Breviario Di Ecdotica - Gianfranco Contini

February 28, 2017 | Author: freddylos | Category: N/A
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GIANFRANCO CONTINI BREVIARIO DI ECDOTICA MILANO • NAPOLI RICCARDO RICCIARDI EDITORE MCMLXXXVI COPYRIGHT © 1986 RICCARDO RICCIARDI EDITORE MILANO • NAPOLI Creare un ebook da un libro fisico non è un'operazione immediata. Il modo migliore per ringraziarmi del tempo che ci ho speso è farne uno a tua volta, e renderlo pubblico su forum e servizi di file hosting. Leggi una guida e provaci anche tu.

Indice generale AVVERTENZA FILOLOGIA 1. La filologia nella storia della cultura 2. Critica testuale POSTILLA 1985 LA «VITA» FRANCESE «DI SANTALESSIO» E L'ARTE DI PUBBLICARE I TESTI ANTICHI SCAVI ALESSIANI LA CRITICA TESTUALE COME STUDIO DI STRUTTURE RAPPORTI FRA LA FILOLOGIA (COME CRITICA TESTUALE) E LA LINGUISTICA ROMANZA ESPERIENZE D'UN ANTOLOGISTA DEL DUECENTO POETICO ITALIANO APPENDICE LA GRAMMATICA DELLA POESIA

AVVERTENZA Un 'eternità di tempo fa don Giuseppe De Luca (non avevo ancor mai incontrato né lui né Mattioli, questi due motori della cultura del secolo) mi fece chiedere se poteva stampare i miei scritti tecnici. Gli risposi di sì, a condizione di intitolarli Frammenti di Filologia romanza. Don Giuseppe s'infuriò di un dettato così, come a lui pareva, depresso; e la partita fu chiusa. Anni dopo (l'oggetto intanto cresceva di mole) Raffaele Mattioli mi rivolse la stessa domanda, e accolse la stessa risposta con divertimento e consenso. Si trattava per parte mia d'una promessa condizionata, tutte le molte volte che se ne parlava: se avessi un giorno riunito quelle pagine, non avrebbero avuto altro editore che lui. In realtà credo che mi dispiacesse rileggermi; e dicevo di preferire che il tempo necessario fosse adibito a produrre qualcosa di nuovo. Può darsi che, persistendo la promessa presso quella che è tuttora la casa di Mattioli, tutto si riduca ad aver prodotto quello che a me séguita a parere un bel titolo. Ma negli ultimi tempi in altri e in me si è venuta coagulando l'idea di riunire quegli scritti che, magari iterando le stesse notizie traguardate da punti di vista tenuemente rotanti, meritassero l'epigrafe leggermente parodica di Breviario di Ecdotica. Benché il tutto della carriera d'un filologo sia intriso di critica testuale, si pensa a quella porzione dei suoi manufatti che più si avvicini a un'esposizione di metodo generale, si tratti di critica delle lezioni in senso stretto o di critica delle forme nella parte che più l'integra o finalmente d'una loro giustificazione anche più larga. I testi, nonostante la presenza desultoria di parcissime postille, non sono stati 'aggiornati': ci

mancherebbe altro che si dovesse rifare la propria vita (semmai, precisamente, uno attenderebbe a produrre altro e nuovo). L'unico saggio adatto a questo vicinato, Filologia ed esegesi dantesca, è stato omesso come già incluso nella miscellanea Varianti ed altra linguistica. Viceversa l'ultimo paragrafo di Filologia è stato integrato mediante un saggio costituito in appendice. Alla varia abnegazione di due amici, Gianni Antonini e Giancarlo Breschi, i lettori debbono ordinatamente l'armonia della presentazione e il sussidio di minuti indici.

FILOLOGIA 1. La filologia nella storia della cultura Chi nella prima infanzia ha letto Pinocchio, amandolo e imprimendoselo nella memoria, stupirà, se gli accada di rileggerlo, di non essersi accorto, allora, che era scritto, o poco meno, in vernacolo toscano. Chi un po' più tardi si inizierà a Dante, tolte le aree pentacolari riservate all'oscurità, da lambire e oltrepassare in convenzionale reverenza, comprende senza ostacolo, ed è destinato a rendersi conto in tempo più maturo come gli fosse sfuggito, più ancora che il deposito d'una memoria sapientissima, il fatto elementare (che naturalmente non capiterebbe ai suoi coetanei lettori della Chanson de Roland o del Nibelun-genlied) che la Commedia è scritta in italiano antico. Coi Promessi Sposi può anche avvenire che non si percepisca nessuna differenzialità; e la differenzialità non è affatto detto che riesca gradevole, come una lente d'ingrandimento svela più verità, ma dà degli oggetti un'immagine inconsueta e intercala loro innanzi un corpo estraneo. La filologia è dunque, anche a un modesto grado di cultura, almeno nelle civiltà che hanno fruito d'una buona attrezzatura grammaticale, un evento quotidiano, se pur scalare; la filologia in senso tecnico è diversamente distribuita nei momenti culturali e gode di un prestigio variabile. Benché si sia sempre fatto filologia, nel periodo romantico (e soprattutto nella nazione romantica per eccellenza, la Germania) essa toccò una tale intensità e raffinatezza, sia approfondendo gli scavi preceduti da millenni di studi, e cioè nell'ambito classico, sia allargando verso ogni direzione possibile il campo di applicazione (inclusa la costituzione delle filologie nazionali), che parve nata allora, ciò che per certi metodi era la verità. La sua valutazione seguitò a essere alta, e magari fiduciaria, in i-poca positivistica, meno come interpretazione che come dilatazione di accertamenti, erudizione fine a se stessa, soddisfacimento della libido sciendi; ma interviene una limitazione molto cicoria di nota, di cui non è miglior documento che in una proposizione di August Schleicher, il paleontologo della glottologia. Da un suo libro (Die Deutsche Sprache, 1859) il Timpanaro ha specillato le seguenti definizioni: «Die Philologie ist eine historische Disziplin [...]. Die Sprachwissenschaft dagegen ist keine historische, sondern eine naturhistorische Disziplin» (Sebastiano Timpanaro, La genesi del metodo del Lachmann, Firenze 1963, p. 76, nota 1). La filologia (e va bene che qui il tedesco Philologie avrà la sua generica accezione universitaria di complesso di studi sulla letteratura) non può quindi aspirare all'assetto legislativo, rispecchiatore di necessità, che pertiene (o si riteneva per tenere) alle scienze della natura, fra le quali lo Schleicher e i neogrammatici suoi prosecutori annoveravano la linguistica. Dai movimenti correttori o eversivi del positivismo non poteva ovviamente uscire che una considerazione meramente funzionale e ancillare della filologia. Ciò è forse vero dell'intuizionismo, vista la connessione epistemologica che si credette di scorgere fra le innovazioni del Bédier e la dottrina bergsoniana, mentre notoriamente il Bédier in persona confessava di essersi postumamente ritrovato in talune pagine del Bergson, da lui letto assai tardi. Malcerto è vero dell'idealismo crociano^ome si può vedere nel Croce stesso editore perlomeno non superstizioso (così del De Sanctis) e promotore d'una illustre collezione di classici dalla quale procurò di tener lontana più che gli fosse possibile ogni accusata filologicità di presentazione. Ma è istruttivo come, in un famoso scritto (Per un catalogo, in un Quaderno della «Voce», 1910), più insigne per sensibilità che per logos, un neoumanista, per così dire, quale il Serra giudicasse del programma crociano appunto degli «Scrittori d'Italia»: vi trovava incluso «il rinnovamento degli studi positivi» (aspetto per cui l'antipositivista Croce potè giustamente sembrare il più

grande dei positivisti) e arrivava a temere «edizioni critiche» con «la nuova lettura di un e in un manoscritto», dove accettava della «Bibliotheca Teubneriana», poiché il litigio verteva sul canone dei classici, l'«ideale - che del resto è una parte della stessa antichità - della migliore lezione». Di lì a poco un umanesimo nazionalistico da dozzina poteva coinvolgere nella germanofobia (dovette combatterlo anche un grecista del calibro del Vitelli) il rigore della filologia classica elaborata nelle scuole tedesche. Ma per ciò che riguarda il Croce bisogna confrontare l'irruzione filologica avvenuta dopo In sua mòrte nella sua stessa collezione, come del resto, gradualmente, nelle sillogi compagne, e non solamente in Italia. Ciò era conforme a un abito mentale che si può qualificare di nuovo positivismo e che in Italia, dove avevano contribuito a fare il 'ponte' con l'antico personalità come quelle del Pasquali e del Barbi, si configurò, qui al pari che nella critica strido sensu, in forma piuttosto post- che anticrociana. La moda filologica tuttora vigente, particolarmente appunto in Italia, obbedisce a un impulso forse già più di ieri che dell'oggi, come parrebbe mostrare certo filologismo parodistico che attesta il trapasso della maturità. In una mappa ideale una nuova limitazione alla filologia parrebbe infatti sorgere dallo strutturalismo in quanto studio di sincronie pure, mentre, come historische Disziplin, la filologia si collocherebbe, a primo sguardo, nella diacronia. Particolarmente nel _ linguaggio della scuola parigina, una ricerca 'puramente filologica' si oppone a una ricerca condotta a norma di linguistica generale e dunque secondo parametri interni alla lingua (così per la definizione, ovviamente oppositiva, di una funzione o di un lessema). Tuttavia la punta della linguistica, per dire solo della linguistica, strutturalistica travalica l'opposizione di linguistica sincronica e linguistica diacronica in indagini come quelle che il Jakobson, con brillantissima contradictio in adiecto, chiama di «fonologia diacronica», e di cui si trovano suggestive realizzazioni in vari autori (Kurylowicz, Haudricourt, Juilland ecc.), ma che in fondo era stata anticipata in fase presaussuriana da storie della lingua alternate come fin dal Jespersen. La filologia come disciplina storica si rivela sempre più acutamente involta, non si dirà nell'aporia, ma nella contraddizione costitutiva di ogni disciplina storica. Per un lato essa è ricostruzione o costruzione di un 'passato' e sancisce, anzi introduce, una distanza fra l'osservatore e l'oggetto; per altro verso, conforme alla sentenza crociana che ogni storia sia storia contemporanea, essa ripropone o propone la 'presenza' dell'oggetto. La filologia moderna vive, non di necessità inconsciamente, questo problematismo esistenziale. 2. Critica testuale La filologia culmina nella critica testuale, che perciò qui si procura di compendiare in forma aforistica. La denominazione universalmente ammessa è quella che traduce il tedesco Textkritik: obsoleto è critique verbale, da cui s'intitola un manuale un tempo molto frequentato dell'Havet; assai comodo sarebbe 'ecdotica' (ecdotique), invenzione di dom Henri Quentin, da tenere in pronto quale sinonimo di preziosa sinteticità e aspetto specialistico; con intenzione deprezzati va (dal Pagliaro) è stato usato 'stemmatica' (del Maas), per di più riferibile a un solo aspetto particolare, per quanto importante. Di che momento essa sia il prodotto, cioè del romanticismo anzitutto, come di norma, germanico, solitamente condensato nel nome di Karl Lachmann, è constatazione che parrebbe da revocare in dubbio da quando, particolarmente per opera del Pasquali e con singolare acribia di Sebastiano Timpanaro, i principi ne sono stati meglio indagati e in parte retrodatati. Si potrebbe allora essere tentati di sospettare che, come filologia si è fatta sempre, così filologia testuale esista 'da sempre'. E in realtà le grandi epoche filologiche sono caratterizzate da intensa attività editoriale, si tratti dell'età alessandrina, che elaborò la vulgata dei classici greci, o della Rinascenza, anzi delle varie Rinascenze gemmate per metafora da quella propriamente detta nel linguaggio dei medievalisti (carolingia, del secolo XII ecc.), alle quali si devono vari assetti vulgati dei classici latini, o del momento istituzionale della Riforma e della Controriforma, attuato nella philologia sacra (anche cattolica, per la Vulgata Sisto-Clementina) e nei corpora dell'antiquaria ecclesiastica (incluso il Muratori). C'è anzi oggi chi ravvisa nell'ecdotica il principale acquisto mentale dell'umanesimo, col Valla e col Poliziano, anzi già col Petrarca, la cui opera di editore è stata ricomposta dal Billanovich. Ma è giusto ricondurre la fondazione della critica testuale all'ambiente dove fu formulato l'assunto d'una sua consistenza scientifica, anche se si sa ormai che tale fondazione fu

più graduale e meno puntuale della sua rappresentazione corrente. Che essa sia romantica importa che, attua ta inizialmente in filologia classica, cioè dove si disponeva di un canone millenario di testi recepii la cui lezione era da veri fi care, era però atta a una filologia condenda sulla grande e insomma inedita distesa appunto romantica del Medioevo e anzitutto del volgare (che press'a poco coincidevano, chiudendosi il Medioevo con l'invenzione della stampa, la quale poneva o sembrava porre altri problemi). Simbolo della situazione, appunto, il Lachmann, estensore lui stesso del metodo alla filologia germanica; mentre di lì a poco colpisce l'equidistanza del pur meno rigoroso lachmanniano Karl Bartsch dalla filologia germanica e dalla romanza (sua è, prima del lachmannismo dei Gustav Gròber e dei Gaston Paris, la prima edizione 'scientifica' di un trovatore, Peire Vidal). Sui principi di quello che fu chiamato lachmannismo, antonomasticamente e magari più che altro emblematicamente, è seguitata a svolgersi nel secolo e mezzo successivo quell'opera di raffinamento, reazione e revisione per cui si può anche parlare di antilachmannismo (principalmente Joseph Bédier e dom Quentin), postlachmannismo (così Giorgio Pasquali e in certo modo Michele Barbi) e, perché no?, neolachmannismo (parte della romanistica italiana). Questa rimeditazione è andata abbastanza avanti perché, abbandonando la semplice esposizione storica o l'insegnamento precettistico della dottrina, si tenti di formulare quelle esperienze in enunciati il più possibile razionalizzati e organicamente seriati, in cui trovino il loro luogo anche gli agganci a rami di filologia in prima istanza non testuale grazie a una generalizzazione che corrisponde alla riduzione, al limite, della filologia alla critica testuale. Unicità e plurivocità del testo. - La prima cautela da adottare consiste nel determinare se il testo che si tratta di riprodurre o ricostruire sia uno o più. Geometria e fisica muovono da definizioni intuitive e da convenzioni semplificanti (corpo senza dimensioni e senza massa, ecc.): qui conviene assumere solo a ragion veduta la puntualità dei testi e degli antigrafi nei vari slati. Non è lecito mescolare redazioni distinte: pericolo da cui vuol preservare la dottrina bédieriana del manoscritto unico da seguire, la quale, con tutte le riserve che suscita, è pure un tentativo di salvaguardia contro le edizioni composite. Quando la recensione della tradizione manoscritta mette in luce solo opposizioni di varianti adiafore, sono da riconoscere più redazioni (di autore o no), che devono formare oggetto di altrettante edizioni (come fece precisamente Bédier aggiungendo nel 1928 un'edizione del Lai de l'Ombre di Jean Renart secondo il codice E alla propria del 1913 secondo A e all'antica del Jubinal secondo F). Che tali edizioni siano separate e integre o risultino da apparati, a rigore distinti, è irrilevante, poiché fin d'ora si può ripetere delle forme di edizione il famoso detto del Croce sulle forme di critica, che ognuna è buona quando è buona. Corollari editoriali. - Se la recensione di una tradizione svela opposizioni non solo di varianti adiafore ma di veri e propri errori, s'intende di tipo monogenetico, l'edizione dovrà essere depurata di tali errori (sanati se si può, altrimenti contrassegnati dalla crux interpretum), mentre la scelta delle lezioni indifferenti prudenzialmente dovrà portare sempre, organicamente, verso la medesima fonte. In tale evenienza è meno urgente provvedere, restando ovviamente completo l'apparato, a separate edizioni, poiché si tratta di rifacimenti operati su un archetipo già corrotto. Che su questa copia abbia potuto lavorare l'autore stesso, e che di conseguenza l'abbia promossa a equivalente dell'originale, non si può naturalmente escludere, ma la probabilità di autorevolezza è fortemente diminuita. Un caso paradigmatico è costituito dal Libro de Buen Amor di Juan Ruiz, di cui si sono ravvisate, e forse si ravvisano ancora pacificamente, due redazioni con date distinte, finché l'edizione di Giorgio Chiarini (1964) non ha provato l'esistenza d'un archetipo sul fondamento di errori comuni e ha reso quindi perlomeno discutibile la presenza di redazioni d'autore. Opere postume incompiute. - La maggior difficoltà editoriale oggettiva è proposta da opere postume incompiute, che presentano frammenti e redazioni sostitutive o alternative, magari accompagnate da abbozzi di sommari non esaurienti o contraddittori. Gli antenati dei capolavori postumi sono il De rerum natura e l'Eneide, a cui peraltro sembra esser mancata solo l'ultima mano, come rivelano forse per Lucrezio le numerose opportunità, avanzate dalla critica moderna, di spostamento di versi, per Virgilio i da lui chiamati 'puntelli' (tibicines); difficile è comunque ritrovare la tecnica, probabilmente ispirata a pietas, di Cicerone o di Tucca e Vario editori. Sogliono invece essere oggetti di vituperio, o al minimo di serie riserve, i primi editori di capidopera moderni come le Grazie foscoliane, il libro linguistico

manzoniano, i frammenti di Holderlin o, più vicino a noi, certi inediti di Proust (Jean Santeuil, Contre Sainte-Beuve), i romanzi di Kafka, la gran summa narrativa di Musil. Certo si può fare, e spesso fortunatamente si è fatto, di meglio; ma è istruttivo, per tornare sul primo caso soltanto, che il saggio del Barbi (1934) non sia stato a tutt'oggi seguito da un'adeguata edizione delle Grazie. Sono problemi singoli, ognuno con i suoi particolari di struttura e di cronologia relativa, e passibili dì altrettante, non si dice soluzioni, ma serie di soluzioni proporzionate a diverse teleologie. Le edizioni condannate sono mosse meno di quanto si affetti di credere da vili motivi, o d'insufficienza tecnica o peggio di speculazione commerciale: benché nemmeno a questa si dovrebbe negare ogni gratitudine, se fu il solo meccanismo atto a procurarci almeno una qualche conoscenza, sia pure imperfetta, di opere di tal livello. Per fare un esempio non bruciante, e del resto non incompiuto, è possibile che le Confessioni del Nievo, trattate con le forbici e alterate perfino nel titolo, solo a patto di queste manipolazioni siano state conosciute prima. Ma la preoccupazione di leggibilità, qui attuata così rozzamente, si può estrapolare in ben altra accezione: lo zelo, animato da devozione (quale non si potrebbe certo negare a Max Brod per Kafka o ad Adolf Frisé per Musil), di un'opera che sia un'opera, intorno alla quale poter girare. Un'edizione assolutamente scientifica, quale è ovviamente augurabile, non però sempre necessariamente in prima istanza, paga un pedaggio di 'illeggibilità'. Leggibilità e illeggibilità, quasi in una sorta di principio d'indeterminazione, corrispondono a funzioni diverse della fruizione letteraria. È comprensibile che chi si preoccupa della 'vita' di una scrittura, fino al punto di supplirvi, per incongrua generosità, con estratti dalla sua propria, respinga nel gelo del museo o nella polvere dell'archivio ciò che in qualche caso rischia di essere una caricatura della filologia. Il testo nel tempo. - I freni pragmatici che possono intervenire innanzi a un testo non perfettamente eseguito, debbono cedere al rigore innanzi a un testo eseguito, di esistenza incontestabile, e già conosciuto in un modo che semmai solo retrospettivamente si potrà qualificare di provvisorio. La filologia, quando ne ha i mezzi, riapre questo testo chiuso e statico, lo fa aperto e dinamico, lo ripropone nel tempo. La riapertura si opera in direzioni opposte, dopo e prima del testo. La determinazione di quella che si prende per norma, cioè la redazione ultima, non è priva di difficoltà. Per rendersi conto di questa frequente aporia basterà rifarsi all'esperienza autobiografica di qualsiasi produttore di letteratura. Un medesimo manoscritto, o più verosimilmente dattiloscritto, venga usufruito in più occasioni similari, anche abbastanza ravvicinate, e la lezione sottoposta a lievi correzioni migliorative ogni volta in bozze senza che ne sia tenuto registro: correzioni, in pratica, dimenticate. Se di tali pagine l'interessato vorrà finalmente dare un testo definitivo, posto che pure si conceda per finire quello scrupolo che meglio si eroga altrui, si può tenere per certo che, poiché l'acuzie cor-rettoria è discontinua, egli sceglierà, indipendentemente dal livello, le variazioni più approfondenti, senza inibirsene di nuove oltre questa mobile cresta. Un editore 'terzo' non potrà certo seguire una tale procedura, ma, quando il miglioramento non sia documentariamente univoco, meglio lo rifugerà tutto in apparato, distinguendo le sedi (anche se riuscisse a individuare l'esemplare letteralmente licenziato alla data più bassa). Qualcosa di simile avviene quando qualche implacabile correttore di se stesso lascia suggerimenti su più copie di una sua stampa, oppure, anche se su una copia sola, ne lascia alcuni di stabili, altri di eventuali — come quelli dai medievali contrassegnati mediante al(iter) -, altri di alternativi pur non sussistendo dubbi sulla condanna dell'elemento da surrogare. Solo la porzione certa potrà essere ospitata a testo, pur dovendosi annotare (meglio se sinotticamente) ogni altra proposta più instabile, e specialmente le certezze negative che meriterebbero, se proprio la modalità della pubblicazione (che offra o simuli una resa compatta) non la renda esosa, un'apposita connotazione tipografica (altro carattere o corpo). S'intende che a fini editoriali risulta irrilevante un eventuale giudizio di involuzione correttoria (quale certo riesce di formulare per lo stesso Baudelaire, per non dire dei contemporanei che ci lasciano spaesati modificando ciò che era già patrimonio della nostra memoria), non potendo interferire criteri assiologici in un àmbito oggettivamente formale. Resa dell'elaborazione testuale. - La direzione opposta, e più vulgata, in cui si offre lo studio del testonel-tempo, è quella della sua elaborazione. Il perno attorno al quale il punto di vista sembra ribaltarsi è il testo come dato immobile. Questo postulato, implicito nell'ovvia lettura, è contraddetto meno dall'altrettanto ovvia pedagogia del testo come prodotto d'una 'lunga pazienza' che dalla rappresentazione, inerente alla riflessione di Mallarmé e soprattutto di Valéry, del testo come prodotto d'un'infinitudine elaborativa di cui quello fissato è soltanto una sezione, al limite uno spaccato casuale. È ben probabile che lo stimolo pedagogico sia stato il più attivo nel promuovere la confezione di edizioni con varianti. La

tramutazione del romanzo manzoniano in ideale metastorico di scrittura, anche dal più stretto punto di vista formale-grammaticale, spiega la larghissima diffusione nelle scuole d'un'edizione (quella di Riccardo Folli, più tardi con una 'chiave' di Gilberto Boraschi) in cui i Promessi Sposi del 1840-1842 vengono raccostati alla falsariga del 1825-1827 mediante artifici tipografici il cui nucleo permane nell'impaginazione filologica del Caretti; fin dal 1842, del resto, un concittadino del Manzoni si affrettava a impostare la questione (G. B. De Capitani d'Arzago, Voci e maniere di dire più spesso mutate...). Ma che la grandezza d'un poeta sia anche, orazianamente, nell'accanimento del suo lavoro, è uno spontaneo orientamento che porta il filologo, neutramente rispetto ai vantaggi didattici, a rappresentare fisicamente la genesi testuale d'un capolavoro. Quale musa, altro che tecnica, posto solo il giusto eccesso di ammirazione per l'oggetto poetico, poteva ispirare le sottigliezze tipografiche del Moroncini nel rendere l'elaborazione dei Canti e di altre opere leopardiane, la squisita ingegnosità del Debenedetti nel rendere quella dei frammenti autografi del Furioso? È significativo che la prima di simili operazioni filologiche abbia avuto per oggetto uno dei paradigmi della poesia: gli abbozzi autografi delle rime petrarchesche per cura di Federico Ubaldini (1642), due secoli e mezzo prima che vi si dedicasse un campione della filologia positivistica, Cari Appel. La coscienza del lavoro poetico inerente al momento del simbolismo, coscienza insieme di ogget-tualità e di attività, ha aumentato di responsabilità la posizione del critico anche innanzi a parecchi dei testi citati: la 'critica delle varianti' conferma per via sperimentale, aumentandone la certezza e arricchendole di particolari altrimenti non o meno pei «et libili, le interpretazioni ottenute o da ottenersi per via intuitiva, interpretazioni che non sono necessariamente di segno positivo; nei processi che essa descrive occorre distinguere i passaggi dal 'non essere' all'essere poetico, i compensi a distanza nell'area testuale e le vere e proprie sostituzioni (quali nei due, se non tre, Manzoni) di personalità espressive ugualmente valide. Una generalizzazione non può procedere oltre questa sommaria fenomenologia, ma torna opportuno rilevare un prolungamento che la critica delle varianti ha potuto avere sul comportamento dell'autore. Di uno dei migliori contemporanei, Giuseppe Ungaretti, un critico attento alle varianti, Giuseppe De Robertis, pubblicò (1945) una raccolta delle Poesie disperse «con l'apparato critico delle varianti di tutte le poesie» e un suo proprio studio. Da questa pubblicazione il poeta dovette trarre incoraggiamento a lasciar stampare due suoi libri successivi, La terra promessa (sottointitolata, è vero, Frammenti) e Un grido e paesaggi, ugualmente con apparati e studi a cura di amici, e pochi mesi prima della sua morte, vera edizione postuma in vita, il volume di Tutte le poesie (Vita d'un uomo) con lo stesso allestimento critico. Questa restituzione fisica del testo alla sua condizione di caleidoscopica variabilità (ben altra cosa da semplici variazioni sullo stesso tema) rappresenta un caso-limite, probabilmente da non riprodursi, che è giusto sia legato all'ultimo, per quanto pare, dei poeti simbolisti. Un incoraggiamento alla considerazione poetica di questo materiale, non di rado assai più che semplicemente intermedio e preparatorio, viene dalle arti figurative, che negli ultimi decenni hanno aggiunto alle da sempre stimate serie di disegni o schizzi per un'opera l'esposizione delle sinopie accanto agli affreschi strappati, fonte (come al Camposanto di Pisa) di nuove sicure emozioni. Varianti d'autore ('excursus' bibliografico). - Nessuna cultura dispone di una raccolta manualistica di correzioni d'autore fatta a uso scolastico come la francese, col ristampatissimo trattatalo di Antoine Albalat (1856-1935) Le travail du style en-seigné par les corrections manuscrites des grands écrivains (la cui ia edizione è del 1903). Gli esempi, spesso stupendi, vorrebbero mostrare come si impara a scrivere (o anche a non scrivere, ciò che vale per Fénelon e Stendhal), ma per eterogenesi dei fini l'utilità sopravvive. Il commento di quell'ambiente al materiale radunato (particolarmente abbondante, spesso appassionante, è quello relativo ai grandi ottocentisti, segnatamente Chateaubriand e anche Hugo) è di regola aneddotico, generico e comunque didattico, anche sotto pregiate penne: Paul Hazard, trattando degli Abencérages, parla (in «Journal des Savants», nuova serie, xxiii, 1935, p. 214) dei «secrets de l'art d'écrire», Henri Guillemin, a proposito d'un poemetto di Lamartine, scrive (in «Trivium», 1 [1943], Heft 4, p. 69) che «peu importe le travail du style. Il ne s'agit plus de cela». Solo l'esperienza idealistica poteva avviare a un uso critico di quei reperti, come accadde infatti nell'Università tedesca: per Hugo ad esempio è pregevole la sistematicità di Hfanns] Heiss (sulle Odes et ballades, in «Zeitschrift fiir franzòsische Sprache und Literatur», xl, 1912-1913, pp. 1-48). A una teorizzazione giunge addirittura Arthur Franz (Aus Victor Hugos Werkstatt. Auswertung der Manuskripte der Sammlung «Les Contemplations», in «Giessener Beitràge zur romanischen Philologie», Zusatzhefte v, 1929, e ix, 1934; singoli componimenti sono studiati anche in «Germanisch-Romanische Monatsschrift», xiii, 1925, pp. 471-86, e in «Archiv fiir das Studium der neueren Sprachen und Literaturen», clv, 1929, pp. 211-28, e clvi, 1929, pp. 53-65). Il Franz oppone una tipologia dinamica delle varianti alla considerazione ristrettamente stilistica e apologetica dei

colleghi francesi (si oppone infatti a ogni valutazione: «Ho evitato al possibile giudizi di valore. Dagli eruditi la poesia non dev'essere lodata o biasimata, bensì riconosciuta»). L'analisi genetica non procede da un preesistente contenuto alla forma, ma al contrario: l'evoluzione della poesia è condizionata dal «tipo di formulazione poetico-linguistica». Lo studio dell'elaborazione testuale può fondarsi o sulla comparazione con elementi esterni o su un'analisi interna, e perciò considerare il testo o come funzione (biografica) o come potenza. Lo studio filologico e documentario delle varianti tratterebbe le redazioni primitive come potenza e l'ultima come funzione. Questa morfologia positivistica non oltrepassa dunque la soglia dell'interpretazione, varcata per esempio dal Heiss. Ci vuole qualcosa più della sistemazione del Franz perché nello studio delle varianti si trovi superato, come asserisce Kurt Wais nella sua bella raccoltina di Doppelfassungen franzosischer Lyrik von Marot bis Valéry (Halle 1936), il conflitto di filologia idealistica e di filologia positivistica. Anche il Wais oppone, sia pur discretamente, a un metodo francese di perfezione stilistica puntuale un altro metodo, per il quale cita a modelli, oltre il Franz, Julius Petersen (sul Mondlied di Goethe) e Irene Zimmermann (sulla DrosteHulshoff), e inoltre, per quanto attiene alle doppie redazioni, Emil Ermatinger (sul Meister goethiano e sulle Hymnen an die Nacht di Novalis). È significativo che una recente silloge di scritti su Texte und Varianten sia stata elaborata in àmbito germanico (v. Martens e Zeller, 1971). L'edizione nel tempo. - Posta l'esistenza di un autografo o altro documento autorizzato, anche la sua riproduzione è critica. Ogni edizione è interpretativa: non esiste un'edizione-tipo, poiché l'edizione è pure nel tempo, aprendosi nel pragma e facendo sottostare le sue decisioni a una teleologia variabile. All'ambizione di un testo-nel-tempo corrisponde altresì l'elasticità d'un'edizione-nel-tempo. La raffinatezza dei mezzi meccanici si può ormai caricare di ogni responsabilità nell'ottenimento di un equivalente del documento, liberando il valore totalmente mentale della riproduzione critica. Rettifica degli autografi. - Se perfino la dottrina del manoscritto unico (Bédier) suggerisce la correzione degli errori detti 'evidenti', nemmeno gli autografi si sottraggono a questa necessità. Ciò che è ambiguo è solo la definizione di 'evidenza', che, come sempre che la si invochi, non può rispondere a un reale consensus omnium ed è smentita dalla sua plurivoca applicazione, e che pertanto si traduce nella conformità a un ragionamento di economia. Per esempio: se l'edizione del Teseida si conduce secondo l'autografo, non è detto che se ne debba accettare anche l'unico endecasillabo di tredici sillabe come frutto d'imperizia o come soluzione provvisoria, raccomandate entrambe a un indice statistico troppo vicino a zero. L'economia impone la rettifica di ciò che andrà predicato svista, così come sarebbe pusillanime l'eventuale editore di Paul Valéry il quale pretendesse mantenere un verso crescente («Comme l'ongle de l'orteil») che effettivamente esiste in una sua stampa, se essa fosse unica: questo implicherebbe una fisionomia dell'autore troppo alterata, l'ipotesi conservativa risulterebbe troppo onerosa rispetto alla (presunta) congettura «Comme ongle» ecc. (che naturalmente si trova invece sempre, prima e dopo), anche se tale congettura indubbiamente sforzi la sintassi (il che giustifica l'errore del tipografo). Altrettanto gravida d'implicazioni sarebbe l'ipotesi conservativa nel caso del Boccaccio, le cui copie di opere altrui o anche proprie, compreso il rivendicatogli manoscritto Hamilton del Decameron, sono infatti tutt'altro che ineccepibili. In tali casi è utile, poiché la serialità aumenta la certezza della correzione, procurare di descrivere una morfologia delle sviste. È facile constatare che quelle puramente grafiche si classificano sotto categorie (anticipo, ripetizione, omissione ecc.) che ordinatamente corrispondono a quelle, prima patologiche, poi fisiologiche (assimilazione o dissimilazione regressiva e progressiva, sincope ecc.), proprie dell'evoluzione linguistica, particolarmente fonetica. Se ne estrapola una cibernetica sola. Edizione diplomatica. - Per l'indicata perfezione raggiunta dalla meccanica, l'edizione diplomatica, utilissima un giorno, ha una sfera d'applicazione in diritto, se non in fatto, sempre più limitata. Essa rappresenta un puro aumento di leggibilità, e in realtà viene spesso giustapposta, passibile com'è oltre al resto di misurazioni topografiche, al facsimile fototipico, spesso trasparente solo dopo una lunga assuefazione (un caso-limite può esser quello della Seconda Centuria polizianea). Una fattispecie degna di rilievo si ha nella traslitterazione (per esempio di testi arabo-ispanici o giudeo-romanzi). La sua minuzia o disinvoltura è in stretta proporzione con la confidenza acquisita in quel distretto scientifico, e dunque s'inscrive sotto l'epigrafe di edizione nel-tempo. Solo tale confidenza può indurre a trascurare le

ridondanze o le equivalenze, accettando il procedimento a senso unico per cui la sostanza del punto di arrivo è integra, ma non si potrebbe ricostruire univocamente la grafia del punto di partenza, in una sorta di 'uguaglianza a destra'. Di tale confidenza ha dato un luminoso esempio il Cassuto nella trascrizione dell'Elegia giudeo-italiana, e ciò che può frenarne l'imitazione è solo la perdurante asimmetria nella competenza bilingue. Udizione interpretativa. - Di un autografo (o suo equivalenti l'edizione interpretativa riproduce ciò che interessa e omette, intenzionalmente o spontaneamente, ciò che non interessa. In sostanza essa è la traduzione o adattamento di un sistema, storicamente individuato, in altro sistema; nulla di categoriale la distingue dalla traslitterazione, se non il fatto che per l'autore e per l'editore vige una stessa convenzione di base, non però assolutamente identica, ciò che rischia di sottrarre la coscienza delle differenze a un'assidua vigilanza. Elementi funzionali possono assumere una consistenza oggettiva, ma il limite fra funzionalità e oggettività, più spesso fissabile automaticamente, può risultare solo al termine d'uno scrutinio critico. Le opposizioni hanno luogo tra sostanza linguistica e rappresentazione (come tra fonetica e grafia) e tra rappresentazione e coscienza della rappresentazione. La distinzione di u e v come, dove occorra, di i e j si fa per accordo universale (a cui si vorrebbe partecipasse più costantemente la filologia spagnola, in cui edizioni famose arrivano a distinguere tra le varie forme di s o di r), ma distinzione e indistinzione possono essere inglobate nell'oggetto stesso dell'espressione, come accade al Manzoni per l'indistinzione di u e v e per gli altri antichi usi grafici nel presunto Anonimo della sua Introduzione, o al Gozzano per la forma 'italica' della s nelle vecchie carte («Iola fconofciuta», che nell'esecuzione vocale sarà stata prevista, conforme alla 'semicultura' vulgata, come f o come la pronuncia blesa di s). D'altra parte un famoso acrostico di Dante (Purg. xii 25 ss.), supponendo VOM ma uom, implicherebbe a tutto rigore che l'indistinzione (in forma diversa per la maiuscola e la minuscola) venisse estesa all'intera Commedia: il fatto che ciò non accada importa il giusto prevalere della funzione sul segno strumentale, ma il fatto che il problema si ponga indica che l'ambivalenza della lettera (o, a rigore, già dell'ideogramma) tra segno e oggetto - ambivalenza a cui, nella civiltà alfabetica, si devono esperimenti che vanno dagli Erotopaegnia di Levio alle Calligrammes di Apollinare, al lettrisme, a Cummings ecc. — vige talvolta, ma virtualmente sempre, anche in critica testuale, e sollecita decisioni di natura problematica. Indipendentemente dai casi in cui la grafia viene usufruita, come negli ultimi ricordati, ad allotrio scopo figurativo, sia pure con un eventuale sottofondo vagamente semantico, essa può essere oggettivata per ragioni strettamente estetiche, sia innovanti sia tradizionalistiche: lo zelo grafico non è separabile da un certo tipo di stile e, per citare non scrittori del canone più largo, ma preziosi eccentrici, sarebbe impensa bile stampare o ristampare Carlo Dossi o Vittorio Imbriani senza rispettare scrupolosamente le loro singolarità, l'uso di j, trè, aqua in Dossi, la punteggiatura separativa di Imbriani ecc. Ciò vale al massimo per i riformatori (tale era precisamente il predecessore grammaticale del Dossi, Giovanni Gherardini), ad esempio il Trissino con le sue nuove lettere. Tuttavia nel caso del Trissino andrebbero rispettate le sole novità qualificanti o anche i dati coevi normalmente correggibili (indistinzione di u e v, uso delle maiuscole, punteggiatura ecc.)? Il problema sorge perché si tratta di autore abbastanza antico, staccato dalla continuità con le attuali convenzioni e appartenente a un altro tipo di cultura grafica. È questo iato, superato normalmente da un'automatica trascrizione fatta d'ufficio, che pone decisioni drammatiche quando qualche elemento del sistema perento, già allora contestato, stesse a cuore all'autore del testo da pubblicarsi: il Debenedetti l'ha messo nel competente rilievo per il caso dell'h Ariostesca, d'un autore cioè per cui, diceva, togliere l'h all'huomo e all'honore tanto valeva quanto togliere all'uno umanità, all'altro onorabilità. Si crea cioè una discontinuità o rispetto alla coerenza passata o rispetto alla fisionomia presente oggi nella repubblica delle lettere. La commutazione del sistema, inevitabile per un autore mediamente antico, porta con sé alcune contraddizioni, che sono variabili in rapporto alla finalità che l'edizione si prefigge. Se si vuol dare un'edizione del Petrarca latino secondo gli autografi (o, mancando questi, secondo l'uso comune a lui e al suo tempo), nessun dubbio che vada scritto -e, nichil ecc., ma se si persegue uno scopo divulgativo, sarà lecito scrivere -ae, nihil ecc., secondo tavole di traslitterazione nel complesso meccaniche. Se però si vuol presentare a un pubblico anche non specializzato il Petrarca volgare secondo la sua grafia, come il primo nostro grande di cui si conosca la mano, sorgono situazioni della cui criticità anche quel pubblico ile v'essere cosciente. In una riproduzione del Canzoniere secondo il manoscritto (Vaticano 3195) o autografo o, per le parti non autografe, vigilato dall'autore (avendo avvertenza di segnare i pochissimi trascorsi di patina padana inflitti dal copista ravennate, per evitare ogni ibridismo, qui almeno insopportabile, di sostanza fonica toscana e di settentrionale) sarà lecito mantenere h dovunque sia scritto, in particolare a inizio di parola, ma,

separandosi le parole (e qui segnatamente le proclitiche elise) alla moderna, e seguendo il Petrarca come tutti la norma grafica scoperta dal Mussafia (esemplificabile con honore ma l'onore = l'onore), si otterrà la soluzione contraddittoria d'ora in bora. Le frizioni consecutive al cambiamento di sistema sono soprattutto visibili nella punteggiatura, la cui inserzione in un testo antico è inserzione di dati di 'esecuzione' affini a quelli introdotti dall'ecdotica musicale, ma che si trova a colluttare, per esempio proprio nel caso del Petrarca, con un sistema originale che adopera segni anche uguali (punto, punto interrogativo) o affini (comma = virgola) e che mescola del pari, ma ripartendole diversamente, funzioni semantiche, qualche volta convenzionali, e funzioni melodiche (oltre ad alcune diacritiche), talché riesce possibile solo in un numero di casi limitato mettere od omettere un segno, e lo stesso, nella stessa sede. Le principali difficoltà insorgono infatti per quegli adattamenti all''uso moderno' che oltrepassano i semplici mutamenti tabulari di grafemi e per i quali, di più, la moda e il gusto consentono di volta in volta una porzione fissa e una elastica. Così avviene per la ripartizione di iniziali minuscole e maiuscole, sempreché questa non sia fissata in modo ferreo, come nel tedesco moderno col suo costume di ascendenza barocca (benché non esente da contestazioni, valga Stefan George, le cui minuscole ai nomi comuni sono tanto sacre quanto l'h- all'Ariosto). Così, ancora, per la punteggiatura, verso cui assoluto dev'essere il rigore conservativo quando è assunta nell'espressione (come in Foscolo, Leopardi e soprattutto Manzoni) ed è razionalizzabile in saldi enunciati (seppure spesso ancora da studiare come modelli anche storici, la lineetta 'foscoliana' di Mazzini, certe virgole 'manzoniane'); mentre è ammissibile la libertà degli editori per autori che 'non vedano' la punteggiatura, e s'intenda sempre dove non la vedono, come Porta o perfino De Sanctis. La conservazione è dunque scalare, e la coscienza dell'editore come del lettore risponde a un'analisi frazionaria. Per tornare a fatti propriamente grafici sempre esemplificabili nel Petrarca autografo: ç è una pura forma di z (indifferentemente semplice o doppia, come sottratta alla correlazione di lunghezza) e può esserne sostituita senza danno (ciò non sarebbe possibile in antico spagnolo, dove le due lettere erano - spesso nei codici e oggi di norma dagli editori addette a una distinzione fra sorda e sonora non segnata dalla scrittura italiana); t (o c) più i innanzi a vocale risponde a un uso etimologico (gratia) serbabile qui senza inconvenienti (equivoco potrà sorgere più tardi quando la scrittura -antia /-entia sarà atta a rappresentare o la forma di astratto latineggiante, anzi umanisticheggiante, -anzia/-enzia o addirittura -anza/-enza); la conservazione di -ij per -ii (con la forma lunga di i non ignota in altre finali, ma normale a differenziare le aste) risponde invece non a una pietas umanistica (come verso et, nocte, extremo..., il primo dei quali d'interpretazione del resto ancipite davanti a vocale fra e e ed), bensì a una pietas medievalistica, quale sussiste per i numeri romani nella tipografia inglese (qui si pone solo il problema secondario di stabilire se in -ii fosse ancora semivocale più vocale o già vocale 'lunga', da rendersi oggi meglio con -i che con -ii, o diacritico-etimologicamente con -î, un tempo anche con -j); finalmente nesun, nul'altre, il tipo di composto adolcire (meno raro di addolcire) - composto con a- che si oppone a quello con ad-, addorno (oltre che adorno), analogo a innanzi, inn-alzare - presentano, con una probabilità che rasenta la certezza, un autentico abbreviamento protonico della lunga la cui alterazione dalla grafia rischerebbe di estendersi alla sostanza fonica. Se possedessimo un autografo di Dante, e un autografo volgare, possiamo congetturare che si conformerebbe al canzoniere Vaticano (lat. 3793), al (Vaticano-) Chigiano (L. vili. 305), al codice del cosiddetto Fiore (a Montpellier), oltre che in particolari di minor interesse comuni a Petrarca, nella scrizione ridondante eie per ce (cierto, cienere), che tanto più saremmo costretti a correggere in quanto i rischierebbe di esser preso, cosa capitata e che seguita a capitare, anche a praticanti della professione editoriale, per segno di vocale. Intermediazione tipografica ed editoriale. - Dopo l'invenzione della stampa anche gli autografi (o equivalenti) sono stati soliti passare attraverso l'intermediazione tipografica, ciò che importa (prescindendo dall'introduzione involontaria di errori, quasi sempre troppo flagranti per essere pericolosi) una forte probabilità di livellamento formale, nelle migliori tipografie assistite prima da letterati poi da appositi tecnici, tendenzialmente sistematico. Tali interventi, certo rischiosi quando praticati da gente che la sapeva più corta degli autori, sono da condannare assai meno che non si sia consueti fare. Questi letterati o proti sono stati per secoli i depositari della correttezza grafica e puntatoria, in particolare in paesi di grafia difficile come la Francia. I grandi del Settecento e del primo Ottocento, come sanno i loro editori moderni, principalmente quelli dei loro carteggi (e la cosa vale ancora per Proust), non davano l'ultima cura a questo aspetto del loro prodotto, destinato a esser rifinito da altre mani. E tutti sanno che anche in epoca più recente fini letterati non disdegnarono di limare dall'esterno le scritture di autori provvisti di forte personalità poetica ma non di robusta cultura alfabetica: scomparsi quei discreti curatori,

duole che nessuna sorveglianza sia più esercitata sui medesimi autori, lasciati in balia di sgrammaticature non necessarie, e anzi seriamente riduttive. È un episodio del filologismo caricaturale, esercitato fuori del competente àmbito, scotto di una recente 'filologia di massa', che giunge a ingombrare pagine e pagine di libri non destinati a uso principalmente fabrile con varianti poco significative di autori terziari. Quei depositari della tradizione trovano un limite alla legittimità del loro operare quando infliggono retrospettivamente le loro norme ai prodotti d'una precedente tradizione incompresa. La filologia che in largo senso si può chiamare laurenziana, per esempio, con tutti i meriti che le vengono dall'aver voluto costituire una vulgata degli italiani (così nella Raccolta Aragonese) come già dei classici, eccedette senza dubbio in livellamenti melodici, timbrici e in genere formali. Archetipo. — La ricostruzione testuale, come la riproduzione, ha per ovvio presupposto l'unicità del testo, ne sia l'attestazione unica o plurima. Si è discusso oziosamente se ciò che si ricostruisce sia l'originale o altra cosa. Ma sarebbe operazione inane quella che non mirasse all'originale, s'intende l'originale al limite (dell'attestazione documentaria e della critica interna). La constatazione che gli enti dell'ecdotica sono ambigui tra punti e segmenti vale anche per l'oggetto della ricostruzione, che si deve sempre assumere come equivalente dell'originale tranne prova in contrario: la prova consiste in 'errori' (cioè in elementi di cui vicina a zero è la probabilità che appartengano al punto di partenza), errori di sostanza, siano essi sanabili o no (nel qual caso vengono contrassegnati da cruces interpretum), o anche errori di forma. È opportuno riservare il nome di archetipo all'oggetto ricostruito, cioè l'antenato comune all'intera tradizione, in quanto distinto dall'originale perché già corrotto: la sua consistenza va sempre dimostrata. Il Timpanaro ha mostrato che il nome archetypus col semplice valore di capostipite si trova già in Erasmo, dalla 2a edizione degli Adagia (1538); mentre di codex archetypus in accezione lachmanniana discorrono già alcuni contemporanei del Lachmann, in particolare il classicista danese Johan Nicolai Madvig; il Lachmann, nel commento a Lucrezio (1850), rivendica la definizione come sua: «id exemplar ceterorum archetypon (ita appellare soleo)». Ed eccone il contenuto: «Il Lachmann fondava il suo metodo sul presupposto che la tradizione di ogni autore risalisse sempre e in ogni caso a un unico esemplare già sfigurato di errori e lacune, quello ch'egli chiamava archetipo» (Pasquali, 19522, p. 15). Qui 'autore', poiché la critica testuale nasce in filologia classica, vale autore greco o latino. E in astratto si può anche pensare che l'eccezione sistematica si fondi sopra precise ragioni culturali: per esempio, «che già prima del 900 tutti i classici greci oggi superstiti (si eccettuano naturalmente i testi ritrovati in papiri) furono tradotti dalla maiuscola in minuscola, e a un tempo corredati degli accenti e degli spiriti ormai obbligatori. Un lavoro di tal genere, lungo e fastidioso, non si fa due volte senza necessità» (ibid.)\ gli archetipi dei latini sarebbero stati elaborati in un periodo che dalla cosiddetta 'Rinascita carolingia' porta, a ritroso, fino al Tardo Impero. In fatto, Giorgio Pasquali ha dedicato un intero monumentale volume (Storia della tradizione e critica del testo, Firenze 1934), nato da una recensione al manualetto lachmanniano di Paul Maas, a casi, tutto sommato squisiti, di tradizione che oltrepassi l'archetipo lachmanniano. Ma anche in linea di principio il sospetto prudenziale dell'interposizione di un archetipo lachmanniano non potrebbe esonerare dalla dimostrazione che l'oggetto ricostruito non sia un equivalente dell'originale, un (per usare il termine posili vistico-pragmatistico) als ob. Trasmissione verticale e orizzontale. - Nel caso più semplice, da servire come parametro per misurare i casi abnormi, la trasmissione è «verticale» (termine del Pasquali), cioè va senza deviazioni di copia in copia e ogni testimone risale a un solo genitore, ed è univoca, cioè riguarda un testo fissato senza alternative. Il Pasquali chiama «orizzontale» o «trasversale» una tradizione in cui intervenga più di un antigrafo, per contaminazione o collazione, totale o parziale. Il caso di gran lunga più frequente è quello della collazione parziale, che è sempre stato, e presumibilmente sarà sempre, praticato dagli editori speditivi, fedeli a un antigrafo salvo i punti insoddisfacenti, per cui si ricorre ad altro esemplare: questo comportamento antilachmanniano può essere proiettato a ritroso sugli antichi scribi, salva la meno facile disponibilità in quei tempi di altri esemplari, che spiega il prevalere, nei copisti (purtroppo spesso semicolti) che vogliano capire il loro testo, dell'emendamento congetturale sulla collazione. Ci può essere contravvenzione anche all'univocità, nel senso che l'esemplare può contenere, in interlineo o in margine, varianti redazionali (nei casi-limite, d'autore), offerte alla scelta dei copiatori. Ricostruzione. — Dall'attestazione unica si risale verso l'equivalente dell'originale attraverso eventuali incoerenze e discontinuità di certezza avvertite nel suo interno. La critica interna, applicandosi a quella 'proiezione sul piano' che è il manoscritto unico, ne ricava uno spazio e ricostruisce, detto con altra

metafora, una 'diacronia'. (È acquisito il parallelismo della critica testuale alla linguistica comparata ed è razionale proseguire il parallelismo fino alla linguistica strutturale, visto che la ricostruzione dell'originale è il rintracciamento di uno stato sincronico e che l'abbandono del manoscritto unico significa ricavare dati diacronici, a ritroso, dalle disuguaglianze, che sempre ci sono in lingua, di uno stato sincronico, per ricavare uno stato sincronico più arretrato. La ricostruzione dell'originale è formalmente assimilabile alla ricostruzione dell'indoeuropeo meno in Bopp che in Saussure). Il ricostruito è più vero del documento. Questo principio non è scosso dalle scorrettezze di procedura che in fatto possono essere state commesse. Il divieto di Bédier agli interventi ha valore di semplice monito (storicamente preziosissimo) alla cautela verso gli arbitri che un'incom-posta immaginazione si apre entro il legittimo campo d'azione della fantasia scientifica. I manoscritti esistenti e tangibili non sono, come diceva il maestro francese, «il nostro bene» se non sono criticati, cioè interiorizzati: anche la conservazione è una tuzioristica ipotesi di lavoro. Critica interna. - La critica interna, quale si esercita sul manoscritto unico, ma naturalmente quale si esercita anche sugli archetipi e subarchetipi ricostruiti, si compone di fattispecie e perciò non può essere sottoposta a generalizzazioni esaurienti. Senza sollevare dubbi in casi singoli sulla divinatio (con cui peraltro si designa anche la folgorante rapidità e abbreviazione psicologica di un ragionamento), un maggior grado di certezza si riesce a misurare quando le proposte risultino seriali. Esse si riferiscono a elementi della struttura, e dunque iterabili, particolarmente metrici e ritmici per i testi in verso o in prosa numerosa. Formule che riflettano una realtà legislativa complessa consentono di evitare eccessi semplificatori di correzioni, talora denunciati dal loro stesso numero. Tali formule riescono a portare a uno stato soddisfacente solo una parte di certi testi, altri scalano secondo un grado di probabilità assai variabile: è allora materia di discrezione se intervenire tipograficamente in modo diretto, e fino a che limite, o serbare i risultati della critica a un apparato o altra sezione didascalica. Gettare la spugna e avvolgere tutto il testo di una crux iniziale si può a ragion veduta e con espressa giustificazione (salvo ovviamente i casi di ricerca riuscita sterile, poiché i tentativi riusciti sono solo, come avviene di ogni oggetto sperimentale, una parte di quelli esperiti, e in filologia una parola pronunciabile è a prezzo di molti silenzi sul proprio lavoro). 'Excursus' metrico. - Molte brillanti correzioni della filologia classica nel secolo scorso sono dovute a riconoscimenti menici non elementari, nel campo specialmente della poesia drammatica, segnatamente nei comici dai 'numeri innumeri'. Formule composte o alternative valgono anche per le chansons de geste francesi, dove il décasyllabe epico tollera già l'apparizione di qualche alessandrino, e il décasyllabe stesso presenta varie forme di cesura. La loro imitazione riesce tuttavia senza regola fuori di Francia, nel repertorio franco-italiano e anche in quello anglonormanno (dove però balenano complicate situazioni 'continentali' in chansons a manoscritto unico, quali i cosiddetti I*Merinoe Guillaume, oltre al Roland di Oxford, per non parlate del Gormond che è in octosyllabes). È dubbio che questa licenza vada estesa alla Spagna del Qid, dove il Menéndez Pidal ha creduto di portare al dover essere dall'essere l'alternanza del codice unico da dieci a venti sillabe con prevalere della sistemazione media, mentre è stata indicata, recentemente dal Chiarini, la strada di alcune sicure normalizzazioni (e all'accanita conservazione testuale si oppone nell'ultimo Pidal il frangimento in due mani del prima creduto autore unico). Nella Spagna medievale è stato ben dimostrato l'anisosillabismo di ciò che esorbita dallo stretto mester de clerecia (l'Henrìquez Urena gli ha dedicato un libro meritorio), esempio luminoso il verso di arte mayor: compito di una filologia non rinunciataria, e che voglia foggiarsi uno strumento atto a sondare la sanità o corruzione ritmica dei testi, è misurare le escursioni, come ha fatto il Chiarini per la cuaderna via di Juan Ruiz, opposta alla isosillabica della clerecia. Formule anisosillabiche sono state di recente studiate metodicamente nell'antica poesia italiana. Si va dall'escursione massima, e ben personale, di Jacopone, per il quale soccorre la pluralità dei manoscritti, all'alternanza di gran lunga più frequente, la quale si verifica nell'ottonario-novenario (adattamento dell'octosyllabe francese): non avervi posto mente costrinse il Salvioni a potare in Bescapè una quantità inverosimile di versi. Finora non si è ottenuto un adeguato coordinamento, in ordine a questo problema, di critica testuale e filologia musicale, incline quest'ultima piuttosto a coonestare la variabilità fin dal latino medievale (ma si oppone l'inconcutibile isosillabismo d'un fenomeno solidalmente letterario-melodico qual è la poesia trobadorica). Altri limiti da misurare sono quelli della rima e dell'assonanza, sia nei rapporti reciproci (possibilità di rime imperfette dal punto di vista consonantico) sia in quanto esse hanno di comune (registri vocalici sotto accento e dopo). Per la prosa va segnalata la possibilità di costituire in criterio correttorio le clausole della prosa d'arte grecolatina ed eventualmente le forme di cursus in quella latina medievale, coi suoi prolungamenti volgari.

