Carlo Gentili - Nietzsche
March 6, 2017 | Author: ugglor | Category: N/A
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http://www.darwinbooks.it/darwin/fulltextprint/index/BookRelease/Darwin:BOOK_RELEASE:972/fullChapter/1/initPage/7 01/nov/2014 14.21.03 Copyright © 2008 by Società editrice il Mulino
Carlo Gentili Nietzsche
AVVERTENZA Le opere di Nietzsche vengono citate secondo la Kritische Gesamtausgabe a cura di G. Colli e M. Montinari, Berlin e Berlin-New York, De Gruyter, 1967 ss., a cui corrisponde l’edizione italiana, ancora a cura di Colli e Montinari, Milano, Adelphi, 1964 ss. I rimandi ai volumi sono sempre riferiti all’edizione italiana, e vengono dati nel testo e nelle note indicando tra parentesi tonde il volume e il tomo (ed eventualmente la parte) in cifre romane, seguiti dal numero di pagina in cifre arabe. Nel caso in cui ci si riferisca ad uno scritto non ancora presente nell’edizione italiana, si rinvia all’edizione tedesca con la sigla KGW, seguita dall’indicazione del volume in cifre romane, del tomo e della pagina in cifre arabe;; in questo caso, quando si rimanda all’edizione italiana di un testo non compreso nella Colli-Montinari, il riferimento è riportato in nota. Il rinvio agli apparati critici presenti nell’edizione italiana della Colli-Montinari viene indicato con la sigla OFN, seguita dalle indicazioni del volume e della pagina. Le lettere di Nietzsche sono citate secondo l’edizione del Briefwechsel a cura di G. Colli e M. Montinari, Berlin-New York, De Gruyter, 1975 ss., con la sigla KGB seguita dal numero del volume in cifre romane, del tomo e della pagina in cifre arabe;; l’edizione italiana, sempre a cura di Colli e Montinari, Milano, Adelphi, 1976 ss. (per ora limitata ai primi tre volumi), viene indicata con la sigla Ep seguita dal numero del volume in cifre romane e della pagina in cifre arabe. Le opere di Nietzsche vengono indicate con le sigle riportate nell'elenco delle abbreviazioni. Fanno eccezione i Frammenti postumi. Copyright © 2008 by Società editrice il Mulino - Licenza d'uso Per le opere presenti in questo sito si sono assolti gli obblighi dalla normativa sul diritto d'autore e sui diritti connessi.
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Carlo Gentili Nietzsche
CAPITOLO PRIMO
NIETZSCHE E LA RIFORMA DELLA «BILDUNG». DAGLI ANNI DELLA FORMAZIONE ALLA CRITICA DELLE ISTITUZIONI SCOLASTICHE 1. Filologia e filosofia Un’esposizione canonica del pensiero di Nietzsche ha inizio di solito con la Nascita della tragedia. Quest’opera (che appare nel gennaio 1872 presso l’editore E.W. Fritzsch di Lipsia, lo stesso editore di Wagner) dissolve l’equivoco di un Nietzsche che intende se stesso come filologo, lo recupera a quell’ispirazione poetica che già ne aveva segnato l’adolescenza innalzando però, nel contempo, una non troppo robusta fibra di poeta all’atmosfera rarefatta della riflessione estetica;; e finalmente, di qui, a-pre all’autore quella strada alla filosofia che era evidentemente il suo più autentico destino. Per di più, in essa è individuabile come un autentico conio, contributo di assoluta «originalità», quella coppia apollineo/dionisiaco che tanto mirabilmente serve a rovesciare l’interpretazione tradizionale della grecità e a fornire di quest’ultima una visione finalmente utilizzabile al presente, al di là e contro i classicismi di tutte le epoche. Queste, forzatamente riassunte in poche righe, le ragioni che hanno concordemente indirizzato alla Nascita della tragedia come all’opera dell’esordio filosofico di Nietzsche;; esordio che trarrebbe la sua motivazione dal distacco dalla filologia. Ma quest’immagine, che la tradizione interpretativa non meno delle iniziative editoriali ci consegnano come ampiamente consolidata, si rivela oggi, se non del tutto falsa, per lo meno incompleta e parziale. Il primo rilievo al quale siamo obbligati è la considerazione che Nietzsche non dismette l’interesse per la filologia dopo la «svolta» filosofica: la riflessione sullo statuto e i compiti della ricerca filologica accompagna di pari pas-so lo sviluppo del pensiero nietzscheano dalle quattro {p. 12}
Considerazioni inattuali fino a L’anticristo. E ancora, per ciò che riguarda gli altri punti dell’interpretazione tradizionale: come ha ben visto e ripetutamente sottolineato il maggiore dei suoi interpreti, Martin Heidegger, non è possibile rinchiudere la riflessione di Nietzsche sull’arte, in nessuno stadio del suo sviluppo, entro i confini di una «estetica» pensata come una disciplina che assuma l’arte e l’opera d’arte come suoi oggetti esclusivi. Quanto ai tentativi poetici giovanili, andrà notato (come qualcuno ha fat-to) che la ripresa della produzione poetica nella fase matura (dagli Idilli di Messina agli inserti poetici della Gaia scienza edi Così parlò Zarathustra, fino ai Ditirambi di Dioniso e alle poesie non pubblicate) fa di Nietzsche, se non altro sotto l’aspetto quantitativo, il maggior poeta di lingua tedesca della seconda metà del XIX secolo. Per finire, non può esser taciuto che la coppia apollineo/dionisiaco non è una novità assoluta nel pensiero tedesco che riflette sul significato della grecità;; e che proprio questo significato aveva costituito il parametro per la definizione della modernità già in Schiller e in Friedrich Schlegel. Circostanza, questa, che aveva fatto della filologia la spina dorsale della cultura tedesca, prima di essere confinata, come disciplina specialistica celebrata dal positivismo metodologico e dallo storicismo, nelle aule esclusive della cultura universitaria. Quel che dovrebbe render sospetta la collocazione tradizionale della Nascita della tragedia è se non altro la constatazione che essa risulta di fatto consonante con il rifiuto dell’opera espresso dalla filologia accademica. Nel concludere la sua prima stroncatura del libro (divenuta celebre in virtù della celebrità conquistata più tardi dal libro stesso), un filologo giovanissimo ma di luminoso avvenire, Ulrich von Wilamowitz-Möllendorff, ritorce malignamente contro lo stesso Nietzsche la sua protesta contro un’arte sminuita a mero «tintinnio di sonagli» (Schellengeklingel)(GT, III,I, 20): se egli non ha inteso che trastullarsi con un «giuoco di sonagli» – scrivendo un’opera di estetica in cui si fa uso dell’intuizione poetica piuttosto che di quel «metodo storico-critico» che comprende ogni {p. 13}
fenomeno storico «solo dalle premesse dell’epoca in cui si è sviluppato»[1] – allora il filologo
ortodosso è ben disposto a riporre la spada nel fodero;; ma su una cosa non intende transigere: «Il signor N. mantenga la parola, brandisca il tirso, viaggi dall’India alla Grecia, ma scenda giù dalla cattedra sulla quale egli deve insegnare la scienza[2]. Vedere la Nascita della tragedia nella prospettiva esclusiva di un distacco dalla filologia significa accogliere, di fatto, questa ingiunzione alle dimissioni. Il libro diviene in questo modo un grumo di pensiero la cui capacità di rimandare alle opere successive (a cominciare da Umano, troppo umano) risulta compromessa in quanto le stazioni intermedie del percorso di pensiero (i testi e gli appunti delle lezioni basileesi, le sei conferenze sulla scuola, le quattro Inattuali, l’ulteriore riflessione sul mondo greco del non pubblicato La filosofia nell’epoca tragica dei Greci) si riducono a meri frammenti di un naufragio. E, di più, la stessa linea di continuità che dovrebbe condurre al retroterra della Nascita della tragedia risulta spezzata: il libro appare solo come il frutto eccessivo (la «stravaganza geniale» di cui parla, nelle sue note di diario, Friedrich Ritschl, che Nietzsche ebbe come maestro di filologia nelle università di Bonn e poi di Lipsia) di una vocazione filologica prematuramente – e misteriosamente – deviata contro le sue stesse sorgenti. Per disegnare una linea diversa, capace di tenere insieme gli anni della formazione con quelli in cui la critica della filologia si salda con la critica della cultura, occorre muovere da una domanda perfino banale nella formulazione ma complessa nelle risposte che articola: perché Nietzsche si interessa alla filologia? Ossia: come nasce in un figlio e nipote (nella duplice linea di discendenza {p. 14}
paterna e materna) di pastori protestanti l’interesse per il mondo greco? Questa domanda ne contiene sullo sfondo un’altra, dall’orizzonte più ampio: qual è il ruolo della filologia nella cultura tedesca dei decenni immediatamente succesivi alla metà del secolo? Il che vuol dire: per quale ragione un filologo allevato nella rigida disciplina del liceo di Pforta doveva fatalmente subire il fascino di Richard Wagner? Rispondereaquestedomandeèpossibile soltanto considerando come un arco sostanzialmente solidale la produzione nietzscheana che va dagli anni dell’adolescenza (i cui tentativi poetici e teorici testimoniano un problematico sforzo di conciliare mondo germanico e mondo greco) al momento in cui il preteso, estremo omaggio a Wagner (la IV Inattuale, Richard Wagner a Bayreuth)si rovescia di fatto nella crisi con il maestro. Il tema unificante ne è la critica della cultura e della modernità. Nel centro di questo arco sta in effetti la Nascita della tragedia come il momento di elaborazione teorica più alta. La revisione del modello greco, che sta alla base del libro, non può andare disgiunta dal ruolo che tale modello giocava nel sistema educativo prussiano. Se questa revisione assume, nella Nascita della tragedia, un aspetto autonomo, apparentemente disgiunto da ogni riferimento contestuale, l’immediatamente successiva preparazione del ciclo di conferenze poi pubblicato con il titolo Sull’avvenire delle nostre scuole non lascia dubbi sul fatto che l’obiettivo generale di Nietzsche fosse una critica radicale della concezione dell’«educazione», della «formazione» (Bildung) che stava a fondamento del sistema scolastico. È questo il primo nucleo di ciò che poi evolverà in un maturo programma di critica della cultura. Che i temi della grecità e della riforma della Bildung siano intimamente legati, è testimoniato da più di una lettera che Nietzsche scrive non appena terminata la stesura della Nascita della tragedia. Il 21 dicembre 1871 comunica all’amico Erwin Rohde: «Questo Natale lo passerò da solo a Basilea: ho rifiutato l’amichevole invito di Tribschen [cioè alla villa di Wagner nei dintorni di Basilea]. Ho bisogno di tempo e {p. 15}
di solitudine per riflettere un po’ sulle mie sei conferenze (l’avvenire delle scuole), e per raccogliermi» (Ep, II, 243). Poco dopo, il 30 gennaio 1872, così si confida con il maestro Ritschl (non senza avergli prima manifestato il proprio stupore per non aver ricevuto neppure una parola di commento sulla Nascita della tragedia speditagli in dono): «io almeno non mancherò di trarre le conseguenze pratiche delle mie opinioni, e potrà indovinare che cosa intendo se Le dico che sto tenendo qui [a Basilea] delle conferenze pubbliche Sull’avvenire delle nostre scuole»(Ep, II, 267). La presa di posizione nei confronti del sistema scolastico viene dunque considerata una conseguenza pratica delle premesse poste teoricamente con la Nascita della tragedia. E ciò non desta meraviglia, visto che nella stessa lettera Nietzsche dichiara che quel libro avrebbe dovuto essere «promettente per il nostro studio dell’antichità» e «per lo spirito tedesco»;; un libro che avrebbe dovuto esercitare «un’influenza sulle nuove generazioni dei filologi», al punto che il non riuscire in questo intento sarebbe stato da lui stesso considerato «un segno vergognoso» (ibidem). Ma in una lettera di poco precedente, inviata il 28 gennaio ancora a Rohde, questo proposito rivela un orizzonte di intervento (in qualche modo politico) ancor più ambizioso: Ti annuncio in tutta segretezza e invitandoti al silenzio che tra l’altro sto preparando un promemoria sull’università di Strasburgo, sotto forma di interpellanza al Reichsrat, destinata a Bismarck: in essa ho
intenzione di dimostrare che scandalosamente si è perduta un’occasione straordinaria per fondare una vera istituzione culturale atta alla rigenerazione dello spirito tedesco e alla distruzione della cosiddetta «cultura» finora imperante. – Lotta ai ferri corti! O con i cannoni! (Ep, II, 265).
Di questo promemoria non è rimasta traccia, e sebbene esso sia restato allo stato di pura intenzione, testimonia ciò nondimeno di quanto critica della cultura e critica delle istituzioni scolastiche dovessero sembrare al giovane docente inscindibilmente legate. {p. 16}
Niente di più naturale, ovviamente, del vedere in queste considerazioni una rielaborazione consapevole dell’esperienza vissuta in prima persona a Pforta, dalla quale era nata l’urgenza di una revisione del ruolo dello studio dell’antichità e della filologia. Il nesso di critica della Bildung e critica della cultura formerà l’ossatura non solo delle sei conferenze, ma anche della III Inattuale, Schopenhauer come educatore.
2. Schulpforta Ma che cosa aveva rappresentato Pforta per Nietzsche? Sul piano personale, almeno inizialmente, il trauma di una separazione, benché la scuola fosse situata ad appena un’ora di cammino da Naumburg, dove il giovane Nietzsche si era trasferito con la famiglia dalla nativa Röcken dopo la morte del padre, il pastore Karl Ludwig. Nietzsche vi fu ammesso il 5 ottobre 1858. L’ansia della separazione traspare nella prima lettera spedita alla madre Franziska già il 6 ottobre: «Fino a ora mi trovo benissimo, ma che significa benissimo in un luogo estraneo?! [...] Col passare del tempo mi ambienterò sicuramente sempre di più, ma certamente sarà una cosa lunga» (Ep, I, 17). Ed è ancora presente in alcune note di diario del 1859, in cui egli cerca di darsi delle regole – seguendo i dettami del suo tutore, il pastore Robert Buddensieg – per combattere la nostalgia. Le armi per sostenere questa lotta sono la disciplina dello studio, il pensiero dei familiari e, ciò che non deve stupire pensando al futuro acerrimo nemico del cristianesimo, la religione[3]. Ma già nel maggio 1861, nel {p. 17}
terzo abbozzo dello scritto autobiografico La mia vita,la nostalgia appare superata nella consapevolezza di ciò che Pforta doveva significare per la sua vita in quanto porta d’ingresso nella classe intellettuale: Da tempo nutrivo un debole per Pforta, in parte perché mi attirava la fama dell’istituto e i nomi famosi di coloro che vi era-no stati e ancora vi si trovavano, ma anche perché ne ammiravo la posizione e i bei dintorni. Decisi subito di accettare il posto, e non me ne sono mai pentito. Anche se in principio mi pesò separarmi dalla mamma, da mia sorella e dai cari amici, ben presto questo sentimento scomparve, e qui mi trovai subito contento e a mio agio. Io non disconosco il benefico influsso che Pforta ha su di me, e posso solo desiderare di dimostrarmi, adesso e ancor più nei tempi futuri, un suo degno figlio (I,I, 152-153).
I «nomi famosi di coloro che vi erano stati» sono, se non altro, quelli di Klopstock, J.E. Schlegel, Fichte e Ranke. Tra i professori che Nietzsche ebbe a Pforta figuravano nomi di primissimo rango, quali i filologi Karl Stein-hart, Karl Keil, Wilhelm Corssen e il germanista Karl August Koberstein;; suoi tutori furono, oltre a Buddensieg, il filologo Max Heinze e il pastore Hermann Kleitsche. Rettore della scuola, negli anni in cui Nietzsche la frequentò, fu il filologo e storico Karl Peter. Tra le amicizie più significative che egli strinse a Pforta vi furono certamente quelle con i colleghi Paul Deussen e Carl von Gersdorff, che lo accompagneranno per tutta la vita e che erano destinati a ricoprire anch’essi un ruolo di primo piano nella cultura tedesca[4]. Com’è facile intuire, Schulpforta era un’istituzione votata alla formazione della classe dirigente prussiana, che univa nei suoi programmi lo studio dell’antichità allo spirito e alla pratica della religione luterana. Nel suo nome emblematico (Pforte è la «porta d’ingresso») essa indicava la via d’accesso alle carriere degli alti dirigenti dello Stato, ai quali non doveva mancare una solida cultura umanistica. Come l’ha definita C.P. Janz, {p. 18}
Pforta era un vero e proprio «Stato nello Stato[5]. Stando alle parole della memoria redatta dal rettore Kirchner nel 1843, «la caratteristica di Pforta è il suo costituire uno Stato scolastico in sé conchiuso, in cui la vita dei singoli si risolve completamente in tutti i suoi rapporti». Gli allievi di Pforta «portano con sé dall’istituto per tutta la vita il marchio distintivo di una certa qual solida capacità», marchio che «procede quasi da sé, per intima necessità, dallo spirito virile, severo e vigoroso della disciplina, dalla vivace convivenza del corpo studentesco per un determinato nobile fine, dalla serietà degli studi classici ed affini, isolata da ogni contatto con le distrazioni cittadine, e dal metodo di questi stessi studi». Gli allievi devono dimostrarsi «uomini completi, che si avvezzano a ubbidire alle leggi e ai voleri dell’autorità, al rigore e al puntuale adempimento dei doveri, al
dominio di sé, al duro lavoro, alla vivace, autonoma attività»[6]. Questi compiti Pforta li portava inscritti nella sua origine storica e, per così dire, nelle sue stesse mura: aveva infatti tratto origine, nel 1543, da un’abbazia cistercense;; i suoi spazi erano ancora le aule e i chiostri dell’antico convento, trasformati nei luoghi dove si svolgevano l’educazione e la ricreazione degli studenti. Come osserva Janz, Pforta mostrava in definitiva una certa somiglianza con le accademie dei cadetti prussiani, «con la differenza che qui non venivano preparati ufficiali per l’esercito, bensì ufficiali per la guida spirituale del popolo». L’ideale supremo di cui gli allievi venivano nutriti era quello dell’unità tedesca, e a questo fine lo studio dell’antichità classica era affiancato a quello della lingua e della letteratura tedesca: questa sintesi proveniva direttamente da quegli «ideali dell’umanesimo, quali erano stati creati dai classici tedeschi ed elaborati dalla filologia del {p. 19}
XIX secolo». Isolata dalla realtà dell’epoca, la gioventù eletta che vi si formava «era totalmente assorbita dal mondo dell’Ellade e di Roma e da quello di Goethe e di Schiller»[7]. Pforta era insomma la perfetta sintesi istituzionale degli ideali della «borghesia colta», del Bildungsbürgertum.
3. Nuovi compiti della filologia e della filosofia;; il concetto di individualità storica in W. von Humboldt e in Schleiermacher Proprio la filologia – in quanto strumento per la conoscenza dell’ideale antico e, insieme, per la ridefinizione dei compiti del presente sulla misura di quell’ideale – costituiva il riferimento centrale di questo programma culturale. Ciò non corrispondeva semplicemente al principio fondante di ogni umanesimo, che riconosce al modello dell’antichità un valore normativo per il presente e considera quindi la filologia lo strumento indispensabile per mettere nuovamente a disposizione – penetrando la lettera obsoleta dei testi – un tesoro di saggezza che si presume valido in ogni tempo;; il nuovo compito affidato alla filologia nasceva piuttosto da quella nuova concezione della storia che aveva avuto la sua origine nell’elaborazione teorica dell’esperienza della rivoluzione francese. Elaborazione che, negli stati tedeschi, acquista rilievo sempre maggiore dopo il fallimento della rivoluzione stessa e in coincidenza con l’espansione napoleonica, intrecciandosi con la questione della definizione dell’identità nazionale. Il programma tradizionale della filologia umanistica si trova così rovesciato nella subordinazione, innanzitutto, ad una nuova idea di storia: non più semplice strumento di conoscenza, «la filologia classica acquista ormai anche lo statuto di scienza storica», costituendo di fatto il primo gradino di uno sviluppo che porterà in {p. 20}
seguito alla costituzione di una storia dell’antichità e di una scienza generale della storia[8]. Esemplare di questo mutamento di ruolo della filologia è l’ideale pedagogico-umanistico di Wilhelm K. von Humboldt. Pur salutando nella rivoluzione l’affermazione di un principio universale di libertà, egli ne individua la debolezza e la causa del fallimento nella prevalenza dei principi astratti a discapito dell’individualità storica. La definizione di questa individualità diviene il centro del suo ideale pedagogico che si ispira al modello greco. Nel suo Über das Studium des Alterthums und des griechischen insbesondere («Sullo studio dell’antichità e di quella greca in particolare», 1793) Humboldt riconosce ad ogni nazione la capacità di formarsi un carattere individuale, ma ciò si realizza con tanta maggiore forza quando l’unità dello spirito e del carattere si imprimono su una molteplicità e diversità di forme. Questa fu la caratteristica dei Greci, ed è ciò in cui la modernità, essendone priva, deve vedere il proprio modello. I Greci – egli scrive più tardi – «non so-no per noi soltanto un popolo che possa essere utile conoscere storicamente, ma un ideale»;; sono per noi «quel che i loro dèi furono per loro: carne della nostra carne ed ossa dellenostreossa». Lalorosuperiorità staproprio nella loro ineguagliabilità: è questo a dare un senso al fat-to che noi imitiamo le loro opere e a consentirci, nella nostra condizione di inerte meschinità, di risalire alla loro libertà e alla loro bellezza. Ma, soprattutto, la caratteristica superiorità dei Greci sta nella «missione di rappresentare la vita più alta come nazione»[9]. Questa «vita più alta» è per Humboldt la stessa «esistenza umana»;; la «nazione» greca non è che lo sviluppo coerente delle premesse già {p. 21}
poste nell’individuo: nulla si trova in quella che non sia presente anche in questo. Ma proprio questa unità di stile e di carattere è ciò che va perso nella modernità: al punto che essa può essere definita «la controimmagine» (das Gegenbild) della grecità;; il «conflitto» (Zwiespalt) che caratterizza la nostra condizione non è soltanto quello tra diverse nazioni ed individui, ma si manifesta perfino «nel proprio petto, nell’osservare, nel sentire e nel produrre»[10]. Il compito che viene affidato alla filologia deve dunque tener conto della differenza che separa la modernità dal modello greco: da un lato essa deve nuovamente attingere quel modello – continuando dunque ad identificarsi in quell’idea di filologia umanistica che la tradizione considerava come «metodo
storico» pur affidandole una finalità non storica –, dall’altro le viene ora attribuito uno scopo specificamente storico. Questo vuol dire che se, fino a quel momento, la filologia considerava come proprio compito soltanto la preparazione dei testi dal punto di vista della critica testuale e del commento, sottraendo di fatto l’analisi di questi testi alla considerazione storica, in avvenire anche l’analisi dovrà soggiacere secondo Humboldt alle categorie storiche: «anzi, essa costituisce per lui addirittura lo scopo principale dell’interpretazione storica, a cui la stessa preparazione dei testi è assolutamente subordinata»[11]. La filologia classica acquista in tal modo, nell’ambito delle discipline storiche, una preminenza che la porterà di lì a poco a divenire il fondamento della «scienza dell’antichità» elaborata da Friedrich A. Wolf[12]. Quei caratteri di individualità ed unità che Humboldt recupera, grazie alla filologia, dal modello greco, trovano {p. 22}
un riscontro di fatto nella fondazione e nel programma dell’università berlinese, di cui egli è il fondamentale ispiratore. Questi caratteri si incrociano con l’urgenza di dare uno sbocco istituzionale alla costruzione di un’identità politica e culturale dei Tedeschi. L’istituzione di una nuova università a Berlino assume un significato storicamente decisivo nel momento in cui «una parte della Germania è devastata dalla guerra, un’altra è sotto il giogo di una lingua straniera di dominatori stranieri»;; la nuova università «sarà per la scienza tedesca l’inaugurazione di una repubblica nella quale non era possibile fin qui riporre grande speranza»[13]. Per una duplice ragione Berlino rappresenta il luogo ideale per la realizzazione di questo scopo: da un lato la sua collocazione geografica la rende più adatta, rispetto a Königsberg e a Francoforte, ad esercitare il suo influsso al di fuori dei confini[14];; dall’altro – e questo è il punto principale – a Berlino esistono già due accademie, una grande biblioteca, un osservatorio astronomico, un orto botanico, molte collezioni e una facoltà di medicina;; ed è evidente «che ogni divisione di facoltà è dannosa alla cultura (Bildung) autenticamente scientifica», che le collezioni e gli istituti citati «risultano veramente utili solo quando è congiunto ad essi un completo insegnamento (Unterricht) scientifico, e che finalmente, per aggiungere a questi frammenti ciò che appartiene ad un’istituzione universale, sarebbe necessario fare ancora soltanto pochi passi»[15]. Questa aggiunta corrisponde al concetto stesso di università, che, «muovendo dalle corrette vedute di una formazione (Bildung) universale», non dovrebbe «né escludere delle discipline, né cominciare da un punto di vi {p. 23}
sta ad esse superiore, perché le università già abbracciano il punto di vista più alto»[16]. In questo quadro istituzionale, la filologia serve un duplice scopo: recupera dal modello antico l’idea di una Bildung come costruzione di un’individualità, e riconduce l’universo frammentato delle discipline che caratterizza la modernità alla sua unità originaria. La filologia è dunque, particolarmente in quest’ultimo senso, soprattutto scienza della parola, e presiede in quanto tale alla formazione del pensiero;; sta pertanto a fondamento della stessa filosofia. Ma è tuttavia a quest’ultima che viene riconosciuto il compito di porre il sapere come istanza universale e principio regolativo. Questo è quanto si ritrova nell’altro grande ispiratore dell’impresa berlinese: Friedrich D.E. Schleiermacher. Nei suoi Gelegentliche Gedanken über Universitäten in deutschem Sinn («Riflessioni occasionali sulle università di modello tedesco»), egli differenzia con cura la natura e i compiti dei tre ordini istituzionali a cui viene demandata la formazione e la diffusione del sapere: «La scuola è l’unione dei maestri e degli scolari, l’università quella dei maestri con gli allievi, l’accademia, è invece l’unione dei maestri tra loro»[17]. Due sono, per Schleiermacher, i fondamenti su cui deve poggiare l’istruzione superiore: «Da un lato, un’attitudine specifica che indirizzi verso un settore determinato della conoscenza;; dall’altro, un’intelligenza generale (der allgemeine Sinn) dell’unità e della coesione di ogni sapere»;; e questo è «lo spirito sistematico della filosofia»[18]. Compito della scuola è la conciliazione di intuizione e metodo: oggetto della prima è «la forma della scienza, la sua unità e la sua coesione»;; oggetto del secondo è che «tutte le forze dello spirito» vengano anche separate in modo netto, affinché «si manifestino le {p. 24}
loro differenti funzioni»[19]. Rispetto alla scuola, l’accademia replica, ma ad un livello più alto, il rapporto tra unità e divisione del sapere. Il presupposto dell’unità è il dato che essa, in quanto «riunisce i maestri della scienza», deve dare per acquisito. Ma questo stesso presupposto è fondato sulla consapevolezza che il sapere è un tutto costituito di parti, ragione per cui lo studio accademico deve poi dividersi in sezioni, in una «ramificazione» (Verzweigung) che «si estende e si raffina senza nuocere all’unità del tutto» e che rappresenta la condizione affinché il sapere non degeneri «in una forma vuota». Anche Schleiermacher, al pari di Humboldt, punta l’attenzione sulla formazione dell’individuo come obiettivo dell’apprendimento e della cultura. La duplice strutturazione nei complementari ordini universale e particolare dello studio accademico è ciò che consente ad ogni «individuo» di conciliare «la partecipazione ai progressi dell’insieme e la passione
per una determinata specialità»[20]. Se dunque la scuola mira a produrre il tutto organico del sapere come risultato delle conoscenze effettive – e riconosce pertanto nel progredire di queste ultime il suo obiettivo primario –, l’accademia, dal canto suo, presuppone l’unità del sapere come fondamento dato per acquisito. Tra i due ordini si apre una distanza che dev’essere colmata dall’università, il cui ruolo «è quello di suscitare l’idea della scienza nei soggetti migliori, già forniti di numerose conoscenze». Questo compito, come Schleiermacher osserva in modo non diverso da Humboldt, figura già inscritto nella definizione stessa di universitas. L’universale che ne sta alla base corrisponde all’esigenza di mostrare il processo secondo cui si forma il concetto stesso di universalità: «Bisogna esporre l’insieme delle conoscenze e rendere evidenti, contemporaneamente, i principi ed i fondamenti di ogni sapere, per far nascere l’attitudine a penetrare in ciascuno dei suoi campi». Per tale ragione il sapere universitario dev’essere di carattere enciclopedico, in un senso che, seppure si richiama al {p. 25}
l’impresa illuministica dell’Encyclopédie, dev’essere ormai inteso come suo consapevole rovesciamento;; non più dizionario della conoscenza, interpretazione del sapere attraverso i suoi lessemi costitutivi, ma riconoscimento della natura ciclica del sapere stesso, e cioè «visione generale dell’area specifica» e nel contempo «coesione d’insieme» (Zusammenhang)[21]. Ora, per Schleiermacher, soltanto la filosofia è in grado di produrre e conservare questa integrazione tra indagine particolare e visione d’insieme, e questa è la ragione per cui «l’insegnamento filosofico è generalmente riconosciuto come il fondamento di ogni attività universitaria»[22]. Secondo un intento in cui non è difficile ravvisare una perdurante ispirazione kantiana, la filosofia, in quanto consapevolezza della ragione pienamente acquisita, viene riconosciuta come il principio direttivo e regolativo degli studi universitari. Ancora una volta vicino a Humboldt e alla sua identificazione individuo-nazione – che aveva il suo modello nella vita greca –, Schleiermacher osserva che «non esiste, in un popolo, che una sola filosofia» (es gebe unter einem Volke nur eine philosophische Denkungsart)[23]. La questione universitaria, legata in tal modo alla straordinaria fioritura di studi filosofici che il mondo germanico conosceva in quegli anni, si ricollega al problema della costruzione di un’identità nazionale tedesca. L’idea di un sapere che si forma come un tutto in quanto è l’insieme organico delle sue parti – rispetto alle quali costituisce una finalità che non è rappresentabile come conoscenza determinata – riflette l’idea di un’identità culturale che trascende la divisione politica di fatto. All’origine di quest’idea, che ha la sua oggettivazione nella concreta organizzazione degli studi universitari e nei progetti della costituenda università berlinese, sta una {p. 26}
concezione del sapere che già negli anni precedenti aveva trovato la sua espressione in Fichte e in Schelling. Nelle Vorlesungen über die Bestimmung des Gelehrten («Lezioni sulla missione del dotto»), che Fichte tiene all’università di Jena nel 1794, la finalità generale del sapere viene fissata nella formazione dell’uomo. Anche in questo caso, tuttavia, il conseguimento dell’universale che l’uomo rappresenta presuppone, innanzitutto, «la nozione preliminare di tutto il complesso delle sue attitudini, la conoscenza scientifica di tutti i suoi istinti e bisogni, la previa valutazione di tutto il suo essere»[24]. A questo scopo Fichte distingue tre generi di conoscenza: quello filosofico, che ha come scopo la conoscenza dei bisogni e si fonda sui «puri principi della ragione»;; quello filosofico- storico, fondato sull’esperienza, il quale presuppone a sua volta la conoscenza del grado di sviluppo a cui l’umanità è giunta, e dunque un terzo genere di conoscenza «puramente storico»[25]. Nel 1802, nelle sue Vorlesungen über die Methode des akademischen Studiums («Lezioni sul metodo dello studio accademico»), Schelling propone l’idea di un sapere fondato su una concezione del metodo che «può risultare solo dalla conoscenza effettiva e vera del nesso vivente di tutte le scienze»[26]. Questo nesso, che realizza l’universalità della scienza, può essere colto soltanto dalla filosofia, che è «scienza particolare» e contemporaneamente «quella assolutamente universale»[27]. Poiché l’universale non è l’oggetto in sé del sapere, ma solo il criterio regola {p. 27}
tivo in base al quale il sapere si costituisce in quanto totalità, il sapere assoluto non può essere oggetto di insegnamento diretto, ma deve prodursi come risultato finale dell’apprendimento.
4. Critica dell’istituzione universitaria A partire da questa posizione comune sulla natura e le finalità del sapere, la posizione di Schelling, Humboldt e Schleiermacher si distingue nettamente da quella di Fichte e Hegel per quanto riguarda il ruolo che lo Stato deve svolgere istituzionalmente nell’organizzazione della cultura e le sue relazioni con l’ordinamento scolastico. Non è improprio classificare come liberale il primo indirizzo, mentre Fichte e Hegel riconoscono allo Stato un diritto d’intervento dirigistico più accentuato[28]. La
posizione di Schleiermacher è in proposito netta ed esplicita: progresso della conoscenza e interesse dello Stato non sono coincidenti dato che la conoscenza, per progredire, deve riconoscere come fine soltanto se stessa. Il prevalere dell’interesse statale genera una classe di «intellettuali- funzionari» (beamtete Gelehrten), «servitori dello Stato» (Staatsdiener), i quali «valutano e trattano ogni cosa nell’interesse dello Stato e senza alcun profitto per il progresso spirituale». È vero, egli osserva, che «nell’Europa moderna» (ossia in Francia e nei paesi che risentono dell’influenza francese) i governi partecipano attivamente alla cultura anche mediante la fondazione di istituti;; «ma, qui come altrove, è tempo che cessi questa tutela»[29]. Per quanto il salto possa apparire impervio, la critica liberale di Schleiermacher ha contenuti non diversi dalla polemica aperta più tardi da Schopenhauer contro il modello del filosofo hegeliano interpretato come impiegato {p. 28}
statale. Nel suo scritto Über die Universitäts-Philosophie («Sulla filosofia delle università») egli osserva che, nel modello hegeliano, tutto l’essere del filosofo si vota allo Stato «come quello delle api all’alveare»[30], diviene utile ruota che tiene in movimento la macchina dello Stato: «la vera apoteosi del filisteismo». Una cosa è, prosegue Schopenhauer, il rapporto di questa «filosofia universitaria» con lo Stato – ciò che egli chiama «filosofia applicata»–, altra cosa è il suo rapporto «con la filosofia stessa», ossia con quella «filosofia pura» che «non conosce altro scopo se non la verità», poiché ogni altro fine che essa si pones-se entrerebbe necessariamente in conflitto con la verità stessa[31]. La polemica antistatalista di Schopenhauer è dunque, essenzialmente, uno strumento della sua critica allo hegelismo: la condanna dello Stato come «l’organismo etico assolutamente compiuto», di una filosofia – «universitaria» – che fa convergere nello Stato «l’intero scopo dell’esistenza umana» (den ganzen Zweck des menschlichen Daseyns)[32]. È quasi ovvio rammentare che Nietzsche conosceva alla perfezione questo scritto di Schopenhauer. In una lettera all’amico Gersdorff dell’11 marzo 1870 egli lo accosta, significativamente, a Wagner: «Per me tutto quanto c’è di migliore e di più bello è legato al nome di Schopenhauer e di Wagner [...] Conosci già Arte e politica? Ti informerò anche quando uscirà un breve scritto di R.W. Sul dirigere: la cosa migliore è metterlo a confronto con il saggio di Schopenhauer sui Professori di filosofia»(Ep, II, 102;; Nietzsche parafrasa il titolo del saggio di Schopen {p. 29}
hauer). Il breve scritto schopenhaueriano fornisce indubbiamente lo spunto decisivo per la critica nietzscheana all’istituzione scolastica. Ciò risulta evidente tanto nelle conferenze Sull’avvenire delle nostre scuole quanto nella III Inattuale. Nel primo caso, Nietzsche racconta perfino dell’incontro con un vecchio filosofo – dal confronto con il quale scaturiscono le considerazioni sul ruolo della filosofia e della cultura – che ha i tratti inconfondibili di Schopenhauer stesso. E, schopenhauerianamente, Nietzsche parla di uno «sfruttamento quasi sistematico di questi anni a opera dello Stato, che vuole allevarsi quanto prima è possibile utili impiegati» (BA, III,II, 105). Nella III Inattuale Schopenhauer viene proposto fin nel titolo (Schopenhauer als Erzieher) come modello di una nuova figura di educatore, che si contrappone all’ordinamento scolastico vigente: «Quale farragine di teste confuse e di istituzioni antiquate spesso è definita ginnasio e trovata buona» (UBSE, III,I, 366).
5. L’idea di una «educazione estetica» Che Nietzsche parli qui di Erziehung piuttosto che di Bildung non fa grande differenza. Com’è stato osservato recentemente, «Bildung ha come sua ombra Erziehung». Tuttavia, una differenza sottile tra i due termini esiste, ed è in sostanza la stessa differenza che corre tra i termini italiani educazione e formazione. Mentre Erziehung («educazione») indica «un processo al quale una persona o un gruppo assoggetta un altro», Bildung («formazione») viene usato preferibilmente per indicare i «processi di auto-coltivazione (e i loro risultati)»[33]. Se includiamo nel significato di Erziehung la possibilità che questo assoggettamento possa realizzarsi in virtù dell’indicazione di un modello, ciò può risultare certamente compatibile tanto con l’idea nietzscheana di Erziehung quanto {p. 30}
con quella di Bildung. L’esemplarità del modello è ciò che mette in moto il processo auto-formativo della Bildung: sia che si tratti di Schopenhauer, sia che si tratti della Grecia, ciò che dev’essere salvaguardato è l’esemplarità come eccezione. La dura critica cui Nietzsche sottopone la finalità pedagogica della cultura va intesa proprio nel senso di un approfondimento di questa finalità. In un tar-do frammento dell’autunno 1887 egli definirà in questo modo i nostri due concetti: «Educazione (Erziehung): essenzialmente è il mezzo di rovinare l’eccezione (Ausnahme) [...] a favore della regola»;; «Istruzione (Bildung): essenzialmente è il mezzo di rivolgere il gusto contro l’eccezione, a
favore di ciò che è mediocre» (9[139], VIII,II, 68-69). Schopenhauer e la Grecia rappresentano queste eccezioni. Non è contraddittorio (e neppure il frammento è l’indice di un orientamento nel frattempo mutato) che Nietzsche definisca il primo «educatore» (Erzieher);; così come non lo è che egli veda nella Grecia un modello in grado di educare e formare la nuova umanità. Ciò rivela anzi dietro questo interesse, che si concretizzerà nella Nascita della tragedia, una fonte di ispirazione che un’ipotesi recente individua direttamente nel celebre scritto di Schiller del 1795: Über die ästhetische Erziehung des Menschen in einer Reihe von Briefen («Sull’educazione estetica dell’uomo in una serie di lettere»). Se l’intento di Schiller era quello di proporre un’idea di cultura in cui l’esperienza estetica viene innalzata in generale a modello dell’esistenza umana e si pone come mediazione tra il mondo fisico e quello morale – consentendo il superamento delle difficoltà lasciate sul campo dal fallimento della rivoluzione francese e cioè realizzando una «riforma dei cuori umani» che rende superfluo ogni mutamento politico violento[34]– {p. 31}
anche l’intenzione di Nietzsche si rivolge contro la cultura del suo tempo rilevando una necessità di rifondazione che muove dal modello greco ma non può non scardinare, innanzitutto, l’ordinamento istituzionale in cui questo modello figurava già accolto e, agli occhi di Nietzsche, deviato e stravolto. Di questo scardinamento è la filologia – in quanto spina dorsale di quell’ordinamento – a pagare le prime conseguenze. E anche in questo Nietzsche si ritrova accanto Schiller: «Che Nietzsche e Schiller abbiano o meno frainteso il mondo greco è questione largamente irrilevante, poiché ciò che sta al centro di entrambi i testi è un’analisi della cultura contemporanea e una valutazione della capacità dell’esperienza estetica di trasformarla»[35]. L’idea schilleriana di un’educazione estetica è il concetto alla luce del quale Nietzsche rivede il ruolo centrale assunto dalla filologia accademica;; egli contesta, nella so-stanza, che quest’ultima possa presentarsi come la legittima erede di quella. Ciò gli è sufficiente per porsi decisamente al di fuori del quadro istituzionale. Se l’insegnamento e la pratica della filologia debbono essere poste sotto la grande premessa ideale del ripristino della patria greca (questa è l’istanza rappresentata da Winckelmann, Schiller e Goethe), gli risulta evidente che quell’insegnamento e quella pratica non sono tuttavia da sole sufficienti a cogliere l’essenza di ciò che la Grecia ha rappresentato per la storia dell’umanità. È questo il tema attorno al quale ruotano le sei conferenze Sull’avvenire delle nostre scuole.Goethe, Schiller, Lessing e Winckelmann, espressioni della «natura tedesca» rispetto alla cui «altezza culturale» «i nostri studiosi sono caduti e sprofondati», vengono indicati da Nietzsche come «guide e mistagoghi che preparano la cultura classica, i soli {p. 32}
che possano condurci per mano, sino a farci ritrovare la strada giusta che porta all’antichità» (BA, III,II, 130). Al loro confronto, ben miseri risultati ottengono quei filologi che, «fra i vecchi muri del liceo», «si sforzano assiduamente, senza cercare alcun aiuto, di accostare il loro Omero e il loro Sofocle alle anime dei giovani»;; il loro torto sta nell’aver dimenticato che «con un salto nel vuoto non si potrà mai giungere sino all’antichità» (BA, III,II, 131). I «mistagoghi» forniscono appunto questo aiuto, gettano un ponte su quel vuoto in cui, grazie alla loro opera, non occorrerà più saltare. E ciò perché, secondo Nietzsche, la cultura greca e romana non può essere compresa che a partire da quel lavoro sulla lingua materna che i poeti dell’antichità fecero e che, nella Germania moderna, hanno fatto gli Schiller e i Goethe. Fa sensazione sentire un allievo di Pforta asserire che «nel liceo tedesco, non ho ancora mai incontrato neppure una briciola di ciò che potrebbe realmente esser chiamato ‘‘cultura classica’’» (ibidem);; ma per Nietzsche la via che conduce ad essa si basa innanzitutto «su una disciplina e un costume della lingua che siano rigorosi e artisticamente accurati»: è «il sentiero spinoso del linguaggio, e precisamente non dell’indagine linguistica, bensì dell’autodisciplina linguistica» (BA, III,II, 128-129). Prima di essere filologi occorre dunque, a quanto pare, essere poeti. Ed è sulla base di questa constatazione che la critica di Nietzsche si estende dal liceo all’università. In quale rapporto l’università tedesca stia con l’arte «non si può confessarlo senza vergogna: essa non sta in nessun rapporto». E se a ciò si aggiunge che «una valutazione storica, anzi addirittura una ricerca filologica», si è interamente sostituita alla filosofia, al punto che «io mi sono perciò abituato a considerare questa scienza come un ramo della filologia» (ciò che sembra una consapevole presa di distanza da Schleiermacher e Böckh), è solo coerente concludere che «i nostri accademici ‘‘indipendenti’’ vivono senza filosofia e senza arte», e che non sentono più neppure «il bisogno di occuparsi dei Greci e dei Romani»: «in effetti, se eliminate i Greci, conlalorofilosofiaelaloroarte, su qualescala vorrete ancora salire verso la cultura?». L’odierna università {p. 33}
tedesca non offre che il triste spettacolo di filologi che for-mano altri filologi;; ma nell’astrattezza di questa infeconda erudizione il senso dell’antichità – e insieme il senso stesso della cultura – è
perduto, e l’università dimostra «di non essere ciò per cui vorrebbe ostentatamente spacciarsi, ossia un istituto di cultura» (BA, III,II, 195-197). Tutto questo non contraddice nella sostanza il programma humboldtiano;; anzi, si potrebbe dire, mira a realizzarne la finalità più profonda. Come è stato osservato, «lo scopo della filologia classica è per Nietzsche non l’ampliamento del sapere, ma la formazione (Bildung). Egli sta dunque nella tradizione che in Germania fu inaugurata dalla Griechenreligion dell’età di Goethe e dal programma formativo di Wilhelm von Humboldt»[36]. Per il giovane Nietzsche, non meno che per Humboldt, Bildung significa innanzitutto «autorealizzazione, autoelevazione»;; ed ogni interpretazione che non preveda il coinvolgimento personale nell’oggetto che interpreta entra dunque in conflitto con questo scopo[37]. Uno studio che appaia mosso da un presunto interesse puramente scientifico resta dunque estraneo alla Bildung. Questo è quanto si legge negli appunti di un corso tenuto a Basilea nel 1871, sotto il significativo titolo Die Erziehung zur klassischen Bildung («L’educazione alla formazione classica»): «Se un filologo vuol predisporsi ad essere maestro, egli non deve essere in modo particolare un filologo linguista (Sprachphilolog). Questo riguarda la sua inclinazione scientifica, che non ha assolutamente nulla a che fare con la sua professione d’insegnante. Il rapporto dei dotti con i grandi poeti ha qualcosa di risibile» (KGW, II,3, 345-346). Scienza da un lato, e poesia dall’altro, disegnano un conflitto destinato ad esplodere nell’anima stessa della filologia. Questo conflitto segna gli stessi esordi del giovane studioso e docente di filologia. Già in una lettera a Rohde del 20 novembre 1868 egli descrive il lavoro dei filologi – con un’immagine {p. 34}
divenuta celebre – come un «affaccendarsi da talpe, con le cavità mascellari rigonfie e lo sguardo cieco, contente di essersi accaparrate un verme, e indifferenti verso i veri, urgenti problemi della vita». Nietzsche esorta l’amico a non rattristarsi per il giudizio dei dotti che presto – egli afferma con sincera lungimiranza – colpirà anche lui. Ed ecco l’antidoto: «Pensiamo a Schopenhauer e a Richard Wagner, alla inesauribile energia che ha sempre sostenuto la loro fede in se stessi, in mezzo al chiasso della gente ‘‘colta’’» (Ep, I, 651-652). Alla scienza dei filologi-talpa vengono contrapposte la filosofia (Schopenhauer) e la poesia (Wagner). Quello Schopenhauer il cui Mondo come volontà e rappresentazione Nietzsche aveva letto nel 1865, e l’entusiasmo che il libro gli aveva suscitato lo aveva manifestato in una lettera all’amico Gersdorff della fine di agosto del 1866: «Se la filosofia ha il compito di elevare, allora non conosco nemmeno un filosofo che elevi più del nostro Schopenhauer» (Ep, I, 463). E quel Wagner il cui primo incontro a Lipsia precede di pochi giorni la lettera a Rohde;; incontro riferito con ogni dettaglio in un’altra lettera allo stesso Rohde del 9 novembre 1868 (cfr. Ep, I, 642-650). Ma qui, come forse sempre in Nietzsche, il richiamo a Schopenhauer e Wagner va al di là delle loro concrete personalità storiche;; essi sono dei typoi che incarnano un problema generale[38]: nel caso specifico, quella duplice anima filosofica e poetica che dev’essere cercata nell’interno stesso della filologia. Nella prolusione basileese del 1869, Omero e la filologia classica, Nietzsche definisce la filologia uno «strano centauro» che deve realizzare la propria essenza nel «colmare l’abisso tra antichità ideale [...] e antichità reale» (KGW, II,1, 253)[39]. Che la filologia ab {p. 35}
bia assunto un aspetto unitario, fino a costituire «una specie di apparente monarchia», lo si deve solo al fatto che essa è servita in tutte le epoche come pedagogia, e ha quindi subìto una unificazione in vista della finalità pratica alla quale era assoggettata (KGW, II,1, 250)[40];; le sue componenti sono tuttavia molteplici: «un po’ storia, un po’ scienza, un po’ estetica»;; e la sua forzata unità nasconde il conflitto tra «un elemento imperativo sul piano estetico come su quello etico» e «l’atteggiamento puramente scientifico» (KGW, II,1, 249)[41]. Una filologia che si sottragga a questo imperativo e si riduca a pura pratica scientifica è nemica della cultura in quanto si risolve in mero esercizio di lavoro che perde di vista il proprio oggetto reale;; i filologi che vi si riconoscono sono descritti con la stessa immagine della lettera a Rohde: «‘‘talpe’’ filologiche» (philologische «Maulwürfe»), «genia che inghiotte polvere ex professo, e che, se anche una zolla è stata scalzata già dieci volte, la scalza e la smuove per l’undicesima» (KGW, II,1, 250-251)[42]. Una filologia di questo genere manca il proprio oggetto perché è incapace di coglierne il significato ideale e, di conseguenza, smarrisce l’unico cammino che può portare ad esso;; assumere negli studi filologici un atteggiamento esclusivamente scientifico significa perdere «la meravigliosa forza formatrice, anzi il vero e proprio profumo dell’atmosfera antica», dimenticando «quella nostalgica commozione (sehnsüchtige Regung) che, bellissimo auriga, condusse fino ai Greci con la forza dell’istinto i nostri sensi e i nostri pensieri» (KGW, III,1, 252)[43]. Queste stesse espressioni torneranno nella seconda delle conferenze Sull’avvenire delle nostre scuole: delle «guide e mistagoghi» – Goethe, Schiller, Lessing e Winckelmann – abbiamo innanzitutto bisogno per fare ritorno «alla vera e unica patria della cultura, al-l’antichità greca» e per essere «trascinati verso la terra {p. 36}
della nostalgia, la Grecia» (BA, III,II, 131). Quest’ultima immagine, che rimanda all’Ifigenia in Tauride di Goethe[44], rende ancor più esplicito il ruolo che dev’essere riconosciuto alla poesia nella nuova valutazione dell’antichità. Anche nella prolusione basileese Schiller e Goethe vengono citati come esempi di una comprensione integra e organica della grecità, mentre i filologi hanno «lacerato la corona di Omero» (KGW, III,1, 252)[45]. È in questa chiave che dev’essere intesa la soluzione proposta da Nietzsche per la «questione omerica». Quel che in essa è in gioco è, com’egli dichiara più volte, «la questione della personalità di Omero»;; che questa personalità venga definita in termini di individualità rivela la persistente influenza della lettura humboldtiana della grecità. Omero è per Nietzsche qualcosa di più di un’individualità psicologica ma anche, al tempo stesso, di una malintesa creatività popolare. L’antitesi tra poesia popolare e poesia individuale è un artificio dell’estetica moderna, del tutto inesistente nella realtà: «Ogni poesia, e naturalmente anche la poesia popolare, ha invece bisogno della mediazione di un singolo individuo» (KGW, III,1, 261)[46]. Che questo individuo portasse realmente il nome di Omero è questione di minima importanza: «Omero come poeta dell’Iliade e dell’Odissea non è una tradizione storica, bensì un giudizio estetico (ein aesthetisches Urtheil)» (KGW, III,1, 263)[47]. Che la sua epoca non lo percepisse come tale, ma come «una singolarità materiale», è il frutto della capacità mitopoietica di quel popolo: il nome di Omero vale quel {p. 37}
lo di Orfeo, Eumolpo, Dedalo, Olimpo;; il reale, sconosciuto poeta storico «sacrificò il suo nome sull’altare dell’antichissimo padre della poesia epico-eroica, Homeros». Nietzsche accetta soltanto a metà la soluzione proposta da F.A. Wolf: egli non crede all’esistenza di un poeta di nome Omero, ma crede tuttavia «che ci sia un unico grande poeta dell’Iliade e dell’Odissea» (KGW, III,1, 266)[48]. Sulla scorta di Humboldt, Nietzsche intende qui la poesia come l’espressione massima di un’individualità culturale;; in questo senso, e ripensando agli esempi congiunti di Schopenhauer e Wagner, la poesia non gioca qui un ruolo troppo lontano da quello assegnato alla filosofia. Su queste premesse, la conclusione della prolusione invita ad un’esplicita apertura della filologia nella direzione della filosofia rovesciando il noto detto di Seneca: «philosophia facta est quae philologia fuit»[49];; il che significa che «ogni attività filologica dev’essere racchiusa e circondata da una concezione filosofica del mondo» (KGW, III,1, 268)[50] in cui l’elemento singolo e separato dal tutto – sul quale a-mano esercitare le loro mascelle i filologi-talpa – perde di significato.
6. «Prima» e «seconda» natura L’approccio poetico-filosofico è dunque l’unico che, secondo Nietzsche, è in grado di restituire il valore ideale dell’antichità greca;; un valore che, proprio in quanto ideale, può ancora costituire un modello per il presente. Se poesia e filologia sono i due poli attorno ai quali si realizza la formazione intellettuale di Nietzsche, è probabile, in primo luogo, che tra i due sia quello della poesia il polo originario rispetto al quale l’altro resta subordinato;; in secondo luogo, questa subordinazione si rivela una costante {p. 38}
che va dagli anni giovanili fino agli esiti estremi della filosofia nietzscheana. Negli scritti autobiografici giovanili Nietzsche stesso parla, in effetti, della scelta in favore degli studi filologici come di una decisione nel senso di una seconda natura[51]. In un appunto del luglio-agosto del 1864, ripercorrendo l’esperienza di Pforta appena conclusa, egli rammenta il passato timore di cadere nell’eclettismo legato ai tanti interessi manifestatisi negli anni della scuola. Lo salvano da ciò l’amore per i classici e la passione per l’approfondimento dei singoli argomenti, che il giovane studente praticava con una ristretta cerchia di amici[52]. La memoria si conclude con una ferma presa di posizione in vista della futura esperienza universitaria: «Ora che sono in procinto di andare all’università, mi prefiggo come leggi inviolabili della mia futura vita scientifica: combattere la tendenza all’enciclopedismo che tut-to appiattisce, quindi accentuare la mia inclinazione a risalire fino alle radici più remote e profonde dei singoli argomenti» (I,I, 445-446). Il giovane filologo sembra ormai formato;; ma occorre che la disciplina non venga più avvertita come un dovere, bensì, appunto, come una seconda natura. Qualche anno dopo, facendo questa volta il bilancio dei primi due anni trascorsi all’università di Lipsia, egli osserva che l’eccesso di riflessione può compromettere lo sviluppo del carattere, come può accadere al «fantaccino» che teme di disimparare a camminare mentre gli {p. 39}
viene insegnato a marciare: «Il problema è inculcargli una seconda natura» (KGW, I,4, 506-507) [53] . A questo tema di una seconda natura Nietzsche resterà legato anche nella maturità;; ancora nel
1882 scriverà a Rohde: «Bene, ho una ‘‘seconda natura’’, ma non per annullare la prima, bensì per sopportare questa. La mia ‘‘prima natura’’ mi avrebbe distrutto già da un pezzo – anzi mi aveva già quasi distrutto» (KGB, III,1, 291). Lo studio, il raccoglimento, l’approfondimento – in una parola la disciplina implicita nella filologia come modello pedagogico – sono visti come difesa contro l’irruenza di una prima natura che è, naturalmente, la poesia. Dimostrazione più convincente delle finalità e dell’efficacia della Bildung non potrebbe essere fornita. Nell’approdo alla filologia Nietzsche vede quasi una salvezza da se stesso: «Ben presto coglie come il libero abbandono agli impulsi possa essere dissolvente e come sia necessaria una consapevole rinuncia ed una limitazione del campo di attività»[54]. Si noti, tuttavia, un elemento decisivo. Nell’osservazione dell’uomo maturo, che legge retrospettivamente la propria carriera di studioso, vien detto che quella seconda natura non serve ad annullare la prima, bensì a sopportarla. Vale a dire, la filologia non può cancellare la poesia;; lo studio non può cancellare la vita. Attorno a questa idea ruotano per lo meno le prime tre Inattuali così come, in generale, tutte le affermazioni del Nietzsche critico della cultura.
7. Mondo germanico e mondo greco Ma che cosa deve intendersi per «poesia» – e per «prima natura» – nel giovane Nietzsche e, ancor prima, in quello adolescente? Di certo, solo secondariamente il fatto che egli scrivesse componimenti poetici. Che questa vocazione resti intatta fino ai Ditirambi di Dioniso dà comunque il segno {p. 40}
della forza di quella «prima natura». Ma, più in generale, «poesia» indica qui un’attività formatrice, l’erompere di un impulso creativo ancora non digrossato, ancora legato, innanzitutto, all’ambiente familiare e agli entusiasmi delleprime letture. È qui che troveremo l’interesse per le leggende germaniche prima di quello per i miti greci;; la passione per la pratica della poesia prima di quella per il suo studio;; e, infine, le testimonianze di una fede ardente e talvolta ingenua, ma nella quale si insinuano man mano i tormenti del dubbio. Questa «prima natura» ha un eroe indiscusso: il re dei Goti Ermanarico (Jörmunreck);; e un modello assoluto: il Manfred di Byron. Si può dire, in generale, che i primi interessi culturali di Nietzsche siano mossi dalla necessità di un confronto tra i temi e gli eroi della mitologia nordica – che egli conosce grazie alla lettura dell’Edda – con quelli della mitologia greca, che apprende negli anni della formazione scolastica. Questo confronto egli lo trova però di fatto già svolto nei grandi poemi di Goethe e di Byron. La cupa vicenda del suicidio del re goto Ermanarico dà a Nietzsche l’occasione per un poema epico, per l’abbozzo di una tragedia, per la composizione di un poema sinfonico e infine – in un significativo trionfo della «seconda natura» al momento di lasciare Schulpforta – per un saggio filologico. Tanto interesse appare radicato innanzitutto nella necessità di trovare un tema in cui si esprima la forza primigenia della tradizione germanica. Come Nietzsche osserva in uno Schizzo storico sull’argomento del luglio 1861, «la saga di Ermanarico è genuinamente tedesca, legata alla Germania sia per i personaggi, sia per i luoghi che vi figurano» (I,I, 165). Il materiale rielaborato proviene dall’Edda: com’egli stesso precisa (I,I, 161), dall’Istigazione di Gudhrun (Gudhrúnarhvot) e dal Carme di Hamdir (Hamdhismál)[55]. Quel che sembra affascinare Nietzsche è il tema della strage familiare, della vendetta {p. 41}
che colpisce appartenenti alla stessa stirpe: elementi che ritroverà naturalmente nella tragedia greca. Ma, del poema epico La morte di Ermanarico – probabilmente composto per essere declamato nelle riunioni della «Germania»[56] e poi recitato in una festa scolastica nell’aprile 1862 –, giova sottolineare soprattutto il finale, nel quale figurano anticipati temi che diventeranno centrali nella futura riflessione nietzscheana, quali l’accettazione gioiosa della morte e il suo compiersi nell’ora meridiana (ciò che diventerà il tema del «grande meriggio» – großer Mittag): Un bacio ancora. Poi crollò anche lui, E intorno a loro fu un silenzio di morte. [...] I due posavano, il vecchio e il giovinetto Nella luce di mille luminose
Faville, al caldo sole meridiano. E furtivo era il canto degli alberi Ebbri di gioia intonavano gli uccelli: «Come sei dolce, o morte, dolce morte!» (I,I, 191-192)
Un significato particolare riveste il saggio filologico su Ermanarico (La formazione della saga del re ostrogoto Ermanarico fino al XII secolo), dell’ottobre 1863. Come detto, Nietzsche lo redige al momento di accomiatarsi da Pforta, poco prima di scrivere la dissertazione in latino De Theognide Megarensi (luglio-agosto 1864 – cfr. I,I, 391443;; per il testo latino cfr. I,I, Appendice, 541-574), alla quale la critica riserverà ben maggiore attenzione. Ma, com’è stato con ragione osservato[57], lo scrupolo filologico che il giovane studente dimostra è identico in entrambe le prove. Il programma che Nietzsche assegna al proprio lavoro «è quanto mai semplice e naturale»: dapprima studiare la saga nelle «sue elaborazioni più lontane nel Nord e in Danimarca», quindi passare «alle notizie sulle composizioni poetiche tedesche» e infine considerare «la saga {p. 42}
gotica di Giordane[58], cercando di restituire la forma più semplice della saga» (I,I, 323). Lo schema è lo stesso che lo studente ha appreso dai suoi maestri di filologia a Pforta: attraverso l’escussione delle fonti (Ammiano Marcellino, Ablavius, Giordane, l’Edda) «recuperare il nucleo originario, storico, della figura ‘‘germanica’’ di Ermanarico»[59]. Tanto questo lavoro quanto quello su Teognide offrono testimonianza della «continua volontà del giovane di trovare nel rigore della scienza un contrappeso»[60] alle inquietudini della «prima natura». Già in questo interesse del Nietzsche adolescente per la mitologia eroica germanica è possibile leggere una prima, indiretta influenza di Wagner. Nelle riunioni della «Germania» Pinder aveva svolto relazioni sul Tristano e Isotta, sulla Faust-ouverture esu L’oro del Reno. Da queste suggestioni Nietzsche ricava altri temi, essenziali per i futuri sviluppi del suo pensiero, come quello della «morte di Dio», a cui non è estraneo il soggetto wagneriano della Götterdämmerung, a sua volta una riplasmazione (anche nel termine) di un tema già presente nell’Edda[61]. Tema che, in realtà, Nietzsche aveva già affrontato in un poema dell’aprile 1859 (all’inizio degli studi pfortensi) dedicato a Prometeo (I,I, 61-68), palesemente ispirato da Goethe. L’esaltazione del ribelle si stempera tuttavia nel pentimento finale: di fronte al perdono degli dèi Purificato sta allora il colpevole E nelle acque del Lete Immerge il proprio misfatto. Dall’oscurità del peccato, Dal crepuscolo del pentimento Egli allora risorge Come l’occhio radioso del cielo. (I,I, 67-68) {p. 43}
È tuttavia significativo che l’incontro tra mitologia nordica e mitologia greca avvenga sul terreno della ribellione all’autorità divina, della scalata al cielo, che il riferimento alla saga germanica traduce immediatamente nella «morte degli dèi». E proprio la vicinanza dei due temi consente di individuare in Prometeo la scaturigine di un altro dei temi fondamentali del pensiero nietzscheano: quello dell’Übermensch[62]. Passando attraverso il filtro di altre figure prometeiche come il Manfred di Byron o I masnadieri (Die Räuber) di Schiller, la ribellione si emancipa progressivamente dal pentimento. A proposito del dramma di Schiller, Nietzsche annota nel suo diario di Pforta alla data del 24 agosto 1859: «Ieri ho riletto I masnadieri;; ogni volta ne traggo una curiosa impressione. I personaggi mi appaiono quasi sovrumani (fast übermenschlich), sembra di assistere a una lotta di
titani contro la religione e la virtù, e tuttavia in questa lotta l’onnipotenza celeste conquista una vittoria infinitamente tragica» (I,I, 101)[63]. Che, rispetto al Prometeo di solo qualche mese prima, il rappacificato perdono degli dèi si muti in una vittoria «tragica» è altrettanto significativo del fatto che, grazie al filtro di Schiller, l’obiettivo della ribellione non siano più ora gli dèi, ma «la religione e la virtù». Questo passaggio si realizza compiutamente nello scritto Sulle composizioni drammatiche di Byron, del dicembre 1861, nel quale l’attenzione si concentra soprattutto sul Manfred. Ma, fin dall’inizio, il saggio appare orientato ad un esplicito confronto tra Byron e Goethe: L’attrattiva principale delle composizioni byroniane sta nella rappresentazione che esse ci offrono del mondo sentimentale {p. 44} e intellettuale proprio del Lord, pervaso non già dall’aurea serenità della poesia goethiana, bensì dall’impeto tempestoso di uno spirito infuocato, di un vulcano che ora, sterminatore, emette lava incandescente, ora, con la vetta oscurata da volute di fumo, in un cupo, sinistro silenzio, guarda dall’alto i campi fiorenti che si stendono ai suoi piedi (I,I, 177).
A dispetto delle differenze dei quattro protagonisti dei drammi di Byron – Manfred, Marin Faliero, Iacopo Foscari e Sardanapalo – è sempre un unico soggetto che ci viene incontro, «vale a dire lo stesso Byron nei molteplici aspetti del suo vasto spirito». Del carattere di Byron Manfred esprime i «tratti più cupi», la «beffarda rassegnazione», la «disperazione sovrumana (übermenschliche)». Attraverso i suoi personaggi, Byron scaglia contro di noi i toni fondamentali del suo carattere «come una confessione, in beffardo dispregio del mondo, in una divina consapevolezza di sé»;; Byron appare «privo di ogni religiosità, anzi di qualsiasi fede in Dio» (I,I, 181). E Manfred rappresenta «il parto più singolare del suo cervello», «che travalica sotto ogni rispetto i limiti del normale, e va quasi definito un’opera superumana (ein übermenschliches Werk)» (I,I, 182). Il ricorrere dell’aggettivo übermenschlich può essere ancora occasionale;; ma è certo che, nello stesso giro di anni, le suggestioni ispirate da Byron si associano alla lettura di Feuerbach, di Emerson e dell’interpretazione critica dei Vangeli della teologia liberale tedesca[64]. Questi motivi percorrono l’intera vicenda del pensiero di Nietzsche, e si ritrovano compatti nello Zarathustra. Ma, sempre in quegli anni, un altro elemento si aggiunge alla formazione del giovane studioso. È la lettura di Hölderlin, che Nietzsche non esita a definire «il mio poeta preferito». In un breve scritto del 19 ottobre 1861, redatto in forma di lettera ad un amico (in realtà un’esercitazione scolastica), egli difende il poeta dall’accusa, che l’amico gli rivolge, di essere confuso, delirante e – fatto {p. 45}
significativo – antitedesco. La continuità con la linea del Prometeo e del Manfred è determinata dall’interesse per l’Empedocle hölderliniano: «La morte di Empedocle è una morte causata da un divino orgoglio, dal dispregio per gli uomini, dalla nausea della terra, dal panteismo» (I,I, 173). Qui inoltre, in modo forse più sentito e originale di quanto non fosse già avvenuto sul modello di Goethe, il motivo della ribellione proto-superomistica trova il suo accordo con quello della nostalgia per la Grecia. Nell’Iperione – pur se in esso dominano «l’incompiutezza, l’insoddisfazione» – «la nostalgia della Grecia si manifesta [...] pura come non mai», e proprio questo rende evidente «l’affinità spirituale» di Hölderlin con Schiller e Hegel,«il suo amico fidato» (I,I, 173-174). È significativo che proprio su questa via Nietzsche trovi il modo di rovesciare l’equivalenza – dichiarata dall’amico fittizio – tra «idolatria del mondo pagano» e sentimento antitedesco: è vero, ammette, che Hölderlin si scaglia contro la «‘‘barbarie’’ tedesca», ma ciò corrisponde ad un ancor «più ardente amor di patria». Compare qui un termine destinato ad avere la sua fortuna decisiva nelle Inattuali: quel che Hölderlin odiava nel tedesco era «il puro mestierante, il filisteo»[65]. La linea che risale dalla Germania moderna al-l’antica Grecia è la stessa che, in prospettiva futura, deve produrre una nuova cultura tedesca e proporre ai Tedeschi un nuovo compito storico: tutto questo Nietzsche lo esprimerà, più tardi, con il concetto di «inattuale» (unzeitgemäß). Che egli citi, tra le liriche di Hölderlin, anche Die Wanderung («La migrazione»), è circostanza da non sottovalutare: è qui che Hölderlin racconta come «i padri di una volta, la stirpe tedesca», fossero un tempo migrati, per cercare riparo dall’arsura estiva, nelle foreste del Caucaso, incontrandosi «con i figli del sole»;; e come soltanto {p. 46}
la freschezza del clima avesse impedito il nascere di liti dovute al fatto che «nessuno poteva intendere / l’eloquio dell’altro». E dai matrimoni nati per sancire la ritrovata concordia nasceva una nuova stirpe «più bella»: Ma dove abitate, cari parenti, Che noi si ricelebri il patto Memori degli avi diletti?
