Carlotto Massimo - La Verita Dell Alligatore

December 14, 2016 | Author: LaMagaLucia | Category: N/A
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Massimo Carlotto LA VERITA’ DELL’ALLIGATORE. 1995

L’Autore ringrazia Buba Nalli per la collaborazione alla stesura di questo volume. A Grazia Cherchi maestra e amica generosa.

Quando la vidi entrare, tailleur costoso e borsa rigida da professionista, capii subito che mi sarei perso parte del concerto di Cooper Terry che stava iniziando in quel momento. Solo il chiarore fioco irradiato dai tubi fluorescenti delle pubblicità delle varie marche di birra illuminava l’interno del locale in cui mi trovavo - il "Noisebar Banale” - uno scantinato trasformato nel club più frequentato di Padova, situato al Portello, quella zona della città un tempo gagliardo quartiere di malaffare, oggi popoloso rifugio-dormitorio per universitari fuori sede: ogni cinque portoni una pizzeria al trancio, dopo dieci una lavanderia a gettoni e ovunque cumuli di biciclette arrugginite, incatenate ai pali della segnaletica stradale. Detesto che qualcuno mi disturbi mentre ascolto del buon blues, ma allora capitava piuttosto di frequente. Tutti sapevano che fare il giro dei locali era l’unico modo per trovarmi: il mio nome non appariva sulla guida telefonica e nessuno conosceva il mio indirizzo. Molti anni prima - ero ancora uno studente - la mia casa nel centro storico veniva aperta a chiunque si presentasse alla porta dichiarando di aver bisogno di un posto per dormire. Una sera era arrivato un tizio dall’accento romano, con una borsa sportiva e una faccia che avevo gin visto da qualche parte. Ci arrestarono all’alba. Lui e’ ancora dentro, io gli ho fatto compagnia per sette lunghi anni. Per cavarmela con molto meno avrei dovuto firmare certi verbali e riconoscere certe facce. Preferii starmene zitto. Non mi presentai nemmeno al processo, lasciando tutto solo l’avvocato d’ufficio, un tipo smilzo dagli occhi scuri vivaci e con un vistoso paio di baffi. Tutti e due sapevamo che per me si poteva fare ben poco. Giudici e giornalisti mi definirono un irriducibile. Invece io non stavo ne da una parte ne dall’altra. Semplicemente non avevo nulla da dire. In galera continuai a non vedere e a non sentire. Questo fece di me una specie di saggio, una persona di rispetto. Così quando c’era qualche problema mi venivano a cercare e io fungevo da intermediario. Delle loro beghe da malavitosi non me ne importava un accidente, ma le guerre interne a cui inevitabilmente portavano rendevano più dura la vita di tutti. Anche la mia. Una volta uscito ho continuato a godere di una buona reputazione. Un giorno mi venne a trovare un avvocato che non sapeva come fare per dimostrare che il suo cliente, sebbene accusato di aver rapinato una banca, era del tutto innocente. Fu un lavoro pulito. I veri responsabili si decisero a fornire le prove dell'estraneità dell’imputato quando ebbero la mia parola che nessuno avrebbe mai scoperto la loro identità Da allora svolgo piccole indagini per tutti quei legali che hanno bisogno di entrature nel mondo della malavita. Solo dietro compenso, naturalmente. Tutti buoni motivi per non far sapere in giro dove abitavo. Neanche agli amici. Ma trovarmi non era difficile perché nell’ambiente chiunque era al corrente che ai concerti blues non mancavo mai. Prima di finire nei guai ero il cantante di un gruppo, “gli Old Red Alligators”, e fu così che iniziarono a chiamarmi Alligatore. Ci esibivamo nei club del nord e non eravamo male. Accompagnavo i miei blues con il “rubboard”, uno strumento che si ricava artigianalmente da una lamina di metallo ondulato - a una prima occhiata, può sembrare una tavola per lavare i panni - e la cui sonorità e’ sempre presente nella musica “zydeco” dei gruppi neri “Cajuns”, i discendenti degli afroamericani della Louisiana. Lo suonavo alla maniera di Cliveland Chenier, cioè servendomi di una sorta di plettro che il più delle volte si riduceva a essere la linguetta della lattina di birra che tieni al tuo fianco per bagnarti il becco quando ti viene sete. Il nostro pezzo forte era tratto da una poesia di Assata Shakur: “I must confess that waltzes do not move me. I have no sympathy

for symphonies. I guess I hummed the Blues too early, and spent too many midnights out wailing to the rain.” Dalla galera sono uscito senza più la voglia di cantare e suonare. Mi va solo di ascoltare. E di continuare a bere. Ormai soltanto calvados, tutto CIO che mi rimane di una donna perduta in Francia. Un tempo tutto quello che mi capitava a tiro, perché «puoi togliere il blues dall’alcol ma non l’alcol dal blues». Durante quei sette lunghi anni, invece, non ho toccato un goccio. Dentro si distillava clandestinamente una specie di veleno che i vecchi coatti chiamavano “il brandy dell’Hotel Millesbarre”. Ma era troppo triste bere di nascosto. La tizia dall’aria indaffarata doveva essere bene informata sul modo in cui trovarmi e dava pure l’impressione di essere una che non molla. Si era rivolta al barista perché le indicasse dov’ero seduto e mentre lui le rispondeva, aveva continuato a sollevarsi sulle punte dei piedi, allungando il collo fino a quando non mi ebbe individuato. «Marco Buratti?» chiese, tendendomi la mano. «Le piace il blues?» domandai a mia volta, senza staccare la destra dal bicchiere. «No, e comunque sono qui per ragioni di lavoro. Ho un problema e un collega, l’avvocato Secchi, mi ha detto che lei potrebbe aiutarmi». «Devo ancora trovare un avvocato che sappia apprezzare la buona musica. Sì, sono Marco Buratti» e visto che non aveva ritirato la mano, mi alzai in piedi e ricambiai la stretta. «E io, Barbara Foscarini». Le indicai un tavolo rischiarato dal neon bianco e rosso della Budweiser. Mentre si sedeva, ne approfittai per darle un’occhiata. Scarpe viola col tacco a spillo, tailleur giallo che faceva risaltare un’abbronzatura sorprendente visto che eravamo soltanto alla fine di giugno, atteggiamento apparentemente privo dell’arroganza che contraddistingue i giovani leoni del foro. Sui quarantacinque, rotondetta, piccolina, ben fatta e ci avrei giurato - separata. «Un mio cliente, tale Alberto Magagnin, che sta scontando una pena a diciotto anni di reclusione ma attualmente si trova in regime di semilibertà, e’ scomparso da ieri sera. La mattina si e’ presentato regolarmente al lavoro, presso la cooperativa Sole, da dove se ne e’ andato alla solita ora. La legge prevede che rientri in carcere al massimo entro le ventidue...». «Eviti questi particolari» la interruppi, «sono stato semilibero anch’io». «Mi scusi, me l’aveva detto l’avvocato Secchi. Proprio per questo ho deciso di rivolgermi a lei: conosce l’ambiente e potrebbe aiutarmi a ritrovare Alberto Magagnin». «Perché?». «Come, prego?». «Perché vuole ritrovarlo? Se ha scelto di scappare, sono affari suoi. E poi, lo cerca già la polizia, no?». «Vorrei trovarlo prima della polizia, per convincerlo a ripresentarsi. Se lo facesse nei prossimi giorni, ci sarebbe ancora qualche possibilità che il tribunale di sorveglianza non si dimostri troppo severo e gli conceda di terminare la pena da semilibero» mi guardò con fare preoccupato, «gli manca meno di un anno». «E poi?» la provocai. «Conosco l’ambiente, un avvocato non si sbatte per così poco. Mi dica il resto». «Vedrò di spiegarmi meglio» il tono della voce della donna ora era leggermente irritato.

«Conosco Alberto da anni, precisamente da quando e’ stato arrestato per l’omicidio di Evelina Mocellin Bianchini. Non so se ricorda il caso, gennaio ‘76. Dopo tutti questi anni sono ancora convinta che sia stato condannato ingiustamente. Ha passato dei momenti terribili. Vorrei semplicemente aiutarlo». Ma certo, avevo ben presente la vicenda e il risalto che era stato dato sui giornali. Magagnin, un tossico del giro di piazza dei Signori, si era introdotto in una villa del quartiere Arcella per rubare e aveva ammazzato con un sacco di coltellate la padrona di casa che l’aveva sorpreso. La notizia aveva fatto scalpore perché la donna apparteneva a una famiglia di quelle che contano a Padova. I carabinieri l’avevano fermato la sera stessa mentre vagava senza meta con gli abiti macchiati di sangue. Aveva raccontato che l’aveva trovata già morta e che era scappato dopo averla toccata, nel tentativo di soccorrerla. Ovviamente non era stato creduto neanche per un istante e un paio di perizie l’avevano definitivamente inchiodato in Corte d’Assise. Anch’io avevo sempre sospettato che fosse colpevole e della sua fuga mi importava davvero poco. Ma ero rimasto colpito dall’atteggiamento della Foscarini piuttosto strano, per un avvocato. Questa sua partecipazione emotiva stava a indicare che mi trovavo di fronte a una situazione quantomeno insolita. «Non e’ il mio genere, non ritrovo latitanti. L’avvocato Secchi l’ha indirizzata male». «Non credo. Sapeva che lei avrebbe rifiutato e mi ha consigliato di farle leggere questo biglietto». Aprii la busta tenendo le mani sotto al tavolo. Lessi: “Mi devi un favore”. «Presumo che l’avvocato Secchi le abbia parlato anche della mia tariffa» bofonchiai, piuttosto innervosito, quando tornai a guardarla. «Sì, non c'è nessun problema. Accetta l’incarico?». «Accetto, mi pare ovvio. Ho bisogno di una foto» mi accesi una sigaretta, «preferibilmente recente». Estrasse dalla borsa una cartellina azzurra. «Posso fornirle solo dei ritagli di giornale con la cronaca del processo. Ecco, ci sono anche alcune foto, ma risalgono a quindici anni fa». «Me le dia, possono comunque servirmi. Un’ultima domanda: nessuna vaga idea di dove possa essere?». «No, però temo che abbia ricominciato a drogarsi e non escludo che sia questa la ragione della sua fuga. Quindi, non dovrebbe essere molto lontano». «Appena so qualcosa, le telefono». Mi allungò un biglietto da visita. «C'è anche il numero del cellulare, può chiamarmi a qualsiasi ora. Nella cartellina» la indicò con il mento, «troverà anche una busta con l’acconto. In contanti, naturalmente». Si alzò e mi strinse la mano. La seguii con lo sguardo mentre si allontanava. Pensai con un po’ di sollievo che tutto sommato me l’ero cavata in fretta. Potevo ancora godermi buona parte del concerto. Cooper aveva appena attaccato “Everything gonna be alright” di Muddy Waters. Peccato che non ci fosse Mojo Buford a suonare l’armonica. L’indomani mi alzai un po’ prima delle sei. Avevo giusto un’ora di tempo per arrivare davanti ai cancelli del carcere prima che uscissero i semiliberi. Riuscire ad avvicinare qualche vecchia conoscenza dei tempi in cui stavo dentro mi avrebbe permesso di raccogliere le informazioni sulla scomparsa di Magagnin nel modo più rapido. Altrimenti avrei dovuto organizzarmi con qualcuno del mio giro attuale. Ma in questo caso il contatto sarebbe arrivato dopo un periodo di attesa troppo lungo. Parcheggiai in un punto con una buona visuale e contemporaneamente poco esposto, in modo da non suscitare l’interesse delle guardie.

Mi scoprii a pensare che mancavo da tre anni a quell’appuntamento. Forse era meglio accendersi una sigaretta. L’accendino andò a cadere piuttosto rumorosamente nel vano portaoggetti del cruscotto. Uscirono come sempre in fila indiana, il passo veloce e nervoso di chi vuole allontanarsi al più presto. Ne riconobbi un paio che erano stati nel mio raggio e appena si avvicinarono, scesi dalla macchina. «Ehi, Buratti» mi apostrofò il primo. «Nostalgia della galera?». «Ciao Morabito, sono venuto a parlare con te e Mazinga». Per rispettare il cerimoniale dovetti prima abbracciarli e poi baciarli. Morabito era un calabrese finito dentro per sequestro e Mazinga uno spacciatore di Bolzano dall’impronunciabile cognome tedesco. Due vecchi galeotti, che avevano già capito il motivo della mia visita. «Non sappiamo niente» dichiarò il crucco, senza attendere la domanda. «Magagnin lavorava con noi alla cooperativa del prete; e’ uscito alle sette di sera come al solito e non e’ più tornato. Che stronzo, gli mancava poco per finire». «Non sapete dove andava di solito tra le diciannove e le ventidue?». «E chi lo sa? Veniva a prenderlo una donna all’uscita. Con una Golf metallizzata». «La conoscete?». «No. Una che ha passato sicuramente i quaranta. Più vecchia di Alberto... non dell’ambiente, una “regolare”». «Tipo impiegata ma con l’aria di chi ha parecchia grana» approvò Mazinga. «Se l'è venuto a prendere anche il giorno in cui e’ scomparso?». «No» rispose Morabito. «Alberto e’ andato via a piedi». «Qualche idea?» chiesi ancora, guardandoli alternativamente. Si limitarono entrambi a scuotere il capo con decisione. Mentre si allontanavano verso la fermata dell’autobus, Mazinga si voltò. «Conosci Carraro? E’ uno qui di Padova che ha finito la semilibertà un paio di mesi fa. Era molto amico di Magagnin» fece il gesto di spingere lo stantuffo di una siringa, «forse lui sa chi e’ la donna». Marietto Carraro, una storia di droga come tante altre. Ladruncolo per necessità, sempre dentro e fuori di galera, tra i pochi sopravvissuti della sua generazione di sbusoni. Lo rintracciai facilmente. Cacciati dal centro, ormai i tossici stavano tutti in Prato della Valle - “la piazza più grande d’Europa” come recitano tutte le guide turistiche cittadine - confinati nella zona compresa tra la Questura e il comando dei carabinieri. Pronti per l’arresto, il carcere o la comunità Marietto stava seduto al tavolino di un bar, nelle immediate vicinanze dell’ex foro boario, intento a parlare con la figlia del titolare. «Oh, l’Alligatore in persona». «Ciao Marietto. Come sempre sei “in vena”, vero?». «Come no! Me li dai un po’ di soldi?». «Sì, ma non gratis». «Sei arrivato tardi: non faccio più marchette da quando sono sieropositivo» «Niente marchette» risposi, guardandomi attorno leggermente imbarazzato, «solo un briciolo della tua memoria. Vieni? andiamo a farci un giro». Lo feci salire in macchina e iniziai a girare per le stradine che dal Prato portano alla basilica del Santo. Dopo un po’ gli chiesi: «Dov'è Alberto Magagnin?». «E’ in bandiera. Nell’ambiente si e’ già sparsa la notizia». «Marietto, non ti sono venuto a cercare per sentirmi dire quello che so già» ribattei pazientemente.

«Dai, dove si trova adesso? Ti do un centone». «E’ un pezzo che non vedo cento carte intere... ma non so dov'è Alberto. Fammi un’altra domanda». «Proviamo con questa: sai almeno dirmi chi e’ la donna che lo andava a prendere con una Golf metallizzata all’uscita dalla cooperativa?». «So dove abita, nient’altro. Una volta ci ho accompagnato Alberto. Mi ha detto che e’ una mezza matta che gli dà un sacco di soldi. Beato lui». «Alberto si buca ancora?». «Beh, a quel tempo si faceva una pera ogni tanto. Si controllava, voleva finire la galera senza casini». «Adesso nei casini c'è finito comunque. Chi era il suo pusher?». «Bepi Baldan, quello di via Savonarola». «Lo conosco. Secondo te, se adesso Magagnin avesse ripreso a farsi alla grande, si rivolgerebbe di nuovo a lui?». «Sì, e’ fuori dal giro da troppo tempo per conoscerne altri. Gliel’ho presentato io». «Davvero una buona azione, Marietto» ribattei sarcastico. «Dai, portami a vedere questa casa». Una graziosa casetta a due piani con giardino, ai margini del quartiere Sacra Famiglia, simile a tante altre, costruite all’incirca una trentina d’anni prima. Una tranquilla strada alberata. Non certo un posto da ricchi. Mazinga si doveva essere sbagliato nel valutare le possibilità economiche della donna. Parcheggiai un centinaio di metri più avanti e mi incamminai verso la casa dopo aver raccomandato a Carraro di non muoversi. Arrivai all’altezza del campanello e rallentai il passo appena, giusto il tempo di leggere il nome sulla targhetta: prof. Piera Belli. Continuai la mia passeggiata fino al termine della strada, attraversai e tornai indietro dall’altro lato del marciapiede. Giunto nuovamente in prossimità della villetta, mi fermai ad allacciarmi una scarpa e sbirciai in alto verso le finestre. Mi accorsi che erano tutte chiuse eccetto una d’angolo che dava sul giardino della casa di fianco. Raggiunsi Marietto in macchina e lo riportai al suo bar. Quando gli consegnai la banconota da cento cominciò a rigirarsela tra le mani. Alla fine mi disse: «Grazie Alligatore, grazie. Mi ci compro un bel po’ di roba con questa». «Fai un po’ come credi». Poi, mentre si allontanava, gli gridai dal finestrino: «Ehi Marietto, sul serio sei positivo?». «Sì». Ingranai la prima, guardando diritto davanti a me. La casa della Belli mi attirava. Sembrava proprio il posto giusto per nascondere un latitante. Mi fermai a una cabina telefonica e prima di scendere tirai fuori da sotto il sedile l’elenco degli abbonati. Belli, Piera Belli... via Torlonga, ventinove... 8700392. Attesi per una ventina di squilli: non rispondeva nessuno. Dopo un altro paio di tentativi, decisi di tornarmene a casa. Era già l’ora di pranzo. Mi accontentai di una pastasciutta, il caldo era troppo opprimente per pensare di cucinare anche un secondo piatto. Riuscii appena a spostare le stoviglie sporche di sugo dal tavolo al lavello della cucina e poi mi sdraiai pigramente sul divano, esattamente sotto a un grande ventilatore a pale, con il telefono a portata di mano. A casa Belli non rispondeva mai nessuno. Trascorsi il pomeriggio, tra un tentativo e l’altro, dormicchiando, sorseggiando qualche bibita e ascoltando vecchi dischi di Hound Dog Taylor and The Houserockers. Ricordo che a un certo punto sognai di camminare sul tetto e mi risvegliai di soprassalto quando ormai stavo scivolando nel vuoto. Era già notte fonda quando decisi che forse era il caso di andare a dare un’occhiata.

Il civico ventinove era l’unica abitazione della via totalmente immersa nel buio. La finestra d’angolo era sempre aperta. Suonai il campanello. Lo udii distintamente, nonostante una decina di metri di giardino separassero il cancello dall’abitazione. Non rispose nessuno. Mi spostai allora verso il passo carraio e, attraverso le inferriate, scorsi in lontananza, sotto una tettoia, la Golf metallizzata. Provai ad abbassare la maniglia e il grande cancello si aprì senza difficoltà Attraversai il giardino in diagonale e mi avvicinai al portoncino d’ingresso. Mi accorsi subito che era accostato. Spingendolo dolcemente, lo spalancai. L’odore mi colpì come se dietro la porta ci fosse stato qualcuno nascosto con uno sfollagente. Barcollai e a stento riuscii a controllare un conato di vomito. Non avevo mai sentito nulla di simile, ma non ci voleva una grande immaginazione per capire di che si trattasse. Richiudere la porta e andarsene sarebbe stata la cosa più sensata da fare, ma la curiosità mi trattenne, così, riaccostata la porta e accesa la luce dell’ingresso, iniziai a esplorare la casa. Seguendo gli effluvi nauseabondi, salii le scale e mi ritrovai sulla soglia della stanza con la finestra aperta. Quell’odore mi impedì d’entrarci. Mi rifugiai in bagno, dove freneticamente iniziai a rovistare negli armadietti, fino a quando non trovai una boccetta di profumo. Vi intrisi abbondantemente un fazzoletto per poi legarmelo strettamente sul viso, appena al di sotto degli occhi. Mentre ritornavo sui miei passi, mi domandavo come i vicini fossero riusciti a sottrarsi a un simile miasma. D’altro canto non poteva essere altrimenti, perché ero certo che se l’avessero avvertito avrebbero dato subito l’allarme. Mi avvicinai cautamente alla finestra aperta, dalla quale entrava la fioca luce dell’illuminazione stradale. Gettai uno sguardo fuori. Ma certo! Avevano installato il condizionatore e questo, funzionando da filtro, li aveva del tutto isolati da CIO che succedeva fuori. Non avevo ancora trovato il cadavere. Dovevo accendere la luce. Chiusi la finestra e tirai la tenda. Trovai a tentoni l’interruttore. Cristo! Le impronte digitali, ne stavo seminando ovunque. Con un fazzoletto di carta passai sopra le superfici toccate e poi ritornai subito nel bagno cancellando, anche le eventuali tracce del mio passaggio. Finalmente feci ritorno nella stanza. Giaceva sul pavimento e in posizione supina. Calzava un paio di ballerine di vernice rossa, ultimo grido della moda estiva. Una donna dunque, di cui non potevo scorgere il volto e gran parte del corpo, poiché coperti da tre voluminosi e morbidi cuscini. Di velluto verde brillante. Risalendo con lo sguardo dai piedi lungo il lato destro, spuntava da sotto i cuscini un braccio nudo steso in posizione rigidamente perpendicolare al busto e con la mano chiusa a pugno. Del tutto simmetrica la posizione dell’altro braccio e della mano sinistra. Sembrava crocefissa. Al polso un piccolo Rolex in acciaio. Mi chinai per osservarlo da vicino: le lancette segnavano le quattro e trentasei o le sedici e trentasei e il datario indicava il 28 giugno. Lo confrontai con il mio: erano le ventitré e quarantadue dello stesso giorno. Il Rolex si doveva essere fermato circa dalle diciannove alle sette ore prima, a seconda si facesse riferimento rispettivamente all’orario antimeridiano o a quello pomeridiano, ma era chiaro, date le condizioni in cui si presentava il cadavere, che il decesso era sicuramente avvenuto prima di tale intervallo di tempo. Scostai delicatamente i cuscini iniziando dal basso e sistemandoli uno dopo l’altro vicino al corpo. Mi accorsi che erano stati tolti dal divano posto lungo la parete di sinistra. L’odore attraverso la barriera di profumo e credetti di svenire. Tornai in bagno per impregnare nuovamente il fazzoletto. Lessi l’etichetta stampata sul flacone di profumo: Rumba di Balenciaga. Mi riavvicinai al cadavere: ero di nuovo in grado di esaminarlo. Omicidio, senz’ombra di dubbio. Un sacco di coltellate: alcune decine concentrate sul tronco, una, dai bordi slabbrati, alla radice del collo. Bucavano una maglia a maniche corte a righe bianche e rosse, indossata sotto a un gilet nero in stoffa leggerissima, il tutto abbinato a un paio di pantaloni bianchi sorretti da una cintura rossa. Una grande chiazza di sangue aveva intriso il tessuto all’altezza della schiena e si allargava anche sulla moquette color avorio. Il corpo gonfio come quello di un pupazzo troppo imbottito, il volto

viola e ormai in avanzato stato di putrefazione. Gli occhi sembravano in procinto di schizzar via e un liquame nerastro ostruiva la bocca leggermente aperta. Il contorno irregolare della ferita al collo era cosparso di puntini bianchi che, a un esame più attento, scoprii essere larve di mosche. Non si trattava del primo cadavere che osservavo così da vicino ma non avevo mai provato un simile ribrezzo. Mi alzai in piedi di scatto e cercai di sostituirne l’immagine con una qualsiasi ma riuscii solo a richiamare alla mente i corpi e i volti dei morti, suicidi o per regolamento di conti, in cui mi ero imbattuto in galera e che credevo di avere ormai dimenticato da tempo. A tutto volume mi esplose un blues nel cervello: “You died. I cried and kept on getting up, a little slower and a lot more deadly.” Ricoprii il cadavere con i cuscini. Osservai la stanza: scrivania, poltroncina, divano, libreria su due pareti, impianto stereo corredato da discoteca di musica classica, tre lampade a stelo sapientemente collocate nei vari angoli, una da tavolo sopra la scrivania. Bei mobili: moderni, dall’aria costosa, forse firmati, tutti nuovi. Soltanto i libri e alcuni dischi avevano un aria vissuta. Trovai una fotografia in una piccola cornice d’argento che mi tolse ogni dubbio in merito all'identità della vittima e me la infilai in tasca. Avrei voluto visitare il resto della casa ma l’orologio indicava che da ormai venti minuti mi trovavo in compagnia di un cadavere. Avevo superato tutti i limiti di sicurezza. Abbandonai la stanza, dopo aver spento la luce e riaperto la finestra; ripulendo ogni superficie che potevo aver distrattamente toccato, rifeci il tragitto in senso contrario e quindi uscii in strada, togliendomi solo in quel momento il fazzoletto dal viso. Ero a tal punto madido di sudore che l’aria, che entrava dai finestrini dell’auto, mi fece percorrere il corpo da brividi violenti. Una volta a casa, cacciai i vestiti direttamente nel cestello della lavatrice e mi precipitai sotto la doccia, sperando di liberarmi al più presto dal fetore di un omicidio di fine giugno. Seduto sotto il getto d’acqua che mi investiva con violenza, iniziai a riordinare i pensieri. La bella avvocatessa avrebbe avuto una brutta sorpresa: il suo cliente aveva fatto il bis. Altro che innocente. Appena preso, avrebbero buttato nel cesso la chiave della cella. Uno così era da rinchiudere a vita. Ma in manicomio, non in galera. Ero furibondo, non tanto per l’omicidio ma per le ripercussioni che la notizia avrebbe avuto sul mondo carcerario. Immaginavo già i titoli dei giornali. Se un detenuto commette un reato usufruendo dei benefici della riforma carceraria, scoppia il finimondo e le conseguenze si ripercuotono su tutti quelli che sono rinchiusi in carcere. Una volta, per colpa di un truffatore che non era tornato da un permesso premio e in più aveva inviato al magistrato di sorveglianza una cartolina di saluti dalla Svizzera, avevo dovuto aspettare oltre un anno per poter uscire di nuovo in permesso. E un anno e’ davvero lungo. Con la sorveglianza avevo sempre giocato pulito proprio per evitare rappresaglie indiscriminate. E così aveva fatto la maggior parte dei detenuti che avevo conosciuto. Ma l’eccezione c'è sempre e questa volta, con un omicidio di mezzo, sarebbero stati guai seri. Quel cadavere, poi... bisognava fare qualcosa. Optai per una telefonata anonima, sempre che la Foscarini non volesse occuparsene di persona. Dovevo sentirla immediatamente. «Pronto, sono Marco Buratti». «Buratti... ma che ore sono?». «Le due di notte. Mi ha detto lei di chiamarla a qualsiasi ora, avvocato. Ho grosse novità e devo vederla subito». «Non può dirmele per telefono?». «Penso che non sia il caso». «Va bene, mi arrendo. Dove e quando?».

«Tra un’ora al bar dell’area di servizio del casello Padova ovest. E’ l’unico aperto». In blue jeans e Lacoste rosa non sembrava proprio un avvocato. Appariva in ugual modo seccata e preoccupata, forse in attesa di capire se era necessario farmi una bella sfuriata per essere stata costretta ad alzarsi nel cuore della notte. Le offrii di farmi compagnia mentre terminavo di bere il cappuccino e mi pentivo di aver ordinato la brioche più fredda e stopposa mai mangiata. Ma lei disse che preferiva aspettarmi fuori. La raggiunsi dopo qualche minuto, contrariato dall’idea di dover abbandonare l’aria condizionata del bar. Nonostante l’ora tarda, l’afa non se n’era andata e la ventata di calda umidità, dalla quale fui investito uscendo, era quasi insopportabile. «Allora?» mi apostrofo. «Il suo cliente l’ha rifatto». «Buratti, non mi avrà svegliata nel cuore della notte e trascinata fin qui al solo scopo di stupirmi con delle frasi sibilline, spero. Si spieghi meglio: cosa ha rifatto?». «Beh, ha rifilato un bel numero di coltellate a un’altra padrona di casa. Forse le interesserà sapere che questa volta si tratta di una professoressa». Tirai fuori dalla tasca della giacca di lino la fotografia ancora incorniciata della vittima e gliela misi in mano. «Si chiamava Piera Belli e pare avesse una relazione con Magagnin. Stavo seguendo una pista per arrivare al suo cliente ma lungo il cammino mi sono imbattuto in ben altro: un cadavere di almeno un paio di giorni. Non le sembra buffo?». Mi guardo incredula. «Non vorrà mica dirmi che e’ stato lui, vero? No, non ci posso credere. Non e’ stato Alberto». «Pensi un po’ quello che vuole. Non e’ stato lui, certo... Gesù Cristo e’ morto di freddo, Gandhi si e’ suicidato e, vediamo un po’, Pinelli...». «Buratti» sibilo, guardandomi negli occhi, «vaffanculo!». «Ma apra gli occhi, avvocato» sbottai incollerito. «Nel ‘76 Magagnin viene condannato per aver ammazzato una donna con un bel numero di coltellate. Esce di galera, conosce una tipa matura con qualche soldo, la frequenta... mi segue?», fece cenno di sì con la testa, tesissima. «Bene. Lui sparisce e la tipa contemporaneamente viene ammazzata con una dinamica identica, guarda caso, a quella del primo omicidio. Cosa sono queste, tutte coincidenze?». «Per piacere, Buratti. Lei non conosce Alberto. E’ un drogato, un poco di buono, ma non un assassino. Questo glielo posso assicurare». «Mi ascolti bene, avvocato. Forse non ci siamo capiti: guardi che non deve convincere me ma una Corte d’Assise. Ci scommetto quello che vuole che appena avranno scoperto il cadavere, gli spiccheranno un mandato di cattura e...». Mi accorsi che non mi dava più retta. Stava guardando la fotografia ed era rimasta come paralizzata, le mani strette intorno alla cornice. «Buratti...» disse con un filo di voce. «Sono qui, avvocato». «Questa donna... come ha detto che si chiama? Io la conosco. Ma sì, era uno dei giudici popolari della Corte d’Assise che condannò Alberto!». La notizia fece colpo anche su di me. Mi fermai qualche attimo a riordinare le idee: «Come vede, adesso abbiamo anche il movente: la vendetta. Cosa vuole fare ora?». «Il delitto e’ stato scoperto?». «Non credo. Perché?». «Bisogna trovare Alberto. Immediatamente, prima che lo rintracci la polizia». «Forse so dove ripescarlo, o meglio, penso di sapere chi l’ha nascosto. Ma il delitto bisogna denunciarlo e subito, il cadavere e’ già decomposto». «No, la prego. Abbiamo bisogno di tempo...». «Avvocato, lei sta proprio perdendo la testa e dimenticando qual e’ il suo mestiere. Si calmi e

rifletta. Se e’ vero quel che ha detto, e cioè che Magagnin e’ innocente, più passa il tempo e più difficile sarà per la polizia scoprire elementi o tracce a suo favore. La cosa più importante da fare e’ cercare il suo cliente e, nel caso in cui lo trovi, come credo, organizzarle un incontro. Va bene?». «Sì, certo. Mi scusi, ma...». La interruppi: «Ora vada a casa» e dopo un attimo di esitazione, «io devo fare una telefonata anonima». Mentre si allontanava, pensai che forse ero stato un po’ troppo duro. C’era rimasta proprio male. Troppo per essere un avvocato. Rientrai alle quattro. Non avevo sonno, così cominciai a concentrarmi su quella che doveva essere la mia prossima mossa. Bisognava stanare Magagnin. L’intuito mi diceva di andare a bussare alla porta di Bepi Baldan. In base a quello che si diceva in giro, oltre a essere uno spacciatore di medio livello, disponeva dei mezzi per fornire protezione a tutti quei latitanti che arrivavano da lui con sufficiente grana, sempre a patto che non gli risultasse più conveniente venderli alla polizia. Passava per un tipo coriaceo, poco propenso a sbottonarsi. Insomma, per farlo parlare ci sarebbe stato bisogno di mostrare i muscoli. Era arrivato il momento di fare entrare in scena Beniamino Rossini, meglio noto nell’ambiente come il “vecchio Rossini”, per distinguerlo dai suoi numerosi fratelli. Nonostante l'età - cinquant’anni suonati, una buona quindicina dei quali trascorsa in galera conservava un fisico snello e muscoloso, “alla Moser”, come amava definirsi lui stesso. Uno degli ultimi rappresentanti della vecchia malavita milanese, la cui specialità erano le rapine ai furgoni portavalori. Ma aveva fatto un po’ di tutto. Era partito come spallone, seguendo la tradizione familiare. Sua madre, una basca francese, era stata infatti una leggendaria contrabbandiera dei Pirenei, fino al giorno in cui aveva incontrato un italiano, magro e allampanato, che cercava una guida per entrare in Spagna clandestinamente. Naturalmente l’avevo conosciuto dietro le sbarre ed eravamo diventati ottimi amici dopo che l’avevo aiutato a uscire da una situazione piuttosto difficile con un gruppo di camorristi. Allo “speciale” dell’isola di Pianosa, tre cutoliani avevano strangolato il suo compagno di cella, un napoletano affiliato a una cosca rivale. Rossini si era svegliato di soprassalto e per una manciata di secondi aveva osservato la scena, il tempo sufficiente per farlo diventare un testimone scomodo. Poi, aveva riappoggiato la testa sul cuscino, per far credere di non essersi accorto di nulla. Così lo avevano trovato le guardie che lo avevano trascinato alla famigerata sezione Agrippa, dove le celle d’isolamento erano imbottite e lorde di sangue. Lo avevano massacrato ma lui era stato zitto: non erano affari suoi. Dopo un paio di mesi d’isolamento e di interrogatori si convinsero che da lui non avrebbero mai saputo nulla e lo trasferirono alla casa di reclusione di Padova, dove lo conobbi. Se per gli agenti di custodia la sua memoria non era più un problema, così non era per i cutoliani che lo consideravano ancora un potenziale pericolo. Dopo un tentativo di accoltellamento alle docce, conclusosi con il ferimento dei suoi due aggressori, Beniamino mi contattò, chiedendomi di far sapere ai camorristi che da lui non avevano nulla da temere e che non aveva la minima intenzione di guardarsi alle spalle per tutto il resto della vita. Il che significava che i napoletani dovevano fidarsi della sua parola o sarebbe scoppiata una guerra senza quartiere. Con le dovute cautele avevo avvicinato il capo dei cutoliani e al termine di un lungo pranzo, dopo aver gustato un paio di babà, mi disse che le credenziali del milanese e il mio ruolo di garante erano sufficienti per considerare chiuso “l’incidente”. Trascorsa l’ultima carcerazione - cinque anni per aver ripulito una gioielleria del comasco - aveva lasciato Milano, «perché ormai invasa da spacciatori e infami». Su mio consiglio si era ritirato in un paesino della costa veneziana, Punta Sabbioni, dove si arricchiva contrabbandando con la vicina Dalmazia. Un tipo un po’ matto, a tratti incomprensibile, ma un vero duro.

Lo chiamavo tutte le volte in cui mi trovavo coinvolto in situazioni particolarmente difficili. Non mi diceva mai di no. Per amicizia, ma non solo. Per uno cresciuto sulla strada, che ne conosce tutti i segreti, si trattava - diciamo così - del piacere di rivivere le forti emozioni di un tempo. Probabilmente guidare un motoscafo da una costa all’altra non era poi così eccitante. Albeggiava e l’autostrada era deserta. Stavo cominciando a stancarmi di pensare sempre a Magagnin e ai suoi guai. Per restare sveglio e con il cervello sgombro, infilai una cassetta nell’autoradio e alzai il volume al massimo. Arrivai a destinazione prima di aver terminato di ascoltare “Hear my blues” di Al Smith. Beniamino abitava in una villetta sulla riva del mare. Mi venne ad aprire una ragazza straniera sui vent’anni, che mi accompagno in cucina dove il mio amico stava bevendo il caffè. «Ciao, Marco» uno dei pochi che mi chiamava con il mio vero nome. «Vuoi del caffè?». «Come mai già sveglio?». «Veramente devo ancora andare a dormire». «Da dove viene?» chiesi, riferendomi alla ragazza, uscita nel frattempo dalla stanza. «Croazia. Vuole andare a fare la ballerina in un night. Ma, detto tra noi, si tratta dell’ennesima profuga destinata a fare la puttana. Hanno deciso tutto al suo paese, e io ho ricevuto l’incarico di farla arrivare fin qui. Ma tu, piuttosto» appoggio l’avambraccio sul tavolo e si protese in avanti, verso di me, «dimmi da che guaio vuoi che lo zio Beniamino ti aiuti a uscire». Lo guardai. Stava diventando calvo e quei baffetti alla Xavier Cugat, da cantante sudamericano anni Cinquanta, avrei giurato fossero tinti. Ma quella pellaccia cotta dal sole sprizzava l’energia e la vitalità di un ventenne. Gli raccontai tutto e il suo unico commento fu: «Aspetta che tiro fuori l’attrezzatura». «Beniamino!» lo bloccai mentre stava aprendo la botola della soffitta. «Roba piccola. Non siamo in guerra con nessuno». Prendemmo la sua macchina. Così grande e vistosa non poteva che destare il sospetto di trasportare dei malavitosi, ma la scegliemmo comunque perché era provvista di un nascondiglio per camuffare i “pezzi” che portavamo con noi. Nessun poliziotto li avrebbe mai scovati. Su una cosa infatti Beniamino e io eravamo assolutamente d’accordo: ritornare in galera per aver cercato uno come Magagnin sarebbe stato troppo per tutti e due. Sotto i portici di via Savonarola, a pochi metri dalla porta di Baldan, il mio amico mi toccò il braccio. «Giochiamo al buono e al cattivo?». «Certo. Ci cascano sempre». Suonai più volte, con fare sbirresco. Una voce assonnata gracchio al citofono: «Chi cazzo sei?». Beniamino mi guardò. «Dillo tu, io non ci riesco». «Polizia. Baldan, apri!» La serratura del portone scatto subito e noi ci infilammo correndo su per le scale. Sul pianerottolo ci attendeva un Baldan sorpreso e in mutande: «Ehi, ma tu sei l’Alligatore!» «Ma non e’ solo» gli fece eco Beniamino, già entrato nella parte del cattivo. Gli si avvicinò, guardandolo fisso negli occhi. Arrivò ad appoggiare la fronte contro quella di Baldan e in questo modo, senza servirsi delle mani, lo fece indietreggiare fin dentro l’appartamento. Dritto allo scopo, come sempre. Lo spacciatore cercava di recuperare il terreno perduto. «Alligatore ma questo cosa ci fa qui?» mentre l’altro, con una leggera spinta sul petto, lo faceva accomodare in poltrona.

«Ehi, che cazzo vuoi?». «Ah, non badargli Baldan. E’ un milanese pazzo che odia gli spacciatori. Sai, sua figlia e’ morta l’anno scorso di overdose». «E io cosa c’entro? La mia e’ tutta roba di prima qualità». «Non gliene importa un accidente, Bepi. Lui odia gli spacciatori in generale». «Ma insomma, cosa volete?». «Sei uno che capisce al volo, eh? Vogliamo notizie di Alberto Magagnin. E non fare economia con le parole». Lo spacciatore guardo Beniamino. «E’ stato Marietto a cantare, vero?» domandò cercando di prendere tempo. «No» mentii, «non e’ stato lui». «Alligatore, lo sai contro chi ti stai mettendo?». «Lo so chi sei, Bepi. Spacci eroina turca che ti procurano i veronesi. Quando hai problemi con i napoletani - quelli trattano la tailandese - ti rivolgi a qualche sbirro di fiducia, perché sei anche un infame e vendi la concorrenza. Due piccioni con una fava: spacci ma non rischi perché fai l’informatore. Come vedi sono al corrente di tutto, ma farò finta che non me ne importi niente. Voglio solo sapere dov'è Magagnin. Me lo dirai, vero?». Era impaurito ma teneva ancora la bocca chiusa. E intanto lanciava occhiate furtive tutt’intorno. In particolare, cercava di seguire le mosse di Beniamino, insospettito da quella mano dietro la schiena. Mi allontanai per cercare una sigaretta: il segnale che passavo la mano al mio socio. Si sentì uno schiocco violento. Baldan caccio un urlo. Mi girai giusto in tempo per vederlo rotolare per terra mentre cercava ormai inutilmente di proteggersi l’orecchio sinistro con la mano. Dietro di lui Rossini. Gli guardai le mani: stringevano un robusto nerbo di bue. Continuai a fare il buono. Mi chinai verso il pusher. «Hai visto, l’hai fatto arrabbiare. Ti avevo detto che e’ pazzo e odia gli spacciatori. Dimmi dov'è nascosto Magagnin e ce ne andiamo». Piangendo per la rabbia e il dolore, annuì più volte. L’aiutai a sedersi e comincio a parlare. Non era poi un vero duro. Avevo visto giusto: Magagnin era un cliente saltuario, si faceva vedere per comprare un paio di dosi e poi spariva per un pezzo. Poi all’improvviso, lunedì sera, gli si era ripresentato davanti, visibilmente sconvolto ma con un bel po’ di contanti. Continuava a ripetere che con la galera aveva chiuso. Voleva della roba e un posto sicuro dove stare per qualche giorno. Gli aveva procurato entrambe le cose: quasi trenta dosi di eroina - tagliata, naturalmente - e una casa in campagna di proprietà di amici, in vacanza per un paio di mesi, dove lui stesso l’aveva accompagnato. Il tutto per la modica cifra di otto milioni. In contanti. Aveva pensato che fossero frutto di una rapina o di un furto e, di conseguenza, che questo fosse il vero motivo della fuga. Era ora di andarsene. Ero soddisfatto e sollevato dall’idea che Baldan fosse ancora all’oscuro dell’omicidio. Raggiunsi la porta, convinto che Beniamino mi stesse seguendo. Merda! Un altro schiocco, di nuovo il nerbo di bue in azione. Tornai velocemente sui miei passi. Baldan, con il naso rotto, cercava di tamponare il sangue che scendeva lungo il collo. Presi per un braccio Beniamino e lo strattonai, obbligandolo a precedermi fino a quando non fummo tornati in strada. «Non c’era nessun bisogno di conciarlo a quel modo» sibilai furente. «Aveva già parlato. Adesso dovrà dare delle spiegazioni e l’unica cosa di cui non abbiamo bisogno e’ che qualcuno si metta a ficcanasare sul nostro interessamento nei confronti di Magagnin». «Non ti preoccupare» rispose tranquillo. «Se ne starà tappato in casa. Se si farà vedere in giro tutti

i tossici si sentiranno autorizzati a tentare di rapinarlo». «Comunque hai esagerato». «E la memoria di mia figlia morta per overdose?». «Cazzo, Beniamino! Non hai mai avuto una figlia, figurati se e’ addirittura morta per overdose». «Diciamo allora che mi sono immedesimato troppo nella parte». Lo guardai. Ghignava soddisfatto. Scoppiai a ridere. «Sei un pazzo». Magagnin era nascosto in una casa dalle parti di Abano Terme. Le indicazioni che ci aveva fornito lo spacciatore erano così precise che la individuammo subito. Una vecchia fattoria circondata dai campi e ristrutturata con gusto decisamente kitsch. «Sai Marco, se dovessi farmi una casa in campagna non ci metterei davanti le statuine di Biancaneve e i sette nani, in cemento per giunta. Non ci quagliano proprio». «Fammi un favore, non dirmi quello che ci avresti sistemato tu» lo ammonii mentre scavalcavo la recinzione. Raggiungemmo il retro della casa. La porta a vetri della cucina aveva una serratura piuttosto scalcinata, che cedette arrendevole non appena percepì il tocco esperto del serramanico di Beniamino. Trovammo Magagnin in salotto, comodamente sdraiato su un divano, intento a guardare una trasmissione a premi. Sgranocchiava biscotti al cioccolato e beveva succo di frutta. Eravamo alle sue spalle. Non ci aveva visti ne sentiti. Beniamino mi sussurro: «Zuccheri». «Cosa?». «Zuccheri, i tossici ne hanno sempre bisogno». «E ti pare questo il momento di tenere una conferenza sulle alterazioni del metabolismo causate dalla droga?» ribattei, seccato. Toccai l’uomo sulla spalla e lui si giro con una lentezza esasperante. Poi mi rivolse uno sguardo completamente assente. «Tranquillo, non siamo sbirri. Mi manda la tua avvocatessa. Vuole parlarti, possibilmente prima che ti rimettano le manette ai polsi». Nessuna reazione. Era strafatto e lontano dalla realtà come un pianeta sconosciuto. Alzò le spalle. Continuò a guardarmi con due occhi azzurri slavati e assenti. Beniamino si avvicino e mi fece cenno di spostarmi. Poi si sedette al suo fianco e gli circondò le spalle con un braccio. «Lascia fare a me, Marco. Dai un’occhiata alla casa, che io te lo rimetto in sesto». Su questo non avevo dubbi. Ci era già riuscito in galera, anche se non so come. Chiunque poteva scommettere che nel giro di mezz’ora Magagnin sarebbe stato in grado di mettere insieme un discorso coerente. In cucina notai un modellino di nave e un pessimo quadro a olio, che ritraeva un cavallo al galoppo. La cornice del quadro, così come il modellino, erano stati realizzati incollando assieme innumerevoli fiammiferi usati. Materiale povero per il classico lavoro di pazienza, che compie chi e’ costretto a trascorrere sempre allo stesso modo le proprie giornate. Anche il proprietario della casa era stato quindi ospite delle patrie galere. D’altronde era prevedibile, visto che i suoi primi amici Baldan li aveva conosciuti al riformatorio. Tutto questo poteva significare soltanto una cosa: il posto non era sicuro, per un latitante. La cosa non mi meravigliava. Il piano del pusher, se lo si fosse lasciato lavorare in pace, era sicuramente quello di spillare a Magagnin tutti i quattrini che aveva portato con se, per poi offrirlo in omaggio alla polizia. Tutto sommato, il vecchio Rossini aveva fatto bene a rompergli il naso.

