Bradbury, Ray - Il Viaggiatore Del Tempo

September 3, 2017 | Author: stranostrano | Category: Time Travel, Astronomy, Science, Nature
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RAY BRADBURY. VIAGGIATORE DEL TEMPO. Il Convettore di Toynbee "Bene! Fantastico! Evviva me!" Roger Shumway si tuffò sul sedile, si allacciò "la cintura di sicurezza, avviò il rotore e sospinse il suo elicottero Drago Volante SuperÄ6 a innalzarsi nel cielo estivo, puntando a sud, verso La Jolla. "Si può essere più fortunati di così?" Perché era diretto a un convegno incredibile. Il viaggiatore del tempo, dopo 100 anni di silenzio, aveva accettato di essere intervistato. Quel giorno compiva 130 anni. E quello stesso pomeriggio, alle quattro in punto, ora del Pacifico, ricorreva l'anniversario del suo unico e ineguagliato viaggio nel tempo. Mio Dio, sì! Cento anni prima, Craig Bennett Stiles aveva salutato, era salito sul suo Orologio dell'Immenso, come l'aveva chiamato, ed era svanito dal presente. Era e rimaneva l'unico uomo della storia ad aver viaggiato nel tempo. E Shumway godeva del privilegio, unico fra tutti i suoi colleghi giornalisti, di essere stato invitato, dopo tutti quegli anni, a prendere il té. E? E all'eventuale annuncio di un secondo e conclusivo viaggio attraverso il tempo. Il mitico viaggiatore aveva accennato a tale possibilità. "Vecchio mio," disse Shumway "Mr. Craig Bennett Stiles... ecco che arrivo!" Il Drago Volante, assecondandone la febbre, afferrò il vento, sulle cui ali volò rasente alla costa. Il vecchio era lì, in attesa, sul tetto della Lamasseria, sul ciglio dello scivolo di decollo degli alianti dalla collina di La Jolla. L'aria fremeva di deltaplani cremisi, azzurri e color limone, appesi ai quali giovanotti lanciavano richiami, contraccambiando i saluti di fanciulle rimaste a terra. Stiles, per i suoi 130 anni, non era vecchio. Il suo viso, rivolto in alto verso l'elicottero, era il viso radioso di uno di quei folli apollinei sui deltaplani, che adesso si affrettavano a farsi da parte, per lasciar spazio all'elicottero in discesa. Discesa che Shumway andava prolungando, in un indugio che acuiva la febbre dell'incontro. Lì sotto, v'era una faccia che aveva sognato architetture, conosciuto incredibili amori, registrato misteri di secoli, di giorni, di ore, di secondi, per poi tuffarsi ad anticipare il futuro. Una faccia cotta dal sole, che celebrava il proprio compleanno. Per una notte, una soltanto, cento anni prima, Craig Bennett Stiles, fresco reduce dal tempo, aveva rivelato via Telstar a miliardi di uomini di tutto il mondo il loro futuro. "Ce l'abbiamo fatta!" aveva detto. "Ci siamo riusciti! Il futuro é nostro. Abbiamo ricostruito le metropoli, rinnovato le piccole città, ripulito i laghi e i fiumi, purificato l'aria, salvato i delfini, ripopolato i mari di balene, bloccate le guerre, disseminato lo spazio di stazioni solari per illuminare il mondo, colonizzato la luna, raggiunto Marte, e poi Alfa Centauri. Abbiamo debellato il cancro e fermato la morte. Ce l'abbiamo fatta - oh, Signore, ti ringraziamo! - ci siamo riusciti. Oh, radiosi e splendidi germogli del futuro, sbocciate!" Ai suoi contemporanei aveva mostrato fotografie, portato campioni, dato nastri e dischi LP, film e musicassette del suo favoloso viaggio nel tempo. Il mondo era impazzito di gioia. Era corso incontro a quel futuro, anticipandolo, nella visione delle città promesse, della salvezza totale e dei mari e delle terre fraternamente suddivisi tra uomini e animali.

Il grido di benvenuto del vecchio salì nel vento. Shumway contraccambiò con egual calore, portò giù lentamente il suo Drago Volante e toccò terra. Craig Bennett Stiles, anni 130, si avvicinò con passo brioso e, incredibilmente, fu lui ad aiutare il giovane a scendere dall'abitacolo, in quanto Shumway si era sentito improvvisamente debole, con le gambe fiacche. "Non riesco a credere di essere qui" balbettò Shumway. "Ci sei, e neanche troppo presto" rise il viaggiatore del tempo. "Ormai, ogni giorno é buono, perché io possa disintegrarmi e sparire. La colazione ci aspetta. Pedala!" Maestoso come un corteo di una sola persona, Stiles sgusciò via dall'ombra frusciante del rotore, che lo faceva sembrare un personaggio di un vecchio film tremolante di un futuro che fosse già fuggito. Shumway, come un cagnolino mascotte di un grande esercito, gli si accodò. "Cosa vuoi sapere?" domandò il vecchio, mentre attraversavano il tetto a passo di carica. "Primo," ansimò Shumway, affiancandolo "perché ha rotto il silenzio dopo cento anni? Secondo, perché con me? Terzo, qual é il grande annuncio che farà questo pomeriggio alle quattro, l'ora esatta in cui il suo "più giovane io" arriverà dal passato - quando, per un breve attimo, lei apparirà in due luoghi differenti, il paradosso: la persona che lei era, l'uomo che lei é, fusi in un'ora gloriosa perché noi la si festeggi?" Il vecchio rise. "Come corri!" "Mi scusi." Shumway arrossì. "E' roba che ho scritto ieri sera. Bene. Queste sono le domande." "Avrai le tue risposte." Il vecchio gli toccò leggermente il gomito. "Tutto... a tempo debito." "Deve perdonare se sono tanto eccitato" disse il giovane. "Dopotutto, lei é un mistero. Era famoso, acclamato in ogni angolo della Terra. Partì, vide il futuro, tornò, ci raccontò, e poi si estraniò come un eremita. Sì, per qualche settimana ha monopolizzato le telescriventi di tutto il mondo, si é fatto vedere alla Tv, ha scritto un libro, ci ha fatto dono di un meraviglioso documentario televisivo di due ore, poi si é richiuso, inaccessibile, qui. Sì, la macchina del tempo é offerta giù da basso alla curiosità del pubblico, che può accedervi ogni giorno a mezzogiorno, per vederla, toccarla. Ma lei, personalmente, ha rifiutato la fama..." "Non é andata proprio così." Il vecchio guidò il visitatore lungo il tetto. Adesso, nei giardini sottostanti, erano in arrivo altri elicotteri da ogni parte del mondo, carichi di attrezzature televisive per riprendere il miracolo nel cielo, il momento in cui la macchina del tempo, rientrando dal passato, sarebbe apparsa, scintillante, per involarsi a visitare altre città, prima di svanire di nuovo nel passato. "Ho avuto tanto da fare, come architetto, per costruire quello stesso futuro che vidi, da giovane, quando arrivai nel nostro domani dorato!" Indugiarono un istante a osservare i preparativi in basso. Venivano montati enormi tavoli per i rinfreschi. Di lì a poco, sarebbero giunte alte personalità da tutto il mondo, per ringraziare - forse per l'ultima volta - quel fiabesco, quasi mitico viaggiatore attraverso gli anni. "Vieni!" sollecitò il vecchio. "Non ti piacerebbe sederti nella macchina del tempo? Nessun altro lo ha mai fatto. Non vorresti essere il primo?" Non era necessaria la risposta. Il vecchio poteva leggerla negli occhi lucidi e umidi del giornalista. "Via, via" esclamò Stiles. "Oh, povero me!" Un ascensore tutto vetri li portò giù, e li scaricò in un sotterraneo d'un bianco assoluto, nel centro del quale troneggiava... L'incredibile macchina.

"Ecco." Stiles toccò un pulsante, e l'involucro di plastica, che da cent'anni aveva sigillato la macchina del tempo, aprì silenzioso le sue valve di conchiglia. Il vecchio accennò con la testa. "Vai dentro, siediti." Shumway si mosse lentamente verso la meraviglia. Stiles sfiorò un altro pulsante, e la macchina si illuminò, come una caverna di tele di ragno. Anelito di anni, bisbigli di ricordi. Fantasmi annidati nelle sue vene di cristallo. In una sola notte, un dio ragno ne aveva intessuto le pareti. Era fantasmagorica, reale e vivente. Invisibili maree pulsavano nei suoi congegni. Qui, un autunno veniva soffiato via in frammenti, là incombevano inverni con nevi che si adagiavano in bocci primaverili per infiorare campi d'estate. Vi ardevano soli e lune vi nascondevano le loro fasi. Il giovane prese posto al centro di tutto ciò, incapace di parlare, abbrancandosi ai braccioli del sedile imbottito. "Non aver paura" disse il vecchio, con dolcezza. "Non ti mando a fare un viaggio." "Non mi importerebbe!" rispose Shumway. Stiles lo scrutò in viso. "No, lo vedo. Sembri me, cento anni fa. Mi venga un accidente se non sei mio figlio putativo!" Il giovane chiuse gli occhi all'enorme complimento, le palpebre scintillanti, mentre i fantasmi nella macchina lo avvolgevano di sospiri e promesse del suo domani. "Allora, che ne pensi del mio Convettore di Toynbee?" domandò il vecchio briosamente, per rompere il silenzio, fermando i motori. Shumway aprì gli occhi. "Il Convettore di Toynbee? Cosa..." "Altri misteri, eh? Il grande Toynbee, questo acuto storiografo che disse come ogni gruppo, ogni razza, ogni universo noncurante di correre verso il futuro e di plasmarlo era condannato a divenire polvere nella tomba, nel passato." "Questo, disse?" "Più o meno. Lo sostenne, comunque. Quindi, quale nome migliore per la mia macchina? Toynbee, dovunque tu sia, ecco qui il tuo congegno per catturare il futuro!" Afferrò per un gomito il giornalista perché uscisse dalla macchina. "Adesso lasciamo riposare il Convettore. E' tardi. Quasi ora per il grande arrivo, eh? E dell'ultimo apocalittico annuncio di questo vecchio viaggiatore del tempo che risponde al nome di Stiles! Vieni!" Tornati sul tetto, guardarono i giardini sottostanti, inondati adesso dalle celebrità o quasi celebrità accorse da ogni angolo del mondo. Le strade circostanti erano bloccate da un traffico feroce. I cieli pieni di elicotteri e di biplani ronzanti. I deltaplani avevano sgombrato il campo già da un bel po', e risultavano adesso allineati sul ciglio della collina, ali ripiegate, simili a pterodattili colorati, in contemplazione delle nuvole, in attesa. "Tutto questo," mormorò Stiles "mio Dio, per me." Il giovane consultò l'orologio. "Dieci minuti alle quattro e al conto alla rovescia. E' quasi l'ora del grande arrivo. Voglia scusarmi, é così che l'ho chiamato nel mio articolo su di lei, una settimana fa, sul News. Quell'attimo dell'arrivo e della partenza, in un batter d'occhio, quando, entrando nel tempo, lei cambiò l'intero avvenire del mondo, dalla notte al giorno, dalle tenebre alla luce. Spesso mi sono chiesto..." "Che cosa?" Shumway studiò il cielo. "Quando lei viaggiò precedendo il tempo, nessuno la vide arrivare? Non avvenne che qualcuno guardasse in su, capisce, e vedesse la sua macchina librata in aria, qui e un attimo dopo sopra Chicago, e poi New York e Parigi? Nessuno?"

"Be'," disse l'inventore del Convettore di Toynbee "suppongo che nessuno mi stesse aspettando! E se la gente mi vide, di sicuro non sapeva che cosa diavolo stesse guardando. Ebbi cura, comunque, di non indugiare troppo là dove arrivavo. Mi occorreva soltanto il tempo per fotografare le città ricostruite, i mari e i fiumi tornati limpidi, l'aria nitida e priva di smog, le nazioni non più fortificate, le dilette balene ormai in salvo. Mi spostavo veloce, fotografavo alla svelta, per volare a casa a ritroso negli anni. Oggi, paradossalmente, é diverso. Milioni e milioni di occhi guarderanno in su con enorme anticipazione. E concederanno, oppure no, uno sguardo che corra dal giovane pazzo fulmineo nei cieli al vecchio folle di adesso, ancora nella gioia per il suo trionfo?" "Oh, sì" confermò l'altro. "Senz'altro, milioni di sguardi!" Un botto. Shumway distolse gli occhi dalla calca sui campi vicini e dalla moltitudine di oggetti sospesi nel cielo, per constatare che Stiles aveva testé stappato una bottiglia di champagne. "Il nostro brindisi privato e la nostra celebrazione privata." Presero i bicchieri, in attesa del momento adatto per brindare. ".Cinque minuti alle quattro e al conteggio alla rovescia. Perché" disse il reporter "nessun altro mai ha viaggiato nel tempo?" "Anche a me stesso ho posto il veto" rispose il vecchio, sporgendosi a osservare la folla. "Mi ero reso conto di quanto fosse pericoloso. Non per me, naturalmente, affidabile com'ero. Ma, Signore Iddio, pensaci - chiunque poteva mettersi a far rotolar bocce lungo le corsie del tempo a venire, abbattendo tutti i birilli d'un colpo, spaventando i nativi di un luogo, sconvolgendo gli abitanti di una città, disquisendo con la linea della vita di Napoleone, a ritroso, o ripristinando al potere i cugini di Hitler, in avvenire? No, no. E il governo, ovviamente, fu d'accordo, anzi, insistette, che mettessimo il Convettore di Toynbee sotto chiave. Oggi, sei stato il primo e l'ultimo a lasciarvi sopra le tue impronte digitali. La macchina del tempo é rimasta sotto buona, ferrea e continua guardia per decine di migliaia di giorni, per impedire che venisse rubata. Che dice il tuo orologio?" Shumway verificò e trattenne il fiato. "Un minuto al conteggio alla rovescia..." E prese a contare. E il vecchio scandì assieme a lui. Sollevarono i loro bicchieri di champagne. "Nove, otto, sette..." Giù in basso, la folla era caduta in un silenzio sconfinato. Il cielo bisbigliava, sospeso. Le telecamere erano puntate in alto, a scandagliare, a frugare. "Sei, cinque..." Sul tetto, i due bicchieri si toccarono, tintinnarono. "Quattro, tre, due..." Il vecchio e il giovane bevvero. "Uno!" Bevvero lo champagne, con una risata. Guardarono il cielo. L'aria dorata sopra la linea costiera di La Jolla attendeva. Il grande momento dell'arrivo... "Ora!" gridò il giornalista, come un mago che desse l'ordine. "Ora" fece eco Stiles, con sommessa gravità. Nulla. Passarono cinque secondi. Il cielo rimaneva vuoto. Passarono dieci secondi. I cieli aspettavano. Venti secondi. Nulla.