[...] O terra d’Omero! [...] Io penso, o Ionia, a te! Ma gli uomini Amano ciò ch’è presente. Perciò io sono Venuto a vedervi, o isole, e voi, O foci dei fiumi, atrii di Tetide, O foreste, voi, e voi, nubi dell’Ida! [...] ... e solo, per invitarvi Sono a voi, Grazie di Grecia, Figlie del cielo, venuto. Ché, se il viaggio non è troppo lungo, Da noi veniate, o soavi! (trad. it. di G. Vigolo)
Hölderlin non si limita – com’era consueto nei romantici tedeschi – a derivare il mondo germanico da quello ellenico, ma colloca nell’oriente greco (la Ionia, la «terra d’Omero») il luogo di una stirpe eletta che ha già, tra le sue ascendenze, la stirpe germanica. In questo modo, il fine che la storia deve realizzare non sarà che un ritorno in patria: ritrovare la Grecia significa al tempo stesso ritrovare la Germania autentica. Sarà questo il solido fondamento che ispirerà tutta la critica della cultura (che significa pressoché esclusivamente: cultura tedesca) del Nietzsche delle Inattuali e dell’immediatamente successivo attacco alla morale. L’elaborazione teoreticamente compiuta di questo fondamento ha luogo nella Nascita della tragedia. Essa costituisce sia la base a partire dalla quale si sostanzia la critica delle Inattuali, sia il risultato delle varie componenti {p. 47}
della Bildung nietzscheana;; e si offre, di fatto, come il risultato di un confronto tra mondo pagano e mondo cristiano che appare già delineato in modo netto in alcuni scritti del primo periodo giovanile.
8. «Fato e storia» Nel marzo del 1862, in occasione della Pasqua, Nietzsche redige per l’associazione «Germania» due relazioni dal titolo e dall’argomento analogo: Fato e storia e Libertà della volontà e fato. Il motivo gli è suggerito dalla lettura dell’edizione tedesca dell’opera di Ralph Waldo Emerson The Conduct of Life[66]. Così come avviene per altri autori (Feuerbach, Lange, Špir), l’influenza del filosofo americano è destinata a divenire una costante nell’intera opera di Nietzsche a seguire, al di là e a dispetto della scarsità delle citazioni esplicite. L’interesse appare mosso dalla necessità di conciliare la libertà, che trova espressione nella volontà individuale, con la premessa del fato. Ma, e la circostanza è oltremodo significativa, il primo impulso al problema è dato dalla necessità di concepire una storia universale dell’umanità libera dal pregiudizio – divenuto un’abitudine inscritta nella formazione di ognuno – della concezione cristiana. Contro quest’abitudine Nietzsche invoca il soccorso della storia e della scienza, che costituiscono l’unico punto fermo (la «nostalgia della terraferma») in mezzo all’«oceano delle idee»;; a partire da questo certo fondamento apparirà chiaro alle masse «che l’intero cristianesimo si fonda su ipotesi» e, come conseguenza, che la morale, essendo «il risultato dello sviluppo generale dell’umanità», non è altro che «la somma di tutte le verità per il nostro mondo» (I,I, 203-205). Storia e scienza poste come assoluto hanno
come primo risultato la relativizzazione della morale, prima di cadere esse stesse, nel Nietzsche più maturo, nel raggio di questa {p. 48}
relativizzazione. Che esista un fondamento certo che la storia e la scienza rendono conoscibile deve condurre l’uomo alla conoscenza di sé. L’uomo, però, non pensa ed agisce soltanto come individuo, ma è altresì «coinvolto e trascinato nei circoli della storia universale»;; la necessità che, per questo, l’individuo si giustifichi rispetto al popolo, il popolo rispetto all’umanità, l’umanità rispetto al mondo, riflette ancora, secondo Nietzsche, l’antico rapporto tra fato e storia (I,I, 206-207). Sebbene ancora adolescente, l’entusiasta allievo di Pforta non si lascia sedurre da una troppo facile identificazione di questa contrapposizione con il contrasto tra mondo antico (pagano) e mondo moderno (cristiano), e piuttosto intravede nella conciliazione dei due concetti la possibile apertura di una nuova era. È un fatto, egli riflette, che ogni nostro agire è assolutamente condizionato, e che tuttavia proprio in ragione di questo condizionamento assume significato e forza l’espressione della nostra volontà individuale come manifestazione di libertà. La conclusione del ragionamento – «La volontà libera non è nient’altro che il potenziamento supremo del fato» (I,I, 209) – ripete pressoché alla lettera le parole di Emerson[67]. Ma lo sviluppo complessivo di pensiero per cui tale conclusione è raggiunta rivela già la presenza di temi e riferimenti che saranno decisivi nella riflessione del Nietzsche maturo. Dato che il condizionamento supremo è costituito dal passato, l’espressione massima della volontà libera è il prender su di sé l’intero passato per cancellarlo in un’assunzione di responsabilità. Se fosse possibile «rovesciare con una forte volontà tutto quanto il passato del mondo, entreremmo nella schiera {p. 49}
degli dèi indipendenti, e la storia del mondo non sarebbe per noi altro che un trasognato straniamento da noi stessi»;; in tal modo l’uomo ritrova se stesso «come un bambino che gioca coi mondi, come un bambino che alla luce del mattino si risveglia e ridendo cancella dalla fronte i sogni paurosi» (I,I, 208). Il tema della liberazione dal passato nel nome della volontà che libera tornerà nel capitolo Della redenzione di Così parlò Zarathustra: «Redimere coloro che sono passati e trasformare ogni ‘‘così fu’’ in un ‘‘così volli che fosse!’’ – solo questo può essere per me redenzione!» (Za, VI,I, 170). Ogni «‘‘ciò che fu’’» (das, was war) è «il macigno che la volontà non può smuovere», ciò contro cui si esercita «lo spirito di vendetta», «l’avversione della volontà contro il tempo» (Za, VI,I, 171). Perché sia libera, la volontà deve redimersi da questo spirito di vendetta: «Ogni ‘‘così fu’’ è un frammento, un enigma, una casualità orrida – fin quando la volontà che crea non dica anche ‘‘ma così volli che fosse!’’ / – Finché la volontà che crea non dica anche: ‘‘ma io così voglio! Così vorrò!» (Za, VI,I, 172). L’uomo la cui volontà dica questo sta al di sopra del tempo, ossia dell’epoca del mondo. Lo scritto del 1862 indica quest’uomo come il fanciullo cosmico, il «bambino che gioca coi mondi»: è una citazione indiretta del frammento B 52 D.K. di Eraclito: αἰὼν παῖς ἐστι παίζων πεσσεύων παιδὸς ἡ βασιληίη [68], dove il termine αἰὼν non indica il tempo nella sua misura astratta, ma insieme il tempo della vita e l’epoca del mondo[69]. Questo tema tornerà in uno dei Frammenti postumi nelle vesti di una «fanciullezza» di Dio (Kindlichkeit Gottes);; di un Dio che crea giocando, come un artista, per liberarsi del proprio eccesso di forza (2[130], VIII,I, 116), e la cui creatività è perciò libera da ogni scrupolo morale. {p. 50}
Al di là dell’influenza di Emerson, i due scritti del 1862 risultano decisivi proprio per la traccia, che essi recano in modo deciso, della lettura di Eraclito, ossia del pensatore in cui Nietzsche individuerà, più tardi, l’essenza del pensiero tragico. La conciliazione di volontà individuale e fato passa per il riconoscimento che per l’uomo esiste, innanzitutto, un fato individuale;; volontà e fato si conciliano dunque in quanto egli si costruisce da se stesso il proprio fato (I,I, 210);; nella misura in cui la volontà si oppone al fato, essa lo fa suo;; non il nostro «temperamento» (Temperament) è il risultato degli eventi, ma è esso a dar loro significato;; e tutto ci si fa incontro «nello specchio della nostra personalità» (I,I, 207). La conclusione – «il nostro temperamento non è altro che il nostro animo» (ibidem) è una chiara eco della massima eraclitea ἦθος ἀντρώπῳ δαίμων (B 119 D.K.), la cui duplicità di significato («il carattere è il demone per l’uomo», ma anche «il demone è il carattere per l’uomo») offre evidentemente a Nietzsche la testimonianza della reciproca dipendenza di volontà e fato. Sono già, questi, i temi propri dell’universo tragico, che indirizzano Nietzsche all’analisi del significato e del ruolo della tragedia greca;; pur se egli uscirà pressoché completamente dal modello romantico (hölderliniano e schellinghiano) della «tragedia del destino» (Schicksalstragödie) per dare piuttosto fondamento, attraverso di essa, ai temi della critica della civiltà e della cultura.
Note [1] U. von Wilamowitz-Möllendorff, Zukunftsphilologie!, Berlin, Gebrüder Borntraeger, 1872;; sta ora in AA.VV., Der Streit um Nietzsches «Geburt der Tragödie», a cura di K. Gründer, Hildesheim-Zürich-New York, Olms, 19892, p. 31;; trad. it. Filologia dell’avvenire, in AA.VV., La polemica sull’arte tragica, a cura di F. Serpa, Firenze, Sansoni, 1972, p. 215. [2] Ibidem, p. 55;; trad. it., p. 242. [3] «Contro la nostalgia (secondo il prof. Buddensieg) / 1. Se vogliamo imparare qualcosa di buono, non possiamo restarcene sempre a casa. / 2. Non lo vorrebbero i nostri cari genitori;; noi quindi ci conformiamo al loro volere. / 3. I nostri cari sono sotto la protezione del Signore;; i loro pensieri ci accompagnano sempre. / 4. Se studiamo sodo, svaniscono i pensieri tristi. / 5. Se tutto ciò non ti aiuta, prega il Signore Iddio» (I,I, 79). [4] Per notizie maggiormente dettagliate, si veda la nota di M. Montinari in Ep, I, 702-705, parzialmente ripresa in OFN, I,I, 502-505. [5] C.P. Janz, Friedrich Nietzsche. Biographie, vol. I, München-Wien, Hanser, 1987;; trad. it. Vita di Nietzsche. I. Il profeta della tragedia 18441879, traduzione e cura di M. Carpitella, Roma-Bari, Laterza, 1980, p. 51. Sull’importanza che la biografia di Janz assume nello studio della figura e del pensiero di Nietzsche cfr. M. Montinari, Nietzsche, Roma, Editori Riuniti, 19962, pp. 123-129. [6] Cit. in Janz, op. cit.;; trad. it., pp. 51-52. [7] Ibidem, trad. it., pp. 52-53. [8] U. Muhlack, Zum Verhältnis von Klassischer Philologie und Geschichtswissenschaft im 19. Jahrhundert, in AA.VV., Philologie und Hermeneutik im 19. Jahrhundert. Zur Geschichte und Methodologie der Geisteswissenschaften, a cura di H. Flashar, K. Gründer e A. Horstmann, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1979, p. 230. [9] W. von Humboldt, Über den Charakter der Griechen, die idealistische und historische Ansicht desselben (1807), in Id., Bildung und Sprache, a cura di C. Menze, Paderborn, Schöningh, 19793, pp. 66-67. [10] Ibidem, p. 70. [11] Muhlack, op. cit., p. 233. [12] Di F.A. Wolf si veda soprattutto Darstellung der Alterthumwissenschaft, nach Begriff, Umfang, Zweck und Werth, in «Museum der Alterthumwissenschaft», I, 1807. Su Wolf, e sull’influenza che W. von Humboldt esercita su di lui, cfr. F. Vercellone, Identità dell’antico. L’idea del classico nella cultura tedesca del primo Ottocento, Torino, Rosenberg & Sellier, 1988, pp. 91-117. [13] W. von Humboldt, Antrag auf Errichtung der Universität Berlin (24 luglio 1809), in Werke in fünf Bänden, a cura di A. Flitner e K. Giel, vol. IV (Schriften zur Politik und zum Bildungswesen), Stuttgart, Cotta, 19692, p. 114;; lo scritto costituisce la seconda, più articolata redazione di un precedente contributo inviato al re di Prussia in data 12 maggio 1809;; cfr. ibidem, pp. 29-37. [14] Così nell’Antrag del 12 maggio 1809;; cfr. ibidem, p. 30. [15] Ibidem, pp. 114-115. [16] Ibidem, p. 116. [17] F.D.E. Schleiermacher, Gelegentliche Gedanken über Universitäten in deutschem Sinn,in Werke, Auswahl in vier Bänden, vol. IV, Aalen, Scientia, 1967, p. 550;; trad. it. Sull’università, con un’introduzione di L. d’Alessandro, Napoli, La città del sole, 1995, p. 55. [18] Ibidem, p. 551;; trad. it., p. 56. [19] Ibidem, pp. 551-552;; trad. it., p. 57. [20] Ibidem, pp. 552-553;; trad. it., p. 58. [21] Ibidem, pp. 554-557;; trad. it., pp. 60-63. Sul concetto di enciclopedia nella cultura romantica e sui suoi riflessi nello sviluppo dell’ermeneutica, cfr. Vercellone, Identità dell’antico, cit., pp. 9-15. [22] Schleiermacher, op. cit., p. 558;; trad. it., p. 64. [23] Ibidem. [24] J.G. Fichte, Einige Vorlesungen über die Bestimmung des Gelherten,in Fichtes Werke, a cura di I.H. Fichte, vol. VI: Politik und Moral, Berlin, De Gruyter, 1971, p. 325;; trad. it. La missione del dotto, traduzione, introduzione e commento di V.E. Alfieri, Milano, Mursia, 1987, pp. 119-120. [25] Ibidem, pp. 326-327;; trad. it., pp. 121-123. [26] F.W.J. Schelling, Vorlesungen über die Methode des akademischen Studiums,in Schellings Werke, a cura di M. Schröter, München, Beck und Oldenbourg, 1927, vol. III, p. 235;; trad. it. Lezioni sul metodo dello studio accademico, traduzione e cura di C. Tatasciore, Napoli, Guida, 1989, p. 65. [27] Ibidem, p. 236;; trad. it., p. 66. [28] Si vedano, a tal proposito, le osservazioni di L. d’Alessandro nella sua introduzione a Schleiermacher, Sull’università, cit., pp. 16 ss. [29] Schleiermacher, op. cit., p. 563;; trad. it. (lievemente modificata), pp. 69-70. [30] Probabile allusione alla critica dello Stato condotta da B. Mandeville nella celebre Fable of the bees: or, private vices, public benefits (1732);; trad. it. La favola delle api, traduzione e cura di T. Magri, Roma-Bari, Laterza, 1987. [31] A. Schopenhauer, Über die Universitäts-Philosophie, in Id., Parerga und Paralipomena: kleine philosophische Schriften,I, in Sämtliche Werke, Wiesbaden, Brockhaus, 1966, vol. V, pp. 157-158;; trad. it. La filosofia delle università, di G. Colli, con un saggio di M. Sgalambro, Milano, Adelphi, 1992, pp. 30-31. [32] Ibidem, p. 157;; trad. it., p. 30. [33] R. Geuss, Morality, Culture, and History. Essays on German Philosophy, Cambridge, Cambridge University Press, 1999, pp. 32-33. [34] N. Martin, Nietzsche and Schiller. Untimely Aesthetics, Oxford, Clarendon Press, 1996, in particolare pp. 100-101. Cfr. F. Schiller,Über die ästhetische Erziehung des Menschen in einer Reihe von Briefen, in Werke in drei Bänden, München, Hanser, 1966, vol. II, pp. 445-520;; trad. it. Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, traduzione, introduzione e note di A. Negri, Roma, Armando, 1993. Sul rapporto di Schiller con i Greci, cfr. W. Schadewaldt, Der Weg Schillers zu den Griechen, in Id., Hellas und Hesperien. Gesammelte Schriften zur antike
und zur neueren Literatur, Zürich-Stuttgart, Artemis, 1960, pp. 825-831. Sulla connessione tra ideale estetico e ideale pedagogico in Schiller cfr. L. Pareyson, Etica ed estetica in Schiller, Milano, Mursia, 1983, in particolare pp. 126-146. [35] Martin, op. cit., p. 101. [36] V. Pöschl, Nietzsche und die klassische Philologie, in AA.VV., Philologie und Hermeneutik im 19. Jahrhundert, cit., p. 141. [37] Ibidem, pp. 142-143. [38] Rinvio, in proposito, alle conclusioni del mio saggio Sulla disuguaglianza del genio;; sta ora in C. Gentili, A partire da Nietzsche, Genova, Marietti, 1998, pp. 52-85. [39] F. Nietzsche, Appunti filosofici 1867-1869 – Omero e la filologia classica, a cura di G. Campioni e F. Gerratana, Milano, Adelphi, 1993, p. 225. [40] Ibidem, p. 220. [41] Ibidem, p. 219. [42] Ibidem, p. 221. [43] Ibidem, p. 223. [44] È il monologo di Ifigenia che apre la tragedia (atto I, scena I): «Da’ miei diletti, ahimè, mi esclude il mare;; / e sto ritta sul lido i lunghi giorni, / con l’anima anelante al suolo greco [...] Oh, misero colui che la sua vita / dai genitori lungi e dai fratelli / solitaria trascina! [...] Sempre a ritroso i suoi pensieri sciamano verso il tetto paterno...» (trad. it. di V. Errante in Opere, a cura di L. Mazzucchetti, Firenze, Sansoni, 1963, vol. IV, p. 9). [45] Nietzsche, Omero e la filologia classica, cit., p. 223. [46] Ibidem, p. 236. [47] Ibidem, p. 238. [48] Ibidem, pp. 242-243. [49] Cfr. L. Anneo Seneca, Ad Lucilium epistularum moralium libri XX, 108, 23. [50] Nietzsche, Omero e la filologia classica, cit., pp. 245-246. [51] Per un’analisi approfondita di questo concetto, si rimanda a G. Campioni, Leggere Nietzsche. Dall’agonismo inattuale alla critica della «morale eroica», in AA.VV., La filosofia e le sue storie, a cura di M.C. Fornari e F. Sulpizio, Lecce, Milella, 1998, pp. 87-133 (per l’argomento in oggetto: pp. 98-107), le cui conclusioni facciamo nostre. [52] Si tratta dell’associazione «Germania», che Nietzsche fonda insieme a W. Pinder e G. Krug il 25 luglio 1860. I tre amici tenevano a turno delle relazioni che gli altri avevano l’incarico di criticare. L’associazione fu sciolta nell’estate del 1863 e l’occasione furono, a quanto pare, le critiche eccessivamente dure di Nietzsche alle comunicazioni di Pinder. Si vedano in proposito Janz, op. cit.;; trad. it., vol. I, pp. 92-93, e R.J. Hollingdale, Nietzsche. The Man and His Philosophy, Cambridge, Cambridge University Press, 19992, pp. 19 ss.;; trad. it. Nietzsche. L’uomo e la sua filosofia, di G. Sardelli, Roma, Ubaldini, 1966, pp. 37-38. [53] F. Nietzsche, La mia vita. Scritti autobiografici 1856-1869, trad. it. di M. Carpitella, con una nota introduttiva di M. Montinari, Milano, Adelphi, 19927, p. 156. L’immagine viene poi ripresa in BA, III,II, 129. [54] Campioni, op. cit., p. 99. [55] Cfr. L’Edda. Carmi Norreni, introduzione, traduzione e note di C.A. Mastrelli con una prefazione di R. Pettazzoni, Firenze, Sansoni, 1982, rispettivamente pp. 247-250 e 251-255. [56] Cfr. supra, n. 51. [57] Cfr. Campioni, op. cit., p. 93. [58] Goto romanizzato, autore, tra le altre cose, di una storia dei Goti (De origine actibusque Getarum). [59] Campioni, op. cit., p. 93. [60] Ibidem. [61] Cfr. ibidem, p. 95 e 95 nota 26. [62] Seguendo una consuetudine ormai sufficientemente consolidata, si preferisce utilizzare l’espressione tedesca anziché ricorrere a traduzioni ormai compromesse – come «superuomo» – o alquanto forzate – come «oltreuomo»;; per le considerazioni in proposito, rimando alla voce «Superuomo», redatta da chi scrive, in G. Penzo (a cura di), Nietzsche. Atlante della sua vita e del suo pensiero, Milano, Rusconi, 1999, pp. 355-357. [63] Cfr. Campioni, op. cit., p. 96. [64] Cfr. ibidem, p. 97. [65] Così, nella I Inattuale, Nietzsche se la prende con F. Vischer e con la sua celebrazione di Hölderlin: «Nella rumorosa cerchia filistea si festeggiava la memoria di un vero e schietto non filisteo, di uno per giunta che, nel senso più stretto della parola, perì a causa dei filistei;; ossia la memoria del magnifico Hölderlin» (UBDS, III,I, 180). [66] R.W. Emerson, Die Führung des Lebens, trad. ted. di E.V. Mühlberg, Leipzig, 1862. [67] Cfr. R.W. Emerson, The Conduct of Life,in The Works of Ralph Waldo Emerson, Four Volumes in One, New York, Tudor, s.d., vol. III, p. 15: «If you please to plant yourself on the side of Fate, and say, Fate is all;; then we say, a part of Fate is the freedom of man. Forever wells up the impulse of choosing and acting in the soul. Intellect annuls Fate. So far as a man thinks, he is free». Sul rapporto Nietzsche-Emerson si veda ora l’importante contributo di G.J. Stack, Nietzsche and Emerson. An Elective Affinity, Athens, Ohio University Press, 1992;; in particolare, per lo scritto di Nietzsche qui esaminato, pp. 11-13. [68] «Il tempo è un bimbo che gioca, con le tessere di una scacchiera: di un bimbo è il regno» (trad. it. di C. Diano). [69] Cfr. il commento di C. Diano e G. Serra in Eraclito, I frammenti e le testimonianze, a cura di C. Diano e G. Serra, Milano, Mondadori-Valla, 19944, p. 152. Copyright © 2008 by Società editrice il Mulino - Licenza d'uso Per le opere presenti in questo sito si sono assolti gli obblighi dalla normativa sul diritto d'autore e sui diritti connessi.
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Carlo Gentili Nietzsche
CAPITOLO SECONDO
IL CANTO DEL SATIRO CONTRO IL FILISTEO COLTO. CRITICA DELLA CIVILTÀ E CRITICA DELLA CULTURA DALLA «NASCITA DELLA TRAGEDIA» ALLE «INATTUALI» 1. L’aspirazione alla filosofia Nietzsche giunge a Basilea il 19 aprile 1869. L’anno prima, dunque ad appena ventiquattro anni, vi ha ottenuto, grazie all’attivo interessamento del suo maestro Friedrich Ritschl, l’incarico di docente di filologia classica. La sua giovane età non deve destare stupore. Come ricorda C.P. Janz[1], ciò rientra pienamente nelle caratteristiche dell’Università di Basilea, che sceglie di preferenza professori giovani ma giudicati di buon avvenire. Il linguista Jacob Wackernagel, che si abilita come libero docente accanto a Nietzsche nel 1876, gli succederà nel 1879 sulla medesima cattedra a soli ventisei anni. D’altro canto, i lavori di Nietzsche pubblicati sul «Rheinisches Museum» – in particolare lo scritto sulle fonti di Diogene Laerzio[2]– lo hanno già imposto all’attenzione dei filologi. Al di là dell’esplicita raccomandazione, il magistero di Ritschl costituisce un’ulteriore garanzia. Nietzsche interrompe l’insegnamento a Basilea dopo lo scoppio della guerra franco-prussiana il 19 luglio 1870. Contro il parere delle autorità universitarie, che gli avevano fatto balenare la possibilità di un cambio di cittadinanza, e le perplessità di Cosima Wagner – con la quale aveva nel frattempo avviata un’assidua corrispondenza epistolare –, egli parte volontario per la guerra e viene arruolato come infermiere. Ammalatosi quasi subito di dissenteria e difterite, trascorre buona parte del periodo di guerra in {p. 52}
ospedale ad Erlangen, per essere poi dimesso e soggiornare in convalescenza a Naumburg tra il settembre e l’ottobre 1870. Nonostante la brevità dell’esperienza e l’ancor più breve periodo trascorso al fronte, la guerra non resta senza conseguenze sul suo animo. Lo stato dei feriti, i loro lamenti, lo colpiscono vivamente. Il 29 agosto, alle «due di notte», scrive tra l’altro al maestro Ritschl: «Le giunga un segno in memoria della terribile battaglia di Wörth. / La penosa luce della lampada ad olio mi impedisce di scrivere di più» (Ep, II, 133). Pur tra le asperità della guerra, il giovane professore non dimentica la cultura umanistica, che gli fornisce forse un aiuto per sopportare le difficoltà del momento. Janz ipotizza[3] che gli orrori della guerra gli si rivelino alla luce di un coro dell’Agamennone di Eschilo, nel quale si parla, tra l’altro, di «Ares, il cambiavalute (κρυσαμοιβός) dei cadaveri / che tiene la bilancia nello scontro delle lance» (vv. 437 s.). Il ritorno all’insegnamento universitario gli appare, ora, come un’aspirazione alla pace e alla serenità. Il 19 ottobre scrive da Naumburg al consigliere Wilhelm Vischer-Bilfinger di Basilea: «Ho cercato rifugio nella scienza da tutte le immagini terribili che ho visto nel mio viaggio. Adesso le questioni della metrica e della ritmica, a cui mi sono di nuovo avvicinato preparandomi per il semestre invernale, non mi danno pace;; questa volta sono proprio contento all’idea del mio insegnamento universitario» (Ep, II, 140). Ma è un fatto che da quelle «questioni della metrica e della ritmica», che pure occuparono buona parte delle sue ore di insegnamento, egli doveva ben presto distogliersi. Le amicizie alle quali Nietzsche si lega a Basilea non appartengono all’ambito della filologia. Tra di esse, quelle strette con Johann Jakob Bachofen e Jacob Burckhardt sono senza dubbio le più significative. Esse rappresentano, già da sole, l’indice di un mutato atteggiamento nei confronti dello studio dell’antichità. È certo questo mutato atteggiamento a far maturare in lui la decisione di {p. 53}
chiedere alle autorità universitarie il passaggio alla cattedra di filosofia. Nel gennaio 1871 scrive una lunga lettera, di nuovo, al consigliere Vischer, nella quale motiva con ragioni di salute la richiesta di ottenere un insegnamento più consono alla propria natura;; cosa che, oltretutto, lo
avrebbe liberato dall’obbligo di insegnare contemporaneamente nelle classi del Liceo, come veniva richiesto, a Basilea, ai docenti di filologia. Nella lettera Nietzsche scrive tra l’altro: «Io, che per natura mi sento fortemente sospinto a pensare alle cose come a un tutto unitario e con mentalità filosofica, perserverando in un problema con continuità e indisturbatamente, e ragionandoci a lungo, mi sento continuamente gettato qua e là e deviato dalla mia strada dalle molteplici occupazioni quotidiane e dalla loro natura». E poco più oltre: Quanto alla legittimità delle mie ambizioni per la cattedra di filosofia, devo innanzitutto testimoniare in mio favore che penso di possedere la capacità e le conoscenze necessarie e, tutto sommato, mi sento più adatto a quel lavoro che a un’attività meramente filologica [...] e anche negli studi filologici mi ha attirato di preferenza tutto ciò che mi sembrava significativo o per la storia della filosofia o per i problemi etici ed estetici (Ep, II, 168-169).
Nietzsche avanza quindi la richiesta di occupare la cattedra di filosofia lasciata libera da Gustav Teichmüller. A Basilea erano in effetti attivate due cattedre di filosofia[4];; quella alla quale Nietzsche fa riferimento nella lettera era stata istituita nel 1867 ed era una «cattedra di dotazione», funzionava cioè da appoggio alla prima cattedra, tenuta da Karl Steffensen, docente anziano che cominciava a mostrare segni di stanchezza. Sulla seconda cattedra era stato chiamato in un primo momento Wilhelm Dilthey, il quale la tenne però soltanto per un anno. Gli subentrò il già nominato Teichmüller, che appunto nel 1871 accettò tuttavia un incarico a Dorpat. Dai verbali delle riunioni del consiglio di presidenza non risulta traccia della {p. 54}
richiesta di Nietzsche;; l’unico provvedimento preso in suo favore fu la concessione di un periodo di congedo provvisorio che gli consentisse di ristabilire le proprie condizioni di salute. Il 12 aprile 1871 la seconda cattedra di filosofia viene assegnata a Rudolf Eucken, caldamente raccomandato dallo stesso Teichmüller. Nel 1874 e nel 1875 la cattedra cambierà nuovamente titolare, ma Nietzsche, ormai evidentemente deluso e rassegnato, non rinnoverà più la domanda. A questa vicenda, che certo minò il suo già scarso entusiasmo per l’insegnamento universitario – che egli abbandonerà definitivamente, anche per le ragioni dovute ad una condizione di salute sempre più precaria, nel 1879 – non furono probabilmente estranei gli indirizzi che nel frattempo egli aveva impresso alla propria riflessione. Come Janz ipotizza con ragione[5], è plausibile che le candidature per la seconda cattedra dovessero passare al vaglio del docente anziano Steffensen;; e questi aveva lavorato fin dal 1861 sulla figura di Socrate, dandone per di più un’interpetazione che ne faceva una sorta di precursore dellamorale cristiana. È certo che il vecchio Steffensen non poteva condividere l’interpretazione che, di Socrate, Nietzsche aveva dato nelle due conferenze tenute a Basilea il 18 gennaio e il 1o febbraio 1870: Il dramma musicale greco e, con ancor più esplicito riferimento al tema, Socrate e la tragedia. D’altro canto, come osserva Janz, dal punto di vista filosofico Nietzsche era in effetti «un autodidatta»[6]: le sue conoscenze si limitavano alla filosofia a lui strettamente contemporanea;; aveva letto Schopenhauer, Feuerbach, Friedrich Albert Lange, Eduard von Hartmann;; possedeva una scarsa conoscenza dei classici (soprattutto di Aristotele) e pressoché nessuna della filosofia medievale;; mentre di Kant (con l’eccezione della Critica del Giudizio, che aveva letto direttamente) e di Hegel aveva una conoscenza soltanto mediata attraverso altri autori. A dispetto del giudizio dei contemporanei, si può ben dire tuttavia che la vocazione filosofica di Nietzsche nasca {p. 55}
e tragga nutrimento proprio dal bisogno di ripensare i fondamenti della filologia. Se, sul piano metodologico, questa vocazione produrrà i suoi frutti nella II Inattuale (Sull’utilità e il danno della storia per la vita) e in quella – rimasta allo stadio di progetto – che avrebbe dovuto recare il titolo Noi filologi, sul piano dei contenuti essa si esercita, innanzitutto, sui materiali che gli studi filologici gli mettono dinanzi. E questo conduce direttamente al problema dell’interpretazione filosofica della tragedia greca. Dietro di esso egli vede profilarsi il grande tema che non verrà più abbandonato nel corso di tutta la sua riflessione: quello del dionisiaco. La filosofia di Nietzsche porta fin dal primo momento il segno di Dioniso.
2. In cammino verso Dioniso Nel semestre estivo del 1870 Nietzsche tiene a Basilea una serie di lezioni sull’Edipo re di Sofocle, e le fa precede-re da un’introduzione generale sul significato della tragedia greca. Questo testo ci è pervenuto con il duplice titolo Zur Geschichte der griechischen Tragödie. Vorlesungen von Friedr.
Nietzsche («Per la storia della tragedia greca. Lezioni di Friedr. Nietzsche») e Einleitung in die Tragödie des Sophocles. 20 Vorlesungen («Introduzione alla tragedia di Sofocle. 20 lezioni»). Solo recentemente[7] si è cominciato a comprendere l’importanza di questo testo per lo sviluppo di quelle idee che culmineranno nella Nascita della tragedia. Più che di una «storia» della tragedia, il problema di cui Nietzsche si occupa è, già qui, quello della sua origine e {p. 56}
della definizione generale del carattere della civiltà greca. Entrambi questi temi sono legati al dionisiaco. Anticipando quanto scriverà nella Nascita della tragedia, l’origine del genere tragico viene posta da Nietzsche nella «lirica dionisiaca» in opposizione ad una lirica «apollinea». E per lirica dionisiaca egli intende «ciò che è musicale in senso puro, ciò che è propriamente patologico del suono», in cui «la massa arriva all’eccitazione estatica» e «ciò che è istintivo si esprime senza mediazioni» (KGW, II,3, 11)[8]. Viene cioè già posta con risolutezza quell’idea di una lirica popolare, intrinsecamente legata all’elemento musicale, che riceverà, più tardi, le dure critiche di Wilamowitz[9]. La condizione dionisiaca viene così descritta: {p. 57}
Forza smisurata dell’impulso primaverile: oblio dell’individualità affine all’autoalienazione ascetica mediante dolore e paura (durch Schmerz u. Schrecken). La natura unifica nella sua forza suprema i singoli individui e fa sì che si sentano un’unità, cosicché il principium individuationis appare per così dire come persistente stato di debolezza (Schwächezustand) della natura. Quanto più la natura è corrotta, tanto più si sbriciola in singoli individui;; quanto più l’individuo si è sviluppato sicuro di sé e capace di decidere arbitrariamente, tanto più la natura del popolo è debole (KGW, II,3, 11-12)[10].
L’espressione artistica diretta di questa condizione so-no la musica e il ditirambo, in cui la «natura rigogliosa» celebra i propri «saturnali» per aspirare poi «all’oblio di se stessa» nella tragedia, mediante l’estasi raggiunta «attraverso il dolore e la paura» (ibidem). La definizione del dionisiaco che viene qui presentata, e la sua traduzione nell’espressione artistica che comporta la conciliazione con il principio antagonista (l’apollineo), rimane sostanzialmente immutata nell’opera nietzscheana successiva, e contiene già tutti i rimandi, sia d’ordine concettuale che letterale, alla formazione di Nietzsche. Il rapporto tra la natura e i singoli individui è evidentemente costruito sul rapporto schopenhaueriano tra volontà in sé e volontà oggettivata: il principium individuationis corrisponde alla possibilità che ciò che è in sé uno (la volontà) appaia come molteplice in ordine allo spazio e al tempo[11]. {p. 58}
Quanto alla descrizione della condizione dionisiaca, Nietzsche aveva potuto leggerla negli scritti di autori a lui molto vicini: dalla Geschichte der griechischen Litteratur di Karl Otfried Müller[12] al lavoro del filologo Jacob Bernays (tra l’altro allievo, come lui, di Friedrich Ritschl) sulla catarsi aristotelica, al poi celebre Examensarbeit del conte Paul Yorck von Wartenburg che riprende e sviluppa le argomentazioni di Bernays. K.O. Müller descrive Dioniso come un dio in cui si manifesta il ciclo vegetativo della natura: «il dio multiforme della natura che fiorisce, appassisce e si rinnova», il cui culto «oscillante tra gioia e dolore» mostrava molte somiglianze con le religioni dell’Asia minore. Benché egli rimanga escluso dal servizio reso agli dèi olimpici, e la sua venerazione resti estranea a molte regioni della Grecia, non manca di esercitare «una grandissima influenza sulla formazione della nazione greca», producendo effetti nell’arte e nella poesia. Questi effetti hanno un tratto in comune: quello di manifestare «un violento eccitamento dell’animo, un superiore slancio della fantasia e una selvaggia {p. 59}
sfrenatezza nel piacere e nel dolore»[13]. Più avanti Müller collega esplicitamente il culto di Dioniso con la nascita della tragedia: senza alcun intervento arbitrario della finzione nel culto bacchico, «il dramma poté svilupparsi come una parte della venerazione festiva del dio». Viene giudicato di fondamentale importanza per gli sviluppi successivi del genere tragico il fatto «che la parte lirica, il canto del coro, fosse l’elemento più originario»;; il coro commenta il destino del dio esprimendo i suoi sentimenti, e «questo canto corale apparteneva alla classe del ditirambo»[14]. A riprova, Müller cita gli abituali passi da Aristotele (Poet., 1449 a 10 s.) e da Erodoto (V, 67). Quest’ultima testimonianza è per lui di particolare rilievo, dato che Erodoto riferisce che nella città di Sicione dei cori tragici venivano cantati in onore dell’«eroe» Adrasto;; il che testimonia come già allora il canto corale tragico fosse stato trasferito da Dioniso agli eroi. Così come avverrà per i ditirambi e, più tardi, per le tragedie, il cui oggetto non era-no le azioni degli dèi, ma appunto di Dioniso e degli eroi. Questo ha, per Müller, una spiegazione di carattere teologico: gli dèi sono infatti per loro natura superiori al destino, e dunque al dissidio di gioia e dolore, mentre Dioniso e gli eroi vi sono assoggettati[15]. Dioniso rivelerebbe, in questo senso, una natura più vicina a quella degli eroi che a
quella degli dèi. Per questa ragione il suo destino è l’oggetto fondamentale della rappresentazione tragica. I dolori di Dioniso costituiscono dunque lo sfondo stabile ed autentico del commento del coro. Questo motivo viene ripreso nella Nascita della tragedia, e vi assume una particolare importanza. Nietzsche apre il cap. 10 affermando che «è tradizione incontestabile che la tragedia greca, nella sua forma più antica, aveva per oggetto solo i dolori di {p. 60}
Dioniso, e che per molto tempo l’unico eroe presente sulla scena fu appunto Dioniso». Le figure più famose del teatro greco – Prometeo, Edipo ecc. – «sono soltanto maschere di quell’eroe originario»;; l’«idealità» tanto ammirata di quelle figure deriva dal fatto che dietro di esse si nasconde sempre la stessa divinità. Nietzsche contamina a questo punto la suggestione che gli deriva da Müller con la propria formazione schopenhaueriana: la molteplicità delle figure in cui l’unico Dioniso si frange corrisponde al Dioniso «preso nella rete della volontà individuale», il dio sofferente dei misteri «che sperimenta in sé i dolori dell’individuazione», «fatto a pezzi dai Titani» e «venerato come Zagreus» (GT, III,I, 71-72). In breve, il mito orfico del Dioniso smembrato viene riletto alla luce della formula schopenhaueriana del principium individuationis e sullo sfondo della distinzione tra volontà in sé e volontà determinata. La centralità del dionisiaco Nietzsche aveva tuttavia potuto apprenderla anche dal breve scritto di J. Bernays, Grundzüge der verlorenen Abhandlung des Aristoteles über Wirkung der Tragödie («Lineamenti del perduto trattato di Aristotele sugli effetti della tragedia»), pubblicato in due parti a Breslavia, nel 1857 e nel 1858, nelle «Abhandlungen der Historisch-philosophischen Gesellschaft» dirette da Th. Mommsen. Qui, tuttavia, l’esperienza del dionisiaco appare filtrata attraverso i concetti aristotelici di «compassione» (Mitleid, ἔγεος) e «terrore» (Furcht, φόβος) (cfr. Arist., Poet., 1449 b 27) che costituiscono, per Bernays, «le due porte spalancate attraverso le quali il mondo esterno penetra nella personalità umana e l’insopprimibile slancio dell’elemento patetico dell’anima, che si scaglia contro la chiusa armonia, si precipita fuori per soffrire con gli uomini che nutrono le stesse sensazioni, e per vibrare dinanzi al vortice delle cose esterne e della loro minaccia»[16]. Tutto questo, osserva Bernays, era ben noto ai {p. 61}
Greci «prima che un filosofo escogitasse delle teorie estetiche»;; con la dottrina della catarsi – che Bernays interpreta come processo patologico che ha tuttavia un suo referente nei riti di purificazione delle religioni misteriche – Aristotele non fa che trasferire alla tragedia gli effetti dei riti consacrati a quel dio «il cui primo avvicinarsi trasferiva gli uomini in un autentico stato di rapimento»[17];;un dio a cui non è difficile, pur se Bernays non ne fa il nome, attribuire i tratti di Dioniso. Gli argomenti di Bernays furono ripresi e discussi da Yorck von Wartenburg nello scritto pubblicato nel 1866 come prova d’esame per l’ammissione alla carriera amministrativa[18];; il tema consisteva, secondo le parole dell’autore, {p. 62}
nell’«esporre, in base a una tragedia di Sofocle, come essa è adatta secondo Aristotele ad operare catarticamente»[19]. Dopo aver accolto la tesi centrale di Bernays riguardo alla catarsi come «processo patologico»[20], Yorck definisce lo «stato estatico» come l’esperienza centrale del culto dionisiaco;; l’estasi non sarebbe altro «che un perdersi nel dominio delle potenze della natura», ottenuto «attraverso l’eccitazioneel’intensificazionedegli effetti del doloreedel piacere». Uno degli attributi fondamentali di Dioniso – ὁ λύσιος, «il liberatore» – rinvia alla capacità di produrre la liberazione attraverso l’estasi, che presuppone tuttavia l’intensificazione del dolore stesso: «Sappiamo che coloro che venivano iniziati al culto di Bacco venivano scossi con immagini di terrore, si abbandonavano a dolori che distruggevano l’individualità per trasferire l’anima fuori di sé». Abbiamo già, in queste parole, una descrizione del dionisiaco come rottura del principium individuationis,secondo la posteriore formulazione nietzscheana. Ma l’analogia si spinge oltre: «I dolori risvegliano piacere, il terrore gioia» (die Schmerzen erwecken Lust, der Schrecken Freude) [21] . Queste stesse espressioni si leggono nello scritto nietzscheano del 1870: «I dolori suscitano piacere, il terribile suscita gioia» (Schmerzen erwecken Lust, der Schrecken Freude)(KGW, II,3 12) [22] . E,ancora inquesto testo,troviamo un identico riferimento al rituale bacchico: «Coloro che erano consacrati al servizio di Bacco venivano colpiti con immagini terrificanti» (ibidem)[23].Il prelievo è, come si vede, pressoché letterale. Nessuna meraviglia, a questo punto, che la conclusione di Yorck sia, per così dire, già {p. 63}
nietzscheana: «L’estasi è l’unità superiore del dolore e del piacere»[24]. Che Nietzsche non citi mai né Bernays né Yorck ha la sua spiegazione nel netto rifiuto che egli oppone alla dottrina aristotelica della catarsi – di cui i due autori si dimostravano interpreti fedeli –, formulato in modo preciso nella Nascita della tragedia e ribadito più volte fino ai suoi ultimi scritti.
Il torto di Aristotele sta, per Nietzsche, nell’aver cercato un effetto della tragedia al di fuori della tragedia stessa, ossia al di fuori della dimensione puramente estetica. Che si dia un’interpretazione medico-patologica della catarsi (come fa Bernays), o un’interpretazione morale (come aveva fatto Lessing[25]), è un fatto che «mai ancora, da Aristotele in poi, è stata data una spiegazione dell’effetto tragico, da cui si potessero dedurre stati artistici, un’attività estetica degli ascoltatori» (GT, III,I, 147). Nietzsche rimarrà sempre convinto della sua posizione[26];; {p. 64}
lo dimostra, tra i tanti passi che si potrebbero citare, un frammento della primavera del 1888, nel quale scrive: «Ho messo ripetute volte il dito sul grande equivoco di Aristotele, là dove egli crede di riconoscere in due affetti deprimenti, la paura e la pietà, gli affetti tragici [...] (Giacché, che con l’eccitazione di tali affetti ci si ‘‘purghi’’ di loro [sich von ihnen ‘‘purgirt’’[27]], come sembra credere Aristotele, semplicemente non è vero)» (15 [10], VIII,III, 199-200). Nel difendere l’autonomia estetica della tragedia Nietzsche sposa, certo non inconsapevolmente, la tesi di Goethe, il quale aveva lamentato che proprio Aristotele – dopo aver costantemente rivolto la sua attenzione alla definizione e alla costruzione dell’«oggetto» (l’opera tragica) – potesse poi aver pensato «a quell’effetto dilazionato nel tempo che la tragedia avrebbe eventualmente prodotto sullo spettatore»[28]. {p. 65}
Che Nietzsche accolga così precisamente le descrizioni dello stato dionisiaco, dei suoi effetti e dei suoi legami con la tragedia, che legge in Bernays e Yorck, ma metta nel contempo ogni cura nel dissociarle da Aristotele, ha evidentemente la sua spiegazione nella convinzione che la Grecia «dionisiaca» e «tragica» avesse rappresentato qualcosa di radicalmente estraneo a quello spirito teoretico – che egli giudica più volte addirittura non greco – che avrebbe trovato il suo compimento proprio in Aristotele. Dioniso è per Nietzsche l’espressione di uno stadio primitivo che precede la formazione della civiltà. La descrizione di questo stadio costituisce già il presupposto della successiva critica della civiltà e della cultura. Come si è accennato più sopra, già gli appunti per le lezioni del 1870 accennano ad una definizione generale del significato della civiltà greca;; questo significato starebbe in una sorta di capacità di mediazione delle influenze orientali che ha il suo esito esemplare proprio nella tragedia. È un elemento asiatico e orientale – scrive Nietzsche – quello che i Greci con la loro mostruosa forza ritmica e immaginativa, in breve con il loro senso della bellezza, hanno domato fino a produrre la tragedia [...] Fu il popolo apollineo che mise le catene della bellezza alla potenza incontenibile dell’istinto: il fatto che abbiamo a che fare con un prigioniero lo mostrano la grande cautela ed il rigore delle regole drammatiche (KGW, II,3, 12)[29]. {p. 66}
La violenza implicita in questa riduzione in cattività – e cioè il valore autentico della civiltà greca – può essere tuttavia compresa solo se si tiene in considerazione la violenza di quegli istinti. Apollo trova dunque la sua giustificazione in Dioniso;; il sorgere della civiltà è un atto violento che si esercita a sua volta su una violenza arcaica. Questo schema viene ribadito in uno scritto che Nietzsche redige tra il giugno e il luglio 1870 – dunque in assoluta contemporaneità con le lezioni di Basilea – e a cui dà il titolo La visione dionisiaca del mondo. Una copia sostanzialmente identica di questo scritto, con il titolo mutato in Die Geburt des tragischen Gedankens («La nascita del pensiero tragico») (cfr. KGW, III,2, 71-91), fu inviato da Nietzsche in omaggio a Cosima Wagner. Il testo si apre con questa affermazione: I Greci, che esprimono e al tempo stesso nascondono la dottrina segreta della loro visione del mondo nei loro dèi, hanno stabilito come duplice fonte della loro arte due divinità, Apollo e Dioniso. Questi nomi rappresentano nel dominio dell’arte dei contrari stilistici, che incedono l’uno accanto all’altro quasi sempre in lotta tra loro, e appaiono fusi una volta soltanto, quando culmina la «volontà» ellenica, nell’opera d’arte della tragedia attica (DW, III,II, 49).
Il senso di questo sviluppo viene ripreso nella Nascita della tragedia in un’espressione ricapitolativa e concisa: «Dioniso parla la lingua di Apollo, ma alla fine Apollo parla la lingua di Dioniso. Con questo è raggiunto il fine supremo della tragedia e dell’arte in genere» (GT, III,I, 145). Viene così sancito il primato di Dioniso su Apollo, in quanto fenomeno più originario, e fissato il termine di riferimento per un giudizio sulla civiltà attraverso l’arte. Ciò che salva la Grecia dalla potenza distruttiva dionisiaca è la sua capacità di idealizzare, e questa capacità si esprime innanzitutto nell’arte. Lo stato di ebbrezza richiama naturalmente l’intervento del sogno, dell’illusione salvifica: così, Apollo è in qualche modo al servizio di Dioniso, affinché la distruttività stessa del dionisiaco possa di {p. 67}
ventare esperienza. Esiste, come è detto ne La visione dionisiaca del mondo, una «maestria
artistica dionisiaca» che non consiste nella mera alternanza di assennatezza e di ebbrezza, «bensì nella loro coesistenza». Ora, «questa coesistenza caratterizza il punto culminante della grecità». Grazie all’«incredibile idealismo della natura ellenica» ciò che nei popoli asiatici era «un culto naturale», «lo scatenamento più rozzo degli istinti inferiori, una vita animalesca pansessuale, che per un determinato tempo spezzava tutti i vincoli sociali» diventa, presso i Greci, «una festa di redenzione del mondo (ein Welterlösungsfest), un giorno di trasfigurazione (ein Verklärungstag)» (DW, III,II, 52). E ciò avviene per una caratteristica antropologica dell’uomo greco: quella corrente che in Asia sgorgava irruente «in Grecia dovette diventare fiume», fu cioè costretta entro gli argini;; in Grecia essa trovò per la prima volta «ciò che in Asia non le era stato offerto, la più eccitabile sensibilità e recettività al dolore, accoppiate alla più sottile perspicacia e riflessione» (DW, III,II, 59-60). Dolore e riflessione definiscono la struttura antropologica dell’uomo greco. In tal modo Dioniso poté essere accolto nel mondo della «bella illusione», nel mondo degli dèi olimpici. Qui sta l’autentico senso nascosto del motto delfico – cmxæ hi reatsoœ m, «conosci te stesso» –: per conoscersi, l’uomo greco deve riconoscersi nello specchio degli dèi olimpici, in un mondo soggiogato dalla «misura» (leœ sqom) della bellezza, il cui fine ultimo è l’intento di «velare la verità» (DW, III,II, 62). L’arte, in quanto verità velata, ha il compito di trasfigurare il dolore, che permane come suo fondamento obliato e tuttavia non perduto. Questo spiegano le parole conclusive della Nascita della tragedia: «Quanto dovette soffrire questo popolo, per poter diventare così bello!» (GT, III,I, 163).
3. Il Satiro Al fondo dell’arte, e della civiltà che grazie ad essa si inaugura, resta dunque la consapevolezza angosciosa di {p. 68}
uno stato di natura dominato dal dolore. A questo stato di natura l’uomo greco dà le forme di un essere primitivo, semi-animalesco – il Satiro –, che corrisponde ad uno stadio pre-umano dell’umanità stessa, anteriore ad ogni forma di civiltà, e dinanzi al quale ogni civiltà si svela come menzogna, in quanto si edifica sull’occultamento del dolore. Se la civiltà è forma, e creazione di forme, essa ubbidisce al principium individuationis;; il Satiro barbuto è il richiamo ad una condizione pre-individuale, in cui domina ancora l’indistinto della natura. La sua presenza nella ritualità greca – e poi nell’arte – offre testimonianza di quanto la civiltà greca sentisse ancora presente il baratro di orrore sul quale si era formata. Il Satiro è il vero protagonista del «ditirambo primaverile» (si noti, in questa espressione, il duplice richiamo a Dioniso: attraverso il ditirambo e attraverso l’ebbrezza primaverile), in cui «l’uomo non vuole esprimersi come individuo, bensì come appartenente alla sua specie». Nel rito, che già assume le forme della danza, e dunque inizia il cammino che conduce alla forma e all’arte, l’uomo greco «parla e gestisce [...] come satiro, come essere naturale in mezzo a esseri naturali» (DW, III,II, 74). Nella Nascita della tragedia la figura e la funzione del Satiro vengono ulteriormente precisate. Esso vi è descritto come una figura di transito, già possessore e partecipe di una saggezza tuttavia non ancora trasfigurata in forma. Benché in esso si esprima una «natura in cui non è stata ancora elaborata alcuna conoscenza, in cui i chiavistelli verso la civiltà non sono stati ancora forzati», per l’uomo greco il Satiro «non coincideva ancora con la scimmia» (GT, III,I, 56): Al contrario, esso era l’immagine primigenia dell’uomo, l’espressione delle sue emozioni più alte e forti, come zelatore esaltato, che la vicinanza del dio rapisce, come compagno compartecipe (mitleidender Genoße), in cui si ripete la sofferenza del dio, come annunciatore di una saggezza tratta dal seno più profondo della natura, come simbolo dell’onnipotenza sessuale della natura, che il Greco è abituato a considerare con reverente stupore (ibidem). {p. 69}
L’uomo originario, «l’uomo vero, il Satiro barbuto», denuncia la civiltà come illusione. Utilizzando l’opposizione kantiana tra noumeno e fenomeno, riletta attraverso Schopenhauer, Nietzsche descrive «il contrasto fra questa effettiva verità di natura e la menzogna della civiltà» come il contrasto tra «la cosa in sé, e tutto quanto il mondo apparente» (GT, III,I, 57). Se la tragedia appare a Nietzsche come la forma d’arte perfetta, il culmine dello sviluppo artistico e della civiltà dei Greci, ciò è essenzialmente perché in essa, grazie al raggiunto equilibrio dei due principi antagonisti, il dionisiaco può essere salvato e conservato come esperienza fondante, sottraendosi alla sua stessa intrinseca distruttività. La poesia epica, la scultura e la pittura – in quanto arti apollinee – possono rinviare alla verità (ossia alla natura e al dolore) solo in quanto verità velate, e dunque per via negativa, mentre solo l’arte tragica riesce ad esibire concretamente, a far vedere, il dolore come fondamento. La tragedia deriva questa capacità dal suo essere sintesi
perfetta dei due principi antagonisti, espressione conseguente di quell’aspirazione al leœ sqom che è nella natura dell’uomo greco. Essa è dolore che può essere goduto e contemplato: è cioè bellezza e visione. Così Nietzsche annota in alcuni frammenti risalenti al periodo di elaborazione della Nascita della tragedia: La tragedia è bella, in quanto l’impulso che crea la terribilità della vita appare qui come impulso artistico, con il suo sorriso, cioè come un fanciullo che gioca. L’elemento commovente e impressionante della tragedia come tale consiste nel fatto che vediamo allora di fronte a noi il terribile impulso ad agire artisticamente e a giocare (7[29], III,III,I, 148-149). Perché qui riconosco il concetto fondamentale della tragedia greca, che cioè a un coro dionisiaco, sotto l’effetto di un’azione apollinea, si riveli in una visione il suo proprio stato (7[127], III,III,I, 196). Ciò che chiamiamo «tragico» è proprio l’esplicazione apollinea del dionisiaco: se svolgiamo in una serie di immagini quelle {p. 70} sensazioni intricate che produce tutte insieme l’ebbrezza del dionisiaco, questa serie di immagini esprimerà il «tragico» (7[128], III,III,I, 197).
Grazie a ciò la tragedia può conservare nella sua storia il legame con l’originario mondo del Satiro, dato che «ogni vera tragedia» non è che l’incarnazione del «coro dei Satiri», ossia quella coscienza di vita «indistruttibilmente potente e gioiosa» che si agita «dietro ogni civiltà» e che ci salva dagli «orrori dell’esistenza individuale» (GT, III,I, 111). È dunque il coro l’elemento che continua a tenere unita la tragedia nella sua forma storica (i drammi di Eschilo, Sofocle ed Euripide) con la sua forma primigenia, quando essa non era che «un grande e sublime coro di Satiri danzanti e cantanti», quel «fenomeno naturale» di cui il coro tragico non è che «l’imitazione artistica» (GT, III,I, 58).
4. Nascita e morte della forma-tragedia Sull’interpretazione della funzione del coro si intreccia uno dei nodi più complessi dell’intera Nascita della tragedia. Che Nietzsche individui in esso la forma primitiva e germinativa della tragedia corrisponde certamente, come abbiamo visto, alla sua volontà di cogliere la presenza di un’originaria dimensione dionisiaca salvata nella forma-tragedia. Egli si richiama ad una «tradizione» che «ci dice con piena risolutezza che la tragedia è sorta dal coro tragico, e che originariamente essa era coro e nient’altro che coro» (GT, III,I, 50). Questa «tradizione» è in realtà il risultato di un dibattito relativamente recente che si richiamava al tentativo schilleriano di ripristinare la funzione del coro nella tragedia moderna. È infatti nello scritto di Schiller Über den Gebrauch des Chors in der Tragödie («Sull’uso del coro nella tragedia»), redatto come introduzione al dramma Die Braut von Messina («La sposa di Messina»), che Nietzsche può leggere: «Come si sa la tragedia nacque dal coro. Ma quando si osserva come essa si {p. 71}
è da questo storicamente e cronologicamente svolta, bisogna concludere che essa ne è poeticamente e spiritualmente la figlia, e che, senza questo costante testimonio e portatore dell’azione, essa si sarebbe svolta in modo del tutto diverso»[30]. Il testo di Schiller diventa per Nietzsche un costante riferimento. In esso egli trova appoggio per respingere quelle interpretazioni della funzione del coro che gli appaiono viziate da una forma di «verismo» compromesso con la concezione borghese dell’arte. L’idea che il coro dovesse «rappresentare il popolo di fronte alla regione regale della scena» gli appare una vera e propria «bestemmia» (GT, III,I, 50-51). In questo senso viene nettamente rifiutata l’idea proposta da August W. Schlegel, nella quinta delle sue Vorlesungen über dramatische Kunst und Literatur («Lezioni sull’arte drammatica e la letteratura») (1809), secondo cui il coro sarebbe «il compendio e l’estratto della folla degli spettatori», ossia «lo ‘‘spettatore ideale’’» (der idealisierte Zuschauer)(GT, III,I, 51). Il «verismo» che inficia l’interpretazione di Schlegel trae in realtà la sua origine dall’immagine di Euripide data nelle Rane da Aristofane, secondo il quale Euripide sarebbe stato il primo a portare lo spettatore sulla scena, conformando il linguaggio tragico a quello corrente[31]. Al contrario lo spettatore deve, secondo Nietzsche, «rimanere sempre consapevole di avere davanti a sé un’opera d’arte, non una realtà empirica» (ibidem). Per questa ragione contrappone a Schlegel la concezione della funzione del coro esposta da Schiller nello scritto citato. Nietzsche osserva che Schiller considera il coro «come un {p. 72}
muro vivente (als eine lebendige Mauer) che la tragedia tracciava intorno a sé per isolarsi nettamente dal mondo reale e per serbare il suo terreno ideale e la sua libertà poetica» (GT, III,I, 53). L’introduzione del coro è un atto di guerra contro «ogni naturalismo in arte» (ibidem)[32],e costituisce dunque l’elemento fondamentale di un’arte che dev’essere «non imitazione della realtà naturale», ma «un supplemento metafisico» (ein metaphysisches Supplement) posto accanto alla
realtà per superarla (GT, III,I, 158). Valgono, qui, le stesse ragioni di fondo che Nietzsche oppone alla dottrina aristotelica della katharsis. Come in quel caso si trattava di pensare ad una «attività estetica degli ascoltatori», e cioè di mantenere gli effetti della tragedia nell’ambito della tragedia stessa (come aveva inteso Goethe), così ora la tragedia deve conservare il suo stato di autonomia: «Avevamo creduto in un pubblico estetico e avevamo ritenuto il singolo spettatore tanto più dotato, quanto più fosse in grado di intendere l’opera d’arte come arte, ossia esteticamente» (GT, III,I, 52). In questo senso il coro fornisce il presupposto per l’eliminazione della separazione tra rappresentazione e pubblico. Nietzsche pensa qui ad una comunità estetica che trova la sua compattezza ed omogeneità nel modello originario di una comunità cultuale che ha il suo simbolo nel coro dei Satiri: «Il Satiro come coreuta dionisiaco vive in una realtà religiosamente riconosciuta, sotto la sanzione del mito e del culto»;; ma il Satiro non è, in realtà, che «il finto essere naturale» (GT, III,I, 54). Diversamente da K.O. Müller che, come abbiamo visto, ritiene che la tragedia si sia evoluta dal rituale dionisiaco senza l’intervento della finzione, per Nietzsche questo intervento è essenziale per passare dal livello semplicemente naturale al livello ideale {p. 73}
che è proprio dell’arte. Il conseguimento di questo livello ideale consente ora l’annullamento della distanza tra rappresentazione e pubblico: la particolare struttura del teatro greco, e la funzione di mediazione spaziale svolta dal-l’orchestra, in cui il coro è collocato, consentono che non ci sia «nessun contrasto fra pubblico e coro: giacché il tutto è solo un grande e sublime coro di Satiri danzanti e cantanti o di uomini che si fanno rappresentare da questi Satiri» (corsivo nostro). Ora anche all’interpretazione di A.W. Schlegel può essere dato un nuovo senso: «Il coro è lo ‘‘spettatore ideale’’, in quanto esso è l’unico spettatore, lo spettatore del mondo di visione della scena» (GT, III,I, 58). Appare ora del tutto evidente anche il significato che Nietzsche assegna alle affermazioni di Schiller: «Certo è un terreno ‘‘ideale’’ quello su cui, secondo la giusta veduta di Schiller, suole muoversi il coro greco dei Satiri [...] Il Greco si è fabbricato per questo coro le impalcature aeree di un finto stato di natura e vi ha posto sopra finti esseri naturali»(GT, III,I, 53)[33]. Soltanto su questa via la {p. 74}
«tragedia dionisiaca» riesce a conseguire lo scopo supremo dell’arte: quello di porre al posto dello Stato e della società, e degli «abissi fra uomo e uomo», «un soverchiante sentimento di unità che riconduce al cuore della natura». Nietzsche definisce questo scopo «consolazione metafisica» (metaphysische Trost), ossia la consapevolezza «per cui in fondo alle cose la vita è, a dispetto di ogni mu-tare delle apparenze, indistruttibilmente potente e gioiosa». Nel coro dei Satiri, che di questa potenza è espressione, «trova consolazione il Greco profondo, dotato in modo unico per la sofferenza più delicata e più aspra». Al cospetto della «crudeltà della natura», che rischia di condurlo ad una «buddhistica negazione della volontà», «lo salva l’arte, e mediante l’arte lo salva a sé – la vita» (GT, III,I, 54-55). In questo stesso contesto affonda le sue radici l’accusa rivolta ad Euripide – uno dei punti più celebri dell’intera Nascita della tragedia – di aver condotto a morte il genere tragico. Portando l’uomo comune sulla scena, Euripide dissolve l’elemento ideale della tragedia, connesso alla sua natura di finzione dichiarata: È sufficiente dire che lo spettatore fu portato da Euripide sulla scena. Chi ha riconosciuto il materiale con cui i poeti tragici prometeici anteriori a Euripide plasmavano i loro eroi, e ha visto quanto era lungi da loro l’intenzione di portare in scena la maschera fedele della realtà, sarà anche in chiaro circa la tendenza totalmente differente di Euripide. Per opera sua l’uomo della vita quotidiana si spinse, dalla parte riservata agli spettatori, sulla scena;; lo specchio, in cui prima venivano riflessi solo i tratti grandi e arditi, mostrò ora quella meticolosa fedeltà che riproduce coscienziosamente anche le linee non riuscite della natura (GT, III,I, 76).
