Carlo Cellucci La Filosofia Della Matematica Del Novecento
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Carlo Cellucci
La filosofia della matematica del Novecento
I matematici hanno altrettanto bisogno di essere filosofi quanto i filosofi di essere matematici. Leibniz 1965, I, p. 356.
Premessa
Questo libro non è una storia della filosofia della matematica, ma un esame filosofico delle concezioni della matematica del Novecento, e ne offre un bilancio. Il cap. I discute il punto di vista prevalente sulla filosofia della matematica. Il cap. II esamina le tre più importanti scuole di filosofia della matematica della prima metà del Novecento – logicismo, formalismo e intuizionismo – limitatamente ai fondatori, Frege, Hilbert e Brouwer, perché il contributo dei loro continuatori è filosoficamente minore. Viene tralasciato anche Wittgenstein, perché le sue frammentarie e anche incoerenti osservazioni sui fondamenti della matematica non configurano una compiuta concezione della matematica. Il cap. III esamina le più significative scuole di filosofia della matematica della seconda metà del Novecento – neologicismo, platonismo, implicazionismo, strutturalismo, finzionalismo, internalismo, costruttivismo, congetturalismo, empirismo e cognitivismo. Il cap. IV delinea alcuni caratteri che la filosofia della matematica dovrebbe avere per evitare i difetti delle scuole di filosofia della matematica del Novecento. Il cap. V espone i teoremi di incompletezza di Gödel ed altri risultati limitativi. Essi vengono trattati in un capitolo a parte per separare gli aspetti tecnici da quelli filosofici, ma lo studio di questo capitolo è essenziale per la comprensione degli altri capitoli del libro. I rimandi interni sono indicati tra parentesi quadre. Per esempio, [V.4.2.] rimanda al par. 4.2 del cap. V.
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I Filosofia e matematica
1. L’ortodossia prevalente 1.1. Matematica contro filosofia della matematica La filosofia della matematica è un argomento antico e, secondo l’ortodossia prevalente, dal 1884 è stata un grande argomento. Ma questa opinione contrasta con l’atteggiamento critico di molti matematici nei suoi confronti. Per esempio, Gowers afferma: «Supponiamo che domani venga pubblicato un articolo che dia un argomento nuovo e molto convincente per una certa posizione di filosofia della matematica», e che esso «faccia sì che molti filosofi abbandonino le loro vecchie credenze e abbraccino un -ismo completamente nuovo. Quale effetto avrebbe sulla matematica? Io affermo che non ne avrebbe quasi nessuno, questo sviluppo passerebbe virtualmente inosservato»1. Questo atteggiamento critico deriva dal fatto che molti matematici ritengono che la filosofia della matematica si occupi di questioni irrilevanti per l’impresa reale del fare matematica. Per esempio, di nuovo Gowers afferma: «Le questioni considerate fondamentali dai filosofi sono questioni strane, esterne, che sembrano non fare alcuna differenza per l’impresa reale, interna del fare matematica»2. 1.2. Filosofia della matematica contro tradizione filosofica La ragione per cui, secondo l’ortodossia prevalente, la filosofia della matematica dal 1884 è stata un grande argomento, è che per essa la filosofia della matematica è nata con la pubblicazione delle Grundlagen der Arithmetik di Frege. Per esempio, Kenny afferma che «la misura della grandezza di Frege come filosofo della matematica sta nel fatto che la sua opera rese 1 2
Gowers 2006, p. 198. Ibid.
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completamente antiquato tutto quanto era stato scritto prima»3. Anche se altri autori prima di Frege hanno considerato la matematica da un punto di vista filosofico, essi appartengono alla preistoria della filosofia della matematica, tanto che «oggi nessuno può prendere sul serio l’opera neppure dei più grandi autori precedenti sull’argomento»4. Addirittura, secondo l’ortodossia prevalente, basandosi sulla logica matematica da lui creata come strumento della filosofia della matematica, Frege ha prodotto una rivoluzione in filosofia che ha cambiato l’aspetto della disciplina. Per esempio, Dummett afferma che Frege «ha realizzato una rivoluzione» in filosofia perché ha fatto del suo approccio alla filosofia «il punto di partenza per l’intera disciplina»5. La nuova filosofia si fonda su quell’analisi «della struttura generale dei nostri pensieri» che «sta alla base della logica matematica moderna e che fu iniziata da Frege»6. Perciò «chiedere quanto la logica matematica abbia contribuito alla filosofia è porre la domanda sbagliata»7. La nuova filosofia «è scritta da persone a cui i principi basilari della rappresentazione delle proposizioni nella forma quantificazionale che è il linguaggio della logica matematica sono familiari quanto l’alfabeto»8. 2. Limiti dell’ortodossia prevalente 2.1. Limiti dell’autonomia della filosofia della matematica Queste tesi dell’ortodossia prevalente, però, appaiono scarsamente fondate. Innanzitutto, affermare che la filosofia della matematica è nata con Frege è ingiustificato. I numerosi filosofi che che si sono occupati della natura della matematica prima di Frege – i Pitagorici, Platone, Aristotele, Proclo, Descartes, Pascal, Hobbes, Locke, Leibniz, Berkeley, Hume, Kant, Bolzano, Mill, per non menzionarne che alcuni – non appartengono alla preistoria della filosofia della matematica ma, almeno alcuni di essi, sono pietre miliari nella sua storia. È vero che, a partire da Frege, la filosofia della matematica è stata sviluppata come una disciplina autonoma, e che Frege è stato «il primo filosofo della matematica a tempo pieno»9. Ma questo non significa che 3
Kenny 1995, p. 211. Ibid. 5 Dummett 1981, pp. 665-666. 6 Dummett 1991a, p. 2. 7 Ibid. 8 Ivi, pp. 2-3. 9 Hersh 1997, p. 141. 4
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sviluppare la filosofia della matematica come una disciplina autonoma sia una buona idea, né che essere un filosofo della matematica a tempo pieno sia una buona cosa. Pensare che si possa sviluppare la filosofia della matematica come una disciplina autonoma si basa sull’assunzione che la natura della matematica possa essere indagata senza impegnarsi in questioni concernenti la percezione, la mente, ecc.. Ma si tratta di un’assunzione ingiustificata, perché quale matematica facciamo dipende essenzialmente da quale apparato percettivo, mente, ecc., abbiamo. Inoltre, essere un filosofo della matematica a tempo pieno significa avere una visione unilaterale ed impoverita della matematica. Frege dice che «un filosofo che non abbia alcuna familiarità con la geometria è solo un filosofo dimezzato»10. Ma nello stesso modo si può dire che un filosofo della matematica a tempo pieno è solo un filosofo dimezzato. 2.2. Limiti della polemica contro la tradizione filosofica È anche ingiustificato affermare che, basandosi sulla logica matematica da lui creata come strumento della filosofia della matematica, Frege ha prodotto una rivoluzione in filosofia che ha cambiato l’aspetto della disciplina. Tale affermazione intende essere polemica verso la tradizione filosofica precedente. Ma si tratta di una polemica ingiustificata, perché le principali idee filosofiche di Frege sulla matematica furono da lui mutuate dalla tradizione filosofica. In realtà, lungi dall’aver dato origine ad un nuovo tipo di filosofia che ha cambiato l’aspetto della disciplina, il contributo di Frege alla filosofia è stato abbastanza modesto. Lo stesso vale per Hilbert e per Brouwer che, secondo l’ortodossia prevalente, sono gli zii della filosofia della matematica, così come Frege ne è il padre. Anch’essi mutuarono le loro principali idee sulla matematica dalla tradizione filosofica. Questo non significa che Frege, Hilbert e Brouwer non abbiano aggiunto nulla di nuovo alla tradizione filosofica. Ma ciò che vi hanno aggiunto è essenzialmente di natura tecnica, non filosofica, e alla fine si è rivelato inaccettabile.
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Frege 1969, p. 293.
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II La filosofia della matematica di ieri
1. Frege 1.1. Le motivazioni di Frege Secondo Frege (1848-1925), il compito della filosofia della matematica è indagare il fondamento della certezza della matematica. La necessità di una tale indagine deriva dal fatto che la matematica si è «allontanata per qualche tempo dal rigore euclideo»1. La mancanza di rigore si accentuò con la scoperta dell’analisi matematica, nella quale «parvero elevarsi difficoltà gravi, quasi insormontabili, contro ogni tentativo di esporre l’analisi in forma rigorosa»2. Per porre rimedio a questa situazione non basta «una pura e semplice persuasione morale, fondata sul gran numero di applicazioni riuscite»3. Occorre un’indagine sui fondamenti della matematica Un’indagine del genere non è necessaria per la geometria, perché il suo fondamento è stato definitivamente chiarito da Kant che, «chiamando le verità della geometria sintetiche e a priori, ha rivelato la loro vera natura»4. È necessaria, invece, per l’aritmetica, sul cui fondamento Kant si è sbagliato. Si deve perciò chiarire il concetto di numero, a cominciare da quello di numero naturale perché, «se non si è fatta completa luce sul fondamento stesso dell’edificio aritmetico, riuscirà ben più difficile spiegare con perfetta chiarezza i numeri negativi, frazionari e complessi»5. 1.2. Il programma di Frege Secondo Frege, il fondamento della certezza dell’aritmetica è la logica. L’aritmetica «è una branca della logica», perciò «non ha bisogno di 1
Frege 1961, p. 1. Ibid. 3 Ibid. 4 Ivi, pp. 101-102. 5 Ivi, p. II. 2
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prendere alcun fondamento della dimostrazione né dall’esperienza né dall’intuizione»6. Le «verità aritmetiche sono analitiche»7. Quindi sono verità logiche. Nel dire che le verità aritmetiche sono analitiche, Frege usa il termine ‘analitico’ in un senso diverso da di Kant. Per Kant una proposizione è analitica se e solo se in essa «il predicato B appartiene al soggetto A come qualcosa che è contenuto (occultamente) in tale concetto A», quindi se e solo se non aggiunge «nulla, mediante il predicato, al concetto del soggetto, limitandosi a dividere, per analisi, il concetto» del soggetto «nei suoi concetti parziali, che erano già stati pensati in esso (sebbene confusamente)»8. Per Frege, invece, una proposizione è analitica se e solo se può essere dimostrata a partire da «verità primitive» logiche facendo «uso solo di leggi logiche generali e di definizioni»9. Quindi, è analitica se e solo se può essere dedotta da verità primitive logiche. Queste devono essere in numero finito, perché «questa ipotesi di infinite verità primitive indimostrabili» è «incongrua e paradossale», essendo «in conflitto col requisito della ragione di una completa perspicuità dei primi fondamenti»10. In definitiva, perciò, una proposizione è analitica se e solo se è deducibile da un insieme finito di verità primitive logiche. Pertanto, le verità aritmetiche sono verità logiche in quanto sono deducibili da un insieme finito di verità primitive logiche. Dunque, per mostrare che le verità aritmetiche sono verità logiche, occorre mostrare che esse sono deducibili da un insieme finito di verità primitive logiche. Questo è il ‘programma logicista’ di Frege. Se esso fosse realizzabile, si potrebbe affermare che «non si può tracciare alcun confine netto tra la logica e l’aritmetica» ma esse «insieme costituiscono una scienza unificata»11. Quindi «non esiste un modo di inferenza peculiarmente aritmetico che non possa essere ridotto ai modi di inferenza generali della logica»12. 1.3. La concezione della logica di Frege Ma che cos’è la logica per Frege? Non è la logica naturale, cioè quella capacità di ragionare che ogni essere umano possiede, perché questa 6
Frege 1962, I, p. 1. Frege 1961, p. 118. 8 Kant 1900–, III, p. 33 (B 10-11). 9 Frege 1961, p. 4. 10 Ivi, p. 6. 11 Frege 1990, p. 103. 12 Ivi, p. 104. 7
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non è propriamente una logica dal momento che ciò che è naturale per l’uno può non esserlo per l’altro. È invece la scienza del pensiero, inteso non come un processo della mente ma come ciò che trova espressione in una proposizione. Perciò la logica è strettamente legata al linguaggio. Inoltre essa non è descrittiva, non descrive come di fatto pensiamo, ma è normativa, ci dice come dobbiamo pensare se non vogliamo contravvenire alla verità. Non essendo descrittiva, la logica non si occupa di come arriviamo a scoprire nuove verità nelle singole scienze, ma di come arriviamo a giustificare verità già trovate, cioè a dar loro il più solido fondamento, inferendole da altre verità che stanno a fondamento. Perciò la logica si occupa delle leggi dell’esser vero – non dell’esser vero in ambiti particolari, che è oggetto delle singole scienze, ma delle leggi più generali dell’esser vero. Quanto alle verità logiche primitive, cioè le verità che stanno a fondamento, esse non possono essere giustificate dalla logica ma ci sono date dall’intuizione intellettuale. Nel trattare la logica Frege – nella sua prima opera, la Begriffsschrift pubblicata nel 1879 – innova rispetto alla tradizione logica precedente. La principale innovazione è che egli tratta un concetto come una funzione unaria F ( x ) a due valori, 1 (= vero) e 0 (= falso), tale che, per ogni a, F ( a ) = 1 se a cade sotto quel concetto, F ( a ) = 0 altrimenti. Per esempio, il concetto di uomo è la funzione unaria F ( x ) tale che per ogni a, F ( a ) = 1 se a cade sotto il concetto di uomo, F ( a ) = 0 altrimenti. Più in generale, Frege tratta una relazione n-aria come una funzione n-aria F ( x1 ,..., xn ) tale che, per ogni a1 ,..., an , F (a1 ,..., an ) = 1 se a1 ,..., an stanno in quella relazione, F (a1 ,..., an ) = 0 altrimenti. Così egli supera le difficoltà della tradizione logica precedente nel trattare le relazioni. 1.4. Il debito di Frege verso Kant e Leibniz Nel formulare il suo programma, Frege mutua le sue principali idee sulla logica e sulla matematica da Kant, tranne due che egli mutua da Leibniz. 1) Da Kant, Frege mutua l’idea che la logica non è la logica naturale, la quale non è propriamente una logica, perché «ciò che è naturale per l’uno può essere innaturale per l’altro»13. Kant, infatti, aveva detto che «la logica naturale, o la logica della ragione comune (sensus communis), non è propriamente una logica, ma 13
Frege 1969, p. 158.
