Tuttavia non tutti sono d’accordo nel ritenere Quine un esponente della tesi del rimpiazzamento; vedi ad es: quanto afferma Susan Haack [1990, 1991], che ritiene ambivalente la sua posizione a causa del modo ambiguo in cui Quine utilizza il termine “scienza”, a volte usato per indicare le nostre conoscenze empiriche, altre volte per designare le scienze naturali. 5 Per una rassegna delle opere che possono essere riportate sotto l’etichetta del naturalismo, in una delle sue diverse varianti, vedi Maffie [1990]. Una buona bibliografia, ordinata per argomenti, è quella curata da F.S. Schmitt e J. Spellman e contenuta in Kornblith [1994, 427-73].
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“credenze” quelle che devono essere spiegate in quanto “conoscenze”? Insomma la spiegazione della conoscenza su basi naturalistiche non presuppone la capacità di individuare ciò che è conoscenza e che quindi deve essere spiegato dalla psicologia cognitiva? E quali criteri devono essere adottati per discernere tale conoscenza? Sembra proprio che parlare di conoscenza comporti il presupporre un contenuto minimale di tale nozione, che sia un grado di costituire quella piattaforma minima di partenza sulla base della quale dispiegare la potenza esplicativa delle scienze cognitive [cfr. Engel 2000, 248-9]. Qualcuno direbbe che per trattare “scientificamente” la conoscenza si deve in qualche modo possedere una “precomprensione ermeneutica” del concetto di conoscenza. Il paradosso del Menone incombe, dunque, anche sulla epistemologia naturalizzata? Di fatto sappiamo come si è tentato di rispondere a questa domanda, molto prima della stessa proposta dell’epistemologia naturalizzata. La domanda sulla conoscenza veniva aggirata semplicemente coll’assumere dei contenuti paradigmatici di conoscenza, che venivano a costituire l’esemplare per eccellenza di ogni tipo di conoscenza possibile: era la fisica (e in generale la scienza naturale) e le sue teorie e mostrarci cosa fosse la conoscenza. Ed erano i metodi da questa messa in atto a costituire a loro volta i criteri per discriminare la conoscenza da ciò che non lo è. Dunque la conclusione era naturale: l’epistemologia tradizionale deve mutarsi in filosofia della scienza per essere in grado di adempiere la propria missione. È solo nello studio dei metodi della scienza che essa può superare le aporie cui inevitabilmente è destinata nel momento in cui si pone sulla strada cartesiana e accetta la sfida dello scettico. Ma questa strada, imboccata all’inizio del secolo con la grande stagione del neopositivismo logico, sembra essere giunta ad un triste ed inaspettato tramonto. Kornblith afferma che questa tesi del rimpiazzamento ha una variante “debole”. Secondo questa, psicologia ed epistemologia non sono altro che due diverse strade per arrivare allo stesso luogo. La psicologia non rimpiazza l’epistemologia allo stesso modo di come la chimica ha sostituito l’alchimia, ma nel senso che «i processi che gli psicologi identificano come quelli mediante i quali arriviamo alle nostre credenze risulteranno essere inevitabilmente gli stessi processi che gli epistemologi identificherebbero come quelli con cui dovremmo arrivare alle nostre credenze» [Kornblith 1994, 7]. Insomma, 152
due strade diverse per lo stesso obiettivo, che possono entrare in fecondo rapporto, reciprocamente sostenersi, nella fiducia che alla fine risulterà una convergenza nei risultati. Un modo anche per garantire all’epistemologia un’autonomia, negata dai sostenitori della versione “forte”. Psicologia ed epistemologia sono campi differenti, con differenti ma egualmente legittime domande e con metodologie diverse; per cui una completa e vera psicologia del processo di acquisizione della conoscenza descriverà gli stessi processi descritti da una vera e completa epistemologia, come punto di convergenza finale, anche se possono differire nelle tappe intermedie. Il che significa che nessuna sostituzione può di fatto avvenire se non sia prima completato tale processo; tuttavia una mutua interazione è feconda, nel senso che lo psicologo può mostrare processi di acquisizione delle conoscenze che l’epistemologo non ha ancora riconosciuto, con ciò favorendone il progresso; e viceversa. Dalla loro mutua interazione ci si aspetterebbe un progresso più veloce, per cui non è raccomandabile un assorbimento immediato dell’una nell’altra [cfr. ib., 7-8]. Ma se la speranza in tale sorta di leibniziana armonia prestabilita si dimostrasse infondata? Fino a quando bisogna ragionevolmente aspettare affinché tale convergenza venga a realizzarsi? E se invece, dopo ripetuti tentativi, le due strade finiscono per divergere sempre più? La risposta a queste domande potrebbe essere trovata in una seconda forma di epistemologia naturalizzata, dalle sembianze più moderate rispetto a quella che sostiene il rimpiazzamento. Essa, infatti, «non cerca tanto di rimpiazzare l’epistemologia tradizionale, ma piuttosto di trasformarla e completarla col connetterla ai metodi ed alle indicazioni della psicologia, della biologia e delle scienze cognitive» [Almeder 1998, 5]; per tale motivo è stata anche denominata “naturalismo collaborativo” (cooperative naturalism) [cfr. Feldman 2001]. In modo alquanto moderato, Susan Haack [1993, 118] ritiene che «[…] i risultati consguiti nell’ambito delle scienze cognitive possono essere rilevanti e legittimamente usati per la risoluzione dei problemi epistemologici tradizionali». Già, ma in che misura possono? Fino a che punto l’epistemologo deve stare a sentire lo psicologo cognitivo quando questi gli racconta come effettivamente ragionano o introducono i nessi causali i pazienti da lui studiati in setting di laboratorio? Sostenere che le ricerche empiriche delle scienze cognitive sono “rilevanti” per lo studio 153
della conoscenza è un ovvio truismo che nulla significa se non si precisa il nesso che esiste tra la loro potenza descrittiva e la funzione normativa che esse dovrebbero assumere. Se quest’ultima viene riservata sempre e comunque all’epistemologia, che per A. Goldman [1986] non abbandona i suoi elementi normativi, e al tempo stesso si sostiene che essa è naturalizzata nel senso che sono gli esperti di scienze naturali (biologi e psicologi) ad avere l’ultima parola nel giudicare se veramente conosciamo ciò che diciamo di conoscere, allora ne viene che solo questi ultimi sono legittimati a giudicare i concetti epistemici elaborati autonomamente dagli epistemologi; e la normatività dell’espistemologia sarebbe soltanto l’effetto di un rimbalzo teorico dal solido terreno dell’esperienza, dal fatto di laboratorio, da ciò che gli scienziati ci forniscono come materiale finito delle loro ricerche. Certo, resterebbe all’epistemologia il compito di fornire l’analisi concettuale dei concetti epistemici di base, mentre sarebbe compito degli scienziati naturali determinare quando e se ciò a cui si crede è vera conoscenza, essendo questa una questione puramente empirica cui devono rispondere gli psicologi, i neurobiologi e gli scienziati cognitivi. Non vi sono questioni filosofiche specifiche sulla conoscenza di cui debba occuparsi l’epistemologia e che possono pretendere una autonomia: la risposta alla domanda sulla conoscenza consiste nell’esibire il meccanismo che sta alla base del processo di costituzione delle credenze, che ne è la causa, e che viene in genere individuato nell’attività percettiva, nella memoria, nell’introspezione o in altri processi neurobiologici, la cui affidabilità è consegnata nelle mani di coloro che studiano questi fenomeni, cioè psicologi e scienziati cognitivi. La affidabilità (reliability) della conoscenza6 – che così viene a sostituire la pretesa della sua giustificazione – è ciò dei cui si va in cerca, ma la sua certificazione di autenticità può essere fornita solo dagli scienziati [cfr. Almeder 1998, 77-81]. Come spiega Engel [2000, 262], 6
L’idea di base dell’affidabilismo è stata proposta da F.P. Ramsey già negli anni ’20 (vedi “Conoscenza” del 1929, in Ramsey [1964, 274-5] ed è ora la tesi argomentata con più convinzione da Alvin Goldman [1986] e Fred Dretske [1986]. William Alston [1989] mantiene una posizione più tradizionalmente epistemologica col ritenere che è il soggetto a riflettere sulla natura e le circostanze che stanno all’origine delle credenze e a fornire i criteri per la loro affidabilità.
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Il programma affidabilista permette dunque, apparentemente, di soddisfare i requisiti che sembrano mancare nella versione “eliminativista” dell’epistemologia naturalizzata. Invece di rifiutare, come faceva Quine, l’idea stessa di giustificazione come nozione normativa, pretende di spiegare questa stessa nozione, ma esprimendola in termini puramente descrittivi e causali. Il programma psicologista si trova in questo modo convalidato, giacché spetta alla psicologia determinare quali sono, fra le nostre capacità cognitive normali, quelle che producono abitualmente credenze vere e affidabili. Spetta alla psicologia determinare quali sono i processi sensoriali e inferenziali di formazione delle credenze che, nel loro funzionamento normale, conducono a massimizzare le nostre credenze vere.
Se deve essere la psicologia a determinare quali siano i processi inferenziali e sensoriali che producono “normalmente” credenze vere e se questo avviene in base ad una ricognizione fattuale, non si vede donde poi possa scaturire la normatività che si vuole mantenere alla giustificazione, tenendo saldo il principio per cui da un fatto non si può trarre una norma; a meno di non effettuare una inferenza illecita, del tipo: “se è così, allora deve essere così”. Altrimenti – e ciò in effetti fa rilevare Engel – si deve ammettere che già tali nozioni descrittive e naturalistiche contengono degli elementi irriducibilmente normativi [ib., 265-9]. In ogni caso l’epistemologia è, per per queste forme indebolite ed urbanizzate di epistemologia naturalizzata, un albero che cresce nel giardino della scienza e non in quello della filosofia. Ma se le cose stanno così, l’epistemologo gode solo di una libertà vigilata ed il suo raggio di azione è saldamente incatenato ai ceppi della scienza naturale; a voler esser generosi, gli si può riconoscere solo una funzione euristica, simile a quella attribuita da Popper alla metafisica: può stimolare lo scienziato (lo psicologo, il neurofisiologo ecc.) con le sue divertenti escogitazioni, può alleviargli la fatica della ricerca con interessanti giri turistici in territori abitati da strani personaggi, può renderlo tonico e scattante, con la mente pronta alla seriosa ed impegnativa ricerca di laboratorio. Ma quando il gioco si fa duro, sono i duri a scendere in campo: la scienza naturale si riprende le sue prerogative, strattona la catena che aveva legato al piede dell’epistemologo e lo riporta quietamente all’ovile. Solo essa è legittimata a dire l’ultima parola su come l’uomo conosce. Almeder sostiene una terza forma di epistemologia naturalizzata, consistente semplicemente nella tesi che, pur esistendo 155
alcune legittime domande sulla conoscenza umana e sul mondo cui si può rispondere senza far appello alle scienze naturali, tuttavia i metodi delle scienze naturali, per la maggior parte se non per tutte le questioni sulla natura del mondo fisico e sulle cause delle regolarità osservabili e delle proprietà osservate, sono privilegiati in quanto ci forniscono la sola affidabile ed esplicita metodologia per produrre efficentemente una pubblica comprensione e una pubblica conoscenza di tali fenomeni [Almeder 1998, 143];
e aggiunge che questa forma è del tutto compatibile con l’epistemologia tradizionale, in quanto non cerca né di rimpiazzarla, né di trasformarla, e appunto per ciò la chiama “naturalismo innocuo” (harmless naturalism), adottandola come proprio punto di vista. Senza entrare nel merito della posizione di Almeder, di per sé ben argomentata [cfr. ib., 143-83)], facciamo solo osservare che mai l’epistemologia, anche quella più fondamentalista e tradizionale, s’è sognata di competere con la scienza nella conoscenza del mondo fisico, ma semmai si è posta il problema di esplicitare o fornire i criteri di legittimità di questa conoscenza. Il fatto di riconoscere la possibilità di spiegazioni filosofiche ben fondate, che siano fonte di conoscenza fattuale sul mondo e che non applicano il metodo delle scienze naturali [cfr. ib, 161-4], non basta a caratterizzare una epistemologia naturalizzata, anche se harmless. Inoltre – facciamo osservare en passant – il ricorso alla controllabilità empirica implicita come criterio di accettazione delle spiegazioni filosofiche – in contrasto con quella esplicita ritenuta propria delle scienze naturali [cfr. ib., 165 ss] – farebbe sorridere anche il più truculento del neopositivisti, il quale non avrebbe nessuna esitazione a ritenerla del tutto adeguata persino per le scienze naturali, con ciò facendo svaporare nel nulla la supposta differenza sostenuta da Almeder (basterebbe rileggere i saggi di Schlick [1936] sulla verificabilità o anche il troppo bistrattato Linguaggio, verità e logica di Ayer [1936]). Né ci sembra una posizione naturalistica originale quella di W. Lycan, che sostiene l’insussistenza di una via squisitamente filosofica alla conoscenza (ad es., per mezzo dell’applicazione del metodo deduttivo, di contro a quello empirico della scienza) per poi arrivare alla conclusione che «il metodo propriamente filosofico per acquisire della nuova interessante conoscenza non può differire dal metodo propriamente scientifico» [Lycan 1988, 118]; come sappiamo è proprio questo il progetto ori156
ginario di Russell, poi fatto proprio dalla filosofia scientifica e dal neopositivismo, per cui non si vede in che modo questo naturalismo proposto da Lycan possa rappresentare qualcosa di nuovo rispetto a quanto già si sa e si è visto. In sostanza, dunque, l’unica epistemologia naturalizzata che debba essere seriamente presa in considerazione è quella forte, proposta per primo da W.v.O. Quine e successivamente difesa da Ronald N. Giere, da Patricia e Paul Churchland: non si tratta di sostenere mediante argomentazioni l’impossibilità della tradizionale epistemologia e quindi di giustificare in qualche modo la plausibilità di quella naturalizzata, in quanto così facendo si resterebbe all’interno del paradigma giustificazionista e si continuerebbe ad arare il terreno epistemologico. Piuttosto, come afferma Giere, l’atteggiamento dell’epistemologo naturalista deve essere analogo a quello dei fisici del diciassettesimo secolo, che non ebbero partita vinta sulla scienza scolastica perché ne rifiutarono esplicitamente gli argomenti, ma per il semplice fatto che i successi empirici della nuova scienza resero irrilevanti gli argomenti scolastici. Ne segue che lo scopo del filosofo della scienza non può che consistere, oggi, nell’impiego dei concetti e dei metodi delle recenti scienze cognitive per studiare la scienza stessa, abbandonando il tradizionale strumentario filosofico ed epistemologico [cfr Giere 1988, 9, 13]. La questione fondamentale è, soggiunge Patricia Churchland [1987, 546]: «come funziona il cervello?»; ed a questa domanda si può rispondere solo coltivando le neuroscienze: sarà il loro successo, sostengono i Churchland, a pronunciare la sentenza di morte dell’epistemologia intesa come “prima filosofia”, che così svanirà come inevitabile conseguenza della sostituzione della psicologia popolare con quella che sta emergendo nel campo delle scienze cognitive [cfr. Patricia Churchland 1986; Paul Churchland 1981; 1986]. Sulla stessa linea anche W. Bechtel e A. Abrahamson [1990], che forniscono un interessante argomento per far vedere come le tradizionali questioni epistemologiche possono essere liquidate grazie al progresso delle scienze cognitive. Sono invece critici verso la possibilità di eliminare la psicologia popolare, secondo le linee proposte dai Churchland, R. McCauley [1988, 1479] e Horgan & Woodard [1985]; anche Almeder [1998, 313] non condivide le posizioni di Giere, ribadendo quella critica, da noi prima ritenuta fuori bersaglio, in quanto consiste nel sostenere che questi non fornisce “argomenti” in favore 157
dell’epistemologia naturalizzata, ma solo una ottimistica previsione circa il successo delle scienze cognitive.
2.3. L’epistemologia evoluzionistica e Konrad Lorenz L’epistemologia naturalizzata, come abbiamo visto, finisce spesso per convergere verso un esito di tipo evoluzionistico; con quest’ultimo ha infatti in comune un identico approccio descrittivistico alla conoscenza, tranne per il fatto di assumere quale meccanismo di spiegazione della formazione e crescita della conoscenza umana un processo di selezione naturale che si ispira alla teoria darwiniana. Le sue ambizioni sono elevate: nel porsi come una grande sintesi di tutta una serie di acquisizioni biologiche e psicologiche, essa si propone – sia pur cautamente – come una sorta di nuovo paradigma della conoscenza [cfr. Wuketis 1984, 26], che «permette di riposizionare nella cornice di uno “stile evoluzionista di pensiero”, inteso come un “programma aperto”, molti dei problemi gnoseologici che nei sistemi filosofici tradizionali sono rimasti contraddittori e insoluti» [Vasta 2007, 13]. Grazie all’apporto di discipline come la biologia evoluzionistica, la neurobiologia, la psicologia dello sviluppo, l’etologia essa ambisce a ridefinire il senso di una conoscenza oggettiva che non scaturisca dall’analisi dei concetti, ma dallo studio scientifico e reale dell’organo che la produce e della realtà esterna con la quale esso interagisce. Sarebbe tuttavia un errore pensare che l’epistemologia evolutiva nasca come una costola di Adamo da quella naturalizzata. In effetti essa ha una sua autonoma storia ed una tradizione di ricerca che risale già alla fine del secolo precedente. Tra i suoi precursori sono stati indicati, infatti, J. Baldwin, L. Boltzmann, E. Mach, H. Poincaré, G. Simmel, W. Whewell, T.H. Huxley, H. Spencer, C.S. Peirce e J. Dewey.7 Ma secon7
Cfr. Hahlweg & Hooker [1989]. Per i filosofi e scienziati citati, che possiamo chiamare i padri fondatori dell’epistemologia evoluzionistica, vedi quanto contenuto nell’opera di Richards [1987], che è una storia delle teorie evoluzionistiche della mente e del comportamento dalla loro apparizione nel XVIII sec. al loro stato controverso nel presente, focalizzandosi maggiormente sul XIX sec. 8 Punto di accesso privilegiato per la conoscenza di questa tendenza è la rivi-
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do alcuni, indicazioni in tal senso sono anche rinvenibili in tutti coloro che hanno ritenuto la biologia rilevante per la soluzione dei problemi della filosofia, tra i quali lo stesso Darwin e i sostenitori della cosiddetta “biologia della conoscenza”, appartenenti per lo più alla scuola neokantiana (come W. Windelband, O. Kulpe, R. Eisler, W. Jerusalem, A. Riehl, H. Höffding, O. Schwabe, K. Ossterreich, L. Stein, P. Volkman, G.H. Lewes, H.R. Marshall e T. Ziehen), scuola che tuttavia perse ogni influenza ed incidenza già alla fine del primo conflitto mondiale. Ciò dimostrerebbe che già al volgere del secolo esisteva una ben consolidata branca dell’epistemologia, punto di convergenza tra filosofi e biologi, che si poneva le medesime domande che oggi si pone quella evoluzionistica, anche se sul fondamento della sola teoria darwiniana [cfr. Danailov & Tögel 1990, 19-21]. È tuttavia solo nel secondo dopoguerra che, sulla base della nuova formulazione delle concezioni di Darwin elaborata nel corso degli anni ’30-40 dalla Teoria sintetica dell’evoluzione (la cosiddetta “nuova sintesi”, i cui principali protagonisti sono stati il genetista Theodosius Dobzhansky, lo zoologo e sistematico Ernst Mayr, l’embriologo Julian S. Huxley e il paleontologo George G. Simpson) [cfr. Fantini 2000, 890-6], si sviluppa una nuova stagione dell’epistemologia evoluzionistica. Questa, secondo una ormai accredidata tradizione storiografica, si svolge lungo due linee investigative diverse, anche se strettamente correlate, in quanto entrambe basate su concetti darwiniani. La prima ha carattere prevalentemente biologico (si parla in questo caso di bioepistemologia) e si pone come obiettivo lo studio della evoluzione dell’apparato cognitivo degli organismi viventi; essa quindi mira a studiare il substrato biologico della conoscenza in generale, intesa come fenomeno naturale tipico degli animali e degli uomini; studia quindi il cervello, i sistemi sensori, le capacità di orientamento spaziali e temporali, ecc. Coltivata prevalentemente da biologi e psicologi, con scarsa partecipazione dei filosofi, tale linea focalizza la propria attenzione sullo studio dell’evoluzione dei meccanismi epistemologici (Evolution of Epistemological Mechanisms, EEM). La seconda linea investigativa (la cosiddetta Evolutionary Epistemology of Theories, EET), invece, si interessa allo studio del-
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l’evoluzione delle idee, delle teorie scientifiche, delle norme epistemologiche e della cultura in generale e quindi concerne un fenomeno squisitamente culturale e umano, affrontato facendo uso dei concetti della biologia evoluzionistica; esso è stato finora prevalentemente coltivato dagli epistemologi orientati in senso naturalistico che hanno adottato come teoria scientifica di riferimento quella darwiniana [cfr. Bradie & Harms 2008; Giere 2000]. Ad introdurre la prima linea di ricerca è stato, per unanime riconoscimento, l’etologo Konrad Lorenz: egli viene considerato il fondatore dell’approccio alla conoscenza biologicamente orientato del gruppo austro-tedesco, che può essere definito col nome di “bioepistemologia” e che si occupa della evoluzione delle strutture e dei processi della cognizione (percezione e concettualizzazione) [cfr. Hahlweg & Hooker 1989, 26]. Tale approccio viene sviluppato dal cosiddetto “circolo di Altenberg”, i cui principali esponenti sono Rupert Riedl, Erhart Oeser, Gerhard Vollmer, Franz M. Wuketits e numerosi altri studiosi di biologia e filosofia non tedeschi, come ad es. Michael Ruse e Nicholas Rescher.8 La seconda linea di ricerca viene invece iniziata da studiosi più filosoficamente orientati, come il già citato Donald T. Campbell, Stephen Toulmin e Karl Popper (nella seconda fase del suo pensiero), con numerosi filosofi della scienza ed epistemologi che ne riprendono le tesi (tra questi menzioniamo W.W. Bartley III, W. Callebaut, R. Pixten, K. Hahlweg, D. Hull, ecc.). Le concezioni epistemologiche evoluzionistiche di Lorenz hanno avuto il suo punto di origine già negli anni ’40, con il seminale saggio sul concetto di a priori in Kant [cfr. Lorenz 1941; ma vedi anche 1987] (scritto quando occupava a Königsberg la stessa cattedra del pensatore tedesco), rimasto praticamente senza seguito. Solo nel 1973 Lorenz pubblica la sua opera epistemologica principale, Die Rückseite des Spiegels [cfr. Lorenz 1973] stimolato ed incoraggiato particolarmente dal saggio di Campbell [1974] letto in bozze nel 1966; l’assegnazione del premio Nobel fece diventare questo libro un best seller, assicurando notorietà a tesi prima neglette [cfr. Danailov & Tögel 1990, 23-4]. In quest’opera Lorenz non manca di riconoscere più volte il suo debito verso Campbell, affermando tra l’altro che non solo concorda con la sua tesi circa la possibilità di estendere il meccanismo selettivo all’apprendimento, al pensiero ed alla scienza, ma addirittura si propone di spin160
gere a fondo il confronto tra i meccanismi utilizzati dai diversi sistemi viventi per ottenere ed immagazzinare l’informazione, ivi compresa la conoscenza acquisita dalle scienze naturali [cfr. Lorenz 1973, 55-6; ma vedi anche i riconoscimenti in 1986, 8-9]. A sua volta Popper [1974, 1059], rispondendo al saggio di Campbell, sottolinea il «quasi completo accordo, sino ai più minuti dettagli» tra le loro concezioni e intesse un dialogo assai simpatetico con Lorenz, dovuto alla convergenza delle loro concezioni, già del resto rilevata numerose volte da quest’ultimo nel suo libro (e testimoniata significativamente nel “colloquio al caminetto” tenuto nel 1983 a casa di Lorenz, ad Altenberg, ora in Lorenz & Popper [1985]). La riflessione di Lorenz costituisce il punto di riferimento comune a tutti gli epistemologi evoluzionisti, che condividono l’esigenza di una scienza «che persegua una comprensione naturalistica dell’uomo e delle sue prestazioni conoscitive», e analizzi queste «alla stessa stregua di altre capacità dell’uomo, sviluppatesi nel corso della filogenesi, la cui funzione è quella di assicurare la conservazione della specie» [Lorenz 1973, 21]. Questo obiettivo rientra nel compito più vasto, da lui maturato progressivamente, di analizzare la cultura e lo spirito umano «secondo il metodo e la problematica delle scienze naturali» [ib., 44]. Tale compito, riferito al campo epistemologico, si concreta nell’idea di formulare una gnoseologia fondata sulla conoscenza dei meccanismi biologici e filogenetici dell’uomo e, contemporaneamente, di delineare un’immagine dell’uomo corrispondente appunto a tale gnoseologia. Ciò implica il tentativo di fare dello spirito umano un oggetto di osservazione scientifica. [Ib., 21].
La capacità di conoscere dell’uomo e di ogni altro essere vivente è per il naturalista il frutto dell’evoluzione e della necessità dell’organismo di adattarsi al mondo: ogni adattamento a un dato fatto della realtà esterna indica che una certa quantità di “informazioni su” è stata acquisita dal sistema organico. La vita stessa è di per sé un processo conoscitivo [cfr. ib., 287-8]: quando, con una mutazione, un organismo è in grado di sfruttare il suo ambiente meglio dei progenitori, ciò significa che esso “corrisponde” meglio a certi dati dell’ambiente. Per cui mediante l’adattamento si determina un rapporto di “corrispondenza”: «quello che il sistema vivente impara in questo modo sulla realtà esteriore, ciò che in questo modo gli viene “impresso” o “inculcato” è l’informazione sui dati corrispon161
denti del mondo esteriore» [1973, 42]: le pinne e il modo in cui i pesci si muovono riproducono le caratteristiche idrodinamiche dell’acqua, che a questa sono proprie indipendentemente dall’esistenza dei pesci e delle pinne. Analogamente, il comportamento degli uomini e degli animali, proprio per il fatto di essersi adattati all’ambiente circostante, è un’immagine di esso. L’organizzazione degli organi di senso e del sistema nervoso centrale mette in condizioni gli esseri viventi di ottenere determinati dati, per essi rilevanti, dell’ambiente circostante, e quindi di rispondere ad essi in modo funzionale per la propria sopravvivenza. [Ib., 25].
Sicché, «tutto ciò che ci viene segnalato dal nostro apparato conoscitivo corrispond[e] a dati di fatto reali del mondo extrasoggettivo» [ib., 26]. Come si vede chiaramente, l’opzione che Lorenz effettua è a favore di un approccio realistico alla conoscenza che chiama, esplicitamente ispirandosi a Campbell, “realismo ipotetico”: «[…] tutto il mio modo di analizzare le funzioni conoscitive e, più in generale, tutti i processi vitali, si fonda su un atteggiamento gnoseologico che, seguendo Donald Campbell, ho denominato realismo ipotetico» [ib., 397]. Questo viene inteso in senso polemico verso una visione puramente soggettivistica della conoscenza, in quanto per Lorenz la capacità dell’uomo di tener conto dei propri stati soggettivi e quindi di far astrazione da essi nel processo conoscitivo è alla base della capacità di conoscere la realtà oggettiva, che è appunto costruita grazie all’astrazione da tutto ciò che è casuale e “soggettivo”. La costanza con cui certi influssi interiori si manifestano e la loro ininfluenzabilità da parte di tutto ciò che è soggettivo, «ci autorizza a considerare questi gruppi di fenomeni come ripercussioni di dati di fatto reali esistenti indipendentemente dal loro essere conosciuti […]» [ib., 20]. Perciò Lorenz chiama “oggettivare” questa attività astraente, e “oggettivazione” l’atto cognitivo che ne discende: Come l’uomo […] tiene conto della temperatura della mano riducendo così la percezione “soggettiva” di un “bruciore da febbre” a una misura più “oggettiva”, così anche la percezione “costantizzante” del colore della cosa prescinde dal tipo di illuminazione momentanea, per giungere ad accertare una caratteristica riflessiva propria dell’oggetto. Questi processi percettivi completamente inaccessibili alla nostra autosservazione somigliano a quelli coscienti dell’astrazione e dell’oggettivazione anche perché, proprio come questi, ci permettono di individuare come “cose” o oggetti deter-
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minati elementi del mondo circostante. L’adattamento di parecchi meccanismi fisiologici a questa unica prestazione contribuisce a rafforzarci nella nostra convinzione della realtà del mondo esteriore. Io non capisco come si possa dubitare che, dietro a tali fenomeni, che ci vengono segnalati concordamente da tanti apparati diversi, i quali lavorano in modo indipendente, e da testimoni indipendenti degni di affidamento, si nascondano effettivamente le medesime realtà extrasoggettive! [Ib., 33].