In una camera da letto al piano superiore trovai la borsa di Magagnin. Ci rovistai dentro: vestiti sporchi, un sacchetto trasparente con dell’eroina e un bel po’ di soldi in una busta di plastica. Circa sette milioni. Qualche rapido conto: questi più gli otto che aveva dato allo spacciatore, una cifra a sei zeri in denaro contante niente male. Un bel gruzzolo, nelle mani di uno invece praticamente sempre al verde. In che modo ne era entrato in possesso? Qualcosa mi diceva che era tutto denaro della Belli e che poteva essere la causa di quanto era successo: lui l’aveva uccisa perché non glielo voleva dare. Uscii dalla camera e proseguii il mio giro d’ispezione. Nel resto della casa non trovai nient’altro di interessante, soltanto una decina di stanze e una grande cantina. Fumai un paio di sigarette, guardando la campagna e pensando all’evolversi della situazione. Erano le dodici e venti del 29 giugno e ormai la notizia del ritrovamento del cadavere della Belli doveva aver fatto il giro della città Bisognava muoversi in fretta, in modo che l’avvocato Foscarini incontrasse il suo cliente prima che lo accusassero dell’omicidio, anche se i soldi che avevo trovato lo avrebbero inchiodato agli occhi di chiunque. Le future mosse dell’amico Baldan meritavano anch’esse qualche attimo di riflessione. A quest’ora pure lui doveva aver saputo dell’omicidio e, se era già saltato fuori il nome di Magagnin, non era da escludere che prima o poi gli sarebbe venuta la voglia di spifferare a qualcuno il posto in cui era nascosto e magari di completare il racconto parlando del mio coinvolgimento in questa vicenda. Ma scartai l’idea. Certo non aveva voglia di rispondere a domande su un omicidio, gli affari ne avrebbero risentito. Quando tornai in salotto, Beniamino mi strizzo l’occhio. «Il signore e’ di nuovo tra noi» disse con aria soddisfatta. «Ottimo lavoro. Un giorno o l’altro mi devi dire come fai, socio, a rimetterli in forma così velocemente». Gli andai vicino e gli sussurrai in un orecchio quello che avevo trovato. Guardai Magagnin. Un ragazzone con gli occhi tristi e la faccia antipatica. Pensando ai guai che avrebbe procurato agli altri detenuti mi venne la voglia di mollargli un ceffone. Presi una sedia e mi sedetti di fronte a lui. «Il nome Piera Belli ti dice niente?». «E’ morta» rispose con voce piatta. «Certo. L’hai ammazzata tu». «Non sono stato io». Il modo in cui parlava, senza alcuna emozione, mi mandava in bestia. «Lo sai che entrerai nel firmamento dei criminali coglioni? Penso tu sia l’unico al mondo ad aver ammazzato un giudice popolare di Corte d’Assise, della tua Corte d’Assise. E, bada bene, con la stessa dinamica del delitto che ti ha portato in tribunale e che ti aveva visto dichiararti sempre fermamente innocente. Un vero genio, non c'è che dire». «Non sono stato io». «Ah già, dimenticavo: l’importante e’ negare. Sempre e comunque. Da bravo coatto». «Non sono stato io». «Ho capito» tagliai corto. «D’altronde non sono affari miei. Il mio compito e’ esclusivamente quello di farti parlare con la Foscarini». «Non sono stato io». «Che fai, sfotti?» sentivo aumentare la voglia di mettergli le mani addosso. Beniamino mi trattenne. «Fallo parlare». «Perché?» chiesi spazientito. «Ma come perché, Marco. Lo sai anche tu, e’ la regola. L’hai accusato di un’infamità, adesso lui ha diritto di difendersi».

«Beniamino, non ti ci mettere anche tu. Guarda che qui non siamo in galera». «Fuori o dentro le regole sono sempre le stesse. Lo so che a te non piacciono. Nè le nostre, nè quelle dei “regolari” . Ma così fai un torto al ragazzo». Aveva ragione. Anzi, non avrei dovuto nemmeno aprire bocca. Ero stato ingaggiato soltanto per ritrovarlo. Mi ero già esposto fin troppo, curiosando in casa della morta. «Parla!» lo esorto Rossini, con aria paterna. «Ieri, no, l’altro giorno... merda, non mi ricordo più Insomma, mi sembra tutto così strano. Sono uscito dalla cooperativa alle sette e Piera non era lì ad aspettarmi, come al solito. Non ci ho pensato su due volte e sono andato a casa sua. La porta era socchiusa, sono entrato - che razza di cretino! ho fatto il giro della casa, l’ho chiamata. Poi, quel corpo disteso a terra, ricoperto di cuscini. Non volevo avvicinarmi, ma l’ho fatto. Ho sollevato un cuscino e riconosciuto la sua faccia... tutto quel sangue... come l’altra volta. “E’ una maledizione» ho pensato, “un’altra donna uccisa... che non ho ucciso io”. Ho perso la testa, sentivo che le gambe mi tremavano, non so come ho fatto a trovare la forza di uscire da quel posto. Dopo un po’ mi sono ritrovato per strada, la testa completamente svuotata, una voglia pazzesca di farmi una pera, per essere sicuro di non pensare più a niente. Così sono andato da Baldan. Me l’aveva presentato Marietto Carraro. Gli ho raccontato una balla. Che ero stufo e non volevo ritornare in galera, che solo lui poteva aiutarmi. Gli ho chiesto di vendermi un po’ di roba, di procurarmi un posto in cui nascondermi...». «Una storia così non l’ho mai sentita, ragazzo» lo interruppe Rossini, sconsolato. «Scusa se te lo dico, ma secondo me sei destinato all’ergastolo. Non se la bevono di sicuro perché.. beh, non sta in piedi. Sei un pessimo bugiardo. Oppure uno troppo fuso di testa. Dimmi piuttosto, dove li hai presi tutti i milioni che hai dato a Baldan più quelli che sono ancora in valigia?». «I soldi? Ah, sì certo. A casa di Piera. Sapevo dove li teneva. Non volevo rubare ma quel denaro mi serviva». «E tu pensi che in Corte d’Assise questa te la faranno passare?». «Vendetta e furto» intervenni, rivolgendomi a Beniamino, «due moventi da manuale. E a discolpa abbiamo la stessa versione dell’omicidio del ‘76. Stiamo perdendo solo del tempo, facciamolo incontrare con il suo avvocato e torniamo a occuparci di cose più serie». «Un momento. Fallo finire. E’ tutto così strano e io voglio vederci chiaro in questa storia». «Ascolta Magagnin, il mio amico ha ragione. Non ci abbiamo capito niente. Forse e’ meglio se parti dall’inizio. Voglio dire, parlaci di lei, di Piera Belli». «Che cosa vuoi sapere?». «Ma, non so... per esempio, che tipo era? Anzi, meglio, com'è che vi frequentavate?». Beniamino accese una sigaretta e gliela infilo tra le labbra. Il socio ci sapeva fare con la gente. L’uomo aspirò avidamente alcune boccate. «Pochi giorni dopo la fine del processo ho cominciato a ricevere in carcere delle lettere. Strane lettere anonime, piene di...». «Lettere? Non ci siamo capiti. Cosa c’entrano le lettere, noi vogliamo notizie riguardanti la tua amica». «E lasciami finire! Non sapevo chi le mandasse, ma ero sicuro si trattasse di una donna. E quella donna, lo scoprii in seguito, era lei». «Vai avanti. Perché hai detto che erano strane?» intervenne Beniamino. «Perché erano piene di pensieri sporchi». «Sporchi? In che senso?». «Del tipo “mi piacerebbe che tu mi facessi male” oppure “mi picchieresti se te lo chiedessi?. Immagina che io sia nuda, con addosso solo una toga da giudice...”. Improvvisamente, così come era iniziato, il gioco si interruppe: per un lungo periodo niente più lettere. Fino a quando un giornale di Padova pubblico la notizia che avevo ottenuto la semilibertà e quindi presto sarei uscito di galera. Lei ricominciò a scrivermi e ogni volta non mancava di ripetere che era in grado di aiutarmi a

ottenere la revisione del processo. Poi concludeva chiedendomi: “Ma tu, fino a dove sei disposto ad arrivare per sapere la verità?”. Iniziai a lavorare alla cooperativa Sole e dopo un po’ di tempo mi accorsi che sul piazzale di fronte all’uscita era spesso parcheggiata una Golf metallizzata. Un giorno incrociai lo sguardo della donna al volante. Fu solo per un attimo ma feci in tempo a riconoscerla: le facce dei giudici che ti condannano non le puoi dimenticare. E’ stato allora che ho capito che le lettere erano opera sua. Non sapevo pero come avvicinarla. L’ha fatto lei, una decina di giorni dopo. Siamo saliti sulla Golf e mi ha portato a casa sua. Mi ha detto che dopo il processo aveva scoperto che ero innocente, che poteva aiutarmi. Ma in cambio dovevo fare delle cose...» ci diede un’occhiata, forse per saggiare le nostre reazioni, ma le nostre facce erano impassibili, «...mi disse che le era piaciuta l’atmosfera del processo, che l’aveva eccitata. E anch’io la eccitavo. Insomma, le piaceva vestirsi da giudice e farsi fare del male». «Bondage» intervenni, «sadomaso leggero. Ma questa di vestirsi da giudice non l’avevo mai sentita». «Te la scopavi?» chiese Beniamino. «No. La legavo, la frustavo un po’... cose così. Andavamo a casa sua e mi metteva tra le mani una delle sue lettere, dove aveva scritto quello che l’eccitava quel giorno. Poi si faceva una riga di coca e mi portava in camera da letto. Voi non ci credereste, ma scriveva proprio tutto, non tralasciava nessun dettaglio. Una pazza. E, come se non bastasse, aveva anche la mania delle fotografie con l’autoscatto. Ogni volta un rullino. Spesso faceva venire un’amica. Stessi gusti, ma alla fine si faceva scopare». «Chi era l’amica?». «Non ci credereste, ma non lo so. Comunque mi sembra faccia la commessa». «E tu?» chiese Rossini. «Io ci stavo. Era chiaro che Piera sapeva qualcosa. Continuava a ripetermi che poteva dimostrare la mia innocenza ma che bisognava aspettare ancora un po’ per scoprire “le nostre carte”. Proprio così, “le nostre carte”. Era matta ma non cattiva. Sì, aveva le sue perversioni ma mi trattava bene: mi dava dei soldi, mi comprava dei vestiti, mi lavava la roba. Avevo ancora undici mesi prima di finire la semilibertà e fino ad allora avevo deciso che mi andava bene stare con lei. Con chi, come me, non aveva nessuno». «Neanche un parente?». «Era figlia unica. I genitori erano morti qualche anno prima e lei non si era mai sposata». «Che lavoro faceva?». «Insegnava, ma non quest’anno. Era in...». «Aspettativa?». «Sì, proprio così». «Ma allora, tutti quei soldi» insistetti, «da dove venivano? Aveva ereditato?». «Non lo so. Ma ne aveva sempre un bel po’, e in contanti. Li teneva dietro una libreria, nascosti in un piccolo sgabuzzino segreto, destinato a custodire tutto ciò che preferiva non fosse visto da altri. Spendeva senza limiti. Stava ricomprando i mobili di tutta la casa e aveva continuamente bisogno di procurarsi altra coca». «Da chi la comprava?». «Non lo so». «Ma non e’ possibile! Una prova, una sola di quello che hai detto, devi pur averla» sbottai. «No» rispose sconsolato, chinando lo sguardo. «Cristo! Se non sei stato tu, come dici, chi diavolo l’ha ammazzata, allora?». «Non lo so, non lo so, non lo so. Basta, lasciatemi stare!» prego, esasperato. «Ancora una domanda, invece. Quando sei entrato per l’ultima volta in quella casa?». «Lunedì».

“Cioè il 26” pensai. “Allora e’ morta da tre giorni”. «E a che ora sei arrivato?». «Beh, saranno state le otto meno un quarto». Beniamino mi fece un cenno, lo seguii fuori dalla stanza. «Gli credi?». «No. Non ho mai sentito una storia così scema. Sai che ti dico? Quello e’ proprio matto. Se io fossi il suo avvocato, mi giocherei la carta dell'infermità mentale. Magari dopo dieci anni di manicomio lo rimetterebbero fuori. E tu, cosa ne pensi?». «Penso che, anche se sembra incredibile, non può essersi inventato tutto». «D’accordo» ribattei. «E’ chiaro che aveva una relazione con la morta e che questa, per mettersi con uno come lui, doveva essere un po’ sciroccata. Ma il resto della storia e’ una sfilza di stronzate. E poi? Chi ti dice che si trattasse proprio di una relazione? In fin dei conti, lui mica se la scopava. Magari a lei faceva solo pena e aveva deciso di aiutarlo come una dolce e tenera zietta. Per me le cose sono andate così: hanno litigato, lei lo ha minacciato di non dargli più i soldi, lui non ci ha più visto e l’ha stesa. Non dimentichiamo che aveva contribuito ad affibbiargli diciotto anni di galera e che, non proprio sotto il materasso ma quasi, teneva quindici milioni in contanti». «Mah, non lo so» Beniamino si lisciava i baffi sottili. «Comunque, credo che a questo punto non si possa far altro che portarlo da un avvocato, dal suo avvocato». «Io da qui non mi muovo». Ci girammo di scatto. Era arrivato alle nostre spalle senza che ce ne accorgessimo. «Ecco che ricominci a fare il pirla» replico Beniamino. «Lo sai che hai bisogno di parlare con un avvocato. Quanto pensi che ci metteranno a trovarti?». Gli occhi gli si riempirono di lacrime. «Perché volete farmi credere che gli altri mi daranno retta? Faranno esattamente come voi due. A questo punto non me ne frega più un cazzo. Resterò qui. L’unica cosa che voglio veramente, e’ restare da solo per potermi fare in santa pace. Andatevene, bastardi». «Ho proprio voglia di spaccarti la faccia per quello che hai detto, ma non lo farò. Ti darò invece un altro po’ di tempo per cambiare idea, anche perchè» guardai l’orologio, «adesso sta per andare in onda il telegiornale regionale. Non sarebbe male se anche tu ti informassi sugli ultimi sviluppi della situazione». Venne presentato come il fatto di cronaca più importante dell’intero notiziario. Le immagini del servizio, mandato in onda subito dopo i titoli, confermavano l’interesse suscitato dalla notizia: si vedeva il giardino della villetta in cui era avvenuto l’omicidio pullulare di un gran numero di giornalisti e inquirenti al lavoro. Il delitto, riferì il cronista, era stato scoperto alle prime luci dell’alba, grazie a una telefonata anonima. Beniamino si volto verso di me e mi dedicò un breve applauso. Sulla base delle interviste raccolte - una al preside del liceo dove la vittima aveva insegnato lingua e letteratura inglese, le altre ai vicini di casa - venne tracciato il profilo di una personalità dai tratti senz’ombra di dubbio positivi. Al termine, il magistrato incaricato delle indagini dichiarava di essere in attesa di conoscere, nel corso del pomeriggio, gli esiti dei primi accertamenti medico-legali ma comunque era già in grado di anticipare, pur nel rispetto del segreto istruttorio, che gli indizi fino ad allora raccolti permettevano di convergere i sospetti su un’unica persona. Spensi il televisore. «Lo stanno cercando». «Già». Magagnin fu irremovibile. Dopo che ebbe rifiutato per l’ennesima volta di seguirci, lo lasciammo in compagnia dell’eroina e ci avviammo verso Padova. Durante il viaggio di ritorno, continuai a pensare che di questa storia ne avevo abbastanza, non vedevo l’ora di incontrare l’avvocatessa, metterla al corrente degli ultimi avvenimenti e ricevere il

saldo del mio compenso. Beniamino guidava in silenzio. Sentivo che non voleva interrompere il flusso dei miei pensieri. Un paio di volte sfioro con la mano i braccialetti d’oro che portava al polso sinistro. Mi accorsi che dal nostro ultimo incontro ne aveva acquistato un altro. Mi divertii a notare che, conoscendo l’ordine di apparizione di ognuno, il prossimo sarebbe stato sicuramente più vistoso e massiccio. Durante l’intero pomeriggio la Foscarini risultò introvabile. Voci femminili, gentili e professionali, rispondevano - ai vari numeri da me chiamati - che l’avvocatessa non aveva lasciato detto quando sarebbe rientrata. Il cellulare era staccato. Il caldo non dava tregua. Per ingannare l’attesa ci rifugiammo in un bar del quartiere Forcellini. Un ambiente fresco e piuttosto tranquillo, il cui gestore dimostrava di imparare a riconoscere con rapidità i gusti dei propri clienti. Nel mio caso non mancava mai di servirmi un bicchiere della riserva di calvados Roger Groult, messa da parte esclusivamente per il sottoscritto. Beniamino ordinò della vodka e apprezzò molto la Absolut che gli consigliai. Parlammo poco perchè incuriositi dalle chiacchiere degli altri avventori. Ovviamente parlavano del delitto Belli, la notizia del giorno. Il solito compagnone cerco di coinvolgerci nella discussione chiedendoci se ritenevamo giusta la pena di morte in casi come questi. Ma i nostri sguardi poco cordiali lo dissuasero dall’attendere una risposta. Erano da poco passate le venti e trenta quando finalmente riuscii a rintracciare la Foscarini. «Avvocato» esordì la mia voce, leggermente impastata, «quando uno si compra un cellulare lo fa per essere sempre reperibile, soprattutto se fa il suo mestiere e ha clienti difficili come Magagnin». «Lo ha trovato?» chiese, ignorando il mio fervorino. «Sì». «Può raggiungermi in studio, diciamo tra un quarto d’ora?». «Sto arrivando». Pagai le consumazioni e feci cenno a Beniamino di seguirmi. Lo studio della Foscarini si trovava dalle parti del tribunale. A quell’ora gli uffici si erano già svuotati e non fu difficile trovare parcheggio. Beniamino volle rimanere ad attendermi in auto. «Sai Marco, dall’avvocato, come dal medico, ci vado solo quando e’ assolutamente necessario». Non mi aspettavo di trovarmela di fronte quando si aprì la porta, ma poi mi ricordai che la segretaria doveva sicuramente essersene già andata a casa. Mi sembrò piuttosto stanca e avvilita. La salutai con un: «Brutta giornata, eh?» mentre superavo la soglia un po’ imbarazzato e intanto mi chiedevo se sarei riuscito a nascondere con sufficiente naturalezza l’eccessivo tasso alcolico. Mi fece accomodare nel suo studio, si sedette dietro alla scrivania e inizio a fissarmi in silenzio con aria interrogativa. Mi dimenticai per un attimo della sua presenza - al diavolo quello sguardo per concentrarmi invece sul modo in cui era arredata la stanza. Lo stile era del tutto impersonale. Mi sarei aspettato qualcosa di meglio da un tipo così sofisticato. «E allora?» chiese, interrompendo le mie riflessioni. Le descrissi gli ultimi avvenimenti. Ovviamente tralasciai quei particolari che il suo zelo professionale non avrebbe gradito conoscere, come l’incidente occorso al naso e all’orecchio di Baldan. «Adesso e’ il suo turno» conclusi. «Beh, come avrà già immaginato» cominciò, alzandosi in piedi, «hanno spiccato il mandato di cattura. Prima di pranzo avevano identificato le impronte digitali e ricollegato il passato di giudice popolare della Belli con il mio cliente. Domani sarà su tutti i giornali. Non sono riuscita a parlare con il giudice, nonostante sia stata tutto il pomeriggio in Procura. Fortunatamente conosco un cancelliere che mi ha tenuta al corrente dell’evolversi della situazione e fornito copia dei verbali

della scientifica e del medico legale. Speravo ci fosse qualche elemento che potesse scagionare Alberto, ma purtroppo sono soltanto a suo carico. Il caso, per gli inquirenti, e’ già chiuso». Non riuscii a tenere a freno la lingua: «Mi sembra un po’ illegale procurarsi gli atti in questo modo». «Oh, quanto a questo! Forse lei non sa che ormai e’ consuetudine leggere sui giornali i verbali d’interrogatorio, anche se coperti da segreto istruttorio...». «Ancora convinta che sia innocente?». «Sì, e vorrei che lei smettesse di chiedermelo». «Semplice curiosità Bene, il mio incarico e’ terminato, ho risolto il mistero del cliente scomparso e ora sa come poterlo rintracciare. Se fosse così gentile da darmi i quattrini che avanzo, io toglierei il disturbo». Squillò il telefono mentre ammonticchiava davanti ai miei occhi le banconote da cinquanta e centomila. Rimase in ascolto per qualche secondo. «Mi scusi, non posso rinviare questa telefonata, vedrò di sbrigarmi in pochi minuti» mi assicurò, mentre usciva per raggiungere l’apparecchio nell’altra stanza. Accennai di sì con la testa, già rassegnato alla prospettiva di una lunga attesa: ormai so per esperienza che le telefonate degli avvocati sono brevi soltanto nelle intenzioni. Una volta rimasto solo mi accesi una sigaretta e andai ad assaporarla vicino alla finestra. Da questa posizione potevo seguire l’andirivieni della gente e dei veicoli. L’intreccio delle strade definiva traiettorie immaginarie senza soluzione di continuità All'estremità del mio campo visivo, l’auto dentro alla quale mi aspettava Beniamino. Il primo segmento di cenere cadde sul parquet. Mi scossi dalle mie meditazioni: forse l’avvocatessa non avrebbe gradito. Cercai di raggiungere con una rapida occhiata un posacenere. Niente da fare. Mi avviai pigramente verso la scrivania. C’era un cassetto aperto e all’interno, una cartellina grigia. L’intestazione recitava: PIERA BELLI - VERBALE SOPRALLUOGO POLIZIA SCIENTIFICA \ VERBALE AUTOPSIA . Mi impossessai del fascicolo senza alcuna esitazione, certamente spinto dalla curiosità ma molto di più dal bisogno di scacciare il timore di aver lasciato tracce del mio passaggio nella casa di via Torlonga. Mentre la cenere continuava a cadere sul legno lucido, sfogliai velocemente la prima ventina di pagine, interamente occupate dalla descrizione del luogo del delitto. Seguivano quelle relative alle condizioni del cadavere. A metà della ventiquattresima veniva riportato: “Oggetti ornamentali al collo una catenina di metallo bianco, sul polso destro un braccialetto in oro a catena e sul polso sinistro un orologio marca Rolex con cinturino metallico, in atto fermo sulle ore sette e trentasei o diciannove e trentasei del giorno 28”. Rilessi due volte l’ultima riga. Uno stupido errore di trascrizione. Gli orari riportati, ne ero certo, anzi certissimo, erano sbagliati. Scartabellai tra i fogli che rimanevano dentro la cartellina. Quando vidi la copia fotostatica della polaroid del polso sinistro, ebbi un sussulto. La posizione delle lancette confermava quanto indicato dal verbale. Eppure ero assolutamente sicuro che la mia non fosse stata una svista: a sostegno della mia memoria, i calcoli in base ai quali avevo stabilito che l’orologio doveva essersi fermato sette o diciannove ore prima che scoprissi il delitto. Tutto ciò mi induceva a pensare che quel pazzo di Magagnin fosse tornato nella casa, probabilmente per cercare dell’altro denaro e, una volta lì, avesse deciso di manomettere l’orologio. Forse per confondere le acque? No, non aveva senso. Non avrebbe certo lasciato impronte digitali

dappertutto, come invece era avvenuto. E poi, come avrebbe potuto coprire il tragitto da Abano a Padova senza automobile? Bepi Baldan l’aveva scaricato in quella casa deserta e la prima fermata d’autobus era a tre, forse quattro chilometri di distanza, da percorrere a piedi, in condizioni fisiche che non gli permettevano certo di muoversi agevolmente, soprattutto sapendo di avere la polizia alle calcagna. Qualcosa non quadrava. Lasciai ricadere i fogli sulla scrivania e mi passai una mano sul viso. Il tranquillizzante torpore dell’alcol stava svanendo. Al suo posto si insinuava una sottile inquietudine. Da un lato mi sentivo spinto, da una sorta di istinto, a considerare conclusa questa vicenda - potevo godermi in pace i soldi che tra breve mi sarebbero stati consegnati, comprando dischi e bottiglie di calvados d’annata - dall’altro la mia metà blues ritornava a farsi sentire e, tirandomi per la manica, mi chiedeva di non allontanarmi, di continuare a cercare. Il mio dannato bisogno di capire, di non lasciare alle spalle nulla di irrisolto. La mia mente pesco un blues adatto all’occasione: “You dosed your eyes and neon spun inside your head cause it was dark outside. You read your bible but God never came.” Barbara Foscarini aprì la porta proprio in quel momento. «Buratti, chi l’ha autorizzata a frugare nei miei cassetti?». «Ha un portacenere, per caso?» le chiesi, indicando il filtro schiacciato su un elegante calamaio di cristallo. «Mi restituisca subito quelle carte». «Non si stizzisca per così poco. Si sieda e mi conceda un po’ della sua attenzione». Le raccontai velocemente quello che avevo scoperto. «E’ certo di ciò che ricorda?». «Le assicuro che le lancette erano ferme sulle quattro e trentasei o sedici e trentasei, come preferisce». Mi sottopose a una raffica di domande come se si trattasse del controinterrogatorio di un grande processo. Le mie risposte alla fine la convinsero: non poteva essere altrimenti, quando guardi l’ora sull’orologio al polso di un cadavere, non te la dimentichi per il resto della vita. Da buon avvocato cercò di usare questo nuovo elemento a favore del suo cliente ma risultò impossibile inserirlo in una ricostruzione dei fatti che potesse in qualche modo scagionarlo. Presi sottobraccio l’intero incartamento. «Senta, e’ inutile che stiamo qui a lavorare di fantasia, siamo troppo stanchi. Rischiamo di perdere del tempo prezioso. L’unico che puo svelare questo nuovo mistero e’ Magagnin e adesso vado a parlargli. Prendo con me anche le copie delle fotografie. Qualcosa ricorderà.. se non e’ troppo drogato, ovviamente». «Cosa significa questo, che intende portare con se il fascicolo? Si ricordi che l’ho avuto per vie traverse e per giunta devo ancora finire di esaminarlo». «Non si preoccupi, domani glielo riconsegno». Mi artigliò una spalla. «Lo convinca a parlare con me. Deve costituirsi al più presto. Si puo ancora salvare. E’ innocente, riuscirò a dimostrarlo». «Cercherò, comunque ha considerato l’idea che l’unico modo per essere ascoltata e’ quello di andarlo a trovare?». «Preferisco di no. Se si venisse a sapere, potrebbe danneggiare l’immagine della difesa. E’ meglio

che lui venga qui nel mio studio e che poi, insieme, ci si rechi dal giudice». «Non credo che sarà entusiasta della proposta. Comunque, proverò a convincerlo. Domani, in mattinata, le telefono... e non stacchi quell’accidente di cellulare, per favore!». In macchina misi Beniamino al corrente della mia scoperta. «Quindi Marco, se ho ben capito, a spostare le lancette dell’orologio e’ stato qualcuno che e’ entrato in quella casa nel lasso di tempo compreso tra il momento in cui tu sei uscito, intorno alla mezzanotte del 28, e l’arrivo della polizia, grosso modo verso le cinque del mattino del 29. Giusto?». «Le cinque e venticinque» lo corressi, leggendo il verbale della Scientifica. «Magagnin?». «Non vedo chi altri sennò, anche se mi pare incredibile che abbia deciso di tornare in quel posto. Non ha senso». «Tutta questa storia non ne ha». Entrammo nella casa di campagna ancora una volta dal retro attraverso la porta della cucina. Lo trovammo disteso sullo stesso divano, la televisione sempre accesa: Charlot era alle prese con una guardia con tanto di baffi, manganello e sguardo accigliato. Ma lui non rideva. Era morto. Il braccio sinistro era stretto da una stringa per scarpe, una siringa penzolava da una vena tumefatta. Lo toccai, era ancora caldo. «Overdose» commento Beniamino. «Già». Presi in mano il sacchetto con la droga. Ne mancava un bel po’. «Credi si sia ucciso?». «Non lo escluderei. Si sentiva fottuto». «Non ti sembra, come dire, più lungo?». «Già, i cadaveri sembrano sempre grandi». Rimanemmo in piedi a guardarlo ancora per qualche minuto, poi Beniamino affrontò il problema. «Che ne facciamo?». «Ci sto pensando» soppesai l’incartamento, «preparami una dose massiccia di caffè. Voglio leggere queste scartoffie con attenzione prima di decidere». Mi sistemai su una poltrona di fronte al divano e al corpo di Magagnin. Ogni volta che voltavo pagina, non potevo evitare di scorgere quel braccio con la siringa. Rilessi il verbale della Scientifica: non mi diceva nulla di nuovo. Passai a quello dell’autopsia. Nel disporre la perizia, il giudice aveva posto i soliti quesiti: “Causa della morte, epoca della stessa, mezzi che l’hanno provocata. In caso si tratti di ferite di qualsiasi natura, per le quali si possa stabilire la dinamica di inferimento da parte di altra persona, se ne stabilisca la reciproca posizione. Si provveda da ultimo al prelievo di frammenti di tutti gli organi e dei liquidi ed umori organici sui quali condurre rispettivamente esami istologici e tossicologici.” Il perito già a partire dalla prima pagina metteva le mani avanti, ritenendo più opportuno riferirsi alla stesura definitiva, che avrebbe avuto il vantaggio di essere corredata da tutte le analisi, ma che comunque non sarebbe stata consegnata prima di un mese. Per il momento ci si doveva quindi accontentare di una descrizione, qualche dato e molte ipotesi. La descrizione coincideva con quella della Scientifica, anche per l’ora indicata dall’orologio della vittima. Tra i pochi dati forniti sulle analisi di laboratorio, uno mi colpì in modo particolare: nelle urine di Piera Belli era stata riscontrata una discreta concentrazione di benzoilecgonina. Il dato era privo di commenti, ma tutti quelli che sono stati in galera sanno che la benzoilecgonina e’ il principale metabolita della cocaina.

Su un particolare dunque Magagnin non aveva certamente mentito: l’insegnante in aspettativa, ex giudice popolare di Corte d’Assise, si faceva di coca. Ora, le cose quadravano ancora meno. Interrompevo a tratti la lettura per bere un sorso del caffè che Beniamino nel frattempo mi aveva preparato. Forte e molto zuccherato, così come entrambi avevamo imparato a farlo in galera. Il mio era un gesto meccanico: non ne avevo infatti più bisogno perchè mi sentivo ormai perfettamente lucido. In effetti avrei preferito che il mio amico mi avesse offerto qualcosa di alcolico. Forse sarei riuscito a scacciare l’inquietudine che ora provavo, una morsa che mi stringeva lo stomaco. Il verbale riferiva poi di quarantanove ferite, provocate da un’arma da punta e taglio con una lama larga tre centimetri, con tutta probabilità uno scalco da formaggio “subito largo e col manico protetto nel palmo della mano talchè non contunde i bordi della ferita e ben si attaglia col pugno armato piuttosto che con la mano armata.” L’ipotesi di un’arma tanto singolare derivava dal fatto che tutte le ferite, tranne tre, erano penetrate solo per uno o due centimetri nella carne. Delle tre - la prima al polmone destro lunga tre centimetri e mezzo, la seconda al fegato di quattro e infine l’ultima di cinque alla radice del collo, slabbrata e dai contorni irregolari - nessuna si era rivelata immediatamente mortale. La presenza di un litro di sangue nello stomaco dimostrava che Piera Belli non appena era iniziata la sequenza dei colpi, aveva istintivamente reagito cercando rifugio sul pavimento e rannicchiandosi su se stessa, senza dubbio ancora vigile e cosciente. Era rimasta poi immobile, mentre l’assassino infieriva, a deglutire il proprio sangue ormai penetrato nell’epifaringe. L’agonia era durata dai dieci ai venti minuti. A poco a poco era sopraggiunto il torpore, poi l’incoscienza e infine la morte, causata non tanto dall’emorragia quanto piuttosto dall’asfissia, dovuta all’imposizione sul capo e sul torace dei cuscini presi dal divano. Su quest’altro aspetto singolare dell’omicidio il perito azzardava l’ipotesi che l’autore non fosse riuscito a “sopportare la visione di quegli occhi sbarrati e ancora lucidi, come avviene nelle prime fasi dello shock.” Che le cose non quadrassero proprio per niente lo scoprii poi, quando lessi le ipotesi in merito all’epoca della morte. “Il cadavere presenta note di incipiente enfisema putrefattivo, con altrettanto incipiente protrusione dei bulbi oculari, labbra e faccia di moro parziale epidermolisi, apparente adiposità e indumenti relativamente attillati, perdita di urine, addome batraciano, larghe macchie verdastre sull’addome a loro volta confuse con quelle ipostatiche nerastre, abbondanti larve di mosche sulle ferite, gorgoglio di liquame nerastro dalle cavità naso-buccali. Tenuto conto della temperatura stagionale, delle caratteristiche dell’ambiente angusto e poco ventilato, dell’azione coibente degli indumenti indossati e dei tre grandi cuscini che ricoprivano il cadavere, possiamo ipotizzare che la morte si sia verificata almeno tre giorni prima del ritrovamento. Queste conclusioni non rivestono alcun carattere scientifico essendo affidate soltanto alla lunga esperienza. Infatti la ricostruzione dell’andamento della putrefazione presuppone l’esatta conoscenza delle variazioni termiche, ora per ora. Altrettanto dicasi per l'umidità e la ventilazione, l’irraggiamento diretto o indiretto, le cause della morte, la durata dell’agonia, il tempo decorso dall’ultimo pasto, il tipo di pasto consumato, la natura e la carica della normale flora intestinale, la composizione molecolare delle proteine e tutte le altre possibili varianti della materia biologica vivente. Infatti la putrefazione e’ determinata dai germi che progrediscono dall’intestino, dopo essersi tumultuosamente sviluppati alla morte dell’organismo ospite. Anche se sapessimo tutto, sarebbe stata sufficiente una pastiglia di antibiotici, un tenue lassativo o altri medicamenti o, per converso, una semplice distonia intestinale con inapprezzabile ristagno, per sconvolgere radicalmente ogni presupposizione. L’unico dato che potrebbe fissare con esattezza il giorno e l’ora del decesso e’ quello ascrivibile all’orologio, rinvenuto al polso sinistro della vittima. Non essendosi rotto nel corso dell’azione omicidiaria ed essendo a carica automatica ed essendosi questa interrotta con la fine di ogni movimento del polso, con una perizia specifica, come e’ avvenuto in altri casi, diretta a stabilire la durata della carica del meccanismo, si potrebbe risalire all’ora in questione.”

Richiusi il fascicolo con un movimento secco e mi ritrovai a fissare gli occhi di Magagnin. Per la seconda volta nel giro di pochi giorni mi imbattevo nello sguardo sbarrato di chi porta con se l’immagine della morte. Una morte - questa - indiscutibilmente più rapida, meno crudele ma ancora una volta violenta. Degli occhi nei quali mi sembrava di scorgere un’ombra di rimprovero. Non avevano tutti i torti. Mi ero sbagliato di brutto. «Beniamino, era innocente». «Come fai a dirlo?». Mi alzai dalla sedia per prendermi una sigaretta. «Se non mi fossi imbattuto nel cadavere di Piera Belli, e soprattutto se non avessi guardato il suo orologio, non l’avrei mai scoperto... così invece, sono arrivato alla conclusione che sicuramente qualcuno e’ tornato in quella casa, che l’ha fatto dopo aver commesso il delitto ma che non si tratta di Magagnin». «Sempre se tu non ti sbagli». «Me lo ha ripetuto una ventina di volte anche l’avvocato Foscarini, ma dopo aver letto la relazione del perito non ho più dubbi: le lancette sono state spostate. Posso affermarlo con certezza ora che ho capito quanta importanza rivestono all’interno della situazione in cui siamo capitati. Un delitto premeditato, organizzato e portato a termine in vista di un duplice obiettivo: eliminare la donna e far ricadere la colpa su chi si prestava allo scopo meglio di chiunque altro. E mi riferisco naturalmente al nostro semilibero, il quale frequentava abitualmente la casa della vittima e aveva allacciato con essa una relazione decisamente insolita. E questo da vari punti di vista, non ultimo il fatto che lei aveva rivestito il ruolo di giudice popolare proprio di quella Corte d’Assise che quindici anni prima lo aveva dichiarato colpevole di un altro omicidio molto simile a quello di cui ora ci stiamo occupando. L’assassino si accontentava che Magagnin finisse in galera e le indagini si concentrassero solo ed esclusivamente su di lui. Cosa che infatti e’ avvenuta. Insomma, il classico delitto perfetto che puo definirsi tale non tanto quando l’autore non viene scoperto, perchè in quel caso esiste sempre la possibilità che un giorno gli sbirri bussino alla sua porta... bensì solo quando un innocente viene accusato e condannato al posto suo. Solo così, grazie all’inconsapevole complicità della giustizia, l'impunità e’ garantita per l'eternità». «Alt, fermati un momento» mi interruppe Beniamino. «Sembri il mio avvocato: tante belle parole e poca sostanza. Non ho ancora capito cosa c’entrano le lancette spostate». «Adesso te lo spiego. Magagnin, ricordi, era andato anche quel lunedì alla cooperativa Sole. Quindi avrebbe potuto uccidere la donna solo dopo il lavoro che terminava alle diciannove. Ma lei a quell’ora era già morta. L’assassino, quindi, ha dovuto spostare le lancette dell’orologio di tre ore in avanti così che l’omicidio risultasse avvenuto proprio quando Magagnin non aveva più un alibi e nessun testimone poteva più scagionarlo. Ma attenzione: le lancette non sono state spostate subito, perchè in quel momento non aveva senso farlo. Se il delitto fosse stato scoperto la sera stessa o l’indomani, l’elemento orologio avrebbe rivestito ben poca importanza perchè sarebbe stato ancora in funzione. Le impronte digitali e la dinamica dell’omicidio sarebbero state più che sufficienti per accusare Magagnin. L’orologio e’ diventato fondamentale solo in seguito, quando il cadavere si era ormai decomposto, poiché da quel momento una semplice perizia era sufficiente per stabilire con sicurezza l’ora in cui era avvenuto il delitto. Lasciare il Rolex così com’era significava farlo diventare la prova decisiva a discarico del sospettato. L’assassino ha dovuto inevitabilmente modificare il suo piano e tornare nella casa della vittima. Altrimenti tutto sarebbe andato a rotoli: un oggetto tanto piccolo avrebbe rovinato un piano indiscutibilmente ben congegnato». «E perchè non se lo e’ portato via? Al suo posto, non ci avrei pensato su due volte e me lo sarei messo in tasca». «Poteva diventare la classica nota stonata, che avrebbe complicato la situazione anziché semplificarla. Invece l’aver spostato le lancette l’ha completamente ribaltata: l’orologio come prova a carico di Magagnin e un alibi di ferro per il vero assassino che, ci puoi scommettere, avrà un sacco di testimoni disposti a confermare che si trovava in tutt’altro posto dopo le diciannove di lunedì». «Non mi tornano i conti, Marco. Come faceva l’assassino a sapere tutte queste cose su

come marciscono i cadaveri e balle varie? Di ammazzacristiani ne ho conosciuti nella mia vita ma nessuno di loro sarebbe mai arrivato a prevedere una tale quantità di elementi. E soprattutto non avrebbero mai corso il rischio di tornare sul luogo del delitto». «Te l’ho detto, e’ stato costretto a farlo. Il rischio corso e’ stato notevole ma gli ha permesso di ritornare in gioco. Se tutto filerà liscio, alla fine si troverà in mano la carta del delitto perfetto. E tutto grazie alla sua capacità di gestire anche i minimi dettagli e a un notevole tempismo. E’ certamente uno che sa il fatto suo. Lucido, scaltro e meticoloso». «Un professionista? Un killer a contratto?». «Non credo, anche se la Belli doveva essere in qualche giro strano. A questo proposito, mi sono dimenticato di dirti che Magagnin non aveva mentito in merito allo sniffo: c’era un bel po’ di benzoilecgonina nelle urine. piuttosto penso a uno talmente vicino alla donna che se non ci fosse stata la provvidenziale presenza di Magagnin avrebbe corso il rischio di entrare subito nella rosa dei sospetti». «Potresti anche avere ragione... ma la tua ricostruzione si basa su elementi un po’ fragili, come direbbe sempre il mio avvocato. Certo, se qualcuno e’ tornato in quella casa non e’ stato il morto sul divano. Non aveva senso che lo facesse e poi i suoi problemi di trasporto non erano indifferenti. Ho guardato: qui non c'è nemmeno una bicicletta». Rimasi a lungo immerso nei miei pensieri finché Beniamino affronto di nuovo il problema principale. «E di lui cosa ne facciamo ora?» chiese, indicando il cadavere «Dipende dal tipo di finale che vogliamo dare alla storia. Decidiamo di lasciar perdere? E allora concediamo a tutti quelli che sono sguinzagliati là fuori di ritrovarlo e il caso si chiuderà per sempre. I morti seppelliranno i morti e un assassino vivrà tranquillo per il resto della vita. Se invece intendiamo rimanere in pista, io ti dico che la prima cosa da fare sarà quella di nascondere questo cadavere: fino a quando continueranno a cercarlo, il caso rimarrà aperto». «Vuoi scoprire l’assassino?». «Sì. Siamo gli unici che possono farlo. Parlo al plurale perchè senza il tuo aiuto e quello della Foscarini non ci posso nemmeno provare». «E poi?». «Poi, cosa?», «Lo denuncerai?». «Ascolta Beniamino, non ti farai degli scrupoli per uno che vuole farla franca addossando la colpa a uno sfigato come questo che abbiamo davanti. E’ chiaro che ha premeditato l’omicidio prendendo a modello il caso del ‘76 grazie al quale questo tizio era già finito in galera. E sai perchè? perchè Magagnin era un colpevole perfetto: detenuto in semilibertà, mezzo tossico, inguaiato in una storia poco chiara con la morta. Non e’ un crimine schifoso? Un’ingiustizia insopportabile? O meglio, un'infamità, come dite voi malavitosi?». «Sì, e’ un'infamità ma scoprire assassini e’ mestiere da sbirri e giudici. Lasciamolo fare a loro». «Ma quelli ce l’hanno già il loro assassino ed e’ la persona sbagliata. Ho scoperto la sua innocenza» indicai il cadavere, «e ora voglio dimostrarla ma per far questo devo dare un nome al bastardo che ha fatto fuori la donna e usato il ragazzo come un burattino fino a spingerlo a spararsi in vena tanta eroina da farsi scoppiare il cuore. Sai bene che non posso presentarmi dal giudice e dirgli che non sono d’accordo con quello che hanno scritto sulla perizia, riguardo all’orologio della Belli. Passerei una montagna di guai e nessuno mi crederebbe». «Ormai e’ morto, Marco. Cosa vuoi che se ne faccia dell’innocenza?». Non potevo più trattenere la rabbia. «Cosa?» gridai. «Aveva la possibilità di ricominciare e proprio sul più bello l’hanno fottuto. Tutti! La Belli che ha giocherellato con la sua vita, l’assassino che l’ha incastrato, la giustizia che gli dà la caccia e l’eroina che l’ha ammazzato. Qui non si tratta di giocare a guardie e ladri ma di ristabilire la verità Era innocente. Ha diritto ad avere giustizia anche se e’ morto».

«La giustizia che non hai avuto tu, vero?». «Cosa c’entra?» sbottai, innervosito dal fatto che Beniamino paragonasse la mia vita a quella di Magagnin. «Anche tu eri il colpevole ideale: studente fuori corso, cantante di blues con il vizio del goccio, costumi non proprio irreprensibili e un sacco di idee strane in testa. Non si sono presi il disturbo di verificare se c’entravi o meno con il tizio che avevi ospitato, ti hanno solo proposto di pentirti e “ingalerare” gente che nemmeno conoscevi...». «Cristo, Beniamino dove vuoi arrivare?». «A insegnarti un po’ a vivere perchè certe volte ti comporti come un pivello. Guarda come hai trattato quel poveraccio. Dal primo momento che l’hai visto, l’hai azzannato senza dargli respiro. Ti diceva che era innocente e tu gli ridevi in faccia. Adesso ti senti in colpa, una merda per quello che hai fatto e vuoi metterti a posto la coscienza scoprendo l’assassino... ammesso che esista un assassino. Ma dimentichi una cosa: la giustizia ha le sue regole e una di queste e’ non sfidarla sul suo terreno . Puoi tentare di fregarla ma mai di sfidarla. Questa tua crociata alla ricerca del colpevole e’ un lusso che puo costare molto caro, soprattutto se arriva a mettere in cattiva luce sbirri, magistrati e tutto il loro seguito. Mettiti in testa che non sei un “regolare”, uno che puo permettersi di sostenere la parte del cittadino indignato. Tipi come me e come te li chiamano pregiudicati. Siamo i rifiuti della società Ci possono fare a pezzi. Come e quando vogliono». «Smettila di fare il malavitoso saggio. Rispondi: sì o no?». «Sì, non ti lascio solo in questo casino ma lo faccio unicamente perchè sei in debito con il ragazzo e io lo sono nei tuoi confronti. E a una condizione: ce ne stiamo coperti. Se dovesse saltar fuori qualcosa ci penserà l’avvocatessa a parlare con il giudice. D’accordo?». «D’accordo». Gli strinsi la mano e lo baciai sulle guance. Sapeva che detestavo questi cerimoniali della malavita così mi diede una robusta pacca sulla spalla con aria compiaciuta. Rimanemmo poi in silenzio a fumarci una sigaretta. «E’ la prima volta che ti vedo così pensieroso, Beniamino» gli dissi. «E’ la prima volta che mi muovo al di fuori delle regole e non mi piace affatto. Non mi sento a mio agio... sento puzza di guai. E ti ricordo che tra poco puzzerà anche lui. Hai pensato a dargli una sistemazione?». «Mi e’ venuta un’idea, leggendo la perizia. Ti ricordi della banda di Lallo lo Zoppo, il romano? Hanno sequestrato un industriale, l’hanno fatto fuori e poi messo in un congelatore. Quando avevano bisogno di fargli una fotografia per dimostrare alla famiglia che era ancora vivo, lo tiravano fuori, gli mettevano in mano il quotidiano del giorno, scattavano e poi di nuovo in ghiacciaia. Nemmeno i periti se ne erano accorti, pensavano fosse stato ammazzato soltanto ventiquattr’ore prima del ritrovamento. Se non saltava fuori un pentito, non avrebbero mai scoperto il trucchetto. Non ti pare una buona soluzione anche per noi?». «Sì, non mi sembra male. E giù in cantina c'è un congelatore a pozzo che fa al caso nostro... forza, prendilo per i piedi». Mentre scendevamo i gradini che portavano alla cantina, il vecchio Rossini si fermo. «Dai che pesa, muoviti!» lo esortai. «Aspetta un attimo. Stavo pensando che, se non ha niente a che fare con questo omicidio, forse non c’entra neppure col primo». «Stai correndo troppo. Dobbiamo occuparci solo di questo. Per l’altro, anche se fosse, e’ ormai troppo tardi. Il conto l’ha già pagato». Distruggemmo i suoi effetti personali: la droga nello scarico del cesso, i vestiti e la borsa bruciati nel caminetto. I soldi no. Ce li tenemmo come fondo spese per le indagini. Era ormai notte fonda quando uscimmo dalla fattoria. Avevamo bisogno di dormire e Beniamino si avviò verso l’auto in direzione di Venezia. «A casa mia si sta più comodi» commento ironico. Sapeva che nella mia non ospitavo ormai più nessuno.

