Castelnuovo Ginzburg Centro e Periferia
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Centro e periferia di Enrico Castelnuovo e Carlo Ginzburg
Storia dell’arte Einaudi
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Edizione di riferimento:
in Storia dell’arte italiana, I. Materiali e problemi, 1. Questioni e metodi, a cura di Giovanni Previtali, Einaudi, Torino 1979, 1981, 1994
Storia dell’arte Einaudi
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Indice
1. Periferia e provincia
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2. Il caso italiano
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3. La «Storia» del Lanzi
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4. Storia artistica e distribuzione geografica
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5. Città capitali e città suddite
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6. Concorrenza e società civile
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7. Gli squilibri territoriali
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8. Questioni di lunga durata
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9. La dislocazione dei centri artistici
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10. Le città comunali
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11.
Centri di innovazione e aree di ritardo
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12. Periferizzazione e declassamento
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13. Vasari
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14. Fine del policentrismo e nascita della «terza maniera»
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15. Un caso esemplare: l’Umbria
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16. Riflusso e ritardo in periferia
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17. Ritardo periferico o ritardo di metodo?
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18. Periferia come scarto
56
19. La resistenza al modello
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20. Modello e nuovo paradigma
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21. L’alternativa di Avignone
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22. Le regioni di frontiera
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Indice
23. L’esilio del Lotto
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24. Urbino e Barocci
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25. Il Seicento e il Settecento
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26. Centro e periferia, persuasione e dominazione
74
27. La dominazione simbolica
76
28. La dinamica delle opere
79
29. La dinamica degli artisti
81
30 La dinamica dei committenti
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31. La Chiesa dopo Trento
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32. I conti con l’Europa
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1. Periferia e provincia. Periferia, o provincia? Forse è meglio parlare di periferia, termine piú neutro, meno carico di implicazioni valutative. Ma anche l’apparente neutralità del termine «periferia» non è priva di trabocchetti. È stato un geografo a scrivere, a proposito dell’opposizione paradigmatica centro/periferia, che quest’ultimo termine va inteso come un’«allegoria nello stesso tempo spaziale e politica»1. Ma qual è il peso rispettivo di questi elementi? In quale sistema s’inseriscono di volta in volta le coppie, piuttosto complementari che antitetiche, centro/periferia? Queste domande, evidentemente cruciali per i geografi, potrebbero esserlo altrettanto per gli storici dell’arte2. Ma c’è il rischio di sentirsi dare la risposta un po’ disarmante contenuta nelle parole di Sir Kenneth Clark: La storia dell’arte europea è stata, in larga misura, la storia di una serie di centri da ciascuno dei quali si è irradiato uno stile. Per un periodo piú o meno lungo questo stile ha dominato l’arte del tempo, è divenuto di fatto uno stile internazionale, che al centro era uno stile metropolitano e diveniva sempre piú provinciale quanto piú raggiungeva la periferia. Uno stile non si sviluppa spontaneamente in un’area vasta. È la creazione di un centro, di una singola unità da cui
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proviene l’impulso, che può essere piccola come la Firenze del xv secolo o grande come la Parigi dell’anteguerra, ma che ha la sicurezza e la coerenza di una metropoli3.
Se il centro è per definizione il luogo della creazione artistica, e periferia significa semplicemente lontananza dal centro, non rimane che considerare la periferia sinonimo di ritardo artistico, e il gioco è fatto. Si tratta, a ben vedere, di uno schema sottilmente tautologico, che elimina le difficoltà anziché cercare di risolverle. Proviamo invece ad accogliere i termini «centro» e «periferia» (e i relativi rapporti) nella loro complessità: geografica, politica, economica, religiosa – e artistica. Ci accorgeremo subito che ciò significa porre il nesso tra fenomeni artistici e fenomeni extrartistici sottraendosi al falso dilemma tra creatività in senso idealistico (lo spirito che soffia dove vuole) e sociologismo sommario. Ma la rilevanza di uno studio del genere non è soltanto metodologica. Considerato in una prospettiva polivalente il rapporto tra centro e periferia apparirà ben diverso dalla pacifica immagine delineata da Sir Kenneth Clark. Non di diffusione si tratta, ma di conflitto: un conflitto rintracciabile anche nelle situazioni in cui la periferia sembra limitarsi a seguire pedissequamente le indicazioni del centro. E in un’età di imperialismi e di subimperialismi, in cui anche le bottiglie di Coca-Cola si configurano come segno tangibile di vincoli non solo culturali, il problema della dominazione simbolica, delle sue forme, delle possibilità e dei modi di contrastarla, ci tocca inevitabilmente da vicino4.
2. Il caso italiano. Per uno studio del nesso centro/periferia in campo artistico, l’Italia appare un laboratorio privilegiato. Per
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molte ragioni: anzitutto, geografiche. Ricordiamo subito i dati piú appariscenti: la lunghezza della penisola; il rapporto tra il perimetro delle coste e la superficie; la frequenza delle insenature; la presenza di due catene montuose trasversale l’una, longitudinale l’altra – come le Alpi e gli Appennini; l’abbondanza di valli e di valichi. Questi elementi hanno configurato un paesaggio quanto mai contraddittorio e diversificato. Una relativa facilità di scambi con paesi lontani è stata accompagnata da comunicazioni scarse e difficoltose tra zone interne magari vicinissime. (Ancora oggi, del resto, è piú facile andare in treno da Torino a Digione che da Grosseto a Urbino). Questa contraddizione è stata accentuata, anziché smorzata, dalla storia della penisola fin dalla tarda antichità. La presenza di una fitta rete di strade romane e di una quantità eccezionale di centri urbani, la spaccatura politica della penisola fin dalla guerra greco-gotica, hanno esaltato la diversificazione da un lato e l’abbondanza delle comunicazioni dall’altro. Fin da allora la produzione artistica in Italia era destinata a fare i conti con una fortissima tendenza al policentrismo, non solo: un policentrismo consapevole, caratterizzato il piú delle volte da molteplicità e non da mancanza di contatti. Si trattò del resto di contatti spesso più subiti che cercati: basta pensare agli imperatori d’Oriente e a quelli del Sacro Romano Impero, ai califfi arabi e ai re franchi, agli invasori ungari e ai pirati normanni. Ripensare la fisionomia della produzione artistica italiana dal punto di vista dei rapporti tra centro e periferia – sia pure soffermandosi soprattutto sulla pittura, molto meno sulla scultura, e quasi per nulla sull’architettura – significa dunque ripensare, intera, la storia d’Italia.
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3. La «Storia» del Lanzi. «E veramente – scriveva il Lanzi – la storia pittorica è simile alla letteraria, alla civile, alla sacra». La grande sistemazione proposta dal Lanzi è, per il discorso che c’interessa, un punto di partenza obbligato: se non altro perché per primo egli si distaccò dal venerando schema imperniato sulle biografie degli artisti per adottarne uno diverso, storico-geografico, che rifletteva le sue preoccupazioni di curatore della galleria granducale. Con la sua Storia pittorica il Lanzi si era proposto esplicitamente di fornire un corrispettivo della Storia del Tiraboschi: «Questo bel tratto di Paese [l’Italia] ha già, mercè del Cav. Tiraboschi, la storia delle sue lettere; ma desidera ancora quella delle sue arti». Ciò implicava, ai suoi occhi, l’individuazione di un criterio ordinatore coerente e adeguato alla materia: una qualche distinzione di luoghi, di tempi, di avvenimenti, che ne divisi l’epoche e ne circoscriva i successi; tolto via quest’ordine, ella [la storia pittorica] degenera, come le altre, in una confusione di nomi piú conducente a gravar la memoria che a illustrare l’intendimento.
Dove trovare questo filo conduttore? Non si può [...] imitare i naturalisti, che, distinte per atto di esempio le piante in piú o in meno classi, secondo i vari sistemi di Tournefort o di Linneo, a ciascuna classe facilmente riducono qualsisia pianta che vegeti in ogni luogo, aggiugnendo a ciascun nome note precise, caratteristiche e permanenti. Conviene, a fare una piena istoria di pittura, trovar modo da allogarvi ogni stile per vario che sia da tutti gli altri; né a ciò ho saputo eleggere miglior partito che tessere separatamente la storia di ogni scuola. Ne ho preso esempio da Winckelmann, ottimo artefice della storia anti-
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ca del disegno, che tante scuole partitamente descrive quante furono nazioni che le produssero. Né altramente veggo aver fatto nella sua storia de’ popoli Mr. Rollin...5.
Solo le scuole, dunque, forniscono un criterio di classificazione immune da rigidità o da schematismi, tale da poter «tessere una storia piena come l’Italia la desidera». La ricchezza della storia pittorica italiana non è riducibile all’individuazione delle maniere o alla narrazione delle biografie dei capiscuola. Ma di quali scuole precisamente si trattava? La geografia dell’Italia pittorica si precisò con lentezza nella mente del Lanzi. Il progetto originario prevedeva due volumi, che avrebbero dovuto ricalcare la divisione di Plinio in Italia superiore e inferiore: Nel primo volume io pensai di comprendere le scuole [...] dell’Italia inferiore; giacché in essa le rinascenti arti ebbero piú presto maturità; e nel secondo le scuole dell’Italia superiore, la cui grandezza apparve piú tardi.
Ma solo il primo volume fu dato alle stampe, nel 1792: esso comprendeva due scuole considerate «principali», la fiorentina e la romana, piú altre due, la senese e la napoletana, considerate «come adjacenze delle primarie»6. Nella dedica a Maria Luisa di Borbone, granduchessa di Toscana, il Lanzi avvertiva che la lavorazione, già avanzata, del secondo volume, era stata interrotta «né può riassumersi cosí presto». Ma le successive rielaborazioni, destinate a sfociare nella terza, definitiva, edizione del 18o9, sostituirono all’iniziale bipartizione un’opera piú ampia e complessa, divisa in cinque volumi (piú un sesto volume di indici)7. A ciascun volume corrispondeva (con un’eccezione importante, come vedremo subito) una delle scuole principali. Tale suddivisione s’ispirava esplicitamente a quella
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formulata al principio del Seicento da monsignor Agucchi, che di scuole, però, ne aveva menzionate soltanto quattro (lombarda, veneta, toscana e romana) ricalcate a loro volta sulle quattro «maniere de gli antichi» (attica, sicionia, asiatica e romana)8. Di «ordini, classe o vogliam dire schole» aveva parlato Giulio Mancini, prescindendo però da considerazioni di ordine geografico, per distinguere i principali indirizzi stilistici presenti a Roma attorno al 16209. E prima ancora, nel 1591, il pittore G. B. Paggi aveva visto operare in Italia «tre famose scuole di pittura, in Roma, in Firenze, e in Venezia»; e di «virtuosa scuola» aveva discorso, a metà del Cinquecento, il Cellini10. Nel definire le scuole pittoriche italiane il Lanzi s’inseriva dunque in una discussione che durava ormai da piú di due secoli. In questo arco di tempo il numero delle scuole riconosciute era via via cresciuto, sia perché centri già esistenti avevano assunto una posizione di primo piano (Bologna, Genova) sia perché la reazione municipalistica del Seicento aveva cercato di sostituire, nell’ambito della letteratura artistica, un quadro policentrico all’immagine sostanzialmente monocentrica tracciata dal Vasari. La novità del Lanzi consisteva nell’aver affiancato alle maggiori una ricca costellazione di scuole minori: in tutto, quattordici, compreso il Piemonte «che senz’avere successione di scuola sí antica come altri Stati, ha però altri meriti considerabili per esser compreso nella storia della pittura»11. Ne risultava un quadro molto piú articolato di quelli precedenti: la novità maggiore era rappresentata forse dalle cinque scuole (modenese, parmense, mantovana, cremonese, milanese) in cui veniva scomposta la generica etichetta di «scuola lombarda». Eppure si trattava pur sempre di un quadro fortemente squilibrato dal punto di vista geografico. Partiamo da una considerazione brutalmente quanti-
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tativa. Nell’edizione del 1809 della Storia pittorica la parte del leone spettava, com’era prevedibile, alle scuole maggiori (esclusa quella lombarda, per la ragione appena detta): fiorentina (300 pp.), veneta (293), romana (28o), bolognese (214). A notevole distanza seguivano: la milanese (98 pp.), la napoletana (85), la genovese (73), la senese (70), la ferrarese (64). Ancora piú distaccate la parmense (46), la cremonese (45), la piemontese e sue adiacenze (38), la modenese (35), la mantovana (25). In altre parole, la parte dedicata ai pittori dell’Italia meridionale – quella «scuola napoletana» che fin dal progetto originario del Lanzi figurava come appendice della scuola romana – costituiva non piú di un ventesimo del totale: 85 pagine su piú di 16oo complessive. Per spiegare uno squilibrio cosí appariscente bisogna ricordare anzitutto che il Lanzi non si recò mai nel Regno né nelle isole. Il suo scrupolo di conoscitore, che lo indusse a perlustrare anche zone meno ovvie come il Friuli (per non parlare di Genova o della Lombardia) per formulare il piú possibile giudizi di prima mano, si arrestò apparentemente di fronte alle difficoltà e alle fatiche di un viaggio a sud di Roma. Di questa situazione d’inferiorità il Lanzi era il primo a essere consapevole. Nell’intervallo tra la seconda edizione in tre volumi (Bassano 1795-96) e la terza, definitiva (Bassano 18o9) egli cercò di entrare in possesso di informazioni piú ampie e attendibili sulla scuola napoletana. Il 13 giugno 1801 scriveva da Bassano all’amico Bartolomeo Gamba: Vorrei avere o da lui [il cavalier Lazara] o da lei qualche buon libro della pittura napoletana e siciliana piú recente; giacché nulla ho veduto dopo Dominici12.
Ma queste ricerche non ebbero troppo successo: e il Lanzi si trovò a scontare i ritardi dell’erudizione pittorica meridionale. La sua unica fonte d’informazione per
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la scuola napoletana rimase il De Dominici (Vite dei pittori... napoletani, Napoli 1742-43), con l’aggiunta, per la Sicilia, o meglio per Messina, delle Memorie de’ pittori messinesi apparse a Napoli nel 1792 sotto il nome dello Hackert, ma redatte in realtà da un erudito locale, il Grano. Dal De Dominici il Lanzi volle prendere le distanze con una vera e propria stroncatura, in cui un isolato e generico apprezzamento positivo suonava ironico perché accompagnato da una serie di critiche nettissime: La recente Guida o sia Breve descrizione di Napoli desidera in questa voluminosa opera [del De Dominici] «piú cose, miglior metodo, meno parole». Si può aggiungere, rispetto ad alcuni fatti piú antichi, anche miglior critica, e verso certi piú moderni meno condiscendenza. Nel rimanente Napoli ha per lui a luce una storia pittorica assolutamente pregevole pe’ giudizi che presenta sopra gli artefici, dettati per lo piú da altri artefici, che col nome loro ispirano confidenza a chi legge. Se l’architettura e la scultura vi stian bene ugualmente, non è di questo luogo muoverne questione13.
Le Memorie de’ pittori messinesi, d’altra parte, dovettero ispirare al Lanzi una diffidenza perfino maggiore, visto che le notizie ch’egli ne trasse furono scrupolosamente relegate in nota. In conclusione, il capitolo sulla scuola napoletana prende in considerazione soltanto due centri, Napoli e Messina. Gli accenni ai pittori operanti nel Regno al di fuori di Napoli (Cola dell’Amatrice, Pompeo dell’Aquila, G. P. Russo da Capua, Pietro Negroni) sono pochi e generici. Viene auspicata un’opera sui pittori siracusani, e in genere sulla Sicilia. La Sardegna e la Corsica non sono neppure ricordate.
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4. Storia artistica e distribuzione geografica. I diciannove ventesimi della Storia pittorica sono dunque dedicati all’Italia centro-settentrionale. Qui non mancavano al Lanzi né una conoscenza diretta delle fonti primarie, né un apparato ampio e attendibile di fonti secondarie. Nel corso della sua trattazione egli s’imbatté tuttavia in un problema di ordine, diciamo cosí, tassonomico, ch’egli discusse soprattutto in rapporto alla scuola romana e alla scuola lombarda. Riguardo alla prima egli scriveva: Piú volte ho udito fra’ dilettanti della pittura muovere il dubbio se scuola romana dicasi per abuso di termini, o con quella proprietà con cui la fiorentina, la bolognese e la veneta si denomina14.
Coloro che a Roma avevano «insegnato, o anche dato tuono alla pittura» erano stati infatti, con l’eccezione di Giulio Romano e del Sacchi, «artefici esteri». Ciò non costituiva, agli occhi del Lanzi, una difficoltà, perciocché a Venezia furono similmente esteri Tiziano di Cadore, Paol di Verona, Jacopo da Bassano; ma perché sudditi di quel dominio si contan fra’ Veneti; essendo questo nel comune uso un vocabolo che comprende i nativi della capitale e della Repubblica. Lo stesso vuol dirsi de’ pontifici. Oltre i nativi di Roma, vi venner maestri da varie città suddite, i quali insegnando in Roma han continuata la prima successione, e in qualche modo anche han tenute le prime massime15.
L’appartenenza o meno a una determinata scuola sembra dunque legata a considerazioni politiche, come la provenienza da «città suddite» della capitale. In realtà l’atteggiamento di Lanzi è piú complesso. Da un lato, l’esclusione, anche se giustificabile da un punto di vista
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geografico-politico, risulta di fatto formulata sul terreno stilistico: molto meno le ascrivo [a Roma] quegli che in lei vissero esercitando tutt’altro stile; siccome fece, per darne un esempio, Michelangiolo da Caravaggio16.
Dall’altro, alcune città suddite di Roma nel momento in cui Lanzi scrive, hanno dato vita in passato a scuole autonome: non segno i confini di questa scuola con quei dello stato ecclesiastico; perché vi comprenderei Bologna e Ferrara e la Romagna, i cui pittori ho riservati ad altro tomo. Qui considero con la capitale solamente le provincie a lei piú vicine, il Lazio, la Sabina, il Patrimonio, l’Umbria, il Piceno, lo stato d’Urbino, i cui pittori furono per la maggior parte educati in Roma, o da maestri almeno di là venuti17.
Dunque, i due criteri, quello stilistico e quello politico, spesso coincidono, perché ogni scuola presuppone un centro, che è un centro anche politico. Talvolta però divergono, perché esistono centri artistici che sono stati in passato centri politici, e ora non lo sono piú. In altre parole, la geografia pittorica e la geografia politica dell’Italia nel momento in cui Lanzi scrive, non sono sempre sovrapponibili. In questi casi il criterio determinante è, per il Lanzi, quello stilistico. Si vedano le affermazioni, particolarmente nette, a proposito del Piemonte: i Novaresi, i Vercellesi e alcuni del Lago Maggiore [...] che furono prima di questa epoca, nacquero, vissero, morirono sudditi di altro Stato; e per le nuove conquiste non piú divennero torinesi di quel che divenisser romani Parrasio e Apelle dal momento che la Grecia ubbidí a Roma. Per tal
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ragione [...] ho considerati costoro nella scuola milanese; a cui, quantunque non fossero appartenuti per dominio, si dovrebbon ridurre per educazione, o per domicilio, o per vicinanza. Questo metodo ho tenuto finora; avendo io per oggetto la storia delle scuole pittoriche, non degli Stati18.
In un caso, tuttavia, il Lanzi è costretto a confessare che tale metodo è inadeguato. Arrivato al momento di esporre «i princìpi e i progressi della pittura nella Lombardia», che «fra quelle d’Italia è la meno cognita», il Lanzi rileva come «la sua storia pittorica dovesse distendersi con un metodo affatto diverso da tutte le altre». Ciò è dovuto all’assenza di un centro unificatore, una capitale: La scuola di Firenze, quelle di Roma, di Venezia e Bologna, possono riguardarsi quasi come altrettanti drammi, ove si cangiano ed atti e scene, che tali sono l’epoche di ogni scuola; si cangiano anche attori, che tali sono i maestri di ogni nuovo periodo; ma la unità del luogo, ch’è una medesima città capitale, si conserva sempre; e i principali attori e quasi protagonisti sempre rimangono se non in azione, almeno in esempio [...]. Diversamente interviene nella storia della Lombardia, che ne’ miglior tempi della pittura divisa in molti domíni piú che ora non è, in ogni Stato ebbe scuola diversa da tutte le altre, e contò epoche pur diverse; e se una scuola influí nello stile dell’altra, ciò non intervenne o sí universalmente, o in un tempo cosí vicino che un’epoca istessa possa convenire a molte di loro. Quindi infino dal titolo di questo libro ho io rinunziato al comun modo di favellare, che nomina scuola lombarda, quasi ella fosse una sola.
Certo, qualcuno ha creduto di poter dare il nome di scuola lombarda ai seguaci del Correggio, individuandone le caratteristiche: «ma limitata cosí la scuola, ove riporremo noi i Mantovani, i Milanesi, i Cremonesi, i
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tanti altri che, nati pure in Lombardia e quivi fioriti, e oltre a ciò educatori di molta posterità, meritano pur luogo fra’ Lombardi?»19. Alla consueta immagine di un centro maggiore incontrastato subentra questa volta un’immagine policentrica. Ma la diversificazione tra le diverse scuole lombarde, su cui il Lanzi insiste contro il «comun modo di favellare», scaturisce dalle divisioni politiche del passato. La preminenza assegnata alle determinazioni stilistiche fa intravedere un nesso, non risolto dal Lanzi, tra «storia delle scuole pittoriche» e «storia degli Stati», adombrato dal fatto che i centri artistici da lui presi in considerazione furono anche, in un momento almeno della loro storia, centri di potere politico. In conclusione, la galassia pittorica italiana descritta dal Lanzi appare dominata da quattro pianeti piú importanti, le «città capitali»: Firenze, Roma, Venezia, Bologna. Solo in rarissimi casi una delle «capitali» è riuscita a diventare un sole, a unificare artisticamente l’intera penisola: Giotto cosí fu in esempio agli studiosi per tutto il secolo xiv, come di poi Raffaello nel sestodecimo, e i Carracci nel seguente; né so trovare in ltalia una quarta maniera che abbia fra noi avuto seguito quanto queste tre20.
Ma si tratta di periodi eccezionali. Di regola, le «città capitali» sono quelle che riescono a imporre un’egemonia artistica durevole sulle «città suddite» dei rispettivi Stati. Quando ciò non si verifica, come nel caso della Lombardia, ci troviamo di fronte a una costellazione di pianeti di seconda grandezza. È chiaro che il termine «capitale» è usato in un’accezione artistica, non politica: nel 18o9, quando il Lanzi dava alle stampe l’edizione rivista della Storia, Milano era capitale del regno d’Italia, e tutti gli altri centri delle scuole lombarde da lui
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descritte (con l’eccezione di Cremona) erano stati sedi di corti fino a un passato piú o meno recente. Infine, abbiamo una miriade di satelliti (le «città suddite») gravitanti, in posizione del tutto subordinata, attorno ai pianeti di prima e seconda grandezza: Ha, è vero, ogni capitale il suo Stato, e in esso deon ricordarsi le varie città e le vicende di ognuna; ma queste sono d’ordinario cosí connesse con quelle della metropoli che facilmente si riducono alla stessa categoria, o perché gli statisti hanno appreso l’arte nella città primaria, o perché in essa l’hanno insegnata, come nella storia della veneta scuola si è potuto vedere, e i pochi ch’escon fuor d’ordine non alterano gran fatto la unità della scuola e la successione de’ racconti21.
Basterà ricordare, a questo proposito, i due casi, in un certo senso opposti, di Jacopo Bassano e di Veronese. Il primo era limitato d’idee, e perciò facile a ripeterle; colpa anche della sua situazione; essendo verissimo che le idee agli artefici e agli scrittori crescono nelle grandi metropoli, e scemano ne’ piccoli luoghi22.
Il secondo, invece, da Verona passò prima a Vicenza, e quindi a Venezia. Era il suo talento naturalmente nobile, elevato, magnifico, ameno, vasto; e niuna città di provincia potea fornirlo d’idee proporzionate a tal genio come Venezia23.
5. Città capitali e città suddite. Si potrebbe dire che nella Storia del Lanzi la periferia è presente soltanto sotto forma di zona d’ombra che
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fa risaltare meglio la luce della metropoli. Rozzezza o mancanza d’idee caratterizzano i pittori delle città suddite, che il Lanzi sbriga generalmente subito prima di passare ai generi pittorici minori. In una delle sue infrequenti formulazioni di carattere generale, egli scriveva, a proposito di un pittore periferico seguace del Maratta, il fermano Ubaldo Ricci: Comunemente non oltrepassa la mediocrità; condizione assai solita de’ pittori che vivono fuor delle capitali, senza stimoli di emulazione e senza dovizia di buoni esempi24.