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una scienza antropologica che ha solo principi empirici»14. Solo «la logica artificiale o scientifica merita questo nome quale scienza delle regole necessarie e universali del pensiero, le quali possono e devono essere conosciute a priori, indipendentemente dall’uso naturale in concreto dell’intelletto e della ragione »15. Tale logica si dice scientifica perché è «un corpo di dottrina dimostrata»16. 2) Da Kant, Frege mutua l’idea che, poiché la logica non è la logica naturale, «nessuna indagine psicologica può giustificare le leggi della logica»17. Altrimenti queste sarebbero puramente contingenti, mentre esse sono necessarie, perché è necessaria una proposizione per la quale si può indicare «l’esistenza di giudizi universali da cui la proposizione può essere dedotta»18. Perciò si deve evitare la «nociva intrusione della psicologia nella logica»19. Kant, infatti, aveva detto che la logica «non desume nulla dalla psicologia, la quale perciò non ha assolutamente alcuna influenza sul canone dell’intelletto»20. Se i principi della logica venissero basati sulla psicologia, le leggi della logica sarebbero «leggi puramente contingenti», mentre «in logica non si tratta di regole contingenti ma necessarie»21. Perciò «ogni osservazione psicologica deve essere esclusa dalla logica»22. 3) Da Kant, Frege mutua l’idea che la logica è la scienza del pensiero, inteso non come un processo della mente ma come ciò che trova espressione in «un enunciato assertorio. Pensieri sono, ad esempio, le leggi naturali, le leggi matematiche, i fatti storici: tutti quanti trovano espressione negli enunciati assertori»23. Perciò «il nostro pensiero è strettamente legato al linguaggio»24. Dunque la logica è strettamente legata al linguaggio. Kant, infatti, aveva detto che la logica è «la scienza che si occupa del pensiero in generale, indipendentemente dall’oggetto»25. Il nostro
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Kant 1900–, IX, p. 17. Ivi, IX, p. 17. 16 Ivi, III, p. 77 (B 78). 17 Frege 1969, p. 190. 18 Frege 1964, p. 4. 19 Frege 1962, I, p. XIV. 20 Kant 1900–, III, pp. 76-77 (B 78). 21 Ivi, IX, p. 14. 22 Ivi, XXIV, p. 694. 23 Frege 1969, p. 142. 24 Ivi, p. 288. 25 Kant 1900–, XXIX, p. 13. 15
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pensiero è strettamente legato al linguaggio perché «noi pensiamo con parole»26. Il «linguaggio significa il pensiero e, dall’altro lato, il mezzo par excellence della significazione intellettuale è il linguaggio»27. La «forma del linguaggio e la forma del pensiero sono parallele l’una all’altra e sono simili»28. Dunque la logica è strettamente legata al linguaggio. 4) Da Kant, Frege mutua l’idea che la logica non è descrittiva ma è «una scienza normativa, come l’etica»29. Le leggi logiche non sono descrizioni di «come effettivamente si svolge il pensiero, di come si arriva ad una convinzione», ma sono «prescrizioni per il giudicare, di cui il giudizio deve avvalersi se non vuole lasciarsi sfuggire la verità»30. Per «leggi logiche» si devono intendere «quelle che prescrivono come si deve pensare»31. Kant, infatti, aveva detto che nella logica non si tratta «di come pensiamo ma di come dobbiamo pensare»32. In essa «noi non vogliamo sapere come l’intelletto è e pensa e come ha proceduto finora nel pensare, ma come dovrebbe procedere nel pensare. La logica deve insegnarci il retto uso dell’intelletto»33. Essa è come «l’etica pura, la quale non contiene altro che le leggi morali necessarie di una volontà libera in generale»34. 5) Da Kant, Frege mutua l’idea che la logica, non essendo descrittiva ma normativa, non può occuparsi di come arriviamo a scoprire verità, cioè di come «siamo arrivati gradualmente ad una data proposizione»35. Kant, infatti, aveva detto che la logica non è «un’indicazione della maniera in cui una determinata conoscenza deve essere ottenuta»36. Essa «non può essere una euristica, perché astrae da ogni contenuto della conoscenza. Perciò non può produrre nuova conoscenza».37
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Ivi, XXIX, p. 31. Ivi, VII, p. 192. 28 Ivi, XXIX, p. 31. 29 Frege 1969, p. 139. 30 Ivi, p. 157. 31 Frege 1962, I, p. XVI. 32 Kant 1900–, IX, p. 14. 33 Ibid. 34 Ivi, III, p. 77 (B79). 35 Frege 1964, p. IX. 36 Kant 1900–, IX, p. 13. 37 Kant 1998, II, p. 279. 27
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6) Da Kant, Frege mutua l’idea che la logica in particolare non può occuparsi di come arriviamo a scoprire verità nelle singole scienze, quindi non si addentra «nella specificità delle singole discipline e dei loro oggetti», ma si occupa di «ciò che vi è di più generale, di valido in tutti i campi del pensiero»38. Kant, infatti, aveva detto che la logica è una scienza delle «leggi necessarie del pensiero, ma non riguardo a oggetti particolari, bensì a tutti gli oggetti in generale»39. Essa «concerne l’intelletto, a prescindere dalla varietà degli oggetti a cui esso può essere rivolto»40 Infatti, «astrae da ogni contenuto della conoscenza intellettuale e dalla varietà dei suoi oggetti, non trattando che della semplice forma del pensiero»41. 7) Da Kant, Frege mutua l’idea che la logica si occupa solo di come giustifichiamo verità già trovate, cioè di come, per ogni verità già trovata, «arriviamo a darle il più solido fondamento»42. Kant, infatti, aveva detto che la logica non può servire «ad ampliare la nostra conoscenza, ma semplicemente a vagliarla e a correggerla»43. Essa ha una funzione di fondazione trascendentale della conoscenza, serve a «costituire la possibilità di quest’ultima»44. 8) Da Kant, Frege mutua l’idea che «la logica tratta delle leggi dell’esser vero»45. Non dell’esser vero in ambiti particolari, ma «delle leggi più generali dell’esser vero»46. Kant, infatti, aveva detto che la logica «è anche giustamente chiamata logica della verità, perché contiene le regole necessarie di ogni verità (formale)»47. 9) Da Kant, Frege mutua l’idea che le verità logiche primitive non possono essere giustificate dalla logica, perché cercare di giustificarle mediante la logica sarebbe «come tentare di uscir fuori della propria pelle»48. O «giudicare senza giudicare, o lavare la pelliccia senza
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Frege 1969, p. 139. Kant 1900–, IX, p. 16. 40 Ivi, III, p. 75 (B 76). 41 Ivi, III, p. 76 (B 78). 42 Frege 1964, p. IX. 43 Kant 1900–, IX, p. 13. 44 Ivi, IV, p. 279. 45 Frege 1969, p. 161. 46 Ivi, p. 139. 47 Kant 1900–, IX, p. 16. 48 Frege 1962, I, p. XVII. 39
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bagnarla»49. Perciò, rispetto alle verità logiche primitive, la logica «dovrà rimanere debitrice della risposta»50. Kant, infatti, aveva detto che i principi logici, «non possono essere dimostrati affatto, né a priori né empiricamente»51. 10) Da Kant, Frege mutua l’idea che la matematica è assolutamente certa ma, «una volta convinti dell’immobilità di una roccia, per aver tentato invano di spostarla, ci si può chiedere che cosa la sostenga con tanta saldezza»52. Cioè, quale sia il suo fondamento. Kant, infatti, aveva detto che la matematica è «una grande e verificata conoscenza», che «ha in sé, da parte a parte, una certezza apodittica, cioè una assoluta necessità»53. Perciò non ci deve domandare se le conoscenze matematiche «sono possibili», perché esse «sono date a sufficienza, e certo con una realtà di incontestabile certezza»54. Ci si deve domandare invece «come esse sono possibili»55. Si deve cioè «indagare il fondamento di tale possibilità, e domandare come è possibile questa conoscenza»56. 11) Da Kant, Frege mutua l’idea che «gli elementi di tutte le costruzioni geometriche sono intuizioni, e la geometria si rivolge all’intuizione come alla fonte di tutti i suoi assiomi»57. Essa «si basa su assiomi che derivano la loro validità dalla natura della nostra facoltà intuitiva»58. Kant, infatti, aveva detto che «tutti i principi geometrici, per esempio che in un triangolo la somma di due lati è maggiore del terzo, non sono mai derivati dai concetti generali di linea e di triangolo, ma dall’intuizione»59. 12) Da Leibniz, Frege mutua l’idea che l’aritmetica è «semplicemente uno sviluppo della logica, ed ogni proposizione dell’aritmetica è una legge della logica, sebbene derivata»60. Le «leggi
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Frege 1961, p. 36. Frege 1962, I, p. XVII. 51 Kant 1900–, XXIV, p. 694. 52 Frege 1961, p. 2. 53 Kant 1900–, IV, p. 280. 54 Ivi, IV, p. 276. 55 Ivi, III, p. 40 (B 20). 56 Ibid. 57 Frege 1990, p. 50. 58 Ivi, p. 1. 59 Kant 1900–, III, p. 53 (B 39). 60 Frege 1961, p. 99. 50
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aritmetiche sono giudizi analitici»61. Dunque «Kant si sbagliò riguardo all’aritmetica»62. Leibniz, infatti, aveva detto che le verità logiche primitive sono «sufficienti per dimostrare tutta l’aritmetica»63. 13) Da Leibniz, Frege mutua l’idea che le verità logiche primitive sono date dalla «fonte conoscitiva logica»64. Cioè, dall’intuizione intellettuale. Leibniz, infatti, aveva detto che «le verità primitive che si conoscono per mezzo dell’intuizione» comprendono in primo luogo le verità logiche primitive, «che io chiamo col nome generico di identiche»65. 1.5. Deviazioni da Leibniz A differenza di Leibniz, però, Frege non è un logicista assolutamente coerente. Per Leibniz i principi logici sono «sufficienti per dimostrare tutta l’aritmetica e tutta la geometria, cioè tutti i principi matematici»66. Per Frege, invece, «c’è una notevole differenza tra la geometria e l’aritmetica nel modo in cui esse fondano i loro principi»67. Mentre le verità aritmetiche sono leggi logiche, le verità geometriche si basano sull’intuizione sensibile pura. Ma a partire da Descartes si sa che la geometria euclidea può essere interpretata nella teoria dei numeri reali, e quindi nell’aritmetica intesa come la scienza del numero in generale. Perciò, se le verità aritmetiche sono verità logiche, anche le verità geometriche lo sono. 1.6. Gli argomenti di Frege contro Kant Frege motiva la sua affermazione che Kant si sbaglia riguardo all’aritmetica, muovendogli alcune obiezioni, che però risultano infondate. 1) Frege obietta che noi «possiamo sempre assumere l’opposto di questo o di quell’assioma geometrico, senza cadere perciò in autocontraddizione quando procediamo alle nostre deduzioni, nonostante il conflitto tra le nostre assunzioni e la nostra intuizione»,
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Ivi p. 99. Ivi, p. 102. 63 Leibniz 1965, VII, p. 355. 64 Frege 1969, p. 298. 65 Leibniz 1965, V, p. 343. 66 Ivi, VII, p. 355. 67 Frege 1990, p. 50. 62
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perciò «gli assiomi geometrici sono indipendenti tra loro», e «di conseguenza sono sintetici»68. Invece, «la negazione di una qualsiasi» delle «leggi fondamentali della scienza del numero» ci fa cadere in autocontraddizione quando procediamo alle nostre deduzioni, con la conseguenza che cade «tutto in confusione»69. Ma non è così. Infatti, si può negare ogni singolo assioma dell’aritmetica senza cadere in autocontraddizione. Inoltre, anche secondo Kant si può assumere l’opposto di questo o di quell’assioma geometrico senza cadere in autocontraddizione. Infatti, Kant afferma che «una scienza di tutti questi tipi possibili di spazio», euclidei e non euclidei, «sarebbe indubbiamente la più alta geometria che un intelletto finito potrebbe intraprendere»70. Anzi, «se è possibile che si diano estensioni di altre dimensioni» oltre le tre della geometria euclidea, «è anche molto probabile che Dio le abbia realmente collocate da qualche parte», anche se «spazi siffatti non apparterrebbero affatto al nostro mondo ma dovrebbero costituire universi propri», benché eventualmente «collegati col nostro»71. Kant, dunque, ammette la possibilità di geometrie basate su assiomi contraddittori con quelli di Euclide. E avrebbe potuto ammettere anche la possibilità di aritmetiche basate su assiomi contraddittori con quelli dell’aritmetica ordinaria se assiomi per l’aritmetica ordinaria fossero stati noti alla sua epoca, ma essi sarebbero stati formulati solo successivamente. 2) Frege obietta che, a differenza delle proposizioni fondamentali su cui si basa la geometria, le proposizioni fondamentali «su cui si basa l’aritmetica non possono applicarsi semplicemente ad un’area limitata, le cui peculiarità esse esprimono così come gli assiomi della geometria esprimono le peculiarità di ciò che è spaziale»72. Infatti, si può «contare quasi tutto ciò che può essere oggetto del pensiero: l’ideale come il reale, i concetti come gli oggetti, le entità spaziali come quelle temporali, gli eventi come i corpi, i metodi come i teoremi»73. Perciò le proposizioni fondamentali su cui si basa l’aritmetica «devono estendersi a tutto il pensabile; e una proposizione generalissima siffatta la si attribuisce molto a buon diritto alla logica»74.
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Frege 1961, pp. 20-21. Ivi, p. 21. 70 Kant 1900–, I, p. 24. 71 Ivi, I, p. 25. 72 Frege 1990, p. 103. 73 Ibid. 74 Ibid. 69
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Ma non è così. Non è affatto vero che le proposizioni fondamentali su cui si basa l’aritmetica, in quanto si estendendono a tutto il pensabile, possano attribuirsi alla logica. Le leggi della logica di Frege non si estendendono a tutto il pensabile, per esempio non si estendono agli oggetti della matematica intuizionista, per i quali non vale il principio del terzo escluso. Inoltre, anche Kant avrebbe potuto affermare che le proposizioni fondamentali su cui si basa l’aritmetica si estendono a tutto il pensabile, anche a ciò che non può essere dato nell’intuizione, per esempio a enti immaginari. Ma – egli avrebbe aggiunto – le proposizioni fondamentali applicate a ciò che non può essere dato nell’intuizione non ci danno conoscenza sul nostro mondo, eventualmente solo su un qualche altro mondo possibile. 3) Frege obietta che, poiché «nella geometria le proposizioni generali derivano dall’intuizione», è comprensibile che «i punti, le linee, i piani intuiti», cioè le immagini che li rappresentano, «non hanno propriamente alcuna particolarità, e perciò possono servire come rappresentati del loro intero genere»75. Ma «con i numeri le cose stanno in modo differente: ciascuno di essi ha la sua particolarità. In che misura un determinato numero possa rappresentare tutti gli altri, e dove invece entri in gioco il suo carattere particolare, non può essere stabilito senz’altro»76. Cioè, mentre una particolare immagine di triangolo può rappresentare l’universalità del concetto di triangolo, una particolare immagine di numero, per esempio cinque punti, non può rappresentare l’universalità del concetto di numero. Ma non è così. Infatti, se si assume che gli oggetti su cui vengono condotte le dimostrazioni della geometria non sono oggetti particolari ma sono oggetti generali, si ottiene una contraddizione 77. Inoltre, l’obiezione assume che per Kant un concetto geometrico come quello di triangolo possa essere rappresentato da un’immagine particolare. Ma questo è negato da Kant, il quale afferma che «nessuna immagine sarebbe mai adeguata al concetto di triangolo in generale. Infatti l’immagine non potrebbe in nessun caso accedere alla generalità del concetto, che lo rende valido per ogni triangolo, sia esso rettangolo o di un altro genere, e resterebbe sempre circoscritta a una parte soltanto di questa sfera»78. Perciò «alla base dei nostri concetti sensibili
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Frege 1961, pp. 19-20. Ivi, p. 20. 77 V. Cellucci 2007. 78 Kant 1900–, III, p. 136 (B 180). 76
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puri non vi sono le immagini degli oggetti ma gli schemi»79. Per «schema di un concetto» si intende «la rappresentazione del procedimento generale mediante il quale l’immaginazione fornisce al concetto la sua immagine»80. Ma l’immagine non deve essere effettivamente prodotta, basta mostrare la possibilità di farlo in linea di principio, dando la regola per farlo. Per esempio, è sufficiente mostrare «la possibilità di esibire il concetto di un chiliagono», cioè un poligono di mille lati, «in un’intuizione», dando la regola secondo la quale questo può essere fatto, è quanto basta per «fondare la possibilità di questo oggetto in matematica. Allora, infatti, la costruzione dell’oggetto può essere prescritta completamente»81. Similmente Kant si esprime sull’aritmetica, riguardo alla quale afferma che, se «dispongo di seguito cinque punti: ..... , questa è un’immagine del numero cinque. Se invece soltanto penso un numero in generale, che sia cinque o cento, questo pensiero è più la rappresentazione di un metodo per rappresentare una molteplicità (per esempio, mille) in un’immagine, in base ad un certo concetto, che questa immagine stessa, la quale, in questo caso, sarebbe difficilmente esaminabile interamente e raffrontabile col concetto»82. Tale pensiero è cioè uno schema, una regola per rappresentare una molteplicità in un’immagine. Si ha così una situazione simile a quella del chiliagono, come si vede dal fatto che Kant afferma che essa «diventa tanto più evidente quanto più grandi sono i numeri presi in considerazione»83. 1.7. Il principio di Hume Frege avvia la realizzazione del suo programma di dedurre, da un insieme finito di verità logiche primitive, tutte le verità aritmetiche note, nella sua seconda opera, le Grundlagen der Arithmetik, pubblicata nel 1884. La realizzazione del programma gli richiede innanzitutto di definire il concetto di numero naturale. Ma, poiché per Frege il fondamento della certezza dell’aritmetica non è l’intuizione sensibile pura, questo gli pone il problema: «Come può esserci dato un numero se non possiamo averne alcuna rappresentazione o intuizione?»84. La risposta di Frege fa appello al ‘principio del contesto’: «Solo nel 79
Ibid. Ibid., p. 135 (B 179-180). 81 Ivi, XI, p. 46. 82 Ivi, III, p. 135 (B 179). 83 Ivi, III, p. 37 (B 16). 84 Frege 1961, p. 73. 80
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contesto di una proposizione le parole hanno un significato»85. Perciò, per definire il concetto di numero, «occorre spiegare il senso di una proposizione in cui compare un numerale»86. Cioè, il nome di un numero. Questo, però, «lascia ancora molto spazio all’arbitrio»87. Infatti non chiarisce di quali proposizioni in cui compare un numerale occorra spiegare il senso. Per chiarirlo, Frege afferma che i numerali sono «oggetti autosussistenti», cioè hanno un’identità che ne consente «il riconoscimento sempre di nuovo»88. Questo richiede di dare un criterio per decidere se un numerale è lo stesso di un altro numerale. A tale scopo, secondo Frege, «dobbiamo definire il senso della proposizione ‘il numero che appartiene al concetto F è lo stesso del numero che appartiene al concetto G’»89. Infatti un’affermazione su un numero è sempre un’affermazione sul numero che appartiene ad un concetto. Per esempio, l’affermazione che Giove ha quattro lune è l’affermazione che quattro è il numero che appartiene al concetto ‘lune di Giove’. Perciò, per dare un criterio per decidere se un numerale è lo stesso di un altro numerale, dobbiamo definire il senso della proposizione ‘il numero che appartiene al concetto F è lo stesso del numero che appartiene al concetto G’. Tale proposizione, con il suo articolo determinativo, assume però che siamo già in grado di decidere se un numerale è lo stesso di un altro numerale. Perciò la si deve riformulare «senza far uso dell’espressione ‘il numero che appartiene al concetto F ’ » 90. Per farlo, Frege si ispira a Hume, il quale afferma che «quando due numeri sono combinati in modo tale che l’uno ha sempre un’unità corrispondente ad ogni unità dell’altro, li dichiariamo eguali»91. Perciò Frege definisce ‘il numero che appartiene al concetto F è lo stesso del numero che appartiene al concetto G ’ come ‘Esiste una corrispondenza biunivoca R tra gli oggetti che cadono sotto F e gli oggetti che cadono sotto G ’ , che egli abbrevia in « ‘Il concetto F è equinumeroso al concetto G ’ »92. Poiché tale definizione si ispira a Hume, essa va sotto il nome di ‘principio di Hume’. 85
Ibid. Ibid. 87 Ibid. 88 Ibid. 89 Ibid. 90 Ibid. 91 Hume 1978, p. 71. 92 Frege 1961, p. 85. 86
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Indicando ‘il numero che appartiene al concetto F ’ con NxF ( x ) , e ‘F è equinumeroso a G ’ con F ≈ G , il principio di Hume è: (HP)
NxF ( x ) = NxG ( x ) ↔ F ≈ G ,
che esprime ‘Il numero che appartiene al concetto F è eguale al numero che appartiene al concetto G se e solo se F è equinumeroso a G’. F ≈ G è definito, senza far uso dell’espressione NxF ( x ) , da: (1) ∃R (∀x ( F ( x ) → ∃! y (G ( y ) ∧ R ( x , y ))) ∧ ∀y (G ( y ) → ∃! x ( F ( x ) ∧ R ( x , y )))) , che esprime ‘Esiste una relazione R che fa corrispondere, a ogni oggetto che cade sotto F, un unico oggetto che cade sotto G, e viceversa, a ogni oggetto che cade sotto G, un unico oggetto che cade sotto F’, dunque esprime ‘Esiste una corrispondenza biunivoca R tra gli oggetti che cadono sotto F e gli oggetti che cadono sotto G ’ . Mentre F ≈ G è definito esplicitamente da (1), NxF ( x ) è definito da (HP) solo contestualmente. Tra definizioni esplicite e definizioni contestuali vi è una sostanziale differenza. Una definizione esplicita permette di sostituire l’espressione definita con l’espressione definente in ogni contesto in cui l’espressione definita occorre. Per esempio, la definizione di F ≈ G data da (1) permette di sostituire l’espressione definita F ≈ G con l’espressione definente (1) in ogni contesto in cui F ≈ G occorre. Invece una definizione contestuale non permette di sostituire l’espressione definita con l’espressione definente in ogni contesto in cui l’espressione definita occorre, ma solo in contesti di una particolare forma. Per esempio, (HP) permette di sostituire l’espressione definita NxF ( x ) con l’espressione definente F ≈ G solo in contesti della forma NxF ( x ) = NxG ( x ) . Per mezzo di (HP) si può sviluppare l’aritmetica dei numeri naturali. Così, 0 è definito da Nx ( x ≠ x ) , che esprime: «Il numero che appartiene al concetto ‘non identico a se stesso’»93. La relazione binaria ‘y è il successore di x ’ , scritta S ( x , y ) , è definita da: ∃F (NwF ( w ) = y ∧ ∃z ( F ( z ) ∧ Nw( F ( w ) ∧ w ≠ z ) = x )) ,
93
Ivi, p. 87.