In quanto la sua arte è l’auto-rappresentazione di un universo borghese (dei traffici, delle contrattazioni, delle transazioni mercantili) che celebra in essa il proprio trionfo, Euripide è colui che consente il passaggio a quella che Nietzsche giudica l’arte «borghese» di quell’epoca: la commedia attica nuova. Con Euripide la genuina ispira {p. 75}
zione dionisiaca della tragedia si rovescia in una «tendenza antidionisiaca», che si corrompe presto «in una tendenza naturalistica e non artistica» (GT, III,I, 85). Nessuna meraviglia – data la premessa del «coro dei Satiri» – che questa degenerazione si riveli nel ridimensionamento del ruolo del coro. Quel coro che doveva intendersi «come causa della tragedia e del tragico in genere» appare ora «come qualcosa di fortuito», solo più «come una reminiscenza dell’origine della tragedia». Qui però si introduce un’osservazione forse sottovalutata in quella che è divenuta l’interpretazione ortodossa del ruolo assegnato da Nietzsche ad Euripide: se è vero che le fasi della «distruzione» del coro «si susseguono con spaventosa rapidità in
Euripide, in Agatone e nella commedia nuova», è anche vero che una «perplessità» riguardo al coro già comincia a manifestarsi con Sofocle: «un segno importante che già in lui il terreno dionisiaco della tragedia comincia a sgretolarsi». Già Sofocle non considera più il coro come protagonista ma, al più, alla pari con gli attori, «come se venisse sollevato dall’orchestra e portato in scena» (GT, III,I, 96-97). Più oltre, è ancora ad uno «spirito antidionisiaco, ostile al mito», che Nietzsche attribuisce l’affermarsi, «da Sofocle in poi» (von Sophokles ab), della rappresentazione di caratteri individuali. Anche in questo caso inizia da Sofocle un percorso destinato a concludersi nella commedia nuova: se egli «dipinge ancora caratteri interi, aggiogando il mito al loro raffinato sviluppo», Euripide «dipinge ormai solo grandi tratti caratteristici», mentre nella commedia attica nuova «ci sono soltanto maschere con una sola espressione» (GT, III,I, 116). Questa linea di sviluppo degenerativo – che fissa il «coro dei Satiri» come terminus a quo e legge la forma storica della tragedia come una tappa intermedia verso il dissolvimento nella commedia nuova – viene proposta nella Nascita della tragedia in forma alquanto attenuata;; ma nelle conferenze, già ricordate, che Nietzsche tiene a Basilea il 18 gennaio e il 1o febbraio 1870, essa è affermata in modo più deciso. La degenerazione appare qui piuttosto come un destino al quale Euripide finisce col soggiacere nel {p. 76}
tentativo di sottrarre la tragedia al suo decadimento[34]. Non Euripide soltanto, ma anche Sofocle e addirittura lo stesso Eschilo sono parte di questo destino. Nella conferenza su Socrate e la tragedia Nietzsche attribuisce ad Euripide la consapevole presa d’atto di un declino che questi riconoscerebbe proprio in Eschilo e Sofocle. Questa consapevolezza si origina dalla constatazione della spaccatura prodottasi tra la tragedia e il suo pubblico: «Ciò che per il poeta era stato la cosa più alta e difficile non veniva affatto sentito come tale dallo spettatore, bensì come qualcosa di indifferente» (ST, III,II, 31)[35]. Ad Euripide Nietzsche riconosce implicitamente il merito di aver colto lo smarrirsi del carattere originario e profondo della tragedia: la sua natura di dramma musicale, nel quale la musica aveva la prevalenza sulla parola e l’azione. Nella conferenza su Il dramma musicale greco appaiono già fissati i caratteri originari della tragedia precedenti lo sviluppo eschileo-sofocleo: essa non si curava «dell’agire – il δρᾶμα – bensì del patire, il πάϑος »;; nella sua origine, la tragedia non era «se {p. 77}
non una lirica obiettiva, un canto che si levava da uno stato di determinati esseri mitologici, i quali si presentavano nei loro costumi» (GMD, III,II, 18-19)[36]. Proprio questo carattere è ciò che lo spettatore dell’epoca euripidea non è più in grado di cogliere. Da qui nasce il tentativo di Euripide di sanare questa frattura, traendo dalla «incongruenza tra l’intenzione poetica e l’effetto» l’esigenza di una ritraduzione in chiave razionale della struttura della tragedia, secondo la legge «tutto dev’essere razionale, affinché tutto possa venir compreso» (GMD, III,II, 31-32). Il mito, i caratteri, la struttura drammaturgica, la musica e il linguaggio stesso debbono pertanto essere tradotti nella nuova estetica socratica di Euripide. Siamo con ciò giunti al capo d’imputazione nel quale culmina la Nascita della tragedia, e al quale essa deve in gran parte la sua fama: la tragedia è morta per mano di Socrate, di cui Euripide non è che la maschera. Dioniso viene cacciato dalla scena tragica «da una potenza demonica che parlava per bocca di Euripide»;; questa nuova divinità «non era Dioniso e neanche Apollo, bensì un demone di recentissima nascita, chiamato Socrate»(GT, III,I, 83). Il parallelo Euripide-Socrate è però stabilito con fermezza già in Socrate e la tragedia. Qui Euripide vie-ne definito «il poeta del razionalismo socratico», il cui principio estetico (poiché egli è d’altronde «il primo drammaturgo che segua coscientemente un’estetica», che sostituisca cioè la riflessione all’istinto creativo), che suona «tutto dev’essere cosciente, per essere bello», è costruito su quello socratico «tutto dev’essere cosciente, per essere buono» (ST, III,II, 34-35). Anche in questo caso, tuttavia, occorre andare al di là della vulgata più ovvia. Parlando di Socrate, Nietzsche non intende evidentemente un personaggio storico determinato, quanto piuttosto una tendenza che, per un verso, affonda le sue radici nella tradizione ellenica, mentre per {p. 78}
l’altro – per quanto paradossale possa sembrare – porta alla luce un elemento anti-ellenico. Il paradosso si spiega col fatto che Socrate rappresenta l’unilateralizzazione di un elemento caratteristico della natura ellenica: quella «misura»,μέτρον, di cui abbiamo già parlato;; considerata unitamente all’elemento antagonista sul quale si esercita, essa costituisce la specifica natura greca;; considerata come isolata e assoluta, si rovescia nel non-ellenico. So-crate rappresenta quest’ultimo caso: in lui «ha preso corpo uno degli aspetti della grecità, ossia quella chiarezza apollinea, senza alcuna mescolanza estranea»;; egli annuncia, come «araldo», quello sviluppo della scienza «che doveva del pari nascere in Grecia»;; ma scienza e arte sono opposti inconciliabili, e Socrate denuncia nel suo aspetto la propria estraneità alla natura ellenica: è significativo che egli «fosse il
primo grande Greco a essere brutto» (ST, III,II, 40). Nella Nascita della tragedia Nietzsche revocherà questo avvicinamento di Socrate all’apollineo, ma terrà ferma tuttavia la designazione di Socrate come principio: Socrate è, più propriamente, il «socratismo» o «il socratico» (das Sokratische). Quel che si manifesta nell’opera di Euripide non è più il contrasto tra dionisiaco e apollineo, ma un «nuovo contrasto»: «il dionisiaco e il socratico», e la tragedia muore a causa di esso (GT, III,I, 83). Ora, se il socratismo è l’unilateralizzazione di un aspetto che è, in sé, tuttavia già presente nella natura greca, esso si presenta indipendentemente dalla figura storica di Socrate: «Il socratismo è più antico di Socrate: il suo influsso dissolvitore sull’arte si fa già notare molto tempo prima». Non suona più paradossale, a questo punto, che l’ambito in cui questo principio si manifesta sia la tragedia stessa;; e ciò in quanto in essa, a un dato punto del suo sviluppo, l’aspetto originariamente lirico e musicale (il πάϑος) viene sostituito dall’azione (il δρᾶμα) e dal dialogo. Il che avviene «dopo l’intervento di una coppia di attori, cioè relativamente tardi» (ST, III,II, 40). Stando alla notizia di Aristotele (Poet., 1449 a 16), colui che introduce il secondo attore è Eschilo. Pur se Nietzsche non ne fa {p. 79}
il nome, è una deduzione ovvia che il processo di decadimento e morte della tragedia inizino proprio con lui. Quel prevalere dell’elemento riflessivo che verrà imputato interamente a Euripide – a Euripide «come pensatore», dotato di un «talento critico» che lo rende per certi versi simile a Lessing, e che ha «continuamente fecondato un impulso creativo e artistico secondario» (GT, III,I, 80) –, segna in realtà in modo caratteristico l’intera storia della tragedia attica[37]. È un dato di fatto che Nietzsche non {p. 80}
possa tuttavia esimersi dal rilevarlo nello stesso Sofocle. La preminenza del dialogo – per Nietzsche una «contesa verbale, che proveniva dall’atrio del tribunale» – pone l’una contro l’altro la commozione propria del genuino dramma lirico-musicale e il piacere suscitato dallo scioglimento dialettico del nodo tragico. La compassione retrocede «di fronte all’evidente piacere suscitato dallo stridore delle armi dialettiche». L’eroe tragico si trasforma in «eroe della parola» e, leggendo «una tragedia di Sofocle», si ha la sensazione che i suoi personaggi «periscano non già per l’elemento tragico, bensì per una superfetazione dell’elemento logico (an einer Superfötation des Logischen)» (ST, III,II, 41)[38]. Il che è quanto avviene, in tutta la sua paradigmaticità, nella vicenda di Edipo, il cui «no-do processuale [...], indissolubilmente aggrovigliato per l’occhio mortale, viene lentamente districato – e la più profonda gioia umana ci invade per questa divina analogia della dialettica (bei diesem göttlichen Gegenstück der Dialektik)» (GT, III,I, 65). Se dunque il nesso tra riflessione e tragedia viene definitivamente alla luce in Euripide, il quale volle rivelare in se stesso «l’opposto del poeta irragionevole» presentandosi come «il poeta del socratismo estetico» (GT, III,I, {p. 81}
88), risulta evidente, dopo quanto detto, che questo nesso coinvolge in realtà l’intero sviluppo della tragedia nella sua forma storica. Vista sotto questa luce, la stessa stretta relazione che Nietzsche stabilisce tra Euripide e Socrate è destinata a riflettersi, a ritroso, sull’intera forma-tragedia. Il socratismo, appunto, è più antico di Socrate e, prima di Socrate, si manifesta proprio nella dialettica tragica. Com’è noto, Nietzsche spinse la sua interpretazione del rapporto Socrate-Euripide fino ad avallare la notizia, letta in Diogene Laerzio (II, 5, 2), di un Socrate che «usava aiutare Euripide a poetare» (GT, III,I, 89)[39]. Che egli prenda {p. 82}
per buona questa notizia dev’essere letto nel quadro della tensione oppositiva che egli sta costruendo con sguardo polemico puntato sul presente. Radicandosi, attraverso il supposto rapporto con Euripide, nella storia stessa della tragedia, Socrate ne rovescia e stravolge il senso fino a produrre un risultato che contraddice apertamente le radici del tragico. Ciò, tuttavia, non smentisce affatto che la dialettica abbia le sue radici nel tragico, ma ne costituisce anzi una prova ulteriore: «Qui il pensiero filosofico cresce al di sopra dell’arte, costringendola ad abbarbicarsi strettamente al tronco della dialettica»;; l’apollineo si è trasformato nello «schematismo logico», imbozzolandosi in esso come in una crisalide (in den logischen Schematismus hat sich die apollinische Tendenz verpuppt). Se il modello conclusivo di questa dialettica tragica è l’eroe euripideo, il quale «deve difendere le sue azioni con ragioni e controragioni», l’eroe nuovo, che si afferma dopo che il passaggio si è interamente consumato – dopo cioè che il tragico si è interamente eclissato nella dialettica –, è Socrate, «l’eroe dialettico del dramma platonico», e proprio in Platone il processo trova il suo esito finale: egli «ha fornito a tutta la posterità il modello di una nuova forma d’arte, il modello del romanzo»[40];; in questa sorta di «favola esopica infinitamente sviluppata» la poesia «vive rispetto alla filosofia dialettica in un rapporto gerarchico
simile a quello in cui per molti secoli la stessa filosofia ha vissuto rispetto {p. 83}
alla teologia, cioè come ancilla»(GT, III,I, 95)[41]. Questo esito pone in ogni caso la dialettica in opposizione mortale con la radice da cui essa si è pur tuttavia sviluppata: trionfa ora «l’elemento ottimistico» della dialettica, «che celebra in ogni conclusione la propria festa gioconda». Penetrato nella tragedia, questo elemento ottimistico «è destinato a invaderne a poco a poco le regioni dionisiache e a spingerla necessariamente alla distruzione di sé – fino al salto mortale nello spettacolo borghese». L’ottimismo della dialettica dissolve il fondamento metafisico della col-pa e del dolore;; distrugge quel pessimismo in cui all’epoca, ancora d’accordo con Schopenhauer, Nietzsche coglie il significato della tragedia. In quelle che giudica le tre massime fondamentali dell’ottimismo socratico – «‘‘La virtù è il sapere;; si pecca solo per ignoranza;; il virtuoso è felice’’» – Nietzsche individua le ragioni della morte della tragedia (GT, III,I, 95-96). Al Satiro, l’essere semi- animalesco che è espressione diretta dell’ineluttabilità del dolore, si sostituisce ora Socrate, «il tipo di una forma di esistenza prima di lui mai esistita, il tipo dell’uomo teoretico» (GT, III,I, 99). Nell’ottimismo socratico, che ha debellato il pessimismo del Satiro[42], Nietzsche vede la vittoria di {p. 84}
una «idea illusoria» che accomuna immediatamente So-crate al senso della scienza moderna. Perché questo è indubbiamente, per lui, il significato di Socrate e del socratismo: l’inaugurarsi di una stagione dello spirito che ha il suo esito ultimo nella moderna supremazia della scienza. Quel che viene al mondo «per la prima volta nella persona di Socrate» è «quell’incrollabile fede che il pensiero giunga, seguendo il filo conduttore della causalità, fin nei più profondi abissi dell’essere, e che il pensiero sia in grado non solo di conoscere, ma addirittura di correggerel’essere». È questa la «sublime illusione metafisica» che la scienza possiede come un «istinto» (GT, III,I, 100-101)[43]. {p. 85}
Ed è un istinto che si contrappone ad un altro istinto: quello originario che si manifesta nell’accoglimento del dolore e che ha la sua espressione nel dionisiaco e nella musica. Socrate ha vissuto forse una sola volta la lotta tra questi due istinti: quando, in sogno, gli appare il demone che lo esorta a darsi alla musica. Nietzsche rilegge questa pagina del Fedone platonico (60 e 4 ss.) in una chiave ovviamente diversa: la finale decisione di Socrate a comporre musica nonostante egli pensi che proprio la sua filosofia sia la musica più alta, testimonia del fatto che anche nell’animo del pensatore logico si introduce evidentemente «una perplessità sui limiti della natura logica», fino a supporre che esista «un regno della sapienza da cui la logica è bandita» e che l’arte possa essere «addirittura un correttivo e supplemento necessario della scienza» (GT, III,I, 97-98)[44]. Questa interpretazione dell’episodio del Fedone, certo non in linea con l’esegesi platonica ortodossa, riveste forse un significato più importante di quanto non sia stato notato. L’interpretazione nietzscheana è infatti giocata, a livello implicito ed esplicito, sul fatto che Socrate è devoto ad Apollo – come testimoniano le sue ripetute affermazioni di intendere la filosofia come un «servizio» (λατρεία) reso al dio, appunto Apollo (cfr. per esempio Apol. 23 c) – e che, pertanto, l’esortazione a darsi alla musica, sebbene comunicata da un demone, non può in qualche modo non richiamarsi ad Apollo, il dio della musica. Il sogno (che per Nietzsche è già di per sé un elemento apollineo) è dunque una «visione apollinea del fatto che, come un re barbarico, egli non riusciva a comprendere una nobile immagine di un dio e correva il rischio di peccare contro la sua divinità» (GT, III,I, 98). Ora la musica, come ben sappiamo, ha tuttavia per Nietzsche una più originaria natura dionisiaca. {p. 86}
Che il massimo sforzo musicale di Socrate consista nel mettere in versi «alcune favole di Esopo» (ibidem;; cfr. Phaed. 61 b 6) – che cioè la musica venga in questo caso ridotta a puro rivestimento di una verità già formata concettualmente – offre a Nietzsche un’ulteriore testimonianza del fatto che l’apollineo, privato della sua essenziale relazione con l’antagonista dionisiaco, si chiude nella crisalide del principio logico. Ma la perplessità di Socrate, e la sua decisione di comporre comunque musica per liberarsi di quello scrupolo (cfr. Phaed. 61 b), è sufficiente ad indicare a Nietzsche una possibilità ulteriore per la musica e per l’arte, al di là della filosofia e della scienza. La musica non è dunque soltanto l’ambito originario – dionisiaco – che l’umanità ha abbandonato con la vittoria del principio logico, ma indica altresì il cammino sul quale essa dovrà tornare a mettersi. Questo schema, che percorre per intero la Nascita della tragedia, verrà esplicitato da Nietzsche nel 1886, nella nuova prefazione – che egli intitola Tentativo di autocritica – alla terza edizione del libro, e verrà espresso nella celebre formula «vedere la scienza con l’ottica dell’artista e l’arte invece con quella della vita» (GT, III,I, 6). Questa formula, tuttavia, appare qui epurata del motivo che ne era stato l’originario ispiratore. Nella Nascita della tragedia la nuova via per la musica e l’arteera indicata da Wagner. È nel Gesamtkunstwerk wagneriano che Nietzsche vede la possibile rinascita del dionisiaco. Quello che nella Prefazione a Richard Wagner – l’introduzione che apriva la prima edizione[45], poi sostituita dal Tentativo di autocritca – si dichiarava essere l’intento del libro, e cioè
dimostrare «con quale serio problema tedesco noi abbiamo a che fare» (GT, III,I, 19), viene indicato, nel corpo del libro, come il risvegliarsi del «fondo dionisiaco dello spirito tedesco» che trova espressione {p. 87}
nella «musica tedesca», nel suo «corso solare da Bach a Beethoven a Wagner». Contro questo «demone insorgente da inesauribili profondità» niente potrà «il socratismo assetato di conoscenza dei nostri giorni» (GT, III,I, 131). Spetta dunque alla musica, dionisiacamente rinnovata grazie a Wagner, sancire la fine del socratismo e aprire una nuova era. Il messianismo nietzscheano, che troverà in seguito altri temi e sbocchi, assume qui tonalità entusiastiche: Sì, amici miei, credete con me alla vita dionisiaca e alla rinascita della tragedia. Il tempo dell’uomo socratico è finito: inghirlandatevi di edera, prendete in mano il tirso e non vi meravigliate che la tigre e la pantera si accovaccino carezzevolmente ai vostri ginocchi. Ora osate essere uomini tragici: giacché sarete liberati. Accompagnerete il corteo dionisiaco dall’India alla Grecia! Armatevi a dura lotta, ma credete ai miracoli del vostro dio! (GT, III,I, 136-137)[46].
Che la riscoperta della tragedia greca come dramma musicale fosse guidata dalla necessità di dare fondamento e dignità culturale all’opera wagneriana, Nietzsche lo aveva dichiarato apertamente già nel finale del Dramma musicale greco. La descrizione della tragedia come opera unitaria alla quale concorre una molteplicità di attività artistiche (musica, danza, canto, poesia) corrisponde totalmente all’idea wagneriana del Gesamtkunstwerk[47], nel quale il {p. 88}
dramma antico è destinato a rinascere: Costrizione unita alla grazia, molteplicità non disgiunta dal-l’unità, parecchie arti nella loro più alta attività e tuttavia una sola opera d’arte: ecco il dramma musicale antico. Chi peraltro, nel considerare quel dramma, si sente richiamato all’ideale dell’odierno riformatore dell’arte [cioè Wagner], dovrà al tempo stesso confessare che quell’opera d’arte dell’avvenire non è affatto uno splendido, ma illusorio miraggio: ciò che noi speriamo dall’avvenire un tempo fu già realtà, in un passato che è più di duemila anni lontano da noi (GMD, III,II, 24).
Questa rinascita necessita tuttavia di una premessa filologica: la tragedia greca dev’essere liberata, innanzitutto, dai modi dell’interpretazione e della rappresentazione moderne. La tradizione ci ha consegnato la tragedia attica soltanto come «dramma parlato»;; proprio l’elemento musicale – al quale era consegnato per Nietzsche l’essenziale pathos tragico e dionisiaco – è per noi completamente perduto. Supporre che il poeta antico potesse ottenere l’effetto tragico soltanto col mezzo della parola significa sottovalutare quell’effetto: egli poteva raggiungerlo «in ogni momento come musicista creatore»[48]. Ma il «predominio dell’effetto musicale» noi possiamo ricostruirlo «solo per via erudita» (GT, III,I, 112-113). Accanto alla wa {p. 89}
gneriana musica dell’avvenire viene qui indicato il compito di una – tutta nietzscheana – filologia dell’avvenire. Sull’accento che Nietzsche pone sulla preminenza dell’elemento musicale si incrociano la sua formazione schopenhaueriana e l’influenza di Wagner. È forse ozioso discutere quale dei due condizionamenti abbia la precedenza. È un fatto che, per Nietzsche, Wagner è, in quanto a questo, un fedele interprete di Schopenhauer. L’affermazione schopenhaueriana della musica come «metafisica»e «cosa in sé» «rispetto a ogni apparenza» è per Nietzsche la concezione «più importante di tutta l’estetica» e, ancor più, il fondamento di un’estetica nuova non più basata sulcriterio della bellezza. È questo il contributo determinante e il «suggello» che Wagner imprime sull’estetica schopenhaueriana con il suo scritto su Beethoven (GT, III,I, 106). Il capitolo 16 della Nascita della tragedia contiene una lunga citazione dal primo volume del Mondo come volontà e rappresentazione (GT, III,I, 107-109) il cui punto focale è certamente costituito dall’affermazione che la musica «non è, a differenza della altre arti, una riproduzione del fenomeno, o, più esattamente, dell’adeguata oggettità (Objektität) della volontà;; è immagine diretta della volontà in se stessa, e quindi esprime l’elemento metafisico del mondo fisico, l’in sé di ogni fenomeno»[49]. La stessa classificazione delle arti – che apre la Nascita della tragedia assegnando ad Apollo «l’arte dello scultore»[50] e a Dioniso «l’arte non figurativa della musica» (GT, III,I, 21) – rivela l’impianto schopenhaueriano, che Nietzsche traduce assegnando alla volontà oggettivata il nome di Apollo e alla volontà in sé quello di Dioniso. Tuttavia, la posizione nietzscheana non è mai riducibile ad una semplice traduzione in simboli della filosofia di Schopenhauer;; e questo riguarda anche la valutazione della musica. Nel commentare la lunga citazione del capitolo 16, {p. 90}
Nietzsche si sente costretto a correggere il maestro stabilendo una connessione necessaria tra la musica come «cosa in sé» e il mondo della forma: «Noi comprendiamo dunque la musica come linguaggio immediato della volontà e sentiamo la nostra fantasia stimolata a dar forma a quel
mondo di spiriti che ci parla» (GT, III,I, 109). Questa è una conseguenza di ciò che Nietzsche intende come la dimensione specificamente greca del dionisiaco che, come già sappiamo, necessita sempre di essere mediato dalla «misura» (μέτρον). Che l’uomo greco abbia concepito la musica «come un’arte apollinea» ha la sua spiegazione nel suo bisogno di difendersi dallo «spavento» e dall’«orrore» suscitato in lui dalla «musica dionisiaca»;; nella musica apollinea «è tenuto cautamente lontano, come non apollineo, proprio l’elemento che costituisce il carattere della musica dionisiaca» (GT, III,I, 29). Poiché il dionisiaco in sé altro non è che dissolvimento, nessuna arte, neppure la musica, può avere in esso il suo esclusivo principio. Il ruolo del dionisiaco è quello di uno stimolante;; l’eccitazione che ne nasce è destinata a scaricarsi in immagini che funzionano come un argine a difesa contro la sua stessa forza dissolvente. Così, l’effetto specifico della tragedia musicale viene definito da Nietzsche come un «inganno apollineo»: grazie ad esso «dobbiamo essere salvati dall’immediato unificarci con la musica dionisiaca, quando la nostra eccitazione musicale può scaricarsi in una sfera apollinea, con la frapposizione di un mondo intermedio visibile» (GT, III,I, 156). Già in precedenza Nietzsche aveva esemplificato questo processo dello scaricarsi in immagini mediante un’analisi della musica a torto definita descrittiva. Con implicito riferimento alla sinfonia n. 6 (Pastorale) di Beethoven, egli osserva che nella formula «composizione mediante immagini» – come avviene quando il compositore «ha designato una sinfonia come pastorale» –, queste ultime devono essere intese come «rappresentazioni simboliche, nate dalla musica», e non come «oggetti imitati dalla musica». Le immagini sono appunto il risultato dello scaricarsi dell’eccitazione dionisiaca: «la musica si scarica in immagini». In questo mondo visibile intermedio {p. 91}
Nietzsche include la stessa definizione schopenhaueriana della musica come volontà. Se fosse in effetti volontà in sé, essa sarebbe nello stesso momento inesprimibile, e quindi «da bandire dalla sfera dell’arte». La musica, pertanto, non è nella sua essenza volontà, ma «essa appare come volontà»(GT, III,I, 48). Il ribadito ruolo dell’apparenza e dell’immagine – ossia dell’apollineo – agisce come un’essenziale correzione della posizione schopenhaueriana. A tal punto Nietzsche difende la specificità antropologica dell’uomo greco, da non esitare a piegare a questa esigenza le basi stesse della propria formazione. Il concetto humboldtiano non è venuto meno: l’uomo greco è il modello rispetto al quale l’uomo della modernità è definibile come controimmagine. Malgrado le correzioni, Schopenhauer e Wagner rappresentano, ancora a quest’epoca, la linea di continuità con l’antico che deve rinascere. La musica è il terreno sul quale questa rinascita deve germogliare. I dioscuri del nuovo spirito tedesco si ergono in simmetrica contrapposizione con coloro che – se vogliamo anticipare un termine che Nietzsche userà più avanti – si presentano come i promotori della décadence: Euripide e Socrate. Questa contrapposizione è la stessa che oppone pathos e dramma, musica e logos. La battaglia che Nietzsche, armato della sua revisione della grecità, si avvia ora a combattere è quella che lo vede opposto, nel nome di Wagner, alla modernità. Quella modernità che, nel segno di una continuità con l’ottimismo socratico, egli riassume nel concetto di alessandrinismo: «Tutto il mondo moderno è preso nella rete della cultura alessandrina e trova il suo ideale nell’uomo teoretico, che è dotato di grandissime forze conoscitive e lavora al servizio della scienza, e di cui Socrate è il prototipo e il capostipite» (GT, III,I, 119). Che la revisione dell’immagine della Grecia sia contestualmente unita agli argomenti che troveranno sviluppo nelle Inattuali, lo prova – forse più esplicitamente di quanto non venga dichiarato nella Nascita della tragedia – il brano che chiude Socrate e la tragedia: «Il dramma musicale è davvero morto, morto per sempre? [...] Questa è {p. 92}
la più seria domanda della nostra arte, e chi come tedesco non comprende la serietà di questa domanda è caduto vittima del socratismo dei nostri giorni». Un socratismo, osserva Nietzsche, che, a differenza di quello antico, non ha neppure il pudore di ammettere di non sapere nulla, «ma che in verità non sa nulla»;; «Questo socratismo è la stampa odierna: non dico una parola di più» (ST, III,II, 45).
5. Filosofia e critica: sull’«inattualità» del genio Questa rinascita dello spirito tedesco trova tuttavia il suo primo avversario proprio in quella che, secondo Nietzsche impropriamente, viene definita cultura tedesca. La più tarda parola d’ordine dello stedeschizzarsi[51] mette già qui le sue radici. La battaglia contro la cultura e la modernità assume i connotati di una sorta di guerra civile dello spirito. L’orgogliosa rivendicazione di quel «serio problema tedesco» annunciato nella Prefazione a Richard Wagner, problema che dev’essere per di più «da noi portato proprio in mezzo alle speranze tedesche» – sebbene {p. 93}
nell’invocazione di uno «spunto vorticoso per un’inversione» –, e che si vena di scoperto
nazionalismo nel riferimento alla guerra franco-prussiana (GT, III,I, 19), cadrà, nel 1886, sotto la sferza del Tentativo di autocritica. Osservandosi a ritroso, Nietzsche si rimprovera «di aver cominciato, in base all’ultima musica tedesca, a favoleggiare della ‘‘natura tedesca’’, come se essa fosse proprio sul punto di scoprire e di ritrovare se stessa» (GT, III,I, 12). Certo, a questa data, lo stesso Wagner – quell’«ultima musica tedesca» – è ormai giudicato un fenomeno solidale con la cultura tedesca nel suo insieme, e quindi con la décadence. Pure, il processo di critica prende le mosse proprio a partire da Wagner, la cui figura, letta sullo sfondo di Schopenhauer, si profila per Nietzsche entro i contorni del «genio». Questo concetto costituisce la lineaguida che salda tra loro la Nascita della tragedia, le conferenze Sull’avvenire delle nostre scuole, le quattro Inattuali e lo scritto, rimasto incompiuto, sulla Filosofia nell’epoca tragica dei Greci.Il Leitmotiv può essere riassunto nella constatazione che la nascita del genio, caratteristica fondamentale della cultura greca, non è più possibile nella cultura moderna;; compito della critica (che Nietzsche identifica immediatamente con la filosofia) è ripristinare quelle condizioni attraverso il ristabilimento di uno stato naturale concepito secondo i criteri prospettati nella Nascita della tragedia. Che Wagner abbia un ruolo fondamentale in questa rinascita lo testimonia, tra l’altro, il bra-no di una lettera che Nietzsche gli indirizza il 20 maggio 1873: per la «piccola scuola» di wagneriani che si è formata a Basilea – Nietzsche cita, oltre a se stesso, Gersdorff, Overbeck, Romundt e Paul Rée – si tratta di «giungere a una visione chiara, che ci permetta di comprendere come mai il Suo genio si è incarnato proprio fra i tedeschi» (Ep, II, 457);; a dispetto, cioè, della situazione attuale della presunta cultura tedesca. La contraddizione che il genio stabilisce con il proprio tempo attuale è all’origine del concetto stesso di inattuale. Questa è la qualità che Nietzsche riconosce a Wagner e Schopenhauer, in quanto inattuali e uomini di genio;; e, pertanto, anche {p. 94}
«educatori». Così Wagner – «l’esempio più possente che abbiamo davanti» – è colui che «mostra come il genio non debba aver paura di entrare nella più ostile contraddizione con le forme e gli ordinamenti esistenti, quando vuole far spiccare in piena luce l’ordine e la verità superiori che in lui vivono» (UBSE, III,I, 374). Mentre la qualità geniale di Schopenhauer consiste nell’aver vinto «dentro di sé il tempo», indicandoci come «possiamo educarci contro il nostro tempo – perché abbiamo il vantaggio di conoscerlo realmente per mezzo suo» (UBSE, III,I, 387-388). Queste espressioni della III Inattuale, Schopenhauer come educatore, sono applicazioni di un concetto teorizzato nella prefazione alla II, Sull’utilità e il danno della storia per la vita. Qui esso viene legato alla necessità di rinnovare gli studi filologici;; dopo aver dichiarato che solo in quanto «allievo di epoche passate, specie della greca», egli è in grado di giungere «a esperienze così inattuali» su se stesso «come figlio dell’epoca odierna», Nietzsche proclama di non sapere «che senso avrebbe mai la filologia classica nel nostro tempo, se non quello di agire in esso in modo inattuale – ossia contro il tempo (gegen die Zeit), e in tal modo sul tempo e, speriamolo, a favore di un tempo venturo (zu Gunsten einer kommenden Zeit)» (UBHL, III,I, 260-261). Essere inattuale, lottare contro il proprio tempo, è la capacità specifica del genio;; che, in quanto tale, appartiene alla natura e ne costituisce nello stesso momento un’eccezione[52]: gli uomini geniali – «coloro che ci sollevano» – vengono designati come «quei non-più-animali, i filosofi, artisti e santi» al cui apparire «la natura, che non salta mai, fa il suo unico salto» (UBSE, III,I, 406). La genialità – lo stesso che l’essere inattuali – ha dun-que a che vedere non con la cultura ma con un modo più profondo e intimo di vivere la natura. In questo senso la genialità inattuale si ritrova sul terreno del dionisiaco: del {p. 95}
resto, la categoria nella quale rientrano i non-più-animali, filosofi, artisti e santi. In un frammento dell’inizio del 1871, che rimanda ad una diversa versione della Nascita della tragedia, Nietzsche aveva indicato nel «genio dionisiaco» l’uomo che dimentica se stesso e si identifica «con la causa prima del mondo»: partendo da quel «dolore primordiale» egli «crea per la propria redenzione il riflesso di quel dolore»;; è questo il processo che dev’essere onorato «nel santo e nel grande musicista: entrambi non sono altro che ripetizioni del mondo, secondi calchi di esso»(10[1], III,III,I, 341). È evidente come la figura del santo, dell’artista-filosofo, riprenda, su altro piano, quella del Satiro barbuto: in luogo della negazione del dolore – che è il modo d’operare della cultura – sta l’accoglimento del mondo e del dolore, che esso contiene, come via di redenzione. È qui già tracciata la via futura del «dire sì alla vita» (Ja-sagen zum Leben). La necessità di questo ritorno alla natura non si configura tuttavia come un semplice programma di azzeramento culturale;; diviene piuttosto il centro attorno al quale si organizza un nuovo ideale educativo che deve trovare forma in un ordinamento scolastico, radicalmente rinnovato, imperniato su una diversa concezione della classicità. È questo il motivo ispiratore dello scritto Sull’avvenire delle nostre scuole, che ben risalta da alcuni frammenti redatti in preparazione delle conferenze. In questo senso Nietzsche spiega il titolo dato alle conferenze, e il suo riferimento agli sviluppi futuri,
con l’intenzione «di predire l’avvenire alla maniera degli aruspici che lo desumono dalle viscere, e inoltre col presupposto che prima o poi l’eterna natura riavrà i suoi diritti» (8[60], III,III,I, 249). La nuova idea di cultura che così si prospetta non è contraddizione della natura, ma suo proseguimento;; essa si salda alla natura avendo come fine la produzione del genio: occorre «portare a compimento il genio per mezzo della cultura» (14[13], III,III,I, 397);; per raggiungere questo fine «non bisogna turbare troppo presto il rapporto ingenuo con la natura» (14[17], III,III,I, 399). {p. 96}
Nell’ordinamento scolastico che viene in tal modo disegnato, Nietzsche tiene accuratamente distinto un ideale di cultura disinteressato – al quale appartiene in senso proprio il concetto di cultura classica – da una cultura asservita ai bisogni del presente. Quest’ultima manifesta la propria sottomissione a fini estranei – dello Stato, della società – mediante il ricorso a strumenti di verifica: «Gli esami con le loro pretese intellettuali di massa garantiscono la sottomissione etica di una massa enorme in vista di un futuro impiego al servizio dello Stato. Chi in questa occasione si dimostra sottomesso, è già segnato» (14[18], III,III,I, 399). Al contrario, la cultura autentica rifiuta ogni asservimento e, quindi, ogni sottomissione ad un fine. Nietzsche enumera queste caratteristiche sotto il titolo La cultura classica: «La cultura suprema è qualcosa di perfettamente inutile: privilegio del genio. Della propria cultura nessuno può usufruire per una professione che gli offra da vivere». Ad illustrare questo ideale di sapere e di vita, anche il vilipeso Socrate torna d’utilità: «Così Socrate si immagina il sapiente, colui che non si fa pagare» (14[15], III,III,I, 398). All’incirca nello stesso periodo, Nietzsche si serve di queste stesse motivazioni per fornire una legittimazione della schiavitù come forma economica su cui poggiava il mondo antico. In occasione del Natale 1872 invia a Cosima Wagner un quaderno contenente Cinque prefazioni per cinque libri non scritti, la terza delle quali reca il titolo Lo stato greco. Qui egli ribadisce che la capacità dei Greci di produrre il genio si basava sull’esistenza di una classe privilegiata che doveva essere «sottratta alla lotta per l’esistenza». A questa classe appartengono l’arte e il genio. In quanto è soprattutto «veritiero bisogno di arte», e dunque di una produzione non assoggettata a finalità pratiche, la cultura si appoggia sulla «base terribile» della «vergogna»: vale a dire sulla circostanza che «la stragrande maggioranza degli uomini dev’essere al servizio di una minoranza, dev’essere sottomessa [...] alla schiavitù dei bisogni impellenti della vita». Per questo «la schiavitù rientra nell’essenza di una cultura». Queste «mura della cultura» ri {p. 97}
schiano ora di crollare per «l’urlo della compassione» che il socialismo – ma ancor prima il cristianesimo – leva contro di esse. Quest’urlo non è però che l’esplicitazione di una falsa coscienza della cultura stessa che, «lasciva Cleopatra, getta ancor sempre le perle più preziose nella sua aurea coppa: queste perle sono le lacrime di compassione per lo schiavo e per la sventura dello schiavo» (CV, III,II, 226-228).
6. Contro David Strauss: per una critica del «filisteismo colto» La cultura ha dunque come proprio fine una sorta di autosmascheramento che consente di recuperare lo stato di natura. In questo senso, ogni cultura autentica è essenzialmente critica e, in quanto tale, filosofia. La «vittoria» della cultura è sempre e soltanto illusoria: «al contrario è necessaria la lotta contro di essa» (26[19], III,III,II, 180). Queste parole, alle quali può certamente essere assegnato un senso incondizionato, rinviano in realtà alla precisa situazione storica nella quale si radica la critica nietzscheana alla cultura nazionale tedesca. L’obiettivo della I Inattuale, David Strauss, l’uomo di fede e lo scrittore, è quello di distruggere la lingua e lo stile del teologo liberale David F. Strauss, celebrato dai critici come esempio di un nuovo classicismo tedesco. Questo obiettivo viene però proiettato da Nietzsche sullo sfondo della formazione del Reich bismarckiano. Non è di scarso significato che – come nel caso della Prefazione a Richard Wagner, ma con tutt’altra intenzione – egli torni a fare riferimento alla guerra franco-prussiana. In un lungo frammento preparatorio della primavera del 1873 la sua posizione è enunciata con chiarezza: la vittoria della Germania sulla Francia, che essa deve esclusivamente alle proprie capacità militari, è stata travisata come una vittoria della cultura tedesca sulla cultura francese;; e si è con ciò prodotta l’illusione che esista realmente qualcosa come una cultura tedesca. A riportare la vittoria sono stati in realtà «severa disciplina {p. 98}
militare, superiorità scientifica dei comandanti, unità e obbedienza dei comandati, insomma in sostanza elementi che non hanno niente a che fare con la cultura». Che Nietzsche non partecipi degli entusiasmi politici del suo tempo, e non ne condivida gli obiettivi, è evidente: «Ancora una
vittoria come questa e l’impero tedesco è un fatto, ma il carattere tedesco è distrutto!». Questo «carattere tedesco» può essere definito soltanto dalla cultura;; ma l’attuale cultura tedesca è ben misera cosa, se può essere osannato come esempio di una nuova classicità, e addirittura come «il miglior stilista dei nostri tempi», uno scrittore come David Strauss (26[16], III,III,II, 177-179). Questo punto dev’essere sottolineato con decisione: ciò che a Nietzsche interessa colpire non sono tanto le posizioni dello Strauss teologo, quanto le sue presunte qualità di scrittore[53]. {p. 99}
Dietro questa intenzione dichiarata se ne nasconde tuttavia un’altra, che costituisce l’occasione esteriore dello scritto, e che bene serve ad illustrare quanto Nietzsche si mostri prono, in questo periodo, ai desideri di Wagner. L’«Anti-Strauss» (lettera a Wagner del 20 maggio 1873, Ep, II, 458) gli viene infatti sollecitata direttamente da Wagner per una serie di circostanze che non vanno esentida tratti di meschinità. È da notare che Nietzsche doveva aver inizialmente espresso una qualche simpatia per le idee del teologo liberale. Ma Wagner aveva con questi una vecchia ruggine. Quando egli viene chiamato a Monaco dal giovane re Ludwig II di Baviera, ciò provoca il risentimento del direttore d’orchestra Franz Lachner, a Monaco fin dal 1836, il quale chiede già nel 1863 di esser messo a riposo, e nel 1868 tiene polemicamente il suo concerto dicommiato. È a questo punto che il prestigioso David Friedrich Strauss prende pubblicamente le difese di Lachner. Wagner non è tipo da dimenticare l’affronto. Tanto più che, nel 1872, Strauss pubblica una nuova opera, La vecchia e la nuova fede, che gli vale un rinnovato e straordinario successo. Di quest’opera la critica e l’opinione pubblica sottolineano soprattutto lo stile chiaro, asciutto e conciso. Dopo avergli dedicato dei sonetti satirici che restano senza risultato, Wagner pensa bene di incaricare il giovane amico filologo – il quale aveva dimostrato, con le conferenze Sull’avvenire delle nostre scuole, di sapere che cosa dovesse intendersi per «educazione tedesca» – di un sistematico lavoro di distruzione. Quando Nietzsche si reca in visita presso Wagner a Bayreuth l’incarico è prontamente accettato[54]. Non passa molto tempo dalla morte di Strauss, l’8 febbraio 1874. Benché sia ancora soggetto all’infatuazione wagneriana, Nietzsche si rende conto del gioco a cui si è prestato. L’11 febbraio 1874 scrive all’amico Gersdorff: «Ieri a Ludwigsburg c’è stato il funerale di David Strauss. Spero vivamente di non {p. 100}
avergli reso impossibile l’ultimo periodo della vita, e che sia morto senza saper nulla di me. Questo fatto mi turba un poco» (Ep, II, 503). Nonostante gli intenti palesemente adulatorii, con la I Inattuale – cosa che vale del resto anche per la seconda – siamo di fronte ad una delle migliori opere di Nietzsche. Sia o non sia Strauss l’esemplificazione rispondente di ciò che si vuol colpire, è un fatto che l’obiettivo è individuato con chiarezza. Questo obiettivo si chiama «filisteismo colto»;; vale a dire, la falsa cultura dietro la quale la classe borghese cerca la propria legittimazione. L’attacco di Nietzsche parte da una chiara presa di posizione politica: la vittoria sulla Francia ha condotto alla pericolosa illusione che, insieme alle armi tedesche, abbia vinto anche ciò che viene a torto stimata come cultura tedesca. Questa vittoria è in realtà una «disfatta» che conduce all’«estirpazione dello spirito tedesco a favore dell’‘‘impero tedesco’’» (UBDS, III,I, 167). Ora, si chiede Nietzsche, «che genere di uomini dev’essere giunto a dominare in Germania» (UBDS, III,I, 173) perché questo sia potuto accadere? Un genere d’uomini che ragiona sulla cultura anziché produrre cultura, che ha la scienza come suo modello piuttosto che l’arte, che tiene in conto l’opinione dei molti, la serve e se ne serve. In breve, «tutti quelli che opinano con la pubblica opinione»: «Questa potenza, questo genere di uomini, voglio chiamarli per nome – sono i filistei colti (Bildungsphilister)». Il termine filisteo, spiega Nietzsche con cura, è preso dal gergo studentesco, nel quale sta a significare «il contrario del figlio delle Muse, dell’artista, del vero uomo di cultura». Ma il filisteo colto si differenzia ulteriormente dal filisteo in generale per una sua specifica «superstizione» (Aberglaube): «egli stesso si illude di essere figlio delle Muse e uomo di cultura» (ibidem). Il Bildungsphilister spaccia dunque per cultura ciò che cultura non è: una cultura meramente riproduttiva in luogo dell’arte, della cultura produttiva. Se l’occasione che sta all’origine dello scritto è, come abbiamo visto, wagneriana, i contenuti sono decisamente schopenhaueriani: al di là di Strauss, il vero obiettivo è l’uomo di cultura – e, più {p. 101}
esplicitamente, il filosofo – concepito hegelianamente come funzionario statale e amministratore dello stato di fat-to. È scopertamente Hegel quell’«autore» la cui «professione di fede filistea» inventò «una formula per la divinizzazione della quotidianità: parlò della razionalità di tutto ciò che è reale, ingraziandosi in tal modo il filisteo colto [...] che tratta la sua realtà come la misura della ragione nel mondo» (UBDS, III,I, 178).
La «cultura produttiva» a cui Nietzsche fa riferimento è manifestamente costruita sul modello degli studia humanitatis. L’esempio da seguire è ancora quello indicato da Humboldt. I duri attacchi a cui egli sottopone lo scritto di Strauss nel capitolo finale dell’Inattuale non sono probabilmente da prendere sul serio. È penosamente oltraggioso che Nietzsche definisca sbagliata la costruzione dei periodi del testo straussiano imputando all’«orecchio adulto dello scribacchino» il fatto che questi non percepisca le proprie durezze stilistiche (UBDS, III,I, 249). Ma, se l’applicazione è quella che è, la premessa è degna di nota: l’accusa di aver «profanato» la lingua tedesca e «il mistero di tutta la nostra natura germanica» (UBDS, III,I, 242) porta comunque in primo piano la questione della lingua. Come si ricorderà[55], già nelle conferenze Sull’avvenire delle nostre scuole Nietzsche aveva insistito sulla centralità della lingua e sul lavoro dei poeti sulla lingua materna. Nel frammento preparatorio all’Inattuale, già citato in precedenza, egli si sofferma significativamente sul problema: di fronte alla «crisi» genarata nella cultura dalla vittoria sulla Francia occorre attenersi «alla lingua tedesca che in verità è l’unica che fino ad oggi sia riuscita a salvarsi, attraverso tutte le mescolanze di nazionalità e i mutamenti di tempi e di costumi». È compito della scuola conservare questa unità guardando all’esempio di quei «nostri grandi autori» (che nelle conferenze venivano citati per nome: Schiller e Goethe) i quali «hanno una funzione sacra, essendo a guardia di questa lingua». Che la lingua {p. 102}
si sia salvata viene tuttavia attribuito da Nietzsche a una virtù intrinseca alla lingua stessa: «Penso che debba risiedere nel linguaggio una magia metafisica che genera unità da pluralità, che rende omogeneo quanto è composito»(26[16], III,III,II, 178). È il chiaro esempio di un’adesione ancora intatta al concetto di unità humboldtiano. Concetto che si ripresenta, nel testo dell’Inattuale, in quello che viene proposto come il modello di cultura opposto al Bildungsphilister: «Cultura (Kultur) è soprattutto unità di stile artistico (Einheit des künstlerischen Stiles) in tutte le manifestazioni vitali di un popolo». L’eccesso di sapere e di erudizione si rivela dannoso alla cultura autentica, e costituisce semmai il suo contrario: la «barbarie» (Barbarei), che è «la mancanza di stile o la caotica confusione di tutti gli stili»[56]. Sempre in sintonia con Humboldt, in questo carattere caotico viene individuata l’essenza del moderno: «quella moderna varietà di colori da fiera» che i dotti tedeschi «dovranno poi per parte loro considerare e formulare come il ‘‘moderno in sé’’» (UBDS, III,I, 171). In più di un passo Nietzsche insiste su questo concetto;; ciò di cui manca la vita pubblica e privata della Germania del suo tempo è l’«impronta (das Gepräge) di una cultura produttiva e piena di stile» (UBDS, III,I, 172);; e «la vera cultura presuppone in ogni caso unità di stile» (UBDS, III,I, 174). Al punto che in questa definizione dello stile come carattere unitario («impronta») che determina la natura di una civiltà e di una nazione (Volk) può essere riconosciuta l’acquisizione fondamentale della I Inattuale. {p. 103}
7. «Stile» e «grande stile». Un excursus La riflessione sul concetto di stile non è episodica nell’opera di Nietzsche;; dall’idea dell’unità di stile nascerà più tardi il concetto di «grande stile» (grosser Stil)[57]. L’osservazione di questa linea di continuità ci consente di individuare già qui la coerenza che lega il pensiero delle Inattuali alla successiva riflessione nietzscheana. Come il concetto di stile, quello di grande stile appartiene solo nominalmente alla storia dell’arte. Così come per il concetto di «misura» (μέτρον) applicato all’uomo greco, anche il grande stile – che del resto gli è affine – rimanda piuttosto ad una dimensione antropologica. All’idea di stile Nietzsche annette di per sé un’attitudine semplificatrice che consente un’adeguata espressione degli stati d’animo: si tratta, in breve, di una vera e propria economia dell’espressione. In questo senso, nel secondo volume di Umano, troppo umano, nella parte intitolata Il viandante e la sua ombra, egli differenzia nell’af. 148 il «grandioso» (grossartig) dal «grande» (groß): «Si impara più presto a scrivere in modo grandioso che a scrivere in modo lieve (leicht) e semplice (schlicht)» (MAM II, IV,III, 195). Leggerezza e semplicità sono indirettamente definite come le qualità del grande stile. Ma queste stesse qualità appartengono anche al bello, come si deduce dalla definizione di grande stile che viene data, nella stessa sezione, nell’af. 96: «Il grande stile nasce quando il bello (das Schöne) riporta la vittoria sull’immane (das Ungeheuere)» (MAM II, IV,III, 181). Nietzsche intende evidentemente per «immane» (ungeheuer, «mostruoso») ciò che non è riconducibile alla logica della semplificazione unitaria e che, pertanto, non può trovare espressione adeguata. Il contesto che spiega queste affermazioni è deducibile dal lungo aforisma che, nella sezione di Umano, troppo umano intitolata Opinioni e sentenze diverse, tratta dello «stile {p. 104}
barocco» (af. 144). «Lo stile barocco – scrive Nietzsche – nasce allo sfiorire di ogni grande arte,
ogni volta che le esigenze nell’arte dell’espressione classica sono diventate troppo grandi». Questo stile è dominato da un eccesso di passioni: «cielo e inferno del sentimento sono troppo vicini»;; l’espressione, non potendo commisurarsi ai suoi contenuti, cade essa stessa nell’eccesso: in luogo di leggerezza e semplicità troveremo qui «l’eloquenza delle forti passioni e gesti, del brutto- sublime, delle grandi masse, soprattutto della quantità in sé». Nondimeno, lo stile barocco è da apprezzare proprio in quanto riesce a convertire in virtuosismo i suoi eccessi, funzionando come una sorta di scaricamento catartico. Questo apprezzamento non è tuttavia immune da una sorta di «melanconia» che deriva dal-la consapevolezza di una perdita;; lo stile barocco manca «della superiore nobiltà di quell’unica innocente, inconsapevole, vittoriosa perfezione»: quella che l’umanità ha conosciuto con l’espressione greca. Così, malgrado tutto, può dirsi fortunato «ognuno il cui sentimento non sia da esso reso insensibile allo stile più puro e più grande (für den reineren und grösseren Stil)» (MAM II, IV,III, 56-57). La definizione di grande stile appare dunque giocata sul rapporto di passioni ed espressione. Proprio questo punto consente la migrazione del concetto dal terreno storico-artistico a quello antropologico. Possedere il grande stile significherà, per il singolo individuo, ottenere tramite le leggi economiche della leggerezza e della semplicità il dominio sulle proprie passioni. In questo senso, il grande stile rappresenta l’essenza dello stile in generale, e non vi è dunque soluzione di continuità tra le due tematiche. Così, ancora nel Viandante e la sua ombra, Nietzsche definisce lo «stile migliore» quello «stato d’animo dell’uomo commosso nel profondo del cuore, spiritualmente lie-to, chiaro e sincero, che ha superato le passioni» (MAM II, IV,III, 179). Su questo argomento Nietzsche torna più diffusamente nell’af. 290 della Gaia scienza: «Dare uno stile» al proprio carattere: è un’arte grande e rara. L’esercita colui che abbraccia con lo sguardo tutto quanto {p. 105} offre la sua natura in fatto d’energie e debolezze, e che inserisce quindi tutto questo in un piano artistico, finché ogni cosa non appare come arte e ragione, e perfino la debolezza incanta l’occhio (FW, V,II, 167).
Plasmare il proprio carattere non è cosa diversa dal plasmare una cultura o un popolo. Se torniamo al contesto della I Inattuale, è facile osservare che come in quel caso la stilizzazione operava contro il carattere caotico e dispersivo del moderno, così ora si tratta di determinare l’indeterminato dandogli una forma;; il che può realizzarsi soltanto quando esso riceve l’«impronta» dell’unità e della semplificazione: Infine, quando l’opera è compiuta, si rivela che fu la costruzione imposta da uno stesso gusto a dominare e a plasmare nel grande come nel piccolo: se il gusto era buono o cattivo, ha me-no importanza di quel che si pensi – è sufficiente che esso sia un gusto unitario! (Ibidem)
È proprio delle «nature forti e dominatrici» saper godere del vincolo di questa disciplina come di una legge che esse danno a se stesse;; in tal modo «la passionalità del loro possente volere si addolcisce allo spettacolo di ogni natura stilizzata, di ogni natura vinta e ridotta in servitù» (ibidem). In quanto vittoria su ciò che appare più difficile da dominare – le passioni –, il grande stile trapassa gradatamente nel concetto di dominio e mostra significative affinità con la dottrina della volontà di potenza. Con questa caratteristica esso si ripresenta nelle ultime opere nietzscheane. Nel Crepuscolo degli idoli (af. 11) si legge questa definizione ricapitolativa, che segna nel contempo il passaggio alla tematica della potenza: Il senso supremo della potenza e della sicurezza prende espressione in tutto ciò che ha grande stile. La potenza che non ha più bisogno di dimostrazione: che disdegna di piacere;; che difficilmente dà una risposta;; che non si sente circondata da testimoni;; che, senza averne coscienza, vive del fatto che esista una contraddizione contro di essa;; che riposa in se stessa, {p. 106} fatalisticamente, una legge tra le leggi: questo parla di sé nella forma del grande stile (GD, VI,III, 115).
La stessa impostazione ritorna in un frammento della primavera del 1888, intitolato «Musica» e il grande stile, che rappresenta forse la formulazione più celebre dell’argomento[58]. Il passo restituisce in modo paradigmatico l’i {p. 107}
tinerario che l’idea di grande stile percorre trasferendosi da un terreno specificamente artistico ad uno più generale. L’interrogativo al quale Nietzsche si sforza di rispondere è quello relativo alla ragione per cui la musica, a differenza delle altre arti, non ha raggiunto il grande stile: «Perché un musicista non ha mai costruito finora come l’architetto che creò il palazzo Pitti?». Riprendendo argomentazioni già svolte in Umano, troppo umano, Nietzsche risponde che la musica, essendosi sviluppata nel suo senso moderno dopo la grande arte rinascimentale (che qui costituisce il modello del grande stile), è già nella sua natura «arte della decadenza»: è «un Controrinascimento»[59]. La
musica raggiunge il suo apice nell’età del romanticismo, che a questa data Nietzsche intende come «movimento di reazione alla classicità»[60]. Se Beethoven è«il {p. 108}
primo grande romantico», Wagner è «l’ultimo grande romantico»: «tutt’e due istintivi avversari del gusto classico, dello stile severo». Queste conclusioni derivano dalla definizione del grande stile, data preventivamente da Nietzsche: «Dominare il caos che si è (über das Chaos Herr werden, das man ist), costringere il proprio caos a diventare forma: a diventare logico, semplice, univoco, matematica, legge» (14[61], VIII,III, 37-39). È questo il tratto che unisce il grande stile alla «grande passione». Ancora una volta, il riferimento va alla dimensione del singolo. Dominare il proprio caos, divenirne signori (Herr werden), è la caratteristica antropologica di una nuova umanità[61] che trova nella grande arte classica il prorio modello. Se il lessico artistico fornisce originariamente il termine stesso di grande stile, ora l’arte si ripropone come l’esemplificazione del processo che ha il grande stile come risultato. Classico e grande stile finiscono, in questo senso, col coincidere;; quanto più forti sono gli stati d’animo da sottomettere, tanta più forza ne riceve la legge che li sottomette: questa è l’opera del classico non meno che del grande stile. In un frammento dell’autunno 1887, sotto il titolo Aesthetica, Nietzsche scrive: «Per essere un classico, si deve: / avere tutte le doti e i desideri forti, apparentemente contraddittori;; ma in modo che si intreccino sotto un solo giogo». L’esemplarità del classico impedisce tuttavia che queste caratteristiche possano essere intese come limitate al singolo individuo[62]: questi deve «ri {p. 109}
specchiare nelle più intime profondità della propria anima uno stato complessivo (si tratti di un popolo o di una cultura)» (9[166], VIII,II, 86). Stile e grande stile sono i concetti nei quali si riassume ciò che Nietzsche intende {p. 110}
come cultura autentica – o, per usare i suoi termini, «superiore»;; essi costituiscono il Gegenbegriff rispetto al filisteismo colto. Su di essi si incentra la critica nietzscheana della modernità;; grande stile indica concentrazione, concinnitas, laddove modernità suggerisce dispersione e mancanza di chiarezza. Al grande stile viene affidato, in ultima analisi, il compito di resuscitare l’ideale greco. In questo modo esso si salda definitivamente con il μέτρον.In un frammento della primavera 1887 si afferma: «Il senso e il piacere della sfumatura (la vera e propria modernità), di ciò che non è generale, va contro l’istinto che trova il suo piacere e la sua forza nel riconoscere il tipico: come il gusto greco dei tempi migliori». Ciò non costituisce affatto un impoverimento della vita, ma al contrario la sua esaltazione;; nel mettere da parte ciò che è marginale si esprime «un dominio sulla pienezza della vita», e dunque una capacità di poterne godere appieno: «la misura pre-vale»;; «ciò che è saldo, potente e solido, la vita che riposa larga e possente e cela la sua forza – ciò ‘‘piace’’» (7[7], VIII,I, 276). {p. 111}
8. La «malattia storica» Si può vedere nella I Inattuale il perno sul quale Nietzsche fa forza per volgersi alle tematiche che lo occuperanno di lì in avanti. È significativo che già in questo scritto si trovi un accenno di critica della morale. Negli ultimi anni della sua vita – e dunque proprio nello scritto su La vecchia e la nuova fede, che è oggetto della critica nietzscheana – Strauss andò sostituendo la concezione hegeliana che lo aveva originariamente ispirato (e per la quale la verità della religione non poteva essere nulla di diverso dalla verità della filosofia, con la sola differenza dell’espressione in immagini e miti) con una concezione naturalistica ispirata a Darwin. Con un’osservazione significativa, che sembra rivolta alle posizioni che egli assumerà nel giro di pochi anni, Nietzsche rimprovera a Strauss di non essere un darwiniano in tutto e per tutto conseguente: «Qui c’era un’occasione di mostrare naturale coraggio». Il nostro teologo «avrebbe potuto dedurre arditamente, dal bellum omnium contra omnes e dal diritto del più forte, precetti morali per la vita»;; ma questo sarebbe potuto accadere in realtà «solo in un animo intimamente intrepido, come quello di Hobbes» (UBDS, III,I, 205);; ossia, di un filosofo. Strauss non può giungere in generale a conclusioni, e me-no che mai a conclusioni sul piano della morale, perché egli è e resta un erudito, uno studioso;; e, come Nietzsche osserverà nella III Inattuale, «uno studioso (ein Gelehrter) non può mai diventare un filosofo» (UBSE, III,I, 438). Una morale che fosse coerentemente dedotta dalle premesse darwiniane, che fosse cioè «un’etica darwinistica genuina» (UBDS, III,I, 206), sarebbe l’opposto della morale del filisteo: Strauss ritiene che l’essere uomini poggi sui presupposti dell’uguaglianza e dell’universalità della natura umana, che il disegno finalistico sotteso alla natura sia la rivelazione della bontà divina. Questa non è che un’interpretazione filisteisticamente consolatoria delle teorie di Darwin: in quanto l’essere umano è «un essere assolutamente naturale», egli ha potuto evolversi
«proprio per il fatto di aver dimenticato in ogni momento che gli {p. 112}
altri esseri simili avevano gli stessi diritti», di essersi fatto valere come esemplare più forte contro esemplari più deboli. Qui Nietzsche, ben al di là di Strauss, attacca a fondo quella tradizione che, da Leibniz a Kant, fa coincidere sviluppo della natura e saggezza divina: dal fatto che tutto discenda «secondo leggi eterne da un’unica fonte originaria di vita»[63] non segue affatto il bene come presupposto e come effetto;; da essa discendono anche «ogni morte, ogni irrazionalità, ogni male». La «assoluta conformità del mondo alle leggi naturali» non significa che queste leggi possiedano anche un «valore etico o intellettuale»: una conclusione del genere rappresenterebbe un’interpretazione arbitrariamente antropomorfica di quella che resta soltanto una legge di natura (UBDS, III,I, 207-208). Insomma, il presupposto della bontà come fine e fondamento resta in Strauss una petitio principii e, da darwiniano inconseguente, egli non riesce a giustificare la propria posizione di principio. Per questo egli rimane niente più che un predicatore, per il quale «predicare una morale è tanto facile quanto è difficile fondare una morale» (UBDS, III,I, 206). Fondare una morale presuppone la conoscenza dell’origine dei valori, avere coscienza del bisogno che essi soddisfano. Su questa strada Nietzsche si metterà a parti-re da Umano, troppo umano. L’incapacità straussiana di essere conseguente, di trarre conclusioni sul piano della filosofia, non è un fatto casuale: essa rivela l’autentica spina dorsale del filisteismo colto. Il Bildungsphilister vuole attenersi ai fatti, si accontenta di descriverli;; la sua disciplina d’elezione è la storia intesa come esercizio distaccato di una soggettività non coinvolta. Quel «nuovo vangelo» che Strauss pretende di proporre «si definisce solo come il risultato faticosamente raggiunto di una continua indagine sulla storia e sulla natura» (UBDS, III,I, 201). Il suo errore è perciò duplice: da un lato egli ricorre a questa idea disincarnata di storia;; ma {p. 113}
poi, dall’altro, non rinuncia a riporre un valore non solo in ciò che «ha vissuto o indagato o visto, bensì perfino in ciò che ha creduto». Ora, «chi può aver bisogno della professionedi fede diunRanke odiun Mommsen»? (UBDS, III,I, 183). Strauss non riesce dunque ad essere neppure un Bildungsphilister coerente. Quest’ultimo vede nella storia un modo per togliere alla cultura i suoi aspetti inquietanti: essa è l’occupazione prediletta della «gente comoda» (die Behaglichen), quella che cerca «di trasformare in discipline storiche tutte le scienze da cui c’erano forse da aspettarsi ancora turbamenti per la comodità, specialmente la filosofia e la filologia classica». La «coscienza storica» salva il filisteo colto dall’«entusiasmo»;; intendere tutto storicamente significa «nil admirari» (UBDS, III,I, 178). Sono, queste, chiare anticipazioni degli argomenti che verranno trattati nella II Inattuale, Sull’utilità e il danno della storia per la vita. In una lettera del 18 settembre 1873 Nietzsche ne dà l’annuncio a Wagner e la lega, in qualche modo, alle proteste seguite alla pubblicazione dello scritto contro Strauss[64]. In un frammento della primavera-autunno 1873 la fisionomia dell’argomento risulta già precisata: «La storia – indebolisce l’azione e rende {p. 114}
ciechi rispetto al carattere esemplare, confondendo con l’affastellamento. / Energia dissipata, applicata a ciò che è del tutto passato.La malattia storica è nemica della civiltà [...] Non abbiate rispetto della storia, bensì coraggio di farla!» (27[81], III,III,II, 208). Un altro frammento dell’estate-autunno dello stesso anno rivela come sia ancora l’idea di «stilizzazione» quella che sollecita Nietzsche a porre la necessità del confronto con il passato. Ogni conoscenza è mossa per Nietzsche da esigenze che sono poste nel presente;; conoscere il passato deve significare quindi piegare il passato alle richieste del presente, e in questo modo esso viene rimodellato, «stilizzato». «Ogni ricordare – scrive Nietzsche – è un confrontare (Vergleichen), ossia un equiparare (Gleichsetzen) [...] La vita dunque esige l’equiparazione (das Gleichsetzen) del presente col passato;; così che al processo del confrontare si associa sempre una certa violenza e deformazione»[65]. È questa esigenza a tradurre il passato in «classico ed esemplare»: «il passato funge per il presente da archetipo (Urbild)». Del tutto al contrario, quell’atteggiamento che si limita a considerare «il passato come passato» senza «deformarlo o idealizzarlo» viene definito da Nietzsche «istinto antiquario» (der antiquarische Trieb). È la vita a reclamare il «modo classico», mentre il «bisogno di verità» esige quello antiquario. In quest’ultimo il passato perde la propria esemplarità e si trova a tutti gli effetti ridotto a presente, a realtà quotidiana (29[29], III,III,II, 236). Lo schema può essere tradotto con precisione nei termini della I Inattuale: l’istinto antiquario è ciò che ispira la scienza (il «bisogno di verità»), e {p. 115}
consente di togliere al passato l’aspetto inquietante (l’esemplarità del classico) in modo che il presente possa diventare «più soddisfatto di sé» (ibidem, 237). In breve, il modo antiquario di considerare la storia è l’ideale di quella che, nella I Inattuale, Nietzsche aveva chiamato la «gente
comoda» (die Behaglichen): i Bildungsphilister. Avviene così «che un popolo uccida se stesso con la storia» (29[32], III,III,II, 238). La valutazione nietzscheana della storia corre lungo questo crinale che divide la considerazione autentica (la storia che serve alla vita) dalla storia come puro oggetto di cultura e di erudizione, come occupazione del filisteo colto. In ciò hanno la loro motivazione le celebri affermazioni contenute nella prefazione della II Inattuale: «Certo, noi abbiamo bisogno di storia (Historie), ma ne abbiamo bisogno in modo diverso da come ne ha bisogno l’ozioso raffinato nel giardino del sapere». Vale a dire, «ne abbiamo bisogno per la vita e per l’azione, non per il comodo ritrarci dalla vita e dall’azione». «Solo in quanto la storia serva la vita, vogliamo servire la storia» (UBHL, III,I, 259)[66]. Il sapere storico, dunque, non restituisce l’assoluto della realtà dell’uomo;; che in esso si possa discriminare ciò che serve la vita da ciò che non la serve significa che, accanto all’elemento storico, dev’essere considerato, con gli stessi diritti, un elemento non storico.Il«modo non storico» è quello secondo il quale vive l’animale. Il testo {p. 116}
della II Inattuale inizia con un signficativo richiamo al Canto notturno di un pastore errante dell’Asia di Giacomo Leopardi[67];; l’animale vive «legato brevemente con il suo piacere e dolore, attaccato cioè al piuolo dell’istante», mentre l’uomo si meraviglia «di non poter imparare a dimenticare e di essere continuamente legato al passato» (UBHL, III,I, 262). Ma la stessa possibilità dell’esistenza umana è legata alla capacità di dimenticare;; la capacità di distinguere ciò che dev’essere ricordato da ciò che dev’essere obliato è definita da Nietzsche come «la forza plastica di un uomo, di un popolo o di una civiltà», che gli consente «di trasformare e incorporare cose passate ed estranee» (UBHL, III,I, 264-265). Il bisogno vitale (il servire la vita) che dev’essere in questo modo soddisfatto definisce l’esistenza di un individuo o di un popolo, che Nietzsche riassume nel concetto di «orizzonte» (Horizont): «Ogni vivente può diventare sano, forte e fecondo solo entro un orizzonte». La linea di demarcazione tra lo storico eil non storico è indicata dalla finalità superiore che la vita pone a se stessa nel senso del proprio pieno sviluppo;; l’acquistare forza, la «salute», dipende, nell’individuo come nel popolo, dal fatto che ci sia una linea che divide ciò che si può abbracciare con lo sguardo, ciò che è chiaro, da ciò che non è rischiarabile e oscuro;; dal fatto {p. 117} che si sappia tanto bene dimenticare al tempo giusto, quanto ricordare al tempo giusto;; dal fatto che si discerna immediatamente con forte istinto quando è necessario sentire in modo storico e quando in modo non storico [...] ciò che è non storico e ciò che è storico sono ugualmente necessari per la salute di un individuo, di un popolo e di una civiltà (UBHL, III,I, 265-266).
Nietzsche torna più avanti su questo concetto presentando quelli che definisce i «rimedi» (Gegenmittel)–o anche i «veleni» (Giften) in evidente analogia con il termine greco φάρμαχον– contro l’elemento storico: l’«antistorico» (das Unhistorische) e il «sovrastorico» (das Ueberhistorische). Il termine «antistorico» designa «la forza e l’arte di poter dimenticare e di rinchiudersi in un orizzonte limitato» (UBHL, III,I, 351). Vale la pena di soffermarsi brevemente sull’importanza che questo concetto di orizzonte assumerà nella riflessione del più tardo e dell’ultimo Nietzsche. La limitazione disegnata dalla linea dell’orizzonte è ciò in base a cui un individuo – ma anche un popolo o, come vedremo, un organismo – decide quel che è utile o meno al proprio sviluppo, ossia al proprio accrescimento vitale, aumento di forza. L’individuo (il popolo, l’organismo) interpreta l’esistente a partire da ciò che si presenta nel proprio orizzonte. La limitazione implicita nel concetto è in realtà ciò che dà forma alla potenza dell’organismo individuale. L’idea di orizzonte si rivelerà strettamente connessa con il sorgere e lo svilupparsi della dottrina della volontà di potenza. Già in Aurora (af. 117) Nietzsche sviluppa significativamente le premesse poste nella II Inattuale: La mia vista, per debole o forte che possa essere, vede soltanto un tratto in lontananza, ed è in questo tratto che vivo e mi agito;; questa linea d’orizzonte è il mio prossimo, grande e piccolo, destino, cui non posso sfuggire. In tal modo, intorno ad ogni essere sta un cerchio concentrico che ha un punto centrale e che gli è peculiare (M, V,I, 88).