Alla fine, Shumway si girò a fissare stupito e con aria interrogativa il vecchio al suo fianco. Stiles ricambiò lo sguardo, si strinse nelle spalle e disse: "Ho mentito". "Lei, cosa?" urlò Shumway. Di sotto, la folla si agitava. Stupore, disagio, delusione. "Ho mentito" ripeté semplicemente il vecchio. "No!" "Oh, sì, invece" confermò il viaggiatore del tempo. "Non sono mai andato da nessuna parte. Mai mosso da qui, ma ho fatto sembrare che ci fossi andato. Non esiste alcuna macchina del tempo... soltanto qualche cosa che sembra esserlo." "Ma perché?" Il giovane formulò la domanda, sconvolto, ancora incredulo, sostenendosi alla ringhiera sull'orlo del tetto. "Perché?" "Vedo che hai all'occhiello il pulsante di un registratore a nastro. Premilo. Così, ecco. Voglio che tutti sentano quello che dirò. Adesso." Il vecchio scolò il bicchiere di champagne, poi prese a parlare. "Perché nacqui e crebbi in un'epoca, gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, in cui gli uomini avevano smesso di credere in se stessi. Vedevo quella incredulità, la ragione che non dava più a se stessa il motivo per sopravvivere, e ne ero sconvolto, depresso e poi furente. "Ovunque, vedevo e sentivo il dubbio. Ovunque assistevo alla distruzione. Ovunque imperavano la disperazione professionale, la noia intellettuale, il cinismo politico. E quando non era noia o cinismo, erano scetticismo dilagante e nichilismo incipiente." Il vecchio tacque, come rincorrendo un ricordo. Si chinò e tirò fuori da sotto un tavolo una speciale bottiglia di Burgundy rosso, la cui etichetta era datata 1984. Stiles proseguì, cominciando a lavorare con cautela sull'annoso turacciolo. "Chiamala come vuoi, la situazione era quella. L'economia arrancava come una lumaca. Il mondo era una fogna. Le economie nazionali restavano un mistero insolubile. L'atteggiamento generale era la tristezza. L'impossibilità di cambiare era la moda imperante. Lo slogan era: la fine del mondo. "Nulla che valesse la pena di essere fatto. Andavi a letto la sera alle undici, saturo di cattive notizie, ti svegliavi la mattina alle sette per ricevere notizie ancora peggiori. Annegavi la notte in una marea di guai e di pestilenze. Ah!" Il turacciolo aveva ceduto, dolcemente, e il vino non più traditore come il suo anno di nascita era adesso pronto al bacio dell'aria. Il viaggiatore del tempo lo annusò e annuì soddisfatto. "All'orizzonte non incombevano soltanto i quattro cavalieri dell'Apocalisse, pronti a scagliarsi sulle nostre città: una quinta creatura li accompagnava, peggiore degli altri: la Disperazione, ammantata con i neri veli della disfatta, a piangere soltanto il ritornello di passati disastri, di presenti fallimenti, di future codardie. "Soffocato da nere scorie, senza alcun seme vivo, quale specie di raccolto rimaneva per l'uomo, in quell'ultima parte dell'incredibile XX secolo? "Dimenticata era la luna, dimenticati i rossi paesaggi di Marte, il grande occhio di Giove, gli stupefacenti anelli di Saturno. Rifiutavamo di essere confortati. Piangevamo sulla tomba di nostro figlio, e il figlio eravamo noi." "Così era," chiese sommesso Shumway "cento anni fa?" "Sì." Il viaggiatore del tempo sollevò la bottiglia di vino, quasi vi fosse contenuta la prova. Versò nel bicchiere due dita del rosso liquido, lo guardò, bevve, e proseguì. "Hai ben visto i documentari e hai letto i libri di quell'epoca. Di essa, sai tutto.

"Oh, naturalmente, c'era qualche momento radioso. Quando Salk restituì alla vita i bimbi di tutto il mondo. O la notte in cui Eagle allunò e l'uomo mise piede sul nostro pianeta, epica tappa per l'umanità. Ma nelle menti e dalla bocca di molti, il quinto cavaliere era cupamente acclamato. Con vive speranze, sembrava a volte, nella sua vittoria. Così tutti sarebbero stati tetramente soddisfatti che le loro predizioni della catastrofe si fossero dimostrate esatte sin dall'inizio. E così le profezie di autodistruzione annunciata: scaviamo le nostre fosse, pronti a giacere in esse." "E lei non poteva permetterlo?" disse il giornalista. "Sai che non potevo." "E allora, costruì il Convettore di Toynbee..." "Non immediatamente. Ci vollero anni per concepirlo." Il vecchio fece una pausa per rigirare quel che restava nel bicchiere, chiuse gli occhi e bevve. "Fu un periodo in cui mi pareva di morire; mi disperavo, piangevo fino a tarda notte, pensavo: "Che posso fare per salvarci da noi stessi? Come sottrarre i miei amici, la mia città, il mio Stato, la mia nazione, il mondo intero a questa ossessione per la condanna?". Be', una notte ero nella mia biblioteca, quando sfiorai con la mano un vecchio e caro libro di H.G. Wells. La sua macchina del tempo evocava, come uno spettro, il decorso degli anni. Sentii! Capii. Ascoltai con il cuore. Poi i disegni, il progetto. Costruii. Viaggiai, o così parve. Il resto, lo sai, é storia." Il vecchio riaprì gli occhi. "Dio santo" bisbigliò il reporter, scuotendo la testa. "Oh, mio Dio! Incredibile, pazzesco..." C'era adesso un colossale fermento nei giardini sottostanti, nei campi vicini, sulle strade e nell'aria. Milioni di creature ancora in attesa. Dov'era il grande arrivo? "Allora," disse il vecchio, riempiendo di nuovo il bicchiere dell'ospite "sono o non sono qualcuno? Ho costruito le macchine, città in miniatura, laghi, stagni, mari. Ho eretto stupende architetture sullo sfondo di cieli cristallini, ho parlato ai delfini, giocato con le balene, registrato nastri fasulli, ho mitizzato film. Oh, ci sono voluti anni, anni di lavoro duro e di preparativi segreti, prima che annunciassi la mia partenza, che mi involassi e tornassi con la lieta novella!" Bevvero il resto del vino d'annata. Dalla folla si levava adesso un brusio, denso di ansia e di incertezza. Tutti dal basso stavano guardando verso il tetto. Il viaggiatore del tempo salutò, agitando un braccio, e si voltò. "Presto, adesso. D'ora in avanti, tocca a te. Hai il nastro con incisa la mia voce. Qui ci sono altri tre nastri, con dati più completi. Questa é una videocassetta, la storia di tutta la mia ispirata frode a fin di bene. Ed ecco, un manoscritto conclusivo. Prendi, prendi tutto quanto, divulgalo. Ti nomino mio figlio per spiegare il padre. Svelto!" Di nuovo ingoiato dall'ascensore, Shumway sentì il mondo sparirgli sotto i piedi. Non sapeva se ridere o piangere, e così, alla fine, lanciò un urlo. Sorpreso, il vecchio urlò con lui, mentre uscivano là sotto e si dirigevano verso il Convettore di Toynbee. "Afferri il punto, vero, figliolo? La vita non ha fatto altro che mentirci, sempre, in una continua negazione di noi stessi. Da bambini, da giovani, da vecchi. Da bimbe, ragazze, donne, mentendo sempre, seducendoci e comprovando che la menzogna era la verità. Intessendo sogni, e mettendo cervelli, idee, carne e la verità reale sotto a quei sogni. Tutto, in definitiva, come una promessa. Ciò che sembra una menzogna é un'esigenza confusa, il desiderio di venire al mondo. Qui. Allora e adesso."

Schiacciò il pulsante che faceva schiudere l'involucro di plastica, ne azionò un altro che avviava il ronzio della macchina del tempo, e poi corse a prendere posto sul sediolo del Convettore. "Abbassa quell'ultima levetta, giovanotto!" "Ma..." "Stai pensando" e qui il vecchio scoppiò in una risata "che se la macchina del tempo é fasulla, come può funzionare, che scopo c'é ad abbassare quella leva, non é vero? Comunque, esegui. Questa volta funzionerà!" Shumway si girò, identificò la leva di comando, la impugnò, quindi alzò gli occhi su Craig Bennett Stiles. "Non capisco. Dove sta andando?" "O bella, per essere uno nei secoli, naturalmente. Per esistere, ora, soltanto nel remoto passato." "Come é possibile?" "Credimi, questa volta accadrà. Addio, mio caro, gentile, comprensivo figliolo." "Addio." "Adesso. Di' come mi chiamo." "Cosa?" "Pronuncia il mio nome e abbassa la leva." "Viaggiatore del tempo?" "Sì! Ora!" Il giovane abbassò la levetta. La macchina ronzò, ruggì, dardeggiò energia. "Oh!" esclamò il vecchio, chiudendo gli occhi. Sulle labbra gli apparve un sorriso, dolce. "Sì." La testa gli ricadde sul petto. Shumway gridò, capovolse sullo zero la levetta, e balzò avanti per lacerare le cinghie che inchiodavano il vecchio alla macchina. E, pur affannandosi nel tentativo, trovò un attimo per sentire il polso del viaggiatore del tempo, per porgli due dita sotto la gola, alla ricerca di pulsazioni, e imprecò. Cominciò a piangere. Perché il vecchio era retrocesso nel tempo, e il suo nome, adesso, era morte. Stava viaggiando nel passato, ormai, per sempre. Shumway tornò al quadro comandi, e riattivò l'energia. Se il vecchio doveva viaggiare, che la macchina - anche se simbolicamente - andasse con lui! Ed essa rispose con un ronzio riconoscente. La luce che l'animava, l'abbagliante fuoco del sole, splendeva in tutta la ragnatela delle sue vene e delle sue armature, e accendeva le gote e la fronte del vecchio viaggiatore del tempo, la cui testa sembrava ora annuire insieme con le vibrazioni, e il cui sorriso, mentre egli si inoltrava nelle tenebre, era il sorriso di un bimbo assai felice. Il reporter indugiò ancora lunghi attimi, asciugandosi le guance col dorso della mano. Poi, lasciando in moto la macchina, tornò all'ascensore, schiacciò il pulsante di chiamata. Mentre attendeva, prese i nastri e le videocassette lasciatigli dal viaggiatore del tempo, e, a uno a uno, li gettò nello sportello dell'inceneritore inserito nella parete. Le porte della cabina si aprirono richiudendosi quando egli fu entrato. E l'ascensore ripartì ronzando, come un'altra macchina del tempo, sembrava, portando il giovane a riemergere in un mondo sbalordito, in un mondo tuttora in attesa. Di un luminoso continente, di una terra futura, di un meraviglioso sopravvissuto pianeta... Che un solo uomo, con una sola menzogna, aveva creato. La botola Clara Peck viveva in quella vecchia casa da almeno una decina d'anni quando fece, per la prima volta, la strana

scoperta. A metà della rampa di scale che portava al secondo piano, sul pianerottolo, sul soffitto... La botola. "... O bella, santo Cielo!" Si fermò di botto, inchiodata su un gradinò, a fissare la sorpresa, quasi a sfidarne la realtà. "Non può essere! Come ho potuto essere cieca a tal punto? Povera me, c'é un solaio in casa mia!" Aveva fatto su e giù quelle scale migliaia di volte per migliaia di giorni, senza mai vedere... "Vecchia scema che sono!" E per poco non inciampò, tornando giù, dimentica del perché fosse salita. Prima di pranzo, andò di nuovo a piazzarsi sotto la botola, come una troppo cresciuta, esile, nervosa fanciulla dai pallidi capelli e smorte gote, con occhi troppo febbrili, a indagare, scrutare, fissare. "Adesso che ho scoperto 'sto maledetto coso, mi dici che ne faccio? Su li, sai che deposito di vecchiume! Ci scommetto. Be'..." E ridiscese, vagamente turbata, con la mente già adombrata e incerta. "Oh, al diavolo, Clara Peck! Fammi il piacere!" si disse mentre passava l'aspirapolvere in salotto. "Hai solo cinquantasette anni. Non sei ancora rimbambita, perdio!" Però, come mai non se n'era mai accorta? Era la qualità del silenzio, ecco cos'era. Il suo tetto non aveva mai avuto bisogno di riparazioni, mai l'acqua si era infiltrata a macchiare il soffitto, mai le travi avevano scricchiolato sotto il vento, e topi non ce n'erano. Se la pioggia avesse frusciato, o le travi si fossero lamentate, o i topi avessero danzato nel solaio, lei avrebbe guardato su, avrebbe scoperto la botola. Ma la casa era sempre rimasta silenziosa, e lei era rimasta cieca. "Stupidaggini!" esclamò, a cena. Lavò i piatti, lesse fino alle dieci, andò a letto di buon'ora. Fu durante la notte che udì il primo, debole ticchettare - un appello in codice Morse?, il primo scricchiolio, graffiti sulla roccia? - provenire dall'alto, al di là della pallida, lunare faccia del soffitto. Semi addormentate, le sue labbra bisbigliarono: "Topi?". E poi venne l'alba. Scendendo per la prima colazione, Clara Peck fissò la botola col suo intrepido sguardo di bimba cresciuta, sentendo le proprie dita ossute contrarsi per andare a prendere la scaletta a pioli. "Uffa" brontolò. "Perché tanta fretta di esplorare un solaio pieno di niente. La settimana prossima, magari." Per i tre giorni seguenti, la botola non esistette. Perché Clara dimenticò di guardarla. Come se non fosse mai stata lì. Però, verso la mezzanotte della terza notte, ella udì i rumori dei topi, o i rumori di altri esseri, quali che fossero, filtrare attraverso il soffitto della camera da letto, simili a lattiginosi fantasmi che sfiorassero le desolate superfici della luna. Da quella strana similitudine, ne nacque un'altra, nella sua mente dubbiosa: uno spolverio di foglie secche afferrate dal vento o semplice polvere setacciata giù dalla soletta del solaio? Dormirci su. Era l'unica. Ma il sonno rimaneva latitante. Piatta sul letto, osservò il soffitto con tale intensità da avere l'impressione che gli occhi avessero la potenza di raggi X a indagare quel che ci fosse dietro l'intonaco. Un circo di pulci? Una tribù di topi zingari nell'esodo da una delle case confinanti? Di recente, parecchie di quelle

abitazioni erano state paludate da sudari, al punto da sembrare cupi tendoni da circo equestre, in modo che gli specialisti in derattizzazione potessero inondarle di mortali proiettili e fulminare sul posto la vita segreta che vi si annidava. Quella vita segreta, probabilmente, aveva raccolto il suo bagaglio peloso, in cerca di nuove sedi. Il solaio della pensione di Clara Peck, vitto gratuito, era la loro nuova casa, in sostituzione della precedente, ora proibita. Eppure... Mentre ella fissava in alto, i rumori ricominciarono. Si consolidavano intrecciandosi attraverso l'ampio fronte del soffitto; lunghe unghie che, grattando, erravano da un angolo all'altro del sovrastante impenetrato locale. Clara Peck trattenne il respiro. Le furtive scorribande si facevano più rumorose. Lo scalpiccio frusciante cominciò a concentrarsi in una zona sopra e al di là della porta della camera da letto. Come se le minuscole creature, quali che fossero, stessero accalcandosi a un'altra porta segreta, in cerca di evasione. Lentamente, Clara Peck si mise seduta sul letto, lentamente spostò il proprio peso sul pavimento, non volendo che scricchiolasse. Lentamente socchiuse la porta. Sbirciò fuori nel corridoio, inondato dalla luce fredda di una luna piena, che entrava dalla finestra del pianerottolo per mostrare.. La botola. Adesso, come se richiamati dal calore di lei, i rumori del piccolo nascosto fantasma deambulante si precipitarono a condensarsi proprio sull'orlo della botola stessa. "Cristo!" pensò Clara Peck. "Mi sentono. Vogliono che io..." La botola vibrò impercettibilmente sotto il minuscolo peso di chi, di coloro, quali che fossero, la stava incalzando. E sul telaio di legno, altri e altri ancora invisibili zampe di ragno o di roditori, usciti dagli anfratti di vecchi giornali ingialliti, insistevano e frusciavano. Più insistenti, più febbrili. Clara fu sul punto di gridare: "Via! Andatevene via!". Quando il telefono squillò. "Oh!" sussultò Clara Peck. Avvertì una tonnellata di sangue piombarle a peso morto lungo tutto il corpo a maciullarle i piedi. Corse ad afferrare, sollevare, strangolare la cornetta. "Chi é?" ansimò. "Clara! Sono Emma Crowley! Che ti succede?!" "Mio Dio!" urlò Clara. "Mi hai fatto gelare il sangue! Emma, perché mi chiami a quest'ora impossibile?" Seguì un lungo silenzio, mentre la donna dall'altra parte della città tentava a sua volta di trovare le parole. "Lo so, é stupido, non riuscivo a dormire. Avevo come un presentimento..." "Emma..." "No, lasciami finire. Di colpo, ho pensato: "Clara si sente male, o le é successo qualcosa, o..."." Clara Peck si accasciò, sedendosi, sull'orlo del letto, il peso delle parole di Emma che ve la trascinava. A occhi chiusi, fece cenno di sì. "Clara," disse Emma, mille miglia lontana "tutto bene lì da te?" "Tutto bene" articolò alla fine Clara. "Non é che ti senti male? Non ti sta andando a fuoco la casa?" "No, no. No." "Sia ringraziato il Signore. Stupida io. Mi perdoni?" "Sei perdonata." "Be', allora... Buonanotte." Ed Emma Crowley riattaccò.