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che esprime ‘Esiste un concetto F tale che y è il numero che appartiene a F ed esiste un z tale che z cade sotto F e x è il numero che appartiene al concetto ‘cade sotto F ma è diverso da z’. La proprietà N(w), che esprime ‘w è un numero naturale’, è definita da: ∀F ( F (0) ∧ ∀x∀y ( F ( x) ∧ S ( x, y ) → F ( y )) → F ( w)) ,
che esprime ‘w cade sotto ogni concetto F tale che 0 cade sotto F e, se x cade sotto F, anche il successore y di x cade sotto F ’ . Con queste definizioni, da (HP) si possono dedurre gli assiomi dell’aritmetica di Peano. Questo risultato va sotto il nome di ‘teorema di Frege’. 1.8. Il problema di Cesare Tuttavia (HP) va incontro alla difficoltà che esso non permette di decidere se una proposizione della forma NxF ( x ) = q è vera o falsa quando q non ha la forma NxG ( x ) , per esempio quando q è ‘Giulio Cesare’. Infatti, per stabilire NxF ( x ) = q , occorrerebbe stabilire ∃G (NxG ( x ) = q ∧ F ≈ G ) , ma questo richiederebbe che si potesse stabilire NxG ( x ) = q , il che darebbe luogo ad un rimando all’infinito. Questa difficoltà va sotto il nome di ‘problema di Cesare’. Essa costituisce un serio problema per Frege perché, come abbiamo visto, egli introduce (HP) allo scopo di dare un criterio per decidere se un numerale è lo stesso di un altro numerale. Non permettendo di decidere se una proposizione della forma NxF ( x ) = q è vera o falsa quando q non ha la forma NxG ( x ) , (HP) non fornisce un tale criterio. Per superare questa difficoltà Frege considera la possibilità di dare una definizione esplicita di NxF ( x ) . La definizione che egli dà è in termini della nozione di estensione di un concetto F. Se indichiamo l’estensione di F con {x : F ( x )} , allora egli definisce NxF ( x ) come
{X : X
≈ F } . Infatti afferma: «Io perciò definisco: Il numero che
appartiene al concetto F è l’estensione del concetto ‘equinumeroso al concetto F ’ »94. Con questa definizione di NxF ( x ) , (HP) diventa: (HP ')
94
{X : X
≈ F } = { X : X ≈ G} ↔ F ≈ G ,
Ivi, pp. 79-80.
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che esprime: «L’estensione del concetto ‘equinumeroso al concetto F ’ è la stessa dell’estensione del concetto ‘equinumeroso al concetto G ’ » se e solo se «il concetto F è equinumeroso al concetto G»95. 1.9. La difficoltà di definire l’estensione di un concetto Definendo NxF ( x ) come { X : X ≈ F } , Frege pensa di poter risolvere il problema di Cesare, ma non è così. Tale definizione, infatti, permette decidere se Giulio Cesare è il numero appartenente ad un concetto solo se è già stato deciso se Giulio Cesare è l’estensione di un concetto. Questo presuppone che si sappia che cos’è l’estensione di un concetto, ma Frege, nelle Grundlagen der Arithmetik, non spiega che cosa sia, si limita a dire che in questa definizione egli suppone «noto il senso dell’espressione ‘estensione di un concetto’ si suppone noto»96. Cioè, egli suppone «che si sappia che cos’è l’estensione di un concetto»97. Ma questo è insoddisfacente, e lo stesso Frege è consapevole che «non ci si può aspettare che questo modo di superare la difficoltà incontri un’approvazione universale»98. Nondimeno dichiara: «Io non attribuisco alcuna importanza decisiva al far intervenire l’estensione di un concetto»99. Invece avrebbe dovuto attribuirgli un’importanza decisiva, perché, senza far intervenire l’estensione di un concetto, il problema di Cesare non può considerarsi risolto. Ma spiegare che cos’è l’estensione di un concetto costituisce una difficoltà per Frege, perché egli non è in grado di dare una definizione esplicita dell’estensione di un concetto. Nella tradizione logica precedente l’estensione di un concetto era definita esplicitamente come «la quantità delle cose contenute sotto il concetto»100. Cioè, come l’insieme degli oggetti che cadono sotto il concetto. Ma Frege non può definire l’estensione di un concetto in questo modo, perché egli definisce un insieme come l’estensione di un concetto. Per lui un insieme non può essere definito come un ‘aggregato’, perché un aggregato è una riunione di oggetti in un tutto, e, «se ci è dato un tutto, non è ancora determinato quali debbano essere considerate le sue parti», mentre quando è dato un insieme, «è 95
Ivi, p. 85. Ivi, p. 117. 97 Ivi, p. 80, nota. 98 Ivi, p. 117. 99 Ibid. 100 Kant 1900–, XXIV, p. 911. 96
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determinato quali oggetti appartengano ad esso»101. Perciò un insieme deve essere definito come l’estensione di un concetto, e in effetti «ciò che i matematici chiamano insieme non è altro che l’estensione di un concetto»102. Ma, definendo un insieme come l’estensione di un concetto, Frege non può definire l’estensione di un concetto come l’insieme degli oggetti che cadono sotto il concetto, perché ciò darebbe luogo ad un circolo. Per questo motivo egli non è in grado di dare una definizione esplicita dell’estensione di un concetto. Ne segue che, definendo NxF ( x ) come { X : X ≈ F } , Frege non risolve il problema di Cesare. 1.10. L’acme del programma di Frege Non essendo in grado di dare una definizione esplicita dell’estensione di un concetto, Frege – nei due volumi, pubblicati rispettivamente nel 1893 e nel 1903, della sua terza e più importante opera, i Grundgesetze der Arithmetik, che contiene la formulazione finale della sua ‘ideografia’, cioè del suo sistema logico – ne dà solo una definizione contestuale. Egli lo fa mediante il quinto assioma dell’ideografia, la cosiddetta ‘legge fondamentale 5’: (LF5)
{x : F ( x )} = {x : G ( x )} ↔ ∀x ( F ( x ) ↔ G ( x )) ,
che esprime ‘Due concetti F e G hanno la stessa estensione se e solo se, per lo stesso argomento x, F e G hanno lo stesso valore, cioè, un oggetto x cade sotto F se e solo se cade sotto G’ 103. Tale legge, per Frege, «deve considerarsi una legge logica»104. Da (LF5) e dagli altri assiomi dell’ideografia si possono dedurre gli assiomi di Peano, gli assiomi dei numeri reali e degli altri tipi di numeri. Perciò Frege afferma di aver dato, nelle Grundgesetze der Arithmetik, «la deduzione delle leggi più semplici dei numeri mediante mezzi puramente logici»105. La validità di tale deduzione dipende naturalmente dalla verità degli assiomi dell’ideografia. Di essa Frege era così convinto da dichiarare: «Come confutazione riconoscerei soltanto che qualcuno mi 101
Frege 1976, pp. 222-223. Frege 1962, II, p. 148. 103 La formulazione originaria di Frege è un po’ più generale, perché considera non solo concetti ma funzioni qualsiasi. Ma questo è inessenziale qui. 104 Frege 1962, I, p. 14. 105 Ivi, I, p. 1. 102
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mostrasse con i fatti che un edificio migliore e più duraturo può essere costruito sopra convinzioni fondamentali differenti, oppure che qualcuno mi mostrasse che i miei principi conducono a conseguenze palesemente false. Ma questo non riuscirà a nessuno»106. 1.11. Ancora il problema di Cesare Ma (LF5) va incontro a grosse difficoltà. Tanto per cominciare, non risolve il problema di Cesare. Per risolvere tale problema, Frege parte dall’idea di considerare ogni oggetto «come l’estensione di un concetto sotto il quale cade solo quell’oggetto»107. Questo risolverebbe il problema di Cesare, perché allora Giulio Cesare potrebbe essere concepito, per esempio, come l’estensione del concetto ‘vincitore di Pompeo a Farsalo’. Ma, come lo stesso Frege sottolinea, mentre questa idea «è possibile per ogni oggetto che non ci sia già dato» come l’estensione di un concetto, nel caso di un oggetto che ci sia già dato come l’estensione di un concetto «si pone il problema» se questa idea «non sia contraddittoria»108. In effetti lo è perché, in base ad essa, ogni oggetto viene identificato col suo insieme unità, cioè con l’insieme il cui solo elemento è quell’oggetto. Ma ovviamente non ogni oggetto può essere identificato col suo insieme unità, specificamente nessun insieme che abbia più di un elemento può essere identificato con esso. Questo suggerisce di sostituire l’idea in questione con quella di considerare ogni oggetto che non sia l’estensione di un concetto come l’estensione di un concetto sotto cui cade solo quell’oggetto. In base a tale idea, ogni oggetto che non sia l’estensione di un concetto viene identificato col suo insieme unità. Ma anche questa idea è inadeguata perché, se un oggetto non è l’estensione di un concetto, allora, in base a tale idea, esso è l’estensione di un concetto, il suo insieme unità, il che è contraddittorio. Questo a sua volta suggerisce di sostituire questa idea con l’ulteriore idea di considerare ogni oggetto che non ci sia già dato come l’estensione di un concetto, come l’estensione di un concetto sotto cui cade solo quell’oggetto. In base a tale idea, ogni oggetto che non ci sia già dato come l’estensione di un concetto viene identificato col suo insieme unità. Ma allora, che cosa sia un oggetto dipende dal modo in
106
Ivi, I, p. XXVI. Ivi, I, p. 18, nota 1. 108 Ibid. 107
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cui quell’oggetto ci è dato, e, come Frege riconosce, «lo stesso oggetto ci può essere dato in molti modi differenti»109. Se ne conclude che la nostra apprensione delle estensioni di concetti come oggetti non può essere spiegata unicamente in termini di (LF5). Quindi (LF5) non risolve il problema di Cesare. 1.12. Il paradosso di Russell Ma (LF5) va incontro ad una difficoltà ancor più grave: da essa si può dedurre una contraddizione. Tale contraddizione fu comunicata da Russell a Frege con una lettera datata 16 giugno 1902, mentre Frege stava per pubblicare il secondo volume dei Grundgesetze der Arithmetik, e perciò va sotto il nome di ‘paradosso di Russell’. Informalmente il paradosso di Russell può essere ottenuto nel modo seguente. Sia y l’insieme di tutti gli insiemi che non appartengono a se stessi. Chiediamoci: y appartiene a se stesso? Sia la risposta affermativa che quella negativa danno luogo ad una contraddizione. Infatti, se y appartiene a se stesso, allora a y appartiene un insieme che appartiene a se stesso, contraddicendo la scelta di y in virtù della quale a y appartengono solo insiemi che non appartengono a se stessi. Se invece y non appartiene a se stesso, allora a y non appartiene un insieme che non appartiene a se stesso, contraddicendo la scelta di y in virtù della quale a y appartengono tutti gli insiemi che non appartengono a se stessi. Formalmente il paradosso di Russell può essere dedotto da (LF5) nel modo seguente. Definiamo l’appartenenza x ∈ y come: (1)
∃X ( y = {z : X ( z )} ∧ X ( x )) .
Dimostriamo innanzitutto: (2)
y = {x : F ( x )} → ∀x ( x ∈ y ↔ F ( x )) ,
cioè che ‘Se y è l’estensione del concetto F, allora y contiene come membri tutti e solo quegli oggetti x che cadono sotto F ’ . Per dimostrare (2) assumiamo y = {x : F ( x )} . Allora:
x∈ y
109
↔
x ∈ {x : F ( x )}
↔
∃X ({ ∀xz (: FF((zx))}= =X{(zz )) ( x∧))X ( x )) : X∧( X z )}
Ibid.
21
per per (1) (LF5)
↔
F ( x) .
Dunque ∀x ( x ∈ y ↔ F ( x )) . Si è così dimostrato (2). Sia allora y = {x : x ∉ x} , cioè l’estensione del concetto ‘x non appartiene a se stesso’, ovvero l’insieme di tutti gli insiemi che non appartengono a se stessi. Prendendo in (2) x ∉ x come F ( x ) si ottiene ∀x ( x ∈ y ↔ x ∉ x ) , da cui segue in particolare y ∈ y ↔ y ∉ y , che è una contraddizione. Il paradosso di Russell fu un duro colpo per Frege perché scosse «uno dei fondamenti del suo edificio»110. Per alcuni anni egli tentò di modificare (LF5) in modo che da essa non si potesse più dedurre una contraddizione pur rimanendo una legge logica, ma alla fine riconobbe: «I miei sforzi di chiarire ciò che si vuole chiamare ‘numero’ sono finiti in un completo fallimento»111. Perciò «ho dovuto abbandonare la mia idea che l’aritmetica sia una branca della logica»112. Il fallimento dei tentativi di Frege non fu dovuto a suoi limiti: anche i tentativi fatti da altri, da Russell a Ramsey, fallirono. Fu dovuto, invece, al fatto che il primo teorema di incompletezza di Gödel, pubblicato nel 1931, implica che il programma di Frege non è realizzabile. 1.13. Il crollo del programma di Frege Che il primo teorema di incompletezza di Gödel implichi che il programma di Frege non è realizzabile può essere visto nel modo seguente. Supponiamo che tutte le verità aritmetiche siano verità logiche in quanto sono deducibili da un insieme finito LT di verità logiche primitive. Sia T la teoria tutti i cui assiomi sono costituiti da LT. Poiché tutte le verità aritmetiche sono deducibili da LT, tutte le verità aritmetiche sono dimostrabili in T, perciò banalmente T è una teoria sufficientemente potente in senso esteso [V.4.9]. Inoltre, poiché l’insieme LT è finito, banalmente T è una teoria RE [V.3.3]. E ancora, poiché LT contiene solo verità logiche, T è coerente. Ma allora, per il primo teorema di incompletezza di Gödel [V.4.2, V.7.2], esiste un enunciato della forma ∀x ( f ( x ) = 0) , dove f è una funzione ricorsiva primitiva, che è vero ma non è deducibile da LT. Dunque tale enunciato fornisce un esempio di verità aritmetica che non è deducibile da LT. Ma 110
Ivi, II, p. 253. Frege 1969, p. 282. 112 Ivi, p. 298. 111
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per ipotesi tutte le verità aritmetiche sono deducibili da LT. Contraddizione. Se ne conclude che non tutte le verità aritmetiche sono deducibili da LT, e dunque che non tutte le verità aritmetiche sono verità logiche. Contro l’affermazione che il primo teorema di incompletezza di Gödel implichi che il programma di Frege non è realizzabile e perciò «era destinato al fallimento fin dal principio», Hale e Wright hanno però obiettato che essa è «semplicemente un errore. Anche con la formulazione più impegnativa del logicismo» come la tesi che «si può vedere che tutte le verità aritmetiche sono verità logiche, è per lo meno opinabile che il teorema di Gödel ne segnali il fallimento»113. Infatti «la verità logica si sottrae ad una caratterizzazione deduttiva completa»114. Perciò sarebbe una petizione di principio trarre dal risultato di Gödel «la conclusione che non tutte le verità aritmetiche sono verità logiche, perché ciò richiederebbe l’identificazione della logica con la logica del primo ordine, e questa è un’identificazione che il logicista fregeano respinge, e deve respingere, in ogni caso»115. Se «il logicista è autorizzato a considerare la logica come comprendente la logica del secondo ordine», tale risultato non fa nascere «alcuno speciale problema per lui. In breve, il risultato di incompletezza di Gödel non ha alcuna specifica rilevanza per il progetto logicista»116. L’obiezione di Hale e Wright è che il fatto che, per il primo teorema di incompletezza di Gödel, per ogni insieme finito LT di verità logiche primitive esista un enunciato della forma ∀x ( f ( x ) = 0) , dove f è una funzione ricorsiva primitiva, che è vero ma non è deducibile da LT, non prova che tale enunciato non è una verità logica. Infatti, se non si restringe la logica alla logica del primo ordine, l’enunciato in questione può benissimo essere una verità logica, pur non essendo deducibile da LT, perché, per un corollario del teorema di incompletezza forte della logica del secondo ordine [V.7.6], nella teoria T i cui assiomi sono costituiti da LT e che, come abbiamo visto, è RE, non sono dimostrabili tutti gli enunciati logicamente validi del linguaggio di T. Ora, se l’enunciato dato dal primo teorema di incompletezza di Gödel è una verità logica, questo equivale a dire che esso è logicamente valido. Perciò tale enunciato può benissimo essere una verità logica e non essere dimostrabile in T.
