Cimatti (a cura di), Linguaggio ed emozioni 2009.pdf

November 25, 2017 | Author: Francesco Passariello | Category: Soap Opera, Cinematography, Emotions, Self-Improvement, Perspective (Graphical)
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BOLLETTINO FILOSOFICO Annuario a cura del Dipartimento di Filosofia dell’Università della Calabria

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Bollettino Filosofico XXIV (2008) Linguaggio ed emozioni a cura di Felice Cimatti

Copyright © MMIX ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133 A/B 00173 Roma (06) 93781065 ISBN

978–88–548–xxxx–x ISSN 1593–7178

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: gennaio 2009

Indice Felice Cimatti, Premessa ................................................................................................. p. 9 Daniele Gambarara L’ombra illuminata: con Tommaso Russo Cardona ....................................................... p. 11 Sezione monografica: Linguaggio ed emozioni FERDINANDO ABBRI

Costruzione delle emozioni e linguaggi contemporanei ................................................ p. 25 FELICE CIMATTI

Dentro il corpo, fuori del corpo. La biologia artificiale delle emozioni ..................... p. 37 MARTA CLEMENTE

Linguaggio, intenzioni e razionalità pratica ................................................................. p. 55 ANNALISA COLIVA

Tu chiamale se vuoi “emozioni” ........................................................................................ p. 71 ROSSANA DE ANGELIS

La categoria timica. Appunti sulla Semiotica delle passioni ................................... p. 86 MARGHERITA DI MARIANO

Per una storia naturale delle emozioni. Note su Wittgenstein ..................................... p. 101 EMANUELE FADDA

Sentire ciò che è giusto ....................................................................................................... p. 118 MIRELLA FORTINO

Scienza ed emozioni ........................................................................................................... p. 128 ROSSELLA GUZZO FOLIARO

Linguaggi grafici e passioni ideologiche .......................................................................... p. 146 FRANCESCO LESCE

Natura, passioni, corpo, mondo. Spinoza e l’ontologia dell’affettività ..................... p. 154 VALENTINA MARTINA

Emozioni, linguaggio e attività in Lev S. Vygotskij ...................................................... p. 169 5

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Bollettino Filosofico XXIV (2008)

MARCO MAZZEO

Imprecisione del limite: contraddizione e melanconia ................................................... p. 182 ALESSANDRA PANDOLFO

Emozioni e mente morale ................................................................................................... p. 195 FRANCESCA PIAZZA

Passioni retoriche. L’analisi dei pathe nella Retorica di Aristotele ........................... p. 213 TOMMASO RUSSO

Ironia: emozioni e orizzonte di coscienza ........................................................................ p. 223 BARBARA SCAPOLO

Linguaggio, sensibilità ed emozioni in Paul Valéry: alcune prospettive ..................... p. 238 EMILIO SERGIO

Sémata, pathémata, lógos: Vico e la scienza nuova dei segni antichi .................... p. 260 ALESSIA TOMAINO

Contemplazione dell’altro: la parola come sguardo estetico ......................................... p. 283 GIANBATTISTA VACCARO

Gilles Deleuze: il linguaggio tra passione e potere ........................................................ p. 290 PAOLO VIRNO

Passioni e regresso all’infinito ........................................................................................... p. 306 Sezione II: Note e discussioni GIUSEPPE BARRESI

Margini della responsabilità. L’offerta dell’altrove........................................................ p. 323 ADALGISA CAIRA

Una moralità fuori dalla storia? ....................................................................................... p. 335 ARMANDO CANZONIERI

Le innumerevoli risorse della ricerca fenomenologica Intervista a Roberta De Monticelli ............................................................................ p. 343 ADELINA CATALDO

L’incubo marziano. “The War of the Worlds” di H.G. Wells ....................................... p. 351 LUIGI CRISTALDI

Le regole dell’arte. Bourdieu tra Saussure e Benjamin ............................................. p. 361

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Indice

ANNABELLA D’ATRI

Il principe Amleto e la filosofia ......................................................................................... p. 374 ROBERTA DE FRANCESCO

«D’avant la lettre» ou l’Autre délire de l’être. Letterature in E. Lévinas .................. p. 393 ANNA DE MARCO

Ontogenesi delle categorie funzionali in L1: un confronto interlinguistico ................ p. 404 ROSSELLA DE ROSE

Ontologia della vita e dimensione dell’ulteriorità nel pensiero tragico di Fëdor Dostoevskij ......................................................................... p. 428 GIUSY GALLO

Rileggendo il rapporto tra percezione e linguaggio: artefatti e istituzioni sociali .... p. 438 ANTONIA GIGLIO

Sensibilità pedagogica nel pensiero di Leibniz ................................................................ p. 459 ALFREDO GIVIGLIANO

Pratica di ricerca e linguaggio della sociologia .............................................................. p. 467 ELENA GIORGIANA MIRABELLI

Il movimento della vergogna. Note a J.M. Coetzee ..................................................... p. 489 DANIELA PALMERI, MONICA M. PASQUINO

Il linguaggio dell’autocoscienza tra filosofia e teatro: Carla Lonzi e Dacia Maraini ............................................................................................ p. 494 RITA PAONESSA

Note su Michael Tomasello, Le origini culturali della cognizione umana .......... p. 509 STEFANIA PESCE

Logica del limite e lógos del limite. Jean–Luc Nancy e la trascendenza ................... p. 516 SILVIA REDENTE

Sull’irreversibilità dei mutamenti. Peirce, Saussure e la rete linguistico-sensoriale .. p. 530 FRANCESCO G. SACCO

Meanest foundations and nobler Superstructures: il metodo in Hooke ............ p. 540 FRANCESCO FERRETTI, MARIA PRIMO

Taking co-evolution seriously. A Commentary on Christiansen & Chater ................. p. 556 Recensioni ......................................................................................................................... p. 561

I curatori dell’editing di questo numero sono stati Giusy Gallo ed Emilio Sergio. Giusy Gallo e Daniele Gambarara sono stati i redattori dell’editing e delle note dell’articolo di Tommaso Russo, Ironia: emozioni e orizzonte di coscienza. Luigi Cristaldi ha curato la parte grafica dell’in memoriam di Daniele Gambarara.

Premessa

Nella sezione monografica di questo numero del «Bollettino Filosofico» del Dipartimento di Filosofia dell’Università della Calabria vengono pubblicate alcune delle relazioni presentate nel Seminario Dottorale dell’A.A. 2006-2007 che aveva come tema Linguaggio ed emozioni. Oltre a questi contributi vengono pubblicati anche interventi di studiosi di altre Università invitati a partecipare a questo numero del «Bollettino». È con un misto di gioia e di dolore che viene pubblicata anche la traccia molto articolata, di fatto quasi pronta per la pubblicazione, della relazione che l’amico e collega Tommaso Russo Cardona riuscì a presentare nel nostro seminario pochi mesi prima di morire il 13 settembre 2007. Il tema del seminario di quell’anno rappresenta la continuazione, e forse anche la naturale conclusione, delle discussioni che molti dei partecipanti a questo numero – sia nelle precedenti edizioni di questo stesso Seminario Dottorale che nelle loro lezioni per il Corso di Laurea in Filosofie e Scienze della Comunicazione e della Conoscenza intrattennero sul tema della natura umana. Il punto della questione era, ed è, quale sia il rapporto fra facoltà del linguaggio, lingue e dotazione biologica dell’animale umano. Il problema è cercare di stabilire quanto incida e modifichi la sua natura il fatto che l’umano sia l’unico animale che parli (e pensi in) una lingua. C’è una natura umana su cui si innesta, successivamente, la competenza linguistica, oppure l’esperienza della lingua ridefinisce fin alle sue radici la stessa dotazione biologica naturale dell’Homo sapiens? Il tema affrontato nella sezione monografica si presta in modo particolare allo sviluppo di queste due diverse impostazioni. Secondo la prima, infatti, le emozioni sono la diretta manifestazione della biologia umana; sono quindi universali e istintive. In questo caso le diverse lingue umane sostanzialmente non intaccano questo fondo, ciò che significa – tornando al tema della natura umana – che questa è distinta e distinguibile dalle forme culturali che variamente possono manifestarla e talvolta celarla ma certo non modificarla. Secondo l’altra impostazione, l’esperienza linguistica, e culturale in generale, rientra a pieno titolo nella biologia umana, e pertanto ristruttura lo stesso campo delle emozioni, che quindi, anche nelle loro forme più elementari, sono letteralmente un impasto di carne sangue e logica. Quelle discussioni, oltre ad aver collettivamente generato libri e riviste, si incarnano infine in molti dei con9

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Felice Cimatti

tributi che potrete leggere nelle pagine seguenti. Personalmente considero un privilegio ed un onore avere vissuto, e seppur in minima parte contribuito, a quegli anni e a quelle discussioni. Allo stesso modo, come accade nella filosofia e nella scienza, e non solo ad esse, quella discussione ha dato quello che poteva dare. Lo Spirito, se con presunzione osiamo sperare che per qualche tempo abbia sostato incuriosito nell’aula seminari del Dipartimento di Filosofia dell’Università della Calabria, ora è altrove. Per questa ragione molti sono i contributi nuovi, di studiosi spesso giovani e soprattutto di tradizioni filosofiche diverse, che ospitiamo in questo numero del «Bollettino». Per inseguire, appunto con nuove forze e nuove idee, quello Spirito, senza il quale il nostro lavoro è del tutto inutile. FELICE CIMATTI

L’ombra illuminata: ancora con Tommaso Russo Cardona No, Time, thou shalt not boast that I do change.

Le Lingue dei Segni esce nel marzo 2007, ma per trarne tutte le conseguenze occorre tempo: già attraverso alcune presentazioni e discussioni pubbliche (in particolare a Roma e a Siena), ma soprattutto poi, rileggendolo, anche assieme agli studenti nei corsi in cui l’abbiamo adottato, ci accorgiamo sempre meglio che lo sguardo generale e filosofico, di forte teoria del linguaggio e dei segni che esso porta su queste lingue verbali considerate a torto ‘minori’ riapre ampiamente la considerazione di nozioni che davamo per scontate, sulle lingue e il linguaggio*. Ad approfondirne punti, sempre nel 2007, viene pubblicato in sede internazionale l’articolo in collaborazione con Paola Pietrandrea “Diagrammatic and Imagic Iconicity in Verbal and Signed Languages”, che trova ulteriore proseguimento, ad inizio 2008 sul numero di «Gesture» curato da Tommaso stesso, con “Metaphors in Sign Languages and in Co–verbal Gesturing”. Nel 2007 escono ancora, a luglio “Sulla formatività del segno linguistico”, e a settembre “Impliciti e intenzionalità”: il primo articolo prende spunto da un nuovo testo saussuriano per giungere al rapporto pensierolinguaggio, il secondo ridiscute questioni di pragmatica al centro del dibattito di più correnti filosofiche. Un passo ulteriore, che lega la ricerca saussuriana a quella sulla gestualità strumentale e comunicativa umana, l’articolo “Asymétries du signe: outils, gestes, mots/signes”, è stato quest’anno pubblicato sui «Cahiers F. de Saussure» 60 (2007 [ma 2008]). Nelle relazioni e nelle discussioni del XV Convegno della Società di Filosofia del linguaggio, nel settembre 2008 ad Arcavacata, i contributi di Tommaso sono richiamati più volte, come era già successo al Convegno precedente, a Siena. Nel frattempo Grazia Basile ha rivisto editorialmente Peripezie dell’ironia, che sta per essere pubblicato da Meltemi, e ai cui temi si collega la traccia pubblicata in questo stesso «Bollettino filosofico». Ci confronteremo così con un altro suo grande libro che esplora il rapporto tra atti comunicativi, contesto dell’enunciazione, il ruolo della lingua nel rimettere in movimento e nel fissare nuovamente situazioni ritualizzate, credenze ed *

Si veda la recensione di Donata Chiricò in questo volume.

Bollettino Filosofico 24 (2008): 11-19

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emozioni del parlante nell’accordarsi e discordarsi da quelle dei suoi interlocutori. Con Emanuele Fadda e Alessandro Chidichimo, predisponendo la pubblicazione nel prossimo numero dei «Cahiers F. de Saussure» di “Négativité, récursivité et incalculabilité”, ci siamo ulteriormente resi conto di quanto sia coraggiosa e fertile la ricerca di Tommaso, che ci ha già imposto di rivedere i nostri articoli che accompagnano il suo. Con l’articolo “Système, emploi et jeu des signes”, in pubblicazione il prossimo anno, salgono a cinque i saggi che dal 2004 Tommaso avrà dedicato ad approfondire un Saussure inedito sia per i testi messi in questione sia per le domande teoriche a cui risponde. È giusto che questo suo prossimo lavoro esca in un volume collettivo che ne condivide l’orientamento. Altri saggi ancora sono in preparazione, su lingue orali e lingue dei segni, iconismo e metafora, ironia e silenzio, uso e gioco dei segni, formatività del linguaggio, temporalità e mente. Nella bibliografia che segue indico solo quelli in avanzato stato di pubblicazione: verranno poi gli aggiornamenti. Chi ha il privilegio di curare questi lavori comincia pensando di rendere servizio, e scopre di trarne lui un considerevole vantaggio. Tommaso è il compagno di lavoro che ti conosce bene, ti sta sempre a fianco, e prima ancora che tu gli chieda qualcosa, è pronto a porgertela nel momento in cui ti serve. Compagno di lavoro che ha molto da dare, e, quindi, molto da chiedere. In primo luogo una lettura lenta e attenta, che metta da parte ogni pregiudizio e ogni interpretazione veloce, che anzi ricostruisca al meglio le argomentazioni anche avversarie, e si confronti con esse, considerando che abbiamo bisogno di ogni prospettiva di ricerca e che irriderne una vuol dire renderle vane tutte. Insomma, il contrario del malcostume imperante nelle università italiane, che chiede da che parte stai, e conta in fretta chi sottoscrive una posizione come se fosse il soldatino arruolato in un esercito (il suo, o quello del nemico). Tommaso sa ascoltare tutti, traendo da ciascuno il meglio, e collaborare con tutti portando con sé e donando agli altri uno spirito di apertura che le più diverse tendenze della filosofia del linguaggio, semiotici, cognitivisti e analitici, hanno imparato ad apprezzare. Fa suoi dall’interno alcuni grandi autori, Peirce, Saussure e Wittgenstein, li fa lavorare sulle questioni che abbiamo di fronte, come ci appaiono oggi, estendendoli fino ai loro limiti, e guardando oltre. In questo momento, il gruppo di lavoro di filosofia del linguaggio che ha trovato un baricentro ad Arcavacata si rinnova, perché, come già nel

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passato, alcuni amici che hanno avuto in esso un ruolo centrale stanno passando ad altre università. Ma la robustezza di una corda – dice Wittgenstein di un fenomeno analogo – non è data da un filo che la percorre in tutta la lunghezza, bensì dall’intrecciarsi e sovrapporsi di pezzi di filo. Proprio il fatto che la conversazione con Tommaso non sia interrotta è la più forte garanzia di continuità attraverso il mutamento. Sarà la sua presenza di contenuto e di metodo nel lavoro comune a far ritornare spesso e a tenerci ancora vicini gli amici trasferiti in altre sedi, saranno la sua prospettiva ed il suo stile ad attrarre ed integrare nel gruppo di lavoro i nuovi collaboratori e amici che verranno. Sta a noi far sì che anche chi non lo conosceva possa accorgersi che c’è qualcuno dal quale abbiamo imparato le virtù rivoluzionarie della pazienza e dell’ironia, senza cui le passioni sono fuochi di paglia, e che nel nostro sorriso c’è l’eco di un sorriso che abbiamo visto diventare bellissimo, per nascondere un dolore crescente. Sarebbe difficile non essergli fedeli, con la fedeltà con cui l’autunno muta in inverno, e l’inverno in primavera. DANIELE GAMBARARA

Pubblicazioni di Tommaso RUSSO (dal 2007 Tommaso RUSSO CARDONA) Roma, 26 Ottobre 1970 – 13 Settembre 2007 Settembre 1996 – Ottobre 1999 dottorato di ricerca in Filosofia del linguaggio (Università di Palermo, della Calabria e di Roma 1) Novembre 2000 – Ottobre 2002 professore a contratto di Sociolinguistica, Università di Bologna Dicembre 2000 – Dicembre 2002 borsa post-dottorato, Università della Calabria Febbraio 2003 – Febbraio 2005 assegno di ricerca, Università della Calabria Novembre 2005 – Settembre 2007 ricercatore universitario di ruolo di Filosofia del Linguaggio, Università della Calabria 1995 01) Tommaso RUSSO, Nomi Propri e individuazione. Peirce, Wittgenstein, Lévi-Strauss e alcune teorie linguistiche contemporanee. Tesi di laurea in Filosofia del Linguaggio, presso l’Università di Roma “La Sapienza”, 21 aprile 1995, relatore Tullio DE MAURO, correlatore Massimo PRAMPOLINI, voto 110/110 e lode. 1997 02) Anna Maria PERUZZI, Paolo ROSSINI, Tommaso RUSSO e Virginia VOLTERRA, “I

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nomi propri nella LIS, ovvero i segni nome”. In: Maria Cristina CASELLI e Serena CORAZZA (a cura di), LIS: Studi esperienze e ricerche sulla Lingua dei Segni in Italia (Atti del I Convegno nazionale sulla LIS, Trieste 13-15 ottobre 1995). Tirrenia (PI): Edizioni del Cerro, 1997, ISBN 88-8216-009-2, pp. 260-265. 03) Tommaso RUSSO, “Segni nome e identità culturale nella comunità sorda in Italia”. In: Amir ZUCCALÀ (a cura di), Cultura del gesto e cultura della parola. Viaggio antropologico nel mondo dei sordi (Atti del Convegno, Università di Roma 15-16 aprile 1996). Roma: Meltemi (Gli argonauti), 1997, ISBN 88-86479-33-6, pp. 69-83. 04) Tommaso RUSSO, “Iconicità e metafora nella LIS”. In: Filosofia del Linguaggio. Teoria e Storia [II] (Preprints del Convegno, 2-3 ottobre 1997). Rende (CS): Dipartimento di Filosofia, Università della Calabria, pp. 136-141. 05) Tommaso RUSSO, Testi per la trasmissione e il sito MediaMente, 1997-1999 www.mediamente.rai.it/home/tv2rete/mm9798/tematich/ www.mediamente.rai.it/home/tv2rete/mm9899/tematich/ 1998 06) Tommaso RUSSO & Elena PIZZUTO, “Iconicity and metaphors in Italian Sign Language poetry: the functional shift from phonological to morphological values of sign parameters elements”. Paper presented at the 2nd Intersign ESF Workshop (Leiden December 1998: Phonology). Abstract online at: www.sign-lang.uni-hamburg.de/ BibWeb/LiDat.acgi?ID=49431 1999 07) Elena PIZZUTO, Barbara ARDITO, Daniela FABBRETTI, Mari Luz PEREA COSTA, Paola PIETRANDREA, Paolo ROSSINI & Tommaso RUSSO, “Italian Sign Language (LIS): text corpora and notation systems”. Paper presented at the 3rd Intersign ESF Workshop (Siena-Pontignano 12-15 march 1999: Morphosyntax: text corpora and tagging). Abstract online at: www.sign-lang.uni-hamburg.de/Intersign/Workshop3/Pizutto.html 2000 08) Tommaso RUSSO, Immagini e metafore nelle lingue parlate e segnate. Modelli semiotici e applicazioni alla LIS (Lingua Italiana dei Segni), tesi di Dottorato di ricerca in Filosofia del Linguaggio: Teoria e storia (Università di Palermo, della Calabria, di Roma “La Sapienza”), XI ciclo (1996-1999; depositata nel dicembre 1999, discussione sostenuta il 10 febbraio 2000). Direttore di tesi: Antonino PENNISI, Lettore: Elena PIZZUTO, Coordinatore del dottorato: Franco LO PIPARO [cf. 27]. 09) Tommaso RUSSO, “Senso e coscienza dei sensi. Alcune riflessioni sulle Lingue dei Segni”. «Ou. Riflessioni e provocazioni», IX (2000, n. 1) (= Sensi del senso, a cura di Federica VERCILLO. Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane), pp. 105-110. 10) Anna Maria PERUZZI, Paolo ROSSINI, Tommaso RUSSO e Virginia VOLTERRA, “Segni nome ed identità personale nella LIS”. In: Caterina BAGNARA, Giampaolo CHIAPPINI, Maria Pia CONTE e Michela OTT (a cura di), Viaggio nella Città Invisibile (Atti del II Convegno nazionale sulla LIS, Genova 25-27 settembre 1998). Tirrenia (PI): Edi-

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zioni del Cerro, 2000, ISBN 88-8216-088-2, pp. 488-494. Rosaria GIURANNA e Giuseppe GIURANNA, Sette poesie in Lingua dei Segni Italiana (LIS). CD-ROM + libretto, prototipo, preedizione Roma: Istituto di Psicologia – CNR, 2000 [cf.19-20] Il libretto di accompagnamento contiene: 11) Elena PIZZUTO e Tommaso RUSSO, “Presentazione”. 12) Tommaso RUSSO, “Sintesi delle poesie”. 13) Tommaso RUSSO, “The crosslinguistic study of poetical texts in signed and vocal languages: productivity, redundancy and form-function relations in a LIS (Italian Sign Language) poem”. Paper presented at the 7th International Conference on Theoretical Issues in Sign Language Research (TISLP 7, Amsterdam July 23rd-27th 2000). Abstract online at: www.sign-lang.uni-hamburg.de/BibWeb/LiDat.acgi?ID=52873 2001 14) Tommaso RUSSO, Rosaria GIURANNA & Elena PIZZUTO, “Italian Sign Language (LIS) poetry: iconic properties and structural regularities”. «Sign Language Studies», 2.1 (Fall 2001, Special Issue), Print ISSN: 0302-1475, E-ISSN: 1533-6263, Gallaudet University Press, pp. 84-112. http://muse.jhu.edu/journals/sign_language_studies/v002/2.1russo.html o .pdf with an animated clip from the poem "The Clock" http://gupress.gallaudet.edu/1.avi 14 bis)Una versione preliminare (14 marzo 2000) è online a: www.sign-lang.uni-hamburg.de/intersign/Workshop2/Russo_Pizzuto/Russo_Pizzuto.html 15) Tommaso RUSSO, “Sordità e cieco-sordità: teorie e stato dell’arte”. In: Antonino PENNISI e Rosalia CAVALIERI (a cura di), Patologie del linguaggio e scienze cognitive. Bologna: Il Mulino (Percorsi), dicembre 2001, ISBN 88-15-08457-6, 9788815084576, pp. 51-99. 16) Tommaso RUSSO e Elena PIZZUTO, “Musica visiva in Lingua Italiana dei Segni: invito alla scoperta di un universo poetico sconosciuto”. «Crossover Festival Magazine» (a cura di Carlo Rea), n. 1, Luglio 2001 (Civitella del Tronto, TE), p. 28. 2002 17) Roberto CONTESSI, Marco MAZZEO e Tommaso RUSSO (a cura di), Linguaggio e percezione Le basi sensoriali della comunicazione linguistica (Atti del Convegno Università di Roma “La Sapienza” 15-16 febbraio 2002). Roma: Carocci (Biblioteca di testi e studi/Linguistica 203), ottobre 2002, ISBN 88-430-2431-0, 9788843024315, 144 pp. 18) Tommaso RUSSO, “Antinorma poetica, ritmo e metafora: tra lingue dei segni e lingue vocali”. In: CONTESSI, MAZZEO e RUSSO (a cura di), Linguaggio e percezione, Roma 2002 [17], pp. 88-98. Rosaria GIURANNA e Giuseppe GIURANNA, Sette poesie in lingua dei segni italiana (LIS). CD-ROM + libretto 16 pagg., Tirrenia (PI). Edizioni del Cerro, 2002 (e 2003) 2a edizione, ISBN 88-8216-137-4 [cf. 11-12]. Il libretto di accompagnamento contiene:

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19) Elena PIZZUTO e Tommaso RUSSO, “Presentazione”. 20) Tommaso RUSSO, “Sintesi delle poesie”. 21) Tommaso RUSSO, “Sistemi antroponimici e identità personale: appunti sulla semantica dei nomi propri di persona”. «Rivista Italiana di Onomastica» (RIOn), VIII/1 (2002), ISSN 1124-8890, pp. 29-57. 22) Tommaso RUSSO, “Nomi Propri” [Recensione di: Rita Caprini, Nomi propri, Alessandria: Edizioni dell'Orso, 2001]. «Rivista Italiana di Onomastica» (RIOn), VIII/1 (2002), pp. 183-187. 23) Tommaso RUSSO, “La specie simbolica” [Recensione di: Terrence W. Deacon, La specie simbolica. Coevoluzione di linguaggio e cervello, Roma: Giovanni Fioritti Editore, 2001]. «Annali dell’Istituto Superiore di Sanità» (AISS), 38/1 (2002), ISSN 00212571, pp. 97-100. http://www.iss.it/binary/publ/publi/381rece.1108638531.pdf 2003 24) Tommaso RUSSO, “Metafore come ipoicone nelle lingue dei segni e nelle lingue vocali”. In: Aureliano PACCIOLLA e Natalino NATOLI (a cura di), Metafora e psicologia. Roma: Laurus Robuffo, 2003, ISBN 88-8087-348-2, 9788880873488, pp. 391-433. 25) Tommaso RUSSO, “Metafore e comprensione tra segni, gesti e parole”. In: PACCIOLLA e NATOLI (a cura di), Metafora e psicologia, Roma 2003 [come 24], pp. 435-467. 26) Tommaso RUSSO, “Sensi individuali e significati condivisi: patologie sensoriali, gioco simbolico e discorso autofasico” [Seminario tenuto all’Università della Calabria, 5 aprile 2000]. «Bollettino filosofico» (Univ. della Calabria), n. 18 (2002) [ma gennaio 2003] (= Cronache dottorali, a cura di Daniele Gambarara), ISSN 1593-7178, pp. 290-313. 2004 27) Tommaso RUSSO, La mappa poggiata sull’isola. Iconicità e metafora nelle lingue dei segni e nelle lingue vocali. Rende (CS): Centro Editoriale e Librario, Università della Calabria (CELUC), Collana “Filosofia del Linguaggio: Teoria e Storia”, settembre 2004, ISBN 88-7458-017-7, 350 pagine [cf. 08]. 28) Tommaso RUSSO, “Iconicity and Productivity in Sign Language Discourse: an analysis of three LIS discourse registers”. «Sign Language Studies», 4.2 (Winter 2004), pp. 164-197. 29) Tommaso RUSSO, “Come è fatta una lingua dei segni”. In: Stefano GENSINI (a cura di), Manuale di semiotica. Roma: Carocci (Università/Semiotica e comunicazione 562), 1a ediz. Marzo 2004, 3a Ristampa 2007, ISBN 88-430-2922-3, 9788843029228, pp. 359-382. 2005 30) Tommaso RUSSO, “Metafore come ipoicone. La dimensione iconica delle metafore nelle lingue vocali e nelle lingue dei segni”. «Versus: quaderni di studi semiotici», n. 97 (2005) ISSN 0393-8255, pp. 151-177.

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31)Tommaso RUSSO & Virginia VOLTERRA, «Comment on “Children Creating Core Properties of Language: Evidence from an Emerging Sign Language in Nicaragua»”. «Science» 309, 56b. (2005 1 July). http://www.sciencemag.org/cgi/reprint/309/5731/56b.pdf Cf. Ann SENGHAS, Asli ÖZYÜREK, and Sotaro KITA, Response to Comment on “Children Creating Core Properties of Language: Evidence from an Emerging Sign Language in Nicaragua”, «Science» 309 (5731), 56c. 32) Tommaso RUSSO e Tiziana ZALLA, “Patologie dello sviluppo cognitivo e comunicativo”. In: Francesco FERRETTI e Daniele GAMBARARA (a cura di), Comunicazione e scienza cognitiva. Roma-Bari: Laterza (Biblioteca di Cultura Moderna, 1180), marzo 2005, ISBN 88-420-7588-4, 9788842075882, pp. 153-190. 33) Tommaso RUSSO, “Stereotipia e sintassi substandard nella scrittura degli adolescenti italiani: un confronto tra le strategie testuali e sintattiche di sordi ed udenti romani”. In: Giuseppe ARDRIZZO e Daniele GAMBARARA (a cura di), La comunicazione giovane (Atti del convegno Majise, Univ. della Calabria, 26 gennaio 2001). Soveria Mannelli (CZ): Rubettino, aprile 2005, ISBN 88-498-1245-0, 9788849812459, pp. 321-343. 34) Tommaso RUSSO, “A Crosslinguistic, Cross-cultural Analisys of Metaphors in Two Italian Sign Language (LIS) Registers”. «Sign Language Studies» 5: 3 (Spring 2005, Special Issue: Metaphor in Signed Languages), pp. 333-359. 35) Tommaso RUSSO, “Un lessico di frequenza della LIS”. In: Tullio DE MAURO e Isabella CHIARI (a cura di), Parole e numeri. Analisi quantitative dei fatti di lingua. Roma: Aracne, marzo-aprile 2005, ISBN 88-548-0040-6, 9788854800403, pp. 277-290. 36) Elena PIZZUTO, Paolo ROSSINI, Tommaso RUSSO e Erin WILKINSON, “Formazione di parole visivo-gestuali e classi grammaticali nella Lingua dei Segni Italiana (LIS): dati disponibili e questioni aperte”. In: Maria GROSSMANN e Anna M. THORNTON (a cura di), La formazione delle parole. (Atti del XXXVII Congresso internaz. di studi della Società di Linguistica Italiana – SLI, L'Aquila 25-27 settembre 2003). Roma: Bulzoni (Pubblicazioni della SLI 48) dicembre 2005, ISBN 88-7870-093-2, pp. 443-463. 37) Tommaso RUSSO, “Language and Hegemony in Gramsci” [Recensione di: Peter Ives, Language and Hegemony in Gramsci, London: Pluto Press, 2004]. «International Review of Sociology», 15, 2, July, 2005, pp. 397-401 38) Tommaso RUSSO, “Recensione di: Tullio De Mauro, traduzione, introduzione e note a F. De Saussure, Scritti inediti di linguistica generale, Roma-Bari: Laterza, 2005”. «Bollettino di Italianistica», IV, 2005, ISSN 0168-7298, pp. 278-284. 2006 39) Barbara FIORE e Tommaso RUSSO, “Linguaggio rituale e divinazione”. «Forme di Vita» 5/2006 (= Il rito tra natura e cultura), Atti del convegno Salerno 10-11 giugno

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2005. Roma: DeriveApprodi, aprile 2006), ISBN 88-88738-99-1, 9788888738994, pp. 98-120. 40) Tommaso RUSSO, Compte Rendu de: “F. de Saussure, Scritti inediti di linguistica generale, trad. introd. e note di Tullio De Mauro, Roma-Bari: Laterza, 2005”. «Cahiers Ferdinand de Saussure» 58 (2005) [ma marzo 2006], ISSN 0068-516-X, ISBN 2600-01070-X, pp.299-308. 41) Elena PIZZUTO, Paolo ROSSINI, e Tommaso RUSSO, “Representing signed languages in written form: questions that need to be posed”. In: Chiara VETTORI (ed.), Proceedings of the Second Workshop on the Representation and Processing of Sign Languages: Lexicographic Matters and Didactic Senarios (LREC 2006 – 5th International Conference on Language Resources and Evaluation, Genoa, May 28th 2006). Paris: ELRA, 2006, pp. 1-6. 42) Tommaso RUSSO, “Metaphors and blending in LIS (Italian Sign Language) discourse: a window on the interaction of language and thought”. In: QUADROS, Ronice M. de (ed.): TISLR 9: Theoretical Issues in Sign Language Research 9: (9 Congreso International de Aspectos Teóricos das Pesquisas nas Linguas de Sinais. December 6 to 9, 2006, Universidade Federal de Santa Catarina Florianópolis, SC Brasil). Florianópolis: Lagoa Editora, 2006, pp. 183-184. Cf. Terry JANZEN and Sherman WILCOX (eds.), Cognitive Dimensions of Signed Languages. «Cognitive Linguistics» 15 (2004). 43) Grazia BASILE e Tommaso RUSSO, “OGM e stampa italiana (2003-2005)”. Roma: (Consiglio dei Diritti Genetici) MediaBiotech, report # 1/2005 [ma 2006], 49 pp. 2007 44) Tommaso RUSSO CARDONA e Virginia VOLTERRA, Le Lingue dei Segni. Storia e Semiotica. Roma: Carocci (Quality Paperbacks 207), marzo 2007, ISBN 9788843040575, 153 pagine. 45) Tommaso RUSSO CARDONA, “Catastrofe e ironia”. «Forme di vita» 6/2007 (= Logica e antropologia). Roma: DeriveApprodi, febbraio 2007, ISBN 788889969229, pp. 85-104. 46) Tommaso RUSSO CARDONA, “L’ontogenesi come Philosophia prima” [Recensione di: David Gargani, La nascita del significato, Linguaggio ed esperienza nell'ontogenesi del significato verbale, Perugia: Guerra Ediz., 2004]. «Forme di vita» 6/2007 (= Logica e antropologia). Roma: DeriveApprodi, febbraio 2007, ISBN 788889969229, pp. 216-221. 47) Tommaso RUSSO CARDONA, “Sulla formatività del segno linguistico nello scritto saussuriano De l’essence double du langage”. In: Annibale ELIA e Marina DE PALO (eds.), La lezione di Saussure. Saggi di epistemologia linguistica (Atti del Convegno Università di Salerno 18 Giugno 2004). Carocci (Quaderni), luglio 2007, ISBN 9788843041770, pp. 171-186. 48) Tommaso RUSSO CARDONA, “Impliciti e intenzionalità. La dimensione intersoggettiva dell’intenzionalità nel discorso frammentato o reticente”. In: Raffaella PETRILLI

L’ombra illuminata

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e Diego FEMIA (eds.), Il filo del discorso. Intrecci testuali, articolazioni linguistiche, composizioni logiche (Atti del XIII Congresso Nazionale della Società di Filosofia del Linguaggio, Viterbo 14-16 Settembre 2006). Roma: Aracne (Pubblicazioni della Società di Filosofia del Linguaggio 04), settembre 2007, ISBN 9788854813311, pp. 91-109. 49) Paola PIETRANDREA e Tommaso RUSSO, “Diagrammatic and Imagic Iconicity in Verbal and Signed Languages”. In: Elena PIZZUTO, Paola PIETRANDREA & Raffaele SIMONE (eds.), Verbal and Signed Languages: Comparing structures, constructs and methodologies (Atti del Colloquio internaz. Roma 4-5 Ottobre 2004). Mouton De Gruyter (Empirical Approaches to Language Typology [EALT] 36), 2007. ISBN 978-3-11019585-9, pp. 35-36. 2008 50) Adam KENDON and Tommaso RUSSO CARDONA (eds.), Dimensions of gesture. «Gesture», 8/1 (2008) Special Issue, (Atti del Convegno Il gesto nel Mediterraneo, Procida, 20-23 ottobre 2005). Amsterdam: Benjamins. 51) Tommaso RUSSO CARDONA, “Metaphors in Sign Languages and in Co-verbal Gesturing”. In: KENDON, and RUSSO CARDONA (eds.), Dimensions of gesture, «Gesture», 8/1 (2008) [50], pp. 62-81. 52) Tommaso RUSSO CARDONA, “Asymétries du signe: outils, gestes, mots/signes” (Relazione alla Tavola rotonda del XXXVI Congresso AISS, Università della Calabria, 17 Novembre 2006). «Cahiers Ferdinand de Saussure» 60 (2007) [ma maggio 2008], pp. 107-122. 53) Tommaso RUSSO, “Ironia: emozioni e orizzonte di coscienza” [Seminario tenuto all’Università della Calabria, aprile 2007]. «Bollettino filosofico» (Univ. della Calabria), n. 24 (2008) (= Linguaggio ed emozioni, a cura di Felice Cimatti), ISSN 15937178, pp. 223-237. IN PUBBLICAZIONE 54) Tommaso RUSSO CARDONA, Peripezie dell’ironia. Studio sul rovesciamento ironico, Roma: Meltemi, in corso di stampa. 55) Tommaso RUSSO CARDONA, “Négativité, récursivité et incalculabilité: les quaternions dans «De l’essence double du langage»” «Cahiers Ferdinand de Saussure», 61 (2008), in corso di stampa. 56) Tommaso RUSSO CARDONA, “Forme, jeu des signes et emploi dans «De l’essence double du langage»” (Relazione presentata al convegno “Rileggere Saussure”, Ragusa, 28-29 Aprile 2006). In: Daniele GAMBARARA (a cura di), L’esprit du langage. Un voyage de Saussure en Italie, in pubblicazione. 57) Tommaso RUSSO CARDONA, Il ricamo dei segni. Un viaggio nel paese dei sordi attraverso la loro poesia, in preparazione.

Sezione monografica: Linguaggio ed emozioni

FERDINANDO ABBRI Costruzione delle emozioni e linguaggi contemporanei

«Le emozioni disegnano il paesaggio della nostra vita spirituale e sociale. … Le emozioni lasciano un segno nelle nostre vite rendendole irregolari, incerte, imprevedibili». M.C. NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni1.

Il tema delle emozioni è da sempre al centro dell’interesse della filosofia e, in tempi più recenti, anche delle scienze cognitive: la loro importanza per il tono e la qualità della vita mentale e affettiva di un individuo ha talmente catalizzato l’attenzione dei filosofi che si possono individuare nella storia e nella filosofia contemporanea un numero ragguardevole di concezioni diverse sulle emozioni. Nella filosofia classica e in quella moderna ogni capitolo dell’etica doveva necessariamente indicare il ruolo delle emozioni e delle passioni in una vita ben vissuta, ovvero risolvere questioni di carattere normativo in merito ad un eventuale loro contributo alla razionalità. Sui problemi connessi alle emozioni esiste una mole impressionante di ricerche in prospettiva storico-filosofica, teorica ed etica: la ricostruzione delle concezioni in merito alle passioni che hanno attraversato la storia della filosofia compone capitoli decisivi della storiografia filosofica; questioni correlate ad un’ontologia delle emozioni o ai rapporti tra razionalità, conoscenza di sé, moralità e emozioni hanno dato vita a lavori di innegabile interesse filosofico. Né va ignorato il ruolo che il linguaggio svolge nella costruzione delle passioni o emozioni nella vita individuale. In questo saggio intendo solo segnalare un aspetto della cultura contemporanea che può essere di un qualche interesse al fine di definire ulteriormente il già complesso quadro della questione “emozioni” nel contesto della filosofia e delle scienze umane contemporanee. L’uso del termine “costruzione” nel titolo richiama una precisa posizione epistemologica, ossia 1

M.C. NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni [I ed. 2001], Bologna, il Mulino, 2004, p. 17.

Bollettino Filosofico 24 (2008): 25-36

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l’idea che le concezioni (filosofiche, scientifiche, storiche, di gender, sessuali, ecc.) sono costruzioni che si presentano come strettamente correlate a contesti culturali e sociali. L’adesione ad una forma (debole) di costruzionismo sociale non implica una svalutazione o relativizzazione della conoscenza, al contrario vuole privilegiare il momento genetico nella delineazione e affermazione di una conoscenza che viene pur sempre pensata come decisiva e storicamente influente2. Una qualunque considerazione del tema delle emozioni rinvia ad uno dei libri più importanti pubblicati sull’argomento negli ultimi anni, ossia a Upheaval of Thought. The Intelligence of Emotions (2001) di Martha C. Nussbaum3, che è una vera e propria summa filosofica del problema delle emozioni in prospettiva etica. Tra i molteplici aspetti del libro della Nussbaum uno colpisce subito il lettore: la capacità della filosofa americana di muoversi con straordinaria lucidità e padronanza degli argomenti tra contesti di riferimento differenti. Dalla filosofia classica e moderna agli approcci psicologici e cognitivi, dalla letteratura alla poesia in un gioco sottile di rinvii e trattazioni trasversali tra Platone, Spinoza, Proust, Agostino e Dante, Emily Brontë, Joyce e Whitman, senza dimenticare Gustav Mahler, Nussbaum propone la sua concezione neostoica che valuta le emozioni come decisive per la vita etica e vede l’arte e la letteratura, in quanto strumenti significativi per la educazione delle nostre emozioni, come capaci di svolgere un ruolo di primo piano nello sviluppo etico individuale. Va da sé che la considerazione della “compassione” nella seconda parte di Upheaval è, a detta degli specialisti di filosofia morale, una delle migliori trattazione attualmente disponibili nel panorama della letteratura filosofica sull’argomento4. Da filosofo della musica posso solo dire che l’intermezzo dedicato a musica ed emozione e il capitolo su Mahler sono una lucida messa a punto di un problema cruciale per l’estetica musicale, cioè il rapporto tra musica e emozione5. Si tratta di considerare nientemeno che la natura emotiva 2 F. ABBRI, Concetti e contesti di discorso: storia intellettuale e storia sociale della filosofia e della scienza, in G. CANZIANI (ed.), Storia della scienza, storia della filosofia: interferenze, Milano, FrancoAngeli, 2005, pp. 185-196. 3 M.C. NUSSBAUM, op. cit. 4 Desidero ringraziare l’amico e collega Mario Micheletti con il quale ho avuto modo di discutere del libro della Nussbaum e che mi ha segnalato l’importanza della trattazione della “compassione” da parte della filosofa americana. 5 Cf. S. DAVIES, “The Expression of Emotion in Music”, Mind 89 (1980), pp. 67-86. M. BUDD, “Music and the Expression of Emotion”, Journal of Aesthetics Education 23 (1989), pp. 19-29.

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o meno del linguaggio musicale: nella sua formalità e precisione la musica ha la capacità di suscitare passioni e emozionare l’ascoltatore ma è difficile districarsi filosoficamente tra l’ipotesi di un eventuale carattere emotivo insito nel linguaggio musicale e la considerazione dell’emozione musicale come il prodotto di una reazione psicologica dell’ascoltatore rispetto ad un insieme organizzato di suoni che è, di per sé, solo una creazione di tipo sintattico. Se si accetta con Martha Nussbaum l’idea che le arti (la musica in particolare) e la letteratura (prosa e poesia), in quanto capaci di suscitare emozioni, sono dunque in grado d’influenzare le nostre concezioni morali, dobbiamo ammettere che forme altre di “arte” contemporanea, anche se non di grande valore e qualità dal punto di vista estetico, anzi volutamente popolari, si manifestano attraverso linguaggi che sono influenti sui soggetti. Nel suo efficace e ammirevole percorso attraverso contesti differenti Nussbaum utilizza casi artistici di altissima qualità estetica ma che hanno oggi, purtroppo, un impatto limitato a livello pubblico. Mi propongo di presentare qui alcuni casi di costruzione delle emozioni facendo riferimento ad una tipologia di narrazione televisiva che non è artisticamente alta, ma è di grande impatto a livello pubblico. Un’attenzione verso questa tipologia può suggerire al filosofo in che modo il linguaggio “popolare” è capace di costruire saperi etici e smascherare pregiudizi di tipo ideologico. Le serie televisive di produzione anglo-americana sono prodotti a larga diffusione internazionale e rappresentano una delle forme contemporanee più fortunate di narrazione romanzata. Per reti televisive a livello nazionale o via cavo o satellitari (le pay TV) la produzione di una serie di successo, capace quindi di durare per diverse stagioni, costituisce un investimento economicamente importante che viene sfruttato a vari livelli (diffusione TV, DVD, internet, ecc.). Le serie televisive traggono ispirazione dal vecchio romanzo d’appendice, innovato anche alla luce delle “soap opera” più popolari: è opportuno ricordare che esistono soap opera come ad esempio l’americana As the World Turns (dal 1956) o la britannica Eastenders (dal 1985), che durano da molti anni, e che nella loro evoluzione riflettono i mutamenti di percezione pubblica rispetto a temi di attualità. La fortuna delle serie è riconducibile a fattori differenti: abilità e fluidità narrative, innovazione negli argomenti pur mantenendo una struttura tradizionale, capacità di riflettere la contemporaneità pur in una dimensione fittizia, linguaggio – visuale e verbale – accessibile ma non banale, possibilità di emozionare, appassionare, quindi interessare una fascia ampia di spettatori. La

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questione della perizia nel coinvolgere emotivamente rappresenta qualcosa di cruciale al fine di individuare le ragioni di successo a livello mondiale. È opportuno fare un esempio relativo al cinema di argomento storico per poter chiarire la rilevanza della sfera emotiva nella creazione di un prodotto di successo. Nel 2000 il film Gladiator di Ridley Scott, che è ambientato nello stesso periodo della storia romana di The Fall of the Roman Empire (1964) di Anthony Mann, ha avuto un tale successo di pubblico e di critica che ha lasciato intravedere ai produttori americani la possibilità di utilizzare di nuovo la storia antica come soggetto dopo il clamoroso insuccesso di Cleopatra del 19636. Giova ricordare che la storia antica è stata sin dalle origini del cinema commerciale e, per lungo tempo, il soggetto privilegiato dei film7. In seguito il film storico e epico si è trasformato in un genere la cui fortuna è affidata ai corsi e ricorsi del mercato cinematografico. Sulla scia del Gladiator di Scott sono stati prodotti nel 2004 i seguenti film: Troy di Wolfang Petersen, Alexander di Oliver Stone, King Arthur di Antoine Fuqua, che è ambientato in epoca tardoromana. Pur avendo avuto, in misura diversa, un buon successo, nessuno di questi film o film simili di genere epico ha conosciuto un successo commerciale e di critica pari a quello del film di Ridley Scott. Le ragioni sono molteplici e non posso entrare qui nel merito specifico, ma molti critici, riferendosi in particolare a Troy di Petersen, hanno riconosciuto che lo spazio fisico e spettacolare di questo film è ragguardevole ma quello emotivo non è né definito né coinvolgente8. La storia narrata da Scott non è particolarmente originale, innovativa e contiene una lunga sequenza di errori storici e di anacronismi, ma lo spazio emotivo è così forte che ha garantito un enorme successo internazionale perché il pubblico, nonostante la distanza storica dagli eventi narrati, si è emotivamente identificato col protagonista, e questo non può essere certo affermato né per Troy né per Alexander. La costruzione delle passioni nella narrazione garantisce una temperatura emotiva tale da rendere significativa e coinvolgente una storia, anche se questa non è troppo originale. Il gioco Cf. M.M. WINKLER (ed.), Gladiator. Film and History, Malden – Oxford, Blackwell Publishing, 2005. 7 J. SOLOMON, The Ancient World in the Cinema, New Haven – London, Yale University Press, 2001. La prima edizione di questo volume risale al 1978. 8 M.M. WINKLER (ed.), Troy. From Homer’s Iliad to Hollywood Epic, Malden – Oxford, Blackwell Publishing, 2007. F. ABBRI, “Troy di Wolfgang Petersen: epica antica e cinema”, in R. BERTINI CONIDI, F. LONGO (ed.), Ex adversis fortior resurgo, Pisa, Pacini editore, 2008, pp. 145-156. 6

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delle emozioni e del loro linguaggio espressivo è decisivo per un’arte visuale com’è il cinema. Una serie televisiva di successo è capace di garantire popolarità ai personaggi e ai loro interpreti che era impensabile sino a qualche anno fa e che era riservata esclusivamente agli attori del cinema, merita quindi una considerazione attenta anche al di fuori della critica televisiva, ovvero adottando prospettiva diverse di lettura di questo fenomeno. Una serie può dire molte cose ad uno storico e a un filosofo attenti ai fenomeni della contemporaneità. La casa editrice anglo-americana I.B. Tauris ha una collana di studi, di “Reading contemporary television” che è dedicata alle serie televisive più popolari degli ultimi anni. I volumi, curati in genere da Janet McCabe e Kim Akass, raccolgono saggi di diverse studiose e studiosi che considerano i vari aspetti di una serie televisiva di successo. Ad esempio il volume dal titolo Reading Six Feet Under. TV to die for (2005)9 analizza la celebre serie “Six Feet Under” della rete televisiva via cavo HBO, che ha svolto un ruolo decisivo nel rinnovamento del serial televisivo americano. Nel 2008 Gary R. Edgerton e Jeffrey P. Jones hanno curato per la University Press of Kentucky un volume dal titolo The Essential HBO Reader nel quale ventidue studiose e studiosi fanno la storia e analizzano le più importanti produzioni di HBO10. Tra queste/i studiose/i figurano la McCabe e la Akass che sono appunto le curatrici della “Reading Contemporary Television book series” della Tauris. Giova ricordare che HBO ha prodotto non solo Angels in America dal dramma in due parti di Tony Kushner sulla tragedia dell’AIDS, ma anche serie di successo come Sex and the City11, Oz12 – ambientata in un K. AKASS, J. MCCABE (eds.), Reading Six Feet Under. TV to die for, London – New York, I.B. Tauris, 2005. 10 G.R. EDGERTON, J.P. JONES (eds.), The Essential HBO Reader, Lexington. The University Press of Kentucky, 2008. 11 K. AKASS, J. MCCABE (eds.), Reading Sex and the City, London – New York. I.B. Tauris, 2003. 12 La serie Oz è diventata anche un punto di riferimento per sociologi e antropologi sociali interessati ai problemi carcerari. A differenza di Prison Break – la serie della Fox Broadcasting Company trasmessa dal 2005 – Oz è una serie molto dura che riflette in maniera drammatica le differenze etniche presenti nella società americana. Una prigione maschile diventa lo specchio di una società. Cf. M. MALACH, Oz, in G.R. EDGERTON, J.P. JONES (eds.), The Essential HBO Reader, cit., pp. 52-60. B. JARVIS, Cruel and Unusual. Punishment and US Culture, London – Sterling, Pluto Press, 2004, pp. 222-232. ID., The violence of images: inside the prison TV drama OZ, in P. MASON (ed.), Captured by the Media. Prison discourse in popular culture, Cullompton, William Publishing, 2006, pp. 154-171. 9

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carcere maschile, trasmessa dal 1997 al 2003 e capace di richiamare l’attenzione di studiosi del fenomeno carcerario – The Sopranos13 e, appunto, Six Feet Under. In una serie che può arrivare fino a cinque stagioni come Six Feet Under o addirittura a sei stagioni come Oz, The Sopranos e Sex and the City, i temi svolto dalla narrazione sono i più diversi ma è da notare che la televisione a pagamento ha offerto la opportunità di affrontare argomenti “difficili” per un pubblico da soap opera, e televisivo in genere. In questo ambito la messa in agenda di un ripensamento delle questioni di gender e delle sessualità è assolutamente in primo piano: la figura della donna è stata completamente innovata rispetto a immagini tradizionali e la diversità sessuale ha fatto la sua piena comparsa. Ciò che era marginale nella raffigurazione tradizionale è diventato centrale – le donne che parlano di sé, in prima persona esprimendo le proprie passioni, emozioni e manifestando i loro desideri – mentre le persone omosessuali hanno trovato un loro spazio emotivo significativo, non marginale o puramente decorativo14. Se cambia la prospettiva emotiva di un soggetto muta ovviamente anche il linguaggio televisivo che deve esprimere quella prospettiva. Giova ricordare che molte studiose femministe hanno sottolineato come concezioni, strutturate dal punto di vista del gender, sull’esperienza emotiva e sulla sua espressione hanno contribuito a mantenere la disuguaglianza tra i sessi. Nel volume su Six Feet Under la terza parte è dedicata a “Making visible the female subject” sulle figure femminili della serie mentre la quarta riguarda le “Masculinities reconsidered” che contiene anche un saggio di Brian Singleton su Queering The Church: sexual and spiritual neo-orthodoxies in Six Feet Under che usa la “queer theory”15 per leggere il problema della diversità sessuale in relazione al problema della religione16. È da sottolineare D. LAVERY (ed.), Reading the Sopranos, London – New York, I.B. Tauris, 2006. La presenza di coppie gay nelle soap opera – come ad esempio Noah Mayer e Luke Snyder (2007) in As the World Turns o John Paul McQueen e Craig Dean nella soap britannica Hollyoaks – costituisce un elemento di novità importante perché, giova ricordarlo, le soap opera sono trasmesse in orario mattutino o nel primo pomeriggio e sono destinate ad un pubblico ampio. Certi temi possono essere più agevolmente presentati in serie destinate ad un orario serale che non nelle soap opera. In Oz il rapporto amoroso e sessuale tra Tobias Beecher (Lee Tergesen, stagioni 1-6) e Chris Keller (Christopher Meloni, stagioni 26), due carcerati bianchi, è un filo conduttore narrativo assai importante. 15 Cf. F. ABBRI, Contesti di alterità, Cosenza, Edizioni Brenner, 2002. D.E. HALL, Queer Theories, Basingstoke, Palgrave Macmillan 2003. 16 B. SINGLETON, “Queering the Church: sexual and spiritual neo-orthodoxies in Six Feet Under”, in K. AKASS, J. MCCABE (eds.), Reading Six Feet Under. TV to die for, cit., pp. 13 14

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che queste due parti sono organizzate sotto una stessa rubrica dal titolo “Post-Patriarchal Dilemmas” che ci dice quanto la storia delle sessualità, la teoria del gender e la queer theory aiutano a fare emergere le novità presenti anche in una serie televisiva destinata ad un largo pubblico. Nel 2006 McCabe e Akass hanno curato un Reading di Desperate Housewives relativo alla fortunata serie televisiva della ABC (American Broadcasting Corporation) che è in programmazione dalla fine del 2004 e che in USA è arrivata alla sesta stagione. Il “Reading” riguarda solo le prime due stagioni di Desperate Housewives ma contiene una sezione di saggi dedicati a Sexual Politics che dimostrano come certi argomenti siano ormai irrinunciabili per una trattazione delle ideologie diffuse dai moderni strumenti di comunicazione. Non a caso in questo volume il saggio di Kristian T. Kahn dal titolo Queer Dilemmas: The ‘right’ ideology and homosexual representation in Desperate Housewives contiene una dura critica alle modalità di rappresentazione di un personaggio queer, significativo anche se marginale, della serie come Andrew Van de Kamp17. La rappresentazione dei personaggi degli sceneggiati televisivi e delle loro emozioni compongono momenti importanti nella costruzione di figure specifiche e dei linguaggi emotivi a loro connessi nel nostro presente in cui la comunicazione visuale è così preponderante. Basti solo pensare alla serie americana The L Word, che è giunta alla stagione sesta, ha come protagoniste un gruppo di donne omosessuali e bisessuali e che a livello internazionale è distribuita da una grande compagnia come la MGM Worldwide Television18. Nel seguito di questo saggio intendo considerare brevemente due serie televisive differenti, una britannica e una americana, che hanno entrambe al centro una famiglia numerosa, le relazioni interne alla famiglia che, seppure collocata in contesti economici, sociali e politici radicalmente differenti, ci rivelano una dinamica diversa, innovativa nella costruzione delle emozioni dei personaggi. Shameless è una serie televisiva britannica creata da Paul Abbott che è prodotta per Channel 4, è iniziata il 13 gennaio 2004 ed ha visto ad oggi la 161-173. Cf. anche S.A. CHAMBERS, “Revisiting the closet: reading sexuality in Six Feet Under”, ivi, pp. 174-188. 17 K.T. KAHN, “Queer Dilemmas: The ‘right’ ideology and homosexual representation in Desperate Housewives”, in J.MCCABE, K. AKASS (eds.), Reading Desperate Housewives. Beyond the White Picket Fence, London – New York, I.B. Tauris, 2006, pp. 95-105. 18 K. AKASS, J. MCCABE (eds.), Reading the L World, London – New York, I.B. Tauris, 2006.

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messa in onda di cinque stagioni che sono state regolarmente tutte riprodotte e diffuse anche in DVD19. La serie è ambientata in un quartiere di fantasia che si chiama Chatsworth Estate, che è collocabile nella città di Manchester ed ha come protagonisti e personaggi secondari esponenti dei ceti popolari che parlano un inglese con forte accento mancunian, cioè tipico della zona di Manchester. Il protagonista principale è Frank Gallagher e la sua numerosa e disfunzionale famiglia composta da sei figli di una stessa (e fuggita) madre, ai quali se ne aggiungono altri tre nel corso dello svolgimento della serie. Frank Gallagher vive solo di espedienti e passa gran parte del suo tempo a bere al pub, lasciando a sé stessi i figli. Attorno ai Gallagher ruotano amici, vicini, un’altra numerosa famiglia, i Maguire, che esercita professionalmente attività di tipo criminoso e che diventa centrale a partire dalla quarta stagione. L’alta numerosità della famiglia Gallagher è un espediente narrativo tradizionale che consente agli sceneggiatori di presentare tipi umani molto differenti e d’intrecciare storie amorose, relazioni personali, vicende e attività più o meno legali assai variegate. La famiglia è il centro dello sviluppo della narrazione ma non è più una famiglia di tipo tradizionale, o meglio è tradizionale nella sua configurazione, nelle sue aspirazioni ma non lo è più nei fatti. Frank è ancora sposato con Monica che lo ha abbandonato con sei figli per vivere con una donna, ma ha una nuova compagna Sheila, a sua volta sposata con una figlia e sofferente di agorafobia. Da Sheila Frank ha due figli (gemelli) e la massima aspirazione di Sheila è il matrimonio con Frank. È da dire che non è una serie per tutto il pubblico perché presenta situazioni forti – sesso, droga, alcool, attività illegali – tanto che alcuni DVD della serie sono classificati come vietati ai minori di diciotto anni. Il livello di narratività è assai efficace e il successo di critica e di pubblico è stato tale che dopo la prima stagione, composta da soli sette episodi, Channel 4 ha commissionato subito una seconda e una terza stagione del programma. Shameless risulta interessante, attraente perché nel suo impianto di creazione romanzesca, nelle sue esagerazioni tipicamente da romanzo popolare finisce per avvicinarsi alla realtà sociale molto più di un programma che vuole essere intenzionalmente realistico. Dalla visione della serie emergono alcune elementi che sono degni di nota e funzionali al discorso che intendo presentare in questo saggio. Le donne sono figure decisamente più forti e equilibrate degli uomini e sin da 19

Per Shameless ho potuto vedere la serie nei DVD originali britannici di Channel 4.

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giovani sono in grado di occuparsi dei fratelli e dei compagni e di risolvere i loro problemi. Le emozioni – in parte di tipo sentimentale e in parte di tipo francamente sessuale – sono percepite dallo spettatore avendo come punto di osservazione privilegiato la prospettiva femminile. Fiona, la figlia maggiore dei Gallagher, che figura nelle prime due stagioni, è una ragazza libera, ma anche forte, responsabile, impegnata nella cura dei fratelli e decisamente innamorata di Steve: siamo di fronte a una figura assai moderna, disinvolta ma che segue anche la tradizione nelle sue aspirazioni di vita. Non a caso dalla terza serie è la sorella minore Debbie a diventare il centro fondamentale di stabilità della famiglia. I personaggi si presentano e si comportano in maniera sfrontata, senza vergogna, l’attività sessuale è liberamente condotta sin da giovanissimi ma nessuna delle giovani donne che restano incinte ricorre all’aborto, anzi tutte pensano alla maternità come ad un momento di crescita e di responsabilizzazione. Se le donne sono centrali in Shameless la diversità sessuale maschile e femminile, pur con tutte le difficoltà e remore di una società difficile, maschilista nella sua configurazione ideologica e nei suoi ideali, trova la sua legittimazione narrativa. Ad esempio, Ian, il secondo figlio maschio di Frank Gallagher, è gay e i problemi connessi alla sua identità sessuale trovano una non facile e sempre instabile risoluzione grazie ad una accettazione della sua diversità come parte dell’esistenza e della varietà umana. In qualche modo Shameless presenta il quadro di una vita difficile, fatta di sotterfugi, di piccoli e grandi inganni per sopravvivere, in cui i personaggi non hanno più remore di tipo tradizionale (religiose, morali, politiche e sociali) ma esprimono sentimenti e passioni prepotentemente umane e aspirano a forme di stabilità e di idealità che sono anche di tipo tradizionale: matrimonio, figli, sicurezza professionale. Le emozioni che i vari personaggi provano, sperimentano, esprimono e testimoniano allo spettatore li rendono, pur nella loro eccentricità, profondamente vicini e coinvolgenti. La famiglia Gallagher è, allo stesso tempo, un’invenzione narrativa efficace, quindi pura finzione, e uno sguardo disincantato su una realtà possibile che, proprio a ragione del suo carattere immaginario, riesce ad avvicinarsi di molto ad un reale veritiero. Se dalla Manchester proletaria ci spostiamo nella California della borghesia ricca troviamo un’altra e numerosa famiglia che è diventata solo di recente protagonista di una serie televisiva americana ma che ha conosciuto un grande e inaspettato successo di pubblico.

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Dal settembre 2006 la ABC ha cominciato a trasmettere una nuova serie televisiva, prodotta da Greg Berlanti, dal titolo Brothers & Sisters, che è una sorta di dramma familiare incentrato sulla famiglia Walker, appartenente alla media e alta borghesia californiana20. Si tratta di una famiglia che ha origini irlandesi e ebraiche la cui principale attività economica consiste nella produzione e distribuzione di frutta. Il patriarca William muore nel primo episodio della serie 1, e lascia dietro di sé una pesante eredità umana, affettiva e finanziaria, mentre il centro della narrazione è rappresentato dalla moglie Nora – interpretata da una formidabile Sally Field – e dalle loro figlie e dai loro figli: Sarah, Kitty, Tommy, Kevin e Justin. Ad un primo sguardo e ad una prima lettura Brothers & Sisters sembra una serie familiare tradizionale, con alcuni aspetti da soap opera quali intrecci, segreti – amanti e figli ignoti – drammi umani, sentimentali e sessuali. Questo non spiega tuttavia il successo di pubblico che ha già portato alla diffusione di due serie complete mentre nel settembre 2008 è cominciata la programmazione in USA della terza serie. In verità, il contenitore, lo schema sono tradizionali, nel senso che possono essere ricondotti a forme di narrazione da romanzo ottocentesco, ma i contenuti sono decisamente innovativi nei temi e nelle emozioni. Ad una lettura più attenta la serie appare costruita in maniera assai astuta nella sua convenzionalità: la convenzione è riempita da temi nuovi, forti e attuali. La questione politica è posta con forza in primo piano: Nora è una democratica liberal e radicale, decisamente contraria a amministrazioni e politiche repubblicane, critica della guerra in Iraq nella quale finisce per essere coinvolto il figlio più giovane Justin che ha già passato un periodo di servizio militare in Afghanistan. L’esperienza della guerra ha lasciato traumi e difficoltà psicologiche in Justin che è un disadattato da un punto di vista umano e professionale. Il perfetto contrario di Nora è la figlia Kitty (Calista Flockhart), repubblicana, reaganiana, patriottica, sostenitrice – almeno all’inizio della serie – della presidenza Bush e della guerra in Iraq. Kitty è una commentatrice televisiva che presenta il punto di vista conservatore al pubblico e diventa l’addetto stampa, quindi la moglie di un senatore repubblicano. Gli scontri politici tra Nora e Kitty, le difficoltà esistenziali di Justin come risultato delle sue esperienze di soldato in Oriente, consentono allo spettatore di veder riflesse le emozioni di un’America molto diversa dopo l’undici settembre. È raro trovare in una serie di una 20 Per le due serie di Brothers & Sisters ho utilizzato i DVD prodotti e distribuiti dalla Touchstone Television.

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grande televisione nazionale una dimensione di discussione politica così accesa, ampia e capace di rispecchiare punti di vista diversi rispetto a eventi tragici come le guerre in Afghanistan e in Iraq. Anche in Brothers & Sisters, come in Shameless, le figure femminili sono molto forti: Nora, le due figlie Kitty e Sarah, Holly, l’amante del patriarca William, e la di lei figlia Rebecca sono donne moderne, decise, combattive, professionalmente attive ma anche tradizionali nelle loro aspirazioni sentimentali e umane. La forza televisiva della serie è dovuta in larga misura ai personaggi femminili, per altro interpretati in modo egregio. Dei tre figli quello che ha richiamato di più l’attenzione del pubblico è Kevin Walker (Matthew Rhys), avvocato, gay dichiarato, professionalmente affermato, radicalmente liberal come la madre, che ne ha accettato senza remore l’orientamento sessuale: Kevin è sessualmente libero ma è alla ricerca di una relazione stabile. Alla fine della seconda serie Kevin trova il suo compagno in Scotty, già apparso come personaggio secondario nella prima serie, e insieme formano una delle coppie sposate della famiglia Walker. Kevin Walker è una delle figure gay più positive della televisione nordamericana perché è consapevole di sé, brillante, seducente ma anche romanticamente alla ricerca di una stabilità emotiva e familiare: la coppia Kevin – Scotty si presenta in un contesto in cui il dibattito pubblico sull’estensione dell’istituto giuridico del matrimonio a coppie indipendentemente dal genere è assai acceso. Se sommiamo, in una struttura narrativa tradizionale, un’attenzione verso questioni politiche di attualità come la guerra e le sue conseguenze sugli individui; la presentazione di figure femminili forti, espressione tipica di quella “donna nuova” che si è venuta affermando in occidente; la diversità sessuale come esperienza umana tipica e non stravagante, si comprende allora perché Brothers & Sisters è capace di suscitare emozioni, di appassionare lo spettatore e, allo stesso tempo, di fornire l’opportunità di superare, o quanto meno, mettere in crisi pregiudizi e prevenzioni rispetto alle persone e alla loro vita sentimentale, sessuale, professionale. I Walker e i Gallagher sono famiglie difficili, complicate, disfunzionali, spesso irritanti nei loro comportamenti ma coinvolgono emotivamente gli spettatori televisivi perché sono esemplificazioni di tipologie umane reali che sono portatrici di sentimenti e aspirazioni plausibili. Le serie televisive sono, di sicuro, un prodotto commerciale che deve essere in grado di conoscere un successo di pubblico tale da garantire la sua sopravvivenza come serie e il suo sviluppo per alcuni anni. Non ci si deve

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certo attendere che una serie TV, che mette insieme un’invenzione romanzesca nella scrittura narrativa e una certa dose di realismo, di attendibilità, sia un prodotto alto da un punto di vista artistico e estetico. Non siamo nel campo della letteratura o del cinema d’autore, e un paradigma interpretativo di tipo estetologico non funziona; l’ambito è piuttosto quello della cultura popolare, della narrativa di intrattenimento che obbedisce a precisi canoni linguistici. La fortuna internazionale di alcune serie televisive prodotte in USA o nel Regno Unito è destinata a richiamare l’attenzione di una vasta schiera di studiosi attenti alla contemporaneità, e in particolare al ruolo della costruzione sociale della vita emotiva. La filosofia, le scienze umane e del comportamento animale hanno, in tempi diversi, dimostrato la rilevanza in campo etico individuale e sociale delle emozioni, hanno dunque indicato l’importanza di tutti quei fenomeni che contribuiscono alla creazione di emozioni. Le serie televisive sono costruite grazie a linguaggi – verbali e visuali – che hanno lo scopo di coinvolgere, emozionare, appassionare il maggior numero possibile di telespettatori. La loro influenza sulle concezioni e la vita emotiva degli spettatori può essere molto rilevante, è opportuno pertanto che vengano considerate anche dai filosofi in quanto strumenti di costruzione della dimensione sociale delle emozioni. In questo breve saggio ho solo cercato, attraverso il riferimento a due serie televisive, di mostrare che certe immagini relative al gender e alle sessualità, e i linguaggi e le emozioni che le manifestano, possono essere influenti sui modi di pensare e di percepire forme e modi di vita reali. Nelle sue più diverse espressioni la cultura popolare continua ad esercitare un ruolo formativo di primo piano.

FELICE CIMATTI Dentro il corpo, fuori del corpo. La biologia artificiale delle emozioni Ma perché l’impiego del verbo ‘credere’, la sua grammatica, è costruita in modo così strano? Ma non è costruita in modo strano. Strana lo diventa soltanto se la si confronta con quella della parola “mangiare” (WITTGENSTEIN, 1980, trad. it. 1990, I, § 751).

1. Dove stanno le emozioni Le emozioni, lo sanno tutti, sono dentro di noi, e non dipendono dalla nostra volontà. Incontriamo una persona, la conosciamo da tempo, ma ora ci succede qualcosa, ora quel volto ci appare in una luce nuova, inedita. Sentiamo in noi crescere qualcosa, una emozione, un sentimento che non riusciamo ma nemmeno vogliamo controllare, è – come si dice – “più forte di noi”. Oppure, un nostro caro amico muore, ci sommerge un dolore sordo, come così significativamente si dice, perché non ascolta nessuna parola di conforto, un dolore che ci schiaccia e ci toglie il respiro. Qui, ancora più che nel caso precedente, l’emozione prende il sopravvento, ci trascina, ci porta via con sé. Una emozione che, così almeno ci sembra naturale pensare, non dipende da quello che sappiamo dell’amore o della morte; tantomeno possiamo descrivere le emozioni con le nostre povere parole, che in questi casi mostrano tutta la loro insufficienza, tanto sono incapaci di nominare la ricchezza, dolorosa e piena, di quello che stiamo provando. Le emozioni, allora, sono dentro di noi, largamente indipendenti dalla nostra volontà (e questo, in fondo, ci piace, perché solo se non sono influenzabili dai nostri piani possiamo ritenerle genuine e autentiche), sono manifestazione diretta del corpo, non della mente o del linguaggio, che appunto, al massimo le esprime in modo imperfetto e approssimativo: così secondo l’immagine comune l’emozione è «sostanzialmente solida, impermeabile alla cultura e al sociale», quindi anche tendenzialmente innata, così come «considera il corpo come luogo di espressione, ma più ancora come l’unico luogo affidabile che permetta di comprendere e di definire le emozioni» (DESPRET, 2001, trad. it. 2002, p. 35). Bollettino filosofico 24 (2008): 37-54

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Cerchiamo di riassumere queste sparse e veloci osservazioni: le emozioni sono, intanto, un fenomeno essenzialmente corporeo, nel senso che non sembrano dipendere, se non in casi particolari, dalle nostre conoscenze o dalla nostra volontà (cioè dalla mente come, appunto, distinta dal corpo); se è un fenomeno corporeo è anche un fenomeno individuale, almeno nella sua origine, perché nasce – come detto – dentro il corpo, per poi eventualmente estendersi anche agli altri corpi; è un fenomeno passivo, che in larga misura subiamo, che ci succede, che lo si voglia o no, come ci succede di prendere un’infezione se veniamo in contatto con un determinato agente patogeno; è un fenomeno che sembra manifestarsi in modo innato: le emozioni non si imparano, almeno come si impara a preparare una frittata; è un fenomeno, infine, che non dipende, se non in misura limitata, dalla cultura in cui nasciamo, e tantomeno dalla lingua che parliamo. Perché, allora, se tutto è così chiaro, per una volta, stiamo ancora qui a discuterne? Partiamo da una osservazione curiosa di Darwin, che peraltro sostiene «che in tutto il mondo lo stesso stato d’animo viene espresso con notevole uniformità» ciò che rappresenta «una prova di una stretta somiglianza fra tutte le razze umane per quanto riguarda la struttura corporea e l’attitudine mentale» (DARWIN, 1872, trad. it. 1982, p. 129), curiosa perché sembra contrastare l’idea che le emozioni siano effettivamente «innate o istintive» (Ivi, p. 127): che succede, si chiede Darwin, se si mostrano a persone diverse delle lastre fotografiche di un uomo ripreso mentre esprime delle emozioni (provocate stimolando elettricamente i suoi muscoli facciali)? ebbi la buona idea di mostrare, senza una parola di spiegazione, molte delle lastre meglio riuscite a una ventina di persone colte di entrambi i sessi e di varie età; in ognuno dei casi chiesi di indicare quale era l’emozione o il sentimento che secondo loro provava il vecchio, e annotai le risposte con le stesse parole che essi avevano usato. Molte emozioni furono riconosciute immediatamente da quasi tutti, anche se non tutti le descrissero esattamente con gli stessi termini; queste ritengo possono essere considerate corrispondenti alla realtà [...]. Su altre espressioni invece furono formulati i giudizi più disparati. Questo esperimento mi fu utile anche per un altro verso, poiché mi dimostrò come sia facile farsi fuorviare dalla nostra immaginazione; infatti, quando io stesso esaminai per la prima volta le fotografie [...], leggendo contemporaneamente il testo che le accompagnava e apprendendo così che cosa volevano dimostrare, restai colpito e ammirato dalla corrispondenza con la realtà, fatta eccezione per pochi casi. Sono convinto, tuttavia, che se avessi guardato le fotografie senza leggere le spiegazioni, in molti casi sarei rimasto perplesso come è successo alle altre persone (Ivi, p. 126).

Ora, se davvero le espressioni esterne delle emozioni interne fossero

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«innate o istintive» non dovrebbe succedere quello che lo stesso Darwin onestamente ammette gli accade: non riuscire a riconoscere quali emozioni sono espresse attraverso le smorfie del viso del vecchio. C’è di più, è lo stesso Darwin a ricordarci che il riconoscimento delle espressioni è molto facilitato dalle «spiegazioni» che accompagnano le fotografie; senza quelle spiegazioni «in molti casi sarei rimasto perplesso». Ma allora, da dove viene la sicurezza con cui le consideriamo manifestazioni innate e istintive? Facciamo un caso diverso, in cui la componente istintiva di un comportamento sembra molto più evidente, e non controversa. Se vedo qualcuno afferrare un oggetto con una mano, nel “mio” cervello si attiveranno proprio gli stessi neuroni (gli ormai celebri «neuroni specchio») che si attiverebbero se fossi stato io ad afferrare quell’oggetto. Questo dispositivo neuronale è «alla base, prima ancora dell’imitazione, del riconoscimento e della comprensione del significato degli “eventi motori”, ossia degli atti, degli altri» (RIZZOLATTI, SINIGAGLIA, 2006, p. 80). Ora, questo «riconoscimento» non è vincolato dalla nostra cultura, e nemmeno dall’appartenenza ad una stessa specie biologica: i «neuroni specchio» umani risuonano a quelli di una scimmia, e viceversa. Qui siamo allora pienamente legittimati a sostenere che le operazioni mediate dai «neuroni specchio» sono istintive, cioè non apprese, e per questa ragione universali. Non è il caso del riconoscimento delle espressioni delle emozioni, invece, in cui questa automaticità non c’è, al contrario, in molti casi lo stesso Darwin rimane «perplesso». Ora, un movimento istintivo non è mai perplesso, o individua senza esitazioni lo stimolo appropriato, e quindi reagisce secondo la procedura innata, oppure non è un istinto. Gli istinti sono come meccanismi biologici, ed un meccanismo o funziona oppure no, un comportamento un po’ istintivo è un modo di dire del tutto scorretto. Da tenere in conto che le persone a cui Darwin sottopone la vista delle fotografie sono «persone colte»; siamo sicuri che questa condizione non favorisca in qualche modo l’uniformità, peraltro parziale, delle loro risposte? Usare uno stesso lessico e condividere uno stesso schema concettuale, non potrebbe canalizzare le loro risposte guidandoli, inavvertitamente, a riconoscere ognuno le stesse espressioni degli altri? Questo pone un problema generale: che un certo comportamento sia universale, ammesso che lo sia effettivamente, non implica affatto che sia innato. Darwin è consapevole del problema, ed insiste «che osservare le espressioni non è affatto una cosa semplice» (DARWIN, 1872, trad. it. 1982, p. 129), soprattutto perché «siamo ingannati dalla nostra immaginazione se sappiamo vagamente che cosa ci si può aspettare» (Ibidem). In que-

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sto caso, rovesciando del tutto la presupposizione innatista, l’uniformità dei riconoscimenti, cioè il fatto che molti osservatori (ma non tutti) sostengono di “osservare”, ognuno per conto proprio, una stessa espressione nelle smorfie dell’anziano uomo, potrebbe essere l’effetto della condivisione di un comune, per quanto non esplicitamente formulato, modello delle emozioni. Vedono la stessa espressione, cioè, perché proprio questo il loro schema concettuale (inconsapevole) si aspetta di osservare. Così la configurazione stessa dell’esperimento di Darwin, e di tutti quelli che lo hanno seguito (si veda come caso esemplare EIBL-EIBESFELDT, 1984), in realtà presuppone proprio ciò che si sostiene di scoprire “nei fatti”: le esigenze del laboratorio sono relativamente esplicite: prima di tutto, si propone di andare al di là delle culture e dell’incontrollabile. Per scoprire una serie di regole stabili alle quali ubbidisce il fenomeno da spiegare, lo scienziato cercherà gli invarianti di quest’ultimo. Gli occorre quindi un oggetto che possa definire, da un lato, come invariante, che lo scienziato traduce nei termini di “non contaminato dalla cultura”; e dall’altro, come qualcosa che possa essere controllato in maniera affidabile. La dimensione “subita” dell’emozione, quale è costruita nel laboratorio, traduce una duplice esigenza: essa sfugge al controllo della volontà del soggetto (e dunque può essere controllata dall’esterno), è una “reazione”, e sfugge alla ragione e alla sfera della cultura. Il laboratorio realizza quindi, secondo i propri imperativi, la separazione fra un intelletto definito culturale e instabile, difficilmente controllabile e interrogabile, un intelletto che “agisce”, e un’emozione universale e non contingente, impermeabile alla cultura e al sociale, un’emozione che il laboratorio può costruire come “reazione” (DESPRET, 2001, trad. it. 2002, p. 42).

Universale, allora, non necessariamente implica innato, e tantomeno istintivo (KARMILOFF-SMITH, 1992; LEVY, 2004). Ma c’è un altro pregiudizio che è il caso di rendere esplicito: l’idea che «per acquisire un fondamento il più solido possibile e per accertare, indipendentemente dall’opinione comune, fino a che punto particolari movimenti dei lineamenti e vari gesti siano realmente l’espressione di determinati stati mentali» sia di grande aiuto «l’osservazione dei bambini» (DARWIN, 1872, trad. it. 1982, p. 125). Come se il comportamento spontaneo del bambino fosse meno influenzato e influenzabile dalla cultura in cui nasce e cresce. Il punto non è, evidentemente, mettere in discussione l’utilità dello studio del comportamento infantile, bensì il presupposto non pensato, e anzi presupposto come ovvio e scontato, secondo il quale il bambino sarebbe più vicino allo stato naturale, rappresentando quindi una testimonianza delle capacità biologiche originarie e non culturali della specie Homo sapiens (come se, inve-

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ce, la cultura non fosse originaria). Qui c’è un groviglio che va dipanato: spontaneo non implica affatto innato (cf. ancora KARMILOFF-SMITH, 1992), e comportamento primitivo non significa affatto comportamento semplice. E soprattutto, che un fenomeno abbia le sue radici nella cultura non implica affatto che lo si possa, pertanto, trattare come non naturale, o addirittura non biologico, e tantomeno non originario. Per arrivare, infine, al problema maggiore, anche questo intuito da Darwin, anche se poi non lo sviluppa. Tornando alla parziale uniformità delle descrizioni delle fotografie delle espressioni delle emozioni, Darwin osserva giustamente che questa uniformità potrebbe essere causata dal fatto che «quando assistiamo al manifestarsi di una forte emozione, ne siamo facilmente coinvolti, e così la nostra attenzione ne viene distratta» (DARWIN, 1872, trad. it. 1982, p. 129). È un punto sottile, questo, che ci avverte che non bisogna essere frettolosi nella interpretazione dei fenomeni che coinvolgono le emozioni: tante persone reagiscono nello stesso modo, più o meno, alla vista di un certo comportamento (RIZZOLATTI, SINIGAGLIA, 2006): va bene, ma questo non giustifica affatto l’inferenza che allora l’uomo prova dentro di sé determinate emozioni, che poi esprimerebbe in un modo innato. Qui si passa da un fenomeno osservabile, il reagire nello stesso modo (più o meno), alla vista di un certo stimolo (una determinata smorfia), ad una interpretazione dualista di quello stesso fenomeno, secondo la quale dentro il corpo c’è l’emozione che si esprime poi all’esterno con una determinata forma espressiva. Perché dovremmo tutti riconoscere in quella smorfia una stessa emozione “sottostante”? Qui è in questione il presupposto non pensato del modello delle emozioni che abbiamo descritto all’inizio di questo paragrafo: come faccio a riconoscere in me la stessa emozione che prova lui? E attenzione, riconoscere qualcosa è diverso da reagire a quel qualcosa: in quest’ultimo caso c’è un meccanismo, un istinto, che reagisce in modo automatico ad un certo stimolo; è qualcosa che accade nel corpo che sono, non mi riguarda in modo consapevole. Il riconoscere, invece, sembra implicare una partecipazione di tipo sostanzialmente diversa in chi riconosce qualcosa come qualcosa; provo qualcosa “in me”, e domani provo di nuovo la stessa emozione. Il problema è: come faccio a ri-conoscerla, cioè a conoscerla di nuovo? Potrei sbagliarmi? E poi, come faccio a sapere che quello che prova l’uomo anziano “dentro di sé” corrisponde a quello che provo io “dentro di me”? Come si passa da una (presunta) interiorità a quella di un altro? Il problema che ci stiamo ponendo, allora, si presenta in questa forma: il modello consueto delle emozioni e delle loro espressioni si basa su una

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presupposizione non discussa, ed anzi apparentemente invisibile: “dentro” di me esiste qualcosa, l’emozione, che si manifesta all’esterno mediante dei segnali universali; attraverso di essi riconosco nell’altro quello che anche io proverei nelle stesse situazioni. Di questo modello c’è un punto che ci interessa, in particolare: è necessario, oltre che giustificato, presupporre l’esistenza dell’emozione “interiore”? Ci serve questa presupposizione per costruire un modello plausibile della vita psicologica degli esseri umani? Il problema viene affrontato nel consueto modo straniante da Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche: se dico a me stesso che soltanto dalla mia personale esperienza io so cosa significa la parola “dolore”, – non debbo dire la stessa cosa anche agli altri? E come posso generalizzare quest’unico caso in maniera così irresponsabile? Ora qualcuno mi dice di sapere che cosa siano i dolori soltanto da sé stesso! – Supponiamo che ciascuno abbia una scatola in cui c’è qualcosa che noi chiamiamo “coleottero”. Nessuno può guardare nella scatola dell’altro; e ognuno dice di sapere che cos’è un coleottero soltanto guardando il suo coleottero. – Ma potrebbe ben darsi che ciascuno abbia nella sua scatola una cosa diversa. Si potrebbe addirittura immaginare che questa cosa mutasse continuamente. – Ma supponiamo che la parola “coleottero” avesse tuttavia un uso per queste persone! – Allora non sarebbe quello della designazione di una cosa. La cosa contenuta nella scatola non fa parte in nessun caso del gioco linguistico; nemmeno come un qualcosa: infatti la scatola potrebbe anche essere vuota. – No, si può ‘dividere per’ la cosa che è nella scatola; di qualunque cosa si tratti, si annulla. Questo vuol dire: Se si costruisce la grammatica dell’espressione di una sensazione secondo il modello ‘oggetto e designazione’, allora l’oggetto viene escluso dalla considerazione, come qualcosa di irrilevante (WITTGENSTEIN, 1953, trad. it. 1974, § 293).

Posso partecipare al gioco linguistico del “coleottero” anche se la mia scatola non contiene alcun coleottero. Come a dire, non c’è bisogno della sua presenza perché il gioco linguistico delle emozioni e della loro espressione sia praticato in modo competente. Quello che c’è nell’altro, quando parla delle sue emozioni, ad esempio, non influisce sulla sua capacità di parlarcene, o di comprendere le nostre parole sulle nostre emozioni. Suona curioso, questo modo di ragionare, si dirà, ma solo perché qui Wittgenstein sta mettendo in discussione una immagine consolidata, e apparentemente indiscutibile, di noi stessi. Ma si tratta appunto di nient’altro che di una immagine. C’è, in particolare, un punto che ci interessa, nell’analisi che stiamo proponendo in queste pagine: ammesso anche che io abbia nella mia scatola un coleottero, come avrei imparato a riconoscerlo, e quindi a

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dargli il nome “coleottero”? Se non c’è una buona risposta a questa domanda allora l’intero modello dell’emozione interna e della espressione esterna viene meno. E naturalmente la risposta non può essere, semplicemente, che non possiamo sbagliarci sui nostri stati interni, perché al contrario è proprio ciò che si deve provare. 2. È questa sensazione oppure questa? Se le emozioni stanno davvero dentro di noi, se appartangono al corpo, se non possiamo controllarle, allora si pone un problema non semplice: come faccio, io, a riconoscere le mie emozioni? «Quando si impara ad usare la parola “dolore”, questo non avviene perché qualcuno indovina per quali avvenimenti interni connessi, ad esempio, al cadere a terra si usa questa parola. Se fosse così, potrebbe anche sorgere il problema: qual è, fra le mie sensazioni, quella per cui grido, quando mi faccio male? E qui immagino che uno mi indichi il proprio interno domandandosi: “È questa sensazione oppure questa?”» (WITTGENSTEIN, 1980, trad. it. 1990, I, § 305). C’è un primo problema: cado, mi faccio male, e dico “dolore!”. Sembrerebbe una espressione che designa lo stato interno, così come quando al mercato dico “un chilo di mele” mi riferisco ad una certa quantità di un determinato tipo di frutta. Ma non potrei sbagliarmi? In ogni momento ci sono “in me” molte sensazioni, non potrei allora indicare, per sbaglio, una sensazione diversa da quella di dolore? Dico “mele” ma in realtà volevo le pere, mi sbaglio e mi correggo, “scusi, intendevo dire pere”. Un errore all’aria aperta è sempre possibile, perché allora escludere che qualcosa del genere possa accadere anche nel nostro interno? E se ammettiamo questa possibilità, come può un bambino imparare a nominare i propri stati interni? «“Non importa se ho assegnato alla sensazione il giusto nome, un nome comunque gliel’ho assegnato!”. – Ma come si fa, ad assegnare un nome a qualcosa, ad esempio, a una sensazione? Si può assegnare dentro di sé un nome a una sensazione? Che cosa succede, allora, e qual è il risultato di questa operazione? [...] Se uno chiude mentalmente una porta, poi la trova chiusa? E questo che conseguenze ha? Che allora nessuno ha accesso allo spirito?» (Ivi, I, § 306). Il problema è se «si può assegnare dentro di sé un nome a una sensazione». Poniamo che mi sbagli, all’inizio, e assegni il nome “dolore” ad una sensazione di piacere. Potrò mai accorgermi del mio errore? Se qualcuno mi farà notare che uso la parola “dolore” in modo scorretto, io posso sempre ribattere che non è vero, che sono sicuro di

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usare questa parola proprio come si deve. Ma allora, come venire a capo della questione? Chi ha ragione, io che uso “dolore” per indicare il piacere, o il mio interlocutore? E soprattutto, c’è un modo per risolvere la questione, oppure ognuno resterà della propria convinzione, e tanto peggio per la reciproca comprensione? «“Come fai a sapere che l’esperienza che hai è quella che chiamiamo ‘dolore’?”. – L’esperienza che ho? Quale? Come faccio a specificarla: a me stesso, e a un altro?» (Ivi, I, § 307). “Queste sono pere, non mele”, dico alla persona che si è sbagliata, ma come si fa quando uno parla del suo privato “coleottero”, che per me è del tutto invisibile? Una invisibilità di principio, attenzione, perché non c’è modo di vedere quali sono i suoi stati interni, nessun progresso tecnologico supererà mai questo vincolo logico, non empirico. Ma il problema che Wittgenstein solleva è più grave, perché non vale solo per me rispetto ai suoi stati interni, ma soprattutto per lui per i suoi stati interni: «immagina che una persona sappia, indovini, che un bambino ha delle sensazioni che non sa come esprimere. E che ora voglia insegnare al bambino a esprimere le sensazioni. In che modo dovrà collegare un’azione a una sensazione, perché quella diventi espressione di questa?» (Ivi, I, § 309). Tutto il modello delle emozioni come stati interni presuppone appunto che siano cose (per quanto di un tipo speciale) dentro le persone; solo così sembra comprensibile il processo attraverso cui diamo loro un nome, come diamo nomi agli oggetti materiali. Ma come prendiamo alla lettera questo modello tutto diventa molto complicato: «il concetto di vissuto: simile a quello di accadere, di processo, di stato, di qualcosa, di fatto, di descrizione e di resoconto. Noi pensiamo di essere arrivati a toccare il solido fondamento ultimo, di essere scesi più in profondità rispetto a tutti i particolari metodi e giochi linguistici. Ma queste parole assolutamente generali possiedono anche un significato assolutamente vago. Esse si riferiscono in realtà a un gran numero di casi speciali, il che però non le rende più solide, bensì più fluide» (Ivi, I, § 648). Come può il bambino a cui vogliamo insegnare il gioco linguistico del nominare le emozioni interne assegnare la parola che noi gli proponiamo, ad esempio “dolore”, al giusto stato interno? Come fa a non sbagliarsi? «Forse quella persona può insegnare al bambino: “Vedi, è così che si esprime qualcosa – questo, ad esempio, è espressione di quello – e adesso prova a esprimere il tuo dolore!”» (Ivi, I, § 310). Certo, ma questa non è la soluzione del problema, semmai una sua riformulazione. Quando dico al bambino “questa emozione si chiama dolore”, come fa a capire a che si riferisce il

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pronome dimostrativo? “Questo oggetto” dico indicando una bottiglia, “si chiama bottiglia” è pienamente comprensibile (si fa per dire), ma quando dico “questa emozione si chiama dolore” che cosa indico? E se io stesso non ho chiaro, in realtà, che sto indicando, come potrebbe esserlo il bambino a cui sto provando ad insegnare il gioco linguistico del nominare le sensazioni interne? si può dire che c’è fra l’emozione e la sua espressione una somiglianza, in quanto, ad esempio, entrambe sono agitate? [...] E come si fa a sapere che l’emozione è in sé stessa agitata? Chi la prova, lo nota e lo dice. – E se un bel giorno qualcuno dicesse il contrario? – “Ma sii onesto ora, e di’ se davvero tu non riconosci l’agitazione interna!”. – Ma come ho fatto a imparare il significato della parola “agitazione”? (Ivi, II, § 334).

Il problema nasce dal fatto che proviamo a rendere conto del fatto che possiamo parlare delle emozioni così come possiamo parlare degli oggetti materiali; in questo caso riusciamo a farci una idea, più o meno, di come funzioni il gioco linguistico (c’è l’oggetto, ed il suo nome), nell’altro questa spiegazione in realtà è del tutto inadeguata. Ma se non «si costruisce la grammatica dell’espressione di una sensazione secondo il modello ‘oggetto e designazione’» perché «l’oggetto viene escluso dalla considerazione», come impara allora il bambino a parlare di quella che il nostro modello inconsapevole considera una emozione interna? Si tratta intanto di abbandonare l’idea che l’emozione sia qualcosa “dentro” le persone, almeno nel senso di qualcosa che sarebbe un oggetto come è un oggetto una bottiglia. Così scartiamo subito il gioco linguistico «‘oggetto e designazione’». Ma allora, che intende dire il bambino quando dice, dopo essere caduto per terra, “dolore”? «Il comportamento primitivo del dolore è un comportamento connesso alla sensazione; comportamento che viene sostituito da una espressione linguistica. “La parola dolore designa una sensazione” significa né più né meno che: “Provo dolore è un modo di manifestare sensazioni [Empfindungsäußerung]”» (Ivi, I, § 313). Qui Wittgenstein propone un modello completamente diverso; la parola non designa un oggetto preesistente, qui la parola stessa è una esperienza (AUSTIN, 1962), fa qualcosa, come chi fa una dichiarazione (che è uno dei sensi della parola tedesca Äußerung), attraverso la quale fa qualcosa, realizza qualcosa (dire, avendone titolo, “vi dichiaro marito e moglie” cambia la condizione dell’uomo e della donna che partecipano alla cerimonia). In questo senso, ad esempio, «le parole “sono felice” equivalgono a un comportamento di gioia» (Ivi, I, § 450); non si tratta di una descrizione di uno stato interno preesistente, è essa stessa un comportamento di

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gioia. Per questa ragione «il comportamento primitivo del dolore», ad esempio il grido inarticolato “ahi!”, quando si impara a parlare una lingua «viene sostituito da una espressione linguistica». Il punto essenziale è che la parola “dolore” non è né una traduzione né una descrizione del grido “ahi!”; non è una traduzione, perché “ahi!” non appartiene ad una lingua, non è una descrizione perché “ahi!”non designa uno stato interno, è «il comportamento primitivo del dolore», è cioè un modo naturale, non appreso, di vivere l’esperienza del dolore. Imparando a parlare il bambino non impara un nuovo modo di dire l’emozione interiore del dolore (come se traducesse nella sua lingua materna l’“ahi!” della lingua “naturale”), impara un nuovo modo di vivere questa esperienza, un modo di cui fa parte costitutivamente anche la parola “dolore”. In questo senso l’emozione interiore non precede la parola “dolore”, al contrario, si costituisce insieme ad essa: il comunicato è un gioco linguistico composto di determinate parole. Sarebbe fonte di confusione dire: le parole del comunicato, la frase annunciata hanno un determinato senso, e la comunicazione, l’‘atto dell’asserire’, ne aggiunge uno ulteriore. Come se l’enunciato emesso da un grammofono appartenesse alla logica pura, come se in questo caso avesse il suo senso puramente logico, come se qui noi avessimo davanti l’oggetto che i logici maneggiano ed esaminano, – mentre l’enunciato, asserito, comunicato, fosse la cosa in funzione. Allo stesso modo possiamo dire: il botanico prende in considerazione una rosa come pianta, non come ornamento dell’abito o della stanza, né si arma di delicata attenzione. Quello che voglio dire è che l’enunciato non ha alcun senso al di fuori del gioco linguistico. E ciò è connesso al fatto che l’enunciato non è una specie di nome. Il che permetterebbe di dire: “‘Io credo ...’ – ecco com’è”, indicando (per così dire internamente) ciò che conferisce all’enunciato il suo significato (Ivi, I, § 488).

Quando il bambino impara a dire “dolore” non è impegnato in due attività: formulare internamente un enunciato e pronunciarlo ad alta voce in una certa situazione; in realtà «l’enunciato non ha alcun senso al di fuori del gioco linguistico» perché non basta dire a una donna ed un uomo “vi dichiaro marito e moglie” affinché siano effettivamente sposati; quell’enunciato è un atto matrimoniale valido solo se sono autorizzato a pronunciarlo, se le due persone non sono già sposate, se sono maggiorenni, se lo pronuncio nel luogo giusto, e così via. Al di fuori di questo contesto “vi dichiaro marito e moglie” propriamente non è nemmeno un enunciato linguistico. Così il bambino imparando la parola “dolore” scopre tutto un campo nuovo di possibilità di azione. E fra le cose che scopre ci sono anche gli stati interni, che ci sono, ora, proprio perché li evoca, per così dire, nell’atto stesso dell’asserirli:

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l’espressione: “Chissà che cosa accade dentro di lui!”. Interpretare gli eventi esterni come conseguenze di eventi interni sconosciuti o semplicemente supposti. L’interesse che si rivolge a questo interno come alla struttura chimica da cui si origina il comportamento. Infatti, basta dire semplicemente; “Che cosa m’importa dei processi interni, qualunque cosa siano?!” per vedere come si possa pensare a un altro atteggiamento. – “Ma ognuno, comunque, proverà sempre interesse per il proprio interno!”. Nonsenso. Se non me l’avessero mai detto, io l’avrei veramente saputo che il dolore, ecc. ecc. è qualcosa di interno? (Ivi, II, § 643).

Qui Wittgenstein rovescia completamente i presupposti da cui, invece, partiva Darwin: lo spontaneo e ovvio «interesse per il proprio interno» non è affatto originario. In realtà impariamo questo interesse, e lo impariamo perché, nell’apprendere una lingua, apprendiamo anche a individuare e considerare come sussistenti in sé certi stati “interni” che “corrisponderebbero” alle parole che li “designano”, e per di più tutti ci fanno capire che questo interno è molto importante: «sto forse facendo della psicologia infantile? – Quello che faccio è mettere in relazione il concetto dell’insegnare con quello di significato» (Ivi, II, § 337). Non è che da un lato c’è l’emozione originaria e naturale che poi diventa, attraverso una operazione di associazione, il significato di una parola. Il significato della parola nasce insieme al suo insegnamento, perché nell’imparare ad usare quella parola il bambino ne impara anche il significato. Per questa ragione, allora, «non è poi così sorprendente che un concetto debba essere applicabile soltanto a un essere che, ad esempio, possiede un linguaggio» (Ivi, II, § 310), perché solo attraverso quel linguaggio quell’essere impara tanto un nuovo comportamento, quanto a considerare come esistente un’entità interna che corrisponderebbe a quel comportamento “esterno”. Riassumiamo questa analisi. Quando il bambino, dopo essere caduto per terra, grida “ahi!”, non sta designando uno stato interno, al contrario questo è il suo modo spontaneo e naturale di comportarsi in questa situazione (forse è un modo innato, ma non è così importante stabilirlo). Poi gli insegniamo a dire “dolore”, che è un nuovo modo di comportarsi in situazioni di questo tipo. Nell’uso di questa parola il bambino impara anche, sul modello di parole come “bottiglia” o “pappa”, a cercare qualcosa che corrisponda a “dolore”, ad esempio uno “stato interno”. Così come la “bottiglia” sta alla bottiglia, così il “dolore” sta al dolore (e così il gioco è fatto, penseremo che il dolore è una specie di oggetto interno, forse astratto, ma comunque un oggetto). Ciò che effettivamente acuisce la sua sensibilità e capacità di discriminazione, cosicché, parallelamente all’apprendimento di parole come queste, impara anche distinguere, “dentro di sé”, sensazioni

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diverse. L’apprendimento linguistico è allo stesso tempo e inestricabilmente un apprendimento cognitivo e sensibile. Il caso è ancora più chiaro con il lessico per i colori: «se qualcuno comincia con l’apprendere i nomi dei colori, che cosa gli viene insegnato? Impara, ad esempio, a esclamare “rosso” alla vista di qualcosa di rosso. – È una descrizione corretta, questa, o avremmo dovuto dire: “Impara a chiamare ‘rosso’ qualunque cosa noi chiamiamo ‘rosso’”? Entrambe le descrizioni sono corrette. [...] Si potrebbe benissimo insegnare a qualcuno il vocabolario dei colori facendogli guardare un certo numero di oggetti bianchi attraverso degli occhiali colorati. Comunque, quello che gli insegno deve essere una capacità» (Ivi, II, § 312). Usare la parola “rosso” nel modo in cui si usa questa parola nella comunità dei parlanti italiano significa saperla usare nei modi e nei contesti in cui si usa questa parola. Non è così importante che cosa, singolarmente, accada nella testa dei parlanti quando usano “rosso” (come non ci interessa se hanno o no un coleottero nella loro scatola quando usano la parola “coleottero”), quanto che abbiano acquisito la capacità, appunto, di usare quella parola. Ora, questa avere questa capacità significa, fra le altre cose, essere in grado di indicare un campione di “rosso” se qualcuno ce lo chiede, cioè di provare una sensazione di rosso distinta, ad esempio, da quella di viola. Ma questa sensazione, però, in quanto esplicita abilità di riconoscimento, non precede l’apprendimento della parola “rosso”, bensì la segue: «il gioco linguistico “porta qualcosa di rosso” lo descrivo proprio a chi lo sa già giocare. A un altro posso soltanto insegnarlo. (Relatività)» (Ivi, II, § 313). Solo chi già padroneggia il gioco linguistico dei colori è capace di individuare esplicitamente il rosso; non ci sono dubbi che prima di giocare questo gioco fosse in grado di percepire ciò che chi parla italiano chiama “rosso”, ma un conto è essere dotato naturalmente di occhi sensibili a certe lunghezze d’onda dello spettro elettromagnetico, tutt’altro essere in grado di prestare selettivamente attenzione a determinate prestazioni di questa stessa abilità. La sensazione rosso, in quanto sensazione che posso sapere di provare, è un effetto del gioco linguistico del nominare i colori, non la sua causa: «la percezione visiva del rosso è un nuovo concetto» (Ivi, II, § 316). È un «nuovo concetto» perché imparo a distinguere esplicitamente il rosso attraverso il “rosso”, cosicché «la percezione visiva» in questo caso segue l’apprendimento di un’abilità concettuale, a sua volta basata sul gioco linguistico del nominare i colori. Ribadiamo che non si tratta di insegnare agli occhi a vedere il rosso, perché questa è una loro naturale capacità e fisiologica, bensì di insegnare all’organismo vivente a prestare attenzione in modo selettivo ed esplicito al “rosso”: «abbiamo la

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propensione a immaginare la cosa come se l’impressione visiva fosse un nuovo oggetto, con cui il bambino fa la sua conoscenza dopo aver imparato i primi elementari giochi linguistici delle percezioni visive. “Mi pare rosso”. – “E il rosso com’è?”. – “Così”. E qui bisogna indicare il paradigma giusto» (Ivi, II, § 330). E il «paradigma giusto» è quello che regola l’uso della parola “rosso”, e con esso di tutte le altre parole che indicano colori; attraverso questo «paradigma» il bambino si forma un «nuovo oggetto», la sensazione interna (ma anche l’emozione, lo stato interno in genere) «con cui il bambino fa la sua conoscenza dopo aver imparato i primi elementari giochi linguistici delle percezioni visive». Ma allora siamo arrivati a rovesciare, almeno in parte, il modello che traspariva nella parole di Darwin: l’emozione in quanto vissuto implicito e impensabile precede il gioco linguistico, certo, ma l’emozione in quanto “stato interno”, in quanto entità che “sentiamo dentro di noi”, in realtà segue quello stesso gioco linguistico. Le emozioni le impariamo, la spontaneità si sviluppa artificialmente, l’interno viene dopo l’esterno. Si tratta ora di chiedersi come possa, l’esterno, entrare nell’interno. 3. Cosciente di me, attraverso te Il problema della coscienza di sé è il problema di come un organismo riesca a concentrare su di sé la propria attenzione, cioè di come impari ad essere attento alla propria stessa attenzione. Il problema, ad esempio, di come imparare a passare da una condizione di coincidenza con le proprie emozioni, che così si subiscono in modo inconsapevole, ad una in cui ci si rende conto di trovarsi in un certo stato d’animo. In questo caso, eventualmente, si può anche scegliere di non sottostare a quanto quell’emozione imporrebbe di fare. Dalle analisi precedenti abbiamo compreso che le emozioni in senso proprio, cioè come stati interni riconoscibili, sono identificabili solo alla fine del processo attraverso il quale ne prendiamo coscienza. In questo senso chi prova le emozioni, e ciò che sta provando, cioè appunto le emozioni, si formano insieme nel processo durante il quale i mezzi sociali di individuazione (semiosi) vengono internalizzati dagli individui. In quest’ultima sezione di questo lavoro ci chiediamo come un organismo vivente possa effettivamente imparare questa abilità. Partiamo dal caso di un organismo che non ci verrebbe subito in mente come esempio di animale in qualche modo cosciente di sé, come se qualche limite neurologico glielo impedisse; il realtà qui il vincolo è solo della nostra immaginazione, che non

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riesce a figurarsi capacità mentali in animali anatomicamente molto diversi da noi. La situazione è questa (FOOTE, CRYSTAL, 2007): presentiamo ad un topo uno stimolo sonoro di lunghezza variabile. In seguito gli presentiamo due aperture in cui può infilare il muso: se il topo infila il muso in quella di sinistra gli verrà chiesto, poco dopo, di classificare lo stimolo sonoro iniziale o come “breve” o come “lungo”; se riesce in questo compito riceverà una ricca ricompensa alimentare, altrimenti non riceverà nulla. Se, invece, infila il muso nell’apertura di destra riceverà subito una piccola ricompensa alimentare. Definiamo la apertura di sinistra come “accetto la prova”, l’altra come “rifiuto la prova”. Aggiungiamo ora una complicazione: in un terzo delle prove il topo non può “scegliere” fra apertura di sinistra e di destra, perché non viene presentata quest’ultima possibilità, sicché il topo è costretto comunque a passare per il test di classificazione dello stimolo. Proviamo a schematizzare questa situazione nella figura qui sotto: presentazione stimolo

accetto la prova

accetto la prova

rifiuto la prova

classificazione dello stimolo piccola ricompensa “breve”

ricca ricompensa

“lungo”

nessuna ricompensa

Il punto più interessante di questo ingegnoso esperimento è che quanto più è difficile classificare il suono-stimolo come “breve” o “lungo”, tanto più i topi “scelgono” l’opzione “rifiuto la prova”. Gli sperimentatori, infatti, avevano stabilito che fino ad una certa lunghezza il suono-stimolo fosse “breve”, oltre quella lunghezza andasse classificato come “lungo”. Poniamo che il tipico suono “breve” duri 2 secondi, ed il tipico suono “lungo” 8 secondi, e che la soglia fra il primo tipo ed il secondo sia 4 secondi; il compito del topo diventa progressivamente più difficile quanto più il suono-

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stimolo è vicino alla soglia dei 4 secondi. Un suono-stimolo di 3,95 secondi è “breve” o “lungo”? Ed uno di 4,01 è “lungo” o rientra ancora nella categoria “breve”? Non sorprende, allora, che il numero di errori compiuto dai topi sia maggiore quando sono costretti a sostenere il test di classificazione dei suoni-stimolo di quando, invece, possono scegliere il tasto “rifiuto la prova”, adottando una strategia che potremmo definire, in modo informale, meglio un uovo (sicuro) oggi, che una gallina (forse) domani. Quando il topo riconosce che il compito che gli è stato presentato è difficile, se può “sceglie” di non affrontarlo. Ma questo significa, ecco il punto che c’interessa, che il topo è in qualche modo (e per una volta questo modo di dire è l’unico adeguato, perché proprio non sappiamo in che modo posso sviluppare una simile conoscenza) cosciente di un proprio stato percettivo, e lo valuta rispetto ad un successivo compito di classificazione. Quando infatti il suono-stimolo è facilmente classificabile o come “breve” o come “lungo”, allora è più probabile che il topo scelga l’opzione “accetto la prova”, perché sa che riuscirà a superarla senza troppe difficoltà. Il punto che più ci interessa in queste pagine è che questa coscienza di sé del topo si manifesta, a noi ma anche allo stesso topo, perché la situazione sperimentale gli offre un mezzo esterno, le due opzioni “accetto la prova” e “rifiuto la prova”, a cui agganciare la consapevolezza di un proprio stato interno. In questo modo il topo dispone di un modo per dirigere la propria attenzione non soltanto sul suono-stimolo, ciò che comunque accadrebbe, in modo involontario, perché le sue orecchie sono biologicamente predisposte per reagire alla stimolazione sonora, ma anche sulla esperienza percettiva di quel suono-stimolo: il mezzo esterno gli permette cioè di percepire la propria stessa percezione. A questo punto, ora che è diventata una entità mentale distinta e individuata (grazie al segno esterno), diventa possibile valutarla, e così il topo può adottare ulteriori linee d’azione (accettare o no la prova, ad esempio) a partire da questa consapevolezza. Il problema è allora disporre di un mezzo esterno che permetta di guidare in modo volontario la propria attenzione. Che sia proprio questo il punto centrale si osserva in un esperimento analogo con le scimmie reso (HAMPTON, 2001). Qui lo stimolo iniziale è una immagine presentata sullo schermo di un computer. Anche in questo caso l’animale deve, ad un certo punto, scegliere se intende proseguire nell’esperimento, e quindi sottoporsi alla prova di riconoscimento (l’immagine stimolo appare allora insieme ad altre tre immagini, l’animale deve toccare sullo schermo quella delle quattro che gli è apparsa all’inizio dell’esperimento), oppure accettare una ricompensa immediata, seppure po-

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co apprezzata. Dopo l’immagine stimolo sul monitor appaiono due segni: toccare quello di sinistra significa accettare la successiva prova, quello di destra rifiutarla. Ora è proprio questo segno che permette alla scimmia di prestare attenzione al proprio ricordo dell’immagine stimolo, che ormai non è più presente: se l’animale sente che quell’immagine è ancora presente alla sua attenzione (nella sua memoria), allora accetta la prova di riconoscimento. Questa operazione è possibile solo perché, grazie al segno sul monitor, l’animale diventa capace di concentrarsi non su un qualche oggetto esterno, come altrimenti succederebbe, bensì su un proprio “stato interno”. La posta in gioco è il controllo dell’attenzione. Senza segno esterno l’attenzione viene naturalmente attratta dagli oggetti del mondo percepibile, con il segno diventa invece possibile – e per la prima volta – indirizzarla su di sé. Ora questo stato interno solo in modo implicito preesiste alla sua individuazione, perché per essere individuato in modo esplicito come oggetto mentale indipendente ha bisogno della necessaria mediazione di un mezzo esterno (il segno sul monitor). È come se, nel segno sul monitor, la scimmia vedesse un proprio stato interno, imparando così sia a riconoscerlo che, eventualmente, a controllarlo (perché se non si sente “sicura” la scimmia non accetterà il compito di classificazione). Allo stesso tempo l’animale scopre, in modo implicito, di essere un tipo di entità che può ospitare, “dentro” di sé, degli “stati interni”. Coscienza e ciò di cui (quella coscienza) è cosciente si formano contemporaneamente, a condizione che alla consapevolezza in costruzione venga fornito, dall’esterno, un mezzo pubblico che le permetta, dapprima, di uscire da sé e poi rientrare in sé. Nel caso del topo e della scimmia reso (ma anche di molti altri animali, cf. SMITH et al., 1997) questo mezzo esterno è fornito artificialmente dalla situazione sperimentale, nel caso degli animali umani si tratta, soprattutto, delle lingue (verbali e non verbali) attraverso le quali gli adulti si rivolgono ai piccoli. In entrambi i casi si può individuare uno stato interno, un’emozione ad esempio, oppure un concetto “astratto” (THOMPSON, ODEN, 2000) soltanto mediante uno stato esterno, un mezzo o segno pubblico che la comunità offre all’organismo in sviluppo, sulla base del quale questi costruisce tanto una prima coscienza esplicita di qualcosa quanto, e correlativamente, di sé stesso come un chi che può essere cosciente della propria stessa coscienza. Il problema che affrontiamo in questo lavoro è quello delle emozioni, e del rapporto che intrattengono con i mezzi che abbiamo per, come si dice, “esprimerli”, a partire dalle parole delle lingue storico-naturali. Sembra trattarsi di un problema perché mentre le emozioni le sentiamo (o almeno

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ci hanno insegnato così) “dentro”, le parole sono “fuori”, e non riusciamo a figurarci come possano stare insieme entità così diverse, le fluttuanti e private emozioni e indeterminate con le povere e pubbliche parole. In effetti, posto in questi termini, un rapporto fra emozioni e lingue sembra molto difficile, se non apertamente impossibile (quella della letterale indicibilità delle emozioni, infatti, è una posizione molto diffusa, per quanto autocontraddittoria). In questo lavoro anziché affrontare direttamente questo problema ci siamo posti una domanda diversa: invece di assumere come già dati tanto le emozioni che il linguaggio, cercando poi un modo per farli stare insieme, ci siamo chiesti come possa, una coscienza (animale, ma senza escludere che possa essere anche artificiale) arrivare a pensare di “ospitare dentro di sé” qualcosa come una “emozione”. Il primo problema è nel chiedersi come ci si possa figurare un’emozione, e uno stato interno in genere, come qualcosa di unitario e, appunto, di rappresentabile (Smith et al., 1997, p. 76). Abbiamo dapprima scartato l’ipotesi che questa sia una abilità originaria, di cui la nostra mente sarebbe dotata in modo innato (cf. supra, § 2). Qui è importante la distinzione fra una sensazione implicita ed una esplicita. Se provo terrore ma non ne sono consapevole, non è corretto sostenere che “io” provo una emozione di “terrore”. Al topo che non dispone del segno “rifiuto la prova” possiamo attribuire, noi sperimentatori che l’osserviamo dall’esterno, uno stato mentale di incertezza ed esitazione, perché ce lo mostra il suo comportamento. Ma appunto, qui l’emozione gliela attribuiamo dall’esterno. Quando è proprio il topo, invece, che sceglie il segno che significa “rifiuto la prova” (in qualunque modo il topo si rappresenti il significato di questa frase della lingua italiana), allora diventa ragionevole attribuire a lui stesso una qualche consapevolezza di un suo stato interno. Ora è affatto sensato parlare di uno “stato interno” del topo, perché è il topo stesso che, dopo averlo individuato attraverso il segno esterno, riesce a controllarlo, dimostrando così che si rende conto della sua esistenza. In questo senso l’emozione, in quanto stato interno esplicitamente pensabile e manipolabile, è un effetto delle pratiche segniche, e non la sua causa (VYGOTSKIJ, 1931-1933). Insieme allo stato interno, alle emozioni, si sviluppa e si costituisce anche chi prova quello stato interno, che in tanto prova qualcosa in quanto queste ultime esistono soltanto se sono provate da qualcuno. Si imparano tanto le emozioni, nelle forme mediate dai mezzi sociali per individuarle, quanto di essere qualcosa che prova delle emozioni (CIMATTI, 2007). In questo senso, infine, le emozioni, quanto di più viscerale ci sia, entrano nel mondo degli oggetti rappresentabili in maniera e-

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splicita, cioè come qualcosa che si può sentire, soltanto attraverso la necessaria mediazione di un artificio, che si tratti di un dispositivo sperimentale per topi e scimmie, oppure le lingue in cui prende corpo la nostra individualizzazione, e attraverso le quali soltanto può svilupparsi una psicologia, umana e non. Bibliografia AUSTIN, J. (1962), How to do Things with Words, Oxford University Press, Oxford UK (trad. it. Come fare cose con le parole, Marietti, Genova 1987). DARWIN CH. (1872), The Expression of the Emotions in Man and Animals, Murray, London (trad. it. L’espressione delle emozioni, Boringhieri, Torino 1982). DESPRET V. (2001), Ces émotions qui nous fabriquent, ethnopsychologie de l’authenticité, Les Empêcheurs de penser en rond/Seuil, Paris (trad. it. Le emozioni. Etnopsicologia dell’autenticità, Elèuthera, Milano 2002). EIBL-EIBESFELDT I. (1984), Die Biologie des menschlichen Verhaltens, Piper, MünchenZürich (trad. it. Etologia umana, Bollati Boringhieri, Torino 1983). FOOTE A., CRYSTAL J. (2007), “Metacognition in the Rat”, Current Biology 17, pp. 551-555. HAMPTON R. (2001), “Rhesus Monkeys Know when They Remember”, Proceedings of the National Academy of Sciences 24 (9), pp. 5359-5362. KARMILOFF-SMITH A. (1992), Beyond Modularity. A Developmental Perspective on Cognitive Science, The MIT Press, Cambridge MASS. (trad. it. Oltre la mente modulare, Il Mulino, Bologna 1995). LEVY N. (2004), “Evolutionary Psychology, Human Universals, and the Standard Social Science Model”, Biology and Philosophy 19, pp. 459-472. RIZZOLATTI G., SINIGAGLIA C. (2006), So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Raffaello Cortina Editore, Milano. SMITH D., SHIELDS W., SCHULL J., WASHBURN D. (1997), “The Uncertain Response in Humans and Animals”, Cognition 62, pp. 75-97. THOMPSON, R., ODEN D. (2000), “Categorical Perception and Conceptual Judgments by Nonhuman Primates: The Paleological Monkey and the Analogical Ape”, Cognitive Science 24 (3), pp. 363-396. VYGOTSKIJ, L. (1960), Istorija razvitija vyssih psihiceskih funktcij, Moskow (trad. it. Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori, Giunti, Firenze 1974). VYGOTSKIJ L. (1931-1933), Théorie des émotions. Étude historique-psychologique, Paris, L’Harmattan, 1998. WITTGENSTEIN L. (1953), Philosophische Untersuchungen, Blackwell, Oxford (trad. it. Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1974). WITTGENSTEIN L. (1980), Bemerkungen über die Philosophie der Psychologie, Oxford, Blackwell (trad. it. Osservazioni sulla filosofia della psicologia, Adelphi, Milano 1990).

MARTA CLEMENTE Linguaggio, intenzioni e razionalità pratica: un’ipotesi interpretativa delle basi del giudizio morale

1. Tendenze dell’azione e giudizio morale Il percorso illustrato nelle pagine che seguono ha origine all’intersezione del pensiero filosofico di G.E.M. Anscombe (1919-2001) con alcuni dei recenti studi angloamericani in materia di practical reasoning. L’opera di Anscombe, per più di un aspetto originale e stimolante, possiede una peculiare fecondità concettuale relativamente alla vexata quaestio dello statuto logico, gnoseologico ed etico dell’azione, con particolare riferimento ai caratteri dell’agire intenzionale1. Di seguito, i contributi di Philippa Foot e di Martha Nussbaum alla definizione di una action’s theory contemporanea, hanno sviluppato e arricchito i concetti stessi di ‘azione’ e di ‘razionalità pratica’, mettendone in evidenza gli aspetti più problematici, focalizzabili nel modo seguente: 1. il rapporto fra l’azione e gli elementi che ne determinerebbero la ‘tendenza’ (sentimenti, passioni, desideri, attitudini, intenzioni); 2. il rapporto fra la razionalità pratica e gli atti morali; 3. il rapporto fra il linguaggio morale e l’azione, poiché un giudizio morale anzitutto dice qualcosa sull’azione di ciascun individuo cui si applica, parlando di ciò che ha una ragione (di un certo tipo, ‘morale’) per essere fatto. Negli scritti di Foot e Nussbaum, rappresentanti – in maniera diversadi un naturalismo aristotelico che li oppone a buona parte delle tesi etiche non-cognitiviste2, i punti appena citati si configurano come domande di 1 ANSCOMBE (1981), raccoglie gli scritti di metafisica, epistemologia, filosofia della mente ed etica della filosofa, suddivisi in tre volumi. Nel 2000, inoltre, la Cambridge University Press ha pubblicato una raccolta di saggi in suo onore, Logic, Cause and Action, comprendente i contributi dei maggiori filosofi analitici contemporanei, fra cui Peter Geach e Michael Dummett. 2 L’espressione ‘non-cognitivismo’ designa un insieme di posizioni etiche eterogenee ma accomunate dalla convinzione che ‘gli imperativi siano espressioni linguistiche non suscettibili di falsità o di verità’ (REICHENBACH, 1951, cap. XVII), ovvero l’idea che gli enunciati morali non abbiano valore assertivo, ma svolgano la funzione di esprimere lo stato emotivo o l’attitudine dell’agente, rispetto a cui hanno un ruolo descrittivo-informativo, o

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cruciale importanza: posto infatti che una teoria dell’azione non è per ciò stesso una teoria dell’agire virtuoso, il ruolo (cognitivo, oltre che conativo) attribuito ad aspetti della razionalità pratica – emozioni, intenzioni, attitudini dell’agente – può non avere conseguenze decisive sulla nozione stessa di ‘atto morale’? 2. Etica della virtù e filosofia del linguaggio Rispetto a tale questione, il pensiero di Anscombe assume una duplice valenza. Ricordiamo in primo luogo che la rinascita di un’etica della virtù e dell’attenzione alla saggezza pratica, nel pensiero anglosassone della seconda metà del secolo scorso, risale a uno dei più noti articoli della filosofa3, il cui il bersaglio polemico sono i «well-known english writers on moral philosophy from Sigdwick»4: i rappresentanti, cioè, di una filosofia della morale impegnata nella fondazione un’etica normativa, ma sostanzialmente indifferente alla definizione di un insieme di valori condivisi che suggerisca ipotesi risolutive dei dilemmi etici. Anscombe contesta in particolare ciò che lei stessa ha definito ‘consequenzialismo’, una posizione che lega il giudizio morale di un’azione particolare all’insieme delle sue conseguenze, individuando le responsabilità dell’agente sulla base delle conseguenze previste della sua azione, piuttosto che sulla base di effetti intesi. Il rischio consisterebbe nel fornire una visione impersonale dell’agire che, allontanando il soggetto dal suo progetto pratico, lo deresponsabilizza. Il dibattito metaetico difetta in questi termini di una coerente psicologia morale, indispensabile al recupero della domanda sui caratteri di una vita umana aristotelicamente improntata alla virtù: secondo Anscombe, la filosofia moderna è viziata da una deriva ‘legalistica’, cioè dal far poggiare la teoria etica su nozioni quali ‘comando’, ‘legge’, ’azione obbligatoria’, attribuendo ad esse un significato poco convincente se privato del concetto originariamente fondativo di ‘legge divina’ in base a cui, nell’etica medievale, l’idea dell’ought (‘dovere’) trovava una giustificazione. Constatare la dissoluzione moderna del fondamento eteronomo della morale significa riconoscere che la maggior parte dei concetti deontologici sono supportati non da un’adeprescrittivo. Una trattazione completa delle principali tesi non-cognitiviste è contenuta in CREMASCHI (2005, pp. 55-71). 3 ANSCOMBE, (1958), in ID. (1981), vol. III, pp. 26-42. 4 Ivi, p. 27.

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guata giustificazione razionale, quanto da una mera capacità di suggestione: l’ammissione di questi limiti consente l’appello a una forma di naturalismo etico in grado sia di esplicitare gli elementi indispensabili a una vita virtuosa e all’ ‘agire bene’, che di spiegare «come un uomo ingiusto sia un cattivo uomo, e un’azione ingiusta sia un’azione cattiva»5. In secondo luogo, nel più recente On Promising and its Justice6, la filosofa ha posto una stretta relazione fra la valutazione di un’azione e alcune caratteristiche peculiari della vita degli esseri umani. Sono queste ultime a rendere necessario, per esempio, un istituto quale la promessa per sancire l’obbligo reciproco all’azione, perché non esistono altri modi non coercitivi per far fare agli altri quel che vogliamo. Indurre all’azione senza l’uso della forza è per la vita umana una ‘necessità aristotelica’, un contributo a quel bene essenziale a una specie che è il preservare sé stessa, le sue specificità. Il linguaggio rientra tra queste ultime: infatti, la dipendenza degli esseri umani gli uni dagli altri trova in esso una forma raffinata di cooperazione, che è alla base dell’‘umanità’ e che ne conserva ed estende le potenzialità attraverso il riconoscimento razionale, da parte della comunità di parlanti, di sistemi di regole condivise cui affidare la possibilità stessa della convivenza. La filosofia di Anscombe non rappresenta solo una tappa essenziale e fondante del dibattito in corso sulle questioni qui sollevate: essa concorre a fornire un’ originale impostazione teorica, una strategia capace di attraversare e rivisitare il naturalismo etico contemporaneo, tenendo conto della inseparabilità di praxis (dimensione pratica) e logos (linguaggio)7. 3. Concetti psicologici e action’s theory In uno dei trattati sull’azione più importanti del secolo scorso8, Anscombe mette in luce come la linguisticità sia condicio sine qua non della distinzione fra un agire intenzionale e altri tipi di atto, e della sua comprensione9. Richiamandosi alla distinzione wittgensteiniana fra le cause e le raANSCOMBE, (1958), in ID. (1981), p.29. ANSCOMBE (1981), vol. III, pp. 10-21. 7 Nel corso di queste pagine ho fatto costantemente riferimento alla traduzione di Lo Piparo, che rende logos con ‘linguaggio’, piuttosto che con ‘regola’ o ‘ragione’, indicando “[…] la capacità, che si esercita col linguaggio, di cercare soluzioni ragionevoli a problemi sia pratici che teorici”. Cf. ID. (2003), p. 19. 8 ANSCOMBE (1957). 9 È utile precisare cosa Anscombe intenda per ‘intenzionalità’: in questa sede bisogna distinguere fra l’idea per cui “la mente intratterrebbe con le cose un rapporto contraddi5 6

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gioni di un’azione10, e reinterpretando il modello dell’inferenza pratica aristotelica, la filosofa fa giocare al linguaggio il duplice ruolo di strumento di definizione di un problema (cosa è un atto intenzionale?), e di risoluzione del problema stesso. La comprensione di un’azione dipende infatti dal fornirne una corretta descrizione in un determinato contesto, posto che una stessa azione può essere intenzionale sotto una descrizione, e non intenzionale sotto un’altra11. In particolare, essa è intenzionale se viene descritta come una risposta alla domanda “Perché?” in cui siano menzionati, nella forma di un ragionamento pratico, le ragioni e gli scopi che la sostanziano12. In questo senso, viene negata capacità esplicativa alle teorie che interpretano causalmente il nesso azione/intenzione: esse si basano, secondo Anscombe, su un errato approccio epistemologico, che legge le azioni come fossero fatti, causalmente determinati da una tendenza/entità psicologica che viene in tal modo reificata o, in alternativa, da accadimenti fisici precedenti l’azione stessa e logicamente indipendenti da essa, considerati in grado di promuovere deterministicamente l’agire. Tuttavia, l’azione intenzionale non può essere compresa risalendo a ciò che ne costituisce la causa, ma solo descrivendo ciò cui essa tende, il suo fine intrinseco, la sua ragione. Non diciamo, ad esempio, di sobbalzare ‘alla luce’ di un rumore improvviso: descrivere la propria azione come intenzionale, significa essenzialmente fornire una giustificazione del proprio comportamento, che è priva di potere causale perché l’esistenza di una ragione non è sufficiente ad assicurare una certa azione, e perché la stinto da una dinamica di proiezione, un ‘mirare’” BENOIST (2005, p. VII), e l’accezione del termine qui considerata, per cui l’intenzionalità non è la proprietà fungente da ‘ponte’ fra il fisico e lo psichico, ma un concetto psicologico designante una delle tendenze messe in atto dall’agente sulla base di ragioni. In termini intenzionalisti, dunque, l’intenzione anscombiana è uno degli stati intenzionali. 10 “Se invece, tu comprendi che la catena delle ragioni reali ha un principio, non ti ripugnerà più l’idea di un caso, nel quale non v’è una ragione del modo nel quale tu obbedisci all’ordine. A questo punto, tuttavia, insorge un’altra confusione: quella tra ‘ragione’ e ‘causa’. A questa confusione porta l’uso ambiguo dell’avverbio interrogativo ‘perché’. […] La differenza tra le grammatiche di ‘ragione’ e di ‘causa’ è simile a quella tra le grammatiche di ‘motivo’ e ‘causa’. La causa è oggetto non di conoscenza, ma solo di congettura.”. WITTGENSTEIN (1958, pp. 23-24). 11 Al modo in cui “dire che un uomo sta facendo X, significa fornire una descrizione di quel che egli sta facendo secondo la quale lui lo sa”. Cf. ANSCOMBE (1957, § 6). 12 ARISTOTELE, Etica Nicomachea, I, 2, 1094 a 22-24: “E non è forse vero che anche per la vita la conoscenza del bene ha un gran peso, e che noi, se, come arcieri, abbiamo un bersaglio, siamo meglio in grado di raggiungere ciò che dobbiamo?”.

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ragione diviene efficace solo se l’agente la comprende come un modo plausibile di vedere l’azione, in una dimensione valutativa che le cause non posseggono, e in cui è possibile esibire il significato di un certo gesto chiamando in causa un certo tipo di operazione, di natura linguistica. L’inferenza pratica aristotelica si rivela quindi particolarmente efficace nel descrivere la struttura teleologica della volizione, poiché correla in modo plausibile tutti gli aspetti dell’azione umana, irriducibili a una successione causale di fatti13: le due premesse esprimono infatti rispettivamente la volizione dell’agente e la conoscenza dei mezzi o delle condizioni del raggiungimento di quanto voluto; la conclusione esprime invece la disposizione del soggetto agente a realizzare le condizioni stesse. Caratteristica del ragionamento pratico, inoltre, è il suo indurre all’azione senza che questa sia necessitata dalle premesse14: l’unico elemento che giustifica la conclusione è la boulesis (la volontà), differente dall’epithumia (il desiderio astratto) poiché consistente nel “cercare di ottenere” un oggetto che si conosce e che possiede una ‘caratterizzazione di desiderabilità’ in quanto descritto come ‘oggetto buono’. È appunto tale ‘caratterizzazione’ a fondare il percorso logico che trae origine da un obiettivo, rispetto a cui volontà e conoscenza «procedono assieme»15. L’intenzione dell’agente intrattiene dunque una relazione interna, logico-concettuale, con una particolare forma di descrizione ampliata degli eventi, che specifica quel che l’agente ulteriormente sta facendo nel fare qualcosa, per cui “le due caratteristiche, conoscenza e descrizione ampliata, sono proprio caratteristiche dell’intenzione nell’agire”16. Anscombe intravede così nella proairesis (scelta) aristotelica17 il fulcro di un tipo di descrizione il cui ordine “è presente ogni qualvolta le azioni sono compiute con intenzione”18, senza la quale nulla di quel che accade potrebbe essere La struttura formale del ragionamento pratico verrà accolta successivamente in altre teorie della praxis, per esempio in quella di VON WRIGHT (1971, pp. 114-121), che si riferisce a un ‘sillogismo pratico’ del seguente tipo: A intende ottenere p /A non può ottenere p se non compiendo X/A si dispone a compiere X. 14 ANSCOMBE (1957, §33). 15 Ivi, §37. 16 Ivi, §47. 17 In Thought and Action in Aristotle (1965), Anscombe rileva come la proairesis aristotelica non possegga una valenza puramente tecnica o esecutiva, ma sia piuttosto l’elemento decisivo nella realizzazione di ciò che il soggetto protithetai (ciò che egli ‘mette innanzi a sé’ in quanto lo preferisce; ciò che egli intende mettere in pratica). Cf. ID. (1981, vol. I, pp.66-77). 18 Ivi, § 29. 13

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interpretato come un atto intenzionale. La conoscenza speculativa, da sola, non sarebbe in grado di rilevare alcuna intenzionalità dell’agire: utilizzando l’osservazione quale chiave d’accesso epistemologico ai fatti, essa è evidentemente insufficiente a comprendere perché si è scelto di agire in un dato modo, alla luce di quale ragione. La concezione aristotelica del ragionamento pratico viene così utilizzata wittgensteinianamente, per spostare l’attenzione da ciò che si verifica nel mondo alla sua descrizione, che implica il concetto di un’azione umana, e non viceversa19. Congiungere concettualmente le azioni e le loro ragioni, edificare le basi della loro relazione nella funzione descrittiva del linguaggio, significa in sostanza per Anscombe definire un ‘requisito di manifestabilità’ delle intenzioni e, insieme, rifiutare sia qualsiasi forma di soggettivismo emotivo, sia la posizione che interpreta l’azione come leggibile alla stregua di evento separabile in linea di principio dalle sue cause e dalle sue conseguenze: il comportamento, infatti, non possiede in sé e per sé nulla di razionale, mentre può essere compreso come razionale in un contesto linguistico di fini, realizzazioni e cognizioni20 da cui riceve, appunto, il suo carattere ‘intenzionale’. Un concetto psicologico come l’’intenzione’ non è dunque pensabile se non entro i confini di una sfera linguistica (e pertanto intersoggettiva, sociale) 19 Nelle Ricerche Filosofiche, Wittgenstein aveva già sottolineato come “i concetti ci inducono a indagare”, “sono espressione del nostro interesse, e dirigono il nostro interesse” (ID., 1953, §§ 569-570, corsivo mio). Anscombe, a sua volta, evidenzia come la descrizione su cui ci concentriamo, quando vogliamo conoscere l’intenzione dell’agente, è tale che non potrebbe esistere, se la nostra domanda ‘Perché?’ non esistesse a sua volta. 20 Anscombe definisce l’elemento cognitivo che tipicizza l’azione intenzionale, il knowing without observation, che è chiaramente di derivazione aristotelica: l’uomo acquisisce, con l’esercizio, un habitus che applica di volta in volta al singolo atto, per cui la deliberazione non investe, in ogni caso particolare, un’abilità acquisita. La conoscenza delle proprie azioni intenzionali appartiene al soggetto a prescindere dai dettagli sul modo in cui esse hanno luogo effettivamente o in cui modificano la realtà. Così, “l’unica cosa che accade è la mia intenzione”, e “io faccio quel che accade”. C’è sempre un certo grado di conoscenza od opinione del contesto/oggetto dell’agire intenzionale, per cui la possibilità di osservare lo svolgersi dell’azione è secondaria, rappresenta al più un “aiuto”, al modo in cui gli occhi ci aiutano ad avere una scrittura leggibile, ma potremmo scrivere anche senza guardare il foglio, fondandoci solo sulla conoscenza pre-osservativa della nostra azione. La possibilità di una discrepanza fra intenzione e azione effettiva dipende eventualmente da una mancata corrispondenza fra descrizione ed evento, fra linguaggio e realtà, cf. ID. (1957, §42). Se apro il rubinetto per riempire una vasca, ma dimentico di chiudere lo scarico col tappo, quello che faccio (la mia intenzione) è riempirla, anche se ciò non avviene: la causa del mio errore (in questo caso, la distrazione) concerne la realizzazione dell’atto, e non l’atto intenzionale in sé e per sé (Ivi, § 32).

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in cui l’azione intenzionale esiste nell’ambito di uno spazio logico in cui si fornisce a un interlocutore la ragione del proprio comportamento: l’explicans di un atto intenzionale contiene la ridescrizione di fatto noto (un’azione) dirimente rispetto a un’attribuzione di responsabilità a un soggetto, consapevole di “aver fatto accadere ciò che ha fatto”, mentre la forma di questo tipo di ridescrizione, il modello aristotelico, dà conto del senso teleologico delle nostre azioni, inscritte in una sfera di finalità consapevoli inevitabilmente escluse da qualsivoglia spiegazione nomica. 4. Il contributo del naturalismo etico angloamericano Quanto detto fin qui rende conto di quanto le tesi di Anscombe siano feconde per lo sviluppo di un discorso sulla razionalità pratica che approdi a una teoria unificata dei suoi elementi costitutivi a partire dal linguaggio come facoltà che non solo descrive, ma soprattutto definisce originariamente e intersoggettivamente l’umana razionalità pratica, nei suoi confini e contenuti. In questo senso sono significative le parole di Sellars, quando sostiene che « […] caratterizzare qualcosa come un episodio o uno stato di conoscenza non equivale a fornirne una descrizione empirica ma, piuttosto, a collocarlo nello spazio logico delle ragioni, nello spazio in cui si giustifica e si è in grado di giustificare quel che si dice»21. Le potenzialità teoriche del pensiero anscombiano si accompagnano certamente ad alcuni limiti. Il più rilevante è dato da un’interpretazione dell’aristotelismo che, reso docile a determinate esigenze (fra cui la congiunzione con alcune tesi wittgensteiniane), tende a valorizzare alcuni elementi della psicologia e dell’etica aristotelica a svantaggio di altri. Così avviene ad esempio con l’accentuazione dell’importanza del logismos (il calcolo razionale) nell’azione intenzionale, a scapito del ruolo dell’orexis (il desiderio) nell’etica aristotelica. Il risultato è la sensazione che la volontà di ricostruire la struttura formale dell’agire prevalga sulla necessità di dar conto di tutti gli aspetti che intervengono nella effettuazione di una scelta ragionata, dell’azione che la realizza intenzionalmente. Di fondamentale importanza appare invece l’insistenza anscombiana sull’idea che un aspetto del practical reasoning come l’intenzione, sia qualcosa di ben diverso dall’elemento ‘motivazionale’, – costitutivamente interno al soggetto che agisce – precedente un fatto, l’azione, quale suo promo21

SELLARS (1997, § 36, corsivo mio).

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tore o inibitore, come sostenuto dalla maggior parte delle posizioni filosofiche neo-humeane. La considerazione di una ancillarità degli atti rispetto al modo in cui si articola la scelta dell’agente, sembra in effetti rappresentare la controparte epistemologica delle posizioni etiche di Anscombe, che richiedono di spostare l’attenzione dall’azione in quanto tale, al carattere e alle disposizioni di colui che la compie, ovvero di abbandonare il linguaggio deontologico per adottarne uno areteico. Quest’idea, presente negli scritti della filosofa per lo più sotto forma di monito o di esigenza, viene ripresa e radicalizzata, in senso naturalistico, dall’allieva diretta di Anscombe, Philippa Foot, in uno dei suoi scritti più recenti, Natural Goodness, che ben sintetizza fra l’altro l’evoluzione delle posizioni espresse dalla filosofa in diversi articoli precedenti22. Il pensiero di Foot ha in parte un rapporto di filiazione evidente con la filosofia anscombiana, ma se ne discosta anche per diversi motivi, in particolare per la strategia adottata nella trattazione del concetto di ‘bene’ e del rapporto fra atto morale e razionalità pratica. Questo è dovuto in parte al fatto che l’interesse prioritario di Foot è di natura etica, mentre Anscombe ha riservato buona parte dei suoi scritti alla definizione esclusivamente logica ed epistemologica di determinate questioni (si pensi ad esempio al suo distanziare anzitutto epistemologicamente la nozione di ‘causa’ di un’azione da quella di ‘ragione’). Foot vuole dichiaratamente segnare la sua distanza filosofica da ciò che accomuna le varie ‘versioni’ di non–cognitivismo etico, rappresentanti di un errore strategico la cui individuazione è basilare per adottare un nuovo punto di vista sull’agire e sulla sua moralità, due questioni che non è possibile considerare separatamente, se non in virtù di una fuorviante scissione teorica. Com’è noto, il non-cognitivismo etico sostiene la ‘forbice’ humeana – la distinzione tra il piano del fatti e quello dei valori – col supporto dell’idea che non avendo valore assertivo, i giudizi morali non siano analizzabili in termini di condizioni di verità, ma derivino da un uso particolare, ‘pratico’, del linguaggio. Pertanto, essi non esprimerebbero altro che una tendenza dell’azione, in base a un principio che Foot definisce ‘requisito di praticità di Hume’, che stabilisce che la moralità è essenzialmente actionguiding23, stimola o frena l’agente ad agire in un certo modo. Un requisito, FOOT (2001). Foot ha sostenuto il ‘requisito di praticità’ anche in suoi scritti precedenti di stampo humeano, che sostenevano in generale le tesi di Peter Geach sull’analisi dell’aggettivo ‘buono’, condotta sulla base della distinzione fra aggettivi predicativi e attributivi (GEACH, 22 23

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questo, che d’altra parte la filosofa stessa ritiene sia necessario soddisfare, rifiutando però l’equazione fra significato del giudizio morale e tendenze (attitudini, intenzioni, stati mentali) dell’azione, e la parallela considerazione delle condizioni di verità come significato delle asserzioni: da questa impostazione del problema ha origine uno iato insanabile, che investe la relazione fatti/valori tanto da collocare il contrassegno del giudizio morale oltre le possibilità di giustificazione del giudizio stesso. In questa distanza fra giustificazione e giudizio consiste, secondo Foot, l’errore del non–cognitivismo, che delimita i concetti di ‘moralmente buono/cattivo’ solo tramite requisiti di coerenza logica, per cui le peculiarità del giudizio morale resterebbero isolate dal suo contenuto, e in grado di formare il nucleo di altri sistemi morali, diversi od opposti rispetto al nostro. Foot sottolinea più volte che pensare alle buone azioni non sia come pensare a proprietà di oggetti24. Tuttavia, un’alternativa alla dicotomia fatti/valori può consistere nel soddisfare il ‘requisito humeano’ facendo rientrare l’agire morale nella stessa razionalità pratica: l’idea di ‘bontà della volontà’, diversamente da Kant, viene fatta così dipendere non da un’idea astratta di ‘razionalità pratica’, ma da “proprietà essenziali della vita specificatamente umana”25. Queste ultime sono regolative di una bontà naturale, cioè una tensione verso la perfezione di ogni individuo rispetto alle caratteristiche della propria specie, alle funzioni che le sono proprie e, nel caso dell’uomo, rispetto all’esser dotato di razionalità. Tale ‘normatività naturale’ è utilizzata in particolare nell’analisi della vita umana, ed è in tutto simile alla valutazione del comportamento degli animali, eccetto per il fatto che «i beni che dipendono dalla cooperazione umana […]sono più differenziati e più difficili da delineare rispetto ai ‘beni animali’», se non altro per il fatto che un essere umano ha bisogno di com1960). A sua volta, Foot ha tentato di mostrare come le espressioni di valutazione relative a certi vizi, o a certe virtù, non abbiano criteri astratti di applicazione, ma fattuali: la categoricità dell’imperativo kantiano non garantisce al soggetto alcuna ragione per agire, mentre sarebbero gli imperativi categorici a possedere una maggiore capacità normativa, per quanto non posseggano una forza ‘assoluta’ (FOOT, 2002). 24 “Secondo il concetto di morale il pensiero che qualcosa deve essere fatto è in relazione con l’azione, in un modo in cui non lo è, ad esempio, il pensiero che la terra è rotonda, o che le fragole sono dolci, o che molti muoiono in guerra. […] Ho accettato tale premessa, interpretandola poi in modo diverso: ho suggerito che l’azione morale ha una connessione privilegiata con la volontà, perché essa è un requisito della razionalità pratica”, FOOT (2001, pp. 29-30). 25 FOOT (2000, p.115).

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prendere il perché delle sue azioni, le ragioni per comportarsi onestamente, o per mantenere una promessa26. Ciò che Anscombe dice sull’istituto della promessa27 diviene in Foot l’esempio di un criterio generale di valutazione basato sulla specie: mantenere le promesse è un bene, perché è un bisogno naturale della vita umana ottenere cooperazione senza usare la forza fisica. I fatti rilevanti relativi alla forma di vita della specie cui appartiene l’individuo considerato determinano i criteri della bontà (e del difetto) che dobbiamo utilizzare per valutare quell’individuo, cosicché la necessità della civetta di vedere al buio non è ‘strutturalmente’ distante dall’umano interesse per il prossimo. Il giudizio morale non fa che spiegare l’azione di un individuo che sa di avere delle ragioni per agire moralmente, e rientra nella razionalità pratica perché ‘agire sulla base di ragioni’ è modalità di operazione specie-specifica degli esseri umani. Fra giudizio morale e giustificazione, dunque, non sussiste alcuno scarto logico, nella misura in cui l’azione morale è razionale, e riconoscere le ragioni per l’azione e agire di conseguenza è una facoltà propria degli esseri umani. I criteri della bontà possono variare rispetto alle varie forme di vita, mentre rimane invariata la struttura logica dell’attribuzione di ‘buono’, sia che l’aggettivo sia attribuito a una pianta, a un lupo o all’azione di un essere umano28. La tesi di Foot è impregnata di aristotelismo, soprattutto perché le caratteristiche naturali proprie degli esseri umani non sono che funzioni teleologiche determinanti il modo in cui ciascun individuo dovrebbe essere, a partire dal proprio ergon (funzione) specie-specifico. Tuttavia, un’etica delle virtù dovrebbe riservare un’attenzione speciale alla disposizione costante dell’agente, mentre l’etica naturalistica di Foot sembra sfociare in una sorta di realismo metafisico, in una accurata analisi fattuale che colloca i tratti essenziali di ciò che va considerato di valore nella realtà esterna: manca (o difetta) l’analisi convincente del ruolo effettivo che la razionalità umana e la sfera emotiva giocano nel motivare le azioni, e nella determinazione delle stesse ‘virtù’. Su questo tema la Foot si limita a sottolineare una caratteristica della scelta: il fatto che in essa le emozioni, le attitudini, le intenzioni e i desideri del soggetto non sono separabili dall’atto in cui si esprime la scelta medesima, o sovrapponibili ad esso come fossero l’antecedente conativo di elementi cognitivi e razionali, capaci di determinare l’azione e la sua tendenza. FOOT (2001, p.25). ANSCOMBE, Promising and its Justice, in ID. (1981), vol. III, pp. 10-21. 28 FOOT (2001, pp. 59-60). 26 27

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Foot si esprime con lucidità e chiarezza sulle rischiose conseguenze etiche di una concezione siffatta, ma permane nella sua teoria la perdita di vista delle peculiarità della scelta umana, che nella concezione aristotelica ha per oggetto una cosa che è desiderata perché deliberata: nella proairesis, desiderio e deliberazione si intrecciano e fondano il pensiero pratico e la moralità dell’agire. La tesi footiana rappresenta certamente uno dei tentativi più significativi, ma anche più ardui, di salvaguardare l’oggettività delle asserzioni morali eliminando ogni concessione soggettivistica e riaffermando l’esigenza di non esaurire l’etica nell’analisi linguistica e formale, affidando ad essa dei contenuti che siano saldamente ancorati alla vita reale degli esseri umani, non solo in termini biologici, ma anche in quelli di una ricostruzione realistica di fenomeni quali il volere, l’intenzionalità, la razionalità pratica29. Il ruolo imprescindibile della componente emotiva (tralasciata, in modi diversi, dalle analisi di Anscombe e Foot) nel practical reasoning, è stato particolarmente valorizzato da Martha Nussbaum, per cui la filosofia aristotelica rappresenta una guida attuale e insostituibile nella costruzione di una teoria etica universale connessa alla praxis politica e alla libertà umana. Lo sforzo di Nussbaum è volto alla fondazione di un’etica che sia realmente pluralista e che al contempo si fondi sull’idea di natura umana universale, esplicitata da una lista non rigida di capacità fondamentali (tra cui figurano le emozioni e la ragione pratica) che definiscono cosa costituisce una vita autenticamente umana e che hanno contemporaneamente un valore individuale (perché perseguite per il singolo) ma anche universale (in quanto espressione di principi validi per ogni cultura e società) di contro a un relativismo che vorrebbe far gravare sui criteri del valore etico dei vincoli locali, o legati al concetto di ‘tradizione’ (nonostante le capacità stesse possano ammettere una specificazione plurale, o locale30). 29

Il fondare l’etica su un’insieme di fatti naturali primi è stato ravvisato come il punto di maggior debolezza della teoria, per esempio da McDowell, vicino a gran parte delle tesi footiane ma convinto che l’etica non possa basarsi su fatti ‘puri’: essa è il risultato di un’educazione, è una ‘seconda natura’ poiché si dispiega all’interno del pensiero riflessivo, del lògos pratico, e non ci consente di assumere un punto di vista esterno, astratto rispetto all’agente. Per McDowell, il giudizio sulle azioni umane deve tenere conto del lato biologico-naturale, ma anche della presa di distanza rispetto ad esso che la ragion pratica necessariamente compie. MCDOWELL (1998, pp.188-197). 30 NUSSBAUM, Natura, funzione e capacità: la concezione aristotelica della ridistribuzione politica, in ID. (2003, pp. 41-42): «È evidente che, di necessità, la migliore costituzione (politeia) è costituita dall’ordinamento (taxis) che permette a chiunque (ostisun) di essere nella

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Il contributo di Nussbaum al non-consequenzialismo e al neo-aristotelismo contemporaneo è rilevabile da almeno tre punti di vista: 1. Nussbaum ritiene che la presenza o assenza di alcune delle capacità presenti nella lista siano contrassegno della presenza o assenza della stessa vita umana: il rispetto di una serie di capacità fondamentali non si inserisce in una prospettiva consequenziale perché viene riconosciuto come fondamentale principio normativo, rendendo un’azione giusta sulla base di proprietà indipendenti dalle conseguenze da essa realizzate. Secondo Nussbaum, per Aristotele è compito dell’ordinamento politico creare un contesto in cui ciascuno sia libero di scegliere di ‘funzionare’ in modi costitutivamente umani, e gli stessi concetti di ‘funzionamento’ (èrgon) e capacità (dynamis), sono desunti dalla filosofia aristotelica e posti in un rapporto tale che le capacità rappresentano il fine per cui è necessario ricercare determinati funzionamenti come strumenti di realizzazione, strumenti che vanno imposti, entro un certo limite, anche contro i desideri del soggetto (per esempio, nel caso del diritto all’istruzione primaria e secondaria). Questa analisi, dunque, adotta una concezione oggettiva del bene, nel senso che ciò che è bene è indipendente dai desideri del soggetto. 2. Nussbaum attribuisce però al desiderio un ruolo tale che fra ciò che è desiderato, e ciò che è considerato di valore, debba comunque sussistere una qualche relazione, e opponendosi alle tesi che sostengono che desiderio e scelta non abbiano alcun ruolo nel giustificare la bontà di una cosa, concepisce aristotelicamente la scelta come ‘desiderio deliberativo’, intreccio di desiderio e ragione in cui il primo è costitutivamente intenzionale, così come sono intenzionali, e quindi dotati di intelligenza e di consapevolezza, anche gli appetiti e le emozioni dell’agente. La filosofa riserva quindi un ampio spazio allo sviluppo di una psicologia morale comprensiva di una ‘geografia’ della vita emotiva che evidenzi il carattere cognitivo e valutativo delle emozioni, considerando, ad esempio, l’elemento valutativo contenuto nel desiderio, che consente ad esso di ‘uscire’ dall’irrazionalità ed entrare nella definizione di ciò che viene considerato di valore31. In generacondizione migliore (arista prattoi) e di vivere beatamente (zoe makarios)». Questa è una delle affermazioni più chiare della concezione dei compiti dell’ordinamento politico che è oggetto di questo scritto. Per identificare tale concezione utilizzo qui l’espressione ‘concezione distributiva’.[…] Tale concezione ci impone di valutare un ordinamento politico tenendo conto delle capacità di ciascun consociato – ossia tenendo conto della sua idoneità a mettere i consociati in condizione di realizzarsi al meglio delle loro possibilità». 31 NUSSBAUM (2001, p. 22).

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le, le emozioni hanno la capacità di relazionare individuo e mondo proprio in base alle valutazioni emotive, e quindi ai progetti e alle aspettative, alla propria idea di eudaimonia, che Nussbaum traduce con ‘prosperità’ piuttosto che con ‘felicità’, in base all’originario significato del termine, connesso alla dimensione dell’attività, e non a uno stato interiore. In questo senso, non solo le emozioni posseggono un’intelligenza, ma sono essenziali affinchè la stessa intelligenza umana non risulti amputata e si impegni, assieme alle altre componenti del carattere dell’agente, nella ricerca della virtù, di ciò che è appropriato scegliere all’interno di una certa sfera d’esperienza. 3. Questo arricchimento e inspessimento del concetto di ‘azione’, alla luce del recupero del valore cognitivo delle emozioni, si accompagna a un’ulteriore considerazione del rapporto fra l’uomo e l’esperienza: la possibilità di individuare delle esperienze universali è data dal costante contatto della vita umana coi beni esterni e con la fragilità, che giocano un ruolo attivo nella determinazione delle virtù umane, tanto da rendere la tragedia greca uno dei pochi modelli capaci di narrare la storia di una deliberazione complessa. A differenza dell’ascetismo platonico e stoico, che individuano l’eccellenza umana nel trascendimento della stessa umanità, evitando l’esposizione alla fortuna e la vicinanza a beni esterni e caduchi, l’aristotelismo afferma che solo gli uomini, a differenza degli animali (che non possono formare concetti) e degli dei (che non hanno alcuna esperienza del limite) sono in grado di formare concetti etici e vivere secondo virtù. L’esperienza della vulnerabilità, in cui si colloca la possibilità di essere virtuosi, è una condizione non sufficiente ma necessaria dell’umanità, poiché l’eccellenza è strettamente legata a fattori esterni, non sottoponibili al controllo della ragione, ed è solo grazie alla fragilità che può essere definita tale. In tal senso, la fragilità del bene ha in sé il bene della fragilità, cioè quella possibilità di vivere una vita virtuosa che si costruisce a partire dalla sperimentazione della finitezza32. 4. Conclusioni Nussbaum contribuisce per più aspetti a restituire spessore e consistenza a un’analisi dell’azione e della scelta umane, evidenziando il carattere semplicistico ed eticamente rischioso delle teorie che considerano l’azione 32

NUSSBAUM (1986).

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intenzionale alla stregua di un prodotto di credenza e desiderio, o preceduta da stati interiori soggettivi che determinerebbero la tonalità emotiva della tendenza di una certa azione. Inoltre, le posizioni nussbaumiane possono avere in parte il ruolo di compensare alcune delle lacune concettuali delle tesi di Anscombe (in cui desideri ed emozioni hanno un ruolo poco definito) e di Philippa Foot (in cui mancano quasi del tutto considerazioni relative alla sfera emotiva, e in cui l’utilizzo della nozione di ‘natura’, a cui è assegnato un pesante ruolo normativo, appare problematico e vago). Di contro, il pensiero di Nussbaum può risultare arricchito dall’incontro con una delle più forti esigenze della filosofia anscombiana e, ancor prima, di quella aristotelica: il guardare al linguaggio come fondamento del darsi di un agire con certe caratteristiche (volontarietà, intenzionalità ecc.) ma anche della stessa possibilità di un impegno etico che spinga a scegliere fra azioni giuste e ingiuste, buone e malvagie, utili o dannose. Fra logos, desiderio e prosperità sussiste così un legame interno, poiché ‘la scelta ponderata, ovvero il desiderare in maniera argomentata una cosa piuttosto che un’altra, è un’agire che può essere praticato solo dagli animali dotati di linguaggio’, e ‘la scelta etica è guidata dalla ricerca dell’orthos logos, il discorso che enuncia la norma corretta che seleziona in ciascuna circostanza il comportamento virtuoso’33. Intrecciare l’impostazione teorica anscombiana coi temi del naturalismo etico, può indicare un percorso vicino a quella funzione chiarificatrice che la filosofia deve recuperare nei confronti delle criticità irrisolte della contemporaneità. I temi della globalizzazione e del relativismo appartengono infatti all’attualità di una società dove le possibilità di convivenza tra individui e comunità dipendono sempre più, per dirla con Habermas, dalla capacità di restituire al linguaggio la funzione di garante del senso e del telos (fine) dell’agire: in tal senso, il tentativo anscombiano di definire una ‘manifestabilità’ delle intenzioni può avere interessanti ricadute sul più ampio dibattito intorno alla possibilità di un sistema di diritti e di regole essenziali, che si fondino sulle ‘ragioni condivise’ da visioni del mondo spesso pericolosamente divaricate e tendenti a un soggettivismo delle ragioni che può essere messo in discussione dal logos, il contrassegno più naturale e specifico della nostra umanità. Definire la relazione logico-concettuale fra azioni e intenzioni significa infatti porre le basi di una teoria della responsabilità etica, connessa a un 33

LO PIPARO (2003, pp. 16-17).

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agire che sia anzitutto imputabile nel senso platonico per cui “ciascuno è causa della propria scelta”34: se ci è possibile parlare delle nostre intenzioni descrivendo le ragioni che ci hanno indotto ad agire in un certo modo, la causa della nostra azione non consiste in altro che in noi stessi in quanto agenti razionali, responsabili di un ragionamento, in base al quale ci disponiamo ad agire. E’ per questo che «la phronesis si orienta su phronimos, vale a dire: su colui che esercita la ragione pratica»35. Proprio quest’ultima affermazione, tuttavia, segna la problematicità della delineazione di una teoria naturalista che non si scontri con la questione dell’oggettività normativa: valorizzare le risorse che la dimensione linguistica può fornire alla riflessione areteica non determina immediatamente la conciliazione fra l’affermazione del primato del carattere dell’agente, e dunque di un elemento particolare, con l’esigenza di una teoria che abbia una valenza universale. Questa difficoltà è presente nel tentativo di Foot di utilizzare le norme naturali relative alla specie umana come vincoli a partire da cui fissare i criteri di una vita virtuosa, a scapito della capacità del soggetto di gestire razionalmente gli aspetti biologici e naturali della sua esistenza. Ancora, la crucialità del rapporto fra particolare e universale ha un rilievo considerevole nella ricognizione di Nussbaum di un insieme di capabilities che non oscuri la possibilità di un individuo di esercitare la propria facoltà di scelta, sia in relazione alla sua razionalità pratica che alla sua cultura e al suo tempo36. Tenendo conto del carattere aperto di tali questioni, si è voluto soprattutto mostrare come il recupero di una concezione non strumentale del linguaggio possa fornirci una solida chiave interpretativa delle criticità del discorso etico, attraversandole e ridefinendole sia da un punto di vista metaetico che normativo. I tragitti teorici qui delineati, fanno luce fra l’altro sull’impossibilità di concepire il logos unicamente come strumento di descrizione delle attività umane: è piuttosto l’intero campo di tali attività, a dipendere dalla peculiare capacità umana di costituirle e sussumerle attraverso il linguaggio in un orizzonte di sensatezza che comprenda, non secondariamente, lo spazio dell’etica.

34

PLATONE, Repubblica, X, 617e. BUBNER (1976, p. 228). 36 NUSSBAUM (2003, pp. 45-52). 35

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ANNALISA COLIVA Tu chiamale se vuoi “emozioni”

Che cos’è un’emozione? O, se volete, che cosa chiamiamo, propriamente, “emozione”? La domanda è vecchia quanto il mondo: in fin dei conti, d’emozioni viviamo, o vorremmo vivere, e se non lo sappiamo fare è anche peggio. Le emozioni sono un motore potente delle nostre azioni, da quelle più banali e quotidiane, a quelle che contribuiscono a scrivere alcuni capitoli della storia dell’umanità: ci guidano nella scelta triviale di quale film guardare stasera, quale libro leggere, quale CD ascoltare, per quale squadra, atleta o giocatore tifare; in quella un po’ meno banale di chi corteggiare, o per chi dannarci l’anima, o salvarcela; ancora, è indubbio che spesso è anche la ricerca d’emozioni che spinge gli esseri umani a imprese che li mettono a confronto coi loro limiti, come scalare gli Ottomila, navigare in solitaria gli Oceani, percorrere a piedi il Polo Nord nella lunga notte artica. Di ciò non paghi, intorno alle emozioni abbiamo addirittura costruito interi settori della vita e della produzione intellettuale della nostra specie, dalle arti in genere ai movimenti culturali – da quelli che le esaltano come lo Sturm und Drang a quelli che s’incentrano sul loro controllo, come tutte le forme di classicismo. La conoscenza delle proprie emozioni, infine, fa parte di quel piccolo bagaglio di saggezza che ognuno di noi dovrebbe costruirsi durante la propria vita, per imparare a dominarle, quando è necessario, e ad abbandonarvisi, quand’è possibile, per vivere quella vita felice che, con un pizzico di fortuna e di coraggio, forse non è solo una promessa la cui realizzazione debba attendere il post mortem. “Che cos’è un’emozione?”, però, è anche una domanda vecchia quanto lo storia della filosofia o quasi. In questa lunga storia, sono state avanzate sostanzialmente tre risposte: (1) le emozioni sono sensazioni; (2) le emozioni sono giudizi; (3) le emozioni sono stati mentali sui generis con contenuto sia rappresentazionale sia fenomenico. Essendo un filosofo del tre, per dirla con Derrida, dichiaro fin da subito la mia simpatia per la risposta così numerata: se c’è una tesi e un’antitesi, a me piace trovare la sintesi, sempre. Che poi questa sia una ricetta per avere più nemici che amici, pazienza, l’importante è – come diceva Oscar Bollettino filosofico 24 (2008): 71-85

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Wilde – che se ne parli. O anche, in maniera un po’ meno estetizzante, l’importante è la ricerca della verità e se la verità sta nel mezzo, o ha buone probabilità di starci, tant mieux. Mi si lasci aggiungere che questo compito di classificazione è solo apparentemente sterile, perché è ovvio che soltanto una buona classificazione può guidare l’interpretazione sia di quanto accade nel nostro foro interiore, nello stream of consciousness, in cui le emozioni si presentano a ciascuno di noi, sia l’interpretazione dei dati che ci vengono dalle neuroscienze, su cui, però, qui non dirò nulla. Tuttavia, prima di tacere, mi sia concesso notare due cose. Primo, che la classificazione concettuale, basata sull’esperienza cosciente ed eventualmente raffinata da osservazioni teoriche, è necessaria allo studio scientifico delle emozioni, perché viceversa, avremmo solo una messe di dati riguardanti le reazioni cerebrali senza sapere a quali aspetti della nostra vita mentale conscia connetterli. Secondo, se, come spero di riuscire a sostenere in questo intervento, un’emozione non si esaurisce nella mera sensazione, tanti dati che ci vengono dalle neuroscienze sulle risposte del cervello a certo tipo di stimolazioni provano ben poco sulle emozioni come tali, checché ne dicano gli scienziati. Ma ho promesso di non parlare di questo argomento e vorrei mantenere la parola data. 1. Preliminari Un primo problema classificatorio riguarda il fatto che nel linguaggio ordinario il termine “emozione” è usato per una gran varietà di casi: sensazioni, come il dolore e il piacere; umori, come la depressione o l’allegria; sentimenti, come l’odio e l’amore; appetiti, come il desiderio sessuale, la fame o la bramosia. Di fronte a una tale eterogeneità, si può essere indotti a disperare di fornire un resoconto teorico adeguato. Alcuni degli stati mentali appena menzionati, per esempio, non hanno (o possono non avere) oggetto, come la depressione o l’allegria, altri sì (o devono averlo), come l’odio e l’amore, visto che generalmente si ama o si odia qualcuno o qualcosa1. Alcuni hanno contenuto rappresentazionale, come la bramosia, che è sempre brama che qualcosa accada o si dia, altri, come il dolore e il piacere, si può sostenere invece di no2. Anche quando è un’intera categoria ad essere oggetto d’amore o di odio. Notoriamente Gareth EVANS (The Varieties of Reference, Oxford, Clarendon Press, 1982) ha avanzato l’idea che il dolore è la rappresentazione di una parte del corpo come 1 2

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Credo però che questa reazione sarebbe eccessiva: come il concetto di gioco funziona per somiglianze di famiglia, così quello d’emozione appare ugualmente vago e dai confini aperti, almeno nel linguaggio ordinario. Eppure questo non ci impedisce di parlare e di studiare i giochi. Similmente, questa eterogeneità non dovrebbe dissuaderci dal compito di parlare e di studiare le emozioni. Per scopi teorici, poi, si possono sempre introdurre distinzioni, un po’ come ho fatto poc’anzi, e decidere di occuparsi di un insieme specifico di stati mentali che risultano tra loro sufficientemente omogenei da poter essere sicuramente catalogati come “emozioni” e indagare successivamente – per somiglianze e differenze con i casi centrali – gli altri stati mentali che il linguaggio ordinario chiama (talvolta) allo stesso modo. In effetti, questa è la strategia più diffusa tra coloro che si occupano non solo di emozioni, ma un po’ di tutta la complessa geografia del mentale (anche di credenze e desideri, a ben guardare, ne esistono tipi diversi) ed è la stessa che adotterò qui. Ancora, può rivelarsi utile fissare l’attenzione su qualche esempio per focalizzare la discussione e mobilitare le intuizioni. Si potrà successivamente determinare che cosa vi sia di strettamente specifico nell’esempio prescelto e cosa, invece, di più generale, estensibile a tutta la categoria in questione. Anche questa è una strategia diffusa nell’ambito della discussione filosofica sulle emozioni (e non solo), che farò mia in quanto segue. Come case study vorrei considerare un caso classico, cioè quello della paura per esempio dei cani e, più nello specifico, la paura di un particolare cane, poniamo uno schnauzer nano, che ci sta di fronte. Ho scelto questo esempio un po’ perché, avendo paura dei cani, lo conosco meglio di altri, un po’ perché fa riferimento a un mio tratto disposizionale, entrando però nello specifico di un caso concreto – una delle manifestazioni della mia (disposizionale) paura dei cani –, la cui razionalità è dubbia, visto che oggettivamente lo schnauzer nano non è particolarmente pericoloso. Inoltre, ho scelto questo esempio perché mi sembra sufficientemente distinto da altri fenomeni mentali che non vorremmo forse immediatamente catalogare come emozioni: sensazioni come il dolore e il piacere, che non credo abbiano contenuto rappresentazionale e non hanno aspetti disofferente. Tale rappresentazione può inoltre essere corretta oppure no: cioè può essere vero oppure no che quella particolare parte del corpo è sofferente (si pensi al dolore nell’arto fantasma). A parte la possibile circolarità, credo si possa provare dolore di natura psichica, senza che questo sia essenzialmente localizzato in una parte del corpo.

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sposizionali; il desiderio sessuale che è chiaramente una sensazione e potrebbe essere privo d’oggetto; oppure un sentimento come l’amore che ha invece un oggetto, è uno stato mentale disposizionale, ma è un po’ troppo complicato, visto che si possono distinguere molte forme d’amore – eros, agape e philia, solo per attenerci alle distinzioni classiche –. In alcune delle sue manifestazioni, poi, l’amore può avere ben poco a che fare con l’emozione: se amo le piante, per esempio, non è detto che abbia nessuna particolare reazione emotiva al vederle, o al prendermene cura. L’amore, come si dice, è un sentimento, che può avere come non avere aspetti fenomenologici salienti, e, in taluni casi, ridursi a una serie di disposizioni comportamentali, come, appunto, prendersi cura di qualcosa o qualcuno. Si tratta anche di un esempio sufficientemente complesso da poter offrire pane per i nostri denti: lo ripeto, prendere come case study un fenomeno mentale molto puntuale e specifico, come il dolore, o il piacere, potrebbe dirci qualcosa su stati mentali connessi forse sì alle emozioni, cioè le sensazioni, ma lascerebbe fuori una quantità enorme di altri fenomeni mentali che vogliamo giustamente considerare emozioni. L’esempio che ho proposto come case study, invece, è chiaramente più complesso e coinvolge sia aspetti cognitivi – ha un oggetto e un contenuto rappresentazionale – sia non cognitivi – è accompagnato da una miriade di sensazioni. Ma nel motivare la mia scelta dell’esempio credo di aver già fornito alcune indicazioni su quelle che, a mio avviso, noi tutti consideriamo genuinamente emozioni: senza voler presupporre quello che vorrei provare, sto dicendo che il nucleo centrale del nostro concetto di emozione ha a che vedere con fenomeni mentali che hanno sia aspetti cognitivi sia meramente fenomenici. Le due analisi classiche delle emozioni – quella secondo la quale le emozioni sono identiche a sensazioni e quella per cui sono invece identiche a giudizi di valore – sono quindi entrambe riduzionistiche: propongono di ridurre le emozioni a l’uno o all’altro dei loro elementi (apparentemente) costitutivi. Per contro, l’analisi che vorrei difendere non è riduzionistica. Se fosse plausibile, quindi, ritengo avrebbe un notevole vantaggio teorico su quelle rivali perché permetterebbe di dar conto di entrambi gli aspetti salienti delle emozioni. 2. Emozioni come sensazioni L’idea classica che le emozioni sono sensazioni è stata sostenuta da molti, in particolare Hume (sebbene non senza complicazioni esegetiche su cui

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non entrerò in questa sede) e William James. Per darne una caratterizzazione semplice, è utile considerare l’analisi dell’esempio che ho proposto che ne deriverebbe. Sostanzialmente, la teoria in questione ricondurrebbe l’esempio a due fattori: uno cognitivo, cioè il giudizio “Questo cane è pericoloso”, e un altro sensibile, cioè la particolare sensazione che accompagna tale giudizio. Poiché il primo è un mero giudizio, passibile d’essere corretto oppure no, l’emozione come tale consisterebbe semplicemente nella sensazione che l’accompagna. La necessità di quest’ultimo fattore è evidente: giudicare solo che il cane che ci sta di fronte è pericoloso, non è sufficiente a dar luogo alla paura. Ovviamente, però, si pone il problema di quale sensazione debba accompagnare il giudizio, affinché si possa rendere conto della paura di quel cane. Evidentemente non ogni sensazione andrebbe bene, ma dovrebbe essere una sensazione caratteristica, col suo intrinseco quale, quello tipico della paura. Ora un po’ di riflessione fenomenologica mostra che la sensazione avrebbe come tratti per esempio certe reazioni fisiche – tremito, sudore, alcune sensazioni propriocettive, come il chiudersi della bocca dello stomaco, ecc. Questa sarebbe la paura. La domanda da porsi è quindi la seguente: provare questa sensazione, avere cioè queste reazioni fisiche, è sufficiente a individuare la paura? Una prima risposta negativa potrebbe venire dalla seguente considerazione, le emozioni come tali hanno un oggetto, vertono cioè su qualcosa e, come tali, sono passibili di valutazione semantica, cioè hanno un contenuto rappresentazionale che può essere corretto, oppure no. Per esempio, nel caso che stiamo esaminando, è falso che lo schnauzer che mi sta di fronte sia pericoloso. Secondo la teoria che stiamo considerando, però, sia il contenuto intenzionale sia quello rappresentazionale dipenderebbero dal giudizio che non è parte dell’emozione come tale. Le sensazioni fisiche, d’altro canto, non hanno un oggetto come tali, né sono passibili di valutazione semantica: si hanno e basta, non ha senso chiedersi se siano corrette oppure no. Ergo, un primo limite di questa analisi è che non è chiaro come possa rendere conto del fatto che le emozioni hanno sia un contenuto intenzionale – vertono su qualcosa – sia un contenuto rappresentazionale – sono cioè passibili di valutazione semantica. Ho detto che “non è chiaro” come questa teoria possa spiegare il contenuto intenzionale e rappresentazionale delle emozioni, non che è impossibile. Evidentemente i suoi fautori potrebbero complicare il quadro dicendo che la sensazione accompagna (o deve accompagnare) il giudizio e che è quest’ultimo a rendere conto del contenuto intenzionale e rappresentazio-

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nale che tendiamo, superficialmente, ad attribuire alle emozioni come tali. Potrebbero anche tentare di difendere ulteriormente la loro analisi adducendo casi in cui si ha paura e basta – si ha cioè la particolare sensazione tipica della paura – senza nessun oggetto ed, evidentemente, senza nessun contenuto rappresentazionale. Ora, non voglio entrare nella discussione di questa proposta ma credo, per esempio, che vorremmo dire che una paura senza oggetto non è razionale, cioè non è né motivata, visto che non c’è niente che possa rappresentare un pericolo, né corretta, visto che non c’è nessun pericolo in vista. Se però la razionalità/irrazionalità di quell’emozione non è spiegabile in riferimento al giudizio cui è connessa, posto che quest’ultimo non c’è, come spiegarla? Ma non dilunghiamoci oltre su questo punto (sebbene meriterebbe una risposta), perché ci sono altre considerazioni che militano contro la teoria in questione. Ritorniamo alla sensazione di paura. Guardata più in dettaglio sembra risolversi in alcune reazioni fisiche. Ora, il problema è se quelle reazioni siano sufficienti a caratterizzare la paura come tale. Un attimo di riflessione fenomenologica mi pare sia sufficiente a mostrare che la riposta debba essere negativa: sono certa di avere provato le stesse sensazioni anche in casi di mero imbarazzo, di fronte a persone che non avevo piacere d’incontrare. E, più in generale, credo che quelle stesse sensazioni potrebbero darsi anche attraverso l’assunzione della pillola giusta, o per un colpo in testa, per un colpo di calore, o in qualunque altro modo. In nessuno di questi casi, però, diremmo che il soggetto ha paura3. Quindi, mi pare che, sebbene non abbia fornito nessun knock-down argument, ci siano numerose considerazioni, alcune più forti di altre, che militano contro l’idea che le emozioni siano identiche a sensazioni. Per i miei scopi, che si risolvono nel voler motivare e tratteggiare una visione alternativa, penso che questo sia sufficiente. 3. Emozioni come giudizi Nella letteratura filosofica contemporanea, l’idea che le emozioni sono 3 È interessante notare come la letteratura sulle basi neuronali delle emozioni faccia confusione su questo punto: affidandosi alla ricostruzione di William James, Antonio DAMASIO, per esempio, (Descartes’ Error, New York, Putnam’s Sons, 1994, tr. it. 19951) ritiene che le emozioni basilari siano innate (cap. 7). Quello che può essere innato, invece, se ho ragione a criticare il modello delle emozioni come sensazioni, è la particolare risposta fisica a certi stimoli, non l’emozione come tale.

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essenzialmente giudizi di valore è stata sostenuta principalmente da Martha Nussbaum nel suo Upheavels of Thought. The Intelligence of Emotions (2001, tradotto infelicemente – visto che rimuove la parte più interessante e dotta del titolo, che è una citazione da Proust “le escrescenze geologiche del pensiero” – con L’intelligenza delle emozioni, 2004). Si tratta di un’idea di ascendenza stoica: per gli stoici, secondo la ricostruzione datane da Nussbaum, le emozioni erano giudizi di valore sempre falsi che, per tale ragione, dovrebbero essere estirpate. Per Nussbaum, invece, possono essere giudizi di valore veri. Pertanto, ma anche per un’estensione di tale analisi ai casi dell’emotività animale e infantile che gli stoici non riconoscevano, la proposta di Nussbaum può dirsi “neostoica”. Anche in questo caso non intendo entrare nei dettagli e darò solo una caratterizzazione elementare di come si articoli questa proposta. A tal fine, farò nuovamente riferimento a come analizzerebbe il nostro esempio guida. La mia paura dello schnauzer nano che mi sta di fronte si risolverebbe in un giudizio di valore: “Questo cane è pericoloso per me”. L’eventuale sensazione che l’accompagnerebbe non potrebbe individuare la paura, dato che, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, le reazioni fisiche tipiche non sono sufficienti a individuare la paura come tale. I vantaggi di questa proposta sono essenzialmente due: (i) permetterebbe facilmente di dare ragione sia del contenuto intenzionale dell’emozione sia di quello rappresentazionale, posto che sarebbero entrambi dati dal giudizio e (ii) permetterebbe di spiegare facilmente l’irrazionalità di quell’emozione, visto che, ceteris paribus, è falso che lo schnauzer di fronte a me è pericoloso. Tuttavia, contro questa proposta credo si debba notare come la formulazione di quel giudizio non sia sufficiente al darsi della paura: potrei formularlo senza perciò avere paura. Si consideri la seguente analogia: da fumatrice occasionale qual sono, ho spesso formulato il giudizio “Questa sigaretta (che sto per accendere) è pericolosa per me”, eppure non ho mai avuto paura né della sigaretta, né del fumarla (anzi, ho sempre provato un certo gusto nel farlo). Ancora, si può notare come, in effetti, la proposta in questione risulti abbastanza implausibile se (i) si vogliono riconoscere emozioni anche a soggetti a– o pre–lingusitici, visto che è difficile attribuire loro giudizi come “Questo cane è pericoloso” 4. È altrettanto implausibile se (ii) si vogliono 4 Ora, si potrebbe sostenere che hanno quei concetti pur non avendo le capacità linguistiche per esprimerli, ma non è un’opzione semplice da sostenere. Ancora, l’impossibilità di attribuire loro tali giudizi condusse gli stoici a negare che avessero emozioni.

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connettere le emozioni alla risposta estetica. Sembra più intuitivo dire che è perché un’opera d’arte provoca in noi certe emozioni che l’apprezziamo (oppure no) e la consideriamo un esempio artistico felice, riuscito (oppure no); piuttosto che dire che il valutarla esteticamente in un certo modo è identico al provare certe emozioni, oppure che il valutarla in un certo modo giustifica il nostro giudizio estetico su di essa. Infine, (iii) la teoria che stiamo considerando ha lo svantaggio di non poter spiegare, almeno non intuitivamente, la tipica fenomenologia passiva delle emozioni: come le sensazioni, ma al contrario dei giudizi, che sono azioni mentali, spesso ponderate, le emozioni ci capitano, ci colpiscono, o, addirittura, ci assalgono. (Si noti per converso che la teoria delle emozioni come sensazioni ha buon gioco a rendere conto di tutti e tre questi aspetti). Ancora una volta, non credo di avere fornito nessun knock-down argument, ma una serie di considerazioni che motivano la cautela nell’accettare la teoria delle emozioni come giudizi e la ricerca di un’alternativa. 4. Emozioni come fenomeni mentali sui generis In definitiva il difetto delle analisi classiche delle emozioni è uguale e simmetrico: entrambe aderiscono al dato iniziale che le emozioni sembrano presentarsi come Emozione =prima facie giudizio di valore + sensazione5

Ma, da un lato, si privilegia la sensazione che accompagna il giudizio di valore; dall’altro, si privilegia il giudizio di valore che è accompagnato dalla sensazione. Le emozioni, quindi, vengono ridotte o a mere sensazioni o a meri giudizi di valore. Cioè si passa da (1) a (2) Emozione = sensazione

oa (3) Emozione = giudizio di valore

Nel primo caso, si perde tutta la componente cognitiva, nel secondo, tutta quella sensibile. 5 Si tratta solo di una caratterizzazione prima facie, posto che, come dirò tra un istante, entrambe queste analisi riducono le emozioni all’uno o all’altro di questi aspetti caratteristici.

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La domanda che dobbiamo porci a questo punto è se si possano tenere insieme queste due componenti. Ovviamente, la prima idea che può venirci in mente è di continuare a aderire a (1), ma sostenere che entrambi i tratti caratteristici della fenomenologia delle emozioni siano costitutivi di quelle6. Le emozioni, quindi, sarebbero giudizi di valore necessariamente accompagnati da sensazioni. Io però credo che questo modello erediti un po’ tutti i problemi dei suoi predecessori. Per esempio, permetterebbe sì di rendere conto del contenuto intenzionale e rappresentazionale dell’emozione, visto che ritiene il giudizio di valore una componente necessaria dell’emozione, ma erediterebbe i problemi che affliggono la teoria secondo la quale le emozioni sono identiche a giudizi di valore: il fatto che non è facile vedere come soggetti privi di linguaggio possono averle; che non spiegherebbe in maniera intuitivamente corretta la relazione tra emozione e risposta artistica; e, infine, che non renderebbe conto della passività delle emozioni. Inoltre, la sensazione che dovrebbe accompagnare necessariamente il giudizio di valore, deve essere una sensazione di paura, perché è ovvio che se fosse invece una sensazione di piacere, non servirebbe a dar conto del tipo d’emozione che stiamo analizzando: dopo tutto c’è chi si eccita di fronte al pericolo (riconosciuto come tale). Ma abbiamo visto come la sensazione in questione in realtà non individui, come tale, la paura, dato che potrebbe esserci senza di quella. In effetti, se giudicassi che il cane di fronte a me è pericoloso, ma il sudore, il tremito, la chiusura dello stomaco, ecc., fossero provocati da un colpo di calore, l’avere quelle reazioni fisiche, in concomitanza con quel giudizio di valore, non sarebbe sufficiente al darsi della paura del cane di fronte a me. Quindi, penso che vi siano considerazioni sufficienti a motivare la scelta di abbandonare (1). Le emozioni non sono, neppure necessariamente, giudizi valoriali più sensazioni. Il che significa ammettere che se le emozioni esistono affatto, sono stati mentali sui generis non riconducibili (o riducibili) ad altro: né a giudizi di valore, né a sensazioni, né alla loro somma. Si noti che ho detto che “se le emozioni esistono affatto”, allora devono 6 Questa, in effetti, sembra la posizione di DAMASIO, cit., per esempio a p. 139, della versione inglese, in cui scrive: “In conclusione, l’emozione è la combinazione di un processo mentale di valutazione, semplice o complesso, e delle risposte disposizionali a quel processo, per lo più verso il corpo stesso, che dà luogo a uno stato fisico emotivo, ma anche verso il cervello stesso (…), che dà luogo a ulteriori cambiamenti mentali” (mia la traduzione e la sottolineatura, i corsivi sono nell’originale).

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essere degli stati mentali sui generis, e non che sono – con un’implicazione d’esistenza – stati mentali sui generis. Si potrebbe, infatti, essere tentati di negare che esistono. Il nome “emozione” sarebbe quindi il nome di una categoria vuota, o riservato a un insieme di fenomeni in realtà non specificabili in maniera coerente, che dovrebbe sparire da una classificazione teoricamente (e scientificamente) adeguata. Non so se le emozioni esistano, come tali, anche se ritengo che appaiono sovente nelle spiegazioni psicologiche e che abbiamo l’impressione fenomenologica che esistano. So però che se anche la possibilità di caratterizzarle come stati mentali sui generis fallisse, questa sarebbe una buona ragione per abbracciare l’eliminativismo nei loro confronti. Vale quindi la pena di esplorare questa possibilità7. Un primo passo per caratterizzarle come stati mentali sui generis consiste nel modellarle non tanto sui giudizi, o le sensazioni, o la loro somma, quanto piuttosto su un’altra classe di stati mentali rispetto cui presentano maggiori analogie. Mi riferisco alle percezioni. In effetti, a ben guardare, le emozioni sono molto più simili a queste ultime che non ai giudizi o alle sensazioni: (i) sono delle affezioni dell’anima e non delle azioni (vs. i giudizi, ma come le percezioni): ci capitano, non siamo noi a formarle deliberatamente; (ii) hanno un contenuto intenzionale, cioè vertono su un oggetto o uno stato di cose (vs. le sensazioni, ma come le percezioni); (iii) hanno un contenuto rappresentazionale, visto che (vs. le sensazioni, ma come le percezioni) possono rappresentare in maniera corretta o scorretta una porzione di mondo: può essere vero oppure no, che, poniamo, il cane che mi sta di fronte è pericoloso. Anche se è importante notare che, nel caso delle emozioni (vs. percezioni), il contenuto rappresentazionale e quello intenzionale non coincidono. Inoltre, è opportuno sottolineare che il contenuto rappresentazionale delle emozioni non è dato da, né è equivalente a, un atto di giudizio: è il modo caratteristico in cui l’emozione in questione rappresenta il suo contenuto intenzionale; (iv) hanno un contenuto fenomenico (vs. i giudizi, probabilmente) visto che, come la percezione, la rappresentazione di una porzione di mondo come, poniamo, pericolosa, ha anche degli aspetti qualitativi caratteristici, in parte variabili da individuo a individuo e da un’occasione a un’altra;8 7 Un’idea siffatta, ma non esplorata affatto nei dettagli, si trova in C. PEACOCKE, The Realm of Reason, Oxford, Oxford University Press, 2004, cap. 8. 8 Magari non a tutti la paura fa sudare le mani, o non a tutti produce un tremito. Op-

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(v) sono particolarmente insensibili alla correzione (vs. i giudizi, ma come le percezioni): così come sapere che le due linee nell’illusione Müller-Lyer hanno uguale lunghezza non fa andar via l’impressione visiva che siano diverse, similmente sapere che il cane che ci sta di fronte non è pericoloso non fa andare via la paura (come chiunque abbia paura dei cani sa benissimo e sarebbe utile che anche i padroni dei cani tenessero in conto prima di profondersi nella loro giaculatoria classica “Il mio cane non fa male a nessuno”). Le emozioni, però, si differenziano dalle percezioni in tre aspetti: (i) come abbiamo visto, per il fatto che il loro contenuto intenzionale e rappresentazionale non coincidono; (ii) per il fatto che il loro oggetto non deve necessariamente darsi effettivamente qui ed ora, o affatto, per provocare l’emozione: posso avere paura al pensiero, al ricordo, nell’immaginare, o nel giudicare che c’era, ci sarà o ci potrebbe essere uno schnauzer nano di fronte a me (o anche un oggetto fittizio); mentre – ovviamente – non posso vedere uno schnauzer nano di fronte a me se non c’è (al limite posso allucinarlo, ma l’allucinazione di quel cane non è la percezione erronea di quel cane); (iii) per il fatto di non essere stati mentali primari. Mi spiego: il contenuto intenzionale di una percezione non dipende dall’avere altri stati mentali, ma solo dall’interazione causale col mondo là fuori. Quello delle emozioni, invece sì. Vale a dire: per avere un’emozione come la paura di un particolare cane, devo vederlo (oppure immaginarlo, o ricordarlo, o giudicare che vi sia, o che vi potrebbe essere, ecc.). Le emozioni, quindi, ereditano il loro contenuto intenzionale da altri stati mentali intenzionali che abbiamo. Forse è proprio per questa concomitanza e dipendenza dell’emozione da altri stati mentali, quanto al suo contenuto intenzionale, che si è pensato di ridurla a questi, oppure a quelle sensazioni che sembrano accompagnarli. Sia come sia, ritenere che invece che le emozioni ereditino il loro contenuto intenzionale da altri stati mentali spiega perché siano passive – in effetti, doppiamente tali – e non attive, pur non avendo sempre bisogno dell’esistenza concreta, qui e ora o affatto, del loro oggetto: esistono non solo in tanto in quanto s’interagisce causalmente col loro oggetto, ma perché il loro oggetpure a volte lo stesso individuo può avere entrambe quelle reazioni, a volte una sola. Però ritengo che almeno una qualche reazione fisica debba averla, nel caso della paura. Ma anche le percezioni sono così: a volte un suono può apparirci acuto però sopportabile, a volte, invece, lo stesso suono, può sembrarci acuto e insopportabile, magari perché siamo particolarmente stanchi e nervosi. E, ovviamente, lo stesso suono può produrre reazioni diverse in persone diverse.

