Carlo Rovelli - Sette Brevi Lezioni Di Fisica

May 9, 2017 | Author: Cinzia Panizzon | Category: N/A
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saggio di storia e narrativa raccontato con semplicità e competenza. Partendo da esempi e storie di vita si spieg...

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Carlo Rovelli

Sette brevi lezioni di fisica

Adelphi eBook

Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata

Prima edizione digitale 2014

© 2014 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO www.adelphi.it

ISBN 978-88-459-7582-0

SETTE BREVI LEZIONI DI FISICA

PREMESSA

Queste lezioni sono state scritte per chi la scienza moderna non la conosce o la conosce poco. Insieme, compongono una rapida carrellata su alcuni degli aspetti più rilevanti e affascinanti della grande rivoluzione che è avvenuta nella fisica del XX secolo, e soprattutto sulle questioni e i misteri che questa rivoluzione ha aperto. Perché la

scienza ci mostra come meglio comprendere il mondo, ma ci indica anche quanto vasto sia ciò che ancora non sappiamo. La prima lezione è dedicata alla teoria della relatività generale di Albert Einstein, la «più bella delle teorie». La seconda alla meccanica quantistica, dove si annidano gli aspetti più sconcertanti della fisica moderna. La terza è dedicata al cosmo: l’architettura dell’universo che abitiamo. La quarta alle particelle elementari. La quinta alla gravità quantistica: lo

sforzo in corso di costruire una sintesi delle grandi scoperte del XX secolo. La sesta alla probabilità e al calore dei buchi neri. L’ultima sezione del libro, in chiusura, ritorna a noi stessi, e si chiede come possiamo riuscire a pensarci nello strano mondo descritto da questa fisica. Le lezioni espandono una serie di articoli pubblicati dall’autore sul supplemento «Domenica» del «Sole 24 Ore». L’autore ringrazia in particolare Armando Massarenti che ha avuto il merito di aprire alla

scienza le pagine culturali del domenicale, mettendone in luce il ruolo di parte integrante e vitale della cultura.

LEZIONE PRIMA

LA PIÙ BELLA DELLE TEORIE

Da ragazzo, Albert Einstein ha trascorso un anno a bighellonare oziosamente. Se non si perde tempo non si arriva da nessuna parte, cosa che i genitori degli adolescenti purtroppo dimenticano spesso. Era a Pavia. Aveva raggiunto la famiglia dopo aver abbandonato gli studi in Germania, dove non sopportava il rigore del liceo.

Era l’inizio del secolo e in Italia l’inizio della rivoluzione industriale. Il padre, ingegnere, installava le prime centrali elettriche in pianura padana. Albert leggeva Kant e seguiva a tempo perso lezioni all’Università di Pavia: per divertimento, senza essere iscritto né fare esami. È così che si diventa scienziati sul serio. Poi si era iscritto all’Università di Zurigo e si era immerso nella fisica. Pochi anni dopo, nel 1905, aveva spedito tre articoli alla principale rivista

scientifica del tempo, gli «Annalen der Physik». Ciascuno dei tre valeva un premio Nobel. Il primo mostrava che gli atomi esistono davvero. Il secondo apriva la porta alla Meccanica dei Quanti, di cui parlerò nella prossima lezione. Il terzo presentava la sua prima Teoria della Relatività (oggi chiamata «relatività ristretta»), la teoria che chiarisce come il tempo non passi eguale per tutti: due gemelli si ritrovano di età diversa, se uno dei due ha viaggiato velocemente. Einstein diventa

improvvisamente scienziato rinomato e riceve offerte di lavoro da varie università. Ma qualcosa lo turba: la sua teoria della relatività, per quanto subito celebrata, non quadra con quanto sappiamo sulla gravità, cioè su come cadono le cose. Se ne accorge scrivendo un articolo di rassegna sulla sua teoria, e si chiede se la vetusta e paludata «gravitazione universale» del grande padre Newton non debba essere riveduta anch’essa, per renderla compatibile con la nuova relatività. S’immerge nel

problema. Ci vorranno dieci anni per risolverlo. Dieci anni di studi pazzi, tentativi, errori, confusione, articoli sbagliati, idee folgoranti, idee sbagliate. Finalmente, nel novembre del 1915, manda alle stampe un articolo con la soluzione completa: una nuova teoria della gravità, cui dà nome «teoria della relatività generale», il suo capolavoro. La «più bella delle teorie scientifiche» l’ha chiamata il grande fisico russo Lev Landau. Ci sono capolavori assoluti che ci emozionano

intensamente, il Requiem di Mozart, l’Odissea, la Cappella Sistina, Re Lear... Coglierne lo splendore può richiedere un percorso di apprendistato. Ma il premio è la pura bellezza. E non solo: anche l’aprirsi ai nostri occhi di uno sguardo nuovo sul mondo. La Relatività Generale, il gioiello di Albert Einstein, è uno di questi. Ricordo l’emozione quando cominciai a capirne qualcosa. Era estate. Ero su una spiaggia della Calabria, a Condofuri, immerso nel sole della grecità mediterranea, al tempo

dell’ultimo anno di università. I periodi di vacanza sono quelli in cui si studia meglio, perché non si è distratti dalla scuola. Studiavo su un libro con i margini rosicchiati dai topi, perché l’avevo usato per chiudere le tane di queste povere bestiole, di notte, nella casa malandata un po’ hippy nella collina umbra dove andavo a rifugiarmi dalla noia delle lezioni universitarie di Bologna. Ogni tanto alzavo gli occhi dal libro per guardare lo scintillio del mare: mi sembrava di vedere l’incurvarsi dello spazio

e del tempo immaginati da Einstein. Era come una magia: come se un amico mi sussurrasse all’orecchio una straordinaria verità nascosta, e d’un tratto scostasse un velo dalla realtà per svelarne un ordine più semplice e profondo. Da quando abbiamo imparato che la Terra è rotonda e gira come una trottola pazza, abbiamo capito che la realtà non è come ci appare: ogni volta che ne intravediamo un pezzo nuovo è un’emozione. Un altro velo che cade.

Ma fra tutti i numerosi salti avanti del nostro sapere, avvenuti uno dopo l’altro nel corso della storia, quello compiuto da Einstein è forse senza eguale. Perché? Per prima cosa, perché una volta capito come funziona, la teoria è di una semplicità mozzafiato. Ne riassumo l’idea: Newton aveva cercato di spiegare la ragione per la quale le cose cadono e i pianeti girano. Aveva immaginato una «forza» che tira tutti i corpi l’uno verso l’altro: l’aveva chiamata «forza di gravità».

Come facesse questa forza a tirare cose che stanno lontano l’una dall’altra, senza che ci fosse niente in mezzo, non era dato sapere, e il grande padre della scienza si era cautamente guardato dall’azzardare ipotesi. Newton aveva anche immaginato che i corpi si muovessero nello spazio, e lo spazio fosse un grande contenitore vuoto, uno scatolone per l’universo. Un’immensa scaffalatura nella quale corrono diritti gli oggetti, fino a che una forza non li faccia curvare. Di cosa fosse fatto

questo «spazio», contenitore del mondo, inventato da Newton, neppure questo era dato sapere. Ma pochi anni prima della nascita di Albert, due grandi fisici britannici, Faraday e Maxwell, avevano aggiunto un ingrediente al freddo mondo di Newton: il campo elettromagnetico. Il campo è un’entità reale diffusa ovunque, che porta le onde radio, riempie lo spazio, può vibrare e ondulare come la superficie di un lago, e «porta in giro» la forza elettrica. Einstein era

affascinato fin da ragazzo dal campo elettromagnetico, che faceva girare i rotori delle centrali elettriche costruite da papà, e presto capisce che anche la gravità, come l’elettricità, deve essere portata da un campo: deve esistere un «campo gravitazionale», analogo al «campo elettrico»; e cerca di capire come possa essere fatto questo «campo gravitazionale» e quali equazioni lo possano descrivere. E qui arriva l’idea straordinaria, il puro genio: il

campo gravitazionale non è diffuso nello spazio: il campo gravitazionale è lo spazio. Questa è l’idea della teoria della relatività generale. Lo «spazio» di Newton, nel quale si muovono le cose, e il «campo gravitazionale», che porta la forza di gravità, sono la stessa cosa. È una folgorazione. Una semplificazione impressionante del mondo: lo spazio non è più qualcosa di diverso dalla materia: è una delle componenti «materiali» del mondo. Un’entità che ondula, si flette,

s’incurva, si storce. Non siamo contenuti in un’invisibile scaffalatura rigida: siamo immersi in un gigantesco mollusco flessibile. Il Sole piega lo spazio intorno a sé e la Terra non gli gira intorno perché tirata da una misteriosa forza, ma perché sta correndo diritta in uno spazio che si inclina. Come una pallina che rotoli in un imbuto: non ci sono misteriose «forze» generate dal centro dell’imbuto, è la natura curva delle pareti a fare ruotare la pallina. I pianeti girano intorno al Sole e le cose cadono

perché lo spazio si incurva. Come descrivere questo incurvarsi dello spazio? Il più grande matematico dell’Ottocento, Carl Friedrich Gauss, il «principe dei matematici», aveva scritto la matematica per descrivere le superfici curve bidimensionali, come la superficie delle colline. Poi aveva chiesto a un suo bravo studente di generalizzare il tutto a spazi curvi di dimensione tre o più. Lo studente, Bernhard Riemann, aveva prodotto una ponderosa tesi di dottorato, di quelle che sembrano

completamente inutili. Il risultato era che le proprietà di uno spazio curvo sono catturate da un certo oggetto matematico, che oggi chiamiamo la curvatura di Riemann e indichiamo con R. Einstein scrive un’equazione che dice che R è proporzionale all’energia della materia. Cioè: lo spazio si incurva là dove ci sia materia. È tutto. L’equazione sta in una mezza riga, non c’è altro. Una visione – lo spazio che si incurva – e un’equazione. Ma dentro quest’equazione c’è un universo rutilante. E qui

si apre la ricchezza magica della teoria. Una successione fantasmagorica di predizioni che sembrano i deliri di un pazzo, e invece sono state tutte verificate dall’esperienza. Per cominciare, l’equazione descrive come si curva lo spazio intorno a una stella. A causa di questa curvatura, non solo i pianeti orbitano intorno alla stella, ma anche la luce smette di viaggiare diritta e devia. Einstein predice che il Sole devii la luce. Nel 1919 viene compiuta la misura, e risulta essere vero.