Clara Peck rimase seduta, a fissare il telefono per un buon minuto, ascoltando il segnale di libero, e poi - quasi alla cieca - depose la cornetta sulla forcella. Rifece le scale, per guardare verso la botola: era immobile. E silenziosa. Solo un disegno di foglie tremolava e palpitava oltre i vetri della finestra, accarezzandone il telaio. Clara socchiuse gli occhi, fissando la botola. "Vi credete furbi, vero?" disse. Non vi furono, per il resto della notte, fruscii, danze, mormorii o pavane di topi. Ritornarono, tre notti dopo, ed erano... più sonori. "Non topi," decise Clara Peck "ma ratti d'assalto! Eh?" In risposta, il soffitto eseguì un intricato balletto senza musica. Una danza sulle punte, di qualità del tutto peculiare, andò avanti fino al calar della luna. Poi, non appena la luce diminuì, la casa tornò silenziosa, e solo allora Clara Peck riprese a respirare e a vivere. Verso fine settimana, le cadenze misteriose divennero più geometriche. Il loro rumore echeggiava in ogni stanza del piano di sopra, la vecchia camera da letto, la biblioteca, dove qualche precedente pensionante aveva un tempo sfogliato pagine e spaziato lo sguardo su un mare di alberi di castagno. La decima notte, tutta occhi e niente faccia, con i suoni che arrivavano a scarica di tamburo e spettrali ritmi sincopati, Clara Peck impugnò il ricevitore con mano sudata, per telefonare a Emma Crowley. "Clara! Sapevo che mi avresti chiamata!" "Emma, sono le tre di mattina. Non sei sorpresa?" "No, ero a letto, e pensavo a te. Volevo chiamarti, ma non volevo fare la figura della stupida. C'é qualche cosa che non va, vero?" "Emma, rispondi a questo: se una casa ha sempre avuto un solaio vuoto, da anni, e poi, tutto d'un tratto si ritrova con un solaio pieno di cose, come si spiega?" "Non sapevo che tu avessi un solaio..." "Chi lo sapeva? Ascoltami, tutto é cominciato con un brusio di topolini e poi é diventato un rumore di un branco di ratti e adesso sembra una banda di gatti scorrazzanti... Che cosa posso fare?" "Il numero di telefono della Derattizzante Rapida di Main Street é... aspetta un attimo... Eccolo. MAIN settesetteÄnoveÄnove. Sei sicura che c'é qualcosa nel tuo solaio?" "Tutti i maledetti concorrenti di una maratona." "Chi viveva un tempo in quella casa, Clara?" "Chi..?" "Cioé, é stata pulita per tutti questi anni, e adesso, di colpo, é infestata. Non é morto mai nessuno lì?" "Morto?" "Certo, se qualcuno vi é morto, forse non si tratta affatto di topi." "Stai cercando di dirmi... fantasmi?" "Non credi che..." "Fantasmi, o le cosiddette amiche che tentano di spaventarmi con essi. Non telefonarmi mai più, Emma!" "Ma, sei stata tu a chiamare me!" "Riattacca, Emma!" Emma Crowley riattaccò. Alle tre e quindici minuti della fredda mattina, Clara Peck scivolò in corridoio, rimase lì in piedi un attimo, quindi puntò l'indice verso il soffitto, quasi in un gesto di sfida. "Fantasmi?" sussurrò. I cardini della botola, perduti lassù nelle tenebre, sospirarono, lubrificati dal vento. Clara Peck fece un lento dietroÄfront, tornò in camera e, indugiando in ogni movimento, si mise a letto. Si svegliò dopo un'ora, perché il vento scuoteva la casa. Fuori, nell'atrio, in corridoio, poteva essere?

Si tese, e tese le orecchie. Con torpida indolenza, flebilmente, la botola nel soffitto della tromba delle scale, cigolò. E si spalancò. "Non può essere" pensò la donna. Il portello della botola, in verticale per un attimo, ricadde, con un tonfo. "Lo é!" confermò la mente di Clara Peck. Di scatto, ella fuggì, si rifugiò in camera da letto, ne chiuse a chiave la porta, tornò a coricarsi. "Pronto, la Derattizzante?" sentì la propria voce chiedere, ansimando nell'immaginario ricevitore impugnato sotto le coperte. Scendendo le scale, alle sei di mattina, dopo la notte insonne, ella ebbe cura di tenere gli occhi fissi in avanti, per non vedere quel maledetto soffitto. A metà delle scale, però, si girò, alzò gli occhi e trasalì. E rise. "Scema!" esclamò. Perché il coperchio della botola non era affatto aperto. Era chiuso, chiusissimo. "La Derattizzante?" disse al telefono, alle sette e trenta di una mattina luminosa. Era mezzogiorno quando il camioncino della Derattizzante Rapida si fermò davanti alla casa di Clara Peck. Dal modo con cui Mr. Timmons, il giovane specialista, imboccò e si inoltrò lungo il vialetto d'accesso, fu evidente a Clara che egli sapeva tutto in fatto di topi, termiti, vecchie zitelle e strani rumori notturni. Camminando con sdegnosa noncuranza, l'uomo posava lo sguardo sul mondo circostante con la splendida altezzosità mascolina del matador al centro dell'arena, o del paracadutista appena disceso dal cielo, o del seduttore che si accende la sigaretta, ignorando la povera femmina che giace sul letto. Mentre suonava il campanello, egli era il messaggero di Dio. Allorché gli aprì, Clara fu lì lì per richiudergli la porta sul muso, per il modo con il quale gli occhi di lui le mettevano a nudo carne e pensieri. Il sorriso di Mr. Timmons era un sorriso da alcolista, ubriaco di se stesso. C'era solo una cosa da fare: "Non resti lì impalato" lo aggredì lei. "Si renda utile!". Girò sui tacchi, e fece strada, dando la schiena a quel viso sbalordito. Che pareva stesse studiando la porta. Poi, stranamente, egli entrò. "Da questa parte!" disse Clara. Marciò impettita nell'atrio, su per i gradini, fino al pianerottolo dove aveva piazzato la scaletta metallica. Protese in alto una mano, indicando: "Lì c'é il solaio. Veda se riesce a scoprire il motivo di quei maledetti rumori. E quando ha finito, non mi sporchi in giro. Si pulisca le scarpe prima di venir giù. Adesso esco per fare la spesa. Posso fidarmi che, mentre sono via, lei non saccheggi la casa?" Poteva vederlo andare fuori di squadra man mano che le sferzate arrivavano. Faccia paonazza, occhi scintillanti. Prima che l'uomo potesse aprire bocca, Clara Peck calò a valle per infilarsi il soprabito. "Ha idea di come fanno rumore i topi in un solaio" fu la freccia del Parto che gli lanciò, al di sopra della spalla. "Se ne ho idea? Ci può scommettere le..." "Moderi il linguaggio, giovanotto! Lei é pratico di ratti? Potrebbero essere ratti o qualcosa di più grosso. Che cosa ci può essere di voluminoso in un solaio?" "Ha mai visto qui in giro qualche procione?" domandò lui. "E come sarebbe entrato lassù?" "Che, non conosce casa sua, signora? Io..." Ma a questo punto ammutolirono entrambi. Perché da sopra era venuto un rumore.

Prima, un piccolo accenno di rumore. Poi, come qualcosa che strisciasse. Poi un tonfo, come di un cuore inquieto. Qualche cosa si stava muovendo, su nel solaio. Timmons sbirciò verso la botola chiusa, e soffiò dal naso. "Ehi!" Clara Peck annuì soddisfatta, si infilò i guanti, si raddrizzò il cappellino, in vigile attesa. "E' un rumore come di..." bofonchiò incerto Mr. Timmons. "Come di?" "Ha mai abitato in questa casa un lupo di mare?" chiese l'uomo alla fine. Il rumore si ripeté, più forte. Tutta la casa parve oscillare e gemere sotto il peso che di sopra veniva spostato. "Come un carico, sembra." Timmons socchiuse gli occhi per ascoltare. "Il carico su una nave che si sposta quando la nave cambia rotta." Si mise a ridere e riaprì gli occhi. "Buon Dio" esclamò Clara, cercando di immaginarsi la scena. "Oppure," proseguì Mr. Timmons, con un mezzo sorriso rivolto al soffitto "non é che lei ci ha impiantato una serra là sopra? E' come se ci stessero crescendo delle piante. O magari, del lievito, un bell'ammasso di lievito che sta fermentando e andando per conto suo? Una volta, ho saputo di un uomo che immagazzinava lievito in cantina e..." La doppia porta di rete metallica all'ingresso venne chiusa con fragore. Al di là di essa, Clara Peck, a muso duro per quelle assurdità, disse: "Sarò di ritorno tra un'oretta. Veda di non perdere tempo!". Sentì la risata seguirla, mentre si avviava lungo il vialetto. Non esitò che un istante prima di girarsi a guardare. Il maledetto scemo era ai piedi della scala, e stava guardando in su. Poi alzò le spalle, fece un gesto con le mani, di indubbia eloquenza,... Si arrampicò su per la scaletta metallica, come un marinaio. Quando, un'ora dopo, Clara Peck fu di ritorno, il camioncino della Derattizzante era ancora fermo davanti casa. "Accidenti" fece lei. "Pensavo che ormai avesse finito. Strano uomo, con quelle arie e quel frasario..." Si fermò e ascoltò il respiro della casa. Silenzio. "Strano" borbottò. E poi: "Mr. Timmons?". E rendendosi conto di essere ancora a sei metri dalla porta d'ingresso spalancata, raggiunse la soglia e ripeté il richiamo. "C'é nessuno in casa?" Entrò, accolta da un silenzio eguale al silenzio dei vecchi tempi, prima che i topi si fossero trasformati in ratti, e i ratti avessero intrecciato danze, per poi materializzarsi in qualche cosa di più sostanzioso e misterioso, sull'impiantito del solaio. Un silenzio che, a respirarci dentro, ti soffocava. Sostò incerta ai piedi della rampa di scale, sbirciando in su, col pacco della spesa tra le braccia, come un bimbo morto. "Mr. Timmons...?" Ma tutta la casa era muta. La scaletta portatile era ancora parcheggiata sul pianerottolo. Ma la botola era chiusa. "Be', é chiaro che lui non é lì dentro" pensò Clara. "Mica ci é salito e ci si é chiuso. Quell'emerito idiota se n'é andato!" Si girò a guardare il camioncino abbandonato sotto il sole. "Il motore non gli sarà partito, immagino. Lui é andato in cerca di un meccanico." Scaricò il pacco delle provviste sul tavolo in cucina, e per la prima volta dopo anni, non sapendo perché, si accese una sigaretta, la fumò, ne accese un'altra, e pranzò facendo molto

rumore con le casseruole e con eccessivo uso dell'apriscatole elettrico. La casa ascoltava e insisteva nel suo ostinato silenzio. Un silenzio che, per le due del pomeriggio, le gravò addosso, vischioso come una colata di cera da pavimenti. "La Derattizzante" disse Clara e formò il numero. Il titolare delle Truppe Pesticide arrivò in motocicletta, una mezz'ora più tardi, per ricuperare il camioncino derelitto. Entrò, toccandosi la visiera del berretto, per conferire con Clara, constatare che i locali erano deserti, e soppesarne il silenzio. "Il cocco di mamma non vuole sciuparsi, signora mia" disse alla fine. "E' da un po' di tempo che Charlie se la prende comoda. Domani, quando si presenta in ditta, lo mando a spasso. Che ci stava facendo qui?" E guardò su, alla scaletta sul pianerottolo. "Oh," si affrettò a rispondere Clara "stava controllando un po' dappertutto." "Domani vengo io personalmente" assicurò l'uomo. Rimasta sola, Clara Peck salì lentamente le scale, per sollevare la faccia verso il soffitto e fissare la botola. "Neanche lui ti ha vista" bisbigliò. In solaio, non una trave si lamentò, non un topo eseguì danze. Lei rimase come una statua, mentre il sole, nel suo cammino pomeridiano, irrompeva dalla porta d'ingresso. "Perché?" si chiese la donna. "Perché ho mentito?" Be', se non altro, la botola era chiusa. "E, non so perché," - fu il secondo pensiero - "non voglio che nessuno salga mai più su quella scaletta. Non é stupido da parte mia? Non é un'idea assurda, la mia?" Cenò di buon'ora, ascoltando. Lavò i piatti, in un'atmosfera di preallarme. Alle dieci andò a letto, ma nella vecchia stanza a pianterreno, non utilizzata da molti anni. Perché avesse scelto di dormire lì, non sapeva spiegarselo. O, se c'era una ragione, volle ignorarla. Giacque sul letto, con le orecchie doloranti, i battiti del polso e del collo troppo accelerati. Rigida come in una tomba, sotto il lenzuolo, attese. Verso mezzanotte, uno sbuffo di vento agitò uno schermo di foglie contro i vetri della finestra. Clara spalancò gli occhi. Le travi della casa tremavano. Clara alzò la testa dal cuscino. Sommessamente qualche cosa sussurrava, in solaio. Clara si tirò su a sedere sul letto. Il sussurro diventava rumore, ingigantiva, più forte, più pesante, come se un grosso, ma uniforme animale si aggirasse nel solaio buio. Clara Peck mise i piedi sul pavimento, se li guardò. Il rumore ritornò, su in alto, ora come un trepestio di coniglio in fuga, ora come il tonfo di un cuore spropositato. Uscì dalla stanza, sostò nell'andito a pianterreno, bagnata in una luce lunare che, simile a una pura fresca mattina, filtrava dalle finestre. Le ciglia palpitanti, le parve le si fermasse il cuore, poi si fece forza, restando immobile. Perché, in quell'attimo sospeso, lentissimamente la botola su in alto si stava schiudendo, si apriva del tutto per mostrarle un quadrato in attesa, nero come un pozzo di miniera che sprofondasse senza fine. "Adesso, ne ho davvero abbastanza!" gridò lei. Corse in cucina, ne riemerse in volata, con in mano martello e chiodi, salì i gradini di slancio, si inerpicò sulla scaletta metallica. "Non ci credo!" urlò. "E' ora di finirla, adesso, avete capito? Basta!"

In cima alla scaletta, fu costretta a protendersi all'interno dell'apertura, dentro l'oscurità compatta, con un braccio e una mano. Il che voleva dire che la sua testa spuntava al di là del bordo della botola. "Adesso!" esclamò Clara. In quel preciso istante, mentre il capo affiorava e le dita annaspavano sul bordo dell'apertura, avvenne fulminea la più sorprendente delle cose. Come se qualcuno l'avesse afferrata per i capelli, come se lei fosse stata un turacciolo divelto dal collo di una bottiglia, tutto il suo corpo, le braccia, le gambe, i piedi in equilibrio sull'ultimo piolo, vennero risucchiati su nel solaio. Clara Peck scomparve, come il fazzoletto di un prestigiatore. Come una marionetta, i cui fili fossero afferrati da una forza invisibile, venne aspirata su. Con una violenza tanto subitanea che le sue pantofole rimasero solitarie sui pioli della scaletta. E dopo, non un ansito di terrore, non un grido. Solo un lungo silenzio affannoso. Per non più di dieci secondi. Poi, senza plausibile motivo, il coperchio della botola ricadde, richiudendosi con un tonfo. A causa del tipo di silenzio che regnava nella vecchia casa, nessuno più si accorse della botola... Se non dopo che i nuovi occupanti vi ebbero abitato per una decina d'anni. Sull'Orient, diretto a nord Fu sull'Orient Express in marcia verso nord, da Venezia a Parigi e Calais, che l'attempata signora si avvide dello spettrale passeggero. Un passeggero, ovviamente agli ultimi stadi di una malattia mortale. Occupava lo scompartimento 22 sulla terzultima vettura, si era fatto servire i pasti senza uscirne, e solo al crepuscolo si era mosso per prendere posto nel vagone ristorante, circondato dalle ambigue lampade elettriche, dal tintinnio di cristalli, dalle risate delle donne. Vi era arrivato, quella sera, arrancando con terribile lentezza, per sedersi, al di là della corsia, non lontano da quella signora, avanti negli anni, dal seno maestoso come un torrione, la fronte serena, gli occhi animati da una comprensione che il tempo aveva ancor più addolcita. Una signora che aveva al fianco una borsa nera, di quelle che usano i medici. Dal taschino della giacca di foggia maschile, spuntava la sommità di un termometro. Il pallore dello spettrale viaggiatore le fece portare, per istinto, la mano sinistra a sfiorare quel termometro. "Oh, poverino" sussurrò Miss Minerva Halliday. Il maitre stava passando in quel momento. Gli toccò il gomito e accennò con la testa oltre la corsia. "Mi scusi, ma dov'é diretto quel povero signore?" "Calais e Londra, madame. Se Dio lo consente." E si involò verso altri tavoli. Minerva Halliday, il cui appetito si era dileguato, sbirciò quello scheletro fatto di neve. L'uomo e le posate che aveva davanti parevano tutt'uno. Coltelli, forchette e cucchiai tintinnavano con un freddo suono metallico. Egli sembrava ascoltarli, affascinato, quasi che la voce della sua anima si identificasse con l'inquietudine delle posate: un monotono tintinnare da un'altra sfera. Le mani gli giacevano in grembo, come cuccioli abbandonati, e quando il treno abbordò una lunga curva, il suo corpo, senza nerbo, ne seguì le oscillazioni, pencolando ora da un lato, ora dall'altro.