Tutte le nostre misurazioni del mondo non sono che valutazioni a partire dalla «prigione» in cui ci rinserrano i {p. 118}
nostri sensi. Così è per la valutazione della nostra vita («breve o lunga, povera o ricca, piena o vuota») come per quella della vita delle altre creature: «Tutte queste cose altro non sono che errori in sé!» (ibidem). Il riconducimento della conoscenza al concetto di orizzonte evolve, nell’ultimo Nietzsche, nell’idea di «prospettivismo» (Perspektivismus). La distinzione tra verità ed errore
svanisce nella considerazione che ogni valutazione corrisponde al bisogno vitale che ogni organismo percepisce a partire dal proprio orizzonte[68]. Questa considerazione non riguarda tuttavia esclusivamente né il mondo umano né il vivente. Anche la presunta realtà del mondo fisico viene ridotta ad una valutazione prospettica. In un frammento della primavera 1888 Nietzsche osserva che anche l’atomo, postulato dai fisici come realtà ultima, «è ricavato dalla logica del prospettivismo della coscienza ed è pertanto esso stesso una finzione soggettiva». Ogni modo dell’essere possiede una sua specificità, ossia una capacità di «agire e reagire determinatamente così e così»;; specificità che si manifesta nel suo essere prospettico in base al proprio orizzonte. Il prospettivismo è dunque «una forma complessa della specificità». Questa specificità corrisponde per Nietzsche alla volontà di potenza: «La mia idea è che ogni corpo {p. 119}
specifico aspira ad affermare la sua signoria e ad estendere la sua forza su tutto lo spazio (la sua volontà di potenza), respingendo tutto ciò che si oppone al suo espandersi» (14[186], VIII,III, 162- 163). Il modo in cui ogni essere – organico o inorganico – afferma il proprio dominio sulla realtà circostante costituisce il modo in cui esso interpreta tale realtà: «L’interpretazione stessa costituisce un mezzo per impadronirsi di qualcosa. Il processo organico presuppone costantemente L’INTERPRETARE». Il modo stesso in cui l’organismo si trasforma nel corso di questa attività è un modo dell’interpretazione: «Nella formazione di un organo si tratta di una interpretazione». Ora, questa interpretazione non corrisponde alla posizione di un soggetto che interpreta, ma è il soggetto stesso ad essere posto dall’interpretazione. A interpretare, è propriamente la volontà di potenza: «La volontà di potenza interpreta» (2[148], VIII,I, 126)[69]. Se torniamo all’af. 117 di Aurora, possiamo comprendere come, nella relazione tra l’essere e il cerchio concentrico di cui esso è il centro, non il cerchio (l’orizzonte) rappresenti una funzione del centro (il soggetto), ma al contrario il centro sia una funzione del cerchio;; nello stesso senso, il soggetto lo è dell’orizzonte. Cosa che diviene comprensibile invertendo la rappresentazione prospettica;; in un frammento del 1885-86 Nietzsche annota: «‘‘Io’’, ‘‘soggetto’’, come linea di un orizzonte (Horizont-Linie). Rovesciamento (Umkehrung) dello sguardo prospettivistico» (2[67] III,I, 80). Queste osservazioni costituiscono le premesse che spiegano quanto Nietzsche afferma nel frammento della primavera 1887 nel quale, «contro il positivismo, che si ferma ai fenomeni» e crede soltanto nei «fatti» (Thatsachen), egli sostiene che «no, proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni (Interpretationen)». Il che non significa ridurre alla sentenza «‘‘tutto è soggettivo’’»: «già questa è un’interpretazione (Auslegung)». La nozione di soggetto è aggiunta a {p. 120}
posteriori «con l’immaginazione». Dietro l’interpretazione non sta un soggetto che interpreta, ma sta la volontà di potenza. A interpretare il mondo sono i nostri bisogni e i nostri istinti con «i loro pro e contro» (deren Für und Wider);; e «ogni istinto è una specie di sete di dominio, ciascuno ha la sua prospettiva». Se il mondo è in generale conoscibile, esso è però «interpretabile (deutbar) in modi diversi, non ha dietro di sé un senso, ma innumerevoli sensi. ‘‘Prospettivismo’’» (7[60], VIII,I, 299-300)[70]. I concetti di orizzonte, prospettivismo e volontà di potenza risultano, alla fine, inscindibilmente connessi. Ne discende, per Nietzsche, l’illegittimità della scienza, in quanto essa fissa l’essere fisico riducendolo entro un’unica prospettiva. Che, nella II Inattuale, Nietzsche designi con il termine «antistorico» la capacità di chiudersi in un orizzonte esprime già un’intenzione antiscientifica che si applica, peril momento, alla scienza storica. È essa, ossia la «malattia storica», a intaccare «la forza plastica della vita», vale a dire la possibilità di usare liberamente delle facoltà del ricordare e dell’obliare. Contro questa malattia, accanto al-l’«antistorico», dev’esser fatto valere il «sovrastorico», ossia quelle «potenze che distolgono lo sguardo dal divenire, volgendolo a ciò che dà all’esistenza il carattere dell’eterno e dell’immutabile, all’arte e alla religione». La scienza «reputa infatti vera e giusta, ossia una considerazione scientifica, solo la considerazione delle cose che vede dappertutto un divenuto, un elemento storico, e in nessun luogo un ente, un eterno» (UBHL, III,I, 350-351). Viene così distinta una storia «pensata come pura scienza (reine Wissenschaft)» da una «educazione storica» (historische {p. 121}
Bildung) che ammaestra al futuro in quanto è guidata da «una forte corrente vitale nuova». In questo caso, la storia si trova al servizio della vita, e dunque «di una forza non storica, e perciò non potrà né dovrà diventare mai, in questa subordinazione, pura scienza, come per esempio lo è la matematica» (UBHL, III,I, 271-272). Il problema di Nietzsche non è pertanto quello di negare la storia, quanto la sua riduzione a scienza. La storia è uno strumento che serve ad intensificare la vita;; appartiene a una disposizione attiva, creativa;; è in questo senso, affine all’arte. Che, invocando l’elemento «sovrastorico», Nietzsche si rivolga a qualcosa che permane immutabile, ha un senso precisamente indirizzato
contro la concezione storica della modernità. La contrapposizione storicosovrastorico corrisponde alla contrapposizione storia-mito accennata nella Nascita della tragedia. Qui il mito[71] viene definito una «immagine concentrata del mondo (das zusammengezogene Weltbild), che, come abbreviazione dell’apparenza, non può fare a meno del miracolo (Wunder)». Per la sua stessa natura, dunque, il mito si sottrae al tempo e quindi alla storia. Lo «spirito critico-storico» della modernità ha tuttavia dissolto il potere del mito rendendolo accessibile soltanto per il tramite dell’erudizione. In questo modo, assieme al potere fondativo del mito, è andato perduto – e cioè è stato reso astratto – ciò che esso fonda: la civiltà e lo Stato: «solo un orizzonte delimitato da miti può chiudere in unità tutto un movimento di civiltà (eine ganze Culturbewegung)»;; e, quanto allo Stato, esso «non conosce leggi non scritte che siano più potenti del fondamento mitico, il quale garantisce la sua connessione con la religione» (GT, III,I, 151). Come si vede, è ancora in gioco il concetto humboldtiano di unità, che viene in questo caso assegnato al mito. Come sappiamo, è la perdita di questo concetto a caratterizzare la modernità: «L’enorme bisogno storico della cultura moderna {p. 122}
insoddisfatta, l’affastellarsi di innumerevoli altre culture, la divorante volontà di conoscere» rimandano «alla perdita del mito, alla perdita della patria mitica, del mitico grembo materno» (GT, III,I, 152). La capacità, che fu propria solo dei Greci, di considerare ogni evento, anche il presente, nella sua congiunzione col mito consentì loro di glorificare il presente: di non ridurlo all’elemento transeunte in quanto in esso e per esso il passato rivive costantemente. Passato e presente vengono in questo modo sottratti alla considerazione storica. Il presente viveva per i Greci «sub specie aeterni e in certo senso come senza tempo (zeitlos)»: «In questo fiume di ciò che è senza tempo si tuffava tanto lo Stato quanto l’arte, per trovarvi riposo dal peso e dalla brama del momento». Il presente veniva così «smondanizzato» (entweltlicht): il contrario di quella «decisa mondanizzazione» (entschiedene Verweltlichung) che un popolo conosce quando «comincia a concepirsi storicamente» (GT, III,I, 154). Questo è appunto il segno della modernità: «una frivola divinizzazione del presente oppure un ottuso e intontito distacco, tutto sub specie saeculi, dell’‘‘epoca d’oggi’’ (der ‘‘Jetztzeit’’)» (GT, III,I, 155). Queste osservazioni sul mito sono da porsi sotto lo stesso segno della riflessione che, nella II Inattuale, produce il concetto di «sovrastorico». Entrambi questi concetti non indicano tanto una dimensione atemporale che contraddica la realtà della storia, quanto un’attitudine modellizzante in grado di riplasmarla. Nietzsche ammette che, se la storia deve servire la vita, quest’ultima ha tuttavia «bisogno del servizio della storia» (UBHL, III,I, 272). A partire da questa ammissione, egli propone tre specie di storia nelle quali questo servizio si compie: una storia «monumentale»(monumentalische), una storia «antiquaria»(antiquarische) ed una storia «critica»(kritische). Delle tre, è la monumentale quella che rivela l’affinità più diretta con quelle funzioni che nella Nascita della tragedia erano assegnate al mito. Essa è la disciplina dell’«attivo» e del «potente», di colui che vuol trarre dalla storia ammaestramenti, ossia «incitamenti a imitare e a far meglio»;; il {p. 123}
contrario di coloro che si inerpicano «sulle piramidi dei grandi eventi del passato» come «viaggiatori curiosi o meticolosi micrologi» (UBHL, III,I, 272-273): gli storici e gli scienziati in genere. La storia monumentale si contrappone dunque alla storia come reine Wissenschaft: è ad essa che Nietzsche pensa evidentemente quando propone la possibilità di una Bildung storica. Questo carattere monumentale si manifesta nella possibilità di ricavare dalla storia degli esempi che valgono eternamente: essa rappresenta «la cresta montuosa dell’umanità» (UBHL, III,I, 273). Questo valere in eterno, tuttavia, non stabilisce una mera negazione del tempo, quanto piuttosto – in quella che è forse una prima anticipazione della dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale – una capacità di ritornare eternamente. Dalla considerazione monumentale del passato l’«uomo d’oggi» deduce «che la grandezza, la quale un giorno esistette, fu comunque una volta possibile, e perciò anche sarà possibile un’altra volta» (UBHL, III,I, 275). Vista da qui, l’idea dell’eterno ritorno non ubbidisce ad un’esigenza di negare in assoluto la storia, ma ad un bisogno che è esso stesso storico in senso più profondo[72]. Si tratta, per Nietzsche, di gettare le premesse per un ritorno del mondo greco (nel quale, esemplarmente, quella grandezza era stata possibile) in un modo, tuttavia, che sia inscindibilmente legato alla condizione dell’«uomo d’oggi». Solo in questo senso la sua concezione della storia può divenire il fondamento di una critica della cultura e della modernità, senza svilirsi in un’arcadica e sterile rievocazione del passato. In questa prospettiva, le altre due specie di storia sembrano aspirare ad obiettivi più ridotti. La storia antiquaria appare mossa dalla pietas verso le testimonianze del passato. Ne abbisogna «colui che custodisce e venera», che vuol prepararsi «un nido familiare» in «ciò che è piccolo, limitato, decrepito e invecchiato», ma verso cui egli è in debito della propria esistenza (UBHL, III,I, 280).
Anche {p. 124}
in questo caso è la vita a reclamare il bisogno di storia;; anche in questo caso è l’esigenza posta nel presente a guidare l’interesse per il passato. Ma la limitatezza degli obiettivi della storia antiquaria[73] nasconde il pericolo che l’amore per il passato finisca col prevalere, col risultato di rifiutare tutto ciò che nel presente non si accorda più con esso. In questo caso, col sacrificio del «nuovo» e di «ciò che diviene», alla vita non vengono più riconosciuti i suoi diritti. La pietas degenera fino a soffocare la vita stessa. Il senso storico cede il passo alla «cieca furia collezionistica», e lo storico antiquario «scende così in basso, che alla fine è contento di ogni cibo e mangia di gusto anche la polvere delle quisquilie bibliografiche» (UBHL, III,I, 283)[74]. L’uomo creativo, l’uomo che agisce, non può portare eccessivo riguardo verso il passato: non può sacrificare il nuovo per esso. Egli «violerà e deve violare qualche pietà». Per questo, l’agire storicamente nel senso della vita e {p. 125}
del presente richiede un terzo modo d’essere dell’atteggiamento storico: la storia critica. L’uomo «deve avere, e di tempo in tempo impiegare, la forza di infrangere e di dissolvere un passato per poter vivere». Per far questo, egli deve trascinare il passato «innanzi a un tribunale», interrogandolo e condannandolo;; perché «ogni passato merita invero di essere condannato» (UBHL, III,I, 284). Questa sentenza è pronunciata con riguardo non alla giustizia ma, ancora una volta, alla vita. Torna, qui, il tema già incontrato della prima e della seconda natura[75], che Nietzsche affronta ora in relazione al rapporto con la tradizione. Giudicare criticamente, condannare il passato significa disconoscere noi stessi come sua discendenza. Significa impiantare una «seconda natura» in luogo di una «prima»: questo «è un tentativo di darsi per così dire a posteriori un passato da cui si vorrebbe derivare, in contrasto con quello da cui si deriva». Anche il modo critico di considerare la storia trova qui il suo punto debole che conduce alla degenerazione, «perché le seconde nature sono generalmente più deboli delle prime». In questa degenerazione, tuttavia, la storia critica conquista un punto di vista superiore che è anch’esso storico nel suo intimo carattere. Nessuna natura può dirsi infatti «prima» in senso assoluto: «Anche tale prima natura è stata una volta, quando che sia, una seconda natura», e «ogni seconda natura che vinca diventa una prima natura» (UBHL, III,I, 286)[76]. {p. 126}
Ogni volta che la storia, in qualunque delle sue specie, eccede il bisogno reale che la reclama e che essa deve soddisfare, inizia per Nietzsche una degenerazione del bisogno stesso in malattia. L’effetto di questa degenerazione è che un’astrazione viene posta in luogo della realtà del bisogno. La modernità è caratterizzata dall’instaurarsi della forma suprema dell’astrazione: quella «che l’uomo moderno designa con strana superbia come l’‘‘interiorità’’ (Innerlichkeit) a lui propria» (UBHL, III,I, 288). Il rilievo che l’interiorità assume costituisce un’astrazione in quanto presuppone una divisione dell’uomo in interiorità ed esteriorità, per ridurre poi alla prima l’uomo stesso nella sua globalità. Contro questa degenerazione nell’astrazione dev’esser fatto valere, tanto nella vita degli individui quanto in quella dei popoli, il concetto humboldtiano di unità:
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Carlo Gentili Nietzsche
CAPITOLO TERZO
L’«ILLUMINISMO» DI NIETZSCHE. LA FUNZIONE DELLA SCIENZA E LA CRITICA DELLA MORALE 1. Rottura o continuità? Antropologia critica, genealogia storica, critica dell’ideologia L’ipotesi di un Nietzsche «illuminista» è stata oggetto di costante dibattito nella storia della ricezione della filosofia nietzscheana. È divenuta quasi un luogo comune l’affermazione secondo cui, con Umano, troppo umano, Nietzsche inaugura una nuova fase del suo pensiero. Questa nuova fase sarebbe caratterizzata da un più esplicito e diretto interesse per la speculazione filosofica. Che ad essa possa essere anche applicata l’etichetta di «illuminismo» dipende da un essenziale ampliamento di questo concetto. Nietzsche ha in effetti riflettuto a lungo e ripetutamente sul valore e il significato dell’illuminismo storico. Abbozzi e progetti in questo senso si trovano numerosi nei Frammenti postumi, specie in quelli dell’ultimo periodo. L’ipotesi corrente è che la sua critica dell’illuminismo storico ne riprenda l’ispirazione smascherante per rivolgerla, innanzitutto, contro l’illuminismo stesso. Per giungere a questo risultato Nietzsche si appoggerebbe ora alla scienza, che egli giudica una anti-metafisica in grado di distruggere quei sogni e quelle illusioni che furono, nel contempo, il fondamento e il prodotto della metafisica. In questo senso, nel «secondo» Nietzsche l’interesse per la scienza prenderebbe il posto di quell’interesse per l’arte che aveva mosso la sua «prima» riflessione. Sono questi, grosso modo, i termini in cui la questione viene posta da Eugen Fink nel libro La filosofia di Nietzsche, pubblicato nel 1960. Al dire di Fink, questa nuova impostazione rappresenta una rottura nello sviluppo del pensiero nietzscheano. Questo «secondo periodo» subentrerebbe «di colpo», come «una improvvisa interruzione» {p. 156}
e un «cambiamento radicale» che ha per oggetto il rifiuto delle «formule della metafisica schopenhaueriana» e della «divinizzazione dell’arte wagneriana»[1]. E se Fink si interroga sulla possibilità che questo mutamento rappresenti, piuttosto che la cancellazione delle posizioni precedenti, «una più genuina evoluzione» di quelle stesse posizioni e debba quindi essere vista come «uno sviluppo dell’intuizione iniziale»[2], la risposta finale appare inequivoca: quanto meno «da un punto di vista esteriore, il secondo periodo di Nietzsche è un completo capovolgimento (eine völlige Umkehrung) del primo»[3]. Questo capovolgimento si sostanzia nell’abbandono di quella che Fink definisce «la trinità della comprensione dell’essere» che aveva caratterizzato il primo periodo: «Grecità, Schopenhauer e Wagner»;; e addirittura, dopo le violente critiche della Nascita della tragedia, una riscoperta dimensione socratica – con la conseguente rivalutazione dell’uomo teoretico e della conoscenza – starebbe alla base dell’«enfasi» che contraddistingue Umano, troppo umano[4]. Chiave di volta di questo mutamento è il nuovo atteggiamento che Nietzsche assume di fronte alla scienza. Ma le ragioni con le quali Fink spiega le motivazioni del ricorso nietzscheano alla scienza sono tali da indurre più di una perplessità sull’ipotesi che qui si sia consumata a tutti gli effetti una rottura. «Scienza – scrive Fink – significa per Nietzsche essenzialmente critica»;; la scienza costituisce il tribunale di fronte a cui egli intende trascinare le rivendicazioni della morale, della religione, della metafisica, della cultura per mostrarne il carattere illusorio. Questo giudizio viene dunque condotto come un «processo di disillusione» (Desillusionierung). Scienza significa per Nietzsche «non l’indagine di un settore del {p. 157}
reale, ma la dimostrazione del carattere illusorio di quegli atteggiamenti umani che anche per lui, nel suo primo periodo, costituirono i veri accessi originari all’essenza del mondo»[5]. L’approdo illuministico di Nietzsche avrebbe pertanto, nel contempo, il senso di una revisione delle proprie posizioni precedenti. E in questa conclusione risulta evidente che, se di un mutamento si deve
parlare, esso è tuttavia tale che Nietzsche ricomprende in esso i propri stessi inizi. Il che fa pensare, in ultima analisi, ad un’«evoluzione» piuttosto che ad un «capovolgimento». Nietzsche si serve della scienza come di uno strumento della critica, ma questo uso presuppone un’interpretazione critica della scienza stessa – secondo la stessa distinzione fatta da Fink;; e, quanto al luogo in cui questa idea di critica si forgia, abbiamo visto come essa sia il fondamento implicito della Nascita della tragedia e venga pienamente in luce nelle Inattuali. L’uso critico di una scienza criticamente riconsiderata presuppone una filosofia interpretata come critica della cultura. Il modo stesso in cui Fink ricostruisce le radici della nuova dimensione nietzscheana chiama in causa ragioni di continuità. La novità essenziale starebbe nell’attenzione particolare che ora Nietzsche pone alla definizione del concetto di «uomo»: è a partire dall’uomo che l’interpretazione nietzscheana «muove al resto dell’essere»;; al pun-to che, con Umano, troppo umano, «il pensiero di Nietzsche diventa un’antropologia»[6]. Le radici di questa nuova attenzione stanno tuttavia – secondo quanto lo stesso Fink non può fare a meno di ammettere – nello scritto su La filosofia nell’epoca tragica dei Greci. È qui che – secondo Fink, e in linea con quanto abbiamo in precedenza sottolineato[7]– Nietzsche mostra di intendere i pensieri come «riflessi della storia dell’anima, documentazioni, prodotto di impressioni, sintomi»[8];; e se questo «interesse {p. 158}
antropologico» lo lascia tuttavia «infinitamente lontano dai presocratici»[9], lo scritto a loro dedicato offre testimonianza di un mutato atteggiamento che Fink definisce con il termine di «‘‘sofistica esistenziale’’» (existentielle Sophistik). Questa formula sta a significare che Nietzsche sviluppa la sofistica non sul piano della retorica ma come un’«arte dell’‘‘interpretazione dei segni’’» (Kunst der «Zeichen-Deutung») per la quale le idee non contano più in quanto vere o false ma in quanto «segni che tradiscono un’esistenza»[10]. Alla luce di questa nuova considerazione, lo stesso giudizio negativo dato da Fink in precedenza su La filosofia nell’epoca tragica viene implicitamente riveduto;; proprio nel fatto che Nietzsche «semplifica e deforma in modo rozzo, qualche volta insopportabile» il pensiero dei presocratici sta la forza dello scritto;; quel che conta è che qui «Nietzsche parla degli idoli della sua anima», e che «in ogni pensatore, che egli descrive, mette un frammento della sua vita»[11]. Le figure dei filosofi tragici diventano dunque oggettivazioni di un’immagine ideale che Nietzsche riferisce in primo luogo a se stesso;; e da questo processo di oggettivazione, che ha origine in una forma di attenzione autoriflessa, si sviluppa successivamente quella che Fink definisce come attenzione per l’uomo in generale. La considerazione del rapporto tra l’uomo e le proprie oggettivazioni produce un modo del filosofare che è per Fink, nella sua essenza, storico. L’uomo è in realtà «un prodotto delle circostanze storiche»;; la storia del costu {p. 159}
me, della religione ecc. conserva la testimonianza delle forme nelle quali l’uomo si oggettiva in modo diverso a seconda dell’epoca. Per questa ragione il filosofare dev’essere «analitico e storico e perciò scientifico». Questo modo d’intendere, insieme, la storia e la scienza configura «un tipo di problema e di ricerca critica generale» che differenzia in modo fondamentale l’idea di scienza che Nietzsche ha in mente da ogni modello di scienza positiva[12]. Il filosofare storico conserva in questo senso, per Fink, una caratterizzazione psicologica, sebbene «di una psicologia non più speculativa, ma distruttiva, smascherante». Si tratta, in sostanza, di dedurre ogni «ideale» dal suo «opposto»: «del giusto dall’interesse comune, della verità dall’impulso alla falsificazione e all’illusione, della santità da un sottofondo molto poco santo di impulsi e bramosie di vendetta»[13]. Dunque Fink individua qui, in modo assolutamente preciso, il nesso del filosofare storico con la «genealogia». La sua formazione kantiana – sebbene mediata attraverso Heidegger – gli fa tuttavia pronunciare un giudizio negativo su questo metodo genealogico. Il quale non sarebbe per l’appunto un metodo in quanto si limita ad un approccio psicologico o, anzi, «psicologicheggiante» (psychologisierend): «un esame psicologico vale», per Nietzsche, «come confutazione»;; e ciò lascia da parte «il grado di verità della religione o della metafisica»;; non si tratterebbe, quindi, di nient’altro che di una «sofistica», di una psicologia «esplicativa ab inferiori», della quale occorre parlare soltanto perché Nietzsche esprime la sua filosofia «sempre per mezzo della psicologia, e perciò della sofistica a lui propria»[14]. È un fatto, però, che la necessità di salvaguardare i diritti della metafisica conduce Fink a sottovalutare proprio la caratteristica essenziale di questo filosofare, vale a dire il fatto che esso venga definito come «storico»;; e dunque a tralasciare il carattere extrasoggettivo delle {p. 160}
oggettivazioni, il loro assumere forme che agiscono e non si lasciano semplicemente ricondurre alla psicologia di colui che agisce. L’interpretazione di Fink compromette la stessa possibilità di un «illuminismo» nietzscheano, dato che toglie di sotto ai piedi della critica proprio quegli oggetti ai quali essa intende applicarsi.
Del tutto diverso è il modo in cui il nesso di genealogia e storia è stato colto da Michel Foucault. Che la storia sia concepita come genealogia implica in questo caso un percorso che è l’esatto opposto di quello indicato da Fink. La storia come genealogia richiede un lavoro sulle forme: sui testi, sulle configurazioni, sulla scrittura;; perciò essa esige «la minuzia del sapere, un gran numero di materiali accumulati e pazienza [...] In breve, un certo accanimento nell’erudizione»[15];; e ciò da cui rifugge è la ricerca di quell’origine che pretende di custodire anticipatamente l’essenza di quanto andrà storicamente formandosi[16]. Se ciò vale, per Foucault, innanzitutto a proposito delle «indefinite teleologie», le cose non vanno certo diversamente per una psicologia che – come quella che Fink vede all’opera in Nietzsche – attraverso il suo sostituirsi alla filosofia cerca di mascherarsi giustificandosi entro una più ampia rete di finalità. Uscito nel 1971, il saggio di Foucault non usa mai, a proposito di Nietzsche, il termine «illuminismo»;; ma la sua analisi del carattere geneaologico-storico della filosofia nietzscheana presuppone una critica di quelle concrezioni culturali che pretendono di presentarsi sotto il se {p. 161}
gno dell’identità per occultare il loro essere storicamente divenute. In questo senso, lo scritto di Foucault presuppone tacitamente il senso in cui il termine «illuminismo» veniva usato – con riferimento anche a Nietzsche – nella Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno, e costituisce un’implicita ripresa di questo senso. Va subito notato come Foucault non riduca il metodo genealogico al semplice esito-presupposto dello smascheramento: questo starebbe ancora sotto il segno della metafisica. Nell’uso nietzscheano del termine «origine» Foucault individua un’opposizione tra due diversi significati: da un lato l’origine come Ursprung, ricerca dell’essenza;; dall’altro l’origine come Herkunft, «provenienza», nel senso dell’indicazione del percorso storico dell’esser divenuto. L’idea di smascheramento si dimostra pienamente in linea con la prima accezione del concetto di origine: essa rimanda a un «togliere tutte le maschere, per svelare infine un’identità originaria»;; ma il genealogista accorto – colui che «prende cura d’ascoltare la storia piuttosto che prestar fede alla metafisica» – sa bene che la circostanza che dietro ad ogni cosa vi sia sempre «‘‘tutt’altra cosa’’» non svela il segreto essenziale delle cose, bensì il fatto che esse «sono senza essenza, o che la loro essenza fu costruita pezzo per pezzo a partire da figure che le erano estranee»[17].È da notare come Foucault non sia qui troppo lontano da Fink: anche per lui il metodo genealogico consiste nel dedurre un’idea dal suo opposto;; ma il giudizio di valore diverge proprio in quanto egli abolisce la metafisica come premessa, e vede anzi in essa il primo oggetto sul quale la genealogia deve esercitarsi. I testi sui quali Foucault si basa per ricostruire la critica nietzscheana dell’origine appartengono di sicuro alla produzione del Nietzsche «illuminista»: Umano, troppo umano, Aurora, La gaia scienza, fino alla Genealogia della morale. È singolare, tuttavia, che egli si lasci sfuggire come questa critica sia presente, per lo meno in nuce, già ne {p. 162}
La filosofia nell’epoca tragica dei Greci. Così, se Foucault denuncia come mera superstizione la credenza che attribuisce alle cose la perfezione nella loro origine – l’idea che l’origine sia «sempre prima della caduta, prima del corpo, del mondo e del tempo», mentre, nella realtà, «l’inizio storico è basso»[18]– Nietzsche aveva osservato, a proposito dei primordi della filosofia greca, che si tratta di un problema indifferente, «poiché ovunque inizio significa rozzezza, mancanza di forma, vuoto e bruttezza» (PHG, III,II, 271);; e, se questo implica da parte sua una valutazione negativa in favore, invece, degli «stadi superiori», significa anche, d’altra parte, che la forma viene vista come un risultato che viene raggiunto successivamente, come un prodotto storico, anziché come un’essenza che può essere colta in un’origine incontaminata. Un altro esempio significativo addotto da Foucault è l’applicazione della critica del concetto di origine alla questione dell’identità nazionale dei Tedeschi;; viene citato in proposito l’af. 244 di Al di là del bene e del male, che bene illustra, secondo Foucault, la fecondità storico-genealogica del concetto di Herkunft in luogo di quello di Ursprung[19]. Qui Nietzsche intende denunciare il mito della «profondità» tedesca: «L’anima tedesca è innanzitutto multiforme, di varia origine (verschiedenen Ursprungs), più qualcosa di composito e di sovrapposto che di realmente costruito: questo dipende dalla sua provenienza (Herkunft)». Il mito della razza e della sua presunta purezza, legato ad un’identità già presente in origine, viene in tal modo distrutto, poiché i Tedeschi sono un popolo «risultante dalla più straordinaria mescolanza e da un coacervo di razze, perfino, forse con una predominanza dell’elemento preariano» (JGB, VI,II, 155). Questo mito, tuttavia, risulta già distrutto in partenza nel suo modello di riferimento, quando Nietzsche afferma nella Filosofia dell’epoca tragica il carattere non autoctono della civiltà greca (cfr. PHG, III,II, 271). {p. 163}
Se si aggiungono queste osservazioni alle affermazioni di Foucault, e le si associa alle deduzioni che
abbiamo fat-to a proposito di Fink, ciò che ne risulta è che lo scritto sui filosofi tragici costituisce una cerniera essenziale per il passaggio di Nietzsche alle tematiche «illuministe». A dispetto dei divergenti esiti valutativi, i due autori concordano, di fatto, nel giudicare la genealogia un metodo storico in quanto essa vuol presentarsi, innanzitutto, come scienza. Il genealogista deve, secondo Foucault, «attardarsi sulle meticolosità e sui casi degli inizi»: egli ha bisogno della storia «per scongiurare la chimera dell’origine»[20]. Questo uso della scienza collima con quello che Fink definisce «processo di disillusione». Di esso Foucault dà un eccellente esempio[21] ricorrendo all’af. 49 di Aurora, nel {p. 164}
quale Nietzsche osserva che la sovranità dell’uomo non può più essere affermata ricorrendo alla sua natura divina dopo che la scienza ha stabilito che alla sua origine c’è in realtà la scimmia. L’impraticabilità della via dell’origine abbatte anche ogni ulteriore teleologismo: ciò che non può più essere affermato come inizio non potrà essere affermato neppure come fine;; quel Dio che non sta all’origine dell’uomo non può essere posto come culmine della storia umana: «Alla fine di questa strada c’è l’urna funeraria dell’ultimo uomo e dell’ultimo becchino (con la scritta ‘‘nihil humani a me alienum puto’’)» (M, V,I, 40). Questo esito estremo del processo di disillusione è il presupposto del capovolgimento in positivo che, nello Zarathustra, conduce all’affermazione della terrestrità come orizzonte dell’Übermensch (cfr. Za, VI,I, 6)[22]. Il senso dell’illuminismo nietzscheano starebbe dun-que tutto nel mostrare, attraverso la scienza, l’inconsistenza e l’infondatezza delle edificazioni della religione e della morale. Il sì alla scienza pronunciato da Nietzsche ha per Fink la sua motivazione nel contemporaneo «acuto, tagliente, cattivo rifiuto di ogni forma di idealismo»[23];;e questo rifiuto è pienamente presente nel titolo del libro che introduce questa svolta – Umano, troppo umano –, se-condo la spiegazione che Nietzsche ne dà in Ecce homo: «Il titolo dice ‘‘dove voi vedete cose ideali, io vedo – cose umane, ahi troppo umane!’’» (EH, VI,III, 331). In questo {p. 165}
senso, il primo effetto di questo «illuminismo» è un’azione di smascheramento. Che ciò mantenga sotterraneamente, secondo le puntualizzazioni di Foucault, una prospettiva metafisica, andrà forse messo sul conto di quel poco o tanto che con la metafisica sia Nietzsche sia l’illuminismo non cessano di condividere[24]. È un fatto, in ogni caso, che il primo accostamento di Nietzsche all’illuminismo è stato realizzato proprio nel senso dello smascheramento e nel segno della Ideologiekritik.Sela Dialettica dell’illuminismo è il luogo nel quale questo accostamento si consuma, esso ha in realtà una significativa anticipazione nel decennio precedente. Già nel 1935, con il libro Eredità del nostro tempo, Ernst Bloch sottoponeva al pensiero radicale dell’epoca la possibilità di un esercizio di critica dell’ideologia appoggiato su autori che quel pensiero aveva, fino a quel momento, rifiutato. Tra questi vi è, naturalmente, Nietzsche. E, in quest’ottica, non può sorprendere più di tanto che, anche per Bloch, una rilettura critica di Nietzsche debba prescindere da ciò che egli chiama il sentimento o la nostalgia dell’origine. Il che significa, secondo Bloch, che Nietzsche dev’essere innanzitutto sottratto all’interpretazione irrazionalistica di Ludwig Klages e della sua cerchia. Sognare di un «uomo originario» (Urmensch) in preda alla furia e costantemente «ebbro» è sognare qualcosa che non è mai esistito. Dovunque la natura viene rimessa in luogo della cultura si tratta sempre e comunque di una costruzione {p. 166}
della cultura stessa. L’«uomo originario», dunque, «non è mai esistito come essere cosciente o fin dall’inizio compiuto»;; e ciò che l’uomo si rappresenta come l’«uomo vero» non è mai stato altro che «un problema della sua coscienza». Ciò vale anche per quel dionisiaco nel quale Klages pretende di individuare per l’appunto una condizione umana originaria, e che invece è soltanto «il tentativo di una determinazione, peraltro preceduta e seguita da altre»[25]. In questo, il dionisiaco adempie alla sua funzione autenticamente archetipica. In ogni archetipo, infatti, non si esprime la necessità di un’impossibile ricerca di ciò che sta prima della storia e della cultura, che troverebbe in ciò la sua presunta genuinità e innocenza, ma «il non ancora pensato»[26], il non ancora adempiuto. La ricerca del passato dev’essere creativa, non meramente restaurativa, e dunque proiettata in direzione del futuro. Ciò vale anche per il Satiro e per il dionisiaco di Nietzsche che, in un’interpretazione alla Klages, si riducono a maschere sul volto di una piccola borghesia esausta che pretende di vivere il sogno dello stato di natura. Il merito maggiore di Nietzsche sta per Bloch proprio nella feroce determinazione con cui egli mette la piccola borghesia europea di fronte all’insensatezza delle proprie maschere. L’Übermensch si consente di fare apertamente e senza infingimenti ciò che la borghesia riesce soltanto a immaginare o che deve in ogni caso ammantare di scopi secondari: «Da questo punto di vista, il
superuomo è onesto;; dal suo artiglio non si riconosce il leone, ma il non uomo, dal quale si sa cosa ci si deve aspettare»[27]. E quel che ci si deve aspettare è per Bloch del tutto evidente: l’Übermensch «è già fascismo chiaro come il sole». Nietzsche mette a nudo il sogno della borghesia europea di realizzare l’equivalenza di governo e dominio;; questa e {p. 167}
quivalenza si chiama appunto fascismo. A questa classe e a questo sogno appartiene tuttavia egli stesso;; come dimostra il fatto che egli non riesce ad essere fino in fondo conseguente con il proprio cinismo. Se tale cinismo costituisce, agli occhi di Bloch, il suo merito, questa inconseguenza rappresenta il suo grande demerito. Specchio di questa contraddizione è il contrasto con Wagner, che Bloch riduce a livello di farsa: «Un uomo travestito rimprovera all’altro di fare il commediante». E l’opera in cui Nietzsche cede al pessimo gusto wagneriano della piccola borghesia è lo Zarathustra, che Bloch mette sullo stesso piano del Parsifal. «Nietzsche contro Wagner – scrive Bloch –: quando le spedizioni di Parsifal e di Zarathustra si incontrarono, non si incrociarono solo spade, come voleva Nietzsche, ma anche cortei di maschere»[28]. Nietzsche stesso, se si vuole che torni a manifestare il suo messaggio autenticamente critico, va dunque privato della sua maschera. Questa maschera è quella di Zarathustra, che de-v’essere tolta affinché torni a rivelarsi l’autentico volto di Dioniso, ossia «l’emblema di un soggetto molto generale privo di luogo». Tentativo, come si è detto, di determinazione, Dioniso deve restare tuttavia indeterminato, simbolo di ciò che deve ancora e sempre compiersi, «emblema di ciò che non è avvenuto, di ciò che non è divenuto nell’uomo» e che, come tale, è destinato a ricomparire «all’interno della storia, nei suoi nuovi punti d’avvio e di svolta»[29]. Dioniso incarna insomma il divenire rivoluzionario della storia. In questo modo Bloch riconosce al pensiero di Nietzsche una funzione costruttiva che lo proietta al di là della prestazione esclusivamente negativa della critica. Alla luce della posizione successiva di Horkheimer e Adorno, questo è forse il limite maggiore dell’interpretazione {p. 168}
blochiana. A quella dimensione del pensiero che emancipa l’idea di dominio dalle sue sovrastrutture mitiche e simboliche affinché essa possa affermarsi come autonomamente legittimata, Bloch non assegna un nome. Per Horkheimer e Adorno essa corrisponde alla funzione rischiaratrice del pensiero: alla Aufklärung,all’«illuminismo».Per questo, ogni forma di Aufklärung che rinunci alla propria vocazione negativa per indicare modelli storicamente praticabili entra in contraddizione con se stessa e ipostatizza quell’idea di dominio che solo l’esercizio continuato della critica riesce a smascherare come il motore sotterraneo della storia. Nella prospettiva di Horkheimer e Adorno, Dioniso non potrà mai rappresentare il sogno di un compimento rivoluzionario che si alimenta della coscienza del proprio non esser compiuto, ma, semmai, la preistoria mostruosa nella quale la storia vorrebbe ritirarsi come nel proprio Eden, e che la consapevolezza del divenire spinge vieppiù a sognare man mano che ci se ne allontana. Il nesso che lega preistoria e storia è del tutto analogo a quello che lega mito e illuminismo. La massima fondamentale di quest’ultimo è emblematicamente espressa, per Horkheimer e Adorno, nella celebre affermazione kantiana secondo cui «l’illuminismo è l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità (Unmündigkeit) il quale è da imputare a lui stesso»;; laddove minorità significa «l’incapacità di servirsi del proprio intelletto (Verstand) senza la guida di un altro»;; per cui, conclude Kant, «abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! – è dunque il motto dell’illuminismo»[30].Questa rivendicazione di autonomia dell’intelletto sta a significare, secondo Horkheimer e Adorno, che esso vuol essere «guidato dalla ragione (Vernunft)». E «ragione» significa, {p. 169}
secondo lo schema «illuministico» che essi ricavano dalla Critica della ragion pura, «produrre un ordine scientifico unitario e dedurre la conoscenza dei fatti da principi». Il pensiero dev’essere ricondotto al sistema: «Conoscenza è sussumere sotto principi. Essa fa tutt’uno col giudizio, che incorpora il particolare al sistema. Ogni pensiero che non tenda al sistema è privo di direzione (direktionslos) o autoritario»[31]. Servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro significa che il pensiero deve riconoscersi come autonomo e in grado di dare a se stesso la propria direzione. Per questo l’illuminismo riconosce come proprio compito preliminare la critica della morale;; non essere guidato da un altro vuol dire in primo luogo abolire quei pregiudizi che intendono dare la loro direzione al pensiero. Kant fallisce in quanto intende dare un fondamento alla morale: «Il suo tentativo di dedurre il dovere del rispetto reciproco (die Pflicht der gegenseitigen Achtung) [...] da una legge della ragione, non ha alcun sostegno nella critica». Lo sforzo kantiano di salvare la civiltà, che si pretende fondata sul «rispetto» (Rücksicht), assegnandola ad un principio «che non sia l’interesse materiale e la violenza» rivela l’intento pregiudiziale – e perciò illuministicamente inconseguente – di arrestare la critica a quel limite oltre il quale la civiltà stessa rischia il proprio dissolvimento. L’«ottimismo kantiano», secondo il quale l’agire morale dev’essere razionalmente
preferito anche laddove quello immorale appaia più vantaggioso, è una contraddizione della vocazione critica e negativa dell’illuminismo stesso;; alla base di questo ottimismo sta «l’orrore di fronte al pericolo di una ricaduta nella barbarie»[32]. Questa ricaduta è tuttavia nel destino dell’illuminismo. Il fatto che l’intelletto non debba riconoscere altra guida che la ragione, e che questa implichi l’edificazione del pensiero in sistema – ossia l’instaurazione {p. 170}
di un universale che si ottiene mediante la sussunzione del particolare nell’universale –, viene reso da Kant con l’idea di «schematismo»;; ma questo schematismo rivela la sua «vera natura» nell’accordare «dall’esterno» «universale e particolare, concetto e caso singolo». L’idea dello schematismo kantiano viene di fatto realizzata, secondo Horkheimer e Adorno, nel modello di scienza che fa «l’interesse della società industriale». In tal modo «l’essere è visto sotto l’aspetto della manipolazione e dell’amministrazione». La ragione eretta a sistema si rivela, in ultima analisi, come «l’istanza del pensiero calcolante (kalkulierendes Den-ken)»[33]. Il «canone» di questo pensiero «è la propria cruenta efficienza»[34]. Il tentativo illuminista di liberare l’uomo dalla barbarie, rappresentata dall’assoggettamento di questi alla natura – quella condizione che si riassume nello jus arcaico sancito nel mito –, si conclude in una nuova e aggiornata barbarie che ha la forma dell’assoggettamento dell’uomo all’uomo. È questa, propriamente, la dialettica dell’illuminismo, in cui la liberazione dall’istanza arcaica del mito si rovescia nella riassunzione di questa istanza sotto mutata veste;; mito e illuminismo trovano così la loro continuità dipanando il filo della barbarie, in ossequio alla formula per cui «il mito è già illuminismo, e l’illuminismo torna a rovesciarsi in mitologia»[35]. Questo filo unifica tutta la riflessione etica occidentale, «dalla critica kantiana alla genealogia nietzscheana della morale»[36]. Al di là dello sforzo kantiano di porre un argine alla critica della morale, Horkheimer e Adorno individuano una classe di pensatori che hanno saputo vedere con maggiore lucidità l’esito ineluttabile di questa critica: sono «i foschi scrittori della prima borghesia» (die dunklen Schriftsteller der bürgerlichen Frühzeit) – Machiavelli, Hobbes, Mandeville –, i quali «si sono fatti portavoce dell’egoismo del soggetto» e hanno denunciato la pretesa di armonizzare i singoli egoismi ricono {p. 171}
scendo, al contrario, «la società come il principio distruttivo»[37]. Essi sono illuministi conseguenti, coloro cioè che conducono l’illuminismo fino in fondo al suo estremo principio, seguendo il quale esso «non si arresta neppure di fronte a quel minimo di fede senza il quale il mondo borghese non può esistere». Con ciò, costoro mettono a nudo la realtà del dominio come stato di fatto che non necessita più di alcuna legittimazione che non sia quella della semplice circostanza del sussistere. De Sade e Nietzsche incarnano questa coscienza negativa interna all’illuminismo: «L’opera di Sade, come quella di Nietzsche, rappresenta [...] la critica intransigente della ragione pratica», che «e- leva il principio scientistico a forza distruttiva»[38]. Si tratta, per entrambi, di spazzar via ciò che intralcia il libero dispiegarsi del dominio;; e, su questa strada, entrambi colgono nella compassione l’ostacolo maggiore che si frappone al conseguimento di questo obiettivo. La compassione rappresenta una sorta di residuo irrisolto della formalizzazione della ragione, una «coscienza sensibile dell’identità di universale e particolare», una «mediazione divenuta naturale» che, appunto in quanto sensibile e naturale, dev’esser tolta di mezzo. Riprendendo la lezione di Spinoza, che giudica la commiseratio una «umanità in forma immediata», ma insieme mala et inutilis[39], essi dichiarano alla luce del sole la non confessata aspirazione del pensiero borghese: «Sade e Nietzsche sapevano che la loro tesi della compassione come peccato era un vecchio retaggio della borghesia»[40]. Se de Sade rappresenta per così dire l’esplicitazione della cattiva coscienza dell’illuminismo nel momento stesso della sua elaborazione teorica, se egli indica quei presupposti sui quali esso è al lavoro e che, tuttavia, devono per il momento restare nascosti – circostanza resa evidente {p. 172}
dall’isolamento storico dell’autore e dalla pubblica condanna della sua opera –, la situazione di Nietzsche è del tutto differente. Giunto al termine della sua vicenda storica, l’illuminismo può ora esser mostrato per quel che è. Nietzsche è, insieme, l’ultimo degli illuministi conseguenti (e cioè il più conseguente tra gli illuministi) e l’esecutore testamentario delle ultime volontà dell’illuminismo stesso[41]. Soltanto con lui la doppia valenza del dominio viene finalmente in chiaro: per un verso, in quanto il suo manifestarsi è l’obiettivo che la critica della morale deve conseguire, esso è brandito come un’arma contro i residui mitico-simbolici che ancora intendono fornire ai governi una legittimazione esterna (cioè non inclusa nella formalizzazione universale);; per l’altro, in quanto strumento di governo, esso serve alla sottomissione nel nome della «cruenta efficienza» del sistema. Horkheimer e Adorno appoggiano queste conclusioni sulla citazione di due frammenti del Nachlaß la cui apparente contraddizione si risolve nel quadro teorico che abbiamo disegnato. In primo luogo occorre, secondo quanto Nietzsche annota nella primavera del 1884, «portare così
avanti l’illuminismo nel popolo, che i preti diventino tutti preti con cattiva coscienza»;; la stessa cosa va fatta nei confronti dello Stato: il compito dell’illuminismo è di «trasformare il contegno dei sovrani e degli uomini politici in menzogna intenzionale, togliere loro la buona coscienza» (25[294], VII,II, 75)[42]. All’incirca un anno dopo, Nietzsche osserva che {p. 173}
«l’illuminismo intellettuale è un mezzo infallibile per rendere gli uomini insicuri, deboli di volontà e più bisognosi di alleanza e appoggio, insomma per sviluppare nell’uomo l’animale di branco»;; per questa ragione «tutti i grandi artisti del governo» (alle großen Regierungs-Künstler)– Confucio, Napoleone, «i papi del Rinascimento» – si sono serviti proficuamente di esso: «L’autoinganno della massa (die Selbsttäuschung der Menge) su questo punto per esempio in ogni democrazia, è estremamente pregevole: si insegue come ‘‘progresso’’ il rimpicciolimento e la governabilità degli uomini!» (36[48], VII,III, 248). Nietzsche è in tal modo, nella considerazione dell’Ideologiekritik, colui che rivela la reale natura dell’uguaglianza proclamata dall’illuminismo;; essa può essere riconosciuta soltanto al-l’uomo che abbia conseguito la propria universalità;; ma questa universalità fa compiere al pensiero quel salto nell’«astrazione» che è infatti lo «strumento» (Werkzeug) dell’illuminismo. Solo l’uomo nella sua totalità, nella sua universale umanità, può essere libero;; ma, in questo modo, egli si ritrova assoggettato a quello stesso strumento che gli è servito per la sua liberazione: appunto l’astrazione, la rinuncia alla propria identità individuale e determinata. La società «libera» si rispecchia alla fine nell’organizzazione delle masse predisposte dalla produzione industriale. È questo per Horkheimer e Adorno, come Hegel ha ben visto nella Fenomenologia dello spirito, il «risultato dell’illuminismo». Non c’è contraddizione tra lo spirito egualitario e il ritorno del principio arcaico che è all’opera nell’organizzazione delle masse giovanili della Hitlerjugend sul modello dell’orda: ciò non costituisce «una ricaduta nell’antica barbarie, ma il trionfo dell’uguaglianza repressiva, il dispiegarsi dell’uguaglianza giuridica in ingiustizia tramite gli uguali»[43]. L’anti-illuminismo nietzscheano si rivela, in questo senso, come lo sforzo genuino di portare l’illuminismo stesso alle sue conseguenze estreme, ponendolo allo scoperto di {p. 174}
fronte alle sue tacite premesse. Si tratta, insomma, di liberare l’illuminismo dalla propria falsa coscienza ideologica. Che questo costituisca un tratto unificante della riflessione nietzscheana sull’illuminismo lo dimostra lo scritto su Lo stato greco, non utilizzato da Horkheimer e Adorno perché, probabilmente, ad essi sconosciuto[44]. Quello che Horkheimer e Adorno giudicano il tentativo kantiano di fondare la civiltà e il diritto su un principio diverso dalla forza trova già la sua anticipata sanzione nelle parole di Nietzsche: «La violenza fornisce il primo diritto, e non esiste un diritto che nel suo fondamento non sia arroganza, usurpazione e violenza» (CV, III,II, 229)[45]. In questa massima si cela il senso fondamentale dell’illuminismo nietzscheano. Le posizioni di Horkheimer e Adorno sono state criticate da Jürgen Habermas secondo una prospettiva in cui proprio il senso dell’illuminismo nietzscheano viene rimesso in gioco al fine di preservare quella praticabilità della critica che, nel quadro teorico tracciato dai due au-tori, non risulta più possibile[46]. Questo significa, per Habermas, che soltanto una definizione dell’identità del mo {p. 175}
derno che non si rispecchi interamente negli esiti indicati da Horkheimer e Adorno consente di riprendere il progetto critico dell’illuminismo;; questa possibilità passa innanzitutto per il riconoscimento che il moderno possiede livelli d’identità differenti. Ciò a cui, al contrario, il lettore della Dialettica dell’illuminismo si trova di fronte è una «descrizione livellante» che non tiene conto «di tratti essenziali della modernità culturale»[47]. Per superare questa difficoltà occorre, secondo Habermas, riconsiderare il rapporto tra critica dell’ideologia e illuminismo. Questa relazione porta in luce una duplice qualità riflessiva dell’illuminismo stesso. Per un verso, infatti, la critica diviene critica dell’ideologia quando essa riprende il «processo dell’illuminismo»;; quando cioè «vuole mostrare che la validità della teoria non si è ancora staccata in misura sufficiente dal contesto della propria origine», e che la teoria si fonda su «un inammissibile miscuglio di potere e di validità». Nel senso dell’illuminismo, questo significa che la critica dell’ideologia dimostra «come una teoria che presuppone una comprensione demitologizzata del mondo sia ancora chiusa nel mito». Ciò costituisce il primo grado di riflessività dell’illuminismo;; il secondo grado è rappresentato dalla conseguente estensione della critica ai propri fondamenti, con la quale essa cade nel sospetto «di non produrre (più) delle verità». Oggetto della critica diviene ora lo stesso quadro di riferimento teorico complessivo che dovrebbe consentirle di lavorare: in una parola, il sistema di ragione. È questo il passo ulteriore compiuto con la Dialettica dell’illuminismo, con il quale la critica viene resa autonoma «anche nei confronti dei propri fondamenti»[48]. Questo passo, tuttavia, Horkheimer e Adorno lo compiono secondo il modello della Genealogia della morale, che già indica «il secondo
divenir riflessivo {p. 176}
dell’illuminismo»[49]. Proprio Nietzsche infatti, anticipando la dislocazione teorica compiuta nella Dialettica dell’illuminismo, riesce ad elaborare la sua critica della modernità – con la quale questa viene letta alla luce di una teoria della potenza – servendosi di «una critica razionale smascheratrice della ragione, che pone se stessa al di fuori dell’orizzonte della ragione»[50]. Dunque, «fra i teorici irremovibili dello svelamento, Nietzsche è quello che radicalizza l’illuminismo». Questa radicalizzazione, in quanto presuppone l’uscita dal sistema di ragione, deve fondare la possibilità della critica su altro che non sia un rinviare a principi: essa deve basarsi sulla propria, diretta capacità di affermazione. In altre parole, quella teoria della potenza che rende pienamente leggibile la modernità rappresenta un discorso che «si rimitologizza spontaneamente» (sich aus freien Stücken remythologisiert) e, anziché garantire quelle verità che la critica non è più in grado di fornire e di dimostrare, «mantiene ancora soltanto la pretesa retorica del frammento estetico». Il principio della volontà di potenza, che risolve l’inammissibile miscuglio di validità e potere in favore del secondo, può e deve imporsi ormai soltanto secondo il modello della «produttività artistica»[51]. Proprio a questa conclusione è legata, secondo Habermas, una possibilità della critica che Nietzsche continua a tenere aperta al di là dell’impraticabilità sancita da Horkheimer e Adorno. Tale possibilità è direttamente connessa alla riflessione estetica di Nietzsche e, ancor più, al modo d’essere estetico di questa riflessione. Se, nel Nietzsche della maturità, questo modo d’essere si manifesta soprattutto nel ricorso al frammento, esso è già significativamente presente nella Nascita della tragedia;; e non sorprende che – come già abbiamo visto in Bloch e in Foucault – rientri qui in gioco il concetto di origine. Ciò che, secondo Habermas, distingue nettamente dal ro {p. 177}
manticismo tedesco la riflessione di Nietzsche su questo punto è il fatto che il ricorso a quella «patria mitica», sulla misura della cui perdita la modernità viene giudicata (cfr. GT, III,I, 152), non risulta tuttavia avulso da una «coscienza moderna del tempo» che «vieta ogni idea di regressione, di ritorno diretto alle origini mitiche». Il passato mitico può essere risvegliato soltanto entro un orizzonte indirizzato verso il futuro. In altre parole, Habermas legge la Nascita della tragedia alla luce di una prospettiva che trova il proprio compimento nel concetto di inattuale e, soprattutto, nella critica della storia della II Inattuale. Ciò determina quello che egli definisce un «atteggiamento utopico» che ha nella figura di Dioniso il suo emblema. In questo senso, Habermas sembra accogliere tacitamente la posizione di Bloch portandola ad un livello critico più radicale. Anziché negarla, Nietzsche «acuisce la coscienza moderna del tempo», e il luogo nel quale il carattere utopico della modernità trova la propria realizzazione è l’opera d’arte moderna. Se il giovane Nietzsche suppone di vedere già realizzato nella musica di Wagner questo modello, il successivo distacco è da intendersi proprio nel senso che il suo prender le distanze dalla concezione romantica dell’origine implica un’idea del dionisiaco che già «indica oltre Wagner»[52]. Dionisiaco e romantico non appaiono, in questa prospettiva, affatto coincidenti. Secondo Habermas, il dionisiaco wagneriano è una filiazione diretta dell’interpretazione romantica che, con il «veniente Iddio» (der kommende Gott) di Hölderlin, vede in Dioniso una nuova occasione storica totalizzante data al cristianesimo e alla sua possibilità di rinnovamento[53]. Che Nietzsche giunga alla rottura con Wagner nell’occasione del riaccostamento di quest’ultimo al {p. 178}
cristianesimo consumata con il Parsifal è soltanto la conseguenza di un dissidio sul dionisiaco che è di molto anteriore. Ben al di là del ruolo di Wagner, Habermas giudica essenziale, nella formazione delle idee estetiche di Nietzsche, la lettura di Mallarmé e dei simbolisti francesi[54]. È da questa esperienza – in cui gli si rivela il significato paradigmatico dell’opera d’arte moderna – che si dischiude a Nietzsche «l’ambito dell’apparenza estetica, che non occulta né rivela, non è né fenomeno né essenza, bensì null’altro che superficie». Per un verso, quindi, «Nietzsche prosegue la depurazione romantica del fenomeno estetico da tutte le commistioni teoretiche e morali»;; ma per l’altro, e ancor più significativamente, proprio questa utopia estetica, che già si pone al di là del bene e del male, diviene il supporto di una critica che non cerca ormai più la propria legittimazione entro il sistema di ragione. Anche le tonalità del «messianismo romantico» vengono dismesse: il distacco di Nietzsche dalla modernità è «un distacco totale dalla modernità svuotata dal nichilismo». Poiché l’opera d’arte moderna non indica, come suo significato, nient’altro che la propria apparenza e superficie, essa è già, nel suo semplice sussistere, una critica diretta di quella condizione moderna che la esprime. Dato che il sistema di ragione è ormai giunto, con la modernità, al suo nulla, la critica del moderno non può più mettere a confronto i suoi differenti livelli interni affinché i residui vengano emendati e il sistema possa riaggiustarsi su nuovi e avanzati equilibri: «con Nietzsche la critica della modernità rinuncia per la prima volta a mantenerne il
contenuto emancipativo». Poiché il sistema di ragione si è rivelato come nulla, il confronto dev’essere ormai aperto con il «totalmente altro dalla ragione»[55]. Discende {p. 179}
da qui la nietzscheana rimessa in campo del mito;; ma in quanto l’uomo della modernità è essenzialmente «privo di miti» (mythenlos), la rimitologizzazione nietzscheana assume in realtà un significato demitologizzante: essa può attuarsi soltanto a partire dalla consapevolezza che tutti i miti sono venuti meno. Il carattere specificamente estetico dell’utopia nietzscheana, con il suo indirizzare all’apparenza e alla superficie, intende proporsi come ultima possibile «teodicea», «secondo la quale il mondo può essere giustificato soltanto come fenomeno estetico»[56].La {p. 180}
necessità di conferire alla critica un fondamento radicale assegna alla tematica estetica un significato che non si lascia racchiudere nella segnalazione di un interesse che avrebbe caratterizzato soltanto i primi anni della riflessione di Nietzsche[57].
2. Continuità dell’interesse filosofico Come già abbiamo ricordato, la «svolta» illuministica di Nietzsche prenderebbe forma in un nuovo interesse per la scienza che avrebbe il compito, secondo Fink, di dimostrare come illusorie le costruzioni della metafisica e della religione. Che, a partire dal 1873, Nietzsche infittisca le sue letture scientifiche è cosa indubbia. Nella sua biografia C.P. Janz ricorda una serie di opere la cui lettura è riferibile a quegli anni: la Natura delle comete di Zöllner, la Philosopiae naturalis Theoria del gesuita R.J. Boscovich;; e ancora la Storia della chimica di Kopp, le Conferenze sull’evoluzione della chimica di Ladenburg, la Teoria generale del moto e dell’energia di Mohr, La struttura mirabile del’universo di Mädler, gli Éléments de physique di Pouillet, fino all’opera del filosofo russo Afrikan Aleksandrovič Špir Pensiero e realtà, pubblicata in tedesco nel 1873. Tutti questi testi figurano presi a prestito dalla Biblioteca universitaria di Basilea il 28 marzo 1873 e in diverse altre occasioni successive. Secondo Janz, questo improvviso affollarsi di letture scientifiche e filosofiche deriverebbe dal fatto che Nietzsche avverte «dolorosamente l’unilateralità dei suoi studi scolastici, del suo sapere e della sua situazione spirituale, come insufficienti per un filosofo», e si dedicherebbe quindi ora a quel riempimen {p. 181}
to delle lacune che la necessità di prepararsi all’insegnamento della filologia non gli aveva fino a quel momento consentito[58]. Occorre tuttavia osservare che, nell’elenco di Janz, non figura un testo che, quanto al contenuto, risulta perfettamente in linea con la bibliografia citata: è la Storia del materialismo di Friedrich Albert Lange. Che Janz non lo nomini si spiega col fatto che la sua lettura risale in realtà agli anni precedenti la «soglia» del 1873. Questa circostanza mette da sola in dubbio il carattere effettivo della «svolta» e giustifica, piuttosto, la ricerca di una linea di continuità. Nietzsche acquista un primo esemplare del libro di Lange nell’agosto 1866 – l’anno stesso della pubblicazione –, e l’impressione che ne riceve è ben resa dalle parole che egli scrive nel Post Scriptum di una lettera indirizzata nel novembre dello stesso anno al compagno di studi Hermann Mushacke: «L’opera filosofica più importante che sia apparsa negli ultimi decenni è senza dubbio la Storia del materialismo di Lange, della quale potrei scrivere un elogio di pagine e pagine. Kant, Schopenhauer e questo libro – tanto mi basta» (Ep, I, 488-489). I nomi qui citati da Nietzsche definiscono il quadro teoretico del problema che gli si presenta. In una precedente lettera di fine agosto 1866 egli scrive a Gersdorff a proposito di Lange: «Siamo di fronte qui a uno studioso di Kant e della natura profondamente illuminato». Del monumentale lavoro sul materialismo, quel che Nietzsche recepisce è soprattutto l’interpretazione di Kant. Quanto, nella lettera a Gersdorff, egli presenta come il riassunto delle sue «conclusioni» è in realtà il nocciolo dell’interpretazione langhiana di Kant. Queste conclusioni vengono così enumerate da Nietzsche: 1) Il mondo dei sensi è il prodotto della nostra organizzazione (Organisation). 2) I nostri organi visibili (corporei) sono, così come tutte le altre parti del mondo dell’apparenza, soltanto immagini di un oggetto sconosciuto. {p. 182} 3) La nostra organizzazione vera e propria rimane quindi per noi sconosciuta, così come gli oggetti reali al di fuori di noi. Noi abbiamo davanti, sempre e unicamente, il prodotto di entrambi (Ep, I, 462-463).
Lange distingue le posizioni della Critica della ragion pura dall’empirismo sulla base di una diversa concezione dell’esperienza. Per Kant quest’ultima «non è una porta aperta, per la quale gli oggetti esterni, quali essi sono, possono introdursi in noi, ma un processo in grazia del quale l’apparizione delle cose si produce in noi». Il fatto che le semplici vibrazioni di una corda diventino per noi un tono dipende dall’«a priori in questo fenomeno dell’esperienza». Esperienza non è dunque la
semplice registrazione di un dato sensibile: «Il fatto che in generale noi possiamo apprendere per mezzo dell’esperienza dipende sicuramente dalla nostra organizzazione intellettuale;; e questa organizzazione esiste anteriormente all’esperienza»[59]. L’analisi di Nietzsche prosegue con l’osservazione – anch’essa dedotta da Lange – che non solo «la vera essenza delle cose, la cosa in sé», resta a noi sconosciuta, ma il suo stesso concetto non ha significato al di fuori della nostra esperienza. Qui ha la sua radice la libertà della filosofia, che non è in questo diversa dalla libertà dell’arte: «Di conseguenza, pensa Lange, si lascino liberi i filosofi, premesso che questi d’ora innanzi ci elevino. L’arte è libera, anche nella sfera dei concetti» (Ep, I, 463). Il che trova perfetta corrispondenza, in Lange, nella ricostruzione del rapporto di Schiller con Kant. Se questi «è d’avviso che si può soltanto ‘‘concepire col pensiero’’, e non contemplare col senso ‘‘il mondo intelligibile’’», va in ogni caso dasé che il pensiero «deve avere una ‘‘realtà oggettiva’’». È questo il compito di cui si incarica la poesia: «Schiller eb {p. 183}
be ragione di rendere visibile il mondo intelligibile, trattandolo a modo di un poeta»;; e seguì, in questo, l’esempio di Platone, che rese «sensibile nel mito il soprasensibile»[60]. Lange vede nella dottrina kantiana della cosa in sé il pensiero «più idoneo a riconciliare la poesia e la scienza»;; da un lato, infatti, essa stabilisce che «tutta la nostra ‘‘realtà’’, nonostante il suo concatenamento severo e resistente ad ogni capriccio, non è altro che un fenomeno»;; e, dall’altro, pone se stessa come «concetto di limite» assegnato alla scienza. Per la scienza, quindi, essa ha valore negativo;; rovesciarlo in positivo «conduce irresistibilmente nel campo della poesia»[61]. A partire da queste considerazioni di Lange, e tenuto conto dell’attenta e precoce lettura nietzscheana della Storia del materialismo, l’ipotesi di una «svolta» che lascia da parte l’interesse per l’arte sostituendolo con l’interesse per la scienza diviene difficile da sostenere. Arte e scienza rappresentano per Nietzsche, fin dagli anni della formazione intellettuale, due percorsi paralleli che egli continuerà ad intrecciare con assidua continuità. La lettura di Lange costituisce il presupposto e il fondamento di questa continuità. Come ha osservato J. Salaquarda, la cosiddetta «crisi del 1876» – e cioè la presunta svolta unilaterale nella direzione della scienza – rappresenta «molto più una crisi esistenziale che un completo riorientamento intellettuale». La «crisi» di Nietzsche non sta dunque a significare «una frattura con il suo pensiero precedente, bensì da questo momento in poi ha portato in primo piano l’altra faccia della sua concezione di fondo già da tempo formatasi»[62]. Che questa concezione di fondo fosse già formata lo dimostrano i frammenti risalenti agli anni 1867-68, stesi in {p. 184}
vista di uno scritto che avrebbe dovuto portare il titolo La teleologia a partire da Kant, pensato da Nietzsche come dissertazione per la libera docenza. Che questo scritto avesse un contenuto decisamente filosofico la dice lunga sulla compresenza di interesse filologico-estetico ed interesse filosofico fin dagli anni della sua formazione intellettuale. Lo scritto è evidentemente mosso dall’urgenza di contestare il concetto kantiano di teleologia alla luce delle argomentazioni schopenhaueriane. Ma, accanto a ciò – e alla ripresa, quantunque non dichiarata, di brani tratti dalla Geschichte der neueren Philosophie («Storia della filosofia recente») di Kuno Fischer – la dissertazione reca, secondo Salaquarda, «una marcata impronta langhiana, anche sotto un profilo tematico»[63]. Nello scritto Nietzsche mette continuamente a confronto l’idea kantiana di teleologia con una filosofia della natura che dimostrerebbe l’origine palesemente umana ed arbitraria di tale idea. Concepire la natura dal punto di vista teleologico, ossia secondo una «interna conformità a fini» (innere Zweckmässigkeit), significa paragonarla ad una «macchina complicata» la cui conservazione non riusciamo a spiegare in modo più semplice che ricorrendo all’idea della finalità interna. Tuttavia «un giudizio sulla ‘‘suprema conformità a fini’’ non ci compete». Dunque «un’esterna conformità a fini è un’illusione (Täuschung)». Al contrario, possiamo conoscere il metodo con cui la natura fa sorgere un «corpo ‘‘conforme a fini’’: secondo un metodo senza senso». La conformità a fini si mostra quindi «soltanto in quanto capacità di vivere, cioè come conditio sine qua non. Il caso può scoprire la melodia più bella» (KGW, I,4, 552-553)[64]. {p. 185}
Le idee espresse da Nietzsche in questo scritto non rappresentano del resto il frutto di un interesse filosofico eccentrico rispetto a quella che diverrà, di lì a pochi mesi, la sua attività accademica. La rilettura di Kant si inserisce nel tentativo di un riesame complessivo della storia della filosofia che, nei primi anni di Basilea, trova espressione nelle lezioni sui filosofi preplatonici. In questa ricostruzione egli segue il filo conduttore fornitogli dal libro di Lange[65]. È significativa, in questo stesso periodo, l’attenzione riservata a Democrito, la cui posizione viene anch’essa letta alla luce del problema della teleologia: «Che cosa ha portato – annota Nietzsche – alla scarsa considerazione di Democrito? La sua decisa opposizione alla teleologia» (KGW, I,4, 399)[66]. Democrito viene di
continuo accostato ai filosofi dell’età moderna;; per esempio: «La cosa in sé di Locke e di Democrito è la materia, inizialmente priva di qualità»;; e ancora: «Il sistema filosofico di Democrito era il preferito da Bacone [...] Egli mescolò alchimia e cabala con le tesi di Democrito» (KGW, I,4, 381- 382)[67]. La fonte di questi accostamenti è, ancora una volta, Lange[68]. E, di nuovo sulla scorta di Lange, non possono stupire le aggettivazioni con le quali Nietzsche designa il senso complessivo – aggettante sugli sviluppi futuri della filosofia – del pensiero del filosofo greco: con decisione egli denuncia quegli «oscurantisti dell’antichità» che procurarono «fama di grande mago» a colui che è invece da considerarsi il «padre di tutte le tendenze illuministiche e razionalistiche (aller aufklärenden, rationalistischen Tendenzen)» (KGW, I,4, 504)[69]. {p. 186}
Che l’«illuminismo» di Democrito venga in questo modo evidentemente contrapposto all’illuminismo di Kant non può meravigliare, tenuto conto della prospettiva in cui Nietzsche lo assume. Si tratta, in effetti, di abolire la teleologia in quanto assolutizzazione del punto di vista umano. Come è detto a chiare lettere nell’abbozzo di dissertazione su Kant, «la conformità a fini di ciò che è organico, la conformità a leggi di ciò che è inorganico viene introdotta nella natura dal nostro intelletto»;; e ancor più esplicitamente: «Non c’è alcuna questione che debba essere risolta necessariamente mediante l’assunzione di un mondo intellegibile» (KGW, I,4, 551-552)[70]. Sulla scorta della traccia fornitagli dalla Storia del materialismo di Lange Nietzsche giunge quindi, già a questa data, ad una estrema radicalizzazione dell’illuminismo che ne amplia in modo decisivo il concetto rispetto al movimento storico che va sotto questo nome.
3. Su verità e menzogna: la premessa linguistica della distruzione della morale Una volta spiegato il retroterra dell’interesse scientifico di Nietzsche e chiarito come esso si collochi accanto, e non di contro, alla sua formazione filologico-estetica, l’affollarsi di letture scientifiche a partire dal 1873, segnalato da Janz, non può più essere considerato un evento improvviso. La lettura di Lange, oltre a costituirne la premessa, ne stabilisce la continuità[71]. Se già l’interpretazio {p. 187}
ne dei presocratici anteriore a questa data reca il segno dell’orientamento «materialistico» di Lange – che per il Nietzsche di questi anni equivale tout court ad un orientamento scientifico – questo segno avrebbe dovuto imprimersi in modo ancor più netto sul testo che doveva rappresentare, per Nietzsche, la summa dei suoi studi sui filosofi precedenti Socrate: La filosofia nell’epoca tragica dei Greci. Come già abbiamo ricordato, lo scritto resta tuttavia incompiuto e Nietzsche non lo pubblicherà. L’esposi {p. 188}
zione si ferma ad Anassagora: ne restano quindi esclusi proprio quei filosofi – come Democrito ed Epicuro, che del resto non appartenevano al periodo da Nietzsche esaminato – sui quali egli aveva intensamente riflettuto sottola diretta influenza di Lange. È della massima importanza sottolineare la ragione di questa interruzione. Nietzsche si distacca dai temi della filosofia presocratica per dettare a Gersdorff, nell’estate del 1873, una dissertazione che reca il titolo Su verità e menzogna in senso extramorale. Quell’interesse scientifico che lo aveva portato a riconoscere in Democrito il «padre di tutte le tendenze illuministiche e razionalistiche» lo indirizza ora ad aggredire un argomento di portata generale, non più legato alle esigenze della ricostruzione storica. Anche questo testo rimase non pubblicato, e però dev’essere considerato una diretta esplicitazione dell’orientamento «illuministico» di Nietzsche. La vicenda dell’interruzione conferma, una volta di più, che La filosofia nell’epoca tragica dei Greci costituisce l’autentico ponte che dà l’accesso alla fase di Umano, troppo u-mano e degli altri libri che seguiranno. La premessa sulla quale lo scritto su verità e menzogna viene impostato è, di nuovo, l’abolizione del punto di vista teleologico in quanto mera assolutizzazione antropomorfica;; il che comporta la caduta della distinzione tra mondo umano e mondo animale, tra mondo organico e mondo inorganico[72]. L’intelletto, osserva Nietzsche, non è che uno strumento d’aiuto che l’uomo si forgia per sopperire alla propria intrinseca debolezza: per mezzo suo egli può sentirsi centro del mondo e illudersi di comprendere, sulla base dei propri bisogni, il disegno della natura. Ma ciò non è diverso da quanto fa ogni essere vivente: «Se noi riuscissimo ad intenderci con la zanzara, apprenderemmo che anch’essa nuota attraverso l’aria con questo pathos e si sente il centro – che vola – di questo mondo» {p. 189}
(WL, III,II, 355). Del proprio reale disegno, «la natura ha gettato via la chiave» (WL, III,II, 357), ed ogni tentativo di conoscere questo disegno si svela fatalmente come una costruzione che serve
unicamente ai fini dell’autoconservazione dell’individuo. La conoscenza è pertanto una finzione, e questa «arte della finzione» raggiunge nell’uomo il suo culmine (WL, III,II, 356) in quanto egli deriva dal naturale impulso a fingere «l’impulso verso la verità». Tale impulso proviene dalla necessità di concludere un trattato che ponga fine al naturale bellum omnium contra omnes e consenta di «esistere socialmente come in un gregge»;; viene in tal modo fissato ciò su cui tutti possono intendersi e che verrà in seguito designato come «verità». «In altre parole, viene scoperta una designazione delle cose uniformemente valida e vincolante, e la legislazione del linguaggio fornisce altresì le prime leggi della verità» (WL, III,II, 357). La verità ha dunque un’origine sociale che si rispecchia nella stessa origine sociale del linguaggio. La parola non nasce dalla correlazione univoca di cosa e concetto, ma semplicemente dalla necessità di intendersi. Se ciò dà luogo a designazioni uniformemente valide e vincolanti, tale capacità riposa non sul fondamento di un presunto carattere oggettivo del mondo, ma su una finzione che ha il proprio criterio nell’efficacia della comunicazione. La distinzione tra verità e menzogna, che ha qui la sua origine, viene immediatamente occultata: «Il mentitore adopera le designazioni valide, le parole, per fare apparire come reale ciò che non è reale» (WL, III,II, 357-358). Ciò non rappresenta un semplice incidente – dovuto a circostanze meramente esteriori – nella formazione del linguaggio, ma rispecchia lo stesso processo di formazione dei concetti, nel quale finzione e menzogna hanno un ruolo fondamentale. «Che cos’è una parola? – si chiede Nietzsche – Il riflesso in suoni di uno stimolo nervoso. Ma il concludere da uno stimolo nervoso a una causa fuori di noi è già il risultato di una applicazione falsa e ingiustificata del principio di ragione» (WL, III,II, 358). Difficile dire con quanta consapevolezza egli riassuma e porti in questo modo all’estremo una concezione del {p. 190}
linguaggio che risale al de interpretatione di Aristotele[73]. In ogni caso, quanto Aristotele designa con il termine «convenzione» (rtmigœ jg) diventa esplicitamene, in Nietzsche, finzione e menzogna. Il fatto che la pietra sia «dura» non ci consente l’estensione di questa «durezza» ad altri oggetti: il carattere extra-soggettivo dell’esperienza (il fat-to che appunto «si conviene» su qualcosa) è quindi una semplice finzione. «Noi parliamo di un ‘‘serpente’’ (Schlange): la designazione non riguarda altro se non la tortuosità (das Sichwinden), e potrebbe quindi spettare altresì al verme»[74] (WL, III,II, 359). L’uso generalizzato di una parola per designare una classe di oggetti riposa su una finzione che già si insedia nella formazione dei concetti: così, il concetto di «foglia» si forma «mediante un arbitrario lasciar cadere» le differenze individuali, «e suscita poi la rappresentazione che nella natura, all’infuori delle foglie, esiste un qualcosa che è ‘‘foglia’’, quasi una forma primordiale» (WL, III,II, 360)[75]. Il meccanismo che presiede alla formazione dei concetti viene svelato come fondato sull’oblio della disuguaglianza, e ha quindi la stessa natura della menzogna: Ogni parola diventa senz’altro un concetto, per il fatto che essa non è destinata a servire eventualmente per ricordare l’esperienza primitiva, non ripetuta e perfettamente individualizza {p. 191} ta, ma deve adattarsi al tempo stesso a innumerevoli casi più o meno simili, cioè – a rigore – mai uguali, e quindi a casi semplicemente disuguali. Ogni concetto sorge con l’equiparazione di ciò che non è uguale (WL, III,II, 360).