Bontà del clima; mecenatismo; emulazione; buoni esempi: queste sono, secondo il Lanzi, le caratteristiche delle metropoli atte a stimolare le arti. A esse si sono aggiunte, nell’età piú recente, una piú diffusa cultura artistica, e l’esistenza delle accademie. Si tratta di un elenco tradizionale, se si eccettuano gli ultimi due elementi, legati a una situazione specifica, sostanzialmente settecentesca. Ma il tema dell’emulazione tra gli artisti, largamente presente nella letteratura precedente (si pensi al Vasari) si carica nel Lanzi di implicazioni nuove. Rileggiamo, per intenderle, le ragioni che avevano spinto il Lanzi a scrivere la sua Storia pittorica: ogni cosa par che il consigli; il trasporto de’ príncipi per le belle arti; la intelligenza di esse distesa a ogni genere di persone; il costume di viaggiare reso su l’esempio de’ grandi sovrani piú comune a’ privati; il traffico delle pitture divenuto un ramo di commercio importante alla Italia; il genio filosofico della età nostra, che in ogni studio abborrisce superfluità e richiede sistema25.
Le pitture sono divenute dunque un ramo del commercio: anche per esse valgono i principî della concorrenza. Si veda la pagina che conclude la sezione sulla scuola romana:
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Cosí, cresciuti i sussidi, estesa la coltura in ogni ceto civile, la quale in altri tempi era ristretta in pochi, l’arte prende un nuovo tuono, animata anche dall’onore e dall’interesse. L’uso di esporre in pubblico le pitture alla vista di un popolo, che fa giustizia alle buone, e ne fa talora ritirare a forza di sibili le malcomposte; i pubblici premi dati a’ piú meritevoli di qualunque nazione essi sieno, e accompagnati da’ componimenti de’ letterati e da festa pubblica in Campidoglio; lo splendore de’ sacri tempii confacente ad una metropoli della Cristianità, il quale con le arti si mantiene, e scambievolmente mantiene le arti; le commissioni lucrose che vengon di fuori e abbondano in città, per la generosità di Pio VI [...]; l’esempio continuo de’ sovrani [...]; queste cose tengono in perpetuo moto e in gara lodevole gli artisti e le scuole loro...26.
«Onore» e «interesse»; «gara lodevole» e «sussidi»; «pubblici premi» e «commissioni lucrose». Sull’importanza delle «pubbliche gare» per lo sviluppo dell’arte in Atene aveva insistito il Winckelmann in quella Storia delle arti del disegno presso gli antichi esplicitamente richiamata dal Lanzi, anzi presa a modello della Storia pittorica per il suo ordinamento27. Ma l’insistenza sull’«interesse» come motore dello sviluppo artistico non è winckelmanniana. Si è tentati di legarla all’ipotetica lettura di un’opera che siamo abituati a inserire in un’orbita culturale lontanissima da quella dell’abate Lanzi: l’Essay on the History of Civil Society di Adam Ferguson (1767). Di esso apparve a Vicenza nel 1791-92 una traduzione italiana – Saggio sopra la storia della società civile – condotta sulla base di una precedente traduzione francese, e debitamente munita di una licenza di stampa del Sant’Uffizio veneziano28. Le tracce di una possibile lettura di questa traduzione di Ferguson da parte del Lanzi sono, come vedremo, esigue. Certo è che, nella Storia pittorica, l’importanza
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della concorrenza è fortemente sottolineata: sia nel senso di emulazione tra artisti, sia nel senso di emulazione tra committenti. Perché, ad esempio, si hanno in determinati periodi concentrazioni di artisti – pittori o letterati – di eccezionale livello, come il «secolo di Leone X»? Il Lanzi comincia col dare una risposta di tipo tradizionalmente accademico: io son d’avviso che i secoli sian formati sempre da certe massime ricevute universalmente e da’ professori e da’ dilettanti; le quali incontrandosi in qualche tempo ad essere le piú vere e le piú giuste, formano a quella età alquanti straordinari professori e moltissimi de’ buoni.
Ma la frase che segue, di timbro ben diverso, anche se presentata come un’aggiunta suona piuttosto come una spiegazione alternativa: Aggiungo però che questi felici secoli non mai sorgono se non v’è un gran numero di príncipi e di privati che gareggino in gradire e ordinare opere di gusto: cosí vi s’impiegano moltissimi; e fra il loro gran numero sorgono sempre certi geni che dan tuono all’arte29.
Una riprova di tutto ciò è data, secondo il Lanzi, dalla «storia della scultura in Atene, città ove la magnificenza e il gusto andavan del pari»: il richiamo immediato è, anche qui, a Winckelmann – ma non si può non ricordare la pagina di Ferguson sul lusso nel suo rapporto con il progresso delle arti30. È chiaro che l’insistenza sulla pluralità dei committenti pone implicitamente un problema politico: un principato assoluto è favorevole allo sviluppo delle arti al pari di una repubblica? Il Lanzi sembra essersi posto un problema del genere nella prima edizione (1792) della Storia, a proposito di Siena:
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Dopo che Cosimo I spogliò i Senesi di una libertà ch’essi avrian ceduta con men dispetto a qualunque altra italica nazione che alla fiorentina, decaddero in Siena le arti non solamente perché queste sieguono d’ordinario la fortuna civile delle Città; ma perché due terzi de’ cittadini in tale occasione cangiaron suolo, ricusando di viver sudditi ov’erano nati liberi31.
Nella terza edizione (1809) il passo era formulato piú prudentemente in questi termini: Venne finalmente l’anno 1555, nel quale Cosimo I spogliò i Senesi dell’antica lor libertà. Essi l’avrian ceduta con men dispetto a qualunque altra nazione che alla fiorentina; onde non è da stupire se due terzi de’ cittadini in tale occasione cangiaron suolo, ricusando di viver sudditi di sí abbominato nimico32.
In questo modo il nesso libertà – fortuna civile – prosperità delle arti, proposto nella prima edizione, veniva cancellato. Tra le due formulazioni si era inserito Napoleone, il «nuovo Alessandro» cui il Lanzi, alla fine dell’edizione del 18o9, rendeva laconicamente omaggio. L’accento, discreto ma eloquente, alla libertà, aveva un timbro molto winckelmanniano. Nella Storia delle arti del disegno, la sua opera maggiore, egli aveva scritto per esempio che «la libertà fu la principal cagione de’ progressi dell’arte [greca]». «È un principio favorito del sig. Winckelmann – annotava a questo punto il curatore della traduzione italiana (Roma 1783) C. Fea – che la libertà abbia sempre avuta una grandissima influenza sulla perfezione delle arti; ma il ragionamento, e la storia provano sovente l’opposto...»33. A quanto pare il Lanzi si sentiva su questo punto, almeno nel 1792, piú vicino alle idee del Winckelmann che a quelle del Fea. Ma nel richiamo alla «fortuna civile» non si può esclu-
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dere un’eco del Saggio di Ferguson. Nel capitolo vii della parte III, intitolato Della storia delle arti, si legge: La immaginazione ed il sentimento, l’uso dell’intelletto e delle mani non sono invenzioni di alcuni uomini particolari. Il florido stato delle arti è il segnale della interna felicità politica di un popolo, anziché una prova di lumi altronde avuti, ovvero una superiorità naturale di talenti e d’industria34.
«Il florido stato delle arti è il segnale della interna felicità politica di un popolo», scriveva Ferguson; «le arti [...] seguono d’ordinario la fortuna civile delle città» dichiarava Lanzi (salvo poi, come abbiamo visto, correggere l’intero passo). Si potrebbe congetturare che anche l’espressione «società civile» che ricorre nell’introduzione alla Storia pittorica, nella parte dedicata ai metodi dei conoscitori («la natura, per sicurezza della società civile, dà a ciascuno nello scrivere un girar di penna che difficilmente può contraffarsi o confondersi del tutto con altro scritto») costituisca una traccia della lettura di Ferguson: soprattutto perché qui la «società civile» non è la comunità umana organizzata della tradizione aristotelica ma, piú precisamente, la società borghese – una società fondata sulla fiducia reciproca, derivante in primo luogo dalla difficoltà di falsificare le firme apposte ai contratti commerciali35.
6. Concorrenza e società civile. Se si insiste sulla possibilità, comunque non provata, di una lettura di Ferguson da parte di Lanzi, è perché essa potrebbe dar conto di un tema che ricompare piú e piú volte nelle pagine della Storia pittorica, e a cui non si è dato generalmente il rilievo che merita. L’esistenza
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di una committenza molteplice, e quindi di un mercato, influisce, abbiamo visto, in maniera positiva sulla produzione artistica. Ma questa è per Lanzi soltanto una faccia della medaglia. Egli vede infatti il rischio, deplorevole, che per far fronte alle committenze e battere la concorrenza un artista sia indotto a risparmiare sul tempo, o sui materiali. L’attenzione del Lanzi agli aspetti artigianali, manuali del fare pittorico assume a questo punto risonanze singolarmente moderne. Per allontanare dal Correggio la taccia tradizionale di avarizia egli non esita a rompere vistosamente il tono stilistico dominante della Storia inserendo un minuzioso elenco di pagamenti, che culmina in quest’affermazione: Ogni sua pittura è condotta o in rame, o in tavole, o in tele assai scelte, con vera profusione di oltremare, con lacche e verdi bellissimi, con forte impasto e continui ritocchi, e per lo piú senza tor la mano dalla opera prima di averla al tutto finita; in una parola senza niuno di que’ risparmi o di spesa, o di tempo, che usarono poco meno che tutti gli altri36.
Soprattutto il risparmio di tempo, la «velocità», pare al Lanzi una pratica diffusa e condannabile. Troppi pittori seguono le orme del Vasari, che «il piú delle volte antepose la celerità alla finitezza», richiamandosi alla pittura, compendiaria degli antichi: ma il passo di Plinio su Filosseno Eretrio, commenta Lanzi, parla di pitture in cui la velocità di esecuzione era accompagnata dalla perfezione. Invece il metodo moderno basato sul «meccanismo», sul «tirar via di pratica», quanto è vantaggioso all’artista, che cosí moltiplica i suoi guadagni, altrettanto è nocivo all’arte, che per tal via urta necessariamente nel manierismo, o sia alterazione del ver037.
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Il punto di discrimine è rappresentato dai veneti, e in particolare da Giorgione, che «sdegnò quella minutezza, che rimaneva ancora da vincersi; e a lei sostituí una certa libertà, e quasi sprezzatura, in cui consiste il sommo dell’arte». In questo modo, lavorando «non tanto d’impasto, quanto colpeggiando o di tocco» i veneti si sono attirati dagli stranieri l’accusa di aver ceduto a una celerità che abborraccia, che sdegna freno di regole, che non finisce il lavoro presente per ansietà di passar presto ad altro lavoro, e cosí ad altro guadagno38.
Da quest’accusa il Lanzi assolve Tiziano, di cui dice che «nel perfezionare i suoi lavori si sa che durava fatica grande, e che avea insieme premura grande di nascondere tal fatica», e Veronese, in cui la celerità era accompagnata da «somma intelligenza»: ma critica la mancanza di diligenza di Tintoretto, i quadri che sembrano abbozzi di Palma il Giovane dovuti alle troppe commissioni, la rapidità divenuta incuria del Piazzetta, per concludere, a proposito del cremonese Giuseppe Bottani: Il lettore può oggimai aver notato nel corso di questa istoria che lo scoglio piú fatale alla riputazione de’ pittori è la fretta. Pochi sono che possano far presto e bene39.
La «società civile» analizzata da Rousseau e da Ferguson è la società borghese basata sulla concorrenza. Non si vuol caricare di troppe implicazioni l’accenno isolato del Lanzi alla «società civile»: certo è però ch’egli sottolineò sia gli effetti propulsivi della concorrenza sullo sviluppo della pittura, sia il dilagare del «meccanismo» a danno della qualità dei prodotti causa la crescente commercializzazione dell’attività artistica.
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7. Gli squilibri territoriali. Questa rilettura della Storia del Lanzi condotta sul filo dei rapporti tra centro e periferia ha fatto emergere due ordini di problemi irrisolti, e, come si vedrà, interdipendenti. Dal punto di vista geografico, lo squilibrio tra la parte dedicata all’Italia centro-settentrionale e quella dedicata all’Italia meridionale e alle isole. Dal punto di vista storico-genetico, l’importanza decisiva attribuita alla concorrenza non solo tra artisti ma tra committenti – e quindi un nesso non chiarito tra centri di potere (politico, o di altro tipo) e centri di elaborazione artistica. Con questi problemi (anche se posti in termini inevitabilmente un po’ diversi) ci troviamo a fare i conti ancora oggi. Cominciamo dalla questione geografica. È stato rilevato autorevolmente che tra Cinquecento e Settecento, fra Tasso e Metastasio, passando per Marino e Gravina, si determina nell’ambito della cultura letteraria italiana un pieno equilibrio tra Nord e Sud40. Si ricorderà invece quanto diverso e sbilanciato fosse il quadro tracciato dal Lanzi. È lecito chiedersi se questa distorsione di cui il Lanzi stesso, come abbiamo visto, era consapevole, sia tutta da attribuire alla povertà e inattendibilità delle sue fonti d’informazione sull’Italia meridionale, nonché alla mancanza di indagini dirette. Che la pittura del Regno e delle isole sia ancora in grandissima parte da scoprire, è indubbio. Altrettanto indubbio è che la perdurante trascuratezza della storiografia artistica nei confronti di questa parte d’Italia vada ascritta a una situazione riassumibile nel termine «questione meridionale»41. E tuttavia – per anticipare una conclusione che apparirà ovvia – le auspicabili ricerche sulla pittura meridionale non potranno porre in luce una rete di centri artistici paragonabile a quella del Centro e del Nord d’Italia. In questo senso, è lecito dire che la
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distorsione presente nella Storia pittorica del Lanzi riflette in sostanza una distorsione, o meglio la distorsione che caratterizza la storia (non solo pittorica) d’Italia. Abbiamo parlato di una conclusione ovvia. Ma la distribuzione geografica dei centri artistici italiani non è ovvia. Varrà la pena di analizzarla. Proviamo a considerare i centri artistici italiani come una specie di club. Quali erano le condizioni per iscriversi a questo club? e quando si chiusero le iscrizioni? Fuor di metafora: perché i centri artistici italiani sono stati, storicamente, certi e non altri? e quando (e perché) cessarono di emergere centri nuovi? Per rispondere bisognerà partire da molto lontano. L’antichità e la persistenza dei centri urbani è infatti una delle caratteristiche piú evidenti della storia della penisola. Secondo il Sereni, su un campione di 8000 centri piú di un quarto (2684) risulta fondato in età romana o preromana, un po’ meno di un terzo tra l’viii e il xii secolo, e meno di un ottavo nel periodo posteriore al xiv secolo42. Ma questo dato quantitativo, di per sé impressionante, ne nasconde un altro, qualitativo, ancora piú denso di conseguenze per la storia, anche artistica, italiana: e cioè che un contrasto fondamentale tra i centri urbani della penisola si era già delineato nel corso del i secolo a. C.43.
8. Questioni di lunga durata. In questo periodo si verificarono infatti due processi paralleli ma di segno diverso. Dopo la fine della guerra sociale (88 a. C.) un gran numero di contadini impoveriti del Centro-Sud tendeva ad abbandonare le campagne per riversarsi su Roma. La classe dirigente romana dovette perciò vedere con favore le massicce iniziative di ricostruzione e di rinnovamento edilizio attuate
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dai municipi ex alleati. Anche se una consapevole politica di assorbimento della manodopera disoccupata attraverso l’edilizia sembra da escludere, il risultato fu comunque quello di alleggerire la pressione migratoria in direzione di Roma. Antichi centri si ampliarono, cingendosi di mura, e numerose comunità uscirono dallo stato tribale per passare a una vita associata di tipo urbano. Queste iniziative municipali si verificarono in tutto il Centro-Sud, con l’eccezione (significativa, per motivi che vedremo) della fascia centrale dove si erano avuti in passato insediamenti etruschi: l’Etruria, e parte dell’Umbria odierna. All’incirca nello stesso periodo si venne attuando la colonizzazione romana della Gallia cisalpina. Anch’essa fu accompagnata dalla fondazione di centri urbani, ma secondo modalità molto diverse da quelle del Centro-Sud. Non solo perché il numero dei nuovi centri fu di gran lunga minore, ma soprattutto perché la loro fondazione avvenne secondo un vero e proprio piano regolatore, che implicava una riorganizzazione del territorio, la costruzione di opere idrauliche e cosí via44. Da un lato, quindi, una sorta di «urbanizzazione selvaggia» gestita dai singoli municipi; dall’altro, un’urbanizzazione regolata e pianificata da Roma. In definitiva, diversi, e diversamente equilibrati, rapporti tra città e campagna. Anni fa, esponendo in maniera piú precisa una sua vecchia idea, il Salvatorelli sostenne che di storia d’Italia in senso proprio si poteva cominciare a parlare fin dal i secolo a. C., e precisamente dalla guerra sociale, seguita dalla concessione della cittadinanza romana agli italici45. Le considerazioni esposte or ora portano ulteriori elementi a favore di questa tesi. La storia d’Italia, cosí povera di rivoluzioni, sarebbe nata dunque sotto il segno di una rivoluzione vittoriosa a metà. Con questo non si vuol dire, evidentemente, che la questione meridionale sia cominciata allora. È vero però
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che lo squilibrio fondamentale che caratterizza la storia della penisola (e senza il quale essa sarebbe stata diversa da quella che è stata ed è) ha le sue lontanissime radici nelle divergenti vicende del i secolo a. C. I rivolgimenti e i traumi successivi poterono alterare questo squilibrio, non cancellarlo. Alla fine dell’evo antico la rete dei centri urbani italiani presentava dunque un aspetto duplice: nel Centro-Sud (con l’eccezione dell’Etruria e di parte dell’odierna Umbria) una maglia fittissima, nel Nord un reticolato molto piú rado. La resistenza dei due settori, già allora fortemente indeboliti, allo sconvolgimento che seguí, fu oltremodo diversa. Per convincersene, basterà esaminare la carta delle diocesi italiane all’inizio del secolo vii. Come si sa, le sedi vescovili coincidevano di fatto con altrettanti centri urbani: la distruzione o lo spopolamento di questi ultimi comportava, dopo un periodo di tempo spesso assai lungo, o il trasferimento della diocesi a un centro contiguo, o la sua soppressione. Per questi motivi, un esame delle diocesi soppresse fornisce una serie di indicazioni assai significative. Ciò che salta agli occhi è l’entità del fenomeno: su 232 diocesi esistenti all’inizio del secolo vii, 106 (comprese 3 incerte) furono soppresse. Quasi la metà, dunque. Va notato che le diocesi trasferite da un centro in rovina a un centro contiguo di recente fondazione (da Luni a Sarzana, per esempio, o da Roselle a Grosseto) non sono state incluse tra quelle soppresse: il quadro dei centri scomparsi o ridotti a villaggi risulta quindi approssimato per difetto. Ma accanto all’entità del fenomeno colpisce la sua distribuzione geografica. Delle 106 diocesi soppresse, 15 appartenevano al Nord, 42 al Centro, 49 (quasi la metà) al Sud e alle isole. Il reticolo urbano piú fitto risultò dunque il piú fragile. È vero che, nonostante la falcidia avvenuta, il numero delle diocesi meridionali rimase elevatissimo: ma si trattava, e si tratta
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ancor oggi, di diocesi spesso piccolissime, coincidenti con località d’importanza spesso trascurabile. Ben diversa resistenza oppose invece il reticolo urbano comparativamente piú rado del Nord (e di parte del Centro). Scomparvero, certo, o decaddero gravemente, centri litoranei o semilitoranei come Aemonia, Aquileia, Altinum, Vicohabentia, maggiormente esposti alle invasioni: ma il quadro complessivo non subí modificazioni troppo gravi. Si potrebbe tracciare su questa base una linea congiungente Roselle (o, se si vuole, Grosseto) Chiusi, Perugia, Ancona. A sud di questa linea immaginaria, un mezzo cimitero di antichi centri urbani46; a nord, una serie di città colpite talvolta in maniera gravissima, ma quasi mai definitiva. Corfinium o Marruvium, a differenza di Bologna o Piacenza, non dovevano risorgere piú. Dietro questa dicotomia traspare (tranne qualche divergenza nella fascia comprendente il Lazio settentrionale e l’Umbria meridionale) l’opposizione che si era venuta determinando, nel i secolo a. C., tra gli insediamenti urbani nelle varie parti della penisola. La diversa sorte di Bologna o Piacenza rispetto a Corfinium o Marruvium si spiega naturalmente alla luce della storia italiana successiva. Ora, il punto è proprio questo. Proviamo a fare un salto di alcuni secoli. Dopo il Mille, in tutta Italia c’è una rinascita delle città. Ma nel giro di un secolo le vicende del Centro-Nord da un lato, e del Sud dall’altro, divergono ancora una volta. All’Italia dei Comuni si contrappone un’Italia feudale. Lo sviluppo autonomo delle città meridionali si arresta: Amalfi, per ricordare solo un caso esemplare, decade. Palermo prospera e si rafforza, ma perché è sede di una corte. Al panorama che si andava profilando, analogo a quello riccamente policentrico dell’Italia centro-settentrionale, ne subentra uno del tutto diverso, caratterizzato dallo schiacciamento delle città minori a danno delle metropoli. Si è soliti attribuire questa svolta deci-
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siva a fattori esogeni: la conquista normanna prima, il dominio svevo poi. Ma le spiegazioni del tipo «invasione degli hyksos» sono sempre semplicistiche. La geografia dell’Italia comunale invita piuttosto a riflettere sul peso determinante che poterono avere elementi piú profondi e piú antichi. L’area di diffusione dei Comuni coincide largamente, infatti, con quella parte d’Italia in cui il reticolo urbano di origine romana o preromana era risultato piú resistente. Si tratta, è vero, di una coincidenza imperfetta: se sovrapponiamo le due aree, rimane fuori una fascia dell’Italia centrale, a sud della zona Roselle (Grosseto)-Chiusi-Perugia-Ancona, dove pure si svilupparono città comunali come Orvieto o Viterbo. Ma proprio questa fascia di non-coincidenza è significativa, perché rinvia ancora una volta a una dicotomia piú antica: il contrasto tra le due parti della penisola emerso nel i secolo a. C. Piú di mille anni dopo, quel contrasto agiva ancora.
9. La dislocazione dei centri artistici. Queste contraddizioni di lungo (o lunghissimo) periodo vanno tenute presenti se vogliamo capire la dislocazione geografica dei centri artistici italiani. Tra essi troviamo infatti molti centri di origine romana o preromana: ma ciò non costituisce una condizione necessaria (e tanto meno sufficiente) per l’ammissione al club di cui parlavamo piú sopra. Basta pensare a Venezia o a Ferrara per rendersi conto che dobbiamo cercare in altra direzione. L’essere stati sede di diocesi, allora? È probabile che questa debba essere considerata una condizione pressoché necessaria, nel senso che è difficile trovare un centro artistico italiano che non sia stato anche sede vescovile. Le eccezioni, come Saluzzo o Fabriano solo tardivamente divenute sedi vescovili, sono pochis-
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sime: quanto ai monasteri, si tratta di centri sui generis, caratterizzati dall’assenza di una periferia relativa. Ma certo non si tratta di una condizione sufficiente: i centri di diocesi che non hanno avuto una parte di rilievo nella storia artistica della penisola sono innumerevoli – da Sarsina, a Numana, alla miriade di centri vescovili minori del Mezzogiorno. È nell’ambito dei centri di diocesi, dunque, che dovremo cercare di regola i centri artistici italiani. Ma quali elementi (storici, s’intende, non formali) definiscono questo sottoinsieme? Procediamo per scarti successivi. Prendiamo anzitutto in esame i centri scomparsi o decaduti (e non piú risorti) dopo l’inizio del secolo vii. Tra essi, nessuno (con la possibile eccezione di Aquileia) può essere definito centro artistico in senso proprio. Il campo dell’indagine si restringe immediatamente. Proviamo allora a passare in rassegna le sedi vescovili istituite dopo il secolo vii. È possibile identificare una fase di intensa riorganizzazione della geografia ecclesiastica italiana che comincia, nel Sud, fin dai secoli xi e xii, e nel Centro-Nord, dopo la metà del secolo xiv47. Tuttavia, nessuna delle sedi vescovili istituite dopo queste date può ambire alla qualifica di centro artistico. Come si vede, la rosa dei possibili candidati continua a restringersi. Se continuiamo questa manovra a tenaglia, arriviamo alla seguente conclusione: che le iscrizioni al club dei centri artistici italiani, aperte in linea di principio a tutte le sedi vescovili, si chiusero alla fine dell’xi secolo. Dopo questo periodo, le nuove sedi – si trattasse di Alessandria o di Livorno, di Carpi o di Prato, di Foggia o di Civitavecchia – trovarono le porte sbarrate. A questo punto abbiamo circoscritto fortemente le condizioni cronologiche necessarie all’ammissione: ma non abbiamo ancora identificato le condizioni sufficienti. In altre parole: i centri artistici italiani corrispondo-
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no tutti ad altrettante sedi vescovili esistenti alla fine del secolo xi; ma non è vero il reciproco. Perché Andria, Matelica, Venosa, Taranto (per citare alcuni nomi di sedi scelte a caso) non riuscirono a diventare centri artistici nel senso pieno del termine? Ciò che ci consente finalmente di decifrare le coordinate geografiche e cronologiche dei centri artistici italiani è la decisiva contrapposizione tra le due Italie – quella comunale e quella feudale – che emerge per l’appunto nel corso del secolo xi. Nell’Italia centro-settentrionale (a parte i casi sui generis di Venezia e, ovviamente, di Roma) i centri artistici s’identificano con le città che svilupparono un’intensa vita comunale – tutte, senza eccezione, sede di diocesi48. Nell’Italia meridionale, a parte l’eccezione di Messina, con le città poi soffocate dal centralismo normanno-svevo (Amalfi, Bari) e con le città sedi di corte (Palermo, Napoli). La frontiera tra queste due Italie artistiche – policentrica l’una, oligocentrica l’altra – ricalca quella emersa nel i secolo a. C. e mai cancellata dalle vicissitudini posteriori.