Ma non è solo lo spazio a incurvarsi, è anche il tempo. Einstein predice che il tempo passi più veloce in alto e più lento in basso, vicino alla Terra. Si misura, e risulta essere vero. Di poco, ma il gemello che ha vissuto al mare ritrova il gemello che ha vissuto in montagna un poco più vecchio di lui. È solo l’inizio. Quando una grande stella ha bruciato tutto il suo combustibile (l’idrogeno), finisce per spegnersi. Quanto resta non è più sorretto dal calore della combustione e

crolla schiacciato sotto il suo stesso peso, fino a curvare lo spazio così fortemente da sprofondare dentro un vero e proprio buco. Sono i famosi buchi neri. Quando studiavo all’università, erano poco credibili predizioni di una teoria esoterica. Oggi sono osservati nel cielo a centinaia, e studiati nei loro dettagli dagli astronomi. Ma non basta. Lo spazio intero può distendersi e dilatarsi; anzi, l’equazione di Einstein indica che lo spazio non può stare fermo, deve essere in

espansione. Nel 1930, l’espansione dell’universo viene effettivamente osservata. La stessa equazione predice che l’espansione debba essere scaturita dall’esplosione di un giovane universo piccolissimo e caldissimo: è il Big Bang. Ancora una volta, nessuno ci crede, ma le prove si accumulano, fino a che nel cielo viene osservata la radiazione cosmica di fondo: il bagliore diffuso che rimane dal calore dell’esplosione iniziale. La predizione dell’equazione di Einstein è corretta.

E ancora, la teoria predice che lo spazio si increspi come la superficie del mare, e gli effetti di queste «onde gravitazionali» sono osservati nel cielo sulle stelle binarie, e combaciano con le previsioni della teoria fino alla sbalorditiva precisione di una parte su cento miliardi. E così via. Insomma, la teoria descrive un mondo colorato e stupefacente, dove esplodono universi, lo spazio sprofonda in buchi senza uscita, il tempo rallenta abbassandosi su un pianeta, e le sconfinate distese

di spazio interstellare s’increspano e ondeggiano come la superficie del mare... e tutto questo, che emergeva pian piano dal mio libro rosicchiato dai topi, non era una favola raccontata da un’idiota in un accesso di furore, o l’effetto del bruciante sole mediterraneo della Calabria, un’allucinazione sul baluginare del mare. Era realtà. O meglio, uno sguardo verso la realtà, un po’ meno velato di quello della nostra offuscata banalità quotidiana. Una realtà che sembra anch’essa fatta

della materia di cui sono fatti i sogni, ma pur tuttavia più reale del nostro annebbiato sogno quotidiano. Tutto questo, il risultato di un’intuizione elementare: lo spazio e il campo sono la stessa cosa. E di un’equazione semplice, che non resisto a ricopiare qui, anche se il mio lettore non potrà certo decifrarla, ma vorrei che almeno ne vedesse la grande semplicità: Rab - ½ R gab= T ab

Tutto qui. Certo, ci vuole un percorso di apprendistato per digerire la matematica di Riemann e impadronirsi della tecnica per leggere quest’equazione. Ci vuole un po’ d’impegno e fatica. Ma meno di quelli necessari per arrivare a sentire la rarefatta bellezza di uno degli ultimi quartetti di Beethoven. In un caso e nell’altro, il premio è la bellezza, e occhi nuovi per vedere il mondo.

LEZIONE SECONDA

I QUANTI

I due pilastri della fisica del Novecento, la relatività generale di cui ho parlato nella prima lezione, e la meccanica quantistica di cui parlo qui, non potrebbero essere più diversi. Entrambe le teorie ci insegnano che la struttura fine della natura è più sottile di quanto ci appaia. Ma la relatività generale è una gemma

compatta: concepita da una sola mente, quella di Albert Einstein, è una visione semplice e coerente di gravità, spazio e tempo. La meccanica quantistica, o «teoria dei quanti», al contrario, ha ottenuto un successo sperimentale che non ha eguali e ha portato applicazioni che hanno cambiato la nostra vita quotidiana (il computer su cui sto scrivendo, per esempio), ma a un secolo dalla sua nascita resta ancora avvolta in uno strano profumo di incomprensibilità e di mistero.

Si usa dire che la meccanica quantistica nasca esattamente nell’anno 1900, quasi ad aprire il secolo di intenso pensiero. Il fisico tedesco Max Planck calcola il campo elettrico in equilibrio all’interno di una scatola calda. Per farlo usa un trucco: immagina che l’energia del campo sia distribuita in «quanti», cioè in pacchetti, grumi di energia. La procedura porta a un risultato che riproduce perfettamente quanto si misura (e dunque deve essere in qualche modo corretta), ma stride con tutto ciò che si

sapeva al tempo, perché l’energia era considerata qualcosa che varia in maniera continua, e non c’era ragione per trattarla come fosse fatta di mattoncini. Per Max Planck, trattare l’energia come fosse fatta di pacchetti finiti era stato uno strano trucco di calcolo, di cui Planck stesso non capiva la ragione dell’efficacia. È Albert Einstein, ancora lui, cinque anni dopo, a comprendere che i «pacchetti di energia» sono reali. Einstein mostra che la luce è

fatta di pacchetti: particelle di luce. Oggi li chiamiamo «fotoni». Nell’introduzione del lavoro scrive: «Mi sembra che le osservazioni associate alla fluorescenza, alla produzione di raggi catodici, alla radiazione elettromagnetica che emerge da una scatola, e altri simili fenomeni connessi con l’emissione e la trasformazione della luce, siano meglio comprensibili se si assume che l’energia della luce sia distribuita nello spazio in maniera discontinua. Qui

considero l’ipotesi che l’energia di un raggio di luce non sia distribuita in maniera continua nello spazio, ma consista invece in un numero finito di “quanti di energia” che sono localizzati in punti dello spazio, si muovono senza dividersi, e sono prodotti e assorbiti come unità singole». Queste righe, semplici e chiare, sono il vero atto di nascita della teoria dei quanti. Si noti il meraviglioso «Mi sembra...» iniziale, che ricorda l’«Io penso...» con cui Darwin introduce nei suoi taccuini la grande idea che le specie

evolvono, o l’«esitazione» di cui parla Faraday quando nel suo libro introduce la rivoluzionaria idea di campo elettrico. Il genio esita. Il lavoro di Einstein viene inizialmente trattato dai colleghi come la sciocchezza giovanile di un ragazzo brillante. Poi sarà per questo lavoro che Einstein otterrà il Nobel. Se Planck è padre della teoria, è Einstein il genitore che l’ha fatta crescere. Ma come tutti i figli, la teoria è poi andata per conto suo e Einstein non l’ha più

riconosciuta. Durante gli anni Dieci e Venti del Novecento, è il danese Niels Bohr che ne guida lo sviluppo. È lui a capire che anche l’energia degli elettroni negli atomi può assumere solo certi valori «quantizzati», come l’energia della luce, e soprattutto che gli elettroni possono solo «saltare» fra l’una e l’altra delle orbite atomiche con energie permesse, emettendo o assorbendo un fotone quando saltano. Sono i famosi «salti quantici». È nel suo istituto, a Copenaghen, che si raccolgono le giovani menti

più brillanti del secolo, per cercare di mettere ordine in questi incomprensibili comportamenti del mondo atomico e costruirne una teoria coerente. Nel 1925 appaiono finalmente le equazioni della teoria, che rimpiazzano l’intera meccanica di Newton. È difficile immaginare un trionfo maggiore. D’un tratto, tutto torna, e si riesce a calcolare tutto. Solo un esempio: ricordate la tavola periodica degli elementi, quella di Mendeleev, che elenca tutte le

possibili sostanze elementari di cui è fatto l’universo, dall’Idrogeno all’Uranio, e stava appesa in tante aule di scuola? Come mai sono proprio quelli elencati lì, gli elementi, e come mai la tavola periodica ha proprio questa struttura, con quei periodi, e gli elementi hanno proprio quelle proprietà? La risposta è che ogni elemento è una soluzione dell’equazione base della meccanica quantistica. L’intera chimica emerge da questa singola equazione. A scrivere per primo le

equazioni della nuova teoria sarà un giovanissimo genio tedesco: Werner Heisenberg, basandosi su idee da capogiro. Heisenberg immagina che gli elettroni non esistano sempre. Esistano solo quando qualcuno li guarda, o meglio, quando interagiscono con qualcosa d’altro. Si materializzano in un luogo, con una probabilità calcolabile, quando sbattono contro qualcosa d’altro. I «salti quantici» da un’orbita all’altra sono il loro solo modo di essere reali: un elettrone è un insieme di salti da un’interazione

all’altra. Quando nessuno lo disturba, non è in alcun luogo preciso. Non è in un luogo. È come se Dio non avesse disegnato la realtà con una linea pesante, ma si fosse limitato a un tratteggio lieve. Nella meccanica quantistica nessun oggetto ha una posizione definita, se non quando incoccia contro qualcos’altro. Per descriverlo a metà volo fra un’interazione e l’altra, si usa un’astratta funzione matematica che non vive nello spazio reale, bensì in astratti spazi matematici.

Ma c’è di peggio: questi salti con cui ogni oggetto passa da un’interazione all’altra non avvengono in modo prevedibile, ma largamente a caso. Non è possibile prevedere dove un elettrone comparirà di nuovo, ma solo calcolare la probabilità che appaia qui o lì. La probabilità fa capolino nel cuore della fisica, là dove sembrava tutto fosse regolato da leggi precise, univoche e inderogabili. Vi sembra assurdo? Sembrava assurdo anche ad Einstein. Da un lato, proponeva Werner Heisenberg per il Nobel,

riconoscendo che aveva capito qualcosa di fondamentale del mondo, ma dall’altro non perdeva occasione per brontolare che però così non si capiva niente. I giovani leoni della banda di Copenaghen erano costernati: ma come, proprio Einstein? Il loro padre spirituale, l’uomo che aveva avuto il coraggio di pensare l’impensabile, ora si tirava indietro e aveva paura di questo nuovo balzo verso l’ignoto, che lui stesso aveva innescato? Proprio Einstein, che ci aveva insegnato che il tempo

non è universale e lo spazio si incurva, proprio lui ora diceva che il mondo non può essere così strano? Niels Bohr, pazientemente, spiegava ad Einstein le nuove idee. Einstein obiettava. Immaginava esperimenti mentali per mostrare che le nuove idee erano contraddittorie: «Immaginiamo una scatola piena di luce, da cui lasciamo uscire per un breve istante un solo fotone...» così iniziava uno dei suoi famosi esempi, l’esperimento mentale della «scatola di luce». Bohr

alla fine riusciva sempre a trovare la risposta, a respingere le obiezioni. Il dialogo è continuato per anni, passando per conferenze, lettere, articoli... Nel corso dello scambio, entrambi i grandi uomini hanno dovuto arretrare, cambiare idea. Einstein ha dovuto riconoscere che effettivamente non c’era contraddizione nelle nuove idee. Bohr ha dovuto riconoscere che le cose non erano così semplici e chiare come pensava all’inizio. Einstein non voleva cedere sul punto per lui chiave: che

esistesse una realtà oggettiva indipendente da chi interagisce con chi. Bohr non voleva cedere sulla validità del modo profondamente nuovo in cui il reale era concettualizzato dalla nuova teoria. Alla fine, Einstein accetta che la teoria è un gigantesco passo avanti nella comprensione del mondo, ma resta convinto che le cose non possono essere così strane, e che «dietro» ci dev’essere una spiegazione più ragionevole. È passato un secolo, e siamo allo stesso punto. Le equazioni della meccanica quantistica e le

