Cinema e Psicoanalisi

November 17, 2022 | Author: Anonymous | Category: N/A
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RAYMOND BELLOUR Essendo strutturalista Bellour vuole scomporre il film per tentare di riprodurre le strutture narrative e formali che sfuggono ad una prima visione. Per cui, prima scompone lle e sequenze, poi le inquadrature  e infine arriva a quegli elementi viscerali e basici che chiama CODICI per arrivare a comprendere come il regista è arrivato ad una "produzione di senso". senso". Questi codici nel cinema classico, soprattutto in Hitchcock Hitchcock sono fondamentalmente fondamentalmente 3: RIPETIZIONI (STESSE IMMAGINI IMMAGINI NEL CAMPO); ALTERNANZE (CAMPO/CONTROCAMPO); VARIAZIONI (INTERRUZIONI/ ALTERNANZE). Questi elementi testuali stanno alla base di un analisi che si congiunge inscindibilmente ad un'interpretazione degli elementi formali e psicoanalitici del film, infatti Bellour unisce la concezione freudiana a quella testuale e ad esempio ne Gli Uccelli chiama BLOCCO SIMBOLICO l'ordine che regola i rapporti di gender tramite lo sguardo tra lei e Mitch. Sguardi che mettono in moto l'attivazione del desiderio che si manifesta attravers attraverso o la percezione della minaccia di castrazione da parte di lui e quindi portano all'aggressione degli uccelli  uccelli   come metafora della violenza "attiva" della maschilità sulla femminilità.

CHRISTIAN METZ Metz si interroga sul significante cinematografico e sul contributo che la psicoanalisi freudiana possa dare all’analisi di quei tratti specifici del significante che lo distinguono dalle altre arti. Metz scopre che: è più

percettivo di certe altre arti. Se paragonato alla letteratura o alla musica è superiore ma se già viene paragonato alla lirica o al teatro viene meno in quanto le sue percezioni non provengono da una messa in

scena reale ma da immagini registrate, da un’ombra. L’attività di percezione è reale, il percepito no. La specificità del cinema risiede in questa doppia modalità del suo significante: ricchezza percettiva segnata

dall’irrealtà. Il film è come lo specchio, (formazione dell’io) ma in un punto fondamentale differisce: lo spettatore non vi

si riflette mai, mentre l’oggetto resta sempre sullo schermo. sc hermo. Ciò che rende possibile l’assenza dello spettatore sullo schermo è il fatto che lo spettatore abbia già conosciuto l’esperienza dello specchio ed è quindi in grado di costruire un mondo di oggetti intorno a sé senza doversi prima riconoscere. Lo spettatore è onnipercipiente! Interamente dal lato della percezione lo spettatore si identifica con se stesso come puro atto di percezione. Identificandosi con se stesso lo spettatore non può fare altro che

identificarsi anche con la macchina da presa che ha guardato prima di lui ciò che egli sta guardando adesso. Durante la proiezione, il rappresentante della macchina da presa, in quel momento assente ovviamente, è il proiettore dietro la testa del pubblico. Ogni visione quindi consiste in un duplice movimento: proiettivo (occhio/mdp/proiettore), introiettivo (coscienza/pellicola/schermo). (coscienza/pellicola/schermo). Ci sono 2 fasci nella sala: 1-  quello che parte dal proiettore e giunge allo schermo/quello che parte dall’occhio dello spettatore e giunge allo schermo; 2-  quello che parte dallo schermo e si deposita nella percezione dello spettatore Quindi il film non è solamente quello che ricevo ma anche quello che faccio scaturire: lo spettatore può essere sia schermo che proiettore e al tempo stesso mdp bersagliata che tuttavia re registra. gistra.

 

Esistono nel cinema alcuni sottocodici di identificazione che indicano allo spettatore in quale vettore

orientare l’identificazione: soggettive, fuoricampo e sguardi. Alcune soggettive (inquadrature insolite, angolazione rare ecc.), secondo una co nsuetudine dell’epoca, costituiscono il punto di vista del regista. Per Metz l’ inquadratura rara ci desta per un momento e ci ricorda con cosa siamo identificati: con la mdp! Il nostra sguardo è obbligato e ci rendiamo sensibili alla dislocazione della nostra assenza/presenza nel film. Ci sono poi momenti in cui un attore ne guarda un altro che però è fuori campo. In questi casi si utilizza il punto di vista del personaggio: inquadratura dalla stella angolazione dello sguardo del personaggio fuori campo. In questo modo l’identificazione che costituisce il significante viene sostituita 2 volte: lo sguardo dello spettatore deve passare attraverso lo sguardo del personaggio fuori campo, lui stesso spettatore! A All

cinema avviene la fase della formazione dell’io, la fase dello specchio primordiale; non solo, l’atto di vedere un film ci mostra un fitto gioco di incastri tra le funzioni dell’ immaginario, del reale e del simbolico. Per vedere un film devo : 1-  Immaginario. Scambiarmi con un personaggio affinché benefici di tutti gli schemi intellegibili che porto con me; 2-  Reale. Allo stesso tempo non devo confondermi con lui affinché 3-  Simbolico. la finzione funzioni come tale.

L’immaginario del cinema presuppone il simbolico, perché lo spettatore deve aver prima conosci uto lo specchio primordiale!!