Tuttavia Lorenz intesse un importante dialogo con il pensiero kantiano, che si protasse lungo tutta la sua carriera ed ebbe un fondamentale punto di approdo nell’opera del 1973, Die Rückseite des Spiegels, ma anche altre significative, anche se minori, espressioni in altri articoli e saggi (alcuni dei quali contenuti in Lorenz [2007]). Kant forniva a Lorenz «il banco di collaudo per le sue ricerche: si mise a cercare (e trovò) in Kant ciò che si aspettava fosse utile a riconciliare, ancora una volta, le radici profonde della epistemologia (teoria della conoscenza), con le fronde copiose dell’evoluzionismo darwiniano» [Vasta 2005, 186]. Infatti, grazie ai processi filogenetici (cioè all’insieme delle trasformazioni subite dalle specie animali o vegetali nel corso della loro evoluzione, sino a giungere alla loro condizione attuale) si è venuto a strutturare quell’“apparato immagine del mondo”, frutto del nostro successo nell’adattamento all’ambiente, che costituisce il patrimonio informativo del singolo individuo, a sua disposizione quale eredità fornitagli dell’evoluzione della sua specie: è esso a permettergli di acquisire i dati fondamentali che stanno alla base della sua conoscenza del reale e di sopravvivere in esso: Sappiamo che ogni adattamento è un processo cognitivo; sappiamo che questo apparato, che ci viene dato a priori, e ci rende possibile un’acquisizione individuale di esperienza, presuppone già una quantità enorme di informazioni acquisite nel corso dell’evoluzione filogenetica e immagazzinate nel genoma. [Ib., 175]
Esso costituisce quell’«altra faccia dello specchio» non vista né dagli idealisti, né dai realisti, rispettivamente incantati o dall’immagine in esso riflessa o dal reale che in esso si riflette, incapaci entrambi di scorgere che «lo specchio ha un rovescio, una faccia non riflettente, che lo pone sullo stesso piano degli elementi reali che esso riflette: l’apparato fisiologico, la cui prestazione consiste nel conoscere il mondo reale, non è meno reale di quel mondo stesso» [ib., 46]. Onde la convinzione che sia necessario concepire la gnoseologia come «scienza degli ap163
parati» [ib., 44]. Il fatto che ogni specie abbia il suo proprio apparato, diverso da quello di un’altra specie – per cui gli uomini “vedono” il mondo diversamente da come fa un’ape –, non significa che non vi sia il comune riferimento ad una realtà oggettiva che presenta le stesse caratteristiche per ogni vivente: fintanto che gli apparati ci inviano messaggi che si riferiscono allo stesso elemento del mondo circostante, essi non si contraddicono mai, anzi si «illuminano reciprocamente», in base al cosiddetto «principio di delucidazione reciproca» [ib., 34-7]. Lo studio del mondo dei diversi animali – come già aveva fatto Jakob von Uexküll [1934] – non lo portava ad «accettare una molteplicità di mondi singoli monadistici»: Sebbene mi fosse chiaro che un riccio, un’oca domestica docile o altri esseri viventi, compreso me stesso, vivessero nella stessa situazione del mondo esterno delle cose completamente diverse, non ho mai dubitato che sia lo stesso mondo esterno reale a rispecchiarsi in tutte queste forme del vivere. […] Lungi dall’arrivare ad accettare la monadologia di Uexküll, causa la molteplicita degli ambienti animali, presto mi sembrò piú comprensibile che certe programmazioni, che per un essere vivente rendono possibili certe soluzioni di un problema, fossero semplicemente assenti in altri. Ho ben notato che un coleottero possiede molti piú informazioni sul suo ambiente di un animale pantofolaio, un’oca domestica piú di un coleottero ed io stesso incomparabilmente piú di tutti gli animali “inferiori” a me; era evidente che si trattava dello stesso mondo al quale si riferivano tutte queste informazioni. [Lorenz 1987, 174-6]
All’inizio – nel suo saggio su Kant del 1941 – Lorenz aveva avanzato l’ipotesi che questi “apparati immagine del mondo” potessero essere del tutto assimilati all’a priori kantiano, quasi fossero una sorta di “occhiali” coi quali vediamo il mondo. Successivamente si convinse della differenza tra la propria posizione e quella di Kant, in quanto per questi «l’esperienza vissuta non è […] un’immagine, per quanto semplificata e deformata, della realtà» [ib., 29]; ovvero, l’immagine del mondo che l’a priori kantiano ci fornisce non corrisponde ad alcuna caratteristica reale del mondo, ma è del tutto “costruita”, mentre invece per Lorenz gli “apparati immagine del mondo” non ci danno una visione distorta della realtà, come sostengono gli idealisti trascendentali, ma una immagine reale, anche se grossolanamente semplificata secondo criteri utilitaristici (avendo sviluppato “organi” solo per quegli aspetti dell’esistente fondamentali per la conservazione della specie). Quel poco che ci 164
viene fornito dai nostri organi nervosi e di senso è stato sperimentato per epoche intere e possiamo fare affidamento su di esso, entro i suoi limiti. È del tutto ovvio che l’esistente abbia innumerevoli altre facce, che però per noi […] non sono di importanza vitale. Non abbiamo nessun “organo” per coglierle, proprio perché durante la filogenesi non siamo stati costretti a sviluppare particolari forme di adattamento nei loro confronti. [1973, 27]
Tuttavia l’organizzazione degli organi di senso e dei nervi, ereditata filogeneticamente, costituisce un a priori che permette agli esseri viventi di orientarsi nel mondo:9 si tratta di “istruttori innati”, responsabili dei meccanismi di apprendimento e fanno parte di quella “esperienza possibile” corrispondente alla definizione kantiana dell’a priori: «gli istruttori innati sono qualcosa di preesistente a ogni apprendimento e la cui esistenza è necessaria per rendere possibile l’apprendimento stesso» [ib., 159]. Tali “istruttori” sono un a priori per l’individuo, in quanto anteriori ad ogni sua esperienza e necessari affinché questa sia possibile, non certo per la specie umana, per la quale sono a posteriori (in quanto costituitisi nel corso del suo processo evolutivo) ed inoltre storicamente determinati e non universali (il paramecio se la cava benissimo con la visione unidimensionale dello spazio) [ib., 30-1]. L’a priori è dunque tale solo dal punto di vista dell’ontogenesi (che indica l’insieme delle modifiche che l’individuo subisce dalla nascita sino all’età adulta), e non della filogenesi. È così ripresa e rifondata su basi biologiche una vecchia idea di Spencer (e non sappiamo sino a che punto in modo consapevole, in quanto le conoscenze filosofiche di Lorenz erano alquanto limitate, così come egli stesso riconobbe quando dichiarò che esse sono da definire come “ignorantia alba assoluta” [1987, 176]), per non men9
«[…] i meccanismi che, immunizzati contro ogni mutamento, ci permettono, sulla base di messaggi sensoriali presenti, di dare “giudizi” immediati sul mondo circostante, costituiscono la base di ogni esperienza! La loro funzione è precedente a ogni esperienza ed è addirittura indispensabile perché si possa avere un’esperienza del genere. Da questo punto di vista essi corrispondono perfettamente alla definizione che Immanuel Kant ha dato dell’a priori» [Lorenz 1973, 58]. Questi meccanismi e processi di acquisizione dell’informazione “a breve termine” sono esposti in [ib., 86-117]. Si capisce pertanto la polemica di Lorenz contro l’idea di tabula rasa dell’empirismo [cfr. ib., 122, 173-7).
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zionare gli almeno ventidue filosofi, diciotto biologi, fisici e psicologi da Darwin in poi i quali hanno ostenuto l’idea che l’a priori fosse il frutto di una evoluzione biologica [cfr. Campbell 1974]. Su questa base non solo Lorenz ritiene di rigettare nettamente l’idealismo – vero e proprio «impedimento della ricerca scientifica» – che mette in dubbio l’esistenza di una realtà extrasoggettiva, indipendente dal soggetto [1973, 38-46], ma pensa anche di rispondere allo scetticismo circa la possibilità di conoscere oggettivamente le proprietà del reale. Nel primo caso, è lo stesso meccanismo dell’adattamento all’ambiente a giustificare l’esistenza di un mondo esterno, senza il quale non avrebbe senso parlare di evoluzione, di selezione ecc. Insomma una tesi metafisica viene rigettata sulla base di una teoria scientifica: è l’accettazione della teoria evoluzionistica ad escludere la possibilità di ammettere la tesi metafisica dell’idealismo. Come si vede, siamo in pieno naturalismo, in quanto persino la decisione su tradizionali questioni filosofiche (idealismo vs realismo) – e non solo epistemologiche – è demandata non alla discussione filosofica, non alla astratta razionalità umana, che fa perno solo su se stessa, bensì a quella ragione applicata rappresentata dalla scienza, ed in questo caso da una particolare teoria scientifica, che viene assunta come valida non su basi filosofiche, ma grazie alle procedure di controllo e verifica messe in atto dalla scienza stessa, intese come autogiustificanti. È quanto esprime con chiarezza il biologo Rupert Riedl: non solo la ricerca sul fenomeno della conoscenza viene sottratta all’analisi filosofica e sciolta dal vincolo che la legava alla ragione razionale, per divenire «un oggetto dell’evoluzione stessa» [Riedl 1980, 7], ma la “biologia della conoscenza” su basi evoluzionistiche è in grado persino di risolvere i tradizionali “enigmi” della ragione, quali il problema della realtà, del ragionamento induttivo, della causalità, dello spazio e del tempo [cfr. ib., 15]. Nel secondo caso, la congruenza interspecifica dei diversi “apparati immagine del mondo” attesta l’oggettività di certe proprietà: il fatto che la porta chiusa impedisca sia all’uomo che al gatto o alla mosca di passare nell’altra stanza – nonostante ciascuno di essi abbia apparati diversi che fanno vedere la porta con proprietà (colori, dimensioni, ecc.) differenti – testimonia l’esistenza di un ostacolo al movimento che è una proprietà oggettiva del reale, indipendentemente dai loro appa166
rati. È, in sostanza, un rimodulazione del consensum gentium, già proposto anticamente per superare il dubbio scettico, che ora è reinterpretato in criterio interspecifico, come consenso delle specie, e motivato filogeneticamente in base alla necessità per ognuna di esse di adattarsi all’ambiente per poter sopravvivere. Il discorso di Lorenz si estende anche alla considerazione della cultura in generale, in una reciproca integrazione di caratteri provenienti dalla filogenesi della specie e di acquisizioni che appartengono più propriamente alla “ominazione”, cioè all’uomo in quanto creatore e portatore di cultura. Infatti, agli “apparati immagine del mondo” che portiamo in noi sin dalla nascita si aggiunge, con la cultura e la sua trasmissione, una «sovrastruttura spirituale, culturale che, similmente alle strutture dei processi cognitivi innati, ci fornisce le ipotesi di lavoro determinanti per la nostra ulteriore individuale acquisizione del sapere» [Lorenz 1973, 292]. Il sapere complessivo che determina questo apparato immagine del mondo, diversamente da quello accumulato nelle strutture viventi preumane, non è costituito da materia vivente, ma è scritto, cioè consegnato in documenti di diversa natura (dai libri alle registrazioni vocali). Di tale apparato spesso l’uomo moderno è poco consapevole, in quanto esso è diventato per lui una “seconda natura”; ciascun individuo ha accumulato una enorme quantità di informazioni nel proprio sistema nervoso centrale, che viene a formare una tradizione continuamente ritrasmessa. Essa costituisce un presupposto indispensabile per poter pervenire ad una conoscenza oggettiva di questo mondo e così raggiungere un piano più elevato da cui osservare le cultura e la vita spirituale, che formano «il sistema vivente più altamente integrato del nostro pianeta» [ib., 294]. Tuttavia non bisogna credere che l’evoluzione culturale costituisca uno stacco netto dagli eventi precedenti della filogenesi, e cioè che l’ominazione sia uno stadio che non porti con sé nulla della fase anteriore, ritenuta qualcosa di “inferiore”, di “basso” [cfr. ib., 299-300]. Sarebbe un errore analogo a quello di chi pensa di spiegare tutte le funzioni degli organismi superiori riducendole a quelle degli inferiori, precedenti nell’albero evolutivo [cfr. ib., 71-3, 85]. In effetti né dobbiamo pensare che l’evoluzione filogenetica della nostra specie abbia avuto fine, né ignorare che in effetti sono state le modificazioni del cervello umano a rendere possibile l’accumulazione del sapere ed il formarsi di una tradizione culturale: 167
l’evoluzione dell’uomo viene determinata da due ordini di processi diversi, i cui tempi sono effettivamente discordanti, ma che stanno fra loro in uno strettissimo rapporto di interazione: la lenta evoluzione filogenetica e la molto più rapida evoluzione culturale. [Ib., 300]
Diventa compito importante dell’etologia comparata quello di distinguere nella cultura umana i tratti che derivano direttamente dalla programmazione filogenetica e quelli specificamente culturali, in quanto, ad es., la sfera emozionale contiene un elevato numero di elementi ereditati filogeneticamente (come ad es. gli schemi motori dell’espressione). In tutti gli uomini di tutte le civiltà sono innate certe strutture del pensiero che stanno a fondamento della costruzione logica del linguaggio (come dimostrato da Chomsky e Lenneberg) [cfr. ib., 302-3], sicché il pensare deve essere inteso come l’attivazione di qualcosa di già esistente filogeneticamente. Per cui, sia le forme espressive universalmente umane (studiate da EiblEibesfeldt) sia le strutture innate del pensiero e del linguaggio «non sono che due esempi di modelli comportamentali che sono stati programmati dalla specie umana nel corso della filogenesi e sono conservati nel genoma» [ib., 313]. Ne consegue che «le norme innate del comportamento umano svolgono molto probabilmente un ruolo di particolare importanza nella struttura della società umana» [ib., 314]. Tali “programmi” iscritti nel genoma mostrano una certa resistenza nei confronti degli impulsi modificatori provenienti dalla cultura ed assolvono una indispensabile “funzione di supporto”, in quanto sono lo “scheletro”, l’impalcatura, del nostro comportamento sociale e culturale, determinando la forma della società umana. Sarebbe pertanto importante individuare lo “etogramma” della specie umana, cioè «l’inventario dei moduli comportamentali filogeneticamente programmati», rigettando la resistenza della filosofia antropologica, che ha sinora ostinatamente rifiutato di «prendere in considerazione anche solo la possibilità dell’esistenza di strutture comportamentali innate nell’uomo» [ib., 313-6]. È su questa base che Lorenz può sostenere anche l’esistenza di “ampie analogie” tra l’evoluzione delle culture e quella delle specie [cfr. ib., 316-23]. In questa riproposta lorenziana della biologia come soluzione dei problemi della filosofia, e come via per la comprensione della cultura umana e della sua evoluzione, confluiscono 168
molteplici filoni teorici che ricevono una nuova riformulazione in riferimento alle questioni metodologiche più attuali che vengono a innestarsi nel corpo vivo dei più recenti dibattiti sulla natura della conoscenza e della teorizzazione scientifica. Viene così aperto un itinerario che sarà percorso sia dai biologi e dagli studiosi di scienze naturali della scuola austro-tedesca, sia da epistemologi e filosofi della scienza. In una versione più aderente all’impostazione evoluzionistica e dalla più accentuata connotazione materialista si ritiene che la crescita della conoscenza avvenga secondo il meccanismo delle variazioni causali e della conservazione dei cambiamenti più adatti alla sopravvivenza. Tale processo è governato da leggi biologiche che stanno alla base di quei meccanismi psicologici innati che guidano all’acquisizione di conoscenze di per sé non innate. Tale impostazione, difesa da M. Ruse [1986], finisce per sfociare in posizioni simili alla sociobiologia. In una versione più “liberale”, elaborata da D. Campbell [1974] e dall’ultimo Popper [1975], lo sviluppo della conoscenza umana viene visto come governato da un processo che è solo “analogo” a quello della selezione biologica naturale, nel senso che vede il parziale “adattamento” tra teoria e mondo come il frutto di un processo mentale per tentativi ed errori. In questo caso non si ipostatizza la verità delle leggi che governano l’evoluzione biologica, ma si richiede solo che esse siano applicabili all’evoluzione della conoscenza, indipendentemente da una opzione filosofica materialistica. In ogni caso, questo approccio trae il suo materiale empirico – oltre che dalla teoria evoluzionistica – anche da altre discipline come la psicologia e le scienze cognitive e riesce in tal modo a dare maggior concretezza alle epistemologie naturalizzate. 5. Il ritorno della sociologia della scienza Come abbiamo visto, il quadro presentato della scienza nella tradizione ricevuta (v. § 1.1) ne ha sottolineato i caratteri di oggettività, di conoscenza indipendente dalle motivazioni e dai valori dei singoli suoi proponenti (celebre la battaglia di Galilei per svincolarla dalla pretesa della teologia di indicarne i contenuti), in grado di farci pervenire ad una conoscenza della realtà così come essa è, non come si vorrebbe che fosse. Anche se – come abbiamo visto nel corso di questo volume – spesso è 169
emerso il disaccordo su singoli aspetti della sua costruzione e costituzione, tuttavia mai è stato messo in dubbio che la scienza abbia sempre costituito un modello di conoscenza da imitare (è questo il programma che si era posto la “filosofia scientifica”), al punto da innescare una corsa alla “scientificità” anche in discipline da essa inizialmente lontane. Ma dopo la crisi della RV questa visione irenica della scienza era stata sempre piú delegittimata e hanno portato sempre piú – a seguito dell’importanza assunta dalla storia della scienza e dalla comunità degli scienziati con Kuhn e della messa in crisi dell’idea di metodo con Feyerabend – a concepire la scienza non più come una sorta di impresa atemporale ed indipendente dalla società e dalle sue influenze, come si era di solito pensato, ma una parte del complessivo sviluppo dell’umanità, che non poteva accampare alcun privilegio conoscitivo rispetto agli altri modi con cui gli uomini si confrontano col mondo, costruendo ed edificando la propria vita e le proprie strutture associate. Insomma, riprende forza il tentativo di vedere la scienza come una variabile dipendente dalla società, ridando nuovo impulso alle tesi di chi in passato (specie su influenza del materialismo storico marxiano) aveva sostenuto il carattere socialmente condizionato delle teorie scientifiche. È stata in particolare l’opera di Kuhn (oltre a quella di Fleck, anche se questa ha inciso direttamente molto meno, per la sua minore diffusione) a causare una vera e propria svolta negli studi di sociologia della scienza [cfr. Jacobs 1987], prima sostanzialmente dominati dall’impostazione funzionalista di R.K. Merton (1910-2003) e della sua scuola, al punto da poter permettere la distinzione tra una sociologia della scienza prima di Kuhn ed una successiva, ortogonale con la prima [cfr. Turner 2008]. Nasce così negli anni ’70 un rinnovato programma di “sociologia della conoscenza scientifica” (SSK = Sociology of Scientific Kwoledge) che radicalizza i risultati della precedente sociologia mertoniana (denominata “sociologia della scienza”) in un “programma forte” (strong programme). Questo è un prodotto quasi esclusivamente inglese10, ma poi la sua in10
Cfr. Collins [1983, 267-71], che sottolinea come la SSK debba la sua origine non ad una forma di reazione alla sociologia della scienza americana di derivazione mertoniana, che fu criticata più per distinguersene in modo da non essere ad essa assimilata, ma ad altre influenze di carattere filosofico, derivanti per lo più dalla nuova filosofia della scienza e dalla storia della scienza.
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fluenza si è estesa in Nord America, come anche in Francia, in Germania, in Olanda, in Scandinavia, in Israele e in Australia, sotto diverse denominazioni (“Science Studies”, “Science and Technology Studies”, “Science, Technology and Society”) e dando origine ad organizzazioni professionali, riviste11 ed anche ad una diffusa pubblicistica fatta di antologie, libri di testo, corsi universitari. Essa ha inoltre attirato l’attenzione di storici e filosofi, avendo una notevole influenza sui cosiddetti “cultural studies” ed entrando a far parte di molti progetti di ricerca interdisciplinari [cfr. 1995, 290-1; Hackett & al. 2008]. Ciò ha anche portato ad un appannamento dei confini disciplinari e a una indeterminazione degli obiettivi, sicché v’è stato chi ha sostenuto che gli studi sociali sulla scienza si sono sviluppati in uno dei più centrifughi, più controversi (ai limiti della inciviltà accademica) ma anche più vitali terreni di ricerca [cfr. Pickering 1992]. La sociologia della scienza si è affermata come disciplina autonoma nella metà del secolo scorso ed è una ulteriore specificazione di una più attempata sociologia della conoscenza12; essa mirava ad indagare i nessi non più tra la conoscenza in generale e la società, ma più nello specifico tra quest’ultima e la conoscenza scientifica – prima ritenuta sostanzialmente indifferente (almeno per i suoi contenuti) alla evoluzione sociale e agli stimoli ed influenze da questa provenienti. Il fondatore di tale nuova disciplina è stato il sociologo americano Robert K. Merton (1910-2003), che ha avuto un ruolo di primo piano anche nell’affermazione, nel secondo dopoguerra, della sociologia come disciplina scientifica di impianto struttural-funzionalista, ispirata al modello delle scienze naturali, anche se rispetto a 11
La più significativa di esse è Social Studies of Science, fondata nel 1971 col nome di Science Studies da R. MacLeod e David Edge (iniziatore dell’Edinburgh Science Studies Unit di cui parleremo in seguito e presidente della Society for Social Studies of Science sino alla morte), che rimane una miniera di informazioni e articoli su tale ambito di ricerca. 12 La sociologia della conoscenza (o del sapere) è disciplina più antica che viene iniziata da Max Scheler (1874-1928) e quindi sviluppata ed istituzionalizzata da Karl Mannheim (1893-1947), che ne è ritenuto il vero e proprio fondatore, nella sua opera Ideologia e Utopia [1929] (cfr. in particolare il cap. V); ma vedi anche i suoi saggi raccolti in [1974]. Su tale argomento cfr. Stark [1958], Mulkay [1979], Meja & Stehr [1999], Izzo [1999], e più recentemente Giacomantonio [2006].