Di lì a poco, il convoglio entrò in una curva più accentuata, con uno stridore di rotaie e scompiglio rabbioso di posate. Una donna, a un tavolo lontano, gridò ridendo: "Io non ci credo!". Al che, un uomo vociò con vigore anche più clamoroso: "Figurarsi io!". Una coincidenza che provocò, nello spettrale passeggero, un'agitazione spaventosa, molto vicina a un collasso. L'ilarità scettica e blasfema gli aveva trapanato i timpani. Parve ritirarsi, restringersi. Gli occhi gli si fecero di una vacuità spaventosa, e si sarebbe potuto immaginare che un vapore gelido gli uscisse dalla bocca ansimante. Sconvolta, Miss Minerva Halliday si protese in avanti, allungando una mano. Udì se stessa mormorare: "Io credo!". L'effetto fu istantaneo. Lo spettrale passeggero tornò a sedere eretto. Le gote pallide ripresero colore. I suoi occhi brillarono di un fuoco rinato. Il suo capo ruotò; ed egli fissò, al di là della corsia, la miracolosa donna le cui parole guarivano. Arrossendo violentemente, l'anziana infermiera dal caldo seno generoso si ricompose, si alzò e fuggì fuori dal vagone ristorante. Dopo neanche cinque minuti, Miss Minerva Halliday sentì il maitre camminare in fretta lungo il corridoio, bussando alle porte, bisbigliando. Mentre passava davanti alla porta aperta dello scompartimento di Miss Halliday, l'uomo le lanciò un'occhiata: "Lei per caso non é...". "No," gli rispose, indovinando la domanda "non sono un medico. Ma un'infermiera diplomata, sì. E' quel vecchio signore nel vagone ristorante?" "Sì, sì! La prego, madame, da questa parte!" Lo spettrale passeggero era stato trasportato nel suo scompartimento. Giunta sulla soglia, Miss Minerva Halliday sbirciò dentro. E l'uomo era lì, disteso sui sedili, gli occhi serrati, la bocca simile a un'esangue ferita, l'unico segno di vita in lui il saltellare della testa ai sobbalzi del treno. "Mio Dio," pensò lei "quest'uomo é morto!" Ad alta voce disse: "La chiamerò se avrò bisogno di lei". Il maitre se ne andò in fretta. Miss Minerva Halliday chiuse silenziosamente la porta scorrevole, e si chinò a osservare il morto - perché di sicuro, era morto. Tuttavia... Finalmente osò toccare il polso dove correva solo acqua ghiacciata. Poi si chinò a sussurrare su quella faccia cerea: "Mi ascolti con molta attenzione. Si?". In risposta le parve di avvertire l'eco più tenue di una pulsazione. Continuò: "Non so come lo deduco, ma so chi é lei, e di che cosa é malato...". Di nuovo un'altra curva del treno. La testa dell'uomo ciondolò, come se gli si fosse spezzato il collo. "Le dirò di quale malattia lei sta morendo!" gli sussurrò. "Lei soffre di una sindrome... del prossimo!" L'inquietante passeggero spalancò di scatto gli occhi, dilatandoli fuori dalle orbite. E lei continuò: "E' la gente su questo treno che la sta uccidendo. Sono loro la sua condanna". Una parvenza di sospiro scaturì dalla ferita chiusa che era la bocca dell'uomo. "Siiiii... iiii." Gli strinse con più forza il polso, in cerca di un battito. "Lei é di qualche paese dell'Europa Centrale, vero? Dove le notti sono lunghe, e la gente ascolta quando il vento soffia?

Ma dove adesso le cose sono cambiate, e lei ha tentato di evadere viaggiando, ma..." Lo spettrale viaggiatore parve avvizzire, perché, in quel momento, un gruppetto di giovani turisti, gasati di vino, aveva fatto irruzione nel corridoio tra un crepitio di risate. "Come fa..." sussurrò lui "lei... a sapere... questo?" "Sono un'infermiera speciale con una memoria speciale. Vidi, incontrai qualcuno come lei, quando avevo sei anni..." "Vide?" alitò il pallido individuo. "In Irlanda, vicino a Kileshandra. In casa di mio zio, una casa vecchia di cent'anni, piena di pioggia e di nebbia, e a tarda notte si sentivano passi sul tetto, e rumori nell'atrio, come vi fosse entrata la tempesta, e poi, alla fine, quest'ombra entrò in camera mia. Sedette sul mio letto, e il gelo del suo corpo rese gelata anche me. Ricordo, e so che non fu un sogno, perché l'ombra che venne a sedersi sul mio letto e mi parlò bisbigliando... era tanto... simile a lei." Con gli occhi ora richiusi, il vecchio infermo, dalle profondità della sua anima artica, reagì con un dolente mormorio: "E io, chi... e che cosa... sono?". "Lei non é malato. E non sta morendo... Lei é..." Il fischio dell'Orient Express ululò, insistente. "... un fantasma" concluse la donna. "Siiiii!" gridò il viaggiatore. Era un'enorme esplosione insopprimibile di bisogno, di conferma, di appagamento, che quasi lo fece scattare eretto. "Sì!" In quel momento, si affacciò alla porta un giovane prete, ansioso di espletare la sua missione. Con occhi accesi, labbra umide, una mano stretta sul crocefisso, egli fissò la figura riversa dello spettrale passeggero, ed esclamò: "Posso...". "L'ultimo sacramento?" Il vecchio aprì un occhio, come il coperchio di una scatola d'argento. "Da lei? No." Lo sguardo gli scivolò verso l'infermiera. "Da questa signora!" "Oh!" gridò il giovane prete. Indietreggiò, afferrò il crocifisso quasi fosse il tirante di sicurezza di un paracadute, girò sui tacchi e sparì, lasciando la vecchia infermiera a studiare pensosa quel suo paziente, adesso ancora più singolare. Il quale, alla fine, profferì ansimante: "Come può, lei, curare me?". "Be'" rispose la donna, con un mezzo sorriso di autocommiserazione. "Dobbiamo trovare il modo." Facendosi procedere da un altro ululato, l'Orient Express affrontò e macinò nuovi chilometri di notte, nebbia e bruma, in cui si immerse di schianto. "Lei va a Calais?" chiese Minerva Halliday. "E oltre. A Dover, Londra, e forse a un castello fuori di Edimburgo, dove sarò al sicuro..." "Questo é quasi impossibile..." Fu come se gli avesse sparato al cuore. "No, no, un momento!" si affrettò ad aggiungere. "Impossibile senza me! Verrò con lei a Calais, e poi fino a Dover." "Ma lei non mi conosce!" "Oh, ma l'ho sognato da bambina, molto prima che incontrassi qualcuno come lei, nelle brume e nelle piogge d'Irlanda. A nove anni, già esploravo la brughiera in cerca del Cane di Baskerville." "Sì" ammise l'uomo. "Lei é inglese, e gli inglesi credono!" "E' vero. Più degli americani, che dubitano. I francesi? Cinici! Gli inglesi sono i migliori. Difficile vi sia una vecchia casa londinese che non abbia la sua dolente lady fatta di brume che pianga prima dell'alba." Fu interrotta dall'improvvisa apertura della porta scorrevole, che ubbidiva all'inclinazione del treno in curva. Una ventata di frasi inquinanti, di chiacchiericcio delirante, di

quella che poteva essere soltanto empia ilarità, si riversò dal corridoio a riempire lo scompartimento. Lo spettro viaggiante si fece diafano, contraendosi. Scattando in piedi, Minerva Halliday richiuse d'impeto la porta, e si girò a osservare, con la dimestichezza di tutta una vita di notti di veglia, il suo compagno di viaggio. "Dunque," domandò "chi é lei esattamente?" Ed egli, vedendole in faccia il volto di una malinconica bimba che avrebbe potuto incontrare anni e anni prima, narrò la propria esistenza: "Per duecento anni, ho "vissuto" in un luogo fuori di Vienna. Per sopravvivere agli assalti degli atei così come dei veri credenti, mi sono tenuto nascosto nelle biblioteche, tra pile di volumi pieni di polvere, per nutrirmi di miti e cimiteriali leggende. Ho fatto festini di panico e terrore di cavalli imbizzarriti, di cani latranti, di gatti impazziti... briciole scosse da lapidi tombali. Col passare degli anni, i miei compatrioti del mondo invisibile svanirono uno a uno, mentre i castelli crollavano o i nobili affittavano i loro giardini visitati dagli spiriti a club femminili o tenutari di tavole calde con alloggio. Privati delle nostre dimore, noi, spettrali errabondi dell'universo, siamo sprofondati nel catrame, nelle latrine, in sfere di incredulità, di dubbio, di mortificazione, o di assoluta derisione. Con la popolazione e l'incredulità che aumentavano giorno per giorno, i miei amici spettri sono fuggiti. Io sono l'ultimo che tenta di viaggiare col treno attraverso l'Europa verso un qualche castello sicuro, saturo di pioggia, dove gli uomini siano doverosamente terrorizzati dalla fuliggine e dal fumo delle anime vaganti. Inghilterra e Scozia, per me!" La voce gli si spense in un soffio. "E il suo nome?" chiese l'infermiera. "Non ho un nome" bisbigliò lui. "Mille nebbie hanno visitato la terra della mia famiglia. Mille piogge hanno inzuppato la mia tomba. Ciò che lo scalpello vi aveva inciso fu cancellato dalla brina, dall'acqua, dal sole. Il mio nome é scomparso assieme ai fiori e l'erba e la polvere del marmo." Aprì gli occhi. "Perché lo sta facendo? Perché mi sta aiutando?" E allora Minerva Halliday sorrise, udendo che le proprie labbra pronunciavano la risposta giusta. "Perché in tutta la mia vita non mi sono mai concessa uno svago." "Uno svago?!" "La mia esistenza é stata quella di un gufo impagliato. Non mi sentivo una monaca, eppure non mi sono mai sposata. Dovendo curare una madre invalida e un padre semicieco, ho finito per diventare un'appendice di ospedale, di letti di moribondi, di gemiti notturni, e di medicine che, per chi sta passando all'al di là, non sono profumi. Così, sono io stessa una sorta di fantasma, no? E adesso, questa sera, a sessantasei anni, ho trovato in lei un paziente, splendidamente diverso, fresco, nuovo di zecca. Oh, mio Dio, che sfida! Una gara! Io le camminerò al fianco, per affrontare la gente, scendendo dal treno, in mezzo alla folla di Parigi, poi sulla nave oltre la Manica..." "Uno svago!" gridò lo spettro viaggiante, scosso da spasmi di risa. "Due che se la spassano? Sì, ecco cosa siamo noi due!" "Però," aggiunse lei "a Parigi, non é dove mangiano quelli che se la spassano, mentre arrostiscono i preti?" L'altro chiuse gli occhi, e mormorò: "Parigi? Ah, si." Il treno gemeva. La notte passava. E arrivarono a Parigi. E mentre il treno rallentava, un ragazzino, di non più di sei anni, galoppò lungo il corridoio e si immobilizzò davanti al loro scompartimento, gettando uno sguardo atterrito al fantomatico passeggero, il quale contraccambiò con

un'occhiata glaciale. Il ragazzo lanciò un urlo e si involò. L'infermiera corse alla porta per spiarne la fuga. Il piccolo stava farfugliando vibratamente con suo padre, in fondo al corridoio. E il padre superò la distanza a passo di carica, gridando: "Che succede qui dentro? Chi ha spaventato...". Si interruppe di colpo. Dalla soglia posò lo sguardo su quello spettrale viaggiatore, sull'Orient Express in frenata nelle sue ultime decine di metri. E anche l'uomo mise freno alla propria lingua. "... mio figlio" concluse. L'evanescente passeggero lo guardò in silenzio, con occhi colore della nebbia. "Io..." Il francese si ritrasse, incerto, incredulo. "Vogliate perdonarmi" bofonchiò. "Spiacente." Voltatosi, corse a rimproverare il figlio. "Discolo e bugiardo. Prenditi questo!" Il resto fu soffocato dalla porta che si chiudeva. "Parigi!" echeggiò l'annuncio lungo il convoglio. "Adesso, silenzio e gambe in spalla!" ammonì Minerva Halliday, mentre pilotava il compagno di viaggio, facendolo scendere su un marciapiede mulinante di malumori e valigie disperse. "Mi sto sciogliendo" gemette lo spettro ambulante. "Non dove la sto portando!" ribatté lei, esibendo un paniere da picnic, e lo trasportò quasi di peso al miracolo dell'unico taxi ancora disponibile. E, sotto un cielo procelloso, arrivarono al cimitero del Pére Lachaise. I grandi cancelli stavano chiudendosi. L'infermiera sventolò un mazzetto di banconote francesi. Uno dei cancelli tornò ad aprirsi. Dentro, i due errarono in pace tra diecimila monumenti. Vi era lì tanto freddo marmo, si sentiva la presenza di così tante anime nascoste da dare le vertigini. E l'infermiera fu colta da un improvviso giramento di testa, avvertì un dolore lancinante a un polso, una subitanea sensazione di gelo sul lato sinistro del viso. Scosse il capo, rifiutando il malessere. E, fianco a fianco, essi proseguirono, tra le tombe. "Dov'é che facciamo il picnic?" domandò lui. "Dove capita. Ma, all'erta! Perché questo é un cimitero francese! Imbottito di cinici! Eserciti di egotisti che bruciarono esseri di fede diversa, solo per essere bruciati a loro volta, l'anno dopo, per la propria fede. Quindi, attento alla scelta!" Il nebuloso compagno annuì. "Questa pietra. Sotto di essa: nulla. Morte assoluta, non un sussurro di tempo. Quest'altra: una donna che credeva in segreto, perché amava suo marito e sperava di rivederlo nell'eternità... qui c'é un mormorio dello spirito, il battito di un cuore. E' migliore. Questa terza lapide, adesso: uno scrittore di thriller per una rivista francese. Ma che amava le sue notti, le sue nebbie, i suoi castelli. Questa pietra ha la giusta temperatura, come un buon vino. Quindi, sosteremo su di essa, cara signora, mentre lei lascia respirare lo champagne e aspettiamo di tornare alla stazione." Miss Halliday gli porse giocondamente un bicchiere. "Ma lei riesce a bere?" "Ci provo" accettò il bicchiere. "Si deve sempre provare, no?" Poco prima della partenza da Parigi, per poco il fantasma vestito da uomo non "morì". Un gruppo di intellettuali, freschi reduci da seminari sulla "nausea" di Sartre e accaniti nel dissertare ferocemente su Simone de Beauvoir, dilagò lungo i corridoi, lasciandosi dietro un'aria vacua e surriscaldata. Il pallido viaggiatore si fece ancor più pallido. Alla seconda fermata dopo Parigi, altra invasione! Una comitiva di tedeschi salì a bordo, esuberanti nella loro incredulità negli spiriti ancestrali, scettici sulla politica, alcuni avendo sotto il braccio libri intitolati Visitò mai Iddio le nostre case?