Infilai un nastro nell’autoradio. Willie Dixon cantava “I’m your hoochie coochie man”. Mi lasciò canticchiare per un po’ il motivo.

«Dirai alla Foscarini che Magagnin e’ morto?» «E che l’abbiamo “parcheggiato” in un congelatore? Non ci penso proprio. Anche perchè non ci reggerebbe il gioco. Ricordati che abbiamo bisogno di lei, frequenta posti ai quali noi non possiamo nemmeno avvicinarci. Anzi, dovremo dirle ogni tanto qualche bugia per tranquillizzarla, come, ad esempio, che il suo cliente ha cambiato rifugio e non vuole vederla». «Speriamo che se la beva. E adesso, Sherlock Holmes, da dove iniziamo?». «Non ne ho la minima idea, Watson». Subito dopo mi addormentai. Avvertii un intenso profumo di caffè generosamente corretto con del calvados. Aprii gli occhi e vidi Beniamino, seduto sul bordo del letto, che agitava la tazza sotto al mio naso. «Ben svegliato». Gliela presi di mano e bevvi con avidità «Ce n'è ancora un goccio?». Mi indico la bottiglia di liquore sul comodino. «Serviti pure». Dopo la sigaretta mi sentii pronto ad affrontare la giornata: a giudicare dalla luce che filtrava dalle fessure della tapparella si preannunciava calda e afosa come la precedente e, con tutta probabilità, come la successiva. In Veneto e’ sempre così: il caldo non dà tregua, poi un giorno scompare, improvvisamente com'è venuto. «Che ore sono?». «Quasi le dieci». «Novità?». «Questo» disse, porgendomi un quotidiano con la cronaca di Padova. «Senti, avrei degli affari urgenti da sbrigare. Cosa dici se ci muoviamo dopo pranzo?». «Va bene, così intanto cerco di farmi venire qualche buona idea». Le foto della Belli e di Magagnin erano in prima pagina. La didascalia annunciava: “Giudice popolare massacrata per vendetta: Alberto Magagnin già condannato nel 1976 per l’omicidio di Evelina Mocellin Bianchini accusato di questo nuovo efferato delitto...” I servizi all’interno occupavano due intere pagine della cronaca cittadina. Lessi con attenzione tutti gli articoli. Il caso era già risolto, per chiuderlo bastava assicurare alla giustizia il colpevole che, come al solito, aveva le ore contate. La squadra mobile, i carabinieri e il magistrato incaricato delle indagini ostentavano grande sicurezza e soddisfazione: le impronte digitali, il modus operandi e il movente della vendetta inchiodavano Magagnin alle sue responsabilità L’articolo di fondo, come immaginavo, riguardava l’applicazione della riforma penitenziaria, ma non era poi così male. Pur ritenendo che quest’ultima risulti indispensabile in uno stato di diritto, il giornalista auspicava maggior rigore da parte della magistratura di sorveglianza nel valutare i requisiti del detenuto che chiede di essere ammesso al regime di semilibertà, in particolare relativamente al suo stato di salute mentale. Veniva poi riportato un resoconto dettagliato del processo del ‘76. Sulle istantanee scattate all’epoca nell’aula di tribunale, erano stati evidenziati con circoletti scuri l’imputato e la donna giudice. Anche se i loro volti apparivano più giovani di quindici anni, su quello di lui erano già stampati quel che di antipatico e lo sguardo triste che gli conoscevo. Lei, invece, aveva un’espressione sorridente e un po’ intrigante. Mi soffermai a lungo a fissare quell’immagine, chiedendomi cosa mai potesse aver indotto la donna a sorridere in Corte d’Assise, dove perennemente aleggia un’aria di tragedia incombente. Sembrava si fosse messa in posa per il fotografo e che si sentisse perfettamente a suo agio. Chi l’avrebbe mai detto che sarebbe diventata una cocainomane e che si sarebbe andata a impegolare con un detenuto in semilibertà, uno che qualche giorno dopo che quelle immagini si

erano impresse sulla pellicola, era stato condannato anche grazie al suo contributo. Chissà poi se Magagnin se l’era inventata quella parte della sua versione riguardante le pratiche sadomaso a cui, diceva, era stato iniziato dalla professoressa in aspettativa. Dalle interviste ai vicini di casa e ai suoi colleghi di lavoro, si ricavava l’impressione che avesse condotto una vita piuttosto riservata, praticamente dedita all’insegnamento. I parenti più prossimi abitavano a Treviso e negli ultimi anni l’avevano vista raramente. Sarebbero stati loro a occuparsi del funerale. Di amici, i giornalisti non ne avevano scovati e la cosa non interessava certo gli inquirenti: nessuna utilità per le indagini. Le agende telefoniche non erano nemmeno state sequestrate. Eppure di conoscenze doveva averne, e sufficientemente disinvolte, visto che l’avevano iniziata allo sniffo. Della cocaina gli articoli non facevano alcun cenno. Era comprensibile, il magistrato se ne sarebbe accorto solo alla consegna della perizia, completa delle analisi tossicologiche, ma anche se ne fosse stato già a conoscenza, la posizione di Magagnin non sarebbe cambiata di una virgola. Una cosa era certa, dietro al sorriso di quella donna c’era qualcosa da scoprire. Una verità sconvolgente a tal punto da far premeditare un delitto così complicato. La fotografia di Barbara Foscarini in toga era seguita da una sua intervista, l’ennesima e disperata difesa del suo cliente. Il giornalista chiudeva l’articolo con un commento per nulla benevolo, l’avvocatessa ne usciva a pezzi. Non poteva mancare, ovviamente, l’opinione del solito esperto. Lo strizzacervelli, onnipresente ospite delle trasmissioni televisive più seguite del momento, anche questa volta si era conquistato sufficiente spazio per dissertare su “personalità con nuclei narcisistici e borderline” ed “eventi stressanti e assunzione di droga e alcol che possono aumentare la sospettosità e il comportamento ritualizzato.” Povero Magagnin, gli avevano già cucito addosso un abito da assassino su misura, anche con la benedizione della psichiatria. Il pezzo firmato da Giovanni Galderisi, decano dei giornalisti di cronaca nera di Padova, si distingueva dagli altri perchè non si uniformava al coro delle voci ma evidenziava alcuni punti oscuri, ritenendo meritassero particolare attenzione da parte degli inquirenti. “C'è da chiedersi innanzi tutto chi e’ il misterioso autore della telefonata anonima che ha condotto gli inquirenti a scoprire il corpo martoriato e senza vita della sventurata professoressa. E’ difficile credere sia stato Magagnin, presunto autore del delitto. E’ esperienza comune infatti ritenere che l’assassino sia sempre l’ultimo a desiderare che l’omicidio venga scoperto. Forse un conoscente in visita o un vicino di casa? E’ altrettanto improbabile, prima di tutto perchè avrebbe potuto benissimo qualificarsi senza timore e poi perchè il misterioso telefonista ha fornito un’indicazione al centralino del centotredici - il cadavere si trova in una stanza al primo piano dell’abitazione - che dimostra che quantomeno il cadavere l’aveva visto. Se fosse stato un vicino o un conoscente in visita, appena scoperto il corpo avrebbe dato immediatamente l’allarme usando il telefono della casa in cui si trovava. Invece e’ stato appurato che la chiamata e’ stata effettuata da una cabina telefonica di un’area di servizio dell’autostrada Venezia-Milano alle quattro del mattino. Non e’ forse il caso di pensare a un complice o comunque a qualcuno che del delitto ne sa forse quanto Magagnin? Inoltre, c'è da chiedersi perchè Magagnin abbia scelto come obiettivo della sua vendetta proprio la professoressa Belli. Chi scrive fu uno dei tanti cronisti che seguirono le udienze del processo per il delitto di Evelina Mocellin Bianchini alla fine del ‘76. Posso assicurare che nel corso del dibattimento non accadde nulla che potesse far pensare a un’acredine particolare dell’imputato nei confronti di quel giudice popolare. perchè allora la Belli e non altri? Forse solo Magagnin puo dare una risposta esaustiva a questa domanda. In attesa, quindi, che egli venga catturato, e noi speriamo che ciò accada il più presto possibile, le indagini dovrebbero continuare in tutte le direzioni, scandagliando anche gli aspetti più insignificanti...” Appoggiai il giornale sulle ginocchia e mi passai una mano tra i capelli. Mi sarei mangiato la lingua per essermi lasciato sfuggire quel particolare sulla posizione del cadavere quando avevo fatto la telefonata anonima. Poi pero strappai la pagina con l’articolo e la ripiegai con cura. Mi era venuta

un’idea. La Foscarini ci accolse con un: «E questo signore chi e’?» riferendosi a Beniamino. «Il mio socio, Beniamino Rossini. Ecco qui il suo prezioso fascicolo, avvocato. Le porto i saluti del suo cliente. A proposito, le manda a dire che ha deciso di non incontrarla e tantomeno di consegnarsi al magistrato. Preferisce, in questa fase, rimanere nascosto in attesa che la situazione si chiarisca. Inoltre, le comunico che mi ha assunto per condurre un’indagine parallela al fine di scoprire il vero assassino». «Il che significa che adesso e’ convinto della sua innocenza. La cosa mi stupisce. Mi spieghi, la prego». Le raccontai delle mie scoperte e deduzioni. Alla fine mi disse: «Si rende conto che la sua testimonianza potrebbe scagionarlo? Quale difensore di Alberto Magagnin ho il dovere di chiederle di presentarsi al magistrato inquirente e...». «Non dica cazzate, avvocato. Entrambi sappiamo benissimo che non servirebbe a nulla se non a mettermi nei guai. Quello che si puo fare, ed e’ quello che desidera il suo cliente, e’ di avviare un’indagine. Unendo le nostre forze potremo forse riuscirci. Noi batteremo la pista Belli e intanto lei raccoglierà informazioni a palazzo di giustizia. Cosa ne pensa?». «Che e’ profondamente sbagliato e non aiuterà certo a migliorare la situazione di Alberto. Non si offenda Buratti, so che se la cava bene nell’ambiente della malavita, diversi colleghi hanno una buona opinione, ma dubito che sia in grado di affrontare un’indagine difficile e complessa come quella relativa a un omicidio premeditato. Comunque, se questo e’ il desiderio di Alberto, cercherò di aiutarla per quanto e’ nelle mie possibilità e competenze. Gli dica che mi dispiace di non poterlo incontrare, sono certa che riuscirei a convincerlo. Almeno, sta bene?». «Diciamo che non soffre il caldo come noi» intervenne serafico Beniamino. Lo fulminai con lo sguardo e poi, nuovamente rivolto all’avvocatessa: «Comprendo le sue perplessità sulle mie capacità investigative ma si deve rendere conto che siamo gli unici a poter aiutare il suo cliente». «Ha qualche idea?». «Un paio. Ma non credo che gradirebbe conoscerle. Le troverebbe deontologicamente scorrette». Stavo uscendo dalla stanza quando mi chiese a bruciapelo: «E Alberto dove li trova i soldi per pagarla?». D’istinto ribattei: «E quelli che ha dato a lei in tutti questi anni, dove li ha trovati?». Incassò il colpo e abbasso lo sguardo sulla scrivania. «I vostri colloqui sono sempre così cordiali?» chiese il mio amico mentre aspettavamo l’ascensore. «Più o meno». «Ci ha fatto capire che ha difeso Magagnin gratis ma non ce ne ha spiegato il motivo. Seguire con tanto zelo professionale un caso senza speranze, senza l’incentivo del dio quattrino, non e’ cosa da avvocati». «Hai ragione. Secondo me e’ troppo coinvolta emotivamente... mi viene il dubbio che ci sia qualche altra verità da scoprire. Peccato che l’unica persona che potrebbe aiutarci a capire sia sepolta sotto un discreto strato di surgelati». «Il dottor Galderisi?». «Non e’ in redazione. Ha il turno di riposo». «Potrei avere il numero di telefono della sua abitazione?». Dall’altro capo del filo la comunicazione venne interrotta con un grugnito. Il centralinista non era certo un tipo cordiale. Di guardare sull’elenco telefonico non se ne parlava nemmeno perchè i giornalisti sono una delle categorie che sempre meno vi appare ma per una modica cifra potevo

contattare direttamente l’azienda dei telefoni: conoscevo un tipo a cui faceva piacere guadagnare qualche piccolo extra. «Giovanni Galderisi?». «Sì?». «Sono il misterioso telefonista del caso Belli». «Ah! E cosa posso fare per lei?». «Ho letto il suo articolo e ho pensato di chiamarla per esprimerle il mio apprezzamento». «Solo questo?». «In realtà no. Ho anche pensato che forse le interesserebbe sapere alcune cosette sull’omicidio che non sono ancora emerse». «Ad esempio?». «Che tra Magagnin e la morta c’era una relazione che durava ormai da tempo e che l’irreprensibile professoressa, nonché ex giudice popolare di Corte d’Assise, era dedita all’uso di stupefacenti. E che Magagnin e’ innocente». «Può provare tutto quello che dice?». «Solo in parte ma mi sembra comunque un ghiotto boccone per un giornalista». «Questo e’ tutto da verificare. Ma lei chi e’, che parte ha nella faccenda?». «Suvvia, dottor Galderisi, non mi deluda con richieste così poco professionali». «Mi dica almeno perchè si e’ rivolto a me». «perchè lei e’ l’unico che si e’ posto delle domande e non ha abbracciato entusiasticamente la tesi della Procura. Le propongo un patto: io le passo le notizie e lei le rende pubbliche». «Per sostenere l’innocenza di Magagnin? Sa che non posso farlo». «Lo so. Mi interessa solo che alla mattina i padovani si alzino e corrano in edicola per leggere gli ultimi sviluppi sul caso; voglio che in città non si parli d’altro». «Mi dia il tempo di discuterne con il direttore». «Le telefono domani sera». Il vecchio Rossini aveva ascoltato la conversazione, con le braccia conserte e un’espressione di chiara disapprovazione. «Mi avevi giurato che ce ne saremmo stati con il culo coperto e invece, come prima mossa, telefoni alla stampa». «Dai, socio, che e’ una mossa geniale. Se Galderisi si decidesse ad aiutarci potremmo ottenere due risultati. Il primo e’ che sbirri e magistrati si sentirebbero sotto pressione e magari riuscirebbe loro di scoprire qualcosa. Il secondo e più importante, impediremmo all’assassino di rilassarsi e di sentirsi al sicuro». «E che altre genialità hai in programma?». «Stanotte, ti porterò a vedere casa Belli. Lì cercheremo il nascondiglio di cui ci ha parlato Magagnin. Se esistesse davvero, potremmo trovare risposta a parecchie domande». «Ho capito, si va a rischiare la galera». Tornammo nel bar del quartiere Forcellini: calvados, vodka e aria condizionata. Erano da poco passate le sei del pomeriggio e dovevamo ancora organizzare la visita a casa Belli. «Non credo che sarà una cosa facile. Il luogo dove e’ stato compiuto un omicidio attira sempre un sacco di sguardi curiosi» attaccò Beniamino. «E’ vero. Ma questa casa si trova in una via poco trafficata. Se arriviamo a piedi senza farci vedere andrà tutto liscio. Entriamo tutti e due o uno sta fuori a fare il palo?». «Tutti e due dentro. E’ più pericoloso stare in strada o in giardino, darebbe troppo nell’occhio. Prima che chiudano i negozi dobbiamo trovare un ferramenta e procurarci gli arnesi. I guanti da chirurgo sono in macchina insieme ai “pezzi”». «Ci conviene andare al centro commerciale. E’ il posto ideale per fare i nostri acquisti: con la

scusa dell’aria condizionata e’ sempre pieno di gente». Appena fu buio, facemmo un giro di ricognizione e Beniamino decise che saremmo entrati da una finestra sul retro, resa meno visibile delle altre da una fitta siepe di bosso. Quattro ore dopo saltammo la recinzione. Il vecchio Rossini si muoveva come un gatto. La sua presenza mi infondeva sicurezza. Prima di scardinare l’imposta con un corto piede di porco, controllo che non fossero installati i sensori di un impianto d’allarme. Tagliò poi il vetro all’altezza della maniglia della finestra con una punta di diamante. Muniti di torcia tascabile schermata, iniziammo a perquisire la casa dal pianterreno. Fu nella stessa stanza dove avevo rinvenuto il cadavere di Piera Belli che trovammo il nascondiglio celato dalla libreria. Questa occupava due pareti. Una volta liberati i ripiani dai libri e dopo aver battuto con le nocche sul fondo di legno, capimmo che il lato disposto lungo la parete più corta della stanza rettangolare non aderiva al muro. Fu sufficiente smuoverlo per scoprire che il mobile poggiava su ruote, così ci volle un attimo per spostarlo. Il nascondiglio era uno sgabuzzino di circa due metri quadrati, privato della porta di cui disponeva in origine. Semplice ma geniale. Senza verificare la planimetria della casa sarebbe stato estremamente difficile scoprire la presenza della minuscola stanzetta. La polizia non l’aveva nemmeno cercata; d’altronde non avevano nessun elemento che facesse supporre la presenza di segreti nella vita della professoressa. Posate sul pavimento, quattro grandi ed eleganti scatole di cartone, decorate con motivi floreali su sfondo blu scuro. «Procurati una borsa o una valigia che possa contenerle» ordinai a Beniamino, mentre mi chinavo per osservarne il contenuto. Carte, fotografie, lettere, una bustina con qualche grammo di coca, una polaroid, una toga da giudice completa di tocco, un paio di fruste, manette e altri attrezzi sadomaso e qualche gioiello. Magagnin aveva raccontato la verità Sentivo crescere dentro di me l’euforia. Avevo una gran voglia di uscire da quella casa e di correre in un posto sicuro dove poter esaminare quello che avevamo trovato. Beniamino tornò con una morbida e capiente sacca di pelle. «Ho scelto la più carina e mi sa che me la tengo. Ci faccio un figurone a girare con questa». Prendemmo solo le carte e le fotografie. Rimettemmo poi a posto la libreria con cura, per evitare che la polizia scoprisse il vero obiettivo dell’effrazione e buttammo all’aria cassetti e armadi di altre stanze. Avrebbero certamente pensato a un’intrusione di ladri maldestri. All’uscita del casello di Mestre, incappammo in un posto di blocco. Per fortuna i carabinieri erano impegnati a smontare la roulotte di una famiglia di nomadi; comunque, per evitare sorprese, Beniamino decise di proseguire fino a Punta Sabbioni seguendo strade secondarie. Liberammo il lungo tavolo rettangolare del salotto e, una scatola alla volta, iniziammo a esaminare il materiale. Prima le fotografie. Le meno recenti erano riposte con cura in buste sigillate. Ritraevano coppie o terzetti, a volte una sola persona. In tutto due donne, la nostra professoressa e un’amica, e sei uomini, immortalati durante ogni sorta di pratiche sadomaso. Era interessante notare che le due tizie erano sempre presenti in ogni incontro, mentre gli uomini partecipavano uno alla volta. L’amica della Belli era una brunetta sui trentacinque anni dall’aria sofisticata. Purtroppo solo alcuni scatti permettevano di scorgere distintamente i volti e li misi da parte nella speranza di poterli poi associare ai rispettivi nomi e cognomi. Il vecchio Rossini scosse la testa. «Roba da matti... e questa balenga qui» ridacchiando indicava la Belli, «aveva il coraggio di andare in Corte d’Assise a distribuire anni di galera». «Beh, ognuno ha i suoi gusti in fatto di sesso. più che una balenga la definirei una furba perchè sapeva unire l’utile al dilettevole. Prima si divertiva e poi ricattava. Questo potrebbe spiegare tutti i contanti di cui disponeva Magagnin e soprattutto il movente del delitto. Magari e’ stato uno di questi tizi a farla fuori».

«Possibile. Hai notato che tutti hanno un Rolex al polso? Il modello che vedi in questa foto costa sui venti milioni». «Hai ragione» dissi, avvicinandomi per osservare meglio. «E’ tutta gente che ha l’aria di aver quattrini». Un’altra busta conteneva fotografie che ritraevano solo Piera Belli, la sua amica e un uomo che portava una maschera di pelle borchiata. In corrispondenza della bocca, una cerniera dorata. Avevo l’impressione che nonostante le pose da sadico, fosse lui a subire e non le due donne. «Ecco quelle con Magagnin» mi avvertì Rossini, passandomele. Vedere Magagnin, vestito con un paio di pantaloni di pelle che lasciavano scoperti i genitali, in compagnia della sua professoressa in versione “giudice dalla lunga toga”, mi fece tristezza e mi secco la gola. Era ora di fare una pausa. Scolai diversi bicchierini ma mi sentivo ancora perfettamente lucido quando ripresi in mano le polaroid. «Stomaco debole, Sherlock Holmes?». Non risposi. Mi soffermai su un’istantanea in cui il viso della brunetta era particolarmente a fuoco. «Ti ricordi cosa aveva detto Magagnin a proposito di questa tipa?». «Pensava facesse la commessa». «Forse non sarà difficile trovarla. Un mio amico sassofonista conosce tutte le belle donne di Padova e credo che questa rientri nella categoria». Dalle fotografie alle lettere. Magagnin aveva detto il vero anche su questo punto: Piera Belli era una grafomane. Tra le centinaia di fogli vergati con una scrittura chiara e fluente, c’era un po’ di tutto, dalle copie delle missive indirizzate agli amanti agli elenchi dei desideri sessuali del giorno, di cui aveva parlato Magagnin. Purtroppo in nessuna compariva il nome del destinatario. Riconobbi quelle indirizzate al semilibero solo perchè me ne aveva parlato. L’unica donna a cui veniva fatto riferimento era naturalmente quella che appariva ovunque nelle fotografie come inseparabile compagna della padrona di casa. Anche il suo nome non veniva mai rivelato. Era “la mia bruna compagna di giochi”, colei che, come risultava da alcune frasi, aveva il compito di procurarle la coca. Dal fondo dell’ultima scatola, Beniamino estrasse due cartelle chiuse da nastri color fucsia. La prima conteneva la fotocopia di un lungo articolo tratto da una rivista in lingua inglese dal titolo “Photography of bloodstains visualized by luminol”, datato a penna 1973 con una grafia che apparteneva sicuramente a Piera Belli. «Guarda qui, sembrerebbe una rivista scientifica». «Beh, la defunta insegnava inglese: forse si tratta di una vecchia traduzione» osservai. «E questo cos'è?» il vecchio Rossini mi passò il secondo plico. «Altre lettere. Vediamo un po’ a chi aveva deciso di scrivere stavolta». Cominciai a sbirciare distrattamente dentro la prima busta. Dopo poche righe ero di nuovo totalmente concentrato su quello che leggevo. Forse avevo fatto centro. Erano tutte indirizzate all’uomo con la maschera di pelle nera e oltre a invitarlo a partecipare ai consueti incontri a tre - ovviamente in compagnia della brunetta - la professoressa gli ricordava che doveva ancora versare la rata mensile che l’aiutava a dimenticare di aver a che fare con il responsabile della condanna di un innocente. Alberto Magagnin. «Penso che abbiamo trovato la pista giusta, ascolta» dissi al mio amico, accingendomi a leggere la pagina che ritenevo più interessante. “Il nostro appuntamento e’ per domenica. Fai in modo di arrivare per le tre del pomeriggio, puntuale. E ora, come sempre, le mie istruzioni. Il portone sarà accostato. Entra nella prima stanza a sinistra. Vi troverai delle piccole sorprese, qualche nuovo accessorio con cui renderemo indimenticabile questo nostro incontro. Lo vedi, quel delizioso frustino? Prendilo in mano. Il suo manico in avorio e’ lungo e sottile. Quando l’ho visto, mi sono venute in mente tante idee... non ora, pero. Spogliati, invece, di quegli abiti grigi così tristi e indossa la

morbida maschera di pelle nera. Ancora una volta la tua identità sarà celata. Un eccitante mistero che fa morire di curiosità la mia bruna compagna di giochi. Non temere, non saprà mai chi sei, perchè questo e’ uno dei nostri piccoli segreti. E ora sbrigati. Ti stiamo aspettando di sopra. Entra e ordinaci di metterci carponi, di fronte a te. Lasciati guardare, con quel frustino in mano hai tutto l’aspetto di un dominatore. Poi ti avvicinerai a me, per prima, mi solleverai da terra, mi afferrerai per i polsi costringendomi a portare le braccia dietro la schiena. Mi legherai con i cordini neri con i quali ho circondato i miei fianchi. Adagiami sulla poltrona, divarica le mie gambe e assicurale ai braccioli. Strappami di dosso lo slip. Lo so di cosa hai voglia ora... ma non puoi farlo perchè la mia bruna compagna di giochi ti attende. Inginocchiala ai tuoi piedi, i suoi polsi legati strettamente alle caviglie. Poi schiaffeggiala dolcemente, prendila per i capelli e sollevala. Inducila a infilarselo in bocca. Ti piace fartelo succhiare, vero? Ma ricordati che io sono completamente aperta. Infila il frustino dentro di me. Mi farai male ma dalla mia bocca non uscirà nessun lamento, come dalla tua nessuna parola. Un attimo prima di venire, costringerai la mia bruna compagna di giochi a girarsi e la possiederai da dietro. Ma se lei non ti avrà pienamente soddisfatto, la punirai strizzandole i capezzoli con due mollette d’argento. Entro le cinque dovrai andartene. Ricordati, quando ti rivestirai, di mettere il denaro che compra il mio silenzio sull’ingiusta condanna di Alberto Magagnin, nel cassetto dell’armadietto accanto al lavabo. Alberto, sta imparando in fretta, e’ molto più bravo di te, ci fa godere meglio, ci accontenta di più . Forse e’ a causa dell’astinenza forzata dovuta a tutti gli anni di carcere a cui tu l’hai costretto. A volte penso quanto sia stato ingiusto quello che hai fatto, forse lui dovrebbe sapere di te. Ma per il momento ho deciso che non hai nulla da temere.” «Innocente su tutti i fronti. Me lo sentivo!» esclamo Beniamino. «Già Se troviamo questo tizio, risolviamo due delitti. Ci scommetto le palle che e’ stato lui ad ammazzarla. Dal tono delle lettere si capisce che la Belli tirava sempre più la corda: soldi, sesso e una schiavitù psicologica che deve averlo fatto andare fuori di testa. Adesso e’ tutto molto più chiaro e getta una nuova luce su quello che avevamo già intuito. Ha organizzato un delitto perfetto e l’annientamento di Magagnin per sottrarsi ai capricci della donna, al continuo salasso finanziario e a quella sottile ma pur sempre temibile minaccia di rivelare tutto al semilibero. Lei morta e lui in galera. Certo che, povero Magagnin, ha avuto una vita e un destino di merda». «Sei sicuro di volerlo consegnare alla giustizia?». «Cosa vuoi dire?». «A uno così preferirei sparargli in bocca e poi pisciargli sulla tomba». «Ti sei già dimenticato cos'è la galera? Non credi che sia la cosa peggiore per una carogna come questa?». «Hai ragione. Ma intanto bisogna trovarlo. Che facciamo?». «La brunetta. Dobbiamo assolutamente scovarla e farla parlare». «Qualche idea?». «Due. Chiedere al mio amico sassofonista se la conosce e commissionare un bel servizio fotografico al funerale della professoressa che, se non sbaglio» guardai l’orologio, «dato che sono quasi le nove del mattino, si svolgerà domani. E’ possibile che qualcuno della banda dei Rolex non riesca a resistere alla tentazione di dare l’ultimo saluto alla sfortunata amica». «Non credo che si faranno vedere. Secondo me in questo momento se la stanno facendo sotto dalla fifa. Dubito che sapessero che la Belli aveva un nascondiglio e adesso si staranno chiedendo che fine avranno fatto le fotografie... se sono già nelle mani della polizia». «Concordo che per loro non sono certo giorni spensierati. Comunque, stai pur certo che se la polizia avesse trovato le istantanee, ormai lo saprebbe tutta la città Un pettegolezzo così succulento a Padova rimane segreto cinque minuti».

Rossini non riuscì a trattenere un profondo sbadiglio. «Ho sonno. Non ho più l'età per passare le notti in bianco. Dormiamo fino all’ora di pranzo e poi torniamo a Padova. Ti va?». Beniamino se ne andò a letto. Una volta solo, tirai fuori la bottiglia e rimasi a bere fino a quando mi fui ubriacato. Mi avvicinai allo stereo, infilai la cassetta di “The healer” di John Lee Hooker e alzai il volume al massimo. Mi stavo dondolando al ritmo di un assolo di Carlos Santana quando arrivo Beniamino con un bel pigiama di seta rosso fuoco. Prese lo stereo e lo scaravento contro il muro, poi con la mano mi mando un bacio e strizzandomi l’occhio se ne torno a dormire. «Agenzia fotografica Famiglia Trentotto. Chi parla, prego?». «Sono Marco Buratti. Mi passa Paolo Mazzo?». «Un attimo, prego». «Ehi, vecchio lazzarone. Come te la passi?». «Benone. Ascolta, sono in una cabina e rimane poco tempo prima che cada la linea. Ho bisogno di un fotografo serio, bravo e di poche parole. Da quando lavori a Milano non so più a chi rivolgermi». «Colori o bianco e nero?». «Bianco e nero». «Allora ti consiglio Claudio Sorgetti. E’ uno dei più esperti fotografi di Padova, il maestro di molti colleghi. So che adesso si occupa di fotografia industriale ma e’ in grado di fare qualsiasi cosa». Arrivai allo studio del professionista pochi minuti prima delle sedici. Era ancora chiuso e nell’attesa mi rifugiai all’ombra di un portico. Capii che era lui quando vidi avvicinarsi un uomo sulla cinquantina, jeans e camicia a maniche corte, capelli bianchi lunghi sul collo e in bocca una pipa accesa. «Domani c'è un funerale. Avrei bisogno di un servizio fotografico». «E’ la prima volta che mi chiedono di fare un servizio del genere. Cosa le serve esattamente?». «Ritratti nitidi in bianco e nero di tutti i partecipanti alla cerimonia. Il corteo funebre partirà domani mattina alle otto per dirigersi alla chiesa di San Pantaleo per la funzione e poi la salma proseguirà per il cimitero maggiore di Treviso per essere inumata nella tomba di famiglia. Per tutti, intendo proprio tutti, anche il prete e i becchini». «D’accordo. Quale formato desidera?». «Stampi solo i provini, poi le indicherò gli ingrandimenti. Quando saranno pronti?». «Ripassi dopodomani a quest’ora». «Non mi chiede il motivo di questa richiesta?». «No. Ho come l’impressione che mi racconterebbe una balla». «E’ vero. Peccato, ci avevo pensato una buona mezz’ora prima di trovarne una decente». Raggiunsi Beniamino al solito bar. «Com'è andata?». «Lunedì avremo i provini». «E fino ad allora?». «Le indagini si fermano. Possiamo fare così: andiamo a Punta Sabbioni, riprendo la mia macchina e ci vediamo qui lunedì alle dieci». «Ottima idea. Lo zio Beniamino ha voglia di inzuppare il biscotto e c'è una nuova entraineuse al “Tucano Blu” di Jesolo che non e’ affatto male. Se vuoi venire, sei mio ospite». «No, grazie. Penso che andrò a sentire della buona musica e poi a casa a dormire. E’ stata una

settimana faticosa». Il mio amico mi lanciò un’occhiata di rimprovero. «Cosa c'è adesso?» domandai, sbuffando. «Ti imbottirai di calvados e musica fino a stordirti». «Se permetti, questi sono affari miei. Comunque, sempre meglio di trascorrere la notte in un night in compagnia di una tizia che ti sorride a pagamento». «Ci sono puttane e puttane... se tu conoscessi l’ambiente non saresti così prevenuto». «Ho il massimo rispetto per la categoria, ma non ho nessuna intenzione di fare nuove esperienze: quelle che ho già collezionato nella vita bastano e avanzano». Il vecchio Rossini si accese una sigaretta. «Se stai cercando ancora il grande amore frequenti l’ambiente sbagliato. E fai il mestiere sbagliato» disse, scuotendo la testa. «Ciao, Beniamino, a lunedì» lo salutai, tagliando corto. «E la macchina?». «Per questa volta userò l’autobus». Tornando a casa, mi fermai a telefonare a Galderisi. «Allora, cosa le ha detto il gran capo?». «E’ d’accordo ma intende pubblicare solo notizie assolutamente comprovate. Il primo articolo uscirà domani. Quindi, stasera ci dovremo incontrare...». «Non se ne parla nemmeno. I nostri contatti saranno solo ed esclusivamente telefonici. Se avrò del materiale da consegnare, le dirò dove ritirarlo». «Fa male a non fidarsi. Il segreto professionale in questo giornale e’ una cosa seria». «Non ne dubito. Però esiste il rischio che dopo il primo articolo gli sbirri fiutino la pista e la seguano. La richiamo tra una mezz’ora per passarle le prime informazioni. Prepari pure il registratore... se non e’ già in funzione». «Touchè! Lei e’ un tipo sveglio...». «A fra poco». Scelsi una cabina isolata dalle parti della fiera e me la cavai in meno di un quarto d’ora. Gli lasciai del materiale in una busta. Una volta aperta vi avrebbe trovato due fotografie. La prima ritraeva Piera Belli nell’atto di sniffare cocaina - dietro a lei compariva Alberto Magagnin a torso nudo nella seconda la donna si trovava in compagnia del tipo con la maschera di cuoio. «Buona domenica, bastardo» augurai a quest’ultimo mentre uscivo dalla cabina. Trascorsi buona parte della notte al “Biko’s”, un locale appena fuori città, ascoltando la chitarra e l’armonica di Claudio Bertolin, a mio parere l’unico vero bluesman veneto. Bevvi molto. più del solito. Le parole di Beniamino avevano riaperto una vecchia ferita e quella volta il calvados non basto a rimarginarla. Il grande amore della mia vita io l’avevo già incontrato ma mi aveva lasciato mentre scontavo l’ultimo anno, in semilibertà Mi aveva scritto una lettera dalla Bretagna, poche righe: Mi fermo qui. Un altro paese, un’altra vita, un altro uomo. Non ti amo più e ti dimenticherò Buona fortuna... Credetti di impazzire e appena potei andai a cercarla. Ero certo di riuscire a convincerla a tornare con me. La trovai in una trattoria di Brignogan, intenta a mangiare ostriche e bere chablis in compagnia di un tizio che non mi assomigliava affatto. Non mi vide entrare. Era troppo occupata a essere innamorata. Notai che si era sfilata una scarpa, il suo piede accarezzava una gamba dell’uomo. Mi avvicinai al banco. Le mascelle erano così serrate che non riuscii a ordinare nulla. L’oste mi squadro, poi mi sorrise e mi mise davanti una dose abbondante di un liquore ambrato.

Le mani mi tremavano e dovetti usarle entrambe per portarlo alle labbra. Bevvi a piccoli sorsi. Mi sentii meglio. Molto meglio. «Cos'è?» domandai, indicando la bottiglia. «Calvados» rispose, con fare complice. «Buono. Me ne dia una bottiglia e ne mandi una di champagne a quel tavolo, dove e’ seduta quella donna bellissima con un neo sullo zigomo sinistro. Ma solo dopo che sono uscito». Pagai e me ne andai. Da allora mi sento come una meteora lanciata nella vita. Ho incontrato altre donne ma ogni volta ho capito che non mi sarei fermato al loro fianco. Ognuno ha il suo blues. Il mio e’ il ricordo di una donna che mi ha dimenticato mentre ero in galera. “Love. Only a memory. In poems and blues songs and saxophone screams.” L’indomani mi svegliai con un discreto mal di testa e dopo una lunga doccia decisi di andare a comprare il giornale. Dovevo verificare se Galderisi aveva mantenuto le sue promesse. Prima ancora di arrivare all’edicola capii che tutto procedeva secondo i miei piani: incrociai diverse persone con gli occhi incollati al quotidiano e altre ancora che già discutevano piuttosto animatamente. “Sconvolgenti rivelazioni sulla vita privata di Piera Belli. Cocaina e convegni sadomaso. Magagnin innocente?” titolava a tutta pagina il quotidiano. Il fondo firmato dal direttore, “La Giustizia esige certezze”, invitava con molto tatto la Procura della Repubblica a riesaminare il caso, in particolare ad approfondire le indagini sulla vita privata di Piera Belli per scongiurare il rischio di un errore giudiziario, “...il crimine più orrendo per uno Stato di diritto.” La veemenza di Galderisi superava ogni mia aspettativa. “Colpo di scena nel caso Belli. Avremmo voluto dire nelle indagini, ma le notizie sconcertanti che oggi pubblichiamo non ci sono state fornite dagli inquirenti, bensì da fonte anonima. La stessa che avvertì la mattina del 29 giugno la Polizia della presenza di un cadavere al civico 29 di via Torlonga. Qualche giorno fa, questa persona qualificatasi ‘il misterioso telefonista del caso Belli’ ha contattato il nostro giornale, asserendo che Alberto Magagnin, il detenuto semilibero accusato dell’omicidio della professoressa, sarebbe innocente, e di essere in grado di fornire tutti quegli elementi sulla vita privata della vittima non ancora emersi dalle indagini. Il giornale ha accettato di pubblicare solo le notizie degne di fondamento. Tra di esse non vi e’ quella in cui si dichiara che il Magagnin e’ innocente, anche se, dopo aver letto quanto qui sotto riportiamo, siamo sicuri che i lettori converranno con noi che il dubbio diventa imperativo. Piera Belli aveva una doppia vita. In pubblico era l’irreprensibile professoressa dedita all’insegnamento, schiva e riservata come l’hanno descritta colleghi e vicini di casa. In privato pero, questa nostra concittadina era coinvolta in pratiche alquanto riprovevoli. Non vogliamo processarla pubblicamente, non dimentichiamo infatti neppure per un attimo la sua prematura e atroce fine, ma soltanto rendere noto quanto abbiamo saputo, poiché riteniamo si tratti di un atto responsabile e doveroso nei confronti dell’opinione pubblica e, soprattutto, della giustizia. Ecco i fatti, comprovati anche dal materiale fotografico in nostro possesso: 1) Piera Belli era dedita a pratiche sadomasochistiche. Organizzava incontri a cui partecipavano più persone e durante i quali si faceva uso di cocaina, di cui essa stessa era consumatrice abituale. 2) La donna aveva una torbida relazione con il detenuto in semilibertà Alberto Magagnin, infarcita anch’essa di sadomasochismo e droga. La notizia di per se non avrebbe nulla di incredibile se si esclude pero il particolare che Piera Belli aveva fatto parte proprio della Corte d’Assise che aveva condannato l’uomo a diciotto anni di reclusione per l’omicidio di Evelina Mocellin Bianchini. Alla luce di queste rivelazioni e’ doveroso porsi delle domande, che noi

giriamo alle autorità competenti...” E bravo Galderisi. Tutto andava secondo i piani. Il clamore era tale che gli inquirenti sarebbero stati costretti a rivedere il caso. L’assassino, a questo punto, doveva aver capito che l’impalcatura sulla quale si sorreggeva il suo delitto stava iniziando a scricchiolare. Verso sera telefonai al giornalista per complimentarmi con lui ma lo trovai di pessimo umore. «Ho trascorso la giornata in Procura. Sono furiosi. Tutti, dal Procuratore capo all’ultimo poliziotto. Non vogliono rimettere in discussione l’accusa a Magagnin ma si rendono conto di avere gli occhi dell’opinione pubblica puntati addosso e di dovere un sacco di spiegazioni. Procederanno con cautela, anche perchè sono piombati in città i corrispondenti di tutti i media nazionali, ma ho l’impressione che faranno di tutto per inchiodare Magagnin, colpevole o innocente che sia. Ci sono troppi interessi in gioco e questo caso e’ uno di quelli che rischia di far cadere parecchie teste, compresa la mia. Il direttore sta subendo notevoli pressioni e ho faticato non poco per convincerlo a pubblicare l’articolo di domani. Sarà l’ultimo... e la responsabilità ricade tutta su di me. In prima pagina ci sarà il particolare ingrandito della maschera di cuoio e il mio pezzo sosterrà l’ipotesi che dietro di essa si celi il volto del vero colpevole». «Si e’ convinto che Magagnin e’ innocente?». «No. Certo che no. Ma sono convinto che lei sappia molto di più di quello che mi ha detto e che si tratti di notizie con un certo fondamento. Il direttore riceve pressioni da ambienti che non dovrebbero avere niente a che fare con i giri sadomaso e la cocaina. E’ evidente che c'è dell’altro». «Quali ambienti?» chiesi allarmato. «Ah, adesso tocca a me a fare il misterioso. Lei continui a passarmi informazioni e vedrà che anch’io mi sbottonerò». «Se quello di domani sarà l’ultimo articolo, a che potranno servirle?». «Faccio questo mestiere da trent’anni e so riconoscere un caso che scotta. Non mi sono mai prestato a coperture o insabbiamenti e questa non sarà la prima volta. Il direttore mi ha affidato un altro incarico ma posso continuare a indagare per conto mio se lei mi fornirà qualche altra pista da seguire». Rimasi a lungo in silenzio valutando se era il caso di coinvolgere Galderisi. Mi affidai all’istinto. «D’accordo, ma continueremo a usare il telefono come mezzo di comunicazione». «Per me va bene». Anche Barbara Foscarini era di cattivo umore. Mi scovò nuovamente al “Banale”. «Questa e’ opera sua, vero?» chiese con voce stridula, gettando il quotidiano di Galderisi sul tavolo. «Si sieda, avvocato. Sta attirando su di se gli sguardi di tutto il locale». «L’altro giorno nel mio studio ha promesso che avremmo sempre collaborato durante le indagini e, invece, per sapere cosa ha scoperto lo devo leggere sul giornale». «Non le ho detto nulla perchè sarebbe stata contraria a passare le notizie alla stampa. Avrebbe preferito metterle nelle mani del magistrato e tenere tutto in famiglia. Non sarebbe scoppiata la bomba e avrebbero continuato a ignorare la situazione. Adesso invece se ne devono occupare per forza, sia gli inquirenti che l’assassino». «Lei pensa di essere un grande investigatore e invece e’ solo stupido. Il solo risultato che ha ottenuto e’ stato di incattivire gli inquirenti. Ho parlato con il magistrato, era talmente fuori di se che e’ arrivato a minacciare di stroncarmi la carriera se scoprirà che dietro a tutto questo ci sono anch’io...». «Adesso basta» sbottai, alzando una mano. «Una volta per tutte la smetta di dire cazzate, mi sta innervosendo. Piera Belli aveva scoperto che Alberto Magagnin non era colpevole della morte di Evelina Mocellin Bianchini ma che qualcuno aveva deliberatamente contribuito alla sua condanna.

Aveva capito di chi si trattava e da quel momento l’aveva tenuto prigioniero di un pesante ricatto. Solo che ha voluto strafare. Si e’ portata Magagnin addirittura in casa, esasperando così quel tizio oltre misura. Alla fine lui non ha più retto e ha deciso di fare piazza pulita di entrambi. Piera doveva morire e Magagnin marcire per sempre in galera. E’ filato tutto liscio fino a quando sono andato a curiosare nella casa del delitto». «Cosa sta dicendo, si spieghi meglio». Parlai per una ventina di minuti. Mi accorsi solo quando ebbi terminato che la sua mano stava da un bel po’ avvinghiata al mio avambraccio sinistro. Quando la spostai, notai il segno delle unghie sulla pelle. «Mi faccia parlare con Alberto. A questo punto deve assolutamente costituirsi. Possiamo dimostrare che la Belli non aveva i requisiti per sostenere il ruolo di giudice popolare e ottenere la revisione del processo. Intanto la Procura con i nuovi elementi...». «Ancora con questa storia di costituirsi» sbottai. «Sa meglio di me che se il gioco passa in mano agli inquirenti si ferma tutto con il ritorno di Magagnin in galera. L’unica via di uscita e’ scoprire l’assassino». «Buratti, lei non capisce...». «No, e’ lei che non capisce. L’ha fatto condannare già una volta e per questo ha passato in galera quindici anni. Adesso lasci fare a me». Fu come se le avessi dato uno schiaffo. Scoppio a piangere e fuggì via tenendosi le mani sul viso. Il barista si avvicino portandomi un altro calvados. «Questo lo offre la ditta. Deve essere successo qualcosa di importante» commentò, strizzandomi l’occhio. Beniamino sbocconcellava distrattamente una brioche, il giornale aperto sull’articolo di Galderisi. Alzò lo sguardo e mi accolse con un: «Bel casino, Marco, bel casino davvero. Radio, tivu e giornali non parlano d’altro. Se non stiamo attenti finiamo dritti nei guai». Sedetti accanto a lui. «Adoro le iniezioni di ottimismo il lunedì mattina». «Non scherzare. Adesso gli sbirri sanno che qualcuno sta giocando all’investigatore. Tutta la polizia grazie a lui ha fatto una figura di merda. Te l’ho mai detto che gli sbirri sono permalosi? Adesso staranno con gli occhi bene aperti». «Anche noi, non ti preoccupare». Sopra la foto dell’uomo dalla maschera di cuoio, il quotidiano titolava: E’ lui l’assassino della professoressa Belli? “Come anticipato ieri, una fonte anonima ci ha fatto pervenire del materiale fotografico comprovante la doppia vita di Piera Belli. Pubblichiamo oggi il volto mascherato di un uomo che secondo il nostro informatore potrebbe essere il vero assassino. Movente: il ricatto. Piera Belli infatti avrebbe costretto per lungo tempo questo personaggio a sottostare ai suoi desideri sessuali e al versamento di cospicue somme di denaro in cambio del suo silenzio. Il motivo e’ tuttora sconosciuto, il misterioso telefonista afferma di non volerlo ancora rivelare. Supposizioni; quindi; nessuna certezza dell’innocenza di Alberto Magagnin. Certo sarebbe interessante scoprire l'identità di questo personaggio che nella fotografia (di cui abbiamo considerato la sola inquadratura del volto, non potendola pubblicare interamente per motivi di decenza) appare vestito solo della maschera. Accanto a lui la vittima, completamente nuda. Nulla di più possiamo aggiungere a questa descrizione in quanto l’istantanea e’ stata oggetto di sequestro da parte delle autorità inquirenti come riportiamo in altra pagina del giornale. Una maschera induce di per se al mistero ma il particolare di quella cerniera all’altezza della bocca e’ davvero inquietante. Chi si nasconde dietro un simile travestimento? Un perverso compagno di giochi o un uomo costretto da un terribile ricatto a prestarsi a pratiche così turpi?...”