Voyeurismo.Il cinema attiva delle pulsioni scopiche! Il voyeur prova piacere nel guardare un oggetto da una certa distanza, il piacere viene meno se quella distanza scompare e si raggiunge l’oggetto desiderato. Il regime scopico del cinema è definito per altro dall’assenza fisica dell’oggetto e l’istituzione stessa alimenta

questa affinità con il voyeur: poca luce, la solitudine dello spettatore che o osserva sserva questo “altrove” in cui si svolge il film, un altrove vicinissimo ma inaccessibile.

Feticismo. La psicoanalisi relega il feticcio e il feticismo nella castrazione e nella paura che essa ispira. La castrazione (Freud/Lacan) è quella della madre. m adre. Il bambino vede per la prima volta che esistono esseri senza un pene. Crede che tutti abbiano un pene e per questo si spaventa che possa toccare la stessa sorte a anche a lui!

LAURA MULVEY Questo saggio si propone di usare la psicoanalisi per scoprire dove e come la fascinazione del film sia

rinforzata da modelli di fascinazione preesistenti , già attivi nell’individuo e nelle formazioni sociali che lo hanno plasmato, e prende come punto di partenza il modo in cui il film riflette, rivela, o anche mette in scena fedelmente, l’interpretazion l’interpretazione e socialmente stabilita dalla differenza s essuale che controlla le

immagini, i modi di guardare erotici, lo spettacolo. La teoria psicanalitica è quindi un’opportuna arma politica, in quanto dimostra in qual modo l’inconscio della società patriarcale patriarcale abbia strutturato la forma filmica. E paradosso del fallocentrismo, in tutte le sue ’ manifestazioni, è ch’esso dipende dall’immagine

della donna castrata per dar ordine e significato al suo mondo. Un’idea della donna funge da cardine del sistema: è la sua mancanza che produce il fallo come presenza simbolica, è il suo desiderio dì compensare la mancanza di ciò che il fallo significa.

 

Il cinema, in quanto sistema di rappresentazione avanzato, pone degli interrogativi circa i modi in cui

l’inconscio (modellato dall’ordine dominante) struttura i modi di vedere e il piacere del guardare. Il cinema in questi ultimi decenni è cambiato, non è più il sistema monolitico basato su grandi investimenti di capitale, esemplificato nel modo migliore dalla Hollywood. degli anni ’30, ’40 e ’50. I progressi tecnologici (16 mm., ecc.) hanno cambiato le condizioni economiche della produzione cinematografica, che ora può essere sia artigianale che capitalistica. Si è quindi reso possibile lo sviluppo di un cinema alternativo. Hollywood si limitava sempre ad una mise-en-scéne formale che rifletteva la concezione ideologica dominante del cinema. Il cinema alternativo apre uno spazio per la nascita di un cinema radicale in senso sia politico che estetico, che sfidi i presupposti basilari del cinema tradizionale. Non perché que st’ultimo vada rifiutato moralisticamente ma per far risaltare in quali modi le sue preoccupazioni formali riflettono le ossessioni psichiche della società che ha prodotto, e, inoltre, per sottolineare che il cinema alternativo deve muovere specificamente dalla reazione contro queste ossessioni e questi presupposti.

Il cinema offre una quantità di possibili piaceri. Uno è la scopofilia. Vi sono circostanze in cui il guardare

stesso è una fonte di piacere, proprio come, nel caso inverso, v’è un piacere nell’essere guardati. A prima vista, il cinema sembrerebbe ben lontano dal mondo segreto dell’osservazione furtiva di una vittima ignara e involontaria; quel che si vede sullo schermo viene chiarissimamente mostrato. Ma la massa della produzione cinematografica tradizionale e le convenzioni entro cui si è consapevolmente co nsapevolmente evoluta, ritraggono un mondo ermeticamente chiuso che si svolge magicamente, indifferente alla presenza del pubblico, producendo per esso un senso di separazione e giocando sulla sua fantasia voyeuristica. Inoltre,

l’estremo contrasto tra l’oscurità in sala (che isola anche gli spettatori l’uno dall’altro), e lo splendore de i mutevoli disegni di luce ed ombra o mbra sullo schermo, contribuisce a favorire l’illusione di una separazione voyeuristica. Anche se il film viene davvero mostrato, è lì per essere visto, le condizioni di proiezione e le convenzioni narrative danno allo spetta tore l’illusione di gettare lo sguardo su di un mondo mondo privato. Il cinema soddisfa una voglia primordiale di guardare con piacere, ma va anche oltre, sviluppando la

scopofilia nel suo aspetto narcisistico. Le convenzioni dei film tradizionali concentrano l ’attenzione sulla forma umana. La scala, lo spazio, le vicende sono antropomorfiche; la curiosità e la voglia di guardare si mescolano con una fascinazione della somiglianza e del riconoscimento: il volto umano, il corpo umano, il rapporto tra la forma umana e ciò che la circonda, la presenza visibile della persona nel mondo. -Jacques Lacan ha descritto come il momento in cui un bambino riconosce la propria immagine nello

specchio sia cruciale per la costituzione dell’io. Molti aspetti di questa analisi ha nno qui una certa importanza. La fase dello specchio si verifica in un momento in cui le ambizioni fisiche del bambino superano la sua capacità motoria, col risultato che il riconoscimento di sè è apportatore di gioia in quanto egli immagina che la sua immagine rispecchiata sia più completa, più pi ù perfetta, rispetto all’esperienza che ha