Pioniere di simile analisi, peraltro non ancora, ché sarebbe stato effettivamente prematuro, a scopo correttorio, è stato per il territorio italiano il Parodi, seguito dallo Schiaffini. Il fatto che nelle francescane Laudes creaturarum un solo stico sia sprovvisto di ogni possibile formula di cursus ha indotto a congetturare un supplemento, «per lo quale ennallù-mini / [nói] la nócte» (o «[nòie] la nócte»). 1 [Per la legittimità del testo tradito ora interviene Aldo Menichetti, in Letteratura italiana Einaudi, iii.i, 1984, pp. 363-4]. Parametri plurimi nell'attestazione unica. - Dall'attestazione plurima si risale per successive induzioni a una figura di identità testuale totale o a tratti solo probabile. Ad essa torna ad applicarsi la critica interna, la quale è dunque la sola costante della ricostruzione e fa sì che non ci sia una differenza qualitativa fra attestazione unica e attestazione plurima dopo sottoposta a recensio. C'è solo nell'attestazione unica una maggior probabilità di innovazioni (errori) non avvertibili, che una collazione con altri testimoni farebbe percepire facilmente. In qualche modo si può dire che la critica interna supplisca con la pluralità dei suoi parametri alla naturale pluralità e 'voluminosità' dell'attestazione plurima. Inizialmente infatti essa non di rado e solo negativa, cioè consente la pura localizzazione del guasto e non il rimedio; e la localizzazione per di più può essere solo globale e approssimativa (per esempio l'ipermetria o l'ipometria dove non si riesca a individuare esattamente la sillaba sospetta o il luogo di caduta della sillaba) o addirittura alternativa (per esempio una stilisticamente inammissibile identità di parola-rima, come più volte nel Fiore, senza che sia palese se si tratti di ripetizione o di anticipo). Tutto lo sforzo del critico deve consistere allora nella ricerca di dati (per esempio luoghi paralleli all'interno, luoghi paralleli in altre opere dell'autore, collazione con l'originale se si tratta, come nel caso del Fiore, di parafrasi pur non vincolante) per riempire la zona colpita di contenuto positivo e, in particolare, scegliere oggettivamente nei casi opzionali. Riduzione nell'attestazione plurima. — L'attestazione plurima costituisce da sola uno spazio che consente di seriare in cronologia relativa ascendente, e di eliminare successivamente, le innovazioni subentrate nel testo. La riduzione fu attuata dapprima con mezzi bonari legittimati dal gran numero, benché riprovati dalla logica. Uno è la limitazione ai manoscritti più antichi, al quale il Pasquali (ma già il Semler) giustamente oppone il canone che enuncia in modo lapidario «recentiores, non deterio-res»: la sparizione dei loro antigrafi può doversi al caso, ma qualche volta proprio al fatto che ne esisteva una copia più leggibile o in migliore stato fisico di conservazione. Tuttavia, poiché la corruzione è per definizione progressiva nel tempo, è comprensibile che anche in epoca lachmanniana, e perciò presso editori convinti della necessità teorica d'una recensio esauriente, la presenza d'una tradizione così abbondante da render possibile, in una vita di editore, l'edizione solo a prezzo d'una decimazione abbia suggerito di mettere fra parentesi i manoscritti più recenti. Così ha fatto sistematicamente Ernest Langlois per la sua eccellente edizione del Roman de la Rose, l'opera del Medioevo volgare più diffusa dopo la Commedia (non si scordi che ai suoi tempi i viaggi erano ben più onerosi, e l'area va dalla California a Leningrado, da Stoccolma alla Città del Capo, né erano stati ancora inventati i microfilms); del resto sondaggi effettuati nell'ampia sfera da lui trascurata, di codici più tardi del Trecento e di stampe incunabule o cinquecentesche, hanno rivelato una situazione molto interessante per quanto spetta alla storia della tradizione, e anche materiale, assente dall'apparato del Langlois, rinviabile al Duecento, ma nulla suscettibile di salire a testo. Quanto alla Commedia, l'edizione del Petrocchi si limita per ora alla prima generazione di manoscritti (con scelta registrazione di attestazioni più tarde), ma prevede espressamente un nuovo apparato per i codici recenziori. Col crescere della frequenza, specialmente con apertura a infiltrazioni 'orizzontali', gli inconvenienti diminuiscono; ma il gran numero può essere stimolo ad artifizi non razionali, come quelli ispirati a dom Quentin dalla pletora statistica della Vulgata. Recisamente da riprovare è comunque l'altro strumento ingenuo di riduzione, consistente nell'affidarsi alla maggioranza dei testimoni, s'intenda la maggioranza semplice: basti riflettere che, se questo criterio fosse valido, la maggioranza potrebb'essere falsata co piando dei manoscritti presenti, una o più volte, separatameli ir o attraverso i derivati. Questa grottesca ipotesi già indica quale sia il solo criterio preliminare di decimazione lachmanniana unii te valido, e dunque obbligatorio: chiamandosi descrìtti i eodii i 'figli', l'eliminatio codicum descriptorum. Una copia (o copia «li copia) si confessa per tale quando contiene particolarità dichiarabili solo per errata interpretazione di un dato materiale del modello (per esempio lacuna corrispondente a un foglio caduto e non avvertito, oppure saltato), o anche quando contiene tutti gli errori dell'altro più alcuni specifici. In questo caso potrebbe a rigore trattarsi di

derivazione da un manoscritto identico (manoscritto 'fratello'), e pertanto di ciò che si potrebbe definire equivalente di descriptus; ma l'equivalente ha tutte le proprietà ili quello assente a cui equivale e non è oggetto di calcolo separato. Un bell'esempio di eliminazione di descripti o loro equivalenti è negli Studi sul Canzoniere di Dante del Barbi, che ha consentito di semplificare drasticamente la tradizione dei nostri lirici antichi, sgombrando il regesto caotico per sovrabbondanza ili cui è vitando paradigma il Cavalcanti dell'Arnone. Metodo lachmanniano. - Il procedimento scientifico di riduzione dell'attestazione plurima, che porta alla probabilità di una maggioranza 'qualificata' (su un numero di testimonianze non visibilmente riducibili), si suol chiamare lachmanniano dal nome di Karl Lachmann, autore di molte edizioni critiche di clastici latini, da Properzio (1816) a Lucrezio (1850) - e il riferimento teoretico è fatto specialmente ai Prolegomena a quest'ulti ino autore -, ma altresì di un Nuovo Testamento greco (e poi anche latino) e di parecchi testi in mittelhochdeutsch cominciando (lai Nihelungi. Che il Lachmann avesse avuto precursori metodologici nella philologia sacra tedesca e alemannica del Settecento (Wettstein, Bengel, Semler, Griesbach), aveva mostrato il Pasquali (v., 1934, cap. 1). Ora sulle sue orme il Timpanaro (v., 1963), in un'indagine sistematica e accuratissima che corrisponde anche a un'esigenza formulata dal Bédier, ha fatto valere come al Lachmann, espositore sovente vago e coniti unente oracolare, si siano associati tanti filologi coevi e conterranei nell'elaborazione del metodo da lui intitolato che si può discorrere di metodo lachmanniano quasi solo simbolicamente. Valga dunque l'avvertimento. Nozione di errore L'essenziale della riduzione lachmannia consiste nel considerare come testimonianza unica quella di due o più codici coincidenti in errori comuni, purché verosimilmente non poligenetici. II calcolo della maggioranza, della quale accettare la lezione, si effettua dunque non su individui presenti (esclusi i descripti), ma su famiglie (insiemi che possono contare anche un individuo solo). La genealogia delle testimonian ze si suol rappresentare in un grafico o albero detto stemma codicum, in cui gli individui sono contrassegnati con siglerà iniziale maiuscola e le famiglie e sottofamiglie con lettere minuscole o greche, i rapporti genealogici con segmenti di verticale (il primo stemma codicum, e con questo nome, fu tracciato, secondo le ricerche del Timpanaro, da Cari Gottlob Zumpt per le Verrine di Cicerone, 1831, seguì Friedrich Wilhelm Ritschl per l'umanista bizantino Tommaso Magistro, 1832, e - col nome di stemma - per Plauto, 1849, quindi il Madvig per due orazioni ciceroniane, 1833; concetti genealogici sono anticipati dai settecentisti Bengel, Semler ed Ernesti, il primo dei quali discorreva di tabula genealogica). Se si analizzano i singoli costituenti del processo, 'errore' designa un'innovazione privilegiata di percettibilità dal suo stesso guasto; il concetto di errore va estrapolato in quello di innovazione comunque riconoscibile (non a solo lume di critica interna), tant'è vero che già il Lachmann stesso si valse per il Nuovo Testamento di criteri anche geografici, concludendo per la maggiore antichità - perché a tanto si riduce la bontà - delle lezioni attestate, per usare i termini invalsi nella linguistica geografica dei primi decenni di questo secolo, in 'aree laterali' rispetto a quelle attestate in 'aree centrali' (una carta di atlante linguistico rappresenta la proiezione orizzontale d'una stratificazione verticale, e analogamente si potrebbero moltiplicare gli esempì di cronologia relativa ricavabile dalla distribuzione geografica, così la redazione assonanzata del Roland conservata solo alla periferia, in Inghilterra col manoscritto di Oxford e in Italia con uno dei manoscritti francoitaliani di Venezia). La considerazione assiologica, cioè l'opposizione di 'cattivo' e 'buono', ha una parte abbastanza modesta, visto che non tutte le lezioni 'cattive' sono in assoluto cattive e che le lezioni 'buone' sono solo le non cattive. Per un circolo, che non ha nulla di vizioso, ma su cui è bene richiamare l'incuriosita attenzione dell'operatore, fe.. lezioni 'cattive' implicano che si predichino 'buone' e 'cattive' alcune lezioni per sé indifferenti. Si scartano le lezioni dei testimoni rimasti isolati (procedura lachmanniana, anche se non inaudita prima del Lachmann, che solo col Maas è stata battezzata eliminatio lectionum singularium) e più in generale dei raggruppamenti minoritari. Una certa struttura dell'albero, non un diretto giudizio di vaio-re, le condanna, anche se a fondamento del riconoscimento della figura strutturale sta un giudizio che può offrirsi come di valore, ma che sempre è di stima cronologica. Diffrazione. — Il requisito che si chiede all'errore è di essere (probabilmente) monogenetico. Valore non sicuramente probatorio detengono gli errori per loro natura suscettibili di essere poligenetici, cioè

praticabili da più scribi indipendenti. E sono proprio i casi in cui più palese appare l'eziologia dell'errore, e di conseguenza garantita l'erroneità: sia che si tratti di figure puntuali di 'distrazione' attuate a livello individuale, come le assimilazioni specificabili in cadute per omeoteleuto od omeoarchia; sia che si tratti di figure strutturabili, a livello collettivo, in vere forme culturali quali l'usus scribendi e la lectio facilior (concetti, benché non termini, passabilmente antichi, il primo adoperato fin da Aristarco, l'altro di cui il Timpanaro trova una formulazione precisa da fine Seicento, nel biblista Jean Ledere). Ognuno che trascriva da una forma desueta di scrittura è esposto a determinati equivoci, sempre gli stessi: tanto che spesso si riescono a 'datare' trascrizioni e antigrafi. E una forma mal comprensibile rischia di essere o scambiata con una banale fisicamente vicina o surrogata con un sinonimo più corrente. Si avverta tuttavia che il criterio della lectio difficilior miete vittime fra gli apprendisti stregoni, inclini a riconoscere per tale più d'una insensata deformità. Ma la lectio difficilior può essere soggetta a sostituzioni non sempre univoche, bensì multiple. Si giùnge allora a quella che qualcuno ha chiamato, traendo il termine dall'ottica, 'diffrazione', e di cui si può tracciare sommariamente la tipologia. La lezione originaria è surrogata (irregolarmente rispetto allo stemma) da varie lezioni per sé indifferenti, pur persistendo in parte della tradizione (diffrazione in presenza): così se nella Vita antico-francese di sant'Alessio, v. 40, acatet del codice L 'procura', detto del padre in riferimento alla sposa cercata per Alessio, è sostituito dai banali ma divergenti aplaide (A), porchace (P), a quise (SM); proprio della diffrazione è che la presenza (della lezione originaria) sia di collocazione instabile. Tuttavia la lezione originaria, assente (qui comincia la diffrazione in assenza), può essere stata surrogata variamente con lezioni almeno in parte palesemente erronee: è merito del grande Adolf Tobler aver congetturato che in Alexis 155, dove i codici hanno o seignor ipermetro (LP) o determinante, per caduta d'una preposizione monosillabica, errore contestuale (P2, allora ignoto), o sire in caso obliquo (solecismo) (A), o ami del verso precedente (S), bisognerà congetturare il raro per maschile 'coniuge'. Di qui è facile inferire che, anche dov'è una divergenza generale tra varianti per sé indifferenti, come in Alexis 39, che comincia con or (LM) o ja (A) o et (P) o sii (da ristabilire in si, S), si debba congetturare una lectio difficilior precedente, se ne possa poi, o no, proporre una soddisfacente (e forse qui si può, ruovet per volt 'vuole'). È evidente però che col salto del Tobler si è bucato il tetto della mera recensio, rispetto alla quale la lectio difficilior (presente) rappresenta un ostacolo sulla via che ha per fine la scelta automatica, e si è saldata la lectio difficilior (assente) all'emendatio: la lectio difficilior, anche se eventualmente inafferrabile, séguita però ad avere il carattere di necessità, imposto da una certa struttura della tradizione, che ineriva alla scelta lachmanniana. Quella restituzione translachmanniana che è l'ultimo tipo di diffrazione in assenza (il tipo imposto dall'associazione di pluralità e banalità delle varianti) cerca di riempirsi di sostanza testuale, procurandosi un'oggettività nel reperimento di un elemento costante. Tale è il caso che si offre quando si constata che divergenze adiafore, nei vv. 440, 445 e 465, si verificano in presenza di merveille, che andrà dunque restituito nel primitivo mereveille. Qui lo spazio della tradizione plurima raggiunge lo spazio della critica interna, quale si può esercitare anzitutto sulla tradizione unica. Aumentandone la certezza con l'iterazione, il canone ricostruttivo della diffrazione si annuncia come particolarmente fecondo. Morfologia dello stemma. — Il numero degli enti congetturali (contrassegnati infatti da minuscole), archetipi, subarchetipi, interposti, è il minimo richiesto dalle necessità del ragionamento, non è un numero storicamente effettuale; quei simboli indicano piuttosto classi o insiemi di individui (contenenti almeno un individuo) che individui, piuttosto segmenti (verticali) che punti, o meglio è irrilevante che siano punti o segmenti. L'aumento arbitrario degli interpositi può essere antieconomico, ma è innocuo. Tutt'altro regime ha il più alto livello orizzontale, quello delle famiglie irriducibili, dal cui numero si può ricavare l'eventuale maggioranza che determina automaticamente la scelta. Esiste un'irrecusabile tendenza alla loro riduzione, tanto più che un numero non ristretto parrebbe suggerire presenza di redazioni 'parallele'; ma, quanto è incomparabilmente più facile riunire i piani bassi, come si dice, dell'albero che i piani alti, è salutare lasciare agire il gioco sincero delle probabilità, se non si vuole vanificare lo sforzo lachmanniano di una ricerca di meccanicità, sottratta al gusto soggettivo (judicium). Recensione aperta. - Le considerazioni qui esposte presuppongono sempre la 'verticalità' della tradizione. Una tradizione 'trasversale', cioè che ha ereditato varianti alternative, o peggio che ha collazionato, puntualmente o sistematicamente, uno o più concorrenti del suo antigrafo, è una tradizione contaminata, assai più diffìcile da ricondurre alla ragione. I critici più ortodossamente lachmanniani, e in ispecie il Maas, non vedono rimedi contro la contaminazione; meglio negherebbero l'esistenza di rimedi generalizzati, poiché ogni realtà offre ostacoli particolari alla razionalizzazione, che possono imporre

comportamenti diversi, fino alla rinuncia. L'Avalle per esempio ha teorizzato alcuni metodi di cura, proponendo una robusta ed economica semplificazione secondo esperienze suggeritegli da canzonieri occitanici e italiani. Ma è da confessare che la condotta di uno scriba il quale si avvicinasse al costume dei moderni editori del tipo composito, senza peraltro fornire apparati e indicazioni sulle fonti, riuscirebbe assai più difficoltosa da ricostruire. Tralasciando ciò che non può essere generalizzato (il che non significa affatto che si rinuncia o si esorta a rinunciare a fare), va espressamente sottolineato che un vivace fattore di 'recensione aperta', per designarla col felice termine del Pasquali che l'opponeva alla 'recensione chiusa' del modello lachmanniano semplificato, è la memoria. Nella trasmissione per copia, specialmente di opere (massimamente volgari) molto diffuse, conosciute almeno in parte a mente, interferisce, come elemento estraneo alla scrittura, la memoria, sia come intrusione di passi paralleli sia come ricordo di varianti: è il caso della Commedia, trasmessa non di rado con ripetizione o anticipo di luoghi più o meno vicini o con innovazioni testuali la cui diffusione si fa, come ha mostrato il Petrocchi, non verticalmente ma a macchia dolio, e difficilmente potrebbe, se non per eccezione, attribuirsi a confronto con un esemplare più moderno o a scelta effettuata su un portatore di varianti. Se dalla tradizione scritta si distingue la tradizione mista di mnemonica, sarebbe errato opporle, come erano tentati di fare sommariamente studiosi romantico-positivisti, la tradizione orale. È il caso del Rajna, che, scoperto un nuovo antico testimone dell'Alexis, si sforza di tracciare uno stemma codicum, ma ne ottiene, per il tratto esaminato, tanti quanti sono i versi, concludendo che dunque nessuno è valido e che non si tratta di tradizione scritta ma orale. A parte gli errori di fatto, dovuti alla costituzione di alberi sul fondamento di lezioni comuni non erronee, e a parte anche l'inverosimiglianza stilistica, sembrerebbe che con tradizione orale s'indicasse uno stato caotico e aleatorio, una 'casualità' sulla quale si potrebbe essere tentati di intervenire matematicamente applicando il calcolo delle probabilità (e come in realtà hanno procurato di proporre le ricerche distribuzionali e tassonomiche degli americani Hill e Dearing). Ma tradizione scritta e tradizione orale non possono obbedire a logiche formali diverse: la fenomenologia delle innovazioni in linea di principio è identica, salvo la maggior escursione nella tradizione orale (e presumibilmente la maggior interferenza della memoria). Le modalità editoriali diverse della ricostruzione, dove si tratta piuttosto di seriare i concorrenti (si vedano i testi popolari ricostruiti dal Barbi e dal Sàntoli), non dipendono solo dalla minor certezza paleontologica, ma dal fatto, così luminosamente illustrato dal Menéndez Pidal, che in fondo nessuna redazione è più 'vera' e 'autentica' delle altre. Instabilità dello stemma. - La maggioranza, per così dire, 'qualificata' del Lachmann, se consente un automatismo di scoperta della verità, ha però anche la proprietà, pregio o vizio, di una virtuale instabilità. Essa è infatti, come fu rilevato acutamente dal Bédier (che peraltro ricorse, per il suo hai de l'Ombre, a un casus fictus), alla mercé della scoperta d'un nuovo testimone, suscettibile di alterare le costellazioni e quindi, in casi privilegiati, anche il numero delle famiglie. Naturalmente non tutti i nuovi acquisti, quali si hanno ogni giorno, esercitano un effetto dirompente, anzi: la maggior parte, com'è naturale, rivelano che quelle che erano fin qui le lectiones singulares di un altro testimone (chiamiamolo X) sono in tutto o in parte, conforme alla costante potenziale ambiguità fra individuo e gruppo (fra punto e segmento), caratteristiche non di X-individuo ma di X-gruppo; così il citato nuovo codice di Alexis studiato dal Rajna (V), per quanto assai interessante, si raggruppa con A. Ma è sempre aperta la possibilità che per il nuovo intervento muti il numero delle famiglie, o anche la loro struttura (per esempio, poste più famiglie a, b, c, può darsi che il nuovo testimone opponga alle loro lezioni comuni lezioni non congetturabili più autorevoli, costituendosi da solo in famiglia contro la famiglia unica a-b-c e determinando così stavolta una contrazione del numero). Se « è il numero dei codici (non de scripti), il passaggio a n 4-1 determina o può determinare altrettanti salti di qualità secondo che n = i (nel qual caso è anche il numero delle famiglie) o n = 2 (nel qual caso n è anche il numero delle famiglie, ma non lo sappiamo per n+i) o n>2 (nel qual caso non sappiamo delle famiglie). L'assenza eventuale di lezione stabile è un vizio per Bédier, della cui denuncia è questo un punto portante, non abbastanza rilevato; ma il continuo miglioramento dinamico non si vede come non sia una qualità positiva. Questa marcia di avvicinamento alla verità, una verità per così dire frazionaria in opposizione alla verità presuntamente organica dei singoli testimoni, una verità come diminuzione di errore, sembra un procedimento degno della scienza. Questioni di 'origini'. - Si è potuto rimproverare al metodo lachmanniano di cominciare 'dai piedi' anziché 'dalla testa'. Questo è semmai un titolo di gloria, se ciò significa muovere dalla storia verso la preistoria. Un'epistemologia parallela regge critica testuale e ricerca delle 'origini' in storia letteraria, anche se storicamente accade che la vischiosità della tradizione possa generare qualche sfasamento

secondo i campi dove è all'opera una stessa mente. Una fenomenologia romantica guida la filogenesi, si tratti di epos, dramma, lirica o novella. Il mirabile Gaston Paris razionalista che fonda con l'edizione di Alexis (1872) la critica testuale romanza, strenua applicazione pionieristica di logica formale, non collima con l'eloquente esemplifica t ore ancora faurieliano dell'a priori romantico nell'Histoire poétique de Charlemagne (1865), anche se un'erudizione poi divenuta norma si studia di colmare indiziariamente i vuoti della presunta continuità fra il Carlomagno storico e il Carlomagno delle chansons de geste. Più rigida coerenza stringe il vecchio Rajna - che nell'ultimo lemma (1930) della sua fluviale bibliografia risospinge in quell'equivalente di preistoria, com'egli crede, senza certa legge che è la tradizione orale la trasmissione di Alexis - all'erudito che nelle Origini dell'epopea francese (1884) si era adoperato a costruire una perduta fase addirittura precarolina scavando nella storiografia merovingica. Sono romantiche nostalgie di 'assenza', a cui si oppone lo zelo bédieriano di 'presenza'. La formazione del Bédier era ovviamente parisiana e da tale ortodossia non si allontana l'articolo sulle feste di maggio, che verte sulle 'origini' della lirica francese, ma all'oralità si oppone, nella bellissima edizione di sire Thomas, la ricostruzione del contenuto, nonché delle parti perdute di Thomas, dell'archetipo tristaniano (di Chrétien de Troyes?), alla cui fondatezza portò la controprova la quasi perfetta congruenza col tentativo esperito contemporaneamente da Wolfgang Golther. Ma già nella sua tesi su un argomento assegnatogli proprio dal Paris, Les fabliaux (1893), primo prodotto ante litteram dello strutturalismo letterario, il Bédier aveva infranto il mito orientalistico, che nella distanza geografica idoleggiava un equivalente della preistoria, anzi aveva vittoriosamente mostrato la poligenesi dei temi in astratto e indicato che il culmine della coerenza può essere un acquisto più tardo (come - giacché si sta tracciando un parallelo fra ecdotica e filologia storico-letteraria - un manoscritto troppo ineccepibile può essere sospetto di correzione e levigamento). I fabliaux sono 'presenze', opere del Miilecento e Duecento rispecchianti gusti borghesi di quei secoli, e allo stesso modo al Bédier, che aveva intrapreso con intenzioni parisiane lo studio delle chansons de geste, queste apparvero, ben presto, nelle Légendes épiques (1908 ss.), 'presenze' dei secoli di loro diffusione, conformi pure a interessi del tempo. Ciò si armonizza perfettamente con la sua teorizzata prassi ecdotica generale, specificata proprio nel più antico di quei testi, il Roland (edizione del 1927), per cui un manoscritto (il 'miglior' manoscritto) costituisce un'intangibile 'presenza'. Entrambi i postulati non sono rinnovabili come tali, ma presentano l'inestimabile vantaggio di essere correggibili partendo 'dai piedi', cioè dal li mite documentario (preso dal Bédier come limite stabile): base reale che la ragione si riserva di fare oltrepassare. Critica in ter na e parametri esterni aiutano a 'invecchiare' la redazione di Oxford, rimovendone innovazioni. La tesi storico-letteraria, indubbiamente valida per alcuni individui e per un certo periodo, che in quanto generalizzata trascende il limite della 'presenza' (cioè la collaborazione fra monaci e giullari sulle strade dei grandi pellegrinaggi dalla prima crociata o, secondo una correzione, dalle pre-crociate di Spagna), dà adito a varchi cronologici di cui i più sicuri, adunati da un rilevantissimo impegno collettivo, sono puntuali: oltre al da molto tempo noto frammento dell'Aia, la glossa Emilianense (di San Millàn) pubblicata da Dama-so Alonso, la coppia onomastica RolandoOlivieri ecc. Alla continuità presunta ma impalpabile del momento positivistico fu in particolare surrogata una continuità tutta letteraria nell'eredità culturale virgiliana dell'epoca carolingia e capetingia (dal Wilmotte al Chiri e al Curtius); ma qui il vero scatto fu il reperto di André Burger, cioè la scoperta di frammenti metrici latini (di genere affine a quelli dell'Aia) fra i materiali d'impiego dello pseudo-Turpino, proprio nel Libro di San Giacomo, uno dei testi ecclesiastici più adoperati dal Bédier. Perfino il Menéndez Pidal nell'elaborazione del suo grande edificio anti-bédieriano (La «Chanson de Roland» y el neotradicionalismo, 1959) è indotto a retrocedere passo passo nello stabilire la nuova continuità (fino, nella sua ricostruzione, a un paio di secoli da Roncisvalle). Il Bédier, questo irriducibile avversario delle soluzioni 'senza continuità', permane dunque un po' come la coscienza del momento prima post- che antibédieriano. Attestazione binaria. - Una posizione particolarmente delicata offre l'attestazione binaria, solo apparentemente intermedia fra l'unica e la plurima. Di fronte alla sicurezza forzosa della prima e alle probabilità di automatismo inerenti alla seconda, è in continua crisi di libertà, una crisi buridanea «intra due cibi distanti e moventi d'un modo». Essa appare un guadagno solo dinamicamente: dato un manoscritto unico, il sopravvenire d'una seconda testimonianza svela 'errori' da sé non percepibili e comunque sana con la sua realtà mende mal rimediabili, a ogni modo mal rimediate. Una dilettazione dei tecnici consiste, in simili casi, nel constatare quantità e qualità delle divinazioni e degli insuccessi: si ha un criterio per misurare, addirittura in percentuale, la competenza d'un editore. Ma staticamente l'attestazione binaria non offre possibilità oggettive di scelta fra lezioni adiafore e sembrerebbe restaurare,

benedizione o condanna che sia, un campo d'azione per il già esorcizzato judicium. A evitare ogni arbitrio, e in particolare la cavillosità che suole regnare sovrana nello stabilire le difficiliores, bisognerebbe dare una doppia edizione (almeno virtuale) depurata degli errori singoli, purché di erroneità inconcussa. Dell"evidenza' dell'errore la miglior fonte è dopo tutto la comparazione. Alberi bipartiti. - Eppure il judicium riesce a imporsi in un ingente numero di casi anche ad attestazione plurima grazie alla loro riduzione ad attestazione binaria, forzosa o sollecitata che sia. Il Bédier, nel preparare la sua 2a edizione del Lai de l'Ombre (1913), poi più determinatamente nello scritto del 1928 (La tradition manuscrite du «Lai de l'Ombre»), fu colpito per primo dalla singolarità del fatto che la stragrande maggioranza delle edizioni di testi antichi francesi, ma anche di buon numero di latini e di altre lingue volgari, si fonda su alberi a due rami, cominciando (ma il Bédier non ne rivela l'identità) dal primogenito, quello che Gaston Paris elaborò per Alexis. Dietro l'osservazione, riconosciuta sostanzialmente esatta anche per la filologia classica (nonostante gli alberi pluripartiti segnalati dal Pasquali), non stava una disposizione quasi metafisicamente metodologica, ma un'esperienza diretta: la ia edizione bédieriana (1890) si fondava anch'essa su un albero bifido, ma una recensione del Paris ne proponeva uno a tre rami, che salvaguardava, a suo dire, l'automatismo; entrato in aporia al momento della 2a edizione, il Bédier rinunciava a entrambi gli stemmata, il proprio e quello del maestro e recensore; né avrebbe poi aderito, per eccellenti ragioni di merito, alle conseguenze testuali discendenti da un altro albero tripartito (inclusivo di una contaminazione) proposto da dom Henri Quentin (v., 1926) sul fondamento d'un suo nuovo sconcertante metodo (questo metodo, che preannuncia gli esperimenti probabilistici prima dell'età dei calcolatori, prescindeva dalla distinzione di variante ed errore, definiva in terne di manoscritti la posizione dell'intermediario con argomenti statistici, ricavava lo stemma saldando le catene parziali). Ma qui non importa arbitrare il litigio specifico (benché importerebbe moltissimo per un nominalista qual era il Bédier): l'istruttoria non è stata riaperta da nessuno, e la ragione, che, per chi legga le argomentazioni del Bédier, sembra stare dalla parte del Paris, non gli è stata ancora attribuita in appello; è stato bensì riesaminato l'albero primogenito, quello di Alexis, con la conclusione che esso era non tripartito ma bipartito solo per errori d'informazione, non imputabili al Paris, e varrebbe la pena di rifare i calcoli per tutta quella che un diligente riscontro (Castellani) assicura permanere in complesso la collezione, l'erbario ecdotico, del Bédier. Importa invece, se la constatazione del Bédier individua realmente un comportamento degli editori (e non la davvero maggior probabilità che lo schema binario rifletta il modo della copiatura, o altra delle escogitazioni oppostele dalla bibliografìa in argomento), trovare una terapia adatta alla patologia. Se questa, come il Bédier finirà per credere su insinuazione del Roques (capofila dei seguaci francesi, e non francesi soltanto, del manoscritto unico), dipende da un prolungamento indebito, fino all'estremo limite, dell'assillante ricerca delle fautes communes (che trasforma l'opposizione di innovazione e lezione non innovante in opposizione assiologica di lectio deterior e potior), occorrerà, non si dice ricercare artificiosamente la tripartizione o pluripartizione degli alberi, ma applicare una particolare cautela alla riunione dei piani alti — operazione dopotutto non irreversibile. Che se poi si trattasse di una malattia dell'inconscio rivendicante sovranità ultima di scelta ('egotismo' anziché 'moralismo' dell'editore), bisognerà ugualmente portarla, al modo freudiano, alla luce della coscienza. La formulazione del rimedio non ha, come pedagogica, alcun fulgore di eleganza, ma si tratta di rovesciare il percorso patologico. Il rimedio del manoscritto unico, proposto dal Bédier (ma proposto, giova precisare, per i soli testi letterari del Medioevo volgare dall'enorme libertà di condotta), non è del resto preservato da inconvenienti flagranti, a parte la stessa ammissione di errori la cui probabilità è certezza. La correzione delle sole sviste 'evidenti' introduce un canone soggettivo dai confini variabili (come a posteriori mostrano le edizioni d'un testo, quale il Roland di Oxford, su cui è imperversato il metodo bédieriano ridotto da deposito di angoscia a pigra moda). Ma soprattutto la scelta del codice è tutta una difficoltà, data l'impraticabile attuazione generale di tante edizioni quanti i manoscritti. Il Bédier è primo a sapere che 'il migliore' non è necessariamente il più antico, giusta il monito che sarà del Pasquali, né il più corretto, che potrebbe dovere la sua levigatezza a uno scriba attento al senso a costo di interventi. Una definizione oggettiva, elaborata in àmbito neolachmanniano, del miglior manoscritto come di quello tanto resistente alla banalizzazione da offrire la maggior percentuale di lectiones singulares da conservare, presuppone l'elaborazione d'un'edizione lachmanniana. E infatti il migliore, o anche solo un buon manoscritto, è solo quello che un editore lachmanniano, quale per un pezzo fu il Bédier, è in grado d'indicare. Sostanza e forma testuale. - Il metodo lachmanniano è di validità insomma integrale per le scritture in

latino, greco, ebraico ecc., cioè in una lingua invariabile e intangibile come la gramatica dantesca. Vale solo per la sostanza dei testi volgari, non per la forma, cioè per la fonetica e per la morfologia, soggette a un'illimitata, e nemmeno di necessità organica, variabilità geografica e cronologica. La distinzione è stata teorizzata da Gaston Paris, sempre nell'edizione di Alexis (1872), che è un adattamento del lachmannismo alla sostanza romanza, ma il primo codice della ricostruzione formale. È una distinzione culturale di ambiente, comprensibile solo in un'epoca stilisticamente bilingue (un medio evo) dove una fase linguistica è addetta alla sacertà, un'altra al perenne adattamento di strumenti utili e illimitatamente appropriabili, non protetti, come si suol dire, dalla proprietà letteraria (e non solo per l'anonimato, ancora più frequente che per l'altra fase). Naturalmente la variabilità della forma in largo senso medievale si prolunga, per quanto in misura inevitabilmente meno violenta, nella variabilità della sostanza, fondamento esplicitamente sottostante alla rinuncia di Bédier a un testo critico: la differenza essenziale sta nel fatto che la forma è sottoposta a una continua poligenesi dell'innovazione (e la sua inorganica proteiformità è tale che, al limite, ripetendo, per oggettiva iterazione testuale o per errore, la medesima formula magari a poche sillabe di distanza, lo scriba medievale, questo ininterrotto collaboratore e concorrente del più spesso ignoto autore, suole introdurre variazioni formali). La matrice bilingue della situazione è riscontrabile in parecchie modalità. Il latino medievale differisce formalmente dal classico nell'aspetto grafico, che può avere solo indirette implicazioni fonetiche (ancor più raramente morfologiche, come nel surrogato locativo-accusativale del tipo Parisius 'a Parigi' stato in e moto a luogo): basti controllarne qualcuna delle più magistrali descrizioni, tra le quali ha probabilmente il primo luogo quella premessa dal Rajna alla sua editto maior (1896) del De vulgari eloquentia. Ciò presuppone la restaurazione grammaticale operata dalle varie rinascenze, prima la carolingia: così i più antichi manoscritti di Gregorio di Tours differiscono, anche se non con stretta organicità, dai postcarolini in 'errori' morfologici che nel complesso sembrano riflettere un sincero stato flessivo, qual è (statisticamente) descritto da Max Bonnet (Le latin de Grégoire de Tours) e dai suoi continuatori, segnatamente la Vielliard e la scuola americana di Henri Frédéric Muller (Pei, Sas). All'opposto estremo cronologico la 'classicizzazione' dei volgari torna a rendere, se non proprio intoccabile, stabile la forma non meno della sostanza, sicché a fine Quattrocento, per esempio nei paraggi della Raccolta Aragonese, innovazioni formali o addirittura grafiche ridiventano significative. Anche nei testi medievali la frontiera tra forma e sostanza può non esser sempre chiaramente tracciabile: che il futuro e il condizionale separati dell'antico lombardo (ò cantar, beve cantar) siano sostituiti dai sinonimi sintetici (cantaro, cantareve), è un fatto di mera morfologia o di sostanza contenutistica? In realtà quella di forma e di sostanza è più una polarizzazione che un'opposizione. Ricostruzione formale. - La ricostruzione formale (in quanto distinta dalla sostanziale) assume nel suo primo codificatore, il Paris, un aspetto di oltranza che cresce con le convenzioni adottate nell'editio minor di Alexis. Il punto di partenza è rappresentato dagli elementi obbiettivi che, trattandosi d'un testo in versi (assonanzati), sono ricavati dalle distinzioni vocaliche in rima (oggi si direbbe che se ne può descrivere questa parte del sistema fonologico originario), e in minor misura da quanto è garantito dal novero sillabico. Poiché la critica interna fornisce un'ossatura, di solito non la totalità della forma, si procede a un'integrazione la quale, oltre a estendere i risultati precedenti fuori dell'ambito strettamente topico, è condotta secondo la verosimiglianza documentaria di luogo e di tempo. La ricostruzione linguistica del Paris ha, e sempre più assume, una fisionomia organica e funzionale che non solo trascende il dato d'archivio, ma è estranea al comportamento degli scribi medievali: così l'esito di Ó in sillaba libera è convenzionalmente rappresentato con ou (onour), un punto sottoscritto evoca il carattere fricativo di -T conservato dopo atona e della dentale intervocalica, ecc. l'Alexis del Paris inaugura, anche se con raro vigore intellettuale, la moda traduttoria della filologia positivistica, della quale si può citare, per la mole del corpus cui è applicata coerentemente la versione in antico champenois, l'edizione di Chrétien de Troyes allestita dal Foerster. La funzionalità della forma, inclusa la grafia, si oppone alla sua storicità: sono queste le due contraddittorie componenti d'ogni ortografia alfabetica (inglese e francese sono paradigmi di tradizionalità, tedesco e spagnolo di economia), ma qui con storicità si vuole indicare la variabilità e incostanza della forma medievale. A tale razionalismo paleontologico, che va ben oltre la doverosa rimozione della patina, obiezioni di fatto sorsero nella stessa area positivistica. Si citi F 'ibridismo' regionale dei nostri antichi testi (specialmente trecenteschi) additato dal Rajna. Ma fu la filologia dell'idealismo ad assestare i colpi più decisivi contro il costume indiscriminato della traduzione (specialmente di testi oitanici) a norma della localizzazione degli autori: ciò ad opera di Heinrich Morf e della sua scuola (principalmente della decisiva tesi di Gertrud Wacker, 1916, sulle koinài dell'antico

francese), dei cui risultati non per nulla si affrettò a impadronirsi, divulgandoli ai propri fini, il Vossler. L'attenzione veniva richiamata sulle lingue chiamate con parola dantesca 'illustri' (da cui per esempio in Italia 'siciliano illustre') o, con richiamo all'antichità, koinài o finalmente (Gossen) scriptae. Come i dialetti letterari greci, di là dalla loro origine topografica, erano vincolati a singoli generi, giungendo a caratterizzarsi per interregionalismi e ipercorrezioni (è il caso del dialetto epico o omerico); e come in siciliano (da ricostruire) scrivevano poeti nativi delle più varie regioni d'Italia (l'aveva dimostrato il Cesareo, contro la tesi del Monaci e ancora del De Bartholomaeis, che la lingua degli antichi canzonieri mostrasse un 'contemperamento' originario), e in galiziano-portoghese poeti delle più varie regioni iberiche: così la moda linguistica francese si articolava in varie fasi cronologicamente stratificate, di cui principalmente una conservativa 'nor-manna' e una innovativa 'piccarda', valide anche oltre i confini primitivi e atte a produrre pure risultati d'innesto. Erano così demistificati gli sforzi di tanti laureandi tedeschi tendenti a far nascere in Grenzgebiete (distretti di frontiera), magari contro loro non equivoche asserzioni, legioni di scrittori di un'epoca che inseriva tratti del loro (per esempio del francien o parlare dell'Isola di Francia) in una cornice di altro dialetto letterario (per esempio il piccardo); ed era giustificato il fenomeno degli Zwitterreime (rime incrociate), cioè di rime che facevano baciare parole obbedienti a norme fonetiche contraddittorie (così -che una volta da -CIA come nel Nord e una volta da -CA come più a sud). I sistemi linguistici puri si rivelavano come relativamente rari e a ogni modo come ipotesi di lavoro da maneggiare con la più grande prudenza. Varia misura di restituzione formale. — Partendo dagli elementi obbiettivi, non sempre si è autorizzati a una restituzione totale. Se la rima per la sua flagranza viene a essere la regina delle prove, questa stessa evidenza la connota come sopravvivente a un'eventuale traduzione e la segnala come separatamente imitabile: essa si costituisce in parte di lingua speciale. D'altronde, anche dove non ostano prove specifiche alla liceità della restituzione, questa può presentarsi come non univoca, e il suo stato di lingua inquinato nell'astratta ineccepibilità delle corrispondenze da eccezioni alla norma. Entrambe queste condizioni si verificano a proposito della rima siciliana, e si verificavano anche prima che brani lirici siciliani (più antichi o almeno arcaici di qualunque delle numerosissime scritture siciliane) venissero alla luce (De Bartholomaeis, e poco importa che egli li prendesse per falsificazioni), e che ne fosse dimostrata la genuinità (Debenedetti). Lo studioso finlandese Tallgren (-Tuulio) ha mostrato le difficoltà di ritraduzione insite nelle liriche siciliane e ha formulato con chiarezza una tipologia di cinque edizioni possibili, dalla più integralmente ricostruita alla più conservativa rispetto alla tradizione, adottando per proprio conto una soluzione intermedia, siciliana al limite della documentazione. Anche le ricostruzioni prodotte successivamente da studiosi siciliani sono state esperimenti da collocare in appendice o in contropagina, come quelle degli unica continentali serbati in codici anglonormanni, cioè di un territorio che, in simbiosi con un senso sillabico diverso dal francese, non trovava freno alle innovazioni nella coscienza dello schema. Sennonché all'estremo opposto della in fatto non più attingibile restituzione perfetta (troppi punti del testo apparterrebbero a una zona neutra, da tingere in grigio secondo un'immagine inventata ad altro fine dal Croce) si situa un legittimo istituto elaborato gradualmente nella traduzione continua dei canzonieri toscani, qual è stata studiata dal Sanesi: la rima siciliana. Essendo la rima di ẹ´ con í e di ọ´ con ú tanto ineccepibile nei primi secoli toscani quanto quella (del resto dovuta a un altro meccanismo di ritraduzione dal siciliano) di é con ẹ´ e di ọ´ con o´ (per non citare altri tipi più particolari di rime ammesse), che altrove, come nel provenzale classico, riuscirebbe un'intollerabile negligenza, correggerla, livellandola nella direzione del nui che s'infiltra fin nel Cinque Maggio come nell'opposta del brutto tome che suole, o soleva, disonorare il canto di Farinata, è un ormai insopportabile anacronismo, non forse inventato, ma definitivamente lanciato, dalla nuova sensibilità armonica della filologia laurenziana, quanto dire del Poliziano, ma che un po' sorprende di ritrovare ammesso ancora negli studi diligentissimi del Parodi e nella prassi del Barbi. Ripristinare la rima siciliana non è supervacaneo archeologismo di specialisti addetti a componimenti di umbratile nozione, visto che ciò tocca a Dante, di cui, è vero, non sono sopravvissuti gli autografi, ma anche al Petrarca, che nell'edizione autorizzata del Canzoniere (benché in questo punto non autografa) lascia rimare voi con altrui (e per il copista, il Malpaghini, ravennate, sarebbe stato dialettalmente ricevibile vui). Il Barbi, così deciso in certe rimozioni («anche il pubblico deve abituarsi all'idea che faccendo sonava nel trecento così bene come faccenda, e bieci come magnifici, e amichi come ciechi»), e per tale opera meritoria sembrato lesivo della pietas (ricorda il Pasquali: «Uno studioso che ha fama di giudice sicuro [...] concepiva stranamente le alterazioni insinuatesi man mano nel testo, non so bene se di Dante o del Petrarca, quali "il contributo dei secoli alla bellezza dell'opera d'arte"», Pasquali, 19522, p. xiv), aveva dunque una sua pietas verso la

tradizione. Era probabilmente un eccesso di dissimilazione da chi credeva «che l'essenziale dell'edizioni critiche consista nelle h, negli u per v, nelle scrizioni latineggianti». O anche pro feticamente si premuniva contro gli eccessi di conservatorismo, esemplificabili nell'accettare, per gli unica toscani trasmessi dal canzoniere 'lombardo' di Nicolò de' Rossi, oltre a tutti gli endecasillabi di undici sbilenche sillabe come legali, gli e prò tonici non passati a i perché potrebbero anche essere senesi (nel caso di non fiorentini come Cecco Angiolieri); o nello spargere artificiosamente di polvere vernacola la poesia del Guinizzelli e degli altri antichi bolognesi, la cui cultura era filtrata attraverso Firenze e la Toscana. Né mancano le giuste palinodie: chi aveva pubblicato i versi milanesi di Bonvesin da la Riva espungendo puramente e semplicemente le vocali (soprattutto finali) caduche, ne ha poi ristampato un buon numero limitandosi a segnare le puntualmente labili di punto espuntorio sottoscritto. Per un verso, infatti, benché la cosa sia soltanto grafica, quelle vocali partecipano di una generale cultura italiana; per altro verso si verificano situazioni di rappresentazione consonantica legate alla presenza del segno vocalico (così fag per fagio ricorda incompletamente la convenzione del digramma gi per čene introduce una nuova equivalente a un diacritico g´ o c´). Veramente l'edizione è-nel-tempo. Apparali e descrizioni formali. - I due limiti opposti, della restituzione malcerta da non introdurre, lasciando a titolo di vicaria simbolica una rappresentazione tradizionale, e della correzione sicuramente erronea da non introdurre, definiscono la ricostruzione formale nella sua ordinaria amministrazione, il cui conservatorismo può sembrare in definitiva parallelo a quello sostanziale del Bédier. Il parallelismo va anche più innanzi: a parità di condizioni, si adotta costantemente la forma di un testimone, scelto (ma per solito apoditticamente) per ragioni o di antichità o di congruenza regionale o di sorvegliata organicità. L'apparato formale si tiene normalmente distinto da quello sostanziale (inclusivo delle forme-limite), e salvo casi in cui non sia d'inutile ingombro (o non sia di notevole interesse culturale, com'è per i primi copisti della Commedia) anche soppresso del tutto, segnati solo i casi di allontanamento dal codice adottato. Non ci si sottrae all'impressione che la forma passi in seconda linea innanzi alla sostanza, atteggiamento peraltro rispondente a una saggia economia della ricerca. Un'accurata descrizione della forma e della stessa grafia s'impone per i grandi delle cui opere possediamo autografi (Petrarca, Boccaccio), e anche per i non grandi del Medioevo per cui si dia questa ventura (da Francesco da Barberino al Sacchetti). Di casi sovrani merita altrettanto impegno la ricostruzione: così non appaiono certo supervacanee le cure adibite dal Casella al problema se la Commedia abbia usato forme dittongate (popolari e moderne) o monottongate (letterarie e arcaizzanti); la descrizione che l'edizione Barbi fa della lingua adottata per la Vita nuova, anche se non si può annoverare fra i capolavori del grande filologo, è diventata paradigmatica per i 'testi di lingua' come già quelle dell'Ascoli e del Mussafia per l'antica dialettologia romanza. Anche sono oggetto di zelo formale i testi molto antichi, più o meno restituibili che siano sotto la crosta della subita ibridazione (come i poemetti oitanici di Clermont-Ferrand giunti patinati da mani meridionali), e in genere quelli di aspetto regionale peregrino. Ci si impegna più in un testo 'mediano' che in uno toscano, più in uno toscano periferico che in uno fiorentino. Ma un'esigenza di totalità di pubblicazione e di spoglio è stata fatta valere anche per i centri che si presumono più noti, in particolare, e proprio irradiandosi da Firenze, dal Castellani: esigenza di totalità parallela a quella che, per la lingua degli autori, studiosi di lingua inglese per primi hanno fatto penetrare dall'ambito biblico e latino in quello dei classici italiani con l'allestimento di concordanze, studiosi francesi nel loro campo con la preparazione di glossari completi. L'esigenza di totalità si riverbera anche sulla qualità dell'oggetto esaminato, e sprona alla riproduzione, quando il tipo di tradizione lo suggerisca (Fiore, Angiolieri ecc.), dei fenomeni osservati, che possono avere rilevanza fonica: raddoppiamento fonosintattico (naturalmente automatico per la gran parte dei toscani), assimilazione ugualmente in sandhi con eventuale successiva semplificazione in protonia, ecc. È peraltro sempre materia di discrezione la riproduzione delle ipercorrezioni (in Bonvesin, dei gruppi con L in esempi come a bla e clera; nel laudario Urbinate, dei raddoppiamenti fonosintattici abnormi, ecc.); le quali informano dello sgretolamento d'uno stato più antico o della sua importazione. Non problematica appare la riproduzione degli ibridismi estemporanei, anche se multipli, come avviene per i testi, non per nulla a manoscritto di norma unico, della letteratura franco-italiana. (Se invece essi si strutturano grammaticalmente, come Ugo Enrico Paoli ha mostrato per la prosodia macaronica, insorgono possibilità cor-rettorie). Diacronia testuale. - La cultura occidentale comincia dal vasto tetto di Omero, che le varie soluzioni della questione omerica perforano, con diverse geometrie ma irrimediabilmente, in direzione di stati anteriori da congetturare in una sorta di proiezione all'inverso. La loro descrizione è nel complesso

metatestuale e mal risolubile nella graficità di un'edizione, dove al massimo obeli, asterischi, varietà di parentesi e di corpi cristallizzano visibilmente qualche risultato della critica interna. Ogni filologia ha la sua o le sue 'questioni omeriche', non di rado in esplicita analogia con l'antonomastica: la germanica i Nibelungi (che proprio il Lachmann prese a studiare, come studiava Omero), la francese il Roland, la spagnola il Çid e così via. Solo chi, come il Bédier, inchioda, poco meno, il proprio oggetto al tempo della sua prima apparizione poematica, ne accetta anche, come appena posteriore, la più antica fissazione testuale, spingendosi da una negativa cautela a un'ingegnosa, addirittura antieconomica, giustificazione di tutto il presente e mettendo in opera gli strumenti che la retorica delle scuole ha elaborato per celebrare l'unitarietà dei testi. Invece il Menéndez Pidal, di mentalità fedele (benché accuratamente evitando l'apriorismo) alla matrice wolfiana, a un assoluto conservatorismo testuale (pur coonestato dal paio di secoli che intercorre fra confezione e copia) accompagna la scissione da chòrizon introdotta nei suoi tardi anni. Comunque, se l'equivalente-dell'originale è un'ipotesi di lavoro per lo più di certezza discontinua mal rappresentabile quantitativamente nel piano (e anche dell'originale si esegue un'interpretazione), lo stato dinamico del testo critico è omogeneo a quello di ogni indagine genetica anche costretta a un'espressione metatestuale. Questa dinamicità è tanto più da affermare in quanto è da riconoscere la necessità, in contraddizione o piuttosto composizione con essa, di piattaforme dove sostare lungo la linea evolutiva: sincronie intermedie che si oppongono alla sincronia originaria come limite di un processo diacronico. A quel modo che un'indagine etimologica non deve obliterare le fasi della storia d'una parola, così la mira d'una ricerca ecdotica non è sempre di necessità la ricostruzione del testo primitivo, ma quella di momenti della 'fortuna' testuale. Il fondamento all'esortazione verso apparati (di sostanza) completi quanto fisicamente possibile (salvo al più le sviste servili in luogo di sincere innovazioni) ha lo scopo di salvaguardare non soltanto, euristicamente, quelle lectiones singulares che domani potranno, adottate come parametro per saggiare nuovi individui, rivelarsi lezioni di gruppo, ma il materiale che faccia conoscere la fisionomia del testo in ogni frazione della, .sua storia culturale. Se è facile ritrovare le fonti a stampa attraverso le quali, poniamo, Sainte-Beuve o De Sanctis hanno conosciuto i testi medievali o anche moderni (non è affatto indifferente sapere che il De Sanctis, vòlto com'era al contenuto, tenne presente tutta la vita la prima edizione - probabilmente mediata da qualche locale ristampa piratesca - e non mai la seconda dei Promessi Sposi), le cose si fanno meno semplici per altre epoche. E per cominciare proprio dal sacro testo: per intendere una citazione o un riferimento biblico fatto da un autore medievale, può ben darsi che nella stragrande maggioranza dei casi sia lecito bonariamente condursi come se quello avesse avuto a mano, o piuttosto a mente, al pari di noi, la Vulgata Sisto-Clementina. Ma in occorrenze puntuali, e superlativamente quando siano da giudicare antichi volgarizzamenti, l'anacronismo è rigorosamente impraticabile: giova allora sperare che il luogo sia riscontrabile nell'edizione Vaticana promossa da Pio XI (inaugurata dalla Genesi di dom Quentin), e che a quel punto l'apparato sia sufficientemente ricco; altrimenti sarà remunerativa (poiché la natura del Libro per eccellenza frenava la molteplicità delle varianti) un'ispezione ai manoscritti che ne abbondano in ogni grande biblioteca. Peggio vanno le cose quando si tratta di classici profani. Supponiamo che occorra determinare in che lezione Dante abbia conosciuto il poema di Lucano. Qui gli strumenti di lavoro disponibili mancano del tutto, come in genere se si debba accertare la recensione nota ai tanti, e sempre meglio studiati, traduttori antichi dei classici: le edizioni disponibili, prodotto di scuole altamente raffinate, mirano esclusivamente al recupero della lezione originale e perciò sogliono trascurare le edizioni approntate a partire dal secolo XII, che sono quelle che farebbero all'uopo; solo un esame, nell'ipotesi che si lavori a Firenze, di quella trentina di copie della Pharsalia che vi sono conservate, serve a chiarire la situazione. Si apre perciò alla filologia latina, la primogenita delle filologie moderne, che ha ultimato nelle sue grandi linee l'elaborazione critica dei suoi testi di epoca classica, il compito, a prima impressione meno avvincente, di allestire il regesto della tradizione posteriore alla tarda antichità e all'Alto Medioevo. Un compito affine sta innanzi a chi voglia conoscere il testo del Roman de la Rose noto a quell'autore della sua parafrasi in fiorentino, detta Il Fiore, in cui a qualcuno è sempre parso di ravvisare Dante Alighieri: a questa domanda risponde molte volte a sufficienza l'edizione del Langlois (che peraltro, dietro alla communis opinio che lo credeva di un avanzato trecentista, ne sminuiva l'importanza anche cronologica), più esaurientemente la tradizione da lui scartata come seriore. È stata descritta l'importanza delle vere e proprie edizioni, anche se non lachmanniane (perché emendatone e puntualmente collative), date di Livio dal Petrarca (Billanovich), più determinatamente di un largo corpus dantesco (Commedia e Vita nuova con una scelta di canzoni) dal Boccaccio, di una copiosa scelta dei nostri lirici antichi dal Magnifico o suoi collaboratori (Poliziano) nella cosiddetta Raccolta Aragonese. Un'occorrenza estrema s'incontra quando un gruppo di suoi discendenti, dal quale dipende la Giuntina di

rime antiche (1527), altera meccanicamente, con assimilazione progressiva, in forosetta il foresetta cavalcantiano e lega al vocabolario italiano un lemma supposito, da cui a suo tempo Giovanni Faldella ricaverà lo pseudo-positivo forosa. Siamo abbastanza avanti perché non sia inopportuno registrare, col Favati, anche le più tenui variazioni formali, fino gli errori servili. Poesia 'popolare e 'tradizionale . - In questo settore, dove sembra fermarsi la macchina innovatrice della storia, e dove sul punto di partenza viene a preponderare la tappa, quando non il suo responsabile, è come se si elaborassero degli apparati autonomi. E al limite, per arduità di ordinamento cronologico o per dignità di redazione, si può parlare di equivalenza delle varianti, gli errori si estrapolano in semplici innovazioni e queste in innovazioni redazionali, per cui diventa inoffensiva fin l'applicazione del judicium, con la categoria antilachmanniana di variante (o almeno di organica redazione) 'più bella'. I testi più soggetti a simile sorta di rifacimento sono, beninteso, i canti e altri componimenti 'popolari', dove, in attesa della fase di razionalizzazione, è sempre aperta la fase della raccolta. Aperta in fatto, ma anche aperta in diritto, quando addirittura, rovesciandosi il movimento romantico dall'ignoto al noto, si conosce il punto di partenza, cosicché si credette di poter identificare quell'ignoto in altro noto. Le cose stavano all'inverso. Non i romances spagnoli, 'cantilene' per privilegio collettivo sopravvissute, avevano generato, in obbedienza alla fenomenologia romantica, l'epica spagnola, e particolarmente il Cantar de myo Çid, ma al contrario, come ben videro il Mila y Fontanals e il Menéndez y Pelayo, anzi già Andrés Bello, i romances rappresentano un'evoluzione successiva dell'epos. Il Menéndez Pidal, magnanimo collettore di romances, definisce questa forma di poesia come proprietà collettiva, offerta all'usufrutto e alla partecipazione dell'intera comunità, dove ogni intervento, firmato o adespoto che sia, su un testo ereditario, o per analogia su un tema nuovo, ha valore autonomo, col termine tecnico di poesia tradicional, in opposizione a popular, che sarebbe quella diventata o 'decaduta' a popolare. In proposito di questa distinzione va introdotto il suggerimento del Barbi, di grande attrattiva euristica, pur se riferito a un ramo di filologia tuttora condendo: ricavare dallo studio della poesia che il Pidal chiama «tradicional» (in quanto svolta su temi extraletterari) norme valide per la trasmissione di quella che il Pidal chiama «popular». «Io [...] ho sempre preferito avere lezioni diverse d'un medesimo canto che non canti nuovi. [...] Quello che avviene ancora, in condizioni molto diverse di trasmissione, per la poesia popolare, può giovare per risolvere problemi spinosi circa la poesia popolare dei primi secoli. Illuminerà, per esempio, la questione della trasmissione delle laudi di tipo più popolare, e di riflesso anche di quelle di Iacopone; e chiarirà il problema delle antiche stampe di canzonette e strambotti, particolarmente quello di Leonardo Giustinian su cui son così diversi i pareri» (Barbi, 1938, p. xxxix). Da allora (1938) laudi e giustiniane si sono continuate largamente a studiare al modo in largo senso 'lachmanniano', cosa legittimata dall'identità di logica che regge ogni teoria dell'innovazione. Può restare il rimpianto che a testi di tradizione così frantumata non sia stata ancora recata l'esperienza, non si dice di un tradicionalista (che per la verità si avverte un po' troppo nel Pidal editore di testi letterari, peraltro di tradizione ispanicamente molto semplice), ma di un filologo persuaso della singolarità dei problemi sui singoli testi, qual era il Barbi, e pur movente da esperienze letterarie e poi traversante esperienze folcloristiche. Impregnato di fantasia scientifica, egli ha tracciato il profilo d'un'area analogicamente disponibile a uno spirito d'invenzione. Algebra e discorso in ecdotica. - Un ideale di presentazione testuale è altamente formalizzato, con una figurazione differenziata della discontinuità del reale rispetto alla razionalità e una frammentazione di apparati sia a scopo probatorio sia a fini d'informazione storica. Quest'ideale è man mano diluito secondo gli utenti a cui si destina l'edizione, tuttavia un'accentuata diffusione del costume filologico (che non è senza contropartite, ma"di cui in questo punto si pongono in rilievo i vantaggi) fa sì che ormai non osti inevitabilmente alla fruizione dei testi la segnalazione dei dati presentabili (quando presentabili) con mezzi tipografici elementari, quali i luoghi incomprensibili della tradizione, le lacune, i supplementi, le altre lezioni congetturali, le interpolazioni già munite di un lungo prestigio, magari le varie misure di un testo anisosillabico; in un mondo che non ha più in vigore il canone di Policleto o altro legislatore estetico, ha dimesso le sue ultime resistenze - poiché esse venivano da lui ancor più che dall'immaginario lettore - perfino lo stampatore, giusto cultore di un'armonia che presupponeva l'inviolabile immobilità del testo. Ciò però che limita la 'purezza' algebrica della rappresentazione è la necessità di discorso: meno ancora per l'impossibilità di descrivere altrimenti soluzioni probabilistiche, quando si avverta che un intervallo, peggio se di dimensioni variabili, separa dall'equivalente-dell'originale, che per la convenienza di giustapporre elementi dell'esegesi. L'opportunità di inglobare dati esegetici alla stessa costituzione del testo è stata praticata dal Barbi (sotto forma di apposito apparato, non di appendice illustrativa, che non

sarebbe davvero una novità, nell'edizione della Vita nuova, del resto ispirata alla rajniana del De vulgari), poi anche separatamente affermata. Egli reclamava la libertà (il discorso, fatto per le Rime dantesche, ha valore universale) «di tentare una critica totalitaria che servisse con ogni mezzo, compreso il commento, a dar piena ragione del testo, dell'ordinamento e della stessa autenticità» (Barbi, 1938, p. x). «[...] Per me l'ideale resta sempre un'edizione ove il testo sia giustificato da una precisa interpretazione e illustrazione. Senza giusta interpretazione non si può dar neppure un'interpunzione corretta [...]: anche per opere di cui s'ha la fortuna d'avere l'autografo, o l'edizione approvata dall'autore, la precisa intelligenza del testo è necessaria a voler fare un'edizione che serva ai bisogni dei lettori moderni, e insieme agli studiosi» (ibid., p. xxvii). È probabile che il Barbi intendesse opporsi a una pratica della recensio (o di materiali per la recensiti) senza interpretatio quale non era impossibile trovare presso qualche cultore del metodo storico: benché l'affermazione di una recensio anche a patto di rinuncia all'interpretatio avesse una legittimità storica ben precisa quando l'avanzava un filologo del calibro del Lachmann, poiché si trattava d'impedire che una volontà umanistica di capire prevaricasse sulla medesima costituzione del testo. Parlando di «critica totalitaria», il Barbi intendeva saldare non viziosamente il circolo tra una recensio come base dell'interpretatio e uri interpretatio come fondamento della recensio, movimenti certamente distinti se non contrastanti (o prevale l'interesse per l'esegesi o prevale l'interesse per la fissazione testuale), che un'alta periodicità negli interessi avvicina fino a un desiderio o illusione di fusione. Nonostante tutto, nell'ardito e fin qui unico propugnatore di una «critica totalitaria» il momento esegetico finì col prevalere sul momento recensorio, posto che precisamente dell'opera che gli ispirò questo ideale, le Rime di Dante, con poche eccezioni che probabilmente lo configurano (come il saggio sulla tenzone con Forese Donati), il Barbi finì per dare, postuma e con l'aiuto di ben governati collaboratori, la sola edizione commentata, svolta attorno all'immobile testo, non corredato da giustificazione, prodotto nella stampa del Centenario (testo migliore di ogni precedente, ma perfettibile e dichiaratamente provvisorio); e i saggi adunati nella Nuova filologia (titolo che vuol essere anche la definizione di un programma) vertono soprattutto su varianti d'autore, cioè accentuano il momento dell'elaborazione con un'intenzione, parallelamente al libro del Pasquali, translachmanniana; e finalmente uno scritto quasi testamentario prendeva in esame non più una tradizione manoscritta statica o una dinamica e tanto meno una popolare, oggetti fino allora delle sue mutabili e inquiete curiosità, ma una correttoria fino all'ultimo sulle bozze, quella manzoniana dei Promessi Sposi, elaborando un'ulteriore inedita fenomenologia procedente per studio dei fogli di stampa. Né c'è bisogno di scendere tanto nel tempo: la pagina della Vita nuova si appaga di un primo apparato testuale ridottissimo, contenuto nei piani alti dell'albero e perciò in sostanza riserva di alternative discutibili, mentre altre sedi prefatorie sono deputate a ospitare con la debita microscopia i procedimenti lachmanniani e quelli della ricostruzione formale: quasi l'immenso tempo loro dedicato fosse adibito a un uso, non certo allotrio, ma puramente negativo e servile. La soppressione degli apparati nell'edizione dei soli testi danteschi, poi nella collezione delle opere commentate, risponde sicuramente a necessità pratiche, ma che devono essere state accolte senza sacrificio, se non con soddisfazione, da un temperamento interamente dedito all'istante della lettura; e ciò concomita con l'aspetto decisamente non specialistico, fuori di sostanziose innovazioni, della sua presentazione formale. Nonostante le innumerevoli tavole di varianti e descrizioni codicologiche (specialmente negli Studi, destinati a una straordinaria fortuna recente), il Barbi ha decisamente scelto la parte non del tecnico, ma dell'umanista. » Arte allusiva. - Una presentazione portatrice di esegesi tende naturalmente a dissociarsi da una presentazione formalizzata. Ciò che agevola il compito dell'avvicinamento è il fatto che quest'ultima, la cui 'purezza' consisterebbe nel rappresentare meramente o l'approssimazione dell'autore o quella dello storico al testo, nella sua reale configurazione persegue più finalità (che a rigore possono esser trattate in edizioni separate) e raccoglie una somma di informazioni non omogenee: tale, rispetto all'oggettivazione del testo, la sua storia o 'fortuna', tale — e sarà magari lo stesso materiale da altri punti di vista - la raccolta dei dati provvisti di una virtualità che potrà anche non realizzarsi mai (se il caso non esibirà incrementi dell'inventario) o semplicemente offerti a un controllo. Il 'genere' è già abbastanza composito da tollerare la presenza di altre informazioni, le quali ripropongano puntuali aspetti della cultura dell'autore (o del pubblico da lui immaginato), cultura esplicita o implicita o magari inconscia, tali da metterci nella distanza originaria. Un'estensione canonica, marginale o parentetica (come per i luoghi paralleli nelle edizioni ecclesiastiche della Scrittura, maestre involontarie di tanti artifici ecdotici) o invece riservata a un apparato apposito, si fa per le vere e proprie citazioni. Un problema rilevante suscita

in cambio quella detta dal Pasquali (nel titolo del saggio poi messo ad apertura di Stravaganze quarte e supreme, Venezia 1951, p. 11) «arte allusiva», non «reminiscenze ma allusioni, e volentieri direi evocazioni e in certi casi citazioni. Le reminiscenze possono essere inconsapevoli; le imitazioni, il poeta può desiderare che sfuggano al pubblico; le_ allusioni non producono l'effetto voluto se non su un lettore che si ricordi chiaramente del testo cui si riferiscono». Nocciolo della comunicazione del Pasquali sono, sulle tracce degli antichi commentatori e dei più raffinati moderni (Eduard Norden), passi virgiliani che acquistano tutto il loro sapore quando traspaia la filigrana di Vario o di Ennio o di Varrone Atacino; una bell'aggiunta recente (Gian Biagio Conte, Memoria dei poeti e arte allusiva, ora in Memoria dei poeti e sistema letterario, Torino 1974) fa scorgere Catullo dietro Virgilio entro un contesto emulativo omerico. In casi estremi, cioè in centoni dichiarati, quali ebbero cari la tarda antichità e l'Alto Medioevo, soprattutto attorno a Omero e a Virgilio, un apparato è tenuto a identificare gli ingredienti; ma anche di arte allusiva vi è un settore che giunge addirittura a essere segnalabile a testo, se il verso bucolico «Perdita nec serae meminit decedere noeti» è virgolettabile come, per indicazione di Macrobio, desunto da Vario, o, si può aggiungere, nella canzone petrarchesca Lasso me deve subire questo trattamento ogni verso finale di stanza come incipit di altrettante canzoni (Arnaut Daniel o chi per esso, Cavalcanti, Dante ecc.). Il procedimento è legittimo perché si tratta di un elemento dell''esecuzione' testuale, pronunciato appunto fra virgolette: perciò anche la chiave ne è essenziale e appartiene idealmente a una fascia privilegiata di commento, distinguendosi dai subalterni sussidi di erudizione antiquaria; quella fascia o apparato speciale in cui andranno dichiarate per intero le 'variazioni', non segnalabili come le 'desunzioni' (così Virgilio «aut bacula caelum Suscipiens patulis captavit naribus auras» da Varrone Atacino «Et bos suscipiens caelum - mirabile visu Naribus aërium patulis decerpsit odorem»). Solo la proporzione di familiarità è atta a decidere della costituzione dell'apparato: se in D'Annunzio, per seguire sempre l'esemplificazione del Pasquali, si legge «O voce di colui che primamente Conosce il tremolar della marina», la reminiscenza dantesca appartiene a una memoria collettiva talmente ovvia che qualunque segnalazione è superflua, anzi romperebbe il clima di spicciola complicità culturale che il poeta ha voluto instaurare col suo lettore; se ne occuperebbe comunque una didascalia post factum, non una glossa all'attuosità del testo, qui tacita. La discrezione, giusta la finalità proposta e anche a misura della peregrinità del reperto, arbitrerà la presenza delle tessere, classiche o volgari ma canoniche, alluse (desunte o variate), di repertorio o perfino subconsce ad attestazione d'un trauma di memoria. (Questo è tanto più significativo quanto meno semanticità inerisce alla formalità timbrica o ritmica della reminiscenza, per esempio se dei tanti echi danteschi - di aspetto involontario - in Petrarca si considera lo schema iniziale «Al cader d'una pianta che si svelse» come derivato dall'ugual mente incipitario «Al tornar de la mente, che si chiuse»; se poi si risale agli echi di ugual natura entro uno stesso poeta, si esperisce tangibilmente la memorabili tà sulla quale egli fonda Dante in modo supremo — il suo assunto di essere un classico). Qualunque campo ermeneutico, non solo quello dell'arte allusiva, si presta a una rappresentazione immediata solo parziale. La punteggiatura, dunque una fase ormai graficamente obbligatoria dell''esecuzione', è dirimente per l'interpretazione, nell'episodio di Cavalcante: «Come? / dicesti 'elli ebbe'» (Casella) contro la precedentemente vulgata «Come/ dicesti? 'elli ebbe'?»; all'apparato (apparato, e non separato commento, essendo afferente al testo) è riservata, se la si vuol dare, e si vorrà finché sarà controversa, la giustificazione; si aggiunga che questa, poiché è fondata su contesti paralleli (a interpretazione univoca), è suscettibile di citazione abbreviata da quando si dispone di tante concordanze, e che il crescere di spogli elettronici a stampa fino all'auspicata continenza nel Tesoro della Crusca consentirà una qualche abbreviazione in tutti i casi dove s'impongano riscontri da più testi e • love non importi solo un lemma isolato, bensì, come di norma, un lemma in relazione contestuale. Ma nello stesso episodio, in «Colui [...] mi mena Forse cui Guido vostro ebbe a disdegno», la punteggiatura è parlante solo per la mancanza di virgola dopo mena, che importa riferimento e di forse e di cui come oggetto a mena (la virgola precedentemente vulgata importava riferimento di cui a colui e quindi di forse a ebbe), ma solo un discorso può illuminare l'identificazione del personaggio e anche precisar meglio il due tu s grammaticale. Quanto agli 'enigmi' (e Dante valga anche qui per antonomasia), essi possono essere intenzionali e qualche volta predicati come tali, e questi sono editorialmente irrilevanti, talché il grigio crociano di cui è invogliato ad avvolgerli il lettore è testualmente innocuo; ma quelle che sono oscurità solo all'interprete per oltranza retorica o morale, cioè di brevitas o di expolitio oppure di tabù, se rischiarate poco o nulla, aprono incertezze o lacune nella comprensione della lettera parallele a quelle verificabili nella costituzione del testo. S'immagina che la voce recitante, arcanamente inflessa intorno agli enigmi oggettivi, avrà avuto la fermezza in qualche