loro conseguenze vengono usate quotidianamente da fisici, ingegneri, chimici e biologi, nei campi più svariati. Sono utilissime per tutta la tecnologia contemporanea. Non ci sarebbero i transistor senza la meccanica quantistica. Eppure restano misteriose: non descrivono cosa succede a un sistema fisico, ma solo come un sistema fisico viene percepito da un altro sistema fisico. Che significa? Significa che la realtà essenziale di un sistema è indescrivibile? Significa solo che manca un pezzo alla storia? O

significa, come a me sembra, che dobbiamo accettare l’idea che la realtà sia solo interazione? La nostra conoscenza cresce, e cresce davvero. Ci permette di fare cose nuove che prima non immaginavamo nemmeno. Ma nel crescere ci apre nuove domande. Nuovi misteri. Chi usa le equazioni della teoria in laboratorio spesso non se ne occupa, ma articoli e convegni di fisici e di filosofi continuano a interrogarsi, anzi sono più numerosi negli ultimi anni. Che cos’è la teoria dei

quanti a un secolo dalla sua nascita? Uno straordinario tuffo profondo nella natura della realtà? Un abbaglio, che funziona per caso? Un pezzo incompleto di un puzzle? O un indizio di qualcosa di profondo che riguarda la struttura del mondo e che non abbiamo ancora ben digerito? Quando Einstein muore, Bohr, il suo grandissimo rivale, ha parole di commovente ammirazione. Quando pochi anni dopo muore Bohr, qualcuno prende una fotografia della lavagna nel suo studio: c’è un

disegno. Rappresenta la «scatola piena di luce» dell’esperimento mentale di Einstein. Fino all’ultimo, la voglia di confrontarsi e capire di più. Fino all’ultimo, il dubbio.

LEZIONE TERZA

L’ARCHITETTURA DEL COSMO

Nella prima metà del XX secolo, Einstein ha descritto la trama dello spazio e del tempo con la teoria della relatività, mentre Bohr e i suoi giovani amici hanno catturato in equazioni la strana natura quantistica della materia. Nella seconda metà del XX secolo, i fisici hanno costruito su queste fondamenta, applicando le due

nuove teorie ai domini più vari della natura: dal macrocosmo della struttura dell’universo, al microcosmo delle particelle elementari. Del primo parlo in questa lezione, del secondo nella prossima. Questa lezione è fatta soprattutto di semplici disegni. Il motivo è che la scienza, prima di essere esperimenti, misure, matematica, deduzioni rigorose, è soprattutto visioni. La scienza è attività innanzitutto visionaria. Il pensiero scientifico si nutre della capacità di «vedere» le cose in modo

diverso da come le vedevamo prima. Senza pretese, voglio provare a offrire un assaggio di questo viaggio fra visioni. Prima immagine:

Rappresenta il cosmo come è

stato concepito per millenni: sotto la Terra, sopra il Cielo. La prima grande rivoluzione scientifica, compiuta da Anassimandro ventisei secoli fa cercando di capire come sia possibile al Sole, alla Luna e alle stelle di girare intorno a noi, rimpiazza questa immagine del cosmo con quest’altra:

Ora il Cielo è tutt’intorno alla Terra, non solo sopra, e la Terra è un grande sasso che galleggia sospeso nello spazio, senza cadere. Presto qualcuno (forse Parmenide, forse Pitagora) si rende conto che la forma più ragionevole per questa Terra

che vola, per la quale tutte le direzioni sono eguali, è una sfera, e Aristotele descrive argomenti scientifici convincenti per confermare la sfericità della Terra e dei cieli intorno alla Terra, nei quali corrono gli astri celesti. Ecco l’immagine del cosmo che ne risulta.

È il cosmo descritto da Aristotele nel suo libro Sul

cielo, e l’immagine del mondo che resterà caratteristica delle civiltà intorno al Mediterraneo, fino alla fine del Medioevo. È questa immagine del mondo che Dante studia a scuola. Il salto successivo lo compie Copernico, inaugurando quella che si chiama la grande rivoluzione scientifica. Il mondo di Copernico non è molto diverso da quello di Aristotele:

Ma c’è una differenza fondamentale: riprendendo

un’idea già considerata nell’antichità, e poi abbandonata, Copernico comprende e mostra che la nostra Terra non è al centro della danza dei pianeti, dove invece sta il Sole. Il nostro pianeta diventa uno come gli altri. Gira a gran velocità su se stesso e intorno al Sole. Il crescere della conoscenza non si ferma, e presto i nostri strumenti migliorano e impariamo che il sistema solare non è che uno fra moltissimi, e il nostro Sole non è che una stella come le altre. Un granello

infinitesimo in un’immensa nuvola di stelle, formata da cento miliardi di stelle, la Galassia:

Ma intorno agli anni Trenta del XX secolo, le misure precise

degli astronomi sulle nebulose – nuvolette biancastre fra le stelle – mostrano che anche la Galassia a sua volta non è che un granello di polvere in un’immensa nuvola di galassie, centinaia di miliardi di galassie, che si estende a perdita d’occhio fin dove i più potenti dei nostri telescopi riescono a vedere. Il mondo ora è diventato una distesa uniforme e sconfinata. La figura che segue non è un disegno: è una fotografia presa dal telescopio in orbita Hubble, che mostra un’immagine del cielo più

profondo che riusciamo a vedere con il più potente dei nostri telescopi: a occhio nudo sarebbe un piccolissimo pezzettino di cielo nerissimo. Al telescopio, appare una spolverata di galassie lontanissime. Ogni puntino nero dell’immagine è una galassia con cento miliardi di soli simili al nostro. Da pochi anni abbiamo visto che la maggior parte di questi soli hanno intorno pianeti. Esistono quindi migliaia di miliardi di miliardi di pianeti come la Terra, nell’universo. E in ogni

direzione si guardi questo è ciò che appare.

Ma questa uniformità sterminata, a sua volta, non è che apparente. Come ho illustrato nella prima lezione, lo

spazio non è piatto, è curvo. La trama stessa dell’universo, spruzzata di galassie, dobbiamo immaginarla mossa da onde simili alle onde del mare, talvolta così agitate da creare i varchi che sono i buchi neri. Torniamo dunque alle immagini disegnate, per rappresentare questo universo solcato da grandi onde.

E infine, oggi sappiamo che questo cosmo immenso, elastico, e costellato di galassie, è cresciuto per una quindicina di miliardi di anni, emergendo da una nuvola piccola, caldissima e densissima. Per rappresentare

questa visione, non dobbiamo più disegnare l’universo, ma dobbiamo disegnare l’intera storia dell’universo. Eccola schematica:

L’universo nasce come una piccola palla e poi esplode fino alle sue attuali dimensioni cosmiche. Questa è la nostra immagine attuale dell’universo, alla scala più grande che conosciamo. C’è altro? C’era qualcosa prima? Forse sì. Ne parlerò fra un paio di lezioni. Esistono altri universi simili, o diversi? Non lo sappiamo.

LEZIONE QUARTA

PARTICELLE

Dentro l’universo descritto nella lezione precedente, si muovono la luce e le cose. La luce è costituita di fotoni, le particelle di luce intuite da Einstein. Le cose che vediamo sono fatte di atomi. Ogni atomo è un nucleo con intorno elettroni. Ogni nucleo è costituito da protoni e neutroni, impacchettati stretti. Tanto i

protoni che i neutroni sono fatti di particelle ancora più piccole, che il fisico americano Murray Gell-Mann ha battezzato «quarks», ispirandosi a una parola senza senso in una frase senza senso – «Three quarks for Muster Mark!» – che appare nel Finnegans Wake di James Joyce. Tutte le cose che tocchiamo sono fatte quindi di elettroni e di questi quarks. La forza che tiene incollati i quarks all’interno dei protoni e dei neutroni è generata da particelle che i fisici, con poco senso del ridicolo, chiamano

«gluoni», dall’inglese glue, colla. In italiano si tradurrebbe «colloni», ma fortunatamente usano tutti il nome inglese. Elettroni, quarks, fotoni e gluoni sono i componenti di tutto ciò che si muove nello spazio intorno a noi. Sono le «particelle elementari» studiate dalla fisica delle particelle. A queste particelle se ne aggiungono alcune altre, per esempio i neutrini, che pullulano per l’universo ma hanno poche interazioni con noi, e il bosone di Higgs, rilevato recentemente a Ginevra, nella

grande macchina del CERN, ma in tutto non sono molte. Meno di una decina di tipi di particelle. Una manciata di ingredienti elementari che si comportano come le tessere di un LEGO gigantesco con cui è costruita tutta la realtà materiale attorno a noi. Il modo in cui queste particelle si muovono e la loro natura sono descritti dalla meccanica quantistica. Queste particelle non sono quindi veri sassolini, sono piuttosto i «quanti» di corrispondenti campi elementari, così come i

fotoni sono i «quanti» del campo elettromagnetico. Sono delle eccitazioni elementari, di un substrato mobile simile al campo di Faraday e Maxwell. Sono minuscole ondine che corrono. Che spariscono e ricompaiono secondo le strane regole della meccanica quantistica, dove ciò che esiste non è mai stabile; non è che un saltare da un’interazione all’altra. Anche se osserviamo una regione vuota dello spazio, dove non ci siano atomi, vediamo lo stesso un pullulare minuto di

queste particelle. Non esiste vero vuoto, che sia completamente vuoto. Come anche il mare più calmo visto da vicino ondeggia leggermente e freme, così i campi che formano il mondo fluttuano a piccola scala, e possiamo immaginare le particelle di base del mondo, continuamente create e distrutte da questo fremere, vivere brevi effimere vite. Questo è il mondo descritto dalla meccanica quantistica e dalla teoria delle particelle. Lontanissimo oramai dal mondo meccanico di Newton e Laplace,

dove minuscoli sassolini freddi vagavano eterni lungo traiettorie precise di uno spazio geometrico immutabile. La meccanica quantistica e gli esperimenti con le particelle ci hanno insegnato che il mondo è un pullulare continuo e irrequieto di cose, un venire alla luce e uno sparire continuo di effimere entità. Un insieme di vibrazioni, come il mondo degli hippy degli anni Sessanta. Un mondo di avvenimenti, non di cose. I dettagli della teoria delle particelle sono stati costruiti

lentamente durante gli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta del Novecento. Vi hanno partecipato i grandi fisici del secolo, come Feynman e GellMann, e tra essi una nutrita pattuglia di italiani. Il risultato di questa costruzione è una teoria intricata, basata sulla meccanica quantistica, che porta il nome poco araldico di «modello standard delle particelle elementari». Il «modello standard», messo a punto negli anni Settanta, è stato confermato da una lunga serie di esperimenti che ne