del proprio corpo. Il riconoscimento è quindi ricoperto dal misconoscimento: l’immagine riconosciuta è concepita come il corpo riflesso del sè, ma l’erroneo riconoscimento di una superiorità proietta questo corpo al di fuori di sé come un io ideale, il soggetto alienato, che, reintroiettato come ideale dell’io, dà origine alla futura progenie di identificazioni con altri. Ai fini di questo saggio è importante il fatto che sia

una immagine a costituire la matrice dell’immaginario, dei riconoscimento/ misconoscimento e dell’identificazione, e quindi della prima articolazione dell’Io, della soggettività. È il momento in cui una più antica fascinazione del guardare (il volto della madre, per fare un esempio evidente) si scontra con gli

iniziali sentori della coscienza di sé. E’, quindi, la nascita della lunga relazione/disperazione amorosa fra immagine e immagine di sé, che nel film ha trovato una così grande intensità, espressiva, e nel pubblico cinematografico, un riconoscimento così gioioso. – 

 

A prescindere dalle somiglianze estrinseche tra schermo sc hermo e specchio (l’inquadratura della forma umana in in ciò che la circonda, per esempio), il cinema ha strutture di fascinazione abbastanza forti da consentire una perdita temporanea dell’io pur rafforzando, rafforzando, simultaneamente, l’io.

In un mondo ordinato dalla disparità sessuale, il piacere del guardare è stato scisso in attivo/maschile e

passivo/femminile. Lo sguardo maschile determinante proietta la sua fantasia sulla figura femminile, che è definita in conseguenza. Nel loro tradizionale ruolo esibizionistico le donne sono simultaneamente guardate e mostrate, con il loro aspetto codificato per ottenere un forte impatto visivo ed erotico tale da sottintendere che « si guardi loro il culo ». La donna mostrata come oggetto sessuale è il leitmotiv dello spettacolo erotico: dalle pinups allo striptease, da Ziegfield a Busby Berkeley, ella sostiene lo sguardo, recita e significa il desiderio maschile. Tradizionalmente, la donna esibita ha funzionato a due livelli: come oggetto erotico per i personaggi nella vicenda che si svolgeva sullo schermo, e come oggetto erotico per lo spettatore in sala, con una tensione mutevole fra gli sguardi da un lato e dal l’altro dello schermo. Per

esempio, l’espediente della showgirl consente che i due sguardi siano unificati tecnicamente senza alcuna frattura visibile nella diegesi. Una donna recita nella vicenda, lo sguardo dello spettatore e quello dei personaggi maschili del film si combinano armoniosamente senza rompere la verosimiglianza narrativa. Una divisione eterosessuale del lavoro, attivo/passivo, ha analogamente controllato la struttura narrativa : il ruolo maschile di personaggio attivo che fa progredire la vicenda, fa accadere le cose. L’uomo controlla la fantasia filmica ed emerge come rappresentante del potere anche in un senso ulteriore: come supporto dello sguardo dello spettatore, trasferendolo dietro lo schermo a neutralizzare le tendenze extra-narrative rappresentate dalla donna come spettacolo. Ciò è reso possibile tramite i processi messi in moto strutturando il film attorno ad una figura principale, di controllo, con cui lo spettatore può identificarsi. Poiché lo spettatore si identifica con il protagonista maschile, proietta il suo sguardo su quello del suo simile, del suo sostituto sullo schermo, cosicché il potere del protagonista maschile nel controllare gli eventi coincide con il potere po tere attivo dello sguardo erotico, entrambi danno una soddisfacente sensazione di onnipotenza.

In termini psicoanalitici la figura femminile pone un problema più profondo: allude anche a qualcosa cui lo sguardo gira continuamente attorno pur rinnegandolo: la sua mancanza di un pene, che implica una

minaccia di castrazione e quindi un non piacere. Così la donna come icona, mostrata per la sguardo e il

godimento degli uomini, cui è dato il controllo attivo dello sguardo, minaccia sempre di evocare l’angoscia che originariamente significava. L’inconscio maschile ha due strade per sfuggire a questa angoscia: quella tipica dei film noir in cui l’uomo salva la donna, o la punisce o svela il malaffare o la perdona ; oppure rinnegare completamente la castrazione attraverso la sostituzione con un oggetto feticistico o la trasformazione in feticcio della stessa figura rappresenta, in modo che divenga rassicurante anziché pericolosa (donde la supervalutazione, il culto della star). Questa seconda strada, la scopofilia feticistica,

innalza la bellezza fisica dell’oggetto, trasformandolo in qualcosa di soddisfacente di per se stesso. La prima strada, il voyeurismo, al contrario, ha associazioni con il sadismo : il piacere sta nell’accertare la colpa (immediatamente associata con la castrazione), ribadire il controllo, e soggiogare la persona colpevole con la punizione o con il perdono. Queste contraddizioni e ambiguità possono essere illustrate più semplicemente con le opere di Hitchcock e di Sternberg, entrambi i quali fanno dello sguardo quasi il contenuto o il soggetto di molti loro films.