modo neutra di chi sa se il piè fermo sia il sinistro o il destro, se il digiuno di Ugolino l'abbia portato alla tecnofagia o alla morte, ecc., sicché le nostre risoluzioni o anche irresoluzioni a questo riguardo della partitura dovrebbero occupare un luogo simile a quello dei dati spettanti al testo, cioè un apparato piuttosto che un commento. Come una nuova scoperta testuale rivela vizi (per solito banalizzazioni) altrimenti non avvertiti, così nuove scoperte esegetiche rivelano retrospettivamente conoscenze insufficienti nel quotidiano cui non è più possibile adattarsi: forse l'astensione involontaria più imponente s'è mostrata nella lettura dei Vangeli da quando uno specialista di diritto orientale (J. D. N. Derrett, Law in the New Testament, London 1970) ha messo in luce il significato giuridico, allora universalmente inteso, delle parabole di Gesù. Questa ricerca e sceveramento d'una sede esegetica più vicina al testo in atto non è oziosa se vuol significare e come allegorizzare la tendenza a una comprensione letterale tanto rigorosa quanto, per parte sua, la costituzione della lezione: una «critica semantica», come la disse il Pagliaro, o «grammaticale» o come altrimenti la si chiami, che può anche riverberarsi su tale costituzione. Attribuzionismo. - Ultimo vantaggio della «critica totalitaria», diceva il Barbi, quello d'intervenire nelle questioni di autenticità. La generalizzazione è massima quando nell'attribuzionismo letterario si discerne il fondo comune all'attribuzionismo per eccellenza, quello figurativo, così come il Pasquali aveva messo le mani avanti per precisare che l'allusività valeva non meno per le arti figurative e la musica che per la poesia. Le differenze fondamentali fra gli aspetti che hanno rivestito i due tipi di ricerca attributiva risalgono naturalmente al fatto che l'anonimato è, anche per il Medioevo, condizione meno ordinaria in letteratura che nelle arti figurative, e che il veicolo letterario si presta ancor meglio a 'vischiosità' tecniche e a poetiche spersonalizzanti (nonostante l'imponenza di fenomeni 'astorici' come la pittura bizantina e la scultura negra, o la tendenza all'identificazione anche di somme individualità come Giorgione e Tiziano giovane o gli impressionisti per certi momenti da cogliere ad annum). Tuttavia la questione non va posta in astratto, poiché la critica è come storicamente esiste, e la critica d'arte non solo si realizza in parte rilevante quale attribuzionismo, e non unicamente sotto le mani dei grandi 'conoscitori', ma anche al difuori dello stretto attribuzionismo si assetta in forma attribuzionistica e congetturale, seriando le opere in un fitto reticolato di consecuzioni culturali: un libro di storia dell'arte assomiglia (ed è un inconsapevole merito della disciplina, che non stacca giudizio di valore da giudizio esistenziale) più a un libro di storia letteraria che a un libro di critica letteraria (in forma romantica e postromantica); la fisionomia prevalente della sua ricerca è filologica. Tale filologia ha solide basi 'reali', archivistiche o artigianali che siano; ma il critico d'arte, che più spesso conferisce a 'filologia' un significato limitativo quando non despettivo, dà pregio sopra quest'argomentazione esterna ai considerandi stilistici che costituiscono l'argomentazione interna. Una sua formulazione più elementare, consistente in una morfologia delle figurazioni (panneggi, mani, nuvole ecc.) che ricorda la sistematica linneana, fu proposta da Giovanni Morelli, e come 'morellismo' si designa un attribuzionismo stilematico che non tocca il livello di stilistico. L'attribuzionismo stilistico, che nelle sue manifestazioni supreme acquista dalla folgorante rapidità dei passaggi un aspetto quasi mistico, non s'intende bene, anche in analogia, vichianamente, se non per averlo praticato: e apparirà allora quello che, nell'atto stesso di collocare il nuovo incremento, illumina criticamente tutta la serie delle innovazioni individuali o collettive che determina. L'attribuzionismo letterario è in prima istanza 'esterno' (ma anche il figurativo più raffinato ingloba, fosse pur tacitamente, le prime fasi) e arriva a cercare gli indizi iniziali addirittura attraverso le probabilità statistiche dei suoi stemmi. Le divergenze attributive che insorgono tra i canzonieri medievali, in numero straripante gli occitanici e gli oitanici, tanto più parco i tedeschi, gli italiani e gli iberici, si cercano anzitutto di dirimere a norma di maggioranza come ogni altra divergenza di lezione; in alcuni casi, come in particolare mostrano il Barbi e il Debenedetti, la comparazione degli ordinamenti, in cui intervennero salti o altre alterazioni, permette una risposta positiva, o anche negativa, ai quesiti. Ciò non involge che quest'àmbito non sia suscettibile di finissime applicazioni di critica interna, come la dimostrazione del Monteverdi in ordine all'apocrifia della chansoneta nueva data a Guglielmo d'Aquitania; ma sembra non essere mai accaduto che i risultati ottenuti su questa base si siano poi ripercossi sulla classificazione dei manoscritti. Corrente è anche l'attribuzione su base stilematica, ma occorre una grande oculatezza nel determinare se un certo stilema o sistema di stilemi possa davvero esser considerato una firma interna. L'illusione di poter adoperare impunemente i calcolatori elettronici per una determinazione automatica di paternità su base lessicale o sintattica (presenza o assenza di vocaboli e locuzioni, loro proporzione numerica, rapporti fra le parti del discorso, misura media dei segmenti sintattici e, chi volesse, valori timbrici in percentuale), per esempio al fine di determinare quali lettere e quali dialoghi pseudoplatonici siano davvero spuri, non sopravvive che circondata di cautele e

riserve presso gli operatori più accorti, coscienti del fatto che quegli indici, o una loro parte, individuano strutture di 'genere', comuni a più personalità, mentre viceversa in uno stesso individuo convivono più strutture (ciò non toglie che quegli spogli possano costituire un sussidio rilevantissimo dacché la memoria, elettronica o fisiologica che sia, è lo strumento essenziale dell'attribuzionista). Implicitamente per questo, non per pigrizia, editori moderni si accontentano di costituire appendici di 'dubbi' (per Cino, Cecco Angiolieri ecc.). Proprio dell'attribuzionista moderno è comunque di esplicitare gli istituti sui quali ragiona (così come lo Spitzer ha dettagliato la «klassische Dämpfung» di Racine, e ancor meglio gli ingredienti rabelaisiani dei Contes drôlatiques per dare un buon voto al Balzac pasticheur): il Foscolo poteva limitarsi a fiutare aria di falso antico in sonetti di Guittone (come Charles Dickens subodorò una mano femminile in George Eliot), ma dall'epoca positiva in qua il sospetto falso antico di documenti non antichi è oggetto di meno vago scrutinio, dalla controversia su Dante da Maiano allo smascheramento recente dell'impostore ferrarese Baruffaldi. Ma che posto ha l'attribuzionismo stilistico in sede letteraria, per esempio nella brillante dimostrazione proprio del Barbi in ordine alla legittimità d'uno di quei presunti falsi antichi, la tenzone fra Dante e Forese? Nullo, perché, se l'autorità dell'uomo ha (salvo forse che per particolari minori) messo a tacere l'opinione avversa, ciò avviene giustamente, sul fondamento del comunque previamente necessario ragionamento documentario e anche stilematico; ma il sobrio Barbi non corona il suo edificio dimostrativo col fastigio critico del riconoscimento che qui, o anche qui, nasce la sperimentazione 'comica' di Dante; mentre si può aggiungere che, precisamente per questa dilatazione sperimentale verso intentati settori linguistici, il calcolatore non solo non avrebbe corroborato la tesi, ma l'avrebbe, maneggiato meccanicamente, semmai confutata. La stessa posizione occupa, più in grande, il cosiddetto Fiore, per la cui ascrizione a Dante furono recate prove 'esterne' talmente robuste da far dire al Parodi, ormai non più convinto dell'attribuzione, che sarebbero largamente bastate se si fosse trattato di tutt'altri che di Dante; sono state poi addotte, prima sparsamente, quindi sistematicamente, prove 'interne' stilematiche; e finalmente l'emergere di riscontri via via meno strettamente semantici fino ai fonici e ritmici puri, attestanti la 'memorabilità' del testo (e di nessun altro testo a quel modo) entro la Commedia, porge un dato 'stilistico' che sembra omologo a quelli adoperati dai più alti attribuzionisti figurativi, come il Longhi. Quanto alla 'certezza', pare conforme alla condizione storica della filologia letteraria che essa sia ancora, e forse per sempre, scaricata sulle fasi precedenti. L'attribuzionismo figurativo si fonda sulla 'qualità', e ciò torna a verificarsi nell'attribuzionismo letterario. Sia il caso del laudario Urbinate, nel quale, fra i componimenti tutti adespoti, ne sono ospitati di jacoponici, in lezione che travalica i piani bassi dell'albero, peraltro con dilatazioni e interpolazioni pregevolissime, benché inferiori al livello di Jacopone. La presenza di un'alta qualità in alcuni unica e quasi unica dell'Urbinate fa legittimamente nascere il sospetto euristico che ci si trovi innanzi a Jacopone inedito, da sceverare meglio che si possa dalla secondaria mano (o mani?) manipolatrice. Se il problema è quello stesso che si pone sulle pareti dell'altra grande macchina francescana, il santuario di Assisi, questa sovrana esperienza storico-artistica, ancor più che da metafora (splendida metafora), servirà da leva mentale. Critica stilistica. - Fin qui l'esegesi mira al testo come a suo punto d'arrivo. Se essa, per così dire, si ribalta sul testo, questo diviene il punto di partenza di un'esegesi, se non postuma e aliena, certo meno vicina alla letteralità del testo, perciò esorbitante dall'àmbito della filologia. Esistono tuttavia due tipi di ricerca che presuppongono in progressiva vicinanza la lettera, la assumono come dato immutabile e in nessun modo varrebbero a modificarla. Se non di pertinenza della filologia, essi appartengono al territorio immediatamente limitrofo. Il primo tipo di queste ricerche di frontiera si denomina col suo fondatore, Leo Spitzer, «critica stilistica», (Sjilkritik), l'altro, egualmente col suo fondatore, Roman Jakobson, «grammatica della poesia» (grammar of poetry). Entrambi operano su prelievi della lettera adottati come campioni fuori d'ogni criterio a priori, e non agiscono con categorie a priori né empiricamente riadottabili (come quelle della descrizione linguistica) a priori. La critica stilistica, quale si configura, per semplificarne l'esame, nel solo suo fondatore, e più esattamente nella sede della sua fondazione, il volume di Stilkritik dedicato alla lingua degli autori, Stilsprachen (1928), forma il proprio campionario su elementi linguistici dell'autore studiato («Individuum NON est ineffabile» è il motto di uno dei saggi, ma varrebbe per tutti) differenziali rispetto alla media circostante, li interpreta, e confronta l'interpretazione con quella che si ricava dalla globalità dell'autore con strumenti psicologici: questo rapporto circolare (immagine la cui dichiarata etimologia è nello Zirkel o circolo vitale dello Schleiermacher) collega il microcosmo col macrocosmo, più che per riprova o conferma, tanto meno per correzio ne, per illuminazione reciproca e integrazione. La stesa

testuale si screzia dunque in fatto di porzioni più e meno significative, punti 'pertinenti' o 'rilevanti' (come poi dirà la fonologia) in un insieme i cui passaggi possono anche essere neutri, in corrispondenza al livello d'attenzione che al testo porta non solo il lettore (che almeno inizialmente deve accontentarsi, in fatto e in diritto, d'una comprensione discontinua e approssimativa) ma lo stesso autore. Il metodo in questa formulazione si applica alle individualità esaltate del postromantico mondo contemporaneo, o più largamente alle innovazioni stilistiche, dunque anche collettive (come nel saggio spitzeriano, considerevolmente anteriore alla Stilkritik, sugli acquisti sintattici del simbolismo); la sua evoluzione (almeno nelle più sicure estensioni dell'operatore, come nel saggio sul classicismo di Racine) sarà verso una differenzialità inerente al testo stesso, in rapporto a una poetica dell'assoluto. Le modalità della Stilkritik sono dunque funzione della poetica. Grammatica della poesia. - La grammatica della poesia non conosce parti neutre del testo, ma si comporta come se tutto vi fosse significativo (in francese pertinent, in tedesco relevant), cosa che tanto più si nota in quanto la dottrina è stata elaborata esattamente nell'ambito strutturalistico che ha genialmente introdotto la categoria di pertinenza. I componimenti oggetto delle analisi del Jakobson sono delle unità poematiche concluse, e quindi tende a farsi ozioso il quesito sui moventi della scelta (per quanto la serie di saggi verta su autori delle più varie lingue, così da suscitare involontarie ipotesi di rappresentatività degli autori per le lingue, e specialmente dei testi per gli autori, negli incerti limiti però in cui sussiste il principio di individualità poetica). Le unità poematiche contengono proprietà del significante (non importa a che livello di coscienza) che vengono esplicitate e concorrono a un'interpretazione complessiva sul piano del significato: si può congetturare che la percettibilità di tale interpretazione (quasi 'ispirazione' del critico) costituisca il criterio psicologico della scelta. Si possono riconoscere modalità ricorrenti di applicazione di un questionario più generale, in rapporto precisamente alla chiusura del testo, senza che fio si trasformi in costituzione di categorie a priori: si studia fondamentalmente la distribuzione delle partes orationis (e loro funzioni), e in via subordinata dei registri fonematici, nei segmenti ritmici e sintattici, limitati da rime e pause, comparando i risultati diversi che si ottengono in distinte aree testuali come possono essere Panteriore e la posteriore, le alterne (dispari e pari), le periferiche e le centrali. La realtà dei fatti così reperiti sarebbe tutta ugualmente reale: qui sorge la principale riserva sul metodo, che sembra restare aperto a una riforma la quale estenda a questa sede l'agnizione di traits pertinents. L'applicazione del metodo a specifici testi letterari sembra acquisita col saggio del Jakobson, in collaborazione col Lévi-Strauss (in «L'homme» del 1962), su Les Chats di Baudelaire, pagine ormai celebri che possono costituire un opportuno riferimento anche per rilievi contenenti implicazioni generali, e che appunto hanno il solo torto di non ammettere gradualità nella certezza dei risultati, quasi fossero o da accettare o da respingere in blocco. Che gli chats siano da identificarsi nella muliebrità, risulta con sufficiente sicurezza (per tralasciare il qui taciuto, certo come troppo plebeo, argomento che chat suscita dall'inconscio di ogni parlante del francese un'allusione gergale di femminilità) da un argomento filologico, il fatto, rilevato dagli esegeti, che il binomio puissants et doux, di origine sainte-beuviana, qui riferito ai gatti, in una poesia di Auguste Brizeux era detto delle donne: più che arte allusiva nel senso intenzionale del Pasquali, subliminale riflesso condizionato. Ma che l'eros sia androgino, la prova del Jakobson, che cioè, di contro alle rime cosiddette femminili (ossia parossitone, in fatto terminanti per consonante) riferite a nomi indifferentemente femminili o maschili, le maschili (ossia ossitone, in fatto terminanti per vocale) si riferiscano tutte a nomi femminili, è valida solo in quanto si assuma un'armonica sessuale inerente al genere grammaticale. L'osservazione del Jakobson è peraltro un fatto che le proporzioni suggeriscono di considerare non aleatorio (questa categoria statistica è estranea alla grammatica della poesia). Il fatto può invece essere razionalizzato se inquadrato in uno studio delle rime, le quali sono tutte meno una ricche, fatto che, forse per essere banale, d'un'abbondanza medievale, in Baudelaire, non è mai menzionato dal Jakobson. Le rime sono insomma in -tères, -aison, -té, -nèbres, -itudes (e non in -ères, -on ecc.); segue una rima ricca ma anche equivoca, monosillabica (fin), che è precisamente l'ultima delle citate rime maschili, e che compensa immediatamente a ritroso (SAns fin:SAble fin) la relativa povertà della rima (compagna solo a -té, come ha a altro efletto, ma in contesto meno persuasivo, il Jakobson); viene infine la sola rima non ricca, benché adeguatamente compensata a ritroso (étincELLES Magiques:prunELLES Mystiques), che è proprio la più esposta in quanto finale. Come non razionalizzare questa 'eccezione', che dalle proporzioni è segnalata come ancor meno aleatoria; e come non razionalizzarla topicamente, quale segnale del culminante allontanamento nello spazio e nel tempo che si chiude e inverte (aiutando l'etimo di mystikós, certo presente al buon umanista Baudelaire) in lontananza interiore? Ciò consuona alle dimostrazioni magistrali del Jakobson

sulla gradazione dalla «maison» dei gatti alla «nonmaison» delle sfingi e alla vaga molteplicità che fa dei gatti «la maison de la non-maison»; dal reale all'irreale e al surreale; dalla «précision» all'«imprécision». Solo che l'ambiguità ritrovata nel testo merita di essere discussa analiticamente per determinare quanto essa sia conciliabile con le necessità semantiche della lettera: posto il francescano «Laudato si', mi' Signore», il per successivo potrà ben avere o valore causale o valore d'agente o valore strumentale, ma uno solo per volta, non essere ambiguo fra più, come pure ha pensato qualcuno; sono funzioni alternative, non coesistenti. Il verso «Leurs reins féconds sont pleins d'étincelles magiques» (di cui il Jakobson scrive: «On est tenté de croire qu'il s'agit de la force procréatrice, mais l'oeuvre de Baudelaire accueille volontiers les solutions ambiguès. S'agit-il d'une puissance propre aux reins, ou d'étincelles électriques dans le poil de l'animai?», Jakobson, 1973, p. 413) non contiene nulla che non sia compatibile con le norme della lettera: reins 'lombi' ha una latitudine metonimica abbastanza elastica da indicare la corporeità in genere (con cui le scintille) e la specificazione sessuale (con cui la fecondità); si può parafrasare 'i loro corpi quei loro corpi così fecondi - sono pieni' ecc.; questo allargamento già simbolistico concomita con la descritta dilatazione finale. Semplice esitazione, non già supposta ambiguità, si ha per l'apposizione «orgueil de la maison»: «Faut-il entendre que les chats, fiers de leur domicile, sont l'incarnation de cet orgueil, ou bien est-ce la maison, or-gueilleuse de ses habitants félins, qui [...] tient à les domesti-quer?» (ibid., p. 411); la soluzione 'vanto della casa' parrebbe difficilmente contestabile. Mal sostenibile è invece l'ipotesi di ambiguità («La signification de ce passage [...] reste à dessein ambigue») per il passo «L'Érèbe les eut pris pour ses coursiers funèbres, S'ils pouvaient au servage incliner leur fierté» [ibid., p. 410): pris 'scambiati' e pris 'adottati' si escludono infatti reciprocamente. Qui un altro capitolo filologico, la critica delle varianti, interviene, sulla base della lezione delle prime stampe («pour DES coursiers»), ad arbitrare la controversia nel senso di 'scambiati' (a meno che l'autore, che si sa non sempre felice nell'emendarsi, abbia corretto, ma per accidente servendosi di una forma equivoca, un certo 'scambiati' in un intenzionale 'adottati', congettura peraltro poco economica). Anche questo episodio istituisce un'ulteriore collaborazione della filologia con un capitolo tanto suggestivo dello strutturalismo, un cui prolungamento può leggersi in Nicolas Ruwet. Bibliografia Avalle, d'A. S., Una 'editio variorum' delle canzoni di Peire Vidal, in «Studia Ghisleriana», serie n, vol. 11 (1957), pp. 57-78. Avalle, d'A. S., La letteratura medievale in lingua d'oc nella sua tradizione manoscritta. Problemi di critica testuale, Torino 1961. Avalle, d'A. S., Introduzione alla critica del testo, Torino 1970. Avalle, d'A. S., Principi di critica testuale, Padova 1972. Avalle, d'A. S., La Critica testuale, in Grundriss der romanischer Lite-raturen des Mittelalters (a cura di H. R. Jauss e E. Köhler), Heidelberg 1972, pp. 538-58. Barbi, M., La nuova filologia e l'edizione dei nostri scrittori da Dante al Manzoni, Firenze 1938. Basile, B. (a cura di), Letteratura e filologia, Bologna 1975. Bédier, J., La tradition manuscrite du «Lai de l'Ombre». Réflexions sur l'art d'éditer les anciens textes, Paris 1929 (da «Romania», liv, 1928). Brambilla Ageno, F., L'edizione critica dei testi volgari, Padova 1975. Castellani, A., Bédier avait-il raison? La méthode de Lachmann dans les éditions de textes du moyen àge, Fribourg, Suisse, 1957.

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almeno non saprei immaginarmi che l'originale, poniamo, di un testo cinese o bantu possa essere ricostruito dalle copie o da qualsiasi altra testimonianza, insomma dalla sua tradizione, se non sul fondamento delle considerazioni e conforme alle regole enunciate dal Maas». Questa citazione è significativamente riprodotta da un cultore della più importante nuova filologia, e per di più idealmente soprordinata alla philologia sacra, la filologia ebraica (Pietro Giorgio Borbone, La critica del testo e l'Antico Testamento ebraico, in «Rivista di storia e letteratura religiosa», xx, 1984, pp. 251-74, a p. 271). In qualche modo (si veda un'esposizione elementare della tradizione veterotestamentaria a cura di Otto Stegmüller, nella Geschichte der Textüberlieferung cit., I, pp. 149 ss.), come di massima la letteratura greca si fonda sulla recensione alessandrina, così gli ebraisti si fondano più solitamente sulla sistemazione testuale data alla fine del I millennio d. C. dai Masoreti. Il problema più urgente, eventualmente frenato da considerazioni teologiche, è quello di usufruire delle testimonianze più antiche, non indietreggiando neppure davanti alla divinatio in quello che viene chiamato l'originale'. Una robusta scuola italiana, nel solco pasqualiano (Paolo Sacchi, Bruno Chiesa ecc.), opera nel senso dell'assimilazione della filologia ebraica alla filologia classica lachmanniana e postlachmanniana. Anche nell'ambito della restante filologia semitica non è usuale imbattersi in uno stemma lachmanniano per un testo geez, come nell'edizione della Vita di Yohannes l'Orientale (secoli XVI-XVII?), p. xxvi, a cura di Paolo Marrassini (Firenze 1981). G. C. LA «VITA» FRANCESE «DI SANTALESSIO» E L'ARTE DI PUBBLICARE I TESTI ANTICHI Mantengo tardi una vecchia promessa, offrendo a Raffaele Mattioli il testo della mia prolusione fiorentina del 1953, che egli mi aveva chiesto con affettuosa iterazione. Quell'intenzione non si attuò solo perché ad esso avrei voluto far seguire una nuova edizione del poemetto. Nel frattempo, però, la mia ricerca andava avanti, come si vede dagli Scavi alessiani e da relazioni tenute in recenti congressi. Negli Scavi, in particolare, l'eventuale edizione è tutta implicata. Non per questo risulta annullata la prima forma della riflessione, che anzi, oltre a essere più essoterica, è il tacito presupposto dei successivi interventi. Naturalmente ero tenuto qui a riprodurre il discorso quale fu effettivamente letto; e perciò non l'ho aggiornato nemmeno sulle ricerche altrui, prendendo posizione sulle tesi dei colleghi Lausberg (opposizione a L di tutti gli altri manoscritti), Sckommodau (eccellenza di A), Avalle (legittimità della doppia conclusione). Le riflessioni che mi propongo di sottoporvi oggi si legano a un lungo e pressoché quotidiano commercio col pensiero e con l'esempio di due maestri sommi quanto fra loro diversi; dell'uno dei quali una sorte benevola mi collocò, proprio letteralmente, fra gli ultimi scolari: Joseph Bédier; mentre dell'altro, a cui non fui allievo secondo lo stato civile, riuscii a essere per molti anni devoto e intrinseco ammiratore e amico: il nostro compiantissimo Giorgio Pasquali. Familiare a tutti noi senza che la sua meravigliosa affabilità ci facesse dimenticare per un solo istante la grandezza dell'uomo, il suo nome è una dolorosa memoria recente, che non cesserà di restare crudele. E io rimpiango quello che le presenti considerazioni avrebbero potuto guadagnare di forza e di riflessa autorità se mi fosse stato dato discorrerne un'ora almeno con Pasquali. Non intendo già porle all'ombra di nomi grandi; tutt'al contrario, sciolgo un debito elementare di gratitudine quando rammento che nella mia infanzia professionale la lettura della Tradition manuscrite du «Lai de l'Ombre», sottointitolata Réflexions sur l'art d'éditer les anciens textes, e della Storia della tradizione e critica del testo costituì un doppio incontro decisivo. E non posso lasciar sottinteso un particolare: il saggio di Bédier, così come la successiva edizione del Roland, costituisce una radicale eversione del metodo più o meno propriamente chiamato lachmanniano; il capitale volume di Pasquali, che ovviamente postula una previa fiducia in quell'approvato metodo per l'amministrazione ordinaria, s'industria, nella parte sostanziale, di rintracciare casi di trasmissione non verticale ma laterale, e perciò di sorprendere avanzi di doppie redazioni, di varianti d'autore. Ora, intento mio è di rinnovare un'adesione, che non mi turberò se sarà chiamata neolachmanniana, a quella classica procedura; non sarò né antilachmanniano come Bédier né, almeno qui, postlachmanniano nell'accezione di Pasquali, non starò, rispetto ai due uomini cui devo in critica testuale più che a tutti, nel solco di uno

stretto discipulato; non vorrò fare a questi due temperamenti criticissimi il torto d'essere seguace dogmatico, o riparando (com'è avvenuto sotto etichetta di fedeltà a Bédier) la pigrizia dietro la riproduzione d'un solo, dichiarato 'il migliore', manoscritto (per risparmiarmi la fatica di razionalizzare la realtà in uno stemma); oppure (com'è altrettanto avvenuto, sotto etichetta di fedeltà a Pasquali o a Barbi) precipitandomi a conferire autorevolezza, a qualificare come originali varianti parallele, solo perché per sé indifferenti. Mi lusingo tuttavia che possa riuscir visibile in questo specifico esercizio, e per induzione si possa poi più generalmente ammettere, come, per essere oggi lachmanniani, sia indispensabile aver attraversato e un tirocinio antilachmanniano (cioè Bédier) e un'esperienza postlachmanniana (cioè, se non altro in filologia classica, Pasquali). Di più, se i forti si compiacciono di sentirsi in eroica solitudine, consentite a me il tepore e l'ausilio della rete storica in cui mi consolo di trovarmi impigliato. E mi sia permesso narrare in brevissime parole come mi sia accaduto di far cadere l'attenzione, e poi la scelta, sopra l'argomento a cui mi accosto. Trovandomi ad aver frequentato per qualche tempo le aule della critica testuale, e tornandomi fra mano di continuo i 'manifesti' metodologici della disciplina, mi sono chiesto, temo per primo, se non fosse esperimento curioso e opportuno tornare con animo e informazione di postero agli incunabuli del mestiere, e collaudare, a distanza di ottanta e più anni, la fondazione stessa della filologia testuale romanza. La Romania s'aggiunse infatti con l'intervallo di qualche decennio al paradigma del settore classico e all'applicazione del settore germanico. E a quest'impresa si attendeva nel medesimo tempo in ugual misura da una parte e dall'altra del Reno, e presto si potè dire: della barricata. L'opuscolo di Gustav Gròber, Die handschriftlichen Gestaltungen der chanson de geste «Fierabras», uscì a Lipsia nel 1869. Gaston Paris, figlio di Paulin Paris, fece a tempo a recensirlo quell'anno stesso e a introdurne la menzione in una nota del suo proprio lavoro. Questo, desunto da corsi del 1869, e cominciato a comporre in tipografia sùbito allora, andò in libreria solo nel 1872: è l'edizione della Vie de saint Alexis, settimo fascicolo della «Bibliothèque de l'École des Hautes Études». A giustificare il ritardo c'erano state di mezzo prima una guerra esterna e poi una guerra civile. Ed è commovente pensare a questa non premeditata collaborazione franco-germanica, fra l'allievo di Bonn e di Gottinga e il futuro titolare di Strasburgo: al piombo immobilizzato nei cassoni tipografici mentre i belligeranti si scambiavano piombo di ben altra natura. È un edificante esempio della vita dei cleres, e inevitabilmente rammenta le conversazioni di quell'altro clerc, Ernest Renan, sulla scienza tedesca sotto le cannonate degli assediami: conversazioni che, stenografate nel diario dei Gon-court, procurarono qualche noia polemica all'interessato quando Edmond cominciò a pubblicarne i primi volumi. A parità di anno, l'opzione resterebbe dunque libera tra Fierabras e Alexis, tra Gròber e Paris. Confesso che tra il massiccio artigiano del Grundriss e della «Zeitschrift» e il fosforico e scintillante fondatore della «Romania» poteva cadere poca esitazione. Ci fosse anche stata, la memoria del Gròber era fine a se stessa, mentre l'operazione del Paris è tutta in servizio dell'edizione che accompagna. Di conseguenza il lavoro del Paris apre (e dico apre nonostante i precedenti, in particolare il non trascurabile tentativo del Hofmann) - apre, ripeto, una serie attiva, un capitolo di storia. In essa, se non proprio Bédier, vediamo certo intervenire l'ombra della sua diffida, tacitamente prima, poi esplicitamente; in un punto già ben avanzato s'inserisce, con l'ultimo dei suoi contributi, Pio Rajna. Così la vicenda si atteggia in modo addirittura drammatico, per la statura delle persone che investe Vorrei dire che si tocca con mano qualcosa di assai maestoso e venerabile; e io personalmente ne ho avuta un'impressione addirittura fìsica, poiché il caso mi ha fatto lavorare su una copia dell'edizione Paris, da molti decenni nella biblioteca di Friburgo in Svizzera, che reca l'invio del suo autore all'editore precedente («À Monsieur le Prof. Conrad Hofmann / hommage respectueux/ G. Paris»), e nei cui margini si leggono postille di molte mani, alcune delle quali mi par proprio di poter attribuire alla scrittura di Bédier. Un così primario terzetto, Paris Rajna Bédier, è ben celebre per rappresentazioni tanto più popolari date su scene frequentatissime: non occorre nemmeno citare l'appassionante avventura delle origini dell'epopea francese. Sennonché una tesi non va mai isolata: per quanto sia certo che i problemi debbon esser risolti seriamente ognuno per se stesso, non già in obbedienza a una Weltanschauung preordinata, e la struttura si possa rintracciare e descrivere soltanto a posteriori. Non attendiamoci dunque un parallelismo perfetto e geometrico tra le soluzioni che quei capifila studiarono e proposero volta per volta. Implicazioni però sì, secondo gli uomini più o meno strette: il culto dell'unico manoscritto è figlio in Bédier di quel medesimo rispetto della presenza storica e diffidenza della preistoria che gli dettò i grandi teoremi di storia letteraria; quanto al Rajna, la sua accentuazione della tradizione mista, o in altri termini della parte di trasmissione orale che è o sarebbe nella tradizione manoscritta,

involge un giudizio sul genere stesso della leggenda agiografica, che è automaticamente accostata ad altri prodotti sociologici, a cominciare dalla chanson de geste. Pertanto alle figure e agli enunciati a prima vista un poco esoterici che si vedranno sfilare in questa giostra tecnica, sappiamo che si accompagnano armoniche di ben più larga portata, anche se non rimarrà agio di evidenziarle e svolgerle adeguatamente. Finalmente, la cavia che conviene avere tra le nostre mani settrici è meglio che possegga una qualche venustà oggettiva, o comunque che da alte ragioni culturali le sia assegnata reverenza. Tale non sarebbe al certo il caso di Fierabras, ma tale è Alexis. Non pretenderò io già, sulla scia del mio illustre amico Ernst Robert Curtius (forse un poco umanisticamente traviato dai sospetti echi virgiliani e dall'ineccepibilità delle simmetrie e degli altri artifici di scuola), che Alexis, quest'accorta parafrasi della Vita latina, sia un grumo di poesia intenso e significativo. Un sapore linguistico risentito lo ha di sicuro: anche per chi di quell'eventuale Tedbaldo di Ver non, o chiunque ne fosse l'autore (ma l'ingegnosissima ipotesi del Paris non ha perso nulla della sua attrattiva, e a quell'immagine si vide nei suoi ultimi anni Philipp August Becker scoprire un padre, il prete Israele, fino alla Passione di Clermont) - per chi di quel Tedbaldo dunque volesse fare un Ennio sullo stile di Quintiliano, cui «sicut sacros vetustate lucos adoremus, in quibus grandia et antiqua robora non tantam habent speciem quantam religionem». Perciò i lacerti di testo che gli strumenti verranno estraendo, benché addotti a scopo esemplificatorio e dimostrativo, non saranno pure cifre algebriche, avranno un senso rievocabile dalla memoria. Non tocca al frugale filologo, ma all'austero epistemologo, decidere se il 'generale' possa enunciarsi in modo generale. Non metafisico e non matematico, il filologo si limiterà ad asserire che una metodologia non generale ma speciale, come la presente, non può essere scissa dalla situazione a cui si applica. L'importanza della posta, dico la restituzione d'un dettato così venerabile, consentirà di contrabbandare, s'intende con la discrezione imposta dall'occasione e dalla sede, qualche particolare tecnico. Giustificata così, o scusata, l'elezione del tema, non si può tardare ad abbozzare le linee di questo capitolo storico: prima che alla verifica della resistenza dei materiali risulti che cosa rimanga in piedi dei fondamenti stessi della nostra filologia, in quanto ecdotica. Nel 1872 Gaston Paris espone i criteri di logica formale che consentono, posta una pluralità di testimonianze (relativa, si preciserebbe oggi, proprio a un medesimo univoco documento), di ricostruire la lezione primitiva: insegna, insomma, come fabbricare un albero genealogico. Enuncia il criterio della maggioranza delle testimonianze, ovvia e più elementare applicazione del calcolo delle probabilità; e soprattutto, strumento di riduzione del numero grezzo delle testimonianze a quello definitivo delle testimonianze fra loro indipendenti, l'altro criterio dell'errore comune, che due o più scribi non possono aver commesso nel medesimo luogo (a meno d'un incoraggiamento nella natura stessa delle cose) indipendente-mcntc uno dall'altro. Paris soggiungeva addirittura che invece «li errore («faute») si può dire: innovazione («modification») comune; e a copisti («scribes») sostituire: rimaneggiatori («re-nouveleurs»). Egli si rende dunque lucido conto che lo stemma è uno strumento obbiettivo e meccanico inventato per dirimere, in prima istanza, il litigio fra varianti per sé indifferenti: indubbiamente parlare di circolo vizioso sarebbe improprio, e anche paradosso sarebbe eccessivo, ma circuito esiste di sicuro, tra varianti erronee e varianti adiafore, là dove varianti giudicate e decise erronee servono a far qualificare di erronee le rimaste indifferenti; tralasciando la latitudine d'iniziativa che resta nel cernere fra i chiamati errori (vero e proprio atto di volontà deliberante), ed escludere quelli che, per lectio difficilior o altra eccezione, sono dichiarati non significativi ai fini della parentela. Ha ragione Gaston Paris a concludere (anche se la sua frase si riferisca all'albero bipartito) che l'operazione, lungi dall'essere meramente aritmetica, esige finezza, gusto, discrezione («tact», «intuition», «instruction»). Tutto questo è vero in universale; ma quando egli discorre di rimaneggiatori e innovazioni, egli ha in mente la peculiare libertà dello scriba romanzo (o volgare in genere), per il quale il testo non è umanisticamente un oggetto dato, individuo, firmato, rispettato e immutabile, bensì un prodotto adespoto, utile e infinitamente ritoccabile (entro limiti, beninteso, che variano da genere a genere, ossia da situazione a situazione sociologica). O si dica, in altre parole, che immane all'operazione di Gaston Paris la coscienza che filologia romanza non è un sostantivo più un variabile aggettivo, ma un'unità ravvisabile storicamente: definizione storica che si può conseguire sul terreno dell'ecdotica come si può raggiungere nella sfera linguistica e in quella storico-letteraria (composizione di universalità linguistica e di particolarità dialettale e naturale, d'iniziativa culturale e d'usufruimento collettivo). E a riprova: il Paris fonda qui la recisa distinzione di critica delle lezioni e critica delle forme, che, polarizzazione di portata evidentemente generale, trova però la sua opportunità estrema e quotidiana non già nei confini della gramatica, legiferata una volta per tutte, ma nel campo volgare, aperto alla libertà che si è vista, ma che è anzitutto licenza fonetica e morfologica. In quanto ogni copista sia un traduttore nella variante della

propria cultura e regionale e temporale, questo aspetto della sua attività va, di norma, preliminarmente escluso dalla considerazione genealogica. La critica delle lezioni di Alexis porta il Paris, sia detto sùbito, alla costruzione d'un albero bipartito, i cui due rami sono a loro volta bipartiti. Se l'elaborazione ne sia stata corretta, se la lezione fermata vi si conformi con rigore, la critica successiva non ha esaminato: l'unica critica in atto, dalla quale si ha il diritto, o piuttosto il dovere, di essere stimolati, è venuta dal Paris stesso, che nella seconda editio minor senz'apparato (quella, più volte riprodotta dal Roques, del 1903) modificò sensibilmente - e talvolta per presumibili ragioni di principio - il testo della maior, con apparato, del 1872. È doloroso che la morte abbia impedito al Paris di giustificare le proprie correzioni, come prometteva, nella «Romania». Per il resto può ben dirsi che la lezione del Paris sia passata in giudicato: la lunga lista di edizioni susseguenti, per lo più d'interesse scolastico, che si chiude per ora con quella di Gerhard Rohlfs (1950), o suppedita, magari dopo ricognizione più accurata, il materiale manoscritto (come accade con lo Stengel o col Foerster, nel-l'Altfranzösisches übungsbuch di Foerster e Koschwitz); o riproduce, al massimo con ritocchi episodici, non corredati di giustificazione teorica, quella celebre stampa (come accade col Foerster, nell'edizione postuma procurata dalla Rösler). Veramente, anche tertium datur, negli ultimi anni. L'intervento del Bédier ha la data del 1913, e si ribadisce nel saggio del '28: in prò delle edizioni secondo un solo manoscritto, conforme al carattere delle copie volgari che sono altrettante edizioni e hanno se non altro oggettività documentaria; contro le edizioni dette critiche e in realtà composite, nelle quali manca la garanzia che la scelta delle lezioni abbia fondamento non soggettivo. Nel ragionamento del Bédier due punti sono, ai nostri fini, di sommo rilievo: l'uno, che il persistente volere inconscio di libertà di scelta individuale si tradisce nella conformazione bipartita della maggior parte degli alberi; e ciò vale per l'Alexis del Paris, di dove anzi (benché non lo nomini) egli ricava il primo dei suoi esempi. L'altro, che la scoperta di nuovi testimoni è passibile di alterare lo stemma, e con ciò di mutare profondamente la lezione: ora, questo casus fictus si fa realtà per Alexis, una volta che due suoi nuovi manoscritti parziali sono stati pubblicati in questo secolo, nel '23 dai coniugi Fawtier uno, per verità di portata meno rilevante, residente a Manchester (e pare un po' forte che, benché comunicata nientemeno che su «Romania», questa scoperta sembri aver raggiunto, degli editori seriori, soltanto la Rosler e il Meunier), nel '29 dal Rajna uno, quanto mai cospicuo (benché a mio parere riducibile anch'esso alla ragione), della Vaticana. Poiché qui, è chiaro, non la potrei svolgere, sarà bene che dichiari senz'altro quella che sarebbe la mia risposta al Bédier: sulla tesi generale, che un testo critico è, né ciò mi turba, nient'altro che un'ipotesi di lavoro; sul secondo punto speciale, che l'ipotesi storica trova un limite, variabile, nella, variabile, documentazione. Resta - ma quello che resta è l'essenziale - l'incomparabile ausilio che nel processo dialettico le obiezioni del Bédier forniscono al nuovo lachmannismo. Bisogna però credere che codeste al dotto vulgo paiano sottigliezze superflue: poiché, se si hanno edizioni secondo un solo codice, che naturalmente è il più antico e all'ingrosso (ma ben all'ingrosso) il cosiddetto migliore, quello chiamato L (dall'iniziale dell'abbazia di Lambspringen dove sostò prima di raggiungere la basilica di San Godeardo a Hildesheim presso Hannover), ciò avviene per bédierismo dogmatico e passivo. O addirittura implicito e silente, come avviene nella postuma edizione del canonico Meunier (1933). Solo lo Storey, nella maior del '34 (cui seguirà una minor nel '46), invocherà nominativamente l'autorità di Bédier. Vero è che la maior dello Storey s'inserisce in una serie di tesi e memorie strasburghesi, dirette dal Hoepffner e dedicate allo studio linguistico di monumenti antichissimi, Giuramenti di Strasburgo, Saint Léger, Boeri, Santa Fede, ad attestazione unica: la commendatizia del Bédier è qui un comodo passaporto adoperato sveltamente per autorizzare l'ingresso di L unico. Comunque, Bédier qui non è l'ultimo termine. La biografia di quei patriarchi e soprattutto la storia delle teorie sull'epica francese ci hanno assuefatti alla consecuzione Paris Rajna Bédier. Stavolta invece l'ordine è: Paris, Bédier (indirettamente), Rajna. Delle conclusioni di Bédier il Rajna era naturalmente a conoscenza fin dal '13; il filato e sistematico ragionamento del '28 gli venne sott'occhio mentre il suo articolo era in bozze, e potè citarlo solo in una noticina: tenendo, in essa, comunque a dichiararsi fedele al metodo classico, di cui s'era fatto sommario espositore nell'Avviamento del Mazzoni. Nell'intenzione, le sue obiezioni pertengono puramente alla fattispecie. Non è che la scoperta di V gli appaia (e noi diremo, bédierianamente) come esemplare dello sconvolgimento da qualsiasi intruso indotto nello schema: no, è nel caso monografico che gli stemmi ricavati dai sei primi luoghi scrutinati in presenza di V darebbero altrettante costellazioni, inconciliabili fra loro; onde il corollario che la tradizione del testo sia mista, che cioè agli indubbi elementi scritti si associ, in misura importante, la trasmissione orale. Quale la conseguenza ecdotica, però? Non saprei vederne altra da quella toccata per altra via da Bédier: quel poemetto non sarà più

pubblicabile se non secondo singoli manoscritti, depurati al massimo delle lectiones singulares più manifestamente erronee (e naturalmente l'interpretazione quantitativa di questo avverbio non sarà affatto pacifica). Ma c'è di più: il caso di Alexis è di quelli (per una tradizione a più testimoni) relativamente così semplici che, se il patronato di Lachmann non vale per esso, non varrà per nessun altro. L'aporia proclamata da Bédier innanzi alla recensio si riprodurrebbe, pervicace, inciprignita, sotto le mani, mettete pure involontarie, del Rajna. È il momento di entrare nel merito: procurando di tener ferme le linee generali, proprio in un ordine di ricerche dove il particolare è tutto; o dove è tutto, per dir meglio, come in qualsivoglia disciplina storica, il particolare-generale. Il ragionamento di Gaston Paris, che operava su quattro elementi (detti L, A, P, S), si compone di quattro momenti: i°) la costituzione di gruppi ternari, cioè di accordi di tre manoscritti contro uno, nelle quattro combinazioni possibili (APS contro L, LPS contro A, LAS contro P, LAP contro S). Ciò serve a provare, osserva il Paris, che i quattro testimoni sono mutuamente indipendenti; ma per il resto i raggruppamenti ternari non sono significativi. 2°) il riconoscimento di opposizioni binarie, nelle tre combinazioni possibili (LA contro PS, LP contro AS, LS contro AP). Se tutte queste opposizioni fossero valide, è troppo chiaro che si contraddirebbero. Bisogna dunque che due di queste tre serie si rivelino illusive; e il Paris provvede appunto a mostrarlo per le ultime due. 3°) la determinazione, una volta avanzati come significativi solo gli accordi LA contro PS, della natura erronea o indifferente delle lezioni comuni. (Se le lezioni fossero tutte indifferenti, saremmo puramente in presenza di due redazioni, d'autore o no; se fossero erronee da una parte sola, otterremmo una sola riunione, e l'albero sarebbe a tre rami, ossia LA, P, S oppure L, A, PS). Il torto risulta al Paris equamente distribuito, talché si costituisce un albero bifido, a rami LA e PS. 4°) il rintracciamento d'un archetipo, cioè di errori comuni all'intera tradizione. (I filologi classici hanno cura di precisare che la ricostruzione porta non già all'originale, ma alla copia antica dell'edizione che faceva testo. Ciò, salvo le squisite eccezioni di cui s'intesse il libro di Pasquali, si può dire a priori per gli autori latini, ma specialmente per i greci, tramandatici nell'assetto che diedero loro i grammatici alessandrini). Ogni volta che sia possibile, l'esistenza dell'archetipo va perseguita e dimostrata anche in filologia romanza. Della dimostrazione del Paris le fonti sono due: lezioni inammissibili (o giudicate tali) persistite in tutta la tradizione; accordi non canonici (appunto LP contro AS, LS contro AP) che vanno interpretati quali emendamenti congetturali (autonomi) d'un archetipo guasto, per esempio ipermetro o ipometro. Questa successione di momenti è logicamente corretta? Per il resto, nessun dubbio; ma un dubbio rimane precisamente sul primo. Il Paris lo giustifica con la necessità di provare, diremo in termini di filologia classica, l'impossibilità di alcuna elimi-natio codicum descriptorum: che è infatti l'operazione preliminare a ogni classificazione. E da questo rispetto negativo, nulla da eccepire. Ma perché tanta insistenza sui raggruppamenti di tre contro uno, se essi non sono, come confessa il Paris stesso, significativi, e se i dati significativi cominciano solo coi raggruppamenti binari? Logicamente, o diciamo sillogisticamente, bisognerebbe prendere l'avvio da ciò solo che è atto a permettere una conclusione. Sennonché un discorso può avere invece una struttura, nemmeno problematica, ma euristica, o diciamo psicologica: è quello che accade qui, ed è quanto vedremo ripetersi ingigantito nel Rajna relatore circa V, appassionato delle novità recate dal documento prima che della sua sistemazione razionale; nei limiti in cui il gusto dell'avventura non incide sulla razionalità del processo mentale, non solo esso è ricevibile, ma porge un utile fomento di entusiasmo. Una riserva ulteriore impongono però sùbito quei raggruppamenti ternari, in quanto si convertono in elencazione di lectiones singulares dei vari manoscritti. È forse questo, non verificatasi la prima eliminazione, l'avvio a quell'altra operazione preliminare (ma stavolta preliminare alla costituzione testuale) che si chiama eliminatio lectionum singularium? Vediamo. Per essa s'intende l'esclusione di quelle tali varianti locali che, non risultandone evidente l'erroneità secondo criteri interni, sono espunte in quanto precisamente isolate entro una tradizione a più testimoni: e tale è, sappiamo fin d'ora, la tradizione di Alexis, se non vi si dànno famiglie di tre manoscritti. Converrebbe

dunque che negli elenchi (beninteso non esaurienti) di lectiones singulares, 43 esempi per L, circa 26 per A (dico circa, perché sono 28, ma 2 stanno per errore che in 1 caso almeno non riesco a correggere), 18 per P, 21 per S, figurassero solo lezioni ammissibili, non già palesemente erronee: il che accade qualche volta (3 per L, 2 per A, 1 per P); e lascio stare le lacune, che per sé potrebbero essere congetturalmente supplite dai non difettosi; sono peraltro cifre percentuali abbastanza basse da poterle assegnare a quello che un critico spiritosamente chiama (e poco importa se a torto nel suo caso specifico) 'coefficiente di disattenzione'. Ciò posto, quelle lectiones singulares sono poi eliminate dal Paris? Sì, se tratta di A, P e S (con l'eccezione d'una lectio difficilior di P accolta nell'editto minor); ma delle 43 di L ben 7 sono accettate nell'edizione del 1872, e se per 2 di esse la minor ritorna sui suoi passi (cioè ad APS), alle 5 rimaste se n'aggiungono 4 di nuove. La definizione del 'miglior' manoscritto, punto topico nelle disamine provocate dalla teoria di Bédier, può qui essere toccata perlomeno di fatto: esso è quel tal manoscritto da cui si possono ricevere nel testo perfino delle lectiones singulares. In tal caso, però, non si tratta più di lectiones singulares e bisogna cancellarle dal catalogo (come per 1 delle 7 fa l'errata corrige del 1872): vuol dire che quelle lezioni buone, serbatesi in L benché difficiliores o in condizioni altrettanto eccezionali, hanno subito una trivializzazione o comunque un'alterazione uguale nei vari testimoni, indipendentemente fra loro. Non posso naturalmente analizzare qui gli 11 casi, ma li riduco ad unità per poterne definire le istruttive figure generali. Si capisce che domini, per quanto è lecito presumere, la figura della lectio difficilior. Il Paris lo dice esplicitamente quando opta (io5d = 524) per main del solo L contro geni [menude] di tutti gli altri (compreso oggi V). È certo che, se il continuatore di manus, termine giuridico per 'classe' (manus media, infima, inferior), appare oscuro, un solo sinonimo monosillabo può sostituirlo, ed è gent: ecco un puzzle facile, un quiz a risposta obbligata. Tuttavia anche in questo, che è il caso a lui più favorevole, mi vuol parere che il Paris corra troppo. Le Assises de Jérusalem, in pieno Duecento, scrivono ancora gens de basse main: e se lo scriba di L avesse nutrito ubbie di causidico e favore per quella connotazione leggermente deprezzativa? L'argomento della lectio difficilior riuscirebbe infranto, se non rovesciato: main è certamente difficilior per un lettore dell'Otto o Novecento, ma era poi tale nel Millecento e nel Duecento, epoca dei codici incriminati? L'albero è uno strumento, una macchina volta a evitare le insidie del gusto soggettivo (judicium, in filologia classica): converrà dunque fare un uso molto cauto di quei criteri che, come la lectio difficilior, possono tramutarsi in artifizi tesi a girare l'ostacolo, riproponendo in sostanza un arbitrio soggettivo di scelta. Quanto alla libertà radicale, si può star certi che non si riuscirà mai a distruggerla. Bédier, che lo scetticismo verso la paleontologia testuale portò a limitare drasticamente la libertà confinandolo all'edizione d'un solo manoscritto, per il fatto stesso che questa non era né fotografica né diplomatica, ma sempre interpretativa, in quello stretto margine dove l'aveva serrata le fece compiere orge inaudite: che significa infatti depurazione degli errori 'evidenti' del manoscritto? che cosa più contestabile dell'evidenza, e dei limiti dell'evidenza? Tralascio poi i tesori d'ingegnosità profusi a dimostrare la razionalità di termini reali che una considerazione più economica avrebbe ben qualificato d'irrazionali. Non uno, comunque, dei lemmi la cui adozione sembri da imputare a immaginabile lectio difficilior, appare stretto da necessità cogente (o piuttosto uno solo, ma perché A, letto meglio, diverge da PS). Per esempio, sarebbe un po' arrischiato pretendere che (75C = 373) esteit sia più difficile di ert, leggasi er(e)t (se non si supponga ipometria), cioè proprio del sinonimo che esso finirà per sostituire (e certo rimarrebbe da indagare quale fosse, prima del suo allentamento nella sinonimia, l'opposizione semantica di eram e stabam, presumibilmente aspettiva come, verso direzioni opposte, nelle lingue iberiche e in antico italiano). E sarebbe altrettanto arrischiato, là dove la sposa abbandonata riconosce la salma del suo marito nominale, asserire che (993 = 491) Or sui jo vedve di L sia preferibile a Or par (Veramente, pienamente') sui vedve degli altri (compreso ora V). E c'è di più: queste potrebbero essere imperfette applicazioni di fatto, salvo restando in diritto l'istituto della lectio difficilior. Ma come immaginare che più testimoni indipendenti abbiano surrogato jo proprio con pari O il criterio qui non è applicabile - come non è; o è applicabile, e allora l'albero del Paris non regge. Né posso immaginare, nel suo silenzio, se dopo il '72 la fiducia nel suo proprio stemma era rimasta scossa: certo, l'ipotesi (benché non affatto necessaria) d'un raggruppamento APS, rovinosa per il suo, non sarebbe tale per la versione restaurata che mi accingo a proporre. Qualcuna di quelle singulares è peraltro da introdurre; e importa allora esaminare sopra quale fondamento. In i9d = 94 Donet as povres di L (accettato nel '72) si oppone a Dona as povres degli altri (cui ritorna l'editto minor). Qui sì sarebbe il caso di parlare di lectio difficilior, visto che la conservazione

della consonante finale (provata dall'iato) in donet rinvia a tempi antichissimi, laddove l'iato dopo dona persiste ancor oggi. Ma c'è altro: il presente storico di L è soppiantato negli altri testimoni da un passato narrativo. Ora, se ciò può richiamarsi a una concezione naturalistico-sostanzialistica dei tempi, il testo di Alexis ce ne offre una tutta diversa, rappresentativa e prospettica: il presente, precisamente, rappresenta, soprattutto alla o verso la fine della strofe, mentre il perfetto designa un antecedente ideale, un precedente di secondo piano, dietro le quinte. Non il racconto importa tanto all'autore quanto l'evidenza plastica dei suoi singoli momenti, tal quale al pittore o allo scultore o al regista d'un medio evo anche molto più avanzato. (400 = 198) Quant vit son regne, molt fortment se redotet... La vista è il precedente necessario, il timore è il termine dell'interesse dello scrittore e dello spettatore: perciò perfetto, e presente. Ma a buon conto il perfetto è di L solo, gli altri lo normalizzano in veit. Con che non intendo certo che la ragione stia sempre dalla parte di L, essendo naturalmente proprio di siffatte figure, vorrei dire per definizione, che esse mutino di luogo. Quanto alla dichiarazione che ne ho tentata, mi rendo conto post factum che essa trova un legame (e soprattutto lo fornisce loro) in taluni rilievi che la critica aveva formulato allo stato sparso: la rigidità romanica della rappresentazione, presso il Curtius; la mancanza (con tre sole eccezioni) di continuazione tematica da strofe a strofe, in difformità dalle chansons de geste, presso il Mulertt e ancora il Curtius; l'opinione, erronea in fatto, ma sagace quale prima adduzione, nell'esegesi, dell'aspetto verbale, del Winkler che nelle zone narrative l'autore racconterebbe «oft teilnahmsloskühlperfektisch», mentre nelle zone etiche il confino della materia «in perfektischer Distanz» risulterebbe raro. Simili reperti sintattici, così come le reliquie lessicali che si verranno scavando, sembrerebbero confermare la data ben antica (circa il 1040) piuttosto divinata che dimostrata dal Paris, posto che è molto più resistente la connessione immaginaria con Tedbald de Vernon che la comparazione - di mal misurabile intervallo - col Roland, cioè con un testo di data sempre più controversa e di localizzazione non provata identica. Comunque, il tipo frequentissimo degli scambi di presente e perfetto è chiaro che appartiene a un prolungamento della critica delle forme, esula dalla sfera delle norme lachmanniane. Ancora. A L si attiene il Paris del '72 stampando (94C-d = 468-9): Sire, dist ele, com longe demorede Ai atendude en la maison ton pedre. Ma questo attendere un'attesa, anzi una separazione, un indugio lontano, è talmente assurdo che la minor credette di dover correggere. Dove è detto che APS recano T'ai atendu, si ha una semplificazione: la formula, che è solecistica perché pecca contro la legge Tobler, è solo in P (e M); S, per manifesto scrupolo grammaticale, ritocca invertendo Atendu t'ai (e così fa la minor, trascorrendo da singularis a singularis) ; A porta l'ineccepibile, ma altrettanto 'singularis', Tant t'atendi. Una tale divergenza dei testimoni, una tale diffrazione rinvia con ogni prò-babilità all'archetipo. La scoperta di V, col suo ipermetro Tant ai atendu, indica qual era l'intollerabile lezione a cui porre rimedio. Che cosa si nasconda dietro il guasto dell'archetipo, siamo costretti a solo congetturare: io ardirei sospettare che invece di atendu l'originale leggesse o il continuatore di attentus o, meglio, il tipo parallelo al nostro atteso. Ecco dunque un nuovo testimone, V, intervenire ad alterare la situazione: è il caso previsto da Bédier, che, dopo Bédier specialmente, è da seguire con un'attenzione tutta particolare. Fin da questo vestibolo (dove però, se si manovri con qualche accorgimento, è già possibile entrare nel merito), sarà opportuno chiedersi come reagiscano le liste di Gaston Paris in presenza di reagenti nuovi oltre i quattro elementi da lui adoperati. E intanto: quando Paris dice S, semplifica già, perché S può rappresentare se stesso, cioè l'individuo S (manoscritto unico d'una redazione ampliata ma ancora assonanzata, per il testo sempre utilissima), e può rappresentare tutto l'Insieme' di copie successive che riescono a S cominciando dal punto di diramazione; insieme un cui discendente si ha pure nella redazione rimata (dal Paris negletta per il momento) chiamata M. È ben istruttivo che, se esistono due opposte visioni della natura della lingua, quella della pura convenzionalità e quella che dirò contestuale (talché per i più estremi nominalisti non esisterebbe alcuna semanticità fuori del contesto), anche l'uso d'un simbolo come S o P si riveli equivoco

o perlomeno contestuale. L'adduzione di M (ogni volta che non sopprima o sfiguri i versi) serve per l'appunto a sceverare ciò che di S è accordo SM e ciò che è S proprio (ossia un segmento più ridotto): così come si comporta il manoscritto di Manchester, fratello, ma non gemello, di P, e perciò siglato convenzionalmente P2, nei riguardi di P. Simili dati appaiono suscettibili perfino di una misura, assoggettabili a quantità: nei 5 casi in cui P2 soccorre, 2 (40%) lo riuniscono a P (coefficiente di gruppo), 2 (40%) lo mettono con LAS contro P (coefficiente dell'individuo), 1 sancisce una divergenza; se poi si computano le lectiones singulares di P2, si può ottenere il suo proprio coefficiente individuale (o per ora individuale), cioè il coefficiente inverso di autorità, evidentemente tanto più significativo quanto più si opera su cifre alte. Non scandalizzi troppo l'introduzione di simili indici aritmetici: l'ho praticata esclusivamente perché questo mi pare il solo campo in cui possa allignare un'applicazione statistica, mentre criteri statistici aveva introdotto dom Quentin, facendosi confutare particolareggiatamente da Bédier, sommariamente da Pasquali. Ben altra è tuttavia la funzione dei nuovi manoscritti, si tratti di M già noto al Paris (anzi pubblicato da lui), si tratti degli a lui sconosciuti P2 e V: ed è quella di sottrarre in più casi la lezione di L all'isolamento. Se là dove si discorre del battesimo di Alessio L solo leggeva (6e = 30) Bel nom li metent sor la cristientet e APS mirent selonc crestienté, M si trova a confermare di L (oltre che il presente, secondo la figura già esaminata) sor la. Poiché non risulta d'altra parte che APS si accordino contro L in errori nemmeno presumibili in assenza di M, qui certo bisognerà discorrere di lectio difficilior: e così avremo precisato uno dei casi obbiettivi in cui questo criterio risulti invocabile, oltre l'altro chiamato della diffrazione di lezioni; da che parte poi stia la lectio facilior, allo stato attuale degli spogli non mi è possibile stabilire, ma oso presumere che stia da quella di APS. Non per nulla, infatti, i tre nuovi testimoni si trovano, nell'ambito di quelle liste, ad appoggiare singidares del solo L: ciò evidentemente precisa la definizione del cosiddetto manoscritto migliore, e autorizza ad adottarlo per convenzione generale a tutta parità di condizioni. Parità di condizioni che qui è posta solo dalla nostra ignoranza: ma non si procede forse dal noto verso l'ignoto? Un'ultima precisazione, prima di abbandonare questo paragrafo. Come M e P2 (dei quali è ovvia la situazione genealogica) non reagiscono positivamente che in presenza delle singulares o di L o dei loro rispettivi cugini S e P, così accade che V reagisca o innanzi a L o innanzi a un altro ben individuato testimone: gli si trova dunque, ciò che finora non è stato oggetto d'indagine, un sospetto parente. Questo testimone è quello dalla lettera iniziale di Ashburnham Place (di dove passò poi alla Nazionale di Parigi) chiamato A: che con lui manca della strofe 87 (la cui autenticità è stata vittoriosamente dimostrata proprio dal Rajna), cioè ha un errore comune; e come lui dà in un luogo (101a=501) ne faites contro que faites?, indifferente certo, ma non accade altrimenti che LPS abbiano errori comuni. Ecco dunque rintracciato, grazie a un'operazione elementarissima, un primo dato concernente la posizione genealogica, fin qui buia, del nuovo venuto. Passo al secondo punto del ragionamento del Paris; e naturalmente riunisco il riconoscimento degli accordi binari significativi (LA contro PS) e la qualificazione di erroneità (che fa il terzo momento) attribuita a entrambe le serie. Ho così tutti gli elementi che portano alla costituzione dell'albero. Qui l'obiezione di Bédier costituisce una garanzia di metodo di estrema importanza. Questo stemma, dal quale comincia la filologia testuale romanza, è, come la maggior parte dei suoi successori (o almeno di quelli che accompagnano, ossia guidano, un'effettiva edizione), un albero bipartito: dicotomia che per l'acuta diagnosi di Bédier risponde a una riaffermazione inconscia della fondamentale libertà soggettiva di scelta. Vediamo allora se le carte del Paris siano in perfetta regola. Sulle 22 lezioni da lui addotte, n sono considerate significative, 8 a carico di LA, 3 a carico di PS. Tra quelle a carico di LA ve ne sono 4 che sarebbero indubbiamente decisive (così, 65a = 321, Il l'escondit per Il s'escondit 'si scusa'): sennonché — ecco la sorpresa veramente insigne, che la mancanza d'una qualsiasi verifica non lasciava finora sospettare - quelle tali lezioni non figurano nell'edizione di A procurata dal Foerster e vanno dunque addebitate come singulares al solo L. Io sarei veramente confuso (mi sia consentito dirlo) se l'argomento principe che rovescia lo stemma d'un maestro come Gaston Paris rivelasse una scorrettezza di logica formale, un errore di diritto, non già un semplice errore di fatto: errore di fatto, per di più, nemmeno imputabile al Paris. A restò fino al 1887 nella biblioteca già del nobile lord, e il Paris lo conosceva solo attraverso una collazione di Paul Meyer: collazione, non copia, ciò che rende più agevoli le omissioni;

tanto maggiormente in quanto, eraso, riscritto e ricalcato da un vandalico rimaneggiatore di poco più tardo, non in tutti i punti quel codice riesce di semplice lettura. Passato che esso fu a Parigi, il Foerster andò a rivederlo di persona, e nei casi di contrasto con l'apparato del Paris sottopose il documento alla perizia dell'interessato; talché le ultime tirature dell'Übungsbuch, in quanto smentiscano il ragionamento del Paris, dànno una vera edizione Foerster-Paris. La cortesia della direzione della Bibliothèque Nationale, consentendo l'invio del codice in Svizzera, mi ha permesso da ultimo di constatare direttamente la sua ineccepibile fedeltà in quei punti critici. Ma mi si chiederà: e i 4 casi residui non sono probatori? No, non sono probatori, né c'è da farsene troppa meraviglia. Ogni serie che si viene costituendo consta di elementi che non possiedono il medesimo grado di certezza: c'è un nucleo più solido e c'è un alone meno decisivo, per il quale il ricercatore impresta l'asseveranza da quell'altro settore meno contestabile. Sopprimete il nucleo, e la coda si trova affidata alla sua sola vaneggiarne sicurezza. Sono costretto a risparmiarvi l'analisi di questi passi, in cui il Paris aveva scelto la lezione di PS come «évidemment préférable» o «plus heureuse» — effati manifestamente soggettivi. E che soggettivi fossero, provò nel fatto il Paris stesso, che per un caso (50a = 246) nel '72 aveva trovato «préférable» con PS ou gist sor une nate, mentre nella minor tornerà con L (e in sostanza A) a o il gist sour sa nate. Solida resta invece l'argomentazione di erroneità a carico di PS: e se il numero degli esempì parrà esiguo (3, di cui ora 1 confermato da V, su un'estensione di 625 versi nel codice più ricco), ciò vorrà solo dire che P e S, parenti, non sono però vicinissimi. Se peraltro si esaminano le altre 11 lezioni non decisive, toltene 4 che si fondano ancora su quella tale imperfetta conoscenza di A, le altre 7 o sono realmente indifferenti o sono più che sospette a carico di PS. Anche qui il Paris, dico stavolta il Paris editore, non il Paris teoreta, è soggetto a cambiar parere. Da (7a =31) Fud baptizés, con LA, del '72 passa a Baptizés fu, con PS, della minor: il Paris, posto il suo albero biforcuto, è certo autorizzato a migrare da ramo a ramo, ma qui, poiché si tratta di questioni ancora libere di collocazione e mise en relief, a rigore si esorbita dalla critica delle lezioni per entrare sul prolungamento della critica delle forme. Viceversa, in un altro luogo (28C = 138) il Paris passa da N'i laissat palie di PS (si tratta della madre, che in segno di lutto strappa ogni ornamento della propria camera) a N'i remest palie di LA: che infatti fa felicemente repetitio, giusta un celebre canone retorico, col n'i remest neient del verso precedente. (Ma non voglio tacere che a doppio taglio rischiano di presentarsi anche gli argomenti culturali della critica interna: come spesso ambiguo è il confine tra lectio difficilior e assurdità, così può riuscire equivoco il limite tra, per esempio, repetitio e variatio, che a riprova muta infatti da manoscritto a manoscritto, e secondo costellazioni anche casuali, ferma restando la figura generale della ripresa, proprio in un paio degli esempi di amplificazione e interpretatio [vv. 170-1 e 99-100/252-3] addotti dal Curtius). Debbo poi precisare che il catalogo delle coincidenze erronee di PS può essere allargato senza soverchie difficoltà. Per tal modo lo stemma istituzionale della nostra filologia testuale riesce essenzialmente modificato. Non è più un albero bipartito che lasci la recensio aperta al judicium, come quelli denunciati dal Bédier: è un albero tripartito (L, A, PS) che nei casi di vera parità di condizioni obbliga a una scelta oggettiva. Dirò di più: nell'eventualità accennata sopra, e puramente fittizia, di concordanza di APS in qualche lezione deteriore che difficilmente appaia indifferente, un'eventuale riunione remotissima di A a PS riuscirebbe a determinare un albero bipartito in linea di principio, ma in sostanza ancora tripartito. Poiché lo stemma è un ente funzionale, poiché è una macchina, basterebbe non servirsi del nuovo stemma per coonestare tutte le singulares indifferenti di L, ma al contrario convenire pregiudizialmente di accogliere a parità di condizioni le lezioni APS: di L solo rimarrebbero le pochissime che avessero eventualmente indotto alla riunione di A e PS. Ripeto che si tratta d'un casus fictus; ma poiché è notorio che facile è costituire le famiglie inferiori, difficile (quanto decisivo) riunire i piani alti, una soluzione pragmatica di questo genere risulterebbe ispirata a tuzioismo ogni volta che sussistesse una sincera incertezza fra albero in definitiva bipartito e in definitiva tripartito. E sicuro che lo stemma risulterebbe compromesso, sia quello del Paris sia quello che bisogna sostituirgli, se sussistessero accordi in diagonale, del tipo AP o AS. La soluzione del Paris è in diritto e per lo più in fatto corretta, e perciò conviene esaminare insieme la seconda parte del suo secondo momento, quello relativo agli accordi binari, e il quarto e ultimo, quello che riguarda l'archetipo. Senza addentrarci (che sarebbe impossibile e qui addirittura indiscreto) nei particolari, il Paris mostra che una buona parte di quegli esempi sono illusori quale prova di parentela, in quanto si tratta o di trivializzazioni