L’articolo di Galderisi seminava così tanti dubbi da sembrare un’arringa da Corte d’Assise. «Doveva fare l’avvocato, come giornalista e’ sprecato» constato Beniamino, con ammirazione. «Che altro gli hai detto?». «Nulla di più di quello che ha scritto. Sente puzza di bruciato e mi ha offerto la sua collaborazione». «Ci mancava un giornalista nella squadra. perchè non recluti anche un prete e uno psicologo?». «Tranquillo socio. Solo contatti telefonici. Mi ha detto che il direttore sta subendo pressioni da parte di certi “ambienti”, ma non ha voluto specificare quali, perciò questo e’ il suo ultimo articolo sul caso. Il direttore lo ha già abbandonato, infatti il fondo di oggi e’ dedicato a tangentopoli». «Potrebbe trattarsi della banda dei Rolex». «E’ presto per dirlo». «Marco... non so come dirtelo...». «Dillo pure con parole tue» scherzai. «Se ci prendono... se finiamo in galera... con questa storia degli investigatori sai, i ragazzi ci prenderebbero per il culo per anni...». «Baderò alla tua reputazione Beniamino, negherò fino alla morte ogni tuo coinvolgimento. La figura del “mona” la faro da solo». Arrivammo allo studio del fotografo qualche minuto prima delle sedici e lui era già lì ad aspettarmi. «Ho passato buona parte della notte in camera oscura. Ho dovuto usare il teleobiettivo. Non c’era tanta gente ma i parenti non gradivano la presenza di fotografi». Sorgetti distese sul banco una trentina di fogli di provini e una lente d’ingrandimento. «Scelga quelli che devo ingrandire». Aveva svolto un ottimo lavoro. Nonostante le minuscole dimensioni dei fotogrammi, si distinguevano i volti dei partecipanti già a occhio nudo. Beniamino tiro fuori da una tasca le polaroid trovate in casa di Piera Belli. Guardammo in silenzio Sorgetti che capì al volo. «Ho bisogno di una pausa, vado a bermi un caffè. Torno tra dieci minuti». La brunetta sfoggiava un vestito nero più appropriato a un cocktail che a un funerale ma il volto era rigato da lacrime sincere. Intorno a lei l’intera banda dei Rolex, i lineamenti tirati e le smorfie tipiche degli scambi di battute a bassa voce. «Hai visto, Beniamino, che non hanno resistito alla tentazione di porgere l’estremo saluto alla loro maestra di giochi?». «Già Comunque, più che un gruppo di amici addolorati mi sembrano dei carbonari a una riunione clandestina». «Dopo aver letto gli articoli di Galderisi hanno finalmente la certezza che le foto dei loro giochetti sono finite nelle mani di qualcuno. E siccome non si tratta della polizia, forse stanno pensando di essere finiti in un nuovo giro di ricatti». «Già In questi giorni siamo nei pensieri di un sacco di gente. Questi stronzi, l’assassino e tutto lo sbirrame della città Tutti a cercare di scoprire chi siamo. Non vorrei essere monotono ma...». «Lo sei, Beniamino, lo sei». Quando il fotografo rientrò, avevamo già scelto i provini che ci interessavano. Puntai l’indice su uno in particolare. «Questo mi servirebbe subito». Lo osservo. «Ah, miss funerale. La più fotogenica delle dolenti, non c'è dubbio. Di che formato, l’ingrandimento?». Il mio amico sassofonista si esibiva quella sera con il suo gruppo, il Sax Appeal Saxophone

Quartet, al “Mezzocono”, un locale dalle parti di Ponte Molino, nel cuore del centro storico. Sapevo che presentava il suo ultimo disco intitolato “Giotto”, in cui ogni brano prendeva il nome di un diverso colore. Arrivammo poco prima dell’inizio del concerto e invitai il musicista al nostro tavolo. «Beniamino, ti presento Maurizio Camardi. Valente sassofonista e vero esperto di belle donne di Padova». «Ti sei convertito al jazz?» mi chiese lui, divertito. «Ancora no, anche se e’ sempre un piacere ascoltarti». Gli porsi la fotografia della misteriosa brunetta. «Sto cercando questa donna, la conosci? Pare faccia la commessa in una boutique». «Bella petardona» commentò. «L’ho già vista in giro ma in questo momento non mi viene in mente nulla». «Fruga bene nel tuo schedario, Maurizio. Devo assolutamente trovarla». «Fammici pensare». Verso la fine del concerto, durante l’esecuzione di “Violet”, approfittando dell’assolo di un altro musicista del gruppo, si avvicino nuovamente al tavolo. «Non e’ una commessa» mi sussurro all’orecchio, «ma la proprietaria di una boutique, in largo Pacinotti». L’insegna “Beverly Nails - intimo uomo/donna” sovrastava un negozio arredato con gusto, arioso e piuttosto frequentato per una calda mattina di luglio. Vi lavoravano tre commesse, giovani e dall’aria competente. Alle tredici in punto le ragazze uscirono e Giusy Testa, la proprietaria, chiuse a chiave la grande porta a vetri dall’interno. Attraversai la strada e bussai per attirare la sua attenzione. Si girò incuriosita, cercando soprattutto di vedere cosa tenevo premuto sul vetro. Si avvicino e quando vide che si trattava di una polaroid che la ritraeva nell’atto di praticare una fellatio all’uomo con la maschera di cuoio, si portò una mano sul cuore e lessi sulle sue labbra che esclamava: «Oh mio Dio!» Rimanemmo qualche attimo a fissarci negli occhi, poi le feci segno di aprire la porta. Beniamino la richiuse appoggiandovisi con la schiena, a braccia conserte. Stavamo zitti e la guardavamo senza alcuna espressione. Io continuavo a tenere in bella vista la fotografia. Si udiva solo il suo respiro affannoso. Nonostante l’aria condizionata alcune gocce di sudore iniziarono a rigarle le tempie fin giù sul collo. Crollò dopo qualche minuto. Cominciò a piangere e gridare. Una crisi isterica da manuale. Lasciammo scorrere i minuti, poi a un mio cenno Beniamino le assestò un ceffone che la gettò a terra. Ammutolì. Il mio socio gentilmente, la sollevò e la fece sedere sul banco. Le accarezzò i capelli, le asciugò il viso e le infilo in bocca una sigaretta. Era pronta. «Chi e’?» chiesi, indicando l’uomo mascherato. «Non siete poliziotti, vero?». «Chi e’?» insistetti. «Siamo disposti a pagare bene per le fotografie». «Chi e’?» urlai. Questa volta toccava a me fare la parte del cattivo. Si spaventò. «Giuro, non lo so, non l’ho mai saputo». «Non ti ha detto la mamma che non si fanno questi servizietti agli sconosciuti?» chiese tagliente

Rossini. «Solo Piera lo conosceva, io l’ho sempre visto con la maschera addosso». «Chi l’ha uccisa?» domandai. «Non lo so, lo giuro, non lo so. Forse quel ragazzo, Alberto. Ho parlato con gli altri, non e’ stato nessuno di loro, non ne avevano il motivo». «Forse sei stata tu. Non ti ha pagato la cocaina che le fornivi e l’hai stesa. Le ferite di coltello non sono profonde. Potrebbero essere state assestate anche da una donna». «No, volevo bene a Piera. Era la mia migliore amica». «E buona parte del tuo reddito. Eravate in società anche nel ramo ricatti?» incalzai. «Quali ricatti?». «Mi sembra che tu ci stia prendendo per il culo. Sai cosa facciamo, se non ci racconti la verità? Usciamo da quella porta e consegnamo tutto il materiale ai giornali. Hai idea di cosa diventeranno, dopo, la tua vita e quella dei tuoi amichetti? Questa città perdona i peccati fino a quando rimangono segreti, ristretti a pochi intimi o affidati al confessionale ma quando diventano di dominio pubblico, non ha nessuna pietà». «Vi giuro che non so di cosa parliate». Guardai l’orologio. «Hai un’ora di tempo per convincermi. Racconta tutto dall’inizio». Chiese un’altra sigaretta. «Ho conosciuto Piera qui in negozio. Circa cinque anni fa. Veniva spesso e dalla biancheria che sceglieva, sempre indossata sotto vestiti molto castigati, ho capito che era come me... che le piaceva un certo tipo di sesso. In quel periodo il gruppo di amici era già formato ma da tempo cercavamo un’altra donna. Ogni tanto ci rivolgevamo a delle prostitute ma con questa storia dell’A.i.d.s. c'è poco da fidarsi. Non e’ stato difficile diventare amiche. Le ho raccontato del nostro giro e lei ha aderito subito con entusiasmo. Conquisto tutti con il suo modo di fare e...». «E...» la spronai. «... diventò la nostra maestra di cerimonia. Si occupava dell’organizzazione di ogni nostro incontro. La sua casa divento il “tempio del piacere”... così la chiamavamo». «Tempio... maestra di cerimonia... che stronzate» la interruppe Beniamino. «E la cocaina?» chiesi. «La cocaina... dalla cocaina ha preso il via ogni cosa. Gli altri amici sono imprenditori che hanno rapporti con il Sudamerica. All’inizio cominciarono a portarne qualche grammo. Adesso due, tre chili l’anno». «Non ve li snifferete solo voi, questi souvenir?». «No, certo. La vendiamo a una signora che gestisce un giro di... pubbliche relazioni». «A casa mia si chiama prostituzione» sottolineai. «E’ un giro di studentesse e giovani signore, frequentato da politici e professionisti. Tutta gente in vista». «La maitresse e’ a conoscenza della tua amicizia con Piera Belli?» domandai. «Sì». «Ecco» bisbigliai nell’orecchio a Beniamino. «Sono questi gli “ambienti” a cui si riferiva il nostro amico giornalista. Stanno facendo pressioni non perchè abbiano a che fare con il delitto ma perchè vogliono evitare che le indagini arrivino al loro giro di puttanelle. La faccenda si complica di brutto». «Altro che. Mi sa che la tua indagine finirà insabbiata». «Non e’ detto» lo contraddissi, poco convinto. Tornai a interrogare Giusy Testa.

«Anche Piera Belli vendeva coca?». «No. La comprava soltanto. Da me». «E i quattrini? Non aveva certo il tenore di vita di una statale. Abbiamo trovato una lettera da cui si capisce che ricattava l’uomo mascherato. Cosa sai in proposito?». «Assolutamente nulla. Tre anni fa mi chiese in prestito una trentina di milioni. Me li restituì dopo qualche mese e da allora ha cominciato ad avere parecchi soldi. Un giorno, a letto, mi disse che aveva un amante molto ricco... ho sempre pensato che fosse proprio l’uomo con la maschera. Me lo immaginavo come un pezzo grosso, un riccone dai gusti particolari che pagava lautamente Piera per i nostri incontri. Lei era brava, aveva fantasia e riusciva a dominare tutti». «Anche Alberto Magagnin». «Sì, lui più di tutti. All’inizio ero contraria che lo portasse a casa, anche perchè era un galeotto e un tossicodipendente... magari aveva l’A.i.d.s. Ma lei mi convinse che sarebbe stato utile e divertente. Piera e io lo chiamavamo il “barboncino”. Faceva tutto quello che volevamo...». «Basta così» la bloccai, «mi stai facendo venire il voltastomaco». Dalla tasca interna della giacca di lino estrassi il registratore e glielo mostrai. «Ascoltami bene: siamo in possesso dell’archivio della tua amica e qui e’ registrata la tua confessione. Metteremo tutto in un posto sicuro. Se venissimo a sapere che hai riferito a qualcuno la nostra conversazione o che cerchi di identificarci, lo facciamo avere alla stampa... e alla magistratura. Le condanne per spaccio di coca sono pesanti. Hai capito?». Fece cenno di sì con la testa. «Brava» continuai. «Sono convinto che tu e i tuoi amichetti non abbiate nulla a che fare con il delitto. Ma ricordati quanto ti ho detto: resta buona e tranquilla senno ti roviniamo». Stavamo uscendo dal negozio quando Rossini si voltò. «Sorella, perdonami, ma ho una cattiva notizia da darti. Magagnin mi ha detto che dalle ultime analisi e’ risultato sieropositivo... ricordati che l’A.i.d.s. ha cinque anni di incubazione...». Lei lo guardo atterrita e si rimise a piangere. «Davvero Alberto ti ha detto di essere sieropositivo?» gli chiesi appena saliti in macchina. «No. Ma mi sono girati i coglioni quando ho sentito che chiamavano “barboncino” il ragazzo... comunque la dolce Giusy ci ha raccontato tante belle cosette ma nulla di utile per arrivare a scoprire l’assassino». «Forse, invece, una pista ce l’abbiamo: quei trenta milioni che prestò alla Belli e il suo improvviso arricchimento». «Spiegati meglio». «Secondo me la defunta ha investito il prestito nel ricatto. Con quei soldi e’ arrivata a scoprire o a comprare l’informazione che le ha permesso di incastrare l’uomo mascherato. E’ una pista vecchia di tre anni ma forse e’ ancora possibile ricostruire il percorso compiuto da quei quattrini. La Testa e la Belli si sono sempre mosse nell’ambiente dei “regolari”. Dubito che Giusy abbia foraggiato l’amica in contanti. Se ha usato un assegno, possiamo avere qualche speranza». «perchè non gliel’hai chiesto?». «L’avrei insospettita e poteva darsi da fare per far sparire ogni traccia del prestito. Ha le conoscenze giuste per farlo». «E noi?». «Potremmo chiederlo alla Foscarini ma non credo lo farebbe. Credo invece che ci convenga rivolgerci a...». «Giovanni Galderisi». «Così mi piaci. E ora telefoniamogli». Lo trovai al giornale. Quando riconobbe la mia voce, mi avvertì: «Il telefono e’ sotto controllo. Anche quello di casa» e chiuse la comunicazione.

«C’era da aspettarselo» fu il commento di Beniamino, «e stai sicuro che lo pedinano». «E adesso?». «Ci procuriamo due cellulari clonati. Lo sai come funziona, no? Risultano essere in possesso a dei signori che ovviamente ignorano che qualcuno telefona a spese loro. Un apparecchio lo diamo a Galderisi e l’altro lo usiamo noi. Non possiamo più servirci dei telefoni pubblici perchè individuerebbero in due minuti la cabina e ci fotterebbero. Tieni presente che e’ un sistema sicuro solo per evitare la cattura. L’intercettazione e’ già più facile». «Dubito che l’amico giornalista accetti di usare un portatile clonato». «E tu non dirglielo». «Non ho altra scelta. Scommetto che sai come procurarli» «Conosco un tizio a Vicenza che li vende». «E per farlo avere a Galderisi? Se lo controllano non possiamo avvicinarci». Il vecchio Rossini allargo le braccia esasperato. «Sei proprio un pivello. Bisogna insegnarti tutto. Glielo mandiamo con un pony, sai quei ragazzini in motorino che portano in giro lettere o piccoli pacchi. Ne entrano ed escono a tutte le ore dalla redazione di un giornale. Il cellulare passerà sotto il naso degli sbirri senza problemi». Aveva ragione e qualche ora dopo potei mettermi in contatto con Galderisi. «Spero vivamente che non sia di provenienza illecita». «Non lo dica nemmeno per scherzo» mentii, cercando di essere convincente. «Novità?». «Ho bisogno del suo aiuto. Ho una pista ma per me e’ impraticabile». «Vale a dire?». «Ricostruire i movimenti bancari di Piera Belli degli ultimi tre anni. In particolare quelli relativi a un assegno di trenta milioni emesso a suo favore da una certa Giusy Testa». «Ho qualche conoscenza nell’ambiente. Di che banca era cliente la professoressa?». Il mattino seguente il caso Belli occupava ancora ampiamente le cronache. Era stato scoperto il furto nella casa del delitto e il Procuratore capo aveva rilasciato, durante una conferenza stampa, una serie di dichiarazioni che avevano attirato l’interesse dei media nazionali. L’alto magistrato aveva esordito sottolineando che le indiscrezioni del giornale di Galderisi avevano nuociuto alle indagini, perciò aveva ammonito la stampa a mostrare maggior rispetto per il lavoro degli inquirenti. I quali, ovviamente, erano a conoscenza dell’esistenza delle strane abitudini della professoressa e stavano indagando per individuare chi le forniva la cocaina. Il Procuratore riteneva inoltre fuor di dubbio che Piera Belli avesse lasciato la strada maestra della rettitudine morale soltanto in un momento successivo al suo impegno come giudice popolare. Di conseguenza, era da escludere un invalidamento del processo. Magagnin rimaneva l’unico sospettato in quanto impronte digitali e modus operandi erano indizi più che sufficienti per procedere nei suoi confronti. E nei confronti di colui o coloro che lo stavano aiutando a sottrarsi alla cattura e nel tentativo di depistare le indagini. Quindi anche per loro erano iniziate attivamente le ricerche. «Hai visto?» si lamento il vecchio Rossini. «Ci stanno “ufficialmente” dando la caccia. Te l’avevo detto...». «Non sanno nemmeno da che parte cominciare a cercarci. piuttosto sentiamo se Galderisi ha novità». Rispose al primo squillo: «Finalmente. Sono riuscito ad avere una copia della situazione bancaria della Belli. Aveva ragione lei: quell’assegno della signora Testa e’ una pista interessante. E’ stato trasformato immediatamente in un bonifico bancario a favore di un medico legale inglese, il professor Nigel Cook... Cook come il famoso ammiraglio. Ho fatto un controllo: e’ un esperto in ematologia forense e lavora spesso come consulente per Scotland Yard. Abita a Londra».

Rimasi a lungo in silenzio. Cercavo di trovare un nesso con quello che avevo scoperto fino ad allora. perchè mai la Belli era andata in cerca proprio di un perito inglese? «E’ ancora in linea?» chiese il giornalista. «Sì, mi scusi ma sono un po’ confuso. La notizia e’ davvero sorprendente e al momento di difficile interpretazione. Lei ha qualche idea?». «No e mi devo fermare qui. Mi faccia sapere». Un’ora dopo eravamo nello studio dell’avvocato Foscarini. Era occupata con un cliente e ci fece attendere a lungo. «La prossima volta prenda un appuntamento» furono le sue prime parole. Era ancora offesa per quanto le avevo detto nel corso del nostro ultimo incontro. «Lasci da parte i risentimenti personali, dobbiamo occuparci della sacra causa della giustizia» dissi infastidito. «Ogni volta che la vedo mi si rovina la giornata. La sua sola presenza mi irrita. Quando poi apre bocca vengo assalita dal desiderio di tirarle qualcosa in testa. Arrogante e ridicolo! Sembra uscito da un film poliziesco degli anni Quaranta». Beniamino si alzo dalla sedia e si allungo sulla scrivania arrivando a un centimetro dal naso dell’avvocatessa. «Adesso basta» disse con tono fermo e poi si risedette. Barbara Foscarini si calmo e mi chiese: «Cosa vuole?». «Come se la cava con l’inglese?». «Lo parlo correntemente. perchè?». Le feci ascoltare la cassetta con la confessione di Giusy Testa e le raccontai dell’indagine bancaria di Galderisi. «E lei vuole che io vada a parlare con questo professor Cook?». «Sì». «E invece no. Ci vada lei. Quanto mi ha raccontato e’ sconvolgente ma non e’ sufficiente ne per riaprire il vecchio processo, ne per evitare che Alberto venga perseguito per l’omicidio Belli». «Sinceramente non la capisco. Incastrare l’uomo con la maschera significa scoprire la verità sui due delitti e scagionare completamente Magagnin. Non e’ detto che la pista inglese ci porti direttamente a lui ma, essendo l’unica che abbiamo in questo momento, vale comunque la pena di tentare». «La mia obiezione non e’ riferita a questo, Buratti. Queste informazioni sono state raccolte illegalmente, in tribunale non hanno alcun valore. Come avvocato di Alberto non posso permettere che il mio cliente venga danneggiato». «Qui si tratta di scoprire la verità e la verità non puo danneggiare Magagnin, che e’ innocente, ma solo il vero colpevole. Le questioni giuridiche poi si aggiustano, avvocato, siamo in Italia...». «Lo so dove siamo ma io non posso...». «perchè non vuole arrivare alla verità?». «Si sbaglia. Lo voglio quanto lei, ma solo nel rispetto della legge». «Io invece credo di no. più la conosco e più mi convinco che ci sta nascondendo qualcosa, magari qualcosa accaduto ai tempi del processo. E questo spiegherebbe perchè da quando Alberto Magagnin mi ha assunto per scoprire il vero assassino, lei ha cambiato atteggiamento. Dov'è finita infatti la disperazione con la quale, durante i nostri primi incontri, mi parlava della sorte del suo cliente, ingiustamente condannato?». «Se ne vada». «No. Alzerò le chiappe dalla sedia solo quando deciderò di farlo ma certamente non prima di aver chiarito alcune cosette. Ad esempio, perchè, pur non essendo stata nominata d’ufficio dal tribunale, Magagnin non l’ha mai pagata?».

Se un attimo prima era indispettita dal mio atteggiamento, ora appariva decisamente in difficoltà Teneva lo sguardo basso e si tormentava le mani. «Non sono affari che la riguardano». «Come il fatto che la sicurezza con la quale dichiara l’innocenza di Magagnin non deriva solo dallo studio delle carte processuali ma dal saperne qualcosina di più , non e’ vero avvocato?». Stavolta non rispose e il suo silenzio suono come un’ammissione. Per alcuni attimi regnò un silenzio teso. «Dica ad Alberto che rinuncio al mandato. Si cerchi un altro avvocato». «No. Lei, invece andrà in Inghilterra a parlare con quel professore. Qualunque siano le sue responsabilità, continuerà a patrocinare Magagnin». «Mi sta minacciando?». «Sì. Sono in grado di rovinarle la carriera. Se vuole le spiego anche come: basta mettere in giro la voce nell’ambiente carcerario che lei non e’ affidabile. Non troverà più clienti e dopo qualche tempo anche i suoi colleghi e i magistrati cominceranno a porsi delle domande». «Non e’ come pensa lei...». «Allora?». «Ci andrò La settimana prossima non ho udienze in tribunale...». «Domani». «Ma non posso...». «Domani» ordinai, alzandomi. «Lasci detto alla segretaria il nome e il numero di telefono dell’hotel dove alloggerà Mi farò vivo io». «Buon viaggio, avvocato» la saluto Beniamino, mentre ci allontanavamo. Mi informai sugli orari dei voli per Londra in partenza dall’aeroporto di Tessera. Per tutto il giorno, Rossini e io controllammo i passeggeri. Si imbarcò sull’ultimo aereo. Aveva con se solo una piccola valigia. L’indomani la chiamai. Mi disse che non era stato facile ottenere un appuntamento con Nigel Cook ma che alla fine aveva accettato di cenare con lei quella sera. A partire dalle ventidue le telefonai ogni quarto d’ora; la trovai intorno alla mezzanotte. «Pendo dalle sue labbra, avvocato Foscarini». «Torno domani, arriverò a Tessera alle quattordici e venti». «Ha scoperto qualcosa?». «Sì». «Forza allora, me lo dica». «Buratti, maledizione, mi lasci in pace, sono sconvolta». Quel venerdì 7 luglio me lo ricorderò per il resto della vita. Fu il punto di non ritorno della vicenda. Esattamente undici giorni dopo avermi affidato l’incarico di ritrovare Alberto Magagnin, l’avvocato Barbara Foscarini sedeva accanto al tavolo del salotto di Beniamino a Punta Sabbioni. Dall’aeroporto l’avevamo portata direttamente là. Lei, probabilmente, non se ne era nemmeno resa conto. Era strana, assente, come svuotata, spettinata e senza un filo di trucco. La tensione che la pervadeva traspariva dalle due chiazze di sudore sulla camicetta e dalla pelle del viso, imperlata nonostante la stanza fosse fresca e ventilata. Fino ad allora non aveva aperto bocca e quando lo fece la sua gola era talmente secca che non riuscì a parlare. Rossini corse in cucina e torno con un bicchiere di te’ freddo. «Lo beva» le disse, «le farà bene. E’ alla pesca». Si riprese lentamente, molto lentamente, troppo per la mia smania di sapere. Avrei voluto sbattere

il pugno sul tavolo e urlarle di parlare ma mi trattenevo pensando che bisognava avere pazienza, altrimenti si correva il rischio di farle saltare i nervi. Anche Beniamino era dello stesso parere. «Vacci piano» mi aveva sussurrato, «è andata fuori di testa. Ha bisogno di un buon pianto, poi ci dirà tutto». Andò proprio così. Prese quasi con gratitudine il fazzoletto di carta che gli offrii e se ne servì per soffiarsi rumorosamente il naso. «Buratti, facciamo un patto» mi guardò finalmente negli occhi. «Le racconterò cosa mi ha detto il professor Cook ma poi mi lascerà uscire da questo caso e rimettere il mandato della difesa di Alberto. Lei mi ha minacciato, ricattato, costretta ad andare in Gran Bretagna. Ora che sono tornata, mi rendo conto che non sono in grado di sopportare una simile situazione. Alberto ha diritto a essere difeso nel miglior modo possibile, cosa che finora non gli ho saputo garantire. E’ quindi anche suo interesse che io esca per sempre di scena». Il tono della voce era tornato fermo e determinato, lo sguardo rimaneva disperato. Mi accesi una sigaretta e, continuando a fissarla, riflettei su quanto mi aveva detto. In realtà non potevo prometterle niente. Non avevo elementi sufficienti per decidere se poteva ancora essermi utile. Su una cosa aveva certamente ragione: non aveva più senso che continuasse a patrocinare un cliente morto. Espressi poi a voce alta le mie meditazioni: «Tutto dipende da quello che ci dirà Se le notizie che ha portato con se renderanno inutile alle indagini la sua presenza, le prometto che non ci faremo più vedere ne sentire. Per quanto riguarda la difesa di Alberto, sono certo di poterlo convincere a rivolgersi a un altro avvocato». «D’accordo» acconsentì dopo un attimo di riflessione. Poi chiese ancora del te’, si alzo e, come se si trovasse di fronte a una corte di tribunale, inizio a parlare. «Tre anni fa, Piera Belli contattò telefonicamente il professor Nigel Cook, unanimamente considerato il miglior ematologo forense inglese, per chiedergli se era disponibile a redigere un parere pro veritate su una perizia effettuata da un suo collega italiano per conto di un tribunale, relativamente a un caso di omicidio. Cook, all’inizio, rispose di no perchè gli era parsa una richiesta bizzarra e probabilmente scorretta dal punto di vista deontologico. La professoressa non si arrese e dopo un po’ si reco personalmente a Londra, dove chiese e ottenne un colloquio con il luminare. Aveva portato con se la documentazione relativa al caso. Raccontò di essere tanto interessata a esso perchè aveva rivestito il ruolo di giudice popolare durante il relativo processo e che, in tale dibattimento, al fine della decisione sull’innocenza o colpevolezza dell’imputato, erano state determinanti le risultanze di una perizia ematologica. In camera di consiglio, anche lei come la maggioranza degli altri giudici aveva votato per la condanna. Ma in un secondo tempo, però» l’avvocato Foscarini alzo l’indice della mano destra e iniziò a camminare per la stanza, «in un secondo tempo la donna, spulciando tra le proprie carte, si ritrovò tra le mani proprio l’articolo di una rivista medico-legale inglese che il perito italiano aveva allegato come monografia. La Belli asserì di averlo conservato per puro caso ma personalmente dubito che ciò corrisponda al vero... comunque non ha importanza. Ciò che veramente conta e’ che in questo modo fu in grado di accorgersi di alcune discordanze sul piano metodologico, che al processo erano passate del tutto inosservate. Confessò al professore che da quel momento si era sentita attanagliata dal dubbio di aver contribuito a commettere un grave errore giudiziario. Gli chiedeva allora di verificare la perizia perchè, nel caso in cui lui l’avesse giudicata sbagliata, intendeva adoperarsi presso i giudici per correggere l’infausta sentenza». La fermai con una mano. «Se non sbaglio» dissi, rivolto a Beniamino, «in una delle scatole che abbiamo trovato nel nascondiglio, c’era la fotocopia di un articolo in inglese». Dopo un paio di minuti, il mio amico tornò con dei fogli e li porse alla Foscarini. «E’ proprio questo» confermo dopo averli velocemente esaminati. «”Photography of bloodstains visualized by luminol”, tratto dalla rivista “Journal of Forensic Sciences” del 1973. Riguarda la tecnica per fotografare al buio la chemiluminescenza prodotta dal luminol».

«Si spieghi meglio» la interruppi. «Per noi e’ come ostrogoto». «Certo. Deve sapere che esistono vari metodi per individuare la presenza di tracce di sangue e la relativa quantità su indumenti e altri oggetti. Uno di questi test e’ il luminol che si basa sulla reazione chemiluminescente di questo composto chimico a contatto appunto con il sangue. Ma dato che tale fenomeno e’ di breve durata, in laboratorio se ne effettuano delle fotografie per poter essere poi esibite in tribunale. E qui arriviamo al processo per la morte di Evelina Mocellin Bianchini. L’accusa sosteneva che Alberto Magagnin era l’autore del delitto e che aveva provocato la morte della vittima infierendo su di essa con alcune decine di coltellate. La difesa al contrario ribadiva che Magagnin non mentiva quando diceva di averla trovata già priva di vita e di essersi macchiato di sangue solo a causa di un goffo tentativo di soccorso. Anche perchè a occhio nudo le macchie si vedevano appena. Capite bene, quindi, che il quesito che doveva risolvere la corte era: la quantità di sangue rinvenuta sui vestiti dell’imputato e’ compatibile con un breve contatto tra i due corpi, ipotesi della difesa, o con un contatto prolungato dovuto all’azione omicidiaria, ipotesi dell’accusa? La perizia concluse a favore di quest’ultima e determinò la condanna di Magagnin. Piera Belli racconto tutto questo al professor Cook, il quale, sconcertato dalla notizia che in Italia fosse ancora in uso una metodica ormai abbandonata dalla comunità scientifica internazionale, poiché concordemente ritenuta del tutto inattendibile e pericolosamente generica - visto che reagisce al sangue come a diverse altre sostanze - accetto l’incarico senza più alcuna riserva. Ripete’ il test in laboratorio e scoprì che la tecnica fotografica, a causa di una serie di errori, in particolare l’aver usato una quantità esagerata di reagente e tempi troppo lunghi di esposizione della pellicola, aveva sovrastimato sensibilmente la quantità di sangue. Insomma, i fotogrammi che la corte aveva visto non erano che minuscole tracce di sangue ingigantite da un effetto fotografico». Barbara Foscarini si fermò giusto il tempo di bere un altro sorso di te’. «Cook rimase ulteriormente colpito anche dall’atteggiamento del perito, avendo questi consegnato alla corte la descrizione di una ben precisa tecnica di riproduzione fotografica e al contempo la sua relazione che l’aveva stravolta completamente». «E la Belli, come aveva intuito che qualcosa non quadrava?» chiese Beniamino. «Non dimentichiamo che insegnava lingua e letteratura inglese. Probabilmente, proprio per questa sua specifica competenza, il presidente della corte le aveva affidato il compito di leggere l’articolo e verificare se coincideva con la perizia». «Deve essere andata proprio così» intervenni. «La Belli si era resa conto che la perizia era sbagliata, che fuorviava il giudizio della corte ma aveva deciso di tenersi la notizia tutta per se, intuendo che un giorno avrebbe potuto tornarle utile. Quello che invece non capisco e’ come mai lei, avvocato Foscarini, non se ne sia accorta. Tutto il processo ruotava intorno a quella perizia». «Non era compito mio ma del perito della difesa. Cosa vuole che ne capisca di reagenti chimici?». «Riformulo la domanda, allora. Come mai il perito della difesa non se ne e’ accorto?». «Non lo so. Mi creda, sono stupita quanto lei che ciò sia potuto accadere. Aveva seguito personalmente tutte le fasi di laboratorio. E’ anche vero che la monografia e’ stata allegata solo in un secondo momento, poco prima del processo... però conosceva bene il perito incaricato dal tribunale, era stato suo allievo fino all’anno prima...» «Un pivello» sbottò Rossini. «Lo sanno tutti che in Corte d’Assise i periti della difesa devono essere dello stesso livello se non addirittura superiori a quelli nominati dal tribunale. Già i giudici li considerano poco perchè di parte, figuriamoci poi se sono giovani allievi...». «Anche lei era giovane, vero avvocato?» domandai. «Quanti processi aveva già patrocinato in Corte d’Assise?». «Si trattava del primo» rispose, con gli occhi bassi. «Allora i pivelli erano due» concluse Beniamino allargando le braccia. «Magagnin non aveva proprio nessuna possibilità di cavarsela. I conti con lei tornano sempre meno, non si capisce perchè abbia voluto difendere Magagnin a tutti i costi, anche se non la pagava...».

«Lasciamo stare per adesso, Beniamino» mi alzai in piedi. «Ciò che mi preme in questo momento e’ sapere il nome del perito del tribunale» mi avvicinai alla sedia su cui si era abbandonata Barbara Foscarini. «Avanti, avvocato, ci dica come si chiama l’assassino di Piera Belli. Mi dia la conferma che e’ lui l’uomo mascherato delle fotografie, colui che sottostava al ricatto per paura che la defunta rivelasse che la sua perizia aveva determinato la condanna di un innocente. E’ così, non e’ vero?». «Sì» ammise, con un tono di voce bassissimo. «Non ci sono dubbi. L’assassino e’ il professor Emilio Artoni. Solo un medico legale poteva conoscere così a fondo le varie fasi della putrefazione e conseguentemente capire il ruolo fondamentale dell’orologio al polso di Piera Belli». «Già» dissi. «Da buon criminologo aveva organizzato tutto alla perfezione. Certo non poteva prevedere che lei avrebbe incaricato qualcuno di ritrovare Magagnin e che questo qualcuno sarebbe inciampato nel cadavere della Belli e avrebbe finito col guardare il suo orologio. E’ la classica buccia di banana che manda a monte un buon, anzi ottimo, piano». Mi accesi un’altra sigaretta. «Ma allora, perchè la Belli ha iniziato a ricattarlo solo tre anni fa, perchè ha aspettato per più di un decennio? Può una perizia sbagliata essere una motivazione sufficiente per uccidere?». «Proprio tre anni fa il professor Artoni e’ stato nominato direttore del Centro di Ricerche Criminologiche. Quell’incarico e’ sempre stato la sua ambizione più grande. Ha dovuto sgomitare parecchio per ottenerlo, fare le scarpe a un sacco di altri baroni. Da quel momento pero, e’ diventato un uomo vulnerabile, uno scandalo poteva rovinargli per sempre la carriera». «Il caso e’ risolto, avvocato Foscarini. Adesso la accompagnamo a Padova. Lei andrà dal magistrato, accuserà Artoni e farà riaprire il processo per il delitto del ‘76». La donna scuoteva la testa. «Vuole tirarsi indietro proprio adesso?». «Non mi faccia ridere Buratti. Cosa racconto al magistrato? Le sue prodezze di investigatore privato? Non abbiamo uno straccio di prova. Pensi al ricatto: in nessuna delle sue lettere la Belli fa il nome di Artoni. E per quanto riguarda l’omicidio, disponiamo solo della sua testimonianza, a cui del resto, mi dispiace doverglielo ripetere, nessuno crederebbe». «Un momento» la interruppi. «A Nigel Cook crederebbero». «La sua testimonianza proverebbe solo che Piera Belli si e’ rivolta a lui per un parere pro veritate sulla perizia espletata da Artoni. Nulla di più . Cook non puo servirci nemmeno per chiedere la revisione del processo: la nostra procedura penale ammette un ulteriore appello solo se nel frattempo sono emersi nuovi elementi. Una perizia sbagliata, anche se ha portato in carcere un innocente, non e’ sufficiente, e questo per il semplice fatto che e’ già passata all’esame dei giudici. E’ cosa vecchia. Inoltre, il nostro ordinamento considera i giudici come i “periti dei periti”, a loro spetta il compito di accettare o meno le risultanze peritali. Una volta che la sentenza passa in giudicato, non c'è più nulla da fare... glielo avevo detto Buratti, che con i suoi metodi non sarebbe arrivato ad alcun risultato. Lei poi, era convinto che scoprendo l'identità dell’uomo mascherato avremmo svelato la verità su entrambi i delitti ma anche questo si e’ dimostrato errato: Artoni ha ucciso la Belli, e non lo possiamo dimostrare, ma chi ha ucciso Evelina Mocellin Bianchini?». «Ha ragione, Marco» intervenne Rossini. «Siamo in un vicolo cieco». Spensi la sigaretta e andai a prendere la bottiglia di calvados. Avevo bisogno di riflettere. Mi chiusi nei miei pensieri e non mi accorsi che Beniamino usciva per accompagnare a Padova Barbara Foscarini. Quando tornò, era carico di provviste. «Devo andare un paio di giorni in Dalmazia per affari. Mi accompagni? Cambiare aria ti disintossicherà il cervello».

«La Foscarini?» «E’ a casetta sua. Strada facendo, ho dovuto ricordarle che siamo sempre in grado di rovinarle la vita, se ci tira in mezzo». «Era necessario?». «Sì. Ci nasconde qualcosa e non voglio avere sorprese. Allora vieni?». «Bevono calvados in Dalmazia?». «No, ma lo zio Beniamino ha pensato anche a questo» prese in mano due bottiglie e mi guardo sogghignando. Partimmo con il motoscafo. Adattato secondo le esigenze del contrabbando, sembrava volasse sulle onde. Il mio amico se ne andò in giro a concludere affari, io trascorsi il sabato e la domenica seduto in un bar del porto a guardare il mare, senza mai smettere di pensare. Era da poco sorta l’alba di lunedì quando ritornammo a Punta Sabbioni. Beniamino scese per primo. Quando si voltò per aiutarmi, gli dissi: «Non puo finire così». «Lo immaginavo». Il punto di forza del mio ragionamento era lo stato di tensione in cui doveva trovarsi Emilio Artoni. Riconoscere il proprio volto sul giornale, anche se nascosto da una maschera, apprendere dalla didascalia di essere sospettato di omicidio, deve essere davvero un brutto colpo. Scoprire poi che colui sul quale si e’ tentato di riversare ogni colpa non e’ ancora finito in galera e ha certamente un complice, nelle cui mani si trova lo schedario della propria vittima, e’ ancora peggio. E infine non sapere ancora se anche altri sono a conoscenza del ricatto che ti tormentava, ma siccome sei furbo ed e’ certo che lo sei, doverlo dare per scontato, e’ davvero troppo. Non era un delinquente incallito, il professore, tantomeno un killer. All’omicidio c’era arrivato dopo tre anni di tormento psicologico, perciò doveva per forza essere disperato, al limite del crollo. Ne ero certo. «Forse si aspetta che il ricatto passi di mano e che qualcuno lo contatti per estorcergli ancora del denaro. Potremmo farlo cadere in una trappola: attirarlo facendogli credere che si tratta di questo, poi invece, servendoci del trucco del registratore, tornarcene a casa con la sua confessione». «Sempre piani complicati» commentò Beniamino. «perchè invece non lo tiriamo giù dalle spese? Lo aspettiamo davanti a casa e gli spariamo con il silenziatore. In macchina ho nascosto un gioiellino croato che loro usano per la pulizia etnica...». «Semplice e demente, Beniamino. Se lo ammazziamo dobbiamo poi fare fuori anche Barbara Foscarini perchè quella di fronte a un omicidio non starebbe zitta. E dopo di lei, in ordine, Giusy Testa, Bepi Baldan...». «D’accordo, il mio non e’ un buon piano ma il tuo fa proprio schifo. Artoni non e’ affatto scemo e al cinema ci e’ andato anche lui. Se gli proponi un appuntamento non verrà Sarebbe come confessare». «Allora potremmo andare noi da lui. Fargli una sorpresa». «Questo va già meglio. Ma renditi conto di una cosa, Marco: non possiamo tornarcene a casa a mani vuote altrimenti sarà lui a fotterci. I medici legali sono parenti stretti di sbirri e giudici». «Cosa significa?». «Che dovremo ottenere la confessione a ogni costo. Quello e’ uno che ha passato la vita a squartare cristiani e a studiare criminologia e, per come la vedo io, non lo freghi giocando al buono e al cattivo». «Già La situazione potrebbe diventare spiacevole. E’ questo che intendi?». «Voglio dire che con un pezzo di merda di quel calibro e’ solo un problema di stomaco. Te la senti?».