Hitchcock è il più complesso. L’opera di Sternberg, d’altro canto, offre molti esempi di pura scopofilia feticistica. In Hitchcock, al contrario, l’eroe maschile vede precis amente ciò che vede il pubblico. In Vertigo (1958) in particolare, ma anche in Marnie (1964) e in Rear Window (1954), lo sguardo è al centro

dell’intreccio, oscillando tra il voyeurismo e la fascinazione feticistica. Come una distorsione, un’ulteriore

 

manipolazione del processo normale del vedere, che in un certo senso lo rivela Hitchcock usa il processo di identificazione normalmente associato con la correttezza ideologica e il riconoscimento della moralità

stabilita, e ne svela l’aspetto perverso. Hitchcock non ha mai dissimulato il suo interesse per il voyeurismo, cinematografico e non. I suoi eroi maschili sono esemplari dell’ordine simbolico e della legge - un poliziotto (Vertígo), un maschio dominante che possiede denaro e potere (Marnie) - ma le loro pulsioni erotiche li conducono in situazioni compromettenti. Il potere di assoggettare un’altra persona sadicamente alla volontà o voyeuristicamente allo sguardo è rivolto contro la donna, oggetto di entrambi. Il potere è

sostenuto dalla certezza d’un diritto legale e dalla colpa dimostrata della donna (che evoca la castrazione , psicoanaliticamente parlando). Una vera e propria perversione è appena dissimulata sotto una maschera superficiale di correttezza ideologica - l’uomo è dalla parte giusta della legge, la donna dalla parte sbagliata.

L’abile utilizzazione, da parte di Hitchcock, dei processi di identificazione, e l’abbondante uso della ripresa soggettiva dal punto di vista del protagonista maschile, attraggono profondamente gli spettatori nella sua posizione, facendo loro condividere il suo sguardo inquieto. Il pubblico è risucchiato in una situazione

voyeuristica, all’interno della scena e della narrazione che si svolgono sullo schermo, che fa la parodia della sua stessa situazione nel cinema. Nella sua analisi di Rear Window, Douchet assume il film come metafora del cinema. Jeffries è il pubblico, gli eventi nell’isolato di fronte corrispondono allo schermo. Quando egli osserva, si aggiunge una dimensione erotica al suo sguardo, e una immagine centrale al dramma. La sua ragazza, Lisa, ha avuto uno scarso interesse sessuale per lui, è stata più o meno un peso, fintanto che è rimasta dalla parte dello spettatore. Quando attraversa la barriera tra la stanza di lui e la casa di fronte, la loro relazione rinasce eroticamente. Egli non si limita ad osservarla attraverso il suo obiettivo come una remota immagine significativa, la vede anche come una colpevole intrusa, smascherata da un uomo

pericoloso che la minaccia di punizione, e quindi alla fine la salva. L’esibizionismo di Lisa è già stato dimostrato dal suo interesse ossessivo per l’abbigliamento e la moda, nel suo essere una immagine passiva della perfezione visiva; il voyeurismo e l’attività di Jeffries sono già stati accertati attraverso il suo lavoro di fotogiornalista, creatore di storie e cacciatore di immagini. Comunque, la sua inattività forzata, legandolo alla sedia come uno spettatore, lo pone direttamente nella disposizione fantastica del pubblico cinematografico. I codici cinematografici creano uno sguardo, un mondo, un oggetto, producendo per mezzo di ciò una illusione tagliata su misura per il desiderio. Sono questi codici cinematografici e il loro rapporto con le strutture formative esterne che devono essere demoliti prima di poter sfidare il film tradizionale e il pi piacere acere che esso provoca. In primo luogo (per concludere), può essere demolito lo stesso sguardo voyeuristicoscopofilo che è parte cruciale del piacere filmico tradizionale. Vi sono tre sguardi diversi associati al cinema:

quello della cinepresa che registra l’evento pre-filmico, quello dei pubblico che osserva il prodotto finale e quello dei personaggi fra loro all’interno della finzione cinematografica. Le convenzioni del film narrativo negano i primi due e li subordinano al terzo, poiché il fine cosciente è sempre quello di eliminare la presenza invadente della cinepresa, e di prevenire un distacco cosciente del pubblico. Senza queste due assenze (la esistenza materiale del processo di registrazione, la lettura critica dello spettatore), la finzione scenica non può acquisire realtà, evidenza e verità. Ciò non di meno, come questo saggio ha tentato di dimostrare, la struttura del guardare nel film di fiction contiene una contraddizione nelle sue stesse

premesse: l’immagine femminile come minaccia di castrazione mette costantemente in  pericolo l’unità della diegesi, ed irrompe attraverso il mondo dell’illusione come un feticcio invadente, statico e unidimensionale. Così i due sguardi materialmente presenti nel tempo e nello spazio vengono

ossessivamente subordinati alle esigenze nevrotiche dell’ego maschile. 

 

  GILLES DELEUZE Gilles Deleuze, ne "L'immagine-movimento" e ne "L'immagine-tempo", scritti entrambi negli anni Ottanta, sostiene la tesi secondo la quale, nonostante no nostante la grande abbondanza di mediocrità presente nella produzione cinematografica, i grandi autori del cinema possono essere paragonati non soltanto ad altri artisti, quali architetti, pittori o musicisti, ma anche a dei pensatori , che pensano attraverso delle