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queste ancora ritenuta arretrata. Merton [1938], nel concepire la sua sociologia della scienza, è ancora al di qua delle profonde trasformazioni conosciute dal paradigma positivista della scienza nel corso degli anni ’70, in quanto i suoi interessi in questo settore sono assai precoci e risalgono già alla fine degli anni ’30, con delle ricerche sulla istituzionalizzazione della scienza moderna nell’Inghilterra del diciassettesimo secolo, ritenute in stretta connessione allo stabilirsi dell’etica puritana. Già da ora il suo interesse verte sui valori e le norme che favoriscono o ostacolano il sorgere e lo stabilizzarsi della scienza. In seguito egli estende il suo interesse alla struttura normativa della scienza nel suo complesso, inteso come sottosistema separato della società che si organizza in comunità di studiosi, governate da peculiari valori che ne regolamentano il funzionamento [cfr. Merton 1949; 1957]. Le norme da lui individuate sono quattro: universalismo, “comunitarismo” (communism), disinteresse e scetticismo organizzato. L’universalismo sottolinea l’irrilevanza delle convinzioni e dei valori del singolo scienziato, in quanto la scienza deve essere “universale” ovvero valida per ogni uomo razionale: «ogni pretesa di verità, qualsiasi sia la sua fonte, deve essere soggetta a criteri impersonali prestabiliti, in accordo con l’osservazione e con la conoscenza prestabilita» [Merton 1957, 352]; il comunitarismo sottolinea il carattere pubblico delle idee scientifiche e dei risultati della scienza, il cui unico proprietario è l’umanità in quanto tale, sicché chiunque può far uso dei suoi risultati, dei quali non può essere ostacolata la circolazione; il disinteresse mette in luce come gli scienziati debbano lavorare non per il proprio profitto, ma a beneficio della comune ricerca scientifica, escludendo le frodi o l’uso illecito delle scoperte scientifiche; infine, lo scetticismo organizzato è la disponibilità della comunità scientifica a sottoporre a critica sistematica, sincera e non pregiudiziale le idee e le proposte avanzate al suo interno, in nome del progresso della scienza. Unica ricompensa che lo scienziato riceve per la sua dedizione alla scienza, attenendosi ai suddetti valori, è il riconoscimento, ovvero la pubblica gratificazione di essere stato il primo ad aver avuto una idea, ad aver fatto una scoperta, dandole il proprio nome. E che ciò sia vero è dimostrato dalle dispute per la priorità di una scoperta scientifica, spesso avutesi nella storia (la più celebre quella tra Newton e Leibniz sulla priorità della 172
scoperta del calcolo infinitesimale). Come si vede da questi brevi cenni, le analisi di Merton (e quelle che egli conduce su altri caratteri sociali della scienza: la mania a pubblicare, gli inganni e le frodi, le maldicenze tra scienziati e così via) sono del tutto interne alla tradizione ricevuta e ne costituiscono una sorta di canonizzazione e sacralizzazione: non mettono minimamente in discussione il carattere di oggettività e neutralità della scienza, intesa sempre come una pratica cognitiva – la migliore che abbiamo a disposizione – in grado di far presa sul reale. Le norme che fanno parte dell’ethos della scienza non hanno nulla da dire sui valori di verità delle conoscenze scientifiche o sui criteri di accettazione o rigetto delle teorie, ma indicano solo le condizioni “morali” ottimali per il loro conseguimento e così vengono a costituire una sorta di complemento “sociale” degli standard via via elaborati dai positivisti per la valutazione o meno della scientificità della conoscenza (i vari criteri di significanza o di demarcazione, ben noti), in ogni caso in posizione di subordine rispetto alla “logica della scienza” o al “metodo scientifico”, oggetti propri dei filosofi della scienza. Pertanto è esclusa dalle valutazioni sociologiche di Merton ogni considerazione dei contenuti della conoscenza scientifica, i quali obbediscono a criteri metodologici e a procedure di accertamento in grado di garantirne la validità obiettiva e cognitiva, con ciò rispettando la tradizione della sociologia della conoscenza precedente, specie quella rappresentata da Karl Mannheim. E lo stesso accade con i sociologi che ne hanno in qualche modo proseguito l’insegnamento, come Barber [1952], Storer [1966], Cole [1992], Crane [1972], Hagstrom [1965] e Ben-David [1971], che ha sviluppato una sociologia della scienza comparativista in parallelo a quella di Merton. Come afferma Ancarani (riprendendo una espressione di R.D. Whitley), il contenuto della conoscenza scientifica è considerato come una black box, qualcosa che la sociologia della scienza assume come un fatto non come un problema da investigare. Questa limitazione è il risultato dell’idea, consolidata e rafforzata dal positivismo logico a partire dagli anni trenta, secondo cui la conoscenza scientifica è determinata dalla natura e da metodi che sono essenzialmente asociali e atemporali dettati da una astratta “logica della ricerca”. [Ancarani 1996, 856]
Non a caso quella di Merton è vista come la “vecchia” socio173
logia della scienza, ben presto spazzata via sia dalle ricerche di Kuhn, sia dalle nuove prospettive che si affermano nel campo della sociologia della scienza. Il primo e piú importante filone di ricerca è rappresentanto dal già menzionato “programma forte in sociologia della conoscenza scientifica” (SSK) sviluppato dalla Science Studies Unit, un gruppo interdisciplinare fondato nel 1964 da David Edge (1932-2003) 13 presso l’università di Edinburgo, in Scozia. Di per sé poco numeroso (raramente lo staff fu composto da più di quattro persone), esso via via comprese il sociologo Barry Barnes, il filosofo David Bloor e lo storico Steven Shapin 14. Fonti principali di ispirazione furono, oltre che Kuhn, anche Durkheim, Marx, Mannheim, l’antropologia culturale comparata di E.E. Evans-Pritchard, Mary Douglas e Robin Horton, la filosofia relativistica di Nelson Goodman, l’opera filosofica sulle categorie della spiegazione sociologica di Alisdair MacIntyre, la filosofia della scienza neo-bayesiana di Mary Hesse [cfr. Shapin 1995, 295], come anche il pensiero di J. Habermas e l’etnometodologia di Harold Garfinkel [cfr. Giere 1988, 90-8; Ancarani 1996, 111-32]. Ma in modo particolare è presente nel pensiero di Bloor (che ben presto divenne il più significativo rappresentante del gruppo) l’opera filosofica del secondo Wittgenstein (e del suo seguace Peter Winch), con i suoi giochi linguistici, le “forme di vita” e la nozione di “seguire una regola”, nonché l’influenza di Lakatos. 15 Ad essi in Inghilterra si aggiunsero poi altri studiosi che 13
Sulla sua figura v. le testimonianze di D. Bloor, S. Jasanoff, R. MacLeod, H. Collins, G.C. Bowker, A. Elzinga, M. Frank Fox, B. Latour, T. Pinch, W. Shrum, S. Barr raccolte in Social Studies of Science, 2 (2003), pp. 171195. 14 Cfr. Barnes [1974; 1977; 1982], Bloor [1994], Barnes & Bloor [1982], Barnes, D. Bloor & Henry [1996], Shapin [1994; 1996]. Una buona rassegna di quanto fatto dai sociologi della scienza specie nel campo delle ricerche empiriche è Shapin [1986]. 15 Cfr. D. Bloor [1973, 1983]. Su tale influenza cfr. Friedman [1998], Pels [1996]. Collins [1983, 269] sottolinea come l’opera di Bloor sia non tanto una reazione alla sociologia della scienza allora dominante, bensì una estensione e applicazione delle idee di Lakatos e Wittgenstein. E ciò diversamente da quella di Mulkay [1992, 230], che invece – all’estremo opposto – parte proprio da una considerazione critica delle tesi di Merton. Successivamente afferma che le radici dirette della SSK affondano «in academic questions a-
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si riconobbero all’interno del programma della SSK, pur non facendo parte del centro di Edimburgo, come Harry M. Collins (che in seguito fonderà la “scuola di Bath” – v. infra), Michael Mulkay (che con G. Nigel Gilbert diede inizio nell’università di York ad un programma di ricerca indicato come “analisi del discorso scientifico”) [cfr. Gilbert & Mulkay 1984], Richard D. Whitley [1984] e R.G. A. Dolby [1971; 1974; 1980]. Sono costoro i sei principali protagonisti della sociologia della scienza britannica, menzionati da Collins, che ne analizza partitamente il contributo [cfr. Collins 1983]. La SSK costituisce una critica, spesso solo implicita, dell’impostazione mertoniana e dell’idea di fondo che governa la sociologia della scienza sino ad allora praticata: che sia cioè possibile una comprensione sociologica solo dell’errore e delle deviazioni dalla razionalità e che pertanto una vera e propria sociologia della conoscenza scientifica fosse impossibile. Come affermava Ben-David, ad essere oggetto di analisi sociologica sono «il valore attribuito alla scienza dalla società, l’interesse a fare nuove scoperte piuttosto che a conservare le vecchie tradizioni, l’organizzazione della ricerca e l’utilizzazione della scienza e dell’attività scientifica» [Ben-David 1971, 12]. Suo punto cruciale era pertanto la tesi che la risposta alle domande poste dalla scienza viene in ultima istanza solo dalla Natura, avendo lo scienziato solo una funzione di mediazione: i contenuti delle risposte scientifiche non sono suscettibili di alcuna indagine sociologica [cfr. Collins 1983, 266-7]. Invece per la nuova SSK non si tratta più di definire in generale un rapporto tra la scienza nella sua totalità e lo sviluppo sociale, bensì di scendere più in dettaglio, per cercare di scoprire i condizionamenti sociali insiti nelle singole teorie, nella loro accettazione e nel perché esse si affermano a discapito di altre. A tale scopo essa accoglie molte delle idee di Kuhn e dell’approccio post-positivista: l’olismo nel controllo delle teorie e la loro sottodeterminazione empirica, l’incommensurabilità, il carattere teoreticamente carico delle osservazioni (la theory ladenness), la funzione pervasiva del linguaggio, l’importanza della storia e delle comunità scientifiche e così via16. bout the universality of knowledge, in Wittgenstein’s (and Winch’s) ideas about forms of life and, perhaps, in Kuhn’s version of the history of science». 16 Ben-David [1971, 13-8] conosce l’opera di Kuhn e ne espone le principali tesi, ma ne fa un esempio dell’approccio strettamente interazionista – concer-
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Come afferma Shapin, il compito che si assunse sin dalle origini la SSK fu quello di creare uno spazio per la sociologia là dove prima non gliene era stato concesso alcuno, ovverossia nella interpretazione e spiegazione della conoscenza scientifica: Appunto in questo senso la SSK ha edificato una “anti-epistemologia”, per infrangere la legittimità della distinzione tra “contesto della scoperta e della giustificazione” e di sviluppare un quadro antiempirista e anti-individualista della sociologia della conoscenza, nel quale i “fattori sociali” contassero non come contaminanti ma come costitutivi della vera idea di conoscenza scientifica. La SSK si è sviluppata in opposizione al razionalismo filosofico, al fondazionalismo, all’essenzialismo e, in misura minore, al realismo. Le risorse della sociologia (e della storia contestuale) furono […] necessarie per comprendere ciò che per gli scienziati significa comportarsi “logicamente” o “razionalmente”, come avviene che gli scienziati giungano a riconoscere in qualcosa un “fatto” o una “prova” per o contro una teoria, come, insomma, la vera idea di conoscenza scientifca sia stata costituita, date le diverse pratiche che affermano di parlare in nome della natura. [Shapin 1995, 297]
La SSK è importante non solo perché rappresenta una svolta negli studi di sociologia della scienza, ma anche per la funzione di trascinamento in tanti altri settori e studi (quali ad es. l’epistemologia femminista, il costruttivismo e così via), che beneficiarono delle vaste ricerche empiriche effettuate nel suo ambito per sostanziare le proprie tesi particolari17. nente cioè i rapporti che si vengono a stabilire tra i ricercatori all’interno di una comunità scientifica – con ciò escludendo ogni sua rilevanza per la sociologia della conoscenza in generale: le relazioni all’interno della comunità sono così forti e rilevanti da essere preponderanti rispetto all’influenza sociale che essa può ricevere dall’esterno. 17 Non si può qui non menzionare – anche se esce fuori dal campo dei nostri interessi – il fatto che il programma della SSK era stato in ran parte anche il programma della lettura materialistica della scienza effettuato dal marxismo già negli anni ’30 (del quale uno dei documenti piú importanti è il volume di Aa.Vv [1931] che raccoglie gli interventi dei delegati sovietici al Congresso internazionale di storia della scienza tenutosi a Londra nel 1931) e che aveva portato a famose controversie sull’oggettività della scienza e sulla possibilità di poter creare – sulla base di struttura socile diverse – una “scienza proletaria” [cfr. Ceruti 1981; Grant 2007, 269-87]. La fortuna del programma positivista ed analitico e lo sviluppo di una sociologia della scienza che distingueva nettamente i due contesti, nonché il discredito che su tale approccio era caduto a seguito dell’affare Lysenko in URSS [cfr. Joravsky 1986; Cassata 2008] e della opposizione stalinista alla meccanica quantistica e alla teoria
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Alla base del “programma forte” v’è il cosiddetto “principio di simmetria”, secondo il quale le diverse tipologie di credenze devono essere affrontate utilizzando le stesse forme di spiegazione, senza distinguere quelle che riteniamo vere (come ad es. quelle scientifiche) e quelle che invece riteniamo false (perché non scientifiche): il valore da noi attibuito a un’idea non dovrebbe influenzare il modo in cui ne spieghiamo la storia e il ruolo sociale; come dice Bloor [1976, 5], la SSK deve essere imparziale rispetto alla verità e alla falsità, alla razionalità o irrazionalità, in quanto entrambe le parti di queste due polarità richiedono una spiegazione. La caratteristica principale del Programma è il cosiddetto “postulato di simmetria”. Vero e falso, idee razionali e irrazionali, nella misura in cui sono collettivamente condivise, dovrebbero essere egualmente oggetto della curiosità sociologica e dovrebbero essere tutte spiegate in riferimento allo stesso genere di causa. In ogni caso, l’analista deve identificare le cause contingenti, locali della credenza. Questa richiesta è stata formulata in opposizione ad una assunzine prima prevalente, ancora difesa in molti ambienti, consistente nel ritenere che le credenze vere (o razionali) debbano essere spiegate facendo riferimento alla realtà, mentre quelle false (o irrazionali) sono spiegate in riferimento alle influenze deformanti della società […] Una lettura corretta, naturalistica, del principio di simmetria implica che sia la “natura” (ovvero, la natura non sociale) sia la società sono implicate nella formazione della credenza. La “simmetria”, insistiamo, è che entrambi i tipi di causa, la nostra esperienza sia del mondo delle cose sia del mondo della gente, sono coinvolte in tutti i corpi di credenze collettive. I sistemi di credenza, cioè le forme di conoscenza condivise e istituzionalizzate, sono il medium mediante il quale la gente co-ordina con la natura non sociale le proprie interazioni condivise. [Bloor 1990, 84, 88] della relatività [cfr. Tagliagambe 1978; Pollock 2006], aveva portato alla sostanziale emarginazione di tali studi, che sono state coltivati in tempi piú recenti solo da pochi studiosi e all’interno di gruppi molto impegnati politicamente. Non bisogna neanche dimenticare – su un versante del tutto diverso – la esiziale esperienza di una “scienza ariana”, con le conseguenti tragedie causate dal suo tentativo di applicazione da parte del nazismo (che causò tra l’altro l’emigrazione di intellettuali e scienziati per lo piú verso gli Stati Uniti, e tra questi molti membri dei circoli di Vienna e Berlino) [cfr. Cornwell 2003; Grant 2007, 239-67]. Il tutto rafforzò l’idea e l’esigenza di tenere la scienza al di fuori delle controversie politiche e dalle influenze sociali, ricavando per essa un terreno neutrale in cui coltivare le proprie ricerche solo sulla base di criteri “interni”.
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Ne segue che non v’è alcun privilegio da assegnare alla scienza e ai suoi prodotti: essa non è il frutto di ricercatori disinteressati e puri che mirano solo alla scoperta della verità, facendo uso di dati empirici e di logica, ma cresce e si sviluppa in comunità governate da norme sociali ben radicate, che ne regolamentano le credenze, i modi in cui si sostengono le tesi e si esprime il consenso e il dissenso, i criteri con cui certi filoni di ricerca sono portati avanti o sono ritenuti fuori dall’agenda di lavoro. E tali comunità scientifiche sono prodotti umani, frutto di interazione sociale come tutte le altre. La spiegazione del perché una certa comunità scientifica accetta o meno una certa teoria è dello stesso tipo di quelle che spiegano il formarsi delle credenze in una comunità qualsivoglia, ad es. in una tribale [cfr. Godfrey-Smith 2003, 126]. Non vi sono credenze “scientifiche”, che devono essere spiegate solo facendo uso di metodi e procedure razionali, ed altre “non scientifiche”, che invece bisogna spiegare appellandosi a fattori sociali, tribali, tradizionali o a superstizioni di varia natura. Per cui la spiegazione sociologica non ha un carattere vicario e subordinato rispetto a quella logico-razionale. Al fondo v’è un approccio di tipo naturalistico: «[…] il Programma Forte è parte di una impresa naturalistica e causale. Dal punto di vista del Programma Forte, la società stessa è parte della natura» [Bloor 1990, 87]. Esso privilegia dunque l’analisi empirica delle particolari pratiche cognitive, in quanto i criteri di razionalità, verità o successo non sono degli atemporali e astratti standard fissati in modo aprioristico dai filosofi o dagli epistemologi ed applicati dall’esterno, ma il frutto della pratica riflessiva delle singole scienze e pertanto a queste legati in modo contingente e “situato”.18 La stessa conoscenza non è concepita, come nella tradizionale epistemologia, come una “credenza vera giustificata”, bensì essa viene riferita ad «ogni sistema di credenze collettivamente accettato» [Barnes & Bloor 1982, 22] o a ciò che «qualsiasi gruppo di persone ritiene sia conoscenza […] quelle credenze in cui la gente ha fiducia e in 18
Un’opera che ha avuto una particolare influenza e che ha rappresentato un case study esemplare, citato con ammirazione da tutti i sostenitori della SSK, è quella di Shapin & Shaffer [1985], dedicata all’origine della scienza moderna nell’Inghilterra del ’700 e in particolare alla disputa tra Robert Boyle e Thomas Hobbes, dove è particolarmente evidente l’influenza del secondo Wittgenstein. Cfr. Godfrey-Smith [2003, 129-32].
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base alle quali vive» [Bloor 1976, 5]. Ciò ha favorito anche l’analisi delle cosiddette “scienze marginali” o pseudo-scienze (le fringe sciences), trattate con pari dignità rispetto alle altre più prestigiose tradizioni di ricerca [cfr. Nowotny & Rose 1979]; Duerr 1981; Wallis 1979; Collins 1976]. È grazie a quest’approccio anti-normativo e anti-prescrittivo che ben note acquisizione della nuova filosofia della scienza – quali quelle della sotto-determinazione delle teorie (la cosiddetta tesi Duhem-Quine), della theory-ladenness e dell’incommensurabilità, che ben conosciamo – sono trasferite e testate sul piano della ricerca empirica in numerosi casestudies (in particolare dedicati alle controversie scientiche19), tutti tesi a mettere in luce il carattere problematico e la flessibilità interpretativa dei dati sperimentali e pertanto che «né la realtà, né la logica né criteri impersonali del “metodo sperimentale” impongono le considerazioni che gli scienziati producono o i giudizi che essi danno» [Shapin 1986, 332]. A tale conclusione giungono anche le analisi storiche del modo in cui le controversie scientifiche vengono risolte, dalle quali emerge come la scienza non solo non possiede un insieme di tecniche metodologiche in grado di provare o confutare in modo chiaro ed inequivoco le diverse ipotesi, ma che anche la riproducibilità in laboratorio non stabilisce un saldo legame tra teoria ed osservazione [cfr. Collins 1983, 274-6, 280-1]. L’approccio preferito ha natura macrosociologica e si basa sul cosiddetto interest approach, secondo cui l’attività scientifica è collegata a precisi interessi sociali. Ad es., MacKenzie [1978] ha cercato di dimostrare come le più importanti idee della moderna statistica siano da intendere in relazione al ruolo da esse giocato, nell’Inghilterra del diciannovesimo secolo, nel tentativo di influenzare l’evoluzione umana e il suo impatto sociale attraverso un programma eugenetico che incoraggiasse parte della popolazione a generare più figli di altre. In tal modo egli fa vedere come si venissero a stabilire certe simpatie tra un corpo di conoscenze biologiche, statistiche e matematiche e certe parti della classe media. «Gli interessi, dunque, non costituiscono intrusioni accidentali o indebite in quello che, se19
Per molti esempi in merito cfr. Shapin [1986, 327-86]. Sono particolarmente interesanti in proposito gli studi di Pickering [1981, 1981b], nel secondo dei quali si offre una efficace esemplificazione della tesi DuhemQuine.
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condo l’ordine naturale delle cose, dovrebbe essere un dominio regolato dalla ragione e dall’esperienza, ma sono ingredienti ineliminabili del dibattito scientifico» [Ancarani 1996, 121]. Così lo strong programme, nella misura in cui assume tale impostazione empirica e si affida a un modello di spiegazione causalista, si configura come un’analisi empirica della pratica scientifica che si prefigge lo scopo di descrivere e spiegare i fenomeni della conoscenza scientifica allo stesso modo e con le stesse procedure che questa applica per spiegare i fenomeni naturali, mutuandone il metodo sperimentale. Suo scopo «è spiegare non perché le credenze sono razionalmente o correttamente accettate, ma semplicemente perché le credenze sono di fatto accettate – come di fatto è acquisito il consenso locale».20 È, insomma, una “scienza della scienza” e pertanto pienamente congruente non solo con l’intenzione originaria del posivismo logico, ma anche con quella rinascita del descrittivismo di cui abbiamo già parlato. Ed infatti, nel ricordare la nascita dello strong programme, Bloor afferma che quando esso fu formulato ai primi degli anni ’70 fu presentato non come un nuovo approccio o un modo di dire agli altri studiosi cosa avrebbero dovuto fare. Piuttosto che essere prescrittivo, esso era largamente descrittivo. Suo scopo era codificare le assunzioni e le pratiche dello stimolante lavoro che era fatto nella scienza, specialmente dagli storici. Questo lavoro era tanto più ammirevole in quanto era realizzato sotto il fuoco di sbarramento degli attacchi intimidatori dei filosofi che volevano reificare e recintare la “ragione” e che in effetti trattavano la “logica interna” della scienza come se fosse una forza autonoma, auto-propellente e astorica. [Bloor 2007, 220-1]
Sembra proprio che si vada in direzione di quell’allargamento del modo di intendere la scienza – già auspicato da molti critici della RV – che cerca di far tesoro dell’esperienza della storia della scienza e che ora si estende alla sciologia della scienza. In tal senso deve essere vista l’idea della SSK che le rappresentazioni scientifiche non sono determinate unicamente 20
Friedman [1998, 243-4]. E in ciò Friedman vede una differenza con l’impostazione di Wittgenstein, cui i sostenitori della SSK si ispirano, in quanto il suo interesse «nel descrivere attentamente il modo in cui i vari giochi linguisti operano è in nessun modo propedeutico per una sorta di “sistematica teoria dei giochi linguistici” generale e socio-culturale, così come prospettata da Bloor» [ib., 252-3].
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dalla natura della realtà: altrimenti sarebbe impossibile una valutazione sociologica della conoscenza scientifica [cfr. Shapin 1986, 327], in quanto solo se dati sperimentali e logica non sono in grado di definire univocamente il contenuto delle teorie scientifiche è possibile tenere aperta la strada per l’influenza dei fattori sociologici nella loro costruzione e certificazione. Ma è l’esito delle indagini empiriche condotte dai rappresentanti della SSK a dare supporto alla destrutturazione di ogni pretesa normativa e prescrittiva, e quindi alla dichiarata fine di ogni norma super-culturale e libera dal contesto, così come concepita nella tradizione ricevuta? Oppure è la pregiudiziale accettazione di una certa agenda filosofica post-positivista e relativista a “pregiudicare” le indagini empiriche – giusta la tesi della theory-ladenness dell’esperienza, accettata dalla SSK – nel senso di una inevitabile frammentazione della Ragione in una pluralità di “ragioni” legate ai singoli gruppi sociali, comunità di studiosi, o wittgensteiniane “forme di vita”? È questa la domanda di fondo a cui la SSK non sa rispondere e che impone sull’intero suo progetto una ragionevole cautela. Tali domande acquistano un certo peso in relazione a una specifica tesi sostenuta da tutti gli appartenenti alla SSK, quella della riflessività della propria concezione: è questa l’esigenza che i modelli di spiegazione della SSK siano applicabili alla stessa sociologia della scienza, facendo anche di quest’ultima un sapere “situato” e non sopra-culturale [cfr. Woolgar 1988; Ashmore 1989]. Se infatti si risponde positivamente alla prima domanda, allora viene meno il principio della simmetria: esiste di fatto un punto di vista privilegiato, quello della SSK, in grado di farci pervenire e conclusioni generali sulla pratica scientifica e sulle sue caratteristiche; se invece si opta per una risposta positiva alla seconda domanda, allora la stessa SSK è qualcosa di situato storicamente e le sue conclusioni sono valide solo all’interno di una certa comunità di studiosi, senza poter pretendere una generale validità, implicitamente legittimando anche la posizione di chi vede nella scienza una impresa basata solo su esperienza e logica. Sembra dunque che esista una tensione non facilmente sanabile tra il principio di simmetria e la tesi della riflessività, che riproduce la medesima aporia che colpisce mortalmente ogni filosofia che si ponga ad un tempo come metariflessione sulla storia (e su quella dello stesso pensiero filosofico) e come situata storicamente. A meno di non bloccare l’esito del pensiero ad un preciso momento, 181
facendo di una particolare sua espressione la ricapitolazione e il compimento di tutto il passato – operazione compiuta da Hegel col proprio idealismo assoluto – non v’è modo di conciliare situazionalità storica e giudizio sulla storia, di essere scettici e ad un tempo sottrarre il proprio scetticismo dalla sua stessa presa, di sostenere il relativismo su tutto ad eccezione del proprio punto di vista relativista; insomma di praticare la simmetria ed insieme l’autoriflessività. Bloor cerca di sfuggire a questi esiti precisando il senso in cui devono essere intese le “interessate” connessioni tra idee scientifiche e contesto politico-sociale: esse hanno solo il ruolo di favorire lo sviluppo di certi settori o discipline scientifiche oppure ne determinano i contenuti al punto da definirne o meno il possesso di certe specifiche qualità cognitive? Affermare che le idee scientifiche “riflettono” gli interessi di certi settori sociali e politici, non significa che tali idee scientifiche non siano di per sè dotate di valore cognitivo, ovvero non siano realmente produttive di conoscenza del reale. Che una certa idea scientifica sia stata sollecitata o anche originata da particolari interessi politico-sociali non dice ancora nulla sul suo valore cognitivo, che può essere giudicato – e per alcuni deve essere – in base alle sue prestazioni cognitive, innanzi tutto le sue capacità predittive ed esplicative, la sua forza unificatrice e così via. Non pare che la statistica – per tornare all’esempio fatto da MacKenzie – abbia avuto severe sconferme; anzi, si è affermata come uno strumento necessario di analisi e ricerca anche al di fuori del contesto sociale dal quale si è originata e servendo interessi che con quelli che le hanno dato origine nulla hanno più a che vedere. Come afferma Friedman [1998, 245], noi possiamo semplicemente descrivere lo stato di salute di credenze, argomenti, deliberazioni e negoziazioni che sono in opera nella pratica scientifica, come dice Bloor, “senza riguardo se le credenze sono vere o le inferenze razionali”. In questo modo, possiamo cercare di spiegare perché le credenze scientifiche sono di fatto accettate senza considerare se sono vere e, allo stesso tempo, accettate in modo razionale o giustificato. E in questa impresa puramente naturalistica, descrittiva v’è precisamente abbastanza spazio per le spiegazioni sociologiche del perché certe credenze scientifiche sono di fatto accettate sulla base di ciò che permette il materiale empirico. Che i filosofi abbiano successo o no nel confezionare una lente prescrittiva o normativa attraverso la quale guardare gli stessi fatti, argomenti e deliberazioni e così via, è interamente irrilevante per le prospettive della sociologia della scienza. In questo senso, semplicemente
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non v’è possibilità di conflitto o di competizione tra, da un lato, una indagine “non-naturalistica”, filosofica della ragione, e, dall’altro lato, una sociologia della conoscenza scientifica empirica e descrittiva.
Ma è evidente che, col sostenere la tesi della determinazione sociale del contenuto delle singole teorie, la SSK vuole rompere con la RV e così finisce per accedere ad una posizione relativista. Tuttavia il relativismo da essa sostenuto ha un suo proprio carattere, in quanto esso scaturisce dalla stessa complessità del reale e dalla necessaria opera di filtraggio, selezione e semplificazione operata dalla conoscenza scientifica (da ogni tipo di conoscenza, si potrebbe aggiungere). È in questa delicata giuntura epistemica che può trovare il suo spazio l’influenza dei fattori sociali: La natura dovrà essere sempre filtrata, semplificata, selettivamente scelta e saggiamente interpretatata per essere resa a noi accessibile. È a causa del fatto che la complessità deve essere ridotta ad una relativa semplicità che sono sempre possibili differenti modi di rappresentare la natura. Come la semplifichiamo, come scegliamo di fare le approssimazioni e le selezioni non è dettato dalla stessa natura (nonsociale). Questi processi, che sono successi collettivi, devono in ultima analisi essere riferiti alle proprietà del soggetto conoscente. Qui è dove il sociologo entra nel quadro. [Bloor 1990, 90].
È un relativismo, questo, che non sfocia in una sorta di nichilismo cognitivo, né è una mera forma di strumentalismo, in quanto le teorie scientifiche intessono con la realtà un rapporto non fittizio, reale, produttivo, anche se le teorie cui si perviene non “corrispondono” ad essa nello stesso senso che può plausibilmente assumersi nella nostra esperienza quotidiana e nel linguaggio di ogni giorno. La prospettiva è quella del realismo, ma non “ingenuo”, in quanto i sistemi teorici sono sistemi che si adattano alla realtà come un tutto e «la realtà è ricca abbastanza da permettere numerosi possibili adattamenti e numerose possibili descrizioni e classificazioni»21. Un relativismo, quin21
Bloor [1990, 94]. Cfr. anche Barnes, Bloor &. Henry [1996]. Kemp [2005, 707] sostiene invece che se non si può parlare a proposito di Bloor di un”idealismo forte”, nondimeno esso è una forma “idealismo debole” e finisce per minare la credibilità della conoscenza scientifica. Tale “idealismo debole” si differenzierebbe da quello “forte” per il fatto che, pur accettando l’esistenza di una realtà esterna al soggetto conoscente, e quindi la distinzione tra concetto ed oggetto, tuttavia «disconnects the two, treating scientific di-
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di, che non si contrappone al realismo, quanto piuttosto all’assolutismo: «Il relativismo è la negazione dell’assolutismo; non è l’opposto del materialismo. Accettare il relativismo non significa accettare l’idealismo. È possibile essere sia relativisti che materialisti», afferma Bloor [2007, 220] replicando alle critiche di Kemp [2005]. E le conoscenze scientifiche non sono, potremmo aggiungere, “relative” in quanto tutte egualmente false, ma per la ragione opposta: perché al limite tutte vere, in quanto della realtà complessa colgono solo alcuni aspetti selezionati e semplificati, quelli verso cui una certa società ha indirizzato l’interesse e lo sforzo degli scienziati: «Non v’è un unico modo di apprendere dall’esperienza» [Bloor 2007, 227]. Pertanto non viene tolta di mezzo la questione della differente credibilità delle teorie, ma si impone di spiegarla, in quanto essa è qualcosa di reale e non di meramente illusorio [Bloor 1990, 102]. Da questa impostazione ne seguirebbe che la conoscenza scientifica non segue nel suo cammino un progresso lineare – dal meno al più, dalla teoria meno verosimile a quella più verosimile, che completa e integra la prima in un più generale quadro concettuale, secondo lo schema popperiano e la teoria della riduzione – bensì avanza esplorando territori della natura diversi, che a volte si sovrappongono, altre volte sono disgiunti, e che danno luogo a prospettive teoriche, a programmi di ricerca e a teorie scientifiche diverse, spesso tra loro incommensurabili, altre volte con ambiti fenomenici e domini di applicazioni comuni in tutto o in parte. Perché l’inesauribilità del reale richiede una molteplicità di approcci che di volta in volta ne esplorino territori diversi, a partire da ipotesi differenti: è tale selezione del materiale, tale produzione delle ipotesi, che devono essere spiegate dal sociologo della scienza. Ma ciò non significa mettere la natura fuori gioco, cioè ritenere del tutto irrilevanti le sue risposte alla interrogazione del ricercatore, in quanto lo strong programme «riconosce un potere d’azione nelle occorrenze naturali, nelle cose e nei processi non-sociali» [Bloor 1990, 91]. È questo – a nostro avviso – l’unico modo di intendere il relativismo cognitivo della SSK che sfugga alle critiche che di consueto ad esso vengono portate dai realisti, coerente con scourse as free-floating and unrelated to the world of things».
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quanto lo stesso Bloor ha sostenuto in tempi più recenti. Ma ad un tempo, ciò richiederebbe una ridefinizione sia del principio di simmetria sia della tesi della riflessività. Il primo dovrebbe essere piú accurato nel distinguere i diversi piani e tagli categoriali che vengono effettuate sulla realtà, in maniera da rendere comparabili, e quindi diversamente giudicabili, opzioni teoriche che si pongono all’interno della medesima strutturazione ontologica del reale. Per dirla in parole semplici, se lo scopo è quello di guarire un’infezione, una buona dose di penicillina è piú efficace di una pratica tribale che fa uso di amuleti e scongiuri, per cui in questo caso non si può essere “simmetrici” in relazione alle rispettive prestazioni cognitive; se invece lo scopo è quello di un piú equilibrato rapporto col proprio corpo, la pratica meditativa Zen è a lungo andare piú efficace rispetto a massicce dosi di Prozac; ed anche in questo caso i rispettivi valori non possono essere giudicati in modo “simmetrico”. E in merito alla riflessività, l’unico modo di continuare a sostenerla è di renderla epistemologicamente sterile riposizionando il proprio approccio su di un piano metafilosofico e quindi sottarendolo – per una sorta di decreto metodologico – all’autoconfutazione. È questa del resto la strada imboccata dall’epistemologia naturalizzata; ed è stata quella che a suo tempo aveva intrapreso la filosofia scientifica. Il prezzo che così si paga è un certo dogmatismo, quello stesso tipo di assunzione non motivata che Husserl aveva individuato alle origini della scienza moderna, quando questa aveva potuto superare il paralizzante scetticismo antico solo mettendolo da parte, senza pretendere di superarlo [cfr. Husserl 1913, 53]; il medesimo che aveva fatto esclamare a D’Alembert «allez en avant, la foi vous viendra», per superare le altrimenti paralizzanti aporie che minavano l’analisi matematica ai suoi inizi. In un certo qual modo è questa la strada percorsa da Harry M. Collins, iniziatore di quella scuola di Bath, in Inghilterra (ma ora direttore del Centre for the Study of Knowledge Expertise Science all’università di Cardiff), che dello strong programme costituisce una ulteriore articolazione in direzione di uno spostamento dell’attenzione dalle macro-variabili sociologiche ad un approccio microsociologico che mira ad una indagine più puntuale e ravvicinata dei contenuti delle singole teorie
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scientifiche e dei modi in cui si organizza su di esse il consenso o il dissenso22. Egli – rigettando le accuse di non applicare sino in fondo la tesi della riflessività mosse da Latour (di cui v. infra) – si richiama ad una sorta di compartimentalizzazione delle indagini, motivata dal concetto di “meta-alternazione” elaborato da Peter Berger: i due punti di vista (quello sociologico e quello scientifico) devono essere assunti in alternativa l’uno all’altro e posti in compartimenti separati, senza alcuna comunicazione tra loro, per cui «i sociologi della conoscenza scientifica che vogliono trovare (o aiutare a costruire) nuovi oggetti nel mondo, devono compartimentalizzare; essi non devono applicare i loro metodi a se stessi» [1992, 188]. Ciò gli permette di operare una scelta ancora più decisa a favore del relativismo cognitivo. Ma il suo relativismo è da Collins qualificato, allo scopo di evitare gli inconvenienti autoconfutatori cui esso va incontro nella sua versione filosofica, come “programma empirico del relativismo” (Empirical Program of Relativism – EPOR). Esso è epistemologicamente agnostico, rifiuta cioè di prendere posizione su questioni come verità, razionalità, successo o progressività delle nostre conoscenze, ed ha invece natura metodologica in quanto, in base al principio di simmetria, vuole solo accertare i modi concreti in cui si articola il formarsi del consenso sui contenuti delle teorie, prendendo atto – attraverso l’esame di esemplari controversie scientifiche – sia della flessibilità interpretativa delle evidenze empiriche, sia del carattere non decisivo delle replicazioni sperimentali. Il tutto converge nella tesi che il processo che porta alla formazione delle conoscenze scientifiche non è spiegabile solo in base alla logica e all’esperienza; viene insomma criticato il modello “algoritmico” del metodo scientifico, in favore della valorizzazione delle dimensioni “tacite” (già messe in luce da Michael Polanyi) e “artigianali” di molto lavoro scientifico. Non esistono prove o evidenze ultimative che possano forzare gli scienziati ad accettare o negare l’esistenza di un nuovo fenomeno, di una nuova teoria, di un dato risultato sperimentale. Tuttavia, nonostante le cautele di Collins, il suo relativismo finisce, diversamente da quello di Bloor, per tradursi in un punto di arrivo filosofico e in una connessa polemica contro una visione reali22
Sulla scuola di Bath e sul suo programa cfr. Ancarani [1996, 125-132]. Di H.M. Collins vedi i volumi [1994; 1995]. Altri collaboratori di Collins sono Pinch [1982], G.D.L. Travis, B. Wynne ed altri.