Qui Nietzsche si dimostra, una volta ancora, buon let-tore – e tuttavia non un lettore acritico – di Schopenhauer. Il rapporto tra concetto e parola indicato nel Mondo come volontà e rappresentazione viene per così dire rovesciato e portato al suo punto di crisi. Schopenhauer distingue radicalmente i concetti dalle rappresentazioni intuitive: «I concetti possono venire soltanto pensati, non intuiti»;; oggetto d’esperienza non possono essere pertanto i concetti direttamente, ma solo gli effetti prodotti per causa loro. Nei confronti del concetto la parola, in quanto «oggetto d’esperienza esterna», si comporta come «un telegrafo perfettissimo, il quale trasmette con la più grande rapidità dei segni convenzionali». Il fatto che noi comprendiamo non si spiega con l’intervento di rappresentazioni intuitive: in questo caso anche gli animali, che possiedono sia gli organi del linguaggio sia una capacità di produrre rappresentazioni intuitive, sarebbero in grado tanto di parlare quanto di comprendere. Le cose vanno in realtà in modo del tutto diverso: «Il senso delle parole viene percepito e compreso, con immediata esattezza, senza che di regola vi s’immischino immagini della fantasia». Nel linguaggio si tratta sempre della ragione che, «senza uscire dal suo dominio, parla con la ragione». Ciò che sta alla base della comunicazione è l’astrattezza dei concetti in quanto rappresentazioni non intuitive. Ma queste rappresentazioni sono disponibili in numero minore rispetto alle occasioni alle quali devono applicarsi. Cosa che Schopenhauer non può fare a meno di sottolineare: le rappresentazioni non intuitive, «create una volta per sempre, abbracciano, comprendono ed esprimono, nonostante la relativa scarsità del loro numero, tutti quanti gli innumerevoli oggetti del mondo reale». L’intero processo del linguaggio dev’essere pertanto ricondotto «ad un’origine unica e semplice: ai concetti», che sono
rappresentazioni astratte e universali, «non individuate nel {p. 192}
tempo e nello spazio»[76]. Nel rapporto di disuguaglianza che si crea tra rappresentazioni non intuitive e oggetti reali Nietzsche coglie l’intervento fondamentale della finzione. E, di più, l’impianto schopenhaueriano viene rovesciato in quanto l’intero processo del formarsi del linguaggio viene interpretato a partire dalla priorità della parola sul concetto: è il concreto uso linguistico a formare i concetti mediante un procedimento di assimilazione ed esclusione in base a rapporti di similitudine ed estraneità. E poiché, nell’ambito dei singoli casi, nessuna cosa può essere interamente simile ad un’altra, è la disuguaglianza – e quindi la menzogna – il criterio fondamentale nella formazione dei concetti. Se la posizione nietzscheana sul linguaggio può esser letta come una sorta di schopenhauerismo in controluce, è indubbio che al suo formarsi concorrono altre letture nelle quali egli si è nel frattempo impegnato. Tra queste, sicuramente rilevante è l’influenza di due libri di Afrikan A. Špir: la Forschung nach der Gewissheit in der Erkenntniss der Wirklichkeit («Ricerca della certezza nella conoscenza della realtà»), pubblicata nel 1869, e Denken und Wirklichkeit. Versuch einer Erneuerung der kritischen Philosophie («Pensiero e realtà. Tentativo di un rinnovamento della filosofia critica»), pubblicato la prima volta nel 1873 e successivamente, ampliato, nel 1877[77]. Nietzsche {p. 193}
cita già Špir nella Filosofia nel’epoca tragica dei Greci[78],e il riferimento al filosofo russo resta costante, anche se raramente esplicitato, in molti punti delle opere successive. Delle posizioni neocriticistiche di Špir – che radicalizza l’opposizione kantiana tra fenomeno e cosa in sé – Nietzsche si limitatuttaviaad accogliereladenunciadella natura fallace della conoscenza fenomenica, mentre rifiuta l’invito, che Špir ne deriva, alla conoscenza dell’incondizionato. All’incirca nello stesso periodo, Nietzsche legge anche il libro di Gustav Gerber, Die Sprache als Kunst («Il linguaggio come arte»), la cui prima parte fu pubblicata nel 1871[79]. Al solito, risulta dal registro della Biblioteca dell’Università di Basilea che Nietzsche prese il volume a prestito nel semestre invernale 1872-73, dunque all’incirca sei mesi prima di dettare a Gersdorff lo scritto Su verità e menzogna. Ciò spiega il fatto che, secondo l’opinione di A. Meijers[80], l’influenza del libro di Gerber sia più direttamente avvertibile nelle lezioni che Nietzsche tenne in quel semestre sulla retorica (cfr. KGW, II,4, 413-502)[81] {p. 194}
che non nello scritto non pubblicato. Come che sia, la celeberrima tesi in cui lo scritto culmina riassume più che probabilmente le posizioni di Gerber. Nietzsche scrive: Che cos’è dunque la verità? Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria, sono metafore che si sono logorate e hanno perduto ogni forza sensibile, sono monete la cui immagine si è consumata e che vengono pre-se in considerazione soltanto come metallo, non più come monete (WL, III,II, 361).
Nel libro di Gerber si trovano tanto la tesi dell’essenziale natura metaforica del linguaggio, quanto quella se-condo cui la natura metaforica delle parole deve necessariamente essere dimenticata per poterne consentire l’utilizzo nel linguaggio corrente. Gerber critica inoltre quelle posizioni filosofiche – innanzitutto quelle di Platone e Aristotele – che ritengono concetti e giudizi delle astrazioni sostantivate che costituiscono la struttura della realtà[82];; e insiste altresì sull’impulso artistico e sulla convenzione sociale come elementi che stanno all’origine della formazione del linguaggio[83]. E proprio questa circostanza Nietzsche porta alle sue estreme conseguenze passando dalla sfera del linguaggio direttamente a quella della verità. Affermare che la verità è di natura linguistica significa {p. 195}
ricondurla alle necessità che stanno all’origine del linguaggio. La verità nasce dunque da un bisogno specificamente umano. È un’abitudine linguisticamente indotta al-lo scopo di umanizzare il mondo: è, in altre parole, un modo di vedere il mondo dal punto di vista esclusivamente umano. La verità, osserva Nietzsche, è completamente antropomorfica e non contiene neppure un solo elemento che sia «vero in sé», reale e universalmente valido, a prescindere dall’uomo. L’indagatore di queste verità in fondo cerca soltanto la metamorfosi del mondo nell’uomo (WL, III,II, 364).
Un indagatore del genere non si dimostra diverso dall’antico astrologo, che giudicava le stelle e il mondo in connessione diretta con l’uomo (ibidem). Il celebre motto di Protagora – «l’uomo come misura di tutte le cose» (ibidem) – diviene la base di questa prima formulazione del prospettivismo
nietzscheano. Una legge della natura ci risulta in sé incomprensibile in quanto costituita esclusivamente dalle sue relazioni con altre leggi naturali. Ciò che intendiamo quando dichiariamo una tale legge conoscibile è quanto noi stessi vi aggiungiamo: «il tempo, lo spazio, ossia rapporti di successione e numeri». Ritorna, qui, quella stessa negazione della teleologia incontrata nello scritto giovanile su Kant: le rappresentazioni di spazio e tempo «le produciamo in noi, traendole da noi stessi con quella necessità con cui il ragno tesse la sua tela». Nessuna meraviglia, quindi, che noi constatiamo successivamente una corrispondenza tra il mondo e il nostro modo di conoscere: «Ogni conformità a leggi [...] coincide in fondo con quelle proprietà che noi stessi introduciamo nelle cose, cosicché siamo noi stessi che facciamo impressione a noi stessi» (WL, III,II, 367). Queste considerazioni hanno conseguenze essenziali sul concetto di verità. Conseguenze che tuttavia Nietzsche non trae in modo radicale nello scritto Su verità e menzogna, ma in una serie di frammenti stesi in vista di un libro mai compiuto che avrebbe dovuto recare il titolo di {p. 196}
Philosophenbuch («Libro del filosofo»)[84], del quale La filosofia nell’epoca tragica dei Greci avrebbe dovuto costituire una sorta di introduzione storica e nel cui progetto era incluso lo stesso Su verità e menzogna in senso extra-morale. Qui Nietzsche osserva che la «cosa in sé» risulta inconoscibile proprio in quanto essa esclude quell’unico punto di vista – quello soggettivamente umano – che consente la conoscenza. L’inconoscibilità della «cosa in sé» deriva dall’aver tolto «sotto i nostri piedi» «il punto di appoggio fornito da chi conosce, cioè da chi misura. Una qualità esiste per noi, cioè in quanto commisurata a noi. Se eliminiamo la misura, che cosa significa ancora qualità!» (19[56], III,II,II, 53). Ogni conoscenza resta vincolata a questo per noi, come punto di vista che non è tuttavia esclusivo dell’uomo, ma caratterizza tutto il vivente: l’antropomorfismo della conoscenza è solo una prospettiva accanto alle altre prospettive dell’organico e dell’inorganico: «Anche la pianta è un essere che misura (ein messendes Wesen)» (ibidem). Il modo antropomorfo del nostro conoscere è una forma di totalizzazione della conoscenza che esclude, in quanto tale, le altre forme di totalizzazione;; le quali, tuttavia, le stanno accanto con pari legittimazione proprio nel momento in cui dichiariamo l’inconoscibilità della «cosa in sé», e cioè rinunciamo al confessato carattere antropomorfico del nostro conoscere. In quel momento dobbiamo ammettere che «per la pianta il mondo è costituito in un certo modo – per noi in un altro»;; e che, conseguentemente, «per la pianta, il mondo intero è pianta;; per noi, è uomo» (19[58], III,II,II, 53-54). Una volta tolto di mezzo il pregiudizio che la verità sia l’espressione della corrispondenza tra il nostro modo di conoscere e il mondo fuori di noi, non resta, per giudicare la verità, che il criterio della sua capacità di produrre degli effetti. Ma, su questo piano, la distinzione tra verità {p. 197}
e illusione, tra verità ed errore, viene completamente a cadere: «Una bella illusione, quando si creda in essa, haperfettamente lo stesso valore di una conoscenza». È la vita a proporre questo bisogno: ogni verità è una verità per la vita, si dimostra tale in quanto efficace a risolvere i problemi posti dalla vita. Vale a dire, «le ‘‘verità’’ si dimostrano attraverso i loro effetti (Wirkungen), non attraverso dimostrazioni logiche, bensì dimostrazioni della forza (Beweise der Kraft)». Credere a ciò che è vero o a ciò che esercita un’azione significa che, in entrambi i casi, «ci si piega alla violenza (Gewalt)». Che l’umanità abbia combattuto con le armi della logica la battaglia per la verità contrapponendo «verità» a «verità» rivela in modo evidente che l’elemento reale della conoscenza è «il paœ ho` del combattimento»: «al di fuori di ciò, l’uomo non ha alcun interesse per l’origine logica» (19[43], III,III,II, 18-19). Mediante la distruzione linguistica del concetto di verità Nietzsche mette a segno un punto essenziale sul cammino del «processo di disillusione» (Fink). Il costante riferimento a Kant e alla tradizione criticistica successiva lo induce ad un confronto sempre più serrato con l’illuminismo e getta ormai le basi per un esplicito attacco alla morale.
4. Il confronto di Nietzsche con l’illuminismo storico Il 18 ottobre 1876, da Bex, Nietzsche annuncia alla sorella Elisabeth di avere ormai pronto il testo di una V Inattuale, e di avere soltanto bisogno di una persona a cui dettarlo (cfr. Ep, III, 178). Questa progettata Inattuale avrebbe dovuto recare il titolo Lo spirito libero. Essa costituisce di fatto il nucleo originario di quello che diventerà, dopo non poche elaborazioni[85], Umano, troppo umano, {p. 198}
che porterà come sottotitolo Un libro per spiriti liberi.La prima edizione del libro (1878) recava nel frontespizio una dedica esplicita: «Consacrato alla memoria di Voltaire in occasione della celebrazione dell’anniversario della sua morte, il 30 maggio 1778». Nella pagina immediatamente successiva Nietzsche dichiarava inoltre di aver voluto «rendere al momento giusto un omaggio
personale a uno dei più grandi liberatori dello spirito». Il testo si apriva, in guisa di prefazione, con una lunga citazione dalla versione latina del Discorso sul metodo di Cartesio (cfr. MAM I, IV,II, 489, riportato nelle «Note al testo»). Tutti questi apparati introduttivi furono da Nietzsche eliminati nella seconda edizione del 1886. Nondimeno – e se, come abbiamo cercato di dimostrare, l’ispirazione «illuministica» conosce una lunga preparazione negli scritti precedenti ed è individuata come una componente essenziale della riflessione filosofica (al punto che Nietzsche la data a partire da Democrito) – quegli apparati testimoniano in ogni caso che in Umano, troppo umano, se pure esso non rappresenta quella svolta radicale che Fink vi vede, prende forma definitiva una concezione della filosofia che ha come obiettivo la liberazione del pensiero da ogni genere di vincolo e pregiudizio;; dunque, in una parola, dalla morale;; e questa concezione della filosofia può a buon diritto essere definita aufklärerisch. Mazzino Montinari ha inquadrato Umano, troppo u-mano come una sorta di reazione alla reazione anti-illuministica. La reazione all’illuminismo ha il suo precedente nella reazione all’Umanesimo e al Rinascimento. Come questi ultimi vengono interrotti da una rivoluzione e da una reazione (rispettivamente la Riforma e la Controriforma), così anche l’illuminismo viene interrotto da una rivo {p. 199}
luzione (quella francese) e dalla reazione romantica. Da quest’ultima scaturisce però un duplice effetto: da un lato la rivalutazione del senso della storia – che Montinari interpreta «come forma superiore e prosecuzione dell’illuminismo» –;; dall’altro un’ulteriore coppia oppositiva di rivoluzione e reazione: il socialismo e l’«oscurantismo moderno» che in Germania assume la forma del conservatorismo religioso degli Junker e dell’antisemitismo. «Nietzsche – scrive Montinari – è dalla parte del Rinascimento, dell’illuminismo e del senso storico, a cui si contrappongono di volta in volta le coppie rivoluzionario-reazionarie che abbiamo visto»[86]. Di come Nietzsche riesca a conciliare illuminismo e senso storico fornisce testimonianza l’af. 20 di Umano, troppo umano. Qui, dopo aver celebrato come una vittoria la liberazione dalle paure della superstizione religiosa, egli osserva tuttavia che, «a questo grado di liberazione», resta {p. 200}
ancora un passo da compiere a chi voglia definitivamente superare la metafisica. Questo passo è «un movimento all’indietro»(eine rückläufige Bewegung) che consente di comprendere la «giustificazione storica» (historische Berechtigung) e «psicologica» di quelle rappresentazioni che, se pure occorre lasciarsi alle spalle, hanno tuttavia rappresentato «il maggior progresso dell’umanità». Non basta dunque giungere alla «meta negativa» (ossia riconoscere «che ogni metafisica positiva è un errore»), ma è necessario ricollocare le posizioni metafisiche nell’epoca che le ha prodotte. Questo è quanto Montinari definisce come conciliazione di illuminismo e senso della storia. Nel riconoscimento del senso storico, che è il frutto della reazione romantica all’illuminismo, l’illuminismo stesso viene ripreso e portato oltre le sue premesse limitanti. «I più illuminati (die Aufgeklärtesten) – conclude Nietzsche – riescono solo a liberarsi della metafisica e a volgersi a guardarla con superiorià: mentre anche qui, come nell’ippodromo, al termine della dirittura è necessario girare» (MAM I, IV,II, 30-31). Questo schema viene applicato da Nietzsche nel successivo af. 26, nel quale troviamo all’opera il nesso rivoluzione-reazione indicato da Montinari. L’aforisma ha il titolo significativo La reazione come progresso. Nel corso della storia, spiega Nietzsche, appaiono talvolta degli spiriti violenti e trascinatori che sono tuttavia «spiriti arretrati» (zurückgebliebene Geister);; «Essi servono come prova che le nuove tendenze, contro le quali essi operano, nonsono ancora abbastanza forti». È il caso, per esempio, di Lutero e della Riforma, che Nietzsche interpreta come reazione al Rinascimento. Il Rinascimento dovette soccombere «come una primavera precoce». Il motivo di questo soccombere fu nel mancato intervento della scienza, «che non poteva ancora alzare la testa». Il richiamo di Nietzsche alla funzione rischiaratrice della scienza segna qui, in modo netto, il suo distaccarsi da Schopenhauer, la cui filosofia egli classifica ora, in senso negativo, come metafisica. Così come accadde per il Rinascimento, «la metafisica di Schopenhauer ha dimostrato che anche a {p. 201}
desso lo spirito scientifico non è ancora abbastanza forte». Nonostante la distruzione dei «dogmi cristiani» sia cosa già compiuta da tempo, essi hanno potuto celebrare la loro resurrezione nella dottrina di Schopenhauer. E tuttavia il grande vantaggio che possiamo trarre da essa sta nel fatto che Schopenhauer fa «temporaneamente indietreggiare il nostro sentimento verso antiche e possenti for-me di contemplazione del mondo e degli uomini». A queste forme – e cioè, in buona sostanza, al cristianesimo nel suo complesso – occorre «rendere giustizia» (Gerechtigkeit widerfahren) (vale a dire: occorre che le sue posizioni vengano storicamente giustificate) affinché la
Aufklärung possa riprendere il suo cammino e procedere oltre esse. Questa giustificazione storica del cristianesimo, che si compie attraverso la reazione rappresentata da Schopenhauer, è la premessa indispensabile alla giustificazione storica dell’illuminismo stesso. Così suona la conclusione dell’aforisma: Solo dopo questo grande successo di giustizia, solo dopo aver corretto in un punto così essenziale la concezione storica che l’epoca dei lumi portò con sé, possiamo portare avanti di nuovo la bandiera dell’Illuminismo – la bandiera con i tre nomi: Petrarca, Erasmo, Voltaire. Della reazione abbiamo fatto un progresso (MAM I, IV,II, 35).
Che, sulla «bandiera» dell’illuminismo, Nietzsche ponga, accanto a Voltaire, i nomi di Petrarca ed Erasmo, indica con chiarezza che egli intende, sotto il titolo di illuminismo, un indirizzo della storia che ha nell’Umanesimo e nel Rinascimento la sua premessa e determina, con essi, una linea di continuità. Lo stesso schema oppositivo rivoluzione-reazione si ritrova, qualche anno dopo, nell’af. 197 (L’ostilità dei Tedeschi contro l’illuminismo)di Aurora, in cui lo spirito del’illuminismo viene contrapposto al carattere regressivo del pensiero tedesco, in particolare del romanticismo. Che Nietzsche coinvolga, nella sua polemica, non solo la filosofia, ma anche la musica tedesca, è indice del suo {p. 202}
ormai completamente maturato distacco da Wagner. L’aforisma rovescia la considerazione dell’illuminismo presente nello scritto su Lo stato greco. Lì Nietzsche si scagliava contro «la visione liberale e ottimistica del mondo», che trae la sua origine «dalle dottrine dell’illuminismo francese e della Rivoluzione francese, cioè da una filosofia del tutto estranea alla Germania, schiettamente neolatina, piatta e antimetafisica» (CV, III,II, 234). Il testo era una delle Cinque prefazioni per cinque libri non scritti che Nietzsche inviò in dono a Cosima Wagner in occasione del Natale 1872. E che Wagner abbia avuto in quell’occasione un ruolo decisivo nell’indirizzare l’ancor giovane proselito su accalorate posizioni nazionalistiche è un’eventualità più che plausibile[87]. È comunque da notare che {p. 203}
l’opposizione tra Germania e illuminismo resta intatta, ma con significato rovesciato, nell’aforisma di Aurora;; dove in più troviamo – in linea con quanto Montinari osserva – una netta separazione tra illuminismo e Rivoluzione francese. Nietzsche accusa i filosofi tedeschi di essere retrocessi «al primo e più antico stadio della speculazione» poiché, «come i pensatori di età fantastiche», essi si accontentano «di idee (Begriffen) anziché di spiegazioni (Erklärungen)». Già questa contrapposizione fa pensare a Hegel – che Nietzsche considera evidentemente l’erede del romanticismo tedesco – come avversario dell’illuminismo. Ma l’invettiva nietzscheana è rivolta soprattutto agli storici e ai romantici tedeschi, che riportarono in onore «più antichi e primitivi modi di sentire e, specialmente, il cristianesimo, l’anima popolare, la lingua popolare, la medievalità, l’ascetismo orientale, l’induismo». In Schopenhauer e addirittura in Goethe – che pure aveva costituito un punto essenziale di riferimento ancora per Umano, troppo umano – egli vede ora una forma di malinteso «naturalismo» che combatte «lo spirito di Newton e Voltaire». La tendenza fondamentale della filosofia tedesca è dunque diretta «contro l’illuminismo» e «contro la rivoluzione della società», che «con un grossolano fraintendimento, era considerata una conseguenza di esso»[88].I {p. 204}
musicisti tedeschi, «in quanto artisti dell’invisibile, dell’irreale, del favoloso, del nostalgico- struggente (Sehnsüchtigen)», hanno contribuito per parte loro ad insediare il «culto del sentimento» «al posto di quello della ragione». Si ripresenta tuttavia anche qui, come nell’af. 26 di Umano, troppo umano, la giustificazione di questo percorso storico: «Da allora, molto è stato giudicato con maggior equità di quanto mai fosse avvenuto in passato». Se ha rappresentato un «pericolo generale» l’aver voluto assoggettare al sentimento «la conoscenza in genere» – e riaprire in questo modo la via verso la fede, colpa che Nietzsche ascrive esplicitamente a Kant –, questo pericolo è passato: «Torniamo a respirare aria libera». Proprio gli spiriti evocati dai Tedeschi – «la storia, la comprensione dell’origine e dello sviluppo, la consonanza simpatetica col passato, la rieccitata passione del sentimento e della conoscenza» – si rivoltano ora contro i loro evocatori. Quegli spiriti che sembrarono un giorno correre in soccorso dello «spirito oscurantista» (des verdunkelnden [...] Geistes) si levano ora in volo «con più vaste ali, come nuovi e più forti geni proprio di quell’illuminismo contro il quale erano stati evocati». Bisogna nuovamente «far progredire» questo illuminismo, «incuranti del fatto che ci sia stata una ‘‘grande rivoluzione’’ e di nuovo una ‘‘grande reazione’’ contro di essa». Rivoluzione e reazione non sono che «giuochi di onde» (Wellenspiele), momenti temporanei di quel grande «flutto» (Fluth) in cui «noi siamo
trascinati e vogliamo esserlo!» (M, V,I, 141-143). Quello che Nietzsche disegna è il programma specifico di un nuovo illuminismo. Questo programma lo si ritrova, proprio sotto questo titolo, in un frammento risalente al periodo di Così parlò Zarathustra (estate-autunno 1884). Al punto 1. Nietzsche enuncia il compito generale {p. 205}
di questo «nuovo illuminismo»: «La scoperta degli errori fondamentali (dietro i quali sono la viltà, la pigrizia [Feigheit Trägheit] e la vanità dell’uomo) per esempio per ciò che riguarda i sentimenti e il corpo» (27[79], VII,II, 272). La coppia viltà-pigrizia non può non far pensare al Kant di Che cos’è l’illuminismo? (pur se questi usa, per «pigrizia», il termine Faulheit anziché Trägheit), che spiega lo stato di «minorità» – da cui l’uomo deve uscire in virtù della Aufklärung – con «la pigrizia e la viltà (Feigheit)» di coloro che «rimangono volentieri minorenni per l’intera vita»[89]. Ancora al punto 1. Nietzsche cita, tra gli elementi del nuovo illuminismo, la «moralità come addomesticamento». E, al punto 3., sotto il titolo Il superamento dell’uomo, egli dichiara, annunciando una «nuova concezione della religione», la propria «simpatia per i religiosi», motivata dalla loro «insoddisfazione di SÉ»: «L’autosuperamento (Selbst-Überwindung) come gradino di superamento dell’uomo» (27[79], VII,II, 272-273). Nell’insoddisfazione che il religioso prova nei confronti di se stesso Nietzsche coglie, come elemento positivo, quel bisogno di trascendente che avvia sulla strada che conduce all’Übermensch. Questo punto trova un riscontro preciso nel capitolo dello Zarathustra intitolato Dei preti: «Qui sono preti – proclama Zarathustra –: e anche se sono miei nemici, vi prego, passate oltre silenziosamente e con la spada nel fodero! Anche tra loro sono eroi;; molti hanno sofferto troppo –: così vogliono far soffrire altri. Sono nemici malvagi: nulla è più vendicativo della loro umiltà. E colui che li attacca finisce facilmente per contaminarsi. Ma il mio sangue è affine al loro;; e io voglio che il mio sangue sia onorato anche nel loro» (Za, VI,I, 108).
Il torto dei preti sta nell’essersi lasciati avvincere in catene da «colui che essi chiamano il loro redentore» (ibidem). Ma il redentore non costituisce ancora un supera {p. 206}
mento sufficiente dell’uomo: «In verità, i loro redentori non vennero dalla libertà e dal settimo cielo della libertà!» (Za, VI,I, 109). Essere redenti, e cioè «trovare la via verso la libertà», vorrà dire abbandonare la condizione dell’umano e del troppo umano: essere redenti «da maggiori che non siano stati tutti i redentori»: Ancora non è esistito un superuomo. Io li ho visti tutti e due nudi, l’uomo più grande e il più meschino: – Sono ancora troppo simili l’uno all’altro. In verità anche il più grande io l’ho trovato – troppo umano! (Za, VI,I, 110).
Assumendo i caratteri di una nuova religione in quanto mantiene la dimensione del trascendente, il nuovo illuminismo prende tuttavia atto che questa dimensione non può arrestarsi al gradino ancora troppo umano del redentore: essa ha la sua meta nell’Übermensch come modello dell’autosuperamento[90]. In questa meta si raccolgono, come momenti interni, i rimanenti elementi dottrinali della filosofia nietzscheana. Questi elementi vengono elencati da Nietzsche nel frammento immediatamente successivo a quello analizzato in precedenza, che ha per titolo L’eterno ritorno. Una profezia. Il frammento si apre con una Grande prefazione in cui l’illuminismo viene direttamente collegato all’idea di dominio, nel senso in cui esso verrà ripreso nella Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno: Il nuovo illuminismo: il vecchio era nel senso del gregge democratico. Eguagliamento di tutti. Il nuovo illuminismo vuole indicare la strada alle nature dominatrici – in che misura a esse è permesso tutto ciò che non è lecito per gli esseri del gregge (27[80], VII,II, 273).
Successivamente Nietzsche presenta una sorta di ricapitolazione delle proprie dottrine fondamentali: «1. Illuminismo per ciò che riguarda ‘‘verità e menzogna’’ nel vi {p. 207}
vente», dove è evidente come egli consideri lo scritto Su verità e menzogna in senso extramorale come una tappa fondamentale per la definizione del nuovo illuminismo. Esso riguarda direttamente la morale: «2. Illuminismo per ciò che riguarda ‘‘bene e male’’». E, infine, la dottrina dell’eterno ritorno viene indicata come strumento dell’Übermensch;; nelle sue mani, essa si presenta come volontà di potenza: «5. La teoria dell’eterno ritorno come martello in pugno all’uomo più potente»(ibidem). Per giungere a questo risultato occorre tuttavia passare attraverso una fenomenologia di figure che
rappresentano gradi successivi di liberazione.
5. Le figure della liberazione: lo «spirito libero», il «viandante», l’«ombra» Se Umano, troppo umano indica un cammino di liberazione, esso sta innanzitutto nella liberazione di Nietzsche stesso da quel che fino ad allora lo aveva condizionato e in cui si era pur tuttavia riconosciuto. Dieci anni più tardi, in Ecce homo, egli scriverà: «‘‘Umano, troppo umano’’ è il monumento di una crisi. Dice di essere un libro per spiriti liberi: quasi ogni frase vi esprime una vittoria – con questo libro mi sono liberato da ciò che non apparteneva alla mia natura» (EH, VI,III, 331). Ciò che Nietzsche dichiara non appartenente alla propria natura sono, innanzitutto, la metafisica di Schopenhauer e l’irrazionalismo misticheggiante di Wagner. Montinari definisce la liberazione del proprio spirito come un processo in cui Nietzsche affronta una sorta di «tirocinio», al quale contribuiscono le amicizie con Malwida von Meysenbug – che nella partecipazione agli eventi rivoluzionari del 1848 aveva maturato «una concezione del mondo intrepidamente materialistica ed ateistica» – e con Paul Rée, attraverso il quale giungono a Nietzsche echi della filosofia della natura di Darwin e del nichilismo russo (grazie alla lettura di Turgenev). Rée eserciterebbe un ruolo chiave nella trasformazione nietzscheana in virtù, soprattutto, {p. 208}
dell’interpretazione materialistica della propria originaria formazione schopenhaueriana. Sono, secondo Montinari, questi «spiriti più o meno liberi» – che vivono una crisi in cui l’entusiasmo per la scienza si coniuga con l’insoddisfazione per il «pallido, nordico agnosticismo königsberghiano» – a fornire il presupposto della personale liberazione nietzscheana[91]. Ancora in Ecce homo, Nietzsche chiarisce in modo preciso che cosa debba intendersi per «spirito libero» e in che modo esso si incarichi di riprendere il programma di Voltaire: A guardar meglio, si scopre uno spirito spietato, che conosce tutti i nascondigli dove l’ideale sta di casa – dove ha le sue segrete e in certo modo i suoi ultimi rifugi. Con una fiaccola in mano [...] si fa luce, un chiarore tagliente (mit einer schneidenden Helle), in questo oltretomba dell’ideale (EH, VI,III, 331).
Quel «processo di disillusione» segnalato da Fink, di cui la scienza è soltanto strumento, trova nella figura dello «spirito libero» (Freigeist) la propria espressione. Esso non ha più nulla del cieco entusiasmo per la scienza che ancora caratterizzava l’«ingenuo e tardo libero pensatore dell’età illuminista»;; la Desillusionierung agisce ora contro la scienza stessa, mostrandone i risultati come illusione e conferendo allo «spirito libero» quella leggerezza che apparterrà alle successive figure della liberazione: esso «è già un precursore del Principe Uccel di Bosco (Vogelfrei), dei piedi leggeri da ballerino, della gaiezza alcionica e della scioltezza da ogni legame di Zarathustra». Lo spirito libero «ha la gelida freddezza del pensiero inesorabile [...] che è alla caccia di verità senza illusioni, anche se dovessero essere mortali»[92]. Nel 1886 Nietzsche premette alla seconda edizione di Umano, troppo umano una prefazione in cui tutta la tematica del libro viene reinterpretata alla luce dello spirito libero. Se, in tal modo, egli introduce in questa auto-inter {p. 209}
pretazione elementi che appartengono all’evoluzione successiva della propria riflessione, viene nondimeno anche indicato con chiarezza quello che già otto anni prima aveva rappresentato l’obiettivo di fondo: Umano, troppo umano lancia il primo, diretto, compiuto attacco alla morale. Uno spirito nel quale lo «spirito libero» deve maturare fino alla propria perfezione – osserva Nietzsche – ha il suo evento in una «grande separazione»(in einer grossen Loslösung);; il che significa che egli è stato, fino a quel giorno, uno spirito «legato» e «incatenato». Quel che lega e incatena, soprattutto «gli uomini di specie alta ed eletta», so-no i «doveri» (die Pflichten). Per questi «incatenati» la «grande separazione» giunge «improvvisa, come una scossa di terremoto». Alla «giovane anima» in cui germoglia lo spirito libero sopraggiunge «un subitaneo orrore e sospetto verso ciò che amava, un lampo di disprezzo verso ciò che per essa significava ‘‘dovere’’»;; essa rivolge «uno sguardo e un gesto sacrileghi all’indietro, là dove aveva finora pregato e amato» (MAM I, IV,II, 5-6). Si fa strada «una curiosità sempre più pericolosa» che si interroga sulla reale natura della morale: Non si possono capovolgere tutti i valori? (Kann man nicht alle Werthe umdrehen?) Ed è forse bene il male? e Dio soloun’invenzione e una finezza del Diavolo? È forse tutto in ultima analisi falso? E se noi siamo degli ingannati, non siamo per ciò stesso anche ingannatori? Non dobbiamo essere anche ingannatori? (MAM I, IV,II, 6-7).
Allo spirito libero si svelano ora il segreto della «grande separazione» e le ragioni del proprio isolamento: Dovevi diventare padrone di te stesso, padrone anche delle tue virtù. Prima erano esse le tue padrone;; ma esse devono essere solo tuoi strumenti accanto ad altri strumenti [...] Dovevi imparare a comprendere ciò che appartiene alla prospettiva in ogni giudizio di valore [...] Dovevi imparare a comprendere la necessaria ingiustizia di ogni pro e contro, l’ingiustizia come inseparabile dalla vita, la vita stessa come condizionata dalla prospettiva e dalla sua ingiustizia (MAM I, IV,II, 9). {p. 210}
Questa prima Umwerthung aller Werthe assume la prospettiva come la cornice naturale in cui i valori hanno la loro origine: guarda «in faccia il problema della gerarchia»(MAM I, IV,II, 10). La morale – la gerarchia dei valori – è un risultato della prospettiva: del punto di vista dal quale l’individuo guarda alla vita;; essa non è in sé né positiva né negativa: non è un assoluto, ma uno strumento (come sono strumenti le virtù) che serve alla conservazione e all’evoluzione dell’individuo. Questo punto viene affermato con decisione nell’af. 40, intitolato Il superanimale (Das Ueber-Thier): «La bestia in noi vuol essere ingannata;; la morale è la menzogna necessaria (Nothlüge) per non esserne sbranati» (MAM I, IV,II, 51). Senza gli errori della morale l’uomo non avrebbe oltrepassato lo stadio dell’animalità. La morale è dunque un errore, ma un errore necessario alla vita;; nel momento stesso in cui viene ribadita la sua necessità, essa si trova tuttavia condizionata ad un bisogno;; e questo condizionamento la distrugge in quanto assoluto. Questa rimarrà come un’acquisizione definitiva nella riflessione di Nietzsche sulla natura dei valori. Ancora nella primavera del 1888 egli osserva: «La morale è un errore utile, o meglio, in relazione ai più grandi e spregiudicati dei suoi sostenitori, una menzogna ritenuta necessaria» (15[64], VIII,III, 238). La distruzione della morale – la «trasvalutazione di tutti i valori» (Umwerthung aller Werthe) – ha senso solo in quanto getta la premessa per l’affermazione di una nuova morale. Ciò significa che non esiste una morale al di là dell’epoca e degli individui che stabiliscono la gerarchia dei valori in relazione alla loro situazione storica. Questo dato di fatto viene così rappresentato da Nietzsche nell’af. 42: «La gerarchia dei beni una volta accettata, secondo che un egoismo inferiore, superiore o supremo voglia l’una più che l’altra cosa, decide oggi sull’essere morale o sull’essere immorale». Ma una tale gerarchia non è «fissa e uguale in tutti i tempi». Chi preferisca la vendetta alla giustizia è immorale secondo la civiltà odierna, ma morale secondo una civiltà del passato. «‘‘Immorale’’» è pertanto colui che non sente ancora «i motivi più elevati, più sottili e più {p. 211}
intellettuali, che la nuova civiltà di volta in volta ha apportato». Morale e immorale non sono, in ultima analisi, che giudizi dettati sul metro dell’adeguatezza o dell’inadeguatezza storica (MAM I, IV,II, 51-52). Lo «spirito libero» è precisamente colui che pensa la morale sulla base della sua storicità, e può pensarla come tale grazie alla «grande separazione» che lo ha liberato dalla gerarchia dominante nel suo tempo. Nell’af. 225 lo spirito libero viene indicato, nel titolo, come «un concetto relativo»(ein relativer Begriff): Si chiama spirito libero colui che pensa diversamente da come, in base alla sua origine, al suo ambiente, al suo stato e ufficio o in base alle opinioni dominanti del tempo, ci si aspetterebbe che egli pensasse. Egli è l’eccezione (Ausnahme), gli spiriti vincolati sono la regola (MAM I, IV,II, 162-163).
Quel che preme allo spirito libero è la conoscenza della verità, e, riguardo alla verità, il fatto determinante è «che la si possieda», non per quale via si sia giunti ad essa. Dunque, non ha rilevanza che gli spiriti liberi giungano alla verità «per immoralità» e che gli spiriti vincolati si attengano invece «alla non verità per moralità». Quel che caratterizza lo spirito libero non è l’avere «opinioni più giuste», ma l’essersi staccato dalla tradizione;; il che significa che la verità dello spirito libero è una verità che dev’essere sempre e di nuovo cercata: in questo senso «egli avrà dalla sua parte la verità o almeno lo spirito di ricerca della verità (den Geist der Wahrheitsforschung): egli esige ragioni (Gründe), gli altri fede (Glauben)» (MAM I, IV,II, 163). Se la verità dello spirito libero è nella sua essenza ricerca della verità, essa trattiene evidentemente ancora qualcosa dello spirito della scienza. Poiché solo la conoscenza può portare alla verità, è ancora alla scienza che dobbiamo guardare. Ma la scienza – osserva Nietzsche nell’af. 251 (Avvenire della scienza) – «dà molto piacere a colui che in essa lavora e ricerca (sucht) e molto poco a chi impara i suoi risultati». Le verità della scienza divengono ben presto {p. 212}
verità ordinarie, e il piacere connesso alla loro ricerca svanisce. Man mano che la scienza progredisce, essa getta discredito sulle «fonti di consolazione»: la metafisica, la religione, l’arte;; ossia su quelle illusioni che consentono all’uomo di vivere[93]. Occorre allora preservare queste fonti
per garantire la scienza stessa, affinché essa – «grandissima fonte di piacere, alla quale gli uomini devono quasi tutta la loro umanità» – non si impoverisca. Nietzsche definisce una «cultura superiore» quella in grado di garantire all’uomo «un doppio cervello (ein Doppelgehirn), qualcosa come due camere cerebrali (zwei Hirnkammern), una per sentirci la scienza, un’altra per sentirci la non scienza (die Nicht-Wissenschaft)»[94]. Che le due camere stiano l’una accanto all’altra, senza confondersi, rappresenta un’«esigenza di salute». La «non scienza» – ossia la metafisica, la religione, l’arte: in breve tutto ciò che è definibile come illusione – riscalda la freddezza del rigore scientifico: è un rimedio contro gli esiti nichilistici della scienza. D’altro canto, la scienza viene riconosciuta come la via che conduce alla verità, e deve pertanto essere salvata dai rischi impliciti nella sua stessa vocazione nichilistica. Se questa «cultura superiore» non si affermerà – conclude Nietzsche – «l’illusione, l’errore e la fantasticheria», non più contrastate dalla verità della scienza, avranno partita vinta e ripiomberanno l’uma {p. 213}
nità nella barbarie (MAM I, IV,II, 178-179). Il programma che Nietzsche traccia in questo celebre aforisma dev’essere considerato il naturale sviluppo del programma politicopedagogico definito con chiarezza nelle Inattuali:la «cultura superiore» di cui qui si parla ha ancora il suo modello contrapposto nel Bildungsphilister. Ma la necessità che la passione per la conoscenza debba avere consapevolmente accanto la forza alleviatrice dell’illusione è una conquista specifica del Freigeist.Il Freigeist èdunquel’avversariodichiarato del Bildungsphilister. La sua attività è la passione per la conoscenza, ma al suo carattere è connessa una particolare «prudenza» (Vorsicht). «Gli uomini di sensi liberi, che vivono solo di conoscenza» – scrive Nietzsche nell’af. 291 (Prudenza degli spiriti liberi) – dopo aver raggiunto il loro scopo si accontenteranno di una posizione modesta in seno allo Stato e alla società: è questa la garanzia della loro libertà». E tuttavia, «di tempo in tempo», deve giungere anche per lo spirito libero «una domenica di libertà, altrimenti non sopporterà la vita» (MAM I, IV,II, 200). Questa espressione – che fa pensare all’hegeliana definizione dell’arte come «domenica della vita» – sottolinea ancora una volta la necessità che la leggerezza dell’illusione si accompagni alla passione della conoscenza. Solo lo stare fianco a fianco di verità e illusione garantisce allo spirito libero la sua leggerezza. Il Freigeist dev’essere insomma uno spirito leggero. E proprio questa leggerezza indica allo spirito libero il suo compito ulteriore: dalla «grande separazione», che gli consente la libertà della meditazione solitaria, egli deve tuttavia nuovamente separarsi per tornare a parlare. La crisi di cui lo spirito libero è il segnale deve risolversi in vocazione a fare ritorno tra gli uomini. Così, più tardi, Zarathustra – evoluzione conseguente del Freigeist – lascerà la sua montagna per predicare agli uomini le sue verità. Niente di meglio della canzone del Principe Vogelfrei – che apre gli Idilli di Messina (1882) – esprimerà questo essenziale punto di passaggio: {p. 214}
Un passo dietro l’altro – non è vita! Sempre gamba in avanti slomba e aggrava! Sollevare io mi lascio dai venti, Librarmi sull’ali mi piace E ad ogni uccello drizzar dietro il volo.
Ragione? – tediosa faccenda: Ragione e lingua ciampicano assai! Nuove forze infuse in me volare E più belle faccende m’insegnò, Canto e scherzo e operetta.
Meditare solinghi – è cosa saggia,
Ma solinghi cantar – questo è da stolti! Porgete dunque orecchio al mio cantare E intorno a me, tacitamente, in cerchio Posate, miei begli uccelletti! (IM, V,II, 3)
Questa stessa leggerezza, che è vocazione al canto, torna nel discorso dell’«uccello ‘‘saggezza’’» (Vogel-Weisheit) dello Zarathustra: «Ecco, non c’è sopra né sotto! Slanciati e vola: in giro, in avanti, all’indietro, tu che sei lieve! Canta! non parlare più! – non sono le parole, tutte, fatte per i grevi? Non mentono tutte le parole per chi è lieve! Canta! non parlare più!» (Za, VI,I, 282).
Così lo spirito libero si muove dall’angolo della «grande separazione» e diventa «viandante» (Wanderer). Chi però ha acquistato ali per volare sa di poter parlare soltanto a chi possiede ali a sua volta: i «begli uccelletti» (schönen Vögelchen) del Principe Vogelfrei sono anch’essi spiriti liberi ai quali, soltanto, lo spirito divenuto libero può cantare. Nello stesso senso anche Zarathustra, dopo aver presunto di poter predicare agli uomini nella città, riprenderà la via della montagna per cercare la compagnia degli «uomini superiori»[95]. {p. 215}
La prima parte di Umano, troppo umano si chiude significativamente, come un momento di transito agli sviluppi futuri, con l’af. 638, intitolato appunto Il viandante: Chi anche solo in una certa misura è giunto alla libertà della ragione, non può poi sentirsi sulla terra nient’altro che un viandante – per quanto non un viaggiatore diretto a una meta finale: perché questa non esiste (MAM I, IV,II, 304).
La strada che il viandante percorre è quella segnata dal nichilismo. Ma il saper andare oltre ogni meta conduce anche oltre il nichilismo. Il viandante giungerà a città d’oriente in cui «il deserto (die Wüste) arriverà fino alla porta»: le fiere e i predoni lo priveranno dei beni;; «allora la terribile notte calerà veramente per lui come un secondo deserto sul deserto (wie eine zweite Wüste auf die Wüste)» (ibidem). Il deserto è spesso, in Nietzsche, una metafora del nichilismo. Nello Zarathustra il «viandante e om-bra», uno degli «uomini superiori», canta per le «figlie del deserto» – incarnazione della sensualità orientale che si contrappone alla virtù europea[96]– un «salmo postconviviale» intitolato Il deserto cresce (Die Wüste wächst): guai a colui che cela deserti dentro di sé! Il senso di questo titolo si svela nella strofa finale: Ah! Vieni su dignità! Dignità virtuosa! Dignità europea! Soffia, soffia di nuovo, Mantice della virtù! Ah! Ruggire ancora una volta, Moralmente ruggire, Come leone morale, Ruggire davanti alle figlie del deserto! – Giacché l’ululato virtuoso, O leggiadre fanciulle,
È, più di tutto il resto, Passione e fame ardente degli Europei! (Za, VI,I, 375)
La «dignità», la «virtù», il ruggito e l’ululato «morale» sono i segni dell’impotenza dell’uomo europeo di fronte alla rasserenante sensualità di coloro che del deserto sanno essere semplicemente «figlie». Il venir meno di questi valori, come il nulla che il cristianesimo ha sostituito ai valori concreti della vita, sarà il tema dell’aforisma che Nietzsche intitolerà Il nichilismo europeo (5[71], VIII,I, 199-206)[97]. Ma qui, intanto, questo nulla è designato come «deserto»;; l’aver fame della morale, in quanto essa è nulla, è già «deserto». In un frammento poetico dell’autunno 1884 (Malvagità solari) Nietzsche scrive: «Il deserto cresce: guai a chi è divenuto un deserto! / Deserto è fame, che scava in cerca di cadaveri» (VI,IV, 83). Nei Ditirambi di Dioniso, riprendendo la canzone Tra figlie del deserto, Nietzsche vi aggiunge una strofa conclusiva: Il deserto cresce: guai a chi alberga deserti! Pietra stride su pietra, il deserto inghiotte e strozza. La morte atroce fissa rovente il suo sguardo bruno e mastica – la sua vita è il suo masticare...
non dimenticare, o uomo che la voluttà (Wollust) ha macerato:
tu – sei la pietra, il deserto, tu sei la morte... (DD, VI,IV, 25-27)
Non si tratta di una condanna della «voluttà»: essa macera in quanto, di fronte ad essa, si riducono al nulla (al «deserto») le categorie della morale. Ancora in un frammento poetico dell’autunno 1884 ritroviamo il deserto in significativa allusione al destino del viandante: {p. 217}
Il mondo – una grande porta su mille deserti, muta e fredda! Chi ha perduto quel che tu hai perduto, mai fa sosta (macht nirgends Halt)!
E qui ritorna anche la connessione con il tema del Principe Vogelfrei: Vola uccello, fa’ stridere la tua canzone con l’accento di un uccello del deserto! – nascondi, o pazzo, il tuo cuore sanguinante nel ghiaccio e nello scherno! (VI,IV, 143)
Va sottolineato che questo frammento porta il titolo Lo spirito libero. Spirito libero, viandante e deserto sono figure strettamente connesse tra di loro nel segno del nichilismo. Tornando ora all’af. 638 di Umano, troppo umano, neppure il sopraggiungere del giorno libererà il viandante dal deserto nulla: «Quando la città si aprirà, vedrà sulle facce dei suoi abitanti forse ancora più deserto, sozzura, inganno e incertezza che fuori le porte» (MAM I, IV,II, 304). Che cosa,
allora, può salvare il viandante? Nient’altro che la compagnia dei propri simili: verranno infine «come ricompensa, i deliziosi mattini di altre contrade e di altre giornate», in cui egli «si vedrà passare accanto danzando nella nebbia dei monti i cori delle Muse». Allora, «nell’equilibrio dell’anima mattinale», gli cadranno intorno «i doni di tutti quegli spiriti liberi che abitano sul monte, nel bosco e nella solitudine e che, simili a lui, nella loro maniera ora gioiosa e ora meditabonda sono viandanti e filosofi». Ciò avverrà «fra il decimo e il dodicesimo rintocco di campana», quando il mondo assume «un volto così puro, così luminoso, così trasfiguratamente sereno»: in quest’ora i filosofi-viandanti-spiriti liberi «cercano la filosofia del mattino (Philosophie des Vormittags)» (MAM I, IV,II, 305). Questi spiriti liberi sono, di nuovo, i «begli uccelletti» ai quali il principe Vogelfrei vuole comunicare con il proprio {p. 218}
canto. Ma nel brano che abbiamo riassunto si cela un’apparente contraddizione. Occorre infatti dedurre che la «grande separazione», in cui lo spirito libero ha per così dire la propria patria, dopo averlo spinto tra gli uomini – nella città che è in realtà «deserto» – lo risospinge ora in una nuova separazione che genera tuttavia una comunità di spiriti liberi. Questi spiriti liberi, al plurale, non sono che una moltiplicazione del modello unico dello spirito libero. In altre parole, il canto dello spirito libero-viandante è un parlare a se stesso. Questo parlare a se stesso non è tuttavia un monologo, bensì un dialogo. Nello stesso anno 1878 Nietzsche progetta di dare una continuazione a Umano, troppo umano. Nel marzo 1879 l’editore Schmeitzner pubblica questa continuazione che, al titolo Umano, troppo umano, reca l’aggiunta Appendice: Opinioni e sentenze diverse. Ma l’opera non era ancora conclusa. Nell’ottobre dello stesso anno Nietzsche consegna, ancora a Schmeitzner, un nuovo libro dal titolo Il viandante e la sua ombra[98], che nel retro del frontespizio reca la dicitura «Seconda e ultima appendice alla già pubblicata raccolta di pensieri, Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi». Nel 1886 le due appendici saranno raccolte insieme e pubblicate dall’editore Fritzsch di Lipsia come secondo volume di Umano, troppo umano. Il viandante e la sua ombra si apre con una precisa ripresa del discorso lasciato aperto dall’af. 638 di Umano, troppo umano I.La filosofia del mattino, in cui il viandante-spirito libero cerca la comunione con gli altri spiriti liberi, diviene ora un esplicito dialogo dello spirito libero con se stesso. Il principe Vogelfrei sarà di ciò pienamente cosciente: i «begli uccelletti» non sono che espressione della sua stessa essenza. Questa essenza Nietzsche la nomina ora come «ombra» (Schatten). Il viandante e la sua ombra è introdotto da un dialogo in cui il viandante rivela la natura reale dell’ombra: {p. 219}
L’ombra: Poiché per tanto tempo non ti ho sentito parlare, vorrei dartene un’occasione. Il viandante: Una voce: – dove? e chi? Mi pare quasi di udir parlare me stesso, solo con voce ancor più debole che la mia (MAM II, IV,III, 133).
La meraviglia che risuona nelle domande del viandante è la meraviglia di chi si trova nel deserto e, vedendo l’orizzonte vuoto, non può che riferire a se stesso l’origine della voce. L’ombra appartiene dunque alla stessa costituzione interna dello spirito libero, il quale è, come sappiamo, una figura della passione per la conoscenza;; e, se la conoscenza è luce, l’ombra appartiene a questa luce come suo necessario complemento. Dice il viandante: «L’ombra è tanto necessaria quanto la luce. Esse non sono avversarie: si tengono al contrario amorevolmente per mano, e se la luce sparisce, l’ombra le guizza dietro». E a queste parole l’ombra risponde dichiarandosi come «quell’ombra che tutte le cose mostrano quando il sole della conoscenza cade su di esse» (MAM II, IV,III, 134). Dunque il deserto, la riduzione nichilistica dell’essenza delle cose, è condizione necessaria affinché nella solitudine la liberazione si compia col ritrovare in se stessi la passione per la conoscenza e la verità. A partire da qui, la filosofia di Nietzsche conosce una svolta. Alla fase negativa e distruttiva che si esprime nell’attacco alla morale di Umano, troppo umano I si accompagna, d’ora in avanti, una filosofia propositiva, una filosofia dell’annuncio (la filosofia del mattino) che, maturando attraverso Aurora ela Gaia scienza, approderà alla predicazione di Zarathustra.
6. La filosofia del mattino e la nuova scienza In Ecce homo Nietzsche scrive a proposito di Aurora: «Con questo libro comincia la mia campagna contro la morale»(EH, VI,III, 339). Osserva Giorgio Colli che ciò non è del tutto esatto, dato che con Umano, troppo umano, e soprattutto con Il viandante e la sua ombra, «questa
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‘‘campagna’’ era stata non solo preparata e annunziata, ma già in parte combattuta»[99]. E tuttavia, secondo Nietzsche, il modo in cui questa campagna viene condotta a partire da Aurora la differenzia dalle occasioni precedenti. Da questo libro, egli osserva, occorre prendere congedo con una «ombrosa prudenza (mit einer scheuen Vorsicht) verso tutto quanto fino a oggi è stato onorato e perfino venerato sotto il nome di morale»;; in esso non si legge «una parola di negazione, un attacco, una malignità» (ibidem). La «prudenza» rimanda ad una delle qualità già indicate come proprie dello spirito libero: che il libro non contenga attacchi contro la morale, ma ne prescinda – in quanto essa «semplicemente non viene più presa in considerazione» –, rivela come raggiunto l’obiettivo della leggerezza. Se la notte e il deserto sono alle spalle, è ora possibile vedere «quel rosso tenero ancora inscoperto con cui comincia un nuovo giorno». Questo «nuovo mattino» è l’inizio di una fase propositiva e costruttiva della critica;; guardando a ritroso, Nietzsche la identifica ora con una «trasvalutazione di tutti i valori», con «un sì a tutte le cose». Aurora è un «libro che dice sì» e che restituisce a tutte le cose, anche a quelle cattive, «‘‘l’anima’’, la buona coscienza, il superiore diritto e privilegio di esistere» (EH, VI,III, 340). L’essenzialità di questo passaggio è stata sottolineata da Eugen Fink. Tenendo conto dell’arco complessivo della sua interpretazione – in cui già Umano, troppo umano viene proposto come una svolta radicale –, Aurora ela Gaia scienza rappresentano una sorta di svolta nella svolta: «Dietro alla negazione illuminista sorge pian piano il ‘‘Dir di Sì’’ della vera e propria filosofia di Nietzsche»[100]. Se la scienza ha prodotto il disincantamento e rivelato gli aspetti troppo umani dell’ideale, il passo immediatamente successivo consiste nel procedere oltre la distruzione della «volta celeste» della religione, della metafisica e della morale. Il risultato è un ancor più deciso riorientamento del {p. 221}
la riflessione nietzscheana in direzione dell’uomo: «L’uomo non cerca più mete al di fuori di sé, ma in sé»[101]. Ciò comporta un mutamento essenziale nel modo di concepire la natura e i fini della scienza: dalla negazione illuminista, passando «velocemente» attraverso il metodo positivista, la scienza diviene per Nietzsche fondamentalmente «uno stile d’indagine» che ha come scopo la liberazione dal peso della tradizione;; in questo modo essa conquista l’obiettivo della leggerezza: «La scienza dello spirito libero è fröhlich: è ‘‘la gaia scienza’’»[102]. Dalla semplice – e ancora troppo umana – negazione del sovrumano il nuovo uomo nietzscheano passa ora a scoprire «il sovrumano come una dimensione nascosta del suo proprio essere». Aurora ela Gaia scienza rappresentano per Fink la definitiva «distruzione dell’immagine dell’uomo derivante dalla psicologia dello smascheramento»[103]. Con ciò, l’annuncio dell’Übermensch si fa imminente: lo Zarathustra è il compimento coerente di questa nuova dimensione antropologica.
7. Distruzione e creazione dei valori Aurora esce presso l’editore Schmeitzner di Chemnitz nel giugno del 1881. Il libro ha come sottotitolo Pensieri sui pregiudizi morali. L’immagine stessa di una «aurora» (Morgenröthe) è pensata da Nietzsche in relazione di stretta continuità con i temi fino a quel momento affrontati. Per un verso l’aurora è il rilucere del Vormittag già annunciato da Umano, troppo umano;; per l’altro, essa rimanda a un rischiaramento che ancora corrisponde al senso che Nietzsche annette alla propria interpretazione della vocazione illuministica della filosofia come critica della morale e indagine genealogico-storica sulla formazione della gerarchia dei valori. In un frammento più tardo, databile tra {p. 222}
il novembre 1882 e il febbraio 1883, egli annota: «Il vostro illuminarvi sia al tempo stesso un’aurora» (Daß eure Aufklärung auch zugleich eine Morgenröthe sei) (4[29], VII,I,I, 109). L’immagine dell’aurora cela in realtà un doppio significato: essa indica da un lato il «gelo» mattutino in cui i valori fino a quel momento vigenti hanno per-so la loro forza e, dall’altro, il «fuoco» di nuovi valori che si annunciano. Così Nietzsche spiega in un frammento dello stesso periodo: «Quanto più, rispetto alla scala di valori del passato, ti avvicini al gelo totale, tanto più ti avvicini anche ad un fuoco nuovo» (5[1] 67, VII,I,I, 181). È questo, dunque, il duplice senso della «campagna» contro la morale: la distruzione è la premessa necessaria ad una nuova costruzione. Il presupposto è ancora quello, fissato in Umano, troppo umano, del condizionamento storico della morale, della morale come «menzogna necessaria», che Nietzsche ribadisce in Aurora (af. 98): Trasmutazione (Wandel) della morale. Esiste un continuo trasmutarsi ed elaborarsi (Umwandeln und Arbeiten) della morale, – lo determinano i delitti con felice epilogo (cui appartengono, per esempio, tutte le innovazioni della riflessione morale) (M, V,I, 70).
Con un procedimento simile a quello che, in Su verità e menzogna in senso extramorale, mostrava l’origine della verità nell’assolutizzazione del punto di vista antropomorfico, l’origine della morale viene ora indicato nell’azione di un soggetto che si ritiene centro del mondo e giudica rispetto a se stesso le relazioni col mondo e con gli altri. Giudicare del prossimo significa giudicare l’azione che egli può esercitare su di noi ed elevare ad assoluto questo giudizio condizionato. In questa elevazione sta propriamente l’origine della morale: essa nasce da «esecrabili piccole conclusioni». Quel che nuoce ame è nocivo in sé;; quel che giova ame è buono in sé. Questa Nietzsche definisce come la «pudenda origo» della morale: «E dietro questa vera follia, non sta anche il più immodesto di tutti i riposti pensieri, quello di essere noi stessi il principio del {p. 223}
bene, poiché è alla nostra stregua che si misura bene e male?» (af. 102, M, V,I, 70-71). Che questa origine venga definita pudenda rimanda, ancora una volta, al procedimento con cui, in Su verità e menzogna, si indicava nell’oblio il fondamento dell’assolutizzazione della verità. E, come in quel caso, una volta che sia tolto «di sotto i pie-di» il punto d’appoggio soggettivo, la morale in sé sprofonda. Nel 1886, nella prefazione che apre la seconda edizione di Aurora, Nietzsche scrive: «In noi giunge al suo compimento, posto che vogliate una formula – l’autosoppressione della morale (die Selbstaufhebung der Moral)» (M, V,I, 8). Poiché le valutazioni morali – come abbiamo visto nell’af. 102 – hanno la loro origine nel contrapporsi di azione e reazione, esse svelano la loro natura di rapporti di potenza. Pensate in termini di rapporti di potenza, le valutazioni morali si traducono in doveri e diritti. «I nostri doveri – osserva Nietzsche nell’af. 112 (Per la storia naturale del diritto e del dovere) – sono i diritti di altri su di noi». Essi li hanno acquisiti riconoscendo la nostra capacità di stipulare contratti, ossia di esercitare a nostra volta nei loro confronti un potere uguale e contrario. In tal modo, ciò che ci spinge a «fare il nostro dovere» è l’orgoglio di «restaurare la nostra sovranità». Vantando un diritto su di noi, gli altri hanno «invaso la sfera del nostro potere», che non cesserebbe di essere nelle loro mani «se noi non effettuassimo, col ‘‘dovere’’, una controprestazione (Widervergeltung), vale a dire non violassimo il potere loro». I «miei diritti» sono dunque «quella parte del mio potere che non soltanto gli altri mi hanno concesso, ma nella quale essi mi vogliono mantenere»;; e ciò sia perché essi si attendano qualcosa in cambio o abbiano timore della mia forza, o sia ancora perché ritengano svantaggiosa una riduzione della mia forza. «Così – conclude Nietzsche – hanno origine i diritti: come riconosciuti e garantiti gradi di potenza (Machtgrade)». Quando questi «rapporti di potenza» (Machtverhältnisse) si scompaginano, «vengono meno alcuni diritti e se ne formano di nuovi», come dimostra la storia del diritto internazionale. Che in una data {p. 224}
situazione storica domini il diritto, significa che «è mantenuto in piedi un certo stato e grado di potenza (ein Zustand und Grad von Macht), e sono impediti una diminuzione e un accrescimento». Il diritto che altri vantano su di noi «è la concessione che il nostro sentimento di potenza (Gefühl von Macht) fa al sentimento di potenza di questi altri» (M, V,I, 79-81). La traduzione delle valutazioni morali in diritti e doveri porta dunque alla luce il sentimento di potenza come fondamento di quelle stesse valutazioni. Come si ricorderà, nell’af. 98 Nietzsche aveva affermato che il rinnovarsi della morale è determinato da «delitti con felice epilogo» (Verbrechen mit glücklichem Ausgange): ciò non è nulla di diverso dall’instaurarsi di un nuovo sentimento di potenza che viola la condizione di forza esistente e sperimenta la propria efficacia alla prova dei fatti. A questa circostanza dev’essere ricondotta l’intera riflessione morale che poggia sulle valutazioni di bene e male, buono e malvagio. L’individuazione del «sentimento di potenza» come fondamento della morale – che diverrà di qui a poco la volontà di potenza come definizione dell’essere nel suo complesso – diviene il tratto unificante della riflessione nietzscheana sulla morale, che tiene insieme il periodo di Aurora con quello delle opere posteriori allo Zarathustra. Tanto più che Nietzsche riflette sull’origine dei valori in una serie di frammenti databili al periodo immediatamente successivo ad Aurora, che è quello stesso dell’elaborazione dello Zarathustra, i quali vengono poi ripresi in Al di là del bene e del male. L’espressione delitti con felice epilogo indica con precisione il modo in cui i nuovi valori vengono affermati. Chi viola l’ordine morale vigente commette, agli occhi di quello stesso ordine, un delitto:il felice epilogo dipende unicamente dalla capacità di affermarsi di colui che viola;; in altre parole, dalla sua forza. L’affermarsi di una nuova gerarchia di valori è pertanto in relazione, prima di tutto, con l’auto-affermazione dell’innovatore. Egli riconosce se stesso come «buono», e da ciò discende la «bontà» dei valori affermati. Questo punto costituisce il nucleo della {p. 225}
riflessione nietzscheana sulla produzione di nuovi valori. Esso viene trattato in un frammento della primavera-estate 1883, e da qui passa poi in Al di là del bene e del male e nella Genealogia della
morale. Analizzando l’evoluzione storica della morale, Nietzsche ritiene di individuarne un tratto fondamentale che resta immutato: la separazione tra una «morale dei signori» e una «morale degli schiavi». A ciò segue l’osservazione che i valori sorgono «in generale fra aristocratici, in mezzo a una stirpe dominante che acquista coscienza della propria distinzione da quella dominata». Dare valutazioni morali significa che «una specie superiore d’uomo diviene consapevole di sé come superiore in contrapposizione ad una specie inferiore». Sono dunque i dominatori «a determinare la nozione di ‘‘buono’’». L’elemento comune che si ritrova nei vari generi di morale è perciò il fatto che in essi «si ritrovano i tratti della potenza». Ad esser definiti come «buoni» sono «gli stati di elevazione e di fierezza», in contrapposizione al «vile», al «pauroso», al «meschino». Ciò che pone il valore è il «senso della pienezza straripante»: solo chi ne è in posses-so è in grado di «prestar soccorso allo sventurato»;; egli soltanto «sa comandare e ubbidire» (7[22], VII,I,I, 234-236). Come detto, questo schema viene ribadito e sviluppato in Al di là del bene e del male (af. 260, cap. IX: Che cos’è aristocratico?). L’aristocratico, colui che determina i valori, rivendica a se stesso come un privilegio quella arbitraria assolutizzazione del punto di vista soggettivo in cui consiste, come sappiamo, l’errore necessario della morale: L’uomo di specie nobile sente se stesso come determinante il valore, non ha bisogno di riscuotere approvazione, il suo giudizio è «quel che è dannoso a me, è dannoso in se stesso», conosce se stesso come quel che unicamente conferisce dignità alle cose, egli è creatore di valori (JGB, VI,II, 179).