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to ci è sempre dato mediatamente, cioè attraverso una percezione, un ricordo, un’immagine mentale, un giudizio, ecc. Inoltre, rende conto del fatto che le emozioni sono apprese attraverso l’esperienza: è solo perché esperiamo certe situazioni negative o positive – cioè come foriere di dolore o piacere, in senso lato – che sviluppiamo la capacità di provare paura, oppure di provare gioia, ecc., quando le stesse situazioni (o situazioni sufficientemente analoghe) si ripresentano. Questo spiega inoltre come mai non tutti abbiano paura dei cani, dei rettili, o, più in generale, di certe situazioni: se non le abbiamo esperite come foriere di dolore in senso lato, non abbiamo ragione di temerle quando hanno nuovamente luogo. Quindi, se le emozioni esistono come tali sono stati mentali parassitari, come mi piace dire, e sui generis. 4. Alcune conseguenze Vorrei finire esponendo telegraficamente alcune conseguenze della proposta che ho avanzato circa la natura delle emozioni. Emozioni e creature a- o non-linguistiche: nella misura in cui vogliamo riconoscere la capacità d’intrattenere contenuti rappresentazionali anche a soggetti privi di linguaggio, come io faccio nel caso delle percezioni9, penso si possa ritenere che anch’essi provino emozioni, soprattutto quelle basilari10 come la paura che ho descritto qui, o la tristezza, o, forse, la malinconia. Emozioni e linguaggio: molto spesso si sente dire o si legge che il linguaggio dà forma, se non addirittura che crea, le emozioni. Credo che sia una questione empirica e che abbia più probabilità d’essere vera per emozioni complesse e sofisticate, ammesso e non concesso che esistano: tri9 Si vedano i miei I concetti. Teorie ed esercizi, Roma, Carocci, 20062, cap. 6; “The problem of the finer-grained content of experience. A redefinition of its role within the debate between McDowell and non-conceptual theorists”, Dialectica 57 (2003) 1, pp. 57-70; “In difesa del contenuto non-concettuale della percezione”, in P. PARRINI (ed.) Conoscenza e cognizione, Guerini, Milano, 2002, pp. 147-161; “Wright and McDowell on the content of perception and the justification of empirical beliefs”, Lingua e Stile 36 (2001) 1, pp. 3-23. 10 Parlo qui di emozioni basilari e non, sebbene nella letteratura sulle emozioni sia più usuale chiamarle “primarie” e “secondarie”, solo perché ho detto che le emozioni non sono stati mentali primari, nel senso di indipendenti, quanto al loro contenuto intenzionale, da altri stati mentali con contenuto intenzionale, come le percezioni, i ricordi, le immagini mentali e i giudizi.

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stezza, malinconia, ecc., mi sembrano sufficientemente basilari, tant’è vero che possono provarle sia i bambini piccoli sia alcuni animali e non mi è chiaro se l’amore sia un’emozione o piuttosto un sentimento. Che poi in certi lingue si parli, che so, di “saudade” o di “homesickness” e che questi termini non siano (facilmente) traducibili in altre lingue come l’italiano, non mi pare dimostrare che ci sono emozioni molto lontane da quelle basilari, create dalla lingua che si parla: è solo il loro oggetto che non è immediato, cioè sempre di malinconia si tratta, ma rispetto alla propria patria, alle proprie origini, ecc. Tuttavia, come ho detto, per le emozioni basilari non mi pare che siano necessari né il linguaggio, né, forse, i concetti. Pertanto sarei disposta a riconoscerle anche a creature a- o non-linguistiche. Emozioni e cultura: a volte, invece, si sente dire che è la cultura a dar forma o a creare le emozioni. Credo che quello che vi è di culturalmente appreso11 abbia essenzialmente a che vedere con l’espressione delle emozioni, più che con la loro esistenza. Inoltre, non bisogna confondere le situazioni che danno luogo a una risposta emotiva, con la natura stessa e la presenza negli individui di quella stessa emozione: i bambini nordamericani sono tipicamente indifferenti all’idea di parlare in pubblico, ma si emozionano molto all’idea di un contatto fisico (non di natura sessuale). Notoriamente gli anglosassoni sono molto “freddi”, ma hanno dato vita al movimento romantico – insieme allo Sturm und Drang – più importante al mondo e, comunque, sono (spesso) sensibilissimi. Quindi, una volta introdotte queste distinzioni, penso che ci si possa attendere una sostanziale identità emotiva – da un punto di vista qualitativo, s’intende – tra gli esseri umani, anche se ovviamente le situazioni in cui le emozioni si producono e il modo in cui sono espresse può essere molto diverso. Emozioni e arte: il modo in cui propongo d’intendere le emozioni le rende del tutto compatibili con il fatto che fungano da base del giudizio estetico, senza identificarsi con quello. In effetti, il fatto che per me le emozioni siano stati mentali che presentano un certo stato di cose, fornito da un altro stato mentale come per esempio la percezione, in maniera affettivamente connotata, spiega perché certe opere, siano esse artistiche, letterarie o musicali, ci colpiscono e altre no: solo alcune di queste, infatti, sono 11 Come ho detto, credo che le emozioni dipendano dall’apprendimento attraverso l’esperienza. Quindi, in certo senso, molto debole, sono prodotti culturali. Quello che però si vuole dire, quando si parla di dipendenza culturale delle emozioni, è ben altro, cioè l’idea che l’appartenenza a culture diverse, ossia a gruppi umani con usi, costumi, lingue e tradizioni differenti, faccia sì che i soggetti che vi appartengono abbiano emozioni diverse.

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tali che rispondiamo emotivamente ad esse, mentre altre ci lasciano indifferenti. Il giudizio estetico, quindi, può legittimamente fondarsi su queste nostre risposte emotive, senza per questo esserne determinato. Mi spiego: si può giudicare bello sia ciò che rasserena, sia ciò che fa paura; o, più precisamente, si può giudicare bello qualcosa che fa paura (o che rasserena), e non giudicare tale qualcos’altro proprio perché non fa paura (o non rasserena). Ciononostante, il giudizio estetico si basa sulla risposta emotiva attraverso l’applicazione di un principio generale (per esempio, “Se un’opera d’arte fa paura (o rasserena) allora (non) è bella [e, quindi, (non) è riuscita]”. Emozioni ed etica: non credo (contrariamente a NUSSBAUM e a PEACOCKE, cit.) che le emozioni abbiano essenzialmente a che vedere con l’etica. Se ho ragione, infatti, non sono giudizi di valore e a me pare che l’etica abbia essenzialmente a che vedere con tali giudizi. Non sono neppure essenziali per l’etica se si pensa, contrariamente a quanto ritengo, che questa altro non sia che l’espressione delle proprie reazioni soggettive. Come ho detto, le emozioni, per me, non sono sensazioni, benché le sensazioni costituiscano il contenuto fenomenico delle emozioni. Certo, a volte le emozioni possono essere gli antecedenti causali del giudizio etico, ma, in tal caso, non è detto che quest’ultimo sia corretto. Chi ha paura del cane di fronte a sé, potrebbe pensare che sia giusto abbatterlo, se prendesse in considerazione solo la propria emozione. Ma, evidentemente, sbaglierebbe. Né si deve essere così sentimentali da credere che solo il giudizio retto accompagnato dalle emozioni appropriate, o basato causalmente su quelle, sia l’espressione dell’etica. Sono perfettamente convinta che potrebbero (logicamente) darsi esseri privi di emozioni eppure giusti. Certo, la base emotiva può servire in taluni casi a capire meglio come si starebbe se quello che accade o facciamo ad altri succedesse a noi. Tuttavia, non mi pare essenziale. Potrebbe essere semplicemente un tratto contingente della psicologia umana. È una conseguenza di quanto ho detto sin qui che, a mio avviso, vi è una differenza tra giudizio estetico e giudizio etico: mentre il primo deve basarsi sulla risposta emotiva, pur non essendone determinato, come abbiamo visto, il secondo non mi sembra che debba esserlo. Quindi mi è comprensibile l’idea di un soggetto privo d’emozioni ma giusto, ma non di un soggetto privo di emozioni e capace di giudicare bella o brutta un’opera d’arte (o un paesaggio, o la natura in genere). Emozioni e cure dell’anima: un aspetto interessante dell’analisi delle emozioni che ho proposto è che considerandole stati mentali parassitari, provocati dal loro oggetto in quanto dato al soggetto attraverso un altro stato

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mentale (una percezione, un ricordo, un’immagine mentale, ecc.), è facile dar conto di alcune perle di saggezza delle nostre nonne. Per esempio: che il tempo lenisce il dolore per un evento spiacevole perché ne affievolisce il ricordo; che “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”, perché se non si vede qualcuno ogni minuto non c’è l’oggetto il cui darsi percettivamente provoca l’emozione; che un modo per curarsi l’anima ferita da un amore infelice, per esempio, è non pensare alla persona amata e tenersi occupati con altro, ecc. Sono palliativi, si sa, perché fintanto che non si ripara il male subito non si può essere felici. Ma, senza darsi una mano da soli, liberandosi un po’ dalle emozioni negative, è difficile avere lo spazio mentale – prendete l’immagine quasi letteralmente – per riaprirsi alla vita, come chiunque abbia attraversato un dolore sa benissimo. Emozioni e neuroscienze: tipicamente nelle neuroscienze ci si concentra sulle sensazioni provocate da certi stimoli. Come ho avuto modo di sostenere, a mio avviso le emozioni non si riducono alle sensazioni, benché queste siano un aspetto di quelle, cioè il loro contenuto fenomenico (né sono identiche alla somma di giudizio valoriale e sensazione). Se ho ragione, quindi, ben poco degli attuali studi chiarisce la natura fisica delle emozioni propriamente dette, pur avendo notevole rilevanza per la comprensione delle basi neurologiche delle sensazioni. Ma avevo promesso di non parlare di questo argomento e a me piace mantenere la parola data.

ROSSANA DE ANGELIS La categoria timica. Appunti sulla Semiotica delle passioni

Allor distese al legno ambo le mani; per che ‘l maestro accorto lo sospinse, dicendo: «Via costà con li altri cani!» (Dante, Inferno, canto VIII, vv. 31-42)

0. Introduzione Partendo da una riflessione su Hjelmslev iniziata negli anni Sessanta, Algirdas J. Greimas (1917-1992) sviluppa l’idea che si possa descrivere il piano del contenuto dei linguaggi, giungendo all’identificazione di unità minimali che costituiscano la base dei processi di significazione. Questa riflessione lo conduce a occuparsi di testi, piuttosto che di segni, e delle loro strutture immanenti, ossia delle strutture soggiacenti che portano a determinati processi di significazione e producono le strutture semiotiche osservabili. Il piano del contenuto dei linguaggi si mostra, in questo modo, come un sistema stratificato, che va da uno strato più profondo e astratto, identificabile nel famoso quadrato semiotico1, verso un livello superficiale e concreto, che corrisponde alle strutture discorsive. Ciò accade attraverso processi di conversione e di incremento del senso che consentono di passare dalle relazioni categoriali alle relazioni narrative osservabili in superficie. Si arriva, così, al livello della manifestazione, ossia alle strutture testuali specifiche del testo considerato. 1 Il quadrato semiotico è la rappresentazione visiva dell’articolazione logica di una categoria semantica qualunque. Esso costituisce, nella semiotica greimasiana, la struttura elementare della significazione e, poiché parte da una relazione tra almeno due termini, si basa su distinzioni di opposizione che caratterizzano l’asse paradigmatico del linguaggio considerato. Innanzitutto, esso presuppone due tipi di relazioni binarie (A/A, caratterizzate dalla presenza o dall’assenza di un tratto distintivo definito; A/non-A, che manifesta in qualche modo lo stesso tratto distintivo, ma presente due volte in due forme diverse), che si determinano attraverso relazioni di contraddizione, implicazione, complementarità, contrarietà. GREIMAS, COURTÉS (1979, trad. it. 1986, pp. 275-278). I quattro termini che risultano dalla disposizione sul quadrato semiotico sono definiti soltanto come punti di intersezione, ossia come supporti di relazioni.

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Questo è, in sintesi, nella riflessione di Greimas, ciò che viene indicato come percorso generativo del senso2, che si fonda sull’ipotesi per cui il senso può essere colto solo attraverso la sua narrativizzazione. La narratività diventa, allora, il principio regolatore e il criterio d’analisi di tutti i linguaggi e di tutti i discorsi (le lingue storico naturali, i linguaggi visivi, musicali, i testi letterari, ma anche quelli giuridici, scientifici, ecc.). Nell’ultima fase della sua produzione teorica, Greimas ha allargato il campo d’indagine alla sfera del sensibile e alla dimensione del corpo. È per questo motivo che ha applicato i modelli teorici formulati all’analisi delle passioni, pubblicando Semiotica delle passioni. Dagli stati di cose agli stati d’animo (1991), insieme a Jacques Fontanille. Si è così indagato, nella prospettiva aperta, da una parte il ruolo delle emozioni e degli «stati psicologici» nella costruzione del senso e delle strutture di manifestazione; dall’altra, l’efficacia e la coerenza nell’applicazione del proprio modello teorico anche nel campo della percezione. L’analisi del sensibile viene, perciò, integrata al modello narrativo che si esprime nelle forme di articolazione del percorso generativo, narrativizzando anche le passioni. Questa possibilità deriva, però, dall’applicazione di modelli teorici consolidati e coerenti con la riflessione condotta dall’autore. La grammatica narrativa3 e la teoria delle modalità4 rendono conto rispettivamente della dimensione performativa e della dimensione cognitiva degli attori (ossia dei soggetti coinvolti nell’azione narrativizzata). Queste due dimensioni venIl termine percorso implica non soltanto una disposizione lineare e ordinata degli elementi, ma anche una prospettiva dinamica, ossia una progressione da un punto a un altro attraverso istanze intermedie, procedendo da strutture più semplici e astratte a strutture più complesse e concrete. Il percorso generativo conduce dalle strutture semio-narrative, attraverso le strutture discorsive, alle strutture testuali, ossia alla manifestazione più concreta. Esso è una costruzione ideale, secondo Greimas indipendente e anteriore alle lingue naturali (ivi, pp. 157-159). 3 Le strutture semio-narrative, ossia il livello più astratto e iniziale del percorso generativo del senso, si presentano sotto forma di una grammatica semiotica e narrativa che prevede due componenti, sintattica e semantica, e due livelli di profondità: prima una sintassi fondamentale e una semantica fondamentale, a livello profondo; poi una sintassi narrativa e una semantica narrativa, a livello superficiale. Così accade anche per le strutture discorsive, che trasformano il livello superficiale precedente passando attraverso l’istanza di enunciazione, e si distinguono anch’esse in una componente sintattica e una semantica (ivi, p. 165). 4 La teoria delle modalità rinvia direttamente al processo di modalizzazione inteso come la produzione di un enunciato modale che surdetermina un enunciato descrittivo. Infatti, negli studi semiotici condotti da Greimas, le modalità (volere, dovere, potere, sapere) sono considerate come valori che investono l’essere e il fare, lo stato e l’azione, di un soggetto e, dunque, intervengono direttamente nell’organizzazione semiotica del discorso (ivi, pp. 215-216). 2

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gono integrate dalla dimensione patemica che, invece, rende conto delle loro emozioni, tensioni e disposizioni psicologiche. Il nucleo centrale della semiotica delle passioni risiede proprio in questa discorsivizzazione della dimensione patemica, che comporta un’analisi delle passioni così come esse si presentano all’interno di un discorso già compiuto o come potrebbero presentarsi in un discorso. Si svolge velocemente, cioè, nell’analisi semiotica così condotta, l’aspetto aurorale delle disposizioni patemiche, delle affezioni del soggetto in relazione al mondo. Cercheremo, allora, di capire i punti cruciali della semiotica delle passioni che ruotano intorno alla nozione di categoria timica, intesa come fondamento della dimensione patemica, e i due tipi di analisi che da questi presupposti conseguono. 1. La categoria timica Pezzini riassume così la semiotica delle passioni nella premessa al libro di Greimas e Fontanille, Semiotica delle passioni5: sul piano più astratto, di semantica fondamentale, per arrivare a definire il “passionale” si inizia a parlare così di una categoria timica, espressa dall’opposizione euforia/disforia, che può investire e cioè sovradeterminare le altre categorie e che sarebbe dunque all’origine del costituirsi di assiologie, dei campi di valori in cui ci muoviamo a livello semio-narrativo più di superficie, in particolare nell’ambito della grammatica narrativa, dove l’interazione di soggetti e oggetti traduce le attrazioni/repulsioni in desideri, lotte, scambi, competizioni. Il passaggio dalla semantica fondamentale alla semantica narrativa consiste infatti essenzialmente, per Greimas, nella selezione dei valori disponibili e nella loro assunzione da parte degli attanti della sintassi narrativa di superficie: lo “stampo sintattico” in cui si rappresenta questa operazione originariamente è l’enunciato di stato, che definisce soggetti e oggetti sulla base della loro con- o dis- giunzione, e che viene appunto a essere “arricchito” dalle possibili “modalizzazioni dell’essere”, in analogia con quanto previsto dagli enunciati di fare e di trasformazione. Nell’ambito della semiotica discorsiva, infine, si parla di passioni come di “effetti di senso”, di configurazioni e di ruoli patemici, in analogia ai ruoli tematici6.

5 Ci siamo qui soffermati soltanto sullo sviluppo della teoria greimasiana, tralasciando per questo il diverso percorso teorico sviluppato negli anni da Fontanille (come, ad esempio, la semiotica tensiva portata a compimento insieme a Claude Zilberberg). 6 GREIMAS, FONTANILLE (1991, trad. it. 1996, p. XXXIII).

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Poiché ogni semiotica7 è un reticolo relazionale, le strutture elementari che organizzano queste relazioni vengono considerate categorie semantiche: a seconda del piano del linguaggio che servono a costituire, esse sono dette categorie semiche (relative al piano del contenuto) e categorie femiche (relative al piano dell’epressione). Le categorie semiche articolano l’universo semantico, considerato coestensivo a una cultura o a una persona. Esse si differenziano a seconda che le classificazioni semiche abbiano o meno dei corrispettivi nella semiotica del mondo naturale. Ogni categoria semantica può essere assiologizzata, cioè investita di valore, mediante la sovradeterminazione, sul quadrato semiotico che la articola, compiuta dalla categoria timica. La categoria timica corrisponde a criteri di classificazione ben precisi. Essa è una categoria del piano del contenuto che deriva dal senso del termine timìa, intesa come disposizione affettiva di base. «Si tratta di una categoria “primitiva”, detta anche propriocettiva poiché con il suo aiuto si cerca di descrivere, per quanto sommariamente, il modo in cui ogni essere vivente, inscritto in un ambiente e considerato come un sistema di “attrazioni e repulsioni”, “sente” se stesso e reagisce a ciò che lo circonda»8. La categoria timica consente di articolare la dimensione semantica relativa alla propriocettività9, ovvero alla percezione che l’uomo ha del proprio corpo. Dunque, la timìa si pone all’interno di una categoria sovraordinata, in cui si oppongono estracettività e intracettività10, che consente perciò di riclassificare l’insieme delle categorie semiche di un universo semantico. La distinzione tra proprietà estracettive, provenienti dal mondo esterno, e dati intracettivi, che invece non trovano alcuna corrispondenza nel mondo esterno, ma anzi sono presupposti nella percezione dei dati estracettivi, apre alla propriocettività come termine medio tra i ‘due mondi’, esterno e interno. Seguendo lo sviluppo della riflessione greimasiana, non entriamo nel merito di queste distinzioni, ma le accogliamo come passaggi di questo stesso percorso teorico. 7 «Il termine semiotica si adopera in sensi diversi a seconda che designi (A) una grandezza manifesta qualunque, che ci si propone di conoscere; (B) un oggetto di conoscenza, come appare nel corso e in seguito alla sua descrizione, e (C) l’insieme dei mezzi che rendono possibile la sua conoscenza». GREIMAS, COURTÉS (1979, trad. it. 1986, pp. 314). 8 GREIMAS (1983, trad. it. 1984, p. 89). 9 Termine di ispirazione psicologica, rimpiazzato poi proprio dal termine timìa, che ha invece connotazioni psicofisiologiche, come dichiarato da Greimas e Courtés nel Dizionario (GREIMAS, COURTÉS 1979). 10 Anche esterocettività e interocettività.

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La categoria timica si articola a sua volta in euforia e disforia. Greimas sostiene che qualsiasi categoria semantica rappresentata sul quadrato semiotico sia suscettibile di essere assiologizzata, ossia investita di valore, proprio attraverso la categoria timica. Ogni categoria semantica applicata al quadrato semiotico crea, infatti, dei microuniversi semantici, costituiti appunto dalle relazioni tra le stesse categorie. La timìa è, come si è detto, la disposizione di base, ma soprattutto rappresenta per questo, nella riflessione greimasiana, la relazione primitiva dell’essere vivente con le cose e con le persone con cui entra in contatto. Questa attrazione o repulsione di base può denominarsi anche diversamente, cioè forìa, che si articola appunto in euforia (attrazione, dunque movimento di avvicinamento) e disforia (repulsione, dunque movimento di allontanamento). L’euforia è il termine positivo della categoria timica che serve a valorizzare positivamente i microuniversi semantici trasformandoli appunto in assiologie11. Essa si oppone quindi alla disforia, che valorizza negativamente le categorie semantiche. La stessa categoria timica comporta anche un termine neutro, aforia. Allora, attraverso la categoria timica avviene la valorizzazione positiva (euforica) o negativa (disforica) di ogni altra categoria semantica, compresa nella struttura elementare della significazione, ossia nel quadrato semiotico. La categoria timica connota come euforica una deissi12 (positiva) del quadrato semiotico e come disforica la deissi (negativa) opposta, provocando appunto la suddetta valorizzazione positiva o negativa di ciascuno dei termini del quadrato semiotico. Qualsiasi categoria semantica, astratta o concreta, è suscettibile anche di ulteriori specificazioni: queste dipendono, infatti, dalla relazione con i diversi contesti con cui si trovano in relazione. In base all’azione di valorizzazione compiuta dalla categoria timica possono distinguersi, infine, passioni euforiche (gioia, speranza) e passioni disforiche (verNella semiotica greimasiana si designa con il nome di assiologia il modo di esistenza paradigmatico dei valori, in opposizione alla ideologia che designa il loro ordinamento sintagmatico. GREIMAS, COURTÉS (1979, trad. it. 1986, p. 39). 12 La deissi è una delle dimensioni fondamentali del quadrato semiotico che unisce, attraverso le relazioni di implicazione, uno dei termini dell’asse dei contrari con il contraddittorio dell’altro termine. Si distinguono, così, due deissi: l’una (che parte dal primo termine – positivo – dell’asse dei contrari e si mette in relazione al contraddittorio del termine negativo) è detta deissi positiva; l’altra (che parte dal termine negativo dell’asse dei contrari e si mette in relazione al contraddittorio del termine positivo) è detta deissi negativa, ma i termini positivo e negativo in questo caso non implicano alcuna attribuzione di valore. Questo avviene soltanto attraverso la proiezione sul quadrato semiotico della categoria timica, che sovradetermina le categorie semantiche già messe in relazione (ivi, p. 95). 11

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gogna, paura), così come passioni che non sono né prevalentemente euforiche né disforiche (indifferenza), ma anche passioni altalenanti, ossia euforiche e disforiche a seconda dei momenti e delle situazioni (amore). Quindi, in questa prospettiva, ogni passione si caratterizza innanzitutto come disposizione nei confronti del mondo, e soltanto in un secondo momento si concretizza nelle strutture discorsive da cui riceve particolari connotazioni culturali. 1.1. Dalle assiologie… Come scrive Pezzini nella premessa a Semiotica delle passioni, la timìa sembra ricoprire però non più soltanto la percezione, il “sentire” proprio del corpo. (…) I termini investiti dalla categoria assiologica si trasformano in tal modo da valori in senso linguistico, descrittivo, in valori in senso appunto assiologico. Si tratta di valori allo stato virtuale: perché essi si attualizzino, diventino cioè “valori per qualcuno”, è necessaria la loro conversione al livello superficiale della grammatica narrativa, che ha appunto una rappresentazione antropomorfa. E poiché a livello profondo il valore assiologico è costituito da due elementi, un termine semico (o valore descrittivo, costitutivo delle tassonomie13) sovradeterminato da un termine timico, questi due elementi andranno distinti anche a livello più superficiale. Si dice pertanto che i termini semici sono convertiti quando sono investiti nelle unità sintattiche denominate Oggetti, i quali a loro volta sono legati alle unità sintattiche Soggetti da una relazione di giunzione (disgiunzione o congiunzione): a questo punto i valori possono essere detti iscritti in un enunciato di stato14.

Ecco come la valorizzazione compiuta dalla categoria timica passa progressivamente da un livello semantico profondo a un livello più superficiale. Facciamo un esempio simile a tanti altri reperibili in Semiotica delle passioni: se in un testo si racconta di una bambina che desidera una bambola, e che lotta per poterla ottenere, a livello profondo il valore selezionato per la bambola, tra gli altri possibili, può essere /rara bellezza/; a livello superficiale questo stesso valore può essere investito nell’oggetto (la bambola) e trovarsi con il soggetto del desiderio (la bambina) in relazione di disgiunzione (la bambina non possiede la bambola). L’enunciato di stato 13 Le tassonomie semiche sono gerarchie costruite non attraverso la classificazione lessematica del mondo, come accade invece per le tassonomie lessicali, ma attraverso una rete di relazioni semiche (o tratti distintivi) soggiacente alla manifestazione linguistica considerata (ivi, p. 355). 14 GREIMAS, FONTANILLE (1991, trad. it. 1996, pp. XXVII-XXVIII).

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(che attesta la disgiunzione tra soggetto e oggetto) trascrive e sintetizza questa relazione. La conversione di valori considerati dal punto di vista timico (ossia il fatto che il valore /rara bellezza/ sia sovradeterminato da una forma di /euforia/, ossia una valorizzazione che deriva dall’applicazione della categoria timica per cui il soggetto è teso verso l’oggetto, portato a un movimento di avvicinamento ad esso) consente a Greimas di reinterpretare le modalità (volere, sapere, potere, dovere), che accompagnano le articolazioni della grammatica narrativa reggendo le relazioni fra soggetti e oggetti, come il risultato della riarticolazione dello spazio timico profondo in uno spazio modale più superficiale. lo spazio timico, che a livello di strutture astratte è considerato rappresentare le manifestazioni elementari dell’essere vivente in relazione con il suo ambiente (cf. /animato/), a livello più superficiale, antropomorfo, del percorso generativo trova la sua corrispondenza nello spazio modale (cf. /umano/). (…) Si dirà che la conversione di valori non solo si fa carico di un termine semico selezionato all’interno del quadrato e inscritto nell’oggetto in quanto valore, ma comporta anche la selezione di un termine timico, che dev’essere investito nella relazione che lega il soggetto all’oggetto. La relazione tra il soggetto e l’oggetto che definisce il soggetto in quanto esistente semioticamente si trova così dotata di un “surplus di senso”, e l’essere del soggetto ne è modalizzato in modo particolare15.

Dunque, le categorie modali articolate a partire dai termini volere, dovere, potere, sapere corrispondono alla più profonda categoria timica, ma a un livello superiore. Il termine timico euforia, ma anche disforia, può dunque essere convertito nelle diverse modalità. Ciò che resta di difficile comprensione sono, però, le procedure di questa conversione. 1.2. … alle modalizzazioni In base al tipo di relazione costitutiva degli enunciati elementari di fare e di stato16, che viene rivista dalla modalizzazione, Greimas distingue fra due tipi 15 GREIMAS

(1983, trad. it. 1984, p. 91). Nella semiotica greimasiana sono riconosciuti due tipi di enunciati elementari: gli enunciati di stato, in cui i due termini costituenti, ossia il soggetto e l’oggetto, si trovano tra loro in relazione di con- o dis- giunzione (poiché la categoria di giunzione si articola anch’essa in due termini contraddittori); gli enunciati di fare, invece, rendono conto del passaggio da uno stato a un altro. I due termini soggetto e oggetto sono riconosciuti in base alle loro posizioni reciproche, e a seconda che si trovino all’interno di un enunciato di stato o 16

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di modalizzazione che costruiscono due classi di modalità: le modalità del fare, che comprendono le «relazioni intenzionali», e le modalità di stato, che comprendono le «relazioni esistenziali». Con- e dis- giunzione non costituiscono momenti statici della discorsivizzazione, ma sono il luogo in cui accade qualcosa, che non si riconosce né in una dimensione propriamente pragmatica, né in una dimensione esclusivamente cognitiva, ma caratterizzano quella dimensione eccedente la narrazione tradizionale, ossia la dimensione patemica. Le modalizzazioni del fare sono modificazioni dello statuto del soggetto del fare. Per cui il soggetto del fare sarà caratterizzato da una serie di modalità che lo riguardano e che costituiscono ciò che Greimas chiama la sua competenza modale. Le modalizzazioni del soggetto di fare investono di rimando l’oggetto di valore17. Entrambi si interdefiniscono attraverso le relazioni di giunzione che li legano, perciò costituiscono e determinano l’esistenza modale del soggetto di stato. Infatti, il soggetto di fare si presenta come un agente che raccoglie tutte le potenzialità del fare; il soggetto di stato appare, invece, come un paziente, ossia come colui che riceve le sollecitazioni del mondo, inscritte negli oggetti che lo circondano. È per questo che le modalizzazioni del soggetto del fare, che si ripercuotono a loro volta sull’oggetto di valore, determinano l’esistenza del soggetto di stato. La nozione di competenza modale copre, infatti, lo iato tra il soggetto e il suo fare. Nella riflessione di Greimas le modalità possono distribuirsi diversamente all’interno degli enunciati narrativi in cui agiscono. Esse possono, infatti, concernere sia il soggetto che l’oggetto, e la loro proiezione sul quadrato semiotico consente di individuare forme di loro compatibilità o incompatibilità18. Greimas distingue tre diverse serie di modalizzazioni: 1quelle dell’enunciato, attraverso la mediazione del predicato; 2- quelle del soggetto del fare; 3- quelle dell’oggetto, che si ripercuotono sul soggetto di stato, chiamate modalizzazioni dell’essere. Questi dispositivi modali consentono una specie di calcolo delle modalità che mostrano le diverse “forze” e le diverse competenze dei soggetti in relazione agli oggetti, a loro volta modalizzati, e ne favoriscono o impediscono la circolazione. La “circodi fare sono detti rispettivamente soggetto/oggetto di stato (di fare). GREIMAS, COURTÉS (1979, trad. it. 1986, p. 124). 17 L’oggetto è definito oggetto di valore poiché esso è il luogo di investimento dei valori (o delle determinazioni) con i quali il soggetto è congiunto o disgiunto (ivi, pp. 238-239). 18 Cf. GREIMAS (1976).

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lazione degli oggetti” è l’espressione metaforica con cui Greimas parla in termini di forze della relazione tra soggetto e oggetto in cui si costruisce la dimensione patemica. 2. Dal livello profondo alle strutture discorsive A livello discorsivo, quell’investimento timico delle categorie che avviene a livello profondo, per tradursi poi in vere e proprie strutture discorsive attraverso la grammatica narrativa, si dispone in configurazioni (ossia microracconti) e ruoli patemici. Il ruolo patemico, che riguarda colui che agisce, concerne l’essere del soggetto, il suo “stato”. Il ruolo patemico è funzione, a livello superficiale, dell’investimento timico a livello profondo. Esso appare come una organizzazione gerarchica di modalità, che si dispiega, da un punto di vista sintagmatico, nelle strutture discorsive sotto forma di configurazioni (dette “patemi”). Dunque, a livello delle strutture discorsive si parla delle passioni come “effetti di senso”, che si riconoscono proprio nelle configurazioni passionali e nei ruoli patemici. Ciò consente ai soggetti dell’azione di essere allegri, tristi, felici, collerici, ecc. È necessario sottolineare come in questa prospettiva la dimensione patemica diventi la componente presupposta e fondamentale di ogni tipo di discorso, ed è presente in ogni tipo di discorso proprio perché precede logicamente la costituzione del discorso stesso. La passione, anzi, sotto forma di tensività forica (ossia, quella tensione primitiva verso cose e persone), precede logicamente innanzitutto ogni forma di categorizzazione, contribuendo alla sua generazione. 3. Due tipi di analisi L’analisi semiotica delle passioni si sviluppa in una duplice direzione: da una parte e innanzitutto, l’analisi lessematica, ossia lo smembramento dei lessemi alla ricerca dei percorsi narrativi latenti; dall’altra, l’analisi di testi, in cui le passioni si trovano già inserite in un discorso e dunque imbrigliate in percorsi narrativi compiuti. Ciò consente di consolidare la metodologia analitica utilizzata per identificare le passioni, apparentemente in modo indipendente dalle connotazioni “sociolettale e idiolettale”, ossia al di là delle specifiche codificazioni culturali e individuali (come, ad esempio, le “moralizzazioni”), ma in ogni caso sempre inserite all’interno del sistema costrui-

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to dagli enunciati elementari. Quindi, l’analisi della dimensione patemica non potrà mai essere disgiunta dalla codificazione culturale operata innanzitutto dalle lingue storico-naturali, proprio perché passa attraverso il modo in cui le passioni si dicono. 3.1. Analisi lessematica Secondo un punto particolare della teoria hjelmsleviana, le definizioni non sono altro che espansioni di denominazioni, per questo sostituibili le une alle altre. L’applicazione di questo principio permette di individuare un buon uso dei dizionari e, più in generale, del livello lessicale delle lingue naturali, in vista di esplorazioni semantiche miranti a meglio comprendere il loro funzionamento discorsivo. Dato che le definizioni dei dizionari d’uso corrente non sempre sono costruite in termini rigorosi, si impongono alcune necessarie precauzioni. Per questo motivo si è spesso portati a completare questo approccio metodologico con l’introduzione di elementi di analisi semica e con la riformulazione dei segmenti definitori dei dizionari in termini di strutture attanziali e narrative. In breve, inscrivendo lo studio lessicale nel quadro metodologico ed epistemologico più generale19.

Greimas intraprende innanzitutto un’analisi lessematica delle passioni. Supponendo che i lessemi siano delle condensazioni che racchiudono strutture narrative complesse, Greimas prende come oggetto di analisi una passione lessicalizzata, come, ad esempio, lo studio esemplare sulla collera20, e servendosi delle definizioni dizionariali la analizza “smontando” il lessema e scoprendo i percorsi narrativi latenti e possibili. Ciò che deriva dall’analisi è la rappresentazione della collera, o di qualsiasi altra passione lessicalizzata, come un lessema che può coprire una sequenza discorsiva costituita dal succedersi di situazioni statiche e azioni (le possibili “storie” di un soggetto affetto da quella certa passione). Il punto di vista da cui si compie l’analisi è, perciò, sintagmatico e sintattico. Per passioni complesse, proprio come la collera, si analizza il testo che deriva dall’insieme delle definizioni di quella passione fornite dal dizionario, scomponendole in una sequenza discorsiva costituita di stati e di fare, in cui si isolano unità sintagmatiche. Il lessema, scomposto in unità sintagmatiche, conduce alla ricostruzione di una configurazione passionale, un microracconto che rappresenta la definizione della passione-lessema analizzata. 19 20

Cf. GREIMAS (1991). Cf. GREIMAS (1981).

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Le definizioni dizionariali della collera sembrano nascondere una sequenza narrativa che Greimas esplicita come: frustrazione → scontento → aggressività. Questa sequenza di disposizioni patemiche sfocia poi nell’azione. Intervengono nella sequenza narrativa anche la delusione e l’attesa. Infatti, la collera nascerebbe anche dalla delusione per una attesa non soddisfatta. Visto che la passionalità caratterizza le relazioni intersoggettive21 in cui sono intessute le strutture narrative, i percorsi narrativi che si scoprono latenti nelle passioni rivelano queste stesse relazioni22. Nonostante l’analisi condotta da Greimas sia rigorosa da un punto di vista metodologico, dettagliata e complessa, essa però consente l’analisi delle passioni solo in quanto narrativizzabili. Al di fuori dell’orizzonte narrativo non è, però, possibile svolgere alcun tipo di analisi, proprio perché la nozione di narratività è a fondamento della semiotica greimasiana. 3.2. Analisi testuale Lo stato patemico, come Greimas afferma alla fine dell’analisi della nostalgia, è «la sovrapposizione sincronica e il sincretismo dell’insieme dei capovolgimenti patemici, tramite una serie di presupposizioni, costitutivi di un “a monte” generativo»23. L’analisi delle passioni, che vedono il loro momento aurorale con la categoria timica, si compie, infine, come analisi testuale. Le passioni vengono, perciò, analizzate nel quadro teorico del percorso generativo, basato sulla nozione di narratività. Secondo Greimas, è nel livello più profondo delle strutture semio-narrative che si generano le passioni, a partire da disposizioni fisiche che producono attrazione o repulsione nei con21

Sull’intersoggettività e la dialogicità proprie della dimensione patemica, cf. GAMBA-

RARA (2001). 22 L’analisi della collera implica che un soggetto di stato innanzitutto ripone fiducia nei confronti di un soggetto del fare (che può essere un attore diverso o identico). Se il soggetto del fare viene meno alla fiducia che il soggetto di stato ha riposto in lui, allora l’insoddisfazione che ne consegue può portare all’esplosione della collera. Questa sequenza narrativa che identifica la configurazione passionale (che, come si può notare, rimane sempre all’interno delle strutture di un discorso già fatto o potenziale) si arricchisce attraverso il riferimento ad un insieme di termini collegati all’oggetto dell’analisi: in questo caso, ostilità, rancore, offesa, vendetta, ecc. L’analisi lessematica di queste ulteriori passioni lessicalizzate consente di chiarire maggiormente l’analisi della collera con cui si trovano in relazione. Cf. GREIMAS (1981). 23 GREIMAS (1991), in FABBRI, MARRONE (2001, p. 235).

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fronti di soggetti e oggetti, ossia del mondo (come abbiamo visto). La stessa dimensione patemica, però, si dispiega attraverso le strutture discorsive. Dunque, in questa prospettiva, le passioni sono analizzabili soltanto attraverso i testi. Greimas analizza precisamente testi letterari (molti sono gli esempi tratti dalla Recherche di Proust), ma gli studi semiotici contemporanei sulle passioni prendono come oggetto anche testi diversi (fumetti, film, pubblicità, ecc.), come testimoniano le pubblicazioni più recenti. Due tendenze si affermano, infatti, a partire dalla semiotica delle passioni: da un lato, l’analisi dei testi; dall’altro, la precisazione dei concetti teorici che costituiscono gli strumenti dell’analisi e ne sorreggono la metodologia. Il rapporto di questi due tipi di analisi è di reciproca influenza: non si elaborano nozioni teoriche per poi applicarle all’analisi dei testi, né si estrapolano generalizzazioni direttamente dalle superfici dei testi, ma si guarda ai testi cercando di individuare strutture più astratte, ossia processi, riconosciuti come generalizzabili, e insieme strumenti teorici per una più adeguata analisi testuale. Soltanto con questo continuo interscambio la semiotica delle passioni impedisce la propria cristallizzazione o trasformazione in tassonomie e sistemi rigidi, come sostengono Fabbri e Sbisà24. 4. Conclusioni La difficoltà di comprendere e spiegare singoli termini all’interno del discorso sulle passioni condotto da Greimas consiste nell’impossibilità di scindere e considerare questi stessi termini in modo isolato. Coerentemente alla considerazione delle categorie semantiche come determinazioni prodotte esclusivamente dal loro essere in relazione, i termini di categoria timica, foria, quindi euforia/disforia, non possono in alcun modo essere scissi dal reticolo di relazioni che essi intrattengono con gli altri termini del discorso greimasiano. Da qui la necessità di esplicitare e sciogliere ogni termine incontrato soltanto per meglio comprendere la categoria timica, ossia quell’origine somatica su cui poggia l’intera semiotica delle passioni. Il ricorso continuo al Dizionario ragionato della teoria del linguaggio di Greimas e Courtés (1979), in cui si coglie il senso della semiotica di Greimas intesa come metalinguaggio, ha consentito di dipanare (parzialmente) la fitta rete di termini in cui quello di categoria timica, come ogni altro, si trova imbrigliato. I punti cruciali della semiotica delle passioni si constatano nel confronto 24

Cf. FABBRI, SBISÀ (1985).

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con le analisi condotte sui più diversi oggetti. A proposito dell’analisi lessematica della nostalgia, Greimas sostiene: l’esplicitazione di dati lessicali appare immediatamente produttiva, per la semplice ragione che il livello lessematico del linguaggio si presenta come una condensazione che ad ogni momento sottende dei discorsi in espansione. Le manchevolezze delle definizioni offerte dai dizionari correnti producono incertezze che per il momento solo i modelli narrativi della semiotica sembrano capaci di rettificare. Per queste ragioni il tipo di descrizione che abbiamo praticato, se anche apre la via alla comprensione della “nostalgia alla francese”, forse non ci autorizza a quelle generalizzazioni che pure auspichiamo25.

La semiotica delle passioni si scontra, infatti, con possibili accuse di relativismo, dovute proprio al ricorso alle lingue storico-naturali come campo di verifica della metodologia analitica e dei suoi stessi risultati. Inoltre, la semiotica contemporanea che deriva da questo stesso paradigma teorico si è sviluppata attraverso l’analisi dei fenomeni sociali e culturali «non solo contribuendo in prima persona alla costruzione di una narratologia coerente ed efficace, ma addirittura proponendo la nozione di narratività come ipotesi interpretativa dei sistemi culturali e ideologici più profondi, supposti per questo essere quasi universali»26. Da qui si origina l’idea che le strutture narrative contribuiscano all’articolazione semantica soggiacente dei testi e dei discorsi, ma anche delle pratiche sociali concrete e delle esperienze vissute. Si vedano, come esempi di questo sviluppo applicativo della semiotica contemporanea, gli attuali studi semiotici sulle passioni27. Tutti testimoniano la costante applicazione di metodologie assodate agli oggetti testuali più diversi. Proprio nel nome della narratività, ogni oggetto testuale presenta, infatti, anche una dimensione patemica che può essere perciò analizzata. Una certa semiotica contemporanea, che ha fondato le proprie basi sulle teorie greimasiane, spesso trascura, però, la riflessione propriamente teorica sui termini coinvolti dalla semiotica delle passioni, lasciando, invece, ampio spazio all’analisi. Questa stessa riflessione è, invece, portata avanti dai filosofi del linguaggio, mentre l’orientamento filosofico si è indebolito in molta semiotica contemporanea.

GREIMAS (1991), in FABBRI, MARRONE (2001, p. 236). MARRONE (2007), in MARRONE, DUSI, LO FEUDO (2007, p. 7). 27 Cf. l’attuale riflessione semiotica italiana negli articoli pubblicati su E/C, rivista online ufficiale dell’Aiss, Associazione italiana di studi semiotici. 25 26

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MARGHERITA DI MARIANO Per una storia naturale delle emozioni. Note su Wittgenstein Soltanto all’interno di certe manifestazioni normali della vita si dà una manifestazione del dolore. Soltanto all’interno di manifestazioni della vita di portata più vasta c’è modo di esprimere la tristezza, o l’affetto. E così via (BPP I § 151). Il concetto di dolore è appunto incorporato nella nostra vita in un determinato modo. È caratterizzato da contesti (Zusammenhänge) ben determinati. Così come al gioco degli scacchi è dato muovere il re solo in un determinato contesto. Non si può liberare la mossa da tale contesto (Zusammenhang). – Perché al concetto corrisponde una tecnica. (L’occhio sorride solamente in un volto umano). [BPP II 150; PU I § 583].

L’intento del presente lavoro è quello di interrogarsi sul rapporto tra sensibilità, intesa come facoltà di provare sensazioni, sentimenti, desideri, e linguaggio, inteso come insieme di giochi linguistici1. Più precisamente si cercherà di comprendere la natura peculiare che tale indissolubile rapporto assume all’interno dei fenomeni e dei comportamenti umani alla luce del pensiero di Wittgenstein ed in particolar modo alla luce del suo concetto di storia naturale (Naturgeschichte)2. 1

La nozione metodologica di Sprachspiel, elaborata da Wittgenstein a partire dagli anni trenta (BrB, BT), ha lo scopo di evidenziare le diverse funzioni assolte dalla lingua, intesa come forma di prassi connessa con le reazioni primitive degli uomini: «qui la parola ‘gioco linguistico’ (Sprachspiel) deve mettere in evidenza il fatto che parlare una lingua fa parte di un’attività, o di una forma di vita (Lebensform)» PU §23; LC, p. 53. Su tale nozione cf. ad esempio ANDRONICO (1997); BLACK (1988); PERISSINOTTO (2000). 2 La nozione metodologica di storia naturale assume una funzione essenziale nella concezione wittgensteiniana del linguaggio ed è emblematicamente significativa dell’indissolubile rapporto tra natura e cultura nella forma di vita umana; cf. PU I § 25, § 415; PU II, xii; BPP I §§ 46-48, § 950; BPP II § 15, § 18. Cf. inoltre ANDRONICO (1997), BOUVERESSE (1975); CAVELL (1979), ID. (2000); MCDOWELL (1999, pp. 84-115). Bollettino filosofico 24 (2008): 101-117

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Al riguardo, la prima domanda che ci si dovrà porre nell’affrontare il tema del rapporto tra sensibilità e linguaggio è se essi abbiano per davvero una realtà ontologicamente diversa; se, in altri termini, il linguaggio, quale fenomeno sociale, si limiti a governare la sensibilità, realtà fenomenica ad esso preesistente ed indipendente, ovvero se il linguaggio, originariamente intrecciato alla sensibilità e alle altre facoltà umane, modifichi e riorganizzi anche quest’ultima capacità naturale. Tale questione è resa poi particolarmente complessa dal fatto che, se da una parte vi sono sensazioni e emozioni, le quali in quanto modificazioni ed espressioni di ogni corpo sensibile sembrano essere autonome e indipendenti dalla padronanza di una lingua, dall’altra vi sono, per converso, sensazioni ed emozioni che non potrebbero né esprimersi né essere sentite senza il linguaggio. Si pensi da un lato al fatto che gli animali provano emozioni senza parlare e che i computer, al contrario, riescono a “padroneggiare” una lingua senza provare emozioni, e dall’altro invece al legame indissolubile tra emozioni complesse, come il sentimento della speranza, ed il possesso del linguaggio3. È stato in particolare merito di Wittgenstein aver suggerito come per comprendere tale complesso rapporto tra sensibilità e linguaggio sia necessario, da una parte, distinguere tra due diverse tipologie di sensazioni o emozioni, quelle non linguistiche e quelle linguistiche4, e, dall’altra, mostrare come in realtà il linguaggio sia necessariamente connesso nella forma di vita umana con entrambe le tipologie di sensazioni ed emozioni. Seguendo le sue argomentazioni ci si rende infatti conto di come anche le sensazioni primitive5 siano riarticolate, e quasi modificate, nel momento in cui vengono utilizzate all’interno dei giochi linguistici umani; tali sensazio3 Sulla connessione tra le emozioni umane (come la speranza, la tristezza, il timore) e il linguaggio v. ad esempio BPP I §§ 14-19, § 15, § 836; BPP II § 29, §§ 153-154 e § 659; LW I § 365; PU II, I, p. 229. 4 Nelle BPP Wittgenstein, agevolato dalla varietà di termini impiegati nella lingua tedesca per riferirsi ai fatti psicologici, distingue e cerca di cogliere le somiglianze e le sottili differenze tra impressione (Eindruck), sensazione (Empfindung; Körpergefühl), emozione (Gefühl; Gemütsbewegungen) e sentimento (Gefühl), descrivendo i diversi gradi di sensibilità, quella primitiva e quella che implica la padronanza di una tecnica; cf. BPP I § 125, §§ 150151, § 449, § 836; BPP II § 63, §§ 133-135, §§ 148-149; PU § 256, PU II, XI, p. 274. Sul tema ‘percezione e linguaggio’ in Wittgenstein cf. CASATI (1997); FORTUNA (2002); VIRNO (2003, in particolare pp. 143-184). Sull’importanza della distinzione tra sensazioni linguistiche e non linguistiche cf. LO PIPARO (2003). 5 Cf. BPP I § 836; BPP II § 63; PU II, p. 229. Sul concetto di ‘primitivo’ cf. BPP I § 93, § 131; UG § 402, § 475; UG, p. 23; PU II, p. 285.

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ni, in altri termini, sembrano trasformarsi attraverso il linguaggio in nuovi comportamenti6. Il bambino che impara la prima espressione verbale primitiva del proprio dolore – e che poi comincia a raccontare un dolore passato – un bel giorno può raccontare: «Quando ho un dolore viene il medico». In questo processo di apprendimento la parola ‘dolore’ ha cambiato significato? – Sì; ha cambiato impiego. Ma la parola nell’espressione primitiva e nella proposizione non si riferisce alla stessa cosa, e cioè alla stessa sensazione? Certo; ma non alla stessa tecnica (LW I §899).

L’apprendimento della lingua, aumentando le possibilità di espressione delle sensazioni, delle emozioni e delle pulsioni umane, determina non soltanto un cambiamento del modo di pensare a tali fenomeni, ma anche del modo di agire in presenza delle loro espressioni (BGM V § 15; BPP II 727). In tal senso, il concetto di ‘dolore’, essendo incorporato nella vita umana attraverso il linguaggio, inteso come una tecnica che consente di articolare diversamente la stessa sensazione (PU I § 384, § 583)7, assumerà in essa un significato diverso e nuovo rispetto a quello che può avere in una forma di vita non linguistica (o a quello che potrebbe avere nella ‘tribù senz’anima’ immaginata da Wittgenstein, in cui i bambini vengono addestrati a non esprimere né fisicamente né verbalmente il dolore)8. Al fine di render conto dell’indissolubile legame che connette il linguaggio ad ogni forma di sensibilità umana, occorre dunque descrivere (e immaginare) i fatti che appartengono alla storia naturale degli uomini, ovvero quei fatti che caratterizzano la natura umana e segnatamente la natura linguistica. Soltanto attraverso tale metodo è, infatti, possibile vedere in che modo il linguaggio si interponga, ad esempio, tra emozione e sua espressione corporea, e come l’emozione, a sua volta, si mostri nei giochi linguistici. Ed è proprio attraverso le rappresentazioni di tali fatti che Wittgenstein è riuscito, da una parte, a mettere in luce i limiti e le difficoltà che stavano alla base delle ipotesi sostenute all’interno del dibattito tra psicologismo e antipsicologismo (o tra mentalismo e comportamentismo) della prima metà del ‘9009 e, dall’altra, a delineare un’immagine complesCf. ad esempio BPP I § 142, § 151, § 165, § 910; BGM V § 15; LW 1 § 874. Attraverso l’uso della lingua l’uomo può infatti staccarsi dall’immediatezza e parlare non solo di ciò che accade qui ed ora, ma anche di ciò che è solo possibile, cf. DE MAURO (1999). 8 Cf. BPP I § 662; BPP II §§ 706-709. 9 Degli esponenti di questo dibattito Wittgenstein cita da una parte Frege e Husserl, 6 7

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sa, ma unitaria, della natura umana ridefinita a partire dal linguaggio, inteso come suo carattere ontologico distintivo. 2. Coerentemente con il pensiero che permea la sua intera ricerca, ovvero quello dell’infondabilità e dell’intrascendibilità del linguaggio concepito come “ciò da cui è impossibile prendere le distanze”10, Wittgenstein non tratta il tema della relazione tra sensibilità (percezione, sensazione ecc.) e linguaggio dal punto di vista del loro fondamento prelinguistico (o extralinguistico). Egli piuttosto, alla luce della sua idea del linguaggio come “istinto”11, tratta del concetto di sensibilità dal punto di vista della sua manifestazione (Äußerung, Ausdruck) attraverso il linguaggio, vale a dire mostrandone la necessaria relazione con la padronanza di una lingua12. Infatti, come Frege (1918-1919) e come alcuni esponenti della corrente fenomenologico-esistenzialista della prima metà del ’90013, Wittgenstein ritiene che per rispondere alla domanda sulla natura delle emozioni, e più in generale sulla natura degli stati mentali (interni), non siano sufficienti le spiegazioni psicologiche o neurofisiologiche che riconducono tali fatti ai loro correlati fisici, ma che sia invece necessario spostarsi sul terreno del significato14. Tuttavia spostarsi sul terreno del significato non vuol dire per il filosofo abbandonare il mondo dei fatti, perché occuparsi del significato di un’emozione significa in realtà occuparsi della natura stessa dell’emozione15. L’intento è piuttosto quello di dimostrare che il linguaggio caratterizza ogni aspetto della vita umana. Non soltanto perché senza il linguaggio non potrebbero esistere quei sentimenti propriamente umani, come la speranza, la malinconia o il sentimento del bene, ma anche perché esso con la sua presenza dall’altra James, Köhler; il cuore della sua critica al mentalismo e all’idea di un mondo privato (interno) delle rappresentazioni (Vorstellungen) è il tema dell’impossibilità di un linguaggio privato, connesso al problema del seguire una regola (PU §§ 135-244). Il suo antimentalismo tuttavia non assume la forma del comportamentismo, come tiene a precisare lo stesso Wittgenstein in alcune osservazioni: PU §§ 307-309. Al riguardo cf. CASATI (1997), CIMATTI (2007), JOHNSTON (1998). 10 BT; T. 5.6. Sui limiti del linguaggio e sul mistico cf. HADOT (2006). 11 UG § 475; VB, p. 67; T. 4.002. 12 Cf. BPP II §§ 18-19, § 284; BFG, p.21. 13 Sul dibattito tra psicologismo e antipsicologismo cf. DE CAROLIS (2005). 14 Cf. BPP II §§ 903-906; Z §§ 608-611. 15 «Infatti, nella misura in cui, nella mia domanda, si parla della parola ‘rappresentazione mentale’, viene anche messa in questione l’essenza della rappresentazione mentale», PU § 370.

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“riplasma e organizza le attività bio-cognitive non linguistiche che l’uomo condivide con gli altri animali”16, come provare piacere e dolore o farsi rappresentazioni. Sul farsi rappresentazioni (immaginare), ad esempio, nelle Note sul ‘Ramo d’oro’ di Frazer si legge: se riteniamo ovvio che l’uomo si diletta con la propria fantasia, teniamo presente che questa fantasia non è un dipinto o un modello plastico, ma è una formazione complicata di costituenti eterogenei: parole e immagini. […]. La cattiveria di un uomo può ripugnare tanto nell’immagine dipinta quanto nella realtà; ma può ripugnare anche nella descrizione, ossia nelle parole (PG I § 132; BT 22,5; BGB, p. 21).

Benché alcune delle sue osservazioni possano far sembrare che egli tracci una linea netta di demarcazione tra la forma di vita umana e quella animale, in realtà Wittgenstein non sembra interessato a negare agli animali la capacità di provare, per esempio, piacere e dolore, o di comportarsi in modo intelligente. Egli cerca piuttosto di mettere in evidenza come la percezione umana del dolore e quella animale siano incommensurabili in conseguenza del fatto che nella forma di vita umana il dolore si esprime non solo nei comportamenti non linguistici, ma anche in quelli linguistici17. Al riguardo, l’interpretazione delle osservazioni in cui la nozione di storia naturale viene impiegata per indicare «più o meno la differenza dell’uomo dalle altre specie» (BPP II § 18; PU I § 25; PU II, XII, p. 299) mostra come la lingua e le altre istituzioni umane non costituiscano nella sua concezione la “linea divisoria” tra ciò che è naturale e ciò che non è naturale nell’uomo, ma tra due diversi tipi di naturalità, quella animale e quella umana, dato che «comandare, domandare, raccontare, chiacchierare sono azioni tanto naturali, quanto lo sono il camminare, il bere, il giocare» (BT, p. 220; BGF, p. 26; PU I § 25, § 185). Si potrebbe dire che per Wittgenstein se già in quanto animale l’uomo ha linguaggio, ovvero se il linguaggio fa parte integrale della natura animale degli esseri umani, allora non può esistere una vera e propria contrapposizione tra emozione e linguaggio basata sul fatto che mentre la prima sarebbe legata al corpo e quindi all’istinto, il secondo sarebbe viceversa legato alla mente, allo spirito (Geist), alla cultura. Nel suo pensiero il linguaggio, LO PIPARO (2003, p. 25). Cf. BGB, pp. 23-26; BPP I § 93, § 100, § 150; BPP II §§ 14-22, § 29 § 659; BT 22, 5; PU § 25, § 384, § 583; PU II, p. 229. Su tale tema cf. inoltre CIMATTI (2007); FRONGIA (1996); SPARTI (2006). 16 17

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unitamente alle altre “geistiges Fähigkeiten” (capacità mentali o spirituali) che fanno parte della storia naturale degli uomini (PU § 25), si caratterizza infatti per essere un istinto del corpo umano; e tuttavia esso è un istinto peculiare dato che si sviluppa spontaneamente soltanto sotto determinate condizioni: concordanza nella forma di vita, regolarità, esistenza di una lingua o di una tecnica (BGM VI § 2, § 32, §§ 43-45; PU §§ 206-208; §§ 240-244). Aber das Phänomen der Sprache beruht auf der Regelmäßigkeit, auf der Übereinstimmung im Handeln [ma la lingua riposa sulla regolarità, sulla concordanza nelle azioni] (BGM VI § 39).

Se è vero che i giochi linguistici sono istintivi (naturali) per l’essere umano, è anche vero, d’altro canto, che essi presuppongono come loro condizione di possibilità l’esistenza di una lingua parlata. Pertanto le lingue non possono essere spiegate in termini di sviluppo isolato delle capacità innate del singolo parlante: un uomo da solo non può parlare (BGM VI § 32). L’uomo è animale linguistico perché è animale sociale. E tale considerazione vale, secondo Wittgenstein, anche per gli altri comportamenti istintivi e primitivi attraverso i quali l’essere umano può esprimere le proprie sensazioni ed emozioni; si pensi ai gesti, alle espressioni del volto e a tutte quelle azioni immotivate (rituali), come bruciare un’effigie, baciare l’immagine dell’amato (BGB, p. 21), descritte nelle sue riflessioni. Anche quest’ultimi comportamenti, pur essendo istintivi, sono originariamente legati alla socialità dell’essere umano, al vivere in una forma di vita comune e possono essere trasformati attraverso l’addestramento (Abrichtung, cf. BT 40 §§ 910; BGB, pp. 26, 30-35, 49; PU § 198). Non è che si voglia sostenere che un uomo isolato sin dalla nascita, come ad esempio l’enfant sauvage, non soffra o che esso non possa provare ed esprimere sensazioni e sentimenti. È logico tuttavia che se esistono le lingue e se esse vengono utilizzate dagli uomini anche per esprimere le loro sensazioni e emozioni, occorre che chi le usa possa confidare nella facoltà recettiva di colui che quel gioco linguistico deve recepire. Non si tratta soltanto di usare lo stesso sistema di segni. Si tratta piuttosto di sapere che la forma di vita (la natura) di chi ascolta sia comune a quella di chi parla, cioè di sapere che tra gli uomini ci sia una concordanza non delle opinioni, ma appunto della forma di vita, definita da Wittgenstein come concordanza dei giudizi, ovvero dei modi di giudicare (BGM VI § 30, § 49; PU §§ 241-242). Se rivolgendomi a qualcuno dico “provo dolore”, devo sapere (cioè mi aspetto) che colui al quale mi rivolgo sappia cosa sia il dolore e

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che possa immaginare cosa significhi provare un dolore e capire ciò che io provo quando dico di provare dolore. Nella maggior parte dei casi l’uomo si aspetta, infatti, che il suo interlocutore agisca e pensi da essere umano, nonostante sia sempre possibile che la sua aspettativa venga delusa e che in certe occasioni, di fronte a certe reazioni, egli non riconosca, per così dire, l’uomo nell’uomo. La lingua, vorrei dire, riposa su una Lebensweise (modo di vivere). Per descrivere il fenomeno della lingua, si deve descrivere una prassi (BGM VI §34).

Per Wittgenstein, non soltanto in relazione al linguaggio, ma anche in relazione alle sensazioni, alle pulsioni, alle emozioni e ai sentimenti umani il riferimento alla società, alla regolarità e alla prassi è imprescindibile. Infatti, anche le emozioni possono essere riconosciute dall’uomo soltanto se si trova inserito in un determinato ambiente sociale e pubblico18, ambiente vitale in cui un segnale (il pianto, ad esempio) viene trattato come segno che rinvia a qualcos’altro, come segno che rinvia al reale oggetto del nostro interesse: al dolore, alla tristezza e così via (BFG, pp. 34-35; BT 1 § 22, 40 §§ 7-9; VB, p. 146). Ne consegue che i fenomeni che contraddistinguono la storia naturale dell’uomo si caratterizzano per il fatto di mantenere e riflettere la stessa duplicità d’aspetti, naturale e culturale, del corpo dell’essere umano, che è quel corpo capace per natura di parlare una lingua. In tale prospettiva le sensazioni e le emozioni umane sono, dunque, connesse al linguaggio, in quanto sono modificazioni ed espressioni di un corpo per natura linguistico; ed è in forza di tale connessione che alcuni sentimenti (Gefühlen) possono talvolta essere usati come espressioni del soprannaturale, cioè dell’etica e del mistico. La connessione originaria tra linguaggio e sensibilità dà luogo, infatti, a sensazioni, emozioni e sentimenti peculiari della forma di vita umana, come il sentimento del bene, del giusto e del mistico, i quali possono essere sentiti soltanto da colui che è padrone di una lingua (tecnica). Se è vero che per Wittgenstein non è possibile parlare “sensatamente” del bene, del mi18 Con l’uso della nozione di ambiente circostante o vitale (Umgebung, Umstände) Wittgenstein non intende rinviare alle circostanze materiali degli atti di enunciazione (ai contesti), ma al tessuto (Gerüst) di relazioni (logiche e materiali) che costituisce lo sfondo delle nostre azioni (PU § 240). Tale sfondo (Hintergrund) «è l’ingranaggio della vita. E il nostro concetto designa qualcosa in questo ingranaggio (Getriebe)» BPP II § 65. Il filosofo ne mette in evidenza la natura particolare, naturale e culturale, ad esempio in BPP I § 776. Cf. anche BPP I §§ 150-151, BPP II § 149, § 154; PU I § 256, § 583.

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stico, e di ogni valore che rinvii all’ambito del dover essere, è anche vero, d’altro canto, che nel suo pensiero tali concetti entrano a far parte della nostra storia naturale nella forma di esperienze vissute (Erlebnisse), cioè di sentimenti (Gefühlen) che si caratterizzano per il fatto che, pur non potendo essere spiegati e pur non potendo esser detti, non sarebbero possibili senza la padronanza di una lingua intesa come forma di vita. Per quel che qui rileva, si può dire che i concetti di ‘bene’, di ‘giusto’, di ‘bello’ e di ‘correttezza’ entrano nella nostra vita attraverso il linguaggio, perché è attraverso il linguaggio che si stabiliscono delle regole pubbliche che consentono agli uomini di poter confrontare i fatti tra di loro e di poter stabilire caso per caso cosa sia giusto fare, cioè la mossa corretta all’interno di un sistema (UG § 10). L’uomo può giudicare ‘ciò che è bene’ o ‘ciò che è giusto’ soltanto sullo sfondo di un sistema di riferimento all’interno del quale un’azione ha una sua funzione e può essere corretta, giusta, o buona relativamente ad una certa meta (BGM VI § 2; LC, pp. 711, pp. 52-65; UG § 105, § 156). Se da una parte le riflessioni di Wittgenstein sull’etica, sull’estetica e sulla nozione di regola dimostrano come il confronto tra i diversi giochi linguistici non possa spiegare né il Bene, né il Mistico, né in generale i valori assoluti, in quanto essi non possono essere dei fatti del mondo e dunque non possono esser descritti (LC, pp. 5-18; PU I § 97; T. 6.41, 6.42), dall’altra, invece, queste stesse riflessioni, lette alla luce dell’idea della distinzione tra dire e mostrare (tra ciò che può esser detto e ciò che si mostra), mettono in luce un nuovo aspetto fecondo della concezione wittgensteiniana del linguaggio, dell’etica e dei sentimenti umani. A ben vedere, tali osservazioni implicano non solo che i concetti di ‘bene’, di ‘bello’, di ‘mistico’ non siano rappresentabili senza il concorso del linguaggio19, ma anche che essi non possano mostrarsi al di fuori della padronanza di una lingua20 e delle operazioni logico linguistiche che costituiscono il cuore duro della nostra storia naturale (BGM VI § 49). Tali sentimenti vengono infatti a configurarsi come esperienze del limite, come esperienze, cioè, che si provano dinanzi al mostrarsi dei limiti del nostro linguaggio e dunque del nostro mondo (T. 5.6). Non a caso Wittgenstein identifica il mistico, esperienza soprannaturale, con il sentimento (Gefühl), e dunque con “qualcosa” che appartiene alla storia naturale dell’uomo: «La visione del mondo sub specie aeterni è la visione del mondo come totalità – 19 20

Cf. anche LO PIPARO (2007). Cf. BPP II §§ 109-113; BPP I §§ 120-125; LW1 § 379; PU II, p. 241.

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delimitata. Il sentimento del mondo come totalità delimitata è il sentimento (Gefühl) mistico» (T. 6.45). E il mistico, per l’appunto, non può esser detto, ma mostra sé (T. 6.522). Più precisamente, il sentimento del mistico rappresenta un fenomeno peculiare della storia naturale dell’essere umano, non soltanto perché l’uomo non potrebbe rappresentarsi i concetti di ‘mondo’ e di ‘totalità delimitata’ senza l’uso del linguaggio, ma anche perché il mistico, proprio perché non può essere spiegato attraverso il linguaggio, è quel sentimento che si mostra, paradossalmente, nel momento in cui l’uomo si trova dinnanzi ai limiti della lingua stessa. L’uomo ha l’impulso ad avventarsi contro i limiti del linguaggio. Pensate per esempio alla meraviglia che qualcosa esista.[…]. Quest’avventarsi contro i limiti del linguaggio è l’etica. È a priori certo che qualsiasi definizione si possa dare del Bene, è sempre un malinteso supporre che nella formulazione si esprima ciò che in realtà si vuol dire. Ma la tendenza, l’urto, indica qualcosa (LC, pp.21-22).

In certe osservazioni tali sentimenti (esperienze vissute) vengono esplicitamente distinti dalle altre sensazioni, perchè indicano qualcosa, ma non indicano «come una sensazione ci indica un oggetto, e neppure ce lo fanno congetturare. Esperienze, pensieri – la vita può imporci questo concetto. Che poi è in qualche modo simile al concetto di “oggetto”» (1950, VB, p. 159). Il tema della distinzione tra sensazioni primitive e sensazioni, per così dire, di secondo grado21 troverà, poi, il suo pieno sviluppo nella seconda parte delle Ricerche Filosofiche e nelle Osservazioni sulla Filosofia della Psicologia in cui Wittgenstein parla di «concetto modificato di sensazione» (LW I § 744 e PU II, XI, pp. 274-275, p. 286) per indicare quelle sensazioni, come ad esempio il sentimento di familiarità di una parola (BPP I § 6, PU II, p. 279), o il sentimento di profondità del significato (BT 2, §§ 11-12), le quali hanno come loro condizione logica di possibilità la padronanza di una tecnica (PU II, XI, p. 275). Alle sensazioni di secondo grado appartengono anche tutte quelle espressioni e quei gesti che Wittgenstein raccoglie nell’idea di evidenza imponderabile. all’evidenza imponderabile (unwägbaren Evidenz) appartengono le sottili pecu21 Sul sensismo di secondo grado, ossia sull’idea di un’esperienza sensibile “che ha nel linguaggio niente di meno che la propria condizione di possibilità”, e sul suo sviluppo nelle Ricerche Filosofiche cf. MAZZEO-VIRNO (2002), ora in VIRNO (2003: 91-110).

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liarità dello sguardo, del gesto, del tono.[…] Mi piacerebbe tanto che il gesto che io fingo fosse esattamente uguale a uno autentico, e tuttavia non è quest’identità a prodursi (LC, p. 41; LW I § 936; PU II, XI, p. 228).

La nozione di evidenza imponderabile rimanda a ciò che non può esser detto né spiegato, ma che può essere riconosciuto attraverso l’esperienza (LC, p. 41) soltanto da colui il quale è inserito all’interno di una lingua. Non è un caso che tale idea, affrontata nelle osservazioni finali delle Ricerche Filosofiche, rimandi alla stessa distinzione tra dire e mostrare da cui segue l’invito, che chiude il Tractatus, a tacere su ciò di cui non si può parlare (T. 7). Infatti, anche quest’ultime esperienze, di cui non si può offrire una prova o conferma22, costituiscono l’ultimo anello (il limite) della catena delle ragioni (PU § 326), ovvero la “roccia basilare” contro cui la vanga della spiegazione e della giustificazione dei fatti umani si piega (BT 13 § 17; PU § 185, § 217)23. E «ciò che gli uomini accettano come giustificazione – mostra come pensano e vivono» (PU § 325). 3. Una volta preso atto dei diversi gradi di sensibilità (non-linguistica e linguistica), occorre tuttavia notare come tale distinzione perda, per così dire, la propria rilevanza nel momento in cui si consideri che entrambe tali tipologie di sensazioni sono accomunate dal fatto di convertirsi, attraverso l’uso del linguaggio, in parole e frasi. In altri termini, sia le forme primitive di sensibilità, come le sensazioni di piacere e dolore, sia le sensazioni che non potrebbero esistere senza l’uso di una lingua, come la speranza (BPP I, 365; BPP II § 153; PU II, I, p. 229), si caratterizzano per il fatto di mostrarsi attraverso le espressioni verbali (Äußerungen, Ausdrücken; cf. BPP I § 93; PU § 384). Ma in che modo avviene tale passaggio dall’espressione primitiva dell’emozione alla sua espressione verbale? A tale domanda Wittgenstein cerca di rispondere in quelle riflessioni, come le Lezioni sull’Estetica, in cui, attraverso l’analisi del linguaggio più primitivo, viene dimostrato che parole come “buono”, “bello”, “grazioso” non sono utilizzate originariamente come descrizioni, bensì come interiezioni: un bambino applica generalmente una parola come “buono” prima di tutto al cibo. Una cosa straordinariamente importante nell’insegnamento è l’esagerazione dei gesti e dell’espressioni del volto. La parola viene insegnata come sostitu22 23

Cf. ad esempio BPP II § 685, § 697, §§ 709-715. BPP I §§ 709-715; LC, pp. 41-43; LW I § 734.

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to di un’espressione del volto o di un gesto. Che cosa fa, di una parola, un’interiezione di assenso? E non di disapprovazione? È il gioco in cui appare, con la forma della parola (LC, p. 53).

Nella stessa direzione vanno le più note osservazioni delle Ricerche, si pensi ad esempio alla seguente osservazione: come impara un uomo il significato dei nomi di sensazioni? Ecco qui una possibilità: si collegano certe parole con l’espressione originaria, naturale della sensazione, e si sostituiscono ad essa. Un bambino si è fatto male e grida; gli adulti gli parlano e gli insegnano esclamazioni e, più tardi, proposizioni. Insegnando al bambino un nuovo comportamento del dolore. «Tu dunque dici che la parola ‘dolore’ significa propriamente quel gridare?» – al contrario; l’espressione verbale del dolore sostituisce, non descrive il grido (PU I §244).

L’espressione linguistica “provo dolore” non rappresenta un mero sviluppo graduale del grido animale, né una descrizione, sia pure più articolata, del ; al contrario essa rappresenta una vera e propria sostituzione di quel grido da parte di un individuo inserito in una comunità linguistica: quando uno impara a usare la parola dolore, questo non avviene perché qualcuno indovina per quali avvenimenti interni connessi, ad esempio, al cadere a terra si usa questa parola. Se fosse così, potrebbe anche sorgere il problema: qual è fra le mie sensazioni, quella per cui grido quando mi faccio male? E qui immagino che uno indichi il proprio interno domandandosi:«è questa sensazione, oppure questa?» (BPP I § 305; PU I §§ 15-16).

Alla luce di tali questioni si può vedere chiaramente come la connessione tra espressione primitiva della sensazione e sua espressione verbale non sia empirica, ma logica. Tale conclusione vale poi anche per le altre espressioni verbali di sensazioni, di gioia, di felicità, e così via, e anche per le espressioni verbali delle emozioni complesse, le quali sono equivalenti ai gesti e alle altre espressioni corporee che vanno a sostituire. Quando uno dice «Spero che verrà» – dà un resoconto del suo stato d’animo oppure manifesta la sua speranza? – Questa cosa posso dirla, per esempio, a me stesso. E non mi do proprio nessun resoconto. Può essere un sospiro, ma non è necessario che lo sia. Se dico a qualcuno «Oggi non posso concentrare i miei pensieri sul lavoro; penso sempre al suo arrivo» – questa si chiamerà una descrizione del mio stato d’animo (PU § 585).

Infatti, proprio con riferimento al passo sopra citato, come il sospiro, così anche l’enunciato “spero che verrà” è una manifestazione della speran-

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za, un suo gesto24. E come il sospiro, anche quest’ultimo gesto linguistico non ha necessariamente la funzione di comunicare agli altri lo stato d’animo di chi lo enuncia: «se il grido non è la descrizione del dolore, allora non lo è neppure l’espressione verbale che lo sostituisce. Le manifestazioni verbali non sono descrizioni, ma espressioni di dolore» (BPP II § 728; BPP II §§ 722-723; PU II, XI, p. 249). Alla luce di tali osservazioni si comprende come le espressioni verbali (del dolore, della speranza), pur andando a sostituire l’espressione primitiva (grida animali, voci, gesti), ne conservano intatta la natura (funzione) originariamente gestuale (espressiva, figurativa). In tal senso, il gioco linguistico è “un’estensione” dell’espressione primitiva, cioè un comportamento ad essa equivalente: «Le parole “sono felice” equivalgono ad un comportamento di gioia» (BPP I 450). Per il fatto che le sensazioni sono incorporate nella vita umana attraverso il linguaggio, inoltre, il poter dire tali sensazioni viene considerato come criterio per riconoscere e attribuire agli altri e a se stessi tali sensazioni. Ora, l’idea dell’originaria funzione espressiva degli enunciati che si riferiscono alle rappresentazioni e agli stati psicologici consente di superare la concezione secondo la quale le proposizioni, in quanto rappresentazioni dei fatti del mondo, si distinguono per la loro funzione dalle grida e dai versi animali. Su tale idea si basava non solo la distinzione tra uomini e animali, ma anche la concezione tradizionale dell’uomo inteso come una strana entità bipartita, in cui il mondo animale, la sensibilità e le emozioni, intese come espressione del corpo, sono distinte e contrapposte alla lingua, intesa come espressione della mente. Al contrario per Wittgenstein del comportamento animale e primitivo dell’uomo «fa parte l’uso della lingua. E in generale ne fa parte sia ciò che viene appreso sia ciò che non viene appreso, come le grida del bambino» (BPP I § 93, § 131). Naturalmente, mettere in luce l’originaria funzione gestuale delle espressioni verbali non significa dire né che un enunciato, come “spero di rivederlo presto”, non possa assumere una nuova funzione in nuove circostanze, né che esso non possa essere usato come resoconto dello stato d’animo di chi parla. Tale operazione ha invece la funzione di dimostrare che il linguaggio non ha come unica e principale funzione quella di rappresentare accadimenti esterni o interni (PU § 23, PU II, XI, p. 224; LW I § 909). La funzione descrittiva di un enunciato, come “spero che verrà”, è soltanto un 24

LC, p. 114; VB, pp. 131-133.

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uso derivato reso possibile dalla padronanza di una lingua, di una tecnica, che costituisce lo sfondo necessario, non solo per poter sostituire l’espressione primitiva con quella verbale, ma anche per poter trasformare l’uso (significato) di tale espressione in circostanze nuove. Ad esempio, l’enunciato “spero che verrà”, originariamente utilizzato come sostituto del ‘sospiro’, può essere impiegato in una conversazione per descrivere all’altro il proprio stato d’animo: «la constatazione (Bericht) è, per così dire, parte di una conversazione» (BPP II § 164). In particolare, secondo Wittgenstein, l’uomo può apprendere l’uso di un’espressione verbale soltanto sulla base della necessaria e regolare connessione tra emozione e sua espressione (manifestazione) naturale. Infatti, anche l’individuo che dice di provare un determinato sentimento, per poterlo riconoscere e identificare necessita di criteri esterni che può apprendere solo con l’esperienza e con l’addestramento linguistico (BPP I §§ 169170): «ma se gli uomini non esternassero i loro dolori (non gemessero, non torcessero il volto ecc.) allora non sarebbe possibile insegnare ad un bambino l’uso delle parole ‘ho mal di denti’». […] (PU I § 258, § 256). In altri termini, sia l’espressione verbale del dolore, sia l’espressione verbale della speranza non potrebbero andare rispettivamente a sostituire, creando dunque “nuove” possibilità, i correlativi gesti primitivi del grido e del sospiro senza questa connessione con l’espressione originaria. In tale prospettiva, infatti, l’espressione verbale può sostituire quella più primitiva soltanto sulla base di una preliminare regolarità del modo comune di comportarsi che costituisce lo sfondo necessario dal quale si stagliano i singoli usi linguistici (cf. PU §§ 207-208). Una lingua, oltre a non poter essere parlata da un individuo isolato, non può essere fondata su atti che vengono eseguiti una sola volta nella vita (BGM VI § 32, § 39, § 43; BPP 435), dato che essa è un’istituzione (BGM VI § 32), una pratica, e in quanto tale è necessariamente pubblica. Affinché possa esistere o possa essere inventato un gioco è necessaria una preliminare regolarità del «modo di comportarsi comune agli uomini», che costituisce il substrato a partire dal quale è possibile istituire delle regole pubblicamente osservabili (BGM VI §§ 32-34; UW, p. 24), le quali, a loro volta, connettono uno stato (sensazione, emozione) con la sua espressione, ovvero una capacità naturale con i modi arbitrari in cui essa si realizza. Alla luce delle precedenti considerazioni è possibile comprendere come tale «modo di comportarsi comune agli uomini», che coincide con l’insieme dei fatti della nostra storia naturale (PU § 25, PU § 23, BPP I § 18), sia

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caratterizzato dalla compresenza di aspetti istintivi e di aspetti appresi, di aspetti naturali e di aspetti culturali. Tale regolarità è, infatti, rappresentata come una zona grigia in cui non vi è una netta distinzione tra piano empirico (fatti) e piano grammaticale (regole, valori)25. Non a caso nelle riflessioni di Wittgenstein tale preliminare regolarità emerge in primo piano non soltanto nei casi d’errore, ma anche, e soprattutto, in quelle situazioni di crisi in cui l’uomo fa capo ad essa o per insegnare ad altri la propria lingua, ovvero per apprendere una lingua straniera (BPP I § 664; PU §§ 206-208)26. Queste circostanze mostrano, infatti, chiaramente come il modo comune di comportarsi (natura comune) condiviso da tutti gli uomini non debba essere inteso come un sistema di regole, di rappresentazioni e di schemi innati, bensì come l’insieme di capacità e di operazioni naturali le quali, in quanto facoltà (potenzialità), non hanno alcuna manifestazione autonoma dai modi contingenti in cui si realizzano (BP 5a; BPP II §§ 426-427; Z §§ 357358). In conseguenza di ciò, i giochi linguistici, così come gli altri comportamenti primitivi, sono attività «naturali, ma non necessarie», se con necessario s’intende causalmente determinato o conforme ad uno scopo (BPP I § 49, § 951; BGM I § 116; BT 55 §§ 9-14). In altri termini, «tutto quello che posso fare nel linguaggio è dire qualcosa, dire una cosa. Dire una cosa nello spazio delle possibilità di quello che avrei potuto dire» (BT 1 § 14). Non si può tralasciare infine che l’idea secondo la quale gli enunciati che si riferiscono agli stati interni (ai vissuti) dell’uomo non sono descrizioni (Bescreibungen o Abbildungen), bensì espressioni (Ausdrucken, Äußerungen) di tali stati, gioca un ruolo decisivo nella critica wittgensteiniana all’esistenza di un linguaggio privato (PU I §§ 243-257), cioè di un linguaggio delle sensazioni in linea di principio inaccessibile agli altri. Attraverso tale critica, la quale è strettamente connessa al problema del seguire una regola (PU I §§ 135-243), Wittgenstein, infatti, non intende negare che esistano fatti psicologici (interni) o fatti semantici, quanto piuttosto che tali fatti godano di un’esistenza autonoma nell’interiorità dell’uomo. In tal modo egli muove verso una nuova concezione dell’interno in cui quest’ultimo non è visto come contrapposto all’esterno, ma come ciò che esiste nel momento in cui appare nei giochi linguistici e nelle pratiche umane: «noi componiamo diverse cose in una ‘forma’ [Gestalt] modello, in quella dell’inganno, ad esempio. L’immagine (Bild) dell’interno (Innern) completa questa forma (Gestalt)» [BPP II §651]. 25 26

UG §§ 94-99. Cf. VIRNO (2005).

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È il linguaggio, inteso come molteplicità di giochi linguistici, a sdoppiare l’uomo e a renderlo consapevole della propria interiorità, consentendogli di dare un nome ai propri sentimenti e di considerarli come oggetti. Al riguardo, scrive Wittgenstein: «E se il gioco di espressioni si evolve, allora posso dire che si sviluppa un animo, una vita interna. Ma ora l’interno non è più causa (o primum movens) dell’espressione» (LW I §947). Quella dell’anima (interno) è un’immagine che si impone appena cerchiamo di dare un senso alle attività ed espressioni dell’uomo, ovvero essa è un riflesso del nostro atteggiamento nei confronti di un altro uomo, che Wittgenstein definisce come “un atteggiamento nei confronti di un’anima” (LW I § 324). Tale comportamento è istintivo e non poggia su un’opinione, così come è istintivo per l’essere vivente prendersi cura dell’altro (cf. BPP I § 915). È l’impossibilità di fondare la conoscenza del nostro mondo interno su fatti che possono essere provati (dimostrati), come ad esempio l’impossibilità di dimostrare l’autenticità di uno sguardo d’amore o di una confessione ad indurre l’uomo comune, così come il filosofo, ad isolare uno spazio del reale, l’interno, e a considerarlo impenetrabile, nascosto dietro ai comportamenti: Un’immagine si impone su di noi, quella dell’incorporeo che anima il volto (come il tremore di un soffio). Dobbiamo pensare espressamente al fatto che un volto può essere dipinto con un’espressione intensamente spirituale, per credere che colori e forme da sole possono esercitare un tale effetto su di noi (LW I § 325). «Il volto è l’anima del corpo» (VB, p. 53; PU II, p. 236).

In conclusione, l’analisi dei giochi linguistici in cui gli uomini impiegano enunciati intorno a sensazioni ed emozioni mostra come l’uniformità del modo di presentarsi del linguaggio induca spesso a dimenticare che i giochi linguistici, che scandiscono il fluire della vita umana, non hanno come unica funzione quella di descrivere e comunicare eventi esterni o interni agli altri: il paradosso – scrive Wittgenstein – scompare soltanto se rompiamo in modo radicale con l’idea che il linguaggio funzioni in un unico modo, serva sempre allo stesso scopo trasmettere pensieri – siano questi pensieri intorno a case, a dolori, al bene e al male, o a qualunque altra cosa (PU I § 304).

Il linguaggio non è soltanto un mezzo di comunicazione (Z 329), ma è il luogo in cui i pensieri e le emozioni prendono forma. In tal senso, un gioco linguistico è un’attività, una forma di prassi in cui appaiono (si manifestano) la gioia, la tristezza, la paura, la speranza e così via.

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Per una storia naturale delle emozioni

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EMANUELE FADDA Sentire ciò che è giusto. Emozioni, sentimenti e valori nel pragmatismo di Peirce, Mead e Morris1

In questo breve testo vorrei proporre almeno le linee di una considerazione generale del legame tra emozioni, sentimenti e valori in alcuni autori del pragmatismo americano “classico”2 e nella semiotica di Charles Morris. L’intento, ovviamente, non è quello di scrivere un capitoletto – seppur minimo – della storia di questo movimento (o di una più generale storia delle idee), quanto semmai di proporre alcune riflessioni su quale sia la vera natura di alcune tendenze, classificate come “irrazionaliste”, proprie di tale movimento, e sul legame che intercorre tra questa matrice “irrazionalista” e gli esiti semiotici che diversi esponenti del pragmatismo hanno voluto dare al proprio pensiero. Cercherò dunque quello di mostrare come l’attenzione ai temi della moderna semiotica, in questi autori, non si possa disgiungere dalla peculiare forma di etica che – almeno in certi aspetti molto generali – li accomuna. 1. L’influenza di Emerson e del trascendentalismo3 I rapporti tra trascendentalismo4 e pragmatismo – le due più antiche correnti filosofiche americane – sono noti da tempo, ma la storiografia li ha spesso passati sotto silenzio, anche per sottrarre il pragmatismo dall’accusa di irrazionalismo (che aveva colpito soprattutto – e non senza qualche ragione – il pensiero di James) e per cercare di accentuare in qualche modo 1 L’articolo costituisce la rielaborazione di una relazione con lo stesso titolo, tenuta nell’ambito del seminario dottorale del Dipartimento di filosofia dell’Università della Calabria il 13 giugno 2007. Ringrazio Anna Maria Nieddu per avermi messo a disposizione materiale ancora non pubblicato all’epoca del seminario. 2 Sul pragmatismo che potremmo chiamare “classico” (circoscritto, dunque, alle figure di Peirce, James, Dewey e Mead) cf., tra gli altri, SINI (1972) e CALCATERRA (2003). 3 Per il contenuto di questo paragrafo – e non solo – sono debitore verso NIEDDU (2006). 4 Si tratta di una variegata corrente di pensiero, che riunisce filosofi (e in primis R.W. Emerson), ma anche letterati, come Thoureau, Whitman e Melville. Sul trascendentalismo in generale cf. MATHIESSEN (1954).

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gli elementi di continuità tra il pragmatismo classico e il neo–pragmatismo5. Solo ultimamente i legami tra il pensiero di Emerson e quello dei primi pragmatisti sono stati sottolineati e posti nella giusta luce6. Non si tratta certo di una vera e propria filiazione ma piuttosto, nei termini di Nieddu (2006, p. 302), di una “consapevole appropriazione selettiva” di alcuni motivi emersoniani da parte di alcuni pragmatisti – soprattutto James e Dewey. Ma l’influenza di questa peculiare forma di pensiero, di questa filosofia “non filosofica”7, si riverbera anche sul pensiero degli autori di cui mi occuperò, in particolare per quanto riguarda i due punti seguenti: a) Attenzione a sentimenti, emozioni e valori. Il carattere originariamente non-filosofico del trascendentalismo, che erge a fonte di valori anzitutto la letteratura8, in ragione della «compartecipazione simpatetica e compassionevole esercitata dall’immaginazione poetica» (NIEDDU 2006, p. 303) e della capacità di accogliere «ragioni immaginative e sentimentali» (ibidem, p. 302) accanto e oltre alle ragioni “razionali”, si ritrova in molti appelli all’importanza dei valori del bello, del buono e del giusto come fonte dei valori logico–razionali, non solo nell’“irrazionalista” James, ma anche in Peirce, Mead e Morris. b) Attenzione alla creatività individuale. Se le caratteristiche del trascendentalismo enfatizzavano soprattutto il ruolo della creazione estetica e letteraria, i pragmatisti in genere – ma soprattutto Mead9 – universalizzano 5 Il quale, però (soprattutto nella versione di Rorty), è più facilmente inquadrabile nel contesto della cosiddetta “svolta post-analitica”, che vede protagonisti personaggi come Quine, Davidson e Putnam. Il neopragmatismo sarebbe dunque maggiormente debitore della filosofia analitica che del pragmatismo classico: su quest’idea cf. in prima istanza NIEDDU (2006, pp. 293 sgg. n. 2) e la bibliografia ivi citata. 6 Cf. p.es. WEST (1989). L’opera di West mira a definire i connotati di un’originale identità americana in senso culturale e sociopolitico, analizzandola nella sua genesi. Gli esordi della filosofia americana sono dunque analizzati in parallelo con la nascita di una “nazione di nazioni”, povera di patrimonio storico, a paragone con gli Stati della “vecchia” Europa, e per ciò stesso vogliosa di differenziarsi attraverso caratteristiche peculiari e inconfondibili. 7 Cf. CAVELL (2003). La strategia di questo autore è quella di accentuare le distinzioni tra i due movimenti, ma proprio le distinzioni da lui presentate permettono di vedere, per contrasto, gli elementi di continuità. 8 Si veda p.es. il seguente passo di WHITMAN (1867, pp. 37 sgg.): «Può accadere che un singolo pensiero nuovo, una creazione della fantasia, un principio astratto o anche uno stile letterario (…) causi a tempo debito cambiamenti, crescite, rimozioni più vaste che non la più lunga e sanguinosa delle guerre, o il più stupendo rivolgimento puramente politico, dinastico o commerciale». 9 Cf. ad esempio il seguente passo di MEAD (1934: 214): «Questi valori [scilicet i valori della creatività] non sono peculiari all’artista, all’inventore, al ricercatore scientifico, ma

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quest’idea, rimarcando il ruolo della parole individuale (per usare una espressione saussuriana) nelle istituzioni in genere10. Questi due aspetti – come vedremo – saranno recepiti da Peirce, Mead e Morris. Le differenze d’approccio (e, talvolta, di spessore) tra questi autori non devono però occultare la matrice comune, che ha dei debiti verso il trascendentalismo, anche se non può essere semplicemente ridotta ad esso. 2. Le scienze normative in Peirce L’approccio di Peirce al tema dei valori è incentrato intorno al tema delle scienze normative, le quali occupano il posto centrale nella classificazione delle scienze operata da Peirce nel 1903 (cf. PRONI 1990, p. 220 sgg.): fanno parte della filosofia, che si pone a metà tra la matematica – vista come fondativa – e la idioscopia (la “scienza dei particolari”, o scienza propriamente detta); inoltre, anche nell’ambito della filosofia, si pongono a metà tra la fenomenologia (o dottrina delle categorie) e la metafisica. Dunque, se esse non assumono un ruolo propriamente fondativo, il loro valore è comunque fondamentale – e poco importa che il filosofo americano confessi candidamente la propria ignoranza in materia. Peirce, che dedica loro una delle sue Harvard Lectures11, così le definisce: La scienza normativa comprende tre divisioni, ampiamente distinte: estetica, etica, logica. L’estetica è la scienza degli ideali, o di ciò che è oggettivamente ammirevole senza alcuna ulteriore ragione. (…) L’etica, o scienza del giusto e dello sbagliato, deve appellarsi all’estetica per essere aiutata nel determinare il summum bonum. E’ la teoria della condotta autocontrollata, o deliberata. La logica è la teoria del pensiero autocontrollato, o deliberato; e, come tale, deve appellarsi all’etica e ai suoi principi (CP 1.191).

sono al contempo propri della esperienza di tutti i Sé nei quali c’è un Io che risponde al Me». Sul tema della creatività in Mead cf. NIEDDU (2005); sul valore dei termini Io, Me e Sé nella psicologia sociale di Mead cf. NIEDDU (2005) e FADDA (2006, § 3.6.3). 10 Per questo autore, infatti, le istituzioni sono tanto migliori quanto più riescono ad accogliere le istanze dei singoli. Come scrive NIEDDU (2006, p. 313): «Nel discorso filosofico e antropologico di Mead (…) il ricorso ad artefatti regolativi nell’ambito della vita sociale sembra porsi fin dai primordi in termini di compensazione nei confronti della ricorrente immaturità organizzativa delle situazioni consolidate, spesso impreparate, o non disposte, ad accogliere la spinta innovativa e creativa delle individualità». Sul rapporto tra creatività individuale e istituzioni democratiche nel trascendentalismo v. anche WHITMAN (1867). 11 The Three Normative Sciences, in PEIRCE (1998, pp. 196-207).

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In questo contesto, il primo aspetto notevole è la posizione della logica, che non viene posta come fondamento assoluto del sistema delle scienze – ruolo che spetta invece alla matematica, come si è già visto – e viene considerata come dipendente dall’estetica e dall’etica12. Secondo Peirce, l’estetica ci dice cosa è ammirevole, l’etica che cosa perseguire, la logica come farlo. Non si può ragionare, dunque, se si prescinde dal senso estetico e dal senso morale. Insomma, il logico Peirce, colui che aveva criticato il generico appello ai sentimenti di James e Schiller, e per questo era arrivato a dissociarsi dal movimento da lui stesso fondato13, pone la logica sotto l’egida del bello e del buono come tali…! La posizione peirceana, nella sua paradossalità, risulta però giustificata (almeno sotto l’aspetto della coerenza interna del suo pensiero), se si ponga mente a come la tricotomia delle scienze normative venga ad inquadrarsi nel suo sistema triadico complessivo, a partire dalla dottrina delle categorie – inquadramento che può sintetizzarsi col seguente schema: 1. 2. 3.

Primità Secondità Terzità

→ → →

feeling (re)azione rappresentazione

→ → →

ESTETICA ETICA LOGICA

Nella fenomenologia di Peirce, l’esperienza ci si mostra sotto forma di primità, secondità e terzità: le primità sono tantissime, e ci si presentano come assolutamente indeterminate; le secondità sono quelle primità che provocano una reazione nella mente, e le terzità sono quelle secondità i cui effetti assurgono a un qualche livello di rappresentazione da parte della mente medesima14. Conseguentemente, come vi sono molte più primità che secondità, e molte più secondità che terzità, così l’oggetto dell’estetica è molto più vasto di quello dell’etica, che a sua volta è molto più vasto di quello della logica. Ma la vita mentale, ovvero l’esperienza, non potrebbe essere descritta senza fare riferimento alle prime due categorie – sebbene per descriverle le si debba rappresentare, e “terzificare”. Questo non inficia, peraltro, il loro carattere originiario, che è prerappresentativo, prelogico e presemiotico. 12 Posizione, questa, che si ritroverà anche in un pragmatista italiano, come Vailati: cf. p.es. AQUECI (2007, cap.1). 13 Per differenziare anche formalmente il proprio pensiero, egli decise di anche adottare il termine ‘pragmatiCIsmo’, un neologismo – come egli ebbe a scrivere – «abbastanza brutto per essere al riparo dai rapitori di bambini» (PEIRCE, 2003, p. 402). 14 Su questi argomenti v. almeno FABBRICHESI LEO (1993, 65 sgg.).

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Ecco perché il primato dei sentimenti, delle emozioni e delle reazioni prelogiche non solo non è contradditorio con il complesso del pensiero di Peirce, ma costituisce un puntello irrinunciabile della struttura triadicocategoriale della sua filosofia. 3. Mead: l’esperienza estetica L’opera di G.H. Mead, autore conosciuto quasi solo per Mente, Sé e società e per l’utilizzo di quest’opera compiuto dall’interazionismo simbolico, presenta invece molteplici spunti di interesse, anche per ciò che riguarda gli scritti meno noti15. Tra questi ve n’è uno, The Nature of Aesthetic Experience (MEAD, 1924), particolarmente pertinente riguardo ai temi che mi interessano qui. In questo testo, lo studioso dell’Università di Chicago affronta i problemi basilari dell’estetica a partire da due capisaldi del pragmatismo: la nozione di prassi e quella di esperienza. Il punto di partenza è il seguente: per provare l’esperienza estetica bisogna “sospendere” la prassi normale e porsi in un atteggiamento valutativo. Dobbiamo cioè passare, nell’accostarci agli oggetti dell’esperienza, da una considerazione di tipo più immediato, in cui «vediamo e sentiamo soltanto ciò che appare sufficiente all’uso e dal riconoscimento passiamo all’operazione» (MEAD, 1924, p. 297), a una considerazione di tipo apprezzativo, in cui «contempliamo, accettiamo e ci arrestiamo sulle nostre rappresentazioni» (ibidem). Quando interrompiamo – è questo un esempio dell’autore – la nostra scalata della montagna per fermarci a vedere il panorama, e il sole dietro le cime, ciò che vediamo non è più finalizzato al riconoscimento o all’uso, ma è vincolato a una sensazione di compimento. In questo senso non vi è soluzione di continuità tra la contemplazione del bello già-fatto (p. es. il bello naturale) e la creazione del bello ex novo: chi è capace di godere del bello è comunque, in qualche modo, un’individualità creatrice – se non di qualche cosa di nuovo, almeno di un modo nuovo, e svincolato dall’utilità pratica, di guardare alle “vecchie cose”. L’esperienza estetica è dunque sempre una esperienza di compimento di un atto creativo: in un certo senso – sembra suggerirci Mead – chi gusta un paesaggio prova un po’ della gioia che ha avuto Dio nel crearlo16. Su Mead in generale, cf. in prima istanza NIEDDU (1978) e FADDA (2006, cap. 3 passim). Si potrebbe dire che il ripetersi dell’espressione «e Dio vide che era cosa buona» in Gen. I sottolinea appunto il passaggio dalla dimensione operatoria a quella apprezzativa. È 15 16

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D’altra parte, la dimensione estetica ed etica, per questo autore, sono fortemente connesse. I valori, come tali, sono insieme estetici ed etici. Si legga ad esempio il seguente passaggio: Quando un individuo arresta il suo comune lavoro e i suoi sforzi per avvertire la solidarietà da parte dei suoi colleghi, la lealtà dei suoi sostenitori, la risposta del suo pubblico, per gustare la comunione di vita nella famiglia, nella professione, nel partito, nella chiesa, o nel paese, per assaporare alla maniera di Whitman gli aspetti comuni dell’esistenza, il suo atteggiamento è estetico. (MEAD, 1924, p. 297 sg.; trad. A.M. Nieddu)

Se l’atteggiamento qui descritto è quello estetico–apprezzativo, i valori in gioco sono di natura etica. E non a caso – cf. supra § 1 – il nome di Whitman viene citato in questo contesto, in cui gli aspetti più comuni dell’esperienza, visti in una dimensione estetica (come saprebbe esprimerli, ad esempio, un poeta), acquistano una rilevanza etica, sociale e politica. 4. Dalla teoria dell’azione di Mead alla semiotica di Morris Charles Morris è noto ai più come uno dei fondatori della semiotica moderna17, ma egli fu anche un continuatore cosciente del pragmatismo. Allievo di Mead, egli fu tra i primi a riconoscere (cf. MORRIS 1938b e 1970) l’affinità tra questi e Peirce, e la comune cifra semiotica – al di là delle intenzioni e delle denominazioni adottate – del pensiero dei due. Per questo, anche se la sua statura sembra indubbiamente inferiore a quella dei suoi maestri, il suo pensiero (che parte da Mead per arrivare in qualche modo a Peirce) risulta interessante ai nostri fini. Le due opere di Morris più conosciute dai semiologi sono Foundations of a Theory of Signs, del 1938, e Signs, Language, and Behaviour, del 1948. Nel passaggio dall’una all’altra, l’autore opera un deciso cambiamento di prospettiva – adottando una forma di comportamentismo abbastanza radicale, che fece storcere il naso a non pochi suoi allievi, tra i quali Sebeok – ma lascia invece inalterato un aspetto fondamentale: a una teoria unitaria dell’azione, come era quella di Mead, egli oppone una dicotomia tra teoria dei probabile che lo stesso Mead pensasse a questo esempio: infatti egli univa alla componente religiosa tipica del pensiero di tutti i pragmatisti il fatto d'essere figlio di un pastore battista. 17 Soprattutto due schemi sono passati nella vulgata della disciplina: si tratta della tricotomia sintattica-semantica-pragmatica (cf. MORRIS, 1938), e della cosiddetta “quintupla di Morris” (cf. MORRIS, 1946).

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segni e teoria dei valori, trattate separatemente (e spesso in lavori differenti)18. Un tentativo di riunificazione si avrà solo con Signification and significance, del 1964. Il punto di partenza, ancora una volta, è Mead, e precisamente la distinzione tra le tre dimensioni dell’azione presentata in Mead (1938). Ad ognuna di esse Morris associa una dimensione semiotico–semantica ed una assiologica, secondo il seguente schema: AZIONE Percettiva Manipolativa Compitiva

SIGNIFICAZIONE Designativa Prescrittiva Apprezzativa

VALORE Distacco Dominio Dipendenza

Questa tricotomia è forse in qualche modo associabile a quella peirceana sopra ricordata (anche se vista all’inverso, con la scienza al primo posto, l’etica al secondo, e l’estetica alla sommità); ma in questa sede non mi interessa se non mostrare come non solo i valori siano messi in primo piano, ma essi siano inoltre legati a doppio filo ai segni e alla prassi. Questo nesso, esplicito nell’ultimo Morris, si può però mettere in luce anche negli altri autori citati, come vedremo. 5. Conclusioni: il pragmatismo tra segni e valori Il nostro breve giro di orizzonte ci ha portato a evidenziare alcuni caratteri che sembrano propri dell’approccio di tutto il pragmatismo (o almeno degli autori qui considerati) al tema dei valori, e che si possono schematizzare come segue: 1. Tutti gli autori considerati pongono una forte enfasi sui valori, e sul loro carattere sociale. 2. Per tutti e tre l’estetica è primariamente (e coerentemente con l’impianto pragmatista) una modalità dell’esperienza, come mostrano esemplarmente la relazione tra fenomenologia e scienze normative in Peirce, e il concetto di esperienza estetica in Mead. 3. Infine, la contiguità tra etica ed estetica è testimoniata tanto dall’impianto delle scienze normative in Peirce, che dalla sostanziale unità della dimensione assiologica in Mead e Morris.

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Su questi aspetti cf. PETRILLI (2000).

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Ma il ruolo di una tale dimensione valoriale etico–estetica non è pienamente comprensibile se non sullo sfondo di ciò che non è valore, ovvero la prassi quotidiana come orizzonte di senso già dato – anche se sempre fallibile e rivedibile mediante habit-changing (Peirce) o role-taking (Mead) – e non in questione, quel “come si fa” che è l’ambiente in cui ci muoviamo senza farci troppe domande. In particolare, non usiamo chiederci da che cosa si origini il nostro fare, né dove tende, eppure l’origine e il fine del nostro fare sono in qualche modo rintracciabili, e possono essere chiamati in causa, all’occorrenza. E il pragmatismo, come metodo filosofico, segue un percorso in qualche modo analogo a quello del singolo individuo: in generale, infatti, esso si concentra sulla natura logico-operatoria dell’azione (ovvero la relazione mezzo–fine) e pone i valori (etici ed estetici) come l’altro dall’azione in sé. In questo contesto, la dimensione valoriale, e in generale valutativa, è posta o prima dell’azione (Peirce) o dopo l’azione stessa (Mead e Morris). In tutti questi casi, però, i valori – estetici ed etici – si pongono come regola dell’azione. Se da una parte l’enfasi è posta sull’azione in sé, dall’altra fondamentali sono non solo i come, ma i perché dell’azione stessa – e quei perché, sono valori. La domanda è allora la seguente: se i valori giustificano l’azione, cosa giustifica i valori? La loro giustificazione è eminentemente sociale: è ammirevole ciò che è comune. Ciò che trova il consenso di molti (e potenzialmente, di tutti) è un valore. Ma ogni valore nasce sempre come qualcosa di indeterminato e individuale. Per questo non c’è nessuno iato, e nessun ponte da gettare tra la dimensione sociale, “conservativa”, e quella individuale, “creativa”, in quanto l’intersoggettività originaria le ricomprende entrambe: la creazione individuale è già in potenza regola sociale, e la regola socializzata e istituzionalizzata porta in sé memoria dell’intuizione innovativa del singolo. In conclusione, il carattere sociale dei valori (e la loro comunicabilità) è assunto dai nostri autori come punto di partenza e di arrivo: da una parte, ogni valore aspira ad essere universale; ma, dall’altra, esso nasce già sociale, perché condivisibile almeno potenzialmente, sebbene esso non sia all’origine che un sentimento, un’emozione – un feeling. Ugualmente, l’esperienza dell’uomo è descritta dai pragmatisti come mai–completamente– individuale, perché inscritta nella costituzione originaria dell’intersoggettività e della mente come dialogo inseausto con le altre menti e con sé. Ma questo dialogo – tanto quello “interno” che quello “esterno” – si svolge per

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signa: la semiosi è la garanzia del rapporto degli uomini con sé, con gli altri, e con il loro ambiente. La semiosi è ugualmente l’unico modo per definire gli oggetti, che non preesistono alle relazioni e che sono dunque sempre – per riprendere la locuzione di Mead – oggetti sociali. Insomma, tanto per Peirce, quanto per Mead e Morris, non ci sono che relazioni, e non ci sono che relazioni semiotiche. L’importanza primaria assegnata al sentire, al fare e al credere, poggia su un impianto in cui la comunicazione e la socialità, non sono tanto il fine da raggiungere (se non sotto la forma piena dell’universalità), quanto la situazione già-sempre-data che definisce la natura umana (e la natura in generale). Ecco perché il nucleo del pragmatismo porta in sé un’istanza semiotica ineliminabile. Bibliografia AQUECI, F. (2007), Introduzione alla semioetica, Roma, Aracne. CALCATERRA, R.M. (2003), Pragmatismo: i valori dell’esperienza, Roma, Carocci, 2003. EAD. (2005, ed.), Semiotica e fenomenologia del sé, Torino, Nino Aragno. CAVELL, S. (2003), Emerson’s Trascendental Studies, Stanford, Stanford UP. FABBRICHESI LEO, R. (1993), Introduzione a Peirce, Roma-Bari, Laterza. FADDA, E. (2004), La semiotica una e bina. Problemi di filosofia del segno da Ch. S. Peirce a F. de Saussure e L.J. Prieto, Rende, Centro Editoriale e librario dell’Università della Calabria. ID. (2006), Lingua e mente sociale. Per una teoria delle istituzioni linguistiche a partire da F. de Saussure e G.H. Mead, Acireale-Roma, Bonanno. MATHIESSEN, F.O. (1941), American Renaissance, New York/Oxford, Oxford UP. MEAD, G.H. (1924), The Nature of the Aesthetic Experience, in MEAD 1964, pp.294-305. ID. (1932), The Philosophy of the Present (ed. by A. E. Murphy), La Salle, Open Court, 1932 [trad. ital. La filosofia del presente (a cura di G.A. Roggerone), Napoli, Guida, 1986]. ID. (1934), Mind, Self and Society: from the standpoint of a social behaviourist (ed. by Ch.W. Morris), Chicago, University of Chicago Press [trad. ital. Mente, sé e società, Firenze, Giunti 1966]. ID. (1938), The Philosophy of the Act (ed. by Ch.W. Morris et al.), Chicago, University of Chicago Press. ID. (1964), Selected Writings (ed. by A.J. Reck), Chicago-London, University of Chicago Press. MORRIS, Ch.W. (1934), Prefazione e Introduzione a MEAD (1934), pp. 5-32. ID. (1938a) Foundations of the theory of signs, in Toward an encyclopedia of unified science, I: 2, Chicago, University Press, 1938 [trad. ital. Lineamenti di una teoria dei segni (a cura di F. Rossi-Landi), Lecce, Manni, 1999)]. ID. (1938b), Peirce, Mead and Pragmatism, «Philosophical Review» 47, pp.109-127

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MIRELLA FORTINO Scienza ed emozioni. Bellezza, invenzione, scoperta e verità nella scienza

Noi conosciamo la verità non soltanto con la ragione, ma anche con il cuore (PASCAL, Pensieri)

1. Introduzione Chi […] abbia goduto di una lunga visione [delle Idee] lassù [nell’Iperuranio] quando scorga un volto d’apparenza divina, o una qualche forma corporea che ben riproduca la bellezza, subito rabbrividisce e lo colgono di quegli smarrimenti di allora, e poi rimirando questa bellezza la venera come divina1.

Nelle splendide pagine del Fedro Platone scriveva, come mostra questo brano, che l’anima quando si trovava al seguito di un dio nella regione superceleste ha contemplato l’Idea della Bellezza, che «splendeva di vera luce […] fra quelle essenze»2. La contemplazione della bellezza sensibile è perciò platonicamente occasione che dà all’anima ali, elevandola alla estatica contemplazione, con la reminiscenza, di quelle essenze, vale a dire dell’Essere vero, immutabile e perfetto, dell’Essere delle Idee coincidenti con il divino o Assoluto. Ed elevando lo sguardo dalle cose sensibili verso l’Essere vero, l’anima è colta da un brivido, da un delirio, da un rapimento divino a tal punto che in tale condizione – afferma Platone nel Fedro – uno rischia di apparire “uscito di senno”. La contemplazione del Bello intelligibile, a partire dal bello sensibile, è dunque per l’anima fonte di emozioni. Nella dottrina greca il Bello (το καλον) richiama concetti molteplici: ordine, bene, eros e vero. Tra Bello, Bene e Verità, che sono le caratteristiche dell’Essere perfetto nella filosofia del mondo antico, s’istituisce un legame etico e conoscitivo. E non deve stupire vedere che queste essenze sono invocate anche nell’opera di illustri scienziati tra il secolo XIX ed il secolo XX, sebbene in tali opere sia sovente bandita la ricerca della Verità assoluta 1 2

PLATONE, Fedro, in Opere, Laterza, Roma-Bari 1984, vol. 3, 251a, p. 243. Ibid.

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a vantaggio di un sapere che, spesso sicuramente deontologizzato a favore di nozioni relazionali, tuttavia vanta – come diremo – prerogative di natura teoretica. Particolarmente avvezzi a concepire il sapere scientifico come il dominio di verità rigorose e, soprattutto nell’ambito delle Matematiche, come discorso che riposa su proposizioni evidenti derivanti con necessità assoluta da assiomi e postulati, proposizioni che incatenerebbero addirittura la mente del Creatore, o nelle scienze empiriche da premesse implicanti conseguenze parimenti necessitanti, quasi tutti a dire il vero sono assai poco inclini a riconoscere nella scienza una funzione conoscitiva a facoltà a–logiche, ad esempio al sentimento, alle emozioni, ai poteri dell’inconscio imposti dai movimenti dello spirito, poteri che sono relegati quindi nell’ambito di ciò che è non oggettivo ma soggettivo e mutevole. Studiando la storia del pensiero scientifico accade tuttavia di scoprire confidenze autobiografiche di uomini di genio i quali, con il riconoscimento del ruolo essenziale esercitato dalle emozioni, dalla sfera dell’inconscio nel loro quotidiano lavoro d’indagine, confutano senza esitazione la rassicurante esclusione di ogni psicologismo, sancita in nome dei poteri logici, dal campo della conoscenza scientifica. La storia della scienza rappresenta lo scenario in cui è possibile vedere che il processo che conduce a scoperte e invenzioni importanti non di rado non si assoggetta a regole precise, mentre queste regole precise tuttavia indubbiamente si rivendicano in un successivo momento, quello del controllo di tali invenzioni e scoperte. Un’epistemologia intesa in senso ampio, vale a dire che non precluda, contemporaneamente allo studio critico dei principi e del valore della scienza, l’esplorazione della dimensione psicologica dell’investigazione scientifica, ci svela il ruolo dei valori estetici, delle emozioni, della sfera dell’inconscio, che spesso non sono disgiunti dai valori teoretici nella genesi dei saperi3. Si vedrà che i momenti dell’invenzione e della scoperta sono quelli in cui le emozioni rappresentano una deroga allo spirito di analisi il quale, pur perdendo priorità nella genesi del processo conoscitivo, non si 3 A. LALANDE, Vocabulaire technique et critique de la philosophie, PUF, Paris, 1926 19933, p. 264: «Il me semble qu’en distinguant l’Epistémologie de la Théorie de la con-

naissance, il serait bon d’élargir par un autre côté le sens du premier terme, de manière à y comprendre même la psychologie des sciences: car l’étude de leur développement réel ne peut sans dommage être separée de leur critique logique, surtout en ce qui concerne les sciences ayant le plus de contenu concret; et, même pour les mathématiques, on est amené à en tenir compte dès qu’on sort de la pure logistique».

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rivela gnoseologicamente secondario. Se le immediate illuminazioni della mente svolgono un ruolo positivo a queste infatti deve seguire un’attenta sistemazione logica. I riferimenti ad alcuni momenti della storia filosofica della scienza nelle pagine seguenti sono volti a mostrare questo duplice valore, intuitivo e logico, del processo conoscitivo concepito sul piano psicologico. Della fecondità di questo duplice valore si mostra una vivissima consapevolezza specialmente nella cultura filosofico-scientifica francese all’inizio del secolo XX proprio mentre nei caffè di Vienna le discussioni di un gruppo di studenti preludono alla formazione del Wiener Kreis, di quel nuovo positivismo che, sebbene erede ed interprete della filosofia positiva fondata ed esaltata da Auguste Comte nel Cours de philosophie positive e nel Discours de philosophie positive, da essa si distingue in quanto, mentre dilagano il nazionalismo e l’irrazionalismo nei primi lustri del ’900, una nuova temperie culturale sollecita ad applicare, immediatamente dopo il primo conflitto mondiale, l’analisi logica al discorso scientifico, nel tentativo di espungere rigorosamente dal dominio della scienza tanto le idee metafisiche, reputate prive di significanza, quanto i pregiudizi e le nozioni a priori4. 2. Invenzione, linguaggio e verità nelle matematiche Nella storia del pensiero scientifico tra Ottocento e Novecento si scopre che tra razionalità ed intuizione non si pone una vera antitesi e che la soggettività va rivendicando diritti che la filosofia del positivismo aveva mortificato ingiustamente. Nel cercare di far luce sull’idea di convenzione che tra Ottocento e Novecento caratterizza la riflessione critica sui fondamenti delle scienze si è impegnati a scoprire la scaturigine di quest’idea che sembra talvolta complice del nominalismo e del relativismo e della deriva 4 H. HAHN, O. NEURATH, R. CARNAP, Wissenschaftliche der Weltauffassung. Der Wienen Kreis (1929), trad. it. La concezione scientifica del mondo. Il Circolo di Vienna, Roma-Bari, Laterza, 1979. In questo scritto che costituisce il Manifesto del Circolo di Vienna leggiamo: «L’intuizione, rivendicata in special modo dai metafisici come fonte di cognizioni, non viene generalmente respinta dalla concezione scientifica del mondo; ma, per ciascuna conoscenza intuitiva, si richiede, passo dopo passo, una giustificazione razionale ulteriore. È legittimo cercare con ogni mezzo; tuttavia, ciò che viene trovato deve reggere al controllo. Segue, quindi, il rifiuto della dottrina che vede nell’intuizione un processo conoscitivo superiore, più acuto e profondo, capace di oltrepassare i dati dell’esperienza, prescindendo dagli stretti vincoli del pensiero concettuale» (pp. 79-80).

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d’ispirazione scettica della riflessione sul potere e il valore della scienza. Nella patria di Descartes e di Pascal, i poteri dell’intuizione non si lasciano intimidire da quel nascente logicismo destinato a registrare consensi ed innegabili successi. Un riconoscimento paradigmatico di questi poteri possiamo scoprirlo in Science et méthode. Nel capitolo intitolato L’invention mathématique, testo di una Conferenza tenuta a Parigi il 23 maggio 1908, all’Institut général psychologique, Poincaré ha cura di svelarci l’importanza della dimensione inconscia della soggettività nel processo dell’invenzione matematica5. Tale importanza non dovrebbe sorprendere molto soprattutto laddove si consideri la forte e dichiarata avversione di Poincaré al logicismo, di cui tra Ottocento e Novecento i principali rappresentanti, Georg Cantor, Bertrand Russell, Goblot Frege, David Hilbert, Giuseppe Peano, Louis Couturat, manifestano la pretesa di ridurre la matematica a segni, cioè alla logica. Si tratta di indagare – come apprendiamo in Science et méthode – non intorno ad un “sicuro istinto” o “vaga coscienza” geometrica, ma di vedere se nella dimostrazione matematica l’intuizione, una volta accolti i principi logici, non assolve alcun ruolo6. Il principio dell’induzione completa nell’epistemologia di Poincaré è reputato un vero giudizio sintetico a priori di cui è rivendicata senza alcuna esitazione una certezza intuitiva. L’“irrésistible évidence” è dovuta al fatto che quel giudizio «n’est que l’affirmation de la puissance de l’esprit qui se 5 H. POINCARE, L’invention mathématique, in: “Bulletin de l’Institut général psychologique”, VIII (1908), pp. 175-187; “Revue générale des sciences pures et appliqué-es”, XIX, pp. 521-526; “Revue du mois”, VI, pp. 9-21; “L’enseignement mathématique”, X, pp. 357-371 ed anche in Science et méthode (1908), trad. it. Scienza e metodo, Torino, Einaudi, 1997, da cui citiamo. É interessante vedere che secondo Jacques Hadamard la distinzione tra invenzione e scoperta è meno scontata di quanto comunemente si pensi. «Non c’è quasi differenza tra l’invenzione del parafulmine da parte di Franklin e la sua scoperta della natura elettrica del fulmine. Per questa ragione, la distinzione sopracitata [fra invenzione e scoperta] non ci riguarda: e, di fatto, le condizioni psicologiche sono identiche per entrambi i casi». J. HADAMARD, The Psychology of Invention in the Mathematical Field (1954), trad. it. La psicologia dell’invenzione in campo matematico, a cura di B. Sassoli, Introd. di G. Giorello, Milano, Cortina, 1993, p. XXIII. 6 H. POINCARE, Science et méthode, trad. it. Scienza e metodo, p. 126. Questo brano è tratto dal capitolo primo di Science et méthode, capitolo che riproduce la prefazione di Poincaré alla prima edizione americana, del 1907, di La valeur de la science. Si noti che mentre Auguste Comte vedeva nella scienza il mezzo della rigenerazione dell’Umanità nel brano riferito vediamo esaltato un piacere estetico che sembra metter capo al godimento interiore del soggetto conoscente. Cf. H. POINCARE, La valeur de la science, Flammarion, Paris

1970; trad. it. Il valore della scienza, a cura di G. Polizzi, Firenze, La Nuova Italia, 1994.

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sait capable de concevoir la répétition indéfinie d’un même acte dès que cet acte est une foi possible. L’esprit a de cette puissance une intuition directe»7. «Si un théorème est vrai pour le nombre 1, si on a démontré qu’il est vrai de n + 1, pourvu qu’il le soit de n, il sera vrai de tous les nombres entiers positifs»8. Nel campo dell’aritmetica è questo l’unico caso di giudizio sintetico a priori mentre in campo geometrico, nonostante la nozione di gruppo sia ritenuta in potenza preesistente nello spirito, l’idea di convenzione è irriducibile ad ogni apriorismo. Qui tuttavia vogliamo riferirci a quanto ci viene confidato nello scritto L’invention mathématique per la semplice ragione che ciò è particolarmente importante proprio in relazione alla genesi di quell’idea di convenzione che caratterizza non solo l’opera filosofico-scientifica di Poincaré ma alla fine dell’Ottocento provoca una rivoluzione concettuale nell’interpretazione filosofica della scienza. Questo scritto sull’invenzione matematica può gettar luce aggiuntiva su quella genesi. Considerando l’impegno di Poincaré nel campo delle funzioni si scopre che in questo campo tale impegno annovera la scoperta delle funzioni fuchsiane, scoperta che costituisce, come notava Gaston Darboux nel 1913, il titolo di gloria “le plus éclatant” del matematico francese9. L’idea di convenzione ha una natura linguistica ed è legata alla nozione di gruppo, nozione che secondo Poincaré è a priori. Poincaré afferma che nel nostro spirito esiste l’idea di vari gruppi. L’esistenza di tali gruppi legittima il pluralismo geometrico nullificando la millenaria presunzione dell’unicità della geometria euclidea. Nella filosofia della scienza di Poincaré si legittimava l’idea della intertraducibilità delle geometrie: ogni geometria può essere trasformata in un’altra e ciò è possibile ricorrendo a dizionari appropriati, dunque grazie al linguaggio. Egli difende la tesi secondo cui l’oggettività della scienza risiede nelle relazioni fra le cose e tali relazioni possono essere espresse da linguaggi che sono convenzionali, arbitrari e interscambiabili. La scelta di uno dei gruppi preesistenti nello spirito è suggerita dall’esperienza. Se scegliamo la geometria euclidea – sostiene Poincaré – ciò vuol dire che essa 7 H. POINCARE, La science et l’hypothèse (1902), trad. it. La scienza e l’ipotesi, a cura di C. Sinigaglia, Milano, Bompiani, 2003, p. 41. 8 Ivi, p. 74. Cf. J.J.A. MOOIJ, La philosophie des mathématiques de Henri Poincaré, Paris/Louvain, Gauthier-Villars, 1966. 9 Cf. G. DARBOUX, Eloge historique d’Henri Poincaré (1913), in Oeuvres, Paris, GauthierVillars, 1916-1956, t. II, pp. VII-LXXI, qui p. XXV

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(al contrario di quanto mostrerà Einstein) è la più adatta alla descrizione del nostro mondo fisico. Ora, negli scritti del geometra francese scopriamo che le funzioni fuchsiane sono quelle funzioni che possono gettar luce sull’origine della tesi convenzionalista e perciò rivestono una particolare importanza sia sul piano scientifico sia sul piano filosofico. Esiste infatti un legame fra le funzioni fuchsiane ed il non euclidismo. «Le trasformazioni che avevo usato per definire le funzioni fuchsiane – scrive Poincaré – erano identiche a quelle della geometria non euclidea»10. Nella Conferenza L’invention mathématique Poincaré non esita a rievocare la genesi psicologica della sua prima memoria sulle funzioni fuchsiane. A tal riguardo egli mostra la fecondità dell’io subliminale, anzi il suo “ruolo cruciale”, nella genesi dei concetti matematici. Vale la pena riportare la pagina in cui è illustrata tale genesi psicologica. Vi racconterò soltanto come ho scritto la mia prima memoria sulle funzioni fuchsiane. Vi chiedo di scusarmi se farò ricorso ad alcune espressioni tecniche, ma queste non vi devono spaventare, perché non avete nessun bisogno di capirle […]. Quel che interessa lo psicologo non è il teorema, sono le circostanze. Da quindici giorni mi sforzavo di dimostrare che non poteva esistere nessuna funzione analoga a quelle che ho in seguito denominato funzioni fuchsiane. A quel tempo ero molto ignorante; ogni giorno rimanevo una o due ore seduto a tavolino, provavo un gran numero di combinazioni e non arrivavo a nessun risultato. Una sera, contrariamente alle mie abitudini, bevvi una tazza di caffè nero e non riuscii a prendere sonno; le idee scaturivano a ridda, le sentivo quasi cozzare le une con le altre, fino a quando due di esse non si agganciavano, per così dire, a formare una combinazione stabile. Al mattino, avevo stabilito l’esistenza di una classe di funzioni fuchsiane, quelle che derivano dalla serie ipergeometrica. Non mi restava altro da fare che mettere per iscritto i risultati, un lavoro che mi richiese solo poche ore […]. In quel periodo partii da Caen, ove allora abitavo, per partecipare a una escursione geologica organizzata dall’École des Mines. Le peripezie del viaggio mi fecero dimenticare i miei lavori matematici; giunti che fummo a Coutances, salimmo in omnibus per non so più quale gita. Nel momento stesso in cui misi il piede sul predellino, ecco che mi venne l’idea, senza che nulla nei miei precedenti pensieri, almeno in apparenza, mi ci avesse predisposto: le trasformazioni che avevo usato per definire le funzioni fuchsiane erano identiche a quelle della geometria non euclidea. Non feci la verifica – non ne avrei avuto nemmeno il tempo, giacché, appena seduto, ripresi la conversazione che avevo iniziato in precedenza – ma ne fui subito assolutamente certo. Ritornato a Caen, verificai il risultato a mente fresca, per mettermi la coscienza a posto11. 10 11

H. POINCARE, Science et méthode, trad. it. Scienza e metodo, p. 43. Ivi, pp. 42-43.

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Dopo che nel corso dell’Ottocento hanno visto la luce le geometrie non euclidee, tale scoperta sul piano filosofico condurrà alla legittimazione della tesi secondo cui le diverse geometrie non sono altro che linguaggi, convenzioni nominali o meglio non proposizioni ma définitions déguisées e in quanto tali né vere né false. Tali linguaggi non si escludono reciprocamente poiché essi benché arbitrari sono intertraducibili, e quindi logicamente equivalenti se si ha cura di strutturare dizionari adeguati. Tali dizionari non tradiscono ma pongono in rilievo proprietà invarianti date dai rapporti che restano costanti nei gruppi di trasformazioni12. «La notion des groupes fuchsiens et kleinéens étant ainsi fondée, une fonction fuchsienne (ou kleinéenne) est celle qui reste invariante par toutes les substitutions d’un de ces groupes»13. Ora, nello sviluppo delle funzioni fuchsiane la geometria richiesta è quella lobacevskijana. Si andava legittimando con l’invariantismo quell’idea di convenzione che caratterizza la riflessione filosofica di Poincaré sui fondamenti della scienza. E ora, la rievocazione della genesi psicologica di tali funzioni mostra tutta l’importanza della soggettività inconscia nella scoperta scientifica. La storia del pensiero scientifico ci mostra diversi esempi di “illuminazione improvvisa”. «Lo stesso carattere di spontaneità improvvisa, scrive Jacques Hadamard, era stato indicato, alcuni anni prima, da un altro grande maestro della scienza contemporanea: Helmholtz ne aveva parlato in un importante discorso. Dopo Helmholtz e Poincaré, gli psicologi lo hanno riconosciuto come un tratto comune a tutti i tipi di invenzione»14. Reputiamo che non a caso nell’epistemologia bachelardiana il razionali12 Cf. H. POINCARE, La science et l’hypothèse, trad. it. La Scienza e l’ipotesi, pp. 72-74; inoltre, ID., On the Foundation of Geometry (1898), trad. it. Sui fondamenti della geometria, a cura di U. Sanzo, Brescia, La Scuola, 1990. Cf. inoltre U. BOTTAZZINI, Poincaré. Il cervello delle scienze razionali, “Le scienze”, 7 (1999), pp. 4-13. Sulla convenzionalità della geometria nella concezione di Poincaré mi sia permesso il rinvio a M. FORTINO, Convenzione e razionalità scientifica in Henri Poincaré, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1997 13 J. HADAMARD, L’oeuvre mathématique de Poincaré, in Oeuvres de Jacques Hadamard, Paris, Editions du C.N.R.S., 1968, vol. IV, pp. 1921-2005, qui p. 1930. Per quanto riguarda la scoperta delle funzioni fuchsiane ed il contesto in cui essa si situa si rinvia all’Introduzione di U. Sanzo a H. POINCARÉ, Sui fondamenti della geometria (trad. it. di On the Foundation of Geometry), cit., pp. VII-XII. La corrispondenza tra Fuchs e Poincaré (e quella di Poincaré con Félix Klein, il cui programma prevedeva l’“uniformazione della geometria”) è contenuta nel volume XI delle Oeuvres (pp. 13-65) di Poincaré. 14 J. HADAMARD, The Psychology of Invention in the Mathematical Field; trad. it. La psicologia dell’invenzione, p. 14. Cf. S.A. PAPERT, L’inconscio matematico, in J. WECHSLER (ed.), On Aesthetics in Science (1982); trad. it. L’estetica nella scienza, Roma, Editori Riuniti, pp. 127-145.

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smo si alimenterà di quei valori “surrazionali” che trovano una loro fonte primaria nella creatività e nell’immaginazione del soggetto conoscente. Nelle pagine di “ouverture” di L’engagement rationaliste, Bachelard esalta la dialettizzazione degli spiriti impostasi con la nascita delle nuove geometrie immaginarie. Dal giorno in cui ha dialettizzato la nozione di parallela, Lobacevskij – egli scrive – ha invitato lo spirito umano a completare dialetticamente le nozioni fondamentali. Una mobilità essenziale, un’effervescenza psichica, una gioia spirituale si sono trovate associate all’attività della ragione. Lobacevskij ha creato l’umore geometrico applicando l’esprit de finesse allo spirito geometrico; ha promosso la ragione polemica al rango di ragione costituente; ha fondato la libertà della ragione nei riguardi di se stessa allentando l’applicazione del principio di non contraddizione. Sfortunatamente non si è mai fatto un uso positivo, reale, surrealista di questa libertà che potrebbe rinnovare tutte le nozioni completandole dialetticamente. Sono arrivati i logici e i formalisti. E invece di realizzare, di surrealizzare la libertà razionale che lo spirito sperimentava in tali dialettiche precise e frammentarie, hanno al contrario derealizzato, depsicologizzato la nuova conquista spirituale. Ahimè! Dopo quest’atto di formalizzazione vuota di tutto il pensiero, dopo questo accanito bisogno di sotto-realismo, lo spirito non è diventato più vivace e vigile, ma più lento e disincantato15.

In questo brano di L’engagement rationaliste scopriamo che per Bachelard, difensore in sede epistemologica dei valori di ragione, fra ragione ed emozioni, non vi è dunque estraneità ma complicità. Bachelard se col surrazionalismo, con la dialettizzazione della ragione certamente non intendeva indulgere al mero estetismo, ma rivelava un’antropologia della ragione, si potrebbe dire diversamente delle seguenti affermazioni contenute in Science et méthode, vale a dire ch’esse indulgono ad un mero estetismo? In Science et méthode vediamo che la sensibilità svolge un importante ruolo dal momento che i fenomeni inconsci privilegiati – quelli suscettibili di divenire coscienti – sono quelli che, direttamente o indirettamente, impressionano in maniera più profonda la nostra sensibilità. Può forse destare meraviglia il fatto di invocare la sensibilità a proposito di dimostrazioni matematiche che, a quel che sembra, possono avere a che fare solo con l’intelligenza. Ma ciò signi15 G. BACHELARD, L’engagement razionaliste (1972), L’engagement rationaliste; trad. it. L’impegno razionalista, a cura di F. Bonicalzi, Prefazione di G. Canguilhem, Milano, Jaca Book, 2003, p. 27.

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Mirella Fortino ficherebbe dimenticare il senso della bellezza matematica, dell’armonia dei numeri e delle forme, dell’eleganza geometrica: un vero e proprio senso estetico che tutti i veri matematici ben conoscono. E tutto questo è appunto sensibilità16.

Individuando gli enti matematici “privilegiati” ci si accorge anche del fecondo gioco fra sensibilità ed attività della mente quando leggiamo: Orbene, quali sono gli enti matematici cui si attribuiscono queste caratteristiche di bellezza e di eleganza, e che sono capaci di suscitare in noi una sorta di emozione estetica? Sono quelli i cui elementi sono disposti armoniosamente, in modo che la mente riesca a coglierne senza sforzo l’insieme senza, con questo, lasciarsi sfuggire nessun dettaglio. Questa armonia soddisfa alle nostre esigenze estetiche e costituisce un aiuto per la mente, della quale è sostegno e guida; e nello stesso tempo, mettendoci sotto gli occhi un tutto ben ordinato, ci fa presagire una legge matematica17.

Armonia, bellezza ed eleganza non possono dirsi criteri meramente estetici se è vero che l’armonia “ci fa presagire una legge matematica”. Facendoci presagire una legge matematica l’armonia è possibilità di scoperta, ed ha implicazioni indubbiamente teoretiche. Se ci si riferisce ad una sorta di vis divinatoria, intuitiva, bellezza ed eleganza non si configurano insomma come criteri puramente pragmatici; esse si pongono in funzione della scoperta dei valori di ragione. “Inventare è scegliere”18. Si scelgono, come sostiene Poincaré, le combinazioni utili, quelle che sono utili conoscitivamente. Questa scelta, dice Jacques Hadamard, è operata in virtù di regole “fini e delicate”19. E tali regole «è quasi impossibile enunciarle con un linguaggio preciso: esse possono essere sentite più che formulate»20. Tra la dimensione cosciente e quella inconscia non s’instaura tuttavia un’antitesi. Fra il conscio e l’inconscio vi è cooperazione piuttosto che subalternità dell’uno all’altro. Però è appena il caso di notare che quanto alla scoperta di Poincaré sull’omnibus, la sua scoperta è preceduta da un atto deliberativo. «La scoperta – scrive Hadamard parlando dell’”attività direttrice del conscio” – dipende necessariamente dall’azione preliminare più o meno intenPOINCARÉ, Science et méthode; trad. it. Scienza e metodo, p. 48. Corsivo nostro. Ibid. 18 J. HADAMARD, The Psychology of Invention in the Mathematical Field; trad. it. La psicologia dell’invenzione in campo matematico, p. 28. 19 Ivi, p. 29. 20 Ibid. 16 17

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sa della coscienza»21. Essa è frutto della tensione che caratterizza la ricerca e perciò sarebbe davvero inopportuno dire ch’è dovuta al caso. Nelle Matematiche se invece si considerasse il valore della semplicità si scoprirebbe che questo aiuto per la mente si è rivelato ingannevole, fallace, come dimostra la storia della scienza. La geometria euclidea agli occhi di Poincaré appariva più semplice, come un polinomio di primo grado è più semplice di uno di secondo; ma ben osservava Bachelard quando diceva che il progresso dei valori di ragione esige talvolta drastiche rotture: la relatività einsteiniana vedrà nella geometria quadridimensionale, e non in quella euclidea, la geometria più adatta alla descrizione del nostro mondo fisico. Purtuttavia ciò non tradisce il fatto che nella tradizione filosofico-scientifica francese, l’immaginazione, la rêverie, la “psicologia della ragione”, sono esigenze profonde dello spirito e non possono che testimoniare la persistenza dell’indissolubile e antico legame fra filosofia e scienza, in nome di un sapere non riduzionista e di un sapere in divenire, che nella sua storicità, nel suo carattere progressivo segnato anche da brusche rotture epistemologiche, ripone bachelardianamente le ragioni della sua vitalità. 3. Semplicità, bellezza, linguaggio nelle scienze fisiche Fin dalle origini del pensiero filosofico la ricerca dell’arché, del principio, ha svelato il ruolo fondante di quell’esigenza di ordine e di armonia che con i Pitagorici conduce a riporre nel numero il fondamento della realtà. Quest’esigenza di ordine e di armonia è sottesa anche alla scienza moderna. La matematica è il linguaggio per esprimere l’ordine geometrico del mondo. Copernico, Keplero e Galilei sono gli eredi moderni dello spirito pitagorico che nel mondo antico caratterizza inoltre l’attività del Demiurgo platonico che plasma la chora, come si legge nel Timeo, non a caso, ma secondo forma e numero. Il Demiurgo è l’artefice ottimo che in quanto tale ha inoltre plasmato la chora secondo bellezza. Perciò il mondo è bello. Nell’età moderna Copernico, nella lettera dedicatoria del De revolutionibus orbium coelestium a Paolo III, cercando le ragioni della tesi eliocentrica nel tentativo di emancipare l’astronomia dal disordine in cui versava quella a lui precedente, fa dell’ordine, dell’armonia dell’universo e della “certa simmetria delle sue parti” ragioni fondamentali dell’avventura della ricerca 21

Ivi, p. 38.

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astronomica22. E Keplero, affascinato dall’armonia delle orbite planetarie, e convinto della concordanza fra immagini interiori, nell’anima, ed oggetti esterni, “alla fine della sua opera sull’armonia dell’universo – come ricorda Werner Heisenberg – proruppe in un grido di gioia: «Ti ringrazio Signore Iddio, nostro Creatore, che mi permetti di vedere la bellezza della tua opera di creazione»23. «Che una scoperta matematica [...] trovi la sua esatta replica nella natura, mi convince ad affermare che la bellezza è ciò a cui la mente umana risponde nei suoi recessi più profondi e segreti. Che la semplicità è l’impronta del vero e che la bellezza è lo splendore della verità»24. Così scrive l’astrofisico indiano Subrahmanyan Chandrasekhar. Dunque, si direbbe che “pulchritudo splendor veritatis [est]”. Nella storia della scienza la scoperta dell’ordine, dell’armonia e della bellezza è una pretesa costante che rivendica un valore ontologico e logico. Il mondo è essenzialmente – vale a dire ontologicamente – armonia di forme e il linguaggio della scienza, con la formulazione di leggi e teorie che nella semplicità pretendono trovare il loro sigillum veri, ha il potere di rispecchiare questa vera (o forse solo presunta) strutturale armonia e di rendere così intelligibile il mondo fisico. Agli inizi del secolo XX il legame con la tradizione di cui stiamo dicendo è molto forte nella concezione di diversi scienziati. Basti pensare, fra gli altri, al fisico e psicofisiologo Ernst Mach, al fisico Pierre Duhem ed a Poincaré. Eleganza, semplicità e bellezza nella loro opera diventano canoni metodologici e quasi fine della ricerca perché illuminano la via da seguire nella ricerca ed al tempo stesso sono capaci di appagare l’intelligenza e22 Cf. N. COPERNICO, De Revolutionibus orbium coelestium, a cura di A. Koyré, Torino, Einaudi, 1975, p. 17 (trad. it. dell’ed. del 1934). 23 W. HEISENBERG, Schritte über Grenzen (1971); trad. it. Oltre le frontiere della scienza, Roma, Editori Riuniti, 1984, capitolo su “Il significato del bello nelle scienze esatte”, pp. 186-199, qui p. 192. Heisenberg fa notare che il fisico atomico di Zurigo Wolfgang Pauli, amico dello psicologo Jung, esprime idee simili a quelle di Keplero. Il fisico svizzero nel far ciò si richiama – secondo Heisenberg – proprio alla definizione di simbolo data da Jung. Ivi, p. 197. Allo stadio preconscio della conoscenza, sostiene Pauli, «sono presenti immagini con un forte contenuto emozionale, che non sono pensate, ma sono viste come dei dipinti. Poiché queste immagini sono l’espressione di una circostanza presentita ma ancora sconosciuta, possono essere chiamate simboliche, in accordo con la definizione di simbolo data da Jung […]. Tuttavia si deve stare attenti a trasferire questa conoscenza a priori nella coscienza e metterla in relazione con Idee precise razionalmente formulabili». Ibid. 24 S. CHANDRASEKHAR, Truth and Beauty: Aesthetics and Motivations in Science (1987); trad. it. Verità e bellezza. Le ragioni dell’estetica nella scienza, presentazione di M. Hack, Milano, Garzanti, 1990, p. 10.

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sploratrice dello scienziato. Ne La théorie physique: son objet et sa structure Duhem attinge nell’opera di Mach l’idea di economia di pensiero traducibile in quella nozione di simbolo che caratterizza la sua concezione della teoria fisica non come spiegazione bensì come “rappresentazione”, cioè come insieme di segni utili per rendere conto delle apparenze fenomeniche25. In essa le considerazioni di natura estetica si fondono con l’intelligibilità teorica del reale. Partout où l’ordre règne, il amène avec lui la beauté; la théorie ne rend donc pas seulement l’ensemble des lois physiques qu’elle représente plus aisé à manier, plus commode, plus utile; elle le rend aussi plus beau. Il est impossible de suivre la marche d’une des grandes théories de la Physique, de la voir dérouler majestueusement, à partir des premières hypothèses, ses déductions régulières; de voir ses conséquences représenter, jusque dans le moindre détail, une foule de lois expérimentales, sans être séduit par la beauté d’une semblable construction, sans éprouver vivement qu’une telle création de l’esprit humain est vraiment une oeuvre d’art26.

Qui si noti che a quei criteri che si definirebbero di natura pragmatica, come l’utilità e la comodità27, si aggiunge il valore estetico della teoria assimilata all’opera d’arte. Apertamente in sintonia con le idee di Osiander e Bellarmino, la riflessione di Duhem non può celare, a differenza del credo pragmatico ed antirealista di questi ultimi, una certa ambivalenza dal momento che ne La théorie physique il criterio di economia coesiste con ammissioni di natura realista. In essa infatti la teoria assimilata ad un’opera d’arte, non è una costruzione artificiale ma è una classificazione naturale che ha la pretesa di rivelare l’ordine ontologico del mondo attraverso un continuo processo di approssimazione. Ed il bello quindi, nonostante l’ostentata simpatia di Duhem per Osiander e Bellarmino, sostenitori dello strumentalismo teorico contro la concezione realista28, anche qui è funzione del vero. Parleremo perciò di “estetica intellettuale” della filosofia della scienza duhemiana. Ma colui che all’alba del XX secolo meglio sa esprimere la magia della bellezza in termini visibilmente vibranti è però Poincaré quando 25

Cf. P. DUHEM, La théorie physique. Son objet et sa structure (19142); trad. it. La teoria

fisica. Il suo oggetto e la sua struttura, Bologna, Il Mulino, 1978.

Ivi, p. 31. Usiamo il condizionale perché nella concezione di Duhem, come abbiamo osservato altrove, l’utile non è finalizzato all’azione ma alla conoscenza. Cf. M. FORTINO, Essere, apparire e interpretare. Saggio sul pensiero di Duhem (1861-1916), Milano, Franco Angeli, 2005. 28 Cf. P. DUHEM, Sozein ta phainomena. Essai sur la notion de théorie physique de Platon a Galilée, Introduction de P. Brouzeng, Paris, Vrin, 1994, p. 136. 26 27

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in Science et méthode leggiamo che l’uomo di scienza non studia la natura perché ciò è utile; la studia perché ci prova gusto, e ci prova gusto perché la natura è bella. Se la natura non fosse bella, non varrebbe la pena conoscerla, né varrebbe la pena vivere la nostra vita. Non intendo parlare, naturalmente, di quella bellezza che colpisce i sensi, della bellezza delle apparenze qualitative; non che la disdegni, tutt’altro, ma essa non ha niente a che vedere con la scienza. Intendo invece parlare di quella bellezza più riposta che deriva dall’ordine armonioso delle parti, e che può essere colta dalla pura intelligenza. [...]. La bellezza intellettuale [...] basta a se stessa, e forse più che per il bene futuro dell’umanità, è per essa che l’uomo di scienza si assoggetta a dure e lunghe fatiche. È dunque la ricerca di questa bellezza speciale, il senso dell’armonia del mondo, che ci inducono a scegliere i fatti che sono più adatti a contribuire a questa armonia, così come l’artista sceglie, fra i lineamenti del suo modello, quelli che completano il ritratto e gli danno vita e carattere. E non si deve temere che questa preoccupazione istintiva e inconfessata possa sviare lo scienziato dalla ricerca della verità29.

In questo lungo brano del primo capitolo di Science et méthode, la bellezza si configura come armonia delle parti di un tutto ed è sintesi essenzialmente di tre valenze diverse, teoretiche, estetiche ed etiche, indisgiungibili. Queste valenze esprimono una mera Weltanschauung? Oppure possiamo reputarle elementi costitutivi del divenire della scienza, anzi del divenire filosofico della scienza? In questo capitolo che nel 1907 ha costituito la prefazione, col titolo The choice of facts, della prima edizione americana dell’opera del 1905, La valeur de la science (tale prefazione con il medesimo titolo è pubblicata in “The Monist” nel 1909), sotto le molteplici metafore sono ben visibili categorie interpretative della proposta convenzionalista che, di contro alle interpretazioni fuorvianti cui essa è andata incontro, non indulgono all’utilitarismo e al pragmatismo. Tali categorie nel discorso di Poincaré si rivelano invece complici dell’intellettualismo. Il classico antagonismo fra sensibilità ed intelletto in questo discorso infatti si risolve a favore del privilegio conoscitivo del secondo (anche se nell’epistemologia dello scienziato francese i sensi assolvono un ruolo fondamentale). Tale precisazione è molto significativa dal momento che la proposta convenzionalista di Poincaré è stata di contro spesso intesa, in ragione soprattutto dell’interpretazione nominalista del filosofo bergsoniano Édouard Le Roy, come espressione del nominalismo, del pragmatismo e dell’antiintellettualismo dilaganti all’inizio del ’900, anzi come una specie di “romantisme utilitaire”. 29

H. POINCARE, Science et méthode, trad. it. Scienza e metodo, p. 15.

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Positivisticamente impegnata a negare nel dominio della scienza cause nascoste e la natura intima, cioè l’essenza, dei fenomeni, l’opera epistemologica di Poincaré si situa tra realismo ed antirealismo. Se in Duhem il realismo dai critici è a volte inteso come espressione della filosofia di un fisico credente, nella concezione di Poincaré, le ragioni estetiche in linea con un’esigenza realista sono piuttosto scevre, ma non completamente emancipate, da presupposti di natura ontologica. Basti pensare al principio della semplicità. La semplicità talvolta è reale ma talvolta essa è, come mostra la teoria cinetica dei gas, soltanto apparente. «Si nous étudions l’histoire de la science, nous voyons se produire deux phénomènes pour ainsi dire inverses: tantôt c’est la simplicité qui se cache sous des apparences complexes, tantôt c’est au contraire la simplicité qui est apparente et qui dissimule des réalités extrêmement compliquées»30. Se la semplicità non è reale essa è una mera credenza: «il n’est pas sûr que la nature soit simple. Pouvons-nous sans ranger faire comme si elle l’était?»31. Tale disincanto non si afferma tuttavia senza un non indifferente coinvolgimento dello spirito, che ha la sua più celata origine in un’esigenza cartesiana, fondata sull’evidenza intuitiva, che nel secolo XX sarà destinata a dissolversi ne Le nouvel esprit scientifique dell’epistemologia non cartesiana di Bachelard. Fortunatamente la storia della scienza ha regole intrinseche al suo stesso divenire, quindi avverse ad ogni dover essere: vera o presunta che fosse la pretesa copernicana di ordine davanti alla confusione dell’astronomia precedente subordinata al modello esplicativo basato su eccentrici ed epicicli, pretesa sorretta dal postulato metafisico, di origine platonica, della semplicità, l’“ipotesi” copernicana attendeva che il genio di Galilei provasse la verità dell’ipotesi realista dell’astronomo polacco. In ogni caso la ricerca della semplicità nella dottrina convenzionalista è metodologicamente criterio che guida le scelte teoriche e meta della ricerca. Se la semplicità invocata come criterio metodologico assume il carattere di un’escogitazione meramente pragmatica, dal momento che tale criterio si rivela a ben vedere arbitrario32, cosa dire invece di quelle analogie a volte nascoste che l’intelligenza indovina? e che permettono di presagire l’intelligibilità del reale? Tale intellezione è possibile grazie al linguaggio matematico il quale, preludendo alla scoperta, fa tutt’uno con l’arte ed è quindi anch’esso fonte di emozione. H. POINCARE, La science et l’hypothèse, cit., p. 162. Ivi, p. 161. 32 Sul carattere arbitrario del criterio della semplicità si veda C.G. HEMPEL, Philosophy of Natural Science (1966); trad. it. Filosofia delle scienze naturali, a cura di A. Pasquinelli, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 67-74. 30 31

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Ne La valeur de la science, del 1905, ancor prima del riconoscimento degli straordinari poteri dell’inconscio relativamente all’invenzione matematica di cui si parla in Science et méthode, Poincaré fa interagire logica ed emozioni quando riconosce che le matematiche vantano un triplice fine: consentono di studiare la natura ed inoltre vantano un fine filosofico ed un fine estetico. Riferendosi ad esse il sentimento estetico è congiunto alla scoperta di nuove prospettive scientifiche: Et sourtout leurs adeptes y trouvent [nelle matematiche] des jouissances analogues à celles que donnent la peinture et la musique. Ils admirent la délicate harmonie des nombres et des formes; ils s’émerveillent quand une découverte nouvelle leur ouvre une perspective inattendue; et la joie qu’ils éprouvent ainsi n’a-t-elle pas le caractère esthétique, bien que les sens n’y prennent aucune part? Peu de privilégiés sont appelés à la goûter pleinement, cela est vrai, mais n’est-ce pas ce qui arrive pour les arts les plus nobles?33

Lo stretto legame fra fisica e matematica, legame caratterizzato dalla reciproca penetrazione, è istituito specialmente in virtù della lingua che le matematiche offrono alla fisica. E grazie alla lingua si attua un progresso di pensiero. Storicamente ciò è infatti ad esempio visibile nel passaggio dal calore, indicante erroneamente una sostanza indistruttibile (perchè il calore era un sostantivo) all’elettricità. Accade dunque benissimo che l’estetica linguistica si traduca in un progresso della ragione scientifica. Eh bien, pour poursuivre la comparaison, les écrivains qui embellissent une langue, qui la traitent comme un objet d’art, en font en même temps un instrument plus souple, plus apte à rendre les nuances de la pensée. On comprend alors comment l’analyste, qui poursuit un but purement esthétique, contribue par cela même à créer une langue plus propre à satisfaire le physicien34.

E i cambiamenti linguistici sono forieri di cambiamenti teorici, quindi preludio di verità in particolare grazie a generalizzazioni insospettabili. Ciò è accaduto nel passaggio dalla legge di Keplero a quella di Newton da cui è dedotta tutta la meccanica celeste. Fra fenomeni apparentemente senza rapporto si scorge invece un legame. Ciò grazie allo spirito matematico, all’analisi che «nous a appris à connaître les analogies véritables, profondes, celles que les yeux ne voient pas et que la raison devine»35. Lo spirito maH. POINCARE, La valeur de la science, cit., p. 104. Ivi, p. 105. 35 Sulle analogie nella scienza cf. C.G. HEMPEL, Aspect of Scientific Explanation (1965); trad. it. Aspetti della spiegazione scientifica, Milano, Il Saggiatore, 1987, capitolo su “Modelli e analogie nella spiegazione scientifica”, pp. 161-176. 33 34

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tematico è dunque ricco di una vis divinatoria che per il fisico è preziosa. Nella concezione convenzionalista le lingue, assimilate qui ad un oggetto d’arte, non sono allora teoricamente equivalenti, nonostante questa concezione abbia sancito l’arbitrarietà dei linguaggi concepiti come mezzi di espressione per esprimere i rapporti veri tra le cose. Così scopriamo che se il matematico lavora da artista, preoccupandosi al pari dello scrittore, delle “nuances de la pensée”, può rendere importanti servizi alla fisica. D’altronde non è vero che fin dal 1892 Duhem sosteneva, nel difendere la tesi della sottodeterminazione teorica, del pluralismo teorico, che vi sono criteri di preferenza che consentono di scegliere la teoria più adeguata al modello, cioè alla natura?36 La valorizzazione dei poteri intuitivi implicata dalla ricerca delle analogie, analogie a volte nascoste, non sarà tuttavia esente da critiche. Ad esempio, ne La formation de l’esprit scientifique, Bachelard ritiene che i principi di armonia e «les analogies ne favorisent aucune recherche»37. Nonostante tutte le possibili riserve critiche nei confronti della riflessione di fine Ottocento sulla scienza resta vero che, nella più disincantata filosofia della scienza di tale periodo, né la tesi convenzionalista, né la tesi olista erano tese a giustificare reticenze di natura antiintellettualistica. Si potrebbe piuttosto ad esempio notare che la logica della falsificazione, nonostante le tante riserve critiche avanzate e il carattere indubbiamente conservatore del continuismo di scienziati come Poincaré e Duhem, negli scritti di questi non solo non è rifiutata ma i momenti in cui si registrano esperimenti confutatori convincenti sono anzi, in essi, fonte di emozione. Insomma il ricorso al simbolo, alla convenzione, all’economia di pensiero, all’eleganza delle proposizioni scientifiche sviano dal progresso, rendono impossibile la confutazione dei principi, delle teorie? Come abbiamo sostenuto in altri scritti una simile esegesi lascerebbe in ombra luoghi in cui la confutazione teorica si rivela fonte di gioie inattese. Ciò è visibile sia nell’opera di Poincaré, sia nell’opera di Duhem. «Le physicien qui vient de renoncer à une de ses hypothèses devrait être, au contraire, plein de joie, car il vient de trouver une occasion inespérée de découverte»38. Questo atteggiamento è reputato consono, in merito a questa affermazione, ne La 36 P. DUHEM, La valeur de la science, cit., p. 106. Cf. ID., Quelques réflexions au sujet des théories physiques, in «Revue des questions scientifiques», XXXI, t. I, pp. 139-177; ora in Prémices philosophiques, introduction de S.L. Jaki, Leiden, Brill, 1987. 37 G. BACHELARD, La formation de l’esprit scientifique (1938), Paris, Vrin, 1993, p. 88. 38 H. POINCARE, La science et l’hypothèse, cit., p. 165.

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science et l’hypothèse, di fronte alle scoperte di Henri Becquerel sulla radioattività, e ne La théorie physique di fronte ad esempio all’experimentum crucis di Léon Foucault riguardante la velocità della propagazione della luce. Parimenti resta vero che Duhem, innamorato della filosofia di Pascal, nell’esprit de finesse di questi ripone immensa fiducia, al fine di dirimere le incertezze riguardanti la confutazione di un’ipotesi di un insieme teorico39. Particolarmente influente si andava rivelando dunque la tradizione di quel soggettivismo gnoseologico impostosi col cogito cartesiano, e dell’esprit de finesse pascaliano che ritroviamo in Duhem investito del potere di scorgere l’ipotesi singola che in un sistema teorico dev’essere falsificata. E a causa dello stretto legame tra science, bon sens e finesse Duhem ostenterà tutta la sua esacerbazione nei confronti dello spirito tedesco ch’egli tanto depreca poiché lo ritiene povero di quei poteri intuitivi che a suo avviso sono prerogativa esclusiva dello spirito francese. La scienza tedesca è ancilla della scienza francese (Scientia germanica ancilla scientiae gallicae) sostiene Duhem nel 1915 ne La science allemande, opera intrisa di risentimento antitedesco40, quando ormai in ambito austriaco erano stati gettati i semi, tra il 1907 e il 1912, della tradizione impostasi con la Wissenschaftliche der Weltaffaussung (concezione scientifica del mondo), determinata a trovare nella logica il linguaggio adeguato ad esprimere l’oggettività del sapere scientifico. É sicuramente vero che nella tradizione filosofico-scientifica francese le bon sens, l’esprit de finesse non possono essere divelti perché essi sono fonte di scoperta e dunque dell’emozione che accompagna, e non potrebbe non accompagnare, la conquista del vero. D’altronde, non è vero che proprio Bachelard, profondamente engagé nella denuncia di ogni specie di ostacolo epistemologico, e perciò profondamente votato alla psicoanalisi della razionalità scientifica, ne L’engagement rationaliste cui accennavamo sopra, scrive che «Lobacevskij ha creato l’umore geometrico applicando l’esprit de finesse allo spirito geometrico»?41. Il riconoscimento bachelardiano appare tanto più significativo in quanto situato nell’opera di colui che denuncia e vuole espungere ogni ostacolo epistemologico o meglio tutto ciò che sembra violare i “valori di ragione”. L’intuito Cf. M. FORTINO, Essere, apparire e interpretare, cit. P. DUHEM, La science allemande, Paris, Hermann et Fils, 1915, p. 143. 41 G. BACHELARD, L’engagement rationaliste, trad. it. L’impegno razionalista, p. 27. Cf. J.J. WUNENBURGER, Imaginaire et rationalité: une théorie de la créativité générale, in F. BONICALZI, C. VINTI (eds.), Ri-cominciare. Percorsi e attualità dell’opera di Gaston Bachelard, Milano, Jaca Book, 2004, pp. 125-136. 39 40

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sostiene invece proprio la causa della razionalità scientifica. Era questa “finesse” una risorsa inestinguibile della tradizione speculativa e scientifica francese destinata però a veder prevalere, nella cultura mitteleuropea negli anni compresi fra le due guerre, la Wissenschaftliche und Weltauffassung, all’interno della quale sono ben visibili e dichiaratamente riconosciute dai suoi maggiori rappresentanti le eredità di quel convenzionalismo di cui dicevamo all’inizio del presente scritto, e all’interno del quale soprattutto si trattava di fare i conti con quella rigogliosa razionalità scientifica che vanta fra le sue produzioni eminenti la fisica relativistica e la fisica quantistica. Quel che è comunque importante notare è che le questioni inerenti la scoperta, l’invenzione e le altre nozioni non si configurano come esito di una “libertà arbitraria”, e soprattutto, richiamandoci a Ilya Prigogine, occorre anche dire che «la question philosophique de l’invention dans les sciences communique avec celle de l’histoire des sciences»42, anzi il fatto inventivo non può essere disgiunto dalla cultura di cui è partecipe43.

42 Cf. I. PRIGOGINE, I. STENGERS, Le problème de l’invention et la philosophie des sciences, “Revue Internationale de Philosophie”, n. 121-132 (1980/81), pp. 5-25. 43 Ivi, p. 13.

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I simboli grafici sono il combustibile naturale delle passioni, in quanto condensati culturali, espressioni marcatamente identitarie che ingenerano contrastanti moti di amore/odio, detengono una funzione rassicurante e al contempo inquietante, collegata alla loro natura sociale. Che si tratti della croce per i cristiani, della svastica per i nazisti, del tricolore per gli italiani, il loro comun denominatore sta nel risvegliare un senso profondo d’appartenenza, l’etimologia stessa del termine syn- ballein (mettere insieme) rinvia ad un momento di unione e condivisione. La croce rossa e i cerchi olimpici sono esempi paradigmatici di marchi identificativi globalizzati, riconosciuti a livello internazionale e in grado di creare vincoli emotivo-affettivi su ampia scala. Due simboli caratterizzati, in quanto tali, da una duplice trascendenza: semantica, data dall’oltrepassamento di senso e dall’evocatività polisemica, e pragmatica, poiché il simbolo è avvolto in una trama relazionale, risveglia un senso d’appartenenza, l’esigenza di riconoscersi in una comunità reale o virtuale (VALLAURI, 2005, p. 15). I linguaggi simbolico-grafici cui facciamo riferimento si collocano al crocevia tra i simboli della terminologia saussuriana, segni motivati opposti a quelli linguistici, e l’ icona, che secondo Peirce è un segno che rappresenta un oggetto per somiglianza (PEIRCE, 1931-1958, trad. it 1980, p.186), qualcosa che, come il simbolo, “sta per” un’altra entità, evoca sinteticamente un’elaborazione mentale fungendo da equivalente visivo della parola. L’icona non è tuttavia figurativamente mimetica rispetto al rappresentato, è una sua rielaborazione culturale, che ne seleziona alcuni tratti convenzionali. Dalla non arbitrarietà del legame tra l’involucro e il suo contenuto discende la dimensione narrativa del simbolo che non solo rappresenta ma racconta. La funzionalità evocativa degli emblemi del Movimento internazionale della Croce Rossa e del Movimento olimpico ci mostra utensili dal fascino narrativo, icone capaci di innescare infinite catene semantiche. Il farsi storia del simbolo è dovuto al suo potere di rimando, alla possibilità di dare chiavi di lettura differenziate del legame tra, ad esempio, il simbolo della croce e il rimando alla solidarietà e neutralità che animano l’associazione umanitaria che rappresenta. Bollettino filosofico 24 (2008): 146-153

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D’altra parte la sottolineatura iconica immette direttamente nell’ambito della comunicazione visiva, riguarda la capacità delle immagini di toccare la sfera emotiva piuttosto che quella logico-razionale propria del linguaggio. Le suggestioni visive creano un coinvolgimento immediato penetrando nel subconscio. Occorre ricordare a riguardo che la visione non è un mero automatismo percettivo, ma comporta sempre una rielaborazione culturale dei dati sensoriali. L’informazione visiva si accompagna alle aspettative, ai residui di memoria, alle associazioni innescate dagli input visivi, comporta una selezione di tratti essenziali che guidano l’uomo verso la conoscenza della realtà. È nell’alveo di queste considerazioni che J. Gibson, esaminando le modalità e la fisiologia della visione, distingue il campo visivo dal mondo visivo. Il campo visivo è dato dagli impulsi registrati dalla retina, dalla rilevazione meccanica da parte dei captatori sensoriali della vista; il mondo visivo è invece la traccia soggettiva lasciata da quell’insieme di stimoli che vengono interiorizzati dall’individuo, traducendosi in immagini e quindi in concetti, sensazioni, informazioni, conoscenza (APPIANO, 2001, p. 261). Il positivismo, sfondo elaborativo sia della croce rossa che dei cerchi olimpici, estrapola i simboli saussurianamente intesi, dalle loro circoscritte coordinate spazio-temporali, dilatandole in senso interculturale. Le due istituzioni a caratura internazionalistica investono su un messaggio iconico in grado di superare le barriere della comunicazione verbale e i collaterali problemi legati alla traducibilità. Due esperimenti coevi ma con esiti opposti. Un modello vincente è sicuramente rappresentato dal Movimento Olimpico che dal 1896 conserva come simbolo universalmente accettato i cerchi decubertiani. L’ottimismo positivista del promotore Pierre De Cubertin fu premiato insieme alla sua brillante intuizione grafica: i cerchi che uniscono i cinque continenti sono riusciti ad armonizzare nel grande evento sportivo ogni differenza di razza, religione e opinione politica (HEYER, 2005, p. 37). Dall’incontro di filantropia e semiotica scaturisce uno dei marchi più conosciuti e contestati: il logo della Croce Rossa come indicatore della prima Organizzazione umanitaria per il soccorso dei feriti in guerra. Un ordine significante si fa strada nell’entropia dei campi di battaglia, dove viene introdotto dalla Croce Rossa il rivoluzionario valore della neutralità del ferito e dei soccorritori, indipendentemente dal fronte di appartenenza. La Convenzione di Ginevra, siglata il 22 Agosto 1864, ancora il lusinghiero risultato diplomatico all’unità del signe distinctif, ovvero la croix rouge sur fond blanc (BUGNION, 1977, p.22). L’accettazione unanime della croce ros-

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sa su fondo bianco, ottenuta mediante l’inversione dei colori della bandiera svizzera, patria del fondatore dell’Opera Henry Dunant e depositaria atavica del principio di neutralità, viene percepita dai promotori come incarnazione ottimale del corollario di principi che sorreggono l’impalcatura del Movimento (BUGNION, 1989, p. 223). Una certezza che crollerà dopo pochi anni sotto il peso delle differenze culturali. Nel corso della guerra Russo-Turca che insanguinò i Balcani nel 1876- 78, i reparti medici ottomani sostituiscono la croce, designata in un contesto laico, aconfessionale e di respiro internazionale, con un simbolo nazionalistico e religioso: la mezzaluna rossa, ponendosi come antesignani di una proliferazione di emblemi che mina i presupposti universalistici dell’Opera (BUGNION, 2000, pp. 427-477). L’adesione della Turchia all’impalcatura strutturale dell’organizzazione umanitaria non impedisce il rifiuto di un simbolo, quello della croce, percepito nelle sue connotazioni religiose, che anziché incarnare l’imparzialità e neutralità evoca un retroterra occidentale, eurocentrico e cristiano (POLLARD, 1995, p.22). Il caso mostra in maniera esemplare come la spinta differenziale prema sulle pareti dell’unità simbolica. È in scena il dramma umano della frammentazione e del relativismo, mali alla radice di ogni idea universale e onnicomprensiva. Non si tratta tuttavia solo di assistere alla tragedia filosofica di un impossibile reductio ad unum ma, come è proprio dell’anima pragmatica della Croce Rossa, si apre una stringente questione: dal momento in cui un emblema protettivo che dovrebbe garantire l’intangibilità suscita sentimenti di avversione religiosa, di odio etnico, la franchigia dell’inviolabilità viene risucchiata in una spirale di violenza. L’ambivalenza del simbolo, che diventa controverso oggetto di amore/odio, ci consente di rinvenire nel suo comportamento il fenomeno del transfert teorizzato da Freud. La simbolizzazione implica infatti la traslazione di un’immagine evocativa di uno stato d’animo, di aspettative, ansie, fobie. Sul simbolo si trasferiscono pulsioni positive, che determinano un vero e proprio attaccamento “amoroso”, ne fanno un oggetto di adorazione. Il transfert ha tuttavia una doppia natura, convoglia una componente minacciosa e oscura, contiene eros e thanatos. In questo senso l’ostensione di un simbolo può produrre profonda avversione fino a scatenare una vera e propria furia iconoclasta. Pensare ad una croce come elemento araldico e farne il simbolo dell’universalità denuncia sicuramente l’ingenuità di un contesto creativo ancora acerbo. Tuttavia anche la smaliziata società post-moderna, affetta da

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overdose di logo, ha difficoltà a dirimere la “questione dell’emblema”, a garantire la corrispondenza tra l’unità del Movimento e quella del suo segno distintivo. La Federazione che coordina le società nazionali di soccorso ha accolto la denominazione di Federazione internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa, rafforzando mediante questo binomio l’impropria percezione di due grandi culti monoteistici giustapposti, senza risolvere la storica antinomia tra croce e mezzaluna (SOMMARUGA, 1992, pp. 347-352). La vicenda deve essere ricontestualizzata nell’attuale quadro di recrudescenza religioso-identitaria. La cartografia post-moderna propone una mappatura culturale del pianeta, un ritorno in auge delle civiltà che, contrariamente ai vaticini sul tramonto di ogni pratica cultuale, pongono di fronte ad una rinascita religiosa spesso intransigente ed aggressiva. La formazione di comunità ripiegate su loro stesse, sui propri attributi identitari, accresce il sospetto verso l’Altro, il diverso, estraneo ai rituali d’iniziazione (BURKE, 2001, trad. it. 2002, pp. 36-40). Nel manuale delle appartenenze si inseriscono vecchi e nuovi segnali distintivi , che regolano i meccanismi di inclusione ed esclusione. Ogni identità si struttura a livello di appartenenze culturali e si alimenta nella produzione simbolica. Il proliferare di particolarismi è accompagnato dal moltiplicarsi di simboli di appartenenza , spesso di matrice religiosa, in crescente reciproca rivalità. La reazione al disordine globale diventa l’ordine delle civiltà demarcate, come ha proposto Huntington, da confini simbolico- culturali invalicabili, separazione che rischia costantemente di sfociare in un devastante scontro di civiltà (HUNTINGTON, 1997, trad. it. 1999, p. 14). I simboli nel loro ruolo strutturante di identità collettive, fanno leva su pulsioni inconsce e primitive, che consolidano un “noi” protettivo e rassicurante, mentre indirizzano e focalizzano le spinte aggressive e sopraffattorie verso un “loro” grottesco e caricaturale. Agiscono come compattante di gruppi che si riconoscono in un symbolon, fungendo nello stesso tempo da catalizzatori di violenza nel mobilitare contro l’Altro, il diverso, lo sconosciuto, per il quale il simbolo estraneo si trasforma in diabolon, ciò che separa. Negli scenari attuali le associazioni umanitarie, gli enti no profit, le organizzazioni internazionali si confrontano quotidianamente con le problematiche del multiculturalismo e le difficoltà del dialogo interculturale (PICCIAREDDA, 2003, pp. 7-10). La Croce Rossa internazionale ha sperimentato sul campo che la condivisibilità interculturale dei simboli profila un pro-

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blema di traducibilità analogo a quello delle lingue, denunciando la fragile pretesa di un sistema di comunicazione universale. Da un lato i simboli in virtù della loro ambiguità semantica tenderebbero ad assorbire le differenze, prestandosi ad un’opera di mediazione, dall’altro questa stessa ambiguità è fonte di fraintendimenti ed equivoci, proprio perché si possono estrarre dal medesimo contenuti diversi e contraddittori. L’avvio di un simbolismo interculturale impone innanzitutto la negoziazione di un significante e di un significato condivisi, affrontare in chiave dialogica la diversità, impegnandosi in una comunicazione interattiva che consenta l’assestamento su posizioni comuni. Le recenti Conferenze internazionali del Movimento Internazionale Croce Rossa e Mezzaluna Rossa hanno voluto contrapporre alle possibili interpretazioni aberranti del simbolo, il tentativo di creare un nuovo segno, legato ad un fascio di istruzioni univoco. Discutere dell’appropriatezza di un simbolo nel rappresentare un’idea è lecito, da un punto di vista semiologico, proprio in quanto il rapporto tra rappresentante e rappresentato non è del tutto arbitrario, è pertanto suscettibile di rielaborazione. Saussure ne dà autorevole conferma opponendo l’accettazione fatalistica delle corrispondenze tra immagini sonore e concetti , all’approccio critico ai simboli: «Si potrebbe anche discutere di un sistema di simboli, perché il simbolo ha un rapporto razionale con la cosa significata» (SAUSSURE, 1922, trad. it. 1995, p. 91). Per placare il furore centrifugo dei richiami etnico religiosi si è optato per il depotenziamento di ogni suggestione semantica, riducendo i margini interpretativi in una fedeltà al politically correct. Il cristallo rosso, nuovo emblema aggiuntivo adottato nel 2006, sperimenta una funzionalità semplice ed essenziale, tentando di incarnare visivamente il principio di neutralità. La soluzione che il cristallo rosso costituisce a livello astratto, formale e burocratico non dispiega tuttavia il suo immenso potenziale sul piano fattuale. La risonanza mediatica dell’evento è stata insufficiente e non ha prodotto echi duraturi, inoltre la saga dell’emblema non può dirsi conclusa, in quanto l’accordo internazionale riguarda un segno aggiuntivo e non sostitutivo. È stata privilegiata una scelta flessibile, permettendo di incorporare nel cristallo i simboli approvati dal consesso internazionale, facendo del cristallo una cornice universale sul particolare. Un equilibrio funambolico che ha consentito l’ingresso di Israele nel Movimento, mediante l’adozione della stella di David inscritta nel cristallo, ma che non si accorda con il rimedio globale e definitivo che i più lungimiranti membri dell’Organiz-

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zazione avevano auspicato in seguito alla proliferazione emorragica di emblemi. Se il caso della Croce Rossa evidenzia la discrasia tra universali simbolici e particolari locali, l’accettazione pacifica dei cerchi olimpici non esclude la problematicità connessa alla funzione semaforica delle istituzioni, che le rende portatrici di senso, significato, contenuti. Le moderne Olimpiadi rappresentano uno dei primi eventi globali, un gigantesco edificio simbolico, esperimento di fratellanza tra i popoli nel nome di una comune passione per la fiamma sportiva. Nel sogno positivista della fiducia nel progresso dell’umanità si insinua l’incubo delle passioni di parte e delle rivendicazioni di gruppo. Sotto la denominazione di “settembre nero” è stata consegnata alla storia l’incursione terroristica di un commando palestinese nel cuore delle Olimpiadi ospitate da Monaco nel 1972. Gli atleti israeliani vengono presi in ostaggio e la posta in gioco per il loro rilascio è la liberazione di altrettanti miliziani palestinesi. Una vicende dal macabro epilogo: l’irruzione della polizia tedesca porterà ad uno scontro armato e ad un tragico bilancio, diciassette morti tra israeliani, agenti della polizia e fedayn palestinesi. Seguendo la nozione guida di funzione semaforica elaborata da Franco Fornari è possibile un’applicazione sociale della psicoanalisi, fuoriuscendo dal suo originario dominio intrapsichico. Per poter adagiare le istituzioni su un setting psicoanalitico, occorre in qualche modo individualizzarle, umanizzarle, attribuire loro un inconscio e un dinamismo psichico, operando una transizione dal simbolo onirico privato, immaginario e confusivo al simbolo pubblico, consensuale e distintivo (CONTROZZI, DELL’ACQUA, 1978, p. 70). Fornari coniuga la psicoanalisi alla semiotica individuando i codici simbolici che dirigono il traffico della comunicazione, regolando l’incontro-scontro tra il proprio desiderio e quello degli altri. L’atto dimostrativo di Monaco ’72 si inscrive sicuramente nella logica spettacolarizzante della società mediatica, del terrorismo come noir trasmesso in diretta. Il palcoscenico olimpico che celebra l’unione dei popoli diventa sede di divisioni, mostra platealmente il conflitto, mai risolto, tra universale e particolare, diventa target involontario di contestazioni violente proprio a causa della sua caratura etica e del suo alto profilo simbolico. Si realizza di fronte ad una platea globale una forma di catarsi in cui trova sfogo la nevrosi collettiva, esibita, ostentata e infine punita e repressa. Il gusto parossistico e le contraddizioni accompagnano anche l’attesa delle Olimpiadi di Pechino 2008. Un incisivo nonché originale atto di de-

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nuncia è stato veicolato dal simbolo storico delle Olimpiadi: i cinque cerchi si sono trasformati in altrettante manette, nel logo di protesta creato dal gruppo di “Reporter senza frontiere”, graffiante e critico nei confronti delle gravi violazioni in materia di diritti umani e libertà d’espressione da parte del governo cinese. Atto assimilabile dell’interferenza culturale o culture jamming, il sabotaggio organizzato del sistema pubblicitario promosso da attivisti no-global, la deturpazione sistematica dei cartelloni promozionali allo scopo di alterarne il messaggio o parodiarne gli annunci. L’atto di contestazione culturale diventa in questo modo un forte detonatore di situazioni di abuso e sfruttamento (KLEIN, 1999, trad. it. 2001, p. 248). Il dissenso dell’organizzazione dei giornalisti non riguarda naturalmente l’evento olimpico in quanto tale, né mira al suo boicottaggio, ma consegna ad un eloquente linguaggio grafico il paradosso cinese, poco coerente con l’essenza del messaggio olimpico. Una denuncia interamente riversata su di un logo, enfatizzazione piena della brevitas, una delle principali chiavi interpretative della società di massa. I concetti che hanno come referente un’immagine di conciliano infatti con la compressione spazio-temporale attuata dalla cultura mediatica, che tende a ridurre drasticamente gli intervalli tra azione e reazione in ogni evento comunicativo. L’immediatezza nel trasferimento di informazioni unita alla fascinazione visiva non esclude tuttavia un raffinato impianto metacomunicativo, inferenziale che passa attraverso il gioco della semiosi illimitata. Nei logo intervengono in egual misura processi semiotici e di art design: le caratteristiche grafiche innescano un meta discorso sul marchio, affinando gli strumenti retorici e narrativi, per strutturare sapientemente un’identità visiva, data dalla coerenza tra forma e contenuti (FLOCH, 1995, trad. it. 1997, pp. 1-5). Un logo che nella sua fissità e staticità esprime la sua potenza comunicativa nella capacità di sintesi ideologica e culturale. I simboli grafici costituiscono terreno di scontro e strumenti di denuncia, incanalano pulsioni di vita o di morte, valori positivi o negativi, ingenerano attaccamento o repulsione in virtù del loro impatto emozionale, delle suggestioni inconsce e dei giochi di seduzione propri della comunicazione visiva. Bibliografia BUGNION, F. (1977), L’Emblème de la Croix Rouge. Aperçu historique, Comité International de la Croix Rouge, Genève. BUGNION, F. (1989), “L’emblème de la Croix Rouge et celui du Croissant Rouge”, Revue internazionale de la Croix Rouge, Genève, CICR.

Linguaggi grafici e passioni ideologiche

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FRANCESCO LESCE Natura, passioni, corpo, mondo. Spinoza e l’ontologia dell’affettività Per Spinoza, alla natura dell’uomo non appartiene assolutamente nulla. In lui tutto è pensato, ma veramente tutto, in termini di divenire. E allora, che significa “divenire razionali”? Cosa significa “divenire liberi”, una volta detto che la libertà non è attributo essenziale della natura dell’uomo? GILLES DELEUZE

1. Critica della modernità: la rottura del legame col mondo Ciò che è implicato nel pensiero di un filosofo è più profondo di tutti i suoi significati espliciti. Sono le sue motivazioni, le tensioni, gli assilli: tutto quello che un’opera dissimula, fra le sue pieghe riflesse, come punti di traduzione e di domanda. Più importante del pensiero è, secondo una bella espressione di Proust, ce qui donne à penser. È su questo sfondo che affiora la domanda: cosa giunge, attraverso Spinoza, di ineluttabile e che ancora oggi ci costringe a pensare? Anzitutto l’idea che le passioni siano l’elemento costitutivo e inalienabile della natura umana. Ma quale definizione offre Spinoza delle passioni? Il termine passione, come si sa, è sinonimo di passività e di soggezione. Allude a una forza indocile che pur nascendo dentro il soggetto si mantiene indisponibile al suo comando. È un’idea, naturalmente, più antica di Spinoza. «I Greci avevano sempre sentito l’esperienza delle passioni come un fatto misterioso e pauroso in cui sperimentiamo una forza che è in noi, e che ci possiede, anziché venir posseduta da noi. La parola stessa păthos lo attesta: come il suo equivalente latino passio, indica qualcosa che accade agli uomini, vittime passive»1. Spinoza eredita quest’idea – avere delle passioni significa essere turbati da «causa esterne» – e la ripropone all’interno di una trattazione nuova, senz’altro inedita nella storia del pensiero filosofico. La strategia etica appare complessa: tanto difficile quanto rara dirà Spinoza. Consiste nel ricercare l’infinitezza e la libertà interiore, pur nel1

DODDS, I Greci e l’irrazionale, Milano 2005, p. 235.

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l’accettazione della costituzione fragile e intrinsecamente mortale dell’esistenza. Da un lato, infatti, essendo le passioni un fattore non accessorio ma basilare della natura umana, esse introducono in ognuno di noi quell’elemento di dissidio, irrazionale e perturbante, che rischia di far naufragare il desiderio di interna unità con noi medesimi. «Noi siamo agitati dalle cause esterne in molti modi e (…) come le onde del mare, agitate da venti contrari, fluttuiamo, inconsapevoli della nostra sorte e del destino»2. Dall’altro lato, però, è solo assumendo le passioni come elemento indispensabile al processo di soggettivazione che, secondo Spinoza, accettiamo la vera sfida etica: essa consiste nel ricomporre il soggetto in sé, in quanto essere vivente e desiderante, nel suo rapporto con l’ordine eterno della natura. Un’etica così concepita, se da una parte abbandona il vecchio pregiudizio moralistico di attribuire le passioni a un deprecabile vizio della natura da deridere, disprezzare, o sottoporre a rigida sorveglianza, dall’altra, offre in controluce diversi elementi di una «critica lungimirante della modernità», come l’ha definita Tosel3. Sono molti gli spunti critici offerti dallo spinozismo che bene si applicano ad alcuni aspetti fondativi del pensiero filosofico moderno. Essi orientano, in primo luogo, una riflessione sulle contraddizioni del soggettivismo cartesiano che spinge in direzione di un sovvertimento teorico di alcune sue conseguenze specifiche. È in questa prospettiva di lettura che il lascito di Spinoza si lega all’impegno di un radicale ripensamento della modernità. È un’eredità, quella spinoziana, che ci incoraggia a ripensare la modernità, le sue logiche evidenti e le sue segrete patologie, a partire da un’esigenza critica che, a ben vedere, ha accomunato i punti di vista più significativi del pensiero filosofico contemporaneo4. È possibile ravvisare una linea di continuità che attraversa le divergenze e ricompone le prospettive intorno all’idea, di ispirazione nietzscheana, che la modernità sia l’epoca del mondo ridotto a favola. Lungo questo asse d’interpretazione incrociamo la lettura di Martin Heidegger. Per il filosofo tedesco, il pensiero di Descartes contiene la matrice ontologica di quel processo di derealizzazione che risolvendo il mondo a entità Le opere di Spinoza, di cui indicheremo di seguito le traduzioni italiane utilizzate, sono designate dalle abbreviazioni dei titoli: BT (Breve Trattato, introduzione, traduzione e note di F. Mignini, L’Aquila 1986); TEI (Trattato sull’emendazione dell’intelletto, a cura di E. de Angelis, Milano 1990); E (Etica, a cura di E. Giancotti, Roma 1997); TP (Trattato politico, a cura di L. Pezzullo, Roma-Bari 1991). Il passo riportato nel testo si riferisce a E, III, LIX, pr., schol. 3 TOSEL, Du matérialisme de Spinoza, Paris 1994. 4 Cf. GALLI (a cura di), Logiche e crisi della modernità, Bologna 1991. 2

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oggettuale delle rappresentazioni soggettive dispone il terreno di una completa razionalizzazione della realtà. È «il costituirsi del mondo a immagine ciò che distingue e caratterizza il Mondo moderno»5. Beninteso, con immagine, dice Heidegger, «intendiamo il mondo stesso», e questo significa che è la stessa sostanza del reale ad essere risolta nell’esser-rappresentato. La metafisica moderna individua nel subjectum il cardine della realtà e il principio di determinazione di un mondo ridotto a sfondo della mera oggettività. In questo quadro, lo stesso accadere degli enti non è più pensabile al di fuori del détournement soggettivo in cui sono le certezze del cogito che, per mediazione divina, sorreggono il mondo e lo riflettono «a immagine dell’uomo»6. Tuttavia, il problema da rilevare in questa dialettica del soggetto è proprio la paradossale separazione fra uomo e mondo che essa determina. Questa coerente contraddizione, che unisce il potere della rappresentazione del soggetto e la rottura del suo legame con l’oggetto, si esprime nelle stesse parole di Descartes. «Per cui dato che questa verità: Io penso dunque sono, è così ferma e certa che non avrebbero potuto scuoterla neanche le più stravaganti supposizioni degli scettici, giudicai di poterla accogliere senza esitazione come il principio della mia filosofia. Poi, esaminando con attenzione ciò che ero, vidi che potevo supporre sì di non avere alcun corpo, e che non esistesse il mondo o altro luogo dove io fossi, ma non perciò potevo supporre di non esserci io, perché, anzi, dal fatto stesso di dubitare delle altre cose, seguiva nel modo più evidente e certo che io esistevo»7. La mossa cartesiana è strategica: per risalire a se stesso, come sostanza prima e principio di ordine assoluto, il soggetto deve anzitempo trascendere la propria realtà materiale; deve cioè, da una parte decorporeizzare il sé individuale, dall’altra desostanzializzare il mondo empirico, le cui pressioni appariranno comunque inaggirabili solo verso la fine delle Meditazioni8. La svolta cartesiana ratifica così il primato dell’astrazione che tuttavia non s’impone dal di fuori, giacché non richiama alcuna esteriorità che esuli dal movimento di costituzione soggettiva della realtà. Il contrappunto critico a Descartes giungerà, secoli dopo, attraverso le parole di Gilles Deleuze: «Il fatto moderno è che noi non crediamo più in questo mondo. Non crediaHEIDEGGER, Sentieri interrotti, Firenze 1999, p. 89. «La metafisica è antropomorfismo – il configurare e vedere il mondo a immagine dell’uomo»; HEIDEGGER, Nietzsche, Milano 1995, p. 640. 7 DESCARTES, Discorso sul metodo, in Opere, Bari 1967, vol. I, 47, 151; Id., Meditazioni metafisiche sulla filosofia prima, in ivi, vol. I. 8 Cf. GUEROULT, Descartes selon l’ordre des raisons, Paris 1953. 5 6

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mo neppure agli avvenimenti che ci accadono, l’amore, la morte, come se ci riguardassero solo a metà (…) È il legame fra uomo e mondo a essersi rotto»9. Ma da dove ha origine questa frattura che separa l’uomo dal mondo, il corpo dal pensiero e, in ultima analisi, il soggetto dai propri vincoli naturali? Per rispondere a queste domande proviamo a spostare l’angolo visuale assumendo direttamente il punto di vista spinoziano. Secondo Spinoza la rottura del legame fra uomo e mondo si determina nel momento in cui l’uomo smette di considerarsi una parte della totalità dell’ordine naturale, da cui si stacca per allestire lo spazio della propria incontrastata signoria. Rimossa l’idea che i propri atti siano il risultato di un sistema di determinazioni naturali, l’uomo si affida alla propria volontà priva di legami come a quell’unico baluardo in grado di arginare la mutevolezza dell’ordine naturale10. Ed è proprio in questo stacco dal mondo materiale che si dissolve la consapevolezza che l’affettività sia l’elemento costitutivo, seppur problematico, della soggettività. «La maggior parte di coloro che hanno scritto sugli affetti e sul modo di vivere degli uomini danno l’impressione di trattare non di cose naturali che seguono le comuni leggi della natura, ma di cose che sono al di fuori della natura. Sembra anzi che concepiscano l’uomo nella natura come un dominio all’interno di un dominio. Credono, infatti, che l’uomo turbi l’ordine della natura più che seguirlo e che abbia un potere assoluto sulle proprie azioni e che non sia determinato da altro che da se stesso»11. Secondo Spinoza, al contrario, «non è possibile che l’uomo non sia parte della Natura, e che non patisca altri mutamenti se non quelli che possono essere spiegati mediante la sua sola natura e dei quali è causa adeguata (…) Ne segue che l’uomo è sempre necessariamente soggetto alle passioni e segue l’ordine comune della Natura»12. L’insorgenza delle passioni, come si vede, è il segnale più evidente del fatto che l’uomo si costituisce all’interno della natura come parte di un tutto da cui egli non potrà mai separarsi. È un fatto insopprimibile, che rende vana l’idea del libero arbitrio e con essa tutte le aspirazioni all’auto-dominio ed alla disposizione senza vincoli di se stessi13. Così, anche la strategia etica inDELEUZE, L’immagine-tempo, Milano 1989, pp. 191-192. Cf. in merito LÖWITH, Spinoza. Deus sive Natura, Roma 2000. 11 E, III, praef. (corsivo nostro). 12 E, IV, IV, pr. e cor. 13 Sullo sfondo della critica dell’antropocentrismo si chiarisce il senso del determinismo spinoziano in cui la coincidenza di libertà e necessità fornisce una spiegazione realistica sia dell’effettivo potere di Dio, in quanto assoluto e illimitato, sia di quello dell’uomo, in quanto finito e limitato. Cf. TP, II, 7, in cui si legge: «non si può considerare l’uomo libero per il 9

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centrata sul controllo della vita passionale e sull’esercizio della potenza umana non sfocia mai, in questo discorso, nell’ideale prometeico di dominio della natura e del mondo o nell’ipotesi infausta di soppressione dell’umana finitudine. Noi siamo necessariamente soggetti alle passioni, pertanto passivi, o «causa parziale» del nostro essere. Su questo limite, che è anche il terreno di ogni umana potenza, non bisogna mai dimenticare che «la forza con la quale l’uomo persevera nell’esistenza è limitata e infinitamente superata dalla potenza delle cause esterne»14. Qui emerge il volto anticartesiano di Spinoza o, più in generale, la sua reazione al soggettivismo filosofico che dirige il nostro sguardo prospettico sulla modernità. Stiamo provando obliquamente a seguire la critica di Spinoza a partire da un’analisi delle passioni, poiché è lungo questo vettore problematico che sembra delinearsi il profilo alternativo di una soggettività che si struttura nella dimensione dell’affettività. Non si può prescindere tuttavia da una rapida ricostruzione del quadro metafisico entro cui la tematica delle passioni s’inscrive acquistando la sua centralità15. 2. Filosofia dell’immanenza e ricomposizione del legame fra mente e corpo Oltre il dualismo cartesiano fra res cogitans e res extensa Spinoza elabora una filosofia della natura che si svolge tutta nella prospettiva dell’unità del mondo dei fenomeni. Senza mai trascendere l’ordine della natura e percorrendo senza sosta i confini di una necessità compresa, l’uomo sperimenta la possibilità di vivere felicemente nel movimento auto-produttivo di Dio. Causa sui è la prima definizione che l’Etica offre di Dio16, che ritorna ampliata nella affermazione di Dio come causa immanente di tutte le cose17. Si deve pertanto evitare di spiegare la produttività divina attraverso le categorie di creazione (tomismo) o di emanazione (neoplatonismo), poiché enfatto che può esistere o perché può non far uso della ragione, ma piuttosto in quanto ha il potere di esistere e agire secondo le leggi della natura umana». Cf. su questo le preziose analisi di GIANCOTTI, in EAD., Studi su Hobbes e Spinoza, Napoli 1995, pp. 57-80 e pp. 121-133. 14 E, IV, III, pr. 15 Com’è stato sottolineato, «la teorica delle passioni non è nel sistema di Spinoza un punto accessorio e nemmeno un’applicazione speciale di una veduta generale. Gli affetti sono per lui il centro stesso del sistema, perché rappresentano tutta la vita dell’anima, e sono la base naturale dell’amore di Dio nel quale si esaurisce il problema dell’Etica»; LABRIOLA, Origine e natura delle passioni secondo l’Etica di Spinoza, Milano 2004, p. 107. 16 E, I, I, def.; già in BT, cap. 2, 24. 17 E, I, XIII, pr.