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sta della scienza: è una forma di riduzionismo sociologico nella quale si sostiene che «il mondo naturale ha un ruolo trascurabile o del tutto nullo nella costruzione della conoscenza scientifica» [Collins, cit. in Ancarani 1996, 132]. Non a caso questa posizione tende a virare verso una forma di costruttivismo sociale (v. § 2.6). Inoltre Collins e i suoi allievi prendono la distanze da due particolari tesi avanzate da Bloor e cioè dal principio di causalità e da quello di riflessività: il primo è ritenuto un residuo della vecchia sociologia della conoscenza, che vede le idee come determinate dagli interessi sociali in una prospettiva macrosociologica; ed è per questo che in sua vece si opta per un approccio microsociologico. La riflessività, invece, condurrebbe a difficoltà paralizzanti per l’analista, per cui – diversamente da come sostenuto da Woolgar – andrebbe rifiutata. Come abbiamo prima accennato, un particolare indirizzo all’interno della SSK fu rappresentato dalla strada intrapresa da Mulkay e Gilbert. La discourse analysis è ovviamente un campo di ricerca molto più di vasto di quello da essi proposto e praticato, in quanto si pone in generale il compito di mettere in luce le assunzioni fondamentali e le ipotesi di fondo che stanno alla base dei metodi di ricerca e che si concretano in scritti, pubblicazioni e sistemi di classificazione. Essa pertanto è una articolazione del progetto decostruzionista che ha le sue radici nel post-modernismo e nelle opere di Jacques Derrida, Michel Foucault, Julia Kristeva, o Fredric Jameson (per non citare che i maggiori). Nel caso specifico, che qui ci interessa, la discourse analysis è il tentativo di andare oltre il modo – “acritico”, per Mulkay e Gilbert – in cui sono state utilizzati e interpretati i discorsi e i resoconti degli scienziati da parte degli esponenti dello strong programme: si tratta di “dare voce” ai rappresentanti concreti delle ricerche, senza che queste siano filtrate dalla voce autoritaria del sociologo-interprete. Bisogna dunque “aprire il vaso di Pandora” delle molteplici voci degli scienziati, vederne tutte le articolazioni, in quanto «lo scopo di costruire da parte degli analisti presentazioni definitive delle azioni e delle credenze degli scienziati è forse in linea di principio irraggiungibile, e certamente lo è in pratica nella misura in cui non abbiamo una comprensione sistematica del discorso degli scienziati. I sociologi, gli storici e i filosofi sono stati abili nel documentare e rendere plausibili così tante analisi divergenti della scienza (e 187
minano continuamente l’uno l’altro le reciproche tesi) in quanto gli scienziati, i creatori attivi dell’evidenza su cui si basano gli analisti, si impegnono loro stessi in molteplici specie di discorsi. Perciò noi raccomandiamo che gli analisti non cerchino più di forzare i diversi discorsi degli scienziati in quello autoritario che è loro proprio. Invece di assumere che v’è una sola versione vera e accurata delle azioni e delle credenze dei partecipanti che può, prima o poi, essere assemblata insieme, gli analisti devono diventare più sensibili alla variabilità interpretativa fra i partecipanti e cercare di comprendere perché possono essere prodotte così tante differenti versioni degli eventi» [Gilbert & Mulkay 1984, 2]. Al fondo v’è l’idea che – vista la variabilità di forme in cui si esprime il discorso degli scienziati – sarebbe un grave errore per lo storico e il sociologo dare uno statuto privilegiato ad una sola tipologia di discorsi, profferiti in determinate circostanze e con particolari uditori. Per cui il sociologo della scienza non dovrebbe produrre una descrizione o una spiegazione definitiva della scienza, in quanto questa dipende dal groviglio inestricabile dei “discorsi”, ma piuttosto più modestamente avere come obiettivo la loro classificazione e catalogazione; la definitività è, semmai, raggiungibile solo quando si passi dal livello referenziale (ciò che la scienza è) a quello che gli scienziati pensano che essa sia. Una variante della SSK potrebbe essere anche ritenuto l’approccio, nato all’interno degli Science Studies, sviluppato negli scritti di Bruno Latour, Michel Callon e, per un periodo limitato, Joseph Law, nell’ambito del Centre Sociologie de l’Innovation della École Nationale Supérieure des Mines di Parigi agli inizi degli anni ’80. Tuttavia, diversamente dalla SSK la sociologia della scienza di Bruno Latour, spesso indicato col nome di “costruttivismo” (ma su di esso v. § 2.6), prende come unità di partenza del proprio esame non tanto l’intera comunità degli scienziati, e di conseguenza il nascere e lo sviluppo di teorie scientifiche e tradizioni di ricerca, bensì un più ristretto ambito, ovvero il laboratorio dello scienziato: a tale tema è stata dedicata l’opera Laboratory Life, scritta da Latour insieme a Steven Woolgar 23, che ha segnato una svolta ne23
Cfr. Latour & Woolgar [1979]. Woolgar in seguito prese altre vie rispetto
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gli studi di sociologia della conoscenza scientifica e che – come avverte Ian Hacking [1988, 278] facendo ammenda della sua precedente “distrazione” – deve essere presa “molto sul serio” da parte dei filosofi della scienza. Inoltre, diversamente dall’approccio macrosociale della SSK (che mira a chiarire l’intreccio tra pratiche scientifiche e ideologie o interessi sociali nel loro complesso), Latour e Woolgar non ritengono che gli aspetti macrosociologici esauriscano il carattere sociale della scienza e invece portano il loro sguardo ai concreti meccanismi che agiscono nella produzione delle conoscenze scientifiche, ai microprocessi che stanno alla base della loro costruzione. Lo scopo non è solo riconoscere che queste sono socialmente condizionate, ma piuttosto che esse sono interamente costruite e costituite attraverso processi microsociali. Appunto tale abbandono delle fonti secondarie (interviste con scienziati, opere pubblicate e altre prove documentarie) in favore di una partecipazione diretta, di un “andare a vedere” con i propri occhi ciò che effettivamente avviene nella scienza, in una sorta di “osservazione partecipante”, caratterizza l’approccio dei laboratory studies, in cui l’accento è posto «sulla osservazione in situ dell’attività scientifica»24. Noi combattiamo contro le definizioni assolute di scienza; rifiutiamo di dare significato ad ogni descrizione che non raffiguri il lavoro di preparazione dei laboratori, degli strumenti che generano inscrizioni (inscription devices), dei network; sempre riferiamo la parola “realtà” ai percorsi che hanno luogo in laboratori specifici e in specifici network […]. [Latour 1988, 26]
Il laboratorio diventa dunque il luogo privilegiato della ricerca di Latour e Woolgar, in quanto solo in esso possono essere messe in luce le operazioni “costruttive” alle origini della produzione delle conoscenze e in particolare come gli scienziati in essi operanti attribuiscono loro obiettività e fattualità; perché lo scopo che Latour si prefigge non è quello di analizzare i prodotti scientifici belli e fatti, bensì la “scienza in azione”; è a quelle seguite da Latour, andando in direzione di un approfondimento del principio di riflessività, sulla base di una tensione da lui rilevata tra relativismo e realismo. Con lui Ashmore ed altri. 24 Woolgar [1982, 482]. Come altro esempio di tale tipo di approccio bisogna anche citare l’opera di K.D. Knorr-Cetina [1981], la cui collocazione più adeguata è però all’interno della concezione costruttivista alla scienza.
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questa la prima regola del metodo che egli si prefigge di adottare e che rompe con il tradizionale approccio epistemologico [cfr. Latour 1987, 49-51, 627]. Così, ad esempio, Latour studia per due anni ciò che accade in un laboratorio di neuroendocrinologia, Il Salk Institute a La Jolla, California, dove opera un gruppo di ricerca impegnato nell’isolare, caratterizzare, sintetizzare e spiegare il meccanismo di azione dei cosidetti releasing factors, peptidi che mettono in comunicazione il sistema nervoso centrale con quello ormonale. A La Jolla Latour ricostruisce in maniera dettagliata come nel laboratorio, attraverso una sequenza di operazioni, si costruisce un “fatto” scientifico – in questo caso la determinazione di struttura di una sostanza chiamata TRF (thyrotropin releasing factor). Risultato scientifico che varrà il premio Nobel a Guillermin ed a un altro ricercatore W.A. Schally (leader di un gruppo che arriverà quasi simultaneamente agli stessi risultati). [Ancarani 1996, 138]
Ciò viene fatto sulla base di interviste, annotazioni, registrazioni di conversazioni con i protagonisti della ricerca, nonché mediante l’uso degli archivi e di una quantità di documenti: protocolli di laboratorio, stesure provvisorie di paper, sino a giungere alle versioni definitive pubblicate sulle riviste scientifiche, in modo da identificare quanto meglio possibile le dinamiche sociali e cognitive interne al laboratorio di ricerca. Solo una partecipazione “in presa diretta” della vita in laboratorio, in stile antropologico, con l’occhio ingenuo di chi è inesperto e quindi non ha lo sguardo “pregiudicato”25, può porta25
Latour insiste su questa caratteristica, ed infatti quando egli partecipa alla vita del laboratorio di La Jolla poco o nulla sapeva di biologia molecolare. Ed è naturale che proprio questa caratteristica è stato uno dei punti maggiormente criticati della sua opera. Cfr. ad es. F. Weinert [1992, 423-9], che critica anche l’entusiamo mostrato da Hacking per l’opera di Latour. Secondo Weinert, l’inesperienza di Latour nelle ricerche di cui egli tratta non lo metterebbe in grado di apprezzare quanto in effetti viene fatto in un laboratorio: «The observer pays a price for his presumably unblinkered innocence: despite all the wealth of data and diagrams, Laboratory Life is particularly uninformative about the research project under scrutiny and the way experiments are carried out in this branch of science. Nothing is said about the formulation of hypotheses, the repeatability of experiments, the relationship between theory, experiments and testing, or the inferences drawn from the experiments. The scientists belabor statements, that’s all. Facts are constructed and deconstructed in the flicker of a moment» [ib., 427].
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re alla luce quelle dinamiche e transazioni cognitive in grado di farci avere della scienza una visione più accurata e realistica di quella che ci forniscono le ricostruzioni a posteriori, spesso operanti una sorta di “razionalizzazione” di quanto in effetti è accaduto. Inoltre, il punto di vista del laboratorio permette di apprezzare sino in fondo il carattere tecnologico-strumentale della scienza moderna, in ragione del quale le conoscenze scientifiche appaiono sempre più come il prodotto di una manipolazione tecnica della realtà, ponendo fine alla scoperta-descrizione degli inizi della scienza moderna. Il laboratorio costituisce un ambiente interamente artificiale, in cui non si ha a che fare con oggetti del mondo naturale, ma con prodotti artificiali, già preparati ed opportunamente predisposti per produrre certi effetti. Da cià scaturisce il fatto che il laboratorio è un ambiente “impregnato di decisioni”, analogamente a come i fatti sono “impregnati di teorie”, per cui le conoscenze scientifiche sono sempre locali, dipendenti dal contesto e dalle regole di negoziazione in esso vigenti. E tuttavia le “iscrizioni” (inscription devices) generate in laboratorio (documenti, tracce scritte, numeri, tabelle, note di laboratorio, campioni contenuti in provette, ma anche tracce grafiche o risultati strumentali generati da particolari apparati sperimentali), che si concretano in asserti e proposizioni, sono trasformati in “fatti” ed acquisiscono una oggettività che travalica il laboratorio, mediante ciò che Latour chiama una pratica di “traduzione”. In tal modo «le asserzioni si cristallizzano come costrutti stabili della nostra conoscenza, e che come tali sono assunte in maniera non problematica (come una black box) all’interno di una data cultura scientifica». 26 Dal fatto così costruito scompaiono le tracce degli elementi circostanziali che lo hanno prodotto. Secondo Latour e Woolgar i fatti scientifici emergono da un processo di “splitting and inversion”, una sorta di parodossale rovesciamento. Da un lato essi vengono socialmente costruiti attraverso una sequenza di atti e di decisioni di cui gli studi di laboratorio hanno evidenziato il carattere locale e contingente. Dall’altro proprio questo risultato si realizza attraverso un meccanismo che occulta queste circostanze facendo scomparire ogni riferimento al tempo, al luogo, agli autori, e ad ogni altro riferimento contestuale. Questo 26
Ancarani [1996, 147]. A introdurre questa immagine della black box è stato R. Whitley [1972]. Su tale argomento cfr. Pinch [1992].
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processo ha come effetto quello di rafforzare l’impressione che gli scienziati basino le loro asserzioni su fatti che mantengono una relazione diretta con la natura, indipendentemente da ogni circostanza particolare di produzione. Solo così la natura può essere invocata come causa delle nostre conoscenze. [Ancarani 1996, 148].
L’interfaccia che permette di collegare il laboratorio al suo esterno, e quindi di operare la necessaria traduzione di quanto in esso prodotto in una forma accettabile alla comunità di studiosi, è il paper. Grazie ad esso i fatti costruiti in laboratorio vengono depurati e messi in una forma in grado di valere presso differenti contesti, con altri laboratori e scienziati. Così i fatti scientifici si “stabilizzano” e diventano vere e proprie conoscenze sociali che entrano a far parte del patrimonio di conoscenze accettate; e ciò avviene non perché le conoscenze acquisite in laboratorio hanno un valore intrinseco (perché “corrispondono” alla realtà e ce la fanno conoscere), ma in quanto, in modo quasi darwiniano, esse si sono dimostrate in grado di sopravvivere anche presso altri ricercatori, venendo “incorporate” in altre asserzioni. A tale scopo lo scienziato che propone una nuova teoria deve effettuare una serie di mosse, come il fare l’appello alla letteratura esistente, ai tecnici che l’hanno aiutato, agli strumenti del laboratorio, a procedure complesse, a protocolli di ricerca, a iscrizioni, tabelle e così via. Nella tecnoscienza contemporanea il ricercatore trae la sua forza dall’essere portavoce di molteplici interessi, di essere il rappresentatnte di un network di alleati e sostenitori delle sue tesi, che hanno tutti contribuito in qualche modo alla loro elaborazione [cfr. Latour 1987, 417, 629]. Per cui la contestazione e la critica diventa sempre più difficile, in quanto non coinvolge più il singolo scienziato, ma una formidabile rete di alleanze ed appoggi. In tal modo le asserzioni vengono trasformate in fatti e teorie e il laboratorio diventa il centro di un network di forze “arruolate” e “controllate”. Per questi motivi – centralità degli “attanti” (un concetto semiotico che serve per indicare ogni ente attivo nel mondo, sia umano che non umano, come strumenti, documenti, batteri, fermenti ecc.) [cfr. ib., 202, 279] che interagiscono in un network – la posizione di Latour è stata anche chiamata Actor-Network Theory (ANT).27 27
L’importanza attribuita da Latour alle relazioni nel network e alle interazioni tra umani e non umani all’interno del laboratorio, con la necessità di ampliare la nostra concezione di conoscenza e mente, lo ha fatto anche assimila-
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Tale atteggiamento di fondo porta Latour ad effettuare una decisa critica allo strong programme, nonostante tali due approcci vengano a volte accomunati sotto l’etichetta di “costruttivismo sociale”. Egli infatti vuole andare oltre la SSK, ritenendola troppo timidamente radicale nelle sue posizioni: occorre effettuare – afferma – «ancora una svolta dopo la svolta sociale» [Latour 1992]. Essa prende la forma della richiesta di una coerente adozione dell’ipotesi della simmetria. Infatti, se la SSK vuole essere essa stessa un approccio scientifico, allora i fatti empirici ai quali fa appello dovrebbero avere lo stesso statuto di tutti gli altri fatti scientifici, ivi compresi quelli su cui si basano le teorie scientifiche: la costruzione della realtà naturale e quella della realtà sociale devono essere entrambe interamente simmetriche. Insomma la SSK, se vuole effettivamente essere sino in fondo riflessiva, deve applicare la stessa filosofia scettica e relativista a se stessa e ai suoi prodotti, e non solo a quelli propri degli scienziati naturali. Ciò vuol dire che la società non deve avere alcun privilegio nella spiegazione della costruzione della scienza, così come non lo si è riconosciuto alla natura, in quanto l’una e l’altra vengono dopo il lavoro fatto in laboratorio, sono il risultato della stabilizzazione di una certa pratica cognitiva: questo nuovo principio di simmetria è dunque molto più radicale di quello di Bloor – e nello stesso tempo più coerente e più riflessivo. Esso non richiede solo di spiegare negli stessi termini ciò che è razionale e ciò che non lo è, ma di non utilizzare sin dall’inizio la società così come la natura per spiegare la chiusura e l’apertura delle controversie che le concernono.28
La sua idea è che non dovremmo cercare di spiegare la natura in termini di società, o la società in termini di natura (come ad esempio fanno i sociologi evoluzionisti e naturalisti), ma entrambi i termini devono essere pensati a partire da un terzo processo, nel corso del quale essi sono “coprodotti” [Latour 1992, 287]: natura e società non sono cause delle nostre re alla cosiddetta teoria dei distributed cognitive systems, sostenuta da Andy Clark, Ed Hutchins, Karin Knorr-Cetina. Su ciò cfr. Giere [2004]. 28 Latour [1987, 352]. Tale modo di procedere venne da Latour applicato, ad esempio, nello studio del modo in cui Pasteur permise alla proprie idee di affermarsi nella Francia del suo tempo. Cfr. Latour [1988b]. Ma lo stesso egli cerca di fare con «un caso più difficile», quello della teoria della relatività di Einstein [cfr. Latour 1988].
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credenze scientifiche (così come sostiene Bloor in base al principio di simmetria), bensì sono due effetti aventi una comune base. Questa è appunto il farsi della scienza nel contesto del laboratorio e dei network tecnoscientifici. Spiegare i risultati scientifici come il frutto in una influenza sociale sarebbe un ulteriore riduzionismo che reduplicherebbe quello di solito effettuato a favore della natura, rimanendo prigionieri del dualismo soggetto/oggetto. Ovviamente Bloor [1990, 82] rifiuta tali critiche di Latour, sostenendo che esse «sono basate su una sistematica deformazione delle posizioni che egli rifiuta e il suo approccio, nella misura in cui è diverso [da quello dello strong programme] è impraticabile» e che, inoltre, Latour non è affatto di fatto in grado di esprimere con chiarezza in cosa consiste tale processo di “co-produzione” di natura e società Come si può notare, ciò di cui non si tiene conto nella prospettiva di Latour è il riferimento al contenuto di conoscenza delle teorie, alla natura che esse dovrebbero farci conoscere; la natura è infatti interna ad una rappresentazione scientifica e i ricercatori non fanno ricorso ad essa come ad un giudice esterno per risolvere le controversie che insorgono tra di loro; così come afferma la sua terza regola metodologica, «essendo dato che il regolamento di una controversia è la causa della rappresentazione della natura e non la sua conseguenza, non si deve mai far ricorso all’istanza finale – la natura – per spiegare il come e il perché una controversia è stata risolta» [Latour 1987, 241]. Latour non è per nulla interessato ad analizzare le caratteristiche del ragionamento scientifico: essendo la risoluzione delle controversie scientifiche vista come effetto del controllo e della sapiente utilizzazione di un network tecnoscientifico, il rischio che si corre è fare della pratica della scienza un gioco retorico, un’operazione letteraria, un risultato di sapienti strategie politiche. È chiaro il significato antirealistico di una tale posizione, che per certi aspetti fa pensare a vere e proprie forme di idealismo (come quando si nega decisamente la separazione soggetto/oggetto), come anche l’accettazione del relativismo. Il fatto che Latour rinunci ad ogni tentativo di spiegazione nel senso consueto del termine, che implicherebbe per lui una qualche forma di riduzione, è motivato dal tentativo di sfuggire da ogni dicotomia (tra realtà materiale e sociale, tra scienza e natura, tra soggetto e oggetto e così via), nell’ottica della radicalizzazione dell’ipotesi di simmetria. Resta senza risposta, tuttavia, la domanda del perché la scienza abbia quello straordina194
rio successo nella manipolazione del mondo naturale di cui tutti siamo testimoni: solo un’abile strategia di ricercatori che utilizzano sapientemente network tecnoscientifici? 29 Mettendo a frutto tutti questi sviluppi e queste riflessioni si viene a costituire quel canpo integrato di ricerche cui abbiamo già prima anticipato, i cosiddetti Science and Technological Studies (STS). Le tappe fondamentali attraverso le quali si afferma questo nuovo composito campo disciplinare sono marcate dalla fondazione nel 1975 della Society for Social Studies of Science (denominata 4S) e dagli handbook che in tempi successivi vengono pubblicati; quello iniziale di Spiegel-Rösing & de Solla Price [1977] in cui si pone l’esigenza di una forte integrazione e di un approccio interdisciplinare allo spettro costituito dalla intersezione tra scienza, società e tecnologia; quello successivo di 18 anni di Jasanoff & al. [1995] – che ebbe l’imprimatur della 4S – nel quale si delinea un campo di ricerca ancora in fase emergente e che pertanto intende offrire un piano di lavoro, una “roadmap”, in grado di offrire, grazie ai contributi degli studiosi già in esso impegnati, «un atlante non convenzionale ma attraente del campo ad un particolare momento della sua storia» [ib., xi-xii], in un movimento verso l’autodefinizione che era aperto ad accettare i contributi di chi volesse avventurarsi su questo terreno; infine il recente volume di Hackett & al [2008], in cui i curatori si sono posti il compito di «consolidare le acqusisizioni già ottenute nel campo, invitare nuovi studiosi ad occuparsi di STS e indicare percorsi di ricerca promettenti per il futuro» [ib, 3]. Al solito, si sostiene che una storia degli STS dovrebbe partire dall’opera di Kuhn [1962], che «ha aperto nuove possibilità di guadare alla scienza come attività sociale» [Sismondo 2008, 14; per una storia dei STS cfr. anche Sismondo 2004; Yearley 2005]. È importante notare che per la nascita degli STS ha avuto notevole importanza la cosiddetta “svolta verso la tecnologia” (secondo l’espressione di Woolgar [1991]), che è stata favorita in particolare dalle due opere di MacKenzie & Wajcman [1985] e Bijker, Hughes & Pinch (1987) e che da avvio ad 29
Questo e altri punti sono stati oggetto di critica da parte di numerosi studiosi; si veda ad es. Amsterdamska [1990], Collins & Yearley [1992]; Gingras [1995], Knorr-Cetina [1985], Schaffer, [1991], Shapin [1988], Sturdy [1991], Van den Belt [1995].