«Sì. No. Insomma vedrai che non sarà necessario. E’ al limite delle forze per lo stress, ne sono certo». «Si vedrà Del nastro poi cosa ne faremo? Come direbbe la Foscarini, in tribunale non avrebbe alcun valore». «Ancora non lo so. L’importante e’ ottenerlo, e’ l’unica arma che abbiamo per far pagare ad Artoni il suo conto in sospeso». «Allora torniamo a Padova, abbiamo un piano da preparare». Sfogliando pazientemente i giornali conservati nell’emeroteca comunale, riuscimmo a recuperare una fotografia del professore. Restammo a fissare, in modo da imprimerlo bene nella memoria, il volto di un sessantenne dai tratti duri, messi in risalto da una mascella prominente e un paio di baffi da ufficiale prussiano. La faccia di uno abituato a comandare. All’inizio avevamo pensato di prelevarlo e portarlo in un posto tranquillo dove interrogarlo. Poi avevamo scartato l’idea perchè comportava troppi rischi. Controllammo i luoghi che frequentava abitualmente: l’abitazione, il centro di cui era direttore e lo studio privato che divideva con un altro medico legale, il professor Francesco Ferrini, il cui portone si affacciava su una stradina dell’antico ghetto, a ridosso di piazza delle Erbe. Dei tre scenari era quello che offriva le condizioni migliori sia per gli appostamenti che per un’irruzione. In tre giorni scoprimmo che le due segretarie raggiungevano il posto di lavoro a piedi, mentre Artoni e il socio arrivavano entrambi in automobile e parcheggiavano nel garage situato nel sotterraneo del palazzo. Lo stabile, signorile e ristrutturato da poco, era sorvegliato da un giovane portinaio che non si spostava neanche per un attimo dalla guardiola. Entrare dalla porta principale sarebbe stato dunque impossibile. Studiammo allora gli orari di uscita. Le impiegate se ne andavano alle diciannove in punto. Mezz’ora dopo si apriva il cancello elettrico del garage e usciva il socio. Lo seguiva, dopo alcuni minuti, Artoni con la sua Mercedes. Cronometrammo il tempo di chiusura del cancello e il quarto giorno, un venerdì immancabilmente caldo e umido, appena uscita l’auto di Ferrini, sgattaiolammo nel sotterraneo. Ci infilammo dei guanti da chirurgo. Poi Beniamino tiro fuori il gioiellino croato e mise il colpo in canna. Io non ero armato. Non avevo mai tenuto una pistola in mano, mi facevano troppa paura. Ci appostammo ai lati della porta dell’ascensore e iniziò l’attesa. Il vecchio Rossini era calmo e sicuro: presentarsi armato in qualche posto era per lui un fatto naturale. Al contrario, io ero tesissimo. La porta si aprì, Artoni non fece in tempo a fare due passi che Beniamino l’aveva raggiunto da dietro, gli teneva una mano premuta sulla bocca e la pistola su una tempia. «Buonasera, professore. Stia tranquillo e non le succederà niente». Lo spinse dentro l’ascensore, poi rivolto a me: «Perquisiscilo». Gli trovai addosso una pistola a tamburo a canna corta in una fondina infilata nei pantaloni. La mostrai a Rossini che scosse la testa. «E tu volevi dargli un appuntamento. E bravo il professore, adesso andiamo nel suo studio. Quando arriviamo al piano, lei esce e cammina davanti a noi e apre la porta. Inutile ricordarle che alla prima mossa sbagliata le infilo un proiettile nel cranio». Artoni ubbidì. La porta aveva tre serrature, tutte di sicurezza. La mano gli tremava e alla fine dovetti aiutarlo. «Dritto nel suo studio» ordinò Beniamino. Una volta dentro, mi disse di abbassare le veneziane alle finestre prima di accendere la luce. Controllò i cassetti e fece sedere il medico legale sulla poltrona dietro la scrivania. Noi ci accomodammo sulle due sedie poste di fronte. La situazione era irreale: senza la pistola del mio amico poteva sembrare un normale colloquio tra un professionista e due clienti. Tirai fuori da una tasca la stessa polaroid che avevo mostrato a

Giusy Testa e l’appoggiai sul lucido piano di mogano. Poi presi il registratore e lo misi a fianco della fotografia cercando di apparire il più calmo possibile, schiacciai i tasti per incidere la conversazione. «E’ il momento della verità, professor Artoni» esordii. Lui guardo i due oggetti e mi rivolse un sorriso cattivo. «Fottiti». «Professore, lei sta tremando e sudando vistosamente. Dall’alto della sua scienza, si faccia una diagnosi. Si renderà conto che non e’ nelle condizioni di esibirsi in spavalderie». Continuò a fronteggiarmi con tono minaccioso: «Mia moglie mi sta aspettando a casa, abbiamo ospiti a cena. Se non mi vedrà arrivare telefonerà al portiere che verrà subito a cercarmi. Ha le chiavi dello studio. Avete appena il tempo di andarvene... non vi denuncerò». «Simpatica la battuta, professore» commentò Beniamino. «Per essere uno che rischia l’ergastolo, l’humour non le manca di certo». «Non so di cosa sta parlando». «Sì, che lo sa» intervenni. «Dell’omicidio premeditato di Piera Belli». «Non la conosco» negò, guardando il registratore. «Frughi nella sua memoria, almeno una volta l’ha vista di sicuro: quando ha testimoniato al processo per l’omicidio di Evelina Mocellin Bianchini. La donna era uno dei giudici popolari». «Diciamo allora che non la ricordo». «Professor Artoni, la prego di riflettere sulla sua situazione. Non ha nessuna possibilità di cavarsela, e’ perfettamente inutile che cerchi di guadagnare tempo. Non ce ne andremo via di qua senza la sua completa confessione. Finora siamo stati gentili, non ci costringa a usare metodi che non ci piacciono». «Non avrà nessun valore a livello legale». «Lo sappiamo». «Volete ricattarmi?». «No». «Allora cosa volete?». «Farle pagare il conto. Lei ha chiuso caro professore. L’accusiamo di due reati: una perizia sbagliata che ha determinato la condanna di un innocente e il tentativo di affibbiargli un secondo omicidio, il cui responsabile e’ invece proprio lei». «Chi siete?» nel tono della voce l’irritazione di chi non ammette di incontrare ostacoli alla propria volontà «Forse ho capito: amici giustizieri di quel rifiuto della società di Magagnin o di quella troia pervertita della Belli. Non lo sapete che in questo Paese la giustizia e’ amministrata dalla magistratura e nessuno la puo sostituire, tantomeno due facce da delinquenti come voi?». «Senti, senti» mi rivolsi a Rossini. «Il nostro professore e’ di scuola lombrosiana: gli basta guardare una persona per capire se fa parte dei buoni o dei cattivi». «Non importa chi siamo, Artoni» continuai. «In questa vicenda, lei con la giustizia dei magistrati se la caverebbe. Con noi invece non ha nessuna possibilità Nessuna». Abbassò lo sguardo e si chiuse in un ostinato silenzio. Beniamino allora si alzo, da una tasca prese un rotolo di nastro adesivo da imballaggio e dopo averlo imbavagliato, gli legò le mani dietro la schiena. Avvicinò la bocca a un orecchio di Artoni e gli sussurro: «Adesso farà un’esperienza interessante per i suoi studi di criminologia: sperimenterà di persona un metodo di interrogatorio che ha inventato un commissario della questura di Milano. Non lascia segni ma e’ efficace, molto efficace». Uscì dalla stanza e torno stringendo tra le mani due grossi elenchi telefonici. Si tolse la giacca e la

camicia, rimanendo a torso nudo. «Ora impareremo una bella canzone milanese: “Crapa Pelada”. La conosce?». Artoni fece segno di no con la testa. Cominciava a capire ed era terrorizzato. Beniamino inizio a canticchiare allegramente, tenendosi alle sue spalle: «”Crapa Pelada la fa i turtei, ghe na da minga ai so fradei...». Improvvisamente sollevo gli elenchi e li sbatte’ con forza sulla sua testa. BAM! Il rumore secco riempì la stanza e mi fece sobbalzare. Il medico legale incasso il colpo con una smorfia di dolore ma Rossini continuò. «... I so fradei fan la fritada...» BAM! Un altro colpo. « ...Ghe na dan minga a la Crapa Pelada...». BAM! A ogni colpo sobbalzavo, sperando che fosse l’ultimo. Rossini si mise a cantare più velocemente, saltellando come un invasato intorno alla scrivania; ogni volta che passava dietro ad Artoni gli rifilava un colpo. L’uomo teneva la testa incassata e cercava di muoversi sulla sedia per schivare le mazzate ma il mio amico non sbagliava mai. Quando inizio a piangere convulsamente, Rossini si fermò. «Adesso ce la vuole cantare lei una canzoncina?». Questa volta fece un cenno affermativo e io tirai un sospiro di sollievo. Lo slegammo e gli offrii una sigaretta che rifiutò, scuotendo debolmente la testa. «Non doveva finire così. Come mi avete scoperto?». «Non c'è alcun bisogno che lei lo sappia. Ci racconti invece tutto dall’inizio, dal processo del ‘76» lo esortai. «Quel dannato processo! Mi perseguita come un incubo... sono passati tanti anni, eppure... e va bene. Mi fu dato l’incarico di eseguire l’autopsia sul cadavere di Evelina Mocellin Bianchini e la perizia ematologica sui vestiti dell’imputato. Quest’ultima non potei espletarla personalmente. In quel periodo avevo troppo lavoro. L’affidai a Ferrini, il mio socio di studio... si fa sempre così. Anche lui aveva poco tempo e poi il caso non era certo uno di quelli che ti rende celebre. Per questo scelse il metodo luminol che e’ il più sbrigativo, anche se era la prima volta che lo usava. Il tutto ritornò poi nelle mie mani. Lo firmai e depositai in tribunale... si fa sempre così. Solo dopo qualche mese, all’approssimarsi del processo, il giudice a latere della corte che doveva giudicare Magagnin mi telefonò dicendomi che data la delicatezza della perizia, avrebbe gradito qualche documento di supporto. Mi feci dare da Ferrini le fotocopie delle pubblicazioni che aveva usato per documentarsi e anche queste furono depositate in tribunale. Il perito della difesa, come e’ prassi, ne ebbe copia e dopo qualche giorno si presentò nel mio studio facendomi presente che la tecnica fotografica usata dal mio collaboratore non coincideva con quella indicata dal “Journal of Forensic Sciences”. Chiamai Ferrini, chiedendo spiegazioni. Mi disse che una volta preparato il reagente chimico aveva lasciato il laboratorio, delegando tutto al tecnico... si fa sempre così. Interrogato a riguardo, questi mi spiegò che per non correre il rischio che le foto venissero male, aveva esagerato con la quantità di luminol e impressionato a lungo i negativi. Insomma, un pasticcio, grazie al quale rischiavo di fare una bruttissima figura. Risolsi il problema con il perito della difesa facendogli notare che nel verbale di laboratorio risultava presente durante l’effettuazione del test, mentre sapevamo tutti e due che stava da tutt’altra parte, impegnato in un’autopsia... si fa sempre così. Lui capì e si fece da parte. Ma, essendo la faccenda piuttosto delicata, avevo bisogno di un consiglio. Mi rivolsi a un mio caro amico, l’avvocato Alvise Sartori che, in quel processo, era difensore di parte civile. Egli mi ascoltò con molta attenzione. «”Caro Emilio” mi disse, “noi ci conosciamo ormai da parecchio tempo e la nostra amicizia ci ha portato a nutrire una reciproca stima. Mi credi se ti dico che non hai nulla di cui preoccuparti e che e’ meglio lasciare le cose come stanno? Ti assicuro, sul mio onore, che quel Magagnin e’ colpevole e va condannato. Ti garantisco, ripeto, ti garantisco che in tribunale non ci saranno problemi”. A

questo punto ricordo che Sartori si alzo e mi diede un’amichevole pacca sulla spalla. “E poi” concluse, “la parte civile provvederà alla nomina del professor Ferrini, il tuo più fidato allievo, come proprio consulente, e lui ovviamente sosterrà la tua relazione peritale”. Un paio di giorni dopo ci incontrammo nuovamente alla consueta riunione dei Cavalieri dell’Ordine di Santa Costanza, al quale entrambi apparteniamo. Sartori torno sull’argomento e mi chiese un colloquio per l’indomani. Andai nel suo studio dove, senza tanti giri di parole, mi assicuro che sia lui che la famiglia della vittima non avrebbero mancato di dimostrare la loro riconoscenza nei miei confronti dopo la fine del processo. Ero circondato da troppi concorrenti, per fare carriera avevo bisogno di appoggi. Sartori allora mi fece il nome del dottor Carlo Ventura, secondo marito della vittima, il quale, disse, avrebbe potuto risolvere tutti i miei problemi. Ne fui lusingato. Gli espressi il sollievo e la soddisfazione per il sostegno che mi veniva offerto. Il processo andò come doveva andare e da quel momento iniziai a ricevere incarichi sempre più prestigiosi. Per evitare possibili fregature, legai alla mia carriera anche quelle di Ferrini e del perito della difesa. Tutto andò bene fino a tre anni fa, quando venni nominato direttore del Centro di Ricerche Criminologiche. Subito dopo il mio insediamento, venni avvicinato da Piera Belli. Mi fece capire di sapere qualcosa di quella maledetta perizia. Mi ricordai subito che era stata giudice popolare in quel processo ma pensai che non poteva essere informata più di tanto e non mi preoccupai. Già non capiscono niente di perizie i giudici togati, figuriamoci quelli popolari... evidentemente mi sbagliavo. Un giorno mi arrivo per posta la fotocopia di un parere pro veritate sulla perizia redatto da un grande ematologo inglese, il professor Nigel Cook. Era accompagnata da una lettera della Belli che mi invitava a casa sua per una chiacchierata. Ci andai e lei da subito si comportò in modo disgustoso. In questi tre anni ha giocato con la mia vita, con il mio corpo e con la mia mente. Sono sicuro che, quando si fosse stancata, mi avrebbe distrutto... ucciderla e’ stata una liberazione». «Quando ha preso la decisione di sopprimerla?». «Quando ha coinvolto nel gioco Magagnin. Lei e il suo amichetto dovevano a tutti i costi essere resi inoffensivi... non avevo altra scelta, lo capite questo?». «Non cerchi comprensione presso di noi» sbottai. «Non perda tempo e ci racconti dell’omicidio». «Ho iniziato a pianificarlo nei dettagli un anno fa. Magagnin come detenuto in semilibertà aveva degli orari precisi, non e’ stato difficile far coincidere la morte di Piera Belli con la sua presenza. Lunedì 26 giugno sono andato a casa della donna verso le diciotto. «Lei si adiro quando mi vide: “Tu devi venire solo quando ti chiamo. Adesso non ho tempo, sto uscendo per andare a prendere Alberto”. “Lo so” risposi . “E’ questione di un attimo. Devo dirti una cosa importante”. «Mi fece entrare e io tirai fuori la pistola: “Dammi tutte le fotografie e le lettere” ordinai. Invece di spaventarsi, comincio a sfottermi. Il tono della sua voce... e quella risata, sono ancora qui, dentro la mia testa. Ma io non potevo lasciarmi andare, avevo un piano da seguire. Era tutto congegnato nei minimi particolari. La pistola ormai non mi serviva più , doveva entrare in scena lo scalco da formaggio, quello che avevo sottratto proprio dalla sua cucina il giorno prima... il giorno prima era domenica, e c’eravamo visti per uno dei nostri incontri. Tirai fuori dalla borsa un grembiule di gomma da autopsia e me lo misi velocemente addosso. In quel momento capì le mie intenzioni e fuggì su per le scale. Mentre la rincorrevo, infilai anche i guanti e la bloccai nello studio. «”Ti prego, calmati” supplico. “Non posso darti le fotografie e le lettere, le distruggo di volta in volta. Non penserai che mi tenga in casa materiale così compromettente. Guarda tu stesso se non ci credi”. «”Lo faro” le risposi. “Intanto dammi l’originale del parere pro veritate di Nigel Cook”. «Lo teneva in un cassetto della scrivania e come l’ebbi in mano, iniziai a ferirla, contando i colpi e controllandone la forza perchè il modus operandi assomigliasse il più possibile all’omicidio della Mocellin Bianchini. Cadde a terra e la colpii ancora. Non si decideva a morire e mi guardava con gli occhi sbarrati, così presi i cuscini dal divano e la coprii. Dovevo cercare le polaroid e le lettere, non ci sarei riuscito con quello sguardo addosso. Non trovai nulla e mi convinsi che mi aveva detto la verità Uscii dalla casa, assicurandomi di lasciare il portone aperto nel caso Magagnin non avesse la

chiave per entrare. Andai al Centro, infilai il grembiule e i guanti nell’apposito bidone che raccoglie gli oggetti usati da distruggere e mi presentai puntuale a una riunione. Mercoledì il delitto non era ancora stato scoperto. Con cautela mi informai se Magagnin continuava la sua normale vita di semilibero e dal direttore del carcere venni a sapere che non si era più ripresentato alla casa di reclusione. Compresi che aveva trovato il cadavere ed era fuggito. Questo non me l’aspettavo. Basandomi sul suo precedente comportamento avevo previsto che sarebbe stato colto da shock con conseguente stato confusionale, e avrebbe vagato per la città pronto per essere arrestato. A quel punto realizzai che lo stato di decomposizione del cadavere avrebbe portato all'impossibilità di definire con certezza il giorno e l’ora della morte e il collega incaricato dell’autopsia avrebbe richiesto certamente una perizia sull’orologio che avrebbe scagionato Magagnin. Ritenevo che lui fosse arrivato intorno alle diciannove e trenta, la Belli era morta invece pochi minuti dopo le diciotto. Quell’ora e mezza di differenza l’avrebbe salvato. Le sue impronte digitali e lo stesso modus operandi del vecchio delitto non sarebbero stati sufficienti per l’incriminazione. Dovevo fare qualcosa. Decisi di tornare sul luogo del delitto e di spostare le lancette dell’orologio avanti di tre ore per incastrare definitivamente Magagnin. Quando fu buio mi recai in automobile in via Torlonga e da lontano iniziai a controllare la casa. Avevo paura e non trovavo la forza per decidermi. Poco prima della mezzanotte vidi una persona entrare dal passo carraio. “Sono finito, adesso chiama la polizia” pensai. Invece l’uomo uscì dopo una ventina di minuti e si allontano con fare furtivo. Si trattava certamente di Magagnin...». «Invece ero io» lo interruppi. «A questo punto credo che abbia il diritto di sapere dove il suo piano ha fallito. Cercavo Magagnin e invece trovai il cadavere di Piera Belli. Per caso osservai l’orologio... non so perchè l’ho fatto... forse per averlo visto al cinema... comunque alcuni giorni dopo, del tutto accidentalmente, mi capitò tra le mani il fascicolo del medico legale e della polizia scientifica e ci trovai dentro la fotografia dell’orologio. Le lancette spostate mi fecero capire che qualcuno si stava giocando la carta del delitto perfetto». Artoni si coprì il volto con le mani. «Il caso. Sono stato fregato dal caso» mormoro sconsolato. Per qualche istante sembrò rimasto senza parole. «Dove nascondeva le foto e le lettere?» chiese, finalmente. «Nella stanza dove l’ha ammazzata, lo studio, in uno sgabuzzino nascosto dietro la libreria». Balzò in piedi e comincio a urlare: «Quella lurida troia si e’ burlata di me anche quando ha capito che stavo per ucciderla. Sapeva che qualcuno le avrebbe trovate e mi avrebbe fottuto...». Aveva perso il controllo e quelle grida rischiavano di richiamare l’attenzione di tutto il palazzo. Fu il vecchio Rossini che risolse la situazione: riprese in mano gli elenchi telefonici e glieli sbatte sulla testa fino a quando non lo vide accasciarsi sulla scrivania. Poi si giro verso di me, un po’ ansimante: «Svelto, prendi il registratore e filiamo». Mi stavo rimettendo in tasca la polaroid ma cambiai idea e la infilai nel taschino della giacca di Artoni. «Lo consideri un presente, professore, un ricordo del nostro incontro» lo salutai, mentre ci allontanavamo. Stavo cercando di rilassarmi ascoltando i Fleetwood Mac che cantavano “Coming Home”, quando Beniamino schiaccio il tasto per estrarre la cassetta dall’autoradio. «Voglio riascoltare il nastro con la confessione di Artoni». «Proprio adesso» protestai. «Tra una trentina di chilometri arriviamo a casa tua». «Adesso, Marco. Ho l’impressione che ci sia sfuggito qualcosa di importante». In realtà non avevo nessuna voglia di riascoltare quanto era stato detto e fatto nello studio del medico legale senza il conforto di una dose abbondante di calvados. E poi avevo ottenuto quello che volevo, l’assassino era stato scoperto, restava solo da decidere in che modo chiudere la faccenda. Come punire Artoni e far saltare fuori il cadavere di Magagnin.

Mi sentivo ragionevolmente soddisfatto. Non sapevo ancora quanto mi sbagliavo. Fu particolarmente penoso risentire Beniamino che cantava Crapa Pelada. Il mio amico si tormentava i braccialetti al polso sinistro e alla fine sbotto: «Cristo, Marco, potevi spegnere il registratore in quel momento!». La cassetta andava avanti. Artoni aveva appena terminato di rievocare l’intervento e il ruolo dell’avvocato di parte civile e del secondo marito della vittima, quando il mio amico disse: «Riavvolgi un po’ il nastro, voglio ascoltare ancora questa parte». «perchè?» chiesi incuriosito. «Non ti sembra strano che Sartori e Ventura si siano esposti a tal punto con Artoni? Era sufficiente garantirgli che non lo avrebbero sputtanato per la perizia sbagliata. Invece gli hanno promesso di aiutarlo nella carriera - e così e’ stato - l’hanno legato al loro carro e lui, a sua volta, si e’ tirato appresso il perito della difesa e quel Ferrini. E tutto questo solo per mettere un bel coperchio pesante sulla pentola di quel processo. Un meccanismo troppo complesso per coprire un semplice errore. Non ti sembra?». «Può darsi. Potrebbe trattarsi pero di normale amministrazione. In quegli ambienti non fanno altro che organizzare lobby, cordate, logge massoniche o affiliarsi a organizzazioni come i Cavalieri dell’Ordine di Santa Costanza». «No. Ti sbagli. Secondo me la vera ragione e’ che Sartori e Ventura sapevano che Alberto Magagnin era innocente». «Cosa vuoi dire, che sono implicati in quel delitto?». «Esatto, Sherlock Holmes». Riascoltammo tre volte quella parte della registrazione. Poi rimisi su la cassetta di blues e dissi: «Mi sa che hai ragione. A questo punto non mi stupirei se Artoni li avesse già informati di quanto e’ successo e avesse chiesto loro di aiutarlo a evitare il naufragio della sua carriera e della sua vita. Sai che ti dico... domani si ricomincia, Watson». Quella notte non riuscii a dormire. Mi rigiravo nel letto e poi ogni tanto, mi alzavo per andare a bere un bicchierino. All’alba guardai l’orologio: sabato 15 luglio. Diciotto giorni dall’inizio di quell’indagine e non era ancora finita. Anzi, sembrava non dovesse finire mai. Ogni volta che si arrivava a qualche verità, si scopriva subito che dietro di essa se ne celava un’altra. Come una scatola cinese. La prima cosa da fare era mettere nelle mani di Giovanni Galderisi la registrazione. Lo scandalo avrebbe distrutto Artoni e neutralizzato ogni suo tentativo di coinvolgere le sue potenti amicizie. Partimmo di buon’ora e nei pressi di Padova telefonai al giornalista «Dottor Galderisi, buongiorno. In mattinata le faro recapitare...» «Non oggi, non ho tempo, devo andare sul posto. Il direttore vuole subito notizie di prima mano». «Cos'è successo?». «Come, non lo sa? Non ha ascoltato la radio questa mattina? Il professor Emilio Artoni, direttore del Centro di Ricerche Criminologiche, e’ stato trovato impiccato nel suo studio». «Questo non l’avevamo previsto» commento Beniamino. «Però, a ben pensarci... non era poi un’ipotesi così remota: aveva capito di essere finito». «Anche lui come Magagnin. Un omicidio, due suicidi.. . niente male per una storia iniziata con la ricerca di un detenuto scomparso. Comunque dobbiamo assolutamente scoprire se Artoni ha lasciato un biglietto, una lettera. Se ha reso nota la nostra visita, dobbiamo distruggere il nastro». Andammo al solito bar e seguimmo tutti i notiziari del giorno. La notizia aveva destato ancora una volta l’interesse dei media nazionali: era il secondo servizio, dopo la nuova crisi di governo. Il professor Emilio Artoni, secondo i primi accertamenti, si era impiccato al lampadario del suo

studio, con la cravatta, poco dopo le ventuno della sera prima. Il corpo era stato trovato dal portinaio, al quale si era rivolta la moglie del professionista quando non l’aveva visto rientrare per cena. I vari cronisti descrissero un uomo il cui lavoro di scienziato era tutto rivolto alla vittoria del bene sul male, membro di importanti associazioni e fondazioni internazionali. Inspiegabili le motivazioni del gesto: il suicida non aveva lasciato, come di solito accade, nessuna lettera d’addio. Il professor Ferrini, tra le lacrime, continuava a ripetere che non poteva crederci. La moglie di Artoni, una donnina dimessa dai capelli grigi, si comportava con grande dignità In tono pacato rispondeva alle numerose domande, sostenendo che le ragioni del gesto andavano ricercate nell’incredibile mole di lavoro dalla quale era perennemente assillato il marito. Infine l’avvocato Sartori, interpellato in quanto caro amico della vittima, confermava di averlo visto piuttosto depresso negli ultimi mesi. Un bell’uomo quell’Alvise Sartori: sui cinquantacinque anni, appena un po’ sovrappeso, con una folta chioma nera molto probabilmente tinta. Due occhietti cattivi in un volto florido e roseo. «Sembra un serpente a sonagli» mi fece notare Rossini. «Sì, ha tutto l’aspetto di un tipo pericoloso. Recita la parte dell’amico addolorato ma secondo me e’ solo preoccupato che non si scavi troppo a fondo nella vita di Artoni». «Possiamo dirci fortunati che non abbia lasciato nulla di scritto». «Non e’ detto. Noi siamo andati via verso le venti e trenta e lui ha tirato le cuoia trenta, quaranta minuti dopo. Ha avuto tutto il tempo che voleva per telefonare». «Può darsi. E adesso cosa facciamo? Proseguiamo con la pista Sartori?». «Sinceramente non lo so. Con le nostre indagini stiamo smuovendo situazioni controllate dalla cosiddetta gente in vista, quella che conta davvero in città Penso che dovremmo avere chiaro il quadro della situazione prima di agire. Non vorrei che il terreno ci franasse improvvisamente sotto ai piedi». «Oh, bentornato alla realtà E’ dall’inizio di questa indagine che ti metto in guardia e finalmente mi dai ragione». «Dai, Beniamino, non essere sempre polemico. Non avremmo mai potuto immaginare simili sviluppi. piuttosto» dissi guardando l’orologio, «cosa ne dici di andare a mangiare un boccone?». Ci recammo al “No Se No”, un club in corso Trieste, con l’intenzione di trascorrervi buona parte della notte. Fu lì che ci scovo Barbara Foscarini. «Sbaglio o non desiderava più avere a che fare con noi?» domandai. Si sedette al tavolo e ordinò un gin tonic. Si passò una mano sul viso. «Adesso sapete tutto, vero?» chiese con rassegnazione. «Tutto cosa?». «Sapete benissimo a cosa mi riferisco». «No, non lo sappiamo, avvocato Foscarini. Ce lo dica lei» intervenne Beniamino. «Artoni, sto parlando di lui. Siete andati a parlargli e dopo si e’ impiccato...». Rimanemmo impassibili. Sconcertata dal nostro atteggiamento, riprese a parlare con tono quasi implorante. «Sentite, voglio solo sapere cosa vi ha detto a proposito del processo per l’omicidio Mocellin Bianchini...». «Ah, e per la morte di Piera Belli e la sorte di Alberto Magagnin ha perso ogni interesse?» ribattei. «Vi prego, non rendete tutto più difficile... voglio solo sapere se vi ha parlato del ruolo dell’avvocato Sartori». Beniamino e io ci guardammo. Mi avvicinai al viso della donna.

«Avvocato, e’ arrivato il momento di dirci tutto quello che ci ha tenuto nascosto. Poi, se lo riterremo opportuno, potrà avere le informazioni che tanto desidera». «D’accordo, Buratti» emise un lungo sospiro e bevve una buona metà del suo drink. «Nel 1974 mi sposai con l’avvocato Piero De Curtis e divenni socia del suo studio legale. Qualche mese dopo, in occasione di un processo, conobbi l’avvocato Alvise Sartori. Diventammo subito amanti. Quando Alberto Magagnin venne arrestato con l’accusa di omicidio, Alvise, che era stato ingaggiato dalla famiglia della vittima, mi chiese se ne volevo assumere la difesa. Fino ad allora non avevo mai patrocinato in Corte d’Assise ma lui mi esortò ad accettare facendomi notare che quel processo sarebbe stato una buona palestra... e una buona azione. L’imputato era uno spiantato senza una lira, gli avrei garantito una buona difesa, migliore di quella dell’avvocato d’ufficio a cui il tribunale aveva affidato il caso, anche se non c’erano dubbi sulla sua colpevolezza... e poi sarebbe stata un’occasione in più per stare vicini...». Bevve il resto del gin tonic e poi continuo: «Gli dissi che mio marito non avrebbe mai acconsentito, non era nello stile dello studio prestarsi a cose simili ma lui ribatte’ che non c’era bisogno che lui lo sapesse perchè avrebbe provveduto personalmente a coprire le spese legali e, tramite alcuni suoi clienti detenuti, a convincere Magagnin a comunicare la mia nomina all’ufficio matricola del carcere. La proposta era allettante, quel processo avrebbe richiamato la stampa e il mio nome sarebbe finito sui giornali... un’occasione unica per la mia carriera. Così accettai...». Beniamino e io facemmo finta di applaudire. «E brava l’avvocatessa» esclamò il mio amico. «Quando si e’ resa conto che il buon Alvise l’aveva coinvolta nel processo per avere il controllo sulla difesa?» domandai. «Due anni dopo, alla vigilia del dibattimento in Cassazione. Mi trovavo a casa sua e, casualmente, mi capitò di ascoltare, da una derivazione, una conversazione telefonica tra lui e Carlo Ventura. Quest’ultimo gli chiedeva se avrei potuto creare dei problemi. Alvise gli aveva risposto di stare tranquillo, che la situazione era sotto controllo. Allora sentii l’altro complimentarsi con queste testuali parole: “E’ stata un’idea geniale convincere quella fessacchiotta ad assumere la difesa del tossico...”». «E poi cosa accadde?» la incalzai. «Feci finta di nulla. In Cassazione tentai una difesa disperata ma la Corte, com’era prevedibile, confermò la condanna. Ovviamente troncai la relazione con Alvise. Lui si vendicò mettendo al corrente mio marito di quanto c’era stato tra noi... Piero chiese la separazione. Non mi ha mai perdonato. Sartori continuo a tormentarmi per lungo tempo, mi considerava una sua proprietà Non si e’ mai sposato, ha avuto diverse amanti e tutte sono uscite a pezzi da quelle relazioni». Ci fu un lungo silenzio, fui io a spezzarlo: «Cosa vuol sapere?». «Tutto quello che non ho ancora capito». Guardai Beniamino e lui fece un cenno affermativo. «Venga con noi, in macchina abbiamo una cassetta da farle ascoltare». Rossini guidava tormentandosi, come al solito, i braccialetti; io, attraverso lo specchietto retrovisore, tenevo d’occhio la donna: reagì soltanto all’ascolto di “Crapa Pelada”, tappandosi le orecchie. Quando la cassetta fu finita ci pregò: «Vorrei che riferiste ad Alberto che mi dispiace. Nel momento in cui ho capito di essere stata usata, ho cercato di aiutarlo affinché la sua pena fosse il più breve possibile... spero possa perdonarmi...». «Bella sviolinata, avvocato» replico duramente Beniamino. «Forse si e’ dimenticata che Magagnin e’ rimasto a marcire quindici anni in galera mentre lei si faceva scopare da chi aveva truccato tutto il mazzo di carte per farlo condannare. Abbia almeno il buon gusto di non dire stronzate». «Ma adesso cosa volete fare? Incastrerete Alvise?».

«Beniamino, fermati qui» intervenni. «La signora scende. Addio, avvocato Foscarini. In questo momento lei esce di scena. D’ora in poi dovrà tenere la bocca chiusa. Con tutti ma soprattutto con Sartori. Se le dovesse chiedere qualcosa, neghi tutto, anche l’evidenza. Lo dico per il suo bene». Sentii la portiera sbattere alle mie spalle. L’auto, dopo la breve sosta, ripartì sgommando. L’indomani, quando Rossini si alzò, mi trovò accasciato su una poltrona del salotto: su un bracciolo un portacenere colmo di cicche e per terra una bottiglia di calvados vuota. «Hai gli occhi rossi Marco, sembri un colombiano dopo un festino alla coca. Vuoi un caffè?». Lo seguii in cucina. «Beniamino, abbiamo bisogno di consultare un “analista”». «Uno strizzacervelli?». «Spiritoso». «Marco, gli analisti della mala sono personaggi poco affidabili: fedina pulita, una buona istruzione e il cervello contorto. Se andassimo da uno di loro, uno qualsiasi, sai cosa farebbe dopo che gli abbiamo raccontato questa storia? Ordinerebbe la nostra morte, inizierebbe a ricattare la Foscarini, obbligherebbe Giusy Testa e i suoi amichetti a importare la coca per proprio conto, allungherebbe le mani sul giro di puttane... e soprattutto si accorderebbe con Sartori. Di gente così hanno sempre bisogno». «Non pensavo a uno della mala». «A chi, allora?». «A Max la Memoria». «Il nome non mi e’ nuovo. L’ho sentito pronunciare qualche volta dai “brividi”, i brigatisti in galera. E’ un terrorista?». «Non nel senso comune del termine. Negli anni Settanta si occupava di controinformazione per un gruppo della sinistra extraparlamentare. Aveva messo in piedi una rete di informatori insospettabili e spiava tutto e tutti in questa città Qualche anno fa dei pentiti l’hanno accusato di aver passato informazioni a gruppi che praticavano la lotta armata e da allora e’ latitante. Ma so che si nasconde qui a Padova e che continua a spiare, la sua rete non e’ mai stata smantellata. Non e’ detto che la faccenda gli interessi. E’ un cane sciolto che usa quello che sa ai fini di una strategia del tutto personale: vende o regala informazioni solo se l’uso che ne viene fatto coincide con i suoi disegni politici». «Ma questo e’ uno sciroccato. Sei sicuro che sia una buona idea rivolgersi a un tipo simile?». «Sì. E’ l’unico che ci puo aiutare a collegare fatti e persone e indicarci il modo migliore per agire». «Cosa vorrà in cambio?». «Credo che si accontenterà delle copie dei nastri in nostro possesso. Comunque, pensavo di farglieli avere comunque per stuzzicare il suo interesse». «Che uso ne farà? Abbiamo dato la nostra parola a Giusy Testa...». «Non e’ tipo da ricatti. Infilerà nei suoi schedari le notizie che gli interessano, felice come un bambino di aver scoperto qualche segreto in più su Padova». «Ma se e’ latitante, come farai a contattarlo?» «Tramite la sua donna. Si chiama Marielita, una sudamericana, forse uruguayana. E’ una musicista di strada, trovarla non sarà difficile». «Una barbona?». «Beh, non direi. Si ferma a suonare sempre nei pressi di edifici un po’ particolari, come sedi politiche, strutture finanziarie, comandi militari... e’ la sua migliore informatrice». Riuscimmo a localizzarla nel primo pomeriggio nelle vicinanze della Prefettura. Ci fermammo a

osservarla da lontano. Cantava una dolce ninna nanna andina. L’accompagnamento della melodia era affidato a un charango, di cui la ragazza pizzicava le corde con delicatezza. Poteva avere trent’anni. I capelli, lunghi e neri, incorniciavano un volto dai lineamenti sottili, dai quali trasparivano appena le sue origini. Indossava una canottiera gialla e un paio di aderenti pantaloni verdi di tela. Andandole incontro mi soffermai a studiare il corpo esile e il seno appena pronunciato. Quando incontrai il suo sguardo mi ritrovai immerso in due occhi neri come la notte e penetranti come una lama. “Bella” pensai e nella mia mente risuono la strofa di una vecchia canzone: “I can see your bright, bronze skin at ease with all the flowers and the centipedes.” Le allungai due audiocassette, fasciate da una banconota da diecimila. «Blues?» mi chiese con un sorriso, facendomi così capire che per lei non ero uno sconosciuto. «Non questa volta, Marielita. Ma Max la Memoria le troverà comunque interessanti. Digli che aspetto una risposta per domani». La ritrovai allo stesso posto. Si stava godendo il sole cocente del mezzogiorno. “Come una lucertola” pensai mentre avvertivo il fastidio della camicia incollata alla schiena. «Stasera alle dieci all’angolo tra via Martiri della Libertà e via San Fermo. Solo tu, il tuo amico lascialo a casa» poi tese il palmo della mano verso di me. «Va bene» risposi. Le lasciai mille lire e mi allontanai con la certezza di essere seguito dal suo sguardo. Arrivò puntuale alla guida di un furgone scuro. Abbassò il finestrino. «Sali dietro, presto». Le obbedii. Quando richiusi lo sportello mi accorsi che i finestrini erano stati oscurati. Max la Memoria evidentemente non voleva correre rischi. Dal tipo di percorso mi resi conto che stavamo compiendo dei giri tortuosi, evidentemente con l’intento di farmi perdere l’orientamento. L’unica cosa che riuscii a distinguere fu il rumore di un cancello automatico, e questo quando ormai il viaggio era terminato. Poi il furgone scese in uno scantinato. “Di una villetta” pensai, quando la donna mi fece scendere. La seguii lungo una scala interna e notai che era vestita elegantemente con una ampia gonna a fiori e una camicetta di seta blu. Mi accompagnò fino oltre la soglia di una stanza semibuia e sparì prima ancora che riuscissi ad abituarmi all'oscurità Di fronte a me la sagoma di un uomo seduto in poltrona che rideva di gusto guardando un film in bianco e nero. «Vieni avanti Alligatore, benvenuto nella mia umile dimora. Conosci questo film?». «Non mi pare». «E’ “Il mistero del cadavere scomparso” di Carl Reiner, con Steve Martin. Una vera chicca: nel montaggio ci hanno infilato spezzoni di vecchi film, così sembra che gli attori dialoghino con autentiche star degli anni quaranta. Ci sono Burt Lancaster, Alan Ladd, Humphrey Bogart. E sai che mestiere fa il protagonista?». «No». «L’investigatore privato. Come te. Lo stavo guardando in tuo onore e spero tu mi permetta di regalarti la cassetta. Potresti trovarlo istruttivo». Spense il videoregistratore e accese la luce. Mi ritrovai a fissare un uomo grande e grosso, con la pancia tipica di chi beve molta birra e conduce una vita sedentaria. Aveva una barba corta spruzzata di bianco e due grandi occhi azzurri che tradivano l’aspetto bonario del fisico, rivelando tutta la scaltrezza e l’intelligenza del personaggio. Si accese una sigaretta. Aveva le dita ingiallite tipiche dei tabagisti. Di riflesso pensai alle mie, ugualmente macchiate. «Cosa bevi? Ah, che domanda stupida. Calvados naturalmente» si battè la fronte con il palmo

della mano, imitando Tino Buazzelli quando faceva la pubblicità di un aperitivo. «Se mi vuoi stupire, Max, devi dire qualcosa di meno scontato. Lo sanno tutti i baristi di Padova che bevo soltanto distillato di sidro». «Scherzavo, Alligatore, scherzavo. Interessanti le registrazioni che mi hai mandato» disse, diventando improvvisamente serio. «Raccontami tutto dall’inizio. Sono proprio curioso». Parlai a lungo, senza tralasciare il minimo particolare. A un analista non si nasconde mai nulla. «Ti sei cacciato in un bel guaio, Alligatore. Non sarà facile venirne fuori. Seguimi». Entrò in una grande stanza. Al centro un tavolo con un computer, appoggiati alle pareti tre grandi mobili porta schedari e uno scaffale carico di intere annate di quotidiani locali. Si sedette sulla poltrona dietro alla scrivania, indicandomi la sedia di fronte. «Accomodati Alligatore e vediamo un po’ di ricapitolare l’intera vicenda. Tutto ha inizio con la tua decisione piuttosto azzardata - avresti dovuto rivolgerti subito al sottoscritto - di dimostrare l’innocenza del detenuto in semilibertà Alberto Magagnin. Da quando ha preso il via la tua indagine, ti sei imbattuto in una serie di ambienti che non sempre avevano attinenza diretta con il caso. Mi riferisco naturalmente ai sadomasochisti del giro di Giusy Testa, al traffico di cocaina e al giro di prostituzione di alto bordo. Una volta arrivato ad Artoni, la tua attività investigativa ha ottenuto il primo risultato significativo perchè insieme al movente e all’assassino di Piera Belli, scoprivi che il processo Mocellin Bianchini era stato truccato proprio per riuscire a condannare la buonanima di Magagnin. Il perchè non lo sappiamo ma Artoni ha rivelato chi aveva manovrato dietro le quinte questo gioco perverso: il noto penalista del foro di Padova Alvise Sartori e l’industriale tessile Carlo Ventura, già marito della sfortunata Evelina Mocellin Bianchini. Ora possiamo aggiungere un nuovo pezzo al nostro puzzle: e’ evidente che il professor Artoni non aveva mai messo al corrente questi due signori del ricatto che stava subendo per opera della professoressa Belli, perchè in tal caso se ne sarebbero visti subito gli effetti. Essi infatti avrebbero provveduto immediatamente a neutralizzare la donna e ci sarebbero riusciti certamente in modo più efficace e meno pasticcione. Il compianto criminologo, al contrario, ha preferito sopportare per tre anni le angherie a cui era sottoposto, poiché ben sapeva che i suoi potenti amici, una volta messi a parte della verità, lo avrebbero giudicato inaffidabile e pertanto escluso dal loro mondo. E lui avrebbe visto così sfumare in un attimo i suoi successi professionali. Solo, di fronte al suo problema, e a un livello ormai intollerabile di esasperazione, ha preso l’unica decisione che gli sembrava accettabile: trasformarsi in killer. Ha messo a punto un piano che fino al vostro incontro ha creduto perfetto. Possiamo quindi immaginare in quale stato di prostrazione l’abbiate lasciato dopo la vostra visitina e dare per scontato che non abbia esitato un solo attimo a mettersi in contatto con Sartori. Costui adesso sa tutta la verità sul ricatto e sull’omicidio ed e’ al corrente che per la città si aggirano due loschi figuri in grado di far confessare una persona con metodi polizieschi e in possesso di una registrazione compromettente. L’avvocato e’ sicuramente sul piede di guerra, pronto a usare ogni mezzo per distruggere chi sta cercando di inguaiarlo. In questa indagine, Alligatore, ti sei mosso» la sua risata risuono per un attimo nella stanza silenziosa, «come un elefante in un negozio di cristalli. Hai caricato a testa bassa, ottenendo quello che i giudici chiamano “l’effetto a cascata delle confessioni”. Un buon risultato indubbiamente, ma allo stesso tempo hai lasciato un sacco di tracce che possono portare alla tua individuazione. E a quella di Rossini». Max continuò il suo discorso camminando avanti e indietro per la stanza. Mi fece notare che non potevo certo sperare che Sartori e Ventura non avessero avuto il tempo di organizzare efficacemente la nostra ricerca. Da tipi così scaltri e introdotti era più che ovvio aspettarsi che avessero iniziato a occuparsi del caso nel momento stesso della scoperta del cadavere della Belli e della conseguente incriminazione di Magagnin. «perchè vedi, Alligatore, deve averli preoccupati non poco la scoperta della relazione tra l’innocente che avevano fatto condannare e uno dei suoi giudici. Dagli articoli di Galderisi hanno poi saputo che il semilibero e’ spalleggiato da chi e’ a tutti gli effetti in grado di aiutarlo e proteggerlo e così furbo da riuscire a ridicolizzare gli inquirenti seminando il dubbio sulla

colpevolezza di Magagnin tra l’opinione pubblica. Da quel momento hanno capito l’importanza di arrivare a Magagnin, non sapendo che e’ morto, e ai suoi complici prima della polizia. E’ stato allora che hanno iniziato le loro indagini. Se non lo hanno già fatto, ci metteranno poco ad arrivare a Baldan, Giusy Testa e a ricostruire il tuo percorso. Ti sono alle costole, Alligatore e una volta raggiunto, ti distruggeranno». «Ma chi e’ questo Sartori? Mandrake?» scherzai nel tentativo di allentare la tensione che mi stava attanagliando lo stomaco. Max la Memoria accese il computer, digito alcune lettere e inizio a leggermi le informazioni che mi servivano a capire fino a che punto mi ero cacciato nei guai. «Alvise Sartori e’ nato nel 1935 a Padova. In gioventù si distingue per gli ottimi risultati sul piano scolastico e sportivo, rivelandosi una vera e propria promessa del canottaggio. Laureato a pieni voti, inizia una folgorante carriera come penalista. Alla fine degli anni Sessanta diventa l’avvocato della Padova intrallazzona. Un vero e proprio trampolino di lancio, grazie al quale puo inserirsi in un numero sempre maggiore di settori, non sempre leciti. Si presta anche a svolgere il ruolo di mediatore nei sequestri di persona, proprio nel periodo in cui viene rapita la prima moglie di Carlo Ventura. La donna e’ la rampolla di una notissima famiglia di industriali tessili, alla quale i propri parenti non avevano mai nascosto l’avversione nei confronti del marito, da tutti considerato un parvenu. Sartori si propone per condurre le trattative. Lui e Ventura si capiscono al volo e decidono di sottrarre una parte consistente della somma del riscatto. Da allora diventano inseparabili. Entrano a far parte dei club e associazioni più esclusivi, per citare il più importante, i Cavalieri dell’Ordine di Santa Costanza. Con la benedizione e la copertura, penso inconsapevole, di una parte del clero, questa struttura in realtà raccoglie tutto il marcio di questa città - da vecchi arnesi fascisti implicati in Gladio e varie trame nere, a esponenti corrotti del mondo politico, finanziario, giudiziario, militare - ed e’ a sua volta trasversale ad altre strutture, lobby o logge massoniche, anche estere. Di questa vera e propria associazione a delinquere, i nostri due “cavalieri” diventeranno ben presto rispettivamente consiglieri legale e finanziario. Sono passati indenni attraverso tutti gli scandali, tangentopoli compresa. Tutti processi nei quali Sartori, guarda caso, ha fatto parte dei collegi di difesa. Il che significa sapere e sapere e’ potere. In questa città il ricatto e’ la norma in certi ambienti e il nostro amico e’ un maestro del ramo. Con gli anni si e’ costruito una sua corte fatta di poliziotti, carabinieri, impiegati, cancellieri del tribunale, ma anche delinquenti di ogni risma. Non gli costerebbe nulla ordinare l’eliminazione tua e di Rossini o, se preferisci, farvi trovare in casa o in macchina un chilo di eroina e farvi sbattere per una ventina d’anni nelle patrie galere». «Cosa mi consigli?». «Innanzi tutto entrate in clandestinità, tutti e due. Sparite dalla circolazione. Poi datevi da fare per scoprire la verità sulla morte della Mocellin Bianchini e se ci riuscite... trattate». «Trattare?». «Sì, con Sartori che e’ il più importante tra i due. Il silenzio in cambio di un futuro tranquillo. Non avete altra scelta. più cose riuscirete a scoprire, più possibilità avrete di cavarvela». «Punti deboli?». «Uno solo: il sesso. In tribunale gira la voce che sia omosessuale perchè non si e’ mai sposato ma non corrisponde a verità In realtà le donne gli piacciono, comprese le professioniste. Adesso va a letto con la giovane moglie di un suo cliente che sta scontando una condanna per una rapina con conflitto a fuoco a Sanremo. In appello gli ha fatto raddoppiare la pena... ma non ti consiglio di perdere tempo su questa pista, concentrati su quel delitto». «Qualche idea?». «Una, evidente: hanno coperto qualcuno del loro ambiente». Mi alzai in piedi. «Grazie della consulenza, Max. Quanto o cosa mi costa?». «Voglio tutte le informazioni che riesci a raccogliere. Sono anni che cerco di incastrare quel giro: se riesco anch’io a mettere in piedi una trattativa, potrei far uscire di galera qualcuno dei nostri». Si alzò, il colloquio era terminato. Mi riaccompagnò alle scale che portavano al garage.

«Giù c'è Marielita che ti aspetta. Buona fortuna». Mentre scendevo, aggiunse: «Mi sono venuti in mente dei versi che si addicono alla tua situazione. Sono di Massimo Salvagnini, il poeta maledetto di questa città: “Entrasti come un bus nella corrida uscisti a pugni chiusi nella pampa”.» Lo sentii ridere fino a quando non chiusi lo sportello del furgone. Marielita aveva una guida veloce e sicura. A un certo momento mi accorsi che stavamo percorrendo delle strade in salita. Ne dedussi che eravamo sui colli Euganei e cominciai a chiedermi il perchè di quel lungo giro. Quando mi fece scendere dal furgone, mi ritrovai sulla vetta di un colle, spazzata da un venticello fresco. In lontananza, si distinguevano le luci di Padova e dei paesi limitrofi. Lei mi venne vicino e alzandosi sulla punta dei piedi, mi bacio sulla bocca. «Non mi sembra una buona idea, Marielita». «A me sì» rispose, leccandomi la punta del naso. «Sono in affari con Max, potrebbe non gradire la faccenda». Mi scoccò ancora un bacetto sulle labbra. «Se sei in procinto di dirmi che non puoi fare l’amore con me perchè sono la donna di Max la Memoria, aspettati un calcio nelle palle. Non sono di sua proprietà». Mi sedetti sull’erba, cercando le sigarette nelle tasche. «Non intendevo dire questo. Solo che la situazione e’ complicata ed eventuali incomprensioni potrebbero aumentare le difficoltà». «Non ti preoccupare, Alligatore. Devi solo decidere se hai voglia di scopare o no con una bella donna sudamericana. Al resto ci penso io». «Il ragionamento mi sembra ineccepibile» commentai, accarezzandole i capelli. Durante il viaggio di ritorno mi permise di sedere accanto a lei nella cabina. Da sotto il sedile prese una piccola bottiglia piatta. «Un goccetto, Alligatore?». «Una gradita premura, Marielita» la ringraziai, svitando il tappo. «Tu e Max avete una cosa in comune». «Davvero? E cosa?» domandai, sorpreso. «Un fuoco che vi brucia dentro e vi consuma. Il cuore vi e’ diventato nero e piccolo e duro come un pugno». «Ognuno ha i suoi guai» sentenziai, nel tentativo di chiudere il discorso. «Potreste percorrere nuove strade, intraprendere una nuova vita, ma non riuscite a staccarvi dal passato. Avete i vostri conti da regolare, soprattutto con voi stessi e ogni giorno che passa e’ una nuova cicatrice...». «E’ la maledizione della nostra generazione, sorella» scherzai. «A questo punto pero» aggiunsi, ridiventando subito serio, «non capisco perchè stai con Max e collabori con lui. Rischi la galera... e quella e’ una fabbrica di cicatrici». «La prigionia e’ nel conto. Da sempre. In realtà gli devo tutto e lui soffre la solitudine come un bambino. E poi, Max e’ una scommessa con la storia e a noi sudamericani piacciono le scommesse». «A me sembra invece uno di quei soldati giapponesi che sono rimasti rintanati anni in isolette del Pacifico perchè non potevano credere che l’imperatore si fosse arreso». «Non essere cinico, Alligatore. Aiuta un sacco di gente e crede sinceramente in quello che fa. Il vero problema e’ che non pensa mai a se stesso».