(come dove, i^b = Ó2, aparler transitivo, ora collaudato anche da P2, è sostituito in LP da apeler: e poco importa che qui il Paris interpreti a rovescio la difficoltà); o di guasti dipendenti dall'usus scribendi (come accade dove uunt è sostituito, 9d = 44, da unt AP); o di questioni di collocazione (2C = 8, Bons fud o Fud bons) o di cambiamento di tempo (856 = 425, vit o veit), che entrambe sappiamo trovarsi sull'estensione della critica delle forme, non delle lezioni. Nei casi irriducibili, il Paris pensa che l'archetipo avesse un guasto, corretto dai singoli manoscritti, che così si sarebbero trovati a coincidere extra-canonicamente in congetture, non già in lezioni ereditate. Esempio. Degli sposi rimasti soli dicono LP (133 = 61): Quant en la cambre furent tut sul remés, ma AS furent amdui remés; il Paris suppone che l'archetipo leggesse amdui tut sul, e che la cernita davanti all'insopportabile ipermetria sia iniziativa dei singoli discendenti. Per il Paris quello dell'archetipo non è solo un espediente per risolvere la presenza di coppie contraddittorie, o anche taluni antagonismi fra L e gli altri in solido (e in simili frangenti il Paris suole scegliere la parte di L, o soleva, perché egli retrocede di parecchio nelV editio minor)-, egli ritiene infatti che in 4 punti il guasto invada visibilmente tutta la tradizione. In verità nessuno di questi casi par resistere all'esame: non sembra ad esempio che Acartes per arcadius (62b = 307) sia una corruzione, e il Curtius ha mostrato che la ripetizione di portat nel distico (i8d-e = 89-90) El non la virgene qui portat salvetet, Sainte Marie, qui portat Damnedeu, lungi dal doversi a una mera distrazione di copia, obbedisce al canone retorico dell'interpretatio. D'altra parte il Rajna e più decisamente il Curtius (che senza troppi guanti parla di «gymna-sialpädagogische Logik») hanno posto un termine alle incomposte atetesi del Foerster, che in non so quante strofi similaires scorgeva altrettante interpolazioni. E allora? se l'archetipo non è posto anche da un erroneo consensus codicum, non sarà un espediente dialettico? (che non varrebbe ancora a smentirne l'esistenza). La problematica dell'archetipo ha una portata generale che sarebbe difficile esagerare. Si suppongano ridotte le testimonianze al numero minimo: due o tre, nella specie. I testimoni irriducibili sono definiti da errori loro propri; ma accanto agli errori esistono normalmente lezioni per sé ammissibili. Che garanzia abbiamo allora, in assenza di archetipo cioè di errori comuni a tutti, che quei testimoni non rappresentino (pur ciascuno con le sue corruttele) redazioni parallele, altrettante edizioni? Per varcare il semplice sospetto, occorre evidentemente che quelle serie costituiscano strutture organiche; ma il sospetto può restare, e si rischia di mescolare i Promessi Sposi del '40 con quelli del '27. Nel caso di Alexis, fortunatamente, la dimostrazione dell'archetipo può essere ottenuta con ben altra ricchezza che quella mostrata dal ragionamento del Paris. Se il Foerster avesse ragione, sarebbero cadute (oltreché interpolate) varie strofi: e la prova sarebbe raggiunta; ma il Rajna, prudentemente, se non si sente di smentire, non s'impegna però ad affermare. La prova si consegue invece e si tocca con la divergenza totale delle lezioni. Qui è da procedere per gradi. Si può avere anzitutto quella che io chiamerei la diffrazione in presenza: quando la lectio difficilior è serbata solo da un testimone, e gli altri mutano come possono. Là dove (8e = 40) L serba l'arcaicamente contrattuale acatet, detto del procurare la moglie, A ha aplaide, P (e P2) porchace, S (e M) a quise; là dove (2^e = 125) L solo ha l'antico piuccheperfetto jiret (tempo di valore ancora aspettivo, come ha ben dimostrato, in uno scritto non noto quanto merita, il mio collega di Ginevra, André Burger), gli altri leggono fisi, AP rassegnandosi all'ipometria, P2 distraendo laetus in lèez, S supplendo par; là dove PS (54b = 267) conservano ligon, L ha l'ingoi (che guasta la rima), A grabatun, M pligon: abbiamo altrettanti esempi della nostra figura. Ne ho riuniti a decine, elegantissimi a esporre in vetrina; ma certo non servono ancora allo scopo, costituiscono solo un gradino tipologico. Facciamolo, allora, l'altro passo, giungiamo cioè a quella che ho chiamata la diffrazione in assenza. Il più bell'esempio è stato inventato dal grande Adolf Tobler. Là dove la madre consola la sposa abbandonata (3id-e= 154-5): Plaignons ensemble le duel de nostre ami, Tu de ton seignor, io.l frai por mon fil(z), questa, con emistichio ipermetro, è lezione di L; A congettura pur ton sire, P ha por ton seignor (ancora

ipermetro), P2 non ha né de né por, S altera tutto. Il Tobler propose di sostituire a seignor il sinonimo monosillabo per, e la minor del Paris non potè non accettare la soluzione, mentre nel '72 egli congetturava del seignor. Anche qui sarei in grado di offrire un campionario ricchissimo: che porta, se non presumo troppo, un contributo notevole al miglioramento della lezione. Un solo esempio. Nei tre casi in cui compare la parola merveille, i codici stranamente divergono: posto che qo est nel testo fa sempre crasi (ço 'st), la prima volta L isolato (88e = 440) ha grant, V manca d'una sillaba, P ha ja est, S çou fu (A e M non soccorrono); la seconda volta (896 = 445), e l'emistichio è identico, L isolato ha pure granz, A e P restano ipometri d'una sillaba, V altera, M ha Molt m'esmerveil (S manca); la terza volta (93e = 465) L e V sono, con ri est, ipometri d'una sillaba, A introduce pas, PS il (M manca). La conseguenza, anche in rapporto all'albero, cioè alla costanza dei rapporti, è una sola: dappertutto bisognerà ristabilire merveille, in quattro sillabe. La diffrazione in assenza è dunque una certa struttura di relazioni fra i codici che impone il ricorso a una congettura. Tuttavia da sola neppur questa figura proverebbe necessariamente l'archetipo: proprio perché si ricostruisce una lectio difficilior, questa poteva, sì, appartenere all'archetipo, ma poteva ugualmente appartenere ancora ai suoi vari apografi. Bisogna compiere un ultimo passo: bisogna che la divergenza alluda a un guasto d'altra natura. Qui l'esempio mi è fornito dal Rajna (inefficacemente smentito dalla Richter). Egli trova che 956 = 475 manca in A e PS; che il secondo emistichio diverge, né mai soddisfa, in L e V; e conclude magistralmente (ma maggiore, oserei dire, è la nostra sicurezza, poiché noi crediamo alla genealogia dei manoscritti) che il verso era incompleto nell'archetipo. Un esempio d'ipermetria in archetipo è stato fornito sopra. Ho solo l'imbarazzo della scelta nel fornire esempi d'ipometria. Così, se (^od = 249) L ha Ço ne volt il, A Mais ce ne volt, P Et si ne volt, S Il ne volt mie, bisogna postulare, attraverso supplementi congetturali, ipometria di una o forse due sillabe in archetipo. Debbo affrettarmi a soggiungere che tale archetipo non era tuttavia univoco dal rispetto redazionale. Mi limito alla prova più visibile e decisiva. In L sono, come hanno rilevato il Foerster e poi il Rajna, una conclusione lunga (strofi 111-125) e una breve (109-110), che può dirsi preceduta da una strofe di transizione (108), conclusioni le quali si escludono mutuamente; e solo la conclusione lunga è originale, l'altra sarà nata in un esemplare mutilo della fine. Ora, V ha solo la conclusione lunga; A, solo la breve (senza strofe di transizione); P abbrevia, ma in sostanza ha la conclusione lunga e contamina i due finali; S ha solo la conclusione lunga, e così M, che abbrevia drasticamente, ma serba (particolarmente in uno dei suoi due manoscritti) la strofe di transizione. Poiché un albero (cioè una costanza di rapporti) esiste, e non coincide con le relazioni ora esposte, la conseguenza è palese: la vecchia conclusione e la nuova erano in qualche modo sommate nell'archetipo. Probabilmente, dopo copiato un esemplare mutilo della fine e rattoppato, fu usufruito un esemplare compiuto. E si può andare più in là. Un'infrazione alla trasmissione verticale, ciò che Pasquali chiama trasmissione laterale, può ricondursi o a collazione o a discendenza da un archetipo con varianti, marginali o interlineari, se non addirittura conglobate nella sua lezione. Abbiamo visto che gli sgarri AP e AS sono, in quanto significativi, ricondotti da Paris a una somma nell'archetipo. Non sarei troppo corrivo ad ammettere varianti d'autore, le quali comunque sarebbero tutte nell'archetipo (le varianti per sé buone non difficiliores hanno tutte un'eco nella tradizione): varianti redazionali esso ne conteneva, si è visto, ma di scorrette. Ma collazioni all'interno della tradizione di Alexis sono esistite. Lascio stare minori indizi di duplicità d'esemplare a carico, oltre che di A, di L e di V; debbo però citare i più flagranti e perentori nel riguardo di A. Questo manoscritto presenta le strofi 48 e 49 una volta al loro posto, un'altra volta, con qualche variante di lezione, più innanzi: ora, la prima volta il verso 244 s'accorda con L (Danz Alexis), la seconda con PS (Il les esguarde si.l...); la lectio fin qui singularis di 236 nella seconda versione (Assez) pare ora trovare un riscontro nella parte palinsesta (palinsesta e, per quel che purtroppo risulta, mal recuperabile) di V, ma il Rajna è incertissimo. Il medesimo A giustappone alla strofe 97 una sua variante: ora, nella prima versione il verso 483 s'accorda con L (amai), nella seconda con P (ai chier)\ il verso 484 s'accorda con L e P nella seconda versione, restava isolato nella prima (ma va ora con V). Ancora: A ha due lezioni del verso 488, una al posto giusto, un'altra in luogo di 490; la prima va con L (geni), la seconda ora con V (terre). E ciò non basta: dobbiamo tornare alle concordanze diagonali, di A con P e di A con S. La seconda serie è infinitamente più ricca di quanto non faccia sospettare il magro campionario del Paris; e sproporzionatamente abbondante rispetto agli accordi AP. Se ne ricava un solo corollario razionale: che S non derivi semplicemente da un esemplare con varianti, ma tenesse sott'occhio due

modelli, l'uno del tipo P, il fondamentale, l'altro del tipo A. L'ipotesi è tanto più verisimile in quanto S rimaneggia e amplia, pur tenendo fede alla regola dell'assonanza. Le conseguenze sono nulle nel riguardo recensorio, ma il precedente non cessa perciò d'essere istruttivo. Che sui singoli punti l'applicazione del nuovo stemma, o una più rigorosa applicazione anche dell'antico, e il rispetto delle altre considerazioni sommariamente esposte debbano portare a notevoli restauri della vulgata, è ben prevedibile: altrimenti, a che prò tante considerazioni sul metodo, se destinate a restare bizantine? Sennonché, è questa materia di fattispecie, qui non perseguibile. Prima di lasciare la sfera dell'edizione Paris, vorrei solo insistere su qualche dato d'interesse paradigmatico che, anche se si appoggi a manoscritti singolari, particolarmente a L, sia ammissibile perché non cade nella stretta critica delle lezioni. Si è visto già che sul prolungamento della critica delle forme, cioè degli àmbiti singoli di autonoma traduzione e traslitterazione, sono le questioni di ordine delle parole o di mise en relief; di permutazione dei tempi verbali (dalla struttura prospettica alla struttura letteralmente temporale); di ripetizione o variazione del tema. Si può aggiungere: l'accordo o la neutralità del participio dei tempi composti rispetto all'oggetto (id = 4, perdut o perdude at sa color)-, l'alternanza di dativo e accusativo nelle accompagnature (376=185, le o li prient\ Ó4b = 317, li o le prennent forment a blastengier); il pronome o l'avverbio in funzione pronominale (66c= 328, Iloc esguardent è forma rara rispetto a II les esguardent o lezioni affini con pronomi). Ultime, ma last not least, vengono le questioni di prolessi. Siano questi due versi (4oc-d = 198-9): Quant vit son regne, durement s'en redotet De ses parenz, qued il ne.l reconoissent. S'en, di L solo (S lo reca in altro contesto), è prolettico rispetto a De ses parenz. Il Paris, in entrambe le edizioni, rifiuta l'anticipazione. Ma essa è figura ben tipica, se incontestabilmente nel verso successivo De ses parenz anticipa rispetto al soggetto (il). Anticipo entro la proposizione nel primo verso; fuori proposizione nel secondo. Naturalmente, in una fase flessiva e di collocazione non rigida (i due caratteri s'implicano a vicenda) qual è quella dell'antico francese, la prolessi assume tutt'altro carattere da quella, fuori declinazione, con ripresa pronominale-avverbiale, del francese moderno ('Cet homme, je le connais bien'; '...je lui/j'y pense beaucoup'; '...je n*en veux rien savoir'). Parlo di quei tali tic sintattici che l'orecchio acutissimo di Marcel Proust sentì nascere nella prosa di Pascal, e divulgarsi (forse però dimentica il Victor Hugo familiare) dal focolaio infettivo di Barrès. Ma le serie di Alexis in cui quegli esempi s'inquadrano sono ben estese: si tratti della consecuzione di meno esteso-più esteso, o anticipo propriamente detto: (3jd= 174) il ne.l set eoisir, leel saint home...; si tratti della consecuzione opposta di più esteso-meno esteso, o ripresa: (53a = 261) Soz le degret o il gist e converset, Hoc...; (68b = 337) Li boens serjanz qui.l serveit volentiers, Il le nongat; e via via. Le più importanti fra le lectiones singulares si giustificano insomma per intere strutture sintattiche. E siamo al quint'atto della nostra azione: alla scoperta e all'illustrazione del frammento Vaticano procurata dal Rajna nel-l'«Archivum Romanicum» del 1929. Di una stranezza occorre sùbito rendersi conto: come mai prima operazione dello scopritore non sia stata quella di compararne la lezione con le singulares dei vari manoscritti, passando solo poi, se del caso, alla collazione con le voci dei binomi. Questa operazione era risultata fruttuosa, anche limitata allo scarso elenco del Paris. Ora, l'aggregazione di V con A, già palese in un errore comune e in una variante comune, ci si rivela ancora un bel numero di volte: nell'assenza di un verso (450), nello spostamento d'una strofe (la 96 dietro alla 97), in più lezioni particolari (dei versi 436, 441, 448, 465, 472, 476, 479, 484, 499); nei casi, ben rari del resto, in cui si unisce S, la nota collazione di S con A 0 un suo vicino non stupisce. L'albero, di conseguenza, non subisce nessuna modificazione costituzionale: rimane un albero a tre rami, L, VA, PSM (con P2 quando c'è); e che V non s'accordi mai con A e PS insieme, mostra abbastanza che questi testimoni non vanno, secondo la pur fittizia ipotesi prospettata sopra, riuniti. Sulle ragioni del procedimento del Rajna siamo ridotti alle congetture: benché certo la premessa sottintesa sia uno scetticismo circa la genealogia, scetticismo naturalmente non bédieriano, e infatti non generale ma specifico. Forse lo stemma del Paris pareva al Rajna fondato su accoppiamenti contraddittori, dei quali alcuni il Paris giudicasse degni d'esser tenuti fermi, gli altri o

casuali o tali da rinviare all'archetipo (della cui esistenza frattanto proprio al Rajna toccava produrre qualche prova decisiva)? A questa tacita correzione parrebbe ispirarsi l'affermazione, per sé inesatta (p. 50), che i quattro testimoni, «indipendenti per lo stesso Paris» (in realtà indipendenti solo mutuamente), non siano da lui riconnessi che attraverso x (l'archetipo). È uno scetticismo (strana parola per il romanticissimo, paleontologissimo ricostruttore Pio Rajna!) -uno scetticismo a priori, che cercherà di giustificarsi a posteriori; ma, ripeto, scetticismo specifico: da connettersi certo con un'implicita idea della situazione letteraria di Alexis. Vite di santi e chansons de geste non sono radicalmente la stessa cosa? 1 frammenti di Gormont et Isembard e del poema franco-provenzale su Alessandro non sono forse nel metro della Santa Fede occitanica e, per quello che riguarda la sola misura, dei poemetti di ClermontFerrand? Il Boeri meridionale non è forse in lasse di decasillabi epici come le chansons? In quest'ordine d'idee, avviato soprattutto da lui (e poi ripreso dal Curtius), il Becker ha perfino creduto di poter ravvisare nell'autore di Alexis l'inventore del decasillabo detto epico. Dirò di più: in A è frequente, e si palesa nello stesso additizio finale di P, il trapasso dal decasillabo epico, in cui è composto Alexis, all'alessandrino: vistoso carattere della fenomenologia delle chansons. Quanto al Rajna, un cenno sull'anteriorità del Roland ad Alexis rivela bene l'autore delle Origini dell'epopea francese. Ma poi agisce nel Rajna un altro impulso: quello euristico, nell'acceso entusiasmo della scoperta prevalente sopra la freddezza calcolatrice della ragione. Egli stesso confessa di cominciare da un «raffronto di carattere materiale». Basti a tal riguardo enunciare l'ordine della parte ecdotica della sua esposizione (che qui per noi è il solo oggetto d'interesse, ma è la sezione minore del fondamentale contributo): assenza di strofi in V; assenza di versi; ordine delle strofi; esuberanze di versi; lectiones singulares accettabili; lezioni buone in concordia con altri manoscritti; lectiones singulares cattive; indagine dei rapporti genealogici. La comparazione occupa l'ultimo degli otto capitoli; ma comparativi sono di diritto anche i precedenti, e una singularis non può esser buona che quando difficilior, e altrimenti utile solo se, giudicata entro un quadro razionalizzato, rinvia all'archetipo. E in quest'ambito puntuale si contengono le più persuasive osservazioni del Rajna. A fondamento di talune preferenze sta certo un judicium prettamente soggettivo. Da ^6e = 480 egli sgombra, con V solo (Ore las vei...), il mais di tutti gli altri (Mais or les vei...). «Certo non è punto esclusa l'ipotesi di una soppressione per motivo ritmico, in servigio dell'ore bisillabo. E sta che un altro ore a cui sia impedito di diventar monosillabo per elisione, non s'ha nel Saint Alexis. Ciò tuttavia non basta a farmelo condannare». Basterebbe peraltro, nel metodo lachmanniano (che tra poco il Rajna rifiuterà), a mettere insieme gli altri manoscritti, come discendenti dell'unico in cui quel mais, che «infiacchisce» il verso, si sarebbe introdotto. Per compenso, e quale compenso, ecco ad esempio il Rajna scoprire dei piuccheperfetti francesi con funzione di condizionale (come in Provenza, in Iberia, in Italia meridionale), i sore e oure del solo V (98c, e = 488, 490): e sia pure che una conferma luminosa vada chiesta alla diffrazione operata dai restanti manoscritti, per l'alterata misura sillabica dei sinonimi. Quanto all'archetipo, la più brillante prova rajniana è già stata addotta. L'una e l'altra serie sono ancora passibili, non dirò proprio di moltiplicazione, ma sì di aumento. Sennonché il più importante viene ora. Si sa che il Rajna, elaborati sei alberi genealogici [ Schematizzo qui in nota i sei alberi (rispettivamente per la strofe 86 e per i w. 883 = 436, 88b = 437, 880 = 438, 88d = 439, 88e = 44o), tutti culminanti nell'Or. (= Originale), avvertendo che per S si elimina la costante presenza dell'antigrafo non interpolato a: I. x [=y ( = LVS), A]; P (linee punteggiate riuniscono S e P al ramo di A) II. L, x ( = PS); y ( = VA) III. L; x ( = APS); V IV. x [ = L, A, y ( = PS)]; V V. x ( = LAPS); V VI. L; x ( = VPS) (il verso manca in A).]

sul fondamento della prima stro fe interamente presente in V (86), poi dei singoli versi della seconda (88), ottenne sei formule diverse e incompatibili, e concluse per l'inapplicabilità del metodo lachmanniano. Di tali stemmata, peraltro, solo il secondo è buono e corrispondente con un leggero ritocco a quello elaborato qui sopra. Fondatissimo è il raggruppamento VA; altrettanto PS, che ritorna nel quarto, ed è ben noto fin dalla dimostrazione del Paris. Solo, se l'errore è commesso da VA, perché riunire L e PS? si scatena forse anche nel Rajna la forza dicotomica denunciata da Bédier? Nel terzo albero sono associati APS, che hanno in comune non positivamente lo stesso errore, ma negativamente il fatto di alterazioni singole: si ha una diffrazione in presenza, e la lectio difficilior spetta a L. Nel quarto stemma V ha una difficilior, e la facilior sfugge ipso jure all'attruppamento genealogico. Stessa cosa nel quinto, formalmente (perché in fatto son tutt'altro che sicuro della bontà di V). Il sesto riunisce VPS supponendo che erronea sia la caduta di granz: credo invece, come già dissi, che erronea ne sia la presenza; e che facilior sia ovunque merveille per *mereveille, dell'archetipo. Ho lasciato da ultimo il primo caso, come ancora più istruttivo. A e LVS andrebbero insieme per l'insinuazione (ben probabile) della glossa o variante detraire in interlineo, l'ultimo gruppo per l'erronea introduzione e sostituzione nel verso susseguente a quello cui si riferiva: ma ciò rinvia all'archetipo (dove crederei per mio conto di poter sorprendere un caso affine) e pertanto non soggiace a illazioni genealogiche. Linee punteggiate (poiché il Rajna stesso non giurerebbe che i relativi incontri non fossero fortuiti) riuniscono A a S e d'altra parte a P. L'incontro AS, de(s)maiseler per maiseler, potrebbe per sé giustificarsi con autonome assimilazioni al prefisso de- dei verbi circostanti, demener, debatre, dejeter, derompre; significativo potrebbe diventare semmai solo organicamente, entro una serie, che sappiamo esistere d'altra parte (per collazione di S su A). A un rilievo affine si presta il raggruppamento di AP, i quali hanno comune solo vëist (del resto facilior); ma diversi sono i contesti, Ki la vèist A, Ki dunt lui veist P, per l'originale Ki dont li vit. L'identità è affermata solo in virtù d'un calcolo puramente analitico, la cui pericolosità potrebbe denunciarsi con una ricca serie di esempi. Proprio in generale, i singoli dati sono qui visti fuori del sistema. È notorio che la maggior conquista operata dalle generazioni scientifiche successive è, particolarmente in linguistica, quella del punto di vista strutturale. Strutture sono anche quelle genealogiche, della tradizione manoscritta; strutture sono ugualmente le figure che consentono di varcare la genealogia pura, le diffrazioni in presenza o in assenza. L'illazione cavata dal Rajna era che la tradizione fosse non soltanto scritta, ma orale. Anche scritta, naturalmente, come provano molti dei fatti citati fin qui, ed egli (supponendo ad esempio che un at vochié, da cui altrove apele, movesse da un *at touchié, ii2b = 557) rincarava la dose. Ma altresì orale, e di ciò scorgeva due altri indizi. Il primo era nella ripetizione erronea, un po' dappertutto, di versi e frasi remote nel testo: dato incontrastabile, ma che indica solo come in ogni tradizione scritta, e nessuno oserebbe negare, sia un minimo di oralità e memoria; o al massimo che gli scribi volgari medievali sapessero a memoria, un po' più di quelli di altre situazioni (o vòlti all'intoccabile e grammaticale latino, o còlti da scrupolo classico), parti del loro testo. Il secondo indizio sarebbe nella licenza e arbitrarietà delle sostituzioni singole di lezione: ma ciò quadra bene con la figura del copista-rimaneggiatore; e poi dove si finirebbe se interpretassimo i dati singoli della realtà, quelli non seriali, non suscettibili di legislazione, invece di assumerli come un primum superiore alla discussione perché anteriore? L'eliminatio lectionum singularium, quest'esito semplicissimo del calcolo delle probabilità, ha proprio il significato di sgombrare dal razionale ciò che, dopo assaggi critici, si rivela non passibile di razionalità. Beninteso, però, l'atteggiamento del Rajna incide soprattutto sull'esegesi generale del testo, prodotto fuori di discussione cólto (ed egli ne conferma la nascita ecclesiastica), ma passato in patrimonio popolare, oserei dire folclorico. (Come cade bene qui il citatissimo episodio di Pietro Valdo, che scopre la propria vocazione ascoltando, circa il 1173, la storia di sant'Alessio in una piazza di Lione!). All'interpretazione romantica e popolare delle 'origini' dei vari generi medievali, dell'epopea particolarmente, l'ultimo quarantennio di studi è venuto surrogando la tesi che la prima etichetta tipologica chiamò erudita. E per la sua importanza rappresentativa e per il fatto d'essere intervenuto esplicitamente anche su Alexis, basti ripetere qui il nome del Curtius. Rispetto a un predecessore della statura del Rajna, esso permette bene di misurare il progresso recente della scienza. Il Rajna ci si era rivelato già come il meno razionale, in qualche modo il più patetico, dei vecchi filologi: quello nel cui intimo si leggeva di più, più moventi psicologici, come flagranti ne erano l'entusiasmo e la passione. Le implicazioni del suo procedere fanno scorgere più chiaro

un doppio carattere della filologia, anzi della mentalità moderna: da un lato la maggior fede alla tradizione, cioè al documento, di contro alla preistoria; dall'altro la costituzione delle strutture, e cioè ancora di presenze, in quanto siano organiche. Dico 'moderno', e non collego 'moderno' a 'moda'. Chiamo moderno ciò che mi appare vitale, nella situazione concreta. Il presente non è un punto dell'estensione temporale, come il passato e magari il futuro (deformazione grammaticale che per-tiene a ben poche lingue, anche se - posso dire: per accidente? - esse siano proprio le nostre). Il presente è il luogo del nostro agire e decidere, il nostro solo luogo. Costui, mi pare di sentir mormorare, ha trasformato l'Aula Magna in laboratorio. Che simile trasformazione dell'Università risponda a una necessità attuale, non sarei peraltro alieno dal-l'asserire. Uno dei più intelligenti fra i maestri che mi fu dato ascoltare, un po' più di vent'anni or sono, matricola, discorreva con ironia del «tempio della scienza» nel quale impartiva il suo insegnamento. Che quelle aule siano fatte laboratorio, laboratorio di ricerca comune, è da dire oggi, o da augurare, con perfetta serietà. E se mi si chiede dove sia andato a finire nelle competenti Facoltà l'umanesimo, risponderò che la sua difesa può essere sostenuta solo ove abbandoni la sua retorica elazione e, ridotto in confini certi, vi si rinvigorisca. Si dice, e io ere-derò volentieri, che la grande tendenza collettiva dei nostri tempi sia verso non già un utile da conseguire, ma un'affermazione vitale e attiva: non, insomma, una pragmaticità seconda, ma una pragmaticità prima (o, che fa lo stesso, ultima e millenaria); s'intenda, tuttavia, una pragmaticità tutta funzionale, non il piacere dell'attività, che è, o piuttosto era, una modalità dell'estetismo, vale a dire dell'umanesimo nella decadenza e putrefazione quatriduana dei suoi antiquati termini tradizionali. Di qui la fortuna, dico la fortuna ideale, della macchina. E che altro se non un esempio di funzionamento di macchina, tratto dalle officine di noi umanisti, ho scelto di sottoporre al vostro esame? Una macchina, e la sua storia lo mostra troppo bene, fatta dall'uomo per l'uomo. Né giova neppure avvertire: guai a dimenticarsene, poiché dimenticarsene non sarebbe possibile. Ciò che di meccanico è in questa macchina, è la salvaguardia dell'oggettività delle proprie operazioni, è amore della verità. Preservare l'umanesimo vai quanto, con parole di pietà e di tradizione, preservare la libertà: che, più nettamente ne sono segnati i limiti, più radicalmente si rivela preservata dalla possibilità di distruzione. Che questo teorema generalissimo risulti confermato da un esame tecnico per specialisti, è un esperimento che confesso di trovare edificante. Estratto dal volume collettivo Un augurio a Raffaele Mattioli, Firenze 1970, pp. 343-74. SCAVI ALESSIANI « Gli è che lo spirito del T., piuttosto di sottile indagatore che di costruttore, lo portava alle minute ricerche, specialmente di carattere scolastico, meglio che a grossi lavori di sintesi». Di chi parla con tanto compatimento l'Enciclopedia Italiana? (Del resto, intendiamoci, al giudizio del chiaro glottologo che qui scrive consuona quello, pur riferito a certa situazione tragica del filologo, di Leo Spitzer, nei Meisterwerke der romanischen Sprachwissenschaft). Si discorre di Adolf Tobler, uno di quei linguisti e filologi ottocenteschi la cui qualità appare singolarmente incorrotta, la cui statura cresciuta col passare del tempo. In chi scrive la prima ammirazione per il Tobler fu instillata dal suo maestro Santorre Debenedetti; e da allora egli non ha fatto che collaudarla. Oggi, per la verità, non si tratta di celebrare genericamente il grande scienziato, bensì di ritrovare in una di quelle tante «Rezensionen und Anmerkungen» in cui egli era condannato a «verspritzen» il suo «grandioses Wissen» (così Io Spitzer), uno spunto metodologico tanto attraente da indurre a svolgerne il germe in un organico capitolo di critica testuale. Un emendamento infallibile per eleganza e certezza è quello proposto dal Tobler, nella sua recensione al Saint Alexis di Gaston Paris (uscita nello stesso anno 1872 sulle «Göttingische Gelehrte Anzeigen»), a un passo già corretto dallo stesso editore. Il discorso della madre alla sposa termina così (31d-e = 154-5) nell'editio maior: Plainons ensemble le dol de nostre ami, Tu del seinor, jo l' ferai por mon fil;

nel quale ultimo verso i manoscritti leggono (M non soccorre): L tu de tun seinur, jo.l frai pur mun filz A tu pur tun sire e je pur mun chier filz P tu por tun seignor, je.l ferai por mun fiz (P2 tu t. seignur...) S (452) l'une son fil et l'autre son ami [Paris mari]. l a collezione per avanzata dal Tobler apparve irrecusabile al Paris stesso, che nell'editio minor (giustamente rinunciando anche alla 'lectio singularis' de) dà pertanto: Tu por ton per, jol fẹrai por mon fil. La brillantezza della soluzione non abbisogna dunque di ulteriori plausi: importa invece definire esattamente, anche ai fini euristici, l'operazione compiuta dal Tobler, rendere esplicita la razionalità latente nella sua intuizione; trovarle magari un'etichetta che consenta di ravvisarla a priori. La tradizione è corrotta nel suo insieme, com'era stato riconosciuto, prima ancora che dal Paris, dal Hofmann, il quale nella sua edizione si limitava a espungere ton (anzi la congettura del Paris era un semplice ritocco all'inammissibile de non articolato del suo predecessore): è il tipo di intervento facile (anche se nella realizzazione potrebb'essere più felice) quale si suole esercitare sulle tradizioni con un solo manoscritto, ed è l'ilota ebbro che deve ammonire contro l'euforia di chi disponga di una testimonianza sola, da cui discostarsi solo nei casi, quale il presente, di palese corruttela. Il guasto però non è omogeneo: se L e P si accontentano dell'ipermetro seignor, A non ha ritegno a rimediare prosodicamente col solecismo del nominativo sire per l'obliquo, P2, vicinissimo a P e quindi postulante il suo tipo, sopprime, ugualmente con soddisfazione della metrica ma non del contesto semantico, il primo por (ton seignor dipenderebbe, rompendo la simmetria, da plaignons?), il rimaneggiamento S infine, movente pure da un tipo prossimo a P, non trova di meglio che ripetere incongruamente ami dal verso precedente1 (la borghese correzione del Paris è praticata sul testimone artificiosamente isolato dal complesso della tradizione). Certo si può ipotizzare che A, P2 e S, questi tre precursori del Hofmann e del Paris, così a loro affini per la sbrigatività della procedura e certa negligenza del contesto, si trovassero tutti innanzi lo scomodo seignor, procedente in questo caso dall'archetipo. Ma l'ipotesi, pur probabile, non è strettamente necessaria: poiché sirei seignor è la forma più ovvia per marito' (specialmente in senso giuridico), essa può aver surrogato ovunque un concorrente più 'difficile' perpetuatosi fino ai piani più bassi della tradizione. Quella proposta dal Tobler è infatti una lectio difficilior, tanto più meritoria in quanto altrimenti il testo documenta per col valore di 'socialmente uguale', non di 'coniuge' o 'amoroso compagno'; e s'intenda che la rarità appartiene al per maschile, non al femminile che in quest'accezione è, dal Roland in giù, banalissimo e formulare. Tuttavia questa lectio difficilior è di natura particolare: poiché normalmente la lectio difficilior è presente nella tradizione testuale e si oppone ad altra (ipotesi implicita nel comparativo) o eventualmente a più altre ugualmente presenti, coi notori corollari di eccezione nel quadro lachmanniano (singularis non eliminabile se difficilior, innovazione comune non di necessità monogenetica se facilior); e lectiones difficiliores, da accettarsi benché isolate a norma dello stemma codicum, compaiono anche nella tradizione di Alexis, in vari testimoni ma particolarmente in quello che appare per ciò stesso 'il miglior manoscritto', L (volendosi definire oggettivamente la nozione del 'miglior manoscritto', un enunciato soddisfacente potrebbe appunto esser questo, quello che contiene la massima densità di lectiones singulares difficiliores). Quella invece avanzata dal Tobler è una lectio difficilior congetturale, assente dalla tradizione. Con essa egli risponde alla domanda: quale può essere un sinonimo di seignor che sia in caso obliquo un monosillabo ossitono o un bisillabo parossitono? La prospezione 1D'altra ragione (anafora erronea, che il solo A rinnova nella strofe successiva) il Sire Alexis per O o E chiers amis in 963 = 476. Sono comunque apostrofi della sposa ad Alessio. E così l'accumulo (22d=i09) amis, bel sire (soppresso in i, alterato da L in e chers amis).

stratigrafica sotto il piano della documentazione è giustificata da una particolare configurazione (si dica pure, se si vuole usare la parola magica, aspetto strutturale) della tradizione: non solo la comune erroneità dei testimoni ma la loro divergenza, quella che con più vistosa metafora chiamerei volentieri diffrazione, più esattamente diffrazione in assenza (della lezione ricevibile), perché nel caso della normale lectio difficilior (che perciò diventa difficil-lima) la diffrazione è in presenza (della lezione buona). La legittimità della congettura difficilior (non della mera correzione congetturale, poiché questa è imposta dalla presenza dell'errore) è legata alla diffrazione, e dunque alla tradizione plurima, che si rivela perciò flagrantemente superiore alla univoca o anche alla semplicemente binaria. Nella fenomenologia ecdotica c'è una progressione dalla diffrazione in presenza, dove un testimone (generalmente uno solo) ha serbato la voce o forma relativamente rara, a quella in assenza, dove essa è rimasta documentariamente travolta, si riesca poi o non si riesca a ricostruirla. Mi propongo di mostrare, facendo un passo più in là, che la semplice diffrazione, s'intenda in assenza di qualsiasi variante peregrina, è sufficiente a legittimare la congettura difficilior. L'erroneità può essere più o meno palliata o mimetizzata, e quindi la pronuncia di erroneità rischia di essere soggettiva: anche nell'esempio citato l'erroneità di P2, di S, dello stesso A (dove infine è un anacronismo morfologico) o quella, qualitativamente non eterogenea, del Hofmann e del Paris non è affatto conclamata, così che si sarebbe già tratti a concludere essere la giustificazione logica del Tobler meno nell'erroneità della tradizione che nella dispersione delle varianti. A ogni modo, non mancano davvero gli esempi di diffrazione in varianti adiafore, tali cioè che, se il singolo manoscritto fosse unico, esse sarebbero al riparo da ogni sospetto. La certezza della lezione decresce con la riduzione della tradizione; l'aumento di questa giova invece, oltre i vantaggi più direttamente lachman-niani in favore d'una scelta positiva, a localizzare guasti altrimenti non rilevabili, e cioè perlomeno in negativo. Non si è affatto sicuri, in verità, che la divinazione assista necessariamente l'editore con risultati di ragionevole certezza, come nel caso del Tobler; si saprà tuttavia che esistono lacune, a riempire le quali si potrà anche adottare una delle lezioni tramandate, con la coscienza peraltro che si tratta di tibicines, non più certi, sebbene antichi, di congetture editoriali moderne. Rovesciato il processo del Tobler da risposta a domanda, il suo 'aver trovato' diventerà un modo di 'cercare'. A indicare i manoscritti dell'Alexis sono qui adottate le sigle tradizionali: L = Hildesheim, St. Godehard (da Lambspringen; è il cosiddetto Codex Albanus, su cui cfr. da ultimo Otto Pàcht - C. R. Dodwell -Francis Wormald, The St. Albans Psalter [Albani Psalter], London 1960); A = Parigi, Bibliothèque Nationale, nouv. acq. fr. 4503 (da Ashburnham Place, già Libri); V = Biblioteca Vaticana, lat. 5334 (da 8^ = 425 alla fine); P = Parigi, c. s., f. fr. 19525; P2 = Manchester, John Rylands Library, French 6 (fino all'inizio della strofa 35); i — redazione perduta del tipo P, fonte dei rimaneggiamenti successivi attestati in S = Parigi, c. s., fr. 12471 (in lasse assonanzate), e M = Parigi, c. s., fr. 1553 (in lasse rimate), di cui affine Mb = Carlisle, Cathedral Library. La sigla P vale tacitamente, fatta riserva delle varianti meramente formali, anche per P2 (di qui l'opportunità di non assumere dal Lausberg, con cui l'Avalle, la siglatura R); il secondo testimone è citato espressamente solo in caso di variante sostanziale. A S e a M è di norma aggiunto il numero del verso, secondo la classica edizione di Gaston Paris e Léopold Pannier, La vie de saint Alexis, poème du XIe siècle et renouvellements des XIIe, XIIIe et XIVe siècles, ecc., Paris 1872; l'indicazione M si riferisce virtualmente all'intera redazione, essendo Mb addotto solo in casi di divergenza flagrante. Una sola volta è stato utile citare Q, cioè il rimaneggiamento in quartine monorime di alessandrini (procedente dal tipo M) pubblicato (di su sette manoscritti) dal Pannier, op. cit.

Il testo, che si numera secondo la fastidiosa tradizione inaugurata dal Paris, cioè per numero di strofe e lettera minuscola (da a a e) di verso, cui però si aggiunge l'equivalenza in numerazione continua (la sola addotta nei riferimenti successivi alla prima citazione), è, in trascrizione variamente diplomatica o interpretativa, a norma delle puntuali necessità, quella (per L, A, P, S, M, e occorrendo Mb) dell'Altfranzösisches Übungsbucb di W. Foerster ed E. Koschwitz, nelle ultime edizioni; ma per S e M si è riconfrontata la citata edizione del Paris, ovviamente ripristinando di sugli apparati la forma dei codici. La lezione di V è stata pubblicata da Pio Rajna, in «Archivum Romanicum», xiii (fasc. 1, con la data di gennaio-marzo 1929), pp. 5-10. Quella di P2 figura nella Notice ecc. di Robert Fawtier ed E. C. FawtierJones, in «Romania», xlix (1923), pp. 321-42 (le prove della parentela con P e un elenco di lectiones singulares presso la Fawtier-Jones, ibid., lvi, 1930, pp. 83-5). Di Mb il testo integrale dell'inizio e della fine e la collazione del resto sono state fornite dal Paris, ibid., xvn (1888), pp. 107-20, su materiali di T.W. Jackson. Ai fini presenti è del tutto superflua la ripetizione della consueta bibliografia quale ad esempio risulta dalle accurate 'dispense' di D. S. Aval-le, La «Vie de saint Alexis», Torino 1963. Qui va solo avvertito che i presupposti lachmanniani del ragionamento sono alquanto diversi dai risultati di Gaston Paris, come del resto dalle rettifiche dei suoi successori. Lo stemma codicum del Paris era notoriamente bipartito (LA, PSM), anzi è il primo stemma bipartito del lachmannismo francese (e romanzo in genere) e come tale figura, benché senza nome né di testo né di editore, in capo alla famosa collezione di Joseph Bédier (La tradition manuscrite du «Lai de l'Ombre». Réflexions sur l'art d'éditer les anciens textes, p. 10 dell'estratto da «Romania» [liv, 1928], Paris 1929). Tale schema è peraltro invalido, poiché, se è incontestabile la convergenza di P e SM in errori comuni, la metà di quelli a presunto carico di L e A sono in realtà lezioni perlomeno indifferenti (2ib = io2, 323 = 156, 503 = 246, 6ob = 297), per la metà essenziale (400 = 197, 480 = 237, 653 = 321, 94C = 468) non sussiste la creduta identità di L e A: A si trovava allora in Inghilterra, e il Paris non lo conosceva ancora direttamente, bensì soltanto attraverso una collazione di Paul Meyer condotta rispetto a L, e in questi punti, se ne ricava, erroneamente silenziosa. L'albero è dunque un albero a tre rami: L, A, PSM. Il Rajna credette che il nuovo testimone da lui provvidamente fatto conoscere, V, non fosse razionalmente componibile in un albero genealogico, e che perciò esso provasse l'oralità della tradizione (quasi che poi essa, e ciò si ripeta per il concetto di poesia 'tradizionale' presso il Menéndez Pidal, non dovesse ottemperare agli stessi criteri di logica formale). Tralasciata la pars destruens del ragionamento, è agevole invece riconoscere che V è prossimo ad A per la comune caduta della strofe 87 e di 906 = 450, per la comune posposizione della strofe 96 alla 97 e per la coincidenza in molte lezioni che prima apparivano singulares di A, 883 = 436 (En halte voiz), 898 = 441 (muli), 9oc = 448 (od mei), 93e = 465 (kar), 96d = 479 (graimes), 97d = 484 (reso identico a 443), iood = 499 (bien), 1013 = 501 (ne), ecc. Di conseguenza l'albero tripartito si configura come L, AV, PSM (e questo sarà l'ordine tenuto nelle citazioni). Di nessun conto vanno stimate le edizioni che, si rifacciano o no al gran nome del Bédier (esplicita conformità palesa il particolarmente sprovveduto Chr. Storey, nella sua tesi di Strasburgo, Paris 1934, da cui la minor di Oxford 1946), si attengono al cosiddetto miglior manoscritto, cioè a L (segue strettamente L quella postuma di J.-M. Meunier, Paris 1933, si licenziano ricorsi desultori ad altri testimoni la Ròsler, Halle 1941, e poi il Rohlfs, ibid. 1950, ma in linea di principio non si comportava diversamente il Foerster nella prima edizione procurata dalla Ròsler, ibid. 1928). Non manca, è vero, chi, come lo Sckommodau, ha creduto di poter considerare invece A quale il miglior manoscritto («Zeitschrift für romanische Philologie», LXX, 1954, pp. 161-203); ma non possiamo giudicarlo al traguardo d'un'edizione. Sarà semmai da fare i conti con chi considera l'albero bipartito, in modo però che da una parte stia L, dall'altra tutti gli altri manoscritti: questo difensore per nuova via della preminenza di L (comparabile dunque all'O del Roland) è il Lausberg, che si è anche cimentato nell'edizione del proemio; ma la consistenza di errori comuni ad AVPSM non appare sufficientemente provata. [La «précellence» di L (così «Archiv fùr das Studium der neueren Spra-chen», 192, 1955, p. 34) è tuttavia dal grande romanista intesa con valore di arcaicità, non in senso lachmanniano. Sia 93 = 41, dove L Fud la pul-cela nethe de halt parentet, A F. la pulcele de mult halt parenti, P Fu la pucele de m. h. p., S 89 La p. iert de m. grant p. (M manca). Secondo il Lausberg (ibid., 191, 1955, p. 317) v3 letto de halt di L con sinslefe,

qusle provenzalismo. M3 dato e non concesso che quest3 arditissima ipotesi cogliesse nel segno, non ne seguirebbe il raggruppamento APS (per soppressione di nee e interpolazione di mult, più surrogazione in S di grant a halt), in quanto nessuno di quegli individui tollererebbe il monosillabismo di de halt, ma l'inserzione del banale mult avverrebbe senza diffrazione]. In quanto segue, inoltre, trattandosi di un problema strettamente testuale e non compositivo, si considera praticamente tutto il testo tramandato come genuino e non si tiene conto, salvo fugaci accenni, di eventuali atetesi: non si dice di quelle proposte dal Foerster, e giustamente respinte dal Curtius nell'ambito della teratologia, ma anche delle meno infondate; non si risolve, in particolare, il quesito circa la legittimità o illegittimità della presenza nell'originale d'una 'conclusione corta' seguita da una 'conclusione lunga', legittimità che è stata recentemente difesa dall'Avalle ma verso la quale permane viva perplessità. Va infine precisato, poiché anche questo criterio modifica il meccanismo dell'impianto strettamente lachmanniano, che un'alterazione mnemonica è certamente presente nella tradizione dèi*Alexis come di tante opere medioevali, prima fra tutte la Commedia, sotto forma di eco o di anticipo, rigorosamente individuali, di luoghi similari dello stesso testo (gli esempi abbondano nella documentazione del presente scritto). Sia l'incontro di LP in 4a = i6, Eufemien si out a(n)num li pe(d)re(s), dirimpetto ad A, issi ot num, e S 52 ensi ot non (cfr. M 24 ot non, pur in contesto alterato). Il caso parve rilevante al Paris, che credette di poterne inferire un ascendente ipermetro, ensi out a nom, variamente ridotto dai testimoni, senza che ciò alteri la parentela fondamentale registrata nel suo stemma codicum. Si capisce che una situazione simile consentisse al Paris di trasvolare anche lui personalmente, come i manoscritti, dall'una all'altra soluzione: ensi out nom nella 'maior', si out a nom nella minor (il tutto fra trattini o virgolette, essendo - e in ciò il Paris ha ragione -un inciso entro Eufemiiens... Coms fut...). Sta però di fatto che nel solo esempio univoco dell'espressione (62b = 307) si ha o(u)t non-, mentre nell'altro caso (73 = 31) al si o(u)t num Alexi(s) di LA si oppongono per parte di P si out Alix a nun (con guasto di rima), per parte di S 70 s'ot a non Alessi, entrambi palesemente erronei, sia poi l'intrusione di a poligenetica o dovuta all'antigrafo di PS. Come, dunque si (...a) è entrato nel punto di partenza? Certo per anticipo (verosimilmente mnemonico) del luogo immediatamente successivo; dove però si è una congiunzione coordinante press'a poco sinonima di 'e' (la 'maior' Fut batiziez, si...), mentre qui si richiede un 'così', ciò che L rende con eisi (^ja = 271, PS issi) o issi (496 = 245, singularis di L). Allo stesso modo il grant pechié di A e P (preceduto, è vero, da si per com) invece del forz pechiez giustamente adottato dal Paris in i2d = 59 potrebbe anticipare la formula che in 646 = 320 spetta a tutta la tradizione. Ma bastino questi cenni estremamente sommari di ciò che non verte sulla specifica problematica della diffrazione. Posta la continuità della fenomenologia, sarà opportuno cominciare da quelle diffrazioni in presenza in cui, com'è stato almeno in fatto riconosciuto dal Paris e perciò dalla vulgata, la lectio difficilior è serbata dal solo L. E un esempio occorre fin dal principio del testo: 8e = 4o acatet 'procura', soggetto il padre di Alessio, oggetto la sposa, contro A aplaide, P porchace, S 88 e M 72 (con altri ritocchi al presente fine irrilevanti) a qui se (la sopraggiunta desuetudine dell'accezione, più a lungo serbata nella 'periferia' occitanica, cfr. Flamenca 2123 «Ques ab Dieu l'acapton merces» e la relativa voce nel glossario del Meyer, è ovviamente legata all'evoluzione o involuzione istituzionale del tecnicismo giuridico accap(i)tare, su cui invano si cercherebbero lumi nel FEW, mentre già orientano il Du Cange e perfino il Raynouard). La conferma del carattere difficilior della lezione si ha nella, come qui, totale (o nella tendenziale) censura esercitata sul termine. L'unico altro esempio è infatti (la totalità vale per i manoscritti citati, tolti A che qui manca e S mutilo in fine, non per il sopraggiunto V) 1250 = 623 acat, soggetto Alessio, oggetto pais e glorie, V pure (ma 624) achat, contro P donst (...concorde), M 1272 amoneste (joie), Mb i otroit grant (j.) (qui si prescinde, perché non tocca la forma interessante, dalla corruzione di L in questa strofe finale, rivelata dalla ripetizione di glorie in rima ancor prima che dalla collazione degli altri testimoni; su cui più innanzi).