"immagini-movimento" "immagini-movimen to" e delle "immagini-tempo" al posto dei concetti. Il cinema attraverso il montaggio arriva a dare un'immagine del tempo che può essere diretta se legata alle immagini-tempo o indiretta se proveniente dalle immagini-movimento e dai loro lo ro rapporti. Il cinema ci nema si presenta come l'esempio tipico del falso movimento: esso, infatti, procede con due dati complementari, delle sezioni istantanee che si chiamano immagini e un movimento, o tempo impersonale, uniforme e astratto, che è nella macchina da presa e con cui si fanno "sfilare" le immagini. Il cinema dunque ricostruisce il movimento con delle sezioni immobili come il più vecchio dei pensieri (paradosso di Zenone). Tuttavia, sostiene Deleuze, non si può concludere l'artificialità l 'artificialità del risultato a partire dall'artificialità dei mezzi: infatti il cinema, sebbene proceda con fotogrammi che sono delle sezioni immobili di tempo (sequenze di 18 o 24 immagini al secondo), ci restituisce un'immagine media (ovvero risultante dalla somma di tutti i fotogrammi) a cui il movimento non si aggiunge astrattamente, ma che appartiene invece all'immagine come dato immediato. Attraverso la cinepresa mobile e il montaggio, il cinema non ci offre un'immagine alla quale aggiungerebbe, solo in un secondo momento, il movimento, ma ci dà immediatamente un'immagine-movimento. un'immagine-movimento. Attraverso l'inquadratura, la macchina da presa ritaglia dallo spazio aperto del mondo un sistema chiuso, c hiuso, una sezione mobile del tempo-durata, un sottoi sottoinsieme nsieme fatto di immagini, di personaggi e di oggetti posti in relazione dinamica tra di loro. l oro. Queste riflessioni aprono la possibilità per una nuova filosofia: mentre la filosofia antica si proponeva di pensare l'eterno, l'universale, il cinema diventa il portavoce dell'altra filosofia, capace di un modo di pensare nuovo che cerca il singolare, in ogni istante qualsiasi. L'inquadratura, il piano e il montaggio sono i mezzi attraverso i quali il cinema

costruisce il suo sistema di relazioni tra immagini. 1-  L'inquadratura è il punto di vista, il sistema chiuso che comprende tutto ciò che è presente nell'immagine. Essa può comporsi secondo schemi geometrici, dinamiche di luci e ombre, "disinquadrature" e fuori campo, e il suo scopo è rendere l'immagine leggibile, oltre che visibile, dallo spettatore.

2-  Il piano rappresenta il movimento stesso, il rapporto tra le parti e il cambiamento che ne scaturisce è l'immagine-movimento l'immagine-movimento stessa. Attraverso esso si rende rende possibile una modulazione spazio-temporale grazie alla quale il tempo assume il potere di dilatarsi o concentrarsi e il movimento assume il potere di rallentare o accelerare.

3-  Infine il montaggio che rappresenta il tutto del film, l'idea che ci fa dono di un'immagine della durata e del tempo effettivi. Deleuze, ripercorrendo la storia del grande g rande cinema d'autore, individua diverse scuole di montaggio  che sembrano segnare un percorso di trasformazione da un cinema classico a un cinema moderno che si differenziano per la diversa immagine del tempo che hanno saputo dare: mentre il cinema

classico ha veicolato un'immagine indiretta del tempo, proveniente dalle immagini-movimento e dai loro rapporti, il cinema moderno ha dato un'immagine diretta del tempo grazie ad immagini-

tempo che hanno instaurato nel cinema un regime di scambio tra immaginario e reale, tra

 

soggettività e oggettività , con il fine di comunicare l'idea del passaggio, del cambiamento quale natura stessa del tempo. Tra gli autori di immagini-movimento (cinema classico) , Deleuze individua diverse forme di montaggio utilizzate: la tendenza organica della scuola americana, la tendenza dialettica della scuola sovietica, la tendenza quantitativa della scuola francese d'anteguerra e infine la tendenza intensiva della scuola espressionista tedesca. La scuola americana concepisce con Griffith un'idea di montaggio in cui i personaggi e le azioni sono presi in rapporti binari che costituiscono un

montaggio alternato parallelo, con l'immagine di una parte che succede a quella di un'altra seguendo un ritmo, un'alternanza delle parti differenziate; ad esempio, il mondo dei poveri e il mondo dei ricchi, oppure il mondo dei buoni e quello dei cattivi. Nei film russi di Eisenstein, Vertov,

Pudovkin e Dovzenco l'obiettivo del montaggio è quello di comunicare l'idea di una meta unitaria da raggiungere (presa di coscienza, azione politica) attraverso una giustapposizione di situazioni legate tra loro e in evoluzione. L'opposizione dialettica, il passaggio da un opposto all'altro si realizzano attraverso il ricorso al patetico (l'immagine viene caricata di una tensione emotiva fino ad esplodere, ed emergere dall'insieme come "immagine al quadrato"; pensiamo, ad esempio, alla carrozzina del Potëmkin.) e al montaggio di opposizione: questo si differenzia dal montaggio parallelo poiché l'unità a cui riporta non è un semplice assemblaggio di parti giustapposte, ma una spirale organica che cresce attraverso le contraddizioni per arrivare ad un'unità più elevata, appunto ad una sintesi dialettica.