hanno verificato tutte le previsioni. Fra i primi vi sono le misure che nel 1984 hanno fruttato il premio Nobel al nostro (attualmente) senatore Carlo Rubbia. L’ultima conferma è venuta con la rivelazione del bosone di Higgs nel 2013. Ma nonostante la lunga serie di successi sperimentali, il modello standard non è mai stato preso completamente sul serio dai fisici. È una teoria che almeno a prima vista ha l’aria rappezzata e raccogliticcia. È fatto di vari pezzi ed equazioni messi insieme senza un chiaro

ordine. Un certo numero di campi (perché proprio questi?) che interagiscono tra loro con certe forze (perché proprio queste?), ciascuna determinata da certe costanti (perché proprio questi valori?) che rispettano certe simmetrie (perché proprio queste?). È lontano dall’aerea semplicità delle equazioni della relatività generale e della meccanica quantistica. Anche il modo stesso in cui le equazioni del modello standard danno previsioni sul mondo è assurdamente involuto. Usate

direttamente, queste equazioni portano a previsioni insensate, dove ogni quantità calcolata risulta essere infinitamente grande. Per avere risultati sensati bisogna immaginare che i parametri che entrano in esse siano a loro volta infinitamente grandi, in modo da controbilanciare i risultati assurdi e dare risultati ragionevoli. Questa procedura involuta e barocca si chiama con il termine tecnico di «rinormalizzazione»; funziona nella pratica, ma lascia in bocca un sapore amaro per chi

vorrebbe che la natura fosse semplice. Durante gli ultimi anni della sua vita, Paul Dirac, il più grande scienziato del XX secolo dopo Einstein, grande architetto della meccanica quantistica e autore della prima e principale equazione del modello standard, ha espresso ripetutamente la sua scontentezza per questo stato di cose: «Non abbiamo ancora risolto il problema» diceva. C’è poi un difetto vistoso nel modello standard. Attorno a ciascuna delle galassie, gli

astronomi osservano gli effetti di un grande alone di materia, che rivela la sua esistenza per la forza gravitazionale con cui attira stelle e devia la luce. Ma questo grande alone, di cui osserviamo gli effetti gravitazionali, non riusciamo a vederlo direttamente, e non sappiamo di cosa sia fatto. Sono state studiate molte ipotesi, ma nessuna sembra funzionare. Che ci sia qualcosa, sembra oramai evidente, cosa sia, non lo sappiamo. Oggi la chiamiamo «materia oscura». Sembra proprio trattarsi di qualcosa che

non è descritto dal modello standard, altrimenti la vedremmo. Qualcosa che non è né atomi, né neutrini, né fotoni... Non è sorprendente che ci siano più cose in Cielo e in Terra, caro lettore, di quante ne sogni la nostra filosofia; e la nostra fisica. In fondo, fino a pochi anni fa neppure sospettavamo l’esistenza delle onde radio o dei neutrini, che pure riempiono l’universo. Il modello standard resta il meglio di quanto sappiamo dire oggi sul mondo delle cose, le sue

predizioni sono tutte state confermate, e a parte la materia oscura – e la gravità, descritta dalla relatività generale come curvatura dello spaziotempo – descrive assai bene tutti gli aspetti del mondo che vediamo. Teorie alternative sono state proposte, ma sono state demolite dagli esperimenti. Per esempio una bella teoria proposta negli anni Settanta, chiamata col nome tecnico di SU(5), sostituiva le equazioni scompaginate del modello standard con una struttura assai

più bella e semplice. La teoria prevedeva che il protone potesse disintegrarsi con una certa probabilità, trasformandosi in particelle più leggere. Grandi macchine sono state costruite per vedere i protoni disintegrarsi. Diversi fisici, anche italiani, hanno dedicato la vita a cercare di osservare un protone che si disintegra. (Non si guarda un protone alla volta, perché ci mette troppo tempo a disintegrarsi. Si prendono tonnellate d’acqua e si mettono intorno sensibili rivelatori dei

prodotti della disintegrazione). Ma ahimè, nessun protone è stato mai visto disintegrarsi. La bella teoria SU(5), per quanto elegantissima, non deve essere piaciuta al buon Dio. La storia si sta ripetendo ora con un gruppo di teorie chiamate «supersimmetriche», che prevedono l’esistenza di una nuova classe di particelle. Durante tutta la mia vita di fisico ho ascoltato colleghi che si aspettavano con grande sicurezza di vedere queste particelle l’indomani. Sono passati giorni, mesi, anni,

decenni, ma per ora non sono apparse. La fisica non è sempre una storia di successi. Restiamo con il modello standard. Non sarà elegantissimo, ma funziona benissimo, descrive il mondo intorno a noi. E chissà, forse a ben guardare non è lui a non essere elegante: forse siamo noi che non abbiamo ancora imparato a guardarlo dal punto di vista giusto per comprenderne la nascosta semplicità. Per adesso, questo è quello che sappiamo della materia.

Una manciata di tipi di particelle elementari, che vibrano e fluttuano in continuazione fra l’esistere e il non esistere, pullulano nello spazio anche quando sembra non ci sia nulla, si combinano assieme all’infinito come le venti lettere di un alfabeto cosmico per raccontare l’immensa storia delle galassie, delle stelle innumerevoli, dei raggi cosmici, della luce del sole, delle montagne, dei boschi, dei campi di grano, dei sorrisi dei ragazzi alle feste, e del cielo nero e stellato la notte.

LEZIONE QUINTA

GRANI DI SPAZIO

Nonostante oscurità, ineleganze e questioni ancora aperte, le teorie fisiche che ho raccontato descrivono il mondo meglio di quanto sia mai avvenuto in passato. Dovremmo dunque essere abbastanza contenti. Ma non lo siamo. C’è una situazione paradossale al centro della nostra conoscenza del mondo

fisico. Il Novecento ci ha lasciato le due gemme di cui ho parlato: la relatività generale e la meccanica quantistica. Sulla prima sono cresciute la cosmologia, l’astrofisica, lo studio delle onde gravitazionali, dei buchi neri e molto altro. La seconda è diventata la base della fisica atomica, della fisica nucleare, della fisica delle particelle elementari, della fisica della materia condensata e molto altro. Due teorie prodighe di doni e fondamentali per la tecnologia odierna, che hanno cambiato il nostro modo

di vivere. Eppure le due teorie non possono essere entrambe giuste, almeno nella loro forma attuale, perché si contraddicono l’un l’altra. Uno studente universitario che assista alle lezioni di relatività generale il mattino e a quelle di meccanica quantistica il pomeriggio non può che concludere che i professori sono citrulli, o hanno dimenticato di parlarsi da un secolo: gli stanno insegnando due immagini del mondo in completa contraddizione. La mattina, il mondo è uno spazio curvo dove

tutto è continuo; il pomeriggio, il mondo è uno spazio piatto dove saltano quanti di energia. Il paradosso è che entrambe le teorie funzionano terribilmente bene. La Natura si sta comportando con noi come quell’anziano rabbino da cui erano andati due uomini per dirimere una contesa. Ascoltato il primo, il rabbino dice: «Hai ragione». Il secondo insiste per essere ascoltato, il rabbino lo ascolta, e gli dice: «Hai ragione anche tu». Allora la moglie del rabbino, che orecchiava da un’altra stanza, urla: «Ma non

possono avere ragione entrambi!». Il rabbino ci pensa, annuisce, e conclude: «Anche tu hai ragione». Un gruppo di fisici teorici sparsi per i cinque continenti sta laboriosamente cercando di dirimere la questione. Il campo di studio si chiama «gravità quantistica»: l’obiettivo è trovare una teoria, cioè un insieme di equazioni, ma soprattutto una coerente visione del mondo, in cui la schizofrenia sia risolta. Non è la prima volta che la fisica si trova davanti a due

teorie di grande successo apparentemente contraddittorie. Lo sforzo di sintesi è stato spesso premiato in passato con grandi passi avanti nella comprensione del mondo. Newton ha trovato la gravitazione universale combinando le parabole di Galileo con le ellissi di Keplero. Maxwell ha trovato le equazioni dell’elettromagnetismo combinando le teorie elettrica e magnetica. Einstein ha trovato la relatività per risolvere un apparente conflitto fra elettromagnetismo e

meccanica. Un fisico quindi è felice quando trova un conflitto di questo tipo fra teorie di successo: è una straordinaria opportunità. Possiamo costruire una struttura concettuale per pensare il mondo che sia compatibile con quello che abbiamo scoperto sul mondo con entrambe le teorie? Qui, sul fronte, oltre i bordi del sapere attuale, la scienza diventa ancora più bella. Nella fucina incandescente delle idee che nascono, delle intuizioni, dei tentativi. Delle strade intraprese e poi abbandonate,

degli entusiasmi. Nello sforzo di immaginare quello che ancora non è stato immaginato. Vent’anni fa la nebbia era fitta. Oggi esistono piste che hanno suscitato entusiasmo e ottimismo. Ne esiste più di una, quindi non si può dire che il problema sia risolto. La molteplicità genera dissensi, ma il dibattito è sano: fino a che la nebbia non sia sparita, è bene che esistano critica e opinioni opposte. La principale direzione di ricerca centrata sul tentativo di risolvere il problema è la gravità quantistica «a loop»,

sviluppata in diversi paesi del mondo da una folta pattuglia di ricercatori, fra cui eccellono molti bravissimi giovani italiani (tutti in università estere). La gravità quantistica a loop è un tentativo di combinare relatività generale e meccanica quantistica, tentativo cauto, perché non utilizza altra ipotesi se non queste due stesse teorie, opportunamente riscritte per renderle compatibili. Ma le sue conseguenze sono radicali: una ulteriore modifica profonda della struttura della realtà. L’idea è semplice. La relatività

generale ci ha insegnato che lo spazio non è una scatola inerte, bensì qualcosa di dinamico: una specie d’immenso mollusco mobile in cui siamo immersi, che si può comprimere e storcere. La meccanica quantistica, d’altra parte, c’insegna che ogni campo di tal sorta è «fatto di quanti»: ha una struttura fine granulare. Ne segue subito che lo spazio fisico è anch’esso «fatto di quanti». La predizione centrale della teoria dei loop è quindi che lo spazio non sia continuo, non sia divisibile all’infinito, ma sia

formato da grani, cioè da «atomi di spazio». Questi sono minuscolissimi: un miliardo di miliardi di volte più piccoli del più piccolo dei nuclei atomici. La teoria descrive in forma matematica questi «atomi di spazio» e le equazioni che determinano il loro evolversi. Si chiamano «loop», cioè anelli, perché ciascuno di essi non è isolato, ma è «inanellato» con altri simili, formando una rete di relazioni che tesse la trama dello spazio. Dove sono questi quanti di spazio? Da nessuna parte. Non

sono in uno spazio, perché sono essi stessi lo spazio. Lo spazio è creato dall’interagire di quanti individuali di gravità. Ancora una volta il mondo sembra essere relazione, prima che oggetti. Ma è la seconda conseguenza della teoria ad essere la più estrema. Come sparisce l’idea dello spazio continuo che contiene le cose, così sparisce anche l’idea di un «tempo» elementare e primitivo che scorre indipendentemente dalle cose. Le equazioni che descrivono grani di spazio e

materia non contengono più la variabile «tempo». Questo non significa che tutto sia immobile e non esista cambiamento. Al contrario, significa che il cambiamento è ubiquo, ma i processi elementari non possono essere ordinati in una comune successione d’istanti. Alla piccolissima scala dei quanti di spazio, la danza della natura non si svolge al ritmo del bastone di un singolo direttore d’orchestra, di un singolo tempo: ogni processo danza indipendentemente con i vicini,

seguendo un ritmo proprio. Lo scorrere del tempo è interno al mondo, nasce nel mondo stesso, dalle relazioni fra eventi quantistici che sono il mondo e sono essi stessi la sorgente del tempo. Il mondo descritto dalla teoria si allontana ulteriormente da quello che ci è familiare. Non c’è più lo spazio che «contiene» il mondo e non c’è più il tempo «lungo il quale» avvengono gli eventi. Ci sono solo processi elementari dove quanti di spazio e materia interagiscono tra loro in continuazione. L’illusione

dello spazio e del tempo continui attorno a noi è la visione sfocata di questo fitto pullulare di processi elementari. Così come un quieto e trasparente lago alpino è in realtà formato da una danza veloce di miriadi di minuscole molecole d’acqua. Vista da molto vicino, alla luce di una lente d’ingrandimento ultrapotente, la penultima immagine della terza lezione dovrebbe mostrare la struttura granulare dello spazio:

Possiamo verificare questa teoria con gli esperimenti? Ci stiamo pensando, e stiamo provando, ma ancora non esistono verifiche sperimentali. Però esistono diverse idee.

Una di queste consiste nello studiare i buchi neri. Nel cielo oggi vediamo i buchi neri formati dalle stelle che sono collassate. La materia di queste stelle è precipitata all’interno, schiacciata dal suo stesso peso, e sparita alla nostra vista. Ma dove è finita? Se la teoria della gravità quantistica a loop è corretta, la materia non può essere davvero collassata in un punto infinitesimo. Perché non esistono punti infinitesimi: esistono solo regioni finite di spazio. Crollando sotto il

proprio stesso peso, la materia deve essere diventata sempre più densa, fino a che la meccanica quantistica non deve avere generato una pressione contraria, capace di controbilanciare il peso. Questo ipotetico stato finale della vita di una stella, dove la pressione generata dalle fluttuazioni quantistiche dello spaziotempo bilancia il peso della materia, è quello che si chiama una «stella di Planck». Se il Sole, quando smette di bruciare, dovesse formare un buco nero, questo avrebbe le dimensioni di circa

un chilometro e mezzo. All’interno, l’intera materia del Sole continuerebbe a sprofondare, fino a diventare una stella di Planck. La sua dimensione sarebbe allora simile a quella di un atomo. L’intera materia del Sole concentrata nello spazio di un atomo. Questo stato estremo della materia dovrebbe costituire una stella di Planck. Una stella di Planck non è stabile: una volta compressa al massimo, rimbalza e comincia a riespandersi. Questo porta alla esplosione del buco nero. Il

processo, visto da un ipotetico osservatore che sieda all’interno del buco nero, sulla stella di Planck, è rapidissimo: un rimbalzo. Ma il tempo non passa alla stessa velocità per lui e per chi stia all’esterno del buco nero, per lo stesso motivo per cui in montagna il tempo passa più veloce che al mare. Solo che qui la differenza di passaggio del tempo è enorme, a causa delle condizioni estreme, e quello che per l’osservatore sulla stella è un breve rimbalzo, visto dal di fuori appare con un tempo

lunghissimo. Per questo vediamo i buchi neri restare simili a se stessi per tempi lunghissimi: un buco nero è una stella che rimbalza vista in estremo rallentatore. È possibile che nella fornace dei primi istanti dell’universo si siano formati buchi neri, e alcuni di questi stiano esplodendo ora. Se così fosse, potremmo forse osservare i segnali che emettono esplodendo, sotto forma di raggi cosmici di alta energia che arrivano dal cielo, e quindi osservare e misurare un effetto

diretto di un fenomeno di gravità quantistica. L’idea è coraggiosa, e potrebbe non funzionare, per esempio perché nell’universo primordiale potrebbero non essersi formati abbastanza buchi neri per poterne vedere qualcuno esplodere ora. Ma la ricerca dei segnali è cominciata. Staremo a vedere. Un’altra delle conseguenze della teoria, e una delle più spettacolari, riguarda l’inizio dell’universo. Sappiamo ricostruire la storia del nostro mondo fino a un periodo iniziale

in cui era piccolissimo. Ma prima? Bene, le equazioni dei loop ci permettono di ricostruire la storia dell’universo ancora più all’indietro. Quello che troviamo è che, quando l’universo è estremamente compresso, la teoria quantistica genera una forza repulsiva, con il risultato che il Big Bang, la «grande esplosione», potrebbe essere stato in realtà un Big Bounce, un «grande rimbalzo»: il nostro mondo potrebbe essere nato da un universo precedente che

stava contraendosi sotto il proprio peso, fino a schiacciarsi in uno spazio piccolissimo, per poi «rimbalzare» e ricominciare a espandersi, diventando l’universo in espansione che osserviamo attorno a noi. Il momento del rimbalzo, quando l’universo è compresso in un guscetto di noce, è il vero reame della gravità quantistica: spazio e tempo sono del tutto scomparsi, il mondo è dissolto in una pullulante nuvola di probabilità, che le equazioni riescono tuttavia ancora a descrivere. E l’ultima immagine

della terza lezione si trasforma in:

Il nostro universo può essere nato dal rimbalzo di una fase precedente, passando attraverso una fase intermedia senza spazio e senza tempo. La fisica apre la finestra per

guardare lontano. Quello che vediamo non fa che stupirci. Ci rendiamo conto che siamo pieni di pregiudizi e la nostra immagine intuitiva del mondo è parziale, parrocchiale, inadeguata. Il mondo continua a cambiare sotto i nostri occhi, man mano che lo vediamo meglio. La Terra non è piatta, non è ferma. Se proviamo a mettere insieme quanto abbiamo imparato sul mondo fisico nel Novecento, gli indizi puntano a qualcosa di profondamente diverso dalle nostre idee

istintive su materia, spazio e tempo. La gravità quantistica a loop è un tentativo di decifrare questi indizi e guardare un po’ più lontano.

LEZIONE SESTA

LA PROBABILITÀ, IL TEMPO, E IL CALORE DEI BUCHI NERI

A lato delle grandi teorie che descrivono i costituenti elementari del mondo, di cui ho parlato finora, vi è un altro grande castello nella fisica, un po’ diverso dagli altri. La domanda da cui è inaspettatamente nato è: «Che cos’è il calore?». Fino a metà dell’Ottocento, i

fisici provavano a comprendere il calore pensando si trattasse di una specie di fluido, il «calorico», oppure due fluidi, uno caldo e uno freddo, ma l’idea si è rivelata sbagliata. Poi Maxwell e Boltzmann hanno capito. E quello che hanno capito è bellissimo, strano e profondo, e ci porta verso terreni ancora oggi inesplorati. Quello che hanno capito è che una sostanza calda non è una sostanza che contenga fluido calorico. Una sostanza calda è una sostanza in cui gli atomi si muovono più veloci. Gli atomi e

le molecole, gruppetti di atomi legati, si muovono sempre. Corrono, vibrano, rimbalzano, eccetera. L’aria fredda è aria dove gli atomi, o piuttosto le molecole, corrono più lenti. L’aria calda è aria dove le molecole corrono più veloci. Semplice e bello. Ma non finisce qui. Il calore, come sappiamo, va sempre dalle cose calde verso le cose fredde. Un cucchiaino freddo dentro una tazza di tè caldo diventa caldo anch’esso. In una giornata gelida, se non ci copriamo bene perdiamo

rapidamente calore e ci freddiamo. Perché il calore va dalle cose calde alle cose fredde e non viceversa? Si tratta di una domanda cruciale, perché riguarda la natura del tempo. In tutti i casi in cui non viene scambiato calore, infatti, oppure quando il calore scambiato è trascurabile, noi vediamo che il futuro si comporta esattamente come il passato. Per esempio per il moto dei pianeti del sistema solare il calore è quasi irrilevante, e infatti questo

stesso moto potrebbe egualmente avvenire al contrario senza che nessuna legge fisica fosse violata. Non appena c’è calore, invece, il futuro è diverso dal passato. Per esempio, fintantoché non c’è attrito, un pendolo continua a oscillare per sempre. Se lo filmiamo e proiettiamo il film al contrario, vediamo un movimento del tutto possibile. Ma se c’è attrito, per attrito il pendolo scalda un poco i suoi supporti, perde energia e rallenta. L’attrito produce calore. E subito siamo in grado

di distinguere il futuro (verso cui il pendolo rallenta) dal passato: non si è mai visto, infatti, un pendolo che parta da fermo e cominci a pendolare con l’energia ottenuta assorbendo calore dai suoi supporti. La differenza fra passato e futuro esiste solo quando c’è calore. Il fenomeno fondamentale che distingue il futuro dal passato è il fatto che il calore va dalle cose più calde alle cose più fredde. Ma perché il calore va dalle cose calde alle cose fredde e

non viceversa? Il motivo lo ha trovato il fisico austriaco Ludwig Boltzmann ed è sorprendentemente semplice: è il caso. L’idea di Boltzmann è sottile, e mette in gioco la nozione di probabilità. Il calore non va dalle cose calde alle cose fredde obbligato da una legge assoluta: ci va solo con grande probabilità. Il motivo è che è statisticamente più probabile che un atomo della sostanza calda, che si muove veloce, sbatta contro un atomo freddo e gli lasci un po’ della sua energia, che non viceversa. L’energia si

conserva negli urti, ma tende a distribuirsi in parti più o meno eguali quando ci sono tanti urti a caso. In questo modo le temperature di oggetti in contatto tendono ad uniformarsi. Non è impossibile che un corpo caldo si scaldi ancora di più mettendosi in contatto con un corpo freddo: è solo terribilmente improbabile. Questo portare la probabilità al centro delle considerazioni fisiche e usarla addirittura per spiegare le basi della dinamica del calore fu considerato assurdo all’inizio. Boltzmann

non fu preso sul serio da nessuno, come accade spesso. Finì suicida il 5 settembre del 1906 a Duino, vicino a Trieste, impiccandosi, senza assistere al riconoscimento universale della correttezza delle sue idee. Ma come entra la probabilità nel cuore della fisica? Nella seconda lezione, vi ho raccontato che la meccanica quantistica prevede che il movimento di ogni cosa minuta avvenga a caso. Questo mette in gioco la probabilità. Ma la probabilità a cui fa riferimento Boltzmann, la probabilità