Le accarezzai il viso. «Ti chiedo scusa, ho detto una cazzata. Sta aiutando molto anche me e lo stimo per questo. Penso sia fortunato ad averti vicino. Sei una grande donna, Marielita». «Lo pensi sul serio?». «Sì». «Hai un filo d’erba tra i capelli» disse il vecchio Rossini, strizzandomi l’occhio. Mi passai una mano sulla testa. «Max la Memoria non mi ha dato buone notizie. La situazione e’ peggiore di quanto pensavamo». «Fammi accomodare in poltrona, allora» biascicò rassegnato. A mano a mano che ascoltava il mio racconto la sua espressione si fece sempre più seria e alla fine commento: «Siamo proprio nei guai, Marco. Non abbiamo un minuto da perdere». Con pignola professionalità, come se fossimo braccati dall’Interpol, pianificò il nostro passaggio alla clandestinità Sparse in giro la voce che partivamo per la Dalmazia e che ci saremmo rimasti a lungo. Approntò con il mio aiuto il motoscafo con tutto il necessario per il viaggio. Approfittammo della confusione dei preparativi per nascondere sotto coperta un contrabbandiere fidato. Poi il mio amico chiuse la casa, lasciando in bella vista le nostre automobili in giardino e finalmente salpammo. Appena fummo lontani dalla riva passo i comandi al terzo uomo e gli ordinò di sbarcarci all’isola del Lido. Da lì, con un vaporetto raggiungemmo la stazione ferroviaria di Venezia e, protetti dalla folla dei turisti, arrivammo a Padova sicuri di non essere stati notati. Rossini fece un paio di telefonate con cui procurò una motocicletta, il nostro nuovo mezzo di trasporto, e una casa sicura fornita da una banda di rapinatori bergamaschi. Per coprire le spese usammo il denaro di Piera Belli che Magagnin ci aveva lasciato in eredità «Bene, adesso possiamo cominciare a ragionare» commentò, non appena prendemmo possesso del piccolo appartamento, situato nel quartiere residenziale di Città Giardino, che da quel momento sarebbe stato il nostro rifugio. «Non ho la minima idea di come si possa condurre un’indagine tenendosi nascosti». «Non e’ più un’indagine, Marco. E’ una guerra tra bande, quella di Sartori contro la nostra». «Noi due saremmo una banda? Ma se per l’associazione a delinquere il codice prevede il concorso di almeno tre persone...». «Fanculo il codice. L’avvocato ci vuole eliminare: morti o in galera. Appena ci avrà identificato gli resterà solo da scegliere il metodo migliore e io non ho nessuna intenzione di fare il Magagnin della situazione. L’analista te l’ha detto chiaramente: l’unico modo per evitare che gli altri ci fottano, e’ quello di farlo noi per primi. Poi, si passa alle trattative, come in tutte le guerre tra bande che si rispettino». «Calmati, Beniamino...». «No, non mi calmo. Doveva essere una passeggiata e invece ci troviamo con la merda fino al collo. Ed e’ tutta colpa tua. Non dirmi che non ti avevo avvertito. Da questo momento si fa come dico io. Tu sei bravo a trattare, e’ la tua specialità, ma la guerra con sbirri o malavitosi e’ affar mio». «D’accordo, d’accordo. Qual e’ il tuo piano?». «Voglio capire se Sartori e’ già arrivato a individuarti. Per togliersi il dubbio sarà sufficiente fare il giro dei locali che solitamente frequenti». «Buona idea» aderii con entusiasmo. Mi stavo già deprimendo alla prospettiva di dover stare nascosto in questo buco per chissà quanto tempo. «Però» gli feci notare, «questo non basta, Beniamino. Ho bisogno degli atti del processo per l’omicidio di Evelina Mocellin Bianchini».

«Barbara Foscarini?». «E’ l’unica che puo fornirceli». «Tre giorni fa le avevamo detto addio, Marco». «Me lo ricordo, ma non abbiamo altra scelta. Sono sicuro che da quelle carte salterà fuori chi veniva protetto da Sartori e Ventura». «Ci vado io, allora. Aspettami qui». Decisi di ingannare l’attesa familiarizzandomi con il posto in cui mi trovavo, spinto dalla curiosità di vedere com’era fatto un covo di rapinatori. La cucina era arredata con pensili di laminato in formica gialla, sgabelli e sedie dalla linea essenziale con gambe di metallo. In salotto una libreria vuota, un tavolo e un divano che davano l’idea di provenire dalla svendita di un magazzino. Alle pareti, qua e là, ritratti di fanciulli dai volti tristi e grandi occhi chiari, guance rosee sulle quali compariva invariabilmente una lacrima. Decisamente di cattivo gusto. Invece, mi stupii di trovare un vecchio giradischi Geloso e una discreta raccolta di dischi di Mina. Non li avrei ascoltati. Beniamino tornò un’ora dopo. «L’avvocatessa non c’era ma sono riuscito comunque a farmi consegnare il fascicolo dalla segretaria. Meglio così, ho evitato un incontro al quale non tenevo per niente. Ho preso anche una bottiglia di vodka e una di calvados». Appoggiai quest’ultima e l’incartamento, vicino alle sigarette, l’accendino e il portacenere, pronto ad affrontare lunghe ore di lettura. Iniziai dalla sentenza di condanna. “Contro Alberto Magagnin, nato a Saonara, provincia di Padova, senza fissa dimora, imputato degli articoli 575, 577 n. 4 e 61 n. 1 e 4 del Codice Penale, perchè colpendo ripetutamente al corpo con crudeltà Mocellin Bianchini Evelina e per motivi abietti ne cagionava la morte.” In sessantadue pagine i giudici spiegavano perchè erano giunti a emettere una sentenza a diciotto anni di reclusione, al di là di ogni ragionevole dubbio. La prima parte era intitolata “Ricostruzione del fatto e svolgimento del processo”. “Il giorno 19 gennaio 1976, verso le ore diciotto e trenta, personale del la Squadra Mobile della Questura di Padova interveniva in via Mascagni 129, dove poco prima era stato rinvenuto il cadavere di una donna prontamente identificata nella persona di Mocellin Bianchini Evelina, di anni 46, casalinga e ivi residente al secondo piano dell’abitazione, una villetta monofamiliare di proprietà della suddetta... Il cadavere, che presentava numerose ferite da arma bianca, giaceva sul quadrato anteriore sinistro della camera da letto con la testa rivolta verso la parete di sinistra e i piedi in direzione della parete di destra (rispetto a chi entra dalla porta di ingresso)... Prima della rimozione del cadavere, alle ore venti e quarantacinque, veniva fatto intervenire il professor Emilio Artoni, al quale successivamente veniva affidata la perizia medico-legale... La sera stessa, verso le ventidue, personale dell’Arma dei carabinieri procedeva al fermo di Magagnin Alberto, in quanto il predetto si aggirava in stato confusionale all’interno dei giardini pubblici di piazza Garibaldi. Tale comportamento aveva fatto supporre ai militi uno stato di intossicazione da sostanze stupefacenti. Condotto nella caserma di Prato della Valle, a una prima ispezione i vestiti dell’uomo risultavano macchiati di sangue. Interrogato a proposito, seppure in maniera confusa, il Magagnin asseriva di essersi introdotto, praticando un’effrazione a una finestra, in una villetta che riteneva al momento disabitata, corrispondente al civico n. 129 di via Mascagni, allo scopo di effettuare un furto. Cercando denaro e altri oggetti di valore, riferiva altresì di aver rinvenuto il cadavere di una donna. Credendola solo ferita si avvicinava al corpo, toccandolo e procurandosi in codesto modo le sopracitate macchie di origine ematica. Il personale interrogante avvertiva il Pubblico Ministero il quale, dopo aver a sua volta interrogato il Magagnin ne disponeva la cattura quale indiziato di reato... In sede di formale istruzione, venivano assunti numerosi testimoni e disposto l’espletamento di una perizia ematologica sui vestiti dell’imputato affidata al medico legale professor Emilio

Artoni... Con ordinanza in data 21 giugno 1976 il Giudice Istruttore disponeva il rinvio a giudizio avanti alla Corte di Assise di Padova. .. Nel corso dell’istruzione dibattimentale veniva interrogato l’imputato, si procedeva all’audizione dei testimoni e del perito... Terminata la discussione, questa Corte si ritirava in camera di consiglio per la deliberazione della sentenza.” Proseguii con la lettura della seconda parte. “Motivi della decisione. Ogni giudizio di fatto, in quanto sia rilevante, cioè tale da influire sul contenuto della decisione, deve essere provato: provare un fatto e’, pertanto, la formula ellittica di «saggiare con un certo metodo il giudizio su un fatto». Una tale esigenza sorge rispetto a quegli enunciati che, non appartenendo alla categoria del certamente vero o certamente falso, sono definiti probabili; ossia tali da potersene immaginare una conferma sperimentale. Quelle del giudice, dunque, sono tutte conoscenze empiriche: non sono ammesse certezze morali. Nel caso di specie, il tema probatorio e’ se Magagnin Alberto abbia cagionato la morte di Mocellin Bianchini Evelina o se corrisponda a verità la sua asserzione di averla rinvenuta cadavere e di essersi macchiato di sangue i vestiti, in un goffo quanto inutile tentativo di soccorso. L’esame degli atti mostra che non fu trascurata alcuna traccia, nè alcuna ragionevole possibilità e che l’indagine fu condotta con impegno e scrupolo perfino eccessivi, come si puo ricavare, tra l’altro dalla puntigliosa assunzione di testimoni, dagli accuratissimi rilievi, esperimenti, perizie effettuati e disposti talvolta oltre le reali necessità istruttorie... In tale quadro probatorio i dati tecnici desumibili dalla perizia ematologica, consentono di affermare con assoluto rigore, prima logico e poi scientifico, che non si tratto del contatto di un soccorritore, timido, incoerente, impacciato ma dell’azione gestuale, inequivoca dell’aggressore, determinato a uccidere...” «E bravi!» esclamai ad alta voce, attirando l’attenzione di Beniamino. «Trovato qualcosa?» domando. «No. Stavo leggendo la sentenza nella speranza di imbattermi in qualche elemento importante, sfuggito a suo tempo all’attenzione dei giudici e invece mi accorgo che questi si sono basati solo ed esclusivamente sulla perizia di Artoni, cadendo nella trappola architettata dall’avvocato Sartori. Non serve a nulla continuare» dissi, gettandola sul tavolo. «Forse con i fascicoli delle indagini in istruttoria...». «Lascia perdere per adesso. E’ ora di uscire, in quale locale preferisci andare?». La scelta ricadde sul “Mezzocono”. Essendo un ambiente piuttosto piccolo, se qualcuno di strano si era fatto vedere sicuramente era stato notato. Ubaldo, il cuoco, aveva gestito per anni un bar in un quartiere particolarmente turbolento della città e aveva l’occhio più che mai allenato alle situazioni insolite. Ordinammo due piatti di bigoli in salsa, la specialità della casa, e fu proprio lui a servirci. «Ciao, chef». «Salute a te, Alligatore. Ieri sera sono venuti tre tizi a chiedere se ti eri fatto vedere, magari in compagnia di un milanese» sottolineò, sbirciando Rossini con la coda dell’occhio. «Due li conosco, sono i fratelli Caruso. L’altro non l’avevo mai visto, aveva un cerotto sul naso e dava l’impressione di stare sulle spine... come se non fosse affatto contento della compagnia». «Grazie dell’informazione, chef. Sono in debito». Quando si allontanò, Beniamino osservò: «Il terzo uomo, quello con la bua al nasino era sicuramente Bepi Baldan. Gli altri li conosci?».

«Sì, gli inseparabili Alfredo e Ugo Caruso. Controllano la zona di piazza Mazzini: racket e prostituzione. Capeggiano una banda veneto-campana affiliata alla camorra. Sono anche informatori di prim’ordine, legati a doppio filo con un maresciallo della Questura. Se si sono mossi di persona, significa che ritengono la faccenda di grande importanza». «Sai dove possiamo trovarli?». «Certo, di solito stanno in un bar di piazza Mazzini. E’ il loro ufficio». «Andiamo allora, ti mostro come si inizia una guerra tra bande». Camuffati dai caschi integrali riuscimmo a passare del tutto inosservati davanti al bar “Jamaicano”. Beniamino guidava la motocicletta giapponese come se ci fosse nato sopra. Compì un’inversione a “U” e si fermo sotto a un portico dall’altra parte della piazza. «Li hai visti?». «Sì, c'è anche Bepi Baldan. Sono seduti a un tavolino all’aperto. Stanno mangiando un gelato». «Adesso telefoni al bar e chiedi dello spacciatore. E poi gli domandi perchè ci cercano». «Le iniziate così le guerre, voi malavitosi, con una telefonata? Pensavo con una bella sparatoria...». «Marco, fai come ti dico e non discutere» ordinò con fare autoritario. Tirai fuori il cellulare dalla tasca del giubbotto. «Chi parla?». «Buono il gelato, Bepi?». «Sei tu, Alligatore, e’ da ieri sera che ti cerco... i Caruso sono alla ricerca di Magagnin. Vogliono consegnarlo agli sbirri perchè dicono che questa storia ha attirato troppo interesse, gli affari ne risentono... sono andati da Marietto Carraro a chiedere se lui sapeva qualcosa ma quello era fatto come un copertone e li ha mandati a quel paese. L’hanno caricato in macchina e riempito di botte. Adesso e’ all’ospedale... ha fatto comunque il mio nome e quelli sono arrivati a casa mia. Li ho portati nella casa di Abano ma era vuota... ho dovuto raccontare della tua visita... dillo al tuo amico pazzo... sono degli animali, lo sai... adesso non mi mollano neppure un minuto perchè io vi conosco... perchè non gli consegni Magagnin così poi potremo tutti tornare a pensare agli affari?». «Tira il fiato» lo interruppi, «parli troppo e non riesco a seguirti. Ripeti tutto dall’inizio». Passai il telefonino a Rossini perchè ascoltasse anche lui le novità Mi spostai di qualche metro e mi appoggiai a un pilastro, furibondo che avessero picchiato Marietto, un povero tossico che non aveva mai fatto del male a nessuno. Sentii la rabbia montare, ritornai sui miei passi e strappai di mano al mio amico il cellulare. «Passami uno dei due stronzi». «Subito, Alligatore. Fate i bravi... mettetevi d’accordo...». «Muoviti!» urlai. Dopo una manciata di secondi sentii una voce dal tono insieme untuoso e arrogante. «Signor Alligatore, che piacere». «Sei Gianni o Pinotto?» domandai. «Non conosco nessuno dei due». «Quanto sei scemo. Con chi sto parlando, Alfredo o Ugo?». «Per lei sono il signor Ugo Caruso». «Sei solo un pezzo di merda, ricottaro e infame». «Venga a dirmelo di persona». «Non mancherà l’occasione. Non c’era nessun bisogno di mandare Marietto all’ospedale». «Oh, ha il cuore tenero, signor Alligatore» ironizzò. «Prendersela così per un tossico finito...». «Cosa vuoi?».

«Un colloquio amichevole. Anche con Magagnin e il suo amico di Milano». «perchè?». «Dobbiamo risolvere la questione Magagnin. Si deve costituire. Con i vostri casini state richiamando l’attenzione dei giornalisti su Padova. Gli affari sono bloccati, state disturbando un sacco di brava gente». «Che altro?». «Solo questo». «Spiegami come mai non ti credo neanche un po’». «perchè e’ malfidente, signor Alligatore. Le do la mia parola d’onore...». «Ugo?». «Sì?». «La tua parola d’onore puoi infilartela nel culo» e tolsi la comunicazione. Tremavo di rabbia e Beniamino mi mise una mano sulla spalla. «Bravo, Marco, stai imparando in fretta». «Voglio andare all’ospedale a vedere come sta Marietto». «No. E’ una mossa troppo prevedibile». Il mattino dopo mi alzai di buon’ora e mi immersi nuovamente nello studio degli atti processuali. Mi sembrava di essere tornato studente, quando puntavo la sveglia per preparare gli esami. Presi in mano il “Verbale di Sopralluogo di Polizia.” “L’anno 1976, addì 19 gennaio, i sottoscritti agenti fotosegnalatori della Polizia Scientifica in servizio presso la Questura di Padova sono intervenuti... Dopo la rimozione del cadavere si osserva una vasta chiazza di sostanza ematica, coagulata, e in parte assorbita dalla moquette nella zona sottostante la testa... Sostanza simile alla precedente si rinviene sullo schermo del televisore, sulla parete anteriore in prossimità dell’interruttore a fianco della porta del corridoio... Il sopralluogo riprende il giorno 20 gennaio, alle ore nove e trenta con le ricerche dattiloscopiche. La ricerca di eventuali impronte di linee papillari latenti, eseguita con la tecnica delle polveri rivelatrici, ha permesso di evidenziare un’impronta sulla pellicola di protezione dell’involucro di un pacchetto di sigarette, rinvenuto nella camera da letto... A una prima indagine di confronto, il reperto appare privo di importanza non appartenendo al sospetto autore del reato Magagnin Alberto...” Richiusi l’incartamento. Com’era prevedibile, anche qui non avevo trovato nulla di utile. A neanche ventiquattro ore dal delitto, il caso poteva dirsi già chiuso: gli inquirenti cercavano ormai solo indizi a sostegno dell’accusa. Presi in mano un altro fascicolo: “Esame dei testimoni.” “L’anno 1976, addì 19 del mese di gennaio, alle ore ventuno e quindici, negli uffici della Squadra Mobile della Questura di Padova. Innanzi a noi sottoscritto ufficiale di P.S., appartenente al suddetto ufficio, e’ presente Dal Bianco Daniela, nata a Papozze (RO) il 22 maggio 1956, ivi residente, di professione collaboratrice familiare, la quale dichiara quanto segue: Lavoro da quattro anni presso la signora Evelina Mocellin Bianchini in qualità di domestica, nella casa di sua proprietà sita al civico 129 di via Mascagni. Oggi, alle ore sedici, forse sedici e dieci, venivo chiamata dalla signora che mi ordinava di uscire e di provvedere all’acquisto di generi alimentari. Giudicai la cosa insolita, dato che normalmente tale incombenza viene svolta la mattina. Comunque, provvista della lista fornitami dalla signora, mi recai presso il

supermercato di via Bellini. Dopo circa un paio d’ore rientravo. Avendo atteso inutilmente che mi venisse aperta la porta dalla signora, prendevo le chiavi di tale casa dalla mia borsetta e provvedevo da sola ad aprire. Non vedendo la signora Evelina, cominciai a chiamarla e a cercarla nel le varie stanze. All’atto di entrare nella camera della signora, sita al secondo piano della casa, ho rinvenuto il cadavere della suddetta, disteso per terra e coperto di sangue.. . Procura della Repubblica - Padova. Verbale di indagini del P.M. ai sensi dell’articolo 232 C.P.P.” “Avanti a noi Sostituto Procuratore della Repubblica, in data 25 febbraio 1976, e’ comparso Ventura Carlo, nato a Padova, il 4 aprile 1930, ivi residente in via Mascagni n. 129, di professione imprenditore. A domanda risponde «Sono stato messo al corrente del delitto di mia moglie da tale Dal Bianco Daniela, domestica di casa, verso le ore diciotto e quarantacinque. Sono stato rintracciato nell’azienda di mia proprietà che si trova a Zenson di Piave, provincia di Treviso». A.D.R. «Non ho mai conosciuto tale Magagnin Alberto e posso escludere che si tratti di persona nota a mia moglie Evelina». A.D.R. «Ho sposato Evelina in seconde nozze il 28 marzo del 1973. Io ero divorziato e lei vedova». A.D.R. «Nel corso della nostra unione non sono nati figli. Entrambi ne avevamo avuti dai precedenti rispettivi matrimoni. Evelina era madre di un maschio e una femmina che corrispondono al nome di Francesco di anni 24 e Selvaggia di anni 22. Entrambi, da anni, dalla morte del padre, vivono negli Stati Uniti. Io sono padre di un maschio che corrisponde al nome di Marco, di anni 20». A.D.R. «Mio figlio vive con la madre a Treviso».” “L’anno 1976, il giorno 2 del mese di marzo, alle ore undici, in Padova ufficio Istruzione, avanti a noi Giudice Istruttore e’ comparso il testimonio seguente cui rammentiamo anzitutto a mente dell’articolo 357 del codice di procedura penale l’obbligo di dire tutta la verità, null’altro che la verità, e le pene stabilite contro i colpevoli di falsa testimonianza. Interrogato quindi sulle generalità, esso risponde: Sono e mi chiamo Barbara Anelli Bucellati, nota Bibi, nata a Padova il 26 ottobre 1940, ivi residente in Piazza dell’Insurrezione al civico 3, di professione casalinga. A.D.R. «Ero la migliore amica della povera vittima Evelina Mocellin Bianchini. Ci frequentavamo spessissimo e quotidianamente ci sentivamo per telefono. Dividevamo le stesse frequentazioni, in ambienti rispettabilissimi (il teste cita numerosi nomi di famiglie, nonché associazioni, circoli eccetera)». A.D.R. «Escludo che la mia amica conoscesse l’imputato Magagnin Alberto». A.D.R. «Escludo anche che si tratti di persona nota alla domestica, Dal Bianco Daniela». A.D.R. «I figli di Evelina, Francesco e Selvaggia risiedono da anni negli Stati Uniti dove frequentano l'università». A.D.R. «Di Marco, figlio del secondo marito di Evelina, Ventura Carlo, posso dire ben poco. Non l’ho mai visto e so che anche Evelina aveva avuto poche occasioni di incontrarlo, in quanto vive con la madre, la quale non ha mai avuto piacere che frequentasse la nuova compagna del marito».”

«Ciao, Marco. Ti sei alzato presto». «Sì» dissi stiracchiandomi. «Voglio terminare entro oggi la lettura degli atti. Da quanto ho letto finora non emerge nulla di interessante. Devo ammettere che se non sapessi con certezza che Alberto era innocente, a questo punto mi sarei convinto anch’io, come i giudici, della sua colpevolezza». «Insisti, socio. Tieni duro, non abbiamo altre piste». «Lo so bene. Hai intenzione di uscire?». «Sì, vado a fare provviste e soprattutto a comprare un paio di ventilatori: questa casa e’ un forno. Prendo anche il cellulare. Se rivedo in quel bar i fratelli Caruso, gli faccio un’altra telefonatina. Abbiamo bisogno di guadagnare tempo perciò voglio che si convincano che abbiamo cambiato idea e che acconsentiamo a incontrarli. Ma poi aggiungerò che non ci fidiamo e che vogliamo garanzie. Questo ci permetterà di tirarla in lungo con le trattative». «Pensi che abbiano intenzione di far fuori anche Bepi Baldan?». «Sì. Adesso se lo tengono stretto perchè e’ l’unico che puo riconoscerci ma quando avrà assolto al suo compito, lo considereranno soltanto un testimone scomodo». «Non e’ il caso di avvisarlo?». «Se non lo ha ancora capito e’ proprio un pirla. Ma non credo sia opportuno dirglielo perchè si farebbe prendere dal panico. I fratellini capirebbero che noi conosciamo le loro intenzioni e non avremmo più la possibilità di tirarla per le lunghe. Se la deve cavare da solo e prima di un eventuale scontro: dopo diventerebbe scomodo per tutti. Anche per noi». Continuai la lettura dei verbali delle testimonianze. Amici e conoscenti della vittima avevano rilasciato dichiarazioni simili a quella di Barbara Anelli Bucellati. Anche nei soprannomi. Era tutto un susseguirsi di noto Toto, nota Fefi, noto Billo, nota Duda... Ben diverse le testimonianze relative alla personalità dell’imputato. Una zia. “Dopo la morte dei genitori, decidemmo di affidarlo a un istituto. Noi parenti non eravamo in grado di provvedere al suo mantenimento...” La suora ex direttrice dell’Istituto per l’infanzia San Luigi. “Lo ricordo bene. Un bambino ribelle, poco incline all’obbedienza e allo studio del catechismo. Era sempre punito...” La maestra. “Aveva difficoltà di apprendimento e una cattiva condotta in classe. Non mi sorprende che sia finito così...” Un educatore del carcere minorile. “Era stato ristretto nel nostro istituto per scontare una condanna per furto. Iniziò a drogarsi durante la detenzione. Tentammo di correggere il suo comportamento in tutti i modi...” Un assistente sociale. “Rinunciai a seguirlo, quando non si drogava diventava violento. Una volta tento di aggredirmi...” Una psicologa: “Socialmente irrecuperabile...” Non c’era da stupirsi se Alberto Magagnin si era legato a un personaggio bizzarro e pericoloso come Piera Belli. In fondo era l’unica persona che, seppure in un modo molto particolare, gli aveva dato qualcosa che poteva essere scambiato per affetto. Misi da parte anche quel fascicolo. Lessi poi i “Verbali del dibattimento, il rinvio a giudizio, le sentenze della Corte d’Assise d’Appello e della Corte di Cassazione, le memorie della difesa e della parte civile”. Nulla. Ero depresso e mi stavo rassegnando a rinunciare a quell’indagine. Perciò presi in mano l’ultimo incartamento, dove a mano era stato scritto “Varie”, con un profondo senso di sfiducia. All’interno erano conservate le copie delle richieste con le quali l’avvocato Foscarini chiedeva di poter visitare il proprio cliente in carcere, la corrispondenza

intercorsa tra i due e altre scartoffie burocratiche. Vi era anche la fotocopia di una lettera che l’avvocato Alvise Sartori aveva inviato al Giudice Istruttore, datata 8 marzo 1976. “Ho saputo dal mio cliente, il dottor Carlo Ventura, che la Signoria Vostra e’ intenzionata a procedere all’interrogatorio di Francesco e Selvaggia, figli della defunta Evelina Mocellin Bianchin, e di Marco, figlio di primo letto del Ventura. Pur comprendendo e lodando lo scrupolo istruttorio che sottintende a tale proposito, mi permetto di far presente alla Signoria Vostra, quale rappresentante di parte civile (per il marito e i figli della vittima), che tali interrogatori sono da ritenersi inutili ai fini processuali dato che certamente, non aggiungerebbero nessun elemento significativo al quadro probatorio già raccolto a carico dell’imputato, grazie anche all’ampiezza che esso ha assunto nel corso delle indagini. Tra l’altro si fa presente che i figli della vittima, dopo i funerali, sono ripartiti per gli Stati Uniti dove risiedono e che una loro citazione, realizzata anche per rogatoria internazionale, porterebbe a un considerevole allungamento dei tempi processuali, mentre e’ volontà del mio cliente (e anche del Procuratore Capo) arrivare al più presto al dibattimento in Corte d’Assise affinché la giustizia faccia il suo corso. Inoltre, la parte civile ritiene di poter affermare che tali interrogatori potrebbero influire negativamente sui tre giovani dal punto di vista psicologico - essendo questi già duramente provati dal lutto - soprattutto se si dovessero poi ripetere in dibattimento. In particolare, il giovane Marco Ventura, già piuttosto fragile dal punto di vista emotivo per la separazione dei genitori, e’ stato così colpito dal fatto delittuoso da rendere necessario il suo ricovero presso la clinica Santa Lucia di Padova. Gli stessi medici che l’hanno in cura fanno sapere di essere contrari al fatto che il paziente venga interrogato, poiché si tratterebbe certo di un evento stressante con effetti dannosi su un soggetto già tanto sofferente. Fiducioso che la sensibilità della Signoria Vostra...” Rilessi la lettera un paio di volte. Poi andai a ripescare la deposizione di Barbara Anelli Bucellati: ricordavo una parte dove parlava dei ragazzi. “A.D.R. «I figli di Evelina, Francesco e Selvaggia risiedono da anni negli Stati Uniti dove frequentano l'università». A.D.R. «Di Marco, figlio del secondo marito di Evelina, Ventura Carlo, posso dire ben poco. Non l’ho mai visto e so che anche Evelina aveva avuto poche occasioni di incontrarlo, in quanto vive con la madre, la quale non ha mai avuto piacere che frequentasse la nuova compagna del marito...».” Accesi una sigaretta, mi versai ancora del calvados e infilai una cassetta di musica blues nello stereo. Quando Zora Young attacco la seconda strofa di “Make me feel real good tonight”, iniziai a mettere a fuoco ciò che fino ad allora mi era parso soltanto come una sensazione. Quel riferimento esplicito al Procuratore Capo, il cui desiderio coincideva con quello di Carlo Ventura di chiudere il caso al più presto, aveva inevitabilmente attratto la mia attenzione: più che un appello alla sensibilità del magistrato a cui veniva rivolto, sembrava un preciso invito ad assumere una determinata decisione, una sorta di velata intimidazione a non creare problemi. La lettera di Sartori era apparentemente informale, non riportava infatti i timbri e la numerazione con cui vengono contrassegnati normalmente gli atti processuali (si poteva perciò pensare che la copia di cui disponeva la Foscarini fosse arrivata nelle sue mani solo grazie all’eccesso di zelo di un cancelliere), ma dava l’impressione che si trattasse dell’atto finale di un piano lungamente meditato. Lo scopo era evidente: tenere lontano i tre “giovani” dal caso per non farli deporre, soprattutto pubblicamente, in Corte d’Assise dove sarebbero stati a contatto con la stampa. Mi chiesi se avessero presenziato ugualmente alle udienze e presi un appunto per ricordarmi di interpellare Galderisi su cosa ne sapesse in proposito, anche se ero già più che certo che non avessero mai messo piede in tribunale.

Francesco e Selvaggia vivevano negli Stati Uniti ed erano tornati giusto il tempo necessario per partecipare al funerale. Non mi sembrava davvero il comportamento di due figli affranti dal dolore; inoltre la costituzione di parte civile con la nomina dell’avvocato Sartori sembrava più un atto dovuto che l’espressione della volontà di vedere punito l’assassino della madre. Di solito, gli avvocati dei parenti delle vittime cercano di creare un clima sfavorevole agli imputati commuovendo le corti con deposizioni strazianti. Quella di due figli già orfani di padre che salgono sul pretorio a ricordare quanto era tenera e cara la loro mamma, avrebbe avuto certamente l’effetto di aumentare la pena di Magagnin. Invece, Sartori non aveva nemmeno voluto che deponessero per rogatoria. Ancora meno comprensibile appariva la reazione di Marco, il figlio ventenne di Carlo Ventura. Si poteva affermare che conoscesse appena la vittima, gli era stato infatti esplicitamente impedito di frequentarla, difficile quindi credere che il legame affettivo tra i due fosse così intenso da provocare nel ragazzo una crisi di tale portata da rendere necessario il ricovero in clinica. Più ci pensavo e più le ragioni addotte da Sartori mi sembravano assurdamente illogiche e pretestuose. Già Presi a mordicchiarmi nervosamente il labbro inferiore. Ma certo! Tra le righe di quella lettera, che altro non era che un’astuta mossa da principe del foro, era nascosto il bandolo dell’intera matassa: la verità La situazione meritava di essere degnamente festeggiata. Mi alzai in piedi, afferrai un bicchiere e la bottiglia di calvados: «Francesco, Selvaggia e Marco, punto tutto su di voi. Siete i miei cavalli vincenti. Lo sento» dissi ad alta voce, versandomene una dose più che abbondante. Quando tornò il mio amico, si trovo di fronte a un uomo brillo e soddisfatto. «Cosa stai festeggiando?». «Il mio ingegno di investigatore». «Scoperto qualcosa?». Gli esposi la mia teoria. Come al solito non lo convinse. «Dei tre, due stanno dall’altra parte del mondo e uno e’ sciroccato. E con una pista del genere vorresti tirarci fuori dai guai?». «Sono passati quindici anni, non e’ detto che i fratellini siano rimasti negli States e lo sciroccato nel frattempo potrebbe essere guarito... Non fare sempre il pessimista». Mi guardò dubbioso. «Ho parlato con Alfredo Caruso» mi comunicò, cambiando discorso. «Ho cercato di essere viscido quanto loro e ho gettato l’amo. Mi dà l’impressione che abbiano abboccato, ma e’ meglio non fidarsi: con quella gente non si sa mai». «Quanto pensi che potremo smenarla?». «Non più di una settimana. E’ il tempo massimo che ci possiamo concedere per grattarci questa rogna». «E se non ci riusciamo?». «Saremo costretti a fuggire. Lontano, molto lontano e l’idea non mi aggrada, Marco. Ho cinquantadue anni...». Portai platealmente le mani alle orecchie e lui mi tiro addosso una tazzina vuota, completa di piattino e cucchiaino. Dormii un paio d’ore. Mi svegliai piuttosto intontito ma una volta sotto la doccia tentai di escogitare un piano. Una settimana era un tempo troppo breve per pensare di potercela fare da soli. Avevamo bisogno di aiuto. Ma a chi potevamo rivolgerci? Barbara Foscarini era fuori gioco, ricontattare Max la Memoria sarebbe stato troppo lungo e macchinoso. Non rimaneva che Giovanni Galderisi. Dovevo assolutamente convincerlo.

Il colloquio non inizio nel migliore dei modi. «Cosa devo farne di questo cellulare?» domandò appena mi riconobbe. «Non e’ il nostro sistema di comunicazione?». «Era. La nostra collaborazione finisce qui». «perchè?». «Mi sono fidato di lei, ho accettato le sue condizioni, ho pubblicato gli articoli, le ho passato informazioni e mi sono esposto al punto da essere messo sotto controllo dalla polizia... ma ancora non so cosa stia succedendo realmente e, come se non bastasse, le informazioni che mi aveva promesso non sono mai arrivate». «Deve avere ancora un po’ di pazienza». «No. Non mi faccio usare da nessuno, tantomeno da un illustre sconosciuto». «Ascolti, dottor Galderisi. Negli ultimi giorni non ho avuto la possibilità di contattarla. Mi trovo nei guai per quanto ho scoperto, lei non immagina nemmeno...». «Chiacchiere». «E va bene. Vuole delle informazioni? Gliele darò Si ricorda del professor Nigel Cook, dell’indagine bancaria che ci ha permesso di arrivare fino a lui?». «Allora?». «L’inglese era stato assunto per redigere un parere pro veritate sulla perizia ematologica di Artoni sulla cui base era stato condannato Magagnin. Ebbene, quella perizia era sbagliata. La Belli, dopo averlo scoperto, ha iniziato a ricattare il medico legale: sesso e soldi. Alla fine lui si e’ stufato e l’ha uccisa. Nel suo piano era prevista anche l’incriminazione del semilibero...». «Cosa sta dicendo?» chiese, incredulo. «...il quale e’ innocente anche dell’omicidio di Evelina Mocellin Bianchini. Il processo venne truccato dall’avvocato Sartori e da Carlo Ventura, l’inconsolabile vedovo, con la complicità di Artoni». «Lei e’ un mitomane» gridò. «Il complottismo e’ una malattia nazionale ma io sono vaccinato, non le credo». Ignorai la sfuriata. Con tono pacato cercai di riportarlo alla ragione. «Dottor Galderisi, lei e’ vecchio del mestiere, cominci a fare due più due...». Rimase a lungo in silenzio. «Non le credo» ripetè, ma questa volta con minore convinzione. «Le faccio un’ultima proposta. Mi passi delle altre informazioni. In cambio, tra una settimana al massimo, avrà tutta la storia. L’uso che ne farà sono affari suoi». «Prima di accettare, mi dica cosa vuole sapere». «Informazioni su Francesco e Selvaggia Mocellin Bianchini. E su Marco Ventura, figlio di Carlo. Cosa fanno e dove sono». «Poi?». «Se erano presenti alle udienze del processo. Infine, se e’ vero che dopo il delitto Marco Ventura e’ stato ricoverato nella clinica Santa Lucia». Ancora un lungo silenzio. «Un’esca davvero allettante, la sua: mi sta facendo intravedere una storia di quelle che fanno diventare famoso un giornalista ma, allo stesso tempo, che possono fottere una carriera. La stampa ha sempre trattato con i guanti Sartori, Ventura e i loro amici». «Allora?» lo incalzai. «D’accordo. Mi telefoni domani pomeriggio, le saprò dire qualcosa ma tra una settimana voglio tutta la storia». Disattivai il cellulare. La settimana sarebbe scaduta mercoledì 26 luglio. Un mese esatto

dall’omicidio di Piera Belli. Poco prima di mezzanotte Beniamino volle tornare in piazza Mazzini per controllare ed eventualmente seguire i fratelli Caruso. Nascosti da una fila di auto parcheggiate, li osservammo, mentre seduti al solito tavolo all’aperto mangiavano il solito gelato, non smettendo nemmeno per un attimo di parlare e gesticolare. Bepi Baldan se ne stava in disparte alle loro spalle e non faceva altro che guardarsi intorno. Non era l’unico. A breve distanza, tre guardaspalle della banda scrutavano la piazza da professionisti, con grande naturalezza ma estrema attenzione. Nonostante il caldo portavano la giacca, il che significava che erano pesantemente armati. Era chiaro che, secondo il piano dei due fratelli, spettava loro il compito di eliminarci. Alfredo e Ugo si assomigliavano molto. Bassi e massicci, indossavano camicie sgargianti aperte sul petto, così da mettere in risalto le immancabili collane d’oro, segno di potere e ricchezza nell’ambiente camorrista. Quando si alzarono, furono subito imitati dai tre ceffi; uno di loro si avvicino a Baldan e lo sollevò prendendolo amichevolmente per la collottola. Si divisero in due macchine. I capi salirono su una enorme Volvo berlina grigio metallizzata, gli altri su una Opel Omega dello stesso colore. Fu facile seguirli. Ci tenemmo a un centinaio di metri di distanza, mantenendo la loro velocità che non superò mai i limiti. Armati com’erano non volevano correre il rischio di essere fermati dalla polizia per una stupida infrazione del codice della strada. L’auto con i Caruso a un certo punto infilò il cancello di un condominio di via Dini, dalle parti del cimitero maggiore, l’altra proseguì oltre ancora per una ventina di chilometri, fino a un night club sulla statale per Rovigo. Facemmo dietro front. Ora che non c’erano più auto da seguire, potevo godermi il piacere che sempre riserva l’andare in moto in una notte d’estate. Prima di andare a dormire, dovevamo pero ancora sistemare qualcosa. Ritornammo di fronte all’entrata dell’abitazione dei Caruso e controllammo i campanelli: Ugo stava al quarto piano, Alfredo al quinto. Beniamino mi rivolse un sorriso soddisfatto. «Possiamo andare a dormire». «Hai intenzione di pedinarli anche domani?». «No. Quanto ho visto stasera mi basta». «Basta anche a me. Ho visto cinque individui pericolosi, perfettamente in grado di ridurci in polpette. Certo, ammesso che ci trovino...». «Io, invece, ho scoperto parecchi punti deboli nel loro sistema di sicurezza. Sono troppo spavaldi e si muovono con eccessiva disinvoltura». «Lo farei anch’io se fossi nei loro panni: hanno le spalle coperte da Sartori e sanno di avere a che fare con due sole persone... anzi, tre, dato che ignorano che Magagnin e’ defunto e surgelato come un baccalà». «Se sapessero chi sono io si preoccuperebbero di più ». «Non ti facevo così modesto. Dai, Clausewitz, riporta a casa le tue truppe assonnate» dissi, rimontando sulla moto. L’indomani, quando mi alzai, il vecchio Rossini era già uscito. Tornò nel primo pomeriggio, con due valigette di plastica, tipo ventiquattrore. «Scommetto che indovino cosa c'è dentro» dissi. «Comunque, potevi avvertirmi che uscivi. Mi stavo preoccupando». Senza dire una parola le appoggiò sul tavolo e fece scattare le serrature, voltandomi le spalle. Lo vidi armeggiare per un paio di minuti. «Belle, vero?» si giro, mostrandomi con orgoglio due mitragliette di fabbricazione tedesca, munite

di silenziatore. «Ferraglia pericolosa. Riportala dove l’hai trovata». «Ferraglia?» ripetè scandalizzato. «Queste» continuò agitandomele sotto al naso, «sono le migliori in assoluto. Le usano Mel Gibson in “Arma letale” 2 e Steven Seagal in “Trappola in alto mare”». «Ottime referenze, davvero» replicai. «Guarda un po’ se mi doveva capitare come socio un malavitoso feticista» esclamai, alzando gli occhi al cielo. «Dai, Marco, vieni qui che ti insegno come si usano». «Non se ne parla nemmeno. Lo sai che non voglio avere a che fare con quella roba». «Ehi! Con queste non ti porto mica a fare una rapina o un attentato. Ci servono per salvare la pelle e le useremo solo se sarà strettamente necessario. Ma mettiti bene in testa che non puoi far fare tutto a me. E per due motivi. Il primo e’ che se tu non mi aiuti non abbiamo possibilità di cavarcela, il secondo, e ben più importante, e’ che quando c'è da sporcarsi le manine, lo si fa insieme». «Conosco la regola. In galera mi avete fatto due palle così con queste menate». Mi versai da bere. Beniamino, giocherellava amorevolmente con le armi, in attesa di una mia decisione. «E va bene» sbottai. «In fondo se ti trovi in questo casino e’ per colpa mia. Ma promettimi che passeremo alle armi solo se assolutamente certi che non c'è più spazio per le trattative... e solo ed esclusivamente per salvare la pelle». «Stai ripetendo come un pappagallo quello che ho detto un minuto fa. Anch’io spero di non arrivare a tanto. Non credere che mi attiri l’idea di un conflitto a fuoco in compagnia di un pivello che ha tanta paura delle armi... comunque, ho scelto proprio queste perchè sono le più facili da usare». Telefonai a Giovanni Galderisi, tenendo il pollice della mano destra infilato in un bicchiere pieno di acqua e ghiaccio. Me l’ero schiacciato nel tentativo di imparare a caricare uno dei “ferri” che aveva portato il mio amico. «Novità?» domandai con una certa apprensione. «Qualcuna. Spero le possano essere utili. Ho riletto gli articoli che scrissi all’epoca del processo: i tre ragazzi non si sono mai visti. Ricordo che la cosa aveva incuriosito tutti noi cronisti, così Carlo Ventura rilasciò una dichiarazione in cui spiegava che le famiglie avevano preferito tenerli lontani dal tribunale “per non costringerli a rivivere il dolore e l’orrore” cito testualmente, “per l’efferato omicidio”. Per quanto riguarda Francesco Mocellin Bianchini, che adesso ha trentanove anni, ho saputo che vive negli Stati Uniti e svolge l'attività di rappresentante per un’importante ditta italiana del settore abbigliamento. Selvaggia invece ha trentasette anni, e’ tornata in Italia, si e’ sposata con un cittadino inglese, un ex diplomatico di dieci anni più vecchio di lei e che da qualche anno lavora come dirigente d’azienda. La coppia e’ senza figli e abita a Roma. Ha una penna a portata di mano? Le do l’indirizzo e il numero di telefono. E adesso passiamo a Marco Ventura. Ha trentacinque anni e, da quello che ho saputo, sembra un personaggio problematico, irrequieto, che non termina mai quello che inizia. A diciotto anni era una promessa del rugby - non le ho detto che e’ una specie di gigante e porta scarpe numero quarantasei - ma nel giro di due stagioni ha abbandonato lo sport. Idem per l’università, il lavoro, il matrimonio. Ha avuto guai con la giustizia in ben tre occasioni negli ultimi cinque anni. Tentata truffa e assegni a vuoto. Procedimenti mai arrivati a giudizio per ritiro della denuncia. Indovini un po’ chi e’ il suo legale?». «Alvise Sartori, naturalmente». «Esatto. Vive sempre con la madre, a Treviso, in una casa da sogno vicino a piazza dei Signori. Quel ricovero in clinica, ho scoperto che fu il primo ma anche l’ultimo. Il suo medico curante era lo psichiatra Agostino Andreose». «Motivo ufficiale del ricovero?» domandai.

«Non lo so. La clinica Santa Lucia e’ una struttura privata molto discreta, dove si curano pazienti facoltosi e a cui non piace la pubblicità Marco Ventura, rispetto agli altri, aveva una particolarità in più : suo padre e l’avvocato Sartori sono ancora oggi i due maggiori azionisti della società E’ tutto. Ah, no, un’ultima cosa: chi mi ha passato queste informazioni ha aggiunto che una ventina di giorni fa Marco e sua madre sono partiti per un lungo viaggio all’estero». Presi un foglio su cui trascrissi quanto mi aveva raccontato il giornalista. Rileggendo pensai che si trattava di una pista dalle tracce troppo incerte. Mi trovavo di nuovo in un vicolo cieco. Chiusi gli occhi e appoggiai la testa sullo schienale della poltrona: ritornai al momento in cui Barbara Foscarini mi aveva assunto per cercare Magagnin, e da lì valutai con calma, uno dopo l’altro ogni aspetto della vicenda. Alla fine mi ritrovai ancora una volta a pensare che, per arrivare alla verità, per chiudere definitivamente il caso, dovevo continuare a far riferimento alla lettera scritta da Sartori al giudice istruttore. Era uno dei tre ragazzi l’assassino di Evelina? In questo caso l’unico vero personaggio sospetto non poteva che essere Marco. Il movente? La gelosia oppure la follia. Uccide la matrigna, il padre lo vuole proteggere e si rivolge a Sartori. Decidono di farlo sparire dalla circolazione e lo rinchiudono in una clinica. Nel frattempo un’incredibile coincidenza si trasforma in un insperato colpo di fortuna: un ladruncolo tossicodipendente si trova casualmente sul luogo del delitto, scopre il cadavere e si macchia del sangue della vittima. Sotto shock, fugge e si fa arrestare come un allocco. Da quel momento tutto diventa facile, basta aggiungere qua e là qualche ritocco. La giustizia ora puo condannare un innocente e la strada le viene spianata dagli stessi giudici, i quali, per superficialità e pregiudizio, trovano in quel poveraccio l’imputato ideale. Non poteva che essere andata così. Non era solo l’intuito a suggerirmelo, bensì il fatto che Artoni, nel suo piano per l’omicidio di Piera Belli, avesse ricostruito lo stesso scenario del ‘76. Evidentemente era sicuro di incastrare Magagnin, il quale, alla luce della precedente esperienza, doveva giungere poco dopo il delitto, trovare il cadavere della professoressa, farsi prendere dal panico e fuggire in stato confusionale, pronto per l’arresto. Ecco spiegata la sorpresa che aveva colto il medico legale quando aveva scoperto che Magagnin si era comportato in modo diverso. Nonostante una vita di studi criminologici, aveva sottovalutato alcuni elementi, primo tra tutti quei quindici anni di galera trascorsi a contatto con delinquenti abituali che ingannano il tempo a parlare di donne, calcio e reati. Passati e futuri. Un corso neppure tanto accelerato di scuola del crimine. Il semilibero, pur non essendo una cima, qualcosa doveva aver imparato. Infatti dopo la scoperta del delitto, diversamente dalla prima volta, aveva pensato di procurarsi del denaro e un posto sicuro dove nascondersi. In questo quadro la partenza per l’estero di madre e figlio Ventura, in coincidenza con la scoperta dell’omicidio di Piera Belli, aveva il valore di una conferma. Tutto filava. Beh, non proprio tutto. perchè Carlo Ventura, quando scopre che la sua seconda moglie e’ stata uccisa dal figlio Marco, lo protegge, invece di consegnarlo alla polizia? E qual e’ il ruolo di Francesco e Selvaggia? Altre due domande alle quali dovevo assolutamente trovare una risposta. Avevo sperato che il giornalista sarebbe riuscito a ricavare informazioni più dettagliate, soprattutto rispetto alla clinica Santa Lucia. Ma non aveva potuto abbattere il muro di silenzi di fronte al quale si era trovato. Pensare che ce la potessi fare io, era solo tempo sprecato. Tentai così di abbozzare una strategia investigativa che mi permettesse di evitare quel posto ma mi resi subito conto che non era possibile: i primi riscontri alla mia ipotesi che il giovane Ventura fosse l’assassino potevo trovarli solo lì. Chiamai Beniamino e gli raccontai quanto avevo saputo da Galderisi, rendendolo partecipe anche delle mie elucubrazioni. «La clinica e’ un osso troppo duro per noi, Marco. Non conosciamo nessuno dell’ambiente e non possiamo presentarci alla porta con le nostre domande indiscrete. Bene che vada ci ritroviamo con una camicia di forza addosso». «Hai ragione, abbiamo bisogno di un piano accurato. Dobbiamo rivolgerci al Colonnello».