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trambe reintroducono l’idea di trascendenza che non conviene all’ontologia spinoziana18. L’immanenza è il punto di vista fondamentale, secondo il quale Dio si esprime nel mondo poiché del mondo possiede divinamente l’unità e la pluralità. Ogni cosa, in quanto si produce nell’immanenza di Dio, si trova in Dio come una sua parte, frammento o grado singolare di potenza. È una prospettiva di immanentismo assoluto, questa, che ci rivela come in fondo il punto di vista di Dio sia anzitutto quello dell’uomo e del suo modo di vivere nel movimento infinito dell’universo naturale. Già prima dell’Etica, il primo passo di Spinoza muoveva verso la ricerca di un metodo in grado di guidare, oltre la soglia del senso comune, il cammino etico dell’uomo. Così nell’esordio del Tractatus de intellectus emendatione. Dopo che l’esperienza mi ebbe insegnato che tutte le cose che frequentemente si incontrano nella vita comune sono vane e futili; e quando vidi che tutti i beni che temevo di perdere e i mali che temevo di ricevere non avevano in sé nulla né di bene né di male, se non in quanto l’animo ne era turbato, decisi finalmente di indagare se si desse qualcosa che fosse un bene vero e condivisibile, dal quale soltanto, respinti tutti gli altri beni, l’animo fosse affetto; anzi, se si desse qualche bene che, trovato e acquisito, godessi in eterno di una continua e suprema letizia19.

In queste poche righe affiora una questione che ha fortemente interessato la filosofia del XVII secolo: quella dei rapporti fra il metodo e le condizioni spirituali necessarie all’uomo per il raggiungimento della verità. Se si legge in controluce il testo spinoziano, l’esigenza metodologica esprime di riflesso il legame, se non addirittura l’indipendenza, sia della gnoseologia dall’etica, sia dell’etica dalla metafisica. È inevitabile infatti che il problema della riforma dell’intelletto – o del superamento delle idee inadeguate, come dirà Spinoza nell’Etica – allarghi i confini gnoseologici dell’esperienza su un più vasto terreno problematico in cui il soggetto ricerca le condizioni spirituali che gli consentono l’accesso a Dio e alla verità. Non si deve perciò dimenticare che «la chiave di tutta la parte prammatica dell’Etica è proprio quest’emendazione dell’intelligenza, questa cura della mente, che nell’Etica è appena oggetto di accenni ed è tacitamente presupposta»; in tal senso, «se non si integra l’Etica col Tractatus de intellectus emendatione, non si colma la lacuna che si apre, nel corso dell’Etica, tra le proposizioni che descrivo18 Su questo punto ha insistito DELEUZE, in Spinoza e il problema dell’espressione, Macerata, 1999. 19 TEI, II, p. 11.

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no il necessario sviluppo delle passioni, e quelle altre che descrivono la resistenza dell’uomo che ha tutta razionalizzata la sua vita, all’eccitazione e al canto delle Sirene delle cose esterne»20. D’altro canto, si deve tenere sempre presente che il fine etico in Spinoza, ossia la possibilità della vita beata, è fondabile solo metafisicamente dal momento che ogni individuo è solo parte del movimento infinito della causa immanente. Il rapporto etico col verum bonum dipende dall’emendazione dell’intelligenza, ma non più di quanto l’effettivo svolgimento di una conoscenza chiara non condizioni già tutto un modo di vivere da cui dipende la possibilità sempre aperta per l’uomo di essere felice, di vivere nel bene e nella verità. Quello del metodo è il primo problema della vita filosofica quando questa è intesa come luogo d’incontro tra l’essere del soggetto e la verità. Ma in che cosa consiste, effettivamente, il verum bonum a cui si rivolge il cammino etico dell’uomo? Dopo aver dichiarato che «tutto ciò che accade, accade secondo un ordine eterno e secondo determinate leggi naturali», Spinoza afferma che il sommo bene è «la conoscenza dell’unione che ha la mente con tutta la natura»21. Questa conoscenza viene definita in più luoghi dell’opera spinoziana cognitio Dei, a riprova del fatto che tra Dio e Natura, almeno nelle prime opere di Spinoza, c’è davvero coincidenza22. E sebbene avanti nel testo, anche nell’Etica, questo legame è ribadito: la potenza di Dio risulta per definizione identica alla potenza produttiva della Natura: Dei, sive Naturae potentia23. Divinità della Natura e partecipazione dell’uomo all’immensa ricchezza della sua universalità produttiva, sono i due aspetti della singolare modernità dell’ontologia spinoziana24. Deus sive Natura è la grande affermazione GUZZO, Il pensiero di Spinoza, Firenze 1994, p. 148. TEI, II, p. 14. 22 Deleuze fa notare come «nel Breve Trattato c’era una «coincidenza» fra la Natura e Dio, a partire dagli attributi, mentre l’Etica dimostra una identità sostanziale, in funzione della sostanza unica (panteismo)»; di conseguenza, «vi è nell’Etica una sorta di dislocazione della Natura, la cui identità con Dio deve essere fondata, e che è pertanto più idonea a esprimere l’immanenza del naturato e del naturante»; Spinoza. Filosofia pratica, Milano 1991, p. 138. Il riferimento esplicito di Deleuze è all’opera di GUEROULT, Spinoza. Dieu, Paris 1968. 23 E, IV, IV, pr., dem. 24 In tal senso, com’è stato osservato, «la natura divina di Spinoza si contrappone al disincanto della modernità e restituisce «pienezza assoluta, infinita e vitale» alla realtà cosmica»; ALCARO, Filosofie della natura. Naturalismo mediterraneo e pensiero moderno, Roma 2006, p. 135. In questa lettura, la singolare modernità di Spinoza viene misurata in riferimento all’eredità mediterranea delle filosofie naturalistiche, il cui animismo ontologico sembra 20 21

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spinoziana che, nel contesto di riflessioni che qui intendiamo proporre sulla vita affettiva, si articola in correlazione con la teoria del «parallelismo». Soffermiamoci su questo legame. Il parallelismo degli attributi costituisce il presupposto di quella che possiamo definire la rivoluzione antropologica introdotta da Spinoza, ossia l’inscrizione della teoria dell’uomo all’interno di una ontologia dell’immanenza assoluta. Se infiniti sono gli attributi di Dio, è pur vero che l’uomo ne conosce solo due, l’estensione e il pensiero, di cui partecipa attraverso i due modi della mente e del corpo. Ora, la sfera della vita affettiva è ricostruita, nell’Etica, proprio sul filo teorico che ricollega fra di loro mens e corpus, il cui legame non gerarchico sostiene il ritmo del mondo. Secondo la teoria del parallelismo ciò che è corporeo sussiste come modo dell’estensione in quanto attributo divino al pari della mente: «la Mente e il Corpo sono una sola e stessa cosa che viene concepita ora sotto l’attributo del Pensiero e ora sotto l’attributo dell’Estensione»25. Questa simmetria non solo salda il soggetto alla propria struttura corporea ma riconfigura non astrattamente la realtà unitaria dell’uomo a partire dalla quale non è più ammissibile né un rapporto di causalità reale, né una relazione di eminenza fra la mente e il corpo. Ne consegue che «l’ordine delle azioni e delle passioni del nostro Corpo è simultaneo per natura con l’ordine delle azioni e delle passioni della Mente»26. Il significato pratico di tale teoria ha un chiaro risvolto polemico, ed è rappresentato dall’attacco al presupposto cartesiano del dominio completo delle passioni da parte di una ratio pura e legislatrice. Descartes, infatti, che pure si è sforzato di spiegare gli affetti umani per mezzo delle cause naturali, ha preferito, secondo Spinoza, imboccare «la via seguendo la quale la Mente può acquisire un dominio assoluto sugli Affetti»27. Questo potere assoluto sarebbe garantito da un procedimento intellettualistico, che introduce surrettiziamente una segreta sintonia tra la determinazione della nostra volontà e i movimenti di una parte del cervello che Descartes definisce ghiandola pineale, indicata come sede dei «giudizi stabili»28. Secondo questa ipotesi, che Spioffrire ancora oggi un’efficace antidoto al nichilismo della secolarizzazione. 25 E, III, II, schol. Sul nodo che lega la mente e il corpo, le idee e gli affetti nell’opera di Spinoza, cf. DELEUZE, Che cosa può un corpo. Lezioni su Spinoza, Verona 2007, di cui segnaliamo l’interessante prefazione di Aldo Pardi, pp. 7-39. 26 Ibid. 27 E, III, praef. 28 È importante rilevare, per inciso, come alcuni importanti settori delle neuroscienze oggi siano orientati, in direzione anticartesiana, ad una rivalutazione del corpo e del suo legame indissolubile all’attività della mente. Tale legame è riconosciuto come essenziale

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noza definisce «più occulta di qualunque qualità occulta», «se determiniamo la nostra volontà con giudizi certi e stabili, secondo i quali volgiamo dirigere le azioni della nostra vita e congiungiamo i movimenti delle passioni che vogliamo avere a questi giudizi, acquisteremo un dominio assoluto sulle nostre Passioni»29. Qui, ogni unione tra mente e corpo è annullata a vantaggio di un dualismo gerarchico che tiene forzatamente sospesa l’attività della prima su quella del secondo ed entrambi ricondotti alla volontà di Dio come principio finalistico di spiegazione dei fenomeni naturali. Su questo punto il rifiuto di Spinoza è netto: le sue parole rivelano un forte senso critico, aspramente anticartesiano. «Avrei voluto, in verità, che avesse spiegato questa unione mediante la sua causa prossima. Ma egli aveva concepito la Mente così distinta dal Corpo che non aveva potuto assegnare alcuna causa singolare né di questa unione, né della stessa Mente; ma gli era stato necessario ricorrere alla causa di tutto l’Universo, cioè a Dio. Vorrei, inoltre, sapere quanti gradi di movimento la Mente può attribuire a questa ghiandola pineale e con quanta forza può tenerla sospesa»30. La rottura è evidente. La divergenza spinoziana risiede nella sua diversa concezione del rapporto fra mente e corpo sulla quale occorre ancora soffermarsi. È importante cogliere lo sfondo della critica e, come direbbe Nietzsche, il suo retrogusto antimorale. Spinoza vuole contrastare il dualismo cartesiano tra extensio e cogitatio rovesciando il principio tradizionale sul quale si fonda la morale come impresa di dominio delle passioni e di condanna del corpo. Ecco dove si delinea la svolta. In primo luogo, ci dice Spinoza, bisogna evitare di giudicare il corpo come ostacolo della conoscenza e contestualmente di definire la Mente come una facoltà astratta. Lungo quest’asse problematico il parallelismo ammette, fra le altre, due verità essenziali per il nostro ragionamento: a) anzitutto che non c’è idea della Mente che non sia idea delle affezioni del Corpo31. Ciò significa che non solo la mente è sempre idea di qualcosa, ma che l’oggetto specifico dell’idea è il corpo di cui è inevitabile che la mente subisca le alterazioni (diminuzione o aumento di potenza); b) in secondo luogo, che la Mente per la formazione della coscienza umana, la quale si strutturerebbe proprio all’incrocio fra il funzionamento del cervello e la sfera dell’affettività. Qui il parallelismo spinoziano diventa un riferimento indispensabile. Cf. DAMASIO, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Milano 1995; DAMASIO, Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello, Milano 2003. 29 E, V, praef. 30 Ibid. 31 E, II, XIII, pr.

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non ha altra coscienza di sé, se non quella che acquisisce mediante le idee delle affezioni del Corpo32. In questo caso il corpo non è solo oggetto della conoscenza ma anche condizione positiva del formarsi della coscienza; e secondo che esso aumenti o diminuisca la propria potenza, in relazione ad altri corpi, si avrà una diversa coscienza di questo o di quello stato affettivo (gioia o tristezza). Da quest’ultimo punto deriva che non c’è altro principio della natura umana al di fuori di quello contenuto nella coscienza che l’uomo ha di sé in quanto soggetto corporeo, affettivo, desiderante. L’appetitus, dirà Spinoza, è «la stessa essenza dell’uomo», da cui deriva la cupiditas intesa come l’appetito cum ejusdem coscientia33. Su queste basi, dove sorge e si sviluppa una analisi senz’altro materialistica della natura umana, si rende necessario abbandonare il sogno metafisico di una sussunzione della dimensione ontica dell’affettività alla sfera astratta della ragione calcolante. Poiché, come abbiamo visto, l’ipotesi di un dominio assoluto delle passioni è già inficiata da quella pretesa idealistica che piuttosto che saldare, scioglie il legame fra uomo e natura, disattiva la risonanza fra corpo e mondo. Rimane tuttavia – ecco il punto focale della questione – la necessità di un trattamento etico delle passioni senza il quale la loro assunzione irrazionale apparirebbe altrettanto nefasta per l’uomo e per il suo rapporto con la realtà. Sarebbe riduttivo, da questo angolo visuale, appiattire la sfera dell’affettività all’ambito delle passioni: queste rappresentano solo la parte passiva che non può essere elusa e che tuttavia dev’essere trasformata in affetto positivo, il solo in grado di registrare un reale aumento di potenza dell’essere umano, e quindi un’intensificazione del suo legame col mondo. Al di fuori di questa transitio etica, infatti, l’uomo rimane prigioniero del caso, inibito nella sua potenza di agire da quelle cose che «non sono in suo potere» e che lo rendono inerme e passivo. «L’impotenza – afferma Spinoza – consiste soltanto in questo che l’uomo sopporta di essere guidato dalle cose che sono fuori di lui ed è determinato da esse a fare quelle cose che richiede la comune costituzione delle cose esterne e non quelle che esige la sua stessa natura in sé sola considerata»34. Avvolto dalle passioni, ossia privo di una conoscenza articolata della realtà, l’uomo rischia di rimanere avvinto al potere dell’immaginazione in una rete di rappresentazioni illusorie che limitano la propria prospettiva di azione a favore dell’attaccamento alle cose finite. A causa della sua limitazione spirituale il soggetto identifica se E, II, XXIII, pr. E, III, IX, pr., schol. 34 E. IV, XXXVII, pr., schol. I. 32 33

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stesso con una parte della realtà non potendosi sentire causa adeguata di tutte le sue azioni e parte del movimento auto-produttivo dell’essere. La prevalenza passionale rischia di appiattire la potenza umana alla sfera dell’interesse limitando così all’uomo, entro i confini della propria aspirazione acquisitiva, l’orizzonte della realtà ad esso disponibile. 3. Passione, interesse e legame sociale Incrociamo, in questo punto, un secondo asse polemico lungo il quale Spinoza insorge contro le filosofie del suo tempo che sostengono l’appropriazione razionale della natura sullo sfondo di una riduzione delle passioni alla sfera dell’interesse. Parte da qui la critica spinoziana dell’individualismo possessivo. Come è stato osservato, «se la storia moderna è storia della genesi e dello sviluppo del capitale, la tematica della passione-interesse la tesse strutturalmente e rende effettualmente insignificante ogni pensiero, tanto più ogni posizione metafisica, che dall’interesse come lavoro per la totalità tenti di sganciarsi»35. In questa lettura, l’anomalia spinoziana non si risolve nella critica del soggettivismo cartesiano ma rappresenta, più in generale, una vera alternativa all’antropologia borghese. Già nell’Etica gli spunti offerti contro l’individualismo del pensiero politico seicentesco sono numerosi, ed emergono là dove la socializzazione viene assunta al fine di un più efficace svolgimento della potenza umana nella creazione dei legami di gioia. Partendo dal principio che «l’uomo è un Dio per l’uomo» – principio antitetico a quello su cui è fondata l’antropologa negativa di Hobbes (homo homini lupus) – Spinoza afferma che gli uomini «possono a stento vivere in modo solitario, così che alla maggior parte è assai gradita quella definizione secondo la quale l’uomo è un animale sociale; e, in effetti, le cose stanno in modo tale che dalla comune società degli uomini nascono molti più vantaggi che danni»36. L’orizzonte critico è rappresentato dalle teorie che costruiscono l’ordine dei legami sociali a partire da una antropologia individualistica che assume l’individuo come soggetto di bisogno spinto da una volontà acquisitiva illimitata. In quest’ottica l’individuo appare ontologicamente compresso nel proprio egoismo proprietario, tutto riversato sulle cose particolari in uno spazio di proiezione passionale e immaginativa entro cui il valore degli enti è subordinato al criterio del proprio interesse e la varietà 35 36

NEGRI, Spinoza, Roma 1998, p. 183. E. IV, XXXV, pr., schol.

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ontologica degli affetti ridotta a mera passione acquisitiva. Spinoza crede, in tal senso, che l’egoismo possa essere superato solo attraverso un graduale trattamento delle passioni ed una inscrizione del loro orientamento cognitivo nel percorso di elevazione spirituale dell’uomo nei suoi rapporti con l’ordine comune della natura. Se qui la metafisica si presenta come discorso sulla totalità, è vero tuttavia che quella di Spinoza è una totalità aperta e dinamica che se da un lato mina le pretese del soggetto astratto di ergersi al di sopra del mondo e dei fenomeni, dall’altro prova a ricucire la complessa trama delle sue azioni in un ordine immanente di unità. Spinoza ci spiega che il primo fondamento della virtù etica è la conservazione del proprio essere, che costituisce per l’uomo un bene in sé, poiché «nessuna virtù può essere concepita prima di questa»37. Sarebbe tuttavia un errore interpretativo radicalizzare la tensione “immunitaria” di questo ragionamento senza comprendere che, nel quadro spinoziano, il fine etico non è mai riconducibile alla semplice protezione della vita, pur costituendo questa la sua precondizione negativa. Occorre quindi enfatizzare l’idea di autoperfezionamento e di crescita del soggetto su se stesso, presente nel discorso spinoziano, che viene articolata in una prospettiva che nel complesso ribalta l’antropologia autoconservativa di Hobbes in una pragmatica positiva che, se da una parte sostituisce alla paura della morte l’adesione affermativa al desiderio di vivere38, dall’altra, incoraggia il legame sociale in un prospettiva democratica e antiassolutistica39. Ogni individuo che aspira alla libertà si sforzerà, per quanto può, di giungere alla comprensione del proprio jus naturale attraverso il controllo riflessivo delle passioni e la traduzione di queste in affetti di gioia. Egli mirerà a questo obiettivo senza il sacrificio di sé e della propria utilitas, evitando tuttavia di subordinare le proprie passioni al dominio rigido dell’egoismo calcolante. Il principio dell’utile, al pari dell’autoconservazione, è collocato al suo posto, che non è certo il più importante. Se l’utilitas rimane una qualità determinante sia per l’autoconservazione, sia per i legami sociali, non lo è fino al punto di trasformarsi nell’unico principio organizzativo del sistema E, IV, XXII, pr. e cor. «L’uomo libero non pensa a nulla meno che alla morte, e la sua sapienza è meditazione non della morte, ma della vita», E, IV, LXVII, pr. 39 È stato osservato come «ciò che Hobbes esclude [al contrario di Spinoza] è la possibilità di una trasformazione interna delle passioni, la quale possa preludere alla creazione di un legame sociale tra gli uomini che non sia solo affidato alla forza della spada e della razionalità formale di un’istanza coercitiva esterna»; PULCINI, La passione del moderno e l’amore di sé, in VEGETTI-FINZI, Storia delle passioni, Roma-Bari 2004, pp. 153-154. 37 38

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delle relazioni sociale. Rimane infatti chiaro il fine etico, rappresentato dall’amor intellectus Dei a cui è correlato l’ideale politico della democrazia assoluta40. Il primo compito, come è stato detto, è quello di assumere le passioni congiuntamente allo spostamento interno delle passioni tristi in passioni di gioia. Questo richiede un contenimento della passività che tuttavia deve essere assunta, elaborata e capovolta a sostegno dell’espressione affermativa della vita e del legame. La condizione di ogni umana libertà si sperimenta nella transitio dalla passività, propria di chi vive totalmente esposto all’azione delle cause esterne, all’attività, che si esprime nell’affetto di gioia, il solo a determinare un aumento della potenza sia fisica che simbolica del soggetto. Nel passaggio di soglia si scopre la struttura interna del corpo umano, la cui potenza è sempre suscettibile di modificazione. La sua potenza di essere affetto è soddisfatta da affezioni attive o da affezioni passive a seconda che l’incontro con gli altri corpi determini un aumento (transitio a minore ad majorem perfectionem) o, al contrario, una diminuzione (transitio a majore ad minorem perfectionem) della potenza di agire. Si vede bene allora come l’ordine degli affetti dipenda sempre dall’ordine degli incontri (fortuitus occursus) e delle relazioni. La base affettiva della soggettivazione etica e la dimensione relazionale di questo processo espongono il soggetto al doppio pericolo di cedere, da una parte, al vento centrifugo delle libidines, e di soccombere, dall’altra, all’ordine coercitivo di una ratio neutra e disincarnata. Un’etica dell’affettività deve fondarsi, allora, sulla consapevolezza che le passioni siano proprietà della natura umana, nonché il contrassegno più evidente della sua inalienabile finitudine. Ma non c’è altro modo di intendere l’azione etica se non come trasformazione dell’ostacolo passionale in soglia epistemologica e ontologica, la quale dev’essere superata attraverso gradi o generi di conoscenza che nascono in seno al processo di costruzione etica della soggettività. È su questa soglia, lungo il percorso che conduce dall’immaginazione alla ragione e da questa all’amore intellettuale di Dio, che le forme dell’affettività e quelle dell’intelligenza si intersecano e crescono insieme lungo il cammino che porta l’uomo ad aumentare la propria vis existendi e a perseguire il perfezionamento di sé e la propria fedeltà al mondo. In questa visione, l’elemento dell’affettività costituisce il nucleo strutturale di un soggetto che ha abbandonato la tentazione idealistica del dominio sulle passioni, e della loro sovradeterminazio40 NEGRI, Democrazia ed eternità in Spinoza, in Spinoza, cit., pp. 380-389. Sull’amore intellettuale di Dio, in cui la contrapposizione fra passione e ragione è definitivamente ricomposta, cf. E. V.

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ne normativa, a vantaggio di una strategia più duttile in cui l’ordine razionale è sostituito dall’idea di un processo di razionalizzazione nel quale la passione è progressivamente depurata dai suoi aspetti distruttivi ed orientata al potenziamento delle qualità intellettuali dell’uomo. È questo un elemento davvero singolare di Spinoza: credere che sia possibile una pratica delle passioni giocata tutta all’interno, nell’immanenza del percorso passionale stesso41. Questa metamorfosi del soggetto è la sola base non astratta di ogni vita razionale. Da qui, l’impossibilità di prospettare uno stato irreversibile di pura razionalità, poiché l’origine non mitologica della ragione è da rinvenire nella trama stessa dell’affettività fondata sul parallelismo mente-corpo. Piuttosto che postulare la ragione come modello trascendente o come istanza trascendentale dell’esperienza, Spinoza ci offre l’opportunità di considerarla, in una versione materialistica, come l’operatore di trasformazione del desiderio che ha il compito di limitare le sollecitazioni delle cause esterne. La ragione resta per l’uomo «la sua somma Cupidità, con la quale cerca di moderare tutte le altre»42. In questa visione, l’arché e il telos di ogni vita razionale hanno sede nella fisica dei corpi e nella tipologia delle idee e degli affetti ad essa correlata. Ma, come si diceva, è importante insistere qui sulla dimensione relazionale, o «transindividuale» del processo etico, dal momento che non c’è individuo fuori dalla dinamica di costruzione dei rapporti umani che lo vede coinvolto43. Vivere secondo ragione significa, infatti, sia affermare se stessi, sia aprirsi all’altro. Da questo doppio movimento dipendono due verità preziose per il nostro ragionamento: a) la prima è che la ricerca dell’utile, a cui è connessa l’idea di autoconservazione, non rende necessario il ricorso alla ratio calcolante e che anzi il travaglio emotivo del soggetto avviene proprio là dove il perseguimento dell’utilitas non esclude l’inserimento delle passioni nella ricerca della perfezione umana44; b) la seconda è che la ricerca del vero utile non coincide affatto con l’individualismo solipsisistico e proprietario dell’homo oeconomicus, al contrario costituisce la premessa della creazione di un legame sociale45. «Non vi è nulla dunque di più utile all’uomo che l’uomo stesso; nulla, BODEI, Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità: filosofia e uso politico, Milano 2003. E. IV, app., IV cap. 43 BALIBAR, Spinoza e il transindividuale, Milano 2002. 44 «L’idea spinoziana di utilitas ha poco a che vedere con l’individualismo possessivo moderno (…) Tale utilitas non è affatto posta sotto la tutela della ratio come calcolo (…) Essa è soprattutto strumento di maggiore perfezione»; BODEI, op. cit., p. 342. 45 Ancora BODEI: «Il problema teorico posto da Spinoza è perciò quello della conciliabilità postulata fra utile e gioia individuale e utile e felicità pubblica»; Ivi, p. 344. Cf. E., 41 42

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dico, gli uomini possono desiderare di più efficace per la conservazione del proprio essere quanto che tutti concordino su tutte le cose in modo tale che le Menti e i Corpi di tutti compongano quasi una sola Mente e un solo Corpo e tutti, simultaneamente, si sforzino, per quanto possono, di conservare il proprio essere e tutti, simultaneamente, cerchino per sé l’utile comune di tutti; da ciò segue che gli uomini che sono governati da ragione, cioè gli uomini che cercano il proprio utile secondo la guida della ragione non ricercano per sé nulla che non desiderino anche per gli altri uomini e sono, pertanto, giusti, fidati e onesti»46. In questo orizzonte di relazioni, l’elaborazione etica delle passioni rimanda al dinamismo di una prassi in cui il soggetto tesse la trama di un mondo il cui senso traspare proprio nel punto di contatto fra sé e gli altri, e che ricompone la difficile dinamica dell’intersoggettività. L’ombra delle passioni evoca la traccia di un’alterità impressa nel cuore del soggetto, e il suo limite indisponibile, che è anche il sigillo di ogni umana potenza, ci testimonia che la vita felice è una possibilità etica e politica per l’uomo e non l’esito naturale del suo destino. In questo punto, dove l’etico e il politico s’intrecciano, la filosofia ritrova una nuova quadratura: la natura, gli affetti, il corpo, il mondo. Elementi che ricostruiscono il piano dell’essere, dove il percorso etico è integrato in una pratica sociale dei legami umani non più subordinati al potere ma vissuti nell’immanenza di una prassi comune. L’apertura filosofica dello spinozismo rappresenta un’eredità e insieme un compito per un’ontologia della politica che cerca di controeffettuare il nichilismo della sua fine.

IV, XXXV, pr., II, cor. In questo quadro critico di riflessione, cf. BARCELLONA, L’individualismo proprietario, Torino 1987; PULCINI, L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Torino 2005. 46 E, IV, XXVIII, pr., schol.

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1. Vygotskij e la psicologia storico-culturale Per comprendere il tipo di rapporto che intercorre fra linguaggio ed emozioni, occorre fare riferimento al concetto di attività, nozione centrale nel paradigma della psicologia storico-culturale. In tale contesto è rilevante il concetto di sviluppo basato sul lavoro dell’essere umano e sull’uso degli strumenti per mezzo dei quali egli trasforma la natura e, di conseguenza, se stesso. Il nostro proposito è mettere in luce in che senso Vygotskij interpreti il concetto di strumento, tratto distintivo dell’attività umana. L’essere umano, fa in modo che la natura, attraverso le sue trasformazioni serva ai suoi scopi, padroneggiandola. Ci proponiamo di individuare la peculiarità della forma di vita più elevata, propria soltanto dell’uomo, nella forma sociale e storica di attività vitali legate al lavoro, all’utilizzazione degli strumenti del lavoro e alla nascita del linguaggio. Per prendere in considerazione l’attività dell’uomo che lavora bisogna mettere a fuoco il problema della coscienza, che si genera dall’esperienza sociale, concetto che è ben messo in evidenza da Lurija: Per la psicologia il rapporto con le scienze sociali ha un’importanza risolutiva. Le forme fondamentali dell’attività psichica dell’uomo nascono nelle condizioni della storia sociale, procedono nelle condizioni dell’attività oggettuale che si è venuta a formare nella storia, si basano su quei mezzi che si sono formati nelle condizioni di lavoro, di utilizzazione degli strumenti e del linguaggio. [...] Naturalmente le forme di attività dell’uomo sono realizzate dal suo cervello e si fondano sulle leggi dei suoi processi nervosi superiori; ma nessun sistema nervoso, da solo, potrebbe assicurare la formazione e l’utilizzazione degli strumenti e del linguaggio e spiegare l’insorgere delle forme estremamente complesse di attività umana nate dalla storia sociale (LURIJA, 1975, trad. it., p. 10).

Una psicologia che assume come centrale le attività dell’essere umano adotta il metodo dialettico materialistico che comporta la fondamentale esigenza di studiare storicamente, e nel suo sviluppo, i comportamenti dell’animale umano: in questo senso viene prestata particolare attenzione ai processi di sviluppo storico, cioè alle funzioni psichiche superiori. Il comBollettino filosofico 24 (2008): 169-181

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portamento dell’essere umano può essere compreso solo se non lo si riduce ai fenomeni più semplici ed elementari, dal momento che in psicologia ciò che è più complesso è necessario per comprendere ciò che è più semplice. Così, la scelta di fondare una teoria della natura umana sul metodo storico implica una definizione dell’essere umano nei termini dei processi di sviluppo, prestando attenzione alle forme superiori del comportamento umano, teso a trasformare e a modificare la stessa natura. Con il linguaggio ha luogo una gestione del proprio comportamento che implica un rapporto con l’ambiente e che costituisce la base per il lavoro, forma specificamente umana di utilizzazione degli strumenti. La psicologia storico-culturale manifesta, in primo luogo, il valore pratico della psicologia come scienza, tenendo assieme una psicologia ingegneristica, intesa come psicologia del lavoro, e un tipo di psicologia attenta allo sviluppo. L’aspetto ingegneristico della psicologia, come viene definito da Lurija, ha come fondamento il sistema uomo-macchina: i mezzi tecnici complessi devono essere adattati alle possibilità dell’uomo ed è quindi necessario creare le condizioni nelle quali il sistema si sviluppi in modo ottimale e possa realizzarsi con il minor numero di errori. L’industria esige di conoscere quali fattori psicologici devono essere presi in considerazione per assicurare la massima affidabilità del lavoro e la minima percentuale di incidenti: La costruzione degli strumenti (che talvolta supponeva anche una distribuzione naturale del lavoro) mutò da sola l’attività dell’uomo primitivo e la distinse dal comportamento degli animali. Il lavoro per la costruzione dello strumento non è un’attività semplice, determinata da motivazioni biologiche immediate (il bisogno di cibo). In sé questa lavorazione della pietra è priva di senso e non è giustificata in alcun modo dal punto di vista biologico […] in altre parole, quest’attività richiede la conoscenza delle operazioni da compiere per realizzare lo strumento ma anche la conoscenza del suo impiego futuro (ivi, p. 69).

Le riflessioni dello psicologo russo Alexandr Lurija, relative al valore pratico della psicologia, fanno da sfondo per introdurre il tipo di relazione fra natura e cultura, assumendo come caso empirico e concettuale lo stretto legame fra emozioni e attività. 2. Le emozioni e il nesso biologia-cultura La dimensione emozionale, all’interno della psicologia storico-culturale, deve essere presa in considerazione nella descrizione dell’ontogenesi delle

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funzioni psichiche superiori. L’intento di Vygotskij è quello di creare un ponte fra la psicologia e la neurobiologia. In un suo articolo del 1930, intitolato Il fondamento biologico degli affetti, Vygotskij riflette sul rapporto fra natura e cultura, tra corpo e mente, sostenendo che i meccanismi sociali non aboliscono le attività biologiche e non ne prendono il posto proprio come i meccanismi biologici non aboliscono le leggi della meccanica e non le sostituiscono ma le subordinano a loro. Il sociale, dunque, nel nostro organismo si sovrainnalza sul biologico, così come il biologico sul meccanico. Se in Pensiero e linguaggio la questione dell’interazione fra affetto e intelletto è poco affrontata, al contrario è posto come problema in La teoria delle emozioni, opera in cui Vygotskij afferma che il suo proposito è creare le basi principali di una teoria psicologica degli affetti che abbia una natura filosofica degna di diventare uno dei capitoli della psicologia umana. In questo contributo lo psicologo russo, in seguito a una lunga discussione critica, sviluppa un’argomentazione alternativa a quella dei difensori delle teorie organicistiche delle emozioni formulate, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, da William James, Carl Lange e Walter Cannon. Vygotskij contesta queste tesi psicologiche, ritenendole insufficienti da un punto di vista filosofico, fisiologico e psicologico. L’autore sostiene che queste teorie condividono con quella cartesiana il dualismo tra anima e corpo. Il modello teorico che Vygotskij predilige è quello proposto da Spinoza che ha posto il problema relativo al rapporto fra intelletto e affetto, centrato sul valore dinamico delle emozioni. Vygotskij, in Psicologia dell’arte, si richiama alla seguente citazione di Spinoza: Di che cosa sia capace il Corpo non è ancora stato definito da nessuno [...] Ma, diranno, dalle sole leggi della Natura, in quanto questa sia considerata esclusivamente come corporea, non sarebbe possibile dedurre le cause delle opere architettoniche, dei lavori della pittura e di tutte le altre cose simili prodotte soltanto dall’arte umana: il Corpo umano, diranno, non sarebbe in grado di fabbricare alcun tempio, se a ciò non fosse determinato e guidato dalla Mente. Io ho già dimostrato, però, che costoro non sanno di che cosa il Corpo sia capace, e ciò che si possa dedurre dalla sola osservazione della sua propria natura […] (SPINOZA, Etica, III).

Il continuo riferimento a Spinoza e alle critiche che quest’ultimo ha mosso alla teoria cartesiana delle emozioni, in favore di un principio monistico della natura umana che tenesse assieme affetto e intelletto, costituisce il terreno teorico su cui Vygotskij si sarebbe mosso nella direzione di concezione incentrata sulla natura della coscienza, che però non ebbe luogo a causa della morte avvenuta nel 1934.

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L’assunto di fondo di una teoria filosofica delle emozioni, tesa a dar conto dell’intreccio fra corporeità e linguaggio è che qualsiasi bisogno naturale, per diventare un desiderio specificamente umano, deve necessariamente passare attraverso lo stadio della rifrazione ideologica e, di conseguenza, sociale. Michail Bachtin, vicino alle posizioni dello psicologo russo, sostiene che l’essere umano non può pronunciare neanche una sola parola restando un individuo biologico. Ad esempio, la più semplice espressione della fame come «voglio mangiare», che costituisce una necessità biologica, può essere espressa soltanto in un determinato linguaggio e con una determinata intonazione, grazie alla quale riceve inevitabilmente una colorazione di carattere sociologico e storico. Le emozioni sono delle reazioni organiche, proprio perché si caratterizzano come una risposta dell’organismo a un avvenimento esterno ma, nel contempo, si situano in una zona intermedia tra lo stato fisiologico dell’organismo e la loro verbalizzazione. Occorre precisare che, stando a quanto afferma Bachtin, il punto in questione non è costituito dal fatto che l’emozione ha senso nel momento in cui viene espressa verbalmente; si tratta piuttosto di sostenere che attraverso il linguaggio (o meglio il discorso, o l’espressività delle parole), inteso come terreno originario della sfera storico-sociale, è possibile considerare l’emozione nella vita, e pertanto nell’attività dell’essere umano. In questo senso, il linguaggio è quell’ambito in cui l’organismo transita dall’ambiente fisico a quello sociale. Lo stato puramente fisiologico di per sé non può avere un’espressione: per rendere viva un’emozione occorre guardare alla collocazione sociale e storica dell’organismo. Il fattore decisivo è sempre costituito dalla domanda: «Chi ha fame?», «A chi si comunica la fame?». Ogni espressione emotiva ha un orientamento sociale ed è determinata dai partecipanti al dato evento dell’enunciazione. I significati sono mediati dalla parola, che non è altro che un mezzo per padroneggiare le informazioni percettive ed i concetti. L’uso funzionale del segno, della parola, è un mezzo di cui si serve l’individuo per sottomettere al suo potere le proprie operazioni psichiche: L’interiorizzazione della parola è allo stesso tempo esteriorizzazione del pensiero. L’oggettivizzazione del pensiero si realizza attraverso una soggettivizzazione della parola. Si può dunque parlare della realizzazione del proprio pensiero nelle parole degli altri (CLOT, 1999, p. 167).

Il punto decisivo per comprendere in che senso vi sia un circolo virtuoso fra linguaggio, emozioni e attività e, di conseguenza, una complementa-

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rità fra naturale e sociale, è costituito da un’indagine relativa al modo in cui le emozioni guidano e producono una determinata azione. Se, da un lato, il sentimento è per necessità privo di chiarezza dall’altro, non può essere inconscio, proprio perché l’essenza del sentimento sta nel fatto che esso è sentito e, pertanto, noto alla coscienza. Ma in che senso il sentimento è un processo nervoso? Come è possibile dar conto del passaggio dalla sfera biologica a quella storico-sociale? Perché non basta considerare le emozioni semplici risposte dell’organismo all’ambiente esterno?A tal proposito le riflessioni formulate da Vygotskij in Psicologia dell’arte ci aiutano a mettere in luce il gioco reciproco fra l’emozione come scarica nervosa e l’emozione come processo che genera fantasia e immagini: Ancora più chiaro diverrà questo principio dell’economia dei sentimenti [...] se cercheremo di chiarire il valore sociale dell’arte. L’arte è quanto di sociale vi è in noi: e, se la sua azione si svolge in un individuo singolo, ciò non vuol dire che individuali ne siano le radici e l’essenza. [...] La socialità è anche là dove vi è un solo uomo. [...] La modellazione dei sentimenti avviene al di fuori di noi in forza del sentimento sociale, che fuori di noi è trasportato, oggettivato, materializzato e rinvigorito negli oggetti d’arte a noi esterni, divenuti strumenti della società. La più essenziale caratteristica dell’uomo è che, a differenza dell’animale, egli introduce e separa dal suo proprio corpo così l’apparato della tecnica, come quello della conoscenza scientifica, i quali diventano degli strumenti della società. [...] anche l’arte è una tecnica sociale del sentimento, uno strumento della società, per mezzo del quale quest’ultima trasporta nel giro della vita sociale i lati più intimi e più personali del nostro essere. (VYGOTSKIJ, 1972, p. 339).

Per comprendere il processo e la natura delle emozioni Vygotskij fa riferimento alle emozioni senza oggetto, mettendo in luce come ogni emozione viene servita dall’immaginazione e si ricollega a tutta una serie di rappresentazioni fantastiche e immagini. Ad esempio può darsi il caso che ognuno di noi possa essere in preda al panico senza alcuna ragione, nel senso che è semplicemente la nostra fantasia a suggerirci che potrebbe accadere qualsiasi avvenimento da un momento all’altro. A tal proposito, Vygotskij si richiama alla realtà dei sentimenti. Può capitare che di notte si scambi un cappotto appeso sull’attaccapanni per un uomo e sebbene sia del tutto evidente che non è presente alcun uomo, la paura che sperimento in quel determinato momento è del tutto reale. Pertanto, tutte le nostre emozioni, sebbene possano essere irreali (perché l’essere umano è ingannato dai sensi) presentano una base emozionale del tutto reale. Di conseguenza, il sentimento e la fantasia non sono pro-

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cessi isolati l’uno dall’altro, ma sono vincolati e la fantasia è l’espressione della reazione emozionale. Il nostro proposito è comprendere in che senso l’emozione è un tipo di reazione a una determinata situazione. Che tipo di rapporto c’è fra azione ed emozione nella psicologia storico-culturale? Per tentare di comprendere la natura di questo problema, la nostra idea è far riferimento a dei casi empirici, relativi alle attività lavorative. Assumeremo come punto di partenza, facendo riferimento alle riflessioni di Vygotskij, che la condizione dell’azione dell’essere umano è costituita dalle possibilità che non si sono ancora realizzate. L’emozione è una scarica nervosa caratterizzata, nel contempo, dall’accrescimento e dall’indebolimento della spesa energetica. Le nostre emozioni possono essere frenate e trattenute, tuttavia esse perdurano in modo latente, proprio come, ad esempio, nell’atto di dare un pugno il movimento della mano viene trattenuto ma è pur sempre pronto a far partire il colpo. Nel caso empirico che ci apprestiamo a illustrare vedremo come i comportamenti degli esseri umani sono il risultato di alcune reazioni emotive e cioè di quelle che hanno prevalso su altre. Queste ultime, tuttavia, permangono proprio perché «il reale dell’attività è anche ciò che non si fa, che non si può fare, che si desidera fare, che si cerca di fare senza riuscirvi […] che si sarebbe voluto o potuto fare, che si pensa o si sogna di poter fare altrove» (CLOT, 1999, trad. it., p. 114). Stando alla posizione vygotskijana, i segni e le attività degli altri sono alla base dello storia dello sviluppo del singolo individuo, e, in seguito, diventano gli strumenti per i suoi scopi. Questo è un processo a spirale che tiene assieme i due aspetti dello sviluppo, inteso come terreno originario e come storia dell’essere umano: dapprima a livello sociale (interpsicologico), poi a livello personale (intrapsicologico) per poi ritornare al livello sociale (cf. VEGGETTI, 1998; GARGANI, 2004): Il nostro concetto di sviluppo implica un rifiuto del modo di vedere secondo cui lo sviluppo cognitivo risulta dall’accumulazione graduale di cambiamenti distinti. Noi crediamo che lo sviluppo infantile sia un complesso processo dialettico caratterizzato dalla periodicità, dalla irregolarità nello sviluppo delle diverse funzioni, dalla metamorfosi, o trasformazione qualitativa di una forma in un’altra, dall’intrecciarsi di fattori interni e esterni (VYGOTSKIJ 1978, trad. it., p. 111).

Yves Clot, in La psicologia del lavoro, propone di interpretare la psicologia vygotskiana come uno strumento essenziale per comprendere le azioni dell’essere umano in una determinata attività lavorativa. La tradizione

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vygotskiana elabora una teoria della coscienza che lega, nell’attività, il pensiero, il linguaggio e le emozioni del soggetto. Lo psicologo francese fa riferimento a un esempio calzante per comprendere il tipo di rapporto fra reazione, emozione e attività. Nel 1992 sul monte Sainte-Odile precipitò l’aereo Lione-Strasburgo. Il contesto sociale che fa da sfondo a questo incidente è quello del conflitto sulla composizione a due o a tre elementi dell’equipaggio A-320: In queste circostanze [...] si è talvolta incoraggiato i copiloti a mettere in discussione le decisioni del loro comandante di bordo. [...] Nella catastrofe del monte Sainte-Odile, sarebbe questa una delle fonti di disturbo che avrebbe compromesso la disponibilità dell’equipaggio. [...] Le riportiamo solo per descrivere uno dei possibili contesti dell’azione che [...] darebbe un senso e un tono alle intenzioni ribadite dal comandante di bordo al suo copilota. La sua scelta, operata contro il parere del collega [...] in effetti non elimina l’altra scelta possibile, che continuerà ad agire nella situazione. Così, secondo questa prospettiva l’intenzione è solo parzialmente protetta dalle altre intenzioni rivali. Comunque, riteniamo che essa sia nata dallo scambio fra due soggetti in un contesto sociale, condiviso in tutti i sensi. Così definita, l’intenzione che assegna al pilota il compito di atterrare a Strasburgo con una procedura ILS sulla pista 23, probabilmente non ha potuto emanciparsi dal contesto d’origine, trovandosi di fronte a uno sviluppo inatteso nel nuovo contesto d’attività. [...] La formazione delle intenzioni si produce all’incrocio dei due assi: quello che collega il soggetto all’oggetto e quello che “lega” sempre più soggetti fra loro, col rischio che il distacco risulti così inadeguato a garantire l’efficienza dell’azione (CLOT,1999, trad. it., pp. 40 e 42).

L’esperienza storica, assieme a quella sociale, costituisce il presupposto dell’azione umana: l’essere umano si trova ab initio nel contesto sociale e, nel contempo, lo ricrea, lo trasforma, lo padroneggia. L’essere umano è un sistema poliedrico, poiché presenta varie sfaccettature: è un sistema biologico e un attore sociale. Il riferimento a questo caso empirico contribuisce a cogliere i tratti distintivi che caratterizzano l’essere umano e che non sono componenti esterne, ma endogene volte a connotare l’intreccio fra attività ed emozioni. Seguendo la teoria delle emozioni in Vygotskij, l’attività del pilota si basa sulla collaborazione reciproca fra la partecipazione corporea e la costruzione mentale che trae origine dal ruolo dinamico e mediatore delle emozioni. I nostri affetti mostrano che siamo tutt’uno con il nostro corpo.

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L’azione, intesa come occupazione del soggetto, emerge dall’intreccio delle proprie pre-occupazioni, inclusa l’attività degli altri. L’azione che occupa i piloti è letteralmente pre-occupata. Quando il comandante di bordo decide una modalità di azione opposta a quella del copilota, non compie solo un atto positivo, ma elimina dalla sua azione ciò che lo pre-occupava, vale a dire l’azione del suo collega e, nel contempo, la propria indecisione di fronte alle svariate possibilità. Dunque, l’azione è negativa, in quanto il pilota rifiuta altre possibili azioni e questo rifiuto è la condizione sine qua non per dare inizio all’azione stessa. L’azione si forma in un contesto popolato di attività eterogenee e svariate che non costituiscono un contesto esterno all’azione che intraprende il pilota, piuttosto si situano in un terreno che si configura come l’ambito interno. La singola azione non può essere compresa isolatamente, proprio perchè la sua origine è da individuare nelle attività che si intersecano negli altri contesti, al cui interno essa si forma e si trasforma. 3. Le emozioni da un punto di vista biologico Il caso empirico che abbiamo assunto come sfondo della presentazione dell’azione reciproca fra emozione e attività è ben sintetizzato da Damasio: Può essere utile pensare al comportamento di un organismo come all’esecuzione di un brano orchestrale, la cui partitura viene inventata via via: la musica è il risultato prodotto da molti gruppi di strumenti che suonano tutti insieme a tempo e il comportamento di un organismo è il risultato prodotto da numerosi sistemi biologici che agiscono simultaneamente […] Pur essendovi svariate componenti il comportamento in ciascun momento è un tutto integrato, è la fusione di contenuti diversi, non dissimile da una fusione polifonica di un’esecuzione orchestrale (DAMASIO, 2000, pp. 111-112).

Recentemente, contro le teorie classiche della decisione che fanno riferimento a una concezione disincarnata e, pertanto, non realistica dell’azione, il fisiologo della percezione Alain Berthoz e il neurobiologo Antonio Damasio hanno proposto una teoria biologica dell’essere umano fondata sul dialogo fra percezione, emozione e azione. L’emozione orienta la percezione: aiuta a selezionare quanto osserviamo nel mondo e a organizzarlo a seconda del nostro orientamento all’azione. L’ancoraggio della decisione sta in quei processi che preparano il corpo e il cervello alle conseguenze delle azioni a venire, nelle emozioni, appunto, la cui grammatica si è costi-

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tuita attraverso i processi di adattamento. La riflessione di Berthoz condivide, con quella di Damasio ed Edelman, il rifiuto dell’«errore di Cartesio» e, in generale, ogni prospettiva dualistica che tenda a separare la materia dallo spirito, il pensiero dalla carne e la ragione dall’emozione. Il tentativo di Berthoz è quello di fondare la decisione su una teoria del cervello come emulatore dell’azione: l’emozione prepara l’organismo alla creazione interna di un mondo emulato. L’emulazione si incontra con l’emozione affinché trasformi il mondo in un mondo magico per farlo assomigliare a ciò che il cervello può accettare. Non si darebbero processi decisionali se non potessimo uscire dal nostro corpo ed entrare in dialogo con noi stessi, se non avessimo due corpi, quello di carne e quello simulato, o meglio emulato al nostro interno: è da questo dialogo che scaturisce la coscienza. Il carattere globale della decisione conferma l’ipotesi secondo la quale i modelli dell’esecuzione dell’azione utilizzati dal cervello non sono di tipo logico-formale, ma procedono simultaneamente, come se il cervello spazializzasse, costruisse paesaggi e mappe. Il cervello, quando decide, istituisce un dialogo fra noi e il nostro doppio, ovvero lo schema corporeo: Non sentiamo l’oggetto all’estremità dello strumento, ma all’estremità di un insieme costituito dalla mano e dallo strumento come se, di colpo, lo strumento fosse diventato parte del nostro corpo, come se la mano si fosse prolungata. [...] I piloti dei piccoli aerei dicono di sentire, atterrando, le ruote come se fossero parte del corpo, e abbiamo la stessa impressione in automobile: se una gomma della nostra auto urta il marciapiede, reagiamo come se avessimo battuto noi. [...] In questo caso, il corpo non si proietta nel mondo, vi si prolunga. Le decisioni percettive di origine tattile sono così integrate nel funzionamento del corpo (BERTHOZ, 2003, trad. it., p. 161).

Il parallelismo tra movimenti visti e movimenti prodotti trova una conferma nella scoperta dei neuroni mirror, riscontrati nella corteccia premotoria della scimmia e, in seguito, accertati nel cervello dell’essere umano. Questi neuroni si attivano non solo quando la scimmia esegue azioni finalizzate con la mano, ma anche quando osserva le stesse azioni eseguite da un altro individuo. Affinché questi neuroni siano attivati durante l’osservazione di un’azione, questa deve consistere nell’interazione fra la mano e un oggetto. Esiste, dunque, una capacità, basata su precisi meccanismi neuronali, di tradurre la prospettiva corporea di chi esegue una determinata azione in quella di chi l’osserva. I neuroni mirror ci consentono di affermare che l’osservazione di un’azione induce l’attivazione dello stesso circuito nervoso deputato a controllarne l’esecuzione: l’osservazione dell’azione induce nel-

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l’osservatore l’automatica simulazione della stessa azione e, attraverso quest’ultima, la sua comprensione. Comprendere il significato del comportamento altrui presuppone la capacità del nostro cervello di creare dei modelli di questo comportamento allo stesso modo in cui esso stesso crea modelli del nostro. Con i neuroni mirror di Gallese abbiamo un livello di base delle nostre relazioni interpersonali che non prevede l’uso del linguaggio. Riteniamo che queste recenti teorie che mettono in risalto l’intreccio fra emozione e azione mostrino una consonanza con le riflessioni vygotskijane, per quel che riguarda l’intervento delle emozioni nelle azioni degli individui. Tuttavia vi è una differenza decisiva: come è possibile dar conto dell’appartenenza dell’attività e delle emozioni dell’essere umano nel contesto storico-sociale? Che ruolo svolge il linguaggio nel dare vita alle emozioni stesse? A questa ipotesi di simulazione incarnata non segue la necessità che ci sia sempre armonia tra il movimento del nostro corpo e il movimento osservato e che il primo debba forzatamente riprodurre il secondo. In tal senso, il nostro schema corporeo è proprio ciò che ci consente di distaccarci dal movimento di un determinato oggetto. Ad esempio, si prenda il caso del ritmo: in quale misura il ritmo di un mezzo meccanico, che si tratti di un treno o di un aereo, è in armonia con le strutture ritmiche del corpo umano? Spesso cerchiamo di adeguare il ritmo del treno con il nostro solo per renderci conto dell’impossibilità di far coincidere il nostro ritmo organico con quello meccanico. Questo è un fenomeno che avviene ogni volta che ci mettiamo a confronto con analoghe situazioni motorie. Anche se non siamo capaci di adeguare i ritmi del nostro corpo con quelli meccanici, è possibile che queste pressioni motorie possano creare uno squilibrio più o meno uguale a quello che vorrei chiamare “schema corporeo dinamico” (DORFLES, 1965, p. 46).

Il riferimento a una prospettiva prettamente biologica delle emozioni consente di individuare un terreno originario, non linguistico, in cui è possibile fondare le azioni dell’essere umano. Tuttavia, queste teorie trascurano il modo in cui il linguaggio dà corpo alle emozioni. La nostra idea non è quella di rifiutare un approccio preverbale alle emozioni, ma di individuare la natura della continuità fra preverbale e verbale. Vogliamo mettere in luce che non sempre è opportuno dare per scontato il prolungamento fra il nostro corpo e gli oggetti che frequentemente usiamo: in che modo il linguaggio rivisita il rapporto che gli esseri umani hanno con gli oggetti?

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4. Conclusioni: emozioni e attività, fra non linguistico e linguistico La relazione tra emozioni e attività che abbiamo analizzato fornisce alcuni spunti per ripensare il tema dell’origine del linguaggio, da un punto di vista filosofico-concettuale. A tal proposito, è interessante rivolgere l’attenzione al linguaggio inteso come processo naturale che fornisce una chiave di lettura per contestualizzare il comportamento dell’essere umano nello sfondo storico-culturale. Il linguaggio è uno strumento apparso nel corso delle attività legate al lavoro e, più precisamente nel corso dell’organizzazione della cultura. La lingua è creata dal gruppo umano, allo stesso modo in cui si creano le produzioni della cultura materiale, gli oggetti di prima necessità e gli elementi di produzione collettiva (come i giochi, l’arte, la danza, il canto e la musica e, ancora, il diritto e gli altri valori sociali). La lingua riflette i diversi stadi di sviluppo della cultura e delle interazioni fra esseri umani che hanno luogo inizialmente nel gruppo e che si riversano nel rapporto fra collettività e ambiente circostante. La lingua riflette gli stadi di sviluppo della cultura materiale, l’evoluzione degli strumenti di lavoro e del progresso materiale ad esso legato. La versione paleontologica della lingua, proposta da Nikolaj Marr, rivolge l’attenzione a verbi come davat’ (dare), brat (prendere) e darit’ (offrire) che provengono dalla stessa rappresentazione della mano. La formazione delle parole e la verbalizzazione del concetto dipendono dalle capacità cinematiche del corpo umano (in particolare dalla mano). Marr sostiene che la lingua è un fenomeno socioculturale che, a sua volta, diventa lo strumento universale dei cambiamenti sociali e culturali: in questo senso, la formazione delle parole è paragonabile alla fabbricazione degli strumenti di lavoro. Sono le funzioni della lingua, assieme all’avanzamento della tecnica che trasformano gli strumenti di lavoro in mezzi di creazione culturale. Occupandosi della relazione fra lingua e coscienza, Marr attribuisce un ruolo principale alla mano, stabilendo un legame fra le funzioni polisemantiche della mano nella cultura e le specificità del discorso non articolato e della coscienza primitiva (rucnoe soznanie). La mano (ruka), in quanto strumento universale di conoscenza, di comunicazione e di lavoro costituisce il mezzo principale e integrale che permette di avere coscienza del mondo. La mano costituisce la forma primitiva del comportamento cosciente e questa forma di coscienza può essere considerata alla stregua della coscienza infantile. In altre parole, la filogenesi (l’evoluzione degli organismi viventi) e l’ontogenesi (lo sviluppo dell’individuo) si intrecciano nella mano,

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strumento di conoscenza, di comunicazione e di lavoro. La portata del contributo di Marr è da rintracciare nell’accurata analisi filologica e, al tempo stesso, filosofica delle numerose parole che gravitano attorno alla rappresentazione della mano (ruka), strumento vitale di produzione. Esiste infatti un gran numero di parole associate alla mano. Ad esempio, si trovano parole come sila (forza), sredstvo (mezzo), obraz (immagine). La mano esprime non solo la forza e il potere, ma anche gli strumenti e i materiali di fabbricazione: così dal significato della parola železo (ferro) è possibile risalire a quello della parola kamen’ (pietra), il cui significato, a sua volta, è legato a quello della mano. Si può ugualmente supporre che l’immagine della mano è all’origine di altri verbi, come stroit’ (costruire), razrušat’ (distruggere), napravl’at’ (dirigere), moc’ (potere). Il comportamento dell’essere umano subisce l’influenza della mano e gli schemi cinestesici si formano sulla base dei movimenti della mano e delle dita, utilizzati come indicatori dei fatti, degli eventi, delle azioni e delle emozioni. La mano unisce la diversità delle funzioni creative della cultura materiale e spirituale e costituisce il fondamento della comunicazione. Le funzioni energiche e cognitive della mano hanno offerto il potenziale tecnico di cui l’uomo primitivo ha avuto bisogno. La mano costituisce quella parte del nostro organismo che fa di noi esseri umani degli individui biologici e sociali e un possibile punto di partenza per pensare un rapporto dinamico fra mente e corpo. Bibliografia BACHTIN, M. (1999), Marxismo e filosofia del linguaggio, Manni, Lecce. BERTHOZ, A. (2003), La décision, Odile Jacob, Paris. La scienza della decisione, Codice Edizioni, Torino. CLOT, Y. (1999), La fonction psychologique du travail, Press Universitaires de France, (trad. it. La funzione psicologica del lavoro, Carocci, 2006, Roma). CLOT, Y. (1999), (a cura di) Avec Vygotskij, La Dispute, Paris. DAMASIO, A. (1999), Descarte’s Error. Emotions, Reason and the human brain, Gosset-Putnam Press, New York, (trad. it. L’errore di Cartesio, Adelphi, 2000, Milano). DAMASIO, A. (2003), Looking for Spinoza. Joy, Sorrow and the Feeling Brain, Harcourt Trade (trad. it. Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello, Adelphi, 2004, Milano). DORFLES, G. (1965), The nature and art of motion, Gyorgy Kepes, New York. GALLESE, V. (2003), Neuroscienza delle relazioni sociali, in FERRETTI, F. La mente degli altri. Prospettive teoriche sull’autismo, Editori Riuniti, Roma. GARGANI, D. (2004), La nascita del significato, Guerra, Perugia. LURIJA, A. (1975), Corso di psicologia generale, Editori Riuniti, Roma.

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MARCO MAZZEO Imprecisione del limite: contraddizione e melanconia1

1. Il limite del linguaggio: tautologia, meraviglia, sicurezza In uno dei suoi testi più noti, la Conferenza sull’etica, Ludwig Wittgenstein propone l’accostamento tra una figura logica, la tautologia, e due stati d’animo, la meraviglia e la sicurezza. Se ci spingiamo fino ai limiti del linguaggio e decidiamo di arrischiarci nel terreno paludoso in cui le parole tendono a perdere senso, scopriamo che le affermazioni etiche o religiose sono simili a espressioni del tutto quotidiane, all’apparenza meno impegnative. Wittgenstein propone al suo uditorio due esempi in grado di mostrare le caratteristiche logico-linguistiche di affermazioni del genere: la meraviglia per l’esistenza del mondo (“Quanto è straordinario che qualcosa esista”: CE, p. 13) e la sensazione di sentirsi assolutamente al sicuro (“Sono al sicuro, nulla può recarmi danno, qualsiasi cosa accada”, ibid.). Si tratta di versioni della meraviglia e della sicurezza che potremmo chiamare, impiegando una espressione assente nel testo, “superlative”. Esse differiscono dai loro equivalenti ordinari per un aspetto: mentre se dico “mi meraviglio che oggi tu abbia indossato quella cravatta a righe”, ciò avviene perché mi sono immaginato che avresti potuto sceglierne un’altra (a tinta unita, ad esempio), quando affermo che mi meraviglio dell’esistenza del mondo non sono in grado di immaginare cosa accadrebbe se tutto quello che oggi esiste non ci fosse più. Wittgenstein si sofferma su due caratteristiche di espressioni del tutto ordinarie la cui struttura è la stessa delle affermazioni etiche o religiose. La prima l’abbiamo intravista. Frasi del genere sono il prodotto di “un cattivo uso della lingua” (ivi, p. 13): l’indizio principale della loro mancanza di Vorrei dedicare questo scritto a Tommaso Russo Cardona. Sia chiaro: il saggio non ne è all’altezza, mi permetto di farlo solo in base a un motivo più modesto e personale. Nel momento stesso in cui ho capito come rimettere mano a un testo in parte già scritto, mi è venuta alla mente una frase di Tommaso a proposito del rapporto tra malinconia e sublime, tema del quale avevamo discusso mesi addietro. Solo ora comincio a capire perché e in che modo avesse ragione. La sua assenza, tanto dolce e così invadente, è segno tangibile della sicura durezza e della potenziale fertilità degli stati malinconici. Un giro di frasi complicato per dire del modo in cui, anche oggi, Tommaso è qui. 1

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senso è dato dal fatto che mettono sotto scacco l’immaginazione. Come immaginare qualcosa di completamente altro rispetto a quello che conosciamo? La seconda caratteristica riguarda la loro struttura liminare, sostanzialmente vuota, che fa assomigliare questo tipo di asserzioni a “una tautologia” (ivi, p. 14). L’accostamento non è casuale. Secondo il Tractatus, del quale la Conferenza sull’etica è la ripresa e il primo continuamento, la tautologia costituisce il limite interno del linguaggio, è l’“insostanziale centro” delle proposizioni (T, 5.143). La tautologia (la proposizione A=A, ma anche “quanto è azzurro questo azzurro!” o, per l’appunto, “mi meraviglio che esista il mondo”) è una forma linguistica che riveste per il linguaggio un’importanza simile a quella che assume il tubo per lo scorrimento dei liquidi: una struttura portante e, contemporaneamente, vuota. L’accostamento (del quale Wittgenstein per primo, occorre dirlo, si dichiara insoddisfatto) è efficace ma parziale. Nel Tractatus si specifica, infatti, che esiste una seconda figura logica, la contraddizione, in grado di delineare i limiti del linguaggio: “tautologia e contraddizione sono i casi limite del nesso segnico, ossia della sua dissoluzione” (T, 4.466). La contraddizione incarna i margini esterni del linguaggio, il suo “limite esteriore” (T, 5.143). L’assenza di questa figura logica nella Conferenza sull’etica è più eclatante di quanto si potrebbe credere: se per un verso le due strutture sono tra loro simmetriche (incarnano il centro e la periferia del linguaggio, il vuoto e il pieno) e dunque citare la prima significa implicitamente accennare alla seconda, per un altro verso i due termini sono tra loro speculari e, dunque, a orientamento inverso. Mentre “la tautologia segue da tutte le proposizioni” (T, 5.142), la contraddizione segna il punto di origine di ogni affermazione poiché da essa “ogni proposizione” discende (Q, 3.6.1915, p. 194). Mentre la tautologia si configura come un mellifluo camminare sul posto, la connotazione vagamente spettrale della contraddizione è dovuta al fatto che questa si propone come una falsa partenza. La prima ha il volto regolare e prevedibile di una scultura manieristica: priva di difetti, può lasciare di stucco nel senso duplice dell’espressione. La frase “quanto è azzurro questo azzurro!” può impersonare la meraviglia più assoluta ma anche trasformarsi rapidamente in un parlare vacuo e noioso. Il Tractatus cerca di nascondere sotto il tappeto la tensione prodotta dal rapporto di somiglianza e differenza tra le due figure logiche. Wittgenstein afferma perentorio: “le proposizioni della logica sono tautologie” (T, 6.1). Presa alla lettera, l’affermazione innesca un cortocircuito imbarazzante.

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Poiché le contraddizioni sono proposizioni logiche, anche le contraddizioni dovrebbero essere tautologie, cosa ovviamente contraddittoria. Negli scritti precedenti, in particolare nei Quaderni, la simmetria speculare e rovesciata tra tautologia e contraddizione è invece esplicita. Wittgenstein si rende conto che il carattere estremo della contraddizione sta nel fatto che questa “dovrebbe anzi dire più di tutte le altre proposizioni” (Q, 11.6.1915, p. 200) e che “se p.~p POTESSE esser vera direbbe davvero moltissimo” (Q, 13.6.1915, p. 200. Maiuscolo e corsivo nel testo). Il carattere allusivo della contraddizione è di ordine diverso da quello che anima la tautologia: la contraddizione non è vera ma se lo fosse illuminerebbe la struttura germinale del linguaggio. Questo controfattuale incarna non solo la debolezza logica ma anche la profondità epistemica e la struttura emotiva di un figura linguistica che non dipinge semplicemente i tratti di una impossibilità totale (come sottolinea il Tractatus: T, 4.464) o di uno sbarramento all’azione (la strategia wittgensteiniana nelle opere successive, la contraddizione come muro: cf. ad es. Z, § 687). La contraddizione porta con sé un’assenza mal digerita, è un colpo andato a vuoto. Se la tautologia è paragonabile al clic, innocente e un po’ stupido, di una pistola scarica, la contraddizione è il frutto di una mira non a punto, è prestazione di un’arma imprecisa che però spara il suo colpo. La tautologia è immobile; anche se nella direzione sbagliata, la contraddizione si muove poiché mette insieme due cose che, insieme, non possono stare. Nella conferenza Wittgenstein si concentra solo su stati d’animo piacevoli e positivi: la meraviglia nel guardare l’azzurro del cielo (CE, p. 14), la sensazione di sicurezza di chi ha ormai scampato il pericolo (ibid.). Nel testo c’è qualcosa di edulcorato e immobile che segnala una doppia mancanza: logica (la simmetria speculare tra tautologia e contraddizione) ed emotiva (l’assenza del correlato inquieto della meraviglia). È possibile sopperire a questa mancanza attraverso un’indagine che si concentri sull’analisi del corrispettivo emotivo della contraddizione. Esiste la possibilità che questo caso non costituisca il semplice doppio del primo, magari più pericoloso e instabile, ma rappresenti un punto di vista diverso, addirittura più estremo, sui limiti del linguaggio. Propongo come candidato uno stato d’animo particolarmente sfuggente e complesso, la melanconia2. Per un verso la 2 Preferisco la parola “melanconia” all’italiano corrente “malinconia” per sottolineare la parziale coincidenza tra due accezioni del termine. Quella contemporanea è più ristretta e specializzata poiché indica uno stato d’animo, più o meno transitorio, che può opporsi alla “mania”. Il termine “melanconia” è il calco del termine greco corrispondente: indica una

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melanconia è lo stato d’animo contraddittorio per eccellenza: è mania e blocco dell’azione, eccesso e difetto di azione, linguaggio, emozione (§ 2). Per un altro, la melanconia offre il vantaggio di coinvolgere direttamente l’immaginazione. Se tautologia, meraviglia e sicurezza mettono l’immaginazione in una situazione di stallo, la melanconia sfodera la potenziale produttività dei suoi eccessi (§ 3). 2. Una vita priva di misura: melanconia e contraddizione Nella tradizione occidentale, è Aristotele a fornire una delle prime trattazioni sistematiche della melanconia. Per avere sotto mano una microfenomenologia di questo stato d’animo può essere utile ripercorrere i temi principali dei cosiddetti Problemata XXX, il testo in cui è descritto chi è affetto da uno squilibrio che, secondo la tradizione ippocratica, riguarda la bile nera. Quel che colpisce della descrizione aristotelica è la variabilità del comportamento melanconico. Tre coppie di aggettivi antinomici ne forniscono il ritratto: il melanconico è «lussurioso» (Probl, 953 b 33) e «intorpidito»; (ivi, 954 a 23), «taciturno» (ivi, 953 b 13) e «ciarliero» (ivi, 954 a 34); «sciocco» (ivi, 954 a 31) e «geniale» (ivi, 954 a 32). Basta leggere qualche riga del testo per rendersi conto che, nell'accezione originaria, la melanconia non indica quel che oggi chiameremmo un’indole depressiva ma ha un significato più ampio. Esprime «un’ambivalenza termodinamica» (KLIBANSKY, PANOFSKY, SAXL, 1964, p. 39): gli alti e bassi della variabilità di una sostanza che, riscaldata o raffreddata, produce comportamenti opposti. Nel testo è proposto in modo quasi ossessivo il parallelismo tra bile nera e vino, fluidi che rivelano la variabilità del comportamento umano. Il melanconico è simile a un ubriaco perché, come chi ha bevuto troppo, manifesta un comportamento imprevedibile che rovescia abitudini e previsioni: il mite diventa aggressivo, il forte mostra la propria debolezza. La coppia depressione-mania, che oggi trova il suo sunto psichiatrico nella cosiddetta “sindrome bipolare”, qui emerge con fattezze diverse. È proprio Aristotele il primo a svincolare questo stato d’animo da una concezione puramente patologica: la bile nera fornisce la descrizione primigenia della natura umana. Il melanconico non è semplicemente colui che, afflitto, guarda l’orizzonte disarmato (come sarà nelle rappresentazioni cinquecentesche di condizione contraddistinta da una sintomatologia molto più ampia che, ad esempio, comprende al suo interno gli stati maniacali.

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Dürer o Cranach) ma colpisce chi è preda di un moto oscillatorio. Labile e incostante, ogni equilibrio scompare tra euforia e abbattimento, azione forsennata e paralisi abulica. La fenomenologia dell'ebbro melanconico fornisce la grammatica della pulsione: questa, senza gli argini dell'istinto, è ostaggio dell'incostanza dello stato d'animo e della forza impetuosa di una costituzione psichica “squilibrata” (Probl. 954 b 27). La psiche melanconica tradisce la necessità di sostegni esterni, di forme di appoggio e completamento. Non a caso, in un altro testo, Aristotele l'accosta alla giovinezza (Eth. Nic., 7, 1154 b 10-15): lo squilibrio di comportamento fa tutt'uno con le necessità di cure di un animale neotenico, caratterizzato da una infanzia cronica, da una ontogenesi che, rispetto a quella delle altre forme di vita, è priva di pause. Le tre coppie di aggettivi indicano un’instabilità che riguarda, non a caso, ogni sfera della vita umana: quella pulsionale (il melanconico è intorpidito e lussurioso), cognitiva (sciocco e geniale) e linguistica (taciturno e ciarliero). I Problemata XXX impiegano un termine specifico per indicare la condizione melanconica: chi ne è affetto è perittòs, aggettivo greco dallo spettro semantico unitario seppur relativamente ampio. Il termine significa “che passa la misura, eccessivo, ridondante, dispari, eccellente, singolare, ricercato, sovraccarico”. La costruzione del termine consiste nella lessicalizzazione di una forma grammaticale. Come in greco antico epissa vuol dire “figlia minore” perché allude al successivo (epì) per eccellenza, perittòs è la forma aggettivale di una preposizione grammaticale, perì: “intorno”, ma anche “al di là, attraverso, molto”. La melanconia aristotelica incarna innanzitutto il regno dell’approssimazione: il mondo di chi stenta a cogliere il bersaglio, di chi si accosta, per eccesso o per difetto, alla soluzione. La parola incarna sia l’eccesso che l’approssimazione, in entrambi i casi indica lo scacco della misurazione. La melanconia è il corrispettivo emotivo di un movimento oscillatorio: è la sindrome che evidenzia il volto anomalòs (ivi, 954 b 5; 954 b 9; 955 a 30; 955 a 36-37) del comportamento umano, cioè irregolare e incostante. È la bile nera che forma il carattere (l’ethos: ivi, 955 a 34), afferma esplicitamente Aristotele. La tradizione successiva spesso insisterà solo sul carattere eccezionale del melanconico (nel bene o nel male, accentuandone i tratti geniali o patologici), mentre l’aspetto interessante dell’immagine, ripresa dalla medicina ippocratica ma che avrà diffusione fino all’inizio del XVII secolo (FOUCAULT, 1972, p. 232), è che l’incostanza del flusso svolge un ruolo doppio. Per un verso, l’incostanza è la regola: è la diversa consi-

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stenza a «formare la psiche determinando l’appartenenza categoriale di ciascuno di noi » (Probl, 955 a 32-33); per un altro è una caratteristica della bile nera particolarmente accentuata nei melanconici. Chi è affetto da melanconia rappresenta per la specie una vera e propria “iperbole” (uperbolèn: ivi, 955 a 39), la sovrabbondanza pulsionale dell’organizzazione corporea della specie. I curatori della traduzione italiana dei Problemata non aiutano a far luce su un aspetto, peraltro fondamentale, della questione poiché risentono della vulgata che si limita a sottolineare la presunta eccezionalità del melanconico. Angelino e Salvaneschi intitolano il testo La “melanconia” dell’uomo di genio dando per scontato che perittòs significhi semplicemente “straordinario”. Peccato però che, almeno in una circostanza, siano proprio loro a tradurre l’aggettivo con il termine opposto (l’italiano “mediocre”) in un passo per altro decisivo da un punto di vista teorico: Come, infatti, si è diversi non per l’avere un volto ma per avere un determinato volto [eidos], bello gli uni, brutto gli altri, altri ancora mediocre [perittòn] – sono questi i moderati [mesoi] per natura – così anche coloro che poco partecipano di un siffatto temperamento [quello melanconico] sono moderati, quelli che ne partecipano in dose elevata sono diversi dai più (ivi, 954 b 21-26).

Il significato di perittòs rischia di essere sfuggente, e con esso la melanconia, per almeno tre ragioni. Aristotele paragona le oscillazioni della bile nera, la termodinamica della malinconia, all’eidos. Il termine non significa semplicemente “volto” (come suggerisce la traduzione italiana) ma indica, almeno nella principale delle sue accezioni, una coppia metonimica: vuol dire sia “aspetto” che “bell’aspetto”, è “forma” ma anche “formosità”. L’eidos è per l’aspetto quel che perittòs è per la misura: indica una scala valutativa e, contemporaneamente, uno dei termini della scala (il “bello”, il “misurato”). Pensiamo all’espressione “quel ragazzo ha un viso espressivo”. In questo caso l’aggettivo “espressivo” ha un valore duplice. Significa che quel viso ha espressioni diverse, sia belle che brutte. Significa anche, però, che quel viso è in grado di assumere espressioni tra loro molto differenti. Già per questo e aldilà della gradevolezza delle singole espressioni, quel viso ha una sua bellezza. Il paragone con l’eidos consente di mettere in chiaro un’altra caratteristica del perittòs. Secondo la concezione classica della bellezza, il bello coincide con l’armonia proporzionata delle forme. La bellezza è una forma media che supera gli eccessi grazie al proprio equilibrio. Allo stesso modo,

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perittòs indica contemporaneamente due estremi di una gradazione oppositiva: si riferisce sia all’eccesso che alla medietà. La faccenda è resa complessa dal fatto che uno dei suoi estremi, la moderatezza, è per definizione quel che è nel mezzo. L’opposizione indicata dal termine, dunque, corre sul filo di una peripezia logico-pulsionale. Il termine che si oppone per struttura logica (e non semplicemente per contrasto, in un modo che oggi potremmo definire reattivo: dati due termini A e B, se tu scegli A io prendo B) a una estremità non è l’altra estremità (di un segmento, ad esempio) ma il punto mediano (se tra A e B tu scegli A, io non prendo B ma C): A perittòs

C

B

perittòs Il carattere contemporaneamente estremo e mediano del perittòs mostra le qualità, altrettanto paradossali, di un terzo aspetto che riguarda una questione più generale, propria della misurazione ma non della valutazione dell’aspetto. Il parallelo tra i due casi, forma estetica e misura, si interrompe nel momento in cui analizziamo il carattere potenzialmente autoriflessivo dei due termini. In entrambi i casi abbiamo a che fare con una scala graduata. Mentre, però, nel primo i due estremi sono costituiti da termini che si riferiscono all’aspetto (bello, brutto), nel secondo gli estremi riguardano la misurazione, cioè l’attività stessa del costruire scale graduate. È proprio grazie al carattere non reattivo de perittòs che è possibile non irrigidire l’esperienza tra due semplici estremi (A contro B; l’etologo direbbe attacco contro fuga) ma articolare il loro rapporto in una infinità di gradi intermedi. Si immagini la presenza di due punti isolati, A e B. Il carattere (anche) mediano del perittòs è proprio quel che consente la formazione del segmento che, contemporaneamente, li congiunge e distanzia. Il perittòs esprime il carattere antropologico del paradosso di Zenone non per sposarne la paradossalità ma per indicarne il fondamento logico-pulsionale: 1) 3)

A



B

A ↔C ↔ B D E (perittòs) (perittòs)

2) n)

A



B

C (perittòs) e così via fino alla costruzione del segmento AB

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Questa terza dimensione del problema mostra il profondo rilievo antropologico del perittòs malinconico poiché chiama in causa il rapporto tra animali umani e misurazione. È proprio perché nascono senza misura che i sapiens possono misurare, così come proprio perché nasce senza un sistema di comunicazione preformato che l’essere umano può parlare. Il perittòs, da tradurre dunque non tanto con “eccezionale” quanto con “smisurato”, “smodato” o anche “approssimativo”, “impreciso”, è quel che costituisce la condizione di possibilità della misura. Un animale non umano non ha bisogno di crearsi unità di misura perché le ha già: ha i suoi meccanismi di controllo per orientarsi nello spazio, emettere suoni comunicativi o ingerire la giusta quantità di cibo. Gli umani sono esseri misurativi perché non nascono con unità di misura predefinite: proprio per questo sono a rischio di eccesso o difetto. Il motto protagoreo “l’uomo è misura di tutte le cose”, citato polemicamente più volte da Aristotele, banalizza un tratto decisivo della specie dandone un’accezione relativista. L’espressione va intesa in termini più radicali: non in modo soggettivo (quale singolo uomo: ognuno la vede come gli pare) ma universale (l’umano in quanto tale deve dare misura: CARDONA, 1985, p. 44). Protagora scambia la molteplicità dei sistemi di misura (pollici e metri, once e grammi) con l’unità di un fatto di fondo, cioè di un invariante biologico, la capacità-bisogno di costruire sistemi metrici. Come dire: occorre tenere bene a mente un dato di partenza, siamo animali approssimativi. Per questa ragione, il perittòs è il fondamento della scala di misurazione, delle sue estremità e dei suoi gradi intermedi. La sregolatezza della bile nera, la sua anomalia, è il luogo di origine della regolarità; la sua mancanza di misura è la condizione di possibilità dell’organizzazione misurativa di una forma di vita che non nasce con un gran numero di clichè metrici (oggi li chiameremmo istinti) già pronti. Attenzione, però. L’aggettivo è il motore drammatico del testo aristotelico perché la messa a punto di un sistema di misura non risolve una volte per tutte il problema della smodatezza. Il perittòs ha a che fare con la melanconia perché allude non solo all’estremo e alla medietà della misurazione, ma anche alla misurazione di quel che misura non può trovare. La melanconia è “anomala”, cioè incostante e irregolare, perché rivela la continua possibilità per l’animale umano di essere diverso da quello che è, di trasformarsi. Se si vuole, è luogo di origine di due figure complementari: lo Zelig di Woody Allen che cambia sempre identità al fine di mimetizzarsi nel tessuto sociale; Jacques l'Aumône, il protagonista di Suburbio e fuga di Queneau, che immagina di fare qualunque

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mestiere per assaporare ogni lato della vita umana e costruire una identità sempre più individuata (“eccezionale” nel senso di “individuato”, “eccentrico”, “ricercato”). Lo stato d’animo che meglio incarna il perittòs, la melanconia, non può che ripercorrerne le alterne vicende. È uno stato emotivo che rischia un continuo sfasamento rispetto a se stesso producendo una vertigine prossima a quella prodotta dalla contraddizione. Sono paralizzato e maniacale, ebbro e lucido, loquace e muto: emerge «una specie di dialettica delle qualità che […] cammina attraverso rovesciamenti e contraddizioni» (FOUCAULT, 1972, p. 233). Nel caso in cui le oscillazioni arrivino al culmine, questi stadi giungono a una indeterminatezza del comportamento prossima a quella prodotta dalla sospensione di quel che il libro Gamma della Metafisica chiama principio di non contraddizione. Da questo punto di vista, la storia labirintica e polimorfa del concetto di melanconia (per una rassegna: KLIBANSKY, PANOFSKY, SAXL, 1964) indica due crocevia antropologici in grado di suggerire perché la melanconia sia un candidato in grado di riempire quel vuoto, logico ed emotivo, segnalato nella Conferenza sull’etica di Wittgenstein. La melanconia è il correlato pulsionale della contraddizione perché quest’ultima ne descrive sia la struttura che la causa scatenante. Per un verso, si tratta di uno stato d’animo contraddittorio per sintomo e forma. Dal medioevo fino all'Ottocento, melanconia sarà sinonimo di licantropia e cannibalismo, vampirismo e di ogni stato al confine tra l’umano e l’animale (lo stesso Aristotele l’accosta alla «malattia sacra», cioè all’epilessia: Probl. 953 a 10; 953 b 6). L’instabilità dei sapiens trova le forme più diverse in figure di confine che segnalano la precarietà di una identità sempre pronta a mescolanze improprie, a ritorni di fiamma di un disordine del quale la bile nera è il simbolo fisiologico. Per un altro verso, la melanconia è lo stato d'animo suscitato dalla contraddizione. All’inizio del Seicento, un pastore anglicano riesce a mettere a fuoco con particolare chiarezza questo aspetto, sotterraneo ma onnipresente, del tono emotivo dominato dalla bile nera. In Anatomia della melanconia, Robert Burton (15771640) estremizza un’idea già espressa da Ippocrate e dalla sua scuola: il saggio si trova in una condizione simile a quella del melanconico perché prende atto dei contrasti e delle contraddizioni che attraversano il mondo. Ne ride amaramente, prendendone distanza. L’attenzione di Burton si concentra su Democrito, il filosofo incontrato da Ippocrate in uno dei suoi viaggi e definito dal medico greco simile a chi è colpito dalla bile nera. Il discepolo di Eraclito è figura emblematica: è sua la filosofia che, più di ogni

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altra (almeno fino alla dialettica di Hegel), si concentra sulle dinamiche che legano gli opposti in un rapporto di perenne separazione e unione. La variabilità pulsionale non costituisce solo il fondamento biologico della melanconia, come sembra suggerire Aristotele, ma anche il suo oggetto di riflessione, il motivo concreto e contingente della sua esplosione. La variabilità comportamentale umana è la causa scatenante della melanconia non solo perché ne rappresenta il motore pulsionale ma anche perché ne costituisce l’innesco. Il mondo è «pieno di ridicole contraddizioni» (BURTON, 1621, p. 88) perché gli uomini, grazie alla loro variabilità, sono simili a camaleonti (si pensi a Zelig o a Jacques l'Aumône). Allo stesso tempo, l’eccessiva mutevolezza di opinione e comportamento può tramutarsi anche nel suo opposto, nell’ottusità di chi non vuole cambiare idea. Contro la variabilità dell’animo umano l’esercizio retorico non offre garanzie (nei Problemata lalòs, “ciarliero”, si oppone esplicitamente a retorikòs: Probl. 953 b 1-2): non solo la parola dell’altro può portarlo all’errore, ma può non riuscire a convincerlo della verità. Poiché non esiste un tribunale ultimo, nessuno può essere inchiodato dall’evidenza dei fatti (BURTON, 1621, p. 113). Burton non punta il dito solo sulle ingiustizie delle società umane ma anche sulle difficoltà a debellarle. Il titolo dell’opera allude esplicitamente a un processo di scomposizione: anche se si procede a un'anatomia dei fatti e li suddivide in porzioni più piccole non è possibile arrivare a elementi primi, ad atomi indiscutibili di pura evidenza. Democrito, con il suo sorriso amaro, ride del suo stesso atomismo poiché trovare fatti elementari (gli stessi auspicati dall’autore del Tractatus) non è così facile3. Il perittòs malinconico dà ragione a Protagora (“l’uomo è misura di tutte le cose”: questo vale per tutti gli umani ed ecco uno dei suoi invarianti biologici) e, così facendo, ne elimina il relativismo. Lo supera spiegandone il senso antropologico. 3. Incommensurabilità e rivolta: contraddizione e immaginazione La melanconia non è solo motore del problema, l’instabilità pulsionale di una specie facile preda della contraddizione, ma può indicare una via d'uscita: è qui che uno dei protagonisti della Conferenza sull’etica, l’immaginazione, fa il suo ritorno.

3

È questo uno dei punti di connessione tra melanconia e ironia: RUSSO CARDONA, in stampa.

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Per spiegare il rapporto tra linguaggio e mondo, il Tractatus si avvale di un’immagine geometrica: la proposizione “è come un metro apposto alla realtà” (T, 2.1512). Come sottolinea Lo Piparo (2002, p. 102), la tautologia è strettamente imparentata con la nozione di misura-campione: il modo più secco per rispondere alla domanda “com’è il rosso drago?” è mostrarne un esempio visibile. E’ quel che, di fatto, accade in ogni negozio di colori o stoffe. La Conferenza sull’etica privilegia questo tipo di esempi. Nell’esclamazione “quanto è azzurro questo azzurro!” ritroviamo il cortocircuito tra campione ed espressione corrispondente: con meraviglia constatiamo un fatto altrimenti normale, quanto il campione calzi con il suo modello. L’uguaglianza tra l’espressione “rosso drago” e il colore equivalente assomiglia a un’espressione tautologica, A=A. In entrambi i casi emerge la struttura del mondo, la sua “armatura” (T, 4.023). La contraddizione porta in scena uno stato d’animo, la malinconia, che non si concentra sulla stretta connessione tra i due termini, la macchia e il suo nome, quanto sul margine di gioco che sussiste tra loro. Riprendiamo il paragone wittgensteiniano tra linguaggio e geometria. La tautologia, con la sua rassicurante meraviglia, si concentra sulla coincidenza tra il metro e la realtà, la parola e il mondo. Vuoi sapere quanto è grande questa stanza? Nessun problema, prendo il metro e comincio a misurarne i lati per poi calcolare l’area. La contraddizione è matrice della malinconia perché si annida negli interstizi delle pratiche misurative, nelle sue incertezze, nelle sue necessarie approssimazioni. Prendo le misure della mia stanza e, all’improvviso, sono preda di una esitazione. Quanto devo approssimare per avere una misura che sia precisa? Al centimetro? Al millimetro? Meno? La fettuccia può mettermi in profondo imbarazzo: prendo la misura e vedo che la fine della stanza non coincide con una delle tacche del mio metro. È lì, a metà, tra un millimetro e un altro. È ovvio: di solito, questo residuo è qualcosa di innocuo, ad esso semplicemente non facciamo caso. Ma peculiare dello stato melanconico è mettere in evidenza la potenziale profondità dello scarto: quella tacca indica e non indica la misura giusta, per uscire dalla trappola costituita dal limite indecidibile tra due misure devo inventare qualcosa. Come frasi all’apparenza semplici (“quanto è azzurro questo azzurro!”) tradiscono la struttura interna delle proposizioni etiche e religiose, così le approssimazioni misurative quotidiane ricordano l’eterno agguato di situazioni nelle quali “la regola non mi dice più nulla” (WAISMANN, 1967, p. 114). La contraddizione non si configura solo come semplice blocco per

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l’azione o per il ragionamento ma come spinta a «prendere una decisione, cioè introdurre un’ulteriore regola» (ibidem. Il corsivo è nel testo). “A e non A” deve il suo carattere inquietante anche al fatto che è una proposizione che spinge all’innovazione e al cambiamento: se la tautologia mostra la struttura del gioco attraverso un processo di congelamento, la contraddizione lo mette non solo in discussione ma di nuovo in moto. L’eccesso e la mancanza di misura, i crucci della bile nera, trovano in una capacità melanconica, l’immaginazione, una via costruttiva: l’indeterminatezza semantica propria della contraddizione è messa al lavoro per costruire nuove forme di organizzazione di un mondo tanto instabile, per dare spazio a una vita eccezionale perché soluzione individuale al problema della specie. La tautologia si ferma alla constatazione del «mondo come tutto limitato» (ivi, p. 55); la melanconia ne costituisce il risvolto problematico perché si chiede dove cada questo limite, se si dia sempre una sovrapposizione tra limite del linguaggio e limite del mondo. La tautologia è animata da una meraviglia che è un vero e proprio «sentimento mistico» (WAISMANN, 1967, p. 55): per questo lascia tutto com’è. La contraddizione melanconica è animata da una spinta per Wittgenstein più sospetta, un «bisogno di metafisica» (caro al suo amico/nemico Schopenhauer: MAZZEO, 2001) potenzialmente produttivo e, per questo, paradossalmente più materialista perché alla ricerca non solo di una spiegazione del mondo ma anche del suo cambiamento. Non fermarsi alla meraviglia ma avventurarsi nei rischi dell’immaginazione malinconica significa questo: sapere che «ogni cosa è ciò che è» (secondo l’espressione di Butler spesso citata da Wittgenstein), ma non arrendersi all’idea che non possa esser trasformata in un’altra cosa. Bibliografia ARISTOTELE (Eth. Nic.), Ethica Nicomachea (trad. it. di C. Mazzarelli, Bompiani, Milano 2000). ARISTOTELE (Met), Metaphysica (trad. it. e note di A. Russo, in ARISTOTELE, Opere, vol. 6, Laterza, Roma-Bari 1982). ARISTOTELE (Parva Naturalia), Parva naturalia (trad. it. di A.L. Carbone, L'anima e il corpo. Parva Naturalia, Bompiani, Milano 2002). ARISTOTELE (Probl.), Problemata XXX (trad. it. di C. Angelino e E. Salvaneschi, La “melanconia” e l’uomo di genio, Il Melangolo, Genova 1981). BURTON R. (1621), The Anatomy of Melancholy (trad. it. di G. Franci, Anatomia della malinconia, Marsilio, Venezia 1994).

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CARDONA G. (1985), I sei lati del mondo. Linguaggio ed esperienza, Laterza, Roma-Bari. FOUCAULT M. (1972), Historie de la folie à l’age classique, Gallimard, Paris (trad. it. di F. Ferrucci, Storia della follia nell’età classica, Bompiani, Milano 2006). KLIBANSKY R., PANOFSKY E., SAXL F. (1964), Saturn and Melancholy. Studies in the History of Natural Philosophy, Religion and Art, Thomas Nelson & Sons Ltd, London (trad. it. di R. Federici, Saturno e la malinconia. Studi su storia della filosofia naturale, medicina, religione e arte, Einaudi, Torino 2002). LO PIPARO F. (2002), I nomi, le rappresentazioni e le equazioni. Note su Wittgenstein, in M. DE CAROLIS, A. MARTONE, Sensibilità e linguaggio. Un seminario su Wittgenstein, Quodlibet, Macerata, pp. 91-105. MAZZEO M. (2001), Wittgenstein, Schopenhauer e il bisogno di metafisica, «Il Cannocchiale», 3, pp. 251-263. RUSSO CARDONA T. (in stampa), L’ombra illuminata. Studio sul rovesciamento ironico; Meltemi, Roma. WAISMANN F. (1967), Wittgenstein und der Wiener Kreis, Basil Blackwell, Oxford (trad. it. di S. de Waal, Wittgenstein ed il circolo di Vienna, La Nuova Italia, Firenze 1975). WITTGENSTEIN L. (LE), Lectures and conversations on aestethics, psycology and religious belief, Blackwell, Oxford 1966 (trad. it. di M. Ranchetti, Lezioni e conversazioni su etica, estetica, psicologia e credenza religiosa, Adelphi, Milano 1992, pp. 47-167 ). WITTGENSTEIN L. (CE), Wittgenstein’s lecture on ethics, «Philosophical Review», 74, 1965, pp. 3-12 (trad. it. di M. RANCHETTI, Conferenza sull’etica, in L. WITTGENSTEIN, Lezioni e conversazioni su etica, estetica, psicologia e credenza religiosa, Adelphi, Milano 1992, pp. 3-18). WITTGENSTEIN L. (OFM), Bemerkungen über die Grundlagen der Mathematik, Oxford, 1978 (trad. it. di M. Trinchero, Osservazioni sopra i fondamenti della matematica, Einaudi, Torino 1988). WITTGENSTEIN L. (T), Tractatus Logico-Philosophicus, Routledge and Kegan Paul, London 1961 (trad. it. di A. Conte, Tractatus Logico-Philosophicus, in Tractatus LogicoPhilosophicus e Quaderni del 1914-1916, Einaudi, Torino 1995). WITTGENSTEIN L. (Q) Notebooks 1914-1916, Basil Blackwell, Oxford 1961 (trad. it. di A. Conte, Quaderni del 1914-1916, in Tractatus Logico-Philosophicus e Quaderni del 1914-1916, Einaudi, Torino 1995). WITTGENSTEIN L. (Z), Zettel, Basil Blackwell, Oxford 1981 (trad. it. di M. Trinchero, Zettel, Einaudi, Torino 1986).

ALESSANDRA PANDOLFO Emozioni e mente morale «…che ‘l mondo delle gentili nazioni egli è stato pur certamente fatto dagli uomini» (VICO, Principi di una Scienza Nuova, 1725)

0. Breve prologo in terra In una tiepida serata di marzo, attraversata da un molle vento di scirocco, passeggio in una piazza della mia città. Un gruppo di ragazzi si attarda ai piedi di una statua. Scherzano, ascoltano musica, con accento strascicato chiacchierano, immersi nell’indolente atmosfera delle vacanze pasquali. Ad un tratto, uno di loro lancia in alto delle bottiglie di vetro. Queste, cadendo si frantumano e scagliano in modo esplosivo schegge di vetro che sfiorano i passanti stupefatti, presto sottratti al loro distratto incedere … Cosa passa per la mente di quel giovane? Quali le ragioni e la tonalità emotiva di quel gesto? Che rappresentazione possiede di sé, dell’altro, dello spazio sociale in cui vive? 1. Socializzazione/individuazione nello spazio logico dell’intersoggettività linguistica Il significato e il peso delle norme e dei vincoli nella vita umana varia enormemente nei diversi contesti normativi con effetti vistosi sul piano della felicità e della sofferenza. Ma, quali sono le condizioni della relazione normativa sempre attraversata dalla tensione tra istanze individuali e sociali? Su questa tensione bisogna far leva per evidenziare la matrice affettiva di diversi atteggiamenti rispetto ai vincoli normativi che, disposti idealmente lungo un continuum di possibilità, trovano ad un estremo il sentimento di obbedienza tipico delle forme di eteronomia e, dall’altro, la mera indifferenza propria degli spazi anomici. Ricostruiamo, quindi, lo spazio logico della normatività attraverso i fattori dell’intersoggettività linguistica che presiedono al processo di socializzazione/individuazione1. 1 Presento qui in forma schematica l’idea del radicamento della vita normativa nell’intersoggettività linguistica che ho sviluppato nella Tesi di Dottorato di ricerca; cf. in particolare il capitolo terzo di PANDOLFO (2007).

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a) Lo scambio prospettico dei ruoli tra identità e differenza. Ricalcando le orme di Mead2, sottolineo anzitutto la dinamica dello scambio prospettico dei ruoli, che permette ad un co-agente di “trasformarsi” operativamente nell’agente, ri-eseguendone il gesto e impossessandosi così della regola del partner. Su questa forma si innesta la socialità umana, che garantisce mediante la dinamica di esecuzione e ri-esecuzione quel patrimonio comune di regole che nel co-operare si stabilizzano. Ma lo scambio prospettico attiva anche il processo di differenziazione dei ruoli che dilata uno spazio di gioco, nel quale ogni azione diventa una mossa imprevedibile che offre un ventaglio di possibili risposte operative da coordinare con esiti più o meno accettabili. Secondo Mead grazie al processo di differenziazione dei ruoli, vera matrice di variabilità delle regole, gli agenti possono interpretare in modo innovativo le condotte sociali condivise, moltiplicando le possibilità del fare. In tal senso, l’adulto che si prende cura del bambino, lo espone alla contingenza di un gioco interpretativo irriducibile ad automatismi, nel quale sussiste una dinamica di stabilizzazione, differenziazione e aggiustamento reciproco dei vincoli. È questo il primo nucleo della comprensione sociale3. b) io e tu, la codificazione linguistica del processo di identificazione/differenziazione4. La forma dialogica della prassi raggiunge le sue condizioni specifiche con la comparsa del linguaggio che codifica la differenza dei ruoli nella funzione degli operatori linguistici io-tu. Dicendo di sé io, il parlante afferma la nonidentità rispetto al tu, ma, per altro verso, attribuendo al tu la capacità di dire di sé io, riconosce l’identità che li accomuna. La vita linguistica è condizione di identità e differenza. Per il semplice fatto di parlare, un parlante entra nel gioco dialogico che lo “costringe” ad occupare una specifica posizione irriducibile a quella dell’altro. Io e tu sono le coordinate linguistiche dello spazio sociale che identificano gli specifici posizionamenti responsabili della flessibilità delle regole inscritte nelle pratiche comuni. Tra io e tu si dilata lo spazio nel quale l’esperienza del mondo può essere riorganizzata 2 Il contributo dello scambio prospettico alla strutturazione della mente sociale è analizzato in MEAD (1934), nella parte dedicata alla Mente. 3 Per un’analisi dettagliata dei fattori psicologici che contribuiscono precocemente allo sviluppo della mente sociale cf. LEGERSTEE (2005). 4 Attraverso la lettura di Habermas e di Benveniste ho appreso quanto la genesi degli operatori linguistici io/tu contribuisca a creare lo spazio della socialità normativa nella quale si articolano identità e differenze. Cf. in particolare L’apparato formale dell’enunciazione, in BENVENISTE (1974). Il tema è diffusamente presente in Habermas, ma mi limito a segnalare HABERMAS (1981, trad. it. 1986, pp. 547-696).

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secondo modalità inedite. La polarità io-tu è una componente essenziale dello spazio normativo, dove la tensione tra le regole consolidate e la possibilità di eseguire nuove regole non è eliminabile. Qui si genera l’esperienza del Sé, nella quale prendono corpo vincoli e norme, ma anche desideri e bisogni, insieme all’attività di mediazione tra istanze sociali e individuali che dura per tutta la vita. c) La dimensione consensuale della coordinazione delle azioni. Con questa felice espressione di Maturana5 indico l’altro fattore della vita normativa, e cioè la dinamica dialogica innescata dall’operatore linguistico sì/no6 che avvia il processo di validazione dei vincoli e, quindi, la possibilità di coordinare consensualmente le azioni. Nella prassi intersoggettiva la pluralità dei ruoli crea un ambito in cui coesistono da un lato un patrimonio di vincoli comuni e, dall’altro, il potenziale di variazione delle pratiche condivise posto nella capacità dei soggetti di fare e dire diversamente. La contingenza è un tratto specifico della vita normativa e rende inesauribile il compito di coordinazione delle azioni, spesso messo a dura prova dalle trasformazioni decise dal soggetto. Ma come accade che, delle differenti forme d’azione, alcune vengano riconosciute legittime e degne di vincolare, altre no? L’operatore linguistico sì/no è il fattore della selezione validativa per comparare le regole in modo che l’esibizione delle loro qualità possa condurre a coordinare consensualmente le azioni. La dinamica dialogica del sì/no istituisce l’incerta mediazione tra norme stabilizzate e il complesso di bisogni e desideri al quale l’individuo può dar voce. Irrompendo nella vita pubblica le motivazioni soggettive, lungi dall’essere necessariamente ascritte alla sfera dell’arbitrio, possono avanzare legittime pretese di validità esibendo argomenti e ragioni che ne attestino le qualità. Desideri, passioni e credenze possono, così, divenire ragioni d’azione. 2. Modelli etici e tonalità emotiva del sentimento sociale Varcare la soglia dell’intersoggettività linguistica significa al tempo stesso entrare nella scena della vita normativa; tramite il processo di socializza5 Secondo Maturana la specifica competenza della forma di vita che possiede linguaggio risiede proprio nella possibilità di coordinazione consensuale di azioni; il tema è trasversalmente presente in MATURANA (2006). 6 Per la struttura dialogica dell’intesa umana mi riferisco all’orizzonte teorico habermasiano che ha il merito di aver riportato la genesi dei vincoli normativi alla matrice dialogica dell’intersoggettività linguistica.

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zione/individuazione il Sé si struttura rispetto ai vincoli sociali. Va precisato che si tratta di fattori logici astrattamente considerati, pure condizioni di possibilità dei concreti scenari normativi che ad uno sguardo ravvicinato esibiscono specifici livelli di problematicità. Gli abitanti dello spazio intersoggettivo non possono sottrarsi al lavoro di coordinazione tra identità individuale e sociale. Né la costruzione delle poleis sfugge agli esiti incerti della mediazione normativa con la beffa che relazioni sociali a fatica costruite possano sciogliersi come neve al sole per l’urto del reciproco misconoscimento che fa saltare ogni vincolo. Mi soffermo, adesso, sulla fisionomia che il nesso tra ragionamento morale e sentimento sociale assume nei diversi contesti etici, partendo da un’osservazione di carattere generale. L’ethos di una comunità indica il complesso di criteri che orientano l’agire sociale entro forme di vita buona. Nella sfera etica si sedimentano i giudizi valutativi che selezionano forme di coordinamento d’azione pubblicamente riconosciute valide. Quanto più gli agenti si conformano a quei giudizi, tanto più è garantito l’ethos di una società. Per chiarire la specifica tonalità emotiva di uno spazio etico, bisogna osservare come si strutturano i seguenti fattori: le procedure sociali di giustificazione dei valori, le modalità di trasmissione dei criteri alle nuove generazioni, la designazione di autorità deputate alla tutela dell’ethos, l’intensità dell’esercizio del vincolo e le forme di sanzione della violazione. L’etica, però, non basta a garantire forme di vita buona. Indica la dimensione fattuale delle forme di coordinazione già approvate e, quindi, la condizione a partire da cui i soggetti si impegnano nel compito di misurare le proprie istanze rispetto allo sfondo di valori condivisi, al fine di articolare una specifica esistenza presumibilmente difendibile. E poiché ci preme capire i livelli di benessere degli individui negli spazi normativi, ci chiediamo a questo punto: dato un contesto etico, quali margini di iniziativa spettano agli individui? Che tipo di attività valutativa è incoraggiata per la scelta dei criteri d’azione? Qual è la tonalità emotiva dominante? Proviamo a rispondere, individuando le forme del sentimento morale sociale in tre tipici contesti etici: eteronomia, anomia e modello dialogico. 3. Il modello dell’eteronomia tra obbedienza e sentimenti di paura, sacrifico, rassegnazione Iniziamo con l’analisi dei modelli etici definiti da elevati livelli di eteronomia, nei quali è forte la pretesa che i criteri del bene e del male siano

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universali, stabili e ben trincerati nelle istituzioni che ne garantiscono la validità. Che si tratti di autorità politiche, religiose o culturali, ad esse spetta l’onere di fondare e giustificare i valori, tracciando un confine netto tra azioni conformi e non conformi ai criteri. Alle medesime autorità spetta il compito di trasmettere il patrimonio normativo alle nuove generazioni per dare continuità alle forme di coordinazione sociale. Il potere vincolante dei valori sulla volontà degli individui è elevato, così come il peso della sanzione in caso di violazione. Direi, pertanto, che in questo spazio etico i valori-matrice intorno a cui si struttura l’intero sistema morale sono quelli della coesione e dell’omogeneità; e di contro, disgregazione e difformità sono i principali disvalori. Non a caso qui occupa un posto di rilievo la forma illocutiva del comando imperativo. Il soggetto giustifica le proprie azioni tramite giudizi morali di conformità al criterio valido: pertanto, la validità fattuale della norma etica è solo debolmente esposta al rischio che l’individuo ne metta in discussione la legittimità. Le istanze difformi dai modelli d’azione sono delegittimate e nel processo di individuazione/socializzazione il piatto della bilancia pende nettamente a sfavore dell’individuo. Qual è la tonalità emotiva di questo scenario? I sentimenti-matrice in gioco sono quelli relativi alla sfera dell’obbedienza, della fede, della paura e della vergogna. Per costruire un sentimento positivo verso le direzioni d’azione previste dal codice etico, in modo da render preferibile la conformità ad esso, bisogna far leva più che sulla desiderabilità del fine, sulla fuga da temibili sanzioni. Forme etiche analoghe si insinuano nei modelli funzionalistici per mezzo degli organismi educativi che stabilizzano i modelli valoriali. Se osserviamo attentamente, anche in questo caso i valori assumono la forma di imperativi che chiedono obbedienza senza spazi di mediazione per le istanze individuali che alla finalità del sistema vanno sacrificate, pena l’incremento della disgregazione sociale. La componente autoritaria, però, nel modello sistemico si nasconde tra le pieghe di una potente strategia di razionalizzazione che legittima il primato delle forze assimilatorie, non in base allo schietto principio d’autorità, ma appellandosi all’efficienza di inviolabili meccanismi biologici di autoregolazione. Parsons, infatti, identifica i valori culturali con le funzioni cibernetiche7 che assicurano al sistema livelli ottimali di adattamento ambientale, scongiurando la minaccia delle istanze individuali. In effetti, a ben vedere, nel contesto sistemico emergono alcune 7 Per l’analisi critica del modello funzionalistico parsoniano cf. HABERMAS (1981, trad. it. 1986, pp. 880-882).

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differenze rispetto al modello puramente imperativo: la forma illocutiva dominante è quella della persuasione strumentale e la forma tipica del ragionamento morale implica la comparazione tra gli effetti laceranti dell’azione difforme dai modelli e gli effetti aggreganti dell’azione conforme. I sentimenti di cieca obbedienza o di paura della sanzione sono meno diffusi, a vantaggio del sentimento stoico del sacrificio di sé in vista di un bene superiore. Un’ulteriore varietà emotiva è quella della rassegnazione, qualora il soggetto maturi la convinzione che le proprie istanze siano oggettivamente incapaci di incidere sulla realtà sociale diretta con fermezza dalla logica sistemica. 3.1. Breve excursus su ragione e passione Sul potente modello dell’etica eteronoma si innerva la tradizionale contrapposizione tra ragione e passione che a lungo ha costituito lo sfondo della riflessione etica, sia di quella che condanna le emozioni all’ostracismo, sia di quella che fonda la moralità sull’innato sentimento sociale. All’origine del dissidio sta l’idea di un’ontologica divisione di funzioni tra il punto di vista generale della ragione e l’orientamento egoistico della vita patemica. Senza poter qui ripercorrere la storia delle teorie etiche, vorrei mostrare quanto porti fuori strada l’idea che la soluzione al conflitto morale risieda semplicemente nel temperare le passioni ardenti col ghiaccio della ragione. In particolare, perdiamo di vista il fatto che ci sono cattive ragioni, egoistiche e strumentali, così come passioni buone e per niente esecrabili. Né mi pare che risolva il problema la più conciliante prospettiva à la Hume che attribuisce alla ragion pratica un ruolo meno censorio senza giungere alla rimozione generalizzata delle passioni; queste, piuttosto, sono aspetti naturali della vita da tutelare. La ragione, allora, deve orchestrare le voci dei sentimenti, valorizzando le buone e istintive passioni sociali, mettendo a tacere le voci dissonanti di innaturali istinti egoistici. È così che per Hume la virtù, senza andare in giro vestita a lutto, può apparire gentile, affabile o addirittura gaia8. L’ipotesi dell’istintiva socialità e della virtù gaia è accattivante, ma lascia irrisolti troppi problemi, non ultimo quello della spiegazione del procedimento con cui il soggetto misura l’utilità sociale delle azioni. Non è facile liberarsi dal sospetto che la ragione interpreti la voce interiorizzata della società che invita al consenso, facendo leva, più che 8

Cf. HUME (1751, trad. it. 1997, p. 179).

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sulla paura delle sanzioni, sulla desiderabilità dell’apprezzamento sociale. E, allora, dietro l’opposizione ragione/passione si cela, forse, l’indebita identificazione della razionalità col punto di vista della morale costituita. Poco importa che la virtù indossi gli abiti luttuosi del sacrificio o che la si imbelletti, incoraggiando qualche rinuncia in vista dell’apprezzamento sociale. L’utilitarismo, benché esprima una società benevolmente disposta a gratificare i sacrifici dell’Honnête Homme, non si sottrae affatto alla logica eteronoma. Occorre, però, esser consapevoli che in tal modo si riducono drasticamente le possibilità di coordinazione consensuale, e il conflitto etico assume la forma dell’alternativa secca: o le cieche passioni o la razionalità che illumina la mente con imperativi sociali, più o meno ingentiliti o minacciosi. La nobile istanza di decentramento dall’egoismo è annunciata, ma praticata in una forma distorta, dove il punto di vista sociale soppianta senza possibilità d’appello la volontà dell’individuo. A questo punto, direi che l’ostinato modello della ragion pratica repressiva delle emozioni sia un modo improprio di fissare un legittimo criterio distintivo della vita etica: la possibilità di decentrare le istanze d’azione nello spazio intersoggettivo in modo che la coordinazione possa avvenire in maniera consensuale. E l’istanza di decentramento non riguarda soltanto passioni o emozioni, ma anche credenze, teorie, abitudini, insomma tutto ciò che nel ragionamento morale può diventare principio d’azione. Ma questo è un modo ben diverso di intendere il lavoro della ragion pratica. Non si tratta di un’autorità legislatrice che dirige e sanziona, ma della capacità di decentrare le istanze individuali nello spazio intersoggettivo perché siano riconosciute legittime e condivisibili. E, allora, non è detto che le passioni siano incompatibili con la vita etica. Sono incompatibili, semmai, con lo spazio contratto e asfittico dell’eteronomia. Ma le dinamiche dell’intersoggettività linguistica di per sé potrebbero offrire ben altre forme di coordinazione consensuale senza togliere diritto di cittadinanza a passioni, emozioni o desideri degli individui. 4. Il modello dell’anomia: la semplificazione del sentimento di piacere e dolore Soffermiamoci, adesso, sul modello dell’anomia, pur senza nascondere l’imbarazzo e i dubbi incontrati nell’analisi di uno spazio etico così ravvicinato. L’individuo è norma a se stesso, è questa la cifra dell’ethos in cui viviamo, esito ultimo dello smantellamento dell’eteronomia, dettato dall’esigenza di riabilitare desideri, convinzioni e passioni degli individui. Una

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lettura frettolosa potrebbe limitarsi a considerare desiderabile la condizione del soggetto che, divenuto norma a se stesso, può esprimere liberamente le istanze fin lì rimosse. Ma la faccenda è ben più complicata. Né è il caso di proporre una lettura altrettanto semplicistica che capovolge il giudizio di apprezzamento in rituali formule di denuncia dei crescenti livelli di violenza e disgregazione della società anomica. Violenza e disgregazione sono un fatto che nessuna denuncia più o meno lamentosa può cancellare. Ci interessa, piuttosto, ricostruire la logica delle relazioni anomiche per capire se la dimensione patemica, che vorremmo recuperare nella vita etica, abbia qui diritto di cittadinanza. Sosterrò che l’esodo dall’eteronomia ha di fatto condotto ai margini dell’intersoggettività linguistica in uno spazio asfittico e paradossale che contrariamente alle attese riduce in modo sensibile la possibilità che i soggetti esprimano le loro ragioni. Lo spazio anomico risulta dal graduale allentamento della polarità io-tu prodotto da reiterate modalità d’azione che riducono le forme di coordinazione, sfilacciando il tessuto dialogico. Nel tentativo di riabilitare l’io nella vita pubblica la via più facile è apparsa quella che porta a svincolare gli individui tra loro con la speranza di dilatare gli spazi di iniziativa. Ma, il carattere sempre più intermittente del gioco dialogico ha un vistoso effetto collaterale: l’estrema variabilità e incoerenza delle regole e dei giochi proposti dagli individui svincolati. Ciascuno gioca un gioco idiolettale con proprie regole in uno spazio instabile dove non è facile indovinare la mossa giusta per coordinare il proprio agire con altri agenti così mutevoli. In tale contesto, direbbe Wittgenstein, è difficile scorgere l’azione che funge da applicazione paradigmatica9 della regola. E, allora, l’incerta trama delle regole rende imprevedibili le mosse degli agenti, poiché in un ambito di gioco ambiguamente perimetrato non c’è un comportamento più o meno giusto; tutti si equivalgono. Rispetto a cosa, poi, andrebbe stabilita la qualità dell’azione? Tra individui svincolati l’efficacia della coordinazione non è un criterio, e non può esserlo proprio da un punto di vista logico: se ci fosse coordinazione, l’altro diventerebbe un limite per la mia azione. Come operare, allora, la selezione validativa che riduce i livelli di contingenza? Nel gioco di coordinazione dialogica le due polarità io-tu, iosocietà si misurano reciprocamente per trovare forme più o meno riuscite di selezione cooperativa che strutturano ragioni e non ragioni dell’agire so9 Ricordiamo che Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche utilizza l’argomento paradossale del linguaggio privato proprio per mostrare il carattere pubblico dell’esperienza del “seguire la regola”; cf. in particolare i paragrafi 243-427 di WITTGENSTEIN (1953).

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ciale. Ma se l’io rimane un polo sospeso e irrelato, l’operazione di riduzione della contingenza è interamente affidata al soggetto. E se non ci sono né norme, né partner ben identificabili, se non ci sono mosse probabili e non è nemmeno certo il terreno di gioco, il lavoro di comparazione tra diverse possibilità operative si semplifica parecchio. Chi agisce, infatti, non deve affannarsi troppo a formulare ipotesi circa le conseguenze o le risposte di altri agenti; l’altro scompare dall’orizzonte d’azione. Nello spazio monologico, a differenza che nelle pratiche intersoggettive di coordinazione, si attenua il peso della valutazione degli effetti dell’azione rispetto ad altri agenti usciti di scena. Se l’io diventa il criterio senza alcuna mediazione normativa con altre menti, il rapporto tra azione e realtà diventa più lineare. Ma chi è l’io che decide “che fare?”. È l’io spinto ai margini dell’intersoggettività, contratto nel perimetro di un’identità corporea scarsamente socializzata, non nel senso che vive in solitudine, tutt’altro. Ma è un’identità corporea distante dalle dinamiche che moltiplicano i sensi e le ragioni del vivere sociale. Se gettiamo un rapido sguardo su queste dinamiche, ci accorgiamo che il criterio orientativo di ogni forma di vita, costituito dall’opposizione piacere/dolore, passando attraverso il prisma dell’intersoggettività linguistica, si scompone in una variopinta pluralità di modi di orientare l’agire. E, nel momento in cui si moltiplicano le forme di coordinazione (giudizi, valori e abiti), la capacità percettiva del piacere e del dolore si diversifica a sua volta in quella pluralità di qualità affettive che chiamiamo emozioni, sentimenti e passioni, ineliminabili dal nostro fare, dire e pensare. Lo sforzo di coordinazione induce, tra l’altro, a pertinentizzare le innumerevoli sfumature che disarticolano la vita affettiva, originariamente attraversata dalla mera distinzione piacere/dolore, in una struttura a grana fine dove prendono corpo le qualità affettive positive o negative di cui la vita umana è intrisa. E poiché, come sostiene De Monticelli, ogni evento esibisce qualità di valore che ci toccano, muovono e commuovono con gradi diversi di intensità, la vita affettiva è componente indispensabile per formare il sistema di preferenze tramite cui persone e situazioni acquistano rilevanza nella nostra esperienza10. Per questo la vita patemica entra di diritto nel gioco di coordinazione consensuale. Che ne è di questo variopinto mondo per l’io rattrappito nel perimetro dell’identità corporea non pienamente socializzata dal gioco di coordina10

Cf. DE MONTICELLI (2002, pp. 79-82).

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zione consensuale? È probabile che i criteri orientativi delle sue azioni siano riconducibili alla medesima matrice piacere/dolore, benché indifferenziata e irriflessa. Ma, così, la vita affettiva nell’interruzione della relazione dialogica io-tu resta grossolanamente insensibile alla ricchezza delle qualità negative o positive di valore, che caratterizzano la nostra esperienza. Ecco, quindi, profilarsi l’autorità “normativa” nell’ethos dell’anomia: il bisogno primario (senza mediazione intersoggettiva) della ricerca del piacere e della fuga dal dolore. È un criterio inequivocabile che distingue nettamente le situazioni piacevoli da quelle spiacevoli, senza complesse procedure di valutazione, o giustificazione (e dinanzi a chi si dovrebbe giustificare se qualcosa procura piacere o dolore?). Né occorrono sofisticate pratiche educative per trasmettere i criteri d’azione; basta esibire un campionario sociale di situazioni piacevoli/spiacevoli, al quale attingere senza l’intervento di pratiche di negoziazione. La diversificazione dell’offerta è tale che chiunque può reperire qualcosa che vada bene. In fondo la mera imitazione è prova sufficiente per testare l’efficacia del campionario. Il meccanismo di trasmissione è diretto, perché il criterio del piacere e del dolore non necessita di forme elaborate di apprendimento; non a caso, l’iter della crescita si accorcia parecchio. Inoltre, lo spazio anomico non ha bisogno di forme di controllo per perpetuare se stesso, ma si reitera secondo la logica della coazione a ripetere, tramite cui gli individui ritagliano isole di regolarità per arginare la contingenza prodotta dalla rarefazione delle forme di coordinazione. L’ingestibile mondo caotico e debolmente perimetrato da vincoli induce i soggetti disorientati a costruire nicchie para-sociali di regolarità. Se un comportamento soddisfa al semplicistico criterio piacere/dolore, si reitera con inerzia. Ma allora gli individui svincolati, per un verso sono esonerati dal gioco sociale che richiede conoscenza e applicazione interpretativa delle regole per compiere mosse giuste. Per altro verso, rischiano di restare irretiti nel gioco solitario che ossessivamente esige la ripetizione consolatoria di schemi semplificati d’azione che liberano dall’incertezza della contingenza. 5. Fatticità dell’intersoggettività linguistica e possibile costruzione dello spazio dialogico Dinanzi al disagio evidenziato c’è certamente un po’ di saggezza in chi sostiene che i vizi di anomia ed eteronomia fanno parte del gioco e che riconoscerli significa prender atto della natura umana con buona dose di rea-

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lismo. Reputo, però, imbarazzante l’inerzia dinanzi all’inamovibilità delle forme del vivere che sconfina fatalmente in complicità scevra da ogni senso di disagio. Trovo spiacevoli, d’altra parte, le proposte di frettolosi riformatori etici11 che vorrebbero sanare gli abiti sociali, imponendo dall’alto forme ben definite di vita buona. Se è legittima l’istanza di cambiamento, ogni qual volta si avvertono i limiti di uno spazio etico, appare ingenua (o strumentale?) la pretesa di eludere l’effettiva dinamica della vita normativa che rende lenta e incerta la costruzione di nuovi abiti. Ciò è detto per chiarire che, se nei modelli esaminati fa difetto il gioco dialogico e si riduce lo spazio per le istanze di benessere degli individui, si può tentare di riabilitare quel gioco, anzitutto, attraverso un’opera di chiarificazione delle sue regole. In secondo luogo, va detto che per avviare un gioco, a poco servirebbe una qualche riforma; lo si può avviare, giocandolo. Quanto poi un gioco diventi un abito radicato nelle pratiche sociali non è affatto prevedibile, tutt’al più è auspicabile. Ma un gioco non si gioca primariamente per sanare l’ethos della comunità. Giocare un gioco significa semplicemente coltivare una forma di vita. Vediamo, quindi, qual è la condizione affinché uno spazio etico possa incrementare i livelli di benessere degli attori sociali, dilatando i margini di iniziativa. Parto dal presupposto che la pretesa di vita buona sia ineliminabile dallo spazio logico dell’intersoggettività linguistica. Dal momento in cui l’individuo è scaraventato nel gioco dialogico, l’esposizione alle molteplici modalità del fare innesca un processo di selezione validativa. L’azione è connessa alla formulazione di giudizi che attribuiscono priorità ad una certa regola rispetto ad altre. Anche quando non sia evidente, l’agente formula ragionamenti pratici che assegnano ad uno schema operativo lo status di regola da seguire. Il giudizio è la base del convincimento che impegna ad agire in un certo modo. Pretesa di validità, giudizio, ragionamento ci danno la misura del carattere pubblico della prassi umana. La necessità della selezione validativa s’impone a partire dal comune spazio d’azione. E per questo l’agente è esposto alla possibilità che gli si chieda di giustificare la qualità del suo agire, che nel bene o nel male lascia una traccia nello spazio abitato da altri agenti. Tuttavia, l’inserimento fattuale nelle dinamiche intersoggettive è con11 Traggo spunto dalle osservazioni di Zagrebelsky che critica i cosiddetti «procacciatori, o postulatori d’identità», e i politici (teologi) che dinanzi alle forme identitarie carenti delle società contemporanee sempre più disgregate, cercano facili scorciatoie, rivolgendosi impropriamente alle «prestazioni della religione come fattore di coesione sociale»; cf. ZAGREBELSKY (2008, pp. 3-34).

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dizione necessaria per il coordinamento consensuale. Ma non è condizione sufficiente, e non comporta ipso facto impegno verso le forme di coordinamento consensuale. Questo impegno è indispensabile per dilatare gli spazi per le pretese di vita buona e consiste, più precisamente, nell’impegno a “tenere in vita” quella fragile polarità io-tu che di fatto è data nel gioco dialogico, ma che potrebbe anche non esserci. Non tutte le forme di coordinazione d’azione sono buone per alimentare la polarità io-tu; alcune, anzi, la minacciano palesemente. L’abito dialogico, invece, implica forme di ragionamento pratico che avanzano nello spazio pubblico istanze non lesive della fragile polarità io-tu. Se questa è la struttura della mente morale, direi, diversamente da Hauser, che è davvero difficile immaginare l’evoluzione dell’istinto morale come se si trattasse di una «capacità che cresce naturalmente all’interno di ogni bambino, progettata per generare giudizi rapidi su ciò che è moralmente giusto o sbagliato basandosi su un’inconsapevole grammatica dell’azione»12. Vero è che con l’inserimento fattuale nell’intersoggettività linguistica l’individuo assimila automaticamente le dinamiche dello scambio prospettico, della codificazione linguistica dei ruoli io-tu, della coordinazione consensuale. Ma, che il ragionamento pratico si strutturi con altrettanta immediatezza secondo la logica del decentramento rispetto ad istanze di altri agenti, mi pare discutibile. Niente, a mio avviso, esige maggiore impegno della formazione di menti morali mediante esplicite pratiche educative. Quindi, nessun senso morale à la Hume «risultato inevitabile della normale crescita, in nulla diverso dalla crescita di un braccio o di un occhio»13. Lo spazio intersoggettivo è fattualmente dato, ma la moralità è un modo specifico di indossare l’abito del decentramento che prende a tema e tutela la dinamica dialogica. Ma questo modo va costruito e coltivato con la consapevolezza che, per la fragilità della polarità io-tu, si tratta di un risultato instabile da riconfermare sempre di nuovo. Certo, si potrebbe chiedere perché dovremmo impegnarci a custodire la polarità io-tu, quando qualcuno potrebbe sostenere di preferirne la violazione. Ma forse proprio qui s’insinua il punto di vista morale, nella possibilità di dire di no alle istanze che pretendono di sospendere lo spazio di gioco dei giochi umani. Il problema etico consiste nel tenere sempre aperto questo spazio, provando ad indicare le vie d’uscita, per evitarle. E allora, mente morale e abito dialogico esprimono la consapevolezza di volersi tenere 12 13

HAUSER (2006, trad. it. 2007, p. 9). HAUSER (2006, trad. it. 2007, p. 35).

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lontani dalle vie d’uscita, semplicemente perché vogliamo essere umani. Questa volontà è qualcosa di diverso dall’istinto dell’organo morale; è un desiderio intrecciato con la conoscenza delle dimensioni dello spazio dell’intersoggettività linguistica, rispetto al quale il problema non è quello di individuare un gioco più giusto degli altri14, ma di individuare le condizioni per continuare a giocare i giochi umani, potendosi sempre interrogare sulle opportunità di benessere offerte ai giocatori. 6. Modello dialogico e mente morale: il sentimento di rispetto dell’altro Resta ancora da mostrare in che misura la costruzione di spazi dialogici mitighi la sofferenza che le forme di eteronomia e di anomia portano con sè. Inizialmente potrebbe sembrare che la logica del decentramento imbrigli la prassi in una fitta rete di vincoli che toglie agio alle pretese di benessere degli agenti. E, invece, per mostrare che le forme di coordinazione consensuale garanti della polarità io-tu incrementano i livelli di autonomia degli agenti e l’intensità delle istanze di benessere, utilizzo due idee cruciali del modello kantiano di mente morale: la struttura dialogica del ragionamento morale e il sentimento di rispetto. Può sembrare paradossale la scelta di una teoria morale unanimemente tacciata di rigorismo e, pertanto, in prima battuta poco funzionale alla riabilitazione di passioni ed emozioni. Ritengo, tuttavia, che malgrado certi limiti, Kant abbia ben chiarito la struttura dialogica della mente e del ragionamento morale. Facendo leva su questa struttura, si può far breccia nel rigido sistema della ragion pratica per tracciare attraverso Kant e “oltre” Kant uno spazio morale rispettoso delle aspettative di eudaimonia e prosperità15. 14 In tal senso, concordo con CIMATTI (2007, p. 252) che evidenzia la difficoltà di definire all’interno dei giochi linguistici il gioco giusto, anche se poi: «nel gioco non rimane che accettare che l’altro appaia e parli, e poi rispondere, se lo si può fare, e poi ancora ricominciare. L’altro è libero, semplicemente. Questo è un gioco «giusto». Non chiede altro ai suoi partecipanti». Mi pare che qui un criterio si dia e che consista proprio nelle condizioni di possibilità del gioco. Il che non significa appellarsi ad una biologia normativa, poiché non si assume un modello definito di natura umana come dover-essere; abbiamo qui a che fare con quel peculiare desiderio/volontà di prendersi cura delle condizioni che permettono di continuare a giocare nuovi giochi. Credo che questo desiderio/volontà sia qualcosa di diverso da un mero istinto, poiché implica riflessione e costruzione. Questa istanza vedrei condensata nella celebre invocazione di Wittgenstein (riportata in quelle pagine da Cimatti) «facci essere umani». 15 Questa coppia di termini è ampiamente utilizzata da Nussbaum che sottolinea il ruo-

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Che si possa leggere in senso non rigoristico l’astratta nozione di legislazione universale, lo ha mostrato Bagnoli con una efficace lettura che, sviluppando fino in fondo le implicazioni del modello kantiano, ricava la possibilità di interpretare l’attività morale in una dimensione intersoggettiva dove gli agenti articolano il loro agire secondo una logica di reciproco riconoscimento che non mortifica, anzi potenzia l’identità personale col suo carico di sentimenti, desideri e bisogni16. Per Kant, infatti, l’esercizio dell’autonomia coincide con la pratica dialogica del ragionamento morale, e cioè con l’elaborazione di principi d’azione attraverso un confronto serrato tra orientamenti soggettivi e universali. Entrambi i punti di vista avanzano energiche pretese per determinare la volontà dell’agente. Potremmo, quindi, dire che Kant non esclude dallo spazio logico morale il ruolo delle istanze soggettive, anzi: «Esser felici è necessariamente il desiderio di ogni essere razionale ma finito, e perciò un motivo determinante inevitabile della sua facoltà di desiderare»17. Bisogna, però, capire come questo motivo operi. Se determinasse interamente la volontà s’imporrebbe di necessità. Si potrebbe, allora, avanzare il sospetto che non ci sia spazio per alcuna forma di autonomia o autodeterminazione. La logica morale dell’azione scatta, invece, nel momento in cui l’istanza soggettiva di felicità, senza esser rimossa, venga rideterminata dal ragionamento in una prospettiva di decentramento. La massima, in termini propriamente kantiani, deve adattarsi alla legislazione universale, ovvero: «Opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale»18. È questa la forma della legge morale che non esclude le istanze soggettive, ma richiede che acquistino voce legittima dinanzi ad altri agenti. La legittimazione non avviene sul piano del contenuto materiale, ma sul piano della forma che queste assumono per la logica del decentramento. Pertanto, la ragion pratica non limita in senso repressivo la prassi. Anzi, come afferma Bagnoli, «che l’agente possa e debba dar conto del proprio agire sulla base di considerazioni condivisibili è tutto quello che chiede l’etica kantiana. Non è una richiesta da poco, perché presuppone che l’agente si ponga in una relazione lo nella vita etica di ciò a cui l’agente attribuisce valore; cf. NUSSBAUM (2001, trad. it. 2004, pp. 52-53). 16 Bagnoli cerca attraverso Kant «una concezione più complessa di razionalità pratica che riconosce alla sensibilità un ruolo strutturale», in BAGNOLI (2007), p. 177. 17 KANT (1788, trad. it. 1989, p. 31). 18 KANT (1788, trad. it. 1989, p. 39).

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con gli altri tale per cui gli si può domandare ragione delle sue azioni. Eppure, questa richiesta di giustificazione non impone all’agente di ignorare le proprie emozioni, le proprie inclinazioni, i propri affetti, i propri progetti personali. Nel chiedergli di dar conto e ragione del proprio agire, non gli si chiede di rinunciare alla propria integrità, ma di entrare in una certa relazione di mutuo rispetto e riconoscimento»19. Nello spazio intersoggettivo la pratica della giustificazione è inevitabile poiché ogni azione in qualche modo coinvolge altri agenti, in presenza dei quali i principi d’azione (incluse emozioni e passioni) possono acquisire lo status di ragioni legittime, dopo esser stati giudicati condivisibili e non lesivi della polarità io-tu. La ragion pratica è, quindi, la capacità linguistica di selezionare principi d’azione della cui ragionevolezza si possa rispondere ad altri agenti. Affinché le passioni divengano criteri legittimi, occorre un gioco di coordinazione consensuale, pena l’urto della mia identità su quella degli altri e reciprocamente l’urto dell’identità degli altri sulla mia. In tal modo, osserva Nussbaum, sentimenti ed emozioni mostrano la loro intelligenza20. La vita affettiva, infatti, non per forza è attraversata da «energie non pensanti»21 o «sovversive della moralità»22. Altrettanto De Monticelli sottolinea il carattere non necessariamente irrazionale dell’esperienza affettiva che impregna la prassi: ai giudizi di validità sui principi d’azione si accompagna la convinzione che quelle azioni siano cariche di qualità affettive positive o negative23. C’è senz’altro un carattere identitario del sentire24, poiché i vissuti affettivi sono risposte personali alle circostanze reali, ma non è detto che siano risposte prive di ragioni. Se le situazioni esibiscono qualità di valore positive o negative alle quali siamo sensibili e che colorano i nostri vissuti con gradi diversi di intensità, ciò significa che percepiamo e giudichiamo i differenti livelli di importanza che cose e persone acquistano nella nostra esperienza. Al sistema di vissuti affettivi che rende l’agente disposto a gioire, soffrire, desiderare, temere, è sotteso un giudizio che pone ordini di preferenze rispetto al mondo. E poiché ragionamenti e giudizi di valore sono espressione di attività linguistica, il sistema di preferenze è eBAGNOLI (2007, pp. 72-73). Alludo, ovviamente, a NUSSBAUM (2001), dove il tema dell’intelligenza delle emozioni, che dà il titolo all’opera, è ampiamente analizzato. 21 NUSSBAUM (2001, trad. it. 2004, p. 43). 22 NUSSBAUM (2001, trad. it. 2004, p. 29). 23 Cf. DE MONTICELLI (2002, pp. 80-81). 24 Cf. DE MONTICELLI (2002, pp. 82-84). 19 20

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sposto ad una continua attività di ristrutturazione e ri-negoziazione tra agenti. In questo gioco dialogico si struttura sensatamente l’identità affettiva. Il che non esclude che rimangano vistose zone d’ombra; è inesauribile il lavoro che organizza le risposte affettive rispetto al mondo. Mi soffermo adesso sul sentimento di rispetto della legge morale25, ricordando che è l’unico al quale Kant riconosca una qualche legittimità. È un sentimento ambivalente: per un verso il rispetto della legge morale indica che il soggetto le riconosce la forza di limitare le inclinazioni soggettive. In questo senso, dinanzi alla legge l’uomo è umiliato nelle sue tendenze sensibili. Ma, d’altra parte, la rappresentazione della legge morale «eccita […] il rispetto di sé»26. L’umiliazione è compensata dalla sensazione positiva, per cui l’agente guadagna davanti a sé maggior valore. Il riconoscimento del valore della legge morale sollecita il riconoscimento del proprio valore, in quanto l’agente riconosce a se stesso la capacità di relazionare le inclinazioni soggettive ad un punto di vista più ampio che restituisce loro legittimità27. Trovo feconda la dinamica di reciprocità del kantiano sentimento di rispetto; direi che può senz’altro essere considerato il sentimento-matrice della vita affettiva nello spazio morale. Occorre, però, una chiarificazione: benché Kant parli sempre di rispetto della legge morale, afferma anche che «il rispetto si riferisce sempre soltanto alle persone, non mai alle cose»28. Insisterei su questa affermazione più di quanto Kant non abbia fatto, per chiarire che la dinamica della reciprocità riguarda non tanto la relazione monologica e coscienzialista io-legge, ma la relazione dialogica iotu. Si tratta, cioè, di riconoscere che l’altro può legittimamente chiedere conto e ragione del mio agire e che questa sponda dialogica può far guadagnare pubblica validità alle mie scelte d’azione. Sentimento del rispetto è percezione del valore dell’altro che, nella misura in cui riconosce il senso Per l’analisi del sentimento del rispetto della legge morale cf. KANT (1788, trad. it. 1989, pp. 91-100). 26 KANT (1788, trad. it. 1989, p. 92). 27 Afferma KANT (1788, trad. it. 1989, p. 99-100): «Esso [il sentimento] dunque, come assoggettamento a una legge, cioè come comando (che significa violenza per un soggetto affetto sensibilmente), non contiene nessun piacere, ma, in questo senso piuttosto dispiacere per l’azione in sé. D’altra parte, siccome questa violenza viene esercitata solo mediante la legislazione della propria ragione, esso contiene anche un’elevazione [Erhebung], e l’effetto soggettivo sul sentimento […] si può quindi chiamare semplicemente approvazione di sé relativamente all’elevazione, poiché ci si riconosce determinati senza un interesse, solo mediante la legge […]». 28 KANT (1788, trad. it. 1989, p. 94). 25

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delle mie istanze, può reciprocamente dar valore alla mia vita. Solo così, emozioni, passioni, sentimenti possono divenire legittime ragioni d’azione, se diventano articolazioni di un vissuto emozionale positivo rispetto all’alterità. Il sentimento di rispetto, e cioè il riconoscimento della legittima presenza dell’altro, è la condizione logica necessaria per la strutturazione della mente morale. Certo resta il sospetto che Kant attribuisca alla ragion pratica l’attitudine a legiferare solo dal punto di vista universale che prescinde dagli agenti realmente presenti sulla scena, pervenendo all’ipostatizzazione dell’esigenza di decentramento rispetto ad un Altro eccessivamente generalizzato. Ma, rendendo astratto il polo dialogico verso cui l’io dovrebbe decentrare il proprio agire, Kant si preclude l’effettiva pratica dialogica che dà corpo ai reali bisogni e desideri degli agenti. Afferma, infatti, Bagnoli: «Non possiamo metterci in relazione con gli altri in quanto altri, semplicemente considerandoli in astratto, come vuoti loci di razionalità. La relazione morale è personale»29. Rispetto al nostro itinerario questo paragrafo funge da epilogo nella polis e ribadisce che nella vita normativa tutto dipende dalla costruzione della trama di relazioni tessuta dagli agenti. E, tuttavia, è inutile imporre forme definite di vita buona a mo’ di barriere contro l’incalzante anomia. Nessuna scorciatoia per guadagnare forme di coordinazione consensuale. Tutt’al più, occorrono consapevoli strategie politiche ed educative per ri-lanciare pubblicamente il gioco dialogico. Qui Kant non è più di grande aiuto poiché descrive la logica dell’agente, il cui punto di vista morale sia già formato. Sarebbe bello non doversi impegnare nella costruzione di abiti dialogici e menti morali, qualora crescessero da sé. Ma, in realtà, non soccorre neanche il naturalismo di Hauser che ipotizza la crescita spontanea dell’organo del senso morale. Se la mente umana è naturalmente sociale, l’abito morale va costruito. E, quindi, «pensare moralmente, costruire un ragionamento morale» è una possibilità, non una necessità della vita umana, realizzabile a condizione che si riesca ad «intrattenere con gli altri una relazione di mutuo riconoscimento»30 che restituisca agli agenti pari dignità. Non vanno costruite, semmai, le condizioni di inserimento nello spazio intersoggettivo con le quali si acquista precocemente la percezione sociale. Queste, però, non bastano a strutturare la mente morale: imbattersi di fatto negli altri, non significa ne29 30

BAGNOLI (2007, p. 39). BAGNOLI (2007, p. 24).

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cessariamente assumere l’alterità come orizzonte di legittimazione del proprio agire. Solo questa mossa permette la formazione di menti e abiti morali, poiché ci situa nello spazio dialogico dove l’altro non è interlocutore casuale, ma legittimo partner di gioco, rispetto al quale poter far valere emozioni, desideri e bisogni quali ragionevoli istanze d’azione. Bibliografia BAGNOLI, C. (2007), L’autorità della morale, Feltrinelli, Milano. BENVENISTE, É. (1974), Problèmes de linguistique générale II, Gallimard, Paris; trad. it. Problemi di linguistica generale II, Il Saggiatore, Milano 1985. CIMATTI, F. (2007), Il volto e la parola. Psicologia dell’apparenza, Quodlibet, Macerata. DE MONTICELLI, R. (2002), L’ordine del cuore. Per una teoria fenomenologica dell’affettività, in BAZZANELLA C., KOBAU P. (eds.), Passioni, emozioni, affetti, McGraw-Hill, Milano 2002. HABERMAS, J. (1981), Theorie des kommunikativen Handelns, Suhrkamp, Frankfurt a.M., trad. it. Teoria dell'agire comunicativo, Il Mulino, Bologna 1986. HAUSER, M.D. (2006), Moral Minds; trad. it. Menti morali, Il Saggiatore, Milano 2007. HUME, D. (1751), An Enquiry concerning the Principles of Moral, trad. it. Ricerca sui principi della morale, Laterza, Roma-Bari 1997. KANT, I. (1788), Kritik der praktischen Vernunft; trad.it. Critica della ragion pratica, Laterza, Roma-Bari 1989. LEGERSTEE, M. (2005), Infants’ Sense of People. Precursors to a Theory of Mind; trad. it. La comprensione sociale precoce, Raffaello Cortina, Milano 2007. MATURANA, H., DÁVILA, X. (2006), Emozioni e linguaggio in educazione e politica, Elèuthera, Milano. MEAD, G.H. (1934), Mind, Self and Society, Chicago University Press, Chicago; trad. it. Mente, Sé e Società, Barbera, Firenze 1966. NUSSBAUM, M. (2001), Upheavals of Thought. The Intelligence of Emotions, Cambridge University Press, Cambridge; trad. it. L’intelligenza delle emozioni, Il Mulino, Bologna 2004. PANDOLFO, A. (2007), Le regole dell’intesa. Attraverso Habermas uno studio sulla normatività umana, Tesi di Dottorato in Filosofia del linguaggio e della mente, Università di Palermo. WITTGENSTEIN, L. (1953), Philosophische Untersuchungen, Basil Blackwell, Oxford; trad. it. Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1995. ZAGREBELSKY, G. (2008), Contro l’etica della verità, Laterza, Roma-Bari.

FRANCESCA PIAZZA Passioni retoriche. L’analisi dei pathe nella Retorica di Aristotele Non è a caso che la prima trattazione sistematica delle emozioni che la tradizione ci tramandi non sia stata condotta nell’ambito della «psicologia». Aristotele analizza i pathe nel secondo libro della Retorica. L’interpretazione tradizionale presenta la retorica come una sorta di «disciplina»; essa deve invece essere intesa come la prima ermeneutica sistematica dell’essere-assieme quotidiano (…). L’interpretazione ontologico-fondamentale dei principi delle emozioni non ha compiuto alcun passo avanti degno di nota, da Aristotele in poi. Al contrario: affetti e sentimenti, collocati tematicamente tra i fenomeni psichici, furono intesi come la terza classe di questi, dopo la conoscenza e la volontà. Decaddero così al rango di fenomeni accompagnatori. (HEIDEGGER, Essere e Tempo, cap. V, § 29).

L’unica analisi approfondita delle passioni umane nell’intero corpus aristotelico si trova nel secondo libro della Retorica (II, 2-11). Tali capitoli rappresentano l’esame dettagliato di una delle tre prove (pisteis) cosiddette tecniche (Rh., 1355b 37-40), quella consistente nel «disporre l’ascoltatore in un certo modo» (Rh., 1356a 3) e quindi realizzata «attraverso gli ascoltatori» (Rh., 1356a14). Intorno a questa sezione della Retorica sono state sollevate numerose questioni interpretative che talvolta hanno messo in gioco anche la coerenza, sia testuale sia concettuale, dell’intera opera. Non potrò naturalmente soffermarmi su ciascuna di esse, mi limiterò a mettere a fuoco soltanto un aspetto, quello relativo al valore epistemologico da attribuire a questa analisi, assumendo – come è peraltro ormai generalmente riconosciuto – che l’opera abbia una struttura sostanzialmente unitaria. Nella letteratura specialistica sull’argomento, domina la tendenza a negare che l’analisi dei pathe contenuta nella Retorica – non solo nei risultati, ma anche nelle intenzioni del suo autore – abbia un reale valore filosofico o, come talvolta si dice, “scientifico”. A partire da questo assunto di fondo, raramente messo in discussione, si fronteggiano, in generale, due differenti linee interpretative: una insiste sulla natura retorico-dialettica dell’indagine (riconducendo a questa specificità le differenze rispetto a quanto Aristotele Bollettino filosofico 24 (2008): 213-222

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dice sui pathe nelle altre opere); l’altra tende, invece, a considerare quei capitoli come una sorta di prestito della psicologia filosofica alla retorica, inserito in un contesto comunque disinteressato all’acquisizione di conoscenze accurate. In entrambi casi, è sottesa un’implicita contrapposizione (o un rapporto di subordinazione) tra retorica e filosofia, che è proprio ciò che intendo mettere in discussione. Potrei, in sintesi, formulare così la tesi che sto per sostenere: l’analisi dei pathe contenuta nella Retorica è un’analisi filosofica non nonostante ma grazie al fatto di essere condotta da un punto di vista specificamente retorico. Pur nella varietà delle posizioni, la maggior parte degli studiosi converge nel lamentare l’assenza, nel corpus aristotelico, di una teoria generale delle passioni (GASTALDI, 1990). A questa osservazione segue spesso un diffuso stupore nel constatare che la trattazione più dettagliata delle passioni (seppure non una vera e propria teoria) si trova in effetti nella Retorica e non – come sembrerebbe più ovvio – nelle opere etiche o nel De Anima. Per ragioni di brevità, mi limito qui a citare soltanto due esempi che mi sembrano rappresentativi di questa tendenza generale. Si tratta dei giudizi di J. Cooper e G. Striker, i quali – pur divergendo nell’interpretazione complessiva – condividono questo atteggiamento di fondo. Cominciamo da J. Cooper. Dopo aver messo in evidenza che Aristotele non si occupa in modo analitico di emozioni né nelle opere etiche né nel De Anima (COOPER, 1996, p. 238), egli prosegue affermando che «Aristotle does however develop fairly detailed accounts of some eleven or twelve emotions – on a generous count, perhaps fifteen – in an unexpected place, the second book of Rhetoric» (ivi, p. 238, corsivo mio). La Retorica è dunque per Cooper un “luogo inaspettato” per un’analisi dettagliata delle passioni e pertanto si domanda se è proprio a quest’opera che dobbiamo rivolgerci per trovare la «full theory of emotions» di Aristotele. La risposta a questa domanda è negativa. Egli ritiene, infatti, che non possiamo considerare l’analisi dei pathe della Retorica come dotata di un valore scientifico definitivo, come saremmo invece abilitati a fare se essa si trovasse nelle opere etiche o nel De Anima (ivi, p. 239). Pur non negando interesse, sia teorico sia storico, a questa sezione della Retorica, Cooper sostiene, in sintesi, che essa va considerata «a preliminary, purely dialectical invesigation that clarifies the phenomena in question and prepares the way for a philosophically more ambitious overall theory, but does no more than that» (COOPER, 1996, p. 239). Ma una teoria filosoficamente più ambiziosa delle emozioni Aristotele non l’avrebbe mai effettivamente elaborata. Quella

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contenuta nella Retorica sarebbe dunque “unicamente” un’indagine dialettica basata su endoxa (opinioni accreditate) che, pur possedendo un legame con la verità, non avrebbe tuttavia alcuna ambizione “scientifica”. Del tutto sufficiente per gli scopi dell’oratore, essa non sarebbe nient’altro che una raccolta di «established and reputable opinions about what the various relevant emotions are, and about various relevant points about them» (ivi, p. 240). Pur non condividendo il giudizio sulla natura esclusivamente dialettica del contenuto di Rh. II, 2-11, anche G. Striker non nasconde il suo stupore per la particolare collocazione che Aristotele riserva all’analisi delle emozioni. Dopo aver riconosciuto che nel corpus Aristotelico si trova la trattazione più esaustiva e dettagliata di ciò che i greci chiamavano pathe, ovvero le affezioni dell’anima, aggiunge però che il fatto che essa si trovi nella Retorica è «a strange and remarkable fact, given the importance of emotional dispositions in Aristotle’s theory of the moral virtues, and indeed in his moral psychology in general» (STRIKER, 1996, p. 286, corsivo mio). In mancanza di una trattazione sistematica nelle opere di etica e psicologia non ci resta altro, dunque, che rivolgerci alla Retorica per “integrare” ciò che Aristotele dice in altri luoghi (ibid.). Questo modo di impostare la discussione sulla teoria aristotelica delle emozioni – indipendentemente dall’interpretazione cui esso conduce – è il frutto, a mio avviso, di un atteggiamento di sostanziale svalutazione della retorica alla quale è di fatto negato l’accesso a verità che non siano (nel migliore dei casi) il risultato di indagini “scientifiche” condotte da altre discipline. Neppure quei pochi che, come Fortenbaugh, riconoscono il carattere sistematico e il valore teorico dell’analisi dei pathe contenuta nella Retorica si chiedono se ci sia effettivamente uno specifico retorico dell’analisi, ma si limitano ad affermare che essa ha dato un contributo alla retorica, rendendola una disciplina più filosofica (FORTHENBUAGH, 2002, p. 16). Con alcune importanti eccezioni (GRIMALDI, 1972, GARVER, 1986), si tratta di un atteggiamento ancora piuttosto diffuso, anche se non sempre esplicito, tra gli interpreti della Retorica, un atteggiamento che non riguarda soltanto l’analisi dei pathe, ma investe l’opera nella sua interezza. Priva di un nucleo teorico forte, la Retorica sarebbe un’opera con scopi puramente pratici nella quale si troverebbero inseriti, ad uso e consumo del bravo oratore, compendi provenienti dalle altre discipline, come la logica, l’etica o la psicologia, ritenute più serie e filosoficamente più impegnate (BARNES, 1995). Nel caso specifico di cui ci stiamo occupando, però, la situazione è resa ancora più complicata dalla constatazione del fatto che, nelle altre o-

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pere aristoteliche, non si trova una teoria delle emozioni di cui quella retorica rappresenterebbe il “compendio”. Da qui lo stupore. Ma si tratta di uno stupore comprensibile soltanto a partire da queste assunzioni. Se, invece, si attribuisce alla retorica uno specifico dominio teorico e un valore epistemologico diverso, ma non inferiore, rispetto a quello delle altre discipline, la questione si pone in modo del tutto differente. Piuttosto che un fatto di cui stupirsi, la particolare collocazione dell’analisi dei pathe diventa, al contrario, un dato significativo sul peculiare modo aristotelico di affrontare la questione. Invece di domandarsi come mai un argomento così importante sia trattato da Aristotele “solo” nella Retorica e se questo ci autorizza a considerare “scientificamente” valide le osservazioni lì contenute, ci si dovrebbe più semplicemente interrogare sul significato da attribuire al fatto, da tutti riconosciuto, che la trattazione più esaustiva dei pathe si trova proprio nella Retorica. Detto altrimenti, la domanda da cui partire è: un’analisi retorica dei pathe è in grado – proprio in quanto retorica – di far emergere aspetti filosoficamente interessanti che altre prospettive invece occultano o lasciano sullo sfondo? La mia risposta a questa domanda è positiva. Più esattamente, ciò che intendo sostenere è che il punto di vista specificamente retorico sulle emozioni, essendo focalizzato sulla costruzione di discorsi persuasivi, consente di mettere in luce il nesso, cruciale nella prospettiva aristotelica, tra possesso del logos, emotività e socialità nell’animale umano. Per compiere un’operazione di questo tipo è necessario però riconoscere alla retorica aristotelica legittime ambizioni teoriche. È lo stesso Aristotele, d’altra parte, a dichiarare, sin dalle prime battute del suo trattato, tali ambizioni. Come è noto, egli attribuisce alla retorica – contro la svalutazione platonica – lo statuto epistemologico di techne (e quindi di conoscenza di cause), definendola come «la capacità di scoprire (theorein) ciò che può essere persuasivo (tó endechomenon pithanonón) in ogni argomento» (Rh. 1355 b 27). Agli occhi di Aristotele, dunque, il persuasivo o, meglio, ciò che può risultare persuasivo, rappresenta un argomento degno di divenire oggetto di una riflessione filosofica, di un theorein, e costituisce il fulcro teorico intorno al quale ruota l’intera Retorica. È vero che l’ambito specifico della retorica è quello di ciò che accade “per lo più”, e quindi di ciò che “può essere diversamente da com’è,” ma questa non è una ragione sufficiente per svalutare il valore epistemologico di questa techne, soprattutto se si tiene conto del fatto che la maggior parte delle “discipline” filosofiche del corpus aristotelico – fisica inclusa – ha tra i suoi oggetti anche (o esclusivamente) realtà

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di questo tipo. Nella riflessione antropologica aristotelica, d’altra parte, il fenomeno della persuasione occupa un posto non secondario (anche se spesso occultato dalle letture tradizionali), il che non dovrebbe stupire se si pensa che, per Aristotele, ciò che ci caratterizza come animali umani è proprio il contemporaneo possesso di logos e polis (LO PIPARO, 2003). In quanto animale ad un tempo linguistico e politico, si può dire che l’uomo è per Aristotele anche un animale retorico, dal momento che il discorso persuasivo svolge un ruolo cruciale nella costruzione della polis (PIAZZA, 2005). È per questa ragione che la Retorica di Aristotele non è soltanto una concessione, da parte di un filosofo impegnato, ad una disciplina molto in voga al suo tempo (e neppure semplicemente un manuale di retorica scritto da un filosofo) ma un’opera filosofica a tutti gli effetti, parte integrante del corpus. Più esattamente, essa può essere legittimamente considerata come un momento della più generale riflessione antropologica di Aristotele (PIAZZA, 2008). Il fatto che, come è ripetuto in diverse occasioni, la retorica intrattenga rapporti privilegiati con altre discipline, e in particolare con la dialettica, l’etica, la politica e la poetica, non è un buon motivo per negarle autonomia teorica ma, al contrario, un segno della sua vitalità. È senz’altro vero (ed è lo stesso Aristotele a segnalarlo) che molte delle questioni dibattute nella Retorica sono discusse anche nelle altre opere, ma questo non autorizza a parlare di semplici “prestiti” o “volgarizzazioni”. Si tratta piuttosto di indagini condotte da punti di vista differenti e con obiettivi diversi. A rendere unitarie e coerenti le analisi retoriche è l’obiettivo generale, ovvero l’individuazione di ciò che può risultare persuasivo (Rh. 1355 b 27-28). L’esame dei pathe non fa eccezione e a questo punto dovrebbe anche dissolversi lo stupore per la sua particolare collocazione. Dal punto di vista di Aristotele, infatti, il discorso persuasivo ha come scopo ultimo un giudizio (krisis) e, più esattamente, un giudizio relativo alle azioni umane (Rh. 1377 b 6-7 e 1391b 8-20). In ultima analisi, dunque, i discorsi persuasivi hanno di mira un’azione o, forse meglio, una deliberazione, che è ciò che precede (e prepara) l’azione vera e propria. Nella prospettiva aristotelica, i pathe svolgono un ruolo essenziale nella formazione di questo tipo di giudizi. È vero, dunque, che l’oratore per raggiungere il suo obiettivo ha bisogno di conoscenze relative alla sfera emotiva, ma non perché deve essere semplicemente in grado di sfruttare a suo vantaggio le debolezze degli ascoltatori. Una posizione del genere resta vittima della radicata tendenza a considerare le emozioni un semplice elemento di disturbo, una componente irrazio-

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nale che, in condizioni normali, sarebbe bene riuscire a neutralizzare ma che, in alcune particolari circostanze (come il discorso persuasivo), possiamo utilizzare per i nostri scopi. Non è questa, però, la posizione di Aristotele, per il quale i pathe non sono fattori di disturbo da neutralizzare o sfruttare a seconda dei casi, ma un momento costitutivo del giudizio relativo alle azioni. L’importanza dell’intreccio tra giudizio e pathos (o, come potremmo dire con una terminologia contemporanea, tra la componente cognitiva e quella emotiva) emerge con chiarezza già nella definizione generale dei pathe che precede l’esame dettagliato delle singole passioni: le passioni (pathe) sono ciò in base a cui (di’osa), mutando (metaballontes), [gli uomini] differiscono rispetto ai giudizi e a cui seguono dolore e piacere, come ad esempio l’ira, la pietà, la paura e tutte le altre ad esse simili e anche quelle contrarie (Rh. 1378 a 20-23).

Non è mia intenzione discutere qui le numerose questioni connesse a questa definizione, ma soltanto focalizzare l’attenzione sul fatto – per altro generalmente riconosciuto – che dal punto di vista aristotelico la sfera emotiva gioca un ruolo imprescindibile nella formulazione dei giudizi relativi all’azione e, di conseguenza, nel discorso persuasivo. Tale definizione svolge il ruolo di introdurre l’analisi dei singoli pathe, mettendo in evidenza gli aspetti più pertinenti dal punto di vista della retorica, e in particolare il nesso con il giudizio e il ruolo della coppia piacere/dolore. L’importanza di questi aspetti (per i quali rimando agli studi di LEIGTHON, 1982/1996, NUSSBAUM, 1996) viene chiaramente in luce anche nelle definizioni dei singoli pathe nelle quali si trovano sempre riferimenti sia alla presenza della coppia piacere/dolore sia alla componente cognitiva (in particolare alla phantasia). Si consideri, a titolo d’esempio, il caso dell’ira. Essa è definita come desiderio, accompagnato da dolore (orexis metá lupe), di manifesta vendetta, per una palese offesa o nei nostri confronti o nei confronti di qualcuno a noi legato, quando l’offesa non è meritata (Rh. 1378 a 30-b10).

Come si vede, l’ira è strettamente legata con (se non direttamente causata da) un giudizio: quello di avere subito un’offesa immeritata. In quanto orexis (desiderio), essa è anche alla base di un’azione (la vendetta) ed è sempre accompagnata da dolore (è una orexis metá lupe). Pur non rappresentando un suo tratto definitorio, anche il piacere costituisce un elemento im-

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portante dell’ira. Poco più avanti, infatti (1378b 1), Aristotele aggiunge che ogni manifestazione d’ira è accompagnata (epetai) o seguita (akolythei) anche da un certo piacere (edoné tis) e spiega che tale piacere deriva sia dalla speranza di vendicarsi – che a sua volta è piacevole perché «è piacevole pensare di ottenere ciò che si desidera» (1378b 2-3) – sia dal fatto che «si passa il tempo a vendicarsi con il pensiero e la rappresentazione mentale (phantasia) che ne deriva produce piacere, proprio come accade nei sogni» (1378 b 7-10). L’ira è, dunque, un pathos che implica sia dolore sia piacere e quest’ultimo deriva, in ultima analisi, da una rappresentazione mentale (una phantasia) e, più esattamente, da un tipo particolare di phantasia, connessa con il futuro, che Aristotele attribuisce unicamente agli animali linguistici (la phantasia logistiké o bouletiké, DA, 433b, 28-30) e che è essenziale alla deliberazione (LO PIPARO, 2003, p. 24). Considerazioni di questo tipo potrebbero farsi per ciascuno dei pathe analizzati da Aristotele, ma non è possibile soffermarsi adesso su ognuno di essi. Ciò che mi interessava mettere in luce, attraverso questo singolo esempio, è l’intreccio tra piacere/dolore e giudizio, un intreccio essenziale a chiarire il ruolo delle passioni nel discorso persuasivo e, più in generale, nelle azioni umane. L’intento teorico dell’analisi retorica dei pathe è segnalato anche dal metodo con cui essa è condotta, un metodo che, come d’abitudine, Aristotele non manca di esplicitare (1378 a 23-26). Ciascuna passione verrà innanzitutto definita per essere poi analizzata secondo tre differenti aspetti: 1. la disposizione d’animo in cui si è soliti provarla; 2. il tipo di persone verso cui è più facile provarla; 3. ciò che la provoca. Per restare al caso dell’ira, per esempio, si dovrà distinguere «in che modo sono disposti coloro che sono in collera» (pos te diakeimenoi orgiloi), «con che tipo di persone sono soliti andare in collera» (tisin eiothasin orgizesthai) e, infine, «su che tipo di questioni» (epí poiois) (1377b 24-26). Su questa tripartizione è costruita l’intera analisi dei pathe contenuta nella sezione di cui ci stiamo occupando. Si tratta di un’analisi condotta con un metodo sistematico e rigoroso, per quanto concesso dalla natura dell’argomento, il cui scopo finale è chiaramente la costruzione di discorsi persuasivi. Hanno ragione pertanto coloro che sostengono che l’indagine ha una natura eminentemente retorica e che quei capitoli possono essere considerati delle vere e proprie topiche (l’insieme dei luoghi in base a cui costruire argomentazioni) relative alla prova basata sul pathos (GRIMALDI 1972, CONLEY, 1982). Numerosi sono gli indizi che conducono a questa conclusione: il metodo seguito, l’individuazione di relazioni logiche (soprattutto di contrarietà) tra i diversi pa-

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the, la formulazione delle osservazioni in forma di eikota (verosimili) e semeia (segni), che sono le tipiche premesse dell’entimema, e, soprattutto, una gran quantità di affermazioni esplicite nelle quali Aristotele stesso dichiara, a conclusione di ogni singola analisi, di aver indicato gli elementi «da cui (ek ton) nascono le argomentazioni (pisteis) relative a tali questioni» (1388b 29-30). Ma il carattere topico, e quindi retorico, di queste analisi – così come il fatto che esse siano costruite sulla base di endoxa – non è una buona ragione per negare loro interesse teorico e valore filosofico. Se “specificamente retorico” non significa automaticamente “disinteressato alla verità” ma “interessato all’individuazione di ciò che può risultare persuasivo” – e quindi al nesso linguaggio/sfera emotiva – l’analisi retorica dei pathe può essere guardata come un’analisi condotta sì a partire da un punto di vista particolare (e magari anche parziale), ma non per questo con un valore esclusivamente preliminare rispetto ad una, di fatto inesistente, teoria più “scientifica”. D’altra parte, la coesistenza di indagini su uno stesso oggetto condotte da punti di vista diversi (e quindi con metodi ed esiti differenti) è un aspetto peculiare del modo di procedere di Aristotele e non un caso speciale esclusivamente limitato alla nozione di pathos. Al contrario, la ricerca a tutti i costi di una “teoria unificata” (e di un metodo universale) è un’esigenza tipicamente moderna lontana invece dallo spirito di Aristotele. Il corpus aristotelico è disseminato di osservazioni di carattere metodologico sulla necessità di adeguare il metodo all’oggetto e sull’opportunità di non pretendere da ogni tipo indagine lo stesso grado di rigore. Affermazioni di questo tipo non mirano tanto all’istituzione di gerarchie di valore tra le diverse discipline, quanto piuttosto ad evitare l’errore di utilizzare sempre gli stessi strumenti di indagine, indipendentemente dalle questioni in gioco. È certamente significativo che una di queste osservazioni si trovi proprio all’inizio del De Anima e riguardi anche le passioni dell’anima (pathe tes psychés). In quel contesto, sottolineando la difficoltà, e insieme il grande pregio, di una ricerca relativa alla psyché, Aristotele mette in guardia il lettore dall’illusione dell’esistenza di un «metodo unico e comune [per stabilire] che cosa è [ciascuna cosa]» (402a 18). Poco più avanti, la difficoltà dell’indagine, insieme alla necessità di variare i punti di vista, è esplicitamente riferita ai pathe. Inseparabili dal corpo nel quale si realizzano (403a 16), i pathe tes psychés – che alle linee 403a 26 Aristotele definisce, con un espressione che alle nostre orecchie moderne suona quasi come un ossimoro, «discorsi nella materia» (logoi enyloi) –, verranno analizzati in modo diffe-

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rente a seconda del punto di vista e degli obiettivi. Il dialettico e il fisico, continua Aristotele, definiranno per esempio l’ira (orgé) l’uno come «desiderio di restituire un dolore, o qualcosa di simile», l’altro invece come «ebollizione del sangue e del calore intorno al cuore. Di costoro, uno indica la materia, l’altro la forma (eidos) e il discorso (logos)» (403a 31-b 2). I due punti di vista sono, ovviamente, complementari e «certo non è uno solo che si occupa delle affezioni inseparabili della materia (pathe tes hyles tá mé choristá), e che non le considera in quanto separabili. In effetti, il fisico si occupa di tutte le attività e affezioni (erga kai pathe) di un determinato corpo e di una determinata materia, mentre delle caratteristiche dei corpi che non sono di questo tipo se ne occupa un altro: di alcune si interessa il tecnico (technites) secondo i casi, ad esempio l’architetto o il medico” (403 b 10-14, trad. it. G. MOVIA). Tra questi “tecnici” può tranquillamente trovare posto anche il retore. Alla luce di quanto detto fin qui, la particolare collocazione dell’analisi dei pathe nel II libro della Retorica non solo non stupisce, ma risulta anzi del tutto coerente con le indicazioni generali del De Anima. La particolare angolatura dalla quale essa è condotta non costituisce un limite ma, al contrario, la sua peculiarità, se non il suo punto di forza. Considerare i pathe dal punto di vista del discorso persuasivo costringe, infatti, a guardare in modo originale alla complessa relazione tra sfera emotiva e dominio del linguaggio. L’analisi aristotelica dei pathe si rivela, così, non soltanto uno strumento fornito al retore per costruire discorsi più efficaci, ma un’indagine retorica sulla natura delle emozioni umane. Bibliografia BARNES, J. (1995), “Rhetoric and poetics”, in The Cambridge Companion to Aristotle, (ed. by J. Barnes), Cambridge, Cambridge University Press, pp. 259-285. CONLEY, Th. (1982), “Pathe and pisteis: Aristotle Rhet. II, 2-11”, Hermes, CX, pp. 30015. COOPER, J.M. (1996), “An Aristotelian Theory of the Emotions”, in Aristotle’s Rhetoric (ed. by A. Oksenberg Rorty), Berkeley (Ca.), University of California Press, pp. 238-257. FORTENBAUGH, W.W. (2002), Aristotle on Emotion, Duckworth (I ed. 1975) GARVER, E. (1986), “Aristotle’s Rhetoric as a Work of Philosophy”, Philosophy & Rhetoric, 19, pp. 1-22. GASTALDI, S. (1990) Aristotele e la politica delle passioni. Retorica, Psicologia ed etica dei comportamenti emozionali, Tirrenia Stampatori, Torino.

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TOMMASO RUSSO CARDONA Ironia: emozioni e orizzonte di coscienza*

Slides 0. Tesi: 1) Il dominio dell’ironia è quello della categorizzazione dell’azione tramite la lingua 2) L’ironia implica una forma di normatività che coinvolge le relazioni sociali e si trova alla radice del processo di formazione delle categorie d’azione 3) La matrice intenzionale dell’ironia opera a partire da un campo emotivo per tradurne i contenuti nella dimensione cosciente 4) L’ironia riuscita opera un allargamento dell’orizzonte di coscienza 1. Il miglior riconoscimento è quello che si ha simultaneamente con il rovesciamento, com’è per esempio nell’Edipo re, ARISTOTELE, Poetica, 52a 33

Anagnorisis come processo di ritorno su una categorizzazione già effettuata, per motivi pratici oltreché conoscitivi. Cap. XI della Poetica “L’agnizione, il riconoscimento, come indica la parola stessa è il passaggio dalla non conoscenza alla conoscenza o dall’inimicizia all’amicizia o viceversa, fra i personaggi destinati così alla buona o cattiva fortuna. ... Il più bello tra tutti è il riconoscimento, che avviene insieme al rovesciamento, così come avviene nell’Edipo re. Ma vi sono anche altre specie di riconoscimenti, e ciò che prima si è detto può avvenire per oggetti animati o inanimati e puramente accidentali o vi può essere riconoscimento attraverso la scoperta di ciò che uno ha fatto o non ha fatto. * Questo scritto costituisce la traccia a partire dalla quale Tommaso Russo tenne il seminario dottorale del 28 febbraio 2007. Non si tratta di un articolo in senso proprio, ma di una raccolta di appunti con una ipotesi di ricerca. Preferiamo pubblicarli così come li abbiamo ricevuti dall’autore, limitando gli interventi editoriali ad un numero minimo di note (NdR).

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Infatti un riconoscimento del genere, unito a peripezia, produrrà o pietà o terrore, e precisamente di azioni di questo genere la tragedia è imitazione, secondo la definizione che ne abbiamo data. E anche l’essere felici o infelici dei personaggi dipenderà da riconoscimenti e da peripezie di questa forma”1. 2. Anagnorisis dunque come riconoscimento che amplia la sfera della coscienza rispetto a fatti già noti, processo di ricategorizzazione Nel cap. XVI della Poetica si distinguono quattro specie di anagnorisis: 1) attraverso segni 2) per artificio del poeta 3) tramite la memoria o per ragionamento 4 ) la migliore agnizione come nell’Edipo “è quella che trae origine dalle vicende stesse, allorché la sorpresa nasce da cause verosimili come nell’Edipo e nell’Ifigenia”. Edipo e allargamento del suo orizzonte di coscienza: l’interpretazione di Hillman. Doppia matrice categoriale dell’ironia: contrapposizione delle due matrici categoriali e prevalenza della seconda: ne consegue il rovesciamento. Perché il rovesciamento sia efficace entrambe le categorizzazioni devono avere un orizzonte di validità consolidato. Inoltre perché ci sia rovesciamento le due categorizzazioni devono essere mutuamente esclusive, nella maggior parte dei casi. 3. Ironia nel discorso L’ironia come atto linguistico ha la stessa struttura di doppia matrice categoriale, ma prende come dominio la ritualizzazione delle azioni grazie alla lingua: si fonda sul potere organizzatore della lingua rispetto all’azione e sui suoi limiti. Austin (1962)2: sono performativi e dotate di forza illocutiva una serie di azioni linguistiche che presuppongono la collaborazione dei locutori, una sorta di patto cooperativo articolato in condizioni: condizioni di felicità. Compromissione nell’azione o impegno rispetto agli altri: così lode, ringraziamento, promessa e il loro carattere rituale. Ibid. (NdR). J. AUSTIN, How to do things with words (1962), trad. it. Come fare cose con le parole, Genova, Marietti, 1987 (NdR). 1 2

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Si presentano come azioni semplici grazie al potere categorizzante della lingua che le riunisce sotto un unico tipo. (Nota: il carattere del performativo è solo quello di dare un’etichetta esplicita, ma Austin dice che ci sono performativi impliciti e dunque la forza illocutiva si può estendere a tutta la lingua)3. L’ironia ha un carattere antiperformativo 4. Lode, ringraziamenti e altri atti linguistici sono facilmente oggetto di rovesciamento ironico. Il rovesciamento ironico mette in luce l’inefficacia delle condizioni di felicità, a volte in maniera anch’essa rituale. Le forme ritualizzate di ironia servono a mettere in luce sistematicamente questa inefficacia e sono frasi come: Grazie tante! Complimenti! Bella promessa! In questi casi siamo di fronte a forme ritualizzate per sancire l’inefficacia di certi atti linguistici rituali. (Nota: La messa in crisi del rituale è sempre implicita nella stessa dimensione rituale che in quanto ripetitiva è sempre a rischio di diventare un colpo a vuoto). 5. In genere, l’ironia è un atto linguistico dotato di efficacia antiperformativa che serve a operare una ricategorizzazione pragmatica dell’evento discorsivo. Il carattere antiperformativo le viene dal sovrapporre una matrice categoriale performativa in contrasto con le condizioni di felicità dell’atto linguistico. Dire “Peccato, ci vorrebbe un terzo tempo” detto dopo un film di lunghezza esorbitante dall’ordinario. Categorizza l’atto linguistico come quello 3 A. DURANTI, Linguistics Anthropology (1997), trad. it. Antropologia del linguaggio, Roma, Meltemi, 2000; P. VIRNO, Quando il verbo si fa carne. Linguaggio e natura umana, Torino, Bollati Boringhieri, 2003 (NdR).

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della deprecazione, o del desiderio, ma questa categorizazione performativa è sconfessata dal fatto che la cosa non appare affatto desiderabile, in maniera evidente, e anzi mette in luce un difetto del film. Così “è stata una festa dell’intelligenza”, detto dopo una serie di fraintendimenti reciproci e di disattenzioni e fallimenti nella cooperazione da parte di un gruppo di persone nel fare un trasloco. L’ironia è qui una operazione di anagnorisis perché sovrappone una matrice linguistica all’evento in corso, all’interazione sancendo una ricategorizzazione dell’azione linguistica. La matrice categoriale dell’atto linguistico /lode/ fa emergere la necessità di una serie di condizioni di felicità che dovrebbero esserci, ma non ci sono: l’esito è dunque una ricategorizzazione dell’azione. Proprio la sovrapposizione sulla situazione di quella matrice categoriale, che si riferisce ad azioni in cui ci si compromette o impegna reciprocamente, fa emergere delle condizioni che dovrebbero esserci, che esprimono un dover essere delle azioni collettive. L’espressione di questa matrice categoriale deontica mette in luce l’assenza delle condizioni richiamate, l’esorbitare dell’azione dai limiti categoriali evocati. Ciò è possibile solo se elementi caratteristici di una categorizzazione opposta sono fortemente corroborati nel contesto. Inoltre tanto più la matrice categoriale opposta (quella richiamata ritualmente) è consolidata e tanto più l’atto ironico che riesce a mostrarne l’assenza, comporta un rovesciamento. 6. Parentela con gli atti linguistici indiretti e la dimensione perlocutiva “Certo che fa molto caldo qui” atto linguistico constativo che viene interpretato come una richiesta coperta. “Sei appena sceso dalla funivia”, sfrutta lo stesso irraggiamento delle parole sulle azioni, lo stesso potere di riclassificare la situazione e le azioni co-

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operative in corso. In tutti e due i casi il risultato è di attirare l’attenzione, portare a livello di coscienza aspetti presenti della situazione che sono sotto al livello della consapevolezza e non sono direttamente in gioco negli atti linguistici. Tuttavia se nel primo caso questo avviene attraverso una categorizzazione condivisibile e stereotipa della situazione, nel caso dell’ironia avviene attraverso una ricategorizzazione che esorbita da quelle date per condivise. Questo spinge a cercare quegli elementi che permettono l’aggancio tra azioni e parole: quest’aggancio è possibile solo al prezzo di mettere in luce un contrasto insanabile tra frames. Mentre nel caso della richiesta indiretta basta aprire la finestra per esaudire l’alone perlocutivo della frase, non così nel caso dell’ironia che si risolve solo in una constatazione del contrasto. 7. In questo quadro appare centrale l’evidenza situazionale: tuttavia essa non è un dato prefissato, ma viene costruita per contrasto, si cristallizza nel momento dell’enunciazione ironica perché questa segna con precisione dei limiti e quindi rende possibile valutare in che misura sono stati violati. Tuttavia l’evidenza situazionale si può costruire testualmente: (Io e Annie) Woody Allen. Qui lo sfondo delle parole è dato dai pensieri che passano come sottotitoli. In questo caso l’efficacia delle parole dei due protagonisti è subito ridelimitata grazie allo sfondo dei pensieri: l’effetto è ironico per lo spettatore, ma non per i due protagonisti. Oppure attraverso una sapiente costruzione testuale: Cortàzar Rayuela, Il gioco del mondo: Da “Solo allora ... a Madame Trépat”4. 8. Matrice intenzionale dell’ironia e dover essere delle categorie messe in questione dall’atto linguistico ironico: Il dover essere implicito in ogni performativo implica lo spazio per un a4

CORTÀZAR RAYUELA, Il gioco del mondo, Torino, Einaudi, 2005, p. 105 (NdR).

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dempimento che si costruisce nella relazione: Wittgenstein: l’attesa e il suo adempimento si toccano nel linguaggio. Si toccano in quanto sono istituiti e messi in forma dalla lingua. Come abbiamo visto non è tanto in gioco la nozione di contraddizione, perlomeno non nel senso logico: qui sono in gioco le categorie per l’azione che vengono violate sulla base del loro adattarsi o meno alla situazione in corso. La nozione di contraddizione non può essere del tutto di aiuto perché presuppone categorie già formate, mentre l’ironia opera al livello della formazione (rituale) delle categorie. Chiamare in causa il principio di non contraddizione fa perdere di vista la dinamicità dell’atto ironico il suo riferirsi al consolidarsi dei limiti categoriali e del loro sfaldarsi in una dialettica linguistica. Tuttavia l’ironia implica una forma di normatività: Si tratta del dover essere dei limiti categoriali, del loro doversi istituire come vincoli comportamentali. L’ironia costruisce una categorizzazione dell’azione proprio per mostrare la sua inefficacia, ma nel contempo apre alla necessità di una nuova categorizzazione. L’ironia presuppone, dunque, i limiti di ogni categorizzazione, ma anche esibisce la matrice deontica di ogni categorizzazione dell’azione. 9. Sdoppiamento ironico e parlante comune Lo sdoppiamento ironico richiama l’alterità originaria implicita nella propria parola. Quella che per Sperber e Wilson è la dimensione citazionale dell’enunciato corrisponde, per noi, alla possibilità che ogni enunciato sia inteso come eco di altri atti enunciativi, come traccia di altre prese di parola, radicate in certe condizioni pragmatiche. Questa dimensione interdiscorsiva è evidente nelle interazioni e nella conversazione quotidiana, come in questo esempio. A: Perché non sei venuto stasera B: Dovevo rilassarmi A: Ah, dovevi rilassarti… La matrice intenzionale dell’ironia sembra comportare un gioco metarap-

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presentativo quasi da teoria dei giochi: pluralità di voci. Bachtin. “Peccato che non c’è il terzo tempo” detto dopo aver visto un film di lunghissima durata. È come se l’ironista assumesse la voce di questo parlante comune come momentaneo portavoce del gruppo e delle sue emozioni, all’interno di un atto linguistico collettivo. È a questo punto che giunti al limitare del dare per scontato, al momento dell’assumere l’atteggiamento del portavoce come comune e di ratificarlo come tale, emerge, con la maggior forza, che “tale parlante collettivo” agisce in modo incongruo, antiperformativo: ciò rende il portavoce una semplice “voce” rispetto a cui si devono prendere distanze, avere atteggiamenti più o meno svalutativi o più o meno comprensivi. L’incongruenza del portavoce si dimostra, infatti, tale da condurre all’assurdo o condurre a conseguenze pratiche, affettive o valutative, che con molta evidenza è preferibile rigettare per molti dei presenti, oppure, tali da non poter essere assunte senza un serio cerimoniale di riesame, date le convenzioni sociali e argomentative. 10. Questa possibilità di scambio e di specularità, a cui tuttavia si sfugge all’ultimo istante, che radice ha? Oggi la letteratura sull’ironia tende ad accentuare il carattere metarappresentativo dell’ironia e a distaccarlo dall’uso della lingua. Si riapre alla nozione di simulazione ma spogliandola dei contenuti retorici e linguistici. Al contrario per noi l’origine dello sdoppiamento ironico risiede in una metadarstellung più che in una metavorstellung cioè in una metarapresentazione operata tramite simboli. Lo sdoppiamento ironico è una finzione di una finzione. Lacan: mentre la finta è caratteristica anche degli animali, gli animali non possono fingere di fingere, e, dunque, non possono mentire. L’ironia richiede appunto una forma di simulazione che è assimilabile alla finzione della finzione. Fingendo di assumere un punto di vista incongruo con la situazione data, l’ironista confida di essere smascherato, egli, appunto, finge di fingere.

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Solo la capacità di padroneggiare finemente e in maniera esplicita le metarappresentazioni tramite simboli è all’origine di quella capacità ironica di distaccarsi dalle categorizzazioni ritualizzate predisposte nell’inventario linguistico. La matrice dell’intenzionalità ironica risiede nel movimento originario attraverso cui tramite la dimensione simbolica si interviene nel processo di categorizzazione delle azioni proprie altrui e del loro effetto. 11. L’origine sta nell’intreccio di desideri originario non ancora linguistico che trova nel simbolico, l’istituzione di categorie che si ritualizzano e mettono in forma il comportamento reciproco. Il desiderio del desiderio è appannato dalle inibizioni, ma le inibizioni sono, soprattutto, messe in atto nei confronti rispetto al desiderio rivolto agli altri: Lacan e Winnicott. La creazione simbolica appare come l’istituzione dei limiti categoriali entro cui l’azione individuale è possibile in relazione agli altri: la mediazione simbolica è il luogo del trasferimento inibitorio del desiderio, della sua apertura al possibile: la simbolicità come abito condiviso, si istituisce solo a partire da uno sfondo pulsionale che si trasforma in emotività relazionale, in desiderio dell’altro e necessità di scambio. Per Lacan questa non è una scelta ma l’unica opportunità per il bambino che nello stadio dello specchio riconosce nella sua figura sdoppiata il limite interno e quello esterno del suo io, prima ancora di averne autocoscienza, e si trova così di fronte al bivio dell’ossessione paranoica, della riduplicazione ecoica, oppure del transfert simbolico in cui l’altro diviene il motore di un riconoscimento di se sempre diverso, e mai interamente simmetrico, grazie alla parola. “Il momento in cui si compie lo stadio dello specchio inaugura, grazie all’identificazione con l’imago del simile, ... la dialettica che d’ora in poi lega l’io a situazioni socialmente elaborate. Questo è il momento che in modo decisivo fa dipendere tutto il sapere umano dall’opera di mediazione del desiderio dell’altro, che ne costituisce gli oggetti in un’equivalenza astratta

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per via della concorrenza d’altri e fa dell’io quell’apparato per il quale sarà un pericolo ogni spinta degli istinti anche quando risponde ad una maturazione naturale, – e quindi la stessa normalizzazione di questa maturazione dipende nell’uomo da un tramite culturale: come si vede per l’oggetto sessuale nel complesso di Edipo”5. 12. Seconda citazione di Lacan: Qui si apre la questione dello sfondo emotivo dell’atto ironico. 13. Ironia, motto di spirito ed emozioni “… la figurazione mediante il contrario non può sottrarsi all’attenzione cosciente, come fanno invece quasi tutte le altre tecniche argute; chi cerca di mettere in moto in sé stesso, il più deliberatamente possibile, il meccanismo del lavoro arguto scopre ben presto che il modo più semplice per replicare a un’affermazione con un motto è di sostenere l’affermazione contraria, lasciando poi all’ispirazione del momento il compito di sbrigarsi con un capovolgimento di interpretazione, della prevedibile obiezione contro tale replica. Forse la figurazione mediante il contrario deve questo privilegio alla circostanza che essa forma il nucleo di un altro modo di espressione del pensiero che apporta piacere e non ci obbliga a tirare in ballo l’inconscio per essere capito. Mi riferisco all’ironia …”6. La struttura del motto è particolarmente significativa, da questo punto di vista: essa presuppone un locutore, una vittima e un ascoltatore/complice. Questa terza persona è, appunto, fondamentale perché diviene l’effigie dei vincoli sociali e delle censure che il motto riesce ad aggirare7. Il motto funziona proprio grazie a questa struttura tripartita: la deviazione verbale descritta con minuzia nel lungo capitolo sulle tecniche del motto mette in luce una falla, un momento di defaillance del lavorio incessante dei vincoli consci sulle pulsioni inconsce. Mentre la cornice del motto è una struttura presentabile, la deviazione che in essa si fa strada lascia spazio alle J. LACAN, Scritti I, Torino, Einaudi, 1974, p. 92 (NdR). S. FREUD, Der Nitz und Seine Beziehung zum Unberwußten (1905), trad. it. Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, Roma, Newton Compton, 2004, p. 196 (NdR). 7 Cf. P. VIRNO, Motto di spirito e azione innovativa, Torino, Bollati Boringhieri, 2005, pp. 24 sgg (NdR). 5 6

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pulsioni inconsce nei confronti della vittima. Queste pulsioni non trovano sfogo direttamente, attraverso l’azione, ma trapelano, indirettamente, attraverso quella parte del motto che rappresenta una deviazione verbale: una formazione condensata, un senso doppio presentato come se fosse univoco, uno spostamento dell’accento psichico, un ragionamento in apparenza impeccabile, ma erroneo, fondato su un controsenso. Così sono motti, allo stesso titolo, le formazioni sostitutive condensate come nel caso seguente: “Ho viaggiato tête-à-bête con lui”8 e gli spostamenti di accento psichico come nel seguente dialogo tra un venditore di cavalli e il compratore: “Se prende questo cavallo e monta in sella alle quattro del mattino, alle sei e mezzo sarà già a Presburgo”; “Già e che ci faccio a Presburgo alle sei e mezzo di mattina?”9. Il motto è, dunque, un Giano bifronte che dietro a una facciata presentabile ne nasconde una impresentabile, un allusione vietata dalle inibizioni psichiche o anche un ragionamento che travalica le leggi dell’argomentazione razionale e, così facendo, mette in luce qualche aspetto della situazione o qualche qualità della vittima che normalmente andrebbe sottaciuta o rimossa, oppure semplicemente che è oggetto di libido. Coscienza. Freud e la contraddizione come principio preconscio. Estensione del modello inconscio-linguaggio all’ironia. Motti ironici. Intersezione tra motto e ironia e loro separazione. Questa differenza di tecnica si accompagna a una differenza anche nel modo in cui la struttura pulsionale che sottende all’ironia entra in relazione con i vincoli della censura dell’io. Nel motto la censura viene aggirata, e le pulsioni emergono attraverso la falla costituita dallo stato d’eccezione del normale funzionamento linguistico. Nel caso dell’ironia la censura, le norme linguistiche precostituite, non vengono aggirate, ma semplicemente esautorate della loro funzione e rovesciate a favore di norme diverse, di un regime dell’azione che si impone ex novo. In questo senso, la dimensione pulsionale è tutta contenuta nel contrasto tra la due serie di assunti normativi contrapposti, ma non è libera di sfogarsi verbalmente come nel caso del motto. A una serie normativa ne viene 8 9

S. FREUD, op. cit., p. 49 (NdR). S. FREUD, op. cit., p. 56 (NdR).

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contrapposta un’altra e questo determina il predominio della dimensione conscia. Ciò non toglie, tuttavia, che specifico dell’ironia sia il contrasto tra le due serie normative di assunti contrapposti. È centrale il fatto che in condizioni normali, o in molti altri casi la serie di assunti normativi su cui si fa ironia sembri accettabile o, addirittura, venga assunta automaticamente. Contro questo automatismo muove l’ironista nella sua capacità di contrapporre due insiemi di assunti pragmatici e nel far percepire per un attimo che la maggiore validità dell’uno sull’altro non può essere decisa a priori, ma viene determinata solo nelle specifiche condizioni d’enunciazione. Così la caratteristica dell’ironia è quella di permettere alla tensione pulsionale di trapelare, appunto come dietro a un paravento, solo attraverso la contrapposizione tra due insiemi di assunti normativi. Questo confina l’ironia nella dimensione conscia, perlomeno nei suoi due poli estremi, quello della fonte dell’espressione ironica e quello della riambientazione contestuale. L’ironia di Shakespeare nell’Antonio e Cleopatra: The noble Brutus Hath told you Caesar was ambitious: If it were so, it was a grievous fault, And grievously hath Caesar answered it Here, under leave of Brutus and the rest, For Brutus is an honourable man; So are they all; all honourable men. Come I to speak in Caesar’s funeral…. He was my friend, faithful and just to me: But Brutus says he was ambitious; And Brutus is an honourable man… 14. Emotività come desiderio del desiderio nel linguaggio L’ironia riesce, in extremis, a mantenere una relazione con la dimensione della consapevolezza, ma lo sforzo si manifesta nel suo rapporto con la relazione di contraddizione tra gli assunti impliciti. La contraddizione, che avviene al livello pragmatico, è l’ultimo degli strumenti consci per tenere insieme materiali pulsionali che si ribellano alle censure dell’io. Il fatto che nell’ironia la contraddizione sia avvertita, ma nello stesso tem-

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po utilizzata per un’operazione di rovesciamento, indica proprio questo sforzo in extremis della dimensione conscia. L’operazione ironica attinge alla dimensione pulsionale dell’aggressività e al campo emotivo dei partecipanti all’interazione, per sovvertire i contenuti della censura, facendo valere al contempo un’istanza normativa contrapposta. Nel confronto tra le due istanze normative: lo stereotipo della cornice performativa (/lode/, /constatazione razionale, deprecazione) vs. l’istanza antiperformativa (il biasimo, l’inattingibilità del giudizio spassionato, l’opposizione netta verso un contenuto), non abolisce l’istanza formale della normatività: essa è un tratto comune alla censura e al suo opposto (l’anticensura la cessazaione della sua validità) e così apre la strada a un rinnovamento di prospettiva mossa da quell’istanza formale e che non può tuttavia che passare attraverso le macerie della categorizzazione originaria per attingere a una ricategorizzazione interamente da costruire. In tal modo si realizza il potere trasformativo dell’ironia: rovesciamento della cristallizzazione linguistica, non elimina, in questo caso, la normatività, ma la reindirizza verso un terreno aperto e sconosciuto. L’ironia permette così di dare una nuova apertura all’azione senza però la perdita del dover essere relazionale delle categorie. Questa compresenza del dover essere che è all’origine del simbolico e della presa in carico di uno scacco legato alla realtà è il principale motore del rinnovamento di prospettiva e dell’ampliamento di coscienza operato dal rovesciamento ironico. Conclusione: ancora Shakespeare su azione e parole nel Macbeth. (Marìas) Rituali ironici: trickster e marginali, loro relazione con la verità, potere di disvelamento insito nel trovarsi ai margini delle categorie consolidate nel costruire la propria vita sfruttando le maglie lasciate aperte dalle recinzioni, dai confini tradizionali. Esempio di questo è, spesso, la volpe: La volpe Yurugu si inserisce all’interno delle partizioni consolidate e ne sovverte i valori. Il suo essere sempre all’esterno dei modi di agire consolidati, le rende possibile vedere ciò che agli altri è celato. Ciò le permette di leggere il senso delle parole in modo diverso. Socrate è il vero rappresentante della figura del trickster.