connessa con il calore, ha un’origine diversa ed è indipendente dalla meccanica quantistica. La probabilità in gioco nella scienza del calore è legata in un certo senso alla nostra ignoranza. Io posso non sapere qualcosa in maniera completa, ma assegnare una probabilità maggiore o minore a qualcosa. Per esempio non so se domani pioverà o ci sarà il sole o nevicherà qui a Marsiglia, ma la probabilità che domani nevichi, a Marsiglia in agosto, è bassa. Anche per la maggior parte degli oggetti fisici noi

sappiamo qualcosa del loro stato, ma non tutto, e possiamo fare previsioni solo probabilistiche. Pensate ad un palloncino pieno d’aria. Posso misurarlo, misurarne la forma, il volume, la pressione, la temperatura... Ma le molecole d’aria nel palloncino stanno correndo veloci all’interno e non conosco la posizione esatta di ciascuna di esse. Questo m’impedisce di prevedere con esattezza come si comporterà il palloncino. Per esempio, se sciolgo il nodo che lo tiene chiuso e lo lascio libero,

si sgonfierà rumorosamente correndo e sbattendo di qua e di là in maniera per me imprevedibile. Imprevedibile per me, che conosco solo forma, volume, pressione, temperatura del palloncino. Lo sbatacchiare di qui e di là del palloncino dipende dal dettaglio della posizione delle molecole al suo interno, che non conosco. Anche se non posso prevedere tutto esattamente, posso però prevedere la probabilità che avvenga qualcosa o qualcosa d’altro. Sarà molto improbabile, per esempio, che il palloncino

voli fuori della finestra, giri intorno al faro laggiù in fondo, e poi torni a posarsi sulla mia mano al punto di partenza. Alcuni comportamenti sono più probabili e altri più improbabili. La probabilità che negli urti delle molecole il calore passi dal corpo più caldo a quello più freddo si può calcolare e risulta essere estremamente maggiore della probabilità che il calore torni indietro. La parte della fisica che chiarisce queste cose è la fisica statistica, e uno dei trionfi della fisica statistica, a partire da

Boltzmann, è stato quello di comprendere l’origine probabilistica del comportamento del calore e della temperatura, cioè la termodinamica. A prima vista l’idea che la nostra ignoranza implichi qualcosa riguardo al comportamento del mondo sembra irragionevole: il cucchiaio freddo si scalda nel tè caldo, e il palloncino svolazza quando è lasciato libero, indipendentemente da quello che io so o non so. Cosa c’entra quello che sappiamo o non

sappiamo con le leggi che governano il mondo? La domanda è legittima, e la risposta è sottile. Cucchiaio e palloncino si comportano come devono, seguendo le leggi della fisica, del tutto indipendentemente da quanto noi sappiamo o non sappiamo di loro. La prevedibilità o imprevedibilità del loro comportamento non riguardano il loro stato esatto. Riguardano la limitata classe delle loro proprietà con cui noi interagiamo. Questa classe di proprietà dipende dal nostro

specifico modo di interagire con il cucchiaio e il palloncino. Quindi la probabilità non riguarda l’evoluzione dei corpi in sé. Riguarda l’evoluzione dei valori di sottoclassi di proprietà dei corpi quando queste interagiscono con altri corpi. Ancora una volta, si rivela la natura profondamente relazionale dei concetti che usiamo per mettere in ordine il mondo. Il cucchiaio freddo si scalda nel tè caldo perché tè e cucchiaio interagiscono con noi solo attraverso un piccolo

numero di variabili, fra le innumerevoli che caratterizzano il loro microstato (per esempio la temperatura). Il valore di queste variabili non è sufficiente a prevedere il comportamento futuro esatto (come per il palloncino), ma è sufficiente per stimare che con ottima probabilità il cucchiaio si scalderà. Spero di non aver perso l’attenzione del lettore, in questo passaggio sottile. Nel corso del XX secolo, la termodinamica, cioè la scienza del calore, e la meccanica

statistica, cioè la scienza della probabilità dei diversi moti, sono state estese anche ai campi elettromagnetici e ai fenomeni quantistici. L’estensione al campo gravitazionale, tuttavia, si è rivelata ostica. Come si comporti il campo gravitazionale quando il calore si diffonde in esso è un problema ancora insoluto. Sappiamo cosa succede a un campo elettromagnetico caldo: in un forno, per esempio, vi è radiazione elettromagnetica calda che sappiamo descrivere.

Le onde elettromagnetiche vibrano a caso distribuendosi l’energia, e possiamo immaginare il tutto come un gas fatto di fotoni che si muovono come le molecole nel palloncino caldo. Ma cos’è un campo gravitazionale caldo? Il campo gravitazionale, come abbiamo visto nella prima lezione, è lo spazio stesso, anzi, lo spaziotempo, quindi quando il calore si diffonde al campo gravitazionale devono essere spazio e tempo stessi a vibrare... ma questo non lo sappiamo descrivere ancora

bene: non abbiamo le equazioni che descrivano il vibrare termico di uno spaziotempo caldo. Tali questioni ci portano al cuore del problema del tempo: che cos’è dunque il fluire del tempo? Il problema nasce già nella fisica classica ed è stato sottolineato dai filosofi fra il XIX e il XX secolo, ma diventa assai più acuto nella fisica moderna. La fisica descrive il mondo per mezzo di formule che dicono come variano le cose in funzione della «variabile tempo». Ma

possiamo scrivere formule che ci dicono come variano le cose in funzione della «variabile posizione», oppure come varia il gusto di un risotto in funzione della «variabile quantità di burro». Il tempo sembra «scorrere», mentre la quantità di burro o la posizione nello spazio non «scorrono». Da dove viene la differenza? Un altro modo di porre il problema è chiedersi cosa sia il «presente». Diciamo che le cose che esistono sono quelle nel presente: il passato non esiste (più) e il futuro non esiste

(ancora). Ma nella fisica non c’è niente che corrisponde alla nozione di «adesso». Confrontate «adesso» con «qui». «Qui» designa il luogo dove sta chi parla: per due persone diverse, «qui» indica due luoghi diversi. Perciò «qui» è una parola il cui significato dipende da dove viene pronunciata (il termine tecnico per parole di questo tipo è «indicale»). Anche «adesso» designa l’istante in cui la parola viene detta (anche «adesso» è un termine indicale). Nessuno si sognerebbe di dire che le cose

«qui» esistono, mentre le cose che non sono «qui» non esistono. Ma allora perché diciamo che le cose che sono «adesso» esistono e le altre no? Il presente è qualcosa di oggettivo nel mondo, che «scorre» e fa «esistere» le cose l’una dopo l’altra, oppure è solo soggettivo come «qui»? La questione può sembrare cervellotica. Ma la fisica moderna l’ha resa scottante, perché la relatività ristretta ha mostrato che la nozione di «presente» è anch’essa soggettiva. Fisici e filosofi sono

arrivati alla conclusione che l’idea di un presente comune a tutto l’universo sia un’illusione, e lo «scorrere» universale del tempo sia una generalizzazione che non funziona. Quando muore il suo grande amico italiano Michele Besso, Albert Einstein scrive in una lettera commovente alla sorella di Michele: «Michele è partito da questo strano mondo, un poco prima di me. Questo non significa nulla. Le persone come noi, che credono nella fisica, sanno che la distinzione fra passato, presente e futuro non è

altro che una persistente cocciuta illusione». Ma che sia illusione o no, cosa spiega il fatto che per noi il tempo «scorre», «passa», «fluisce»? Lo scorrere del tempo è palese per ciascuno di noi: i nostri pensieri e il nostro parlare esistono nel tempo, la struttura stessa del nostro linguaggio richiede il tempo (una cosa «è», oppure «era», oppure «sarà»). Possiamo immaginare un mondo senza colori, senza materia, anche senza spazio, ma è difficile immaginarlo senza tempo. Il

filosofo tedesco Martin Heidegger ha messo l’accento su questo nostro «abitare il tempo». Possibile che il fluire del tempo che Heidegger pone come primitivo, sia assente dalla descrizione del mondo? Alcuni filosofi, tra i quali i più devoti heideggeriani, ne concludono che la fisica non è capace di descrivere gli aspetti più fondamentali del reale, e la squalificano come un modo di conoscenza fuorviante. Ma troppe volte in passato ci siamo resi conto che sono le nostre intuizioni immediate a essere

imprecise: se ci fossimo attenuti a esse, penseremmo ancora che la Terra sia piatta e il Sole le giri intorno. Le intuizioni si sono evolute sulla base della nostra limitata esperienza. Quando guardiamo un po’ più lontano, scopriamo che il mondo non è come ci appare: la Terra è rotonda e a Città del Capo hanno i piedi in su e la testa in giù. Fidarsi delle intuizioni immediate, più che dei risultati di una disamina collettiva razionale, attenta e intelligente, non è saggezza: è la presunzione del vecchietto che

si rifiuta di credere che il grande mondo fuori dal paesino dove vive possa essere diverso da quello che lui ha sempre visto. Ma allora da dove nasce la vivida esperienza dello scorrere del tempo? L’indicazione per rispondere viene dallo stretto legame fra il tempo e il calore, il fatto che solo quando ci sia flusso di calore il passato e il futuro sono diversi, e dal fatto che il calore sia legato alle probabilità in fisica, e queste a loro volta al fatto che le nostre interazioni

con il resto del mondo non distinguono i dettagli fini della realtà. Il fluire del tempo emerge sì dalla fisica, ma non nell’ambito della descrizione esatta dello stato delle cose. Piuttosto, emerge nell’ambito della statistica e della termodinamica. Questa potrebbe essere la chiave per il mistero del tempo. Il «presente» non esiste in modo oggettivo più di quanto non esista un «qui» oggettivo, ma le interazioni microscopiche del mondo fanno emergere

fenomeni temporali per un sistema (come per esempio noi stessi) che interagisce solo con medie di miriadi di variabili. La nostra memoria e la coscienza si costruiscono su questi fenomeni statistici, che non sono invarianti nel tempo. Per una ipotetica vista acutissima che vedesse tutto non ci sarebbe tempo «che scorre» e l’universo sarebbe un blocco di passato presente e futuro. Ma noi esseri coscienti abitiamo il tempo perché vediamo solo un’immagine sbiadita del mondo. Se posso rubare le

parole al mio editore: «L’immanifesto è molto più vasto del manifesto». Da questo sfocamento del mondo nasce la nostra percezione dello scorrere del tempo. Chiaro? No. Moltissimo rimane da capire. Un indizio per affrontare il problema viene da un calcolo che ha completato il fisico inglese Stephen Hawking, famoso per essere riuscito a continuare a fare fisica di qualità nonostante gravi problemi medici che lo tengono inchiodato a una sedia a rotelle e gli impediscono di parlare.