10. Le città comunali. È chiaro che sottolineare l’importanza decisiva delle città comunali nello sviluppo dell’arte italiana non significa riproporre divagazioni retoriche di sapore ottocentesco sul libero comune, rustico e non. Ciò che conta ai nostri occhi è anzitutto la presenza simultanea in una serie di centri urbani di un potere comunale e di un potere vescovile, talvolta alleati, piú spesso in contrasto, che diedero luogo a una duplice, alternativa committenza, laica ed ecclesiastica, di durata non episodica. In secondo luogo, l’esasperata tensione municipalistica, esplosa in età comunale con particolare violenza ma destinata a durare molto piú a lungo, che costituí una
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spinta fortissima alla diversificazione artistica. Da un lato, dunque, una situazione di potenziale concorrenza all’interno dei singoli centri; dall’altro, l’esistenza di una situazione analoga tra centri diversi. Ciò significa che ci muoviamo, ancora oggi, nell’ambito del modello concorrenziale delineato dal Lanzi. Anche per noi, infatti, la presenza o meno di una situazione di concorrenza tra artisti e tra committenti è indice di una tendenza o meno all’innovazione artistica. Ci guarderemo bene dall’identificare senz’altro innovazione e qualità – col che ricadremmo nella tautologia riscontrata nelle parole di Kenneth Clark citate all’inizio. È indubbio, però, che le condizioni che tendono a favorire l’innovazione artistica si verificano di regola nei cosiddetti centri. I centri artistici, infatti, potrebbero essere definiti come luoghi caratterizzati dalla presenza di un numero cospicuo di artisti e di gruppi significativi di committenti, che per diverse motivazioni – orgoglio familiare o individuale, desiderio di egemonia o brama di salvezza eterna – sono pronti a investire in opere d’arte una parte delle loro ricchezze. Quest’ultimo punto implica, evidentemente, che il centro sia un luogo in cui affluiscono quantità considerevoli di surplus da destinare, eventualmente, alla produzione artistica. Inoltre, potrà essere dotato di istituzioni di tutela, educazione e promozione degli artisti, nonché di distribuzione delle opere. Infine, conterà un pubblico ben piú vasto di quello dei committenti veri e propri: un pubblico non omogeneo, certo, ma diviso in gruppi, ognuno dei quali potrà avere abitudini percettive e criteri di valutazione suoi propri, che potranno tradursi in attese e richieste specifiche. Si tratta, come si vede, di una definizione quanto mai generica – ma, nello stesso tempo, storicamente restrittiva. Non si vede, infatti, come sia possibile, per esempio, rintracciare una pluralità di committenti nell’ambito di un monastero alto-medievale, tale da provocare con-
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flitti paragonabili a quelli che opposero talvolta, anche sul terreno delle scelte artistiche, vescovo e capitolo49. Ma è chiaro che le nozioni di «centro» e «periferia» hanno, se riferite all’Europa monastica, tutt’altro significato rispetto a quello attribuibile a esse per i secoli posteriori al Mille. Inoltre, la definizione che abbiamo proposto implica che la nozione di centro esclusivamente artistico è contraddittoria. Centro artistico potrà essere soltanto un centro di potere extrartistico: politico e/o economico e/o religioso. Pertanto, la mera presenza, o addirittura la concentrazione di opere d’arte in una determinata località non basta a fare di quest’ultimo un centro artistico nel senso anzidetto. I castelli, le ville o i santuari potranno eventualmente essere considerati proiezioni fisiche nel territorio di un potere politico, economico, religioso situati altrove.
11. Centri di innovazione e aree di ritardo. Se il centro tende a configurarsi come il luogo dell’innovazione artistica, la periferia, correlativamente, tende a configurarsi (anche se non sempre) come il luogo del ritardo. Di questo fenomeno – certo il piú frequente, nei rapporti tra centro e periferia – proviamo a delineare una sommaria tipologia. È possibile distinguere un ritardo plurisecolare, come nel caso della produzione artistica detta «popolare», spesso elaborata da contadini per i contadini; un ritardo plurigenerazionale, come nel caso di prodotti eseguiti da artisti professionisti, sí, ma per una clientela contadina; e un ritardo di pochi anni, che però viene avvertito come traumatico perché coincide con momenti e situazioni caratterizzati da subitanee svolte del gusto. Avremo cioè, rispettivamente, prodotti come culle o cucchiai decorati, letti, cassoni, tessuti di vario genere, oggetti d’uso costruiti dagli stes-
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si fruitori50, cicli di affreschi dipinti da botteghe di pittori itineranti, impegnati nella decorazione di oratori campestri o di pievi di piccole cittadine; oppure opere di pittori rinomati che di colpo si trovano respinte ai margini del mercato artistico. Prendiamo un prodotto contadino, sia esso un utensile o un oggetto liturgico. Le forme fondamentali si basano su un repertorio limitato (spirali, cerchi, stelle ecc. variamente combinati) che rimane pressoché immutabile per secoli, al punto che alcune di esse sembrano risalire addirittura al periodo neolitico. In questo ambito la vischiosità, la persistenza tipologica sono particolarmente forti. Se ci volgiamo invece ai prodotti degli ateliers itineranti, per esempio quelle squadre di artisti operose nel Vercellese attorno al 1450-70 cui si deve tra l’altro la decorazione pittorica dell’oratorio di San Bernardo a Gattinara51, vediamo che essi riprendono con minime variazioni modelli risalenti magari agli ultimi decenni del Trecento. Come esempio del terzo tipo si potrà ricordare quanto scriveva il Vasari a proposito di alcuni dipinti del Perugino per la chiesa della Santissima Annunziata a Firenze: Dicesi che quando detta opera si scoperse, fu da tutti i nuovi artefici assai biasimata; e particolarmente perché si era Pietro servito di quelle figure che altre volte era usato mettere in opera: dove tentandolo gli amici suoi dicevano, che affaticato non s’era, e che aveva tralasciato il buon modo dell’operare o per avarizia o per non perder tempo. Ai quali Pietro rispondeva: Io ho messo in opera le figure altre volte lodate da voi, e che vi sono infinitamente piaciute: se ora vi dispiacciono e non le lodate, che ne posso io? Ma coloro aspramente con sonetti e pubbliche villanie lo saettavano. Onde egli, già vecchio, partitosi da Fiorenza e tornatosi a Perugia, condusse alcuni lavori a fresco nella chiesa di
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san Severo [...]. Lavorò similmente al Montone, alla Fratta, e in molti luoghi del contado di Perugia52.
Ai diversi livelli che abbiamo schematicamente distinto corrispondono dunque diversi gradi di vischiosità (e una correlativa maggiore o minore possibilità di datazione). Non sarà arrischiato concludere che in una situazione di autoconsumo artistico come quella dei contadini la spinta all’innovazione sia praticamente nulla. In una situazione di semimonopolio come quella in cui operavano i pittori itineranti vercellesi della metà del Quattrocento, ci si poteva servire tranquillamente di modelli in certi casi assai antichi, senza correre il rischio di deludere le attese di un pubblico che non aveva alcuna possibilità di confronto. In una situazione di concorrenza come quella di Firenze attorno al 1505, è la critica esercitata dai «nuovi artefici» colleghi e rivali che spinge il Perugino a lasciare (sia pure non definitivamente) la città per il contado umbro. Non possiamo parlare in questo caso di «ritardo periferico» in senso proprio: ma è in periferia che il pittore è costretto a rifugiarsi per poter continuare a lavorare e a ricevere commissioni per una produzione che al centro non soddisfa piú.
12. Periferizzazione e declassamento. Altre volte, invece, è lo spostamento materiale delle opere dal centro alla periferia – geografica e/o sociale – a far intravedere che quest’ultima viene identificata con un gusto artistico ritardatario. Si prenda il caso del pulpito della Cattedrale di Cagliari, scolpito da un maestro Guglielmo tra il 1159 e il 1162 per la Cattedrale di Pisa, e trasportato in Sardegna allorché in Pisa venne inaugurato, nel 1312, il pulpito di Giovanni Pisano. Un’iscrizione in versi venne apposta a ricordare l’evento:
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Castello Castri concexit Virgini Matri direxit Me templum istud invexit Civitas Pisana53.
Il nuovo pubblico a cui veniva indirizzato il pulpito era quello della colonia pisana stabilita a Cagliari, nel quartiere alto dominato da Castel di Castro. Nei pressi di quest’ultimo, simbolo e fulcro del dominio pisano, era stata costruita la nuova cattedrale. Il vecchio pulpito della Cattedrale di Pisa doveva dunque configurarsi, per la colonia toscana, come una venerabile reliquia della terra d’origine, un riferimento a un patrimonio culturale comune, uno strumento d’identificazione e di aggregazione. Va rilevato inoltre che allorché il pulpito venne trasferito si andava precisando una grave minaccia per l’avvenire della dominazione pisana, poiché il pontefice aveva concesso al re d’Aragona l’investitura del reame di Sardegna. Ma non è senza significato che il rinsaldamento simbolico dei vincoli culturali con la madrepatria avvenisse attraverso l’invio di un’opera vecchia di centocinquant’anni: alla colonia veniva pur sempre attribuito un gusto piú arretrato di quello della metropoli. Altri casi del genere, sia pure meno clamorosi, mostrano che quest’interpretazione non si basa su una petizione di principio. Tra Cinque e Settecento i polittici trecenteschi vengono allontanati dalle piú celebri chiese di Siena e relegati in remoti oratori o pievi di campagna: quello di Pietro Lorenzetti, già al Carmine, finisce a Sant’Ansano a Dofana. Talvolta il declassamento è piuttosto sociale che geografico, come nel caso dell’Annunciazione di Ambrogio Lorenzetti, che dalla sala del Concistoro del Palazzo Pubblico passa a «una stanza [...] accanto alla cucina dove sogliono pranzare i donzelli». In tal modo, un’opera che era stata commis-
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sionata da Francesco monaco di San Galgano, camerlengo della Biccherna, finiva con l’essere fruita, anziché dai governanti senesi, a cui era stata originariamente destinata, da un pubblico socialmente infimo54. Capita, in altre parole, che monumenti, arredi e opere del passato a un certo momento vengano ceduti o gettati in un canto come vestiti smessi. Una raccolta sistematica di questo tipo di testimonianze sarebbe quanto mai rivelatrice dei mutevoli rapporti che intercorsero storicamente tra i singoli centri e le rispettive periferie. Quanto detto fin qui mostra a sufficienza che il nesso centro/periferia non può essere visto come un rapporto invariabile tra innovazione e ritardo. Si tratta, al contrario, di un rapporto mobile, soggetto a brusche accelerazioni e tensioni, legate a modificazioni politiche e sociali, oltre che artistiche. Varrà la pena di analizzare a questo proposito il panorama tracciato da Vasari, dato che nelle Vite egli fornì un modello canonico, destinato a pesare e a durare, della periferia come ritardo.
13. Vasari. Per Vasari, l’unica possibilità per un artista nato ed educato in provincia e quella di venire a contatto con il centro: solo cosí potrà entrare nel gioco dell’innovazione e del progresso. La vocazione egemonica che era stata propria di Firenze fin dalla fine del Duecento verrà assunta dal secondo decennio del Cinquecento, da Roma. E a Roma, spinti da una specie di inarrestabile tropismo, tendono artisti di ogni parte d’Italia che si sono resi magari vagamente conto di quello che c’è nell’aria. Cosí il Parmigianino, che venuto in desiderio di veder Roma, come quello che era in sull’acquistare e sentiva molto lodar l’opere de’ maestri
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buoni, e particolarmente quelle di Raffaello e di Michelagnolo, disse l’animo e disiderio suoi ai vecchi zii55.
Cosí Niccolò Soggi, che: ... sentendo che a Roma si facevano gran cose, si partí di Firenze, pensando acquistare nell’arte e dovere anco avanzare qualche cosa...56.
O ancora Pierino da Vinci, il quale ... adunque, mentre che cosí si portava, piú volte e da diverse persone aveva udito ragionare delle cose di Roma appartenenti all’arte e celebrarle, come sempre da ognuno si fa, onde in lui s’era un grande desiderio acceso di vederle, sperando d’averne a cavare profitto, non solamente vedendo l’opere degli antichi, ma quelle di Michelagnolo, e lui stesso allora vivo e dimorante in Roma57.
Ciò vale anche per Giovanni da Udine, che, mentre era a Venezia con Giorgione «a imparare l’arte del disegno», sentí tanto lodare le cose di Michelangelo e Raffaello, che si risolvé di andare a Roma ad ogni modo58.
O per Battista Franco che ... avendo nella sua prima fanciullezza atteso al disegno, come colui che tendeva alla perfezione di quell’arte, se ne andò di venti anni a Roma; dove, poiché per alcun tempo con molto studio ebbe atteso al disegno, e vedute le maniere di diversi, si risolvé non volere altre cose studiare né cercare d’imitare, che i disegni, pitture e sculture di Michelagnolo59.
Di fronte alle rivelazioni romane, artisti già affermati
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ripudiano la loro prima educazione e ricominciano da capo. Anche questo, dell’artista già celebre che ridiventa discepolo una volta scoperta la buona maniera, è un topos ricorrente in Vasari: un esempio celebre è quello di Raffaello che veduto il cartone della Battaglia di Cascina di Michelangelo fece ciò che un altro che si fusse perso d’animo, parendogli avere insino allora gettato via il tempo, non arebbe mai fatto, ancor che di bellissimo ingegno...
e cioè smorbatosi e levatosi da dosso quella maniera di Pietro per apprender quella di Michelagnolo, piena di difficultà in tutte le parti, diventò quasi, di maestro, nuovo discepolo, e si sforzò con incredibile studio di fare, essendo già uomo, in pochi mesi quello che arebbe avuto bisogno di quella tenera età che meglio apprende ogni cosa, e dello spazio di molti anni60.
Il medesimo topos, con espressioni analoghe quali «smorbarsi» di una precedente educazione, o «di maestro divenir discepolo», si ritrova nella vita del Garofalo che, giunto a Roma ... restò quasi disperato non che stupito nel vedere la grazia e la vivezza che avevano le pitture di Raffaello, e la profondità del disegno di Michelagnolo. Onde malediva le maniere di Lombardia, e quella che avea con tanto studio e stento imparato in Mantoa; e volentieri, se avesse potuto, se ne sarebbe smorbato. Ma poiché altro non si poteva, si risolvé a voler disimparare, e, dopo la perdita di tanti anni, di maestro divenire discepolo61.
Il maledire le maniere di Lombardia evoca le «bestemmie di Lombardia» con cui si chiude il Dialogo
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della lingua di Machiavelli, a testimonianza di una concezione altrettanto monocentrica – tanto piú palese quando si consideri che la vita del Garofalo era nelle intenzioni del Vasari destinata a fare brievemente un raccolto di tutti i migliori e piú eccellenti pittori, scultori ed architetti che sono stati a’ tempi nostri in Lombardia...82.
Né il caso è isolato perché, parlando col Vasari, Girolamo da Carpi ... si dolse piú volte d’aver consumato la sua giovanezza ed i migliori anni in Ferrara e Bologna e non in Roma, o altro luogo dove averebbe fatto senza dubbio molto maggiore acquisto63.
A Roma dunque si arriva da Parma, da Firenze, da Venezia, da Mantova o da Ferrara, e chi, avendola conosciuta, è costretto ad abbandonarla, ne soffre profondamente, come Polidoro da Caravaggio che a Messina... sempre ardeva di desiderio di rivedere quella Roma, la quale di continuo strugge coloro che stati ci sono molti anni, nel provare gli altri paesi64.
o come il Garofalo a Ferrara che nel fare delle quali opere ricordandosi alcuna volta d’avere lasciato Roma, ne sentiva dolore estremo, ed era risoluto per ogni modo di tornarvi65.
L’immagine della provincia è quanto di piú lontano si possa immaginare da quella, prestigiosa e stimolante, del centro. Un caso estremo è quello della Calabria, patria di Marco Cardisco, di cui il Vasari scrive:
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Ma se quando noi veggiamo in qualche provincia nascere un frutto che usato non sia a nascerci ce ne maravigliamo; tanto piú d’uno ingegno buono possiamo rallegrarci, quando lo troviamo in un paese dove non nascano uomini di simile professione66.
Non sempre la provincia è questa plaga desolata dove la pianta degli artisti non alligna: ma quando anche ve ne siano, sarà bene che non vi restino a lungo perché essa manca di esempi, di emulazione, di concorrenza, vale a dire di alcuni degli elementi fondamentali per lo sviluppo dell’innovazione. Arezzo, patria del Vasari, si trova in tali condizioni. Per Giovan Antonio Lappoli è questo un luogo ove non poteva anco da per sé imparare, ancor che avesse l’inclinazione della natura67;
né diversamente il Montorsoli considera Perugia, ove il soggiornare non gli è di alcun ausilio («non faceva per lui e non imparava»), o Daniele Ricciarelli, Volterra, dove si avvede ... non aver [...] concorrenza che lo spignesse a cercar di salire a miglior grado, e non essere in quella città opere né antiche né moderne dalle quali potesse molto imparare68.
Non solo Arezzo, Perugia o Volterra: anche Siena è considerata una provincia poco stimolante agli occhi del Vasari, che racconta come Sodoma ... non trovando concorrenza per un pezzo in quella città vi lavorasse solo: il che se bene gli fu di qualche utile, gli fu alla fine di danno; perciocché quasi addormentandosi non istudiò mai69.
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Dello stesso avviso è il Beccafumi che, sempre secondo Vasari, ... non aveva maggior disiderio che d’imparare e conosceva in Siena perder tempo70.
e cosí saranno Bologna e Ferrara, nel caso del Vignola o in quello, già citato, di Girolamo da Carpi. Si tratta di casi in cui l’artista – a detta del Vasari – avrebbe quasi sempre preso coscienza della situazione. Altrove egli si limita a notare che l’artefice di cui parla, se avesse avuto la possibilità di uscire dalla sua provincia, avrebbe fatto cose straordinarie (impossibili appunto per chi rimanga in periferia). Cosí a proposito di Luca de’ Longhi che se fusse uscito di Ravenna [...] sarebbe riuscito rarissimo71.
o di un gruppo di scultori lombardi il cui limite è addirittura di aver lavorato a Milano: ... Ma se in quel luogo fusse lo studio di quest’arti, che è in Roma e in Firenze, arebbono fatto e farebbono tuttavia questi valentuomini cose stupende72.
Particolarmente duro da ammettere per il Vasari è il caso di chi deliberatamente non si muove, come Cola dell’Amatrice, provinciale volontario: ... il quale senza curarsi di veder Roma o mutar paese, si stette sempre in Ascoli,
mentre costui non arebbe fatto se non ragionevolmente, se egli avesse la sua arte esercitata in luoghi, dove la concorrenza
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e l’emulazione l’avesse fatto attendere con piú studio alla pittura, ed esercitare il bello ingegno, di cui si vede che era stato dalla natura dotato73.
Del resto la sfida costituita dalle opere dei grandi non conduce automaticamente all’emulazione. In certi casi l’artista «sfidato» si tira indietro perché non si sente capace di tanto. Cosí il Franciabigio che non volle mai uscir di Firenze; perché avendo vedute alcune opere di Raffaello da Urbino, e parendogli non esser pari a tanto uomo né a molti altri di grandissimo nome, non si volle metter a paragone di artisti cosí eccellenti e rarissimi74.
O Morto da Feltre, che avrebbe avuto in animo di abbandonare le grottesche che erano la sua specialità per darsi alla figura: E poiché era venuto in questo desiderio, sentendo i romori che in tale arte avevano Lionardo e Michelagnolo per li loro cartoni fatto in Fiorenza, subito si mise per andare a Fiorenza; e vedute l’opere, non gli parve poter fare il medesimo miglioramento che nella prima professione aveva fatto: là onde egli ritornò a lavorare alle sue grottesche75.
Altri non rinuncia, ma rimanda il confronto, come Pierino da Vinci che andò dunque in compagnia di alcuni amici suoi, e veduta Roma e tutto quello che egli desiderava, se ne tornò a Firenze; considerato giudiziosamente, che le cose di Roma erano ancora per lui troppo profonde, e volevano essere vedute e immitate non cosí ne’ principj, ma dopo maggior notizia dell’arte76.
La emulazione tra gli artisti e gli stimoli che possono
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venire dalle attese del pubblico sono, secondo il Vasari, molle fondamentali del progresso artistico. Ora, la mancanza di termini di confronto e la facile soddisfazione del pubblico fanno sí che gli artisti in provincia siano meno stimolati. È quello che accade a Donatello a Padova: ... essendo per miracolo quivi tenuto e da ogni intelligente lodato, si deliberò di voler tornare a Fiorenza, dicendo che, se piú stato vi fosse, tutto quello che sapeva dimenticato si avrebbe, essendovi tanto lodato da ognuno; e che volentieri nella sua patria tornava per esser poi colà di continuo biasimato, il quale biasimo gli dava cagione di studio, e conseguentemente di gloria maggiore77.
Donatello – secondo il Vasari – sapeva che a Padova gli mancava lo stimolo della critica; altri lo ignoravano, come il Sodoma a Siena che non trovando concorrenza vi si addormentava, o come gli emiliani Bartolomeo da Bagnacavallo, Amico Aspertini, Girolamo da Cotignola e Innocenzo da Imola, che ... non attesero all’ingegnose particolarità dell’arte come si debbe. Ma perché in Bologna in que’ tempi non erano pittori che sapessero piú di loro, erano tenuti da chi governava e dai popoli di quella città, i migliori maestri d’Italia78.
Né differente è la sorte di Marco Cardisco a Napoli: Peroché non avendo emulazione né contrasto degli artefici nella pittura, fu da que’ signori sempre adorato, e delle cose sue si fece con bonissimi pagamenti sodisfare79.
La funzione svolta dai committenti è quindi strategicamente decisiva. E della committenza napoletana il Vasari dà, nella vita di Polidoro, un’immagine ben piú negativa di quella or ora citata. Polidoro, arrivato a Napoli,
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essendo quei gentiluomini poco curiosi delle cose eccellenti di pittura, fu per morirvi di fame80,
per cui ... veggendo poco stimata la sua virtú, deliberò partire da coloro che piú conto tenevano d’un cavallo che saltasse, che di chi facesse con le mani le figure dipinte parer vive81.