113
Hale-Wright 2001, p. 4, nota 5. Ibid. 115 Ivi, pp. 4-5, nota 5. 116 Ivi, p. 5, nota 5. 114
23
Ma l’obiezione di Hale e Wright è fallace. Infatti, l’enunciato dato dal primo teorema di incompletezza di Gödel, avendo la forma ∀x ( f ( x ) = 0) , è un enunciato del primo ordine, e gli assiomi logici e le regole di deduzione logica di T comprendono quelli della logica del primo ordine. Ora, per il teorema di completezza della logica del primo ordine [V.1.5], tutti gli enunciati del primo ordine logicamente validi sono dimostrabili in T mediante gli assiomi logici e le regole di deduzione logica di T. Perciò, se l’enunciato in questione fosse una verità logica, e quindi un enunciato logicamente valido, esso dovrebbe essere dimostrabile in T. Dal fatto che tale enunciato non è dimostrabile in T, ne segue che esso non può essere una verità logica. Questa conclusione non presuppone l’identificazione della logica con la logica del primo ordine, fa solo uso del teorema di completezza della logica del primo ordine. Dunque, contrariamente a quanto affermano Hale e Wright, il primo teorema di incompletezza di Gödel davvero implica che il programma di Frege non è realizzabile, e quindi ha una rilevanza assolutamente specifica per il progetto logicista. 1.14. La reazione finale di Frege La reazione finale di Frege al paradosso di Russell fu l’abbandono dell’idea che le verità aritmetiche sono verità logiche. L’abbandono fu così totale che in seguito Frege non mostrò alcun interesse per gli sviluppi di quella logica matematica che, pure, lui aveva creato. Questo dipese dal fatto che la logica matematica era per Frege solo un mezzo rispetto al fine di mostrare che le verità aritmetiche sono verità logiche. Una volta rivelatosi irraggiungibile tale fine, il mezzo perse interesse. Lo scopo logico di Frege di mostrare che le verità aritmetiche sono verità logiche era funzionale al suo scopo epistemologico di mostrare il fondamento della certezza della matematica. Quando l’assunzione che il fondamento della certezza dell’aritmetica era la logica si rivelò insostenibile, Frege la sostituì con quella che tale fondamento fosse la geometria. Le verità aritmetiche sono verità geometriche, e perciò «tutta la matematica è, propriamente, geometria. La matematica appare così perfettamente unitaria nella sua essenza»117. L’aritmetica e la geometria, «e quindi l’intera matematica, scaturiscono da un’unica fonte conoscitiva, cioè quella geometrica»118. Come la geometria, anche l’aritmetica mutua il suo «fondamento dimostrativo dall’intuizione», dove per intuizione si intende «la fonte conoscitiva geometrica», cioè 117 118
Frege 1969, p. 297. Ivi, p. 299.
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l’intuizione sensibile pura spaziale, che è «quella fonte conoscitiva da cui derivano gli assiomi della geometria»119. Questo contraddice la precedente assunzione di Frege, che la base concettuale dell’aritmetica «non può essere l’intuizione spaziale; così, infatti, la disciplina si ridurrebbe alla geometria»120. Ad ogni modo, anche l’assunzione che le verità aritmetiche sono verità geometriche era funzionale allo scopo epistemologico di mostrare il fondamento della certezza della matematica. Per mostrare che le verità aritmetiche sono verità geometriche, invece di costruire il campo dei numeri partendo dai numeri naturali e passando poi ai numeri negativi, frazionari e complessi, Frege si dirige «direttamente alla meta finale, cioè ai numeri complessi»121. Egli introduce un sistema i cui concetti primitivi «sono linea e punto», e la cui unica relazione primitiva è: «Il punto A è simmetrico al punto B rispetto alla linea l»122. In esso si può dimostrare che, ad ogni rapporto di due segmenti in un dato piano corrisponde un unico punto C nel piano. Un numero complesso può essere identificato con tale punto. Perciò Frege definisce un numero complesso come un rapporto tra due segmenti in un dato piano. Tutti gli altri tipi di numeri saranno definiti in termini dei numeri complessi. Filosoficamente, questa mossa di Frege era un ritorno a Kant, sebbene di tipo anomalo perché, mentre per Kant le proposizioni aritmetiche si fondano sull’intuizione spaziale e temporale, Frege afferma che esse si basano solo sull’intuizione spaziale. Lo fa senza sentire il bisogno di spiegare perché non consideri più valida la sua precedente affermazione che non si può definire «il numero geometricamente, come un rapporto tra lunghezze o superfici» in quanto questo «presuppone come già conosciuti i concetti di grandezza e di rapporto tra grandezze», per cui «la definizione di numero in senso stretto, di numero cardinale, sarà tutt’altro che superflua»123 Matematicamente, la mossa di Frege era disperata, perché la nozione di rapporto in termini della quale egli definisce i numeri complessi non può essere quella usuale, che si fonda sul confronto tra grandezze. Infatti, quando si confrontano due segmenti con il metodo di Frege e si fa corrispondere al loro rapporto un punto del piano, il punto dipenderà anche dall’angolo con cui i segmenti sono orientati l’uno 119
Ivi, p. 298. Frege 1990, p. 104. 121 Frege 1969, p. 299. 122 Ivi, p. 300. 123 Frege 1961, p. 25. 120
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rispetto all’altro. Perciò due coppie di segmenti che hanno lo stesso rapporto nel senso usuale non avranno lo stesso rapporto nel senso di Frege. Ma allora non è chiaro che cosa si guadagni definendo i numeri complessi come rapporti tra segmenti. In definitiva, dunque, Frege mutuò le sue principali idee sulla natura della logica e della matematica da Kant, tranne due, che egli mutuò da Leibniz, e il suo unico contributo originale alla filosofia della matematica − che era di natura non filosofica ma tecnica: il progetto di dedurre le verità aritmetiche da un insieme finito di verità logiche − si risolse in un fallimento. Questo lo convinse a ritornare a Kant, sebbene in un modo filosoficamente anomalo e matematicamente disperato. 2. Hilbert 2.1. Le motivazioni di Hilbert Anche secondo Hilbert (1862-1943) il compito della filosofia della matematica è indagare il fondamento della certezza della matematica. L’esigenza di una tale indagine è nata col calcolo infinitesimale di Newton e Leibniz, che dava luogo a paradossi. Per eliminarli Weierstrass, Dedekind e Cantor diedero una fondazione del calcolo infinitesimale, che però dava luogo anch’essa a paradossi, «i paradossi della teoria degli insiemi. In particolare, una contraddizione scoperta da Zermelo e Russell ebbe un effetto addirittura catastrofico quando divenne nota nel mondo matematico»124. A causa di essa la matematica è stata «colpita per due decenni come da un incubo»125. Addirittura Brouwer ha preteso che si dovesse rinunciare a parti sostanziali della matematica. Ma, «seguendo questi riformatori, corriamo il pericolo di perdere una gran parte dei nostri più prezioni tesori»126. Ad ogni modo, la situazione creata dalla contraddizione scoperta da Zermelo e Russell «non può essere sopportata a lungo. Si pensi: nella matematica, in questo modello di sicurezza e di verità, le concettualizzazioni e le inferenze che tutti imparano, insegnano e adoperano portano ad assurdità. E dove si può trovare altrove sicurezza e verità se persino il pensiero matematico viene meno?»127. Che «ne sarebbe della verità della nostra conoscenza, che ne sarebbe dell’esistenza e del progresso della scienza, se nemmeno nella matematica ci fosse una verità sicura?»128. Perciò, dovunque «ci si 124
Hilbert 1926, p. 169. Hilbert 1929, p. 2. 126 Hilbert 1970b, p. 159. 127 Hilbert 1926, p. 170. 128 Hilbert 1929, p 9. 125
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presenti anche solo una minima speranza, noi vogliamo esaminare accuratamente tutte le concettualizzazioni e i ragionamenti fecondi, consolidarli e renderli passibili di impiego»129. 2.2. Matematica finitaria e matematica infinitaria A tale scopo Hilbert distingue, all’interno della matematica, una sua parte, detta ‘matematica finitaria’, che si basa unicamente sull’intuizione sensibile pura e corrisponde grosso modo alla matematica sviluppata dall’antichità fino ai primi decenni dell’Ottocento. La matematica nel suo complesso consiste dalla matematica finitaria più le integrazioni introdotte da Weierstrass, Dedekind e Cantor per dare una fondazione del calcolo infinitesimale, integrazioni che comportano l’uso di oggetti e metodi astratti, e specificamente dell’infinito attuale. Perciò la matematica nel suo complesso può essere detta ‘matematica infinitaria’. La matematica finitaria è una parte abbastanza ristretta della matematica infinitaria, perché non contiene già parti rilevanti dell’aritmetica. Quest’ultima «si basa in modo sostanziale su principi di ragionamento aggiuntivi» di tipo infinitario, perciò la matematica finitaria è una parte propria dell’aritmetica, dunque «i metodi finitari sono già compresi» come parte propria «nell’aritmetica usuale»130. Nella matematica finitaria «abbiamo i segni numerici |, ||, |||, ||||, …»131. Essi vengono indicati con 1, 2, 3, 4, … . Inoltre abbiamo i segni +, = e altri «che servono per comunicare asserzioni. Così 2 + 3 = 3 + 2 serve per comunicare che, tenendo conto delle abbreviazioni adoperate, 2 + 3 e 3 + 2 sono lo stesso segno numerico, cioè |||||»132. E ancora, abbiamo «lettere a, b, c per segni numerici»133. Esse servono per lo stesso scopo. Così a + b = b + a serve per comunicare che « a + b è lo stesso di b + a »134. Ma già un enunciato come ‘Esiste un numero primo > p ’, dove p indica il più grande numero primo attualmente noto, non appartiene alla matematica finitaria. Esso, infatti, sta per «‘ p + 1 oppure p + 2 oppure p + 3 … oppure … in infinitum’ è un numero primo», dunque sta per una disgiunzione infinita, e perciò, dal punto di vista della matematica
129
Hilbert 1926, p. 170. Hilbert-Bernays 1968-70, I, p. 42. 131 Hilbert 1926, p. 171. 132 Ibid. 133 Ibid. 134 Ibid. 130
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finitaria, è «privo di senso»135. Dunque, già quantificando esistenzialmente un enunciato della matematica finitaria si può andare oltre la matematica finitaria. Solo gli enunciati della matematica finitaria hanno propriamente un contenuto, mentre quelli della matematica infinitaria «in sé non significano niente»136. Sono «semplicemente un modo di dire»137. Infatti, mentre gli enunciati della matematica finitaria sono relativi ad oggetti che possono essere dati nell’intuizione sensibile pura, quindi esistono in un senso reale, e perciò possono essere detti «enunciati reali», gli enunciati della matematica infinitaria sono relativi ad oggetti che, comportando un riferimento all’infinito attuale, non possono essere dati nell’intuizione sensibile pura, quindi non esistono in un senso reale, sono solo cose ideali, e perciò possono essere detti «enunciati ideali»138. La descrizione di Hilbert della matematica finitaria non è molto precisa. Egli stesso dichiara di usare ‘finitario’ non «come un termine nettamente delimitato», ma solo «come una designazione di un principio guida metodologico che, è vero, ci permette di riconoscere conclusivamente certi tipi di formazioni di concetti e di inferenze come finitari, certi altri come non finitari, ma non fornisce una linea di divisione precisa tra quelli che soddisfano i requisiti dei metodi finitari e quelli che non li soddisfano»139. Nondimeno, che cosa Hilbert intenda per ‘matematica finitaria’ è chiaro, perché egli dichiara che «la teoria dei numeri contenutistica finitaria» è «formalizzata mediante l’aritmetica ricorsiva primitiva»140. Si ammettono «come enunciati finitari solo quegli enunciati che possono essere espressi nel formalismo dell’aritmetica ricorsiva primitiva»141. Dunque per Hilbert la matematica finitaria è quella formalizzata dall’aritmetica ricorsiva primitiva PRA [V.2.2]. Ciò implica che tutti gli enunciati della matematica finitaria possono essere espressi nella forma ∀x ( f ( x ) = 0) , dove f è una funzione ricorsiva primitiva. 2.3. L’intento di Hilbert
135
Ivi, p. 173. Ivi, p. 175. 137 Ivi, p. 162. 138 Hilbert 1928, p. 72. 139 Hilbert-Bernays 1968-70, I, p. 361. 140 Ivi, II, p. 224. 141 Ivi, II, p. 362. 136
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La ragione per cui Hilbert distingue, nell’ambito della matematica, la matematica finitaria, è che egli la considera assolutamente certa in quanto basata sull’intuizione sensibile pura. I dubbi possono nascere solo riguardo alla matematica infinitaria, la quale ammette operazioni astratte su estensioni di concetti e contenuti di concetti generali che comportano un riferimento all’infinito attuale. Infatti, i paradossi della teoria degli insiemi mostrano che è proprio «l’operare astratto con estensioni di concetti e contenuti di concetti generali» che «è risultato difettoso e insicuro»142. Tuttavia la matematica infinitaria, e in particolare la teoria degli insiemi, è importante per la fondazione dell’analisi infinitesimale di Weierstrass, Dedekind e Cantor, perché gli enunciati ideali permettono di abbreviare le dimostrazioni degli enunciati reali, e perciò di semplificare e concludere la teoria. Per questo motivo Hilbert afferma: «Nessuno deve poterci mai scacciare dal paradiso che Cantor ha creato per noi»143. Si deve però essere sicuri che, mediante l’uso di enunciati ideali, non si possano dimostrare enunciati reali falsi. Per esserlo si deve mostrare che, mediante l’uso di enuciati ideali, non si possono dimostrare enunciati reali che non siano dimostrabili senza di esso, cioè non siano dimostrabili nella matematica finitaria, e perciò non siano veri. Mostrarlo assicurerebbe che «i modi inferenziali basati sull’infinito» possono essere «sostituiti con processi finiti che danno esattamente gli stessi risultati»144. 2.4. Il programma della conservazione Per mostrarlo Hilbert formula un programma, detto ‘programma della conservazione’, che consta dei seguenti due passi: 1) Formalizzare la matematica infinitaria mediante una teoria T. 2) Dimostrare nella matematica finitaria che T è esternamente coerente [V.4.7]. Col passo 1) del programma della conservazione, tutto ciò che costituisce la matematica nel senso corrente, cioè la matematica infinitaria, viene «rigorosamente formalizzato, cosicché la matematica propriamente detta, o matematica in senso stretto, diventa un patrimonio di formule»145. Essa comprende, «in primo luogo, le 142
Hilbert 1970b, p. 162. Hilbert 1926, p. 170. 144 Ivi, p. 162. 145 Hilbert 1931a, p. 489. 143
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formule a cui corrispondono comunicazioni contenutistiche di enunciati finitari», cioè esprimono enunciati reali, e, «in secondo luogo, altre formule che non significano niente e che sono i costrutti ideali della nostra teoria»146. Cioè esprimono enunciati ideali. La necessità di formalizzare la matematica infinitaria nasce dal fatto che, alle formule che esprimono enunciati ideali, che quindi non significano niente, «non si possono applicare contenutisticamente le operazioni logiche e anche le stesse dimostrazioni matematiche. È perciò necessario formalizzare le operazioni logiche e anche le stesse dimostrazioni matematiche; ciò richiede che le relazioni logiche siano tradotte in formule»147. Formalizzare la matematica infinitaria ci evita di dover assegnare un’interpretazione agli enunciati ideali. In effetti «non è per nulla ragionevole la richiesta generale che ogni singola formula» che compare in una dimostrazione «sia interpretabile per se stessa; corrisponde invece alla natura di una teoria il fatto che noi non dobbiamo ricorrere all’intuizione o al significato nel suo sviluppo»148. La formalizzazione ci evita di dover ricorrere all’intuizione e al significato, perché con essa la matematica infinitaria si trasforma in qualcosa che ha lo stesso carattere degli oggetti della matematica finitaria. Infatti le formule che esprimono enunciati ideali sono stringhe di segni-base di un linguaggio segnico, quindi sono oggetti concreti che esistono intuitivamente. E le dimostrazioni formali contenenti formule che esprimono enunciati ideali sono successioni finite di formule, quindi sono oggetti concreti che esistono intuitivamente. Per assicurare che le dimostrazioni formali siano oggetti concreti che esistono intuitivamente, la teoria T che formalizza la matematica infinitaria innanzitutto deve essere RE perché, in virtù della proprietà delle teorie RE [V.3.3], questo assicura che si possa riconoscere nella matematica finitaria che una dimostrazione formale è una dimostrazione. Ma perché la teoria T possa considerarsi una formalizzazione adeguata della matematica infinitaria, essa deve soddisfare anche altre condizioni. a) T deve permettere di esprimere tutti i concetti della matematica infinitaria. Questo assicura che tutti «i concetti matematici sono inclusi nell’edificio della matematica come componenti formali»149. 146
Hilbert 1926, pp. 175-176. Ivi, p. 176. 148 Hilbert 1928, p. 79. 149 Hilbert 1970b, p. 165. 147
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b) T deve permettere di dimostrare tutti gli enunciati veri della matematica finitaria. Questo assicura che le regole di T sono «sufficienti nell’ambito della teoria dei numeri»150. c) T deve permettere di decidere, per ogni enunciato, se è dimostrabile o non è dimostrabile in T. Questo assicura che si può dare una risposta affermativa alla «questione della decidibilità mediante un numero finito di operazioni»151. d) T deve permettere di dimostrare tutti gli enunciati logicamente validi. Questo assicura che «le regole formalizzate del ragionamento logico sono comunque sufficienti» per dimostrare tutte «le asserzioni logiche universalmente valide»152. Tali regole devono essere quelle della logica del secondo ordine, perché la formalizzazione della matematica infinitaria richiede quantificazioni su «specie superiori di variabili»153. Solo così si può avere «la completezza dei sistemi di assiomi per la teoria dei numeri e per l’analisi», anche se essa va stabilita con un’argomentazione differente dalla «usuale argomentazione con cui si mostra che due realizzazioni qualsiasi del sistema di assiomi della teoria dei numeri, rispettivamente, dell’analisi, devono essere isomorfe», che «non soddisfa i requisiti del rigore finitario»154. Si noti che l’assunzione c) di Hilbert, che T debba permettere di decidere, per ogni enunciato, se è dimostrabile o non è dimostrabile in T, non va confusa con un’altra sua assunzione, il ‘principio della solubilità di ogni problema matematico’, secondo cui «ogni problema matematico è suscettibile di soluzione»155. Cioè, è «suscettibile di una rigorosa sistemazione, o riuscendo a dare una soluzione alla questione posta oppure mostrando l’impossibilità di una sua soluzione e quindi la necessità dell’insuccesso di ogni tentativo»156. Infatti, il principio della solubilità di ogni problema matematico non si riferisce solo alla solubilità per mezzo degli assiomi di una teoria RE data, ma alla solubilità con qualsiasi mezzo, perciò l’assunzione c) è solo un caso particolare di tale principio. In effetti Hilbert asserisce il principio della solubilità di ogni problema matematico non in relazione al programma della conservazione, ma in polemica con du BoisReymond, il quale aveva affermato che lo scienziato non può limitarsi a 150
Hilbert 1929, p. 7. Hilbert 1970a, p. 155. 152 Hilbert 1929, pp. 7-8. 153 Ivi, p. 6. 154 Ibid. 155 Hilbert 1926, p. 180. 156 Hilbert 1970c, p. 297. 151
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dire ‘ignoramus’ ma «deve, una volta per sempre, decidersi per il verdetto molto più duro da pronunciare: ignorabimus»157. E in polemica con coloro «che oggi, con un’aria da filosofi e con tono di superiorità profetizzano il tramonto della cultura e si compiacciono dello ‘ignorabimus’»158. Ciò appare evidente dal fatto che Hilbert riassume il principio della solubilità di ogni problema matematico nel motto: «In matematica non esiste alcun ‘ignorabimus’»159. Col passo 2) del programma della conservazione si dimostra, con i metodi assolutamente certi della matematica finitaria, che ogni enunciato esprimente un enunciato reale dimostrabile in T è vero. Dimostrarlo è essenziale perché solo così «l’estensione mediante aggiunta di elementi ideali è ammissibile»160. In questo modo, infatti, si assicura che ogni enunciato ideale «può essere eliminato da una dimostrazione» di un enunciato reale, «nel senso che le figure composte con esso possono essere rimpiazzate da segni numerici in modo tale che le formule» che costituiscono gli enunciati reali «si trasformano con questi rimpiazzamenti in formule ‘vere’»161. Così si è certi che gli assiomi infinitari «non possono mai portare ad un risultato dimostrabilmente falso»162. E perciò che «le asserzioni matematiche sono realmente verità incontestabili e definitive»163. Inoltre, la dimostrazione del fatto che ogni enunciato esprimente un enunciato reale dimostrabile in T è vero deve essere data nella matematica finitaria, perché «l’operare con l’infinito può essere reso sicuro solo mediante il finito»164. 2.5. Il programma della coerenza Secondo Hilbert, per realizzare il programma della conservazione basta realizzare un programma strettamente connesso con esso, detto ‘programma della coerenza’, che consta dei seguenti due passi: 1) Formalizzare la matematica infinitaria mediante una teoria T. 2) Dimostrare nella matematica finitaria che T è coerente.