Ecco gli altri casi: 19b = 92 (que) gens (in L invertito con l'emistichio corrispondente del verso successivo), contro A nïent, P (que) rien, S 384 (ains) rien (M altera);2 cfr. la generale opposizione (A, P, S 798) in 54c = 268 di icil a giens cil (l'unico altro esempio nella tradizione dell'Alexis di g(i)ens col valore del provenzale ge(n)s, peraltro sospetto perché è per solito Vidi ecc. di L a degradarsi in cil); 23b=112 multes terres, contro A plusurs terres (plui sor anche M 443), P maint païs, S 461 moull de terres; 25e= 125 firet, contro fist di AP (paghi all'ipometria) e S 475 (che invece interpola par), Mb est (tres), M 489 (for-ment...) fu (interamente soppresso s'eri) (è l'unica forma di antico piuccheperfetto indicativo presente in L, anche se, com'è già noto grazie al Rajna e come si vedrà più sotto, non l'unica del poemetto); 28b= 137 despeiret, da correggere naturalmente col Paris in desperet (cfr. 293=141 pare(d)e), contro A destruist (anticipo da 29c=i43, dove la restante tradizione reca a(t) destruite), P e S 407 (M non soccorre) despoille (ma cfr. in S 412 a desparee, l'equipollente M 405 a deskiree); 36a = 176 li costre, contro A l'umes (desinenza riscritta) e P tost, ipometri, S 539 e M 540 Li clers, portato all'inizio del verso (ma cfr. M 522 le coustre) (si noti in P, per la prima volta nel corso dell'esperimento, il conato d'interpretazione grafica anziché semantica); 43c = 213 n' altra pur altre mais sun pedre i ancuntret, certo per 'non incontra nessun altro che suo padre', contro A que vus dirrai? elP ne un ne altre mes...,S 658 autre, puis autre et... (M non soccorre) (anche a regola lachmanniana l'eliminazione delle singulares, l'un di P, la mancanza di n(e) iniziale e l'et di S, per non parlare di A che getta addirittura la spugna, porterebbero a L, salvo solo il pur, per cui l'attuale si paleserebbe caso di diffrazione in presenza; la soluzione del Paris, composita - su S viene innestato il mais di L e P -, altre puis altre, mais..., pecca contro il suo proprio stemma, ma non può dirsi davvero più soddisfacente delle lezioni effettivamente presenti); 46d = 229 asme (normalizzato dal Paris in As me o mei), contro P prest sui, S 756 Ves me ci e un'alterazione comune a A e M 743 (je.l g(u) arderai...) (l'altro esempio, est vus in L, 37b = 182, si conserva dovunque con varianti puramente formali, certo perché formula fossile); 47C = 233 amanvet, contro A aporte, P apreste; ivi, bosuinz, contro A mestier (su rasura), P eis (per aise?) con rifacimento totale, li fu asez per li ert (SM non soccorrono); 513 = 251 del berbere li, contro P devant lui, S 778 del ostel li (M altera); e si cita questa strofe, a torto o a ragione sospetta (assente da A, mutila in fine in L e costruita con ricordi della 20 sulla rima di i nasale con ie), perché l'eliminazione dell'arcaismo comunque vi compare con modalità non dissimili da quella dell'altro unico esempio, 65b=322, il cui helberc (L) è più frantamente contraddetto da AP (h)ostel, S 966 herenc, M 1002 palais (meno radicale ma consistente anche l'avversione al femminile herberge in rima, che la prima volta, 84d = 419, è, in assenza di A e anche di M, serbato da S 1179 ma disatteso da P, con una trasformazione radicale la quale in rima riporta il poveri e del primo verso, la seconda volta, n6a = 576, è conservato da tutti, V, P, S 1313, mancando sempre A e M; perfino il trivialissimo verbo, illeso al transitivo in 44b = 217, è toccato da P quando intransitivo, surrogandosi in 1146 = 570 converse al herberget di L, arberge di V); 61b = 302 repairent 'si recano', contro en vin(d)rent di A e S 946 (M altera), vienent (ipometro) di P (non in questo valore, comune a casi del repairar occitanico registrati dal Raynouard e dall'Appel, ma in quello consueto di 'tornare', il verbo resta altrimenti invariato, cfr. il repairasses, peraltro in rima, di 78d= 389, tuttavia in 26a=i26 P riesce a portare a retornent perfino il repairent dell'intera tradizione; si avverta che nel verso in esponente lo stesso Paris, dalla maior alla minor, si sposta sulla 'facilior' en vindrent, 2Molte sostituzioni, particolarmente nella tradizione dell'Eneas, di rien, plus, point, pas, mie a giens sono citate da Tobler-Lommatzsch, s. v.

stimando certo erroneo il significato qui illustrato, di cui il Godefroy non scheda altra attestazione); 6ye = 335 e (interiezione iniziale, seguita da reis celeste), contro AoeP Deu (S e M non soccorrono). Sarebbe però qui improprio discorrere di difficilior, ove si eccettui A, che regolarmente surroga o (nell'identico primo emistichio di ^d = 24, in i2d = 59) oppure Oi (in 4ia = 201, in 46a = 226; manca del verso in 780 = 388, della strofe, con lacuna comune a V, in 870 = 433); è un'ostilità sua, poiché nell'ambito della famiglia AV l'ultimo individuo ha almeno serbato ei nel rifacimento (sul primo verso dell'originale) di 96C = 478 (ei chiers amis per e gentils om), A, che anche sposta in fine il verso, modifica tutto (sire, dist ele). Quanto al Deu di P, sarà un innocente ricordo di 59, 201, 226, dove Deus segue all'interiezione (diversamente in 201 S 597 riaggancia da 24 reis celestres). Tornando però a 478, corre l'obbligo di avvertire che l'inizio della strofe (96a = 476), qui ripreso da V, ha in L O kiers amis, in P invece E (come di consueto nel codice, in nota tironiana) chiers amis (S non è utile, partecipando della ripetizione anaforica di AV); l'anafora si ha anche nell'originale, ma in direzione contraria, cioè verso la strofe successiva, aperta (973 = 481) in L da O, in P da Ohi (A, si è detto, continua la sua anafora privata, S e M mancano), ma in V da E. La conclusione già probabile è che E vada ripristinato dappertutto; lo conferma il fatto che l'ultimo esempio di O iniziale in L, 8ia = 40i, è contraddetto dal solito 7 di P (gli altri testimoni, ASM, sopprimono l'interiezione nel sostituire, variamente, l'unico esempio di (i)erent futuro). Come in altri punti, L è conservatore ma non costante, e qui è battuto da P e da V. (Va preannunciato sùbito che invece l'E di S in 441, il quale è in concorrenza con VA di L, Ohi in P, non ha autorità, poiché A lasse è confermato dall0a(l)las di 79d = 394 in LAP, alterando SM; o vorrà dire che a è ancora difficilior di e in alas(se), cfr. pure in 1243 = 616 il triviale Elas caitis di S 1350 per il Las malfeu(z) di LV). Ivi tu nus i fai venir, contro A kar nus (segue su rasura fai...ir), P la nos fai parvenir. La difficoltà di L sembra consistere nel pronome tu espresso innanzi all'imperativo, del che non ricorrono altri esempi nel testo (ma, poiché e i atona e venir sono tutt'altro che garantiti, ci si chiede se la diffrazione non alluda a qualcosa di assente, poniamo i nos fai parvenir, cfr. nel Leodegario: i visitet [= -a] L[ethgier] son serw). 8id = 404 et enpur tei (in L ultimo verso della strofe, per inversione), contro A e P e pur tei fiz, S 1169 e M 1172 Pour (S Par) toie amour, analogamente 82C = 4o8 et anpur tei, contro A e pur tei bel fiz (iperme-tro), P por tei fiz (ipometro) (S altera, M manca). Ciò che non venne più inteso fu empor, cfr. anche 44d = 2i9, caso non citato per primo perché qui empur tun filz è modificato in e pur ecc. da tutta la restante tradizione; ma viene il sospetto, innanzi al frangimento dei testimoni, che et empor fosse legittimo per 'esclusivamente in favore di', comunque con quel-Vet 'und zwar' il cui non breve elenco è aperto nel Tobler-Lommatzsch proprio da Alexis 49C = 243 e tut pur lui secondo L e S 769, contro tresto(u)t por l(u)i di P, M 854 e - almeno dopo la revisione - A; da notarsi che solo nell'ultimo caso, e solo nella maior, il Paris mantiene et, poiché la minor ha trestot. 88b = 437 sempres regretet (il codice aplograficamente regret), contro A si lu regrete, V ço (qui non importa la scrittura esatta del codice) disi la meire, P aprés le regrete, S 1202 puis se regrete (M manca). Il Paris si accontenta di sempres, che in realtà le altre volte che compare, 24e = 120, 46C = 228, ii2b = 557, si mantiene abbastanza saldo e dunque male si potrebbe considerare difficilior; in fatto ciò di cui egli si accontenta è regreter intransitivo, quasi volesse dire 'recitare il planctus , mentre è transitivo le altre due volte che figura nel testo, 26e = 130 e ii9d = 594 — qui a norma di V e anche di S -; e quindi la forma difficile, con che dalla diffrazione in presenza si trascorre a quella in assenza, sarà stata, come indicano A e P, sempre.l. 893 = 441 A lasse mezre, contro A Lasse maleuree (iper-metro, o per meglio dire emistichio di alessandrino anziché di decasillabo), V Lasse pechable, P Ohi lasse mere, S 1216 E lasse mere, M 1185 Diex, dist sa mere (PSM interpretano non semanticamente ma graficamente, in ciò aiutati dal successivo, 9od = 449, ta lasse me(d)re, peraltro surrogato in A da e ta chaitive de mere e ancor più allontanato dal suo parente V). Quest'ultimo esempio si presta a osservazioni di grande rilievo euristico, dacché una configurazione affine cade in 87d = 434, dove al dolente di L si oppongono, in assenza di A e V (lacuna comune che immediatamente provvede al collocamento di V) e anche di M, il pechable di P e il caitive di S 1199, vocaboli però tutt'altro che rari (anche se c(h)aitif non si dia mai in L) e di cui pertanto non si vede perché uno qualunque dovrebbe essere sostituito dagli altri. La diffrazione, se non è in presenza, si

sospetta inevitabilmente che sia in assenza, senza peraltro che il continuatore di misera si adatti prosodicamente al contesto. Né si adatta il sinonimo di 26C = 128, (set...) graim nel solo L, contro (s(e)...) dolent in APS (cfr. dolante di M 417, Mb irie, in 22e=no, contro si graim e di LAP). Occorre dunque perlomeno prolungare la serie dei sinonimi; e in ciò viene in soccorso 96c = 478, il cui compatto dolente di tutti i testimoni noti al Paris (manca solo M) viene smentito dal marie di V.3 La voce non sembrerà particolarmente peregrina; ma ciò che fa riflettere è la censura concordemente esercitata in 71b = 352 sull'esmeriz (si legga, col primo Paris, esmariz) di L, cui la restante tradizione (mancando anche qui M) oppone, e le si unisce il Paris della 'minor', esbahiz\ il suggerimento muove insomma dalle strutture interne a questa trasmissione. E con ciò risulterebbero attuati: il passaggio graduale e inevitabile dalla diffrazione in presenza a quella in assenza; il privilegio di serbare lectiones difficiliores trasferito da L ad altri testimoni, nella specie V; la possibilità di ravvisare come difficilior una lezione pur concordemente smentita dal resto della tradizione. La lectio difficilior è infatti un criterio il cui maneggio esige estrema cautela. Se l'auspicato automatismo dello stemma codicum nella scelta fra lezioni indifferenti è compromesso, secondo la classica critica di Bédier, dal carattere solitamente bipartito degli alberi, la già codificata eccezione alla procedura lachmanniana che è la lectio difficilior in nessun modo dev'essere incoraggiata da un'interpretazione soggettiva ed elastica; di qui l'opportunità di corroborarne l'applicazione con un consistente elemento di controprova quale la pluralità dei concorrenti (diffrazione) o, come nel caso pur tanto meno certo di marie ed esmariz, un'affinità di censura. La certezza diminuisce ancora in casi in cui si è ridotti alla semplice analogia di comportamento, quali 8e = 40 L filie d' un noble frane, contro AP a, anche M 73 (con trasformazione di primo in secondo emistichio) fille a un due, inoltre S 88 (con innovazione da considerare secondaria rispetto a PM, e fra l'altro quasi solecistica) le fille un noble frane (certo il sintagma fille d'empereor ha carattere più arcaico e formulare, come risulta dal suo comparire nelle chansons de toile, da Quant vient en mai a An balte tour, ma oltre al resto d(e) potrebbe eventualmente dichiararsi anche in modo paleografico da un ad antevocalico anglonormanno, cfr. i3b = 62 adapeler); 9C = 43 L mais (dopo negazione), A plus, PS plus d(e) (e plurale) (L è più peregrino, o non piuttosto eco isolata di 8a = 36?); 99e = 495 L jo lui serve, contro A e P jei serve (ipometro), V bien li serve ('singularis'), S 1251 jou le serve (la difficoltà è nella forma enfatica lui, banalizzata nell'afona, mentre il contesto vuole proprio sottolineare che il merito e la ricompensa della sposa muoveranno dal fatto che il suo servizio sia dedicato a Dio, a lui, non da altri, 'c'est lui que j'aurai servi'); 105d = 524 L main (prescelto anche dal Paris), gli altri gent (l'identico sintagma, in rima a 1073 = 531, è sempre la gent menu(d)e). Titolare di lectio difficilior si è già comunque dichiarato (e ciò ulteriormente autorizza a compiere prospezioni sotto il piano di L) anche l'importante, e purtroppo acefalo, codice ignoto al Paris, V. C'è anzi, oltre al flagrante o(u) tum (L tun) lais(s)as di LV in 94e = 470 (A e Mb u me, P tu me, S 1234 tu m'i, M 1198 kant me laissastes), almeno un caso in cui V conferma quella che fino alla sua scoperta era una difficilior isolata di L (i0ic = 503): L a nostr' os est il goie A la nostre en est la joie V a nostre us est grant joe P a nos est il gioire [ipometro] 3Il quale potrebbe però differenziarsi rispetto al dolente (ma P graime, L altrimenti) del verso precedente.

(SM non soccorrono). Il Rajna, che ovviamente rileva tale caso, dà un nutrito elenco di luoghi in cui V è solo a fornire la lezione buona. Se ne estraggono qui le difficiliores sicure: 88c = 438 kar auisses, contro L quer aveies, A kar avïez, P nen aveies, S 1203 c'ain (?) n'en eüs (la forma dell'ottativo perfetto rammenta l'awisset di Eulalia e poi le tante forme valloni del tipo awist, così che si può forse aprire la questione d'un eventuale archetipo in largo senso 'vallone', quale, anche dopo le contestazioni dello Stimm, séguita a sembrare V stesso, giusta il Rajna e poi il Hahnel; nel caso parallelo addotto dal Rajna, 46a = 226, dove peraltro si tratta d'un ottativo di possibilità e dunque presente, L ha quer oüsse, AP kar eüsse, S 752 c'or eüsse - e oüsse, osserva bene lo Stimm, ha V in 928 = 456 e 98d = 489 -, tuttavia l'imperfetto indicativo compare in M 739 se j'avoie, Mb ancora s'or avoie; se l'originale livellasse, e in qual senso, o no, è arduo decidere, posta l'identità di misura, ma la frantumazione che si verifica in 29C= 143, L cum dis lait host de predethe A cum hū la ust pree P cum sei leust pree S (413) comme elle ert la vespree, sembrerebbe far propendere, a livello almeno di archetipo, piuttosto per un primitivo com l'aüst ost, con spinta all'apio-grafia o comunque alla differenziazione); 98c/e = 488/490 L ja tute gent ne m'en soüsent turner [ipermetro] si me leüst, si t'oüsse bien guardet [ipermetro] A ja tute gent ne me seüssent esgarder [ipermetro] ja tute terre ne m'en fesist turner V trestote terre ne m'en sore turneir se je poüsse, si t'oure costumé P n'est home qui vive qui m'eust trestorné si me leüst, si t'eusse gardé S (1245) nus hom qui vive ne t'en peüst tourner [Paris m'en] (M non soccorre) (s'intende che la difficilior si limita ai piuccheperfetti, stavolta in funzione di forma perfettiva dell'apodosi condizionale; nessun credito può avere terre, che nel parente A insorge su uno sdoppiamento del verso, e costumé, d'altronde smentito dallo stesso pur corrotto parente, sembra avere assunto paretimolo-gicamente il valore di costoïr, costeïr 'serbare ritualmente', in particolare 'preparare un morto').4 4L'acustumerent di L solo in 100d = 499, accettato dal Paris, è inteso anche presso Tobler-Lommatzsch nel valore peraltro inconsueto di 'rivestire' (l'oggetto è sempre Alessio, ma stavolta allo stato di cadavere, non di vivo). Considerando anche il verso precedente, l'accordo di AV con P sembra garantire apresterent ('singularis' di A

Con maggior cautela andranno accolte altre possibili difficiliores di V, quali il de deseier morir di 88d = 439, contro desir(r)er a murir di L, A e anche P (desir a), S 1204desiroie a veïr (con ripetizione puramente servile del veïr precedente, leggasi morir), o il l'at vochié di ii2b = 557, contro il l'apelet di L e rifacimenti di M 1260 (s'il vient a lui) e S 1296 (a cel saint cors) (il Rajna ricostruisce peraltro l'at touchié, tipico, ove consistesse, errore di tradizione scritta in un ambiente che egli stima impropriamente di tradizione orale). Un maggior frangimento della tradizione (nel secondo caso, mancando A e P, per la verità viene meno la stessa materia del contendere) sarebbe stato indubbiamente più rassicurante. Ma, nonché V, qualunque altro testimone può esser sede di lectio difficilior, quasi a designare una comune procedura solo quantitativamente variata. Nemmeno il rifacimento (i del Paris) ne va esente. In 57e= 285, posti L e cum il s'en revint, A e cument s'en fui, P et cum s'en fui (-1), l'esclusione delle singulares porta al s'en rafùi di S 924, conforme al s'en refui(t) (ra-) di L, P, S 1147 in 77e = 385 (A altera, M manca) e anche al s'en fui(t) di 77a = 381 secondo L, S 1143 (AP il s'en fui trisillabo) (ovviamente presente è il s'en fui(t) bisillabo comune in 15e = 75 e in 38d=189). E se nell'ultimo caso il Paris aveva creduto di poter optare per L, in 490= 245, con N'at soing quel veiet, si est a Deu tornez, si era nel complesso, e giustamente, attenuto a S 772 (M trasforma), confermato da A, n'ad sun de quanque il veit, tut est a Deu turné (emistichio riscritto), seconda versione (55 ter) n'a suing qu'il facent, tut est a Deu turné, mentre appaiono eccentrici così L, ne l'en est rien, issi est aturnet, come P, kar en Deu est tot le suen penser. Sembra tuttavia che l'ostacolo non possa essere rappresentato da un emistichio quale quello del Paris, 'non cura di ciò vedere', bensì da quello che realmente è in S, n'a soi[n]g que voie, 'non cura quanto possa vedere'. Incertezza permane solo circa si o tot. In 8c = 38 solo M 70 serba Va di a en avant, cosa che determina altrove (L, P, S 86) un'orrenda dialefe tra s(i)ecle e en, in A tuttavia, come a confermare il canone della diffrazione, la sostituzione que fera. E forse un'altra difficilior di M affiora, a seguire stimoli di un del resto contorto ragionamento del Rajna, in io6d = 529, dove L mais ne puet estra, cil n'en rovent nïent A de cel aver, mais cil ne ruevent neent V et els ke valt? ker n'en avrunt nient P de quanqu'il getent cil ne-1 volent nient S (1284) Que lor aiue? il n'en veulent nient Mb Ke caut de ehou, quant ne leur vaut nïent? (M lacunoso). Escluse le singulares di L, A e P come congetture trivialeggianti, più o meno bene adattate al contesto, si ricava quale elemento comune un emistichio interrogativo caratterizzato da que, da un altro pronome e da un verbo significante 'serve'. Il Rajna rileva acutamente che un emistichio affine, De ço qui ealt?, compare ben cinque volte nel Roland di Oxford (sarà anzi, con varianti, una diffusa formula epicoromanzesca); e il lettore è tratto a pensare che dunque la difficilior presente in questa diffrazione è quella formulare di Mb, magari da ritoccare (in assenza) a norma del Roland. Ma no: l'apriori del Rajna è tutto vòlto a favore di V, la bontà di Mb sarebbe tutta nel favorire, e proprio in quanto differisca da S, la lezione del nuovo testimone. Viziata di irrazionalità è anche la risposta al quesito «se vi sia stata reminiscenza della Chanson nell'Alexisy o viceversa». Curiosamente, la risposta è corretta, il procedimento no. Che si vada dal Roland ad Alexis (ma si dovrebbe allora parlare di Mb, non di Alexis!), pare al Rajna per la natura formulare dello stilema, tornandogli oscura la cronologia relativa (ma, per ciò apruecerent)/conreerent ('singularis' di P conduierent); da L conreierent è anticipato (la coincidenza di S 1254 sarà illusoria, perché vi si ha soltanto il primo verso, cfr. M 1222 atornerent).

che è degli originali, nessun dubbio ormai che nel Roland siano, come già rilevava il Wilmotte, evidenti tracce stilistiche di Alexis, specialmente dell'uso temporale nelle parti meno 'narrative'; decisiva è l'ispirazione ai planctus del padre, 8ob-d = 397-9, «Tantes dolours at por tei enduredes, E tantes faims e tantes seiz passedes, E tantes lairmes por le ton cors ploredes!», e della sposa, 953-0 = 471-3, «tanz jorz t'ai desidret, E tantes lairmes por le ton cors ploret, E tantes feiz poir tei en loinz guardet», in quello di Roland su Durendal, O 2306-7, «Tantes batailles en camp en ai vencues E tantes teres larges escumbatues», planctus quest'ultimo da aggiungere, anche formalmente, all'elenco procurato dallo Zumthor per la Chanson).5 Perentorio per la direzione O-Mb è invece il fatto che uno dei secondi emistichi (quello del v. 1840) sia identico, o quasi, a quello di Mb (quasi, perché vi ricorre, come del resto nel v. 1806, car, non quant, che apre in cambio il secondo emistichio del v. 2411); ora, tale emistichio, come del resto quello di V, conviene male al contesto, qualunque sia il giudizio del Rajna, e al contesto si attaglia solo la lezione di LA, che con sinonimo ammodernato figura anche in PS: Mb ha dunque desunto integralmente da O. Svanita così la precellenza di Mb e, almeno in quanto si appoggi a Mb (come vorrebbe il Rajna), di V, a dirimere la questione può giovare il passo in qualche modo parallelo ioib = 502, dove L que valt cist crit, cist dols ne cesta noise? A ne nus valt rien cest duel ne ceste noise V ke vos aiue cist duls [ms. -st] ne ceste noise? P que vos valt cist dels ne ceste noise? [ipometro] S (1258) que vos aiue cil deus ne ciste cose? (M non soccorre). Escluse le singulares di L e A con Tipometro P, resta solo la lezione di VS, a rappresentare due famiglie su tre; è la lezione analoga, cioè quella di S (sostituita in V come qui in LAP), che si dovrà adottare anche nell'altro caso. Ridotta così a una la difficilior di M, mentre l'altra sembra comunque trasferita a S, in 69C = 343 sarà difficilior P per et mei est vis (L e qo m} est vis, A si espeir bien, S 1042 qou m' est a vis), ancora P in 788 = 386 per dire impersonale in ceo que dist en la chartre, contro L ço que dit ad la c., A que de sei dist la eh., S 1150 ke on troeve en la c., in 22b=107 addirittura P2, per Yu opposto al que(d) soprannumerario di L {lasse, qued est devenut?), A e P (S 455 modifica in qu'est mes fiex devenus?). (E nell'ambito di quella famiglia si vedano, sia pure a testi multipli, il rove[t] di PM in 52d = 259, cfr. sopra LA in 529; il ligon di PS in 54b = 267). Dal comparire in quella categoria non è esonerato neanche A: non soltanto per il mune di 107d = 534, cui ora si affianca il munere di V, ma presumibilmente per 37e = 185, dove

5Un altro importante riscontro si ha per 45b = 222, plurent si oil, ne s'en puet astenir, dove PS recano plore des oilz, con una formula che ricorda, salvo un particolare, cosa presente nell'Alexis sicuro (49b = 242), de lur oilz... plurer. Si sa la frequenza con cui lo stilema figura nel Roland: si tratti di derivazione nel Roland dal tipo PS o viceversa di reazione su questo da quello, meritano particolare menzione i casi in cui il primo emistichio sia ugualmente costituito da ploret des oilz (w. 2943, 3712, 4001 di O, seguendo ovunque lo strappamento della barba, ma non con identità bensì con sottilissime variazioni, rispettivamente sa bianche barbe tir et, tir et sa barbe blance, sa barbe bianche tir et ; inoltre 3645) ovvero plurent des oilz (vv. 1446, 2415). Né in questi esempi né mai il manoscritto di Oxford introduce il possessivo, a mente del primo verso avanzatoci del Qid (De los sos ojos tan fuertemientre llorando). Tuttavia la prima volta in cui il Roland usa la formula, e proprio con ricordo manifesto di Alexis, compreso (55e = 275 secondo A e S) ne puet müer (v. 773, Ne poet muer que des oilz ne plurt), si ha un'ipometria che, al lume di V4 (v. 704 Gasca Queirazza, No pò muer che ses oidi non plor), è stata giustamente corretta mediante l'inserzione di ses. Anamnesi e risultanza ecdotica s'intrecciano e si ribadiscono.

L que de els ait mercit [ipometro] A que d'els aüst merci P k'il ait de els merci [ipometro] (SM non soccorrono). Il restauro di Paris, aiet, è una soluzione ovvia (il verbo reggente è prient), ma certo facilior di ciò che appare in A, caso del tutto parallelo all'«imperfetto di mera, rischiosa eventualità», awisset in dipendenza da degnet preier, recentemente studiato da chi scrive nell'arcaicissima Eulalia. Sta però di fatto che quel caso non è isolato. In 102C = 508 si ha, pure in dipendenza da prient, L que d'els aiet mercit A que d'els tuz ait merciz V de nos aies merci [ma = 599 anche nel primo emistichio] P k'il ait de els merci [ipometro] S (1265) que d'aus tous ait merci M (1232) qu'il ait d'iaus tous merchi e in 120d = 599 L e si li preient que d'els ait mercit [ipometro] VP e sire pere(s), de nos aies merci S (1331) Biaus sire pere, aies de nous merci (AM mancano). Si può e anzi si deve ammettere (poiché V appartiene a famiglia distinta da PS) che in quest'ultimo caso L surroghi al discorso diretto, prolungato nel verso successivo, l'indiretto dei precedenti, scambio inverso a quello effettuato da V (la surrogazione sarà stata favorita dalia vicinanza grafica tra e sire pere e la formula adottata, anche se questa ha una diffusione ristretta nei casi precedenti: il primo emistichio di 185 ha costantemente e tuit le o li prient; il primo di 508 ha e tuit li prient nei soli L e S, forse per eco e del precedente e di (tres)tuit nel primo e nell'ultimo verso della strofe, ma il prolettico e qo li o lui prient [A per diffuso scambio de prient] in A e P, et si li proient in M). Ma non sembra dubbio che la stessa soluzione vada adottata per 185 e per 508: quella del Paris (aiet) è in presenza per il solo secondo esempio, quella suggerita da A {aiist, o eventualmente auist) in presenza per il solo primo. In un caso come nell'altro si travalica il piano documentario. La scomparsa delle difficiliores è insieme abbastanza vasta e irregolare6 da giustificarlo. Esaurito il canone delle difficiliores presenti, si apre l'insieme dei passi non risolvibili mediante scelta lachmanniana, e ai quali non resta pertanto da applicare se non il metodo del Tobler, cioè il prolungamento del criterio della lectio difficilior. Chi scrive non è certo in grado di proporre per tutti una soluzione, ma si lusinga che anche nei più disperati appaia almeno ben circoscritta l'area del problema, definito il perimetro della risposta possibile. 6Un ultimo campione di simile irregolarità, tanto più interessante in quanto modesto e a due soli termini: in 4e = 20 un melz avverbio di comparazione (LA des melz gentils) è trivializzato in plus da P (variazione totale in S, che ugualmente si rifiuta, 4b = 17, a des melz qui dune i eret), ma in 50e = 250 e 97c = 483 A (e nel primo caso anche S) dà mielz (col verbo amer) anziché plus. Il livellamento sarà o non sarà opportuno?

I suggerimenti potrebbero in astratto elencarsi secondo due modi ben diversi: topografico, prescindendosi da ogni misura di certezza; in ordine inverso di certezza, così da rispettare la gradualità dell'approssimazione. Poiché quest'ultima graduatoria, rigida e ben differenziata, non è realizzabile, è parso miglior partito quello di una rappresentazione mista: fornito un esempio flagrante, flagrante sia per la sua pluralità sia perché a risolverlo non necessita davvero quel tocco di genialità che occorreva nel passo del Tobler, si faranno seguire, in ordine topografico, le proposte analoghe di ragionevole certezza, poi, sempre in ordine topografico, le semplici posizioni di problemi. Un gruppo organico di diffrazioni è il seguente, tutto attuato in versi finali di strofe che perciò risultano similari: 88e = 440 L ço est grant merveile V zo est mervelhe P ja est merveille S (1205) cou fu merveile (A è privo del verso, M manca); 89e = 445 L ço est granz merveile A ço est merveille P ceo est merveille M (1186) molt m'esmerveil (V sostituisce 976 = 485, S manca, qui si può citare Q 182a Biaus fis, c'est grant merveille, variante assurda Ce ri est pas de merveille); 93e — 465 L n'est merveile (- 1) A n'est pas merveille V n'est mervelhe (— 1) P il n'est merveille S (1228) il n'est merveile (M manca). Le ipometrie e i supplementi, vari e dunque congetturali (qualche volta basterà solo aspettare che go est non sia più sinalefico come in L: l'unica eventuale eccezione 690=343, può risolversi, ove consista, mediante go ert meglio che mediante iço), sono evidentemente prodotti dall'elemento comune merveille, che basterà risarcire in un mereveille poi logorato dall'ettlissi. Anche due dei tre esempi del Roland sono ipometri (O 550, da qualcuno integrato col molt di V4; O 1774, dagli stessi editori tollerato per l'apparente bisillabismo di ço est, in realtà sinalefico tolti pochi casi sospetti, O 1310 dove V4 1232 meglio legge ço fu, O 1350 non confermato da V4, O 2047 smentito dal giusto sui di V4 2167, per non parlare del por go est di O 1479 che poi in V4 è variato); il terzo, O 2877, nen est merveille, è pure singolarmente vicino ad

Alexis; esso probabilmente, gli altri sicuramente attestano un mereveille ancora integro quando già sono sincopati, fatto più remoto l'accento secondario, merveill(i)er e merveillos. Se esistesse solo L, il guasto sarebbe irrilevabile, e ci si limiterebbe, come fa Gaston Paris, a introdurre nell'ultimo verso una delle, purtroppo infinite, zeppe monosillabe possibili (nella 'maior' il, nella minor più elegantemente nen, proprio come ha il Roland, sennonché della forma, ben radicata nel Roland, l'Alexis non ha altri esempi, tolto il qu'enfant nen orent del solo S 60 in 5b = 22, vòlto a evitare il que - per qued - enfant rio(u)rent serbato in A e P, fuggito diffrattivamente da L col paratattico riourent amfant, da M 37 con k'il n'ont enfant)-, la soluzione è imposta da quello che press'a poco nel senso saussuriano si potrà dire il 'sistema'. Il 'sistema' sembra assicurare un grado assai consistente di probabilità nei casi che seguono. 3e= 15 L pur hoc vus di (prolettico di d'un son filz voil parler), A pur cel..., P por ceo..., S 51 pour çou... (M altera). La necessità d'un pronome oggetto (dopo tutto ricavabile anche da A) ha suggerito al Paris di ritoccare Por çol ( = ço.l). Ma il maggiore arcaismo di L sembra piuttosto far scendere, o risalire che sia, fino a poro.l. da confrontarsi anzitutto, enclitica a parte, col por(r)o di Eulalia, del Leodegario, del Giona: in effetti il solo esempio di ciò che in L e A è pur o(e)c, 109b = 542, in P (non si hanno altri testimoni) è por ceo; il ne pur huec di L (42a = 206) è unico. 8d = 39 L or volt (que prenget moyler), A ja li volt (fem-me duner), P et veut {k'il...), S 87 sii (Paris Si) velt (qu'il...), M 71 or velt (que...). Le due voci per il banale or (una cui eventuale labilità grafica potrebbe assumersi solo a inizio di strofe) non bastano: come spiegare la residua frantumazione? Si cerchi dunque un sinonimo bisillabico di v(u)elt; ma questo si è già ritrovato sopra, sotto forme di rove (P) o rueve (M, interpretato graficamente come reveut Mb) in ^2d = 259 (L volt, dal verso successivo; S 786 commence; A assente), sotto forma di rovent (L) o ruevent (A) in 106d = 529 (P volent, S veulent, Mb vaut, V avrunt, M assente). La censura era là esercitata da testimoni diversi (essa è precisamente graduale e discontinua), i quali press'a poco si sommano nel caso presente. I riscontri coi testi antichissimi abbondano, anzi la documentazione del FEW fa risalire al latino volgare di Francia 'befehlen', cui si ricongiunge il roveret dell'Eulalia (e ruovet sarà 'vuole, brama', piuttosto che 'implora') con la successiva copia che già si squaderna nel Godefroy, attraverso i poemi di Clermont, il Roland e via via. 13e = 65 L mais lui est tart, A kar lui iert tart, P tart lui esteit, S 143 que lui ert tart (M manca). La soluzione del Paris è composita: scartato il presente, che è infatti una singularis (per nulla difficilior) di L (ciò vale ugualmente per il conseguente seit invece di fust nel secondo emistichio), resta però, degli elementi variabili, il mais di L. Ora, è palese che nessuno degli elementi variabili, identicamente triviali, può essere accolto, né soccorre un'eventuale particella difficilior, talché la ricerca si sposterà verso un verbo di sillabismo variabile. Essendo esteit in questa funzione di copula succedaneo di (i)ert (ed essendo, si può aggiungere, totalmente inverosimile in questa funzione il continuatore di stat, cfr. 'sta nella Passione 317, està in Amis et Amiles 2996, estait in Troie 1485 e pass., ecc. ecc., sempre per 'sta'), il verbo richiesto è il continuatore di erat, il quale in rima può presentarsi sia come ere(t) (vv. 17, 103, 240, 376, 379) sia, una sola volta e secondo la maggioranza LA (P altera, SM mancano), come ert (233). All'interno dell'emistichio è altrimenti sempre ert (in 6ia = 30i M 957 surroga estoit donc a ert dune ipometro di P, L ert idunc, A dune iert, S 945 iert adone), ma qui converrà riesumare con bisillabo lui eret tart (per il pronome enfatico a inizio d'emistichio cfr. il lui, da rettificare col Paris in li, del solo L in 9C = 43). Il caso (perciò va parlato di 'sistema') non è isolato, trovando un analogo in 75c = 373, dove L ki de Rome esteit pape, AP ert (— i), S 1085 ki ert de R. (M manca). In astratto non mancherebbero altre congetture difficiliores, come la caduta dell'articolo femminile la (già il supplemento del Godefroy dà abbondanti esempì di la pape), ma l'omogeneità e l'esistenza entro la tradizione di altri scambi fra le due copule o ausiliari (S 1045 iert acouvetés per esteit covert, 1169 m'en iere mout penés per m'en est eie penez) fanno propendere per eret. 16b = 77 L la nef est preste ou il deveit entrer, A dut enz, PS 338 por(r)a, M modifica (A, che desume enz dal verso successivo, sostituisce fu a est). Il tempo interessato è un prospectif, come lo direbbe il Benveniste, dipendente da un presente storico: l'antigrafo di PS cambia natura e tempo dell'ausiliare serbando il presente della principale; A, che introduce l'aoristo o passe défini, lo inserisce anche nella reggente; la maggioranza è per deveir (L, A) e si esige una forma bisillaba (enz è infatti un anticipo),

ovviamente però difficilior di deveit che non meriterebbe di essere così studiosamente evitato. La presenza, già constatata in posizione diffrattiva, di un firet (con valore piuttosto enfatico che aspettivo) e della coppia so(u)re(nt)/oure (con valore condizionale) suggerisce qui delire t come nel Gormont et Isembart 6 33 (deveret, Bayot dévret), dove si tratta ugualmente d'una relativa con portata prospettiva («li membra si Que ja dirra le frane gentil Par quei il dev(e)ret bien garir»). Che la varia lectio degli editori moderni, coi suoi devrat e devreit, segua strade identiche o simili a quelle dei manoscritti antichi di Alexis, è un'utile riprova. Un ulteriore esempio di successore obliterato del piuccheperfetto (con valore stavolta perfettivo, 'non l'avrà potuto') sarà da ravvisare in 32e=i6o L ses enemis ne-l poet anganer (-1), P pueent (ma si tratta del diavolo), S 508 que anemis ne l'em puet encombrer (A e M omettono il verso). Si ripristini pouret, come nell'Eulalia, dov'è parimenti in una frase negativa. Già l'aveva congetturato (ma per 1036 = 515) il Paris. 17d = 84 L ço ne sai jo, A mais ce ne sai, P mes jeo ne sei, S 359 e M 361 mais jou ne sai. Il luogo è poco vistoso, ma dell'obbiettiva difficoltà della scelta parla l'oscillazione del Paris fra la lezione di PSM adottata nella maior e quella di A preferita nella minor, entrambe peraltro fedeli, oltre che al comune e ineliminabile ne sai, al mais della maggioranza (da un altro punto di vista, sono considerate singulares di L tanto l'assenza di mais quanto la posposizione di jo). Il 'sistema' dà un passo parallelo, sempre con negazione, in 5od = 249 L ço ne volt il, A mais ce ne volt, P et si ne veut, S 776 il ne veult mie (M altera). Notevole che qui la maggior frammentazione fissi il Paris sulla lezione di L, del tutto calcata sulla precedente e tale perciò da suggerire che debbano o stare o cadere entrambe. Caratteristica, non è ancora ben chiaro se positiva o negativa, ma certo isolante, di L è l'esplicitazione del soggetto posposto. Si ricerchi perciò che cosa accade in frasi positive, aperte non da un pronome prolettico (di com... o que...) ma da un avverbio. Unanime è l'assenza in 92d = 459, or te vei mort (mancano SM), si ha diffrazione più tenue in 56d = 279 LP or(e) set il (bien), A or set ce, S 906 et si set, cfr. M 903 si que tres bien le set, diffrazione più accentuata in 89b = 442 L or vei jo (morte), A ici vei, V kant ci vei, P ci vei (-1), S 1217 que ci vei, M 1188 pure que chi voi. La delicatezza della situazione è anche qui provata dal contegno del Paris, che, se nel caso precedente può senza troppa difficoltà attenersi a LP, ora elabora la composita ci vei jo (è eliminata la 'singularis' or di L, non anche jo). Nel quadro completo la singularis costante di L è proprio (tolto 459) l'esplicitazione del pronome soggetto, quale infatti ricorre anche in 993 = 491, Or(e) sui jo vedve (imitato da Thèbes 221), contro il regolare Or(e) par sui ve(d)ve della restante tradizione (AV, PS). Posto questo punto di partenza, in 84 e 249 la soluzione è additata da\Yices(t) di L in i4c = 68 contro cest degli altri (ipometro in AP, risarcito con supplementi in SM), dall'idi di L in 656 = 325 contro cil di A (1), et il di P, mais il di S, il ecc. di M e dall'icels di L in i02d = 509 contro cels di P (ipometro), SM (con ritocchi; altri interventi, les clers ecc., celui ecc., in A e V),7 cfr. pure icest di L e V in i25C = 623 contro et...cest di PM, iceste di L e PS in 64c = 3i8 contro ceste di A (-1), ici di A e PS in 4ib = 202 contro ci di L (-1), oltre il citato idonc di 301; è additata, in modo più stringente, dall'ilo di L e M in io6c = 528 contro ço qu'il di A, cel (con altro verbo) di V, ceo di P (-1), qou (con altro tempo verbale) di S. La soluzione è dunque: iço ne sai-, iço ne volt; analogamente in 442 ici vei (la lezione di A). In 279 la maggior probabilità organica è per or set ce, che è ancora la lezione di A. 286=140 L ne se (si legga ne-s) contint ledement, A mult suvent se dement (interpretazione grafica), P ne vesqui liement, S 411 n'en fu lie granment (cfr. 416 ne fu lie li mere). La diffrazione ha un senso solo dove sia volta a evitare una forma difficile per 'visse'. Essa non può essere che regnai, conforme non solo a un'ovvia voce del provenzale, ma ad affioramenti antichi e regionali di oli, ben documentati nell'articolo del FEW (cfr. del resto nella conclusione corta, 110e = 550, il biblico regner). 42e = 21o L tanz jurz, A mult, P lunc tens (SM mancano). Poiché il solo esempio di di (per 28e= 140), presente in L e P, è mutato in j(o)ur da A e S, qui andrà risarcito tanz dis (un tan dis tam diu non è proponibile sintatticamente). 50e=250 LP tut sun li(g)nage (-1), A (riscritto) S 777 trest(o)ut... Il ripristino ha aspetto agevole, tanto più che si tratta di scambio diffuso: sùbito sopra, 490 = 243, LS dànno e(t) t(o)ut contro trest(o)ut di A 7Inoltre L solo conserva d'icele in 61c = 303 e d'icel in 62e = 310 (contro de cele o tele o ceste, de cel).

(parzialmente riscritto) PM; e se qui la decisione è assai incerta, ecco tot di P (- 1) per trestut in 37b=i82, tout l'en di S per trestuit l-37d= 184. Ma non sarà il tututto, così repellentemente boccaccesco, usufruito dagli italiani per sanare un tutto calante? e chi è senza peccato scagli la prima pietra. Ci si chiede piuttosto se, in parallelo con trestot le suen convers (7od = 349) e, prescindendosi da tot, con li sons edrer (38e = 190), les sons ahanz (55c = 273), non sia scorretta l'assenza dell'articolo in ciò che dovrebb'essere tot le son linage. 550 = 273 LA ne nuls hom (-1), P n'est hom en terre, S 884 e M 899 n'onques nus hom. L'ovvia soluzione del Paris, neuls, consonante al neuls dei Giuramenti, al niule delYEulalia, al niuls del Giona, va comunque integrata con la considerazione che il tipo bisillabico è in netta minoranza anche entro L (nuls è perfino nel verso precedente, così da instaurare una variazione fondata sul crescendo sillabico) e che scompare dal resto della tradizione: ciò in 280=138 (dove Yaornement di A e P per ornement è confermato nella sua natura di conciero dalla solita diffrazione, avendo S 408 eier garni-ment) e 6je = 325 (P ha de els, S 971 rien n'en e M 1012 nele per ne-l), mentre in 111b-c = 552-3 L soggiace a uno scambio di neuls (con palazinus) e nuls (con languerus) il cui raddrizzamento, da operare soprattutto sulla base di V (A e P mancano), ripristina il crescendo di cui qui sopra. 57c = 283 (il servitore ha portato ad Alessio pergamena, inchiostro e penna) L receit le Ale[x]is (con dialefe, o ipometro), A tend.it le ad Alexi (riscritto), P et cil Va [a]coilli, S 917 si li a aporté (M altera). La soluzione del Paris, les, non ha paralleli nel testo e, al lume del materiale raccolto nel ToblerLommatzsch alla fine della voce il (veramente pertinente, perché col verbo in indicativo, vi è solo l'esempio del Brandano, «De la part Deu salùet les», ma neppur questo risponde all'identica figura della legge Tobler, verbo-/ej-soggetto), andrebbe considerata difficilior in assenza. Sia tuttavia lecito segnare qualche dubbio, poiché difficilior in presenza potrebb'essere la stessa figura verbo-le (dialefe)-soggetto, non molto più consistente nemmeno nel citato articolo del Tobler-Lommatzsch, dove l'esempio meno remoto, in indicativo appunto, è quello di Gormond 316, «saissist le as resnes d'or mer» {le non è neutro, d'altronde è troppo presto per pensare al len così frequente nel normanno trecentesco Modus), e cfr. Thèbes 7092 (secondo il solo B), «traïnent le o une hart». 8 Neppur qui ritornano paralleli, ce ne sarebbe anzi uno sfavorevole se in ii8c = 588 ci si dovesse fidare del meten[t] l'en terre di V (ma L e P hanno en terre el o le metent, Paris en terre-l), si veda pure in 72b = 357 il getent s'a orison di S 1068 (il sei a(n) oreison(s) di L e A è ipermetro). Ma sarà lo, con la dialefe richiesta dopo jo. 66b = 327 LA pensif e plurus (—1), P pensis e coro-qous, S 973 pensif et ploureos (M altera). Il Paris ripristina un altro e, polisindeticamente, a inizio dell'emistichio; la cui caduta sarebbe eventualmente a carico dell'archetipo, poiché sarebbe singolare che nessun individuo della famiglia PS, dove si percepisce il guasto, ritrovasse l'altro e per congettura (il Godefroy registra un ploreeuse, ma è forma senz'altro rarissima). Non si può certo escludere che S serbi la lezione originaria, ciò che avrebbe anche il vantaggio del crescendo sillabico; ma l'esistenza di pensatiu in provenzale (si veda la documentazione nel FEW) può far congetturare un'alternanza simile a quella di po(e)steïf/po(e)stif. (In questo stesso verso l'iloc del solo L può essere inteso come difficilior in quanto oggetto avverbiale, anziché pronominale, di esguardent?). 74c = 368 LP dune li la c(h)artre (+ 1), A lai li chartre (- 1, ma certo per caduta aplografica di la), S 1080 rent li la chartre. Il Paris attribuisce all'archetipo l'ipermetria, in forma identica a LP, e dapprima corregge secondo S, adottando cioè una congettura antica, poi, più finemente, sopprime chartre (parola che peraltro non figura nel precedente discorso degli imperatori). Sarà miglior consiglio cercare un monosillabo di done: prima che l'etimologia, il parallelismo con està suggerisce da. 74e = 37o L qu'or en puisum grarir, A que nus en p. goir (+ 1), P qu(e) or li p. plaisir, S 1082 qu'encor p. garir (M manca). Il Paris non esita ad accogliere S, ma come si spiegherebbe il pertinace e polimorfo rifiuto? Bisognerà partire in cambio dal più difficile, cioè da L, rettificando quanto è scorrettezza forse solo servile. Somiglianza grafica e sinonimia dànno un orientamento sufficiente: il tipo provenzale grazir, nel valore intransitivo di 'piacere', ben noto anche all'antico italiano, consente di ricostruire un gra'ir, gréir. 8Cfr. le varianti (incluso len, ma = l'en) nell'introduzione del Con-stans, p. ci (dove altri esempì di le - innanzi a consonante - e les posposti).

77b = 382 L e cum il fut en Alsis la citet, A e cum s'en alad... (+ 1), P et cum en ala... (+ 1), S 1144 con s'en ala (M manca). A norma lachmanniana si ricostruisce e com s'en più un verbo di moto, in perfetto, monosillabico: ovviamente fut. Che anche in L fut rappresenti un verbo di moto, non di stato, risulta dal precedente i8a=86 L D'Hoc alat an Alsis la ciptet, A Dune s'en alad..., P Puis s'en ala..., S 362 Aprés en va... (M altera). E questa sarebbe una diffrazione alquanto misteriosa (pois e dune si scambiano, a inizio di verso, tra L e A - P ha sempre dunc - in 15b/d = 72/74) se, al lume dell'ultima esperienza, non risultasse censurato il primitivo verbo di moto, dunque del pari D'Hoc s'en fut. 82d = 409 L or m'est aparude (-1), P m'est ui aparue (- 1), S 1174 m'est hui cest jour tenue [Paris corregge venue] (A lacunoso, M manca); luogo da collegare con 97d = 484, dove L e P hanno lezione identica a quella del precedente (S come M manca), A in una variante aggiunta (97a) ha m'est ui avenue, A (nel testo fondamentale) e V modificano, presentando il primo a grant duel m'est revenue (+1), l'altro a grant dui m'est venue. I passi sono citati solo per corroborare la soluzione del Paris, apareude, che doveva infatti risultare confermata daWappareue di V in altro emistichio, 107C = 533, ipometro con Vaparude di L e P (A e S non hanno il verso, M 1251 legge ore venue, parallelamente a S e AV in quanto precede). Quanto all'avverbio monosillabico variante, la conferma di A sarebbe decisiva per ui se esso non recasse due lezioni (in lui sono certo confluiti due esemplari) e dunque non si possa qui accoglierlo che con riserva come rappresentante della terza famiglia. 84c = 418 L doüst (-1), P deüssent (con passaggio singularis di bien al plurale), S 1178 tous deüst (A e M mancano). Il Paris adotta con S toz deüst tons, ma la presunta caduta di toz, per essere poligenetica, postulerebbe l'ordine toz tons (non documentato) e la successiva aplografia. L'awisset di Eulalia, con l'-et analogico sul presente (come nel provenzale aguessa e nel piemontese avèisa), fa invece sospettare che l'originale portasse deuisset (o anche deüsset): ciò che però indurrebbe a risolvere mediante auisset (o anche oüsset) l'aporia di 29c=143 sopra citato. 84d = 419 L quer an perneies (en ta povre herberge), P ne vousis prendre (ainz amas poverte, - 1), S 1179 poi em presis (en la toie herberge) (A e M, s'è detto, mancano). Si tratta di un ottativo perfetto come nel caso studiato di 438 (anche qui con sostituzioni di imperfetti e aoristi indicativi), e a norma di quell'esperienza, ma in assenza (là soccorreva V), andrà ripristinato quer en pre(s)isses. (Quanto al secondo emistichio, il ricordo di ciò che fu esposto a proposito di 250 indica in S la lezione buona). 94d = 469 L ai atendude (sembra avere per oggetto il longe demoree precedente, codice longa demurere), A tant t'atendi (anticipato nel tant atendi di 78d = 389), V tantai (= tant t'ai) atendu (+ 1), P t'ai atendu, S 1233 atendu t'ai, M 1197 t'ai atendu. Esclusa la singularis di L, pur accolta dalla maior del Paris, con quell'inammissibile accusativo dell'oggetto interno ('attendere un'assenza'), la ricostruzione dell'archetipo non potrà portare a una grossolana violazione della legge Tobler (si è a inizio di periodo) quale quella che figura in PM e di cui S (adottato nella minor) è un'evidente correzione, bensì alla lezione crescente che è in V, sufficiente per l'ipermetria a giustificare la diffrazione. Oltre a tutto, tant, seguendo com e anticipando tanz jorz, è contestualmente indispensabile. Ma che avrà avuto l'originale? L'ipermetria è naturalmente ipermetria in atendu, che, non per mera etimologia ma per il debito collegamento col deverbale atent (oltre che atente)y andrà ricostruito in atent (si veda, con l'innovazione italiana, il rapporto di attesa ad atteso). 983 = 486 L la jus suz, A la de suz, V dedesoz, P sos (-2), S 1243 ça defors, M 1201 chaiens sous, Mb ehasus sous. Parlando nella casa, Aglae avrà certo ubicato il figlio 'laggiù' o 'quaggiù'; e poiché la compare in due famiglie, ça in parte di una, la verosimiglianza è per la lezione di L, accettata anche dal Paris: nel qual caso, però, la diffrazione sarebbe in presenza. Potrebbe dunque essere stata la forma a sottostare a censure, così ad esempio se si fosse risaliti a la'is (o, nel caso meno probabile della variante polare, çaïs o ceüs). 118e = 590 L atarger, V akeser, P (con ritocco a quanto precede) retorner, S 1324 reeonforter (A e M non soccorrono). Per deferenza alla legge Bartsch, e per l'insensatezza di L (ciò che vale anche contro l'emendamento puramente fonetico atarder proposto dallo Storey nella sua edizione d'intenzione

'bédieriana'), il Paris s'induceva a favorire S, con piccola limatura (conforter). Il Rajna è per la voce del nuovo testimone, akeser, che vale però acoisier, sempre con infrazione al Bartsch (la strofe assuona in e da Á libero, non in ie): occorrerà il piccolo intervento praticato dall'ottimo fonetista Rohlfs, aqueer. Ecco infine alcuni casi dove sembra difficile restar paghi al ventaglio documentario di varianti, senza che il presente con-tributore sia in grado di proporre una novità plausibile. 19b/c = 47/48 L gentement / belament, A isnelement / gentement, P gentement / vairement, S 96/99 belement / hounerablement, M 77/79 liement / voirement. Tanta varietà, e di sinonimi tanto banali, pur fomentata dalla rima desinenziale, appare sospetta. (Ivi comunque sul dune di L prepondera il mult di APM). 230 = 113 L jusque an Alsis, A dreit a Tarsis, P desque en Axis, S 462 dedens Ausis, M 444 droit en Alis. Sembra certo che si richieda una forma significante 'fino a'; ma, se fosse quella tanto piana di L accolta dal Paris, perché tanto dissenso? (Abusiva sarebbe la pretesa di razionalizzare ogni singolo errore - dato di fatto che spesso non è concesso trascendere -, ma una comune e pur polimorfa divaricazione dovrà muovere da una ragione precisa). Delle formule presenti fa qualche difficoltà solo P, da intendere, parrebbe, come congiunzione, 'finché non...' (ma la protasi dovrebb'essere negativa); o se ne deve inferire un difficilior (e assente) des en 'fino in'? Altri sinonimi, quali dusque, trosque, tresque, fors'anche gesque, non si direbbero connotati di eccessiva squisitezza. È probabile comunque che la soluzione do vrebb'essere uguale a quella di 121c = 603, dove (si tratta di congiunzione) L jusqu'a Deu, P tant que a Deu, S 1335 dusqu'a Deu (AVM in vario modo non soccorrono); anche qui il Paris si attiene a L. 24a= 116 L Des at li emfes..., P Si out li enfes..., S 466 Dont ot li enfes..., cfr. M 447 Si a muet... (A manca). Si può intendere Des con valore di congiunzione, 'giacché', o va inevitabilmente integrato Des qu(e)? Certo, le soluzioni del Paris, che nella minor adotta completamente P, nella maior dava compositamente Si at, non giustificano i mutamenti. Si aggiunga, se può servire, la censura esercitata contro des or(e) (in A e P, poi nella minor) di 3od = 149 da L {ore, con cui la maior, ma nel testo non è mai bisillabo) e S 427 (or mais). 33d=164 L ne pur honurs ki l'en fussent tramise A pur or ne pur argent ne pur rien ki vive [in più vasta alterazione] P ne por honor que nul lui ait pramise S (512) ne pour hounor qui li en fust a dire (M omette). Il Paris in entrambe le edizioni accetta la lezione di L (correggendo ovviamente in tramises), ma un invio d'onori è sprovvisto di senso; di più l'unico esempio dell'ordinarissimo verbo (tramisi in 20C = 98) è intatto. Sensata è la lezione di P, pur da correggere a norma lachmanniana, e d'accordo con la lingua del poemetto, in honors qui l'en (o lui.n; non si può avere li en bisillabo) fussent pramises. Ma la variante fonetica per pro-, buona per spiegare L, è sufficiente a dar conto delle residue bocciature? 900 = 448 L set a mei sole vels une feiz parlasses, tutti gli altri se une feiz nel primo emistichio, nel secondo A ensemble od mei p. (ricordo di 780 = 390), V bels filz ot moi p., P uncore p. (ipometro, probabilmente -2, poiché il composto non ricorre, ma, come s'è detto, or è monosillabo), S 1213 a moi seule p. (M manca). La lezione di L, adottata infatti dal Paris, sarebbe, se il manoscritto fosse solo, ineccepibile. A tutto rigore si potrebbe anche pensare a una diffrazione in presenza, preso vels per l'elemento difficile: ma sta di fatto che seveals compare in A entro il verso successivo; né si vede perché

unanimemente i codici diversi da L trasporterebbero une feiz nel primo emistichio. Ben fissato che questo fosse dunque set une feiz, si può congetturare nel secondo a mei sevels, interpretando sole o seule (ma resta preoccupante la coincidenza di L e S), fors'anche ensemble e bels, quali alterazioni fondamentalmente grafiche di (se)vels. 96b = 477 L que si purirat terre, A qu'ele purrirad en terre (+ 1), V e'or purira en terre, P que ore por ir a en terre, S 1239 quant toi porrira terre (M manca). Il Paris, pur avendo a disposizione due lezioni ammissibili, quella di P (con cui poi doveva coincidere V, dunque maggioranza) e quella di S, le accoglie successivamente ma con ritocchi: prima, nella maior, quella di S, ma con que degli altri per quant 'singularis'; poi, nella minor, quella di P, ma senza Yor(e) allora singularis. Nel primo caso non gli si può rimproverare certo il toi 'singularis': esso è protetto dalla relativa difficoltà di por(r)ir transitivo; il nodo più arduo sarebbe la caduta concomitante di en in L e in S, ove esso appartenesse all'originale. Il Paris della prima maniera, insomma, si conduce, tolto il piccolo intervento composito, come innanzi a quella che la terminologia qui adottata chiamerebbe diffrazione in presenza. Nel secondo caso, invece, la lezione avanzata è del tutto assente: ma come si potrebbe sostenere che que podrirat sia più difficile di c'or porira (sempre senza pronome soggetto)? Forse una difficilior assente potrebb'essere, se si ricorda l'alternanza or/ui di 409 e 484 (ma con testimoni diversi), c'ui (regionalmente c'oi). In realtà, sarà più opportuno operare sulla soluzione della maior, riflettendo che nel verso precedente si sospira sulla «jovente bele» di Alessio (sintagma che si ritroverà nel Roland, O 2916, entro un altro planctus) e che quindi la sposa le si può riferire in terza persona: que la (proclitico) o addirittura li (enfatico) por(r)ira(t) terre; L e A ne risulterebbero immediatamente giustificati. 97e = 48_5 L amis, A sire (ma in 97a mielz ne venist passa a mult me v. mielz, sì che vien meno un corrispondente esatto), V contres, P nulla (-2) (S e M mancano). Ha scarso interesse rilevare che ami (S) e sire (A) si permutano anche in 155, proprio con riferimento alla sposa che qui parla, poiché nel resto del discorso Alessio è sempre invocato come sire (vv. 468, 471, 491) o come amis (v. 476; dove peraltro AV e S riprendono Sire Alexis dall'inizio della strofe precedente). Appare ormai sicura nell'originale l'esistenza d'un bisillabo difficilior. Secondo lo scopritore di V, il Rajna, contres è «errore, per certes»; ma certes, ben diffuso nel nostro testo, compresa la posizione, che avrebbe qui, a inizio di emistichio pari (in 69b = 342 e in io7b = 532; dove manca solo alla famiglia di P), è scevro di qualsiasi difficoltà. O forse la diffrazione è in presenza (ancora una volta di V), cioè contres (con -s avverbiale) sarebbe un hàpax col valore di 'al contrario, in iscambio'? 101e=505 L si li preiuns, V mais preem li, P ceo li proiun (A e S non hanno il verso, M altera). Difficilior, fino alla scoperta di V, poteva apparire P, col suo pronome prolettico (di que...), che trova rispondenza alla fine della conclusione corta, in nod = 549 (dei soli LA), qo depreums (L meno bene qo preiums Deu) (...que...); ma forse ancora difficilior V, col pronome posposto dopo mais, secondo la legge Tobler. Infatti seguirà sùbito (102c = 5o8) un li prima di pr(e)ient. Sta però di fatto che tanto il tipo di L (in intero: si li p. que de tuz mais nos tolget) quanto quello di P (in intero: ceo li p. que por Deu nos asoille; anche V ...par Deu ke nos asolhe) anticipano (o sono riecheggiati da) ciò che è nella fine della conclusione lunga, 125b = 622: L si li preiuns que de toz mais nos tolget V si li preiez ke toz mais nos tolhe (- 1) (623 ...prie Deu ke vos assolhe [+ 1]) P si lui priun que de tot mal nos toille S (1356) çou li prions de tous mais nous asoille M(1271) si li proiés por Diu ki (=k'i) vous assoile (Mb nous). La perfetta identità si ha solo in L e gioca, almeno per quanto riguarda il primo emistichio di 505 (e fors'anche il secondo, da ricostruire semmai di sui due luoghi por Deu que nos assoille), a suo sfavore;

ciò che rafforza comunque l'eliminazione d'un concorrente. E in questo si può prescindere dalla difficile soluzione di 622 e in genere della strofe finale, dove certo fortemente impressiona il fatto che V sia il solo manoscritto irreprensibile, se isolato, in tema di parole-rima (memorie, tolhe, assolhe, glorie, nostre, oltre al resto tutte diverse da 101, tolto però appunto assolhe col relativo emistichio); mentre, lasciando stare i ridotti M (memore, assoile, joie, gioire) e soprattutto S (memorie, asoille), guasto è L con la sua ripetizione (memorie, tolget, glorie, glorie, nostre), crescente addirittura di un verso P (memorie, toille, concorde, gioire, aiutoire, vitoire, di cui il penultimo è in i0id = 504 giusta LAVP, il secondo ivi giusta S 1260, e potrà essere triviale interpretazione paleografica). Ma la ripetizione (del secondo emistichio), se suscitava perplessità in L come eventuale indizio di eco mnemonica entro la tradizione scritta, non esonera da tale perplessità innanzi a V, tanto più che la trasmissione comporta incroci e permute di ...toille e ...assoille, rispetto alla quale concorrenza l'ultima strofe di V ha aspetto sincretistico (di modo che, se vi sono ripetizioni certamente erronee, c'è il rischio che erronee siano tutte). Nessuna ripetizione occorrerebbe solo se da Gaston Paris (presso cui frattanto sono identici, come in L, 505 e 622) si accettasse, mutuandolo da M, joie per il primo gioire: soluzione composita, ovviamente anteriore alla conoscenza di V, contro cui si obbietterà certo che il ...joie/...gioire del solo M potrebb'essere dissimilazione per ...glorie/...glorie (come in L), al pari del ...concorde/...gioire di P, e che joie è parolarima in 503, dove si sottrae P col suo sinonimo gioire. L'unicità di V in dati non rari rende nondimeno l'edizione secondo V ipotesi di lavoro dubbiosa quanto la lezione composita anteriore alla sua scoperta. 105e = 525 L uncore an (+ 1), A dunc en, V encui, P tost en, S 1280 si en (M manca). Il Paris si attiene ad A, che non sembra spiegare la diffrazione. Difficilior si direbbe V, utile a spiegare L, ma come mai en dappertutto altrove? L'unico esempio di encui (da P scritto enqui) è in 8oe = 400, abbastanza saldo (la genesi di en quor L è trasparente), tolto il sempres di S, assai più diffuso in Alexis. Mai come in questo caso parrebbe imporsi la rassegnazione al non liquet. Va comunque escluso proprio donc, che in Alexis vale unicamente 'allora' (mai riferito al futuro), anche a costo di ripetizione prossima (vv. 17/19, 38/40, 72/74/76), e semmai è esso suscettibile di sostituzione mediante puis (M 30, di valore incerto, in 4d=i9 - dove anche A altera -; L in 15b = 72; A in 15d = 74 e 16a = 76 — dove alterano anche SM -; cfr. inoltre PS in i2b = 57), mentre puis ha prevalente valore di preposizione (AM gli surrogano apr(i)és in 81d = 404, alterando anche S) o di congiunzione col perfetto (il solo avverbio sicuro è in 7e = 35). 1203 = 596 L Desur terre (-1, Paris 'minor' Dessoure, 'maior' Desor la), V Cum sor e t., P Sus t. (-2), S 1328 Quant sour la t. (A e M mancano). Si avverta che sarebbe questo l'unico esempio della preposizione composta, mentre la semplice (tolto appunto qui V, che parrebbe confermare la 'divinazione' di Gaston Paris) è costantemente sor, in particolare in sor terre di 115b = 572 (anche qui mancano A e M, anche qui P ha sus); a esitazioni dà pure luogo Yensor tut di inc = 553 e 1236=615 (-1), alla cui ipometria solo V rimedia con ensore tot, i testimoni di i con ensor que tout (adottato dal Paris), mentre in astratto potrebbe prospettarsi anche caduta di et iniziale (che però V abbia ragione, sembra risultare dall'ipometria di ensur nuit in i5e = 75 e nel similare 38d=189, la quale concomita con una vasta diffrazione, la prima volta A altera, P en cele nuit, S 320 a mienuit, la seconda A la nuit ipometro, P en une nuit, S 578 e M 569 a mienuit, rendendosi così inverosimile il composito en mie nuit del Paris). Delle soluzioni del Paris la più antica, con quell'articolo modernizzante e singularis (S), va certo scartata; ma anche la più recente ispira qualche perplessità. È vero che la scomparsa del De- fuori di L potrebbe attribuirsi alla caduta della lettera iniziale destinata al rubricatore; ma se l'elemento caduto fosse il compendio per Cum, inattesa lezione di V (in qualche modo forse rincalzata da S)? Non mancano infatti né cadute di iniziale di strofe (E- di 4a= 16 in L, cfr. D- per N-a 10a = 46) né compendi iniziali (7 di 4ia = 201, 42a = 206, 463 = 226, 6ya = 331, 773 = 381, 8ia = 401, 963 = 476, tutti peraltro in P). Anche qui sarà prudenza sospendere il giudizio. L'ultima lista, per quanto più breve del prevedibile, è, specialmente per gli esempi finali, istruttiva: non già perché insegni la modestia, virtù eminentemente di ostacolo a chi persegua la 'verità' scientifica, ma perché rammenta come la 'realtà' perseguita, in ecdotica quanto altrove, sia una rete di ipotesi di lavoro, la più economica possibile. Il grimaldello qui presentato ha fatto saltare molte serrature, non apre tutte le porte. Tuttavia l'arnese più spuntato è precisamente il manoscritto unico, quello che si suol chiamare il miglior manoscritto.