«Oh, no. Un altro pazzo» esclamo. Camillo Piran detto il Colonnello era un ex terrorista che avevamo conosciuto in galera mentre scontava una condanna a dodici anni per partecipazione a banda armata. Un vero e proprio stratega: nella sua organizzazione aveva il compito di pensare e pianificare le azioni e gli attentati. Il soprannome gli era stato affibbiato dai detenuti per la sua mania di infilare il gergo militare in ogni argomento. Aveva scontato la pena fino all’ultimo giorno perchè non si era dissociato e tantomeno pentito. «Se non l’hai fatto tu che nemmeno c’entri, perchè dovrei farlo io?» mi aveva detto una volta. Se l’era passata peggio di tanti altri. La moglie aveva testimoniato per l’accusa e aveva convinto i due figli a interrompere ogni rapporto con lui. Aveva sofferto molto per questo, ma era stato capace di conservare la propria dignità Mi era sempre stato simpatico e lo invitavo spesso a mangiare nella mia cella. Una volta, il giorno del mio compleanno, al momento del brindisi, aveva levato in alto il bicchiere uscendosene con un «cento di questi giorni», che aveva scatenato l'ilarità generale. Sapevo che era stato scarcerato un paio di anni prima e che ora lavorava nella tipografia del cognato. Lo trovammo intento a controllare una cianografia. Non era cambiato dall’ultima volta che l’avevo visto. Sui cinquant’anni, magro e allampanato, nonostante le mani macchiate d’inchiostro manteneva l’aspetto del docente universitario che era stato un tempo. «Colonnello, i miei rispetti» lo salutai. Si guardò intorno, ci venne vicino e bisbiglio: «Fate finta di essere due clienti. Mio cognato mi controlla, teme che qualche vecchio compagno mi ricontatti e mi rimetta nei guai». Poi prese la bozza di un manifesto e ad alta voce, in modo che tutti lo sentissero: «Ecco qui... controlliamo insieme il testo così possiamo passare subito alla stampa». Ci obbligò a chinarci sul tavolo. Il manifesto pubblicizzava una gara di ballo liscio in una nota discoteca della zona. «Allora, cosa volete?» domando. «Ci devi preparare un piano» risposi. Gli occhi gli brillarono. «Tra un’ora smonto dal lavoro. Vado sempre a cena in una trattoria qui vicino, da “Ennio”. Ci vediamo là». Il locale in realtà era una bettolaccia che aveva urgente bisogno di una bella ripulita. Il proprietario ci indicò il tavolo con un grugnito e di sua iniziativa ci portò una brocca di vino bianco e due bicchieri. Poi arrivò la moglie che dalle chiazze di unto sul grembiule capimmo essere anche la cuoca. Ci biascicò il menu. Le risposi che aspettavamo un amico e si ritiro in cucina. Il Colonnello entrò a passo spedito e si diresse verso di noi, fregandosi le mani. «Qual e’ l’obiettivo?» domando appena seduto. Gli parlai della clinica e del tipo di informazioni che volevamo ottenere. Arrivò la cuoca. Lui ordinò trippe e spezzatino. Noi ci limitammo a chiedere dell’acqua minerale. Mangiò in silenzio, l’espressione assorta. Prese il tovagliolo, si pulì la bocca meticolosamente e domando: «E’ fondamentale che il nemico rimanga all’oscuro di questa assunzione di informazioni?». «Sì» risposi. «Peccato» commentò. «L’operazione più semplice sarebbe un’occupazione notturna dell’obiettivo, con l’interdizione momentanea del personale e una perquisizione mirata... Peccato, un vero peccato... Beh, non rimane altra soluzione che infiltrarsi tra il nemico, operare una ricognizione e, infine, procedere a una serie di interrogatori». «Spiegati meglio» intervenne Beniamino. «Vi presenterete ai cancelli della clinica travestiti da ispettori del lavoro, esibirete il vostro bravo

tesserino di riconoscimento - non vi preoccupate, a questi particolari penserò io - poi vi farete indicare gli uffici amministrativi... direte che siete incaricati dall’ispettorato provinciale del lavoro di controllare la regolarità delle assunzioni e chiederete che vi venga mostrato il libro matricola. Lì cercherete i nominativi degli infermieri che prestavano servizio durante l’anno che vi interessa e che nel frattempo sono andati in pensione. Successivamente selezionerete quelli che secondo voi sono i più utili e malleabili e li avvicinerete cercando, con i mezzi che riterrete più opportuni, di accedere alla loro memoria. Piano non semplice ma fattibile». Ci guardò e notò le nostre espressioni sorprese e perplesse. Beniamino domandò con la gentilezza che si riserva ai malati di mente: «Scusa, Colonnello, ma a cosa serve un piano del genere?». «Su ragazzi, un po’ di immaginazione» ci esortò. «Se vi rivolgeste al personale attualmente in servizio, medico o infermieristico che sia, non otterreste nulla. La paura di perdere il posto di lavoro, di questi tempi, e’ un deterrente più che efficace. Ma i pensionati hanno tagliato tutti i ponti con l’ambiente di lavoro, non hanno più nulla da temere e se la passano male economicamente» disse, strusciando il pollice con l’indice. «Gli infermieri sanno tutto quello che succede in una clinica, più dei medici. Avete detto che il ragazzo era curato dallo psichiatra Agostino Andreose, il quale, adesso, e’ un pezzo grosso: da lui non saprete mai niente. Solo gli infermieri che avevano accesso al paziente possono darvi le informazioni che cercate». «Pensi che la storiella degli ispettori reggerà?» domandai. «Ne sono sicuro. E’ un trucchetto che ho usato più di una volta e ha sempre funzionato. Deve essere sorretto da un buon travestimento... vediamo... dato che siamo a luglio, consiglio delle camice a maniche corte di colore sobrio, pantaloni intonati, mocassini neri con i lacci. Niente anelli, collanine e braccialetti» si rivolse a Rossini, «jeans attillati, stivaletti di serpente e orecchino da pirata» concluse, guardando me. «Non ci puo andare da solo?» domandò il mio amico, indicandomi. «No, gli ispettori girano sempre in coppia». Per un’ora ancora tartassammo di domande il Colonnello ma alla fine ci convincemmo della bontà del piano. Io ne ero addirittura entusiasta e prima di andarmene gli stampai un bacio sulla fronte, accompagnato da un: «Sei un genio, Colonnello». «Grazie, Alligatore. Se avrete ancora bisogno di me tornate pure a trovarmi. Dopo la galera, nessuno si e’ più fatto vivo...» mormorò, con una punta di tristezza. Poi, prendendomi per un braccio: «Questa città e’ una tomba per uno con il mio passato». «perchè non te ne vai?». «Un giorno, Alligatore, un giorno. Quando anche gli altri saranno usciti dal carcere». «E poi?». «Tutti in Messico. Pare che nel Chiapas ci sia un gruppo che sta organizzando l’insurrezione degli indios». «Un’altra rivoluzione, Colonnello?». «E’ sempre la stessa, Alligatore. E’ sempre la stessa». L’indomani mattina ci recammo in un grande magazzino a comprare i vestiti che ci aveva consigliato l’ex terrorista e alle quindici in punto varcavamo l’ingresso della clinica Santa Lucia. «I signori desiderano?» chiese l’impiegata della reception. «L’amministrazione?» domandai a mia volta. «Al primo piano» rispose indicando l’ascensore. Esibimmo i due tesserini falsi che ci aveva procurato il Colonnello. La nostra presenza nell’ufficio creo una certa agitazione. Qualche istante dopo si avvicino un tipo calvo, con gli occhiali e un sorriso antipatico stampato sulla faccia sudata. «Qualche problema?» domandò.

«Solo un semplice controllo. Routine» lo rassicurai. Chiedemmo di prendere visione del libro matricola e che ci venisse messo a disposizione un posto tranquillo dove lavorare. Ci accontentarono con solerte efficienza. Dopo una decina di minuti, con la scusa di offrirci un caffè, il tipo dell’amministrazione fece capolino nella stanza in cui ci avevano sistemati. «Se avete bisogno di delucidazioni, sono a vostra disposizione». «Grazie» rispose Rossini, con un tono mellifluo. «Ma non dovremmo averne bisogno... se la documentazione e’ in regola». «Certamente» concesse l’impiegato. «Io l’ho detto solo per farvi sentire più a vostro agio. E’ la prima volta che venite. I colleghi che vi hanno preceduto, il dottor Belelli e il signor Arfo, ci conoscevano bene... con loro non ci sono mai stati problemi e abbiamo collaborato fin dall’inizio. «Va bene» intervenni. «Se avremo bisogno la chiameremo. Adesso, vada». Trovammo e fotocopiammo i nominativi che ci interessavano. Beniamino volle a tutti i costi farne due copie. Una se la infilò in tasca. «Poi ti spiego» tagliò corto. Al momento di andarcene, il calvo ci chiese di seguirlo nel suo ufficio. «Pensate di tornare?» domando. «E’ possibile. Potremmo avere bisogno di controllare altri documenti» risposi. «Forse non e’ necessario». «Se permette» intervenne Beniamino, «sta a noi deciderlo». «Forse non e’ necessario nemmeno che portiate con voi i documenti che avete appena fotocopiato». «Siamo venuti per questo» ribatte il mio amico. «Sentite signori, ci tengo a sottolineare che fino ad ora con il vostro ufficio non ho mai avuto problemi. Belelli, Arfo e io ci siamo sempre intesi alla perfezione... sapete, in una clinica si pensa più alla salute dei pazienti... che alle scartoffie. Talvolta, innocentemente, si commettono delle dimenticanze, si compiono delle leggerezze...». Rossini mi prese di mano le fotocopie. «Quanto?» domando rudemente. L’altro estrasse una busta dalla tasca. «Cinque» rispose secco. «Affare fatto». «Ma non vi farete più vedere. La prossima volta devono venire i vostri colleghi». «Su questo ci puo contare» lo salutai, uscendo dalla porta. Beniamino non la smetteva più di ridere. «Che pirla, quel tipo. In vita mia non ho mai guadagnato dei soldi tanto facilmente». «Quando hai capito che ci avrebbe offerto una mazzetta?». «Quando e’ entrato a chiederci se volevamo del caffè. Il messaggio era chiarissimo». «Adesso capisco perchè hai voluto fare due serie di fotocopie. Ci ha scambiato per due funzionari corrotti... certo che dopo tutto il casino di tangentopoli mi aspettavo quantomeno un po’ di circospezione, invece quello e’ andato subito al sodo». «Marco, sei proprio un pivello» disse, dandomi un buffetto sulla testa. «Sono solo cambiate le tariffe. Nient’altro». Degli undici nominativi, solo cinque appartenevano a degli infermieri: tre donne e due uomini. «Da quale cominciamo?» chiese il vecchio Rossini. «Non lo so» risposi. «Non mi piace molto l’idea di procedere a tentoni. Si rischia di andare dalla persona sbagliata e di farsi scoprire». «Ti ricordo che oggi e’ già il 21...». «Lo so che giorno e’... fammi pensare... forse esiste un modo per aggirare l’ostacolo». Telefonai alla clinica e chiesi della segretaria del professor Andreose. Mi rispose una voce

piuttosto giovane e decisi allora di azzardare. «Buongiorno, sono Piero Martini, un vecchio paziente del professore. Si ricorda di me?». «Mi dispiace, in questo momento non ricordo. Cosa desidera?» «Volevo solo sapere se il professore esercita ancora alla Santa Lucia. Non abito più a Padova da tempo e il mio analista... junghiano... e’ morto la settimana scorsa... cancro alla prostata... Ma proprio non si ricorda di me?». «No, sono la segretaria del professore solo da quattro anni». «Ah, mi scusi. E’ chiaro che non puo ricordarsi... sa, glielo ho chiesto perchè la sua collega mi era molto simpatica, ci scambiavamo sempre battute... pensavo fosse lei. In questo momento mi sfugge il nome...». «Claretta». «No, quello me lo ricordo. Volevo dire il cognome...». «Coro» «Giusto, brava». «Vuole fissare un appuntamento con il professore?». «No, guardi devo ancora decidere a quale specialista rivolgermi. In caso mi farò vivo... sa, sono ancora in lutto per la morte del mio psichiatra». «Bravo, Marco, davvero» si complimentò Beniamino. «Reciti benissimo la parte dello sciroccato. Come se ti venisse naturale». «Smettila di dire fesserie e passami l’elenco. Vediamo un po’ se c'è questa Claretta Coro». La trovai nella lista degli impiegati. Dieci minuti dopo eravamo diretti a casa sua. Ci aprì una giovane con una bambina in braccio che ci rispose di essere la figlia della signora Coro. Ci pregò di attendere mentre andava a chiamarla. La donna si affacciò alla porta. Aveva i capelli tinti e un’aria giovanile ed energica. «Sì?» Le misi davanti agli occhi il falso tesserino. «Ispettorato provinciale del lavoro. Desideriamo parlarle un momento». Ci fece accomodare in un salotto piuttosto modesto e pieno di fotografie di un uomo massiccio, con i capelli bianchi. «Mio marito» disse. «E’ morto l’anno scorso». «Senta signora, lei era già la segretaria del professor Andreose nel 1976?». «Sì, ma non capisco...». «Anche quando venne ricoverato Marco Ventura?». «Chi?». «Ha capito benissimo. Marco Ventura, il figlio di Carlo, uno dei padroni». «Avete detto che siete dell’ispettorato del lavoro?». «L’abbiamo detto». «Ma le cose che mi chiedete cosa c’entrano con l’ispettorato?». «Niente». «E allora cosa volete?». «Risposte». Fece il gesto di alzarsi dal divano. «Forse e’ meglio che chiami mia figlia». Beniamino che sedeva di fronte a lei, la fermò con un cenno e la obbligo a rimanere seduta. Poi tiro fuori da una tasca un rotolo di banconote da centomila e, molto lentamente, ne prese una e la stese sul basso tavolino posto tra lui e la donna.

«Cosa significa?» domandò questa con apprensione. «Che non abbiamo cattive intenzioni. Vogliamo solo sapere alcune cose su Marco Ventura e in cambio le lasceremo un bel gruzzoletto, così potrà provvedere con più tranquillità alle necessità del suo nipotino» risposi. «Volete mettere nei guai il professore?». «Assolutamente no. Ci interessa soltanto Marco Ventura». Mi diede un’occhiata. Forse pensò che si poteva fidare o forse fu soltanto la vista del denaro. Dopo qualche attimo parve tranquillizzarsi. Aspettò che Beniamino avesse tirato fuori una trentina di banconote e poi chiese: «Cosa volete sapere?». «Ricorda il motivo del ricovero di Marco Ventura?». «Mi pare si trattasse di una crisi depressiva». «Ed era vero?». «Non lo so, penso di sì. Io, il paziente non l’ho mai visto perchè stava nel reparto B, quello degli agitati... ma il professor Andreose e’ uno psichiatra di prim’ordine, se aveva ordinato il ricovero vuol dire che c’era un buon motivo». «Ricorda per quanto tempo il ragazzo rimase in clinica?». «Circa un mese... ma non chiedetemi con precisione i giorni... e’ passato tanto tempo». «Durante quel periodo successe qualcosa di insolito?». «Beh, a dir la verità, qualcosa di strano succedeva. Il papà e la mamma di Marco venivano tutti i giorni a parlare con il professore. Molto spesso arrivavano in compagnia di un altro dei proprietari della clinica, l’avvocato Sartori. Si chiudevano nello studio e il professore mi allontanava con una scusa». «Nient’altro?». «Un giorno Natale Sperandio, un infermiere che faceva il turno di notte nel reparto agitati, chiese di parlare con il professore. Erano trascorsi circa due giorni dal ricovero del ragazzo. Da allora si fece vedere spesso ed ebbe più di un colloquio con il dottor Ventura e l’avvocato Sartori». «Questo suo collega lavora ancora alla clinica?». «No, e’ andato in pensione prima di me, col minimo». Prima di andarcene, Beniamino si avvicino alla donna e le bisbiglio qualcosa all’orecchio. Lei si irrigidì ma continuo a fissare ipnotizzata il mucchietto di banconote. «L’hai minacciata?» domandai. «Un po’. Le ho rammentato che siamo due tipi poco raccomandabili». «E’ tardi per andare da Sperandio» dissi, guardando l’orologio. «Potremo farlo domani mattina, sul presto». «D’accordo. Adesso proviamo a vedere se i Caruso sono al solito bar. Dobbiamo continuare le trattative per il fantomatico incontro». I fratelli furono ben contenti di sentire la voce del mio amico. Proposero di incontrarci la sera stessa in una stradina di campagna dietro l’ippodromo. Rossini rilancio con un appuntamento per le diciotto del giorno dopo in un bar del centro commerciale. Le trattative proseguirono per una decina di minuti, poi si lasciarono con la promessa di risentirsi l’indomani. «Vogliono che l’incontro avvenga in un posto tranquillo e vicino al fiume, così possono sbarazzarsi subito dei cadaveri» mi informo Beniamino. «Davvero premurosi. Cosa pensi stiano facendo oltre ad aspettare che ci decidiamo a incontrarli?». «Hanno sicuramente organizzato una ricerca in grande stile per localizzarci, promettendo una bella ricompensa al primo che ci avvista. Anche loro hanno fretta di concludere».

Tornammo al rifugio. Beniamino si mise a preparare la cena, io accesi il televisore, sintonizzandomi sul notiziario di una rete locale. Nessun accenno all’omicidio di Piera Belli, alla latitanza di Magagnin e al suicidio del professor Artoni. Verso la fine solo un breve aggiornamento sulle condizioni di Marietto Carraro, il quale non aveva ancora ripreso conoscenza e tantomeno era in grado di fornire agli inquirenti elementi utili per identificare i responsabili della misteriosa aggressione. Di colpo mi passo l’appetito e trascorsi il resto della serata a bere e ad ascoltare musica. Mi addormentai mentre Jimmy Reed cantava “Little rain”. L’ex infermiere Natale Sperandio abitava in una villetta monofamiliare nelle campagne circostanti Monselice, un paese della bassa padovana. La casa, circondata da vigneti, tradiva un’origine modesta nonostante il costoso abbellimento, frutto di una successiva ristrutturazione. «Mica male la bicocca per uno che e’ andato in pensione con il minimo» fece notare il vecchio Rossini, togliendosi il casco, mentre io scendevo dalla moto. «Già Cosa ci scommetti che i quattrini per rifare il look alla casa, provengono dalle tasche di Carlo Ventura? Non credo che il nostro pensionato sarà entusiasta quando gli chiederemo di parlare del suo benefattore». «E’ probabile. In questo caso i tesserini da ispettori del lavoro non serviranno a spaventarlo. Gli riserviamo il numero dei finti poliziotti?». «Non mi pare proprio il caso. Conosci anche tu il detto padovano “sono talmente onesto che in tribunale non ci sono mai stato, nemmeno come testimone”. La prospettiva di avere a che fare con la legge lo paralizzerebbe a tal punto da cucirgli definitivamente la bocca. L’unico modo per farlo parlare e’ fargli credere che non renderemo pubblici i suoi peccatucci ma che se non ce li racconta siamo decisi a distruggere il frutto di una vita di sacrifici». «Il trucchetto delle taniche di benzina, allora?». «Proprio quello». «E’ uno dei miei preferiti. Funziona sempre». Ritornammo un’ora dopo con tutto l’occorrente. Comparve sull’uscio una donna, certamente la moglie di Sperandio, che non ebbe il tempo di dire una parola: Beniamino le punto la pistola sulla fronte e la spinse dentro. Lo seguii portando con me due taniche di benzina da venti litri. Balbettando in dialetto ci disse che l’uomo si trovava in cantina, intento a travasare del vino da una botte in alcune damigiane. Quando si accorse della nostra presenza, Sperandio impallidì, completamente colto di sorpresa. Rimase a guardarci con la bocca aperta. Il mio amico sparò alle botti. Marito e moglie si portarono le mani alle orecchie osservando increduli il liquido rosso e schiumoso che lentamente allagava il pavimento. Come automi si lasciarono riportare in casa. Chiudemmo la donna in un ripostiglio e portammo l’ex infermiere nel salotto buono, facendolo accomodare su una poltrona. L’ambiente era in penombra, aleggiava un acuto odore di muffa. La stanza dava l’impressione di essere usata solo in occasione delle feste comandate. Le sedie conservavano ancora il cellophane con il quale erano state acquistate. Sperandio tentò di parlare ma Rossini gli infilo la canna della pistola in bocca, mentre io svitavo il tappo di una tanica e versavo alcuni litri di benzina su un divano. Poi presi una sedia e gli sedetti di fronte. Dalla tasca estrassi il registratore e una scatola di fiammiferi. Lo fissai per qualche minuto in silenzio, con aria truce. Vidi una chiazza scura allargarsi sui suoi pantaloni. «Non e’ bello pisciarsi addosso di fronte agli ospiti» lo canzonai. «Comunque fai bene ad avere

paura. Quest’anno non potrai bere il vinello di tua produzione e sarai costretto a chiedere al comune una stanza all’ospizio per te e la tua vecchia perchè questa casa andrà a fuoco» guardai platealmente l’orologio, «esattamente tra cinque minuti. A meno che tu non ci racconti le cose che vogliamo sapere... sai a cosa mi riferisco, vero?». Beniamino gli tolse la pistola dalla bocca e struscio la canna sulla stoffa della poltrona. «Che schifo!» esclamo. «Me l’ha sbavata tutta». Natale Sperandio, nonostante i suoi sessant’anni, conservava il fisico massiccio tipico degli infermieri che lavorano nei reparti degli agitati delle cliniche psichiatriche. La faccia da contadino veneto era stravolta da una smorfia di terrore, rivoli di sudore colavano dalle tempie al collo, inzuppandogli il colletto della camicia. «Guarda, Marco. Il sudore di Natale e’ marrone». «Gli si sta squagliando la tintura dei capelli». «Natale, devi cambiare barbiere» lo rimproverò Beniamino, scuotendo la testa. «Quello da cui vai ti rifila delle porcherie. Il mio, per esempio, usa solo prodotti naturali che non solo non indeboliscono il capello ma...». «Vuoi che ti prepari il caffè mentre discuti amabilmente di cosmesi maschile con il tuo amico Natale?» chiesi esasperato. «Allora» mi rivolsi a quest’ultimo, «ancora quattro minuti e poi diamo fuoco a tutta la casa». «Ze per via de chea vecia storia dea clinica? Del ricovero del fiolo de uno dei paroni?» domando l’ex infermiere. «Sì» risposi. «Sappiamo che andavi ogni giorno a fare rapporto da Andreose e che ti sei incontrato più volte con Ventura e Sartori». «No’l vorа miga denunciarme?». «No. Ci interessa solo sapere. Poi potrai continuare a occuparti delle tue vigne». Fu allora che si decise a parlare. Quando poi inizio il suo racconto, fu come se si fosse preparato per anni. «Ero l’infermiere del turno di notte al reparto degli agitati... essendo il più anziano e il più fidato, il professor Andreose mi ordinò di occuparmi da solo della somministrazione della terapia e del controllo del paziente... mi fece capire di stare attento perchè era il figlio del dottor Ventura. Il ragazzo era agitato. Il professore gli aveva prescritto due volte al giorno quella che noi chiamavamo la tris: due psicofarmaci molto potenti mescolati a una fiala di Valium. Si usa per far superare la crisi al malato e tenerlo tranquillo per ventiquattr’ore... il secondo o terzo giorno, l’infermiere del turno diurno, Mario Bisinella si dimenticò di somministrargli la terapia... se ne era completamente scordato perchè un altro paziente si era ferito gravemente sbattendo la testa contro il muro... lo licenziarono il giorno dopo. Fatto sta che quando montai in servizio, Marco Ventura era contrariamente al solito abbastanza lucido. Mi domandò se avevo notizie della madre e del padre e poi... se i carabinieri erano già venuti a cercarlo. Gli risposi che non ne sapevo niente e di non preoccuparsi, che presto sarebbe guarito. A quel punto si mise a urlare che non era pazzo e che avere ucciso quella troia, disse proprio così, era stato solo un atto di giustizia perchè aveva portato via da casa il padre, lasciando lui e la mamma da soli... oltre a tutto non era stata fedele neppure un giorno da quando si era sposata perchè aveva continuato a essere l’amante dell’avvocato Sartori...». Beniamino e io ci guardammo. La pista che avevamo seguito era proprio quella giusta e ora ci permetteva di raccogliere dell’ottimo materiale per arrivare a delle trattative soddisfacenti. «...la mattina dopo» continuò Sperandio, «andai dal professore e gli raccontai quello che ero venuto a sapere. Andreose mi chiese di non riferirlo in giro per non mettere in pericolo il ragazzo, visto che non era colpevole. Mi spiego che il giovane era sopraffatto da un senso di colpa del tutto ingiustificato - infatti la polizia aveva già arrestato il responsabile perchè soffriva di una sindrome di cui adesso non ricordo il nome... poi arrivarono Sartori e Ventura e mi promisero come azionisti, di aumentarmi lo stipendio ma che in cambio dovevano poter contare sulla mia discrezione». «E questa casetta te la sei fatta solo con l’aumento di stipendio?» domandai.

«Quando sono andato in pensione, il dottor Ventura mi ha dato un premio di ottanta milioni». «Non ti e’ mai passato per la mente che magari Marco Ventura era veramente colpevole e con il tuo silenzio hai fatto condannare un innocente?». «No iera miga afari mii» rispose, abbassando lo sguardo. Estrassi la cassetta dal registratore. «Guardala bene, Sperandio. Qualora ti venisse la tentazione di raccontare a qualcuno della nostra visita, ricordati che potremmo fare arrivare questa registrazione alla magistratura, alla stampa o a Sartori e Ventura. E poi torneremmo qui con dell’altra benzina. Uomo avvisato...». «Sono stanco, Marco, sono stanco. Andiamo in giro tutto il giorno a strapazzare la gente per raccogliere confessioni. L’altra notte ho perfino sognato che prendevamo l’elenco del telefono e uno alla volta facevamo confessare tutti gli abitanti di questa città Un vero incubo». «Siamo quasi alla fine, Beniamino. Resisti fino a quando avremo raccolto un altro paio di conferme. Poi contatterò Sartori e andrò a trattare». «Non ti basta la confessione di Sperandio?». «Purtroppo no. Mancano ancora delle risposte». «A chi tocca adesso?». «Al professor Agostino Andreose». «Un’altra irruzione?». «Penso sia sufficiente una telefonata». Collegai il microfono del registratore al cellulare e digitai il numero della clinica. Il centralino mi passo l’interno del professore e rispose la segretaria con cui avevo già recitato la parte del paziente. «Sono Marco Ventura, vorrei parlare con il professore». «Attenda in linea, prego». Passarono un paio di minuti e l’infermiera riprese in mano la cornetta. «Il professore in questo momento e’ occupato. Mi ha detto di dirle di richiamare tra qualche giorno». «No. Gli voglio parlare adesso». «Le ho detto che e’ occupato...». «Gli dica che ho intenzione di costituirmi». Dopo una manciata di secondi una voce maschile chiese: «Che storia e’ questa, Marco?». «Buongiorno, professor Andreose. Non sono Marco Ventura. Mi perdoni l’espediente ma non avevo altro mezzo...». «Allora non abbiamo niente da dirci. Addio...». «Aspetti prima di riagganciare, potrebbe risultare molto controproducente per lei. So tutto sul falso ricovero di Marco Ventura, le conviene ascoltarmi. Ho parlato con la sua ex segretaria e con Natale Sperandio. Se abbassa la cornetta, le garantisco che le procurerò una montagna di guai». «Ma lei chi e’? Cosa vuole?». «Risposte. E’ da quasi un mese che giro per questa città a fare domande e sono stanco. Stanco e incazzato. Quindi veda di essere ragionevole e mi accontenti. Le assicuro che questo colloquio rimarrà segreto e che da me non avrà nulla da temere. Non ho nessun interesse per la sua persona anche se penso che dovrebbe pagare per aver permesso che un innocente venisse condannato al posto di un giovane rampollo di buona famiglia». «Ero tenuto al segreto professionale». «E allora me lo racconti questo segreto». «Forse non e’ il caso di parlarne per telefono. Potrebbe venire alla clinica...».

«Non cerchi di guadagnare tempo. Non ha scelta: o parla o la rovino». «Va bene, come vuole... Ventura e Sartori mi chiesero di ricoverare il ragazzo. Dissero che si era cacciato in un guaio... ancora non sapevo dell’omicidio... e acconsentii. Mi chiesero di sottoporlo a una terapia di farmaci che gli impedisse di comunicare con chiunque. Poi venne Sperandio e mi racconto che il ragazzo sosteneva di aver commesso un omicidio. Chiamai subito il padre e l’avvocato e loro mi dissero di stare tranquillo, che il ragazzo credeva di essere un assassino ma che il vero responsabile era già in carcere. Mi spiegarono che intendevano tenere il ragazzo lontano dai giudici e soprattutto dalla stampa, per difendere la memoria della vittima dalle sue farneticazioni e per evitare intralci al cammino della giustizia». «E lei ci ha creduto?» domandai ironicamente. «Al momento sì. Sapevo che Marco aveva una personalità conflittuale, per cui non mi risultava difficile credere che si fosse identificato con l’assassino». «E poi?». «Dopo una ventina di giorni, interruppi la terapia farmacologica e il ragazzo fu in grado di affrontare i colloqui. Descrisse il delitto con una tale abbondanza di particolari da rendere del tutto credibile l’ipotesi che ne fosse il responsabile». «E allora, perchè non l’ha denunciato?». «Gliel’ho già detto. Essendo mio paziente ero tenuto al segreto professionale. E comunque la magistratura stava già perseguendo un’altra persona che, poi, al processo venne condannata. Io sono uno psichiatra, non un giudice...». «Cazzate» lo interruppi. «Cos’altro le ha rivelato?». «Ho indagato a fondo sull’episodio, dal punto di vista psichiatrico s’intende, e sono giunto alla conclusione che si trattò di un delitto d’impeto maturato in una personalità coartata...». «Lasci perdere i paroloni». «D’accordo. Marco odiava Evelina Mocellin Bianchini perchè gli aveva sottratto la figura paterna, mettendo così in crisi non solo se stesso ma anche la madre, già duramente provata dal sequestro di persona che alcuni anni prima aveva dovuto subire. Badi bene che la donna non perdeva occasione di alimentare il rancore del figlio fino al punto che dentro di lui maturò una vera e propria ossessione. La molla che fece scattare l’omicidio fu la scoperta della relazione che Evelina aveva intrecciato con l’avvocato Sartori, iniziata prima del matrimonio con Carlo Ventura e mai interrotta». «Ventura ne era a conoscenza?». «Sì. Da quanto mi risulta, l’aveva sempre saputo. Il matrimonio fu semplicemente una transazione d’affari. Non mi chieda di più perchè non lo so, ma posso assicurarle che i sentimenti non c’entravano». «E Marco, come ha scoperto la relazione?». «Lo seppe da Francesco e Selvaggia, i figli della Mocellin Bianchini. Marco mi riferì che gli telefonavano molto spesso dagli Stati Uniti, parlando sempre in termini molto negativi della madre, una donnaccia a loro dire, e non mancando mai di arricchire di nuovi particolari la vicenda del tradimento». «Mi sta dicendo che furono Francesco e Selvaggia ad armare la mano di Marco Ventura». «Praticamente». «perchè?». «Non lo so. Dovrebbe chiederlo a loro. L’unica ipotesi che posso azzardare e’ che i rapporti con la donna si siano via via deteriorati per via della sua condotta coniugale... piuttosto disinvolta. Inoltre, l’accusavano di aver fatto morire il padre di crepacuore. Comunque, particolare non trascurabile, dopo la sua morte si sono divisi una cospicua eredità». «Un’ultima cosa. Secondo lei, perchè Ventura quando ha scoperto che il figlio aveva accoltellato per decine di volte la seconda moglie, non l’ha consegnato alla giustizia?».

«Per evitare le minacce della madre del ragazzo... di fronte a me, nel mio studio lei disse testualmente: “Non sognarti di rovinare mio figlio, altrimenti metto in piazza tutte le tue schifezze”. Ma non credo ci fosse bisogno di minacciarlo per convincerlo, Ventura avrebbe protetto comunque suo figlio perchè uno scandalo di quella portata l’avrebbe rovinato». «E lei, da bravo strizzacervelli dei ricchi, non si e’ tirato indietro. Ha gettato la sua bella palata di sabbia per aiutare a sotterrare la verità». «Mi risparmi la sua morale a buon mercato. Non e’ in grado di capire la complessità della mia posizione...». «Non mi faccia pentire di averle garantito il silenzio sulle sue porcherie. Ho registrato la nostra conversazione e se tenterà di fare il furbo, potrà dire addio alla sua brillante carriera». Mi versai del calvados e ne bevvi una lunga sorsata, poi ripresi in mano il telefonino e digitai un altro numero. Durante l’attesa, riattivai il registratore. «Chi parla?» chiese una donna dall’accento straniero. «Vorrei parlare con la signora, sono un suo vecchio amico». «Un attimo, prego». «Pronto» disse un’altra voce, dal tono strascicato e annoiato. «Selvaggia?». «Sì». «Non mi conosci ma ho una storia interessante da raccontarti». «Una storia? Sei un nuovo tipo di maniaco telefonico?». «No. Sono solo uno che racconta storie. Quella di oggi riguarda tre giovani rampolli di buona famiglia implicati in un omicidio. Ti interessa?». «Certamente. Adoro i gialli» rispose, per nulla impressionata. «E io adoro questo tuo tono blasè. Crea la giusta atmosfera... vediamo... correva l’anno 1976, due dei tre protagonisti della storia studiavano negli Stati Uniti in prestigiose università Avevano lasciato l’Italia perchè non andavano d’accordo con la mamma che, tra l’altro, era rimasta vedova da poco. Loro adoravano il papà e alla sua morte avevano giurato che non avrebbero più vissuto sotto lo stesso tetto con la snaturata genitrice. Passa il tempo e la mamma decide di risposarsi dando così un nuovo dispiacere ai due figlioli, poiché essi lo considerano come un ulteriore tradimento nei confronti della buonanima di papà, il quale già in vita era stato sistematicamente cornificato. Inoltre, sapendo che il futuro sposo e’ un disinvolto manigoldo, temono che la genitrice possa sventatamente affidargli la gestione del patrimonio che, per eredità, spetta invece esclusivamente a loro. Decidono allora di eliminare la madre. E qui entra in gioco il terzo rampollo, figlio del futuro sposo. I due fratellini sanno che e’ un giovane problematico, dalla personalità bizzarra e soprattutto che anche lui non vede di buon occhio questo matrimonio. Quanto loro, odia la donna che gli ha portato via il padre e reso triste la mammina, distruggendo così la dolce armonia della famigliola un tempo felice. A quel punto i due furboni intuiscono la possibilità che l’altro, opportunamente manipolato, possa compiere qualche gesto sconsiderato ed estremo. Iniziano a tormentarlo. Giorno dopo giorno arrivano a esasperare il suo rancore e a instillare nel suo cervellino bacato l’idea che una donnaccia così meriterebbe solo di morire. E alla fine quello la uccide. Intervengono suo padre e un amico di famiglia, potente avvocato nonché odiato amante della vittima, e lo fanno sparire dalla circolazione richiudendolo in una clinica di cui sono i maggiori azionisti». Feci una breve pausa. Dall’altra parte del filo, nessuna reazione. Ripresi a parlare. «Dall’altra parte del mondo i due giovani si fregano le mani: la madre ha ricevuto la punizione che si meritava e loro finalmente sono diventati ricchi. Poco importa quale sarà la fine del loro giovane fratellastro, che ci pensi suo padre a salvarlo... ma a questo punto interviene la fortuna. Un altro ragazzo, di ben diversa estrazione sociale, viene accusato del delitto e poi condannato. Sconterà

quindici lunghi anni di carcere, mentre tutti gli altri personaggi della storia vivranno, come in tutte le favole che si rispettino, felici e contenti». «Davvero una bella storia» si complimentò Selvaggia, rompendo finalmente il silenzio dettato dal suo signorile self-control. «Ci aggiungerei qua e là alcuni particolari ma, tutto sommato, e’ un thriller coi fiocchi». «Sono contento che ti sia piaciuta. A me soddisfa poco il finale, vorrei cambiarlo... così e’ troppo cinico... mi piacerebbe che una volta tanto la giustizia trionfasse e i cattivi espiassero le loro colpe». «Diventerebbe una storiellina stucchevole e scontata» replicò la donna, accentuando il tono strascicato e annoiato. «La preferisco così com'è, il finale non puo essere cambiato». «Ne sei proprio sicura?». «Non ho il minimo dubbio, Buratti». «Sai chi sono, allora!» esclamai, fingendomi sorpreso. «Sono giorni che seguiamo con vivo interesse le tue gesta. Pare che i mulini a vento siano la tua specialità». «In questo caso, ti chiedo un favore: potresti telefonare all’avvocato Sartori e dirgli che lo voglio incontrare domani alle undici nel suo studio?». «Sarà un piacere... ma caro... domani e’ domenica...». «Hai ragione. Facciamo allora alle tredici, dopo la messa». Beniamino ascolto le registrazioni delle telefonate tenendo gli occhi chiusi e le braccia conserte. Alla fine, si accese una sigaretta. «Materiale per trattare con Sartori ce n'è più che a sufficienza» constatò. «Ma non sono convinto che accetterà». «Non ti capisco. Eri stato tu a dire che dovevamo fotterlo e poi trattare». «E’ vero, ma il tono di Selvaggia era troppo sicuro per pensare che temano di restare con questa spada di Damocle sospesa sopra la zucca per il resto della vita. Sai cosa ti dico, secondo me faranno finta di scendere a patti con noi per dare tempo ai Caruso di trovarci e di farci fuori e, nel caso non ci riescano, ci metteranno la legge alle calcagna». «Non mi e’ ancora chiaro». «Vedi, Marco. Le trattative funzionano solo all’interno dello stesso ambiente. Noi non facciamo parte del loro giro di affari, siamo due “marginali extra legali”, tanto per usare il loro linguaggio, in parole povere non siamo controllabili. Per quel che ne sanno, potremmo svegliarci una mattina con l’idea di ricattarli oppure se finissimo nei guai con la giustizia, tentare di cavarcela raccontando i “tramacci” di cui siamo a conoscenza... quindi, e’ bene che ci togliamo dalla testa l’idea che si possa trattare». «Cosa consigli?». «Non lo so. Non ho le idee chiare, comunque e’ importante andare all’appuntamento, poi penseremo al da farsi. La cosa più urgente, in questo momento, e’ studiare una buona via di fuga dallo studio dell’avvocato perchè domani, quando quella porta si chiuderà alle tue spalle, troverai tutta la banda Caruso ad aspettarti». «Mi ero completamente dimenticato di loro». «Sei un pivello» sbottò quasi con rassegnazione. «Un’altra volta, prima di fissare un appuntamento, consulta lo zio Beniamino». Lo studio si trovava, come era logico supporre, nelle vicinanze del tribunale, all’ultimo piano di uno stabile interamente occupato da uffici tutti deserti, dato che era un sabato pomeriggio di fine luglio. Il vecchio Rossini forzò agevolmente la serratura del portone e visitammo tutti i piani. Arrivati sul tetto, aprì anche un cancello in ferro che dava su una grande terrazza.

«Domani mattina, poco prima dell’alba, ci nasconderemo qui, con la moto». «Vuoi trasportare la moto per sei piani?». «Lasciami finire! Lo studio sta al piano di sotto, se i Caruso hanno intenzione di beccarti all’interno, da qui li vedremo salire. In caso contrario, all’ora dell’appuntamento non dovrai fare altro che scendere di un piano e suonare il campanello. Io, nel frattempo bloccherò l’ascensore e terrò d’occhio le scale, dall’alto e’ più facile... poi, quando uscirai, andremo in cantina, riprenderemo la moto e fileremo dal portone a tutto gas. Li coglieremo di sorpresa e non riusciranno a raggiungerci». «Non riesci a escogitare piani meno faticosi? L’idea di trascorrere sei, sette ore nascosto su un tetto non mi attira per niente». «E’ solo colpa tua. Non si fissano appuntamenti con un giorno d’anticipo quando si hanno dei killer alle calcagna». «D’accordo. E fino all’alba cosa faremo? Non ho voglia di stare chiuso in quel buco». «Possiamo anche andare in un locale, purché molto affollato. I Caruso saranno occupati a prepararsi per domani, presumo che stasera se ne staranno tranquilli». Andammo al “Porto”, un posticino aperto da poco da un amico, Massimo Biondi. Quella sera si esibivano “Jojo and the blueshoes”, un buon gruppo blues di Padova, dove suonava Luca Palmarin, l’ex batterista della mia band. Furono tutti contenti di rivedermi e scambiare con me due chiacchiere sui vecchi tempi. Alla fine del concerto, Beniamino si allontanò per corteggiare una bionda. Mentre scoprivo con disappunto di aver finito le sigarette, sentii una voce che mi domandava: «Posso?». Alzai gli occhi. Era un tipo con baffi e occhiali, dall’aria tranquilla. Mi guardava sorridendo e indicava una sedia libera. «No» risposi. Si sedette lo stesso. «La persona che mi manda mi ha detto di darti questo» Dalle dimensioni indovinai che si trattava di un trentatrè giri. Strappai la carta e mi ritrovai a fissare la copertina di “Last session” di Blind Willie McTell. Lo conoscevo. Una vera rarità, registrato nel ‘56 ad Atlanta. Lo cercavo da anni. «Un nome ce l’hai?» chiesi, incuriosito. «Alberto». «E un cognome?». «Cabiddu». «Bene Alberto Cabiddu, avevo appena due-mesi quando il vecchio Blind incise questo capolavoro, una delle pietre miliari del blues... ma non credo che questo ti interessi. Adesso la domanda d’obbligo e’, chi? E soprattutto, perchè?». «Posso rispondere solo vagamente a entrambe le domande e invece dirti con esattezza il luogo: Sardegna. Lì c'è una persona che ha un problema. Mi ha incaricato di cercarti e di chiederti se hai tempo e voglia di andarle a parlare, per sapere di cosa si tratta. Tutto pagato, ovviamente. Il disco e’ un presente per farti capire che avresti a che fare con gente che... quantomeno ha buon gusto». Avevo seguito con poca attenzione le sue parole. Mi resi conto che ero rimasto affascinato da come gesticolava. Le sue mani scandivano il ritmo di ogni singola frase. Sembrava che pizzicassero calimbe, battessero pelli di congas e tamburi arabi. «Sei un musicista!» esclamai, puntando l’indice all’altezza del suo naso. «Percussionista. E cantante». «Qual e’ il tuo genere?». «Ne ho uno tutto mio. Caldi ritmi etnici ben mescolati». «Di blues neanche parlarne, vero?».

«Il tango e’ il blues umido e struggente di Baires e la morna il blues malinconico e ribelle di Capoverde. Ne faccio buon uso». Mi canto sottovoce “Vuelvo al Sur” di Astor Piazzolla e “Sodade” di Cesaria Evora e il calvados prese uno strano sapore. Il vecchio Rossini tornò in quel momento e gli feci cenno di non preoccuparsi. «Cosa bevi?» domandai. «Havana invecchiato sette anni, un rhum al quale sono particolarmente affezionato». «Sempre e solo quello?». «No, alternato alla birra e al buon vino». «L’unico ricordo di una donna perduta a Cuba?». «Trovata, non perduta». Chiacchierammo per un paio di orette. Di donne e di musica. Sapeva bere ed era un’ottima compagnia. «Che aggettivo useresti per definire il problema di cui dovrei occuparmi?» domandai. «Delicato. Da noi tutto e’ delicato. Cos’hai deciso?». «Per ora nulla. Molto dipende dagli esiti di un grattacapo di cui mi sto occupando in questi giorni. Ti faro sapere». «Io riparto domani» disse alzandosi. «Se vuoi trovarmi, fai il giro dei locali di Cagliari dopo la mezzanotte». Gli strinsi la mano. Lui me la trattenne. «Vuoi un consiglio?». «No». «Te lo do lo stesso. Cambia musica. Quel blues ti ha intaccato l’anima». «Cosa voleva dire?» chiese Beniamino. «Che non ascolto più la musica con il cuore ma con i ricordi». «Cosa?». «Lascia perdere, nient’altro che discorsi tra musicisti». Alle tredici in punto suonai il campanello dello studio dell’avvocato Alvise Sartori. Mezz’ora prima avevamo sentito il rumore dell’ascensore che saliva. Ne era uscito l’avvocato in compagnia di Carlo Ventura. Dei Caruso nessuna traccia. Ero tutto indolenzito per aver trascorso le ore più umide della mattina disteso sull’impiantito di cemento della terrazza. Ero rimasto sveglio a lungo ma a un certo punto la stanchezza e l’alcol avevano avuto la meglio sullo stato di tensione in cui mi trovavo, così mi ero addormentato per qualche ora. Riaprendo gli occhi, avevo trovato Beniamino, vigile accanto a me e con la mitraglietta appesa al collo. Mi venne ad aprire il socio dell’avvocato. «Dottor Ventura, i miei rispetti» lo salutai. Non si degno di rispondermi e mi condusse in un’ampia stanza, presumibilmente la sala riunioni dello studio. Seduto all'estremità di un grande tavolo ovale, stava Sartori, il quale mi accolse con un sorrisetto di scherno. «Marco Buratti, detto l’Alligatore: studente fallito, musicista fallito, terrorista fallito, investigatore fallito...». «Più che la mia vita, sembra stia descrivendo quella di Marco Ventura. Escluso l’omicidio, non e’ riuscito in nessun altro campo. A proposito» mi rivolsi a Ventura, «dove l’ha nascosto stavolta? In una clinica svizzera?». Ventura si passo una mano sui capelli e mi fisso con odio. «E’ diventato muto, il suo socio?» chiesi all’avvocato.