A questo tipo d’uomini restano estranei tanto la compassione quanto il disinteresse. Nei confronti degli inferiori o degli estranei l’aristocratico si sa libero di «agire a proprio libito o ‘‘come vuole il cuore’’ e comunque ‘‘al di {p. 226}
là del bene e del male’’» (JGB, VI,II, 180). Ciò corrisponde al rovesciamento della «morale degli schiavi», secondo la quale è il «‘‘malvagio’’» a suscitare timore;; secondo la «morale dei signori» è invece «il buono a suscitare e a voler suscitare timore, mentre l’uomo ‘‘cattivo’’ viene sentito come spregevole» (JGB, VI,II, 181). Il termine «‘‘cattivo’’» indica qui precisamente l’opposto del dominante, dell’aristocratico: vale a dire il dominato, il plebeo. Il fatto che Nietzsche individui il momento della formazione dei valori nella contrapposizione tra signore e schiavo, tra aristocratico e plebeo, tra dominante e dominato, affonda le radici nella sua formazione classica, che si proietta sulle conclusioni più estreme della riflessione sulla morale. Risale al periodo di Pforta un’esercitazione scolastica – Dissertatio de Theognide Megarensi – il cui testo è completato in soli quattro giorni nel luglio 1864 e che già non esaurisce il proprio interesse nell’ambito della filologia[104]. Nietzsche si mostra qui particolarmente attento alla definizione teognidea del concetto di «aristocratico» e al suo ruolo nella conduzione dello Stato. Negli ammaestramenti che Teognide impartisce al giovane Cirno, i mali che affliggono la città si riassumono nella presa di potere di una classe di nuovi ricchi che ha sostituito le famiglie di antica aristocrazia nel governo dello Stato: Cirno, la città è ancora una città: ma la gente è un’altra, sono quelli che un tempo – senza legge, senza giustizia – logoravano una pelle di capra intorno ai fianchi e pascolavano come cervi, fuori dalle mura. Sono i primi cittadini (ἀγαθοί), adesso;; e i nobili (ἐσθλοί) {p. 227} di un tempo, sono gli ultimi (δειλοί). (vv. 53-58;; trad. it. di M. Cavalli)
e ancora: Vale più il lusso che la nobiltà. Sola venerazione è la ricchezza: il nobile (ἐσϑλός) s’in [crocia col plebeo, il plebeo (κακός) col nobile è l’oro (πλοῦτος) che fa [razza. (vv. 189-190)[105]
Nietzsche osserva come Teognide discrimini una parte del popolo come «toùs agathoùs ossia gli
ottimati, gli uomini dabbene, depositari di tutto il culto religioso», e un’altra come «toùs kakoùs o deiloùs, gravati di ogni perversione morale, di ogni empietà e scelleratezza» (I,I, 433). Teognide ci pone di fronte alla «famosa superbia dell’aristocrazia dorica» (I,I, 438), che soltanto la nuova oligarchia del denaro, nutrita dei patrimoni accumulatisi con i proventi dei traffici marittimi, scalza dal potere minando quei valori (il «culto religioso») dei quali essa era stata fondatrice e custode. È con ciò già posta la radice di quell’indagine storica sull’origine dei valori (cioè della loro genealogia) che sta alla base della Umwerthung aller Werthe. La disuguaglianza è il fondamento del valore. Nella Genealogia della morale Nietzsche nota come il termine ἐσϑλός, usato da Teognide per designare l’aristocratico, significhi in origine «qualcuno che è, che ha realtà, che è reale, che è vero», e successivamente «il vero in quanto veridico» (den Wahren als den Wahrhaftigen): esso assume il senso di «‘‘aristocratico’’» («adelig») in quanto si distingue dal-l’«uomo volgare, mentitore (vom lügenhaften gemeinen Mann), come lo chiama e lo descrive Teognide» (GM, {p. 228}
VI,II, 228)[106]. Il richiamo a Teognide si colloca all’interno del problema che Nietzsche ha cominciato ad affrontare qualche pagina avanti: anche in questo caso, l’origine dei valori. Riprendendo le argomentazioni di Al di là del bene e del male, egli osserva come il giudizio di «buono» non derivi da coloro ai quali viene data prova di bontà, ma sia un autoriconoscimento di quelli che si giudicano essi stessi «buoni»;; sono «i nobili, i potenti, gli uomini di condizione superiore e di elevato sentire» che, con la qualifica di «buono», misurano la propria distanza da «tutto quanto è ignobile e d’ignobile sentire, volgare e plebeo». A fondamento dei valori sta dunque quella disuguaglianza che Nietzsche definisce «pathos della distanza»(Pathos der Distanz): in virtù di esso, i nobili «si sono per primi arrogati il diritto di foggiare valori, di coniare le designazioni dei valori». Nel «pathos della nobiltà e della distanza», in quanto in esso si esprime l’opposizione di una «superiore schiatta egemonica» «a una schiatta inferiore, a un ‘‘sotto’’ (zu einem ‘‘Unten’’)», sta dunque «l’origine dell’opposizione tra ‘‘buono’’ e ‘‘cattivo’’» (GM, VI,II, 226).
8. La «gaia scienza»: una nuova navigazione Ancora nell’af. 260 di Al di là del bene e del male Nietzsche introduce un’ulteriore differenziazione tra «morale degli schiavi» e «morale dei signori»;; alla prima appartengono «il desiderio di libertà, l’istinto per la felicità e per le finezze del senso di libertà», mentre alla seconda sono propri «l’arte e l’entusiasmo della venerazione, della dedizione»[107]. Per questo «l’amore come passione» non può essere che «di origine nobile»: il merito della sua sco {p. 229}
perta spetta infatti «ai poeti-cavalieri provenzali, a quegli splendidi ingegnosi uomini del ‘‘gai saber’’ cui l’Europa deve tante cose e quasi quasi se stessa» (JGB, VI,II, 181). Gai saber, ossia gaia scienza (fröhliche Wissenschaft): dalle posizioni di Al di là del bene e del male Nietzsche reinterpreta l’idea che sta alla base del libro di quattro anni prima. La gaia scienza viene pubblicata dall’editore Schmeitzner alla fine di agosto del 1882. Nel 1887 ne esce una seconda edizione preceduta da una prefazione in cui Nietzsche riassume il senso dell’opera: «‘‘Gaia scienza’’: vuol significare i saturnali di uno spirito, che ha resistito con pazienza a una lunga, orribile oppressione [...] e che ora, tutt’a un tratto, è invaso dalla speranza, dalla speranza di salute, dall’ebbrezza della convalescenza». Il libro è mosso dall’«esultanza dell’energia che ritorna, della fede nuovamente ridesta in un domani e nel giorno di poi, del subitaneo sentire e presentire l’avvenire, con nuove avventure, nuovi aperti mari, mete ancora concesse, ancora credute». Ritornano significativamente, come riferimento a un passaggio obbligato ma definitivamente superato, le metafore nichilistiche (il deserto e il gelo) di Umano, troppo umano: «Questo pezzo di deserto, questo sentirsi esausti, increduli, raggelati nel bel mezzo della giovinezza»;; a chi ha provato tutto questo può ben essere perdonato «molto di più che un po’ di pazzia, di sfrenatezza, di ‘‘gaia scienza’’». Di questa pazzia offrono testimonianza le canzoni aggiunte alla seconda edizione del libro, «in cui un poeta si burla di tutti i poeti in un modo difficilmente perdonabile» (FW, V,II, 13-14)[108].La Gaia scienza sembra in tal modo corrispondere al modello indicato in U-mano, troppo umano con la metafora del «doppio cervello». Ed è ancora l’ideale di una gaia scienza quello a cui Nietzsche si rifarà nella nuova introduzione (Tentativo di autocritica) alla terza edizione della Nascita della tragedia {p. 230}
(1886). Qui si tratta di ricollocare il problema della scienza, che non può più essere riconosciuto «sul terreno della scienza», «sul terreno dell’arte»;; questo fu – secondo il giudizio di Nietzsche a quattrodici anni di distanza – il compito di «quel libro temerario»: «vedere la scienza con l’ottica dell’artista e l’arte invece con quella della vita...» (GT, III,I, 5-6).
In Ecce homo, nelle pur poche righe dedicate al libro, Nietzsche ne sottolinea la continuità con Aurora: se quest’ultimo è un libro che «dice sì», «lo stesso vale di nuovo e in grado supremo per la gaya scienza: quasi in ogni sua frase profondità e petulanza si tengono teneramente per mano» (EH, VI,III, 343)[109]. Tra i brani poetici che aprono la Gaia scienza, uno in particolare indica il nuovo cammino da percorrere. Si tratta ancora della metafora del viandante, che ha ormai abbandonato la città e il deserto: «Non più sentiero! Cerchio d’abissi e silenzio di morte!» Tu l’hai voluto! Fu il tuo volere a lasciare il sentiero! E ora, viandante, va’! Ora guarda freddo e chiaro! Sei perduto, se credi – al pericolo. (FW, V,II, 25)
Questo nuovo cammino è dunque segnato dall’insicurezza;; ma l’esperienza maturata nel deserto e nel gelo del mattino ha reso lo sguardo del viandante «freddo e chiaro» (kalt und klar): passato attraverso la riduzione nichilistica, egli può assumere quella stessa riduzione come strumento per guardare oltre il pericolo. Così si è capaci di guardare ai «nuovi aperti mari» in cui, assieme ai pericoli, aspettano anche nuove mete. Il tema del mare aperto come promessa ritorna in una delle Canzoni del principe Vogelfrei aggiunte in appendice alla seconda edizione della {p. 231}
Gaia scienza, dedicata alla figura-simbolo di Cristoforo Colombo: Verso nuovi mari
Là – voglio essere io: e confido In me, d’or innanzi, e nel mio timone. Aperto è il mare: nel suo cupo azzurro Si spinge la mia prora genovese.
Tutto sempre più nuovo mi risplende Dorme su spazio e tempo mezzodì È solo l’occhio tuo – infinitudine Che immenso mi sta guardando! (FW, V,II, 273-274)
Günter Figal ha messo questa canzone in relazione con alcuni aforismi della Gaia scienza, la cui cornice problematica comune è costituita dalla nuova condizione e dal nuovo compito del filosofo, segnati da un’ambivalenza: se per un verso egli fa senza timore il suo ingresso in un mondo la cui comprensibilità non è più da dare per scontata, per l’altro prova orrore «di fronte all’infinito, al- l’insondato, allo smisurato». Questo orrore non può essere tacitato con il ricorso al modello rassicurante della dialettica platonica di determinato e indeterminato, di limite e illimitato: «Ora è la determinatezza del mondo nel suo complesso ad esser messa in gioco». Questo «viaggio di scoperta» è il nuovo compito che attende lo spirito libero[110]. Il primo riferimento all’ambivalenza dev’essere cercato nell’af. 54 (La coscienza dell’apparenza), in cui Nietzsche osserva come a fondamento della conoscenza non stia la distinzione tra apparenza e sostanza: la conoscenza non è che uno strumento di conservazione dell’esistenza. «Che cos’è ora, per me, ‘‘apparenza’’ (‘‘Schein’’)! In verità, non l’opposto di qualche sostanza (Wesen)». Apparenza è ciò «che va tanto lontano nella sua autoderisione da {p. 232}
farmi sentire che qui tutto è apparenza e fuoco fatuo e danza di spiriti e niente di più». Tra questi
danzatori sta anche «l’uomo della conoscenza», che è soltanto «un mezzo per tirare in lungo la danza terrena ed in questo senso fa parte dei soprintendenti alle feste dell’esistenza». Consequenzialità e concomitanza delle conoscenze non sono che un mezzo per mantenere la «chimera» dell’«universalità» (FW, V,II, 75). La caduta della barriera che divideva apparenza e sostanza è l’inizio del viaggio verso il «mare aperto» dell’infinito. Questo viaggio viene tematizzato nell’af. 124 (Nell’orizzonte dell’infinito):
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Carlo Gentili Nietzsche
CAPITOLO QUARTO
UNA MITOLOGIZZAZIONE DELLA TEOLOGIA. NIETZSCHE CONTRO IL CRISTIANESIMO 1. Dio come premessa: i paradossi del monoteismo e della creazione Ha scritto Hans Blumenberg che «Nietzsche non ha semplicemente negato la teologia;; l’ha trasformata, conferendo a Dio, in luogo dei suoi attributi, una storia, la cui fine è il suo punto notevole. Egli fece uso della formale libertà del mitologo e la trasferì [...] al Dio biblico»[1]. Dan-do a Dio una morte, Nietzsche gli riconosce anche una storia;; termine, questo, che dev’essere inteso nel duplice senso che Blumenberg gli annette: come «Storia» nel senso classico, ma anche come «storia» nel senso di racconto. In questa duplice prospettiva, l’evento fondante per cui il Dio cristiano si fa uomo non inaugura soltanto la storia dell’uomo come storia della realizzazione del regno di Dio e «storia della salvezza» (Heilsgeschichte) – attraverso la mediazione di Cristo che si dichiara «Figlio dell’uomo» –, ma si presenta come il «mito fondamentale» del cristianesimo. Con ciò, il racconto dell’umanazione di Dio viene equiparato ad ogni altro racconto che fonda una religione. Il Dio che si pretende unico e nega la verità degli altri dèi non è che l’estrema espressione dell’istanza fondamentale del politeismo;; il Dio cristiano non potrebbe neppure dichiararsi unico se non continuasse a tenere la premessa di questa istanza sullo sfondo. Perciò il mito fondamentale del Cristianesimo esige la «formale libertà del mitologo». Già in un frammento del 1872-73 Nietzsche dimostra piena consapevolezza di questa esigenza: «Modo liberamente {p. 236}
poetico (freidichtende Art) con cui i Greci trattavano i loro dèi! / Noi siamo troppo abituati al contrasto tra verità efalsità storica. È comico che i miti cristiani debbano essere completamente storici!» (19[40], III,III,II, 17). Questa libertà da mitologo si spinge tuttavia talmente innanzi da permettersi di assumere nuovamente, ben dentro la propria prospettiva, la contro-immagine del teologo. In Ecce homo, riconsiderando le posizioni espresse in Al di là del bene e del male, Nietzsche dà un avvertimento significativo ai suoi lettori: «Statemi ad ascoltare, perché parlo di rado in veste di teologo». Dunque, «in termini teologici», fu Dio stesso, che alla fine della sua giornata di lavoro si mise sotto l’albero della conoscenza in forma di serpente: si ristorava in quel modo dall’essere Dio ... Tutto quello che aveva fatto era troppo bello ... Il diavolo è soltanto l’ozio di Dio ogni settimo giorno (an jedem siebenten Tage) ... (EH, VI,III, 361).
Osserva Blumenberg che, riposandosi dall’opera della creazione, Dio «si trasforma nel principio del male», assumendo le caratteristiche del «dio del mondo» della tradizione gnostica. Il «Dio che si ristora dall’essere se stesso» trasforma la perfezione e la bellezza della sua creazione in «tentazione»: «D’improvviso l’autocompiacimento del settimo giorno si trasforma nel fastidio per le cose buone che aveva fatto, perché non potevano avere un futuro, una storia». Così Dio, assumendo le sembianze del serpente, decide di far precipitare la sua opera dalla «innocuità paradisiaca» alla «catastrofe drammatica della storia del mondo»[2]. Che Nietzsche sottolinei come la trasformazione di Dio nel suo avversario avvenga «ogni settimo giorno» – stravolgendo il racconto veterotestamentario che parla del riposo di Dio «nel settimo giorno» (Gn 2, 2) – corrisponde con precisione all’applicazione della «for-male libertà del mitologo» e segnala, per un verso, il fatto {p. 237}
che un parlare «in veste di teologo» può essere paradossalmente preso sul serio soltanto in un contesto in cui si continua, in realtà, a parlare da mitologi;; e, per l’altro, mette in luce, sottolineando la ciclicità dell’evento, l’assoggettamento di Dio ad una forma di storicità da cui resta esclusa ogni prospettiva escatologica e salvifica. Che Dio si risolva per la catastrofe della propria creazione, che scelga la storia invece dell’innocua e immota perfezione, rivela l’intima presenza di un’imperfezioneche diviene essa stessa peccato. È proprio la perfezione di Dio, di quel Dio che si pretende unico, a degenerare in solitudine e noia.
Nell’af. 56 del Viandante e la sua ombra Nietzsche annota: «Un soggetto per un grande poeta sarebbe la noia di Dio (die Langeweile Gottes) nel settimo giorno della creazione» (MAM II, IV,III, 165-166). La storia del mondo ha la sua origine nel radicale peccato di Dio che si annoia della perfezione della propria creazione. (E che questo venga definito come soggetto «per un grande poeta» sottolinea, di nuovo, che quella «Storia» può essere trattata alla stregua di una «storia», nella libertà del raccontare). L’accenno viene ripreso e sviluppato da Nietzsche nel cap. 48 de L’anticristo, nel quale egli tenta di dare una spiegazione della «maledetta paura di Dio dinanzi alla scienza», ossia del divieto divino a che l’uomo si nutra del frutto dell’albero della conoscenza. Già la creazione dell’uomo viene qui spiegata da Nietzsche come un rimedio di Dio contro la noia della propria solitudine: «Il vecchio Dio, tutto ‘‘spirito’’, tutto gran sacerdote, tutto perfezione;; ama passeggiare (lustwandelt) nei suoi giardini[3]: c’è solo il fatto che si annoia. Contro la noia gli stessi dèi lottano invano». Per porre riparo alla propria noia, Dio crea prima l’uomo e poi la donna, commettendo in tal modo «il suo più grande errore»;; poiché è grazie alla donna – che «è, per sua natura, serpente, Eva» – che l’uomo impara a gustare del frutto dell’albero della conoscen {p. 238}
za. È la donna, dunque, il principio della scienza, e per suo tramite Dio si crea nell’uomo il proprio «rivale» (einen Rivalen), dato che «la scienza rende simili a Dio, – è la fine per i preti e per gli dèi, se l’uomo diventa scientifico». Nel tentativo divino di tenere l’uomo lontano dalla scienza stanno anche il senso e l’origine della morale: «La scienza è il primo peccato, il germe di tutti i peccati, il peccato originale. La morale è nient’altro che questo»(AC, VI,III, 231). Al di là della ripresa del valore illuministico della scienza come arma contro il pregiudizio morale, quel che giova sottolineare è il senso ultimo della favola inventata da Nietzsche. Questo senso dice l’impossibilità del monoteismo. Dio è spinto dalla propria noia a crearsi un rivale;; ma a questo rivale dev’esser data la possibilità di diventare pari a Dio, perché alle prese con un rivale non alla sua altezza Dio continuerebbe ad annoiarsi. Questo è il senso dell’eritis sicut dii con cui il serpente adesca Adamo ed Eva nell’Eden (Gn 3, 5), e questo è il senso dell’autoinganno con cui Dio, secondo il passo di Ecce homo, si trasforma egli stesso in serpente. L’impossibilità del monoteismo è radicata nel cuore stesso della dottrina cristiana in virtù del mistero della Trinità. In un frammento dell’estate-autunno 1884 si legge: Quando avevo dodici anni mi inventai una strana trinità: cioè Dio padre, Dio figlio, e Dio demonio (Gott- Teufel). Il mio sillogismo era che Dio, pensando se stesso, creò la seconda persona della divinità;; ma che, per poter pensare a se stesso (um sich selber denken zu können), doveva pensare il suo contrario (seinen Gegensatz), dunque doveva crearlo. Così cominciai a filosofare (26[390], VII,II, 230-231).
Questo Dio che, per esistere – ossia per poter essere oggetto del suo stesso pensiero –, deve trasferirsi nel suo opposto e dunque crearlo, dissolve il mistero della Trinità divina restituendolo alla sua reale natura mitologica. Questa impossibilità del monoteismo sembra essere, prima ancora che una questione teologica, una questione, per così {p. 239}
dire, matematica. Nell’af. 260 della Gaia scienza Nietzsche annota, sotto il titolo Tavola pitagorica: «Uno solo ha sempre torto, ma con due comincia la verità. Uno solo non può dimostrarsi, ma due già non possiamo confutarli» (FW, V,II, 157). Che Dio, per dimostrarsi, abbia bisogno di un suo uguale e opposto (solo queste possono essere le qualità dell’avversario), è una verità che può essere dimostrata more geometrico. Il fatto che, nel cap. 48 de L’anticristo, Nietzsche designi l’uomo con il termine «rivale» (Rivale) (rispetto a Dio), è rivelatorio. Nel frammento del 1884 il demonio (Teufel) viene indicato come il «contrario» (Gegensatz) nel quale Dio deve incarnarsi per poter esistere. Se Nietzsche non usa, in questi contesti, il termine Widersacher – che indica il «diavolo» in quanto, secondo l’etimologia del termine greco, «avversario», «oppositore»[4]–, è tuttavia evidente che i termini da lui usati rimandano allo stesso ambito semantico. Nel racconto veterotestamentario il diavolo – Satana – è propriamente l’avversario dell’uomo. Ma Dio stesso si è trasferito nel suo «contrario», ed è dopo le parole del serpente – eritis sicut dii – che gli si svela nell’uomo il proprio «rivale». Il divieto divino a nutrirsi dall’albero della conoscenza è ciò che Dio stesso, dopo averlo posto come divieto, deve industriarsi ad aggirare affinché l’uomo possa veramente divenire il suo Ebenbild (ossia creato «a sua immagine», Gn 1, 27) ed egli possa cessare di annoiarsi. Satana è dunque l’avversario dell’uomo solo in quanto è, nella sua essenza, l’avversario di Dio. La creazione apre dunque nella natura di Dio una profonda scissione. Nella sua unità e solitudine egli può essere, ma non può conoscersi. Perché uno dei suoi attributi fondamentali – l’onniscienza – non venga meno, egli ha bisogno della creazione e dell’uomo. Che l’uomo soddisfi un bisogno di Dio ne compromette tuttavia proprio {p. 240}
la pari dignità con Dio stesso. La stessa definizione di esser fatto «a sua immagine» lascia dei dubbi circa la sua reale possibilità di essere riconosciuto come «rivale». C’è da credere che, alle prese con un rivale del genere, Dio continui ad annoiarsi;; e per questa ragione, forse, compie la scelta radicale della catastrofe. Dio può tutt’al più divertirsi con la sua creatura, e che questa si ritenga il centro di un mondo creato per lei rientra nei piani del divertimento divino. Il tema dell’antropomorfismo come pregiudizio, già affrontato in Su verità e menzogna, ritorna nell’af. 14 del Viandante e la sua ombra. Che l’uomo si ritenga lo scopo del mondo, osserva Nietzsche, è una facezia che solo una creatura dotata di un gusto superiore per lo spirito potrebbe gustare. Questa creatura è Dio stesso. Qui si svela la vera, beffarda ragione dell’Ebenbild: «Se un Dio ha creato il mondo, egli ha creato l’uomo come scimmia di Dio (zum Affen Gottes), come continuo motivo di divertimeto nelle sue troppo lunghe eternità» (MAM II, IV,III, 141-142). La scimmia ha qui un duplice significato: in quanto animale mimetico, essa è per un verso la grottesca deformazione del concetto di Ebenbild;; per l’altro, e sempre per la sua natura mimetica, essa è considerata, fin dall’antichità, come l’animale ridicolo per eccellenza: l’animale con cui scherzano i bambini;; e tuttavia tale da suscitare – per la sua evidente affinità con l’uomo – un imbarazzo «nell’animale che si sente troppo simile agli dèi per tollerare quest’altra somiglianza»[5]. La scimmia si ritrova, per così dire, al centro di un crocevia teologico. Come in un circo, «quell’annoiato immortale solletica con il dolore il suo animale preferito». E niente diverte di più lo spirito di Dio dello spirito con cui l’uomo si immagina centro e scopo del mondo. Come alla zanzara di Su verità e menzogna, spetta ora alla formica distruggere le illusioni antropocentriche: forse essa «nel bosco immagina altrettanto fortemente di essere meta e scopo dell’esistenza del bosco» (MAM II, IV,III, 142). {p. 241}
I passi che abbiamo qui raccolto e commentato rimandano ad un paradosso di fondo. Come abbiamo già sottolineato, il racconto biblico della creazione esige la «formale libertà del mitologo». Esige cioè che si prenda sul serio tale racconto perché ne risaltino l’assurdità e le contraddizioni, che possono essere tollerate soltanto nella gratuita libertà del raccontare. Se l’obiettivo che Nietzsche ha di mira nella sua critica alla divinità è gettare le basi per l’annuncio dell’Übermensch, questo obiettivo non può essere conseguito a partire da Dio come premessa. L’avvento dell’Übermensch non può essere realizzato colmando semplicemente la distanza che la tradizione biblico-cristiana pone tra l’uomo e Dio. L’Übermensch non può avere le sembianze, ancora troppo umane,di un uomo-Dio. Per arrivare a tanto, occorre che Dio stesso venga abolito in quanto premessa. Che Nietzsche assuma il racconto biblico-cristiano della creazione come un dato, è una finzione che, mettendo in luce il paradosso in essa contenuto, deve condurre a una tale abolizione. Se il centro della riflessione nietzscheana sulla divinità è la celebre favola narrata nell’af. 125 della Gaia scienza – in cui si parla della morte e dell’uccisione di Dio (e sulla quale ci intratterremo tra poco) –, la via che vi conduce non passa per i brani che abbiamo fin qui analizzato. Essi hanno piuttosto un effetto di ridondanza che sottolinea come la premessa da cui Nietzsche fa le viste di muovere – ossia, appunto, Dio come premessa – debba essere rovesciata. Il cammino che porta all’Übermensch non prevede che l’uomo si impossessi degli attributi divini, ma che si renda pienamente cosciente del processo da cui nasce l’idea di Dio, e del fatto che questo processo gli appartiene interamente. Che Dio sia la premessa della storia dell’uomo si rivela un’ipotesi troppo umana che lascia trasparire la propria origine;; e cioè che è l’uomo la premessa di questa premessa. {p. 242}
2. L’uomo come premessa di Dio Dietro un tale rovesciamento sta fin dall’inizio, nel formarsi del pensiero nietzscheano, la lettura di Feuerbach. Già lo scritto giovanile del 1862 (Libertà della volontà e fato) reca evidenti le tracce di questa lettura. Qui, il mito fondamentale del cristianesimo – l’incarnazione di Dio in Cristo – veniva letto come richiamo all’orizzonte terreno dei destini umani: Il fatto che Dio è diventato uomo non fa che ricordarci che l’uomo non deve ricercare la sua beatitudine nell’infinito, bensì deve fondare sulla terra il suo paradiso (I,I, 213).
Ciò trova riscontro in quanto, più di vent’anni più tardi, verrà annunciato da Zarathustra come il senso dell’Übermensch: Il superuomo è il senso della terra. Dica la vostra volontà: sia il superuomo il senso della terra! Vi scongiuro, fratelli miei, rimanete fedeli alla terra (bleibt der Erde treu) e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze! (Za, VI,I, 6).
Nello scritto del 1862 «l’illusione di un mondo ultraterreno» viene definita come «il prodotto di una
età infantile dei popoli» (das Erzeugniß einer Kindheit der Völker). Il fatto «che Dio è diventato uomo» segnala la raggiunta maturità e «virilità» dell’umanità. E qui cade, significativamente, la citazione – che è in realtà una parafrasi – di un brano di Feuerbach: è in tal modo che l’umanità «riconosce in sé ‘‘l’inizio, il centro e la fine della religione’’» (I,I, 213)[6]. {p. 243}
Il processo di formazione della religione – particolarmente di quella cristiana – viene descritto da Feuerbach come un momento del formarsi dell’autocoscienza dell’uomo. Per la precisione, «la religione è la prima e cioè indiretta autocoscienza dell’uomo»;; per questo essa precede dovunque la filosofia, e il fatto che l’uomo debba porre prima la propria essenza fuori di sé per poi poterla ritrovare dentro di sé è il motivo per cui Feuerbach (con un’espressione che, come abbiamo visto, Nietzsche riprenderà) afferma che «la religione è l’essenza infantile dell’umanità». Che la religione in genere – e quella cristiana in specie – non sia che «il rapportarsi dell’uomo a se stesso» ossia «alla sua essenza», ma che l’uomo intenda innanzitutto questa essenza «come se fosse un’essenza altra da lui», determina l’essenza stessa di Dio come «essenza dell’uomo», soltanto separata dall’individuale e dal corporeo: in una parola, «oggettivata»[7]. Questo punto della riflessione di Feuerbach determina tutta la meditazione di Nietzsche sulla natura divina. Mostrandogli i paradossi e le contraddizioni in cui l’unicità di quella natura resta avvolta in quanto premessa, il trattare liberamente – da mitologo – questa premessa gliene consente il rovesciamento. Nell’af. 62 di Aurora (che rivela fin nel titolo, Dell’origine delle religioni, l’influenza di Feuerbach) l’argomentazione feuerbachiana viene rafforzata mediante una considerazione di carattere psicologico. All’origine di ogni religione, osserva Nietzsche, sta la circostanza che «ogni volta» sia stato possibile ad un uomo sentire «quale rivelazione la propria opinione sulle cose». Che egli sia stato un giorno capace di un «suo nuovo pensiero», e che questo pensiero contenga «una grande ipotesi personale, comprensiva del mondo e dell’esistenza», entra con tanta violenza nella sua coscienza «che {p. 244}
egli non osa sentirisi creatore di una tale beatitudine ed attribuisce al suo Dio la causa di questa ed ancora la causa della causa di quel nuovo pensiero, inteso come rivelazione di Dio stesso». L’idea di Dio ha la sua origine nel pessimismo dell’uomo rispetto alle proprie capacità, che si esprime nel dubbio: «Come potrebbe un uomo essere l’autore di una così grande felicità?» (M, V,I, 47). La natura psicologica di questo meccanismo viene ribadita in un tardo gruppo di frammenti della primavera 1888, in cui Nietzsche riconduce l’origine della religione a quegli stati di alienazione che caratterizzano figure come l’«entusiasta», il «poeta», il «grande delinquente». L’idea di Dio viene in tal modo equiparata ad una sorta di malattia, che è propria tuttavia delle personalità forti. In questo senso, «l’epilettico suscita massimamente la convinzione che si manifestasse in lui una potenza estranea»;; questo poté accadere però soltanto «tra razze accorte, forti e vi-tali». E ciò perché la condizione psicologica che sta all’origine dell’idea di Dio ha a che fare con la potenza. Il sentimento della potenza è ciò che determina il passaggio dal troppo umano al sovrumano;; perciò essa, benché Nietzsche la consideri qui uno stato psicologico, dev’essere contemporaneamente avvertita come estranea: La logica psicologica è la seguente: il senso della potenza (das Gefühl der Macht), quando improvvisamente pervade e travolge l’uomo [...] lo fa dubitare della propria persona: egli non osa pensare se stesso come causa di questo sentimento meraviglioso – e così immagina, per questo caso, una persona più forte, una divinità (14[124], VIII,III, 96).
La religione è quindi «un caso di ‘‘altération de la personnalité’’» (ibidem). Per la sua stessa violenza, il sentimento della potenza genera nell’uomo quell’irresponsabilità per cui egli non osa attribuire a se stesso «i suoi momenti forti e meravigliosi», che egli immagina perciò come «‘‘passivi’’», «‘‘patiti’’», e come «sopraffazioni». Sentendo ogni manifestazione della potenza come «estranea» e«sovrumana»(übermenschlich), l’uomo rimpicciolisce se {p. 245}
stesso scomponendo la propria persona in due parti: una «molto miserabile e debole», «l’altra molto forte e meravigliosa» – e chiama la prima «uomo», la seconda «‘‘Dio’’». Così fa anche «il cristiano», che chiama il suo Dio «redentore, salvatore». Perciò «la religione ha abbassato l’idea dell’‘‘uomo’’» (14[125], VIII,III, 97). Qui affondano le proprie radici, contemporaneamente, la connessione tra cristianesimo e nichilismo e la possibilità del suo superamento. L’aver ricondotto l’estraneità della potenza ad uno stato psicologico consente di individuarne la genealogia. Questo riconducimento è ciò che Nietzsche, in più di un’occasione, definisce con il termine di «contromovimento» (Gegenbewegung) (cfr. p. es. 11[411], VIII,II, 393;; 14[124], VIII,III, 95;; 14[126], VIII,III, 97). Come nel caso della verità (in
Su verità e menzogna in senso extramorale) e in quello della morale (nell’analisi della designazione di «buono» in Al di là del bene e del male e nella Genealogia della morale), anche nell’origine dell’idea di Dio è l’oblio a giocare un ruolo fondamentale. Essa nasce dal sentimento di debolezza dell’uomo, che proietta fuori di sé l’immagine della divinità alienandosi in essa, e successivamente dimentica se stesso come soggetto di questa alienazione. Se ciò corrisponde al troppo umano nella formazione dell’idea di Dio, il sovrumano consiste nell’individuazione del ruolo della potenza in questo processo;; individuazione su cui fa per-no il «contromovimento». L’uomo che riconosce genealogicamente nel sentimento di potenza l’origine della divinità torna signore della propria potenza. Questo uomo è già incamminato a divenire übermenschlich. Ma come, nel caso della verità, occorreva demolire la logica come istituzione posta a guardia della conservazione di un’opinione eretta a sistema di verità;; e come, nel caso della morale, occorre demolire il pregiudizio eretto a sistema filosofico, così anche nel caso dell’idea di Dio occorre demolire il sistema storicamente fondato in cui la potenza continua ad essere rappresentata come estranea. Questo sistema è per Nietzsche la Chiesa in quanto istituzione abusivamente costruita sull’insegnamento di Cristo. {p. 246}
La riflessione di Nietzsche sul cristianesimo ruota, a partire da qui, attorno a due figure fondamentali: l’una, Gesù Cristo, come emblema del riconducimento della potenza alla propria origine, e dunque potenzialmente übermenschlich;; l’altra, San Paolo[8], come responsabile del sistema secolare (la Chiesa) che impedisce questo riconducimento. Perché esso possa essere realizzato, occorre che la Chiesa venga privata della funzione storica che essa si riconosce in quanto rappresentazione della potenza. La critica di Nietzsche contro il clero si fa, in questo senso, particolarmente violenta. In un frammento del 1886-87 egli definisce l’homo religiosus «commediante»(Schauspieler) di Dio: Il prete, come rappresentante di un sentimento di potenza sovrumano (als Repräsentant eines übermenschlichen Machtgefühls), anche come buon commediante di un Dio, rappresentare (darstellen) il quale è la sua professione (Beruf), si appiglia istintivamente a quei mezzi con cui ottiene una certa terribilità nel dominio di sé (7[5], VIII,I, 258).
Anche qui, tuttavia, come nel passo dello Zarathustra, conviene passare davanti ai preti «con la spada nel fodero»: il prete è comunque un esempio da seguire proprio per la sua capacità di dominare se stesso;; ma questa capacità è messa al servizio di una pretesa di rappresentazione (che è quanto dev’esser fatto oggetto di demolizione) che dà forma concreta a ciò che è invece in origine nient’altro che una proiezione della condizione umana fondamentale. Il prete irrigidisce uno stato psicologico in istituzione storica: I preti sono i commedianti di qualcosa di sovrumano (von irgend etwas Übermenschlichem) a cui devono prestare concretezza, si tratti di ideali, di dèi o di salvatori [...] per ottenere la maggior credibilità possibile, devono mirare alla immedesimazione, per quanto è possibile (7[5], VIII,I, 259). {p. 247}
Perché la demolizione di un tale sistema di rappresentazione abbia esito felice, occorre che quella stessa idea di Dio che si è irrigidita nella estraneità, e non riconosce più la propria origine nella condizione psicologica della potenza, venga dichiarata morta.
3. «Dio è morto!» Avvalendosi in modo eccellente della propria libertà di mitologo, Nietzsche dà all’annuncio dell’avvenuta morte di Dio la forma di una favola che viene narrata nel celebre af. 125 (L’uomo folle [Der tolle Mensch]) della Gaia scienza. Qui, un uomo folle, dopo aver acceso «una lanterna alla chiara luce del mattino», si precipita nella piazza del mercato gridando «‘‘Cerco Dio! Cerco Dio!’’». Il personaggio è evidentemente costruito sul modello del filosofo cinico Diogene di Sinope[9];; e giova ricordare che, nel primo abbozzo dell’aforisma, l’uomo folle portava il nome di Zarathustra. Le tematiche dello Zarathustra appaiono d’altronde predelineate nell’ambientazione della scena: il mercato è già quello stesso mercato nel quale si raduna la folla a cui Zarathustra annuncia l’Übermensch[10]. E come, in quel caso, la folla deriderà l’annuncio di Zarathustra chiedendo che, piuttosto, le venga dato l’«ultimo uomo» (cfr. Za, VI,I, 12), così, in questo caso, la folla – che è composta da «molti di quelli che non credevano in Dio» – rivolge all’uomo folle domande di scherno: «È forse perduto?» disse uno. «Si è perduto come un bambino?» fece un altro. «Oppure sta ben nascosto? Ha paura dinoi? Si è imbarcato? È emigrato?» – gridavano e ridevano in una gran confusione (FW, V,II, 129).
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La favola dell’uomo folle è giocata su un paradosso a due livelli. Il primo livello è espresso dalla reazione della folla. In essa Nietzsche ha dato forma all’ateismo scientifico-positivistico del XIX secolo: come si può ancora cercare ciò di cui si dà per acquisita la non esistenza? In questa domanda Nietzsche riconosce l’esito di una scepsi che si è arrestata prima di giungere alle sue conseguenza estreme e che, pertanto, contraddice la natura autentica di ogni scepsi. In tal modo essa ha generato una nuova verità dogmatica contro la quale si tratta di riavviare il movimento di una scepsi autentica. Ogni scepsi non può essere che scepsi radicale. A ciò corrisponde il secondo livello del paradosso, che si esprime nella serie di contro-domande che l’uomo folle rivolge alla folla: «Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo (Wir haben ihn getödtet): voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dette la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla (Irren wir nicht wie durch ein unendliches Nichts)? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina?» (FW, V,II, 129-130).
Paragonando Dio al sole Nietzsche ne interpreta la morte come un approfondimento della crisi copernicana[11]: perso Dio come punto di riferimento, lo spazio che egli lascia vuoto altro non può essere che un «infinito nulla». Il problema del nichilismo non poteva essere posto in {p. 249}
modo più deciso. Qui però ha luogo la svolta paradossale: questo Dio «morto» non è tuttavia un Dio assente.Èun Dio che lascia in sua vece la presenza imbarazzante della propria morte: «Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto (Gott bleibt todt)! E noi lo abbiamo ucciso!» (FW, V,II, 130).
Qui il paradosso viene in luce con tutta la sua forza: la premessa a che Dio possa essere ucciso è che gli venga concessa un’esistenza per lo meno nella forma dell’anamnesis, della quale la morte costituisce una prova d’esistenza a posteriori resistente a ogni oblio. Il «Dio morto» di Nietzsche è un Dio riconosciuto come essente-stato, è un Dio, come ha scritto H. Blumenberg, «divenuto definitivo con la morte, la cui esistenza nella perfezione nessuna negazione raggiunge»[12]. Questo conferisce al delitto la sua dimensione effettiva: solo ciò che realmente esiste può essere ucciso. Il gesto che uccide Dio è dunque lo stesso che lo fa risorgere: un esito che realizza il destino inscritto nel motto nemo contra Deum nisi Deus ipse. Ma questo Dio che risorge, risorge in quanto morto: «Dio è morto! Dio resta morto». Il gesto che lo uccide è la consapevolezza nel segno della quale l’uomo si reimpossessa della propria alienazione in Dio e riconosce se stesso in quella immagine estraniata: «Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un’azione più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, ad una storia più alta (in eine höhere Geschichte) di quanto mai siano state le storie fino ad oggi!» (ibidem). {p. 250}
Questa «storia più alta» è il cammino che, a partire da qui, l’uomo intraprende avendo l’Übermensch come meta. Ma questa «storia più alta» non sembra tracciata, in definitiva, al di fuori della storia del cristianesimo. L’uccisione di Dio in quanto immagine estraniata porta al suo compimento radicale quel processo di kenosis secondo il quale, nella stessa dottrina cristiana – e in particolare nella teologia luterana –, Dio si «svuota» della propria natura divina per incarnarsi nel «Figlio dell’uomo»[13]. Dietro il gesto dell’uomo folle sta ancora l’ombra di quella vocazione pietistica che aveva segnato l’inquieta fede del Nietzsche adolescente. In uno dei due scritti del 1862 – Libertà della volontà e fato – egli aveva scritto: «Il cristianesimo è essenzialmente un fatto di cuore (Herzenssache);; soltanto quando si è incarnato in noi, quando è diventato in noi anima, solo allora l’uomo è un vero cristiano» (I,I, 212)[14]. Questa vocazione pietistica aveva trovato la sua più potente espressione in una poesia dell’agosto 1863 dedicata, con riferimento al discorso di Paolo sull’Areopago (cfr. At 17, 23), Al dio ignoto: Ancora una volta, prima di partire E volgere i miei sguardi verso l’alto,
Rimasto solo, levo le mie mani A te, presso cui mi rifugio, Cui dal profondo del mio cuore Altari ho consacrato Affinché ognora La voce sua mi torni a chiamare. [...] {p. 251} Conoscerti io voglio – te, l’Ignoto, Che a fondo mi penetri nell’anima, Come tempesta squassi la mia vita, Inafferrabile eppure a me affine (mir Verwandter)! Conoscerti io voglio, anche servirti ... (I,I, 388)[15]
Che il cristianesimo acquisti la propria autentica natura come «fatto di cuore», che Dio venga riconosciuto come «voce interiore», implica, da un lato, l’eliminazione di Dio come forma estraniata e, dall’altro, il dissolversi di quella rappresentazione (la Chiesa) che su tale forma è fondata. L’uccisione di Dio sembra così obbedire, paradossalmente, alla realizzazione radicale del messaggio evangelico. Il compimento della «storia più alta» viene di fatto equiparato a ciò che, nei testi evangelici, viene indicato con l’espressione «regno di Dio» o «regno dei cieli». Di essa Nietzsche dà, in un frammento del 1887-88, un’interpretazione in senso, ancora una volta, pietistico: «Il regno dei cieli è uno stato del cuore (Das Himmelreich ist ein Zustand des Herzens) [...] non è qualcosa che sta ‘‘sopra la terra’’ (‘‘über der Erde’’)» (11[354], VIII,II, 358). Questo gli consente di risolvere alla radice la contraddizione, evidente nei Vangeli, tra storia e profezia, tra la dimensione non finita del tempo umano che si presenta come cronologia aperta e la parusia di Cristo che segna la fine dei tempi. In Matteo Cristo, rivolto ai discepoli, annuncia: «In verità, vi dico che vi sono qui tra i presenti alcuni che non gusteranno la morte, fino a che non vedranno il Figlio dell’uomo venire nel suo regno» (Mt 16, 28;; {p. 252}
cfr. anche Mc 9, 1). E ancora, annunciando gli eventi che preparano la fine dei tempi, Cristo afferma: «In verità vi dico che non passerà questa generazione, prima che tutte queste cose siano avvenute» (Mt 24, 34;; cfr. anche Mc 13, 30). In queste parole Cristo dimostra, secondo Nietzsche, la sua natura di «grande simbolista» (großer Symboliker) che «vedeva e ammetteva solo realtà interiori» (11[355], VIII,II, 358). Le sue parole non possono essere dunque interpretate come profezia storica: Il regno di Dio non «viene» in modo cronologico-storico, non giunge secondo il calendario, come qualcosa che un giorno c’è e il giorno prima no;; si tratta invece di un «cambiamento nel modo di sentire dell’individuo», qualcosa che viene in ogni tempo e che in ogni tempo c’è ancora (11[354], VIII,II, 358).
Nello stesso tempo, in una reiterata, implicita presa di posizione contro Strauss e la teologia liberale, Nietzsche dichiara che «il figlio dell’uomo non è una persona concreta della storia, ma un ‘‘fatto eterno’’, un simbolo psicologico non imprigionato nel tempo» (11[355], VIII,II, 358)[16]. Questa interpretazione non sta, tuttavia, al di fuori della lettera dei Vangeli. Interrogato dai farisei su quando sarebbe venuto il regno di Dio, Cristo risponde in Luca: «‘‘Il regno di Dio non viene in modo visibile (οὐκ μετὰ [...] παρατηρήσεως), né si potrà dire: Eccolo qui oppure eccolo là, poiché ecco, il regno di Dio è già in mezzo a voi (ἐντὸς ὑμῶν)’’» (Lc 17, 20-21). Nietzsche legge il passo nella traduzione di Lutero, che rende alla lettera ἐντὸς ὑμῶν con inwendig in euch: «dentro di voi». La storia secolare del cristianesimo è per Nietzsche la conseguenza del fraintendimento di questo
«sublime simbolismo»: Con la diffusione del cristianesimo fra masse sempre più vaste e rozze, che erano lontane dagli istinti originari del cristianesimo (e alle quali mancavano tutti i presupposti per capirlo), so {p. 253} no sorte una storia leggendaria, una teologia, la fondazione di una Chiesa [...] La Chiesa è la volontà di mantenere in vita il linguaggio volgare e barbarico del cristianesimo, inteso come «la verità» – ... e ciò ancor oggi! (11[356], VIII,III, 359).
La «morte di Dio» è dunque la condizione necessaria affinché si dissolva l’istituzione fondata sulla sua forma estraniata, affinché si annulli l’alienazione dell’uomo in Dio e il «regno dei cieli», la «storia più alta», trovi la sua realizzazione come «stato del cuore». Dio è dunque morto nell’istituzione secolare che pretende di rappresentarlo. Così suona la conclusione della favola dell’«uomo folle» che, dopo essere entrato in alcune chiese e avervi intonato «il suo Requiem aeternam Deo» si chiede: «‘‘Che altro so-no ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio?’’» (FW, V,II, 130). Che Dio resti morto ricorda di continuo all’uomo l’enormità del proprio delitto: la presenza del cadavere divino rende questo delitto inespiabile. Per questo viene dichiarato decaduto ogni rituale di espiazione: Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli;; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremo noi lavarci (reinigen)? Quali riti espiatòri, quali giuochi sacri dovremo noi inventare? (ibidem).
In queste parole è evidente come l’uccisione di Dio venga paragonata ad un rito sacrificale (il cui modello resta il sacrificio di Dioniso attraverso la macellazione del capro);; ma il fatto che Dio resti morto rivela che nessun altro rito potrà purificare dal sangue divino versato. Il sacrificio divino, così come ogni altra forma rituale, si rivela per quello che è: semplice delitto. Nietzsche si pone in questo modo – con piena consapevolezza – sulla strada tracciata dall’antico detto di Eraclito: «Si purificano (καϑαίρονται) lordandosi (μιαινόμενοι) con altro sangue, come chi per detergere il fango si cacciasse nel fango» (22 B 5 D.K.;; trad. it. di C. Diano). Le parole di Eraclito {p. 254}
corrispondono a ciò che René Girard ha definito come «crisi sacrificale», ossia la «decadenza del sacrificio», la «sua impotenza a purificare l’impuro»: «Non c’è più differenza alcuna tra il sangue versato ritualmente e il sangue versato delittuosamente»[17]. {p. 255}
Lo spiazzamento di prospettiva dalla dimensione sacra del rituale a quella del delitto certifica la definitività della morte di Dio. Che egli resti morto offre la garanzia più certa contro la sua resurrezione in una forma estraniata. La consapevolezza di aver ucciso Dio costringe l’uomo a diventare Dio egli stesso. La perdita di significato di ogni forma rituale esteriore costringe Dio nell’ultimo ricettacolo che ancora gli resta: nel cuore dell’uomo, come «voce interiore», come coscienza;; il che significa, per Nietzsche, come potenza. La favola dell’uomo folle cela in sé la prospettiva ultima del nichilismo e, insieme, del suo superamento. Hans R. Jauss ha rilevato come esista una corrispondenza, strutturale e di contenuto, tra il gioco di domande e controdomande che l’uomo folle rivolge a sé e agli astanti e il catalogo delle domande con cui Jahwé rimprovera Giobbe (Gb 38, 8 e ss.)[18]. Le domande che la filosofia si trova a ereditare dall’uomo folle di Nietzsche rendono per Jauss difficilmente praticabile ogni tipo di teodicea, perché a partire da esse il mondo e la storia dell’uomo devono essere giustificati «senza poter risolvere il paradosso di Nietzsche né nel senso della religione cristiana (come esperienza della morte sulla croce e della resurrezione di Cristo), né nel senso dell’illuminismo ateo (que dieu n’existe pas)». La «prova ex negativo dell’esistenza di Dio» colloca quindi «il nihilismo di Nietzsche in una luce singolarmente ambigua»[19]. Questa ambiguità deriva dalla compresenza di una prospettiva nichilistica come «eterno precipitare», come vagare «attraverso un infinito nulla» – secondo le parole dell’uomo folle – e di un’assunzione di {p. 256}
responsabilità nei confronti di questa prospettiva: poiché Dio non è semplicemente morto,ma noi lo abbiamo ucciso, l’enormità di questo delitto si traduce in creatività e potenza. Ancora una volta il gesto del distruttore è insieme la premessa e l’essenza del gesto del creatore.
4. Cristianesimo, metafisica, nichilismo Contro ogni apparenza, che Dio sia stato messo a morte non rappresenta né la conseguenza né l’antefatto del nichilismo, ma la rivelazione della sua logica. L’annuncio che «Dio è morto!» si limita a denunciare che il nichilismo, «il più sinistro fra tutti gli ospiti» (dieser unheimlichste aller Gäste), è ormai «alle porte» (2[127], VIII,I, 112). In altre parole, l’avvento del nichilismo non rappresenta
per Nietzsche un momento di rottura all’interno della tradizione occidentale, ma è stato da essa lungamente preparato. L’evento stesso della morte di Dio appartiene integralmente a questa tradizione, e non è qualcosa che accada ora;; è significativo, a questo proposito, che gli interlocutori dell’uomo folle non si siano accorti della scomparsa di Dio, e che egli debba rammentar loro l’evento come qualcosa di già accaduto. La tradizione occidentale è per Nietzsche la tradizione di cui la morte di Dio rappresenta una condizione che viene storicamente svolta fino a rappresentarsi essa stessa come evento finale. Tradizione occidentale e nichilismo sono dunque, per Nietzsche, sinonimi: questo è il senso dell’aggettivo «europeo» che accompagna il termine «nichilismo» nell’aforisma del 1887. In questo senso, cristianesimo e nichilismo finiscono inevitabilmente col coincidere. Se questo ci obbliga ad un’analisi specifica delle premesse nichilistiche del cristianesimo, è pur vero che Nietzsche vede in quest’ultimo la fase estrema di un movimento che lo precede. Anche questo significa l’affermazione, contenuta nella prefazione di Al di là del bene e del male, che definisce il cristianesimo «un platonismo per il ‘‘popolo’’» (JGB, VI,II, 4);; mentre in un frammento del {p. 257}
1884 è annotato seccamente: «Senza platonismo e aristotelismo, niente filosofia cristiana» (25[257], VII,II, 68). D’altro canto, il cristianesimo è per Nietzsche soltanto l’ultimo stadio della morale, il suo compimento, quello in cui la morale si rivolge contro se stessa. Il cristianesimo tramonta «a causa della sua morale», che si rivolta contro Dio perché «il senso della veracità (der Sinn der Wahrhaftigkeit), altamente sviluppato dal cristianesimo, prova disgusto per la falsità e mendacità di tutta l’interpretazione cristiana del mondo e della storia» (2[127], VIII,I, 113)[20]. La «mortediDio» è la rappresentazione di questo evento, che non riguarda soltanto il cristianesimo, ma tutta la tradizione che ha in esso il proprio compimento. La «morte di Dio» concerne dunque la metafisca ed è essa stessa un evento metafisico. Su questo presupposto Martin Heidegger ha dato della «morte di Dio» una celebre interpretazione in una serie di conferenze tenute nel 1943, poi pubblicate nel 1950 con il titolo La sentenza di Nietzsche «Dio è morto». Già nel 1933, tuttavia, nel discorso pronunciato in occasione dell’assunzione del rettorato dell’Università di Friburgo, Heidegger si era brevemente soffermato sulla questione definendo Nietzsche «l’ultimo filosofo tedesco che appassionatamente ha cercato Dio nel dolore». Nella frase «‘‘Dio è morto’’» Heidegger legge la «solitudine dell’uomo d’oggi nel cuore dell’essente»[21]. L’interpretazione heideggeriana {p. 258}
di Nietzsche appare dunque già segnata nella direzione della metafisica come oblìo dell’essere e trionfo della tecnica. Le conferenze del 1943 si aprono con una chiara dichiarazione d’intenti: «Questa indagine si propone di chiarire il luogo a partire dal quale potrà forse un giorno esser posto il problema dell’essenza del nichilismo». Questa possibilità è inaugurata dalla capacità del pensiero di «gettare luce sulla posizione fondamentale di Nietzsche nel corso della metafisica occidentale». La filosofia di Nietzsche rappresenta dunque «uno stadio della metafisica occidentale che è probabilmente il suo stadio finale», dato che «essa, con Nietzsche, ha in certo modo spogliato se stessa della propria possibilità essenziale»[22]. In Nietzsche giunge a compimento quel senso della metafisica come storia dell’essere per cui «nella storia del pensiero occidentale, sin dall’inizio, si pensa, sì, l’ente rispetto al suo essere, ma senza che sia pensata la verità dell’essere». La metafisica rifiuta in tal modo l’«apprensione» (Erfahrung) di questa verità, in modo che «il pensiero occidentale stesso, sotto forma di metafisica, nasconde il fatto di questo rifiuto». In quanto porta alla conclusione questo per {p. 259}
corso, il pensiero di Nietzsche è la conditio sine qua non perché si possa tornare a pensare l’essere;; ma, nel contempo, esso non può essere che «pensiero preparatorio» (vorbereitendes Denken) che resta «necessariamente nel campo della riflessione storica». Conducendo alla fine la metafisica Nietzsche è dunque, a tutti gli effetti, il pensatore del nichilismo, il cui senso egli riassume «con l’espressione ‘‘Dio è morto’’»[23]. L’interpretazione heideggeriana è fondamentalmente appoggiata sul senso che dev’essere assegnato al termine «Dio». «Le espressioni ‘‘Dio’’ e ‘‘Dio cristiano’’ – scrive Heidegger – sono usate nel pensiero di Nietzsche per indicare il mondo sovrasensibile in generale». A partire da Platone il mondo sovrasensibile viene inteso come il «mondo vero», in opposizione al quale il mondo sensibile rappresenta semplicemente «il mondo di qua», il mondo del mutamento e dell’apparenza. Se, con Kant – prosegue Heidegger – intendiamo il mondo sensibile come mondo fisico, il mondo sovrasensibile diviene il «mondo metafisico». Perciò Nietzsche – e in questo senso, secondo Heidegger, coerentemente – intende la metafisica, ossia l’intera storia del pensiero occidentale, come platonismo;; e, altresì, egli intende la propria posizione come «la controcorrente (Gegenbewegung) della metafisica», e dunque del platonismo. Qui stanno tuttavia, per Heidegger, le ragioni per cui la filosofia di Nietzsche appartiene ancora integralmente alla
metafisica. In quanto «semplice controcorrente», essa resta ancora «conforme» (verhaftet) «alla natura di ciò contro cui si rivolge». Perciò, come «semplice capovolgimento (Umstülpung) della metafisica», l’antimetafisica di Nietzsche «è un irretimento (Verstrickung) nella metafisica stessa»[24]. È in effetti Nietzsche stesso a definire la propria filosofia un platonismo rovesciato. Già in un frammento risalente a prima della Nascita della tragedia egli scrive: «La mia filosofia è un platonismo alla rovescia (umgedrehter Platonismus)». Ciò tuttavia – conformemente alle tematiche che lo {p. 260}
occupano in quel periodo – va inteso nel senso della rivalutazione dell’apparenza in relazione all’arte. L’arte, così come le belle immagini degli dèi greci, è l’espressione di un’aspirazione al risarcimento nei confronti della vita: compito dell’arte è la creazione di belle forme grazie alle quali risulti possibile vivere. Il frammento, infatti, così prosegue: «Quanto più lontano ci si mantiene da ciò che veramente è, tanto più pura, bella e buona è la vita. La vita nell’apparenza (im Schein) come scopo» (7[156], III,III,I, 203). Questo senso può essere colto con maggior precisione in un frammento del 1886-87, nel quale esso è posto in esplicita relazione con l’operare dell’artista, il quale «non sopporta nessuna realtà, ne distoglie lo sguardo». Egli «crede che, quanto più si assottigli, si affini e si volatilizzi una cosa o un essere umano, tanto più cresca il suo valore;; quantomenoreale, tanto più valido (je weniger real, um so mehr Werth). Questo è platonismo». Nietzsche definisce questo «il PIÙ GRANDE rivolgimento (Umtaufung)». Ed è soltanto perché esso è stato «ripreso dal cristianesimo» che noi «non ne vediamo più il lato stupefacente» (7[2], VIII,I, 241-242). Ciò che appare legittimo come platonismo dell’artista, non è più legittimo nel platonismo per il popolo: se l’arte è e si sa come menzogna, il cristianesimo spaccia questa menzogna come verità per erigere su di essa il proprio sistema di valori. In quanto è nell’arte che il reale viene compiutamente sostituito dall’apparente, ed è nell’arte che l’apparente abbandona ogni pretesa di valere come il reale, è l’arte ad assumersi il compito di indicare il nulla in cui consiste la gerarchia (l’opposizione mondo sovrasensibile-mondo sensibile, mondo vero-mondo apparente) su cui poggia la metafisica. Tutto questo appare chiaro a Heidegger soltanto quando egli affronta la filosofia di Nietzsche dal lato della volontà di potenza come arte. Vale a dire, nelle lezioni tenute all’Università di Friburgo negli anni 1936-40, poi pubblicate nel 1961[25]. Qui Heidegger, dando il giusto ri {p. 261}
lievo al capitolo del Crepuscolo degli idoli intitolato Come il «mondo vero» finì per diventare favola – in cui, come si ricorderà[26], l’abolizione del mondo vero comporta l’abolizione anche del mondo apparente – osserva che il rovesciamento del platonismo diviene, nell’ultimo Nietzsche, uno «svincolamento» (Herausdrehen) da esso. E ciò in quanto «alla fine del platonismo sta la decisione sulla trasformazione (Wandlung) dell’uomo». Con la fine del platonismo deve cioè aver termine «anche l’uomo che c’è stato finora». Che il capitolo del Crepuscolo degli idoli termini con l’affermazione incipit Zarathustra indica, per Heidegger, che il definitivo superamento del platonismo può realizzarsi soltanto nella prospettiva dell’Übermensch annunciato da Zarathustra. Ma, ancora una volta, Heidegger vede in ciò una nuova forma di Gegenbewegung:l’Übermensch può costituirsi soltanto come antitesi dell’ultimo uomo. Conformemente, del resto, con le parole stesse di Nietzsche, che egli cita: «L’opposto (Gegensatz) del superuomo èl’ultimo uomo: li ho creati insieme» (4[171], VII,I,I, 148). Ora, l’ultimo uomo è definito per Heidegger dalla sua relazione con l’essere che è determinata dal platonismo. Questo vuol dire che, sebbene ancora all’interno di un movimento contrappositivo, nel passaggio all’Übermensch il rovesciamento del platonismo diviene un reale «svincolamento» da esso. Ciò rende possibile una nuova articolazione dei concetti di «fine» e «inizio». In altre parole, ciò che ne La sentenza di Nietzsche «Dio è morto» viene visto come un «irretimento» nella metafisica è quiinvece considerato come un’apertura. È il fatto che venga posta la prospettiva dell’Übermensch a dare risalto all’«ultimo uomo», e cioè al platonismo, come momento conclusivo: «La fine è visibile come fine soltanto partendo da un nuovo inizio». Ciò comporta la revisione del rapporto tra sensibile e sovrasensibile non più nel senso del semplice rovesciamento: «Si tratta di spianare la via a una nuova interpretazione del sensibile, partendo da una nuova ge {p. 262}
rarchia di sensibile e non sensibile»[27]. Questa nuova interpretazione è resa possibile soltanto nella prospettiva segnata dall’arte, che è di fatto richiamata dal diventare favola del mondo vero. Questo consente a Heidegger di risolvere la «discrepanza» (Zwiespalt), che «suscita sgomento (Entsetzen)», tra arte e verità[28]. In quanto volontà di potenza l’arte è, nel suo senso più profondo, «volontà di parvenza» (Willen zum Schein)[29];; e cioè l’arte – scrive Heidegger – «fa apparire la realtà, che è in sé un apparire, nel modo più profondo e più alto nella folgorazione della
trasfigurazione (im Aufschein der Verklärung)». In essa, pertanto, la contrapposizione di essere ed apparire cessa di essere una contrapposizione effettiva. Poiché ogni reale trova la propria autenticità nella trasfigurazione e dunque deve, per rimanere reale, andare «al di là di sé», essere ed apparire si coappartengono originariamente, ed ogni contrapposizione dev’essere considerata all’interno di questa coappartenenza originaria[30]. Agli stessi anni delle lezioni su Nietzsche appartiene anche il materiale rifuso ne La sentenza di Nietzsche «Dio è morto». Tuttavia, in questo caso, il tema della volontà di potenza non viene considerato in relazione all’arte[31]. Anche qui, comunque, la prospettiva dell’Übermensch apre su un nuovo inizio, che è determinato dal passaggio dalla fase meramente negativa del nichilismo – che consiste nel {p. 263}
semplice porre nuovi valori in sostituzione di quelli scaduti, ma non elimina il sovrasensibile come il luogo dal quale i valori stessi ricevono il loro rango – alla sua fase compiuta, che consiste in una «trasformazione» (Umwerten), che diviene «capovolgimento» (Umkehrung), del genere e del modo dell’esser-valore[32]. Questa trasformazione corrisponde esattamente al concetto nietzscheano di «trasvalutazione» (Umwertung). Se l’affermazione «Dio è morto» indica l’annullamento di quelli che erano stati ritenuti i valori supremi (nichilismo negativo o incompiuto), essa indica però, nel contempo, anche la volontà di potenza come «il principio stesso di ogni posizione di valore» (nichilismo classico o compiuto), e cioè come «realtà del reale», «essere dell’ente». In questo modo l’umanità «moderna» – «che rivendica il proprio esser-umanità come volontà di potenza» – compie il suo «passo estremo»;; vale a dire, essa «è definita da una forma dell’essenza dell’uomo che va oltre l’uomo di prima». Questa nuova umanità è indicata dal termine «superuomo»: «Il ‘‘superuomo’’ è quello che è (ist) uomo in base alla realtà determinata dalla volontà di potenza e per essa». A questo punto Heidegger si interroga sul grado di preparazione che questa nuova umanità possiede in vista del nuovo compito che la attende. In ciò che Nietzsche intende come volontà di potenza – e che Heidegger traduce come «essere dell’ente» – il rapporto dell’ente con l’essere non figura ancora pensato a sufficienza. Il concetto di Übermensch appare ancora determinato «da un pensiero che pensa l’ente in quanto ente», e come tale appartiene interamente alla metafisica. La conseguenza è che il compito della nuova umanità, e cioè l’«assunzione del domino della terra», viene assunto dalla prospettiva dell’ente, e si traduce quindi in tecnica. Il «passo estremo» che questa umanità può compiere resta quindi comunque racchiuso all’interno della metafisica, ed essa può soltanto «entrare nel compimento radicale della propria epoca»[33]. {p. 264}
Come si vede, rispetto alle lezioni su Nietzsche il rapporto tra fine e inizio appare rovesciato: se, in quel caso, la fine è visibile in quanto viene posta la prospettiva del nuovo inizio, in questo caso l’inizio stesso è considerato come il momento conclusivo e compiuto dell’epoca della metafisica. Sia come sia, è evidente che la posizione di assoluto rilievo che Heidegger riconosce a Nietzsche dipende dal suo inserimento nella storia, e in prossimità del punto di svolta, della metafisica. Giocando sul ruolo di mediazione rappresentato dal platonismo, Heidegger presenta una disinvolta omologazione tra cristianesimo e metafisica, leggendo in sostanza «metafisica» ogni volta che Nietzsche usa il termine «cristianesimo». Questo punto costituisce l’argomento principale della critica che Karl Löwith muove all’interpretazione heideggeriana di Nietzsche. È assai improbabile – egli osserva – che «anche un solo lettore» di questa interpretazione non si sia trovato di fronte ad altro che al «pensiero di Heidegger in vesti nietzschiane»[34]. Ai due filosofi è comune, secondo Löwith, una «situazione di epigoni» che si rovescia in una «volontà di avvenire»[35]. Ma, se Nietzsche par-la della dissoluzione dei valori annunciando il rovesciamento del sovrasensibile e definisce con ciò la morale come un «errore», Heidegger intende questo errore come omologo, se non identico, alla propria definizione della metafisica come «errore» in quanto smarrimento della differenza ontologica. La preoccupazione di Löwith è che Heidegger intenda occultare, in un modo o nell’altro, la portata della presa di posizione decisamente anticristiana di Nietzsche. Non è un caso, egli osserva, che il saggio di Heidegger si concluda con un’interpretazione degli atei, ai quali l’uomo folle si rivolge, come coloro che hanno es {p. 265}
si stessi «distrutto la possibilità di credere, in quanto non sono più in grado di cercare Dio». Questi sono, per Heidegger, coloro i quali «hanno smesso di pensare, sostituendo al pensiero la chiacchiera». Non saper più cercare Dio significa, per Heidegger, non essere più in grado di assolvere al compito del pensiero: «Non sono più in grado di cercare perché non pensano più»[36]. Ora è evidente, se-condo Löwith, che se l’ateismo di Nietzsche non è l’ateismo volgare dei «liberi pensatori», è però altrettanto vero «che egli intese la sua posizione come il ‘‘punto di svolta’’
(‘‘Wende-Punkt’’) nella storia dell’ateismo moderno»[37]. Per Löwith è già una forzatura che Heidegger consideri quella della «morte di Dio» non come «una dottrina a sé stante», ma la metta in relazione con le altre dottrine di Nietzsche, come il nichilismo, la volontà di potenza e l’eterno ritorno. È in questo modo che Heidegger, avvalendosi della propria interpretazione di queste dottrine, può inserire la «morte di Dio» nella storia della metafisica come suo evento conclusivo. Per far questo, Heidegger è costretto a costruire attorno a questo evento uno sfondo che richiama l’intera storia della filosofia occidentale: da Aristotele a Leibniz e a Kant. Mentre, se la «morte di Dio» viene tenuta nell’ambito che le è proprio – che è quello dell’«uccisione del dio cristiano» – essa trova immediatamente un ambito di riferimento assai più prossimo. Questo ambito – al quale Heidegger accenna soltanto di sfuggita[38] – è rappresentato da Pascal e da Hegel. In questo senso la posizione di Nietzsche sarebbe assai vicina a quella di Kierkegaard. È evidente come Löwith cerchi di riportare la tematica nietzscheana dall’ambito generale della metafisica a quello specifico della filosofia della religione. Occorre dire che Nietzsche non è in effetti l’inventore della formula della «morte di Dio». La troviamo già in {p. 266}
Hegel;; una prima volta alla conclusione dello scritto Fede e sapere (1802), e una seconda nelle Lezioni di filosofia della religione. Nel primo caso Hegel definisce il «sentimento su cui riposa la religione dei tempi moderni» il sentimento che afferma che «Dio stesso è morto». Se ciò significava, per la tradizione che lo aveva espresso, un «precetto morale» o «un sacrificio dell’essere empirico», il «concetto assoluto» deve ora dare a questo sentimento una «esistenza filosofica», che comporta «la Passione assoluta o il Venerdì Santo speculativo». Soltanto dalla «durezza» di questa «assenza di Dio» la totalità può essere resuscitata nella sua autentica universalità e libertà[39]. Qui Hegel vede dunque nella morte di Dio, inteso come essere empiricamente determinato, il momento di negazione dialettica necessario all’affermazione della filosofia come affermazione dello spirito assoluto. Più tardi, nelle lezioni sulla filosofia della religione tenute a Berlino dal 1821 al 1831 e pubblicate postume dai suoi allievi, Hegel ritorna sulla morte di Dio ponendola, questa volta, in relazione con la morte di Cristo. Cristo è per Hegel il «Dio-Uomo», ossia Dio che assume la finitezza per poter esser presente nel «presente sensibile», nel quale Dio non può essere che come uomo[40]. La morte di Cristo rappresenta «la più alta cima della finitezza», il compimento dell’alienazione dell’idea divina nell’alterità. Dato che «la più alta finitezza» non può essere colta nella vita temporale, ma solo nella morte, è solo nella morte di Cristo che l’«esistenza temporale, piena dell’idea divina, viene intuita nel presente». L’alienazione divina giunge quindi al suo compimento so {p. 267}
lo quando si può proclamare: «‘‘Dio è morto, Dio stesso è morto’’»[41]. Nelle argomentazioni di Hegel si avverte una consistente eco di Pascal, che egli del resto cita nello scritto del 1802. Osserva Pascal (Pensées, 441) che se, secondo la dottrina cristiana, la natura umana costituisce un corrompimento della natura di Dio, noi possiamo osservare dovunque questa verità: «infatti la natura è tale che indica dappertutto un Dio perduto così nell’uomo come fuori dell’uomo, e una natura corrotta»[42] (trad. it. di F. Masini). Se la natura umana è decaduta e corrotta, anche il Dio di cui l’uomo fa esperienza deve condividere questa natura;; il che corrisponde all’idea hegeliana dell’assunzione da parte di Dio, in Cristo, della «più alta cima della finitezza». Sappiamo quanto poco Nietzsche possa definirsi un lettore direttamente documentato di Hegel. Ma sappiamo anche come, invece, egli sia stato un lettore attento e precoce di Pascal[43]. In un frammento del 1885-86, steso in vista della nuova prefazione di Aurora, Nietzsche spiega in questo modo quella che definisce «la scappatoia hegeliana, che si riattacca a Platone»: se lo spirito è «l’ideale che si discopre e che si realizza», è nel «‘‘processo’’», nel «‘‘divenire’’», che questo ideale deve rivelarsi. Ciò {p. 268}
conferisce alla fede la sua proiezione verso un futuro in cui l’ideale dovrà compiersi. «Dio» diviene in tal modo il senso e il fine del nostro bisogno di conoscenza. Ma ciò apre su una duplice possibilità: per un verso «Dio è per noi inconoscibile e indimostrabile» – il che indica per l’appunto il fine (rivolto al futuro) del «movimento gnoseologico»;; per l’altro verso, «Dio è dimostrabile, ma solo come qualcosa che diviene, e noi ne siamo parte» – e questo è il «senso riposto del movimeto storicistico» (2[165], VIII,I, 134). La natura di Dio è dunque conoscibile e dimostrabile soltanto nella storia, ossia in quanto appartiene a quel divenire in cui il fatto che «noi ne siamo parte» è giustificato solo dalla circostanza che egli sia parte di noi: ossia che Dio si alieni (Hegel) o si perda (Pascal) nell’uomo e nella natura. Sulla base delle premesse poste da Pascal e da Hegel, la «morte di Dio» si presenta dunque come
un evento che appartiene alla natura stessa di Dio. In ultima analisi, dunque, poiché la «morte di Dio» costituisce l’evento della rivelazione del nichilismo, quest’ultimo si rivela come il modo stesso in cui il cristianesimo ha pensato la natura di Dio. Questo sembra sfuggire a Löwith il quale, nella fretta di rovesciare l’interpretazione heideggeriana e di restituire al cristianesimo, e alla sua eclissi, un senso distinto dalle sorti della metafisica, finisce col vedere nel nichilismo «una conseguenza del fatto che noi abbiamo ucciso il dio cristiano». «La concezione matura di Nietzsche – egli scrive – è una relazione ideale al cui inizio sta il concetto della morte di dio,alcentro il nichilismo chedaquella morte sorge, e al termine l’autosuperamento del nichilismo nell’eterno ritorno dell’identico per opera del Superuomo»[44]. Fermo restando quest’ultimo punto, sul quale non si può che concordare, che la morte di Dio rappresenti l’evento inaugurale del nichilismo, e che questo sorga da essa, lascia insoluto più di un problema: primo tra tutti, la domanda su chi e che cosa uccida Dio e perché. {p. 269}
Löwith sembra non pensare in conseguenza della strada che egli stesso ha indicato con il riferimento a Pascal e He-gel. La morte di Dio riguarda la storia di Dio e, per la precisione, quella Heilsgeschichte per la quale egli è destinato ad incarnarsi. In questo senso, si può prescindere dalla morte di Dio – e cioè si può continuare a pensarlo come lo pensa il credente cristiano – senza per questo uscire da una prospettiva nichilistica. Pur nella sua evidente forzatura del testo nietzscheano, Heidegger si dimostra in questo un let-tore più radicale di Löwith quando scrive: «Non tutti quelli che fanno appello alla loro fede cristiana o a una qualsiasi convinzione metafisica sono per ciò stesso al di fuori del nichilismo»[45]. Resta superficiale, prosegue Heidegger qualche pagina più avanti, quell’interpretazione del nichilismo che scambia le sue manifestazioni esteriori per il nichilismo stesso. La stessa reazione antinichilistica, che nasce «dallo sdegno morale o dalla presuntuosa superiorità del credente»
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Carlo Gentili Nietzsche
CAPITOLO QUINTO
CULMINE E RICAPITOLAZIONE. LA VOLONTÀ DI POTENZA 1. L’autointerpretazione e l’«opera capitale» Il 1886 segna l’inizio di un periodo determinante nello sviluppo della riflessione di Nietzsche. In quell’anno escono la terza edizione della Nascita della tragedia e la seconda di Umano, troppo umano. Nel 1887 compaiono le seconde edizioni di Aurora e della Gaia scienza. Nietzsche mantiene i testi sostanzialmente invariati, con la sola eccezione della Gaia scienza, a cui aggiunge un quinto libro e un’appendice con le Canzoni del principe Vogelfrei. Ma, in tutti questi casi, egli fa precedere le riedizioni da nuove introduzioni che ricollocano l’opera nel contesto aggiornato del proprio pensiero. Il che è particolarmente evidente, come abbiamo visto, nel Tentativo di autocritica. Queste nuove introduzioni costituiscono i primi elementi di un’autointerpretazione che culminerà in Ecce homo, l’opera con la quale Nietzsche decide di dare un ritratto di se stesso. Titolo e sottotitolo[1] appaiono già fissati in {p. 338}
una lettera a Peter Gast del 30 ottobre 1888, nella quale egli si mostra anche consapevole dei rischi ai quali si espone con un’opera del genere: Nel giorno del mio compleanno ho iniziato qualcosa che sembra riuscire ed è già considerevolmente avanzato. Si chiama Ecce homo. Ovvero come si diventa ciò che si è. Si tratta, con grande temerarietà, di me e dei miei scritti: con ciò non mi sono soltanto voluto metter dinnanzi all’atto mostruosamente solitario della trasvalutazione (Umwerthung), – desidererei almeno verificare ciò che posso propriamente rischiare secondo i modi tedeschi di concepire la libertà di stampa. Il mio sospetto è che si confischi sui due piedi il primo libro della trasvalutazione, – in modo legale e con pieno diritto. Con questo «Ecce homo» vorrei porre la domanda ad una serietà cosiffatta, e anche accrescere la curiosità che i correnti e in sostanza ragionevoli concetti riguardo a ciò che è consentito permettano almeno in questo caso un’eccezione. Del resto io parlo di me stesso con ogni possibile «scaltrezza» e serenità psicologiche, – io non vorrei presentarmi agli uomini come profeta, mostro (Unthier) e spauracchio della morale (Moral-Scheusal). Anche in questo senso questo libro potrebbe far bene: esso impedisce forse che io venga scambiato con il mio opposto (KGB, III,5, 462).