Il fantasma dell'Orient sprofondò ulteriormente nel proprio telaio di ossa: le ossa che i raggi X sanno delineare. "Oh, mio povero amico!" esclamò Miss Minerva Halliday, e si precipitò nel proprio scompartimento, per tornare con un carico di libri che rovesciò sui sedili. "Amleto!" gridò. "Suo padre, sì? Canto di Natale. Quattro fantasmi! Cime tempestose. Kathy ritorna, va bene? Per esorcizzare le nevi? Ah, Il giro di vite, e... Rebecca. Poi... il mio preferito! La zampa della scimmia. Quale?" Ma il fantasma dell'Orient restò muto. I suoi occhi restavano chiusi, la bocca cucita di ghiaccioli. "Aspetti!" implorò lei. E aprì il primo libro. Dove Amleto é sulle mura del castello, e ode il lamento del fantasma di suo padre, e quindi Miss Halliday lesse le parole: ""E' quasi pronta la mia ora... allorché fra i tormentosi fuochi di zolfo io debba ritornare..."". E ancora: ""Io son lo spettro del padre tuo/ costretto ad errar la notte per qualche tempo..."". E ancora: ""Se mai amasti il tuo caro padre... O, Dio!... Vendica un triste e innatural delitto..."". E ancora: ""Tristissimo delitto..."". E il treno si avventò nella notte mentre ella ripeteva le ultime parole dello spettro del padre di Amleto: ""Su, dunque, addio..."". ""... Addio, addio! Ricordati di me"." E lo spettro dell'Orient ebbe un fremito. Lei finse di non notarlo, ma afferrò un altro libro: ""... Marley era morto, tanto per cominciare..."". E il treno dell'Orient rombò, superando nel crepuscolo un ponte sopra un invisibile corso d'acqua. Le mani della donna volavano come uccelli, frugando tra i libri. ""Io sono lo Spirito del Natale che fu!"" Poi: ""Il Fantasma del Ricsciò emerse dalla bruma e sparì trottando nella nebbia..."". E non c'era forse l'eco quanto mai flebile degli zoccoli di un cavallo, che seguiva, inseguiva, uscendo dalla bocca del fantasma dell'Orient? ""Il battito, battito, battito, sotto le pareti del Cuore del Vecchio Chiacchierone!"" disse ella, sommessamente. Ed ecco, come il salto di una rana. Il primo, debole battito del cuore del fantasma sull'Orient, il primo nel corso di oltre un'ora. I tedeschi lungo il corridoio esplosero in una salva di incredulità. Ma Minerva Halliday fu pronta a versare la medicina: ""Il Cane latrò, laggiù nella Brughiera..."". E l'eco di quel latrato, di quel pianto di estrema desolazione solitaria, proruppe dall'anima, sgorgò dalla gola del suo compagno di viaggio. Mentre la notte avanzava e la luna sorgeva, e una Donna in Bianco attraversava il paesaggio, mentre la vecchia infermiera diceva e parlava, e un pipistrello diventava un lupo che diventava una lucertola che scalava un muro sulla fronte dello spettrale viaggiatore. E finalmente, il treno si fece silenzioso nel sonno, e Miss Minerva Halliday lasciò cadere sul pavimento l'ultimo libro, con un tonfo che era quello di un corpo. "Requiescat in pace?" sussurrò il viaggiatore dell'Orient, a occhi chiusi. "Sì." Gli sorrise, annuendo."Requiescat in pace." E dormirono. E finalmente raggiunsero il mare.

E c'era la bruma, che si trasformò in nebbia, che si tramutò in rovesci di pioggia, come una vera cascata di lacrime da un cielo senza più remore. Il che indusse lo spettrale passeggero a schiodare, aprire la bocca, e mormorare ringraziamenti per il sospirato cielo e la costa visitati da fantasmi della marea, mentre il convoglio scivolava nel ventre metallico ove sarebbe avvenuta la febbrile metamorfosi: un treno completo divenuto una nave completa. Lo spettro già dell'Orient Express si impuntò, ultima figura su un treno ora desiderabile. "Aspetti" gridò, lamentoso. "Quella nave! Non ci sono nascondigli lì sopra! E' la dogana!" Ma i doganieri non dedicarono che un'occhiata alla pallida faccia ancor più smorta sotto lo scuro berretto e i paraorecchie e senza perdere tempo concessero all'anima desolata l'accesso al ferry boat. Per immetterla in un inferno di voci blateranti, di gomiti prepotenti, di strati di gente che premeva e spintonava, mentre la nave fremeva e si avviava e l'infermiera constatava come il suo fragile ghiacciolo stesse liquefandosi. Fu una turba di bambini schiamazzanti che la indusse a dire: "Da questa parte, si sbrighi!". E non fece altro che sollevare e trasportare l'inconsistente mole del nuovo amico al centro dello sciame composito di bambine e bambini. "Bambini!" gridò poi. I piccoli si fermarono. "E' l'ora delle storie." I giovanissimi stavano per ripartire di slancio, quando lei aggiunse: "E' l'ora delle storie di fantasmi!". E indicò, con aria indifferente sino a un certo punto, lo spettrale passeggero, le cui pallide dita da larva tormentavano la sciarpa che gli proteggeva la gola diaccia. "Tutti seduti!" impose l'infermiera. I bambini ubbidirono, in un coro di gridolini eccitati. Tutti intorno al viaggiatore dell'Orient, come indiani attorno al tepee, a osservare dal basso verso l'alto quel corpo, fin dove tempeste di neve sembravano raggelare le temperature nella sua gola ansimante. Quel corpo che oscillava. Minerva Halliday intervenne subito. "Voi ci credete ai fantasmi, vero?" "Oh, si!" fu il grido unanime. "Sì!" Fu come se un palo di ferro gli avesse raddrizzato la spina dorsale. Il viaggiatore dell'Orient si eresse. La più minuscola delle scintille brillò nei suoi occhi. Rose invernali sbocciarono sulle sue gote. E più i bimbi si protendevano verso di lui, più la sua statura aumentava, più calda appariva la sua pelle. Con un dito di ghiaccio puntato verso le loro facce, egli sussurrò: "Io... io... vi racconterò una storia terribile. Di un fantasma vero!". "Oh, sì!" gridarono i fanciulli. E lui cominciò a parlare e la febbre della sua lingua radunò nebbie, convocò brume, invitò piogge, e i piccoli si davano di gomito, gli si stringevano più vicini, un letto di tizzoni su cui egli si rosolava lietamente. E durante la narrazione, l'infermiera Halliday, isolatasi vicino alla porta del locale giochi, vedeva quel che vedeva lui al di là del mare tanto agognato, le scogliere spettrali, le scogliere di gesso bianco di Dover, e poco oltre, in attesa, i torrioni dei castelli mormoranti, i recessi fruscianti dei castelli, dove c'erano fantasmi, come sempre c'erano stati, con i solai vuoti pronti ad accoglierli. E, perduta in quella visione, l'infermiera sentì la mano correrle a sfiorare il termometro nel taschino. Si tastò il polso. Per un attimo, le tenebre le invasero gli occhi. E poi, uno dei bimbi chiese: "Tu chi sei?".

Chiamando a raccolta la propria immaginazione, quasi si trattasse di radunare i brandelli di un impalpabile sudario, egli rispose. Fu soltanto il fischio d'approdo del traghetto che troncò il lungo racconto delle storie di mezzanotte. E i genitori accorsero a recuperare i loro figli, sottraendoli al signore dell'Orient dagli occhi irreali, e le cui parole dolcemente demenziali davano loro i brividi, mentre lui continuava a bisbigliare e bisbigliare, fin quando la nave toccò il molo, finché l'ultimo bambino recalcitrante fu portato via, lasciando soli il vecchio e la sua infermiera nella sala giochi, mentre la nave si fermava, vibrando in deliziosi sussulti, quasi avesse sentito, ascoltato e fanaticamente gustato le storie che preludono l'alba. In cima alla passerella, il viaggiatore dell'Orient disse, con un tocco di rudezza: "No. Non ho bisogno di aiuto per scendere. Guardi!". E si avviò quasi di corsa giù per l'assito. E nello stesso modo con cui quei bambini avevano miracolato il suo colorito, la sua statura, le sue corde vocali, adesso ogni suo passo che lo avvicinava all'Inghilterra lo rinvigoriva. E quando mise piede sul molo, dalle sue esili labbra eruppe un piccolo grido di trionfo, e l'infermiera, alle sue spalle, pur accigliandosi, si fermò e lo lasciò trottare verso il treno. E vedendolo procedere spedito, come un bimbo che volesse distanziare gli adulti, ella non poté che restare immobile, inchiodata lì da una sensazione deliziosa, deliziosa al punto da non essere solo gioia. Lui correva, il cuore di Minerva Halliday correva con lui. La donna sentì una frecciata improvvisa, un dolore mostruoso: un coperchio di tenebre calò su di lei, la fece stramazzare al suolo, inanimata. Affrettandosi, lo spettrale passeggero non si avvide che l'infermiera non gli era più al fianco o a poca distanza, tanta era l'ansia che lo spingeva. Al treno, egli ansimò "Eccoci!" afferrando saldamente la maniglia dello scompartimento. Solo allora avvertì la mancanza, il vuoto, e si girò. Minerva Halliday non c'era. Eppure, un istante dopo, lei arrivò, sembrando più pallida di un minuto prima, ma illuminata da un sorriso incredibilmente radioso. Lo salutò agitando una mano, per poco non cadde. E questa volta fu lui che dovette sostenerla. "Mia cara, buona signora," le disse "é stata tanto gentile." "Ma," ribatté lei, sottovoce, guardandolo, aspettando che la vedesse realmente "io non me ne sto andando via." "Lei...?" "Vengo con lei." "Ma, i suoi piani?" "Sono cambiati. Adesso non devo andare in nessun altro posto." Si voltò a metà, a guardare con la coda dell'occhio. Sul molo, un gruppo di gente, che andava infoltendosi sollecita, osservava qualcuno giacente a terra. Mormorio di voci, appelli. La parola "dottore" pronunciata a voce alta, insistente. Lo spettrale viaggiatore guardò Minerva Halliday. Poi guardò la ressa là in fondo, e l'oggetto di tale ressa, l'oggetto riverso a terra: un termometro clinico sbriciolato al suolo sotto i piedi della gente. Riportò lo sguardo sull'infermiera, la quale stava ancora fissando il termometro in pezzi. "Oh, mia cara e dolce signora" disse egli, alla fine. "Venga." Lei lo scrutò in volto. "Noi due a spassarcela?" chiese. Annuì e le rispose: "A spassarcela!". E l'aiutò a salire sul treno, che di lì a poco si mosse con uno scossone, e poi prese slancio, fischiando, sui binari, verso

Londra ed Edimburgo e le brughiere e i castelli e le cupe notti e i lunghi anni. "Mi chiedo chi fosse" disse lo spettrale viaggiatore, con un'ultima occhiata al capannello di gente sul molo. "Oh, mio Dio," rispose l'infermiera "non l'ho mai saputo realmente." E il treno si lasciò alle spalle la stazione. Ci vollero venti secondi buoni perché le rotaie smettessero di tremare. Una notte nella tua vita Dopo aver tenuto una buona media, arrivò a Green River, nello Iowa, in una tarda mattinata primaverile, veramente splendida. Avvicinandosi alla città, la sua Cadillac decappottabile si era scaldata sotto il sole, ma poi egli aveva man mano ridotto la velocità sotto la cupola dei verdi alberi, la profusione di morbide ombre e la frescura frusciante. "Settantacinque chilometri all'ora" si era detto "é una velocità abbastanza ragionevole." Lasciando Los Angeles aveva spinto al massimo la sua auto lungo la strada riarsa dal sole, tra canyon di roccia meteoritica, luoghi ove dovevi procedere veloce, perché tutto sembrava aver fretta, essere aspro e tagliente. Ma lì, lo stesso verdeggiare dell'aria era come un fiume sul quale nessuna auto poteva correre troppo. Non restava altro che impigrire nella marea del fogliame generoso di ombre, scivolando sull'asfalto, come su una chiatta di fiume diretta a un mare estivo. Alzare lo sguardo attraverso gli alberi maestosi era come giacere sul fondo di uno stagno profondo, lasciando l'iniziativa motrice al flusso dell'acqua. Si fermò per un panino a una tavola calda, ai margini della città. "Signore Iddio," mormorò "sono trascorsi quindici anni da quando sono passato di qui l'ultima volta. Ti dimentichi di quanto veloci crescono gli alberi!" Alto di statura, con un viso affilato e cotto dal sole, i capelli scuri che andavano diradandosi, tornò in macchina. "Perché sto andando a New York?" si chiese. "Perché non rimango qui sdraiato sull'erba, infischiandomi di tutto?" Attraversò lentamente la vecchia città. Vide un treno arrugginito su un vetusto binario morto, il suo fischio silenzioso da anni, la sua caldaia in disuso da chissà quando. Osservò la gente entrare e uscire da case e negozi, con la lenta indolenza di chi galleggia in un grande mare di acqua tiepida e limpida. Un mondo ricoperto di muschio, così che ogni movimento si attutiva morbido e silenzioso. Era una città a piedi scalzi, alla Mark Twain, dove l'infanzia indugiava senza anticipazioni e la vecchiaia arrivava senza rimpianti. "Sono contento che Helen non sia venuta con me" pensò. Poteva sentirla ancora adesso: "Mio Dio, questo posto é un buco. E' mai possibile? Guarda quei bifolchi. Dài, accelera. Dove diavolo é New York?". Scosse la testa, chiuse gli occhi, e Helen era a Reno. Le aveva telefonato la sera prima. "Aspettare il divorzio non é tanto male. E' Reno che fa schifo. Meno male che c'é la piscina dell'albergo. Be', e tu che stai facendo?" "Sto andando all'est, a lente tappe." Il che era una bugia. Stava filando all'est come una palla di schioppo, per chiudere col passato, per lasciarsi alle spalle quante più cose poteva. "Guidare é divertente."

"Divertente?" aveva ribattuto Helen, mille miglia lontana nell'arsura di Reno. "Quando avresti potuto prendere l'aereo? Le quattro ruote sono una tale barba!" "Tanti saluti, Helen." Uscì di città. Secondo i programmi, sarebbe dovuto arrivare a New York in cinque giorni, per discutere del copione che non aveva alcuna voglia di scrivere per Broadway, per poi tornare di volata a Hollywood, in tempo per non gioire alla fine di un soggetto cinematografico, e quindi precipitarsi a Mexico City, il prossimo dicembre, per una breve vacanza. "A volte" mugugnò "sembro uno di quelle castagnole messicane che guizzano tra le case, attaccate a un filo, dal modo con cui sbatto la testa contro un muro, rimbalzo via per scontrarmi contro un'altra parete." Si trovò di colpo a filare a 120 all'ora, e rallentò giudiziosamente a 60, attraverso la campagna ondulata e verdeggiante, sotto la luce di mezzogiorno. Inspirò a pieni polmoni l'aria pulita, accostò e si fermò sul bordo della strada. In lontananza, tra alberi enormi, in cima a un'altura erbosa, gli parve di vedere camminare, ma immobile nello strano riverbero della calura, una giovane donna che subito scomparve, lasciandolo incerto fra miraggio o realtà. Era l'una del pomeriggio, e la terra era piena di un ronzio, come di una grande centrale elettrica. Davanti a lui, ai finestrini della macchina, guizzavano aghi luminosi, simili ad aculei di sole. Sciami di api, e l'erba inchinata sotto un vento gentile. Aprì lo sportello e scese nell'abbraccio della calura. Un sentiero solitario cantava a se stesso suoni di scarabei ubriachi di sole, e, a una cinquantina di metri dalla strada, si stagliava un folto verde e ombroso, da cui spirava una corrente di piacevole aria fresca. Da ogni parte, colline di trifoglio, in ondulanti sequenze, e cielo aperto. Indugiando lì, a lui pareva che si dissolvesse il peso che gli gravava addosso, e che lo stomaco gli si liberasse dalla morsa, e il tremito delle dita scomparisse. E poi, più lontano ancora e all'improvviso, in cammino su per una collina boscosa, attraverso un'apertura del fogliame, scorse di nuovo la giovane donna, un passo dopo l'altro, immersa nella calda distanza, procedere e sparire. Chiuse lentamente le portiere. Senza affrettarsi entrò nel folto degli alberi, attratto da un suono che pareva poter colmare l'universo, il suono di un fiume che fluiva, con indifferenza, verso una meta sconosciuta; il suono più bello di qualunque altro. Quando trovò il fiume, erano ombre e luce ad alternarsi. Si svestì e nuotò, poi si distese sul greto ghiaioso ad asciugarsi, in una dolce rilassatezza. Si rivestì, indolente, e poi avvertì il ritorno del vecchio desiderio, il vecchio sogno di quando aveva diciassette anni. Che aveva confidato, e molte volte ripetuto, a un amico: "Mi piacerebbe camminare in una notte di primavera, sai, una di quelle notti che sono sempre calde fino all'alba. Sì, camminare. Con una ragazza. Andare avanti per un'ora, per arrivare in un posto dove puoi appena vedere e sentire qualcosa. Salire una collina e sedervi in cima. Guardare le stelle. Tenendo tra le mie la mano della ragazza. Mi piacerebbe sentire il profumo dell'erba e del grano nei campi, e sapere di essere al centro del Paese, al centro esatto degli Stati Uniti, ma con le città e le autostrade lontanissime, e senza che nessuno sappia che noi due siamo lì, in cima alla collina, sull'erba, a contemplare la notte. "E sarebbe già bello il solo fatto di tenerle la mano. Puoi capire questo? Sai che tenere la mano di qualcuno può essere una cosa importante? Una cosa che le tue mani accarezzano pur senza muoversi. Una cosa così la puoi ricordare, più di ogni altra, per tutta la vita. Unicamente, tenersi per mano può avere un significato del genere, insuperabile. Io ci credo.