«Si sieda Buratti e ci spieghi il motivo di questo incontro» tagliò corto quest’ultimo. Cercando di ostentare quella calma che non provavo, mi accesi una sigaretta. «Voglio trattare. Offro il silenzio in cambio del ritiro della vostra squadra di killer e della garanzia che non tenterete in futuro azioni di questo o altro tipo nei confronti miei e del mio socio. Per Alberto Magagnin voglio l’assoluzione in istruttoria per l’omicidio Belli e la concessione della libertà condizionata. Siamo in possesso della registrazione della confessione del compianto professor Artoni, relativa non solo all’omicidio della meno compianta Piera Belli ma anche alla vostra manipolazione del processo a Magagnin per il delitto di Evelina Mocellin Bianchini. Non solo. Indagando per scoprire il motivo che vi aveva spinto a far condannare un innocente, abbiamo scoperto il colpevole nella persona di Marco Ventura, figlio del qui presente Carlo, il movente in base al quale agì e tutti i trucchi che in seguito voi usaste per coprirlo. Anche in questo caso siamo in possesso di registrazioni compromettenti, che vi riguardano in prima persona. Mi riferisco precisamente a quelle dell’ex infermiere Natale Sperandio, del professor Agostino Andreose, della sua segretaria e di Selvaggia Mocellin Bianchini. Infine, abbiamo ricostruito spezzoni delle vostre attività e del ruolo di quell’associazione a delinquere che altro non e’ l’Ordine dei Cavalieri di Santa Costanza di cui voi siete membri emeriti. In buona sostanza siete fottuti: o trattate o avete chiuso». I due uomini, che fino ad allora mi avevano osservato con assoluta indifferenza, si scambiarono un’occhiata. «A proposito di registrazioni, credo non le dispiaccia se il dottor Ventura controllerà se in questo momento nasconde addosso un registratore». «E’ andata male» pensai, e come un ragazzino scoperto a rubare la marmellata, estrassi dalla tasca interna della giacca l’apparecchio e lo depositai sul tavolo. Ventura si avvicinò e tolse la cassetta, spezzandola a metà con un gesto secco delle mani. «Bene, bene» aggiunse Sartori ironicamente. «Adesso possiamo parlare in tutta tranquillità Lei e’ convinto di avere le carte in regola per condurre una trattativa ma si sbaglia. Le ammissioni contenute nei nastri in suo possesso sono state estorte con la forza o con le minacce. Il povero Artoni mi ha descritto il metodo con cui gli avete carpito la confessione. Di fatto l’avete istigato al suicidio: secondo il nostro codice penale avete quindi commesso un grave reato. Vi ritrovate con un pugno di mosche: dal punto di vista giuridico quelle registrazioni valgono meno di zero. I magistrati, ammesso che ne vengano in possesso, non le prenderebbero mai in considerazione. Non riuscirete nemmeno a salvare Magagnin dalla condanna che gli verrà comminata per l’omicidio Belli. Tra l’altro, proprio ieri, sono stato nominato difensore di parte civile dai familiari della professoressa...». «Ma guarda un po’!» esclamai con tono sprezzante. «Tra tanti azzeccagarbugli hanno scelto proprio lei». «...per quanto riguarda il processo del 1976» continuò, ignorando la mia interruzione, «avreste ancora meno speranze. Nonostante sette anni di detenzione, lei, caro Buratti, non ha ancora capito come funziona la nostra giustizia. Dovreste convincere la Suprema Corte di Cassazione a concedere la revisione del giudizio, sulla base pero di prove che - poiché assunte illegalmente - mancherebbero della piena fondatezza. Vi verrebbe fatto notare che le prove “novicter deductae” e di “decisiva rilevanza”, agli effetti di un conclusivo giudizio di innocenza, sarebbero inesistenti. Mentre il precedente materiale probatorio, in quanto versato e costruito nell’ingegneria dell’azione penale conclusasi con la condanna, costituisce la pura verità Altre verità non sarebbero mai ammesse. Voi potreste tentare la via della perizia sbagliata e accusarci di aver pilotato il processo, ma anche in questo caso non avreste nessuna chance. Non solo per l'inammissibilità delle prove, ma soprattutto perchè la magistratura non ammetterebbe mai di essersi fatta manipolare. Tre avanzi di galera come lei, Magagnin e il suo socio di cui ancora ignoriamo l'identità, non possono pensare di accusare stimati professionisti, nonché, come lei stesso ha poc’anzi ricordato, membri emeriti della comunità Farlo significherebbe solo votarsi a un inutile sacrificio. La giustizia e’ un meccanismo che stritola i perdenti. E voi siete nati perdenti. Che altro potreste fare? Potrebbe venirvi la tentazione di rendere pubbliche le notizie di cui siete entrati in possesso. Ammetto che in questo caso ci procurereste dei

fastidi. I nostri avversari ne approfitterebbero ma ancora una volta tutto finirebbe in una bolla di sapone... noi siamo dei professionisti delle bolle di sapone. I nostri amici farebbero quadrato intorno a noi e userebbero la loro influenza per difenderci. Viviamo in un’epoca in cui gli scandali sono diventati ormai pane quotidiano per l’opinione pubblica, la quale reagisce sempre più stancamente e distrattamente. Caro Buratti, si rassegni, lei e i suoi amici siete i veri fottuti. Non noi». Nella stanza calò il silenzio, rotto solo dal rumore del mio accendino che usai per accendere un’altra sigaretta. Ero confuso. Pensavo di avere in mano delle carte vincenti ma con l'abilità consumata del legale di grido, Sartori era riuscito a ribaltare la situazione. Decisi di rilanciare. «Secondo me sta bluffando, nel tentativo di spaventarmi. Potrebbe avere anche ragione per quanto riguarda l’aspetto giuridico ma sono convinto che si sbaglia quando sottovaluta l’opinione pubblica. La gente non e’ affatto stupida e non tutta la stampa e’ venduta. Inoltre, voi non siete che dei parassiti, uniti in una lobby trasversale e potente ma non intoccabile. E per di più , a causa del vostro delirio di onnipotenza, avete perso il senso della realtà Non potete pensare di poter continuare a essere padroni dei destini altrui. Tangentopoli dovrebbe avervi insegnato qualcosa». Scoppiarono entrambi in una fragorosa risata. E per la prima volta Ventura prese la parola. «Se pensa sia un bluff, non ha che da aspettare e vedrà» mi sfido. «Ma almeno ci risparmi le sue ingenuità da extraparlamentare anni Settanta. Tangentopoli e’ servita solo per eliminare alla svelta coloro che non volevano capire che era arrivato il momento di mollare l’osso. Si guardi allo specchio, Buratti, perchè e’ lei che vive fuori dalla realtà, invece noi siamo la realtà.. se ne vada e non si faccia più vedere». Non mi mossi e schiacciai il mozzicone della sigaretta sul piano di mogano del tavolo. Ero furibondo ma mi imposi di stare calmo. «Mi pare di capire che non avete nessuna intenzione di trattare. Peggio per voi. La vostra strategia e’ fin troppo prevedibile. Recitate la parte dei vincenti perchè siete sicuri di renderci inoffensivi, o facendoci eliminare dalla banda Caruso oppure incastrandoci con qualche falsa accusa. So bene che ne avete i mezzi. Ai Cavalieri dell’Ordine di Santa Costanza sono affiliati anche agenti dei servizi, sbirri e magistrati. Ma di una cosa potete stare certi: venderemo cara la pelle». Mi alzai e mi diressi verso l’uscita. Mi trovai di fronte Beniamino con in mano la mitraglietta. «Com'è andata?» domando. «Male. Malissimo». «Dalla terrazza ho visto i Caruso. Hanno messo due macchine ai lati dell’uscita. Un errore, li fregheremo facilmente». Scendemmo di corsa in cantina a recuperare la moto. Rossini mi fece aprire il portone e nel momento in cui accendeva il motore, saltai sul sellino posteriore. Diede gas: con un balzo superammo i tre gradini che ci separavano dalla strada. Il mio amico aveva ragione. La banda al completo rimase a bocca aperta nel vederci sfrecciare a un metro soltanto di distanza da loro. Una volta superati, mi voltai e li salutai con il dito medio. La prima cosa che feci quando arrivammo al nostro rifugio fu di bere del calvados, tracannandolo direttamente dalla bottiglia. «Calmati, Marco. Siediti e raccontami cos'è successo». Lo feci, ripetendo ogni parola che era stata detta. «Me lo sentivo» ridacchiò. «Ci stanno sottovalutando. E questo e’ un errore che pagheranno caro». «Mi sfugge il senso di questo frasario bellicoso. Per quanto mi riguarda vedo un’unica soluzione: passare il confine entro stasera». «Non stasera, bensì martedì notte. Prima abbiamo alcune cose da fare». «Mi stai dicendo che hai un piano?» domandai esterrefatto. «Sono tre giorni che mi frulla per la mente. Non possiamo tagliare la corda con la coda tra le

gambe, sarebbe come infilare la testa nel cappio. Dobbiamo far capire a questi signori che e’ meglio che ci lascino perdere». «Corda? Cappio? Cosa stai dicendo?». Parlò per circa un’ora. più volte intervenni con domande e controproposte. Alla fine rimanemmo entrambi in silenzio, guardandoci negli occhi. «Funzionerà, vedrai» mi rassicurò. «Mi ricorda un film, “Il grande caldo” di Fritz Lang. Ma se qualcosa andrà storto ci ritroveremo a interpretare il finale di “Il mucchio selvaggio”». Trascorsi il resto della giornata e buona parte della notte scrivendo. Un riassunto della vicenda per Giovanni Galderisi e una cronaca dettagliata per Max la Memoria, allegando alla seconda la copia delle ultime registrazioni. Il lunedì fu l’unico giorno di pioggia del mese, così, per trovare Marielita, la donna di Max, impiegammo quasi tutta la mattina. «Cosa fai stasera, Alligatore?» mi chiese mentre le porgevo la busta. «Sono impegnato. A tentare di salvare la pelle». «Bene. Se ti dovesse riuscire» mi lanciò uno sguardo tra l’ironico e il divertito, «fatti vivo». «Come hai detto che si chiama questo tizio?» domando il vecchio Rossini. «Luther Blisset». «Questo nome l’ho già sentito... ma certo. E’ il nome di un famoso centravanti di origine giamaicana. Ha giocato nel Milan nel campionato ‘83 -‘84». «Anche. Ma adesso Luther Blisset e’ un “multiple name”, un nome collettivo. Un movimento dove tutti i militanti si chiamano così». «Movimento? Che movimento?» chiese allarmato. «Di terrorismo culturale. Lo scopo e’ quello di infettare tutti i network, introducendo nell’immaginario collettivo codici e pratiche destabilizzanti come false religioni, pseudoculti, parascienze e antifilosofie e soprattutto voci incontrollabili, così da provocare malcontento e rivolta... usano tutti lo stesso nome per non farsi individuare e per far apparire Luther Blisset una sorta di grande vecchio al centro di tutti i teoremi, i complotti, le cospirazioni...». «Non ho capito una sola parola di quello che hai detto. A parte il fatto che ci rivolgiamo a un altro sciroccato. Possibile che tu non conosca gente normale, con tutte le rotelle a posto?». «Tranquillo socio. Luther e’ in gamba e sono sicuro che ti piacerà». Il personaggio dal quale ci stavamo recando abitava dalle parti di Mestre, in campagna, in una grande fattoria ristrutturata, di cui una parte era adibita a studio di registrazione. Avevo omesso di dire al vecchio Rossini che in realtà Blisset era una bionda con un bel paio di gambe. Così, quando se la trovò di fronte, la sua sorpresa fu tale da trasformarlo in uno zuccherino e fargli dimenticare in un paio di secondi tutte le perplessità poco prima espresse. Per tutto il tempo che riservammo ai convenevoli, non fece altro che rivolgerle dei grandi sorrisi. L’avevo conosciuta quando mi esibivo con il mio gruppo. Lavorava come tecnico del suono ed era molto richiesta. Per alcuni anni aveva lavorato in Germania con un gruppo rock di sole donne e quando era tornata si era messa in proprio, fondando una piccola etichetta indipendente. Avevamo avuto una relazione durata esattamente una settimana, il tempo di una breve tournée estiva degli “Old Red Alligators” in Liguria, che si era poi trasformata in una bella amicizia. «Siamo nei guai, Luther» esordii. «Abbiamo bisogno del tuo aiuto». Le raccontai solo una parte della vicenda ma fu sufficiente per farle comprendere il mare di guai in cui annaspavamo. «In concreto, cosa chiedi?» domandò. «Il tuo aiuto di maga del sonoro per cancellare le nostre voci dal nastro originale di cui ti ho

parlato, senza lasciare tracce, in modo che sembri un monologo. Abbiamo un piano per salvarci e questa registrazione ricopre un ruolo fondamentale». «Volete coinvolgere i media?». «Sì. Sono la nostra ultima speranza». «In che modo?». Glielo spiegai. Alla fine si alzo e inizio a passeggiare nervosa per la stanza. «Non e’ una cattiva idea» approvò. «Ma non e’ sufficiente ad annullare l’influenza di Sartori, Ventura e amici sull’informazione. Se volete davvero fregarli dovete agire su un altro piano, sovvertire le regole del rapporto informazione/opinione pubblica. In poche parole dovete innescare un meccanismo di amplificazione delle notizie contenute nel nastro e al contempo uno di disinformazione e discredito nei confronti dei due personaggi. E’ necessario cortocircuitare la loro immagine». Guardò le nostre facce perplesse, sorridendo. «Dovete creare un “evento”» annunciò. «E a questo proposito mi e’ venuta un’idea». La espose, soffermandosi a spiegare le reazioni che avrebbe provocato nella stampa e nell’opinione pubblica. Concluse dicendo: «... bisogna colpire la fantasia della gente mescolando sapientemente giuste dosi di morte, mistero, intrigo, sesso, corruzione del potere. Argomenti che fanno aumentare audience e tirature. Si determina così una congiuntura positiva tra la necessità economica dei media di vendere le notizie e il desiderio di una parte consistente dell’opinione pubblica di ingozzarsi di scandali. In questi casi realtà, chiacchiere e dicerie si trasformano in leggende che segnano a vita i protagonisti». «Se non ho capito male» intervenni, «Sartori e Ventura si troverebbero nell'impossibilità di controllare le informazioni sul loro conto, di difendersi adeguatamente». «Come minimo» osservo Blisset. «Più realisticamente si troverebbero nella situazione di doversi defilare dalla vita pubblica e dagli affari. Non verrebbero più considerati affidabili dal loro ambiente». «Luther sei un genio!» esclamò Beniamino e ne approfittò per baciarla. «Dobbiamo brindare all’idea del secolo» mi associai. «Dopo» mi bloccò la donna, «adesso andiamo a sistemare il nastro». Ci condusse nello studio. Uno stanzone, pieno di apparecchiature, protetto dal rumore esterno da porte e muri spessi sessanta centimetri. Per prima cosa trasportò la traccia registrata su una bobina, poi iniziò a cancellare le nostre voci e a ritoccare le pause di quella che doveva invece rimanere. Impiegò sei ore. Alla fine, esausta e soddisfatta, mi consegnò il nastro. «Ecco fatto» dichiarò. «Adesso sembra che il professor Emilio Artoni, prima di suicidarsi, abbia deciso di lasciare ai posteri le proprie memorie. Nemmeno la CIA si accorgerebbe che la traccia e’ stata modificata». «Non so come ringraziarti, Luther». «L’ho fatto volentieri ma spero di non lavorare mai più su materiale del genere... ho bisogno di rilassarmi, ci beviamo un caffè?». Andammo in cucina, spaziosa e arredata in puro stile anni Sessanta. «Hai mai pensato di tornare a cantare?» domandò, mentre ci sedevamo intorno al tavolo. «No, Luther. Mi è passata la voglia». «Peccato. Mi sarebbe piaciuto registrare il disco del grande ritorno dell’Alligatore. Gli altri musicisti che fine hanno fatto?». «Alcuni continuano a suonare, altri hanno messo su famiglia e lavorano in banca o nella

tabaccheria del papà... i musicisti vanno e vengono... e tu piuttosto, come te la passi?». «Tutto sommato, bene. Lo studio funziona e l’etichetta vende abbastanza». «Stai con qualcuno?». «Mi vuoi corteggiare?» scherzò. «No, ci abbiamo già provato, ricordi?». Scoppiò a ridere. «Certo, certo... vivo con un contrabbassista americano. Un jazzista di Denver... adesso e’ a Firenze per una serie di concerti. Non so se lo amo ma per il momento va bene così». Mi guardò negli occhi. «Tu, invece, immagino sia ancora solo. Hai quell’aria di lutto che contraddistingue i cuori spezzati». «Già. E’ proprio così. L’ultima donna con cui sono stato, mi ha detto che ho il cuore nero e duro come un pugno... forse sono un caso senza speranze». Mi accarezzò la mano. «Hai la pelle dura, Alligatore, lascia fare al tempo». «E il movimento?» domandai, per cambiare discorso. «Cresce. Siamo la leggenda metropolitana di fine millennio. Una nave corsara che scorrazza nel grande mare dell’informazione, colpendo qua e là, in attesa che il mondo virtuale torni a lasciare spazio a quello reale. Potresti essere un buon Luther Blisset anche tu...». «No, grazie. Non sono fatto per i grandi ideali... probabilmente nemmeno per quelli piccoli» dissi, alzandomi. Tornammo a Padova verso le ventidue, zuppi di pioggia. Ci dirigemmo verso il rifugio per cambiarci e mettere al sicuro il nastro. Mi ero appena seduto in poltrona, con un bicchiere di calvados e una sigaretta, cercando di rilassarmi ascoltando a occhi chiusi Taj Mahal che cantava “Statesboro blues”, quando il vecchio Rossini mi tocco un braccio. «La giornata non e’ ancora finita, Marco. Adesso dobbiamo occuparci di Bepi Baldan». «Ma piove ancora» protestai. «Meglio. Saremo meno visibili». Piazza Mazzini era deserta e battuta da una pioggia torrenziale. Ci riparammo sotto il solito portico e poi ci avvicinammo a piedi al bar “Jamaicano”. La banda Caruso al completo era nel locale, in una parte ben visibile attraverso la vetrata. Ugo e Alfredo giocavano a carte, i guardaspalle erano impegnati in una partita di biliardo e Bepi Baldan, sempre più demoralizzato e preoccupato, osservava la pioggia cadere. «Devono essere di cattivo umore, dopo lo scherzetto che gli abbiamo giocato ieri» sghignazzò Beniamino. «Guarda, non hanno nemmeno voglia di mangiare il gelato». «Già Sartori deve aver fatto una partaccia ai due fratellini». «E adesso li facciamo incazzare sul serio». Tirai fuori dalla tasca il cellulare, digitai il numero del bar e poi chiesi dello spacciatore. Vidi gli altri che lo seguivano con lo sguardo mentre si avvicinava all’apparecchio. «Bepi, fai finta di parlare con un tuo informatore, non devono capire che dall’altro capo del filo ci sono io». «Ciao, Carmine» mi salutò, afferrando al volo le mie istruzioni. Notai che gli altri tornavano a giocare e mi tranquillizzai. «Ascoltami bene, Bepi. Quando non gli servirai più , i Caruso ti faranno fuori. Se non lo hai ancora capito sei proprio scemo. Per tua fortuna noi siamo più intelligenti di te e ti diamo la possibilità di uscirne tutto intero». «Grazie Carmine, magari...» disse con un tono piagnucoloso. «Ma a una condizione» continuai. «Che abbandoni la città Stanotte e per sempre. Vai a spacciare

da qualche altra parte e dimentica tutta la vicenda. D’accordo?». «Sì Carmine, come vuoi tu». «Bravo... tra una decina di minuti un taxi si fermerà esattamente di fronte alla porta del bar. Come lo vedi, corri più forte che puoi e saltaci dentro. Hai capito?». «Certo. Ciao, Carmine, e grazie di tutto». Chiusi la comunicazione e feci un cenno a Beniamino che si avvicinò di nascosto alle auto della banda e buco un paio di gomme con il suo serramanico. Nel frattempo mi avviai a piedi verso la stazione dei taxi del piazzale della Ferrovia, che si trovava poco lontano. Mi avvicinai all’ultimo tassista della fila, un giovane dall’aria sveglia. Come mi vide mi fece segno di rivolgermi al collega già pronto per partire. Salii ugualmente sul suo mezzo e gli porsi una banconota da centomila. «Il taxi serve a un mio amico che e’ in un bar. Fuori lo aspetta il marito della sua amante per gonfiarlo di pugni. Si tratterebbe di fermarsi un attimo, caricarlo e partire sgommando». Con un gesto da prestigiatore prese i soldi e li infilo nel taschino della camicia. «Dov'è il bar?» domandò. Glielo spiegai, pregandolo di aspettare cinque minuti prima di partire: il tempo di tornare e godermi lo spettacolo che, come immaginavo, non deluse le aspettative. Infatti, Baldan sbalordì tutti per lo scatto da centometrista e il tuffo olimpionico con il quale si infilo nel taxi. La banda inizio a rincorrerlo con una decina di secondi di ritardo, proprio nel momento in cui la vettura spariva, sgommando a tutta velocità dietro una curva. Quando finalmente i cinque uomini raggiunsero le loro automobili, si fermarono di colpo nel vedere i pneumatici squarciati. Alfredo e Ugo vennero colti da una crisi di nervi e gridando come ossessi iniziarono a prendere a calci le carrozzerie. Per il solo gusto di infierire passammo strombazzando in mezzo a loro e ancora una volta mi voltai per salutarli con il dito medio. Il mattino dopo ci alzammo tardi. Non dovevamo uscire che a notte inoltrata e rimanemmo tutto il giorno in casa, inefficacemente rinfrescata dai ventilatori comprati da Beniamino. Dopo pranzo, il vecchio Rossini da vero professionista volle ripetere tutte le fasi del piano riguardanti quella notte. Mi obbligo a mimare tutti i movimenti che avrei dovuto compiere. «Per abituarti a portare il “ferro”» disse. Per la prima volta, dall’inizio di quell’indagine, litigammo sul serio. Stavo versandomi del calvados quando lui mi prese di mano la bottiglia. «Fino a domani niente alcolici, Marco» ordinò, con tono molto fermo. «Sono grande abbastanza per sapere quando devo smettere» replicai, piccato. «Sarà, ma e’ meglio non correre rischi. Stanotte non puoi permetterti di avere la testa ovattata». «Non ti preoccupare, ridammi la bottiglia». «No, Marco». «Ridammi la bottiglia» urlai. Beniamino mi guardo dritto negli occhi e lascio cadere la bottiglia sul pavimento. «Sei impazzito?» domandai. «Mi sembri Dean Martin in “Un dollaro d’onore”». «E tu saresti John Wayne?» chiesi, sarcastico. «Non ho detto che io sembro John Wayne, ho detto che tu assomigli al vice sceriffo ubriacone interpretato da Dean Martin». «Non sono affatto un ubriacone». «Lo sei e poco ti manca per diventare un alcolizzato, ma sono affari tuoi. Solo che non ti porto in

giro armato con un mitra se hai bevuto anche un solo goccio. Io lavoro così, lo sai bene». Non gli rivolsi la parola per un paio d’ore ma poi mi resi conto che aveva ragione e gli chiesi scusa. Uscimmo poco prima di mezzanotte e passammo con la moto davanti al bar dei Caruso, solo il tempo necessario per vedere se erano sempre lì. Stavano mangiando il solito gelato ma erano taciturni. Per loro le cose negli ultimi giorni non erano andate affatto bene. Quella notte rischiavano di andare anche peggio. Raggiungemmo via Dini e nascondemmo la moto nel cortile di un condominio. Poi a piedi ci avviammo verso quello dove abitavano i due fratelli e ci appostammo in un angolo particolarmente buio del giardino. Quasi tutte le finestre del palazzo erano spalancate per far circolare un po’ di aria fresca. Nonostante fossimo un po’ arretrati, potevamo percepire l’intrecciarsi delle varie conversazioni tra gli inquilini con il gracchiare monotono dei televisori accesi. Beniamino montò le mitragliette e me ne passo una. «Quando li vedi arrivare, ricordati di togliere la sicura» sussurrò. Sudavo, per la tensione e l’astinenza da calvados. Per alcuni interminabili secondi, lottai nervosamente con la mia incapacità di infilare i guanti da chirurgo. Quando finalmente ci riuscii, il mio amico mi mise tra le labbra una sigaretta accesa. «Rilassati, Marco» la voce ferma e calma. «Andrà tutto bene». La grande berlina infilò piano il cancello e altrettanto lentamente si diresse verso il parcheggio. Quando ci passò vicino, uscimmo dal nostro nascondiglio e iniziammo a seguirla. Si fermò qualche metro più avanti. Rossini non aspettò che si spegnesse il motore. Si avvicinò alla portiera di sinistra e punto la mitraglietta sul conducente e attraverso il finestrino aperto premette sulla sua gola la canna silenziata. Nel frattempo, mi infilai nell’auto dalla parte del sedile posteriore destro e appoggiai l’arma sulla nuca di chi mi stava davanti. «Dammi le chiavi» ordinò Rossini a Ugo, seduto al posto di guida. L’uomo ebbe un attimo di esitazione. Gli venne in aiuto il fratello. «Dagliele» lo esortò, apparentemente tranquillo. Mentre il mio socio apriva il portabagagli, io li tenevo a bada. «Signor Alligatore» disse sempre Alfredo, «mi avevano detto che lei non aveva familiarità con i “ferri”, che era un tipo tranquillo, ragionevole...». «Informazione datata» ribattei. «Adesso ho smesso di fare il bravo bambino». «Scendete dalla macchina» ordino ancora il vecchio Rossini. Li perquisimmo. Alfredo portava infilata nei pantaloni, coperta dalla camicia, un’automatica nove millimetri in dotazione alla polizia. Dalla fondina legata intorno alla caviglia di Ugo estraemmo invece una corta pistola a tamburo. «Dentro» sibilo il mio amico, indicando il vano bagagli. Ubbidirono senza protestare e, dopo qualche contorsione, riuscirono a infilarvisi dentro e a distendersi seppure parzialmente. «Tranquilli adesso» continuò Beniamino, prima di chiudere il cofano. «Il viaggio non sarà lungo». Una ventina di minuti dopo ci fermammo sulla sponda del fiume Brenta in direzione di Venezia, all’altezza di un’ansa coperta da un fitto pioppeto. Aprii il baule e aiutai i Caruso a scendere mentre Rossini li teneva sotto tiro, illuminandoli con una torcia elettrica. «Chi di voi tiene solitamente i rapporti con l’avvocato Ventura?» domando. «Io» rispose Alfredo. «Già Tu sei l’intelligentone di famiglia» intervenni sprezzante. Beniamino gli porse il cellulare. «Adesso lo chiami e gli dici che ci avete eliminato. Tutti. Anche Magagnin». «Che lo faccia o non lo faccia ci ammazzerete comunque, vero?» domandò.

«Sì» rispose il mio amico. «E allora perchè dovrei farlo?». «perchè ti conviene. Altrimenti sarei costretto a convincerti sparandoti prima su un piede, poi sull’altro, poi su un ginocchio...». «Va bene, ho capito» lo interruppe e digitò il numero. «Pronto, e’ lei avvocato?... lo so che e’ tardi... ma volevo farle sapere che abbiamo risolto quel certo problema... sì, tutti e tre... arrivederci». «Ecco fatto» commento, restituendo il cellulare. «Ci ha creduto?» domandai. «Certo. Il mio nome e’ sempre stata una garanzia e voi mi avete costretto a disonorarlo proprio prima di morire» mormorò con amarezza. Li obbligammo a precederci fino a un punto vicino alla riva dove, illuminati dalla luna, brillavano due badili piantati nel terreno. Li avevamo portati noi qualche ora prima. «Su, da bravi» li esorto Rossini. «Mettetevi al lavoro». I Caruso non si mossero. «Se ci dovete ammazzare, scavatevele da voi le fosse» protestò Ugo. «No. Noi non scaviamo nessuna fossa. Se non volete essere seppelliti sotto terra, vi buttiamo nel fiume». «Io non voglio finire nel fiume per fare da pasto ai pesci» replicò ancora Ugo. «Ammazzateci e lasciateci qui. Ci penseranno le nostre famiglie a darci una sepoltura da cristiani». «Questo non e’ possibile» spiego Beniamino. «Purtroppo non rientra nei nostri piani far ritrovare i vostri cadaveri... come del resto non rientrava nei vostri, nel caso foste stati al nostro posto». Alfredo ci guardò. «Se scavo la fossa, potete promettere di fare avere alla mia famiglia gli oggetti che porto addosso? L’orologio, la catena d’oro, il braccialetto con incastonato il primo dentino che ha perduto mio figlio Ciro...». «Lo promettiamo» rispose solennemente Rossini. «In macchina c'è l’incasso delle ragazze di questa sera» intervenne Ugo. «Anche quello, dovete dare alle nostre famiglie». «Solo la metà» mi intromisi, l’altra la daremo a Marietto Carraro. L’avete massacrato di botte senza motivo e ha diritto a un risarcimento». «D’accordo» annuì Alfredo. Prese il suo badile e sotto ai nostri occhi, traccio con pignola precisione i contorni della sua tomba. Poi cominciò a scavare. Dopo un po’, si interruppe per chiedere al fratello che era rimasto immobile: «perchè non scavi?». «Non mi va, Alfredo. Non mi va nemmeno di morire. Sei sicuro che non possiamo trattare con questi due?» chiese, indicandoci. «Scava, Ugo. Scava e non dire minchiate». Per più di due ore, il rumore degli attrezzi scandì il ritmo del loro fitto parlottare dal tono mesto, in un napoletano stretto che non riuscii a capire neppure per un attimo. Ne ricavai pero l’impressione che stessero rievocando i bei tempi. Beniamino e io continuammo a tenerli d’occhio seduti su un tronco, fumando in silenzio e guardando ogni tanto l’orologio. «Siamo pronti» disse Alfredo. Si avvicino al fratello e lo abbracciò. «Addio Ugo» sussurro, con voce commossa. Il fratello inizio a piangere sommessamente. «Muori da uomo» lo esortò l’altro, staccandosi da lui. Beniamino lascio partire una breve raffica, attutita dal silenziatore.

Ugo, per l’impatto, fece un salto indietro e cadde con le braccia aperte. Rossini gli si avvicino ed esplose il colpo di grazia appoggiando la canna sul cuore dell’uomo. «Aspettate». Alfredo prese il fratello e lo depose con delicatezza nella sua tomba. Poi, rivolto a me: «Voglio che sia lei a farlo, signor Alligatore». «perchè?» domandai sorpreso. «Voglio essere ammazzato da uno che conosco, così potrò maledirlo per l'eternità». «Sbrigati Marco» mi incito Beniamino, puntando il fascio di luce della torcia elettrica sul petto del camorrista. Fissai quel punto illuminato. La mitraglietta divento all’improvviso troppo pesante e la lasciai cadere a terra. «Non ce la faccio» mormorai, rivolto a entrambi. «Non erano questi i patti» si lamentò il vecchio Rossini. «Non e’ da uomo comportarsi così» gli fece eco il morituro. Le mani mi tremavano e faticai ad accendermi una sigaretta. «Ho le mie regole» spiegai a Rossini. «Voi avete le vostre e i “regolari” altre ancora. Ho scelto di fare questo mestiere perchè mi permette di non stare con nessuna delle due parti. Ogni tanto mi capita di dover mediare con la mia coscienza e di adeguarmi ad alcune regole ma uccidere significherebbe stravolgere tutta la mia vita e sono troppo vecchio per diventare un altro. Mi dispiace ma non posso farlo». «Mio fratello giace morto sparato nella fossa, e questo si mette a fare o’ filosofo» gridò Caruso rivolto al mio amico. «Stai buono Alfredo» lo zittì Beniamino. «Non sono affari che ti riguardano». «Non sono affari miei?» gridò l’altro esasperato. «E chi sta per avere un’indigestione di piombo?». «Zitto!» gli intimò il vecchio Rossini e poi, rivolto a me: «Marco, questa volta non ti capisco. Ci troviamo in questa situazione per colpa tua e non abbiamo alternative per salvarci. Se fossero stati loro a prenderci, non solo ci avrebbero ammazzato subito ma si sarebbero anche divertiti...». «Lo so, hai tutte le ragioni, ma non sparerò. Nè a lui, nè a nessun altro». «Conoscendoti, dovevo immaginarlo» sbottò, con fare rassegnato. Poi rivolto ad Alfredo: «Mi chiamo Beniamino Rossini. Adesso mi conosci e quando sarai all’inferno potrai maledirmi al posto suo». Il camorrista ridacchiò amaro. «Beniamino. Che nome da finocchio... e che destino infame: i fratelli Caruso fregati da un finocchio e una mammoletta... sbrigati, sono pronto». Cadde in ginocchio dopo i primi colpi. La seconda raffica lo raggiunse alla testa. Rossini lo prese per le braccia e io per i piedi. All’improvviso lasciò la presa e inizio a imprecare. «Che ti succede?» domandai. «Gli ho segato a metà il cranio, c'è il suo cervello sparpagliato dappertutto e un pezzo e’ finito sulla punta della mia scarpa». «Allora puliscitela e smettila di fare l’isterico». «E’ camoscio» ribattè stizzito, illuminando con la torcia il grumo sanguinolento. «Vero camoscio. Le macchie di sangue non si puliscono e dovrò buttare le scarpe». «Sai che tragedia, Beniamino» sbuffai. «Sono fatte su misura dal miglior artigiano di Milano. Sono pezzi unici e costano un capitale». Lo mandai a quel paese e ripresi Alfredo per i piedi, trascinandolo nella fossa ancora vuota. Iniziai a riempirla di terra. Il vecchio Rossini mi imitò ma continuo a lamentarsi per il triste destino delle sue pregiate calzature.

Albeggiava quando ritornammo nella casa rifugio. «Come pensi reagirà il resto della banda?» domandai. «Quando faremo ritrovare l’automobile, capiranno che i due capi sono passati a miglior vita e si affretteranno a cercarne di nuovi. I pretendenti non mancheranno di certo. Da loro non abbiamo più nulla da temere». «Come ti senti?». «Intendi dire come mi sento dopo aver fatto fuori Alfredo Caruso al posto tuo?». «Esatto». «Uno o due non fa differenza...». «Non sei arrabbiato?». «No. In fondo sono contento che tu non l’abbia voluto fare... non sono cose per te...». «Grazie, Beniamino. Sei un amico». Rimanemmo per un po’ in silenzio a bere e a fumare. Non riuscivo a non pensare a quello che era successo e volevo parlarne ancora. «Mi ha stupito il modo in cui hanno affrontato la morte» dissi. «Pensavo di dover affrontare suppliche o tentativi di ribellione e invece si sono rassegnati subito, come se fosse logico crepare in quella situazione». «Erano due del mestiere» affermò Beniamino. «Nel momento stesso in cui li abbiamo sorpresi in cortile, avevano già capito cosa sarebbe successo. Comunque, quello che aveva le palle era Alfredo. Ha imposto al fratello un comportamento dignitoso. Ugo da solo si sarebbe lasciato andare». «Anche tu ti comporteresti come Alfredo?» gli domandai a bruciapelo. «In quel tipo di situazione, certamente. Aveva un atteggiamento fiero... alla Jean Gabin. Comunque, preferirei dire addio alla vita come Harvey Keitel in “Cani da rapina”». «Davvero romantico». «E tu?». «Colpito alla schiena mentre cerco di fuggire». In tarda mattinata ci recammo in un ufficio postale per spedire il denaro e gli effetti personali dei Caruso alle famiglie, secondo il loro ultimo desiderio. Come mittente indicammo l’avvocato Sartori: nel linguaggio malavitoso significa che erano morti a causa sua. Poi telefonai a Giovanni Galderisi. «Aspettavo la sua telefonata» mi disse. «Oggi e’ il 26, la settimana e’ scaduta...». «Avrà la sua storia. I fogli dove ho scritto la prima parte li ho spediti cinque minuti fa e le arriveranno domani. Il seguito, ben più sostanzioso, a questa notte. Si fermi al giornale e tenga a disposizione un fotografo, le dirò dove andare...». «A cosa mi serve un fotografo?». «A immortalare lo scoop della sua carriera. Giunto sul posto, dovrà chiamare le troupe delle emittenti locali. E’ importante, anche per lei, che la notizia diventi subito di dominio pubblico...». «Non puo anticiparmi nulla?». «Abbia pazienza». «Il problema non e’ la pazienza ma i tempi tecnici del giornale. Se lei mi chiama dopo le ventitrè, non sarò in grado di far uscire il pezzo sul numero di domani e saranno solo le televisioni a gestirsi lo scoop». «Ho capito. Le telefonerò intorno alle ventidue. D’accordo?». Appena fu buio, montai sulla Volvo dei Caruso e seguito da Beniamino in motocicletta mi diressi verso la casa di Abano Terme dove, nascosto in un congelatore da quasi un mese, stava il cadavere

di Alberto Magagnin. Per riuscire a farcelo stare, gli avevamo imposto la posizione fetale, con le mani intrecciate sopra la testa. Perciò trasportarlo a braccia fu impossibile. Risolvemmo il problema con una carriola e alla fine riuscimmo a caricarlo sul sedile posteriore dell’auto. Nel viaggio di ritorno Beniamino mi precedette con la moto per segnalare l’eventuale presenza di posti di blocco. Costeggiammo l’aeroporto militare e ci infilammo in un quartiere residenziale dove, al numero quattro di via Polidoro da Caravaggio, abitava l’avvocato Sartori. Ci fermammo di fronte al cancello della villa a due piani. Il giardino era disseminato di lampioni e sfoggiava aiuole ben curate e alberi d’alto fusto. Alcune finestre del piano superiore erano illuminate. «E’ in casa» osservai preoccupato. «Forse e’ la servitù Ma non e’ l’unico problema» mi fece notare Rossini indicando l’inferriata. Tra le sbarre spuntava il muso di un grosso pittbull che ci osservava immobile. «Non abbaia, vuol dire che e’ addestrato». «Allora che facciamo?». «Prima di tutto eliminiamo il cane». «E’ proprio necessario?». «Purtroppo». Si avvicino con fare noncurante verso il cancello. Il cane arretro di qualche metro. Beniamino ne approfitto per estrarre la pistola croata munita di silenziatore, infilare il braccio e fare fuoco. Basto un proiettile. Si udì solo il rumore del bossolo che cadeva tintinnando sull’asfalto mentre l’animale cadeva su un fianco, come si trattasse di una scena al rallentatore e senza emettere un guaito. Fu più complicato scassinare la serratura del cancello: era elettrica e funzionava con il telecomando a distanza. Beniamino ci armeggiò intorno per quasi un quarto d’ora. Per fortuna la via era deserta. Trascinammo il corpo di Magagnin in mezzo all’aiuola centrale, deponendolo su un tappeto di pensèe gialle e viola, illuminato da un elegante lampione in ferro battuto. Estrassi dalla tasca il nastro manipolato da Luther dov’era registrata la confessione di Artoni e la infilai tra quelle dita ancora congelate. Riaccostando i battenti, mi fermai un attimo a guardare la scenografia così come Blisset ci aveva consigliato di allestirla per i giornalisti e la morbosità della gente. Era perfetta: il cadavere di un latitante, un nastro compromettente, la ricca villa di un noto e stimato penalista e l’automobile di due pregiudicati scomparsi che ne bloccava l’accesso. Ingredienti succulenti per quello che nel giro di poche ore sarebbe diventato il grande scandalo di quell’afosa estate. «Dottor Galderisi?». «Finalmente ha chiamato. Sono già le ventidue e quindici...». «Sa dove abita l’avvocato Sartori?». «Certamente». «Allora corra subito là Dal cancello scorgerà in mezzo a una aiuola il corpo di Magagnin». «Come il corpo? E’ morto?». «Sì. Overdose di eroina, probabilmente si tratta di suicidio. Tra le sue mani c'è un’audiocassetta contenente la confessione che Artoni ha inciso prima di suicidarsi. Riguarda il delitto Belli e il processo per la morte di Evelina Mocellin Bianchini. Contiene accuse precise nei confronti dell’avvocato Alvise Sartori e del dottor Carlo Ventura. La prenda in custodia e la consegni solo nelle mani di un magistrato o di un poliziotto di cui si fida ciecamente. Mi raccomando, avverta subito le emittenti private... pronto... pronto...». Aveva già riattaccato. Ci appostammo nei pressi della villa, nascosti da un’alta siepe. Osservavamo con apprensione il

portoncino. Se Sartori avesse scoperto il cadavere e trovato la cassetta prima del giornalista, il piano sarebbe fallito miseramente. Udimmo il motore di un’auto che affrontava una curva ad alta velocità Qualche secondo dopo giungeva un’utilitaria che inchiodava subito dietro alla Volvo. Galderisi scese di corsa, seguito da un giovane dai capelli lunghi con una borsa da fotografo. Dopo un attimo di esitazione di fronte al cancello, il giornalista spinse i battenti entrando a passo spedito nel giardino. Seguirono subito una serie di lampi di flash. Era arrivato il momento di uscire di scena. Salimmo sulla moto e ci allontanammo lentamente. A qualche centinaio di metri dalla casa di Sartori incrociammo diverse auto e furgoni. Sulle fiancate lessi i nomi di emittenti della zona. Seguiva il corteo una volante della polizia a sirene spiegate. L’ospedale fu l’ultima tappa prima di abbandonare Padova. Marietto, essendo sieropositivo, era stato relegato in una stanzetta in fondo al reparto. Un infermiere ci sbarro il passo ma per cinquantamila lire fece finta di non averci visto. Si udiva solo il sibilo dell’erogatore dell’ossigeno. Mi avvicinai al letto e Marietto aprì gli occhi. «Pensavo fosse l’infermiere. Gli avevo chiesto di farmi una fiala di “tiramisù”» biascico a fatica. «Come stai?» domandai. «Male, Alligatore. Mi manca la roba, mi manca la piazza...». «Tra un po’ di tempo ci tornerai». «Certo...». «Ti ho portato un po’ di “pila”» dissi mettendo sotto il cuscino i soldi che avevamo confiscato ai Caruso. Beniamino uscì e tornò accompagnato dall’infermiere munito di siringa. «Mi ero dimenticato della “terapia”» dichiaro quest’ultimo, strizzando l’occhio a Marietto. Raggiungemmo Punta Sabbioni, dove recuperammo l’auto del vecchio Rossini. «Dove siamo diretti?» domandai. «Al confine francese. A Marsiglia, ci imbarcheremo sul traghetto per la Corsica. A Bastia conosco un contrabbandiere che mi deve un mucchio di favori. Staremo al sicuro fino a che non capiremo le intenzioni di Sartori e Ventura». «Pensi che ci coinvolgeranno?». «Ne dubito. Conviene anche a loro tenerci lontano da sbirri e giudici: anche se siamo poco credibili, restiamo pur sempre due testimoni... vedrai che sosterranno di essere vittime di una macchinazione di forze oscure e cercheranno di limitare i danni». «E alla fine saranno i fratelli Caruso a essere accusati dalla magistratura di essere i misteriosi complici di Magagnin. L’idea di Luther di lasciare la loro macchina parcheggiata di fronte alla villa dell’avvocato, con la pistola che avevamo sequestrato ad Artoni “dimenticata” nel vano porta oggetti, e’ stata davvero geniale». «Vedrai che alla fine dell’estate potremo tornare in Italia. Con le dovute cautele, s’intende: dobbiamo dare per scontato che un giorno cercheranno di vendicarsi». «Prima dovranno riemergere dal mare di merda in cui li abbiamo affogati». «Quelli hanno sette vite come i gatti. E’ meglio che ti abitui sin da ora all’idea che a Padova non potrai più tornare». «Non mi mancherà». «Hai intenzione di accettare l’incarico che ti hanno proposto in Sardegna?». «Può darsi. Ho bisogno di soldi e poi non ci sono mai stato. Potrebbe anche piacermi. E tu, che

progetti hai per il futuro?». «Prima di tutto devo sistemare i miei affari a Punta Sabbioni. Per fortuna ho qualcuno a cui affidare l'attività in mia assenza. Poi vedremo». Beniamino si accese una sigaretta. «Ogni tanto penso di partire, rintanarmi in qualche isola del Pacifico, comprarmi una barca a vela e invecchiare godendomi la vita» mi confidò con un velo di malinconia. «Potrebbe essere una soluzione. Il riposo del vecchio pirata. perchè non lo fai?». «E’ un’avventura che non mi sento di affrontare da solo. Tu ci verresti?». «Mi ci vedi a fare l’investigatore nell’isola di Tonga?». «Questo mestieraccio non lo vuoi proprio mollare, eh?» domando, ghignando. «Non ci penso proprio». «E allora non ci vado. Sai quanto mi costerebbe viaggiare su e giù per tirarti fuori dai guai?». «Tutti i tuoi sudati risparmi». «Esatto. Mi conviene stare nei paraggi, dove posso tenerti d’occhio». Alle sei del mattino, poco prima di attraversare il confine accesi la radio per ascoltare il notiziario. “Padova. Ieri sera, intorno alle ventidue e trenta, il corpo senza vita di un latitante accusato di omicidio e’ stato ritrovato nel giardino della villa di un noto penalista, l’avvocato Alvise Sartori. La vicenda presenta molti lati oscuri. Il cronista padovano Giovanni Galderisi, giunto per primo sul luogo grazie a una telefonata anonima, ha ritrovato tra le mani del cadavere che, particolare agghiacciante, pare fosse stato congelato, un nastro che conterrebbe rivelazioni compromettenti nei confronti di alcuni personaggi in vista della città, tra cui lo stesso proprietario della villa. Di fronte al cancello e’ stata rinvenuta l’automobile dei fratelli Ugo e Alfredo Caruso, pregiudicati sospettati di essere affiliati al clan camorristico dei Ponzano. I due sono attivamente ricercati dalle forze dell’ordine. L’avvocato Sartori, assente al momento del ritrovamento del cadavere nel suo giardino, e’ stato rintracciato dagli inquirenti in casa di amici ma non e’ stato possibile procedere al suo interrogatorio in quanto colto da malore e ricoverato per accertamenti...” Spensi la radio e infilai una cassetta di B. B. King. Entrammo in Francia ascoltando “Everyday I have the blues.”

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