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un programma parallelo denominato Social Construction of Technology (SCOT). I suoi sostenitori – spesso provenienti dalle prospettive costruttiviste e postmoderniste – rifiutano il cosiddetto “determinismo tecnologico”, ovvero l’unione combinata di due tesi: quella che lo sviluppo tecnologico ha luogo al di fuori della società, cioè indipendentemente dalle forze economiche, politiche e sociali, come conseguenza delle attività di scienziati, ingegneri che coltivano la scienza in base ad una logica interna che nulla ha a che fare con le relazioni sociali (secondo il consueto punto di vista della tradizione ricevuta e della RV); e quella che «il cambiamento tecnologico causa e determina il cambiamento sociale» [Wyatt 2008, 168], per cui il futuro dell’umanità – i suoi valori culturali, la sua struttura sociale e la sua storia – è definito dalle risorse tecnologiche che via via il progresso scientifico mette a disposizione; insomma lo sviluppo della tecnologia viene dato come qualcosa di scontato, limitandosi lo studioso ad «un’analisi delle conseguenze sociali dello sviluppo tecnologico» [Bucchi 2002, 97]. Al punto da identificare le civiltà storicamente esistite con la tecnologia in esse predominante (si parla di età della pietra, del bronzo, del vapore e dei computer) o di caratterizzare le nazioni con la vocazione tecnologica predominante: gli Stati Uniti e automobili, Giappone e microelettronica, Olanda e mulini a vento ecc. [cfr. Wyatt 2008, 167]. È questa una visione in sostanza ottimistica, che eguaglia evoluzione tecnologica e progresso umano e che ha avuto sostenitori sia nella sinistra marxista (per Lenin il comunismo è il potere dei Soviet piú l’elettrificazione) sia nella destra conservatrice, la quale vede nella sola tecnologia la possibilità di risolvere le crisi incombenti del mondo contemporaneo (come quella energetica). Ma è anche la constatazione pessimistica di chi contesta la società contemporanea sulla base della sua deriva tecnologica (come hanno fatto Jacques Ellul, Herbert Marcuse e la Scuola di Francoforte), o addirittura tutta la storia dell’Occidente, segnata per Heidegger dal dominio della tecno-scienza, dal pensiero “calcolante”, e dalla dimenticanza dell’Essere. Il problema di questo determinismo è il fatto che esso non lascia spazio alle scelte o all’intervento dell’uomo e, inoltre, ci dispensa dalla responsabilità per le tecnologie delle quali facciamo uso. Se le tecnologie sono sviluppate al di fuori degli interessi sociali, allora i lavoratori, i cittadini e tutti gli altri hanno poche opzioni a propria disposizione circa l’uso e l’effetto di queste tecnologie. Que-
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sto fa l’interesse di chi è responsabile dello sviluppo di nuove tecnologie, indipendentemente dal fatto se esse sono prodotti di consumo o strumenti di potere. Se in effetti la tecnologia segue un cammino inesorabile, allora il determinismo tecnologico consente a tutti noi di rifiutare le responsabilità per le scelte tecnologiche che facciamo individualmente e collettivamente e di ridicolizzare le persone che vorrebbero sfidare i passi e la direzione del cambiamento tecnologico. [Wyatt 2008, 169]
In contrasto con tale determinismo tecnologico, spesso assunto tacitamente come una sorta di senso comune dalle masse come anche dai politici, lo SCOT vuole porre al centro dell’attenzione le azioni umane che forgiano la tecnologia, il cui uso non può essere inteso appieno senza comprendere i modi in cui essa viene incorporata nel contesto sociale. Demistificando la sua presunta neutralità, si sottolinea come il successo di una data tecnologia non sta nel fatto che essa sia quanto di meglio a disposizione, bensì deve essere ricercato nel contesto sociale, ovvero sia nel modo in cui vengono definiti i criteri di ciò che “è meglio” e con i quali è misurato il suo “successo”, sia individuando i portatori di interessi (gli stakeholders) che partecipano alla loro definizione. Così della tecnologia si analizzano le storie di competizione e i fallimenti, allo scopo di indagare a fondo cosa ha realmente portato al prevalere di un prodotto anziché di un altro, al di là del semplice determinismo efficientista, mettendo in luce com il percorso di un’affermazione tecnologica sia dapprima multilineare, per essere progressivamente condotto a semplificazione; per cui esso non segue una logica unilaterale, ma è il frutto complesso dell’interazione di numerosi elementi socio-politico-economici [cfr. Bucchi 2002, 106]. La STS è pienamente consapevole del valore di tali ricerche e anzi le valorizza nell’intento di pervenire ad una visione integrata del modo in cui la scienza viene edificata. Come afferma Sheila Jasanoff nel criticare il troppo limitato programma della SSK, scopo della STS è comprendere come interi edifici di conoscenza scientifica e di ordine sociale si costruiscono l’uno sull’altro, come la società umana perdura, cambia e a volte collassa nel tempo. Esteso attraverso lungo tutto lo spettro dei rapporti tra scienza e società, un approccio metodologicamente simmetrico richiede di far uso delle stesse risorse per spiegare la chiusura, la stabilità e il cambiamento della conoscenza della gente di tutto il mondo e la loro organizzazione di vita nel mondo, in quanto ciascuno è costitutivo dell’altro. La storie che
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noi raccontiamo su come l’ordine è conseguito nella scienza non dovrebbero, in questa lettura, essere disegnate in base a differenti strategie e strumenti analitici rispetto a quelle che noi raccontiamo sulla durata delle regole o istituzioni o culture, cioè gli “artefatti” del mondo sociale. Una analisi politica della scienza e della tecnologia condotta in modo pienamente conseguente cerca di illuminare la “co-produzione” di ordine sociale e scientifico – cioè la produzione di forme di vita e forma di conoscenza che si sostengono l’un l’altra – in tutti i dettagli e la specificità che tale progetto implica. [Jasanoff 1996, 409-10]
In tale concetto di “co-produzione” – che abbiamo visto era stato anche avanzato da Latour – v’è il senso “forte” degli STS. Esso radicalizza la prospettiva della SSK, spostando il luogo della genesi della scienza, come quello della stessa società, in un punto archimedeo nel quale avviene la co-produzione di entrambi, in un reciproco rinviarsi tra pratiche sociali e pratiche cognitivi in cui a nessuna delle due viene assegnato un ruolo privilegiato. Come afferma la Jasanoff [2005, 34], «l’ordine naturale e l’ordine sociale […] vengono prodotti contemporaneamente o, piú precisamente, sono co-prodotti»: vengono prodotti farmaci che servono per combattere malattie che insorgono a seguito della disponibilità dei farmaci; la classificazione delle malattie fornisce diagnosi che a loro volta rinforzano tali classificazioni; e la scienza del clima ha al tempo stesso creato la conoscenza e le istituzioni che permettono sia di convalidare sia di combattere tale conoscenza [cfr. Sismondo 2008, 17], in un reciproco rincorrersi di cause ed effetti che non permette di stabilire un divenire unilineare nei rapporti tra scienza e società. Le forme concrete in cui questa co-produzione prende corpo sono quelle della pubblica partecipazione dei non-esperti alla definizione dell’agenda, alla assunzione delle decisioni e alla formazione delle politiche che presiedono ai processi di produzione della conoscenza. Tale partecipazione della gente alla definizione delle politiche della conoscenza era stata già auspicata da Feyerabend, che vedeva in essa il modo per rompere il monopolio degli esperti in un quadro di “relativismo democratico” in cui – per le questioni fondamentali – devono essere i cittadini ad avere l’ultima parola nel decidere ciò che è vero e falso, ciò che è utile o inutile alla società [cfr. Feyerabend 1978, 62, 147-9; 1987, 52-9, 143, 159-60]. Questa indicazione – che tanta indignazione ha suscitato tra i difensori della razionalità scientifica e che potrebbe essere ritenuta un 198
oggettivo sostegno per supportare le motivazioni ideologiche che hanno portato a certe pretese della politica di imporre fedi religiose e pregiudizi o interessi particolari a scapito del parere degli scienziati e degli organismi preposti alla ricerca scientifica, così come è avvenuto nell’America di Bush ed è stato ampiamente documentato [cfr. Mooney 2005; Grant 2007, 289321; Shulman 2006] – è invece stata ripresa nell’ambito della STS a seguito della crisi del cosiddetto modello del deficit della pubblica comprensione della scienza, in base al quale la gente è incapace di comprendere le acquisizioni della scienza – a causa di pregiudizi e di cattiva divulgazione dei mass-media – per cui è necessario assumere nei suoi confronti un atteggiamento paternalistico e pedagogico mediante occasioni di pubblica diffusione e celebrazione dei fasti scientifici (“laboratori aperti”, “festival della scienza” e così via) [cfr. Bucchi & Neresini 2008, 450]. Tale modello è stato messo in crisi – tra l’altro – dalla constatazione che l’aumento del livello di conoscenza della scienza da parte del pubblico (favorito dalle istituzioni pubbliche all’interno di programmi tesi ad aumentare la Public Understanding of Sciences – PUS, come quello promosso nel Regno Unito dalla Royal Society negli anno ’80) non porta affatto a un atteggiamento maggiormente positivo verso di essa, ma addirittura può ingenerare maggiore diffidenza e cautela. Ciò ha fatto sì di mettere in discussione l’idea che la diffidenza verso la scienza sia dovuta solo ad un deficit di informazione e preparazione. Come ha messo in luce un recente rapporto commissionato dalla Commissione Europea, «il problema è piú di fondo e sta nella mancanza di fiducia del pubblico verso la politica e le autorità scientifiche» [cfr. European Commission 2007, 55]. Tale complesso rapporto tra pubblico ed esperti, tra competenze profane e competenze scientifiche, è stato studiato in una serie di ricerche che sono entrate nello specifico di certi settori specialistici, dimostrando quanto fossero complesse e non lineari le ralazioni esistenti tra non-esperti e conoscenze scientifiche istituzionalizzate [cfr. Bucchi & Neresini 2008, 451-2]. Ne è risultato uno slittamento di accenti dalla necessià di educare un pubblico scientificamente incompetente al bisogno e al diritto da parte della gente a partecipare non solo alla discussione sulle scelte fondamentali di politica della scienza, ma alla sua co-produzione, in cui il ruolo dei non-esperti e le loro conoscenze “locali” siano concepite come essenziali alla 199
produzione della scienza stessa: conoscenza profana e conoscenza esperta non sono il frutto di esperienze diverse aventi origine in luoghi diversi che successivamente entrano in interazione, ma risultano da un comune processo portato avanti all’interno di un “forum ibrido” nel quale entrano in interazione specialisti e non specialisti [cfr. Callon & al. 2001]. Tale co-produzione è particolarmente evidente nell’area della ricerca medica, con la crescente attivazione delle organizzazioni dei pazienti, come è avvenuto in particolare nel caso dell’AIDS [cfr. Epstein 1996] e in altri documentati settori [cfr. Bucchi & Neresini 2008, 453-5]. Con l’importanza data al processo democratico di definizione degli obiettivi della tecnoscienza, viene posto in debita luce uno degli aspetti piú importanti degli STS: la sua vocazione civica e l’impegno dei suoi sostenitori a favore di una tecnologia e di una scienza che vada a vantaggio del maggior numero possibile di persone e di una estensione della partecipazione democratica anche nell’assunzione di decisioni tecniche. Questo ambito è stato definito come la “Low Church” degli STS che – a differenza della “High Curch” [cfr. Fuller 1993b], impegnata nella ridefinizione teorica dei problemi di produzione della conoscenza e in una piú sofisticata comprensione delle scienza e della tecnologia, così come descritto in questo paragrafo – ha a che fare con quella che di solito si chiama “politica della scienza”, ma dando a tale denominazione un accento di riforma attivistica della scienza e della tecnologia, in favore dell’eguaglianza, del benessere sociale e dell’ambiente (essa è propriamente quel settore che accademicamente ha assunto il nome di “Science, Technology and Society”). Tale modo di intendere la co-produzione è tuttavia abbastanza innocuo e tutto sommato non contraddice in modo essenziale le concezioni della RV, in quanto esso potrebbe essere completamente riassorbito all’interno della distinzione tra i due contesti: il fatto che la ricerca scientifica fruisca del contributo dei non esperti, mettendo a disposizione degli scienziati dati, informazioni e valutazioni, non è molto di piú della tesi che all’origine della gravitazione universale vi sia la mela caduta in testa a Newton. Il problema è infatti quello del controllo e della valutazione: nel testare le varie soluzioni (un nuovo farmaco, una nuova tecnologia) sono messe in atto delle tecniche e delle procedure che sono disponibili solo all’interno di una data comunità scientifica; e anche quando le comunità locali 200
giudicano negativamente l’introduzione di una nuova tecnica agricola (a causa della sua nocività ambientale, del suo danno sulle produzioni locali o sulla biodiversità) fanno uso di ragioni scientifiche già disponibili nel patrimonio culturale e non si appellano a pratiche tribali o a tradizioni popolari. Solo che ridisegnano la scala valoriale sulla base della quale effettuare le scelte (preferibilità della preservazione delle piccole comunità rurali socialmente coese piuttosto che produzione su ampia scale in società anonime ed omologate), di conseguenza ricavando dalla conoscenza scientifica disponibile le conoscenze che sono a tale scopo proficuamente utilizzabili. Ciò ovviamente non toglie il fatto che sia possibile anche preferire altri valori (ad es. la preservazione della tradizioni tribali, in quanto assicurarebbero una maggiore armonia tra uomo e natura) e di conseguenza preferire alla tradizione della conoscenza scientifica edificata dall’Occidente altre tardizioni culturali, che con la scienza non hanno nulla a che fare. E, ancora piú importante, quanto detto non esclude che il coinvolgimento delle comunità dei non esperti o il ricorso a tradizioni culturali diverse e al pluralismo teorico (per dirla con Feyerabend) possa aprire nuove vie di ricerca e nuovi ambiti scientifici preclusi da interessi costituiti di tipo sia accademico sia economico; e ciò per il fatto – già prima accennato in merito al SSK – che la scienza non deve essere intesa come una impresa monolitica che coglie tutta e solo la realtà oggettiva, ma come un “taglio” su di essa, in cui la realtà viene semplificata, idealizzata e modellizzata, dando luogo a competenze scientifiche in relazione al modo in cui è stato operato tale filtro sul reale [cfr. Licata 2008]. Da questo punto di vista la scienza è contestuale, senza però che ciò escluda la possibilità che – all’interno di ciascun contesto – si possa parlare di verità e falsità, di procedure efficaci o meno, di tecniche piú o meno produttive. Ciò non porta all’annichilazione del reale, alla sua integrale costruzione del soggetto, così come vorrebbe il costruttivismo radicale (v. § 2.6) o sostiene Latour. Come afferma Marcello Cini [2006, 47], La realtà esiste là fuori ed è talmente solida e indipendente dalla nostra volontà da opporsi con forza ad ogni tentativo di piegarla ai nostri desideri senza aver appreso, con perseveranza e fatica, il modo appropriato per riuscire a farlo / Si tratta invece di riconoscere che essa è talmente ricca, complessa e articolata da non essere rappresentabile se non dopo averne selezionato, all’interno dell’infinita varietà
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dei suoi differenti aspetti, alcuni tratti riconosciuti, nel contesto storico dato, come fondamentali. Detto altrimenti, in termini ben noti, si tratta di non confondere la mappa col territorio.
La conseguenza di questa consapevolezza è, da un lato, la dismissione della fisica come scienza privilegiata, come modello di conoscenza, e dall’altro il fatto che i linguaggi disciplinari messi in atto per attingere livelli diversi del reale (di complessità crescente) diventano sempre piú diversificati. Tuttavia, Questi linguaggi non sono necessariamente in contraddizione: essi corrispondono a differenti modellizzazioni del dominio fenomenologico e a diversi punti di vista (culturali, epistemologici, tecnologigici) a partire dai quali si costruiscono le categorie concettuali e i metodi pratici utilizzati per analizzare il dominio considerato. In queste discipline sarà dunque sempre piú difficile inventare un “esperimento cruciale” capace di decidere che ha ragione e chi ha torto, perché tutti i modelli sono parziali e unilaterali. Ognuno di essi è al tempo stesso “oggettivo”, perché riproduce alcune proprietà del reale, e “soggettivo”, perché il punto di vista è scelto dai gruppi diversi in conflitto tra loro. [Ib., 52]
Mi sembra che, con le parole di Cini, siamo arrivati al cuore del modo di procedere della scienza: essa, operando delle semplificazionie dei tagli sulla infinita ricchezza del mondo naturale, costruisce oggetti e sistemi fisici ideali non esistenti in natura; solo ad essi sono applicabili le equazioni matematiche: la termodinamica non ha a che fare con i gas, ma con i gas ideali, la dinamica non tratta dei corpi, ma di corpi perfettamente rigidi ed elastici, la superficie su cui rotola la sfera di Galilei non è una superficie qualunque, ma una superficie perfettamente liscia e così via. Insomma le teorie scientifiche non parlano della natura, ma di un modello idealizzato di essa: scambiare tale modello con la natura e quindi ritenere che la realtà sia fatta letteralmente di gas ideali, di corpi rigidi e così via sarebbe un grave errore epistemologico, una confusione concettuale; sarebbe scambiare il piano epistemico per quello ontologico. Di ciò è consapevole, ad es., Isabelle Stengers quando introduce il problema della pertinenza: «la pertinenza introduce l’idea che noi ne sappiamo sempre molto di più sul reale di quanto le nostre categorie ci permettono di costituire come oggetto, e che il rapporto di conoscenza non appare come un confronto nudo tra soggetto ed oggetto» [Stengers 1985, 69]. In tal modo la costruzione di modelli semplici ed idealizzati è 202
indispensabile per «accostarsi a certi fenomeni in modo tale che si presentino come calcolabili» [ib., 72]. Se ne conclude che non si tratta tanto di contrappore tra loro evidenze oggettive, ma di giudicare la pertinenza di un dato strumento per giudicare del “reale” con cui abbiamo a che fare. Tuttavia può capitare che questo complesso procedimento di mediazione tra natura e concettualizzazione scientifca venga dimenticato e si finisca per scambiare continuamente il modello ideale con la realtà, attribuendo a quest’ultima quanto è tipico solo del primo. Così può capitare che il fisico pensi che la natura sia fatta di molecole perfettamente rigide che seguono le leggi della dinamica newtoniana; ma può anche capitare che il filosofo della scienza giudichi la fisica classica come inadeguata in quanto il mondo non è fatto di corpi che seguono esattamente le sue leggi. Così, ad es., Ceruti può dire a proposito della “nuova scienza” della complessità e del caos: All’universo dei gas perfetti, degli orologi, dei piani inclinati, degli adattamenti reciproci si è sostituito l’universo delle strutture dissipative, dei quasar e dei buchi neri […]. All’universo dominato dagli stati di equilibrio, dall’uniformità delle situazioni e degli oggetti, dall’atemporalità delle leggi che lo regolano, si è sostituito un universo caratterizzato da stati lontani dall’equilibrio e in perenne evoluzione, dalla ricchezza e dalla varietà delle strutture e degli oggetti, dalla possibilità stessa di mutamento delle leggi che lo regolano […]. L’accento si sposta dalla semplificazione alla complessità [1986, 10].
Ma sarebbe epistemologicamente più esatto dire: «Ad un modello idealizzato di universo in cui si assume che i corpi siano in stato di equilibrio ecc., si è sostituito un modello di universo più concreto nel quale cade questa assunzione idealizzante e si studiano corpi non in equilibrio, e così via». Questa transizione dal modo materiale di parlare ad uno espistemico (per parafrasare la vecchia distinzione carnapiana) non è puramente verbale e di scarso peso, ma permette di esprimersi con maggiore consapevolezza epistemologica della natura delle concettualizzazioni scientifiche. Se infatti si confondono le due formulazioni si potrebbe pensare che ad una concezione “falsa” dell’universo ne sia succeduta una “vera”; che insomma ad una visione irrealistica postulante enti dei quali sappiamo ormai la non esistenza, si sia sostituita una nuova scienza che invece ci fa cogliere “effettivamente” la realtà. Insomma alla scoperta del carattere modellizzante ed idealizzante della visione classica non si associerebbe la consapevolezza che anche nella nuova scienza 203
si fa uso di modelli ideali, venendosi così ad insinuarsi surrettiziamente l’idea che essa ci dia un approccio “diretto”, finalmente adeguato, totale ed oggettivo, alla realtà. Ma le cose non stanno affatto in questi termini: sia nella fisica classica che nella “nuova scienza” non si ha a che fare col reale, ma con dei modelli ideali e quindi tra le due esistono diversi tipi di relazioni (o anche nessuna – è il caso, abbastanza raro invero, della “incommensurabilità”), una delle quali può essere quella di concretizzazione: la “nuova scienza” non farebbe altro, in tal modo, che far cadere alcune assunzioni idealizzanti presenti nella fisica classica in modo da render conto di alcuni aspetti della realtà trascurati, e non senza motivo, dalla prima. Come dicono I. Prigogine e I. Stengers nel descrivere la transizione dai processi reversibili a quelli irreversibili, «l’irreversibilità scatta quando l’oggetto ideale che corrisponde alla conoscenza massima deve essere sostituito da concetti meno idealizzati tali da poter esser descritti da insiemi statistici» [Prigogine & Stengers 1979, 234]. Prigogine rivoluziona la termodinamica non perché ne rivela “errate” le formulazioni, ma in quanto ne esibisce i limiti di applicazione e quindi formula, per le strutture dissipative che stanno fuori del suo dominio, una nuova teoria. Ma questa nuova teoria, a meno di non confondere ancora una volta modello con realtà, è essa stessa la descrizione di comportamenti ideali all’interno di un modello; essa non descrive la “realtà” e quindi anche essa fa delle assunzioni idealizzanti per cui l’“oggetto della teoria” è diverso dall’oggetto reale. Ovviamente tali idealizzazioni si dislocano in punti diversi rispetto a quelli della termodinamica classica, ma in ogni caso esistono, a meno di non credere che la nuova termodinamica ci dia la conoscenza assoluta del reale. Quest’approccio permette di intendere in modo diverso e meno traumatico l’evoluzione della scienza, che verrebbe vista come una forma di riduzione in cui il rapporto deduttivo e il principio di coerenza verrebbero rimpiazzati da quello di concretizzazione per mezzo di eliminazione delle assunzioni idealizzanti implicitamente o esplicitamente effettuate nella teoria antecedente (e ciò renderebbe ragione della “deduzione approssimata” di Popper, della quale avevamo parlato in precedenza) [cfr. Krajewski 1977; Nowakowa 1994]. L’errore – come ha sottolineato Cini – consiste nel “vivere nel modello”, scambiandolo per il reale; o, viceversa, voler vivere così strettamente aderenti al reale da ritenere pervertente 204
ogni tentativo di sua modellizzazione, ipotizzando una modalità di rapportarsi ad esso pre-concettuale e pre-simbolica [cfr. Zerzan 2002] oppure la possibilità di coglierlo in tutta la sua infinita ricchezza mediante un accesso mistico ad esso. Contro entrambe le posizioni si deve sottolineare quello che è il modo imprescindibile con cui l’uomo si avvicina al reale, sia nella scienza che nel pensiero comune: la costruzione di modelli ideali che permettono di coglierlo simbolicamente. È quanto coglie con esattezza un divulgatore scientifico di qualità come James Gleick, molto piú di quanto a volta non si faccia in certi ambienti epistemologici o scientifici, nel riferirsi alla nuova scienza del caos: La scelta è sempre la stessa. Si può costruire un modello più complesso e più fedele alla realtà, oppure si può cercare di renderlo più semplice e più facile da manipolare. Soltanto lo scienziato più ingenuo crede che il modello perfetto sia quello che rappresenti perfettamente la realtà. Un tale modello avrebbe tutti gli inconvenienti di una carta topografica che fosse grande e dettagliata quanto la città che rappresenta, una carta che raffigurasse ogni parco, ogni strada, ogni edificio, ogni albero, ogni buca, ogni abitante e ogni carta topografica. Se una simile carta fosse possibile, la sua specificità la renderebbe inadatta allo scopo: quello di generalizzare ed astrarre. I cartografi mettono in evidenza gli elementi che interessano ai loro clienti. Quale che sia il loro fine, carte e modelli devono semplificare oltre che imitare il mondo. [Gleick 1987, 271-2].
Ebbene, di tutto ciò si deve tener presente quando si vogliano valutare le concezioni della STS, come anche quelle precedentemente esposte in questo paragrafo. Resta il fatto, tuttavia, che una valutazione analitica di quanto prodotto all’interno della STS è resa estremamente difficoltosa dalla molteplicità di approcci, dai diversi livelli di discorso presenti e dai diversi campi di interesse in cui essa si dispiega che «partendo dalla conoscenza scientifica, si sono poi estesi ad artefatti, metodi, materiali, osservazioni, fenomeni, classificazioni, istituzioni, interessi, storie e culture» [Sismondo 2008, 13]; insomma a pressoché tutto quanto abbia a che fare con il modo in cui l’uomo si rapporta con la realtà, come viene anche chiaramente testimoniato dalle mille e piú pagine dell’Handbook di Hackett & al [2008] e da quanto argomenta efficacemente Fuller [2007].
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5. Il costruttivismo e la dissoluzione della realtà Nel corso del paragrafo precedente abbiamo piú volte accennato all’idea della “costruzione” dei fatti scientifici, o in laboratorio o nella pratica sociale, come anche di co-produzione di scienza e società, accennando ad una generale prospettiva “costruttivistica” propria dei molti studiosi che si collocano all’interno degli STS. In effetti il costruttivismo è un approccio generale che si estrinseca in diversi campi di indagine (in particolare in sociologia, in psicologia e nelle scienze dell’educazione) e che ha la sua origine nella tesi di carattere epistemologico e filosofico secondo la quale la conoscenza scientifica (e in generale umana) non è il frutto del riflesso di una realtà oggettiva che vede da una parte il soggetto conoscente e dall’altra l’oggetto conosciuto, ma è piuttosto una costruzione degli scienziati. Ciò significa spostare il fuoco dell’interesse cognitivo dall’oggetto (e quindi si critica l’oggettivismo) al soggetto, dalla realtà ontologicamente data (che dovrebbe essere conosciuta mediante gli strumenti a disposizione degli uomini, come la scienza) alla realtà socialmente costruita. La misura in cui la realtà viene costruita varia a seconda degli approcci, da quelli radicali ai piú moderati e critici. Le sue radici possono essere ricercate lontano: dal “verum ipsum factum” di Vico alla rivoluzione copernicana di Kant, per arrivare a tempi a noi piú vicini con Gaston Bachelard, Jean Piaget, Ludwik Fleck e Thomas Kuhn. Per non dire che a rigore tutto il pensiero idealista è, per questo aspetto, un pensiero costruttivista, il che spiega come molti intellettuali formatisi in esso abbiano accolto con grande favore il pensiero di quegli autori contemporanei che lo sostengono nel modo piú radicale. Inoltre non è da trascurare, per comprendere la fortuna del costruttivismo, la sua connessione col pensiero postmodernista ed ermeneutico, che ha anche con decisione sostenuto lo svaporamento delle strutture dell’essere all’interno delle trame dell’interpretare. Seguendo Kukla, possiamo distinguere tre forme di costruttivismo: il costruttivismo scientifico, per il quale tutti i fatti scientifici sono costruiti; il costruttivismo forte che sostiene che tutti i fatti a nostra disposizione (e non solo quelli scientifici) sono costruiti; infine il costruttivismo fortissimo, il quale aggiunge alla tesi di quello forte che non esiste una realtà indipendente dal soggetto [cfr. Kukla 2000, 25]. In quanto segue 206
tralesceremo l’analisi delle forme di costruttivismo che sono scaturite dal tronco della tradizione anglosassone (delle quali si occupa Kukla) e che abbiamo visto sono in gran parte interne alla galassia degli STS, per esaminare invece quella forma di costruttivismo radicale che è stato il portato di studiosi provenienti da una pratica militante in scienze tradizionalmente soft – quali l’antropologia, la biologia, le scienze cognitive, la teoria dei sistemi – e che hanno avviato a partire dagli anni ’80 una riflessione sulla scienza e l’epistemologia che – in modo autonomo rispetto alla critica e autocritica della RV – scardina le assunzioni che avevano caratterizzato gran parte della tradizione ricevuta e si muove verso un concetto di razionalità che programmaticamente diverge rispetto a quello proprio della cultura occidentale, che viene spesso definita come “classica”. Si fa qui riferimento innanzi tutto allo psicologo americano Ernst von Glasersfeld, che può essere ritenuto il suo principale rappresentante; e poi anche ad altri scienziati e filosofi come Heinz von Foerster, Humberto Maturana, Francisco Varela, Paul Watzlawick, Gordon Pask, George Kelly 30, a cui si possono aggiungere molti altri nomi che in modo piú o meno forte possono essere in qualche modo ricollegate a prospettive costruttiviste che – in considerazione del fatto che possono essere intese, come vedremo, in modo abbastanza generale e spesso generico – sono condivisibili in pratica da chiunque sostenga un ruolo attivo del soggetto nella conoscienza. Nel giudizio di uno suo sostenitore e divulgatore italiano, grazie al costruttivismo si giunge ad una «ristrutturazione più generale e più profonda dei metodi e dell’universo problematico dell’epistemologia» [Ceruti 1986, 63], nella quale vengono nella sostanza ripresi tutte le critiche alla RV che già conosciamo (e quindi si profitta, ad es., della lezione di Kuhn per criticare l’idea di un progresso cumulativo della scienza). Per cui, come afferma un suo sostenitore italiano, questa ristrutturazione può essere intesa come il passaggio da un’epistemologia tendenzialmente normativa (quale restava nei suoi tratti generali anche l’epistemologia post-positivista à la Popper, à la Kuhn, à la Lakatos ecc.), a un’epistemologia che è ormai in uso de30
Una buona via per entrare nel mondo costruttivista è il sito curato da Alexander Riegler: http://www.radicalconstructivism.com/, dal quale si può partire per conoscere personaggi, biografie e bibliografie che trattano di questo ampio e multiforme movimento.
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finire come naturale, un’epistemologia che mette in relazione e utilizza i risultati delle scienze cognitive, biologiche ed evolutive per porre i problemi dei meccanismi, degli strumenti e delle strategie del mutamento delle conoscenze, della relazione e del passaggio fra stati e stadi differenti del sapere, della relazione fra conoscenza e realtà. [Ibidem].
L’epistemologia che scaturisce da questo composito gruppo di studiosi si caratterizza per il fatto di rivendicare – contro l’epistemologia dei “metapunti di vista”, dei metacriteri unificatori, dei sogni di enciclopedie unificate della scienza ad impianto riduzionistico – la «irriducibile pluralità dei punti di vista, dei linguaggi, dei modelli, dei temi e delle immagini che concorrono […] alla produzione delle conoscenze» [ib., 11]; si vuole pienamente rivalutare la pluralità delle componenti che entrano a far parte della conoscenza, la quale finisce per essere una congerie di ipotesi ad hoc, di ragionamenti analogici, di generalizzazioni dall’esperienza di natura induttiva, di formalizzazioni, di temi o nuclei metafisici profondamente radicati e incontrollabili, la cui unità e la cui coerenza risultano legate alla pratica e all’itinerario del soggetto che li utilizza. [Ib., 23-4].