I timori di Nietzsche erano più che giustificati. Ma quel che egli non immaginava era forse che gli interventi censori nei confronti del libro sarebbero venuti dalla cerchia dei suoi amici e dalla sua stessa famiglia. L’opera fu pubblicata soltanto nel 1908 su inziativa del frattempo costituito Nietzsche-Archiv, dopo essere passata al vaglio della censura dello stesso Peter Gast, della sorella Elisa {p. 339}
beth e della madre Franziska. La preoccupazione della sorella era soprattutto motivata dall’urgenza di non compromettere la fama che il nome di Nietzsche cominciava a riscuotere a livello internazionale con la pubblicazione di un libro tanto impudico e scandaloso. Che poi questa preoccupazione avesse la sua origine nell’intenzione di rimediare, attraverso i proventi ricavati dalla pubblicazione delle opere del fratello, al tracollo finanziario subito con il fallimento dell’impresa del marito Bernhard Förster (suicidatosi nel giugno del 1889 dopo aver fondato in Paraguay una colonia «ariana» denominata Nueva Germania), è cosa nota[2]. La struttura dell’opera è costituita da un prologo cui seguono tre capitoli esplicitamente autodichiarativi: Perché sono così saggio;; Perché sono così accorto;; Perché scrivo libri così buoni. Il resto del libro è formato dai commenti – vere autointerpretazioni, più o meno estese – delle opere pubblicate, fino al capitolo finale, dal titolo nuovamente autodichiarativo: Perché io sono un destino. Il senso dell’operazione è testimoniato dall’attacco del capitolo Perché scrivo libri così buoni: «Una cosa sono io, un’altra i miei scritti». Prima di passarli in rassegna, Nietzsche si sente obbligato a dare una spiegazione del mancato riconoscimento da parte dei contemporanei. Non è ancora venuto il tempo, egli osserva, di comprendere perché i suoi scritti non siano stati capiti: «Anche per me non è ancora venuto il tempo, ci sono uomini che nascono postumi» (EH, VI,III, 307). Pur ammettendo che di una vera e
propria «fortuna» nietzscheana si può cominciare a parlare soltanto dopo il 1890, questo giudizio è in buona parte un’immagine letteraria che Nietzsche vuol accreditare di se stesso, in linea con il concetto di inattualità messo a {p. 340}
punto nella II e III Inattuale e con il carattere dei suoi personaggi. L’«uomo folle» dell’af. 125 della Gaia scienza dichiara di fronte allo scherno degli astanti: «‘‘Vengo troppo presto [...] non è ancora il mio tempo’’» (FW, V,II, 130). Le stesse parole pronuncia Zarathustra di fronte alla reazione della folla che invoca l’«ultimo uomo»: «Essi non mi intendono: io non sono la bocca per questi orecchi» (Za, VI,I, 12). Questo presunto carattere postumo della sua opera è ispirato a Nietzsche fin dall’inizio da colui che fu per molto tempo il suo modello ideale;; in una lettera a Paul Deussen del febbraio 1870 egli definisce Schopenhauer, con riferimento a se stesso, «un genio che ha avuto la stessa sorte, terribile e sublime, di venire al mondo un secolo prima di quando potrà essere capito» (Ep, II, 95). Questo rimando a Schopenhauer viene ora ripreso e portato al di là di Schopenahuer stesso, in riferimento allo Zarathustra: l’aver compreso anche solo «sei frasi di quel libro» – scrive Nietzsche in Ecce homo – «innalza i mortali a un grado più alto di quello che gli uomini ‘‘moderni’’ potrebbero raggiungere». Perciò non interessa a Nietzsche essere capito da questi uomini moderni: «Il mio trionfo è precisamente l’inverso di quello di Schopenhauer, – io dico ‘‘non legor, non legar’’»[3] (EH, VI,III, 307-308). Che lo Zarathustra costituisca per Nietzsche un termine di confronto così essenziale è un fatto che non deve essere sottovalutato. Se si tiene presente che Ecce homo è l’ultimo libro pensato da Nietzsche come tale, il rilievo accordato in esso allo Zarathustra assume un significato particolare. Già dal punto di vista semplicemente quantitativo, Nietzsche si intrattiene su di esso più diffusamente che sugli altri. Ma già nel prologo egli definisce Zarathustra un libro che «sta a sé», un dono per l’umanità, «il libro più alto che esista, il vero libro delle cime (das eigen tliche Höhenluft-Buch)», in cui «tutto l’affare uomo gli sta sotto, a enorme distanza» (EH, VI,III, 267). Zarathustra è dunque il libro del definitivo superamento del troppo u-mano;; e, per questo, Nietzsche lo presenta come il culmine del proprio pensiero: uno Höhenluft-Buch, letteralmente: un libro in cui si respira aria di montagna. Questo giudizio appare confermato dalle prime parole del paragrafo finale dell’ultimo capitolo di Ecce homo: «– Sono stato capito? – Non ho detto una sola parola che non avessi già detto cinque anni fa per bocca di Zarathustra» (EH, VI,III, 383). Ad intendere alla lettera queste parole, tutto quanto Nietzsche ha scritto tra Così parlò Zarathustra e Ecce homo – per lo meno Al di la del bene e del male,la Genealogia della morale, Il crepuscolo degli idoli – dev’essere interpretato come una ripresa di quanto già era contenuto nello Zarathustra. A proposito di Al di là del bene e del male Nietzsche scrive in un frammento del 1886-87: Sebbene sia certo che questo «Preludio di una filosofia dell’avvenire»[4] non fornisce né deve fornire alcun commento ai discorsi di Zarathustra, tuttavia fornirà forse una specie di glossario preliminare, in cui in qualche modo compaiono e sono designate col loro nome le più importanti innovazioni di concetti e di valori che si trovano in quel libro (6[4], VIII,I, 221-222)[5].
Suona dunque quasi una contraddizione che Nietzsche abbia progettato qualcosa come un’«opera capitale» (Hauptwerk) che sembra smentire, conseguentemente, la culminatività dello Zarathustra. Il 2 settembre 1886 egli scrive alla sorella e al cognato Bernhard Förster ad Asunción: «Per i prossimi quattro anni è annunciata l’elaborazione di un’opera capitale in quattro volumi;; già il titolo mette paura: La volontà di potenza. Tentativo di una trasvalutazione di tutti i valori» (KGB, III,3, 241). L’opera {p. 342}
veniva del resto annunciata «in preparazione» nella quarta di copertina della prima edizione di Al di là del bene e del male e, di nuovo, in un passo della Genealogia della morale in cui Nietzsche rimanda, per il chiarimento di cosa debba intendersi per «ideale ascetico», «a un’opera che sto approntando: la VOLONTÀ DI POTENZA. Saggio di una trasvalutazione di tutti i valori»(GM, VI,II, 364). In una serie di lettere Nietzsche mette a punto il rapporto tra quest’opera e lo Zarathustra. Già il 7 aprile 1884 scrive a Overbeck: «Devo ora attraversare passo dopo passo un’intera serie di discipline, dato che mi sono ormai deciso ad impiegare i miei prossimi cinque anni per elaborare la mia ‘‘filosofia’’, per la quale, con il mio Zarathustra, mi sono costruito un ‘‘preambolo’’ (Vorhalle)» (KGB, III,1, 496). Il 2 settembre di quello stesso 1884 scrive a Peter Gast di voler dedicare «i prossimi sei anni» all’elaborazione di uno schema nel quale verrà abbozzata la sua «‘‘filosofia’’»: «Lo Zarathustra, nel frattempo, ha soltanto il senso del tutto personale di essere il mio ‘‘libro edificante e incoraggiante’’ (mein ‘‘Erbauungs-und Ermuthigungs-Buch’’)» (KGB, III,1, 525). Prendendo spunto da queste lettere, Heidegger propone di rivedere la «concezione corrente» secondo la quale, con lo Zarathustra, Nietzsche avrebbe inteso dare «forma poetica» al proprio pensiero e successivamente, dovendo constatare che il libro non aveva avuto fortuna, si sarebbe
risolto a riscriverlo in prosa. La Volontà di potenza non sarebbe, in questo senso, che una riproposizione dello Zarathustra liberata dalle oscurità della forma poetica. In realtà, conclude Heidegger, la «progettata opera capitale [...] è altrettanto poetica quanto lo Zarathustra è speculativo. Il rapporto tra le due opere rimane quello tra preambolo e costruzione capitale»[6].Le difficoltà che Nietzsche incontra nel suo tentativo capitale sono sottolineate, per Heidegger, dall’accento che egli mette ripetutamente sulla necessità di elaborare la sua filosofia, ossia di ricercarne l’essenza. Questo obbliga {p. 343}
Nietzsche a muoversi nel circolo dell’autofondazione della filosofia. «Si tratta del fatto – osserva Heidegger – che ciò che la filosofia è, si determina solo in virtù di se stessa, ma che questa autodeterminazione è possibile soltanto in quanto essa si è già fondata da sé». In questo modo, «la sua essenza propria le si rivolta sempre contro, e quanto più una filosofia è originaria, tanto più puramente si libra in questa svolta su se stessa;; e tanto più in là, fino all’orlo del nulla, è poi sospinto anche il raggio di questo circolo»[7]. È proprio il fallimento del tentativo nietzscheano ad assumere, per Heidegger, un significato filosofico.In quanto a questo, Nietzsche può essere posto accanto a Schelling, che nell’ultimo periodo della sua vita non poté dar forma ad un’opera compiuta. Schelling naufragò «nella sua opera». E così «anche Nietzsche, l’unico pensatore essenziale dopo Schelling, è andato a infrangersi su quella che è la sua vera opera, la Volontà di potenza». Questo «duplice grandioso naufragio» non è tuttavia, di per sé, negativo;; anzi, «esso è il segno del sorgere di ciò che è totalmente altro, il balenare di un nuovo inizio». Chi riuscisse a superare questo naufragio «dovrebbe diventare il fondatore di un nuovo inizio della filosofia occidentale»[8]. Che, in queste lezioni su Schelling del semestre estivo 1936, Heidegger definisca la Volontà di potenza la «vera opera» di Nietzsche mentre, nelle lezioni su Nietzsche che risalgono allo stesso periodo, egli richiami più volte l’attenzione sul carattere arbitrario e incompleto della compilazione di Peter Gast e di Elisabeth, non è una contraddizione. Al contrario, ciò segnala il punto cui egli intende giungere. Che venga attribuito un carattere speculativo allo Zarathustra non meno che un carattere poetico alla Volontà di potenza indica che Heidegger ha di mira un dichtendes Denken – che dev’essere nello stesso tempo {p. 344}
una denkende Dichtung – nel quale la filosofia deve risolversi per uscire dall’epoca della metafisica. La filosofia che cerca la propria essenza muovendosi in un circolo non può essere detta che attraverso la forma poetica oppure attraverso la frammentarietà. Ciò nondimeno, che la forma poetica e l’oscurità dello Zarathustra siano state percepite come un ostacolo, è un dato di fatto storico. W. Müller-Lauter ha sottolineato che «la critica di Nietzsche allo spirito borghese dell’epoca trova ascolto soprattutto tra gli artisti e i letterati»[9]. Il libro di Hans Vaihinger Nietzsche als Philosoph, uscito in prima edizione nel 1902, si assume il compito di ribadire il carattere specificamente filosofico della riflessione nietzscheana. Questa stessa preoccupazione leggiamo nelle parole che Elisabeth scrive come introduzione all’edizione della Volontà di potenza pubblicata nel 1906. Elisabeth sostiene che era stata intenzione del fatello «scrivere il suo capolavoro in prosa, un’opera di filosofia teoretica»;; e che tuttavia, essendo stata manifestata questa intenzione già nel 1883, i «pensieri fondamentali» di quest’opera non potevano essere diversi da quelli già presenti nello Zarathustra: «essi tutti sono già contenuti in forma poetica nello ‘‘Zarathustra’’»;; il quale però, proprio per la sua radicale novità, non poteva di per sé esaurire questo mondo nuovo: esso «richiedeva anche un’esposizione teorico-filosofica in prosa»[10]. Una volta tenuta per ferma l’intenzione di Nietzsche di pubblicare un’opera di filosofia teoretica in prosa, non restava che selezionare i frammenti del Nachlaß e ordinar {p. 345}
li secondo gli schemi e i progetti che Nietzsche stesso aveva lasciato in abbondanza. Ciò produce naturalmente un doppio ordine di arbitrarietà. Da un lato, la corrispondenza dei frammenti con gli argomenti indicati da Nietzsche negli schemi è una libera scelta dei compilatori. Dall’altro, la stessa scelta dello schema ritenuto definitivo è anch’esso un atto di arbitrio. Al lavoro si accinse Peter Gast con la collaborazione, dapprima, di Ernst e August Horneffer, e poi della stessa Elisabeth. L’ultimo abbozzo lasciato da Nietzsche fu stilato, come indica la data da lui stesso apposta, nell’agosto 1888 a Sils-Maria. Qui troviamo il titolo nella sua completezza: «Abbozzo del piano per: / La volontà di potenza. Tentativo di una trasvalutazione di tutti i valori» (18[17], VIII,III, 328-329). L’ordine dei capitoli indicato da Nietzsche non è tuttavia quello seguito dai compilatori;; i quali seguirono invece il piano abbozzato a Nizza il 17 marzo 1887 (come risulta dalla data apposta, anche in questo caso, da Nietzsche). In luogo del titolo troviamo qui una lacuna parzialmente colmata dalle parole «... di tutti i valori» (7[64], VIII,I, 302-303). Le ragioni di questa scelta sono dichiarate, con sorprendente ingenuità, dalla stessa Elisabeth nell’introduzione citata in precedenza: il piano del marzo 1887 –
ella scrive – era l’unico che desse «qualche chiara indicazione sulla complessiva composizione dell’opera»;; e subito dopo dichiara che «nella presente nuova edizione» (quella del 1906) «il piano è apparso assai idoneo a far sì che molti capitoli rivelassero un continuo sviluppo di pensieri»[11]. Il che è una franca ammissione che {p. 346}
questa continuità è stata prodotta ex post. L’arbitrarietà della selezione è del resto testimoniata dallo stesso divario esistente tra le due edizioni: quella pubblicata nel 1901 conteneva 483 presunti «aforismi»;; mentre quella pubblicata nel 1906 nella Taschenausgabe (curata, questa volta, dai soli Peter Gast ed Elisabeth) ne contiene 1067. Questa seconda edizione diviene l’edizione canonica della Volontà di potenza, e verrà ripubblicata senza modifiche nel 1911, nei volumi XV e XVI della Großoktavausgabe[12]. In realtà, la storia stessa delle opere scritte e pubblicate da Nietzsche dopo lo Zarathustra indica in modo sufficientemente chiaro che egli aveva rinunciato al proposito di un’«opera capitale». Un esempio in proposito può essere dedotto dalla circostanza che in ben tre dei progetti abbozzati per la Volontà di potenza il primo capitolo del libro viene indicato con il titolo L’anticristo. In un frammento del marzo 1888, sotto il titolo Trasvalutazione dei valori, leggiamo: «Libro I: l’Anticristo» (11[416], VIII,II, 397);; in un altro del settembre 1888 troviamo, sotto il titolo Trasvalutazione di tutti i valori:«Libro primo. L’anticristo. Tentativo di una critica del cristianesimo» (19[8], VIII,III, 339);; l’annotazione permane invariata in due frammenti del settembre e dell’ottobre 1888 (19[8] e 22[14], VIII,III, 339 e 355). Che Nietzsche abbia deciso, di lì a poco, che L’anticristo dovesse essere pubblicato come libro autonomo[13] testimonia della rinuncia al progetto più complesso. Inoltre, come si ricorderà, nella lettera a {p. 347}
Peter Gast del 30 ottobre 1888 che abbiamo citato all’inizio di questo capitolo, Nietzsche dichiara, riferendosi a Ecce homo, che sarebbe stata soltanto ragionevole la decisione di confiscare «sui due piedi il primo libro della trasvalutazione» (corsivo nostro). Che al libro che rappresenta il culmine della propria autointerpretazione Nietzsche attribuisca ora (dopo, cioè, l’ultimo progetto di abbozzo della Volontà di potenza) quella qualifica che avrebbe dovuto caratterizzare un’opera addirittura «capitale», è un indizio ulteriore che questo progetto è stato abbandonato.
2. Che cos’è «volontà di potenza»? Come si è detto, nelle lezioni su Schelling del 1936 Heidegger giudica la Volontà di potenza la «vera opera» di Nietzsche. Questo convincimento viene più ampiamente argomentato nelle coeve lezioni su Nietzsche, nelle quali Heidegger sostiene che «l’autentica filosofia» di Nietzsche non si trova nelle opere pubblicate in quanto essa «non arriva ad assumere una forma definitiva». Tutto quanto Nietzsche ha di fatto pubblicato non sarebbe altro che «avanscena» (Vordergrund): ciò vale tanto per il decennio 1879-89 quanto per gli anni precedenti, a cominciare dalla Nascita della tragedia;; «La filosofia vera e propria rimane dietro le quinte, come ‘‘lascito’’ (‘‘Nachlaß’’)»[14]. Heidegger accoglie dunque pienamente la definizione che Nietzsche dà di se stesso come autore postumo. Il senso autentico della filosofia nietzscheana verrebbe alla luce soltanto nel Novecento, il secolo in qualche modo da lui «profetizzato», che ne esplicita i significati nascosti: «L’epoca presente non ha accolto l’insegnamento di Nietzsche, ma all’inverso: Nietzsche ha pre-detto (vor-gesagt) e con ciò mostrato (vorgezeigt) la verità verso cui la storia moderna avanza, poiché essa già ne proviene»[15]. In questo quadro {p. 348}
storico-interpretativo, era naturale che la Volontà di potenza assumesse un ruolo di rilievo. Di fatto, la grande fase dell’interpretazione nietzscheana che si avvia negli anni Trenta del Novecento prende come oggetto il principio della volontà di potenza. Che poi l’esposizione di questo principio trovasse effettiva corrispondenza nella compilazione – e nella forma sistematica costruita a posteriori su questo principio – è questione che resta a lungo sullo sfondo. Baeumler, Löwith e Jaspers – oltre allo stesso Heidegger – si confrontano di fatto con il libro che ha per titolo La volontà di potenza. Per quanto paradossale possa sembrare, la grande impresa critico-editoriale avviata da Colli e Montinari negli anni Sessanta,che intendevasmontarela mistificazionedella Volontà di potenza con la pubblicazione integrale, in ordine cronologico, dei Frammenti postumi, non sposta la questione. La nuova interpretazione di Nietzsche – la seconda Nietzsche-Renaissance – si sofferma anche in questo caso soprattutto sul Nachlaß, lasciando da parte, oltre la Volontà di potenza, anche quelle opere pubblicate giudicate in qualche modo imbarazzanti: prima tra tutte, lo Zarathustra. Alla base di questa intenzione stava il proposito di sottrarre Nietzsche alla sua utilizzazione politica – fosse essa quella della Germania imperiale o del nazionalsocialismo – e di rinnovare il senso della sua filosofia per il presente.
In questo quadro, si trattava di dare al concetto di «volontà di potenza» la giusta collocazione nella riflessione nietzscheana. La denuncia di mistificazione contro il libro che porta questo titolo non elimina tuttavia il fatto che attorno a questo concetto ruota il pensiero di Nietzsche nel periodo successivo allo Zarathustra[16]. Ciò che {p. 349}
conferisce alla volontà di potenza la sua pervasività e capacità fondativa è il suo aspetto, per così dire, economico: collocandosi al crocevia di considerazioni di carattere morale, psicologico, fisiologico e fisico, essa sembra assume-re il ruolo di criterio organizzatore dell’ultimo pensiero nietzscheano, fino a lasciarne intravvedere una possibile unità «sistematica». In un frammento dell’agosto-settembre 1885, destinato – nelle intenzioni di Nietzsche – ad essere collocato in un piano dell’opera abbozzato in precedenza[17], il legame tra morale, psicologia e fisiologia appare determinato con precisione: Il nostro intelletto, la nostra volontà e del pari i nostri sentimenti dipendono dalle nostre valutazioni (Werthschätzungen): queste corrispondono ai nostri impulsi (unseren Trieben) e alle loro condizioni di esistenza. I nostri impulsi si possono ridurre alla volontà di potenza. La volontà di potenza è l’ultimo fatto (das letzte Factum)a cui perveniamo scendendo in profondità (40[61], VII,III, 348).
Dalla definizione della volontà di potenza come «ultimo fatto» Heidegger deduce che questa espressione «è la denominazione di ciò che costituisce il carattere fondamentale di tutto ciò che è (alles Seienden)». Ciò dimostrerebbe che il pensiero di Nietzsche si muove lungo la linea indicata da quella «domanda fondamentale» (Grundfrage) che costituisce la «domanda-guida» (Leitfrage) della filosofia. Questa domanda suona: «‘‘Che cosa è l’ente?’’»[18]. Rispondendo che «l’intima essenza dell’essere è volontà di potenza» (14[80], VIII,III, 50)[19], Nietzsche porta al {p. 350}
compimento e alla fine la metafisica occidentale in quanto «nomina il carattere fondamentale dell’ente;; qualsiasi ente che è, è – in quanto è – volontà di potenza»[20];; in definitiva, «tutto il vivente è volontà di potenza»[21]. In questo modo la volontà di potenza viene eretta a principio e considerata come espressione di quell’istanza fondativa che sostiene l’interrogazione metafisica intorno all’essere dell’ente. Che essa acquisti un carattere ultimo e risolutivo viene spiegato da Heidegger mediante l’analisi del rapporto in cui, nell’espressione, si pongono i concetti di ‘‘volontà’’ e ‘‘potenza’’. Ogni volere è per Heidegger un «‘‘tendere a...’’» (ein Hin zu...), un avere di mira qualcosa che diviene, per questo, oggetto di rappresentazione. Conseguentemente, ogni volere è la posizione di un «volente» (der Wollende) e di un «voluto» (das Gewollte): il volere vuole innanzitutto «il volente in quanto tale» e, in questo senso, è un «essere risoluto a se stesso» (Entschlossenheit zu sich), ossia un porsi al comando di se stesso. Il volere «pone» (setzt) però anche «il voluto in quanto tale»: è un esser risoluto a se stesso ma «nel senso di ciò che vuole quello che nel volere è posto come voluto». Nella volontà è dunque data, ogni volta, «una generale determinazione» (eine durchgängige Bestimmtheit). Ciò che nell’espressione «volontà di potenza» si presenta come «voluto», come determinato, è appunto la potenza. Ma «potenza» significa l’«‘‘essere signore di...’’ che si slancia al di là di se stesso» (das über sich hinausgreifende Herrsein über...), ossia indica la volontà stessa. L’espressione «volontà di potenza» designa dunque la volontà stessa nella sua essenza. Ricorrendo a questa espressione, Nietzsche «modifica non solo il fine della volontà, ma anche la determinazione dell’essenza della volontà stessa». La «volontà di potenza» dev’essere intesa nel senso che «la volontà è potenza che si dà il potere» (Mächtigkeit, die sich zur Macht ermächtigt);; la specificazione «di potenza» non indica «una aggiunta alla volontà», ma «un chiarimento {p. 351}
dell’essenza della volontà stessa»[22]. Nella «volontà di potenza» si tratta dunque della volontà che vuole se stessa. Come si ricorderà, nella terza metamorfosi dello Zarathustra – quella del fanciullo – si parla dello «spirito» che «vuole la sua volontà» (Za, VI,I, 25). In questo modo, tuttavia, il volere rende sé oggetto a se stesso;; la volontà si determina in un qualcosa che dev’essere a sua volta voluto. Ciò è per Heidegger conforme alla definizione della volontà di potenza come definizione dell’ente in generale, dunque secondo la Leitfrage della metafisica. Nella terza dissertazione della Genealogia della morale Nietzsche risponde alla domanda sul significato dell’ideale ascetico. In quanto assegna un senso alla sofferenza e colma il vuoto che si apre nell’esistenza umana, con esso «si chiuse la porta dinanzi a ogni nichilismo suicida». Se pure ciò comportò nuova sofferenza, l’uomo venne non di meno «in questo modo salvato»;; non fu più «un trastullo dell’assurdo, del ‘‘senza-senso’’, ormai poteva volere qualcosa»;; con la salvezza dell’uomo «restava salvata la volontà stessa». E se anche questo volere rivelava un’avversione alla vita, un «odio contro il corporeo», una «ripugnanza ai sensi», una «volontà del nulla»(Willen zum Nichts), esso era tuttavia «una volontà!»;; giacché, conclude Nietzsche, «l’uomo preferisce ancora volere il
nulla, piuttosto che non vole-re» (lieber will noch der Mensch das Nichts wollen, als nicht wollen) (GM, VI,II, 366-367)[23]. Nel contesto che abbiamo ricostruito, il nulla di cui Nietzsche parla è riferito con precisione al contenuto degli ideali ascetici. Volendo il nulla piuttosto che non volere, {p. 352}
l’uomo vuole quel qualcosa che si rivela come nulla in quanto avversione alla vita;; è la stessa accusa che Nietzsche rivolge al cristianesimo per aver sostituito delle finzioni (al di là, beatitudine ecc.) ai valori concreti della vita[24]. Al contrario, Heidegger decontestualizza l’affermazione finale per inserirla in una definizione dell’essere che «è in sé volere come volersi». La volontà che vuole se stessa vuole in realtà il nulla. Questo nulla che è il voluto della volontà corrisponde alla definizione nullificante dell’essere che si trova con ciò ridotto all’ente stesso. «Quando essere significa volere, il più ente tra gli enti è ciò che vi è di più comprensibile»;; l’essere viene frainteso come «presenza (Anwesenheit) nel senso della semplice presenza sottomano (Vorhandenheit)»[25]. Per questo, l’omologazione nietzscheana di essere e volere rientra nella storia della metafisica, ossia nella storia del fraintendimento dell’essere nell’ente;; e, in quanto questo volere vuole in realtà il nulla, Nietzsche rappresenta il momento conclusivo della metafisica. La definizione nietzscheana – che abbiamo ricordato più sopra – della volontà di potenza «nel senso del ‘‘fatto ultimo’’» «si appaga di connotare l’essere come l’ente eminente con il carattere dei dati di fatto (Tatsachen)»[26]. La definizione dell’essere come volontà di potenza riduce l’essere stesso a valore;; e Nietzsche, come sappiamo, pensa il valore come qualcosa che decade: ossia lo pensa, in realtà, come ente. Questa è la logica del nichilismo. In conclusione, «la denominazione ‘‘nichilismo’’ nomina a suo modo l’essere dell’ente»;; «L’essere viene de {p. 353}
terminato come valore e viene quindi spiegato partendo dall’ente come una condizione posta dalla volontà di potenza, dall’‘‘ente’’ in quanto tale. L’essere non è riconosciuto come l’essere». In questo modo, «dell’essere in quanto tale non ne ‘‘è’’ niente: l’essere – un nihil»;; «L’essenza del nichilismo è la storia nella quale dell’essere stesso non ne è niente (in der es mit dem Sein selbst nichts ist)»[27]. Nietzsche rappresenta pertanto il culmine della metafisica in quanto la sua definizione dell’essere dell’ente come volontà di potenza, nella quale l’essere si riduce a nulla, esaurisce l’epoca della metafisica stessa. L’interpretazione heideggeriana è interamente sostenuta sull’ipotesi che la volontà di potenza sia, per l’appunto, definizione dell’essere dell’ente, e che dunque funzioni come un principio unico nel senso della metafisica;; che sia cioè effettivamente la risposta alla Leitfrage della metafisica. Che Nietzsche non la intenda in questo modo, che cioè prescinda dall’unicità della volontà di potenza e dunque dalla sua definizione come principio, lo dimostra la sua applicazione del concetto al mondo fisico. In un frammento del giugno-luglio 1885 egli avvicina la volontà di potenza al concetto di «forza» dei fisici: Il vittorioso concetto di «forza», con cui i nostri fisici hanno creato Dio e il mondo, abbisogna ancora di un completamento: gli si deve assegnare un mondo interno, che io chiamo «volontà di potenza», cioè un insaziabile desiderio di manifestare potenza;; ossia un impiego, un’esplicazione di potenza, come impulso creativo, eccetera (36[31], VII,III, 241).
Il rinvio al concetto di «forza» implica già di per sé che la realtà del mondo fisico sia determinata da un conflitto di forze. Ad ogni buon conto, Nietzsche si dà premura di puntualizzare che tale realtà non discende da un’unica forza che possa essere identificata come causa;; che, cioè, la costanza che noi crediamo di ravvisare nel mondo fisico e che spieghiamo con il ricorso al concetto {p. 354}
di causalità è una nostra costruzione. Comprendere il mondo – egli scrive in un frammento del 1886-87 – significa «poterlo calcolare»;; ma, per calcolarlo, dobbiamo avere «cause costanti»;; e poiché non ne troviamo nella realtà, «ce ne inventiamo alcune – gli atomi» (7[56], VIII,I, 298). L’atomo, come causa prima a partire dalla quale è possibile leggere la realtà come sviluppo costante, è dunque a tutti gli effetti una finzione[28]. La realtà fisica è un prodotto di forze in conflitto tra loro;; questo conflitto è volontà di potenza: «La volontà di potenza può manifestarsi solo contro delle resistenze (nur an Widerständen);; cerca quel che le si contrappone». Lo sviluppo di nuovi organi è il modo in cui l’organismo contrasta l’opposta volontà di potenza degli altri organismi e dell’ambiente. La volontà di potenza si manifesta come «appropriazione» e «assimilazione», è un «voler sopraffare, un formare, un modellare e rimodellare, finché il vinto sia passato interamente sotto il potere dell’aggressore accrescendolo» (9[151], VIII,II, 77;; autunno 1887). La vita biologica è inquesto senso, di per sé, volontà di potenza: «È implicito nel concetto del vivente che esso necessariamente cresca, che allarghi la sua potenza e che quindi accolga necessariamente in sé forze estranee» (14[192], VIII,III, 167;; primavera 1888). L’accrescimento
della potenza esige l’assimilazione di forze estranee mediante un conflitto: non l’obiettivo dell’accrescimento, ma precisamente questo conflitto è volontà di potenza. Ciò che ne deriva è la distruzione del concetto di individuo biologico. In questo senso Nietzsche rovescia il rapporto individuo-ambiente ipotizzato da Darwin. Che l’individuo si modifichi per adattarsi all’ambiente presuppone una sua durata e conservazione al di là del suo tempo vitale che necessita l’intervento del concetto di «‘‘ereditarietà’’». Ma ciò presuppone delle «causae finales», o comunque delle «causae efficientes»;; {p. 355}
vale a dire, una concezione ancora pervicacemente teleologica della natura: «Il concetto di ‘‘causa’’ è solo un mezzo di esprimersi, non di più;; un modo di designare» (36[28], VII,III, 240;; giugno- luglio 1885). Conformemente a ciò, anche l’individuo, come l’atomo, è una nostra costruzione: è esso stesso una «lotta delle parti»;; «il suo sviluppo è legato al prevalere,al predominare di singole parti, a un intristire, a uno ‘‘strumentalizzarsi’’ di altre parti». In questo frammento della primavera 1887, che reca il titolo Contro il darwinismo, Nietzsche attacca il fondamento stesso della teoria dell’evoluzione di Darwin: questi «sopravvaluta fino all’inverosimile l’influsso delle ‘‘circostanze esterne’’;; l’essenziale del processo vitale è proprio l’enorme potere creatore di forme dall’interno (die ungeheuere gestaltende, von Innen her formschaffende Gewalt), che usa, sfrutta le ‘‘circostanze esterne’’...» (7[25], VIII,I, 290). Nel processo dell’evoluzione – posto che esso sia ancora pensabile come tale sulle premesse nietzscheane – non si tratta quindi dell’ambiente che sottomette l’organismo mediante l’adattamento ma, al contrario, è l’organismo che sottomette l’ambiente mediante il conflitto della volontà di potenza. Quella che a noi appare come la «perfezione» del vivente è l’effetto di una semplificazione che nasconde in realtà una «complicatezza» (Complicirtheit) in cui si danno tanto una «separazione netta» quanto una «compresenza di organi e funzioni elaborate»;; da ciò risulta «una volontà di potenza nel processo organico, grazie alla quale forze formative d’imperio e di dominio accrescono sempre più il campo della loro potenza e all’interno di esso tornano sempre a semplificare» (7[9], VIII,I, 282;; primavera 1887). Risulta da ciò evidente come la «complicatezza» della realtà fisica sia costituita, nello stesso momento, da momenti di separazione e di aggregazione, e che ciò che è propriamente definibile come volontà di potenza sia costituito dal dominare e semplificare la separazione. In un frammento di circa un anno precedente Nietzsche si era soffermato su questo problema definendo la volontà di potenza come un processo di interpretazione: «La volontà di potenza interpreta: nella formazione di un {p. 356}
organo si tratta di un’interpretazione;; essa traccia confini, determina gradi, diversità di potenza (Grade, Machtverschiedenheiten)». Questo determinare dev’essere tuttavia inteso nel senso che «le mere diversità di potenza non potrebbero ancora sentire se stesse come tali: ci dev’essere qualcosa che voglia crescere e che interpreti sul suo valore ogni altra cosa che voglia crescere» (2[148], VIII,I, 126). La volontà di potenza – in quanto quel «qualcosa» – mette dunque in grado le singole diversità di potenza di riconoscere se stesse come potenza. Questo sembrerebbe riportare in campo un’ombra più che consistente di teleologismo, non fosse che il rapporto tra le singole diversità non appare regolato da una legge, ma è dominato dal conflitto che esse aprono tra di loro[29]. Ciò appare chiaro in un frammento dell’autunno 1887 in cui quanto {p. 357}
avviene nel mondo organico viene trasferito al mondo sociale. «L’individualismo – osserva Nietzsche – è il grado più modesto della volontà di potenza»;; ad esso segue, in base alla «separazione secondo il grado di forza», la «formazione di membra e organi»;; raggruppandosi e mettendosi in moto come potenze, le «tendenze affini» determinano «centri di potere» tra i quali «c’è attrito, guerra, riconoscimento delle forze dall’una e dall’altra parte». Il riconoscimento dell’uguaglianza non è che la base per il formarsi di «disugaglianze di forza» che «esercitano un’azione potenziata (perché nel complesso regna la pace e molte piccole quantità di forza [Kraft- Quanta] costituiscono già differenze, mentre prima queste erano quasi uguali a zero)» (10[82], VIII,II, 149-150). Occorre dunque sbarazzarsi dei «concetti popolari della ‘‘necessità’’ e della ‘‘legge’’», in quanto il primo corrisponde ad una falsa necessità, il secondo ad una falsa libertà. In ogni accadimento si tratta soltanto del «grado di resistenza» (Grad von Widerstand) e del «grado di prepotere» (Grad von Übermacht);; se noi vogliamo ridurre l’accadere del reale a for-mule e leggi, ciò corrisponde soltanto alla «nostra utilità di calcolo»: «Ma non portiamo una ‘‘moralità’’ nel mondo per il fatto di fingerlo obbediente». L’introduzione di un punto di vista teleologico nella realtà corrisponde sempre, per Nietzsche, ad una visione morale che non esiste in natura. Queste considerazioni sono espresse in un frammento della primavera del 1888 che reca come titolo Volontà di potenza / Filosofia e ha, come una sorta di sottotitolo, l’appunto: «Quanti di potenza (Macht-Quanta). Critica del meccanicismo» (14[79], VIII,III, 47-48). Il ricorso al termine quanta
designa con precisione il conflitto tra le diverse quantità di volontà di potenza che si apre tra gli organismi e, all’interno di ogni organismo, tra i suoi diversi organi e le sue diverse funzioni;; si tratta di «quanti di energia (Kraft-Quanta) la cui essenza consiste nell’esplicare potenza su tutti gli altri quanti di energia» (14[81], VIII,III, 52). Come il principio di causalità, sul quale si basa, il meccanicismo è una costruzione a posteriori: «è solo un linguaggio di segni per il mondo fattuale {p. 358}
interno di quanti di volontà (Willens-Quanta) che lottano e vincono» (14[82], ibidem)[30]. L’idea dei quanta di volontà di potenza distrugge l’idea di una volontà di potenza come principio unico, come ens metaphysicum. Secondo Müller-Lauter, questa interpretazione della volontà di potenza appare dominante nella ricezione nietzscheana a partire dagli anni Trenta e, in particolare, in Heidegger. Il rapporto tra molteplicità (delle forze che si contrappongono) e unità (della volontà di potenza) va pensato nel senso dell’organizzazione della molteplicità stessa: «Solo una molteplicità può essere organizzata in una unità. Il molteplice organizzato deve consistere di ‘‘quanti di potenza’’ se il mondo in quanto uno non è altro che volontà di potenza». Se ciò che sta in primo piano è la molteplicità come contrapporsi delle forze, «allora non regge più neanche l’affermazione di Heidegger secondo la quale la volontà di potenza non sarebbe «mai il volere di una singola cosa, una realtà», ma piuttosto «sempre volontà di essenza»[31]. Il concetto di organizzazione del molteplice si traduce nell’idea di «dominio», secondo la quale Nietzsche pensa «tutti gli enti» «come quanti di energia organizzati in modo gerarchico»[32]. {p. 359}
Non potendo essere pensata come principio e fondamento, la volontà di potenza porta al fallimento quella sistematicità che Nietzsche avrebbe inteso dare alla propria filosofia nell’ultimo periodo della sua riflessione. Concepita come conflitto di forze, essa accentua il contrasto con quell’aspetto – l’eterno ritorno dell’uguale – su cui, stando ad alcuni interpreti, poggerebbe una possibile unità sistematica del pensiero nietzscheano;; e che, tuttavia, già si troverebbe a confliggere con la volontà di potenza pensata come principio.
3. Una sistematicità imperfetta. Löwith, Baeumler, Jaspers Che la filosofia di Nietzsche possa essere pensata come sistema è il tratto comune all’interpretazione nietzscheana degli anni Trenta. Ciò va di pari passo con il diritto, che gli viene ormai riconosciuto, di entrare con piena legittimitànella repubblica dei filosofi. È un fatto, tuttavia, che questa sistematicità viene riconosciuta come sistematicità imperfetta, in cui vi sarebbe qualcosa di troppo da qualunque punto di vista la si guardi. Se si sceglie la volontà di potenza come dottrina fondamentale, il suo spirito di affermazione contrasta con la circostanza che tutto debba eternamente ritornare. Se, al contrario, si vede nell’eterno ritorno dell’uguale il compimento sistematico del pensiero {p. 360}
nietzscheano, la volontà di potenza eccede irrimediabilmente l’amor fati sotteso a questo ritornare. Heidegger costituisce, in questo senso, un’eccezione: il senso complessivo della filosofia di Nietzsche sta nella conciliazione di essere e divenire, ossia di eterno ritorno e volontà di potenza. Questo senso si riassume nel frammento – che abbiamo già commentato – riportato con il n. 617 ne La volontà di potenza, nel quale si parla di un «carattere dell’essere» da imprimere al divenire, e si definisce questa la «suprema volontà di potenza» (7[54], VIII,I, 297)[33]. Che la filosofia di Nietzsche debba assumere una forma sistematica è una necessità inscritta per Heidegger in quel compimento della metafisica che essa rappresenta;; che Nietzsche non riesca, di fatto, a scrivere un’opera sistematica che ha come argomento la volontà di potenza testimonia che questo compimento è stato portato al limite estremo, e che dopo di esso è possibile pensare un nuovo inizio. La sistematicità del pensiero nietzscheano viene dunque in ogni caso postulata da Heidegger come premessa del suo dissolvimento;; o, per dir meglio, del dissolvimento dell’essenza che essa porta a compimento. Altri interpreti hanno visto le ragioni della sistematicità imperfetta nel conflitto tra le due dottrine fondamentali di Nietzsche. Nel suo libro sull’eterno ritorno dell’uguale, tuttavia, Karl Löwith ha colto nella volontà di potenza l’esplicitazione di una contraddittorietà che si radica più profondamente nel pensiero di Nietzsche: nell’eterno ritorno stesso e nelle forme di una filosofia dell’annuncio. Questa contraddittorietà si situa nel modo in cui Nietzsche accoglie e reinterpreta la dottrina eraclitea della concordia dei contrari. Scrive Eraclito: τὸ ἀντίξουν συμφέρον καὶ ἐκ τῶν διαφερόντων καλλίστην ἁρμονίαν (22 B 8 D.K.) («Ciò che contrasta concorre e da elementi che discordano si ha la più bella armonia»;; trad. it. di C. Diano). Ne La filosofia nell’epoca tragica dei Greci Nietzsche riassume {p. 361}
in questo modo la dottrina eraclitea: «Ogni qualità si scinde continuamente, separandosi in una coppia di contrari (Gegensätze), e continuamente questi contrari tendono poi di nuovo a riunirsi (zu einander hin)» (PHG, III,II, 294). In quanto il divenire è il fluire dei contrari, ma questi tendono a riunirsi, il divenire è per Eraclito la manifestazione molteplice dell’unico logos: οὐκ ἐμοῦ ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι («Non a me ma dando ascolto al Discorso [Logos], è saggio dire con esso che tutte le cose sono una») (22 B 50 D.K.). Osserva Löwith che Eraclito non distingue più, come Anassimandro, un mondo fisico da uno metafisico,un mondo vero da uno apparente, «ma conosceva, come Nietzsche, solo quest’unico mondo»[34]. Questo mondo è il regno del fanciullo cosmico che crea e distrugge. Ma, a differenza della sua controfigura nietzscheana, il fanciullo eracliteo non rispecchia una verità per l’uomo, bensì una verità cosmica;; egli è nella natura e si riconosce totalmente nella Dike che la governa. «La filosofia di Eraclito – scrive Löwith – non conosce alcun ‘‘imperativo etico’’, nessun ‘‘Tu devi’’, ma anche nessun mero ‘‘Io voglio’’»;; «L’uomo non occupa alcuna posizione speciale, privilegiata nella totalità del mondo naturale»[35]. Se nell’armonia in cui i contrari tornano a ricomporsi può annunciarsi, agli occhi di Nietzsche, una prefigurazione dell’eterno ritorno, per Eraclito ciò è e resta una legge di natura, in cui l’uomo è incluso solo in quanto è totalmente risolto in essa. Che Eraclito rappresenti il filosofo dal quale Nietzsche deriva l’idea dell’eterno ritorno è attestato dalle sue stesse parole. Ne La filosofia nell’epoca tragica dei Greci egli osserva: «Come Anassimandro, anche Eraclito crede in una fine del mondo che si ripete periodicamente, e nel risorgere sempre nuovo di un altro mondo dall’incendio universale che tutto distrugge» (PHG, III,II, 299). In Ecce homo il riconoscimento diviene esplicito: «La dottrina {p. 362}
dell’‘‘eterno ritorno’’, cioè della circolazione incondizionata e infinitamente ripetuta di tutte le cose – questa dottrina di Zarathustra potrebbe essere già stata insegnata da Eraclito» (EH, VI,III, 321- 322). Il crinale che lascia tuttavia Eraclito da un lato e Nietzsche dall’altro è segnato per Löwith dalla circostanza che, mentre per Eraclito «l’uomo è invischiato nella legge cosmica dell’essere e del divenire» poiché egli, «quale uomo presocratico, comprendeva ancora orginariamente la propria esistenza a partire dall’essere del mondo», Nietzsche cerca in Eraclito un nuovo accesso ad una verità che non trova più vie e fini. In altre parole, il riprendere il cammino verso Eraclito ha la sua premessa nella compiuta scristianizzazione dell’età moderna, nell’esaurirsi della verità del cristianesimo: Nietzsche «ripete l’antichità al culmine della modernità anticristiana»;; «alla fine di un cristianesimo estenuato» egli «cercò ‘‘nuove sorgenti del futuro’’ e le trovò nel ricordo di quel mondo antico precedente al cristianesimo»[36]. In questo modo, senza esserne per altro consapevole, Nietzsche si ritrova ad usare contra Christianos, rovesciati, quegli stessi argomenti che i Padri della Chiesa avevano usato contra gentiles, e a ripetere contro il cristianesimo quelle identiche accuse che gli avevano rivolto gli ultimi esponenti del mondo antico (Celso e Porfirio). Così, per Löwith, la polemica anticristiana di Nietzsche è segnata da un inconfondibile «pathos cristiano», al quale egli dà voce, non a caso, «quale ‘‘anticristo’’ e non più come filosofo»[37]. L’intenzione che, attraverso il ritorno del mondo antico, si possa preparare all’umanità un nuovo futuro, entra irrimediabilmente in contraddizione con il senso che quello stesso mondo antico aveva dato all’eterno ritornare delle stesse cose. Con il suo proposito, Nietzsche dimostra una «brama di futuro ela volontà di crearlo», allo scopo di redimere il mondo da quel nulla in cui il cristianesimo si è risolto. Zarathustra «è ‘‘l’uomo redentore del futuro’’ e tutta la filosofia di Nietzsche è un ‘‘preludio’’ del futuro». Nessun filosofo greco – prosegue {p. 363}
Löwith – «ha situato la propria speculazione così esclusivamente nell’orizzonte del futuro e nessuno si è considerato un destino storico». L’idea dell’eterno ritorno – in quanto presuppone la volontà di un nuovo inizio – appare dunque contaminata dalla volontà di potenza già prima che questa dottrina venga compiutamene elaborata da Nietzsche. Che l’eterno ritorno debba essere voluto rivela una volontà di «‘‘superare’’ la temporalità del tempo nell’eternità dell’eterno ritorno». Il che continua a portare, nelle proprie premesse, la dimensione cristiana del tempo;; mentre «i Greci presero le mosse dal sempre essente e pensarono il tempo che trascorre quale copia sbiadita dell’eternità»[38]. L’idea che sta alla base della volontà di potenza è per Löwith «un retaggio della tradizione giudaico-cristiana, della fede che il mondo e l’uomo siano creati dalla volontà onnipotente di Dio, che Dio, e la sua fedele copia umana, siano essenzialmente volontà». Tutto questo è assolutamente non greco: la creatività che Nietzsche annette alla volontà di potenza è ancora la potenza creativa del Dio dell’Antico Testamento. Se egli ha pensato fino in fondo il passaggio dal «tu devi» biblico all’«io voglio» della modernità, quel che non è riuscito a compiere in modo definitivo è il passo verso l’autentico «io sono» del fanciullo cosmico. Alla fine, la dottrina di Nietzsche «si spacca in due, giacché la volontà di eternizzare l’esistenza del moderno Ego, gettata nell’esserci, non si accorda con la visione dell’eterna circolarità del mondo naturale»[39].
Il punto di crisi in cui l’intenzione nietzscheana di sistematicità – intesa come volontà di essere – si scontra con l’istanza del nuovo inizio è per Löwith l’immagine del «grande meriggio» (großer Mittag). Nietzsche se ne occupa in tre momenti cruciali: una prima volta nell’af. 308 de {p. 364}
Il viandante e la sua ombra;; una seconda nella quarta parte dello Zarathustra, nel capitolo intitolato Mezzogiorno (Mittags);; una terza, in un breve accenno, nel cap. 24 della seconda dissertazione della Genealogia della morale.Al suo primo comparire l’argomento viene così affrontato: L’anima di colui, al quale fu destinato un mattino della vita attivo e pieno di tempeste, viene colta nel meriggio della vita da uno strano desiderio di pace, che può durare per lune e per anni [...] In una nascosta radura di bosco vede dormire il gran Pan;; tutte le cose della natura si sono addormentate insieme a lui, con un’espressione di eternità nel volto – così a lui pare. Egli non vuol niente, non si preoccupa di niente, il suo cuore è fermo, solo il suo occhio vive, – è una morte a occhi aperti (MAM II, IV,III, 256).
Se le cose appaiono, in quest’ora in cui non gettano ombra, nell’istante della perfezione, l’ora panica della fissità dell’essere viene tuttavia già letta da Nietzsche come un momento di transizione;; l’ideale antico della contemplazione viene superato di slancio verso una nuova fase di vita attiva: «Infine si leva il vento fra gli alberi, mezzogiorno è passato, la vita lo strappa di nuovo a sé, la vita dagli occhi ciechi, dietro a cui si precipita il suo corteo» (ibidem). Questo indica per Löwith che il meriggio di Nietzsche è «solo apparentemente» «l’ora del grande Pan», ossia l’ora dell’immota perfezione in cui la natura si rivela, all’occhio contemplante, nella forma dell’essere: «Il viandante, che con la sua ombra è in cammino verso una meta, non può abbandonarsi incondizionatamente anima e corpo, neppure per un momento, alla vita universale della natura». E ciò perché il mezzogiorno non rispecchia per Nietzsche, come per gli antichi, un elemento della natura, ma è l’ora mediana della vita dell’uomo: l’ora in cui l’uomo decide di sé. Quest’ora «della ‘‘decisione’’» è per Löwith del tutto «non pagana e innaturale»[40]. Questo senso {p. 365}
del meriggio, ancora latente nel passo del Viandante e la sua ombra, viene pienamente alla luce in Zarathustra, nel «pathos escatologico della lingua neotestamentaria» che «sovverte le antiche reminescenze»[41]. Qui Zarathustra si rivolge alla sua anima in un dialogo che ricorda da vicino quello del viandante con l’ombra. Alle parole che l’anima gli rivolge – «Zitto! Zitto! Non divenne proprio ora perfetto il mondo?» (Za, VI,I, 334) – Zarathustra risponde dapprima con parole di perplessità: «– Come si fa lunga e stanca, l’anima mia bizzarra! Le è forse giunta la sera di un settimo giorno in pieno mezzogiorno?» (Za, VI,I, {p. 366}
335)[42], nelle quali è palese lo stupore che il riposo dalla creazione («la sera del settimo giorno») possa giungere nell’ora dell’attività e della decisione. Il senso di quest’ora diviene evidente nelle parole che Zarathustra rivolge prima a se stesso: «In piedi, dormiglione! [...] Tu dormientenel meriggio! Forza, coraggio, vecchie gambe! È tempo e più che tempo, avete ancora un buon pezzo di strada da fare»;; e poi alla sua anima: «Alzati [...] piccola ladra perdigiorno! Come, continui ancora a stirarti, a cader giù dentro pozzi profondi?» (Za, VI,I, 336). L’ora meridiana è insomma per Zarathustra la tappa di un cammino: per Löwith l’esatto «‘‘punto di mezzo’’» tra «animale e sovrauomo»;; paradossalmente, il meriggio diviene in questo modo, nello stesso tempo, l’ora del tramonto (dell’uomo) e quella del mattino (l’annuncio dell’Übermensch). Questo mette in crisi tanto l’immagine del meriggio come rappresentazione dell’eterno ritorno quanto l’idea dell’eterno ritorno stesso: «Nella rappresentazione nietzscheana del meriggio e dell’eterno ritorno si compie improvvisamente una trasmutazione: ciò che per natura sempre ritorna si trasforma in qualcosa che deve essere decisivo una volta per tutte». Con ragione osserva Löwith che in questo modo il meriggio finisce con l’assumere le sembianze del giorno del giudizio «dei profeti e degli apostoli»[43]. Le parole stesse di Zarathustra, in una delle sue più violente invettive contro il cristianesimo, ne offrono conferma: «Questi vigliacchi stanchi del mondo, questi ragni con la croce sul dorso! / Ma per tutti quanti costoro verrà il giorno, la trasformazione, la spada del giudizio, il grande meriggio: allora molte cose diverranno manifeste!» (Za, {p. 367}
VI,I, 233). A questa invettiva danno il suggello le parole della Genealogia della morale, nelle quali le campane del mezzogiorno annunciano l’«uomo dell’avvenire»: Quest’uomo dell’avvenire, che ci redimerà tanto dall’ideale perdurato sinora, quanto da ciò che dovette germogliare da esso, dal grande disgusto, dalla volontà del nulla, dal nichilismo, questo rintocco di campane del mezzodì e della grande decisione, il quale nuovamente affranca la volontà, restituisce alla terra la sua meta e all’uomo la sua speranza, questo anticristo e antinichilista, questo vincitore di Dio e del nulla – dovrà un giorno venire (GM, VI,II, 297).
Il meriggio è con ciò divenuto il «critico ‘‘punto di mezzo’’», «l’attimo della decisione, nel quale la
storia passata si stacca da quella futura»[44]. In questo modo Nietzsche ripete, in termini anticristiani, l’annuncio stesso della venuta di Cristo;; e ripristina, in definitiva, la dimensione temporale cristiana. La filosofia del meriggio si disvela nuovamente come filosofia del mattino, e l’eterno ritorno, che dovrebbe essere il contenuto di verità di questo annuncio, finisce con lo smentire se stesso: che si debba annunciare che le stesse cose eternamente ritornano è una contraddizione in termini. La filosofia di Nietzsche è per Löwith attraversata dall’insuperabile fenditura che si apre tra un’intenzione asistematica e il dato di fatto che tale intenzione si vede costretta a sviluppare sistematicamente «l’idea dell’essere che eternamente ritorna»[45]. La scelta di esprimersi per aforismi è una conseguenza di questa contraddizione: essa rappresenta la ricerca di una filosofia che si situi al di qua della forma sistematica;; ma nello stesso tempo, nella sua volontà di circoscrivere la verità in una massima, l’aforisma allude a una possibilità sistematica. «La scomposizione nietzscheana del sistema, come totalità ormai impossibile, in una libera connessione di aforismi e parabole, fa emergere da ultimo una dottrina,la {p. 368}
cui forma linguistica è ambigua, come ogni cosa nell’ambito della modernità»[46]. Se la filosofia di Nietzsche dev’essere salvaguardata nella sua forma sistematica, e questa forma appare compromessa dalla contraddizione tra eterno ritorno e volontà di potenza, una delle due dottrine non può essere riconosciuta come appartenente alla forma sistematica. Löwith non arriva a questo punto, e anzi sottolinea, come abbiamo visto, che la volontà di potenza si limita a portare alla luce una contraddizione già presente nell’eterno ritorno. Più radicale, e assai meno sottile, è la scelta di Alfred Baeumler che, volendo garantire la permanente ispirazione eraclitea della filosofia nietzscheana, riconosce questo carattere soltanto alla volontà di potenza: «Può valere soltanto uno: o la dottrina dell’eterno ritorno o la dottrina della volontà di potenza». Baeumler ridimensiona l’idea dell’eterno ritorno a esperienza personale, privata, dovuta ad una «commozione» (quella provata lungo il lago di Silvaplana, descritta in Ecce homo[47]);; questo pensiero non starebbe in nessuna relazione con il «pensiero fondamentale della ‘‘volontà di potenza’’», e non avrebbe dunque alcuna relazione con la filosofia di Nietzsche pensata come sistema[48]. L’estraneità dell’eterno ritorno al «sistema» filosofico nietzscheano deriverebbe dal fatto che questo pensiero rivela una «concezione religiosa»: «Non esiste in sostanza una filosofia dell’eterno ritorno, esiste soltanto una religione dell’eterno ritorno». Se questo pensiero costituisce il centro dello Zarathustra, occorre considerare, secondo Baeumler, che «non era tuttavia intenzione di Nietzsche restare fermo a Zarathustra»[49]. Il compimento sistematico della filosofia nietzscheana si realizza pertanto nell’idea di volontà di potenza. Del fatto che ciò non corrisponda tuttavia al libro postumo cui è stato dato {p. 369}
questo titolo, Baeumler si rende perfettamente conto. Ma questa convinzione non gli deriva tanto da scrupoli filologici, quanto dal fatto che i curatori hanno incluso nella compilazione frammenti in cui è presente la concezione religiosa dell’eterno ritorno. Baeumler contesta, in particolare, il frammento che chiude la compilazione (n. 1067). Qui Nietzsche propone la sua concezione del mondo come un mostro di forza, senza principio e senza fine, una salda, bronzea massa di forza, che non diviene né più grande né più piccola, che non si consuma ma soltanto si trasforma, un complesso di grandezza immutabile, un’amministrazione senza peso né perdite, ma del pari senza accrescimento, senza entrate, un mondo attorniato dal «nulla» come dal suo confine, nulla che svanisca, si sprechi, nulla di infinitamente esteso, ma come una forza determinata è collocato in uno spazio determinato, e non in uno spazio che sia in qualche parte «vuoto»;; piuttosto come forza dappertutto, come giuoco di forze e onde di forza esso è in pari tempo uno e «plurimo», che qui si gonfia e lì si schiaccia, un mare di forze tumultuanti e infurianti in se stesse, in perpetuo mutamento, in perpetuo riflusso, con anni sterminati del ritorno, con un flusso e riflusso delle sue figure, passando dalle più semplici alle più complicate [...] e ritornando poi dal molteplice al semplice, dal giuoco delle contraddizioni fino al piacere dell’armonia, affermando se stesso anche in questa uguaglianza delle sue vie e dei suoi anni, benedicendo se stesso come ciò che ritorna in eterno, come un divenire che non conosce sazietà, disgusto, stanchezza: questo mio mondo dionisiaco del perpetuo creare se stesso, del perpetuo distruggere se stesso, questo mondo dalle doppie voluttà, questo mio al di là del bene e del male, senza scopo, se non c’è scopo nella felicità del circolo, senza volontà, se un anello non ha buona volontà verso se stesso – volete un nome per questo mondo? [...] Questo mondo è la volontà di potenza – e nient’altro! (38[12], VII,III, 292-293).
La prima parte del frammento ricorda da vicino la concezione dell’essere in Parmenide[50]. Il che non può che {p. 370}
costituire, agli occhi di Baeumler, un ulteriore allontanamento dall’eraclitismo di Nietzsche. Si deve dunque pensare che, in questo frammento, Nietzsche si sia servito di simboli per dar veste al suo pensiero autentico. Il frammento stesso dev’essere passato al setaccio per raccogliere ciò che vi è di comune con l’idea che sta a fondamento del «sistema»;; dato per scontato che quest’idea è la volontà di potenza, l’elemento comune non può essere altro che il concetto di forza e di «giuoco di
forze». Quella «intima congiunzione dei concetti di mondo dionisiaco, eterno ritorno e volontà di potenza» – che pure Baeumler non può fare a meno di rilevare nel frammento – non costituisce che la superficie del problema;; ciò che conta è la forza: «L’eterno ritorno viene indicato come simbolo dell’autoaffermazione di questa forza»[51]. Fu pertanto errato l’intento dei compilatori, che attribuirono al frammento addirittura un significato conclusivo e culminativo. Ma se Baeumler rifiuta, in nome del sistema, la dottrina dell’eterno ritorno, egli è costretto a rifiutare anche il volto che tale dottrina assume;; volto che rivela, ancora una volta, un concetto religioso. Dioniso è infatti per Baeumler «soltanto il segno per il contromovimento (Gegenbewegung) che il giovane Nietzsche inaugurò contro la morale cristiana». Ma il senso profondo di questo contromovimento si svela soltanto quando all’anticristianesimo viene dato il suo vero nome con la volontà di potenza. Il «sistema» che Nietzsche ha costruito su di essa viene descritto da Baeumler con precisione perfino pedante: «Sul fondamento di questa formula egli ha edificato una fisica e una {p. 371}
fisiologia, una psicologia e un’etica. Mai egli avrebbe potuto far questo servendosi del suo dionisismo»[52]. Nella sua spiegazione della volontà di potenza Baeumler sottolinea come il volere sia privo di scopi, e come dunque, nella formula, la potenza non rappresenti lo scopo della volontà: «La forza non è uno scopo della volontà, in quanto essa è la volontà stessa. La volontà ‘‘vuole’’ dunque soltanto se stessa» (Heidegger è, in quanto a questo, largamente debitore nei confronti di Baeumler). Se in questo modo la volontà, in quanto volontà di potenza, si rivela come «un potere» (ein Können), essa è precisamente quell’«unità operante» (arbeitende Einheit) che dev’essere sostituita a ciò che l’idealismo definiva «coscienza». L’unità della coscienza dei filosofi idealisti non è altro che quell’unità di forze che Nietzsche definisce volontà di potenza[53]. Si noti come, in questo modo, Baeumler riconduca la frattura tra Nietzsche e la tradizione filosofica tedesca ad una semplice sostituzione di termini. Da questa prospettiva, è del tutto naturale che la volontà di potenza venga riproposta come il fondamento aggiornato di una possibilità sistematica in cui si rispecchia la sostanziale unità della filosofia tedesca. Stabilito il punto di vista privilegiato nella lotta contro la coscienza, diviene possibile «dominare (überschauen) l’intero sistema filosofico di Nietzsche. La concezione unitaria fondamentale della sua filosofia teoretica e di quella pratica diventa qui visibile»[54]. Proprio in quanto innovatore, Nietzsche diviene, per Baeumler, l’autentico erede della filosofia tedesca. Col che egli viene investito di un ruolo non più soltanto storico-filosofico, ma prima ancora politico: «La sua dottrina della volontà è la più compiuta espressione del suo germanesimo»[55]. Il Nietzsche Philosoph presuppone il Nietzsche Politiker e si confonde ormai con lui. {p. 372}
Il taglio brutale che Baeumler opera nel corpo stesso del pensiero di Nietzsche va di pari passo con la sua strumentalizzazione politica. Ciò che presuppone, ovviamente, un’interpretazione politica della volontà di potenza stessa. Laddove le difficoltà di questo concetto vengono soppesate con maggior senso critico, e lontano da fini esterni, torna ad emergere l’idea di una sistematicità imperfetta o di una asistematicità che aspira al sistema, senza tuttavia poterlo realizzare. È il caso del libro che Karl Jaspers pubblica nel 1936: Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, dove già l’uso del verbo «filosofare» (philosophieren) in luogo del sostantivo «filosofia» rimanda alla presenza di una sistematicità sui generis. Esistono, tra la posizione di Jaspers e quella di Löwith, più relazioni di quante Löwith stesso non abbia voluto vedervi. Comune ad esse è il presupposto di una sistematicità che non reggerebbe tuttavia alla prova degli esiti. L’avvertimento metodologico che Jaspers dà in questo senso è esplicito: occorre «comprendere Nietzsche attraverso Nietzsche stesso come un tutto»;; ogni singola parola dev’essere collocata sullo sfondo della concezione generale. E tuttavia, occorre anche «contemplare ad un tempo sia la possibilità di una costruzione sistematica del suo pensiero, sia quella del suo crollo»;; cosicché «l’unità nel pensiero di Nietzsche» non è un dato di fatto reale, ma solo la meta che può essere conseguita sul cammino che egli ha aperto, e il cui conseguimento spetta dunque ad altri[56]. Nietzsche è, per così dire, un pensatore che diventa ciò che è negli altri, nella misura in cui costringe il suo lettore ad una «autoeducazione» (Selbsterziehung). Se il suo pensiero è caratterizzato dalla «mancanza di una esposizione sistematica» (corsivo nostro), sarà il lettore, nietzscheanamente educato proprio da questa mancanza – un lettore cioè che non si ferma alla positività del dato, che {p. 373}
ha compreso come «niente ci è dato in modo già definito, ma solo nella misura in cui siamo noi stessi a conquistarlo» –, a saper cogliere, al di là di essa, le «effettive connessioni», non arbitrarie, del pensiero[57]. Il significato della filosofia di Nietzsche si compie dunque nella sua Wirkungsgeschichte, nell’azione dei soggetti che la interpretano. Questo significato viene così ampliato ed aperto al punto che il compimento sistematico può generare contenuti di pensiero che
apertamente contraddicono le premesse. In questo modo, la stessa portata distruttiva del pensiero nietzscheano può essere rovesciata e riconosciuta come premessa necessaria ad un nuovo inizio. Questa distruttività non significherà forse che, «poiché Nietzsche ha assunto su di sé l’universale disgregazione del nostro mondo, proprio in lui si può trovare l’unico inizio ed impulso ancora possibile verso la verità indistruttibile, verso l’essere dell’uomo?». Il maestro della negazione di ogni trascendenza può essere così ribattezzato come il maestro di una nuova trascendenza: «Il pensiero di Nietzsche, continuamente scosso dalla trascendenza che egli nega, prepara alla trascendenza che egli non mostra»[58]. Collocando il compimento sistematico del suo pensiero fuori da Nietzsche stesso, Jaspers ne rileva ad un tempo l’intima frammentarietà e contraddittorietà;; ma questi caratteri vengono intesi come il presupposto necessario all’affermarsi di una nuova trascendenza. Questo punto del libro di Jaspers viene duramente attaccato da Löwith nella recensione che egli pubblica nel 1937 sulla «Zeitschrift für Sozialforschung». «Dal nuovo libro di Jaspers – osserva Löwith – non si può ricavare semplicemente nulla circa l’attualità di Nietzsche. Il vasto impianto della sua introduzione sembra muoversi, al di là di tutte le domande del tempo, nel puro etere di un sapere universale». Löwith individua il punto debole della posizione di Jaspers nel plesso problematico costituito da Zarathustra e dalla grecità. Jaspers si colloca fin da principio al di là {p. 374}
della richiesta di Nietzsche «che con lo Zarathustra abbia origine un nuovo atteggiamento nei confonti del tutto dell’essere che è sostanzialmente più vicino alla filosofia ‘‘nell’epoca tragica dei Greci’’ che all’intera filosofia postplatonica». Da qui Löwith muove la sua critica all’interpretazione jaspersiana della sistematicità di Nietzsche: «La cercata integrità della filosofia di Nietzsche non è quell’‘‘infinito indeterminato’’ che rimane astraendo da tutti i singoli oggetti, contenuti, posizioni e alternative in cui si muove il pensiero di Nietzsche, ma l’elemento determinante, che consiste nella volontà di Nietzsche di una radicale decisione tra antichità e cristianesimo». Nel preteso rovesciamento del proprio trascendere che porta Nietzsche a identificarsi con il suo opposto, Löwith non vede un reale movimento della riflessione nietzscheana, ma solo uno scambio di identità di Jaspers con Nietzsche[59]. La sistematicità di Nietzsche va dunque cercata, per Löwith, proprio là dove si presenta una frattura radicale. Ciò significa, evidentemente, che questa sistematicità non è quella stessa che ha caratterizzato fin qui l’intera storia del pensiero occidentale (quel che può apparire solo guardando dal «puro etere» di Jaspers). La sistematicità di Nietzsche non può sanare quella crisi della filosofia di cui essa stessa si presenta come il risultato;; ad essa spetta semmai di indicare la nuova strada da percorrere.