Quello di Napoli è presentato come un caso limite, ma anche la Roma quattrocentesca, con i suoi cospicui investimenti artistici, appare a Vasari espressione di un gusto arretrato e periferico: Se papa Eugenio IV, quando deliberò fare di bronzo la porta di san Piero in Roma, avesse fatto diligenza in cercare d’avere uomini eccellenti per quel lavoro; siccome nei tempi suoi arebbe agevolmente potuto fare, essendo vivi Filippo di Ser Brunellesco, Donatello e altri artefici rari; non sarebbe stata condotta quell’opera in cosí sciagurata maniera, come ella si vede ne’ tempi nostri. Ma forse intervenne a lui come molte volte suole avvenire a una buona parte dei principi che o non s’intendono dell’opere, o ne prendono pochissimo diletto. Ma se considerassono di quanta importanza sia il fare stima delle persone eccellenti nelle cose pubbliche per la fama che se ne lascia, non sarebbono certo cosí trascurati né essi né i loro ministri; perciocché chi s’impaccia con artefici vili e inetti, dà poca vita all’opere e alla fama: senza che si fa ingiuria al pubblico e al secolo in che si è nato, credendosi risolutamente da chi vien poi, che se in quell’età si fossero trovati migliori maestri, quel principe si sarebbe piuttosto di quelli servito, che degl’inetti e plebei82.
Lo stigma del provincialismo appare particolarmente evidente in un papa come Sisto IV, bersaglio tradi-
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zionale della polemica politica e culturale fiorentina. Secondo il Vasari, il pontefice, preferendo Cosimo Rosselli a Botticelli, al Ghirlandaio, a Signorelli, al Perugino, avrebbe mostrato la propria incompetenza dando prova di preferire i colori vistosi e costosi di Cosimo alle ingegnose invenzioni degli altri: perciocché que’ colori, siccome si era Cosimo imaginato, a un tratto cosí abbagliarono gli occhi del papa, che non molto si intendeva di simili cose, ancoraché se ne dilettasse assai, che giudicò Cosimo avere molto meglio che tutti gli altri operato. E cosí fattogli dare il premio, comandò agli altri che tutti coprissero le loro pitture dei migliori azzurri che si trovassero e le toccassino d’oro, acciocché fussero simili a quelle di Cosimo nel colorito e nell’esser ricche. Laonde i poveri pittori, disperati d’avere a soddisfare alla poca intelligenza del Padre Santo, si diedero a guastare quanto avevano fatto di buono83.
Per intendere il sapore del passo, sarà opportuno richiamare un altro aneddoto, che il Vasari inserí nella vita di Michelangelo a proposito del Menighella, pittore dozzinale e goffo di Valdarno, che era persona piacevolissima, il quale veniva talvolta a Michelagnolo, che gli facessi un disegno di san Rocco o di santo Antonio per dipignere a’ contadini. Michelagnolo, che era difficile a lavorare per i re, si metteva giú lassando stare ogni lavoro, e gli faceva disegni semplici accomodati alla maniera e volontà come diceva Menighella: e fra l’altro gli fece fare un modello d’un Crocifisso, che era bellissimo, sopra il quale vi fece un cavo, e ne formava di cartone e d’altre mesture, ed in contado gli andava vendendo, che Michelagnolo crepava dalle risa; massime che gl’intraveniva di bei casi: come con un villano il quale gli fece dipignere san Francesco, e dispiaciutogli che il Menighella gli aveva fatto la veste bigia, che
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l’arebbe voluta di piú bel colore, il Menighella gli fece in dosso un piviale di broccato, e lo contentò84.
Il passo ha un evidente valore di topos, anche se l’esistenza storica del Menighella è accertata. Ma questo non c’interessa, qui. Importa piuttosto notare che agli occhi del Vasari i gusti della clientela contadina del Menighella, che ordina quadri con i santi tipici della devozione rurale (san Rocco, sant’Antonio, san Francesco) e ama i colori squillanti e vistosi, coincidono con le predilezioni di un papa come Sisto IV, di cultura e formazione fratesca, legato a un ambiente attardato – per Vasari, s’intende – come quello della Roma quattrocentesca. Periferia sociale e periferia geografica ancora una volta si sovrappongono.
14. Fine del policentrismo e nascita della «terza maniera». Un’operazione radicale, dunque, quella compiuta da Vasari. Una situazione come quella che era venuta allora emergendo in Toscana – uno stato assoluto su base regionale, caratterizzato dalla subordinazione e spoliazione dei vari centri a vantaggio della capitale – veniva proiettata nel passato: il ruolo di Siena o di Pisa veniva sminuito, quello di Pistoia, Volterra o Lucca cancellato, Arezzo si salvava per carità di patria. Ma questa proiezione del presente sul passato, o se si vuole questo adeguamento (che era poi uno schiacciamento) del passato sul presente non era, come abbiamo visto, limitato alla Toscana. A distanza di qualche decennio Vasari tirava le somme di un processo che all’inizio del Cinquecento aveva provocato una duplice cesura, politica e artistica, nella storia della penisola, riducendo drasticamente il policentrismo precedente a vantaggio di pochi centri in grado di conservare una certa autonomia. Gli anni del
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primo Cinquecento che, come si ricorderà, vedono la subitanea periferizzazione del Perugino, costretto a lasciare Firenze dalle polemiche dei «nuovi artefici», sono anni decisivi, in cui sta nascendo e già imponendosi un nuovo paradigma, «la terza maniera che noi – scrive il Vasari – vogliamo chiamare moderna»: quella di Leonardo, Giorgione, del «graziosissimo Raffaello da Urbino» e del «divino Michelagnolo Buonarroti» che «fra i morti e’ vivi porta la palma, e trascende e ricuopre tutti». La «terribile» varietà e la ricchezza della «terza maniera» fa apparire d’un tratto antiquata quella «bellezza nuova e piú viva» che avevan cominciato a usare il Francia bolognese e il Perugino, e dimostra «lo errore» di coloro che «nel vederla corsero come matti [...] parendo loro che e’ non si potesse giammai far meglio»85. È proprio l’imporsi di quella «terza maniera» ad accompagnare un processo di ristrutturazione della geografia artistica italiana – processo che il Vasari registra e contribuisce ad accentuare proiettandolo nel passato.
15. Un caso esemplare: l’Umbria. Seguiamo questa vicenda attraverso un caso esemplare, quello dell’Umbria. Centri come Perugia, Gubbio, Foligno, Todi, Assisi, Montefalco, Spoleto, Orvieto, che tra il Duecento e il Quattrocento avevano avuto una produzione artistica complessa e diversificata, sono stati a lungo vittime dell’ottica centralizzatrice di Vasari, al punto che solo da qualche decennio la pittura umbra anteriore al Perugino è diventata oggetto di analisi specifiche86. Ma nel corso del Cinquecento questo panorama cosí vario tende sempre piú all’uniformità e alla ripetizione. L’innovazione sembra diventare privilegio e caratteristica di pochi centri maggiori.
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Un elemento significativo di questa situazione è la fedeltà a una formula. Si veda la fortuna di un quadro come l’Incoronazione della Vergine di Domenico Ghirlandaio. Dipinta nel 1486 per gli Osservanti di San Girolamo presso Narni, essa venne imitata piú volte per espressa volontà dei committenti: nell’Incoronazione della Vergine della chiesa dei Riformati di Montesanto in Todi, che lo Spagna si era impegnato a fare «pictam de auro cum coloribus et aliis rebus ad speciem et similitudinem tabulae factae in Ecc. Sancti Jeronymi de Narnia», e che fu terminata nel 1511; nell’Incoronazione dipinta dal medesimo Spagna per i francescani di Trevi, e in quella confezionata da Jacopo Siculo nel 1541 per la chiesa dell’Annunciata presso Norcia87. Un altro fenomeno caratteristico è il costituirsi di dinastie locali, particolarmente avvertibile a partire dalla seconda metà del Quattrocento. Il meccanismo sembra piú o meno questo. All’inizio c’è la costituzione di una bottega familiare in cui lavorano padre e figli. I prodotti di questa bottega sono dapprima abbastanza aggiornati, e si appoggiano a formule e schemi recenti che conoscono un grande successo. Il capo della bottega può avere una esperienza abbastanza larga dovuta a viaggi, a una formazione fuori del paese o all’alunnato presso un pittore forestiero attivo nel luogo. Cosí il soggiorno a Norcia di Niccolò da Siena ha potuto influenzare il sorgere degli Sparapane o di Domenico da Leonessa88. La dinastia degli Sparapane comincia la sua carriera dipingendo sull’iconostasi della chiesa di San Salvatore a Campi (presso Norcia) la Madonna col Bambino, santi e storie della vita di Cristo lasciandovi data e paternità: «Questo laurero a pinto Johani de Sparapane et Antonio suo figliolo da Norscia 1464». In seguito, l’utilizzazione dei cartoni e del repertorio formale del capomaestro diviene il consueto modus operandi della bottega, secondo una procedura che poteva assicurare la soprav-
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vivenza di certi schemi addirittura per generazioni. È appunto il caso degli Sparapane di Norcia o degli Angelucci di Mevale89. Via via che passa il tempo cresce lo iato tra la ripetizione di modi e formule, divenuti ormai arcaici, e la produzione dei grandi centri. Queste dinastie erano impiegate da singoli committenti per dipinti votivi, da confraternite o anche da comunità paesane; poteva avvenire che all’ombra di un santuario o di un luogo di pellegrinaggio si stabilisse una dinastia di artisti, come quella dei Lederwasch che a Tamsweg nel Salisburghese furono di padre in figlio addetti alla produzione artistica per lo splendido Santuario di San Leonardo, e la cui casa, attigua alla chiesa, si visita ancora. In un primo tempo questa proliferante pittura periferica, legata a una committenza socialmente omogenea, non presenta ancora i caratteri nettamente ritardatari che assumerà in seguito, quando il solco tra centro e periferia si sarà allargato. Essa mostra anzi una piú vasta propensione e disponibilità agli investimenti artistici da parte di gruppi sociali che fino ad allora si erano scarsamente impegnati in questo senso. Varrebbe la pena di tracciare una mappa delle decorazioni eseguite nel corso del Quattrocento, con chiari intenti edificanti, per chiese od oratori campestri: per limitarsi a qualche caso piemontese tra i molti, si pensi a Domenico della Marca d’Ancona che affresca l’abside della chiesa di Santa Maria di Spinariano presso Ciriè90, a Giacomino da Ivrea, attivo in Canavese e nella Valle d’Aosta intorno alla metà del secolo91, a Giovanni Massucco che lavora nel Monregalese92. L’installarsi in provincia di artisti come Domenico della Marca d’Ancona, provenienti da località remote, magari altrettanto periferiche, si accentua nel corso del Cinquecento: Jacopo Santori di Giuliana, presso Palermo, meglio conosciuto come Jacopo Siculo93, opera tra Umbria e Sabina; sempre in Sabina sono attivi, nella prima metà del secolo, i vero-
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nesi Lorenzo e Bartolomeo Torresani; in Basilicata, nello stesso periodo, troviamo Simone da Firenze94. Parallelamente, pittori rinomati vengono sospinti o risospinti dal centro in periferia, perché incapaci di reggere il passo delle proposte dei «nuovi artefici» e del conseguente mutamento del gusto e delle attese del pubblico. A parte il caso già ricordato del Perugino che da Firenze deve riparare al Montone e alla Fratta, abbiamo il percorso non dissimile di Signorelli, o, precedentemente, quello di Antonio da Viterbo che, dopo aver lavorato a Roma a imprese importanti come gli affreschi di Santa Francesca Romana, viene risospinto nell’agro viterbese dall’attività dei pittori umbri e fiorentini chiamati da Sisto IV, riducendosi a dipingere a Corchiano95.
16. Riflusso e ritardo in periferia. I fenomeni che abbiamo elencato, e cioè: a) la costituzione di dinastie locali con il conseguente perpetuarsi, attraverso l’uso di cartoni e disegni, di certi schemi; b) lo stabilirsi in periferia di artisti di lontana provenienza che non si erano imposti né nei rispettivi paesi di origine, né nei centri artistici piú importanti; c) il rifluire in periferia di artisti già celebri messi in crisi dai mutamenti stilistici in atto, configurano un processo di periferizzazione che relega molte regioni italiane in una condizione di subalternità culturale destinata a prolungarsi nel corso dei secoli successivi. L’affermarsi dello stato assoluto a base regionale, il soffocamento delle autonomie locali e l’accentuata stratificazione gerarchica della società hanno avuto conseguenze importanti sul piano artistico. Data l’assenza di indagini quantitative su scala regionale e la grande scarsità, rispetto al periodo precedente, di indagini sugli artisti «provinciali», ci rifaremo
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all’eccellente volume Ricerche in Umbria96, che analizza i risultati di una vasta inchiesta sulla pittura del Seicento e Settecento in un’area dell’Umbria meridionale. Cercheremo di riassumere gli elementi significativi che emergono da essa e che ci sembrano avere un valore al di là dell’ambito locale. a) Nel Sei e Settecento la regione è ormai parte integrante dello Stato della Chiesa: di conseguenza la provincia tende ad adeguarsi alla metropoli da cui dipende, ricevendone gli impulsi attraverso le committenze di un certo numero di personaggi legati in diversi modi alla capitale. Occorre però far attenzione a non considerare l’area provinciale come un ampliamento puro e semplice della situazione dominante nel centro di influenza. È possibile infatti trovare accanto a presenze scontate delle testimonianze rare ed estravaganti; b) il processo di rifeudalizzazione ha importanti conseguenze all’interno della regione, per quanto riguarda sia il mutamento dei committenti, sia i tipi di richieste. La domanda di opere d’arte si addensa nella città e si dirada nel contado (salvo eccezioni e casi particolari). Essa tuttavia continua dove esistono aree di piccola proprietà o forme associative di proprietà collettiva, mentre cessa nella zona di latifondo; c) le opere inviate in periferia dagli artisti del centro hanno un gusto piú severamente liturgico di quelle che i medesimi artisti approntano per la metropoli; d) mentre nel Seicento c’è una relativa capacità della provincia di reagire all’incontro con la cultura metropolitana, o sintonizzandosi o elaborando varianti, nel Settecento avviene che «le pale giungono da Roma in provincia come un prodotto spe-
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cializzato e privo ormai di concorrenza, talora fino a mobiliare con “pezzi” perfettamente affiatati l’intera batteria di altari di una chiesa o a trasformare le navate in gallerie della coeva pittura romana»97. Su questa immagine di dipendenza resa incondizionata e irreversibile dalla divisione del lavoro e dei ruoli all’interno dello stato potrà arrestarsi la riflessione sulla «periferia come ritardo». A questo stadio non è piú il problema del ritardo a configurarsi, quanto quello della dominazione simbolica su cui avremo modo di ritornare.
17. Ritardo periferico o ritardo di metodo? Ma se non tutti i ritardi sono periferici, come mostra il caso del Perugino cacciato dal centro verso la periferia, non tutte le periferie sono ritardatarie. Supporre il contrario significherebbe far propria una visione unilineare della storia della produzione artistica che da un lato crede possibile identificare una linea di progresso (comunque motivata dal punto di vista ideologico) e dall’altra taccia automaticamente di ritardo ogni soluzione diversa da quella proposta dal centro innovatore. In tal modo si finisce per cercare nell’arte della periferia quegli elementi, quei canoni, quei valori che sono stati stabiliti basandosi per l’appunto sui caratteri delle opere prodotte al centro. Nel caso poi che si riconosca l’esistenza di canoni diversi, essi vengono esaminati esclusivamente in base al paradigma dominante, con un procedimento che porta facilmente a giudizi di decadenza, di corruzione, di caduta di qualità, di rozzezza ecc. Questo è stato il caso per esempio della pittura bolognese o della pittura umbra del Trecento, ridotte per molto tempo al rango di rozze e mediocri imitazioni dell’arte fiorentina o senese.
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Scriveva nel 1855 Jacob Burckhardt: Apparentemente indipendenti [da Giotto] rimasero solo gli inabili. Tra i settentrionali, i bolognesi dovettero essere nel modo piú assoluto e totalmente esclusi dall’influenza della scuola fiorentina. Ma la loro attività e abilità pittorica nel xiv secolo è spaventosamente maldestra e insignificante. Il piú antico di essi, Vitale, un contemporaneo di Giotto, in un quadro della Pinacoteca di Bologna (Madonna in trono con due angeli del 1320) è almeno dolce e aggraziato alla maniera senese, cosí che ci si ricorda di Duccio. Gli altri, per metà giotteschi, per la maggior parte sono cosí scarsi nelle loro opere su tavola, che a Firenze di loro non sarebbe il caso di far parola. E lo stesso modo di procedere, la stessa assenza di talento rimane il contrassegno della scuola fin oltre la metà del xv secolo98.
E Bernhard Berenson nel 19o8 a proposito della pittura umbra prima del Perugino: «Nelli was and remains an idiot»99. Lo stesso Berenson intitolava nel 1918 un saggio dedicato all’orvietano Cola Petruccioli A Sienese little Master in New York and elsewhere il che, come notava R. Longhi, dice abbastanza sia sul basso grado assegnato all’artista, sia sulla sua supposta incondizionata sudditanza alla scuola senese. Era allora infatti in gran voga l’ossessiva esaltazione per i prodotti senesi di tutto il Trecento e la istantanea subordinazione a essi di tutto ciò che in qualche modo li rassomigliasse. [...]. Una specifica cultura pittorica orvietana nella seconda metà del Trecento sembrava inammissibile: che dico, impensabile. Eppure essa era esistita100.
Identificare senz’altro la periferia col ritardo significa, in definitiva, rassegnarsi a scrivere eternamente la storia dal punto di vista del vincitore di turno.
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18. Periferia come scarto. Persino Giorgio Vasari, elaboratore e sostenitore di un modello storiografico monocentrico, ammette la possibilità di una elaborazione autonoma da parte della periferia. La sfida dell’emulazione può essere in certe circostanze determinante per attingere grandi risultati. È sotto il segno dell’emulazione che si compie la formazione del Mantegna: la concorrenza ancora di Marco Zoppo bolognese, e di Dario da Trevisi, e di Niccolò Pizzolo padoano, discepoli del suo adottivo padre e maestro, gli fu di non piccolo aiuto e stimolo all’imparare101.
Similmente l’affermazione artistica di Galasso è vista come una sorta di risposta municipale al successo in Ferrara di un pittore «stranio» come Piero della Francesca: Quando in una città, dove non sono eccellenti artefici, vengono forestieri a fare opere, sempre si desta l’ingegno a qualcuno che si sforza di poi, con l’apprendere quella medesim’arte, far sí che nella sua città non abbiano più a venire gli strani per abbellirla da quivi innanzi e portarne le facultà; le quali si ingegna di meritare egli con la virtú e di acquistarsi quelle ricchezze che troppo gli parsono belle ne’ forestieri. Il che chiaramente fu manifesto in Galasso ferrarese: il quale veggendo Pietro dal Borgo a San Sepolcro rimunerato da quel duca dell’opere e delle cose che lavorò, e oltre a ciò onoratamente trattenuto in Ferrara; fu per tale esempio incitato, dopo la perdita di quello, di darsi alla pittura talmente, che in Ferrara acquistò fama di buono ed eccellente maestro102.
La presenza di una forte emulazione può addirittura
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permettere di modificare la situazione subalterna di un’area provinciale. Avviene infatti che ... cominciando un solo molti si mettono a far concorrenza di quello; e tanto si affaticano, senza veder Roma, Fiorenza, o altri luoghi pieni di notabili pitture, per emulazione l’un dell’altro, che si veggiono da loro uscir opere maravigliose. Le quali cose si veggiono essere avvenute nel Friuli particularmente, dove sono stati a’ tempi nostri (il che non si era veduto in que’ paesi per molti secoli) infiniti pittori eccellenti, mediante un cosí fatto principio103.
In qualche rara occasione «mediante un cosí fatto principio» possono dunque nascere «opere meravigliose», «senza veder Roma, Fiorenza». Nel seguito del discorso il Vasari finisce però per smorzare i giudizi del tutto positivi dati nel proemio e per limitare a piú riprese (rispetto a Tiziano, al Beccafumi ecc.) l’opera del Pordenone. Quella specie di miracolo che aveva permesso la nascita fuori dal centro di «opere maravigliose» non si spingerà fino a fare della periferia un luogo alternativo al centro; nel sistema vasariano non c’è spazio per soluzioni di questo tipo. Di fatto è questo un caso che si è puntualmente e a più riprese presentato; oltre che luogo di ritardo la periferia ha potuto essere sede di elaborazioni alternative. Questa affermazione richiede un breve chiarimento terminologico: diverso e alternativo non sono sinonimi; non tutte le variazioni sono definibili come alternative, come scarti. Utilizziamo quest’ultimo termine nella particolare accezione di «spostamento laterale improvviso rispetto a una traiettoria data» che si usa per esempio parlando di certi movimenti dei cavalli: lo scarto è, insomma, una specie di «mossa del cavallo», e l’uso di questo termine consente di evitare espressioni connotate negativamente quali «deviazione» o simili. Nell’am-
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bito dei fatti artistici si può intendere per «traiettoria data» la lingua artistica corrente. Formule come «lingua» o «linguaggio artistico» sono entrate talmente nell’uso che la loro natura metaforica si è pressoché cancellata. Di fatto l’analogia tra lingua in senso proprio e lingua artistica è tutt’altro che pacifica, e per di piú zoppicante104. Se nonostante tutto ci serviremo di termini come codice e lingua, lo faremo con la consapevolezza di introdurre metafore che, piú che risolvere un problema, lo pongono. Nonostante tutto ciò che è stato autorevolmente scritto sulla «grammatica» del linguaggio artistico, non siamo attualmente in grado di distinguere in maniera rigorosa tra «variazioni» e «scarti», tra prestiti lessicali e strutture sintattiche. Ció che conta tuttavia è che una distinzione del genere, anche se diversamente formulata, era presente a un pubblico di intenditori in una data situazione storica. Questo intendeva infatti il Vasari quando, a proposito del Pontormo, scriveva: Né creda niuno che Jacopo sia da biasimare, perché egli imitasse Alberto Duro nell’invenzioni, perciocché questo non è errore, e l’hanno fatto e fanno continuamente molti pittori: ma perché egli tolse la maniera stietta tedesca in ogni cosa, ne’ panni, nell’aria delle teste e l’attitudini; il che doveva fuggire, e servirsi solo dell’invenzioni, avendo egli interamente con grazia e bellezza, la maniera moderna105.
Per Vasari la contrapposizione tra «maniera» e «invenzioni» è netta: la «maniera moderna» è perfettamente in grado di assimilare le invenzioni dei tedeschi. L’errore del Pontormo, nell’ottica normativa del Vasari, è stato di abbandonare le forme tipiche della «maniera moderna», per assumere la «maniera stietta tedesca». A noi le «invenzioni», cioè le composizioni, possono apparire elementi piú profondi e caratterizzanti di uno stile
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che non i panni, l’aria delle teste o delle attitudini. Ma questo, qui, poco importa. L’essenziale è che il Vasari distinguesse tra elementi che potevano essere impunemente mutuati e altri che non potevano esserlo senza far saltare il quadro di riferimento. Nel caso del Pontormo si trattò dunque di un vero e proprio «scarto». Non fu, come è noto, un fenomeno isolato. In uno scorcio fulminante Roberto Longhi accostò al «manierismo» del Genga, del Beccafumi, del Rosso e del Pontormo, l’opera dell’Aspertini, vero nodo di comunicazione spirituale fra quei moti del centro e quelli affini del nord d’Italia; altrettanto importante insomma per intendere la improvvisa diserzione dal «classicismo cromatico» di Giorgione e di Tiziano giovane da parte di un gruppo di veneti e soprattutto friulani bresciani vicentini trentini e cremonesi nel corso del secondo decennio106.
I protagonisti di questa guerriglia anticlassica operano in situazioni eccentriche, o si servono di armi importate da una cultura periferica come quella tedesca. Tale almeno essa appariva al Vasari, che notava sarcasticamente: ... sono le cere di tutti que’ soldati fatti alla tedesca con arie stravaganti, ch’elle muovono a compassione chi le mira della semplicità di quell’uomo, che cercò con tanta pacienza e fatica di sapere quello che dagli altri si fugge e si cerca di perdere, per lasciar quella maniera che di bontà avanzava tutte l’altre, e piaceva ad ognuno infinitamente. Or non sapeva il Puntormo che i Tedeschi e Fiaminghi vengono in queste parti per imparare la maniera italiana, che egli con tanta fatica cercò, come cattiva, d’abbandonare?107.