La scienza, così, diventa una “congerie” di elementi dalla natura più disparata, tra i quali non è possibile individuare alcuna gerarchia, alcuna predominanza, e nella quale la “reintegrazione del soggetto” fornisce quel punto di vista particolare che si sottrae ad ogni possibilità di universalizzazione, cioè ad ogni possibile tentativo di ritrovare nel procedere della scienza un qualsiasi metodo che vada al di là della situazione in cui si colloca il singolo scienziato. Il farsi delle idee conosce una polifonicità, una policentricità, che è propria non solo di una certa epoca, non solo di ogni tradizione o programma di ricerca, ma persino di ogni individuo nel suo itinerario biografico: tale policentricità non tollera di essere disciplinata da alcun metadiscorso metodologico che si ponga come unitario, anche all’interno di ciascuno di questi campi. Tutto ciò converge verso la dilatazione del ruolo del soggetto nella teorizzazione scientifica: non più prevalenza della teoria sul materiale empirico, ma addirittura una sorta di individualismo metodologico-costruttivista con vaghe venature solipsistiche: Tutte queste relazioni, questi processi di circolazione, di ricombinazione nell’ecologia delle idee, mettono in evidenza il ruolo
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costruttivo di ciò che è idiosincratico, individuale, contingente: in altre parole connettono il problema della creazione al problema della scelta. La costruzione di un sistema di idee, di un sistema di riferimento categoriale, di una tradizione rimandano in modo essenziale alla irriducibile funzione di scelta di un soggetto, alle sue strategie, ai suoi progetti e alle sue interpretazioni. Il soggetto, l’osservatore reintegrato nelle sue proprie descrizioni irrompe nel sapere scientifico e filosofico contemporaneo […] non quale limitazione di un punto di vista assoluto, che rimarrebbe con ciò operante come ideale regolativo, ma quale riconoscimento operativo dell’irriducibile pluralità dei punti di vista costitutivi di ogni universo cognitivo: irriducibile molteplicità di punti di vista complementari, antagonisti e spesso contraddittori anche all’interno dei processi costitutivi di un medesimo sistema di idee, di una medesima tradizione. [Ib., 32]
Non si tratta tanto di riconoscere solamente il ruolo creativo dello scienziato, la contingenza della scoperta (la mela sulla testa di Newton), i diversi itinerari che possono portare ad una teoria, insomma la “irrazionalità” del “contesto della scoperta”: ciò è appunto, come abbiamo visto, un classico tòpos della più tradizionale delle filosofie della scienza; si tratta, piuttosto, di scaricare anche sul contesto della giustificazione, sul controllo e sulla possibilità della discussione critica ed intersoggettiva delle teorie, tale “idiosincraticità”: se le teorie sono infatti quella “congerie” di componenti che s’è visto, come potrebbe avvenire una discussione razionale dei rispettivi meriti? In un potpourri in cui tutto si confonde non è possibile individuare alcun filo razionale che permetta l’edificazione di un metalinguaggio per una sia pur parziale comunicazione. Ancora una volta, alla rivendicata esistenza di una conoscenza scientifica efficace si accoppia la dichiarata impossibilità di una sua caratterizzazione metodologica; anzi, così come la conoscenza scientifica della realtà “complessa” si disarticola in una molteplicità di teorie “locali”, non regimentate da alcuna metateoria, allo stesso modo il discorso metodologico si frammenta in una serie di discorsi parziali, locali, sempre più particolari che inseguono le orme dell’idiosincraticità della singola tradizione, del singolo programma, del singolo scienziato, addirittura delle singole fasi di evoluzione del pensiero di quest’ultimo. Così come aveva fatto Feyerabend, anche in questo caso ad esser messo sotto accusa è il carattere idealizzante ed astraente della scienza: in contrapposizione ad esso si vuole indicare il compito dell’epistemologia contemporanea nello 209
impedire la produzione di un divario, se non di un abisso, fra una scienza sempre più complessa nelle sue articolazioni interne come pure negli oggetti che costituisce, ed un’attività filosofica tenacemente aderente alle sue idealizzazioni, se non alle sue cristallizzazioni concettuali. [Ib., 60-1]
Invero, il mito della aderenza assoluta tra concetto ed oggetto, tra teoria ed esperienza, tra natura e scienza – che abbiamo visto aveva motivato anche la preferenza feyerabendiana per le “tradizioni storiche” – non si limita solo alla rivendicazione di una epistemologia naturale, ma ha anche le sue conseguenze e i suoi riflessi in un altro contesto, influenzato dal pensiero postmodernista e dalla critica heideggeriana della razionalità tecnico-scientifica. Questo atteggiamento si è in Italia espresso attraverso la teorizzazione di un un pensiero “debole” che – contrapponendosi alla razionalità “forte” della scienza come intesa tradizionalmente –rivolga «un nuovo e più amichevole […] sguardo al mondo delle apparenze» e vada «nella direzione di un pensiero capace di articolarsi (dunque di “ragionare”) nella mezza luce», in quanto «il prezzo pagato dalla ragione potente è una impressionante limitazione degli oggetti che si possono vedere e di cui si può parlare» [Rovatti & Vattimo 1986, 9]. La ormai pervadente priorità del soggetto e della teoria – che in questo caso non sarebbe altro che la sua Weltanschauung – va nella direzione di un modo di intendere la verità che perde ogni referenza con l’oggetto esterno per diventare interna ad un linguaggio, ad una “forma di vita”. Sbiadisce anche l’idea di un mondo che sia oggetto della nostra conoscenza, indipendente da essa: «[…] questo mondo non è un mondo che già esiste, ma è un mondo che è il risultato della nostra impresa cognitiva» [Gargani 1990, 20]. È verso quest’esito che infatti muove l’epistemologia del “costruttivismo radicale”, in cui si abiura a chiare lettere il “realismo metafisico” che sostiene l’idea che la verità consiste nell’accordo con una realtà “oggettiva”, concepita come assolutamente indipendente [cfr. von Glasersfeld 1981, 19-23], in favore della tesi che «quando noi percepiamo il nostro ambiente siamo noi che lo inventiamo» [von Foerster 1981, 37]. Ma cosa significa “costruire una realtà”? Semplicemente che la nostra conoscenza organizza il flusso delle esperienze informi in base alla modalità della fitness, come sembra sostenere von Glasersfeld? Ma in questo caso, se è vero che «una chiave “è adatta” se apre la serratura», sicché «il mondo dell’esperienza, 210
sia nella vita quotidiana sia nel laboratorio, costituisce il banco di prova per le nostre idee» [von Glasersfeld 1981, 20-1], allora non è autocontraddittorio affermare che esso è un nostro prodotto? Insomma, è la serratura un prodotto della chiave che adoperiamo per aprirla? Ma la serratura non si farebbe aprire da un’altra chiave: essa ha pertanto una sua consistenza ontologica, indipendente dalla chiave che la apre. Così se è vero che «[…] nel suo insieme, la nostra conoscenza è utilizzabile, importante, vitale […] se resiste al mondo dell’esperienza e ci abilita a fare predizioni e a provocare o a evitare certi fenomeni (cioè fatti, esperienze)», per cui «consideriamo le idee, le teorie e le “leggi naturali” come strutture che continuamente sono esposte al mondo dell’esperienza (dal quale le abbiamo ricavate) e che continuano a resistere a esso oppure no», ciò significa che tale mondo dell’esperienza ha una sua funzione correttiva, offre una resistenza, può opporsi e contrastare le nostre idee, leggi naturali e teorie e quindi fa sì che noi le correggiamo. Ma ciò verrebbe sottoscritto dal più tradizionale dei sostenitori della RV, il quale aggiungerebbe solo l’esigenza di specificare le modalità con cui tale “correzione” avviene e richiederebbe in più che questo “adattamento” sia suscettibile di controllo pubblico ed intersoggettivo. Del resto, quanto i costruttivisti descrivono il modo in cui è caratterizzato il metodo scientifico mediante il quale lo scienziato elabore le proprie teorie, si mantengono a livelli di genericità che farebbero arrossire anche il piú “semplicista” dei sostenitori della RV. Ecco, ad es., come von Glasersfeld caratterizza il metodo scientifico, sulla base di quanto sostenuto da Maturana: Humberto Maturana ha caratterizzato il metodo scientifico come una successione di quattro passi che gli scienziati effettuano quando intendono spiefare un fenomeno specifico: 1. Definiscono le condizioni nelle quali il fenomeno può essere osservato, nella speranza che altri saranno in grado di confermare l’osservazione. 2. Propongono un meccanismo ipotetico o modello che potrebbe servire da spiegazione di come il fenomeno potrebbe originarsi. 3. Da questo meccanismo deducono una predizione su un evento che non è stato ancora osservato. 4. Quindi procedono a definire e generare le condizioni nelle quali ci si aspetta che il meccanismo porti alla osservazione dell’evento predetto. [von Glasersfeld 2001, 34]
Non era necessario aspettare Maturana per sostenere – nel 211
2001! – simili banalità che possono essere rinvenute in qualsiasi manuale di liceo che esponga il metodo ipotetico-deduttivo di Gaileo. Tuttavia ciò è sufficiente per affermare che il termine “fenomeno” «non si riferisce alle cose in un mondo indipendente, ma a ciò che gli osservatori isolano nelle loro esperienza» [ibidem] e pertanto – sulla base delle ricerche di Piaget su come i bambini progressivamente strutturano il loro mondo e utilizzando il concetto peirciano di abduzione – è il viatico per criticare «la tacita assunzione che una teoria la quale continui ad adattarsi all’esperienza e a generare risultati soddisfacenti debba in qualche modo riflettere la struttura di una realtà indipendente» [ib., 36], ovvero la confusione tra realtà esperienziale e mondo reale: il vescovo Berkeley sarebbe stato ben felice di trovare propri allievi ancora all’alba del terzo millennio. Ovviamente quanto sostenuto non si riferisce alla realtà della microfisica o di altri sofisticati ed astratti campi di indagine i cui livelli di complessità si sottraggono ad una presa conoscitiva univoca [cfr. Licata 2008, ???], ma anche a quella di ogni giorno, «alla sedia su cui siedi, alla tastiera che ti sta di fronte, alle mani che battono i tasti, al profondo respiro che hai appena preso» [von Glasersfeld 2001, 36]. Per cui si preferisce, in riferimento alla nostra conoscenza, parlare di intersoggettività, piuttosto che di obiettività [cfr. ib., 37]: come aveva detto Popper riferendosi alla scoperta kantiana, l’oggettività scientifica deve essere intesa come possibilità di controllo intersoggettivo [cfr. Popper 1930-33, 68]; ma ciò non significava per Popper la negazione dell’esistenza di un mondo reale, indipendente dal soggetto: egli sapeva benissimo che oggettività e realtà sono due concetti diversi, il primo di natura epistemica, il secondo avente carattere metafisico. Invece questi due livelli vengono confusi dai costruttivisti radicali, saltando dall’uno all’altro con grande facilità: In considerazione del fatto che, come ogni altra conoscenza razionale, le teorie scientifiche sono derivate dall’esperienza umana e formulate in termini di concetti umani, sembra che sia non piú di una pia speranza aspettarsi che queste teorie riflettano qualcosa che giaccia al di la dell’interfaccia esperienziale. [von Glasersfeld 2001, 41].
Sarebbe come dire che dal fatto di poter misurare un tavolo in base a diverse scale metriche (in metri, in pollici, mediante un metodo di trangolazione ecc.), ne seguirebbe che le dimensioni del tavolo sono legate al tipo di rappresentazione metrica che ne abbiamo, dimenticando il fatto che tutte le diverse scale 212
sono tra loro convertibili. Insomma una sorta di fenomenismo che si richiama esplicitamente a Berkeley e a Kant, ma dimenticando che per costoro l’ammissione di una capacità ordinatrice e strutturatrice del soggetto sul flusso dell’esperienza non significava affatto l’annichilazione dell’oggetto, ovvero il suo totale riassorbimento nel soggetto. Il concetto di “costruzione degli oggetti” o “costruzione del reale” sembra oscillare, in maniera irriducibilmente ambigua, tra le tre forme di costruttivismo menzionate precedentemente, senza che i loro stessi autori paiano averne una chiara consapevolezza. Come si conciliano infatti le affermazioni prima citate con la risposta all’accusa di negare la realtà, per la quale il costruttivismo «nega solo che noi possiamo razionalmente conoscere una realtà al di là della nostra esperienza [a reality beyond our experience]» [ib., 41]? Il fatto che sia impossibile conoscere una realtà posta al di fuori della nostra esperienza – a meno di non essere dei metafisici dommatici o dei mistici intuizionisti – è una tesi che sarebbe accettata da ogni realista (da un Lorenz, per fare un esempio). E poi, che significa “al di là della nostra espereinza”? Significa “accessibile senza far ricorso ad alcuna esperienza”? O che è in linea di principio “al di là di ogni esperienza possibile”? E poi come deve intesi tale esperienza, come diretta o anche indiretta? Sono tutte questioni, queste, che i grandi maestri del positivismo e dell’empirismo logico si sono poste e che hanno cercato di discutere con profondità inammaginabili ai costruttivisti radicali. Basterebbe leggere l’Aufbau di Carnap [1926b] o la Teoria della conoscenza di Schlick [1925], o seguire il dibattito sui protocolli in seno al Circolo di Vienna per avere esempi di ben altra profondità con la quale vengono affrontati questi problemi. Che senso ha allora affermare che il costruttivismo radicale «sviluppa una teoria della conoscenza che non riguarda più una realtà “oggettiva” ontologica, ma esclusivamente l’ordine e l’organizzazione di esperienze del mondo del nostro esperire»? [von Glasersfeld 1981, 22-3]. In merito viene citata la posizione di Piaget, secondo la quale «lo scopo della cognizione, visto che non può consistere nella scoperta e nella rappresentazione di un mondo indipendente, dovrebbe essere considerato come uno strumento per l’adattamento al mondo così come esso viene sperimentato» [2001, 39]. Una concezione che risalirebbe anche a William James, Georg Simmel, Alexander Bogdanov e ad Hans Vaihinger; ma che sappiamo è anche di Lo213
renz, che tuttavia aveva nel concetto di adattamento trovato un supporto per sostenere la realtà del mondo esterno, dotato di sue specifiche strutture ontologiche. Due sono le cose: o questo “mondo del nostro esperire” ha effettivamente quella funzione correttiva prima esposta, ed allora esso ha una sua consistenza ontologica; oppure non ha alcuna consistenza ontologica, ed allora viene a vanificarsi ogni idea di fitness come successo, «da intendersi nel senso della sopravvivenza all’interno di vincoli posti dall’esperienza» [Ceruti 1986, 89]. Afferma von Glasersfeld che nel processo di adattamento «ciò che importa non è corrispondere [to match] ad un mondo ontico, ma adattarsi [to fit] a quello esperienziale, nel senso di essere in grado di evitare qualsivoglia ostacolo o trappola esso possa presentare», per cui la conoscenza deve intendersi come un “adattamento funzionale” [functional fit]: non è «una rappresentazione vera della realtà», bensì consiste nel «possedere vie e mezzi per agire e pensare che permettano di raggiungere gli scopi che si è scelti» [von Glasersfeld 2001, 40]. Ma se il mondo dell’esperienza può presentare delle trappole o ostacoli da evitare, allora questi impedimenti non dipendono dal soggetto, non sono da esso costruite, ma esso se li trova innanzi, al punto che li deve evitare per non farsi da essi danneggiare: essi hanno dunque una loro consistenza ontologica che non è nella piena disponibilità del “soggetto costruttore” (difficoltà che l’idealismo ben conosceva e per questo distingueva un Io empirico da un Io trascendentale, un soggetto individuale, da un soggetto assoluto). Ma, si potrebbe ribattere, il problema è che tale consistenza ontologica è il risultato delle nostre stesse procedure cognitive; è il prodotto del nostro corpo che funzionerebbe da vera e propria “macchina ontologica” in un processo di “co-definizione” tra soggetto che conosce ed oggetto conosciuto [cfr. Varela 1990, 45]. Ma chi è il soggetto di tale “codefinizione”, chi è il protagonista di tale “costruzione della realtà”? Il singolo individuo, come sembra a volte si sostenga quando si rivendica il ruolo dell’individualità, della “idiosincraticità”, nell’impresa cognitiva? Sembra difficile, però, conciliare una tale posizione con il rigetto del solipsismo [cfr. von Foerster 1981, 54-5] o con un’etica della responsabilità [cfr. Gargani 1990, 23]. Oppure è l’umanità (la specie, lo spirito, l’idea o qualche altro surrogato del genere) nel suo complesso? Ed in questo caso non si sarebbe detto nulla di nuovo rispetto a quanto è ormai stato dibattuto dalle 214
più tradizionali correnti epistemologiche e filosofiche. Rispetto, ad es., a quanto è stato sostenuto con ben altra profondità e sottigliezza da Kant, oppure da Cassirer, Vaihinger, Mach e Avenarius ecc., per non parlare delle articolate e sofisticate elaborazione che possiamo trovare all’interno degli STS. Alla base di tutta questa discussione sembra esserci una disarmante ingenuità filosofica – giustificabile forse col fatto che i principali sostenitori di queste concezioni sono per lo più biologi e psicologi – ed insieme una incredibile disinvoltura logica che permette di trarre conclusioni del tutto ingiustificate dagli esempi e dai casi addotti a loro sostegno. Per quanto riguarda la disinvoltura argomentativa citiamo, una per tutte, la tesi della non linearità del tempo – il futuro può determinare il presente – sostenuta facendo leva sulle cosiddette “profezie che si autodeterminano”. Si consideri questo esempio portato da Watzlawick e le conclusioni che ne trae: Una profezia che si autodetermina è una supposizione o profezia che, per il solo fatto di essere stata pronunciata, fa realizzare l’avvenimento presunto aspettato o predetto, confermando in tal modo la propria “veridicità”. Chi per esempio suppone - per un qualsiasi motivo - di essere disprezzato, assumerà nei confronti degli altri un comportamento permaloso, scostante e diffidente che finirà per suscitare proprio quel disprezzo che a sua volta diventerà la “prova”. […] Nel pensiero causale tradizionale l’avvenimento B viene visto per lo più come l’effetto di un avvenimento causale precedente ad esso (A) (che naturalmente avrà avuto le sue proprie cause esattamente come il verificarsi di B avrà a sua volta come conseguenza altri fatti). Nella sequenza A-B, A è perciò la causa e B l’effetto. La causalità è lineare e B segue A in successione temporale. In questo modello di causalità B non può quindi avere un effetto su A poiché questo implicherebbe un’inversione temporale: significherebbe cioè che il presente (B) avrebbe in questo caso un effetto retroattivo sul passato (A). L’esempio presente propone una situazione diversa: quando nel marzo 1979 i giornali californiani cominciarono a pubblicare servizi sensazionali su un’imminente e drastica riduzione nell’erogazione di benzina, gli automobilisti californiani diedero l’assalto alle pompe per riempire i loro serbatoi e tenerli possibilmente sempre pieni. Fare il pieno di 12 milioni di serbatoi (che fino a quel momento erano mediamente solo a un quarto del livello) esaurì le enormi riserve disponibili, provocando praticamente da un giorno all’altro la scarsità predetta; mentre l’ansia di tenere i serbatoi quanto più pieni possibile (invece di riempirli quando erano quasi vuoti) creò code interminabili di macchine e lunghissimi tempi di attesa ai distribu-
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tori, aumentando il panico. Quando tornò la calma si venne a sapere che l’erogazione di benzina nello Stato della California era stata ridotta solo di poco. In questo caso il pensiero causale tradizionale non funziona. La scarsità non si sarebbe mai verificata se i mass media non l’avessero predetta. In altre parole, un avvenimento non ancora verificatosi (quindi futuro) ha prodotto effetti nel presente (l’assalto alle pompe di benzina) che a loro volta hanno fatto sì che quell’avvenimento divenisse realtà. In questa circostanza è quindi stato il futuro - e non il passato - a determinare il presente. [Watzlawick 1981b, 87-8]
Questo esempio, che dovrebbe nelle intenzioni del suo autore scardinare uno dei più sacrosanti principi della scienza fisica (la unidirezionalità della freccia del tempo), trae la sua forza apparente dalla confusione effettuata dall’autore tra evento futuro ed aspettazione di un evento futuro, aspettazione che è presente ed anteriore all’evento che il futuro avrebbe, secondo lui, determinato. Ed inoltre, quale “evento” futuro avrebbe determinato l’evento presente? La “drastica riduzione nell’erogazione di benzina” non c’è stata (s’è avuto solo una lieve riduzione), quindi essa non è affatto un “evento”, neanche futuro. Esso è un evento solo nell’aspettativa della gente, nella sua fantasia: ciò che si può al massimo inferire da questo esempio è l’assai ovvia conclusione che le aspettative e le inclinazioni delle persone hanno una incidenza diretta sulla realtà, che viene da esse influenzata; ma certo con ciò non si dimostra per nulla che si ha una inversione della classica sequenza temporale, per cui ciò che viene dopo influenza ciò che viene prima. E questo non è che un esempio tra i numerosi che potrebbero essere trovati di tali disinvolti modi argomentativi presenti sia nelle opere di Watzlawick sia anche negli altri esponenti del “costruttivismo radicale”. V’è in generale, e non solo in Watzlawick, la difficoltà a distinguere chiaramente tra il livello epistemico del discorso ed il livello ontologico, sicché si passa continuamente da affermazioni che riguardano il nostro modo di descrivere o parlare della realtà a tesi che concernono la realtà in quanto tale. Ad esempio, dal fatto che si utilizzano procedure idealizzanti (livello epistemico) si passa a concludere che si concepisce il reale come fatto di forme perfette, lineari ecc. (livello ontologico) e così via. È l’analogo del classico errore a suo tempo da Marx individuato in Hegel, consistente nello scambiare il modo in cui ci si appropria dalla realtà con la produzione della realtà stessa; nel caso del costruttivismo, si confonde continuamente 216
il modo della produzione della conoscenza con la produzione dell’oggetto della conoscenza. Oppure, nel caso di coloro che sono filosoficamente più avvertiti (come ad es. Gargani) si denuncia correttamente l’errore di scambiare la rappresentazione della realtà per la realtà stessa [Gargani 1990, 24] (il modello ideale per la realtà cui esso si riferisce, in una sorta di sua entificazione o ipostatizzazione), ma poi si finisce per far svaporare questa realtà rendendola oggetto di una nostra costruzione in base a requisiti di carattere etico ed estetico [ib., 23]. Ma non è allora la nostra rappresentazione la realtà? Che bisogno v’è di avvertire a non commettere tale “scambio”? 2.6. L’approccio femminista alla scienza La sempre maggiore consapevolezza “di genere” che ha caratterizzato negli ultimi decenni la cultura femminista ha interessato anche i problemi concernenti la concettualizzazione della scienza, focalizzandosi sul modo in cui ha operato il principio “androcentrico” sia nella costituzione vera e propria della scienza, sia nella riflessione epistemologica su di essa. La critica femminista si colloca all’interno di un generale atteggiamento che considera la scienza non un’impresa intellettuale neutrale, indipendente rispetto alla società, ma piuttosto profondamente influenzata da essa e quindi permeabile alle ineguaglianze e alle discriminazioni sociali, in primo luogo a quella che è più radicata nella storia: la considerazione della donna come un essere umano di qualità inferiore rispetto al sesso maschile, con la conseguente sua esclusione sia dai ruoli intellettuali scientifici, sia dal potere politico-economico. Insomma, scopo della critica femminista è quello di mettere in luce «come il simbolismo sessuale, le caratteristiche sessiste della struttura sociale della scienza, nonché l’identità maschile e il comportamento dei singoli scienziati abbiano lasciato tracce pesanti sulle problematiche, i concetti, le teorie, i metodi, l’interpretazione, l’etica, i significati e gli obiettivi della scienza» [Harding 1986, 30]. È naturale che il pensiero femminista sulla scienza – che presenta una grande varietà e non può essere inteso come una monolitica concezione dalle semplicistiche assunzioni – abbia considerato naturali alleati i filosofi che hanno contestato, per altre motivazioni, l’immagine tradizionale della filosofia della scienza (in primo luogo Kuhn e Feyerabend, ma anche Wittgenstein). 217
Tuttavia nell’approccio femminista alla scienza possiamo distinguere diversi aspetti, a seconda di quale sia il principale oggetto di critica e di quale livello di radicalità essa raggiunga. V’è innanzi tutto una vasta letteratura che affronta gli aspetti sociologici della discriminazione subita dal sesso femminile nell’accesso alla ricerca scientifica e in generale alle professioni intellettuali. Gran parte della letteratura femminista si è dedicata a documentare il modo in cui le barriere sociali e le discriminazioni di genere abbiano di fatto escluso, lungo la storia, le donne dalla ricerca teorica e scientifica; a tal fine un grande ruolo è stato attribuito all’educazione, che ha sempre privilegiato i maschi, scoraggiando le donne a perseguire una carriera intellettuale. E quando le donne riescono a superare gli innumerevoli ostacoli, non sono trattate in modo paritario nelle istituzioni accademiche, hanno meno autorevolezza epistemica, a parità di qualifica hanno salari più bassi [cfr. E. Anderson 1995, 461-2]. È questo il livello più “scontato” della critica femminista, che non tocca la costituzione intrinseca della conoscenza scientifica, la quale ha potuto semmai subire un ritardo a causa della esclusione del punto di vista femminile, ma certo non per questo ne attenua la credibilità epistemica. A queste analisi sociologiche si associa spesso – come complemento e integrazione – l’analisi storica sul condizionamento androcentrico subito dalla scienza nel suo costituirsi, allo scopo di mettere in luce come la stessa razionalità incarnata nella scienza sia pesantemente segnata dal privilegiamento di genere. È questa una critica più radicale, che a volte porta a delegittimare l’intera scienza così come noi la conosciamo; appunto per ciò tale aspetto merita una analisi più circostanziata. Ancora più a fondo va la critica femminista degli assunti ontologici e filosofici che stanno alla base della nascita della scienza e che ne hanno governato lo sviluppo sino ai tempi più recenti, venendo messi parzialmente in crisi solo con la meccanica quantistica e con le cosiddette “scienze della complessità”. Sono essi riassunti nell’immagine che ne aveva dato Laplace e cioè la tendenza riduzionistica, la visione meccanicistica e l’accettazione del determinismo. La critica si è articolata in una disamina sia del modo in cui si è edificata l’immagine occidentale della scienza, sia dell’influenza esercitata dall’evoluzionismo darwiniano, finendo per recuperare e rivalutare proprio quell’aspetto femminile della realtà tradizionalmente svalutato nel corso della storia, connettendolo anche con una 218
riflessione ecologica sul pianeta terra, sulla scia delle riflessioni di James Lovelock su Gaia. Infine v’è una critica di fondo dei metodi e delle procedure della scienza, del modo in cui si rapporta con l’esperienza, costruisce i suoi metodi e valuta le proprie teorie, nella convinzione che anche i concetti di prova, verità e ragione siano tacitamente sessisti. È a tal proposito che l’utilizzo delle concezioni avanzate dalla filosofia post-positivista della scienza risulta più fecondo, portando a un ventaglio di posizioni che anche in questo caso possono essere caratterizzate da maggiore o minore radicalità. Per quanto riguarda il modo in cui si è costituita la scienza e la sua storia, la critica femminista ha sottolineato come la differenza di genere abbia determinato la stessa costituzione dei concetti di razionalità e di conoscenza, affetti sin dalle origini (dalla filosofia greca) dalle concezioni vigenti del ruolo di maschio e femmina: il concetto stesso di ragione è stato associato sempre alla mascolinità, riservando invece alla femminilità il campo del sentimento, delle intuizioni, della ricettività, delle emozioni. Il miglior esempio di tale attitudine è rappresentato da Bacone che, nel proporre la conoscenza come dominio dell’uomo sulla natura, come potere, immaginava quest’ultima come dominata dal principio femminile, per cui la scienza veniva intesa come una sorta di “matrimonio” tra lo scienziatouomo e la natura-femmina [cfr. Lloyd 1984; Harding 1986]. Come si vede, il modo in cui venivano concepite le relazioni tra uomo e donna in certe epoche storiche aveva un diretto impatto sul modo in cui venivano anche intese la ragione e la conoscenza. Sicché – è stato sostenuto – nel momento in cui intraprendono una attività scientifica le donne devono scegliere tra l’inautenticità, con l’accettare il linguaggio e l’atteggiamento tacitamente misogino di una scienza modellata in modo androcentrico, oppure la sovversione, cioè la critica e la demistificazione del pregiudizio maschilista [cfr. Fox-Keller 2002, 1345]. Più nello specifico, certi orientamenti di ricerca, in particolare in campo biologico e sociale, hanno sottolineato le diverse prestazioni cognitive tra i sessi col far ricorso a differenze genetiche o hanno spiegato l’aggressività mediante il ricorso agli ormoni. Anne Fausto-Sterling [1985] ha analizzato accuratamente le procedure metodologiche e sperimentali che stanno 219
alla base della elaborazione di tutta una serie di teorie sulle differenti prestazioni di uomini e donne, per mettere in luce come vengano ignorate prove evidenti, siano sistematicamente trascurate certe ipotesi, messi in atto controlli sperimentali lacunosi e come siano tenaci certi pregiudizi biologici sulla inabilità o “inferiorità” delle donne per certi ruoli, predestinandole a particolari mansioni: il tutto a causa di veri e propri preconcetti di genere. Ad esempio, nello studio del comportamento sociale e sessuale dei primati (scimmie e babbuini) si è insistito sul carattere passivo e timido delle femmine e sul dominio, spesso crudele, esercitato dai maschi, giustificando questo stato di cose con la dissimmetria generativa tra i due sessi (i maschi possono ingravidare più femmine, mentre la riproduttività femminile è limitata e più vulnerabile). Ma – sostiene Sarah Blaffer Hrdy – si è di solito ignorato che tale dissimmetria può essere variamente modificata e che studi più accurati nel corso degli anni ’70 hanno dimostrato che il comportamento delle femmine dei primati è di gran lunga più complesso di quanto ci si aspettava in base alla semplicistica visione avuta sinora. Le femmine sono in grado di manipolare il comportamento dei maschi, specie verso i discendenti, e quindi anche di influenzare il loro comportamento sessuale. Sicché dal campo della primatologia – dove la presenza femminile è particolarmente forte [cfr. Haraway 1989] – emerge una visione del rapporto maschio-femmina che fa giustizia degli stereotipi androcentrici, permettendo una disamina più accurata e meno svalutativa del ruolo del sesso femminile [cfr. Blaffer Hrdy 1985, 2002]. Tali pregiudizi sono evidenti anche – afferma Ruth Hubbard [1990] – nel modo in cui è stata concepita la teoria dell’evoluzione di Darwin, nella cui Origine delle specie lo sviluppo evolutivo viene attribuito esclusivamente alla attività degli uomini, che avrebbero sviluppato, per difendere donne e bambini, le loro più elevate facoltà cognitive, finendo così per divenire, grazie al processo di selezione, intellettualmente superiori alle donne. Il punto di vista darwiniano ha influenzato anche la storia dell’evoluzione delle società umane ed ha portato ad interpretare, ad es. negli studi antropologici, i reperti fossili sulla base dell’assunto che l’uomo cacciatore sia stato alle origini dell’evoluzione sociale e dell’uso degli strumenti. Tale punto di vista è stato contestato anche nel merito, delineando una storia alternativa avente carattere “ginecentrico”: sono state 220
le donne a rappresentare l’innovazione e a sollecitare lo sviluppo dell’intelligenza e della flessibilità mentale grazie alla utilizzazione di utensili di origine organica come bastoni e canne – prima ancora di quelli in pietra – per difendersi dai predatori durante la raccolta e la preparazione del cibo [cfr. Longino & Doell 1983]. In tal modo si vuole contestare il mito della creatività maschile, legata alla funzione dell’“uomo cacciatore”, e della passività femminile tipica della “donna raccoglitrice”; non solo, ma si sottolinea come sia stata proprio l’attività delle donne a procurare gran parte dei mezzi di sostentamento, mentre la caccia rivestiva in sostanza un ruolo marginale [cfr. Mies 1986]. Come si vede, si tratta in questo caso di critiche che emergono spesso dall’interno stesso dei diversi ambiti scientifici; merito delle ricerche femministe è stato quello di mettere in luce come, specie in campo biologico e sociologico, il pregiudizio androcentrico abbia pesantemente condizionato certi risultati e abbia raffigurato in modo distorto e poco equilibrato il ruolo della donna. La critica delle assunzioni di fondo che hanno segnato la nascita e lo sviluppo della scienza mira, innanzi tutto, a porre in luce il carattere ideologico maschilista della stessa rivoluzione scientifica, allo scopo di ridefinire l’immagine di natura che ci è stata da essa tramandata. Secondo l’impostazione tradizionale, la natura è intesa come qualcosa di cui bisogna carpire i segreti attraverso la sua manipolazione, come qualcosa di inerte, assoggettabile al dominio maschile e fruibile in maniera illimitata per soddisfare le esigenze di accumulo della ricchezza portate avanti da un’imprenditoria di uomini. La natura, considerata simile alla donna, è da violare e sottomettere. È stato Bacone, come abbiamo visto, a disegnare questa immagine della natura, che poi sarebbe stata teoricamente pensata secondo il paradigma meccanicistico, riduzionistico e deterministico di Laplace. Ma per far ciò era necessario liberarsi della concezione della natura come qualcosa di vivente, di quella Madre Natura percorsa da una vita intrinseca che la faceva essere il principio nutritivo dell’umanità e che era stata propria del cosmo medievale ed antico. La rivoluzione scientifica ha così avuto l’effetto, per Carolyn Merchant, di decretare la “morte della natura”: solo nella misura in cui essa veniva considerata come composta da particelle inerti, morte, mosse da forze esterne e non interne, poteva legittimamente essere manipolata, violenta221
ta, subordinata al fini dell’uomo, sfruttata economicamente. Solo «riconcettualizzando la realtà come una macchina anziché come un organismo vivente», la scienza ha potuto sanzionare «il dominio dell’uomo sia sulla natura sia sulla donna» [Merchant 1980, 33]. La scienza veniva pertanto intesa come una impresa prettamente maschile che legittimava ad un tempo sia il saccheggio della natura sia la sottomissione delle donne: il potere patriarcale si riaffermava come nuovo potere tecnologico e scientifico. Ovvio in questa luce che la presunta obiettività e neutralità della scienza, come anche la sua pretesa universalistica, si riducono a una mera ideologia. La scienza è collocata nel tempo e nello spazio, segnata dalla scelta di genere; come dice Sandra Harding, essa è un «progetto occidentale, borghese, maschile» [Harding 1986, 8]. La scienza, aggiunge Evelyn Fox Keller, «è il prodotto di un sottoinsieme specifico della razza umana», ovvero degli uomini bianchi appartenenti alle classi medie [Fox-Keller 1985, 22]. La rivoluzione scientifica non ha rappresentato, quindi, un generale progresso umano, ma solo la particolare espressione di un progetto di dominio nato in un momento preciso di una determinata società, che concepisce la conoscenza in modo riduzionistico escludendo e degradando sia altri generi di conoscenza, sia altri soggetti di conoscenza, come le donne [cfr. Schiebinger 1989]. Attraverso questo progetto ideologicamente imperialista e riduzionista, la scienza ha potuto spacciare la propria particolare visione della realtà come l’unica conoscenza possibile, delegittimando sia le altre tradizioni culturali, sia il contributo che le donne possono offrire a partire dal proprio punto di vista. Ad affermarsi è una “filosofia maschile”, così come richiesta dalla Royal Society di Londra per bocca del suo segretario nel 1664, che rimuove la concezione “materna” della natura, espressa nella saggezza ecologista di molte culture indigene spazzate via dalla civiltà occidentale o avanzata nello stesso periodo della rivoluzione scientifica da posizioni alternative, quale quella, ad es., di Paracelso e della tradizione ermetica, contrapposte alla visione di Bacone. La sconfitta dei principi femministi nel secolo diciassettesimo ha significato il bando di ogni approccio “simpatetico” alla natura e la definitiva legittimazione del distacco tra soggetto e oggetto, assunto a canone della vera scientificità. Una mentalità orientata in senso organicistico, in cui i princìpi femminili svolgevano un ruolo importante, fu minata e sostituita da
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una mentalità orientata in senso meccanicistico che o eliminò i princìpi femminili o li sfruttò. Man mano che la cultura occidentale, nel corso del Seicento, andò sempre più orientandosi verso il meccanisicmo, lo spirito della terra femminile e della terra vergine fu assoggettato alla macchina. [Merchant 1980, 38].