157
du Bois-Reymond 1967, p. 51. Hilbert 1970e, p. 387. 159 Hilbert 1926, p. 180. 160 Hilbert 1928, p. 73. 161 Ivi, p. 82. 162 Hilbert-Bernays 1968-70, I, p. 44. 163 Hilbert 1970b, p. 162. 164 Hilbert 1926, p. 190. 158
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Col passo 1) del programma della coerenza, di nuovo, la matematica infinitaria viene rigorosamente formalizzata. Col passo 2) del programma della coerenza si dimostra, con i metodi assolutamente certi della matematica finitaria, che in T non si possono dimostrare enunciati contraddittori tra loro. Dimostrarlo è essenziale perché così si assicura che, «con l’introduzione di costrutti ideali, non possono venir fuori due enunciati che si contrappongono logicamente l’uno all’altro A, ¬A»165. Questo è importante perché in una teoria incoerente «possiamo dimostrare la falsità di ogni enunciato corretto»166. Ma, per Hilbert, dimostrare che T è coerente non serve soltanto per garantirsi che in T non si possono dimostrare enunciati contraddittori tra loro, ha anche una valenza positiva: la coerenza è una condizione necessaria e sufficiente per la verità degli assiomi di T. Infatti, «se assiomi arbitrariamente stabiliti non sono in contraddizione tra loro, con tutte le loro conseguenze, allora essi sono veri»167. E vale anche l’inverso. Dunque «‘non contraddittorio’ è identico a ‘vero’», e parimenti «’falso’ e ‘portante ad una contraddizione’ sono identici»168. La dimostrazione del fatto che T è coerente deve essere data nella matematica finitaria, di nuovo perché l’operare con l’infinito può essere reso sicuro solo mediante il finito. Mentre il programma della conservazione richiede di mostrare che tutti gli infiniti enunciati esprimenti enunciati reali dimostrabili in T sono veri, il programma della coerenza ha il vantaggio che esso richiede solo di mostrare che un singolo enunciato «non è una formula dimostrabile»169. Infatti, per l’equivalenza tra coerenza e indimostrabilità di 0 = 1 [V.2.3], per mostrare la coerenza di T basta mostrare che 0 = 1 non è dimostrabile in T. 2.6. Sufficienza del programma della coerenza Mostriamo che, come afferma Hilbert, per realizzare il programma della conservazione basta realizzare quello della coerenza. Supponiamo che i passi 1) e 2) del programma della coerenza siano realizzabili. Allora banalmente il passo 1) del programma della conservazione è realizzabile perché coincide col passo 1) del
165
Hilbert 1928, p. 74. Hilbert 1905, p. 217. 167 Hilbert 1976, p. 66. 168 Hilbert 1931b, pp. 122-123. 169 Hilbert 1928, p. 74. 166
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programma della coerenza. Mostriamo che anche il passo 2) del programma della conservazione è realizzabile. Supponiamo che esso non sia realizzabile. Allora qualche enunciato reale, quindi della forma ∀x ( f ( x ) = 0) dove f è una funzione ricorsiva primitiva [V.2.2], è dimostrabile in T ma è falso. Questo significa che, per qualche numero naturale m, nella matematica finitaria si può stabilire che f ( m ) ≠ 0 . Inoltre si può «ottenere questa equazione come formula dimostrabile, esprimendo la determinazione» della differenza tra f ( m ) e 0 «sotto forma di una dimostrazione»170. Cioè, f ( m ) ≠ 0 è dimostrabile nella matematica finitaria. Ma allora, per il passo 1) del programma della coerenza, f ( m ) ≠ 0 è dimostrabile anche in T. D’altra parte, dal fatto che ∀x ( f ( x ) = 0) è dimostrabile in T, segue in particolare che f ( m ) = 0 è dimostrabile in T. Perciò T è incoerente. Ma, per il passo 2) del programma della coerenza, T è coerente, e «la dimostrazione della coerenza mostra» questo «in modo finitario»171. Contraddizione. Se ne conclude che l’enunciato ∀x ( f ( x ) = 0) non può essere falso, e quindi deve essere vero. Pertanto il passo 2) del programma della conservazione è realizzabile. 2.7. Il debito di Hilbert verso Kant Hilbert mutua le sue principali idee sulla natura della matematica da Kant. 1) Da Kant, Hilbert mutua l’idea che nella matematica «domina una completa sicurezza del ragionamento e un manifesto accordo tra tutti i risultati»172. Tuttavia, «dovunque emergano concetti matematici», sorge «il compito di indagare i principi che stanno alla base di questi concetti»173. Infatti, «una scienza come la matematica non può sostenersi su credenze, per quanto forti esse siano, ma ha il dovere di una chiarificazione totale»174. Tale chiarificazione non serve «per consolidare singole teorie matematiche»175. Serve invece per mostrare il fondamento della loro certezza.
170
Ivi, p. 78. Ivi, p. 79. 172 Hilbert 1970b, p. 159. 173 Hilbert 1970d, p. 295. 174 Hilbert 1931a, p. 488. 175 Hilbert 1970b, p. 157. 171
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Kant, infatti, aveva detto che la matematica è conoscenza dotata di certezza apodittiche, ma ci si deve domandare come questo sia possibile e indagare il fondamento di tale possibilità [II.1.4]. 2) Da Kant, Hilbert mutua l’idea che ci è possibile avere conoscenza matematica solo di oggetti che possono essere dati «in modo immediatamente intuitivo»176. Kant, infatti, aveva detto che «ci è possibile avere conoscenza di un oggetto» solo «in quanto oggetto dell’intuizione sensibile»177. 3) Da Kant, Hilbert mutua l’idea che nondimeno nella matematica si possono usare enunciati ideali, che sono utili in quanto indirizzano meglio e più a fondo nel dimostrare enunciati reali, permettendo così di «semplificare e concludere la teoria»178. Tali enunciati ideali, e i concetti che intervengono in essi, non servono ad estendere la nostra conoscenza oltre gli oggetti reali ma svolgono «il ruolo di una idea, se per idea, secondo l’accezione di Kant, si intende un concetto della ragione che trascende ogni esperienza e per mezzo del quale il concreto viene completato in una totalità»179. Kant, infatti, aveva detto che le idee della ragion pura sono utili in quanto, anche se «per mezzo di esse non può essere determinato alcun oggetto», tuttavia per mezzo di esse l’intelletto, «nella conoscenza» degli oggetti conoscibili, «è indirizzato meglio e più a fondo»180. Tali idee non servono ad estendere «la nostra conoscenza oltre gli oggetti dell’esperienza possibile», bensì «ad esprimere l’unità sistematica che deve farci da guida nell’uso empirico della ragione»181. 4) Da Kant, Hilbert mutua l’idea che l’uso degli enunciati ideali è giustificato nella misura in cui per mezzo di essi non si può dimostrare alcun nuovo enunciato reale non dimostrabile senza di essi, perché ciò garantisce che «nel vecchio dominio sono sempre valide le relazioni che risultano per i vecchi oggetti eliminando gli oggetti ideali»182. Kant, infatti, aveva detto che l’uso delle idee della ragion pura è giustificato nella misura in cui per mezzo di esse «l’intelletto non può conoscere alcun oggetto oltre quelli conoscibili con i suoi concetti»183.
176
Ivi, p. 162. Kant 1900–, III, p. 16 (B XXVI). 178 Hilbert 1970c, p. 187. 179 Hilbert 1926, p. 190. 180 Kant 1900–, III, p. 255 (B 385). 181 Ivi, III, p. 445 (B 702-703). 182 Hilbert 1928, p. 73. 183 Kant 1900–, III, p. 255 (B 385). 177
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5) Da Kant, Hilbert mutua l’idea che, per giustificare l’uso degli enunciati ideali, basta dimostrarne la coerenza, perché «c’è una condizione, una sola ma assolutamente necessaria, alla quale è collegato l’uso» degli enunciati ideali, «e questa è la dimostrazione della non contraddittorietà»184. Kant, infatti, aveva detto che, per giustificare l’uso delle idee della ragion pura, basta dimostrare che esse sono non contraddittorie, perché «io posso pensare ciò che voglio purché non mi contraddica, ossia purché il mio concetto sia un pensiero possibile, quantunque io non possa garantire che, nell’insieme di tutte le possibilità, gli corrisponda anche un oggetto»185. 6) Da Kant, Hilbert mutua l’idea che si possa dare una risposta affermativa alla questione della «decidibilità di un problema matematico mediante un numero finito di operazioni»186. Kant, infatti, aveva detto che, nella natura di scienze come la matematica, «è implicito che ogni questione da esse sollevata debba poter ottenere immediatamente una risposta a partire da ciò che si sa», cioè dai dati, assiomi o teoremi, «per il fatto che la risposta deve essere desunta dalle fonti stesse della domanda, senza dunque che sia lecito appellarsi ad una irrimediabile ignoranza, ma dovendosi in ogni caso fornire una soluzione»187. Perciò la matematica può «richiedere e aspettarsi, rispetto a tutte le questioni che rientrano nel suo ambito (quaestiones domesticae), esclusivamente soluzioni certe, anche se per il momento non ancora disponibili»188. 2.8. Deviazioni da Kant Hilbert, però, interpreta alcune delle idee che egli mutua da Kant in modo deviante rispetto a Kant. 1) Per Hilbert, il compito di indagare il fondamento della certezza della matematica non può essere realizzato dalla filosofia ma solo dalla matematica, perché quest’ultima non dipende da alcuna autorità esterna, in particolare «per la sua fondazione non ha bisogno né del buon Dio, come Kronecker, né dell’assunzione di una particolare capacità del nostro intelletto sintonizzata col principio di induzione completa, come Poincaré, né dell’intuizione originaria di Brouwer, e neppure infine, come Russell e Whitehead, di assiomi dell’infinito, di riducibilità o di
184
Hilbert 1926, p. 179. Kant 1900–, III, p. 17 nota (B XXVI nota). 186 Hilbert 1970a, p. 153. 187 Kant 1900–, III, p. 330 (B 504). 188 Ivi, III, p. 332 (B 508). 185
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completezza»189. Specificamente, per indagare il fondamento della certezza della matematica, si deve far uso della logica matematica, che è una branca della matematica creata specificamente a tale scopo e con la quale alla «matematica vera e propria si aggiunge una matematica in certo senso nuova, una metamatematica»190. Invece, per Kant, il compito di indagare il fondamento della certezza della matematica deve essere realizzato della filosofia, perché rientra nel «problema vero e proprio della ragion pura» che «è contenuto nella domanda: Come sono possibili giudizi sintetici a priori?»191. Nella «soluzione del suddetto problema è contenuta nello stesso tempo la possibilità dell’uso puro della ragione nel fondare e nell’edificare tutte le scienze che contengono una conoscenza teoretica a priori di oggetti, cioè la risposta alle domande: Come è possibili la matematica pura? Come è possibile la fisica pura?»192. 2) Per Hilbert, gli oggetti matematici ci sono dati dall’intuizione, perché «qualcosa ci è già dato in anticipo nella rappresentazione, cioè certi oggetti concreti extra-logici che esistono intuitivamente come esperienze immediate prima di ogni pensiero»193. Invece, per Kant, gli oggetti matematici non ci sono dati dall’intuizione, ma sono costruzioni di concetti matematici, cioè esibizioni di concetti matematici nell’intuizione, perché «la conoscenza matematica è conoscenza razionale per costruzione di concetti», dove «costruire un concetto significa esibire a priori l’intuizione ad esso corrispondente»194. 3) Per Hilbert, «al posto dello stolto ‘ignorabimus’, la nostra parola d’ordine è invece: noi dobbiamo sapere, noi sapremo»195. Invece, per Kant, «la ragione umana ha il peculiare destino di essere tormentata da problemi che non può evitare, perché le sono imposti dalla sua stessa natura, ma a cui tuttavia non è in grado di dare soluzione, perché oltrepassano tutti i suoi poteri»196 2.9. Aspettative sulla realizzabilità dei programmi Hilbert era convinto che i suoi programmi fossero realizzabili, e in uno scritto pubblicato nel 1931 addirittura dichiara: «Credo di aver 189
Hilbert 1928, p. 85 Hilbert 1970b, p 174. 191 Kant 1900–, III, p. 39 (B 19). 192 Ivi, III, p. 40 (B 20). 193 Hilbert 1931a, p. 486. 194 Kant 1900–, III, p. 469 (B 741). 195 Hilbert 1970e, p. 387. 196 Kant 1900–, III, p. 7 (A VII). 190
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raggiunto completamente ciò che volevo e avevo promesso: il problema dei fondamenti della matematica in quanto tale è stato con ciò definitivamente eliminato»197. Ma il 7 settembre 1930, durante una discussione ad un convegno tenuto a Königsberg, Gödel aveva già annunciato quel suo primo teorema di incompletezza che, insieme ad altri risultati limitativi, avrebbe segnato il crollo dei programmi di Hilbert. Aveva detto, infatti, che «(sotto l’ipotesi della coerenza della matematica classica) si possono dare persino esempi di asserzioni» che «sono contenutisticamente vere» ma non sono dimostrabili nel sistema formale della matematica classica»198. 2.10. Il crollo del programma della coerenza I teoremi di incompletezza di Gödel e altri risultati limitativi implicano che nessuno dei passi dei programmi di Hilbert è realizzabile. Il passo 1) del programma della coerenza richiede di formalizzare tutta la matematica infinitaria mediante una teoria T che sia RE e soddisfi le condizioni a) - d) di [II.2.4]. Ma, per il teorema di indefinibilità della verità insiemistica [V.5.4], l’insieme dei numeri di Gödel degli enunciati del linguaggio di T che sono veri nella gerarchia cumulativa V [III.2.2] non può essere definito in V da alcuna formula di tale linguaggio. Perciò T non permette di esprimere un concetto della matematica infinitaria, ossia quello di insieme dei numeri di Gödel di tali enunciati. Dunque la condizione a) non può essere soddisfatta. Per il primo teorema di incompletezza di Gödel [V.4.2, V.4.9], se T è coerente, esiste un enunciato della forma ∀x ( f ( x ) = 0) , dove f è una funzione ricorsiva primitiva, quindi un enunciato della matematica finitaria, che è vero in N ma non è dimostrabile in T. Dunque la condizione b) non può essere soddisfatta. Anche prescindendo dalla nozione di verità in N, per il teorema di incompletezza di Rosser [V.4.6, V.4.9], se T è coerente, esiste un enunciato della forma ∀x ( f ( x ) = 0) , dove f è una funzione ricorsiva primitiva, dunque un enunciato della matematica finitaria, tale che né esso né la sua negazione sono dimostrabili in T. Dunque T non permette di determinare tutti i suoi enunciati. Per il teorema di indecidibilità [V.5.2, V.5.4], se T è coerente, T non permette di decidere, per ogni enunciato di T, se è dimostrabile o non è dimostrabile in T. Dunque la condizione c) non può essere 197 198
Hilbert 1931a, p. 494. Gödel 1986-2002, I, p. 202.