Estratto dal volume collettivo Linguistica e Filologia. Omaggio a benvenuto Terracini, a cura di Cesare Segre, Milano 1968, pp. 59-95. LA CRITICA TESTUALE COME STUDIO DI STRUTTURE Chi parla non può purtroppo cominciare senza confessare l'ignoranza giuridica di chi si dispone a intrattenere un così illustre consesso di giuristi: perché dunque la temeraria accettazione dell'invito? Per il desiderio, tanto meno frenabile in un momento di delirante specializzazione, di stabilire contatti fra le varie discipline: nel caso specifico, poi, di collazionare le esperienze ricavate dai testi letterari con quelle risultanti da scritti di tutt'altra natura. Mi è lecito aggiungere: per la speranza di un'udienza più larga e impregiudicata che presso i colleghi della propria disciplina? Benché quest'ultimo calcolo si sia dimostrato fallace, per la presenza di tanti 'addetti ai lavori' miei, insigni storici della cultura e filologi, ben più di me capaci di decidere su questi problemi. L assunto è quello di presentare la critica testuale come studio di strutture. L'espressione 'critica testuale' offre il vantaggio della familiarità, non, nella nostra e in molte altre lingue, quello della sinteticità, invidiabile a Textkritik e in francese (dove pure si discorre, oltre che di critique textuelle, di critique verbale, come nel titolo del manuale dell'Havet) all'ecdotique di dom Henri Quentin, del resto facilmente esportabile; soggiungo che comunque non aderirei alla definizione di 'stemmatica', non tanto perché coniata con l'intento deprezzativo che è in immagini poi diventate categoriali quali 'gotico', 'decadente', 'impressionista', 'ermetico' ecc., quanto perché presume un dog matismo verso l'albero genealogico, di cui qui ci si lusinga di oltrepassare la grettezza. Se consueto è il termine di 'critica te stuale', non altrettanto ovvia sembra l'applicazione dell'attributo 'strutturale'. Evidentemente alla critica testuale è mancato un Saussure; ma, come Monsieur Jourdain componeva prosa senza saperlo, e come i linguisti buoni hanno sempre fatto linguistica strutturale o comunque sincronica senza saperlo, così mi proporrei di mostrare che da un certo punto di vista la critica testuale è tutta strutturale, e a ogni modo che qualche suo cultore meriterebbe oggi il predicato di strutturalista. Si tratta parte di evidenziare parte di svolgere questi suoi molivi mentali. L'esame deve ovviamente muovere dalle origini, riproponendo quel sommario profilo storico della disciplina che si rifà emblematicamente a un nome assai autorevole anche presso i giuristi, quello di Karl Lachmann, editore pure di Gaio: il Lachmann, s'intende, dei Prolegomena a Lucrezio, ancor più che dell'edizione effettivamente seguitane dopo qualche decennio. Se e quanto il Lachmann sia stato lachmanniano, non importa qui determinare, anche perché ciò è stato di recente oggetto d'un'accurata indagine per parte di Sebastiano Timpanaro junior. Importa semmai, col fondamentale libro di Giorgio Pasquali, Storia della tradizione e critica del testo, rilevare come il Lachmann sia stato preceduto dalla philologia sacra a Basilea e nel sud della Germania a fine Settecento, perché questa circostanza conferma cronologicamente la natura razionalistica e illuministica dell'invenzione: Lachmann o chi per esso è una specie di Laplace dell'ecdotica, e lo stemma codicum appare essere uno schema probabilistico. Fu il Lachmann stesso, con la sua edizione del Nibelungenlied, a eseguire il passaggio dalla filologia classica alla volgare, cioè da un ambiente di forma relativamente sacra e immutabile (la gramatica di Dante) a uno di relativa irrilevanza formale. Questo passaggio implica l'innovazione metodologica consistente nell'opposizione di critica delle lezioni contro critica delle forme, che è esplicitata da Gaston Paris in quell'edizione della Vie de saint Alexis in antico francese (1872) da cui giustamente si fa datare l'introduzione del metodo lachmanniano in filologia romanza. Giustamente, benché un concorrente sincrono (1869) al corso del Collège de France su Alexis sia stato l'opuscolo del Gròber intorno alla tradizione di Fierabras: inducono a optare per VAlexis l'eccellenza del testo trattato rispetto alla modestia di quella chanson de geste, le qualità di scrittore vero possedute dal Paris, infine, o forse in primissimo luogo, il fatto che la dissertazione del Gröber non sia stata accompagnata da un'edizione critica, che in effetti manca ancora, mentre il discorso del Paris è tutto in funzione dell'edizione. Che qui, per minore incompetenza specifica del relatore, la problematica dell'ecdotica sia traguardata dal punto di vista della filologia romanza, non dovrebbe produrre inconvenienti eccessivi, visto che, se la storia dei problemi è diversa, di logica formale ce n'è pur sempre una sola.

L'opposizione, nel metodo lachmanniano, dello stemma codicum al gusto soggettivo o judicium equivale propriamente all'opposizione d'una figura, naturalmente strutturale, all'arbitrio: figura fondata su rapporti costanti (e quindi su leggi), determinati col metodo degli errori comuni, fatte salve le eccezioni canoniche al criterio della monogenesi dell'errore (lectio difficilior e usus scribendi designano infatti situazioni in cui sono possibili errori poligenetici). Fin d'ora si avverta che l'auspicato automatismo dello stemma ovviamente vale solo in una situazione virtualmente maggioritaria, quando, chiamato n il numero delle testimonianze irriducibili, si abbia n > 2. Per quali varianti serve lo stemma? Naturalmente per quelle indifferenti di cui svela l'eventuale viziosità. Gli errori comuni, se investono tutta la tradizione, sono sanati dall'emenda fio, e il loro luogo di produzione si chiama convenzionalmente archetipo (restando bene inteso che nell'archetipo possono eventualmente sommarsi più enti reali: in critica testuale si opera col numero minimo di enti necessari, di modo che i punti rappresentano in realtà degli insiemi, di un solo o di più punti, su tutto il segmento che va dall'individuo terminale designato con una data sigla al suo precedente segnato con altra sigla). Gli errori comuni parziali definiscono gli antigrafi, o si dica pure i sub-archetipi, di vario grado, su cui si esegue il calcolo per la recensio. L'oggettività della recensio, con l'automatismo della scelta per suo limite, è la vera innovazione lachmanniana, poiché Vemendatio si è sempre praticata, tanto (la corrispondente cautela deve sempre vigilare) che una lezione 'buona' può risultare da emendatio, non meno per un testo moderno che per un classico, mettiamo un greco divulgato dai filologi alessandrini (questo è infatti il paradigma storico dell'archetipo). Di conseguenza: le lezioni cattive, su cui si fonda il meccanismo dell'albero, servono a decidere di lezioni buone. Poiché questo vuol dire che lezioni evidentemente cattive fanno discernere varianti non visibilmente cattive e le altre (buone solo perché non cattive), non si può dire che la proposizione sveli un circolo (così come lo stemma non ha nulla di circolare, constando di segmenti di parallele e di perpendicolari): né un circolo vizioso né un circolo vitale (quello Zirkel di Schleiermacher al quale lo Spitzer riferisce il suo metodo, consistente nello scoprire corrispondenze fra monade e sistema, fra unità microscopiche e unità macroscopiche, considerate omogenee). Il rischio virtuale, sempre immanente nella procedura lachmanniana qui sopra compendiata, è nella possibile predicazione di lezioni adia-fore come erronee, a fine pragmatico, talché è veramente il caso di rievocare la 'genesi pratica dell'errore'; e infatti a questo vizio il conservatorismo bédieriano opporrà quello di predicare eventualmente come lezioni buone errori (da esso stimati apparenti). L'ecdotica progredita ha una sua cavillosa sofistica (qui suppongo che cadrebbero gli interpolazionisti), segno, se si può usare questa metafora storico-letteraria, non certo di decadenza ma di decadentismo. In che cosa consisterebbe, allora, il 'classicismo' della critica testuale? Certo nella coscienza della responsabilità inerente al fondamento di una procedura naturalmente binaria, opposizione di errore:non-errore, 1:0, come in qualsiasi calcolatore elettronico. La crisi del lachmannismo culmina, almeno per la filologia romanza, col famoso articolo di Joseph Bédier su La tradition manuscrite du «Lai de l'Ombre». Il Bédier è abbastanza penetrante da andare diritto al centro del problema. L'intenzione dell'albero è quella di consentire o imporre un automatismo di scelta fra le varianti adiafore? Ebbene, essa è sventata dalla forma più consueta dell'albero, che è bipartito; e che perciò, rifiutate soltanto, nell'uno o nell'altro ramo, a profitto del ramo opposto, le lezioni considerate erronee e dunque costitutive, per tutte le altre che oppongano i due rami lascia totale libertà di opzione soggettiva (il famigerato judicium). Si può, credo, tranquillamente trascurare la presunta verosimiglianza, tecnologica e merceologica, che la copia dei testi, specialmente medievali, sia proceduta fondamentalmente di due in due: sono elucubrazioni di fittizio apriorismo troppo inferiori all'intelligenza che si spiega nel Bédier. La quale intelligenza si palesa sovrana anzitutto in questo, che, essendo lo stemma codieum uno strumento pragmatico, la sua obiezione ('demistificante', come temo si potrebbe dire oggi) è di fatto, appoggiata qual è alla stragrande maggioranza dei lemmi della sua collezione di filologia francese. E pragmatica è anche la dichiarazione della «force dichotomique», inarrestabile una volta scatenata: dichiarazione eminentemente psicologica, per non dire psicanalitica, poiché con essa, secondo la terebrante osservazione del critico, l'inconscio dell'editore mira a salvaguardare la personale libertà di opzione. Si dica dunque francamente che l'albero a n termini e l'albero bipartito (quando questo non insorga per forza maggiore) sono strutture ordinatamente rispondenti a quelle sottostrutture che sono la volontà oggettiva di scientifico automatismo e il persistente desiderio della libertà soggettiva di scelta.

Si sa che l'aporia è risolta dal Bédier mediante il ricorso a un solo manoscritto, depurato soltanto degli errori 'evidenti': più esattamente del 'miglior' manoscritto (è la pratica da lui seguita per la Chanson de Roland, tenuta fedele quanto possibile al codice di Oxford, benché egli non escluda - e anzi l'esperisce per il Lai de l'Ombre di Jean Renart - l'ipotesi di tante edizioni quanti sono i manoscritti). Soluzione eminentemente anti-lachmanniana, se il criterio centrale del Lachmann è l'eliminatio lectionum singularium, mentre un'edizione bédieriana (e la grandezza del maestro ha fatto sì che la pratica imperversasse) si trae appresso tutta la valanga di innovazioni locali la cui inammissibilità non sia palese. Già l'enunciato della soluzione solleva radicali obiezioni: che cos'è l''evidenza' dell'errore, quale il suo limite? come si definisce il 'miglior' manoscritto? Diversamente dai suoi corsivi e pigri seguaci, il maestro francese era solertissimo; e la sua soluzione era strettamente legata alla sua storica procedura, che era di preparatore di edizioni lachmanniane: bisognerebbe dunque, per 'imitare' il Bédier, preparare edizioni di questo genere al solo (ma capitale) fine di individuare il 'miglior' manoscritto (nozione evidentemente aposterioristica), quindi non eseguire l'edizione lachmanniana, più spesso composita quando non congetturale, bensì allestirne una che, sanate le mende certe (da ridurre, con tutte le risorse della dialettica, il più possibile di numero), rispetti quel codice unico. Ora, l'obiezione fondamentale, mal comprensibile, lo so per esperienza, ai bédieriani di stretta osservanza, è che la 'realtà' fisica del codice unico non dà maggiori garanzie di 'verità' di un sistema documentariamente misto: anche quella conservatrice è un'ipotesi di lavoro. Dopo il Bédier la critica testuale non può cessare dalla sua impostazione lachmanniana, abdicando alla razionalità, gettando la spugna per scetticismo generale; ma nemmeno può ignorare il passaggio del Bédier, trascurando la minaccia d'irrazionalità procedente dagli alberi bipartiti. La cautela e l'attenzione verso gli stemmata bifidi devon essere la prima qualità d'un editore, se così si può dire, 'neolachmanniano'. Ma l'obiezione decisiva contro il mito del manoscritto unico è questa: che, oltre alle innovazioni erronee facilmente emendabili, oltre alle trivializzanti (lectiones faciliores in caso di più testimoni) correggibili (quando si ammetta di correggere) entro la tradizione, ne esistono pure di adiafore avvertibili solo dietro collazione degli altri testimoni in quanto tutti latori di varianti ugualmente indifferenti. Mi propongo appunto di mostrare che la discordanza generale in varianti adiafore è una figura o struttura significativa, così come è significativa (di parentela) la concordanza in errore. Ovviamente insignificante è di per sé la concordanza in lezione buona (e buona qui significa solo 'non cattiva'), che non diventa significante se non quando se ne sia chiarita la natura innovativa (variante 'congiuntiva'); e non necessariamente razionalizzabile è l'innovazione singola, realtà prima, fatto a cui non si può contestare la sua natura di fatto. Ma un'innovazione multipla in uno stesso luogo non è sottratta alla ragione: perché tutti i manoscritti (o tutti meno uno, s'intende uno qualunque) hanno innovato, e per di più in modo scolorito? non forse perché c'era un oggettivo ostacolo nell'originale? Ricaverò esempi di questa figura da Alexis, proprio perché è stato il poemetto dell'XI secolo il testo fondatore della critica lachmanniana in àmbito romanzo. Per l'intelligenza di quanto segue, molto semplificato, basterà avvertire che il Paris ordina i quattro manoscritti essenziali in due rami di due individui, LA, PS (è il primo lemma, non esplicitamente citato, della collezione Bédier di stemmi bipartiti); tale schema (da integrare con altro importante individuo, pure mutilo, V) va corretto (per ragioni dovute quasi esclusivamente alle incomplete informazioni su A date al Paris) nel tripartito L, AV, PS; non si segue dunque né l'ipotesi (avanzata di recente) L, AVPS né il canone del 'codice unico' (L, o peggio A), tanto meno la soluzione della tradizione orale come esclusiva d'ogni impianto razionale. Siano i due casi seguenti (M e S sono rimaneggiamenti prossimi a P): 39 L (e M) or volt (que prenget moyler...), A ja li volt (femme dutter. ..), P et veut (k'il...), S si (ms. sil) velt (qu'il...); 65 L mais lui est tart, A kar lui iert t., P t. lui esteit, S que lui ert t. (M, prossimo a S, manca). Se buono or, perché uno dei testimoni corregge in ja, un altro in et, ecc., e inversamente? Il ragionamento va ripetuto per ogni variante di questi esempi e dei numerosissimi che si possono loro affiancare e che ho fatto oggetto d'un mio studio speciale. La risposta inevitabile sarà che tutte le varianti sono sostitutive: sostitutive d'una lectio difficilior assente, che si potrà o non si potrà ricostruire (qui si

propone per il primo verso ruovet, surrogato dal triviale sinonimo volt, per il secondo lui eret tart, surrogato dal più recente ert, con ipometrie dai singoli variamente risarcite), ma di cui è comunque necessario postulare l'esistenza. Chiamo questa struttura 'figura C'. Questa denominazione postula che si chiami 'figura B' quella acutamente descritta da Adolf Tobler (recensendo l'edizione Paris) per 155 LP por [L de] tun seignor (ipermetro), P2 (allora ignoto) tu tun sei gnu r (errore contestuale), A p. t. sire (solecismo morfologico), S altera mettendo in rima ami. Secondo il Tobler (con cui poi il Paris e ogni altro editore), tutte le varianti, questa volta però palesemente erronee e non adia-fore, sono sostitutive d'una lectio difficilior assente, per maschile (il femminile è ordinario) con valore di 'coniuge' (banale sarebbe per 'socialmente uguale'). Prima ancora si dovrà dunque chiamare 'figura A' la divergenza con lectio difficilior presente, del tipo (che si presceglie perché vi è contenuto il tecnicismo giuridico, poi caduto in desuetudine, accapitare) 40 L acatet, A aplaide, P porchace, SM a quise (si tratta della moglie che il padre 'procura' ad Alessio). Proprietà della 'figura A' è la sua diffusione irregolare e incostante: nel caso, la lectio difficilior è serbata solo da L (che ha certo la massima densità di lectiones difficiliores, e anche o soprattutto sulla base di questo criterio oggettivo può esser confermato come 'il miglior' manoscritto), ma portatori dello stesso privilegio possono essere, in ordine decrescente d'importanza, V, S, M, P, A. 'Il miglior' manoscritto non è tuttavia un manoscritto completamente 'buono': l'irregolare distribuzione quantitativa della 'bontà' o certezza, per la quale si sono trovate finora solo rappresentazioni grafiche imperfette, è il fondamento dell'edizione composita, che naturalmente è la proiezione simbolica dell'aspirazione a un relativo livellamento di certezza, di contro alla discontinuità assiologica che offre la 'realtà' criticamente interrogata. ! La formalizzazione delle strutture descritte consiste anzitutto nel seriare le figure. Data la serie AB (divergenza di varianti per sé indifferenti in presenza di lectio difficilior; divergenza di varianti almeno in parte palesemente erronee in assenza di lectio difficilior), si estrapola agevolmente C: divergenza di varianti almeno in parte per sé indifferenti in assenza di lectio difficilior. Si tratta di strutture recensorie privilegiate, se non proprio anomale, che progressivamente, dalla scelta non maggioritaria di A, vengono acquistando, in B per elementare necessità, in C solo grazie alla cornice sistematica, rilevanza emendativa. Di conseguenza la critica del manoscritto unico 'demistifica', è il caso di ripetere, le innovazioni mimetizzate, non rilevabili in assenza di altri testimoni. Rovesciando il detto di Boileau: «Te vraisemblable peut quelquefois n'ètre pas vrai». È singolare come questa proposizione potrebb'essere sottoscritta dal Bédier dei Fabliaux, opera infatti strutturalistica 'senza saperlo' e non per nulla citata anche nella Morfologia della fiaba del Propp. Il Bédier dei Fabliaux sa benissimo che la maggior coerenza e concinnità d'una redazione narrativa non depone affatto per la sua maggiore e più legittima antichità; ma non c'è vera contraddizione nell'apparente opposizione metodica. Unico è in realtà il fine del Bédier: un rispetto della presenza testuale che si può manifestare così attraverso la poligenesi dei temi come attraverso la presunta equivalenza delle testimonianze manoscritte. In verità, tanto quella delle fonti quanto quella della tradizione manoscritta sono ricerche sincroniche, da svolgere (e certo la cosa è più facilmente eseguibile nell'ambito strettamente testuale) in senso diacronico: esattamente come una carta dell'atlante linguistico rappresenta la stratificazione orizzontale d'un'evoluzione verticale, e lo spazio va convertito in tempo; anche, in un certo senso, come l'inverso della fonologia diacronica elaborata dal Jakobson (e non soltanto come la ricostruzione dello stato primitivo di lingua attuata col metodo comparativo). L'insufficienza del manoscritto unico è solo un aspetto particolare della limitazione della tradizione

irrelata. A sua volta la tradizione relata può avere i suoi punti di riferimento o esterni (nella tradizione multipla) o anche interni (nelle concordanze dei testi, eventualmente dilatabili a tutti i luoghi culturalmente paralleli). Qui pure la fenomenologia è passibile di serialità. E si cominci da una figura di tipo C (divergenza di varianti adiafore in assenza di lectio difficilior) in cui le varianti siano collegate dall'identità di un elemento lessicale. Sia dunque il triplice esempio (sempre da Alexis) 440 L ço (+ sinalefe) est grant merveile, V zo (+ dialefe) est m., P ja est m., S qou fu m. (AM non soccorrono); 445 L come sopra (con granz), A ço ( + dialefe) est m., P ceo est m., M molt tn'esmerveil (VS non soccorrono, la tarda versione in quartine ha c'est grant m., con l'assurda variante Ce ri est pas de m.); 465 LV ri est m. (ipometro), A ri est pas m., PS il ri est m. (M manca). Sono varianti per sé ammissibili, fatta anche la tara dell'ipometria di LV nel solo ultimo caso, sanabile mediante una facile, troppo facile - seppur non l'unica possibile -, congettura. La 'figura C' indica in modo euristico-formale la necessità di supporre una lectio difficilior assente. Il collegamento posto dalla comune presenza di merveille, dunque una relazione interna e non più esterna, fornisce a questa ricerca una base non più puramente divinatoria, la riempie di quella che, sull'esempio della «substance phonique» citata dal Hjelmslev e in genere dallo strutturalismo danese, si può chiamare 'sostanza testuale', designando l'elemento patologico in quello comune, merveille ipometro, da ricostruirsi nell'infatti raro (anteriore alla sincope) mereveille (e anche qui si può ricorrere a una metafora glottologica, e parlare di 'patologia testuale' come il Gilliéron discorreva di «pathologie verbale»). Questo particolare tipo di 'figura C', iterato o collegato, si può denominare 'figura D . La 'figura D' è caratterizzata da una duplice connessione, orizzontale e verticale, e in particolare include il ricorso alle concordanze: il «lexique complet» da Gaston Paris aggiunto ali'editio minor, secondo un procedimento degno di imitazione, apprende che il testo non contiene casi di merveille oltre quelli dell'esempio esaminato. Estendendo la considerazione al Roland di Oxford, per cui soccorre il non meno compiuto «Glossaire» aggiunto dal Foulet ai Commentaires del Bédier, si constata a riprova che su tre casi di merveille due sono ipometri, il terzo è identico a quello erroneo di Alexis secondo L dopo la correzione del Paris (nen est per n'est). Se ora si amputa la 'figura D' di una delle sue dimensioni, cioè la molteplicità della tradizione, si ottiene una struttura (la si potrà chiamare 'figura E') che collega mediante un identico lessema, di cui si rivela pertanto la viziosità, lezioni erronee in tradizione unica. Dovremo dunque di necessità abbandonare il polifonico Alexis e passare a una scrittura a testimone unico, quale può essere la Chanson de Guillaume, dove quindi l'erroneità dovrà dichiararsi in modo diretto, non indiretto. Vi si sorprendono emistichi ipometri, come 2312 (De la bataille) reis Tebald l'Escler; 2362 (E le halberc e le healme) Tebbald l'Eclavun; emistichi che, presi separatamente, sono passibili di facili congetture disgiunte (le rei T., rei T.), fra l'altro contraddittorie, mentre la loro stessa similarità suggerisce l'opportunità d'una soluzione comune. In tal caso la forma 'patologica', cioè ipo-metra, sarà lo stesso nome personale, in cui a norma etimologica (confermata dalla forma, pur meridionalizzata, per 'Thierry' che offre il Saint Léger, «Mais lo seu fradre Theoiri») si potrà ravvisare l'antico trisillabo. La questione è per la verità più complessa, perché lo stesso personaggio (pagano) compare due volte come «Tedbalt l'esturman», una volta almeno (676) in sicuro ipometro (nell'altra, 668, non sembra impossibile una correzione), mentre un omonimo cristiano è di norma bisillabo (tranne però quando sia come qui determinato, «Tedbalt de Burges» 21, o «de Berri» 159, perché allora è ipometro); e la situazione prosodica specifica s'inquadra in quella generale, accuratamente descritta dall'editore McMillan; ma formalmente l'esempio è ineccepibile.

Con altra metafora glottologica, si può parlare di stratigrafia ecdotica (pensando alla «stratigraphie linguistique» dell'Aebi-scher). L'esame stratigrafico dello stesso lessema o sintagma in una tradizione di testi fortunati e quindi soggetti a continui rimaneggiamenti ammodernanti (è, sia pure ad altro effetto, la situazione dei testi giuridici) consente di sorprendere un arcaismo decrescente. Così nell'espressione intensiva 'piangere dagli occhi' (cioè 'piangere a calde lagrime'): il tipo più antico è in Alexis «plorent si oil», una sola volta, a maggioranza; subentra «ploret de ses oilz» (in un caso di tutto Alexis, veramente con lor, e in un caso del Roland, ottenuto comparando il codice di Oxford col veneziano V4, entrambi ipometri, nonché nel Qid spagnolo); si ha finalmente «ploret des oilz» (variante minoritaria di Alexis nel primo caso, testo non controverso di Roland le altre volte, del solo Oxford nel precedente esempio ipometro). Nel caso di punti di riferimento esterni, un'ultima domanda spetta al modo con cui le modifiche storiche dei dati, cioè l'acquisizione di nuove testimonianze, possono reagire sulla struttura della tradizione testuale: ipotesi già affacciata acutamente dal Bédier, ma da lui risolta solo in via fittizia. È evidente che un'alterazione radicale si avrebbe solo col passaggio a n testimonianze (sempre per n > 2), per la probabile formazione d'una maggioranza; limitati sarebbero i vantaggi nel passaggio da 1 a 2, consistenti nell'eventuale sostituzione di recensio a emendatio e nell'eventuale riconoscimento di lectiones faeiliores. Ora, il casus fictus prospettato dal Bédier si è realmente verificato, non solo, cosa di tutt'i giorni, per testi qualunque, ma per lo stesso testo fondatore di Alexis, e sùbito è stato sottoposto alla riflessione metodologica. Alludo al nuovo codice di Alexis, purtroppo abbondantemente acefalo, V, pubblicato e studiato dal Rajna. Fatto un certo numero di saggi, il Rajna ottiene stemmi tutti diversi fra loro, e ne conclude trattarsi non di tradizione scritta ma di tradizione orale. Anche prima di entrare nel merito, si rileverà l'infondatezza dell'illazione formale. Tradizione scritta e tradizione orale dovranno pur obbedire alla stessa logica; e l'argomento vale per un altro sommo filologo, il Menéndez Pidal, con la sua teoria della «poesia tradicional», sia essa lirica o epica (nella quale ultima categoria vanno incluse le chansons de geste, e primo il Roland), le cui redazioni andrebbero trattate come componimenti indipendenti, provvisti tutti d'una loro dignità. La legittimità dell'assunto è incontestabile, ma vale semmai anche per i testi letterari, di cui importa conoscere, dal l'Eneide alla Commedia, la veste nota ai vari momenti della storia culturale. Sennonché questo punto di vista sincronico non esclude affatto la legittimità della ricerca diacronica, cioè della ricostruzione dell'originale: il ponte fra il settore letterario e il tradicional, fra lo scritto e l'orale, è costituito dall'ovvia considerazione che l'errore è solo una forma particolare d'innovazione, prontamente riconoscibile per la sua scadente qualità al mero lume della critica interna. La fenomenologia dell'errore deve dunque dilatarsi in fenomenologia dell'innovazione; del che il Lachmann stesso diede il buon esempio, usando (o anzi rinnovando) un criterio geografico nella valutazione cronologica relativa delle varianti del Nuovo Testamento greco. In effetti le aporie rispetto ai canoni lachmanniani vanno risolte chiarendo il modo peculiare della trasmissione. Così, quando gli antigrafi siano due (o più) e lo scriba li collazioni, oppure quando l'esemplare sia esso stesso duplice o plurimo in quanto portatore di varianti: si ha allora quella trasmissione trasversale od orizzontale che è stata magistralmente indagata dal Pasquali. Così, d'altra parte, quando la tradizione sia parzialmente mnemonica, come accade per le opere celeberrime quali la Com?nedia, i cui scribi continuano a echeggiare o ad anticipare luoghi similari impressi nella loro memoria, o anche hanno a mente passi del poema secondo una tradizione distinta da quella del loro esemplare. La tradizione orale differisce dalla scritta solo quantitativamente, per maggiori probabilità di scarto dall'originale o di contaminazione, o semmai va assimilata al comportamento di quegli scribi che intervengono sugli errori visibili e non ne lasciano comparire alcuno. Ciò procura difficoltà di ordine pratico e può rendere ineseguibile in definitiva 1''edizione critica' (almeno compiuta) d'un testo 'popolare'; non tocca i principi del ragionamento. In fatto il Rajna si è sbagliato nella sua elaborazione di provvisori alberi dell'Alexis, in genere per un uso improprio della nozione di errore. Rifacendoci a caso vergine innanzi alla scoperta di V, possiamo anche additare la prima operazione da compiere, ravvisando così un'importante misura cautelativa: la prima operazione è quella di verificare se il nuovo testimone partecipi, quando non di già constatati errori

di gruppo o altre lezioni congiuntive (cosa che qui non accade), di errori o anche di lezioni adiafore prima singulares, costituendole in varianti congiuntive. Ciò avviene per V nei riguardi di A: un saldo nucleo di errori e una bella frangia di varianti adiafore sùbito costituisce la famiglia AV. Lo stemma infatti provvede negativamente alla definizione della lezione, con l'eliminatio lectionum singularium e via via di quelle minoritarie o isolate di gruppo, singulares prima dell'individuo poi della famiglia. Infatti, per la costitutiva ambiguità, già sopra indicata, del linguaggio ecdotico, dopo la scoperta di V si assiste alla trasformazione del simbolo A da individuo (o punto) a classe (o segmento), equivalente ad AV, o più esattamente all'insieme dalle proprietà comuni ad A e V, cui poi si subordinano gli 'individui' (per ora) A e V: lo stesso era già accaduto per P e per M, una volta scoperti i cosiddetti P2 e Mb. La critica testuale non scopre il 'vero' se non in quanto caccia il 'falso' o innovazione: il Bédier e il Menéndez Pidal, disperando di raggiungere il 'vero', si accontentano del reale o presente, cui appartiene sicuramente una sua 'verità' o 'certezza', non però forse quella che essi gli attribuiscono. Ma, anche dopo la precisazione di questo radicale divario, l'interesse del Bédier per lo studio dei mutamenti introdotti da elementi nuovi, se pur meno congruamente deviato verso procedimenti ad absurdum, mostra l'intuizione che, esattamente come in linguistica, la realtà strutturale, appercepita sincronica-mente, vive nella diacronia. Una diacronia alla quale egli rinuncia, a cui i neolachmanniani non sentono di poter rinunciare. Relazione tenuta al II Congresso internazionale della Società Italiana di Storia del Diritto (Venezia, 1822 settembre 1967) e pubblicata nei suoi Atti, Firenze 1971, pp. 11-23. RAPPORTI FRA LA FILOLOGIA (COME CRITICA TESTUALE) E LA LINGUISTICA ROMANZA 11 compito che mi si è fatto l'onore di affidarmi concerne i rapporti che intercorrono, nell'àmbito romanzo, tra la linguistica e la filologia, interpretata quest'ultima nell'accezione ristretta di critica testuale (quella che un tempo, addirittura nel titolo di un diffuso manuale scolastico, riceveva anche il nome di critique verbale, e da uno studioso della prima metà del secolo ebbe quello assai pratico di ecdotique). Si cercherà di descrivere il campo d'azione nel modo più sintetico possibile e in forma problematica, per servire da cornice a concreti interventi e prese di posizione da parte dei congressisti. È osservazione elementare, e infatti ripetuta, che costituzione testuale e informazione linguistica si condizionano reciprocamente; ed essendo altrettanto ovvio che non esistono limiti all'informazione linguistica utile all'editore di testi (ma si citi almeno il riconoscimento dello strato dialettale a cui appartengono varianti formali responsabili di errori sostanziali), la questione proposta viene a consistere nella ricerca categoriale delle informazioni linguistiche fornite dalla critica testuale. Si escludono naturalmente come aproblematiche le informazioni ricavabili dalla concorde certezza dei testi. Il primo riferimento non può non farsi alla fondazione stessa della critica testuale (secondo cioè il metodo detto lachmanniano) in àmbito romanzo, notoriamente operata da Gaston Paris (1872) nella memorabile edizione della Vie de saint Alexis. Ivi infatti è praticata fin dall'inizio la distinzione fra «critique des leçons» e «critique des formes», trattate in sedi separate: «La restitution critique d'un texte comprend en effet deux parties bien distinctes et qui ne doivent ètre abordées ni avec les memes ressources ni par les mèmes procédés: la constitution des leçons et la constitution du langage. (...) Les faits d'orthographe et de prononciation sont essentiellement propres à chaque eopiste. (...) Ces recherches [sulle "formes de langage et d'écriture qu'il faut adopter"], d'un tout autre ordre, s'appilient sur des données très différentes et doivent ètre autrement conduites [da "ce qui concerne les leçons"]». Per definizione le informazioni linguistiche sembrano dunque spettare alla «critique des formes». Ma qui s'impone un chiarimento preliminare: tali informazioni, in quanto pertinenti all'originale, si ricavano dai dati oggettivamente accertabili della critica delle forme (per esempio da quelli metrici), ma si può senz'altro anticipare che allo storico della lingua possono interessare, come bene è stato osservato, tutti i dati del percorso diacronico, e non unicamente quelli autentici. Ne consegue che la critica delle forme contiene, e fornisce al linguista, proprio gli opposti estremi: il dato più consistente e il più momentaneo e

labile. D'altra parte anche la critica delle lezioni contiene elementi linguisticamente capitali: sono quelli ricavabili dalla lectio difficilior, cioè proprio da uno dei criteri che sottraggono la costituzione testuale all'automaticità del metodo lachmanniano. Se ne conclude che l'apparente coincidenza della sfera d'interesse linguistico con la critica delle forme è puramente negativa; quella sfera esclude solo quanto è soggetto a scrutinio nell'ambito dell'automatismo di maggioranza. Come poi per la critica delle forme (e questo serve a ribadire che l'indiscutibile polarità delle due categorie non può equivalere a un assurdo divorzio), anche nell'ambito della critica delle lezioni si anticipa che varianti non accolte, cioè in nessun modo riferibili all'originale, possono sollecitare l'attenzione del linguista: questi tanto più arricchirà le sue raccolte quanto meno l'apparato sarà selettivo, poiché le sue battute più profittevoli avranno luogo tra le lectiones singulares, quelle precisamente di cui il metodo lachmanniano proclama la prima eliminatio. In conclusione, la fenomenologia ecdotica vantaggiosa al linguista comprende: i) dati ricavabili oggettivamente; ii) dati, differenzialmente connotati, da riferire ugualmente all'originale; iii) dati diacronici della tradizione, pure differenzialmente connotati, siano essi (a) sostanziali o (b) formali. i) Nella prima categoria si distingueranno: a) dati obbiettivi legati alla rima; b) dati obbiettivi legati al numero sillabico; c) dati legati al cursus. a) La rima fornisce il più ovvio criterio per la determinazione degli antichi sistemi fonologici, o perlomeno (la rima perfetta, assolutamente esclusiva di assonanza, è un fenomeno di civiltà assai matura) vocalici. È istruttivo, e certamente non casuale, che il primo testo da cui si sia inteso ricavare il sistema vocalico dell'antico francese sia proprio la Vie de saint Alexis, che era stata materia alla prima applicazione romanza del metodo lachmanniano. Si tratta del lavoro, che certo non si raccomanda per la bontà dell'esecuzione, di B. H. J. Weerenbeck, Le système vocalique frangais du XIe siècle, d'après les assomances de la «Vie de saint Alexis» (nelle «Archives néerlandaises de phonétique expérimentale», vili, 1933). Ma a una considerazione del 'sistema' (la data è significativa) può procedere solo una cultura linguistica progredita nell'autocoscienza strutturale. È evidente che le prime ricerche, strutturali senza saperlo, portassero su quelle coppie che ora sappiamo chiamarsi opposizioni fonologiche. L'esempio proverbiale e probabilmente primogenito è rappresentato naturalmente dalla legge di Bartsch (formulata nella «Germania», vili, 1863) portante sull'opposizione é\ié in francese. Sarebbe superfluo costituire un catalogo anche essenziale, additando semmai qualche esempio segnalato da eccellenza di esecuzione, come quelle Osservazioni sull'antico vocalismo milanese desunte dal metro e dalla rima del cod. Berlinese di Bonvesin da Riva di Carlo Salvioni (in Studi letterari e linguistici dedicati a Pio Rajna, Firenze 1911) che, cominciando dall'opposizione p:o, reperiscono i dati oggettivi della fonologia milanese di fine Duecento e fanno di quel 'neogrammatico' che era il suo autore un vero precursore dei metodi oggi correnti. È un esempio insigne non solo per ciò che potesse sembrare preterintenzionale ma per la perfetta responsabilità. Sul linguaggio di Bonvesin esisteva infatti un'indagine classica, servita per un pezzo di paradigma a descrizioni di antica dialettologia: quella del Mussafia nel 1868 («un lavoro mirabile per que' tempi»); ma, prendendo di lì lo spunto, il Salvioni osserva che il Mussafia aveva omesso lo scrutinio «per entro alla rima e al metro», pensando forse, egli aggiunge, «che t|uelle ricerche non potessero istituirsi con frutto che su di un testo criticamente costituito», ma controdeducendo «che un testo critico molto deve avvantaggiarsi di quanto può per avventura rivelarci l'attento esame della rima e del metro ne' testi tradizionali». In altri termini, il Mussafia aveva considerato certo, come ogni linguista deve pur fare, il testo di Bonvesin (quale risultava dall'edizione fondata sul del resto ottimo manoscritto di Santa Maria Incoronata, passato a Berlino), e questa certezza aveva estesa a tutta l'area del testo, compresi minuti particolari abnormi; in cambio aveva ignorato i dati ricavabili dalla critica interna. L'antitesi, nell'esempio specifico, di due tecnici di alta statura quali il Mussafia e il Salvioni è il contrasto fra due opposti comportamenti del linguista innanzi al testo: quello di chi opera sul testo documentato come se fosse certo ed esclusivamente certo; e quello di chi ne estrae elementi sicuri a norma di logica. Sono comportamenti, o piuttosto poli di comportamento, che emergono nella nostra pratica quotidiana, di cui qui i due autori sono simboli, diffìcili a isolarsi allo stato puro, almeno per quanto riguarda la seconda possibilità. Se è infatti agevole conseguire una condotta (poco importa se psicologicamente ingenua o invece scientificamente convenzionale) assolutamente fiduciaria nei riguardi del documento (un casolimite può essere indicato nelle note tesi stra-sburghesi sui più antichi testi di oil e di oc), meno probabile è invece un'interpretazione meramente algebrica dei dati di critica interna. Senza allontanarci dall'esempio del Salvioni, è interessante rilevare come egli non si fermi all'opposizione del tipo corpo e del tipo fogo

(che non possono assuonare tra loro), ma riempia quest'ultimo di quella che oggi diremmo 'sostanza fonica', congetturando (con solidi argomenti filologici, detratti dalla congruenza dei segni grafici storicamente disponibili coi valori da rappresentare) il suo arrivo alla fase del monottongo ö. Il rintraccio di componenti oggettive della lingua pone un duplice quesito, dalle articolazioni distinte ma connesse: - la norma reperita ha carattere euristico dirimente in ordine all'autenticità? - consente essa (o addirittura impone) un livellamento formale del testo? Alla seconda questione, come di carattere generale, si accennerà in fine: bastando per ora riflettere che una sua soluzione positiva implicherebbe risposta affermativa anche alla prima, mentre eccezioni alla prima bastano a infirmare il rigore della seconda. (La dislocazione dei due piani si verifica nell'ipotesi, di cui sùbito sotto, che all'interno dei testi le regole di rima configurino norme fossili di 'lingua speciale'). Sia esempio della prima questione l'osservanza della legge di Bartsch. Ove si escludano i testi redatti in regioni dove non vige l'opposizione é':ié (e tra esse domina per dignità l'Inghilterra normanna, serbatrice notoria di tanti primari testi continentali), la sua inosservanza occasionale, una volta rimossa la patina (in particolare anglonormanna) che non la comporta, è di per sé sospetta. La situazione è stata esposta con lucidità e tendenziosità dal Bédier, in un paragrafo dei suoi Commentai-res alla Chanson de Roland (1927), «De l'assonance, réputée fautive, de -é avec -ié». Non occorre specificare che la soluzione del Bédier è conservatrice. Non sfugge al suo acume che solo una percentuale d'infrazioni relativamente alta ne garantisce a priori l'oggettività (eccetto però che si tratti di scritture spietatamente anglonormannizzate nel testimone unico, com'è il caso del Pèlerinage, della Chanson de Guillaume, del frammento di Gormond); ma, risultasse anche provata l'appartenenza agli originali delle sporadiche inosservanze in poemi quale appunto, in primo luogo, il Roland (e provata - ma in quest'equivalenza si condensa tutto il dissidio tra i nominalisti come chi scrive e i 'realisti' della filologia — vuol dire semplicemente: oggetto dell'ipotesi di lavoro più economica), qui comincerebbe a porsi un problema gravissimo per il linguista. Al quale, a qualunque tendenza appartenga, non possono riuscire accettabili le parole conclusive del sempre a noi presente maestro: «ce qui est en cause, ce n'est pas une question de langue, c'est une question de prosodie. Il s'agit de licences poétiques et de rien d'autre. Une assonance aprochie [errore per aprochiee? l'esempio è fittizio o comunque non desunto dalla documentazione che precede] ajustee est une assonance pauvre, non pas une assonance qui choque Poreille. Et où prendrait-on le préjugé que Ics plus anciens auteurs de chansons de geste aient du s'imposer des règles de versification plus sévères que les écrivains qui viendraient après eux?» (p. 293). L'interpretazione del dittongo ié come yé (che può essere uno dei suoi esiti non più veramente dittongali) procede naturalmente da una non sufficiente competenza linguistica; ma qui allo storico della lingua e al filologo s'impone la necessità di determinare (sempre che, beninteso, quelle infrazioni non siano sopraggiunte nella storia stessa del testo) se gli esempi pur desultori del tipo ester:pied non indichino che il Roland è stato composto in una lingua poetica arcaizzante nata in una regione e in un'epoca in cui la legge di Bartsch aveva pieno vigore. Questa appassionante indagine stratigrafica (o del testo o del gusto) obbligano in ogni caso a varcare le presunte colonne d'Ercole del Roland di Oxford (anche mentalmente ritradotto dall'anglonormanno). Per il linguista la critica dà qui più realtà che la realtà (documentaria); non s'intende perché ciò non dovrebbe valere per il filologo. Quella che per l'inosservanza della legge di Bartsch si presentava come ipotesi press'a poco fittizia, ipotesi cioè d'una situazione sopravvissuta nella lingua poetica, è in altri casi constatazione obbligata. Sia il caso della rima detta siciliana, quando cioè [sulle vocali che seguono è segnato, nel testo originale di Contini, oltre all'accento il segno di "lunga", che non è stato possibile inserire. Nota del curatore dell'ebook] É, Í è suscettibile di rimare con Í, oppure É, Ú di rimare con Ú: il caso insomma d'una normalità regionale diventata, per contatto e confronto con altro sistema fonologico, 'licenza poetica'. Il caso è evidentemente toto caelo diverso dal precedente: mentre là si trattava per lo più (con l'eccezione che si citerà) di fasi distinte nella diacronia, qui si tratta di fasi distinte nella sincronia, tant'è vero che l'identità di questo tipo di rima è definita mediante un aggettivo (geografico), quello no. Per di più, l'etichetta di rima siciliana può essere applicata a due fenomeni non omogenei: alla rima inesatta (del tipo

avere:servire o ora:pintura) reperita entro la tradizione alloglotta (in pratica, toscana, o derivata dalla toscana) di un testo lirico originariamente siciliano (ovviamente, siciliano 'illustre'); o alla rima, apparentemente inesatta, ma legittimata dalla tradizione ora descritta, che appare entro un testo non siciliano (si dica pure toscano, quando 'toscano' valga ormai culturalmente 'italiano'). In senso proprio, la definizione di rima siciliana si applica unicamente alla seconda eventualità, di 'licenza poetica' che sancisce una possibilità di 'lingua speciale' (in una contingenza privilegiata, la rima) entro la lingua generale. E si avverta che la descrizione dei fenomeni, benché elementare, è fatta secondo la posizione attuale dei problemi. Posta la rima avere:servire (concomitante, si dica sùbito, con la rima -mente: conventi), se ne ricava necessariamente che essa rinvia a uno stato di lingua in cui si abbia aviri:sirviri (e -menti:cunventi), dove cioè si possieda un vocalismo tonico di cinque elementi (e atono finale di tre) di contro a uno di sette (e atono finale di quattro) nella lingua ospite. Ma filologicamente dove consiste questo stato di lingua, tale da giustificare la traduzione della rima siciliana in rima esatta (e, almeno in linea di principio, il generale restauro formale del testo)? Che esso sia quello dei Siciliani in senso stretto, cioè dei poeti (anche di nascita non isolana) operanti nell'ambito curiale di Federico II e di Manfredi, secondo la formula di Dante (che peraltro dichiara di attenersi a un uso già vigente), è stato dimostrato, ancor prima di questo secolo, dal Cesareo, oltre che ribadito dai successori. Può far meraviglia che una tesi di tale evidenza abbia trovato oppositori (dal Monaci al De Bartholomaeis, cioè ancora non troppi anni fa) ostinati a ritenere che la veste linguistica dei Siciliani fosse in sostanza quella dei canzonieri peninsulari attestanti non si sa che contemperamento e mescolanza pluriregionali (canzonieri che peraltro, come bene mostrò il Sanesi, presentano una toscanizzazione graduale). Ma scientificamente 1''evidenza' (la quale è un dato meramente storico, procedente dalla constatazione che i dati su cui fu costruita razionalmente una tesi non hanno subito modificazioni) non può esimersi da dimostrazioni verso chi volesse riassumere posizioni ritardatarie. Non potendosi ovviamente risalire oltre il limite storico della scuola siciliana (non vi sono indizi menzionabili di cultura siciliana 'preistorica'), decisivo per la tesi è: che la ricostruzione mentale delle rime in siciliano cólto valga per i minuti particolari (indagini del Parodi, del Tallgren ecc.); che l'iniziativa del trovare siciliano (presumibilmente a opera del Notaio, Giacomo da Lentini) s'inquadri nel costume trobadorico, implicante assoluta esattezza di rima (in un sistema di sette elementi, come in toscano, se si prescinda dall'opposizione cuspidale à:ạ'). Ciò dovrebbe bastare a distinguere da questa sfera di rigore quella giullaresca di rima approssimativa, riscontrabile in testi peninsulari o molto antichi o arcaizzanti, dove la possibilità di rima inesatta del genere é:i ecc. si fonderà sul minor rendimento statistico di simili opposizioni rispetto a quelle come á:é (criterio certo da invocare anche per l'allignamento della rima siciliana propriamente detta): giova interpretare i fatti prosodici (connotativi in sede retorica) in termini linguistici quantitativi, risultando così evidente che la mancata applicazione d'una spiegazione a una fattispecie può compensarsi nell'applicazione ad altra fattispecie. In quanto precede si è provvisoriamente prescisso da un problema di 'sostanza fonica', quello dell'integrale ricostruibilità formale dei testi lirici siciliani. È un problema, secondo il programma delineato, da toccare più tardi; ma, a parte quanto è di puramente didattico nella separazione dei piani di critica interna e di forma generale, bisogna aggiungere fin d'ora che testi lirici scritti integralmente in siciliano sono non un'ipotesi di lavoro, bensì una realtà sperimentale: sono quelli serbati, sia pure in copia tarda, nelle carte Barbieri, la cui genuinità, proprio contro il De Bartholomaeis che ne aveva ritrovato l'autografo ma seguitava a ritenerlo documento d'una falsificazione formale, doveva essere irrefutabilmente dimostrata (in «Studj romanzi», xxii, 1932) dal Debenedetti. è importante, per definire la natura del siciliano 'illustre' come lingua convenzionale, che quei testi emanino, oltre che da messinesi incontestabili come Guido delle Colonne e Stefano Protonotaro, da un personaggio regio mai passato, per quanto se ne sa, in Sicilia, re Enzo. La rima siciliana in senso proprio è però quella appartenente non già a un testo integralmente siciliano, attestato o ricostruito che sia, bensì a un testo peninsulare, in largo senso toscano. Attraverso la traduzione, sia pure scalare, in toscano il tipo avere:servire era diventato legittimo, traccia di 'lingua speciale' in un contesto grammaticale diverso. Al livello di Petrarca, poiché possediamo la redazione definitiva del Canzoniere in buona parte autografa e tutta riveduta dall'autore, sappiamo che era legittima la rima di voi con altrui. Che ciò valesse per il periodo precedente, in particolare per lo Stil Nuovo e per Dante, è illazione facile, corroborata dal fatto che nell'àmbito lirico il livellamento della rima siciliana (quello che ancora sotto la penna di Manzoni darà nui per noi in rima con lui) è rappresentato, se non

proprio iniziato, dalla Raccolta Aragonese, cioè dall'intervento d'un gusto filologico del volgare (responsabile dell'Aragonese è notoriamente il Poliziano) promosso dalla contemporanea filologia latina e greca dell'umanesimo maturo; e i conti tornano, press'a poco, anche con la tradizione della Commedia dantesca. Era un anacronismo non consentire a Dante la possibilità di rimare, per ripetere l'esempio più celebre, lume con nome e come, a norma della più antica tradizione, e livellare mediante lome, interpretata, anziché come rima siciliana (a rovescio), come una presunta rima bolognese. Spiace che a coonestare queste antistoriche procedure fosse un filologo e glottologo del calibro del Parodi, e sulle sue orme il maggiore dei dantisti, il Barbi: tanto può, anche su studiosi di grande qualità, la potenza dell'educazione retorica. Del resto, la rima siciliana è solo un caso particolare delle 'licenze' concesse, e proprio per le origini siciliane della sua poesia d'arte, all'italiano. Se, con tanta ambizione di perfezione formale, la poesia toscana più illustre fin da principio può rimare f(i)èle con véle o c(u)òre con valóre, ciò dipende dal doppio esito di amore(m) in siciliano 'illustre', che sotto forma di amuri può rimare con l'esito di flore(m), ma nella veste provenzaleggiante e latineggiante di amori (da leggere nel solo modo possibile, amòri) può rimare con core. Si capisce che l'etimologia letteraria e diacronica neppur qui può astrarre dalle condizioni sincroniche, che al solito consistono, e anzi più che mai, nello scarso rendimento delle opposizioni è:é, ò:ó rispetto a ogni altra del vocalismo italiano (parlare di 'rima per l'occhio' in un certo senso sarebbe una petizione di principio, poiché appunto il rendimento è responsabile della scelta di e e o quali segni ambigui su quella di i e u come nel latino precarolingio e, per uf ancora in anglonormanno): tant'è vero che, con significato pragmatico avverso l'ortoepia di fondamento toscano, non mancano i glottologi che asseriscono la legittimità d'uno schema italiano di soli cinque elementi contro quello toscano. Tale lassismo nella sensibilità fonica, più elastico in antico per l'ammissione della rima strettamente siciliana, rimane costitutivo della tradizione italiana (per di più con la liceità di miele, cuore accanto a mèle, core) anche quando questa, in epoca umanistica, dimetterà, come s'è indicato, la rima siciliana. Un tentativo assai interessante di fonderle (è:é:ì, ò:ó:ù) si ebbe con Guittone d'Arezzo, determinando ciò che improvvidamente si chiamò 'rima aretina', quando si dovrebbe parlare esclusivamente di 'rima guittoniana'; gli attributi geografici vanno adoperati, come risulta dalla rapida esposizione precedente, con estrema cautela, e certo ulteriori ricerche merita pure la cosiddetta 'rima umbra' (cioè di ì con te e ù con uo), per determinare se anche in Firenze essa abbia base immediatamente fonetica (riduzione del dittongo in forma discendente, come in qualche esempio di -ulo da -uolo) o non sia per caso un derivato, tutto sommato raro, della rima guittoniana. Si è insistito sull'esempio della rima siciliana come su quello che è sembrato il più istruttivo, non investendo solo una produzione riservata a noi specialisti, ma toccando addirittura a geni universali come Dante e Petrarca, e per certe implicazioni spettando, per la relativa conservatività della tradizione letteraria italiana, a un costume tuttora vivo. Ma non occorre dire quanto saranno graditi apporti procedenti da altre esperienze. Si può perlomeno accennare a fatti importanti della cultura francese, quale quella che l'Avalle, adusato alla nomenclatura italiana (di 'rima siciliana' ecc.), ha chiamato francamente (nella sua stimolante edizione della Passion di Clermont-Ferrand, 1962) «rima pittavina». Era stata inevitabile osservazione dei provenzalisti, in particolare di Alfred Jeanroy nella sua edizione, che taluni fenomeni oggettivi di Guglielmo IX vanno ricondotti ad abitudini di oi'l, più esattamente del Poitou e della Saintonge: tale la rima di et da É con et di origine diversa, comunicata anche ad altri trovatori; tale la rima di infiniti di ia quali guabier e doblier con -ier, fatto attestato pure altrimenti ma quasi sempre fuori dell'ambito lirico, e che, diversamente dal precedente, ha genesi non diretta ma indiretta, trattandosi di un iperoitanismo di regioni in cui non si verifica la legge di Bartsch. Ancor più vicini al tipo di lingua letteraria 'artificiale' di cui è glorioso paradigma il dialetto omerico ci portano le rime dette incrociate, Zwitterreime del tedesco. Questa definizione evoca immediatamente il fatto (stavolta consonantico) del francese poetico duecentesco messo in metodologico rilievo dal Morf e poi dal Vossler e così accuratamente indagato da un'allieva del primo, Gertrud Wacker (Über das Verhältnis von Dialekt und Schriftsprache im Altfranzösischen, 1916): l'incontro in rima del tipo bianche (blanke) col tipo lance (lanche) era stato naturalisticamente ricondotto all'incontro vernacolare dell'isoglossa di blanke/lanche con quella di bianche/lance, col bel risultato di localizzare un'infinità di testi in regioni di frontiera (Grenz gebiete). In realtà non si tratta dell'interferenza territoriale di due isoglosse (che sarebbe pur sempre un fatto culturale, per quanto collettivo), bensì dell'incontro letterario di due sistemi fonologici (quello del francien e quello del piccardo largamente inteso) che porta a un'identificazione compromissoria. Ciò incide, si ripete, sul problema delle lingue 'artificiali', di cui in

àmbito romanzo l'individuo (o piuttosto famiglia) più flagrante è il franco-italiano (qualche volta specificato in 'franco-veneto', ma erroneamente: la denominazione è dovuta al cospicuo fondo di manoscritti Marciani, peraltro provenuti a Venezia dalla biblioteca mantovana dei Gonzaga). Questo problema esula dall'assunto presente, ma è opportuno sottolineare che il francoitaliano si fonda esso pure su un'alterazione scalare (dall'italianizzazione di testi francesi, anzitutto poetici, all'uso creativo degli ibridi così costituiti), come si vide accadere, per la lingua 'speciale' delle rime, nella toscanizzazione degli originali siciliani; ma come il Santangelo ha mostrato verificarsi anche nella toscanizzazione d'un testo prosastico quale il volgarizzamento dei Dialoghi di san Gregorio. Con l'occasione si può auspicare una modernizzazione metodologica degli studi linguistici sul franco-italiano, che misuri l'elasticità dei suoi istituti grammaticali, sul piano sincronico; e su quello diacronico acciari meglio talune mediazioni, come quella a cui va addebitato il tipo oit per ot, che si è tentati di identificare nell'infisso dell'Est francese, sede delle grandi fiere commerciali e giullaresche. S'intende che l'habitus del dialettologo e geografo dovrà essere frenato dove si tratti di eventi di questa categoria. Una sottospecie di lingua 'artificiale' è quella della parodia, scritta, come dice Dante, «in improperium» di una regione determinata. Prima che il Monteverdi (ora in Studi e saggi sulla letteratura italiana dei primi secoli) dimostrasse decisamente che nel contrasto del cosiddetto Cielo d'Alcamo abbiamo a che fare con un siciliano antiillustre ma non meno artificiale del sayagués nel dramma pastorale spagnolo, si era oscillato, per ragioni linguistiche (lasciando stare le extralinguistiche), tra varie localizzazioni insulari e anche peninsulari; e se si fanno ancora valere, più sottilmente, argomenti vernacolari, non si può più negare che, degli elementi oggettivamente attestati, serie aliene dalla più vulgata norma siciliana, quali i possessivi enclitici (fraterno), i plurali neutri analogici (focora) e perfino vari condizionali da piuccheperfetto (perdera), si debbono esclusivamente o prevalentemente alla necessità d'uno sdrucciolo nell'emistichio dispari dell'alessandrino. b) Informazioni linguistiche sono ugualmente ricavabili dalla misura sillabica del verso. L'esempio più clamoroso è stato fornito nel citato articolo del Salvioni, in cui si prova che le vocali finali diverse da -a (pur scritte) del milanese di Bonvesin (a fine Duecento, dunque) tendono, nell'interno dell'emistichio, a cadere. Poiché ciò non si verifica mai a fine di verso, e per analogia si supporrà pure d'emistichio, la caduta risulta condizionata da ragioni ritmico-sintattiche. Ricerche ulteriori hanno poi mostrato casi di conservazione obbligatoria (per esempio dopo il nesso rn) e la virtualità della conservazione in generale, hanno consentito cioè di scoprire tutte le finezze d'un'evoluzione tendente all'apocope, quali si gradirebbero conoscere (ma certo il paradigma bonvesiniano si può estrapolare) per le altre parlate galloromanze e più in genere per le neolatine con finale caduca. L'informazione è tanto più rilevante in quanto l'aspetto almeno grafico del milanese bonvesiniano è 'illustre', il che vuol dire, non certo conservativo, ma latineggiante. Al riguardo, alla pratica dialettalmente 'sincera', come dicevano i neogrammatici, della prosodia rumena si oppone la prosodia conservatrice non soltanto della poesia francese o della portoghese (dalla quale, se fossero lingue morte, si caverebbero ben strane illazioni!), ma dei dialetti suditaliani ancorati alla cultura linguistica della capitale del Reame, Napoli. Le vicende della rappresentazione grafica dei centri di sillaba sono intensamente storiche e vanno scrutate caso per caso. Si può citare un particolare, come assai divariante dai precedenti, così poco studiato: mentre i primi testi d'un dialetto fortemente sincopante quale il bolognese si presentano a tutti gli effetti, e dunque anche a quello prosodico, in forma illustre, esso compare bruscamente in forma violentemente apocopata e sincopata, per iniziativa di Giulio Cesare Croce (il famoso inventore di Bertoldo e Bertoldino), a fine Cinquecento; ma questa forma, che per qualche tempo detta legge non soltanto a Bologna ma nelle città limitrofe, da Modena a Faenza, non è foneticamente 'sincera' (nel senso anzidetto) se non a patto d'interpretare una quantità di segni consonantici come centri di sillaba (si tratti di sonanti o di sviluppi prostetici o epentetici), realizzando nell'apparente ipometria l'esatto, ma assai meno prevedibile, antipodo all'apparente ipermetria bonvesiniana. Sarà agevole ampliare il catalogo dalle varie regioni romanze, sia che i fatti siano rigorosamente interni (come l'interpretazione dei proparossitoni antico-francesi del tipo angele, che si è ora trovata applicabile anche ad alcuni testi italiani), sia che essi s'impiantino su una situazione di bilinguismo (come le irregolarità prosodiche, centrate attorno al calcolo dell'e muta, nei testi francesi d'Inghilterra). Indispensabile presupposto di simili ragionamenti è il possesso della chiave sillabica dei singoli tipi di verso, si dica pure un relativo isosillabismo: più esattamente, o isosillabismo quando sia accertabile, o la formula di variabilità dell'anisosillabi-smo. Sarebbe certamente vano cercare variazioni anisosillabiche negli octosyllabes di Chrétien de Troyes e negli endecasillabi di Dante, e in generale nelle manifestazioni

di quella suprema cortesia letteraria che ha trovato la sua più proverbiale espressione (ma si sono citati apposta contesti non lirici) nella lirica trobadorica e nei suoi derivati (sospetti di anisosillabismo gravano su Guittone, ma là dove la sua curialità di tardo Marcabru o Bornelh toscano s'inficia della collaborazione alla lauda). Una casistica ricchissima di anisosillabismo mostra invece la poesia non cortese almeno d'Italia e di Spagna. Oggi, e anche il presente relatore si lusinga di aver portato al proposito il suo contributo, asserirlo è certo sfondare una porta aperta. Nulla giova a far misurare il cammino percorso come l'esempio fornito da un grande dialettologo di cui s'è avuta testé occasione di tessere l'elogio, Carlo Salvioni. Si deve anche a una sua recensione se l'edizione, procurata da Emil Keller, del Sermone di Pietro da Barsegapè aggravi, passando dalla prima (1901) all'ultima stampa (1935), l'interventismo che presume raddrizzare in novenari gli ottonari del codice unico, regalando al già mediocre verseggiatore duecentesco un buon capitale di sillabe del nostro secolo. I valori statistici sono tali che l'ipotesi isosillabica si rivela troppo onerosa: economica è solo l'ipotesi della legittima alternanza novenarioottonario, tanto più che essa si rivela, anche a una fuggevole indagine, frequentissima. All'estremo opposto si situano posizioni recisamente conservatrici delle quali sono alfieri il maggior romanista vivente, Ramon Menéndez Pidal, e l'altro grande maestro sopra ricordato, Joseph Bédier. Il Menéndez Pidal asserisce la legittimità dello stato attuale nel Cantar de myo Qid, con l'escursione del suo verso da dieci a venti sillabe attorno alla media di quattordici, rispondente all'alessandrino; il Bédier la sostiene per la versione oxfordiana della Chanson de Roland (ma la sostiene scetticamente, per improponibilità d'una soluzione migliore), giungendo a chiedersi a lezione, come affettuosamente ricorda il presente relatore, che cosa fosse «un vers juste» per uno scriba del Medioevo. A questa domanda retorica la risposta è facile, una volta escluso che quello scriba potesse essere un discepolo di Malherbe o di Boileau; la risposta è matematico-sperimentale nel senso galileiano: il «vers juste» è un'ipotesi di lavoro formulabile a norma dei risultati della critica esterna (così nell'eventualità di attestazione plurima) e della critica interna (applicabile, questa, anche alle attestazioni uniche attraverso l'elaborazione di Concordanze). I due casi citati non possono comunque essere paradigmatici: il Roland della Bodleiana, perché copiato in ambiente anglonormanno e spesso agevolmente risarcibile con l'aiuto della residua tradizione (di cui il codice Digby rappresenta solo la metà); il Çid, perché pervenuto in manoscritto unico a un paio di secoli di distanza dall'originale, a sua volta composto in un metro imitativo d'uno schema francese (schema non necessariamente univoco, se vi fu un'epoca di legittima parificazione tra décasyllabe e alessandrino, parificazione trasportata ad esempio anche nell'Italia del Nord). Ciò non significa che la soluzione, nel secondo caso specialmente, non sia ardua (essa fra l'altro suggerisce o impone una serie di minute ricerche sugli adattamenti prosodici in altra sede linguistica, per esempio sulla prosodia e dei rimaneggiamenti e degli originali in franco-italiano). Una ricerca sistematica di formule anisosillabiche è stata intrapresa per parecchi testi italiani antichi (ma questo abito sperimentale è utile anche per misurare fatti moderni, dalla libertà metrica del Carducci 'barbaro' o delle Laudi dannunziane agli 'errori' del regolare Gozzano), e si comincia ad applicarla in àmbito spagnolo (del Libro de Buen Amor, in parte felicemen te ad attestazione plurima, si veda l'edizione Chiarini preceduta dai rilievi metrici del Lecoy). L'elaborazione sperimentale delle formule può e in prima istanza deve prescindere dall' 'etimo' del fatto (rapporti con l'anisosillabismo latino già oggetto di autorevoli pronunce) e in particolare dalla sua interpretazione melodica (l'ottonario-novenario e istituti simili sono versi con anacrusi?), appunto per non introdurre apriorismi. Ma questo ovvio svolgimento, eziologico ed esegetico, si fa sempre più necessario man mano che la casistica aumenta, riuscendo culturalmente condizionata, e in modo particolare risulta come nei metri 'didattici' l'oscillazione prevalente sia di una sola sillaba, mentre l'elasticità cresce molto sensibilmente nella lirica non cortese: dalle laude, con Jacopone da Todi (di vasta attestazione manoscritta) per caso-limite, alle porzioni liriche di Juan Ruiz. Qualche constatazione generale non è evidentemente estranea alla caratterizzazione linguistica: l'opposizione della mera oscillazione sillabica (attuazione d'un medesimo metro) in Italia e in Spagna alla convergenza metrica in Francia (come nell'esempio 'epico' citato) - almeno fino a miglior informazione -non è connessa alla natura dell'accento? Quanto sopra è stato accennato solo per sommi capi, poiché questioni prosodiche in questa sede hanno solo un interesse strumentale. Ciò vale per categorie quali il prevalere della dieresi (ne nascono problemi singoli: perché la scansione stilnovistica di pie tate è trisillabica?) ed entro certi limiti la preponderanza della dialefe (un canzoniere occitanico accuratissimo com'è quello siglato C contraddistingue la sinalefe

mediante la fusione grafica dei segni vocalici corrispondenti) e altri rilievi di carattere generale (il Migliorini per esempio ha mostrato come l'epentesi toscana del tipo Nembrotte si celi spesso sotto la scrittura, apparentemente ipometra, Nembrot). Ma forse ciò vale ancor più per risultati particolari. Solo l'ipometria, o flagrante o mimetizzata, mimetizzata s'intende grazie a supplementi la cui mancanza di genuinità si rivela nella loro stessa molteplicità (ma di questo metodo più avanti), rivela che nell'Alexis, e ancora nel Roland, si era rimasti alla fase non sincopata mereveille, mentre i derivati, certo per la maggior lontananza dall'accento, offrono già la sincope della vocale intertonico. E passando alla critica esclusivamente interna (metodo delle Concordanze): due emistichi pari ipometri (in 'genitivo alla francese') come questi della Chanson de Guillaume, «reis [errore per rei] Tebald l'Escler», «Tebbald l'Eclavun», mentre presi separatamente possono dar luogo a non si sa quanti supplementi, per esempio [le] rei e [rei] (la difficoltà, quando cresce e specialmente manca una sillaba, non è di toglierne o aggiungerne una qualunque - troppe sarebbero le possibili -, ma di scovare la buona!), raffrontati e quindi costretti a produrre una comune soluzione non possono non additarla in Te[o]bald, forma parallela al Theoiri (ovviamente con ir occitanizzato) del Léger. c) Di sfera limitatissima è invece l'applicazione del cursus a fini testuali, linguisticamente rilevanti, nella prosa volgare. Come l'inglese e il tedesco, così anche l'italiano antico presenta esempi di cursus nella sua prosa dettatoria. Ma può accadere che esso sia, almeno allo stato attuale della tradizione manoscritta, o irregolarmente distribuito o non esaurientemente attuato. Con la debita discrezione, in quella sua Tradizione e poesia nella prosa d'arte italiana dalla latinità medievale a G. Boccaccio alla quale si rifà questo genere di studi, Alfredo Schiaffini, prendendo in esame uno dei Parlamenta et epistole di Guido Faba di cui da tempo si attende una nuova edizione dal Castellani, trova casi di cursus velox e suggerisce di leggerlo anche nella fine di periodo «intendere cun brevità», correggendo naturalmente in «intènder cun brévitáde», nonché nella clausola interna «nominanza ve reportò», ritoccata in «répor-tóe», particolari che metterebbero meglio a fuoco la fisionomia del bolognese 'illustre'. Altri ha anche ardito proporre che, in un versetto delle francescane Laudes creaturarum, un supplemento ovvi, l'unica volta che ciò accade, alla mancanza di cursus, «ennallumini [noi] la nocte» (nei Rendiconti dei Lincei, 1963);[Cfr. la nota a p. 25: per la legittimità del testo tradito ora interviene Aldo Menichetti, in Letteratura italiana Einaudi, iii.i, 1984, pp. 363-4] ma ha esplicitamente richiamato l'invito alla cautela (una cautela non sempre avvertibile nelle ardite scansioni del precursore Parodi) contenuto in uno scritto postumo del Rajna. Quell'ammonimento è sempre valido, però come sprone al fare, non al non fare. ii) La seconda categoria consta di lectiones difficiliores. Queste sfuggono per definizione allo stemma lachmanniano, potendosi ritrovare, nonostante il loro palmare decremento complessivo nel tempo, a qualunque piano dell'albero genealogico. Un'attenta indagine della tradizione di Alexis, sia poi essa bipartita (come vogliono il Paris e con altra formula ora il Lausberg) o invece tripartita, mostra ad esempio che lectiones difficiliores sono serbate, pur in diversa misura, a tutti i livelli della tradizione; di modo che, se per il linguista è certamente valida la definizione del miglior manoscritto come quello in cui si continua la più alta percentuale di difficiliores, sarebbe poi l'ultimo a dover applaudire il metodo del manoscritto unico. Importante è tuttavia che alle difficiliores presenti si aggiungano quelle congetturali. Per Alexis ha luminosamente aperto la strada la pronta recensione del Tobler al Paris (nelle «Got-tingische Gelehrte Anzeigen»), indicando che, là dove la tradizione concordi nella mera erroneità ma realizzandola diversamente (con ipermetrie, solecismi ecc.), si deve ricostruire una lectio difficilior (nel suo caso si trattava di per 'consorte', banale in femminile, ma effettivamente raro in maschile). Si può progredire dell'altro nella strada iniziata da quell'impeccabile filologo e acuto linguista, ampliando il teorema a fil di logica e assumendo che, ovunque la tradizione si sfrangi in varianti individuali indifferenti (di cui cioè nessuna rara) - dunque non soltanto erronee come nel caso del Tobler -, vada restituita una lectio difficilior. Un'analisi di questo genere applicata allo stesso venerabile poemetto restaura non soltanto altri discendenti del piuccheperfetto come deuret e pouret (in aggiunta agli esempi documentati nel Gormont e nell'Eulalia rispettivamente), ma dati più nuovi quali l'imperativo da, s'en fut verbo di moto, atent participio. Una consimile stratigrafia (il termine è nato proprio in linguistica) applicata a testi di tradizione plurima (ma per quelli a tradizione unica potrà eventualmente servire il punto di riferimento portato dalle Concordanze o da specchi morfologici completi) si può presumere feconda di risultati, spezialmente in territori, come il francese, caratterizzati da un'alta velocità diacronica.