Né si trattava solo di pregiudizio italocentrico del Vasari, come mostra l’atteggiamento del Dürer verso
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la cultura figurativa italiana, durante i suoi viaggi a Venezia. Nel caso del Pontormo la scelta in direzione periferica si accompagna, come emerge dal suo Diario oltre che dai racconti del Vasari, a una vera e propria autoesclusione materiale dal consorzio degli amici e colleghi pittori. In altre situazioni ci troviamo di fronte a casi di una periferizzazione subita e patita, oppure deliberatamente accettata. Ma il problema non si esaurisce nei casi di resistenza individuale che, di fronte a un centro che non lascia spazio alla diversità, riescono a trovare sbocco, o anche solo una possibilità di sopravvivenza, nell’area periferica. Esso va visto in termini piú vasti, fino a comprendere i casi in cui lo «scarto», l’alternativa, l’opposizione rispetto a certi modelli siano atteggiamenti prevalenti in un’intera area.
19. La resistenza al modello. Nella ricostruzione della Cattedrale di Chartres, distrutta da un incendio nel giugno 1194, un ignoto maestro utilizzò soluzioni nettamente innovatrici, unificando e standardizzando i supporti, riducendo al massimo la tridimensionalità delle pareti con l’eliminazione dei matronei e l’attenuazione di ogni accenno alla profondità, creando insomma un modello di schermo bidimensionale che aprí la strada verso quell’involucro diafano destinato ad avere eccezionali applicazioni nell’Île de France nel corso del Duecento. Ma un certo numero di architetti, operosi tra la Borgogna, il bacino lemanico e la valle del Rodano, non accettarono questa soluzione e ne proposero altre, o piuttosto (se trascuriamo le differenze contingenti), un’altra. Di fronte a questa situazione gli storici dell’architettura continuarono per generazioni a parlare di ritardo; solo in tempi
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relativamente recenti ci si accorse che non di ritardo si trattava, ma piuttosto di coerente resistenza108. È evidente che resistenza e ritardo sono fenomeni ben diversi, attivo l’uno, passivo e subordinato l’altro. La soluzione degli oppositori a Chartres non era d’altronde meramente legata a modelli piú antichi: si trattava piuttosto dell’elaborazione, estremamente originale, di una sorta di seconda parete leggera e traforata posta dinanzi all’altra, che consentiva un recupero percettivo degli effetti della parete tridimensionale. Di fronte all’innovazione chartriana questa proposta alternativa tentava di conservare, trasformandoli, elementi che la nuova soluzione invece eliminava. Grazie alla centralità che l’Île de France venne ad assumere sul piano politico, economico e culturale, fu il modello di Chartres a prevalere.
20. Modello e nuovo paradigma. Ora se ritorniamo in Italia, e precisamente a Firenze agli inizi del Trecento, ci troviamo di fronte a soluzioni di resistenza, di proposte alternative, e finalmente di periferizzazione delle alternative, che possono avere qualche punto in comune con il caso della resistenza a Chartres. Le soluzioni impostate da Giotto in campo pittorico avevano avuto un valore anche piú dirompente di quelle avanzate dal maestro di Chartres. Con Giotto infatti era sorto a Firenze un nuovo paradigma che aveva bruscamente alterato la situazione, relegando di colpo ai margini della galassia artistica chi a esso non aderiva. Usiamo l’espressione «nuovo paradigma» mutuandone l’accezione dalla storiografia della scienza109 per indicare l’emergere di un linguaggio non solo nuovo, ma talmente prestigioso da imporsi come normativo e tale da
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esercitare un’azione inibitoria su coloro che, per una ragione o per l’altra, ne sono esclusi. Una efficace descrizione dell’azione che un nuovo paradigma può avere è data da Vasari quando parla dell’effetto sconcertante che le opere romane della «terza maniera» ebbero su coloro che per la prima volta le vedevano: ... chi muta paese o luogo, pare che muti natura, virtú, costumi, ed abito di persona, intanto che talora non pare quel medesimo, ma un altro, e tutto stordito e stupefatto. Il che poté intervenire al Rosso nell’aria di Roma, e per le stupende cose che egli vi vide di architettura e scultura, e per le pitture e statue di Michelagnolo, che forse lo cavarono di sé: le quali cose fecero anco fuggire, senza lasciar loro alcuna cosa operare in Roma, Fra Bartolomeo di San Marco e Andrea del Sarto110.
La prima conseguenza che ebbe a Firenze e in Toscana sugli inizi del Trecento l’imporsi del paradigma giottesco fu quella di periferizzare un buon numero di artisti e, addirittura, di antichi centri111. In un primo tempo coesistette tuttavia a Firenze, assieme a Giotto e ai giotteschi di piú stretta osservanza, un gruppo di pittori eterodossi che, pur accettando alcuni elementi basilari delle proposte di Giotto – il che li salvò dal rischio di una immediata periferizzazione – divergevano su alcuni punti dal nuovo paradigma e, per esempio, tentavano di portare avanti le esperienze espressive che erano state di Cimabue. Questa dissidenza fu dapprima tollerata; ma presto le cose cambiarono, come mostra con evidenza la situazione fiorentina intorno al 1340-50 se la si confronta con quella attorno al 1310-1320. Verso il 1340-5o dopo la morte di Giotto la sua visione continuava a condizionare talmente i pittori fiorentini allora operanti in città, che l’ortodossia giottesca non solo dominava, ma respingeva qualsiasi alternativa
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alla sua linea. Dai primi del secolo agli anni ’20 la pittura fiorentina invece presenta uno spettacolo tutt’altro che unitario e accanto ai giotteschi di stretta osservanza («Maestro della santa Cecilia», Pacino di Bonaguida, Jacopo del Casentino) c’erano casi di aperta dissidenza portati avanti da maestri («Maestro di Figline», Lippo di Benivieni, Buffalmacco, «Maestro del Codice di san Giorgio», ecc.) che tentavano un’apertura verso i modi piú apertamente gotici o un recupero delle antiche tendenze espressive e patetiche112. Si tratta di un episodio di «resistenza a Giotto» da parte di un gruppo di pittori che, pur ritenendo certi aspetti fondamentali della lezione giottesca, non solo non intendono rinunciare alla ricerca espressiva della fine del Duecento, ma ne sostengono l’attualità. È quindi chiaro che non si tratta di ritardo o di attaccamento a un modello superato, quanto di una proposta alternativa che intende mostrare quali sviluppi si possano trarre da certe premesse di cui si scorge tutta la fecondità. Per certi aspetti la situazione si potrebbe paragonare a quella degli architetti che operano nel senso della «resistenza a Chartres» e che proclamano l’attualità di un sistema derivato dal «muro spesso» anglonormanno113. Quando in un centro si impone un sistema di forme e di schemi che riceve l’appoggio di un potente gruppo di committenti e che pertanto finisce col determinare le domande e le attese del pubblico, i «diversi» debbono piegarsi o espatriare verso situazioni culturali meno determinanti. È proprio quando le tendenze «irregolari» vengono meno a Firenze che cessano le notizie sull’attività di Buffalmacco nella città e cominciano le menzioni di questo pittore in altri centri114. Buffalmacco, che rappresenta una linea «scartante» rispetto a quella di Giotto, sarà dunque costretto nel corso del terzo decennio del Trecento a lasciare il centro piú prestigioso per lavorare ad Arezzo, Pisa, Bologna; analogamente una
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fronda espressionistica potrà trovare accoglienza e sviluppo a Pistoia115. Va ricordato a questo punto il quadro geografico di questa vicenda, una ... Italia municipale, non regionale, che è esistita per secoli, indomita, troppo vigorosa e aspra per essere selvaticamente paga di sé, per potersi chiudere nel suo guscio, ma troppo anche per accettare una docile subordinazione politica o letteraria alla regione o alla nazione116.
Politica, letteraria o artistica; quest’ultima produzione è infatti una componente importante dell’identità municipale cosí gelosamente custodita. La periferia che fornisce all’eventuale «scarto» una base territoriale non è mai una periferia amorfa o indifferenziata, al contrario.
21. L’alternativa di Avignone. Tra questi pittori di fronda uno, il Maestro del Codice di san Giorgio, dovette cercare un punto d’appoggio ad Avignone117. Parlare di Avignone, nel Trecento sede della corte papale, come di una periferia, è evidentemente un assurdo e un controsenso. Tuttavia occorrerà intendersi sul significato dei termini: se la rilevanza economica, politica, religiosa subitamente assunta dalla città provenzale è indiscutibile, per un certo tempo essa rimase, dal punto di vista dell’arte, di chi se la pigliava. Per la pittura si trattò di italiani, senesi o fiorentini come Simone Martini o il Maestro del Codice di san Giorgio: ma l’assenza di una tradizione in qualche modo vincolante favorí lo svolgersi di una pittura assai lontana dai canoni e dagli schemi abituali nei maggiori centri italiani. L’eccezionale fortuna e il personalissimo linguaggio di un artista viterbese, in qualche modo eccentrico e di nascita e di cultura, come Matteo Giovannetti, pittore
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dei papi per oltre un ventennio, può trovare cosí una spiegazione. Alcune soluzioni da lui proposte non sarebbero certamente state accettate là dove fosse stata operante una forte tradizione. Ne è una conferma il fatto che gli «scarti» di Matteo Giovannetti, i quali ebbero ottima accoglienza nella nuova capitale papale e un rilevante impatto europeo118, siano stati in seguito occultati da una tradizione storiografica sorta e sviluppatasi a Firenze, portata ad accettare e a celebrare norme e canoni diversi e piú ortodossi. Il nome stesso del pittore viterbese disparve fino alla fine dell’Ottocento e, anche quando fu ritrovato negli archivi vaticani, le opere del Giovannetti non mancarono di suscitare profonde diffidenze119. In effetti alla luce delle consuetudini artistiche di Firenze e di Siena le soluzioni avignonesi rappresentano delle varianti sostanziali; la simmetria, l’equilibrio, la coerenza delle figurazioni, l’impaginazione delle scene, le arie e i volti dei personaggi, subiscono modificazioni sensibili, addirittura distorsioni destinate a diventare però, come ormai generalmente si ammette, un punto di partenza per la pittura del gotico internazionale. Questi «scarti», che fornivano alla pittura europea un’apertura verso l’avvenire, sono stati possibili ad Avignone per diverse ragioni, e in primo luogo per il mutare dei committenti e del pubblico. Intorno al 1340-50 la fisionomia della corte papale è profondamente trasformata rispetto agli inizi del secolo. Il papa e la maggioranza dei cardinali provengono dalla Francia meridionale, il pubblico che ha accesso al palazzo è quanto mai eterogeneo; gli artisti stessi operano in condizioni diverse da quelle allora consuete in Italia. Le équipes che lavorano sotto la direzione di Matteo Giovannetti comprendono toscani di varia origine (senesi, lucchesi, aretini, fiorentini), viterbesi, parmensi, piemontesi, pro-
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venzali, lionesi, inglesi, tedeschi120. La rete dei riferimenti disponibili, infine, include esempi gotici di maestri della Francia del Nord o d’Inghilterra, e una cultura figurativa occitanica, in grave declino dopo la guerra contro gli albigesi, ma pur sempre esistente. Tutti questi elementi fanno di Avignone in quegli anni un caso di «doppia periferia» artistica: nel tramonto della cultura occitanica i punti di riferimento sono la pittura dell’Italia centrale e il disegno gotico del Nord.
22. Le regioni di frontiera. Non si tratta di un fenomeno isolato. In diversi momenti le regioni di frontiera italiane si sono trovate in situazioni analoghe: e la condizione di «doppia periferia» propria a queste marche di confine poté addirittura stimolare la nascita di aree-cerniera, luogo d’incontro di culture diverse e punto di partenza di esperienze originali. Era stato questo il caso del Piemonte alpino nel primo Quattrocento, ai tempi del ducato di Amedeo VIII, quando, grazie all’incrociarsi di artisti di diversa origine culturale (Italia, Borgogna, alto Reno) quest’area divenne un haut lieu del gotico internazionale. Per molti centri e regioni italiane, da Roccaforte Mondoví a Ripacandida in Basilicata, il linguaggio tardo-gotico rappresentò un ultimo momento di integrazione, di omogeneità, di partecipazione su un piede di parità alla produzione artistica. Ciò che venne dopo non ebbe, per molto tempo, un’autorevolezza paragonabile: solo quella che Vasari chiama la «maniera moderna», la cui accettazione o meno segnò una prima linea di discriminazione tra centri e periferie, diede luogo a un nuovo paradigma che mise definitivamente fuori gioco l’antico. Le prime formulazioni rinascimentali avevano invece coesistito, senza effetti paralizzanti, con
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quelle tardo-gotiche121. Ma proprio l’allargamento del fossato tra centro e periferia all’interno della penisola rese possibile il costituirsi dell’Italia come centro artistico rispetto a una periferia europea. Ancora una volta nel Piemonte occidentale si manifesta un altro caso di «scarto» che trae profitto dalla situazione di «doppia periferia» della regione. È quello di Defendente Ferrari che rielabora, in forme che avranno una notevole eco nell’area alpina122, elementi di diversa origine, provenzali, fiamminghi, renani, lombardi, proponendo modelli significativamente distanti dai paradigmi che stavano ormai diffondendosi in tutt’Italia. Questa distanza non è dovuta all’ignoranza o all’informazione tardiva sugli avvenimenti artistici fiorentini o romani. Opere di Raffaello, come la Madonna d’Orléans (ora a Chantilly) avevano circolato in Piemonte: il duca Carlo II che la possedeva ne aveva addirittura fatta eseguire nel 1507 una copia (perduta) da Martino Spanzotti; le copie superstiti, fatte da Defendente o da Giovenone, mostrano a sufficienza la diffusione del prototipo. Piú tardi, ma prima del 1564, una copia del Giudizio di Michelangelo sarà dipinta sulle mura della Madonna dei Boschi di Boves123. Il cammino di apparente rigoticizzazione seguito da Defendente non è dunque il prodotto di un ritardo periferico, ma piuttosto di uno scarto deliberato, nella cui scelta ha un peso indiscutibile il carattere devozionale di gran parte della sua produzione. Ma proprio su questo piano si rivela l’intreccio di arcaismo e novità che cosí spesso caratterizza la faticosa elaborazione delle alternative periferiche. L’iscrizione che accompagna il Commiato del Cristo dalla Madre suona infatti: Tu che conte(m)pla del viso lo perspicace et acuto potere nel deifi | co simulacro del sacrato intuito destina el vivo radio et ne la | mente sigilla quanto in ver de la dilecta matre
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pare che con summa hu | militate la inefabile sapientia clementissimamente si exhibischa et | con quale gratia la materna compassione al coresponder si monstra | con affanato cordoglio (resultante et maiore) per la memoria | del parato suplicio che nel cuore fixamente | inpresso teneva considerato bene124.
Ciò che viene proposto al riguardante non è dunque la reazione immediata e quasi fisiologica di fronte all’immagine sacra, ma una proiezione ben piú complessa. L’antivedente memoria di Maria, che scorge nel futuro il supplizio del figlio, viene additata come modello alla memoria del riguardante. Le «istruzioni per l’uso», formulate in una lingua ricca di latinismi, invitano un pubblico verosimilmente clericale a leggere compiutamente le implicazioni psicologiche dell’immagine. Puntualmente la devozione neogotica di Defendente Ferrari lo porterà a fiancheggiare le ricerche di taluni manieristi125. Di fatto réculer pour mieux sauter sembra essere un elemento ricorrente nell’elaborazione dello scarto periferico. Convergono in questo senso da un lato, le attese del pubblico e dei committenti, dall’altro la volontà di aggirare una situazione senza uscita imboccando vie lontane nel tempo e nello spazio.
23. L’esilio del Lotto. Si dànno anche casi in cui la ricerca di un’alternativa si traduce fisicamente nell’esilio. Prendiamo l’esempio canonico di Lorenzo Lotto. Quasi tutta la sua vita trascorse fuor di Venezia, e fuor di Venezia si trova la maggior parte dei suoi dipinti: a Treviso, a Bergamo e nelle valli bergamasche, nelle città, nei borghi e nei paesi posti lungo le coste e su per i colli delle Marche, da Ancona a Recanati, a Fermo, a Jesi, a Cingoli, a
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Monte San Giusto, a Loreto, dove il pittore morì ritirato in convento. Certo, Bergamo attorno al 1515 non poteva esser considerata una periferia. L’attività in loco di Lorenzo Lotto andrà considerata semmai parte della penetrazione della cultura figurativa veneta in una città che fino a pochi anni prima aveva visto lavorare Bramante, Filarete, Amadeo. D’altra parte a Venezia verso quest’epoca, come già a Firenze negli anni 1310-20, non si era ancora imposto un unico paradigma. Su questo sfondo va vista la decorazione della Cappella Suardi a Trescore, nelle valli bergamasche (1524)126. Qui moduli iconografici arcaizzanti (il Cristovite o la sequenza narrativa in cui, come in un Sacro Monte, la vicenda si svolge in tante stazioni, palazzi, logge, prosceni) vengono sottoposti a un’audace rielaborazione naturalistica. Dalle dita di Cristo si dipartono i tralci che inquadrano martiri, confessori, profeti, padri della Chiesa. I due piani della rappresentazione, quello storico (le scene della vita e del martirio delle sante) e quello metastorico (la vigna di Cristo vanamente assaltata dagli eretici) sono sovrapposti, entrambi prospetticamente inquadrati, ma radicalmente distinti nelle proporzioni. Ancora una volta la proposta alternativa presuppone un uso spregiudicato di elementi decisamente arcaici di cui vengono viste le potenzialità innovatrici. A Venezia tutto questo non sarebbe stato, evidentemente, possibile; ma anche un’opera come la pala dei Carmini che non presentava effetti cosí sconcertanti appariva a Ludovico Dolce «di queste cattive tinte [...] assai notabile esempio». Giudizio sprezzante che seguiva, quasi come un’esemplificazione, il ragionamento messo in bocca all’Aretino in cui si insisteva sulle convenzioni da rispettare nell’uso dei colori:
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È vero che queste tinte si debbono variare, et aver parimente considerazione ai sessi, alle età et alle condizioni. Ai sessi ché altro colore generalmente conviene alle carni d’una giovane et altro ancora d’un giovane; all’età, ché altro si richiede a un vecchio et altro pure a un giovene; et alle condizioni, ché non ricerca a un contadino quello che appartiene a un gentiluomo127.
La reazione negativa di un ambiente di committenti e di critici orientati verso Tiziano è testimoniata dalla scarsità delle opere fatte – a intervalli di lunghi anni – per Venezia. La piú straordinaria è la paletta di San Zanipolo, dipinta per un convento amico presso il quale aveva a lungo soggiornato, mentre, come scrive il Lanzi, che pur aveva apprezzato «i nuovi partiti di tavola» in cui il Lotto era stato «de’ primi e de’ più ingegnosi», la sua declinazione si può conoscere fin dal 1546, epoca scritta nel quadro di San Jacopo dell’Orio128.
Quest’opera fu eseguita durante l’ultimo soggiorno del Lotto a Venezia. Aveva lasciato Treviso dove, diceva, «non guadagnava da spesarmi», e cercava di sopravvivere adeguandosi al gusto e ai modelli di Tiziano, rendendoli piú spogli e devoti. Chiusa questa parentesi, e lasciata definitivamente Venezia per le Marche, Lotto ritroverà a Loreto, lontano dai modelli incombenti, la libertà espressiva che farà apparire cosí moderna l’incompiuta Presentazione di Gesú al Tempio129. Dopo Bergamo sono dunque le Marche a concedere al Lotto uno spazio per la sua pittura. Una regione tradizionalmente legata a Venezia, almeno nella fascia adriatica, per cui i pittori veneziani avevano lavorato fin dal Trecento, ma che nel corso del Cinquecento perde gradatamente la sua importanza politica ed economica.
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Ciò significa che gli esempi piú moderni del Lotto troveranno qui un luogo di libertà, non di avvenire e che la sua linea non avrà continuatori né propagandisti, se non in qualche episodio locale e molto limitato130.
24. Urbino e Barocci. Qualche anno dopo la morte del Lotto, Federico Barocci lasciava nel pieno del successo Roma per riparare precocemente e precipitosamente in patria, in una Urbino declinante. A farlo fuggire sarebbe stata, nella versione dei biografi, la malattia, seguita a un tentativo di avvelenamento. Non si può escludere che dietro questo gesto ci fossero motivazioni piú complesse131: certo è che la fuga fu definitiva. Per decenni il Barocci, creatore di sacre immagini ammirate da san Filippo Neri, vegliardo dispeptico ricercato da duchi e cardinali, instancabile disegnatore attento al naturale, pittore intellettuale che cercava nell’accordo musicale il modello di quello cromatico, continuò ossessivamente a inserire nei suoi quadri l’immagine di Urbino posta a raffigurare quella «città di Gerusalemme in veduta» accompagnata dal «magnificentissimo palagio» del duca a suggello delle piú diverse scene evangeliche. Questa scelta a favore di una città destinata a un’ormai prossima emarginazione parve al Bellori una vera e propria diserzione: Dirò di piú quello che parrà incredibile a raccontarsi: né dentro, né fuori d’Italia si ritrovava pittore alcuno, non essendo gran tempo che Pietro Paolo Rubens il primo riportò fuori d’Italia i colori, e Federico Barocci, che avrebbe potuto ristorare e dar soccorso all’arte, languiva in Urbino, non le prestò aiuto alcuno132.
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L’esule periferico assume questa volta le vesti del salvatore mancato. In uno spirito forse non dissimile si è supposto che un’affermazione di Lotto in patria avrebbe avviato «l’arte veneziana (e forse non l’arte soltanto) [...] in direzione del Rembrandt e non del Tintoretto»133.
25. Il Seicento e il Settecento. Nel Seicento gli scarti periferici assumono forme meno drammatiche e vistose. Con l’avanzare della ristrutturazione politica ed economica la situazione tende a stabilizzarsi, ribadendo lo iato che si è aperto nel secolo precedente tra centro e periferia. Ridotti grandemente il numero e l’autonomia degli antichi centri municipali, si vengono a imporre codici differenziati, validi gli uni per la metropoli, gli altri per la provincia. Cosí in una periferia sottomessa e rassegnata le possibilità dello scarto diminuiscono di molto134. E tuttavia le opere abruzzesi del Tanzio, quelle marchigiane del Gentileschi, il ritorno del Bassetti a Verona, di Niccolò Musso a Casale Monferrato e, fra tutti memorabile, quello dello stesso Tanzio – che allora scarta decisamente rispetto al Morazzone e al contesto lombardo – in Valsesia, sono da leggersi in questa chiave. Un quadro come l’«ex voto proletario» di Tanzio con i contadini di Camasco stretti attorno al «Divvo Rocho in Adversis Intercessori», riprende la tradizione degli stendardi processionali, fin da quello del Foppa a Orzinuovi, indicando con chiarezza come il vecchio fondo devozionale della provincia potesse divenire un riparo per i naturalisti della diaspora romana. Si tratta di una resistenza destinata a prolungarsi nel tempo. Il piú bel ritratto di gruppo del Settecento italiano, I canonici di Lu di Pier Francesco Guala, è immerso nella penombra di una chiesa monferrina, l’armata dei
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gueux del Ceruti cresce sui muri delle ville del Bresciano. Esiste in provincia, almeno in una certa provincia disposta agli investimenti simbolici, una committenza relativamente indipendente nelle scelte dai dettami della metropoli. La ripresa della tradizione municipale costituisce uno dei fatti centrali della cultura settecentesca. Di questo rinnovato fervore di ricerca le Lettere Pittoriche raccolte dal Bottari, quindi aumentate e ripubblicate dal Ticozzi, forniscono piú di un esempio. «A Cento – scrive l’Algarotti a un suo corrispondente veneziano – io vi so ben io dire che avreste trovato dove puntare il vostro occhialino»135. Luigi Crespi, che incoraggia la pubblicazione di descrizioni e guide locali, biasima le descrizioni dell’Italia allora piú diffuse per non aver nominato Volterra, Cortona o Pescia, e lamenta l’assenza di scritti sulle città delle Romagne: Così fosse stato fatto delle pitture di tante città della Romagna che i molti valenti professori che vi fiorirono, non rimarrebbero tutt’ora in buona parte incogniti, e le tante belle operazioni loro non sarebbero o state disperse, o tuttavia neglette con danno notabile delle rispettive città, de’ professori e delle famiglie, ma sarebbero state, e tuttora sarebbero, nella dovuta stima conservate, ammirate, e da’ viaggiatori visitate! Ha ella, per esempio, cognizione d’un certo Cristofano Lanconello? di un Gio. Batista Bertuccio? d’un Palmeggiani?136.