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soddisfatta. Addirittura, per il teorema di indecidibilità della logica del secondo ordine [V.7.3], gli assiomi logici e le regole di deduzione logiche della logica del secondo ordine non permettono di decidere se un enunciato del secondo ordine è logicamente valido, e, per il teorema di Church [V.5.3], lo stesso vale per gli assiomi logici e regole di deduzione logiche della logica del primo ordine. Per un corollario del teorema di incompletezza forte della logica del secondo ordine [V.7.6], non esiste alcun insieme di assiomi logici e regole di deduzione logiche della logica del secondo ordine che sia RE e tale che tutti gli enunciati logicamente validi siano dimostrabili per mezzo di tali assiomi logici e regole di deduzione logiche. Quindi la condizione d) non può essere soddisfatta. Ne segue che il passo 1) del programma della coerenza non può essere realizzato. Per stabilirlo basterebbe che non potesse essere soddisfatta una delle condizioni a) - d), ma il fatto che non possa essere soddisfatta nessuna di esse lo stabilisce ad abundantiam. Il passo 2) del programma della coerenza richiede di dimostrare nella matematica finitaria che T è coerente. Ma questa condizione non può essere soddisfatta perché, per il secondo teorema di incompletezza di Gödel [V.4.4, V.4.9], se T è coerente, l’enunciato ConT che esprime canonicamente la coerenza di T non è dimostrabile in T. Per dimostrarlo c’è «sempre bisogno di qualche metodo dimostrativo che trascende il sistema»199. Non essendo dimostrabile in T, a maggior ragione ConT non è dimostrabile nella matematica finitaria, perché quest’ultima è una parte propria della matematica infinitaria e, per il passo 1) del programma della coerenza, T deve contenere tutta la matematica infinitaria. Poiché il requisito di dimostrare nella matematica finitaria che T è coerente non può essere soddisfatto, ne segue che il passo 2) del programma della coerenza non può essere realizzato. 2.11. L’obiezione di Detlefsen Questa conclusione si fonda sul secondo teorema di incompletezza di Gödel, la cui validità dipende in modo essenziale dal requisito che l’enunciato ConT che esprime la coerenza di T la esprima canonicamente [V.4.4]. Senza tale requisito, «la coerenza (nel senso della indimostrabilità di una proposizione e della sua negazione), anche di sistemi T molto forti, può essere dimostrabile in T»200. Infatti,
199 200
Ivi, III, p. 34 Ivi, II, p. 305.
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esistono enunciati Con′T che esprimono la coerenza di T ma non canonicamente, i quali sono dimostrabili in T [V.4.5]. Detlefsen ha perciò obiettato che il secondo teorema di incompletezza di Gödel non prova conclusivamente che il passo 2) del programma della coerenza non può essere realizzato. La condizione che l’enunciato ConT che esprime la coerenza di T debba esprimerla canonicamente non è «qualcosa a cui l’hilbertiano è impegnato dalla natura della sua impresa» perché «non esiste alcuna ragione» per supporlo, e perciò non si può dire che il secondo teorema di incompletezza di Gödel «si applichi al programma di Hilbert in sé»201. Come vedremo, però, anche se l’obiezione di Detlefsen fosse valida, questo non salverebbe il programma della coerenza dal crollo. 2.12. Il crollo del programma della conservazione Si può infatti dimostrare che il passo 2) del programma della conservazione non può essere realizzato, senza far uso del secondo teorema di incompletezza di Gödel. Il passo 2) del programma della conservazione richiede di dimostrare nella matematica finitaria che T è esternamente coerente. Ma questa condizione non può essere soddisfatta perché, per il terzo teorema di incompletezza di Gödel [V.4.7], se T è coerente, l’enunciato ExtConT che esprime la coerenza esterna di T non è dimostrabile in T. Non essendo dimostrabile in T, a maggior ragione ExtConT non è dimostrabile nella matematica finitaria, perché quest’ultima è una parte propria della matematica infinitaria e, per il passo 1) del programma della conservazione, T deve contenere tutta la matematica infinitaria. La validità del terzo teorema di incompletezza di Gödel non dipende da alcuno speciale requisito su ExtConT. Contro questa conclusione non si può dunque avanzare un’obiezione simile a quella di Detlefsen [II.2.11]. Perciò Gödel afferma che il terzo teorema di incompletezza è «la versione migliore e più generale dell’indimostrabilità della coerenza nel sistema»202. Poiché il requisito di dimostrare nella matematica finitaria che T è esternamente coerente non può essere soddisfatto, ne segue che il passo 2) del programma della conservazione non può essere realizzato. D’altra parte neppure il passo 1) del programma della conservazione può essere realizzato, perché coincide col passo 1) del programma della
201 202
Detlefsen 1990, 345. Gödel 1986-2002, II, p. 305.
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coerenza, che, come abbiamo visto, non può essere realizzato. Pertanto il programma della conservazione non può essere realizzato. Ma allora neppure il programma della coerenza può essere realizzato, perché, come abbiamo visto, per realizzare il programma della conservazione, basta realizzare il programma della coerenza. 2.13. Inadeguatezza della coerenza Un ulteriore limite dei programmi di Hilbert è che, secondo Hilbert, la coerenza è una condizione necessaria e sufficiente per la verità degli assiomi di T [II.2.5]. Ma questo è smentito dal fatto che, per il teorema dell’esistenza di teorie coerenti false [V.4.3], la coerenza non è una condizione sufficiente per la verità degli assiomi di T. 2.14. Le ragioni di Kant I teoremi di incompletezza di Gödel segnano il crollo dei programmi della conservazione e della coerenza. Ma, indipendentemente da essi, già alcuni indizi avrebbero permesso ad Hilbert di rendersi conto dell’intrinseca debolezza dei suoi programmi. 1) Il primo teorema di incompletezza di Gödel [V.4.2, V.4.9] mostra che nessuna teoria T mediante la quale si formalizzi la matematica infinitaria permette di dimostrare tutte le verità matematiche. Ma Hilbert non aveva bisogno di Gödel per rendersi conto di questo. Infatti, già Kant aveva affermato che nella geometria il matematico «arriva ad una soluzione del problema illuminante e nello stesso tempo generale» non semplicemente deducendo conseguenze dagli assiomi, ma «attraverso una catene di inferenze che è sempre guidata dall’intuizione»203. Dunque nella dimostrazione di teoremi geometrici abbiamo bisogno dell’intuizione, e perciò una deduzione puramente logica di ogni teorema geometrica da assiomi è impossibile. E Gödel sottolinea che, sebbene questa affermazione di Kant sia «scorretta se presa alla lettera», cioè se riferita alla geometria, nondimeno, se in essa «sostituiamo il termine ‘geometrico’ con ‘matematico’ o ‘insiemistico’, allora diventa una proposizione dimostrabilmente vera»204. 2) Il secondo e il terzo teorema di incompletezza di Gödel [V.4.4, V.4.7, V.4.9] mostrano che nessuna teoria T mediante la quale si formalizzi la matematica infinitaria può essere giustificata mediante i 203 204
Kant 1900–, p. 471 (B 745-746). Gödel 1986-2002, III, p. 385.
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metodi della matematica finitaria. Perciò gli enunciati ideali e i concetti che intervengono in essi – che corrispondono a ciò che Kant chiamava le idee della ragion pura – non ammettono alcuna giustificazione assoluta. Ma Hilbert non aveva bisogno di Gödel per rendersi conto di questo. Infatti, già Kant aveva sottolineato che «non è propriamente possibile alcuna deduzione oggettiva» delle idee della ragion pura, perché esse «non intrattengono alcun rapporto con un qualsiasi oggetto che possa essere dato in modo adeguato, e ciò appunto perché non si tratta che di idee»205. Per ‘deduzione’ Kant intende qui ‘giustificazione’ e ‘legittimazione’, perché usa tale termine nel senso dei giuristi, i quali chiamano la prova «che deve dimostrare la legittimità o anche la pretesa giuridica, ‘deduzione’»206. Dunque, affermando che per le idee della ragion pura non è propriamente possibile alcuna deduzione oggettiva, Kant vuole dire che per esse non è possibile alcuna giustificazione assoluta. Le idee della ragion pura vengono assunte solo «come principi euristici, e senza che si pretenda di poterne dare una deduzione trascendentale»207. Di esse si può dare solo «una deduzione soggettiva»208. Un’eventuale fallacia che si annidi in esse «non può venir contenuta nei suoi limiti per mezzo di alcuna indagine oggettiva e dogmatica delle cose» perché una tale indagine è impossibile, «ma solo per mezzo di un’indagine soggettiva sulla ragione stessa, in quanto la fonte delle idee»209. 3) Il teorema dell’esistenza di teorie coerenti false [V.4.3], che è un corollario del primo teorema di incompletezza di Gödel, mostra che la coerenza non è una condizione sufficiente per la verità degli assiomi di una teoria T mediante la quale si formalizzi la matematica infinitaria. Ma Hilbert non aveva bisogno di Gödel per rendersi conto di questo. Infatti, già Kant aveva sottolineato che «è certamente una condizione logica necessaria» che un dato concetto «non debba contenere alcuna contraddizione; ma questo non è affatto sufficiente a garantire la realtà oggettiva del concetto, ossia la possibilità dell’oggetto che viene pensato mediante il concetto»210. Infatti, «un nostro giudizio può essere esente da contraddizioni e tuttavia unire i concetti in un modo contrastante con l’oggetto; e dunque può unirli anche se manca un fondamento che giustifichi, a priori o a posteriori, 205
Kant 1900–, III, p. 259 (B 393). Ivi, III, p. 99 (B 116). 207 Ivi, III, p. 439 (B 691-692). 208 Ibid. 209 Ivi, IV, p. 329. 210 Ivi, III, p. 187 (B 267-268). 206
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tale giudizio. In tal caso il giudizio, pur essendo esente da ogni contraddizione interna, può essere falso o infondato»211. 2.15. La reazione finale di Hilbert La portata distruttiva dei risultati di Gödel per i programmi di Hilbert non venne riconosciuta da Hilbert. Egli infatti dichiarò che «si è dimostrata errata l’opinione temporaneamente accolta che da certi nuovi risultati di Gödel segua l’impraticabilità della mia teoria»212. Da essi segue soltanto che, «per lo sviluppo della dimostrazione di coerenza, si deve utilizzare il punto di vista finitario in un modo più acuto di quanto è richiesto dalla trattazione di formalismi elementari»213. A tale scopo basta «estendere la precedente delimitazione del punto di vista finitario»214. Cioè, basta ammettere che la matematica finitaria vada oltre quella formalizzata nell’aritmetica ricorsiva primitiva PRA. Ma non è così. Infatti, per il primo teorema di incompletezza di Gödel [V.4.2, V.4.9], se la teoria T mediante la quale si formalizza la matematica infinitaria è coerente, esisterà comunque un enunciato della forma ∀x ( f ( x ) = 0) , dove f è una funzione ricorsiva primitiva, vero ma non dimostrabile in T, e tale enunciato ovviamente sarà finitario anche nel senso esteso. Inoltre, per il secondo teorema di incompletezza di Gödel [V.4.4], se T è coerente, l’enunciato ConT che esprime canonicamente la coerenza di T non sarà dimostrabile in T, cioè nella matematica infinitaria, e quindi neppure nella matematica finitaria nel senso esteso, che sarà comunque una parte di quella formalizzata da T. Dunque i risultati di Gödel segnano davvero il crollo dei programmi di Hilbert, e per questi non vi è alcuna possibilità di salvezza. In definitiva, dunque, Hilbert mutuò le sue principali idee sulla matematica da Kant, e il suo unico contributo originale alla filosofia della matematica – che era di natura tecnica: il progetto di dimostrare nella matematica finitaria la coerenza di una formalizzazione di tutta la matematica – si risolse in un fallimento. 3. Brouwer 3.1. Le motivazioni di Brouwer
211
Ivi, III, p. 141 (B 190). Hilbert-Bernays 1968-70, I, p. VII. 213 Ibid. 214 Ivi, II, p. VII. 212
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Anche secondo Brouwer (1881-1966) il compito della filosofia della matematica è indagare il fondamento della certezza della matematica. Ma per lui la matematica esistente non è assolutamente certa nella sua totalità. Questo dipende dal fatto che, per dare una fondazione dell’analisi infinitesimale, Weierstrass, Dedekind e Cantor hanno introdotto oggetti e metodi astratti che non possono essere dati dall’intuizione, e nelle dimostrazioni hanno fatto uso del principio del terzo escluso che non può essere giustificato dall’intuizione. Alcuni, come Hilbert, hanno sperato che «la scienza matematica eretta secondo i loro principi sarebbe stata coronata un giorno da una dimostrazione di non contraddittorietà», ma questa speranza «non è mai stata soddisfatta e oggi, visti i risultati di certe indagini degli ultimissimi decenni, è stata», sembra, «abbandonata»215. Si deve perciò lasciar perdere la ‘matematica classica’, cioè la matematica risultante dalla fondazione di Weierstrass, Dedekind e Cantor, e riconoscere che «non può esistere alcuna matematica che non sia stata costruita intuitivamente»216. Un oggetto o metodo è legittimo se e solo se si può darne una costruzione basata sull’intuizione, perché l’unico «possibile fondamento della matematica va ricercato in questa costruzione»217. Parimenti, un enunciato matematico è vero se e solo se si può darne una dimostrazione, perché non si possono ammettere «verità prima che tali verità siano state esperite»218. 3.2. Il programma di Brouwer Abbandonare la matematica classica comporta ricostruire «daccapo parecchie teorie della matematica vera e propria con incrollabile certezza»219. In particolare, si deve dare una nuova fondazione dell’analisi infinitesimale in cui si usino solo oggetti e metodi che possono essere dati dall’intuizione, e nelle dimostrazioni si usino solo principi che possono essere giustificati dall’intuizione. Si deve quindi sviluppare una nuova matematica, alternativa a quella classica, la quale, per il ruolo che vi dovrà avere l’intuizione, può dirsi ‘matematica intuizionista’. Non essendo semplicemente una restrizione della matematica classica ma avendo oggetti e metodi suoi
215
Brouwer 1975, p. 508. Ivi, p. 52. 217 Ibid. 218 Ivi, p. 488. 219 Ivi, p. 412. 216
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propri, la matematica intuizionista non sarà confrontabile con quella classica. Questo è il programma di Brouwer, che egli cercò di realizzare, ed effettivamente realizzò, per alcuni decenni, ricostruendo daccapo parecchie teorie della matematica classica in base ai suoi principi. 3.3. Il rifiuto del principio del terzo escluso Uno degli aspetti più noti del programma di Brouwer è il rifiuto del principio del terzo escluso. Tale principio «asserisce che ogni supposizione è vera o falsa», il che per Brouwer significa che ogni supposizione, o «si può» stabilirla «mediante una costruzione oppure si può arrivare, mediante una costruzione, all’arresto del processo»220. Cioè, o si può dimostrarla oppure si può mostrare che la supposizione che si possa dimostrarla porta ad un’assurdità. Ma allora «ogni asserzione matematica» che non è stata dimostrata, e per la quale non si sa mostrare che la supposizione che essa sia dimostrabile porta ad un’assurdità, «dà luogo ad una confutazione del principio del terzo escluso»221. Tale è il caso, ad esempio, della congettura di Goldbach, ‘Ogni numero pari maggiore di 2 è la somma di due numeri primi’. Il principio del terzo escluso, inteso come lo intende Brouwer, è equivalente al principio di Hilbert della solubilità di ogni problema matematico [II.2.4]. Infatti, dire che ogni supposizione, o si può dimostrarla oppure si può mostrare che la supposizione che si possa dimostrarla porta ad un’assurdità, equivale a dire che ogni problema matematico è solubile. Questo viene sottolineato da Brouwer dicendo che «la questione della validità del principio del terzo escluso è equivalente alla questione se possano esistere problemi matematici insolubili»222. Se, come Hilbert, si è ottimisti sulle capacità umane e si ritiene che ogni problema matematico è suscettibile di soluzione, allora il principio del terzo escluso sarà ammissibile. Si dirà che tale principio «non ha mai prodotto il minimo errore», in particolare «non ha la minima colpa per la comparsa dei noti paradossi della teoria degli insiemi», e che negare al matematico l’uso di tale principio «sarebbe come vietare all’astronomo il telescopio o al pugile l’uso dei pugni»223. E ci si meraviglierà del fatto che «un matematico possa dubitare della rigorosa validità» del principio in questione, e che, sotto l’influenza di Brouwer, 220
Ivi, p. 109. Ivi, p. 552. 222 Ivi, p. 109. 223 Hilbert 1928, p. 80. 221
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«un’intera comunità di matematici si sia oggi ritrovata a fare questo», il che mostra che «la capacità di suggestione di un singolo uomo, dotato di un forte carattere e ricco ingegno, riesce ad esercitare la più improbabili ed eccentriche influenze»224. Se invece, come Brouwer, si è pessimisti sulle capacità umane e si ritiene che «non vi è ombra di prova per la convinzione» che «non esistano problemi matematici insolubili», allora il principio del terzo escluso non sarà ammissibile, non essendo «affidabile come principio di ragionamento»225. Si dirà che la credenza nella validità di tale principio è «un fenomeno della storia della civiltà dello stesso tipo della credenza di un tempo nella razionalità di π o nella rotazione del firmamento su un asse passante per la terra»226. 3.4. La nozione intuizionista di dimostrazione Se il rifiuto del principio del terzo escluso è uno degli aspetti più noti del programma di Brouwer, la nozione di dimostrazione di Brouwer è uno degli aspetti meno noti e meno compresi di tale programma. Secondo un’opinione diffusa, Brouwer rifiuterebbe il metodo assiomatico riducendo la dimostrazione matematica ad un’illuminazione. Ma tale opinione è contraddetta dal fatto che Brouwer definisce la «matematica intuizionista» come una matematica che «deduce teoremi», sebbene li deduca «esclusivamente per mezzo della costruzione introspettiva»227. Cioè, la matematica intuizionista è una matematica che deduce teoremi da assiomi basati sull’intuizione, mediante deduzioni basate sull’intuizione. Ciò che Brouwer rifiuta non è dunque il metodo assiomatico, ma solo il metodo assiomatico formale di Hilbert, che deduce teoremi mediante dimostrazioni formali le quali possono contenere formule che non significano niente, e perciò non poggiano sull’intuizione. Secondo Brouwer, per assicurare l’affidabilità dei ragionamenti matematici, si deve partire da assiomi basati sull’intuizione e proseguire mediante inferenze deduttive anch’esse basate sull’intuizione. È quanto fanno le dimostrazioni di Euclide, che accompagnano «il passaggio, per mezzo di una catena di tautologie, da relazioni (cioè, sottostrutture) chiaramente percepite» mediante l’intuizione, «a nuove relazioni che non sono percepite immediatamente»228.