L'immagine-tempo (cinema moderno) inaugura uno stile frammentato che abbandona l'idea di montaggio come associazione, concatenamento tra immagini, per dare importanza alla spaziatura, al vuoto che si crea tra le immagini. Mentre l'immagine classica costruiva sequenze di montaggio secondo leggi di associazione o opposizione che sfociavano poi in concetti, l'immagine moderna

instaura un "regno degli incommensurabili", in cui le immagini non si associano più in maniera razionale, ma vengono spezzettate per poi essere concatenate. Se un'immagine può esprimere un concetto, possiamo pensare allora che esistono convenzioni simboliche e discorsive per interpretare i segni cinematografici? Ovvero esiste un repertorio codificato di immagini-significato come nella lingua oppure un'immagine, a differenza di una parola, non significa sempre la stessa cosa? Nel cinema troviamo tre tipi di immagini a costituire c ostituire

l'immagine-movimento: immagini affezione e pulsione (rappresentano la "primità", secondo la semiotica di Peirce), immagini azione ("secondità"), immagini relazione ("terzità"). Vi sono immagini che hanno una relazione per così dire "naturale" con le cose che rappresentano, come nel caso di un ritratto che viene associato automaticamente al suo modello. Ciò che lega le due entità è soprattutto l'abitudine a vederle associate, il patrimonio comune di gesti che tutti noi compiamo; così, ad esempio, l'apparizione di un'arma richiama subito un significato di violenza o di dolore. Queste immagini sono dei cliché. In questo senso l'immagine filmica, come l'immagine poetica, non significa ma mostra, non è segno ma intuizione lirica, senso immanente all'immagine stessa, realtà direttamente presente senza mediazione simbolica o riformulazione del reale stesso.

Il primo piano cinematografico è un'immagine affezione e il suo ruolo è quello di astrarre l'immagine dalle coordinate spazio-temporali per trasformarla in icona, i cona, espressione pura di un affetto che non esiste separatamente da ciò che lo esprime: nel vedere un volto sofferente

vediamo la sofferenza in persona. A metà strada tra l'immagine affezione e l'immagine azione troviamo l'immagine pulsione, la quale rappresenta un affetto degenerato che si manifesta in un'azione "embrionata", informe o

 

perlomeno non formale. Troviamo immagini pulsione in tutti i film naturalisti; le pulsioni rappresentate sono spesso semplici come la fame ed il sesso e sono inseparabili dai comportamenti c omportamenti perversi che producono e animano. Buñuel, considerato con Stroheim e Losey uno dei massimi naturalisti del cinema, ha arricchito l'inventario di pulsioni e perversioni spirituali ancora più complesse, riguardanti questioni teologiche e filosofiche (in Simon S imon del deserto, ad esempio). A differenza del realismo che si esprime attraverso immagini azione, il naturalismo esprime una violenza statica, interiore, che si impossessa dei personaggi e fuoriesce da essi fino a penetrare l'ambiente e a degradarlo. L'immagine-azione o "secondità" rappresenta tutto ciò che esiste solo opponendosi a

qualcos'altro, come in una relazione duale: azione-reazione, eccitazione-risposta, situazionecomportamento. Ci troviamo all'interno della categoria del reale, dell'attuale, dell'esistente, dove le qualità e le potenze si attualizzano in stati di cose particolari. Siamo nell'ambito del realismo, il genere che ha fatto trionfare universalmente il cinema americano. Nel regno della "secondità" la situazione e il personaggio (o l'azione) sono due termini correlativi e antagonisti: l'ambiente agisce sul personaggio, il personaggio reagisce a sua volta in modo tale da rispondere alla situazione e modificare l'ambiente, pervenendo dunque ad una nuova situazione. Molti generi di film hanno una simile struttura: tutti i film di guerra; i film-documentario (Flaherty), dove si vede l'uomo, o la natura in genere, fronteggiare le sfide dell'ambiente; i film psico-sociali (King Vidor, Elia Kazan), dove da una comunità emerge la figura di un capo in grado di rispondere alle difficoltà della situazione (qui il realismo descrive una patologia dell'ambiente e le reazioni ad essa da parte dei personaggi che la subiscono); i film western (John Ford), dove il duale, lo scontro tra due forze antagoniste si esprime attraverso la rappresentazione del duello; i film storici (Griffith, De Mille, Hawks), dove sotto la forma dell'immagine-azione troviamo rappresentati i tre aspetti della storia definiti da Nietzsche: l'aspetto monumentale nei paralleli o nelle analogie tra una civilizzazione e un'altra (ha il suo capolavoro in Intolerance di Griffith), l'aspetto antiquario nelle ricostruzioni scenografiche e costumistiche, l'aspetto critico nella struttura stessa del film, da cui emerge sempre e comunque un forte giudizio etico sul passato narrato dalla storia. All'ultima categoria, detta "terzità", appartengono quelle specie di immagini (immagini relazione) che hanno una relazione "astratta" con il senso che veicolano. Questa relazione è costruita su una convenzione e di conseguenza queste immagini rendono il film più difficile: esse vanno interpretate in quanto non sono leggibili intuitivamente e il loro senso va cercato nella storia che le riguarda, nella loro funzione di simbolo all'interno della cultura a cui appartengono, nel tessuto relazionale in cui sono inserite. Per esempio i gabbiani che attaccano gli uomini nel film Gli uccelli di Hitchcock  (massimo creatore di immagini relazione secondo Deleuze) sono il simbolo (relazione astratta)

dell'inversione del rapporto uomo-natura, e soltanto intuendo questa relazione siamo in grado di comprendere il senso dell'intero film.   Ma sono proprio queste immagini ad avvicinare il cinema al pensiero e ad allontanarlo dai luoghi comuni. Un'immagine può avere il valore dei tropi letterari ed essere letta come una metafora, una metonimia o una sineddoche oppure valere come allegoria, simbolo, sillogismo, e animare delle figure di pensiero. L'interpretazione si fa necessaria per la comprensione di queste immagini, per cogliere la relazione che le lega, poiché esse non sono unite naturalmente nello spirito, ma in virtù di una legge esterna. Il mentale mette in crisi l'immagine tradizionale del cinema e anche se si continuano a fare film d'azione, essi non esprimono più la vecchia anima del cinema che ora esige sempre più pensiero.