Per il Crespi tutto ciò che in qualche maniera può illustrare una città, deve sempre manifestarsi, per eternare al possibile la memoria di chi ne fu il promotore o il produttore [...]. Che se ciò è pur vero di qualunque cosa virtuosa in generale [...] quan-
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to piú si verificherà trattandosi delle tre arti nobilissime, di pittura, scultura ed architettura, mercè le quali sole, può dirsi che distinguonsi le città che vengono esse visitate da dotti viaggiatori [...] e benché professate, per lo piú, da artefici di oscuro e talvolta vile lignaggio, pur mercè di loro, stima ed onore distinto da tutto il mondo eglino riscuotono e ricevono?137.
Nello stesso senso si esprimono il Ratti e tanti altri corrispondenti. Motivo ricorrente di questi discorsi è l’esaltazione delle arti, che, «benché professate, per lo piú, da artefici di oscuro e talvolta vile lignaggio», attraggono sulle città l’attenzione di «dotti viaggiatori», «principi intelligenti», «eruditi e studiosi», «dotti scrittori». La ricostruzione storica della gloria delle piccole patrie, siano esse Cento, Faenza, Forlí o Pescia, Cortona, Volterra, avviene negli stessi anni in cui si ricercano le antiche tradizioni, preromane138 o medievali. Sembrava dunque aprirsi un nuovo spazio per la periferia: ma questo non doveva avvenire che per certe aree piú prospere. In gran parte d’Italia la situazione non concederà alcun recupero139.
26. Centro e periferia, persuasione e dominazione. Non è certo una novità affermare che le immagini possano essere strumenti di persuasione e di dominazione, nel rapporto, mai pacifico, tra centro e periferia. Talora, ove si tratterà di mettere in valore l’effige del sovrano e delle sue insegne, sarà un impiego diretto: e basti ricordare come Bonifacio VIII abbia utilizzato e fatto utilizzare il proprio simulacro per sancire, da Orvieto a Bologna ad Anagni, il dominio della Chiesa e il proprio personale potere; come la statua equestre di Azzone Visconti sovrastasse sudditi e fedeli dal sommo
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dell’altar maggiore di San Giovanni in Conca; come le armi sulle porte delle città venissero dipinte e cancellate secondo il mutare di signoria, o come gli apparati per le entrate trionfali sancissero il potere e la magnanimità del signore. Molto frequentemente l’uso delle immagini può essere piú indiretto, entrando in un discorso politico piú generale: e anche qui gli esempi non mancano, dalle imprese dei longobardi dipinte nel Palazzo di Teodolinda a Monza, ai padri della Chiesa che Martino I fece dipingere sui muri di Santa Maria Antiqua dopo il Concilio laterano del 649 per combattere l’eresia monotelita appoggiata da Costantinopoli, fino alle scene del Risorgimento dipinte da Cesare Maccari, Amos Cassioli e compagnia nella sala Vittorio Emanuele del Palazzo Pubblico di Siena, o a episodi ancor piú prossimi a noi di cui la produzione artistica del periodo fascista ci propone gran numero di esempi. In altri casi si tratterà di decifrare gli scontri politici attraverso le cicatrici delle immagini, chiarendo come un certo stile e certe formule di rappresentazione possano essere state imposte. La Ruthwell Cross o i capitelli di Santo Domingo de Silos hanno rivelato l’esistenza di autentiche battaglie simboliche in cui, nel corso del Medioevo, un nuovo stile, appoggiato da un’autorità politica e religiosa, veniva imposto, contro la resistenza di una cultura autoctona140. L’adozione coatta di modelli stilistici e iconografici provenienti dal centro, l’elaborazione al centro di codici stilistici differenziati validi gli uni per la metropoli, gli altri per la periferia, il sacco dei beni simbolici del paese sottomesso, il flusso dei migliori talenti dalla periferia verso il centro e quello, in senso inverso, dal centro verso la periferia di prodotti ad alto potenziale simbolico, sono forme ed episodi in cui si manifestano i modi di dominazione. Nell’impossibilità di trattarne diffusamente in modo organico si procederà attraverso
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una sorta di enumerazione tipologica che permetta di esemplificare casi e problemi.
27. La dominazione simbolica. Per identificare alcuni aspetti significativi del rapporto di dominazione simbolica si potranno seguire, partitamente, le posizioni di alcuni elementi che compongono il campo artistico: le opere, gli artisti, i committenti, il pubblico. Di tutti questi il pubblico fa figura di elemento immobile nel continuo spostamento degli altri tre, ma è al tempo stesso il meno studiato, e perciò il piú inafferrabile; la nostra indagine sarà dunque condotta di preferenza sugli altri, e, prima di tutto, sulle opere. Possiamo distinguere qui varie situazioni che vanno dal momento assolutamente negativo della distruzione, autentico grado zero nella scala, all’invio dal centro verso la periferia di opere di altissimo livello, passando attraverso fasi diverse. Non staremo a insistere su quello che abbiamo chiamato il grado zero; grosso modo le distruzioni dovute al conflitto centro-periferia possono essere di due tipi, o discendenti direttamente dalla volontà di eliminare le testimonianze della cultura dell’area sottomessa, o piú indirettamente causate dal poco conto in cui vengono tenuti nelle città suddite i prodotti della propria antica cultura. Sono esempio del primo caso le distruzioni delle antiche «delizie» ducali poste fuori delle mura di Ferrara dopo la devoluzione degli stati estensi alla Santa Sede: radicale cancellazione delle testimonianze architettoniche dell’antico potere giustificata da uno storico ferrarese col fatto che il dispendio inutile che avrebbe sostenuto la Camera per conservarle, e le fortificazioni delle mura naturalmente
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opposte a simili delicatezze, non permettevan loro piú lunga durata141;
dell’altro i lamenti sulla situazione del patrimonio artistico delle città di provincia, tanto frequentemente documentati nelle Lettere Pittoriche. Discorso piú lungo merita la razzia dei beni simbolici. Da Carlo Magno che porta da Ravenna ad Aquisgrana la statua equestre del cosiddetto Teodorico, alle requisizioni estese in tutta Europa per la costituzione del Musée Napoléon142 a quelle hitleriane in vista della creazione del supermuseo di Linz143, la storia di queste romanzesche e avventurose rapine è largamente divulgata. Biblioteche (come la Palatina di Heidelberg sottratta dopo la battaglia della Montagna Bianca dal duca di Baviera all’Elettore palatino e donata quindi al papa, come segno di vittoria sui protestanti e di reverente sottomissione) raccolte d’arte, statue equestri, pale d’altare, ritratti, sculture abbandonano i loro luoghi di origine per essere trasferiti nelle capitali di cui occorre incrementare il primato simbolico144. Il fatto si produce puntualmente nel corso del processo di periferizzazione di molte regioni italiane dopo la ristrutturazione cinquecentesca. Un caso esemplare è, ancora una volta, quello di Ferrara, al momento dell’estinzione della dinastia estense, e della devoluzione dello stato alla Santa Sede. Scrive il Lanzi, evocando le conseguenze artistiche di questi avvenimenti: Il cangiamento del governo fu a tempo di Clemente VIII pontefice massimo, nel cui ingresso solenne operarono per le pubbliche feste lo Scarsellino ed il Mona, scelti come i pennelli piú abili a far molto in poco tempo. Furono di poi impiegati vari pittori, e specialmente il Bambini e il Croma, a copiar varie tavole scelte della città, che la corte di Roma volle trasferite nella capitale; lasciandone a Ferrara le copie e agl’istorici ferraresi i lamenti145.
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Tra i «lamenti» degli storici ferraresi gioverà ricordare quello di Antonio Frizzi146: Disgustoso a’ nostri cittadini riuscí il vedere l’A. 1617 spogliate le Chiese di molti de’ migliori quadri loro, di mano de’ Dossi, dell’Ortolano, del Garofalo, del Carpi, del Tiziano, di Gio. Bellino, del Mantegna e d’altri piú insigni pittori nazionali e forestieri, e sostituire a essi copie, stimabili però, del Bononi, dello Scarsellino, del Bambini, del Naselli e d’altri. Chi e dove li trasportasse non ci vien detto, ma sappiamo che di simili preziosi nostri monumenti, e di manoscritti, e d’anticaglie andaron molti, in diversi tempi, ad arricchirne la capitale.
Girolamo Baruffaldi testimonia di queste spoliazioni, scrivendo la vita di Giacomo Bambini, uno degli artisti impiegati a copiare i quadri rapinati: Nel tempo della devoluzione di questa città al governo ecclesiastico, cioè l’anno 1598, era egli uno de’ professori che in Ferrara operassero, e perciò come tale fu impiegato a ricopiare varie preziose pitture di maestri eccellenti per poterne mandare a Roma gli originali desiderati dalla corte Pontificia che qui trovavasi. Di due certamente io posso darne sicuro conto, e sono la tavola dell’Ascensione di Cristo in s. Maria in Vado, e l’altro di s. Margherita nella chiesa della Consolazione. Quest’era dell’Ortolano, e l’altra di Benvenuto da Garofalo147.
Valga quello di Ferrara come modello di una situazione che si potrebbe suffragare con altri casi. Non molto dissimili per esempio furono le conseguenze della devoluzione alla Chiesa dei beni dei Della Rovere148. Una ricerca di questi momenti negativi della storia artistica italiana sarebbe ricca di insegnamenti sulle vicende del rapporto centro-periferia; né andrebbero dimen-
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ticate in questo contesto le colossali dispersioni di opere d’arte di cui l’Italia è stata oggetto negli ultimi centocinquant’anni.
28. La dinamica delle opere. Di diverso tipo e grado può rivelarsi anche l’invio di opere dal centro. Anche qui potremo distinguere vari casi. Prendiamo per esempio quello di Massa Marittima nel corso del Trecento. Le opere importate da Siena furono qui uno strumento di penetrazione della cultura senese prima del definitivo asservimento della città, avvenuto nel 1336. I primi decenni del Trecento sono interamente dominati dalle importanti commissioni artistiche affidate ad artisti senesi: nel 1316 i signori Nove del Consiglio di Massa fanno pressioni sull’Operaio dell’Opera di San Cerbone perché venga portata a compimento la grande ancona per l’altar maggiore della Cattedrale, ispirata al modello della Maestà di Duccio e certamente eseguita nell’atelier del grande artista senese. Nel 1324, come indica un’iscrizione, l’Arca di san Cerbone, capolavoro della scultura gotica italiana, commissionata da Perucius, Operaio della Cattedrale, fu terminata dal maestro Goro di Gregorio, «de Senis»; qualche anno dopo, ma forse ancor prima della conquista senese, viene eseguita la Maestà di Ambrogio Lorenzetti, già in Sant’Agostino, ora in Palazzo Comunale. Opere tra le piú significative dell’arte senese vengono dunque eseguite per la ricca città mineraria di Massa Marittima, che appare totalmente dominata da Siena prima ancora che questa ne assuma il controllo politico e che Agnolo di Ventura ne suggelli la conquista con il nuovo apparato di fortificazioni. Diversamente da altri centri, come Volterra e San Gimignano, l’opulenta Massa Marittima, pur nell’ampiezza delle commissioni,
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non conobbe mai una tradizione artistica autonoma e subí un’egemonia culturale esterna imposta a colpi di opere di eccezionale qualità, che anticipavano il dominio politico. Se ci rifacciamo ai criteri di entrata in quel club dei centri artistici italiani che abbiamo ipotizzato, sarà significativo il fatto che i vescovi di Populonia finiscano per trovare a Massa una sede stabile solo agli inizi del xii secolo, come accade a Grosseto (anch’essa destinata a essere totalmente dominata dalla produzione artistica senese) dove i vescovi di Roselle si trasferiscono definitivamente solo nel 1138. Prendiamo un altro caso di invio di opere sempre rimanendo nel Trecento e sempre in area senese. Si tratta questa volta non di una città importante e ricca come Massa, ma di quello che è oggi un umile paesetto, Roccalbegna sulle falde dell’Amiata. La chiesa parrocchiale conserva tre tavole di Ambrogio Lorenzetti di grande qualità e questo ha indotto a interrogarsi sulle circostanze che indussero uno dei massimi artisti del tempo a creare un’opera di tale importanza per un borgo cosí remoto149. La risposta sta probabilmente nel valore che i senesi attribuivano al piccolo centro minerario, posto alle frontiere meridionali dello Stato, che avevano acquistato e rifondato alla fine del Duecento150. Il caso di queste tavole va dunque visto in rapporto con la creazione di una città nuova e con lo sforzo – che si concreta in numerose agevolazioni – di farvi confluire dei cittadini senesi, rispetto ai quali i prestigiosi dipinti di uno dei sommi artisti di Siena dovevano funzionare come strumenti di identificazione e di aggregazione. Tutto ciò va collegato alla moltiplicazione di opere e commissioni artistiche, avvenuta nel corso del Trecento nelle città e nei borghi della Maremma meridionale, da Grosseto a Paganico, nella zona cioè di recente espansione senese. In altri casi l’invio di opere rivela e ribadisce uno stato di dipendenza culturale che può coincidere con una
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dipendenza economica o politica. Nella chiesa parrocchiale di Calvi in Corsica un grande polittico che orna l’altar maggiore è firmato da Giovanni Barbagelata, «de Janua» (un repertorio dei casi in cui il luogo d’origine segue nella firma il nome dell’artista, confrontato con i luoghi di destinazione delle opere potrebbe fornire indicazioni assai utili). I documenti ci informano che il polittico fu commissionato da due cittadini di Calvi, che lo vollero eseguito a somiglianza di quello dipinto da Giovanni Mazone nel 1465 per Santa Maria di Castello di Genova151. Significativo è il prestigio esercitato dall’opera piú antica (un caso analogo a quello delle copie fatte sul modello del quadro del Ghirlandaio a Narni di cui si è parlato) e il fatto che il prototipo sia genovese e che della commissione venga incaricato un pittore genovese. In questo momento l’isola è politicamente ed economicamente dominata da Genova, ma la subordinazione culturale può durare anche quando si interrompe quella politica. Di ciò testimoniano in Sardegna gli invii di opere pisane (sculture, polittici, campane)152 che continuarono anche quando l’isola fu stabilmente nelle mani degli Aragonesi, ma non ancora lambita da quella circolazione mediterranea «gotico - ispano - napoletana» di cui conserva significativi documenti153. Questo ancora documentano le opere pisane o genovesi frequenti in Sicilia nel corso del Trecento, cosí come quelle venete del Tre e Quattrocento nelle Puglie.
29. La dinamica degli artisti Parallelamente alle opere, ma talvolta, come vedremo, in senso opposto, possono muoversi gli artisti. Occorrerà tuttavia distinguere le situazioni. L’estendersi del dominio veneto non sembra per esempio aver condotto a una sottomissione culturale generalizzata.
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Potremo utilizzare per la pittura negli stati di terraferma della Serenissima quanto è stato detto a proposito della persistenza a Verona nel Settecento di una cultura letteraria locale: È una tradizione letteraria municipale che quattro secoli di dominazione veneziana non riescono a ridurre conforme né tanto meno succube a quella della capitale Venezia [...]. Ho detto che quattro secoli di dominazione veneziana non riescono a piegare Verona, ma sia ben chiaro che non ci fu mai, da parte di Venezia, il proposito di piegare...154.
Questo non significa che dal Cadore, dalle rive del Brenta o dell’Adige non affluissero artisti a Venezia, ma piuttosto che non vennero distrutte, al contrario, le condizioni di un’attività locale. In altri casi invece rimarranno in loco pittori di modesta levatura, che potranno trovare lavoro nelle commissioni di un pubblico non elevato. Un pittore corso come Maestro Antonio di Simone di Calvi firmerà nel 1505 un polittico per la chiesa di Cassano (presso Calvi)155, mentre come abbiamo visto per la parrocchiale di Calvi il polittico dell’altar maggiore era richiesto a Genova. Talvolta, mentre maestri locali attendono a certe produzioni tipiche – quale per esempio la pittura di soffitti – le opere su tavola giungono da lontano. È un caso che si presenta a Palermo nel Trecento quando «Mastru Simuni pinturi di Curigluni», «Mastru Chicu pinturi di Naro» o «Mastru Darenu» palermitano dipingono il soffitto dello Steri, mentre Bartolomeo da Camogli o Niccolò da Voltri da Genova, Jacopo di Nicola, Turino Vanni e tanti altri da Pisa inviano tavole e polittici per chiese e oratori156. Situazione tipica degli artisti delle aree periferiche sarà quella di essere attirati dal centro politicamente egemone. È questo il caso di Niccolò di Lombarduccio di
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Vico, uno dei maggiori artisti attivi in Liguria nel Quattrocento, che era originario della Corsica e per questo appunto conosciuto come Niccolò Corso; o ancora del geniale maestro Tuccio d’Andria «de Apulia» che dipinge nel 1487 un trittico per la Cattedrale di Savona con lo sposalizio di santa Caterina (i rapporti con il Mediterraneo occidentale furono probabilmente facilitati dall’origine provenzale dei signori di Andria, i Del Balzo); di altri artisti pugliesi come Reginaldo Piramo di Monopoli che illustra manoscritti a Napoli e a Venezia157; di tanti calabresi, come il miniatore Cola Rapicano, l’architetto Francesco Mormando, il pittore Marco Cardisco, piú tardi, fra Sei e Settecento, di Mattia Preti o di Francesco Cozza158; di siciliani come il messinese Agostino, detto Sarrino a Genova nel 1400, o Pavanino da Palermo nella seconda metà del secolo nel Salernitano159. Questo per non parlare dei due piú celebri emigranti siciliani, Antonello da Messina e Francesco Juvarra. In questi due ultimi casi Venezia alla fine del Quattrocento e Torino agli inizi del Settecento forniscono delle basi da cui i modelli proposti potranno avere una diffusione italiana o addirittura europea. Altre circostanze possono spingere gli artisti a prendere la fuga in direzione opposta a quella del centro politico: è quanto accade, per esempio, a Pisa dopo la conquista fiorentina. Diversamente da quanto era avvenuto nei centri di terraferma occupati da Venezia, una gran parte dei pittori pisani lascia la città e ripara a Genova. Il loro numero è tanto rilevante che un’assemblea dell’arte dei pittori genovesi nel 1415 – dove su venti partecipanti tre sono genovesi e ben nove pisani – decide di modificare lo statuto della corporazione per favorire i maestri forestieri che vengono a lavorare nella città160. Un altro esempio da prendere in considerazione in questa tipologia sommaria, sarà quello degli artisti che dal centro si spostano verso aree che piú che periferiche
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potrebbero chiamarsi subordinate. Lasciando da parte il caso dei senesi che non solo mandano opere ma anche vanno a lavorare nel corso del Trecento a Massa, a San Gimignano, a Paganico ecc., degli esempi su vasta scala vengono dall’attività dei veneziani nelle città di terraferma tra Quattro e Cinquecento e dall’autentico rush dei pittori lombardi in Liguria dopo che Genova si era posta sotto la protezione viscontea nel 1421. Si tratterà in quest’ultimo caso di assicurarsi le migliori commissioni – e posizioni – in un centro che è economicamente un gigante, ma culturalmente (e politicamente in questo momento) un nano. Del resto il caso di Genova nel Tre e nel Quattrocento è anomalo rispetto alla fisionomia di centri artistici quali Firenze, Siena o Venezia: con le massicce e ripetute penetrazioni di artisti stranieri, pisani, piemontesi, lombardi, configura un caso di centro-relais dove si raccolgono e da cui vengono trasmesse e amplificate esperienze diverse.
3o. La dinamica dei committenti. Restano i committenti. Anche qui nella casistica si propone, come nel caso delle opere, un grado zero, quello del totale esautoramento di un gruppo di committenti. Cosí avverrà a Casale Monferrato, quando Guglielmo Gonzaga succede all’antica dinastia dei Paleologi e segna con la sua politica la liquidazione di certi gruppi sociali cittadini e di una tradizione pittorica che a essi si appoggiava, tradizione che riprenderà poi, ma in direzione affatto diversa161. Casi simili potranno presentarsi a Urbino162 e in altri centri italiani. Un diverso caso sarà quello dei committenti, provenienti da un centro importante, che lasciano tracce del loro passaggio in periferia. Sono vescovi, luogotenenti, governatori, abati commendatarii che si compiacciono di
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commissionare per la loro temporanea sede opere che rivelino la loro origine, i loro viaggi, la loro elevata posizione sociale e culturale. I frutti di questo zelo mecenatesco cadranno un po’ come meteore, fuor d’ogni contesto e d’ogni svolgimento o attesa locali. Sarà questo il caso del ferrarese Philos Roverella che torna dal Concilio di Trento nel 1545 alla sua diocesi di Ascoli Piceno portandosi dietro uno degli artisti piú in vista della corte del principe-vescovo di Trento: il friulano Marcello Fogolino, cui chiede di decorare con scene bibliche il proprio palazzo vescovile163. Non diverso – per la sua extracontestualità – sarà il caso di chi, nativo di un’area periferica, assurga a grandi onori in una capitale, come avviene a tanti prelati, medici, burocrati, giuristi nel corso del Sei e del Settecento. Può accadere che costui si preoccupi di inviare al paese natio una o piú opere che testimonino del suo amor patrio, del suo gusto avvertito, della sua riuscita sociale. Avviene cosí che risiedendo a Cento come governatore intorno al 1636-37 uno spoletino, alto funzionario papale, frequenti assiduamente lo studio del Guercino, ne acquisti le opere, ne faccia anche dono a una confraternita della sua patria164. Vi sono ancora altre situazioni: quella per esempio di committenti periferici che attraverso le loro scelte testimoniano di una subordinazione culturale nei confronti del centro. Un esempio tipico in questo senso, ed estremamente sintomatico per strutture di tipo feudale come quella della Calabria, è quello della committenza dei Sangineto, signori di Altomonte165. Filippo di Sangineto trovandosi nel 1326 a traversare la Toscana al seguito di Carlo di Calabria, ordina il San Ladislao di Simone Martini e un polittico di Bernardo Daddi. Piú tardi un membro della stessa famiglia, situandosi questa volta a rimorchio delle scelte di Ladislao di Durazzo, ordinerà a Napoli un polittico con storie della Passione all’ano-
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nimo maestro detto di Antonio e Onofrio Penna. Nei due casi le scelte dei Sangineto seguono quelle degli Angioini di Napoli, nei due casi le opere commissionate vengono a raccogliersi nella chiesa di Altomonte, sede del potere feudale dove si ha una grande concentrazione di simboli culturali rispetto al deserto del territorio circostante. La disparità nella distribuzione dei beni e la loro eterogeneità denunciano una situazione non solo periferica ma addirittura coloniale, che si ripeterà a Teggiano, il feudo dei Sanseverino che ai confini della Campania domina il Vallo di Diano, o a Galatina nel Salento dove Raimondello Orsini del Balzo e sua moglie Maria d’Enghien fondano e fanno decorare dalle piú diverse équipes di pittori la chiesa-santuario di Santa Caterina166. Questa subordinazione culturale verso il centro si può manifestare anche in committenti che appartengono ad altri gruppi sociali. Assai significativo è quanto avviene in una ristretta zona della montagna di Norcia dove si incontra una singolare concentrazione di quadri fiorentini tardo-gotici o rinascimentali, da Giovanni del Biondo a Neri di Bicci, a Piero di Cosimo, a Filippino Lippi. Tali presenze fitte e singolari, che finiscono per comporsi in un contesto abbastanza omogeneo, si spiegano con il rapporto, prolungato nel tempo, tra un gruppo di paesi di questa zona appenninica e Firenze, dove i montanari umbri erano tradizionalmente impiegati come facchini alla dogana167. I rapporti economici tra i paesi di emigrazione periferici, e il luogo di lavoro centrale, hanno dato luogo a una forma di sudditanza culturale. Un ultimo esempio verrà dalla Puglia, dove i centri della costa adriatica sono segnati dalla concentrazione di opere venete che vanno dal Tre al Cinquecento (sostituite poi dalla penetrazione di opere napoletane), che accompagnano la presenza militare, politica, commer-
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ciale di Venezia168. Ad acquistare opere venete sono spesso ordini religiosi: il polittico di Jacobello di Bonomo del Museo di Lecce proviene dalla chiesa delle monache benedettine di San Giovanni Evangelista di Lecce; il San Pietro martire di Giovanni Bellini della Pinacoteca di Bari, dalla chiesa domenicana di Monopoli; Savoldo e Pordenone dipingono quadri per la chiesa francescana di Terlizzi. Ma il prestigio di Venezia è grande in tutti i gruppi sociali: e mentre Muzio Sforza, un letterato di Monopoli, dedica un poema al Tintoretto, Lorenzo Lotto riceve, il 16 giugno 1542, Alouise Catalano mercante di Barletta, inviatogli da «li homine di Juvenazo» a ordinare un trittico per la loro chiesa di San Felice169.