in) a) I dati accertati nei modi sopraindicati, tutti legati alla critica lachmanniana, si riferiscono agli originali. Ma la ricostruzione puntuale (nel senso d'un punto 'senza dimensioni', d'un corpo 'senza massa' e convenzioni simili) è solo la prima procedura, sul cui fondamento si svela una realtà gradatamente più ricca (ma ordinata e gerarchizzata dalla ragione) di cui nulla va sottratto all'utente, nella specie il linguista. L'ipotesi più semplice è quella di varianti equipollenti, siano esse o non siano varianti d'autore. Per ciò che è delle varianti certe d'autore, la tendenza attuale è di costituire apparati diacronici completi o comunque di raccogliere tutto il materiale. Più largamente, però, va precisato che il testo ricostruibile può non essere univoco: l'archetipo poteva essere munito di varianti (per esempio in margine o in interlineo), o in singoli individui essersi introdotto l'esito della collazione con altri che trascendono l'attuale àmbito testimoniale; la fenomenologia di simile trasmissione 'orizzontale' o 'trasversale' (dove probabilmente s'introducono varianti d'autore) è stata descritta magistralmente da Giorgio Pasquali, per la filologia classica, in Storia della tradizione e critica del testo. Ma anche col più ordinario procedimento lachmanniano si può giungere a lezioni statisticamente indifferenti : l'albero bipartito, la cui frequenza il Bédier ha giustamente ricondotto a una proiezione dell'inconscio desiderio di libertà di scelta, qualche volta non è contestabile (e si può perfino avanzare il sospetto di redazioni concorrenti, ciascuna delle quali corrotta da errori di archetipo, come nel caso assai elementare della canzone di crociata Chanterai por mon corage già attribuita a Guiot de Dijon); [Un settimo testimone, il frammento di Einsiedeln, è venuto ad aggiungersi dal di fuori ai sei ordinabili in due famiglie, cambiando radicalmente la situazione: Contini, in Orbis Mediaevalis (Mélanges... Bezzola...), Berne 1978, pp. 50-9]. se si dà un testo solo (invece di due o magari «), preferibilmente non composito (tolta la correzione degli errori), non si può non esigere la conoscenza, in parallelo con quanto ricevuto a testo, di quanto avrebbe altrettante probabilità di esservi 'promosso'. Si tratta di quelle varianti possibili d'autore che si possono convenzionalmente definire varianti redazionali. A questo punto insorge una domanda: che cosa deve conte nere l'apparato? Poiché spesso si parla della necessità che l'apparato sia 'elegante' e 'leggero', s'immagina che esso debba contenere: a) il materiale giustificativo (e dunque erroneo o subordinatamente 'congiuntivo') dei piani alti dell'albero; b) le lezioni statisticamente indifferenti rispetto a quelle accolte. Si tratta di due ordini di fatti ben distinti, il secondo di conoscenza obbligatoria per la ragione ora indicata (e che infatti si può separare in una fascia apposita), il primo utile soltanto a rifare per controllo il lavoro dell'editore. Ma questo apparato ridotto è atto a soddisfare le esigenze del linguista (soprattutto nella Veste di storico della lingua)? Bisogna rispondere recisamente «li no: con le varianti minoritarie o addirittura singulares, superflue ai fini della ricostruzione dell'originale, si rischierebbe ili eliminare materiale prezioso. Il Nencioni ha per esempio mostrato che l'ultima edizione di Guido Cavalcanti obbliga a Introdurre nei vocabolari della lingua il lemma agruzzare di un nonetto,ma non consente affatto di eliminarne il più antico esempi») di raggruzzare, desumibile dalla varia lectio per quanto non più attribuibile al Cavalcanti. Colpisce un esempio, pure all'inizio anche più nettamente formale, riferibile allo stesso poeta: i vocabolari registrano il lemma forosetta 'contadinella' in ben li. versi di una pastorella notissima di Guido, Era in pensier d'timor \ il fatto che si tratti di un triviale scorso (assimilazione uralica, non certo fonetica!) in un settore assai basso e tardo • Iella tradizione manoscritta, da cui dipende la decisiva stampa < (lumina, non autorizza a eliminare dall'apparato o dagli appaiali quell'errore così fortunato, poiché forosetta è stato ripreso «la ierittori cii grido, quale il Tasso, è entrato nel patrimonio letterario corrente, se n'è perfino estratto il pseudopositivo forosa (Giovanni Faldella). Ecco perciò la necessità, per lo storico della lingua e della cultura (la distinzione tra 'linguista' e filologo' è operativa e non metafisica!), di adottare apparati più compiuti che sia possibile, come per la Commedia ha fatto Giorgio Petrocchi, limitatamente per ora alla vulgata anteriore alla sistemazione boccaccesca (ma con l'intento di allargarsi ai codici recenziori), e per questa, data l'importanza del testo, segnalando anche le varianti formali. È infatti essenziale appurare la lezione dell'originale dantesco (né oggi si concepirebbero più le resistenze opposte alla precedente proposta di vulgata, quella del Vandelli, in prò della 'patina'

tradizionale), ma è anche assai importante essere informati, per un'opera così decisiva e onnipresente, della lezione nota alle varie fasi della cultura nazionale. Il problema, beninteso, è assai più vasto: si desidererebbe poter conoscere la lezione dei classici di cui disponevano gli autori delle origini e quei benemeriti che furono i primi volgarizzatori. Il desiderio di un simile regesto va girato ai filologi classici: per i quali forse esso sembrerà curiosità morosa, mentre sarebbe indispensabile a chi volesse giudicare del Lucano citato da Dante o del Sallustio adoperato da Bartolommeo da San Concordio. La situazione dei testi letterari in quanto utili allo storico della lingua e della cultura raggiunge perciò la situazione dei testi 'popolari' o, per usare il termine del Menéndez Pidal, 'tradizionali'. Qui è normale che le varie redazioni siano pubblicate come oggetti autonomi, anche se ciò non esonera da un loro studio stratigrafico e anche se la parificazione non importa affatto l'impossibilità o l'indesiderabilità della ricostruzione d'un originale. Motivi ben diversi, sui quali giova sperare che non sorga il minimo equivoco, inducono dunque a considerare con attenzione taluni canoni della critica non lachmanniana. Sia ad esempio il metodo di dom Quentin, elaborato su una scrittura, come la Vulgata, di così gigantesca divulgazione da non consentire praticamente (almeno in un'epoca che ancora ignorava gli strumenti elettronici) una recensio normale. Il canone del benedettino francese (agli scopi presenti basti quest'aspetto della sua dottrina) non distingueva tra 'errore' e variante indifferente: tutte le varianti erano poste sul medesimo piano. O sia il metodo di Joseph Bédier. Per l'asserita aporeticità della critica lachmanniana, verificata nell'ambito dell'antico francese ma con fenomenologia di portata universale, l'unico rimedio consisterebbe nell'adesione totale (salvo ritocchi all'erroneità flagrante) a un testimone scelto a ragion veduta (e perciò chiamato 'il miglior manoscritto'); testimone per cui viene a cadere ogni distinzione fra critica delle lezioni e critica delle forme. È più facile decidere di quest'ultimo canone. Il manoscritto unico non è il limite insuperabile dell'attività scientifica (la cui esplicazione si sposterebbe in ingegnosità o cavilli a prò di suoi particolari sospetti, o si celebrerebbe nel taciuto prologo alla scelta), è però un dato storico-culturale molto apprezzabile. Questo senso soltanto ha l'opposizione della 'realtà' sperimentale alla 'realtà' dell'ipotesi di lavoro: ciò che non si può concedere al manoscritto unico come punto di partenza, gli appartiene nell'ambito della diacronia testuale, tanto più nell'ipotesi dell'edizione multipla, condotta separatamente secondo altrettanti manoscritti (Lai de l'Ombre di Jean Renart). L'obiezione della varia misura di certezza sparsa sull'area del testo lachmanniano sarebbe semplicemente mossa alla realtà in quanto misurata dalla ragione. Dal canone di dom Quentin esce perlomeno uno stimolo a non sancire un abisso fra errore e variante indifferente. A parte le difficoltà che possano sorgere in fatto su una verità in diritto ineccepibile (le varianti erronee sono quelle che servono a costruire uno strumento, lo stemma codicum, la cui applicazione automatica sancisce l'erroneità, o minoranza, e la bontà, o maggioranza, delle varianti indifferenti), è opportuno considerare l'errore come un caso particolare di innovazione non autorizzata, privilegiata dagli indizi lasciati di 'delitto non perfetto'. Ma non esistono due logiche formali, una valida per l'ecdotica lachmanniana (fondata sul metodo degli errori comuni) e un'altra valida per le varianti redazionali. Perciò la ricerca della lezione 'buona' è la ricerca della più antica (che può anche essere 'sepolta' o 'perduta'). Sono, queste, parole che evocano immediatamente il metodo geografico in linguistica: la metodologia della cronologia relativa in linguistica spaziale (di cui la stratigrafia è un prolungamento) può costituire un 'modello' anche per l'ecdotica. Che le aree laterali (per esempio, trattandosi di chansons de geste, le redazioni franco-italiane, scandinave ecc., anzi già le anglonormanne) possano fornire un criterio per l'anteriorità delle rispettive varianti, è facile a dirsi in astratto. Ma si dispone già di qualche pregevole ricerca concreta: sia qui segnalato il saggio in cui Maria Corti, accogliendo metodologicamente lo stimolo del Pasquali, ha illustrato la diffusione, dialettalmente connotata, del bolognese Fiore di virtù. b) La dottrina lachmanniana nell'ambito volgare (poiché quello latino offre la forma all'ingrosso immutabile della gra-matica) distingue o perlomeno polarizza critica delle lezioni e critica delle forme; e le considerazioni immediatamente precedenti si svolgono nella prima area, avvertendo sempre quando ci si trovi in territorio di interferenza o l'opposizione dottrinale venga a cadere. Resta a vedere in compendio come si sia articolata la critica delle forme, la quale è tutta d'interesse linguistico. Nel libro fondatore, il Saint Alexis di Gaston Paris, essa assume - e il carattere è comune alla sua critica

delle lezioni — un aspetto paleontologico. Questo termine naturalistico non ha, ovviamente, intenzione deprezzativa, anzi designa un titolo di merito - ma più, si confessi sùbito, per quanto spetta alla critica delle lezioni che per quanto spetta alla critica delle forme. Del resto, una comparazione più appropriata è recata dallo stesso, intelligentissimo, editore, che è pure uno scrittore autentico: «J'ai essayé de faire ici pour la langue fran^aise ce que ferait un architecte qui voudrait reconstruire sur le papier Saint-Germaindes-Prés tei que l'admira le XIe siècle». Il Paris ha voluto essere, insomma, più che il Cuvier, il Viollet-leDuc del francese del Mille. Se la metafora sta, sùbito si sospetta nella procedura qualcosa di obsoleto. Il Paris è bensì guidato (si rileggano quelle splendide pagine) da una struggente ammirazione per quella lingua come per l'architettura romanica, e l'omaggio reso alle necessità storiche che hanno modificato l'una e l'altra è tutto di testa e non di cuore; ma il modo del restauro è quanto di più razionalistico e antistorico si possa immaginare. Indotti dallo studio delle rime e del metro gli elementi oggettivi, soppesate le probabilità circa la fase raggiunta punto per punto dalla sostanza fonica, il Paris non solo livella ma rappresenta convenzionalmente di suo. L'atteggiamento si accentua con l'editio minor, dove non solo si opta francamente per l'ue (non uo) e l'ou esclusi dalla maior, ma numerosi segni diacritici notano le consonanti caduche, la vocale indistinta e quella non sillabica. Certo, la minor doveva essere prevalentemente destinata (sono parole della maior) «à faire connaitre le caractère phonétique de l'ancien langage»; ma là si diceva pure che la critica «ne se permet pas d'employer des caractères autres que ceux dont se servaient les auteurs des manuscrits qu'elle étudie». Ecco, dunque, un capitolo su cui non si può dire che l'esempio di Gaston Paris, sempre attualissimo nell'altro settore, trovi ormai molta udienza. Perfino la ricostruzione ehampe-noise di Chrétien de Troyes, con quegli ei da ai, an per en ecc. ecc., nel testo Foerster appare oggi troppo astrattamente sistematica. Ma che cosa viene opposto alla soluzione del Paris, più esattamente del Paris dell'Alexis? La posizione più antitetica è naturalmente quella del Bédier, in quanto, affidandosi a un solo manoscritto anche per la lezione, non può praticare alcuna distinzione fra le due critiche. Diffusa è una pratica intermedia, naturalmente ben anteriore al metodo universale del manoscritto unico: quella, ferma restando la costituzione lachmanniana della lezione, di adottare per la forma un codice determinato. Tale è ad esempio l'uso più comune degli editori di trovatori provenzali, giustificato dal fatto che non si ha nei canzonieri il fondamento di una semplice unità documentaria, ma sistemazioni passabilmente organiche. Questa fedeltà è peraltro solo tendenziale, in quanto in singoli punti attestanti fatti oggettivi o in luoghi da correggersi a norma lachmanniana si pongono problemi particolari suscettibili, se non di alterare, di precisare la norma: una formula riassuntiva sarebbe perciò impossibile. Il nucleo dell'aporia in sede di critica formale risiede nella convivenza di tradizioni dialettali (in senso di dialetti letterari) diverse. La capitale edizione Appel di Bernart de Ventadorn, per suo conto nel complesso normalizzatrice, mostra la coesistenza di numerosissime categorie di doppioni, quali di natura schiettamente fonetica come fe/fei, mal/mau, vida/via, plaih/ plai, quali di natura morfologica come far/fair e, fatz/fau, prenda/prenha, conques/conquis, quali morfonologici come solh/ sol. Il rimedio, negativo, sembrerebbe in pronto: si serbino nelle sole sedi oggettive (rime in particolare) gli elementi estranei alla lingua 'naturale' dello scrittore (ammesso che si riesca a determinarla). Ciò dovrebbe valere a maggior ragione per l'esclusione degli elementi caratterizzanti, ma di altra cultura linguistica, in tradizione unica. Sia il caso di Guittone d'Arezzo, una parte considerevole della cui opera è conservata solo dal canzoniere Laurenziano Rediano, di origine pisana: il testo di Guittone si può e probabilmente si deve purgare dei patenti pisanismi quali la sibilante s per l'affricata z o l'epitesi del tipo mei me o pió plus - operazione, si ripete, puramente negativa, a cui non corrisponde una controparte positiva, poiché non sarebbe culturalmente lecito aretinizzare la veste di Guittone, per quel tanto che si conosce dell'aretino antico, introducendo ad esempio la dittongazione di Ẹ´ libera in et. Non si può negare che il risultato di questa, se è consentito usare la frase michelangiolesca, «arte del levare» sia di rendere più generica la fisionomia dei testi, e questo può anche corrispondere alla tendenza medievale verso la koiné 'illustre'. Se poi fatti oggettivi, per esempio di rima, appartenessero, come s'è visto sopra, a 'lingua speciale' di quelle sedi, la procedura negativa risulterebbe confermata, magari a prezzo d'una veste un po' più arlecchinesca del verosimile. Ma le compresenti varianti formali non sono solo geograficamente distinte: possono esserlo anche cronologicamente. Ora, dall'introdursi in un testo, quale potrebbe essere il Roland di Oxford (che del resto non crede primitivo neppure chi lo tratta 'come se' fosse primitivo), di infrazioni alla legge Bartsch o alla

distinzione di a ed e nasali, generalmente ancora rispettate, certamente si inferisce, come osservava il Paris nella prefazione ali'Alexis, che la parlata aveva toccato la fase ulteriore, ma rendeva di massima omaggio alla lingua letteraria del passato. In tali condizioni livellare la rappresentazione della nasale e quella stessa di A libera dopo palatale (perfino il manoscritto Digby scrive chiet accanto a chet, chiens accanto a chen(s)) sarebbe eminentemente antistorico. L''ibridismo' di cui parlava il Rajna per testi trecenteschi è categoria che, con altre modalità, vale per molto prima. Se si riflette che l'ibridismo involge pure la base latina, risulta che la situazione si fa scottante anche, al limite, dove non ricorra polimorfia né geografica né cronologica. Ricostruire una lirica siciliana sulla base dei dati di rima e metro urta inevitabilmente contro gravi incertezze: non è sempre ben chiaro neppure se volta per volta la rappresentazione della palatale e della velare atone sia unitaria (i, u) o no (e/i, o/u), agendo in prò di e od o quel modello latino a cui si deve per esempio la mancata assimilazione, almeno grafica, dei nessi ND, MB. Ecco perché il Tallgren (poi Tuulio) ha potuto, nell'intrapren-dere la sua edizione di Rinaldo d'Aquino (nei «Mémoires de la Société néo-philologique de Helsingfors», vi, 1917), distinguere scalarmente cinque metodi possibili: 5. «Texte modernisé»; 4. «Texte critique de la tradition manuscrite modernisante»; 3. «Texte critique de la tradition manuscrite archaisante» ; 2. «Texte critique plus détoscanisé»; 1. «Texte critique retraduit en ancien sicilien». E il Tallgren si attiene saggiamente al metodo 3 (specificato in «langue détoscanisée autant que le permettent les mss.»), mentre le applicazioni di quello che press'a poco si può chiamare il metodo 1 anche da parte di studiosi siciliani (Santangelo, Panvini) hanno un intento meramente sperimentale e indicativo, al pari delle ricostruzioni, frattanto non meno sostanziali che formali, talora proposte per testi corrottissimi di tradizione unica (Pèlerinage, Gormond, Chanson de Guillaume, Poema de Ferriati Gonzàlez ecc.). La conclusione sembra essere che, mentre solo un lachman-nismo affinato è adeguato per ciò che è della restituzione sostanziale, la problematica della restituzione formale resta più aperta: non certo per mancato progresso ma in obbedienza a una situazione storica assai molteplice. Non bisognerà mancare comunque di sottolineare tra i fattori relativamente conservativi l'acquisito rispetto culturale dei fatti grafici, oggi aumentato anche da considerazioni strutturali. Relazione tenuta al XII Congresso internazionale di Linguistica e Filologia romanza (Bucarest, aprile 1968) e pubblicata nelle sue Acte, Bucureşti 1970, 1 (Rapoarte), pp. 47-65. ESPERIENZE D'UN ANTOLOGISTA DEL DUECENTO POETICO ITALIANO Sta finalmente per uscire un'antologia della nostra poesia duecentesca [I Poeti del Duecento, 2 voll., Milano-Napoli, Ricciardi, 196o] alla quale attendo da troppi anni. Per un'abbondante porzione dei testi mi ha prestato un ausilio insostituibile una schiera di valenti collaboratori, tanto più benemeriti in quanto il compilatore si era riservata, e ne ha usato copiosamente, ogni più radicale libertà d'intervento sui loro progetti di lezione critica, fosse in base alla loro stessa documentazione, fosse integrando mediante controlli e ricerche aggiuntive, mentre poi aveva avocata interamente a sé la redazione del commento. Per tal modo si confermavano insieme, anche nei nostri studi, e non lo dico per deferire a una dialettica un po' passata di cottura, la necessità d'un lavoro d'équipe e l'opportunità d'un coordinamento unitario. È un primo insegnamento pedagogico, a cui si potrebbero trovare eleganti paralleli nella problematica (neppur essa, forse, più del tutto attuale) di individualità e pluralità in non so quanti altri istituti della vita contemporanea, dall'architettura al cinema. Ma non mi attarderò a disserire sull'economia della produzione culturale, premendomi piuttosto di sottoporre all'esame dei colleghi di laboratorio alcune

riflessioni organiche nate da quest'esperienza, e che mi sembrano vertere per qualche parte sul vivo della metodologia, cristallizzando esigenze diffuse: le quali, anche se accumulate da tempo, sembrano richiedere una decisiva scossa di coagulazione; mentre a rovescio, se si tratta d'iniziative 'firmate', esse sembrano però interpretare, quando compaiono, un bisogno collettivo. i Probabilmente la novità più vistosa, anche fisicamente, che si offrirà agli utenti dell'antologia sarà la disposizione tipografica che, in un numero di testi rilevante, incolonnerà separatamente le varianti aritmetiche d'una stessa misura fondamentale di verso o d'emistichio. Ho così procurato di attuare l'auspicio d'una mia vecchia nota sul Ritmo Cassinese, per l'abnegazione e, incredibile a dirsi, l'intelligente docilità d'uno stampatore pure adusato al più classico rigore. Mi par giusto che ormai il lettore riceva immediato avviso di entrare in un recinto dove non vale la ricorrente identità di misura sillabica a cui assuefà la scuola, e il cui potere dittatorio non è stato naturalmente scalfito, per il patrimonio tradizionale, dal sopraggiungere polemico o divergente dell'ode barbara o del verso libero. Tanto più giusto, in quanto quel tale recinto confina e convive, nel nostro Duecento, e perciò in questo medesimo libro, col territorio ove vige l'ordinario isosillabismo di ascendenza occitanica e (perlomeno al livello più alto) francese. Che la tradizione anisosillabica venga chiamata, come si fa, 'giullaresca', non c'è troppo inconveniente, e se ne può concedere la relativa autoctonia, rispetto a quella di gusto oltramontano. In ciò è il suo incontro negativo con la tradizione spagnola, alla cui 'versificazione irregolare' (cito il titolo famoso dell'Henriquez Urena) si riconosce con iter semmai anche troppo sbrigativo il diritto di cittadinanza. Si può dunque procedere per analogia; e, su questo piano, opporre alla voce unica (e tarda) della tradizione del Qid, e alla corrispondente acquiescenza del Menéndez Pidal innanzi a una variabilità di posizioni assolutamente abnorme, la pluralità di tradizione (e meno remota) del Libro de Buen Amor, che consente, e infatti ha consentito almeno per delibazione al Lecoy, di misurare obbiettivamente (su tre manoscritti) la probabile escursione degli emistichi di Juan Ruiz. Forse al tradizionalismo, pur sempre romantico, del patriarca degli studi romanzi non è caso che si oppongano proprio le misure strette d'un paese imbevuto di retorica formale? In tesi generale, comunque, solo questo procedimento s'incontra con i requisiti di un'indagine positiva, e cioè quantitativa. Poiché anche nell'àmbito italianistico non è mancato chi abbandonasse i 'giullari' alla vaga venere sillabica; mentre a un'eventuale estensione di quel primo metodo (e forse anche alla sua matrice), se in astratto nulla è obiettabile, osta il fatto che il suffragio verrebbe proprio da ritmi, magari venerabili di antichità documentaria rimpetto a Per Abbat, ma altrettanto unici. Se il rigidissimo Bonvesin da la Riva fosse noto soltanto dall'Ambrosiano N. 95 sup. (come le Noie di Patecchio dallo zibaldone del Sachella), otterrebbe un buon punteggio per licenziosità 'giullaresca'. Il problema da risolvere, finalmente, è pratico e non teoretico. Si tratta di distinguere fra testi la cui tradizione non consente neppure la congettura (senza che questa realtà irriducibile venga trasferita indebitamente sul piano della razionalità); testi ineccepibilmente razionalizzabili, e nella regolarità e nella misura dell'anomalia; testi intermedi, esigenti uno sforzo di sistemazione che, movendo dalla liquida limpidità dei secondi, finisce per mordere sulla stessa riottosità dei primi. La vera novità sarebbe infatti, caso mai, di carattere editoriale, perché il principio dell'anisosillabismo, se pure non acquisito alla coscienza del pubblico e nemmeno proclamato da autorità primarie, è enunciato perfino in manuali di metrica, tra i quali va citato ad onore quello del Leonetti, nonché in ricerche particolari, come le remote e volonterose dello Schmitt, operante sull'endecasillabo di Jacopone, s'intenda secondo il testo del 1490; né è mancato, almeno per i testi più arcaici, un conato di spiegazione generale, quello del compianto Camilli, fondato al modo germanico su un'alternanza di arsi fisse e di tesi mobili, che nell'applicazione si rivela troppo oneroso (anche trascurando un testo non veramente in versi quale sono le Laudes ere aturar uni), proprio dal rispetto dell'editore costretto a troppi interventi. Qui importa solo il fare; e a rigore non occorre neppure aver risolto preliminarmente il problema che dirò etimologico: dell'origine, certamente latino-medievale, del costume che qui ci trattiene; sul quale peraltro so che proprio uno della nostra compagnia lavora, con prospettive di buon successo. Mi si lasci dire, nominalisticamente, che l'interesse esclusivo va ai casi singoli, partendo dalle formule più solide di alternanza minima per dilatarle mano mano in via analogica. Si tratta di rispondere volta per volta alla

domanda che mi accadde di sentir tanto spesso sulla bocca del Bédier, «Qu'est-ce qu'un vers juste, pour un écrivain du moyen àge?», anche se il maestro la intonava solo negativamente, come interrogazione retorica avverso i razionalisti anacronistici (a proposito, s'intende bene, della Chanson de Roland), e di fatto si comportava poi come il non omogeneo Menéndez Pidal, cui non si possono certo imputare angosce cartesiane. Si tratta, in scambio d'un apo-steriorismo rinunciatario o entusiastico, per non dire d'un apriorismo elementare (e pur restando fondamentalmente nella sfera dell'a posteriori, ma ri trasportandolo in veloce circuito a priori), di amministrare con equilibrata economia conservazione e congettura. In questa scalare tipologia può occupare convenientemente il primo posto, non perché rappresenti una minima aritmetica, ma per grado di certezza, desunto dal dato assodato in un'altra cultura (stavolta proprio la francese), l'alternanza del decasillabo detto epico e dell'alessandrino, cioè, nel corso d'una stessa lassa, l'equivalenza virtuale del tipo d'emistichio dispari e del tipo d'emistichio pari, conforme del resto alla genesi di questo verso simmetrico da quel verso a minore. È un'alternanza ben nota dalle ehansons de geste (per cui qualcuno ebbe a discorrere, ma non so se si potrebbe ripetere oggi, di 'coefficiente di disattenzione'), cominciando dalla stessa redazione oxfordiana del Roland e giungendo, in particolare, al repertorio francoveneto. Ciò si ripete, in Italia, nel poemetto di Uguccione da Lodi, il quale non appartiene affatto all'epica, e a prima vista sembrerebbe avvicinarsi, per la materia predicatorioedificante, alle origini agiografiche del metro (si dica il Boeci): non fosse che, come non è stato rilevato fin qui, la preghiera «Deo, qe guarìs Daniel» (vv. 215-34) deriva dalle preghiere di Carloma-gno nella più antica redazione franco-veneta del Roland (V4). È comunque palese l'equipollenza dei due tipi così in questo piccolo inserto come nel corpo del testo, in successione ravvicinata (5-6): Sire Deu, qi T'onfende dé aver gran paor e s'el li remembra del fogo e del calor. Non esiste invece sufficiente verisimiglianza aritmetica a che si possa ammettere un decasillabo isolatissimo (425, «q'ele fai pene com' l'aguiia qe vola») nel complesso di alessandrini, per di più riuniti non in lasse ma in centinaia di distici (benché in verità chiuse da un versicolo breve come fosse una sola sterminata lassa), dello Splanamento di Patecchio. D'altra parte l'alessandrino, diviso in emistichi legati pure da rima comune, surroga il consueto endecasillabo nella saffica del bel Servente se romagnolo (detto già del 1277); e, come variabile vi è l'adonio (per cui lo stesso Antonio da Tempo ammette tanto la lettura quinaria quanto la quaternaria), così quegli emistichi, di massima settenari, possono però crescere (come in Juan Ruiz) o calare (come, si vedrà, in Giacomino da Verona) di una sillaba. Qui interventi non sono possibili, certo, ma manca anche la garanzia per una sicura classificazione: qui, infatti, si può discorrere in senso meno vago di abitudini 'giullaresche', perché il manoscritto, insieme unico e negligente (il Saibante, da cui si ricavano Uguccione e Patecchio, è unico, sì, ma 'clericale', anche per lezione controllatissimo), è così poco fidato come quelli dei ritmi antichissimi, o, peggio, i Memoriali dei notai bolognesi; né si può escludere che l'approssimatività si riverberi sull'originale stesso. Chimerica sarebbe, per esempio, una regolarizzazione sillabica del Serventese dei Lambertazzi e dei Geremei, l'obbiettiva variabilità dei cui versi appare garantita quand'essi s'intessono d'un largo catalogo di cognomi (e c'è un altro argomento, strutturale questo: il lassismo delle rime; poiché libertinaggio ritmico e libertinaggio di rime sono 'fenomeni' - pronuncio tra virgolette, cioè in accezione gnoseologica -solidali). Aspetto edificante ha anche la lassa monorima di alessandrini nella lauda dei Servi Rayna possentissima (col primo emistichio per lo più sdrucciolo come quello serbato nella tradizione meridionale, da Cielo e dai Proverbi pseudojacoponici ai poemetti napoletani). Di decasillabi ce n'è uno solo (38, «Preta fermissima ch'ai corno è fondata»), forse originario (il bisillabo integrativo, dove c'è, varia da codice a codice). Ma occorre non di rado un'altra variazione: il primo emistichio si raddoppia, fregiandosi allora della rima («Scala de sapiencia, mare de reverenda, vu si' purificata»). E per tal modo si ricongiunge alla 'singolarità metrica' di Bonvesin da la Riva giustamente accettata dal Monteverdi per il primo, quella che in due quartine consecutive, e sulla stessa rima, del De die iudicii reitera tre volte il primo emistichio del penultimo e dell'ultimo verso (così si può ormai, più precisamente, descrivere il

fenomeno), con costanza di rima entro la singola quartina: ... -ura ... -ura O' mai non è invidia - ni doia ni tristitia, - besonio ni anc insidia - ni guerra ni pagura; Ma gh'è verax delitia, - careza, pax, divitia, - amor e grand letizia - e franchità segura. La parentela è tanto più prossima in quanto anche nella lauda dei Servi, se dalla redazione singola si trascorre al fondo a tutte comune, la gemmazione è sempre estesa anche al verso successivo, mantenendo intatta la rima; e per quest'insorgenza intermittente si ottiene un parallelo ancora più stretto di quello addotto dal Monteverdi, cioè la lauda lxxxi di Jacopone, di settenari ordinati in quartine aaax. (Un tipo metrico non remoto è quello della Giostra, nella prima parte della cui strofe ben quattro alessandrini monorimi proliferano elaborando tre membri settenari, di cui i primi sono sdruccioli e i secondi rimano fra loro. A questo punto, si capisce, la corrispondente rappresentazione tipografica non è più possibile). Con l'alessandrino nel serventese (quello romagnolo) e con l'alessandrino nella quartina 'didattica', quasi sempre monorima (Bonvesin ne è infatti il principale rappresentante italiano), si esorbita dall'ambito primitivo. E anche da noi la cuaderna via legata al mester de clerecta si segnala, tolta l'eccezione citata (per una sorta d'Induzione' dalla duplicità di funzioni, insegnative e innologiche), per la sua simmetricità. Tuttavia non manca neppur qui l'anomalia, volta a trasferirlo verso un mester de jugleria alla Juan Ruiz o alla maniera del Serventese romagnolo: dico fra Giacomino da Verona. Le affinità però non procedono oltre, giacché l'alternanza ammessa da Giacomino, e indubitabile perché la corrobora l'albero ricavato dall'intera tradizione (di tre o quattro manoscritti secondo i casi), è semplicemente di emistichio settenario e di senario, fin dalla prima quartina: due varietà aritmetiche (per approssimazione d'una sillaba sola) d'un medesimo tipo, coincidenti nell'andatura accentuativa generale, che è all'ingrosso giambica nella forma crescente e trocaica nella calante, e perciò divergente solo per l'assenza o la presenza d'un 'tempo vuoto' iniziale. Questo fatto s'inquadra, allora, nella figura di anisosillabismo che è di gran lunga la più diffusa nella letteratura delle nostre origini. D'una cita santa com' el' è fata dentro, e ço ke ge'n dirò gran prò ge farà, ki ne voi oldir, un poco ge n'ò dir, se ben voi retenir, sença nesun mentir. Se l'alternanza di Uguccione si fondava sull'identità funzionale di due distinti tipi di emistichi, quella di Giacomino contempla Una sua specificazione addirittura endemica è quella d'un'alternanza di novenario (fondamentalmente giambico) e ottonario (fondamentalmente trocaico), di cui quella ritrovata in Giacomino si può considerare una variante analogica, soppresso un 'piede' (cioè una coppia di sillabe). Come il settenariosenario, anche il novenario-ottonario può fungere del resto da mero emistichio. Il fondamento d'una distinzione altrimenti futile si trova infatti nell'ufficio esercitato (di qui si ricava il criterio che permette di

distinguere e numerare, in rapporto alle contraddittorie abitudini degli editori, i versi di Jacopone): se le due serie sono costantemente pari, i versi sono evidentemente doppi (con rima interna); e tali sono appunto in quella che persisto a credere, con l'ipotesi cronologica del Cesareo e del Mazzoni, la più antica poesia toscana, anzi forse italiana, NOTA 1 il Ritmo Laurenziano, il quale conferisce uguali diritti, fin dall'inizio, al novenario «Salva Io vescovo [o l'ovescovo] senato» e all'ottonario «lo mellior c'umque sia nato». È, ovviamente, Yoctosyllabe francese, che da noi presenta la medesima morfologia, sia che rifaccia, come qui, l'arcaica lassa agiografico-epica di Gormont o di Santa Fede (ma con l'ingranamento distico dei poemetti di Clermont), sia che riproduca il distico a rima baciata del romanzo cortese o della poesia didascalica, o addirittura forme derivate. Nel punto di partenza francese, se naturalmente si prescinde dal contrasto di rima maschile e femminile, si ha, fuori di certi stati provinciali (proverbiale l'anglonormanno), isosillabismo: si può dunque considerare l'installazione del 'tempo vuoto' come il pedaggio pagato per questa, se non erro, prima trasferta ritmica da una lingua ormai non più accentuativa in una fonologicamente accentuativa. Quale che sia la spiegazione, il dato resta: segnalato troppo prima delle mie precedenti insistenze perché ne occorrano dimostrazioni recidive. Un fatto bastevole a convertire ogni scettico è il raddrizzamento isosillabico d'un testo scritto per buona parte in questo metro, il poemetto di Bescapè, quale fu suggerito al Keller dal recensente Salvioni e dal deferente curatore venne perpetrato nella sua riedizione, con una frequenza d'interventi di cui non si potrebbe immaginare la più solenne. Quanto alla declassazione da metro costante a metro variabile, informa il Rainaldo e Lesengrino: che, movendo da un modello metricamente ineccepibile com'è il Renart (e bisogna pure sottintendere una branche perduta anche all'episodio che non ha oggi corrispondenza in parti francesi conservate), presenta, per quanto se ne può leggere attraverso i vetri sporchi dei due pessimi manoscritti, quel medesimo fondo di ovvia alternanza. (La riserva, qui, semmai è un'altra: se la redazione di base, nonché attenersi a quell'istituzionale modesta escursione sillabica, addirittura partecipasse, come non è affatto sicuro, alla caoticità dei codici sopravvissuti, tale da non poter essere ordinata in termini tipografici). Prezioso per ciò che è della mera equipollenza di rigore francese ed elasticità italiana, il Rainaldo dunque non dà lumi sulla misura dell'elasticità. Ma va sùbito confessato che sull'alternanza 9/8 può benissimo fare aggio la variante 10. Un emistichio decasillabo è a rigore nello stesso Ritmo Laurenziano: cui bendicente bascio la mano (dove, frattanto, di 'anacrusi' si potrebbe parlare solo per abuso semantico, col valore generico di sillaba complementare, ottenuta come sarebbe attraverso una tesi disillabica, báscio la in luogo di bascio). Ma mi sembrerebbe ardito, se non temerario, mantenere quell'articolo, tanto più che bendicente, al lume del finale della lassa seguente («Di lui bendicer non finisco»), deve riferirsi al soggetto di bascio. Tuttavia, di contro all'ineccepibile novenario-ottonario dell'Anonimo Genovese (che per lo più lo riunisce in quartine) o della ballata (serbata nei Memoriali bolognesi) Mamma, lo temp' è venuto, si ritrova una sicura anacrusi (in senso largo) ad esempio nel Detto del Gatto lupesco (che è francesemente in distici): perentorio è un verso irriducibile, e ce ne sono tanti, come A Dio vi comando ciascheduno. Non vorrei ricavare esempi dal Ritmo Cassinese (né tanto meno da quell'altro ritmo edificante dell'antica Italia 'mediana' che è l'Alessio marchigiano, di metro uguale, ma di più sciupata lezione, sì da non prestarsi all'esperimento ottico). Si sa bene che nella sua strofe a una serie novenaria (beninteso, di novenari-ottonari) succede un distico, o almeno una serie breve, di endecasillabi (frattanto ridotti assai frequentemente, direi per analogia, a decasillabi). Per sé sarebbe ammissibile la legittimità, entro la prima serie, di decasillabi quali Ai, dumque pentia null'omo fare o et em quella forma bui gaudete;

qualora però non s'affiancassero loro incongrui versi brevi del genere di Ergo non mandicate? Volgiamoci perciò altrove: a un secondo giullare della Toscana meridionale (dico questo con la mente all'autore del Ritmo Laurenziano), Ruggieri Apugliese, la cui opera è interamente refrattaria alTisosillabismo. La descritta alternanza minima figura (e si hanno due manoscritti, quelli che il Morpurgo si limitò a pubblicare giustapposti, senza, come si può, ricostruire) nel Serventese detto già del Maestro di tutte l'Arti (sono quartine, come quelle della Passione di Clermont, ma monorime, e giullarizzate dall'aggiunta dell'adonio). E figura, cosa più interessante (prescindendo da altre eventuali irregolarità mal verificabili nell'unico manoscritto), nella fronte della canzone de oppositis (cioè nei versi in a della strofe aaab7aaab7C11C11). Ma nella Passione (quartine monorime) appare frequente non solo la misura decasillaba («Ruggieri à fatto la sua 'Passione'»), ma addirittura l'endecasillaba («ki lo 'nvita, ke non vada a mangiare»), ciò non senza rapporto, forse, con asimmetrie nel numero dei versi (cinque, ma anche due): quanto si può ricavare dal manoscritto, anzi ormai dalla stampa unica, quella del De Bartholo-maeis (poiché sono spiacente di dover comunicare che il fascicolo Cittadini delle carte Molteni all'Ambrosiana è irreperibile), è almeno la possibilità dell'anacrusi. Un caso particolarmente frequente di alternanza novenaria/ ottonaria si ha nelle laude: esso è anche stato oggetto di speciale segnalazione, a cura di quel Giuseppe Galli al quale, non so perché, il mondo ufficiale degli studi, tante volte così indulgente, ha preferito mostrare il viso dell'armi. La cosa, se persiste al trecentesco livello perugino da lui esaminato, è però connaturata alla formazione stessa della laudaballata, e pertanto è palmare nella raccolta di Cortona (dove occorre pure un altro dato, ben noto alla metrica d'oltralpe, ma da noi inconsueto, l'equivalenza all'ottonario piano del settenario sdrucciolo della chiusa e del ritornello, «discese benignissima» come «La vertù celestiale» [111], «Tu, Spiritu paraclito» come «al Tuo regno spazioso» [xxxi]). Il novenario-ottonario delle Cortonesi merita rilievo per più d'un titolo. In primo e più eminente luogo, perché esse sono musicate, e l'alternanza (nel caso addotto si tratta di 'tempo vuoto') postula, nonché esserne semplicemente passibile, un'interpretazione melodica. In secondo luogo, perché su quest'analogia (come s'è già visto per l'endecasillabo del Ritmo Cassinese o per l'emistichio settenario di fra Giacomino o del Servente se romagnolo) possono germinare altri tipi, fino a quel caso-limite che è ancora laudese: Jacopone. In terzo luogo, perché la lauda, controcanto della ballata, costituisce un ovvio transito alla poesia cortese (già più che sfiorata con la canzone de oppositis), e giustifica la domanda se la fenomenologia studiata valga anche sul suo territorio. A quest'ultima inchiesta sarà opportuno cercare una risposta dopo aver esaurito il punto precedente. Nell'ambito Cortonese è anzitutto da riconoscere un endecasillabo risultante (vili) dalla somma d'un quinario (con rima interna) e d'un senario, secondo l'esempio stella marina - che non stai nascosa. Ad esso si può applicare il principio che sancisce il passaggio dal decasillabo 'epico' all'alessandrino: l'identificazione del primo al secondo emistichio, secondo l'esempio bellezza formosa, - de Dio se' semblanza. Il risultato è d'un quinario-senario, anche qui solo in prima sede, non intercambiabile (dunque non assimilabile al novenario che si fa ottonario); e la differenza in fatto non è d'un 'piede', ma d'un'anacrusi sillabica, non per mero caso, probabilmente, ma perché si tratta, a quanto parrebbe, d'un limite ritmicomelodico invalicabile. (Nella lauda I, di novenari-ottonari, l'isolato decasillabo «Vigorosa, potente, beata» non si trova nella parte comune al laudario Aretino; e dire Cortona vale, con l'ambiguità che è convenzione normale in ecdotica, quanto dire la redazione primitiva di cui Cortona è il più fedele rappresentante). Un caso da giudicare veramente analogico è invece quello dell'altro endecasillabodecasillabo che ora riconoscerei, come prima non feci, entro la lauda xxxiv, esondata anche fuori del repertorio primitivo, essendosi infiltrata nell'appendice apocrifa o sospetta della raccolta jacoponica (è la

ci dell'edizione Bonaccorsi). Che versi quali «dolz'amor, Iesù, sovr'ogni amore» (2) o «colla mente sempre conversare» (139) o «creatura che mi satisfaccia» (160) siano sinceri decasillabi, non bisognosi di supplemento, mostra il fatto che versi iniziali di strofe, non leggibili come endecasillabi se non a prezzo di contorsioni, non sono peraltro modificabili perché legati col vincolo delle coblas capfìnidas: con «Amor, chi T'ama non sta ozioso» si paragoni infatti «Creatura umana scognoscente» (45) o «Freddi peccatori, el grande foco» (80). Lo stesso per la lauda xxxvi (si comparino, in ugual regime di collegamento, «Languisci ripensando la tua noia», 8, e «Séguita l'amor, che pò valere», 12). Credo proprio non si possa disconoscere a codeste laude quello che non si rifiuta all'ensenhamen per il «Compagno Guliemo», ad esempio (23-4): Se per ventura tu no à' melle in bota, fa' sì che tu n'abie in la tua boca. Stranamente, nella patria del testo non si era ancora riconosciuta Verona; forte è dunque la tentazione di pensare al misterioso Osmondo che si trova associato allo Schiavo da Bari. E poiché siamo a Verona, confessiamo che anche nella cosiddetta Caducità, di quel maestro tanto vicino a fra Giacomino che per il Mussafìa non era altra persona, tra gli endecasillabi di base si potrebbero bene ammettere senza integrazione i parecchi decasillabi del tipo (73) «Tu ei tal com'è lo monumento» (sarebbe il 'tempo vuoto' che incontrammo nel De Ierusalem e nel De Babilonia). Estensioni analogiche, oltre le citate, è dato riscontrare anche fuori dell'ambito laudese. La Nativitas rusticorum di Matazone, per esempio (e con essa si oltrepasseranno di parecchio i confini del Duecento), è in settenari che ammettono a dir poco la variante ottonaria; trovando un parallelo ritmico, oltre che tematico, nel capitolo O malvaso rio villano attribuito nientemeno che a Cecco d'Ascoli. Ma rientriamo nella provincia laudese, e anzi portiamoci al limite. Che è Jacopone, non soltanto per la situazione sociologica del suo laudario, «laudario personale» (De Bartholomaeis) e non di confraternita, ma anche per l'eccezionalità dei ritmi: tuttavia ben radicato nello stato primitivo tramandatoci con la fase Cortonese. Uno scrutinio serio non era possibile finché si disponeva della sola Bonaccorsi; e nemmeno, direi, col testo minor e provvisorio pubblicato dalla signora Ageno nel 1953. Ma ho avuto il privilegio di poter studiare la documentazione completa adunata dall'instancabile lavoratrice a fondamento d'una lezione ancor più progredita, per circa un quarto del repertorio. Limitandomi ad esso, posso però formulare conclusioni aritmetiche abbastanza precise, confortate da testimonianze plurime che consentono un solido stemma. E intanto: il seme del selvoso, abnorme anisosillabismo jacoponico è pur sempre il vulgato novenario-ottonario. Posso infatti citare le laude vi, xvii, xxiii, xxviii, xlviii, liv, lv, lix, lxxxiv e, limitatamente ai versi lunghi, lxxxiii. La maggior parte si attiene frugalmente stretta al pendolo sillabico; e una, la vi, addirittura esibisce fra gli ottonari un novenario solo (33, «en Dio te seccan la radice»): ciò vuol dire, frattanto (e alla medesima conclusione porta l'esame delle laude liv, lv, lix), che, diversamente dall'ambiente 'giullaresco' e conforme, invece, ai fatti Cortonesi (si vedano, colà, laude come la xiv, la xxxiii, la xlv, la xlvi), l'ottonario è la base, il novenario la dilatazione. Non, dunque, novenario con 'tempo vuoto', ma ottonario con 'anacrusi'. E ciò forse spiega, questo rovesciamento di situazione (dovuto certo alla convergenza dell'octosyllabe col metro di «Stabat mater dolorosa»), come più facile sia l'espansione, voglio dire il raddoppiamento e la moltiplicazione dell'anacrusi. Decasillabi appaiono infatti in xlviii (per esempio 60, «un ventre de lupo en voratura») e, tra altre essenze ritmiche pur variabili, in lxxxiii (per esempio 12, «ch'io non moga abbracciato d'Amore»). Sia detto addirittura che questo settore offre il caso estremo di variabilità, poiché nella xxix dal minimo ottonario (1, «Molto me so' delongato») si giunge a un massimo endecasillabo, sia pur con iniziale vocalica, ma anche a inizio di strofe (7, «Alluminato me mostro da fore»). Jacopone consente una nuova esperienza su una base, se non identica, affine a Cortona. Il suo quinario, associato in versi doppi, è passibile di variante senaria nelle laude xix, liii e, limitatamente ai versi brevi, lxxxiii; nella lui è un esempio crescente, ma scarsamente probatorio perché in seconda sede con inizio vocalico (54, «pochi ne trovo en cui sia consolato»); la seconda anacrusi viene attuata, tuttavia, copiosamente nella xxv, dove su uno sfondo dominato da endecasillabi di andatura 5 + 6 si può realizzare

un verso come (72) «che te guarden dai vermi che te sto a devorare». Un'estensione per analogia presenta da ultimo il settenario, che si offre con allargamento ottonario nelle laude xxxi (dove ha funzione d'emistichio), xxxvii, xciii. In lvi, che non è una ballata ma un «trattato» (v. 53) ossia epistola, in coppie di settenari come Tesoretto e Favolello, con pochi ottonari fa la sua comparsa un senario, unico ma in compenso irriducibile (49, «Vale, vale, vale»): al metodo dell"anacrusi' congiungendo quello del 'tempo vuoto', proprio in una misura sperimentata presso fra Giacomino. La stessa fenomenologia conferma il doppio settenario di vili e lviii, dilatabile qualche volta a ottonario, ma anche degradabile a senario, e ciò, significativamente, soltanto in sede dispari («Dico che accóncete», «Lagna puoi e fèrete», «Mustrarà la misera», ecc.). Riconosciuto così quello che è il caso-limite ai sensi del pallottoliere, Jacopone, si può ormai indagare quello che è il caso-limite sul piano della sistematica retorica: le eventuali tracce di anisosillabismo nella lirica curiale. Anticipo sùbito che, se non si può conseguire un'identica sicurezza nei particolari, non sembra che ci si possa sottrarre neppur qui a una risposta positiva. E intanto: posto che il novenario subisce le alternanze che conosciamo in territorio didattico, 'giullaresco' (inclusa una canzone dell'Apugliese) e melodico (dalla ballata-lauda a una ballata dei Memoriali), non gli accadrà per avventura qualche cosa di simile quando sia assunto in un contesto propriamente lirico? Vanno interrogati già i Siciliani, anzi il loro stesso capostipite, il Notaio, per la canzone (poiché spetterà a lui, non a Rinaldo d'Aquino) Guiderdone aspetto avere. E qui il verso iniziale di strofe, differenziandosi da quello che con esso rima e dai corrispondenti dell'altro piede, pare ammettere la variante novenaria, perlomeno (da tutta la tradizione) in 15, «In disperanza no mi getto», se proprio non si vuole accogliere l'ingegnoso Di speranza del Pan vini, che però non so se possa collegarsi legittimamente col «Non vivo in disperanza» della strofe antecedente. Più sul sicuro si va con Guittone. Anzitutto egli è autore di ballate-laude (ci si può anzi chiedere se non spetti a lui l'invenzione di questa forma, una volta che e l'Incisa di ser Garzo e Cortona e Perugia stessa sono limitrofe alla sua Arezzo, sede d'uno dei laudari più antichi). Si prenda quella per san Domenico (xxxvii Egidi), in novenari-ottonari, che alla rima interna determinano senariquinari («a Domino dato — for patto», ma «e onorato - dal fatto»). Non basta: nella fronte (tolto qui il primo verso) della canzone Gente noiosa e villana (xv), fatto pure il massimo credito ai novenari dei canzonieri Rediano e Vaticano dov'essi divergono, si associano a novenari sicuri (tipo «e giùdici pien' di falsìa», 3) ottonari sicuri (tipo «e raterròmi di gire», 73). Lo stesso accade nell'affine O dolce terra aretina (xxxiii): qui, è vero, la tradizione dà un solo ottonario certo (41, «Ahi, corno mal, mala gente»); a patto però di assoggettarne parecchi altri, incluso l'incipit, a stiramenti procustei. Una pari esitazione, perlomeno al livello dei canzonieri, sembra di sorprendere fra ottonario e settenario. Sia ad esempio la canzonetta di Bonagiunta Uno giorno aventuroso (viii Parducci): la fronte e il primo verso della sirma sono, a giudicare da quelli irriducibili, di misura ottonaria, ma il Palatino, che pure nell'insieme è meno scorretto del Vaticano, introduce numerosi settenari (tale è appunto la misura della restante sirma, eccettuato l'endecasillabo di chiusa), «pensando in [non infra] la mia mente» (2), «stavo com'om dottoso» (4), «Però volsi [non ne voglio] cantare» (7), ecc., mentre poi l'altro, per le frequenti sue sovrabbondanze, non appare da solo molto degno di fiducia. O sia la canzone di Neri de' Visdomini L'animo è turbato: due ottonari dell'unico Vaticano (49-50) in sede altrimenti settenaria, «Or non si dovria mutare Per sé ciascuno alimento», si possono, certo, un po' crudelmente potare, ma non con la coscienza del tutto tranquilla. E allora: tornando in Sicilia, con la canzonetta (data anche a Pier della Vigna, ma d'un messinese) Uno piasente isguardo, è proprio sicuro che si possano leggere come ottonari «perché mi ci amenasti» (20) o «e tu mi asicurasti» (23)? Pare dunque che l'anisosillabismo non si possa tener fuori neppure dai paraggi della poesia cortese. E in queste vicinanze, considerato che è un campionario dei relativi τόποι , conviene rammentare che, secondo l'interpretazione del suo ultimo diligente illustratore, il Vuolo, l'endecasillabo sciolto del Mare amoroso comporterebbe genuinamente, come in Francesco da Barberino, una libera mistione di settenari e di quinari-quater-nari, che dunque non sarebbero, o almeno non sarebbero tutti, glossemi e interpolazioni. Nell'ambito della poesia cortese ci s'imbatte, comunque, in un'innovazione di ben altra portata, che peraltro si riconnette, se non all'anisosillabismo, a quella figura più vasta che è l'equivalenza e la permutabilità delle basi metriche: dico l'asimmetria della stanza di canzone ostinatamente perseguita da

Chiaro Da-vanzati, con così scarso successo (anche ai tempi moderni) che il Casini potè applicargli un'ortopedia più violenta e più antieconomica perfino di quella auspicata dal Salvioni per Bescapè. Va bene che il Vaticano è manoscritto unico; ma la sua unicità non detrae autorità alla constatazione, troppo copiosa e sistematica (come si vedrà da un'edizione che ne è stata ora preparata), tutt'al contrario prova la nulla diffusione della trovata, sprofondata in una con lo scandaloso inventore. Sia, ad esempio, la canzone Quando è eontrado il tempo e la stagione (V 211). Ogni piede nelle prime due stanze ha lo schema AB(b5)C, nella terza e ultima ABbsC; la sirma è nella prima stanza (c5)D(d 5)E{e5)D(d5)E, nella seconda c5Dd5Ee5D(d5)A} nella terza csDdsEesD. Asimmetrie del genere Chiaro mostra anche nelle corrispondenze simulate (la canzone 'd'amico', Or\r\ato di valor dolze meo sire [V 216], che risponde alla regolarissima canzone 'd'amore' Io non posso celare né covrire, alterna nella sirma gli schemi CDDC, EFFE e CDdC, EFfE) e perfino nelle corrispondenze non fittizie (la risposta a frate Ubertino Se l'alta disclezion di voi mi chiama [V 200] alterna nella sirma DeeFF, come nella proposta, e DEeFF). Certo, questi esempi possono anche importare contrazione nel numero delle rime e loro sostituzione, ma fondamentalmente il numero delle rime appare costante e la variazione si attua attraverso una commutazione di endecasillabo e settenario ovvero di quinario-più-endecasillabo ed endecasillabo. Per quest'aspetto, alla tecnica di Chiaro si avvicina singolarmente, così com'è stata interpretata dal Vuolo, la tecnica del Mare amoroso: il quale rappresenta tematicamente il momento davanzatiano, e appare, coi suoi nimo 'nessuno' e indel 'nel', opera lucchese, cioè di quella regione occidentale a cui paga frequenti tributi la lingua del fiorentino Davanzati. È prassi ormai quotidiana assumere, nell'ambito del verso, la legittimità degli accenti che si possono chiamare non canonici. In ciò, dunque, nessuna novità di principio; se non forse l'opportunità che, ove non si mantengano per tuziorismo a scanso di correzioni gratuite, si procuri di contenerli in limiti da riconoscere obbiettivamente. Dato obbiettivo è la pluralità dei manoscritti che di Monte Andrea dànno un verso come (canzone Ahi lasso doloroso, v. 2): celar né covrire 'l mortal dolore (meno univoca la risposta per il v. 70, «e '1 doglioso manto adosso gli afibbia»); sì che se ne ricava appoggio per versi di tradizione non plurima quali poi dal corpo l'arma fosse partita oppure Voi, gentile ed amorosa pulzella o forse ancora (il manoscritto ha od) s'a l'apostolico non piace o a Dio. Una tale morfologia s'incontra con quella culturalmente non lontana, se pure ad attestazione unica, del Mare o di Chiaro (o del corrispondente di costui frate Ubertino): sono, per Chiaro, versi come ond'io forte morte tosto n'avròe o (manoscritto truovano) per loro si truova fondo a ciò ch'èe. Un criterio di puntuale economia deciderà tuttavia se non sia troppo oneroso, fuori d'un'accertata tecnica, stampare ad esempio col Massèra (Cecco Angiolieri, viii 5-6): e quanto m'è più pessimo el dolore

ad averlo, e l'ho, ch'a averlo perduto (del solo Escurialense), quando conviene tanto meglio, da ogni rispetto, leggere ad averi' el[l]o, ch'a averlo perduto. Lo stesso per le cosiddette dialefi eccezionali: senza insistere sulla questione di principio, si veda solo se il verso dello stesso Cecco (o di chi per lui), dall'unico Chigiano (lxxxvii 14), mi vanno in gola, e già danno volta non sia meglio restaurabile col supplemento «[la] volta», congruente per esempio all'uso di Dante (canzone E' m'incresce, v. 21). Sono questioni di discrezione, anzi di discretio. Semmai, nell'ordine prosodico, saranno leciti singoli acquisti, come la misura piana dei vocaboli sdruccioli che, al modo del più antico francese, sarà da accettare nel Serventese del Maestro di tutte l'Arti, dove non può essere un caso che sembrino rendere ipermetri i relativi versi (88, 118, 119, 175) adomestico, rethorica, gramatica e musica, femmine (non andrà letto allo stesso modo l'apostolico di Monte, citato sopra?); o il valore monosillabico cii veglio (a mimetizzazione del gallicismo) nel sintagma Veglio de la Montagna, crescente in Betto Mettefuoco (Amore, perché m'hai, v. 52), nel Mare amoroso (v. 30) e ancora nel trecentesco Orlando addotto dal Mazzoni; o l'enclitica provenzaleggiante m (tradizione mi), restaurabile nel Notaio, canzone Poi no mi vai, vv. 22 e 26, e discordo, vv. 66 e 94, e tuttora nel Mare, vv. 92 e 331. II Altrettanto a prima vista, si faranno incontro al lettore novità di qualche rilievo nella rappresentazione grafica. Meno importano quelle che riguardano il vocalismo. Si è così esperito il tentativo di conservare, contrassegnandole col puntino espuntorio, quelle vocali finali (più di rado interne) che una tradizione organica mantiene, mentre la prosodia ne prova la caducità: sono, s'intende, quelle del milanese di Bonvesin, che nelle mie edizioni erano state soppresse; e sporadicamente altre, anche toscane (per esempio nel citato veglio monosillabo). Altrettanto conservativo, ma questa volta incidendo sulla fonetica, è il trattamento della rima siciliana e sue varianti. Non parlo dei testi della 'scuola' in senso proprio, nei quali, giusta la formula media del Tallgren, la sicilianità, in rima e fuor di rima, risulta acquisita, quando l'alterazione si contenga in limiti puramente formali, al massimo della documentazione diretta. Parlo della rima siciliana dei toscani e limitrofi, che, dove la tradizione manoscritta concordi, è stata interpretata non già come offuscamento di un'identità fonetica e grafica (documentabile con esempi numeratissimi), bensì come un legittimo istituto culturale, per cui la rima di é con ì o di ó con ù non offende più di quella di é con è o di ó con ò. Qui la prassi su cui innovare si richiamava con maggiore autorità al nome del Parodi, e sulle sue orme del Barbi: ribaditori d'una stretta osservanza che non è più antica della tradizione fiorentina del secondo Quattrocento, di quella che chiamo volentieri filologia laurenziana, e si attua principalmente nella Raccolta Aragonese e nelle prime stampe. Anacronistico è trasportare a ritroso codesto gusto fra gli stilnovisti, Dante, Petrarca, per dir solo i classici di più quotidiana frequentazione. Ma da che un'edizione ormai meritamente diffusa della Commedia, quella del Sapegno, ha accolto l'appello per ripristinare in lume il famigerato lome del canto di Farinata, il restauro del secolare equivoco può dirsi avviato sul più largo mercato dei consumatori di poesia, quello liceale. Accadrà altrettanto per il consonantismo? Qui due sono i punti essenziali, pertinenti entrambi alla questione delle geminate, nella fonetica del vocabolo isolato e in fonosintassi. Colpisce, in concomitanza con un dato acquisito alle grammatiche storiche, la frequenza con la quale alcuni antichi manoscritti toscani semplificano le doppie protoniche, accanto a quelli che indiscriminatamente tendono a rappresentare col segno semplice tutte le geminate, senza riguardo all'accento (esempio più illustre il Vaticano 3793). Si parte, per intenderci, dall'abelliscono del Ritmo Laurenziano (che peraltro potrebbe anche essere un gallicismo), cioè d'un testo ordinariamente ricco nella rappresentazione delle geminate.