224
Ivi, pp. 80-81. Brouwer 1975, p. 109. 226 Ivi, p. 492. 227 Ivi, p. 488. 228 Ivi, p. 76. 225
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In generale, in una dimostrazione matematica «si comincia costruendo una struttura che soddisfa parte delle relazioni richieste», cioè, costruendo assiomi basandosi sull’intuizione, «poi si cerca di dedurre da queste relazioni, per mezzo di tautologie, altre relazioni» sempre basandosi sull’intuizione, «in modo che queste nuove relazioni, combinate con quelle che non sono ancora state usate, diano luogo ad un sistema di condizioni adatto come punto di partenza per la costruzione della struttura richiesta»229. Dunque per Brouwer le dimostrazioni matematiche sono dimostrazioni assiomatiche, sebbene assiomatiche non nel senso di Hilbert ma nel senso di Euclide. Questo è confermato da Heyting – il principale allievo e continuatore di Brouwer – il quale afferma che «il metodo assiomatico è», nella matematica intuizionista, «uno strumento altrettanto importante che nella matematica classica»230. A condizione, naturalmente, che esso venga usato, come Euclide, per descrivere oggetti matematici che sono considerati esistenti in quanto basati sull’intuizione, e non, come Hilbert, per introdurre oggetti matematici che non hanno alcuna base nell’intuizione, perché nella matematica intuizionista «un oggetto matematico viene considerato esistente solo dopo la sua costruzione», e perciò «non può essere portato in essere da un sistema di assiomi»231. 3.5. I due atti dell’intuizionismo Secondo Brouwer, l’intuizionismo si basa su due assunzioni fondamentali o «atti»232. Il primo atto dell’intuizionismo «riconosce che la matematica intuizionista è un’attività essenzialmente alinguistica della mente che ha la sua origine nella percezione di un passaggio di tempo, cioè nello scindersi di un momento di vita in due cose distinte, una delle quali cede il passo all’altra, ma è conservata dalla memoria»233. Se «la duità così nata viene spogliata di tutte le qualità, rimane la forma vuota del sostrato comune di tutte le duità», ed «è questo sostrato comune, questa forma vuota, che è l’intuizione base della matematica»234. Dunque «il fenomeno base» della matematica «è la semplice intuizione del tempo»235. 229
Ibid. Heyting 1962, p. 240. 231 Ivi, p. 239. 232 Brouwer 1975, p. 509. 233 Ivi, p. 510. 234 Ibid. 235 Ivi, p. 53. 230
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Il primo atto dell’intuizionismo «crea non solo i numeri uno e due, ma anche tutti i numeri ordinali finiti, in quanto uno degli elementi della duità può essere pensato come una nuova duità, e questo processo può essere ripetuto indefinitamente»236. Perciò il primo atto dell’intuizionismo sta alla base dell’aritmetica dei numeri naturali. Col primo atto dell’intuizionismo si possono generare però solo «successioni infinite predeterminate che, come quelle classiche, procedono in modo che il loro m-esimo termine è fissato dall’inizio per ogni m»237. Questo potrebbe far temere che «la matematica intuizionista debba necessariamente essere povera e anemica, e in particolare che in essa non vi sia posto per l’analisi» matematica, «ma non è così; al contrario, un campo di sviluppo molto più ampio, che comprende l’analisi, e in molto punti va ben oltre le frontiere della matematica classica, viene aperto dal secondo atto dell’intuizionismo»238. Il secondo atto dell’intuizionismo «riconosce la possibilità di generare nuovi enti matematici: in primo luogo, sotto forma» di successioni di scelte, cioè «di successioni che proseguono all’infinito» i cui «termini sono scelti più o meno liberamente tra enti matematici precedentemente acquisiti»; e, «in secondo luogo, sotto forma di specie matematiche, cioè di proprietà ipotizzabili per enti matematici precedentemente acquisiti», che «si dicono elementi della specie»239. Il secondo atto dell’intuizionismo «crea la possibilità di introdurre il continuo intuizionista come la specie delle successioni infinite convergenti di numeri razionali che proseguono più o meno liberamente»240. Vedremo in seguito come il secondo atto dell’intuizionismo crei tale possibilità. 3.6. Il debito di Brouwer verso Kant Anche Brouwer mutua le sue principali idee sulla natura della matematica da Kant. 1) Da Kant, Brouwer mutua l’idea che non può esistere alcuna matematica che non sia stata costruita intuitivamente, in particolare che «una costruzione logica della matematica, indipendente dall’intuizione matematica, è impossibile»241.
236
Ivi, pp. 127-128. Ivi, p. 511. 238 Ibid. 239 Ibid. 240 Ivi, pp. 511-512. 241 Ivi, p. 97. 237
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Kant, infatti, aveva detto che la matematica «non può concludere nulla col semplice concetto, e si volge subito all’intuizione per considerarvi il concetto in concreto»242. 2) Da Kant, Brouwer mutua l’idea che l’intuizione base della matematica, che crea i numeri naturali, è l’intuizione temporale, sicché «l’apriorità del tempo» qualifica «le proprietà dell’aritmetica come giudizi sintetici a priori»243. Kant, infatti, aveva detto che la matematica «riesce a costruire i suoi concetti di numero mediante una successiva aggiunta delle unità nel tempo»244. 3) Da Kant, Brouwer mutua l’idea che la costruzione intuitiva della matematica non ha nulla di psicologico, perciò «le interpretazioni psicologistiche della matematica intuizionista, per quanto interessanti, non possono mai essere adeguate»245. Kant, infatti, aveva detto che la costruzione di concetti in cui consiste la matematica non ha nulla di psicologico, perché «non esiste una psicologia razionale come dottrina capace di incrementare la conoscenza»246. 4) Da Kant, Brouwer mutua l’idea che la dimostrazione matematica parte da verità immediate (assiomi) basate sull’intuizione, e prosegue per mezzo di inferenze deduttive basate sull’intuizione. Dunque le dimostrazioni matematiche sono dimostrazioni assiomatiche [II.3.4]. Kant, infatti, aveva detto che la dimostrazione parte da assiomi che sono proposizioni fondamentali le quali «possono essere esibite nell’intuizione»247. E prosegue con inferenze deduttive immediate fondate sull’intuizione, perché «non è possibile che essa proceda di un passo se le manca l’intuizione pura»248. Dunque le dimostrazioni matematiche sono dimostrazioni assiomatiche. Che ogni passo di una dimostrazione si fondi sull’intuizione mostra che le dimostrazioni, «come il loro stesso nome sta a significare, procedono nell’intuizione dell’oggetto»249. Il nome ‘dimostrazione’ «viene da ‘monstrare’, mostrare, porre dinanzi agli occhi. Perciò esso può essere usato in senso proprio e reale solo per prove in cui l’oggetto viene presentato 242
Kant 1900–, III, p. 470 (B 743-744). Brouwer 1975, p. 128. 244 Kant 1900–, IV, p. 283. 245 Brouwer 2004, p. 76. 246 Kant 1900–, III, p. 274 (B 421). 247 Ivi, IX, 110. 248 Ivi, IV, p. 283. 249 Ivi, III, p. 482 (B 763). 243
49
nell’intuizione e in cui la verità viene conosciuta non solo in modo discorsivo ma anche intuitivo»250. 3.7. Le deviazioni da Kant Anche Brouwer, però, interpreta alcune delle idee che egli mutua da Kant in modo deviante rispetto a Kant. 1) Per Brouwer, l’intuizione temporale «genera successivamente ciascun numero naturale, la successione procedente all’infinito dei numeri naturali»251. Invece, per Kant, il numero è «lo schema puro della quantità», e «consiste in una rappresentazione che abbraccia la successiva aggiunta di uno ad uno (omogenei)», perciò «non è altro che l’unità della sintesi del molteplice di una intuizione omogenea in generale, per il fatto che io genero il tempo stesso nell’apprensione dell’intuizione»252. Essendo uno schema, il numero non è generato dall’intuizione temporale. 2) Per Brouwer, le successioni di scelte sono date nell’intuizione temporale in quanto incorporano una delle caratteristiche centrali di quest’ultima, cioè il carattere aperto del futuro, perché lo sviluppo delle successioni di scelte non è predeterminato ma ad ogni passo i loro «termini sono scelti più o meno liberamente tra enti matematici precedentemente acquisiti»253. Invece, per Kant, una successione che procede in indefinitum non può mai essere data «nell’intuizione (come un tutto)»254. È solo un processo «continuato indeterminatamente (in indefinitum)»255. Tale processo obbedisce sì «ad una regola, la quale porta da qualsiasi membro della successione, in quanto condizionato, ad un membro più remoto»256. Ma essa non conduce ad uno sviluppo ben determinato, «si limita a dire che, per quanto possiamo aver proceduto nella serie delle condizioni empiriche, non ci è mai lecito ammettere un limite assoluto»257. Perciò non determina l’oggetto nella sua totalità. Per questo motivo lo sviluppo di una tale successione non può essere «dato in un’intuizione collettiva»258.
250
Ivi, XXIV, p. 894. Brouwer 1975, p. 523. 252 Kant 1900–, III, p. 137 (B 182). 253 Brouwer 1975, p. 523. 254 Kant 1900–, III, p. 355 (B 547). 255 Ivi, III, p. 354 (B 546). 256 Ivi, III, p. 356 (B 549). 257 Ivi, III, p. 355 (B 547). 258 Ivi, III, p. 357 (B 551). 251
50
3) Per Brouwer, l’intuizione temporale è il fondamento non solo dell’aritmetica ma anche della geometria, perché alla scoperta della geometria non euclidea si può rispondere solo «abbandonando l’apriorità dello spazio di Kant e aderendo ancor più risolutamente all’apriorità del tempo»259. È «da questa intuizione del tempo, indipendente dall’esperienza», che «sono stati costruiti tutti i sistemi matematici, inclusi gli spazi con le loro geometrie»260. Invece, per Kant, «la geometria pone a fondamento l’intuizione pura dello spazio»261. 4) Per Brouwer, il principio del terzo escluso non vale perché ogni asserto matematico che non è stato dimostrato vero né è stato dimostrato falso, e per il quale non conosciamo alcun metodo che permetta di dimostrare che è vero oppure che è falso, dà luogo ad una confutazione del principio del terzo escluso [II.3.3]. Invece, per Kant, il principio del terzo escluso vale perché è su di esso che «si fonda la necessità (logica) di una conoscenza – il fatto che la si debba giudicare necessariamente così e non altrimenti, cioè che l’opposto sia falso – per giudizi apodittici»262. 5) Per Brouwer, la matematica «è una costruzione mentale essenzialmente indipendente dal linguaggio»263. Le parole di una «dimostrazione matematica semplicemente accompagnano una costruzione matematica che è effettuata senza parole»264. Invece, per Kant, la matematica è un’attività che si basa sul linguaggio, perché è conoscenza razionale per costruzione di concetti, e i concetti, così come i giudizi di cui fanno parte, si basano in modo essenziale sul linguaggio, perché «senza parole noi non giudicheremmo affatto»265. Infatti, «come potete pensare i giudizi senza parole?»266. 3.8. Il continuo intuizionista Vediamo ora come il secondo atto dell’intuizionismo crei la possibilità di introdurre il continuo intuizionista come la specie delle successioni infinite convergenti di numeri razionali che proseguono più o meno liberamente.
259
Brouwer 1975, p. 127. Ivi, p. 116. 261 Kant 1900–, IV, p. 283. 262 Ivi, IX, p. 53. 263 Brouwer 1975, p. 477. 264 Ivi, p. 73. 265 Kant 1900–, IX, p. 109. 266 Ivi, XXIV, p. 934. 260
51
Chiamiamo ‘successione fondamentale’ una successione di scelte r1 , r2 , r3 ,... di numeri razionali tale che ∀k ∃n∀m∀p( rn + m − rn + p < 2 − k ) . Cioè r1 , r2 , r3 ,... è tale che, per ogni k, da un certo punto n in poi, i membri della successione r1 , r2 , r3 ,... avranno tra loro una distanza minore di 2 − k . Diciamo che
due
successioni
fondamentali
r1 , r2 , r3 ,...
e
s1 , s2 , s3 ,... ‘coincidono’ se e solo se −k
∀k ∃n∀m ( rn + m − sn + m < 2 ) .
Cioè r1 , r2 , r3 ,... e s1 , s2 , s3 ,... sono tali che, per ogni k, da un certo punto n in poi, i membri corrispondenti delle successioni r1 , r2 , r3 ,... e s1 , s2 , s3 ,... avranno tra loro una distanza minore di 2 − k .
Chiamiamo ‘numero reale’ la specie delle successioni fondamentali che coincidono con una data successione fondamentale. Cioè un numero reale è la proprietà di coincidere con una data successione fondamentale. Ogni successione fondamentale r1 , r2 , r3 ,... determina un numero reale r, cioè la specie delle successioni fondamentali che coincidono con tale successione fondamentale. Per esempio la successione fondamentale 1, 1.4, 1.41, 1.414, 1.4142, 1.41421, ... . determina il numero reale 2 , che è la specie delle successioni fondamentali che coincidono con tale successione fondamentale. A questa specie appartiene anche, ad esempio, la successione fondamentale 2, 1.5, 1.42, 1.415, 1.4143, 1.41422, … perché essa coincide, nel senso già definito, con la successione fondamentale precedente. Chiamiamo ‘continuo intuizionista’ la specie dei numeri reali. Cioè il continuo intuizionista è la proprietà di essere un numero reale. Questa definizione del continuo intuizionista si basa sulle nozioni di successione di scelte e di specie, perciò è resa possibile dal secondo atto dell’intuizionismo.
52
3.9. Il teorema di continuità Un risultato fondamentale della matematica intuizionista è il teorema di continuità. Una funzione f dai numeri reali ai numeri reali si dice ‘continua’ se soddisfa la condizione: ∀k ∀x∃m∀y ( x − y < 2
−m
−k
→ f ( x) − f ( y) < 2 ) .
Dunque una funzione continua è una funzione il cui grafico è dato una curva che non presenta interruzioni né salti. Il teorema di continuità asserisce allora che tutte le funzioni definite ovunque sui numeri reali sono continue. Tale teorema non vale nella matematica classica, nella quale esistono funzioni definite ovunque e discontinue. Quindi il teorema di continuità fornisce un esempio di teorema che vale nella matematica intuizionista ma non in quella classica. Viceversa, vi sono teoremi che valgono nella matematica classica ma non in quella intuizionista. Un esempio è dato dal teorema di Bolzano-Weierstrass Ne segue che la matematica intuizionista e la matematica classica non sono confrontabili tra loro, nel senso che «enti matematici riconosciuti» sia dalla matematica intuizionista sia da quella classica «soddisfano teoremi che per l’altra scuola sono o falsi, o privi di senso, o anche in un certo modo contraddittori»267. La loro non confrontabilità dipende dal fatto che la matematica intuizionista non applica il principio del terzo escluso, ma ammette successioni che proseguono all’infinito i cui termini sono scelti più o meno liberamente, e viceversa la matematica classica «applica il principio del terzo escluso», ma «si limita a successioni infinite predeterminate per le quali l’n-esimo elemento è fissato dall’inizio per ogni n»268. 3.10. I limiti del programma di Brouwer Anche il programma di Brouwer di costruire un nuovo tipo di matematica è fallito, non perché egli non sia riuscito a realizzarlo, ma perché la matematica intuizionista non costituisce una valida alternativa alla matematica classica. Una prova di ciò è data dal fatto che, nella matematica intuizionista non esistono certi oggetti matematici che sono importanti per la fisica, per esempio «non esiste alcuna funzione definita ovunque» 267 268
Brouwer 1975, p. 489. Ivi, p. 488.
53
sui numeri reali e «discontinua»269. Ciò segue dal teorema di continuità, per il quale tutte le funzioni definite ovunque sui numeri reali sono continue. Questo non significa che nella matematica intuizionista non esistano funzioni discontinue. In essa «si possono considerare funzioni che sono definite su sottospecie ovunque dense del continuo» e che «possono benissimo essere discontinue»270. Tuttavia in essa non esistono funzioni definite ovunque sui numeri reali e discontinue. Che nella matematica intuizionista non esistano funzioni definite ovunque sui numeri reali e discontinue può essere anche visto, senza ricorrere al teorema di continuità, mediante il seguente controesempio. Sia f la funzione definita da:
⎧0 se x = 0 f ( x) = ⎨ , per ogni numero reale x. ⎩1 se x ≠ 0 Tale funzione f è discontinua nel punto x = 0 perché, come mostra la seguente figura,
y f(x) 0
x
la curva che costituisce il grafico di f presenta un salto nel punto x = 0 . Facciamo vedere che, nella matematica intuizionista, la funzione f non esiste. Infatti, supponiamo che f esista. Sia A(n ) una proprietà dei numeri naturali tale che, per ogni n, si sa se vale A(n ) ma non se vale ∀nA( n ) , perciò non si può decidere ∀nA( n ) ∨ ¬∀nA( n ) . Per esempio, si può prendere come A(n ) la proprietà ‘ 2 n + 4 è la somma di due numeri primi’ perché, per tale A(n ) , ∀nA( n ) esprime la congettura di
269 270
Ivi, p. 558. Ibid.
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Goldbach, ‘Ogni numero pari maggiore di 2 è la somma di due numeri primi’. Definiamo allora una successione r1 , r2 , r3 ,... di numeri razionali nel modo seguente: rn =
Cioè
⎧⎪2- n se ∀k ≤ nA( k ), ⎨ -k ⎪⎩2 se ¬A( k ) ∧ k ≤ n ∧ ∀m < kA( m ). r1 , r2 , r3 ,... è tale che, se vale ∀nA( n ) , allora r1 , r2 , r3 ,... è
1,1 2 ,1 3,1 4,... , ma se ad un certo punto si trova un k tale che k
k
k
¬A(k ) , allora r1 , r2 , r3 ,... è 1,1 2 ,1 3,1 4,...,1 / 2 ,1 / 2 ,1 / 2 ,...