31. La Chiesa dopo Trento. La ristrutturazione centralizzatrice e burocratica degli Stati territoriali e la riorganizzazione della Chiesa dopo il Concilio tridentino implicano, nel corso del Cinquecento, nuove forme di dominazione del centro sulla periferia che si manifestano in un accresciuto processo di tipologizzazione e di codificazione delle immagini170 e delle architetture: processo che è sollecitato, ma nello stesso tempo rivelato dal crescere della letteratura trattatistica. In un periodo piú prossimo a noi, nella Germania guglielmina, un preciso regolamento imponeva che nei centri di meno di cinquantamila abitanti gli uffici postali fossero in stile «Rinascimento tedesco», mentre le grandi città di piú di centomila abitanti dovevano avere uffici postali romanici171. Ora, se la minuta casistica dei trattati della Controriforma non prevedeva un ricorso differenziato agli stili storici, essa tendeva però a costruire una tipologia gerarchica distinguendo e prescrivendo soluzioni e registri particolari a seconda che la
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chiesa fosse cattedrale, collegiata, parrocchiale, succursale o monastica, e l’oratorio fosse o no destinato alla celebrazione della messa. D’altra parte la costituzione di luoghi deputati di formazione come le accademie, il cui sistema si impone nel Settecento, ha un suo rilevante peso specifico nell’assicurare un preciso controllo culturale. Tuttavia la codificazione della tipologia e la centralizzazione dell’insegnamento avranno anche effetti opposti a quelli di una meccanica estensione di una sorta di conformismo periferico, facilitando la circolazione di esperienze internazionali e la conoscenza di un piú vasto repertorio. Ne offre un esempio l’opera di Bernardo Vittone, una delle piú grandi e geniali figure del Settecento europeo, che, pur lavorando quasi esclusivamente nella provincia piemontese, intento essenzialmente alla costruzione di pievi di paesi e di oratori campestri, propone soluzioni innovatrici che dialogano con le piú avanzate esperienze europee. Attraverso i mutamenti che si verificano nella formazione degli artisti e nella circolazione delle informazioni, il Settecento assiste a profonde modificazioni delle strutture culturali, del loro funzionamento e addirittura del loro quadro di riferimento geografico. L’inserirsi della provincia piemontese nella problematica architettonica dell’area alpina europea ne è un segno tangibile: ma questa favorevole situazione non è generalizzabile. Il 14 settembre 1755 un architetto periferico, certo Lorenzo Daretti, scrive da Ancona al Vanvitelli per chiedergli l’autorizzazione a continuare la costruzione della chiesa degli Agostiniani, e cosí umilmente si presenta: Dopo il ritorno in questa città d’Ancona mia patria di studi debolmente fatti sulla architettura, avendo occasione di fare debolmente diverse picole fabriche, le quali anno incontrato qualche sorte di compatimento...
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Risponde superbamente da Napoli l’architetto del centro: Incognito si rende a me il Suo nome, come ella stessa dice, e molto piú incognita mi si rende la sua capacità nell’Architettura, mentre quando io venni in Ancona, niuno ve ne ritrovai, anzi né pure nella Provincia. In questa città però ritrovai un gran numero di desiderosi di apprendere questa facoltà al mio studio; ma poi riconoscendone le difficoltà con piú sano consiglio stimarono meglio seguitare il comodo, l’ozio e li divertimenti compresi, che darmi l’incomodo di soffrirli in casa mia a studiare; né d’allora a questa parte ho avuto giammai notizia, che niuno siasi approfittato in questa difficilissima scienza, che tutte le altre scienze raccoglie172.
32. I conti con l’Europa. Se nel Settecento l’arte e la cultura italiane avevano conosciuto una larga circolazione europea, una volta morti Piranesi e Canova nessun artista italiano vide piú, per molto tempo, la sua opera assurgere in Europa al rango di modello. Il momento successivo fu quello di una lunga eclissi, che del resto già da tempo si annunciava. Con la metà del Seicento si era chiusa un’età plurisecolare. Per una simbolica coincidenza lo stesso anno (1665) in cui Poussin muore a Roma vede a Parigi il fallimento del progetto di Bernini per il Louvre. La crisi profondissima della società italiana, e piú ancora la debolezza della corte romana nel quadro complessivo delle potenze europee impediscono ormai che un paradigma artistico complessivo si imponga a partire dalla penisola come era avvenuto in un passato non troppo lontano, quando tale era il prestigio artistico ed extrartistico di Roma, capitale della cristianità (e sia pure di una cristianità cattolica di nome ma non di fatto) da assi-
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curare il successo mondiale dei due paradigmi che qui si erano, in conflitto, sviluppati. Fu questo il caso prima, di Raffaello e di Michelangelo, piú tardi dei Carracci e di Caravaggio: il paradigma apparentemente vittorioso e la sua alternativa. Ciò non si ripete piú: potranno emergere tutt’al piú codici settoriali come quello dei «Vedutisti», legato alla posizione privilegiata che l’Italia aveva nel grand tour. Una riprova del perdurare di questa situazione è data dalle vicende del paradigma neoclassico. Se le sue radici erano italiane, solo in parte i suoi protagonisti possono dirsi tali. Si ebbe anzi la paradossale situazione di artisti stranieri operanti a Roma abbastanza isolati dalla vita artistica locale del presente, e intenti piuttosto a cercare nei monumenti del passato le chiavi di un nuovo avvenire. Qui l’anglosvizzero Füssli elabora le premesse del suo stile visionario, qui studiano e lavorano inglesi come Barry o Runciman, svedesi come Sergel, danesi come Abildgaard e poi Thorvaldsen, americani come Benjamin West, svizzeri come Abraham-Louis Ducros, francesi come JacquesLouis David. È a Roma che viene dipinto e per la prima volta esposto al pubblico (1784) il manifesto della nuova pittura, il Giuramento degli Orazi di David: ma qui, malgrado la curiosità suscitata, l’opera non ha che scarse risonanze. Roma non è piú, in questo momento, il centro propulsore che era stata nel passato, né la si può definire un centro relais: piuttosto, una sorta di centro fantasmatico dove si concentrano i desideri, le attese e i progetti di tanti artisti stranieri. Appena un mese prima della presa della Bastiglia, David non si rassegna a una Parigi che gli appare periferica, e, incoraggiandolo a rimanere in Italia, confessa all’allievo Wicar: In questo povero paese sono come un cane buttato in acqua contro la propria volontà, che annaspa per arrivare alla sponda e non annegare173.
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Se per gli stranieri l’Italia è un passato in cui si scorge il futuro, il rapporto con l’antichità degli artisti italiani di questo periodo è ben lungi dall’essere drammatico e dirompente. Dopo la morte di Piranesi, che nella ricognizione delle rovine romane e nelle Carceri aveva creato prototipi di interpretazione sublime e visionaria della colossale grandezza dell’antichità, nessun italiano aveva saputo seguirne la strada. In un certo senso il paradigma neoclassico finirà per guadagnare l’Italia solo di rimbalzo, attraverso l’egemonia politica e militare prima ancora che artistica della Francia napoleonica. Negli anni della Restaurazione permangono ancora i differenti centri regionali, rinforzati dalla presenza delle accademie che avevano dato struttura istituzionale alle diverse scuole regionali, ma la loro tenuta è assai differenziata. Parma o Modena, Lucca o Mantova sono ormai definitivamente al rimorchio dei centri maggiori, Venezia attraversa una crisi assai profonda che si prolungherà per decenni, mentre Milano accanto a quello politico di capitale del Lombardo Veneto rafforza il suo ruolo culturale. È a Milano, appunto, che viene a stabilirsi il veneziano Francesco Hayez, Nestore imperturbabile che dominerà il paesaggio artistico lombardo fin dopo l’8o, ricevendo le commissioni dei patrioti lombardi, i certificati di buona condotta dell’imperatore d’Austria e le onorificenze del regno d’Italia. Torino mantiene i suoi legami privilegiati con la Francia, ma in un clima mortificato e bigotto dove un Gioacchino Serangeli, dopo esser stato allievo di David e aver ricevuto dalla Convenzione l’incarico di incidere la grande icona rivoluzionaria del Marat assassinato, finisce per dipingere una Vergine che appare a san Bernardo per l’abbazia di Hautecombe, ricostruita da Carlo Felice come monumento dinastico sabaudo. Grazie alla presenza di importanti colonie artistiche straniere, Roma, Firenze o Napoli perpetuano rapporti ancora intensi con le cultu-
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re transalpine, ma (analogamente a quanto avviene nella lingua letteraria, come mostra il caso di Carducci) si incontrano serie difficoltà a piegare i linguaggi artistici, dove particolarmente forte è la permanenza di strutture del passato, ai nuovi concetti e ai nuovi contenuti. Si assiste nei centri italiani a una sorta di esaurimento dei codici, a un’incapacità di rinnovarli. In questa situazione di ritardo, di onnipresenti ipoteche del passato, si apre con l’unificazione politica il problema dell’unificazione linguistica dell’arte italiana. Il processo si avvertirà innanzitutto a livello tematico con il moltiplicarsi e il diffondersi di una comune iconografia patriottica che celebra la recente storia italiana, dalle imprese garibaldine alle guerre di indipendenza alle imprese coloniali, in cui si trovano impegnati artisti di diverse origini culturali e geografiche: lombardi, veneti, toscani, meridionali. Un’altra tematica unitaria, non celebrativa ma critica, fu quella dell’inchiesta sociale: anche qui artisti di diversa origine si danno a illustrare le realtà nascoste e oscure del paese, cercando di giungere a una sorta di inchiesta antropologica che presenti gli aspetti peculiari, anche i piú oscuri, delle singole culture e regioni. Ma in entrambi i filoni il comune impegno tematico è accompagnato dalla ricerca di una unificazione anche linguistica, solo parzialmente soddisfatta dalla diffusa esigenza realistica. Si riaffermano i particolarismi locali: da un lato i centri tradizionali, come Venezia riemersa dopo una crisi di decenni, Milano, Torino, Firenze, Roma, Napoli; dall’altro, le regioni dimenticate, come l’Abruzzo di Michetti, che si presentano per la prima volta alla ribalta. Si precisano i rapporti con l’Europa: e si tratta, quasi esclusivamente, di rapporti con gli artisti, i critici e i mercanti che gravitano attorno ai Salons ufficiali, non con i gruppi più avanzati e di punta. In un periodo di urti di classe, di tensioni ideologiche, di lotte di para-
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digmi quale fu l’Ottocento questa scelta è particolarmente grave. Quando l’emergere delle avanguardie segnerà in Francia la crisi dell’arte dei Salons, molti artisti, e addirittura molti centri artistici italiani, si troveranno completamente emarginati. Un caso esemplare è quello della scuola napoletana che, fiancheggiata e incoraggiata a livello internazionale dai vari Goupil, Fortuny, Meissonier, finisce per sparire dal panorama artistico europeo. Le tappe di questa vicenda sono note: dai limpidi paesaggi della scuola di Posillipo all’apertura dei Palizzi verso la Francia, dall’ambiguo realismo simbolico di Domenico Morelli alla breve parentesi della «scuola di Resina», per finire con il tocco impastato e i lustrini del Mancini, artista dal grande successo europeo, «occhio acutissimo, ma ineducabile». Non è difficile ravvisare le cause degli incidenti di percorso e degli esiti finali di questo progressivo slittamento: un aggiornamento su esperienze francesi mal selezionate e male intese, una perenne tendenza al compromesso tra realtà e idealizzazione, verità e simbolo, una arrendevolezza alle attese sia di un pubblico europeo di grosse disponibilità finanziarie e di gusto facile, sia di mercanti internazionali alla ricerca di virtuosismi tecnici e di sfoggi di mestiere. Il tutto nella cornice del crescente decadere economico della città. Gli equivoci di cui è intessuta questa vicenda sono riassunti nella biografia di Vincenzo Gemito, in potenza uno dei grandi scultori europei del suo tempo. Con straordinaria efficacia e immediatezza questi da un lato rappresenta una galleria di pescatori, di scugnizzi, di «malatielli», ricercando nel bronzo con virtuosismo gli effetti dei capolavori ellenistici; dall’altro fa il ritratto di Fortuny, ammira incondizionatamente Meissonier e ottiene un gran successo ai Salons. La lunga crisi psicologica che lo tiene segregato per oltre vent’anni può essere vista come lo sbocco del divario tra attese e rea-
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lizzazioni, tra doti tecniche eccezionali e mancanza di orizzonti stilistici adeguati. Per evitare di cadere nel bozzettismo Gemito cerca un correttivo nella grande tradizione: ma il suo tentativo disperato di rivaleggiare con i bronzi ellenistici del Museo di Napoli ha un marchio inconfondibile di autosegregazione provinciale. A un eccezionale livello Gemito esemplifica l’allontanarsi della cultura artistica napoletana dall’Europa moderna. Roma e Milano divengono in breve i due centri egemoni: Roma è la sede delle principali istituzioni culturali del regno, a Milano nasce il primo mercato d’arte italiano che fiancheggia, o addirittura promuove, l’esperienza divisionista. Segantini e Pellizza da Volpedo sono, verso la fine del secolo, pittori di piglio, livello e problematica non provinciali, e quanto avvenne tra Milano e Roma in questi anni di aspirazioni libertarie e socialiste, di speranze vaste come quelle che premono nel lento, imponente avanzare del Quarto Stato, il «grande quadro» che chiude la pittura italiana dell’Ottocento, ha segno e qualifica europei, piú forse di ciò che seguirà quando a Milano, attorno al programma di Marinetti, il movimento futurista si proporrà di ricondurre l’arte italiana nell’ambito delle esperienze piú moderne dell’Europa, anzi di porla addirittura alla testa di queste. In un certo senso il futurismo, figlio, al pari del fascismo, di una industrializzazione ritardata174, può essere visto come un caso esemplare di «scarto periferico» e ciò può contribuire a spiegare il successo che ha riscosso in Europa, specie laddove certe proposte e certi atteggiamenti non erano piú possibili. La sua modernolatria ottimista e provocatoria era difatti immaginabile solo in un paese in cui la rivoluzione industriale fosse appena agli inizi175; la sintesi dinamica e dissonante di esperienze europee recenti, magari contraddittorie (dal pointillisme, all’espressionismo, al cubismo), impensabile ove queste esperienze avessero conosciuto un organi-
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co svolgimento. Si aggiunga a questo che i futuristi, mentre proponevano una politica e un’azione di gruppo, privilegiavano l’aspetto eroico e demiurgico dell’operare artistico, rigettando nell’ombra la moderna problematica delle «arti applicate» che pure era stata già da alcuni in Italia correttamente intesa. L’esaurimento della prima ondata futurista, lo spostarsi a Roma del centro del movimento, la breve stagione della pittura metafisica alterano ancora la geografia dei centri artistici italiani. Il tentativo futurista di creare un asse Milano-Roma fallisce. I decenni successivi, fino alla caduta del fascismo, vedono il risorgere di tendenze municipali, piú o meno legate alle esperienze europee: dai Sei torinesi al gruppo milanese di Corrente, dalla scuola romana di via Cavour alle esperienze solitarie di Rosai a Firenze, di Morandi a Bologna. Il policentrismo italiano si rivelava, ancora una volta, piú forte di ogni tentativo accentratore. Policentrismo o poliperiferia? Si potrebbe applicare a questo dilemma un celebre passo di Lewis Carroll: Se mi parli di «collina», – la interruppe la Regina, – potrei mostrarti colline in confronto alle quali questa potresti chiamarla vallata. – No, non potrei, – esclamò Alice [...]. Una collina non può essere una vallata. Sarebbe un controsenso176.
Di fatto il problema della cultura italiana, non solo figurativa, continua a essere in questo periodo quello del rapporto con l’Europa. Questa Europa ha una capitale, Parigi: ma si tratta di una capitale in larga misura fantasmatica, isolata da una storiografia non meno settaria di quella vasariana. Ma fare i conti con l’Europa significa, per l’Italia, fare i conti col proprio passato. Con una tradizione cosí prestigiosa irrimediabilmente alle spalle, è impossibile
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non sentirsi periferici. L’uscire dalla periferia presuppone quindi il fare i conti con la tradizione, col museo. E qui emergono le due proposte piú radicali, quella dei futuristi e quella di De Chirico: bruciare il museo o allontanarlo in una luce ironica e sublime.
Cfr. y. lacoste, Géographie du sous-développement, e particolarmente l’Avertissement critique et autocritique de la troisième édition, Paris 1976. 2 Il recente e positivo moltiplicarsi delle indagini sul territorio, testimoniato dalle campagne per il rilevamento dei beni artistici e culturali dell’Appennino emiliano promosse dalla Soprintendenza di Bologna, dal rilevamento dell’Appennino pistoiese da parte della Soprintendenza di Firenze, dalle ricerche sulla pittura del Sei e Settecento in Umbria a cura di una équipe della facoltà di Magistero di Roma, e da numerose mostre quali Arte in Calabria (Cosenza 1976), Arte a Gaeta (Gaeta 1976), Opere d’arte a Vercelli e nella sua provincia (Vercelli 1976), Valle di Susa. Arte e storia dall’xi al xviii secolo (Torino 1977), potrà permettere in avvenire indagini piú precise sui rapporti tra centro e periferia. È mancata tuttavia in Italia per molto tempo una riflessione e una discussione sui metodi, i limiti e le possibilità della geografia artistica, quale si svolge in Germania da oltre un cinquantennio. Su ciò si veda: k. gerstenberg, Ideen zu einer Kunstgeographie Europas, Leipzig 1922; d. frey, Die Entwicklung nationaler Stile in der mittelalterlichen Kunst des Abendlandes, in «Deutsche Vierteljahrsschrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte», xvi, 1938, pp. 1-74; p. frankl, Das System der Kunstwissensehaft, Brünn-Leipzig 1938, pp. 893-939; h. lehmann, Zur Problematik der Abgrenzung von Kunstlandschaften dargestellt am Beispiel der Po Ebene, in «Erdkunde», xv, 1961, pp. 249-64; r. hausherr, Ueberlegungen zum Stand der Kunstgeographie, in «Rheinische Vierteljahrsblätter», xxx, 1965, pp. 351-72; d. frey, Geschichte und Probleme der Kultur und Kunstgeographie, in «Archaeologia Geographica», iv, 1965, pp. 90-105; gli interventi di r. hausherr, g. von der osten, p. pieper e altri, in Der Mittelrhein als Kunstlandschaft, in «Kunst in Hessen und am Mittelrhein», 1969, Beiheft 9, pp. 38 sgg.; r. hausherr, Kunstgeographie – Aufgaben, Grenzen, Möglichkeiten, in «Rheinische Vierteljahrsblätter», xxxiv, 1970, pp. 158-71 e il catalogo dell’esposizione Kunst um 1400 am Mittelrbein, Frankfurt 1975, in cui i problemi della geografia artistica sono visti in rapporto alle situazioni sociali e politiche, anziché stemperati in una mitica e unitaria Kunstlandschaft. 1
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Enrico Castelnuovo Il significato del ritratto pittorico nella società k. clark, Provincialism, «The English Association Presidential Address», London 1962, p. 3. 4 Grande la fortuna della coppia centro/periferia nelle scienze sociali, analizzata sia da chi, come e. shils (Center and Periphery. Essays in Macrosociology, Chicago 1975) ha dato la preferenza a una sorta di topografia del consenso, sia da chi (e se ne veda una rassegna in n. mckenzie, Centre and Periphery: The Marriage of Two Minds, in «Acta Sociologica», xx, 1, 1977, pp. 55 sgg.) ha invece messo l’accento sulla conflittualità. d. chirot, in uno studio recente su una società periferica, la Valacchia (Social Change in a Peripherical Society. The Creation of a Balkan Economy, New York 1976) ha d’altra parte rimesso in discussione l’applicabilità del modello basato sulla sequenza di fasi economiche comunemente ammessa per le società periferiche. In questo senso il problema potrebbe essere posto anche per la storia dell’arte. 5 l. lanzi, Storia pittorica della Italia dal risorgimento delle belle arti fin presso al fine del xviii secolo, a cura di M. Capucci, 3 voll., Firenze 1968-74, I, 5-7 (tranne in caso di indicazione diversa, le citazioni dal Lanzi saranno d’ora in poi riferite senz’altro a questa edizione, indicata come segue: lanzi, piú il numero del volume e quello della pagina). 6 id., La storia pittorica della Italia inferiore o sia delle scuole fiorentina senese romana napolitana compendiata e ridotta a metodo..., Firenze 1792, pp. 9 e 37. 7 Su questa edizione, apparsa a Bassano, si basa l’edizione critica cit. di M. Capucci. 8 Cfr. g. p. bellori, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni, a cura di E. Borea, Torino 1976, p. 330. 9 Cfr. g. mancini, Considerazioni sulla pittura, a cura di A. Marucchi, Roma 1956, I, pp. 108 e seguenti. 10 Cfr. g. g. bottari e s. ticozzi, Raccolta di Lettere sulla Scultura, Pittura ed Architettura, VI, Milano 1822, p. 65; b. cellini, La Vita, a cura di G. Davico Bonino, Torino 1973, pp. 469-70. 11 lanzi, I, 20. 12 Cfr. u. segrè, Luigi Lanzi e le sue opere, Assisi 1904, p. 179; lanzi, III, 469. 13 lanzi, I, 455. 14 Ibid., 259. 15 Ibid., 26o. 16 Ibid. 17 Ibid., 261. 18 Ibid., III, 235. 19 Ibid., II, 185-86. 20 Ibid., I, 43. 21 Ibid., II, 185. 3