 

 

SLAVOJ ZIZEK

“Il cinema è l’arte perversa per eccellenza, non ti da quello che desideri ma ti dice come desiderare” .  Zizek nelle sue riflessioni sul sul cinema, tiene sempre pr presente esente le osservazioni fatte da Deleuze su Hitchcock :

egli è una specie di cardine tra l’immagine -tempo e l’immagine movimento: crea una nuova immagine che c he è l’immagine mentale e che corrisponde alle relazioni che si instaurano tra il regista, il film e il i l pubblico. Una funzione spettatore entra a far parte della realtà cinematografica stessa, i personaggi sono a loro volta

trasformati in spettatori di quanto gli accade (Vertigo e Finestra). Proprio sulla nozione di sguardo i due filosofi però differiscono: cardine dell’intero discorso di Z izek, marginale per Deleuze. Deleuze. La psicoanalisi

Lacaniana invece è un fondamentale riferimento teorico: lo sguardo come oggetto A !! Ovvero, il fatto che non sempre a uno sguardo corrisponda un occhio che guarda. Per Lacan lo sguardo non appartiene né al soggetto che guarda né al soggetto guardato. Prima di guardare, siamo guardati ( il grande Altro). Piuttosto

lo sguardo è una sorta s orta di oggetto indefinibile, l’oggetto A appunto, un qualcosa che fa “macchia” nel campo visibile. -Aneddoto scatola sardine … - Quello delle sardine è uno sguardo cieco, uno sguardo mancante, ha uno status fantasmatico. Hitchcock porta la nozione di sguardo un passo avanti a quella di Lacan: i suoi film prevedono 2 posizioni soggettive: regista e spettatore. Tutti i personaggi a turno assumo una di queste posizioni. I film di H. infatti pongono lo spettatore ad un’estenuante ginnastica dello sguardo, una ginnastica della soggettività: Psycho P sycho ad esempio è un film che costantemente mette in discussione la nostra necessità di identificarci in qualcuno. E’ proprio il passaggio dallo sguardo neutrale e ideale, lo

sguardo dell’IO, allo sguardo come oggetto A. E non solo: l’incontro con l’oggetto (scatola di sardine) non è traumatico perché l’oggetto in se sia terrificante, ma in quanto dipende da uno sguardo: H. ci mostra prima lo sguardo pietrificato dalla paura, poi l’oggetto causa di questo terrore come se il carattere traumatico derivasse dallo sguardo!! La scena dell’omicidio di Arbogast ci mette a confronto proprio con uno sguardo impossibile: lo sguardo della madre/Norman!! - 

Secondo Lacan, la realtà degli esseri umani è costituita da tre livelli fra loro intrecciati: il Simbolico, l'Immaginario e il Reale. Questa triade può essere ben illustrata dal gioco degli scacchi. Le regole che occorre seguire per partecipare al gioco coincidono con la sua dimensione simbolica: dal punto di vista simbolico puramente formale, per esempio, il «cavallo» «ca vallo» è definito soltanto dalle mosse che c he tale figura può fare. Il presente livello è chiaramente diverso da quello immaginario, ossia dalla maniera in cui i diversi pezzi sono modellati e caratterizzati dai loro nomi (re, regina, cavallo); senza contare che risulta assai semplice concepire un gioco con le medesime regole ma con un diverso immaginario, nel quale questa figura si potrebbe chiamare «messaggero» o «corridore» o in qualsiasi altro modo. Infine, reale è l'intero insieme complesso di circostanze contingenti che influenzano lo svolgimento del gioco: l'intelligenza dei giocatori, nonché le imprevedibili intrusioni che potrebbero sconcertare uno dei giocatori o interrompere direttamente il gioco. -

Come avviene il passaggio da IO ad A? Prima di identificarsi con i personaggi, lo spettatore si identifica con loro come puro sguardo, ovvero, con un punto astratto dello schermo. Attraverso lo spostamento da IO ad A, lo spettatore è costretto ad affrontare il desiderio insito nel suo sguardo apparentemente neutrale: basti ricordare la scena in cui Norman affonda la macchina di Marion. In questo momento lo spettatore capisce che il suo sguardo imparziale altro non era che un a farsa e che c he quella scena è stata costruita ad hoc per il

suo sguardo. La strategia di H. è proprio questa: attraverso l’inclusione riflessiva del suo sguardo, lo

 

spettatore diventa consapevole di come il suo sguardo sia da sempre parziale. Psycho porta questa

sovversione dell’identificazione dello spettatore all’estremo, portandolo ad identificarsi con qualcosa che sta al di là dell’identificazione stessa! Per capire meglio dovremmo rifarci al momento di rottura che avviene tra il primo terzo e le altre due parti del film. 1-  Ci identifichiamo con Marion fino al suo assassinio. 2-  2- Da qui in poi cerchiamo di identificarci con Arbogast e con tutti gli altri personaggi ma è una sfida inutile, queste sono identificazioni secondarie, in realtà ci identifichiamo con una piatta macchina investigativa per scoprire il segreto di Norman, il vero protagonista e punto focale delle due restanti parti del film.