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Sull’ironia* Un maestro e amico mi ha scritto a un certo punto che a lui pareva che “l’ironia fosse un atto che si realizza nell’agire complessivo, perfino, forse, nel Dasein e solo sussidiariamente in/con parole”. Intorno a questo problema girano molte delle mie riflessioni, perchè se da un lato mi pare chiaro che l’ironia coinvolge tutta una serie di abilità e conoscenze non linguistiche, a me sembra centrale il modo in cui l’ironia se ne serve linguisticamente. Il punto, del resto, consiste nel dove poniamo il limite tra linguistico e non linguistico. Ora io tento di caratterizzare l’ironia in questo modo: un tratto centrale della modalità ironica è quello di mostrare il punto morto, il limite oltre il quale un certo modo di agire convenzionalizzato (e dunque categorizzato ritualmente) si trova privo di ragion d’essere, svuotato di senso al punto che ogni ulteriore azione può scaturire solo dalla presa d’atto di questa vuotezza e inefficacia, se deve avere una qualche presa sulla realtà. Da qui il potere trasformativo delle forme più radicali e riuscite di ironia. Lo svuotamento o inefficacia suddetti si manifestano attraverso la sovrapposizione nel fare ironico tra la categorizzazione rituale di un tipo di agire e lo scheletro, la matrice categoriale (ovvero gli elementi necessari a una categorizzazione opposta) di una situazione che inficia i presupposti stessi dell’agire in questione. Questo vale tanto per l’ironia linguistica che per quella cosiddetta non linguistica. In quella linguistica la categorizzazione condivisa o più agevolmente condivisibile della situazione è tale da evidenziare l’antiperformatività di un atto linguistico codificato. Nel caso della cosiddetta ironia non linguistica o di situazione, la categorizzazione della situazione condivisa è tale da rendere quell’azione non linguistica, data per appartenente a una certa categoria, inficiata nei suoi stessi presupposti. Esempio: Edipo categorizza la sua azione, il suo ruolo come quelli di un padre, un marito e di un re (tyrannos). La situazione di incesto e l’essere causa della rovina della città, come categorizzazione condivisa dal pubblico e poi dallo stesso Edipo, inficiano quei ruoli, attraverso la sovrapposizione su di essi di una struttura contraddittoria: quella del figlio e del paria (pharmakòs).

* Pubblichiamo qui il testo di una lettera di Tommaso Russo a Daniele Gambarara. La lettera fu spedita da Tommaso durante la preparazione del seminario (NdR).

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Come si vede, dunque, tanto per l’ironia linguistica quanto per quella cosiddetta “non linguistica” il ruolo centrale è svolto 1) da una categorizzazione ritualizzata dell’azione e dei ruoli, 2) da una contrastante categorizzazione della stessa azione che è condivisa e corroborata nella situazione data, e 3) che è mutuamente esclusiva con il primo dato che ne inficia i presupposti di fondo. Il carattere antiperformativo dell’ironia implica, dunque, per me il suo stretto legame con l’azione, sia pure attraverso la via in negativo della denuncia dei limiti dell’agire convenzionalizzato. Ora la centralità della lingua si delinea proprio, mi pare, nella misura in cui essa è uno strumento centrale nella convenzionalizzazione e ritualizzazione di ogni azione. Questa centralità è tale, direi, come mostra Wittgenstein, che le stesse azioni sono informate dalla lingua, e quest’ultima genera uno specifico tipo di prassi che è funzionale a tirare le fila e a riorganizzare tutti gli altri tipi di azioni. Che ne è allora, si potrebbe obiettare e anch’io me lo chiedo, dell’autonomia saussuriana del sistema lingua? La competenza linguistica deve allora includere tutti i frames e gli scripts di cui la lingua è intessuta? Sì e no, io direi. Sì, nel senso che li deve includere, ma al livello formale del principio organizzatore di queste attività. Prima ancora di essere formativa rispetto alle conoscenze che abbiamo l’arbitrarietà della lingua (la sua ricorsività metalinguistica e la sua ridondanza e indeterminatezza) sono formative per le pratiche da cui estraiamo queste conoscenze. La lingua è ciò che fa sì che scripts e frames siano organizzati in modo da prevedere sempre un ruolo per gli altri parlanti. Inoltre la lingua informa i frames nel senso di precostituire un formato esplicito di rappresentazione delle azioni che è sempre condivisibile con gli altri. La lingua, poi, anticipa la conoscenza per il bambino fornendogli dei segni in contesti d’uso parziali che si arricchiscono progressivamnente di altri usi contestuali permettendo di ristrutturare e di reinterpretare ricorsivamente i primi sulla base dei secondi. La lingua, insomma, è un perno delle azioni umane oltre a far perno su di esse, come già Prieto aveva intuito. In questo senso la lingua non è solo il segmento fonico o segnico articolato, ma l’intera articolazione del gioco linguistico (bada bene: la sua articolazione, non il gioco in sé). Insomma, mi sembra che se non vogliamo ridurre la competenza linguistica alla competence chomskiana dobbiamo far rientrare l’ironia tra i princi-

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pi linguistici di regolazione dell’agire. Che poi questo agire abbia anche manifestazioni non linguistiche si può ben concedere. Tuttavia nel momento in cui le azioni subiscono una qualche forma di categorizzazione rituale, la lingua sembra esercitare il suo ruolo: questo avviene anche nei casi di ironia situazionale, come nel caso dell’Edipo re dove i ruoli in gioco sono quelli di “padre” e di “figlio”, di “re” (tyrannos) e di paria (pharmakòs), prima istituzionalizzati e poi portati a una crisi che mostra i limiti dell’agire umano. Anche questi ruoli passano attraverso il setaccio della lingua, nel loro stesso codificarsi e istituzionalizzarsi socialmente, no? La loro natura rituale è insieme condizione della lingua, ma è anche possibile solo a partire dall’intrinseca socialità e riflessività dell’animale umano, ovvero a partire dal primo sostrato della linguisticità. Sostrato che non mi pare possibile disgiungere dalla linguisticità stessa, perché è proprio nell’intrecciarsi insieme di queste caratteristiche che si dà qualcosa di nuovo: ovvero la stessa linguisticità. Del resto, proprio la capacità dell’ironia di cogliere il punto limite oltre il quale le parole dette sono prive di efficacia, senza usare altre parole se non quelle stesse, non fa leva proprio sull’arbitrarietà, nella sua duplice matrice di metalinguisticità e indeterminatezza? L’equilibrio di queste due proprietà non è forse specificamente linguistico o perlomeno specificamente simbolico? Tommaso Russo, febbraio 2007

BARBARA SCAPOLO Linguaggio, sensibilità ed emozioni in Paul Valéry: alcune prospettive Pour moi, l’aspect excitant des recherches sur le langage est dans le désir de concevoir la place ou le rôle de cette fonction étrange dans la mécanique générale de la pensée et de l’être vivant P. VALÉRY, Cahiers, 1911 dedicato a Ludovico Gasparini

Ombragé quelquefois par ton ombre pensive… «Non cercare mai la perfezione o la potenza di una mente – in un risultato» (C, I, 323; Q, I, 351)1. «Non cercare la “verità” – Ma cerca di sviluppare quelle forze che fanno e disfanno le verità» (C, I, 328; Q, I, 357). Attorno ad un lavoro su di sé, mai concluso, conscio dell’importanza di ciò che permane incompiuto2, ruota la pratica filosofica di Valéry, intera1 Legenda delle sigle adottate: Œ, I, 1: Œuvres, édition établie et présentée par J. Hytier, I-II, Gallimard «Pléiade», Paris 1997 (1ª ed. 1957) et 1993 (1ª ed. 1960); il primo numero, in cifre romane, indica il volume; il secondo, in cifre arabe, indica la pagina. C, I, 1: Cahiers, I-II, édition établie et présentée par J. Hytier, «Pléiade» Paris 1997 (1ª ed. 1957) e 1993 (1ª ed. 1960); il primo numero, in cifre romane, indica il volume; il secondo, in cifre arabe, la pagina; Q, I, 1: Quaderni, I-V, a cura di R. Guarini, Adelphi, Milano 1995-2002 (in corso di completamento); il primo numero, in cifre romane, indica il volume; il secondo, in cifre arabe, la pagina. C, 1, 1: Cahiers, riproduzione anastatica integrale, 29 voll., CNRS, Paris 195761; il primo numero indica il volume, il secondo la pagina. Ch, I, 1: Cahiers 1894-1914, I-X, édition établie et présentée par N. Celeyrette-Pietri, J. Robinson-Valéry, R. Pickering, Gallimard, Paris 1987-2006 (tuttora in corso di completamento); il primo numero, in cifre romane, indica il volume; il secondo, in cifre arabe, indica la pagina. 2 Per Valéry l’inachevé/inachevable evita ogni possibilità di immobilizzare, di cristallizzare il pensiero in una forma esaustiva/esauriente il reale. Per un approfondimento, ci si permette di rimandare al nostro B. SCAPOLO, “Sono nato plurimo e sono morto uno”. Le Storie infrante come luogo dei possibili di un pensiero avvolgente la vita reale, in VALÉRY, Storie infrante, a cura di B. Scapolo, San Marco dei Giustiniani, Genova 2006, pp. 9 sgg.

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mente volta ad indagare, kantianamente, le condizioni di possibilità e i limiti dell’attività di conoscenza, ed orientata dalla necessità di sviluppare tutto il potenziale di quelle «forze che fanno e disfanno le verità». Punto di volta fondamentale ai fini dell’oggetto che qui si intende prendere in esame, ovverosia l’elaborazione teorica del rapporto tra linguaggio ed emozioni, è la celebre nuit blanche3, durante la quale Valéry giunse al ripudio di qualsiasi idolo tranne quello dell’intelletto, a domare tutti gli istinti, tutte le passioni, in una parola, tutta la propria sensibilità, che, fino a quel momento, lo aveva sopraffatto limitando così il suo potere: Tutto questo mi condusse a decretare tutti gli Idoli fuori legge. Li immolai tutti a quello che fu ben necessario creare per sottomettervi gli altri, l’Idolo dell’intelletto; del quale il mio Monsieur Teste fu il gran sacerdote (Œ, II, 1512). Tentai dunque di ridurmi alle mie proprietà reali. Avevo poca fiducia nelle mie capacità e facilmente trovavo in me tutto quello che occorreva per odiarmi; ma ero forte del mio infinito desiderio di precisione, del mio disprezzo delle convinzioni e degli idoli, del mio disgusto per la facilità e del senso dei miei limiti (Œ, II, 12-13)4.

La riduzione alle proprie «proprietà reali», funzionale al potenziamento della propria intelligenza (che si vuole trasparentemente conscia dei propri limiti e delle proprie potenzialità), ha come primo esito il giovanile «disprezzo e timore dei sentimenti» (C, I, 173; Q, I, 185): «con violenza», in un primo momento Valéry affronta e respinge gli effetti della sensibilità sul proprio Moi, denunciando l’indeterminatezza e il disordine dei sentimenti, che conducono ad un’instabilità di qualsiasi conoscenza o acquisizione. Va tuttavia evidenziato che il giovanile «ripudio della filosofia e delle cose Vaghe e Impure», mosso da un’esigenza epistemologica di oggettività e da una forma critica della coscienza, non conosce alcuna soluzione di continuità, sebbene questa posizione verrà progressivamente ammorbidendosi nel corso degli 3 Avvenuta il 4-5 ottobre 1892 (anno d’inizio della redazione dei Cahiers, ma anche della genesi dell’Introduction à la Méthode de Léonard de Vinci e di Monsieur Teste), la nuit de Gênes è per Valéry un momento di crisi e di cambio di prospettiva del suo pensiero di fondamentale importanza. La «nuit blanche» è infatti l’unico avvenimento unanimemente definito dalla critica come decisivo, visto che come tale lo definisce lo stesso Valéry, in un numero impressionante di luoghi. Sono stati persino avanzati dubbi sulla reale esistenza di tale evento, aprendo alla possibilità di leggerlo come una sorta di teorema, di riferimento necessario ed inventato, come una specie di “mito dell’origine”. Immediatamente alle spalle di tale crisi, abbiamo la scoperta delle Illuminations di Rimbaud e il primo incontro con Mallarmé, avvenuto nel 1891. 4 Trad. it. Monsieur Teste, a cura di L. Solaroli, SE, Milano 19942, p. 14.

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anni. Valéry risponde alla costitutiva necessità del suo pensiero di ridurre tutto ad certum et incertum, primaria esigenza di un appello indiscutibilmente cartesiano, forte della necessità di una visione strumentale della verità, che lega la validità di ogni assunzione teorica alla possibilità della sua verifica5. A partire dalla nuit de Gênes, Valéry opta quindi per un esplicito rifiuto di tutti gli idoli impuri, ma procede anche verso un progressivo distacco dalla “purezza” della poesia di Mallarmé. È tuttavia necessario cercare di determinare in maniera più precisa quale sia l’eredità con cui Valéry si trova a misurarsi, imprescindibile sostrato teorico-critico di tutta la sua successiva riflessione. Egli è costretto a confrontarsi con l’esito estremo della parabola simbolista, ovvero con una «parola dal potere impotente», così come la definì M. Foucault6: Mallarmé condusse infatti le sue ricerche intorno ad un linguaggio puro trasformando radicalmente la concezione della scrittura letteraria e della sua tecnica, portando quindi a termine la costruzione della Letteratura-Oggetto attraverso l’atto estremo di tutte le oggettivazioni: l’uccisione7. Con le parole di Valéry, dal saggio incompiuto Sur Stephane Mallarmé (1897-1898): Per la prima volta, il lavoro letterario è stato [da Mallarmé] sottomesso ad una serie di operazioni, di cui le più importanti erano di natura astratta e di cui le più profonde, le prime, erano di natura puramente psicologica. [...] tutti gli effetti della cosa scritta partono da questo, che essa si compone di parole scritte sulla carta, del loro ordine e della loro disposizione (Ch, II, 276).

Con incisività, sempre Foucault descrive come «intransitività radicale» lo stato in cui, immediatamente dopo l’esperienza simbolista, verserà la letteratura: divenuta nel XIX secolo «pura e semplice affermazione di un linguaggio che ha per legge solo l’affermare, contro tutti gli altri discorsi, la propria esperienza scoscesa», la letteratura del XX secolo sembra solo potersi «incurvare in un perpetuo ritorno su di sé, come se il suo discorso non potesse avere per contenuto che il dire la propria forma»8. 5 «La regola è molto semplice: là dove non c’è niente di osservabile, niente di verificabile, – non c’è, e non ci possono essere altro che giochi di parole – Teologia, filosofia, psicologia – giochi di parole, e senza dubbio alcune immagini, ma non coscientemente tali. Meglio prenderne coscienza. E allora – Retorica! Arte della parola» (C, 7, 893). 6 M. FOUCAULT, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, a cura di E. Panaitescu, G. Canguilhem, Bur, Milano 20067, p. 324. 7 Cf. R. BARTHES, Il grado zero della scrittura seguito da Nuovi saggi critici, a cura di G. Bartolucci, R. Guidieri et al., Einaudi, Torino 20066, p. 5. 8 M. FOUCAULT, Le parole e le cose, cit., pp. 324-325.

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Per la prima volta da quando esiste la letteratura, essa è stata usata dal punto di vista come una cosa astratta, trattabile in se stessa, quasi indipendentemente dalle cose significate – almeno secondo una prima approssimazione. […] Limiti. Tutta la letteratura è contenuta nella combinazione di parole. Fate in modo di vederne il più possibile, di esaurire il possibile, da cui esperienza (Ch, II, 277-278).

L’esperienza letteraria condotta dal simbolismo alla frontiera del linguaggio, giungendo dove quest’ultimo non sarebbe altro che forma, o assenza di materia, «appare al poeta e lo tormenta come un’infermità», divenendo «il principio della sua estetica», nonché «mondo di impossibilità»9. Contro «il pericolo di sembrar perseguire uno scopo meramente verbale» (Œ, I, 126810), o “formale”, nel senso più deteriore del termine, il problema di Valéry, «ombragé» dall’«ombre pensive» del maestro Mallarmé (cf. Ch, II, 292), sarà sempre quello che ruota attorno alla domanda «come fare?», essendo il faire la «nostra condizione», e conseguentemente essendo il pensiero, l’analisi e la composizione assolutamente funzionali all’agire stesso (cf. C, I, 1060; Q, III, 308). Dopo la nuit de Gênes e il ripudio di tutta la propria sensibilità, Valéry si rinserrerà nel silenzio poetico (che sarà rotto solo con la pubblicazione de La Jeune Parque – 1917), rifugiandosi nella meditazione condotta in modo rituale nell’intimo della scrittura privata dei Cahiers, vera e propria pratica spirituale quotidiana. A Valéry s’impone la necessità di cercare la propria personale strada intellettuale, cosa che comporterà, sebbene faticosamente, l’allontanamento e la differenziazione del suo cammino da quello compiuto dal maestro Mallarmé. Sono proprio le modalità di questo faticoso allontanamento ad interessarci per introdurci nello specifico dell’analisi del rapporto sussistente tra linguaggio ed emozioni secondo Valéry. Differentemente da Mallarmé, per Valéry la poesia ha infatti una sua autonomia soltanto all’interno dell’orizzonte più vasto dell’esercizio, di cui essa rappresenta una forma particolare, ma non superiore alle altre. La differenza più profonda tra Valéry e Mallarmé sta proprio in questa valenza, tutta pratica, del faire creativo-composivo: l’intento di Valéry non fu mai quello di essere poeta (cf. C, I, 247-248; Q, I, 268269), quanto piuttosto quello di un faire, che è insieme un farsi, e che si esplica secondo le modalità del défaire e del réfaire. Laddove la poesia è per Mallarmé «l’oggetto essenziale e unico», per Valéry essa diventa «una particolare applicazione dei poteri dell’esprit» (C, I, 307; Q, I, 334)11, una A. THIBAUDET, La poésie de S. Mallarmé: étude littéraire, Gallimard, Paris 1912, p. 37. Trad. it. Leonardo e i filosofi, in Scritti su Leonardo, a cura di E. Di Rienzo, Electa, Milano 1984, p. 97. 11 Per un approfondimento in relazione all’esprit come mente e alla ricerca di una sem9

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composizione delle proprie puissances (cf. Œ, I, 360), in quanto «[…] tutte le arti sono forme differenziate dell’azione, e […] vanno analizzate in termini di azione» (Œ, I, 1401-140212). Il problema che fa da fulcro a quello che si potrebbe indicare come un fondamentale momento di riflessione sul tema del linguaggio e della poesia ruota intorno alla ricerca di una «poesia pura»13, e viene enunciato dallo stesso Valéry nel modo seguente: – se si possa, quindi, per mezzo di un’opera in versi o meno, dare l’impressione di un sistema completo di rapporti reciproci fra le nostre idee, le nostre immagini, da un lato, e i nostri mezzi d’espressione, dall’altro – [...] questo è a grandi linee il problema della poesia pura. Dico pura nel senso in cui il fisico parla di acqua pura. Intendo dire che si pone il problema di sapere se si può giungere a produrre un’opera che sia pura da elementi non poetici. [...] Insomma, ciò che chiamiamo poesia è composto in pratica di frammenti di poesia pura incastonati nella materia di un discorso. [...] bisognerebbe allora intenderla nel senso di una ricerca degli effetti risultanti dalle relazioni tra le parole, o meglio dalle relazioni tra le risonanze specifiche delle parole, il che suggerisce, tutto sommato, un’esplorazione di tutto quel settore che è governato dal linguaggio. Questa esplorazione può esser fatta a tastoni. Ma non è impossibile che un giorno venga condotta sistematicamente (Œ, I, 1457-1458)14.

Sono principalmente tre gli elementi da rilevare per poter procedere: in primis, l’aggettivo puro, sia esso applicato alla pratica poetica, alla filosofia o al pensiero15, è da intendersi essenzialmente come quanto si presenta pre maggiore precisione e di una espansione sempre più completa nella funzionalità de l’esprit, è d’obbligo il cf. con J. ROBINSON-VALÉRY, L’analyse de l’esprit dans les “Cahiers” de Paul Valéry, José Corti, Paris 1963. Si veda inoltre l’intera ricerca di L. GASPARINI, Azione e comprensione nei “Cahiers” di Paul Valéry, Franco Angeli, Milano 1996 e il recente e prezioso contributo di G. FEDRIGO, Gladiator, l’atleta del possibile. Valéry e lo sport della mente, QuiEdit, Verona 2007. 12 Trad. it. Filosofia della danza, in AA.Vv., Filosofia della danza, a cura di B. Elia, Il Melangolo, Genova 1992, pp. 89-90. 13 Per un approfondimento specifico al problema della “poesia pura”, mi permetto di rimandare a B. SCAPOLO, La Querelle sulla Poésie pure: riflessioni su Paul Valéry, «Trasparenze», 24, 2004, pp. 53-68. 14 Trad. it. Taccuino di un poeta, in La Caccia magica, a cura di M.T. Giaveri, Guida, Napoli 1995, pp. 51-52. 15 Estrema sintesi della valenza del puro in Valéry è costituita dalla figura del Moi pur, la quale, spogliata di qualsiasi determinazione personale, sostanzialmente senza attributi, è da intendersi come «sensazione propria dell’attività cerebrale» (C, 3, 781), punto di osservazione privilegiato dell’attività cosciente sulla propria stessa attività (la celebre conscience consciente). Si pensi alla sua messa in forma in Monsieur Teste («Io sto esistendo e sto veden-

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come non contaminato, non mescolato, non soggetto ad alcuna manipolazione esterna; in secondo luogo, la giovanile e, per certi versi, smisurata ambizione volta a produrre un sistema di rapporti reciproci tra le nostre idee (detto altrimenti tra i nostri “oggetti mentali” – idee ed immagini) e i nostri mezzi di espressione, conduce Valéry ad indagare l’ambito governato dal linguaggio; infine, emerge come indispensabile la necessità che tale indagine sia finalmente condotta in modo rigoroso16. Cerco un modo di vedere il linguaggio. Modo netto e utilizzabile. A cosa pensare, che pensare se penso al linguaggio? Questo è il punto17 (Ch, X, 355). Tanto se si avverte fortemente che il linguaggio è tutto, o che non è niente, si arriva allo stesso punto: l’importante è non assumere una posizione media, vaga, confusa (tra il linguaggio e le cose) [...] (Ch, X, 380).

Corollario implicito di queste considerazioni è il fatto che Valéry sembri indicare il linguaggio non solamente come un mezzo di trasmissione del pensiero, ma come l’unico strumento attraverso cui è possibile indagare il contenuto mentale (e, di conseguenza, l’attività conoscitiva propria dell’uomo), comunque si voglia intendere il nesso tra pensiero e linguaggio; quest’ultimo è dunque da Valéry concepito come una chiave d’accesso privilegiata a tutti i maggiori problemi filosofici e antropologici18. domi; sto vedendomi vedere e così di seguito… Pensiamo con precisione» – Œ, II, 25; trad. it. Monsieur Teste, a cura di L. Solaroli, SE, Milano 19942, p. 30), e ne La Jeune Parque (v. 35: «Je me voyais me voir, sinueuse, et dorais / De regards en regards, mes profondes forets»). 16 «Mi accorgo che la mia ambizione letteraria è (tecnicamente) quella di organizzare il mio linguaggio in modo da farne uno strumento di scoperte – un operatore, come l’algebra – o piuttosto uno strumento di esposizione e deduzione di scoperte e osservazioni rigorose» (C, I, 386; Q, II, 11). 17 «Al sentimento ingenuo del parlante come del linguista, il linguaggio ha per funzione il “dire qualcosa”. Cos’è esattamente questo “qualcosa” in vista del quale il linguaggio è articolato, e come delimitarlo in rapporto al linguaggio stesso? Il problema della significazione è posto» (É. BENVENISTE, Problèmes de linguistique générale, vol I, Gallimard, Paris 2002 – I ediz. 1976, p. 7). 18 Va rilevato che Valéry stabilisce un nesso preciso tra attività intellettiva e sensibilità: ogni parola produce infatti un effetto sensibile sui nostri sensi. Abbracciando questa ipotesi, egli non sembra molto lontano dalle prospettive enunciate dalla riflessione romantica sul linguaggio, nate sulla scia critica dell’enorme lacuna di tutta la riflessione kantiana nella mancata di considerazione del linguaggio (ci riferisce alle analisi linguistiche di J.G. HERDER – in particolare, al Saggio sull’origine del linguaggio [1770] –, di J.G. HAMANN – cf. Scritti sul linguaggio (1760-1773) – e di W. von HUMBOLDT – cf. La diversità delle lingue [1936]). Sui problemi linguistici dibattuti a Berlino nell’ambito della ricostituita Accademia delle scienze, cf. l’importante saggio, con la relativa bibliografia, di H. AARSLEFF, La tradizione di Condillac. Il problema dell’origine del linguaggio nel XVIII secolo e il dibattito all’Accademia di Berlino prima di Herder, in

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Forte dell’esperienza mallarmeana e della risolutezza a tenter autre chose, Valéry praticherà il suo esercizio di pensiero essenzialmente nell’ambito governato dal linguaggio19; innanzitutto, l’attività di ricerca che aspira alla purezza e al rigore si sforzerà nel tentativo di «non pensare mai con parole che non siano nette, – che non [si domino] completamente – e che introducano sensi multipli o indefiniti» (C, I, 414; Q, II, 41-42). Il linguaggio è infatti criticamente visto come lo strumento primario alla metafisica (cf. C, 13, 93) e, in quanto tale, dev’essere posto «sempre in stato d’accusa» (Œ, II, 14) poiché veicola vecchi presupposti metafisici, tende a imporre una rappresentazione antropomorfica delle cose, fa nascere nello spirito questioni di origine puramente verbale, permettendo di fornire risposte illusorie. È quindi possibile individuare una specifica «attitudine nei confronti del linguaggio e dei suoi effetti» (C, 27, 406), connessa all’indagine e alla critica del valore fiduciario che ogni linguaggio porta in seno20; si tratta dunque di determinare le principali caratteristiche di questa critica. Il dovere di non credere alle parole Il ruolo del linguaggio è strano. Come quello della fiducia che permette di acquistare senza averne i mezzi o di vendere, il linguaggio permette delle combinazioni che possono fare a meno di valori autentici e non sono convertibili in essi. Molte parole sono insolvibili e coloro che le rifiutano vengono chiamati “scettici”. E lo stesso vale per molte combinazioni di parole. Si sostituisce il poter vedere (o fare) col poter “esprimere”, che esige soltanto condizioni che dipendono esclusivamente dal funzionamento dei segni – e non dalle cose significate (C, I, 475; Q, II, 108).

Partendo dall’assunto di base per cui «il senso (semantico) di una parola può cambiare con il tempo, sotto l’influenza dei valori che gli sono stati ID., Da Locke a Saussure, trad. it. di M. Ciotola, il Mulino, Bologna 1984, pp. 175-266. 19 «In ogni problema, e prima di esaminarne il contenuto, io considero il linguaggio; ho l’abitudine di procedere alla maniera dei chirurghi, i quali, prima di ogni altra cosa, si disinfettano le mani e preparano il campo operatorio. È quello che io chiamo il repulisti della situazione verbale (Œ, I, 1316, trad. it. Varietà, a cura di S. Agosti, SE, Milano 1990, p. 278; cf. K. LÖWITH, Paul Valéry, a cura di G. Carchia, Celuc, Milano 1986, pp. 47-88). 20 REY, Le crédit et la ruine, in ID., La part de l’autre, Puf, Paris 1998, pp. 129 sg. Nello specifico del rapporto credito/linguaggio, cf. anche M. JARRETY, Valéry devant la littérature. Mesure de la limite, Puf, Paris 1991, pp. 65 sg. e B. SCAPOLO, Disincanto e critica (pars destruens), in ID., Comprendere il limite. L’indagine delle choses divines in P. Valéry, Pref. di J.M. Rey, Pellegrini Editore, Cosenza 2007, pp. 141-159.

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attribuiti» (C, 23, 329), è in primis necessario «diffidare di tutte le parole» (Œ, II, 5321), non confonderle (Œ, II, 6222), secondo una manière de faire che «presta costantemente la più estrema attenzione a ciò che passa come non percepito nell’ordinario, a ciò che apparentemente ha una minima importanza»23. È l’arte di trattare le parole come si meritano. Cioè riconoscendo il loro valore d’uso in un lavoro serrato dello spirito (Œ, II, 23824).

Nel considerare e soppesare il linguaggio rispondendo innanzitutto ad una volontà “igienico-critica” («studiare i linguaggi è precisamente non già rifare – ma fare coscientemente ciò che prima è stato fatto senza troppa coscienza» – C, I, 392; Q, II, 17), che limiti, soprattutto sul piano filosofico, l’uso parassitario del linguaggio, emerge vistosamente più di un’analogia con l’analisi e l’indagine filosofica proposta da L. Wittgeinstein e dai neopositivisti del Wiener Kries, in un’epoca pressappoco coeva. Tanto per Valéry quanto per Wittgenstein, l’attività critica sul linguaggio dev’essere sostituita ad ogni filosofia25. La sterilità della filosofia è dovuta – al linguaggio – alla distorsione delle osservazioni – alla mancanza di controllo e di verifiche – al non discernimento degli eTrad. it. Monsieur Teste, cit., p. 66. Ivi, p. 78. 23 REY, Le crédit et la ruine, cit., p. 137. 24 Trad. it. L’idea fissa, a cura di V. MAGRELLI, Adelphi, Milano, 2008, p. 76 (corsivo mio). Si ricordino i noti versi goethiani: «Sta scritto: “In principio era il Verbo!” Son già bell’è fermo! Chi mi aiuta a proseguire? È impossibile ch’io stimi la “parola” in modo così alto. Devo tradurre altrimenti, se lo Spirito m’illumina bene. Sta scritto: “In principio era il Pensiero”. Rifletti bene, sin dalla prima riga affinché la tua penna non abbia troppa fretta. È forse il pensiero che tutto crea ed in tutto agisce? Allora dovrebbe essere: “In principio era la Forza!”. Ma mentre scrivo questa espressione, già un non so che mi ammonisce che non mi ci fermerò. Lo Spirito mi aiuta! Improvvisamente mi si fa luce dentro: “in principio era l’Azione!”» (J.W. GOETHE, Faust, vv. 1224-1237, trad. it. Faust e Urfaust, a cura di G.V. Amoretti, vol. I, Feltrinelli, Milano 19998, p. 63). 25 «Sostituirò ad ogni filosofia una ricerca sul linguaggio» (C, 26, 627); «Il punto capitale della mia filosofia è l’eliminazione sistematica di ciò che è parola» (C, I, 395; Q, II, 20). «Tutta la filosofia è “critica del linguaggio”» (L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, trad. it. a cura di A.G. Conte, Einaudi, Torino 20016, p. 43. Per un approfondimento sul rapporto tra i due filosofi, cf. R. PIETRA, Valéry, Wittgenstein et la philosophie, «Bulletin des études valéryennes», 20, 1979, pp. 46-65; K. TSUNEKAWA, Valéry et Wittgenstein – l’égotisme et le solipsisme, «Bulletin des études valéryennes», 88-89, 2001, pp. 163-174; L. GASPARINI, Valéry e Wittgenstein, in ID., Azione e comprensione nei “Cahiers” di P. Valéry, cit., pp. 209 sgg. 21 22

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lementi e delle operazioni e degli effetti reali di queste operazioni (C, 2, 588). I filosofi inventano tante nozioni quante gliene occorrono – ed è un loro diritto – ma non [si] preoccupano affatto della comprensibilità di queste nozioni – Ed è un grave errore (C, I, 387; Q, II, 12).

Criticare il linguaggio è prima di tutto un saper porre nettamente i problemi. Posto che «soltanto ec-ce-zio-nal-men-te la parola significa quello che essa pretende di significare» (C, I, 395; Q, II, 20) e che «[l]a maggior parte dei problemi della filosofia sono dei non-sensi; voglio dire che è generalmente impossibile “porli” precisamente senza distruggerli» (C, 5, 576), la filosofia non deve avere altro scopo che delucidare le questioni, eliminando ogni vaghezza e impurità attraverso l’utilizzo di un linguaggio chiaro, semplice e sensato. Quali enunciati possono dirsi “sensati” agli occhi di Valéry? Innanzitutto, si deve precisare che tutte le questioni relative al senso si pongono solo all’interno delle cornici di vocabolari adattati dal lavoro critico volto al repulisti de la situation verbale, e non all’esterno di esse; in secondo luogo, dev’essere rilevata la funzione di mediatore-intermediario che il linguaggio assume nell’analisi di Valéry (cf. Ch, X, 373). Una questione connessa al più generale tema del credito e della fiducia è quella secondo cui «se il Tutto fosse istantaneo o dato nella sua interezza, niente linguaggio» (C, I, 396 o Ch, X, 357; Q, II, 21): se il “Tutto” fosse «interamente dato» (cf. Ch, X, 403) non avremmo linguaggio; la sua funzione26, essenzialmente mediatrice, tra l’attività conoscitiva e il reale sarebbe assolta nell’immediatezza della comprensione; non si creerebbe nessuno iato tra parola e “cosa”, e nessuna fiducia o credito potrebbe inter-agire nella diretta assunzione del significato. Pertanto, «se si vuol parlare del vero senso delle parole, bisogna dire che: il vero senso di una PAROLA è ciò che essa produce in quanto effetto, istantaneamente e per sempre – in modo che questo effetto abbia svolto la sua funzione transitiva, e non ci sia più un problema di espressione. Risulta chiaramente, da questo, che ci sono tanti veri sensi per quante volte si verifica una simile trasformazione. – È l’assenza di stasi o di esitazione quel che definisce il vero senso. Il resto è un’invenzione di lessicoIl concetto di funzione in Valéry è tra i più pregnanti: la prospettiva che egli adotta è quella secondo l’individuo sarebbe «un sistema d’intersezione di funzioni» (Œ, II, 1343); riassumendo brevemente la sua posizione, se ci è possibile individuare una certa funzione in una certa entità, ovvero se la si identifica come entità che “è per qualcosa”, ciò accade perché disponiamo di un determinato congegno psicologico che fa sì che la si identifichi come “entità che sta per qualcosa” (condizione che, peraltro, sembra conservare un’eco irriducibile del significato che il concetto ha secondo il senso comune): secondo tale senso, il linguaggio è in assoluto tra le principali funzioni proprie dell’uomo. 26

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grafi» (C, I, 469; Q, II, 101). Se dunque il linguaggio veicola un contenuto/dei contenuti che suscitano un effetto/degli effetti in modo chiaro e permanente, allora esso è sensato, in quanto la sua funzione di tramite è stata correttamente assolta. Laddove la parola porti invece con sé dei “residui” interpretativi, delle lacune o del surplus (un valore aggiunto) rispetto a ciò che essa vuole effettivamente indicare (è il caso dei termini «Vaghi» e «Impuri» della metafisica), allora, per Valéry, essa è priva di senso. Si deve menzionare il fatto che la molteplicità dei veri sensi che le parole possono veicolare apre ad un altro tema valeryano, quello secondo cui la realtà è inesauribile, eccedente, sovrabbondante di senso, e quindi essa è, a rigore, inesplorabile e inconoscibile, in quanto ogni sua conoscenza appare necessariamente parziale (nell’indeterminatezza di una conoscenza completa consta tutta la cifra della miseria dell’uomo). Riprendendo i capisaldi dell’irriducibile dicotomia tra l’être e il connaître in Valéry (altrimenti declinata come «opposizione fra la “vita” e la “verità”» – cf. C, II, 582; Q, V, 269), la realtà diviene ciò che «rifiuta l’ordine che il pensiero vuole imporgli» (Œ, I, 1301): da questo punto di vista Niente è stabile, niente ha del significato – è qui il reale – il reale non ha nessun significato. Ogni significato esige un certo punto di vista (C, 9, 553).

Detto altrimenti, il reale consiste in «ciò di cui non si può esaurire la virtù significativa»27, in quanto è «ciò che è sprovvisto di ogni significazione ed è capace di assumerle tutte» (C, 9, 615); la realtà è quindi per Valéry ciò che resiste a qualsiasi tipo di presa conoscitiva: L’idea nascosta o il volere nascosto nella nozione di realtà è questo: c’è qualcosa di più in ogni cosa reale che la percezione più netta e più completa non fanno vedere. E quindi questo quid è inalterabile attraverso le vicissitudini della percezione. Nessuna percezione l’esaurisce (C, 11, 188).

Il connaître non può che rinunciare ad ogni spiegazione che aspiri ad essere esaustiva (esauriente) del reale (cf. Œ, II, 167-168); in particolare, è il linguaggio a portare in seno l’intera cifra di questa insufficienza: Man mano che ci si avvicina al reale, si perde la parola. Un oggetto può essere espresso soltanto da un nome più grande di lui e che è soltanto il segno della sua molteplicità di trasformazioni implicite – o mediante metafore o mediante costruzioni. Il reale è intrasformabile […] (C, I, 386-387; Q, II, 11). “Vedo questo e non so da dove cominciare ad esprimerlo”. 27

P. VALERY, Lettres à quelques-uns, Gallimard, Paris 1997 (I ediz. 1952), p. 153.

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– Io vedo confusamente questo, e so che se mi metto ad esprimerlo mi vedrò costretto a trovarne la struttura precisa (Ch, X, 362).

Di fronte a tale riconosciuta insufficienza, l’attività conoscitiva dell’uomo sembra doversi limitare, quindi, ad un’attività di tipo pratico-poietica, per cui il mondo consisterebbe dei modi, più o meno “corretti”, di descriverlo28. Stando alle considerazioni finora svolte, anziché in una “caccia della verità”, il filosofo parrebbe quindi doversi impegnare innanzitutto nella ricerca di una teoria linguistica (necessario tramite di ogni conoscenza), fornita dei requisiti del rigore, della coerenza, della semplicità, della prevedibilità (che fornisce stabilità alla conoscenza), della pragmaticità, ecc. Sebbene in maniera embrionale, ci sembra che Valéry comprenda all’interno della sua riflessione sul rapporto tra linguaggio e realtà uno dei tratti fondamentali che caratterizzano la cultura scientifico-filosofica contemporanea, ovvero quel «processo di dissolvenza al quale è destinata la concezione della conoscenza come rappresentazione adeguata e accurata della realtà o, altrimenti detto, delle cose come sono in se stesse», processo che comporta la fuoriuscita «dal regime delle identificazioni mimetiche e iconiche per entrare in un nuovo dominio che è precisamente quello dei contesti, delle relazioni e delle inferenze»29. Le numerose questioni finora sollevate suggeriscono le coordinate di fondo entro cui intendere la complessa questione del rapporto linguaggioemozioni. La specifica riflessione intorno al linguaggio ha origini molto precoci (negli anni 1897-1898), con il cahier “Analisi del linguaggio”, l’articolo su La sémantique de Michel Bréal30 (cf. Œ, II, 1449-1456) e il già citato 28 Secondo questa prospettiva, Valéry parrebbe, per certi versi, anticipare la dottrina dei ways of worldmaking di N. Goodman (cf. N. GOODMAN, Ways of Worldmaking, 1978, trad. it. Vedere e costruire il mondo, a cura di C. Marletti, Laterza, Roma-Bari 1988). 29 A.G. GARGANI, La nozione di prova tra filosofia, scienza e linguaggio, in V. ANDÒ, G. NICOLACI (eds.), Processo alla prova. Modelli e pratiche di verifica dei saperi, Carocci, Roma 2007, pp. 43-76, qui p. 53. 30 Conoscenza che Valéry mutuò dall’amicizia con Marcel Schwob (1867-1905). Bréal è indicato da Valéry come «uno dei grandi conoscitori di tutto ciò che si sa e di tutto ciò che esiste in linguistica» (Œ, II, 1450) ed egli, com’è noto, fu maestro della maggior parte dei linguisti francesi sul finire del XIX secolo. Saussure fu allievo e amico di Bréal, sebbene nelle sue note e nelle sue lezioni riporti pochissimi riferimenti all’opera del maestro (tuttavia, è dato per assodato il ruolo chiave che il progetto della semantica di Bréal ebbe nell'ambito della contestualizzazione della formazione del pensiero saussuriano negli anni parigini). Ouzounova-Maspero osserva che «i commentatori dei Cahiers sono concordi nel dire che Valéry ha sviluppato le sue principali idee molto prima dalla comparsa del Cours [di Saussure]» (J. OUZOUNOVA-MASPERO, Valéry et le langage dans les “Cahiers” (1894-1914),

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saggio Sur Stephane Mallarmé (cf. Ch, II, 275-287). A partire da questi anni, Valéry si pone di fronte alla questione relativa alle relazioni fondamentali che il linguaggio intrattiene con ciò che si nomina esprit; a Valéry s’impone la necessità di approfondire «il difficile del linguaggio» una volta constatato che «il linguaggio in quanto nozione definita sulla quale si possa agire […] ci appartiene molto meno della maggior parte degli altri fenomeni» (Œ, II, 1450); a questo scopo, la semantica gli appare, almeno in un primo momento, uno studio indispensabile; tale disciplina ci ricorda che «le parole hanno dei significati [che] consistono in un gruppo di due membri, uno fisico, l’altro mentale. Lo studio del primo ha portato molto lontano; lo studio del secondo è progredito molto poco; lo studio dell’insieme non esiste, e questa sarebbe una cosa importante» (Œ, II, 1451; cf. Ch, II, 278). Attraverso e al di là della semantica Fisiol[ogia] e Fisiol[ogia] del linguaggio Colui che saprà legare il linguaggio alla fisiologia – saprà molto, e nessuna filosofia potrà prevalere contro questo (C, I, 446; Q, II, 76-77).

Lo studio del rapporto tra sensibilità e linguaggio assume in Valéry un’importanza capitale anche per lo scopo di «comprendere noi stessi»: infatti, «il linguaggio comunica l’uomo all’uomo, e l’uomo a se stesso» (Ch, II, 279). Un saliente esempio del modo di condurre il ragionamento e l’analisi sul linguaggio da parte di Valéry è costituito dal saggio incompiuto su Mallarmé, nel quale, a partire dalle già menzionate considerazioni sulla “spinosa” eredità simbolista, egli si misura attivamente con questioni propriamente linguistico-semantiche31, legate alla funzionalità del linguaggio nel suo rapporto con i contenuti mentali (idee o immagini) e l’oggetto reale indicato/rappresentato32. L’Harmattan, Paris 2003, p. 20). Valéry potrebbe aver tratto qualche eco dell’opera di Saussure anche attraverso l’amico Pierre Quillard che, come M. Schwob, aveva partecipato ad alcuni dei corsi saussuriani (cf. Ch, X, 481, n. della p. 58). 31 Si deve tuttavia rilevare che il Valéry più maturo andrà progressivamente rifiutando il primato della semantica e della linguistica per lo studio del linguaggio: in una tarda nota dei Cahiers (1942-1943), egli afferma che «la linguistica non c’insegna niente di essenziale sul linguaggio – Dei problemi di origine, di similitudine. Ma – l’intima funzione del linguaggio, il suo intervento nel funzionamento, il suo meccanismo Conservazione-Trasformazione e ciò che esso è ai diversi livelli: Io puro; Io, Qualcuno; Io e Altro – ecc. Il suo uso interno, esterno e interno-esterno – ??» (C, I, 464; Q, II, 95; cf. C, I, 460-461; Q, II, 91-92). 32 «Il linguaggio riproduce la realtà. Questo dev’essere inteso nella maniera più lettera-

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Posto che «il linguaggio non è la riproduzione del pensiero. Non si occupa di fenomeni mentali reali – ma di un’immagine semplificata e molto lontana da questi fenomeni»33 (Ch, II, 284), e che «il linguaggio può essere studiato solo attraverso il rapporto con i fenomeni mentali: quelli da cui proviene, e quelli che esso suscita» (Ch, II, 281), quel che ci interessa approfondire in questa sede è il fatto che per Valéry «la parola fisica, che ci giunge come tante altre sensazioni, costituisce una sensazione singolare che è distinta dal resto dei suoni o delle figure, istantaneamente, nel pensiero. Penso che la sua proprietà sia di conservare nell’esprit una relazione invariabile tra certi fenomeni: tutte le volte che essa si ripresenta alla nostra conoscenza, certi fenomeni si ripresentano» (Ch, II, 279). Queste considerazioni evocano il problema detto del “cratilismo”34 nella misura in cui a Valéry sembra, ad esempio, che il termine “puntura” (piqûre) punga (pique – cf. Ch, I, 238); infatti, Valéry non considera che la parola sia l’immagine di una cosa, ma il suo segnale, capace di produrre sull’organismo un certo effetto, parzialmente identico a quello del citato esempio della puntura. Come si cercherà di mostrare in seguito, il Valéry poeta prenderà in alta considerazione questa proprietà della parola, capace di creare un effetto fisico attraverso il suo solo valore fonetico-sintattico (che può riprodursi indipendentemente dal contesto). Un primo, fondamentale legame che la parola stabilisce con la sfera della sensibilità riguarda dunque l’effetto che una determinata parola, in quanto segnale, suscita nell’esprit35, effetto che è riproducibile fisicamente «tutte le le: la realtà è nuovamente prodotta attraverso l’intermediario del linguaggio» (É. BENVENISTE, Problèmes de linguistique générale, vol I, cit., p. 25). 33 «Lo scrittore mentre scrive è scontento di ciò che scrive, non di ciò che concepisce. Egli cerca inutilmente una equazione impossibile tra questi 2 termini. Lo scrittore cosciente separa la sua visione, il suo pensiero, dai mezzi che maneggia e che dovrebbero agire su altri [mezzi]. La sua opera è determinata da questi MEZZI più che dal suo pensiero. Allora egli cerca di moltiplicare questi mezzi» (Ch, II, 287; cf. Ch, X, 362). «Non si scrive ciò che si pensa. Si legge solo ciò che si può pensare» (Ch, II, 285). 34 Così definito in relazione al dialogo platonico Cratilo che, com’è noto, riguarda lo studio del rapporto tra le parole e le cose, delle quali i nomi dovrebbero rappresentare l’essenza. Si veda in particolare i passi 426c sgg. dove, al fine di sostenere la grande forza dell’imitazione nella creazione del linguaggio, Socrate individua lettere e sillabe che devono essere intenzionalmente usate nell’esigenza di interpretare, proprio mediante l’imitazione stessa, l’essenza delle cose. Ad esempio nella parola rhein (“scorrere”) è proprio la lettera rho (ρ) che si incarica di imitare lo “scorrere” stesso. 35 Si preferisce mantenere il termine in francese per la molteplicità dei significati che esso comprende (intelligenza, mente, intelletto, anima, spirito), lasciano che sia il contesto, di volta in volta, a suggerirne il significato più adatto. In questo caso, tuttavia, con

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volte che vogliamo, tutte le volte che la pensiamo». Ne consegue che questa proprietà esiste perché «l’accoppiamento di un suono con un’idea, che crea una parola, è perfettamente arbitrario, nel caso più generale» (ibidem). Detto in termini saussuriani, si potrebbe quindi affermare che ad essere arbitraria, secondo l’analisi di Valéry, è la determinazione del segno nell’accoppiamento tra significante e significato36: infatti, per Valéry il segnoparola «sparisce se cambia il suono37»: Evitando una sorta di equazione assurda tra una cosa variabile e una costante, dobbiamo pensare che la relazione della forma esteriore di una parola con il suo correlativo mentale è convenzionale, non meno indipendente dall’esprit che se ne serve. Questa “convenzione” isola le parole in quanto sensazioni da tutte le altre sensazioni (Ch, II, 280)38.

Quando una sensazione nasce in quanto innescata dalla parola (P → S) , agli occhi di Valéry essa è diversa da tutte le altre sensazioni per il suo carattere di precisa e netta riproducibilità, laddove il segno-parola permanga invariato. È opportuno precisare che questa sostanziale differenza è per Valéry fondamentale, essendo che le altre sensazioni (non innescate dal linguaggio) e l’intero dominio della sensibilità40 appartengono invece all’ambito dell’ambiguo, dell’instabile, dell’indeterminabile: 39

La parola sensibilità è ambigua. Essa significa a volte – facoltà di sentire, produzione di sensazioni; e altre volte modo di reazione, reattività, modo di traesprit Valéry parrebbe intendere il «corpo della mente» (cf. C, 8, 402). Per un approfondimento sulla fisiologia del «corpo della mente», cf. G. FEDRIGO, Gladiator, l’atleta del possibile. Valéry e lo sport della mente, cit., pp. 41 sgg. 36 Cf. F. DE SAUSSURE, Cours de linguistique générale [1916], Payot, Paris 2003 (I ediz. 1967), pp. 97 sgg. Come Bréal, Valéry giudica necessario studiare l’aspetto semantico di una parola quanto la sua forma sonora, e si applica ad analizzare il senso attribuendogli una componente stabile (cf. Ch, IV, 272; Ch, V, 299; Ch, X, n. 2 p. 501). 37 «Un uomo che soffre il freddo e che dice: Ho freddo, non pronuncia queste parole indifferentemente. Egli deforma i suoni e questa deformazione è importante. In tutte queste materie così delicate da analizzare – ricordarsi che non c’è mai relazione diretta tra suono e senso – ma indiretta. Ma ben reale (quando essa è). [...]» (Ch, X, 383). 38 Con leggere varianti il passo in questione viene riportato anche successivamente: cf. Ch, II, 281. 39 Dove S = sensibilità, P = parola, segno linguistico. 40 Per un’introduzione al tema della sensibilità, cf. anche S. BOURJEA, La sensibilité dans les “Cahiers” de P. Valéry, «Bulletin des études valéryennes», 19, 1978, pp. 37-58; J.M. GUIRAO, Esquisse d’une théorie de la sensibilité, «Bulletin des études valéryennes», 96-97, 2004, pp. 85-100.

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smissione. E significa altresì legame irrazionale (C, I, 1206; Q, III, 465).

Detto in altri termini, la sensibilità tout court è confinata nell’ambito delle «Cose Vaghe e Impure», che, come si è visto, vengono da Valéry decisamente rifiutate a partire dalla nuit de Gênes41. Tuttavia, procedendo nell’analisi del caso opposto, cioè del rapporto che si innesca a partire dalla sensazione che produce linguaggio (S → P), è particolarmente interessante la riflessione che Valéry propone rispetto all’assenza di fatto di eventi sensibili, che aiuta a comprendere per quale motivo egli definisca la sensazione anche come un «evento di coscienza» (C, I, 1154; Q, III, 408). Il linguaggio esprime attraverso un fatto positivo – che è ciò che si chiama una negazione – un fatto negativo o assenza di fatto. Quando si dice: Io non sento niente, o zero. (Lo zero di sensazione lascia ancora o forse provoca ancora un qualcosa: l’io? – come se l’io esistesse tra questo zero e lo zero assoluto, non conoscenza totale) (Ch, X, 377).

La considerazione dell’espressione linguistica di fronte ad un’assenza totale di sensazione, se sommata alle constatazioni precedenti, spiega per quale motivo Valéry sia portato a pensare che, veicolata dal linguaggio, la mancanza di eventi sensibili produca nondimeno una sensazione precisa: il processo di attivazione sarebbe allora così costituito: S = 0 → P → S = X. La sensazione, in questo caso, è un evento di coscienza nella misura in cui può essere distaccata, distinta da ogni corrispondenza, da ogni trasformazione, da ogni adattamento (cosa che si manifesta esplicitamente nel caso limite appena esposto). Si deve inoltre rilevare che, per Valéry, «una cosa diventa sensibile soltanto per la mancanza piuttosto che per la presenza di qualche condizione» (C, I, 1157; Q, III, 411): la sensazione (o la mancanza di sensazione) «è come una scintilla in una camera di specchi che anima un’infinità di figure e inoltre di relazioni implesse42 tra queste figure» (C, I, 41 «Insomma – il mio immutabile sentimento dal 1892 è che bisogna distinguere sempre – non confondere mai le percezioni – le immagini – le astrazioni-relazioni che sono atti ben definiti – e gli sconfinamenti ottenuti mediante i segni – ossia ciò che non potrebbe esserci senza segni o convenzioni» (C, I, 425; Q, II, 53). «Il turbamento è il contrario della chiarezza. È il movimento senza direzione… È una trasformazione attraverso la confusione» (C, I, 415; Q, II, 43). 42 «Implesso, parola di mia invenzione, significa che il possibile è (e secondo molteplici modi) un costituente funzionale del vivente» (C, 29, 61): l’implesso è designato come «il resto nascosto strutturale e funzionale – (non il sub-cosciente) di una conoscenza, o azione cosciente» (C, 17, 63).

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1156; Q, III, 410), nonché l’attività di produzione «di effetti incommensurabili con le loro cause» (C, I, 1173; Q, III, 429). Ciò che si presenta43 alla mente sono a volte parole – a volte frasi, a volte forme, canti, inizi… Secondo l’ora, l’elaborazione prolunga questo o quest’altro. Si cifra e si decifra senza posa. Perpetuo passaggio dalle parole alle idee e dalle idee alle parole» (C, I, 396 o Ch, X, 333; Q, II, 21). [...] Quante risonanze, quanti echi, quante interferenze, quanti armonici in questo impero! (C, I, 396; Q, II, 21).

Come si è visto, per Valéry l’ambito del sensibile incarna una sostanziale «meccanica dell’incoerenza, dell’ineguaglianza, della discontinuità, della differenza e delle sproporzioni» (C, I, 1206; Q, III, 465), e pertanto esso è destinato a mettere perennemente «a soqquadro» il mondo intellettuale (cf. C, I, 1160; Q, III, 415). Per questo motivo, gli appare «un errore conferire alla sensibilità, all’intensità delle sensazioni e delle emozioni, un valore o un’importanza significativa»: La sensibilità ha proprio la caratteristica contraria. Essa è tale che una causa piccolissima può metterla interamente in gioco. È per sua natura tale da invertire a ogni istante la proporzionalità fra gli effetti e le cause. [...] E inoltre: la relazione fra la causa e l’effetto sensibile è qualsiasi – variando da uomo a uomo e da un giorno all’altro. [...] (C, I, 1158; Q, III, 413).

Allo stesso tempo, il linguaggio a sua volta presenta non pochi «gravi difetti»; il passo seguente, tratto da una nota del 1929 dei Cahiers, assume una valenza indubbiamente riepilogativa di quanto finora analizzato: Scavare il “senso” di una parola credendo che ci si troverà qualche altra cosa oltre che valori linguistici – o convenzionali – mascherati – credere che ci si troveranno valori indipendenti dalle creazioni e formazioni del linguaggio, – ossia dall’epiteto – Il linguaggio ha questi gravi difetti 1° di essere convenzionale – 2° di esserlo in modo insidioso, occulto, – di nascondere le convenzioni nella Ima infanzia – 3° di essere nello stesso tempo estraneo per origine e sviluppo, – e intimo, intimamente unito ai nostri stati più intimi – al punto che non possiamo concepire noi stessi senza linguaggio – senza comunicare mediante segni discontinui (e quindi combinabili) – con n[o]i stessi. [...] (C, I, 429; Q, II, 57-58). 43 Si noti che «Tutto ciò che si presenta deve poter mirare ad una sorta di perfezione, conformità finale dell’insieme con un sistema di definizioni» (C, X, 410).

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La ricerca di una «forma» che possa com-prendere le passioni Attraverso l’esplorazione del tema particolarmente delicato costituito dalla funzione del linguaggio nel rapporto con la sensibilità, emerge come il problema non stia solo nel trovare parole che traducano ciò che proviene dal dominio della sensibilità, ma anche nel modo stesso in cui questo stesso processo possa venir rappresentato e, quindi, compreso a fondo. Va tuttavia rilevato che per Valéry «sentire incomincia, precede, accompagna e finisce tutto. E dunque, è tutto. Sicché, è impossibile andare al di qua o al di là di questa parola – una parola che è un punto-limite – o piuttosto un riflettore totale, che riflette tutto e non assorbe niente» (C, I, 1206; Q, III, 464-465). Le questioni finora sollevate paiono complicarsi ulteriormente se si prende in esame lo specifico del rapporto sussistente tra linguaggio ed affettività. Per Valéry, allo stato nascente, «il sentimento è indiscernibile dalla sensazione» (C, II, 348; Q, V, 17); esso utilizza «le parole che può – più è forte, più esse sono inesatte – […]» (C, II, 377; Q, V, 49). Enunciato a chiare lettere un sostanziale limite della funzione del linguaggio come intermediario tra la sfera dell’affettività e la sfera intellettivo-conoscitiva, Valéry tuttavia non smette la ricerca di una «forma» che possa permettergli di «comprendere» (ovverosia, di “tenere insieme”), nel modo più chiaro e rigoroso possibile la sfera della sensibilità e l’ambito delle passioni umane (cf. C, II, 340; Q, V, 8), rifuggendo ogni credito o fiducia accordabile alle parole. Differentemente da Wittgenstein, che, com’è noto, ha rifiutato con vigore la tentazione di una lingua artificiale dalle caratteristiche universali, di un metalinguaggio, Valéry è stato sedotto da questa possibilità (e le ricerche in questo senso di R. Lullo e di G.W. Leibniz non lo lasciarono affatto indifferente). Noi pensiamo, scriviamo in un linguaggio al quale non crediamo più. Sappiamo bene che esso trascina con sé una pluralità disordinata di concezioni del mondo, di ipotesi fisiche, cosmologiche, psicologiche, che hanno indotto i filosofi a rompersi inutilmente la testa intorno a esseri ed essenze inesistenti; come l’essere, l’anima, il tempo, la volontà – ecc. Ma in che modo costruirne un altro, e come concepirlo? (C, I, 411; Q, II, 38)44. 44 Come animati dalla volontà di creare un metalinguaggio sono da intendersi tutti i luoghi dove appare l’indicazione Self-langage, presenti con significativa frequenza nei Cahiers, soprattutto in quelli dei primi anni. È noto che in inglese self significa “proprio”: Valéry spinge all’estremo questa ricerca di un “linguaggio proprio”, arrivando anche a proporsi come obiettivo una «scrittura [...] ideografica. Tentare di fabbricarne una» (Ch, I, 191).

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Alle caratteristiche di oggettività, chiarezza, precisione e rigore che Valéry, a partire della nuit blanche, impone al proprio linguaggio (plasmato sull’azione critica della conscience consciente), sembrano nettamente opporsi le caratteristiche proprie del sentimento. Come emerge dalla lettura dei Cahiers, Valéry cercherà in tutti modi di escogitare manœuvres45 per non subire l’invasività dei turbamenti provenienti dalle sfere della sensibilità e dell’affettività e, non da ultimo, per difendersi dagli effetti del credito e della fiducia. Gli appare tuttavia chiaro che il sentimento sembri rifiutare ogni esito, ogni compimento (soprattutto formale): detto altrimenti, il linguaggio di cui disponiamo non parrebbe permettere di essere uniformato ad un sistema definito di segni, di condizioni e di elementi: Chi dice linguaggio, dice innanzitutto tavola di significati, e di segni, ossia istituzione di una corrispondenza, uno ad uno, fra certi atti percettibili o eventi producibili a piacere e certi eventi-significati, corrispondentisi reciprocamente (C, I, 411; Q, II, 38). La natura, l’essenza del sentimento e dell’emozione è di essere incommensurabile, dunque opposto all’adattamento. È una sorta di definizione – e bisogna sostituire la parola con la nozione di incommensurabilità (ibid.). [...] In particolare tutti i “sentimenti” sono mescolanze, confusioni. Non ci sono sentimenti senza false attribuzioni, senza lo sconvolgimento dell’uniformità delle corrispondenze. E finché esiste il sentimento, ogni chiarezza o nitidezza è instabile. Il che spiega: l’impossibilità di esprimere il sentimento “con la riga e il compasso” (C, II, 352; Q, V, 21).

Tuttavia, già alla fine del suo saggio giovanile su M. Bréal, Valéry indica il mondo mentale come un mondo dove si può simbolizzare (cf. Œ, II, 1455). Ora, che cos’è un simbolo se non esso stesso un linguaggio, paradigma per eccellenza di tutte le operazioni di simbolizzazione?46 Ecco dun45 «La manœuvre è ciò che resta da compiersi in maniera indefinita quando si ha, se non rinunciato all’opera, almeno colto la sua impossibilità: un lavoro quotidiano, tenace, sul credito da accordare alle parole, sulla messa in atto delle operazioni del linguaggio, a proposito degli oggetti che si delineano in questo lavoro rinnovato» (J.M. REY, Paul Valéry. L’aventure d’une œuvre, Seuil, Paris 1991, p. 50). «Secondo me, la filosofia più autentica non risiede negli oggetti della nostra speculazione, quanto invece nell’atto medesimo del pensiero e nella sua manovra» (Œ, I, 1336; cf. trad. it. in Poesia e pensiero astratto, in ID., Varietà, cit., p. 298). 46 «L’uomo [...] utilizza inoltre il simbolo che è istituito dall’uomo stesso; bisogna capire il senso del simbolo, bisogna essere capaci di interpretarlo nella sua funzione significante e non solamente percepirlo come impressione sensoriale, poiché il simbolo non ha relazione naturale con ciò che simboleggia. [...] Questa capacità simbolica è alla base delle funzioni concettuali. Il pensiero non è altro che questo potere di costruire delle rappresenta-

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que secondo quale senso bisogna intendere l’affermazione per cui è «un errore credere che il sentimento ecc. sia inimitabile, non coglibile dall’intelletto. […] Tutta l’arte prova che il sentimento è coglibile» (Ch, X, 399)47. Rifacendosi alla proprietà della parola, capace di creare un effetto fisico anche solo attraverso il suo valore semantico (che può riprodursi indipendentemente dal contesto – è il fenomeno del “cratilismo”, cf. supra), Valéry ha di mira, da un lato, un’arte formale del linguaggio, sulla falsariga dell’esperienza mallarmeana e dell’«eredità di [E.A.] Poe», la «self-consciousness»48 (cf. C, 29, 536). Ogni progressivo avanzamento nella composizioni delle cose e di operare su queste rappresentazioni. Esso è per essenza simbolico» (É. BENVENISTE, Problèmes de linguistique générale, vol. I, cit., pp. 27-28). 47 Una nota dei Cahiers del 1931, relativa ai Nombres plus Subtils (N + S), cioè alla ricerca, nella riflessione di Valéry, di una misura comune delle cose eterogenee, specifica ulteriormente tale rapporto tra linguaggio, sensibilità e arte: «N + S. Ego. Ho pensato, ho creduto con fede – che fosse possibile concepire una sorta di scienza di tutto l’esprit – cioè semplicemente di poter tradurre tutto in un linguaggio secondo il quale )) sensibilità e significazione, durata e cose manifestassero delle equivalenze di sostituzione e di generazione reciproche (( – i cui effetti sono propriamente l’esprit stesso. Ed è in questo che la “creazione” artistica (essa è sempre artistica) è possibile e in questo che essa consiste» (C, 15, 576). 48 Valéry riconosce esplicitamente il suo debito nei confronti dell’opera più teorica di E.A. Poe, nello specifico di The Philosophy of Composition (1846) e di The poetic Principle (1849). L’influenza dell’opera di Poe è, com’è noto, tra le più conclamate e le più solide nel suo pensiero; essa assume, al pari dell’incontro con Mallarmé, la valenza di una vera e propria rivoluzione spirituale, pur differenziandosi da quest’ultima in quanto non conosce alcuna crisi nel corso degli anni. In una maniera pressoché costante e ai suoi inizi ossessiva, il peso di Poe è esplicito: partendo dalla precoce ed ingenua parafrasi di The Philosophy of Composition contenuta nel breve saggio giovanile Sur la technique littéraire (1889), fino a ripresentarsi come primo tema delle letture al Collège de France (iniziate nell’ottobre del 1937), Poe resta tra le principali materie di discussione anche nei Cahiers e nelle Correspondances di Valéry, nonché presenza non celata in molte delle sue opere. A Poe che afferma di preferire l’«iniziare pensando subito a un effetto», in quanto «una poesia merita il nome di poesia soltanto nella misura in cui riesce ad eccitare attraverso un’esaltazione dell’animo», fa eco il giovane Valéry in Sur la technique littéraire: «Una volta datasi un’impressione, un sogno, un pensiero, bisogna esprimerla in modo tale che si produca nell’anima di chi ascolta il massimo effetto – e un effetto interamente calcolato dall’artista» (Œ, I, 1830). Più esplicitamente, ne L’introduction à la méthode de Léonard de Vinci (1894), si legge: «Edgar Poe [...] ha chiaramente individuato nella psicologia e nella probabilità degli effetti il punto di contatto con il lettore. Considerato da questa angolatura, ogni spostamento di elementi fatto per essere percepito e valutato, dipende da alcune leggi generali e da un particolare modo di recezione, che può essere stabilito in anticipo almeno nei riguardi di quella determinata categoria di persone cui le opere sono specialmente destinate; l’opera d’arte diventa così un meccanismo atto a suscitare e a organizzare le formazioni individuali della mente» (Œ, I, 1197-1198, trad. it. Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci, seguito

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zione del poema richiede una tecnica compositiva caratterizzata da conscious effort e calcolo: com’è noto, tale principio poetico viene applicato da Valéry a tutta la sua composizione letteraria. L’“artista” è anche “tecnico” e il “tecnico” è anche “artista”, dato che il loro fare, la loro poíesis, comportano in entrambi i casi un savoir faire ed uno specifico metodo; detto in altri termini, la loro attività comprende ad un tempo una conoscenza pratica e una partecipazione cosciente e consapevole a ciò che si produce. Tanto Mallarmé quanto Poe, in maniera esemplare, a Valéry sembrano aver fornito un metodo che permetta di “salvare il linguaggio” piegando ad esigenze compositive logico-formali la letteratura (cf. Œ, I, 631)49, dunque fornendo una chiara via, un metodo di utilizzo del linguaggio, atto a creare forme che producano determinati effetti di senso e che, al contempo, non soggiacciano ad alcun effetto causato dal credito e/o dalla fiducia. A questo metodo è sottesa la volontà di Valéry di sperimentare in tutta la sua estensione l’incidenza e l’azione del pensiero sui processi mentali, allo scopo di chiarire e approfondire le proprie puissances. Dall’altro lato, una volta messo in atto il metodo della self-consciousness, si tratterà dunque di cercare un’azione diretta sulla percezione del lettore50, mediante «un’arte di frasi trascendenti utili per esprimere l’ineffabile, cioè utili a procurare l’effetto dell’inesprimibile, di quasi-espresso» (Ch, X, 386) e, non da ultimo, atte a suscitare del sentimento: Così le sensazioni che trasmettono la percezione ordinaria delle cose hanno trasmesso e trasmetteranno forse “sentimenti”, ma il meccanismo intellettuale li ha addomesticati e mutati in segni. Una volta riconosciuta la cosa, lo stato di disuguaglianza è annullato, o forma un’uguaglianza; x è quella data cosa. Ma un artista andrà oltre, abolirà questa uguaglianza, ritroverà la disuguaglianza e l’emozione originarie. Tenterà allora di formare una nuova specie di compensazione, a lui propria. Ma il sentimento vale più di ogni altro fenomeno solo in quanto è creada Nota e digressione, a cura di S. Agosti, Abscondita, Milano 2002 (1ª ed. SE, Milano 1996), p. 61; cf. Œ, I, 1157, trad. it. cit. p. 15; Œ, I, 1185, trad. it. cit. p. 47). 49 «Il problema, per Valéry, è però non tanto quello d’un ricorso alla matematica, quanto invece – a imitazione della matematica – di riuscire a riprodurre alcune particolari condizioni di rigore nell’applicazione delle facoltà conoscitive e, parallelamente, di procurarsi uno strumento il più possibile adeguato all’esercizio delle medesime» (S. AGOSTI, Pensiero e linguaggio in P. Valéry, in P. VALÉRY, Varietà, cit., p. 325). 50 Per un approfondimento sul rapporto autore/lettore in Valéry, ci si permette di rimandare al nostro B. SCAPOLO, Téchne del lógos e lógos della téchne: note intorno al fare poietico-dialogico di Paul Valéry, in AA.Vv., Le potenze del filosofare. Lógos, téchne, pólemos, a cura di L. Sanò, «Paradosso. Annuario di Filosofia», Il Poligrafo, Padova 2007, pp. 141-177.

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tore, attore, inventore, consumatore di energia». (C, II, 358; Q, V, 29).

Riconosciuta la difficoltà di rappresentare, di imbrigliare i sentimenti mutandoli in segni (operazione propria del linguaggio), Valéry al contempo riconosce al linguaggio propriamente artistico la capacità di suscitare emozioni, capacità dovuta alla valenza simbolico-metaforica che il linguaggio incarna. La «vaghezza» del sentimento finisce quindi con l’apparire «essenziale» a Valéry (cf. C, II, 340; Q, V, 8). La potenzialità del «troppo» che il reale suggerisce e che l’uomo tenta di com-prendere, pur condividendo alcuni problemi con le ricerche di Wittgenstein (secondo le quali urge attraversare in modo critico le macerie del linguaggio ordinario, fermo restando che esso misura tutto il proprio limite proprio attraverso il tentativo di cogliere – esprimendo linguisticamente, quindi com-prendendo – i facta bruta che compongono il reale), per Valéry impone di «disimpegnarsi dal tono e dall’andamento del discorso ordinario» per collocarsi «in un modo completamente diverso e come in un altro tempo» (Œ, I, 450). Si tratta dunque di tentare di creare «attraverso le “parole” […] lo “stato di mancanza delle parole”» (Œ, I, 375), ovvero si tratta di dar forma al sentimento, all’emozione che scaturisce dalla presa di contatto con l’ineffabile. Per realizzare questa creazione (finalizzata ad una «composizione dell’essere con il conoscere» – cf. C, 7, 581 –, volta a combinare nei possibili quel “resto incompleto” in cui sfociano le nostre rappresentazioni, linguistiche e non), Valéry erge come modello la mistica, «il solo punto, o la sola chance, forse illusoria, di contatto tra l’essere e il conoscere»51. In che modo e secondo quale senso l’esperienza mistica viene posta come modello da Valéry? Si tratta di com-prendere se davvero si dia la possibilità di trarre specifiche «proprietà dell’io» dall’opera del mistico, che per Valéry è interamente 51 P. VALÉRY, lettera in P. BIBESCO, Le confesseur et les poètes, Grasset, Paris 1970, p. 172; un’identica formulazione si trova nei Cahiers (cf. C, 9, 485), dove la mistica è anche indicata come mescolanza, «confusione dell’essere e del conoscere» (C, 9, 793). «Il futuro è nel misticismo, sola ed ultima chance di mettersi da parte, di fuggire alla conformità delle conoscenze, all’equivalenza degli “altri”, a questa morte dell’orgoglio che perisce nel numero…» (Ch, VIII, 326). Il riferimento alla “mistica” è qui da intendersi come riferimento ad una pratica “mistica” che com-prenda «l’impossibilità di descrizione e tuttavia la fiducia che il reale e l’essere esistano, [che indichi una] mancanza di “significazione”, [una] sovrabbondanza inesauribile, [un’]impressione di eternità o, almeno di assenza di tempo» (W. INCE, Etre, connaître et mysticisme du Réel selon Valéry, in AA.VV., Entretiens sur Paul Valéry, Décades de Cérisy-la-Salle, Mouton, Paris 1986, p. 215). Per un approfondimento sulle questioni legate alla riflessione sulle choses divines in P. Valéry, cf. il nostro B. SCAPOLO, Comprendere il limite. L’indagine delle choses divines in P. Valéry, cit.

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tesa all’assegnazione di uno statuto fenomenico ai «sentimenti di potenza e di presenza» (non immediatamente e logicamente percepibili come fenomeni e pertanto estranei alle proprie strutture logico-conoscitive): tale azione passa interamente attraverso una sorta di «costruzione» della fenomenicità delle choses absentes, volta alla loro razionale «giustificazione» e legittimazione (Œ, I, 873). «Haec vera sunt quia signa habeo» (Œ, I, 879): il mistico è colui che «[vede] attraverso un riferimento a un’intuizione segreta – come segni – che devono essere decifrati particolarmente e non classificati [...]» (Ch, VII, 372). Allo scopo di voler conferire «potenza di avvenimento», «potenza di realtà» («actio praesentiae») alle «immagini», alle «emozioni», alle «parole», agli «impulsi» che «gli giungono per via interiore», il mistico si trova a dover costruire (dare forma) ad una sorta di «“realtà” seconda o di secondo ordine», la quale, inserita nell’ordine di ciò che è intérieur, indica il vero senso delle cose sensibili (immediatamente esperibili), così come dà ragione «della natura simbolica del nostro stesso pensiero». Come ha acutamente osservato Gasparini, «se i fatti – e le conoscenze – sono di competenza delle scienze, alla filosofia non resta che la forma, ovvero la “ricerca della 'poesia' nella produzione e organizzazione intrinseca delle idee”»52. Il problema del rapporto tra linguaggio ed emozioni, che arriva a (con)fondersi con quello relativo all’indagine delle choses divines, per Valéry evidenzia il fatto che è necessario arrivare a «fare il vero più che a trovarlo» (cf. C, II, 585; Q, V, 272-273; cf. Ch, VII, 407) mediante la forma. la Filosofia è una questione di forma: essa è la ricerca d’una forma capace di tutti i punti di vista di cui può disporre un individuo53 (cf. Ch, VII, 103; Ch, X, 20).

L’indagine delle proprietà e della funzione del linguaggio sfocia quindi nelle questioni relative al dominio dell’estetica e dell’esperienza spirituale; la parola, mediante il suo potere simbolico e guidata dalla self-consciousness, potrà quindi esprimere «tutto quel che ingombra la vista, l’udito e l’odorato, tutto quel che eccita la mente e diverte l’essere» (Œ, II, 860). Sono la mia sensazione, il mio pensiero, il mio impulso e non posso non considerarli come dei “fatti”. Non sono libero di provarli e di produrli. Sono quel che sono e in conclusione io sono quel che essi sono (C, 27, 491). Cf. L. GASPARINI, Azione e comprensione nei “Cahiers” di P. Valéry, cit., p. 177. P. VALÉRY, Nota, in Eupalino o dell’architettura, trad. it. di R. Contu, commento di G. Ungaretti, Biblioteca dell’immagine, Pordenone 1986, pp. 9-11; p. 10; cf. Œ, I, 1238 (note a margine), trad. it. Leonardo e i filosofi, cit., pp. 79-80. 52 53

EMILIO SERGIO Sématha, pathémata, lógos: Vico e la scienza nuova dei segni antichi* Nelle Vici Vindiciae (1729), Vico ricorda come abbia cominciato, diversi anni prima, ad occuparsi del problema della natura umana, della nascita del linguaggio e delle prime istituzioni umane. Ad un certo punto, egli racconta di aver avvertito la necessità di «non leggere più libri», e di immergersi «in quella grande biblioteca del senso umano», per meditare «sugli antichissimi fondatori delle genti». Si tratta di un passo dolente, difficile (Vico scrive le Vici Vindiciae per difendersi dalla recensione della prima edizione della Scienza nuova, 1725, apparsa nel volume del 1727 degli Acta Eruditorum), nel quale tuttavia Vico restituisce il sentimento esatto dello stato della sua ricerca filosofica: Tu, poi, o equanime lettore, sappi che io ho composto questo opuscolo mentre ero ammalato di un’ulcera cancrenosa alla gola, un morbo non solo mortale e a rapido decorso, ma anche di una terapia pericolosa e che può causare ai vecchi l’apoplessia. Sappi poi che da quasi vent’anni ho dato addio a tutti gli altri libri per offrire, pur col mio debole ingegno, un contributo alla dottrina del diritto naturale delle genti, e per questa dottrina mi sono affaticato molto, poiché mi seppellivo tutto in una biblioteca appartata e silenziosa e ricchissima di tutte le varie opere del pensiero umano, dove io meditavo sugli antichissimi fondatori delle genti, dai quali, dopo più di mille anni, sono scaturiti gli scrittori; e questa medesima cosa ha ritenuto di dover fare Thomas Hobbes, che tra i suoi amici letterati e tra i suoi contemporanei si gloriava di essere stato, in questo modo e non in un altro, l’iniziatore di quella dottrina e di aver arricchito la filosofia di questa aggiunta importante; ma egli tuttavia si gloriava a torto, perché non ha tenuto in alcun conto la Divina Provvidenza, che avrebbe potuto, essa sola, illuminare la strada a lui che cercava di conoscere le oscure origini della storia umana; e così, nell’oscurissima notte dell’antichità perduta nel tempo, egli vaga smarrito seguendo il caso di Epicuro, contro le cui dottrine e princìpi soprattutto polemizzo...1 L’idea originaria della presente relazione è nata sulla scorta delle numerose suggestioni e linee di ricerca illustrate negli Atti del Convegno Il corpo e le sue facoltà. G.B. Vico, Napoli, 3-6 novembre 2004, a cura di G. CACCIATORE, V. GESSA KUROTSCHKA, E. NUZZO, M. SANNA e A. SCOGNAMIGLIO, in “Laboratorio dell’IPSF”, II (2005) 1. Alcuni percorsi interpretativi del pensiero vichiano che qui ho tentato di sviluppare prendono le mosse da contributi specifici del convegno, che citerò di seguito. 1 G. VICO, “Petitio Ab Aequanime Lectore”, in Vici Vindiciae [1729]; trad. it. in Varia, a cura di G.G. Visconti, Napoli, 1996, p. 106, corsivi miei. *

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Su questo passo si sono misurati diversi interpreti e traduttori, a volte in conflitto tra di loro2; ma non c’è dubbio che dietro l’affermazione di non voler leggere più libri, Vico volesse comunicare che l’ordine di problemi inaugurato con la prospettiva storico–antropologica della Scienza Nuova non avrebbe potuto trovare una compiuta risposta nei libri degli antichi, né in quelli dei moderni suoi contemporanei, poiché le risposte cercate attenevano ad un ordine di discorso di cui lo stesso Vico si sentiva in qualche modo l’iniziatore. Così come Hobbes, molti anni prima, aveva definito il suo De Cive (1642) la prima opera di “filosofia civile” che meritasse l’appellativo di “scienza”, allo stesso modo Vico definiva la propria opera come una “scienza”, una scienza nuova dei segni antichi, avente come oggetto d’indagine la storia dell’umanità3. Non si può scommettere che l’affermazione vichiana di non leggere più libri fosse effettivamente sincera; ma è plausibile pensare che, all’acme della sua formazione filosofica, coincidente grosso modo con la pubblicazione del De antiquissima Italorum sapientia (1710), Vico cominciasse a diventare più selettivo che in passato nella scelta delle letture che passavano dal suo scrittoio4. Quel che più importa, del resto, è la ragione profonda che stava dietro la sua tesi. Come nel caso di Hobbes5, essa aveva una sola spiegazione: l’aver creato una nuova scienza. La produzione di un nuovo universo di discorso aveva inevitabilmente portato il suo autore ad operare una riduzione delle fonti apprezzabili. Vico aveva raggiunto la consapevolezza che le risposte più urgenti alle proprie domande le avrebbe ricavate unicamente da se stesso, dopo lunga e profonda meditazione, immergendosi, per l’appunto, in quella silenziosa e vastissima “biblioteca”, ricchissima di tutte le varie opere del pensiero umano: la storia dell’umanità, dei suoi miti, dei suoi primi costumi e delle sue istituzioni religiose e civili. Su tale questione, mi permetto di rinviare al mio “Hobbes a Napoli (1661-1744): note sulla ricezione della vita e dell’opera di Hobbes nel previchismo napoletano e nell’opera di Vico”, Bollettino del Centro di Studi Vichiani (d’ora in poi “BCSV”) 37 (2007), pp. 113-141. 3 Cf. JÜRGEN TRABANT, La scienza nuova dei segni antichi. La sematologia di Vico, a cura di T. De Mauro, Bari, Laterza, 1996. 4 Al riguardo cf. gli interventi di F. TESSITORE, G. CACCIATORE e P. ROSSI in “Seminario di presentazione dell’edizione critica di Giambattista Vico”, BCSV 28-29 (1998-1999), pp. 253-274. 5 Cf. T. HOBBES, De Cive [1642], The Latin Edition, by H. Warrender, Oxford, at the Clarendon Press, “Epistola ad Lectorem”; ID., Thomae Hobbes Angli Malmesburiensis Philosophi Vita, Carolopoli, Apud Eleutherium Anglicum, 1682, p. 42. 2

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Uno dei problemi chiave della Scienza Nuova riguardava l’analisi della natura umana. Vico non esitava a manifestare diffidenza verso i tentativi, intrapresi da parte dei filosofi antichi e moderni, di venire a capo di questa grande questione. Un aspetto che egli lascia emergere già nelle famose Orazioni inaugurali (1699–1709), e poi nel Liber Metaphysicus (De antiquissima, 1710), riguarda la sfiducia nutrita nei confronti di quei moderni approcci al problema antropologico che avevano ridotto l’essenza della natura umana ad una intuizione intellettuale di tipo aprioristico (come nel caso di Descartes), o ad una definizione astratta, atemporale, incapace di tenere conto della storicità dell’essere umano, della complessità del suo essere concreto, del suo essere «corporeità fisica di linguaggi e passioni, di miti originari e istinti primordiali»6. Le critiche alla dottrina cartesiana del cogito, il rifiuto della fisica galileiana, il diniego della moderna “filosofia degli atomi”, le perplessità verso la riduzione della natura umana alla pura “invenzione matematica” sono tutti indizi inequivocabili della diffidenza di Vico verso un approccio astratto al problema antropologico. Secondo Vico, la conquista moderna di un nuovo metodo scientifico, fondato sul mos geometricus, ha permesso di conseguire risultati eccellenti in campo matematico, a partire dalla fisica di Galileo; ma non ha favorito alcun progresso conoscitivo nell’indagine dell’essere delle cose, dei nessi concreti che stanno dietro la manifestazione di fenomeni particolari, dei fenomeni determinati della storia naturale e umana. D’altronde, l’indagine della natura umana, a differenza della semplice investigazione dei fenomeni naturali, conserva una sua specificità, una peculiarità che fa di essa una disciplina irriducibile agli schemi metodologici della nuova filosofia atomistica o della nuova fisica matematica. Essa riguarda innanzitutto un universo di fenomeni in cui l’oggetto del conoscere è allo stesso tempo il soggetto di quel conoscere. Secondo Vico, questa coincidenza del soggetto con l’oggetto consente in una certa misura di analizzare la natura umana non solo attraverso le modificazioni della propria mente, ma anche attraverso le modificazioni della mente dei propri simili7. La sostanziale somiglianza degli individui della specie umana permette a cia6 G. CACCIATORE, “La facoltà della mente ‘rintuzzata dentro il corpo’”, in Il corpo e le sue facoltà, cit., p. 93. 7 Nelle famose “Aggiunte” alla Scienza Nuova Seconda (1730), Vico suffragherà questa tesi attraverso l’affermazione dell’universalità della mens. Cf. PAOLO CRISTOFOLINI, La Scienza nuova di Vico. Introduzione alla lettura, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1995, pp. 31-32 e sgg.

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scun uomo di essere in grado di interpretare i segni, i pensieri prodotti dagli altri uomini. L’appartenenza ad una stessa specie abilita entro certi limiti a conoscere se stessi attraverso la conoscenza degli altri, e a conoscere gli altri attraverso la conoscenza di se stessi. Questo processo cognitivo non si limita alla comprensione della propria esperienza personale, della propria vicissitudine, ma può e deve estendersi alla comprensione della propria storia, la storia della propria specie, della comparsa dei primi segni della civiltà umana nel mondo. In tale impresa conoscitiva, in cui entrano in gioco una pluralità indefinita di fenomeni particolari e di fatti storici, la conoscenza della natura umana non può ridursi ad una conoscenza astratta, formale, all’intuizione dell’essere del proprio pensiero (come nell’ego cogito di Descartes), e neanche risolversi in un semplice elenco delle passioni o delle virtù (come nella migliore tradizione della filosofia aristotelica, dell’etica stoica o della psicologia platonica). Nella Scienza nuova Vico chiede qualcosa di più: una piena conoscenza di sé, della natura umana, della natura della propria specie deve essere raggiunta attraverso una profonda meditazione della storia degli uomini, a partire dalle sue origini più remote. Dalla conoscenza delle proprie origini, gli uomini potranno trovare risposta a molte delle questioni poste dalla scienza moderna e dalla tradizione filosofica, sulla natura della mente, sull’essenza del linguaggio, sull’origine delle lingue, sui fondamenti del diritto. La “scienza nuova” di cui parla Vico riguarda dunque la conoscenza della storia umana per mezzo dei suoi artefatti (linguistici, religiosi, etici, giuridici). In questo senso essa realizza la perfetta unione di filosofia e di filologia, della conoscenza speculativa e della concreta effettività storica. La storia umana diventa il luogo in cui le ragioni della filosofia si incontrano con le certezze della filologia, il verum dell’elaborazione filosofica si incontra con il certum, il dato della ricostruzione storica. E nella metafisica della mens si riuniscono i molteplici dati, le modificazioni, le forme di vita, i “segni” disseminati nel corso della storia umana. Nell’affrontare la questione antropologica a partire dalla sua storia, Vico intende fare i conti con la tradizione filosofica. C’è un autore dell’antichità col quale egli apre un dialogo critico: questo autore è Aristotele. Beninteso, Aristotele non è l’unico autore della classicità con cui Vico intende misurarsi. Lo Stagirita diventa tuttavia di importanza capitale in relazione al disegno antropologico della Scienza nuova, a partire dalla concezione della natura del linguaggio, e nello studio dei primi segni della civiltà umana.

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La rilevanza di Aristotele per il tipo di problematiche presenti nella Scienza nuova si misura facilmente prendendo in esame una delle pagine più celebri dell’opus aristotelico: l’incipit del De interpretatione. Qui troviamo riuniti gli elementi fondamentali della terminologia filosofica e linguistica (sématha, semeion, pathémata, lógos, grámmata, psyche ecc.) del pensiero antico: Anzitutto bisogna stabilire che cos’è il nome (ónoma) e che cosa il verbo (rèma); indi che cos’è la negazione, l’affermazione, l’enunciazione e il discorso (lógos). Ora, i suoni che sono nella voce sono simboli delle affezioni che sono nell’anima (psyche pathemáton symbola), e i segni scritti (grámmata) lo sono dei suoni che sono nella voce. E come neppure le lettere dell’alfabeto sono identiche per tutti, neppure le voci sono identiche. Tuttavia ciò di cui queste cose sono segni (semeìa próton), come di termini primi, sono affezioni dell’anima identiche per tutti (pathémata tès psychès), e ciò di cui queste sono immagini sono le cose (prágmata), già identiche (omoiómata)8.

Gli studiosi di Aristotele e dell’aristotelismo sanno bene che l’Aristotele conosciuto, interpretato e commentato in età moderna non si distingue nettamente da quello della tradizione aristotelica – della prima e seconda scolastica, e della scolastica dell’età barocca –, anzi spesso i piani dell’uno e dell’altro si confondono e si sovrappongono9. Sicché, è solo per una convenzione circostanziata dagli intenti del presente contributo che accettiamo che Vico scelga Aristotele come interlocutore privilegiato. Com’è noto, Vico aveva ricevuto una formazione rigorosamente improntata sulle opere della tradizione aristotelica, avendo studiato presso l’ordine dei Gesuiti, avendo avuto tra i suoi maestri dei cultori dell’aristotelismo medievale, ed avendo egli stesso trascorso molti mesi nello studio dell’opera di Suarez, le Disputationes metaphysicae, nonché delle opere di Lorenzo Valla, e di diversi commentari sulla poetica e sulla retorica aristoteliche10. Sulla scorta dell’intuizione fondamentale della Scienza nuova – che l’essenza della natura umana vada cercata nella sua storia, nella storia delle pratiche religiose e civili –, Vico ha un senso di disappunto verso la tradizione filosofica, che sembra essere stata, per oltre venti secoli, vittima di un paradosso. I filosofi si sono concentrati quasi esclusivamente sulla scienza del mondo naturale; un mondo che, afferma Vico, ARISTOTELE, Dell’interpretazione, 16a 1-8, a cura di M. Zanatta, Milano, BUR, p. 79. Cf. A. LO PIPARO, Aristotele e il linguaggio. Cosa fa di una lingua una lingua, Roma-Bari, Laterza, 2003. 10 G. VICO, Vita scritta da se medesimo (1725-1728), in Opere di G. Vico, a cura di A. Battistini, Milano, Mondadori, 1990, vol. I, p. 7. 8 9

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perché Iddio egli il fece, esso solo ne ha scienza; e trascurarono di meditare su questo mondo delle nazioni (SN44, sez. III, p. 542, § 331).

I capisaldi della Scienza nuova maturano nella mente di Vico ex negativo; prendendo cioè le distanze da autori come Aristotele, e, tra i moderni, Galileo, Descartes, Hobbes, Locke. Sotto il profilo dell’intuizione di una prospettiva storico–antropologica che la tradizione filosofica non avrebbe adottato come punto di vista programmatico per affrontare il problema della natura umana, la tesi di Vico si svolge secondo un registro argomentativo che tende a raggruppare sotto la medesima denuncia o critica più di una tradizione di pensiero, più di una corrente filosofica. Circa il secolare fraintendimento del principale oggetto della filosofia (il mondo delle nazioni, la natura umana prima che il mondo naturale), secondo Vico non passano sostanziali differenze tra un Aristotele e un Galileo, tra un Descartes e un Locke. Ad accomunarli v’è la responsabilità di aver anteposto la prospettiva astratto–speculativa su quella storica, schiacciando il diacronico sul sincronico, il dato antropologico su quello metafisico, privilegiando il ragionamento apodittico, trascurando l’unione del verum col certum, la presenza del vero nelle vicende della storia umana. Antichi e moderni hanno creduto di poter legittimamente considerare gli oggetti d’indagine della scienza dell’uomo come oggetti delle scienze naturali, alla stregua cioè di oggetti definibili secondo il metodo della fisica galileiana o della geometria euclidea. Con il senso di una fallacia originaria inscritta nella tradizione filosofica Vico citava, nelle pagine introduttive della prima edizione della Scienza nuova (1725), l’adagio virgiliano Ignari hominumque locorumque erramus, «vaghiamo ignari degli uomini e dei luoghi»11. Un concetto analogo aveva espresso nel De ratione (1706), nella forma di un monito, esortando i filosofi che «stiano attenti a non trattare con sicurezza la natura, sicché, mentre attendono a curare i tetti, trascurino con pericolo le fondamenta di quelle case»12. Cruciale diventa perciò la ricostruzione dell’origine delle lingue, la descrizione del processo storico che ha condotto l’umanità alle prime forme di comunicazione non verbale, allo sviluppo delle facoltà cognitive superiori e alla genesi del linguaggio verbale. La descrizione di tale processo è essenziale non solo perché la storia naturale della capacità umana di comunicare con i propri simili coincide con la storia della natura umana, ma an11 12

G. VICO, SN1, p. 979, § 3. Cf. VIRGILIO, Aen. I, 323. G. VICO, De ratione, in Opere, cit., IV, p. 115.

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che perché lungo il corso di questa storia Vico ha modo di chiarire il tipo di rapporto esistente tra linguaggio e sensibilità, ragione e passione, intelletto ed emozioni, e di fornire spunti importanti circa il modello epistemologico adottato nella sua indagine storico–antropologica. Si può dire che l’approccio vichiano al problema della natura umana conferisca ab initio un’attenzione non secondaria alla sfera delle emozioni, dei sentimenti e degli istinti rispetto a quella delle ragioni. Si tratta di un’attenzione suffragata dalla stessa prospettiva storica nella quale Vico situa il problema della natura umana e dell’origine del linguaggio. Dal punto di vista storico, secondo Vico, è legittimo supporre che la comparsa delle prime forme di pensiero linguistico sia stata preceduta dall’esistenza di forme di vita sociale di tipo pre–razionale e pre–linguistico, e dunque da proprietà cognitive, affettive e sensibili non solo “co–specifiche”, condivise con altre specie del mondo animale, ma anche più tipiche della stessa razionalità13. Due ordini di problemi Prima di entrare in medias res, due fondamentali rilievi. Che possono essere considerati come le premesse della nostra ricerca. 1) Conferendo un’importanza non secondaria alla sfera emotivo–sensibile su quella razionale, Vico deve essersi posto, in qualche modo, il problema del rapporto tra la sfera razionale e quella pre–razionale, fra la dimensione linguistica e quella pre–linguistica nella ricostruzione storica delle prime trac13 Questa precisazione non ripete la distinzione tradizionale, di matrice agostiniana, di pensiero e linguaggio, perché Vico non è disposto ad ammettere l’esistenza di una supposta purezza del pensiero pre-verbale, di un pensiero privato sine verbis, che preceda quello pubblico, fatto di segni. Nella prospettiva vichiana, supporre che il linguaggio derivi storicamente da condizioni di natura pre-verbale, sociale e/o emotiva che chiamiamo “extralinguistiche” o “pre-linguistiche”, serviva innanzitutto a prendere le distanze da prospettive razionalistiche che egli riteneva unilaterali. Qualche anno fa D. GAMBARARA scriveva: «Le passioni umane sono norme dialogiche. Dialogicità, in questo caso, non comporta necessariamente linguisticità, o quanto meno, non comporta riduzione delle passioni al linguaggio verbale. […] Si potrebbe anzi pensare che […] lo stabilirsi di questo dialogo dei sentimenti, sia una precondizione da cui può successivamente emergere, mimandone lo schema, anche la dialogicità linguistica. […] Mentre possiamo almeno intravedere come dal dialogo delle passioni emerga il dialogo delle parole, non c’è alcun modo per dedurre quel primo da questo secondo, ma soprattutto chi non colloca il rapporto con gli altri all’inizio della sua strada, non lo incontrerà più, né per la via rappresentazionale causale, né per quella computazionale» (“Quando nel linguaggio si spengono le passioni”, in Passioni e linguaggio nel XVII secolo, ed. F. Bonicalzi e Claudia Stancati, Lecce, Milella, 1999, p. 179).

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ce cognitive della civiltà umana. Un essere vivente che è un coacervo di istinti, sensazioni e passioni senza ragione può creare qualche difficoltà nel reperire in tale coacervo qualcosa che sia predicabile dell’umano in modo specifico, sì da essere incluso nel corso di una storia che giunge ad un certo punto alla genesi delle facoltà linguistiche o verbali. Detto in altri termini, Vico deve essersi posto il problema della natura specifica di un essere “pre–umano”, ancora privo delle caratteristiche più evolute dell’animale umano (la razionalità e la dialogicità verbale), e tuttavia considerabile nella prospettiva storica come anteriore alla comparsa di quelle caratteristiche o qualità. Si tratta di immaginare «lo scenario evolutivo che rende umano un essere pre–umano»14, un tema che è diventato celebre presso gli studiosi come il tema dei “bestioni di Vico”15. 2) Il rapporto sincronia–diacronia, metafisica–antropologia è stato e continua ad essere uno dei problemi più controversi della prospettiva storico–linguistica della Scienza nuova. Circa questo punto, possiamo affermare che Vico sia riuscito, dal 1720 in poi, ad occuparsi più liberamente della filogenesi della capacità umana di comunicare attraverso diverse “specie” di segni, anche perché, al momento della stesura della prima edizione della Scienza nuova (1725), egli riteneva di essere riuscito a risolvere in qualche modo, in via preliminare, l’aspetto metafisico16. Com’è noto, la soluzione offerta da Vico attinge dal patrimonio della tradizione platonica17. L’uomo è stato fatto da Dio, all’inizio della Creazione, come un essere umano compiuto (come Vico afferma nella Sinopsi del De universi iuris, l’uomo è «nosse, velle, posse, quod tendat ad infinitum»18); e tuttavia, la sua stessa natura di J. TRABANT, “Grido, canto, voci”, in Il corpo e le sue facoltà, cit., p. 26. Cf. R. MAZZOLA, “I ‘giganti’ in Vico”, BCSV 24-25 (1994-1995), pp. 49-76. 16 Vico comincia a fornire i primi elementi della sua metafisica già nel De ratione (1706) e nel De antiquissima (1710), e poi nel De universi iuris uno principio et fine uno (1720). 17 Circa quest’ultimo punto, gli studiosi sono d’accordo nel ritenere che anche la «matura visione vichiana» della metafisica della mente e del rapporto mente-corpo «non riesce a cancellare del tutto l’eredità del platonismo» (G. CACCIATORE, “La facoltà della mente ‘rintuzzata dentro il corpo’”, cit., p. 95). 18 «Ma l’uomo, di animo e di corpo è composto, ed è cognizione (nosse), volontà (velle) e possanza (posse); essendo egli composto di animo e di corpo, dall’animo e dal corpo gli deriva la sua possanza; l’animo per essere spirituale, non è da luogo alcuno circoscritto, mentre il corpo, per le corporali sue condizioni, trovasi posto fra limiti terminati; dunque, egli è una Cognizione, una Volontà, una Possanza finita che tende verso l’Infinito» (G. VICO, Sinopsi al Diritto Universale, in Opere giuridiche, a cura di P. Cristofolini, Firenze, Sansoni, 1974, p. 36). Sono indispensabili, al riguardo, le considerazioni di G. CACCIATORE, “La facoltà della mente ‘rintuzzata dentro il corpo’”, cit., pp. 91-105. 14 15

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essere finito fa sì che egli si esponga all’indeterminatezza e alla possibilità19. In questo senso, una volta messo sul cammino della storia, questo uomo archetipico può regredire, fino a toccare la pura animalità, la quasi– bestialità. Può, perché il ‘dono’ della ragione, del linguaggio e di molte altre qualità umane (che l’uomo conquista nel corso della sua storia naturale) è qualcosa che si trasmette alla propria discendenza come un’ars, come un sapere, e non solo come un corredo innato. Il bene supremo della ragione (di quella ragione archetipica, di quella ragione possibile, cui all’umano è dato accedere) va conquistato attraverso un continuo “rintuzzarsi” (per riprendere la parafrasi di Cacciatore) della “mente” dentro il “corpo”; un “rintuzzarsi” che non avviene in uno spazio senza tempo, ma si svolge, al contrario, fra individui, nell’agone della storia umana20. In questa possibilità sempre aperta della regressione e dell’oblio, che Vico definisce con l’efficace espressione di «erramento (o divagamento) ferino», l’uomo storico è, segnatamente agli albori del suo cammino, solo in potenza un soggetto conoscente razionale con tutte le qualità di un animale linguistico. Questo è quanto sarebbe accaduto all’umanità dopo il Diluvio Universale. Nella Scienza nuova prima (1725) si afferma, sia pure come caso limite, la possibilità sempre aperta di un regresso umano fino alla condizione di quasi bestialità, anteriore al linguistico: Lo stato nel quale pone Grozio l’uomo nella solitudine e, perché solo, quindi anche debole e bisognoso di tutto, nel quale stato le razze ... dopo il Diluvio, dovettero cadere, dappoi che, per liberarsi unicamente dal servaggio della religione, quando da altro freno non erano trattenute, voltarono le spalle al vero Dio de’ loro padri Adamo e Noé, ... ed andarono nella libertà bestiale a perder lingua e a stupidire ogni socievole costume, per questa gran selva della terra dispersi. ... E si va meditando da quali prime necessità o utilità comuni a sì

«La mente umana, sostiene Vico, è stata creata da Dio, ma essa non ha carattere di completezza e definitività. Essa, piuttosto, rappresenta il mondo della indeterminatezza e della possibilità» (G. CACCIATORE, “La facoltà della mente ‘rintuzzata dentro il corpo’”, cit., p. 97). 20 «L’intelligente escogitazione di una mente che […] è costretta a rintuzzarsi nel corpo, quasi a restare silente nelle manifestazioni, tutte ispirate alla robusta fantasia e naturalità, dei primi uomini, consente a Vico di mettere, per così dire tra parentesi, la preoccupazione metafisica, per dare senso e funzione a ciò che la mitologia, la storia e la filologia ci dicono essere all’inizio e senza il quale il mondo umano non solo non avrebbe avviato il suo processo di incivilimento, ma non avrebbe rappresentato la realizzazione dello stesso disegno provvidenzialistico, cioè le peculiari forme di esperienza e conoscenza che la mente ha lasciato, per il momento, alla potenza fantastica della sensibilità corporea» (ivi, p. 99). 19

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fatta natura d’uomini selvaggi e bestioni si dovessero risentire per riceversi alla umana società21.

Vico sembra perseguire fino in fondo la coerenza di questa tesi, riconoscendo ad esempio la quasi impossibilità di comprendere, a partire dalla sua attualità di essere linguistico, uno stadio pre–linguistico originario: Onde intendere appena si può, affatto immaginar non si può, come dovessero pensare i primi uomini delle razze empie in tale stato, che non avevano già innanzi udita mai voce umana, e quanto grossolanamente gli formassero e con quanta sconcezza unissero i loro pensieri. De’ quali non si può fare niuna comparazione, nonché coi nostri idioti e villani che non san di lettere, ma co’ più barbari abitatori delle terre vicine a’ poli e ne’ diserti dell’Affrica e dell’America (de’ quali i viaggiatori pur ci narran costumi tanto esorbitanti dalle nostre ingentilite nature che fanci orrore), perché costoro pur nascono in mezzo a lingue, quantunque barbare, e sapran qualche cosa di conti e di ragione22.

Giungiamo così al problema sollevato dalla nostra prima premessa. Infatti, secondo Vico, nell’umano giunto, ad un certo punto della sua storia, alla condizione pre–razionale di un “bestione”, deve poter riconoscersi qualcosa che possa permettere di affermare che quel “bestione”, quella “quasi–mente” non sia del tutto indistinguibile dal resto degli animali non umani. Questo qualcosa non sono propriamente i sensi, che il “bestione” ha in comune con il resto degli animali, e non sono neanche, nel loro insieme, le passioni o i sentimenti tout court, poiché nella regressione ferina essi possono disarticolarsi, fino a perdere la complessità tipica degli esseri umani razionali; né lo sono gli istinti primari, presi nella loro generalità. Si tratta piuttosto di una sorta di ‘scintilla’, di traccia ‘seminale’ del soggetto razionale, che Vico chiama «sensus communis». Sensus communis è come il ‘marchio di fabbrica’ della divinità, il segno più evidente che Dio abbia creato l’uomo a sua immagine, ed è ciò che permette (dono della provvidenza, del principio d’ordine della «divina architetta») che il bestione, la “quasi mente” dello stato ferino possa risalire verso piani cognitivi superiori, e riconquistare gradi successivi di umanità, le forme di vita dell’umanità “integra”. Il sensus communis, scintilla del soggetto razionale, è un «giudizio senza alcuna riflessione», «comunemente sentito da tutto un ordine, tutto un popolo o nazione, o da tutto il gener’umano»23, che permette di riG. VICO, SN1, lib. II, cap. III, pp. 1009-1010, § 47. G. VICO, SN1, lib. I, cap. XIII, p. 1003, § 42. 23 G. VICO, SN2, Degnità XI, p. 138. Cf. SN44, Degnità XII, pp. 498-499, § 142. 21 22

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conoscersi come i membri di una stessa specie, i simili di uno stesso genere. Coscienza di genere, istinto sociale primordiale, esso permette il formarsi storico di qualità o di predisposizioni cognitive e comportamentali che potranno essere trasmesse alle generazioni seguenti, per via culturale. Nell’edizione finale della Scienza nuova (1744), Vico racconta: Quando … gli uomini per lunga età non poteron esser capaci del vero e della ragione … [occorse che] frattanto si governassero col certo dell’autorità … il qual (criterio) è il senso comune d’esso genere umano, sopra il quale riposano le coscienze di tutte le nazioni24.

Il sensus communis di cui parla Vico non è uno strumento cognitivo o una proprietà logico–razionale che consenta direttamente l’invenzione, la costruzione, la genesi di funzioni della facoltà linguistica. Il sensus communis è piuttosto il mezzo con cui, nella temporalità storica, e con il supporto delle facoltà sensibili della memoria, della fantasia e dell’ingegno, il vivente è messo nelle condizioni di apprendere comportamenti collettivi, di darsi istintivamente delle regole comuni, di adeguarsi a regole non scritte o ad abitudini di socialità comune, e dunque di costruire, insieme ad altri uomini, quegli strumenti, quegli artefatti cognitivi che si riveleranno utili per la genesi del linguaggio verbale, per la successiva produzione di funzioni o di facoltà logico–linguistiche. Sensus communis è in qualche modo imparentato con il “co–sentire” di Aristotele (synaisthanesthai), il fondamento biologico delle società animali, pur contenendo qualcosa di più del synaisthainesthai. Il sensus communis può essere concepito in senso generale come synaisthainesthai, ma va determinandosi nella storia umana come una koinè aísthesis, come una prima forma rudimentale di coscienza di sé attraverso il sentirsi parte di un gruppo, cioè, simile alle parti di un gruppo. Nel cammino della storia umana, il sensus communis, il “giudizio senza riflessione” del “sentire–insieme” va specializzandosi come la specificità dei sensi comuni di una specie, di una nazione o di un popolo, diventando così, come lo stesso Vico afferma, sinonimo di “costume”25. Che cosa afferma Vico intorno ai ‘sensi’ del sensus communis? Nei passaggi iniziali della Scienza nuova (1725) troviamo una sorta di ‘gerarchia’ dei sensi comuni, tra cui riconosciamo le precondizioni, i fattori extra–linguistici, e poi anche linguistici, dello sviluppo dell’umanità: G. VICO, SN44, lib. I, sez. IV, pp. 552-553, § 350. La parola “costume” viene usata in SN1, lib. II, cap. VII, p. 1022, § 75, a proposito dell’“importante costume di seppellire i morti, che dà latini si dice ‘humare’”. 24 25

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Sì fatta vana scienza, dalla quale dovette incominciare la sapienza volgare di tutte le nazioni gentili, nasconde però due gran princìpi di vero: uno, che vi sia provvedenza divina che governi tutte le cose umane; l’altro, che negli uomini vi sia libertà d’arbitrio, per lo quale, se vogliono e vi si adoperano, possono schivare ciò che, senza provvederlo, altramenti loro apparterrebbe. Dalla qual seconda verità viene di séguito che gli uomini abbiano elezione di vivere con giustizia; il quale comun senso è comprovato da questo comun desiderio che naturalmente hanno gli uomini delle leggi, ove essi non sien tòcchi da passione di alcun propio interesse di non volerle. Questa, e non altra, certamente è l’umanità, la quale sempre e dappertutto resse le sue pratiche sopra questi tre sensi comuni del genere umano: primo, che vi sia provvedenza; secondo, che si facciano certi figliuoli con certe donne, con le quali siano almeno i princìpi d’una religion civile comuni [...]; terzo, che si seppelliscano i morti26.

Quel «comun desiderio che naturalmente hanno gli uomini delle leggi», è allora una sorta di habitus che presume necessariamente un istinto sociale originario, una naturale “empatia” verso i membri della propria specie. Non si potrebbe avere desiderio di legge (che è desiderio di sottomettersi ad una comune autorità, ad un’autorità che ci conferma nella similitudine), se non si godesse di una speciale sintonia verso i simili della propria specie, se quel generale “sentire insieme” delle specie animali non si specializzasse, lungo la linea filogenetica dell’uomo, come un “sentire di specie”, o una “coscienza di genere”. In questa prospettiva, è come se la specie umana avesse, oltre ad una generale “bio–empatia” (il synaisthainesthai di Aristotele), anche una speciale ‘empatia’ di genere, che è l’empatia della propria specie. Dati questi presupposti (che Vico sviluppa, beninteso, fino ad un certo punto27), il sensus communis può essere inteso come una proprietà G. VICO, SN1, lib. I, pp. 983-984, §§ 9-10. In questo passo Vico non stabilisce già un vero cominciamento, ma piuttosto una prima specializzazione umana di sensi comuni. 27 Come è stato detto da diversi studiosi, onde evitare il facile anacronismo e le fuorvianti categorie del “precorrimento”, i riferimenti storico-testuali di Vico circa la nozione di sensus communis restano sempre, oltre ad Aristotele, quelli appresi nel corso della sua professione di professore di retorica (lo stoicismo antico, i poeti e i retori latini, fino agli umanisti del Quattrocento, come Lorenzo Valla, e agli esponenti della seconda scolastica, come F. Suarez); a cui si aggiungono, ovviamente, i riferimenti tipici della psicologia dei “moderni”, da Descartes a Bayle. Cf. E. GRASSI, “La priorità del senso comune e della fantasia in Vico”, in Leggere Vico, ed. G. Tagliacozzo, Milano, Spirali, 1982, pp. 128-143; poi ID., La priorità del senso comune e della fantasia: l’importanza della filosofia di Vico oggi, in Vico e l’umanesimo, Milano, Guerini e Associati, 1990, pp. 41-67; G. MODICA, La filosofia del “senso comune” in Giambattista Vico, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1983. Sempre utile, al riguardo, il saggio di ADA LAMACCHIA, Senso comune e socialità in Giambattista Vico, Bari, Levante, 2001. 26

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naturale dell’animale umano che potrà essere appresa, nelle sue funzioni specifiche, attraverso le forme (culturali o storico–naturali) della condivisione sociale, ovvero attraverso le occasioni storiche del suo manifestarsi. Di esso si può forse dire che non è infallibile (non lo è perché va appreso; è una identità sensibile di cui si diventa gradualmente coscienti); è un istinto che si impara. Il bimbo allevato dall’orsa può anche identificarsi con la specie dell’orsa, ma solo perché ha appreso (in quella socialità embrionale che si realizza nel rapporto madre–figlio) l’“empatia” specifica degli orsi28. Il sensus communis non è neanche un pensiero puro senza linguaggio. Potremmo definirlo una sintonia dialogica con cui un individuo, sia pure nell’anomia della sua proto–soggettività, si riconosce come membro di una specie o di un gruppo perché ha una sintonia istintiva con quelli che sente e imparerà a sentire essere i suoi simili. È un istinto sociale che il “bestione” impara gradualmente a sentire, stando insieme ai propri simili29. Abbiamo finora individuato nel sensus communis un “giudizio senza riflessione”, una qualità appartenente alla dimensione del corpo più che a quella della mente, una qualità pre–linguistica che tuttavia consentirebbe al genere umano di percorrere la strada di un incivilimento possibile, e dunque la conquista di gradi superiori di razionalità, fino alla linguisticità verbale. Si tratta ora di stabilire come, secondo Vico, sia possibile presupporre una sub–umanità che abbia almeno la potenza, la dynamis di diventare una umanità parlante, tenendo conto che, come per Aristotele, deve essere vero, entro certi limiti, che non sia possibile un’anima umana senza il parlare30. La nozione di potenza (dynamis) facilita, almeno nella prospettiva aristotelica, il postulare un’anima umana, anche se, secondo Aristotele, le 28 Nel XVIII secolo si diffuse il racconto del cosiddetto homo sylvius, cioè di un bambino lituano abbandonato nella foresta e successivamente ‘adottato’ da un’orsa, che lo accolse e lo nutrì insieme alla sua prole. Uno dei primi resoconti dell’homo sylvius si trova nella History of Poland (London, 1698) del medico britannico Bernard Connor (v. figura). 29 Anche un istinto si apprende. Si interagisce “fantasticamente” con esso, direbbe Vico. 30 F. LO PIPARO, Aristotele e il linguaggio, cit., p. 5.

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condizioni causali di un possibile passaggio dalla potenza all’atto dovranno essere sempre osservate in maniera asimmetrica, a partire da un ex post. Sembra ripetersi anche in Vico un’asimmetria che Lo Piparo trova in Aristotele, definendola come “l’asimmetria circolare delle necessità naturali”: Chi è capace di produrre voce articolata allora necessariamente è anche un animale che respira; un animale che respira non produrrà necessariamente voce articolata. La relazione logica che lega la successione degli eventi temporali è asimmetrica: “non esiste omogeneità tra un evento che è accaduto e un evento che accadrà”31;

e ancora: Gli eventi storici […] appartengono al dominio delle cose che potrebbero essere diversamente da come sono. La necessità condizionata degli eventi che hanno preceduto e causato l’evento finale è in questi casi, per così dire, appesa alla contingenza dell’evento finale32.

In altri termini, non siamo in grado di asserire che da certe condizioni (che riconosciamo ex post come necessarie) consegua sempre e invariabilmente un certo effetto. L’introduzione del fattore–tempo impedisce la formulazione di predizioni univoche nel campo della storia naturale dell’uomo. Postulando, nel caso di Vico, che il primo e più generale sensus communis provenga dal riconoscersi membri di una stessa specie con certe “prime necessità o utilità comuni”33, quella della Scienza nuova potrebbe essere definita “l’asimmetria circolare delle necessità naturali e delle occasioni storico–culturali”, la quale sancisce che ciò che eleggiamo a condizioni storico–naturali della genesi della facoltà linguistica, cui tentiamo di dare in seguito anche un ruolo funzionale, non può essere eletto a modello causale per la predizione del futuro; perché non si ha alcuna garanzia che a partire da certe condizioni naturali, biologiche, extralinguistiche si sviluppi sempre lo stesso effetto. Non esiste omogeneità tra un evento che è accaduto e un evento che accadrà, afferma Aristotele. Su questo punto crediamo che sia lo stesso Vico a sciogliere il dilemma, precisando che si tratta non solo di cause, ma anche di occasioni, di circostanze storiche che possono consistere in certe “prime necessità o utilità comuni”, nelle quali possiamo riconoscere in un senso generale, ma solo ex post, il ruolo di condizioni per la genesi, ad es., della facoltà di parIvi, p. 148. Tra inglesine doppie è citato il passo aristotelico di An. Post. 95a 38-39. F. LO PIPARO, Aristotele e il linguaggio, cit., pp. 149, 150. Cf. ARISTOTELE, Phys. 200a 33-34: “è il fine la causa della materia e non la materia la causa del fine”. 33 G. VICO, SN1, lib. II, cap. III, pp. 1009-1010, § 47. Cf. SN44, Degnità XI, p. 498, § 141. 31 32

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lare. Le occasioni della storia, sia pure universali, non potranno mai assumere il ruolo di cause necessarie, invariabilmente valide, ex ante, in ogni tempo e in ogni spazio34. Anche se l’idea vichiana della provvidenza consente di assicurare che certe qualità umane verificatesi nella storia una prima volta potranno ricorrere anche una seconda (l’idea implicita alla dottrina della “storia eterna ideale” è l’uniformità della natura e la validità universale delle sue leggi, nel tempo e nello spazio)35, niente ci assicura che quelle potenzialità si verificheranno sotto le stesse condizioni (cause + occasioni) precedentemente osservate o postulate. Verso una conclusione L’aspetto più importante che sta alla base della Scienza nuova è, come si è detto, l’intuizione del fattore storico–antropologico, un fattore che viene introdotto nella riflessione vichiana ribaltando lo schema galileiano–cartesiano di un soggetto astorico, di un sensibile vivente da cui siano stati “diffalcati” gli “accidenti” della materia, trasformando l’animale umano in una entità astratta, segregata, separata dall’aspetto sensibile ed emozionale36. 34 La teoria delle cause-occasioni compendia in un certo senso l’asimmetria circolare delle necessità naturali di matrice aristotelica, spostando l’ago della teoria dalla parte della diacronia. Sul tema, sempre utile il saggio di ANTONINO PAGLIARO, “La dottrina linguistica di G.B. Vico”, Atti della Accademia Nazionale dei Lincei CCCLVI (1959), Memorie della Classe di Scienze morali, storiche e filologiche, s. VIII, v. VIII, fasc. 6, pp. 379-486. 35 Cf. G. VICO, SN1, lib. II, cap. V, p. 1013, § 55; cap. VIII, p. 1032, § 90. Al riguardo, conveniamo con P. CRISTOFOLINI allorché riconosce che la possibilità che il mondo “s’inferisca, e di nuovo si rinselvi” è da Vico contemplata almeno come caso limite o possibilità estrema; e tuttavia dissentiamo dallo studioso quando questo aggiunge che “ove, per ipotesi, si verificasse [il ricorso dello stato ferino], la condizione degli uomini a quel punto ricadrebbe al di fuori del raggio di comprensione della scienza nuova: questa è scienza della natura delle nazioni, ossia del mondo civile fatto dagli uomini, e il sapere che si espande oltre questo ordine di cose appartiene piuttosto alla scienza del mondo naturale” (La Scienza nuova di G. Vico, cit., p. 66). Sebbene, infatti, dal punto di vista metodologico, il ricorso dello stato ferino “ricadrebbe al di fuori del raggio di comprensione della scienza nuova”, dall’altra parte, l’innegabile sforzo vichiano di comprendere la condizione dell’uomo pre-civile non potrebbe essere posto al di fuori del raggio di comprensione di quello che J. Trabant ha definito «lo scenario evolutivo che rende umano un essere pre-umano» (J. TRABANT, “Grido, canto, voci”, cit., p. 26.). 36 Su tale questione cf. VANNA GESSA KUROTSCHKA, “La morale poetica. Vico, Aristotele e le qualità sensibili della mente”, in Il Corpo e le sue facoltà, cit., pp. 151-174, spec. 155: “per Vico […] fondamento del sapere non può essere la certezza di sé del soggetto

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Ora, a questo punto dell’analisi, come conseguenza della sua intuizione storico-antropologica, Vico fa un’altra importante scoperta. Secondo Vico, il fatto che esista un metodo scientifico e un oggetto della scienza naturale che oppone la sfera delle ragioni a quella delle passioni non è una ragione sufficiente per dire che l’essenza dell’umano si riduca ad uno dei termini di tale opposizione. I filosofi moderni non si sarebbero accorti di questa aporia semplicemente perché hanno ridotto l’indagine della natura umana ad una operazione di semplificazione del complesso. Vico constata che gli effetti positivi o negativi delle passioni sulla comunità degli esseri umani razionali sono una cosa del tutto diversa dal ruolo che le passioni o le emozioni possono avere avuto nella formazione di proprietà specifiche dell’umano lungo la linea filogenetica. Sématha, pathémata, lógos, dunque. In questo rimescolamento delle carte della filosofia del linguaggio del suo tempo, Vico giunge ad affermare una corporeità del vivente fatalmente destinata, nella sua storia, ad acquistare una vita semiotica, la forma della vita linguistica. E se è errato definirla una corporeità già semiotica, possiamo almeno definirla come una corporeità che, ab initio, è alla costante ricerca della sua mesotes – del mezzo giusto, migliore; è una corporeità che desidera il semiotico (almeno quanto desidera una condizione partecipata con l’Altro) prima ancora di averne avuto piena cognizione e funzione37. Vico descrive d’altronde la fallacia del riflettere sulla presunta debolezza della connessione esistente tra cognizione e comunicazione, ossia di una concezione dello spirito o della mente che, pensando gli oggetti del mondo, creerebbe i contenuti della coscienza, i quali sarebbero identici per tutti e creati indipendentemente dal linguaggio. A questa presunta autoseparata dai sensi, dai sentimenti e dalle passioni”. Persino Hobbes, che era stato uno dei propugnatori della visione meccanicistica del mondo, è molto attento a non cadere nel gioco ingannevole del ridurre la natura umana all’intuizione soggettivistica dell’essere del pensiero (Descartes) o alla differenza specifica di una definizione logica (lo zoon lógon di Aristotele). Non è qui il luogo per soffermarsi sull’antropologia hobbesiana, ma basti almeno pensare che, secondo Hobbes, l’attribuzione di qualità razionali all’uomo non ne rivela la natura specifica, sia perché l’uomo condivide con gli animali non umani forme di ragionamento non verbale e di deliberazione volontaria, sia perché la stessa umanità comprende aspetti non propriamente razionali, come gli appetiti, il timore, lo stupore, la curiositas ecc. Su quest’ultimo aspetto cf. GIANNI PAGANINI, “Hobbes e la questione dell’umanesimo”, in Alle origini dell’umanesimo scientifico: dal tardo Rinascimento all’Illuminismo, Atti del Convegno Internazionale, Napoli, 27/29-9-2007, in corso di stampa. 37 J. TRABANT usa il termine di sematologia, anche se di recente è tornato sulla questione parlando di “semiosi umana” ( “Grido, canto, voci”, cit., p. 24).

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certezza del sé Vico oppone l’alternativa della certezza del sapere del mondo civile, fatto di segni grafici, di lettres; di “caratteri” scritti sulla “tavola dello spirito”38. Per comprendere meglio questa prospettiva, proverò a riformulare la celebre tripartizione vichiana delle età in cui l’uomo si fa interprete, manipolatore e produttore di diversi tipi di segni (dagli indizi ai segni fonici), servendomi di uno schema elaborato nel cap. I del Bipede implume di D. Gambarara39: Età Degli dei

Degli eroi Degli uomini

La scienza nuova Interpretazione naturale di indizi (naturali e soprannaturali): Sineddoche, metonimiametafora Creazione poetica; creazione di universali fantastici Produzione di segni fonici

Bipede implume

Proprietà

Indizi (interpretazione naturale di segnali)

Dialogicità non verbale

Icone; Metonimia, sineddoche, metafora

Intenzionalità comunicativa

Simboli; comunicazione o dialogicità verbale

Creazione funzionale-sistematica di segni fonici

Ai primi poeti (che non sono già i parlàri, ma una forma preistorica di cantori) e alla loro vivissima fantasia, Vico attribuisce la funzione di creatori. Indicando gli oggetti del mondo, i primi poeti fantastici danno loro vita, animandoli. La pietra è uno spirito, l’albero è una ninfa, il lampo è Giove40. Nel riconoscimento di questa primitiva attribuzione di una vita animata agli oggetti, che è una sorta di intuizione antropologica dell’animismo primitivo, viene colto un evento fondamentale: la nascita dei primi germi di una mentalità religiosa; qualcosa che si rivelerà cruciale per lo sviluppo delle proprietà cognitive superiori. Vico descrive questa storia primordiale attraverso diversi passaggi. Il più rimarchevole è quello in cui i bestioni sub–umani cominciano ad interpretare la manifestazione di eventi naturali come indizi non solo e puramente naturali; ad esempio il saettare di un fulmine: Per fisiche ragioni ... dopo il Diluvio, lunga età la terra non avesse mandato esalazioni ovvero materie ignite in aria ad ingenerarsi de’ fulmini; e, coJ. TRABANT, La scienza nuova dei segni antichi, cit., p. 22. D. GAMBARARA, “Dai segni alle lingue”, in ID., Come bipede implume. Corpi e menti del segno, Roma-Acireale, Bonanno Editore, pp. 44-45. 40 J. TRABANT, La scienza nuova dei segni antichi, cit., pp. 40-41. 38 39

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me le regioni furono più vicine agli ardori dell’equinoziale, qual’è l’Egitto, o più lontane, quali sono la Grecia, l’Italia, così più prestamente, o più tardi vi avesse il cielo tuonato. Quindi tante nazioni gentili cominciarono dalle religioni di tanti Giovi, de’ quali il più antico egli fu Giove Ammone in Egitto. La qual moltiplicità di Giovi fa tanta meraviglia a’ filologi, la qual si risolve per gli nostri princìpi, perché appo tutte fu egualmente fantasticata una divinità in cielo che fulminasse. Questi tanti Giovi confermano fisicamente il diluvio universale e compruovano il principio comune di tutta l’umanità gentilesca, perocché Giove atterra i giganti empi41.

Il fulmine diventa l’emanazione di una divinità, indizio o segno di una entità soprannaturale. Quella che finora consisteva in una semplice interpretazione di indizi naturali, diventa ad un certo punto qualcosa che implica un dislivello. Il fulmine, evento inspiegabile per la mentalità primitiva, diventa l’emanazione di qualcosa di superiore. Credo che non sia illecito supporre (Vico non lo fa, ma mi permetto di farlo io) che in quel preciso momento al bestione sub–umano si manifesti un evento recante una forma rudimentale di intenzionalità comunicativa. Certamente, prima di tale esperienza il bestione era già immerso in una dialogicità non verbale, in forme spontanee di intenzionalità comunicativa; ma questo evento mette il bestione per la prima volta di fronte alla coscienza di quella intenzionalità; il segno natural–soprannaturale diventa l’indizio di una identità portentosa il cui motivo del suo manifestarsi è quello di voler comunicare. Di voler farsi sapere. Di “dire a qualcuno qualcosa da capire”42. Si creano in questo modo le condizioni per la più antica delle istituzioni umane: la religione. 41 G. VICO, SN1, lib. II, cap. XIII, p. 1038, §§ 104-105. Da questo evento discendono per Vico la religione primitiva, il “senso comune” o “costume” delle unioni familiari, la divinazione, l’osservazione delle stelle ecc., fino alla lingua. L’idea che dall’attribuzione di un senso divino al fenomeno del fulmine dipendano le precondizioni per il successivo sensus communis dell’accoppiarsi stabilmente viene a Vico da una manipolazione del principio hobbesiano della paura: è per timore di una forza superiore e soprannaturale che i bestioni “incominciano a sentire la venere umana o pudica; che spaventati, non potendola usare in faccia al cielo, afferrarono a forza donne e a forza le strascinarono e le tennero dentro le loro grotte. Onde incomincia a spiccare la prima virtù negli uomini, con la quale ammendano la natural leggerezza delle femmine, e quindi la natural nobiltà del sesso virile, cagione della prima potestà che fu quella sopra il sesso donnesco. Con questo primo costume umano nacquero certi figliuoli, da’ quali provennero certe famiglie, sopra le quali sursero le prime città e quindi i primi regni” (SN1, p. 1039, § 106). Qui nasce la divinazione. Sul principio della paura e della vergogna della divinità. Cf. SN1, cap. VI, pp. 1014-1015, §§ 57-58. 42 J. TRABANT, La scienza nuova dei segni antichi, cit., p. 41. L’intenzionalità comunicativa è in questo caso come l’appalesarsi di un “tu” originario. L’uomo apprende l’intenzio-

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Giove [...] è il principio dell’idolatria e della divinazione o sia scienza degli auspìci, nella guisa che si è sopra dimostro che egli fu il primo dio nato dalle greche fantasie. E l’idolatria e la divinazione, per gli nostri princìpi della poesia, nacquero figliuole gemelle di quella prima civile metafora che Giove fosse il cielo, che scrivesse le leggi con la folgore e le pubblicasse col tuono43.

Da un punto di vista semiotico, il fulmine–indizio contiene anche qualcos’altro. Esso può aver fatto nascere nella proto–mente del bestione anche un altro tipo di consapevolezza: che esistano cioè indizi naturali che possono essere il segno di qualcosa che non è presente, se non in quanto emanazione di sé. Si introduce per questa via una seconda proprietà dell’umano, e condizione di possibilità del linguaggio: ovvero, l’opportunità di creare segni in grado di rappresentare cose non presenti (in origine, il segno può essere lo stesso indizio–fulmine, ma in seguito, attraverso la ritenzione mnemonica e la phantasia, esso può diventare segno di un segno, il rappresentante di qualcosa che rappresenta a sua volta qualcosa di non presente)44. Secondo Vico, queste condizioni nascono in seno all’umano, proto–mente non ancora pienamente umana, grazie al fatto che egli, primitivo bestionalità comunicativa dalla decodificazione di un fatto esterno, che in realtà era già da sempre depositato nella mente d’ogni uomo, nella scintilla depositata dalla “divina architetta”. Trabant aggiunge al riguardo che in questi primi stadi Vico intende con “parlare” non il parlare verbale, ma più in generale “il comunicare o il dire a qualcuno qualcosa da capire” (ibid.); il manifestare a qualcuno la propria volontà di capire, ossia di sapere, e di far capire, ossia di far sapere. 43 G. VICO, SN1, lib. V, cap. VI, p. 1180, § 411. 44 Un fattore chiave dello sviluppo cognitivo umano è la possibilità di impiegare la phantasia, che è una “prima presa di distanze dal mondo” dotata di intenzionalità cognitiva. Nella mentalità primitiva, la ‘magia’ del fare apparire nella mente, propria e altrui, delle immagini attraverso l’emissione di un suono, o il compiere un dato gesto, può essere stata un elemento costitutivo per la nascita della mentalità religiosa. La phantasia è dunque la possibilità di creare pathémata da se stessi (ARIST., De An. 427b 17-20), che sono copie di pràgmata che non sono creati solo dal linguaggio, ma sono come invarianti rispetto alla linguisticità dell’animale umano. Secondo Vico, l’animale umano, oltre ad essere dotato di “sensi corpulentissimi”, deve essere stato in grado di esperire questa invarianza, con cui si sono potute creare condizioni di ripetibilità rappresentativa. A conferma del fatto che ad un certo punto avvenga il passaggio dall’identificazionesineddoche del fulmine col dio-Zeus all’“avviso sensibile” mandato agli uomini dagli Dei, c’è un passo di Vico posto nelle righe iniziali della SN1, p. 983, § 9: “le false religioni tutte sursero dall’idolatria, o sia culto delle deitadi fantasticate sulla falsa credulità d’esser corpi forniti di forze superiori alla natura, che soccorrano gli uomini ne’ loro estremi malori; e l’idolatria nata ad un parto con la divinazione, o sia vana scienza dell’avvenire, a certi avvisi sensibili, creduti esser mandati agli uomini dagli dèi”.

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ne, sia ancora un coacervo di pathémata, e non ancora un lógos produttore di funzioni sémata. Ci vuole per l’appunto la fantasia di un primitivo, “sensi corpulentissimi”, e “perturbatissimi effetti”, per creare i semi di una religione naturale, a partire dalla semplice decodificazione “fantastica”, allegorica, di indizi naturali45. Erano necessari istinti forti per far crescere il bestione che è come il “fanciullo”, dice Vico: destinato a diventare “parlàro”, ma ancora bisognoso di condizioni emotive che siano come quelle “necessità naturali” di cui parlava Aristotele46. Riassumendo, secondo Vico le condizioni di possibilità del linguaggio verbale sono di tipo extra–linguistico; nascono in modo paradigmatico dal fulmine–Zeus, dalla rappresentazione di una sineddoche che si evolve in metafora, la quale riproduce lo schema primitivo della comunicazione. La presenza comunicata di qualcosa che non si vede e non si sente. Un segno che è a metà strada tra l’interpretazione degli indizi e i segni allegorici. Attraverso il ricordo di questo evento, il bestione proto–mente comincerà a familiarizzare con l’idea di un segno naturale che rinvia ad una realtà presente/non presente. Dopo questo stadio, il bestione non dovrà fare altro che sospendere l’iniziale primitivismo di identificare l’indizio con l’entità rappresentata. In questo caso è come se la religione primitiva che si snoda a partire da questo evento fosse l’anello mancante che dalla semplice produzione di indizi conduce alla produzione di segni, i quali, in quanto allegorie, rinviano a, o stanno per una realtà seconda. Il che è molto affine allo status dei segni verbali, che sono per l’appunto dotati di incertezza semantica, e nei quali si comunica il senso di qualcosa che risulta staccato, separato dalle circostanze della enunciazione o della rappresentazione. E per ciò stesso, se ne può parlare in assenza47. La religione primitiva addestrerebbe i bestioni proto-menti a: 1) immaginare relazioni di segni a concetti di oggetti sempre presenti ma come assenti; 2) presumere nell’emittente G. VICO, SN1, lib. II, cap. XXVI [XXVII], pp. 1132-1133, § 314. In questa primordiale corsa ad ostacoli, le passioni (i “sensi corpulentissimi” e i “perturbatissimi affetti”) hanno un ruolo strumentale, ma decisivo. Le condizioni del linguaggio verbale nascono dalla relazione uomo-Dio delle religioni primitive, a cui l’uomo pre-civile dovrà affiancare un pensiero-azione logico-matematico, affinché la successiva produzione di segni fonici possa organizzarsi in base ad un sistema. Vedi infra, nota 48. 47 Questo aspetto del parlare di Dio in assenza apre diversi ordini di problemi, tra cui quello dei caratteri fondanti delle religioni arcaiche. Sarebbe interessante analizzare le ragioni del divieto d’immagini di Dio della tradizione ebraica, che equivale in qualche modo al divieto di parlarne in assenza, e alla superfluità del parlarne in presenza. Ma ci porterebbe lontano dagli scopi del presente lavoro. 45 46

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un’intenzionalità comunicativa che è una volontà di far sapere, la quale non avrebbe luogo se il ricevente non vi riconoscesse, al contempo, la propria volontà di far sapere. Giunti a questo stadio, ai bestioni proto–umani occorrerà, per diventare parlàri, un’altra, fondamentale condizione: che il pensiero matematico abbia conquistato un sufficiente grado evolutivo. Giunti sin qui, occorrerà che essi abbiano l’universale cognitivo e linguistico del numero e della quantità, del tutto e della parte48. Il perseguimento della prospettiva diacronica è reso possibile, almeno per Vico, a partire dal fatto che una fondazione metafisico–trascendentale si è già svolta a monte, attraverso l’azione divina e più in particolare attraverso l’intervento della provvidenza, della “divina architetta”, che è la donatrice di un senso dell’ordine (delle cose e della natura), e che cede alla creatura umana (il “fabbro del mondo”) la capacità di farsi libero strumento di una creazione che in qualche modo si prolunga nella storia. Come si è detto, il lascito della divina architetta si presenta nella storia (con puntuale ciclicità) sotto forma di sensus communis (che è il primo livello in cui il reale diventa razionale, per mezzo dell’azione di un ingegno operante nel tempo)49. Per la comprensione di questo quadro, che diventa via via più complesso, abbiamo bisogno di due immagini o metafore: la prima è quella del pendolo. Il farsi umano nella storia si dispiega sulla traiettoria di un pendolo: il pendolo della storia umana oscilla infatti, come già ebbe a notare Nicola 48 Il passaggio al terzo stadio presume una ratio calcolante, anche se Vico insiste circa il fatto che l’acquisizione di una “sintesi geometrica” presuma una linguisticità già in atto. Nella Scienza nuova troviamo dei passi perspicui: “apprendono di più i fanciulli delle nazioni mediocremente incivilite l’abito di numerare, il cui atto è astrattissimo e tanto spirituale che per una certa eccellenza è chiamato ‘ragione’ […] il numero è il meno corpolento” (G. VICO, SN1, lib. I, cap. XII, p. 1003, § 42); “i fanciulli che nascon in nazione che è già fornita di favella, eglino di sette anni al più si ritruovano aver già apparato un gran vocabolario, che [...] il corron prestamente tutto e ritruovano subbito la voce convenuta per comunicarla con altri, e ad ogni voce udita destano l’idea che a quella voce è attaccata: talché, in formare ogni orazione, essi usano una certa sintesi geometrica, con la quale scorron tutti gli elementi della lor lingua, raccolgono quella che lor bisognano e a un tratto gli uniscono; onde ogni una lingua è una gran scuola di far destre e spedite le menti umane” (ivi, cap. XIII, pp. 1002-1003, §§ 42-43). 49 Il richiamo alle radici provvidenzialistico-trascendentali della storia permette di affiancare al lemma del sensus communis un secondo lemma, già ricordato dallo stesso Vico all’inizio della SN1: la libertà, che Vico aveva già ben colto nel Liber Metaphysicus con l’analisi del rapporto tra fare e conoscere. Libera volontà, volontà di fare che non a caso si colloca, attraverso la triade di memoria-phantasia-ingenium, alla base dell’invenzione del linguaggio.

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Badaloni, tra un massimo di sub–umanità, e un massimo di razionalità50. Questa oscillazione è resa necessaria dal fatto che l’umano si affaccia nella storia come il portatore privilegiato del più prezioso dei doni della divina provvidenza: questo dono è la libertà. Il fatto stesso di affidare all’uomo, attraverso la libertà, le chiavi del suo destino, rende possibile tale oscillazione. Certo, la parte più complessa di questa operazione filosofica spetta al lettore moderno, nel tentativo di ricomprendere il tutto in una chiave antropologica. Dal detto fino qui si raccoglie, che la Provvedenza Divina appresa per quel senso umano, che potevano sentire uomini crudi, selvaggi, e fieri, che ne’ disperati soccorsi della Natura anco essi disiderano una cosa alla natura superiore [...] ch’è ’l primo Principio, sopra di cui sopra stabilimmo il Metodo di questa Scienza, permise loro d’entrar nell’inganno di temere la falsa divinità di Giove, perché poteva fulminargli; e sì dentro i nembi di quelle prime tempeste, e al barlume di que’ lampi videro questa gran verità, che la Provvedenza Divina sovraintenda alla Salvezza di tutto il Gener’ Umano. Talchè quindi questa Scienza incomincia per tal principal’ aspetto ad esse, e una Teologia Civile Ragionata della Provvedenza; la quale cominciò dalla Sapienza Volgare de’ Legislatori, che fondarono le Nazioni, con contemplare Dio per l’attributo di Provvedente; e si compiè con la Sapienza Riposta de’ Filosofi, che ’l dimostrano con ragioni nella loro Teologia Naturale51.

Il passo successivo è quello di riuscire a comprendere il rapporto esistente tra la sfera logica del soggetto sincronico e la sfera apparentemente anti–logica del soggetto nella storia. Logica e filogenesi come filosofia e filologia52. Giungiamo così alla seconda immagine, che è quella della spirale: la linea che scorre nella forma della spirale è quella di un divenire che non ritorna mai su se stesso, ma procede indefinitamente da un’origine; in questo caso le circostanze del reiterarsi di eventi già accaduti sono stabilite dalla proporzione dei valori angolari della figura. Vi sono condizioni di un dato momento tx che possono essere equiparate alle condizioni di un altro 50 N. BADALONI, Introduzione a G. VICO, Opere filosofiche, a cura di P. Cristofolini, Firenze, Sansoni, 1971, pp. XXXVI-XXXVII, XL-XLI. 51 G. VICO, SN44, lib. II, sez.I, cap. II, p. 576, § 385. 52 Sul tema, cf. G. CACCIATORE, Geschichte, Poesie und Metaphysik. Über die Philosophie von Giambattista Vico, Berlin, Akademie, 2002; MANUELA SANNA, “La fantasia ch’è l’occhio dell’ingegno”. La questione della verità e della sua rappresentazione in Vico, Napoli, Guida, 2002; E. NUZZO, Tra ordine della storia e storicità. Saggi sui saperi della storia in Vico, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003; G. CACCIATORE, V. GESSA KUROTSCHKA, E. NUZZO, M. SANNA (eds.), Il sapere poetico e gli universali fantastici. La presenza di Vico nella riflessione contemporanea, Napoli, Guida, 2004.

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momento tn, ma non si tratterà mai di una semplice ripetizione dell’identico53. La figura della spirale si apparenta all’“asimmetria circolare delle necessità naturali” a cui si è fatto cenno, ma non solo. La storia dell’umanità può essere racchiusa, come già Locke insegnava, nella storia di un fanciullo che diventa adulto; la filogenesi si può sposare con la ontogenesi, e la diversa comprensione di sé e del mondo può far capo, di età in età (ritenendo quasi incommensurabili le formae mentis di età estremamente lontane della storia umana), ad un sentire comune che non è solo simile da individuo a individuo, da popolo a popolo, ma è anche ciò che permette di asserire, nella differenza diacronica, che permanga un continuum di identità. Questo continuum è quella originaria identità sensibile, quella Sinnlichkeit che l’uomo conserva dalla fanciullezza sino alla tarda maturità. Essa si esprime attraverso la varietà delle forme della corporeità sensibile e una vicissitudine emotiva che si tiene insieme, ancora una volta, per mezzo della più originaria e “corpulenta” delle facoltà dell’uomo: quella triade di memoria–fantasia–ingegno su cui Vico insisterà in tutti i suoi scritti. L’immagine della spirale rinvia ad una concezione integrativa (per usare un’espressione della Kurotschka) del rapporto corpo–mente, in cui memoria, fantasia e ingegno sono “un’unica facoltà mossa dalla passione e dal sentimento”, un sapere eminentemente pratico in un rapporto strettissimo col corpo che si sarebbe sviluppato, secondo Vico, “quando il mondo aveva bisogno di tutti i ritruovati per le necessità ed utilità della vita”54. In quella sproporzione esistente, nella Scienza nuova, fra sincronia e diacronia, lingua e sistema, già Antonino Pagliaro aveva riconosciuto che, nell’approccio integrativo di Vico, “tutto l’uomo, non la sola ragione, partecipa alla creazione di sé e del proprio mondo”55. Desidero ringraziare Daniele Gambarara e Felice Cimatti, per avere accolto la mia proposta di relazione nei Seminari di Filosofia del Linguaggio 2007-2008, ed averla supportata fino alla presente stesura. 53 Sulla figura della spirale nella filogenesi delle forme semiotiche, cf. D. GAMBARARA, “Tre luoghi comuni teorici: mente, arbitrarietà, comunicazione”, in ID., Come bipede implume, cit., pp. 103-122, spec. 107. 54 G. VICO, SN44, lib. II, sez. VII, cap. II, p. 767, § 699. Cf. V.G. KUROTSCHKA, “La morale poetica. Vico, Aristotele e le qualità sensibili della mente”, cit., p. 166. 55 A. PAGLIARO, “La dottrina linguistica di G.B. Vico”, cit., p. 429.

ALESSIA TOMAINO Contemplazione dell’altro: la parola come sguardo estetico La tesi che cercheremo di sostenere nel presente articolo è che l’attività estetica, oltre ad essere specificamente Réveillez vous, cueurs endormis, Le dieu d’amours vous sonne. umana, presenta dei risvolti di tipo etiA ce premier jour de may, co, e questo, è riscontrabile esemplarOyseaux feront merveillez, mente nell’uso naturale ed ‘estetico’ Pour vous metre hors d’esmay delle lingue. In altre parole, il dominio Destoupez vos oreilles. dell’arte appartiene tipicamente ed eEt farirariron, freely joly. Vous serez tous en ioye mis, sclusivamente al genere umano in quanCar la saison est bonne. to genere morale e le lingue ne sono in Vous orrez, à mon advis, un certo senso la prova. Une dulce musique Si potrebbe obiettare, tuttavia, che Que fera le roy mauves, forme d’arte primitive o originarie, sod’une voix autentique (le merle aussi, no rintracciabili già negli animali non Lestournel sera parmi): umani: pensiamo al canto degli uccelli. Ty,ty,pyty,chou,chou, Alcune particolari famiglie come quella Chouty,thouy,thouy. degli Alaudidi, per esempio, sono caratToi que di tu. Le petit sansonnet de Paris, terizzate proprio dalle sofisticate meloLe petit mignon. die prodotte dai piccoli bipedi che vi Qu’est la bas, passe vilain! appartengono. La cosa straordinaria è Saige, courtoys,et bien apris. che, mentre i richiami di alcune specie Saincte teste Dieu!... come le colombe, sono già strutturati e completi alla nascita, i canti elaborati dai cosiddetti uccelli canori, sono spesso profondamente influenzati da processi di apprendimento. Un uccello allevato in isolamento, ad esempio, canta una versione molto semplificata del canto che svilupperebbe allo stato selvatico. Potremmo descrivere questo strano fenomeno nei termini di una vera e propria forma di cultura con tanto di relativa trasmissione di competenze da una generazione all’altra: gli uccelli adulti insegnano ai piccoli delle melodie da cantare. Anche adottando il punto di vista di questa prospettiva, il canto degli uccelli può davvero essere considerato una forma d’arte precedente o addirittura fondante rispetto all’arte umana? In realtà, un processo di risalimento tramite stratificazioni al nucleo originario dell’esperienza estetica, non è congeniale ai fini del nostro discorso in Le chant des Oyseaux

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quanto non chiarisce bene il nostro obiettivo: far emergere le specificità dell’estetica umana. Esistono certamente delle stratificazioni, ed è possibile identificare una sorta di archeologia degli strati sommersi. Ma il modo con cui ciò viene inteso ha molto del metaforico. La differenziazione prende strade diverse, si dirama in rivoli molteplici, sì che [...] il recente ci svela meccanismi apparentemente simili ma in realtà procedenti come forme autonome. (PRODI, 1983, p. 23).

L’autonomia del «recente», come si evince dalle parole di Prodi, non è cronologica – nel senso che ciò a cui assistiamo oggi è indipendente e non derivante da ciò che c’era prima – bensì logica. L’evoluzione di alcune forme d’arte a partire da altre precedenti e in un certo senso, meno sofisticate, non è qui messa in discussione, ma messa da parte poiché sostanzialmente irrilevante per una comprensione generale dell’arte umana. Ma cosa intendiamo per attività estetica umana? E perché ci interessa costruire, o meglio, portare alla luce, un parallelo tra questo tipo d’esperienza e l’esperienza linguistica? Quando esaminiamo l’attività estetica «ci riferiamo all’esperienza di qualcosa fatto dall’uomo (o anche esistente in natura), tale da generare in noi un qualche ‘interesse disinteressato’ […] un interesse volto non immediatamente a piaceri sensibili, a scopi, a conoscenze utilizzabili, ma piuttosto un interesse per quell’interesse» (GARRONI, 2005, p. 96). Il nucleo centrale della nostra riflessione sta proprio in questo strano tipo di interesse di cui ci parla Emilio Garroni e che, nell’ipotesi che vorremmo delineare, trova spazio sia nell’atto della ricezione dell’opera artistica, sia nell’uso comune delle lingue. In entrambe queste attività entra in gioco il più generale rapporto tra essere umano e mondo. La percezione di un’opera d’arte implica, lo abbiamo appena visto, un tipo di sguardo disinteressato che è pur sempre uno sguardo e quindi un atto percettivo: paradossalmente, però, si tratta di un atto che non si risolve in un’azione nei confronti del percepito ma resta, per così dire, in sospeso, terminando laddove è cominciato. Siamo come posseduti dall’opera nella sua determinatezza-indeterminatezza, mentre la creiamo e la ricreiamo in noi, e lo siamo consapevolmente, mentre nella percezione che non è intenzionale, pur essendo parimenti posseduti dalle immagini che ne ricaviamo, spesso l’essere posseduti ci sfugge e, per esempio, siamo richiamati innanzi tutto dall’utilizzabilità pratica o conoscitiva delle cose che percepiamo (GARRONI, 2005, p. 99).

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Questo essere posseduti dal percetto, che avviene consapevolmente nella ricezione dell’opera d’arte, mostra in modo esemplare quello che accade costantemente nel corso della percezione di ciò che ci circonda. La differenza sta però proprio in quel ‘consapevolmente’. Quando percepiamo infatti non è il nostro essere catturati che si pone al centro della nostra attenzione, bensì i possibili usi che dai nostri percetti possiamo ricavare. In tal modo il nostro stato di “coinvolgimento” viene scavalcato per passare all’azione che ha come oggetto il percepito stesso. Mi muovo nella stanza, vedo gli oggetti e li scanso per non sbattervi contro. O ancora, muovo lo sguardo sulla scrivania alquanto disordinata e focalizzo la mia attenzione sui floppy disc che cercavo da giorni per memorizzare al computer alcuni dati.

Si tratta di una percezione che potremmo definire “direzionata”, che si proietta in avanti saltando da un oggetto al suo uso. In questa prospettiva, il nostro, sarebbe un mondo strumentalizzato per definizione. Ogni cosa è uno strumento e quindi serve per fare qualcosa. Ma è davvero così? Seguendo l’ipotesi prima accennata la percezione umana è caratterizzata dal fatto di riuscire ad astrarsi dall’uso degli oggetti. In altre parole, la percezione umana è capace di ‘contemplazione’. Attenzione, non dobbiamo pensare ad una contemplazione di tipo cultuale, ad una sorta d’adorazione, anche se, per certi versi, questa definizione forte di percezione potrebbe rivelarsi feconda. Tralasciando questo aspetto però, quando parliamo di contemplazione, vogliamo dire semplicemente che la percezione umana è capace di guardare ad una cosa senza doverla necessariamente considerare un mezzo per un fine, senza, direbbe Garroni, doverla traguardare per passare oltre. Questo tipo di percezione è tipicamente quella delle opere d’arte che si ‘contemplano’ per lo stesso gusto di ‘contemplarle’, che si guardano per il semplice scopo di guardarle e non per farne qualcosa.

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Non siamo più di fronte ad un atto percettivo direzionato verso l’esterno, verso uno scopo, bensì di fronte ad un atto che torna su sé stesso, che si concentra sulla condizione stessa del percepire. Per potere arrivare alla conoscenza umana linguistica, la prima condizione è che all’uso immediato della cosa, propria di tutti gli organismi, si sia sostituita una condizione di sospensione e di attesa [...]. Le cose non sono più significative in quanto servono e sono metabolizzabili, ma in quanto esistono fuori e indipendentemente (PRODI, 1983, p. 26-27)1.

Di fronte ad un topo, un gatto non può che percepire una preda e correre; di fronte ad una luce, un insetto non può che sentirsi attirato ed avvicinarsi; di fronte ad una mosca, una rana non può che stendere la lingua per acchiapparla. Un comportamento diverso da questi appena descritti significherebbe che c’è qualcosa che non va, che letteralmente non funziona in quell’organismo. La differenza con l’essere umano non sta (o almeno non solo) in un mancato determinismo della nostra specie, innanzitutto perché anche gli esseri umani sono ricchi di istinti, e poi, molti animali non umani sono capaci di comportamenti molto complessi e quasi impossibili da descrivere adottando un punto di vista deterministico. Quello che ci sembra particolarmente rilevante, ai fini del nostro discorso, è quell’«astensione dal me1 Pur costruendo un’analogia tra il pensiero garroniano – e più in particolare la nozione di interesse-disinteressato che si mostra in particolar modo nella percezione delle opere d’arte – e quello di Prodi, che ci parla di conoscenza umana linguistica come condizione di sospensione e di attesa, resta fermo che la metodologia dei due autori presenta notevoli differenze.

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tabolismo» di cui ci parla Prodi, quel non dover dare significato a ciò che ci sta di fronte solo in vista di un fine che con quel qualcosa potremmo raggiungere. Lo sviluppo della conoscenza umana è legato permanentemente ad un momento di sospensione, che diventa poi, a stadi ulteriori, atteggiamento complesso di contemplazione-rispetto, radicato psicologicamente ed eticamente (ibid.).

La sospensione dal metabolizzare il mondo-percepito ci rimanda necessariamente ad un discorso sull’etica. Se davvero la nostra specie è infatti capace di un tipo di contemplazione-rispetto che gli permette di guardare qualcosa senza per questo dover pensare a ciò che con essa si può fare, allora questo tipo di atteggiamento si applica esemplarmente all’atto dello sguardo rivolto verso una persona. Analizziamo meglio questa situazione. Nel volto dell’altro non vedo il mezzo per raggiungere un fine, ma vedo uno sguardo che a sua volta si rivolge a me riconoscendomi come suo simile. In tale prospettiva «paiono del tutto inadeguate le distinzioni tra conoscenza come manipolazione e conoscenza come contemplazione. L’una non è senza l’altra» (ibid.). Questo significa che la percezione-conoscenza, non assume gradi diversi in base alla situazione che si trova ad affrontare perché è sempre potenzialmente strumentalizzante e non. Facciamo qualche esempio. Di fronte alla celebre pala della Maestà di Duccio di Buoninsegna, per esempio, si può restare estasiati dal blu del panneggio che riveste la Madonna ma altresì pensare: “se la rubassi e la rivendessi diventerei milionario”. Di fronte ad un volto si può assumere un atteggiamento di contemplazione e dunque di riconoscimento, ma altresì, un atteggiamento di sfruttamento dell’altro in vista del raggiungimento di uno scopo. Dunque, la conoscenza umana è costantemente di fronte ad un bivio, costantemente chiamata a, per così dire, decidere quale posizione assumere. La nostra indagine non si rivolge all’atteggiamento che abbiamo definito di strumentalizzazione, perché abbiamo visto, questo è caratteristico anche degli animali non umani. Ciò che ci preme analizzare è l’atteggiamento opposto, quello morale, quello che prevede una sospensione dalla metabolizzazione. Nei rapporti con l’esterno si verifica uno iato quando la cosa significativa non scatena un riflesso specifico, ma è vista per sé, in modo autonomo: e cioè assunta ‘mediatamente’ (PRODI, 1983, p. 142).

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Da cosa è reso possibile questo rapporto mediato tra noi e il mondo? «In natura […] nella rete dei riflessi rigidi compare una strana pausa. La parola […] riempie l’attimo della sospensione» (Ivi, p. 28). La parola, ci suggerisce Prodi, e dunque la lingua storico naturale all’interno della quale viviamo, crea il nostro ambiente naturale facendosi mediatrice tra noi e il mondo. La parola, per natura, si fa pertanto portatrice di valori etici perché è l’unico modo che abbiamo per non metabolizzare il mondo; più radicalmente, è l’unico modo che abbiamo di stare al mondo. «Nella lingua la biologia diventa storia, diventa umana» (CIMATTI, 2007, p. 105). Costituendo il nostro ambiente naturale, ed essendo intrinsecamente pubblica, la lingua è esemplarmente un fatto morale presupponendo l’esistenza di un noi, prioritario rispetto al singolo io. Si può infatti essere soggetto solo all’interno di quella realtà puramente sociale che è la realtà del discorso: Soltanto nella lingua ci sono esseri umani che parlano, e solo nella lingua i suoni che escono dalle loro bocche significano qualcosa [...]. Nella lingua allora i parlanti si possono comprendere o fraintendere, perché solo la lingua offre uno spazio logico in cui i singoli atti di parole2, di per sé irrimediabilmente diversi, e quindi incomunicabili, possono confrontarsi (Ivi, p. 115).

Il confronto, l’accettazione, il riconoscimento dell’altro sono pratiche possibili solo all’interno dei fatti umani e cioè dei fatti linguistici che nella loro natura pubblica e sociale offrono il loro spazio facendosi ambiente di vita. In questo spazio la diversità dei singoli individui si appiattisce sulla lingua creando un io che si rivolge necessariamente a un tu e viceversa, in una situazione di parità morale che implica la non strumentalizzazione reciproca. Potrebbe esistere una soggettività isolata [...] oppure la relazione con l’altro è intrinseca alla soggettività? [...]. Il risvolto etico di questo problema è nel primo caso, quello di una soggettività isolata, la relazione etica sarebbe sempre e comunque accessoria rispetto alla sua natura, sarebbe cioè al più una scelta come un’altra, un’opinione. Nell’altro caso la relazione etica, sarebbe, invece, costitutiva della sua natura; già nel semplice parlar all’altro sarebbe cioè implicito un naturale atteggiamento etico (Ivi, p. 234).

2 Per la nozione di ‘parole’ cf. SAUSSURE, Cours de linguistique générale, Payot, Paris 1922; trad. it. Corso di linguistica generale, a cura di T. De Mauro, Laterza, Bari 1978.

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Rivolgere la parola, è già di per sé un atto morale. L’atto linguistico, infatti, prevede un tipo di contemplazione dell’altro che sembra identico a quello che si ha di fronte ad un’opera d’arte quando la si osserva per ciò che è, in una situazione di sospensione dall’uso. Abbiamo fatto risalire il fatto morale al momento in cui l’uomo, di fronte a una cosa, rinuncia a farla sua e a distruggerla, rispettandola in sé stessa. […]. L’estetica è il momento morale in cui l’uomo, di fronte al suo patrimonio linguistico e alla sua storia, si pone in una posizione di rispetto, senza volersene servire a scopi immediati ed usuranti (PRODI, 1983, p. 367). Ciò che pertanto avviene esemplarmente nell’attività estetica, si riflette quotidianamente nella realtà del discorso. Solo che, come dice Garroni «Ecco: l’arte, ce ne fa accorgere» (GARRONI, 2005, p. 98). Bibliografia CIMATTI, F. (2004a), Mente segno e vita, Roma, Carocci. CIMATTI, F. (2004b), Il senso della mente. Per una critica del cognitivismo, Torino, Bollati Boringhieri. CIMATTI, F. (2007), Il volto e la parola. Psicologia dell’apparenza, Macerata, Quodlibet. GARRONI, E. (1968), Semiotica ed estetica, Bari, Laterza. GARRONI, E. (1972), Progetto di semiotica, Bari, Laterza. GARRONI, E. (1976), Estetica ed epistemologia. Riflessioni sulla critica del giudizio di Kant, Milano, Unicopli. GARRONI, E. (1978), Creatività, in Enciclopedia Einaudi, Torino, Einaudi. GARRONI, E. (1986), Senso e paradosso, Bari, Laterza. GARRONI, E. (1992), Estetica. Uno sguardo-attraverso, Milano, Garzanti. GARRONI, E. (2003), L’arte e l’altro dall’arte, Roma-Bari, Laterza. GARRONI, E. (2005), Immagine Linguaggio Figura, Roma-Bari, Laterza. JANEQUIN, C., Le Chant des Oyseaux, http://www.scottishchamberchoir.org.uk/. PRODI, G. (1983), L’uso estetico del linguaggio, Bologna, Il Mulino. SAUSSURE, F. de (1922), Cours de linguistique générale, Paris, Payot; trad. It. Corso di linguistica generale, a cura di T. De Mauro, Laterza, Bari 1978. WITTGENSTEIN, L. (1953), Philosophische Untersuchungen, Oxford, Blackwell (trad. it. Ricerche Filosofiche, a cura di Mario Trinchero, Torino, Einaudi, 1974).

G. BATTISTA VACCARO Gilles Deleuze: il linguaggio tra passione e potere

Una delle eredità che lo strutturalismo ha lasciato al pensiero posteriore che da esso si è sviluppato è l’interesse per il linguaggio, che nei filosofi poststrutturalisti trova un’ulteriore ragion d’essere nel nesso, che essi mutuano da Heidegger, tra il linguaggio e quella metafisica che essi intendevano decostruire sotto il comune denominatore del logos come istanza organizzatrice sia dell’una che dell’altro. Con un passo ulteriore poi questi filosofi, muovendo dalla contestazione del nesso tra metafisica e potere all’interno di una modalità di pensiero strutturata verticalmente in base al principio di identità, estendono l’operazione decostruttiva al ruolo del linguaggio all’interno dei giochi di potere che si estendono su tutto il campo sociale. Così Derrida denuncerà nel linguaggio la presenza dell’essere1, Lyotard la costituzione di un ordine inteso a scongiurare l’emergenza della pulsione di morte2, e Baudrillard una delle istanze di rimozione e repressione del simbolico la cui irruzione scardina il sistema economico3. Ma il filosofo che forse con più costanza e più a lungo si è dedicato ad una critica del linguaggio è Gilles Deleuze, che in essa si impegna a più riprese fin dalla fine degli anni Sessanta. Questa critica a sua volta si colloca sullo sfondo di una riflessione ontologica che accompagna tutta l’evoluzione del pensiero di Deleuze e si arricchisce in essa. L’obiettivo dichiarato di questa riflessione è di rovesciare il platonismo4 mettendone sotto scacco lo strumento principale ereditato poi da tutta la filosofia occidentale, la rappresentazione5, attraverso la quale la molteplicità degli eventi è ricondotta all’unità del concetto e del soggetto che lo pensa, del cogito, come le copie sono ricondotte a un modello. A questa metafisica Deleuze contrappone un’ontologia della differenza, in cui Cf. J. DERRIDA, La voce e il fenomeno, trad. it. Milano, Jaca Book, 1968. Cf. J.-F. LYOTARD, Discorso, figura, trad. it. Milano, Unicopli, 1988. Su questo volume cf. il mio “Lyotard e la lettura della modernità”, Critica marxista, XXVIII, 1990, n. 2, pp. 161-176. 3 Cf. J. BAUDRILLARD, Lo scambio simbolico e la morte, trad. it. Milano, Feltrinelli, 1979. 4 Cf. G. DELEUZE, Rovesciare il platonismo, ora in ID., Logica del senso, trad. it. Milano, Feltrinelli, 1972², pp. 223-234, col titolo Platone e il simulacro. 5 Cf. G. DELEUZE, Differenza e ripetizione, trad. it. Bologna, Il Mulino, 1971. 1 2

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gli enti, in un radicale empirismo e materialismo6, si affermano per se stessi come copie di altre copie senza modello, come simulacri, l’essere si presenta come la differenza che si predica di ciascuno di essi e come problematico, cioè abitato da una virtualità che lo mette in divenire aprendolo a una sempre maggiore differenziazione che si attualizza lungo linee divergenti e sempre asimmetriche tra loro. L’ordine che ne deriva è in realtà un caos di distribuzioni nomadi e di gerarchie anarchiche, e il soggetto che si muove in esso è passivo, cioè è portatore di facoltà che vengono messe in movimento dall’incontro con enti, è costituito da questi incontri, è un io debole, scisso, un nomade7. A partire dagli anni Settanta Deleuze tenta di spiegare la genesi della metafisica ricorrendo ad un modello unitario in cui il pensiero dell’identità è spiegato come una piega del dinamismo del reale, il momento del suo distendersi. Così nell’Anti-Edipo esso scaturisce da un particolare investimento del desiderio, e in Mille piani dall’irrigidirsi delle linee di fuga lungo cui si compie il divenire in linee molari, sedentarie, che producono dispositivi di potere, apparati di stato e di codificazione. Il linguaggio, e i rapporti di significazione che esso espone, sono evidentemente organici alla rappresentazione, dicono l’organizzazione a cui danno luogo le linee molari. Già nel 1969, in Logica del senso, Deleuze aveva ricondotto il linguaggio all’evento come attributo incorporeo dei corpi che “non esiste al di fuori della proposizione che lo esprime, ma differisce per natura dalla sua espressione”8, che esso rende possibile separando i suoni dai corpi, dai loro rumori, in modo da renderli disponibili per la funzione espressiva. La parola si colloca allora su una superficie intermedia tra il rumore delle profondità e la voce delle altezze che proibisce a partire da un ordine delle preesisten6 Per un’interpretazione di Deleuze come filosofo materialista cf. F. LESCE, Un’ontologia materialista. Gilles Deleuze e il XXI secolo, Milano, Mimesis, 2004. Per una ricostruzione complessiva del pensiero di Deleuze cf. il mio Deleuze e il pensiero del molteplice, Milano, Angeli, 1990; C. DI MARCO, Deleuze e il pensiero nomade, Milano, Angeli, 1995; U. FADINI, Deleuze plurale. Per un pensiero nomade, Bologna, Pendragon, 1998. Sulla differenza dell’ontologia di Deleuze da quella di Heidegger cf. i miei “Ontologia della differenza e pensiero della molteplicità. Note su Deleuze e Heidegger”, Fenomenologia e società 16 (1993) 2, pp. 9-26, e Una disavventura della differenza. Heidegger e i “francesi”, in Soggetto e verità. La questione dell’uomo nella filosofia contemporanea, a cura di E. Fagiuoli e M. Fortunato, Milano, Mimesis, 1996, pp. 119-136. 7 Sul soggetto in Deleuze cf. il mio Soggettività e storia, Milano, Unicopli, 2002, pp. 2351, e F. CASSINARI, Dalla differenza al soggetto, Milano, Mimesis, 2000, pp. 45-59. 8 G. DELEUZE, Logica del senso, cit., p. 162.

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ze. Questa superficie è ancora la superficie fisica della sessualità. Condizionata da questa, la parola non è ancora linguaggio, poiché le manca il senso, quella “materia o ‘strato’ ideale” “capace di assicurare una genesi reale della designazione e delle altre dimensioni della proposizione”9 che è ciò che è espresso dalla proposizione, appunto l’evento indicato dal verbo di essa. La parola diventa linguaggio quando si produce il senso, ma ciò avviene sulla superficie metafisica attraverso la desessualizzazione. Il linguaggio è dunque una organizzazione secondaria nella quale le serie sessuali vengono duplicate e rimosse: “attraverso tutto ciò che il linguaggio designerà, manifesterà, significherà, vi sarà una storia sessuale mai designata, manifestata né significata per se stessa, ma che sussisterà in tutte le operazioni del linguaggio”10. Ora le forme della rappresentazione “riproducono i loro diritti […] nelle designazioni, significazioni, manifestazioni del linguaggio quotidiano sottoposto alle regole del buon senso e del senso comune”, in un “ordinamento finale [che] riprende la voce dall’alto del processo primario”11 in vista di quello che è il vero obiettivo della rimozione: la profondità che minaccia continuamente di investire con la propria energia tutte le superfici sconvolgendone le organizzazioni, poiché, come è stato notato, “il non senso […] può anche cessare di passare nel senso, inghiottendolo e provocando la mescolanza tra i fonemi e le azioni e le passioni dei corpi […] La logica del senso è una logica della non sussistenza e della non consistenza del senso; essa mostra sia la possibilità del suo irrigidimento nel senso comune che l’eventualità di una sua caduta nel delirio”12. Questa spiegazione della funzione del linguaggio si ritrova in Mille piani, dove essa viene più ampiamente articolata da Deleuze, e da Félix Guattari, coautore dell’opera, attraverso la critica dei postulati della linguistica, in un contesto in cui l’analisi si è spostata dal livello della proposizione, al quale ancora si manteneva in Logica del senso, al livello più profondo dell’enunciato, come funzione espressiva primitiva impersonale e in rapporto con ambiti non discorsivi13. In base al primo di questi postulati il linguaggio sarebbe informativo e comunicativo, ma Deleuze, lavorando sul modello offerto dall’uso del linguaggio da parte di un insegnante nell’esercizio delle Ivi, p. 25. Ivi, p. 214. 11 Ivi, p. 219. 12 C.-C. HÄRLE, Linguaggio, evento, paradosso. Sulla “Logica del senso” di Deleuze, in Figure del paradosso, a cura di R. Genovese, Napoli, Liguori, 1992, p. 143. 13 Cf. G. DELEUZE, Foucault, trad. it. Milano, Feltrinelli, 1987, pp. 13-31. 9

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sue funzioni, rileva che esso in realtà impone qualcosa al bambino, cioè dà ordini, e non si preoccupa neppure di essere creduto, ma che si obbedisca, secondo il modello dei comunicati della polizia o del governo, indifferenti alla loro stessa verosimiglianza. Perciò “l’unità elementare del linguaggio – l’enunciato – è la parola d’ordine”14, che Deleuze definisce “non una categoria particolare di enunciati espliciti (per esempio all’imperativo), ma il rapporto di ogni parola o di ogni enunciato con presupposti impliciti, cioè con atti di parola che si compiono nell’enunciato e possono compiersi soltanto in esso”, per cui le parole d’ordine rinviano “a tutti gli atti che sono legati a enunciati da un ‘obbligo sociale’”, e l’intero linguaggio “non può essere definito se non dall’insieme delle parole d’ordine, presupposti impliciti o atti di parola che insistono a un dato momento in una lingua”15. La teoria critica del linguaggio in Mille piani ruota tutta intorno a questa asserzione. Deleuze sottolinea infatti come non ci sia enunciato che non contenga questo rapporto, per cui anche una domanda o una promessa sono in realtà parole d’ordine. Al linguaggio interessa solo che qualcosa venga detta, essa poi comunicherà la quantità minima d’informazione necessaria a trasmettere e far eseguire un ordine. In questo senso “il linguaggio non si limita ad andare da un primo a un secondo, da qualcuno che ha visto a qualcuno che non ha visto, ma necessariamente da un secondo a un terzo, nessuno dei quali ha visto”, cioè trasmette ciò che è stato comunicato, un sentito: l’origine del linguaggio è il linguaggio, e “la traslazione propria del linguaggio è quella del discorso indiretto”16. Ogni linguaggio è trasmissione di parole d’ordine in quanto è discorso indiretto, e viceversa, e per questo la parola d’ordine è una funzione coestensiva al linguaggio. Per spiegare questa coestensività Deleuze si appoggia alle tesi di Austin secondo le quali tra parola ed azione non ci sono rapporti estrinseci, come descrivere o provocare un’azione, ma anche rapporti intrinseci in quanto ci sono azioni che si compiono dicendole, nel linguaggio performativo, o semplicemente parlando, nel linguaggio illocutivo. In entrambi i casi ci troviamo davanti a presupposti impliciti o non discorsivi del linguaggio. Già da questo Deleuze trae tre conseguenze: l’impossibilità di concepire il linguaggio come un codice e la parola come la comunicazione di un’infor14 G. DELEUZE – F. GUATTARI, Mille piani, trad. it. Roma, Cooper & Castelvecchi, 2003, p. 127. 15 Ivi, p. 131. 16 Ivi, p. 129.

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mazione, che presuppongono un uso più ristretto del linguaggio; la centralità della pragmatica, che diviene il presupposto delle altre dimensioni del linguaggio; e infine l’impossibilità di distinguere lingua e parola perché non esiste un uso individuale di una significazione primaria o di una sintassi al di fuori degli atti di parola che esse presuppongono. Ma sulla base di questo Deleuze sottolinea che mentre il performativo non rinvia a degli atti, ma, come dimostra Benveniste, a termini autoreferenziali, i cosiddetti shifters, come ‘io’, ‘tu’ ecc., in modo che gli atti sono spiegati da una struttura di soggettività, è l’illocutivo che si spiega con atti equivalenti di atti giuridici che distribuiscono i soggetti nella lingua, e così costituisce i presupposti impliciti o non discorsivi e spiega lo stesso performativo. Ora, fra l’enunciato e l’atto non c’è identità, ma piuttosto ridondanza. La parola d’ordine è questa ridondanza, alla quale sono subordinate sia l’informazione e la comunicazione, sia la significanza e la soggettivazione, per cui “non c’è significanza indipendente dalle significazioni dominanti, non c’è soggettivazione indipendente da un ordine costituito di assoggettamento”, poiché “ambedue dipendono dalla natura e dalla trasmissione delle parole d’ordine in un determinato campo sociale”, e quindi, più in generale, “non vi è enunciazione individuale e neppure soggetto d’enunciazione”17: l’enunciazione è sempre sociale, rinvia a concatenamenti collettivi che determinano come propria conseguenza i processi relativi di soggettivazione, le assegnazioni di individualità e le loro distribuzioni mobili nel discorso e che Deleuze identifica appunto con i complessi ridondanti dell’atto e dell’enunciato che lo compie, secondo un modello che ricorda l’evento di Logica del senso. Deleuze ritiene infatti ancora provvisoria tale definizione, e indica la via per giungere ad una definizione più compiuta nella comprensione degli atti immanenti al linguaggio, che egli definisce ora appunto come gli eventi di Logica del senso, cioè come “l’insieme delle trasformazioni incorporee che hanno corso in una determinata società e che si attribuiscono ai corpi di questa società”18, che sono l’espresso di un enunciato. Esempi di questa trasformazione incorporea sono trovati da Deleuze nella sentenza di un magistrato, che trasforma un imputato in un condannato senza incidere sulla corporeità, né sua né di altri; o nel decreto di mobilitazione generale che trasforma i cittadini in soldati. Ciò che caratterizza tutti questi casi è l’istantaneità del rapporto dell’enunciato con le trasformazioni incorporee che esso esprime. 17 18

Ivi, p. 132. Ivi, p. 133.

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A questo punto non resta altro da specificare della critica deleuziana del primo presupposto della linguistica se non l’enfasi che Deleuze pone sulla centralità della pragmatica in quanto “politica della lingua”, capace di mostrare “fino a che punto la politica lavori la lingua dall’interno, facendo variare non soltanto il lessico, ma la struttura e tutti gli elementi delle frasi, nello stesso tempo in cui le parole d’ordine mutano”19. La pragmatica infatti “definisce l’effettuazione della condizione del linguaggio e l’uso degli elementi della lingua”20, che sono compiuti appunto dalle parole d’ordine e dai concatenamenti collettivi, che “non si confondono con il linguaggio”, che si trasformano ma non in funzione del linguaggio, ma senza i quali “il linguaggio rimarrebbe pura virtualità”21. Grazie a questa effettuazione la parola d’ordine, attraverso il concatenamento collettivo da cui discende, è una funzione coestensiva al linguaggio. A partire da questi presupposti, e continuando a riprendere le analisi di Logica del senso, Deleuze obietta al secondo postulato della linguistica, che attribuisce alla lingua l’autonomia da fattori esterni, che una lingua presenta una forma di contenuto, che è la trama dei corpi, e una forma d’espressione, che è il concatenamento degli espressi, espressione di trasformazioni incorporee. Queste due forme sono indipendenti ed eterogenee, e la seconda si attribuisce ai corpi, ma non per descriverli o rappresentarli, bensì per intervenire con le sue trasformazioni istantanee nei contenuti e nelle loro modificazioni continue: “in breve, l’indipendenza funzionale delle due forme è soltanto la forma della loro presupposizione reciproca e del passaggio incessante dall’una all’altra”22. Qui Deleuze mette in guardia da due possibili errori che egli ritiene derivare da una concezione dell’enunciato da lui definita ideologica, e che caratterizzano in fondo la concezione tradizionale della lingua. Il primo consiste nel credere che il contenuto determini l’espressione per azione causale. Tale errore non tiene conto dell’indipendenza delle forme di contenuto e di espressione ed attribuisce loro le lotte che attraversano un corpo sociale e da cui invece sono esenti, mentre esse vengono prese dal concatenamento collettivo che le deterritorializza e le riterritorializza determinando sia le loro variabili sia le loro inserzioni reciproche. Il secondo errore consiste invece nel credere alla sufficienza dell’espressione come sisteIvi, pp. 135-136. Ivi, p. 139. 21 Ivi, p. 138. 22 Ivi, p. 141. 19 20

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ma linguistico identificato come una semantica di fronte a cui i contenuti verrebbero considerati un semplice riferimento e la pragmatica un’esteriorità di fattori non linguistici. A questa concezione Deleuze obietta di non essere abbastanza astratta, di fermarsi ad un livello di astrazione intermedia dove i fattori linguistici possono essere considerati in se stessi e come delle costanti. Procedendo invece verso una maggiore astrazione si raggiungerebbe un livello in cui queste costanti farebbero posto a delle variabili d’espressione inseparabili da variabili di contenuto, cioè si rivelerebbe la pragmatica interna ad ogni linguistica. Ora contenuto ed espressione non sono più il significato e il significante, ma le variabili del concatenamento e la lingua appare penetrata dal campo sociale e dai problemi politici, dislocata su “un piano i cui elementi non hanno più un ordine lineare fisso”23. L’idea che la lingua contenga delle costanti o universali si presenta anche alla base di quello che Deleuze individua come il terzo postulato della linguistica, autorizzando la definizione della lingua come sistema omogeneo e tenendolo ancor più al riparo dalla pragmatica. Al di là del fatto che questo problema assume varie forme tra loro connesse che Deleuze illustra e che qui non è possibile riprendere, Deleuze contesta che ci sia ragione “di legare l’astratto all’universale o al costante”, poiché anzi “ogni sistema è in variazione e non si definisce per le sue costanti e le sue omogeneità, ma al contrario per una variabilità che ha la caratteristica di essere immanente, continua, e regolata in modo assai particolare”24. Una lingua allora è definita non tanto dalle sue invarianti quanto dalla linea di variazione che l’attraversa e che investe non solo le situazioni, ma anche l’enunciato, secondo, appunto, il punto di vista della pragmatica già chiarito da Deleuze. Quanto alla linea di variazione, Deleuze la definisce in termini bergsoniani, e perciò ontologici, come un virtuale che è reale senza essere attuale, quindi dotata di una continuità che non è la continuità della variabile, che può interrompersi senza che si interrompa la sua variazione continua, secondo un modello che Deleuze ritrova nelle procedure della musica. La legittimità di questa interpretazione della struttura, o forse meglio della vita di una lingua scaturisce dalla constatazione che “tutte le lingue sono in variazione continua immanente: né sincronia né diacronia, ma asincronia, cromatismo come stato variabile e continuo della lingua”25, e in questa variazione Deleuze vede consistere quello che chiamiamo stile, che Ivi, p. 146. Ivi, pp. 148-149. 25 Ivi, p. 154. 23 24

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finisce col formare una lingua nella lingua, in modo che la linguistica deve aprirsi non solo alla pragmatica, ma anche a quella stilistica che è stata invece tradizionalmente tenuta distinta da essa. Perciò Deleuze può concludere che “non c’è […] motivo di distinguere una lingua collettiva e costante e degli atti di parola, variabili e individuali”, poiché una lingua “non è universale e nemmeno generale, è singolare; […] non ha regole obbligatorie e invariabili, ma regole facoltative che variano incessantemente con la variazione stessa”, essa “è come il diagramma di un concatenamento”: “traccia le linee di variazione continua, mentre il concatenamento concreto tratta le variabili”26, e questo è per Deleuze un altro modo di esprimere la coestensività della parola d’ordine alla lingua, indicando nei soggetti parlanti i vettori dell’articolarsi concreto del concatenamento nella lingua. Ma l’emergere di quest’ultimo aspetto della lingua mette in crisi anche il quarto postulato della linguistica: la trattabilità scientifica della lingua solo nelle condizioni di una lingua maggiore o standard. Deleuze rimprovera a questo metodi di fare “tutt’uno con un modello politico attraverso il quale la lingua viene omogeneizzata, centralizzata, standardizzata, lingua di potere, maggiore o dominante”, poiché “formare frasi grammaticalmente corrette è, per l’individuo normale, la condizione preliminare di ogni sottomissione alle leggi sociali”: “l’unità di una lingua è anzitutto politica”27, e la politica impone ai parlanti le costanti isolate dalla scienza, raddoppiando l’impresa di questa. E tuttavia Deleuze si rifiuta di opporre alle lingue maggiori delle lingue minori definite dalla potenza della variazione quali potrebbero essere i dialetti o le lingue che su scala mondiale cedono alla supremazia dell’inglese. Una lingua minore infatti finisce con l’essere trattata allo stesso modo di una lingua maggiore, in modo da diventare una lingua maggiore locale, ma allo stesso tempo non c’è lingua maggiore, e l’inglese ne è la prova più evidente, che non sia lavorata dall’interno da variazioni continue a cui è sottoposta dalle sue minoranze che la espongono al modo di essere minore. Anche qui, come in tutta questa analisi, Deleuze contrappone i risultati della sociolinguistica di W. Labov al modello generativista di Chomsky, da lui ritenuto troppo rigido, o tale da irrigidire il divenire di una lingua legato ad istanze extralinguistiche. In realtà dunque “‘maggiore’ e ‘minore’ non qualificano due lingue, ma due usi o funzioni della lingua”28, o “due trattamenti possibili di una stessa Ivi, p. 157. Ivi, p. 158. 28 Ivi, p. 162. 26 27

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lingua”, l’uno dei quali estrae costanti dalle variabili, l’altro mette tutti gli elementi di una lingua in variazione continua lasciando spazio all’azione dei tratti non distintivi, pragmatici, prosodici di essa, come quella esercitata dal tono sui fonemi, dall’accento sui morfemi, dall’intonazione sulla sintassi: “costante non si oppone a variabile, è un trattamento della variabile che si oppone ad un altro – quello della variazione continua”29. In questo una lingua minore appare allo stesso tempo più ricca e più povera: la sua povertà è una sottrazione di costanti, e la sua ricchezza è un’estensione delle variazioni, per cui “non abbiamo a che fare con una povertà e una sovrabbondanza che differenzierebbero le lingue minori in rapporto a una lingua maggiore/standard, ma con una sobrietà e una variazione simili a un trattamento minore della lingua standard, a un divenir-minore della lingua maggiore. Il problema non è quello di una distinzione fra lingua maggiore e lingua minore, ma quello di un divenire”30. Ancora una volta ed anche in questo caso come in tutto il suo pensiero, Deleuze sostituisce ad un modello dualistico un modello fortemente monistico e fortemente dinamico. Ma se il primo modello aveva senz’altro una matrice strutturalista, poiché la linguistica strutturale si costruisce su dualismi come lingua/parola o asse sintagmatico/asse paradigmatico, la sua sostituzione mostra quanto l’analisi del linguaggio sia importante per Deleuze anche come terreno sul quale prendere le distanze dallo strutturalismo, che secondo lui “non rende conto di questi divenire”, che esso anzi svaluta in quanto “vi scorge fenomeni di degradazione che deviano l’ordine vero e proprio e dipendono dalle avventure della diacronia”31. Deleuze insiste molto su questo divenire, perché gli permette di distinguere nella nozione di minore il momento politico e giuridico della minoranza, come stato definibile in base ad una sua territorialità, come un sottoinsieme non creativo, non rivoluzionario, quale può essere appunto il dialetto, o lo slang di un ghetto, e il momento del minoritario, i cui germi sono contenuti nella condizione di minoranza ma che sorge solo nella forma di un divenire minoritario di tutti che trascina tutte le dimensioni di una lingua maggiore e a cui Deleuze dà il nome di autonomia grazie proprio al suo continuo sottrarsi creativo allo spazio della Dominazione e del Potere, al Fatto maggioritario che è di Nessuno32. Il problema allora non è Ivi, p. 161. Ivi, pp. 162-163. 31 Ivi, p. 340. 32 Cf. ivi, pp. 164-165. 29 30

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più neanche quello del trattamento maggiore o minore di una lingua, ma, più radicalmente, del divenire minoritario di essa attraverso la variazione continua. Ma qui l’analisi di Deleuze ritorna al suo punto di partenza, se mai se ne era allontanata, alla parola d’ordine che, effettuando le condizioni di una lingua, rende conto del trattamento delle variabili e definisce l’uso della lingua stessa. Ora, la parola d’ordine ha due aspetti: da un lato, come si è già visto, è sentenza, verdetto che attribuisce ai corpi una trasformazione immediata, e come tale essa è figura; dall’altro è come un grido d’allarme e un segnale di fuga, e qui le variabili entrano nella variazione continua, le trasformazioni incorporee non cessano di essere attribuite ai corpi, e la figura viene esaurita. Ora la lingua tende al proprio limite e la forma di espressione e quella di contenuto non si possono più distinguere ma implodono nel gioco di una stessa materia senza figura, che serve da espressione come potenza incorporea e da contenuto come corporeità senza limiti. Un divenire minoritario del linguaggio dovrà allora ritrovare il continuum virtuale della vita sviluppando tutta la potenza di fuga della parola d’ordine, “dovrà estrarre una parola d’ordine dalla parola d’ordine”, poiché “sotto le parole d’ordine vi sono parole lasciapassare. Parole che sarebbero come di passaggio, mentre le parole d’ordine segnano arresti, composizioni stratificate, organizzate. La stessa cosa, la stessa parola, ha probabilmente questa doppia natura: bisogna estrarre l’una dall’altra – trasformare le composizioni d’ordine in componenti di passaggio”33. Prima di vedere come secondo Deleuze questa trasformazione è possibile e soprattutto da parte di chi essa può essere effettuata, va notato che la teoria della lingua elaborata da Deleuze e finora esposta si apre su altre prospettive che Deleuze non manca di esaminare e che qui è possibile solo indicare. Infatti, poiché “i concatenamenti si riuniscono in un regime di segni o macchina semiotica”, Deleuze rileva “che una società è attraversata da molte semiotiche e possiede di fatto regimi misti”34. Queste semiotiche sono speculari agli usi della lingua descritti finora. Deleuze ne distingue quattro, da quella più rigida, la semiotica significante, in cui i segni rinviano l’uno all’altro e sono organizzati intorno a un Significante, il viso, a quella più flessibile, la semiotica postsignificante, in cui un segno o un fa33 Ivi, pp. 169-170. Si noti come già in Foucault cit. la nozione di passaggio era servita a Deleuze a definire l’enunciato nella sua caratteristica di variazione continua attraverso sistemi eterogenei. 34 G. DELEUZE, Mille piani, cit., p. 137.