Hawking, usando la meccanica quantistica, è riuscito a mostrare che i buchi neri sono sempre «caldi». Emettono calore come una stufa. È il primo indizio concreto di cosa sia uno «spazio caldo». Nessuno hai mai osservato questo calore perché è molto debole per i buchi neri reali che vediamo nel cielo, ma il calcolo di Hawking è convincente, è stato ripetuto in molti modi diversi e il calore dei buchi neri è generalmente considerato reale. Ora questo calore dei buchi

neri è un effetto quantistico su un oggetto, il buco nero, che è di natura gravitazionale. Sono i quanti individuali di spazio, i grani elementari di spazio, le «molecole» che vibrando rendono calda la superficie di un buco nero e generano il calore dei buchi neri. Ma questo fenomeno coinvolge allo stesso tempo la meccanica statistica, la relatività generale e la scienza del calore. Se qualcosa forse stiamo cominciando a capire sulla gravità quantistica, che combina due dei tre pezzi del puzzle, non abbiamo tuttavia

ancora uno straccio di teoria capace di mettere assieme tutti e tre i pezzi del nostro sapere fondamentale sul mondo, e non capiamo ancora bene perché questo fenomeno avvenga. Il calore dei buchi neri è una Stele di Rosetta, scritta a cavallo di tre lingue – Quanti, Gravità e Termodinamica –, che attende di essere decifrata, per dirci cosa sia davvero lo scorrere del tempo.

IN CHIUSURA: NOI

Dopo essere andati lontano, dalla struttura profonda dello spazio al margine del cosmo che conosciamo, vorrei tornare, prima di chiudere questa serie di lezioni, a noi stessi. Che posto abbiamo noi, esseri umani che percepiscono, decidono, ridono e piangono, in questo grande affresco del mondo che offre la fisica contemporanea? Se il mondo è

un pullulare di effimeri quanti di spazio e di materia, un immenso gioco a incastri di spazio e particelle elementari, noi cosa siamo? Siamo fatti anche noi solo di quanti e particelle? Ma allora da dove viene quella sensazione di esistere singolarmente e in prima persona che prova ciascuno di noi? Allora cosa sono i nostri valori, i nostri sogni, le nostre emozioni, il nostro stesso sapere? Cosa siamo noi, in questo mondo sterminato e rutilante? Non posso neppure

immaginare di provare per davvero a rispondere a una tale domanda, in queste pagine semplici. È una domanda difficile. Nel grande quadro della scienza contemporanea ci sono molte cose che non capiamo, e una di quelle che capiamo meno siamo noi stessi. Ma evitare questa domanda e fare finta di niente vorrebbe dire, credo, trascurare qualcosa di essenziale. Mi sono proposto di raccontare come appare il mondo alla luce della scienza, e nel mondo ci siamo anche noi. «Noi», esseri umani, siamo

prima di tutto il soggetto che osserva questo mondo, gli autori, collettivamente, di questa fotografia della realtà che ho provato a comporre. Siamo nodi di una rete di scambi, di cui questo libro è un tassello, nella quale ci passiamo immagini, strumenti, informazioni e conoscenza. Ma del mondo che vediamo siamo anche parte integrante, non siamo osservatori esterni. Siamo situati in esso. La nostra prospettiva su di esso è dall’interno. Siamo fatti degli stessi atomi e degli stessi

segnali di luce che si scambiano i pini sulle montagne e le stelle nelle galassie. Man mano che la nostra conoscenza è cresciuta, abbiamo imparato sempre di più questo nostro essere parte, e piccola parte, dell’universo. Ciò è avvenuto già nei secoli passati, ma sempre di più nell’ultimo secolo. Pensavamo di essere sul pianeta al centro del cosmo, e non lo siamo. Pensavamo di essere una razza a parte, nella famiglia degli animali e delle piante, e abbiamo scoperto che siamo

discendenti dagli stessi genitori di ogni altro essere vivente intorno a noi. Abbiamo bisnonni in comune con le farfalle e con i larici. Siamo come un figlio unico che cresce e impara che il mondo non gira solo intorno a lui come pensava quando era piccolo. Deve accettare di essere uno fra gli altri. Specchiandoci negli altri e nelle altre cose, impariamo chi siamo. Durante il grande idealismo tedesco, Schelling poteva pensare che l’uomo rappresentasse il vertice della natura, il punto altissimo dove la

realtà prende coscienza di se stessa. Oggi, dal punto di vista del nostro sapere sul mondo naturale, questa idea ci fa sorridere. Se siamo speciali, siamo speciali come è speciale ognuno per se stesso, ogni mamma per il suo bimbo. Non certo per il resto della natura. Nel mare immenso di galassie e di stelle, siamo un infinitesimo angolo sperduto; fra gli arabeschi infiniti di forme che compongono il reale, noi non siamo che un ghirigoro fra tanti. Le immagini che ci costruiamo dell’universo vivono dentro di

noi, nello spazio dei nostri pensieri. Fra queste immagini – fra quello che riusciamo a ricostruire e comprendere con i nostri mezzi limitati – e la realtà della quale siamo parte, esistono filtri innumerevoli: la nostra ignoranza, la limitatezza dei nostri sensi e della nostra intelligenza, le condizioni stesse che la nostra natura di soggetti, e soggetti particolari, mette all’esperienza. Queste condizioni, tuttavia, non sono universali, come immaginava Kant, deducendone poi, evidentemente a torto, che la

natura Euclidea dello spazio e perfino la meccanica Newtoniana dovessero essere vere a priori. Sono a posteriori dell’evoluzione mentale della nostra specie, e sono in evoluzione continua. Non solo impariamo, ma impariamo anche a cambiare gradualmente la nostra struttura concettuale, e ad adattarla a ciò che impariamo. E quello che impariamo a conoscere, anche se lentamente e a tentoni, è il mondo reale di cui siamo parte. Le immagini che ci costruiamo dell’universo vivono dentro di

noi, nello spazio dei nostri pensieri, ma descrivono più o meno bene il mondo reale di cui siamo parte. Seguiamo tracce per descrivere meglio questo mondo. Quando parliamo del Big Bang o della struttura dello spazio, quello che stiamo facendo non è la continuazione dei racconti liberi e fantastici che gli uomini si sono narrati attorno al fuoco nelle sere di centinaia di millenni. È la continuazione di qualcos’altro: dello sguardo di quegli stessi uomini, alle prime luci dell’alba, che cerca fra la

polvere della savana le tracce di un’antilope – scrutare i dettagli della realtà per dedurne quello che non vediamo direttamente, ma di cui possiamo seguire le tracce. Nella consapevolezza che possiamo sempre sbagliarci, e quindi pronti ogni istante a cambiare idea se appare una nuova traccia, ma sapendo anche che se siamo bravi capiremo giusto, e troveremo. Questo è la scienza. La confusione fra queste due diverse attività umane, inventare racconti e seguire tracce per trovare qualcosa, è

l’origine dell’incomprensione e della diffidenza per la scienza di una parte della cultura contemporanea. La separazione è sottile: l’antilope cacciata all’alba non è lontana dal dio antilope dei racconti della sera. Il confine è labile. I miti si nutrono di scienza e la scienza si nutre di miti. Ma il valore conoscitivo del sapere resta. Se troviamo l’antilope possiamo mangiare. Il nostro sapere riflette quindi il mondo. Lo fa più o meno bene, ma rispecchia il mondo che abitiamo.

Questa comunicazione fra noi e il mondo non è qualcosa che ci distingue dal resto della natura. Le cose del mondo interagiscono in continuazione l’una con l’altra, e nel fare ciò lo stato di ciascuna porta traccia dello stato delle altre con cui ha interagito: in questo senso esse si scambiano di continuo informazione le une sulle altre. L’informazione che un sistema fisico ha su un altro sistema non ha niente di mentale o soggettivo, è solo il vincolo che la fisica determina fra lo stato di qualcosa e lo stato di

qualcos’altro. Una goccia di pioggia contiene informazione sulla presenza di una nuvola nel cielo, un raggio di luce contiene informazione sul colore della sostanza da cui proviene, un orologio ha informazione sull’ora del giorno, il vento porta informazione su un temporale vicino, un virus del raffreddore ha informazione sulla vulnerabilità del mio naso, il DNA delle nostre cellule contiene tutta l’informazione sul nostro codice genetico, che mi fa rassomigliare a mio padre, e il mio cervello pullula di

informazioni accumulate durante la mia esperienza. La sostanza prima dei nostri pensieri è una ricchissima informazione raccolta, scambiata, accumulata e continuamente elaborata. Ma anche il termostato del mio impianto di riscaldamento «sente» e «conosce» la temperatura della mia casa, quindi ha informazione su di essa, e spegne il riscaldamento quando fa abbastanza caldo. Qual è la differenza fra il termostato e io che «sento» e «so» che fa caldo, decido

liberamente se accendere o no il riscaldamento, e so di esistere? Come può lo scambio continuo di informazione nella natura produrre noi stessi e i nostri pensieri? Il problema è apertissimo, e le possibili soluzioni su cui si sta ora discutendo sono molte e belle. Questa, io credo, è una delle frontiere più interessanti della scienza, dove i progressi stanno per essere maggiori. Strumenti nuovi ci permettono oggi di osservare l’attività del cervello in atto, e di mappare le reti intricatissime del cervello

con impressionante precisione. È del 2014 la notizia della prima mappatura completa della struttura cerebrale fine («mesoscopica») di un mammifero. Idee precise sulla forma matematica delle strutture che possono corrispondere alla sensazione soggettiva della coscienza sono discusse non solo dai filosofi, ma anche dai neuroscienziati. Fra le più belle, a mio parere, vi è la teoria sviluppata da un brillante scienziato italiano che lavora negli Stati Uniti, Giulio Tononi. Si chiama «teoria

dell’informazione integrata», ed è uno sforzo per caratterizzare in maniera quantitativa la struttura che un sistema deve avere per essere cosciente: un modo, per esempio, di caratterizzare cosa davvero cambia nel mondo fisico fra quando siamo svegli (coscienti) e quando siamo addormentati senza sogni (non coscienti). Certo è un tentativo. Non abbiamo ancora una soluzione convincente e condivisa alla domanda di come si formi la coscienza di noi stessi, ma a me sembra che la nebbia stia

cominciando a diradarsi. C’è una questione in particolare, riguardo a noi stessi, che ci lascia spesso perplessi: che significa che siamo liberi di prendere delle decisioni, se il nostro comportamento non fa che seguire le leggi della natura? Non c’è forse contraddizione fra la nostra sensazione di libertà, e il rigore con cui abbiamo ormai compreso si svolgono le cose del mondo? C’è forse qualcosa in noi che sfugge le regolarità della natura, e ci permette di torcerle e sviarle

con il nostro libero pensiero? No, non c’è nulla in noi che sfugge le regolarità della natura. Se qualcosa in noi violasse le regolarità della natura, l’avremmo ormai scoperto da tempo. Non c’è nulla in noi che violi il comportamento naturale delle cose. Tutta la scienza moderna, dalla fisica alla chimica, dalla biologia alle neuroscienze, non fa che rafforzare questa osservazione. La soluzione della confusione è un’altra: quando diciamo che siamo liberi, ed è vero che

possiamo esserlo, ciò significa che i nostri comportamenti sono determinati da quello che succede dentro noi stessi, nel cervello, e non sono costretti dall’esterno. Essere liberi non significa che i nostri comportamenti non siano determinati dalle leggi della natura. Significa che sono determinati dalle leggi della natura che agiscono nel nostro cervello. Le nostre decisioni libere sono liberamente determinate dai risultati delle interazioni fugaci e ricchissime fra i miliardi di neuroni del

nostro cervello: sono libere quando è l’interagire di questi neuroni che le determina. Questo significa che quando decido sono «io» a decidere? Sì, certo, perché sarebbe assurdo chiedersi se «io» posso fare qualcosa di diverso da quello che decide di fare il complesso dei miei neuroni: le due cose, come aveva compreso con lucidità meravigliosa nel XVII secolo il filosofo olandese Baruch Spinoza, sono la stessa cosa. Non ci sono «io» e «i neuroni del mio cervello». Si tratta della stessa cosa.