Tale esperienza autorizza a una larga conservazione dell'uso manoscritto nella detta posizione, in modo particolarissimo nel prefisso verbale a- (istituto morfologico per gran parte di ascendenza transalpina), la cui renitenza alla geminazione è, se non proprio una costante, un fenomeno a elevatissimo indice statistico nelle antiche scritture italiane, quali ad esempio i canzonieri Palatino e Chigiano, non di rado lo stesso Rediano. In sandhi era largamente rappresentato il raddoppiamento o rafforzamento fonosintattico, con speciale frequenza nel Chigiano. Anche qui si è data larga udienza, particolarmente in alcuni settori dell'antologia, all'uso dei codici (e anche al raddoppiamento in in e non più vocale), adottando per la separazione dei vocaboli il punto in alto che dalla filologia provenzale viene man mano conquistando l'italiana. In un autore come l'Angiolieri, di cui appunto il Chigiano è notoriamente il manoscritto fondamentale, codesta grafia dà un utile rilievo immediato, se non erro (e se non errava il Massèra dell"editio maior), all'aspetto relativamente vernacolare del dettato, la cui realizzazione fonetica è affidata, prima ancora che all'automatica interpretazione della lettura toscana, e peninsulare in genere, al mimetismo non intellettualizzato della grafia. Casi particolari poli-anno rivelarsi di qualche interesse linguistico, come la formula apo-mme del Chigiano (precisamente presso l'Angiolieri, cxxxviii 7), che, inquadrandosi nella regolare scrizione apo> sembra parlare per l'etimologia tradizionale apud (e qui come in generale la fenomenologia del cosiddetto raddoppiamento meriterebbe una ricognizione più accurata).NOTA2 O si consideri, all'inverso, la scempia di altretale (Favolello 63 ecc.), altretanto (ibid. 62 ecc.), probabilmente con oltremente (Tesoretto 809), che non sarà da ricongiungere col notissimo altre 'altri' (per esempio di Gianni Alfani, vii 8), a prova che la doppia attuale procede da una successiva rietimologizzazione con et (cfr. già altressì nel Mare amoroso, v. 216), mentre l'-e primitivo andrà riportato ad aliter immanente nella formazione del veneto (e del castigliano) -mentre per -mente. Un corollario notevole del primo di questi fatti merita evidenza: la semplificazione delle doppie protoniche si verifica anche in fonosintassi, e torna ormai agevole rispettarla con l'accennato stratagemma grafico, in casi come pe.rima (Tesoretto 909, 1117) o, attraverso l'obbligatoria apocope, de.legnaggio, de.lin o ta.lezzo (di Rustico), lo.ritegno o pu.ristringe (Teso-retto 833, 2760). Ma si va oltre, perché la doppia semplificata può risultare da un'assimilazione, con la liquida iniziale, di -l, così ma.riguardo ('Tesoretto 2053), o di -n, così gra.larghezza, u.laido, vie.la (Tesoretto 1390, 1632, Favolello 85), addirittura, investendo il morfema distintivo, faccia.risa (Tesoretto 1749). Il caso-limite è quello in cui attraverso la semplificazione sparisce un terzo elemento già autonomo, ovviamente un'enclitica ridotta alla sola consonante: e.lodo per e 'l lodo (Tesoretto 603); che addirittura potrà essersi, preliminarmente, assimilata: dentile da denti.lle per denti 'n le (Rustico, V 923, v. 5). La soluzione adottata, mentre è osservante della realtà e d'altra parte non consente equivoci, evita integrazioni quali tutt'i giorni accade altrimenti di postulare: se il supplemento si accetta, sia chiaro che esso ha un puro valore diacritico. iii Quanto alla sostanza della lezione presentata, essa si limita a compiere il suo dovere se si giova d'una miglior ricognizione dei documenti. Questa è psicologicamente tanto più malagevole quanto più si esercita su manoscritti di testi vulgatissimi, che spontaneamente si tendono a leggere, cioè interpretare, nel modo ereditario. È giusto che in limine faccia ammenda anch'io di codesta inerzia (o la si chiami, con metafora economica, vischiosità), a proposito d'un restauro certissimo che ho riconosciuto troppo tardi. Al v. 12 del Contrasto di Cielo il manoscritto unico (il canzoniere Vaticano) legge caisi m'tperdera, variamente supplito dagli editori, talora con quell'intelligenza che, nel corto circuito d'una posticcia autonomia, smarrisce la sua funzione strumentale e svia dal rispetto sincero del fatto. Ora, le due sillabe mancanti nel manoscritto ci sono. Dopo l'emistichio dispari del verso precedente, «se li cavelli artón[n]iti», è infatti un dona espunto, che non è né ripetizione né preannuncio di un riconoscibile vocabolo vicino: sarà dunque l'erroneo anticipo del secondo anziché del primo emistichio successivo, cacciato dal posto usurpato ma non ripristinato in quello giusto (il che tra l'altro sembra parlare, in questo punto, per tradizione scritta); e il nostro emistichio andrà letto donna, c'aisì mi pèrderà

(il provenzalismo aisi compare, secondo lo stesso canzoniere, e secondo esso soltanto, al v. 49 di Donna amorosa di Pietro Mo-rovelli, oltreché nella canzone di Auliver, vv. 18 e 21). Mi lusingo perciò di essere autorizzato a fornire un succinto campionario di letture migliorate da manoscritti, com'è il caso precedente, unici, temendo solo di aver lasciato troppo pascolo alle future diligenze. Ritmo Cassinese, v. 21. Va letto non reguare, occasione a molti deliri esegetici, ma regnare, che beninteso è il triviale provenzalismo per 'vivere' (un' n identica ha desplanare 18). Il passo va perciò ricostruito, con un supplemento che restauri l'ottonario: Ai, dumque pentia null'omo fare [en] questa bita regnare, deducerc, deportare? (col fare modale studiato dalla Ageno sulle orme del Tobler, di cui sono copiosissimi gli esempi, Alessio 175; Jacopone, vi 36 e xci 361; Giostra 372; Patecchio, Splanamento 338, ecc.). Ruggieri Apugliese, canzone de oppositis, v. 7 (unicum del Vaticano). Va letto non enuidioso ( = e 'nvidiosó), ma, mi par proprio, enodioso, che migliora il contesto («cortese e villano enodioso», al massimo «... e no(d)ioso») e ripristina il vocabolo (enoios) contenuto due volte nel modello occitanico, la canzone Savis e fols di Rambaut de Vaqueiras. Detto del Gatto lupesco, v. 80. Va letto non cosieci, divisibile in più modi, ma cosicci ( = così.cci), che libera dalle perplessità inerenti all'una e all'altra soluzione. Giostra delle Virtù e dei Vizi, v. 251. Va letto non infrecça, la cui connessione con 'freccia' lascia buio il passo, ma infiecqa, derivato da quel fieccia 'feccia' che ancor oggi vive in tanti dialetti italiani, dal Lazio a Lucca e a Ferrara, e bene s'intona col letame contiguo. Dunque: c'a.mme incressce tua voce, ke losenga lu core et infiecça clamore de lotam pucçulente (dove probabilmente sarà da correggere clamore in l'amore). Nella Giostra stessa, v. 580, «e fontal pïetate» (così il codice) dà lo splendido senso che la lettura fo 'n tal occultava del tutto. Per quanto infatti si stia all'erta in materia di interpretazioni per divisione, solo il ritorno al manoscritto sana in fatto molte cattive analisi passate in giudicato. Anche in questo settore più dimesso il raccolto non è scarso. Così nella canzone di Auliver, v. 40, il manoscritto (Barberiniano) dà chaor, cioè ch'aor (non cha or), conforme all'esito di au, lettura che si ripercuote su bramao, diventato improvvisamente ipometro, cioè da restaurare in -ava (ma proprio così nei due versi precedenti vanno corretti gli altrettanto ipometri cuidaf, del resto con f da u, e amaf: la precoce introduzione del tipo 'amavo' per amabam - siamo circa il 1330 - è un'innovazione di Nicolò de' Rossi, NOTA 3 o del suo antigrafo, a patina dell'originale). O si veda il frammento Papafava [ma ora cfr. p. 210], ai vv. 64 e 68: il ritorno a igera, cioè ig' era (non i gera)y sopprime l'antichità di gera. 0 ancora il Tesoretto, v. 1321 (dei tanti, stavolta, manoscritti penso al Riccardiano): dividerà mi sconto chi non ravvisi in misconto il gallicismo 'sbaglio il conto'. Non mi dissimulo, beninteso, che si dà pure il caso contrario: in un torturato passo della canzone de oppositis, vv. 71-2, il testo

[R]ugg[i]eri Apugliesi conti, Dio!, con' vive a forti punti (ossia 'racconti, oh Dio!, come vive in estreme difficoltà') si ottiene soltanto frazionando il secondo vocabolo del secondo verso. Non so se sia superfluo precisare che, non dico all'esatta lettura, ma alla stessa lettura paleografica, può ostare l'incomprensione del contesto. Che cosa mai poteva impedire al Lagomag-giore di leggere un verso fisicamente chiarissimo dell'Anonimo Genovese quale (cxxxviii 130) «leticie, vai e i arcornim», limpido almeno per il vocabolo iniziale che è proprio il più oscuro all'editore, se non la mancata conoscenza del francese letice (poi -isse) per 'donnola bianca' (o addirittura, che non fa al caso nostro, per 'ermellino')? Qualche volta, per ragione della detta vischiosità ecdotica, l'accertamento della lezione manoscritta rimane sterile agli effetti editoriali: l'Arese, nel suo meritorio rifacimento della Crestomazia del Monaci, ha visto bene (e ha stampato) che nel v. 33 di Cielo sta prò- e non per-cazala (i compendi del Vaticano sono simili ma distinti), riproducendo più da vicino, con tanti altri gallicismi, porchace 'incalza', ma lascia all'utente di correggere mentalmente nel testo D'Ovidio anche l'errore di lettura. Non vi è quasi testo (e ciò valga a far dimettere a tutti noi editori ogni jattanza) che non si avvantaggi della revisione. Se si dicesse che il Rajna, che era il Rajna, nel pubblicare il più volte citato Serventese del Maestro di tutte l'Arti, legge non so quanti h, con ben sorprendenti corollari, per una foggia un po' meno usuale di k? Ma per alcune scritture il restauro, fuso con inevitabili correzioni, appare tanto copioso da mutarne la fisionomia. È il caso fra molti del cosiddetto Sirventese lombardesco (per cui séguita a parermi suggestiva la proposta bertoniana di Sordello), che ad esempio si può depauperare di forme strane, come gà, che esige il supplemento a, nel secondo emistichio del v. 63, dov'è invece un g a, da intendere, al lume di cogso = conquiso 66, qui [q con abbreviazione] a («non è de q[ui] a Fermo»); e arricchire, tornando al codice, d'un bell'occi-tanismo quale (15) «dret è qu'onor nou.s covra» o d'un'esatta distinzione quale sol mondase 45 (ma naturalmente il rinnovamento dell'aspetto complessivo qui si raccomanda soprattutto a letture di cui non si sa dire se siano più interpretazioni o correzioni, quale dir 23 per un vocabolo ricalcato e mal trascrivibile, o addirittura a congetture franche, quali contra 26 per cornta, sent 72, già dello Spitzer, per sem [«de l'enoia - qu'eo sent e sofr' e duro»]). L'esame del documento agli stretti fini della lezione conduce però una volta a varcare questo piano. Si sa che il manoscritto Molfino del cosiddetto Anonimo Genovese consta di due parti vergate da mano diverse e di numerazione non congruente, la prima mutila in fine con molto spazio bianco, la seconda acefala. Il Parodi si accorse tardi di cosa sfuggita al Lagomaggiore e a lui stesso, cioè che il testo è il medesimo: la descrizione e l'elogio di Genova fatto in viaggio durante la tappa di Brescia (cxxxviii). Più curioso è che, sul momento stesso della rettifica, egli non riconoscesse, né lo riconosce la più recente, minuta descrizione del codice (fatta in occasione della scoperta del frammento d'un altro), la perfetta continuità del testo senza la minima lacuna. Anche qui si verifica dunque una circostanza che banale è solo in altri ambienti culturali (si pensi alla funzione della pecia): a due distinti scribi era stata affidata la copia delle due sezioni in cui era stato diviso l'esemplare. iv Il discorso verteva fin qui su manoscritti unici. Là dove la tradizione è plurima, si è naturalmente procurato di allestire un testo critico, cosa che era stata fatta, sia pur non sempre con rigore, quasi solo nell'ambito della lirica. L'aporia del tempo del Monaci, per cui d'un medesimo testo si potevano riprodurre i vari testimoni senza proporsi alcuna ricostruzione (e ciò anche quando essa risultasse compito d'una paleontologia ben elementare, come nel caso di fra Giacomino, i cui quattro manoscritti sono, del resto ancora utilmente, allineati dal Barana), era comprensibile forse nel momento della raccolta e della classificazione: ripeterla oggi, come per fortuna non accade più di frequente, sarebbe sprovvedutezza o pigrizia, che male si ammanterebbero del paravento bédieriano, come se i principi, assunti a dogma, del grande francese non insorgessero al termine d'una lunga, impegnata, drammatica carriera lachmanniana.

Si chiami pure neolachmanniano l'atteggiamento che, ovunque fosse possibile (e cioè non ricorressero rimaneggiamenti redazionali), ha guidati collaboratori e compilatore, legati da una fitta conversazione, nella costituzione testuale: i benefìci del neolachman-nismo sono visibili, per dare solo esempi massicci, nel progresso e nella novità conseguiti dalla Ageno per Jacopone, dal Favati per Cavalcanti. Tolto il caso di Jacopone, non si può dire che le posizioni siano state spostate dall'acquisizione di nuovi manoscritti decisivi. L'uso del codice di Bruxelles (già Fox), semplicemente noto al Wiese dell 'editio minor, per il Tesoretto, o quello del Fermano, segnalato dal Quaglio, per Folgore si è rivelato di utilità assai limitata. Tuttavia dei guadagni pur minimi che si posson sempre conseguire grazie alle voci nuove darò un esempio, perché riguarda il restauro di componimenti che, essendo indirizzati a Dante, sono entrati nel corpus dantesco ufficiale e nella memoria di tutti. Le terzine del sonetto (Angiolieri, cxxxvi) Dante Allaghier, Cecco, tu' serv' amico, secondo la lezione fornita dal Barbi alla Dantesca (ma quasi identica a quella del Massèra), suonano Ch'ai meo parer, ne l'una muta dice che non intendi su' sottil parlare, a que' che vide la tua Beatrice; e puoi hai detto a le tue donne care che tu lo 'ntendi; e dunque contradice a se medesmo questo tu' trovare. Strano è in lingua italiana a 11 del Chigiano, con funzione 'genitivale', a ripresa del prolettico su': il codice Landau 89 (ora in deposito presso la Nazionale di Firenze), dove m'è avvenuto di ritrovare questo sonetto, conferma il di del tardo Casana-tense. Quanto a tu 13, è un elemento estraneo interpolato dal Cittadini (Chigiano E può' lo, ripetendo erroneamente l'inizio di 12; Casanatense, per tacere dei suoi parenti, Chellantendeno): il Landau, con E bello, abilita alla ricostruzione, che direi sicura, che be llo 'ntendi (confermato dal verso di Dante «sì ch'io lo 'ntendo ben, donne mie care»). E il Landau, circa l'altro sonetto Dante Alleghier, s'i' so' buon begolardo (cxxxvii), serve a tingerlo di sfumature locali, sughi (o anzi lo' sughi) 4 per (ne [o vt\) suggi, pugnerone 14 per pungiglione o simili (pugnatone, pugnalone, pugnolone sono forme amiatine e aretine); mentre, arbitrando il conflitto tra Barberiniano e Casanatense (e affini) piuttosto a svantaggio del meno recente, ma non a detrimento della poesia, contribuisce a fermare così i vv. 12-3: E se di tal materia vo' dir piùe, Dante, risponde, ch'i' t'avrò a stancare. Qui si fa, dunque, ordinaria amministrazione di lachmannismo, senza problematica di rilievo metodologico generale. La sola esperienza di qualche significato uscita dalla recensio della tradizione manoscritta a più voci spetta ai limiti della tradizione orale. Era già chiaro che le anomale costellazioni della tradizione dei sonetti per i mesi di Folgore, non potendosi far risalire seriamente a un incrocio di collazioni (com'è patente per il ramo del Tesoretto che si oppone al fondamentale manoscritto Riccardiano), dovessero dichiararsi da 'tradizione orale'. Che dove non si riesce alla formazione di stemmi coerenti, la tradizione sia orale e non scritta, aveva tra l'altro concluso plausibilmente (se pure erroneamente in linea di fatto) l'ultimo scritto del Rajna, quello sul Saint Alexis Vaticano; ma nel caso di Folgore si vuol dire soltanto che quella tradizione, pur di carattere scritto, subisce le alterazioni peculiari ai testi che i copisti sanno a memoria e che sono ricchi di simmetrie e richiami interni, cui viene ad aggiungersi il contrappunto della parodia (Cenne). Ora dal lavoro di confronto a cui obbliga la scoperta del manoscritto Fermano vien fuori una conferma oggettiva: su singoli manoscritti di Folgore rifluiscono lezioni di Cenne. Così in il 2, che io ricostruisco «corte con fuochi ed in salette accese» (sottintendendo a in un 'essere, stare', conforme alla lassa sintassi di Folgore, che coordina sostantivi, infiniti, complementi

e predicati), alle salette o sale o affini il Fermano, solo, oppone un sança fumo che richiama per antitesi alle corti con fumo di Cenne. In vii 14 («ch'a tutto '1 mondo siano graziose») il Magliabechiano, solo, legge a Dio e al mondo come Cenne. Corrobora la natura del rapporto la vicinanza inversa della redazione Chigiana di Cenne a Folgore (o a suoi singoli manoscritti): in vii 1 essa legge non «Di giugno siate in tal[e] campagnetta», ma, press'a poco come Folgore (che ha dovi o sì vi do), «...vi dono una montagnetta»; in vii 6 non «che mille parte faccia...», ma «che faccia molti rami...» (Folgore «e faccia mille rami...», ma molti il Chigiano e il Fermano); in xi 9-10 e 12-3, abbandonando del tutto l'originale noto dal Barberiniano per lezioni vicinissime a Folgore, «A terza vi leviate la mattina, Non vi laviate né viso né mani» e «sarete più sani Che pesce in acqua chiara di marina»; più significativo il «tanti» (come in Folgore) per «alquanti» di x 1, erroneo perché il vocabolo è in rima al v. 4. Si concluderà che proprio la tradizione orale (pur nell'accezione limitativa qui precisata) si definisce razionalmente, cioè per 'strutture' particolari dei fatti. È ovvio che anche una situazione da metodo lachmanniano, cioè con testimoni multipli, non mortifichi l'emendazione, in in quanto essa tenda a ripristinare una lectio difficilior alterata o una volta nell'archetipo o, che sarà il caso più frequente, indipendentemente in più derivati. Ne do qualche esempio, per mostrare che neppur qui (ma è forse mai accaduto, da Gaston Paris in giù?) l'elaborazione d'uno strumento atto, almeno nell'intenzione definitiva, a consentire l'automatismo, qual è lo stemma codicum, sopprima l'attività congetturale, anzi in fondo, assegnandole un alveo preciso, la favorisca. Notaio, canzone Ben m'è venuto, v. 40 (ultimo), «chi sofra vince e compra ogni tardanza»: compra 'riscatta' rende conto di sconpra (con altro sostantivo) del Palatino, sgombra (anticipato) del Vaticano, conpie (pure anticipato) del Rediano. (Tra parentesi, sofra, a rigore interpretabile quale congiuntivo, sarà indicativo, come altra volta, per esempio in Petrarca, ccv 5 [imperativo], o come il dantesco cola, o il pigna 'spinge' di Teso-retto 2779, spigna 'spegne' di Paganino, Contra lo meo voler, v. 48, spegna di Arrigo Testa, v. 43, cfr. lo spingate di Rustico, V 921, v. 14, lo spingava di Inf. xix 120 e lo stesso toscano provinciale odierno). Guido delle Colonne, canzone Gioiosamente canto, v. 57, «Così mi tene Amore - corgaudente» (tradizione lo core gaudente)si ripristina, anche se non sia strettamente inevitabile, un composto, non altrimenti attestato, di gusto provenzale, in antitesi a cordolh, cor-dolor. Stefano Pro tono taro, canzone Assai mi placeria, v. 36, «una pulcella vergine dicata» (quella che cattura l'unicorno): il latinismo dicata si ricava da ditata del Barberiniano, dorata del Vaticano, innaurata del Rediano, sprovvisti, direi, di senso plausibile. Ruggieri Apugliese, serventese Tant'aggio, v. 36, «lignimaestro»: ἅπαξ λεγόμενον, sul tipo di lignifaber, per l'ipermetro «e di legname maestro» della tradizione. Brunetto Latini, Tesoretto, v. 663, «dé omo accivire», del solo Riccardiano, gli altri antivedere o cosa simile (continua «ciò che porria seguire» ecc.): anti civire (chevir è usato nel Tresor) sarebbe più rassicurante, contribuendo a eliminare un'importuna dialefe. Id., ib., vv. 2624-6, «Così convien che muoia Superbia per soperchio Che spezza ogne coperchio»: superbia (ma di questo primissimo fra i peccati capitali si sta appunto parlando) surroga un altro soperchio anticipato dalla tradizione (e al massimo si potrà correggere soperbio o sua variante). In questo caso, palesemente, il guasto risale all'archetipo; mentre nel precedente a una lieve corruzione del Riccardiano si affiancava una trivializzazione di quell'antigrafo a cui, come par di vedere attraverso la rete delle collazioni, risale tutta la restante tradizione. v Se dalla questione strettamente testuale si passa all'interpretazione, è meno facile, di tante proposte nuove, e anche astraendo da quelle contestuali per limitarsi a voci singole, sceglierne di convenienti a illazioni generali. Ecco, tuttavia, una brevissima serie, a indicare l'opportunità di non desistere nemmeno dopo il passaggio di curatori valenti, o magari numerosi.

Sant'Alessio marchigiano, vv. 64-5: «Sire Deu, tunce pia La nostra prece a-neve sia» (con pia, come ha visto bene lo Spitzer, predicato di la nostra prece). Tunce non sarà tunc, più esattamente (come per entonces preferisce il Corominas) l'arcaico *tunce 'allora', o meglio (come nelle forme settentrionali addotte dal Meyer-Lübke, REW. 8983) 'dunque'? L'area conservatrice subirebbe un'estensione congrua alla circostanza che degli otto esempi epigrafici di dunc da rifacimento di dum su tum/tunc quattro appartengono all'Italia centrale (Wartburg, FEW, in 179). Mazzeo di Ricco, canzone Sei anni ho travagliato, vv. 51-2: «Imperciò ch'ai malvagio pagatore Vaci omo spessamente». Si propone d'intendere vaci come semplicemente 'va', conforme al messinese moderno (cfr. Piccitto, in «Lingua Nostra», x, 1949, p. 35). L'influsso analogico di face si esercitava del resto anche in Toscana: si veda il sace attestato nel 16° proverbio di ser Garzo e, per entrare addirittura in Firenze, nel sonetto di ser Pace a ser Bello. Brunetto Latini, Tesoretto, vv. 2495-8: Adunque, omo, che fai? Già tome tutto in guai, la mannaia non vedi c'hai tuttora a li piedi. Nel testo dei precedenti editori, con un punto fermo dopo guai, fosse poi il verbo tome o torna, e uno interrogativo dopo piedi, il secondo verso restava, se non erro, incomprensibile. Ma si schiarisce quando già sia inteso non come avverbio, bensì, alla francese, come congiunzione. Detto del Gatto lupesco, v. 63: «e terra Vinenpum e Bel-lecm». Il manoscritto ha proprio così: ma non è dubbio che lo strano paese che compare fra tante contrade e figure esotiche sia, per un curioso equivoco (non so se del menante o dell'autore), la terra viventium dei salmi (26, 13; 51, 7; 141, 6) e dei profeti: Isaia, Geremia, Ezechiele. Rustico Filippi, sonetto Se no l'atate, vv. 10-1: ond' eli' ha sì perduto il manicare, che si suol sì atar per ficazone. Le interpretazioni correnti dell'ultimo verso danno a suol un valore di presente. Ma è normale che il presente di solere in antico francese e provenzale, da cui anche l'italiano perlomeno fino a Michelangelo («I' mi son caro assai più ch'i' non soglio»), sia traducibile col nostro imperfetto: la Mita aveva, dunque, appetito nel passato. Questa piccola chiave consente d'intender meglio il passo, riferendo che a ella (e pensando che il francese sol aidier vale 'essere in possesso delle proprie forze, cavarsela (con), intendersi (di), appoggiarsi (a)'), di tradurre cioè 'lei che per solito si rimpinzava tanto'. Lascio di ribattere le insinuazioni equivoche, ma ho nostalgia della crestomazia che si potrebbe compilare, vuoi a ricreazione dei colleghi vuoi per comodo dello psicanalista, coi luoghi innocenti tratti a interpretazione oscena per opera d'integerrimi padri di famiglia, modelli d'ogni domestica virtù. Tuttavia un sussidio specialissimo all'esegesi verrà da una maggior attenzione all'orizzonte regionale su cui nascono i singoli testi. Sia, ad esempio, la Giostra delle Virtù e dei Vizi, la cui localizzazione è bene accertata, e può semmai solo subire ulteriori collaudi: penso a stactima 'siamo' 480, conforme a un tipo che dalla buona tesi di Heinrich Schmid risulta ancor vivo fra Macerata e Teramo (ma Y-a apparterrà allo strato vernacolo sovrapposto, così come vi è un'opposta vernice banalizzante); penso a plantu 559, che, trovandosi in rima con -entu, e fuori della sfera culturale francesizzante in cui è possibile la rima di an con en, sarà da leggere plentu (o pientu), come nel piento della limitrofa Umbria (piegnere del Bestiario eugubino). Una parola difficile compare al v. 117, là dove si descrive la «famelia pesscima» di Babilonia. Superbia e le sue compagne: l'altre fay sì gran cama corno io t'aio ad contare, ke chi ne pò scanpare be.llu tengo valente. L'editore interpretava 'chiama', con riflessi (non irricevibili) di natura fonetica, su cui non insisto, ma con guasto del senso. Se però si pensa al canta 'pula, loppa' dell'abruzzese moderno (e il Vignoli lo dà

anche da Amaseno), bisognerà concludere per qualcosa come 'polverone'. Ancora: in esso quanto 271 («Bene li nostri prendese, set non vay esso quanto Lu toy cavaler finu») si può leggere 'immediatamente', a lume dell'abruzzese acquan-de> reatino acquantu, 'in questo momento'. O infine, là dove si legge (vv. 369-70): Et de lu soy pagese omne cresta ammuriata, brano che si è prestato a strane elucubrazioni, basta riflettere all'aquilano murïana e al pure abruzzese murìa 'ombra' (che va col murila 'meriggiare' di tanti dialetti meridionali) per ricavarne un eccellente ammuriata 'abbrunata, abbuiata'. E si aggiunga: quale sottoprodotto di codesto esame più minuto, o, se si preferisce maggior solennità di linguaggio, per eterogenesi dei fini, si possono ritrovare dati che valicano l'utilità dell'esegesi e prestano un puro interesse linguistico. In effetti, adsalipsili 'li assale' 41, smarissili 'li fa smarrire' (?) di un passo forse interpolato (dopo 44), d'altra parte scudura 183, in quanto opposto ad arcora 255, non si possono interpretare che come un raro tipo di armonia vocalica (penultima di proparossitoni condizionata dalla tonica) a cui non soccorrono paralleli noti che remoti e nello spazio e nella fenomenologia (cfr. Bertoni, Italia Dialettale, § 40; Rohlfs, Historische Grammatik..., § 332). Mi pare utile precisare che la descrizione dell'orizzonte regionale torna utile anche per testi toscani. Un esempio da Rustico: il suo pirgopolinice, si sa, «burfa spesso a guisa di leone» (sonetto Una bestiuola, v. 10); e con ciò 'sbuffa', forse, o 'sbruffa'? Direi che la sonora aspirazione avvenga, semmai, all'indentro; e qui, se per ora non aiutano Chianti o Mugello, il soccorso viene da Arcevia, dove burfo significa 'sorso'. Ma certo l'orizzonte può essere assai più prossimo. Nel sonetto di Folgore per gennaio si propone quale piacere (v. 5) treggea confetta e mescere a razzaio, dove l'ultimo vocabolo, scritto separato o anche unito (arazzaio), era inteso come nome di vino frizzante, quasi si trattasse di razzese. Il toscano, almeno in Versilia (cfr. Pieri, nel Supplemento v dell'«Archivio glottologico italiano», 1898, p. 162), conosce però razzato o rezzaio (e infatti i codici toscani di Folgore hanno a.(r)ezzaio o i.rezaio) col valore di 'luogo freddo' (da cui numerosi toponimi). Se ne ricava che quella clausola di verso vale 'mescere, bere vino in luogo freddo': la voluttà consiste nel combattere il gelo con ogni fomento, di fuoco, di coperte, di lane di Douai e di Arras (doagio e racese), infine di robusto alcoolico. O rivolgiamoci al parodista, a Cenne: nel cui sonetto per aprile, v. 5, i «birri romaneschi e di Campagna» fanno una stravagante apparizione manesca se, come si suole assumere, si tratta (e precocemente) di 'sbirri', in veste, oltre a tutto, di teppisti («Notevole», può infatti glossare un attento esegeta, mettendo preterintenzionalmente il dito sulla piaga, «l'antichità dell'esempio, col significato di 'malandrino'»). E se s'interrogasse la parlata locale? Vocabolari dialettali e la carta dell'AI S. apprendono che il tipo birro 'montone' dalla Toscana meridionale (senese-grossetano, cfr. forse i beri del Maestro di tutte l'Arti, v. 88) per il nord dell'Umbria e delle Marche raggiunge la Romagna (bér)\ e qui non importa determinare se sia tutt'una cosa coi settentrionali *berrulo e *barro (rifatto sul plurale *berri?) o con certe formule di richiamo per i greggi ovini (voci di questo genere da immotivate rischiano sempre di rifarsi volta per volta fonosimboliche, secondo una periodicità di semanticità ed evocazione che può turbare solo etimologisti rigidi); mentre mi par certo che il tipo b-, vir(r)o 'tacchino' (da cui anche billo, per il solito ricorso di motivazione), essendo perfettamente limitrofo al precedente ma non mai, sembra, puntualmente confuso, si chiarisca metaforicamente come il 'montone da cortile' e contribuisca ad estendere l'area. Nei versi di Cenne si parlava già di tafani e di asini: non è opportuno rimanere nella fauna? (Fra parentesi, stupisce che i consecutivi «marri de pian de Romagna» siano delle 'marre', ossia dei 'man-aiuoli': o che molestia possono mai recare i guastatori, i genieri? In romagnolo mar vale 'ramarro'. Mi pare un animale suscettibile di porre la sua candidatura in calce a un elenco tanto zoologico). S'intende che la pugna scatenata da ciascun birro sarà femminile, non neutro plurale, con di partitivo. Anche in punti minimi far mente locale può servire. Il polcinello di Cecco Angiolieri (vili 13), ad

esempio, non è un generico 'doppio diminutivo' o 'pseudodiminutivo': no, è ancor oggi termine specifico per designare il 'pulcino', o magari 'l'ultimo della covata', in un'area che, come mostra l'AIS., investe il sud delle Marche, l'Abruzzo, l'Umbria e, comparendo a Pitigliano, evidentemente includeva il sud della Toscana; cerne 'staccia' (lxxii 6), se pur il sonetto è di Cecco (si badi che una vera e propria citazione dell'inizio è nel Corbaccio), nel Seicento era sentito come senese (cfr. Castellani, in «Lingua Nostra», vili, 1947, p. 70). I particolari si affittiscono presso autori finora mal studiati che escono da codeste province di Toscana o da regioni di confine col Lazio e l'Umbria. Penso a Ruggieri Apugliese, dove hanno rilievo locale forme come igne parte 'ovunque' al modo francese (che trova conforto nell'igni di Lucca e Livorno, 'gni in Versilia e già nell'antica Siena), o gualke 'gualchiere' (attestato fra l'altro negli Statuti senesi), o e' articolo singolare («Sommi guardar quando mi mette E' dubbio in forse»), o la sillaba iniziale di guormenella, o ancora sonno (per sum e per sunt), giuderi, povaro e simili, kesto, abbo (anche desinenziale), tagli 'tali' (monosillabo) e simili, in issavia 'sùbito' (per verità tipo anche di Brunetto), viega 'bieca, guercia' (se comparabile all'alternanza biegio/viegio), die 'deve' (più senese che fiorentino), kostune 'disputa' (cfr. il romano e aquilano costione); e perciò, posta la concorrenza di mullaro nel codice lucano e mugniaio nel fiorentino, s'instaura mullaio (conforme al mollarius di Todi e delle Marche). Penso all'oscuro Ciuccio, dove un componimento solo associa - e, si noti, nel fiorentino canzoniere Vaticano - puoi 'poi', l'articolo ei, fiei 'feci', le proclitiche en, de, me, il futuro forziraggio, pense ed estense '-inse', la scrittura raigion (comune ai Conti di antichi cavalieri), e dunque indica origine, per usare una formula larga, umbro-aretina. Ma penso, specialmente, alla spiritosa Canzone del fi' Aldobrandino, che per un ricco assieme di fatti, evidentissimi attraverso la tenue spolveratura padana del codice Ginori Conti, va attribuita alla regione a sud di Siena. Sono fatti grammaticali, quali fra molti spoglie 'spoglia' in rima, dunque di terza coniugazione, e le terze plurali pure in rima multiprìco e amo, cui non sono in grado di addurre riscontri, ma che sono rifatte certo sull'analogia di piango 'piangono'; sono soprattutto fatti lessicali, quali inguadiata 'presa in isposa', canto preposizione (come in antico romanesco), scosso 'senza quattrini', vasa 'stoviglie', se dio 'sedile', orche 'spalle' (di cui mi dà un parallelo un interessante vocabolarietto todino di Franco Mancini che è in corso di stampa), de chi a 'fino a' (così frequente negli Statuti senesi), deriscita 'sdrucita' (il Fatini dà sdèrciu da Piancasta-gnaio), tamanto, in camo 'di fastidio' (che, se può richiamarsi all' incarnare 'molestare' di Chiaro o a Wencamato, chiarito ormai per 'afono', del todino Jacopone, oggi ancora riesce a congiungersi agli amiatini incarna 'frastornare', riflessivo 'annoiarsi, inquietarsi', incamoso 'bisbetico'). Un risultato di carattere generale è insomma l'approfondita conoscenza delle culture regionali dell'Italia medievale, in particolare di quelle aree centrali che, trovandosi alla o sulla periferia della trionfatrice Toscana, sono state un po' troppo sommerse dal suo fulgore. Una delle chiavi delle origini è indubbiamente la cultura dell'Italia 'mediana', che non per nulla, sotto specie di cultura cassinese, è quella di più antica attestazione volgare. Precursore e patrono ideale di questi studi, sul terreno dialettale moderno, si deve considerare un maestro di cui deploriamo la perdita recente, Clemente Merlo, non fosse che per le ricerche geniali attorno alla formazione del neutro e alle desinenze di 3a plurale; sul piano degli antichi testi, nessuno ha contribuito tanto ad accrescere il nostro patrimonio linguistico, fra Cassino e l'Umbria, quanto Ignazio Baldelli. Altre prospezioni sono da programmare, per quanto pare a me, un po' più a nord, per la ragione delicata che ho addotta; qui e altrove si verranno, comunque, stringendo le maglie dell'ideale atlante dell'antica Italia dialettale, che non vuol dire soltanto vernacolare. E su un ultimo punto insisterò, perché esprime, ancor più esplicitamente che fin qui, un desiderio, e vorrei dire che contiene un appello. Una massa così abbondante, e disparata, di testi esaminati, per quanto le forze consentivano, sotto microscopio, ha per conseguenza inevitabile che essi si illuminino a vicenda. Un esempio solo. Rustico si chiede, in uno dei suoi sonetti più famosi (V 921, vv. 5-6): Non vi racorda, donna, a la fïata che noi stemmo a San Sebio in tal gineccio? Anch'io, come tutt'i miei predecessori, ero tratto a interpretare ovviamente a la fiata 'qualche volta'. Sennonché mi è poi sovvenuto alla mente il passo del Notaio (canzone Dolce coninzamento, vv. 1820):NOTA4

Rimembriti a la fiata quand'io t'eb[b]i abrazzata a li dolzi basciari. Non è ben singolare che col verbo del ricordo, qui impersonale, compaia un'altra volta un'espressione avverbiale per cui lo stesso buon interprete dei 'giocosi' può giustamente chiosare «è un po' una zeppa»? È normale che ci si rammenti del giorno che... (Giacomino Pugliese, Ispendïente, vv. 4-5, «Or ti rimembri, bella, la dia Che noi fermammo la dolze amanza») o di quando... (Notaio, discordo, vv. 152-4, «Rimembrando, Bella, quando Con voi mi vedea»). E poiché finalmente si rinviene in Chiaro Davanzati (rimembrare, rimemorare costruito con a, il valore di quei passi risulta chiarito in modo soddisfacente. Chi sa per quanti altri, tuttavia, l'illuminazione reciproca mi sarà sfuggita. Non ho una memoria elettronica; e la materia da rammemorare dovrebbe includere il più gran numero di scritture coeve e anche, per gli ambienti conservatori, parecchie delle più recenti. Non c'è che da cominciare a preparare un po' di schede perforate per il nostro 'robot' filologico: allestire spogli o anzi glossari completi di più testi e autori che si possa, anche di breve respiro. Come già mi accadde di suggerire altra volta, io vi esorto alle Concordanze. Relazione tenuta al Convegno di Studi di Filologia italiana nel Centenario della Commissione per i Testi di Lingua (7-9 aprile i960) e stampata nei relativi atti: Studi e problemi di critica testuale ( = Collezione di opere inedite o rare pubblicate dalla Commissione per i Testi di Lingua, 123), Bologna 1961, pp. 241-72. [L'edizione di Chiaro Davanzati preannunciata a p. 189 è quella di Aldo Menichetti, Bologna 1965. - Quello che nell'antologia e qui sopra, p. 197, si chiamava neutramente frammento Papafava, dovrà ricevere altro titolo da che un quarto di secolo più tardi (1985) ne avvistai a colpo un altro excerpto nella fotografia, che mi sottoponeva il Dr. Emilio Lippi, d'un foglio su due colonne, purtroppo tutt'altro che esente da guasti, ritrovato nell'Archivio di Treviso da A. Contò. Se ne attende pazientemente la stampa]. APPENDICE LA GRAMMATICA DELLA POESIA Lungamente attesa, esce finalmente la raccolta degli scritti di poetica di Roman Jakobson, il primo fra i linguisti oggi viventi. Sotto il titolo, celeberrimo fin da quando designava solo una relazione congressuale del i960, di Poetry of Grammar and Grammar of Poetry, essa costituisce il in dei sei volumi (di cui quattro usciti in precedenza) di Selected Writings dell'autore (Mouton Publishers, the Hague-Paris-New York 1981, pp. xviii + 814). Non opera omnia dunque, ma 'scritti scelti', per indicare che questa pur amplissima silloge non intende esaurire la presunta totalità del suo oggetto, il mondo linguistico, ma saggiarlo con indomita curiosità da sempre nuove occasioni ili pensiero. In questo, Jakobson si rivela veramente un 'figlio del secolo', non dell'Ottocento teso alla summa, all'enciclopedia sistematica, ma di un momento più moderno che si muove in spazi mentoli aperti, anche se volta per volta, come ad esempio nella teoria dei costituenti fonetici o nella stratificazione degli acquisti linguistici e inversamente delle perdite (afasia), per citare solo alcune delle sue costruzioni più note, intenda dare risposte compiute alle singole domande. Già uno sguardo a questo libro come oggetto esterno ne scopre l'enorme singolarità, proiezione di una straordinaria biografia. Al pari degli aliti volumi della serie, ma portando la poliglottia al limite, esso contiene tutti gli scritti nelle lingue originali, che sono: il russo, lingua materna dell'autore (nato a Mosca nel 1896); il francese, esperanto di ogni russo colto della sua generazione; il ceco, lingua del suo primo esilio (Jakobson fu uno dei fondatori del Circolo linguisti!i» di Praga); l'inglese, lingua della sua sede attuale (gli Stati Uniti, nella seconda metà della sua vita); il polacco, una delle sue lingue domestiche (polacca è la sua moglie e collaboratrice, dedicataria del libro, la squisita Krystyna Pomorska); finalmente il tedesco. Ciò significa naturalmente che la totalità del libro è accessibile solo ni ir.tretto pubblico degli

slavisti; ma va avvertito che buona parte dei saggi è leggibile in ottimo francese nella silloge, curata dallo studioso bulgaro Tzvetan Todorov, Questions de poétique (1973) Questo caleidoscopio esterno si aumenta di uno interno ancora più scintillante, poiché i testi poetici che vi sono esaminati appartengono, oltre che alle sei lingue di base, ad altre otto, compreso il giapponese In vati casi, che qualche volta spettano anche alle lingue di base, Jakobson si è avvalso della collaborazione di studiosi parlanti delle singole lingue, realizzando così una socialità scientifica che è il proprio di questo affascinante glottologo volante, raffinato superstite di un mondo sommerso, conversatore appassionante sempre volto a discussioni di pensiero e mai allo small talk. Con qualche civetteria sono anche localizzate le occasioni geografiche dei saggi, che tessono una larga rete sul globo terrestre. Quanto alla localizzazione temporale, si risale, per il saggio sul futurismo (altre pagine sui cosiddetti cubofuturisti russi sono nel v volume dei Writings, tutto dedicato ai problemi del verso), al 1919, nella giovinezza ancor russa dell'autore. È essenziale riconoscere il punto di partenza di Jakobson nella sua precoce critica militante (egli fu testimone, racconta agli amici italiani, della famosa tournée di Marinetti in Russia in quell'estate del 1914 che vide scoppiare la prima guerra mondiale). Intimo sodale dei poeti rivoluzionari, specialmente di Khlebnikov e di Maja-kovskij, e insieme attivo collaboratore dell'Opojaz (sigla della Società di Pietroburgo per lo studio della lingua poetica), «la controparte teorica delle turbolente esibizioni futuriste» (così in Writings, 11, p. 529), e del Circolo linguistico di Mosca, i due centri fondamentali del formalismo russo, il giovanissimo Jakobson assisteva alla fissione linguistica operata dai futuristi e la inquadrava nella speculazione sulla natura della lingua poetica, largamente basata su un'analisi dei canti popolari. Così l'attività del professore di Harvard e del Massachusetts Institute of Technology appare legata in non interrotta continuità coi ragionamenti e la prassi dell'avanguardia poetica negli anni della Rivoluzione d'ottobre. Il 1960 si può assumere come data di nascita della «grammatica della poesia» («le risorse poetiche celate nella struttura morfologica e sintattica del linguaggio, insomma la poesia della grammatica, e il suo prodotto letterario, la grammatica della poesia») perché in quell'anno Jakobson non solo dominò il congresso di 'poetica' tenuto a Varsavia, ma pubblicò l'altro manifesto programmatico Linguistics and Poetics, dal quale nella sua relazione opera espresse desunzioni. Ma poiché la metodologia trova la sua piena validità nelT 'applicazione' concreta (a quel modo che per Croce La letteratura della nuova Italia intese inverare la riforma della storiografìa letteraria inerente all'Estetica), possiamo spostare la data al 1962, quando Jakobson eseguì la prima verifica sul maggior poeta occidentale dell'età moderna, Baudelaire, e la eseguì con grande clamore, scegliendo per collaboratore nell'analisi del sonetto ('alla francese') Les Chats un altro maestro dello strutturalismo, Claude Lévi-Strauss, e per cassa di risonanza l'organo dell'antropologia struttu rale, «L'homme». Da allora ogni 'critica del significante' (in quanto opposta alla tradizionale 'critica del significato') si trova, nel bene e nel male, voglio dire nel legittimo e nell'arbitrario, in forma riduttiva o con eccesso, a fare più o meno direttamente i conti con la «grammatica della poesia». A compiere la cronologia attinente a questo tipo di critica dello scorso ventennio, va sottolineato che nel 1964, per merito di Jean Starobinski e del grande e sempre rimpianto linguista Émile Ben-veniste, si cominciò ad avere qualche informazione chiara su un tentativo di ricerca fonica nei versi esperito (e abbandonato) dal patrono stesso dello strutturalismo, Ferdinand de Saussure: quello degli 'anagrammi'. Partendo da luminose intuizioni sulla ripetizione dei fonemi nel verso e anche (la formulò a proposito di un inno vedico) sull'esistenza d'un'«analisi grammatico-poetica naturalissima posta quella d'un'analisi fonico-poetica», Saussure finì per specializzarle nell'inseguimento degli anagrammi o paragrammi, cioè nella diluizione discontinua in versi greci e specialmente latini degli elementi fonici di una parola-'tema', presente o più spesso assente (nel qual caso, ma la nomenclatura non si è ben rappresa, sarebbe più proprio parlare di ipogrammi). Nessun poeta latino, dagli arcaici in saturni ai contemporanei concorrenti al certame di Amsterdam (e nemmeno la prosa), sfugge al lucido delirio del ricercatore, che portò al limite insieme la fiducia e l'aporia. Una parte decisiva nella soluzione traumatica sembra l'abbia avuta Pascoli, non rispondendo, come par certo, a un'inchiesta sui presunti anagrammi del suo Catullocalvos.

Saussure si riconobbe in fatto vittima di un'aberrazione (i particolari della vicenda sono esposti nel libretto di Starobinski Les mots sous les mots, 1971). E qui basterà annotare come simile incidente di percorso non sia rimasto sterile, anzi abbia orientato Saussure verso alcune delle scoperte fondamentali del Cours de linguistique générale, professato sostanzialmente dopo il lavoro sugli anagrammi, deviando la sua attenzione dalla diacronia verso la sincronia, come scrive il suo editore, o più esattamente dall'asse sintagmatico della contiguità, dello svolgimento nel tempo, all'asse paradigmatico dei rapporti associativi che uniscono «termini 'in absentia' entro una serie mnemonica virtuale» (sono parole del Cours). Ma il discorso verte su Jakobson e sulla sua accettazione, che alla superficie parrebbe senza riserve, del Saussure anagrammatista. In realtà le differenze sono importanti. Il campionario di testi elaborato da Jakobson esclude il latino, il greco, il sanscrito, l'antico germanico: forse perché il campo è già arato da Saussure? (il che può essere interpretato come adesione o anche come cautela); o non piuttosto perché spontaneamente si rifiuta di operare su lingue moi te, a quello stesso titolo, benché inverso, in cui l'indoeuropei sii Saussure si inibisce di eseguire dissezioni su lingue vive, a cominciare dal suo francese? Gli esempi più antichi studiati nella Poetry of Grammar (e anche fuori di questo volume) non varcano mai il Medioevo (particolarmente slavo) e una fisionomia linguistica di trasparente riconoscibilità. E ricordo come nelle sue conversazioni Benveniste ammonisse a considerare perfettamente costruibili solo i sistemi fonologici delle lingue vive. Nella sostanza, tuttavia, l'adesione di Jakobson al Saussure ana-grammatista, che è più generalmente il Saussure della «poétique phonisante» e dell'«harmonie phonique», per quanto restrittive seni brino e siano in confronto alla sua propria concezione fonomorfologica, afferma in qualche modo la continuità di cui si discorreva. C'è anche poco meno d'una congruenza cronologica. Saussure (chi morrà nel 1913) attende alla sua avventura anagrammatica fra il 1906 e il 1909; nel 1917, per incarico dell'Opojaz, Jakobson studia in vista d'una pubblicazione che non potrà poi aver luogo, l'aspri io formale dei canti popolari russi raccolti nel Settecento. Il loro aspri to più vistoso è quel «parallelismus membrorum» che la cultura più vulgata conosce come carattere della poesia ebraica, studiato sei cu tificamente dal vescovo anglicano Robert Lowth poco oltre la nx la del Settecento; successivamente questa proprietà fu rintracciata, ricorda Jakobson in un capitolo del 1965, nella poesia cinese, nella finnica e in genere uralo-altaica, finalmente nella russa. Ma a quest'altezza cronologica Jakobson può ormai estrapolare la constatazione, adottando come propria l'affermazione fatta un secolo prima da uno dei massimi poeti formalisti, l'inglese Hopkins: «La parie artificiale della poesia - e forse avremmo ragione di dire: ogni artificio - si riduce al principio del parallelismo. La struttura della pn. sia è quella d'un parallelismo continuo, movendo dai cosiddetti parallelismi tecnici della poesia ebraica e dalle antifone della musica ecclesiastica per giungere all'intrico del verso greco o italiano o inglese». Il nucleo specifico della dottrina di Jakobson consiste nell'alici mare la coincidenza del dato fonico ricorrente con la sua portata grammaticale. Così la rima, caso particolare e se si vuole squisito del parallelismo (come d'altra parte l'assonanza, l'alliterazione, ecc), sarà grammaticale o anti-grammaticale (cioè coincidente o non coincidente con la categoria grammaticale, per esempio parte del discorso, caso, numero, genere, forma astratta ecc.), mai a-grammaticale: di modo che l'equivalenza sonora implica, in positivo o in negativo, l'equivalenza semantica. Introducendo ora l'opposizione saussuriana sopra ricordata di piano sintagmatico e piano paradigmatico, se ne ricava che la lingua poetica è caratterizzata dalla coincidenza dei due assi. Risultano così pienamente comprensibili anche ai non tecnici le più citate affermazioni di Jakobson: «Dobbiamo ricordare i due un 11 li basilari di disposizione usati nel comportamento linguistico, la selezione e la combinazione [...]. La selezione (delle parole) è prodotta sulla base dell'equivalenza, della similarità e dissimilarità, della sinonimia e antonimia, mentre la combinazione, la costruzione della sequenza, si fonda sulla contiguità. La funzione poetica proietta il principio di equivalenza dall'asse della selezione su quello della combinazione». E: «Si può asserire che nella poesia la similarità è sovrapposta alla contiguità [al quale scopo Jakobson adotta spesso i tropi rispettivamente di metafora e metonimia], e pertanto [auto-citazione] "l'equivalenza è promossa a processo costitutivo della sequenza". Di conseguenza ogni iterazione constatabile di un medesimo concetto grammaticale diventa un processo poetico effettivo». Alle affermazioni di principio (Principles) segue nella Poetry of Grammar la serie di esercizi analitici

(Readings) sulla quale andrebbe misurata l'efficacia del metodo, prescindendo naturalmente dai testi di intenzione parallelistica, come, per restare nell'ambito neolatino, la cantiga d'amigo di Martin Codax, trovatore gallego, o la lirica popolareggiante del rumeno Eminescu, o anche la poesiola di Brecht Wir sind die(tant'è vero che rispetto all'antico campionario quale figura in Questions de poétique il tedesco è oggi rappresentato soprattutto da un brano di Hölderlin; delle grandi lingue di cultura séguita a mancare il solo spagnolo). Se ci si fa guidare da criteri di rappresentatività, non è dubbio che la scelta cadrà su Baudelaire, oggetto del resto d'un secondo saggio, Une microscopie du dernier «Spleen» dans «Les Fleurs du Mal» (per l'italiano ricorre nientemeno che Dante, maa il sonetto Se vedi li occhi miei con cui è presente è lontano dalla media dantesca e sembra fare piuttosto gruppo coi sonetti antiavignonesi di Petrarca). Una premessa essenziale è che l'esame porta, come nelle famose riflessioni di Poe a base di ogni altro tipo di critica moderna, su una poesia breve, non di rado un sonetto nelle sue varie forme (anche Du Bellay, Sidney, Shakespeare), che nel caso specifico di Les Chats, sonetto 'alla francese', (in alessandrini e con rime diverse per le due quartine), incrocia la divisione ternaria (prima quartina, seconda quartina, sestina) con In binaria (due quartine e due terzine), determinando corrispondenze fra elementi successivi (quartine contro terzine), alterni (prima quartina e prima terzina contro seconda quartina e seconda terzina ) e periferici in opposizione ai centrali (prima quartina e seconda terzina contro seconda quartina e prima terzina), e di più, detraendo ugual numero di versi dall'inizio come dal fondo, un distico centrale (versi 7 e 8) bilanciato fra una 'similistrofa' (che è una 'quasi-sestina', divisibile in due 'quasi-terzine'), e la sestina finale, entro la quale si potrebbe però intravedere una 'quartina immaginaria' abbastanza simmetrica alla prima quartina, mentre l'ultima terzina rispecchierebbe press'a poco l'insieme dei primi tre versi. La dimostrazione di queste simmetrie verticali, concentriche e diagonali è fondata solo in minima parte su dati di significato: così la simmetria degli elementi alterni fa succedere all'opposizione di limiti spaziotemporali e illimitatezza (sede dispari) l'opposizione di tenebre e luce (sede pari); a fondarle sono chiamate piuttosto coincidenze di categorie grammaticali. Il caso limite è la costituzione del 'distico mediano' («L'Érèbe les eut pris pour ses coursiers funèbres, S'ils pouvaient au servage incliner leur fierté») come del solo luogo dove si abbia un nome proprio (Érèbe), un verbo al singolare (eut), dei verbi che non siano al presente (eut pris, pouvaient), un oggetto pronominale (les), un sostantivo non complemento non determinato da aggettivo o complemento (appunto l'Érèbe), l'ordine inanimato-animato nella consecuzione soggetto-verbo (L'Érèbe les): si vorrebbe che, a dissipare ogni sospetto di alcatorietà, fosse applicato rigorosamente un concetto cardinale della linguistica di Praga, quello che secondo le lingue è detto di 'pertinenza' o 'rilevanza'. Questo accade nella ripartizione delle rime chiamate in francese maschili e femminili in rapporto ai sostantivi e aggettivi che esse rappresentano (la definizione cinquecentesca di rime maschili e femminili corrisponde a quella italiana di tronche e piane, e per il momento poco importa se la metafora abbia una portata sessuale, come credono Jakobson e Lévi-Strauss e verosimilmente i grammatici che parlano di «virilité» o «sexuisemblance» delle rime, o meramente grammaticale, come ritiene il metricista Grammont e come sembrano confermare i filologi che discorrono candidamente di «sexe» dei versi o delle rime). Tale ripartizione ha un'oggettività garantita dalla serialità e dall'opposizione: non può non corrispondere a un'intenzionalità (ben distinta da un programma) il fatto che le rime ossitone o maschili designino tutte nomi femminili (maison, saison, volupté, fierté, fin), fino all'ultima che è la sola «omonima» (o equivoca) con altra parte del discorso maschile (sable fin), mentre le rime femminili, tolta la parola-chiave ténèbres, spettano ad aggettivi, indifferentemente maschili o femminili (savants austères, nobles attitudes ecc.). Queste, necessariamente semplificate, e infinite altre osservazioni s'inqua drano peraltro in una tesi generale spettante al significato, quella dei gatti androgini. Jakobson celebra dunque entrambe le linguistiche saussuriane, quella del significante (pur prevalente) e quella del significato. Allo stesso modo egli, inventore della fonologia diacronica (l'invenzione gli è contestata a torto da un collega francese), è stato primo a connettere linguistica diacronica, cioè evolutiva nel tempo, e linguistica sincronica, cioè di fatti compresenti: anch'essa bipartizione che risale a Saussure. Se si torna all'esempio baudelairiano e in generale alla grammatica della poesia, si trova attuata una forma

di linguistica sincronica: questo anche dove i due autori studiano il codice metrico. Ora, misurare l'iniziativa sulla tradizione, se essa spetti al tipo e non meramente all'individuo, è un'operazione eminentemente diacronica. I canoni validi per il sonetto Les Chats sono secondo la constatazione dei due analisti: 1) non possono succedersi due rime baciate; 2) due versi successivi su rime diverse hanno rime uno maschile e l'altro femminile; 3) le rime finali di strofa alternano ugualmente maschile e femminile. Misurati in diacronia, il secondo ha valore generale, non specifico, nella poesia francese classica; il primo domina in Baudelaire, e dunque una spiegazione particolare esigerà al massimo la minoranza; il terzo non è generale neppure nel gruppo a cui appartengono Les Chats e sarà da considerare esito casuale, non significativo, degli schemi variabili. Significativa è invece la distinzione fra sonetti con quartine di rime identiche ('all'italiana') e diverse ('alla francese'), i quali si compartiscono equamente (sommando alle Fleurs du Mal anche Les Épaves, il Supplément e i Poèmes divers, si ottengono sorprendentemente, per i sonetti in alessandrini, 35 individui all'italiana e 34 alla francese), come pure quella fra prime rime di quartina maschili e femminili: tant'è vero che Baudelaire se ne serve per ottenere un effetto contrappuntistico entro uno stesso gruppo (Spleen, preceduto da La Cloche fèlée già intitolata Le Spleen, e Un fantóme, che rappresenta la minoranza in décasyllabes, i nostri endecasillabi). Les Chats è il solo sonetto (delle Fleurs) in cui la prima rima (-ères) assuoni con la femminile dell'altra quartina (-èbres): questo avvicinamento ha un senso armonico solo se si componga con un movimento dissimilativo aperto verso la fine, quello di magiques (12) con mystiques (14), unica rima non ricca del componimento - lo rileva anche Jakobson - benché compensata dall'allitterazione di m-. Al terzultimo verso («Leurs reins féconds sont pleins d'étincelles magiques») Jakobson attribuisce ambiguità fra potenza procreatrice e scintille elettriche nel pelame, ma altra poesia, Le Chat (inizio «Viens, mon beau chat») fa scegliere senza esitazione (per «ma main s'enivre du plaisir De palper ton corps électrique») il secondo corno del dilemma: non ambiguità ma aut-aut, al massimo, per così dire, anacoluto semantico per il doppio valore di reins. Decisivo è dunque l'ultimo verso («Étoilent vaguement leurs prunelles mysti-ques»), dove in mystiques l'eccellente umanista Baudelaire riconosce M-uco chiudo (gli occhi)', confermato dall'altro Chat (inizio «Dans ma cervelle»), col suo «Quand [...] je regarde en moi-mème, Je vois avec étonnement Le feu de ses prunelles pàles»; il passo deve anche esser considerato una matrice mnemonica della rima baciata di mystique con musique nella Vie antérieure, e per questo aspetto Les Fleurs du Mal sono uno dei grandi libri di eco interna come l'Eneide e la Commedia. Le aggiunte e le correzioni che sembra opportuno fare al primo saggio baudelairiano, se lo interpretiamo sempre come campione della grammatica della poesia in generale, muovono da preoccupazioni filologiche, estranee a Jakobson, che è integralmente un linguista. Un'opposizione della stessa natura si ha nell'unico caso che, degli oltre trenta esaminati, porti anche (ed è curiosamente proprio il primo rilievo) su varianti testuali: quello del quarto Spleen, dove si distingue un primo strato fornito dall'edizione princeps (1857) rispetto alle bozze, un secondo dalla seconda stampa (1861). Per Jakobson si assiste a una progressiva precisazione del «libretto» fonologico, mentre non è dubbio che per il filologo il primo strato elimini vocaboli iterati, il secondo accentui il divario fra sintassi e ritmo, cioè questioni di armonia. La grammatica della poesia costi tuisce Vultima ratio dell'interpretazione, ma era inevitabile che la sua fondazione si presentasse in forma di oltranza critica. Dal «Corriere della Sera», 23 maggio 1982. (Jakobson morì quel 18 luglio. Estratti prevalentemente da questo volume sono ora nella raccolta Poetica e poesia. Questioni di teoria e analisi testuali, Torino 1985).

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