Quindi l’identificazione con il personaggio che domina lo spazio diegetico diviene impossibile ma perché? In cosa consiste il cambiamento di modalità generato dal passaggio Marion/Norman? Fondamentalmente è il passaggio da una superficie al suo rovescio, la topologia dell’anello di Moebious . Se ci si spinge troppo in là su una superficie (il mondo grigio e arido di Marion) si arriva improvvisamente al suo rovescio (il mondo da incubo del crimine patologico di Norman). Il momento di questo passaggio può essere individuato nella dissolvenza dopo l’assassinio di Marion, dal dettaglio dello scarico che risucchia sangue e acqua al dettaglio del suo occhio morto. Qui si apre la spirale del tempo! Ma il passaggio da Marion a Norman è anche la regressione dal registro del desiderio a quello della pulsione. Marion è il desiderio, Norman la pulsione in

quanto il desiderio gli è negato, è alienato nell’Altro materno. Essendo Norman un soggetto non desiderante, elude l’identificazione rimanendo rimanendo prigioniero di una pulsione psicotica. 1) Desiderio = spostamento metonimico messo in moto da una mancanza. Sempre insoddisfatto per definizione. 2)Pulsione = in contrasto col desiderio è ciò che ci spinge a reiterare nel fallimento nel raggiungere

l’oggetto desiderato. Sempre soddisfatta . L’opposizione tra desiderio e pulsione determina la contraddittoria economia simbolica delle 2 scene di assassinio: quella di Marion e quella di Arbogast. Nella prima, arrivata improvvisamente, il ritmo è frenetico e la sequenza spezzettata in tanti dettagli. Per superare questo shock, H. presenta il secondo assassinio

come un qualcosa di atteso. L’omicidio di Arbogast fa proprio riferimento a una delicata dialettica tra atteso e inatteso e quindi al desiderio dello spettatore che sa che accadrà, che fa finta di volere che ciò non accada, ma che in realtà desidera che accada. Questa opposizione desiderio/pulsione non è astratta ma fa riferimento ad una fondamentale tensione storica tra tradizione e modernità, rappresentata dai due edifici in cui avvengono gli omicidi: hotel (modernità), vecchia casa gotica (tradizione) ( tradizione) . Norma Bates rappresenta un mediatore impossibile tra le due possibilità, costretto a muoversi in eterno tra i due luoghi. Come ha mostrato Michel Chion, Psycho è la storia di una Voce (della madre) in cerca del suo sostegno, di un corpo cui possa attaccarsi. Lo status di questa Voce è acusmatico, senza sostegno appunto. Il film

termina con il momento dell’incarnazione, quando scorgiamo il corpo di questa Voce e qui le cose si complicano: la Voce si è attaccata al corpo sbagliato, siamo davanti all’Alterità assoluta che ci preclude qualsiasi identificazione. Proprio mentre la Voce trova il suo corpo, Norman guarda in camera (verso gli

spettatori quindi) con un’espressione che mostra la sua consapevolezza della nostra complicità: si compie così il passaggio da IO ad A.

L’inquietante sguardo in camera ci riporta al giansenismo hitchcockiano: il trionfo dello sguardo  sull’occhio! Questo trionfo può venir riassunto attraverso una procedura formale alla quale H. ricorre

 

spesso a proposito di alcuni oggetti traumatici. Dapprima ci mostra uno sguardo pietrificato dalla paura, in seguito ci mostra la sua causa, come se il carattere traumatico derivasse dallo sguardo, come se lo sguardo

avesse contaminato l’oggetto. L’oggetto A della scena è dunque lo sguardo stesso, lo sguardo posto allo spettatore per un breve momento. Lo sguardo paralizzato isola quindi un pezzo del Reale, un dettaglio che emerge dal quadro della realtà simbolica. Un dettaglio che di per sé non possiede alcuna sostanza ma che è creato dalla paralisi stessa dello sguardo. Abbiamo così un elemento-surplus del reale sul simbolico ,

un’apparizione fantasmatica di un significante sullo schermo. Avere un significan significante te “vuoto” vuol dire che esso non ha nulla nella realtà che gli corrisponda! La modalità in cui emerge questo elemento può essere

spiegata meglio portando l’esempio di un’altra procedura formale di H. : la dialettica dell’inquadratura e del fuori campo, di come un corpo estraneo entra nell’inquadratura. Se pensiamo alla famosa inquadratura in prospettiva divina di Bodega Bay, nella quale all’improvviso gli uccelli entrano in scena da dietro la mdp, possiamo capirci qualcosa in più. Gli uccelli non facevano facevano parte della realtà del film fino a quel mome momento nto ma vi sono entrati da uno spazio esterno, da uno spazio intermedio tra la realtà dello spettatore e la realtà del film . Lo spettatore in questo modo si sente minacciato: quando la distanza tra le due realtà, tra interno/esterno viene meno, perde la sua sicurezza .

In Hitchcock lo sguardo dell’Altro è fondamentale. Lacan ci fornisce un concetto preciso per questa Alterità Questo aspetto emerge nella sua interezza nelle 2 assoluta: il soggetto al di la della soggettivazione! Questo

inquadrature in “prospettiva divina” di Psycho: una nell’omicidio di Arbogast; l’altra nella scena in cui Norman porta la madre in cantina. Quella dell’omicidio di Arbogast forse è la più esemplificativa: mentre osserviamo la scena dal punto di vista di Dio, la macchia (la Cosa omicida) entra nella scena e l’inquadratura soggettiva successiva corrisponde proprio al punto di vista della macchia (della cosa). Abbiamo una sorta di

perversione, ovvero un’identificazione con uno sguardo impossibile che, sebbene in quel momento la cosa diventi un soggetto, non si apre, non rivela la sua interiorità.

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