Un individuo è un processo, complesso, ma strettamente integrato. Quando diciamo che il comportamento umano è imprevedibile, diciamo il vero, perché è troppo complesso per essere previsto, soprattutto da noi stessi. La nostra intensa sensazione di libertà interiore, come Spinoza aveva visto acutamente, viene dal fatto che l’idea e le immagini che abbiamo di noi stessi sono estremamente più rozze e sbiadite del dettaglio della complessità di ciò che avviene

dentro di noi. Noi siamo sorgente di stupore per noi stessi. Abbiamo cento miliardi di neuroni nel nostro cervello, tanti quante le stelle di una galassia, e un numero ancora più astronomico di legami e combinazioni in cui questi possono trovarsi. Di tutto questo non siamo coscienti. «Noi» siamo il processo formato da questa complessità, non quel poco di cui siamo coscienti. Quell’«io» che decide è lo stesso «io» che si forma – in un modo che ancora non ci è certo del tutto chiaro, ma cominciamo

a intravedere – dallo specchiarsi su se stessa, dall’autorappresentarsi nel mondo, dal riconoscersi come punto di vista variabile collocato nel mondo, di quella impressionante struttura che gestisce informazione e costruisce rappresentazioni, che è il nostro cervello. Quando abbiamo la sensazione che «sono io» a decidere, non c’è nulla di più corretto: chi altri? Io, come voleva Spinoza, sono il mio corpo e quanto avviene nel mio cervello e nel mio cuore, con la loro sterminata e per me stesso

inestricabile complessità. L’immagine scientifica del mondo, che ho raccontato in queste pagine, non è allora in contraddizione con il nostro sentire noi stessi. Non è in contraddizione con il nostro pensare in termini morali, psicologici, con le nostre emozioni e il nostro sentire. Il mondo è complesso, noi lo catturiamo con linguaggi diversi, appropriati per i diversi processi che lo compongono. Ogni processo complesso può essere affrontato e compreso con linguaggi diversi a livelli

diversi. I diversi linguaggi si intersecano, si intrecciano e si arricchiscono l’un l’altro, come i processi stessi. Lo studio della nostra psicologia si raffina comprendendo la biochimica del nostro cervello. Lo studio della fisica teorica si nutre della passione e delle emozioni che portano la nostra vita. I nostri valori morali, le nostre emozioni, i nostri amori, non sono meno veri per il fatto di essere parte della natura, di essere condivisi con il mondo animale o per essere cresciuti ed essere stati determinati dai

milioni di anni dell’evoluzione della nostra specie. Anzi, sono più veri per questo: sono reali. Sono la complessa realtà di cui siamo fatti. La nostra realtà è il pianto e il riso, la gratitudine e l’altruismo, la fedeltà e i tradimenti, il passato che ci perseguita e la serenità. La nostra realtà è costituita dalle nostre società, dall’emozione della musica, dalle ricche reti intrecciate del nostro comune sapere, che abbiamo costruito insieme. Tutto questo è parte di quella stessa natura che descriviamo. Della natura siamo

parte integrante, siamo natura, in una delle sue innumerevoli e svariatissime espressioni. Questo ci insegna la nostra conoscenza crescente delle cose del mondo. Quanto è specificamente umano non rappresenta la nostra separazione dalla natura, è la nostra natura. È una forma che la natura ha preso qui sul nostro pianeta, nel gioco infinito delle sue combinazioni, dell’influenzarsi e scambiarsi correlazioni e informazione fra le sue parti. Chissà quante e quali altre straordinarie

complessità, in forme forse addirittura impossibili da immaginare per noi, esistono negli sterminati spazi del cosmo... C’è così tanto spazio lassù, è puerile pensare che in quest’angolo periferico di una galassia delle più banali ci sia qualcosa di speciale. La vita sulla Terra non è che un assaggio di cosa può succedere nell’universo. La nostra anima non ne è che un altro. Noi siamo una specie curiosa, l’unica rimasta di un gruppo di specie (il «genere Homo») formato da almeno una dozzina

di specie curiose. Le altre specie del gruppo si sono già estinte; alcune, come i Neanderthal, poco fa: neppure trentamila anni or sono. È un gruppo di specie evolutesi in Africa, affine agli scimpanzé gerarchici e litigiosi, ma ancor più ai bonobo, i piccoli scimpanzé pacifici, allegramente promiscui ed egualitari. Un gruppo di specie ripetutamente uscito dall’Africa per esplorare mondi nuovi e arrivato lontano, fino in Patagonia, fino sulla Luna. Non siamo curiosi contro natura:

siamo curiosi per natura. Centomila anni fa la nostra specie è partita dall’Africa, forse spinta proprio da questa curiosità, imparando a guardare sempre più lontano. Sorvolando l’Africa di notte mi sono chiesto se uno di quei nostri lontani antenati, alzandosi e mettendosi in cammino verso gli aperti spazi del Nord, e guardando il cielo, avrebbe potuto immaginare un suo lontano nipote volare in quel cielo, interrogandosi sulla natura delle cose, spinto ancora dalla sua stessa curiosità.

Penso che la nostra specie non durerà a lungo. Non pare avere la stoffa delle tartarughe, che hanno continuato ad esistere simili a se stesse per centinaia di milioni di anni, centinaia di volte di più di quanto siamo esistiti noi. Apparteniamo a un genere di specie a vita breve. I nostri cugini si sono già tutti estinti. E noi facciamo danni. I cambiamenti climatici e ambientali che abbiamo innescato sono stati brutali e difficilmente ci risparmieranno. Per la Terra sarà un piccolo blip irrilevante, ma non credo che

noi li passeremo indenni; tanto più dato che l’opinione pubblica e la politica preferiscono ignorare i pericoli che stiamo correndo e mettere la testa sotto la sabbia. Siamo forse la sola specie sulla Terra consapevole dell’inevitabilità della nostra morte individuale: temo che presto dovremmo diventare anche la specie che vedrà consapevolmente arrivare la propria fine, o quanto meno la fine della propria civiltà. Come sappiamo affrontare, più o meno bene, la nostra

morte individuale, così affronteremo il crollo della nostra civiltà. Non è molto diverso. E non sarà certo la prima civiltà a crollare. I Maya e Creta ci sono già passati. Nasciamo e moriamo come nascono e muoiono le stelle, sia individualmente che collettivamente. Questa è la nostra realtà. Per noi, proprio per la sua natura effimera, la vita è preziosa. Perché, come scrive Lucrezio, «il nostro appetito di vita è vorace, la nostra sete di vita insaziabile» (De rerum natura, III, 1084).

Ma immersi in questa natura che ci ha fatto e che ci porta, non siamo esseri senza casa, sospesi fra due mondi, parti solo in parte della natura, con la nostalgia di qualcosa d’altro. No: siamo a casa. La natura è la nostra casa e nella natura siamo a casa. Questo mondo strano, variopinto e stupefacente che esploriamo, dove lo spazio si sgrana, il tempo non esiste e le cose possono non essere in alcun luogo, non è qualcosa che ci allontana da noi: è solo ciò che la nostra naturale curiosità

ci mostra della nostra casa. Della trama di cui siamo fatti noi stessi. Noi siamo fatti della stessa polvere di stelle di cui sono fatte le cose e sia quando siamo immersi nel dolore sia quando ridiamo e risplende la gioia non facciamo che essere quello che non possiamo che essere: una parte del nostro mondo. Lucrezio lo dice con parole meravigliose: ... siamo tutti nati dal seme celeste; tutti abbiamo lo stesso

padre, da cui la terra, la madre che ci alimenta, riceve limpide gocce di pioggia, e quindi produce il luminoso frumento, e gli alberi rigogliosi, e la razza umana, e le stirpi delle fiere, offrendo i cibi con cui tutti nutrono i corpi, per condurre una vita dolce e generare la prole... (II, 991-997)

Per natura amiamo e siamo onesti. E per natura vogliamo sapere di più. E continuiamo a imparare. La nostra conoscenza del mondo continua a crescere. Ci sono frontiere, dove stiamo imparando, e brucia il nostro desiderio di sapere. Sono nelle profondità più minute del tessuto dello spazio, nelle origini del cosmo, nella natura del tempo, nel fato dei buchi neri, e nel funzionamento del nostro stesso pensiero. Qui, sul bordo di quello che sappiamo, a contatto con l’oceano di quanto non

sappiamo, brillano il mistero del mondo, la bellezza del mondo, e ci lasciano senza fiato.

INDICE ANALITICO

Africa Anassimandro «Annalen der Physik» Aristotele atomi di spazio atomo Beethoven, Ludwig van Besso, Michele Big Bang Big Bounce (grande rimbalzo) Bohr, Niels

Bologna Boltzmann, Ludwig bonobo bosone di Higgs buchi neri Calabria calore calorico cambiamenti climatici CERN Città del Capo Condofuri Copernico, Niccolò Creta Dante

Darwin, Charles Dirac, Paul DNA Duino Einstein, Albert Euclide Faraday, Michael Feynman, Richard Phillips fotoni galassia Galilei, Galileo Gauss, Friedrich Carl Gell-Mann, Murray gluoni

gravità quantistica a loop Hawking, Stephen Heidegger, Martin Heisenberg, Werner infinito informazione Joyce, James Kant, Immanuel Keplero (Kepler, Johannes) Landau, Lev Laplace, Pierre-Simon de Lucrezio

Marsiglia Maxwell, James Maya modello standard molecole Mozart, Wolfgang Amadeus Neanderthal nebulose neutrini neutroni Newton, Isaac nucleo onde gravitazionali

Parmenide particelle elementari Patagonia Pitagora Planck, Max probabilità protoni quarks radiazione cosmica di fondo relatività ristretta Riemann, Bernhard rinormalizzazione Rubbia, Carlo scimpanzé

Spinoza, Baruch Stele di Rosetta stella di Planck SU(5) tartarughe telescopio Hubble teoria dei loop termodinamica Trieste visioni vuoto Zurigo

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