È facile vedere che ∀n ≥ m( rn − rm < 2 − m ) , perciò r1 , r2 , r3 ,... è una successione fondamentale. Dunque r1 , r2 , r3 ,... determina un numero reale r, cioè la specie delle successioni fondamentali che coincidono con r1 , r2 , r3 ,... . Per tale numero reale r vale: (1) r = 0 ↔ ∀nA( n ) . Infatti, per la definizione di r1 , r2 , r3 ,... , se ∀nA( n ) , allora ovviamente r = 0 ; viceversa, se r = 0 , allora necessariamente, per tutti gli n, rn +1 < 2 − n , e perciò, per tutti gli n, A( n ) , cioè ∀nA( n ) . Poiché la funzione f esiste, si può calcolare il valore di f ( x ) per ogni numero reale x. Perciò in particolare si può calcolare il valore di f ( r ) . Ma allora si può decidere f ( r ) = 0 ∨ f ( r ) = 1 . Perciò per la definizione di f si può decidere r = 0 ∨ r ≠ 0 , e quindi per (1) si può decidere ∀nA( n ) ∨ ¬∀nA( n ) . Ma, per la scelta di A( n ) , non si può decidere ∀nA( n ) ∨ ¬∀nA( n ) . Contraddizione. Se ne conclude, perciò, che, nella matematica intuizionista, la funzione f non esiste.
3.11. L’estetismo di Brouwer Che nella matematica intuizionista non esistano certi oggetti matematici, come le funzioni definite ovunque sui numeri reali e discontinue, che sono importanti per la fisica, non preoccupa minimamente Brouwer, perché egli non solo non è interessato all’uso
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della matematica nella fisica ma «rifiuta l’allargamento del dominio umano sulla natura»271. Per Brouwer la matematica è ricerca del bello, mentre in una matematica che serva da strumento per l’allargamento del dominio umano sulla natura «non si troverà bellezza»272. La bellezza è soprattutto «bellezza del costruire, che appare talora quando l’attività del costruire cose viene esercitata per gioco»273. Ma «la bellezza più piena del costruire è la bellezza introspettiva della matematica, nella quale, invece di elementi di azione causale fatta per gioco, l’intuizione base della matematica viene lasciata dispiegarsi liberamente. Tale dispiegarsi non è vincolato dal mondo esterno, e quindi dalla finitezza e dalla responsabilità; perciò le sue armonie introspettive possono raggiungere ogni grado di ricchezza e chiarezza»274. Ma queste affermazioni di Brouwer sono ingiustificate perché la matematica intuizionista è esteticamente povera. È piena di distinzioni scarsamente perspicue, è farraginosa e poco lineare. Perciò, considerare la matematica intuizionista ricerca del bello non è credibile. 3.12. Il crollo del programma di Brouwer Che nella matematica intuizionista non esistano certi oggetti matematici che sono importanti per la fisica non è l’unica prova dell’inadeguatezza del programma di Brouwer. Un’altra prova è la seguente. Come abbiamo visto, Brouwer assume che un enunciato matematico è vero se e solo se si può darne una dimostrazione, dove per dimostrazione si intende una dimostrazione assiomatica [II.3.4]. In particolare, allora, un enunciato dell’aritmetica è vero se e solo si può darne una dimostrazione in un certa teoria T. Ora, per tale teoria T, è facile vedere che la funzione corrispondente prf T [V.3.3] non può essere aritmetica, nel senso che non può esistere alcuna formula A( x, y ) di T contenente come sue uniche variabili individuali libere x e y, tale che, per ogni numero naturale k e p, se prfT (k, p) = 1 allora si può dare una dimostrazione di A( k , p ) in T, mentre se prfT (k, p) = 0 allora si può dare una dimostrazione di ¬A( k , p ) in T.
271
Ivi, p. 483. Ibid. 273 Ivi, p. 484. 274 Ibid. 272
56
Infatti, supponiamo che
prf T
sia aritmetica. Applicando il
teorema del punto fisso [V.4.1] alla formula ∀x¬A( x, y ) , otteniamo un termine chiuso t tale che si può dare una dimostrazione di t = ∀x¬A( x, t ) in T. Con una dimostrazione del tutto simile a quella del primo teorema di di incompletezza di Gödel [V.4.2] si vede allora che l’enunciato ∀x¬A( x, t ) è vero ma non se ne può dare una dimostrazione in T. Ma, poiché ∀x¬A( x, t ) è vero, per l’assunzione su T questo significa che se ne può dare una dimostrazione in T. Contraddizione. Se ne conclude che la funzione prfT non può essere aritmetica. Che la funzione prfT non possa essere aritmetica implica che la proprietà di essere una dimostrazione in T deve essere molto astratta. Ma, secondo Brouwer, una dimostrazione matematica parte da assiomi basati sull’intuizione e prosegue con una deduzione basata sull’intuizione, perciò essa «deve essere così immediata per la mente e il suo risultato così chiaro da non richiedere assolutamente alcun fondamento»275. Dunque la proprietà di essere una dimostrazione in T non può essere molto astratta. Contraddizione. Se ne conclude che l’assunzione di Brouwer, che un enunciato matematico è vero se e solo se si può darne una dimostrazione, è insostenibile. Crolla così uno dei capisaldi della concezione della matematica di Brouwer. In definitiva, dunque, Brouwer mutuò le sue principali idee sulla matematica da Kant, e il suo unico contributo originale alla filosofia della matematica – che era di natura tecnica: il progetto di sviluppare una matematica alternativa alla matematica classica – si risolse in un fallimento. 4. Conclusioni sulla filosofia della matematica di ieri L’analisi dei programmi di Frege, Hilbert e Brouwer mostra che l’affermazione dell’ortodossia prevalente, polemica verso la tradizione filosofica precedente, che Frege abbia prodotto una rivoluzione in filosofia che ha cambiato l’aspetto della disciplina, è insostenibile. La tradizione filosofica precedente avrà avuto i suoi difetti, ma Frege, Hilbert e Brouwer non crearono un’alternativa ad essa. Al contrario, presero a prestito da essa le loro principali idee filosofiche, e ciò che vi aggiunsero, che era di natura tecnica, non filosofica, alla fine si è rivelato insostenibile. 275
Heyting 1956, p. 6.
57
III La filosofia della matematica oggi
1. Due reazioni mancate 1.1. Una reazione matematica mancata Come abbiamo visto, i risultati di Gödel svolgono un ruolo decisivo nel mostrare l’insostenibilità dei programmi di Frege, Hilbert e Brouwer. In particolare, il primo teorema di incompletezza di Gödel [V.4.2] confuta un’assunzione che non solo sta alla base di tali programmi ma è condivisa dalla stragrande maggioranza dei matematici, cioè che il metodo della matematica è il metodo assiomatico. Ci si sarebbe potuto aspettare che ciò inducesse i matematici ad abbandonare questa assunzione, ma non è stato così. Presumibilmente questo è dipeso dal fatto che la stragrande maggioranza dei matematici ritiene che i teoremi di incompletezza di Gödel sono qualcosa che riguarda solo i programmi fondazionali di Frege, Hilbert e Brouwer, e non l’impresa reale del fare matematica. Ma questa opinione è ingiustificata perché, come si è detto, la stragrande maggioranza dei matematici assume che il metodo della matematica è il metodo assiomatico, perciò il primo teorema di incompletezza di Gödel li riguarda anche loro, e li riguarda in pieno. 1.2. Una reazione filosofica mancata Ancor più sorprendente è che il primo teorema di incompletezza di Gödel non abbia indotto molte scuole di filosofia della matematica della seconda metà del Novecento – neologicismo, platonismo, implicazionismo, strutturalismo, finzionalismo, internalismo, costruttivismo – ad abbandonare l’assunzione che il metodo della matematica è il metodo assiomatico. Ciò deriva dal fatto che tali scuole sono variazioni su temi di Frege, Hilbert e Brouwer. In particolare, il neologicismo e il platonismo sono variazioni su temi di Frege, l’implicazionismo, lo strutturalismo, il finzionalismo e l’internalismo su temi di Hilbert, il costruttivismo su temi di Brouwer. Perciò, per tali scuole, abbandonare l’assunzione che il metodo della matematica è il metodo assiomatico avrebbe significato recidere un legame essenziale con la tradizione su cui esse poggiano.
58
È vero che per altre scuole di filosofia della matematica della seconda metà del Novecento che non sono variazioni su temi di Frege, Hilbert e Brouwer – congetturalismo, empirismo, cognitivismo – l’assunzione che il metodo della matematica è il metodo assiomatico è inessenziale. Ma esse offrono un’analisi insufficiente dell’esperienza matematica, e per questo motivo la loro influenza è stata limitata. In questo capitolo esamineremo le concezioni filosofiche della matematica della seconda metà del Novecento e ne mostreremo i limiti. 2. Le concezioni filosofiche della seconda metà del Novecento 2.1. Neologicismo Il neologicismo sostiene che le verità aritmetiche sono analitiche, non nel senso di Frege [II.1.2], che secondo il neologicismo è troppo restrittivo, ma nel senso che tali verità sono deducibili da proposizioni analitiche primitive, cioè da proposizioni che danno definizioni contestuali dei concetti che intendono spiegare. Nel caso delle verità aritmetiche, la proposizione analitica primitiva da cui esse sono deducibili è il principio di Hume (HP). Questo, pur non essendo una verità logica perché fa intervenire un concetto matematico come NxF ( x ) , è una proposizione analitica primitiva perché dà una definizione contestuale del concetto di numero. La teoria del secondo ordine il cui unico assioma non logico è (HP) è coerente, e perciò non va incontro alla difficoltà dell’ideografia di Frege. Il neologicismo è stato sostenuto soprattutto da Wright e Hale. Secondo Wright (1942–) e Hale, «il risultato dell’aggiunta del principio di Hume» (HP) «alla logica del secondo ordine è un sistema coerente che è sufficiente come fondamento dell’aritmetica, nel senso che tutte le leggi fondamentali dell’aritmetica sono derivabili in esso come teoremi»1. Questo «costituisce una giustificazione del logicismo, in base ad una ragionevole interpretazione di quella tesi»2. Infatti, pur non essendo analitico nel senso di Frege, (HP) «è analitico in quanto determina il concetto che esso con ciò serve a spiegare»3. Cioè, fornisce una definizione contestuale del concetto di numero naturale. Perciò la deducibilità da (HP) «dovrebbe bastare per dimostrare l’analiticità dell’aritmetica»4. Questa va intesa non nel senso che l’aritmetica sia una parte della logica, ma nel senso che essa «trascende la logica solo in quanto fa uso di un principio», cioè (HP), «il cui lato 1
Hale-Wright 2001, p. 4. Ivi, pp. 4-5. 3 Ivi, p. 14. 4 Ivi, p. 279. 2
59
destro impiega solo nozioni logiche», perciò tale posizione «merita ancora di essere descritto come logicismo»5. Il neologicismo ha un certo numero di difetti che lo rendono inadeguato. 1. Il neologicismo sostiene che le verità aritmetiche sono analitiche nel senso che sono deducibili da proposizioni analitiche primitive, e precisamente da (HP), dunque sono dimostrabili nella teoria del secondo ordine T il cui unico assioma è (HP). Ma questa affermazione è confutata dal primo teorema di incompletezza di Gödel. Supponiamo, infatti, che tutte le verità aritmetiche siano analitiche nel senso che sono dimostrabili in T. Poiché T ha un unico assioma, banalmente T è RE. Poiché tutte le verità aritmetiche sono dimostrabili in T, T è sufficientemente potente in senso esteso [V.7.2]. Inoltre T è coerente. Perciò per il primo teorema di incompletezza di Gödel [V.4.2, V.7.2] esiste un enunciato della forma ∀x ( f ( x ) = 0) , dove f è una funzione ricorsiva primitiva, che è vero ma non è dimostrabile in T. Poiché ∀x ( f ( x ) = 0) esprime una verità aritmetica, esso fornisce un esempio di verità aritmetica che non è dimostrabile in T. Ma per ipotesi tutte le verità aritmetiche sono dimostrabili in T. Contraddizione. Se ne conclude che non tutte le verità aritmetiche sono dimostrabili in T, e perciò che non tutte le verità aritmetiche sono analitiche. Contro la conclusione che l’affermazione che le verità aritmetiche sono analitiche nel senso che sono dimostrabili in T sia confutata dal primo teorema di incompletezza di Gödel, si potrebbe avanzare un’obiezione simile a quella di Hale e Wright [II.1.3]. Cioè, si potrebbe
obiettare che l’enunciato della forma ∀x ( f ( x ) = 0) dato dal primo teorema di incompletezza di Gödel può benissimo essere una verità logica, e quindi essere logicamente valido, pur non essendo dimostrabile in T perché, per un corollario del teorema di incompletezza forte della logica del secondo ordine [V.7.6], gli assiomi logici e le regole di deduzione logica in un linguaggio del secondo ordine possono non essere abbastanza potenti per dimostrare tale enunciato in T, cioè per dedurlo da (HP). Ma questa obiezione è insostenibile perché, per il neologicismo, una verità aritmetica è analitica se e solo se è deducibile da proposizioni analitiche primitive. Per essere analitico, l’enunciato in questione deve quindi essere deducibile da una proposizione che è analitica in quanto fornisce una definizione contestuale del concetto di numero. Ma, secondo il neologicismo, la proposizione che fornisce una definizione contestuale 5
Ivi, p. 280.
60
del concetto di numero è (HP), e, come abbiamo detto, l’enunciato dato dal primo teorema di incompletezza di Gödel non è deducibile da (HP). 2. Il neologicismo sostiene che (HP) fornisce una definizione contestuale del concetto di numero. Ma (HP) lascia indeterminato se NxF ( x ) sia un oggetto concreto come Giulio Cesare [II.1.8]. Perciò nulla assicura che, poché (HP) introduce un’infinità di numeri, (HP) in questo modo non introduca un’infinità di oggetti concreti, mentre la logica non dovrebbe dire nulla su quali e quanti oggetti concreti esistono. 3. Il neologicismo considera irrilevante che in (HP) occorra un concetto matematico come NxF ( x ) , che non è eliminabile perché, come abbiamo visto, (HP) permette di eliminarlo solo da contesti della forma NxF ( x ) = NxG ( x ) . Ma nei principi logici non dovrebbero comparire concetti matematici non eliminabili. 4. Il neologicismo considera (HP) come analitico perché fornisce una definizione contestuale del concetto di numero. Ma allora si dovrebbe considerare analitico, ad esempio, anche il principio di inerzia, ‘Ogni corpo persiste nel proprio stato di quiete o di moto rettilineo uniforme fin quando l’azione di una forza non alteri questo stato’, perché fornisce una definizione contestuale del concetto di ‘forza’. Ma questo senso dell’analiticità toglie ogni pregnanza filosofica all’affermazione che le verità aritmetiche sono analitiche, perché in base ad esso anche le leggi fisiche sarebbero analitiche. 5. Il neologicismo assume che la teoria del secondo ordine T il cui unico assioma è (HP) è coerente. Lo fa appellandosi al risultato di Boolos secondo cui l’aritmetica di Peano del secondo ordine PA 2 è coerente se e solo se T è coerente 6. Ma così esso dà per scontato che PA 2 sia coerente. Ora, lo stesso Boolos osserva che «(non è nevrotico pensare che) noi non sappiamo se» PA 2 «è coerente. Sappiamo davvero che un Russell altamente efficiente del ventitreesimo secolo non farà a noi quello che Russell ha fatto a Frege?»7. Del resto, T soddisfa le condizioni del secondo teorema di incompletezza di Gödel [V.4.4, V.4.9], perciò per tale teorema l’enunciato ConT che esprime canonicamente la coerenza di T non è dimostrabile in T, quindi a maggior ragione non è dimostrabile con alcun metodo assolutamente certo. Dunque non vi è alcuna certezza che T sia coerente. 6. Il neologicismo non riesce ad andare oltre l’aritmetica dei numeri naturali. È vero che Hale ha cercato di estenderlo all’analisi 6 7
V. Boolos 1998, pp. 190-196. Ivi, p. 313.
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matematica, introducendo i numeri reali per astrazione come rapporti definiti su un dominio completo ordinato di quantità, dove le quantità, come la lunghezza o la massa, sono ottenute per astrazione da «opportune relazioni di equivalenza sugli oggetti concreti di cui essi sono le lunghezze, le masse, ecc.»8. Così facendo Hale si richiama all’idea di Frege che «l’applicazione dei reali come misure di quantità è essenziale per la loro stessa natura, e perciò dovrebbe essere incorporata in una loro definizione adeguata»9. Ma, come osserva Batitsky, questo modo di introdurre i numeri reali fa assunzioni che sono «del tutto superflue per spiegare le applicazioni di misure di reali»10. Inoltre implica che «la natura delle quantità non può essere completamente compresa in totale indipendenza dai fatti del mondo fisico», perché assume che le quantità siano «astrazioni di relazioni e operazioni fisiche su oggetti concreti»11. Infatti, nella formulazione di Hale, la lunghezza e la massa «hanno esattamente la stessa struttura logica», ma «Hale certo non vorrebbe dire che queste due quantità sono identiche o anche che sono intercambiabili in ogni applicazione»12. Ora, la ragione per cui esse «non sono identiche né intercambiabili (nonostante il fatto che abbiano strutture logiche identiche) può trovarsi solo nel mondo fisico; per esempio, se x è un oggetto concreto, le relazioni di equivalenza fisica ‘lungo come x’ e ‘pesante come x’ non determinano classi di equivalenza di oggetti concreti identiche tra loro. (Si pensi a due sbarre della stessa lunghezza, una delle quali è di alluminio mentre l’altra è di piombo)»13. Perciò il tentativo di Hale è inadeguato. Che il neologicismo non riesca ad andare oltre l’aritmetica dei numeri naturali mostra che esso scambia per filosofia di tutta la matematica una filosofia che potrebbe valere tutt’al più per l’aritmetica dei numeri naturali, e che, come abbiamo visto, non vale neppure per quella. 2.2. Platonismo Il platonismo sostiene che gli oggetti matematici sono gli insiemi. Essi sono dati dalla cosiddetta ‘gerarchia cumulativa’, che è definita da: (i) V0 = ∅ ; (ii) Vα +1 = P (Vα ) per ogni ordinale α, dove P (Vα ) è la
8
Hale-Wright 2001, p. 409. Ivi, p. 403. 10 Batitsky 2002, p. 297. 11 Ivi, p. 301. 12 Ibid. 13 Ibid. 9
62
collezione di tutti i sottoinsiemi di Vα ; (iii) Vλ = ∪ Vα per ogni α
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