Non è difficile notare come molte delle esigenze e delle critiche mosse da parte femminista siano convergenti con le posizioni che abbiamo già visto di Feyerabend. Ed infatti è proprio dai filosofi post-positivisti della scienza che il movimento femminista attinge molti spunti critici e suggestioni. La proclamazione dell’inesistenza del “metodo scientifico” serve a delegittimare il metodo riduzionista come unico approccio in grado di restituirci una visione oggettiva e vera della natura: «Kuhn, Feyerabend, Polanyi e altri hanno argomentato in modo convincente che la scienza moderna non viene praticata secondo un metodo scientifico fisso e ben definito; si può solo dire che si tratta di un metodo di pensiero tra tanti» [Shiva 1988, 41]. La critica del concetto neutrale di “fatto” e l’accertata sua natura sociale è assunta come prova della possibilità di trovare diverse “basi empiriche”, appartenenti a culture alternative, in grado di suscitare diverse pratiche conoscitive: Non c’è, riguardo alla natura, nessun fatto neutrale “indipendente dal valore stabilito dall’attività conoscitiva dell’uomo”. Le caratteristiche percepite della natura dipendono da come si guarda, e come si guarda dipende a sua volta dall’interesse economico che si ha rispetto alla risorse naturali. [Shiva 1988, 40]
E l’importanza, sottolineata da Kuhn, delle comunità scientifiche nell’edificazione e trasmissione dei paradigmi scientifici, mette in luce il condizionamento sociale e politico dell’impresa scientifica e quindi delegittima l’assunto che il mutamento scientifico possa di per sé assicurare il progresso, escludendo altri sistemi di pensiero tradizionali più stabili e meno soggetti al mutamento. All’immagine riduzionista e meccanicista della natura propria della scienza così come si è storicamente costituita, il femminismo contrappone una visione olistica, organicista ed ecologica, in cui vengono superati i ristretti limiti del laboratorio e l’angusto concetto di verifica che ad esso è legato, per procedere ad una valutazione della razionalità scientifica nella più vasta pratica umana dell’ambiente nel suo complesso. La contestazione del carattere sessista della scienza e delle 223
sue ascendenze patriarcali si unisce nella fisica ed economista indiana Vandana Shiva alla rivendicazione del carattere sacrale della vita e della terra, in un’ottica che vede nell’ideologia dello sviluppo tipicamente occidentale una minaccia per l’ecosistema terrestre. Alla visione della natura come qualcosa di manipolabile e sfruttabile, attribuita alla rivoluzione scientifica e al suo riduzionismo, viene contrapposta l’idea di natura come prakrti, recuperando un concetto tipico della filosofia induista, ovvero il processo vitale e creativo tipico della femminilità che si riassume nel concetto di terra-madre. La prakrti è l’immensità primordiale, l’inesauribile, l’abbondanza, e suoi caratteri sono la diversità e l’attività; essa è il nesso che lega tutto e che è ovunque presente, sicché rappresenta la complementarità tra uomo e natura, tra uomo e donna, rifiutando la dicotomia cartesiana, che considera la natura come un “ambiente” in cui l’uomo vive, una “risorsa” che può essere indifferentemente sfruttata e fruita. Invece, le antiche culture e tradizioni, come quella indiana da cui proviene il concetto di prakrti, «si fondavano su un’ontologia del principio femminile come principio vitale e sulla continuità ontologica tra la società e la natura», per cui ne risultava un contesto in cui non solo veniva escluso il concetto di sfruttamento e di predominio, ma la stessa conoscenza veniva intesa in modo ecologico e antiriduzionista; è quanto accade, ad esempio, con le donne silvicoltrici, ad un tempo contadine e amministratrici delle risorse idriche, nonché scienziate nel senso tradizionale del termine [cfr. Shiva 1988, 53]. È questo un approccio che negli ultimi decenni si è affermato anche nell’ambito della scienza e della cultura occidentale con l’ipotesi di Gaia (il nome dato dagli antichi greci alla terra), avanzata da James Lovelock [1981, 1991] in feconda collaborazione con la microbiologa americana Lynn Margulis, poi ripresa da altri filosofi (come Fritjof Capra [1996, 2002]). In questo approccio la terra non è considerata un sistema di reazioni chimico-fisiche, «un pianeta morto fatto di rocce, oceani e atmosfera inanimati e semplicemente abitato dalla vita», ma piuttosto un organismo vivente, in grado di autoregolarsi assicurando l’equilibrio ecologico, cioè «un vero e proprio sistema, che comprende tutta quanta la vita e tutto quanto il suo ambiente strettamente accoppiati così da formare un’entità che si autoregola» [Lovelock 1991, 12]. Ne segue che «sulla superficie della Terra non c’è mai una chiara distinzione tra la materia 224
vivente e quella inanimata. C’è solo una gerarchia di intensità che va dall’ambiente “materiale” delle rocce e dell’atmosfera alle cellule viventi» [ib., 54-5]. Il rifiuto della razionalità scientifica è così in Shiva connesso strettamente sia alla rivendicazione di una sapienza alternativa a quella occidentale (ovvero il mondo culturale indiano e in generale orientale), sia alla celebrazione del punto di vista femminile, in quanto proprio dalle categorie di pensiero e di azione che hanno conservato le donne indiane nella loro lotta contro la distruzione dell’ambiente può trarre ispirazione un rinnovamento al tempo stesso della scienza, del movimento ecologista e di quello femminista. Donne, natura e popoli del terzo mondo sono il fronte di una battaglia comune contro la scienza occidentale e il suo concetto di sviluppo: Il recupero intellettuale del principio femminile crea nuove condizioni, tali da permettere alle donne e alle culture non occidentali di diventare i protagonisti del ripristino della democrazia in ogni aspetto della vita, come forze che controbilanciano la cultura intellettuale della morte e della marginalità creata dal riduzionismo. [Shiva 1988, 49]
Pertanto, «la riscoperta del principio femminile è […] essenziale, non solo per liberare la donna e la natura, bensì per liberare tutti dalle categorie patriarcali riduzioniste che sono alla base del malsviluppo» [ib., 58]. È appunto lo stretto legame che sussiste tra donna e natura – e che ha condotto all’assoggettamento di entrambe a causa del principio patriarcale e della scienza riduzionista – a far sì che lotta per l’emancipazione femminile e salvezza ecologica della terra siano tutt’uno. Tuttavia, tale recupero del principio femminile non deve essere inteso come una nuova priorità che si afferma sull’altro da sé, bensì come la ristabilita armonia tra maschile e femminile, tra purusa e prakrti, i quali «benché distinti, rimangono inseparabili nell’unità dialettica, come due aspetti di un unico essere»: si tratta, insomma, di creare «una nuova interezza che trascende il sesso di appartenenza, perché l’identità determinata dell’esser maschio o femmina è in ogni caso una costruzione ideologica, sociale e politica» [ib., 64-5]. Per quanto riguarda le posizioni che vanno più nello specifico dei contenuti propriamente metodologici ed epistemologici, possiamo distinguere – sulla scorta di quanto scritto da 225
Sandra Harding [1986, 1996] ed ulteriormente precisato da Peter Godfrey-Smith [2003, 141-4] – tre diverse tipologie di critiche femministe alla scienza. 1 - La prima e meno controversa è il cosiddetto empirismo femminista spontaneo e consiste nella critica dei pregiudizi e degli aspetti problematici insiti nella pratica scientifica, senza però mettere in discussione i tradizionali ideali, metodi e norme della scienza. Si tratta piuttosto di favorire una più rigorosa e puntuale applicazione della metodologia scientifica, eliminando il pregiudizio di genere, allo scopo di ottenere una scienza migliore, che sia effettivamente fedele ai propri ideali normativi ed epistemologici. 2 - La seconda tipologia è definita empirismo femminista filosofico e consiste nel tentativo di rivedere e migliorare i tradizionali ideali sulla conoscenza scientifica, pur restando fedeli ad una fondamentale impostazione empirista e lontani dal relativismo, allo scopo di effettuare una più sofisticata critica di particolari pratiche scientifiche (non della scienza in quanto tale). Tale approccio, che ha in Helen Longino [1990] la principale rappresentante, mira a riconciliare il carattere obiettivo della scienza con i valori assunti dal contesto in cui opera (appunto per ciò essa chiama “empirismo contestuale” il proprio approccio). I valori provenienti dal contesto non sono una minaccia per la scienza, ma possono giocare un ruolo positivo anche nella “buona” scienza, a condizione però di intendere l’obiettività non come il frutto di una astratta metodologia, una applicazione disincarnata di regole e standard, ma piuttosto un insieme di pratiche socialmente necessarie messe in atto da una comunità scientifica. La misura della sua “affidabilità epistemica” o della sua oggettività dipende dal grado con cui essa assicura le vie necessarie per l’espressione e la diffusione delle critiche, la comprensione e la risposta che ad esse vengono fornite, gli standard pubblici utilizzati nel valutare le diverse teorie e la eguale autorità intellettuale riconosciuta ai suoi membri [cfr. Longino 1992, 334]. Tuttavia la Longino, pur evidentemente influenzata da Kuhn, si tiene lontana sia dall’olismo sia dall’incommensurabilità, in quanto ritiene che sia sempre possibile criticare e difendere razionalmente l’oggettività di una conoscenza, anche quando essa è permeata da valori contestuali. Ciò viene articolato e sostenuto attraverso lo studio di casi storici esemplari (ad es. nel campo 226
della endocrinologia e dell’evoluzione umana): il riconoscimento dei condizionamenti che li hanno segnati non rende per ciò stesso i risultati ottenuti falsi o inattendibili, ma sta a dimostrare solo che anche la “buona scienza” è permeata da valori contestuali. Insomma, i valori possono essere utilizzati in favore della oggettività, e non come una sua minaccia, come è stato sostenuto anche in campo delle scienze sociali, sulla scia della Longino, da E. Montuschi [2006, 61-4]. 3 - Infine la terza tipologia, che potremmo definire epistemologia femminista radicale, può essere ulteriormente suddivisa in due varianti: (a) Il cosiddetto postmodernismo femminista, al quale sembrano andare le preferenze della Harding31, sottolinea come la differenza di genere, di gruppo etnico, di appartenenza di classe incida in modo notevole su come si percepisce e vede il mondo. Per cui viene ad essere destituita di fondamento la pretesa che possa esserci un’unica “vera” descrizione della realtà che trascenda i molteplici punti di vista e li unifichi all’interno di una visione universalista. È evidente come tale approccio sia decisamente relativista. (b) L’approccio della epistemologia del punto di vista (standpoint epistemology), che sottolinea il carattere “situato” di ogni ricercatore o scienziato – ma parimenti di qualsivoglia soggetto conoscente –, ma non vede in ciò una minaccia per la conoscenza, bensì una opportunità: i molteplici punti di vista, specie quelli espressi dai popoli che sono stati tradizionalmente esclusi o marginalizzati nel corso dell’evoluzione della scienza o proprio 31
In seguito la Harding [1991] rivede in parte le sue posizioni, in favore di un nozione di oggettività più “robusta” di quella sinora posseduta. E infatti, come si potrebbe altrimenti sostenere che l’approccio maschilista ai ruoli femminili è falso in un’ottica relativista, in cui non esiste più una verità non “situata”? Per cui la vera sfida è quella di edificare una epistemologia femminista che tenga in debito conto il successo empirico della scienza e ad un tempo non dimentica il carattere “situato” di ogni conoscenza. Ciò avviene grazie allo spostamento di asse dalle scienze fisiche a quelle sociali, che diventano paradigmatiche, e alla incorporazione degli altri punti di vista (non solo quello delle donne) nella edificazione di una “oggettività forte”. Questa sua nuova posizione è chiamata ora “approccio del punto di vista postmodernista” (postmodernist standpoint approach). Cfr. Okruhlik [2000, 138-9].
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appunto delle donne, possono mettere in luce fatti e problemi altrimenti ignorati o trascurati. In tal modo la crescita della conoscenza ne trarrà un beneficio, in quanto – così come aveva sottolineato Feyerabend e ancora prima di lui J.S. Mill – la pluralità delle opzioni teoriche è sempre da favorire alla monomaniaca fissazione su idee standardizzate, coltivate all’interno di una comunità scientifica autoreferenziale. Il genere femminile, con la sua particolare sensibilità e il suo peculiare stile di pensiero (differenze che ora vengono valorizzate e non più ritenute discriminatorie), può costituire un punto di vista diverso che favorisce e stimola la crescita della conoscenza, specie in campi precedentemente trascurati. In questo caso non si cade nel relativismo, in quanto non vengono contestati i tradizionali metodi di accertamento e prova cui ogni nuova teoria o idea – da qualunque parte provenga – deve essere sottoposta. Analogamente a quanto sostenuto dall’empirismo femminista, anche in questo caso si sposa l’ideale del progresso epistemico e ci si prefigge lo scopo di ottenere una scienza migliore di quella sinora esistita. Come si vede, l’epistemologia femminista assume uno spettro variegato di espressioni e in molti casi può offrire un valido contributo per pervenire ad una visione della conoscenza meno rigida e unilaterale, spesso quando si proponga non come alternativa che soppianti le conoscenze acquisite, ma come “punto di vista” che permette, attraverso un modo di concettualizzare la realtà in modo differente, di ampliare e completare le acquisizioni cognitive che sono state fino ad ora raggiunte dall’umanità. 7. La morte della razionalità scientifica in Richard Rorty Il punto piú estremo di contestazione della tradizione ricevuta è rappresentato da Richard Rorty. Come in Feyerabend, siamo di fronte ad uno studioso che non è estraneo alla tradizione analitica; tuttavia non è stato un filosofo della scienza in senso tradizionale del termine, che abbia rimeditato sui punti critici della RV, ma piuttosto un filosofo del linguaggio e della mente che in passato aveva difeso una posizione materialistica 228
ed antindividualistica sulla linea dell’inglese Gilbert Ryle. Tuttavia è in lui piú evidente che in ogni altro il tentativo di recuperare alcuni aspetti della filosofia continentale che erano stati del tutto estranei sia alla filosofia della scienza (tranne che per alcuni limitati cenni in Feyerabend), sia alla corrente analitica. Ciò avviene in particolare dopo il punto di svolta della sua carriera intellettuale, costituito dall’opera Philosophy and the Mirror of Nature [1979], nella quale viene criticata l’idea stessa di una “teoria della conoscenza” intesa come attività di ricerca distinta e professionalizzata avente al suo centro le questioni epistemologiche. È da essa che ha inizio quel movimento denominato di “morte dell’epistemologia”, che è stato anche annunciato in un’opera di Michael Williams [1977] e che giunge alla conclusione che non ci siano barriere che possano, in linea di principio, separare il modo di procedere dell’epistemologia da quello, ad esempio, della demonologia o dell’astrologia. E, considerato che per molti teorici la filosofia ha al suo centro i problemi epistemologici, è naturale che la morte venga anche diagnosticata per la stessa filosofia [cfr. anche Nielsen 1991]. Questo abbandono della filosofia analitica si alimenta in Rorty della scoperta di filosofi e correnti di pensiero che questa aveva trascurato o verso i quali aveva pronunciato l’ostracismo: innanzi tutto il pragmatismo di William James e John Dewey, ma poi anche la filosofia di Heidegger, oltre che il riferimento abbastanza consueto al secondo Wittgenstein, i quali tutti hanno indicato i fini verso i quali dirigersi utilizzando i mezzi da lui appresi nel corso del suo apprendistato analitico. Sicché la posizione di Rorty presenta la peculiarità di una filosofia svolta ed argomentata nel tradizionale stile analitico allo scopo di scalzare e demolire le concezioni epistemologiche e la teoria della conoscenza che aveva caratterizzato tutta la filosofia razionalista a partire da Cartesio in poi e che era stata l’obiettivo polemico di una bestia nera del neopositivismo come Heidegger. In seguito, agli autori citati si affiancarono altri pensatori continentali, anche se in modo meno intenso, come Sartre, Derrida, Foucault ed infine Gadamer. Tutti convergono, per Rorty, verso una concezione della filosofia nella quale vengono abbandonati quei presupposti fondazionali che hanno caratterizzato la filosofia a cominciare da Cartesio ed erano stati in seguito condivisi anche dalla filosofia analitica. Questi consistono nella tesi che esistano due componenti chiaramente distin229
guibili nella conoscenza: gli elementi fattuali dati alla coscienza e la facoltà costruttiva e rielaboratrice di quest’ultima. Ma, come abbiamo visto, il “mito del dato” sembra ormai definitivamente tramontato nell’epistemologia contemporanea così come è del tutto delegittimata, dopo le critiche fattane da Quine, la distinzione tra analitico e sintetico, tra linguaggio e fatto. Alla base di queste assunzioni ci sta, però, un comune presupposto di tutto il pensiero filosofico, da Cartesio sino alla filosofia analitica, con la marginale contestazione di alcuni filosofi: che la mente debba essere concepita come uno specchio sul quale si riflette la natura e che compito della epistemologia sia quello di fare in modo che tale rispecchiamento avvenga in modo sempre più adeguato. Con ciò Rorty si schiera apertamente e decisamente per una posizione antirappresentazionista e concepisce la conoscenza «non come una corretta comprensione della realtà, bensì come l’acquisizione di abiti di azione per fronteggiare la realtà» [Rorty 1991, 3]. Ciò non equivale a negare che le nostre menti o il nostro linguaggio entrino in contatto con la realtà o siano plasmati dall’ambiente, bensì che certi contenuti della nostra mente “corrispondano a” o “rappresentino” l’ambiente o delle entità in esso esistenti. Per cui, una cosa è dire che la parola “atomo” è utile per fronteggiare la realtà, un’altra è «tentare di spiegare questa utilità in riferimento a nozioni rappresentazionistiche»: la “verità” non può essere intesa come una relazione di adeguatezza tra discorso e mondo, in quanto ciò presupporrebbe una impostazione realista che è a sua volta, come pure quella idealista, una tipica conseguenza dell’attitudine rappresentazionalista. Non si tratta di “criticare” la concezione classica della verità, di contrapporre argomenti ad argomenti, bensì di rendersi conto – e ciò sulla base dell’analisi dei tentativi che storicamente si sono fatti per risolvere questa questione – che non ha senso alcuno affermare che la realtà sia “determinata” prima del linguaggio. Ciò in quanto non v’è alcun modo di formulare un test indipendente di accuratezza della rappresentazione – del riferimento o della corrispondenza a una realtà “determinata antecedentemente” –, un test, ossia che consista in qualcosa di distinto dalla valutazione del successo del quale questa accuratezza dovrebbe presumibilmente dar conto. [Ib., 9].
È evidente l’adozione della concezione pragmatista della verità; anzi, andando oltre l’impostazione di James, ripresa nella sostanza da Donald Davidson, Rorty sostiene che non bisogna 230
commettere l’errore di voler teorizzare una particolare concezione della verità definita come “pragmatista”. L’errore consiste nell’assumere che “vero necessiti di una definizione”, sicché è sbagliato parlare di una “teoria pragmatista della verità” intesa come corpus di argomentazioni e tesi assertive; piuttosto il pragmatismo, inteso nel modo di Rorty, consiste semplicemente nella dissoluzione della problematica tradizionale concernente la verità. Questa dissoluzione prenderebbe il via dall’affermazione che “vero” non ha alcun uso esplicativo ma unicamente i seguenti usi: (a) un uso approvativo; (b) un uso cautelativo, in osservazioni come “La tua credenza che S è perfettamente giustificata, ma forse non vera” – rammentandoci che la giustificazione è relativa, e nient’affatto migliore delle credenze citate come fondamenti di S, e che tale giustificazione non garantisce assolutamente che le cose andranno bene se assumiamo S come “regola d’azione” […]; (c) un uso de-citazionale: per dire cose metalinguistiche della forma “S è vero se e solo se____”. [Ib., 170-1]
Il fatto che esista qualcosa di descrivibile come “bruta resistenza fisica”, e cioè che l’uomo non sia causalmente indipendente dal mondo in cui vive, non ci consente di trasferire «questa brutalità non linguistica ai fatti, alla verità degli enunciati»; esiste sì una relazione causale tra il soggetto ed il mondo, ma da tale nesso «ne scaturiscono tanti fatti quante sono le lingue per descrivere quella transazione causale» [1985, 111]. Il rispetto per i fatti non vuol dir altro che rispettare certe regole di un particolare gioco linguistico, come quello della chimica, della fisica o di qualsivoglia campo disciplinare; la differenza tra gli oggetti del chimico e quelli del letterato è riportata, dunque, alla differenza dei rispettivi linguaggi, sicché la maggiore “solidità” ed “oggettività” dei primi dipende solo dalla maggiore coerenza e coesione del relativo linguaggio. Ovviamente anche la scienza perde per Rorty il suo carattere paradigmatico, la sua tradizionale funzione di “deposito” della razionalità umana che deriva dalla sua caratterizzazione in senso oggettivistico e dal ritenerla l’unico tipo di pratica in grado di farci pervenire ad una conoscenza della natura, in senso rappresentazionistico. Ciò ha fatto considerare lo scienziato come un nuovo sacerdote e le scienze fisiche come il modello cui quelle umanistiche dovrebbero ispirarsi. Ma, afferma Rorty, «dobbiamo smettere di credere che la scienza sia il luogo in cui la mente umana si pone faccia a faccia con il mondo; che lo scienziato sia colui che, con l’appropriata umiltà, si con231
fronta con forze sovraumane» [ib., 48]. La scienza non designa un genere naturale, cioè un’area della cultura che possa essere demarcata o mediante un metodo o una speciale relazione con la realtà; ciò viene dimostrato dalle controversie che si sono storicamente succedute sul problema della demarcazione e sulla consistenza e natura del suo metodo: ovvi i riferimenti a Kuhn, Feyerabend ed ai più recenti sviluppo dell’epistemologia. All’impasse cui si perviene, Rorty sceglie da pragmatista una via risolutiva che consiste nell’esaminare storicamente le motivazioni che stanno alla base dell’esigenza di distinguere la scienza dalla non-scienza. Queste sono due: innanzi tutto, la ricerca della verità impersonale ed oggettiva ha assunto storicamente la funzione di una sorta di consolazione metafisica alternativa a quella della religione; in secondo luogo, la comunità degli scienziati ha costituito un esempio di virtù morali, avendo essa coltivato la persuasione in contrapposizione alla forza, la incorruttibilità, la tolleranza, la ragionevolezza e così via. Ma la prevalenza di tali virtù non ha nulla a che fare né con la natura dei loro oggetti, né con le loro procedure, né con la razionalità (queste sono tutte ragioni appartenenti alla “retorica dello scientismo”); non v’è alcuna profonda spiegazione di tale avvenimento, in quanto “si tratta soltanto di un’accidentalità storica”: Dal punto di vista pragmatista, la razionalità non è l’esercizio di una facoltà chiamata “ragione”, una facoltà che intrattiene una qualche determinata relazione con la realtà. Né si identifica con l’uso di un metodo. Essa è semplicemente un modo di essere aperti e curiosi e di affidarsi alla persuasione invece che alla forza. / Da questo punto di vista “razionalità scientifica” è un pleonasmo e non la specificazione di un genere di razionalità paradigmatico, la cui natura potrebbe essere chiarita da una disciplina chiamata “filosofia della scienza”. Non la chiameremo scienza se verrà usata la forza per determinare un mutamento delle nostre credenze, o se non riusciremo a discernere un suo nesso con la nostra capacità di prevedere e controllare. Ma nessuno di questi due criteri per l’uso del termine “scienza” suggerisce che la demarcazione della scienza dal resto della cultura ponga in modo distintivo problemi filosofici» [1988, 80-1].