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scio di segni si distacca dalla rete circolare e fila su una linea retta lavorando per proprio conto, il rapporto di significazione è sostituito da un rapporto di enunciazione, il soggetto da una concatenazione collettiva di enunciazione che attiva un processo di soggettivazione, e il significante viene meno perché il viso si distoglie e si mette di profilo. Eppure in tutte queste semiotiche è ancora attiva una procedura di surcodificazione, affidata in ciascuna di esse a un’istanza diversa, e perfino nella quarta la linea di fuga che emerge è ancora negativa. Perciò Deleuze contrappone ad essa una diagrammatica come piano in cui la linea di fuga acquista valenza positiva determinando l’esplosione delle semiotiche e il disfacimento del viso, garante della significazione e della soggettivazione che schiacciano la polivocità. La lingua dunque come sistema di significazione promana dal volto del despota che parla frontalmente distribuendo parole d’ordine, mentre come diagramma della linea di fuga delle variabili d’enunciazione si muove su un volto che non è una superficie liscia ma segnata da buchi attraverso cui ribollono e risalgono le profondità della caverna platonica e le altezze sprofondano irrimediabilmente, congiungendo questi buchi, questi fulcri di passione di un’identità dissolta: essa è la lingua del cogito per un io dissolto di cui Deleuze aveva parlato in Differenza e ripetizione. E con questo appunto l’analisi del linguaggio in Deleuze si apre anche sul problema di una nuova costituzione della soggettività. Ma qui si torna al punto dove ci eravamo fermati prima di questa breve digressione: chiarire chi è questo io dissolto che parla significa chiarire chi effettua il divenire minoritario della lingua e quale è la sua lingua. Se fino ad ora Deleuze attraverso la critica della linguistica ha fornito le coordinate di una teoria materialistica del linguaggio, il compito che gli sta davanti ora è di produrre un linguaggio che riproduca il simulacro come puro divenire e quindi il caos popolato dai simulacri. A questo scopo si rivela proficua la nozione di variazione continua. Essa produce infatti una nuova forma di ridondanza caratterizzata dall’enfasi sulla congiunzione ‘e’ che viene ripetuta all’infinito proprio per mettere in variazione le variabili. In questo modo la variazione continua traduce quella sintesi disgiuntiva che in Differenza e ripetizione aveva affermato le serie divergenti di attualizzazione della virtualità dell’essere problematico, e nell’Anti-Edipo aveva espresso la potenza del desiderio35, in entrambi i casi in funzione di critica dell’identità. In Logica del senso questo modello era stato applicato al linguaggio come 35

Cf. G. DELEUZE-F. GUATTARI, L’anti-Edipo, trad. it. Torino, Einaudi, 1975², pp. 82 sgg.

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espressione del senso, cioè dell’evento puro, paradossale, problematico, per spiegare il rapporto di significazione come articolazione di due serie grazie ad un elemento mobile eccedente nell’una e assente nell’altra e capace non solo di connettere le due serie, ma anche di ramificarle e differenziarle all’infinito36. Questo elemento dunque “gioca un ruolo di tensore”, “fa in modo cioè che la lingua tenda verso un limite dei suoi elementi, forme o nozioni, verso un al di qua o un al di là della lingua”: “il tensore opera una specie di transitivizzazione della frase e causa una reazione dell’ultimo termine su quello che lo precede […] Esso assicura un trattamento intensivo e cromatico della lingua”37, quel trattamento cioè in cui consiste la messa in variazione, il divenire minoritario. Deleuze indica nelle sue diverse opere vari tipi di tensori. Tale può essere la stessa congiunzione ‘e’ nel suo eterno contrapporsi al verbo ‘è’, che afferma l’identità. In Logica del senso tensori sono le parole esoteriche di scrittori come il Joyce di Finnegans Wake o Lewis Carroll e tra esse soprattutto quelle che Deleuze chiama parole-bauli, che non si limitano a contrarre due serie eterogenee o a farle coesistere, ma le disgiungono perché “operano una ramificazione infinita delle serie coesistenti, e vertono a un tempo sulle parole e sui sensi, sugli elementi sillabici e semiologici”38. Ad un livello superiore tensori sono le espressioni atipiche, agrammaticali, asintattiche e asemantiche, che deterritorializzano una lingua strappando le forme corrette al loro stato di costanti, come quelle, che Deleuze ritrova in Cummings, del tipo he danced his did o they went their came. Tensori sono infine quelle che Deleuze chiama le lingue segrete, dialetti, gerghi, lingue professionali, filastrocche, grida di venditori, lingue intensive e cromatiche capaci di operare variazioni continue sugli elementi comuni di una lingua, di mettere in variazione il sistema delle sue variabili39. Quando il tensore riesce a mettere in variazione una lingua, si riconosce dal prodursi di una sorta di effetto di balbuzie, come quella legata al ripetersi della congiunzione ‘e’. Ma Deleuze precisa che si tratta qui di una balbuzie particolare, come “quando si diviene balbuzienti del linguaggio e non soltanto della parola. Essere uno straniero, ma nella propria lingua […] Essere bilingue, multilingue, ma in una sola, medesima lingua, senza avere nemmeno un dialetto o un gergo. Essere un bastardo, un meticcio. È Cf. G. DELEUZE, Logica del senso, cit., pp. 30 sgg. G. DELEUZE, Mille piani, cit., p. 156. 38 G. DELEUZE, Logica del senso, cit., p. 49. 39 Cf. G. DELEUZE, Mille piani, cit., pp. 153 e 156. 36 37

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così che lo stile si fa lingua. È così che il linguaggio diventa intensivo, puro continuum di valori e d’intensità”40, diventa minoritario, linguaggio non più delle altezze ideali ma delle passioni corporee. Non hanno allora torto coloro che credono che la messa in variazione della lingua sia un affare di bambini, di pazzi o di poeti, e se Deleuze li critica è solo perché ritengono che sia un affare solo di costoro, destinato a rimanere marginale e a non esprimere il lavoro ordinario di una lingua, poiché egli stesso, quando deve indicare forme di messa in variazione di una lingua, ricorre agli esempi forniti dai bambini, dai pazzi e dai poeti. Per quanto riguarda i bambini può valere l’esempio del linguaggio messo in campo da Carroll o quello delle filastrocche, tanto più che Deleuze si occupa poco di loro, mentre maggiore attenzione rivolge ai pazzi. In Logica del senso Deleuze aveva anticipato questa attenzione attraverso una ripresa di Artaud e della sua avversione per le parole esoteriche di Carroll. In Artaud infatti la funzione di tensore è svolta da una parola sovraccaricata di consonanti gutturali che restituiscono non tanto una sintesi di valori fonetici di serie divergenti quanto i valori tonici del tutto inarticolati espressi dai rumori della profondità. Questo linguaggio è ritrovato da Deleuze appunto nella schizofrenia attraverso l’analisi del delirio linguistico di Lewis Wolfson, che consiste nella conversione continua di termini di una lingua in termini di un’altra lungo linee segnate dalla presenza di consonanti comuni. Il procedimento di Wolfson è infatti esemplare per Deleuze, in quanto indica il ruolo di agenti di disgiunzione che le parole hanno nel linguaggio schizofrenico: ora infatti “la parola intera perde il suo senso […] scoppia in frammenti, si decompone in sillabe, lettere, soprattutto consonanti […] ha cessato di esprimere un attributo di stato di cose, i suoi frammenti si confondono con qualità sonore insopportabili”41, diventano valori fonetici urtanti, esclusivamente tonici e non scritti, che sostituiscono i valori letterali, sillabici e fonetici. È una parola-passione che ricade sul corpo e lo fa soffrire, cancellando la linea di distinzione e articolazione dei corpi e degli enunciati, del significante e del significato, linea del senso e del linguaggio, e rendendo quindi impossibile l’intera organizzazione di quest’ultimo. Nel linguaggio schizofrenico infatti la parola funziona come un oggetto parziale che non deriva da un tutto e non è finalizzato ad esso, anzi è ribelle ad ogni totalizzazione e ad ogni simbolizzazione, è tale da imporre il suo carattere 40 41

Ivi, p. 155. G. DELEUZE, «Le schizophrène et le mot», Critique XXIV (1968) 255-256, p. 740.

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di frammento anche a ciò che rappresenta. Da ciò deriva una “logica dell’oggetto parziale” caratterizzata da questo rapporto “pezzo su pezzo” come rapporto di imbricazione violenta e di insufflazione di flussi attraverso cui le cose sono prese nelle parole42, che rende impossibile sia la designazione, sia la significazione, sia il senso in forza della differenza tra un pezzo e l’altro e della definizione di ogni pezzo in base ad una molteplicità formale. Ma ancor più attenzione Deleuze rivolge al linguaggio letterario, la cui analisi domina tutta l’ultima fase del suo pensiero. Già l’interesse per Carroll e Artaud in Logica del senso, pur collocandosi all’interno di un più vasto e sempre costante interesse di Deleuze per la letteratura, aveva testimoniato questa attenzione, ma ciò che ora diviene centrale nella sua ricerca di modelli ed esempi di un uso bastardo, balbuziente, straniero della lingua è l’esperienza dello scrittore alloglotto, dell’irlandese Becket che scrive contemporaneamente in inglese e in francese, o dell’ebreo ceco Kafka che scrive in tedesco, vero modello , secondo Deleuze, di una lingua minore, poiché “nell’Impero austriaco, il ceco è una lingua minore in rapporto al tedesco; ma il tedesco di Praga funziona già come lingua potenzialmente minore in rapporto a quello di Vienna o di Berlino; e Kafka […] fa subire al tedesco un trattamento creatore di lingua minore, costruendo un continuum di variazione, negoziando tutte le variabili per restringere le costanti ed estendere contemporaneamente le variazioni”43. Kafka produce in questo modo un linguaggio che “cessa di essere rappresentativo per tendere verso i suoi limiti o i suoi estremi”44, poiché sfrutta i suoi elementi intensivi o tensori e così recupera le modalità schizofreniche del linguaggio diventando un linguaggio di puri suoni, “strappato al senso, conquistato sul senso, che opera una neutralizzazione del senso, [e] trova la propria direzione solo in un accento di parola, in un’inflessione”45. Questo linguaggio soddisfa per Deleuze le tre condizioni che qualificano quella che egli chiama una letteratura minore, e cioè “la deterritorializzazione della lingua, l’innesto dell’individuale sull’immediato-politico, il concatenamento collettivo d’enunciazione”46, grazie alle quali “la letteratura diviene real42 G. DELEUZE, Schizologie, Préface à L. Wolfson, Le schizo et les langues, Paris, Gallimard, 1970, pp. 14-15. 43 G. DELEUZE, Mille piani, cit., p. 162. 44 G. DELEUZE-F. GUATTARI, Kafka. Per una letteratura minore, trad. it. Milano, Feltrinelli, 1975, p. 38. 45 Ivi, p. 35. 46 Ivi, p. 30.

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mente macchina collettiva d’espressione”47, “capace di disorganizzare le proprie forme, e di disorganizzare le forme di contenuti, per liberare dei puri contenuti che si confonderanno con le espressioni in un’unica materia intensa”48. Si dà dunque letteratura minore solo attraverso l’uso minore del linguaggio, ma questa è la sola condizione a cui la letteratura è veramente popolare, rivoluzionaria, creativa. Ma questa non è una questione che riguarda solo la letteratura, poiché anzi “ciascuno deve trovare la lingua minore, dialetto o piuttosto idioletto, a partire dalla quale potrà rendere minore la sua propria lingua maggiore”: questa è la lezione che ci viene dalla letteratura minore, da quegli autori “che vengono chiamati ‘minori’, e sono i più grandi, i soli realmente grandi: dover conquistare la loro stessa lingua, raggiungere cioè nell’uso della lingua maggiore una sobrietà che potrà metterla in stato di variazione continua”49. Perciò l’uso minore della lingua contribuisce anche a individuare quella figura che Deleuze chiama l’anomalo rispetto al proprio gruppo, cioè quel “fenomeno dei bordi” che “porta solo affetti”50 e per questo “non solo orla ogni molteplicità di cui determina, con la dimensione massima provvisoria, la stabilità temporanea e locale; […] ma conduce le trasformazioni di divenire o i passaggi di molteplicità sempre più lontano sulla linea di fuga”51 deterritorializzando il proprio gruppo stesso. L’uso minore della lingua è allora un compito che riguarda tutti, all’interno del generale compito di divenire minoritari, di divenire minoranze e come aspetto specifico di esso. Ma poiché Deleuze è convinto che “divenir-minoritario è una questione politica che ricorre a tutto un lavoro di potenza, a una micropolitica attiva”52, si vede in quale direzione si allarga il discorso di Deleuze sul linguaggio. C’è la lingua maggiore, lingua della maggioranza, della grammatica e della sintassi, lingua dei soggetti identitari, lingua delle altezze, della metafisica e del potere, e c’è la lingua minore, quella delle minoranze, lingua delle intensità, del divenire, della variazione continua, lingua dei soggetti scissi, delle identità perdute, della schizofrenia, lingua delle profondità corporee e delle loro passioni che trascinano le Ivi, p. 31. Ivi, p. 45. 49 G. DELEUZE, Mille piani, cit., p. 163. 50 Ivi, p. 349. 51 Ivi, p. 355. 52 Ivi, p. 406. 47 48

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identità, lingua dei nomadi e di un pensiero nomade. Parlare di una pragmatica della lingua significa collocare la lingua su questo sfondo articolato in cui politica e pensiero, inconscio e società ricadono l’uno sull’altra. Significa capire che il linguaggio è attraversato dalla politica, è un campo di battaglia tra l’istanza del potere e quella della sovversione. Significa pensare che la rivoluzione è anche un microprocesso che riguarda il modo stesso di parlare come espressione di un modo di pensare e di vivere. Significa ribadire che nella lingua non è in questione solo la lingua.

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La preminenza da accordare ad alcune categorie logiche in una antropologia materialistica dipende in misura ragguardevole dal fatto che senza il loro ausilio andrebbe a vuoto ogni tentativo di ricostruire la trama delle passioni tipicamente umane. Non vi è una sola tonalità emotiva degna di nota, tale cioè da qualificare il rapporto dell’Homo sapiens con l’ambiente e i conspecifici, che non sia innervata o modificata alla radice dalla negazione, dalla modalità del possibile, dal regresso all’infinito. Proprio queste tre strutture logiche, che pure appartengono alla regione più disincarnata e autoriflessiva del pensiero verbale, garantiscono l’articolazione tra il pensiero verbale nel suo insieme e l’ambito percettivo-pulsionale. Le passioni della nostra specie sono il risultato di questa articolazione. Scrive Aristotele: «un desiderio che pensa, e un pensiero che desidera, questo è l’uomo» (EN, 1139 b 4-5; cf. LO PIPARO 2003, pp. 14-19). A determinare non tanto i pensieri del desiderio e i desideri del pensiero, quanto la stessa giuntura tra desiderio e pensiero, provvedono sempre di nuovo, come si è detto, la negazione, la modalità del possibile, il regresso all’infinito. Sicché, una teoria delle passioni che voglia aderire realmente al proprio oggetto, evitando di perdersi nelle astrazioni a un tempo spassionate e spensierate di cui è prodigo l’approccio psicologistico, deve rivolgere senz’altro lo sguardo alla logica. In queste pagine, tuttavia, non sono in questione la negazione e la modalità del possibile, ma soltanto il regresso all’infinito. Si tratta dunque di capire in che modo l’‘e così via’ privo di esito incida sugli affetti dell’animale umano, alcuni riorganizzandoli in profondità, altri addirittura suscitandoli di bel nuovo. Le passioni dell’animale umano sono legate a doppio filo alle tre prerogative fondamentali che consentono alla nostra specie di adattarsi al contesto vitale: l’iper-riflessività, ossia la necessità biologica di rappresentare le proprie rappresentazioni e di intervenire operativamente sulle proprie o1 Avvertenza. Questo testo corrisponde ad una parte di un lavoro più ampio in svolgimento, il cui tema è l’importanza che ha la figura logica del regresso all’infinito per una antropologia dalle spalle larghe, in grado cioè di cogliere realmente i tratti salienti della nostra specie.

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perazioni; la trascendenza, ossia la necessità biologica di proiettarsi al di là del qui-e-ora per restare aggrappati a esso, di distaccarsi dalla propria vita per continuare a vivere; la duplicità di aspetto, ossia la necessità biologica di una esistenza artificiale o storico-culturale, comunque extra-biologica. Le passioni dell’animale umano mettono radici in questi dispositivi adattativi, li segnano da cima a fondo, ne sono definite e concorrono a definirli. Non mi sembra azzardato parlare partitamente di affetti iper-riflessivi, stati d’animo trascendenti, emozioni dal duplice aspetto. È quel che farò di qui a poco. Prima, però, è indispensabile una considerazione di portata generale. Sappiamo che le tre prerogative bio-antropologiche sono sottoposte alla ricorsività sintattica (cf. CHOMSKY 1957, 1965, 1975 e PUTNAM 1981): possono applicarsi nuovamente, cioè, agli stati di cose che proprio esse hanno appena generato. Sappiamo anche che, se reiterate ricorsivamente, l’iper-riflessività, la trascendenza, la duplicità di aspetto danno luogo a un regresso all’infinito: ogni metarappresentazione diventa la materia prima di un’altra e più potente rappresentazione, ogni trascendimento del qui-e-ora figura come il punto di partenza di un ulteriore trascendimento. Ora, è del tutto evidente che le tonalità emotive della nostra specie, essendo radicate nelle tre prerogative bio-antropologiche, risultano esse pure passibili di reiterazione ricorsiva: un affetto si applica ogni volta da capo alla situazione che la sua stessa insorgenza ha provocato. Poiché la ricorsività sintattica non cessa di modularle, anche le passioni, al pari dei dispositivi adattativi in cui si incistano, sono aperte a un regresso all’infinito. Ciò che conta è questa apertura, non l’effettivo decorso del regresso. È la semplice possibilità di un inconcludente ‘e così via’ a determinare la natura delle passioni, nonché i modi della loro manifestazione. La tristezza istantanea e la gioia di un breve momento, pur non duplicandosi realmente in tristezza per la tristezza e in gioia per la gioia, sono quel che sono perché potrebbero nondimeno duplicarsi più e più volte, ovvero perché non mancano mai di covare in seno una interminabile marcia a ritroso. Emozioni e ricorsività sintattica, affetti e regresso all’infinito. L’esame di questo nesso cruciale si articola nei seguenti passi: a) l’individuazione di una passione talmente basilare, da risultare coestensiva a tutt’e tre le prerogative bio-antropologiche, inseparabile dalla loro stessa definizione; b) una rassegna sommaria delle passioni che, viceversa, concernono specificamente l’esercizio dell’una o dell’altra singola prerogativa; c) la descrizione del modo in cui una gerarchia ascendente di livelli logici trasforma alcuni affetti fino a renderli meritevoli di un nuovo nome; d) la messa in rilievo

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dei sentimenti che, lungi dal preesistere al regresso ed essere poi riplasmati da esso, si presentano piuttosto come i sentimenti del regresso: dunque quelli che, oltre a costituire una conseguenza diretta dell’‘e così via’ privo di esito, hanno in quest’ultimo il loro peculiare contenuto emotivo. 1. L’animale vergognoso L’iper-riflessività, la trascendenza, la duplicità di aspetto introiettano e metabolizzano un dato di fatto che caratterizza la nostra specie: la mancanza di una corrispondenza biunivoca tra il “profluvio di stimoli” provenienti dall’ambiente e le azioni da compiere per conservare e potenziare la propria vita (cf. GEHLEN 1940). Poiché le impressioni percettive non si traducono in un repertorio di compiti operativi, l’animale umano è affetto da una basilare incertezza la cui tonalità emotiva è la vergogna. Vergogna di non sapere che cosa fare nell’una o nell’altra circostanza, di non discernere con innata sicurezza ciò che è nocivo da ciò che è propizio. Vergogna di compiere azioni sempre e comunque arbitrarie, mai veramente proporzionate alle sollecitazioni sensoriali. Le tre prerogative bio-antropologiche, insieme alla mancata corrispondenza tra stimoli ambientali e comportamenti vantaggiosi, introiettano e metabolizzano anche la tonalità emotiva che a tale deficit è intimamente correlata. La vergogna è il contrappunto sentimentale della iper-riflessività, della trascendenza, della duplicità di aspetto. Proprio questa passione accomuna i differenti dispositivi adattativi, costituendo l’inamovibile orizzonte contro cui si stagliano le loro particolari prestazioni. Come una sorta di basso continuo, la vergogna accompagna ogni metarappresentazione, ogni distanziamento dal proprio qui-e-ora, ogni condotta naturalmente artificiale. La loro incompletezza – attestata dalla necessità di rappresentare la metarappresentazione, distanziarsi dal precedente distanziamento, elaborare un più complesso artificio – conferma sempre di nuovo, infatti, lo iato iniziale tra stimoli e azioni. È ben vero, tuttavia, che le tre prerogative bio-antropologiche occultano per un momento l’originaria incertezza dell’animale umano. In tal modo, esse convertono la vergogna in pudore. Ma il sentimento del pudore è ambivalente, dato che intensifica a dismisura l’imbarazzo che vorrebbe interdire. L’occultamento pudico della nostra incertezza circa le azioni da compiere implica che il suo prossimo e inevitabile disoccultamento sia più increscioso che mai. Lungi dal combaciare con la paralisi e l’impotenza, la vergogna è anche operosa:

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la sua peculiare attività consiste nel sollecitare un insieme di contromisure che, se per un verso sembrano placarla, per l’altro la ripropongono con più forza, come accade in ogni spirale che si rispetti. La costante metamorfosi del pudore adattativo in vergogna da disorientamento e della vergogna in pudore alimenta una marcia a ritroso sentimentale. Il pudore, del resto, è già in se stesso una vergogna alla seconda potenza, reiterata ricorsivamente: vergogna di avere vergogna, per l’appunto. Dal canto suo, l’aperto imbarazzo che sopravviene subito dopo è alla terza potenza, giacché comprende al proprio interno, come un gradino subordinato, la precedente tappa pudica: vergogna di avere vergogna di avere vergogna. E così via, all’infinito. 2. Affetti iper-riflessivi, stati d’animo trascendenti, emozioni dal duplice aspetto Nel novero delle passioni tipicamente umane, che d’ora in avanti chiamerò senz’altro ricorsive, la vergogna gode di una posizione unica: in virtù del suo carattere basilare e pervasivo, essa non esce mai di scena. Poiché avvolge e impregna di sé tanto l’iper-riflessività che la trascendenza e la duplicità di aspetto, la vergogna fa tutt’uno con l’esistenza stessa di queste prerogative fondamentali della nostra specie, costituendo il loro minimo comune denominatore emotivo. Le rimanenti passioni sono connesse, invece, al concreto esercizio di una singola prerogativa. Alcuni affetti ineriscono soprattutto all’attività metarappresentativa, altri esprimono soltanto il cronico distanziamento dal contesto ambientale, altri ancora si limitano a scandire la perpetua oscillazione tra naturalezza e artificialità della prassi. È opportuno soffermarsi su questa tripartizione. Se la vergogna è uno sfondo sempre presente, le passioni cui ora accenneremo hanno una ubicazione circoscritta e ben rilevata all’interno dello spazio antropologico. Consideriamo anzitutto gli affetti iper-riflessivi. Inscindibili da una serie virtualmente infinita di metarappresentazioni sono, per esempio, la gelosia, la paura, il desiderio dell’Io di essere riconosciuto da un altro Io. La gelosia implica la preliminare capacità di rappresentarsi le rappresentazioni della persona per la quale si prova questo sentimento, come pure la successiva inclinazione a prendere come oggetto di rappresentazione la propria iniziale, e assai dolente, metarappresentazione. La paura si nutre di una spirale di prestazioni riflessive rispetto allo stato di cose potenzialmente minaccioso: il timore che mi toglie il respiro si appunta sempre, oltre che sul pericolo determinato, sul resoconto allarmato che me ne faccio; è sempre,

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quindi, timore del mio stesso temere. Il reciproco riconoscimento tra conspecifici dà luogo a una gerarchia ascendente di desideri. Il singolo Io autocosciente, volendo essere riconosciuto per quel che è, desidera che un altro Io lo desideri (cf. KOJÈVE 1947, trad. it. pp. 17-44). Ciò che davvero gli manca è di mancare al suo conspecifico. L’eventuale desiderio del secondo Io consisterà, a sua volta, nel desiderare il desiderio del primo. Tuttavia, poiché il desiderio di questi era fin dal principio un desiderio-del-desiderio, il secondo Io, là dove riconosca il primo, non si troverà a desiderare il semplice desiderio di un altro animale umano, ma il suo più complesso desiderio di essere desiderato. Va da sé che anche il desiderio del primo Io è soggetto, in linea di principio, a un innalzamento progressivo del proprio livello di riflessività. Passiamo ora agli stati d’animo trascendenti. Correlati al distanziamento dal proprio contesto vitale e da sé medesimi in quanto parte di tale contesto sono, per esempio, la meraviglia, l’orgoglio e l’umiltà, l’ambizione, la speranza, il senso di colpa. La meraviglia deriva dall’avvertire i limiti dell’ambiente in cui nondimeno si è racchiusi; o meglio, dall’intendere il proprio immediato campo di azione come A+L, ambiente dato e limiti di esso. Corredata dalle passioni altalenanti (o addirittura simultanee) dell’orgoglio e dell’umiltà, la meraviglia si ripresenta sempre di nuovo, ma ogni volta a un gradino logicamente più elevato. Infatti, poiché anche del campo di azione costituito da A+L si possono mettere a tema i limiti, si avrà uno stupore alla seconda potenza, incardinato alla ulteriore (ma non conclusiva) dilatazione della nozione di “ambiente”: (A+L)+L. L’ambizione e la speranza sono, esse pure, articolazioni emotive di quel requisito bio-antropologico che è la trascendenza. Più precisamente, ambizioso e carico di speranze è l’animale che, dovendo garantire la sua stessa esistenza, si colloca sempre al di là di sé medesimo come mero esistente. Il distanziamento dal contesto vitale, nonché dalla propria nuda vita, non va mai esente da un basilare senso di colpa, ovvero dal sentimento di essere sempre fuori posto e mai realmente autorizzato a fare quel che si sta facendo. Per niente statico, il senso di colpa è aperto fin dall’inizio a una reiterazione ricorsiva. Di più: la “colpa”, quanto al resto indeterminata, risiede proprio nella deprecabile dimestichezza con il regresso all’infinito insito nella trascendenza. Infine, le emozioni dal duplice aspetto. Manifestazioni ragguardevoli dell’unità-scissione tra biologia e cultura sono, per esempio, il sentimento del perturbante, l’ipocrisia, il disprezzo, quella passione della duttilità che chiamiamo per lo più opportunismo. Perturbante è uno stato d’animo segna-

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to da una fondamentale ambivalenza: ciò che poc’anzi sembrava massimamente familiare e protettivo diventa, all’improvviso, inquietante e minaccioso. Questo stato d’animo sopravviene allorché le istituzioni storicosociali, il cui compito primario sta nell’attenuare la contingenza della prassi (dovuta alla sovrabbondanza di stimoli ambientali privi di una precisa finalità biologica), mostrano di essere, al tempo stesso, un formidabile moltiplicatore di tale contingenza. Una potenzialità informe, e per ciò stesso minacciosa, prorompe proprio dagli apparati culturali (regole, abitudini) che dapprima l’avevano tenuta a freno. Il sentimento del perturbante, che rende pressoché indiscernibili il pericolo e il riparo, è il corrispettivo emotivo dell’oscillazione tra naturalità dell’artificiale e artificialità del naturale. Anche l’ipocrisia e il disprezzo sono espressioni di una oscillazione siffatta, ossia di quell’unità tra biologia e cultura che però si dà a vedere proprio e soltanto come loro divaricazione. Ipocrita è chi dissimula la naturalezza del proprio comportamento artificiale o, viceversa, cela l’artificialità del proprio comportamento naturale. Dal canto suo, il disprezzo prende di mira la naturalezza in nome dell’artificialità, ma anche, subito dopo, l’artificialità in nome della naturalezza. La tonalità emotiva dell’opportunismo rispecchia la reciproca implicazione tra i concetti di “mondo” e di “ambiente”. Opportunista è chi sa assecondare col massimo di flessibilità adattiva sia la mondanizzazione di una nicchia (pseudo)ambientale, sia la successiva ambientalizzazione del mondo. Si potrebbe anche dire: opportunista è colui che mostra una esasperata sensibilità per lo scarto che sussiste tra le regole e la loro applicazione in un caso particolare; o ancora, colui che se ne sta sempre a mezza strada tra le norme ben definite e ciò che Wittgenstein (1953) ha chiamato il “modo di comportarsi comune agli uomini” (o la “regolarità” della nostra forma di vita). Inutile aggiungere che il sentimento del perturbante, l’ipocrisia, il disprezzo, l’opportunismo sono passibili di reiterazione ricorsiva e, quindi, restano esposti alla possibilità di una marcia a ritroso senza fine. Anzi, sono quel che sono proprio perché segnati in ogni momento da questa possibilità. 3. La metamorfosi della paura in angoscia e della contentezza in felicità Tra le passioni appena menzionate e tra le molte sottaciute, ve ne sono alcune la cui natura originaria è modificata in tutto o in parte dal regresso all’infinito, là dove esso, anziché restare una eventualità latente, arrivi a scandire realmente il loro dispiegamento. La trasformazione delle caratte-

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ristiche salienti di un certo affetto a causa di un interminabile ‘e così via’ è ratificata, spesso, dall’adozione di un nuovo nome cui spetta l’onere di designare il risultato finale del mutamento intervenuto. Un esempio eminente è la metamorfosi della paura, passione condivisa da innumerevoli organismi viventi, nella tonalità emotiva specificamente umana che chiamiamo, invece, angoscia. Esempio eminente, dicevo: se non altro, per l’importanza cruciale che Heidegger (1927, § 40) ha attribuito a questi due sentimenti e, soprattutto, allo iato che sembra separarli. Sostenere che l’angoscia è una paura sottoposta a regresso all’infinito significa, però, discostarsi in modo irrevocabile dall’interpretazione heideggeriana. Altri esempi di un certo rilievo sono la conversione della contentezza in felicità e il passaggio dalla tristezza alla malinconia: in entrambi i casi, si ha da vedersela con uno stato d’animo che prende diverse sembianze (e un nuovo nome) in seguito alla sua reiterazione ricorsiva, dunque per il solo fatto di riproporsi a un livello logico sempre più elevato. La trasformazione del primo termine (contentezza, tristezza) nel secondo (felicità, malinconia) avviene con le medesime modalità che contraddistinguono la trasformazione della paura in angoscia. Unico è il procedimento logico che dà luogo a queste metamorfosi sentimentali. Nel tentativo di darne conto, mi limiterò a esaminare brevemente la genesi e le caratteristiche di quelle passioni per molti versi simmetriche, anzi speculari, che sono l’angoscia e la felicità. Una critica minuziosa delle pagine che Heidegger dedica allo scarto tra paura e angoscia sarebbe, qui, non solo impossibile, ma anche superflua (cf. tuttavia VIRNO 1994, pp. 59-76). Conviene piuttosto estrapolare dal testo heideggeriano la descrizione fenomenica dei due stati d’animo. Ammirevole e perspicua, questa descrizione, di per sé, non ostacola in alcun modo una spiegazione dell’angoscia come reiterazione ricorsiva della paura. Di più: la avalla. Secondo Heidegger, la paura è attizzata da un evento ben definito, circoscritto e contingente (l’incendio, che ora incombe, poteva anche non scoppiare). Essa si lascia chetare da opportuni accorgimenti fattuali: un rischio particolare suggerisce sempre una forma adeguata di protezione. Tutt’al contrario, l’angoscia non è vincolata all’uno o all’altro stato di cose, non insorge in occasioni prevedibili, si fa beffe dei tentativi di eluderla o di mitigarla. La minaccia è tanto pressante, quanto generica; il pericolo non ha volto né nome: «il davanti-a-che dell’angoscia è completamente indeterminato» (HEIDEGGER 1927, trad. it. p. 234). Ed è indeterminato, il motivo del timore angoscioso, perché fa tutt’uno con l’“essere-nel-mondo” in quanto tale. Ciò che viene in primo piano, ora, è la relazione dell’animale

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umano con il proprio contesto vitale considerato nel suo insieme; non più, come accade invece nella paura, con i fatti che di volta in volta si inscrivono in esso. Tipico di un contesto, o meglio, del mondo come contesto dell’esperienza, è di essere sempre nei paraggi, senza però disporre di una ubicazione precisa: non sta qui o là, non occupa un posto distinto dagli altri posti, non ha una direzione. Proprio per questo, la minaccia correlata al puro e semplice essere-nel-mondo è «così vicina che ci opprime e ci mozza il fiato, ma non è in nessun luogo» (ibid.). L’angoscia si insedia in una prossimità atopica. I tratti fenomenici dell’angoscia sono, dunque, l’indeterminatezza contenutistica, l’assenza di una causa empirica, il riferimento al contesto (e non a quanto in esso avviene), una vicinanza non localizzabile. Vedremo tra un momento come e perché questi tratti dipendano, tutti, dal modo in cui il regresso all’infinito riplasma la paura. Prima, però, vale la pena di osservare che la felicità, se solo la si distingue dalla contentezza (ossia dalla soddisfazione che si prova accontentandosi di ciò che capita in sorte), presenta caratteristiche formalmente simili a quelle dell’angoscia. A differenza della contentezza, sempre correlata a uno stato di cose particolare, la felicità manca di un contenuto definito, non è imputabile a uno specifico evento, manifesta sempre una prossimità avvolgente cui non corrisponde però un luogo di residenza ben perimetrato. L’aspetto decisivo è che, nella felicità proprio come nell’angoscia, si ha la prevalenza di uno stato d’animo contestuale o “atmosferico”, che soppianta stati d’animo evenemenziali o fattuali quali sono, invece, la contentezza e la paura. A voler civettare con il gergo heideggeriano, si potrebbe dire che la felicità, al pari dell’angoscia, concerne unicamente l’“essere-nel-mondo” in quanto tale. A me sembra che l’errore di Heidegger a proposito dell’angoscia, e di altri autori nei riguardi della felicità, consista nel trascurare il nesso indissolubile tra fatti e contesto; più precisamente, nel trascurare la regressione logico-emotiva che, sola, conduce dai primi al secondo. Il sentimento che nutriamo nei confronti del contesto vitale, di quel “tutt’attorno” in cui si inserisce ogni nostro gesto e ogni nostro discorso, è un sentimento derivato, non originario; sempre obliquo, mai diretto. Passioni atmosferiche come l’angoscia e la felicità costituiscono il risultato dello sviluppo ipertrofico cui sono talvolta soggette le passioni evenemenziali che portano il nome plebeo di paura e di contentezza. L’angoscia è un riverbero della iper-riflessività connaturata alla paura dell’animale umano. O meglio: essa insorge se, e solo se, tale iper-rifles-

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sività si dispiega senza limiti di sorta, con un ritmo compulsivo. Si è detto in precedenza che il timore, oltre a mettere a fuoco una minaccia circostanziata, trae alimento dalla rappresentazione di questa prima rappresentazione. Mi spaventa il pericolo, ma anche, e in molti casi soprattutto, lo spavento da cui sono preso al suo cospetto. Il sentimento della paura si applica ricorsivamente a ciò che esso stesso ha prodotto. La spirale di metarappresentazioni atterrite si dipana con volute sempre più ampie: alla paura di aver paura fa seguito la paura che ci afferra per aver provato paura di aver paura; ma già sopravviene una paura di grado ancora più elevato, che si erge al di sopra di quelle fin lì succedutesi (nello stesso modo in cui l’ennesimo metalinguaggio subordina a sé il suo immediato predecessore, riducendolo al rango di linguaggio-oggetto); e così di seguito, all’infinito. Ebbene, allorché prevale una paura della paura di aver paura ecc., si allenta e poi decade del tutto il riferimento a un pericolo determinato. Il timore permeato dalla ricorsività sintattica smarrisce la connessione con il fatto empirico che da principio l’ha suscitato. È un timore lancinante e pervasivo, ma di nulla in particolare. Là dove si articola in una gerarchia ascendente di livelli logici, la paura non ha più oggetto e, proprio per questo, diventa angoscia. Inoltre, poiché la rende indipendente da ogni innesco occasionale, il regresso all’infinito sottrae alla paura una precisa collocazione spaziale. La minaccia angosciosa, coincidendo infine con l’‘e così via’ privo di esito, è dovunque e in nessuno luogo, prossima ma atopica. Si potrebbe anche dire: l’angoscia è una paura che prende a tema se stessa. Salvo aggiungere che la spirale autoriflessiva non attenua la passione su cui si innesta, né permette di tenerla sotto controllo: al contrario, ne accentua a dismisura la prepotenza e l’immediatezza. Tutto questo vale anche, con qualche modesta variante, per la metamorfosi della contentezza in felicità. Mi sembra inutile esporre da capo i singoli passaggi. Basti notare che la contentezza per un particolare stato di cose è sempre, in certa misura, contentezza per la propria contentezza. E che la soddisfazione di secondo livello può costituire a sua volta l’oggetto di una nuova e più estesa soddisfazione: mi rallegro dell’allegria che provo nell’essere allegro. La reiterazione ricorsiva del medesimo stato d’animo emancipa quest’ultimo dall’evento che lo aveva generato. La contentezza per ciò che accade proprio qui e proprio ora, nei casi in cui è realmente lavorata dal regresso all’infinito, si svincola dal qui-e-ora e si sgrava da ogni contenuto determinato. Non riferendosi più a un fatto localizzabile, la contentezza diventa felicità.

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L’angoscia è un addentellato logico della paura; la felicità, uno sviluppo sintattico della contentezza. Tanto l’una che l’altra fanno la loro comparsa allorché il sentimento iniziale, applicandosi a sé medesimo (paura della paura, contentezza della contentezza), dà effettivamente luogo a un regresso all’infinito. Angosciosa è la gerarchia ascendente dei timori, felice l’‘e così via’ che talora si inocula in una particolare soddisfazione. Sappiamo che la paura e la contentezza dipendono da un evento contingente: il licenziamento che può colpirmi (ma anche risparmiarmi), la persona che può farmi dono di sé (ma anche negarsi con alterigia). L’angoscia e la felicità si basano, esse pure, sulla modalità del possibile, o meglio, su quel simultaneo poter-essere e poter-non-essere che la tradizione filosofica chiama “contingenza”. Ma con un decisivo spostamento di accento. Il regresso all’infinito, che trasforma la paura in angoscia e la contentezza in felicità, fa dell’evento contingente (il licenziamento, l’incontro amoroso ecc.) un sintomo rivelatore della contingenza che inerisce, in generale, a tutti gli eventi. La modalità del possibile, anziché limitarsi a qualificare i fatti empirici che provocano uno stato d’animo, diventa essa stessa l’oggetto preminente, anzi esclusivo, di alcuni stati d’animo. In balia dell’angoscia è colui che non teme un evento contingente, ma la contingenza di tutto ciò che avviene; felice è colui che in questa stessa contingenza onnilaterale (anzi, nella sua necessità) trova invece una dimora abituale, capace di garantire quella forma di appagamento “atmosferico” che è lo stare a proprio agio. La contingenza di tutto ciò che avviene, della quale ci avvediamo soltanto grazie alla reiterazione ricorsiva di emozioni (paura e contentezza) correlate inizialmente a singoli eventi contingenti, caratterizza il contesto vitale dell’animale umano. L’angoscia e la felicità, il cui unico contenuto è per l’appunto la contingenza di tutto ciò che avviene, sono, dunque, sentimenti del contesto: passioni atmosferiche, non fattuali. La contingenza di tutto ciò che avviene è incardinata, come sappiamo, a un tratto distintivo della nostra specie: l’assenza di un nesso stringente tra stimoli ambientali e azioni biologicamente vantaggiose. Poiché non si traducono in un minuzioso repertorio di comportamenti finalizzati all’autoconservazione, le sollecitazioni percettive provenienti dal contesto vitale serbano sempre un aspetto indeterminato e potenziale. Quando si parla di un “profluvio” di stimoli, non si vuol certo dire che questi ultimi sono troppo numerosi, e per ciò stesso vaghi, o che la nostra mente è una tabula rasa: chi polemizza contro questi bersagli immaginari (Pinker, per esempio), somiglia a una vecchia dama che bara giocando al “solitario”, e poi si compiace della sua poco stu-

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pefacente vittoria. Sebbene siano in se stessi nitidi, e semmai limitati per quantità o frequenza, gli stimoli ambientali costituiscono nondimeno un “profluvio” indeterminato e potenziale perché non implicano mai un comportamento univoco. Sia l’angoscia che la felicità sono il risultato emotivo del regresso (interminabile, si badi) da un fatto puntuale, o da un comportamento storicamente consolidato, al profluvio di stimoli contestuali in cui si radica la contingenza di tutto ciò che avviene. Il rischio insito in tale profluvio è fonte di angoscia; l’agio procuratoci dal medesimo profluvio è il nocciolo della felicità. Ma ecco il punto: tanto il rischio che l’agio non sono mai avvertiti di per sé, allo stato puro, preliminarmente. Essi si manifestano soltanto quando la paura per il pericolo determinato o la soddisfazione per l’attuale stato di cose sono colonizzati in lungo e in largo da un ‘e così via’ senza esito. Non vi è alcun sentimento ispirato direttamente alla contingenza di tutto ciò che avviene. L’unica passione originaria e pervasiva è la vergogna: ma perfino la vergogna, rammentiamocene, non si riferisce alla contingenza come tale, ma a un suo effetto: la cronica incertezza nell’agire, l’ineliminabile arbitrarietà delle azioni di volta in volta compiute. Tardi e obliqui e derivati sono i sentimenti che si attagliano allo scarto tra stimoli contestuali e comportamenti vantaggiosi. A questo scarto si può risalire, e soltanto risalire, mediante una operazione logica che trasforma certi sentimenti filogeneticamente più primitivi, condivisi da molte altre specie viventi. Con una battuta: per manifestarsi, il caos deve attendere l’ultimo giorno della creazione. Seriamente: gli affetti che hanno per materia prima l’intreccio tra poter-essere e poter-non-essere abbisognano di numerosi presupposti, costituendo il capitolo conclusivo (assai raffinato, ma niente affatto autonomo) di una teoria delle passioni. Dalla paura all’angoscia, dalla contentezza alla felicità, dalle passioni evenemenziali a quelle atmosferiche: ecco la strada maestra di una antropologia che, volendosi materialistica, tenga nel debito conto il ruolo emotivo del regresso all’infinito. Il percorso inverso (l’angoscia come condizione originaria alla cui luce va compresa la stessa paura) misconosce il ruolo degli operatori logici nella vita affettiva dell’animale umano e, proprio per questo, recide ogni legame con l’indagine naturalistica.

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4. La noia come risvolto emotivo del regresso all’infinito Bisogna esaminare, infine, le passioni che hanno per oggetto proprio e soltanto il regresso all’infinito, quelle la cui trama coincide senza residui con un inesauribile ‘e così via’. In questione, ora, non è più il ruolo assolto dal regresso logico nei diversi stati d’animo, ma il regresso logico in quanto specifico stato d’animo. Ciò che importa, ora, non è più il modo in cui la ricorsività sintattica scandisce ogni sorta di tonalità emotive, ma la ricorsività sintattica in quanto peculiare tonalità emotiva. Per chiarire meglio il punto, conviene sottolineare la differenza capitale che separa questo genere di passioni dai sentimenti su cui ci siamo trattenuti poc’anzi. L’angoscia è una paura riplasmata da una incessante marcia a ritroso, la felicità è una contentezza dilatata da una gerarchia ascendente di livelli logici. Il contenuto reale di entrambe consiste, però, nella contingenza di tutto ciò che avviene: non nella marcia a ritroso come tale, né nella pura e semplice gerarchia ascendente di livelli logici. Benché siano generate dal regresso all’infinito (o meglio, dalla metamorfosi che esso provoca in un sentimento più elementare), l’angoscia e la felicità non sono certo definibili in base al solo regresso: la prima è pur sempre un timore, la seconda pur sempre un appagamento. Non sembra un compito proibitivo, tuttavia, identificare alcune passioni i cui tratti essenziali, diversamente da quelli dell’angoscia e della felicità, fanno tutt’uno con le caratteristiche logiche dell’interminabile ‘e così via’. Non si tratta di passioni riorganizzate (o rese possibili) dal regresso, ma di passioni del regresso. Di quest’ultimo, esse costituiscono l’immediato corrispettivo sentimentale. Tra gli affetti che figurano come gemelli siamesi del regresso all’infinito, trascelgo, qui, un unico esempio: la noia. Tediosa è la gerarchia ascendente di livelli logici che ripropone ogni volta da capo, sia pure in una forma sempre più astratta e sofisticata, il medesimo problema iniziale. L’infinita successione dei metalinguaggi, ciascuno dei quali manca il proprio scopo nel preciso momento in cui sembra attingerlo, induce quello stato di febbrile indifferenza che, per l’appunto, merita il nome di noia. Il sentimento del tedio attecchisce soltanto in presenza di un ‘e così via’ virtualmente illimitato; reciprocamente, non vi è un ‘e così via’ virtualmente illimitato che sia esente dal sentimento del tedio. La posta in gioco non è una semplice implicazione, del tipo: ‘se x, allora y’, ma una vera e propria identità: x è indiscernibile da y. Non abbiamo più a che fare, lo ripeto, con passioni riarticolate da un dispositivo logico, ma

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con un dispositivo logico che, di per sé, è anche una passione di macroscopica rilevanza. I caratteri salienti del regresso all’infinito sono, al tempo stesso, caratteri salienti della noia; e viceversa. Se questo è vero, c’è da credere che l’analisi del tedio si risolva in una ripetizione abbreviata (o in una proiezione sul piano emotivo) di quanto si è detto in precedenza a proposito della inconcludente marcia a ritroso cui è sempre esposto l’animale linguistico. Chi cerchi ragguagli sulla noia, deve prestare attenzione soltanto alla struttura fondamentale del regresso all’infinito, non alle sue diverse modalità (per alternanza o per presupposizione), né alla particolare prerogativa bio-antropologica (iper-riflessività o trascendenza o duplicità di aspetto) in cui esso si radica di volta in volta. La noia concerne unicamente il procedimento formale che accomuna tutti gli ‘e così via’. A tediare, insomma, non è il regresso cui è sottoposta l’una o l’altra esperienza determinata, ma la nuda esperienza del regresso. A quest’ultima faceva cenno una descrizione assai rudimentale che, in mancanza di meglio, ho utilizzato proprio all’inizio della mia esposizione, quando tutto era ancora da dire. Vale la pena di ricordarla. È lecito parlare di regresso all’infinito a due condizioni: 1) se un certo limite, cognitivo o pragmatico che sia, è confermato dal suo stesso superamento; 2) se questo superamento, in virtù della ricorsività sintattica che contraddistingue il pensiero verbale, si applica sempre di nuovo al limite che proprio esso ha appena ripristinato. Le due condizioni definiscono la struttura fondamentale di ogni ‘e così via’ logico e, insieme, offrono un attendibile ritratto della noia. Là dove «un limite scompaia e poi si ripresenti e di nuovo scompaia e poi si ripresenti e di nuovo scompaia» (HEGEL 1812-1816, trad. it. vol. I, p. 251), si cade in balia di un movimento pietrificato, o anche, ma è lo stesso, di una animatissima paralisi: ebbene, il tedio non è altro che un movimento (o una paralisi) di tal fatta. Il «continuo sorpassare il limite, che è l’impotenza di toglierlo e la perenne ricaduta in esso» (ivi, p. 250), prospetta la novità al solo scopo di escluderla, scatena il divenire per rappresentarne l’arresto, induce l’inerzia più profonda mediante una costante mobilitazione delle energie vitali: proprio in questa ambivalenza, o implacabile eterogenesi dei fini, è dato riconoscere a occhio nudo l’impronta digitale della noia. Sarebbe un errore madornale ridurre il tedio al sentimento di oppressione e disgusto che suscita in noi una monotona replica dello stesso evento o dello stesso discorso. Un errore analogo, si badi, a quello commesso da chi, trascurando il peso decisivo della ricorsività sintattica nel regresso al-

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l’infinito, assimilasse quest’ultimo alla coazione a ripetere indagata da Freud (1920). La noia, al pari dell’interminabile ‘e così via’ di cui è la tonalità emotiva, non è paratattica, ma architettonica. Essa non consiste soltanto nella riproposizione dell’identico limite da parte del suo superamento, ma anche e soprattutto nella successione gerarchicamente stratificata dei superamenti e delle riproposizioni. Si è osservato a suo tempo che superare sempre di nuovo il limite significa, sì, ripristinarlo da capo, ma a un livello di maggiore generalità logica, dunque come un limite sempre nuovo. L’ulteriore metalinguaggio è realmente qualcosa di inedito, dato che sviluppa come mai prima l’autoriflessione del parlante. Ma esso è, a un tempo, qualcosa di risaputo, poiché esibisce senza variazioni di sorta la medesima incompletezza che già affliggeva i metalinguaggi meno potenti che lo hanno preceduto, ossia l’impossibilità di dare conto anche di se stesso. L’epicentro del tedio risiede per l’appunto in questa convergenza di inedito e risaputo; o meglio, nel carattere risaputo dell’inedito e nell’aspetto inedito di cui si ammanta il risaputo. Noiosa non è mai una semplice ripetizione, bensì la ripetizione che mostra una fisionomia innovativa e l’innovazione che subito si rovescia in ripetizione del già stato. Tanto nel tedio, quanto nel regresso all’infinito che di esso è la forma logica, predomina il reciproco rimando, anzi la completa giustapposizione, tra eterno ritorno dell’uguale e raggiungimento di uno stato mai attinto prima, stereotipia e creatività, conferma della situazione di partenza e suo tumultuoso oltrepassamento. È ben vero che la noia ha una grande dimestichezza con la monotonia: ma, bisogna precisare, con la peculiare monotonia che caratterizza il funzionamento della ricorsività sintattica all’interno di un regresso logico. Detto altrimenti: a chi si annoia sembra massimamente monotono proprio quell’“uso infinito di mezzi finiti” da cui pure dipende, in generale, la capacità innovativa del linguaggio verbale. Tedioso è soltanto l’“ancora una volta” che, lungi dall’escluderlo o dal contrastarlo, presuppone il “mai visto” e sempre se ne nutre. Preda del tedio non è, dunque, colui per il quale la prassi e l’eloquio hanno perso ogni creatività, ma colui cui capita di cogliere le fattezze stereotipate che talvolta assume il pieno dispiegamento della creatività. Bibliografia ARISTOTELE, EN (= Ethica Nicomachea), trad. it. con testo greco a fronte Etica nicomachea, a cura di Marcello Zanatta, Rizzoli, Milano 1986.

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Sezione II: Note e discussioni

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Leggere Derrida come un autore che ha pensato e reintrodotto, seppur indirettamente, delle concettualizzazioni teoretiche ed etico-politiche che presentano la discussione e l’utilizzo di categorie come la causalità e la finalità segnate da un dirompente carattere utopico, potrebbe apparire come una tesi assolutamente discutibile. La difficoltà di elaborare una riflessione con questo taglio e su questo aspetto consiste in due precisi motivi. Il primo, quello più decisivo poiché riguarda le caratteristiche e la natura del discorso derridiano, deriva dal fatto che il filosofo franco-algerino non si preoccupa mai, nei suoi testi, di imbastire una discussione che approcci l’utopia in maniera diretta e frontale. Tuttavia, in soccorso della chiave di lettura che esporremo più innanzi e in riferimento a questo primo punto, è bene far osservare l’esistenza di alcune riflessioni da parte di autori che si sono cimentati in considerazioni sul carattere della supposta inutilità pratica delle speculazioni politiche di Derrida. Ci riferiamo, ma con ciò non intendiamo essere esaustivi, alle considerazioni critiche di Dooley sulla polemica imbastita da Richard Rorty in riferimento alla cosiddetta “ironia privata” che contraddistinguerebbe la visione politica del franco-algerino, o all’articolo di Kelly, che nel titolo fa riferimento esplicito all’utopia – più esattamente alla possibilità di un’utopia non-utopica – nel trattare le considerazioni del filosofo sulla democrazia che viene, che ha da venire1. Il secondo motivo, che cercheremo di decostruire, riguarda più da vicino il concetto di utopia nella sua deriva attuale. Il punto è che, per pregiudizio diffuso, la cultura filosofica razionalistica non riesce a fare a meno di pensare l’utopia come uno spregevole esercizio retorico, che inficia ogni discussione teorica o, ancor meglio, di teoria politica. Il senso primo, letterale, della parola utopia è colpito dal triste destino di passare inosservato, di rimanere debole di fronte all’imponente 1 Cf. M. DOOLEY, “Private Irony vs. Social Hope: Derrida, Rorty and the Political”, Cultural Values 3 (1999) 3, pp. 263-290; S. KELLY, “Derrida’s cities of refuge: toward a non-utopian utopia”, Contemporary Justice Review 7 (2004) 4, pp. 421-439.

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giudizio comune che scorge in codesta parola il senso sofistico dell’inganno, dell’adulazione e della demagogia. La parola «utopia» è venuta ad assumere il significato di categoria im-politica, anzi, a ben vedere, di categoria impolitica per antonomasia, contro la quale si sono sempre fatte valere tutte le altre idee politiche. Poco importa, poi, se tutte le categorie e le forme d’espressione del pensiero politico abbiano avuto o abbiano tuttora a che fare con essa, per giunta nella sua espressione più banale. L’essenziale, ciò che conta veramente, nell’epoca dell’esportazione delle idee, dell’imposizione della pace, della democrazia chiusa nelle valigie dei generali, è che si creda esattamente il contrario. Il ripensare e ridiscutere il pensiero derridiano, come essenzialmente attraversato da una continuità marcata dall’utopia, è quanto tenteremo e ci sforzeremo di fare. Tornando alla radice etimologica del termine, imponiamoci di farlo, non possiamo non mettere in luce il suo oscillare fra le due categorie dello spazio e del tempo. Utopia è ciò che non ha luogo, che non ha realtà, ma che nello stesso tempo potrebbe av/venire, giungere in chiaro attraverso il tempo, il futuro, l’apertura del e verso il divenire. Ma questa oscillazione non è l’unica ad interessarci. Ve ne sono delle altre, che in qualche modo sono generate da questa prima, e che non sono meno importanti. Il non luogo per eccellenza nella storia della filosofia occidentale è ciò che precede il filosofare, non il mito, ma ciò che è più originario ancora, quello che nel Timeo di Platone è chiamato chōra 2 . Il problema suscitato dal pensiero dell’origine implica anche che si riconsideri il pensare stesso. La domanda circa la chōra interrogherebbe tutta la storia della filosofia e darebbe origine, nella strategia interpretativa adottata da Derrida, ad uno smarcamento spiazzante nei riguardi delle categorie classiche del pensiero filosofico, delle dicotomie, e di conseguenza dell’intero apparato antropocentrico e fonocentrico della razionalità occidentale. La chōra, ma Derrida nella sua trattazione ometterà da un certo momento in poi l’articolo determinativo «la» per assimilare il nome chōra ad un nome proprio, è ciò che precede tutta l’origine della filosofia, ciò che è prima della classica distinzione fra lόgos e mythos. Chōra è il nome che sta per «luogo», «posto», «area», «regione», «contrada». Essa è il luogo prima del tempo, anzi riceve il tempo della filosofia, lo lascia giungere senza farsi marcare o segnare da 2 Il testo cui faremo riferimento per l’analisi derridiana riguardante l’interpretazione dei passi del Timeo platonico sul problema della chōra è: J. DERRIDA, Il segreto del nome, a cura di G. Dalmasso e F. Garritano, Milano, Jaca Book, 1997.

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esso. Fra le sue prerogative c’è quella di non avere niente di proprio da preservare e custodire, di ricevere infinitamente ciò che giunge a lei senza prendere le caratteristiche di ciò che riceve. Chōra non può addirittura pensarsi se non attraverso una logica diversa da quella di non contraddizione dei filosofi, un ragionamento in grado di de-centrare la logica dicotomica. La chōra è qualcosa, ma non è una cosa poiché è assolutamente impossibile pensarla attraverso le distinzioni, i tipi e i generi del pensiero logico. Il pensiero della chōra come origine apre uno spazio attraversato dal divenire. Essa si mischia col tempo dell’altro che giunge ad inscriversi nel suo seno. D’altra parte il richiamo alla figura metaforica della madre/nutrice è utilizzata dallo stesso Platone e Derrida non tralascia affatto di notarlo. In altre parole, la chōra, il suo nome, rimanda all’innominabile nell’atto di pronunciare il nome; il nome nomina, ma cosa veramente nomina è ciò che si chiede Derrida. È utile, a questo proposito, far affiorare ciò che rimarrebbe sullo sfondo del problema del nominare, del chiamare, dell’indicare nominale. Per Derrida è in qualche modo implicito; in un altro testo, La voce e il fenomeno3, fa notare che il proprio della filosofia, del suo linguaggio e delle sue categorie logiche (la soggettività prima di tutto), risiede interamente nel tentativo di rimozione dell’insopportabile esperienza della morte. Tale rimozione, a nostro avviso, è all’opera nell’atto del nominare metaforicamente la chōra con i termini di madre/nutrice. In essi si scorge la prima pulsione di morte provata dall’uomo, costituita dal complesso di Edipo. Pietro Barcellona, a questo proposito, ha scritto che nella società il pensiero della morte è da considerarsi osceno e che, in ossequio a questa estromissione, persino il parlare dei sentimenti ambigui, che i figli provano verso i genitori ed i genitori nei confronti dei figli, è assolutamente vietato. L’ansia di conoscere della coscienza è, per Barcellona, da imputare alla negata risoluzione del problema di Edipo4. Già Heidegger aveva fatto notare che la facoltà di linguaggio ed, ancora più specificatamente, il nominare, è il mezzo attraverso il quale si fa esperienza continua della morte. Nominando un oggetto ci si riferisce sempre ad un’assenza, quella della cosa, che assumerebbe, quindi, le sembianze di cadavere, di scarto estraneo al nome, destinato sempre ad indicare il concetto e non l’oggetto di ciò che nomina. Derrida vuole compiere lo sforzo di non sorvolare sul valore della suddetta assenza. Ecco perché il suo gesto filosofico non tralascia mai di soffermarsi sul valore della scrittura, del 3 4

J. DERRIDA, La voce e il fenomeno, a cura di G. Dalmasso, Milano, Jaka Book, 1997. P. BARCELLONA, La strategia dell’anima, Troina, Città aperta, 2003.

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segno, della marca5. Ciò che è scritto è sempre traccia di qualcosa che non c’è, di una presenza che segnala l’instabilità irriducibile tra l’essere e il non essere. Chōra non esiste, tuttavia è. Torniamo, però, alla questione della chōra come (non)luogo dell’origine. Non possiamo non far notare come anche in questo caso si manifesti un’oscillazione di significato del termine platonico. Esso è certamente un luogo situato prima del tempo, ma in quanto «ricettacolo» (avevamo omesso questo altro significato di chōra al solo fine di introdurlo a tempo debito nella nostra discussione) che accoglie ciò che viene, esso accoglie il divenire, si apre a ciò che giunge ad esso attraverso il tempo. Questo luogo che è stato in un passato (inevitabilmente ci vediamo costretti a nominare con categorie temporali ciò che si colloca fuori dal tempo) aporeticamente, è destinato ad accogliere il futuro. Pur situata fuori dal tempo, la chōra accoglie ciò che av/verrà, nella storia del lόgos filosofico, a partire proprio dalla rimozione della razionalità del problema della (sua) origine. Si instaura quindi un meccanismo particolare che ha come protagonisti gli atti del donare e del ricevere. Il «ricettacolo» chōra è pronto a ricevere ciò che viene, ad accogliere i discorsi altri e degli altri, il discorso (lόgos) primo della filosofia. Questo ricevere non possiede per nulla le caratteristiche legate alla sfera economica del dono. Esso è al di là del debito e, come tale, spezza irrimediabilmente le catene e gli ingranaggi del circolo economico di dono e contro-dono instaurato dallo stesso concetto di dono allorquando esso venga assimilato e confuso con il concetto di scambio6. Non v’è attesa, aspettativa, imbarazzo o subordinazione nel ricevere della chōra. A partire dalla creazione del cosmo, questo al di là del debito, questo dono che si misura a partire dalla sua irriducibilità fenomenica è scomparso. Il donum – i Romani possedevano linguisticamente questa distinzione con il munus, che implicava il debito, la subordinazione – è il vero dono che non giunge al fenomeno e come tale possiede il carattere aporetico di evento impossibile. Affiora qui, per la prima volta in maniera decisiva e indiscutibile, il tema dell’irrealizzabilità fenomenica e reale di molte concettualizzazioni derridiane. L’idea del dono come evento impossibile è il paradigma variabile dell’intera connotazione iperfenomenologica della filosofia del pensatore 5 Per l’elaborazione dei concetti di scrittura e traccia cf. J. DERRIDA, La scrittura e la differenza, tr. it. di G. Pozzi, Torino, Einaudi, 1990; ID., Firma evento contesto, in Margini della filosofia, a cura di M. Iofrida, Torino, Einaudi, 1997. 6 Per approfondire la tematica del dono cf. J. DERRIDA, Donare il tempo, tr. it. di G. Berto, Milano, Cortina, 1996.

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franco-algerino. Iperfenomenologia che eredita dalla lezione di Heidegger un’attenzione maggiore verso l’ambito etimologico del termine fenomeno, ma che nel frattempo estremizza la discussione indirizzandola proprio verso ciò che rimane nascosto e non appare, verso ciò che non giunge alla fenomenicità. Le stesse considerazioni raggiunte sul carattere del dono possono esser fatte valere per tutte le teorie di Derrida che riguardano da vicino tematiche con implicazioni di carattere politico. Premesso che, per lo stesso Derrida, è praticamente impossibile individuare, all’interno del pensare filosofico, ambiti prettamente teoretici che non contengano comunque delle connotazioni politiche – ogni pensare filosofico è, dunque, un pensare politico7 –, è giusto fare osservare che questo indirizzo politico derridiano è stato spesso considerato, in maniera assolutamente impropria, come inficiato da una colpevole mancanza di reale possibilità di realizzazione. Di più. In alcuni ambiti filosofici, e precisamente in quelli legati al pensiero cosiddetto analitico, l’intero pensiero filosofico derridiano viene ad essere tacciato di non serietà, di poca attinenza con i dettami della logica e di conseguenza relegato al margine dell’interesse accademico. È ben nota l’accesa polemica che ha riguardato Searle e Derrida a proposito dell’interpretazione e la discussione che quest’ultimo ha imbastito sul tema dei performativi ed in particolare sulla rilettura delle considerazioni di Austin riguardo il parassitismo ed il carattere citazionale di alcuni di essi, quando questi si iscrivano, per esempio, in ambiti diversi dal linguaggio ordinario “serio”8. Il presupposto derridiano è sempre lo stesso: tentare di decostruire il linguaggio della metafisica tradizionale, addirittura rintracciandone l’eredità persino in ambiti che ritengono di aver poco a che fare con esso. Partendo da questo presupposto che, è opportuno farlo osservare, non rimane del tutto isolato nell’ambito filosofico e finanche epistemologico contemporaneo, diviene più agile penetrare nel nucleo teorico del filosofo franco-algerino. Lo scarto compiuto da Derrida è, lo abbiamo visto anche nei passaggi dedicati alla chōra, indirizzato tutto contro la metafisica del soggetto e coinvolge in maniera radicale anche i presupposti logico-razionali del pensiero scientifico. In essi Derrida vede comunque all’opera il vecchio leit motiv della metafisica della presenza, della soggettività, dell’in7 Nelle parole dello stesso Derrida: «Ogni colloquio filosofico ha necessariamente un significato politico» (J. DERRIDA, Margini della filosofia, cit., p. 155). 8 La polemica fra Searle e Derrida è riportata per intero in J. DERRIDA, Limited Inc., tr. it. di N. Perullo, Milano, Cortina, 1997; cf. in particolare Limited Inc a b c, pp. 41-159, e Postfazione. Verso un’etica della discussione, pp. 161-230.

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tenzionalità cosciente che, da Cartesio in poi, passando per la perentoria riaffermazione hegeliana, si è costantemente mascherato, pur rimanendo, in definitiva, se stesso. L’obbiettivo diviene, quindi, operare e portare a termine ciò che già Nietzsche aveva iniziato. Rintracciare nelle pretese veritative della filosofia e, in primis, della logica (poiché il compito autoassegnatosi da quest’ultima è proprio l’accertare la verità e la falsità delle proposizioni), vere e proprie mistificazioni, significa presupporre che in esse sia in gioco, non già l’oggettività e l’imparzialità, bensì un’arroganza ermeneutica che ha il suo cardine nell’interpretazione parziale, caratterizzata dal principio di volontà di potenza del soggetto. E così come Nietzsche non si era limitato ad uno smascheramento teoretico, ma aveva senza dubbio guardato in una direzione assolutamente etico-politica, Derrida muove la sua azione filosofica proprio verso quest’ultimo aspetto dell’agire e del pensare umano poiché se la parola «decostruzione» possiede un significato, questo è da rintracciare nel suo volgersi al plurale, all’evento non programmabile, all’avvenire e alla venuta dell’altro9. Ritorna il tema dell’ospitalità ed è un ritorno significativo. Ospitalità aporetica di ciò che è altro ma vive e tiene in ostaggio ciò che è proprio, il sé, al punto che diviene improprio il discutere riguardo il concetto stesso di proprietà e di ipseità. Ritorna anche la problematica del dono, del ricettacolo assoluto rappresentato dalla chōra, che viene ad identificare la venuta dell’altro come lόgos che si dona, che marca l’origine. Ma se la chōra mantiene se stessa come non intaccata dalla venuta dell’altro, l’uomo, ontologicamente diverso, non può non ricevere niente senza portarne i segni. La prima differenza che segna lo statuto ontologico dell’uomo è, dunque, questa com-passione, questa co-appartenenza dell’umano con il mondo che lo circonda e nel quale vive. Il vivere nel mondo presuppone il farsi carico di responsabilità che in sé sono inassumibili. E questa inassumibilità della responsabilità ha come sfondo l’impossibilità della decisione10. Ogni decisione è impossibile 9 Sulla problematica definizione del termine “decostruzione” cf. i seguenti testi: J. DERRIDA, Une “folie” doit veiller sur la pensée, in Points de suspension, Paris, Galilée, 1992; Lettre à un ami japonais, in Psiché. Inventions de l’autre, cit.; Sauf le nom, Paris, Galilée, 1993. Tra le opere sulla decostruzione ed il decostruzionismo derridiano citiamo inoltre: C. RESTA, Pensare al limite. Tracciati di Derrida, Milano, Guerini e associati, 1990; G. CHIURAZZI, Scrittura e tecnica. Derrida e la metafisica, Torino, Rosenberg & Sellier, 1992; R. DIODATO, Il decostruzionismo, Milano, Editrice Bibliografica, 1996; S. PETROSINO, Jacques Derrida e la legge del possibile, Milano, Jaca Book, 1997. 10 Sui concetti di responsabilità e decisione cfr. ad esempio J. Derrida, Politiche dell’amicizia, Raffaello Cortina, Milano 1995.

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non solo, banalmente, perché si riconosce che sia difficile decidere fra una o più opzioni possibili, ma perché la rinuncia reca con sé il fardello dello scarto di ciò che irrimediabilmente verrebbe ad essere escluso. La promessa, il giuramento, il performativo, qualunque atto materiale o linguistico che presupponga interamente la presenza a sé del soggetto operante sono destinati a rimanere ambigui. Dove la coscienza subisce lo smacco subentra la performance, il rito, la ripetibilità assoluta della proposizione proferita a dare valore di legge, di impegno da mantenere, di patto da rispettare. Ogni promessa è uno spergiuro11. Promettere di mantenere una cosa, tener fede ad una promessa vuol dire senza ombra di dubbio alcuno, prima di tutto, mancare qualcos’altro. Aporia della decisione, quindi, che però non cede assolutamente il posto al non agire. Tutt’altro: l’uomo è chiamato, nonostante o, per meglio dire, proprio in virtù di questa connaturale impossibilità della decisione, ad agire. La necessità della sua azione è da imputare a questa impossibilità. Poiché l’ospitalità inizia con l’accoglienza incondizionata dell’altro che proferisce il suo «sì», tutto allora inizia con una risposta, il «sì» appunto, che presuppone che non ci sia primo inizio, che non si conosca la domanda originaria, ma si parta da una venuta ad una chiamata e ci si assuma in pieno la responsabilità della risposta. Ecco spiegato il nesso profondo che lega, nell’ottica derridiana, l’etica dell’ospitalità a quella della responsabilità. Tale nesso affiora in maniera evidente anche nell’analisi etimologica del verbo respondeo, rispondo, a cui è riconducibile il termine responsabilità. Bisogna riconoscere, arrivati a questo punto, il primato dell’etica rispetto all’ontologia, dell’accoglienza incondizionata che non chiede nulla preliminarmente riguardo l’essenza dell’altro che viene. Il che cos’è lascia il posto alla risposta della venuta dell’altro, all’accoglienza, o meglio, all’accoglienza come risposta ad una domanda venuta da fuori, ad un accadere, ad un giungere dell’altro che, in maniera paradossale, potremmo definire già come risposta originaria. Responsabilità e decisione si configurano a partire dalla condizione del loro strutturale «non poter aver luogo». Esse si instaurano in vista della venuta di qualcosa – non è importante il cos’è – da un luogo lontano, da un luogo che per il soggetto non esiste concretamente, ma da cui è incalzato con la domanda circa la responsabilità. Non v’è responsabilità se essa è programmabile, prescrivibile, anticipabile. Essa è assolutamente evene11 Per approfondire il tema della promessa cf. AA.VV., La philosophie au risque de la promesse, a cura di M. Crépon e M. de Launay, Paris, Bayard, 2004.

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menziale ed insaturabile. Non può in alcun modo venire ad inscriversi all’interno di un programma che de-responsabilizzi il soggetto. È una decisione sul fondo dell’impossibile. Il non-luogo, lungi dall’essere completamente staccato dalla dimensione umana e dal suo dialogo con se stessa, è un altrove che non necessita della presenza fenomenica. L’utopia si configura, quindi, come una promessa da mantenere sul crinale della responsabilità di una decisione impossibile. L’utopia, questo luogo che non esiste, oltre che rimandare indietro al problema dell’origine, al ricettacolo che accoglie il discorso della filosofia, diviene il non-ancora delle categorie etiche dell’uomo, il loro ineluttabile volgersi al divenire. Tutte le principali discussioni derridiane sui temi di carattere politico ed etico, pensiamo all’amicizia, alla decisione responsabile, alla democrazia e al marxismo si strutturano in base al loro essere sempre inattuate e inevitabilmente inattuabili nel presente fenomenico. L’irruzione di ciò che viene destruttura l’esistente e lo costringe a ripensarsi come categoria ontica in divenire e quindi sempre diversa da sé. Problema non da poco visto che, oltre alla ridiscussione dell’origine, in questo modo si configura anche la tematica dell’«altrove» come zona grigia spaziotemporale. L’utopia, lungi dall’essere una categoria dell’impolitico o dell’immorale, è esattamente il contrario: essa è ciò a partire da cui si realizzano le istanze etiche e politiche, il non-luogo da cui giungono, come spettri, i pensieri delle promesse, siano essi l’ideale della democrazia, la critica marxista o, ancora più generalmente, l’amicizia e l’ospitalità. Il pensiero dell’utopia viene a configurare un’etica e una politica iperboliche, perché strutturate a partire dall’assenza, dalla scrittura e dalla firma. Quest’ultima è, infatti, la marca che segna la decisione assumendosi, a partire dalla sua singolarità ed iterabilità, la responsabilità di aprire un nuovo inizio promesso dalla contro-firma dell’altro, dall’apertura al dialogo. Venendo a mancare questo utopico «altrove» si ricadrebbe nella regola, nell’evento programmabile e calcolabile che de-responsabilizza. La decostruzione, allora, necessita dell’impossibile in quanto è proprio questo a salvaguardarla da ogni caduta nell’alveo della regola, logica o grammaticale che sia, ma anche in quello, per certi versi assai più pericoloso e suadente, della morale del dovere categorico kantiano, assicurandole di sfuggire alla necessità del “dovere a tutti i costi” e di rimanere conseguentemente imbrigliata in un vuoto formalismo. A questo proposito, infatti, Derrida così si esprime: «Un gesto “d’amicizia” o “di gentilezza” non sarebbe né amichevole né gentile se obbedisse puramente e sempli-

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cemente ad una regola rituale. […] Non si deve essere amichevole o gentili per dovere. […] Ci sarebbe, dunque, un dovere di non agire secondo il dovere: né conformemente al dovere, direbbe Kant (pflichtmässig), né persino per dovere (aus Pflicht)?»12. La decostruzione, dunque, non perde nulla nel confessare la sua impossibilità. La prospettiva utopica della promessa permea in profondità ogni applicazione pratica, nel presente fenomenico, di qualsivoglia carattere politico. L’uomo è costretto ad una dimora al margine del proprio, dell’appartenenza e dell’identificazione13. Abitare il margine, dimorare in questo ritardo (dimorare significa stanziarsi, vivere, abitare e quindi anche passare il tempo, attardarsi – è significativo riscontrare questa significazione temporale che indica il ritardo nel dialetto calabrese: addimurari vuol dire appunto fare tardi, ritardare) è la prima conseguenza dell’interrogarsi. Dell’interrogarsi e del prendere tempo. Prendere tempo è ritardare il tempo di qualcosa, un qualcosa che chiede di essere deciso ed attuato e che non lascia tempo ad altro. Derrida giunge al margine della dimora, alla sua soglia, solo per affermare che il confine è indefinibile ed ambiguo. L’orizzonte è, alla maniera greca, insieme termine ed apertura. Per capirlo basta spostarsi in avanti, ridurre lo spazio che ci divide da esso. La dimora, nella ratio occidentale, ha sempre voluto dire circoscrizione, chiusura, individuazione di un limite. Questo significato acuisce ancora di più lo scarto etimologico presente nella suddetta parola. Essa è un double bind, un luogo in cui si incontra la pluralità dell’evento, in cui l’impossibile diviene il fondo di ogni possibilità e in cui ogni margine si scopre dirimpettaio di un altro14. In questo contesto di apertura e di chiusura, di lettura destinata al movimento doppio di andata e ritorno è da intendere, ad esempio, un testo come Timpano15, che sperimenta, con un artificio meramente materiale (una stessa pagina su cui scrivere due testi) la disseminazione e la frammentazione all’opera nella scrittura. Il senso è frutto di un continuo passaggio, di una lettura parallela e discontinua dalle righe dell’uno alle righe dell’altro. Non J. DERRIDA, Passioni. «L’offerta obliqua», in Il segreto del nome, cit., pp. 94-95. Per approfondire il problema sollevato dal termine «dimora» e le sue implicazioni con il tema sul carattere identitario nella lingua cf. M. CRÉPON, Langue sans demeure, Paris, Galilée, 2005. 14 Sul tema del double bind, traducibile come «doppia seduta» o anche come indecidibile cf. J. DERRIDA, Posizioni, Verona, Bertani Editore, 1975. 15 J. DERRIDA, Timpano, in Margini della filosofia, cit. 12 13

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che non si possano leggere distintamente, ma in questo modo ci si sentirà, anche emotivamente, esclusi da quello che accade dall’altra parte, da un’altra parte del testo che, tuttavia, non è lo stesso testo. È richiesta una lettura obliqua, di traverso, che sorpassi i margini di ciascun testo e sia pronta a ricollegarlo all’altro. Nella misura di questo andirivieni si configura pertanto l’accoglienza dell’altro che giunge a ridefinire il proprio del testo ovvero il suo senso. La pluralità si offre obliquamente, e il tema dell’offerta, di questa offerta obliqua, ridescrive i canoni dell’amicizia e persino della gentilezza e della cortesia. Ma chi e cosa si offre obliquamente? E soprattutto: non rischia, il pensiero dell’obliquo, di diventare una scelta di comodo, un calcolo geometrico a favore della rapidità e dell’incompletezza? Forse! La chiave di tutto torna ad essere, allora, la responsabilità della decisione. Solo questa sua congenita struttura aporetica ci e si preserva dal ricadere nei meccanismi della programmabilità. Il meccanismo si inceppa ogniqualvolta si tenta di erigerlo a grammatica universale, a codice interpretativo o persino ad utile economico (il risparmio del tempo). L’obliquo resta la scelta di una strategia ancora rozza, obbligata a far fronte alle necessità più urgenti, un calcolo geometrico per sviare più rapidamente e l’approccio frontale e la linea diritta: il più corto sentiero presunto da un punto all’altro16. L’offerta richiede l’apertura originaria al dialogo dell’altro. Vuole che ci si decida ad ascoltare. Ma questa decisione dell’ascolto si dipana in un luogo talmente particolare da essere l’assolutamente vuoto e neutro: lo spazio bianco che intercorre fra un testo e l’altro. Il margine che divide i discorsi è in realtà il luogo in cui essi si intrecciano. Offre dimora al peregrinare del senso configurandosi come una pausa, una sosta (un ritardo), e tuttavia anche come luogo dell’incontro e dell’accoglienza. Ritorna l’oscillazione fra lo spazio e il tempo di cui parlavamo all’inizio della nostra breve discussione. L’indecidibile decisione dimora in un non-luogo, nel non luogo per antonomasia della parola scritta: lo spazio bianco e le interlinee che sono, nello stesso tempo, sempre uguali ed iterabili così come lontane ed irriducibili. L’abitare i margini parte da una inaugurale epoché di ogni regola, dal ritardo della decisione a favore di un suo ripensamento sul fondo dell’indecidibile che presupponga la sospensione della regola e la sua re-inven16

J. DERRIDA, Passioni…, cit., p. 107.

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zione. Tale concettualizzazione appare incalzante quando si discute a proposito della giustizia e del diritto alla giustizia (la giustizia del diritto e il diritto della giustizia), soprattutto, quindi, quando essi vengano ad essere decostruiti a partire dal concetto di violenza fondatrice ed istitutrice17. Non vorremmo tirare in ballo argomenti che si suppone (a torto) abbiano poca attinenza con queste discussioni, ma ci sembra doveroso sottolineare la distanza che intercorre fra la visione derridiana della ripetibilità della regola e il suo necessario momento di rottura del calcolo e del programma istitutivo in cui essa giunge ad iscriversi, e le posizioni di Wittgenstein che, a nostro parere, glissa, con la sua idea riguardante la problematica del seguire una regola, tutta una possibile discussione sul momento originario e fondativo della regola stessa18. Non serve a nulla sostenere la tesi della differenza di ambito che soggiace alle prospettive wittgensteiniane, rimarcando, appunto, che l’austriaco si riferisce a regole grammaticali o matematiche, mentre quello derridiano è un contesto assolutamente politico, anche se in molti ambiti si stenta addirittura a definirlo tale. Derrida vedrebbe comunque all’opera, e abbiamo visto come in maniera sottile si nasconda un approccio politico in ambiti teorici e logici, una decisione istitutrice di un rapporto di forza, condizionata dal peso delle rispettive forze o, perfino, abitudini, in gioco. Torniamo a noi. Appare chiaro come l’aspetto riguardante la giustizia sia di non poco conto nella discussione riguardante i margini della decisione. La giustizia è l’ossessione dell’indecidibile, giacché nessuna giustizia si dà senza decisione, ma questa gioca al/nel margine dell’indecidibile. Accanto al diritto umano decostruibile Derrida pone un’idea della giustizia come incondizionata dal presupposto del calcolo e della misura. La forma umana della giustizia si muove fra il diritto calcolante e la giustizia incondizionata e disimmetrica. La giustizia assoluta si dà nell’ordine dell’indecidibile, ma essa, in maniera più perentoria di ogni altro concetto derridiano che abbia a che fare con il divenire, comanda di decidere. Il tempo dell’attesa viene così a configurarsi nell’istante della decisione; un istante che valica continuamente i margini della sua strutturale incondizionatezza e della necessità della decisione giuridica di essere presa. La prospettiva contro-istituzionale della filosofia di Derrida, ma anche della filosofia tout court, 17 A proposito delle riflessioni sul diritto e la giustizia cf. J. DERRIDA, Forza di legge, a cura di F. Garritano, Torino, Bollati Boringhieri, 2003. 18 Le riflessioni sul seguire una regola sono contenute in L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, tr. it di R. Piovesan e M. Trinchero, Torino, Einaudi, 1967.

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si gioca tutta all’interno del problema della ricostruzione del senso del discorso e del testo. Il senso è frutto di un movimento a partire dalla sua istituzione e del suo valore istituzionale ed istitutivo che costeggia i margini di ciò che, aporeticamente, non possiede dei margini propri e che non avendo mai fine irrompe nei molteplici ambiti che strutturano la forma di ogni diritto: il diritto alla/della filosofia, quello alla risposta e il diritto alla decisione. In altre parole: l’altrove conduce fino a noi la domanda circa il diritto dell’avere diritto a qualcosa e del diritto di qualcosa. Diritto e dovere si prefigurano sempre a partire da rapporti e bilanciamenti di forze. Il dovere di qualcuno è sempre il diritto di un altro e viceversa. Se le cose stanno davvero così l’unica possibilità di uscita è appunto l’interrogare il diritto a partire dalla sua infinitezza, per liberarlo da ogni morsa dell’imposizione fenomenica, del dover essere qualcosa. L’altrove domanda e una possibile risposta, parafrasando Nietzsche, sarebbe: «Perché, poi, la risposta ad ogni costo?». Ed aggiungiamo: «Se pensate che questa sia comunque una risposta, ebbene, tanto meglio».

ADALGISA CAIRA Una moralità fuori dalla storia?

Immaginiamo questa scena, del tutto ordinaria: un bambino, chiamiamolo Sergio, entra in casa urlando: “Mamma oggi la maestra mi ha sgridato perché, lanciando la gomma, ho colpito in faccia Filippo”. La mamma: “Amore, non lo devi fare! È sbagliato”. E Sergio: “E perché è sbagliato?”. Questa domanda apparentemente semplice e diretta, che, sin da bambini, pronunciamo in diverse circostanze, rimbalza sulla scena teorica, oggi, con una portata insidiosa e conseguenze altrettanto rilevanti. Questa domanda, che quasi quotidianamente ci poniamo o ci viene posta, che si presenta e ripresenta in contesti affatto ordinari, attira su di sé la vastità di un dibattito etico ricco di fratture e contrasti. Mai come negli ultimi tempi, le questioni concernenti il problema della moralità e della natura delle sue norme sono poste al centro di svariati dibattiti e tavole rotonde. Innumerevoli i campi d’indagine coinvolti: dalla filosofia alla biologia, dalla bioetica alla medicina, dalla sociologia alla psicologia. Innumerevoli le domande affiliate, da quelle che ci fanno accennare un lieve sorriso come “è giusto non annaffiare una rosa e lasciarla morire?” a quelle che si impongono in maniera incisiva sulla scena sociale “è giusto lasciare morire un essere umano, se questi lo ritiene opportuno?”, a quelle che si presentano con una portata ancora più originaria “Perché esistono il bene e il male?”, “La morale è una nostra prerogativa?”. E altrettanto innumerevoli le potenziali risposte: “Questo non deve farsi perchè la religione o la legge lo impone”, oppure “Questo non deve farsi perché il cuore o la ragione ce lo dice”, e ancora “Dobbiamo comportarci così perché siamo esseri umani, perché è la nostra natura”. Diverse pertanto le entità adottate, tradizionalmente, per giustificare i diversi atteggiamenti morali: da entità metafisiche a entità culturali, da principi razionali e deontologici a principi emotivi. E oggi una nuova e presunta teoria della morale si affaccia al banchetto di una così affollata ricerca, attirando su di sé polemiche e consensi, una teoria che si rifà esclusivamente ai dettami delle scienze naturali, dal taglio evoluzionista, e che lascia al largo le categorie classiche delle scienze storico-sociali: quella presentata da Marc Hauser, professore di Psicologia e Biologia evolutiva all’Università di Harvard, nel Bollettino Filosofico 24 (2008): 335-342

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suo ultimo libro, Menti morali. Le origini naturali del bene e del male (Il Saggiatore, 2007). Il testo ricco di suggestioni e contaminazioni filosofiche, antropologiche, economiche e supportato da dati sperimentali riconosciuti, si inserisce appieno nella cornice di una ricerca cognitivista della natura umana e ne sposa compiutamente le metodologie esplicative. Il testo, che approfondisce tutti i campi di ricerca menzionati, si snoda in tre parti: una prima sezione dedicata al problema dell’universalità della morale, una seconda sezione dedicata al problema dell’innatismo della morale e una terza dedicata al problema dell’evoluzione. Ma, in sintesi, unico l’obiettivo di fondo del libro: riuscire a legittimare, inforcando gli occhiali dell’adattazionista, l’esistenza di fondamenti biologici ed innati sottostanti ai nostri concetti e alle nostre pratiche morali, senza ricorrere, per farlo, a entità trascendenti, culturali o sociali. Sulla scia della rivoluzione linguistica compiuta, a partire dagli anni Cinquanta, dalla teoria generativista del linguista americano Noam Chomsky, Hauser avverte l’esigenza di rintracciare i principi della nostra sfera morale, non prendendo in esame gli usi concreti delle norme morali da parte di individui che si relazionano, ma prendendo in considerazione ciò che avviene nella testa (‘mente/cervello’) del singolo individuo. Lo studioso in questione, sfruttando il proficuo parallelismo con gli studi chomskyani, arriva a postulare l’esistenza di una facoltà morale innata, universale e grammaticalmente strutturata, che ci consentirebbe di creare giudizi morali in maniera immediata, intuitiva, pre-riflessiva ed automatica, senza coinvolgere “artifici” culturali, razionali o emozionali. «La nostra facoltà morale – scrive Hauser nel Prologo del suo testo – è dotata di una grammatica morale universale, un insieme di strumenti per costruire sistemi morali specifici. Una volta acquisite le norme morali specifiche della nostra cultura – un processo più simile alla crescita di un arto che a una lezione di catechismo sui vizi e le virtù – giudichiamo se le azioni sono lecite, obbligatorie o proibite senza bisogno di un ragionamento conscio e di un ricorso esplicito ai principi soggiacenti. […] I nostri istinti morali sono immuni ai comandamenti espliciti trasmessi dalle religioni e dalle autorità. […] Al contrario, ritengo che i giudizi morali siano mediati da un processo inconscio, una grammatica morale nascosta che valuta le cause e le conseguenze delle azioni nostre ed altrui» (pp. 9-14). Ora, con “grammatica” Hauser si riferisce, pertanto, alle regole e alle operazioni innate che permettono ad ogni essere umano di sviluppare e

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comprendere inconsapevolmente un insieme di giudizi e norme morali presenti nella propria cultura nativa. Ogni individuo sarebbe dotato, sin dalla nascita, di una predeterminata gamma di principi morali, evolutivamente e geneticamente codificati, e di un altrettanto definito numero di parametri, che stimolati da input ambientali, determinerebbero, fissandosi in un modo già internamente programmato, la variabilità culturale delle norme morali. In tal modo il meccanismo principi-parametri spiegherebbe la naturale dialettica tra dotazione biologica e componente culturale. Il problema dell’acquisizione della morale, così come nel caso della teoria linguistica chomskyana, diverrebbe un problema inconscio di regolazione di interruttori e non un processo cosciente suffragato da un ragionamento esplicito. Tali principi, inaccessibili alla coscienza e alla variabilità delle esperienze sociali, sarebbero localizzati in un “organo della morale”, situato nella mente/cervello di ogni animale umano. Seguendo questa via di riflessione, Hauser arriva a sostenere che così come è necessaria, per parlare una lingua, una competenza innata che ne garantisca l’acquisizione veloce, nonostante la povertà degli stimoli esterni, anche per la morale è possibile postulare l’esistenza di un programma innato non determinato da norme istituite socialmente. Il bambino attuerebbe, anche in ambito morale, un processo di codifica e decodifica simile a quello che realizza durante l’ascolto o la produzione di un enunciato: segmentazione di un’azione in unità formali discrete, riconducibili ai principi soggiacenti ad una struttura profonda. Così, attraverso il proficuo parallelismo con il linguaggio e con il supporto dei dati sperimentali delle ricerche di alcuni teorici della mente e della simulazione, Hauser riassume l’ipotesi della sua teoria morale (pp. 62-63): – esiste una “grammatica morale” universale ed innata, organizzata secondo una struttura a principi e parametri; – ciascun principio genera un giudizio rapido e automatico in merito alla possibilità che un atto o un evento sia moralmente lecito, obbligatorio o proibito; – i principi operano su esperienze che sono indipendenti da ogni consapevolezza razionale e da origini sensoriali, comprese scene visive immaginate e percepite, eventi uditivi, e tutte le forme di linguaggio: parlato, dei segni e scritto; – l’acquisizione del sistema morale nativo è veloce e spontanea, non motivata, in pratica, da nessuna istruzione; – la facoltà morale vincola la gamma dei sistemi etici possibili e stabili; – la facoltà morale per funzionare correttamente deve interagire con altre capacità mentali, alcune unicamente umane, altre condivise con altre specie;

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– la facoltà morale è implementata in sistemi cerebrali specializzati, un danno a questi sistemi può causare deficit selettivi nei giudizi morali, mentre un danno alle aree di supporto della facoltà può causare deficit nell’azione morale e non nel giudizio.

Ebbene, l’ipotesi, così brevemente schematizzata, dell’esistenza di una facoltà morale specie-specifica, è corroborata, nel testo in questione, non da mere speculazioni teoriche, ma dai risultati empirici di alcune ricerche, compiute da Hauser e dal suo gruppo di lavoro, attraverso il progetto del Moral Sense Test (http://www.moral.wjh.harvard.edu), un test del senso morale, originale quanto bizzarro, disponibile su internet e in parte nel testo in questione. Negli esperimenti sono stati coinvolti individui normodotati, appartenenti a culture diverse, anche a culture tribali, e individui con danni ad alcuni circuiti cerebrali e sottoposti a dilemmi morali e contro-dilemmi di vario tipo, eccone tre brevi saggi: 1) In un ospedale stanno morendo cinque pazienti per una grave patologia di cinque distinti organi. Ognuno di loro verrebbe salvato se si trovasse un donatore per quell’organo, ma non ci sono donatori di sorta. Un’infermiera, a un certo punto, comunica al chirurgo che in sala d'aspetto c’è un uomo sano, con i cinque organi richiesti in perfette condizioni e adatti al trapianto. È giusto effettuare l’espianto sull’uomo sano per salvare cinque vite? 2) Un uomo sta guidando la nuova auto sportiva quando vede una bambina, sul ciglio della strada con una gamba sanguinante, invocare aiuto. La bambina chiede al guidatore di portarla in ospedale. Il proprietario dell’auto considera questa richiesta, mentre pensa anche ai 200 euro di costo per la riparazione degli interni in pelle dell’auto. È obbligatorio per l’uomo portare la bambina all’ospedale? 3) Denise è un passeggero di un treno fuori controllo. Il conducente alla guida è svenuto e la locomotiva sta avanzando verso cinque persone che camminano sui binari e che non potranno salvarsi in tempo perché le banchine sono troppo scoscese. Il percorso ferroviario prevede una deviazione a sinistra e Denise potrebbe effettuare la deviazione. Sul tracciato alternativo però è presente un’altra persona. Ora, è moralmente lecito per Denise manovrare lo scambio e far deviare la locomotiva? Orbene, i risultati di tali sperimentazioni mostrano, seguendo la linea teorica di Hauser, che i diversi individui coinvolti, nonostante l’appartenenza a background socio-culturali diversi, presentano nei giudizi un “certo” grado di universalità e ancor di più presentano grandi difficoltà quando si chiede loro di argomentare con un ragionamento esplicito le loro scelte. Universalità dei giudizi e difficoltà nelle giustificazioni varrebbero da supporto all’ipotesi di una grammatica universale e inconscia, imper-

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meabile a riflessioni coscienti e a variazioni storiche e sociali. Per utilizzare le metafore fornite da Hauser, l’essere umano compierebbe le proprie scelte morali inforcando dapprima gli occhiali della creatura rawlsiana, creatura che opera cognitivamente secondo i principi e le dinamiche sottostanti alla “teoria della giustizia” del filosofo politico John Rawls, per poi utilizzare, ma non necessariamente, le lenti della creatura kantiana e di quella humeana. In breve, secondo lo schema hauseriano (pp. 192-193), le creature rawlsiane giudicherebbero un’azione morale segmentandone cause e conseguenze secondo principi inconsci ed emotivamente freddi; le creature humeane farebbero appello al cuore, alle emozioni, alla consonanza emotiva per decidere ciò che è giusto e sbagliato; quelle kantiane, invece, articolerebbero i propri giudizi morali per mezzo di un ragionamento conscio, un processo che implica una riflessione deliberata sui principi o sulle regole (riferimento agli imperativi categorici), che rendono alcune cose universalmente giuste e altre universalmente sbagliate. In sintesi, i nostri giudizi morali verrebbero formulati dapprima in maniera inconscia ed automatica e solo in seguito suffragati da spinte emotive o da deliberazioni esplicite. L’impermeabilità dei nostri giudizi morali a spinte emotive sarebbe ulteriormente avvalorata da alcune ricerche (ancora in corso) condotte su pazienti con danni alla connessione tra lobi frontali e sistema limbico, in breve con danni ai circuiti emozionali. Questi pazienti, nonostante l’assenza di riscontri e consonanze emotivi, si dimostrerebbero deficitari solo nei comportamenti morali e non nei giudizi morali. Tirando le fila, la capacità del nostro cervello di formulare giudizi su bene e male sarebbe quindi inconscia e indipendente dalle emozioni e dalle ragioni. Ne risulta che queste ultime influirebbero certamente sul comportamento, ma non sulla formulazione del giudizio morale. Molte azioni di carattere politico e legale, che fanno parte del background culturale di un paese, non avrebbero quindi effetto sul nostro concetto di bene e di male, formalmente uguale per tutti. Parafrasando Hauser: «l’idea che ho sviluppato in questo libro è che dovremmo concepire allo stesso modo la morale. Alla base della vasta variazione interculturale che osserviamo nelle nostre norme sociali asprese, esiste una grammatica morale universale che permette ad ogni bambino di sviluppare una gamma ristretta di possibili sistemi morali. Quando giudichiamo un’azione moralmente giusta o sbagliata, lo facciamo istintivamente, utilizzando un sistema di conoscenza morale che opera inconsciamente e ci è inaccessibile» (p. 409).

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Ebbene, la teoria della morale propugnata da Hauser, sì in maniera originale quanto radicale, attira su di sé, però, i limiti e le fratture di un paradigma internista e formalista. Gli studi condotti da Hauser si inseriscono pienamente all’interno di un progetto, d’impostazione cognitivista, rivolto alla “naturalizzazione” della vita umana. Tale programma di ricerca si propone di studiare l’animale umano ricorrendo esclusivamente agli apparati concettuali e metodologici avvalorati dalle scienze empiriche. E si propone, inoltre, di porre la lente d’ingrandimento su una mente umana internamente individuata e determinata, dalle facoltà (“organi mentali”) specializzate, invarianti e specificamente modulari. L’isomorfismo che si instaura tra una mente di questo tipo e l’ambiente circostante sarebbe caratterizzato da rapporti causali e formali, che selezionano evolutivamente caratteri universalizzabili e pertanto ripetibili. Ricondurre lo studio, però, della sfera morale umana allo studio dei principi innati, inconsci di una presunta grammatica universale, immune ai cambiamenti storico-sociali, implica togliere dal raggio d’indagine elementi specifici della nostra natura di uomini ed implica ancora imbattersi in dualismi controproducenti, del tipo interno-esterno, semplice-complesso, individuale-sociale. Rintracciare il fondamento della nostra moralità esclusivamente all’interno di strutture profonde ed “istintive” della nostra individuale mente/cervello significa abbassare lo sguardo di fronte alla concretezza delle diverse pratiche morali umane, di fronte alla complessità sociale delle pratiche morali. In altri termini dovremmo conoscere la morale attraverso processi inconoscibili e inaccessibili, usando una metafora hegeliana «quasi a imparare a nuotare prima di arrischiarsi nell’acqua» (Hegel 1817, trad. it. 2002, p. 16). Il punto di vista morale diverrebbe quasi uno sorta di sguardo noumenico, uno sguardo posto al di qua del contesto etico esistente e delle relative ritualità. Ebbene, uno sguardo implicito, inconscio, formale. E l’idea di una soggettività morale preformata finisce per legare l’esperienza morale alla formalità di questa stessa soggettività e sganciarla da qualsiasi processo collettivo di emancipazione, di Bildung, di prassi che si storicizza. Finisce per sconfessarne la realtà storica sussistente, la realtà storica (Geschichte) in cui gli individui si costituiscono. Tiriamo in ballo il filosofo tedesco Hegel, cercando però di rapirne, solo, stenograficamente i tratti salienti: «l’Eticità è il Concetto della Libertà divenuto mondo dato (Vorhandenen Welt) e natura dell’autocoscienza» (Hegel 1821, trad. it. 2006, § 142). L’uomo è etico, quindi libero, quando sganciandosi da una natura egoistica, si realizza pienamente nel mondo presente come autocoscienza universale e

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riconosciuta. Quando essendo ancora una “quasi autocoscienza” (e non una mente/cervello preformata) lotta per “la vita e per la morte” (durch den Kampf auf Leben und Tod) per essere riconosciuta dall’altro, sponda necessaria del suo processo di individuazione: «l’autocoscienza è in sé e per sé solo quando e in quanto è in sé e per sé per un’altra autocoscienza, cioè solo in quanto è qualcosa di riconosciuto» (Hegel 1807, trad. it. 2000, p. 275). Una lotta (sia individuale che sociale) che apre un riconoscimento (Anerkennung) per poi anche negarne un altro (processo dell’Aufhebung). Perché il processo storico-sociale dei riconoscimenti* non è mai saturo, ma polisemico e aperto a crisi, non deterministicamente selezionate, che possono rigenerare la consuetudine delle nostre consolidate abitudini, norme morali o meno. E togliere, pertanto, l’uomo con i suoi dilemmi morali fuori dalla propria storia, fuori dalle proprie pratiche pubbliche vuol dire togliere l’uomo fuori dal proprio ethos ed incatenarlo all’istante di un ambiente identico. I nostri giudizi morali cambiano perché la storia e le pratiche tra individui creano nuove forme di riconoscimento (si pensi alla legalizzazione dell’aborto, ma anche, facendo riferimento all’attuale mondo televisivo, si pensi all’entrata nella casa del GF8 di un ex transessuale). L’esperienza morale è un’esperienza complessa, frutto, direbbe Hegel, di un processo dialettico tra individui che si riconoscono e disconoscono nello storicizzarsi di uno “Spirito Oggettivo”, frutto di uno Spirito che si realizza e si manifesta in un mondo esistente, presente e che si incarna negli “Spiriti dei popoli” (Volksgeist) che si succedono nella dialettica affermativa e negatrice della storia. Non mettiamo in discussione la natura universale della nostra morale, se questa implica pubblicità e concretezza, ne contestiamo la versione astratta, individuale e addirittura inaccessibile. E che sorte ha, inoltre, nell’orizzonte teorico di Hauser, il linguaggio? Lo studioso scrive: «i principi morali operano su esperienze che sono indipendenti […] da tutte le forme di linguaggio» (p. 62). Dovremmo pertanto fondare i nostri giudizi morali al di fuori di ciò che ci rende tipicamente umani, ossia il linguaggio. E dal momento che il linguaggio permea le nostre esperienze di umani dovremmo ricercare le nostre basi morali fuori dal nostro ambiente, fuori dalla “nostra storia naturale”, direbbe Wittgenstein. Dovremmo concepire così il nostro habitat come un epifenomeno. Usando, invece, i termini chomskiano-hauseriani dovremmo concepire il linguaggio verbale solo come l’interfaccia di un linguaggio formale interno *

Mi riferisco ancora alla Fenomenologia dello Spirito di Hegel.

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e il senso (anche morale) della comunicazione come un rigido procedimento di traduzione sintattica operata da un organo precostituito. Le diverse lingue, da noi quotidianamente parlate, con le quali comunichiamo, costruiamo sensi ed identità (“morali” nel caso del testo in questione) sociali ed individuali, con le quali preghiamo, litighiamo, amiamo collasserebbero in una sola ed invariante facoltà (organo) di linguaggio, non alimentata da alcuna prassi sociale: che prassi mai si potrebbe avere tra individui che hanno già in sé tutto quello che dovrebbe venir fuori da altri? Lingua e società diventano semplici accessori del corredo umano. Ecco il paradosso: chi pretende di naturalizzare la mente umana e le sue attività senza considerare il linguaggio, la storia e la pubblicità delle sue pratiche concrete, in realtà assume un punto di vista antinaturalistico, perché trascura proprio la natura di ciò che sta studiando, la sua specificità biologica. Ed ecco come risponderebbe Hegel: «nel linguaggio, la vera e propria singolarità essente per sé dell’autocoscienza emerge nell’esistenza ed è per gli altri» (Hegel 1807, trad. it. 2000, p. 683). Hauser sembra per di più rimanere intrappolato nelle sue stesse argomentazioni: com’è possibile stabilire una grammatica morale universale e formale, utilizzando come strumenti d’indagine la diversità dei fatti sociali e concreti? E ancora perché tener conto nei risultati dei test solo delle risposte uniformate? Che fine fanno quelle che non presentano un certo grado di universalità? Ebbene, avremo un istinto morale (forse!), ma questo non basta. Altrimenti lo scotto sarebbe troppo consistente. Bibliografia HAUSER, M.D. (2006), Moral Minds (trad. it. Menti morali. Le origini naturali del bene e del male, Milano, Il Saggiatore, 2007). HEGEL, G.W.F. (1807), Phänomenologie des Geistes (trad. it. Fenomenologia dello Spirito, Milano, Bompiani, 2000). HEGEL, G.W.F. (1817), Encyclopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, Heidelberg, Oßwald (trad. it. Enciclopedia delle scienze filosofiche, Roma-Bari, Laterza, 2002). HEGEL, G.W.F. (1821), Grundlinien der Philosophie des Rechts (trad. it. Lineamenti di Filosofia del diritto, Milano, Bompiani, 2006). WITTGENSTEIN, L. (1953), Philosophische Untersuchungen, Oxford, Blackwell (trad. it. Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1999).

Intervista a ROBERTA DE MONTICELLI1 Le innumerevoli risorse della ricerca fenomenologica di ARMANDO CANZONIERI 1. Sembra che la fenomenologia sia un movimento di pensiero che rinasce sempre dalle sue stesse ceneri; i problemi posti dalla filosofia cambiano ma questa disciplina continua ad avere qualcosa da dire. Quali sono, secondo lei, i concetti, nati all’interno del movimento fenomenologico, che oggi possono essere ancora utilizzati dalla riflessione filosofica per affrontare il problema della natura umana e dell’esperienza umana cosciente? Più che dalle sue stesse ceneri, la fenomenologia rinasce dalle ceneri dei fraintendimenti e delle ignoranze, a volte involontarie e altre no, che hanno fatto la sua (s)fortuna nel secolo scorso. Rinasce dalle assurde riduzioni che si sono fatte del suo spirito, quanto mai aperto alla ricerca anche empirica e alle sue avventure, a quello di un attardato cartesianesimo tutto chiuso nella rocca del cogito; o di un “razionalismo” ignaro del ruolo di affetti, corpo, azione nella stessa formazione della ragione, o ignaro della ragionevolezza, cioè dell’esercizio della ragione in condizioni limitate. Rinasce dalla riduzione del metodo di ricerca che la fenomenologia è ad un sistema filosofico fra gli altri, accompagnata di solito dalla riduzione della fenomenologia a un fenomenismo o a una sorta di idealismo (che disconosce l’ambizione della fenomenologia a dire qualcosa sulla realtà e non solo sulla coscienza che ne abbiamo), anzi a parlare di ambiti di realtà diversi (regioni ontologiche) eppure connessi (dalle relazioni di fondazione che connettono fra loro le diverse “regioni ontologiche” come natura, persona eccetera). E questo ci introduce alla domanda più specifica. Un’ontologia della regione persona, vale a dire una caratterizzazione essenziale di che cosa rende tale una persona umana è fin dal secondo libro delle Idee di Husserl uno dei punti principali del programma di ricerca fenomenologico. Ma essenziali apporti sono venuti da quei fenomenologi che si sono più intensamente concentrati sull’analisi delle strutture dell’affettività e del volere, vale a Ringrazio la professoressa De Monticelli per aver accolto la proposta di accompagnare e completare la recensione del testo Neurofenomenologia (2006) con questa intervista. 1

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dire di quelle disposizioni i cui atti sono detti “egologici”. Gli atti di tipo conativo (ad esempio le decisioni e le azioni volontarie) e quelli di tipo affettivo (ad esempio il provare dolore, speranza, paura) sono caratteristicamente esperienze in cui ciascuno, mentre le vive, sperimenta se stesso come tale, come soggetto degli atti stessi. Mentre le vive, e non per riflessione. Per riflessione posso riconoscermi soggetto di un atto puramente cognitivo, come risolvere un’equazione, ma non ho certo bisogno di esser presente a me stesso, mentre cerco di ricordarmi i passi da fare per risolverla. Invece non posso sentire male senza sentirmi male, non posso suonare il piano senza sentirmi agente e causa dei suoni che produco. Già questo concetto di atti egologici, che isola e descrive i tipi di esperienza in cui si “costituisce” la nozione di soggetto, fa fare un enorme passo avanti alla sterile problematica della soggettività come “lato interno”, inaccessibile e ineffabile dell’oggetto persona, come fascio di qualia o simili. 2. Quindi lei crede che è a partire da una fenomenologia dell’affettività e del volere che il problema della persona umana possa essere circoscritto e chiarito. Non c’è nulla di ineffabile nella descrizione di quegli atti in cui effettivamente noi, a partire dalla prima infanzia, facciamo esperienza della nostra capacità di subire e della nostra efficacia causale, cioè dei contenuti esperienziali della nozione di soggetto. Ci sono, anzi ottime teorie fenomenologiche del volere, da un lato, degli innumerevoli e ben connessi fenomeni della sfera affettiva dall’altro. Questa nozione è preliminare alla comprensione della definizione fenomenologica di persona come soggetto d’atti. Naturalmente occorre, per capire questa definizione e la teoria che essa introduce, la teoria stratificata degli atti (DE MONTICELLI, 2007), soffermarsi anche su quegli strumenti concettuali indispensabili che sono la differenza fra atti e stati, la differenza fra motivi e cause e la differenza fra azioni ed eventi. Si tratta di distinzioni ontologiche, e non di una riedizione delle vecchie distinzioni neo-kantiane o al più wittgensteiniane fra scienze della natura e scienze umane, o fra “spiegare” e “comprendere”. Impossibile dunque entrare qui nei dettagli della teoria: si può comunque dire sulla base di queste argomentate distinzioni, essere una persona equivale a emergere sui propri stati mediante i propri atti. Questo emergere distingue la persona umana in tutti gli aspetti principali in cui si differenzia da altri animali superiori: grado di libertà d’azione, capacità di assumere impegni, capacità di creare istituzioni e artefatti complessi, capacità di parlare una lingua atta non solo alla comunicazione ma al giudizio e alla finzione. Anche il “problema dif-

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ficile” secondo Chalmers, il problema della coscienza, ne riceve una luce del tutto nuova, ci torneremo forse più avanti. 3. La ricerca filosofica può ancora avere una autonomia quando le domande fondamentali sull’uomo vengono poste da scienza quali biologia e neurologia? Se si, che tipo di autonomia e come il confronto con queste scienze ha modificato i metodi della ricerca filosofica? Io credo che la fenomenologia nasca e rinasca come risposta a questo processo di naturalizzazione, ovvero di acquisizione di sempre più larghe parti dell’interrogazione filosofica tradizionale ai metodi scientifico-empirici. Un processo abbondantemente in corso già ai tempi di Husserl, e che oggi è cresciuto in modo esponenziale. In realtà ciò che può sconcertare i filosofi non sono certamente i risultati empirici, sui quali del resto bisognerebbe tenersi informati, ma le generalizzazioni filosofiche fatte a partire da essi, e in particolare le forme oggi sul mercato di materialismi riduttivi, o addirittura eliminativi: che cioè riducono ad altro o eliminano dall’ambito di ciò che esiste i principali fenomeni di cui abbiamo parlato sopra – dalla nostra coscienza alla nostra libertà, dai colori del mondo visibile ai valori delle cose e delle situazioni nel mondo della nostra vita. Queste riduzioni ed eliminazioni corrispondono precisamente a quello scetticismo nei confronti dei “fenomeni”, cioè della realtà apparente immediatamente esperibile, nei modi della percezione ma anche del sentire, dell’empatia, e in altri modi della cognizione diretta – quello scetticismo dunque, per combattere il quale la fenomenologia appunto nasce e cresce. Nasce e cresce dunque come una nuova risposta al mandato di Platone, “salvare i fenomeni”, e ci aiuta a sondare la profondità di questo mandato. Ma contro questo scetticismo relativo ai fenomeni nessun argomento è conclusivo. Quello che occorre non è un argomento, per quanto complesso, ma una vera e propria rivoluzione nel modo di concepire i rapporti fra apparenza e realtà: una rivoluzione non solo relativamente alla filosofia moderna, ma anche a quella antica (ancora una volta, non si tratta dunque di un ritorno alle radici). Questa vera e propria rivoluzione ontologica è la fenomenologia. Solo riconoscendo ai livelli “molecolari” di indagine la loro perfetta legittimità, ma anche pretendendo il riconoscimento di uno statuto di realtà a quei fenomeni che non sono più abbordabili a un livello molecolare, ma costituiscono oggetto di studio per la filosofia, si potrà ritrovare un rapporto proficuo fra le nuove scienze dell’uomo e la ricerca filosofica.

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4. Come descrivere una possibile interazione proficua tra queste discipline e la filosofia? Ecco, diciamo anzitutto in cosa consiste questa “rivoluzione”. Partiamo dalle cose apparenti nel senso più semplice del termine, le cose visibili. Noi tendiamo a pensare che la vera realtà della cosa risieda nella sua parte non apparente, o nascosta, vale a dire che la cosa sia in effetti quello che è questa parte nascosta. Ad esempio la sua struttura fisica, le particelle di cui in ultima analisi è composta e le interazioni che le tengono insieme. Per la verità anche chi pensa che la realtà di una cosa – poniamo, di una persona – sia la sua anima, tende a pensare a questa realtà come a un’entità nascosta. In ogni caso l’entità vera – la “sostanza” – viene anche nel linguaggio comune contrapposta all’apparenza della cosa. E infine, per quanto senza uscita siano le oscurità in cui ci avvolgiamo, noi tendiamo a pensare questo rapporto fra sostanza e apparenza, fra realtà e fenomeno, in termini di “causazione” (la realtà “causa” l’apparenza, la “determina”, ovvero questa “risulta” a partire dalla realtà “sottostante”). In ognuno di questi casi il vero essere della cosa, la sua realtà o sostanza, è pensato risiedere non nell’apparenza, ma in ciò che la “fonda”, la “determina”, la “causa”. Il linguaggio corrente suggerisce questo quasi inevitabilmente. In conclusione, noi tendiamo a pensare che ciò che “fonda” è ontologicamente più importante di ciò che è “fondato”; la “base” o “l’interno” è più importante di ciò che “emerge” alla superficie. Una sorta di atavica grammatica mentale, insomma, ci induce tacitamente a pensare che l’entità e l’identità della cosa risieda più nella sua “base” nascosta che nelle sue proprietà “emergenti”: l’acqua è realmente nelle sue molecole piuttosto che nella sua liquidità e trasparenza, la realtà di una persona è nelle sue basi biologiche piuttosto che nella sua fioritura personale, e così via … Questa grammatica atavica è ciò che chiamiamo ontologia. Ma in realtà non è che un’ontologia, un’ontologia che chiede oggi una profonda revisione. Questa profonda revisione è la fenomenologia. 5. In che modo viene operata questa revisione? La fenomenologia ridefinisce completamente il rapporto fra realtà e apparenza. “Fenomeno” non è semplicemente l’apparenza della cosa. La parola denota quella che chiameremo la struttura emergente della cosa. A questo punto è facile definire il rapporto fra le discipline empiriche e la filo-

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sofia: questa si occupa soltanto delle proprietà emergenti delle cose, fra le quali tuttavia si trovano le proprietà essenziali, per mezzo delle quali si identifica il tipo di cosa di volta in volta in questione. Una persona sarà identificata cioè dalla sua capacità di impersonare liberamente le disposizioni caratteristiche della natura umana, e non dalla descrizione biologica di questa natura, benché naturalmente questa natura sia fondante rispetto alla sua personalità. Una statua, dalle sue qualità estetiche specifiche, e non dalle molecole del marmo di cui è fatta. Detto in breve, fare ricerca filosofica è ricondurre le realtà basilari e parziali che le scienze studiano ai loro interi di appartenenza – e occuparsi di questi ultimi. 6. Focalizziamo l’attenzione sulla neurofenomenologia. Leggendo i diversi saggi contenuti nel libro da lei curato (penso soprattutto all’articolo di Jean Petitot La svolta naturalista della fenomenologia e di Natalie Depraz Mettere al lavoro il metodo fenomenologico), ma anche durante la lettura degli altri testi di Varela, ho avuto l’impressione che un interrogativo fosse assente o solamente accennato, riguardante la relazione tra analisi fenomenologica e analisi semantica dei vissuti. Lei crede che sia possibile esplicitare le operazioni semantiche che sono sottintese all’epochè e alla variazione eidetica e collegare in questo modo l’analisi eidetica dei vissuti ad una analisi grammaticale dei loro resoconti in prima persona? Vediamo dapprima più in generale il senso e l’interesse dell’applicazione neurofenomenologica della fenomenologia. Scrive Vittorio Gallese nel suo contributo alla raccolta: “Personalmente, credo sia molto più interessante fenomenologizzare le neuroscienze cognitive che naturalizzare la fenomenologia. Utilizzare cioè vari aspetti della riflessione fenomenologica sul corpo vivo e sul ruolo da esso giocato nella costruzione della nostra realtà, e in particolare nella costruzione della realtà intersoggettiva”. La nostra ambizione nell’edizione del reading è certamente più modesta e preliminare. Ci pareva utile insistere sulle risorse che il metodo fenomenologico offre per fare una cosa che nessun altra disciplina può fare, ma solo la filosofia, e di cui abbiamo oggi un bisogno estremo: gettare un po’ di luce sulle relazioni fra il mondo della vita quotidiana, che è anche il mondo in cui nascono tutte le nostre curiosità cognitive e le nostre risposte emotive, oltre che quello in cui si radicano i nostri interessi, le nostre scelte, le nostre azioni, la cultura e le sue istituzioni; e i mondi scoperti e indagati negli ultimi secoli, ma soprattutto nell’ultimo cinquantennio, dalle

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scienze naturali, in particolare la fisica, la biologia e le scienze della mente, e ancora più particolarmente le neuroscienze. Entriamo ora un po’ più nello specifico della sua domanda: analisi fenomenologica e analisi semantica. Secondo alcuni autori, la nozione di noema, o di senso d’essere, è in fondo una generalizzazione della nozione fregeana di senso o pensiero (SMITH, 1982 e DUMMETT,1995). Questa lettura ha del vero, anche se non sottolinea abbastanza le differenze: in primo luogo, un pensiero è certamente per Husserl il senso di un enunciato, ma a differenza che in Frege è un momento di quell’interodi-significato che è una proposizione (un pensiero può cioè essere riformulato in altri enunciati, ma non può sussistere senza il momento linguistico, né un enunciato è tale senza il senso di cui è investito). In secondo luogo, un noema è semmai un pensabile – ma resta un dato essenziale, non un significato linguistico per mezzo del quale posso descriverlo. Resta vero però che quello che Frege dice del contenuto di quegli atti che sono i giudizi, cioè dei pensieri o portatori di verità e falsità, Husserl lo generalizza ai contenuti di atti in generale: cognitivi (non solo giudizi o asserzioni, ma anche gli atti che procurano a questi una giustificazione appropriata, come percezioni, operazioni logiche quali dedurre o inferire, ecc.); affettivi, conativi. 7. Quindi è l’idea stessa di norma conoscitiva, in contrapposizione alla legge fisica e logica ad essere differente? Questi “contenuti” non sono “mentali”, non stanno “nella mente” e neppure “nel cervello”, perché sono ciò senza di cui non avremmo norma di adeguatezza ai nostri atti, cioè non avremmo norma di ragione ai nostri comportamenti. In particolare, non avremmo norma di verità ai nostri giudizi, ad esempio non avremmo i principi logici e le regole di deduzione che pure le scienze empiriche, e in particolare le scienze del cervello e quelle della mente presuppongono validi. Ma non avremmo norma di validità neppure alle nostre percezioni, ai nostri ricordi, alle nostre emozioni, ai nostri desideri, alle nostre decisioni. Un mondo senza oggettività – né in scienza, né in etica – è il mondo di quello che Husserl, con una parola usata in modo caratteristicamente lato e radicale, chiama “lo scetticismo”. È un mondo in cui gli atti delle persone non hanno condizioni di validità. Reciprocamente, gli atti delle persone hanno condizioni di validità se e solo se accedono a quelle fonti di normatività che sono le cose stesse nel loro tenore eidetico. In quanto contenuto

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di un atto, un noema è in certo modo un noumeno, un intelligibile: la parte “visibile alla coscienza” di una realtà essenziale, di un dato non empirico. Per un fenomenologo, abbiamo a che fare tutto il tempo coi noumeni, le “cose in sé”. Dalla più effimera delle percezioni alla più fatale delle decisioni della nostra vita. Seria e degna di essere vissuta è la vita in questa prospettiva. Non è affatto, quindi, alla naturalizzazione della mente (o psiche) che il fenomenologo è portato ad opporsi, ma alla naturalizzazione della coscienza: lo è, mutatis mutandis, per le stesse ragioni per cui Frege si opponeva alla naturalizzazione delle leggi della logica. In effetti, non la psiche ma la coscienza è presenza, in ultima analisi, di pensabili, e quindi di verità possibili (a proposito di fatti, di essenze, di valori, di doveri). Questa eccedenza della coscienza sulla psiche è uno dei fenomeni emergenti che caratterizzano la novità ontologica delle persone. 8. Nel suo contributo al testo Neurofenomenologia, è proprio questa “ontologia della persona” che lei cerca di tratteggiare. Questo è un problema che da tempo accompagna la sua riflessione. Può delinearne i contorni e accennare ai metodi che ritiene efficaci per affrontarlo? In quell’articolo mi soffermo su due problemi: come uscire dal quadro ontologico implicito nel problema mente-corpo e nelle sue varie soluzioni, che configurano come unica alternativa di fondo un monismo materialistico e un dualismo – seppure un’alternativa sfumata da una serie virtualmente infinita di combinazioni. E come costruire un’ontologia dell’essere personale all’interno della quale si possa risolvere il problema dell’identità personale. Discuto due versioni molto differenti di ontologia adatta a render ragione della natura delle persone umane, che hanno in comune la circostanza di sfuggire all’alternativa fra monismi materialistici e dualismi. Sono le teorie degli esseri materiali (viventi) di Peter Van Inwagen e quella delle persone di Lynne Baker. Cerco in quell’articolo di mostrare che nessuna delle due teorie fornisce una soluzione soddisfacente al problema dell’identità personale. Argomento a questo scopo molto più utile del concetto di composizione (Van Inwagen) e di quello di costituzione (Baker) risulta quello husserliano di Fundierung, che non solo dà conto di una dipendenza dell’esser persona umana dalle basi biologiche specifiche, e dà conto anche dell’irriducibilità o novità ontologica della persona rispetto alle sue basi biologiche; ma inoltre dà conto di quel carattere veramente caratterizzante dal punto di vista on-

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tologico che mi sembra essere, per le persone, la loro individualità essenziale. Abbozzo quindi una caratterizzazione formale del concetto di individualità essenziale, che sostanzialmente rende conto dell’unicità, questa caratteristica delle persone umane: esse sono non replicabili, cioè impossibilitate a differire, nonostante in linea di principio replicabili siano i loro genomi individuali (come accade anche nel caso dei gemelli omozigoti). L’unicità, è a mio parere una delle tre caratteristiche ontologiche di cui godono congiuntamente le persone e solo le persone (ne conosciamo solo di umane ma nulla vieta che se ne incontrino in futuro di marziane o basate su un’altra biologia): e cioè le caratteristiche che riassumo in altri lavori nelle categorie di profondità, o eccedenza d’essere rispetto all’aspetto e alla presenza personali, eccedenza che fa l’oggetto potenzialmente inesauribile della conoscenza personale di sé e degli altri; e di inizialità, neologismo questo in cui raccolgo due caratteristiche tradizionalmente riconosciuteci da una parte della tradizione filosofica: il libero arbitrio, e la capacità di dare esistenza a cose di tipo nuovo.

ADELINA CATALDO L’incubo marziano. “The War of the Worlds” di H.G. Wells

In The War of the Worlds, il discorso antiutopico, tipico dei “romances” wellsiani, prende il via da una prospettiva cosmica che prende spunto dagli interessi astronomici dell’epoca, i quali forniscono materiale di straordinaria attualità. Lo stesso Wells si era occupato a più riprese della possibilità dell’esistenza di vita intelligente nel cosmo, e in particolare su Marte. Lo spunto a tali riflessioni veniva dagli studi attuati da Percival Lowell, i cui scritti avevano contribuito a diffondere la convinzione che Marte fosse attraversata da una vasta rete di canali, i quali rappresentavano una complessa opera di ingegneria, disegnata per diffondere l’acqua proveniente dallo scioglimento stagionale delle cappe polari1. Un altro studioso, di nome Robert S. Ball, aveva publicato su The Fortnightly Review “The Possibility of Life in Other Worlds”, ipotizzando la presenza di acqua su Marte2. Wells era ovviamente a conoscenza di tali studi, ma la sua immaginazione lo avrebbe portato ancora più lontano; così, accanto all’osservazione del cosmo, egli colloca nel suo romance la proiezione futurologica, con le sue supposizioni riguardanti l’evolversi dell’umanità. Marte è un pianeta più antico della Terra, per cui il popolo che lo abita dovrebbe costituire una civiltà più evoluta, sul piano scientifico e tecnologico, nonché su quello biologico. I tratti caratteristici dei Marziani divengono, dunque, la proiezione futurologica dei tratti tipici della nostra specie. In “The Man of the year Million”, Wells aveva infatti previsto, per il genere umano, la perdita progressiva di tutti quei caratteri morfologicamente animali, come i denti e i capelli, che, alle origini della specie avevano avuto lo scopo di proteggerci dalle insidie ambientali, ormai scomparse, grazie allo sviluppo della civiltà umana. L’uomo del futuro avrebbe allora avuto un T. DOBBONS & R. BAUM, “Observing a Fictional Moon” (H.G.Wells’s novel ‘The First Men in the Moon’ inspired by astronomer W.H. Pickering’s lunar discoveries), Sky & Telescope, June 1988, 95/6, p. 105. 2 R.S. BALL, “The Possibility of Life in Other Worlds”, cit. in C. PAGETTI, I Marziani alla corte della regina Vittoria, Pescara, Tracce, 1986, p. 26. 1

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corpo rimpicciolito, con un cervello enorme, e delle mani sensibilissime, quasi delle appendici tentacolari. Il riferimento a questo saggio è reso esplicito nel secondo capitolo del secondo libro di The War of the Worlds: a certain speculative writer of quasi-scientific repute, writing long before the Martian invasion, did forecast for man a final structure not unlike the actual Martian condition3.

Nel romance, i Marziani vengono descritti come grossi “octopuses”, tutto cervello, e dotati di sottili tentacoli, che vengono peraltro richiamati nella struttura che essi danno alle loro macchine da guerra, enormi tripodi da cui pendono “articulate ropes of steel”4 per mezzo dei quali afferrano le loro vittime. Tale rappresentazione evolutiva dei marziani, permette inoltre a Wells di portare avanti la sua critica agli effetti della meccanizzazione, e, come sosterrà H.L. Sussman, nel suo Victorians and the Machine: The physical grotesqueness of the Martians, like the animality of the Morlocks and the effiminacy of the Eloi, is an evolutionary extrapolation of the present effects of the machine5.

Marte è dunque un pianeta più evoluto, ma, di conseguenza, anche morente: essendo più antico della Terra, esso è anche più vicino alla fine, per via del processo di raffreddamento che un giorno interesserà anche il nostro pianeta. Necessity ha dunque spinto i marziani a cercarsi un’altra dimora: poiché la Terra è il pianeta abitabile più vicino, una spedizione marziana la invade con la sua superiore tecnologia. Ciò che ne consegue è appunto una lotta per la sopravvivenza, uno scontro tra human e nonhuman. 3 Continua: “His prophecy, I remember, appeared in November or December, 1893, in a long- defunct publication, the Pall Mall Budget […]. He pointed out […] that the perfection of mechanical appliances must ultimately supersede limbs; the perfection of chemical devices, digestion; that such organs as hair, external nose, teeth, ears, and chin wee no longer essential parts of the human being, and that the tendency of natural selection would lie in the direction of their steady diminution through the coming ages. The brain alone remained a cardinal necessity. Only one other part of the body had a strong case for survival, and that was the hand, ‘teacher and agent of the brain’” (H.G. WELLS, The War of the Worlds, New York, Lancer, 1967, p. 178). 4 Ivi, p. 63. 5 H.L. SUSSMAN, Victorians and the Machine. The Literary Response to Technology, Harvard (Ma.), Harvard University Press, 1968, p. 176. Scrive inoltre Sussman: “The deterioration of physical strength in a mechanized age was a common fear throughout the century”.

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La voce a cui Wells affida il racconto dell’incubo Marziano ha il compito di riportare la narrazione dalla sua dimensione cosmica alla realtà quotidiana di un paesaggio e di comportamenti umani che sono parte integrante dell’esperienza comune e contemporanea. Il narratore è, infatti un uomo come tanti altri, e tale espediente serve a sferrare un attacco alla complacency, tipicamente borghese, di una umanità fiduciosa verso il proprio avvenire, e che dunque non si accorge della futilità della società contemporanea. In questo contesto, si colloca l’ironico preambolo, affidato, naturalmente, a quell’alter ego wellsiano, peraltro senza nome, a cui è delegato l’intero racconto, a partire da “The Eve of the War”: No one would have believed in the last years of the nineteenth century that this world was being watched keenly and closely by intelligences greater than man’s and yet as mortal as his own; that as men busied themselves about their various concerns they were scrutinized and studied, perhaps almost as narrowly as a man with a microscope might scrutinize the transient creatures that swarm and multiply in a drop of water. With infinite complacency men went to and fro over this globe about their little affairs, serene in their assurance of their empire over matter6.

Tale prospettiva pone l’uomo in una posizione ambigua all’interno della scala naturale: da una parte egli è predatore rispetto alla natura più “bassa”, ma è anche vittima della natura “superiore” dei marziani, e dunque preda7. I marziani osservano l’umanità come l’uomo osserva al microscopio gli esseri, altrimenti invisibili, che nuotano e si moltiplicano in una goccia d’acqua. Ancora una volta, in The War of the Worlds, l’uomo sperimenta quel “sense of dethronement”, di cui scrive P. Parrinder a proposito di The Time Machine e The Island of Dr. Moreau8. I Marziani giungono infatti sulla terra per sostituire al dominio dell’uomo il proprio “Reign of Terror”. Inoltre, per rendere più plausibile l’arrivo dei “cilindri” lanciati da Marte e contenenti gli alieni incaricati della colonizzazione della terra, Wells fa H.G. WELLS, The War of the Worlds, cit., p. 7. Cf. J. HUNTINGTON, The Logic of Fantasy: H.G.Wells and Science Fiction, cit. In AA.VV., Twentieth-Century Literary Criticsm, Gale Research Company, 1986, vol. 19, p. 443. Huntington sostiene, inoltre, che: “This structure makes us aware of the ethical horror of natural evolutionary behavior and makes us reconsider the relations that can exist across species lines” (ibid.). 8 P. PARRINDER, Shadows of the Future. H.G. Wells, Science Fiction and Prophecy, Liverpool University Press, 1995, p. 49. 6 7

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riferimento ad una “mass of flaming gas” 9 che sarebbe stata rivelata dagli osservatori del pianeta rosso circa sei anni prima della catastrofe. Il narratore può ora sorprendersi di come gli uomini, allora del tutto inconsapevoli della tragedia che stava per abbattersi sulle loro teste, avevano continuato ad occuparsi tranquillamente di “petty concerns” 10 . A tal proposito, l’ambientazione dell’invasione marziana è resa con una straordinaria ricchezza di dettagli topografici (in quegli anni lo stesso Wells viveva a Woking, e imparava ad andare in bicicletta). Il quadro di tranquilla quotidianità serve ad accentuare lo shock causato dal suo successivo stravolgimento. Gli alieni provenienti da Marte arrivano sulla terra con le loro terrificanti macchine da guerra, frutto della loro superiore tecnologia, e iniziano immediatamente la loro opera di distruzione. Così, non appena si apre il primo dei cilindri piovuti dal cielo, inizia il macello, secondo il principio della predazione totale, quasi un incubo di morlockiana memoria, ma inserito in un contesto tecnologizzato. Questa volta, la ricerca disumanizzata e di-sumanizzante del cibo si compie con il fuoco del raggio della morte (“Heat Ray”) e con il ferro spietato delle macchine da guerra (“Handling Machines”), a morfologia tentacolare come gli esseri che le hanno costruite11.

I Marziani, da soli, sono appena in grado di strisciare, trascinando lentamente i propri corpi, appesantiti tra l’altro dall’atmosfera terrestre; tuttavia, la loro superiore intelligenza li ha resi in grado di costruire micidiali macchine da guerra che fungono da naturale prolungamento di quei corpi. Nelle fasi successive del racconto, infatti, i Marziani vengono letteralmente persi di vista, sostituiti dall’immagine degli enormi “tripodi” che avanzano a grandi passi, simili ad esseri viventi: it was no mere insensate machine driving on its way. Machine it was, with a ringing metallic pace, and long, flexible, glittering tentacles […] swinging and rattling about its strange body. It picked its road and went striding allong, and the brazen hood that surmounted it moved to and fro with the inevitable suggestion of a head looking about12. H.G. WELLS, The War of the Worlds, cit., p. 11. Il narratore non esclude neanche se stesso in questa critica: “For my own part, I was much occupied in learning to ride the bicycle, and busy upon a series of papers discussing the probable developments of moral ideas as civilization progressed” (ivi, p. 15). 11 A. MONTI, Invito alla lettura di H.G. Wells, Milano, Mursia, 1982, p. 57. 12 H.G. WELLS, The War of the Worlds, cit., p.64. 9

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Si offusca così, decisamente, il confine tra creatura e macchina, di cui il Marziano si è ridotto a semplice cervello motore13: They have become practically mere brains, wearing different bodies according to their needs just as men wear suits of clothes and take a bicycle in a hurry or an umbrella in the wet14.

La macchina è diventata viva, e lo scontro è ora fra l’uomo e le “fighting machines” che i marziani “indossano” come un’armatura da combattimento. Per Sussman: le macchine da combattimento rappresentano more than the conventional anthropomorphic wonders. In his preceding work, The Invisible Man (1897), Wells had illustrated through the naturalistic method the potential for cruelty in the purely scientific intellect; in this work the fighting machines become symbols of the same theme. For the Martians are not evil; they are merely efficient15.

Le macchine dei marziani stanno dunque a simbolizzare un’altra forma di razionalità amorale nel campo scientifico. È lo stesso narratore a sottolineare il fallimento etico rappresentato dagli alieni: Without the body the brain would, of course, become a mere selfish intelligence, without any of the emotional substratum of the human being16.

Con la loro tecnologia, essi si accingono a distruggere una civiltà di cui sono appena consapevoli. Il paragone con la politica imperialista britannica doveva certamente risultare chiara a moltissimi lettori dell’epoca. Una lettura in tal senso è stata avanzata da D. Hughes, per il quale la trama di The War of the Worlds è analizzabile come un’allegoria della conquista della società primitiva da parte di colonizzatori tecnicamente progrediti senza alcun rispetto per i valori o la cultura originari17. 13 Così, il narratore, osservando la “crab-like handling machine” che i Marziani utilizzano per la costruzione delle loro macchine da guerra, dirà che: “It seemed infinely more alive than the actual Martians lying beyond it […], panting, stirring ineffectual tentacles, and moving feebly” (ivi, p. 183). 14 Ivi, pp.181-182. 15 H.L. SUSSMAN, op. cit., p. 179. 16 H.G. WELLS, The War of the Worlds, cit., p. 179. 17 D. HUGHES, The Garden in Wells’s Early Science Fiction, in S. SUVIN e R. PHILMUS, H.G. Wells and Modern Science Fiction, Lewisburg, Bucknell University Press, 1977, cit. in A. Monti, op. cit., pp. 63-64.

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E, per ovviare alla possibilità che tale critica passasse inosservata al lettore tardo-vittoriano, Wells inserisce un commento talmente esplicito da sciogliere ogni dubbio a riguardo: The Tasmanians, in spite of their human likeness, were entirely swept out of existence in a war of extermination waged by European immigrants in the space of fifty years. Are we such apostles of mercy as to complain if the Martians warred in the same spirit?18

Così, da un lato, The War of the Worlds esprime un certo senso di colpa per la politica imperialista, ma, dall’altro, rappresenta il terrore delle invasioni che costituiva una preoccupazione tipica della società vittoriana negli ultimi decenni dell’ottocento. L’Inghilterra viene allora a coincidere con la Tasmania degli avvenimenti storici, e la favola anti-imperialista è raccontata dal punto di vista dell’oppresso, il quale viene ridotto alla sua componente di animalità regressiva: I began to compare the things to human machines, to ask myself for the first time in my life how an iron-clad or a steam-engine would seem to an intelligent animal19.

La macchina, come simbolo, assume un significato politico e il confronto tra umano e alieno implica un confronto tra umani di razze diverse. Così, quando il narratore incontra un gruppo di soldati e offre loro la sua descrizione degli alieni, uno dei soldati risponde: “It ain’t no murder killing beasts like that”20, per cui l’estraneità dei marziani rispetto alla razza umana sottrarrebbe i soldati dall’accusa di omicidio. La verità è che il disastro dell’umanità ha causato una regressione che ha distrutto ogni traccia di moralità collettiva, riducendo ancora una volta l’esistenza alla dialettica primordiale di preda e predatore; e in tal modo Wells intende ricordare, nuovamente, all’uomo la sua parentela con il mondo naturale: When the novel opens, Homo sapiens is on one side of a dividing-line, with the rest of earth-life on the other. With the arrival of the Martians, man is pushed back amongst his fellow terrestrials. Imagery constantly reclaims him for the H.G. WELLS, The War of the Worlds, cit., p. 10. Ibid. 20 Ivi, p. 53. 18 19

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animal world: in the course of the book, men are compared to infusoria, monkeys, lemurs, sheep dodos, cows, ants, frogs, bees, wasps, rabbits, rats and oxen21.

La guerra arriva a cancellare ogni distinzione o regola che salvaguardi il patrimonio specifico d’identità elaborato dall’uomo nel corso della sua storia. Così, alla fine, i marziani non sono molto diversi dagli uomini, e la conferma a ciò ci viene data, ancora una volta, dal tema dell’antropofagia. Occorre allora ricordare che, nei primi scientific romances di Wells, laddove è presente il tema del cannibalismo, esso costituisce una prova di diversità. Se è implicato il cannibalismo, e il terrore ad esso connesso, ciò significa che le due specie, in realtà, sono parte di un tutt'uno. I marziani si nutrono infatti, preferibilmente, di sangue umano e l’idea, secondo il narratore, è “horribly repulsive” 22 . Essi rappresentano delle vere e proprie creature da incubo, ma ciò che più disturba del loro essere è la consapevolezza che, come per i temibili Morlocks di The Time Machine, anche nel caso dei marziani ci si trovi di fronte all’immagine di uno dei possibili futuri dell’umanità23, un futuro antiutopico, come altri descritti da Wells. *

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Nel capitolo intitolato “In London”, leggiamo che I marziani stanno dirigendosi verso la capitale, utilizzando una nuova arma, un fumo velenoso dagli effetti devastanti. Il panico creato dalla diffusione di questa notizia conduce al grande esodo descritto nel capitolo sedicesimo. Qui si assiste alla cronaca minuto per minuto della dissoluzione della società metropolitana: l’enorme massa di gente nelle strade è costituita da un miscuglio eterogeneo di persone provenienti da diversi strati sociali. Qui Wells manifesta tutta la sua abilità descrittiva: So you understand the roaring wave of fear that swept through the greatest city in the world just as Monday was dawning – the stream of flight rising P. KEMP, H.G. Wells and The Culminating Ape. Biological Imperatives and Imaginative Obsessions, London, Macmillan Press, 1996, p. 23. 22 Inoltre, secondo Kemp, lo stesso aspetto dei marziani dà un’impressione di “considerable voracity”: “There was a mouth under the eyes, the brim of which quivered and panted and dropped saliva” (ivi, p. 23). 23 Ciò spiegherebbe i vari punti di contatto tra la descrizione fisica dei marziani e quella di The Man of the Year Million. Probabilmente, secondo Wells, fra un millione di anni, anche gli uomini avranno “huge round bodies” e “slender, almost whiplike tentacles”. 21

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swiftly to a torrent, lashing in a foaming tumult round the railway-stations, banked up into a horrible struggle about the shipping in the Thames, and hurrying by every available channel northward and eastward. […] All the railway lines north of the Thames and the South-Eastern people at Cannon Street had been warned by midnight on Sunday, and trains were being filled. People were fighting savagely for standing-room in the carriages even at two o’clock. By three, people were being trampled and crushed even in Bishop Street24.

L’esodo da Londra è particolarmente terribile: nel momento in cui un pericolo mortale minaccia l’umanità, gli uomini non sono migliorati, al contrario hanno palesato tutti i loro difetti. Nelle strade rapinano ed uccidono; i capitani delle navi in partenza dai porti inglesi prendono e requisiscono tutto quanto possiedono le persone che vogliono salire a bordo; i marinai affogano le persone che si avvicinano alle navi. In The War of the Worlds appaiono anche, per la prima volta, alcune delle idee che Wells avrebbe considerato molto seriamente in futuro. Ciò avviene nel capitolo intitolato “The Man on Putney Hill”, dove viene affidato all’Artilleryman il compito di sancire ciò che al lettore dovrebbe orami apparire evidente: “Nothing’s to be done. We’re under! We’re beat!” […]. “This isn’t a war,” […]. “It never was a war, any more than there’s war between man and ants”25.

È chiaro che l’atmosfera di tranquilla quotidianità descritta nel primo capitolo non esiste più; essa è stata spazzata via dalla tempesta marziana. Da questo contesto scaturisce la profezia dell’artilleryman che annulla completamente quei “little affairs” da cui gli uomini erano così presi alla vigilia dell’invasione aliena: “There won’t be any more blessed concerts for a million years or so; there won’t be any Royal Academy of Arts, and no nice little feeds at restaurants. If it’s amusement you’re after, I reckon the game is up. If you’ve got drawingroom manners or a dislike to eating peas with a knife or dropping aitches, you’d better chuck ‘em away. They ain’t no further use”26.

L’unica cosa che l'uomo può cercare di fare è istruirsi: “We don’t know enough. We’ve got to learn before we’ve got a chance”27. H.G. WELLS, The War of the Worlds, cit., p. 128. Ivi, p. 214. 26 Ivi, p. 217. 27 Ivi, pp. 217-218. 24 25

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Abbiamo qui il primo accenno di Wells al bisogno di una élite di intellettuali che dominerà il suo pensiero sociale e che raggiungerà la sua maggiore espressione in A Modern Utopia. L’artigliere si mostra infatti soddisfatto della dissoluzione di quella società per cui l’invasione marziana è stata “a godsend”. La maggior parte dei suoi membri “haven’t any spirit in them – no proud dreams and no proud lusts”28. “They just used to skedaddle off to work – […], bit of breakfast in hand, running wild and shining to catch their little season ticket train, […] working at businesses they were afraid to take the trouble to understand; skedaddling back for fear they wouldn’t be in time for dinner; […] sleeping with the wives they married, not because they wanted them, but because they had a bit of money that would make for safety in their one little miserable skedaddle through the world.”29

Di questi uomini i marziani “will make pets”, ma, fortunatamente, ve ne saranno altri che fonderanno una nuova civiltà sotterranea, composta da pochi eletti, che si dedicheranno ad approfondire le proprie conoscenze scientifiche e che, un giorno, si approprieranno delle macchine aliene, dando inizio alla riscossa dell’uomo. È a questa élite che Wells affida la sopravvivenza del genere umano, ma cosa accadrà quando l’uomo si approprierà della tecnologia marziana? Wells non fornisce una risposta definitiva a questo quesito, ma qualcosa si può ugualmente dedurre dalle parole dell’artigliere: “Fancy having one of them lovely things, with its Heat-Ray wide and free! Fancy having it in control!”30

È significativo che, nel finale, gli uomini non siano salvati dal proprio intelletto, bensì da “the humblest things that God, […] has put upon this earth”: “disease bacteria against which their systems were unprepared”31. Ed è fortemente ironico che esseri così sofisticati vengano abbattuti da creature microscopiche, invisibili ad occhio nudo. Ancora una volta, l’abisIvi, p. 218. È curioso come la descrizione fatta dall’artigliere corrisponda al curato, l’altro personaggio in cui il narratore si era imbattuto, suo malgrado. Il curato, nonostante la sua fede, era un uomo debole, la cui incapacità di affrontare realtà violente, contrasta bruscamente con il piano di sopravvivenza dell’artigliere. Tuttavia, nonostante l’enorme divario tra i due, l’uno si rivela inefficace quanto l’altro. 29 Ivi, pp. 218-219. 30 Ivi, p. 223. 31 Ivi, p. 237. 28

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so che divide Marziani e Inglesi si rimpicciolisce di fronte alla presenza di un darwiniano mondo animale e degli stessi agenti batteriologici che hanno provocato la sconfitta degli invaso. È vero che la conclusione restaura apparentemente l’ordine sociale e naturale pre-esistente, ricacciando nella dimensione dell’incubo i mostruosi alieni, ma intanto ogni sicurezza psicologica, ogni richiamo alla solidità della tradizione ha rivelato tutta la sua assurdità.

LUIGI CRISTALDI Le regole dell’arte. Bourdieu tra Saussure e Benjamin En revanche, il n’y a pas de parole collective SAUSSURE, III corso di linguistica generale

1. L’arte e la sociologia Le regole dell’arte1 è il testo in cui Pierre Bourdieu si interroga sul rapporto tra arte e sociologia. La domanda che sta alla base del testo è: vale ancora la classica regola aurea secondo la quale va rivendicata e difesa l’autonomia della letteratura, in particolare, dal contatto sacrilego che essa può avere con la sociologia2? Per il sociologo francese la risposta non può che essere negativa: la lettura sociologica, analizzando i rapporti tra i personaggi, tra l’autore ed il testo e tra l’autore e il proprio contesto storico, rompe l’incantesimo e consente di descrivere e comprendere il lavoro specifico che il creatore di un’opera ha dovuto compiere nella scrittura3 di un’opera. Non a caso Flaubert4 parlerà esplicitamente di «scrivere il reale»5 e dirà: «non si scrive ciò che si vuole»6: BOURDIEU (1992, trad. it. 2005). BOURDIEU (1992, trad. it. 2005: 47-52). 3 Bourdieu è chiaro: quando un autore mette per iscritto qualcosa fa entrare in gioco «il processo della scrittura [che] crea in tal modo un universo pieno di dettagli significativi e, con ciò, più significante di quello reale, come testimonia l’abbondanza di indizi pertinenti offerti all’analisi» e attraverso l’analisi delle reti sociali che si instaurano fra i personaggi del romanzo. «I romanzieri contribuiscono enormemente al riconoscimento pubblico della nuova entità sociale, nonché della costituzione della sua identità [...], dei suoi valori, delle sue norme e dei suoi miti» (BOURDIEU 1992, trad. it. 2005: 57 e 113). 4 L’esempio addotto da Bourdieu per spiegare come la sociologia abbia molto da dire sulla letteratura (e sull’arte in generale) è basato sull’analisi che egli stesso fa de L’educazione sentimentale di Gustave Flaubert. Perché proprio questo autore? Perché Flaubert, nella lettura di Bourdieu, insieme a Manet, soprattutto, e a Baudelaire, sono gli autori che con le loro opere hanno permesso la costituzione del campo letterario/artistico moderno a partite dalla metà dell’800 in poi. 5 BOURDIEU (1992, trad. it. 2005: 159). 6 Epigrafe di Flaubert scelta da Bourdieu per la prima parte del libro stesso. 1 2

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«Cercare nella logica del campo letterario o del campo artistico il principio dell’esistenza dell’opera d’arte nella sua dimensione storica, ma anche metastorica, significa trattare l’opera come un segno intenzionale orientato e regolato da qualcos’altro, di cui essa è anche un sintomo. Significa supporre che vi si enunci una pulsione espressiva che la trasposizione formale imposta dalla necessità sociale del campo tende a rendere irriconoscibile. La rinuncia all’angelismo dell’interesse puro per la forma pura è il prezzo che occorre pagare per comprendere la logica di quegli universi sociali che, grazie all’alchimia sociale delle leggi storiche di funzionamento riescono a estrarre dai conflitti spesso feroci delle passioni e degli interessi particolari l’essenza sublimata dell’universale; per offrire, dunque, una visione più vera e, in definitiva, più rassicurante, in quanto meno sovrumana, delle conquiste più alte dell’attività umana»7.

2. La costituzione del campo Seguendo Bourdieu, è Baudelaire che, con I fiori del male, istituisce per la prima volta la frattura tra l’editoria commerciale e quella d’avanguardia e contribuisce a far nascere nel campo una divisione tra due tipi di scrittori e due tipi di editori8. Una rottura che fa da spartiacque tra il passato ed il futuro della letteratura. Ma che cos’è il campo? Da dove deriva questa nozione? Un campo «è una rete di relazioni oggettive [...] fra posizioni»9; parafrasando Bourdieu, esso è definibile come un sistema10 di relazioni sociali definito dal possesso, dalla produzione e dall’uso 11 di una specifica forma di capitale. Ogni campo è, in maggiore o minor misura, autonomo12 e la posizione di dominante o dominato occupata dai partecipanti nel campo dipende in una certa misura sulle norme specifiche dello stesso. Esso è strutturato in una serie di settori, ivi compresi le reciproche influenze e le relazioni di dominio tra loro, utilizzato per descrivere il tessuto sociale. Campo qui è da BOURDIEU (1992, trad. it. 2005: 52). BOURDIEU (1992, trad. it. 2005: 126). 9 BOURDIEU (1979, trad. it. 2007). 10 Intendiamo con sistema un insieme di elementi, forze, forme e funzioni in reciproco rapporto funzionale. 11 Per Bourdieu questi tre processi vanno sempre di pari passo e sono alla base della costituzioni di ogni relazione sociale. 12 Bourdieu spiega nel testo come la costituzione del campo, in questo caso quello letterario, porti il campo stesso ad un livello di autonomia nei confronti sia dei produttori che dei consumatori in una sorta di equilibrio in continua discussione grazie ai meccanismi della concorrenza. Cf. BOURDIEU (1992, trad. it. 2005: 127). 7 8

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intendersi come in fisica quando si fa riferimento al campo elettromagnetico o gravitazionale dove ognuno di essi è un insieme di forze dotato di una struttura con proprie caratteristiche13. Una definizione, questa, che ricorda quanto sosteneva, a proposito della lingua, il linguista ginevrino Ferdinand de Saussure nel III corso di linguistica generale tra il 1910 ed il 1911 riportato negli appunti di Emile Constantin rimasti inediti per 47 anni e pubblicati solo in edizione completa nei Cahiers Ferdinand de Saussure numero 58 del 200514. Facciamo un passo indietro. Il Corso di Linguistica generale di Saussure15 viene chiamato in causa da Bourdieu in Language et pouvoir symbolique 16 . Bourdieu è contro la vulgata saussuriana (lo sa e lo dice) ma è in accorso con posizioni più autentiche (senza saperlo). Quello che fa il linguista ginevrino, secondo la vulgata, è distinguere tra una parte sociale e una individuale del linguaggio. Il primo, la langue, non esiste mai completamente all'interno di un singolo individuo, essa è la parte sociale del linguaggio, è l’intero magazzino composto dalla totalità dei segni linguistici, un serbatoio, una somma totale di tutte le manifestazioni individuali di linguaggio, gli atti di parole. Nella nostra ipotesi è proprio questo sviluppo della teoria linguistica saussuriana ad influenzare metodologicamente il punto di vista relazionale di Bourdieu. In Le sens pratique17, infatti, manifesta chiaramente come egli condivida in larga misura questa base semiotico-linguistica saussuriana secondo la quale ogni elemento riceve la sua completa definizione solo attraverso la sua relazione con il complesso di elementi di cui fa parte, come una differenza all'interno di un sistema di differenze18. Quello che Bourdieu non accetta dell’impostazione del linguista svizzero è questo suo mettere in pratica una doxa internalistica secondo la quale: «la teoria saussuriana interpreta le opere culturali (le lingue, i miti, strutture strutturate senza soggetto strutturante, e anche, per estensione, le opere 13 Ogni tipo di campo ha caratteristiche peculiari che lo contraddistinguono e lo rendono un qualcosa sì completo e omogeneo ma allo stesso tempo in continua rivoluzione permanente grazie alle continue variazioni delle forze da cui è composto. 14 Cf. GAMBARARA 20051 e 20052. Le citazioni delle pagine dei Cahiers recheranno la dicitura “C” per indicare i quaderni di Constantin e poi il numero della pagina relativa. 15 SAUSSURE (1916, trad. it. 1967). Il testo è uscito postumo nel 1916 e fu redatto da due allievi di Saussure, Charles Bally e Albert Séchehaye. 16 BOURDIEU (2001). Cf. anche BOURDIEU (1972, trad. it. 2003). 17 BOURDIEU (1980, trad. it. 2005). 18 HJELMSLEV (1943, trad. it. 1968).

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d’arte) come prodotti storici di cui l’analisi deve porre in luce la struttura specifica, ma senza far riferimento alle condizioni economiche o sociali della produzione dell’opera o dei suoi produttori»19.

La linguistica saussuriana viene così accusata di trattare la lingua solo come un oggetto formale da contemplare quando invece dovrebbe essere trattato come qualcosa che ha un impatto sulla realtà, qualcosa che è uno strumento di azione e di potere. Quello che manca, ancora una volta, non è il fatto che l’orientamento e la forma del cambiamento dipendano dallo “stato del sistema”, ovvero dal repertorio di possibilità attuali e virtuali offerto in un dato momento dalle prese di posizioni culturali ma manca un riferimento attento e preciso ai rapporti di forza simbolici fra gli agenti e le istituzioni. Ma se si prende in considerazione quanto affermato in riferimento nei Quaderni di Constantin20 la questione cambia totalmente e si entra in una lettura che avvicina ancora di più il linguista ginevrino ed il sociologo francese andando ben oltre le prime dichiarazioni d’intenti. Dai fogli fedeli di Constantin emerge una forte nozione teorica di «mente collettiva», il modèle collectif, che appare attenuata nel Corso di Linguistica Generale sia perché essa è propria del III corso sia per una colpevole cautela degli editori. La lingua non è un qualcosa di statico e di armonioso, tutt’altro. Essa, come il campo letterario definito da Bourdieu, è in ‘balia’ dei fruitori-produttori ed aperta sempre ai mutamenti. Annota Constantin: «La circonstance que la langue est un fait social lui crée un centre de gravité. Mais nous avons admis dès le début ce fait, il est inutile de dédoubler maintenant la langue. Il faut ajouter le facteur temps. Les forces sociales agissent en fonction du temps et nous montrent en quoi la langue n’est pas libre. [...] En effet la langue est, tout le temps, solidaire du passé, c’est ce qui lui ôte sa liberté, et elle ne le serait pas, si elle n’était pas sociale. Mais il faut ajouter la considération de temps, la transmission de génération en génération» (C 317).

E ancora: «Pour qu’il y ait langue, il faut une masse parlante se servant de la langue. La langue pour nous résidait d’emblée dans l'âme collective. Ce second fait renBOURDIEU (1992, trad. it. 2005: 268). Emile Constantin assistette alla relazione di dottorato di Robert Godel nel 1958 sulle fonti manoscritte del Course (all’epoca ad essere conosciute erano solo quelle di Georges Dégallier) e dopo qualche giorno gli si presenta e gli si presenta spiegandogli che anche lui ha seguito il III corso di Saussure e che ne ha conservato gli appunti. I quaderni di Constantin sono il testimone più dettagliato (407 pagine) e fedele sulle ultime lezioni di Saussure. Cf. GAMBARARA (20051: 165). 19 20

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tre dans la définition; il ne s’applique pas à parole (les actes de parole sont individuels). [...] La masse parlante sans le temps, nous venons de voir que les forces sociales de la langue ne se manifestent que si on fait intervenir le temps. Nous arrivons à la réalité complète avec ce schéma, c’est-à-dire en ajoutant l’axe du temps: La masse parlante est multipliée par le temps, considérée dans le temps. Dès lors la langue n’est pas libre parce que même a priori le temps donnera occasion aux forces sociales intéressant la langue d’exercer leurs effets, par la solidarité infinie avec les âges précédents. La continuité enferme comme par un fait inséparable l’altération, déplacement plus ou moins considérable des valeurs, inévitable avec la durée. Invoquons simplement ce fait que nous ne connaissons aucune chose qui ne s'altère dans le temps» (C 324).

La massa parlante21, o meglio, la mente collettiva22 è paragonabile con i produttori e con i fruitori del campo letterario che sottopongono la scrittura e il linguaggio23 ad uno stato di continua crisi: sono la morte e la nascita degli individui che aprono spazio alle forze sociali nella vita delle società umane. Il parlante, ancora, per Saussure, è come un compositore di musica. Ben altra cosa, dunque, rispetto alle pagine 37-38 del Course dove emerge soltanto il richiamo scontato al fatto che la lingua è sociale e richiede una massa parlante. La portata dell’operazione messa in atto nel III corso è più importante. Qui Saussure realizza la completa combinatoria tra sociale e storico: «La transmission des institutions humaines, voilà la question plus générale dans laquelle nous voyons enveloppée la question posée au début: pourquoi la langue n’est pas libre? Il y aura lieu de comparer le degré de liberté qu’offrent d’autres institutions. Il s’agit d’une balance entre les faits, facteurs historiques et sociaux. Pourquoi tel facteur est-il moins puissant que tel autre? Pourquoi le facteur historique est-il tout puissant? Pourquoi exclut-il un changement général et subit? Car nous réservons changements partiels, de détail. Si l’on compare d'autres institutions (par exemple système de signes) il ne semble pas qu’une révolution complète soit exclue» (C 313).

Le lingue cambiano perché sempre nuovi portatori le fanno loro, portatori con una loro storia, con un loro insieme di relazioni sociali, con un loro strato sociale di provenienza, con un loro habitus ed uno spazio dei Cf. SAUSSURE (1916, trad. it. 1967: 37-38). Cf. GAMBARARA (20052: 173 sgg.). 23 Qui campo e lingua non sono la stessa cosa, o meglio, se presi dal punto di vista dei beneficiari hanno molti punti in comune. La scrittura nel caso del campo e il linguaggio nel caso della lingua, infatti, sono i due enti che grazie all’uso da parte dei beneficiari sono sempre in continua evoluzione. 21 22

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possibili in cui poter attuare le proprie disposizioni: il mutamento continuo24 è sempre in atto ma il grado di fattibilità di una rivoluzione totale del sistema lingua è molto alto e difficile da concretizzare: «Parmi les circonstances extérieures à la langue elle-même, nous constatons que la langue est une chose dont se servent tous les individus, tous le jours, tout la durée de la journée. Ce fait fait de la langue une institution non comparable à d’autres (code civil, religion très formaliste). Le degré de révolution radicale est ainsi diminué dans une très grande proportion. [...] Base arbitraire du signe. Les signes sont arbitraires et il semblerait qu’il soit aisé de les changer. Mais grâce a ce fait, la langue ne peut pas être sujet à discussion pour la masse, même la supposât-on plus consciente qu’elle n’est» (C 315-6).

Il campo letterario non permette grandi rivoluzioni e i cambiamenti non sono mai attuati volontariamente né nel campo 25 , né nella lingua: «Les signes sont arbitraires et il semblerait qu'il soit aisé de les changer. Mais grâce a ce fait, la langue ne peut pas être sujet à discussion pour la masse, même la supposât-on plus consciente qu’elle n’est» (C 315-6). Allo stesso modo di come l’habitus realizza le proprie disposizioni solo se si interseca in un determinato modo con il campo letterario, l’atto individuale di parole (o anche, pratica sociale) si realizza solo secondo una determinata langue26. 3. Lo status dell’opera d’arte «Cosa fa di un’opera d’arte un’opera d’arte e non un oggetto qualsiasi o un semplice utensile? Cosa fa di un artista un artista, e non un artigiano o un pittore della domenica? Cosa fa sì che un orinale o un portabottiglie esposti in un museo siano opere d’arte? Il fatto di essere firmati da Duchamp e non da Anche se nel testo compare la locuzione rivoluzione permanente è Bourdieu stesso a specificare, in più parti, come nel campo sia molto difficile avere un totale cambiamento ma solo piccole rivoluzioni. 25 Vedi nota precedente sui cambiamenti nella lingua mentre sulla coscienza del cambiamento ne campo letterario cf. BOURDIEU (1992, trad. it. 2005: 328). 26 Bourdieu spiega chiaramente: «La relazione tra le posizioni e le disposizioni è evidentemente a doppio senso. Gli habitus, in quanto sistemi di disposizioni, si realizzano effettivamente solo in relazione con una struttura determinata di posizioni socialmente connotate [...] ma, allo stesso tempo, è attraverso le disposizioni, più o meno aggiustate alle posizioni, che si realizzano queste o quelle potenzialità insite nelle posizioni» (Bourdieu 1995, trad. it. 2005: 346). Sono le possibilità offerte dalla sfera pubblica a permettere le realizzazioni delle disposizioni dell’habitus stesso. 24

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un commerciante di vini o da un idraulico? Non si rinvia così semplicemente dall’opera d’arte come feticcio, al ‘feticcio del nome del maestro’, di cui parlava Benjamin? Chi, in altre parole, ha creato il ‘creatore’ in quanto produttore riconosciuto di feticci?»27.

La risposta, ancora una volta, sta nell’effettuare una analisi che delinei l’emergere progressivo dell’insieme dei meccanismi sociali che rendono possibile il personaggio dell’artista come produttore di quel feticcio che è l’opera d’arte, vale a dire, di descrivere la costruzione e costituzione del campo artistico come il luogo che rende possibile l’opera d’arte stessa. Occorre sostituire alla questione ontologica la questione storica della genesi dell'universo in seno al quale si produce e si riproduce incessantemente, mediante una vera e propria creazione continua, il valore dell’opera d’arte, ovvero il campo artistico28. È questa la vera essenza del testo del sociologo francese tanto che, volendo riassumere con una domanda tutta la questione conclusiva, potremmo porla in questi termini: cosa fa la differenza fra l’arte dell’artista geniale e l’arte dell’artigiano coscenzioso? Bourdieu, in questi passi, pare continuare e ampliare il lavoro del filosofo tedesco Walter Benjamin. Ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica29, testo in cui viene analizzato da altri punti di vista l’importanza delle avanguardie artistico-letterarie, egli constata come nella società a lui contemporanea, mediante la diffusione dell’informazione e delle immagini30, tenda ad affermarsi sempre più un’esigenza di avvicinamento, alle cose e alle opere. Ciò che però viene meno, in un’epoca caratterizzata dal bisogno di «rendere le cose, spazialmente e umanamente, più vicine» e in cui «si fa valere in modo sempre più incontestabile l’esigenza di impossessarsi dell’oggetto da una distanza il più possibile ravvicinata nell’immagine, o meglio nell’effigie, nella riproduzione», è quel peculiare intreccio di vicinanza e lontananza nel quale risiede, secondo Benjamin, l’essenza dell’aura: fine dell’aura significa fine di quell’intreccio tra lontananza31, BOURDIEU (1992, trad. it. 2005: 374-375). BOURDIEU (1992, trad. it. 2005: 376). 29 BENJAMIN (1955 [1936], trad. it. 1966). 30 La specificazione è necessaria: nel primi del ’900 l’immagine comincia ad essere il modo più diretto per veicolare informazioni. 31 Benjamin esplicita chiaramente questo punto nella nota 8 al testo: «Definire l’aura un’«apparizione unica di una distanza, per quanto questa possa essere vicina» non significa altro che formulare, usando i termini delle categorie della percezione spazio-temporale, il valore cultuale dell’opera d’arte. La distanza è il contrario della vicinanza. Ciò che è sostanzialmente lontano è l’inavvicinabile. Di fatto l’inavvicinabilità è una delle qualità prin27 28

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irripetibilità e durata che caratterizzava il nostro rapporto con le opere d’arte tradizionali, e avvento di una fruizione32 dell’arte basata sull’osservazione fugace e ripetibile di riproduzioni. L’impostazione sembra seguire le stesse direttrici: una data opera assume, per entrambi i pensatori, il valore simbolico che la società è pronta a darle in base alle proprie disposizioni e al posto che essa occupa nel tessuto sociale. Un’opera trae il proprio statuto dalla società in cui è prodotta: originariamente, spiega Benjamin, le opere d’arte erano parte inscindibile di un contesto rituale33, prima magico e poi religioso; la loro autorità e autenticità, la loro aura, era determinata proprio da questa appartenenza al mondo del culto. La riproduzione de-storicizza34 un’opera facendone decadere l’aura: «Il processo è sintomatico; il suo significato rimanda al di là dell’ambito artistico. La tecnica della riproduzione, così si potrebbe formulare la cosa, sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione. Moltiplicando la riproduzione, essa pone al posto di un evento unico una serie quantitativa di eventi. E permettendo alla riproduzione di venire incontro a colui che ne fruisce nella sua particolare situazione, attualizza il riprodotto»35.

Una de-storificazione che non vuol dire mettere fuori dal criterio storico-sociale ma ricollocare secondo le nuove esigenze sociali la funzione di una data opera. E il motivo che porta alla costituzione sia del campo letterario moderno che alla fine dell’aura, in sostanza, è lo stesso: l’accesso all’arte (letteratura, pittura, etc.) da parte di un gran numero fruitori. La cipali dell’immagine cultuale. Essa rimane, per sua natura, «lontananza, per quanto vicina». La vicinanza che si può strappare alla sua materia non elimina la lontananza che essa conserva dopo il suo apparire» Cf. BENJAMIN (1936, trad. it. 1966: 49). 32 Intendiamo in questo testo “fruizione” come sinonimo di “ricezione” e di “osservazione”. 33 Le opere d’arte hanno sempre fatto parte di un contesto sacrale e sono sempre state viste come qualcosa di lontano, di secolarizzato, questo ha creato nell’immagine collettiva questa sorta di lontananza fra gli osservatori e le opere stesse. Con la riproducibilità tecnica e la nuova concezione dell’arte propagandata dalle avanguardie, l’arte è, per definizione, qualcosa per tutti «tutti devono poter fare poesia» dice Breton nel manifesto del Surrealismo. Questo processo sradica le opere dal loro contesto rituale per aprirsi ad una fruizione collettiva e non semplicemente mitico-rituale. 34 Con questo termine ci riferiamo alla sfera concettuale del filosofo italiano Ernesto De Martino, il quale, col termine ‘de-storicizzazione’ indica la sospensione, l’abolizione della storia. Cf. DE MARTINO (1977). 35 BENJAMIN (1936, trad. it. 1966: 23).

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capacità di ridefinire il rapporto tra l’arte e le masse36 aperta dal cinema, dunque, risiede per Benjamin nella possibilità di una fruizione collettiva37 nella quale la critica non è soffocata da una forma di devozione cultuale nei confronti dell’immagine. La riproducibilità tecnica dell’opera d’arte modifica il rapporto delle masse con l’arte e il loro accesso a essa stessa: «Il fatto è appunto questo, che la pittura non è in grado di proporre l’oggetto alla ricezione collettiva simultanea, cosa che invece è sempre riuscita all’architettura, che riusciva un tempo all’epopea, che riesce oggi al film»38.

Ma il testo che maggiormente palesa questi punti di contatti tra l’analisi benjaminiana e quella di Bourdieu è L’autore come produttore. Benjamin afferma che un’opera ha una tendenza politica giusta solo se, allo stesso tempo, essa mostra una corretta tendenza letteraria e viceversa. Ma c’è un passo ulteriore: un’opera, di qualsiasi tipo essa sia, non può e non deve essere isolata ma deve collocarsi nelle vive connessioni sociali. Un’opera39 nasce in un dato periodo storico, in esso cresce e si riproduce e lo cambia. Affinché un’opera faccia questo e risieda nelle vive connessioni sociali di un’epoca le deve poter cambiare perché è impensabile che un’opera d’arte non sia un qualcosa di innovatrice in una data epoca. Quest’opera di ridefinizione e cambiamento che mette in atto l’autore come produttore impersonificato da Tretjakov nelle strutture sociali realizza quello che Benjamin, citando Brecht, definisce «cambiamento di funzione», una fondamentale operazione che ogni opera deve compiere per rifornire e trasformare un apparato di produzione, altrimenti essa non avrà compiuto a fondo il suo lavoro: «Per la trasformazione delle forme di produzione e degli strumenti di produzione e degli strumenti di produzione nel senso dell’intellighenzia progressiva – e quindi interessata all’emancipazione dei mezzi di produzione, e quindi utile nella lotta di classe – Brecht ha coniato il concetto di «cambiamento di funzione». Egli è stato il primo ad affermare, per l’intellettuale, questa importante esigenza: egli non deve rifornire l’apparato di produzione senza nello stesso tempo trasformarlo, nella misura del possibile, nel senso del socia36 Folla e massa sono da intendersi come termini sinonimi spogliati di ogni significato politico. È da intendersi con lo stesso significato con cui usava il temine Hugo e citato da Benjamin a p. 100: «Folla era per lui, quasi in senso antico, la folla dei clienti, del pubblico». 37 Intesa come accesso simultaneo di più persone ad uno stesso oggetto. 38 BENJAMIN (1936, trad. it. 1966: 39). 39 Cf. BOURDIEU (1992, trad. it. 2005: 400), La genesi sociale dell’occhio e L’occhio del Quattrocento.

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lismo. «La pubblicazione dei Versuche – dice l’autore nell’introduzione alla raccolta omonima – ha luogo in un momento in cui certi lavori non devono più essere tanto esperienze vissute [Erlebnisse] individuali (avere carattere di opera), quanto essere diretti all’utilizzazione (trasformazione) di determinati istituti e istituzioni». [...] Qui vorrei accontentarmi di sottolineare la differenza decisiva che esiste fra il semplice rifornimento di un apparato produttivo e la sua trasformazione»40.

L’autore deve meditare sulle condizioni di produzione perché solo così il suo lavoro non sarà solo rivolto ai prodotti ma anche ai mezzi della produzione per avviare alla produzione altri produttori e mettere a loro disposizione un apparato migliorato. Questo concetto benjaminiano mostra chiaramente quello che Bourdieu definisce rivoluzione permanente. Il principio è lineare ed è ben definito dal francese41: abbiamo un campo analizzato in una situazione di calma apparente (sincronica) ma in realtà in continua evoluzione (diacronica per il lavoro del tempo e della massa sociale) perché aperto sempre a nuove entrate e a nuove modificazioni a patto che portino innovazione. È questa base storico-sociale del campo artistico-letterario a garantirne l’esistenza del campo stesso e dell’opera d’arte: «Non si tratta soltanto di esorcizzare il “feticcio del nome del maestro” con una semplice inversione sacrilega e un po’ puerile – che lo si voglia o meno, il nome del maestro è proprio un feticcio. Si tratta di delineare l’emergere progressivo dell'insieme dei meccanismi sociali che rendono possibile il personaggio dell’artista come produttore di quel feticcio che è l’opera d’arte; vale a dire di descrivere la costituzione del campo artistico (nel quale sono inclusi gli analisti e gli storici dell'arte stessi) come luogo in cui si produce e si riproduce incessantemente la credenza nel valore dell'arte e nel potere di creazione di valore che appartiene all’artista. Il che conduce a rilevare non soltanto gli indizi di autonomia dell’artista [...] ma anche gli indizi dell’autonomia del campo, quali l’emergere dell’insieme delle istituzioni specifiche che sono la condizione del funzionamento dell’economia dei beni culturali: luoghi di esposizione [...], istanze di consacrazione [...], agenti specializzati L’esempio addotto dal filosofo tedesco nel testo L’autore come produttore è il caso di Sergej Tretjakov e sul tipo di scrittore «operante» da lui definito e impersonato. Tretjakov distingue due tipi di scrittore: quello che opera e quello che informa. Lo scrittore non deve informare e, semplicemente, rimanere a guardare, a contemplare e riportare, ma lottare, intervenire attivamente come egli stesso fece con gli Scrittori nel kolkoz. Cf. BENJAMIN (1955, trad. it. 1973: 204-207). 41 Questa legge di trasformazione può benissimo essere condivisa sia da Saussure che da Benjamin (v. supra). 40

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[...], dotati delle disposizioni oggettivamente richieste dal campo e di categorie di percezione e di valutazione specifiche, irriducibili a quelle normalmente utilizzate nell'esistenza ordinaria e capaci di imporre una misura del valore dell’artista e dei suoi prodotti»42.

4.Conclusioni In questo lavoro, partendo dall’analisi de Le regole dell’arte, abbiamo provato a descrivere come la base della sociologia relazionale43 di Pierre Bourdieu possa essere rintracciata, in larga parte, nell’opera del linguista ginevrino Ferdinand de Saussure. Il lavoro di riscoperta dei quaderni di Constantin ha permesso ancor di più di chiarire e palesare questo dialogo. In particolare: i connotati e le caratteristiche del campo, il sistema di opposizione di forze tra loro e i principi del mutamento mostrano una chiara assonanza con le caratteristiche della lingua (e del linguaggio) definite da Saussure. La rilettura del testo di Bourdieu operata grazie ai quaderni di Constantin, da cui emerge un altro Saussure, mostra in grado ancora maggiore, l’assonanza tra i testi del sociologo francese e le idee del linguista ginevrino in nome di quella che Fadda44 e Gambarara45, riprendendo un termine di Prieto caro a Saussure stesso, definiscono Teoria delle istituzioni. Scrive Fadda: «Aspetti importanti di essa sarebbero il rilievo assegnato ai fenomeni simbolici (e la centralità assoluta delle lingue storico-naturali), la natura arbitraria e sociale delle istituzioni medesime (e dunque il ruolo fondamentale della pressione sociale nella definizione del comportamento individuale) e una definizione storica, sociale e funzionale della mente e della soggettività. Una teoria di questo tipo avrebbe tutto da guadagnare ad aprirsi a diversi contributi [...] e a diverse discipline. Ma essa non potrebbe comunque prescindere – o almeno così ci sembra – dal pensiero e dalle categorie elaborate da Pierre Bourdieu»46.

Pensiero e categorie che, a nostro avviso, concordano in larga parte anche con quelle elaborate dal filosofo tedesco Walter Benjamin. Nella seBOURDIEU (1992, trad. it. 2005: 376). GIVIGLIANO (2007 e 2008). 44 FADDA (2006). 45 Cf. GAMBARARA (20052). 46 FADDA (2006: 61-62). 42 43

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conda parte del lavoro, infatti, abbiamo cercato di fare un doppio lavoro: mostrare come il lavoro di Benjamin e di Bourdieu seguano le stesse direttrici e vedere come il lavoro dello stesso Benjamin, messo in relazione a Le regole dell’arte, mostri lo stesso oggetto di analisi da una impostazione diversa ma che fondi anch’essa la sua analisi sulla base storico-sociale del campo artistico-letterario che nel filosofo tedesco riflette anche la struttura (e le mutazioni) che avvengono in seno alla società (o allo spazio sociale, per usare la terminologia di Bourdieu). Ribadendo come la sociologia sia alla base non solo del campo letterario ma anche di quello artistico (e linguistico con Saussure) e rendendo vana la regola aurea della nonanalisi sociologica delle opere d’arte. Mettere da parte un tipo di teoria di questo tipo significa creare una inesistente ed inutile barriera tra la le condizioni storico-sociali di un prodotto e tra i suoi produttori. Capire l’opera d’arte (o la lingua), in pratica, non significa solo capirne la struttura o il suo valore simbolico ma significa, soprattutto, comprendere la visione del mondo propria del gruppo sociale (quello che fa la differenza fra l’arte dell’artista geniale e l’arte dell’artigiano coscienzioso è proprio l’esistenza di una massa sociale che rende possibile questa differenziazione) a partire dal quale l’artista avrebbe composto la propria opera e che, committente o destinatario, causa o fine, si sarebbe in qualche modo mostrato tramite l’artista. Impostata su questi canoni una teoria delle istituzioni potrebbe essere molto fruttuosa anche per altre discipline. Bibliografia BENJAMIN, WALTER (1936), Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, in Schriften, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1955 (I ed. 1936), trad. it. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1966. BENJAMIN, WALTER (1955), Des Autor als Produzent, Schriften, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, trad. it. L’autore come produttore, in Avanguardia e rivoluzione, Torino, Einaudi, 1973. BOURDIEU, PIERRE (1979), La distinction, Les Éditions de Minuit, Paris, trad. it. La distinzione. Critica sociale del gusto, Bologna, Il Mulino, 2007. BOURDIEU, PIERRE (1980), Le sens pratique, Paris, Les Éditions de Minuit, trad. it. Il senso pratico, Roma, Armando, 2005. BOURDIEU, PIERRE (1972), Esquisse d’une théorie de la pratique, Paris, Droz, 1972; trad. it. Per una teoria della pratica. Con tre studi di etnologia cabila, Raffaello Cortina, Milano, 2003. BOURDIEU, PIERRE (1992), Le régles de l’art, Éditions du Seuil, Paris, trad. it. Le regole dell’arte. Genesi e struttura del campo letterario, Milano, Il Saggiatore, 2005.

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ANNABELLA D’ATRI Il principe Amleto e la filosofia

1. La questione L’espressione di certo più famosa di tutta la letteratura teatrale mondiale, e forse anche di tutta la letteratura in generale, cioè il «To be or not to be: that is the question» (SHAKESPEARE 1963, p. 142), con la quale Shakespeare dà inizio al densissimo monologo del terzo atto dell’Amleto, è, in tutta evidenza, una questione dal forte significato filosofico, e riguarda il più originario e fondamentale contrasto metafisico, quello appunto fra l’essere e il non-essere o il nulla. Ciononostante la ricchissima letteratura secondaria su Shakespeare e in particolare sull’Amleto solo di recente ha sviluppato il tema del rapporto fra il grande drammaturgo inglese e la filosofia1. Anche la critica letteraria ha così, a suo modo, fatto tesoro delle accese discussioni che hanno investito la filosofia e la sua storia, scegliendo quindi nuove e stimolanti modalità di approccio ai testi letterari in cui si cerca, da un lato, di riconoscere le tracce di temi e dibattiti filosofici presenti nelle culture dalle quali emergono, dall’altro di evidenziare la prossimità delle questioni presenti con le tematiche filosofiche attualmente più vive nella cultura contemporanea2. Non intendiamo indagare qui sulle cause di un tale fenomeno; ci limitiamo a riportar quanto ironicamente scrive a tal proposito McGinn: «Gli studi critici tendono a focalizzarsi su questioni che riguardano i personaggi, la trama e l’esposizione, oltre che il contesto sociale e politico delle opere, ma i concetti filosofici che permeano i drammi vengono citati solo occasionalmente. Ciò è senza dubbio dovuto al fatto che generalmente coloro che si occupano di studi shakespeariani a livello accademico non sono per formazione o per inclinazione filosofi. La filosofia, magari, li rende nervosi» (MCGINN, 2008, p. 3) 2 In particolare la necessaria combinazione di questi due approcci, che l’autore chiama rispettivamente historicism e presentism è sostenuta da Hugh Grady, il quale presenta il proprio approccio ai testi shakespeariani in linea con quei lavori che «constitute an important challenge to historicist premisses because they underline the salient point that all our knowledge of works from the past is conditioned by and dependent upon the culture, language and ideologies of the present, and this means that historicism itself necessarily produces an implicit allegory of the present in its configuration of the past» (GRADY, 2002, p. 2). Ai fini del nostro discorso il lavoro di Grady è interessante, più che per queste premesse metodologiche che francamente appaiono banali per i lettori italiani, consapevoli 1

Bollettino Filosofico 24 (2008): 364-392

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A partire da alcune di queste recenti e stimolanti letture di alcune opere di Shakespeare, in particolare dell’Amleto, intendiamo mostrare come nell’età di Shakespeare, che è la medesima età di Montaigne e di Cartesio, e che è l’età in cui affonda le sue radici la nostra modernità, il ritorno della questione metafisica, che Leibniz sintetizzerà con la domanda «Perché l’essere e non piuttosto il nulla»3, si presenta strettamente correlata con la questione esistenziale della ricerca di senso da parte dell’uomo moderno che, di fronte a un mondo nuovo e alla crisi delle tradizionali certezze, si trova alle prese con la definizione della propria soggettività. L’età di Shakespeare, che com’è noto vive a cavallo fra i secoli XVI e XVII, nel segnare anche il passaggio fra due culture4, si presenta attraverso le opere del grande drammaturgo come età in cui le luci e le ombre del vecchio mondo si mescolano con le luci e le ombre del nuovo appena intravisto. Scrive McGinn: «È corretto, a mio avviso, definire il tempo di Shakespeare come un momento di transizione, in cui a un certo tipo di autorità (la Chiesa, la Monarchia) cominciava a sostituirsene un altro (la Scienza e la ragione dell’uomo, un nuovo ordine sociale)» (MCGINN, 2008, p. 5). Sulla base di queste ultime considerazioni possiamo allora assumere come premessa che la contemporaneità delle tematiche filosofiche rintracciabili nelle opere di Shakespeare si deve al fatto che, a cavallo fra il ventesimo e il ventunesimo, secolo abbiamo assistito a un analogo momento di passaggio da una determinata concezione filosofica a una nuova, che alcuni caratterizzano semplicemente come crisi delle ideologie5, altri definiscono della tesi crociana della contemporaneità della storia, per le analisi sulla presenza in Shakespeare di tracce del pensiero di Montaigne e di Machiavelli. 3 Occorre ricordare che questa formulazione leibniziana della domanda metafisica, ricordata anche da HEIDEGGER (2001, p. 67), non coincide con la originaria formulazione aristotelica della domanda sull’essere, come è stato messo in evidenza dagli studiosi della metafisica di Aristotele. Scrive magistralmente Aubenque: «Aristotele, come tutto il pensiero greco nel suo insieme, non ha mai posto l’altra questione: perché c’è dell’essere piuttosto che niente?» (AUBENQUE, 1994, p. 13). 4 L’analogia fra le epoche storiche potrebbe estendersi anche alla fase di passaggio dal mito al logo nella cultura greca, al passaggio cioè fra l’età dei grandi tragici a quella dei grandi filosofi, dall’età della sofistica all’età di Platone e Aristotele. Scrive a questo proposito Nemi D’Agostino: «Il teatro più grande è sempre un’invenzione che risponde a un terremoto delle certezze» (D’AGOSTINO, 1994, p. 54). 5 A proposito dell’analogia fra l’età contemporanea e l’età di Shakespeare con quella dei grandi tragici greci così si esprime D’Agostino: «Un passaggio analogo lo vissero gli elisabettiani, e lo viviamo noi stessi ai nostri giorni, nella crisi delle ideologie, nella perdita delle norme e delle certezze, che però può aprire, a un pensiero libero e laico, la possibi-

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post-metafisica e che altri invece individuano come inizio di una rinnovata concezione dell’essere e dell’esistere umano6. La questione sull’essere è di fatto quella che inevitabilmente più coinvolge noi uomini nel senso indicato da Heidegger in Essere e tempo, indubbiamente uno dei libri che più ha caratterizzato il ventesimo secolo e che ha segnato intere generazioni di lettori: solo a degli esseri mortali e finiti quali noi siamo e che si trovano a nascere come gettati nel mondo è dato di interrogarsi sul senso della vita e dell’esistenza e cioè sul senso dell’essere in generale, dell’essere in quanto essere. Se l’antica questione, posta alle origini in questi termini da Aristotele, torna ancora a risuonare con sempre maggiore frequenza anche ai nostri giorni, e non solo in luoghi dotati di particolare suggestione quali i teatri, laddove il to be or not be di Amleto è ancora la questione più ripetuta e parafrasata, lo si deve al fatto, su cui già genialmente Aristotele aveva a suo modo messo l’accento, che essa si colloca sul confine fra conoscenza e scienza da un lato e, dall’altro, credenza, fede e mistero; pericolosa terra di confine quindi, la metafisica, ma unica dimora possibile per l’uomo, questo impasto di terra e soffio vitale, nato per essere cittadino di due mondi: uno, si sa, certamente quello sensibile … e l’altro? Cosa possiamo ancora dire di questo altro: che è, come sosteneva Kant, l’intellegibile, o piuttosto quell’abisso su cui l’uomo-sonnambulo di Nietzsche ha steso un tenue filo per poter camminare, passo dopo passo, destreggiandosi con la sua arte o ancora, semplicemente ma terribilmente, il puro non-essere? 2. La tragedia di Amleto Non deve destare meraviglia il fatto che proprio a Nietzsche, al quale in qualche maniera si rifanno tutti i contemporanei pensatori «post-metafisici», siamo debitori di un giudizio critico sull’Amleto di Shakespeare dai toni marcati, che ne mette in evidenza i motivi di continuità con la grande tragedia greca. In La nascita della tragedia dallo spirito della musica Nietzsche si richiama all’esperienza di Amleto per mostrarvi all’opera il conflitto, sempre presente anche se occultato nella vita umana, fra l’elemento dionisiaco e quello apollineo. Riportiamo l’intero brano di Nietzsche: lità della scepsi-ricerca, il tornare a interrogarsi magari senza risposta, su ciò che credevamo di sapere» (D’AGOSTINO, 1994, p. 52). 6 Per una rapida carrellata sulla presenza della metafisica aristotelica nella filosofia analitica contemporanea mi sia permesso di rinviare a D’ATRI, 2008b.