Quando tutto é ripetitivo, si perpetua, diventa abitudine, sono le prime cose che contano anziché l'ultima. "Così," aveva continuato "mi piacerebbe rimanere seduto lassù, senza dire una parola. Non vi sono parole per una notte come quella. Io e lei neanche ci guarderemmo. Vedremmo le luci della città lontana, sapendo che altre persone, prima di noi, hanno scalato altre colline, e che nulla di meglio al mondo esiste. Nulla potrebbe essere migliore; tutte le case e le cerimonie e le garanzie che ti può dare il mondo sono nulla in confronto di una notte come quella. Le metropoli e la gente nelle stanze di quelle case cittadine sono una cosa quando scende la notte; le colline, l'aria aperta, le stelle e la mano nella mano sono qualcosa d'altro. "E poi, alla fine, senza parlare, lei e io gireremmo il capo, alla luce della luna, e ci guarderemmo l'un l'altra. "E rimanere così, su quella collina, tutta la notte. C'é qualcosa di male in questo? Puoi onestamente dire che vi sia qualcosa di male?". "No," aveva risposto una voce "l'unica cosa di male in una notte come quella che dici tu, é che esiste un mondo, al quale tu devi tornare." Era stato il suo amico, Joseph, a parlare, quindici anni prima. Caro Joseph, con cui egli aveva discusso, per così tanti giorni della loro adolescenza filosofeggiante, dei loro problemi di enorme importanza. Adesso Joseph, sposatosi, era stato ingoiato dalle nere vie di Chicago, lontano dall'amico del cuore che il tempo aveva trascinato a ovest, e tutta la loro filosofia non era servita a niente. Gli venne in mente il mese successivo al suo matrimonio con Helen. In macchina, erano partiti per un lungo viaggio attraverso il Paese, la prima e l'ultima volta in cui lei aveva accettato di sottoporsi al "bestiale" - come lo aveva definito trasferimento sulle quattro ruote. In sere di luna avevano attraversato le terre del grano e le terre del mais del Middle West, e una volta, all'imbrunire, guardando dritto davanti a sé, lui, Thomas, aveva chiesto: "Che ne dici, ti piacerebbe passare la notte all'aperto?". "All'aperto?" aveva ripetuto Helen, sbalordita. "Qui" aveva confermato lui, con grande sfoggio di indifferenza. Aveva accennato dal margine della strada. "Guarda quei prati, quelle colline. E' una notte calda. Sarebbe bello dormire all'aria aperta." "Mio Dio" era stato il grido di Helen. "Non starai parlando sul serio?" "Era solo un'idea..." "Questi maledetti posti sono pieni di serpenti e di insetti. Un bel modo di passare la notte a farmi scorticare le calze, rischiando di violare qualche proprietà privata..." "Nessuno verrebbe mai a saperlo." "Ma lo saprei io, mio caro!" "Ripeto, era solo un suggerimento." "Tom caro, stavi solo scherzando, vero?" "Dimentica che abbia aperto bocca" aveva concluso lui. Avevano proseguito sotto uno splendido chiarore lunare sino a un piccolo motel, bollente come un forno, dove le falene impazzivano contro le lampadine non schermate. In una cameretta che puzzava di vernice fresca, vi avevano trovato un letto di ferro. Erano stati deliziati per tutta la notte dai canti dei patiti di birra nel bar, e dal rombo degli autotreni, incessante sulla strada, fino all'alba... Si avviò nel bosco verdeggiante, tendendo l'orecchio ai vari silenzi che vi regnavano. Non un solo silenzio, ma parecchi: quello del muschio sotto i piedi, quello delle ombre da albero ad albero, il silenzio di un piccolo ruscello in esplorazione di pezzetti di terreno, i silenzi che lo attorniavano mentre sbucava su una radura.

Trovò qualche fragola e la mangiò. "Che la macchina vada a farsi benedire" pensò. "Me ne infischio se me la portano via, smontata pezzo per pezzo. Me ne frego se la ritrovo squagliata dal sole." Si sdraiò a terra, la testa affondata tra le braccia, e si addormentò. La prima cosa che vide svegliandosi fu l'orologio che aveva al polso. Le sei e tre quarti. Aveva dormito praticamente tutto il pomeriggio. Fresche ombre erano scivolate attorno a lui. Rabbrividì, pensò di mettersi seduto e restarvi. Invece rimase sdraiato, con il viso appoggiato agli avambracci, guardando davanti a sé. La ragazza, seduta a pochi metri da lui, con le mani in grembo, sorrise. "Non ti ho sentita arrivare" le disse. Era stata attenta a non fare rumore. Per una ragione, inspiegabile fra tutte le ragioni del mondo, Thomas si sentì battere il cuore forte e veloce. Lei rimaneva in silenzio. Lui si girò sulla schiena e chiuse gli occhi. "Abiti qui nei paraggi?" Sì, non molto lontano da lì. "Nata e cresciuta qui?" Non era mai stata in nessun altro posto. "E' bello qui." Un uccello volò posandosi su un albero. "Non hai paura?" le chiese. Aspettò una risposta che non venne. "Tu non mi conosci." Ma, d'altra parte, neanche lui conosceva lei. "Ma é differente" ribatté Thomas. Perché era differente? "Oh, be', é così." Dopo un'attesa che gli parve durare mezz'ora, lui aprì gli occhi e la guardò a lungo. "Sei reale, no? Non é che sto sognando?" Lei voleva sapere dove fosse diretto. "Da qualche parte, dove non ho voglia di andare." Sì, la stessa cosa che diceva tanta gente. Tanti passavano di lì, per proseguire verso un posto che non amavano. "Io sono uno di quelli" confermò lui. Si mise in piedi lentamente. "Sai una cosa? Me ne accorgo solo adesso. E' da stamattina presto che non mangio." La ragazza gli offrì pane, formaggio e crostatine che si era portata dalla città. Restarono in silenzio mentre Thomas mangiava. Fu un pasto che consumò con estrema lentezza, timoroso che un movimento, un gesto, una parola potessero farla fuggire. Il sole era ormai tramontato, l'aria si era fatta più fresca e l'uomo era molto attento a non rompere il momento magico. La guardava, ed era bella: ventun anni, bionda, radiosa di salute, gote rosate, e seria. Il cielo indugiava nel ricordo dei colori del sole ora sparito, mentre loro due sedevano nella radura. Poi, egli udì un fruscio. La ragazza si stava alzando, e gli porgeva una mano perché lui la prendesse. Ritto al fianco di lei, ne accompagnò lo sguardo che spaziava sui boschi intorno e le colline lontane. Presero a camminare, allontanandosi dal sentiero, dalla strada asfaltata, dalla città. Una luna di primavera accompagnava i loro passi. Il respiro della sera alitava da ogni singolo filo d'erba, caldo sospiro dell'aria, placido e infinito. Raggiunsero la cima della collina, e, senza una parola, sedettero a contemplare il cielo. Thomas si disse che questo era impossibile, che cose del genere non accadevano; si chiese chi fosse la ragazza, e che cosa ci facesse lì.

A quindici chilometri di distanza, un treno fischiò nella notte primaverile e proseguì il cammino attraverso l'oscurità, dardeggiando per un istante un guizzo di fuoco. E poi, di nuovo, lui ricordò la vecchia storia, il vecchio sogno, la cosa che, assieme all'amico, aveva discusso tanti anni prima. Ci deve essere una notte per ognuno, una notte nella tua vita che ricorderai per sempre. E se tu sai che la notte sta venendo, e che questa notte sarà quella notte particolare, allora afferrala, non porle domande, e, dopo di essa, non farne parola con alcuno. Perché, se la lasci fuggire via, essa potrebbe non tornare un'altra volta. Molti l'avevano lasciata andare via, molti l'avevano vista dileguarsi e non ne avevano più vista un'altra, così come quando tutte le circostanze di tempo, luce, luna e momento, di collina notturna e di erba calda, e il treno e la città e la distanza erano in miracoloso equilibrio sulla punta di un dito. Pensò a Helen, e pensò a Joseph. Joseph. "Si era mai avverato per te, amico mio? Ti sei mai trovato al posto giusto nel momento giusto, e tutto ti é andato bene?" Non c'era modo di saperlo. La città di mattoni e cemento s'era preso Joseph, imprigionandolo nelle viscere della metropolitana, di cupi ascensori, nel parossismo dei rumori. Quanto a Helen, non solo lei non aveva mai conosciuto una notte come questa, ma non l'aveva mai concepita, non c'era nella sua mente un posto per sognare una cosa del genere. "Eccomi qui, dunque," pensò quietamente "a migliaia di chilometri da tutto e da tutti. " Attraverso il morbido paesaggio della notte venne il suono di un orologio campanario che scandiva l'ora. Uno, due, tre. Da uno di quei grandi municipi di pietra che si ergevano sul quadrato erboso di ogni piccola città americana sin dalla fine del secolo, fresca pietra in estate, alta nel cielo notturno, con quattro quadranti rotondi scintillanti in ogni direzione. Cinque. Sei. Contò i bronzei rintocchi, i quali tacquero sul nove. Le nove di una sera di tarda primavera, su una collina calda e alitante, illuminata dalla luna, la sua mano che toccava un'altra mano, il pensiero: "Quest'anno ne compio trentatré. Ma non é arrivata troppo tardi e non lascerò che trascorra invano: questa é la notte". Lentamente, adesso, cautamente, come una statua che si animasse, girando pian piano la testa, egli vide la ragazza rivolgere gli occhi verso di lui. Le due teste che si avvicinavano, come era avvenuto tante e tante volte nella sua immaginazione. Indugiarono a guardarsi, a lungo. Si svegliò durante la notte. Lei era sveglia, al suo fianco. "Chi sei?" le bisbigliò. Lei tacque. "Potrei fermarmi per un'altra notte" aggiunse Thomas. Ma sapeva che uno non poteva restare un'altra notte. Una notte é la notte, e soltanto quella. Dopo, gli déi voltano le spalle. "Potrei tornare tra un anno." La ragazza aveva gli occhi chiusi, ma non dormiva. "Ma non so chi sei" insisté. E poi: "Potresti venire con me. A New York". Ma sapeva che lei non sarebbe mai potuta essere a New York o altrove, bensì soltanto qui, in questa notte. "E io non posso restare" sapendo che questa era la parte più vera e desolata di tutto quanto. Attese, e poi ripeté: "Sei reale? Sei veramente reale?". Dormirono. La luna scese dal cielo, verso l'alba. E all'alba, lui lasciò la collina e il bosco, per trovare l'auto coperta di rugiada. Aprì la portiera, sedette al volante, e rimase un attimo a guardare il sentiero che aveva tracciato nell'erba bagnata. Lo assalì l'impulso di scendere di nuovo a

terra. Mise la mano sulla levetta all'interno dello sportello, e frugò fuori con lo sguardo. Vuoto il bosco, e immobile, deserto il sentiero, la strada asfaltata tranquilla e serena. Per migliaia di chilometri nulla sembrava muoversi. Avviò il motore, e lo lasciò borbottare, in folle. Il cofano puntava verso oriente, dove il sole arancione stava sorgendo, lento. "Va bene" sussurrò. "Voi tutti, ecco che arrivo. Che peccato siate ancora tutti vivi. Che peccato che il mondo non sia tutto e soltanto colline e colline, e che altro non ci sia che guidare su quelle colline, senza mai arrivare in una città." Ingranò la marcia e accelerò verso est. SenzaÄvoltarsi. A ovest di October Verso la fine dell'estate, i quattro cugini, Tom, William, Philip e John, erano venuti a far visita alla Famiglia. Non c'era posto nella vecchia grande casa, e quindi essi vennero sistemati su brandine nel granaio che, di lì a poco, doveva prendere fuoco. C'é da dire che la Famiglia non era una famiglia che rientrasse nella regola. Ogni suo componente era più straordinario dell'altro. Affermare che, per lo più, essi dormivano di giorno e si dedicavano a singolari lavori notturni, é premessa opportuna. Precisare che alcuni di loro potevano leggere il pensiero altrui, e che altri volavano con i fulmini per atterrare con le foglie, sarebbe minimizzare la verità. Aggiungere che parte di essi non potevano essere visti riflessi negli specchi, mentre altri potevano essere riflessi nello stesso specchio in diverse forme, grandezza e materia, non sarebbe che ripetere voci che rasentavano il vero. Vi erano zii, zie, cugini, e nonni con la stessa abbondanza che caratterizza i funghi velenosi e quelli mangerecci. E all'incirca di tutti i colori che potresti mettere assieme in un'alacre nottata nei boschi. Alcuni erano giovani, altri esistevano da quando la Sfinge aveva affondato le sue zampe di pietra nella sabbia marina. In complesso era, per quantità, estrazione, tendenze e talento, la più incredibile e miracolista masnada. E la più incredibile tra essi era: Cecy. Cecy. La ragione, la ragione vera, la ragione determinante perché ogni membro della Famiglia venisse in visita, ma non solo in visita, bensì per pendere dalle sue labbra e restarci appeso. Perché lei era sfaccettata come una melagrana. Il suo talento era specifico ma caleidoscopico. Lei possedeva tutti i sensi e i sentimenti di tutte le creature del mondo. Lei assommava tutti i cinema e i teatri e tutte le gallerie d'arte del tempo. A lei potevi chiedere quasi ogni cosa, e lei te ne faceva dono. Le chiedevi di svellerti l'anima, come un dente cariato, e di spedirtela tra le nuvole per darle pace, ed ecco che eri proiettato e aspirato in alto, a condensarti insieme con le nuvole e scioglierti come pioggia a fecondare prati e fare sbocciare fiori. Le chiedevi di prendersi la suddetta anima e di incorporarla nella linfa di un albero, e la mattina dopo ti svegliavi con le tue propaggini cariche di mele, e con uccelli canterini tra le foglie verdi della tua testa. Le chiedevi di farti vivere in una rana, e trascorrevi i giorni a fior d'acqua, e le notti a gracidare strane canzoni. Le chiedevi di trasformarti in pura pioggia, e cadevi irrorando ogni cosa. Volevi essere la luna, e di colpo eri lassù a guardare in basso, e vedevi la tua pallida luce riflessa