4. La «grande politica» Per fare della volontà di potenza una dottrina immediatamente politica, in cui si esprimerebbe il «germanesimo» di Nietzsche, Baeumler è costretto, come si è visto, a {p. 375}
recidere nettamente l’eterno ritorno;; condannandosi, con ciò, a non intendere rettamente neppure la volontà di potenza, data la relazione essenziale in cui essa sta con l’eterno ritorno stesso[60]. Di ciò Heidegger si rende conto, e attacca Baeumler sulla base della sua interpretazione di Eraclito, quasi questi avesse insegnato «l’eterno fluire delle cose nel senso del loro ‘‘andare sempre avanti’’». Il senso più autentico della filsofia di Eraclito è «che non necessariamente esiste una contraddizione tra la tesi ‘‘l’essere è divenire’’ e la tesi ‘‘il divenire è essere’’». Fraintendendo la dottrina dell’eterno ritorno Baeumler parla contro la propria stessa interpretazione della volontà di potenza, che egli vorrebbe intendere in senso metafisico, ma in realtà «interpreta in senso politico». L’eterno ritorno di Nietzsche «è in contrasto con la concezione della politica di Baeumler»[61]. Se dunque, proprio per la sua essenziale connessione con l’eterno ritorno, la volontà di potenza non è una dottrina politica, resta da interrogarsi sull’eventualità che nel pensiero di Nietzsche esista qualcosa come una teoria della politica. Contro quest’ipotesi stanno le parole stesse di Nietzsche. Nel Crepuscolo degli idoli egli scrive: «Tutte le grandi epoche della cultura (Cultur) sono epoche di decadenza politica: ciò che è grande nel senso della cultura è stato non politico (unpolitisch), addirittura antipolitico (antipolitisch)» (GD, VI,III, 102). Nietzsche oppone dunque in modo inequivocabile Kultur e Politik. Una teoria della politica, nel senso organico dell’espressione, non {p. 376}
esiste in Nietzsche. Il che non significa, naturalmente, che la sua filosofia, la sua stessa battaglia in nome della Kultur, non abbia anche un significato poltico. L’opposizione tra politica e Kultur chiama nuovamente in causa il concetto di «grande stile»[62]. In un frammento dell’agosto-settembre 1885
Nietzsche condanna l’influenza wagneriana sulle «masse», e aggiunge: Per tre cose buone dell’arte le «masse» non hanno mai avuto intelligenza, per la nobiltà, per la logica e per la bellezza – pulchrum est paucorum hominum – per non parlare di una cosa ancora migliore, del grande stile, rispetto al quale anche gli artisti massimi dei tempi moderni non hanno finora potuto dire né un sì né un no (41[2], 6, VII,III, 363).
Va sottolineato che l’annotazione figura nell’abbozzo di uno scritto che ha per titolo Nuova considerazione inattuale. Ciò rende comprensibile il commento di Heidegger, il quale osserva che, con il termine «massa», Nietzsche «non intende il concetto di classe indicante il basso popolo, ma i ‘‘colti’’ nel senso dei mediocri filistei della cultura (im Sinne der mittelmäßigen Bildungsphilister) che praticano e sostengono il culto di Wagner»[63]. Come sappiamo, il termine Bildungsphilister appartiene al lessico delle Inattuali. Qualunque aspetto della riflessione nietzscheana che possa definirsi politico si radica nel concetto di inattualità come attributo del genio che è in lotta contro il proprio tempo, in cui domina la Mittelmäßigkeit della cultura borghese. I pauci homines che hanno intelligenza per la bellezza sono quegli stessi aristocratici la definizione del cui ruolo impegna Nietzsche dallo scritto giovanile su Teognide fino a Al di là del bene e del male e alla Genealogia della morale. La riflessione sull’arte, in quanto occupazione del genio e dunque riservata ai pochi, assume con ciò un significato immediatamente politico. Se il «grande stile» non può trovare compimento nep {p. 377}
pure negli «artisti massimi dei tempi moderni» – che vivono, secondo Nietzsche, sotto il segno del ressentiment romantico –, ciò si spiega in quanto occorre che vengano innanzitutto gettate le premesse politiche per la sua realizzazione. Il concetto di «grande stile» richiama dunque il suo concetto gemello, quello di «grande politica» (große Politik)[64]. Il passaggio diviene esplicito in un frammento del maggio-luglio 1885, in cui assistiamo al significativo sovrapporsi dell’ambito artistico e di quello politico. Qui Nietzsche indica tra i suoi precursori Schopenhauer e poi «gli artisti ideali, i rampolli del movimento napoleonico»;; e quindi ancora «gli Europei superiori, precursori della grande politica» (35[45], VII,III, 208-209). Il riferimento a Napoleone torna in un frammento della primavera 1888 in cui Nietzsche si sofferma sui metodi per contrastare la décadence, che è in sé non qualcosa «che si possa combattere», in quanto «è assolutamente necessaria e propria di ogni tempo e di ogni popolo». Contro di essa è piuttosto necessaria una «cura»: «per esempio il militarismo,da Napoleone in poi, che vedeva nella civiltà (Civilisation)la sua naturale nemica...» (15[31], VIII,III, 217). Napoleone e il militarismo sono qui considerati come rappresentanti di un’arte della politica, di una grande politica che è espressione della Kultur e trova, in quanto tale, il suo nemico in una politica come semplice espressione del concetto borghese di Zivilisation. La concezione politica di Nietzsche proviene, dovunque e comunque, da quella esaltazione del ruolo degli agathoi che Georg Brandes ha felicemente riassunto nella formula del radicalismo aristocratico[65]. A quegli aristocratici che attribuivano a se stessi, {p. 378}
con un atto di violenza arbitrario, la qualifica di «buoni», rimandano gli «uomini della violenza» (Gewaltmenschen) che, nel frammento intitolato «Musica» e il grande stile[66], vengono definiti capaci di dominare il proprio caos interiore, formando attorno ad essi «un deserto, un silenzio, una paura come di fronte a un grande sacrilegio...» (14[61], VIII,III, 37). Poiché il «grande stile» riposa sulla {p. 379}
capacità di dominio di forze interiori contrastanti, la sua definizione corrisponde al carattere della volontà di potenza;; e, in particolare, a quella sua applicazione che interpreta la natura come lotta di Quanta di potenza contrapposti. Anche questa visione della natura – come risulta da un frammento dell’autunno 1887 – è traducibile in termini di «grande stile»: contro le «acconciature morali delle passioni», scrive Nietzsche, bisogna tornare ad esaltare «la natura nuda, in cui le quantità di potenza sono semplicemente riconosciute come decisive (come determinatrici della gerarchia);; incuiil grande stile ritorna in auge, come conseguenza della grande passione» (9[75], VIII,II, 34). Il trasferimento di questa visione dalla natura alla politica è pressoché automatico. In un frammento dello stesso periodo Nietzsche scrive: Più naturale è la nostra posizione in politicis: vediamo problemi di potenza, di un quantum di potenza contro un altro quantum. Non crediamo a un diritto che non riposi sulla potenza per farsi valere: consideriamo tutti i diritti come conquiste con la forza (10[53], VIII,II, 131).
Volontà di potenza, grande stile, grande passione, grande politica sono da intendersi, sotto questo profilo, come espressioni sinonime. Heidegger ha perfettamente colto questo punto. Nella coincidenza di grande stile e grande politica egli individua un momento decisivo della riflessione sul nichilismo e del suo «superamento radicale». I due concetti vanno dunque pensati insieme «come
originariamente coappartenenti»: «Il grande stile può essere creato soltanto con la grande politica, e la grande politica ha l’intima legge della sua volontà nel grande stile»[67].A supporto, Heidegger cita un frammento del maggio-luglio 1885 che avrebbe dovuto far parte di una progettata continuazione dello Zarathustra: «Ciò che fa il grande stile: diventare signore (Herr werden) della propria felicità come della propria infelicità» (35[74], VII,III, 217). Il senso {p. 380}
del grande stile si trova raccolto in questo Herr werden[68] che è l’essenza della volontà di potenza, in quanto grande stile è porsi al comando di se stessi. Heidegger legge tuttavia questa essenza attraverso la mediazione del circolo: la volontà che si disvela come potenza è la volontà che vuole se stessa;; è quindi, nello stesso momento, eterno ritorno dell’uguale. È invece un dato di fatto che, nelle ultime testimonianze nietzscheane sulla grande politica, questa identità di volontà di potenza ed eterno ritorno – e dunque lo stesso legame di grande politica e grande stile – viene a saltare. Ciò ha per conseguenza un rientro in campo di quella soggettività che sembrava messa definitivamente fuori gioco. Nietzsche riferisce ora a se stesso il concetto di grande politica. Già nel capitolo finale di Ecce homo – Perché io sono un destino – egli si annuncia come l’uomo della grande politica e «uomo del fato»: Conosco la mia sorte. Un giorno sarà legato al mio nome il ricordo di qualcosa di enorme – una crisi, quale mai si era vista sulla terra, la più profonda collisione della coscienza, una decisione evocata contro tutto ciò che finora è stato creduto, preteso, consacrato. Io non sono un uomo, sono dinamite (EH, VI,III, 375).
La comprensione di questo momento è ancora una volta riservato a pochi: io, scrive Nietzsche, «non parlo mai alle masse» (ibidem). Questo rifiuto (autentico Pathos der Distanz, per usare l’espressione della Genealogia della morale) che, riferito al grande stile, designava un’aristocrazia della Kultur capace di un esercizio della bellezza per il quale le masse non avevano intelligenza, acquista ora un senso direttamente politico. È venuto il momento, prosegue Nietzsche, in cui «la verità dà battaglia alla millenaria menzogna» (ossia alla morale). Ne seguiranno «sconvolgimenti» e «terremoti»: «Il concetto di politica trapasserà allora completamente in quello di una guerra {p. 381}
degli spiriti [...] Solo a partire da me ci sarà sulla terra grande politica»(EH, VI,III, 376). Ora Nietzsche applica a se stesso quella qualifica di «lieto messaggero»(froher Botschafter) che ne L’anticristo viene attribuita a Gesù Cristo. La «formula per questo destino, che si fa uomo»è indicata nello Zarathustra: colui che crea il bene e il male deve innanzitutto distruggere, infrangere valori;; la bontà suprema comprende in sé il male supremo (ibidem;; cfr. Za, VI,I, 140). Mediante questa identificazione con un Cristo che realizza fino in fondo il suo compito di distruttore Nietzsche propone se stesso come soggetto della grande politica. Come ha osservato Karl Löwith, «il destino dell’Europa coincide nel sentimento e nel pensiero di Nietzsche con lui stesso». Questo è ciò che, della riflessione nietzscheana, è propriamente politico;; e «questa prospettiva politica non si colloca ai margini della filosofia di Nietzsche, ma al suo centro»[69]. In uno degli ultimi frammenti, databile tra il dicembre 1888 e l’inizio di gennaio 1889 (dunque a poche settimane dal crollo definitivo) e intitolato La grande politica, Nietzsche torna a proporsi in prima persona come soggetto politico usando, di nuovo, un riferimento evangelico: «Io porto la guerra»[70]. Questa guerra non sarà «tra popolo e popolo» né tra i ceti. «La grande politica vuole affermare la fisiologia sopra tutti gli altri problemi;; vuole creare una potenza abbastanza forte per allevare (züchten) l’umanità come un tutto superiore, con spietata durezza contro la degenerazione e il parassitismo della vita (gegen das Entartende und Parasitische am Leben)». Occorre a tale scopo «creare un partito della {p. 382}
vita abbastanza forte per fare la grande politica». Allevare l’umanità come un tutto significa che «essa misura il ran-go delle razze, dei popoli, degli individui secondo la loro [volontà] di futuro» (25[1], VIII,III, 407-408). Questa enunciazione di propositi – che certo resta molto lontano da qualunque cosa si voglia intendere come programma politico – ha la sua radice nell’analisi del ressentiment dell’uomo nobile (nel quale ora Nietzsche riconosce senza mezzi termini se stesso) della Genealogia della morale. Questo ressentiment è destinato a scatenarsi all’esterno, contro nemici verso i quali i «‘‘buoni’’», non più vincolati da costrizioni sociali, saranno liberi di regredire «nell’innocenza della coscienza propria di un animale da preda», uscendosene «da una orribile serie di delitti, incendi, infamie, torture [...] come se si fosse trattato semplicemented’una zuffa studentesca». È qui che incontriamo una delle affermazioni da sempre più vituperate del Nietzsche politico: «Al fondo di tutte queste razze aristocratiche occorre saper discernere la belva feroce, la magnifica divagante bionda bestia, avida di preda e di vittoria» (GM, VI,II, 240). Qualche passo più avanti Nietzsche toglie ogni dubbio sull’identità dell’animale da preda:
La profonda, gelida diffidenza che anche oggi nuovamente suscita il tedesco, non appena instaura la sua potenza – è ancor sempre una ripercussione di quell’inestinguibile terrore con cui l’Europa, nel corso di secoli, ha riguardato la furia della bionda bestia germanica (GM, VI,II, 241).
È significativo che, subito dopo, Nietzsche aggiunga, tra parentesi, che tra gli antichi Germani e i Tedeschi di oggi esiste «a malapena un’affinità concettuale e tanto meno una parentela di sangue»[71]. Più che il vaticinio di {p. 383}
quanto l’Europa avrebbe di lì a poco conosciuto, è una fantasmagoria del goto Ermanarico[72] quella che torna ad affacciarsi in queste pagine. Nondimeno, quanto la storia si è incaricata di portare a compimento schiaccia Nietzsche sulla responsabilità delle proprie parole. È difficile non condividere – proprio in quanto da tempo è invalsa una moda contraria – il duro giudizio di Löwith: «Le riflessioni di Nietzsche hanno preparato spiritualmente la via al Terzo Reich, benché i precursori abbiano sempre indicato agli altri la strada che essi stessi non percorsero»[73]. {p. 384}
Ciò di cui tuttavia Löwith non tiene conto è che la nazificazione di Nietzsche non fu affatto il primo esito politico del suo pensiero. Ciò che il nazionalsocialismo fece di Nietzsche è ben espresso dal modo in cui Baeumler intende il concetto di «grande politica». Nietzsche, scrive Baeumler, non pensa in modo tedesco-nazionale «perché egli guarda oltre lo stato di massa nazionale democratico. Ma egli pensa tedesco in modo nuovo, più audace ed ampio: la Germania deve di nuovo assumere la guida in Europa»;; «egli non vuole fare dei Tedeschi degli impolitici (unpolitisch), non vuole fondare uno ‘‘stato della cultura’’ (Kultur-Staat)»[74]. La rigenerazione del Volk tedesco diviene, per Baeumler, l’obiettivo della grande politica: «Quel che spinge avanti la grande politica è il bisogno del sentimento di potenza, ciò che prorompe di tempo in tempo da fonti inesauribili non solo negli animi dei singoli, ma anche negli strati più bassi del popolo. Sempre di nuovo giunge l’ora in cui la massa è pronta a mettere in gioco la propria vita, i propri beni, la propria coscienza, la propria virtù»[75]. Quel «lieto messaggero» che annunciava la grande politica come strumento del singolo e si rifiutava di parlare alle masse, parla ora loro per bocca di Baeumler e del partito di Hitler. In quanto si fonda sulla mobilitazione delle masse e sulla loro trasformazione in plebe, il nazionalsocialismo è obbligato a disconoscere il carattere clamorosamente aristocratico della «grande politica» nietzscheana. Di più, come suona esplicito nelle parole di Baeumler, la natura impolitica di quell’idea deve diventare esplicitamente politica. Al di fuori di quanto poteva servire come appello alla mobilitazione, Nietzsche interessò poco i nazisti. Nel libro dell’ideologo del movimento Al {p. 385}
fred Rosenberg, Der Mythus des 20. Jahrhunderts («Il mito del ventesimo secolo»), il nome di Nietzsche compare in appena cinque pagine. Ciò che lo interessa è presentare il Terzo Reich come il naturale erede della tradizione spirituale tedesca, che egli ricostruisce attraverso Meister Eckhart, Lutero, Goethe e Schopenhauer[76]. In questa tradizione di pretesa continuità Nietzsche rappresentava una frattura sulla quale non era il caso di richiamare troppo l’attenzione. Rosenberg presenta la dottrina dell’Übermensch come l’espressione di una rivolta contro il materialismo del XIX secolo: «Essa fu un violento ampliamento della vita personale soggiogata, strangolata dalla costrizione materiale dell’epoca». E non si astiene da una volgare interpretazione della pazzia: «Che Nietzsche sia diventato pazzo, è una metafora»;; una volontà di creazione smisuratamente repressa non poteva che rompere nella pazzia «come una mareggiata»[77]. Questa ideologizzazione della filosofia di Nietzsche si sottrae grossolanamente all’evidente paradosso di una grande politica che, proprio in quanto grande, si presenta nello stesso momento come impolitica o antipolitica.È cioè incapace di leggere in questo concetto il confronto tra Kultur e Zivilisation. Questo fu per l’appunto il primo esito politico della riflessione nietzscheana a cui si è accennato in precedenza. Un esito contrassegnato da ambiguità, ma anche dalla ricchezza che derivava proprio da tale ambiguità. Non meno strumentale dell’ideologizzazione nazista fu ovviamente il modo in cui l’imperialismo tedesco lesse questo confronto a legittimazione del pro {p. 386}
prio conflitto con le potenze dell’Intesa[78]. Fu tuttavia riflettendo su di esso che Thomas Mann offrì nelle sue Considerazioni di un impolitico, elaborate nel corso della prima guerra mondiale e pubblicate nel 1918, una profonda autoanalisi del ruolo dell’intellettuale tedesco nella guerra. Nell’atteggiamento antidemocratico di Nietzsche Mann legge una presa di posizione in difesa di un mondo della cultura minacciato dall’offensiva della Zivilisation: «Ecco la prima scaturigine di questa guerra, della guerra tedesca contro la ‘‘civilizzazione’’ occidentale». La difesa della Kultur è nietzscheanamente intesa come difesa della vita: «Il concetto della vita, il concetto più tedesco, più goethiano e conservatore nel senso più alto e religioso, è stato pervaso con Nietzsche da un
sentimento nuovo, rivestito di una nuova bellezza e forza e sacra innocenza, portato in cima alla scala dei valori, fino all’imperio spirituale». Nello stesso momento, tuttavia, Mann non può non rendersi conto che l’antiradicalismo di Nietzsche era, «in modo inaudito», profondamente radicale[79]. In questa affiorante contraddizione si svelano tutte le contraddizioni più profonde che costituiscono l’essenza autentica della riflessione nietzscheana. Così, «ferma restando la germanicità del suo spirito», la sua opera «è non-tedesca e antitedesca», e con essa egli ha contribuito «al processo di intellettualizzazione, di psicologizzazione, di letterarizzazione, di radicalizzazione o, se vogliamo non temere il termine politico, di democratizzazione della Germania»;; al punto che, addirittura, egli può essere collocato «in certo modo assai vicino all’Intesa»[80]. La nuova forza impressa da Nietzsche alla prosa tedesca «significa progresso nel senso più inquietante, politico, del termine, nel senso della ‘‘umaniz {p. 387}
zazione’’, progresso nella direzione occidentale e democratica»[81]. La ragione di questa valutazione contraddittoria – che si muove del resto nel senso della contraddittorietà nietzscheana[82] – affonda le sue radici in una condizione preliminare. Mann dichiara infatti di aver «fin da principio» considerato Nietzsche, piuttosto che «il profeta di un poco immaginabile ‘‘superuomo’’», «il più grande ed esperto psicologo della decadenza»[83]. Questa valutazione di Nietzsche è forse, in assoluto, quella più nietzscheanamente conseguente. La stessa categoria dell’impolitico dev’essere valutata a partire da una psicologia della decadenza. Sotto questo aspetto egli incarna per Mann, insieme a Schopenhauer, l’idea della cultura borghese «in senso tedesco», di cui fa parte l’antitesi tra Kultur e politica. Che Nietzsche si sia dichiarato impolitico «contrappone a quella politica la posizione filosofica perché migliore, più alta e nobile», e anche questo «è altamente tedesco, altamente borghese nel senso che io attribuisco a questo termine»[84]. {p. 388}
L’interpretazione di Thomas Mann è l’ultima avventura di una nobiltà dello spirito destinata ad incagliarsi nelle contraddizioni della cosiddetta «rivoluzione conservatrice» che, nel suo isolamento neoaristocratico, non saprà – e non vorrà fino in fondo – opporsi al montare di quella che Ernst Jünger chiamerà la plebaglia nazista. Ma la prospettiva che si apre col legare insieme decadenza e Kultur sbarazza il campo da ogni malintesa estetizzazione della politica, che non può essere – almeno questa – messa in carico a Nietzsche.
Note [1] Il sottotitolo di Ecce homo – «come si diviene ciò che si è» (wie man wird, was man ist) – ricorre, in realtà, come un Leitmotiv in tutta l’opera di Nietzsche. La incontriamo già nella III Inattuale, Schopenhauer come educatore tra le domande che, sul modello schopenhaueriano, il «grande uomo» rivolge a se stesso: «Perché vivo? quale lezione debbo trare dalla vita? come sono diventato qual sono (wie bin ich so geworden wie ich bin) e perché soffro di questo esser-così?» (UBSE, III,I, 399). La frase è un calco dalla seconda Pitica di Pindaro: γένοἰ οἶος ἐσσὶ μαϑών» – «sii qual sei, tu che hai imparato» (P. II, 72;; trad. it. di B. Gentili). Essa ha l’evidente funzione di un forte richiamo all’essenza individuale. Questa funzione la troviamo confermata negli altri usi nietzscheani della massima. Per esempio nella IV Inattuale, Richard Wagner a Bayreuth, riferita allo stesso Wagner: «Guardando indietro di là a Tannhäuser e all’Olandese, sentiamo come l’uomo Wagner sia divenuto (wie der Mensch Wagner wurde)» (UBWB, IV,I, 10). E, in modo esemplare, in un frammento della primavera 1888: «Noi non crediamo che uno possa divenire un altro se non lo è già (daß ein Mensch ein Anderer wird, wenn er nicht schon ist), cioè se non ha in sé, come accade piuttosto spesso, una pluralità di personaggi o almeno di spunti di personaggi. In questo caso si ha il risultato che un altro ruolo passa in primo piano, che l’‘‘uomo antico’’ (‘‘der alte Mensch’’) viene respinto indietro [...] L’aspetto cambia, ma non l’essenza (Der Anblick verändert, nicht das Wesen)» (14[151], VIII,III, 121). L’essenza assume, nelle parole di Nietzsche, il senso di un destino, che deve tuttavia trovare la propria conferma nel divenire. [2] Per un esame dettagliato delle vicende compositive ed editoriali di Ecce homo cfr. OFN, VI,III, 542-590. Tra le ragioni che scatenarono il risentimento di Elisabeth e Franziska vi era il passo nel quale Nietzsche confessava che «la più profonda obiezione contro l’‘‘eterno ritorno’’, il mio pensiero propriamente abissale, è sempre mia madre e mia sorella» (EH, VI,III, 275). [3] Nella prefazione alla seconda edizione di Über den Willen in der Natur (1854), in Sämmtliche Werke, Leipzig, Frauenstädt, 1874, vol. IV, p. XIII, Schopenhauer scriveva: «Si è cominciato a leggermi – e non si cesserà più di farlo. Legor et legar». [4] È il sottotitolo di Al di là del bene e del male. [5] In una lettera a Jacob Burckhardt del 22 settembre 1886 Nietzsche scrive, riferendosi a Al di là del bene e del male: «Legga questo libro (sebbene dica le stesse cose del mio Zarathustra, ma diversamente, molto diversamente...)» (KGB, III,3, 254-255). [6] Heidegger, Nietzsche, cit., vol. I, p. 21;; trad. it., p. 29. [7] Ibidem, p. 24;; trad. it., p. 32. [8] Heidegger, Schelling: vom Wesen der menschlichen Freiheit (1809),in Martin Heidegger Gesamtausgabe, cit., vol. 42, p. 5;; trad. it. Schelling, di C. Tatasciore, Napoli, Guida, 1994, pp. 32-33;; nell’ultima frase citata, è evidente il riferimento di Heidegger a se stesso. [9] Müller-Lauter, «Der Wille zur Macht» als Buch der «Krisis» philosophischer Nietzsche Interpretation, in «Nietzsche-Studien», vol. 24, 1995, p. 223;; trad. it. «La volontà di potenza» come libro della «crisi»
dell’interpretazione filosofica di Nietzsche,in Volontà di potenza e nichilismo, cit., p. 67. [10] E. Förster-Nietzsche, Introduzione a F. Nietzsche, La volontà di potenza. Saggio di una trasmutazione di tutti i valori, trad. it. di A. Treves, Milano, Monanni, 1927, p. 9 (Opere complete di Federico Nietzsche, vol. IX);; si cita direttamente da questa edizione;; l’Introduzione di Elisabeth è stata espunta anche dalle edizioni tedesche recenti di Der Wille zur Macht. [11] Ibidem, p. 18. Sul ruolo di Elisabeth nella vicenda cfr. P. D’Iorio, Les volontés de puissance, appendice a M. Montinari, «La volonté de puissance» n’existe pas, trad. fr. di P. Farazzi e M. Valensi, Paris, L’Éclat, 1996, pp. 122-127. Sulla vita e la figura di Elisabeth si veda inoltre D. Chauvelot, Élisabeth Nietzsche de la sottise à la trahison, Paris, L’Harmattan, 1998. Per ricordare la morte di Elisabeth (8 novembre 1935), Walter F. Otto pubblicò un necrologio nelle «Kant-Studien», vol. 40, 1935 (pp. non numerate), nel quale, con una lungimiranza che oggi suona per lo meno ironica, egli scrive: «Dovunque, nel mondo e nel tempo, si onora il nome di Nietzsche, non sarà dimenticata neppure l’opera della sorella». [12] Per una ricostruzione della vicenda editoriale cfr. M. Ferraris, Storia della volontà di potenza, in appendice all’edizione Bompiani di Nietzsche, La volontà di potenza, cit., pp. 563-688. Sulla polemica aperta dalla nuova edizione italiana della compilazione, si vedano G. Campioni, «Nel deserto della scienza». Una nuova edizione della Volontà di potenza di Nietzsche, in «Belfagor», a. XLVIII, n. 2, marzo 1993, pp. 205-226;; e M. Ferraris, Filologia col botto, in «aut aut», n. 256, luglio-agosto 1993, pp. 85-111. [13] Cfr. la lettera a P. Deussen del 26 novembre 1888 citata nel cap. precedente alla nota 144. In questa lettera Nietzsche afferma anche di voler far tradurre «l’opera» in sette lingue, e che la prima edizione in ogni lingua dev’essere di «circa un milione di esemplari» (KGB, III,5, 492). [14] Heidegger, Nietzsche, cit., vol. I, p. 17;; trad. it., p. 26. [15] Heidegger, Die Metaphysik des deutschen Idealismus. Zur erneuten Auslegung von Schelling: Philosophische Untersuchungen über das Wesen der menschlichen Freiheit und die damit zusammenhängenden Gegenstände (1809),in Martin Heidegger Gesamtausgabe, cit., vol. 49, p. 101;; trad. it. Schelling, cit., p. 295. [16] Il concetto si trova tuttavia già ben delineato nella seconda parte dello Zarathustra, nel capitolo Della vittoria su se stessi: «‘‘Solo dove è vita, è anche volontà: ma non volontà di vita, bensì – così ti insegno io – volontà di potenza! / Molte cose per il vivente hanno valore più della vita stessa;; ma anche dal suo porre valori parla – la volontà di potenza!’’» (Za, VI,I, 140). [17] Cfr. 40[2], VII,III, 315: «La volontà di potenza. Tentativo di una nuova interpretazione di ogni accadere». Gli ambiti che l’opera avrebbe dovuto trattare sono così fissati: «Logica. / Fisica. / Morale. / Arte. / Politica». [18] Heidegger, Nietzsche, cit., vol. I, p. 12;; trad. it., p. 22. [19] Si veda il commento di Heidegger, ibidem, vol. II, p. 264;; trad. it., p. 751: «Cioè: la volontà di potenza è il carattere fondamentale dell’ente in quanto tale. Si può quindi arrivare a domandare e pensare l’essenza della volontà di potenza soltanto guardando all’ente in quanto tale, cioè soltanto in termini metafisici». [20] Ibidem, vol. I, p. 26;; trad. it., p. 33. [21] Ibidem, vol. II, p. 267;; trad. it., p. 754. [22] Ibidem, vol. I, pp. 49-52;; trad. it., pp. 52-54. Si tenga presente che nella traduzione italiana «volontà di potenza» (come in quella francese volonté de puissance) il genitivo occulta il senso dell’espressione tedesca Wille zur Macht, dove la preposizione zu indica di per sé un «tendere a...»;; cfr. la traduzione inglese will to power. [23] Cfr. anche GM, VI,II, 299: «Tuttavia nella circostanza che l’ideale ascetico ha avuto in generale un così grande significato per l’uomo, si esprime il fondamentale dato di fatto dell’umano volere, il suo horror vacui: quel volere ha bisogno di una meta – e preferisce volere il nulla, piuttosto che non volere». [24] Cfr. AC, VI,III, 173: «Non si dice il ‘‘nulla’’: si dice invece: ‘‘al di là’’, oppure ‘‘Dio’’;; oppure ‘‘la vita vera’’;; oppure nirvana, redenzione, beatitudine [...] Questa innocenza retorica, proveniente dal regno dell’idiosincrasia religiosa e morale, appare subito molto meno innocente, se si comprende quale tendenza si nasconde qui sotto il mantello delle sublimi parole: una tendenza ostile alla vita». [25] Heidegger, Die Metaphysik des deutschen Idealismus, cit., p. 121;; trad. it., p. 299;; nel testo tedesco Heidegger così commenta: «Piuttosto il nichilismo assoluto, perché qui c’è pur sempre un’occasione della volontà di nulla, cioè, in questo caso, sovrapotenziamento (Übermächtigung)». [26] Heidegger, Nietzsche, cit., vol. II, p. 335;; trad. it., p. 809. [27] Ibidem, vol. II, pp. 337-338;; trad. it., pp. 811-812. [28] Cfr. 14[186], VIII,III: «I fisici credono a loro modo in un ‘‘mondo vero’’ [...] Ma in ciò si ingannano: l’atomo che essi postulano è ricavato dalla logica del prospettivismo della coscienza ed è pertanto esso stesso una finzione soggettiva». [29] Secondo W. Müller-Lauter, Nietzsches Lehre vom Willen zur Macht, in «Nietzsche-Studien», vol. III, 1974, pp. 43-44;; trad. it. La volontà di potenza in Nietzsche,in Volontà di potenza e nichilismo, cit., pp. 53-54, l’affermazione nietzscheana secondo cui «Il processo organico presuppone costantemente L’INTERPRETARE» (2[148], VIII,I, 126) potrebbe prestarsi ad un fraintendimento: «Si potrebbe pensare che la volontà di potenza (indipendentemente dal fatto se venga pensata come una volontà di potenza o fraintesa come la volontà di potenza nel senso di un ens metaphysicum) sia un soggetto del quale si possa predicare l’interpretazione, che a sua volta formerebbe il presupposto preliminare dei processi. Non dobbiamo sottostare alla seduzione della grammatica e separare ciò che forma un’unità inscindibile». La soluzione del problema sta per Müller-Lauter nel richiamare la questione del prospettivismo. Se la volontà di potenza interpreta, si chiede Nietzsche, «non si deve chiedere: ‘‘chi interpreta allora?’’». Il fatto è che «l’interpretare stesso, come una delle forme della volontà di potenza, ha esistenza come un effetto (ma non come un ‘‘essere’’, bensì come un processo,un divenire)» (2[151], VIII,I, 127). Possiamo dunque dire, conclude Müller-Lauter, «che le volontà di potenza si confrontano come interpretazioni che cambiano continuamente». Ciò chiarisce la tesi del celebre frammento «contro il positivismo» (cfr. supra, cap. II, p. 119-120), secondo la quale non esistono i fatti, ma solo le interpretazioni;; il che non significa che «‘‘Tutto è soggettivo’’» in quanto l’ipotesi di un soggetto che interpreta è già un’interpretazione;; la parola «‘‘conoscenza’’» «è interpretabile in modi diversi, non ha dietro di sé un senso, ma innumerevoli sensi. ‘‘Prospettivismo’’» (7[60], VIII,I, 299-300). [30] Ancora nel fr. 14[79], VIII,III, 49 Nietzsche osserva che, una volta tolti di mezzo i concetti di numero, soggetto, movimento (ossia gli «ingredienti» della nostra psicologia), «non restano delle cose, ma dei quanti dinamici (dynamische Quanta), in un rapporto di tensione con tutti gli altri quanti dinamici: la cui essenza consiste nella loro relazione con tutti gli altri quanti, nel loro ‘‘agire’’ su di loro».
[31] Müller-Lauter, Nietzsches Lebre vom Willen zur Macht, cit., p. 15;; trad. it., p. 32;; cfr. Heidegger, Nietzsche, cit., vol. I, p. 73;; trad. it., p. 71. Sul rapporto di uno e molteplice nella volontà di potenza si veda anche Müller- Lauter, Über Werden und Wille zur Macht, cit., pp. 53-57. [32] Müller-Lauter, Nietzsches Lehre vom Willen zur Macht, cit., p. 32;; trad. it., p. 44. La concezione dell’organismo come risultato di un conflitto deriva a Nietzsche dalla lettura del libro dell’anatomista Wilhelm Roux, Der Kampf der Theile im Organismus. Ein Beitrag zur Vervollständigung der mechanischen Zweckmässigkeitslehre, pubblicato nel 1881. Nietzsche acquistò il libro subito dopo la sua pubblicazione, e lo lesse nuovamente nella primavera-estate del 1883. In un frammento risalente a questo periodo egli accosta l’organizzazione politico-sociale al mondo della natura: «Competizione dei cittadini fra loro, i più bravi riescono sempre ad esercitare un’influenza più efficace: così va avanti lo Stato. / Relativa autonomia delle parti perfino negli organismi superiori. Roux, p. 65» (7[92], VII,I,I, 260). Sull’argomento cfr. W. Müller-Lauter, Der Organismus als innerer Kampf. Der Einfluss von Wilhelm Roux auf Friedrich Nietzsche, in «Nietzsche-Studien», vol. VII, 1978, pp. 189-223 (poi ripreso in Id., Über Werden und Wille zur Macht, cit. pp. 97-140);; trad. it. L’organismo come lotta interna. L’influsso di Wilhelm Roux su Friedrich Nietzsche, in Campioni e Venturelli (a cura di), La «biblioteca ideale» di Nietzsche, cit., pp. 153-200. Per una collocazione di Roux nel panorama scientifico del suo tempo, in relazione anche a Nietzsche, cfr. A. Orsucci, Dalla biologia cellulare alle scienze dello spirito. Aspetti del dibattito sull’individualità nell’Ottocento tedesco, Bologna, Il Mulino, 1992, pp. 154-169. [33] Cfr. supra, cap. IV, pp. 310 e 310, nota 110. Sull’equivoco in cui incorre Heidegger intendendo questa frase come una ricapitolazione, si veda la nota 111 nella stessa pagina. [34] Löwith, Nietzsches Philosophie der ewigen Wiederkehr des Gleichen, cit., p. 251;; trad. it., p. 120. [35] Ibidem, p. 252;; trad. it., p. 121. [36] Ibidem, p. 253;; trad. it., p. 122. [37] Ibidem, p. 254;; trad. it., p. 123. [38] Cfr. Platone, Tim. 37 d-e: «Ora, abbiamo notato che la natura del Vivente è eterna, e questa non era possibile adattarla perfettamente a ciò che è generato. Pertanto Egli [il Demiurgo] pensò di produrre una immagine mobile dell’eternità (εἰκὼ [...]κινητόν τινα αἰῶνος), e, mentre costituisce l’ordine del cielo, dell’eternità che permane nell’unità, fa un’immagine eterna che procede secondo il numero, che è appunto quella che noi abbiamo chiamato tempo» (trad. it. di G. Reale). [39] Löwith, op. cit., p. 256;; trad. it., pp. 124-125. [40] Ibidem, pp. 230-231;; trad. it., pp. 104-105. Sul carattere non pagano del meriggio insiste particolarmente, giovandosi di un’ampia documentazione, K. Schlechta. Che l’eterno ritorno venga annunciato come un nuovo mattino rivela per Schlechta una contraddizione che consiste nella sovrapposizione di un elemento dottrinale biblico-cristiano ad uno antico-pagano. Già è possibile, secondo Schlechta, che il tema stesso del «grande meriggio» sia stato suggerito a Nietzsche da letturedi carattere cristiano. È possibile, cioè, che Nietzsche abbia letto in Pascal o in Charron – ossia in quei moralisti francesi letti tra il 1870 e il ’71 – una citazione del passo di Plutarco in cui si annuncia che «il grande Pan è morto» (de defectu oraculorum, 17 B-C;; cfr. GT, III,I, 75), corredata dall’essenziale sottolineatura che Plutarco colloca gli eventi narrati all’epoca dell’imperatore Tiberio. Lo stesso imperatore sotto il quale muore e resuscita Gesù Cristo (Schlechta, Nietzsches großer Mittag, cit.;; trad. it., pp. 39-40). Morte di Pan e morte-resurrezione di Cristo sarebbero in questo modo poste in una continuità di significato. La stessa idea del «grande meriggio» apparirebbe quindi significata fin da principio in senso cristiano, indirizzata all’idea di un «nuovo inizio». Ciò fornisce la conferma, secondo Schlechta, della fondamentale estraneità dell’eterno ritorno e del meriggio nietzscheano al corrispondente ideale antico-pagano. Ed è una conseguenza di questo stato di cose che l’idea finale – l’avvento dell’Übermensch –, di cui l’eterno ritorno costituisce la premessa teorico-dottrinale, riveli la sua essenziale provenienza cristiana. L’idea del superare, del trascendere, può essere posta solo a partire da quella realtà del trascendente che è propria del cristianesimo e non del mondo greco. Così commenta Schlechta citando Zarathustra: «La conoscenza che ‘‘l’uomo è qualcosa che deve essere superato – che l’uomo è un ponte e uno scopo: che si chiama beato per il suo meriggio e la sua sera, come via verso nuove aurore’’, questa conoscenza spoglia la rappresentazione del meriggio del suo significato di sottofondo [...] questo meriggio è una fine, una fine e un passaggio» (ibidem;; trad. it., p. 65). E ancora: «In realtà la ‘‘terra’’ di Zarathustra e l’uomo ad essa corrispondente, il superuomo, stanno in una stridente contrapposizione con l’immagine del mondo e dell’uomo dell’antichità» (ibidem;; trad. it., p. 71). [41] Löwith, op. cit., p. 231;; trad. it., p. 105. [42] Che Nietzsche abbia ben presente, anche nello Zarathustra,il racconto di Plutarco (cfr. la precedente nota 40), lo rivelano tra l’altro le insistite similitudini che egli usa per indicare l’anima di Zarathustra: «Come una nave che sia entrata nella sua baia più immota»;; «Come una simile nave si appoggia, si stringe alla terraferma»;; «Come una simile stanca nave nella più immota delle baie» (Za, VI,I, 335). Sono tutte immagini che rimandano alla nave del racconto di Plutarco, immobile per la bonaccia nella baia di Paxo. [43] Löwith, op. cit., p. 232;; trad. it., pp. 105-106. [44] Ibidem, p. 233;; trad. it., p. 107. [45] Ibidem, p. 118;; trad. it., p. 15. [46] Ibidem, p. 119;; trad. it., p. 16. [47] Cfr. supra, cap. IV, pp. 300-301. [48] A. Baeumler, Nietzsche der Philosoph und Politiker, Leipzig, Re-clam, 1931, p. 80. [49] Ibidem, pp. 81-82. [50] Cfr. 28 B 8 D.K.: «...l’essere è ingenerato e imperituro (ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεϑρον), / infatti è un intero nel suo insieme, immobile e senza fine. / Né una volta era, né sarà, perché è ora insieme tutto quanto, / uno, continuo» (vv. 3-6);; «E neppure è divisibile, perché tutto intero è uguale;; / né c’è da qualche parte un di più che possa impedirgli di essere unito, / né c’è un di meno, ma tutto intero è pieno di essere» (vv. 22-24);; «E rimanendo identico e nell’identico, in sé medesimo giace, / e in questo modo rimane là saldo. Infatti, Necessità inflessibile / lo tiene nei legami del limite, che lo rinserra tutt’intorno» (vv. 29-31) (trad. it. di G. Reale). [51] Baeumler, op. cit., p. 83. [52] Ibidem, pp. 84-85. [53] Ibidem, pp. 51-52. [54] Ibidem, p. 54. [55] Ibidem, p. 49.
[56] K. Jaspers, Nietzsche. Einführung in das Verständnis seines Philosophierens, Berlin-Leipzig, De Gruyter, 1936, p. 2;; trad. it. Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, traduzione e cura di L. Rustichelli, Milano, Mursia, 1996, p. 24. [57] Ibidem, p. 405;; trad. it., p. 409. [58] Ibidem, p. 409;; trad. it., p. 413. [59] K. Löwith, in «Zeitschrift für Sozialforschung», vol. VII, 1937, pp. 405-407. Nello scritto Löwith recensisce, oltre al libro di Jaspers, anche F. Nietzsche, Mein Leben, Frankfurt am M., Moritz Diesterweg, 1936 e R. Oehler, F. Nietzsche und die deutsche Zukunft, Leipzig, Armanen-Verlag, 1935. Di seguito alla recensione la rivista pubblica anche una nota di M. Horkheimer, Bemerkungen zu Jaspers’ «Nietzsche» (pp. 407-414). [60] La prova del fraintendimento di questa relazione è offerta dal modo in cui Baeumler si riferisce al frammento – commentato anche da Heidegger – in cui Nietzsche parla della necessità di imprimere al divenire il carattere dell’essere, e definisce questa «la suprema volontà di potenza» (7[54], VIII,I, 297). «Il carattere dell’essere – scrive Baeumler – viene impresso al divenire attraverso un singolo. Esso nasce dall’azione di un soggetto» (op. cit., p. 80). Il tutto dev’essere insomma ancora una volta riportato a quell’impressione privata e personale provata da Nietzsche lungo il lago di Silvaplana, e resta dunque estraneo all’essenza della volontà di potenza. [61] Heidegger, Nietzsche, cit., vol. I, pp. 30-31;; trad. it., pp. 36-37. [62] Cfr. supra, cap. II, par. 7. [63] Heidegger, Nietzsche, cit., vol. I, p. 146;; trad. it., p. 130. [64] Cfr. K. Ansell-Pearson, An introduction to Nietzsche as political thinker. The perfect nihilist, Cambridge, Cambridge University Press, 1994, pp. 147 s., che inscrive la «grande politica» nel concetto nietzscheano di «‘‘politics of cruelty’’», definendola «a conjunction of philosophical legislation and political power», il cui scopo «is to gain control of the forces of history and produce [...] a new humanity». [65] Georg Brandes (pseudonimo di Morris Cohen) (1842-1927), danese di famiglia ebrea, fu critico letterario e tenne a Copenhagen delle affollate conferenze su Nietzsche. Su di lui pubblicò due saggi: Radicalismo aristocratico. Dissertazione su Friedrich Nietzsche, apparso sulla «Deutsche Rundschau» del 1890, e Friedrich Nietzsche,in Uomini e opere, pubblicato nel 1893. Con ciò contribuì alla conoscenza di Nietzsche nei paesi scandinavi e, in particolare, alla sua influenza su Ibsen e Hamsun (cfr. Janz, op. cit.;; trad. it., vol. II, pp. 538- 539). Dell’attività di Brandes Nietzsche ebbe notizia. In un frammento della primavera-estate 1888 egli scrive, intendendo evidentemente far pubblicare la nota su qualche giornale: «Gli amici del filosofo Friedrich Nietzsche accoglieranno con interesse la notizia che, lo scorso inverno, il brillante danese dott. Georg Brandes ha dedicato a questo filosofo tutto un ciclo di lezioni all’università di Copenhagen. L’oratore [...] ha saputo suscitare vivo interesse in un pubblico di più di trecento persone, per la nuova e audace maniera di pensare propria del filosofo tedesco» (16[63], VIII,III, 296). In Ecce homo egli osserva, lamentando al solito la mancata comprensione da parte dei compatrioti: «In quale università tedesca sarebbe oggi possibile tenere un corso di lezioni sulla mia filosofia, come fece a Copenhagen nella primavera scorsa il danese dottor Georg Brandes, che ha provato con ciò ancora una volta la sua qualità di psicologo?» (EH, VI,III, 374). Brandes avviò con Nietzsche uno scambio epistolare. Di rilievo particolare sono la lettera in cui egli gli contesta il suo antisocialismo e antianarchismo e il suo atteggiamento, mutatosi da amicizia in ostilità, nei confronti di Paul Rée (15-17 dicembre 1887, KGB, III,6, 129-132);; e quella
Carlo Gentili Nietzsche
BIBLIOGRAFIA Nessuna bibliografia su Nietzsche può considerarsi esaustiva. Accanto ad alcuni classici, si è inteso dare notizia dei contributi più recenti.
1. Le opere di Nietzsche L’edizione completa delle opere di Nietzsche fu intrapresa dal Nietzsche-Archiv di Weimar e pubblicata, a partire dal 1895, dapprima presso l’editore Naumann e poi presso Kröner, entrambi di Lipsia. Questa edizione è nota come Großoktavausgabe (edizione in ottavo grande);; ad essa corrisponde la Kleinoktavausgabe (edizione in ottavo piccolo), che segue lo stesso ordine nella numerazione dei volumi. Un’edizione in 23 volumi, curata da R. e M. Oehler e F. Würzbach, apparve tra il 1920 e il ’29 presso l’editore Musarion di München. Nel 1933 il Nietzsche-Archiv iniziò la pubblicazione di una Historisch-kritische Gesamtausgabe presso l’editore Beck di München, che rimase tuttavia interrotta al vol. V delle opere e al vol. IV dell’epistolario. Nel 1956 fu pubblicata, curata da Karl Schlechta, un’edizione completa delle opere (più una scelta di lettere) in tre volumi: F. Nietzsche, Werke in drei Bänden, München, Hanser, 1956. L’edizione Schlechta fu la prima a smembrare il materiale raccolto da Elisabeth Förster-Nietzsche e Peter Gast in Der Wille zur Macht, ricollocando i frammenti in ordine cronologico. Rifacendosi a questo precedente Giorgio Colli e Mazzino Montinari decisero di ripubblicare integralmente le opere di Nietzsche, compresi i volumi dei Frammenti postumi secondo un ordine cronologico generale che comprendeva anche i frammenti ordinati sistematicamente in Der Wille zur Macht. Questa nuova edizione critica esce contemporaneamente in Germania e in Italia: cfr. Nietzsche Werke. Kritische Gesamtausgabe, begründet von G. Colli e M. Montinari, weitergeführt von W. Müller-Lauter und K. Pestalozzi, Berlin e Berlin-New York, De Gruyter, 1967 ss.;; Opere di Friedrich Nietzsche, edizione italiana diretta da G. Colli e M. Montinari, Milano, Adelphi, 1964 ss. Anche l’epistolario di Nietzsche viene pubblicato in edizione critica da Colli e Montinari: cfr. F. Nietzsche, Briefwechsel,a cura di G. Colli e M. Montinari, Berlin-New York, De Gruyter, 1975 ss. (ed. it. F. Nietzsche, Epistolario, a cura di G. Colli e M. Montinari, Milano, Adelphi, 1976 ss.;; per ora limitata ai primi tre volumi e con l’esclusione di quelli contenenti le lettere indirizzate a Nietzsche).
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Carlo Gentili Nietzsche
INDICE DEI NOMI Ablavius, 42 Adorno, Th.W., 161, 167-176, 206 Agatone, 75 Agazzi, El., 175 Agazzi, Em., 175 Albertelli, P., 285 Alfieri, V.E., 26 Allason, B., 71 Ammiano Marcellino, 42 Anassagora, 81, 188 Anassimandro, 151, 152, 361 Anders, A., 192 Andreas-Salomé, L. von, 302, 303 Angelino, Carlo, 257, 283 Ansell-Pearson, K., 204, 377 Anstett, J.-J., 82 Antuono, N., 319 Archiloco, 56, 57 Argenton, B., 236, 255 Aristofane, 71, 79, 81 Aristotele, 54, 59-65, 78, 83, 190, 194, 265, 274, 312 Arnaud, E., 384 Ascheim, S.E., 385 Babich, B.E., 120 Bacchilide, 84, 274 Bach, H.I., 61 Bach, J.S., 87, 107 Bachofen, J.J., 52 Bacone (F. Bacon), 185 Baeumler, A., 348, 359, 368-372, 374, 375, 384, 385 Baioni, G., 284 Barbera, S., 73 Barion, H., 61 Baudelaire, Ch., 178 Bazzani, F., 242 Beer, M., 196 Beethoven, L. van, 87, 90, 107, 138 Behler, E., 82, 194 Benjamin, W., 322 Bernays, J., 58, 60-65 Bernhardy, G., 81 Bernini, G.L., 146 Bertram, E., 165 Bettini, M., 76 Biedermann, H.F. von, 64
Bismarck-Schönhausen, O. von, 15 Bloch, E., 165-167, 176, 177, 179, 283, 284 Blumenberg, H., 235, 236, 249, 254, 286, 317 Bobbio, N., 329 Böckenförde, E.-W., 61 Böckh, A., 32, 168 Bodei, R., 266 Boella, L., 166 Bolin, W., 242 Bollack, J., 61 Borruso, G., 266 Boscovich, R.J., 180 Bourel, D., 202 Brahms, J., 378 Brandes, G. (Morris Cohen), 377, 378 Brenner, A., 198 Bruse, K.-D., 87 Bucciol, G.B., 116 Buddensieg, R., 16, 17 Bülow, H. von, 109, 110 Burckhardt, J., 52, 124, 145, 341 Byron, G.G., 40, 43, 44 Cacciari, M., 156, 196, 212, 331-334, 387 Calabrese Conte, R., 150 Callia, 81 Campioni, G., 34, 38, 39, 41-43, 73, 178, 183-185, 202, 346, 359 Cantarella, R., 84 Carpitella, M., 18, 39 Cartesio (R. Descartes), 198 Cases, C., 264 Cavalli, M., 227 Celso, 362 Cesare, Caio G., 163, 302 Charron, P., 367, 365 Chauvelot, D., 345 Chiarini, P., 63 Chiodi, P., 115, 258 Clark, M., 120 Colli, G., 28, 76, 190, 219, 220, 313, 348 Colombo, Cristoforo, 231, 302 Cometa, M., 82 Confucio, 173 Corssen, W., 17 Cottone, M., 150 Creuzer, G.F., 148, 289-291 Cuniberto, F., 177 Czerkl, E., 254 d’Alessandro, L., 23, 27 Daniele, S., 136 D’Annunzio, G., 286 Danto, A.C., 120
Darwin, Ch.R., 111, 207, 354, 355 Degli Alberti, V., 79 Del Corno, D., 71, 76 Deleuze, G., 296, 297, 308 Dello Preite, M., 330 Democrito, 185-188, 198 De Sade, D.-A.-F., 171 Deussen, P., 17, 226, 280, 334, 340, 346 Diano, C., 49, 253, 360 Di Giovanni, P., 146 Dilthey, W., 53 Diogene di Sinope, 247 Diogene Laerzio, 51, 81, 247 Dionigi, R., 212 D’Iorio, P., 192, 193, 345 Donadio, F., 61, 62 Donaggio, E., 302 Dostoevskij, F.M., 328, 329 Eichner, H., 82 Emerson, R.W., 44, 47, 48, 50, 282 Empedocle, 45, 282 Epicuro, 188 Eraclito, 49, 50, 133, 142, 151-153, 318, 321, 360-362, 375 Erasmo da Rotterdam, 201 Ermanarico (Jörmunreck), re dei Goti, 40-42, 383 Erodoto, 59, 290 Errante, V., 36 Eschilo, 52, 70, 76, 78, 79, 274 Esiodo, 152, 285, 304 Eucken, R., 54 Euripide, 70, 71, 74-82, 91 Evola, J., 150 Farazzi, P., 345 Fatica, O., 254 Fazio, D.M., 192, 302 Fechner, Th.G., 186 Federico II di Hohenstaufen, 163 Ferraresi, F., 381 Ferraris, M., 310, 346 Feuerbach, L., 44, 47, 54, 185, 242, 243, 313, 314, 329, 332 Fichte, I.H., 26 Fichte, J.G., 17, 26, 277 Figal, G., 231, 297 Filippini, E., 322 Fink, E., 155-161, 163, 164, 180, 197, 198, 208, 220, 221, 319 Fischer, K., 184 Flashar, H., 20 Flietner, A., 22 Fo, A., 76 Fontana, A., 160 Fornari, G., 254
Fornari, M.C., 38, 193 Förster, B., 339, 341, 383 Förster-Nietzsche, E., 197, 339, 343-346, 383 Forsthoff, E., 61 Foucault, M., 160-163, 165, 176 Frank, M., 177, 180, 385 Fränkel, H., 227 Fritz, K. von, 116 Fritzsch, E.W., 11, 98, 131, 218, 280, 318 Fuhrmann, M., 235 Gadamer, H.-G., 283, 286 Galimberti, C., 116 Galli, C., 381 Gassendi (P. Gassend), 185 Gentili, B., 337 George, S., 179, 286 Gerber, G., 193, 194 Gerratana, F., 34, 184, 185 Gersdorff, C. von, 17, 28, 34, 93, 99, 110, 113, 130, 135, 137, 138, 145, 147, 149, 181, 187, 188, 193 Geuss, R., 29 Giametta, S., 199, 284 Giel, K., 22 Gigante, M., 81 Giordane, 42 Girard, R., 254 Givone, S., 177, 188, 303 Goethe, J.W. von, 19, 31-33, 35, 36, 40, 42, 43, 45, 64, 65, 72, 101, 147, 203, 385 Golomb, J., 203 Gründer, K., 13, 20, 60, 61, 63 Guerri, M., 184 Habermas, J., 174-180 Hamsun, K., 378 Hartmann, E. von, 54, 186, 187 Heckel, E., 134 Hegel, G.W.F., 27, 45, 54, 101, 173, 203, 265-269, 276, 277, 312, 329 Heidegger, M., 12, 106, 107, 115, 159, 257-267, 269, 286, 287, 292-297, 309-312, 342, 343, 347- 352, 358, 360, 371, 375, 376, 379, 380 Heinze, M., 17 Heitz, E., 59 Herder, J.G., 79 Hershbell, J.P., 151 Hitler, A., 384 Hobbes, Th., 111, 170 Hölderlin, F., 44-46, 177, 277, 282 Hollingdale, J.R., 38 Horkheimer, M., 161, 167-176, 203, 374 Horneffer, A., 354 Horneffer, E., 354 Horstmann, A., 20 Hübscher, A., 57 Hughes, G.J., 309
Humboldt, W. von, 19-22, 24, 25, 27, 33, 37, 101, 102 Ibsen, H., 378 Ingenmey, M., 386 Jackson, J.E., 194 Janz, C.P., 17, 18, 38, 51, 52, 54, 99, 128, 158, 180, 181, 186, 279, 281, 282, 289, 378, 383 Jaspers, K., 330, 331, 348, 359, 372-374 Jauss, H.R., 255 Jean Paul (J.P.F. Richter), 285, 286 Jesi, F., 150 Jodl, F., 242 Jung, C.G., 179 Jünger, E., 258, 388 Kant, I., 54, 112, 132, 133, 168-172, 181, 182, 185-187, 193, 195, 197, 204, 205, 259, 265, 277 Keil, K., 17 Keiper, W., 174 Keller, M., 165 Kerényi, K., 76 Kerényi, M., 76 Kessler, M., 203 Kierkegaard, S., 265, 378 Kirchner (rettore di Pforta), 18 Klages, L., 165, 166, 179, 286 Kleitsche, H., 17 Klopstock, F.G., 17 Kobau, P., 310 Koberstein, K.A., 17 Kopp, H., 180 Korff, W., 287 Köselitz, H. (Peter Gast), 197, 198, 279-281, 289, 310, 338, 342, 343, 345-347 Kremer-Marietti, A., 194 Krug, G., 38, 250 Kurz, G., 194 Lachner, F., 99 Ladenburg, A., 180 La Mettrie, J.O. de, 185 Landmann, M., 292 Lange, F.A., 47, 54, 181-183, 185-187 La Rocca, C., 285 Leibniz, G.W., 112, 265, 277 Leopardi, G., 116, 188 Le Rider, J., 202 Lessing, G.E., 31, 35, 63, 64, 79, 81 Locke, J., 185 Lo Gatto, E., 329 Löwith, K., 264, 265, 268, 269, 312, 313, 348, 359-368, 372-374, 381, 383, 384 Ludwig II di Wittelsbach, re di Baviera, 99 Lukács, G., 383 Lutero, Martin, 200, 252, 291, 385 Machiavelli, N., 170, 172 Mack, D., 136 Mädler, J.H., 180
Magri, T., 28 Mallarmé, S., 178 Mandeville, B. de, 28, 170 Mandruzzato, E., 84 Mann, O., 63 Mann, Th., 386-388 Marianelli, M., 386 Martin, N., 30, 31 Masi, G., 295 Masini, F., 196, 267 Mastrelli, C.A., 40 Mazzarella, E., 123 Mazzone, A., 296 Mazzucchetti, L., 36 Meijers, A., 193 Meister Eckhart, 385 Mendelssohn Bartholdy, F.J., 378 Menze, C., 20 Merker, N., 168 Meysenbug, M. von, 137, 207 Mohr, K.F., 180 Mommsen, Th., 60, 113 Montaigne, M. de, 128 Montale, E., 285 Montinari, M., 17, 18, 39, 198-200, 203, 207, 208, 284, 286, 288, 345, 348 Moravia, S., 196 Morrison, R.G., 282 Most, G., 80 Muhlack, U., 20, 21 Mühlberg, E.V., 47 Müller, E., 58 Müller, K.O., 58-60, 72 Müller-Lauter, W., 183, 258, 278, 287, 310, 311, 344, 356, 358, 359, 387 Münter, B., 251 Murillo, B.E., 107 Mushacke, H., 181 Napoleone Bonaparte, 173, 177 Naumann, C.G., 145 Negri, A., 30, 226 Neumann, P.H., 194 Newton, I., 203 Nietzsche, F., 16, 226, 284, 339 Nietzsche, K.L., 16 Nimis, S.A., 151 Oberti, E., 266 Oehler, M., 289 Oehler, R., 374 Omero, 32, 36, 46, 285 Orsucci, A., 359 Otto, W.F., 116, 345 Overbeck, F., 93, 98, 131, 276, 280, 335, 342
Paolo di Tarso, 246, 250, 291, 323-327 Pareyson, L., 31 Parkes, G., 282 Parmenide, 193, 282, 304, 311, 369 Pascal, B., 265, 267-269, 323, 365 Pasquino, P., 160 Pavanello, C., 76 Penzo, G., 43, 98, 295, 385 Pestalozzi, K., 178, 251 Peter, K., 17 Petrarca, F., 201 Pettazzoni, R., 40, 290 Pindaro, 337 Pinder, W., 38, 42, 226, 250 Platone, 81-84, 147, 150, 151, 183, 194, 259, 267, 312, 363 Plutarco, 76, 83, 267, 290, 365, 366 Polidori, F., 296 Pompeo, G.S., 290 Ponti, M.D., 71 Porfirio, 362 Porzio, F., 267 Pöschl, V., 33 Poser, H., 121 Pouillet, Cl.S.M., 180 Principe, Q., 258 Protagora, 81, 195 Ranke, L. von, 17, 113 Reale, G., 84, 363, 370 Rée, P., 93, 158, 199, 207, 378 Reibnitz, B. von, 55, 59, 63, 274 Renan, E., 328, 329 Ritschl, F., 13, 15, 51, 52, 58 Ritter Santini, L., 165 Rocco Traverso, P., 156 Rohde, E., 14, 15, 33-35, 39, 57, 81, 82, 110, 113, 130, 134, 137 Romundt, H., 93, 158 Rose, V., 83 Rosen, S., 172, 292 Rosenberg, A., 385 Rousseau, J.-J., 203, 204 Roux, W., 358, 359 Rustichelli, L., 103, 372 Salaquarda, J., 121, 124, 183-187, 199 Sánchez, S., 193 Sardelli, G., 38 Scalia, G., 116 Schadewaldt, W., 30 Schelling, F.W.J., 26, 27, 277, 343, 347 Schiller, F., 12, 19, 30-32, 35, 36, 43, 45, 70-73, 101, 182 Schlechta, K., 137, 174, 192, 267, 334, 364, 365 Schlegel, A.W., 71, 73, 79, 80
Schlegel, F., 12, 82 Schlegel, J.E., 17 Schleiermacher, F.D.E., 19, 23-25, 27, 32, 277 Schlesier, R., 61 Schloezer, B. de, 329 Schmalzried, E., 116 Schmeitzner, E., 131, 198, 218, 221, 229, 279, 280, 318 Schmidt, A., 182 Schopenhauer, A., 27-30, 34, 37, 54, 57, 69, 79, 83, 89, 91, 93, 94, 128-133, 139, 140, 146, 151, 153, 156, 181, 191, 192, 200, 201, 203, 207, 277, 302, 340, 377, 385, 387 Schröter, M., 26 Schumann, R.A., 378 Seneca, L.A., 37 Senofane, 285 Senofonte, 81 Serpa, F., 13 Serra, G., 49 Šestòv, L., 329 Sgalambro, M., 28 Shakespeare, W., 285 Signorelli, L., 332 Silk, M.S., 274 Snell, B., 79 Socrate, 54, 77-86, 91, 96, 146, 147, 150, 151, 187 Sofocle, 32, 55, 62, 70, 75, 76, 80, 84, 274 Solmi Marietti, A., 79 Spengler, O., 150 Spinoza, B., 171, 276 Špir, A.A., 47, 180, 192, 193 Spitteler, C. (F. Tandem), 282 Stack, G.J., 48 Stadler, U., 194 Stara, F., 61 Steffensen, K., 53, 54 Steinhart, K., 17 Stern, A., 137 Stern, J.P., 274 Stirner, M., 313, 314 Strauss, D.F., 97-101, 111-113, 130, 186, 187, 252 Sulpizio, F., 38 Talete, 150 Tatasciore, C., 26, 343 Teichmüller, G., 53, 54 Teleclide, 81 Teognide di Megara, 42, 226-228, 274, 376 Terpandro, 56 Tiberio, C. Nerone, 365 Tommaso d’Aquino, 309 Torchi, L., 88 Treves, A., 344 Turgenev, I.S., 207 Ugazio, U.M., 267, 287
Ugolini, G., 55 Usener, H., 61 Vaihinger, H., 282, 344 Valensi, M., 345 Vattimo, G., 57, 165, 196, 287, 296, 305, 306 Vegetti, M., 240 Venturelli, A., 73, 178, 183, 283, 359 Venuti, S., 312 Vercellone, F., 21, 25 Vernant, J.-P., 76 Vidal-Naquet, P., 76 Vigliani, A., 57 Vigolo, G., 46 Vimercati, F., 120 Vinci, L., 169 Vischer, F.Th., 45 Vischer-Bilfinger, W., 52, 53, 131 Vivarelli, V., 267 Volpi, F., 106 Voltaire (F.-M. Arouet), 198, 201, 203, 208 Wackernagel, J., 51 Wagner, C., 51, 66, 96, 109, 136, 145, 202 Wagner, R., 11, 14, 28, 34, 37, 42, 73, 79, 86-89, 91, 93, 94, 98, 99, 108, 109, 113, 129, 133-147, 156, 167, 177-179, 202, 207, 283, 337, 376, 378 Weber, C.M. von, 378 Weber, W., 61 Weichelt, H., 292 Wellhausen, J., 237 Wilamowitz-Möllendorff, U. von, 12, 13, 56, 57, 81, 87 Winckelmann, J.J., 31, 35 Wolf, F.A., 21, 37 Wurzer, W.S., 276 Yorck von Wartenburg, P., 58, 61-63, 65 Zöllner, J.K.F., 180 Copyright © 2014 by Società editrice il Mulino - P. Iva: 00311580377 - L'uso di Darwinbooks è soggetto a licenza d'uso - Google analytics
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