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L’estasi dello stato dionisiaco con il suo annientamento delle barriere e dei limiti abituali dell’esistenza contiene infatti, mentre dura, un elemento letargico, in cui si immerge tutto ciò che è stato vissuto personalmente nel passato. Così per questo abisso di oblio, il mondo della realtà quotidiana e quello della realtà dionisiaca si separano. Ma non appena quella realtà quotidiana rientra nella coscienza, viene sentita con nausea come tale; una disposizione ascetica, negatrice della volontà, è il frutto di quegli stati. In questo senso l’uomo dionisiaco assomiglia ad Amleto: entrambi hanno gettato una volta uno sguardo vero nell’essenza delle cose, hanno conosciuto, e provano nausea di fronte all’agire; giacché la loro azione non può mutare nulla nell’essenza eterna delle cose, ed essi sentono come ridicolo o infame che si pretenda da loro che rimettano in sesto il mondo che è fuori dai cardini. La conoscenza uccide l’azione, per agire occorre essere avvolti nell’illusione – questa è la dottrina di Amleto […] Ora non c’è consolazione che giovi, l’anelito si rivolge al di là di un mondo, dopo la morte, al di là degli stessi dèi, viene negata l’esistenza con il suo splendido riverbero negli dèi o in un al di là immortale. Nella consapevolezza di una verità ormai contemplata, l’uomo vede ora dappertutto soltanto l’atrocità o l’assurdità dell’essere, ora comprende il simbolismo del destino di Ofelia, ora conosce la saggezza del dio silvestre Sileno: prova disgusto (NIETZSCHE, 1972, 55-56).

Come si vede, la tesi di fondo qui espressa da Nietzsche7, che di seguito analizzeremo nei dettagli, consiste nel sostenere che Amleto è, sì, l’uomo della conoscenza ma nel modo dionisiaco, capace cioè di cogliere l’assurdità dell’esistenza e la vanità dell’agire; un tale tipo viene contrapposto all’uomo della conoscenza logica, al tipo «socratico-platonico» che invece ha come fine quello di far apparire l’esistenza comprensibile e giustificata e che insegna a saper morire grazie alla fede nell’al di là. Se da una parte possiamo trovare in questa tesi di Nietzsche, e nella sua influenza sulla critica shakespeariana posteriore, una possibile spiegazione della scarsa attenzione della filosofia accademica nei confronti di Shakespeare, considerato più incline alla narrazione discontinua, ai colpi di scena e alle dissonanze che a rispettare il rigore tipico dell’argomentazione filosofica, dall’altro il riavvicinamento, operato dalla cosiddetta «filosofia continentale», del procedere filosofico a un semplice stile letterario, reso pos7 Com’è noto Nietzsche ritornò più volte sulle tesi espresse in quest’opera, riconoscendole pervase di eccesso di romanticismo e di fiducia nel potere consolatorio dell’arte; non credo però che una tale revisione critica possa valere anche per il giudizio espresso da Nietzsche su Amleto, giudizio che invece, con l’approfondirsi dell’analisi sul tema del nichilismo, a nostro avviso non solo resiste ad ogni «tentativo di autocritica», ma guadagna anzi nuove suggestioni.

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sibile proprio dalla massiccia influenza del pensiero niceano, consente oggi un più maturo esame critico dei rapporti fra Shakespeare e la filosofia8. Chiediamoci innanzitutto perché proprio Amleto sia da considerarsi l’opera più filosofica di Shakespeare, e anche se, fra le questioni presentate nel corso dell’opera (è stato anche sottolineato come nel corso della tragedia la parola question sia presente ben 17 volte)9 «to be or non to be» sia da considerarsi quella centrale. La prima scena della tragedia, com’è noto, ci fa assistere alla discussione fra Orazio, Marcello e Bernardo, guardie del castello di Elsinore, sulla realtà e sulla identità della figura che loro appare simile al defunto re, Amleto padre. Perché questo impallidire e impaurirsi di soldati di fronte a «something that is not more than fantasy» (SHAKESPEARE, 1963, p. 42)? Non può sfuggire la particolarità del fatto che a dar avvio al dramma è la presenza sulla scena di un fantasma, di un qualcosa che, pur molto più vicino al non-essere che all’essere10, genera in Amleto quell’insieme di sospetti che lo inducono a decidersi per una azione, la vendetta su Claudio il fratricida, l’usurpatore del trono e del cuore della madre Gertrude, vendetta che nel corso del dramma verrà però costantemente procrastinata. Se la tragedia si apre dunque con la «questione» posta sul fantasma e sui tratti della sua figura11, con la questione cioè se esso coincida o no con il vecchio re, la stessa questione, cioè dell’identità del re, verrà brevemente ma icasticamente ripresa nel quarto atto, dopo che Amleto avrà ucciso, «non avendolo veduto», Polonio, il saggio ministro del re Claudio nonché padre dell’amata Ofelia. Ebbene, in questa concitata scena, nel mentre 8 Uno dei primi ad aver messo in evidenza la complessità della lettura niceana di Amleto è stato Harold Bloom nel suo fondamentale lavoro su Shakespeare (BLOOM, 1999, pp. 393 sgg.), fatto che invece McGinn, per altro estimatore del lavoro di Bloom, non coglie adeguatamente. 9 Bloom sostiene che l’Amleto deve considerarsi una tragedia «obsessed», ossesionata dalla parola «question» (BLOOM, 1999, p. 386). 10 Come è stato notato da Silvia Bigliazzi, sulla scorta di Howard Gaygill, in Shakespeare nothing è più che il semplice nulla, ed è strettamente connesso con l’essere (BIGLIAZZI, 2005). 11 McGinn accosta una tale posizione del problema dell’identità nell’Amleto con la trattazione filosofica del tema dell’identità dell’io in David Hume, notoriamente posteriore: il suo Treatise of Human Nature venne pubblicato a Londra nel 1739 (MCGINN, 2008, p. 43). Se l’osservazione di McGinn è indubbiamente interessante al fine di sottolineare i contenuti filosofici presenti nell’opera shakespeariana, occorrerebbe in verità un’analisi più approfondita delle mutazioni avvenute nello scetticismo dall’età di Shakespeare a quella di Hume: come ha ampiamente messo in evidenza Popkin, nel mezzo fra questi due scetticismi si colloca la fase della «vittoria sullo scetticismo» rappresentata da Cartesio e dalla nascita del metodo scientifico (POPKIN, 1968, pp. 175-196).

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viene condotto presso Claudio, Amleto così si esprime, in uno dei suoi tanti giochi linguistici, considerati dai meno colti degli altri personaggi segni certi della sua follia: «il corpo è con il re, ma il re non è con il corpo. Il re è una cosa … da nulla (a thing of nothing» (SHAKESPEARE, 1963, p. 201). L’interpretazione non solleva particolare difficoltà: Amleto lascia intendere che per diritto e per personalità il vero re sarebbe Amleto suo padre, che però è stato privato del proprio corpo da Claudio il quale, pur essendo chiamato re, veste solo le forme esteriori della regalità; di conseguenza non v’è nessuna cosa in Danimarca di cui si può dire con verità che è il re. Ci sarebbe, certo, la possibilità di rimettere le cose in ordine, di ricollocare nella giusta cornice lo stato di Danimarca che ora è in rovina, tutto un disordine, «out of frame» (SHAKESPEARE, 1963, p. 51): sarebbe sufficiente cioè compiere la giusta vendetta invocata dal fantasma padre. Shakespeare lascia infatti intendere che il principe Amleto è molto amato dai suoi sudditi, è rispettato come persona valorosa, colta e saggia e non troverebbe ostacoli nell’essere nominato re. Fra l’altro nelle prime battute appare chiaro che anche lo stesso re Claudio ritiene Amleto suo legittimo successore. Eppure proprio questa possibilità non diventerà realtà a causa della serie di avvenimenti che, pur messi artificiosamente in essere dalla progettualità strategica di Amleto, conducono ad altri risultati rispetto a quelli voluti dal principe malinconico e ironico: com’è noto, tutti i protagonisti principali del dramma moriranno, tutti tranne Orazio, l’amico fidato, incaricato di narrare ai posteri l’autentica storia del principe di Danimarca. L’insieme di questi riferimenti induce, se non a correggere, certamente a completare il giudizio più comune sulla tragedia, che viene generalmente considerata, proprio sulla scorta degli episodi ricordati, imperniata sulla questione dell’io, sulla ricerca dell’identità personale e sulla impossibilità della conoscenza delle menti altrui12. In effetti bisognerebbe aggiungere che nella tragedia una tale questione, quella cioè della ricerca da parte di Amleto del suo essere più intimo e autentico e quindi del tentativo di costruzione della sua stessa personalità, si complica ulteriormente intrecciandosi con la questione dell’essere in generale e del suo senso. Altrimenti il celeberrimo inizio del monologo dell’Atto terzo non può che apparirci «esasperato» e quasi fuori posto perché in esso Amleto, pur partendo dalla questione sull’essere o il non essere, passa poi immedia12 Ad esempio così scrive McGinn a proposito dell’Amleto: «Si tratta essenzialmente di un dramma su ciò che costituisce l’io. […] Il dubbio fondamentale di Amleto è “Chi sono?”» (MCGINN, 2008, p. 45).

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tamente a porre la questione del senso dell’esistenza personale e affronta infine il tema della morte come rimedio desiderato alle sofferenze dell’anima: «Morire per dormire. Dormire, forse sognare. È proprio qui l’ostacolo» (SHAKESPEARE, 1963, p. 143). Si rende in effetti necessario fornire una spiegazione per questo cambio di tono e per questo slittamento del pensiero che passa da una questione di estensione universale ad una questione così intimamente individuale. Ebbene, questa l’interpretazione che proponiamo, è l’assenza totale di certezze sull’essere in quanto essere a impedire il gesto estremo; solo un nichilismo dal segno negativo, quello che Nietzsche riserverebbe ai «deboli», trarrebbe come conseguenza, di fronte a una vita senza più alcun senso, la decisione di togliersi la vita. L’assioma di Amleto è infatti che gli uomini non conoscono cosa li aspetta dopo la morte, ma anche che non conoscono se la realtà che vivono sia solo un sogno e una fantasmagorica illusione; se Amleto è nobile, è robusto, è colto e appartiene alla stirpe dei signori della terra, allora il suo nichilismo non può che essere quello attivo, quello proprio degli spiriti forti, che conduce la volontà a dire di sì al mondo, a volere la ripetizione di ogni gesto, di ogni sofferenza, di ogni inganno e intreccio, a volere che la tragedia si ripeta e si rinnovi ogni volta uguale13: per questo Orazio deve sopravvivere, per poter narrare fedelmente gli avvenimenti. Molto opportunamente la critica più recente ha suggerito come, dietro le affermazioni dal sapore filosofico di Amleto, sia facile scorgere le tesi scettiche di Montaigne, i cui testi erano ampiamente diffusi nel mondo colto e anche nell’Inghilterra rinascimentale della fine del sedicesimo secolo. Indubbiamente Shakespeare aveva letto i Saggi di Montaigne14: in essi Sha13 A beneficio del lettore riportiamo qui di seguito il celeberrimo aforisma 341 della Gaia Scienza di Nietzsche, dove viene presentato il pensiero dell’Eterno Ritorno dell’Uguale: «Il peso più grande. Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con esse, granello di polvere”» (NIETZSCHE, 1971, p. 192) 14 Oltre al testo di Grady, esplicitamente dedicato al rapporto Shakespeare-Montaigne (GRADY, 2002), qualcuno si è spinto fino a sostenere che Shakespeare abbia ripreso lo stesso argomento della vita come sogno proprio dai saggi di Montaigne (MCGINN, 2008, p. 22).

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kespeare trovava la ripresa delle tesi degli antichi pirroniani i quali sostenevano, di contro allo scetticismo dogmatico degli Accademici, che l’esercizio del dubbio conduce a sospendere ogni giudizio, anche quello che afferma che tutto ciò che crediamo di sapere sia da mettere in dubbio; in Montaigne poteva inoltre trovare la tesi dell’impossibilità di determinare in cosa consista l’essenza della razionalità umana nonché l’essenza della realtà, e infine anche la tesi che, vista la estrema variabilità dei giudizi morali e delle opinioni su ciò che sia da considerarsi un comportamento buono, non è possibile fondare razionalmente la universalità della morale. Ed ancora, in particolare, proprio in Montaigne Shakespeare poteva trovare ricorrente la tesi della incertezza della conoscenza sensibile, che rende la nostra esperienza da svegli molto simile a quella che viviamo da dormienti durante il sogno15. Dovremmo allora affermare che mentre Cartesio (che, com’è noto, è solo di pochi decenni successivo a Shakespeare) risponde e reagisce allo scetticismo di Montaigne, facendo dello stesso dubbio il fondamento e la base solida sulla quale costruire la certezza dell’esistenza del cogito o sostanza pensante16, Shakespeare rimane interamente coinvolto dal pirronismo di Montaigne, facendo dell’io e del soggetto nient’altro che un fascio di episodi tenuti insieme solo dalla narrazione. Se è facile sostenere che la mente del principe malinconico è quanto di più distante possa essere descritto rispetto alla mente cartesiana, così sicura di se stessa che nell’auto-evidenza dei suoi stessi contenuti ritrova il criterio e la misura per giudicare sulla validità delle conoscenze, non deve essere sottovalutato il fatto che altrettanto distante dal modello cartesiano è la concezione metafisica presente nella tragedia shakespeareana. Amleto infatti non è solo interessato a se stesso e al proprio destino, ma si sente portatore di una conoscenza più universale: questa armoniosa struttura della terra (goodly frame) mi sembra appena uno sterile promontorio, e questo meraviglioso padiglione dell’aria, questa volta splendida del firmamento, questo tetto maestoso adorno d’aurei fuochi, non mi si mostra altro che come un impuro aggregato di vapori pestilenziali. Qual capo 15 Per un esame del ruolo di Michel de Montaigne nella storia dello scetticismo e del contributo del suo pensiero alla formazione del mondo moderno è sempre validissimo il testo di R. Popkin, The history of scepticism from Erasmus to Descartes (POPKIN, 1968, pp. 44-66). 16 Su questo aspetto del metodo cartesiano mi sia consentito rinviare a D’ATRI, 1998a, dove si può trovare discussa la tesi del fondamento scettico dell’argomento cartesiano del cogito ergo sum.

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d’opera (piece of work) non è l’uomo? Com’è nobile per la sua ragione, e infinitamente ricco per le sue facoltà, la sua forma, i suoi movimenti; com’è ammirevole e spedito nelle sue azioni, com’è simile agli angeli per l’intelligenza, com’è simile a Dio! Lui, la bellezza del mondo, il paragone degli animali! E nondimeno, per me, che cos’è mai questa quintessenza di polvere (quintessence of dust)? Dell’uomo non mi prendo alcun piacere (SHAKESPEARE, 1963, p. 119).

Il dissesto dello stato di Norvegia si confonde così con il dissesto dello stesso firmamento; la volta celeste, quella stessa volta che suggerirà a Kant il sentimento del sublime e l’analogia con la legge morale nell’uomo, appare ad Amleto come un insieme di vapori in cui lo stesso essere umano non è che polvere frammista all’aria e volteggiante in essa. Alla luce di questo brano è ora più agevole ritornare sul giudizio niceano per meglio cogliere quel nesso fra la conoscenza e l’inazione che Nietzsche sostiene essere presente nella tragedia. La polvere e i vapori rappresentano infatti proprio quell’indistinto essere originario che solo la logica e la volontà di individuazione di costanti e «sostanze solide» rende armonico e ordinato, così come quel «non provare piacere per l’uomo» fa tutt’uno con il disgusto di fronte al mondo dal quale si diffondono per tutta l’aere odori pestilenziali. Così l’inazione è figlia della conoscenza, del sapere che non v’è un senso o una direzione nell’universo, che non siamo certi dell’esistenza di alcuna divinità e neanche che questo mondo abbia quella cornice e quella struttura che gli attribuiamo. Potremmo anche dire che in un mondo in cui i vecchi valori hanno perso la forza del loro essere veri, non v’è più né alto né basso, parafrasando proprio ciò che dirà Nietzsche il trasvalutatore, il distruttore di ogni certezza, il grande profeta del nichilismo novecentesco. Da una parte dunque non possiamo non ricordare che il famoso monologo di Amleto si conclude con la seguente affermazione: «Tutti ci rende vili la coscienza, e l’incarnato naturale della risoluzione è reso malsano dalla pallida tinta del pensiero» (SHAKESPEARE, 1963, p. 143), testimoniando così che è proprio l’eccesso di conoscenza in Amleto a tenere bloccata l’azione, d’altra parte lo stesso Amleto si mostra tanto irresoluto nel compiere la sua vendetta, quanto invece deciso ad agire al fine di conoscere la verità, al fine di ritrovare dei segni tangibili della fondatezza dei suoi sospetti sull’assassinio del padre. Se anche la conoscenza dell’insensatezza dell’universo impedisce l’azione, quest’ultima è comunque messa da Amleto al servizio della sua volontà di conoscere il recente passato della sua famiglia. Potremmo dire, facendo ancora una volta uso di una felice espressione

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di Nietzsche, che Amleto è «l’uomo della conoscenza» e intende bere fino in fondo il calice della verità anche se sa che in tal modo il suo malessere e la sua nausea, che è insieme disgusto per la corruzione nella sua famiglia e nel suo stato e per la vacuità dell’esistenza, non troverà un rimedio. Siamo così indotti a ritenere che è corretto usare il termine di nichilismo per definire il pensiero filosofico di Amleto, anche se è necessario aggiungere a tale termine ulteriori specificazioni. Occorre cioè ora chiarire in che senso possiamo parlare del «nichilismo di Amleto». 3. Amleto e il «nichilismo» Martin Heidegger, rispondendo alle accuse di nichilismo rivolte alla sua prolusione del 1929 a Friburgo, dal titolo Che cos’è metafisica?, in cui aveva avanzato la tesi che il niente non sia un concetto afferrabile dalla logica, ma solo attraverso uno stato d’animo fondamentale, cioè attraverso l’angoscia, presenta la seguente definizione, quotidiana e volgare, del nichilismo: La Prolusione fa del «Niente» l’oggetto unico della metafisica. Ma poiché il Niente è ciò che è pura e semplice nientità, questo pensiero porta a ritenere che tutto sia niente, cosicché non vale la pena né di vivere né di morire. Una «filosofia del Niente» è «nichilismo compiuto» (HEIDEGGER, 2001, p. 74).

Di contro a questa definizione, che identifica il nichilismo con la tesi che tutto sia niente cioè privo di senso, Heidegger ribadisce che l’esperienza del niente sia da ritenersi decisiva per la storia stessa della metafisica in quanto in essa è depositata addirittura la chiave per cogliere la verità sull’essere. Non si tratta evidentemente di una concezione della verità di tipo logico, che la riduce cioè al modello della verità come corrispondenza o adeguazione della mente alle cose; e si tratta invece di ritornare alla antica concezione greca della verità come manifestatività, come venire all’essere nell’apparire. Quale la via che Heidegger indica verso questa nuova concezione del pensiero? Quella del linguaggio rammemorante, cioè del linguaggio poetico, che si fa guardiano dell’essere: Il pensiero iniziale è l’eco del favore dell’essere in cui si apre nella radura e si lascia avvenire questa unica cosa: che l’ente è. Quest’eco è la risposta dell’uomo alla parola pronunciata dalla voce silenziosa dell’essere. La risposta del pensiero è l’origine della parola umana, quella parola che, sola, fa sorgere il linguaggio come dizione della parola nei vocaboli (HEIDEGGER, 2001, p. 82).

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Ebbene anche il non-essere è la prima fra queste parole che, se abbandonate al pensiero logico perdono ogni forza evocativa, e che invece, se riscoperte nella loro polivocità, possono dare origine a grandi tragedie metafisiche quali appunto l’Amleto. Il principe melanconico è infatti presentato da Shakespeare come un grande «artista della parola», che conosce i molteplici significati del linguaggio e che sa adoperare opportunamente nella costruzione delle sue battute di spirito. Quello che ad Amleto non si può chiedere è invece la lucidità ed efficacia del «pensiero calcolante», di quel pensiero che, indicato oggi come l’unico per il quale vale la pena impiegare risorse intellettuali, definiamo tecnico-operativo, e identifichiamo con l’abilità nel portare a compimento un’opera, come un «saper fare qualcosa»; il procedere di un tale pensiero calcolante viene così efficacemente descritto da Heidegger: «costringe se stesso nella costrizione a dominare tutto dal punto di vista della coerenza del suo procedere» (HEIDEGGER, 2001, p. 80). Che la follia di Amleto appare tale appunto perché la sua mente vaga libera e non si costringe alla coerenza del procedimento logico, è considerazione facilmente avanzabile; ma l’analisi filosofica consente un ulteriore passo avanti nell’interpretazione. L’incapacità (o inettitudine) di Amleto a dar corso alle sue decisioni, tanto sottolineata dalla critica, e che lo stesso principe nel corso del dramma si rimprovera, torturandosi con il dubbio se non sia dettata da viltà17, è da ritenersi provocata dalla sua «angoscia» esistenziale, dalla paura che le sue azioni possano confondersi con quelle stesse di cui prova nausea. Se siamo infatti indotti, con Heidegger, a chiamare angoscia quel sentimento che consiste nel non potersi più sentire a casa, tale appare il sentimento di Amleto di fronte allo stato in cui versa la sua amata terra, che non potrà più tornare a essere quel luogo ospitale in cui valeva la pena vivere18. La vendetta infatti non restituirà alla madre il suo onore ormai macchiato e ad Amleto la sua dimora; un animo nobile, quale appunto quello di Amleto, non può lasciare che a decidere per l’azione sia il «risentimento» nei confronti dell’offesa ricevuta. La vendetta è un concetto comprensibile solo grazie a una ragione calcolante che si illude di far tor«Ora sia esso un brutale oblio, ovvero uno scrupolo vigliacco di pensare troppo attentamente a quali possano essere le conseguenze – un pensiero che, spaccato in quattro, serba soltanto una parte di saggezza e ben tre di vigliaccheria – io non so perché continuo a vivere soltanto per ripetere: “Questa cosa si deve fare!” dal momento che per farla non solo ho un motivo, ma anche la volontà, la forza e i mezzi» (SHAKESPEARE, 1963, p. 211). 18 Non potendo qui soffermarmi sul rapporto in Heidegger fra l’analisi dell’angoscia come «spaesatezza» e quell’«ospite inquietante» in cui consiste per Nietzsche il nichilismo, mi permetto di rinviare a D’ATRI 2006. 17

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nare i conti, di «rimettere in sesto il mondo», annullando un delitto con un altro delitto; la ragione di Amleto è invece al servizio del pensiero meditativo e continuamente rammemorante: non il lutto con i suoi rituali, a volte finti, non il tempo possono cancellare l’offesa ricevuta. Il nichilismo di Amleto è da considerarsi infatti originato dal traboccare della passione e dalla consapevolezza che l’azione, pur voluta, rimane inadeguata rispetto al corso del destino. Per comprendere questa apparente incoerenza nell’agire di Amleto ancora una volta ci fornisce un valido aiuto Nietzsche, in particolare in un aforisma della Gaia Scienza, il cui contenuto, come di norma nel suo stile, sovverte i nostri consueti criteri di valutazione tanto da renderne anche ardua la comprensione del senso. Si tratta dell’af. 301, dedicato all’analisi dell’uomo contemplativo; questi crede di essere posto come spettatore e ascoltatore dinnanzi al grande spettacolo visivo e sonoro, che è la vita; chiama la sua natura contemplativa e, ciò facendo, si lascia sfuggire che è lui stesso il vero poeta e l’inesausto poeta della vita, e che, se anche si distingue indubbiamente molto dall’attore di questo dramma, il cosiddetto uomo d’azione, ancor più si distingue da un mero osservatore e un semplice ospite d’onore innanzi alla scena. A lui come poeta è certamente propria la vis contemplativa e lo sguardo retrospettivo sulla sua opera, ma al tempo stesso e innanzitutto gli è propria la vis creativa, che manca all’uomo d’azione, a onta di quel che possono affermare l’apparenza e l’opinione comune. Siamo noi, i pensanti-senzienti a fare realmente e continuamente qualcosa che ancora non esiste: tutto il mondo eternamente crescente di valutazioni, colori, pesi, prospettive, serie graduali, affermazioni e negazioni. Questo poema da noi inventato è continuamente assimilato nell’apprendimento e nell’esercizio, tradotto in carne e realtà, anzi in quotidianità, dai cosiddetti uomini pratici (i nostri attori). (NIETZSCHE, 1971, p. 168)

Sorprende come e quanto questa analisi, che Nietzsche riserva alla vita considerata come un grande spettacolo teatrale, valga per l’Amleto, una effettiva opera teatrale ma che funge da metafora della vita e dell’esistenza umana; ed inoltre, circostanza straordinaria nella storia della letteratura teatrale, il principe Amleto nella tragedia svolge contemporaneamente tutte le funzioni qui indicate da Nietzsche: come dato immediato ha senz’altro una natura contemplativa e vive quindi la sua vita da spettatore tanto che a volte, in particolare nei monologhi, si sdoppia fino al punto di poter essere osservatore di se stesso e dei moti del proprio animo, ma è anche, ovviamente, l’attore principale del dramma e, circostanza decisiva per la comprensione dell’intera tragedia, diventa anche ospite d’onore dello spettacolo

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che lui stesso chiede venga recitato dalla compagnia di attori giunti a corte; infine Amleto è anche regista ed in parte autore19 del dramma che viene rappresentato. Com’è noto, Amleto intende, grazie allo spettacolo teatrale che riproduce un assassinio simile a quello che presume essere stato compiuto da Claudio, generare nello stesso Claudio un turbamento emotivo tale da essere facilmente riconosciuto e da poter quindi costituire una sorta di assunzione di colpa da valere come una vera e propria confessione. Non v’è dubbio che nella ideazione di questo complesso «poema inventato» sia all’opera la grande potenza creativa di Amleto che intende però lasciare che siano gli altri, gli attori sulla scena ma anche gli «uomini pratici», attori nella vita, a «tradurre in carne e realtà» la propria creazione. Se facciamo attenzione al corso della narrazione, notiamo anche che è proprio da questo preciso momento scenico, costituito da una rappresentazione teatrale inserita all’interno della rappresentazione principale, che gli avvenimenti si susseguono veloci fino a condurre al noto e tragico esito finale: Claudio si convince che deve liberarsi di Amleto, Amleto uccide Polonio e lascia Elsinore, poi vi ritorna e rimane vittima della macchinazione ordita contro di lui da Claudio, il quale a sua volta viene ucciso dalla stessa spada avvelenata da lui destinata a uccidere Amleto per mano di Laerte, il quale intendeva vendicare la morte del padre Polonio e della sorella Ofelia; Amleto infine uccide Claudio solo dopo che la propria madre Gertrude ha bevuto il veleno destinato a se stesso. Amleto è così da considerarsi protagonista ma non responsabile del susseguirsi degli avvenimenti, che pure rende possibili attraverso una mera rappresentazione scenica, da valutare ovviamente come un prodotto, sì, ma non di un’azione bensì di una creazione poetica: solo così trovano risposte le domande che sorgono nel riflettere sul carattere poco «pratico» di Amleto. Una conferma della correttezza di una tale interpretazione viene dallo stesso Shakespeare il quale mette in bocca all’attore che nella pantomima recita la figura del re la seguente decisiva affermazione: «Corso contrario ha il nostro volere e il nostro fato/ Sempre son rovesciati tutti i nostri progetti (devices)/ I fini non son nostri, pur se nostri i concetti» (SHAKESPEARE, 1963, p. 163). 19 Come nota Harold Bloom, Shakespeare lascia intendere che lo stesso Amleto abbia aggiunto qualche linea all’opera L’assassinio di Gonzaga per farla divenire La trappola per topi che viene rappresentata a corte; in tal modo egli diviene «interprete teatrale della sua propria storia» (BLOOM, 1999, p. 424).

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La tragedia di Amleto è quindi da considerarsi il dramma della volontà che si riconosce impotente di fronte al corso degli eventi, ma non impotente rispetto alla capacità di esprimere in concetti i pensieri e le emozioni degli uomini. Non dobbiamo certo dimenticare che ci troviamo agli albori del Seicento, negli stessi anni del rogo di Bruno, agli inizi quindi di quell’enorme fenomeno culturale rappresentato dalla rivoluzione scientifica, ben prima cioè che la ragion tecnica avesse la meglio sulla ragione contemplativa e che la volontà di potenza dell’uomo assumesse il volto rassicurante del progresso scientifico, ma ci troviamo comunque in pieno Rinascimento, età che vede l’affermarsi dell’idea che l’uomo sia essenzialmente homo faber, e resta il fatto straordinario che, di contro, il principe Amleto è rappresentato da Shakespeare come quell’uomo che, pur possedendo molte arti e tecniche (sa maneggiare benissimo sia la spada che il linguaggio) ed essendo capace di mettere in essere molti stratagemmi (devices), non ha però il potere di dirigere il fato20, calcolando in anticipo e progettando il futuro. In quel lungo processo che attraversa la cultura europea dal Rinascimento all’Illuminismo, processo che condurrà ad affermare il primato delle scienze pratico-operative sulle scienze contemplative e la separazione delle belle arti dalle tecniche21, siamo quindi costretti a riservare all’Amleto uno spazio del tutto originale. Ma ulteriori motivi di riflessione emergono da quello che spesso viene considerato solo un semplice espediente teatrale, cioè la recita di uno spettacolo all’interno della tragedia. Se da un lato è comunque noto che questa e simili trovate shakespeariane faranno da modello a molte generazioni di scrittori, inaugurando un nuovo modo di fare teatro, quello che qui ci interessa notare è che nell’Amleto la pantomima viene rappresentata con un fine ben preciso, non quello di dilettare, ma di costruire segni e testimonianze: essa diviene cioè un vero e proprio strumento di conoscenza, segnalando quell’intima connessione fra arte e verità che, occultata nei secoli successivi, è tornata a essere reintegrata nella sua validità anche grazie al pensiero di Nietzsche e di Heidegger. Ed è proprio su questo nesso che dobbiamo in chiusura soffermarci sulla strada che potrebbe condurre anche noi a osare una risposta alla domanda metafisica di fondo dell’Amleto: è 20 C’è chi ha sapientemente mostrato come l’Amleto segni anche il passaggio di Shakespeare ad una fase dichiaratamente anti-machiavellica mostrando la inaffidabilità di ogni ragione strumentale alla politica (GRADY, 2002, pp. 256-265). 21 Mi sia consentito di rinviare a D’ATRI, 2008a, in cui un tale processo viene seguito nelle sue linee di fondo.

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possibile trovare un’alternativa fra l’essere e il non-essere, fra la solidità e la univocità dei valori e la fluidità e inconsistenza della nostra esperienza del mondo? O ancora, riprendendo la metafora di Nietzsche: se la vita non è che un grande intrattenimento da commedianti e saltimbanchi, se non è che un grande «spettacolo visivo e sonoro» che chiama mondo la sua scena, perché continuare a recitarla, perché continuare a poetare e, poetando, a creare e inventare un mondo? 4. L’arte di Amleto Per rispondere alla domanda formulata sopra, non possiamo non andare al momento conclusivo del dramma e alla morte di Amleto: solo infatti quando la vita del principe sarà giunta al suo termine potremo averla davanti come un tutto di cui cogliere il senso, potremo catturare quel «carattere» unitario, quella personalità che il personaggio Amleto insegue durante l’intero dramma e che solo a noi lettori-spettatori è dato di cogliere nell’interezza del suo svolgimento. Ecco le battute finali del principe morente: Orazio, son morto. Tu vivi. Racconta di me e della mia storia in modo onesto (aright) a coloro che non la conoscono. […] Pensa, o buon Orazio, se le cose resteranno, come adesso, ignorate, qual buon nome ferito non vivrà dopo di me! E se è vero che tu m’hai voluto bene, astieniti ancora un poco dalla felicità, e séguita a respirare dolorosamente in questo mondo crudele, non fosse altro che per raccontar la mia storia (to tell my story). (SHAKESPEARE, 1963, p. 285)

Di certo l’espediente, narrativo che lascia vivo sulla scena un personaggio perché si incarichi di raccontare la storia, non è un’invenzione shakespeariana e non dovremmo quindi essere sorpresi dal desiderio di Amleto di una qualche vita dopo la morte. Eppure proprio questo finale ha suscitato non poche domande negli interpreti più acuti i quali lo trovano dissonante rispetto al personaggio che Shakespeare ha delineato nel corso dell’intero dramma. Il principe Amleto infatti non mostra mai alcun interesse per l’opinione altrui, posseduto com’è dai suoi pensieri di vendetta e dalle sue angosce; sa di essere ritenuto folle, ma non se ne prende cura, anzi quasi se ne compiace in quanto questo giudizio gli consente di continuare a recitare fino in fondo la sua parte; ciononostante in punto di morte si dà molta pena per il suo buon nome, ha paura che la sua storia venga narrata in maniera non veridica. Come si deve intendere questo estremo desiderio

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di verità da parte del teorizzatore della opinabilità e volubilità dei giudizi umani? Perché questa pretesa che il racconto sia fedele, «aright», da parte di Amleto morente, nel momento di massima tensione del dramma, dopo che nel famosissimo monologo si era interrogato sul senso della vita e della morte e aveva concluso che gli uomini sono condannati all’ignoranza del loro destino dopo la morte? Se da una parte sembra che proprio in punto di morte Amleto riesca a liberarsi del suo male di vivere e della «paura di qualcosa dopo la morte»22, dall’altra egli ha comunque bisogno di sapere che la sua storia sarà tramandata in maniera corretta. «Il resto è silenzio» è l’affermazione con la quale Amleto esce di scena definitivamente, lasciandoci riflettere sul fatto che solo le parole riempiono di senso quel deserto che il mondo sarebbe, privato dell’uomo narrante; fra il regno dell’essere e quello del non-essere siamo così indotti a ammettere un terzo regno, quello della rappresentazione, che Nietzsche, come abbiamo visto, definisce «il mondo eternamente crescente di valutazioni, colori, pesi, prospettive, serie graduali, affermazioni e negazioni». Di certo Amleto non esisterebbe senza la serie completa delle sue valutazioni, delle sue affermazioni e negazioni, che rinviano alla prospettiva dalla quale, guardando al mondo, lo ha artisticamente creato. Harold Bloom, riprendendo un giudizio di Hegel, ha giustamente sottolineato come, in maniera ancora più sublime rispetto ad altri protagonisti shakespeariani, Amleto, come «libero artista di se stesso» (BLOOM, 1999, p. 417), crea anche un nuovo modo di interpretare l’essere uomo23. Il bisogno di Amleto che la sua storia venga narrata e rivissuta sulla scena non può venire interpretata come foscoliana illusione di sopravvivenza nel ricordo dei posteri, quanto piuttosto come vera e propria volontà di essere, di continure a calcare la scena del mondo24. Egli ha infatti bisogno che la sua storia sia narrata da chi più lo ha amato: Amleto sa, a differenza di quanti hanno fede nella verità, che nessuno può essere testimone autentico e oggettivo e che dietro i nostri resoconti e le nostre descrizioni si ce22 «Chi s’adatterebbe a portar cariche, a gèmere e sudare sotto il peso di una vita grama, se non fosse che la paura di qualcosa dopo la morte – quel territorio inesplorato dal cui confine non torna indietro nessun viaggiatore – confonde e rende perplessa la volontà, e ci persuade a sopportare i malanni che già soffriamo piuttosto che accorrere verso altri dei quali non sappiamo nulla». (SHAKESPEARE, 1963, p. 143) 23 In maniera quanto mai appropriata Harold Bloom titola il suo lavoro su Shakespeare, The invention of the human. 24 Lo ha colto bene McGinn quando di lui scrive: «Può essere solo quando interpreta un ruolo. Ed è costituito dalla sua stessa storia». (MCGINN, 2008, p. 68)

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lano le nostre valutazioni e le nostre passioni. La correttezza e onestà che Amleto pretende da Orazio non è la veridicità dello storico, ma quella dell’attore che si immedesima in una parte e, immedesimandosi, la ricrea. Come non si può chiedere a nessun attore di rimanere fedele all’originario, non si può chiedere ad Amleto lo scettico, lettore e seguace di Montaigne, di essere fedele a se stesso. Nel corso del dramma in verità Shakespeare parla esplicitamente delle virtù proprie dell’uomo e fa della fedeltà a se stessi, «to thine own self be true», la più importante delle virtù, quella dalla quale discendono tutte le altre, anche la lealtà verso gli altri (SHAKESPEARE, 1963, p. 69); ma non può essere sottovalutato il fatto che queste parole sono indirizzate da Polonio, il pedante ministro di corte, al figlio Laerte in partenza per la Francia: l’uniformità e solidità del carattere che si richiede infatti a dei bravi soldati, a dei buoni figli, a degli onesti cittadini non può appartenere ad Amleto. Più che fedeltà a se stesso il principe solitario invoca la nicceana «fedeltà alla terra»: Amleto, nel concludere la sua breve esistenza, esprime il suo sì al destino che lo ha condotto a vivere intensamente e dolorosamente alterne e straordinarie vicende. Quando prega Orazio di farsi narratore della sua storia, esprime in realtà la volontà che la sua stessa vita, ripetuta infinite volte sulla scena, eternamente ritorni con tutti i suoi umori, dolori, paure e dubbi. Così siamo certi che ritornerà ancora infinite volte a risuonare sui palcoscenici dei teatri del mondo il to be or not to be: that is the question per ricordarci che una tale domanda merita di essere costantemente ripetuta, non perché sia possibile trovare la soluzione definitiva al problema dei problemi, ma perché altrimenti l’uomo cesserebbe di essere quell’evento che, pur se inspiegabile, colora di sensi il mondo. Se questo è il modo proprio dell’uomo di essere nel mondo, Shakespeare contribuisce in maniera sublime a rendere più vivo, cioè mirabilmente colorato di emozioni, il mondo moderno; dobbiamo a Martin Heidegger il merito di aver ripreso, nella serietà del pensiero che esprime, un verso di Hölderlin, «pieno di merito, eppure poeticamente abita l’uomo su questa terra (Voll Verdienst, doch dichterisch wohnet / Der Mensch auf dieser Erde)» (HEIDEGGER, 2005, p. 229)25; lo stesso Heidegger aggiunge, a proposito dell’essenza del linguaggio poetico: «Il partecipare che il poeta pensa costituisce il nostro esserci nel quale ne va in generale dell’essere e del non25 La traduzione più piana di dichterisch con poeticamente non è invece quella seguita da Demarta che preferisce tradurre «dettatoriamente» per meglio rendere il carattere divino e ispirato di ogni poetare (Si veda quanto scritto a p. 330, nel «Glossario» in appendice alla traduzione italiana citata).

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essere» (HEIDEGGER, 2005, p. 64). Quello che qui Heidegger dice in maniera filosofica è lo stesso pensiero ontologico al quale fa riferimento Amleto nel monologo: nell’atto del poetare l’uomo partecipa dell’essere, ma in maniera tale da mettere costantemente in gioco la questione della sua stessa esistenza, di quella modalità d’essere che è propria dell’uomo il quale, per poter pensare fino in fondo tale questione, è indotto a pensare alla morte come il proprio not to be, quel radicalmente altro dall’essere, che può trovare una sua consistenza fantastica solo ed unicamente nei pensieri umani, dettati dalle emozioni ed espressi nel linguaggio. «Poeticamente abita l’uomo su questo terra» è anche la tesi che, a suo modo, nel suo sublime linguaggio, Shakespeare avanza nell’Amleto. Può essere illuminante, per confermare la onestà della lettura che proponiamo, riprendere un brevissimo passaggio della tragedia laddove Amleto, nel chiarire a Rosencratz perché ha identificando la Danimarca con una prigione, aggiunge che il mondo stesso per lui è una prigione, anche se per altri può non essere tale: «Vuol dire che per voi è un’altra cosa: e difatti non c’è nulla di buono o di cattivo, al mondo, che il pensarlo in un certo modo non lo renda subito tale: per me è una prigione» (SHAKESPEARE, 1963, p. 115). Ciò vuol dire che anche per Amleto l’abitare dell’uomo, cioè il suo modo di vivere, o di «essere al mondo» è caratterizzato dal pensiero ma, questo è il tratto decisivo, non dal pensiero che calcola e programma sulla scorta di criteri comuni e misure unitarie, bensì dal pensiero che immagina e ricrea, quindi non dalla ragion tecnica bensì dalla ragion poetica26. Se le cose stanno così, fra l’essere e il non essere, la decisione di Amleto è quello di lasciare che l’essere sia ma sotto il segno del non-essere, cioè nella forma della descrizione fantastica in cui le cose perdono la loro solidità ma a favore di una robusta presenza, attraverso la varietà e polivocità del linguaggio, della mente che rielabora le emozioni e le passioni dell’anima. Solo all’opera d’arte è concesso di oltrepassare i confini del rigore logico argomentativo, per essere libera di rendere giustizia alle storie umane, «troppo umane» per poter essere riassunte da una formula o da una «maschera» sulla scena.

26 Com’è noto, è sempre lo stesso Heidegger ad indicarci la strada del pensiero poetico come via per la salvezza dell’uomo di fronte a quel dominio metafisico della tecnica che la mentalità contemporanea ha ormai sancito. Per questa tesi di Heidegger mi sia consentito rinviare a D’ATRI 2008a, pp. 194-200.

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ROBERTA DE FRANCESCO «D’avant la lettre» ou l’Autre délire de l’être. Letterature in E. Lévinas

Ça parle. Filosofia e letteratura: una traccia altra sulla traccia dell’Altro All’interno del percorso filosofico levinassiano, proteso verso un senso altro dal sapere e dalle «gesta» dell’essere, dal concetto di totalità che domina la filosofia occidentale, si ritiene trovi collocazione una inedita saldatura teoretica ed etica instaurabile tra logos filosofico e logos letterario. La prospettiva di lettura proposta, esorbitando dai limiti materiali e non materiali del presente lavoro a causa del punto di vista assunto e dell’ampiezza e portata dell’opera di Lévinas, non potrà che offrirne un parziale orizzonte, focalizzandosi solo su alcuni rilievi. L’articolazione del rapporto, attraverso incidenze e snodi delle sue linee teoretiche, profila, infatti, un fecondo spazio d’interrogazione, la cui configurazione consente di rintracciare nella filigrana letteraria la quasi totalità delle linee direttrici che innervano il pensiero del filosofo lituano. Rilevanza di una relazionalità confermata nel mantenimento del primato dell’etica che anima dal profondo tutta la riflessione levinassiana, in un mobile rinvio, nel cuore stesso della filosofia, all’apertura etica alla letteratura e della letteratura, quale singolare articolazione interna del rapporto con l’alterità: prospettiva cui attiene la schiusura di una letteratura dell’alterità e, al contempo, di una alterità della letteratura. La voce letteraria fa infatti segno verso l’altrimenti che essere di un tempo e di un linguaggio altro e dell’altro, inaugurando la possibilità di rompere la supremazia del logos ontologico, emblema dell’accecamento della ragione, stigma dell’unità del sapere permanente nel Medesimo. Il logos letterario – altro dal filosofico – non apre dunque l’al di là del logos, frantumando la totalità del suo sapere/potere? Al contempo è il nucleo più inerente alla letteratura levinassianamente intesa a riproporre lo statuto stesso dell’al di là del detto, eminente apertura al Dire: il logos letterario – come del resto l’aspirazione (respirazione/inspirazione) più autentica del discorrere filosofico – si configura essenzialmente come significanza di un logos già al di là del logos, l’altrimenti che essere del logos1. 1

La letteratura significa, infatti, come canto che non risolve la sua pienezza espressiva

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Emerge dunque il senso di una litterature d’avant la lettre 2 come volto, trascendenza ed enigma dell’espressione, ri-volta a un «prima e davanti alla lettera»3 e alla tematizzazione: de-posizione della lettre, per un cammino al di là del circolo dell’être. È pertanto indubbiamente significativo che la strutturale e costante attenzione alla letteratura sottesa nel tessuto delle opere levinassiane4 si specifichi attraverso plurali ed eccentrici percorsi, radicandosi su un solido piano teoretico5, ma, insieme, esplicandosi e ramificandosi attraverso concreti effetti letterari, così da configurare l’itinerario di una caratteristica riproposizione di alcuni canoni letterari in singolare e articolato incrocio contrappuntistico alla formulazione di cruciali rilievi filosofici6. Ponendosi in ascolto del cuore stesso del chiasmo filosofia-letteratura, sembra risuonare la necessità più intima della teoresi levinassiana protesa verso l’“alnell’«accordo perfetto tra il Dire e il Detto» (E. LÉVINAS, Noms propres, Fata Morgana, Saint-Clément, 1975, trad. it. di F. P. CIGLIA, Nomi propri, Marietti, Casale Monferrato 1984, p. 10), ma che pur significa l’intimità timbrica di un logos e-levato già oltre ogni logos, il mistero della tensione tonale di un’alterità incarnata nell’identità. 2 Cf. E. LÉVINAS, L’Au-delà du verset, Minuit, Paris, 1982, trad. it. di G. Lissa, L’al di là del versetto, Guida, Napoli, 1986, p. 60. 3 Avant la lettre: prima e davanti alla lettera. 4 Si esamini la cronologia dei saggi letterari raccolti in E. LÉVINAS, Nomi propri, cit.; cf. inoltre S. MALKA, E. Lévinas. La vie et la trace, Éditions Jean-Claude Lattès, Paris, 2002, trad. it. di C. Polledri, E. Lévinas. La vita e la traccia, Jaca Book, Milano 2003, pp. 24-25. 5 Del resto, come evidenzia Lévinas, la genesi della sua filosofia – e così del pensiero – sgorga effettivamente da una sorgente altra da sé, da un altrimenti-che-essere: dalla letteratura. Cf. E. LÉVINAS, Éthique et Infini. Dialogues avec Philippe Nemo, Fayard, Paris, 1977, trad. it. di E. BACCARINI, Etica e infinito, Città Nuova, Roma, 1984, pp. 43 e 46; cf. F. POIRIÉ, E. LÉVINAS, Entretiens, La Manufacture, Lyon 1987, p. 69; cf. E. LÉVINAS, L’io e la totalità, in Il pensiero dell’altro. Lévinas – Marcel – Ricoeur, a c. di F. Riva, Edizioni Lavoro, Roma, 1999, p. 39. È questa una prospettiva di importanza capitale: esiste sempre un prefilosofico che fonda ogni pensiero filosofico, di cui l’etica – persino letteraria – rappresenta la dimensione privilegiata in virtù del senso che la filosofia ricerca. La letteratura costituisce dunque l’avvio alla riflessione, il pungolo che dà incipit e anima alla filosofia, “rappresentando” e ri-chiamando l’alterità che la fonda, ma a cui è costantemente ri-volta. 6 In tal senso è indispensabile puntualizzare che il ruolo delle citazioni e riproposizioni di logoi letterari non è assolutamente riducibile al solo passo riportato e analiticamente esaminato nell’ambito e nei limiti di questo lavoro, espressamente legato alla figura di Ulisse e alle ombre. In numerose altre sedi è, infatti, possibile riscontrare la cifra della significanza letteraria, capace di riproporre, rinnovare, ampliare e irraggiare in più tappe il cuore delle riflessioni levinassiane. Centrali sono, infatti, i costanti riferimenti a insigni noms propres di autori letterari, e a selezionati ed emblematici loro caratteri, quali Dostoevskij, Shakespeare (e in particolare Macbeth, Amleto, Re Lear), Kafka, Tolstoj, Puškin, Edgar Allan Poe, Goethe, Proust).

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trove” di una segreta oltranza. La “sfera” letteraria, nodo di una traccia altra e sulla traccia dell’Altro, può, infatti, proporsi e profilarsi quale altro e costitutivo volto della filosofia dell’alterità levinassiana all’«alba di una nuova intelligibilità», distillando, così, oltre il vortice luminoso dell’essere, i vertici speculativi di un al di là della luce e di un altrimenti-che-essere: infinito dell’alterità per l’identità sovrana della caratterialità segnica e umana. Le ombre di Ulisse o volti in contrappunto L’apertura di un varco verso l’altro, lo scarto dall’inconsistenza alla significanza, dall’anonimato al significato è il cuore della tensione che dischiude e puntualizza costantemente la rilevanza della dimensione etica del pensiero levinassiano. La struttura dell’identità – desiderio e devozione o bisogno e deviazione – se pur de-riva, può infatti inabissarsi alla deriva. Il vuoto dell’inconsistenza è, così, uno dei termini centrali contro i quali si eleva il logos filosofico, in fecondo contrappunto con il letterario: Ridotta alla pura e nuda esistenza, come l’esistenza delle ombre incontrate da Ulisse agli inferi – la vita si dissolve come un’ombra7.

In virtù dell’attenzione levinassiana all’alterità letteraria, è significativo interrogarsi sul senso di un simile parallelismo. L’instaurazione di una relazionalità contenutistica fra i due logoi, infatti, consente innanzitutto di analizzare i tratti filosofici caratterizzanti la dissoluzione dell’identità e, al contempo, dell’alterità, esplicitando così la significanza di cui la letteratura è investita, sempre in pertinente connessione con fondamentali capisaldi teoretici. Qual è, dunque, il carattere dell’“umbratilità” letteraria – a cui Lévinas allude e da cui attinge – e che dilegua il senso dell’umano? Quando Ulisse scende agli inferi 8 è accerchiato dalla notte di infelici mortali che «vani svolazzano»9 . Sono anime tessute d’ombra perché incapaci di aprirsi alE. LEVINAS, Totalité et Infinit. Essai sur l’extériorité, Nijhoff, La Haye 1961, trad. it. di A. Dell’Asta, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 2004, p. 112. Analoghi rimandi letterari alla figura di Ulisse e alle ombre compaiono ampliandosi in più tappe: cf. Ivi, p. 246 o E. LÉVINAS, Sur Blanchot, Fata Morgana, Paris 1975, trad. it. di A. PONZIO, Su Blanchot, Palomar, Bari 1994, p. 90. 8 Odissea, XI, 1-640, edizione a cura di F. Ferrari, Utet, Torino 2001 (tutte le citazioni faranno riferimento a questa edizione e dove opportuno verranno modificate). 9 Ivi, XI, 14 sgg. 7

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l’incontro, di posare lo sguardo sul volto d’Altri, di proferire alcuna parola – impossibilitati a rispondere di Altri e ad Altri. Corrispondono all’ipseità ed economia del levinassiano io interiore e psichico. Anime sorde perché avvolte dal silenzio del sé – o dissenso – (non certo dal silenzio che è linguaggio e precede il linguaggio, linguaggio dell’inespresso e dell’inesprimibile): rinchiuse nel mutismo proprio dell’eroe tragico di cui scrive Rosenzweig10. Ombre tramontate ancor prima della morte perché consolidate e sepolte nella separazione e solitudine del sé, l’unico altro compreso e compresso nell’universo delle proprie mura. Se e quando si misurano con l’alterità, infatti, tentano solo di annientarla, ma in verità non sono altro che agonisti paralizzati, isolati e vanamente corazzati perché inchiodati all’inesorabilità del fato, come sudditi legati all’oscillazione costante ora della signoria dell’essere, ora del non-essere, del tutto incapaci di plasmare il proprio destino, incollati alla definitività del definitivo11. Anime infrante dal peso del passato, su cui gravano le colpe dei padri – mai convertite in germe di correzione, perdono, fecondità. Al contrario, sottolinea invece Lévinas: L’opera profonda del tempo è liberazione da questo passato in un soggetto che rompe i legami con suo padre. Il tempo è il non-definitivo del definitivo, alterità dell’attuato che comincia sempre di nuovo – il “sempre” di questo nuovo inizio12.

L’opera del tempo, in cui si produce un essere infinito, consente di realizzare, dunque, «una rottura della continuità e una continuazione attraverso la rottura»13: essa, pertanto, è insieme perdono, ovvero conservazione attuata attraverso la ripetizione e purificazione del passato, che è così convertito e riconciliato nella fecondità della giovinezza assoluta del nuovo istante, proteso ad un illimitato avvenire. I passi dell’Odissea, che delineano la catabasi di Ulisse, presentano, invece, spettri che si consumano fino alla morte perché eretti dall’anelito di soccombere, come eroica consacrazione 10 F. ROSENZWEIG, Der Stern der Erlösung, Kauffmann, Frankfurt, 19302 (1921), trad. it. di G. Bonola, La Stella della Redenzione, Marietti, Genova, 1996, pp. 80-86. 11 Così «Laio, nel tentativo di sventare la realizzazione delle predizioni funeste, intraprenderà proprio ciò che è necessario perché esse si compiano. Edipo, col suo successo, lavora alla sua sventura […] come la preda che sulla pianura ricoperta di neve fugge in direzione rettilinea il rumore dei cacciatori e proprio in questo modo lascia le tracce che costituiranno la sua rovina […]. Quando la goffaggine dell’atto si ritorce contro lo scopo perseguito, siamo in piena tragedia» (E. LÉVINAS, Nomi propri, cit., p. 165). 12 E. LÉVINAS, Totalità e infinito, cit., p. 294. 13 Ibid.

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e cristallizzazione «della più chiusa insistenza del sé su se stesso»14. Riduzione della vita ad assunzione della morte. Spettri cui – al contempo – in nessun modo l’essere si oppone nella sua totalità, poiché nell’opposizione all’essere l’io chiede riparo all’essere stesso: il taedium vitae «è immerso nell’amore della vita che rifiuta»15. Da qui l’impossibilità di uscire dalla tragedia e commedia dell’esistenza – o di punirne definitivamente i valori16. Le ombre degli inferi sono lacerate perché, pur fagocitate dalla morte, seminano morte: qui si aggirano i fautori – ancora sanguinanti e squarciati17 – delle stragi di eroi (Achille, Agamennone, Aiace). La drammaticità della violenza, che genera l’inconsistenza sia dell’identità che dell’alterità, più esattamente, è imputabile alla sovversione e dissoluzione della sostanzialità, poiché, chiarisce Lévinas: la violenza non consiste tanto nel ferire e nell’annientare, quanto nell’ interrompere la continuità delle persone, nel far loro recitare delle parti nelle quali non si ritrovano più, nel far loro mancare, non solo a degli impegni, ma alla loro stessa sostanza, nel far compiere degli atti che finiscono con il distruggere ogni possibilità d’atto18.

Sapere o avere coscienza e libertà significa, invece, avere del tempo per aggiornare l’ora del tradimento, evitare e prevenire l’istante dell’inumanità – infima differenza tra l’uomo e il non-uomo. Il tempo, precisamente, rivela tutta l’esistenza dell’essere mortale – offerto alla violenza – quale «non ancora», modo di «un essere che ha da venire», non completamente nato e anteriore alla propria definizione o natura. Elezione di un nuovo ordinamento della vita interiore, chiamata alle responsabilità infinite dell’esistere per altri: «salto mortale» consistente nel temere l’omicidio dell’alterità piuttosto che la morte dell’identità. Fra le ombre affiora, invece, Sisifo19, consunto dall’eterno ritorno del 14 F. ROSENZWEIG,

La Stella della Redenzione, cit., p. 83. E. LÉVINAS, Totalità e infinito, cit., p. 148. 16 «Donde il grido finale di Macbeth che affronta la morte, vinto perché l’universo non scompare insieme alla vita […]. Il suicidio è tragico perché non risolve tutti i problemi che la nascita ha prodotto e non è in grado di umiliare i valori della terra […]. La sofferenza, ad un tempo, dispera d’essere unita all’essere, e ama l’essere al quale è unita»; «Gli eroi si trovano a recitare una parte in un dramma che va al di là delle loro stesse intenzioni eroiche, che a causa della loro stessa opposizione a questo dramma, affrettano il compimento dei progetti estranei a queste intenzioni» (ivi, p. 232). 17 Odissea, XI, 40 sgg. 18 E. LÉVINAS, Totalità e infinito, cit., p. 20. 19 Odissea, XI, 593-600. 15

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macigno – o destino maligno – al quale non può sottrarsi. Obbligato a prodigare invano le sue forze, come scrive Blanchot, «è l’immagine di ciò che si perde»20, la vittima dell’acrobazia del cadere e continuamente smarrirsi, per poi rialzarsi e ritrovarsi infinitamente identica. È questa l’infernale tragedia di Sisifo – che pur brucia senza consumarsi – ma insieme e più profondamente, la struttura del presente, dell’attuale, dell’Oggi […]. L’infernale che si mostra ad Auschwitz ma che si rimpiatta nella temporalità del tempo e la trattiene […]. Oltre le sofferenze, l’inferno è questa inversione dello spazio, questo vicolo cieco del tempo eternizzato, questa distorsione della Ragione pura, delle sue intuizioni e delle sue categorie. Follia del giorno. Una voce irrevocabile dice: ‘Non c’è niente da fare’ […]. Nel cuore del tempo che passa, niente si svolge, né accade […]. Il flusso degli istanti si impiglia a cerniere che girano su se stesse e che riprendono il Medesimo. Iterazione di un racconto che racconta questo medesimo racconto […]. Movimento trattenuto in un trattenimento che, in un Sé umano è il soffocamento in sé21.

L’umbratilità è, dunque, la chiusura delle anime nell’Ade omerico, che muoiono in un «movimento senza fuori», in una «ex-pulsione senza vuoto per accogliere la diaspora»22 – al pari della blanchottiana Follia del giorno23-, così come l’«anima sola» di Aiace24, muta, inerte, perennemente sdegnata e in disparte25, o l’immersione nel nulla di Tantalo26, che ha tarpato il desiderio di una fame e sete incolmabili. Il desiderio metafisico, infatti, va al di là di tutto ciò che può semplicemente completarlo27: 20 M. BLANCHOT, Faux Pas, Gallimard, Paris, 1943, trad. it. di E.K. Imberciadori, Passi falsi, Garzanti, Milano, 1976, p. 63. 21 Ivi, pp. 87, 93. 22 Ivi, p. 87. 23 Cf. M. BLANCHOT, La Folie du jour, Fata Morgana, Saint-Clément, 1973, trad. it. di G. Patrizi e G. Urso, La follia del giorno, Elitropia, Reggio Emilia, 1982. Qui, precisa lo stesso Lévinas, «questo racconto della vita sotterranea che il dopo morte diviene riprende nella modernità, ma sondato nel suo reale orrore, il racconto dell’Ade visitato da Ulisse» (E. LÉVINAS, Su Maurice Blanchot, cit., p. 90). 24 Odissea, XI, 542 sgg. 25 Ivi, XI, 543 sgg. 26 Odissea, XI, 582-592. 27 Perciò «nel Cantique des Colonnes Valéry parla di “desiderio senza mancanza” riferendosi a Platone [….]. Bisogno di chi non ha più bisogni, si riconosce nel bisogno di un Altro che è altri, che non è mio nemico, né mio complemento» (E. LÉVINAS, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris, 1967, tr. it. parziale di F. Ciaramelli, La traccia dell’altro, Tullio Pironti, Napoli 1979, p. 32).

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È come la bontà – il Desiderato non lo riempie, ma lo svuota […] al di fuori della fame che può essere soddisfatta, della sete che può essere estinta e dei sensi che possono essere appagati28.

Solo Tiresia, l’indovino tebano cieco, si staglia dalla schiera delle ombre. Rappresenta, infatti, il movimento dell’incontro, l’anima che accorre e soccorre Ulisse, colui che ascolta l’invocazione di Altri e risponde ad Altri; la «mente saggia» il cui sapere non ha misura comune con ogni vedere, gli occhi ciechi che, trascendendo la luce, possono vedere l’al di là della luce. È questo uno dei sensi più propri dell’umanesimo dell’uomo e, più esattamente, della fecondità di cui scrive Lévinas: Nella fecondità l’io trascende la luce. Non per dissolversi nell’anonimato del “c’è”, ma per andare più lontano della luce, per andare “altrove”29.

Infatti la vista (non più senso per eccellenza, o eccellenza del senso), che è sempre un “vedere all’orizzonte”, non incontra l’alterità (imperscrutabile) a partire da ciò che sta al di là di ogni essere, ma è l’identico rimando al Medesimo e al suo asse focale, in cui il soggetto si riflette e assorbe: è qui che «la coscienza rinvia a se stessa pur rifugiandosi nella visione»30. La rivelazione del trascendente, che è volto, parola, infinito, è, invece, ascolto dell’apertura dell’essere e dunque impossibilità di una riflessione totale, indicibilità sia in termini di contemplazione che di pratica, poiché sporgenza irriducibile dell’altezza del faccia a faccia: solo la relazione con altri introduce una dimensione della trascendenza e ci conduce verso un rapporto totalmente diverso dall’esperienza nel senso sensibile del termine, relativa ed egoista31.

Tiresia è allora il dono – in verità macchiato da Ulisse – di un destino altro, al di là dell’essere: il miracolo delle possibilità che sovvertono l’impasse 28 E. LÉVINAS, Totalità e infinito, cit., p. 32. Il Desiderio si rivela, dunque, bontà, poiché il desiderabile non sazia il desiderio, ma lo rende più profondo, nutrendolo, in qualche modo, di nuova fame. Ecco la ragione per cui «vi è una scena in Delitto e castigo in cui, a proposito di Sonia Marmeladova che osserva Raskolnikov nella sua disperazione, Dostoevskij parla di “compassione insaziabile”. Non dice “compassione inesauribile”. Infatti la compassione di Sonia per Raskolnikov è come una fame che la presenza di Raskolikov nutre oltre ogni appagamento, accrescendola all’infinito» (E. LÉVINAS, La traccia dell’altro, cit., p. 33). 29 Ivi, p. 276. 30 Ivi, p. 196. 31 Ivi, p. 197.

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dell’identità. È il maestro che prova a rianimare le ombre, spingendo Ulisse a dissetarle con il sangue di animali offerti in sacrificio, ricordando che è una sorgente altra la linfa di vita32. Solo perché imbevute nell’altro e dall’altro, alcune ombre potranno sciogliere la lingua e dischiudere le orecchie. È quanto accade ad Anticlea33, finalmente, ma brevemente, capace di riconoscere il volto poco prima assente del figlio, e di muovere – e smuovere – «alate parole»34. Dunque cosa si inscrive esattamente nel cuore della chiusura e nella chiusura del cuore alla filialità e all’alterità? Proprio nel nodo di tale questione è emblematico interrogare la figura (“assente”) di Ulisse – e di riflesso dell’io totale. L’eroe, al pari delle ombre, è sempre contraddistinto dall’inconsistenza: lo smarrimento dell’alterità non può che significare, dunque, la perdita dell’identità. Il suo nostos si conclude ricongiungendolo alla sua casa, ai suoi averi e poteri, alla propria totalità: Ulisse attraverso tutte le sue peregrinazioni, non fa altro che andare verso l’isola natale35. – Viene dalla casa e vi fa ritorno, movimento dell’Odissea in cui l’avventura vissuta nel mondo è soltanto un caso accidentale capitato sulla strada del ritorno36.

È l’io circolare e concentrico: l’io del bisogno – che si apre in un mondo che è per sé e ritorna in sé: Madre mia, il bisogno mi ha condotto verso la casa di Ade […] per interrogare Tiresia , se un consiglio mi dava su come giungere nella ripida Itaca37.

Odissea, XI, 25-26; 35-37; 147-149. La precedente inconsistenza di Anticlea è evidenziata, infatti, dai seguenti tratti: ivi, XI, 141 sgg.: «Vedo qui l’anima della madre defunta, muta e non osa guardare il volto del figlio e parlargli». Si tratta di un corpo privo di sostanza: «tre volte tentai e mi spinse ad abbracciarla il mio animo, e tre volte mi volò dalle mani, simile ad un ombra o a un sogno» (XI, 206 sgg.). 34 Ivi, XI, 152 sgg.: «Mia madre bevve il sangue […] Subito mi riconobbe e piangendo mi rivolse alate parole». Tuttavia Anticlea si dissolverà poco dopo, non appena Ulisse – l’Altro – si avvierà alla partenza e assenza. 35 E. LÉVINAS, La traccia dell’altro, cit., p. 27. 36 E. LÉVINAS, Totalità e infinito, cit., p. 181. Cf. inoltre ivi, p. 280: Ulisse «ha la struttura del soggetto che dopo ogni avventura fa ritorno alla sua isola»; e ivi, p. 25: «desidera soltanto di tornare a casa sua». 37 Odissea, XI, 164 sgg. Si potrebbe dire della sua esistenza quanto J. Wahl cita di Eraclito, paragonando la vita ad un arco teso: essa non trascende se stessa, ma è rivolta «verso una vita futura quaggiù» (J. WAHL, Traité de Métaphysique, Payot, Paris, 1968, p. 357). 32 33

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È l’eroe assente perché lontano da sé e dagli altri, così come viene stigmatizzato da Anticlea – uccisa dal dolore scaturito dalla perdita del figlio. È la soggettività che fa ritorno a sé e converge sul proprio centro per installarvisi trionfante nel «riposo della terra sotto la volta del cielo» 38 . Ragioni per le quali Lévinas potrà scrivere: Al mito di Ulisse che torna ad Itaca vorremmo contrapporre la storia di Abramo39 che abbandona per sempre la propria patria per una terra ancora sconosciuta e che proibisce al suo servo di ricondurre persino suo figlio al punto di partenza40.

Paradossalmente, come le ombre, anche Ulisse è muto, perché avvinto dal peso dell’essere, mutilato da una sorte “filata”41 da divinità «senza volto». Tace perché la sua parola è spezzata dalla violenza (è quest’ultima che acceca Polifemo, circuendolo, cancellando il suo nome proprio – “che dice molto” – incendiando la sua identità – “Nessuno”; è la violenza che, di ritorno ad Itaca, è cifra della strage vendicativa dei Proci)42. Persino i mutamenti d’identità (che ne richiamano costantemente la frantumazione) sono, in fondo, fittizi: la trasformazione di Ulisse in mendicante, operata da Atena, in effetti, lo rende incapace di entrare nei panni d’Altri, poiché camuffato per obliare la sua nudità, mascherato e rivestito solo a fior di pelle dell’alterità43. L’eroe dai molti viaggi è l’io dai mancati incontri. Le analisi levinassiane consentono, pertanto, di contrapporre ad Ulisse – oltre che Abramo – il naufrago Robinson, a cui il carattere privilegiato dell’alterità: E. LÉVINAS, L’al di là del versetto, cit., p. 19. Abram è, infatti, supremamente eretto e diretto dalla parola d’altri: è colui che per andare verso se stesso si affida ciecamente alla voce che lo fa uscire fuori da se stesso. Cf. S. FACIONi, La cattura dell’origine, Jaca Book, Milano, 2005, p. 11: «Abram in Genesi 14,13, è definito (per la prima volta nella Torah) ha’ivri, vale a dire “l’ebreo”, perché, secondo il racconto di Berešit Rabbah, discendeva da Hever, parlava l’ebraico e, soprattutto, “mentre tutto il mondo andava da una parte, lui andava dall’altra”: uomo del transito, Abram è anche l’uomo che affida alla trasformazione della lingua il compito di un passaggio al di là della materialità del detto, del significato letterale, della rigida fissità di un qualsivoglia senso che si pretenda assoluto, univoco». Si badi, dunque, a rilevare come Abram schiuda un senso di centrale importanza all’interno del percorso che il presente lavoro sta conducendo. 40 J. DERRIDA, L’écriture et la difference, Éd. du Seuil, Paris 1967, trad. it. di G. Pozzi, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino, 1971, pp. 197-198. 41 Odissea, XI, 139: «Tiresia, l’hanno filata gli dei questa sorte». 42 «Lo stratagemma e l’imboscata – arte di Ulisse – costituiscono l’essenza della guerra […] simultaneità dell’assenza e della presenza» (ivi, p. 230). 43 Ulisse non “contempla” il desiderio dell’assolutamente Altro o la nobiltà, dimensione della metafisica. 38 39

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si rivela quando nello splendore del paesaggio tropicale, non avendo troncato alcun legame con la civiltà, grazie ai suoi utensili, alla sua morale, al suo calendario, egli riconosce nel suo incontro con Venerdì44 il più grande evento della sua vita insulare, quando finalmente un uomo che parla riesce a colmare la tristezza inesprimibile dell’eco45.

La relazione con il volto d’Altri si produce, infatti, come trascendenza: bontà che consiste nell’andare dove nessun pensiero illuminante – cioè panoramico – l’ha preceduta, nell’incondizionata risposta all’ingiunzione etica prescritta da Altri, nell’avventura assoluta dell’essere-per-altri. La presenza dell’altro, lungi dall’equivalere ad una mera coesistenza con l’identità, si compie nell’ascolto ed è connessa all’origine trascendentale della parola proferita, che è eccedenza dell’insegnamento e irriducibilità rispetto ad ogni sufficienza e apologia del proprio spirito, comunione mistica, oggettività teoretica, esperienza e conoscenza assimilante, o appagamento di una visione epicentrica e inglobante. «Si tratta, nella presenza, di ritrovare la vita» 46 . Vita soggiacente allo sguardo, insonnia vigilante dell’identità: sensibilità nei riguardi dell’alterità. Infatti, continua Lévinas: «l’aggettivo “vivente” non designa questa veglia che si dà sola come incessante risveglio?» 47 . La soggettività è, dunque, ospitalità, responsabilità, esposizione, soggezione e “passione”, dove “patire” segna l’esplosione (o l’esotismo assoluto) della temporalità della pura presenza: da qui il movimento di retro-scendenza attraverso cui emerge l’insaturabilità dell’alterità e l’esteriorità traumatica dell’«in» dell’infinito nel finito, coincidente con la più profonda intimità del sé. Così, se l’assenza irrimediabile dell’Uno o dell’Altro è il disumano movimento che spegne l’Uno-per-l’Altro, allora questo privilegio dell’Altro smette di essere incomprensibile non appena ammettiamo che il fatto primario dell’esistenza non è né l’“in sé”, né il “per sé”, ma il “per altro”; detto in altri termini che l’esistenza umana è creatura. Con la parola proferita, il soggetto che si pone si espone e, in qualche modo prega48.

Anche la letteratura è parola – già al di là della parola: Venerdì è, infatti, il volto – o infinito: «il mistero di ogni luce, il segreto di ogni apertura […] manifestazione della traccia di Dio e luce della rivelazione che inonda l’universo» (E. LÉVINAS, Nomi propri, cit., p. 124). 45 Ivi, p. 119. 46 E. LÉVINAS, De Dieu qui vient à l’idée, Vrin, Paris, 1982, trad. it. di G. Zennaro, Di Dio che viene all’idea, Jaca Book, Milano, 1997, p. 45. 47 Ivi, p. 39. 48 E. LÉVINAS, Nomi propri, cit., p. 120. 44

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Parola nella quale l’Infinito nasconde il suo segreto, facendone una dimora che, per non estenuarvisi in essere, disfa e disdice senza mai dissiparla del tutto risolvendola in nulla49.

La letteratura – così come la metafisica del volto, «epifania» dell’altro – è risveglio e resurrezione50. Il senso di una parola ritrosa51, ma insieme vivente, dirompente, vigilante, eccedente – al di fuori dell’essere e delle categorie che lo descrivono: la significatività che avvia al levinassiano segreto dell’alterità quale «assenza generosa» di un «mostrarsi che è un tutt’uno col ritirarsi»52. Un chiasmo scompagina la tautologia identitaria del Medesimo: da qui la possibilità di un soggetto etico, capace di sorgere solo dall’«intrigo» dell’Altro, nel momento esatto in cui il sapere dell’Essere tramonta. Sapere a cui l’Altro ricorda che la sua totalità non è totale – che il discorso coerente di cui si vanta, non raggiunge un altro discorso che non riesce a far tacere, che quest’altro discorso è disturbato da un rumore ininterrotto, che una differenza non lascia dormire il mondo, e disturba l’ordine in cui l’essere e il non-essere si organizzano in dialettica. […]. Non è che un terzo escluso che, propriamente parlando, non è neppure. Tuttavia vi è in esso più trascendenza di quanta alcun secondo mondo ne abbia mai dischiusa53.

E. LÉVINAS, L’al di là del versetto, cit., p. 27. Configurandosi quale «evento per eccellenza» – o «avvento di senso nell’essere», Lévinas connette, così, la significatività della scrittura alla possibilità che l’“evento” abbia luogo: «modalità del raccogliere» come «espulsione dell’io al di fuori della sua navicella o della sua pelle» (E. LÉVINAS, Nomi propri, cit., p. 109). 50 Ivi, pp. 9-17. 51 La letteratura significa al di là del suo senso ovvio e invita, perciò, «all’esegesi, dritta o tortuosa – ma per niente frivola – che è vita spirituale» (E. LÉVINAS, L’al di là del versetto, cit., p. 60). 52 E. LÉVINAS, La traccia dell’altro, cit., pp. 54-55: «modo di manifestarsi senza manifestarsi che – risalendo all’etimologia del termine greco e in opposizione all’indiscreto e vincente apparire del fenomeno – lo definiamo enigma». Cf. E. LÉVINAS, Su Blanchot, cit., p. 77: «La presenza dell’assenza non è pura negazione. La scrittura non diviene poesia? Il brusio anonimo e incessante non è vinto dal canto che riempie lo spazio letterario?». 53 Ivi, p. 80. 49

ANNA DE MARCO Ontogenesi delle categorie funzionali in L1: un confronto interlinguistico

0. Introduzione La riflessione relativa allo sviluppo delle categorie linguistiche nella prima grammatica del bambino parte da due problematiche importanti che corrispondono alle questioni alle quali una qualsiasi teoria dell’acquisizione del linguaggio dovrebbe rispondere: a. perché le grammatiche dei bambini differiscono dal modello delle grammatiche adulte; b. l’evoluzione di tali grammatiche nelle grammatiche adulte. Queste prime questioni, naturalmente, rimandano ad un’altra serie di questioni che riguardano: a. che cosa è realmente presente, nella mente del bambino, quando inizia il processo di apprendimento? b. quali meccanismi vengono utilizzati nel corso dell’acquisizione? (i bambini utilizzano procedure di apprendimento che sono dominio specifiche e cioè specifiche del linguaggio o dominio generali e, dunque, comuni alla cognizione o al problem solving?) c. che tipo di input guida il sistema di apprendimento linguistico dalle fasi iniziali a quelle più avanzate? d. i bambini fanno affidamento alla conoscenza graduale delle convenzioni sociali o compiono un’analisi strutturale sofisticata? Nel corso della discussione tenteremo di fornire un contributo alla spiegazione del fenomeno acquisizionale attraverso il ricorso all’approccio funzionalista e costruttivista. 1. Brevi cenni teorici Le impostazioni teoriche nello studio del linguaggio infantile che si sono affermate negli ultimi cinquant’anni, e che si contrappongono al filone innatista degli studi di linguistica teorica ed acquisizionale, sono diversi e si soffermano su aspetti diversi dello sviluppo del linguaggio. Un primo gruppo di studi è costituito da studiosi che danno un’impronta di tipo descrittivo e diaristico agli studi sull’acquisizione. Un secondo gruppo è riconducibile al filone semanticista che si afferma negli anni settanta, secondo cui l’aBollettino filosofico 24 (2008): 404-427

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nalisi della lingua in componenti semantiche di base permetterebbe di evidenziare una precisa sequenza evolutiva nell’acquisizione della grammatica da parte del bambino. Alla fine degli anni settanta si intensificano le analisi di un terzo gruppo di ispirazione pragmatica, tendente a caratterizzare il linguaggio come fenomeno di interazione ed interessato a mettere in luce gli aspetti sociali ed extralinguistici nello scambio comunicativo (CAMAIONI, VOLTERRA, BATES, 1976). Il filone di studi più recente, di approccio funzionalista, ha concentrato gran parte delle ricerche sullo sviluppo della morfologia proponendo un modello interazionista che costituisce il cuore di questo contributo e che dunque presenteremo più avanti1. Seguendo una classificazione di Hirsh-Pasek e Michnick Golingoff (1999) le teorie che si sono sviluppate dalla rivoluzione chomskiana in poi si possono suddividere in due grossi filoni denominati inside out e outside in. Le teorie classificate come inside out si suddividono in due sottogruppi, il primo e prototipico modello del gruppo orientato alla struttura è il modello chomskiano: il bambino viene al mondo con una conoscenza linguistica altamente specializzata e dominio specifica. Nell’ambito della teoria generativista, iniziata proprio con Chomsky, il modo attraverso cui si è sviluppata una certa teoria dell’acquisizione ha trovato il suo fondamento su un esame fine e minuzioso delle grammatiche adulte. Mentre la parte stabile della grammatica infantile fa parte del suo bagaglio genetico, il compito acquisizionale del bambino coincide con la fissazione di alcuni parametri di variazione della lingua sulla base e in dipendenza dai dati primari. Poiché questo modello si fonda sulla lingua adulta, l’acquisizione viene idealizzata e trattata come un processo istantaneo. Anche nel nuovo modello minimalista chomskiano non c’è nessuna proposta di una verifica empirica della grammatica universale. Nell’usare un rigoroso formalismo per descri-vere sia la grammatica adulta, che quella del bambino, il tentativo non è tanto quello di rendere conto della competenza linguistica umana, quanto piuttosto quello di spiegare la core grammar e cioè gli aspetti più sistematici e astratti della lingua, con il lessico, le frasi idiomatiche e le costruzioni sintattiche più idiosincratiche consegnate alla periferia di una tale grammatica. La distinzione fra core e periferia (il lessico, la pragmatica) costituisce la ba1 La presenza dei lavori longitudinali in questo paradigma di ricerca è notevolmente cresciuta negli ultimi quindici anni anche grazie alla costituzione dei gruppi di ricerca sia del CNR italiano sia in ambito internazionale da progetti mirati come quello di Vienna per il linguaggio infantile e quello di Pavia per l’acquisizione di L2.

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se per le diverse proposte teoretiche recenti che spiegano l’acquisizione di una lingua naturale attraverso il ricorso a due distinti processi: regole astratte e a priori per il core linguistico e dei processi normali di apprendimento e di memoria per la periferia linguistica (CHOMSKY, 1980; PINKER, 1990). La questione centrale che riguarda il problema acquisizionale ha a che fare, perciò, con la manifestazione dei principi e dei parametri della grammatica universale; l’ingresso nel sistema dominio specifico è dato. Le abilità con cui i bambini iniziano ad affrontare il compito acquisizionale sono l’abilità di segmentare il flusso linguistico, trovare le classi di parole e le categorie linguistiche, essere in grado di condurre un’analisi della struttura della frase e posizionare i parametri. L’interesse specifico di una tale teoria (la teoria linguistica coincide per Chomsky con la teoria che è nel bambino fin dalla sua nascita) è quello di fissare questi parametri e quindi di stabilire i dati linguistici primari che permettono al bambino di spostare e adattare i parametri alla lingua a cui è esposto. Il problema dell’apprendimento è per gli innatisti, comunque, una questione marginale in quanto, secondo questo paradigma di ricerca, una lingua non si apprende, proprio come, ad esempio, non si apprendono i recettori di senso sulla retina per la percezione delle linee orizzontali e verticali. Secondo quanto sintetizzato finora, dunque, possiamo concludere, con una delle affermazioni portanti la teoria generativista, e cioè che tutte le lingue condividono una serie di principi universali innati. A seguito di questa ultima affermazione ci sembra utile chiedersi: perché mai l’acquisizione del linguaggio non è un processo istantaneo e perché gli esseri umani non nascono parlanti se le costruzioni linguistiche sono connaturate ai geni? Il problema del meccanismo acquisizionale come un meccanismo simultaneo deriva proprio dal postulato innatista della accessibilità immediata del bambino ai dati linguistici. Emerge chiaramente, infatti, in questa posizione, un radicale rifiuto del ruolo dell’input linguistico nella costituzione dei processi di sviluppo della lingua da parte del bambino. Gli studi condotti in ambito non innatista hanno mostrato, al contrario, che il processo evolutivo del bambino, attraverso grammatiche intermedie, è lungo e non sempre lineare. La risposta immediata alla domanda posta sopra è, dunque, che il linguaggio coinvolge qualcosa di più dei i geni: in assenza di un input adeguato il meccanismo di acquisizione specifico (LAD) non può essere attivato (ne sono testimonianza gli individui deprivati della possibilità di interagire con altri esseri umani dalla nascita che non riescono a sviluppare in modo completo un sistema di comunicazione verbale).

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Una delle ipotesi che scaturisce dal paradigma innatista, in relazione alla spiegazione dello sviluppo del linguaggio è l’ipotesi della maturazione (IM): le categorie funzionali sono assenti dalle prime grammatiche dei bambini e la loro maturazione è regolata da una sorta di programma biologico (REDFORD, 1990). Redford, in particolare, ha suggerito che la disponibilità di categorie funzionali potrebbe essere dipendente da un programma di crescita, e che tali categorie potrebbero essere inattive o quanto meno latenti nelle prime fasi dell’acquisizione linguistica. Il modello esplicativo adottato da Redford sollecita ulteriori quesiti che richiedono una maggiore chiarezza sui meccanismi che portano alla maturazione e attivazione delle categorie mancanti. Secondo tale modello teorico, l’ipotesi di una fase linguistica caratterizzata dall’assenza di categorie funzionali è convalidata dal fatto che una volta che tali categorie maturano, compaiono una serie di realizzazioni morfosintattiche in precedenza precluse. Tuttavia, mentre in teoria ogni principio può maturare, spiegare gli stadi di transizione attraverso il ricorso alla maturazione rende debole il potere esplicativo di questa teoria perché costruisce delle ipotesi che sono di fatto impossibili da falsificare. C’è un'altra questione importante su cui l’IM non riesce a fare chiarezza e cioè le discrepanze nello sviluppo delle categorie funzionali in lingue diverse. Questo programma biologico prevede, infatti, che le categorie emergano con le stesse modalità per tutti gli apprendenti, a prescindere dalla lingua a cui essi sono esposti. Tuttavia, ad un’attenta analisi del percorso acquisizionale, che coinvolge apprendenti di lingue diverse questo non verifica. Nelle lingue morfologicamente ricche, infatti, l’integrazione di categorie funzionali nelle grammatiche infantili avviene piuttosto presto, mentre in lingue come l’inglese o lo svedese le prime fasi sono caratterizzate da strutture lessicali-tematiche. I dati relativi allo sviluppo delle L1 vengono meglio spiegati, come vedremo, da modelli basati sull’input (ossia un apprendimento guidato dall’input), in cui uno degli assunti è che i principi che governano la comparsa delle categorie funzionali sono in teoria sempre disponibili al bambino ma è la salienza dell’input che lo guida ad integrare tali categorie nella grammatica in una fase iniziale. In sostanza, in relazione alle domande che ci siamo posti sopra, la risposta che ci deriva dall’ipotesi della maturazione è insoddisfacente rispetto a due ordini di fattori: il primo riguarda la circolarità dell’argomento e il secondo, la mancanza del supporto interlinguistico. Il secondo gruppo relativo alle teorie inside out è quello orientato al processo e tende ad enfatizzare i mezzi attraverso i quali i bambini scoprono la

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grammatica focalizzandosi sul rapporto forma funzione, si concentrano su come certe rappresentazioni linguistiche iniziali si formano e come l’acquisizione va avanti una volta che i bambini hanno prodotto le loro prime parole. Pinker, uno dei sostenitori di tale posizione, sostiene che il bambino è dotato di conoscenze linguistiche specifiche sulle classi di parole come il nome e il verbo, di categorie sintattiche come soggetto e oggetto (PINKER 1984, GLEITMAN 1990), il bambino deve essere predisposto, insomma, ad interpretare le parole in un modo specifico. Non solo deve identificare le parole in classi di parole ma deve anche essere capace di scorgere esempi di queste classi nell’input. Il principio del bootstrapping semantico, proposto da Pinker, è un esempio del meccanismo attraverso il quale il bambino utilizza la presenza di entità semantiche come “cosa”, “agente causale”, per rintracciare nell’input oggetti corrispondenti ad universali sintattici come nome, soggetto, ecc. Ovviamente, essendo innatista, Pinker sostiene che i bambini possiedono delle regole di collegamento per far combaciare la parola per il referente alla classe nome e in seguito al soggetto della frase. Egli sostiene, inoltre, che ci sono dei mezzi non linguistici, non dominio specifici, che il bambino utilizzerebbe per scoprire come funziona la propria lingua (per es. la scoperta di alcuni schemi ricorrenti). Per quanto concerne l’importanza dell’input, esso non viene visto solo come una sorta di innesco (attivatore della competenza linguistica, alla Chomsky) ma come una certa predisposizione che condurrebbe i bambini a compiere precise ipotesi nel corso dell’analisi dell’input linguistico. In relazione al rapporto innatezza e ambiente linguistico, Pinker propone un’altra ipotesi che modifica l’ipotesi della maturazione sotto alcuni aspetti che è l’ipotesi forte della continuità. Secondo questa ipotesi, l’ampio spettro delle categorie funzionali è presente fin dalla nascita (PINKER 1984) per cui, non appena i dati primari forniscono gli esempi pertinenti, i vari parametri vengono conseguentemente fissati. In realtà, il bambino sembra abbastanza selettivo nell’immagazzinare i dati ai quali è esposto. In particolare, pare che siano i fattori maturativi ad influenzare la ricettività nei confronti dei dati uditi da un lato, e la disponibilità dei principi della GU, dall’altro. Le domande che ci poniamo rispetto a questa ulteriore ipotesi rimangono sostanzialmente disattese e sono essenzialmente simili a quelle già avanzate per l’IM. In particolare ci chiediamo: perché certe costruzioni non emergono prima di altre (a meno che non si ammetta che l’input sia fortemente ordinato, cosa che non appare dai dati infantili, è molto difficile spiegare le fasi di transizione)? Come è possibile sostenere la continuità fra le strutture del

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bambino e quelle adulte dato che non c’è un modo possibile per spiegare come il bambino possa passare da strutture linguistiche basate su item ricorrenti alle potenti categorie astratte che caratterizzano la lingua adulta? Molti degli approcci alternativi che concepiscono la competenza linguistica in termini più psicologici e meno astratti, per esempio gli approcci basati sull’uso, riescono a superare il problema della continuità riconoscendo al bambino delle abilità cognitive e di apprendimento più potenti, specialmente in relazione a meccanismi come l’analogia, la capacità di combinazione di strutture; il vantaggio di questi ultimi approcci è quello di non avere un problema di messa in relazione fra l’apprendimento di strutture locali e quelle di una grammatica universale. In questa visione dello sviluppo linguistico, c’è continuità rispetto al processo, e cioè rispetto ai meccanismi cognitivi di apprendimento che sono immutabili lungo gli stadi acquisizionali, anche se permane una discontinuità nelle strutture. «Children's concrete and item-based language early in development rests on lexically specifc syntagmatic and paradigmatic categories (“thrower”, “thing thrown”, etc.), not on the kinds of abstract and verb-general categories and schemas that characterize much of adult linguistic competence» (TOMASELLO, 2000, p. 246). Non c’è dubbio, come sostiene Tomasello, che le grammatiche formali possono essere scritte per il linguaggio infantile, proprio come possono esserlo per ogni fenomeno naturale inclusa la musica, il genoma umano e i sogni. La domanda da porsi a questo punto è se queste grammatiche formali siano entità psicologicamente reali per i bambini. Le teorie di stampo generativo hanno semplicemente assunto che lo siano e questa ipotesi della continuità è stata utilizzata per giustificare la buona pratica di descrivere un enunciato del linguaggio infantile allo stesso modo dell’equivalente enunciato prodotto da un adulto. L’approccio teorico identificato come outside-in, enfatizza l’idea di sviluppo, cambiamento e cultura e, sostiene che la conoscenza linguistica può essere spiegata attraverso gli stessi meccanismi che rendono conto di altri tipi di apprendimento. Una delle versioni di questo tipo di approccio è quella proposta da Bloom (1970, 1993) che ha costantemente valorizzato il fatto che la conoscenza linguistica, non è riducibile ad altri generi di conoscenze. «Linguistic development is neither isomorphic nor a necessary result of cognitive development»; «… how children have learned to think about the objects, events and relations in their experience is something apart from how they have learned to represent such information in linguistic messages» (BLOOM, LIGHTBOWN, HOOD, 1975, pp. 29-30). In questa vi-

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sione, l’acquisizione del linguaggio non è una semplice messa in relazione tra la conoscenza cognitiva e quella linguistica e la lingua diventa un problema a sé stante. Il problema dell’acquisizione viene affrontato attraverso un approccio bottom up, e cioè, il bambino applica dei principi cognitivi generali al compito acquisizionale. Sebbene i bambini siano impegnati, sin dall’inizio della strutturazione di un sistema linguistico, in una analisi formale e dunque nell’analisi di strutture sintattiche, Bloom non spinge molto oltre questa affermazione, come fa Pinker, assegnando una conoscenza innata delle categorie sintattiche al bambino, ma sostiene che il bambino è in grado di fare uso delle categorie sintattiche sin dalla produzione dei primi enunciati (e non prima). Tuttavia, il ruolo che questo tipo di teorie conferisce all’ambiente e alle strutture cognitive è un forte elemento di differenza con gli approcci di tipo inside-out. Una differenza cruciale fra i due approcci sta nel fatto che per questi ultimi, la complessità della lingua, così come la sua specificità, non può essere spiegata se non attraverso restrizioni innatamente date sulla facoltà di linguaggio. Questi approcci, inoltre, assegnano al bambino la competenza linguistica dominio specifica ed enfatizzano la scoperta della grammatica piuttosto che la sua costruzione. In realtà i due tipi di approcci teorici hanno più punti in comune di ciò che sarebbe possibile concepire ad una analisi superficiale delle ipotesi che le caratterizzano. Quando si tratta di stabilire cosa sia presente nel bambino nel momento in cui ha inizio il processo di acquisizione, entrambe le teorie considerano il bambino sensibile e capace di individuare un numero di unità linguistiche (nomi, verbi, frasi) e la loro potenziale distribuzione. Il problema che si intravede, anche in alcune delle teorie dell’approccio outside-in sta proprio nella difficoltà a spiegare come fa il bambino a passare da un tipo di sistema linguistico basato su categorie cognitive (semantiche) e sociali ad un sistema linguistico adulto basato su categorie sintattiche astratte. Resta, dunque, il problema della discontinuità fra le strutture cognitive e quelle linguistiche. Possiamo però pensare che il bambino possa essere effettivamente predisposto all’individuazione della molteplicità e sovrapponibilità di indizi nella struttura grammaticale di una lingua, ossia, la predisposizione a catturare certi tipi di associazioni o di informazioni nel mondo linguistico e non linguistico. La problematica della discontinuità ci porta a ritenere che i meccanismi utilizzati nel corso dell’apprendimento siano, in qualche modo, riferiti a limiti che sono specificatamente linguistici come “guarda alle marche flessive” o più generali del tipo “stai attento all’ordine delle paro-

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le”. Ogni tipo di indizio linguistico, semantico, sintattico, prosodico e l’unione di questi, contribuisce a spingere il sistema linguistico del bambino verso un maggiore sviluppo. Ossia, non è necessario che si dia al bambino, dal principio, alcuna nozione strettamente formale e linguistica, ma è plausibile che queste si sviluppino, invece, da nozioni cognitive più generali. L’approccio che illustreremo nel seguito di questo contributo, parte da un orientamento di tipo outside-in e convoglia in un unico quadro teorico alcune delle teorie cognitive e funzionaliste che si sono sviluppate all’interno di questo paradigma di ricerca. Una delle principali differenze con gli approcci inside-out, è che le proprietà universali della grammatica sono indirettamente innate essendo basate sull’interazione fra categorie e processi che non sono specificatamente linguistici. In altre parole, è possibile sostenere l’innatezza di una Facoltà del Linguaggio ma è plausibile pensare che ci siano forti restrizioni circa il grado della competenza dominio specifica che è richiesta per rendere conto dell’acquisizione delle strutture linguistiche delle lingue naturali. 3. L’approccio cognitivo-funzionale L’approccio che si contrappone, in primo luogo all’idea della modularità innata del sistema linguistico e che, a nostro avviso, può offrire delle risposte plausibili alle questioni poste nella nostra introduzione, è l’approccio cognitivo-funzionale e interazionista. I modelli funzionalisti di orientamento linguistico sono di tipo empirista induttivo e non modulare e considerano l’apprendimento di una L1 come quello di altre conoscenze o abilità cognitive complesse puntando sui meccanismi interni alla mente del parlante a partire dall’input in L1, fino ad arrivare alla realizzazione dell’output. Tali modelli riguardano, quindi, in primo luogo, il processo di elaborazione della L1 piuttosto che la competenza ad essa sottesa (ossia il prodotto finale). L’idea di sistema linguistico e di lingua connaturata a questo tipo di approccio è funzionalista nel senso che considera le forme delle lingue naturali come create, governate e limitate, acquisite e utilizzate al servizio delle funzioni comunicative; le lingue non sono acquisite e usate in un vacuum ma soddisfano scopi comunicativi e cognitivi. Il sistema linguistico, in particolare, non è un organo mentale autonomo ma fa parte del complesso mosaico di attività cognitive e sociali strettamente integrate ed interconnesse al resto della psicologia umana (TOMASELLO, 1995).

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Le funzioni sono implicate in certe strutture nei modi convenzionali e multi relazionali essendo le strutture composte di quattro tipi di mezzi simbolici: le parole, le marche sulle parole, l’ordine delle parole e la prosodia (BATES-MACWHINNEY, 1989). Da un punto di vista dello sviluppo del linguaggio, l’assunto più generale è quello che le categorie linguistiche non sono date innatamente ai bambini ma sono gradualmente costruite dal bambino sulla base di una sorta di scambio tra predisposizioni generali e lo stimolo connesso all’input linguistico. Tale input permette al bambino di fare delle generalizzazioni sulla base delle abilità di categorizzazione sulla lingua alla quale sono esposti (TOMASELLO, 1995). È possibile sostenere, secondo Tomasello, che abilità, diverse da quelle specificatamente linguistiche, che concorrono all’acquisizione del linguaggio siano innate e cioè abilità cognitive più generali che hanno a che fare con: a. la capacità di percepire e concettualizzare oggetti, azioni e proprietà; b. la capacità di acquisire simboli per queste ed altre entità esperienziali attraverso le interazioni con altri parlanti adulti; c. la capacità di costruire categorie per questi simboli. In una tale prospettiva i bambini mostrano pattern differenti di sviluppo in funzione delle singole proprietà della lingua a cui sono esposti dunque alle differenze formali nell’input linguistico; d. la capacità di combinare in una singola frase simboli e categorie di simboli e di marcare simbolicamente per ognuno di essi i ruoli che giocano in tali combinazioni; e. la capacità di discriminare e di produrre una varietà di suoni rilevanti delle lingue. È molto importante, per modelli di questo tipo, verificare attraverso il confronto interlinguistico i modi attraverso cui le lingue vengono apprese per articolare gli universali e i processi particolari che caratterizzano il percorso d’acquisizione. La tipologia della lingua che viene appresa e il tipo di input a cui il bambino viene esposto (l’interazione fra le predisposizioni cognitive e linguistiche del bambino e l’ambiente) fanno in modo che i bambini sviluppino dei percorsi di acquisizione simili per le primissime fasi dell’acquisizione (seppure con tempi diversi anche fra bambini della stessa lingua di partenza) che si diversificano man mano che il percorso acquisizionale procede e che le caratteristiche della lingua madre impongono al bambino una ristrutturazione progressiva del sistema. Nel filone degli approcci cognitivo-funzionali (in parte appartenenti a quelli outside-in descritti sopra) dedicano attenzione ad aspetti cognitivi,

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modelli come il Competion Model (MACWHINNEY, 1987). In particolare, tale modello si interessa alle modalità attraverso cui un apprendente individua il rapporto forma e funzione facendo leva su indizi formali (o cues fonologici, morfologici sintattici) di certe funzioni linguistiche: per individuare il soggetto in inglese è decisivo l’indizio sintattico della posizione preverbale. L’apprendimento di una lingua comporterebbe l’individuazione e la valutazione di indizi (talora in competizione fra di loro) utili per cogliere nell’input la manifestazione di strutture, categorie e significati della lingua e per costruire la sua grammatica. Verrebbero utilizzati gli indizi più frequenti (disponibili), affidabili (quelli che più coerentemente rimandano a una certa funzione), i più validi in caso di competizione di indizi. Ovviamente gli indizi pertinenti sono differenti da lingua a lingua e diversamente pesanti (in inglese pesa di più la posizione preverbale per individuare il soggetto, in italiano l’accordo col verbo e l’animatezza). Altre spiegazioni dello sviluppo graduale delle categorie funzionali sono sempre di prevalenza psicolinguistica. Slobin (1985), ad esempio, ritiene che il bambino sia guidato nel compito acquisizionale, inizialmente, da alcuni principi operativi (OP, come, per esempio, prestare attenzione alla fine delle parole, evitare le eccezioni, tener conto della frequenza di strutture e forme) indipendenti dalla particolare lingua che il bambino apprende, concepiti come strategie cognitive adottate dal bambino nel costruire la grammatica della propria lingua. 3.1. Il funzionalismo e le teorie linguistiche Com’è noto, gli studi funzionalisti comprendono ipotesi teoriche diverse, pur avendo, tuttavia, alcuni punti in comune, che possono essere individuati in: a) l’interesse cruciale per il rapporto forma/funzione e nell’assunto che la funzione degli elementi linguistici determini in qualche modo la forma, b) la prospettiva di analisi dei fenomeni linguistici basata sulla comunicazione e la cognizione (e quindi sulla semantica e sulla pragmatica) piuttosto che sulla sintassi formale d’impronta generativa. Pertanto, gli autori e le teorie di riferimento per le ricerche acquisizionali possono essere considerati, Simon Dik e la Functional Grammar, Wolfgang Dressler e la Morfologia Naturale. L’approccio funzionale ai processi di acquisizione ha trovato un naturale sostegno nella psicolinguistica dei già citati Dan Slobin e Michel Tomasello.

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3.1.1. La Morfologia Naturale I modelli teorici che si rifanno all’approccio funzionalista in linguistica sono più di uno e in parte si differenziano fra loro. Il modello teorico del funzionalismo, che contraddistingue la Morfologia Naturale, in contrapposizione all’approccio generativista, considera i componenti della grammatica (fonologia, morfologia e sintassi) come moduli che funzionano in modo semiautono in quanto essi interagiscono non soltanto fra di loro ma anche con le altre capacità cognitive. Il rapporto tra questi moduli è di tipo conflittuale e dinamico (cf. CROCCO, 2007), vale a dire che ciascuno di essi, risponde ad esigenze specifiche del sistema il cui soddisfacimento genera conflitti che si risolvono solo attraverso dei rimodellamenti continui, dando luogo così alla prevalenza di un componente su di un altro a secondo della loro salienza semiotica. Secondo la Morfologia Naturale, sono fenomeni naturali quei fenomeni che assecondano la struttura e il funzionamento di un componente (fonologico, morfologico ecc.), innaturali quelli che, viceversa, non lo facilitano. Valga come esempio la regola della palatalizzazione delle occlusive velari davanti a vocali palatali: amic-o vs amic-i. Nonostante questo processo sia naturale, esso non costituisce una regola dell’italiano perché ciò che è naturale ai fini della fonologia, non lo è ai fini della morfologia. Dal momento che è più utile per una lingua assicurare l’identificabilità dei morfemi se questa è oscurata dall’applicazione di una regola fonologica (la palatalizzazione), nel conflitto tra i due componenti hanno la meglio le esigenze della naturalezza morfologica dato che la logica del codice attribuisce più peso ai morfemi, che sono segni, piuttosto che ai fonemi, che sono unità distintive. Il sistema linguistico, così inteso, si offre come punto di ancoraggio per una teoria dell’acquisizione linguistica che vede, nel funzionalismo e nel dinamismo dei sottosistemi linguistici, e nella loro interazione con l’ambiente, la ragione della sua evoluzione. 3.1.2. Dipendenza dai principi semiotici per lo sviluppo del linguaggio La dipendenza da principi semiotici (salienza, trasparenza, iconicità, biunivocità) quanto quella dalla marcatezza delle regole morfologiche e dalla produttività che si richiamano alla Morfologia Naturale, costituiscono la motivazione funzionale dell’apprendimento. Vediamo, qui di seguito, in che cosa consistono questi principi e quanto essi incidono soprattutto nella prima evoluzione dei sistemi linguistici.

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La salienza riguarda tutto ciò verso cui il bambino è attratto, sia esso visivo o acustico e che si riferisce a criteri fonologici o semantici e che dirigono l’attenzione del bambino verso l’informazione più importante (dal punto di vista degli elementi maggiormente percepibili); l’accento e l’intonazione, ad esempio, rappresentano gli indizi che permettono al bambino di segmentare l’input e di memorizzarlo, dunque, è ragionevole prevedere che le prime forme avranno le sembianze di unità che sono confezionate dal nucleo di intonazione. È noto che i bambini posseggano una elevata sensibilità verso certi aspetti ritmici e di intonazione e molti studi hanno mostrato che l’accento è un fatto percettivo determinante nell’acquisizione delle regole morfologiche. Se una forma è frequente e possiede i contorni di un ritmo e di una intonazione peculiari è più facilmente memorizzabile di una forma che si distingue per una sola di queste caratteristiche2. La diagrammaticità è un altro principio semiotico e iconico, che guida il processo di segmentazione dell’input da parte del bambino. Tale principio consiste in una relazione in cui si crea un’analogia fra signans e signatum; in inglese, ad esempio, l’aggiunta del suffisso -s rappresenta un’analogia tra forma e significato: l’aggiunta nel significato e nella forma ha un peso rilevante nelle produzioni dei bambini i quali compiono scelte diagrammatiche che rispondono all’esigenza di far corrispondere una realizzazione formale ad un’unità concettuale, secondo il principio one form – one meaning. Nell’acquisizione della morfologia dell’italiano la generale segmentabilità delle forme sembra costituire una buona guida per l’apprendente. Di conseguenza, la mancata diagrammaticità del plurale zero in italiano porta i bambini a ricreare questo tipo di rapporto attraverso la formazione di plurali come auti, filmi ecc. e ad evitare quindi i plurali zero nel tentativo di eludere forme poco iconiche e quindi poco naturali. La trasparenza delle forme è un altro fattore che facilità l’acquisizione della morfologia per cui forme che hanno una relazione diretta con la modificazione del significato vengono preferite dai bambini: un esito come vie-nono viene sostituito all’esito standard vengono per una minore presenza forme che non hanno una diretta relazione con il significato. Costruzioni all’interno del limite affisso base con interferenza nulla o minima di regole morfofonologi2 I diminutivi sono un esempio in cui la salienza gioca un ruolo importante. Tali forme sono, infatti, molto frequenti nell’input rivolto al bambino e allo stesso tempo sono accentate e particolarmente enfatizzate in quanto strettamente legate ad una funzione pragmatica (vezzeggiativi) e pertanto tendono ad essere utilizzati per creare una situazione particolarmente intima e affettuosa con il bambino.

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che sono più facili da acquisire di quelle in cui questo tipo di regole è presente. L’opacità morfotattica di una regola di affissione elimina la possibilità di un confronto tra base e derivato: amiko∼  amit∫i,  sedere∼  siedo. La trasparenza riguarda anche il significato dei morfemi: nell’interpretare e nel creare nuove parole i bambini sembrano affidarsi alla relazione forma significato sulla base di parole già conosciute: piedare per “toccare qualcosa col piede”, trenista per “conducente di un treno” e macchinista per “conducente di una macchina”. La biunivocità, altro principio iconico, si realizza quando una e la stessa forma ha lo stesso significato. Per i bambini è più semplice individuare il rapporto tra forma e significato quando questo è uno a uno (in russo il rapporto è molti a molti, un suffisso serve per esprimere molti significati ma quegli stessi significati possono essere espressi da altre forme diverse da quel suffisso, anche in italiano ci sono suffissi che hanno una relazione uno a molti: il suffisso -o marca sia il genere che il numero). Tutti i fattori ora sintetizzati vengono integrati, dalla Morfologica Naturale, al parametro della marcatezza che colloca i fenomeni morfologici su una scala di naturalezza. Cosicché, un fenomeno sarà più naturale, meno marcato, quanto più esso sarà trasparente e iconico. Quanto più un fenomeno è universale3 tanto più comparirà in un numero maggiore di lingue, sarà appreso prima dai bambini, perso per ultimo nei soggetti afasici e sarà più stabile in diacronia. Analogamente, secondo questo paradigma teorico, una regola morfologica è naturale se è più facile da processare e da produrre, è appresa presto, persa tardi e resiste al mutamento linguistico. La marcatezza è una nozione opposta e complementare alla naturalezza. Una teoria di questo tipo è in grado di fornire una serie di predizioni per lo sviluppo della morfologia, per cui, il bambino passa da uno stadio di assenza di regolarità o operazioni morfologiche a più stadi di graduale acquisizione di regole e di costruzione progressiva del modulo e dei sottomoduli morfologici. Ovviamente, può accadere che un dato fenomeno possa non essere considerato allo stesso modo su parametri differenti e quindi essere ‘naturale’ secondo un parametro e ‘innaturale’ secondo un altro parametro. Questo conflitto è importante perché permette di prevedere la naturalezza di un fenomeno in maniera probabilistica, e solo su un ampio campione di lingue. Un esempio di quanto espresso finora, può essere facilmente verificato nel conflitto fra i due parametri della marcatezza4 e della produttività. 3 Gli universali linguistici sono generalizzazioni induttive riguardanti i vari livelli linguistici formulati a partire da ampi campioni di lingue anche geneticamente irrelate. 4 Il concetto di marcatezza viene considerato sia in un’accezione generativista che tipo-

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Quest’ultima è intesa come la capacità di utilizzare le regole che caratterizzano un paradigma flessivo con parole nuove: flirt → flirt-are, porzione → porzionare. I bambini tendono ad apprendere prima e a generalizzare le regole più produttive della lingua, tuttavia, non è sempre così semplice fare una previsione del genere proprio perché il parametro della produttività interagisce con quello della marcatezza. Questa relazione spiega perché, ad esempio, una classe di verbi abbastanza produttiva in italiano, e cioè i verbi in /-isk-/del tipo finire, capire, non emerge nelle prime fasi di acquisizione ma solo in fasi più avanzate. Il motivo di questa incongruenza fra parametri risiede nel fatto che i verbi di questa classe vìolano due principi importanti della naturalezza, ossia il principio della brevità e quello della trasparenza morfotattica: l’amplificazione della radice del verbo la rende più lunga del tema verbale e l’inserimento dell’infisso rende la forma del verbo più opaca rispetto ad altre microclassi verbali nel tempo presente. Sebbene, dunque, una certa regola del sistema sia produttiva in una lingua, se essa è anche più marcata e meno naturale, viene appresa più tardi. 3.2. Il modello costruttivista dell’acquisizione Il paradigma funzionalista è perfettamente congruente al modello costruttivista-interazionista che assumiamo per spiegare l’emergenza delle categorie funzionali. Tale modello sostiene che lo sviluppo delle strutture cognitive derivano da processi neuronali auto-organizzantisi da cui hanno origine sistemi sempre più complessi e modulari. Secondo questa proposta l’organizzazione modulare del linguaggio, dunque, non è presente fin dall’inizio ma si sviluppa gradualmente attraverso lo stabilizzarsi delle connessioni neuronali in un’attività continua che mira a preservarne l’equilibrio. Il processo di modularizzazione del sistema linguistico e dei suoi sottosistemi si sviluppa in ontogenesi. In particolare, l’acquisizione è caratterizzata da una continua comparsa logica. Secondo l’accezione tipologica vi sarebbero tendenze e generalizzazioni spesso implicazionali induttivamente ed empiricamente astratte a partire da campioni di lingue diverse e numerose. Nell’accezione generativa gli universali linguistici formulati deduttivamente all’interno della teoria stessa, sarebbero un insieme di principi potenzialmente applicabili ad ogni lingua ed un insieme di parametri che possono variare da una lingua all’altra entro dei limiti definiti precisamente. Nel corso dell’acquisizione si imparerebbe il modo di applicare tali principi ad una lingua particolare ed a fissare teoricamente in modo istantaneo il valore appropriato dei singoli parametri della GU.

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di schemi: con un crescente accumulo di input – il tipo di lingua, non solo a cui il bambino è semplicemente esposto ma di cui fa esperienza – il bambino è costretto a spostare il focus della sua attenzione e a riaggiustare le ipotesi precedentemente elaborate. Le regole vengono scoperte, applicate e ipergeneralizzate fino al punto in cui il sistema linguistico raggiunge un livello di complessità ed è indotto a ristrutturarsi. I sottosistemi come quello sintattico e morfologico si sviluppano e si riorganizzano in uno stato di ordine. Le regole morfologiche, ad esempio, vengono acquisite secondo un ordine di naturalezza, i morfemi più naturali e meno marcati sono facili da acquisire e quindi tra i primi a far parte del sistema iniziale della lingua. Piuttosto che concepire la facoltà di linguaggio come altamente specificata, secondo quanto previsto dalla Grammatica Universale nel paradigma generativista, il modello dell’auto-organizzazione dei sistemi prevede che il processo di acquisizione sia graduale e caratterizzato da una interazione continua tra principi genetici e ambiente. L’organizzazione modulare dei sistemi linguistici, perciò, non è presente fin dall’inizio ma si sviluppa gradualmente in seguito alla stabilizzazione delle connessioni neuronali fino al permanere del suo equilibrio (KARPF, 1991). Il modello teorico della Morfologia Naturale, che fa propria questa idea della cognizione e del complesso rapporto mente linguaggio, ha individuato, in particolare per l’acquisizione della morfologia, tre stadi principali che analizzeremo nel resto del nostro contributo attraverso il confronto di apprendenti di lingue diverse. 3.2.1. Gli stadi dell’evoluzione dei sistemi: un confronto interlinguistico5 1. Lo stadio della Premorfologia è caratterizzato dalla prevalenza dei principi cognitivi generali su quelli specificatamente linguistici; tali principi sono necessari alla selezione degli schemi e alla formazione di operazioni morfologiche primitive (in questa fase c’è una maggiore uniformità nell’evoluzione del sistema fra apprendenti di lingue diverse); questa fase è caratterizzata , inoltre, da un iniziale apprendimento mnemonico di forme la cui selezione è basata sui principi della naturalezza (come quelli analizzati sopra). Le forme prodotte dai bambini di L1 diverse (italiano, francese, tedesco e greco) mostrano delle caratteristiche comuni: la produzione di nomi al sin5 I dati esposti in questo paragrafo si riferiscono ai contributi al volume collettaneo a cura di DRESSLER (1997).

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golare o pochi nomi al plurale senza controparte al singolare, tutti i bambini tranne la bambina francese (per una questione di non produttività dei diminutivi in francese) mostrano i primi diminutivi senza controparte della forma base. In questo periodo nessun processo morfologico è in opera e le forme prodotte sono memorizzate e centrate sull’input. Una caratteristica comune ai bambini in questa fase è la presenza di operazioni extramorfologiche: violazione delle regole morfologiche, non consistenza nell’applicazione e non modificazione sistematica di significante e significato, forme onomatopeiche, troncamenti, tàa, fante. Nella fase di transizione alla protomorfologia (i bambini hanno raggiunto lo stadio di due parole) vengono introdotte alcune forme del verbo: la 3 pl. per l’it. dommo, per il ted. shauma (“guarda”); le prime parole onomatopeiche vengono sostituite progressivamente, come nel caso della fr.: poum, poumer che convive con tomber (“cadere”) per diverso tempo (caso di analogia). Il bambino gr. inizia a marcare il caso nominativo al singolare nella classe dei nomi maschili che appartengono alla classe di declinazione più ampia: papu-s (“nonno”) e comincia ad emergere l’uso produttivo di un verbo nella 3 sg (th)eli “vuole”. Compaiono le prime forme di articoli come proto-forme (fillers) che rappresentano uno dei modi per sostituire un materiale non analizzato ed è l’espediente attraverso cui i bambini mostrano di fare affidamento a strutture prosodiche o fonologiche per costruire le ipotesi sulla grammatica. Occupano, perciò, spazi prosodici i fillers, che non superano la sillaba e consistono di una sillaba atona, es. it. e domme, a bau. 2. Lo stadio della proto-morfologia è il momento in cui comincia a svilupparsi il modulo morfologico in conformità alle caratteristiche della lingua specifica. È il momento della creatività linguistica e della sovraestensione delle regole morfologiche (ci si attende una variazione individuale e applicazione di regole che vanno in una direzione errata). I bambini iniziano a costruire la morfologia: it. comparsa dei primi participi passati regolarizzati ha bevito, mi ha puntito, è nascondata. I primi tentativi di produzione degli articoli sono prodotti nel ted. attraverso la realizzazione dei articolo sg.m. dat. dem Papa “al papà”. In questo periodo si intravede una prima definizione della sintassi: in fr. comparsa di frasi di due parole in cui la produzione dei verbi raggiunge il 50%. In it. si verifica l’introduzione delle preposizioni anche con infinitive: metto a dommie, colla mano l’ho massata, o ancora dell’inf+mod., posso andare, voglio togliere. In ted. abbiamo tentativi di accordo nome e articolo determinativo, esempi di accordo con aggettivo flesso: wieder kaputt-es (wieder ein kaputtes, “di nuovo uno rotto”), Auto grosse (grosses Auto); sempre in ted. si osserva la produzio-

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ne di forme al plurale con controparte al singolare; dei suffissi per la formazione del plurale i bambini ted. selezionano quelli più semplici, il primo a comparire è -n e poi -e: Baum vs. Baumen (ted. Baüm-e, “fiori”), Fuß vs. Fuss-n, (ted. Füss-e, “piedi”). In gr. Il bambino inizia ad usare la corretta declinazione delle classe più ampia in tutti i casi, al maschile e al femminile e solo al nominativo e accusativo. Nella seconda classe dei nomi, nel neutro usa solo nominativo e accusativo. In questo periodo tutti bambini cominciano a formare i primi miniparadigmi verbali6. Nella fase di transizione occorrono diverse forme analogiche con cambiamento di classe: metter, mettre, apir, appuyer, a prendu, apris, it. candelare. Il bambino ted. applica le tre classi produttive del plurale analogicamente alle forme plurali adulte: Hunde (già forma pl.) pl. Hunden (“cani”), Räder (già pl.), pl. Rädern (“ruote”). La bambina francese produce all’infinito tutti i verbi che si situano al di fuori della prima macroclasse in quanto sembra aver compreso che questa è la classe produttiva nella sua lingua. 3. Nello stadio della morfologia modulare, quando cioè il bambino si trova ad aver bisogno di una rapida espansione del suo repertorio lessicale, e quando l’espansione della sintassi richiede la presenza (per molte lingue) di marche morfologiche, un sistema morfologico primitivo si dissocia dagli altri sistemi. Le più importanti differenze fra i bambini sembrano essere sostanzialmente differenze che riflettono le varietà dei sistemi linguistici. Per quanto riguarda i fillers quelli che precedono il nome si grammaticalizzano prima di quelli preverbali (ausiliari). La bambina francese è quella più lenta ad acquisire le marche di persona sul verbo, difficoltà probabilmente dovuta all’omofonia delle forme del presente, la 2 pl. è l’unica ad avere una marca differente ma che è di solito l’ultima ad essere acquisita. Nell’acquisizione delle forme personali il tedesco è più tardivo (dovuto all’estesa omofonia delle forme) mentre l’it. e il gr. sono i primi a manifestare tali forme in questo periodo. Lo stesso vale per le forme sintetiche e analitiche del verbo: il gr. acquisisce prima le forme sintetiche (aoristo) e per ultimo il participio passato, mentre gli altri usano per primi le forme composte e poi quelle sintetiche (il passato composto o l’imperfetto).

6 Un paradigma flessivo è costituito da tutte le forme flesse della stessa base: il paradigma del verbo mangiare è costituito da tutte le forme flesse del verbo secondo la modificazione della persona, del tempo ecc., es. mangio, mangia, ho mangiato, mangerò e così via.

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3.2.2. Sull’ordine di acquisizione e le differenze dei sistemi Per sintetizzare quanto finora espresso diciamo che lo sviluppo delle marcature riguardanti la morfologia verbale, di cui abbiamo fornito alcuni esempi sopra (temporalità, modalità, aspetto, e persona), sono rappresentate nella lingua del bambino come corrispettivi linguistici (in questo caso in paradigmi) dello sviluppo di concetti cognitivi piuttosto importanti come l’analisi deittica del tempo e la modalità di svolgimento dell’azione e la configurazione del riferimento personale. «E, se da un lato una progressione teorica e ipotetica, che segua lo sviluppo cognitivo, potrebbe prevedere inizialmente forme neutre polifunzionali riprese dall’input, prime marche morfologiche legate a fatti nozionalmente più basilari, infine marche legate a fenomeni cognitivamente più complessi (scansione che si rispecchia nel concetto di maggiore o minore “naturalezza”), in realtà si riscontra che questi stadi acquisizionali basati su precedenze nozionali vengono modellati anche dal tipo (maggiore o minore diagrammaticità e salienza percettiva) e dalla quantità di morfologia che ciascuna lingua dedica alle categorie grammaticalizzate: ciò complica fortemente la possibilità di stabilire progressioni rigide proprio perché il concetto di “complessità” nozionale va ad incrociarsi con l’offerta morfologica della lingua materna» (CALLERI et alii, 2003, p. 229). È ragionevole prevedere, quindi, che in lingue provviste di marche flessionali obbligate e abbondanti, relativamente alla nozione di tempo, si vedano apparire prima forme di default, che possiamo presupporre come non analizzate, e, solo più tardi, marche relative a concetti primari (come il presente abituale) e in seguito a opposizioni nozionalmente facili come il passato deittico (ivi, p. 239); e solo più tardi tempi tipo il futuro, largamente preceduto da forme lessicali come avverbi: domani, quando viene papà ecc. Analogamente, rispetto alla persona avremo inizialmente forme non analizzate e riprese dall’input presentato al bambino (2a e 3a sg.) poi le forme relative al numero (forme meno marcate), prima quelle singolari e poi quelle plurali (come abbiamo ampiamente mostrato più sopra). In relazione alla differenza di sviluppo dei sistemi di lingue diverse, possiamo riassumere brevemente che i bambini che parlano lingue agglutinanti iniziano a marcare il caso molto presto rispetto a bambini di lingue flessive. Tra l’altro il turco (più tipicamente agglutinante) è considerata una lingua child friendly i cui morfemi nominali sono, infatti, posposti, sillabici e tonici che li rendono percettivamente più salienti; sono obbligatori ed impiegano una quasi perfetta corrispondenza uno a uno tra forma e funzione che li

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rende più prevedibili; essi sono, inoltre, legati al nome piuttosto che liberi e quindi più locali; sono invariabilmente regolari in differenti sintagmi nominali e strutture pronominali che li rende prontamente generalizzabili. In finlandese, il genitivo e l’accusativo vengono appresi prima rispetto alle altre marche di caso, mentre in greco il genitivo viene acquisito più tardi (la marca del genitivo è più eterogenea rispetto al finlandese). Per quanto riguarda la categoria del numero, la tecnica agglutinante per esprimere il numero e il caso nell’indicare marche separate favorisce la precoce acquisizione delle distinzioni di caso nel plurale. La tecnica lessicale per marcare il plurale attraverso i quantificatori e i numerali sembra essere disponibile da molto presto, indipendentemente dal tipo morfologico delle lingue acquisite, e non solo precede la marca del numero di tipo sintetico sui nomi, ma sembra addirittura opporsi al referente singolare dall’inizio, mentre le forme plurali vengono usate indistintamente per il singolare e il plurale. 3.2.3. Sulla questione della interdipendenza dei sistemi e sottosistemi linguistici Un’altra delle importanti implicazioni dell’approccio funzionalista è che le categorie linguistiche emergono e si sviluppano in relazione allo sviluppo di altre abilità cognitive e linguistiche, in particolare, alle abilità lessicali. Questa affermazione chiama in causa l’assunto principale della grammatica generativa che vede la sintassi come indipendente dagli altri livelli del sistema linguistico. Di contro, la concezione interazionista e funzionalista ha maturato la convinzione che i parlanti usano e integrano simultaneamente fonti e livelli di informazione diverse come quella lessicale, sintattica e pragmatica. Molti dati longitudinali condotti in questa prospettiva hanno mostrato che esiste una forte interdipendenza tra le diverse dimensioni della lingua nel corso del processo di acquisizione. In particolare, una forte correlazione è stata individuata fra l’ampiezza del lessico e lo sviluppo grammaticale (e questa potrebbe essere una proprietà universale dello sviluppo del linguaggio, cf. CASELLI, CASADIO, BATES, 1999). Indagando aspetti specifici della grammatica, MARCHMAN e BATES (1994) hanno controllato il numero dei verbi che i bambini usano in relazione allo sviluppo della morfologia verbale. Il rapporto fra il numero dei verbi nel vocabolario dei bambini e forme di passato (suffisso zero, corretti irregolari e sovrageneralizzazioni scorrette) si presenta come una relazione non lineare che evidenzia uno specifico rapporto tra le strutture grammaticali e

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la cosiddetta massa critica degli elementi lessicali (BATES, GOODMAN, 1999): l’ipotesi della massa critica sostiene che gli sviluppi all’interno della morfosintassi vengano innescati dall’aumento nella grandezza del lessico al di là di un certo livello, dando prova dell’interdipendenza dello sviluppo lessicale e grammaticale. Risultati simili sono stati rilevati per il francese in uno studio longitudinale che ha mostrato una relazione temporale tra lo sviluppo quantitativo di verbi e nomi e lo sviluppo grammaticale delle classi dei nomi e dei verbi. L’esplosione di nomi e verbi nel processo di grammaticalizzazione (uso dei determinanti e della flessione dei verbi e degli ausiliari) si sono manifestati subito dopo l’aumento della produzione lessicale. In uno studio successivo, sempre sul francese, il numero dei types relativi ai verbi è stato fortemente correlato al livello del processo di grammaticalizzazione (BASSANO, EME, 2001). Gli approcci di tipo cognitivo-funzionalista, dunque, che postulano l’esistenza di una non autonomia dei moduli linguistici sono in grado di spiegare quanto abbiamo rilevato a proposito della forte correlazione fra i moduli linguistici e alla dipendenza dello sviluppo e della comparsa delle categorie funzionali e lo sviluppo del lessico. 3.2.4. Sulle implicazioni del funzionalismo per l’acquisizione della L2 Il ricorso a principi di ordine naturale e l’approccio di tipo funzionalista allo sviluppo dei sistemi linguistici trova largo spazio nelle ricerche sulle interlingue degli apprendenti della L2. Appare, infatti, rilevante il peso nelle produzioni degli apprendenti di scelte diagrammatiche che rispondono all’esigenza di far corrispondere una realizzazione formale ad un’unità concettuale, secondo il principio one form-one meaning. Un’applicazione di strategie diagrammatiche è stata individuata nell’apprendimento della morfologia dell’italiano: la capacità di segmentare l’input è, certamente, una capacità di carattere universale, ma attivabile con maggiore prontezza in una lingua come l’italiano. Anche la sovraestensione di una forma del paradigma verbale a contesti che non la richiedono è una strategia di apprendimento frequente in apprendenti che non hanno ancora appreso il valore funzionale della flessione verbale in italiano. Ad apprendenti cinesi di italiano, ad esempio, si presenta il compito di elaborare concettualmente la categoria del genere grammaticale e di capire che le variazioni nella forma delle parole sono portatrici di un valore funzionale. Analogo è il caso dei determinanti (articoli definiti ed indefiniti) che non sono presenti in molte

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lingue, e che richiedono l’elaborazione del valore funzionale che gli articoli svolgono in italiano (GIACALONE RAMAT, 2003). In questa attività di concettualizzazione gli apprendenti sembrano affidarsi a principi e a strategie cognitive generali come quelle che abbiamo illustrato sopra. I modelli teorici a cui si sono ispirate le ricerche anche sull’acquisizione di lingue seconde sono quelli già detti sopra della tipologia funzionalista che considera cruciale il rapporto forma/funzione e guarda con attenzione alla cognizione, alla concettualizzazione dell’esperienza, alle condizioni pragmatiche degli enunciati. 3.3. Conclusioni Nel proporre un confronto fra gli approcci teorici più recenti, applicabili alla questione dell’acquisizione dei sistemi linguistici e all’emergenza delle categorie funzionali nelle grammatiche infantili, abbiamo voluto dimostrare, attraverso la descrizione di alcuni dati acquisizionali, che è possibile rendere conto del processo attraverso cui tali grammatiche si sviluppano, piuttosto che descrivere semplicemente i prodotti o gli stati finali di un tale processo. Ci sembra che il modello funzionalista e interazionista sia in grado di spiegare i dati acquisizionali come l’esito di uno sviluppo graduale che dipende da (e interagisce con) i dati provenienti dall’input ed è legato alla frequenza della loro occorrenza. Abbiamo altresì dimostrato come i sistemi e i sottosistemi linguistici non siano dati innatamente ma si sviluppino attraverso una fase iniziale guidata da principi cognitivi generali e che gradatamente tendono a modularizzarsi. Nelle esemplificazioni, illustrate sopra, in relazione al modulo morfologico, abbiamo mostrato che le prime regole della morfologia sono governate da principi cognitivi generali in accordo con quelli semiotici e sistema-specifici, postulati dalla Morfologia Naturale. Man mano che lo sviluppo procede il modulo morfologico comincia a dissociarsi dagli altri sistemi e i bambini cominciano a ristrutturare e a rivisitare le ipotesi che formulano sulla lingua che stanno apprendendo, lungo questo percorso essi applicano le regole morfologiche agli elementi del sistema che appartengono alle classi più frequenti e produttive presenti nell’input. Un’altra delle risposte che abbiamo tentato di fornire in questo contributo riguarda la diversificazione dello sviluppo dei sistemi in bambini di diverse L1. In particolare, gli studi sulle differenze tipologiche dei sistemi in ambito acquisizionale hanno mostrato che il peso che diverse lingue attribuiscono alla sintassi o alla morfologia condiziona l’ordine e i tempi con

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cui il bambino apprende certe parti del sistema. Le scelte che i bambini compiono e che determinano l’ingresso di alcuni elementi della struttura della lingua, in tempi diversi, sono strettamente legate alle caratteristiche tipologiche del sistema di riferimento, per cui ogni sistema detta in qualche modo scelte di ‘naturalezza’. Il tipo flessionale tende ad avere più forme suppletive, più opacità e ambiguità rispetto al tipo agglutinante che favorisce, di contro, una maggiore trasparenza, biunivocità e grammaticità. Da qui è di fatto possibile prevedere, e i dati confortano questa previsione, che i bambini turchi sono più facilitati ad apprendere la morfologia rispetto ai bambini italiani (DRESSLER,1997, DE MARCO, 2005). L’applicabilità delle teorie cognitivo-funzionali alle varietà di apprendimento di lingue seconde e quindi al sistema di interlingua (già di per sé un modello di tipo cognitivo) ci sembra possa rafforzare il potere esplicativo ed euristico della Morfologia naturale e del modello neurologico dell’autorganizzazione. I principi della Morfologia Naturale sono in grado di spiegare molte delle strategie di elaborazione della L2: principi cognitivi generali e fattori quali la marcatezza e la produttività del sistema insieme anche alle differenze tipologiche dei sistemi danno conto dei fenomeni di complessificazione progressiva della grammatica di L2. Possiamo concludere affermando tuttavia che, a tutt’oggi non esistono delle teorie pienamente adeguate a spiegare il modo attraverso cui i bambini arrivano alla costruzione di un sistema così ricco e complesso. A nostro avviso, questo è determinato dal fatto che, spesso, lo studio dell’acquisizione linguistica è stato lasciato fuori dallo studio delle abilità cognitive e sociali. La speranza di riuscire a districare alcuni dei misteri dell’acquisizione del linguaggio è sicuramente riposta in approcci che inglobano questi molteplici fattori e dunque in approcci che includono, non solo modelli linguistici espliciti ma anche l’ampio spettro dei processi biologici, culturali e psicolinguistici coinvolti in questa impresa. Bibliografia BASSANO, D., EME, P.E. (2001), “Development of noun determiner use in French children: Lexical and grammatical bases”, in M. ALMGREN, BARREÑA, A., EZEIZABAR-RENA, M. J., IDIAZABAL I.& MACWHINNEY B. (Eds), Research on child language acquisition, 1207–1220, Sommerville, MA: Cascadilla Press. BATES, E., GOODMAN J. (1999), “On the inseparability of grammar and the lexicon: Evidence from acquisition, aphasia and real-time processing”, in G. ALTMANN (Ed.), Special issue on the lexicon, Language and Cognitive Processes.

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ROSSELLA DE ROSE Ontologia della vita e dimensione dell’ulteriorità nel pensiero tragico di Fëdor Dostoevskij

È noto come un filone della letteratura critica abbia evidenziato che il sentimento della morte non costituisce un momento fondamentale dell’opera di Dostoevskij, tanto che egli sembra porsi agli antipodi dall’ossessione tolstojana e dal fascino čechoviano per la morte1. L’osservazione può sembrare paradossale, se si considera meccanicamente la serie di morti soprattutto violente o repentine che ricorrono nei romanzi dostoevskijani. Ma gli omicidi e i suicidi degli eroi di Dostoevskij, nonché le loro morti naturali, hanno lo stesso senso e lo stesso effetto che le catastrofiche interruzioni dell’esistenza mantengono all’interno della tragedia: vanno al di là del piano individuale per assumere una dimensione generale. Ciò che affascina e sgomenta Dostoevskij è la terribile complessità dell’esistenza fuori dai suoi limiti individuali e nelle sue dimensioni cosmico-storiche. Anche le morti più terribili, come il suicidio di Stavrogin ne I Demoni o di Svidrigajlov in Delitto e castigo, hanno il valore di atti metafisici e la cruda naturalità delle loro rappresentazioni si trasfigura in sottili significazioni super naturali2. Nondimeno, l’opera di Dostoevskij è permeata di un suo senso di morte e di agonia: non della morte degli uomini, ma della morte dell’uomo, non della fine di singole esistenze, ma della fine di universali valori. E la morte, passando dal piano particolare a quello generale, perde il suo carattere di ineluttabilità e assume un carattere problematico, di lotta, appunto, col suo contrario e nemico: con la vita. Come ha ben evidenziato Luigi Pareyson, l’universo di Dostoevskij è la sede di un conflitto tra antitetici sensi e valori, l’esito del quale non sembra predeterminato3. Tutta l’opera di Dostoevskij potrebbe definirsi all’insegna dei concetti che danno il titolo all’opera maggiore di Tolstoj: Guerra e Pace4. G. LUKÀCS, Dostoevskij, Milano, SE, 2000, p. 15. S. GIVONE, Dostoevskij e la filosofia, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 30. 3 L. PAREYSON, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, Torino, Einaudi, 1993, p. 31. 4 V. STRADA, Le veglie della ragione, Torino, Einaudi, 1986, p. 28. 1 2

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Ma a mutare radicalmente è il significato che, nel pensiero di Dostoevskij, si attribuisce a tali parole. La guerra come scontro tra potenze nemiche, assume allora in Dostoevskij un significato radicalmente diverso da quello tradizionale: conflitto non tra potenze nazionali e statali, ma trasversale rispetto a queste entità. E non guerra locale e localizzabile, ma guerra ubiqua ed occulta. La guerra come politica stessa, come forma essenziale della nuova identificazione di politica, filosofia, religione ed etica. Di conseguenza, col concetto di guerra, muta anche il concetto di pace: la pace, di fronte all’uniquità sotterranea della guerra, diventa più aleatoria e costituisce un ideale meno facilmente conseguibile. Inoltre, l’universalità della guerra spezza l’uomo interiormente infliggendo una ferita che non può essere sanata col balsamo dell’autoperfezionamento, tanto che persino i «santi» dostoevskijani, dal principe Myškin ad Alëša Karamàzov, ne sono sofferenti e sono privi di poteri taumaturgici per rimarginare le piaghe delle anime altrui. La natura della guerra di cui Dostoevskij è il romanziere è tale da non essere facilmente decifrabile. Si sa che la posta in gioco è totale, radicale: l’uomo stesso. Ma si sa anche che è una guerra che l’uomo combatte contro l’uomo in nome dell’uomo: è una guerra fratricida tra diverse concezioni dell’uomo. Ed è una guerra, in cui a fronteggiarsi non sono eserciti regolari, ma forze sparse, spesso misteriose e clandestine ed i combattimenti si svolgono nella oscurità di un inesplorato sottosuolo, piuttosto che nella dimensione solare. E sopra il suolo e il sottosuolo, teatro delle mischie e degli attentati, v’è un sopra-mondo di forze angeliche e demoniache, che assistono e partecipano a questa guerra universale. «Si tratta – osserva Vittorio Strada – di un conflitto dove la mimetizzazione ed il travestimento confondono ancora di più la divisione tra avversari che si compenetrano e, per fare un unico esempio, in nome di Cristo il Grande Inquisitore può oppugnare Cristo di cui egli si vuole vicario»5. Il cronista di questa guerra più che raccontarne le inefferabili vicende, dovrà decifrarne gli sfuggenti segni, individuare le mobili linee di frontiera, coglierne gli sdoppiamenti ed i mascheramenti, distinguere le false identità, avvertirne le segrete metamorfosi, ed il suo occhio dovrà avere la freddezza clinica di chi, pur parteggiando per una delle prospettive in lotta, sa di dover prestare attenzione soprattutto alla parte avversa, lasciando ad essa, nelle proprie analisi, completa libertà di manifestazione, per non essere accecato da un fatale pregiudizio. In ciò il cronista, vale a dire Dostoevskij, è 5

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favorito dal fatto di aver partecipato egli stesso al conflitto e di essere passato non solo e non tanto da una parte all’altra, ma soprattutto di essersi elevato al di sopra della parte in cui si è alla fine collocato, conquistando una prospettiva inevitabilmente parziale, ma estremamente libera e vasta. Nella guerra dostoevskijana le forze belligeranti possono sembrare a volte le stesse della guerra tolstojana: da una parte la Russia e dall’altra lo straniero, anzi addirittura uno stesso straniero, Napoleone. Non vi è forse l’idea di Napoleone che compare nel mondo immaginario di Raskol’nikov e lo spinge, tra altri impulsi interiori, al delitto sperimentale? E non è forse la Russia, la počva (il suolo) che si contrappone, attraverso la mediazione di Sonja, a tale forza irrompente? Ma l’invasione del Napoleone reale, raccontata e trasfigurata dal Tolstoj, è più facilmente oppugnabile rispetto alla «invasione» del Napoleone ideale, al quale il russo Raskol’nikov non solo non sa opporre sue forze di resistenza, ma anzi conferisce una aggressività nuova, portandone le potenzialità insospettate alle conseguenze più estreme e universali. E poiché la guerra si configura come guerra metafisica ed intellettuale, intellettuali e metafisiche devono divenire la strategia e la tattica di chi vi opera. I romanzi dostoevskijani sono dunque romanzi «dialogici»6 o meglio, sono romanzi polemologici, dove il πóλεμος, prima ancora che tra individui e gruppi, è combattuto nell’anima di ognuno. Anzi, l’anima è protagonista assoluta di questa guerra, nel senso che la coscienza del singolo opera liberamente in un ambiente che non ne determina le direzioni e le opzioni di comportamento. Per ragioni che dovrebbero chiarirsi nel corso di tale ricerca, particolarmente interessanti paiono due letture interpretative di Dostoevskij, che, pur illuminando in parte i suoi romanzi, portano fuori di essi, verso la realtà di cui tali romanzi costituiscono una interpretazione, rendendo in tal modo meno sfuggenti i contorni di quella guerra di cui Dostoevskij è lo storico fantastico. Ci si riferisce a Friedrich Nietzsche ed a György Lukàcs. I rapporti tra Nietzsche e Dostoevskij sono molto complessi e la loro complessità discende anche dal fatto che essi sono paradossalmente reciproci. Difatti, se Nietzsche fu un lettore interessato ed ammirato di Dostoevskij, quest’ultimo, che nulla sapeva del filosofo tedesco, ne anticipò temi e tesi fondamentali, facendoli oggetto della propria ricerca dialogico-romanzesca. Le assonanze tra Dostoevskij e Nietzsche hanno richiamato da tempo l’attenzione critica e il parallelo tra essi è divenuto canonico7. 6 L’espressione è di M. BACHTIN, Problemy poetiki Dostoevskogo, Moskva, Khudozh, 1972, trad. it. Dostoevskij. Poetica e stilistica, Torino, Einaudi, 1994, p. 21. 7 Del resto, è ormai appurato che Dostoevskij e Tolstoj costituirono per Nietzsche la

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Alcune fasi decisive di questo dialogo sono state portate alla superficie ed è possibile porre l’ampio problema dei rapporti Nietzsche-Dostoevskij su una base filologicamente più sicura. Mi riferisco, in particolare, agli appunti di lettura de I demoni di Dostoevskij che Nietzsche conobbe nella traduzione francese uscita a Parigi nel 18868. Nietzsche lettore de I demoni trascura l’attualità politica del romanzo, la quale anzi quasi certamente gli era ignota. L’assenza del momento politico dell’orizzonte di lettura del romanzo non è cosa trascurabile perché per Dostoevskij il caso «Nečaev», trasfigurato ne I demoni, non fu un mero dato di cronaca, bensì la manifestazione essenziale di una crisi di cui egli, a partire almeno dalle Memorie dal sottosuolo, aveva anticipato la presenza e di cui da tempo aveva iniziato l’analisi9. Crisi metafisica, secondo Dostoevskij, che diviene necessariamente crisi politica e che nella rivoluzione trovava la sua naturale sede di sviluppo. Per Dostoevskij, il nichilismo rappresentava un fenomeno metafisicopolitico e non è un caso che questo termine, che in Occidente a partire da Jacobi aveva un significato puramente filosofico, in Russia sia servito a disegnare il movimento rivoluzionario10. Se nella prefazione alla Volontà di potenza Nietzsche poteva scrivere: «Ciò che racconto è la storia dei prossimi due secoli. Descrivo ciò che verrà, ciò che non potrà più venire diversamente: l’avvento del nichilismo»11, lo stesso avrebbe potuto scrivere Dostoevskij a premessa dei suoi romanzi, anche se non solo il suo atteggiamento verso il nichilismo era antitetico a quello di Nietzsche, ma diverso era in parte il contenuto stesso che in lui assumeva questo concetto, contenuto per lui inevitabilmente anche politico. Qui, oltre alle differenze personali, conta, evidentemente anche la differenza tra punti di vista storico-nazionali: era in Russia infatti che le idee nichiliste si erano tradotte in un nuovo tipo di azione rivoluzionaria. Nietzsche è interessato alla figura di Stavrògin, ma i centri maggiori di fonte prima della sua concezione del Dio cristiano e che con questi due scrittori l’autore dell’Anticristo intrattenne un dialogo sotterraneo, intessuto di illuminazioni e di ripulse. 8 Si veda F. NIETZSCHE, Opere, vol. VIII, t. II, Roma, Newton Compton, 1982, pp. 345 e sgg. Si veda al proposito C.A. MILLER, “The Nihilist as Temper-Redecmer: Dostojewsky’s ‘Man God’ in Nietzsche’s Notebooks”, Nietzsche-Studien 4 (1975), pp. 175-226. 9 Per una trattazione particolare di questo tema nell’ambito della discussione ideologica russa ed europea si veda il saggio di V. STRADA, Il problema di «Delitto e castigo», in ID., Tradizione e rivoluzione nella letteratura russa, Torino, Einaudi, 1980. 10 F. VERCELLONE, Introduzione a: il nichilismo, Roma-Bari, Laterza, 1992, p. 35. 11 F. NIETZSCHE, Opere, cit., p. 352.

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attenzione, indicati nei titoli dei gruppi di annotazioni (Psicologia del nichilista, La logica dell’ateismo e Dio come attributo della nazionalità), confluiscono nel suicidio di Kirìllov e nella sua filosofia dell’uomo-dio. Il contesto dell’interesse di Nietzsche per I demoni ed in particolare per Kirillov, è quello della sua riflessione sul nichilismo che, per l’autore della Volontà di potenza, consiste in una svalutazione dei valori tradizionali (morali, metafisici, religiosi) finora ritenuti sommi, ma è una svalutazione che deriva necessariamente dalla natura di quei valori, i quali, nella fase estrema della loro storia, si autosmascherano e si autoannullano, applicando a se stessi quel culto della verità da loro stessi coltivato. Nietzsche dice che «il perfetto nichilismo è la necessaria conseguenza degli ideali finora coltivati», mentre l’epoca in cui viviamo è quella di un «nichilismo incompleto» e di vani «tentativi di sfuggire al nichilismo»12. Nel nichilismo «spontaneo», per così dire, ed «incompleto» della nostra epoca di transizione, Nietzsche si reputa colui che porta la «consapevolezza» del nichilismo, favorendo così lo svolgimento di quest’ultimo alla sua «completezza». Su tale nichilismo perfetto egli opera la «trasvalutazione» di tutti quei valori che erano stati alla base del nichilismo stesso ed in tal modo vuole aprire la via verso l’esodo del nichilismo. Ma mentre il nichilismo era un evento necessario, il suo superamento è un evento possibile, cioè politico, e l’Anticristo Nietzsche è l’autore di un Antivangelo salvifico: «Il mio problema – scrive in un frammento intitolato Superuomo – non è di stabilire cosa possa prendere il posto dell’uomo, bensì quale specie di uomo debba essere scelta, voluta, allevata come specie di valore superiore…»13. Dostoevskij coglie perfettamente nei suoi romanzi la logica del nichilismo che non è semplicemente ateistico, bensì rigorosamente antiteistico, anche se per lui il nichilismo non è la conseguenza immanente dei valori tradizionali cristiani, ma una negazione di essi nata in seno ad una particolare versione storica (cattolica e protestante) di quei valori. Ne I demoni l’antiteismo si dirama in una serie di figure che ne manifestano le potenzialità: dalla noia metafisica di Stavrogin al costruttivismo sociale di Šigalëv. Ma è in Kirillov che la «logica dell’ateismo» si dispiega con una coerenza esemplare. Nel suo incontro con Pëtr Verchovenskij poco prima di mettere in atto il suicidio, Kirillov chiarisce non soltanto la logica antiteistica dell’autodeificazione dell’uomo, ma anche il significato redentivo che egli attribuisce al proprio suicidio: mediante tale gesto, ragiona con folle coerenza, non soltanto si riappropria della libertà trasgredita in Dio, ma, no12 13

F. NIETZSCHE, Opere, cit., p. 125. Ivi, p. 394.

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vello Salvatore, apre all’umanità la via della rivolta metafisica e della libertà totale, restituendo ad essa l’attributo principale della divinità: lo svoevolie, cioè l’arbitrio come libertà illimitata. L’uomo nuovo, superiore che nascerà da questo primo atto consapevole di liberazione e di salvazione, secondo Kirillov, dovrà rigenerarsi anche fisicamente, poiché «nell’aspetto fisico attuale (…) non si può affatto essere uomo senza il vecchio Dio»14. Il suicidio di Kirillov, sebbene serva da copertura per il delitto organizzato da Pëtr Verchovenskij, nondimeno non è circonfuso di luce “nera” e derubricato in una dimensione puramente negativa, in quanto la grandezza di Kirillov non ne è sminuita: è piuttosto una sua geniale comprensione della trama in cui l’antiteismo viene ad essere impigliato. Il suicidio «logico» di Kirillov sembra agli antipodi col vitalismo «dionisiaco» di Nietzsche, se non si pone mente al fatto che si tratta di un gesto sacrificale e simbolico, la cui missione soteriologica è quella di aprire la via ad un «oltreuomo» trasformato anche biologicamente. In questo senso Kirillov è ancora «cristiano». Il punto di divergenza tra Nietzsche e Kirillov risiede probabilmente nell’incanalamento dell’energia vitale liberata dalla negazione di Dio. Tra i frammenti di quello stesso periodo è interessante un altro riferimento a Dostoevskij. All’interno di una nota di riabilitazione delle qualità affermative del delitto, Nietzsche scrive: «Non a torto Dostoevskij ha detto, dei reclusi dei penitenziari siberiani, che essi formano la parte più forte e pregevole del popolo russo»15. Qui, forse, Nietzsche costringe innaturalmente Dostoevskij ad una esaltazione «rinascimentale» del delinquente come personalità energica e forte, come in precedenza egli aveva già fatto con Stendhal. Ma più vicino all’idea che Nietzsche aveva di Dostoevskij è ciò che di lui egli scrive nell’Anticristo, rammaricandosi che «non sia vissuto un Dostoevskij nelle vicinanze di questo interessantissimo dècadent, cioè di Cristo, mescolanza di sublimità, malattia e infantilismo»16. Kirillov, il quale restituisce all’uomo la propria divinità alienata non mediante quell’atto di energica vitalità che può essere il delitto, bensì mediante quella antivitalità per eccellenza che è il suicidio, rappresenta, per Nietzsche, un tipo della décadence, un trasvalutatore di tutti i valori che F.M. DOSTOEVSKIJ, Besy, trad. it. di R. Küfferle, I demoni, Milano, Mondadori, 1987, p. 802. F. NIETZSCHE, Opere, cit., p. 129. 16 F. NIETZSCHE, Opere, vol. IV (1993), p. 204. Si possono utilmente vedere al riguardo le pagine del saggio di V. STRADA, Il «santo idiota» e il «savio peccatore» premesso a F.M. DOSTOEVSKIJ, L’idiota, Torino, Einaudi, 1981. 14 15

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ancora non si è liberato del nichilismo. Al contrario, per Dostoevskij, Kirillov, con la coerenza ferrea del suicidio, non fa che svolgere l’intera dialettica dell’annichilazione dell’uomo. Per Dostoevskij, infatti, il suicidio di Kirillov non è un fatto psicologico, ma un fatto simbolico, al pari di come simbolicamente universali sono le altre manifestazioni della antiteistica deificazione dell’uomo (Stavrogin, Šigalëv). Per Dostoevskij il vero décadent sarebbe stato proprio Nietzsche, nel credere di superare il nichilismo conducendo quest’ultimo alla perfezione in un gioco estetico che sfocia nell’autoannichilazione. Mentre rifletteva sulla «logica» di Kirillov, nella quale era anticipatamente interpretata la figura dello stesso Nietzsche, l’autore della Volontà di potenza non poteva non identificarsi e insieme differenziarsi rispetto ad essa, cioè fare quest’ultima oggetto di una intensa attenzione ed al contempo criticarne quella che, a suo giudizio, costituiva ancora una non superata décadence. La «guerra» raccontata da Dostoevskij passa anche attraverso questa lettura nietzschiana del suo romanzo. Il problema, evidenzia Sergio Givone, è quello di sapere se l’utopismo dionisiaco di Nietzsche sia il superamento del nichilismo decadente o non, al contrario, una sua estrema manifestazione e dunque se a scrivere la «storia dei prossimi due secoli» sia stato Nietzsche o non piuttosto Dostoevskij17. Si potrebbe credere di risolvere il problema del nichilismo uscendo dall’alternativa Dostoevskij-Nietzsche e spostandosi in direzione di una terza posizione, che prende il nome di Karl Marx. Poiché tra quest’ultimo e Dostoevskij non vi sono punti di contatto diretti e dal momento che Marx, come problema storico universale si è posto in tutta la sua portata soltanto a partire dal 1917 con la rivoluzione russa, da illuminante mediazione tra queste due figure può servire György Lukàcs nella fase di transizione del suo pensiero verso il marxismo e verso la rivoluzione. In Lukàcs, difatti, proprio allora Dostoevskij assunse un significato centrale e decisivo, divenendo anzi il tramite di tale transizione. L’ultimo paragrafo della Teoria del romanzo lukàcsiana si presenta come un inno tanto entusiastico quanto sibillino a Dostoevskij, di cui, da una parte, si dice che «non ha scritto romanzi» e, dall’altra, che «appartiene al nuovo mondo» e si domanda se «egli sia già l’Omero e il Dante di questo nuovo mondo, o abbia solo levato i canti che i poeti futuri insieme con altri precursori comporranno in una grande unità»18. S. GIVONE, op. cit., p. 107. G. LUKÀCS, Teoria del romanzo, Milano, SE, 2004, p. 31. L’oscurità di questi accenni finali si è dissipata di recente, quando si è appreso che la Teoria del romanzo doveva essere per Lukàcs semplicemente l’introduzione di un’opera su Dostoevskij, la quale a sua volta 17 18

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Se la conclusione della Teoria del romanzo è una esaltazione esoterica del genio dostoevskijano, l’inizio di questo libro di Lukàcs è una celebrazione della grecità quale forse non si era più avuta dai tempi del Winckelmann. L’antica Grecia vi è ritratta coi toni luminosi e nostalgici di un’«età dell’oro», come il regno dell’assoluta armonia portata a forma ideale. Tradotta nelle immagini dei romanzi dostoevskijani, la Grecia di Lukàcs è il quadro di Claude Lorrain Aci e Galatea che, emblema di un paradiso perduto, ricorre, ad esempio, ne I demoni, ed è insieme il pianeta fantascientifico, popolato da gente incontaminata e felice, dove giunge nel sogno l’«uomo ridicolo» dell’omonimo racconto di Dostoevskij. E, proprio come in questo racconto, anche nella Teoria del romanzo, come forse in tutta la filosofia di Lukàcs, tale bella armonia viene perduta dall’uomo, che è gettato nel regno dell’alienazione, in un «mondo disertato dagli dei»19. Non importa stabilire quali siano i meccanismi che, a giudizio di Lukàcs, hanno condotto al «peccato originale» causa di tale caduta, meccanismi che, del resto, nella Teoria del romanzo egli enuncia in termini metafisici, mentre li analizzerà in termini sociologici nel Dramma moderno. L’importante è invece rammentare che nell’«epoca della compiuta peccaminosità», come egli definisce con parole fichtiane il mondo dell’alienazione successivo alla «cultura chiusa» della grecità, viene a predominare il romanzo, come forma di epopea di un tempo in cui il senso della vita si è fatto problematico e l’individuo, parimenti problematico, nondimeno anela ad una totalità che non gli è più data. Dostoevskij segnerebbe la fine di quest’epoca romanzesca, vale a dire la fine del «mondo disertato dagli dei» e costituirebbe il preannuncio di un’età futura in cui, su una nuova base ed a un nuovo livello, si ricostituisce l’armoniosa unità perduta. La teoria del romanzo si svolge dunque tra due grandi miti: quello tradizionale, soprattutto in Germania, della grecità, e quello nuovo, e diffuso soprattutto nella cultura tedesca della fine dell’Ottocento e del primo Novecento, della Russia, ed in particolare di Dostoevskij. doveva superare i limiti di una ricerca puramente letteraria per affrontare una problematica etico-politica generale. La scoperta del piano di lavoro di quest’opera e l’analisi che di essa è stata fatta da un allievo di Lukàcs, Ferenc Fehér, consentono di rileggere con più aderenza la Teoria del romanzo e, soprattutto, di capire il ruolo essenziale svolto da Dostoevskij in questa fase decisiva del pensiero lukàcsiano alla vigilia dell’adesione alla rivoluzione ed al comunismo. F. FEHÉR, Al bivio dell’anticapitalismo romantico in F. FEHÉR, A. HELLER, G. MÀRCUS, A. RADNÒTI, La scuola di Budapest: sul giovane Lukàcs, Firenze, Sansoni, 1978. 19 G. LUKÀCS, Teoria del romanzo, cit., p. 107. Si veda il saggio di V. STRADA, Utopia e verità: il problema teorico del romanzo nella Russia sovietica premesso a G. LUKÀCS, M. BACHTIN ET ALII, Problemi di teoria del romanzo, Torino, Einaudi, 1976.

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Come si evince, lo schema filosofico lukàcsiano non è estraneo alla problematica dostoevskijana, problematica squisitamente cristiana che Lukàcs aveva ricevuto dalla teologia secolarizzata dell’idealismo tedesco, nonché dal post-idealismo da Feuerbach a Marx. Questo atteggiamento era vicino alla critica che del capitalismo europeo-occidentale aveva fatto Dostoevskij a partire dalle Note invernali su impressioni estive. E, ancora, vicina a Dostoevskij era l’attenzione rivolta da Lukàcs al socialismo, come soluzione, presunta o reale, di tutto un insieme di problemi e, in special modo, dei quesiti di ordine etico che tali problemi ponevano al singolo. Ma qui incomincia anche la divergenza di Lukàcs rispetto a Dostoevskij. Se Nietzsche era stato attratto dalla figura di Kirillov, Lukàcs, come risulta dai suoi appunti di lavoro, è attratto invece dai Karamazov, da Ivan, ma soprattutto da Alëša. Parimenti, per Lukàcs si pone il problema dell’ateismo, ma la soluzione va in una direzione alquanto diversa da quella del Superuomo. Ciò che tormenta Lukàcs, in questo periodo di ricerca che lo rende davvero simile ad un eroe dostoevskijano, è, in sostanza, il problema della conquista di una nuova comunità di anime e dunque di un superamento del «mondo disertato dagli dei». Ma tale aspirazione etica deve scontrarsi con gli istituti della società in atto e trasformarsi in azione politica. Si origina il problema della violenza e del terrorismo e della giustificazione di essi dal punto di vista dei valori cristiani, pervertiti a strumento di potere nel mondo della «compiuta peccaminosità». Si ripresenta, immancabilmente, la dialettica della Leggenda del Grande Inquisitore e di fronte a Lukàcs sorge, come modello di riflessione, la figura di Alëša Karamazov, puro spirito cristiano il quale, nella seconda parte del romanzo, sarebbe dovuto diventare rivoluzionario e cadere nella colpa della violenza. È noto che proprio in questi anni Lukàcs è come “ipnotizzato” dal terrorismo rivoluzionario russo e dall’ateismo religioso russo che egli contrappone all’ateismo «pervertito», cioè egoista e meccanico del mondo borghese occidentale. La questione dostoevkijana del «tutto è permesso» si pone proprio all’interno dell’ateismo religioso e comunitario, e del resto nello stesso Raskol’nikov essa oscillava tra un impulso superomistico ed un ideale altruistico. Ma proprio nel punto in cui Lukàcs cita la formula di Raskol’nikov in connessione col problema del terrorismo, compare un fulmineo, ma pregnante riferimento: «Giuditta: la trasgressione». Il riferimento è a Christian F. Hebbel ed al suo dramma Giuditta, dove il delitto (l’uccisione di Oloferne) trova una complessa giustificazione etico-religiosa. Il Lukàcs che medita su Dostoevskij e sul suo Grande Inquisitore è turbato dal rapporto tra il cristianesimo e quello che egli chiama «geovismo», vale a dire tra l’impulso di Cristo e l’isti-

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tuzionalizzazione giuridica, statale, ecclesiastica di tale impulso. La sua utopia di una nuova comunità delle anime modellata sul cristianesimo di Dostoevskij è priva di strutture istituzionali e vale come un impulso etico che scaturisce da una pura fonte religiosa. Ma è già ravvisabile nel Lukàcs di questo periodo pre-marxista una tendenza che lo conduce in direzione opposta al cristianesimo etico dostoevskijano, verso quel cattolicesimo che Dostoevskij considerava non soltanto perverso, ma altresì affine al socialismo ateo e autoritario. Quando Lukàcs sceglierà quella nuova Grecia cattolica che, a suo giudizio, rappresentava la Russia marxista egli, di fatto, nei termini di Dostoevskij, sceglierà il Grande Inquisitore o, nei termini dello stesso Lukàcs lettore di Dostoevskij, sarà costretto a scegliere il «geovismo» contro l’enigmatica figura del Cristo della Leggenda. Nell’articolo Tattica e etica, che sancisce la svolta antidostoevskijana, scriverà sul terrorismo con parole degne di un eroe di Dostoevskij: «…Solo l’azione omicida dell’uomo, il quale sa con assoluta certezza e senza dubbio alcuno che in nessuna circostanza l’omicidio deve essere approvato, può avere, tragicamente, una natura morale. Per esprimere questo pensiero sulla più grande delle tragedie umane con le incomparabilmente belle parole della Giuditta di Hebbel: “E se Dio avesse posto il peccato tra me e l’azione che mi è stata imposta, chi sono io perché possa sottrarmi ad esso?”»20. Come nel caso di Nietzsche, anche la storia di Lukàcs era stata già raccontata da Dostoevskij e sarà raccontata nuovamente in quella figura dostoevskijana che è il gesuita Naphta della Montagna incantata di Thomas Mann. Anche quella di Lukàcs è la storia di un «grande peccatore» che per restare fedele al proprio impulso cristiano credette di dover sacrificare la propria anima al Grande Inquisitore e finanche a Šigalëv, l’abietto utopista dei Demoni. Dostoevskij, si considerava all’inizio, non ha descritto la morte dei singoli, ma ha analizzato la morte degli universali: la morte violenta degli dei dell’uomo occidentale e l’autodistruzione dell’uomo stesso. Ma il Dio in cui Dostoevskij voleva credere era un Dio che perisce e risorge e nella resurrezione vive anche in coloro che lo negano e di nuovo lo uccidono. Era questa la fede di Dostoevskij, nutrita proprio verso l’uomo come persona. E, forse, nel suo personalismo cristiano sta la radice di quel polifonismo21 che un altro lettore di Dostoevskij, Michajl Bachtin, ha teorizzato in un celebre saggio, facendone in seguito il principio di una propria filosofia del dialogo. Munito di un tale polifonismo, Dostoevskij ha scritto «la storia dei prossimi due secoli», una storia alla quale egli non avrebbe potuto porre la parola «fine». 20 21

G. LUKÀCS, Scritti politici giovanili, Bari, Laterza, 1972, p. 70. M. BACHTIN, Dostoevskij. Poetica e stilistica, cit., p. 15.

GIUSY GALLO Rileggendo il rapporto tra percezione e linguaggio: artefatti e istituzioni sociali1 La mente umana possiede un misterioso dispositivo, capace di convincerci che quella pietra è sempre la stessa pietra, sebbene la sua immagine – per poco che spostiamo il nostro sguardo, cambi di forma, di dimensione, di colore, di contorni. ITALO CALVINO, Collezione di sabbia

0. Introduzione Negli ultimi anni numerosi studi hanno ruotato attorno al tema della percezione, il quale si è prepotentemente imposto all’attenzione degli studiosi delle Scienze Cognitive e dei filosofi, come mostra la storiografia di riferimento degli ultimi decenni. All’interno del dibattito che è nato su questo tema emerge il rapporto tra percezione e linguaggio, anche per la centralità che il linguaggio ha avuto negli anni del linguistic turn. Da parte mia, mi propongo di rileggere il rapporto tra percezione e linguaggio attraverso il caso esemplare degli artefatti poiché, analizzando questo caso specifico, si può osservare che il riconoscimento percettivo è correlato alla categoria dell’intersoggettività e a quella della progettualità ed è circoscritto in una dimensione prelinguistica. Il percorso di rilettura inizia con una prima definizione dei termini usati e del contesto teorico in cui ci si pone (§ 1.0). In seguito, si comparano due approcci psicologici della percezione visiva (§ 2.1, § 2.2), per mettere in luce gli elementi che suggeriscono una loro comune matrice filosofica che è la fenomenologia husserliana (§ 2.3). A partire dal carattere intersoggettivo e progettuale (§ 3) degli artefatti, che emerge in questa comparazione, ha avvio una serie di riflessioni in merito all’ontologia dell’artefatto stesso (§ 4). In questo quadro è centrale il ruolo del soggetto e della corporeità in un 1 Questo articolo è un estratto della mia tesi di Laurea Specialistica “Queste sono forbici”. Vedere i propri strumenti (discussa nell’anno accademico 2006/2007 presso l’Università della Calabria, relatore prof. Daniele Gambarara, correlatori prof.ssa Claudia Stancati e dott. Tommaso Russo Cardona).

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sistema che richiama diverse pratiche umane, e per questa ragione sostengo la visione dell’homo faber, per come già Bergson (1907) l’aveva declinata. Dalla comparazione tra homo faber e homo loquens, può sorgere il dubbio che esista un altro tipo di artefatto, quello linguistico, contraltare dell’artefatto materiale di cui sembra presentare le stesse caratteristiche. Ma una corretta definizione dell’ontologia della lingua mostra come il suo essere sia molto diverso da quello di un oggetto materiale: differenti, infatti, sono le pratiche che li marcano e differente è il rapporto che i soggetti intrattengono con essi. 1. Realtà e tipi di cose La realtà che ci circonda è costituita da innumerevoli tipi di res: fatti, eventi, oggetti materiali, azioni e istituzioni2. Monografie assai recenti (RIGOTTI, 2007; FERRET, 2007; BOTTANI-DAVIES, 2007) sono state dedicate al tema delle cose e delle loro ontologie, con l’intento di fotografare diversi modi d’essere a partire da proprietà e usi. È difficile dare una univoca, se possibile, definizione di cosa e dei potenziali modi del suo essere. Nell’uso comune tendiamo ad unificare le nozioni di oggetto e di cosa, riferendoci agli enti materiali. Le accezioni filosofiche secondo cui è possibile considerare la nozione di oggetto sono le seguenti: 1. ciò che è oggetto di un atto, ad esempio ciò che è pensato nell’atto del pensare (ABBAGNANO, 1971; LALANDE, 1926); 2. ciò che è provvisto di validità ed è quindi “reale”, “esterno”, “indipendente” (ABBAGNANO, 1971, AUROUX, 1998; LALANDE, 1926); 3. ciò che si presenta alla nostra percezione esterna (ABBAGNANO, 1971, AUROUX, 1998; LALANDE, 1926). Qui diciamo che accettiamo l’unificazione tra ‘oggetto’ e ‘cosa’, quando quest’ultima è intesa come una entità materiale del mondo. Tuttavia, è necessario tenere presente che alcune correnti della filosofia italiana contemporanea considerano “cosa” e “oggetto” come enti con due statuti ontologici differenti, ognuno determinato dalla presenza o meno di una relazione dell’ente con l’uomo. Un ente è una cosa se non vi è alcuna relazione con esseri umani. Secondo alcuni studiosi (VYGOTSKIJ, 1934; LURIJA, 1961, CIMATTI 2001; 2004), un ente è un oggetto a partire dal momento in cui si pone attenzione ad esso attraverso l’attività linguistica. Un oggetto, quindi, è tale solo grazie alla relazione linguistica che l’uomo intrattiene con esso. 2

Per la nozione di res, cf. LALANDE, 1926; AUROUX, 1998.

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La relazione col soggetto che rende la res oggetto è determinata dalla posizione in cui si trova rispetto a un soggetto che gli sta di fronte. Tuttavia, seguendo la nostra prospettiva, un ente è comunque un oggetto e lo si riconosce già in una dimensione prelinguistica. La nominazione è un passo successivo e non determinante nel riconoscimento di un oggetto. Già durante la fase del riconoscimento percettivo emerge una distinzione elementare tra oggetti; esistono, infatti, oggetti naturali e oggetti artificiali. I primi sono quelli che una certa tradizione filosofica a partire da Putnam (1975) denomina natural kinds, ossia tipi naturali, il cui riferimento non è determinato dalle descrizioni dei parlanti ma dalla stessa sostanza di cui sono composti. In seguito Barton e Komatsu (1989), dopo l’analisi di dati empirici, hanno sostenuto che un natural kind è riconosciuto per mezzo delle sue proprietà molecolari, in contrapposizione ad un artefatto, riconosciuto per mezzo delle loro proprietà funzionali. Il dibattito sulla distinzione tra oggetti naturali e oggetti artificiali ha inizio negli anni Sessanta e ha alimentato ambienti culturali molto differenti tra loro. All’interno del paradigma delle Scienze Cognitive, in una prospettiva non materialista3, Herbert Simon pone attenzione al carattere necessario delle cose naturali e a quello contingente degli artefatti. Malgrado quella che ai nostri occhi può essere considerata un’epoca di “arretratezza” tecnologica, già allora Simon affermava che l’uomo vive in un mondo artificiale, ossia determinato per lo più dal suo intervento. Un artefatto non è mai totalmente staccato da ciò che si presenta in natura, per cui «una foresta può essere un fenomeno naturale; una fattoria certamente non lo è» (SIMON, 1969, trad. it, 1988, p. 23). È in questo quadro teorico interno alle Scienze Cognitive classiche4 che definiamo un oggetto artificiale come sintetizzato dall’uomo e 3 Sul rapporto tra materialismo e Scienze Cognitive classiche e post-classiche, PARISI (2005, pp. 150-155) afferma che «In tutta la metà del ’900 le due idee del materialismo e dell’operazionismo non sono state molto popolari nello studio della mente, e la scienza cognitiva si è mossa in direzioni sostanzialmente diverse da quelle indicate da Somenzi. I modelli teorici della scienza cognitiva e dell’intelligenza artificiale sono stati per molto tempo modelli non materialistici bensì modelli ispirati all’idea che la mente, come un computer, sia un “lavorare su simboli” (symbol processing) [...] Un modello materialista della mente, cioè un modello che ritiene che il comportamento e la mente vadano studiati usando soltanto concetti che fanno riferimento a entità fisiche e a processi fisici, e non a simboli e al lavorare su simboli, può benissimo essere un modello simulato in un computer». 4 Alla fine degli anni Novanta è stata pubblicata la MITECS – MIT Enciclopedia of Cognitive Sciences. Non vi abbiamo trovato né la nozione di artefatto né di cosa né di oggetto ma solo quella di object recognition.

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sviluppato secondo un progetto aderente a scopi e funzioni (SIMON, 1969). Nello stesso periodo, tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta, all’interno del paradigma materialista, Ferruccio Rossi-Landi, definisce un oggetto costruito dall’uomo come arte factum, ossia un «qualsiasi prodotto di lavoro umano, cioè qualcosa che non esiste “in natura” e che per esistere richiede (ha richiesto) l’intervento dell’uomo» (ROSSI-LANDI, 1968, p. 181). Recentemente, studiosi di diverse discipline, tra cui filosofia e design, che si sono raccolti attorno alla rivista Artifacts5, hanno definito un altro elemento proprio dell’ontologia dell’artefatto. Nel circoscrivere le proprietà tipiche di un artefatto, un altro carattere fondamentale è la dimensione storico-sociale in cui è stato prodotto: «The definition of the word “artifact”, and only that, leaves us to conclude that artifacts cannot exist outside a story of their making, however simple this story may be» (KRIPPENDORFF, 2006, p. 9). Che il tema della natura degli oggetti, e degli artefatti in particolare, sia presente in ambienti e tradizioni culturali differenti mostra che la distinzione tra oggetto naturale e artefatto non è un artificioso espediente attraverso cui parlare del mondo circostante, ma fonda la possibilità di delineare il tipo di rapporto che il soggetto intrattiene con esso. La questione ontologica circa gli oggetti, quindi, è la pietra angolare su cui poggia il rapporto tra il soggetti e il mondo esterno, a partire dal problema del riconoscimento percettivo. Come afferma Robert Nozick: un programma per l’ontologia è quello di delineare i tipi di cose che esistono, i differenti statuti ontologici che le cose possiedono, tramite l’insieme di trasformazioni rispetto a cui tali cose risultano invarianti. [...] Queste trasformazioni possono essere usate per definire o identificare il “modo d’essere” di una cosa (NOZICK, 2001, trad. it. 2003, p. 77).

In questa prospettiva teorica, l’invarianza è l’elemento che tiene assieme e guida altre tre proprietà della nozione di oggettività. Secondo Nozick, un fatto è oggettivo: 1) se è accessibile da differenti punti di vista, 2) se su di esso vi è accordo intersoggettivo e 3) se è indipendente dal soggetto. Nozick desume la nozione di invarianza dai lavori dello psicologo James Gibson. Quest’ultimo usa il termine ‘invariante’ a proposito della struttura 5 Artifacts è una rivista edita da Routledge. Al progetto editoriale partecipano filosofi, ingegneri, psicologi e linguisti, che si interrogano sul ruolo della tecnologia e il rapporto tra lo sviluppo e gli artefatti.

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della luce ambiente. La luce ambiente è strutturata da un ambiente di superfici che emettono e riflettono la luce, così da fornire informazioni sull’ambiente stesso. Per spiegare la nozione di struttura invariante, Gibson considera l’assetto ottico di un punto di osservazione in movimento. Sebbene si sia portati a pensare che l’assetto muti al pari del movimento del punto di osservazione, esso ha una struttura persistente, almeno in alcuni suoi tratti. Il movimento, infatti, non genera cambiamenti di struttura della luce ambiente, ma variazioni che si riferiscono al singolo istante del movimento. Queste variazioni sono tipiche di una struttura prospettica. Muovendoci, infatti, in ogni istante avremo una rappresentazione diversa della scena percettiva, ma la sua struttura è invariante secondo alcuni tratti. La dicotomia varianza/invarianza può essere mostrata attraverso l’esempio seguente: Consideriamo, per esempio, il vecchio problema del modo in cui una superficie rettangolare come il piano di un tavolo si viene a presentare alla vista, quando invece è da presumere che tutto quello che un occhio può vedere è un gran numero di forme trapezoidali, mentre è solo una forma di tipo rettangolare che si viene a dare, e che è quella che viene vista quando l’occhio è posizionato su una linea perpendicolare al centro della superficie (GIBSON, 1986, trad. it. 1999, pp. 133-134)6.

Gibson sostiene che, durante il movimento, l’osservatore vede delle figure, ma non tutto ciò che “si viene a dare” è reale. Sebbene l’impostazione del problema faccia pensare ad un nozione di decorso, in cui sono il tempo e lo spazio i riferimenti per la descrizione dell’esperienza, Gibson afferma che nell’ambiente ecologico il riferimento al mondo è determinato dalla dicotomia varianza/invarianza: «Anche se il mutare degli angoli e delle proporzioni dell’insieme è un fatto, è anche un altro fatto che non cambiano le relazioni tra i quattro angoli e le proporzioni invarianti in tutto l’insieme» (ibid.). In questo sistema si coglie, allora, il significato della teoria di Nozick per cui «Gli oggetti fisici o le relazioni di ordine superiore che li concernoGibson, allievo di Langfeld, prende a prestito dalla filosofia un esempio analogo già utilizzato da Franz Brentano (1874). In un recente volume, COSTA (2007) pone una questione analoga. Se su un tavolo c’è un disco rosso, guardandolo da lontano, in una certa prospettiva, «il cerchio sul tavolo sembra ellittico visto di scorcio. E sin quando dico di avere sensazioni ellittiche resto certamente all’interno della sfera dell’evidenza» (p. 51). Ma, sostiene il filosofo, le sensazioni ingannano, non è con l’esperienza sensibile che arriviamo al centro delle cose reali ma con il giudizio. Vediamo un cerchio ellittico perché risponde a regole di geometria prospettica, ossia è un fenomeno fisico e la sensazione quindi è un fenomeno fisico. 6

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no sono invarianti rispetto a una vasta gamma di trasformazioni. Un dolore, un miraggio, un tavolo, una particella elementare sono invarianti rispetto a differenti insiemi di trasformazioni. Le trasformazioni definiscono, e delimitano, la categoria ontologica di qualcosa» (NOZICK, 2001, p. 78). Le invarianze sono colte dal nostro sistema di sensi. È dunque nel livello della percezione e non della nominazione che, a nostro avviso, dobbiamo cogliere le distinzioni che ci interessano. 2. Il soggetto e i suoi oggetti 2.1. Un dispositivo input/output. Ogni essere umano è in relazione con il mondo attraverso il linguaggio e la percezione. Quest’ultima contrae un impegno ontologico con le cose del mondo e per mezzo di essa emerge il loro modo di essere. Uno dei quesiti che da tempo si pone chi si occupa di percezione è quello del riconoscimento degli oggetti. Qui si propone un’analisi del problema a doppio livello, utilizzando la prospettiva proposta dalle ricerche della psicologia e la prospettiva filosofica. L’interazione di teorie psicologiche antitetiche genererà un approccio più efficace (NEISSER, 1976; PATERNOSTER, 2007), il cui denominatore comune trova radici profonde nella fenomenologia husserliana. A partire dagli assunti della Scienza Cognitiva classica, in un paradigma inteso come indiretto e ricostruttivo, Marr (1982) presenta una teoria della visione il cui scopo è il riconoscimento della forma di un oggetto. Secondo questo paradigma, la percezione visiva è determinata in un processo di elaborazione di un input, ossia un’immagine retinica, in un output, ossia una rappresentazione tridimensionale di un oggetto, per mezzo di tre stadi di elaborazione. La prima fase della visione, prende avvio dall’interazione tra la luce focalizzata sulla retina e il pigmento visivo delle cellule della retina, con la formazione di una matrice di valori di luminosità che costituiscono un’immagine a livelli di grigio. Vengono individuati spigoli, vertici, forma di un oggetto. Questa elaborazione produce uno schizzo primario grezzo bidimensionale che viene ulteriormente processato per ottenere uno schizzo 2½ D, ossia un’immagine che fornisce informazioni sulla profondità dell’oggetto e sull’orientamento delle superfici, sul suo posizionamento dello spazio a partire dal punto di vista dell’osservatore. Non trova risposta la domanda sull’ontologia delle cose del mondo poiché la loro rappresentazione varia a seconda dell’osservatore. Invece, il terzo livello del-

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l’elaborazione, quello che costituisce la visione secondaria, restituisce al soggetto una rappresentazione di un oggetto invariante rispetto ad un punto di vista. A partire da questo tipo di rappresentazione, l’oggetto è riconosciuto in seguito al confronto della sua rappresentazione con quella di un catalogo mentale. Ogni rappresentazione di un oggetto, secondo Marr consta di una organizzazione modulare della forma. «Recognition involves two things: a collection of stored 3-D model descriptions, and various indexes into collection that allow a newly derived description to be associated with a description in the collection» (MARR, 1982, p. 318). Dopo Marr (1982) e Marr e Nishihara (1987), Biederman (1987) sviluppa ulteriormente il tema del riconoscimento degli oggetti con la Recognition-by-Components (RCB): «In object perception, the primitive components may have their origins in the fundamental principles by which inferences about a three dimensional world can be made from the edges in a two-dimensional image. [...] RCB thus provides, for the first time, an account of the heretofore undecided relation between these principles of perceptual organization and human pattern recognition» (BIEDERMAN, 1987, p. 145)7. Si nota che la percezione di un oggetto di qualsiasi natura avviene sempre allo stesso modo: si passa da una rappresentazione centrata su un osservatore ad una rappresentazione che tiene conto di elementi invarianti necessari per il confronto con un catalogo mentale. Non è chiaro, tuttavia, secondo quali modalità si formi il catalogo. Inoltre, Biederman non spiega come mai il riconoscimento non preveda la costruzione di una rappresentazione centrata sull’oggetto ma si fermi ad un livello di elaborazione di immagine bidimensionale, quindi basata sul punto di vista. Non solo per Marr e Nishihara, ma anche per Biederman l’immagine di un oggetto può essere scomposta in sottoelementi, ossia in geoni (geometrical ions), primitivi volumetrici come cilindri, sfere, cubi. L’insieme dei geoni che servono per scomporre un oggetto viene individuato a partire dall’immagine bidimensionale dell’oggetto stesso e come sostiene Biederman: «recognition need not follow the construction of an object centered (MARR, 1982) three-dimensional interpretation of each volume» (ivi, p. 122), alludendo alla possibilità di una forma di riconoscimento che si riferisce alla varianza determinata dal punto di vista. All’interno di questo paradigma costruttivista, Biederman ipotizza il riconoscimento di un oggetto come un processo graduale composto da più fasi; durante la prima fase vengono estratte dall’oggetto che si percepisce informazioni circa il colore, la superficie, la luminosità; la seconda fase vede l’attivazione di due processi contemporanei: la rilevazione delle proprietà non-accidentali di un oggetto (ad esempio, gli spigoli) e l’azione di parsing delle parti concave dell'oggetto; la terza fase è quella che riguarda l’identificazione dei geoni; la quarta fase riguarda la corrispondenza tra i geoni e la rappresentazione dell’oggetto; l’ultima fase è quella della identificazione dell'oggetto. 7

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2.2. Le “disposizioni a” degli artefatti Secondo l’approccio ecologico, teorizzato da James Jerome Gibson, la percezione è «un atto psicosomatico, non della mente, né del corpo, ma di un osservatore vivente» (GIBSON, 1986, trad. it 1999, p. 364). La percezione è un potenziale guardare il mondo ecologico; essa non è finalizzata al riconoscimento di un oggetto dell’ambiente. La condizione di possibilità del nostro guardare e della maggior parte delle nostre azioni dipende da due fattori: il nostro corpo e la struttura del mondo in superfici. Per ciò che riguarda il rapporto tra corpo e percezione, Gibson afferma che «la visione naturale dipende da occhi posti in una testa che sta su un corpo che poggia sul suolo, e che il cervello è solo l'organo centrale di un sistema visivo integrato [complete]» (ivi, p. 33). L’ambiente ecologico8 non è saturo di oggetti ma strutturato in superfici che si compongono formando dei layout, ossia degli oggetti che non sono altro che layout di superfici. L’uomo non solo percepisce le superfici ma manipolandole, le modifica, cambiando l’aspetto del mondo. Le variazioni apportate alle superfici modificano le affordances9 degli oggetti così da rendere l’ambiente più adatto agli scopi e aderente alle azioni dell’uomo. La chiave di volta attorno a cui ruota l’approccio ecologico della percezione visiva è la nozione di affordance, che consiste nel carattere di “disposizione a” proprio di ogni oggetto. Un fatto importante che riguarda le affordances che l’ambiente offre, è che esse sono in un certo senso oggettive, reali e fisiche, a differenza di valori e significati, che si ritiene di solito che siano soggettivi, fenomenici e mentali. Ma, di fatto, un’affordance non è una proprietà oggettiva né soggettiva; o, se si vuole, è entrambe le cose. Un’affordance taglia trasversalmente la dicotomia tra oggettivo e soggettivo, e ci aiuta a comprenderne l’inadeguatezza. È allo stesso tempo un fatto ambientale e un fatto comportamentale. È sia fisica che psichica, eppure non è né l’una né l’altra. Un’affordance si indirizza in entrambe le direzioni, in quella dell’ambiente e in quella dell’osservatore (ivi, p. 208).

È chiara, quindi, la relazione tra affordance e azione, ma questa rimanda 8 L’ambiente ecologico, diverso dal mondo fisico, è un’area costituita da un mezzo, l’atmosfera gassosa da varie sostanze più o meno solide, e da superfici che separano il mezzo dalle sostanze. 9 Il termine affordance è stato coniato, per sua stessa ammissione, da J. Gibson e deriva dal verbo to afford. Cf. GIBSON (1986, trad. it. 1999, p. 205). L’uso di questo termine che indica il carattere di “disposizione a” di un oggetto nasce per filiazione dalla Gestaltpsycologie e si accosta al “carattere di richiesta” degli oggetti.

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alla percezione. «L’atto del lanciare è il complemento della percezione di un oggetto lanciabile» (ivi, p. 358). Pur non fornendo sufficienti dati empirici, Gibson sostiene che già i bambini percepiscono le affordance di un oggetto, ancora prima di qualità come la sostanza, la superficie, la forma e il colore. Come una persona adulta, il bambino esperisce gli oggetti del mondo e coglie le sue affordance per mezzo dell’azione, tanto che riconosce sia le affordance che si danno a lui che quelle che si danno agli altri osservatori. Il riconoscimento dell’oggetto è un processo che coinvolge il darsi dell’affordance e l’uso dell’oggetto, per cui l’eventuale appartenenza di un oggetto ad una categoria può essere pensata come possibile in un quadro wittgensteiniano delle family resemblances10. A completare la dicotomia tra queste due teorie paradigmatiche della visione, vi è la teoria della percezione di Ulrich Neisser che propone una sintesi dei due paradigmi per mezzo della nozione di schema. La visione, un processo diretto, è possibile perché l’uomo è dotato di uno schema, ossia una struttura cognitiva biologicamente determinata e innata, possibile di cambiamenti, che raccoglie e immagazzina le informazioni. L’approccio ecologico è stato ulteriormente rivalutato attraverso un saggio di Tomasello (1999), in cui corroborando le tesi di Neisser con i risultati di alcuni esperimenti, si mostrava l’evidenza che i bambini, durante la fase dell’esplorazione oculo-manipolativa di artefatti, tendono a coglierne in prima istanza le affordances. Risulta rilevante la precisazione che gli artefatti non sono solo oggetti materiali ma anche simboli. 2.3. La dimensione intersoggettiva del riconoscimento Se in psicologia cognitiva gli approcci sono stati diversi, dal punto di vista filosofico, numerose sono state le teorie della percezione. Sia la teoria computazionale che la teoria ecologica mostrano tratti di forte analogia con una delle riflessioni filosofiche sulla percezione di maggior peso del ‘900, quella di Edmund Husserl. Si possono rileggere gli scritti dell’ultimo Husserl, quello delle Lezioni sulla Sintesi Passiva (1966), delle Meditazioni Cartesiane (1931) e di Esperienza e Giudizio (1948), tenendo sullo sfondo la dicotomia tra variante e invariante, rendendo possibile l’emergenza del radicamento filosofico delle due teorie psicologiche della visione prima considerate. Il tema del riconoscimento può essere considerato come la cerniera che 10

Cf. WITTGENSTEIN (1953) e ROSCH – MERVIS (1975).

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unisce la percezione esterna e il rapporto del soggetto con una comunità. Questo tema è il filo rosso dell’intero scritto husserliano come è testimoniato dal passo celebre che citiamo: Questo mondo circostante non contiene mere cose, bensì anche oggetti d’uso (abiti, utensili domestici, armi, strumenti), opere d’arte, prodotti letterari, mezzi di azione religiosa, legale (sigilli, distintivi ufficiali, insegne regali, simboli ecclesiastici, ecc.) e non contiene soltanto persone singole: le persone sono, piuttosto, membri di comunità, di unità personali di ordine superiore, che vivono in quanto totalità, che si mantengono e continuano nel tempo indipendentemente dalla comparsa e dalla scomparsa dei singoli, che hanno una loro conformazione di comunità, i loro ordinamenti etici e giuridici, i loro modi di funzionare agendo insieme con altre comunità e con singole persone, le loro dipendenze da circostanze, la loro regolata mutevolezza, un loro modo di svilupparsi o di mantenersi temporaneamente costanti, a seconda delle particolari circostanze. I membri della comunità, del matrimonio e della famiglia, del ceto, dell’associazione, del comune, dello stato, della chiesa, ecc. si ‘sanno’ loro membri, si trovano coscienzialmente dipendenti da essi e sanno, eventualmente, di agire coscienzialmente su di essi (HUSSERL, 1952, Idee, II, p. 578).

Il mondo che ci circonda contiene oggetti noti per la loro funzione e soggetti organizzati in comunità regolate da istituzioni11. Tutti gli oggetti hanno natura funzionale che emerge per mezzo di una negoziazione generata tra i membri di una comunità. Queste osservazioni sembrano stridere con la considerazione della percezione come vissuto intenzionale, laddove quest’ultimo è inteso come una relazione bipolare di un soggetto che tende verso un oggetto. È la stessa percezione esterna per mezzo di momenti associativi che rende possibile il riconoscimento di un oggetto. La percezione consiste in una serie di decorsi che non svelano mai al soggetto l’intero oggetto percepito. Un oggetto, ad esempio un tavolo, viene colto da un certo punto di vista. Se giriamo attorno al tavolo ne cogliamo i differenti lati, secondo diverse prospettive, che contribuiscono a fornire al soggetto ulteriori informazioni. Le manifestazioni percettive dello stesso oggetto sono fenomenicamente differenti e varianti, ma in esse, come elemento invariante, si manifesta sempre lo stesso oggetto. I decorsi che costituiscono l’atto percettivo rimandano ad una sua natura processuale, la cui unità è determinata da una successione che ne garantisce, da un lato, la continuità e, dall’altro, rilancia informazioni che vengono svelate da decorsi percettivi successivi. 11 Cf.