imbiancare città perdute, del colore delle pietre tombali, delle tuberose e di spettri. Cecy. La quale ti estrapolava l'anima, ne estraeva la saggezza che vi era compressa, per trasferirla in animale, vegetale o minerale. Nessuna meraviglia di quei raduni di consanguinei e affini. Non stupiva che essi rimanessero a lungo dopo il pranzo, dopo la cena, facendo la mezzanotte, settimana dopo settimana! E adesso, ecco arrivati i quattro cugini. In effetti, già al tramonto del primo giorno di permanenza, ognuno dei quattro disse: "Allora?". Erano allineati davanti al letto di Cecy, nella grande casa, dove lei riposava per lunghe ore, sia di notte sia di giorno, tanta era la richiesta di esibizione dei suoi talenti da parte della Famiglia e degli amici. "Allora," disse Cecy, a occhi chiusi e con un sorriso che scherzava sulle sue adorabili labbra "quali sarebbero i vostri desideri?" "Io..." disse Tom. "Magari..." dissero William e Philip. "Non potresti..." disse John. "Farvi fare una visitina al locale manicomio," dedusse Cecy "a razzolare dentro i cervelli di gente molto strana?" "Sì!" "Detto e fatto!" acconsentì la loro cugina. "Andate a sdraiarvi sulle vostre brande nel granaio." I quattro si precipitarono. Si distesero. "Così. E adesso, su! Si parte!" gridò lei. Come tappi, schizzarono via le loro anime. Come uccelli, esse volarono. Come lucenti invisibili aghi, sparati in varie e assortite orecchie che popolavano il manicomio ai piedi della collina, al di là della valle. "Ah!" gridarono esse, deliziate per quello che vi trovavano e sentivano. Durante la loro spirituale assenza, il granaio si incendiò. Nella generale confusione, le grida, le corse per attingere acqua, il parapiglia isterico, nessuno si ricordò di quello che c'era nel granaio, o dove fossero andati a finire i quattro cugini, o di quanto Cecy, ora addormentata, stesse facendo. E tanto profondo era il sonno di quella adorata figliola da non farle sentire le fiamme, né il fatale momento in cui i muri crollarono e quattro torce in forma umana venivano combuste. Gli stessi cugini, per qualche istante, non avvertirono le ripercussioni dei propri corpi polverizzati in cenere. Poi, lo scoppio di un tuono silenzioso rimbombò sulla terra, scosse i cieli, scagliò in sibili di vento gli spiriti degli scomparsi cugini ad alloggiare sugli alberi, mentre Cecy, con un sussulto, scattava a sedere sul letto. Correndo alla finestra, guardò fuori e lanciò un urlo che squassò la nuova dimora dei cugini. I quattro, al momento del botto, si erano trovati in vari settori del manicomio della contea, ad aprire botole nelle teste balzane dei ricoverati, a spiare dentro gorghi di nebulosi coriandoli, a stupirsi dei colori della follia e delle oscure arcate d'arcobaleno da incubo. Tutta la Famiglia si era radunata, stupefatta e incredula, attorno al granaio crollato. All'urlo di Cecy, le teste si voltarono. "Che é successo?" gridò John dalla bocca di lei. "Già, che é stato?" disse Philip, muovendo le labbra di Cecy. "Mio Dio" ansimò William, guardando con gli occhi di Cecy. "Il granaio é bruciato" constatò Tom. "Siamo morti!" La Famiglia, le facce annerite nel cortile fumante, girò sui tacchi, come al passaggio di un funerale, a fissare Cecy sconvolta.

"Cecy?" chiese la Madre vibrante d'angoscia. "C'é qualcuno con te?" "Sì, io, Tom" risposero le labbra di Cecy. "E anch'io, John." "Philip, eccomi qua!" "William, presente!" Le quattro anime risposero all'appello, con la voce della cugina. La Famiglia attendeva. Poi, all'unisono, le voci dei quattro giovani posero la domanda finale e tremebonda: "Non avete salvato neanche un corpo?". La Famiglia sprofondò di centimetri nel suolo, sotto il peso di una risposta che non poteva fornire. "Ma..." Cecy si puntellò sui gomiti, si toccò il mento, la bocca, la fronte, dentro la quale un quartetto di fantasmi viventi si spintonava in cerca di spazio. "Ma... che ne faccio di loro?" Passò in rassegna tutti quei volti che dal basso erano rivolti a lei. "I miei cuginetti non possono rimanere qui dentro. E' semplicemente assurdo che prendano alloggio nella mia testa!" Quello che lei gridò, subito dopo, o ciò che i cugini ciangottarono, compressi come sassolini sotto la lingua di lei, o quel che disse la Famiglia, correndo per il cortile come galline scottate, si perse nel vuoto. Con un rombo di tuono da Giorno del Giudizio universale, il resto del granaio crollò. Con un ruggito riverberante, la fiamma ascese la cappa del caminetto in cucina. Un vento d'ottobre indugiò sul tetto ad ascoltare ciò che la Famiglia andava discutendo nella sottostante sala da pranzo. "A me sembra..." disse il Padre. "Non sembra, é!" interruppe Cecy, con occhi che passavano dall'azzurro al giallo, al nocciola, al castano. "I giovani cugini, dobbiamo sistemarli altrove. Trova loro alloggi provvisori, finché non venga il momento in cui si riesca a sistemarli in nuovi corpi..." "Più presto é, meglio é" disse una voce dalla bocca di Cecy, ora in falsetto, ora profonda, ora con due note intermedie. "Joseph potremmo scaricarlo da Bion. Tom potrebbe prenderselo Leonard. William, magari a casa di Sam, e Philip da..." Tutti gli zii, chiamati in causa, arruffarono le penne, per nulla entusiasti. Leonard parlò per tutti. "Siamo già troppo presi. Stracarichi di lavoro. Bion col suo negozio, Sam con la fattoria." "Ba'..." Disprezzo e sconforto scaturirono dalle labbra di Cecy, in quadruplice armonia. Il Padre sedeva accigliato. "Vergogna! Ci deve essere qualcuno di noi con un sacco di tempo a disposizione, con un angolino libero nel retrobottega dell'inconscio o nel soppalco del cervello. Animo! Volontari! In piedi!" La Famiglia trattenne il fiato, raggelata, perché di colpo la Madre si era alzata, ma puntando il manico della sua scopa da strega. "Quest'uomo, sì, proprio quello, ha sempre avuto tutto il tempo libero che ha voluto. E io, qui, ne faccio il nome, lo invito e lo designo!" Come se la loro testa fosse comandata da un unico filo, tutti si girarono a fissare il Nonno. Il Nonno scattò in piedi, come punto da una vespa. "No!" "Silenzio."

La Nonna chiuse gli occhi sul problema, incrociò le braccia sul petto, simile a una gatta che facesse le fusa. "Tu hai tutto il tempo disponibile che vuoi." "No, per Giosué e Gesù Cristo!" "Questa," proseguì la Nonna, indicando attorno a intuito, con gli occhi sempre serrati "é la Famiglia. Nessuno al mondo é come noi. Noi siamo di qualità eccezionale e strana. Dormiamo di giorno, andiamo in giro di notte, voliamo con i venti e l'aria, cavalchiamo uragani, leggiamo i pensieri, odiamo il vino come fosse sangue, facciamo magie, viviamo in eterno o per mille anni, secondo i casi. In poche parole, siamo la Famiglia. Ciò essendo vero e indubitabile, non c'é nessun altro su cui contare, a cui rivolgerci quando capita un guaio..." "Io non..." "Taci." La Nonna aprì un occhio, grande come la Stella dell'India, fiammeggiante, che poi si velò, si richiuse. "Tu sputi sui mattini, sprechi i pomeriggi e prostituisci le notti. I quattro cari cugini non possono restare all'ultimo piano del cervello di Cecy. Non é corretto che quattro esuberanti giovanotti soggiornino nel delicato cervello di una signorina per bene." E qui la bocca della Nonna si addolcì. "Inoltre, sono tantissime le cose che tu puoi insegnare ai cuginetti. Eri già in azione molto prima che Napoleone invadesse, e poi scappasse, dalla Russia, o che Ben Franklin si prendesse il vaiolo. E' bene che i ragazzi restino dentro le tue orecchie per un po'. Quel che ci sia dentro, solo Dio lo sa, ma potrebbe, dico potrebbe, migliorare il loro comportamento. E questo, vorresti negarglielo?" "Sterminio di Gerusalemme!" esplose il Nonno. "Non sono affatto disposto ad averli tutti quanti a lottare due autunni su tre, zompando tra il mio orecchio sinistro a quello destro! A prendermi a pedate le pareti del cranio. A farmi roteare le palle degli occhi come fossero palle da basket! La mia scatola cranica non é una pensione. "Uno alla volta, per lo meno! Tom potrebbe sollevarmi le palpebre, alla mattina. William, aiutarmi a ingurgitare i pasti, di giorno. John, può sonnecchiare nel mio vecchio midollo spinale. E Philip, limitarsi a danzare, di notte, nel mio polveroso solaio. Un po' di tempo solo per me, ecco quel che chiedo. E che lascino pulito quando se ne vanno!" "Concesso!" La Nonna ebbe un gesto corale, come un direttore d'orchestra, ad abbracciare la fantomatica aria. "Uno alla volta. Avete sentito, ragazzi?" "Abbiamo sentito!" proruppe il coro martellante dalla bocca di Cecy. "Falli venir dentro!" disse il Nonno. "All'assalto!" confermarono quattro voci. E poiché nessuno si era preoccupato di dire quale cugino avesse la precedenza, vi fu nell'aria una carica di fantasmi, un incalzante maroso di uragano e di invisibile vento. Quattro differenti espressioni accesero il volto del Nonno. Quattro differenziati terremoti squassarono il suo fragile telaio. Quattro diversi sorrisi eseguirono arpeggi sulla tastiera dei suoi denti. Prima che il Nonno riuscisse a protestare, con quattro assortite sequenze di salti e velocità, egli fu involato fuori di casa, al di là del prato, trasportato ai binari in disuso della ferrovia verso la città, fra strilli giocondi e risate, già a pregustare le ore folli in attesa. La Famiglia corse sul portico ad assistere alla parata di un solo essere che si involava al galoppo. "Cecy! Fai qualcosa!" Ma Cecy, esausta, si era addormentata sulla sua seggiola. E ciò fu fatto. A mezzodì del giorno seguente, la grande locomotiva blu scuro entrò ansimando nella stazione, per trovare la Famiglia allineata sul marciapiede, con il Nonno, malfermo sulle

gambe, puntellato da molteplici braccia consanguinee. Le quali non solo lo pilotarono, ma lo portarono di peso sul vagone, che odorava di vernice fresca e di velluti roventi. Durante il tragitto, il Nonno, a occhi chiusi, si espresse in una varietà di voci che tutti finsero di non sentire. Lo sistemarono come una vecchia bambola sul sedile, gli raddrizzarono in capo il cappello di paglia, così come si piazza un tetto nuovo su una vecchia casa, e lo frastornarono con raccomandazioni. "Nonno, siediti per bene. Nonno, stai attento al cappello. Nonno, durante il viaggio non bere. Nonno, connetti adesso? Toglietevi, cugini, lasciate che parli lui!" "Connetto, sì!" La bocca e gli occhi del Nonno ebbero palpiti da uccellino. "E sto espiando i loro peccati. Il loro whiskey é il mio tormento. Morte e dannazione!" "Non é vero!" "Balle!" "Non abbiamo fatto niente!" protestò una serie di voci da un lato, e poi dall'altro della sua bocca. "No!" "Silenzio!" La Nonna afferrò il mento del vecchio, dandogli una scrollata per rimettergli in sesto le ossa. "A ovest di October c'é Cranamockett, non é un viaggio lungo. Lì abbiamo un sacco di parenti, zii, zie, cugini, alcuni con prole e altri senza. Il tuo compito é di mettere a pensione i nostri quattro puledri in casa degli uni o degli altri, e..." "Farli sloggiare dal mio cervello" brontolò il Nonno, con una lacrima in bilico sotto una palpebra tremante. "Ma se non riesci a scaricarli," ammonì la Nonna "vedi di riportarli vivi!" "Sempre che sopravviva io!" "Ciao, ciao!" dissero quattro voci da sotto la sua lingua. "Ciao!" ricambiarono tutti dal marciapiede, con sventolio di mani. "A presto, Nonno, Tom, William, Philip, John!" "Ci sono anch'io, adesso!" disse la voce di una giovane donna. La bocca del Nonno si era spalancata, come una cerniera a molla. "Cecy!" gridarono tutti. "Addio!" "La balia dai placidi sonni!" commentò il Nonno. Il convoglio sparì tra le colline, a ovest di October. Il treno infilò una lunga curva. Il Nonno penzolò con uno scricchiolio di giunture. "Be'," bisbigliò Tom "eccoci qua." "Sì." Una pausa abbondante. William confermò: "Eccoci qui". Altro lungo silenzio... Il treno fischiò. "Sono stanco" disse John. "Tu sei stanco?!" sbuffò il Nonno. "Non si respira qui dentro" rilevò Philip. "C'era da aspettarselo. Nonno ha diecimila anni sulla groppa, vero Nonno?" "Quattrocento. Chiudete il becco!" E il Nonno si assestò una manata sulla testa. Un frullo di uccelli atterriti si catapultò contro l'interno del suo cranio. "Basta!" "Da bravi" sussurrò Cecy, placando il panico. "Ho dormito bene, e ti sarò compagna di viaggio per un po', Nonno, per insegnarti come regolarti, comportarti e come tenere in gabbia, nella tua gabbia, i corvi e gli avvoltoi che stai ospitando." "Corvi! Avvoltoi!" insorsero i cugini. "Silenzio" impose Cecy, comprimendoli come tabacco in una vecchia pipa. Molto lontano, la sua entità corporea giaceva, come sempre, nella sua stanza da letto, ma il suo spirito li irretiva e li padroneggiava dolcemente: toccava, spingeva, seduceva, controllava. "Godetevela. Guardatevi in giro." I cugini guardarono.

E, in effetti, vagolare nei meandri superiori della testa del Nonno era come affiorare in un caldo solaio in cui i ricordi, dalle trasparenti ali ripiegate, giacevano impilati tutto intorno, in fasci serrati da nastri, in quinterni, in pacchi, figure intabarrate, ombre distese. Qua e là, una rimembranza di particolare vivezza, come un prezioso raggio di luce ambrata, rifletteva e richiamava in vita un'ora dorata o un giorno d'estate. C'era un odore di vecchio cuoio, di peli riarsi di cavallo e un sottile, sottilissimo sentore di acido urico dalle giunture intorpidite, doloranti sotto le invisibili gomitate dei cugini. "Guarda!" mormoravano i quattro. "Mi venga un colpo. Ma certo!" Perché adesso, quatti quatti, stavano spiando, attraverso i polverosi pannelli degli occhi del Nonno, lo spettacolo del grande treno, mostro infernale, che li trasportava, e del mondo autunnale, verde tendente al marrone, che sfilava ai finestrini, involandosi come fa il traffico davanti a una vecchia casa dalle finestre offuscate dalle ragnatele. E quando costrinsero all'azione la bocca del Nonno, fu come far risuonare un asfittico batacchio di campana arrugginita. I rumori del mondo esterno crepitavano nelle orecchie pelose del vecchio come scariche di interferenza statica in una radio mal sintonizzata. "Comunque," ammise Tom "é sempre meglio che non avere corpo del tutto." "Ho le vertigini" si lamentò John. "Non sono abituato alle lenti bifocali. Puoi toglierti i quattrocchi, Nonno?" "Non ci penso nemmeno." Il treno imboccò un ponte, con fragore di tuoni. "Penso che andrò a dare un'occhiata in giro" annunciò Tom. Il Nonno avvertì un fremito preoccupato nelle gambe. "Issa su le palpebre, Nonno! Facci vedere il panorama!" Il Nonno serrò ancor di più gli occhi con la forza della disperazione. "Sta arrivando una bella figliola, sagomata a regola d'arte! Dài, sbrigati!" Il Nonno mantenne le palpebre incollate. "La più bella ragazza del mondo!" Il Nonno non resisté alla tentazione, e aprì un occhio. "Ah!" dissero i suoi inquilini. "E' vero, Nonno?" "No!" La giovane donna ondeggiò a destra e sinistra, a seconda che il treno la spingesse o la aspirasse; seducente, la figliola, quanto può esserlo una bambolotta che vinci al baraccone di una fiera, sparando alle bottiglie del latte. "Sciacquetta" giudicò il Nonno, e richiuse gli occhi. "Apriti, Sesamo!" E all'istante, egli sentì, dall'interno, che le pupille tornavano a mettersi a fuoco. "Piantatela!" tuonò il vegliardo. "La Nonna mi sbranerà!" "Non lo saprà mai!" Quasi rispondendo a un richiamo, la giovane donna si voltò. Barcollò all'indietro, e finì per cadere addosso a tutti loro. "Basta!" invocò il Nonno. "C'é vostra cugina con noi! Cecy é un'innocente fanciulla e..." "Innocente!" Il grande solaio cranico rimbombò di risate. "Nonno," disse Cecy, con sommessa dolcezza "con tutte le escursioni notturne che ho fatto, con tutto il viaggiare che ho accumulato, non sono..." "Ingenua" conclusero per lei i quattro cugini. "Sentite un po', voi!" insorse il Nonno. "No, senti tu" sussurrò Cecy. "Ho visitato camere da letto in migliaia di notti d'estate. Sono stata acquattata in nivei giacigli di bianchi cuscini e lenzuola, e ho nuotato, nuda, nei