Il valore della scienza, dunque, non consiste tanto nel fatto che essa sia obiettiva, che converga verso il Vero e così via, ma solo nel fatto che gli scienziati hanno dato luogo ad istituzioni in cui si dà concretezza all’idea di “accordo non costrittivo”, in cui prende corpo l’idea di un incontro libero e aperto: 232
Il solo senso in cui la scienza è esemplare risiede nel fatto che essa è un modello di solidarietà umana. Dovremmo considerare le istituzioni e le pratiche che costituiscono le diverse comunità come esempi del modo in cui le altre parti della cultura potrebbero organizzarsi […] Ma, dal nostro punto di vista, questo migliore ordinamento non verrà spiegato dicendo che gli scienziati dispongono di un ‘metodo’ che tutti gli altri farebbero bene ad imitare o dicendo che essi beneficiano della desiderabile solidità dell’oggetto delle loro indagini. [1987, 53]
È vano domandarsi, come fa Kuhn, “perché la scienza funziona”; a tale “prurito di Hume” il pragmatista risponde eliminando la distinzione tra conoscenza e opinione, fatti e valori, cioè evitando la “forchetta di Hume”, e optando per la distinzione sociologica tra «campi in cui l’accordo non costrittivo è relativamente raro e campi in cui esso è relativamente frequente» [ib., 54], per cui gli interrogativi teorici sono sostituiti da interrogativi pratici. All’idea di oggettività, che è stata tipica dello scientismo, Rorty sostituisce dunque quella di “accordo non costrittivo”, di solidarietà e comunità. In tal modo «il desiderio di oggettività si riduce al desiderio di acquisire credenze sulle quali alla fine si giungerà ad un accordo non costrittivo, attraverso un libero e aperto confronto con persone che hanno credenze diverse» [ib., 55], in modo da essere migliori (teorici della scienza, cittadini, amici ecc.) di quanto non siamo. Ciò accadendo, cesserebbero le distinzioni tra discipline umanistiche, arti e scienze e i termini che le denotano non selezionano “blocchi di mondo”, bensì solo «comunità dai confini tanto mutevoli quanto gli interessi dei loro membri» [ibidem]. Una volta abbandonata l’idea che esiste un modo scientifico di occuparsi di idee filosofiche generali, «sarebbe molto più semplice pensare che l’intera cultura, dalla fisica alla poesia, sia una singola attività continua, in cui le suddivisioni hanno una natura puramente istituzionale e pedagogica» [1983, 102] e le varie discipline non sono altro che “generi” linguisticamente creati, senza alcuna necessità nella natura dell’oggetto o in un presunto metodo loro peculiare. Come si vede, sia la scienza che la filosofia, nonché il suo nucleo duro rappresentato dall’epistemologia, perdono il loro statuto privilegiato ed al loro posto rimangano tutta una serie di pratiche culturali che non possono essere regimentate da una superiore razionalità onnicomprensiva, non possono esse233
re unificate all’interno di alcun progetto enciclopedico o di metadiscorso. Non esiste una razionalità transculturale che possa fissare, in base a criteri aprioristicamente stabiliti, la maggiore o minore adeguatezza di una disciplina, di una cultura, rispetto alla realtà, per cui il ruolo che alla scienza era stato assegnato nella tradizione ricevuta viene del tutto delegittimato e negato. Di sonesguenza assume anche una nuova caratterizzazione la filosofia, che ora finisce per essere «ciò di cui una cultura diviene capace quando smette di definirsi in termini di regole esplicite e diventa sufficientemente agiata e civilizzata da basarsi sul tacito sapere-come, da sostituire la phronesis alla codificazione e la conversazione con gli stranieri alla loro colonizzazione» [1985b, 34] È chiaro come in Rorty abbiamo, analogamente a quanto era avvenuto in Feyerabend, uno spostamento dalla codificazione e dalla definizione di regole esplicite, alla prassi, al comportamento concreto, alla saggezza inscritta tacitamente nei nostri atti; a ciò che abbiamo già indicato la “dimensione tacita” del nostro operare efficace. Ne consegue che l’accordo intersoggettivo, nella tradizione ricevuta fondato su una esplicita discussione razionale condotta in base a standard e criteri, è ormai affidato allo scambio interculturale condotto secondo la modalità della semplice “conversazione”. Una volta venuta meno la possibilità di riconoscere una base comune costituita dalle “prove”, dai “metodi” e così via, non resta che la possibilità di dibattere il problema ricorrendo a tutte le ragioni ormai ben note, tirando in ballo ancora una volta tutti i dettagli triti e ritriti, tutti gli svariati vantaggi e svantaggi delle due concezioni. […] In breve, ci si comporterà esattamente come, secondo i filosofi della scienza che Glymour qualifica i “nuovi vaghi”, si comportano gli scienziati allorché venga discussa una proposta, su scala relativamente ampia, di mutare il modo in cui si rappresenta la natura (o parte della natura): ce la si caverà alla meno peggio, sperando che da una parte e dall’altra degli schieramenti contrapposti si operi una ritessitura, e che in tal modo emerga qualche forma di consenso. […] abbiamo il dovere di parlarci l’un l’altro, di conversare sulle nostre concezioni del mondo, di usare la persuasione piuttosto che la forza, di esser tolleranti nei confronti della diversità, di essere dei fallibilisti contriti. Ma tutto questo si distingue dal dover possedere principi metodologici. [1983, 90-1]
Tale lavoro di “ritessitura” ha lo scopo di far sì che le pro234
prie credenze siano utili al fine di saper meglio risolvere i problemi, senza la necessità di formulare principi epistemici. Il pragmatista è in sostanza un sostenitore del laissez faire (così come Feyerabend propugnava il “tutto va bene”), in quanto concepisce, ad esempio, «la religione e la scienza come modi alternativi di risolvere i problemi della vita, modi che devono essere caratterizzati dal successo o dal fallimento piuttosto che dalla razionalità o dall’irrazionalità» [ib., 89]. All’oggettività scientifica di stile universalistico è così sostituita la solidarietà, la capacità di raggiungere un accordo all’interno di una comunità disciplinare, di una cultura. Infatti, se si assume come punto di riferimento la comunità nella quale si vive, allora si privilegia la solidarietà; se invece ci si interroga sul rapporto tra le proprie pratiche e ciò che v’è all’esterno della propria comunità, avendo come riferimento l’umanità o qualcosa di disincarnato, allora si privilegia l’oggettività. La cultura occidentale ha storicamente optato per l’oggettività, e ciò si vede nel suo privilegiamento della Verità come corrispondenza con la realtà (con i Greci, Platone, quindi con l’Illuminismo). E contrariamente a coloro che pensano sia esiziale per le nostre tradizioni liberali e tolleranti l’abbandono del concetto di oggettività e di Ragione sovratemporale, Rorty ribatte dal punto di vista pragmatista che – privo di appigli, di «ganci che pendono dal cielo» – è certo impossibile “giustificarle” o “fondarle”; al massimo si possono confrontare le società con tradizioni diverse, esibendone i reciproci vantaggi pratici. Si deve afferrare “il corno etnocentrico” del dilemma etnocentrismo/relativismo e dire che nella pratica dobbiamo privilegiare il nostro gruppo, anche se non vi può essere alcuna giustificazione per tale condotta […] Noi intellettuali liberali occidentali dovremmo accettare il fatto che dobbiamo prendere le mosse da dove ci troviamo, e che questo vuol dire che vi sono moltissime concezioni che non possiamo prendere sul serio. [1985b, 39]
Così il “liberalismo borghese postmoderno” di Rorty ha una colorito più hegeliano nel privilegiare le comunità storiche reali, che uno kantiano, col suo accento su nozioni come “umanità”, razionalità”, ecc., tributarie delle ipostasi illuministiche. La morale, ovviamente, coincide con l’adesione al gruppo in cui si è nati: l’etnocentrismo non è un male da eliminare, non è il puro e semplice attaccamento ad un particolare ethnos, bensì una condizione insuperabile dell’esistenza, un sinonimo 235
di “finitudine umana”. Ma esso costituisce il punto di partenza per ampliare le nostre prospettive col cercare di allargare le “fenditure” presenti nella nostra cultura facendo «uso metaforico di vecchi segni e suoni» [1991, 19]. Il disincanto del mondo, che sta alla base della sua concezione, è da Rorty considerato come il presupposto per rendere gli individui più tolleranti, più pragmatici, più liberali, «perché è molto difficile essere incantati da una visione del mondo ed essere tolleranti con tutte le altre» [1988b, 256]. Ma questo disincanto, che è il frutto di una particolare tradizione – quella occidentale – è esso stesso la conseguenza di un accidente storico, cioè della particolare evoluzione che la nostra società ha conosciuto lungo la sua storia. E l’ironia, intesa quale consapevolezza della storicità e revocabilità dei propri vocabolari (posseduta da filosofi come Hegel, Nietzsche, Heidegger e Derrida) e capacità di sostenere risolutamente le proprie convinzioni riconoscendo al tempo stesso la loro validità contingente, non è qualcosa di metastorico, ma di interno ad una storia particolare, non comune od addirittura estranea alle altre culture. Con Rorty, dunque, assistiamo non solo alla morte dell’epistemologia, ma anche a quella della filosofia ed alla sua sostituzione con la “conversazione” e con un etnocentrismo che va al di là del relativismo di Feyerabend, nel senso di porsi consapevolmente “dal punto di vista” di una cultura e dei suoi valori. È una marcia del gambero della cultura Occidentale, che appunto aveva fatto della universalità della ragione e quindi dell’idea di una verità e di una conoscenza valida per tutti, in ogni luogo e in ogni tempo, una costante della sua storia: sappiamo che essa era iniziata con la teorizzazione del logos greco, aveva avuto una sua incarnazione nella filosofia cristiana medievale, che in ogni caso proponeva il messaggio evangelico in senso universalistico ed oggettivo, per ricevere una sua laica formulazione con la rivoluzione scientifica e l’idea di una scienza come impresa transculturale, di cui venivano celebrati i fasti della ragione con l’Illuminismo. Ora con Rorty abbiamo il rinnegamento di tutta questa storia e il ritorno ad un etnocentrismo che, analogamente a quanto era avvenuto con lo scetticismo nel XVI secolo, può facilmente trasformarsi in conservatorismo sociale ed in intolleranza in coerenza con la cultura intollerante e dogmatica in cui ci si viene a trovare; insomma in una nuova apologia dell’ordine esistente. Sembra proprio che l’Occidente si sia stancato di se stesso, 236
di pensarsi come il luogo privilegiato in cui, nel modo migliore, si era realizzata l’avventura della razionalità. Che sia allora nel giusto Heidegger, nel sostenere che solo un Dio ci può salvare? E che gli ultimi e rinnovati appelli – fatti da Benedetto XVI – per difendere il logos greco legandolo strettamente alla Rivelazione cristiana, auspicando una ragione piú ampia di quella scientista, così come si ritiene essa sia stata sinora esclusivamente coltivata, non siano che i prodromi di un nuovo medioevo in cui l’umanità occidentale – disillusa, stanca, incapace di credere piú ai propri ideali cognitivi avuti in eredità dalla tradizione ricevuta – si riconsegna ad un sapere indiscusso e indiscutibile perché non piú frutto della ragione e della discussione critica? E allora quella verità, che abbiamo perso nei meandri e nelle infinite sottigliezze dell’epistemologia e della filosofia della scienza contemporanea, non sarà piú accessibile all’umana ragione, ma solo allo sguardo di chi sarà legittimato a sollevare il burqa che ne copre il volto.
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Indice dei nomi
Abrahamson, A., 160, 244 Achinstein, P., 64, 66, 68, 72, 73, 83, 137, 243 Adorno, Th.W., 30, 252 Agassi, J., 46, 243 Almeder, R., 146, 149, 153, 156, 157, 158, 159, 160, 243 Alston, W., 157, 243 Amsterdamska, O., 198, 243, 250 Ancarani, V., 176, 177, 183, 189, 190, 193, 195, 243 Andersen, H., 86, 88, 243, 245 Anderson, E., 222, 243 Archimede, 34 Arena, G., 120, 243 Aristotele, 16, 17, 19, 23, 25, 32, 121, 122, 123, 124 Armstrong, D.M., 154, 243 Aronson, 12, 41, 243 Ashmore, M., 184, 192, 243 Avenarius, R., 219 Ayer, A.J., 36, 159, 243 Bachelard, G., 54, 210, 243 Bacone, F., 223, 225, 226 Baldini, M., 46, 243 Baldwin, J., 161 Barber, B., 176, 243 Barnes, B., 88, 177, 182, 187, 243, 244 Barr, S., 177, 255 Bartley III, W.W., 163 Bechtel, W., 160, 244 Ben-David, J., 176, 178, 179, 244 Benedetto XVI, 241 Berger, P., 189 Bergmann, G., 48, 244 Berkeley, G., 132, 216, 244, 247, 262 Beth, E., 83 Bijker, W.E., 199, 244 Bird, A., 86, 244 Blaffer Hrdy, S., 224, 244 Bloor, D., 177, 178, 180, 181, 182, 183, 184, 185, 186, 187, 188,
190, 197, 244, 253 Bocchi, G., 141, 244, 263 Bogdanov, A., 217 Bohm, D., 83, 84, 128 Bohr, N., 72, 128, 144 Boltzmann, L., 161 Boncinelli, E., 152, 153, 244 Boole, G., 32 Bowker, G.C., 177 Boyd, R., 139, 244 Boyle, R., 52, 182, 262 Bradie, M., 153, 163, 244 Braithwaite, R.B., 40, 244 Brandon, R., 141, 244 Brorson, S., 88, 245 Bucchi, M., 200, 201, 203, 245 Bunge, M., 83 Burian, R., 141, 244 Bush,, 202 Buzzoni, M., 86, 245 Callebaut, W., 163, 245 Callebout, W., 140 Callon, M., 192, 203, 245 Campbell, N.R., 40, 161, 163, 164, 165, 169, 172, 245 Capecci, A., 110, 245 Capra, F., 228, 245 Carnap, 10, 11, 14, 33, 34, 36, 38, 40, 42, 44, 57, 60, 72, 74, 85, 86, 96, 128, 133, 151, 217, 245, 247, 251, 258, 261 Carnap, R., 7 Cartesio, R., 13, 152, 234 Cartwright, N., 84 Cassata, F., 180, 245 Cassirer, E., 57, 219, 245 Ceruti, M., 141, 180, 207, 211, 218, 244, 245, 246, 249, 263, 264 Chen, X., 96, 246 Cherniak, C., 154, 246 Cherubini, P., 82, 246 Chomsky, N., 171 Churchland, Patricia, 159, 160
261
Churchland, Patricia e Paul, 160 Churchland, Paul, 159, 160 Cini, M., 205, 206, 208, 246 Clark, A., 135, 196 Cole, S., 176, 246 Colli, G., 17, 18, 19, 246 Collins, H., 174, 177, 178, 182, 183, 189, 190, 198, 246, 258 Coniglione, F., 2, 3, 11, 17, 26, 32, 111, 130, 145, 246 Copernico, N., 112 Cornwell, J., 180, 247 Corvi, R., 110, 247 Craig, 84, 125 Crane, D., 176, 247 Craver, C.F., 44, 247 Crumley, J.K., 145, 247, 253 D’Alembert, 189 Danailov, A., 162, 163, 247 Darwin, C., 38, 162, 169, 224, 260, 261 Davidson, D., 235, 253, 260 De Finetti, B., 74 de Oliveira, P., 85, 258 Derrida, J., 190, 234, 240 Dewey, J., 30, 134, 161, 233, 247 Dilthey, W., 125 Dilworth, C., 84 Dobzhansky, T., 162 Doell, R., 225, 255 Dolby, R.G.A., 178, 247 Douglas, M., 177 Dretske, F., 154, 157, 247 Duhem, P., 35, 41, 46, 182, 247 Dummett, M., 146, 247 Durkheim, E., 177 Earman, J., 85, 247 Edge, D., 174, 177 Eibl-Eibesfeldt, I., 171 Einstein, A., 11, 34, 132, 144, 197, 245, 252, 255, 257, 260 Eisler, R., 162 Ellul, J., 200 Elzinga, A., 177 Engel, P., 58, 154, 157, 158, 247 Eraclito, 28 Evans-Pritchard, E.E., 177 Fantini, B., 162, 248 Farrell, R.P., 110, 248
Fausto-Sterling, A., 224, 248 Feigl, H., 10, 34, 41, 59, 248 Feyerabend, P.K., 5, 8, 21, 48, 62, 65, 68, 69, 70, 71, 73, 76, 79, 81, 83, 84, 96, 99, 104, 106, 108, 110, 111, 112, 113, 114, 115, 116, 117, 118, 120, 121, 122, 124, 125, 126, 127, 128, 129, 130, 131, 132, 133, 135, 136, 138, 139, 173, 202, 205, 213, 222, 227, 232, 233, 236, 238, 239, 240, 245, 246, 247, 248, 249, 252, 256, 257, 258, 259 Fleck, L., 87, 88, 89, 118, 130, 173, 210, 245, 246, 249, 261 Foucault, M., 81, 191, 234 Fox, M.F., 177 Fox-Keller, E., 223, 226, 249 Frank, P., 34, 36, 249 Frege, G., 32, 58, 134, 144, 146, 247, 249 Friedman, M., 85, 135, 147, 178, 183, 186, 249 Fuller, S., 11, 86, 204, 209, 249 Galilei, G., 14, 56, 117, 173, 206 Galileo, 13, 22, 23, 32, 37, 54, 112, 116, 122, 129 Galison, P., 135 Garfinkel, H., 177 Gargani, A., 214, 218, 221, 249 Gavroglu, K., 98, 250 Giacomantonio, F., 174, 250 Giere, R., 29, 86, 143, 149, 150, 159, 160, 163, 177, 196, 244, 250 Gilbert, G.N., 178, 190, 191, 250 Gingras, Y., 198, 250 Giordano, G., 86, 250 Girotto, V., 82, 250 Gleick, J., 140, 209, 250 Glymour, C., 135, 239, 250 Gödel, K., 134 Godfrey-Smith, P., 181, 182, 230, 250 Goldman, A., 154, 156, 157, 250 Golgi, C., 66 Goodman, N., 177 Goudaroulis, Y., 98, 250
262
Gramsci, A., 30, 250 Grant, J., 180, 202, 250 Grobler, A., 138, 250 Guillermin, 193 Haack, S., 153, 156, 250 Habermas, J., 177 Hackett, E.J., 174, 199, 209, 245, 250, 262, 264, 265 Hacking, I., 80, 105, 192, 194, 251 Hahlweg, K., 161, 163, 244, 251 Hahn, H., 36, 251 Hanson, N.R., 62, 66, 67, 76, 77, 83, 84, 251 Haraway, D., 224, 251 Harding, S., 221, 223, 226, 230, 231, 251, 255 Harman, G., 139, 154, 251, 253 Harms, W., 163, 244 Hartmann, N., 33 Hegel, G.W.F., 126, 127, 128, 131, 132, 185, 220, 240, 251 Heidegger, M., 19, 20, 21, 134, 200, 233, 234, 240, 241 Hempel, 10, 11, 12, 14, 27, 29, 30, 34, 40, 41, 42, 43, 45, 48, 51, 53, 54, 55, 60, 62, 64, 65, 69, 73, 74, 75, 76, 83, 251, 252, 261 Hempel, C.G., 7 Hesse, M., 137, 177 Hobbes, T., 182, 262 Höffding, H., 162 Holton, G., 144, 145, 252 Hooker, C.A., 161, 163, 244, 251 Horgan, T., 160, 252 Horkheimer, M., 30, 252 Horton, R., 177 Horwich, P., 86, 247, 252 Hoyningen-Huene, P., 80, 86, 96, 110, 252, 258 Hubbard, R., 224, 252 Hughes, T.P., 199, 244 Hull, D., 41, 141, 163, 252 Hume, D., 14, 37, 59, 125, 237 Husserl, E., 125, 152, 188, 189, 253 Huxley, J.S., 162 Huxley, T.H., 161 Izzo, A., 174, 254
Jacobs, S., 173, 254 James, W., 134, 217, 233, 235, 245, 262 Jameson, F., 191 Jasanoff, S., 177, 199, 201, 202, 254 Jerusalem, W., 162 Jodkowski, K., 77, 89, 254 Joravsky, D., 180, 254 Kahneman, D., 82, 253 Kant, I., 14, 35, 36, 57, 132, 163, 166, 167, 168, 210, 216, 219, 258 Kelly, G., 211 Kemeny, G., 48, 253 Kemp, S., 187, 253 Kempis, G., 98, 253 Keplero, J., 50, 54, 55, 56, 78, 112, 144 Ketchum, R., 147, 253 Kim, J., 146, 147, 253 Kisiel, T., 136, 253 Kitcher, P., 82, 141, 146, 154, 253 Knorr-Cetina, K.D., 193, 196, 198, 253 Kolmogorov, A.N., 35, 74 Kornblith, H., 148, 153, 154, 155, 253, 263 Krajewski, W., 208, 253 Kripke, S., 139, 253 Kristeva, J., 191 Kuhn, T., 5, 8, 46, 48, 62, 65, 67, 69, 76, 82, 83, 84, 85, 86, 87, 88, 89, 90, 91, 92, 93, 94, 95, 96, 97, 98, 99, 100, 101, 103, 105, 108, 110, 111, 128, 130, 136, 137, 138, 139, 142, 144, 145, 173, 177, 178, 179, 199, 210, 211, 222, 227, 231, 236, 237, 243, 244, 245, 246, 247, 249, 250, 252, 253, 254, 256, 257, 258, 260, 261, 264, 265 Kuipers, T.A.F., 136, 254 Kukla, A., 210, 254 Kulka, T., 98, 254 Kulpe, O., 162 Lakatos, I., 5, 8, 94, 97, 98, 99, 100, 101, 102, 103, 104, 105, 106, 107, 108, 109, 110, 111,
263
112, 128, 136, 137, 142, 178, 211, 248, 250, 253, 254, 255, 256, 257, 265 Lamb, D., 110, 259 Lanfredini, R., 66, 255 Laplace, P.-S. de, 222, 225 Latour, B., 177, 189, 192, 193, 194, 195, 196, 197, 198, 201, 205, 243, 244, 255, 261, 264 Laudan, L., 45, 47, 137, 138, 250, 255 Law, J., 192 Legrenzi, P., 82, 250 Leibniz, G.W., 14, 176 Lenin, I., 128, 200 Lenneberg, 171 Lewes, G.H., 162 Licata, I., 205, 216, 255 Lloyd, G., 223, 255 Longino, H., 225, 230, 231, 251, 255 Lorenz, K., 5, 160, 161, 163, 164, 165, 166, 167, 168, 169, 170, 171, 217, 255, 256, 264 Lovelock, J., 223, 228, 229, 256 Lycan, W., 154, 159, 256 Mach, E., 35, 46, 125, 161, 219 Machamer, P., 12, 79, 81, 247, 251, 256, 265 MacIntyre, A., 177 MacKenzie, D.-J., 183, 185, 199, 256 MacLeod, R., 174, 177 Maffie, J., 154, 256 Malolo Dissaké, E., 110 Mandelbrot, B., 141, 256 Mannheim, K., 174, 176, 177, 244, 256, 258 Mao Tse-Tung, 128 Marcuse, H., 106, 200 Margulis, L., 228 Marshall, H.R., 162 Marx, K., 177, 220 Masterman, M., 90, 256 Maturana, H., 142, 211, 215, 256 Maxwell, N., 94, 248, 256 Mayr, E., 162 McCauley, R., 160, 256 Meja, V., 174, 256
Merchant, C., 226, 227, 256 Merton, R.K., 45, 173, 175, 176, 177, 178, 256 Mies, M., 225, 257 Mill, J.S., 232 Montuschi, E., 231, 257 Mooney, C., 202, 257 Morin, E., 141, 257 Morris, C., 85 Motterlini, M., 98, 101, 102, 257 Mulkay, M.J., 174, 178, 190, 191, 250, 257 Munevar, G., 110, 257, 259 Nagel, 11, 41, 44, 48, 49, 50, 51, 52, 54, 63, 69, 71, 107, 128, 248, 257, 259 Nagel, E., 7 Nelson, 26, 251 Neresini, F., 203, 245 Nersessian, N., 136, 257 Neurath, O., 11, 36, 109, 143, 251, 257 Newton, 14, 34, 50, 54, 56, 102, 129, 132, 176, 204, 213, 250, 257, 258, 261 Nickles, T., 32, 68, 77, 78, 79, 80, 86, 88, 89, 105, 243, 249, 254, 257, 261, 265 Nicolacopoulos, P., 98, 250 Nicolis, G., 140, 258 Nielsen, K., 233, 258 Nietzsche, F., 134, 240 Nola, R., 96, 258 Nowak, L., 84, 103, 258 Nowakowa, I., 103, 208, 258 Nowotny, H., 182, 258 Nozick, R., 30, 258 Oberheim, E., 110, 258 Oeser, E., 163 Okruhlik, K., 231, 258 Oldroyd, D., 66, 258 Omero, 19, 121 Oppenheim, P., 27, 48, 252, 253 Ossterreich, K., 162 Pagnini, A., 146, 258 Paracelso, 226 Parmenide, 120, 121 Parrini, P., 36, 258 Pask, G., 211
264
Pearson, K., 25, 258 Pels, D., 178, 258 Pera, M., 16, 26, 257, 258 Piaget, J., 82, 210, 216, 217 Pickering, A., 174, 182, 246, 258 Pinch, T., 177, 189, 195, 199, 244, 254, 258 Pindaro, 18 Pixten, R., 163 Planck, M., 94 Plantinga, A., 154, 259 Platone, 17, 25, 32, 33, 106, 121, 239 Poincaré, H., 35, 47, 161, 259 Polanyi, M., 18, 62, 88, 89, 99, 130, 190, 227, 259 Pollock, E., 180, 259 Popper, 8, 11, 15, 23, 24, 26, 30, 31, 36, 37, 40, 45, 47, 48, 54, 55, 56, 57, 59, 62, 63, 65, 74, 83, 86, 90, 94, 95, 96, 97, 98, 99, 101, 103, 104, 106, 107, 108, 110, 111, 112, 124, 125, 128, 132, 133, 134, 158, 163, 164, 172, 208, 211, 216, 255, 256, 259, 261, 265 Popper, K.R., 7 Preston, J., 110, 259 Prigogine, I., 140, 208, 258, 259 Putnam, H., 12, 40, 64, 66, 72, 139, 140, 259 Quine, Wv.O., 37, 48, 62, 64, 153, 154, 157, 159, 182, 234, 260 Ramsey, F.P., 40, 125, 157, 260 Rapaport, A., 83 Reichenbach, H., 10, 11, 26, 34, 36, 43, 45, 57, 77, 88, 147, 260 Reisch, G., 85, 260 Rescher, N., 163 Richards, R.J., 161, 260 Richardson, A., 135 Riedl, R., 163, 169, 260 Riegler, A., 211 Riehl, A., 162 Robespierre, M., 115 Rorty, R., 5, 84, 135, 144, 149, 153, 233, 234, 235, 236, 237, 238, 239, 240, 241, 260 Rose, H., 182, 258
Rosenberg, A., 141, 243, 261 Rouse, J., 86, 135, 136, 140, 142, 261 Rovatti, P.A., 126, 214, 261, 264 Ruse, M., 41, 141, 163, 172, 261 Russell, B., 17, 26, 32, 38, 150, 151, 159, 246, 261 Ryckman, T., 135 Ryle, G., 233 Salmon, W.C., 10, 41, 62, 65, 85, 261 Sankey, H., 96, 261 Sardar, Z., 86, 261 Sarton, G., 46 Savage, 74 Schaffner.F., 48, 68, 73, 261 Schally, W.A., 193 Scheffler, I., 41, 261 Scheler, M., 174 Schelling, F., 131, 251 Schickore, J., 57, 80, 252, 258, 261 Schiebinger, L., 226, 261 Schlick, M., 11, 14, 17, 19, 33, 36, 43, 151, 159, 217, 261, 262 Schmitt, F.S., 154, 253 Schnelle, T., 88, 246, 249, 261, 262 Schwabe, O., 162 Searle, J., 37, 262 Sellars, W., 62, 139, 262 Senofane, 120, 121 Sesto Empirico, 25, 26 Shaffer, S., 182, 262 Shapere, D., 90, 136, 262 Shapin, S., 177, 179, 182, 184, 198, 262 Shiva, V., 227, 228, 229, 262 Shrum, W., 177 Shulman, S., 202, 262 Simmel, G., 161, 217 Simpson, G.G., 162 Sismondo, S., 199, 202, 209, 262 Skinner, B.F., 41, 262 Sklar, L., 68, 262 Slovic, P., 82, 253 Smart, J.J.C., 139, 262 Sober, E., 141, 262 Sosa, E., 149, 154, 262 Spellman, J., 154 Spencer, H., 161, 168
265
Spinoza, B., 14 Stark, W., 174, 263 Stehr, N., 174, 256 Stein, E., 154, 162, 263 Steinle, F., 57, 80, 252, 258, 261 Stengers, I., 206, 208, 259, 263 Stich, S., 154, 263 Storer, N.W., 176, 256, 263 Stroll, A., 32, 263 Stroud, B., 145, 263 Sturdy, S., 198, 263 Suppe, F., 12, 50, 52, 53, 61, 64, 72, 73, 74, 83, 84, 252, 262, 263 Suppes, P., 34, 41, 48, 73, 74, 75, 76, 83, 259, 263 Tagliagambe, S., 180, 263 Tannery, P., 46 Tarski, A., 31, 259 Thom, R., 141, 263 Thorndike, L., 46 Tögel, C., 162, 163, 247 Tolomeo, C., 120 Toulmin, S., 32, 33, 34, 44, 53, 59, 62, 73, 77, 80, 81, 83, 84, 137, 163, 263 Travis, G.D.L., 189 Turner, S., 173, 264 Tversky, A., 82, 253 Vaihinger, H., 217, 219 Van den Belt, H., 198, 264 van Fraassen, B., 83, 135, 264 Varela, F., 142, 211, 218, 256, 264 Vasta, S., 161, 166, 256, 264 Vattimo, G., 126, 214, 261, 264 Villani, G., 140, 264 Volkman, P., 162 Vollmer, G., 163
von Bertalanffy, L., 141 von Dietze, E., 86, 264 von Foerster, H., 211, 214, 218, 264 von Glasersfeld, E., 211, 214, 215, 216, 217, 218, 264 von Neumann, R., 34, 83 von Uexküll, J., 167, 264 von Wright, R., 28, 264 Wajcman, J., 199, 250, 256 Waldrop, M.M., 140, 264 Washington, G., 79 Watzlawick, P., 142, 211, 219, 220, 264 Weber, M., 30 Weinert, F., 194, 264 Whewell, W., 161 Whitley, R.D., 176, 178, 195, 264 Williams, M., 233, 265 Winch, P., 178 Windelband, W., 162 Wittgenstein, L., 17, 62, 89, 125, 134, 146, 177, 178, 182, 183, 222, 233, 244, 265 Woodard, P., 160, 252 Woodger, J.H., 48, 265 Woolgar, S., 184, 190, 192, 193, 195, 199, 255, 265 Worrall, J., 47, 94, 98, 255, 265 Wuketis, F.M., 161, 265 Wuketits, F.M., 163 Wyatt, S., 199, 200, 265 Wynne, B., 189 Yearley, S., 198, 199, 246, 265 Zanarini, G., 141, 265 Zermelo, E., 34 Zerzan, J., 21, 208, 265 Ziehen, T., 162
266