PIANA (1966) http://www.filosofia.unimi.it/~piana/problemi/p-idx-00.htm.

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Se vediamo il tavolo, lo vediamo da un lato qualunque, e questo è ciò che è visto propriamente: il tavolo tuttavia ha ancora altri lati. Ha un lato posteriore e un suo interno che non sono visibili, ma che sono titoli che stanno per vari lati, per vari complessi che possono diventare visibili (HUSSERL, 1966, trad. it. 1993, p. 34).

Al variare delle manifestazioni percettive, ad essere invariante è l’oggetto percepito. E qui si trova una profonda analogia con l’approccio ecologico alla percezione visiva, sostenuta dal fatto che Gibson era stato allievo di Langfeld, quindi esposto ad influenze fenomenologiche. Dopo la descrizione dell’atto percettivo, rimane aperto il problema del riconoscimento degli oggetti. Quest’ultimo, a differenza della soggettività che permea l’atto intenzionale, si radica nell’intersoggettività. L’epoché, che segna il passaggio alla dimensione intersoggettiva, rende possibile ritrovare tutto ciò da cui si era preso le distanze, ossia tutti gli oggetti e le istituzioni di una civiltà di monadi. È dopo questo passaggio che ci si può spiegare come gli oggetti vengano conosciuti secondo il loro senso strumentale: Il fanciullo, per esempio, che già vede oggetti come cose, intende quasi per la prima volta il senso strumentale delle forbici, sicché da ora in poi egli vedrà senz'altro le forbici al primo sguardo; non però naturalmente, per una riproduzione esplicita o in una comparazione o in un ragionamento (HUSSERL, 1931, trad. it. 1960, p. 131).

Il senso oggettuale non è fissato da una singola monade, ma si ritrova in almeno una coppia di esse, una Paarung di ego e alter ego, che trova la sua radice nell’intenzionalità. Infatti, secondo Husserl: Nella intenzionalità così delineata si costituisce il nuovo senso d’essere che oltrepassa il mio ego monadico nella identità che gli è propria e si costituisce un ego non come io stesso, che però si rispecchia nel mio io proprio, nella mia monade. Il secondo ego non è semplicemente presente, datoci autenticamente, ma è costituito come “alter ego”, ove quest’ego incluso nella espressione alter ego sono proprio io nel mio proprio essere (ivi, p. 117).

A partire dalla possibilità di passare da un ego ad un alter ego e viceversa, si coglie l’intersoggettività come genesi e momento teoretico. Si trova qui un doppio carattere del riconoscimento: prima del senso di un oggetto e della sua funzione dobbiamo riconoscere il nostro alter ego come tale, quindi, come unità psicofisica analoga a noi, dotata anch’essa di un corpo proprio [Lieb], mezzo di tutte le percezioni.

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Il riconoscimento degli altri e degli oggetti del mondo passa dalla percezione e in questa prospettiva non troviamo alcun cenno riguardante il linguaggio. In Husserl, è presente il riferimento all’esperienza predicativa, radicata in quella ante-predicativa, come è ampiamente dimostrato in Esperienza e Giudizio (1948). L’esperienza ante-predicativa in cui avviene il riconoscimento può e deve comunque essere considerata nella sua dimensione simbolica, sebbene non linguistica. Nello spazio intersoggettivo del riconoscimento, l’uomo costruisce i suoi oggetti, affina le sue relazioni e getta le basi per la costituzione delle istituzioni: «quando ci imbattiamo in animali, uomini o prodotti della civiltà (oggetti d’uso, opere d’arte e così via) noi non abbiamo di fronte la mera natura, ma certe espressioni di un senso d’essere spirituale; qui noi siamo portati oltre ad dominio di ciò che è schiettamente e sensibilmente esperibile» (HUSSERL, 1948, trad. it. 1995, p. 49). Quando il giudizio predicativo emerge da un sostrato ante-predicativo, la sua funzione è pienamente teoretica e consiste nel fissare e rendere disponibile alle generazioni future il riconoscimento, che si sostanzia in giudizi del tipo S è p. 3. Il riconoscimento di una dimensione progettuale Si è inizialmente affermato che la caratteristica principale dell’artefatto consiste nel suo essere un oggetto costruito dall’uomo. La costruzione di oggetti è una prassi in continua evoluzione che ha preso avvio milioni di anni fa, come mostrano i risultati di diverse ricerche in campo di paleoantropologia (LEROI-GOURHAN, 1964; TOBIAS, 1982). La condizione di possibilità dell’attuale progresso tecnologico dell’Homo sapiens sapiens risiede nella stazione eretta e nella progressiva liberazione della mano dalla locomozione. Questi due fattori biologici, che permettono le pratiche strumentali, rendono possibili ulteriori condizioni necessarie per la liberazione degli organi facciali così da essere impiegati nella pratica comunicativa. In questo senso, quindi, non solo la produzione di oggetti ma anche di segnali (anche se quelli degli Arcantropi, non ancora dotati del tratto vocale sopralaringeo, sono solo dei rozzi richiami) è tipica già dei primi esemplari di Australopiteci. Secondo Leroi-Gourhan (1982) già i Pitecantropi costruivano oggetti per soddisfare i propri bisogni e desideri. Homo Habilis mostrava una certa inclinazione anche per gli oggetti estetici, visto il ritrovamento di frammenti di ocra rossa accanto i suoi resti (TOBIAS, 1982).

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La lenta e inarrestabile evoluzione delle pratiche strumentali parte già da Australopitecus Africanus che attua una rivoluzione esosomatica utilizzando strumenti, ossia schegge prodotte volontariamente per la propria sopravvivenza. Una scheggia usata per tagliare e togliere via pellami e cortecce si sostituisce a aiuta gli arti superiori nel loro compito. L’utensile quindi è una secrezione del corpo e del cervello12: siamo arrivati alla nozione di utensile come vera e propria secrezione del corpo e del cervello degli antropiani. È logico, quindi, applicare a questo organo artificiale norme degli organi naturali: deve rispondere a forme costanti, a un vero e proprio stereotipo. È questa infatti la regola per tutti i prodotti della industria umana nei tempi storici: esiste uno stereotipo del coltello, dell’ascia, del carro, dell’aereo, che non è solo il prodotto di un’intelligenza coerente ma il prodotto di quella intelligenza integrata nella materia e nella funzione (LEROI-GOURHAN, 1964, trad. it. 1977, p. 109).

L’evoluzione tecnica della pratica strumentale è determinata dalla variazione della serie di gesti impiegate per costruire gli utensili. Ai semplici gesti degli Arcantropi, si aggiungono altri gesti tipici della cultura mousteriana: «L’estrazione della punta richiede almeno sei serie di operazioni rigidamente concatenate, condizionate le une dalle altre, che presuppongono una rigorosa programmazione. Tali operazioni mobilitano e combinano le due serie di gesti di cui si erano impossessati gli Arcantropiani» (ivi, p. 121). Un oggetto tipico della cultura mousteriana è la punta triangolare, strumento non semplice da costruire da un Uomo di Neanderthal. Costruire una punta triangolare implica necessariamente l’acquisizione di una serie di gesti piuttosto raffinati e la possibilità di progettare l’oggetto a partire da un blocco di selce. L’oggetto, quindi, non è predisposto in natura, ma è estratto modellando del materiale grezzo. La costruzione di un oggetto diventa, finalizzata ad un uso, una pratica sociale condivisa, già a partire dai primi ominidi. La nozione di progetto è legata a quella di socialità in due sensi: si progetta e si costruisce assieme ad altri conspecifici e il risultato finale di questa pratica condivisa è condensata in un oggetto materiale. Il prerequisito necessario alla progettazione e all’uso condiviso è il riconoscimento simbolico degli altri conspecifici. Sia da un punto di vista filogenetico che ontogenetico, questo tipo di simbolicità non linguistica precede e favorisce lo sviluppo della simbolicità linguistica tipicamente umana, che 12 In seguito LEROI-GOURHAN (1982) insisterà sul rapporto tra corpo e utensile, considerando quest’ultimo come un organo amovibile che, da un certo momento in poi nella storia dell’uomo, ha funzionato come un prolungamento del corpo.

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compare con la presenza del tratto vocale sopralaringeo (CAVALIERI-CHIRICÒ, 2005; GAMBARARA 2005a). Coinvolgendo la questione della simbolicità, nella dimensione del progetto non può essere tralasciato il problema dell’invenzione dell’oggetto, che richiama due costanti presenti in ogni artefatto: forma e funzione. Mentre la prima varia e si evolve nel corso degli anni e dei secoli, la funzione permane come tratto invariante, necessario durante il riconoscimento dell’oggetto a partire dal momento della sua invenzione. Recentemente a sostegno di questa nozione di intersoggettività progettuale si è mossa la Scienza Cognitiva: il processo di invenzione di un artefatto è visto come distribuito tra più menti ed è una «scoperta multipla» (LEGRENZI-VIANELLO, 2002, p. 290). Più precisamente, oltre che l’invenzione, anche l’evoluzione dell’artefatto è considerata in base alla relazione tra il soggetto e l’artefatto. «When a person uses a wrench as a part of a hammer, there is a direct assimilation of the artifact in the constituted scheme. In the largest case, the development of the human side leads to a deeper reorganization of the human side of the instrument» (BÉGUIN, 2006, p. 3). in dipendenza del fatto che «A hammer is not an artifact. To be an instrument, the subject (the users or the workers) must associate an organized form of psychological and motor operations with the artifact» (ivi, p. 1). 4. Il soggetto, gli artefatti e le istituzioni Fino a qui si è considerato l’artefatto come oggetto materiale a carattere strumentale, costruito sulla base di un progetto, con l’obiettivo di soddisfare un bisogno. Tuttavia, è piuttosto diffusa la convinzione che il termine ‘artefatto’ non possa designare solo oggetti materiali ma anche segnali linguistici o simboli, come mostrano recenti ricerche nell’ambito delle Scienze Cognitive (KRIPPENDORF, 2006), della psicologia (TOMASELLO, 1999) e della semiotica (ROSSI-LANDI, 1968; 1972). Accettando la nozione di artefatto come strumento e sovrapponendola a quella di segnale linguistico, si può arrivare a sostenere che il linguaggio sia uno strumento. Tuttavia, accostare le nozioni di artefatto e di linguaggio comporta non pochi problemi. In primo luogo, il linguaggio può essere considerato come uno strumento, lo strumento del pensiero prima ancora che della comunicazione e tale è stato considerato in una lunga tradizione di riflessione filosofica e linguistica. Da questa posizione prende le distanze il linguista Émile Benveni-

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ste (1966). Nei suoi testi egli ascrive al paradigma comportamentista questo modo di intendere il linguaggio ed è il comportamentismo a costituire il suo principale bersaglio. Secondo Benveniste, il linguaggio non è uno strumento poiché ciò implicherebbe renderlo una cosa: «La zappa, la freccia, la ruota non si trovano in natura, sono degli artefatti. Il linguaggio è nella natura dell’uomo, che non l’ha fabbricato» (BENVENISTE, 1966, trad. it. 1994, p. 311). L’uomo, infatti, non è mai alle prese con il momento dell’invenzione ma soltanto con quello della reiterazione della pratica linguistica. La critica di Benveniste può introdurci alla seconda accezione del termine ‘artefatto’ per porla in relazione con le nozioni di linguaggio e lingua. Da qui in avanti, la nozione di artefatto verrà intesa come opera dell’attività umana. Anticipando Benveniste nella critica dell’idea di linguaggio come strumento, Wilhelm von Humboldt pone la lingua come tramite tra il singolo individuo e il mondo circostante. Seguendo la tradizione filosofica più diffusa tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, Humboldt considera la lingua come il luogo in cui si cristallizza il patrimonio collettivo di una nazione, tanto che essa non è il prodotto del singolo ma della nazione intera: La lingua non è affatto un libero prodotto del singolo uomo, ma appartiene sempre alla nazione intera; in questa altresì le successive generazioni ricevono la lingua dalle generazioni esistite in passato (HUMBOLDT, 2004, p. 739).

L’essenza della lingua non si manifesta nel suo essere un’opera compiuta, ossia un oggetto materiale (ergon) ma è energheia, ossia attività, un perenne lavoro dello spirito. Non a caso, dunque, Cassirer, presentando il pensiero humboltdiano, si sofferma su questo punto: Ciò che noi chiamiamo essenza e forma di una lingua non è quindi nient’altro che l’elemento permanente e uniforme che noi possiamo mostrare non in una cosa, ma piuttosto nel lavoro con cui lo spirito innalza il suono articolato a espressione del pensiero (CASSIRER, 1923, trad. it. 2004, p. 122).

Seguendo Humboldt, quindi, la lingua non è uno strumento ma prende forma a partire dal lavoro reiterato del parlante. In questo quadro, Humboldt ritiene necessario uno studio del linguaggio per mezzo della sua inner Sprachform, ossia quella struttura interna a cui faranno riferimento studi semiotici più di uno secolo dopo. Secondo Ponzio (1988), proprio questo è il punto di partenza dell’analisi di Ferruccio Rossi-Landi.

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Alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, Ferruccio Rossi-Landi affronta il tema del linguaggio per mezzo dell’omologia di produzione tra artefatti linguistici e artefatti materiali; la pietra angolare delle sue teorie è la nozione di lavoro. Rossi-Landi sostiene che: «la nozione di artefatto si applica tale e quale al linguaggio. Anche parole, enunciati, discorsi e così via sono prodotti umani, artefatti: essi non esistono in natura senza intervento umano; e la loro presenza denuncia immediatamente ed inequivocabilmente la presenza dell'uomo» (ROSSI-LANDI, 1968, p. 185). L’esistenza di artefatti nel mondo circostante non rimanda ad una mera presenza dell’essere umano ma al suo agire e alle pratiche in cui è coinvolto. Applicando le categorie del marxismo13 al linguaggio, Rossi-Landi sostiene che il linguaggio è lavoro, mentre la lingua è il prodotto della sedimentazione del lavoro sociale di una comunità di parlanti. Infatti, «La lingua è l’esserci medesimo della comunità che la parla» (ROSSI-LANDI, 1972, p. 273) e nella dialettica tra produzione e consumo, essa rappresenta il patrimonio costante di una comunità, mentre i parlanti rappresentano un patrimonio variabile. È possibile affermare, quindi, che l’analisi della lingua secondo la prospettiva marxista si pone a livello delle strutture del sistema sociale di produzione linguistica. In questo quadro, all’interno della lingua, il valore di ogni segno è dato dal lavoro linguistico sociale di cui è prodotto. Sebbene la riflessione di Rossi-Landi sul linguaggio risenta della teoria marxista14 e abbia radici nell’idealismo humboltdiano riletto da Cassirer, essa mostra diverse analogie con la teoria saussuriana. In primo luogo, nel Cours de linguistique générale15 Saussure distingue la lingua dal linguaggio, sostenendo che essa ne è una parte ed è un prodotto sociale. Proprio la socialità della lingua è centrale nel confronto tra una teoria che vede la lingua come un artefatto e quella che la considera un’istituzione. Infatti, come per Rossi-Landi i parlanti sono parte di un capitale variabile da analizzare, per Saussure la lingua si realizza pienamente solo nella massa dei parlanti e non in un singolo individuo. In Saussure, rimane valida la definizione della lingua come un sistema di segni, non statico ma in continua trasformazione: 13 Sul rapporto tra marxismo e linguaggio si vedano: STALIN (1950), VOLOŠINOV (1929), FORMIGARI (1973), SERIOT (2008). 14 A tal proposito, è lo stesso ROSSI-LANDI (1968, p. 105) a fornire la cornice teorica in cui inquadrare le sue ricerche: «lo schema teorico da me proposto può essere visto come un’applicazione di alcune categorie della scienza economica nella sua fase classica, cioè ricardiano-marxista, alla struttura di una lingua e del suo uso pratico-comunicativo» 15 Da qui in avanti CLG.

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è il punto di vista del movimento della lingua nel tempo, ma di un movimento che a nessun momento, giacché tutto è non arriva ad essere in conflitto col primo principio dell’unità della lingua nel tempo. C’è trasformazione, e sempre e ancora trasformazione, ma non c’è da nessuna parte riproduzione o produzione di un essere linguistico nuovo, che abbia un esistenza distinta da ciò che lo precede e che lo seguirà (SAUSSURE, 2005, p. 101).

Nel CLG la mutabilità del segno linguistico riguarda le alterazioni a cui il rapporto tra significato e significante è sottoposto con il passare del tempo. Tuttavia, le trasformazioni a cui è soggetto il sistema linguistico sono imposte dalla massa dei parlanti, senza che la volontà di un singolo soggetto possa sortire alcun effetto su di esso; la lingua «è situata insieme nella massa sociale e nel tempo, nessuno può modificarla» (SAUSSURE, 1922, trad. it. 2003, p. 94). Il segno linguistico, quindi, simultaneamente mutabile e immutabile è il simulacro del gioco ininterrotto della prassi linguistica. La lingua è un’istituzione sociale, anzi è l’istituzione sociale che regge e governa tutte le altre, opera di una mente collettiva16, sempre soggetta a trasformazioni e allo stesso tempo invariante. Per quanto i tipi di analisi qui considerati possano apparire differenti, dalla posizione saussuriana emergono due elementi rilevanti: il ruolo della massa parlante nel tempo e la nozione di lingua, allo stesso tempo, istituzione e sistema. A partire da questo luogo teorico, si può ritornare al cuore del nostro problema: il rapporto tra percezione e linguaggio. La doppia relazione tra percezione e linguaggio, da un lato, e tra cose e soggetti, dall’altro, trova un suo rinnovato equilibrio in una recente rilettura della nozione di valore linguistico in chiave semiotico-cognitiva (THIBAULT, 2004). È possibile considerare la lingua non come un principio di categoriz16 Cf. GAMBARARA, 2005c e SAUSSURE, 2005. Negli scritti del terzo corso di Linguistica Generale tenuto da Saussure a Ginevra nel 1910-’11, si può rintracciare la nozione di mente collettiva, ossia una mente propria di ogni individuo ma che custodisce quel bene comune che è la lingua. Rimane, tuttavia, da chiarire il rapporto tra individuale e collettivo e tra collettivo e lingua intesa come istituzione. Sarebbe interessante mettere in evidenza il rapporto tra l’azione della collettività e l’eventuale progettazione di diversi tipi e gradi di istituzioni. Una serie di prime risposte a questi quesiti si trova nelle riflessioni di Friedrich von Hayek, il quale, all’interno dell’individualismo metodologico e del liberalismo politico, sostiene che alla base della nostra civiltà non ci sia il singolo individuo ma l’intrecciarsi delle azioni dei singoli. La compenetrazione delle azioni dei singoli non segue alcun un progetto definito, ma solo un ordine spontaneo (HAYEK, 1949). Può essere interessante un confronto con una forma più recente di individualismo metodologico, ad esempio cf. BOUDON (1979) e la nozione di attore individuale.

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zazione del mondo ma una sua rideterminazione a partire da un dominio non linguistico. È a questo punto che la lingua sembra radicata nella percezione. Thibault (2004) mostra come gli elementi di un sistema emergano e si riorganizzino conferendo un preciso significato alle due masse amorfe delle idee e dei suoni. L’azione che riconfigura i due livelli del sistema dipende, secondo Thibault, dai corpi dei soggetti che esplorano l’ambiente. Tra le masse informi delle idee e dei suoni, la lingua emerge come possibile interfaccia tra queste e il mondo esterno. A questo proposito, con un riferimento al lessico ecologico: Saussure’s discussions of the way in which language emerges between the two “amorphous” or topological continuous substrates of “sound” and “thought” can be seen ad an early attempt to explain how language and other semiotic resource systems must reduce and entrain the many degrees of freedom – the vague and indeterminate possibilities – of both the bodily processes and dynamics involved in the articulation and production of speech sounds and the stimulus information while the organism picks up in its environment (THIBAULT, 2004, p. 60).

Il dominio del percettivo non viene, allora, categorizzato, ma determinato simbolicamente dalla lingua. Considerare la nozione di valore e la sua rilevanza sul piano dei suoni e delle idee rende possibile, nella prospettiva della semiotica cognitiva, legare coerentemente l’azione umana e il mondo circostante. In questo quadro, ma spostando il fuoco del discorso sull’intenzionalità, si muove un gruppo di ricercatori che ha fondato il Social Ontology Group (Università di Berkeley). Essi sostengono che azione e percezione sono intimamente collegate tra loro per mezzo di un particolare tipo di intenzionalità, la we-intentionality. Ed è proprio l’intenzionalità “collettiva” che non solo spiega il rapporto tra percezione e azione ma è il nucleo su cui si fonda la percezione umana. Come si è visto, il caso esemplare degli artefatti porta a due livelli di considerazioni: quelle sul rapporto tra percezione e linguaggio e quelle relative all’ontologia di lingua e artefatti. I due livelli, tuttavia, non seguono percorsi disgiunti ma si intersecano nelle nozioni di azione e di intersoggettività. Per studiare l’ontologia delle “cose” del mondo, anche della lingua, e fare in modo che emergano i tratti invarianti dei diversi enti, uno dei criteri rimane senza dubbio quello dell’intersoggettività, come sostenuto da Nozick. È quindi da questo luogo teorico che potrebbe essere possibile ripartire per delimitare i fattori invarianti delle istituzioni sociali come la lingua.

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ANTONIA GIGLIO La dimensione sociale e culturale della conoscenza leibniziana

Nei Nuovi saggi sull’intelletto umano e, precisamente nel capitolo in cui parla della divisione delle scienze, Leibniz sostiene un’«alleanza della pratica con la teoria». Tale alleanza «si vede presso coloro che insegnano quelli che si chiamano gli esercizi, come anche presso i pittori o scultori e musicisti, e presso altre specie di virtuosi». Secondo Leibniz, se i principi delle professioni, delle arti e dei mestieri fossero insegnati «praticamente […] questi studiosi sarebbero veramente i precettori del genere umano». A questo proposito Leibniz scrive: Bisognerebbe […] mutare in molte cose la situazione attuale della letteratura, e dell’educazione dei giovani, e di conseguenza dell’amministrazione pubblica1.

Appare chiaro che non può esserci un ottimo stato senza un’ottima educazione. Nella visione leibniziana la «società tedesca» deve porsi come compito quello di migliorare le condizioni di vita dell’uomo2. Come sostiene Wilhelm Dilthey, Leibniz ritiene che si debba «creare in Germania un centro per i nuovi metodi della conoscenza della natura e riportare la sua terra natale nella connessione internazionale, in cui doveva realizzarsi il progresso del lavoro scientifico e la cultura su questo fondata»3. Nasce così nel luglio del ’700 l’Accademia, «che nella sua universalità doveva superare ogni cosa che il mondo avesse visto fino allora in istituti analoghi»4. Wilhelm Dilthey sembra essersi reso pienamente conto del fatto che, per Leibniz, l’Accademia doveva «migliorare l’esistenza dell’uomo in tutte le sue 1 G.W. LEIBNIZ, Nuovi saggi sull’intelletto umano, in Scritti Filosofici, a c. di M. Mugnai e E. Pasini, 3 voll., Torino, UTET, 2000 (d’ora in poi “SF”), vol. II, lib. IV cap. XXI, § 1, p. 524. 2 Cf. W. DILTHEY, Leibniz e la fondazione dell’Accademia di Berlino, in Leibniz e la sua epoca, a c. di R.B. Oliva, Napoli, Guida, 1989, p. 112. 3 Ibid. 4 Ivi, p. 113. «Questo lavoro universale della cultura era per Leibniz lo scopo dello Stato moderno, come allora lo concepiva in divenire; questo è l’ideale dello Stato dell’illuminismo tedesco. Ora questo Stato doveva crearsi un altissimo organo nell’Accademia, che gli forniva lo strumento scientifico per questo lavoro, che anzi vi partecipava con proposte pratiche, e l’Accademia doveva infine legittimare questo lavoro, in quanto fondava la connessione di questo con l’ordinamento divino del mondo».

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espressioni ed attività, doveva promuovere agricoltura e manifattura, fabbriche e commercio, coscienza politica e nazionale, infine morale e religione»5. La conoscenza è il più grande fra i tesori di cui l’uomo dispone. Il a souvent parlé du progrès de la “science humaine” dans le passé et dans l’avenir, des moyens de l’obtenir plus rapidement et a essayé d’y contribuer par lui–meme, non seulement par ses découvertes, mais encore par la fondation des Académies6.

Leibniz mette in campo una strategia teorica che vede il sapere connesso al continuo tentativo di migliorare la condizione individuale. Il sapere non si riduce mai a mera erudizione, ma è uno strumento per migliorare la vita dell’uomo. In tal senso, le conoscenze, dal momento che sono volte alla publica utilitas, devono anche essere comunicabili, diversamente l’uomo non potrebbe servirsi del progresso scientifico. Già in uno scritto del 1677, Il vero metodo, Leibniz sosteneva che «la scienza è necessaria per la vera felicità»7. A riguardo si veda l’analisi di Jean Baruzi, secondo cui nell’azione sociale si trova la realtà ultima dell’universo leibniziano8. Non dimentichiamo, inoltre, che per Leibniz il compito del doctus va oltre l’erudizione: egli, infatti, deve associare alla cultura l’operosità. In altre parole: migliorare le conoscenze della tradizione, non solo per trasmetterle ai posteri, ma per ricavarne noi stessi un profitto sia per lo spirito che per il corpo. Le conoscenze solide e utili sono il più grande tesoro del genere umano e la vera eredità lasciata dai nostri progenitori, che dobbiamo mettere a profitto e accrescere, non solo per trasmetterla ai nostri successori in miglior condizione di come l’abbiamo ricevuta, ma ancor più per trarne profitto noi stessi quanto è possibile, per la perfezione dello spirito, la salute del corpo e le comodità della vita9.

In quest’ottica il soggetto conoscente non è costituito dal singolo, isolato studioso, bensì da una comunità di individui che lavorano insieme in Ivi, p. 114. L. DAVILLÉ, Leibniz Historien, Essai sur l’activité et la méthode historiques de Leibniz, Paris, Alcan, 1909, p. 710 («Egli ha spesso parlato del progresso della "scienza umana" nel passato e nell’avvenire, dei mezzi per ottenerlo il più rapidamente ed ha cercato di contribuirvi egli stesso, non solo attraverso le sue scoperte, ma anche attraverso la fondazione delle Accademie»). 7 G.W. LEIBNIZ, Il vero metodo, in SF I, p. 183. 8 Cf. J. BARUZI, Leibniz et l’organisation religieuse de la terre (1907), Aalen, Scientia Verlag, 1975, p. 456. 9 G.W. LEIBNIZ, Discorso intorno al metodo della certezza e all’arte dello scoprire, per concludere le dispute e per compiere in breve tempo grandi scoperte, in SF I, p. 488. 5 6

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vista del bene comune. Siamo di fronte all’idea di un sapere enciclopedico alla cui realizzazione devono concorrere in molti, giacché uniti si riesce meglio e si contribuisce al rinnovamento culturale della società. A questo proposito è stato affermato che per Leibniz il soggetto conoscente è l’umanità tutta intera, oggettivamente, nell’immanenza della storia10. Nella visione leibniziana la crescita culturale necessita della cooperazione tra gli uomini. È la storia delle idee che sorgono nel tempo e nello spazio, in ogni angolo della terra e pretendono di assurgere, coadiuvate dalla ragione che riflette l’umanità, al rango che spetta alla nascente civiltà del diritto, in quella che si definisce civiltà moderna. Leibniz fonda la sua idea di società sul buon governo, sul sentimento d’amicizia e di mutua assistenza e sull’istruzione. Resta inteso che il compito del filosofo è quello di evidenziare non solo i bisogni dello Stato, ma anche i suoi doveri. Ne consegue, a nostro avviso, una sensibilità pedagogica che recupera il meglio della tradizione pedagogica seicentesca: è in questa direzione, infatti, che vanno i progetti per l’istituzione di Accademie per gli ufficiali dell’esercito e per gli impiegati dello Stato; l’attivazione di laboratori, biblioteche, osservatori, giardini botanici e zoologici al fine di un’adeguata istruzione scientifica. L’interesse di Leibniz, inoltre, è anche rivolto all’educazione femminile, il che mostra la sua sensibilità verso le diversità di genere che compongono la realtà dell’universo umano. È tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento che emerge nella cultura europea una nuova figura, la femme savante. Insieme all’immagine della lettrice emerge quella della mediatrice di cultura e della scrittrice nel senso pieno del termine. Le donne partecipano in prima persona, sebbene spesso in incognito, alla circolazione della cultura e delle idee. Si rivolgono alla filosofia e si fanno portatrici di istanze di rinnovamento che investono il ruolo delle scienze e gli strumenti della formazione intellettuale11. In questo contesto di discussione si sviluppa il piano di studi leibniziano, che non perde mai di vista il contatto della cultura e dell’educazione con la vita e con la società12. A riprova di quanto detto ricordiamo la sua posizione nei riguardi della querelle sulla lingua latina. Leibniz, nonostante la considerazione nutrita nei confronti del latino, comprende l’importanza dell’insegnaCf. Y. BELAVAL, Leibniz critique de Descartes, Paris, Gallimard, 1960, p. 125. Riguardo alla figura della femme savante si veda il lavoro di G. MOCCHI, Individuo bene fundatum. Controversie religiose moderne e idee per Leibniz, Roma, Carocci, 2003, pp. 55-90. 12 Cf. D. CAMPANALE, Il diritto naturale tra metafisica e storia. Leibniz e Vico, Torino, Giappichelli, 1988, p. 61. 10 11

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mento della lingua materna e delle lingue moderne al punto da sostenere che le dispute giuridiche dovessero svolgersi in tedesco13. Il nostro filosofo considera le lingue fattori d’identificazione soggettiva, culturale e sociale, che non a caso costituiscono relazioni aperte alla differenza. Leibniz ha compreso il potere comunicativo che una lingua possiede: essa unisce gli uomini e rende possibile l’universale armonia. Del resto, egli stesso parla il tedesco, il francese, il latino, comprende il greco, l’ebraico, l’italiano e l’inglese, e verso la fine della sua vita studierà anche le lingue slave. L’intento di Leibniz non è di sminuire l’importanza della lingua latina nella formazione dei giovani. Lo studio del latino è, infatti, molto utile per la comprensione dei termini scientifici, mentre le lingue moderne sono indispensabili per poter esercitare alcune arti e professioni. Il latino, inoltre, pur essendo una lingua dotta, poiché è la lingua della comunità scientifica, unisce l’Europa intellettuale. È su queste basi che si consolida l’immagine della lingua latina come lingua ideale dell’Europa. Nei Progetti per l’educazione di un principe, scritti probabilmente tra il 1693 e il 1703, si delinea l’idea leibniziana della formazione dell’uomo colto, destinato dal proprio rango a governare14. Il principe deve essere un perfetto conoscitore di storia e geografia, di leggi e canoni, di teologia ed economia, di architettura, matematica, medicina e chimica15. «Tre», osserva Leibniz, «sono i gradi di perfezione a cui si può mirare nell’educazione di un principe: il primo di essi è necessario, il secondo serve all’utilità, il terzo all’ornamento»16. Al principe è richiesto di essere un uomo onesto, coraggioso, giudizioso e garbato, attento ai suoi doveri, esperto in politica e nell’arte militare e preparato in ogni disciplina17. Del resto, nella visione leibniziana lo stesso metodo degli studi è «un modo per giungere allo stato delle azioni perfette», o meglio, allo stato della ragione, che il filosofo chiama habitus 18. L’habitus è una sorta di prontezza ad agire: «Status autem iste dicitur Habitus, quem definio: Agendi promptitudinem acquisitam et 13 Cf. G.W. LEIBNIZ, Nova Methodus discendae docendaeque Jurisprudentiae, Praefatio, in Sämtliche Schriften und Briefe, hrsg, v.d. Preussischen Akademie der Wissenschaften, Darmstadt, Otto Reichl Verlag, VI/I, 1930 (rist. G. Olms-Verlag, Hildesheim-New York 1971), II, § 98, p. 361 (d’ora in poi Nova Methodus). 14 Cf. G.W. LEIBNIZ, Progetti per l’educazione di un principe 1693 e 1703 ( ?), in Scritti politici e di diritto naturale, trad. it. a c. di V. Mathieu, Torino, UTET, 1951, p. 265. 15 Cf. Ivi, pp. 266-267. 16 Ivi, p. 265. 17 Cf. Ivi, pp. 265-266. 18 Cf. G.W. LEIBNIZ, Nova Methodus, I, § 1, p. 266.

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permanentem»19. Si tratta di uno stato di azioni perfette cui ogni essere deve pervenire. L’uomo raggiunge questo stato con l’ausilio della ragione. In tal senso la permanenza di cui parla Leibniz è costanza. Come sostiene Domenico Campanale, la prontezza ad agire non è data naturalmente, ma è acquisita e permanente20. Sulla base di queste indicazioni l’habitus è rationis status, cioè spontaneità consapevole o autodeterminazione razionale. Si tratta di fattori del carattere che formano la personalità dell’individuo. Sempre nei Progetti per l’educazione di un principe, Leibniz sostiene che la formazione del giovane principe deve avvenire nel rispetto della libertà del suo corpo e della sua mente. Al bambino non deve essere proibito di giocare né di fantasticare. L’educazione politica non deve essere separata da quella morale e religiosa: lo spirito deve arricchirsi di sentimenti di virtù, di generosità e di carità. L’educazione, inoltre, deve considerare che non v’è nulla di così malleabile come la più tenera età. Molte volte, infatti, si scambia per naturale «ciò che è dovuto alle prime impressioni ricevute nell’infanzia»21. Occorre, quindi, aver cura delle prime impressioni del fanciullo, in modo che non ne sia intimorito, addolorato, ingannato o disgustato. È la stabilità della verità appresa a rendere solido un insegnamento. Per questa ragione non si può accondiscendere ad ogni capriccio del bambino: egli ritiene che bisogna evitare sia gli eccessi sia la troppa cautela, che può degenerare in mollezza22. Il bambino deve divertirsi, ma senza malizia: non sono consentiti scherzi cattivi contro persone o animali. Leibniz, infine, riconosce che in un buon processo di apprendimento bisogna soddisfare la curiosità del bambino. In altri termini, istruirlo divertendolo. Leibniz afferma che gli studi devono iniziare all’età di quattro anni e sotto forma di gioco. L’attività ludica facilita l’apprendimento. Attraverso il gioco, infatti, il bambino imparerà dapprima le lettere dell’alfabeto e in seguito a scrivere23. Inoltre, sempre al fine di facilitare l’apprendimento si organizzeranno delle rappresentazioni teatrali. È significativo che Leibniz abbia recepito insieme alla necessità della formazione scientifica e culturale l’importanza della rappresentazione scenica e delle favole nella formazione 19 Ivi, I, § 2, p. 266 («Questo stato si dice Habitus, che definisco: la prontezza acquisita e permanente di agire»). 20 Cf. D. CAMPANALE, Il diritto naturale tra metafisica, cit., p. 54. 21 Cf. G.W. LEIBNIZ, Progetti per l’educazione di un principe, cit., p. 269. 22 Ibid. 23 Ivi, p. 270.

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del carattere e nell’educazione della ragione24. L’infanzia è un’età, scrive Leibniz, in cui domina l’immaginazione, «si deve approfittare di ciò per riempirla di mille belle idee»25. L’immaginazione si costruisce con materiali fornitici dalla realtà. Quanto più ricca sarà l’esperienza dell’individuo, tanto più abbondante sarà il materiale di cui la sua immaginazione potrà disporre. L’attività creativa è quella che rende l’uomo un essere rivolto al futuro, capace di dar forma a quest’ultimo e di mutare il proprio presente. Senza l’immaginazione, come possibilità di ritenere la traccia dell’esperienza anche in assenza della sensazione, non avremmo rappresentazione, richiamo mnemonico, significato logico; non avremmo altresì sensibilità emotiva e intelletto, estetica e logica, immagine e significato. L’immaginazione è una forma di pensiero che scaturisce da una libera associazione di tutte quelle immagini elaborate dall’inventiva che caratterizza l’umano. L’uomo è in grado di elevarsi al di là di se stesso e di ipotizzare con il suo estro l’infinito. Vale a dire: può informare di infinito gli angusti limiti del quotidiano. Uno slancio verso l’ignoto con cui intuire l’incommensurabile, poiché solo l’uomo in grado di deificarsi può dare una diversa lettura di tutti quei fenomeni complessi e misteriosi che costituiscono l’originaria attività dello spirito umano. Degno di attenzione, inoltre, è lo spazio assegnato da Leibniz alle passeggiate e ai giochi istruttivi, alle illustrazioni e alla costruzione di modelli anatomici, che rappresentano la macchina del corpo umano o delle sue parti. A Leibniz preme, poi, di osservare che ogni giovane studioso debba avere una formazione storica. Vale a dire: deve acquisire delle competenze di storia universale, sacra, moderna e antica. Il filosofo di Hannover si rattrista che in un paese come la Francia «les classes supérieures des collegès n’enseignassent pas l’histoire et que les maîtres en ignorassent souvent celle de leur temps; on n’y apprenait guère alors que l’histoire ancienne et dans les Universités l’enseignement de l’histoire faisait entièrement defaut»26. Al contrario, in Germania «cet ensegneiment était assez bien organisé, surtout dan les Universités dès la fin du XVII siècle»27. Leibniz comprende Cf. G.W. LEIBNIZ, Nova Methodus, I, §§ 28-30, pp. 281-284. G.W. LEIBNIZ, Progetti per l’educazione di un principe, cit., p. 271. 26 L. DAVILLÉ, Leibniz Historien, cit., p. 378 («Si lamentava che in Francia le classi superiori dei collegi non insegnassero la storia e che i maestri ignorassero spesso quella dei loro tempi; non vi si apprendeva nient’altro che la storia antica e nelle Università l’insegnamento della storia era completamente assente»). 27 Ibid. (“In Germania, al contrario, questo insegnamento era molto bene organizzato, soprattutto nelle Università già alla fine del XVII sec.”). 24 25

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che l’insegnamento della storia, per essere fecondo, deve essere anche gradevole. E al fine di rendere produttivo l’apprendimento di tale disciplina ritiene che si debbano utilizzare come espedienti didattici le carte geografiche e le tavole storiche. L’educazione, osserva Domenico Campanale, nella visione leibniziana consiste non solo nella formazione di buone abitudini, ma anche nel «mettere l’uomo in grado di poter raggiungere l’habitus rationis, che nel processo educativo serve da norma sia all’educazione che alla didattica»28. Riteniamo che l’educazione sia un processo intenzionale di promozione della persona, in termini individuali e sociali. In altre parole: è una riflessione sul dover essere della persona e della società. Del resto, sostiene Luca Basso, non dimentichiamo che in Leibniz è anche presente una visione molto «pratica» della politica. Leibniz non solo è un filosofo politico e un filosofo del diritto, ma è anche un politico, un diplomatico, nonché un giurista attento ad ogni singola situazione dell’esperienza umana. Al riguardo, occorre sottolineare che Leibniz conosce molto bene i meccanismi politici e costituzionali presenti nell’Europa del tempo, grazie ai suoi viaggi29. Il filosofo traccia un’analisi della politica che ogni Stato dovrebbe seguire per essere il migliore che si possa concepire. Bisogna che i cittadini, sostiene Leibniz, siano «contents» e «modérés»30. Mais maintenant je ne traite pas de l’utilité publique à l’égard des gouvernants, mais pour elle-même. […] En second lieu, il faut faire en sorte que tous les citoyens soient modérés ou bien qu’ils puissent régler leurs affections31.

La prudenza dà all’uomo tranquillità, conserva la serenità del suo spirito e fa in modo che le sue azioni scaturiscano dalle sue capacità e non dal caso. Alla base del discorso sta un nesso insolubile di competenza, capacità a migliorare, specializzazione e perfezionamento delle stesse competenze. Sicuramente l’individualità è prassi. Per questa ragione, diversamente da coloro che separano teoria e prassi, il filosofo considera la dimensione del pensare «nella pratica». In questa prospettiva, il giusto ordine è quello che ogni individuo occupa conformemente alle sue capacità ed ai suoi meriti: è giusto che ad ogni uomo siano date le stesse possibilità (sebbene reagisca in D. CAMPANALE, Il diritto naturale tra metafisica, cit., p. 55. L. BASSO, Individuo e comunità nella filosofia politica di G.W. Leibniz, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005, p. 13. 30 Cf. G.W. LEIBNIZ, De la plus importante règle de droit (1678 ?), in Le droit de la raison (Textes réunis et présentés par René Sève), Paris, Vrin, 1994 (d’ora in poi “DR”), p. 153. 31 G.W. LEIBNIZ, De la plus importante règle de droit (1678 ?), in DR, p. 152. 28 29

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modo diverso a quello che la sua natura o la società gli fornisce)32. L’azione individuale partecipa dell’ordine universale attraverso l’interiorità espressiva della monade. Si tratta della relazione tra universalità e particolarità pensate come struttura della consistenza di individuale e comune. A tale argomento viene inoltre aggiunta la notazione per cui l’uomo ha il diritto naturale di potersi migliorare, e lo Stato che lo rappresenta deve garantirgli le opportunità necessarie all’esplicazione dello scopo. In quest’ottica l’educazione è la più importante delle possibilità che lo Stato deve garantire all’individuo. Per questo motivo i giovani devono conoscere la costituzione e le leggi del loro paese, nonché quelle degli altri paesi33. Leibniz ritiene che «il faut bien éduquer la jeunesse»34, gioventù che è un’unità di differenze animata da una pluralità di ispirazioni particolari. In tal senso il compito di Leibniz è quello di far coesistere una pluralità di soggetti in una dimensione unitaria che non sia rigida reductio ad unum. In un’Europa dilaniata dalle guerre di religione, Leibniz è andato al di là dei suoi tempi, superando il senso delle sue quaestiones. A tal proposito Meinecke scrive: «Dipende dai tempi e dagli uomini che determinate idee dei grandi pensatori siano destinate a manifestare pienamente la loro fecondità, nel qual caso poi finiscono ordinariamente col superare di gran lunga le intenzioni dei loro autori, e così contribuiscono alla creazione del nuovo»35. Si tratta di un passaggio obbligato per pervenire all’emancipazione culturale di una ragione-strumento che sappia «tracciare un piano vero di rigenerazione sociale, dove acquistano una configurazione vera, ossia conseguente alle forze della natura, le relazioni morali, sociali ed ideali degli uomini»36. In questa prospettiva, la ricerca leibniziana dell’armonia diviene l’elemento unificante della profonda differenziazione dell’esistente. È la valorizzazione di un orizzonte in movimento che vede i cittadini rivolti al bene comune, alla pietà, all’amore per chi li governa, all’amore per i loro corpi, alla virtù, al decoro che molto può sul prossimo, amici tra loro, esperti in molti campi, non indigenti perché l’indigenza rende l’uomo miserabile e lo abbrutisce37. 32 Cf. G.W. LEIBNIZ, Les divisions de la justice, in DR, p. 145 : «Le fondement du droit privé est l’égalité, puisque discerner la supériorité est très difficile; de là avant de trouver une norme certaine de celle-ci, tous les hommes doivent être considérés comme égaux». 33 Cf. G.W. LEIBNIZ, Nova Methodus, I, §§ 41-42, pp. 291-292. 34 G.W. LEIBNIZ, Projet d’un mémoire pour le Tzar (1708), in DR, p. 242. 35 F. MEINECKE, Le origini dello storicismo, Firenze, Sansoni, 1954, p. 15. 36 G. IMBRUGLIA, Ragione, in l’Illuminismo. Dizionario storico (a c. di V. Ferrone e D. Roche), Bari, Laterza, 1997, p. 84. 37 Cf. G.W. LEIBNIZ, De la plus importante règle de droit (1678?), in DR, pp. 153-154.

ALFREDO GIVIGLIANO Pratica di ricerca e linguaggio della sociologia Per lo spirito scientifico ogni fenomeno è in effetti un momento del pensiero teorico, uno stadio del pensiero discorsivo, un risultato preparato. Esso viene piuttosto prodotto che indotto. Lo spirito scientifico non può essere soddisfatto legando in modo puro e semplice gli elementi descrittivi di un fenomeno a una sostanza, senza nessuno sforzo per stabilire una gerarchia, e senza determinare in modo preciso e dettagliato le relazioni con gli altri oggetti1.

0. Introduzione «Ora, io so bene, e non farò nulla per nasconderlo, che in realtà sono andato scoprendo solo poco a poco, anche sul terreno della ricerca, i principi che orientavano la mia pratica»2. Le parole di P. Bourdieu che aprono queste considerazioni tracciano una traiettoria. La pratica del sociologo, la pratica del ricercatore sociale, la pratica del filosofo, la pratica di un soggetto3 che vivendo il suo habitus scisso4, arriva a delineare la propria intera teoria sociale, del sociale, il proprio modo di fare ricerca. La vaga5 linea di confine fra il momento teoretico, la sfida euristica e il vivere la propria scienza6. Scopo delle presenti riflessioni è quello di fissare un momento, un singolo attimo, all’interno di un percorso di ricerca teorico di questo tipo, che ha come controparte euristica la costruzione7 e descrizione di un moBACHELARD (1938, p. 119). BOURDIEU (2002, p. 12). 3 Per la descrizione di soggetto qui utilizzata si rimanda al par. 3. 4 Per la descrizione di habitus e di habitus scisso qui utilizzata si rimanda al par. 12. 5 Per la descrizione di vaghezza qui utilizzata si rimanda al par. 13. 6 Una Scienza che vive la propria complessità di iperspecializzazione e contestuale bisogno di andare al di là delle singole discipline in maniera di volta in volta differente. Si entra, imboccando questa strada, all’interno dei, a loro volta complessi, rapporti tra Scienza e scienze e tra Scienza e differenti dimensioni del sociale. 7 Per la descrizione di costruzione qui utilizzata si rimanda al par. 8. 1 2

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dello8, di un modo, di una declinazione del linguaggio della sociologia. Declinazione che è essa stessa una costruzione, nelle sue dimensioni e nella sua processualità. Problema: il linguaggio con il quale ed attraverso il quale questo processo emerge; queste prime considerazioni introduttive ne sono forse un esempio. Verranno forniti una serie di termini, non una traduzione, né un tentativo di chiarificazione, semplicemente un modo di guardare alla vaghezza del rapporto complesso tra linguaggio naturale e linguaggi scientifici (della sociologia, della filosofia, della matematica, etc.), ad oggi, in maniera non sicuramente esaustiva, ma all’interno di una continua e costante interrogazione. Questa non è altro, forse, che una sintesi ed una messa alla prova nel mezzo del cammino. 1. Realtà Che cosa è la realtà? Fornire una risposta a questa domanda può forse rappresentare l’intera impresa scientifica di un autore, di uno scienziato, di un filosofo, come anche, d’altra parte, di un uomo che vive semplicemente il mondo della vita di tutti i giorni9. Due aspetti da affrontare: il primo, la risposta è sempre e comunque quella fornita da uno studioso, quindi, non un qualcosa di assoluto, meglio un qualcosa con un grado di assolutezza all’interno, però, di ogni singola e specifica costruzione teoretica con la quale e per mezzo della quale si deve instaurare e risolvere una tensione con il mondo che è là fuori, che comunque c’è. Secondo, usare l’espressione “il vivere semplicemente il mondo della vita di tutti i giorni”, non è un voler ridurre l’esperienza del quotidiano su un solo ed unico livello. Nel mondo di tutti i giorni le nostre esperienze appartengono e determinano dimensioni sociali di questo mondo differenti tra loro10. Lo stesso avviene nel momento in cui vogliamo studiare scientificamente il mondo delle relazioni sociali. I livelli ontologici, le dimensioni del reale, che posseggono una propria autonomia e contestualmente una continua relazioPer la descrizione di modello qui utilizzata si rimanda al par. 9. «Se domando “Qual è la forma generale della proposizione?”, mi si può replicare: “Ma abbiamo un concetto generale di proposizione che vogliamo ora /semplicemente/ esprimere in modo esatto? – Così come: abbiamo un concetto generale di realtà?» WITTGENSTEIN (1929-1938, § 15.7); cf. anche PEIRCE (1878a). 10 Differenti, ma che, tuttavia, sfumano le une nelle altre; non si sovrappongono, sfumano, per arrivare alla costruzione di una complessità del sociale. 8 9

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ne le une con le altre11, se viste separatamente producono risultati parziali, forse più semplici ed immediati da ottenere, ma sicuramente non descrivono il reale; ne determinano porzioni, ma non ne colgono la complessità. 2. Sfera Lungo le singole dimensioni della realtà, così come nella realtà stessa come tutto complesso possiamo individuare come punto di partenza dell’analisi le sfere sociali. Con questo termine entriamo all’interno delle relazioni di una cosiddetta scienza sociale con la più dura e formalizzata matematica. Scienza sociale, la sociologia, che fin dai primissimi momenti della propria storia ha spesso visto nell’esigenza di una espressione in termini matematici dei propri risultati una delle discriminanti della propria scientificità. Il rivolgersi al numero, alla percentuale, ai metodi inferenziali e processuali della matematica, delle matematiche, è stato spesso una strada precisa da imboccare ed un obiettivo preciso da raggiungere. Nel momento in cui, lungo la nostra traiettoria, usiamo il termine sfera, tuttavia, rendiamo complesso questo rapporto sociologia-matematica. Una sfera nel mondo delle relazioni sociali non è solo, ma nello stesso tempo non è del tutto, una sfera come descritta all’interno di una formalizzazione geometrica, di qualsiasi tipo essa sia. Non lo può essere12. La determinazione, la descrizione, di sociale pone dei problemi sia per quanto riguarda la forma che il contenuto dell’oggetto sfera all’interno del linguaggio della sociologia e di quello della matematica presi distintamente, ma anche nel momento in cui i due linguaggi confluiscono nel movimento di costruzione ed analisi degli oggetti sociologici. Una sfera sociale rappresenta/è l’insieme (altro termine matematico e sociologico) delle pratiche sociali dei soggetti. Del loro vivere, del loro essere, del loro agire e del loro stesso relazionarsi. 11 Relazione nella quale, attraverso la quale e per mezzo della quale, sfumano le une nelle altre. Lo sfumare che viene riproposto più volte è una caratteristica strutturale, logica e non solo, propria della strategia di gestione ed analisi della vaghezza del reale, in tutte le sue forme e dimensioni. La ricerca stessa è una relazione, in questo contesto. 12 Si dovrebbe infatti, prima di tutto, determinare cosa è un oggetto matematico, quale tipo di filosofia giace dietro le determinazioni matematiche, quindi, istaurare una serie di relazioni tra gli oggetti matematici e gli oggetti sociologici. Una sola filosofia dietro tutto questo? Più approcci filosofici? Più approcci sociologici? Più approcci matematici? Bisogna rispondere a queste domande.

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Nel momento stesso in cui si utilizza, il termine insieme deve essere comunque descritto e costruito nei termini di una formalizzazione matematica, che ha, quindi, come riferimento una posizione filosofica che determina anche lo stesso modo di descrizione e costruzione dei fenomeni sociali. Ricapitoliamo: le dimensioni del termine sfera sociale sono da un lato quella formale, dall’altro quella del contenuto. La prima riguarda il momento della costruzione e dell’uso delle tecniche e degli strumenti di ricerca ed analisi (matematica); la seconda, il momento in cui si costruisce l’oggetto sociologico da investigare (sociologia). Due dimensioni che necessariamente devono tener conto l’una dell’altra. In questo modo è possibile costruire una rete dove i nodi non sono solo ed esclusivamente dei punti, ma delle sfere di esperienze e significati, sfere che vengono collegate e descritte all’interno e per mezzo di una topologia del sociale13. Rete che partendo dalle acquisizioni della social network analysis tradizionale ne modifica in parte le determinazioni. Entrano in gioco i termini di soggetto, struttura, relazione all’interno di una prospettiva relazionale e processuale. 3. Soggetto La costruzione delle sfere riguarda in primo luogo i soggetti. Il soggetto è il primo termine dell’unità complessa di base dell’analisi del sociale, del mondo della vita di tutti i giorni. Non lo si può analizzare in modo disgiunto dagli altri due (che affronteremo tra breve), ma nello stesso tempo ne possiamo dare una descrizione propria14. In prima istanza possiamo caratterizzarlo come un insieme di posizioni all’interno dello spazio sociale, che costruisce, si muove, lungo una determinata traiettoria sociale. Cosa vuol dire insieme di posizioni? Con questa 13 Un buon punto di partenza può essere: «Il luogo, topos, può essere definito assolutamente come il sito in cui una cosa o un agente “ha luogo”, esiste, insomma, come localizzazione o, relazionalmente, topologicamente, come una posizione, un rango in un ordine», BOURDIEU (1997, p. 138). 14 «La società è il fine ultimo e l’individuo soltanto un mezzo», «l'individuo è il fine ultimo e l’associarsi degli uomini in società è soltanto un mezzo per il loro benessere»: entrambe le enunciazioni sono le parole d’ordine che i gruppi contrapposti inalberano in riferimento alla loro situazione attuale, alle loro angustie e ai loro interessi quotidiani. Entrambe esprimono qualcosa di ciò che i due gruppi desiderano che debba essere», ELIAS (1987, p. 19). La nostra descrizione vuole andare al di là di queste due posizioni, seguendo anche, sotto determinati rispetti, le indicazioni dello stesso Elias. Andare al di là per ricomporle secondo una logica differente, non della mutua esclusività, ma della complessità.

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espressione vogliamo descrivere le dinamiche dei vissuti esperienziali del soggetto lungo le singole dimensioni, i singoli livelli ontologici che costituiscono il reale. Dimensioni e livelli che, in altre parole, sono le singole esperienze, nei diversi momenti della vita di tutti i giorni; esperienze che il soggetto si trova a vivere, determina, ma nello stesso tempo ne è determinato nel modo di affrontare il suo quotidiano. L’immagine di partenza non può che essere quella di un diagramma cartesiano, ma se si accettasse in modo definitivo questa rappresentazione, si utilizzerebbe il linguaggio della matematica in termini di pura applicazione al mondo sociale, non di contestuale determinazione matematica e sociologica di un linguaggio proprio della sociologia. Il soggetto non si può trovare né al centro degli assi, origine, punto zero; né tanto meno può essere una semplice coordinata. La sfida è quella di far interagire tra loro matematica e sociologia, linguaggio della matematica e linguaggio della sociologia, in modo tale da non avere una semplice quantificazione, riduzione, traduzione di un vissuto esperienziale che non può essere isolato15 in una serie di numeri16. Questo sia per quanto riguarda il momento teorico, che quello conseguente di predisposizione dei metodi, fino alla conclusiva costruzione ed uso delle tecniche di analisi, i cui risultati ritornano poi sulla e nella teoria. Il soggetto agisce, è sottoposto a forze sociali costruite dalle relazioni con altri soggetti a loro volta in relazione tra loro. Può essere individuale o collettivo, comunque complesso. Non è il prodotto della società, come non né è il semplice produttore; non è al di fuori del tempo, non è il centro del tempo. Vive all’interno della storia che modifica e ne è modificato. Vivendolo modifica il passato in relazione al proprio oggi, preparando il suo futuro. Il soggetto sociale è sempre è comunque un soggetto in relazione con strutture. 4. Struttura Il discorso riguardante i soggetti, è quindi, inscindibile da quello riguar15 Non si può analizzare una dimensione per volta, non si può analizzare solo una dimensione staccandola da tutto il resto della realtà sociale del soggetto, del suo vivere all’interno di una realtà complessa. Ogni singola esperienza parte (ha in sé), tra l’altro, da tutte quelle passate che portano il soggetto a vivere l’oggi; questo vivere, a seconda del problema da affrontare è l’oggetto di studio di volta in volta diverso (eppure unico). 16 Ancora una volta bisognerebbe prima identificare il concetto di numero che si vuole utilizzare.

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dante le strutture sui differenti piani che descrivono le strutture stesse. Secondo termine dell’unità complessa. Secondo non logicamente, né tanto meno temporalmente o nel senso di derivato dal primo. Anche per le strutture sociali possiamo affrontare il problema su differenti livelli di analisi. In primo luogo, una struttura sociale è un qualcosa con il quale ci confrontiamo, quindi, un oggetto presente, sotto qualche forma ed in qualche modo agente su di noi nel mondo esterno. In secondo luogo, questo oggetto può esistere nel momento in cui si decide che esiste: viene progettato, costruito, determina ed è determinato nella sua realtà dai soggetti che si trovano ad interagire con esso, sia da un punto di vista esterno, che da un punto di vista interno17. Una struttura è in interazione con soggetti che le sono esterni, ma nello stesso tempo è determinata da soggetti che ne sono all’interno: dal complesso sistema delle relazioni sociali tra tutti questi soggetti ed essa stessa. Tuttavia, nel momento in cui i soggetti esterni entrano in interazione con la struttura in questione ne fanno in un qualche modo parte: processo di ricorso di organizzazione18 che esemplifica una dinamica della complessità del reale. Ulteriore livello è quello che si può individuare come momento formale della struttura: la struttura come momento formale e insieme di contenuti di significato. È il modo, il processo attraverso il quale, le relazioni ed i soggetti si co-determinano. Una struttura, quindi, può anche essere identificata con le modalità stesse con le quali i soggetti sociali possono entrare in relazione tra loro; specularmente, il modo in cui le relazioni possono connettere tra loro i soggetti. Le forme strutturano i significati che a loro volta si concretizzano nelle, e danno vita alle, forme. Descrivere una struttura come l’insieme di forma e contenuto vuol dire andare al di là, ad esempio, di un uso della social network analysis e delle sue determinazioni in termini di reti che guarda puramente alla conformazione delle rappresentazioni dei grafi di rete, o delle matrici che traducono quelle rappresentazioni e vi operano attraverso trasformazioni logiche, algebriche, statistiche. Strutture simili, reti strutturalmente equivalenti19, lo sono in ragione della 17 Questo processo avviene non solo nella vita effettiva di tutti i giorni, ma anche nel momento in cui un ricercatore sociale si pone un oggetto di studio ed analisi, un fenomeno da descrivere e discutere. Questo secondo aspetto rientra nel processo di oggettivazione dell’oggettivato. Cf. BOURDIEU (2001). 18 Cf. MORIN (1977); MORIN (1991). 19 Per una descrizione classica cf. LORRAIN, WHITE (1971); WHITE, BOORMAN, BREI-

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loro forma che è determinata dal loro contenuto di significati sociali, ma nello stesso tempo determina i significati sociali che la costituiscono. Tutto questo deve essere presente nel momento dell’interazione degli oggetti del linguaggio della sociologia con gli oggetti del linguaggio della matematica. In altre parole le strutture non sono solo forme, insiemi di contenuti, rappresentazioni o oggetti, ma una costruzione che tiene conto di tutto questo. Il tutto complesso si comprende meglio nel momento in cui introduciamo il termine relazione. 5. Relazione Non si può e non si deve guardare solo ed esclusivamente ai soggetti ed alle strutture, lo abbiamo visto nella discussione di questi oggetti, entrano comunque in gioco le relazioni. Terzo termine dell’unità complessa. È dal gioco complesso tra soggetto, struttura e relazione che il fenomeno sociale nasce e attraverso il quale può essere descritto ed analizzato. Anche per questa (la relazione20) si può individuare un livello più strettamente logico, formale, che diventa matematica per poi tornare ad essere sociologia. In altri termini, il linguaggio della matematica e quello della sociologia si incontrano ancora una volta nella proposta teorica, di ricerca ed analisi del sociologo21. Una relazione è tale nel momento in cui connette tra loro due oggetti, (1976); WASSERMAN, FAUST (1994); CARRINGTON, SCOTT, WASSERMAN (2005, eds.). Per l’identificazione del cosiddetto equivoco strutturale cf. SALVINI (2005). 20 Un buon punto di partenza che permette di comprendere come l’oggetto relazione si declini su più livelli può essere: «Non solo ogni fatto è in realtà una relazione, ma il nostro pensiero lo rappresenta implicitamente come tale. Così quando uno pensa «questo è bianco» il dimostrativo «questo» mostra che egli sta pensando a qualcosa che viene portato a sua conoscenza; mentre l’aggettivo mostra che egli riconosce un’idea familiare come applicabile a tale oggetto. Così, il nostro pensiero, quando venga spiegato, si sviluppa nel pensiero di un fatto concernente l’oggetto in questione e concernente la bianchezza. Ancora si deve ammettere che, prima che il nostro pensiero venga analizzato, non pensiamo effettivamente all’essere bianco come a un oggetto distinto, e perciò non pensiamo alla relazione come una relazione. Così l’emissione di vapore dalla locomotiva, può essere pensato come una mera azione della locomotiva, ed il vapore non viene allora considerato come una cosa distinta dalla macchina. È quello che esprimiamo dicendo «la locomotiva sbuffa», PEIRCE (1892, § 3.417). 21 Entrambi, linguaggio della sociologia e linguaggio della matematica, sono a loro volta in relazione con quello naturale, singolarmente ed insieme, all’interno del circuito della complessità. GER

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almeno due oggetti tra i quali la relazione stessa nasce e determina, nel suo complesso, un oggetto di altro tipo. Una relazione sociale, quindi, connette tra loro oggetti sociali22; si possono avere relazioni su più ordini, dipende da quali sono i poli da connettere. Tuttavia, non è un qualcosa di derivato, dipende certo da ciò che è in relazione, ma nello stesso tempo lo determina e modifica. Ancora una volta non ci sono relazioni perché ci sono oggetti da mettere in relazione tra loro (o che sono già in relazione tra loro), come non ci sono oggetti distinti solo perché sussiste, può essere costruita e/o identificata, una qualche relazione che li individua. La relazione può essere descritta come un oggetto complesso. Cosa vuol dire questo? Primo: è sullo stesso livello logico dei soggetti e delle strutture: sono i soggetti ad essere in relazione tra loro con, all’interno e costruendo strutture. Secondo: nella tensione tra relazioni, soggetti e strutture si costruisce il fenomeno sociale. Terzo: contiene, struttura ed è strutturata dal senso delle esperienze dei soggetti. Contiene perché ogni singola relazione nasce ed è formata nel suo essere nel mondo reale attraverso e per mezzo delle esperienze dei soggetti, esperienze che non possono non essere relazionali; struttura, perché il soggetto, in relazione, deve comunque tener conto (esplicitamente o implicitamente) di non essere isolato, quindi, le stesse relazioni che vive, gli dicono, in un qualche modo come le può vivere; strutturata, perché è contestualmente determinata da queste possibilità dei soggetti. All’interno della social network analysis, possiamo vedere tutto questo, ad esempio, nel modo in cui i differenti nodi sono tenuti insieme da links e ne emerge una struttura: la relazione è data dall’intero diagramma, dai possibili nodi e dalle possibili connessioni tra nodi nel momento dell’interazione tra linguaggio della sociologia (costrutti sociologici) e linguaggio della matematica (formalizzazioni all’interno di una matematica). Queste reti non sono all’interno di un vuoto, ma vivono e si modificano nello spazio sociale. 6. Spazio All’interno di queste considerazioni lo spazio23 non può essere identificato 22 Come sarà chiaro dall’intera discussione, gli oggetti sociali, possono essere descritti come l’unità complessa di soggetto-relazione-struttura. In questo modo si vede anche la determinazione ricorsiva dell’emergenza delle relazioni. 23 Punto di partenza può, quindi, essere: «Nello spazio sociale, gli individui non si spostano a caso, da un lato, perché le forze che danno a questo spazio la sua struttura si impongono

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in maniera esclusiva con lo spazio fisico. Se così fosse, se lo spazio sociale fosse una traduzione dell’idea di spazio fisico24, si avrebbe un uso della matematica e della fisica tale per cui entreremmo all’interno di un determinismo meccanicista di tipo classico, o da questo direttamente derivante25. Lo spazio sociale è una costruzione stessa sia dei soggetti che lo vivono, sia del ricercatore che vuole studiare determinati fenomeni sociali; ricercatore che delinea, in questo modo, lo spazio sociale nel quale questi fenomeni avvengono in relazione alla disposizione spaziale dei soggetti, delle strutture e delle relazioni. Il termine spazio racchiude al suo interno, per mezzo dei vissuti esperienziali dei soggetti e dei ricercatori sia le sfere sociali che la costruzione complessa che ne emerge dei campi sociali. La stessa scienza è un campo sociale. In questo modo possiamo vedere come la strutturazione del mondo della vita di tutti i giorni sia una strutturazione che produce ed è prodotta da pratiche sociali, dei soggetti che lo vivono e dei soggetti che lo studiano. Coesistono, quindi, relazioni tra soggetti e strutture e tra habitus e campi: il tutto all’interno dello spazio sociale. Spazio sociale, strutture che sono comunque un qualcosa di differente dai sistemi. 7. Sistema Il termine sistema viene delineato in relazione alla idea di complessità che soggiace a queste considerazioni. Il concetto di sistema complesso26 è quello a loro (per esempio attraverso i meccanismi oggettivi di eliminazione e di riorientamento) e, dall’altro, perché impongono alle forze del campo la propria inerzia, cioè le loro proprietà, che possono sussistere in forma incorporata, come atteggiamenti, o in forma oggettivata, nel possesso di beni, titoli, ecc. Ad un determinato volume di capitale ereditario corrisponde una gamma di traiettorie pressappoco egualmente probabili, che portano a posizioni più o meno equivalenti: si tratta del campo delle possibilità oggettivamente offerte ad un determinato agente sociale; mentre il passaggio da una traiettoria sociale all’altra dipende spesso da avvenimenti collettivi – guerre, crisi, ecc. – o individuali – incontri, legami, protezioni, ecc. – che, in genere, vengono descritti come casi fortunati (o disgraziati), nonostante che anch’essi dipendano statisticamente dalla posizione e dagli atteggiamenti di coloro che ne sono toccati (per esempio dal senso delle «relazioni», che consente a coloro che posseggono un consistente capitale sociale di conservare o di accrescere questo capitale); quando non sono addirittura controllati dagli interventi, istituzionalizzati (clubs, riunioni di famiglia, sodalizi di «ex», ecc.) o «spontanee», da parte degli individui o dei gruppi.», BOURDIEU (1979, pp. 111-112). Punto di partenza che, tuttavia, non è anche un punto di arrivo definitivo. 24 Anche nel senso di una spazializzazione metrica del sociale. 25 Cf. ISRAEL (1996; 2002). 26 «Il sistema è allo stesso tempo più, meno, qualcosa di diverso dalla somma delle parti. Le parti stesse sono meno, in certi casi più, in ogni modo diverse da ciò che erano o che

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che ci permette di vedere gli elementi di base soggetto, struttura, relazione, come una unità, una unità complessa. In questo modo si va al di là di descrizioni che possono essere identificate come olistiche, individualistiche, formalistiche. In primo luogo il sistema non è contrapposto al soggetto. Non si ha una dicotomia netta e forte tra sistema e soggetto, quest’ultimo è componente necessaria del primo, ma nello stesso tempo non si può analizzare se non alla luce, all’interno delle dinamiche dei sistemi stessi. I sistemi sono sempre e comunque sistemi di soggetti che si relazionano con altri soggetti; ma nello stesso tempo i soggetti determinano i sistemi. C’è il rischio di confondere, a questo punto, sistema e struttura, ma lo stesso percorso seguito per delineare la tensione tra sistema e soggetto deve essere contestualmente seguito nella analisi della relazione tra sistemi e strutture. Un sistema sociale non è una struttura sociale, come non è una semplice somma di più strutture. In secondo luogo, all’interno del sistema complesso non vi è, quindi, una predominanza di uno dei tre elementi, ma è la loro interazione complessa, continua, dinamica, ricorsiva e, quindi, non lineare che permette di costruire il sistema stesso. In questo modo, l’analisi è contestualmente su più livelli: non si ha un obbligo di scelta tra sistema e soggetto, il soggetto coesiste con il sistema all’interno dell’unità di analisi grazie alla sua dinamica con le strutture e le relazioni. Anzi, è proprio l’unità complessa di base che, caratterizzando i sistemi, li determina nel mondo della vita di tutti i giorni. Vanno, quindi, riconsiderate le descrizioni del rapporto tra un sistema e le sue parti. Le classiche analisi che estendono le proprietà del sistema alle parti o, viceversa, quelle delle parti al sistema, su cui si basano gli approcci olistici e individualistici, partono dall’idea di dover analizzare esclusivamente strutture o soggetti. La relazione diviene un problema. Possiamo, quindi, definire sistema una concretizzazione dell’unità complessa in un dato momento storico. Ovviamente nello stesso momento possono coesistere più concretizzazioni, quindi, più sistemi. Concretizzazioni che sono costruzioni. 8. Costruzione La costruzione è in un certo senso lo stile e l’approccio epistemologico, sarebbero esternamente al sistema», MORIN (1977, pp. 147-148). Sistema, che, quindi, non è quello fornito dalla descrizione di N. Luhmann (1984).

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di ricerca teorico ed empirico, dell’intera proposta che qui stiamo delineando. In effetti avremmo dovuto dire costruendo. Punto di partenza e di riferimento può essere: Tutto il mio progetto scientifico infatti si fonda sulla convinzione che non è dato cogliere la logica più profonda del mondo sociale se non immergendosi nella particolarità di una realtà empirica, storicamente situata e datata, ma solo per costruirla come «caso particolare del possibile», secondo la formula di Gaston Bachelard, ossia come tipo di configurazione in un universo finito di configurazioni possibili27.

I differenti livelli ontologici hanno sempre e comunque una tensione con il mondo esterno, questo ovviamente non è costruito nella sua propria determinazione, ma ne sono costruite le modalità, gli strumenti, con i quali e per mezzo dei quali noi entriamo in relazione con esso. È questo che costituisce le dimensioni ontologiche dei fenomeni sociali, come anche l’intera serie degli strumenti e delle modalità e categorie che ci permettono di studiare ed analizzare i soggetti, le relazioni, le strutture nel mondo della vita di tutti i giorni. Le differenti dimensioni che costituiscono la realtà le permettono di acquisire la determinazione di sociale nel momento in cui il ricercatore, con un atto intenzionale, si rivolge verso il mondo esterno ed inizia a costruire le modalità della propria osservazione. Costruisce la propria osservazione, che non è più, quindi, una operazione di registrazione, un tentativo di tradurre un qualcosa di già dato ed inserirlo all’interno di uno schema di riferimento, di un approccio scientifico, di una costruzione già data. È la costruzione del sapere del ricercatore, delle dimensioni lungo cui si svolgono i fenomeni sociali. La costruzione stessa dei fenomeni sociali. Porre sotto analisi questo processo vuol dire trattare la stessa sociologia come un oggetto. Dall’interazione tra il linguaggio della sociologia ed il linguaggio della matematica emerge una modalità di costruzione degli oggetti teorici e del modo di costruirli come oggetti scientifici. Da questa interazione emerge un’altra dimensione, un altro linguaggio: il modello. 9. Modello Fin dall’inizio di questa descrizione, nel momento in cui abbiamo preso 27

BOURDIEU (1994, p. 14).

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in esame il termine realtà, la tensione con e tra il/i linguaggio/i è stato uno dei fili conduttori del nostro discorso, ora possiamo aggiungere un ulteriore passaggio. Le prime considerazioni che dobbiamo fare sul termine modello riguardano la tensione che può instaurarsi tra l’uso di un modello di realtà e la realtà del modello28. Tensione che può essere considerata come un problema nel momento in cui per realtà del modello si intende estendere alla realtà esterna le determinazioni di un preciso modello, prescindendo dalle considerazioni che hanno portato alla costruzione di questo ed operando una pura e semplice identificazione del mondo della vita di tutti i giorni con una posizione teorica che lo identifica come ontologicamente unitario. Un modello è un linguaggio, una determinazione diagrammatica29, non necessariamente per diagrammi30, con il quale leggere i fenomeni sociali. Con determinazione diagrammatica vogliamo intendere le caratteristiche che questo linguaggio possiede; caratteristiche che permettono di com28 «Non si può non citare un testo nel quale Wittgenstein con una certa disinvoltura raccoglie tutte le questioni evitate dall’antropologia strutturale e senza dubbio più in generale da qualunque intellettualismo, che trasferisce la verità oggettiva stabilita dalla scienza in una pratica che esclude la postura in grado di rendere possibile stabilire tale verità: «Che cosa ‘chiamo la regola in base alla quale procede’? – L’ipotesi che descrive in modo soddisfacente il suo uso delle parole che noi osserviamo; o la regola che tiene presente nell’usare i segni; oppure quella che per tutta risposta ci enuncia quando gli chiediamo qual è la regola cui si attiene? – Ma, se l’osservazione non ci permettesse di riconoscere chiaramente alcuna regola, e la nostra domanda non ne mettesse in luce nessuna? – Infatti alla mia domanda: che cosa intendesse per “N”, mi ha bensì dato una definizione; ma era pronto a ritirarla e a modificarla. – Dunque, come devo determinare la regola secondo cui giuoca? Non lo sa neppure lui. – O, più correttamente: che cosa vuole ancor dire, qui, l’espressione: “Regola secondo cui procede!”». Fare della regolarità, cioè di ciò che si produce con una certa frequenza, statisticamente misurabile, il prodotto del regolamento coscientemente istituito e coscientemente rispettato (ciò che presupporrebbe che se ne spieghi la genesi e l’efficacia), o della regolazione inconscia di una misteriosa meccanica cerebrale e/o sociale, significa voler scivolare dal modello della realtà alla realtà del modello: «Consideriamo la differenza tra “il treno ha regolarmente due minuti di ritardo” ed “è la regola che il treno abbia almeno due minuti di ritardo”: [...] in quest’ultimo caso si suggerisce che il fatto che il treno sia in ritardo di due minuti è in accordo con una politica o un piano [...]. Le regole rinviano a dei piani e a delle politiche, non così le regolarità [...]. Pretendere che debbano esserci delle regole nella lingua naturale equivale a pretendere che le strade debbano essere rosse perché corrispondono a delle linee rosse su una carta»», BOURDIEU (1972 (2000), pp. 202-203). Bourdieu, quindi, cita direttamente prima L. Wittgenstein (1941-1949, § 82) e poi P. Ziff (1960, p. 38). 29 Cf. PEIRCE (1902, § 2.277). 30 Intesi come figure geometriche, o esemplificazioni quali i diagrammi di flusso. Se fosse solo questo, si avrebbe di nuovo un mera traduzione, una applicazione non problematizzata di un linguaggio (spesso quello della matematica) ad oggetti di un altro linguaggio.

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prendere come sia effettivamente una questione riguardante il linguaggio la costruzione stessa di un modello. Un modello non è quindi una parte o una esemplificazione o una riduzione funzionale di una teoria. Questo sia per ragioni logiche, che per considerazioni epistemologiche. Un modello può, quindi, essere descritto come la costruzione di significati scientifici attraverso la tensione tra differenti linguaggi. Tensione che genera possibilità d’uso all’interno della riflessione teorica, della progettazione di metodi e costruzione ed applicazione di tecniche. La costruzione del modello è una delle pratiche sociali del ricercatore nel campo della scienza. Pratica sociale, che come tutte le altre, è strutturata su e da vincoli e possibilità. 10. Vincolo – Possibilità Vincolo e possibilità non possono essere analizzati separatamente, a differenza dell’unità complessa di base soggetto-strutture-relazioni. Rappresentano, sono, i meccanismi interni dell’intero processo: le due facce di una medaglia che è la stessa operazione del conoscere. Non si dà vincolo che non sia contestualmente anche possibilità31. Nel momento stesso in cui decidiamo di costruire, costruiamo, le nostre descrizioni del fenomeno sociale, delineiamo vincoli logici, epistemologici, tecnici. Non barriere insormontabili32, ma guide sfumate lungo il percorso. In questo modo ogni vincolo è una serie di possibilità, di opzioni che permettono di proseguire e determinare altri vincoli. Il tutto non avviene all’interno di un laboratorio asettico e rigidamente controllato, ma nel mondo della vita di tutti i giorni, nel mondo della costruzione di conoscenza scientifica, mondi che ammettono, se non anelano, la possibilità di serendipity33. Nel momento in cui diciamo che non sono barriere insormontabili lasciamo aperta la porta alla vaghezza. Sicuramente i vincoli biologici sono 31 Mentre i soggetti non sono strutture e non sono relazioni, ma i tre oggetti si determinano reciprocamente, anche in termini di vincoli e possibilità, questi ultimi sono in effetti un’unica determinazione funzionale. 32 Può anche accadere che lo siano, ma anche questa è una possibilità determinata da un particolare vincolo, che determina a sua volta altri particolari vincoli. Siamo nel mondo in cui l’eccezione è la regola, non quello chiuso e ben ordinato della logica classica, ma quello più dinamico delle descrizioni vaghe e caotiche. 33 Anche in relazione al processo abduttivo cf. PEIRCE (1878b); PEIRCE (1901); MERTON (1949 [1968]); MERTON, BARBER (1992).

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invalicabili, ma solo se determinano in modo diretto, lineare, univoco le proprie possibilità di riferimento. Il corpo dell’uomo non può volare, ma l’uomo vola. Entrano in gioco gli spazi delle disposizioni sociali. 11. Disposizioni Le disposizioni34 sono la possibilità di azione di ogni singolo soggetto all’interno dell’unità complessa con le strutture e le relazioni concretizzatasi lungo la traiettoria del soggetto. Possibilità concretizzatasi che apre a nuove possibilità. Rappresentano, sono, la tensione tra il contenuto delle singole posizioni e l’insieme stesso delle posizioni del soggetto35. Lo spazio delle disposizioni è di volta in volta il punto di partenza di ogni singolo soggetto nel suo vivere il mondo della vita di tutti i giorni. Non è un semplice poter fare “questo” piuttosto che “quello”, ma contiene anche il perché potremmo fare “questo” o “quello”, il perché potremmo scegliere di fare l’uno o l’altro. Sono, quindi, l’antecedente temporale delle pratiche sociali. Antecedente temporale, non logico in quanto sono pratiche esse stesse36. Pratiche come lo sono, sotto determinati rispetti, gli habitus. 12. Habitus Disposizioni, pratiche, habitus tre oggetti all’interno e determinanti la processualità del sociale. Analizzate le disposizioni passiamo agli habitus. La descrizione del termine habitus è forse uno dei nodi più intricati da sciogliere all’interno di questo percorso. Perché si dovrebbe inserire questo oggetto nel momento in cui abbiamo già i soggetti, le disposizioni, le strutture, le relazioni? Sicuramente non lo facciamo per amore della complicatezza, ma per descrivere la complessità. Per descrivere il movimento continuamente processuale e ricorsivo di una descrizione del reale che non è mai statico, fermo, unidimensionale. 34 In una nota Bourdieu afferma: «La parola “disposizione” sembra particolarmente appropriata per esprimere ciò che designa il campo dell’habitus (definito come sistema delle disposizioni). Infatti, esso esprime in primo luogo il risultato di un’azione organizzatrice presentando quindi un senso delle parole molto vicino a quello di struttura; per altro, designa anche un modo di essere, uno stato abituale (in particolare del corpo) e nello specifico, una predisposizione, una tendenza, una propensione o un’inclinazione», BOURDIEU, (1972 [2000], n. 39, p. 206). 35 Cf. BOURDIEU (1972 [2000], p. 225). 36 Non si deve, tuttavia, identificare disposizioni e pratiche. Le disposizioni sono pratiche sociali alla base di altre pratiche sociali.

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Il modo più semplice per arrivare ad una descrizione di questo termine parte da un confronto tra una posizione contestualmente logica, semiotica e filosofica con una propriamente sociologica37. Per sviluppare il significato di qualsiasi cosa, dobbiamo semplicemente determinare quali abiti produce, perché ciò che una cosa significa è semplicemente l’abito che comporta. Ora, l’identità di un abito dipende da come può indurci ad agire, non solamente nelle circostanze che probabilmente si daranno, ma anche in quelle che potrebbero darsi, a prescindere dalla loro improbabilità38. Poiché condizioni di esistenza differenti producono differenti habitus, cioè sistemi di schemi generatori suscettibili di venir applicati, per semplice trasferimento, ai più diversi ambiti della pratica, le pratiche generate dai diversi habitus si presentano come configurazioni sistematiche di proprietà, che rendono manifeste le differenze oggettivamente iscritte nelle condizioni di esistenza, sotto forma di sistemi di distanze differenziali che, percepiti da soggetti dotati di quegli schemi di percezione e di valutazione indispensabili per individuarne, interpretarne e valutarne gli aspetti pertinenti, funzionano come stili di vita. Ciò significa che il rapporto tra le condizioni di esistenza e le pratiche, o il senso delle pratiche, non deve venir inteso né in una logica meccanica né in una logica della coscienza39.

Le due citazioni, la prima di C.S. Peirce, la seconda di P. Bourdieu, ci aiutano, quindi, a capire come punto di partenza di ogni discussione sul concetto di habitus sia quello di descriverlo come un principio generatore di pratiche. È il momento processuale che porta uno spazio di disposizioni a diventare, concretizzarsi, in uno spazio delle pratiche. Esso stesso una pratica sociale40. Attraverso l’habitus, inoltre, abbiamo un’ulteriore descrizione del superamento della rigida dicotomia individualismo-olismo41. Ancora, possiamo arricchire il nostro percorso confrontandolo con le considerazioni di N. Elias sui processi di coinvolgimento e distacco42 e attraverso la descrizione in 37 Sarà, quindi, chiaro come le due descrizioni non appartengono a dimensioni distinte nettamente e rigidamente, ma forniscono lo spunto per comprendere la complessità stessa della costruzione di una descrizione scientifica (quindi, logica, semiotica e filosofica) in termini sociologici. 38 PEIRCE (1878a, § 5.400). 39 BOURDIEU (1979, p. 175). 40 Vale, a questo punto, la stessa precisazione che abbiamo dato riguardo alle disposizioni. Gli habitus sono pratiche nel senso che sono il momento processuale del passaggio da disposizioni a pratiche, quindi, in quanto processo sono essi stessi una pratica. Una pratica sociale tout court può essere descritta, in prima istanza, come il concretizzarsi da uno spazio di disposizioni, attraverso l’instaurarsi di un habitus, di un vissuto esperienziale. 41 BOURDIEU (1997, p. 164). 42 Cf. BOURDIEU (2002, p. 31); ELIAS (1983); ELIAS (1987).

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atto che ne dà, sempre, Bourdieu nel momento in cui costruisce una sfera lungo la traiettoria nell’analisi della sua pratica sociale di scienziato attraverso la ricostruzione del suo habitus scisso43. Un habitus scisso non in termini netti e precisi, ma con significati che sfumano, quindi, vaghi. 13. Vaghezza Arriviamo, quindi, alla descrizione di una delle caratteristiche irriducibili della realtà sociale. La vaghezza del sociale può essere descritta come la complessità dell’informazione. Nella tensione tra differenti linguaggi che porta alla costruzione di un modello, quindi, alla contestuale identificazione dei livelli ontologici della realtà che diventano dimensioni sociali, la vaghezza costituisce la complessità stessa dell’informazione. Ogni singola dimensione sociale è costituita e costituisce significati sociali, contenuti di senso che si concretizzano nei vissuti esperienziali dei soggetti e delle strutture generando relazioni e, contestualmente, generate per mezzo di relazioni. Utilizzando come cornice di riferimento, per il momento teoretico, quello metodologico e quello euristico, una logica che abbia come scopo quello di eliminare la vaghezza si arriverebbe a fornire una informazione parziale. Si dovrebbe necessariamente incentrare l’intero discorso su di una delle dimensioni del reale, per poter fornire una certezza all’interno di un sistema formale rigido e chiuso. I fenomeni sociali sono tutt’altro che sistemi formali rigidi e chiusi44, quindi il volerli analizzare attraverso e per mezzo di questi meccanismi45 risponde sicuramente ad esigenze di ricerca e di ottimizzazione di strumenti sia concettuali che analitici a disposizione, tuttavia si rischia di imporre una realtà del modello, piuttosto che gestire e analizzare la complessità della realtà tramite modelli più adeguati. Non è la realtà che si deve plasmare sul modello, eliminando informazione, ma il modello che deve costruire conoscenza in interazione con una realtà complessa. 43 «questo habitus scisso, prodotto di una “conciliazione degli opposti” che predispone alla “conciliazione degli opposti”, trova la sua migliore espressione nello stile caratteristico della mia ricerca, nel tipo di oggetti che mi interessano, nel mio modo di affrontarli», BOURDIEU (2002, p. 96). 44 Un aspetto importante di questa considerazione riguarda il ruolo giocato dalle norme all’interno della descrizione e costruzione dei fenomeni sociali. Considerazioni particolarmente interessanti sono state sviluppate da Coleman (1990) nel momento in cui affronta il problema del posto, del ruolo e della funzione da attribuire a queste all’interno dell’organizzazione generale di una teoria sociale. 45 Nella forma di sistemi formali rigidi e chiusi.

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14. Pratica di ricerca Un possibile esempio di come tutto questo si concretizzi in, sia esso stesso una pratica di ricerca, deve necessariamente essere sviluppato lungo due dimensioni che sfumano l’una nell’altra: la prima, quella del ricercatore che analizza, costruisce l’analisi di, un determinato fenomeno sociale; la seconda, quella del processo stesso di ricerca che deve diventare a sua volta oggetto di studio. Le due dimensioni non si possono scindere. Il ricercatore costruisce il proprio oggetto di studio attraverso la analisi della unità complessa soggetto-struttura-relazione. Egli stesso nel momento in cui fa ricerca appartiene ad una di queste unità complesse che sfuma in quella oggetto il carattere della vaghezza è proprio della realtà sociale anche nel momento della ricerca scientifica. Unità complessa soggetto-struttura-relazione, che è, quindi, in tensione con i sistemi sociali che la producono, ma che ne sono al tempo stesso prodotti, attraverso e per mezzo dei vincoli e delle possibilità dell’unità complessa e dei sistemi stessi. In questo modo possiamo comprendere come le sfere sociali sono costruite attraverso il processo che intercorre tra disposizioni ed habitus all’interno dello spazio sociale. Unità complessa soggettostruttura-relazione che non si concretizza come oggetto sociale reale se non nel momento della sua costruzione. Nello stesso tempo il ricercatore che la indaga contribuisce a questa costruzione attraverso quella di un modello della realtà nel momento in cui concretizza il proprio spazio delle disposizioni attraverso gli habitus in una pratica sociale, per descrivere, costruire, le sfere sociali attraverso l’analisi dell’unità soggetto-relazioni-strutture all’interno dello spazio sociale. Il tutto in tensione con il sistema sociale della scienza: vincoli e possibilità reciproche fanno la loro comparsa. Detto in altri termini: partendo dalla molteplicità delle dimensioni della realtà sociale si può vedere come lungo tutte queste dimensioni, dimensioni vaghe che sfumano le une nelle altre, vi sono sfere sociali che sono il modo in cui la tensione tra soggetti-strutture-relazioni si concretizza all’interno di uno spazio sociale che contribuisce a costruire, ma che nello stesso tempo ne è il produttore. Soggetti-strutture-relazioni che sono a loro volta in tensione reciproca con i sistemi sociali, li costruiscono in relazione ai propri vincoli e possibilità e ne sono a loro volta costruiti. In questo modo si passa dagli spazi di disposizioni alle pratiche sociali attraverso gli habitus. Il ricercatore legge, costruisce, questa ontologia del complesso attraverso modelli di realtà che sono determinati dai suoi vincoli e dalle sue possibilità

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teoretiche. Vincoli e possibilità che sono il frutto del suo essere soggetto all’interno di una relazione che si determina attraverso e per mezzo di strutture con il sistema scienza. Lo stesso processo, si può descrivere, quindi, prendendo come oggetto la ricerca scientifica stessa e costruendo la sfera del ricercatore all’opera nello spazio sociale attraverso il passare dalle sue disposizioni alla sua pratica attraverso i suoi habitus. 15. Ricomposizione Tutti i termini che abbiamo descritto contribuiscono a tracciare una proposta teorica che è, nello stesso tempo, una ricerca euristica. Oggetto sociale, fenomeno da indagare, è risultato essere: come descrivere un possibile approccio alla sociologia stessa. A questo punto si dovrebbero tirare i vari fili che abbiamo lasciato disseminati tra i singoli termini, fili che non sono altro che i modi in cui i vari termini sfumano gli uni negli altri. Non vi sono strutture che non siano al tempo stesso soggetti in relazione e relazioni tra soggetti; non vi sono soggetti che non siano al tempo stesso produttori di strutture attraverso relazioni e prodotti di relazioni tra strutture; non vi sono relazioni che non siano al tempo stesso strutture di soggetti e soggetti che determinano strutture. La ricorsività di tutto questo diventa ancora più esplicita nel momento in cui si inseriscono gli altri termini nel gioco sociale. Per renderlo evidente, abbiamo compilato due differenti elenchi dei termini proposti (due possibili percorsi): il primo, seguendo un preciso percorso teoretico, una pratica46 (quello che effettivamente è stato seguito per le nostre considerazioni); il secondo, semplicemente ponendo in ordine alfabetico i termini (Tabella 1). Tutto questo per arrivare alla costruzione, attraverso un incrocio47 «In altre parole ogni conoscenza è inserita in una pratica. Poiché d’altra parte ogni pratica, compresa la pratica di comunicazione, implica evidentemente un certo modo di conoscere la realtà su cui si esercita, conoscenza e pratica, cioè conoscenza e funzione, sono inseparabilmente legate, e la struttura che determina un modo di conoscere non è dunque mai una struttura che determina semplicemente questo modo di conoscere, ma sempre una struttura che, come appunto la lingua, rende possibile nello stesso tempo una certa pratica», PRIETO (1975, p. 10). 47 Si è iniziato dal primo termine in alto a sinistra (realtà), si è passati al corrispettivo nella seconda colonna (costruzione), a questo punto è stato individuato nella prima e si è proceduto fino alla ricomparsa del primo termine della prima colonna nella seconda. Quindi, si è passati nella prima colonna ad individuare il primo termine non presente nella prima sequenza (soggetto) e si è ripetuto il processo. Le sequenze individuate sono: 46

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tra le due colonne di un terzo percorso il quale mostra come le sequenze presentino, comunque, termini vicini che sfumano gli uni negli altri. Questo terzo percorso è stato presentato nella figura 1. PERCORSO 1 PERCORSO 2 Realtà Costruzione Sfera Disposizioni Soggetto Habitus Struttura Modello Relazione Possibilità Spazio Realtà Sistema Relazione Costruzione Sfera Modello Sistema Vincolo Soggetto Possibilità Spazio Disposizioni Struttura Habitus Vaghezza Vaghezza Vincolo Tabella 1: Gli ordinamenti dei termini Fig. 1: Ricomposizione diagrammatica dei termini all’interno del processo Realtà Costruzione Vincolo

Sfera Vaghezza

Soggetto

Struttura Disposizioni Relazione

Modello Habitus Possibilità

Sistema

Spazio

1) Realtà – costruzione – sfera – disposizioni – struttura – modello – sistema – relazione – possibilità – spazio – realtà; 2) Soggetto – habitus – vaghezza – vincolo – soggetto

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Il perché di una tale ricomposizione, di una tale possibile ricomposizione, risiede nella ricorsività e co-costruzione degli oggetti in questione. La rappresentazione che è stata costruita risente del vincolo della bidimensionalità del foglio di carta, quindi, le possibilità delle doppie frecce sono state sfruttate per rendere la ricorsività dell’intero processo. Qualsiasi altro criterio di ordinamento sarebbe stato equivalente, in un certo senso sarebbe stato un isomorfismo. Bibliografia BACHELARD G. (1938), La formation de l’esprit scientifique, Paris, Vrin, trad. it. La formazione dello spirito scientifico, a c. di E. Castelli Gattinara, Milano, Raffaello Cortina, 1995. BOURDIEU P. (1972 (2000)), Esquisse d’une théorie de la pratique précédé de Trois études d’ethnologie kabyle, Paris, Editions du Seuil, trad. it. Per una teoria della pratica. Con Tre studi di etnologia cabila, a c. di I. Maffi, Milano, Raffaello Cortina, 2003. BOURDIEU P. (1979), La distinction, Paris, Les éditions du minuit, trad. it., La distinzione. Critica sociale del gusto, a c. di G. Viale, Bologna, il Mulino, 1983. BOURDIEU P. (1994), Raisons pratiques. Sur la théorie de l’action, Paris, Éditions du Seuil, trad. it. Ragioni pratiche, a c. di R. Ferrara, Bologna, il Mulino, 1995. BOURDIEU P. (1997), Méditations Pascaliennes, Paris, Éditions du Seuil, trad. it. Meditazioni pascaliane, a c. di A. Serra, Milano, Feltrinelli, 1998. BOURDIEU P. (2001), Science de la science et réflexivité. Cours du Collège de France 20002001, Paris, Éditions Raisons d’agir, trad. it. Il mestiere di scienziato, a c. di A. Serra, Milano, Feltrinelli, 2003. BOURDIEU P. (2002), Ein soziologischer Selbstversuch, Suhrkamp, Frankfurt am Main, trad. fr. Esquisse pour une auto-analyse, Paris, Éditions Raisons d’Agir, 2004, trad. it. Questa non è un’autobiografia. Elementi per un’autoanalisi, a c. di A. Serra, Milano, Feltrinelli, 2005. CARRINGTON P.J., SCOTT J., WASSERMAN S. (2005, eds.), Models and Methods in Social Network Analysis, Cambridge, Cambridge University Press. COLEMAN J.S. (1964), Introduction to Mathematical Sociology, Glencoe, The Free Press. COLEMAN J.S. (1990), Foundations of Social Theory, Cambridge, The Belknap Press. ELIAS N. (1983), Engagement und Distanzierung. Arbeiten zur Wissenssoziologie I, Frankfurt am Main, Suhrkamp. ELIAS N. (1987), Die Gesellschaft der Individuen, Frankfurt, Suhrkamp. GIVIGLIANO A. (2006), La costruzione del dato in sociologia. Logica e linguaggio, Milano, Franco Angeli. ISRAEL G. (1996), La mathématisation du réel. Essai sur la modélisation mathématique, Paris, Éditions du Seuil. ISRAEL G. (2002), Modelli matematici. Introduzione alla matematica applicata, Roma, Muzzio. LORRAIN F., WHITE H.C. (1971), “Structural equivalence of individuals in social networks”, Journal of Mathematical Sociology 1, pp. 49-80. LUHMANN N. (1984), Soziale Systeme. Grundriß einer allgemeinen Theorie, Frankfurt am

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ELENA GIORGIANA MIRABELLI Il movimento della vergogna. Note a J.M. COETZEE, Disgrace, trad. it. Vergogna, Torino, Einaudi, 2003 «Vergogna esplora gli estremi territori di ciò che significa essere umani: è alla frontiera della letteratura mondiale» The Sunday Telegraph

0. Le grandi opere narrative, quelle potenti, corpose, definitive, ben si prestano ad una lettura di tipo filosofico per la capacità che hanno di porsi ad un livello di descrizione del reale, del mondo e dell’animale che lo vive, assolutamente perspicua. Possono ancor di più essere concepite come vere e proprie opere filosofiche. Dostoevskij ne è un esempio paradigmatico, i suoi romanzi, potenti e definitivi, hanno sollevato questioni sull’esistenza umana e sui suoi più intricati interrogativi, quali la libertà, la colpa e l’espiazione e il sacro. Le grandi figure quali il Raskòlnikov di Delitto e castigo o Ivan Karamazov de I fratelli Karamazov ancora oggi ci aprono a questioni che riguardano l’animale umano in tutta la sua specificità ed interezza, in tutta la sua inquietudine e incompletezza. Non diversamente il romanzo di Coetzee, Vergogna – pubblicato nel 1999 e tradotto in Italia nel 2000 – oltre che descrivere i cambiamenti del Sudafrica post-apartheid, offre ai lettori la possibilità di riflettere sul senso stesso di essere umani. Ciò che emerge anzitutto è un Sudafrica “dove i fatti avvengono ancora, è un mondo dove il corpo ha ancora un suo peso ancora radicato nella terra”1. Un Sudafrica in cui comincia ad affiorare la possibilità di una convivenza fra i neri e i bianchi, un Sudafrica in cui tale possibilità viene rappresentata dalla decisione di utilizzare il proprio corpo per renderla reale, un figlio della violenza che diventa promessa di quella possibilità. In altre parole mette in scena e offre una descrizione della retroazione sul singolo delle trasformazioni sociali, della retroazione sul singolo della collettività di appartenenza. Una descrizione di come il soggetto accetti tali cambiaGIAN PAOLO SERINO, “Forever Coetzee”, in Carmilla. Letteratura, immaginario e cultura di opposizione, www.carmillaonline.com, Ottobre 2003. 1

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menti di cui esso stesso è artefice, di come il singolo concreto si rapporti ad una norma di tipo collettivo e di quali caratterizzazioni emotive tale rapporto metta in campo. 1. La “vergogna” è la caratterizzazione emotiva di cui Coetzee si interessa e di cui tenta di dare una descrizione che renda evidente quella cesura fra collettività e singolo concreto che è prodotto e nello stesso tempo produttore di trasformazioni di tipo sociale e politico. Il protagonista David Lurie è una sorta di centro di gravità attorno al quale si muove il “gioco della vergogna”, gioco che mostra il proprio andamento mutevole. Parlerò infatti di “un movimento” della vergogna chiarendo già da ora i termini che intenderò adottare e che, in momenti diversi, diventeranno attributi di David Lurie (il protagonista del “gioco della vergogna”): parlerò di “oggetto” e di “soggetto” di vergogna. Utilizzerò il primo termine qualora la caratterizzazione emotiva venga attribuita ad un dato soggetto (il nostro David Lurie) dallo sguardo altrui, senza che l’oggetto di attenzione collettiva riesca ad interiorizzare quello sguardo e a provare esso stesso vergogna per sé. Il secondo termine (“soggetto” di vergogna) lo utilizzerò qualora l’interiorizzazione dello sguardo altrui sia in atto e qualora tale soggetto provi vergogna per se stesso. In un primo momento, infatti, David Lurie è “oggetto” di vergogna. È il suo comportamento ad essere definito “vergognoso”, è la collettività tutta che prova vergogna per lui: “No, professor Lurie, lei sarà pure illustre, avrà chissà quante lauree, ma se fossi in lei mi vergognerei profondamente di me stesso, che Dio mi aiuti”2. “Certo che me la prendo con lei! Con te e con lei. L’intera vicenda è vergognosa, dal principio alla fine. Vergognosa e anche volgare. E te lo dico senza alcun rincrescimento”3

2. David Lurie è un professore della Cape Town University, è un cinquantaduenne divorziato al centro di un’accusa di molestie sessuali. È una sua studentessa – Melanie Isaacs – con la quale intrattiene una relazione, a denunciarlo. La commissione d’inchiesta che è chiamata a decidere sul da farsi decreta e riconosce quale “vergognoso” il suo atto. 2 J.M. COETZEE, Disgrace (1999), trad. it. Vergogna, a cura di Gaspare Bona, Torino, Einaudi, 2003, p. 40. 3 Ivi, p. 47.

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David ammette la sua colpevolezza, che è quella di aver dato ad “Eros” il comando, di non aver impedito che l’impulso si facesse spazio e lo annichilisse, ma non mostra di provare pentimento né vergogna. Difatti non è David Lurie a provare vergogna, ancora durante questa fase del “movimento”, D.L. è incapace di interiorizzare lo sguardo altrui e a concepire esso stesso quale vergognoso il proprio atto, ma è la collettività – studenti, colleghi, i suoi cari – a vedere in lui e ad attribuire a lui tale caratterizzazione emotiva. Per una ragione ben precisa: David si è sottratto ad una regola, non l’ha rispettata. Una regola proibitiva che riguarda le relazioni intergenerazionali, una regola che stabilisce i comportamenti etici che un professore deve mantenere con i propri allievi. Ed è nella trasgressione4, la vergogna. È nel momento in cui l’intimità viene rivelata e resa pubblica, la vergogna. È nella presa di posizione forte di David Lurie di “non riconoscere pubblicamente il suo errore”5, la vergogna. È nel sentirsi scoperto, “svelato” allo sguardo altrui, è nel “dipendere” da quello sguardo, la vergogna. “L’«Io» è così subordinato al «tu-io», è sempre sotto il suo sguardo, uno sguardo da cui dipendo e che non dipende da me: questa è la condizione antropologica della vergogna”6.

Lo sguardo altrui diviene sprezzante, giudicante. È uno sguardo capace di punire D.L. perché il non riconoscimento, da parte di questi, della propria colpa, la mancanza di rossore, il non provar vergogna per se stesso, rendono colpevole David Lurie di hybris, e ciò rende il comportamento di D.L. ancor più vergognoso. È come se venisse messo in luce l’attrito fra D.L. e la collettività, o meglio fra D.L. e il modello di comportamento adottato dalla collet4 La vergogna come caratterizzazione emotiva dell’animale umano legata al problema della trasgressione di una norma, o ancora meglio come quella caratterizzazione emotiva legata all’inadeguatezza del singolo di fronte all’applicazione di una regola accettata e stabilita dalla collettività, un’inadeguatezza che viene esposta allo sguardo di quella collettività. All’interno del romanzo Coetzee fa più volte riferimento allo sguardo e alla collettività come una sorta di organismo che ha “diritto di sapere” e che ha il compito di infliggere la sanzione. Lo sguardo della collettività è ciò da cui ha origine e si sviluppa il “movimento” della vergogna. 5 Ivi, p. 61. 6 F. CIMATTI, “Vergogna e individuazione”, Forme di vita, 5 (2006), p. 191.

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tività (in questo caso la collettività costituita da colleghi e studenti, la collettività della Cape Town University). È come se, attraverso la descrizione di tale attrito, Coetzee ci mostrasse una forma di “civiltà di vergogna”, dove la mancata adesione ad una regola di comportamento, ad un modello positivo di comportamento, porta alla vergogna nel suo aspetto duplice, di sanzione individuale – intesa come rossore, come riconoscimento dello sguardo altrui verso cui si prova scarsa aderenza – e come sanzione sociale – che consiste nello sguardo sprezzante della comunità. Nel caso di D.L. la sanzione sociale si manifesta nell’allontanamento/ licenziamento dello stesso dalla collettività universitaria. Ormai senza lavoro e punito dalla collettività, David decide quindi di trasferirsi dalla figlia Lucy in campagna adeguandosi alla nuova vita dei campi e ai suoi ritmi. Anche qui in campagna David si ritrova nel “gioco della vergogna”, questa volta potremmo dire quale “spettatore”, è lui infatti a provare vergogna per qualcuno. Ed è una sensazione che retroagisce sul quel chi che è David Lurie come uomo. Sua figlia Lucy viene stuprata da tre individui e se da una parte non riuscirà a comprendere la ragione dell’accettazione dell’atto da parte di Lucy, dall’altra il ribrezzo e la vergogna per l’atto d’odio compiuto dai tre, si riflette su David stesso. Decide di ritornare in città, e il David che cammina adesso per le strade cittadine è differente dal David che i lettori hanno conosciuto fino a questo punto. È altro anche per quella collettività che lo ha allontanato e che ora stenta a riconoscerlo e ad accettarlo. Ora è un altro impulso a farlo muovere. David sente di doversi esporre, manifestarsi a quella collettività che più di tutti ha subito gli effetti dell’azione “vergognosa” di partenza: gli Isaacs, i genitori di Melanie, i genitori di chi “svergognandolo si è svergognata”7. David Lurie comprende di doversi esporre non alla comunità universitaria ma ad un nucleo di collettività. Dimostra così di essersi pentito e di provare vergogna, questa volta per sé, è divenuto “soggetto” di vergogna inginocchiandosi di fronte alla madre di Melanie la quale, potremmo dire, assurge a simbolo della femminilità offesa. 7 J.M. COETZEE, Vergogna, cit., p. 33: “La cosa non lo meraviglia: svergognando lui hanno svergognato anche lei”.

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3. Ho tentato di mostrare quanto un testo letterario come “Vergogna” possa sollevare questioni di tipo filosofico, quanto uno scrittore come Coetzee (premio Nobel per la letteratura nel 2003) – assolutamente dostoevskiano per i nodi concettuali e gli interrogativi posti – sia capace di offrire descrizioni penetranti del reale. Con uno stile crudo, piano che a tratti potrebbe sembrare cinico, Coetzee è stato capace di descrivere la violenza subita dai personaggi e gli “stati d’animo” che li caratterizzano, di descrivere e mostrare la realtà della vergogna, la sua natura assolutamente sociale. Ha sollevato la questione della trasgressione della norma, l’attrito fra il singolo e la regola collettiva, l’inadeguatezza del singolo di fronte all’applicazione della regola. Ha posto il problema dell’identità e il processo di emersione della stessa.

DANIELA PALMERI, MONICA M. PASQUINO Il linguaggio dell’autocoscienza tra filosofia e teatro: Carla Lonzi e Dacia Maraini “La differenza femminile sono millenni di esclusione dalla storia. Approfittiamo della differenza”. Carla Lonzi

0. Premessa In che modo il sapere femminista utilizza il termine “autocoscienza” dislocandone il significato rispetto alla tradizione filosofica occidentale attraverso teorie e pratiche differenti? Perché il movimento delle donne degli anni Settanta sceglie per dare forza alle proprie lotte uno dei termini più ricorrenti e stratificati della tradizione filosofica occidentale? L’autocoscienza femminista parte dal riconoscimento che il punto di vista sessuato sia un’ineludibile categoria del conoscere e rivoluziona la pratica del “conosci te stesso” politicizzandola e sottraendola al neutro: il soggetto del “conosci te stesso” non è più avulso dal contesto storico-culturale e acquisisce una sua singolarità e parzialità nella misura in cui entra in gioco il suo genere fondando una nuova ermeneutica della differenza sessuale. È a partire da questa nuova ermeneutica che, nel sapere femminista degli anni Settanta, il termine “teoria” acquisisce un’accezione particolare in cui l’osservazione della realtà viene attraversata dal genere del soggetto interpretante. L’autocoscienza si pone come forma di conoscenza di sé basata sul riconoscimento del genere, sulla relazionalità e sulla politica del collocamento1: il 1 Nel percorso di conoscenza di sé diviene fondamentale il situarsi all’interno di un contesto storico-sociale, come dimostrano il concetto di “sapere situato” introdotto da Donna Haraway e “la politica del collocamento” di Adrienne Rich. L’epistemologa americana propone il concetto di Situated Knowledge alla fine degli anni Ottanta, per rispondere al problema della definizione dell'obiettività nella ricerca scientifica, ribadendo il valore della soggettività e ponendo, quindi, l'accento sul soggetto interpretante. Allo stesso modo la poetessa americana, Rich, ripensa il soggetto donna mettendo l'accento sulla corporeità sessuata del soggetto (maschile e femminile) entro un nuovo simbolico che tiene conto delle differenze tra donne: differenze di razza, di classe sociale, etc. Cf. D. HARAWAY, “Situated Knowledges: The Science Question in Feminism as a Site of A Discourse on the Privi-

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soggetto impara a “situarsi” nel proprio vissuto riappropriandosi del simbolico attraverso il confronto con altre donne. In questa pratica è fondamentale l’esperienza della separatezza, fondamentale perché le donne ritrovino la sapienza di partire da sé2 e di autorappresentarsi3. Il termine in questione delinea un campo mobile i cui confini possono essere spostati di volta in volta: si tratta, nella fattispecie, di un percorso di conoscenza di sé in gruppo, di un particolare approccio al proprio vissuto che parte dal genere, di una pratica politica che segna l’inizio della rivoluzione delle donne negli anni Settanta. In questo articolo partiamo da queste suggestioni e ci riferiamo al termine “autocoscienza” in senso ampio interpretandola come linguaggio. Con questa espressione vogliamo mettere in risalto come l’autocoscienza abbia avuto un valore rilevante nella genesi linguistica e letteraria di alcuni scritti che hanno fatto il femminismo italiano. Accogliendo l’invito all’interdisciplinarità della critica femminista, abbiamo provato a far interagire due campi diversi: quello della produzione testuale di Carla Lonzi e quello del teatro della Maddalena fondato da Dacia Maraini nel 1973. L’opera di entrambe non sarebbe stata realizzata senza la loro partecipazione al gruppo di autocoscienza, che consente il recupero del non detto, del rimosso, dietro cui si nascondono le dinamiche che regolano il campo di tensione del genere. Mostrare l’importanza del linguaggio dell’autocoscienza sia nella filosofia di Lonzi che nel teatro di Maraini ci è sembrato un modo produttivo per ovviare alla rimozione delle esperienze che avvengono lontano dall’ufficialità del sapere istituzionale e che vanno incontro facilmente all’esclusione dal canone, di cui entrano a far parte solo i prodotti rappresentativi della cultura nazionale e patriarcale4. Attraverso la teoria politica di Carla Lonzi e il teatro di Dacia Maraini, la nostra attenzione si focalizza sul femminismo degli anni Settanta e sul processo di revisione della tradizione filosofica e letteraria che investe vari ambiti del sapere tessendo un’intricata trama intertestuale. L’intertestualità, propria di molte scritture di donne, imlege of Partial Perspective”, Feminist Studies 14 (1988) 3 pp. 575-599. Cf. A. RICH, Lo spacco alla radice, Firenze, Estro, 1985. 2 DIOTIMA, La sapienza di partire da sé, Napoli, Liguori, 1996. 3 A. CAVARERO, “Per una teoria della differenza sessuale”, in DIOTIMA, Il pensiero della differenza sessuale, Milano, La Tartaruga, 1987, pp. 43-79. 4 Sul concetto di canone e sulla complessa posizione delle scrittrici, si veda Dentro / Fuori /Sopra/Sotto. Critica femminista e canone letterario negli studi di italianistica, a c. di A. Ronchetti e M.S. Sapegno, Ravenna, Longo Editore, 2007. Questo libro intraprende un’indagine sul canone negli studi di italianistica e fornisce un’ottima griglia metodologica ed epistemologica per poter cogliere la politicità del problema del canone nelle varie discipline.

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plica una lettura non lineare e non teleologica che si impernia sui rimandi, sugli incroci, sui corto circuiti tra un testo e un altro. 1. L’autocoscienza nel lessico di Carla Lonzi Nel corso del ventesimo secolo, il termine “autocoscienza” indica l’indagine di un soggetto su sé stesso che si basa sull’atteggiamento di osservazione del proprio vissuto e che spesso porta alla luce contenuti conflittuali inconsci. La pratica femminista dell’autocoscienza nasce in consonanza con l’utilizzo novecentesco del termine e, tuttavia, segna uno scarto non indifferente, una dissonanza5. Nelle testimonianze del femminismo italiano degli anni Settanta, il termine segnala una forma di conoscenza empirica della realtà interiore praticata in luoghi frequentati esclusivamente da donne 6 . “Autocoscienza” è sinonimo di una pratica concreta di ri-conoscimento di sé nell’altra di tipo destrutturante7. Infatti la comunicazione, la scoperta e la condivisione della propria vita affettiva, lavorativa ed emotiva “tra donne” è intrinsecamente legata al lavoro di de-strutturazione personale e collettiva che consiste nell’individuazione delle forme di subordinazione patriarcali e delle possibili strategie di resistenza ad esse. Riconoscimento relazionale e destrutturazione costituiscono il filo rosso delle pratiche femministe: 5 Non è infatti un caso se, aprendo il vocabolario Treccani alla voce autocoscienza, si trova, in riferimento agli usi più recenti del termine: “il particolare tipo di analisi collettiva realizzata da gruppi più o meno numerosi di persone che esprimono e analizzano le proprie esperienze vissute e le confrontano insieme per una migliore comprensione di sé e degli altri”. Tuttavia, bisogna distinguere la pratica dell’autocoscienza femminista dalla relazione analitica individuale e da quella praticata nei gruppi di Self-Help. Questi ultimi sono gruppi eterogenei che a loro volta svilupparono pratiche dalle modalità diverse. Ad esempio nel gruppo francese Psicoanalise et politique e in alcuni gruppi detti “dell’inconscio”, presenti soprattutto a Milano, si inserì la figura professionale di una psicoanalista. Rimandiamo per questo al testo collettivo “Pratica dell’inconscio e movimento delle donne” pubblicato in L’Erba voglio, n. 18/19, ott. 1974 - gen. 1975. 6 Successivamente la pratica dell'autocoscienza si è estesa anche in Italia in gruppi misti o di soli uomini, seppure in casi isolati e con una portata diversa. Si consultino a riguardo il sito internet ww.maschileplurale.it e V.J. SEIDLER, Riscoprire la mascolinità. Sessualità, ragione, linguaggio, Roma, Editori Riuniti, 1992 [1991]. 7 Cf. AA.VV., Atti del seminario: Dalle donne in politica… alla politica delle donne, a cura del collettivo femminista “Il colpo della strega”, Università di Roma “La Sapienza”, 9-10-11 marzo 1995; AA.VV., “Cronache del movimento femminista romano”, DONNITÀ, Roma, 1976; M. FRAIRE, R. SPAGNOLETTI, M. VIRDIS, L'Almanacco. Luoghi, nomi, incontri, fatti, lavori in corso, del movimento femminista italiano dal 1972, Roma, Edizioni delle donne, 1978.

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Attraverso l’autocoscienza (v. Pratica dell’autocoscienza) le donne arrivano a definire un’area conoscitiva che supera le soglie dell’io cosciente e della parola per indagare più in fondo, dietro la coscienza e la parola, per riconoscere i “fantasmi” di cui si alimenta l’esistenza femminile e come questi siano i più profondi segni dell’oppressione8.

La libertà femminile ha vissuto l’autocoscienza come un atto di svelamento del “politico” nel “privato” affidato al confronto e allo scambio. Scrive Maria Gabriella Frabotta nel saggio “Pratica dell’autocoscienza”: Si avverte che la politicità del movimento si fonda su una pratica che è di volta in volta “personale e politica”: il “dentro” (presa della parola, presa di coscienza, recupero del corpo, analisi delle contraddizioni e dell’inconscio) e il “fuori” (lotte nei luoghi di lavoro e nelle istituzioni), devono venir considerati solo come i due versanti sempre dialettizzati della stessa pratica9.

Pertanto intendere e praticare l’autocoscienza ha portato ad una rivoluzione simbolica: la donna, genere da sempre subalterno, diventa soggetto attraverso il riconoscimento della differenza sessuale. I gruppi femministi di autocoscienza “operano per lo scatto a soggetto delle donne che l’una con l’altra si riconoscono come esseri umani completi, non più bisognosi di approvazione da parte dell’uomo”10. In Italia è Carla Lonzi la prima femminista a utilizzare innovativamente il termine a partire dall’esperienza del gruppo di Rivolta femminile di Milano e della piccola casa editrice ad esso collegato. Lonzi è molto esplicita riguardo alla natura relazionale dell’auto-coscienza: “L’autocoscienza di una è incompleta e si blocca se non ha riscontro nell’autocoscienza di un’altra”11. Ancora: “Il femminismo ha inizio quando una donna cerca la risonanza di sé nell’autenticità di un’altra donna, perché capisce che il suo unico modo di trovare se stessa è nella sua specie12”. La nascita di sé a soggetto si compie non solo al momento di esprimersi ma anche durante l’ascolto dell’altra che diviene fondamentale per riacquisire il simbolico e sottrarlo alla codificazione maschile. È questa pratica della relazione, a dispetto di una relazionalità dell’autocoscienza solo teorizzata, dunque, che distingue l’uso di tale termine proprio del femmini8 M. FRAIRE, 1978, “Lessico politico delle donne”, in Teorie del femminismo, 3 voll., Milano, Gulliver, p. 103. 9 Ivi, pp. 137-138 (saggio di M.G. FRABOTTA). 10 C. LONZI, “Significato dell’autocoscienza nei gruppi femministi”, in EAD., Scritti di Rivolta femminile, Milano, Editoriale Grafica, 1974, p. 145. 11 C. LONZI, “Taci, anzi parla”, in Scritti di Rivolta femminile, cit., p. 73. 12 C. LONZI, “Significato dell’autocoscienza nei gruppi femministi”, cit., p. 147.

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smo rispetto al panorama filosofico. Infatti, nella tradizione filosofica, almeno a partire da Hegel, la relazionalità implicata nel concetto di autocoscienza si fonda su articolazioni e distinzioni gerarchiche, presupposte come naturali e, dunque, estranee all’argomentazione del logos filosofico, come quella tra principio maschile attivo e principio femminile passivo. Oltre alla pratica della relazione, dunque, la differenza: liberarsi per le donne significa non uniformarsi al modello maschile dominante, ma riconoscere e valorizzare l’alterità: La donna non va definita in rapporto all’uomo. Su questa coscienza si fondano tanto la nostra lotta quanto la nostra libertà. L‘uomo non è il modello a cui adeguare il processo della scoperta di sé da parte della donna. La donna è l’altro rispetto all’uomo. L’uomo è l’altro rispetto alla donna13.

Sono almeno due le peculiarità di Rivolta rispetto ad altri gruppi di donne che vanno a formarsi in quegli anni. La prima riguarda il particolare legame tra scrittura e autocoscienza, il fatto che la scrittura del Manifesto sancisca la nascita del gruppo e non la succeda. La seconda è che tutte le donne che collaborano a Rivolta, appartengono a generazioni precedenti quella del Sessantotto, nessuna di loro aderisce ad organizzazioni politiche di sinistra e per lo più sono di ceto intellettuale-borghese14. Lonzi scrive Sputiamo su Hegel nel 1970 e La donna clitoridea e la donna vaginale nel 1971; insieme a Carla Accardi e Elvira Banotti, nel luglio del 1970, svolge un ruolo fondamentale nella stesura dell’atto di nascita del gruppo di Rivolta – il Manifesto di Rivolta femminile – che contiene “le frasi più significative che l’idea generale di femminismo ci aveva portato alla coscienza durante i primi approcci tra di noi15”. In queste pagine prevale l’idea che autocoscienza delle donne e femminismo si implichino a vicenda: l’una non può essere pensata disgiuntamente dall’altra. Il femminismo è la scoperta e l’attuazione della nascita a soggetto delle singole componenti di una specie soggiogata dal mito della realizzazione di sé nell’unione amorosa con la specie al potere16.

L’intreccio tra autocoscienza e femminismo, tra confronto dialogico e 13 C. LONZI, “Sputiamo su Hegel/La donna clitoridea e la donna vaginale e altri scritti”, in Scritti di Rivolta femminile, cit., p. 19. 14 M.L. BOCCIA, L’io in rivolta. Vissuto e pensiero di Carla Lonzi, Milano, La Tartaruga edizioni, 1990. 15 C. LONZI, Manifesto di Rivolta, p. 8. 16 Ivi, p. 147.

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progetto politico si svela tra le pagine di La donna clitoridea e la donna vaginale attraverso la critica alacre della teoria freudiana della sessualità che considera la donna vaginale come manifestatrice di una sessualità sana mentre la donna clitoridea come “immatura, mascolinizzata e perfino frigida”17. Lonzi descrive l’orgasmo clitorideo come atto di affermazione della differenza sessuale e di espressione della sessualità femminile essendo autonomo e non funzionale né al sesso maschile né alla riproduzione. Secondo Lonzi, la donna incarna perfettamente la figura dello spettatore dell’opera d'arte, che vive completamente dimentico di sé e delle proprie capacità creative. La donna, come lo spettatore, non ha la possibilità concreta di fornire il proprio apporto creativo allo sviluppo sociale e non ha ancora seguito l’itinerario di emancipazione tracciato dalla soggettività maschile. La situazione materiale di imparità con l’uomo è sostenuta da una tradizione di pensiero nella quale si sussegue l’immagine della donna come essere sussidiario e complementare al maschile. Pertanto lo scopo dell’analisi lonziana è storicizzare le categorie di maschile e femminile e sottolinearne la valenza culturale. Come afferma Dacia Maraini: “Il sesso, come l’amore, è un figlio della storia, talmente bagnato e fradicio di cultura da rendere quasi irriconoscibile la sua matrice fisiologica”18. Il soggetto femminile è sempre stato oggetto del discorso dell’uomo, che ha costruito, conservato e tramandato l’immagine di un femminile al negativo, stabilito in relazione a ciò che il maschile non è, anzi, funzionale e necessario alla sua definizione e quindi tenuto nell’impossibilità di costituirsi come soggetto di un discorso proprio ed autonomo. Pertanto rileggendo la storia della filosofia occidentale Carla Lonzi sputa su Hegel. Secondo Lonzi, il filosofo tedesco19 pensa e nomina la differenza sessuale e “razionalizza il potere patriarcale nella dialettica tra un principio divino femminile e un principio umano virile”. Pertanto nel sistema hegeliano “la donna non oltrepassa lo stadio della soggettività: riconoscendosi nei congiunti e consanguinei essa resta immediatamente universale, le mancano le premesse per scindersi dall’ethos della famiglia e raggiungere l’autocosciente forza dell’universalità per la quale l’uomo diventa cittadino”20. La 17

C. LONZI, “Sputiamo su Hegel”, cit., p. 83. D. MARAINI, 1987, p. 9. 19 Hegel viene utilizzato dalle femministe come modello eccellente del pensiero maschile nella tradizione occidentale (Cf. L. IRIGARAY, Speculum. L’altra donna, Milano, Fel18

trinelli, 1979 [1974]. 20

C. LONZI, “Sputiamo su Hegel”, cit., p. 25.

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differenza, proprio quando viene messa a tema e discussa, viene cancellata, negata come accidente secondario: il soggetto femminile, detto e pensato nella lingua dell’altro, viene inferiorizzato e reso passivo. Riprendendo Carla Lonzi, Adriana Cavarero, una delle maggiori teoriche della estraneità femminile, afferma: La donna non ha un linguaggio suo, ma piuttosto utilizza il linguaggio dell’altro. Essa non si autorappresenta nel linguaggio, ma accoglie con questo le rappresentazioni di lei prodotte dall’uomo. Così la donna parla e pensa, si parla e si pensa, ma non a partire da sé21.

Il femminismo della differenza sostiene con radicalità l’inscindibilità dell’aspetto simbolico e di quello materiale: l’assenza storica delle donne dalla sfera pubblica (produzione, sapere, politica) e la condizione di oppressione sociale si sostengono sull’impossibilità di creare modelli simbolici alternativi elaborati autonomamente dalle “donne in carne ed ossa”, in grado di competere e affiancare quelli maschili e di dare vita ad un sistema di identificazioni positive. Rosi Braidotti, tra le pensatrici femministe oggi più autorevoli, sottolinea questo aspetto in uno dei suoi testi più ragguardevoli: Il tratto più comune della riappropriazione femminista radicale della differenza è la critica al valore trascendentale e universale accordato al soggetto maschile, la controparte del quale è il sacrificio simbolico del femminile, la sua messa tra parentesi. Questa squalifica simbolica è coestensiva all’oppressione materiale, socio-economica delle donne reali. La radicalità di questa posizione consiste proprio nel rifiutare di separare il simbolico dal materiale, indicando così che il sacrificio del soggetto femminile si confonde con gli stessi fondamenti del vincolo omosociale e dell’ordine culturale22.

Lonzi parte dall’inscindibilità dell’aspetto materiale con quello simbolico per costruire una critica serrata non solo del sistema hegeliano, come dimostra il titolo del pamphlet, ma anche delle ideologie rivoluzionarie. Se le donne sono inferiori ed oppresse in quanto tali e non per ragioni economico-sociali, il marxismo e la lotta di classe, equiparando i due sessi, non possono costituire un rimedio efficiente. “Subordinarsi all’impostazione classista – scrive Carla Lonzi in Sputiamo su Hegel – significa per la donna riconoscere 21 A. CAVARERO, “Per una teoria della differenza sessuale”, Diotima. Il pensiero della differenza sessuale, Milano, La Tartaruga edizioni, 1987, pp. 43-79, qui p. 52. 22 R. BRAIDOTTI, Dissonanze. Le donne e la filosofia contemporanea, Milano, La Tartaruga edizioni, 1994, p. 192.

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dei termini mutuati a un tipo di schiavitù diverso da quello suo proprio e che sono la testimonianza più convincente del suo misconoscimento. La donna è oppressa in quanto donna, a tutti i livelli sociali: non a livello di classe, ma di sesso”23. Eppure “quasi la totalità delle femministe italiane dava più credito alla lotta di classe che alla loro stessa oppressione”24. Marx, Engels e Lenin hanno la “colpa” di aver spinto le donne ad anteporre la propria libertà ad altri fini: la dialettica servo-padrone descrive solo le dinamiche interne al mondo maschile: “una regolazione di conti tra collettivi di uomini che non prevede la liberazione della donna”25. Secondo Lonzi, se Hegel avesse riconosciuto l’origine dell’oppressione femminile, come ha riconosciuto quella del servo, avrebbe dovuto applicare a quella la stessa dialettica servo-padrone: In questo caso avrebbe incontrato un serio ostacolo: infatti se il metodo rivoluzionario può cogliere i passaggi della dinamica sociale, non c’è dubbio che la liberazione della donna non può rientrare negli stessi schemi. Sul piano donnauomo non esiste una soluzione che elimini l’altro, quindi si vanifica il traguardo della presa del potere26.

La scrittura di Lonzi scorre su due binari: da una parte la critica teorica e decostruzionista del sistema patriarcale attraverso l’analisi formale dell’oggetto in discussione condotta con estremo rigore, dall’altra la costruzione e la restituzione del simbolico femminile che rimanda a ciò che definiamo linguaggio dell’autocoscienza, quindi ad un sapere legato al vissuto del corpo. procedendo per legami associativi con liberazione di pezzetti di esperienze rimosse, la parola è profondamente legata all’emotività di chi comunica e si ripetono gli antichi modi di chi convince, seduce caricando le parole di un contenuto non detto o operando paradossalmente attraverso il potere del silenzio27.

Spesso si tratta di appunti, trascrizioni d’incontri o di idee emerse nella discussione collettiva. In ogni caso, la forza della scrittura di Lonzi consiste nel partire da sé. Carla Lonzi “mette in concetti il vissuto ed il processo della sua presa di coscienza – nelle parole di una delle sue interpreti più C. LONZI, “Sputiamo su Hegel”, cit., p. 24. Ivi, p. 8. 25 C. LONZI, Manifesto di Rivolta, p. 17. 26 C. LONZI, 1974, p. 27. 27 M.G. FRABOTTA in FRAIRE, 1978, p. 134. 23 24

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attente – ovvero compie quel passaggio dal concreto all’astratto, e dal singolare al genere, che è essenziale per poter dare forma, per poter nominare la realtà propria e del mondo”28. 2. Autocoscienza e femminismo a teatro Se Carla Lonzi ha il merito di introdurre il termine “autocoscienza” nella teoria e nella pratica politica femminista, Dacia Maraini riesce a trasporre le spinte, su cui essa si basa, sulla scena teatrale: la pratica del partire da sé, la condivisione con altre donne, lo slogan “il personale è politico”, la lotta per il riconoscimento della differenza sessuale costituiscono il centro nevralgico della sua drammaturgia. Scrittrice versatile, Maraini, sperimenta il suo talento in vari generi letterari e si dedica al teatro per oltre trent’anni scrivendo e mettendo in scena testi impegnati dalla parte delle donne con uno sguardo particolarmente attento all’attualità politica e sociale italiana29. Dal primo teatro di cantina di via Belsiana al teatro di Centocelle, dal primo teatro ufficiale delle Arti di Roma alla Magliana, dal Politecnico alla Garbatella, il femminismo di Maraini raggiunge la sua massima realizzazione nell’esperienza di un teatro di donne. Infatti, il perseverante lavoro sulle donne e con le donne giunge il 6 dicembre del 1973 alla fondazione del “teatro di barricata”30 della Maddalena, che viene inaugurato con lo spettacolo Mara, Maria, Marianna. Materiali per un discorso sulla condizione attuale della donna, testo elaborato da Maraini con Maricla Boggio ed Edith Bruck e prodotto da un collettivo femminista. La Maddalena è l’unico teatro italiano fondato, gestito e destinato a donne, di cui Maraini è presidentessa dal 1973 al 1983, contribuendo alla promozione di un ricco calendario di spettacoli teatrali e di occasioni di confronto sul femminismo. Nell’introduzione alla raccolta di testi teatrali, scritti dagli anni Sessanta M.L. BOCCIA, L’io in rivolta, cit., p. 19. Per uno sguardo complessivo sull’intera produzione di Maraini, si veda M.A. CRUCIATA, Dacia Maraini, Firenze, Cadmo, 2003. 30 Per un’ulteriore approfondimento cf. S. BASSNETT, “Towards a theory of Women’s Theatre”, in Semiotics of Drama and Theatre: New Perspectives in the Theory of Drama and Theatre, a cura di Herta Schmid e Aloysius Van Kesteren, Amsterdam and Philadelphia, Benjamins, 1984, pp. 445-466. Afferma Maraini: «Abbiamo iniziato con un teatro che rompeva con il passato, attaccava, costruiva barricate...» (ibid., p. 455). Cf. anche D. CAVALLARO, “Dacia Maraini’s Barricade Theater”, in The pleasure of writing critical essays on Dacia Maraini, a cura di Rodica Dia Conescu-Blumenfeld e Ada Testaferri, West Lafayette Indiana, Purdue University Press, pp. 135-145. 28 29

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ad oggi, Maraini afferma che “fare teatro” coincide con “fare politica” e significa “vincere una paura profonda, ridare la parola ad un significato primordiale che ancora minaccia i nostri sogni infantili”31. La scrittrice giustifica in questo modo il suo “amore ostinato e granitico” per il teatro fortemente legato al desiderio di dare corpo alle emozioni che spesso vengono negate, taciute e rimosse. Scegliere il genere teatrale significa appropriarsi di un “luogo” poco visitato dalle donne e, spesso, anche tradizionalmente proibito al sesso femminile32. In un’intervista, alla domanda “Che peso ha nella sua scrittura il suo impegno femminista?”, Maraini risponde: “Non è un contenuto. È un modo di guardare il mondo. Appartiene al mio giudizio, alla mia interpretazione delle cose”33. Nel teatro questo “modo di guardare il mondo” permette alla differenza sessuale di venire alla luce: nelle storie rappresentate “il personale” si intreccia con il “politico” e i personaggi non solo superano la dimensione “privata” cui il sesso femminile è stato relegato da sempre (essendo stato identificato con la famiglia) ma propongono un recupero della dimensione politica e relazionale della soggettività. È questa la motivazione profonda che spinge al racconto di storie di donne comuni e alla riscrittura di personaggi femminili appartenenti alla letteratura e alla storia: da Suor Juana Inés de la Cruz a Eleonora Fonseca Pimentel, da Carlotta Corday a Maria Stuarda, da Veronica Franco a Camille Claudel, da Isabella di Morra a Catarina da Siena. Queste figure si impongono quasi pirandellianamente generando una sorta di vertigine metaletteraria in cui il nostro immaginario viene riletto e riscritto in un’ottica di genere. Molti testi nascono dagli intensi scambi con gruppi femministi e di autocoscienza34 e raccolgono le istanze delle battaglie politiche delle donne per il riconoscimento della differenza sessuale e per la riforma del diritto di famiglia, la tutela sociale e la legalizzazione dell’aborto. La Maddalena si basa sull’autocoscienza non in quanto sede fisica di questa pratica, ma in quanto luogo che convoglia le energie di donne che seguono questo percorso fuori dalle pareti teatrali e che, sulla scena, porD. MARAINI, “Introduzione”, in EAD., Fare teatro, Milano, Rizzoli, 2000, vol. I, p. V. A proposito si veda «DonnaWomanFemme», n. 41 (1999), interamente dedicato al complesso rapporto delle donne con il teatro. Cf. anche SH. WOOD, “Women and Theatre in Italy: Natalia Ginzburg, Franca Rame and Dacia Maraini”, Europa 4 (1997). 33 Cf. l’intervista a Dacia Maraini di M.A. CRUCIATA in EAD., Dacia Maraini, cit., p. 143. 34 Negli anni Settanta, il Teatro della Maddalena organizza incontri con femministe come Juliett Mitchell, Luce Irigaray, Kate Millet e con vari gruppi di Self Help. 31 32

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tano i desideri, le paure, le ansie e le aspettative che vanno emergendo nei gruppi femministi dell’Italia di allora. Come afferma Dacia Maraini: La pratica di autocoscienza era fatta fuori dalla Maddalena. [...] Quasi tutte partecipavamo a gruppi di autocoscienza. Io stessa facevo parte di un gruppo di autocoscienza con quattro donne, che non erano le stesse con cui facevo teatro. Ci vedevamo ogni volta in una casa diversa ed era anche un confronto doloroso. Venivano fuori le esperienze di violenza in famiglia, di rapporti difficili con i genitori, coi fratelli, ecc. 35

Se l’autocoscienza viene esclusa dalla Maddalena, in che modo la pratica e il sapere che si sviluppano attraverso di essa influenzano questo teatro? Negli spettacoli realizzati dal Teatro della Maddalena il riconoscimento del valore della differenza sessuale è il centro da cui si dipanano le storie narrate: i ruoli sessuali non sono dati una volta per tutte ma sono il prodotto della storia biografica e della cultura. Pertanto diviene fondamentale un processo di disconoscimento e riconoscimento di sé attraverso l’autocoscienza: i personaggi femminili si muovono tra desideri, paure, bisogno di autorealizzazione, attesa di un riconoscimento sociale e lottano con gli stereotipi che da sempre vengono attribuiti al sesso femminile. In questo senso, pensiamo che la Maddalena non sia solo un’esperienza limitata nel tempo e che riguardi solo la storia del teatro italiano, quanto uno specchio che riflette il femminismo italiano e raccoglie il tentativo di costruire spazi di sole donne, destrutturando “millenni di esclusione dalla storia” e “approfittando della differenza” in stile lonziano. Ne Il ricatto a teatro, dramma metateatrale del 1968, in cui gli attori discutono di un dramma da rappresentare, Maraini racconta la storia di due donne che sembrano fare autocoscienza a teatro, mettendo a nudo le loro emozioni e scoprendo il valore e il piacere dello stare tra donne. Non è un caso che proprio la scrittrice affermi: Il testo che più si avvicina alle pratiche del nostro teatro che, ripeto però non erano proprio pratiche di autocoscienza, si chiama “Ricatto a teatro”. È un testo su un gruppo di attori che vogliono mettere in scena un testo ma cascano continuamente nel loro privato36.

Perché le protagoniste “cascano nel privato”? La scrittrice usa questa 35 D. MARAINI, 2008. Queste parole sono tratte da una intervista inedita a Dacia Maraini, avvenuta il 31 luglio 2007. 36 Ibid.

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espressione provocatoriamente: come sostiene Lonzi, il privato non è il focolare, cui la donna è stata relegata da sempre, quanto il personale, spazio legato alla pratica del partire da sé e dalla propria esperienza di soggettività sessuata. Durante la messa in scena di questo dramma a Montepulciano, i baci di Giulia e Lin, che esprimono liberamente il loro amore omosessuale, provocano il sequestro della commedia e la denuncia per oltraggio alla morale: la schiettezza, con cui le due protagoniste mettono in discussione la loro identità sessuale e si interrogano sulla natura del loro amore, non è ben accettata nell’Italia di quegli anni. Un altro testo dichiaratamente femminista è Il Manifesto, del 1969, nato da un’inchiesta sulle prigioni femminili nelle borgate romane; in esso la protagonista Anna, giovane ribelle del Sud, racconta le violenze subite. La storia di Anna è vista come simbolo della condizione vissuta dalle donne. Come afferma Maraini in un articolo, la violenza deve essere intesa “non solo come catastrofe maligna che capita fra capo e collo ma come abitudine, pratica quotidiana [...]”37. Anna, la protagonista, intraprende un’azione di smascheramento delle dinamiche maschiliste e misogine, su cui si basa la società, e si rivolge alle donne, interlocutrici privilegiate di un manifesto che promuove l’emancipazione del sesso femminile e il riconoscimento dell’alterità della donna. Il manifesto di Anna ribadisce quanto affermato da Lonzi: “la donna non va definito in rapporto all’uomo”38. Nel 1976 debutta presso La Maddalena Dialogo di una prostituta con un suo cliente in cui si alternano sulla scena un uomo totalmente nudo, nei panni del cliente del sesso, e una donna vestita, nel ruolo di “prostituta filosofa”. La dialettica, con cui la prostituta filosofa denuda le dinamiche maschiliste e patriarcali della prostituzione, non può non rimandare alla consapevolezza di sé che le donne acquisiscono nei gruppi di autocoscienza esprimendo il nuovo e rivoluzionario senso di sé acquisito dal sesso femminile. Il testo gioca sul ribaltamento dei ruoli sessuali classici: Manila, la protagonista, è una prostituta anomala, colta e sapiente, che conosce bene le dinamiche sottese alla prostituzione. Durante la messa in scena del dramma, la protagonista esibisce una forte consapevolezza di sé e si rivolge varie volte alla platea ponendo delle domande provocatorie sul sesso e creando un vero dibattito con il pubblico che rompe la finzione teatrale. La prostituzione è vista come “metafora della condizione femminile attuale” e 37 D. MARAINI, “Riflessione sui corpi logici e illogici delle mie compaesane di sesso”, in EAD., La bionda, la bruna e l’asino, Milano, Rizzoli, 1987, p. VI. 38 C. LONZI, 1974, p. 19.

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rimanda a domande più complesse e capillari sull’“uso del corpo, sul senso del piacere e sul concetto di libertà”. Ancora una volta Maraini utilizza il linguaggio dell’autocoscienza imperniato sulla destrutturazione delle imperanti codificazioni maschili e sulla costruzione di nuove figurazioni, in questo caso la prostituta colta e vestita che mette in ridicolo il cliente nudo e ignorante attraverso la formula del capovolgimento. Ne I sogni di Clitennestra del 197839, libera rivisitazione dell’Orestiade di Eschilo, ambientata a Prato negli anni Settanta, Clitennestra è un’ex operaia tessile al centro di un procedimento di ribaltamento del mito che passa per la desacralizzazione e il declassamento dei personaggi classici. Il mito viene stravolto perché “guardato dalla parte di lei”: Clitennestra non è più la moglie infedele e assassina ma colei che, dopo aver subito l’uccisione della figlia da parte del marito e il suo abbandono, decide di costruirsi una vita propria. Il lavoro di Maraini sul testo greco è quello di evidenziare ed esasperare i conflitti di genere mettendo in evidenza la violenta formazione di gerarchie di valore: maschile superiore e femminile inferiore40. La drammaturga pone in primo piano le dinamiche che determinano i rapporti di forza fra i personaggi, da una parte sovradeterminati dai rispettivi archetipi con cui interagiscono e, dall’altra, creati ex novo. Nella messa in scena contemporanea di Clitennestra, la storia dà corpo al mito, attraverso un processo dall’astratto al concreto, che si basa sulla messa a fuoco spiazzante di un corpo che diviene teatro di desideri e tabù, rimozioni e narrazioni, non detti e detti e che trasuda la cultura femminista degli anni Settanta. Il lessico utilizzato da Clitennestra richiama alla memoria parte del vocabolario lonziano della differenza sessuale. In un articolo intitolato Clitennestra o della perversione, Maraini sostiene che Clitennestra venga punita non per il delitto commesso quanto per la sua capacità di autodeterminarsi concedendosi la possibilità di governare liberamente la città e di darsi al piacere sessuale “proprio come farebbe un uomo”. Per Maraini, Clitennestra rappresenta la scoperta che “il piacere sessuale è legato alla libertà e la libertà al potere”41. 39 Questo dramma non appartiene anagraficamente al Teatro Della Maddalena ma ad un workshop di teatro sperimentale tenutosi a Prato con Luca Ronconi; tuttavia, i nodi concettuali sviluppati in Sogni rimandano alla Maddalena e all’intenso lavoro sul genere. 40 Sulla riscrittura di Clitennestra, si veda l’interessante saggio di D. CAVALLARO, “I sogni di Clitennestra: The Oresteia according to Dacia Maraini”, Italica 3 (1995), p. 340355. Cf. anche l’interessante saggio di G. CODY, “Remembering what the closed eye sees. Some notes on Dacia Maraini’s Postmodern Oresteia”, in The pleasure of writing critical essays on Dacia Maraini, cit., pp. 215-231. 41 D. MARAINI, “Clitennestra o la perversione”, in EAD., La bionda, la bruna e l’asino, cit.,

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Nella riscrittura, il ruolo di Atena, la dea misogina che nell’Orestiade si schiera contro Clitennestra, viene rivestito da una moderna psicanalista che critica la sessualità femminile riconducendola freudianamente all’invidia della virilità. Psicanalista: da bambina ti occupi molto del tuo corpo ed è giusto: devi imparare a conoscerlo. Da bambina ti masturbi e sei languida ed aggressiva: è giusto, perché devi ancora scoprire la tua femminilità. Il tuo mondo non è molto dissimile da quello maschile: il centro della tua sessualità è la clitoride, il tuo atteggiamento è di scontro. Ma poi, ecco, poi cresci, diventi donna e trasferisci il tuo piacere dall’esterno all’interno, impari a essere ricettiva, docile, materna. Diventi donna. Questo è l’iter della femminilità che matura sanamente. Tu... tu no, tu sei rimasta bambina, aggressiva, indocile, clitoridea. Ed è questo che ti fa pazza42.

Attraverso la figura della psicoanalista, Maraini critica l’interpretazione freudiana della donna in cui l’autoerotismo è solo una tappa all’interno di un percorso di crescita, che si risolve nel superamento e nell’accettazione di un ruolo passivo nelle relazioni sessuali. È evidente il riferimento teorico-politico a La donna clitoridea e la donna vaginale43, in cui Carla Lonzi legge il “piacere vaginale” come “piacere ufficiale della cultura sessuale patriarcale”44 e riscatta la specificità del piacere clitorideo. Maraini affida a Clitennestra il ruolo di portavoce del femminismo facendole svelare le dinamiche patriarcali inscritte nel mito e analizzate e legittimate dalla psicoanalisi. Sebbene non vi siano riferimenti diretti all’autocoscienza, questa Clitennestra sembra parlare il linguaggio delle donne degli anni Settanta: consapevole di sé, del suo corpo, prova a pensar-si e a parlar-si a partire da sé, compiendo quello sforzo di autorappresentazione di cui parla Cavarero. L’uso di un linguaggio scevro di censure e incentrato sul corpo permette di cogliere un punto importante dell’esperienza della Maddalena: il tentativo del femminismo di lavorare sull’immaginario e di cambiarlo a partire dal doloroso e creativo percorso di autocoscienza. Certo, il discorso non si esaurisce qui: ci sarebbe molto da riflettere sul perché una delle esperienze più originali, non solo sulla scena italiana, ma anche europea, è stata quasi rimossa dalle varie storie del teatro italiano p. 8. Secondo Maraini, «il sesso, come l’amore, è un figlio della storia, talmente bagnato e fradicio di cultura da rendere quasi irriconoscibile la sua matrice fisiologica» (ivi, p. 9). 42 IVI, p. 8. 43 C. LONZI, Scritti di Rivolta Femminile, cit., p. 14. 44 Ivi, p. 24.

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così come una delle più importanti elaborazioni del pensiero sessuato, non entri a far parte dei libri di storia del pensiero. Seppure lo scopo di questo articolo non sia rispondere a questa domanda, il tentativo di mettere al centro del nostro discorso “il linguaggio dell'autocoscienza” vuole rimandare al valore della differenza sessuale espressa dalle femministe, una differenza spesso che non solo non viene compresa, ma addirittura rimossa. Parlare di autocoscienza come linguaggio permette di mettere in evidenza la cifra e la ricchezza di senso contenuta nel lessico non canonico delle femministe che, scommettendo sulla sovrapposizione produttiva di pratiche discorsive e politiche, lavora in vista della costruzione di un simbolico che considera la conoscenza di sé non un processo apolitico e neutro ma legato al corpo, alla cultura e alla storia.

RITA PAONESSA Note su MICHAEL TOMASELLO, The cultural origins of human cognition (1999), trad. it. Le origini culturali della cognizione umana, Bologna, Il Mulino, 2005 Cosenza, mattina soleggiata: un esemplare maschio di Homo sapiens sapiens viene alla luce. Nello stesso momento, non molto lontano, nasce un piccolo di Pan troglodythes, scimpanzé comune. I due condividono il 99% del patrimonio genetico eppure, a partire dalle stesse abilità sociocognitive di base (categorizzare, rappresentarsi cognitivamente lo spazio, riconoscere individualmente i conspecifici, comprendere le relazioni in cui non si è direttamente coinvolti), seguiranno due percorsi ontogenetici piuttosto differenti. Per spiegare questa differenza, Tomasello, nel libro Le origini culturali della cognizione umana, ipotizza che, in virtù di un adattamento specie-specifico, l’animale umano riconosca gli altri come agenti intenzionali e mentali al pari di sé. Grazie a questo meccanismo biologico l’animale umano si identifica con i propri simili e impara da e attraverso essi, motivo per cui gli artefatti, di cui coglie la dimensione intenzionale (lo scopo per cui noi usiamo quell’artefatto), sono trasmessi fedelmente da una generazione all’altra. Perciò, ogni generazione usa ed eventualmente migliora gli artefatti culturali a partire da quanto fatto dalla generazione precedente, senza tornare indietro (effetto dente d’arresto): i cambiamenti apportati agli artefatti in diversi momenti storici non vanno persi, ma si accumulano. In questo modo sono garantite la stabilità e la perennità di un mondo di strumenti, pratiche, simboli culturali all’interno del quale avviene l’ontogenesi umana, intesa dall’autore come sviluppo e non come semplice maturazione. La natura seleziona percorsi ontogenetici1 L’ontogenesi umana, per Tomasello, è un processo graduale basato sul riconoscimento e l’attribuzione di stati intenzionali. In particolare, il bambino comincia ad attribuirli intorno ai nove mesi di età: ricorrendo alla propria esperienza interna dell’avere uno scopo e del cercare di raggiungerlo, egli simula gli stati intenzionali degli altri poiché se gli altri sono come lui, come lui hanno degli scopi in quanto tali, distinti dalle strategie 1

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comportamentali usate per conseguirli. In virtù di questa nuova comprensione dei propri simili il cucciolo d’uomo è in grado di: interagire contemporaneamente con l’adulto e con l’oggetto, ovvero relazionarsi con l’uno attraverso l’altro2; scoprire il Me nel momento in cui l’attenzione dell’adulto è focalizzata sul bambino stesso; cogliere le intenzioni comunicative dell’adulto; individuare gli obiettivi e gli oggetti verso cui l’attenzione dell’adulto è rivolta. Le ultime due capacità sono le condizioni necessarie per l’apprendimento dei simboli linguistici: individuare gli obiettivi o gli oggetti focalizzati dall’adulto consente al bambino di selezionare gli elementi pertinenti e, quindi, di ridurre il campo dei possibili referenti delle parole usate dall’altro in funzione delle sue intenzioni comunicative. Ciò non significa che, all’interno delle interazioni sociali, il bambino apprenda singole parole, al contrario, acquisisce la padronanza di un’intera lingua, che se da una parte è la conseguenza di attività sociocomunicative preesistenti, dall’altra ristruttura profondamente la cognizione del piccolo poiché plasma i concetti dando luogo a rappresentazioni cognitive flessibili, multiprospettiche e forse dialogiche. Infatti, dal momento che si possono usare diversi mezzi linguistici per riferirsi alla stessa situazione percettiva (ad esempio, una rosa è un fiore, è il simbolo della passione ecc.), il bambino diventa capace di assumere diverse prospettive simultaneamente, di usare e creare analogie e metafore, di costruire narrazioni. Inoltre, è chiamato a coordinare la sua prospettiva con quella dell’altro: a partire dall’esperienza interna degli scopi, del loro mancato riconoscimento, delle credenze e dei pensieri, il bambino simula credenze, desideri e prospettive degli altri nell‘atto di esprimersi linguisticamente: intorno ai quattro – sei anni, riconosce gli altri come agenti mentali e, al tempo stesso, giunge ad una nuova comprensione dei propri pensieri e delle proprie credenze. Ora, la teoria della simulazione proposta da Tomasello è interessante nella misura in cui gli consente di fornire una teoria dell’apprendimento che, tra l’altro, dà rilievo alla gradualità dello sviluppo e all’importanza Per la prima volta il bambino agisce in una relazione triadica, preludio alle entità triadiche di cui è costituito il mondo culturale. Infatti, i segni sono collegati ai referenti mediante un termine intermedio (sia esso un contenuto mentale o un habitus); i pensieri sono caratterizzati dalla direzione verso un obietto (intenzionalità alla Brentano) mediata da un modo di rappresentazione; le azioni si compongono di movimenti del corpo fatti per raggiungere uno scopo attraverso l’applicazione di una norma. E segni, pensieri, azioni sono intrinsecamente sociali: per essere tali hanno bisogno della presenza degli altri (cf. CIMATTI 2004). 2

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del suono per la condivisione dei simboli linguistici 3 . E tuttavia, desta qualche perplessità: per un verso il bambino prima esperisce i suoi stati intenzionali/mentali e poi, grazie alla capacità ereditata biologicamente di riconoscere i conspecifici come simili a Sé, li attribuisce agli altri; per un altro verso, però, si scopre come Me solo dopo essersi relazionato agli altri. L’autore, su questo punto, cerca di prevenire qualsiasi critica e scrive: “Secondo una diffusa interpretazione, tale concezione [la teoria della simulazione] implica che i bambini siano in grado di concettualizzare i propri stati intenzionali prima di poterli usare per simulare il punto di vista degli altri. Ciò appare smentito dai dati empirici: i bambini non concettualizzano i propri stati mentali prima di concettualizzare gli stati mentali degli altri [GOPNIK 1993], e nemmeno ne parlano in un periodo precedente [BARTSCH e WELLMAN 1995]. Ma questo non è necessariamente un problema se la simulazione non è vista come un processo esplicito nel quale il bambino concettualizza un contenuto mentale, con la consapevolezza che quello è il suo contenuto mentale, e poi lo attribuisce a un’altra persona in una specifica situazione”4. E più avanti prosegue: “Essi [i bambini] semplicemente percepiscono il modo generale di funzionare dell’altro attraverso un’analogia con il Sé, e la loro capacità di individuare un particolare stato mentale in particolari circostanze dipende da molti fattori”5. Innanzitutto, non è ben chiaro che cosa voglia dire concettualizzare uno stato intenzionale. Tomasello specifica che il bambino attribuisce stati intenzionali senza averne consapevolezza, ma, se così è, in che modo il bambino riesce ad attribuire stati intenzionali alle altre persone se non sa che quelli sono stati intenzionali? E con quali mezzi accede ai suoi stati intenzionali? In secondo luogo, Tomasello fa riferimento ad una semplice percezione del modo in cui funziona l’altro attraverso un’analogia con il Sé. Anche qui, viene spontaneo domandarsi in che modo il bambino istituisca un’ana3 Anche Vygotskij pone l’accento sulla gradualità con cui il bambino apprende la piena funzione significativa della parola: «All’inizio dello sviluppo nella struttura della parola esiste esclusivamente il suo riferimento oggettuale e le sue funzioni sono soltanto la funzione indicativa e denominativa. Il significato, indipendente dal riferimento oggettuale, e la significazione, indipendente dall’indicazione e dalla denominazione, compaiono più tardi (…)» (VYGOTSKIJ 1934, trad. it. 2003: 343). Tuttavia, lo psicologo russo, al contrario di Tomasello, aveva trascurato l’importanza fondamentale della consistenza materiale dei simboli linguistici (cf. VIRNO 2003) 4 TOMASELLO 1999, trad. it. 2005: 98. 5 Ivi, p. 98.

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logia fra sé e l’altro, se non ha un concetto di sé. Inoltre, specificare in che modalità il piccolo percepisca gli altri potrebbe essere utile. Rifacendosi a Vygotskij, si potrebbe ipotizzare che il bambino, dal momento che non distingue l’io dal mondo, dapprima non percepisca gli altri, ma si muova all’interno di una sorta di nebulosa, la comunità in cui vive. In seguito alle ripetute interazioni sociali, gradualmente, si accorgerebbe dell’esistenza degli altri e, quindi, di Sé stesso (cf. VYGOTSKIJ 1934). In terzo luogo, Tomasello usa la parola “intenzione” riferendosi agli scopi, ma adotta solo un significato pregnante della parola che può essere usata – e fraintesa – in diversi modi in diverse situazioni linguistiche (vedi WITTGENSTEIN 1953). Oltretutto, nel passo appena citato l’autore sostituisce stati mentali a stati intenzionali; in effetti, quando uno ha un certo scopo si trova in un certo stato mentale, ma se pensiamo all’intenzionalità alla Brentano, essere intenzionali non significa necessariamente avere uno scopo. E poi è vero che ogni volta che parliamo lo facciamo in vista di uno scopo? Cerchiamo solo di fare in modo che l’altro presti attenzione a ciò che vogliamo? Quale scopo tentiamo di raggiungere quando chiediamo al vicino di casa come sta? Certo, potremmo volerne sapere di più sulla sua storia d’amore andata male o potremmo volere entrare nelle sue grazie, ma escludendo questi “buoni” propositi, non riusciamo ad individuare un’intenzione comunicativa, così come non riusciamo ad associare un’intenzione comunicativa ad un grido di dolore o ad un’espressione blasfema. Gli esempi potrebbero continuare all’infinito: per dirla con Wittgenstein, la teoria tomaselliana dà conto di una regione circoscritta dei diversi giochi linguistici 6, descrive un caso limite (cf. GAMBARARA 2005, in particolare il cap. 9 e VIRNO 2003). Nei punti appena trattati, dunque, proponiamo un’esplorazione più approfondita della parola, un’analisi concettuale. Questo modo di procedere potrebbe sembrare antiquato, superato, eppure anche oggi la chiarificazione concettuale è necessaria e importante poiché 1) se anche si vuole co-struire una teoria scientifica, prima di tutto, bisogna definire i termini che si useranno; 2) all’interno della stessa scienza cognitiva c’è disaccordo proprio sulle parole, su che cosa si debba considerare “grammatica universale” e su che cosa significhi “innato”, anche se non c’è un reale dibattito in merito (vedi TOMASELLO 2004)

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WITTGENSTEIN 1953, trad. it. 1967: 3.

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Il singolo e la sociogenesi Tomasello definisce la sociogenesi come la successione di processi ontogenetici, ma non affronta i problemi relativi a questa impostazione (probabilmente non rientrano nei suoi interessi): 1. Il rapporto tra il contributo del singolo e la sociogenesi: la sociogenesi di un artefatto è la semplice somma, qualcosa di più o qualcosa di meno delle singole ontogenesi? Parafrasando Morin, potremmo dire che è, allo stesso tempo, qualcosa di più e qualcosa di meno. È qualcosa di meno perché l’operato e l’inventiva del singolo, soprattutto nei casi di miglioria collettiva, si dissolve nell’opera e col passare del tempo. È qualcosa di più perché i prodotti umani diventano autonomi, non restano circoscritti a coloro che li hanno inventati. E ciò è particolarmente plausibile per le lingue, che non solo si sottraggono all’arbitrio del singolo, ma non vengono nemmeno modificate coscientemente e volutamente dai gruppi di singoli, semplicemente si modificano nell’uso, meglio, negli usi che i gruppi di singoli ne fanno. 2. La creatività dell’animale umano. All’evoluzione degli artefatti contribuisce l’inventiva del singolo, ma la capacità dell’animale umano di creare cose nuove rimane inspiegata. Forse è favorita dalla produttività dei sistemi di segni che, quindi, forniscono il modello per l’idea stessa della possibilità del nuovo? In proposito, l’autore mette in luce una tensione che si traduce in uno scambio dinamico: se da una parte il bambino è in grado di fare dei salti creativi e andare oltre ciò che apprende grazie alle abilità di categorizzazione comuni a tutti i primati che gli consentono di cogliere individualmente alcune relazioni categoriali o analogiche, dall’altra questi salti creativi sono favoriti da strumenti culturali come i simboli linguistici e matematici e le rappresentazioni iconiche convenzionali7. Conclusioni Tomasello, attraverso le ricerche condotte insieme ai colleghi al Max Planck Institute, cerca di individuare le fasi attraverso cui il bambino riconosce gli altri come esseri intenzionali e mentali al pari del Sé, impara l’uso convenzionale dei simboli, acquisisce la propria lingua, assume diverse prospettive simultaneamente, interiorizza le rappresentazioni flessibili 7

TOMASELLO 1999, trad. it. 2005: 72.

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e multiprospettiche rese possibili dalla lingua stessa, che non crea nulla dal nulla, ma rivoluziona le abilità condivise con gli altri primati non umani. Lo psicologo rivaluta i processi storico-culturali e ontogenetici che fanno dell’animale umano l’animale che è, rigettando la tesi del modularismo in quanto i 6 milioni di anni in cui l’animale umano si è differenziato dagli altri primati sono un tempo evolutivamente troppo breve per la formazione dei moduli à la Fodor o à la Chomsky. Egli supera la distinzione geni/ambiente, per costruire un quadro complesso dell’uomo in cui non è possibile distinguere l’individuale dal culturale, la biologia dalla cultura: il bambino eredita alcune abilità, ma queste emergono e si sviluppano nell’interazione con gli altri; impara alcune cose da sé, ma acquisisce importanti informazioni solo dagli e attraverso gli altri. Biologia e cultura costituiscono un’unità à la Vygotskij: pur muovendosi su piani differenti, si intersecano continuamente. E Tomasello non dà questa unità come un brute fact, ma la giustifica analizzando come la linea di sviluppo individuale si congiunga e si disgiunga con la linea di sviluppo culturale. Quanto all’ontogenesi umana, essa si fonda sulla simulazione, quindi, sull’attribuzione di stati intenzionali prima e stati mentali poi. Ma che cosa sono le intenzioni? Che differenza c’è – se ve ne è una – tra stati intenzionali e stati mentali? Con quali strumenti il bambino ricorre all’esperienza interna dei suoi stati intenzionali? E perché ha la capacità di compiere salti creativi che vanno al di là delle possibilità offerte dal mondo in cui vive? Tomasello sembra non preoccuparsi di queste domande e non considera nemmeno un ulteriore fattore di complessità nei rapporti tra il cucciolo d’uomo e i suoi simili, in particolare i piccoli come lui. Infatti, il bambino diventa cosciente di Sé come agente intenzionale/mentale solo dopo aver interagito con gli altri; nello stesso tempo, attribuisce stati intenzionali/mentali agli altri; inoltre, gli altri bambini penseranno a Sé e alla loro prospettiva solo dopo essersi relazionati ad egli stesso. Sembra quasi che non sia possibile stabilire chi influenza chi, che non sia possibile tracciare un confine netto, dire prima viene A e poi segue B. La difficoltà rimanda a una questione metodologica di fondo: è preferibile trovare una spiegazione lineare o sostare, senza paura, nel circolo, quel circolo tanto caro ad Heidegger? Si deve usare l’accetta della precisione che stabilisce con nettezza meccanismi e processi o si devono mantenere i poli contrari e complementari come suggerisce Morin? Il co–direttore del Max Planck Institute, dunque, propone un’ipotesi affascinante perché stabilisce una stretta interdipendenza tra elementi

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biologici ed elementi culturali, ma lascia delle caselle vuote. Probabilmente il paradosso dell’animale che parla, dell’animale che vive in due regimi logici, quello delle cause e contemporaneamente quello delle ragioni, è destinato a non essere sciolto. Bibliografia HANNAH ARENDT 1958, The Human condition, Chicago, The University of Chicago Press, trad. it. di S. Finzi, Vita Activa. La condizione umana, Milano, Bompiani, 1964. NOAM CHOMSKY, 1988, Language and problems of knowledge. The Managua Lectures, Cambridge (Ma.), The MIT Press, trad. it. di C. Donati e A. Moro, Linguaggio e problemi della conoscenza, Bologna, Il Mulino, 1991. FELICE CIMATTI 2004, Mente, segno e vita, Roma, Carocci. FRANCESCO FERRETTI, 2007, Perché non siamo speciali. Mente, linguaggio e natura u-mana, Roma-Bari, Laterza. DANIELE GAMBARARA, 2005, Come bipede implume, Roma, Bonanno Editore. MORIN EDGAR 1990, Introduction à la pensée complexe, trad. it. di M. Corbani, Introduzione al pensiero complesso, Milano, Sperling & Kupfer, 1993. TOMASELLO MICHAEL, 1999, The cultural origins of human cognition, Cambridge (Ma.), Harvard University Press, trad. it. di M. Riccucci, Le origini culturali della cognizione umana, Bologna, Il Mulino, 2005. TOMASELLO MICHAEL, 2004, “What kind of evidence could refute the UG hypotheses?”, Studies in Language 28 (3): 642-645. Sito Web Max Planck Institute – Department of Developmental and Comparative Psychology: http://www.eva.mpg.de/psycho/index.html. PAOLO VIRNO, 2003, Quando il verbo si fa carne. Linguaggio e natura umana, Torino, Bollati Boringhieri. LEV S. VYGOTSKIJ, 1934, Myslenie i rec Psichologiceskie issledovanija, Gosudarstvennoe Social’no – Ekonomiceskoe Izdatetel’stvo, Moskva–Leningrad, trad. it. di L. Mecacci, Pensiero e Linguaggio, Roma-Bari, Laterza, 1990. LUDWIG WITTGENSTEIN, 1953, Philosophische Untersuchungen, Oxford, Basil Blackwell, trad. it. di R. Piovesan (pp. 3-182) e M. Trinchero (pp. 183-301), Ricerche Filosofiche, Torino, Einaudi, 1967.

STEFANIA PESCE Logica del limite e lógos del limite. Jean–Luc Nancy e la trascendenza «Plus le corps est une limite consciente, plus l’espace est illuminé». P. SOLLERS

Dare senso al “limite” o dire del limite del senso (ossia di un senso situato al limite) è la questione intorno a cui si coagula il pensiero di JeanLuc Nancy e il cuore pulsante della sua instancabile ricerca filosofica. Scrivere un saggio sul filosofo francese non è cosa semplice data la sterminata bibliografia e la varietà dei campi su cui il suo sguardo indagatore si è posato; si potrebbero scegliere molteplici piste: quella più strettamente teoretica (a partire dall’analisi del soggetto cartesiano e dal ripensamento del cogito, all’erculeo tentativo di annullare qualsiasi ricorso del pensiero all’essenza, alla serrata polemica col cristianesimo e col “pensiero carnista” della fenomenologia, al passaggio dalla preminenza della “vista” al “tatto”), oppure si potrebbero seguire le inflessioni politiche della sua ontologia (ad esempio come si declina il concetto di comunità nell’epoca della “mondializzazione”, oppure le implicazioni del tema dell’intrusione relazionato alla venuta dello straniero), così come ci si potrebbe fare ammaliare dalle pieghe estetiche che prende il suo discorso, o ancora ci si potrebbe divertire a cercare dei punti di tangenza (e lontananza) con grossa parte del panorama filosofico francese post-heideggeriano – Derrida, Bataille e Deleuze, Merleau-Ponty e Lévinas. Qui, però, non ci occuperemo di un tema in particolare, ma utilizzeremo una linea-guida che permetta di accostarsi facilmente al suo pensiero labirintico, senza imboccare alcuna strada maestra ma accostandosi alle numerose entrate senza escluderne alcuna. Per questo scopo assumeremo come leitmotiv la nozione di limite, giacché ci sembra enucleare una vera e propria “logica”, cui nessun concetto nanciano resta immune. Questo perché in una metafisica svuotata da ogni riferimento ad un’essenza fondante1, al divino, all’ultraterreno, quale è quella tratteggiata 1 Cf. J.–L. NANCY, Il senso del mondo, tr. it. di F. Ferrari, Milano, Lanfranchi, 1997. In quest’opera Nancy argomenta la tesi decostruzionista secondo cui il mondo non ha più un senso, perché non rinvia ad alcun senso esterno ad esso – né ultraterreno, né metafisico – ma è il senso.

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da Nancy, la “filosofia del limite” è l’unica possibile, è l’unica “veramente umana”. Oltre che un sistema politico e morale, essa delinea una concezione del mondo, una filosofia di vita, un modus vivendi che sembra essere non già il fondo, ma lo sfondo mellifluo su cui prendono forma e colore i pensieri dell’autore. La prima questione che ci proponiamo di analizzare è: se la «logica del limite»2, rintracciabile nel pensiero nanciano, è anche un “logos del limite”, cos’è che dice il limite, cosa parla nel limite? È chiaro che una simile domanda porta con sé un peso specifico, quello della metafora che la parola “limite” riesce ad evocare, e di tutti i sensi che gravano su di essa. In questo senso, il concetto di limite abbraccia sia problemi esistenziali sia questioni preminentemente filosofiche – quali il limite della conoscenza, della comprensione, dell’esperienza, della verità, fino all’antico dilemma di limite e illimitato, finito contro infinito, secondo una parabola discendente e ascendente facilmente rintracciabile nella storia della filosofia. Infatti, se l’apeiron dei naturalisti greci e il “limite/numero” dei pitagorici sottintendevano una concezione positiva del limite, attribuendogli un “valore epifanico”, iniziale, in quanto esso consentiva all’ente di venire alla luce dal suo essere indeterminato; successivamente, con il cristianesimo, tale concetto ha subito una sterzata in senso negativo, essendo considerato come privazione e mancanza d’essere, sempre legato al concetto di illimitato, da cui direttamente discende e dipende; soltanto in epoca moderna, con il criticismo kantiano, il limite ha riacquistato una certa positività, divenendo la base della trascendenza, fino ad Heidegger, che lo definisce come «ciò a partire da cui una cosa inizia la sua essenza»3 e da qui alla fenomenologia e all’ermeneutica, a Gadamer, all’effrazione del limite nel corpo sacrificale di Bataille, all’esperienza del limite nella scrittura, analizzata da Philippe Sollers4. Davide Tarizzo spiega perché quella di Nancy possa essere considerata una logica (logica che prende diversi nomi, si articola in più modi: logica della spartizione o partage, logica dell’abbandono, logica della libertà, logica dell’esperienza): «questa esperienza dell’essere, della sorpresa e libertà dell’essere, è il logos come tale – la logica del pensiero, vale a dire la legge che regola i rapporti tra il pensiero e l’essere» (D. TARIZZO, Il pensiero libero, Milano, Cortina, 2003, p. 110). 3 M. HEIDEGGER, Costruire, abitare, pensare, in ID. Saggi e discorsi, a c. di G. Vattimo, Milano, Mursia, 1976, p. 103. 4 A partire dall’esperienza con la rivista (e gruppo) d’avanguardia Tel Quel fino a L’écriture et l’expérience des limits (Paris, Seuil, 1968), Sollers ha studiato la trasgressione operante nel linguaggio, sostenendo l’idea di una “faglia del discorso” rinvenibile nei “testi-limite” della letteratura, con un’attenzione particolare all’opera limite di Bataille e di Artaud. 2

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La parola “limite” comunemente indica il punto estremo cui può arrivare qualcosa, cosa che nell’immaginario più fantasioso rimanda all’idea dei “confini del mondo”, alle leggendarie colonne d’Ercole, e da qui alla fascinazione del mistero di ciò che sta oltre la soglia, dell’ignoto. Ma “limite” può anche riferirsi ai limiti della ragione umana, oppure al problema della morte in quanto termine della vita, fino a coinvolgere dibattiti etici – quali sono i limiti della scienza? – e questioni psicopatologiche – qual è il punto tra normalità e follia, quali gli estremi della ragione umana? A questo proposito l’esperienza di Antonin Artaud (ma potremmo citare il caso del marchese de Sade piuttosto che Gérard de Nerval) è emblematica: l’esperienza del limite e della sua continua valicazione è prova dello spossessamento, dell’allontanamento da sé, di lacerazioni profonde della psiche che affondano le radici nella schizofrenia, e nel contempo è potenza creatrice, è liberazione, è slancio vitale. Il limite, dunque, assume plurimi aspetti, si presta a molteplici interpretazioni; insomma è un’infinità di nomi5; è tutto e il contrario di tutto – di fatti nel linguaggio comune può essere connotato negativamente (si dice: “quel tale è limitato”) e positivamente (ex. “c’è un limite a tutto”); esso fa parte della vita, è esperienza comune, inaugurale o terminale, consapevole o inconscia; è uno status mentale ed uno stile di vita. Come testimonia efficacemente Artaud esso è anche una propensione: «tenermi sempre al limite insensibile delle cose, essere permanentemente nello stato in cui le cose passano, senza mai agganciarle o incorporarmele»6. Il limite non è mai statico, fisso, ma è ogni volta messo in gioco e rimette in gioco, si afferma e si ritrae; per questo non è mai una linea precisa, ma piuttosto una sottile zona d’ombra, eterea ed evanescente. È per questo che «parlare del limite richiede coraggio»7, e se è così il nostro autore ne ha da vendere. Nancy, infatti, ha analizzato il limite in tutte le sue pieghe, nei suoi più bui anfratti, dando voce a quello che esso dice, al suo logos, restituendogli l’autorevolezza che un concetto così articolato merita. Il pensiero del filosofo mostra efficacemente come nel limite è in gioco non solo la scrittura e M. CHARVET e E. KRUMM suggeriscono: «questo limite mi pare poter essere caratterizzato dai nomi che la storia lineare – quello in cui noi parliamo – mistica, erotismo, follia, letteratura, inconscio» (Tel Quel: un’avanguardia del materialismo, Bari, Dedalo, 1974, p. 60). 6 A. ARTAUD, Note per una “lettera ai balinesi”, in ID., CsO: il corpo senz’organi, a c. di M. Dotti, Milano, Mimesis, 2003, p. 67. 7 B. CALLIERI, Prefazione in AA.VV., Al limite del mondo. Filosofia,estetica, psicopatologia, a c. di F. Leoni e M. Maldonato, Bari, Dedalo, 2002, p. 5. 5

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l’arte, l’eros e la morte, la politica e l’estetica, la sorte della filosofia e del pensiero, ma anche il nostro modo di essere al mondo. Finanche il senso del mondo e l’essere vanno letti sotto l’inesauribile logica del limite. Quest’ultima è, in primis, capace di spiegare il modo in cui è possibile il mondo: giacché «il mondo ha luogo come immensa pressione di corpi» 8 , come infinito reticolato di corpo a corpo, il limite traccia quelle linee divisorie che impediscono che il mondo sia una massa informe e compatta, un vuoto indistinto. In altre parole, esso rende possibile la singolarità, è il garante del mantenimento delle forme. Secondariamente, attraverso la logica del limite si precisa il modo d’essere dell’«essere-con», nodo cruciale dell’ontologia nanciana: l’esistere si configura immediatamente come un co-esistere, come un “essere in comune”, come una pluralità di enti, in cui il con è il presupposto del sé, perché non c’è singolarità senza altre singolarità. Grazie al limite sappiamo che il contatto universale, di cui si parla ripetutamente in Essere singolare plurale9, non deve essere pensato come se operasse una continuità tra i soggetti in causa, come se i corpi fossero situati l’uno accanto all’altro, perché si cadrebbe in un triplice errore: 1) si confonderebbe la pluralità di cui parla Nancy con una totalità, una unità onni-comprensiva; 2) in questa unità i corpi verrebbero ammassati confusamente e sarebbero, così, riducibili gli uni agli altri, ossia intercambiabili; 3) l’esistenza di una massa compatta implicherebbe l’indifferenziazione dei corpi, dunque la stessa invisibilità dei corpi. Al contrario, Jean-Luc Nancy mantiene e il singolare e il plurale dell’essere in quella che viene definita una singolarità nella pluralità: «la singolarità dell’essere è il suo plurale. Ma l’essere non è più detto in molti modi a partire da un unico presunto nocciolo di senso […]. L’essere è la spaziatura, è il sopraggiungere – la spaziatura sopraggiungente – del co, singolare plurale»10. Bisogna sottolineare che la “singolarità” (cosa ben diversa dall’individualità) è preservata, attraverso la nozione di limite, a dispetto della demolizione dell’unico e dell’eccezionale e della celebrazione dello straordinario operanti nella nostra società, considerati sintomi della disgregazione del senso, cui viene contrapposta positivamente la rivalutazione del comune e del banale. Allora il limite svolge una doppia funzione: da un laJ.-L. NANCY, Corpus, tr. it. di A. Moscati, Napoli, Cronopio, 1995, p. 35. J.-L. NANCY, Essere singolare plurale, tr. it. di Davide Tarizzo, Torino, Einaudi, 2001. 10 Ivi, p. 54. 8 9

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to preserva la singolarità del corpo, e a dall’altro rende possibile il contatto. Quest’ultimo, difatti, per stabilirsi necessita sempre di una distanza, di una separazione operante tra gli oggetti che giungono a toccarsi. L’importanza del limite aumenta vertiginosamente se si considera che, nel mondo visto dagli occhi del filosofo, il contatto è legge universale e infrangibile: essa prescrive che la prima condizione perché ci sia un individuo è che sia toccato da qualcosa e che tocchi qualcosa, poiché è sempre insieme ad altri che viene al mondo, e, a sua volta, la condizione affinché un corpo tocchi un altro corpo è, appunto, l’esistenza del limite. Non c’è contatto senza distanza, non c’è prossimità senza lontananza, non c’è rapporto senza differenza; da un singolare all’altro c’è contiguità, ma non continuità, poiché: «se non ci fosse una distanza da colmare, non ci sarebbe motivo di dare o di chiedere il superamento di una distanza che è tale solo perché vi sono corpi che si sentono»11. Tutto questo può essere riassunto in due concetti fondamentali dell’ontologia nanciana: lo “spaziamento dei corpi”, che si connette direttamente alla “localizzazione dell’essere”. La metafisica del nostro autore, che risente chiaramente della lezione kantiana (prima) e heideggeriana (poi), infatti, è fortemente imperniata sul concetto di spazio: un corpo si configura sempre come un -ci (il -ci del Dasein heideggeriano), ossia occupa sempre uno spazio, un luogo, una posizione. Di conseguenza due corpi non possono occupare mai lo stesso posto: sempre grazie alla differenza è possibile il contatto. Ma c’è dell’altro: i corpi non occupano semplicemente uno spazio, ma danno vita essi stessi allo spazio. In questa “dis-locazione universale” non esiste confusione; al contrario, come abbiamo visto, la distinzione è necessaria. È così che i corpi possono essere visti: la vista avviene sempre tra corpi ossia è sempre vista del visibile, e colui che vede compare insieme con ciò che vede. Ecco tornare il con: i corpi appaiono insieme, sempre con altri corpi, ammassati, abbracciati, in quella che è la comparizione. In uno scenario simile l’esperienza consiste in un sentirsi toccare o sentirsi toccati, che non sarebbe possibile senza quel limite di cui dicevamo prima. Inoltre, bisogna rilevare che è proprio nell’impatto con il corpo dell’altro che posso conoscere il limite del mio corpo: così è nel con-essere che ho percezione del mio essere. Attenzione, però: in questo reticolato di contatti, nella pressione globale dei corpi, il “toccare” non è mai appropriativo, cioè non arriva mai ad inglobare in sé l’altro, poiché tra i due corpi esiste sempre una distanza. Il tocco, infatti, 11 D. CALABRÒ, Dis-piegamenti. Soggetto, corpo e comunità in Jean-Luc Nancy, Milano, Mimesis, 2006, p. 92.

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incontra immediatamente un limite, il limite del corpo dell’altro. Il contatto consiste, così, nel perdere il proprio nel momento in cui si tocca, significa perdere sé nel momento in cui il sé, toccando l’altro, si fa altro e per l’altro. Jacques Derrida, nel suo corposo volume dedicato al “toccare” e a Jean-Luc Nancy, parla a questo proposito di un “toccare senza toccare”, di un premere senza premere, di una discrezione del contatto12. Il contatto si risolve quindi in un’impotenza, in un’interruzione: ciò che Nancy chiama sincope. A pensarci bene, nessuno, nessun corpo ha mai toccato con la mano o col contatto della sua pelle qualcosa di tanto astratto quanto un limite. Ma, vale anche il contrario, cioè non tocchiamo mai nient’altro che un limite. Toccare è sempre toccare un limite, una superficie, un bordo, un contorno. È lecito chiedersi allora: cosa significa toccare, se toccare è toccare il limite, ossia qualcosa d’immateriale? Per il filosofo significa avvicinarsi al sublime. In Un pensiero finito, si legge infatti: il modo singolare della presentazione di un limite, è che questo limite viene ad essere toccato: bisogna cambiare senso, passare dalla vista al tatto. Questo è infatti il senso della parola sublimitas: quel che si tiene appena sotto il limite, ciò che lo tocca13.

Come concepire un toccare che tocca ciò che è incorporeo? Com’è possibile un contatto che giunge a toccare l’impossibile? È a questo punto che si inserisce la questione del senso. Esso costituisce lo spazio in cui i corpi si dislocano: l’incorporeo del senso si infiltra nella distanza tra i corpi, anzi fonda tale scarto. «Il senso, allora, non è altro che il rapporto tra un corpo e l’altro, la configurazione ogni volta diversa che assume il “con”, e che la parola giunge a esprimere»14. L’ontologia dei corpi di cui si fa portavoce Nancy è allora anche un’ontologia dell’incorporeo: infatti, se il dire è corporeo, in quanto voce udibile o scrittura, ciò che viene detto è incorporeo, e questo incorporeo è il linguaggio, veicolo del senso. Eliminato il ricorso all’essenza, a tutto ciò che sa di fondamento, non resta che rintracciare il senso del mondo nel mondo stesso. Se la peculiarità dell'esistenza è il non avere alcuna essenza, allora il corpo è l’apertura, la spaziatura, l’effrazione, l’iscrizione del senso; se l’esistenza appare come un’esposizione corporea, allora il pensiero avrà come J. DERRIDA, Le toucher, Jean-Luc Nancy, Paris, Galilée, 2000, p. 109. J.-L. NANCY, Un pensiero finito, tr. it. di L. Bonesio e C. Resta, Milano, Marcos y Marcos, 1992, pp. 102-103. 14 D. TARIZZO, Il pensiero libero, cit., p. 113. 12 13

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oggetto il corpo e l’esperienza del toccare, l’istituzione del senso nell’estensione e vibrazione dei corpi. Il corpo diventa così il “corpo del senso” – per questo ogni scrittura ha un corpo – dove “senso” non rinvia e non si riferisce più a sé, non rinvia più a nessuna interiorità, ad alcun “dentro” insondabile, ma rimane spalmato sul bordo, sulla superficie esterna, cioè sul limite. Il luogo atto ad ospitare il senso sarà, allora, proprio quell’impossibile insito in ogni toccare, quell’incorporeo del corpo che giungiamo a toccare toccando l’altro. Lo “spaziamento dei corpi” è anche “spaziamento del senso”, per cui esso è partagé, cioè condiviso, parcellizzato, pluralizzato. Così si esprime il filosofo a tale proposito: «partage significa sia partecipazione che divisione: questo è lo “spaziamento del senso”. La sincope è questa divisione di spaziamento: separa e interrompe al cuore del contatto»15. Nancy opera così una volgarizzazione – col significato di democratizzazione – del senso, cancellandone qualsiasi “auralità” che lo renda irrepetibile e unico. Da qui si rende esplicito il tentativo coraggioso dell’eliminazione dell’idea di senso come un ché di nascosto da decifrare, risiedente in un’alcova a cui solo pochi dotti o mistici possono accedere. Nell’ontologia nanciana il senso è disseminato sui corpi, sempre di nuovo. Tutto ciò mina alle fondamenta la nozione della verità come un concetto “saldo”, oppure della verità intesa come rivelazione, abolendo, di conseguenza ogni tradizionale “ricerca della verità”. Così com’è tratteggiato da Nancy, il senso diviene accessibile a tutti; con una battuta di spirito lo si potrebbe definire “un senso a portata di mano”, proprio perché il suo segreto viene svelato ogni volta dalla mano che si accosta all’altro. Questo sostare del senso sul limite è espresso anche con il termine di escrizione, intesa come la scrittura del senso nel fuori, nell’ex, sulla pelle. Si legge infatti: L’escrizione del nostro corpo è ciò per cui dobbiamo innanzitutto passare. La sua inscrizione-fuori, la sua messa fuori-testo come il movimento più proprio del suo testo […]. Il corpo non è precipitato ma è sul limite, sul bordo esterno, estremo, che niente richiude16.

L’“escrizione del senso” può essere considerata l’essenza del linguaggio e di ogni inscrizione, ma anche il “senso” della moda attualissima dei tatuaggi e della body art, della nudità e dell’esposizione del corpo. Il concetto di “escrizione” ci conduce alla riflessione nanciana sulla “scrittura della pel15 16

J. DERRIDA, Le toucher, Jean-Luc Nancy, cit., p. 221. J.-L. NANCY, Corpus, cit., pp. 13-14.

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le” – di quella pelle che «s’inscrive di marchi provenienti dal di dentro: rughe, nei, verruche, escoriazioni; e marchi procurati da fuori, talvolta gli stessi, o anche screpolature, cicatrici, bruciature, tagli»17 – che si coagula nella questione: «scrivere: toccare l’estremità. Come dunque giungere a toccare il corpo, invece di significarlo o di farlo significare?» 18 . L’originalità del pensiero di Nancy sta nel sostenere che nella scrittura non si danno significati, poiché scrivere non vuol dire “significare” ma proprio (e solo) “toccare il corpo”, dato che toccare è sempre toccare il limite e la scrittura accade sempre sul limite. Da cui si deduce che il corpo viene inteso interamente come una superficie di scrittura: “Scrittura” non vuol dire mostrare o dimostrare un significato, ma indica un gesto per toccare il senso. Un toccare, un tatto che è come un’apostrofe: chi scrive non tocca comprendendo, afferrando, prendendo in mano […] ma tocca rivolgendosi, inviandosi al contatto di un fuori, di qualcosa che si sottrae, si allontana, si spazia19.

Ecco affacciarsi, insieme all’idea che il senso è escritto, quella di una “verità sulla/della pelle”20: la pelle è sia ciò che mette in contatto con l’altro, sia una superficie su cui scrivere, dunque imprimere dei significati, esporli dal vivo, in una parola, comunicare. Quindi, ammettendo con Nancy che esiste una “verità della pelle”, è lecito chiedersi cos’è che dice. E, in secondo luogo, se la nudità dei corpi ha a che fare con questa verità (come sembra suggerirci la “Nuda Veritas” di Klimt). La messa a nudo dei corpi, imperante nella società postmoderna, non fa altro che portare all’estremo, nel senso di al limite, il concetto di “epoca dell’immagine del mondo”, di heideggeriana memoria. È doveroso allora prendere sul serio quella nudità che quotidianamente la moda, l’arte, i media ci mettono davanti, attribuendole un senso precipuo: nel denudamento è in gioco molto più della mera esposizione di sé, nel piacere di guardare e di essere guardati è in gioco la possibilità stessa della nostra esistenza. Vediamo perché: J.-L. NANCY, 58 indici sul corpo, in D. CALABRÒ, Dis-piegamenti, cit., p. 175. J.-L. NANCY, Corpus, cit., p. 12. 19 Ivi, p. 18. 20 Dice Nancy: «la verità è la pelle. Essa è nella pelle, fa pelle: autentica esposizione esposta, completamente rivolta al di fuori nel mentre avvolge da dentro, dal sacco riempito di borborigmi e tanfi. La pelle tocca e si fa toccare. La pelle accarezza e lusinga, si ferisce, si scortica, si gratta. È irritabile ed eccitabile» (J.-L. NANCY, 58 indici sul corpo, cit., p. 175). 17 18

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Chi si denuda si fa immagine: pura esposizione. Di conseguenza, l’immagine non si dedica al nudo per caso, né per curiosità oggettiva o erotica. L’immagine del nudo rimette ogni volta in gioco la propria nudità, si gioca la propria pelle d’immagine: presentazione integrale, in primo piano, sul piano unico dell’immagine, del fatto che non si dà un altro piano, non c’è una profondità dissimulata, non c’è segreto. Il segreto è sulla pelle (il segreto e la sua sacertà). Dipingere, disegnare o fotografare il nudo significa accettare ogni volta la medesima sfida: rappresentare l’irrappresentabile fugacità della messa a nudo, il pudore istantaneo che spoglia di ogni rivelazione e l’indecenza che rivela la spogliazione. Nel nudo si mostra, di volta in volta, che un soggetto nel senso stretto di sub-jectum non ha nulla sotto di sé, non nasconde più nulla. Il soggetto riposa su se stesso e il «sé» è la sua pelle, lo spessore sottile della sua pelle e del suo incarnato21.