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Enrico Castelnuovo Il significato del ritratto pittorico nella società Ibid., 94. Ibid., 105-6. 24 Ibid., I, 403. E si vedano anche le osservazioni su Piacenza, in cui si dichiara che la mancanza di scuole locali è positiva per una città secondaria (II, 254). 25 Ibid., 4. 26 Ibid., 431-32. 27 Ibid., 7. 28 Questa edizione manca nella bibliografia ragionata a cura di M. Massi posta in appendice a a. ferguson, Saggio sulla storia della società civile, a cura di P. Salvucci, Firenze 1973, che registra (p. 337) traduzioni francesi, tedesche e svedesi dell’Essay, ma nessuna italiana. 29 lanzi, I, 283-84. 30 Cfr. ferguson, Saggio sopra la storia cit., II, pp. 222 sgg. 31 Cfr. lanzi, La storia pittorica della Italia inferiore cit., p. 179. 32 id., I, 245. 33 j. winckelmann, Storia delle arti del disegno presso gli antichi, Roma 1783, II, p. 164 n. 34 ferguson, Saggio sopra la Storia cit., II, pp. 74-75. 35 lanzi, I, 15. Sul concetto di «società civile» vedi la voce di m. riedel, Gesellschaft, bürgerliche, in Geschichtliche Grundbegriffe, a cura di O. Brunner, W. Conze e R. Koselleck, II, Stuttgart 1975, pp. 719-800. 36 lanzi, II, 224. 37 lanzi, I, 14o e n. 2. Vedi anche s. settis, Qui multas facies pingit cito (Iuven. IX, 146), in «Atene e Roma», n. s., XV, 1970, pp. 117-21. 38 lanzi, II, 47-48. 39 Ibid., 70, 107, 89-90, 121-22, 168 e 200. 40 Cfr. c. dionisotti, Culture regionali e letteratura nazionale in Italia, in Lettere italiane, XXII, 1970, p. 142. 41 Cfr. g. previtali, Teodoro d’Errico e la «questione meridionale», in «Prospettiva», ottobre 1976, n. 3, pp. 17-34; id., recensione a l. g. kalby, Classicismo e maniera nell’Officina meridionale, ivi, gennaio 1976, n. 4, pp. 51-54; g. previtali, Il Vasari e l’Italia meridionale, in Il Vasari storiografo e artista. Atti del Congresso nel IV centenario della morte (Arezzo-Firenze, 2-8 settembre 1974), Firenze 1976, pp. 691-99; id., La pittura del Cinquecento a Napoli e nel vicereame, Torino 1978. 42 Cfr. e. sereni, Agricoltura e mondo rurale, in Storia d’Italia Einaudi, I. I caratteri originali, Torino 1972, pp. 176-77. 43 Per quanto segue, cfr. e. gabba, Urbanizzazione e rinnovamento urbanistici nell’Italia centro-meridionale del i secolo a. C., in Studi classici e orientali, XXI, 1972, pp. 73-112; id., Considerazioni politiche ed eco22
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Enrico Castelnuovo Il significato del ritratto pittorico nella società nomiche sullo sviluppo urbano in Italia nei secoli ii e i a. C., in Hellenismus im Mittelitalien, a cura di P. Zanker, Abh. d. Ak. d. Wiss. in Göttingen, II, Göttingen 1976, pp. 317-26; c. violante, Primo contributo a una storia delle istituzioni ecclesiastiche nell’Italia centrosettentrionale durante il Medioevo: province, diocesi, sedi vescovili, in Miscellanea Historiae ecclesiasticae, V (Colloque de Varsovie... sur la cartographie ecc.), Louvain 1974, pp. 169-204. 44 Cfr. g. tibiletti, La romanizzazione della valle padana, in Arte e civiltà romana nell’Italia settentrionale dalla Repubblica alla Tetrarchia, Bologna 1964, I, pp. 27-36. 45 Cfr. l. salvatorelli, Spiriti e figure del Risorgimento, Firenze 1961, pp. 3-35; e vedi già id., L’unità della storia d’Italia, in «Pan», I, 1933-34, pp. 357-72. 46 L’espressione è di E. Sestan (si veda il rinvio bibliografico nel paragrafo successivo). 47 Si vedano in proposito i volumi pubblicati delle Rationes decimarum. 48 Cfr. e. sestan, La città comunale italiana dei secoli xi-xiii nelle sue note caratteristiche rispetto al movimento comunale europeo, in XI e Congrès International des Sciences Historiques, Rapports, III, Stockholm 196o, pp. 75-95, in particolare p. 85. 49 Si veda per esempio quanto avviene a Losanna alla fine del xii secolo, allorché il canonico Enrico «Albus», agendo a nome del capitolo in quanto intendente della fabbrica, licenzia i maestri chiamati dal vescovo Ruggero di Vicopisano: cfr. m. grandjean, La cathédrale de Lausanne, Lausanne 1977, pp. 46 sgg. 50 Ma piú spesso da artigiani in strettissimo contatto con il proprio pubblico. Cfr. s. ottonelli, L’artigianato ligneo nelle Valli Occitane Piemontesi, in «Quaderni storici», 1976, n. 31, pp. 280 sgg. 51 Opere d’arte a Vercelli cit., p. 5. 52 Le opere di G. Vasari con nuove annotazioni e commenti di G. Milanesi, Firenze 19o6, III, 586 sg. (le altre citazioni dalle Vite del Vasari saranno d’ora in poi riferite a questa edizione, indicata come segue: vasari, piú il numero del volume e quello della pagina). 53 «La città di Pisa mi donò a Castel di Castro, mi diresse alla Vergine Madre e mi eresse in questo tempio»: d. scano, Storia dell’arte in Sardegna dall’xi al xiv secolo, Cagliari-Sassari 1907, pp. 292 sg. 54 c. brandi, La Regia Pinacoteca di Siena, Roma 1933, pp. 135 sg. Per la pala del Carmine cfr. id., Ricomposizione e restauro della Pala del Carmine di Pietro Lorenzetti, in «Bollettino d’Arte», xxxiii, 1948, pp. 68 sgg. Un caso interessante di opere divenute rapidamente obsolete e perciò relegate in periferia è quello delle «armille» della coronazione di Federico Barbarossa (oggi al Louvre e a Norimberga) che l’imperatore mandò al Gran Principe Andrej Bogoljubskij a Vla-
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Enrico Castelnuovo Il significato del ritratto pittorico nella società dimir: cfr. a. buehler, Zur Geschichte der deutschen Reichskleinodien, in «Das Münster», n. 27, 1974, pp. 4o8-9. 55 vasari, V, 221. 56 Ibid., VI, 18. 57 Ibid., 123. 58 Ibid., 550. 59 Ibid., 571. 60 Ibid., IV, 374. 61 Ibid., VI, 461. 62 Ibid., 457. 63 Ibid., 472 sg. 64 Ibid., V, 151. 65 Ibid., VI, 463. 66 Ibid., V, 211. 67 Ibid., VI, 5 sg. 68 Ibid., VII, 50. 69 Ibid., VI, 38o. 70 Ibid., V, 634. 71 Ibid., VII, 420. 72 Ibid., VI, 517. 73 Ibid., V, 214-15. Ma vedi f. zeri, La sortita anticlassica di Cola dell’Amatrice, in Diari di Lavoro, Bergamo 1971, pp. 74 sgg. 74 Ibid., 198. 75 Ibid., 203. 76 Ibid., VI, 123. 77 Ibid., II, 413. 78 Ibid., V, 177. 79 Ibid., 212. 80 Ibid., 150. 81 Ibid., 151. 82 Ibid., II, 453 sg. 83 Ibid., III, 189. 84 Ibid., VII, 282. 85 Ibid., IV, 11-13. 86 Cfr. b. toscano, La fortuna della pittura umbra e il silenzio sui Primitivi, in «Paragone», xvii, marzo 1966, n. 193, pp. 3 sgg. Senza voler dare una bibliografia esauriente, che sarebbe assai lunga, degli studi recenti sulla pittura trecentesca umbra, sarà opportuno ricordare che sulla traccia della nuova apertura con cui R. Longhi ha affrontato il problema della cultura figurativa umbra di quel periodo nel corso fiorentino 1953-54 (cfr. La pittura umbra della prima metà del Trecento attraverso le dispense redatte da Mina Gregori del corso di Roberto Longhi nell’anno 1953-54, in «Paragone», xxiv, luglio-settembre 1973, nn. 281-83, pp. 3 sgg.) si sono avuti negli ultimi anni interventi sempre piú
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Enrico Castelnuovo Il significato del ritratto pittorico nella società fitti, particolarmente da parte di M. Boskovits, P. P. Donati, G. Previtali, P. Scarpellini, B. Toscano, C. Volpe, F. Zeri, grazie ai quali la situazione può essere valutata nella sua grande complessità. 87 c. b. cavalcaselle e j. a. crowe, Storia della pittura in Italia, X, Firenze 19o8, pp. 83 sgg., nota 3 e p. 117 nota i. 88 b. toscano, Bartolomeo di Tommaso e Nicola da Siena, in «Commentari», XV, n. s., 1964, pp. 37-51; vedi anche g. chelazzi dini, Lorenzo Vecchietta, Priamo della Quercia, Nicola da Siena, in Jacopo della Quercia tra Gotico e Rinascimento, Firenze 1976, pp. 203 sgg. Sul comporsi di un sistema di formule stilistiche da parte di certi maestri provinciali, sulla loro cristallizzazione e successiva chiusura verso nuovi aggiornamenti, si vedano le osservazioni di F. Zeri a proposito di un anonimo pittore umbro del Quattrocento, il «Maestro di Eggi», in Tre Argomenti Umbri, in «Bollettino d’Arte», xlviii, 1963, pp. 40-45. 89 a. morini, Cascia. Chiesa delle Capanne in Collegiacone, in «Rassegna d’arte», IX, 1909, pp. 173-74; g. sordini, Gli Sparapane da Norcia. Nuovi dipinti e nuovi documenti, in «Bollettino d’arte», iv, 1910, pp. 17-28; a. morini e p. pirri, Una sconosciuta dinastia di artisti umbri, in «Arte e Storia», 1911 e 1912; p. pirri, Di una tradizione pittorica in Norcia, ivi, 1914, pp. 321-29; c. verani, Gli affreschi quattrocinquecenteschi nella chiesa di Santa Maria Apparente a Capanne di Colle Giacone presso Cascia, in «L’Arte», LXII, 1963, pp. 41-58 e 289-92. 90 a. moretto, Indagine aperta sugli affreschi del Canavese, Saluzzo 1973, pp. 9 sgg. 91 a. lange, Notizie sulla vita di Giacomo da Ivrea, in «Bollettino della Società piemontese di archeologia e di belle arti», xxii, 1968, pp. 98-102. 92 Cfr. a. raineri, Antichi affreschi nel Monregalese, Cuneo 1965; g. romano, Documenti figurativi per la storia delle campagne nei secoli xi-xvi, in «Quaderni storici», 1976, n. 31, pp. 134 sg. Sui molti cicli tardo-gotici a carattere piú o meno popolareggiante, spesso commissionati da comunità rurali o alpestri, confraternite, piccolo e medio clero, localizzati nell’area alpina occidentale, eseguiti per lo piú da maestranze itineranti che continuano a servirsi per un lungo periodo dei medesimi schemi, si vedano: m. roques, Les peintures murales du Sud-Est de la France, Paris 1961; e. brezzi, Precisazioni sull’opera di Giovanni Canavesio. Revisioni critiche, in «Bollettino della Società piemontese di archeologia e di belle arti», xviii, 1964, pp. 35 sgg.; a. griseri, Jacquerio e il realismo gotico in Piemonte, Torino 1965, passim; c. gardet, De la peinture du Moyen Âge en Savoie, II, Annecy 1966; z. birolli, Il formarsi di un dialetto pittorico nella regione ligure-piemontese, in «Bollettino della Società piemontese di archeologia e di belle arti», xx, 1966, pp. 115 sgg.; e. rossetti brezzi, Momenti della pittura piemontese, ivi, xxv-xxvi, 1972, pp. 35 sgg.; g. romano e a. f. pari-
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Enrico Castelnuovo Il significato del ritratto pittorico nella società si, catalogo della Mostra del Gotico nel Piemonte centro-occidentale, Torino-Pinerolo 1972; g. romano, voce Giovanni Canavesio, in Dizionario Biografico degli Italiani, XVII, Roma 1974, pp. 728 sgg.; Valle di Susa cit. 93 cavalcaselle e crowe, Storia della pittura in Italia cit., X, pp. 112 sgg.; l. mortari, Opere d’arte in Sabina dall’xi al xvii secolo, Roma 1957. 94 a. rizzi, Un pittore rinascimentale in Lucania, Simone da Firenze, in «Napoli Nobilissima», IX, 1970, pp. 11 sgg.; id., Altre opere lucane di Simone da Firenze, in «Antichità viva», XV, 1976, n. i, pp. 11 sgg. 95 i. faldi, Pittori viterbesi di cinque secoli, Roma 1970, p. 19. 96 v. casale, g. falcidia, f. pansecchi e b. toscano, Ricerche in Umbria, I, Treviso 1976. 97 Ibid., p. 44. 98 j. burckhardt, Der Cicerone, Basel 1855, p. 78o, riportato nel Commento antologico alla fortuna critica del Trecento bolognese, in «Paragone», i, 1950, n. 5, p. 25. 99 b. berenson, The Central Italian Painters of the Renaissance, New York - London 1909, p. v; cfr. toscano, La fortuna della pittura umbra cit., p. 26, nota 7. 100 r. longhi, Tracciato Orvietano, in «Paragone», xiii, 1962, n. 149, p. 4. 101 vasari, III, 386. 102 Ibid., 89 sg. 103 Ibid., V, 103 sg. 104 Cfr. p. junod, Transparence et Opacité, Lausanne 1976, particolarmente pp. 50-52 e 3o6-7. 105 vasari, VI, 270. Sul problema Pontormo-Dürer come è impostato dal Vasari cfr. w. friedlander, The Anticlassical Style, in Mannerism and Anti-Mannerism in Italian Painting, 2a ed. New York 1957, pp. 3 e 25; k. hermann-fiore, Sui rapporti fra l’opera artistica del Vasari e del Dürer, in Il Vasari storiografo e artista cit., pp. 701-15. 106 r. longhi, Officina ferrarese, in Opere complete di Roberto Longhi, V, Firenze 1956, p. 151. 107 vasari, VI, 267. 108 j. bony, The Resistance to Chartres in Early Thirteenth-Century Architecture, in «The Journal of the British Archaeological Association», xx-xxi, 1957-58, pp. 35-52. 109 Cfr. t. s. kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino 1969. 110 vasari, V, 161 sg. 111 Cfr. p. p. donati, Per la pittura pistoiese del Trecento, I, in «Paragone», xxv, 1974, n. 295, p. 5.
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Enrico Castelnuovo Il significato del ritratto pittorico nella società l. bellosi, Buffalmacco e il Trionfo della Morte, Torino 1974, p. 73. Per illuminare questo ambiente di fronda giottesca, cfr. c. volpe, Frammenti di Lippo di Benivieni, in «Paragone», xxiii, 1972, n. 267, pp. 3-13 e Ristudiando il Maestro di Figline, ivi, XXIV, 1973, n. 277, pp. 3-23. 113 l. grodecki, Architettura gotica, Milano 1976, pp. 151 sgg. 114 bellosi, Buffalmacco cit. 115 donati, Per la pittura pistoiese del Trecento, I cit.; II, in «Paragone», xxvii, 1976, n. 321, pp. 3-15. 116 dionisotti, Culture regionali cit., p. 137. 117 Cfr. l. bellosi, Moda e cronologia. B) Per la pittura del primo Trecento, in «Prospettiva», ottobre 1977, n. 11, pp. 14 sg. 118 Cfr. h. kreuter-eggemann, Das Skizzenbuch des «jaques Daliwe», München 1964, particolarmente alle pp. 27, 44 e 65. 119 A proposito della decorazione della Cappella di San Marziale nel Palazzo dei Papi scriveva E. Müntz, cui si deve il ritrovamento negli archivi vaticani del nome di Matteo Giovannetti: «Dal punto di vista dell’armonia del ritmo e dei canoni decorativi è impossibile immaginare un insieme piú urtante, piú sgraziato». Sulla lunga riserva nei confronti dell’opera avignonese del Giovannetti cfr. e. castelnuovo, Un pittore italiano alla corte di Avignone, Torino 1961, pp. 54 sg. e 139 sg. 120 Sulle équipes internazionali al lavoro in Avignone cfr. ibid. e passim; e. kane, A document for the fresco technique of Matteo Giovannetti in Avignon, in «Studies. An Irish Quarterly Review», inverno 1975. 121 Cfr. quanto osserva R. Longhi a proposito degli affreschi di Andrea Delirio (Primizie di Lorenzo da Viterbo, in «Vita Artistica», 1926) laddove denuncia «quell’antica confusione per cui un “internazionalista” poteva essere posto sullo stesso piano di un “rinascimentale”, o, con aggravante mentale, esser ritenuto, con pregiudizio evoluzionistico, passibile, anzi desideroso di volgersi alle forme del Rinascimento. In verità la divertita “composizione del mondo” degli “internazionali” bastava a se stessa, era una visione figurativa e perciò spirituale in sé perfettamente completa, ed incapace, dico aliena dall’aspirare alla sintesi, alla profonda analogia naturalistica del cosiddetto Rinascimento. Andrea Delirio avrebbe potuto vivere cinquant’anni ancora, senza che il suo mondo artistico gli dovesse apparire fallace, senza che il desiderio potesse sorgergli, insomma, di tramutarsi in Lorenzo da Viterbo» (ora in Opere complete di Roberto Longhi cit., II. Saggi e ricerche, Firenze 1967, I, p. 61). 122 Opere di Defendente o della sua bottega furono anche commissionate oltralpe: ve ne sono nella Cattedrale di Embrun, nella chiesa abbaziale di Hautecombe o nella Cattedrale di Saint-Claude nello Jura (per quest’ultimo caso si veda a. chastel e a. m. lecoq, Le Rétable de Pierre de la Baume à Saint-Claude, in «Monuments et Mémoires», Fondation Eugène Piot, lxi, 1977, pp. 165-204). 112
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Enrico Castelnuovo Il significato del ritratto pittorico nella società m. perotti, Il Giudizio michelangiolesco di Madonna dei Boschi di Boves, in «Cuneo provincia granda», agosto 1964, n. 2. 124 Cfr. a. boschetto, La Collezione Roberto Longhi, Firenze 1971, tav. 31. 125 Come si vede particolarmente in talune predelle della chiesa di San Giovanni ad Avigliana. Cfr. l. mallè, Fucina piemontese: Sodoma giovane, Gaudenzio, Defendente Ferrari, Gerolamo Giovenone, in «Bollettino della Società piemontese di archeologia e di belle arti», n. s., viii-xi, 1954-57, pp. 63-64. 126 f. cortesi bosco, in I Pittori Bergamaschi, I. Il Cinquecento, Bergamo 1975, pp. 49 e 56; id., La letteratura religiosa devozionale e l’iconografia di alcuni dipinti di L. Lotto, in «Bergomum», lxx, 1976, n. 1-2, pp. 3 sgg. 127 l. dolce, Dialogo della Pittura, in Trattati d’arte del Cinquecento, a cura di P. Barocchi, I, Bari 196o, p. 181. 128 l. lanzi, II, 53-54. 129 Ne scriverà B. Berenson (Lorenzo Lotto, London 1901, p. 236), evocando Manet e Degas e qualificandola «perhaps the most “modern” picture ever painted by an old Italian master». 130 Ibid., pp. 243 sgg.; g. fabiani, Un mancato allievo di L. Lotto, Simone de Magistris, in «Arte cristiana», xliii, 1955, pp. 159 sg.; p. zampetti, I pittori di Caldirola, relazione al Congresso C.N.R. di Storia dell’Arte, Roma 1978. 131 Cfr. il saggio introduttivo di a. emiliani nel catalogo della Mostra di Federico Barocci, Bologna 1975, particolarmente pp. xxix sg. 132 bellori, Le vite cit., p. 32. 133 r. longhi, Viatico per cinque secoli di pittura veneziana, Firenze 1946, p. 18. 134 Un intelligente ritratto-tipo del pittore provinciale tra Cinque e Seicento si troverà nel saggio di b. toscano, Andrea Polinori o la provincia perplessa, in «Arte antica e moderna», 1961, n. 13-16, pp. 300 sgg. Sui problemi della selezione culturale quali si presentano a un pittore provinciale che venga in contatto con un centro artistico importante si veda, per un periodo precedente, l’analisi condotta da F. Zeri sulla pala con la Santa Famiglia, santi e angeli del Conservatorio di Santa Maria degli Angiolini a Firenze, in Eccentrici fiorentini - II, in «Bollettino d’Arte», xlvii, s. IV, 1962, p. 318. Per altre osservazioni su analoghi problemi di acculturazione al principio del Cinquecento si veda id., Una congiunzione tra Firenze e Francia. Il Maestro dei cassoni Campana, in Diari di lavoro 2, Torino 1976, pp. 75 sgg. 135 g. g. bottari e s. ticozzi, Raccolta di lettere sulla pittura, scultura ed architettura..., VII, Milano 1822, p. 66. 136 Ibid., pp, 94 sg. 137 Ibid., p. 77. 123
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Enrico Castelnuovo Il significato del ritratto pittorico nella società a. momigliano, Ancient History and the Antiquarian, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», xiii, 1950, pp. 285 sgg. 139 In Inghilterra la fine del Settecento è il momento del take-off economico e culturale della Provincia. Cfr. f. d. klingender, Arte e Rivoluzione Industriale, Torino 1972; t. fawcett, The Rise of the English Provincial Art, Oxford 1974. 140 m. schapiro, The Religious Meaning of the Ruthwell Cross, in «The Art Bulletin», xxvi, 1944, pp. 232-45; id., From Mozarabic to Romanesque in Silos, ivi, xxi, 1939, pp. 312-74, ora in m. schapiro, Selected Papers. Romanesque Art, New York 1977, pp. 28 sgg. 141 a. frizzi, Memorie per la Storia di Ferrara, V, Ferrata 18o9, p. 64; cfr. anche e. riccomini, Il Seicento ferrarese, Milano 1969, p. 10. 142 c. gould, Trophy of Conquest. The Musée Napoléon and the Creation of the Louvre, London 1965. 143 d. roxan e k. wanstall, The Jackdaw of Linz. The Story of Hiller’s Art Thefts, London 1964. 144 e. müntz, Les annexions de collections d’art ou de bibliothèques et leur rôle dans les relations internationales, in «Revue d’Histoire Diplomatique», viii, 1894, pp. 481-97; ix, 1895, pp. 375-93; x, 1896, pp. 481-508; w. treue, Kunstraub. Ueber die Schicksale von Kunstwerken in Krieg, Revolution und Frieden, Düsseldorf 1957; h. trevor-roper, The Plunder of the Arts in the Seventeenth Century, London 1970. 145 lanzi, III, 169. 146 frizzi, Memorie per la storia di Ferrara cit., V, p. 64. 147 g. baruffaldi, Vite de’ pittori e scultori ferraresi, II, Ferrara 1846, p. 27. 148 a. emiliani, Gian Francesco Guerrieri da Fossombrone, Urbino 1958, p. 42. 149 e. carli, Dipinti senesi del Contado e della Maremma, Milano 1955, pp. 84 sgg. 150 w. m. bowsky, The Finance of the Commune of Siena 1287-1355, Oxford 1970, pp. 25 sgg. 151 g. v. castelnovi, Giovanni Barbagelata, in «Bollettino d’Arte», xxxvi, 1951, pp. 211-24; f. alizeri, Notizie dei professori del disegno in Liguria dalle origini al secolo xvi, II, Genova 1870, pp. 189 sgg. 152 c. maltese, Arte in Sardegna dal v al xviii secolo, Roma 1962. 153 Cfr. f. zeri, Perché Giovanni da Gaeta e non Giovanni Sagitano, in «Paragone», xi, 196o, n. 129, p. 53. 154 dionisotti, Culture regionali cit., p. 139. 155 g. moracchini, Trésors oubliés des églises de Corse, Paris 1959, pp. 22 e 114 sg. 156 r. longhi, Frammento Siciliano, in «Paragone», iv, 1953, n. 47, pp. 3 sgg.; f. bologna, Il soffitto della Sala Magna allo Steri di Palermo e la cultura feudale siciliana nell’autunno del Medioevo, Palermo 1975. 138
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Enrico Castelnuovo Il significato del ritratto pittorico nella società m. d’elia, Catalogo della Mostra d’arte in Puglia dal tardo Antico al Rococò, Bari 1964. 158 f. bologna, prefazione al catalogo Arte in Calabria, ritrovamenti, restauri, recuperi, Cosenza 1976, pp. 6 sg. 159 f. abbate, La pittura in Campania prima di Colantonio, in Storia di Napoli, IV, I, Napoli 1974. 160 f. alizeri, Notizie cit., p. 210. 161 g. romano, Casalesi del Cinquecento. L’avvento del manierismo in una città padana, Torino 1970. 162 Cfr. le osservazioni di emiliani, Gian Francesco Guerrieri da Fossombrone cit. e nell’introduzione al catalogo della Mostra di Ludovico Barocci cit. 163 g. marchini, Un incontro imprevedibile: il Fogolino ad Ascoli Piceno, in «Antichità viva», v, 1966, n. 1, pp. 3 sgg. 164 casale-falcidia-pansecchi-toscano, Ricerche in Umbria cit., p. 34. 165 f. bologna, I pittori alla corte angioina di Napoli, Roma 1969, pp. 173, 349; id., Prefazione a Arte in Calabria cit., p. 7. 166 a. antonaci, Gli affreschi di Galatina, Milano 1966. 167 a. fabbi, Artisti fiorentini sul territorio di Norcia, in «Rivista d’Arte», xxxiv, 1959, pp. 109-22; id., Preci e la Valle Castoriana, Spoleto 1963. 168 r. cessi, Venezia, le Puglie e l’Adriatico, in «Archivio Storico delle Puglie», viii, 1966, fasc. 1-4, pp. 53-59; m. s. calò, La pittura del Cinquecento e del primo Seicento in terra di Bari, Bari 1969 . 169 p. giannizzi, Una pala dipinta da Lorenzo Lotto per la cattedrale di Giovinazzo, in «Arte e Storia», xii, 1894, p. 91. 170 Cfr. s. marinelli, in La pittura a Verona tra Sei e Settecento, catalogo della mostra, Verona 1978, p. 35. 171 n. pevsner e altri, Historismus und bildende Kunst, München 1967, p. 89. 172 e. rufini, Ricerche sull’attività del Vanvitelli nelle Marche, in «Atti dell’XI Congresso di Storia dell’Architettura. Marche, 6-13 settembre 1959», Roma 1965, pp. 466 sg. 173 Lettera di David a Wicar del 14 giugno 1789. Riprodotta in d. e g. wildenstein, Documents complémentaires au catalogue de l’œuvre de Louis David, Paris 1973, pp. 27 sg. 174 g. moore barrington jr, Le origini sociali della dittatura e della democrazia. Proprietari e contadini nella formazione del mondo moderno, Torino 1966. 175 m. schapiro, Nature of Abstract Art, in «Marxist Quarterly» (New York), I, n. 1, gennaio-marzo 1937. 176 l. carroll, Alice nel Paese delle Meraviglie e Attraverso lo Specchio, Torino 1978, p. 142. 157
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