È attraverso la pelle che l’esposizione di sé all’altro si compie appieno; in tale “messa a nudo” il corpo raggiunge il culmine della propria apertura. Nella nudità, infatti, ci si espone totalmente, senza alcun velamento, senza indugi, senza vergogne. La verità della pelle “si offre”, proprio come il seno nudo dell’amata si offre all’altro senza intenzione22. A questo proposito ricordiamo che Alain Badiou ha dedicato pagine molto belle al tema dell’“offerta” in Nancy (associata al motivo dell’esposizione, di cui tra poco diremo), ribadendo che il seno è offerto senza domanda, è lì, di fronte l’altro, totalmente in estensione23. Quest’ultimo termine non va sottovalutato perché afferisce alla concezione nanciana della materia: i corpi sono innanzitutto masse, sia in quanto pesano, sia per il modo in cui si dispongono (le immagini quotidianamente mostrano masse di bambini denutriti, masse di soldati in guerra, masse allo stadio). La massa di cui sono costituiti i corpi non è concentrazione, ma estensione, dato che non si concentra «all’interno», «in sé», ma il suo «sé» è all’esterno, è l’«al di fuori» in cui si espone il suo interno. Il corpo è una pelle esposta già da sempre al mondo, proteso naturalmente verso il fuori, piuttosto che essere tutto raccolto in una supposta interiorità, in un dentro colmo di significati, come insegnava Paul Valéry quando diceva che la profondità dell'uomo è la sua pelle. Siamo così arrivati al cuore dell’ontologia nanciana: l’esposizione fa tutt’uno con l’escrizione, con il Mitsein, con il limite, con la pelle (ecco perché si legge ex-peau-sition). Quest’ultima non è solo estensione di una superficie, Ivi, pp. 8-9. Cf. J.-L. NANCY, La naissance des seins, Valence, Erba, 1997. 23 Cf. A. BADIOU, L’offrande réservée, in AA.VV., Sens en tous sens, Autour des travaux de Jean-Luc Nancy, a c. di F. Guibal e J.-C. Martin, Paris, Galilée, 2004, pp. 13-24. 21 22

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ma anche estensione delle parti, disseminazione, poiché il corpo è anche partes extra partes: “Esposizione” non significa sottrarre l’intimità al suo ritrarsi e portarla fuori, metterla in evidenza. In questo caso il corpo sarebbe un’esposizione del “sé”, una traduzione, un’interpretazione, una messa in scena. “Esposizione” significa invece che l’espressione è stessa intimità e ritrarsi24.

Nell’esposizione non è in gioco un movimento di allontanamento del sé da sé, ma piuttosto una partenza, uno spaziamento dall’“a sé”, uno spaziamento che è proprio al corpo in quanto luogo dell’aperto, in quanto luogo di mille intrusioni: l’intrusione dell’io, dell’altro, della tecnica, della protesi25. Questo “uscire da sé” operato nel corpo dall’ego, questo andare al limite, quasi uno sconfinare, non equivale ad un rendersi pienamente trasparente del soggetto, né ad un movimento dialettico, in cui sia contemplato un ritorno a sé, ma consiste nell’abbandonarsi all’esistenza, al suo differire da sé, alla sua infinità varietà e molteplicità di forme. Simile “non aderenza a sé” dell’essere, con cui coincide il concetto di “esposizione”, cioè il fatto di essere consegnati agli altri e di portare sulla pelle il peso del senso e della sua continua sospensione, non è altro che la finitezza dell’essere. Essa consiste in una continua interruzione del senso che, una volta sospeso, rinasce ogni volta nell’apertura dell’essere, essere che avviene continuamente, che capita, e lo fa infinitamente, coagulandosi in ogni singolare. In tale apertura trova il suo spazio il senso profondo del limite, come ciò che è non l’al di qua o al di là dei margini ma è ciò che li unisce e li separa, come la faglia che si insinua tra entità differenti. Allora è partendo dalla nozione di limite come il negativo, come ciò che permette la negazione di sé, la contraddizione della cosa stessa, l’andare oltre – e in questo il nostro si rifà esplicitamente a Hegel26 – che si può teorizzare l’esistenza di una “finitezza infinita”: «una finitezza che non ha l’infinito al di là di sé e quindi non si protende verso di esso come verso una perfezione e una pienezza che le mancano. L’infinito è nello stesso J.-L. NANCY, Corpus, cit., p. 30. Cf. J.-L. NANCY, L’intruso, tr. it. di Valeria Piazza, Napoli, Cronopio, 2000. 26 Cf. J.-L. NANCY, “Hegel. L’inquietudine del negativo”, tr. it. di A. Moscati, Napoli, Cronopio, 1998. Inoltre si veda l’illuminante paragrafo “Sul ruolo delle categorie logiche della limitazione nell’interpretazione hegeliana della romanitas” curato da ANTONIO MORETTO in AA.Vv., Hegel, Heidegger e la questione della romanitas, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2004, pp. 139-155. 24 25

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differire da sé del finito, nel suo sottrarsi, ma anche nel suo spartirsi e perciò nella sua apertura»27, come spiega bene Daniela Calabrò. Ciò richiama l’antica dicotomia tra infinito e finito, illimitato e limitato, facendo però attenzione a non considerarla un mero contrasto tra termini antitetici, e neppure di una dialettica negativo-positivo: il finito non va superato, è in qualche modo insuperabile perché legato indissolubilmente all’infinito. Nancy opera proprio nella sottile linea che li separa, lavorando intensamente nella ri-elaborazione di un “pensiero finito” che includa in sé l’infinitezza, senza per questo dover ricorrere al divino. Inoltre si tratta di una trascendenza realizzata dall’ego, da un ego che non si ritrova nei più reconditi recessi di una supposta interiorità, ma si esteriorizza sempre, si fa continuamente altro e per l’altro28. Interessante è la concezione del soggetto sottesa da tale discorso: esso non è più considerato come preesistente al proprio corpo o costituente il senso del corpo, non è il “dentro” del corpo, poiché quest’ultimo è un “rigetto-di-soggetto”, è obiezione al sé. Ciò non porta però ad un dualismo, né ad un’abolizione del soggetto, ma fa emergere una specie di “unità nella differenza” di sé e corpo, di ego e materia. L’ego, infatti, non può esistere da solo, non è in sé, ma si situa nell’ogni volta, nella bocca che lo pronuncia: esso ha senso solo se pronunciato, è sempre localizzato. Appare evidente che tale proposta ontologica, che potremmo definire “un’ermeneutica della finitezza”29, non è lineare, ma densa di insenature e zone frastagliate. Per gettare luce sull’estrema portata di tale operazione metafisica non potremmo trovare parole migliori di quelle del filosofo stesso: non è un pensiero della limitazione, che implica l’illimitatezza di un aldilà, ma un pensiero del limite come ciò a partire da cui, infinitamente finita, l’esistenza si solleva e a cui si espone. Non un pensiero dell’abisso e del nulla, ma un pensiero dell’infondatezza dell’essere: del solo «essere» la cui esistenza esaurisca tutta la sostanza e tutta la possibilità30.

Si capisce perché, in una simile ottica, la logica del limite assuma un ruolo centrale: il limite è contemporaneamente ciò che ci rende umani e D. CALABRÒ, Dis-piegamenti, cit., p. 70. Cf. J.-L. NANCY, Ego sum, Paris, Flammarion, 1979. 29 Cf. D. DI CESARE, Ermeneutica della finitezza, Milano, Guerini e Associati, 2004. 30 J.-L. NANCY, Il pensiero sottratto, tr. it. di M. Vergani, Torino, Bollati Boringhireri, 2003, p. 55. 27 28

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finiti – perché è il limite della morte, il limite del pensiero, il limite della libertà, il limite della comprensione e ciò che rende partecipi del senso. Il limite dice che c’è altro, è esperienza dell’“oltre da noi”. Pensare il limite, per il filosofo, significa ammettere che è proprio nelle caratteristiche peculiari dell’uomo, ossia finitezza, libertà ed esposizione, che si può rinvenire l’esistenza di una dimensione trascendente. Infatti, benché la libertà umana non sia infinita, ma sempre limitata, è in seno ad essa che si apre lo spazio per la trascendenza: La libertà dell’esistenza a esistere, è l’esistenza stessa nella sua “essenza” […] che consiste nell’essere spinta fino al limite in cui l’esistente è quel che è solo nella trascendenza. E la “trascendenza” stessa non è altro che il transito verso il limite. Non è il superamento del limite, ma l’essere-esposti sul limite, al limite e come limite31.

Con ciò Nancy sostiene che non esiste un’essenza racchiusa da un’immanenza all’interno del bordo, ma la libertà è liberazione dell’esistenza dall’essenza, è libertà esplosiva, è diffrazione del senso. La libertà è continuo “mantenersi sul limite” da parte dell’esistenza, un abitare il limite che non è mai statico: La libertà è l’intervallo, il limite, la differenza che taglia la comunità nella forma dell’ ‘ogni volta’, del ‘di volta in volta’, dell’‘uno alla volta’ – della trascendenza che la sospende sul proprio fuori o che proietta quel fuori al suo interno. La libertà è l’esteriorità interna della comunità32.

È dimostrato, così, com’è possibile conservare una sorta di trascendenza – anche senza che esista un essere distinto dall’esistenza di ogni esistente – che sia direttamente collegata alla nozione di finitezza in modo del tutto indissolubile: «la trascendenza che realizza la libertà è la trascendenza della finitezza, in quanto l’essenza della finitezza non consiste nel contenere in sé la propria essenza, ma nell’essere […] l’esistere dell’esistenza»33. Ecco sorgere un dubbio: come si coniuga questa istanza del pensiero nanciano con il risalto dato in altri punti alla dimensione materiale dell’essere34? Sia per quanto attiene alla libertà – esistente come fatto ed J.-L. NANCY, L’esperienza della libertà, tr. it. di D. Tarizzo, Torino, Einaudi, 2000, p. 23. R. ESPOSITO, Libertà in comune, in AA.VV., Incontro con Jean-Luc Nancy, Milano, Cortina, 2003, p. XXIX. 33 J.-L. NANCY, L’esperienza della libertà, cit., p. 87. 34 «Ciò che la spartizione spartisce non è qualcosa dell’ordine di una sostanza unica cui 31 32

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esperienza –, sia per quanto concerne il pensiero che, in quanto pensiero dell’esperienza, si configura come un pensiero corporante, ci si trova in una sorta di impasse, se si considera che rinviano entrambi ad una dimensione trascendente. Nancy risolve la difficoltà spiegando che l’esperienza è: «tanto empirica quanto trascendentale. O […] il trascendentale è l’empirico»35. Lo stesso vale per il concetto di con-tatto; anche in questo caso possiamo rintracciare una forma di trascendenza, palesemente espressa nelle parole: «il senso è il toccare. Il “trascendentale” (o l’ontologico) del senso è il toccare: l’oscuro, l’impuro, l’intoccabile toccare»36. Sicuramente non è semplice comprendere appieno l’intimo connubio tra ordini apparentemente antitetici, tant’è che il filosofo stesso deve ammettere: «si tratta di un concetto tra i più difficili: a questo “originario” o a questo “trascendentale”, infatti, non si “risale”, poiché esso è strettamente contemporaneo a ogni esistenza e a ogni pensiero»37. La nozione di “transimmanenza” proposta da Roberto Esposito ci sembra efficace per indicare questa particolare commistione tra una specie di trascendenza e una blanda immanenza. È così che il filosofo partenopeo ce la spiega: «È tempo di uscire dalla classica contrapposizione tra trascendenza e immanenza e di pensare la trascendenza dell’immanenza: una “transimmanenza” intesa come la differenza interna all’immanenza stessa, come la resistenza dell’immanenza alla propria chiusura»38. Il ché fa tutt’uno con l’impegno, preso da Nancy, di ri-pensare il limite – a partire da Derrida – come problema39. Pensare il limite, giocare con esso non è affatto un vezzo filosofico, o una banale dietrologia, ma innanzitutto investe e reinventa questioni ontologiche forti come quella dell’io e dell’altro (ossia il problema insoluto dell’identità); si pone, poi, come domanda di ciò che è fuori dal soggetto, oltre il soggetto; si conclude con l’affermazione dell’imponderabilità dello spazio che si apre tra due mani, tra due corpi ansimanti, tra due cuori desiderosi. Neppure la fusione che opera l’atto sessuale riesce a varcare la soogni essente partecipi: ciò che è spartito è al tempo stesso ciò che spartisce, ciò che è strutturalmente costituito dalla spartizione e che noi definiamo la “materia”. L’ontologia dell’essere-con non può che essere “materialista”» (J.-L. NANCY, Essere singolare plurale, cit., p. 113). 35 Ivi, p. 93. 36 J.-L. NANCY, Un pensiero finito, cit., p. 115. 37 J.-L. NANCY, Essere singolare plurale, cit., p. 57. 38 R. ESPOSITO, Libertà in comune, cit., p. XXXIV. 39 Cf. J. DERRIDA, Aporie. Morire – attendersi ai “limiti della verità”, tr. it. di G. Berto, Milano, Bompiani, 2004.

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glia dell’altro, a penetrarlo in profondità; neanche la più completa unione amorosa può colmare la distanza irriducibile con l’altro, che rimane quindi il “mio vicino sempre distante”; neanche la morte può appropriarsi del limite ultimo. Vengono in mente le parole che Derrida rivolge affettuosamente all’amico, e come in ogni “cadavre exquis”, aggiungono qualcosa (una nuova luce, un nuovo senso) a quanto detto in precedenza: «Nancy lavora a pensare-pesare l’impe(n)sabile. Più esattamente che possibile, egli misura (pe(n)sa) l’impossibile. Per questo resta un filosofo rigoroso nel momento stesso in cui i limiti del filosofico tremano. Nancy si sottomette allora senza tremare al tremito»40.

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J. DERRIDA, Le toucher, cit., p. 201.

SILVIA REDENTE Sull’irreversibilità dei mutamenti. Peirce, Saussure e la rete linguistico-sensoriale

1. La retroazione dei sensi sul significato Ciò che vi è di relazionale nella logica nominalista del senso comune è probabilmente la necessaria corrispondenza tra menti linguistiche e mondo come contesto o universo logico. Se accettiamo questa come premessa del rapporto tra le categorie peirceane e la logica categoriale che lo stesso Peirce propone dobbiamo cercare di comprendere cosa determina la formazione della significatività vista come oggetto del segno considerato in relazione alle parti. La nozione di simbolicità manifesta la generale ambiguità tra ciò che è linguistico e ciò che deve essere realizzato come tale nella comunicazione. Prendiamo ad esempio la nozione di quasi-mente1: essa si riferisce a ciò che è simbolico nei luoghi in cui è simbolo ciò che non è comprensibile dal punto di vista di altre forme di segni che possono essere presenti nella stessa classe. Per semplificare qui pensiamo al prodotto derivato tra ciò che deve essere visto, quindi vincolato dall’indicalità e la funzione che esso svolge in contestualità diverse. Riprendiamo l’esempio peirceano del cristallo. Esso può essere visto come mero agglomerato inorganico piuttosto che come realtà complessa di oggetto universale, suscettibile a ricevere variazioni dall’esterno (non soltanto se viene colpito, rotto, ma anche se analizzato e usato come campione), purché derivato da un processo di relazionalità con altra materia. Il continuum di materia e forma è nella quasi–mente universalmente riformulabile in altre quasi–menti o classi dinamiche di relazioni interrelate. PosNel lessico peirceano, si tratta dell’idea d’incompletezza semantica propria di ciascun segno che vive nella categoria della Secondità, e che ha, quindi, caratteri materiali propensi ad agire causalmente. Ciò che importa è dissociare, secondo Peirce, i caratteri delle normatività propri della Terzità da quelli delle altre due categorie cenopitagoriche, per la nuova matematica che il filosofo adopera. Le categorie sono generali applicabili ad ogni tipo di forme esistenti, del mondo organico e inorganico, e sono la Primità (Orienza o Originarietà), la Secondità (Obsistenza o Binarità) e la Terzità (Transuazione o Mediazione) che muovono incessantemente i processi di trasformazione segnica, da icone a indici a simboli. Per alcune esemplificazioni cf. HOUSER, 1997. 1

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siamo destinare alla logica abduttiva la posizione di forma logica adeguata alla relazionalità della terzità? Se così fosse non ci sarebbero che finalità interne alla semiosi che abbraccerebbe così qualsiasi discorso che si definisca specularmente alla effettività dell’azione comunicativa. Di fatto il polimorfismo, ad esempio, di un cristallo, è un modo per differenziare il cristallo A dal cristallo B. Questo tipo di scarto è tale da poter stabilire come variabile la differenza tra A e B e l’insieme in definiendo di A rispetto a B, o il modo di formazione del cristallo più o meno variabile2. Se è possibile costruire un rapporto sistematico, relazionale tra A e B, è allora terzità ciò che determina ciascuna sostanza presa in considerazione. Poter spostare l’asse di riflessione dalla materialità alla forma significa invece che analizzare delle realtà di per sé neutrali, fermare in gerarchie ciò che è preminentemente lineare, non gerarchico, potenzialmente onniformativo, per usare un termine hjemsleviano, ossia linguistico. È ciò che accade nelle logiche introspettive: l’autoanalisi è irreversibilità logica. Peirce fa un esempio rilevante a tal proposito, sullo stato di semicoscienza che si ha nel passaggio dal sonno alla veglia3, in cui non ci si trova che nella possibilità di ipotizzare intuitivamente la realtà materiale che si suppone retroagisca sulla possibilità di comprendere lo stato di referenzialità rispetto al soggetto. Tuttavia è lo statuto dei segni che delimita la corrispondenza tra la quasi–mente semicosciente e la vera selezione che si fa delle informazioni sul mondo sensibile. In questo senso entrano in gioco la semiosi e i suoi caratteri asistematici ma relativi alla categorizzazione formale in classi e relazioni. Tra le diverse relazionalità dei segni c’è un modo specifico di formazione semiotica che è quello dell’interpretante emozionale. Possiamo considerare l’interpretante emozionale peirceano in due sensi. Il primo in relazione al rapporto tra il segno e l’oggetto, dunque come interpretante semplice (immediato o dinamico, in base alla tendenza che vogliamo considerare); ed in questo caso non si deve che applicare la logica alla quale ogni tipo di segno si adegua. Il secondo caso è quello di un interpretante emozionale come punto di riferimento esterno al segno; esso si colloca, nella termi2 Peirce usa spesso formule che indicano il presente progressivo per ribaltare l’idea funzionalistica del rapporto tra il nome e la sua spiegazione. La definizione è essa stessa, sotto alcuni punti di vista, indeterminata, se vista nel presente, come qualcosa che sembra essere attuata sottoponendosi a una certa logica (cf. PEIRCE, 1998 [1905], p. 350). Cf. FADDA, 2006, 2004a, 2004b. Sulla regolarità normativa delle logiche diagrammatiche cf. FERRIANI, 1990, pp. 383-404. 3 Cf. PEIRCE 1998 [1894], p. 5.

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nologia di Peirce come segno energetico, la cui energia è la base di un comportamento simbolico, basato sulla presenza di sentimenti (feelings) nella prassi comunicativa umana. Lo spostamento (come movimento radicato nella possibilità della degenerabilità, intesa come proprietà delle menti di assumere variabili all’interno della propria funzionalità, come parti integranti del processo semiotico), riveste la possibilità di opporre al senso della verità formale, della logica di per sé, quella relativa alla necessità al singolare dei bisogni individuali. Il problema che si pone è quello di una detenzione soggettiva della forma, o in altre parole, di una universalità tale da non poter essere soddisfatta dalla forza pura, che nel senso peirceano è portatrice di degenerabilità (il secondo è de–generato dal terzo o, meglio, un ente che è della/nella secondità è un ente semi–altro e quasi–altro). L’interpretante emozionale e quello energetico sembrano essere inglobati all’interno dell’universo del segno come forze necessarie alla significazione stessa. Ed è in questo che si mostra, ancora, come sia necessaria una differenziazione che non si basi su semplici attributi o etichette, ma sui modi di attuarsi dei sensi, verso la significazione. In effetti, si può pensare all’interpretante emozionale come al motore interno della significazione, proprio in virtù della sua stessa finalità intrinseca di semplice ma onnipresente aggregato di reazioni estranee alla pura razionalità. Tale aggregato può essere considerato il principale discrimine tra la categorizzazione kantiana e quella peirceana della realtà significativa dei segni. 2. Corrispondenze logiche La nozione di mente collettiva che Peirce propone va analizzata qui alla luce della cosiddetta essenza duplice o doppia del linguaggio che si manifesta nella complessità della lingua, come evidenzia Saussure. Se è vero che, da un lato, non c’è dualità nella logica della Terzità, è anche vero che, dall’altro lato, la proprietà dei segni di essere interpretanti o simboli rispecchia la necessaria plurivocità della significazione. Ma essa non può porsi al di là della forma generale della differenzialità nei termini di una complementarità non conclusa tra un segno e un interpretante. Se è vero che la nozione appena proposta, quella cioè di rapporto differenziale, non è esplicita in Peirce, è anche vero che egli ricolloca (e Saussure, dal suo lato lo fa in maniera simile) nella forma complessa della funzione quaternionale il valore logico della vera continuità tra i segni, in cui la diacronicità delle

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identità si scontra con la sincronia della forma logica nel continuum spaziotemporale dell’atto comunicativo4. Ciò che emerge è una forma semplice di fenomeno tipico (typical) e non un insieme di fenomeni dati da campionare come prototipi del segnale a cui attribuire un significato in sé o un senso (meaning). Se ciò che riguarda la comunicazione tra menti non può essere supportata da paradigmi esterni alla reale affermazione dell’enunciazione da parte di qualche parlante, deve esistere e non soltanto essere postulato il terreno contestuale di riferimento. Cosa è una relazionalità è il primo punto che deve essere affrontato per arrivare alla corrispondenza tra classi di sensi o significazioni e alla strutturazione formale o linguistica. Abbiamo la possibilità di ipotizzare la corrispondenza tra due menti tale che al simbolo Δ corrisponda il significato “aprire la porta”. Pensiamo alle massime conversazionali di Grice5 della pertinentizzazione contestuale e, insieme, al significato simbolico della rappresentazione messa in atto tra due attori su di un palcoscenico. Quale differenza v’è tra i modi di comprensione in atto tra i parlanti? Il legame che si crea nella potenzialità, nel senso di movimento da ciò che è realtà manifesta a ciò che ne condivide l’essenza, si riallaccia all’idea di forma logica nella fattispecie di fenomeno destoricizzato dalle contingenze esterne alla propria fenomenologia6, come abbiamo accennato nel caso del cristallo polimorfo. Tuttavia cosa rimane delle forme logiche quando le si applica alla realtà, se non relazioni? Il movimento tra il gioco di segni e l’interpretante di ciascun segno è correlato con variabili reali, più o meno contingenti, accanto a realtà fenomeniche oppositive: è chiaro come in un quadrilatero il rapporto tra i lati opposti è relativo alle distanze tra i punti esistenti tra i lati, che godono tutti delle stesse proprietà numeriche. Come sulla scacchiera non ci sono regole ma regolarità impresse sulla superficie di gioco, similmente la relazione tra il livello cosciente di realtà semiotica condivisa tra i soggetti parlanti e la posizione che essi assumono nel contesto pragmatico è relativa alla forma logica che si assume come fine del 4 A giudizio di Roy Harris: “In whatever version it is presented in Saussure’s teaching, the problem of differential identification remains intractable” (HARRIS 2000, p. 304). 5 Cf. GRICE, 1989. La connessione tra i due modi di realizzazione, uno tecnico-analitico e l’altro storico-naturale delle lingue porterebbe ad una significatività forte che abbraccia le specie linguistiche come unità complete in se stesse (cf. F. DE SAUSSURE, 1957, pp. 50-51). Tuttavia questo idealismo mette in campo problemi fondamentali, poiché le semantiche di tipo olistico non dicono abbastanza a proposito della verità o della falsità delle proposizioni (cf. HARRIS, HUTTON, 2007, pp. 111-123). 6 Che è Faneroscopia (cf. PEIRCE, 2003 [1906], p. 178).

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gioco: la vittoria segue regole che hanno indipendenza dai singoli giocatori, semplici occorrenze di un gioco che è sempre stato giocato allo stesso modo. Tuttavia, ci possono essere finalità che hanno altre funzioni, come nel caso di una fune utilizzata, ad esempio, per governare un animale selvaggio o per trascinare un’automobile in panne, o, ancora, per impiccare qualcuno. La gravità della materia non si misura con i fini razionali esterni ad essa, ma ne vincola la portata fenomenica. Nelle temporalità afferenti a ciascun tipo di relazionalità semiologica, come nel caso della scrittura rispetto alla comunicazione orale, si installa la predominanza delle categorie originarie di ciascun tipo di segni. Pensiamo al senso di “Ci vuole tempo”: la particella pronominale segna il “noi”, soggetto al quale si riferisce la necessità di una volontà, indipendente dal “cosa”, oggetto della proposizione. Il tempo è un oggetto, indica una presenza che come tale si oppone a ciò–che–manca, oblio dell’essere, infermità della realtà manifesta. Pensiamo a cosa significa aspettare qualcuno o che qualcosa accada: in quest’ultimo caso si tratta di tendere ad un fine che deve poter essere presente e quindi deve poter essere già stato visto come tale, o per motivi esterni ad esso, come nel caso di un’imitazione, anche complessa, di abiti (pensiamo a quelle persone che sognano di sposarsi perché vedono il matrimonio felice degli altri); nel primo caso si attende qualcuno che è già stato presente, mentre nel secondo è almeno relazionale alla nuova forma di pensiero in questione. Ad esempio, “si aspetta di crescere” per diventare qualcuno di affermato, o “si cerca un lavoro migliore” per decidere “cosa fare della propria vita”. In ogni caso, accedere all’enunciazione di una possibilità di mutamento (dico quindi differenzio ciò che c’era prima della parola detta da ciò che è nell’istante dell’atto comunicativo, indipendentemente dal contenuto) è classificare attraverso forme logiche date una realtà che si definisce quasi totalmente in se stessa. Il “quasi”, come Peirce suggerisce, permette di far sì che ciò che rimane esclusivo del soggetto sia ancorato alla non verbalità, alla possibilità di circoscrivere altri insiemi di relazioni, anche non linguistiche, tra i pensieri–segni. In primo luogo, è questa massa amorfa ad essere bloccata dall’enunciazione: accade negli animali non umani, come nei bambini molto piccoli, ed accade negli umani. Emettere suoni, anche insensati, permette uno spostamento dal qui al lì, non soltanto perché ci si rivolge ad un altro, ma, per esempio, per la capacità di resistere all’irreversibilità dei processi mnemonici associativi, che di fatto, se lasciati a se stessi (pensiamo ai casi estremi di schizofrenia e di paranoia), non permettono il controllo della relazionalità tra i pensieri.

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Se uno stato della lingua è supportato da un significato, è possibile piegare il problema metodologico su quello della formazione della sistematicità di tipo “cartesiano” nei rapporti sintagmatici e paradigmatici. Se il significato è tradizione esso è riconoscibile, ad esempio, attraverso la letteratura del canone, mentre se è impresso nella coscienza della mente collettiva, esso è in uso anche nelle parole della verbalità quotidiana. In qualche modo, quindi, il significato c’è, è già esistente. L’essenza è, seguendo Peirce, una forma logica o semiotica di rappresentazione relazionale tra segni. Ciò che non è presente è perciò ciò che può essere esistito e di cui si intuisce il senso, è il fine positivo (sarebbe azzardato ma utile pensare a cosa si intende per desiderio–in–sé), che non perde forza al modificarsi del modo di presentarsi: l’espressione “stato di coscienza” non ha relazionalità con la possibilità di realizzazione di un fine esterno all’impressione contingente della relazionalità stretta tra emittente e ricevente, ad esempio, di un apparecchio mediatico con un utente. Per essere meno schematici, pensiamo ancora a ciò che si intende per attesa, nella maniera più usuale. Poiché ad essere atteso è sempre qualcosa d’altro, non è possibile delinearne i confini, si tratti di una persona (come sapere se verrà senza dubbio all’appuntamento?) o di un fatto, di un’occasione, o di un cambiamento personale: non ci sono che tenui indizi, ma, in definitiva, tutto ciò che chiamiamo “futuro” è una massa amorfa che nella lingua trova termini di confronto e dunque limitazioni semiotiche tali da essere preformanti dell’attesa stessa, così da formare una sorta di prototipo del fenomeno possibile. In questa speciale contingenza che è la possibilità di una progettualità che si mostri come fatto storico, si incanala la necessità di una forma particolare di movimento segnico che Peirce chiama pensiero diagrammatico. Caratteristica di questa forma semiologica è l’inattendibilità della definizione delle relazioni tra le parti. Nessuno si aspetta che un coniglio disegnato sia esattamente equivalente a quello in carne e ossa, o che un’equazione algebrica sia esattamente conciliabile con un saggio critico, ma in entrambi i casi c’è un’attività formale che mira a una attualità pregressa, che si rifà a ciò che Peirce chiama abiti, i quali si relazionano a ciò che può essere rimosso, in senso tecnico, memorie di esperienza, o mantenuto vivo attraverso la conformità ad un type inteso come modello identitario di riferimento. 3. La relazionalità identitaria Un primo modo di vedere la relazionalità tra ciò che è stato e ciò che si

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può presentare in una forma simile sono le differenze tra impressione e imprevedibilità (R1) e significato e sensi rapportati a positività e differenze che si manifestano nei casi della sensibilità linguistica comune. Caratteristica di quella forma linguistica che chiamiamo definizione è la certezza condivisa dai parlanti di quella lingua di determinare l’indeterminato, o, in altri termini, di fermare in una conclusione il risultato di un processo abduttivo. Ciò che dobbiamo distinguere è, in questo caso, la relazionalità di primo tipo, che agisce per via induttiva e quella che si riconosce in base ad una forma linguistica condivisa che è quella della conclusione definitoria (R2). Entrambe queste forme relazionali (R1 e R2) seguono la logica complessa dell’irriducibilità dei rapporti al singolo fenomeno o occorrenza segnica; esse ci permettono di avvicinare o di capovolgere, mostrandone i limiti e le conseguenze, una nozione che spesso è contraddetta dalla natura stessa dei fenomeni semiotici, che è quella di identità. La sensorialità relazionale è ciò che determina il rapporto tra impressione e imprevedibilità. Riprendiamo la questione che riguarda l’aspettativa per o verso un futuro. Poiché non si aspetta un significato, ma, semmai, ci si muove verso qualcosa (l’interpretante logico di Peirce ne è l’esempio calzante), la sequenza di azioni che delimita il farsi stesso della significatività è un parametro o modello di paragone possibile per un altro modo di realizzazione dell’azione di attesa. Se non è un modello, il modo di realizzazione dell’azione, è almeno un indice della strumentalità della forma relazionale rispetto alla puntualità della imprevedibilità. Ogni sistema comunicativo perciò è dinamico, e quindi relativo ad una sequenza di azioni tra elementi presenti ma differenziali rispetto ad un altro sistema: un’osservazione x è senza effetto, ad esempio, se la si conosce come mera relazione di un fatto già dato, mentre se è una causa del fatto Z, essa è già una forma segnica interpretabile, cioè soggetta alle prassi umane. È ciò che caratterizza l’indecifrabilità la chiave di violino della pratica verbale, poiché non si può deteriorare alcuna prospettiva né restituire ciò che ancora non può essere visto. Il fatto che la divisibilità ossia la presenza di elementi discreti è parte della compresenza di oggetti dinamici e immediati permette di decifrare la questione della precisione comunicativa attraverso modelli non deterministici: l’entelechia alla quale Peirce si riferisce per spiegare il particolare tipo di rapporto necessario e causale tra segni, menti e mondo è prima di tutto proprietà in senso ampio e non può essere ridotta alla mera staticità delle forme inorganiche. In questo senso è evolutivo, dunque, non ciò che è già determinato da fattori genetici, per esempio, ma ciò che si può modificare sensibil-

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mente attraverso continue approssimazioni fino alla possibilità di restituirne la forma nuova attraverso un altro senso o significato in sé (meaning) riconoscibile nell’uso dei segni. In questa possibilità è immessa l’azione della sensorialità relazionale (feeling secondo Peirce) che divide il già stato presente alla memoria dal presente istantaneo, attraverso una fenditura trasversale al modello segnico entrato in gioco. L’indicalità dell’espressione “Alt!” proferita dal vigile per proteggere un bambino che attraversa la strada determina un’impressione nella mente dell’interprete tale da allontanare la prassi in corso (il camminare lungo una certa direzione, con una certa velocità, ecc.) e produce un’azione contraria ad essa. Ciò che c’è di determinato è l’espressione linguistica “Alt”, ma ad essa si contrappone il contesto in cui è usata, che è l’impiego o funzione dei segni ancorati ad una predisposizione più che ad abiti. In effetti, è l’indeterminatezza della presenza reale degli interlocutori a mostrare le differenze tra fenomeni ripetibili, e perciò identitari, e fenomeni differenziali, che si posizionano nella linea ipotetica delle definizioni di cui si nutre il senso comune. Se nella rete delle identità intese come possibilità di corrispondenza tra un fatto A ed un altro ad esso sostituibile si sovrappone la realtà definitoria di ciascun elemento o nome, ciò che resta è pari alla risultante codificabile dal linguaggio umano. Come evidenzia Roy Harris, nella logica tradizionale è presupposta la definibilità dei termini che implica la possibilità di denotare con uno stesso nome comune la stessa classe di enti7. In un certo senso, la realtà logica è fondata sulla formazione indicale–iconica che veicola la possibilità di rivelare le somiglianze senza integrare necessariamente i residui differenziali della lingua, come tutto ciò che non può essere conosciuto, in senso ampio, da un parlante in un momento dato. In effetti, dovremmo dire che è la natura stessa della rappresentazione ad essere completa in sé. Come afferma Wittgenstein: Nel linguaggio, aspettazione e adempimento si toccano.8

Pensiamo al senso di una fila di esseri umani davanti alla porta di un medico: essi aspettano qualcosa che ne rende simile il comportamento (l’impazienza è tipica del paziente), ma ciascuno non ha accesso che al proponimento suo e degli altri, dei quali presuppone la aderenza alla sua stessa attesa. Ciascuno è un segno nel senso in cui rende visibile agli altri una 7 8

Cf. HARRIS, HUTTON 2007. WITTGENSTEIN, 1953, prop. 445, p. 172.

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significatività della realtà comune, determinandone il senso (è la relazionalità di primo tipo, che abbiamo individuato come R1). Oltre a ciò, vi è un modello originario autoevidente che viene seguito intransitivamente e che si appoggia su una fedeltà alla lettera, potremmo dire, permettendo il passaggio dalla reazione causale all’azione programmatica. Bibliografia EMANUELE FADDA, 2006, Lingua e mente sociale. Per una teoria delle istituzioni linguistiche a partire da Saussure e Mead, Acireale-Roma, Bonanno Editore. ID., 2004a, La semiotica una e bina. Problemi di filosofia del segno da Ch.S. Peirce a F. de Saussure e L.J. Prieto, Università della Calabria, Arcavacata di Rende, Centro Editoriale e Librario. ID., 2004b, «Les abductions de Saussure», Cahiers Ferdinand de Saussure, 57, pp. 115128. PAUL H. GRICE, 1989, Studies in The Way of Words, Cambridge (Ma.), Harvard University Press; trad. it. parz. di G. Moro, Logica e conversazione. Saggi su intenzione, significato e comunicazione, Bologna, Il Mulino, 1993. ROY HARRIS, CHRISTOPHER HUTTON, 2007, Definition in Theory and Practice, London, Continuum. ROY HARRIS, 2003 [2001], Saussure and his Interpretes, Edinburgh, Edinburgh University Press. ID., 2000, Identities, differences, and analogies. The problem Saussure could not solve. In Historiographia linguistica 27, 2/3, pp. 297-305. ERIC A. HAVELOCK, 1963, Preface to Plato, Oxford, Basil Blackwell. LOUIS HJELMSLEV, 1943, Prolegomeni to a theory of language; trad. it. di Giulio C. Lepschy, I fondamenti di una teoria del linguaggio, Torino, Einaudi, 1968. N. HOUSER, 1997, Studies in the logic of Charles Sanders Peirce, Bloomington and Indianapolis, Indiana University Press.

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FRANCESCO G. SACCO Meanest foundations and nobler Superstructures: il metodo in Hooke*

1. La necessità di disporre di uno strumento che permetta di comprendere il libro della natura rappresenta, com’è noto, uno dei caratteri principali della nuova scienza del XVII secolo. Osservazioni sull’origine della conoscenza e riflessioni sul metodo del nuovo sapere attraversano, con frequenza variabile, le pagine di tutti i protagonisti della rivoluzione scientifica. Uno spazio rilevante occupano nell’opera di Robert Hooke. Allievo di John Wilkins ad Oxford egli è senza dubbio uno scienziato baconiano, sostenitore dell’astronomia copernicana, della fisica corpuscolare e della iatrochimica. Nella sua opera l’eredità baconiana s’incontra con la nuova visione meccanica della natura. Da questo incontro ha origine il tentativo di costruire una scienza che sia al contempo sperimentale e meccanica1. In questo progetto il metodo scientifico svolge un ruolo determinante, poiché è destinato a essere lo strumento che funga da guida e diriga l’azione dell’uomo di fronte al labirinto della natura, aiutandolo a trovarne il filo: Di questo metodo nessun uomo eccetto l’incomparabile Verulamio, ha avuto alcuni pensieri; egli infatti lo ha promosso fino ad un buonissimo livello, ma c’è ancora qualcos’altro da aggiungere, per il quale sembra che egli avesse bisogno di altro tempo per completarlo2.

Il metodo baconiano è per Hooke l’unico tentativo valido, ma incompleto. Gli strumenti con i quali intraprendere la riforma baconiana della scienza necessitano quindi di essere completati. Nel Novum Organum Bacone aveva indicato nelle somministrazioni artificiali alle facoltà umane gli strumenti di cui si compone il metodo, rispettivamente «una storia naturale sufficiente e buona» che rimedi ai difetti del senso, «tavole e coordinazioni delle istanze» che facilitino il lavoro della memoria e un’«induzione * Si riprende qui la relazione presentata con il titolo “Il programma metodologico di Robert Hooke” al Seminario congiunto SUM-Coordinamento Nazionale Dottorati di Ricerca in Filosofia tenutosi presso l’Istituto Italiano di Scienze Umane di Firenze dal 10 al 13 giugno 2008. 1 HOOKE (1665, p. III, pref. n.n.). 2 HOOKE (1705, p. 6). Bollettino Filosofico 24 (2008): 540-555

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legittima e vera» destinata a guidare l’opera finale di interpretazione della natura da parte della ragione3. Anche Hooke pensa al metodo come un insieme di somministrazioni artificiali alle deboli facoltà umane4. Ma le somministrazioni che egli propone sono diverse da quelle baconiane. È in queste differenze che emerge il carattere meccanico del progetto baconiano di Hooke. I nuovi strumenti scientifici sono indicati quali rimedi ai limiti percettivi dell’uomo. La storia naturale sperimentale rimane il fondamento dell’intero edificio del sapere, ma viene concepita come strumento ausiliario della memoria umana, mentre per l’intepretatio naturae Hooke pensa ad uno strumento logico del tutto nuovo, diverso dall’induzione baconiana. Il prevalere in Bacone dell’uso induttivo della storia rispetto a quello narrativo5 si ritrova nel carattere filosofico della storia naturale più volte sottolineato da Hooke6. Per Hooke, come per Bacone il metodo deve essere capace di realizzare la scomposizione dei corpi fino a giungere alle forme o nature semplici, lo schematismo e il processo latente, che rappresentano le lettere con cui è scritto il libro della natura7. «L’impresa della filosofia», scrive Hooke, «consiste nel raggiungimento della conoscenza perfetta della natura e delle proprietà dei corpi, e delle cause dei fenomeni naturali»8, che egli designa con i termini inequivocabilmente baconiani di schematismi latenti e strutture dei corpi9. Tuttavia solo una parte dell’originario significato baconiano di schematismo e struttura permangono in Hooke, a causa della connotazione esplicitamente corpuscolare della sua visione meccanica della natura. Le forme baconiane, segnate dalla dottrina rinascimentale dello spiritus, lasciano il posto a strutture di tipo geometrico interamente materiali e invisibili a occhio nudo. Questa variazione corpuscolare nell’immagine della natura pone alla metodologia baconiana nuove esigenze, o meglio spinge a guardare ai vecchi problemi in modo nuovo. Una tale variazione è all’origine delle significative modifiche apportate alle somministrazioni baconiane e con esse all’intera metodologia sperimentale, poiché, come ha osservato Larry Laudan, «la metafisica e l’epistemoloBACON (1857-59, vol. I, pp. 235-235), tr. it. BACONE (1975, pp. 649-650). HOOKE (1665, pp. I, III). 5 KUSUKAWA (1996, p. 53). 6 HOOKE (1705, p. 44). 7 BACON (1857-59, vol. I, pp. 168, 215, 227-228), tr. it. BACONE (1975, pp. 567, 626, 639-640). 8 HOOKE (1705, p. 3). 9 HOOKE (1665, pp. 88-89, 204). 3 4

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gia della filosofia meccanica conducevano, per profondi motivi logici, a sostenere una determinata metodologia»10. 2. Oltre alla fondamentale importanza conferita in questo nuovo contesto a strumenti scientifici come il microscopio, assurti a vere e proprie somministrazioni, viene teorizzata la legittimità e necessità dell’uso delle ipotesi nella filosofia sperimentale. La storia naturale di Hooke non è solo una raccolta di dati di fatto (matters of fact)11, ma un’opera in cui alla registrazione di esperimenti e osservazioni si accompagnano annotazioni, questioni (queries) e congetture. La loro funzione non è quella di salvare i fenomeni in modo plausibile ponendo fine alla ricerca, ma di guidare l’attività sperimentale verso nuovi esperimenti che avvicinino alla scoperta della natura nascosta dei corpi12. La necessità avvertita da Hooke di una somministrazione all’intelletto diversa da quella baconiana non comporta l’esclusione dalla nuova filosofia meccanica e sperimentale dell’induzione. Bacone aveva concepito l’induzione come coronamento dell’indagine delle nature semplici poiché operante sui dati sperimentali ordinati nelle tavole, la cui funzione è quella di stabilire «un ordine di comparazione delle istanze di fronte all’intelletto»13, mostrando presenza, assenza, aumento o diminuzione degli effetti associati alla natura cercata. Posta di fronte ai risultati della storia naturale ordinati nelle tavole all’induzione viene assegnato il compito di procedere per comparazione alla identificazione del legame che si istituisce tra un determinato effetto e la natura che lo causa. Questo procedimento non avviene per enumerazione semplice degli effetti, insufficiente e con esito solo probabile in quanto esposto a possibili istanze contraddittorie, ma per «legittime esclusioni ed eliminazioni» degli effetti accidentali o secondari14. Solo questo tipo di induzione è capace di analizzare e scomporre la natura alla «ricerca di essenze e di qualità assolute», che sono il terminus ad quem dell’indagine: forma, schematismo e processo latente15. Anche se l’esito dell’indagine in Hooke si configura come la relazione geometrica e corpuscolare delle strutture fondamentali dei corpi, grazie al suo carattere escludente e seletLAUDAN (1984, p. 52). In evidente contrasto con l’immagine della filosofia sperimentale delineata da SHAPIN-SCHAFFER (1994, pp. 399, 426-427). 12 HOOKE (1705, pp. 18, 28); cfr. ANSTEY (2004, pp. 252-255) 13 BACON (1857-59, vol. I, p. 256), tr. it. BACONE (1975, p. 675). 14 BACON (1857-59, vol. I, p. 137), tr. it. BACONE (1975, p. 535). 15 ROSSI (19742 , p. 322); cf. PEREZ-RAMOS (1988, p. 239). 10 11

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tivo l’induzione baconiana rimane uno strumento fondamentale del metodo. Compito dell’induzione è per Hooke porre ordine tra le diverse osservazioni e congetture, in modo da ridurre a «regolarità, certezza, numero, peso e misura» i dati ricavati dall’esperienza, e stabilire «ordine, congruità, disaccordo o similitudine» tra i fenomeni osservati16. Questo processo lungo e tedioso è non a caso posto all’interno delle storie stesse e non a seguito di esse, poiché come le congetture e le questioni serve a evitare di disperdersi in una varietà amorfa e senza fine di particolari, stabilendo un ordine nel momento stesso in cui questi vengono raccolti, dando all’attività sperimentale una direzione che permetta di giungere, sebbene non in modo lineare, all’individuazione di esperimenti e osservazioni nuove e determinanti o suggerisca ipotesi suscettibili di ulteriore sviluppo. La interpretatio naturae, osserva Hooke, necessita di uno strumento capace di completare la risalita della piramide della conoscenza naturale per la quale è necessario dotarsi di quello strumento logico che Bacone aveva definito Scala Intellectus: L’intelletto umano è come un corpo privo di ali, che non si può muovere da un livello inferiore verso uno superiore di conoscenza, altrimenti che per gradi (…). Ma se l’ascesa è elevata, difficile e oltre il suo potere, è necessario ricorrere a un novum organum, un nuovo strumento, una nuova specie di algebra o arte analitica, con la quale è possibile risalire17.

La nuova somministrazione all’intelletto si presenta come un procedimento di tipo analitico e deduttivo, capace di svolgere nell’ambito della filosofia naturale la stessa funzione svolta dall’algebra nella geometria; non a caso viene definita «un’algebra filosofica, o un’arte di dirigere la mente nella ricerca delle verità filosofiche». Si tratta di uno strumento destinato a mostrare «che anche le ricerche fisiche e naturali come quelle matematiche e geometriche saranno capaci di dimostrazione». Il riferimento all’algebra non si esaurisce nella volontà di estendere alla scienza naturale certezza, regolarità e carattere dimostrativo delle matematiche. L’assunzione dell’algebra come modello epistemologico è dettata dalla necessità, caratteristica delle filosofie meccaniche, di passare dal noto all’ignoto, dal livello superficiale dell’esperienza ordinaria al livello nascosto e latente della microstrutture inosservabili che sono la causa ultima dei fenomeni. Così come l’algebra in geometria «dirige e regola gli atti della 16 17

HOOKE (1705, pp. 34-35, 42). HOOKE (1665, p. 93).

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ragione nel processo dalla questione al quaesitum», l’algebra filosofica è destinata a guidare l’interpretazione della natura dalle comparazioni degli effetti della storia naturale alle cause ignote dei fenomeni18. Hooke ritiene che due sono le strade legittime che si possono seguire nell’indagine della natura, la via sintetica, che procede dagli effetti alle cause, e la via analitica, che procede dalle cause agli effetti e quasi «suppone le cose già date e conosciute». Sebbene sia maggiormente adatta alle ricerche sperimentali, la via sintetica sarebbe eccessivamente lunga se non fosse assistita dall’analisi. Il procedimento deduttivo e dimostrativo dell’analisi può essere finalmente integrato nella scienza sperimentale poiché, diversamente dalla geometria pura, i principi su cui si basa sono dati dalla storia naturale sperimentale. Dalle comparazioni storiche delle induzioni da una moltitudine di particolari si ottengono definizioni e proposizioni generali sulle quali è possibile fondare congetture e ipotesi, dalle quali è possibile dedurre conseguenze da verificare con nuovi esperimenti e nuove osservazioni19. L’algebra filosofica, quindi, consiste in un’integrazione dell’analisi nella sintesi, che trasforma il processo lineare ascendente baconiano in un tortuoso rimando circolare tra induzioni, ipotesi, deduzioni ed esperimenti, «per produrre deduzioni dai fenomeni e indagare i fenomeni dalle deduzioni»20. L’algebra intende congiungere gli effetti noti alle loro cause ignote attraverso le ipotesi, costruite sulla comparazione induttiva degli effetti nella storia naturale e sperimentale e sottoposte alla verifica deduttiva degli esperimenti. In questo nuovo contesto l’istantia crucis, intesa da Bacone come procedimento interno all’induzione, lascia il posto all’experimentum crucis, che Hooke presenta come scelta tra ipotesi alternative21. 3. L’esigenza di estendere alla filosofia sperimentale il carattere dimostrativo e certo delle deduzioni matematiche ha, senza dubbio, origine cartesiana. Tuttavia sono profonde le differenze che separano l’algebra filosofica dalla mathesis cartesiana. La più significativa riguarda la fondazione intuitiva della deduzione operata da Cartesio22, incompatibile con l’esi18 HOOKE

(1705, pp. 6-7). HOOKE (1705, pp. 330-331). 20 HOOKE (1705, p. 553). 21 HOOKE (1665, p. 54), HOOKE (1705, p. 35). 22 DESCARTES (1974-86, vol. X, p. 368; vol. VII, pp. 63-64, 71), tr. it. DESCARTES (1994, vol. I, pp. 241, 710, 717). 19

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genza baconiana di Hooke di avvio, sviluppo e conclusione della conoscenza negli esperimenti e nelle osservazioni. Nella «fisica trattata geometricamente», afferma Hooke, «non c’è spazio per principi autoevidenti»23. Il modello deduttivo alla base dell’algebra filosofica non sembra essere quello della matematica e della geometria pura, bensì quello delle matematiche miste. Nella meccanica pratica, secondo Hooke, trovano posto il modello deduttivo ma astratto della matematica e il fondamento fisico dei principi24. L’algebra filosofica appare infatti il risultato dell’estensione del metodo geometrico alla filosofia naturale attraverso il passaggio determinante della meccanica pratica, che rappresenta la via sperimentale e non teoretica di Hooke alla filosofia meccanica25. È lo studio delle macchine semplici e non delle entità geometriche astratte a fornire il modello delle leggi fondamentali del moto, e soprattutto «un metodo di indagine accurata e dimostrativa e di esame delle operazioni fisiche»26. Per le stesse ragioni appare difficile ascrivere alla sola influenza cartesiana l’adozione sistematica delle ipotesi da parte di Hooke. La struttura del metodo ipotetico-deduttivo, la sua fondazione e l’effettiva coincidenza tra dichiarazioni di principio e strade effettivamente seguite da parte di Cartesio rimangono, tuttora, argomenti controversi tra gli storici. Sebbene sia possibile affermare con certezza che tutti i fenomeni sono il risultato di particelle di materia in movimento, «con la sola ragione», afferma Cartesio nei Principi della filosofia, «non ci è però possibile determinare quanto queste parti della materia siano grandi [e] quanto rapidamente si muovano». Si rende pertanto necessario ricorrere nelle spiegazioni scientifiche all’esperienza. Degli effetti di cui si può avere esperienza è possibile fare uso per valutare le nostre ipotesi, ma laddove i nostri sensi malfermi e limitati si arrestano, «debbono bastare cause verosimili, anche se forse non vere»27. Si tratti dell’esigenza di adeguare i principi generali di estensione e moto ai fenomeni particolari28, di estendere tali principi al mondo inosservabile delle microstrutture29 o di costruire su di essi una conoscenza di tipo HOOKE (1705, p. 73). HOOKE (1705, pp. 19-20). 25 Cf. BENNETT (1980, p. 43), BENNETT (1986, p.1) 26 HOOKE (1705, p. 19); cf. ROSSI (1997, pp. 190-191); ROSSI (2002, pp. 5-6); per un approccio diverso PÉREZ-RAMOS (1988, p. 195). 27 DESCARTES (1974-86, vol. VIII, pp. 101-102), tr. it. DESCARTES (1994, vol. II, p. 166). 28 GARBER (1988, pp. 241-242). 29 LAUDAN (1984, pp. 36-38). 23 24

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causale30, la deduzione delle ipotesi procede in ogni caso da principi intuitivamente evidenti. È questo che appare del tutto inconciliabile con la dichiarata volontà da parte di Hooke di sviluppare le ipotesi dagli esperimenti e di verificarle sperimentalmente. Al contrario di quanto ha sostenuto Laudan, l’esigenza di revisione metodologica dei filosofi sperimentali non è ascrivibile unicamente all’influenza cartesiana, bensì agli effetti della più ampia visione meccanicistica della scienza e della natura31. «La storia, anche quella delle idee», ha notato Paolo Rossi, «è piena di fastidiosi accidenti»32, di fronte ai quali categorie generali e consolidate appaiono di colpo approssimative, insufficienti a rendere ragione della complessità delle teorie. L’immagine, consolidata da una lunga tradizione (tuttora operante), di un Bacone «empirista puro che attende al divorzio della scienza dalle teorie e delle ipotesi dalle interpretazioni»33, ha impedito finora di riconoscere l’origine baconiana di importanti aspetti dell’algebra filosofica. L’insistenza di Hooke sulla deduzione dalle ipotesi congiunta alla contrapposizione baconiana tra anticipazioni della mente e interpretazioni della natura ha portato non pochi storici a etichettare come esclusivamente cartesiani elementi che hanno un’origine ben più complessa. Sebbene fosse convinto che il trionfo delle opere di Dio (ovvero la Natura) si realizza solo anteponendo le tesi alle ipotesi34, l’atteggiamento di Bacone verso queste ultime non è riducibile a una rigorosa messa al bando dalla scienza. L’incomprensione della funzione sistematica delle ipotesi per il progresso del sapere rimane, senza dubbio, uno dei limiti maggiori della sua immagine della scienza35, ma la condanna baconiana delle ipotesi va letta alla luce del significato astronomico che il termine aveva assunto nei secoli XVI e XVII. Ipotesi è per Bacone un’anticipazione della mente rispetto alla natura, una spiegazione semplice e coerente ma spesso priva di un significato reale come gli eccentrici e gli epicicli della tradizione. La necessità di zavorrare l’intelletto, per evitarne i facili voli nel regno dell’immaginazione e costringerlo al duro lavoro di compilazione delle storie è dettata dall’esigenza di un sapere certo e dai fondamenti solidi. Ma la scienza non si esaurisce nella storia naturale. All’inizio della Instauratio maCLARKE (1998, pp. 262-263). Cf. ROSSI (1986, pp. 141-146); ROSSI (1997, pp. 187-190); ROGERS (1966, p. 238). 32 ROSSI (1986, p. 135). 33 ZAGORIN (2001, p. 391); cf. ROSSI (1986, pp. 95-117). 34 BACON (1857-59, vol. II, p. 14). 35 ROSSI (19742, p. 347). 30 31

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gna, nella Distributio operis, Bacone riconosce la necessità di avere nelle stesse storie naturali «osservazioni» e «prime proposte», che fungano da «sguardi dalla storia alla filosofia» a indicare che non si è destinati a restare «per sempre prigionieri dei flutti della storia»36. Basta leggere la Norma historiae presentis della Historia naturalis et experimentalis, per capire che nel metodo di Bacone trovano posto una serie di elementi che si possono considerare appartenenti alla categoria delle ipotesi, senza ricadere in quella delle anticipazioni. Non solo osservazioni e commenti sulle possibili cause, ma anche «assiomi imperfetti», che se non veri sono però assai utili a indicare una direzione proficua all’indagine sperimentale37. Nelle tavole e nella stessa induzione trovano posto tentativi parziali di generalizzazione antecedenti alla scoperta della forme, possibili grazie al suo carattere escludente38. Restituendo al progetto baconiano la sua originaria ampiezza è possibile comprendere il modo in cui esso si è prestato, già nel XVII secolo, a interpretazioni diverse. Il movimento baconiano che attraversa la rivoluzione scientifica è caratterizzato da una visione comune della storia e dell’uomo, ma anche da una molteplicità di modi diversi d’intendere la natura e il suo studio. Il programma metodologico di Hooke, sotto la spinta determinante di una concezione corpuscolare della natura, non appartiene a quelle interpretazioni empiristiche che identificano scienza e storia naturale, e condannano ogni forma di ipotesi39. Per quanto sia prevalente e non priva di seguito, grazie all’opera di Boyle, Newton e Locke, questa tradizione non esaurisce l’intero panorama della filosofia sperimentale. La teorizzazione esplicita dell’uso sistematico di ipotesi, congetture e deduzioni viene concepita da parte di Hooke come un completamento del progetto baconiano ma lungo linee già tracciate da Bacone. Egli riconosce, con Boyle e Newton, la necessità di «evitare il dogmatismo e l’assunzione di ipotesi non sufficientemente fondate e confermate dagli esperimenti», ma ritiene che congetture e questioni non siano «interamente disapprovate» dal metodo baconiano40, che, afferma Hooke, non consiste in altro che nell’«esame delle ipotesi con gli esperimenti e l’indagine degli esperimenti BACON (1857-59, vol. I, p. 143), tr. it. BACONE (1975, p. 541). BACON (1857-59, vol. II, p. 18). 38 JARDINE (1974, pp. 134-135); PEREZ-RAMOS (1988, p. 262). 39 BOAS-HALL (1983, p. 25); HUNTER (2003, p. 122); di contro MAHLERBE (1984, pp. 187-188 n. 9) e PÉREZ-RAMOS (1996, pp. 317, 319) non tengono in debito conto questi elementi. 40 HOOKE (1665, epistola dedicatoria alla Royal Society, non numerata). 36 37

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con le ipotesi»41. Diversamente da quanto hanno sostenuto Floyd Centore e David Oldroyd, gli storici ai quali si devono alcuni dei più importanti contributi allo studio di Hooke, è nell’opera di Bacone che trovano origine anche quegli elementi del programma metodologico che sembrano allontanarsi maggiormente dal disegno baconiano42. 4. Anche in merito al ruolo degli strumenti nel nuovo metodo le significative innovazioni di Hooke sembrano muoversi lungo una direzione già tracciata da Bacone, all’insegna della necessità di preparare «una storia non solo della natura libera e sciolta (…) ma principalmente una storia della natura costretta e tormentata, che è cioè rimossa a forza dal suo stato ordinario, e premuta e forgiata mediante l’arte e il ministerio umano»43. Esperimenti e strumenti sono per Bacone il frutto dell’applicazione dell’arte alla natura, che permette di superare i limiti dell’osservazione ordinaria e dei sensi umani di fronte alla grande sottigliezza della natura. Com’è noto l’atteggiamento baconiano inizialmente entusiasta verso il microscopio e il telescopio al loro primo apparire si attenua col tempo. La sua predilezione per gli esperimenti non è dovuta all’incomprensione del ruolo dei nuovi strumenti ottici ma alla semplice constatazione, espressa nel Novum Organum, che «la sottigliezza degli esperimenti è di gran lunga maggiore di quella dei sensi, anche se questi siano aiutati da squisiti strumenti»44. I limiti tecnici che egli intravede nei primi strumenti, accentuati dalle grandi attese iniziali, non impediscono a Bacone di affidare al microscopio il fondamentale compito di rivelare «gli schematismi e i moti occulti» che costituiscono il fine ultimo dell’interpretazione della natura45. La comparsa di nuovi strumenti scientifici, come la pompa ad aria, che al pari degli esperimenti chimici sottopongono la natura a condizioni non ordinarie, e lo sviluppo crescente delle capacità di risoluzione di quelli ottici permettono ad Hooke di lasciarsi alle spalle la distinzione di Bacone tra le due vie dell’arte meccanica. Elevati a livello di unica somministrazione NEWTON (1959-77, vol. I, p. 202). CENTORE (1970); OLDROYD (1972); ben diverse le indicazioni di HESSE (1966, p. 82), secondo cui «l’enfasi sulla deduzione dalle ipotesi può portare a etichettare Hooke come cartesiano, ma (…) la componente di controllo deduttivo è presente in Bacone almeno tanto chiaramente quanto in Cartesio». 43 BACON (1857-59, vol. I, p. 141), tr. it. BACONE (1975, p. 539). 44 BACON (1857-59, vol. I, p. 138), tr. it. BACONE (1975, p. 536). 45 BACON (1857-59, vol. I, p. 307), tr. it. BACONE (1975, p. 732); cf. ROSSI (19742, p. 347). 41 42

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ai sensi, gli strumenti ottici assumono un ruolo fondamentale nel programma di Hooke. Limitata nella fascia intermedia tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, all’esperienza umana della natura sono precluse tanto le «estremità dell’universo» quanto le «profondità degli abissi della materia»46. Nel mondo invisibile è presente quello che la filosofia sperimentale spinge a indagare e di cui la filosofia meccanica preannuncia la configurazione. L’esigenza baconiana di forzare la natura per carpirne i segreti si congiunge in tal modo con quella meccanicista di dimostrarne il carattere corpuscolare. Da qui il ruolo fondamentale del microscopio nel metodo di Hooke destinato a costruire una scienza meccanica e insieme sperimentale. Grazie al microscopio, si legge nella Micrographia, «un nuovo mondo visibile è stato scoperto alla nostra comprensione»47. Le sottili composizioni dei corpi, le strutture delle loro parti e i loro moti interni che determinano le diverse nature, forme e configurazioni della materia sono, per la prima volta, alla portata della scienza. Il microscopio agli occhi di Hooke è destinato a rendere verificabili tutte quelle entità teoriche finora solo immaginate e spesso fantasticate: Per queste vie si troveranno molte ragioni per sospettare che quegli effetti dei corpi finora comunemente attribuiti alle qualità considerate occulte sono realizzati da piccole macchine della natura, indiscernibili senza questi aiuti, che appaiono i meri prodotti di moto, figura e grandezza48.

5. L’obiettivo che Hooke sembra porsi non è la possibilità di spiegare tutti i fenomeni attraverso i principi, tanto vaghi quanto generali, di materia e movimento, bensì l’individuazione delle configurazioni specifiche della materia e delle cause particolari dei fenomeni. Questo progetto si scontra però con la radicale inaccessibilità osservativa delle entità postulate da tutte le filosofie di tipo meccanico49. Il microscopio di cui si dispone permette di oltrepassare i limiti della vista ma non ancora di giungere alle strutture elementari della materia. Posto di fronte alla sproporzione tra la sottigliezza della natura e la capacità d‘ingrandimento dello strumento, Hooke riconosce la necessità di dotare il metodo di strumenti logici cui ricorrere quando quelli materiali cessano di essere utili. «Fino a quando il HOOKE (1705, p. 73). HOOKE (1665, p. IV). 48 HOOKE (1665, p. XXV); cf. HUTCHINSON (1982, pp. 233, 242, 246) e WILSON (1995, pp. 50-56). 49 LAUDAN (1984, p. 28), ROSSI (1986, pp. 141-146); ROSSI (1997, pp. 187-190). 46 47

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nostro microscopio o altri strumenti non ci metteranno in grado di scoprire il vero schematismo o struttura di tutte le specie di corpi», afferma Hooke, «dobbiamo, per così dire, brancolare nel buio, e soltanto supporre le vere ragioni delle cose mediante similitudini e comparazioni»50. L’indagine delle cause inosservabili dei fenomeni osservabili può essere condotta attraverso la comparazione con fenomeni simili, le cui cause siano note, risalendo dall’analogia degli effetti all’analogia delle cause. Parti integranti dell’induzione e della storia naturale comparazioni, analogie e similitudini permettono di elaborare ipotesi probabili, che, per quanto incerte, possono essere valutate sperimentalmente attraverso le deduzioni che da esse si traggono51. Questa forma d’inferenza appartiene a quelle che Mary Hesse ha definito «analogie materiali»52. È possibile in presenza di due tipi di relazioni: somiglianza e causalità. La somiglianza tra due termini dati A e B (effetti osservabili) permette di estendere la relazione di causalità che occorre tra A e un terzo termine C (causa osservabile) a B e a un quarto termine D (causa inosservabile). Anche Cartesio aveva fatto ricorso a una forma simile d’inferenza analogica. Nell’uniformità assoluta dell’estensione cartesiana la sua capacità euristica è però limitata dal carattere probabile dei suoi risultati. Le celebri analogie della Diottrica servono solo a rendere comprensibili aspetti di un fenomeno complesso come la luce che è reso conoscibile, com’è scritto nel Discorso sul metodo, da «certi germi della verità che risposano naturalmente nelle nostre anime»53. All’analogia è riconosciuta solo certezza morale, sufficiente a congiungere le cause universali, note per altra via, agli effetti particolari di cui si ha esperienza54. Diversa è la funzione di questa inferenza in Bacone. Le parti interne dei corpi, quegli spiriti invisibili inclusi nelle parti tangibili55, sono lo scopo finale della scienza. Tra le istanze di supplemento l’analogia è chiamata a ricondurre al senso qualcosa di non sensibile, mediante un analogo corpo sensibile. È, ammette Bacone, poco sicura e da usare con cautela56. Ma la HOOKE (1665, p. 114). HOOKE (1705, pp. 165, 537). 52 HESSE (1980, pp. 88-99). 53 DESCARTES (1974-86, vol. VI, p. 64), tr. it. DESCARTES (1983, p. 164). 54 DESCARTES (1974-86, vol. VIII, pp. 325-329), tr. it. DESCARTES (1994, vol. II, pp. 387-390); GARGANI (19832, pp. 19-25); GALISON (1984, p. 311), CLARKE (1998, p. 280). 55 BACON (1857-59, vol. II, pp. 380-382). 56 BACON (1857-59, vol. I, pp. 316-317), tr. it. BACONE (1975, pp. 742-743). 50 51

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sua capacità euristica è fondata su un’immagine dell’universo attraversato da corrispondenze reali e similitudini tra diversi livelli di oggetti e realtà, che fanno parte di un labirinto per orientarsi nel quale il metodo offre solo un fragile filo che va di volta in volta appeso alle similitudini pazientemente raccolte nelle tavole57. Il ragionamento analogico fa parte in Hooke, come già si è detto, dell’induzione, eredità baconiana. Comparazioni e similitudini permettono di elevarsi dalla compilazione storica all’interpretazione causale per giungere ai principi generali cui sottostanno le diverse classi di fenomeni. La via sperimentale alla scienza non procede per enumerazioni e conferme, percorso incerto e senza fine, ma per comparazioni, similitudini ed esclusioni. L’analogia ha pertanto pieno valore euristico, inserita com’è a pieno nell’algebra filosofica. L’uso baconiano del principio analogico è, però, all’apparenza molto distante da quello proposto da Hooke. Nella selva baconiana, assente tale continuità, la similarità svolge la funzione di segno, rappresentazione e non modello in scala ridotta58. Al contrario nell’universo meccanico di Hooke si da una continuità scalare tra i fenomeni osservabili e le nature latenti. Il passaggio dal sensibile all’impercettibile è legittimato dall’uniformità corpuscolare della natura, in ogni sua parte composta da materia in movimento, e dal fatto che Natura nihil agit frustra sed frustra fit per plura quod fieri potest per pauciora59. 6. Nonostante questo l’analogia ha agli occhi di Hooke, dei limiti che vanno ben oltre le ristrette capacità percettive e strumentali di cui si dispone. Questo ci permette di mostrare l’inadeguatezza di alcune rappresentazioni della filosofia sperimentale e meccanica di Hooke come un insolito accostamento di metodo interamente baconiano e visione della natura sostanzialmente cartesiana. Un quadro, questo, dai contorni netti e ben delineati, in cui non c’è spazio per sfumature, chiaroscuri e zone d’ombra, che pure non mancano. Sebbene siano composte secondo leggi universali che regolano il movimento di una materia uniforme originaria, «le opere della natura», sostiene Hooke, «costituiscono un grande labirinto», in cui Omne simile non est idem60. È possibile, infatti, osservare fenomeni senza pari, come gli anelli di ROSSI (1986, p. 125). BLASI (1993, p. 469). 59 HOOKE (1705, p. 179). 60 HOOKE (1705, pp. 84, 167). 57 58

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Saturno, che mettono in crisi l’estensione universale del principio di uniformità61. Dall’universo corpuscolare di Hooke non scompaiono quei fenomeni individuali non riconducibili a nessuna classe su cui Bacone aveva posto l’attenzione62. I limiti dei sensi costringono ad affidarsi all’immaginazione, verso la quale è necessario usare la massima cautela. Troppo spesso, infatti, «prendiamo la forma delle cose per la sostanza, piccole apparenze per buone similitudini, similitudini per definizioni»63. La disattenzione per l’esperienza e la cieca fiducia nell’immaginazione hanno condotto molti filosofi moderni a «grandi assurdità», vere e proprie «chimere», come i tre principi dei chimici, la materia sottile e i vortici dei cartesiani64. La verifica sperimentale costante può aiutare a controllare i pericoli dell’analogia. Ma solo l’esperienza oculare diretta permette il formarsi di una corretta idea delle cose. Con un evidente richiamo al ruolo primario conferito all’autopsia da Harvey nella prefazione al De generatione animalium65, Hooke riafferma il ruolo primario dell’esperienza diretta nel metodo sperimentale, congiunto alla fiducia nell’illimitata possibilità di progresso nella strumentazione ottica. 7. La via che un tale programma sperimentale traccia non è priva di conseguenze sul suo esito finale. Lo scopo della filosofia naturale è la conoscenza delle cause particolari e delle strutture specifiche dei corpi, che dipendono dai diversi e contingenti processi di configurazione della materia. La natura, composta solo di materia in movimento è uniforme, ma i singoli fenomeni sottostanno a cause nelle quali i principi generali assumono forme specifiche, che non possono essere semplicemente dedotte. Posta di fronte all’indagine sperimentale la natura mostra una complessità estranea alla tradizionale filosofia meccanica. È per questo che quei nuovi regni della natura – capillarità, fenomeni elettrici e magnetici, gravità, luce – in cui sono apparsi evidenti i limiti del meccanicismo cartesiano e dell’atomismo vengono a costituire i campi d’indagine sui quali si sofferma l’attenzione di Hooke. HOOKE (1726, pp. 262-263). BACON (1857-59, vol. I, p. 306), tr. it. BACONE (1975, pp. 702); BACON (1857-59, vol. III, p. 729); ROSSI (1986, p. 145). 63 HOOKE (1665, p. II); cf. HOOKE (1726, p. 263). 64 HOOKE (1679, p. 311); HOOKE (1726, pp. 263-264). 65 HARVEY (1651, pp. 16-18, 24), tr. it. HARVEY (1963, pp. 178-179,184); cf. PAGEL (1966, pp. 31, 38-39); GARGANI (19832, pp. 8-9). 61 62

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Esito dell’incontro tra un’immagine baconiana della scienza e un’immagine corpuscolare dalla natura66 il programma metodologico di Hooke rappresenta la base sulla quale si costruisce una forma eterodossa di meccanicismo, in cui trovano posto forze attrattive centripete per spiegare la gravità, proprietà attrattivo-repulsive che rendono conto delle relazioni dei corpi e una concezione dinamica e vibratoria della materia, in cui alle diverse configurazioni strutturali microscopiche corrispondono specifiche proprietà di intere classi di macro-fenomeni. Bibliografia AA.VV. (2003), London’s Leonardo. The Life and the Work of Robert Hooke, Oxford and New York, Oxford University Press. PETER R. ANSTEY (2004), “The Methodological Origins of Newton’s Queries”, Studies in History and Philosphy of Science 35, pp. 247-264. FRANCIS BACON (1857-59), The Works, 7 voll., ed. by R. L. Ellis, J. Spedding, D. D. Hearth, London Longman. FRANCESCO BACONE (1975), Scritti filosofici, a cura di Paolo Rossi, Torino, Utet. JIM BENNETT (1980), “Robert Hooke as Mechanic and Natural Philosopher”, Notes and Record of the Royal Society of London 35 (1), pp.33-48. JIM BENNETT (1986), “The Mechanics Philosophy and the Mechanical Philosophy”, History of Science 24, pp. 1-28. GIULIO BLASI (1993), “Similia similibus gaudeant. Similarità e consenso nella filo-sofia naturale di Francis Bacon”, Intersezioni XIII (3), pp. 445-469. MARIE BOAS-HALL (1983), “Oldenburg, the Philosophical Transactions, and Technology”, in BURKE (1983), pp. 21-47. MIMMA BRESCIANI CALIFANO (2002, ed.), L’uomo e le macchine, Firenze, Olschki. JOHN BURKE (1983, ed.), The Uses of Science in the Age of Newton, Berkeley and Los Angeles, University of California Press. FLOYD F. CENTORE (1970), Robert Hooke’s Contributions to Mechanics, The Hague, Martinus Nijhoff. DESMOND M. CLARKE (1998), “Descartes Concept of Scientific Explanation”, in COTTINGHAM (1998), pp. 259-280. JOHN COTTINGHAM (1998, ed.), Descartes, Oxford, Oxford University Press. RENE DESCARTES (1974-86), Oeuvres, 11 voll., par C. Adam et P. Tannery, Paris, Vrin. RENÉ DESCARTES (1983), Opere scientifiche, a cura di E. Lojacono, Torino, Utet. RENÉ DESCARTES (1994), Opere filosofiche, 2 voll., a cura di E. Lojacono, Torino, Utet. MARTA FATTORI (1984, ed.), Francis Bacon: terminologia e fortuna nel XVII secolo, Roma, Edizioni dell’Ateneo. 66

Cf. ROSSI (1986, pp. 23-24).

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FRANCESCO FERRETTI, MARIA PRIMO Taking co-evolution seriously. A Commentary on Christiansen & Chater (2008), Language as shaped by the brain*

Abstract. C&C’s claim highlights just one side of co-evolution, from brain to language. We propose that at least one component of mindreading shows the return effect of language on the brain, thus revealing the existence of specific adaptations for language. Criticism to UG as a biological adaptation cannot therefore be used to argue that language is not a biological adaptation.

The idea that language is a “beneficial parasite” of the brain is consistent with a perspective of co-evolution between language and brain. In general, asserting that two entities co-evolve is, at minimum, arguing that they have a mutual exchange relationship. Recognizing that kind of interchange does not mean, however, that the entities involved combine “equally” to bring about that relationship: more often there is a kind of “asymmetry” which regulates it. C&C’s perspective is “biased” toward one of the two entities: brain shapes language and not vice versa. It is not the priority given to the brain, therefore, that troubles co-evolution, but the fact that C&C do not recognize the “return effect” that language has on brain. Now, since C&C’s idea of co-evolution depends on their view of language as a kind of biological adaptation, in order to re-establish a fruitful equilibrium between language and brain we have to propose an alternative view of language as adaptation. The question whether language is an adaptation admits (at least) two different hypotheses. The first is the Standard Theory of Universal Grammar. C&C demonstrate that UG cannot adequately account for the learning, comprehension and linguistic production of real individuals and, cre* Lo scritto che segue è un commento al recente articolo di Morten Christiansen e Nick Chater, “Language as shaped by the brain” apparso come Target Article su Behavioral and Brain Sciences nell’ottobre 2008. Dal momento che tale rivista ha disposto di non pubblicare ulteriormente continuing commentaries ai diversi articoli nei numeri successivi, si è pensato di inviare telematicamente i nostri commenti ai due autori. Essi gentilmente hanno concesso di poter pubblicare, di seguito al nostro articolo, anche le loro risposte.

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dibly, demonstrate that the identification of language with UG nativism invalidates every attempt to consider language as a biological adaptation. From that analysis, however, C&C draw the unconvincing conclusion that if UG is not a biological adaptation, then language is not a biological adaptation at all. A direct consequence of this conclusion is that since language is not a specific biological adaptation then language is a cultural adaptation – hence the issue that historical variation of languages should be considered a model of language evolution. We challenge this account by showing that it is possible to consider language a biological adaptation without adhering to UG nativism. The greatest difficulty with C&C’s view is that of accounting for the specificity of language from the general purpose cognitive processes that would represent its basis. Let us take grammar complexity, as an example. C&C maintain that there is no need to involve specific biological adaptations for language to explain such a component: the need for more adequate communication together with neural constraints lead to forms of “complication” of the expressive code which follow the rules of cultural variation. If we take to be true what C&C are sustaining in regards to UG not being an innate component of mind, and that grammaticalization is a process driven by cultural evolution, two remarks about this idea are called for. First, proposing that selection pressure for the “complication” of language at the grammatical level depends on a generic need for improving expressive abilities is a true but too weak a claim to make. Since other organisms are able to communicate, a generic selective value of communication cannot be invoked to explain the specificity of human language. The evolutionary path from animal communication to human language, cannot be argued by just making reference to the expressive code, primarily because language does not only have an expressive function (Carruthers, 2002). This leads to a second remark. To investigate the evolutionary interrelationship between brain and language we have to look at something more basic than cultural variation. Let us suppose that the evolutionary gap between animal communication and human language was the emancipation of human verbalization from the “code model” as proposed by Sperber and Wilson (1985/1996) in their neo-gricean theory of relevance. Grice’s distinction between “utterance’s meaning” and “speaker’s meaning” (Grice 1957) states that meaning processes are inextricably linked to speaker’s intentions. In such a view, a me-

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chanism for mindreading seems necessary for the learning and the use of language, as well as for its origins. C&C recognize that such a device is a basic neural condition of language but stop their analysis at the first step. The role of a mindreading device in language can be, in fact, extended to a model that admits a double path of constitution (from language to brain as well as from brain to language). This would confer to language the status of biological adaptation and give rise to a more convincing view of the coevolutionary relationship between language and brain. Referring to a generic mindreading device used in language can be admitted only for a generic level of analysis. One way to more specifically understand the kind of device we are dealing with is to ask whether intentions involved in communication are different from those involved in the interpretation of other kinds of behavior. If communicative intentions have distinct properties, it may be more useful to consider a specific cognitive device adapted to the reading of such intentions, instead of relying on a general hypothetical mindreading device. Origgi and Sperber (2000; Sperber, 2000; Origgi 2001) suggest – by using empirical data – the need to distinguish a “metapsychological” device (adapted for attributing generic intentions) from a “metacommunicative” device (adapted to the specific interpretation of communicative intentions). If Origgi and Sperber are right, then it seems possible to hypothesize that a metacommunication system could be an evolutionary development (a biological specific adaptation for language) of a generic metapsychological system. Now, since mindreading is necessary to account for how animal communication codes lead to human language, we can interpret the specialization of a generic metapsychological device into a metacommunicative one, as being due to a “return effect” that language had on neural systems which in turn fostered its functioning. Devices affected by and adapted to this specific aim, are cognitive adaptations specific for language. In a view of language as an organism, such devices are integral parts of language: but if integral parts of language are specific adaptations, it is not possible to state that language is not a form of biological adaptation at all. This is why criticism to UG as a biological adaptation cannot be used to argue that language is not a kind of specific biological adaptation. Taking co-evolution seriously is believing that “language is shaped by the brain” AND vice versa.

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Francesco Ferretti, Maria Primo

Da: Nick Chater A: francesco ferretti Inviato: 9 Set 2008 12:57 Dear Francesco and Maria, thanks very much for sending over your commentary - and for your kind thoughts on our paper. We would agree, I think, that it is entirely possible (and perhaps probably) that coevolution has been an important factor in the emergence of general pragmatic /communicative system – the coevolution we would like to rule out concerns arbitrary features of language (as these will freely vary in the linguistic environment, prior to any relevant biological constraints); whereas the coevolution of brain structures with functional aspects of language (including its pragmatic role) seems entirely plausible. I’m sorry you didn’t have a chance to put your thoughts through BBS (they’ve discontinued the ‘continuing commentary’ system) - good luck with pursuing these interesting thoughts further, best wishes, Nick *********************************************************** Dear Francesco and Maria, Many thanks for your email and positive response to our BBS paper. I, too, am sorry that you were not able to submit your thoughts as a continued commentary. As Nick noted we agree that it is possible that there may have been some coevolution for functional features of language, such as our pragmatic abilities, though we’d expect that to some degree such adaptations may have taken place prior to the emergence of language (perhaps as part of an increased social intelligence). But it is likely that some subsequent co-evolution might have taken place to further develop these functional abilities. The full paper and associated commentaries along with our response is expected to be available later this fall. Best wishes, Morten

VINCENZO COSTA, Esperire e parlare. Interpretazione di Heidegger, Milano, Jaca Book, 2006, pp. 162. La ricerca di Vincenzo Costa può essere considerata una interpretazione attraverso Heidegger, dato che le problematiche che si intendono delineare sono affrontate a partire da quel particolare “modo del domandare” inaugurato dal pensiero heideggeriano. Rifarsi ad Heidegger vuol dire, prima ancora che fare un uso diretto della ragione, interrogarsi sulle condizioni a partire dalle quali la razionalità si è potuta costituire, sull’origine dei luoghi di costituzione del sapere, e porsi la domanda originaria “a partire da che cosa un discorso si costituisce”. Il riferimento ad Heidegger, come ad una diversa concezione del lavoro filosofico, appare dunque imprescindibile. Uno dei meriti di questo volume sta nella descrizione dell’emergenza della problematica del mondo e del linguaggio come elemento strutturante della nostra esperienza, a partire dal dibattito volto a rintracciare la specificità della natura umana rispetto al mondo animale. È questo un tema caro all’antropologia classica: Platone, Kant, Herder sono solo tre espressioni di un’antichissima tradizione che legge l’uomo in un rapporto di discontinuità rispetto all’animale, non in forza della differenza spirituale che, sotto i nomi di anima, intelletto, ragione, coscienza o spirito, ha reso possibile la glorificazione dell’uomo, ma in forza di quella “carenza istintuale” che, a differenza dell’animale, non concede all’uomo un ambiente a lui preordinato in cui potere dispiegare, sotto la tutela degli istinti, un’esistenza garantita da margini di sicurezza. Se seguiamo questa direzione, che è stata poi riproposta anche da Nietzsche e nel nostro tempo da Gehlen, la mancanza di un ambiente determinato fa dell’uomo un essere manchevole, non specializzato. Al di là degli esiti cui giunge una simile impostazione del problema, ciò che è importante è che già questa tradizione avvertiva la necessità di emanciparsi dalla visione tradizionale che concepisce l’uomo come “animale razionale”, cioè la necessità di superare il dualismo anima-corpo che una simile caratterizzazione aveva introdotto, ossia quella dualità insanabile per cui l’uomo da un lato, veniva visto come “homo naturalis”, pura istintualità biologica e dall’altra parte come spirito, razionalità, apertura verso Dio. Proprio a questa determinazione, accolta per altro anche da Scheler, che Heidegger cerca di opporsi, attraverso quei continui “passi indietro”, tipici del suo pensiero, che lo portano preliminarmente ad impostare i criteri che devono guidare la ricerca; per potersi infatti porre il problema della differenza antropologica, bisogna prima stabilire a quali condizioni siamo disposti a par561

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lare di “animale” e di “uomo”. Il criterio indicato da Heidegger consiste nella nozione di mondo. Una prima differenza tra uomo e animale consiste nel dire che solo il primo ha un mondo, cioè è “formatore di un mondo”, in cui “agisce”; all’animale invece il mondo si dà, come ambiente da cui riceve meccanicamente un profluvio di stimoli cui “reagisce”. Il mondo propriamente umano è, secondo Heidegger, costituito in prevalenza da oggetti d’uso, pragmata, tali che il loro significato emerge esclusivamente dalla funzione pratica che essi rivestono all’interno del mondo stesso. Al contrario degli animali, per i quali un oggetto diventa utilizzabile solo se ricade all’interno di quel cerchio istintuale da cui sono necessitati, per l’uomo un utensile continua a rivestire quella funzione pratica che lo definisce, cioè continua a rappresentare una possibilità reale, anche quando non è presente nel suo campo percettivo e non è chiamato a soddisfare un bisogno attuale. Solo l’uomo, per Heidegger, allora può cogliere il significato dell’oggetto, perché solo l’uomo sa percepire l’oggetto come inserito all’interno di una totalità di rimandi che non dipende dalla vicinanza spaziale e temporale. Costa fa l’esempio del gesso il cui significato, come sappiamo, è tratto da ciò per cui serve: il gesso è quel oggetto che serve a scrivere sulla lavagna; questi rimandi sono presenti anche quando il gesso e la lavagna non sono spazialmente vicini. Di conseguenza, per comprendere un singolo oggetto dobbiamo già avere una precomprensione della catena di rimandi in cui è inserito, della forma di vita che lo fa emergere, della struttura contestuale che lo rende appunto significante. ( Per esempio non capiremo mai il significato di una lavagna se non all’interno di una civiltà che ha conosciuto la scrittura.) Il nesso che lega l’uomo al mondo è quindi strutturale, e ciò che caratterizza questo rapporto è che all’uomo è dato di cogliere se stesso come una totalità di possibilità tra cui è chiamato a scegliere, per decidere chi vuole essere. Dopo Nietzsche non è più possibile parlare dell’Io come di un centro unitario, atemporale e astorico cui ricondurre ogni rappresentazione; cade la pretesa da parte della soggettività di conferire il senso alle cose, come se i significati fossero eterni e abitassero la mente o la coscienza dell’uomo, ma è Heidegger a farci notare come il senso sia afferrabile da parte dell’uomo perché si muove in una concatenazione di significati già data, cioè all’interno di possibilità pratiche d’azione che continuamente lo interpellano. Rapportarsi a se stessi vorrà dire allora rapportarsi al proprio poter-essere, non come a una realtà immutabile, ma come a una possibilità. L’uomo è chiamato, all’interno di quella totalità di possibilità in cui si muove e che lo definisce un essere profondamente storico, a determinare se stesso, a dare senso e forma alla propria esistenza, esponendosi in prima persona attraverso l’azione,

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perché è nell’azione che l’uomo mette in gioco se stesso, il profondo del suo esserci; l’essere umano non scopre se stesso nell’introspezione, cioè ad un livello teoretico, ma nell’azione, cioè ad un livello fondamentalmente pratico. Essere-nel-mondo significa essere-nel-mondo per fare. È qui lo scarto rispetto all’animale, che non si rapporta a se stesso come a un insieme di possibilità da realizzare, non ha un progetto su se stesso, quindi non ha un rapporto con il tempo, o meglio il suo rapporto con il tempo è fortemente limitato dal suo essere interamente assorbito dal presente; questa condizione, che Nietzsche definiva felice e che riteneva invidiabile dall’uomo, Heidegger la definisce “stordimento”, intendendo con questo termine quell’essere coinvolto in sé dell’animale che gli preclude quell’apertura al senso, in base alla quale l’uomo, aprendosi al mondo e al suo poter-essere, determina se stesso. L’uomo allora si distingue dall’animale perché ha un mondo, il che implica un rapporto particolare con il tempo che solo all’uomo permette di guardare a se stesso come ad un insieme di possibilità, un rapporto che all’uomo è dato di intrattenere perché ha un linguaggio; è questo il passaggio fondamentale che ci introduce nella seconda sezione del libro, dedicata appunto all’analisi del linguaggio. Come ha opportunamente messo in luce Costa, spostando l’asse del problema dall’uomo al linguaggio, il tema della differenza antropologica rimanda ad unica radice: l’analisi del modo d’essere del linguaggio. Il linguaggio è pensato da Heidegger come un ordine che governa una certa esperienza del mondo, come ciò che ci consente di fare esperienza di quella totalità di rimandi, all’interno della quale si definiscono i significati; scoprire qual è la funzione degli oggetti all’interno di un mondo equivale a rivelare la loro essenza, che sappiamo non essere immutabile ma profondamente storica, instabile, provvisoria. Siamo nell’ambito della manifestatività dell’ente, in rapporto alla quale l’essenza del linguaggio allora sarà quella di mostrare, dis–velare l’ente nel suo essere originario, e le infinite relazioni che lo connettono agli altri enti in un mondo. Ancora una volta, è la soggettività trascendentale nel suo porsi come ab–soluta, cioè sciolta da quel fondamentale rapporto che l’uomo intrattiene con la sfera pratica, ad essere liquidata nella misura in cui l’uomo non è il signore dell’essere ma è sempre esposto e consegnato storicamente ad un’ipotesi di senso cui deve corrispondere. IRENE CHIERA

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SILVANO FACIONI, La Cattura dell’Origine. Verità e Narrazione nella tradizione Ebraica, Milano, Jaca Book, 2005. Nella tradizione Ebraica la parola Pardes non definisce semplicemente il paradiso dei Testi Sacri, ma è anche e soprattutto l’acrostico (PRDS) dei quattro livelli di interpretazione della Scrittura: Pšat, Remez, Draš, Sod; Pšat indica ad un livello più basso il senso letterale del testo; Remez è il senso “analogico” o simbolico; col Draš si è già al di fuori del testo poiché tale livello indica un senso che è assente (ovvero che va ricercato) nel testo; Sod è infine il senso segreto, cioè il più lontano dal testo. Ciò significa che c’è un percorso di lettura che parte da una pura presenza letterale del senso (Pšat), e che allontanandosi sempre più dal testo conduce ad un senso nascosto, segreto, che dice quasi la sua impossibilità a manifestarsi, ma che allo stesso tempo permane nell’orizzonte di una tradizione, quella ebraica, che ha generato una catena inesauribile di interpretazioni. Queste considerazioni preliminari sono tratte dal testo di Silvano Facioni, e vogliono indicare un possibile percorso di lettura dello stesso libro, percorso che sarà seguito lungo la riflessione che segue. È a partire dalla consegna della Torah a Mosè dal Sinai che si declina quel percorso di eredità-trasmissione, lungo il quale si sviluppa un’intera tradizione, poiché a Mosè sul Sinai non viene consegnata solo la Scrittura, ma anche la possibilità del Commento, ovvero la possibilità di un rinnovamento del senso (chiduš). Eredità-trasmissione che viene allora a configurarsi come “assenza”, o meglio, “vuoto” da colmare attraverso il Commento che scaturisce dalle infinite interpretazioni, che hanno come luogo ermeneutico privilegiato le discussioni tra maestro e discepolo. In tal senso «la tradizione è l’esodo del sapere da se stesso, e la trasmissione è figura di questo esodo» (p. 16). L’interpretazione si svolge allora ad un livello che va oltre (trans-gradi) il senso letterale del testo (Pšat). Paradigma di tale assunto è la lettera ‫( ל‬lamed), l’unica lettera dell’alfabeto ebraico che sopravanza la linea su cui sono appese le lettere sulla pergamena. Lamed che quindi è caratterizzata metaforicamente da quel movimento di “trasgressione” tipico dell’interpretazione. Ma lamed è anche l’ultima lettera dell’ultima parola (IsraeL) che chiude la Torah. Ma tale chiusura non ha il carattere dell’esaustività, anzi apre il testo al commento, apre cioè quello spazio vuoto a partire dal quale si stagliano le diverse interpretazioni. Vi è dunque un vuoto, un assenza che è condizione di possibilità di generazione del senso. È a partire da questo contesto che l’autore fa riferimento ad un’altra lettera dell’alfabeto ebraico, la alef, che segue un percorso significativo nella costituzione di un senso che si manifesta come presente/assente. La alef, che è la prima

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lettera dell’alfabeto, non si pronuncia singolarmente, viene cioè scritta, ma in sé stessa non viene pronunciata (p. 39). La alef è anche la prima lettera della parola verità (‘emet), e perciò “mette in gioco” la stessa possibilità che la verità si “disveli”. Infatti la alef di ‘emet/verità non ha un suono proprio, tuttavia essa è inscindibile dalla parola, poiché se viene rimossa nella scrittura si ottiene la parola met che significa morte (p. 41). La alef si configura in tal senso come presenza/assenza impadroneggiabile all’interno del testo. Ed ancora la alef declina il percorso del popolo ebraico dall’“esilio” verso la “redenzione”: il termine “esilio” è golah, mentre “redenzione” è ge’ulah. Anche qui la presenza/assenza della alef definisce lo scarto tra due differenti modalità che si implicano ma allo stesso tempo si escludono a vicenda. La “redenzione” compie l’“esilio” attraverso la “consegna” di una alef, che invece l’esilio cerca di “catturare”. Il termine esilio nella tradizione ebraica rimanda subito all’Egitto, in cui l’assolutismo del Faraone nega la possibilità dell’incontro con l’altro, poiché il monarca è come una Piramide, cioè chiuso in sé stesso, e l’unico modo di rapportarsi all’altro è appropriandosene. Ritorna allora il paradigma della “cattura” che emerge nel racconto di Genesi 39,12 in cui Giuseppe scappa dalla moglie di Potifar (archetipo dell’Egitto) la quale riesce però a ottenere la sua veste. Ovvero tenta l’unico approccio al simbolico che ella può concepire: il possesso. Ma l’Egitto fa la sua comparsa in Genesi molto prima, nell’episodio (9,20-23) che vede protagonisti Noè e i suoi tre figli Sem, Cam e Iafet, i quali daranno vita rispettivamente ad Israele, all’Egitto e alla Grecia. È qui Cam il protagonista assoluto dell’episodio, nel quale egli entra nella tenda del padre vedendone la nudità (‘ervat), e lo racconta ai fratelli i quali provvedono a coprire il padre con una tunica (simlah, parola riconducibile a semel che significa “simbolo”) che portano camminando all’indietro. Sem e Iafet non vedono così la nudità del padre, tentano cioè un approccio di tipo simbolico attraverso quel “percorso a ritroso” che gli consente di coprire il padre (che rappresenta l’Origine) senza disvelarne la nudità. Cam, precursore della cultura egizia, compie una violazione verso il padre/Origine poiché posando lo sguardo sulla sua nudità (che dice anche un’“assenza”) rinuncia al simbolico, e dunque rinuncia alla modalità della narrazione, interrompendo così il percorso di ereditàtrasmissione. Sem e Iafet al “contrario”, ovvero attraverso il loro percorso a ritroso nel quale coprono l’origine col “simbolo”, comprendono che «dell’origine è possibile solo un’approssimazione che è l’origine stessa a consentire […] l’origine non è altro che lascito, eredità, genealogia o, in una parola: consegna (che è sempre il contrario della cattura)» (p. 83). È dunque nella paradossalità della sua presenza/assenza che l’origine può manifestarsi/celarsi. A questo punto non è privo di interesse far riferimento alla questione “messianica” che pervade l’intero testo di Facioni ma che si dispiega esplicita-

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mente nelle ultime pagine. Nel Pentateuco non è presente alcuna allusione al Messia. Tuttavia i commenti, che dalla Scrittura scaturiscono, fanno spesso riferimento alla questione messianica. Se il commento è ciò che va a colmare i “vuoti” della Scrittura allora il Messia dovrà essere in qualche modo “presente” anche all’interno della Scrittura stessa. Il Messia allora riflette quella modalità di presenza/assenza che abbiamo visto all’opera con l’origine. Il Messia infatti non può identificarsi con una persona, con un luogo, ma si caratterizza come qualcosa di inafferrabile, di assente, è anch’egli «traccia, annuncio di una redenzione che è l’evento unico ed irripetibile in cui egli stesso è compreso» (p. 115). Se è un evento, il Messia allora ha a che fare col tempo, è egli stesso un modo di declinare il tempo. Infatti il tempo messianico è il tempo dell’attesa. Ma l’evento non è pre-determinabile, non c’è un prima (ma neanche un dopo) dell’evento. Il tempo messianico allora rompe la linearità delle estasi temporali. Nel racconto talmudico riportato a p. 111, il Messia che sta tra i lebbrosi alle porte di Roma, alla domanda: «quando verrai?», risponde: «oggi». La dimensione temporale messianica è il presente, è l’oggi dell’attesa, ma è un presente “a venire”, cioè una dimensione temporale che non può ricadere entro orizzonti che la pre-determinano. Dunque anche parlare del Messia diventa qualcosa di estremamente complesso, poiché parlare dell’unicità dell’evento messianico significa racchiuderlo entro un orizzonte linguistico. Non è un caso se nella riflessione dell’autore intervenga ad un certo punto la poesia di Mandel’štam e Celan accompagnata alle considerazioni di Derrida sulla circoncisione. È infatti nell’ambito poetico che il linguaggio opera uno scarto, una fuoriuscita dall’ordinarietà della comunicazione. La poesia è un evento unico che parla un linguaggio proprio ai limiti della dicibilità, è «voce che giunge da un altrove per annunciare il commiato da ogni tempo, apocalisse che – rivelando il proprio annunciarsi – dichiara finite le attese orientavano il tempo verso un futuro determinato» (p. 99). Altro paradigma dell’evento è la circoncisione, ovvero il rito che «avviene una sola volta, è per sempre, ossia permane nella storia dell’uomo e del popolo come il gesto che – all’infinito – rinvia all’occasione unica che lo ha istituito come unico, non ripetibile» (p. 101). Ciò su cui si è finora riflettuto non può riferire adeguatamente le notevoli questioni che il testo di Facioni apre, ma può costituire un invito alla lettura, consapevoli del fatto che questo lavoro, come l’autore stesso scrive, non ha nessuna pretesa di esaustività, anzi, si configura come una delle voci che, all’interno di quel percorso di eredità-trasmissione, cercano di ricoprire l’origine con quel simbolo che la rende inaccessibile, ma allo stesso tempo generatrice di senso. SAVERIO ALESSANDRO MATRANGOLO

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ALASDAIR MACINTYRE, Edith Stein. A Philosophical Prologue, 1913-1922, Lanham, Rowman & Littlefield, 2006, pp. 195. Con questa opera MacIntyre si propone essenzialmente due obiettivi: offrire una biografia filosofica di Edith Stein a un pubblico non specialistico; evidenziare, attraverso la biografia della Stein, la possibilità di una vita filosofica nella società contemporanea. Ciò che determina la forma complessiva della vita di un filosofo oggi è infatti il role-playing tipico di ogni accademico professionalizzato, la cui principale caratteristica è quella di tentare di difendere la vita sociale quotidiana dall’invasione della filosofia. Dai totalitarismi moderni la società contemporanea ha imparato che, per neutralizzare la portata critica consustanziale alla filosofia, occorre compartimentalizzare vita pubblica e vita privata, così come accade nell’accademia. Il punto di vista da cui MacIntyre si pone è quindi quello di chi intende problematizzare la possibilità del proprio atto filosofico, inteso tanto come atto teoretico quanto come gesto pratico. C’è un terzo obiettivo non esplicitato nel testo macintyriano, interno alla problematica del suo pensiero successivo a Dopo la virtù (1981): fare chiarezza intorno alla questione della dialettica tra tradizioni rivali – questione che è al centro di Giustizia e razionalità (1988), First Principles, Final Ends and Contemporary Philosophical Issues (1990) e Enciclopedia, genealogia e tradizione. Tre versioni rivali di ricerca morale (1990). Per dar conto di tale dialettica MacIntyre si era servito soprattutto degli strumenti concettuali elaborati dalla epistemologia post-popperiana, in particolare da Th. Kuhn, I. Lakatos e L. Laudan. La ricerca intellettuale va intesa innanzitutto come una pratica sociale, informata da criteri intersoggettivi di carattere teorico e morale (le virtù), la quale si svolge all’interno di programmi o tradizioni di ricerca capaci di ospitare al loro interno teorie tra loro rivali. La crisi di una tradizione di ricerca è risolubile nel momento in cui appaiono sulla scena ricercatori in grado di condividere lo sfondo epistemologico della tradizione in crisi e di una tradizione alternativa, capace di oltrepassare le questioni irrisolte all’interno della prima tradizione offrendo approcci e punti di vista innovativi. Ciò è possibile anche se MacIntyre condivide l’assunto kuhniano della incommensurabilità tra tradizioni di ricerca; incommensurabilità non significa infatti incomparabilità, non implica che la scelta tra due tradizioni alternativa sia possibile solo sulla base di fattori extra-scientifici arazionali o irrazionali. La possibilità di comparare tradizioni di ricerca rivali è retrospettiva: è ragionevole preferire una tradizione di ricerca a un’altra quando la prima è in grado di offrire un resoconto narrativo capace di render conto della crisi della seconda e della propria progressività (nel senso lakatosiano del termine).

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La soluzione macintyriana della questione della dialettica tra tradizioni di ricerca rivali non è immune da critiche – e non è casuale che molti interpreti si siano soffermati su di essa. MacIntyre stesso ha ritenuto opportuno intervenire più volte sulla questione per specificare meglio il suo punto di vista. La posta in gioco è quella di un modello di ragione che sia allo stesso tempo storica ma non storicistica, capace di sostenere una nozione di verità come qualcosa che esiste indipendentemente da chi la cerca ma che è esprimibile solo all’interno dell’apparato linguistico-concettuale precipuo della tradizione cui il ricercatore appartiene. In altre parole la verità esiste solo nella tensione della ricerca di essa – ricerca che implica il rispetto di presupposti epistemologici, morali e psicologici, tra cui quello che qualifica la verità in termini oggettivistici e il soggetto che la cerca in termini sostanzialistici. La ricerca è sempre immanente a una tradizione e quindi è sempre situata socialmente e storicamente, al punto che l’abbandono di una tradizione di ricerca per un’altra rivale – la conversione filosofica – è concepibile solo nei termini di risposta alla domanda: di quale comunità devo far parte? La mossa che MacIntyre compie in quest’opera è quella di affrontare la questione della sfida dialettica tra tradizioni di ricerca senza tematizzarla esplicitamente, raccontando la vita della Stein dagli anni della sua formazione filosofica sino alla sua conversione al cattolicesimo, evidenziando le tensioni e i conflitti tra gli assunti epistemologici e morali precipui di una ricercatrice di scuola fenomenologica inquadrata (seppure in maniera instabile) nell’accademia e quelli che la Stein inizia ad assimilare e praticare durante la sua conversione e il suo incontro con il tomismo. Da questo punto di vista la vita della Stein acquista – diltheyanamente – un valore paradigmatico, universale, nel suo mostrare come i conflitti teorici tra tradizioni di ricerca rivali siano nel medesimo tempo conflitti esistenziali che si svolgono nell’animo di quei ricercatori che non sperimentano un dualismo tra la propria ricerca e la propria vita. Evidenziare ciò significa inoltre mostrare che solo il tomismo è in grado di render conto di quegli assunti epistemologici, morali e psicologici che sottendono ogni ricerca scientifica, indipendentemente dalla tradizione cui essa è immanente. In ultima istanza questa opera è una resa dei conti di MacIntyre con il suo stesso percorso esistenziale e filosofico, dal marxismo e dalla filosofia analitica al cristianesimo e al tomismo. SANTE MALETTA

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ALFREDO GIVIGLIANO, La costruzione del dato in sociologia. Logica e linguaggio, Milano, Franco Angeli, 2007, pp. 295. “Qual è […] il linguaggio proprio della sociologia? Esiste un linguaggio proprio, linguaggio scientifico, per questa scienza? In che relazione si pone con il linguaggio naturale della vita di tutti i giorni? In che modo il dato sociale partecipa della eventuale tensione tra questi due tipi di linguaggio? In che modo è possibile descrivere l’oggetto della sociologia attraverso il dato stesso?” (p. 18). Sono questi gli interrogativi di fondo del libro di Alfredo Givigliano, La costruzione del dato in sociologia. Logica e linguaggio, preceduti dalle pagine su “La socialità del linguaggio: un dato omaloidale per la sociologia”, scritte da Daniele Gambarara. Quando si consideri che il culto del fatto domina il pensiero positivistico, di cui sono celebre espressione le idee del fondatore della sociologia, Auguste Comte, il saggio di Givigliano assume un tono che si rivela eversivo di quel pensiero. La sociologia nasce nell’Ottocento come scienza alla quale Comte assegna il compito di scoprire le leggi dei fenomeni sociali, oggetto d’indagine a suo avviso non meno degno di quello delle scienze naturali; per entrambe lo scienziato deve osservare e sperimentare e comparare i fatti per segnare analogie e differenze. Ora, il saggio da noi considerato esprime la consapevolezza della complessità, consapevolezza che ormai ha una sua fonte privilegiata sicuramente nel pensiero del sociologo francese Edgar Morin. Il volume si compone di quattro capitoli: “Il problema sociologico del dato nell’Ottocento e nel Novecento“ (cap. I); “Per una teoria dell’agire sociale e degli oggetti sociologici“ (cap. II); “Passaggio attraverso le logiche” (cap. III); “Epistemologia e metodologia del conoscere sociologico”(cap. IV). Un’ampia bibliografia correda il volume. Dopo aver preso in considerazione nella parte prima (capp. I e II) le teorie dei maggiori rappresentanti del pensiero sociologico, quelle di Comte, Herbert Spencer, Émile Durkheim, Vilfredo Pareto, Bertrand Russell, Rudolf Carnap, Max Weber, Alfred Schutz, Aaron V. Cicourel, Paul Lazarsfeld, Robert K. Merton, Niklas Luhmann, Edgar Morin, l’analisi di Givigliano si concentra sulla logica e il linguaggio sociale nel capitolo III. Riferendosi agli studi di Kit Finw e di Lotfi A. Zadeh essa si cimenta nel tentativo di scandagliare il cuore di ciò che è “vago”, ossia la vaghezza, oggetto tanto sfuggente quanto inquietante a dire il vero. La domanda alla quale si cerca una risposta nella definizione della vaghezza è: “il mondo delle relazioni sociali è un mondo vago. In che senso?” (p. 147). La questione che Givigliano cerca di definire è la questione del rapporto complesso fra il linguaggio comune, della vita quotidiana, e il linguaggio della sociologia, linguaggi tra i quali s’instaura una tensione che inerisce alla costruzione del dato. Ma come si definisce il dato? Si definisce co-

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me “graduazione dell’appartenenza ad una proprietà (ed individuazione della posizione dell’oggetto) in uno spazio-tempo di relazione (con n oggetti) a sua volta compreso nello spazio-tempo fisico, spazio-tempo di relazione che si configura come spazio delle possibilità” (p. 148). Ciò che risulta in questione è in fondo il rapporto fra il ricercatore e il suo oggetto, sempre variabile; insomma il rapporto fra le tecniche d’indagine e la verità, verità concepita realisticamente come corrispondenza a ciò che esiste nella realtà sociale. Givigliano riesce a evidenziare come si declina il tentativo di vanificare la vaghezza, la quale è di ardua precisazione soprattutto perché essa non appare docile al rispetto del principio di non contraddizione. “La vaghezza – si chiede Givigliano – è contraddittoria?” “Certamente, non possiamo affermare che non lo sia, altrimenti sarebbe un qualcosa di ben preciso e delineato in termini esclusivi rispetto a ciò che non è vago. Ma allora come si potrebbe se non attraverso una simbologia chiaramente univoca, determinante e determinata, individuare un qualcosa rispetto alla sua controparte formale? Ma tale simbolo, che dovrebbe stare per la vaghezza, non potrebbe che essere vago a sua volta, in quanto dovrebbe dare ragione di un qualcosa che non è esprimibile in termini precisi, quindi, non ci potrebbe essere certezza” (pp. 156-157). Ci si chiede, dopo, “la vaghezza fa parte della logica oppure no?” (p. 157). Il problema della definizione e del significato vengono ad interagire nel tentativo di circoscrivere la vaghezza. Si tratta di rivendicare, all’interno della logica del sapere sociologico, un’intelligibilità di natura scientifica. Ne La costruzione del dato in sociologia sono messe in luce le conclusioni di argomentazioni che assumono uno svolgimento circolare. Un limite è dato dalla tensione verso la completezza. Non si tratta di tendere alla delimitazione, in termini di approssimazione, ma di “una selezione di un tutto ideale declinato attraverso e per mezzo di strumenti logico-euristici che non prendono in considerazione il tutto inteso come complesso, bensì come complicato. Processo interpretabile, quindi, come una riduzione della complessità, una riduzione della vaghezza” (p. 159). Se le relazioni sociali “sfumano le une nelle altre” (p. 162), se il mondo sociale non è un “dato” stabile, “non un mondo esterno completamente e univocamente dato, ma un mondo vissuto dai soggetti, da loro continuamente rideterminato e modificato” (ibid.), ciò vuol dire veder vanificare ogni approccio all’oggetto d’indagine nei termini della Logica classica? Perciò nella II parte del volume l’analisi di Givigliano fa riferimento ad alcune analisi della vaghezza che si situano all’interno della Logica classica. Sono prese così in considerazione alcune analisi: quelle di M. Black nell’articolo Vagueness, del 1937; di Kit Fine nel saggio Vagueness, Truth and Logic, del 1975; e infine quella della Fuzzy Logic, espressione con la quale si indicano “il problema dei confini di un insieme” (p. 173) e le difficoltà inerenti all’“appartenenza di un oggetto a un

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insieme” (ibid.). Tali difficoltà sono dovute soprattutto all’imprecisione dei confini dell’insieme, imprecisione che chiama in causa la formulazione della descrizione linguistica. Quanto è stato finora accennato sia sufficiente per sollecitare una lettura attenta sulle questioni di status di un sapere, la sociologia, che nella ottocentesca dottrina comtiana, alla luce di un’esigenza fondazionale, si configura come la più giovane di tutte le scienze. Tale lettura mostrerà che la ricerca di Givigliano segna, come scrive Daniele Gambarara nelle prime pagine del volume, “il riconoscimento che la comune avventura iniziata più di un secolo fa fra sociologia e linguistica non è esaurita“ (p. 11). Una ragione d’interesse storico e scientifico al tempo stesso per appassionare sia filosofi del linguaggio che sociologi alla lettura dell’opera di Givigliano. Sul piano storico ciò segna l’importanza, fra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, della scuola sociale di linguistica, di cui la maggiore fu indubbiamente quella di Ferdinand de Saussure. MIRELLA FORTINO

SANTE MALETTA, Biografia della ragione. Saggio sulla filosofia politica di MacIntyre, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007, pp. 144. Il saggio di Sante Maletta sulla filosofia politica di MacIntyre si propone il compito di enucleare gli aspetti più problematici e attuali del pensiero di un filosofo che in Italia è stato spesso frainteso e interpretato in maniera avulsa dal contesto principale in cui si è svolta la sua opera filosofica. Quello di MacIntyre è un percorso continuo di critica al pensiero liberale, anche se attraverso diverse tradizioni di pensiero. Infatti, sebbene adesso la sua critica al liberalismo (inteso sia nella sua forma socio-politica che in quella culturale) sia inseribile nel filone tomistico-cattolico, all’inizio della sua carriera accademica essa era invece di stampo marxista. Come a Maletta preme sottolineare, la diversità delle impostazioni di MacIntyre non comporta un mutamento di prospettiva nella critica al liberalismo, semmai un rafforzamento tramite il passaggio dal marxismo al tomismo, secondo un «filo rosso che unisce le varie fasi della sua biografia intellettuale: un radicalismo di stampo essenzialmente morale che ha come principale obiettivo la natura alienante dei rapporti sociali tipici della modernità liberale» (p. 5).

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Un’altra peculiarità della filosofia politica macintyriana è che essa non risponde a logiche moderne di divisione specialistiche. In questo modo Maletta ci conduce alla connessione fra la filosofa politica e la filosofia morale di MacIntyre, lungo la divisione che MacIntyre stesso aveva sottolineato fra due diversi tipi di moralità: la prima, una moralità di tipo comunitario, che tramite i miti eroici era capace di trasmettere una determinata tradizione e di condurre allo sviluppo di una determinata comunità attraverso l’imitazione di quei miti, che venivano a costituire l’autorità a cui rifarsi e che portavano alla costruzione di un’identità comunitaria. In poche parole una moralità concreta, come quella della polis greca, in cui il perseguimento di un bene individuale era, ipso facto, il perseguimento di un bene comune. La seconda invece, una moralità astratta, valida non per una particolare comunità, ma che si rifà a dei principi validi per ogni tempo e per ogni luogo a cui bisogna imprescindibilmente obbedire, ma che non rappresenta nessun tipo di autorità concreta e, per questo motivo, è incapace di creare un’identità comunitaria. Da questo punto di vista è facile comprendere come MacIntyre si sia sempre preoccupato di ancorare la moralità dell’uomo al contesto socio-culturale in cui una comunità si sviluppa. È una presa di posizione che risale agli anni ’60, quando MacIntyre era vicino al contestualismo etico della cosiddetta “filosofia analitica del linguaggio comune” e del secondo Wittgenstein, i quali ritenevano fondamentale per la comprensione dei termini etici il contesto che ne formava la base, ma allo stesso tempo cercava il modo di superarlo dato che il contestualismo della filosofia analitica si fermava solo al livello linguistico del termine. MacIntyre cercava qualcosa di più che non una semplice spiegazione dei comportamenti umani: una comprensione dell’agire umano che potesse fornirne un senso, accompagnata da precetti morali che le fornissero un sostegno concreto in periodi di crisi morale. Attraverso questa presa di coscienza MacIntyre sviluppa la sua concezione dei miti che forniscono i precetti morali che fungono da base a una determinata tradizione. I miti sono storie che vengono tramandate, narrate, in una comunità etica e costituiscono il principale esempio di quella che MacIntyre chiama storicità dell’esistenza umana, cioè una piena compenetrazione fra vita vissuta dall’uomo e vita narrata. Per questo, come sottolinea giustamente Maletta, MacIntyre ribadisce la funzione epistemologica della narrazione stessa, nel momento in cui una determinata tradizione comunitaria attraversa un periodo di crisi morale. È in virtù di questa funzione della narrazione che MacIntyre, lungo il suo sviluppo concettuale, è stato portato a considerare ogni tradizione come tradizione di ricerca, nel senso che ogni tradizione è sempre portata a confrontarsi criticamente con una o più tradizioni rivali, pena una crisi che ne mini le fondamenta.

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È facile comprendere come l’autore scozzese abbia conseguentemente adottato un tipo di verità di tipo tomistico, che stia al di sopra di ogni tipo di tradizione e che fornisca dei criteri stabili di valutazione, oltre a dare all’individuo una dimensione trascendente attraverso miti che l’assimilano al divino e un senso alla vita umana nella sua interezza. MacIntyre riprende i quattro livelli dell’etica aristotelica (phronesis, ethos, filosofia pratica e metafisica, intesa come teleologia), perché ritiene che sia proprio la mancanza di un’ontologia trascendente a porre la morale in una situazione aporetica. Infatti la morale macintyriana, che come quella di Aristotele è una morale della prima persona, recupera l’unità della vita, intesa come pratica narrativa inserita in una determinata tradizione. Anche le tradizioni sono delle pratiche narrative, allo stesso tempo «pratiche e teoriche, impegnate continuamente in un processo di autocomprensione» (pp. 36-37), cioè sempre aperte alla critica sia interna che da parte di una tradizione rivale, che in tempi di crisi può migliorarla o rovesciarla completamente. Maletta sottolinea come MacIntyre ritenga difficile conciliare due tradizioni di ricerca rivali, impossibile se non si padroneggiano i linguaggi di entrambe, come nel caso della sintesi tomista operata da Tommaso d’Aquino. La superiorità della tradizione tomista consiste per MacIntyre nel porre come fine della ricerca la verità indipendente dalla tradizione stessa, la cui ricerca «si configura come un’impresa pratica», ma il cui fine, che nel caso della morale è il bene, è concepito anche in senso metafisico. Nel tomismo è presente l’unità narrativa della vita, inverata da una prospettiva trascendente. Per questo MacIntyre può ribadire la superiorità della tradizione tomista rispetto a quella liberale, la quale proprio perché non riconosce nessun valore assoluto, perde ogni validità nel campo pratico dove un fine trascendente è necessario per «costituire il senso della ricerca e il criterio di giudizio di essa» (p. 46). Questo relativismo presente in qualsiasi istituzione del nostro tempo condanna la tradizione liberale all’impossibilità del confronto con tradizioni differenti e al non superamento della crisi al suo interno. Esempio pratico di questa impasse sono secondo MacIntyre le università, in cui l’impossibilità di un accordo razionale su determinate questioni deve poter essere superato con il ripensamento dell’università in quanto istituzione, come luogo del dissenso forzato, capace di portare a una sintesi fra posizioni differenti, o al superamento di quelle inconciliabili, come lo era l’Università di Parigi del XIII secolo, luogo in cui l’Aquinate formulò la sua la sintesi fra aristotelismo e agostinismo. MacIntyre ritiene possibile la filosofia politica dal momento in cui l’uomo si pensa come essere politico. Lo scozzese distingue due approcci della pratica filosofico-politica ormai sedimentatisi, più o meno inconsciamente, a livello di

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senso comune. Il primo segue lo schema liberale alla Locke e quello utilitarista, tipici della tradizione culturale enciclopedica. Secondo questa prospettiva lo Stato è pensato solo come garante degli interessi individuali, incapace di sindacare su qualsiasi lotta fra tradizioni o pratiche differenti, mascherando il «disaccordo radicale intorno alle regole morali tanto a livello teorico quanto a livello pratico, coprendolo con la retorica sui valori condivisi, i quali sono insufficienti a guidare l’azione» (p. 74). Il secondo approccio segue lo schema comunitario. In questo caso la comunità è formata da quell’insieme di individui che sono parte integrante della comunità stessa e perseguono un bene che riguarda i singoli solo come parte di un più ampio bene comune. Secondo questa prospettiva il governo è parte integrante della comunità stessa, non mero strumento di protezione degli interessi individuali, e l’uomo, inteso come animale politico, è parte integrante del governo e della comunità stessa. Maletta riprende l’itinerario intellettuale attraverso il quale MacIntyre è arrivato a questa concezione politica, lungo lo sviluppo di un pensiero marxista portato a enfatizzare gli aspetti culturali e umanistici nella formazione della classe operaia piuttosto che gli aspetti scientifici del pensiero marxiano, individuando nel concetto di alienazione il punto d’intralcio a una considerazione unitaria della vita umana. È qui presente in nuce, come sostiene Maletta, il concetto di vita come un tutto, intesa come pratica, nell’enfasi posta dallo scozzese sul rapporto bilaterale fra teoria e prassi e sulla valutazione positiva del procedimento marxiano attuato nelle Tesi su Feuerbach, in cui MacIntyre ravvisa un tentativo da parte di Marx di concepire un alternativa alla società contemporanea capace di superare, dall’interno della società stessa, la divisione fra società civile e società politica, dovuta alla compartimentalizzazione dei ruoli e delle pratiche nell’era liberale, cioè di proporre «pratiche tali che coloro che sono impegnati in esse si trasformano e si educano attraverso la loro attività auto-trasformativa, pervenendo a concepire il loro proprio bene come il bene interno a quell’attività» (p. 74). Il fallimento della critica marxiana è dovuto, per MacIntyre, al suo cambio di prospettiva: non più una critica dall’interno della società liberale, attraverso lo stesso punto di vista e lo stesso schema narrativo (penso alla critica dell’economia politica liberale), ma una disamina al di fuori di quello schema narrativo, che suppone una falsa superiorità del marxismo, facendogli perdere ogni valenza critica morale trasformandosi in ideologia (falsa coscienza). La prospettiva comunitaria secondo MacIntyre non è comunque attualizzabile in una prospettiva politica ampia come quella degli Stati moderni, essa tutt’al più può essere praticabile in ristrette comunità di ricerca come le università. Ciononostante la sua filosofia morale non perde valenza politica. Infatti la continua ricerca e riflessione intorno al bene comune, «costituito dal-

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l’attività cooperativa attraverso cui li si acquisisce [determinati beni diversi da quelli individuali] e dalla comprensione condivisa del loro significato» (p. 75) e l’accento posto sull’importanza dei precetti della legge naturale, vale a dire le virtù (il coraggio, la costanza, la veridicità, la pazienza etc.), la cui obbedienza è un prerequisito per l’acquisizione di quella saggezza pratica necessaria per poter vivere “in comunità”, altro non sono che il tentativo di pensare possibili piccole comunità, anche se facenti parte di tradizioni culturali diverse, le quali «tramite il dialogo razionale fra di esse» (p. 85) siano capaci di trovare un senso generale alla vita nell’era liberale e risolvere «allo stesso tempo il problema politico e quello morale» (p. 86). È una prospettiva, quella macintyriana, che a mio avviso fornisce una valida alternativa al modo di pensare liberale, soprattutto per gli aspetti giuridici, culturali e politici che da essa derivano, ma consta di una fondamentale limitazione che la preclude a quanti non ritengano pensabile una vita dotata di senso attraverso la fede in una dimensione trascendente. ANDREA CELIA MAGNO

MARIO IAZZOLINO, L’illusione realista ovvero lo specchio deformante, Cosenza, Pellegrini, 2007. Il grande tema del libro di Mario Iazzolino è quello della presenza dello scrittore nella narrazione, anche in quella cosiddetta realistica. In particolare egli mette in luce quel relativismo soggettivo che, mettendo in primo piano le specificità personali, porta a una costruzione della storia romanzesca come realismo soggettivo, come visione personale “spesso anche arbitraria” (p. 14). Di questa visione le parole sono spesso testimoni troppo legati ai modelli convenzionali della comunità per rendere l’idea fino in fondo, per ridare la pienezza delle sensazioni e delle emozioni tanto che il narratore è costretto ad affidarsi all’evocazione verbale del silenzio, ad affermare l’ineffabilità. La verità si va così nascondendo nelle pieghe del racconto degli eventi che lo scrittore ha piegato all’espressione della propria individuale visione delle cose. Ed è questa che egli offre al lettore come biais, come spiraglio, per suggerirgli di guardare l’azione sotto quel punto di vista. Solo la possibilità del lector in fabula libera la verità ma sempre attraverso l’interpretazione.

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Del resto, si domanda Iazzolino, tutto ciò che costituisce il mondo del narratore, in quanto linguaggio, pensiero, sensibilità, scrittura non è, a sua volta, parte del mondo che la sua narrazione ha per oggetto? Sposando le tesi del relativismo linguistico, Iazzolino afferma che se non ci sono le cose ma solo il loro modo di nominarle, la letteratura in tutte le sue forme istituisce la realtà ed è quindi “illusoria la ‘pretesa’ di ricusare i diversi sistemi di segni” (p. 23). Una volta accettata questa condizione di ineludibilità della parola, questo allontanarsi ineluttabile di ogni oggettività, si può allora ancora chiedere se la parola sia immagine, metafora, simbolo o rivelazione, quale sia il tipo di relazione di questi segni al mondo, agli eventi, all’io che ha dato loro forma e vita e persino a ciò che non è detto ma dietro le parole appare. “On me croit épris du réel et je l’exècre. Car c’est en haine au réalisme que j’ai entrepris ce roman” cita Iazzolino (p. 39). È il Flaubert di Madame Bovary che, a suo avviso, compendia questo complesso rapporto tra lo scrittore e la realtà, tra il suo proprio io divenuto personaggio nel romanzo e la sua assenza dalla narrazione, secondo un meccanismo di présence éclatante del suo io maschile dentro la protagonista femminile del suo grande romanzo. Il soggettivismo che Iazzolino definisce “evidente e pertinente” conduce dunque ogni autore alla fondazione di quello che egli definisce il “realismo soggettivo” come nelle sfera riflettente di Escher scelta per la copertina del saggio. La storia come racconto, la realtà come punto di vista, i caratteri costruiti, per un processo di astrazione, anche quando partono dall’osservazione di personaggi realmente esistiti, questa è, per Iazzolino, la cifra della grande stagione del romanzo francese da Stendhal e Flaubert fino a Proust. L’autore è dietro ogni apparente descrizione in “presa diretta” degli eventi e dei personaggi, e si propone come “specchio deformante” di ogni possibile realtà oggettiva, la cui ricostruzione a posteriori è, d’altronde, come si è detto, sempre e soltanto interpretazione del lettore, coevo o a venire che sia. Anche il Verismo italiano può essere considerato in fondo, a giudizio di Iazzolino, un modo di concepire il romanzo in cui il realismo, visto spesso dall’angolo ancora una volta prospettico del regionalismo, è raggiunto come faticosa costruzione dell’artista, ancora una volta, dunque, la cifra è quella di una autorialità fortissima. L’interesse dell’autore è rivolto anche alla cultura poetica e letteraria dell’Italia del Novecento, fino al Neorealismo, con una particolare attenzione ad autori calabresi o che alla Calabria hanno dedicato alcune tra le loro migliori pagine. Attraverso tappe/capitoli il viaggio di Iazzolino nell’ineludibile legame di soggettività e linguaggio, tocca anche la poesia e il teatro, per approdare al

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confronto tra parola e immagine al passaggio tra Impressionismo ed Espressionismo nella pittura. Iazzolino analizza la scrittura, il linguaggio e la struttura del romanzo fino alla natura dell’explicit, appunto alla modalità di congedo dello scrittore dal romanzo e dai suoi lettori. Maneggiando con perizia le categorie della filosofia del linguaggio, egli abbozza, attraverso innumerevoli e diverse citazioni, un trattato di ‘semantica referenziale’ del romanzo e della letteratura in generale, in cui alle infinite sfumature del Sinn corrisponde una ed una sola Bedeutung, quella dell’autore e del suo occhio prospettico. CLAUDIA STANCATI

FRANCESCO FERRETTI, Perchè non siamo speciali. Mente, linguaggio e natura umana, Roma-Bari, Laterza, 2007. Francesco Ferretti, autore di numerosi saggi di filosofia della mente e del linguaggio, con il suo libro dal titolo Perché non siamo speciali. Mente, linguaggio e natura umana affronta una questione basilare: che cosa ci caratterizza in quanto umani? La risposta dell’autore è che la prerogativa peculiare della nostra specie è il linguaggio. Tuttavia, diverse concezioni di cosa sia il linguaggio comportano differenti affermazioni circa la natura umana. L’intento di fondo di questo libro è dimostrare che la parola ci rende specifici, ma non speciali; tale obiettivo è perseguito attraverso la rivalutazione del ruolo dell’intelligenza nel linguaggio. Per sostenere un tesi come questa, nell’ambito della scienza cognitiva, un confronto necessario è quello con la prospettiva chomskiana. Secondo la concezione autonomista sostenuta dal fondatore della grammatica generativo-trasformazionale, il linguaggio deve essere inteso come completamente separato dall’intelligenza. In opposizione all’ipotesi dell’intelligenza generale, la concezione di Chomsky si inserisce nel quadro della teoria modularista della mente, secondo cui la facoltà linguistica è un sistema di elaborazione specifico della mente-cervello che risponde in modo automatico e involontario quando si presentano gli input capaci di attivarlo. Queste proprietà di automaticità e di obbligatorietà dei moduli sono adattamenti evolutivi per risolvere il problema della velocità di risposta; da questo punto di vista, i moduli sono simili ai riflessi: essi vengono attivati automaticamente dagli stimoli per i quali sono specifici. Poiché i riflessi si caratterizzano per una risposta obbligata e automatica, essi agiscono in maniera non intelligente; di conseguenza, se i moduli sono, sotto questo rispetto, simili ai riflessi, allora sono “stupidi”.

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Il modello chomskiano separa, dunque, l’intelligenza dal linguaggio; così facendo la capacità di parlare pone una cesura netta tra gli umani e gli altri animali e supporta una precisa idea di natura umana, secondo cui il linguaggio è posto a garanzia dello statuto speciale della nostra specie. Una spiegazione naturalista e continuista del linguaggio richiede, dunque, una revisione della prospettiva chomskiana. L’idea di linguaggio sostenuta da Chomsky si scontra, inoltre, con la difficoltà di spiegare come il linguaggio è ancorato al mondo: si tratta del problema di Cartesio. Chomsky considera il problema di Cartesio come insolubile in linea di principio, data la natura finita della mente umana; esso riguarda più nello specifico la questione della flessibilità e della creatività dell’essere umano. Ad essere in discussione è la questione di come il linguaggio possa essere utilizzato nel modo creativo usuale. Così intesa, la creatività del linguaggio non chiama in causa soltanto il tema della flessibilità e dell’indipendenza dagli stimoli, ma solleva la questione più complicata di come il linguaggio possa essere appropriato alla situazione. Più precisamente, apre la strada alla difficoltà di comprendere come sia possibile mantenere insieme la flessibilità del linguaggio e la sua appropriatezza alla situazione. Il punto in discussione è la coerenza e la consonanza alla situazione da una parte e la libertà dagli stimoli esterni e interni dall’altra: come può il linguaggio essere allo stesso tempo libero dagli stimoli e appropriato alla situazione? Un buon modo per rispondere a questa domanda è prendere in esame una questione sollevata da Steven Pinker, secondo cui la comprensione del linguaggio implica uno “sforzo cognitivo”, governato dall’intelligenza generale in tutta la sua potenza. Ciò che secondo Pinker è in atto solo in alcune situazioni comunicative specifiche, secondo Ferretti è in gioco in ogni situazione di comprensione del linguaggio. La presenza di questo sforzo mentale è estremamente significativa, infatti se Chomsky avesse ragione riguardo ai processi che regolano lo scambio linguistico, noi non dovremmo esperire alcuno sforzo di comprensione. In realtà, invece, la nostra comune esperienza conferma che la comprensione implica necessariamente uno sforzo. L’idea di Ferretti è che lo sforzo cognitivo implicato nei processi linguistici sia una spia dei processi mentali all’opera nel linguaggio: lo sforzo segnala che i processi di comprensione linguistica implicano una forma di intelligenza. Tuttavia, come è possibile parlare del ruolo dell’intelligenza all’interno del contesto di riflessione della scienza cognitiva contemporanea, in cui prevale la concezione modulare dell’architettura mentale? È evidente che dobbiamo disporre di una nozione di intelligenza adeguata. Un modo interessante di definire l’intelligenza è considerarla come l’equilibrio adattivo che si stabilisce tra sistemi di elaborazione in cooperazione/com-

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petizione tra loro. Ogni forma di adattamento è una forma di intelligenza, vale a dire che è intelligente ogni attività tesa a ristabilire l’equilibrio del rapporto tra un organismo e il suo ambiente. L’intelligenza è, dunque, la capacità che regola l’ancoraggio dell’organismo al mondo sociale e a quello fisico: l’equilibrio adattivo degli organismi sociali all’ambiente fisico e al gruppo dei conspecifici ha la forma di una relazione triadica (io, tu, mondo) tra elementi in competizione. L’ipotesi centrale del libro è che la discussione circa il ruolo adattivo dell’intelligenza non valga soltanto per descrivere la generica relazione di equilibrio tra organismo e ambiente, ma valga anche per i processi di comprensione del linguaggio. Sulla base di queste osservazioni diventa evidente che la difficoltà chomskiana di trovare una spiegazione dell’appropriatezza del linguaggio è strettamente correlata alla caratterizzazione del processo di comprensione propria del modello del codice che, a sua volta, rinvia alla tesi dell’autonomia del linguaggio. Una possibile spiegazione dell’appropriatezza del linguaggio richiede di considerare, invece, che l’intelligenza sociale e quella ecologica, poste a garanzia dell’ancoraggio degli organismi al mondo, siano a fondamento del linguaggio e ne garantiscano l’appropriatezza al contesto sociale e fisico. La comunicazione è, allora, un processo di costituzione di un equilibrio tra le intenzioni del parlante e le aspettative dell’ascoltatore che si sostanzia nella comprensione rappresentazionale comune; essa è il prodotto di una costruzione, non di una decodifica. L’essere umano è continuamente esposto al linguaggio e comprendere implica, dunque, una forma di sforzo cognitivo. Là dove c’è sforzo c’è intelligenza, anche se non tutti gli sforzi sono necessariamente intelligenti. Questa idea della comprensione verbale legata allo sforzo cognitivo è interpretabile nei termini della teoria della pertinenza proposta da Sperber e Wilson. Gli esseri umani tendono automaticamente a massimizzare l’efficacia del loro trattamento dell’informazione, che ne siano coscienti o no; infatti, i loro interessi coscienti, diversi e mutevoli, risultano dal perseguimento costante di tale scopo in condizioni variabili. Lo scopo cognitivo particolare che un individuo persegue in un dato istante è, dunque, sempre un caso particolare di uno scopo più generale: massimizzare la pertinenza dell’informazione trattata. La pertinenza regola l’equilibrio tra lo sforzo di elaborazione e l’effetto cognitivo: maggiore è l’effetto cognitivo ottenuto mediante l’elaborazione di un input, maggiore è la pertinenza; maggiore è lo sforzo di elaborazione, minore la pertinenza di quell’input per l’organismo. Un ruolo importante in questo processo è svolto dalle emozioni; gran parte della nostra vita è accompagnata e regolata dalle emozioni, le quali ci consentono di valutare immediatamente le variazioni più o meno improvvise dell’ambiente e di reagire ad esse in maniera efficace e vantaggiosa. L’appropriatezza risulta dall’equilibrio adattivo tra processi interni ed esterni; essa è il prodotto dell’intelligenza guidata dalle emo-

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zioni. In questo senso, dobbiamo notare che la nozione di pertinenza è alla base di qualsiasi tipo di processo adattivo. Tutti i sistemi che sfruttando la pertinenza massimizzano l’efficacia del loro trattamento di informazione sono sistemi intelligenti. Questo spiega perché l’intelligenza possa essere considerata una caratteristica che i processi alti di pensiero condividono con le forme di base dell’attività biologica. L’intelligenza è ciò che consente di analizzare l’origine e il funzionamento del linguaggio in una prospettiva di continuità evolutiva con le altre specie. L’intelligenza appartiene alla materia organica ed è una proprietà che in gradi diversi appartiene a tutti gli organismi; di conseguenza, non possiamo ritenere che l’essere umano sia speciale solo ed esclusivamente perché possiede il linguaggio, in quanto alla base del linguaggio vi è l’intelligenza, che colloca la mente umana in un quadro concettuale di continuità evolutiva. Dunque, l’attenzione rivolta al tema della continuità e della dipendenza del linguaggio dal sistema concettuale è una prova in favore della tesi che considera gli umani come esseri specifici ma non speciali. Assicurato questo obiettivo, il problema dei modelli continuisti è quello di dar conto degli aspetti di specificità rispetto alle proprietà condivise con altri animali. La tesi continuista rappresenta solo un primo passo nella spiegazione del ruolo del linguaggio nella natura umana; la seconda mossa è riconoscere che, una volta acquisito, il linguaggio svolge un effetto cognitivo di ritorno sulla rappresentazione non linguistica del mondo. Dire che il linguaggio ammette elementi di comunanza e di specificità significa sostenere che il pensiero verbale che connota gli umani presenta, allo stesso tempo, caratteri che lo pongono in continuità con altre forme di pensiero e caratteri che segnano una specificità rispetto a queste. Dunque, se non c’è una caratteristica specifica del linguaggio in grado di garantire l’unicità degli umani, allora il linguaggio non può essere posto a fondamento di una differenza qualitativa tra gli umani e gli altri animali: tutto ciò che possiamo assicurare agli umani attraverso il linguaggio è la specificità, non la loro presunta specialità. La coevoluzione di aspetti specifici e linee di continuità è la strada da percorrere per mostrare che gli umani non sono così speciali come spesso amano dipingersi. NICOLETTA ALVARO

GIULIANO GASPARRI, Le grand paradoxe de M. Descartes. La teoria cartesiana delle verità eterne nell’Europa del XVII secolo, Firenze, Leo S. Olschki, 2007, pp. 316, € 35,00.

Il problema cartesiano delle verità eterne ha interessato negli ultimi trent’anni un nutrito numero di studiosi, producendo un’altrettanto vasta messe di

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studi sull’argomento. Si tratta di uno di quei temi che Descartes formulò sin dagli inizi della sua riflessione; esso fu annunciato per la prima volta in una serie di lettere a Mersenne, nel 1630, in cui Descartes stabiliva che la verità della conoscenza ha carattere di permanenza e di eternità grazie al fatto che l’esistenza di Dio è la prima di queste verità, da cui tutte le altre discendono. Come ricorda Giuliano Gasparri, autore de Le grand paradoxe de M. Descartes, il tema delle verità eterne tema “tocca un ampio ventaglio di problemi filosofici che spaziano dallo statuto gnoseologico degli assiomi logico-matematici ai problemi teologici legati al rapporto tra il possibile e l’onnipresenza divina. Il confronto con l’idea della dipendenza da Dio delle verità eterne costituirà, per quasi un secolo, una sorta di capitolo obbligato nell’opera dei maggiori filosofi, e sarà uno dei nodi più problematici che la teologia razionale tenterà di risolvere” (Introduzione, p. VII). Circa il problema delle ricadute, nel dibattito filosofico e teologico del XVII secolo, della dottrina cartesiana delle verità eterne, la critica ha spesso avvertito la necessità di spiegare in via preliminare perché tale dottrina diventasse nella seconda metà del XVII secolo uno dei problemi più discussi, nonostante che Descartes le avesse dedicato, in maniera esplicita, uno spazio esiguo. La risposta va cercata non soltanto nell’effettiva diffusione delle lettere cartesiane (che vi fu, grazie all’impegno di Clerselier), ma anche nello speciale posto riservato, negli ambienti filosofici e teologici del XVII secolo, al tradizionale dibattito sulla potentia Dei, e al problema, connesso, del rapporto fra volontarismo e razionalismo. Di recente Margaret Osler ha tentato di mettere in luce le diverse implicazioni epistemologiche di tale dibattito, nel contesto della riflessione scientifica dell’età moderna; lo ha fatto richiamandosi ad una tradizione di studi particolarmente sensibile alla relazione esistente tra il pensiero teologico moderno e l’eredità medievale (una tradizione che, dagli studi di F. Oakley, R. Hooykaas e W.J. Courtenay giunge, in ambito italiano, agli ormai celebri studi di E. Randi, S. Landucci e M.E. Scribano). Questi studi hanno contribuito a mettere in luce la stretta correlazione esistente tra problematiche di tipo metafisico, teologico e scientifico, come il rapporto esistente fra quantità e materia, fra leggi fisiche e origine del mondo, fra le architetture della materia e la differenziazione degli esseri, mostrando come ogni nuovo risultato della scienza moderna, ogni nuova ipotesi sulla natura dell’universo finisca sempre col dover fare i conti con uno sfondo problematico di tipo teologico. È celebre, al riguardo, la Query 31 dell’Opticks (1728) di Newton, in cui lo scienziato britannico contestava, più apertamente di quanto non avesse fatto già nei Principia mathematica (1687, 1713, 1726), la coincidenza cartesiana di materia ed estensione, la quale poneva a suo avviso due ordini di problemi nella spiegazione

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meccanica del cosmo: 1) il problema della generazione, cioè del come gli esseri naturali, e ancor prima le particelle di cui erano composti sorgessero da una materia prima assolutamente omogenea; e 2) il problema della conciliazione di una materia omogenea, anteriore alla generazione degli esseri, e perciò eterna e incorruttibile, con l’idea di un Dio provvidenziale, di una volontà creatrice che, nella prospettiva di Newton, la filosofia di Descartes finiva per escludere. Non occorre chiedersi qui se Newton abbia effettivamente letto le famose lettere di Descartes a Mersenne sul problema del rapporto fra le verità della filosofia naturale e il ruolo della potentia Dei: nel caso di Newton, bastavano già le pagine dei Principia philosophiae o delle Meditationes di Descartes, dedicate anche solo indirettamente a tale nucleo di problemi, per spingere il filosofo britannico a giudicare sulla presunta incoerenza delle conseguenze prodotte dalla filosofia di Descartes sul piano teologico-metafisico. L’identità cartesiana di materia ed estensione, per esempio, apriva fatalmente una serie di interrogativi che toccavano saperi diversi, come la cosmologia, la teologia e le scienze della vita: se, infatti, l’estensione, ossia la quantità, coincide con il corpo, è coeterna alla materia, come si sono formate le differenze tra gli esseri e le specie esistenti in natura? e quale spazio resta alla creazione? e che ne è della provvidenza divina? E se, invece, la materia, essendo creata, esiste prima dell’estensione, quali saranno gli attributi di una materia priva di quantità? Si tratta di interrogativi che aprono questioni di enorme portata, alimentando un dibattito che, prima ancora di arrivare a Newton, animerà gli ambienti filosofici e teologici dell’Europa nella seconda metà del XVII secolo. L’ambizione della ricerca di Gasparri è stata, per l’appunto quella di prendere in considerazione le ripercussioni, la ricezione, nell’Europa moderna, del problema cartesiano delle verità eterne, o più in generale del problema del rapporto tra volontarismo e intellettualismo teologico, alla luce delle diverse problematiche aperte, dallo stesso Descartes, con la sua filosofia naturale (nei Principia philosophiae) e con la riflessione sul metodo e sui principi della metafisica (nel Discours de la méthode e nelle Meditationes). L’intento di Gasparri è stato quello di fare propria la prospettiva di una storia delle idee “che si vuole quasi quantitativa”, tentando di “allargare al massimo il numero degli autori considerati, per restituire un’immagine quanto è più possibile viva dell’impatto della teoria [cartesiana] sulla cultura del tempo, e del ruolo che essa giocò nel dibattito sulla teodicea” (p. IX). Per questa ragione, l’autore si è concentrato più volentieri “sui filosofi cosiddetti ‘minori’ che sui grandi critici post-cartesiani”, come Adriaan Heereboord, Johann Clauberg, Christoph Wittich, Samuel Desmarets, Lambert van Velthuysen, Arnold Geulincx, Baruch Spinoza, Leibniz e Malebranche. Oltre a questi ultimi, che Gasparri ha dovuto comunque tenere nel debito conto, il volume offre un am-

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pio excursus sul dibattito che avrà modo di svilupparsi in Francia, tra il 1650 e il 1679, prendendo in considerazione autori come L. de La Forge, A. Arnauld, B. Pascal, R. Desgabets, A. Rochon, S. Foucher e P. Poiret. Un secondo e lungo capitolo è dedicato alla ricezione del tema delle verità eterne nei Paesi Bassi (pp. 61-123), attraverso la produzione filosofico-teologica di van Velthuysen, Spinoza, Geulincx, Frans Burman, Melchior Leydekker, Abraham Heidanus, L. Wolzogen e i cartesiani e anticartesiani della cosiddetta “seconda generazione”, come C. Wittich, S. Desmarets e C. Bontekoe. Il terzo capitolo consiste in una breve ricognizione sulla ricezione della teoria cartesiana in Inghilterra, attraverso i nomi di Samuel Parker, Antoine Le Grand, John Locke e John Norris. Si tratta di un capitolo di grande pregio, che tuttavia avrebbe potuto incrementare la sua ricchezza di contenuti con l’analisi della posizione di Newton, un autore che ha impegnato per lungo tempo la storiografia filosofica sul tema della potentia Dei. Il quarto capitolo riprende il filo della ricezione francese, aggiungendo una serie di autori che contribuiscono a rendere più realistico lo scenario delle ripercussioni del cartesianesimo negli ultimi decenni del XVII secolo e nei primi del XVIII: con L. de La Ville, F. Bernier, C.-J. de Troyes, P. Cally, P.L. Du Vaucel, P.-D. Huet, P. Bayle, G. Daniel, A. de La Ville e J.-.B. Bossuet. Chiude il volume un quinto, interessante capitolo su “L’Olanda dei réfugiés e Leibniz”. Quest’ultimo rappresenta il passaggio obbligato di un excursus sulla fortuna del cartesianesimo, così come la problematica dei réfugiés in Olanda costituisce un tema di grande interesse non solo per la storiografia cartesiana, ma anche per la filosofia libertina e per la letteratura filosofica clandestina. Il ricco dossier di Gasparri si aggiunge all’intenso lavoro prodotto negli ultimi anni dalla storiografia cartesiana in lingua italiana e francese (ricordo per tutti i recenti studi di Antonella Del Prete, di Massimiliano Savini e della sopra citata Emanuela Scribano): e c’è da augurarsi che la collaborazione tra gruppi di ricerca italiani e francesi prosegua negli anni successivi con studi di altrettanto peso e respiro. Circa il lavoro compiuto da Gasparri, c’è solo una lacuna che ci sentiamo in dovere di segnalare: la vistosa assenza del recente studio di ZBIGNIEW JANOWSKI, Cartesian Theodicy. Descartes’ Quest for Certitude (Dordrecht, Kluwer Academic Publishers, 2000); un lavoro, quest’ultimo, di indubbio rigore storiografico, che l’autore di Le grand paradoxe de M. Descartes avrebbe dovuto menzionare, anche solo per esprimerne l’eventuale dissenso circa alcune questioni metodologiche di fondo (come, ad esempio, la presa di distanze dall’approccio gilsoniano, e la rivalutazione della tradizione agostiniana). Ma su questo, siamo sicuri, Giuliano Gasparri avrà modo di intrattenerci con i suoi prossimi studi. EMILIO SERGIO

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TOMMASO RUSSO CARDONA, VIRGINIA VOLTERRA, Le Lingue dei Segni, Roma, Carocci, 2007, pp. 153, € 15,50. L’insegnante è una donna, fa estrema attenzione a tenere le mani dietro la schiena e parla articolando esageratamente e fermandosi sui movimenti della bocca molto “correttamente”. Gli allievi leggono sulle labbra. È a questo punto che capisco l’estensione del disastro (…) Questa donna che non si serve né delle mani né del suo corpo per insegnare, che significa attraverso il suo comportamento il divieto di utilizzare una lingua diversa dalla parola, mi sembrava una provocazione. (…) Ma gli altri guardano ed ascoltano attentamente ed io non oso interrompere. Mi sforzo di comprendere ciò che viene detto. Niente. Lo vede bene; io non so nemmeno di che lezione si tratta. E. LABORIT, Il grido del gabbiano

Nel Trattato sulla Pittura Leonardo da Vinci raccomanda di imparare dai muti, ovvero dai sordi, il buon uso dei gesti e dei movimenti del corpo: “Non rinfacciatemi che vi propongo un insegnante che non parla, perché egli vi insegnerà meglio con i fatti, che tutti gli altri maestri attraverso le parole. Il buon pittore ha da dipingere due cose principali: l’uomo e la mente sua. Il primo è facile, il secondo è difficile, perché si ha a figurare con gesti e movimenti delle membra, e questo ha da essere imparato da chi meglio li fa che alcuna altra sorta d’uomini”. Siamo alla fine del ’400 e l’affermazione di Leonardo è tanto lungimirante quanto estranea alla mentalità dell’epoca. Nella storia della nostra cultura la questione filosofica di che tipo di mente e di indole potesse avere un individuo privo della parola assunse presto i connotati di un vero e proprio accanimento. È difficile spiegare altrimenti quel precetto contenuto nel Levitico (19,14) il quale raccomanda di non “disprezzare” i sordi e include questi ultimi tra coloro i quali devono essere protetti dalle ingiustizie e dalla prepotenza del potere. Bisogna dire che in epoca classica il punto di vista sui sordi non ha i toni cupi a cui successivamente ci hanno abituati filosofi, medici e giuristi. Platone, per esempio, individua nel canale visivo-gestuale una delle possibilità attraverso cui può essere declinata la prassi linguistica (Cratilo, 422e1-423b10) mentre Aristostele affronta il problema da un punto di vista biologico per affermare sostanzialmente che la voce è condizione necessaria ma non sufficiente per avere un linguaggio il quale è “voce linguisticizzata”, vale a dire voce “articolata” per mezzo dell’udito (Historia Animalium, IV, 9, 536a). Altrimenti detto, per Aristotele era chiaro quello che chiaro non sembrò essere per intere generazioni di intellettuali che gli sono succeduti e, cioè, che i muti non hanno lin-

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guaggio non perché manchino ‘naturalmente’ di intelligenza ma semplicemente perché sono privi di udito. Allo stesso tempo, è fondamentale evidenziare che, malgrado il fatto che Platone avesse prospettato la possibilità dell’esistenza di una lingua diversa da quella verbale e che Aristotele avesse affrontato la questione della sordità in termini neutri, un umano fatto come tutti gli umani, ma privo del linguaggio, culturalmente ha creato non pochi problemi. Il sordo è una progenie scomoda, difficile da collocare. È un bipede, è partorito e concepito da umani e cresce tra umani. Eppure non parla, non trova il modo di esibire la sua umanità. La sua voce non è disciplinata e non è disciplinabile. È ‘mostruosa’, è grido, stridore. Il sordo è un ‘dentro’ che si colloca prepotentemente fuori, è un membro della società che ontologicamente sfugge alla macchina disciplinare della lingua socialmente condivisa: non ascolta. Non può farlo. La porta principale, l’udito, è chiusa. Non vi si può accedere in nessun modo. Nessuna voce può arrivare, nemmeno quella di Dio. Come non indovinare i motivi profondi e quasi ancestrali che hanno spinto intere società a bandire i sordi dalla vita sociale? Come non immaginare quanta diffidenza devono aver suscitato persone totalmente noncuranti del suono di una campana (che è allo stesso tempo comunità e chiesa), piuttosto che di una richiesta di aiuto, di un pericolo che arriva alle spalle o altre espressioni del vivere sociale? Come dimenticare che la parola, in quanto fatta di voce e non in quanto fatta di qualche altra materia, è per la nostra civiltà la sola degna di ‘incarnare’ il linguaggio? Come non rendersi conto che lo statuto sociale svalutato del sordo ha a che fare con lo statuto della corporeità nel linguaggio e nella conoscenza? La storia dei sordi non è una bella storia. Non lo è per questi ultimi. Non lo è per una cultura che si è dimostrata, e sovente si mostra ancora, intollerante e accanita nei confronti di queste anime ‘mute’. Recentemente, tuttavia, essi stanno cercando di scrivere una pagina diversa e si apprestano a fondare una città. Ce lo racconta Tommaso Russo Cardona, amico compianto e coautore (insieme a Virginia Volterra) del libro che qui presentiamo. Si tratta di una città progettata per “tutti coloro che usano la lingua dei segni”, nella fattispecie la Lingua Americana dei Segni (ASL). Non è un città di sordi; è una città di segnanti, una città in cui “i sordi convivranno con gli udenti, agevolati da un ambiente concepito apposta per loro” (p. 15). In questa città, che si chiamerà Laurent (dal nome di Laurent Clerc, il brillante insegnante per sordi trasferitosi dalla Francia in America per tenere a battesimo la prima scuola per sordi e, quindi, l’insegnamento della lingua dei segni), “in tutti i negozi dovranno esserci commessi che conoscono il sign language, i citofoni e i tele-

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foni saranno sostituiti da videocitofoni e videotelefoni e i servizi sociali, dagli ospedali alle poste, saranno concepiti in maniera tale da rendere possibile a chi usa questa lingua visiva e gestuale di accedervi con facilità. Anche i bambini riceveranno un’educazione scolastica bilingue, in inglese e in ASL” (p. 15). Siamo nel nord degli Stati Uniti, nel South Dakota, a qualche chilometro dalla città di Salem e l’ideatore di questo progetto, di questa vera e propria città che non c’è, è un sordo prelinguistico. Si chiama Marvin T. Miller e se riuscirà a realizzare quanto sin qui prospettato, gli Stati Uniti avranno, dopo l’unica Università al mondo per sordi (Gallaudet University), anche la prima città al mondo che contempli una forma di vita bilingue per i suoi abitanti e visitatori, una città in cui sordi e udenti possono ritrovarsi senza sentirsi due varianti della stesso genere. Nella storia degli uomini le città sono state fondate per diversi motivi: per ricordare una persona amata, le gesta di un imperatore, la provenienza dei suoi primi abitanti, una battaglia. Non sono mai state fondate per sancire un bisogno così fortemente culturale ed esistenziale quale la possibilità di imparare a parlare una lingua e praticarla. In effetti, la costruzione di questa città (a più di cento anni dal Congresso di Milano) rappresenta un risarcimento, la materializzazione di un’utopia e una grande scommessa. Basta seguire il testo per scoprire perché potrebbe incarnare queste tre cose messe insieme. Il primo capitolo è dedicato ad una breve ricostruzione storica dello statuto giuridico e della considerazione socio-culturale in cui nel passato venivano tenuti i sordi. È qui che ci viene ricordato che il Corpus Iuris Civilis promosso nel 531 da Giustiniano (che nel 529 aveva chiuso la scuola filosofica di Atene) priva i sordi di alcuni diritti fondamentali: quelli di “fare testamento, di stipulare contratti, di rendere testimonianza” (p. 18). Un contributo in questa direzione è ascrivibile al più importante tra i pensatori della patristica, Agostino, il quale nel Contra Iulianum “sottolinea che la sordità è un male perché può comportare una mancanza di fede” (p. 19) e questo malgrado il fatto che nel De Quantitate Animae avesse scritto di aver visto “un sordomuto in grado di esprimersi compiutamente attraverso la lingua dei segni” (p. 19). È noto che esiste qualche sporadica presa di posizione a favore della possibilità di “apprendere il Vangelo attraverso i segni” (San Gerolamo). Tuttavia, Tommaso Russo Cardona ricorda giustamente che “la consapevolezza dell’esistenza di una comunicazione gestuale in segni” resta molto poco diffusa. Al contrario, “sembra che nel Medioevo l’atteggiamento prevalente sia quello di considerare i sordi alla stregua di molte altre figure ai limiti del mondo sociale, come gli ammalati cronici, i mendicanti, ma anche ai limiti di quello della fede, come i saltimbanchi e i guitti che praticano la pantomima”. Questo vuol dire che possiamo senz’altro affermare che tra il Corpus Iuris Civilis e il Rinascimento, la condizione dei sordi e la considerazione della lingua gestuale

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resta sostanzialmente invariata. È solo quando lo “stretto contatto” (p. 20) tra medicina, filosofa neoplatonica e alchimia fanno in modo che si torni “a riflettere sul ruolo dei sensi per la conoscenza” che finalmente si suggerisce che la vista potrebbe “sopperire alle carenze dell’udito, anche nei sordi dalla nascita” (p. 20). Bisogna dire, tuttavia, che in questa primissima fase di riflessione sulla sordità non si pensava ancora alla possibilità che i sordi potessero avere una loro lingua ‘emancipata’ da quella degli udenti. Si pensava, per lo più, a fornire a singoli sordi la possibilità di accedere ai rudimenti della scrittura e della lettura nonché all’uso di alcuni semplici vocaboli. A tal proposito, c’è da tenere conto che in moltissimi di questi casi gli interventi erano destinati a figli di famiglie aristocratiche presso le quali la presenza di un sordo rischiava di interrompere l’asse ereditario dacché all’epoca erano ancora in vigore norme che escludevano i sordi dal “diritto di ereditare o fare testamento” (p. 21). È a partire da ciò che si spiega come mai la storia della pedagogia ‘speciale’ per sordi sia caratterizzata da tecniche educative finalizzate ad indurre produzione di suoni vocali, vale a dire comportamenti linguistici che potessero essere approvati dagli udenti e dalla cultura logocentrica di cui eravamo e siamo profondamente intrisi. È così tanto per Juan Pablo Bonet in Spagna quanto per Conrad Amman, autori rispettivamente delle due più importanti opere di riferimento del nascente oralismo: Reduccíon de las letras y arte para enseñar a hablar a los mudos (1620) e Surdus loquens. Sarà così a lungo e a più riprese. È così ancora oggi, era di impianti cocleari, fragorosomente definiti ‘orecchio bionico’. Ci fu un momento, tuttavia, in cui ciò che mai i sordi avevano potuto dire venne semplicemente detto e fatto dal protagonista di quella che può essere definita la prima grande rivoluzione pedagogica della storia: l’abate CharlesMichel de l’Épée. Siamo nella Parigi pre-rivoluzionaria, nella Parigi dei grandi filosofi illuministi, dei filosofi dai libri messi al bando dalla Sorbona, nella Parigi in cui il pluricensurato (e anche più volte chiuso alla Bastiglia) Denis Diderot aveva dedicato un testo filosofico alla cecità (Lettera sui ciechi ad uso di coloro che vedono, 1746) ed uno alla sordità (Lettera sui sordi ad uso di coloro che sentono e che parlano, 1751). È in questo clima che L’Épée, già inviso alla Chiesa per la sua simpatia nei confronti del giansenismo, si imbatte in due giovani gemelle sorde fino a quel momento affidate ad un suo confratello. È questa l’occasione in seguito alla quale egli comincia ad occuparsi in maniera più estesa di educazione di sordi. Si installa praticamente nella sua casa di famiglia insieme ai suoi primissimi allievi e tiene lezioni pubbliche e gratuite. Bisogna dire che le sue lezioni attiravano non solo i sordi, ma praticamente tutta Europa. Da l’Épée si reca Giuseppe II, imperatore di Germania, il nunzio del Papa, numerosi istitutori, filosofi, intellettuali. Per la prima volta nella storia

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qualcuno aveva semplicemente ‘ascoltato’ i sordi: “L’Épée aveva cominciato a sviluppare il suo metodo quando alla fine degli anni cinquanta era divenuto precettore di due allieve sorde: due sorelle le quali avevano sviluppato da sole una complessa forma di comunicazione gestuale. De l’Épée era rimasto colpito dalle possibilità comunicative e dalla rapidità di apprendimento di queste due piccole allieve e aveva cominciato a pensare che i segni sviluppati naturalmente dai sordi potessero essere d’ausilio nell’educazione. (…) L’intuizione di l’Épée è appunto che al bambino sordo debba essere data una via di accesso naturale ai contenuti della comunicazione che gli permetta innanzitutto di uscire dall’isolamento e di sviluppare le proprie conoscenze” (pp. 25-26). Nasce così il segnismo e quella prima scuola per sordi a cui lo stesso Luigi XVI assegna una sede ed un contributo finanziario (1785) e del cui futuro si occuperà direttamente l’Assemblea dei rappresentanti della Comune di Parigi dichiarandola “Istituto Nazionale” (1791) non senza che l’Épée fosse menzionato tra i cittadini benemeriti della patria e dell’umanità. I successi politici e culturali di L’Épée e della sua scuola non salvarono i sordi e la loro lingua da una nuova e più feroce ondata di normalizzazione. Nel 1880, il Congresso internazionale che riunisce le grandi scuole per sordi, bandisce la lingua dei segni da ogni ordine e grado di istruzione nonché sancisce il divieto di utilizzarla al di fuori delle scuole. Principali promotori del congresso tre italiani (Giulio Tarra, Serafino Balestra e Tommaso Pendola) i quali motivarono la loro battaglia antisegnista con la “difficoltà di catechizzare le persone sorde” (p. 28) e trovarono nell’ossessione di influenti personaggi quali Alexander Bell secondo il quale l’utilizzo di una lingua dei segni avrebbe favorito la nascita di una “razza sorda del genere umano”, il terreno favorevole alla diffusione del loro punto di vista anche negli Stati Uniti dove, per un momento, era sembrato che “la svolta oralista” potesse essere “in parte arginata” (p. 29). È importante a questo punto ricordare quello che mette in evidenza Tommaso Russo Cardona: “La lettura in chiave ‘razziale’ della contrapposizione tra oralismo e manualismo non è che la più evidente manifestazione della confusione profonda a proposito del ruolo della comunità sorda, del suo statuto intermedio tra condizione biologica e dimensione socioculturale e svela, ancora una volta, i timori che da sempre questa condizione di ‘diversità’ suscita nei sostenitori dell’ordine costituito” (p. 29). La storia dei sordi fin qui brevemente ricostruita spiega alcune delle caratteristiche interne delle lingue dei segni le quali, malgrado l’accanimento di cui sono state destinatarie, hanno continuato a vivere ed oggi assommano a 114. Alcune sono piccoli mondi, vengono adoperate da comunità linguistiche il cui numero dei segnanti è estremamente ridotto. È questo il caso dell’Adomorobe Sign Language, una lingua dei segni parlata in un villaggio del Ghana da solo

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300 segnati nativi. Diverso è il caso dell’American Sign Language, utilizzato da circa 500.000 persone (p. 33). Come ogni sopravvissuto, le lingue dei segni portano in sé il marchio delle difficili condizioni in cui hanno dovuto farsi spazio. Estremamente difficoltosa resta oggi la possibilità di individuare i loro rapporti genealogici. Una certezza: “le relazioni tra varietà segnate sono del tutto autonome rispetto a quelle tra le lingue parlate nei paesi corrispondenti” (p. 33). Passando dalla diacronia alla sincronia, c’è da rilevare che le lingue dei segni restano oggi debolmente standardizzate. Una spiegazione di questo fenomeno risiede nella “mancanza di una forma di scrittura” (p. 33), ma altresì nel fatto che esse non sono mai diventate un veicolo anche parziale di informazione. Del resto, Tommaso Russo Cardona ricorda che processi di omogeneizzazione si sono realizzati laddove, ad esempio, esistono trasmissioni televisive in lingua dei segni o istituzioni culturali e di formazione in cui essa è utilizzata per l’insegnamento e, quindi, per gli scambi interpersonali e per il normale svolgimento della vita (p. 33). È questo ciò che è avvenuto negli Stati Uniti grazie alla Gallaudet University e ciò spiega perché “il grado di omogeneizzazione linguistica è diverso per le lingue dei segni, di paese in paese” (p. 33). Da questo punto di vista un fattore importante di cui tenere conto è la “composizione interna delle comunità linguistiche sorde” (p. 34), nonché le condizioni in cui prende il via l’apprendimento di una lingua dei segni. C’è da tenere in considerazione il fatto che esse sono composte da individui che hanno competenze linguistiche estremamente differenziate e che per la maggior parte di loro (più del 90%) la lingua dei segni è un’acquisizione tardiva e sicuramente successiva ai primissimi anni di vita. Pochissimi sono i sordi figli di sordi e, quindi, pochissimi sono i sordi che entrano in contatto con la lingua dei segni come con una qualsiasi lingua madre (p. 34). Tuttavia, nuove lingue dei segni emergono dovunque ci sia la possibilità che si formi “una comunità linguistica abbastanza ampia perché la lingua diventi un veicolo di comunicazione condiviso” (p. 34), ovvero in qualsiasi parte del mondo “bambini ed adulti sordi si trovino insieme e possano socializzare” (p. 35). Come opportunamente ricostruisce Tommaso Russo Cardona, il “complesso fenomeno” delle lingue emergenti dei segni dipende da due condizioni diverse: il grado di coinvolgimento della comunità sorda e la forma in cui la comunità udente incoraggia lo sviluppo della comunicazione segnata (p. 35). Egli descrive tre casi considerati paradigmatici: il caso del Nicaraguan Sign Language (NSL), quello dell’Al Sayyd Bedouin Sign Language (ABSL) e quello delle Línguas de Sinais Primárias (LSP) dei sordi brasiliani. Estremamente interessante sono le circostanze in cui è nato l’Al Sayyd Bedouin Sign Language (ABSL) e la sua “comunità segnante integrata” (p. 37). Ci troviamo di fronte al caso di una lingua adoperata all’interno di una comunità in cui specifiche condizioni

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biologiche e storiche hanno fatto sì che il numero di persone sorde sia superiore alla media degli altri paesi occidentali (4,28% contro lo 0,01%). Tale circostanza ha finito per indurre (anche grazie a matrimoni misti) la diffusione della lingua segnata fra gli udenti i quali, a loro volta, divenendo parte costitutiva della comunità segnante, hanno contribuito al processo di standardizzazione e omogeneizzazione linguistica. Opposta a questa, ma altrettanto significativa, è la congiuntura in cui sono emerse le Línguas de Sinais Primárias (LSP) le quali dimostrano che nel caso un numero ridotto di sordi si trovi nelle condizioni di dover comunicare con una comunità di udenti, quelli sviluppano “strutture grammaticali autonome e complesse riadattando i materiali comunicativi gestuali che condividono con gli udenti e modificando le loro forme di comunicazione” (p. 37). Il Nicaraguan Sign Language (NSL) ha, invece, una storia spiegabile a partire dai ‘vantaggi’ dell’educazione speciale per sordi. Fino a quando, infatti, sono esistite scuole specificamente dedicate ai sordi, sono esistiti posti in cui i sordi non vivevano isolati. Questo ha fatto sì che, anche nel periodo in cui tali istituti puntavano sull’apprendimento della lingua parlata, “i bambini utilizzavano la loro competenza gestuale per creare delle forme linguistiche” (p. 35). Originariamente “influenzate dalla gestualità degli udenti e dalle caratteristiche grammaticali dello spagnolo letto sulle labbra” (pp. 35-36), nel tempo essi hanno contribuito a fare emergere “una lingua dei segni nicaraguense condivisa da un numero piuttosto ampio di segnanti” (p. 36) in cui le “le strutture lessicali e grammaticali create dalla prima generazione di segnanti si sono evolute e stabilizzate in forme nuove, raggiungendo un equilibrio nell’arco di un paio di generazioni” (ibid.). Interessante a questo proposito la conclusione a cui giunge l’autore: “I sordi sembrano, quindi, riuscire a sviluppare un lessico in segni e anche forme rudimentali e via via più complesse di sintassi sulla base di un processo di convenzionalizzazione e di adattamento di tutti i materiali comunicativi a loro disposizione. In particolare, una volta che si sviluppa un lessico abbastanza ampio, le prime forme grammaticali e sintattiche emergono spontaneamente. Questo processo nasce dai bisogni comunicativi e si esplica quando i sordi sono in contatto tra loro o con persone udenti. L’intreccio tra predisposizioni biologiche alla comunicazione e dimensione sociale si rivela così fondamentale e, soprattutto, dinamico, ovvero mutevole a seconda del tipo di interazioni e in relazione a ciò che si comunica” (p. 38). Questo spiega perché quando si cerca di stabilire sulla base di quali elementi sia possibile (e per la verità anche necessario) parlare di “appartenenza di una persona alla comunità dei sordi” (p. 39), fermo restando che “il primo strumento di identificazione delle persone sorde” è la lingua dei segni (p. 41), si è contestualmente obbligati ad ancorarsi da una parte al fatto biologico del-

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l’essere sordi e dall’altra alla “distanza dal mondo udente”. Tommaso Russo Cardona ha definito questa distanza in termini di “abitudini, usi e costumi che uniscono i sordi tra loro” nonché di “oggettive difficoltà a usufruire dei servizi sociali e a integrarsi economicamente” (p. 39). Come che sia, la lingua dei segni, nata da un ‘artificio’ che all’origine aveva visto un codice gestuale ‘incarnarsi’ in una grammatica per lingua verbale, storicizzandosi si naturalizza e diventa una lingua vera e propria. E la lingua, come ci ricorda l’autore, ha di straordinario proprio questo: è tenace, attraversa il tempo e lo spazio sapendo che per rimanere sempre se stessa deve essere capace di mescolarsi a tutto: “Una lingua, in particolare, si differenzia da altri sistemi comunicativi non linguistici, come la pantomima o i segnali stradali, per il suo alto grado di sistematicità e per la sua apertura al mutamento nel corso del tempo, nello spazio e in relazione alle esigenze comunicative dei parlanti. Inoltre ogni lingua è una forma di comunicazione e di azione pervasiva che investe la vita di ciascuno, in ogni momento e in tutte le attività sociali che ci caratterizzano” (p. 49). L’attento studioso di teorie linguistiche che è stato Tommaso Russo Cardona ci ricorda che le lingue dei segni – come tutte le lingue verbali – sono caratterizzate da sistematicità, variabilità, arbitrarietà, iconicità e doppia articolazione (pp. 53-65). Prive di scrittura, esse restano scarsamente standardizzate e omogeneizzate e divengono luogo di proliferazione di “varietà e dialetti segnati” (pp. 54-55). Interessanti sono le osservazioni relative al ruolo dell’iconicità la quale “non si contrappone, ma convive con il carattere sistematico della lingua” (p. 75). A questo proposito è messo opportunamente in rilievo che nelle strutture discorsive tipiche del segnato, l’iconicità può emergere in “forme che sono spesso ‘produttive’ e sono legate dinamicamente ai processi di comprensione” (p. 81). È così che scopriamo che costruzioni segnate dotate di iconicità discorsiva sono significativamente presenti nel testo poetico (53,4% di costruzioni segnate), ridotte nelle libere narrazioni (43%) e limitate nella varietà formale usata in occasione di conferenze (pp. 81-82). Dato il carattere visivo-gestuale delle lingue dei segni, i rapporti tra iconicità e arbitrarietà sono “diversi rispetto a quelli presenti nelle lingue vocali” (p. 92). In particolare, Tommaso Russo Cardona, dopo aver evidenziato che tale caratteristica dipende dalla “strutturazione interna del sistema linguistico” e dai suoi utenti (pp. 92-93), mostra un particolare interesse per l’ipotesi secondo cui la pervasività di tratti iconici nella lingua dei segni sia anche da attribuire alla sua base neuropsicologica. In effetti, studi recenti sui fondamenti biologici del linguaggio hanno dimostrato che i segnanti utilizzano l’area di Broca nello stesso modo in cui viene utilizzata dai parlanti, vale a dire per produrre quello speciale tipo di movimenti volontari che sono i segni di una lingua. Allo stesso tempo, Tommaso Russo Cardona attira l’attenzione sul fatto

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che nel corso delle loro prestazioni linguistiche i segnanti “sembrano evidenziare un maggior coinvolgimento dell’emisfero destro e mostrano abilità particolari per tutti i compiti legati alla percezione visiva” (p. 93). Contestualmente questi si rifà agli studi sui neuroni specchio i quali – come è noto – si attivano (nei primati e negli umani) quando viene compiuto o osservato un comportamento, nella fattispecie un atto motorio, intenzionale. Essi si attivano, cioè, quando una scimmia afferra o osserva un suo simile afferrare un oggetto con un certo fine (manipolarlo, spostarlo, mangiarlo, etc.) piuttosto che quando un umano compie o osserva qualcuno compiere gesti di tipo analogo, compresa la produzione di segni nella sua versione parlata e segnata. È interessante constatare che a questo punto viene messo l’accento sul fatto che i neuroni specchio caratterizzano l’attività di quelle aree cerebrali che nell’uomo si specializzeranno in prestazioni linguistiche ma la cui attività riguarda la produzione e, quindi, “la percezione visiva di azioni di manipolazione” (p. 93). Andando più nello specifico, Tommaso Russo Cardona ribadisce che essi sono in azione “non solo nella produzione e nella percezione di azioni manuali dotate di significato, ma anche nel caso di movimenti labiali” (p. 94). Il forte interesse fin qui dimostrato da quest’ultimo per la serie di studi neuroscienfici che abbiamo evocato, è spiegabile anche attraverso il fatto che egli teneva molto a contribuire ad una linguistica “incarnata”, ad uno studio del linguaggio in cui si sia capace di tenere conto del “diverso accesso sensoriale alla realtà” e della diversità dei “mezzi di espressione”. Teneva altresì molto a ricordare che proprio lo studio delle umiliate lingue dei segni può concorrere a rilanciare la suggestiva ipotesi di Leroi-Gourhan secondo la quale esiste un legame tra “origine del linguaggio e attività manipolative e strumentali” (p. 94) e, quindi, tra evoluzione e prassi. Da questo punto di vista le lingue dei segni possono a giusto titolo essere considerate come “un sistema comunicativo inscritto nel nostro codice genetico, vestigia delle prime forme di comunicazione, che si realizza come ‘prima’ lingua, oggi, solo nelle persone sorde” (p. 94). Un testo denso e appassionato come quello che Tommaso Russo Cardona è riuscito a lasciarci (insieme ad altri due per ora non pubblicati) prima che il suo viaggio nella vita e nella filosofia del linguaggio fosse interrotto dalla malattia, non poteva che approdare alla poesia. Del resto, come potrebbe una lingua ‘orale’ come quella dei segni non avere i suoi rapsodi? Come potrebbe una lingua che probabilmente è stata la lingua originaria del genere umano non essere anche ritmo, armonia? Più specificamente, Tommaso Russo Cardona analizza finemente Orologio, una poesia in Lingua Italiana dei Segni composta da Rosaria Giuranna, poetessa sorda siciliana. Il tema è il tempo quale dimensione che influenza e limita i rapporti tra le persone. È un tema che ha “molto a che fare con la cultura sorda” in quanto la “temporalità è vista in relazione

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alla possibilità di condividere la dimensione sociale, in una comunità frammentata dove gli incontri e le possibilità di relazione sono limitati” (p. 105). Se ripercorriamo quanto pazientemente ricostruito impariamo molte cose. Impariamo che “l’espressione poetica in lingua dei segni” adopera “procedimenti linguistici paragonabili a quelli tipici delle lingue vocali, come il metro, la rima, la versificazione, anche se nella forma specifica di questo tipo di comunicazione visivo-gestuale” (p. 96) e che “le forme create dalla mani si compongono armoniosamente come in una danza” (p. 103). Impariamo altresì che nei componimenti poetici segnati il ruolo giocato nelle lingue vocali dall’intonazione, dall’iperarticolazione delle parole, dall’accento e dalla quantità vocalica è svolto dallo spazio, dal rapporto tra le mani e gli articolatori non manuali, dalla simmetria tra le due mani e dal rapporto interno tra il movimento e gli altri parametri formazionali. Impariamo, soprattutto, che “esiste una radice comune a segni e parole” (p. 116) e che attraverso il filtro delle lingue dei segni è possibile “riflettere sui tratti universali del linguaggio poetico” (p. 96). Virginia Volterra, che chiude il libro con un interessante capitolo dedicato all’apprendimento della lingua dei segni, non manca di dedicare una riflessione specifica proprio al ruolo rivestito del gesto nell’origine e nell’apprendimento del linguaggio verbale. Ella ricorda che importanti studiosi hanno sostenuto, anche di recente, che “la prima forma di comunicazione, il protolinguaggio, era sostanzialmente costituita da componenti manuali accompagnati da espressioni facciali” ai quali successivamente si sarebbe aggiunta, e non sostituita, la produzione di suoni e l’articolazione vocale. La sintassi, al canto suo, sarebbe nata “dai e con i gesti” e successivamente si sarebbe trasferita nella lingua vocale” (pp. 118-119). Passando dalla filogenesi all’ontogenesi, Virginia Volterra ricorda che nel momento in cui il “bambino comincia ad utilizzare le prime parole, a circa un anno di età, già in qualche modo sa comunicare attraverso comportamenti sia gestuali (…) che vocali” e che “gli elementi gestuali del primo repertorio comunicativo dei bambini sono molto più comprensibili rispetto a quelli vocali” (p. 120). Più specificamente, in una fase comunicativa iniziale i bambini udenti normalmente esposti alla lingua parlata sembrerebbero prediligere la modalità gestuale ed è solo attorno ai due anni che “la modalità vocale prevale rispetto a quella gestuale” (p. 125). Insomma, tanto l’ontogenesi quanto la filogenesi suggeriscono che nulla impedirebbe ai bambini sordi di imparare da subito e con gli stessi risultati e ritmi dei loro coetanei udenti una lingua dei segni. Eppure sappiamo che non è stato e non è questa la metodologia normalmente seguita. Generazioni e generazioni di sordi prelinguistici sono stati obbligati a forzare i loro limiti biologici e ‘mimare’ suoni che non erano in grado di ascoltare e che mai avrebbero potuto dare vita ad un atto di parole. È l’era degli istituti speciali nei quali inse-

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gnanti ed assistenti si mostravano per lo più orgogliosi di “non utilizzare i segni con i bambini” e si dichiaravano convinti del fatto che “solo parlando” li avrebbero “indotti (…) ad utilizzare la voce” (p. 127). Essendo queste le condizioni, a quanto pare peggiorate dalla nascita delle classi speciali in scuole ordinarie e dall’inaugurazione del cosiddetto regime del sostegno (p. 131), come le lingue dei segni abbiano fatto a sopravvivere è quasi un mistero. Sta di fatto che negli ultimi quindici anni la situazione sembra, almeno in parte, modificata: una legge del 1992 (L. 104) permette di richiedere un assistente alla comunicazione per chiunque (dal nido alla scuola superiore) conosca e utilizzi la LIS (p. 133). Alcune scuole hanno sperimentato modelli di educazione bilingue italiano-LIS il cui fine è far sì che bambini sordi ed udenti imparino “insieme in un ambiente bilingue e biculturale” (p. 136). Molto interessanti sono, infine, le esperienze di insegnamento dei segni a bambini udenti le quali dimostrano che questi “imparano con estrema facilità la lingua dei segni come seconda lingua” (p. 138) e che il suo apprendimento “può contribuire (…) allo sviluppo di abilità quali l’attenzione e la memoria visiva” (p. 139). DONATA CHIRICÒ

Bollettino Filosofico DIPARTIMENTO DI FILOSOFIA, UNIVERSITÀ DELLA CALABRIA Direttore: Mario Alcaro Il Bollettino Filosofico è un annuario fondato nel 1978 dal personale docente del Dipartimento di Filosofia dell’Università della Calabria. I numeri hanno di volta in volta un curatore e un comitato di redazione scelto dal curatore. Ogni numero prevede ordinariamente due sezioni principali: una monografica e una sezione a tema libero in cui possono apparire saggi brevi e note critiche. Una terza sezione di “Recensioni” accoglie la segnalazione di libri, saggi e Atti di convegni. Si collabora soltanto dietro invito del curatore o dei suoi redattori.

Norme editoriali per gli autori Gli autori che intendono collaborare con il Bollettino Filosofico devono tenere conto delle seguenti norme editoriali: 1. L’ampiezza del contributo Gli articoli della sezione monografica non devono superare le 50.000 battute. I saggi brevi e le note critiche della seconda sezione non devono superare le 30.000 battute. Le recensioni non devono superare le 15.000 battute. Il curatore di ogni numero si riserva di apportare delle modifiche nello stile o nel contenuto del contributo, ove lo ritenga necessario. In rapporto alla loro entità, tali modifiche potranno essere comunicate all’autore in corso d’opera o nel primo turno di bozze. Prima della tiratura di stampa, sono previsti due turni di bozze. Gli articoli possono essere inviati (in copia cartacea più un file su dischetto o CD–rom) al seguente indirizzo: Bollettino Filosofico — Dipartimento di Filosofia, Università della Calabria — Cubo 18/c, 87036 Arcavacata di Rende (CS). Gli articoli vanno sottoposti alla redazione nella seguente forma: Documento WORD per WINDOWS. Tipo di carattere: Perpetua 11.5 (per il testo) e 9,5 (per le note a pie’ di pagina), pagina standard, interlinea 1. 2. Le indicazioni bibliografiche Le indicazioni bibliografiche vanno fornite prevalentemente nelle note a pie’ di pagina. L’autore è libero di scegliere tra due diverse forme di citazione bibliografica: 1) senza bibliografia finale; 2) con bibliografia finale. 595

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2.1. Indicazioni bibliografiche senza bibliografia finale: a) le indicazioni relative a libri presentano nome e cognome dell’autore in maiuscoletto, titolo completo dell’opera, e i dati di edizione disposti nel seguente ordine: luogo di pubblicazione, editore, anno di pubblicazione, ed eventuale indicazione delle pagine citate. STEPHEN GAUKROGER, JOHN SCHUSTER, JOHN SUTTON (eds.), Descartes’ natural philosophy, London–New York, Routledge, 2000. DAVID BEHAN, “Descartes and formal signs”, in STEPHEN GAUKROGER, JOHN SCHUSTER, JOHN SUTTON (eds.), Descartes’ natural philosophy, London– New York, Routledge, 2000, pp. 528–541. RENÉ DESCARTES, Oeuvres, a c. di C. Adam e P. Tannery, 11 voll., Paris, CNRS, 1974–86, vol. I, p. 158. L’autore del contributo è libero di citare i libri abbreviando il nome degli autori citati con la sola iniziale del nome o dei nomi (es. A.R. HALL). In questo caso dovrà sempre rispettare tale norma. b) le indicazioni relative ad articoli contenuti in periodici o riviste presentano il nome e cognome dell’autore in maiuscoletto, il titolo dell’articolo in tondo in inglesine doppie, il titolo del periodico in corsivo, l’annata in carattere arabo o romano e tondo, l’anno solare in parentesi tonda, l’eventuale numero del fascicolo, il numero delle pagine complessive dell’articolo o la/e pagina/e citata/e. PAMELA A. KRAUS, “From universal mathematics to universal method”, Journal of the History of Philosophy 27 (1983) 3, pp. 159-174. c) Le citazioni bibliografiche successive possono essere abbreviate indicando l’iniziale del nome dell’autore seguita dal cognome, il titolo dell’opera (ove possibile, abbreviata), l’indicazione “cit.” (in tondo), seguita eventualmente dai numeri di pagina. Nel caso in cui la citazione successiva riguardi l’unica opera citata dell’autore, basterà indicare, oltre al nome, l’espressione “op. cit.” (in corsivo), seguita dall’eventuale citazione della pagina. R. DESCARTES, Oeuvres, cit., p. 159. oppure: R. DESCARTES, op. cit., p. 159. R. DESCARTES, trad. it. cit. (nel caso di citazione da traduzione italiana).

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d) Quando si cita di seguito la stessa opera citata nella nota precedente, è sufficiente l’indicazione “Ivi” (in tondo), nel caso in cui si citi una pagina diversa dalla precedente, o “Ibid.” (in corsivo), nel caso in cui si citi la stessa pagina della nota precedente. e) Le citazioni di testi si scrivono usando i caporali (« ») o le inglesine doppie (“ ”). Per la citazione di singole espressioni o di espressioni gergali o reiterate si usano le inglesine doppie (“ ”). Le inglesine singole (‘ ’) si usano nel caso in cui l’espressione usata abbia valore metaforico, e un significato diverso da quello in uso. f) Nel caso di citazione di passi che contengano al loro interno delle citazioni, si useranno le inglesine doppie per queste ultime. g) Le citazioni molto lunghe (che superino le tre–quattro righe) possono essere separate dal testo, lasciando un’interlinea singola prima e dopo, con margini 0,5 a destra e a sinistra. Il corpo delle citazioni separate deve essere di 10 pt. 2.2. Indicazioni bibliografiche con bibliografia finale: a) La bibliografia finale va compilata seguendo le indicazioni sopra citate dei libri e degli articoli, con la differenza dello spostamento dell’anno di pubblicazione dopo il nome e cognome dell’autore e (nel caso di articolo di rivista) dell’inserimento in parentesi tonda dell’eventuale numero del fascicolo: STEPHEN GAUKROGER, JOHN SCHUSTER, JOHN SUTTON (2000, eds.), Descartes’ natural philosophy, London–New York, Routledge. DAVID BEHAN (2000), “Descartes and formal signs”, in GAUKROGER, SCHUSTER, SUTTON (2000), pp. 528–541. PAMELA A. KRAUS (1983), “From universal mathematics to universal method”, Journal of the History of Philosophy 27 (3), pp. 159–174. RENÉ DESCARTES (1974-86), Oeuvres, 11 voll., a c. di C. Adam e P. Tannery, Paris, CNRS. b) Nelle note a pie’ di pagina, i libri e gli articoli rispettivamente citati vanno compilati in forma abbreviata, indicando solo il cognome dell’autore in maiuscoletto, l’anno di pubblicazione e le eventuali pagine citate in parentesi tonda. GAUKROGER, SCHUSTER, SUTTON (2000). BEHAN (2000, pp. 528–541). DESCARTES (1974–86, vol. I, p. 158).

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c) Nel caso in cui siano citate dello stesso autore più opere pubblicate nello stesso anno solare, esse andranno distinte sia nelle note a piè di pagina che nella bibliografia finale con le lettere dell’alfabeto in apice. BEHAN (2000a, pp. 528–541). BEHAN (2000b, pp. 132–145). In entrambe le modalità di citazione bibliografica, l’autore potrà fare uso, se lo riterrà opportuno, di abbreviazioni delle opere citate. Tali abbreviazioni dovranno tenere conto delle eventuali sigle entrate nel comune uso da parte degli studiosi (es.: “AT” per l’edizione Adam–Tannery delle opere di Descartes, “OL” per l’edizione Molesworth dell’opera latina di Hobbes ecc.). L’uso di sigle o di abbreviazioni deve rispettare criteri di massima brevità. 3. Uso dei trattini Il Bollettino Filosofico usa tre tipi di trattini: — breve (-), per andare a capo. Questo tipo di trattino è a cura della redazione, perché riguarda la sillabazione del documento. — medio o di congiunzione (–), per le parole composte, per le parole doppie, per le elencazioni e per indicare “da–a” (es.: pp. 2–24); — lungo (—), per gli incisi. 4. Margini e paragrafi È previsto l’uso dei seguenti margini: superiore 2,5; sinistro 2,5; inferiore 3,6; destro 3,5. Ogni paragrafo deve avere un rientro di 0,5. Lo stesso rientro deve essere applicato nelle note a pie’ di pagina. 5. Immagini L’eventuale inserimento di immagini deve tenere conto di alcuni criteri grafici. L’immagine deve essere fornita in formato JPEG o TIFF, con risoluzione minima 300 dpi, selezione cromatica grayscale. 6. Termini greci Nell’uso di fonts in greco antico protetti da copyright, e non compresi nei più comuni programmi di scrittura (symbol, grk, ecc.), l’autore dovrà impegnarsi a fornire copia del programma originale al curatore del Bollettino; o, in alternativa, traslitterare in corsivo i termini greci. L’uso di programmi non protetti da licenza potrebbe dare dei problemi di conversione nel formato pdf richiesto per la stampa.

Finito di stampare nel mese di gennaio del 2009 dalla tipografia « Braille Gamma S.r.l. » di Santa Rufina di Cittaducale (Ri) per conto della « Aracne editrice S.r.l. » di Roma CARTE: Copertina: Digit Linen 270 g/m2; Interno: Usomano bianco Selena 80 g/m2 ALLESTIMENTO: Legatura a filo di refe / brossura Stampa realizzata in collaborazione con la Finsol S.r.l. su tecnologia Canon Image Press

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