fiumi al sole d'agosto, mi sono sdraiata sul greto dei fiumi perché gli uccelli mi vedessero..." "Mi rifiuto" e il Nonno si tappò le orecchie con i pugni "di ascoltare!" "Sì" continuò Cecy, la cui voce inseguiva freschi prati di ricordi. "Sono stata nel viso di una ragazza, calda di sole, e ho guardato un giovane, e sono entrata in lui, nello stesso istante, desiderando con gli occhi la ragazza di eterna estate. Ho vissuto tra coppie di gatti in amore, di uccelli nel volo di nozze o di tortore languenti d'amore. Mi sono nascosta in due farfalle fuse in una su un fiore di trifoglio..." "Dannazione!" sussultò il Nonno. "Sono stata su slitte in notti di dicembre, mentre cadeva la neve e usciva vapore bianco dalle narici dei cavalli, e sulle slitte c'erano strati e strati di coltri impellicciate, sotto le quali sei giovani creature umane si nascondevano, al calduccio, a esplorarsi, desiderarsi e trovarsi e..." "Basta! Mi stai demolendo!" esclamò il Nonno. "... e sono stata dentro un grande castello di ossa e di carne - la più bella donna del mondo..." Come folgorato, il Nonno rimaneva immobile. Perché adesso era come se su di lui cadesse la neve e lo placasse. Sentiva una carezza di fiori sulla fronte, e un soffio di vento di luglio alitargli rasente le orecchie, e per tutte le membra uno sbocciare di calore, un dilatarsi del vecchio piatto torace, un fuoco guizzare alla bocca dello stomaco, e più in basso. Ora, mentre Cecy parlava, le labbra gli divenivano più morbide e colorite, e ricordavano poesie che sarebbero potute riversarsi come piogge impensabili, e le dita, logore e arrugginite, gli tremavano in grembo, e il loro colore acquistava la sfumatura di panna e di latte e di polpa di mele d'inverno. Se le guardò, attonito. Serrò i pugni per arrestare quell'incombere di femminilità. "No! Ridatemi le mie mani. E tu, lavati la bocca col sapone!" "Ora basta con le chiacchiere" disse una voce dall'interno. Philip. "Stiamo perdendo tempo" incalzò Tom. "Andiamo a ossequiare quella signorina seduta oltre il corridoio" propose John. "Chi é a favore?" "Noi!" disse il coro del Tabernacolo di Salt Lake, da una sola gola. "Nessuno contrario?" "Io!" tuonò il Nonno, che si sentì issato in piedi da un argano invisibile. Serrò gli occhi, si afferrò la testa tra le mani, si strizzò le costole. L'intero suo corpo era come quel letto, di incredibile stranezza, che si contraeva per soffocare le sue vittime terrorizzate. I cugini cozzavano l'un contro l'altro, annaspando nel buio. "Aiutaci, Cecy! Luce! Dacci luce! Cecy!" "Arrivo" disse Cecy. Il vecchio si sentì toccato, pizzicato, sollecitato, ora dietro le orecchie, ora lungo la spina dorsale. Le sue ginocchia sbattevano in reciproci impatti, per non essere da meno delle caviglie scricchiolanti. Adesso, i polmoni gli si riempivano di piume, il suo naso si intasava di fuliggine. "Will, la sua gamba sinistra, muovigliela! Tom, la gamba destra, sollevagliela! Philip, tu il braccio destro. John, il sinistro. Io mi occupo di questo tronco dalle ossa di tacchino! Pronti? Via!" "Issa!" "A passo di carica. Corri!" E il Nonno partì al trotto. Ma non al di là della corsia; si involò lungo il corridoio, ansimando, gli occhi spiritati.

"No!" gridò il coro greco. "La signorina é da questa parte! Qualcuno vada ad acchiapparlo! Chi si é preso le sue gambe? Will? Tom?" Il Nonno aveva già spalancato la porta in fondo al vagone, era saltato sulla piattaforma baciata dal vento, pronto a gettarsi giù in un prato fiorito di girasoli, quando: "Bloccati! Le belle statuine!" disse il coro che gli imbottiva la bocca. E statua egli divenne, in coda a un treno che svaniva lungo i binari. Un attimo dopo, roteando su se stesso, il Nonno si ritrovò all'interno della vettura. E mentre il treno abbordava un'ennesima curva, andò a finire seduto sulle mani della signorina. "Mi scusi" balbetto, saltando in piedi. "Prego" rispose la proprietaria delle maniÄcuscinetto, scostandosi per lasciargli posto. "Non si disturbi, la prego, no, no!" Il Nonno crollò sul sedile di fronte, chiudendo gli occhi. "Inferno e dannazione! Per tutti, le belle statuine! Pipistrelli, accidenti a voi, dentro nel campanile!" I cugini sogghignarono e gli sciolsero la cera che aveva nelle orecchie. "Ricordatevi" sibilò il Nonno. "Lì dentro, voi siete giovani. Io, qui all'esterno, sono una mummia!" "Ma..." sospirò il quartetto d'archi da sotto le sue palpebre "... noi faremo in modo che tu ti comporti da giovane!" Li sentì accendergli una miccia nello stomaco, innescargli una bomba nel petto. "No!" Il Nonno dette uno strappone a una corda nel buio. Una botola si spalancò. I cugini ne precipitarono fuori, in una ricca e interminabile varietà di colori e di ricordi. Sagome tridimensionali, seducenti, e quasi altrettanto rimase della ragazza seduta dall'altra parte del corridoio. Caddero, i cugini, e i loro strilli. "Attenzione!" "Che fregatura!" "Tom?" "Sono qui, in qualche punto del Wisconsin! Come diavolo ci sono arrivato, qui?" "E io sono sopra una barca, sul fiume Hudson. William?" Da tanto lontano, William si fece vivo. "Sono a Londra. Mio Dio! I giornali dicono che oggi é il 22 agosto del millenovecento!" "E' impossibile! Cecy?" "Non Cecy. Io!" disse il Nonno, di colpo ovunque. "Siete ancora tra le mie orecchie, dannazione! E state usando i miei tempi passati e i luoghi di un tempo, come gli asciugamani nel cesso degli ospiti. Occhio alla testa, i soffitti sono bassi!" "Ah ah," fece William "e questo che sto guardando é il Grand Canyon, o una ruga sulla tua zucca?" "Il Grand Canyon" precisò il Nonno. "Anno novecentoventuno." "Una donna!" si entusiasmò Tom. "Ce l'ho proprio davanti!" E, senz'altro, la donna era bella, nella primavera di duecento anni prima. Nessun nome era ricollegato al ricordo. Ella era stata soltanto qualcuno il cui cammino aveva incrociato quello del Nonno, il quale stava andando in cerca di fragole in un meriggio estivo. Tom si allungò verso la squisita rimembranza. "Giù le mani!" impose il Nonno. E il viso della donna bellissima, nella luminosa aria d'estate, volò in disparte. Lei proseguì allontanandosi, sempre più, scomparendo lungo il sentiero. "Jella fottuta!" rimpianse Tom.

Gli altri cugini stavano dandosi da fare col massimo impegno, spalancando porte, galoppando su vialetti, sollevando tapparelle. "Guarda! Oh, bella! Dai un'occhiata qui!" gridavano eccitati. I milioni di ricordi giacevano, fianco a fianco, allineati e compressi come sardine in scatola. Archiviati in ordine cronologico: ore, minuti, secondi. Qui, una ragazza bruna intenta a pettinarsi. Poi, là stessa ragazza che camminava, correva, o dormiva. Tutti i suoi movimenti possedevano l'equilibrio di un nido d'api e il colore delle sue gote baciate dall'estate. E il lampo splendente del suo sorriso! Potevi prenderla, farla girare su se stessa, mandarla via, farla tornare. Bastava tu dicessi Italia, 1797, ed ecco che lei danzava in un caldo padiglione o nuotava in acque accarezzate dalla luna. "Nonno! Ne sa niente la Nonna di costei?" "Devono esserci altre donne!" "Migliaia!" esclamò il Nonno. Sollevò una palpebra. "Ecco!" Un migliaio di donne uscì alla rinfusa da un settore dell'archivio. "Ottimo lavoro, Nonno!" Tra un orecchio e l'altro, il Nonno riviveva escursioni e corse in montagna, l'errare nei deserti, i vicoli esplorati, le città visitate. Finché John afferrò per un braccio una seducente e isolata signora. Impossessandosi della sua mano. "Fermo là!" ruggì il vecchio, scattando in piedi. La gente sul treno lo guardò, stupita. "Ti ho presa!" esultò John. La bella signora si voltò. ` "Pazzo!" sbottò il Nonno, amaramente. La carne della splendida femmina si dissolse. Il mento imperioso ricadde, goffo, le gote le si incavarono, gli occhi le si annegarono dietro le rughe. John rinculò. "Nonna, sei tu!" "Cecy!" il Nonno era scosso da un tremito violento. "Spedisci John in un uccello, in una pietra, in un pozzo. Ovunque, ma non lasciarlo dentro la mia testa a farmi dannare! Adesso, subito!" "Esci fuori, John!" ordinò Cecy. E John svanì. Tramutato in un tordo canterino, appollaiato su un palo che guizzò via al di là del finestrino. La Nonna rimase nell'ombra, appassita immagine. L'amorevole sguardo interiore del Nonno la toccò di nuovo, per ricomporla di giovane carne. Nuovo colore le tornò negli occhi, nelle gote, nei capelli. Egli la nascose al sicuro in un giardino segreto e senza nome. Il Nonno riaprì gli occhi. La luce del sole irruppe sui tre restanti cugini. La signorina era sempre lì, seduta al posto di prima. Il Nonno serrò di nuovo gli occhi, ma troppo tardi. I tre giovani energumeni riapparvero dietro le sue palpebre. "Fessi che siamo!" esclamò Tom. "Perché infognarci con i tempi che furono? Eccolo li il presente! Quella ragazza! Sì?" "Sì!" bisbigliò Cecy. "Sentite! Metterò la mente del Nonno nel corpo di lei. Poi la mente di lei la faccio traslocare nella testa del Nonno. Il corpo del Nonno resterà seduto qui, come un palo, e, dentro, noi saremo acrobati, ginnasti! Spudorati! Il controllore passerà e non s'accorgerà di niente. Il Nonno sarà seduto al suo posto. Con la testa piena di sghignazzate, di gente svestita, mentre il suo vero cervello sarà intrappolato lì, dentro la testa di quella bella figliola! Sai che spasso, in mezzo a una vettura ferroviaria in un caldo pomeriggio, senza che nessuno se ne renda conto!"

"Sì!" concordarono i tre, all'unisono. "No" disse il Nonno, e tirò fuori di tasca due compresse bianche e si affrettò a inghiottirle. "Fermatelo!" gridò William. "Che fregatura!" si rammaricò Cecy. "Era un piano così ben congegnato, abile e sottile!" "Buonanotte a tutti" disse il Nonno con un sogghigno. La medicina stava facendo effetto. "E lei..." aggiunse, guardando con cordiale sonnolenza la signorina al di là del corridoio "lei é stata risparmiata in extremis da un destino, mia bella figliola, peggiore di diecimila morti." "Prego?" La giovane sbatté le palpebre, stupita. "Innocenza, continua nella tua innocenza" borbottò il Nonno e si addormentò. Il treno arrivò a Cranamockett alle sei. Soltanto allora fu consentito a John di rientrare dal suo esilio nella testa del tordo, su una siepe rimasta indietro chilometri e chilometri. A Cranamockett non c'era assolutamente nessun parente disposto a ospitare i cugini. Al termine di tre giorni di inutili tentativi, il Nonno prese il treno per tornare nell'Illinois, con i cugini tuttora dentro il cranio, come noccioli di pesca. E lì rimasero, ognuno in un diverso territorio del solaio del Nonno, illuminato dal sole o baciato dal chiarore lunare. Tom prese dimora in un ricordo del 1840 a Vienna, assieme a un'attrice mezza pazza. William viveva nella Lake County, con una svedese dai capelli color del lino, di età indefinita, mentre John faceva la spola da un soggiorno all'altro, San Francisco, Berlino, Parigi, apparendo, di tanto in tanto, con un guizzo malizioso negli occhi del Nonno. Philip, al contrario, si era esiliato in una cantina adibita a deposito di patate, dove passava il tempo a leggere tutti i libri della biblioteca del Nonno. Ma, a più riprese durante certe notti, Nonno scivolava, sotto le coperte, verso Nonna. "Ehi! Che ti prende?" gridava lei. "Alla tua età! Piantala!" E lo picchiava finché, ridendo in cinque modi diversi, il Nonno rinunciava, voltava la schiena e fingeva di dormire, pronto, con cinque altri modi di intraprendere il tentativo. L'ultimo circo Jurgis Linguarossa (lo chiamavano così perché succhiava in continuazione caramelle di colore scarlatto) si piazzò, una fredda mattina d'ottobre, sotto la mia finestra, e lanciò richiami alla banderuola metallica sul tetto di casa nostra. Feci capolino dalla finestra, alitando condensa. "Ciao, Linguarossa!" "Scendi!" mi disse. "Fai presto, c'é il circo!" Tre minuti dopo, uscivo di casa al galoppo, lustrandomi contro il ginocchio due mele. Linguarossa stava ballonzolando per tenersi caldo. Concordammo che chi arrivava ultimo al deposito dei treni era un fesso. Mordendo le mele, corremmo lungo le strade deserte della città. Raggiungemmo i binari nell'oscuro deposito ferroviario, li ascoltammo vibrare. Lontano, nella buia fredda periferia, lo sapevamo, il circo stava arrivando. Lo annunciava il fremito nelle rotaie. Accostai l'orecchio ai paralleli serpenti di ferro, per averne conferma. "Accidenti!" esclamai. E poi, ecco la locomotiva incedere verso di noi, fuoco, bagliori e rumori di un nero uragano, col seguito di nuvole. Dalle pareti dei vagoni merce oscillavano lanterne rosse e verdi, e dall'interno venivano sbuffi, urla, e strilli. Elefanti sbarcarono, gabbie vennero scodellate a terra, e tutto si sovrappose sui marciapiedi dello scalo, fin quando, alle prime

luci, animali e uomini si misero in marcia. Linguarossa e io con loro, attraverso la città, verso i prati dove ogni filo d'erba era candido cristallo e ogni cespuglio, a toccarlo, si trasformava in doccia. "Prova solo a pensarci, LR" dissi. "Un minuto fa c'era terra deserta, e basta. E adesso, guarda!" Guardammo. Il grande tendone sbocciò come uno di quei fiori giapponesi quando li metti nell'acqua fredda. Si accesero luci abbaglianti. Dopo neanche mezz'ora, odor di frittelle sul fuoco e gente che rideva. Restammo lì a osservare tutto. Mi misi una mano sul petto, e sentii il cuore battermi contro le dita, come quegli aggeggi "palpitatori" che compri per quattro soldi nei negozi di scherzi e trucchi. Tutto ciò che volevo fare era di vedere e odorare. "A casa, la colazione é pronta!" gridò LR e mi diede uno spintone per essere il primo. "Stai zitto e lavati la faccia" mi disse Mamma, alzando gli occhi dai fornelli. "Frittelle!" esclamai, stupito per la sua intuizione. "Com'era il circo?" Mio padre mi sbirciò al di sopra del giornale che aveva aperto tra le mani. "Una cannonata" risposi. "Che roba, ragazzi!" Mi lavai la faccia sotto il rubinetto dell'acqua fredda, e mi rimorchiai una sedia sotto il sedere nell'attimo in cui Mamma scodellava nel piatto le frittelle. Mi porse la brocca dello sciroppo: "Annegale" mi disse. Mentre masticavo, mio padre pareggiò i fogli del giornale e sospirò: "Non so dove andremo a finire". "Non dovresti leggere il giornale appena alzato..." commentò Mamma "ti rovina la digestione." "Guarda qui!" esclamò Papà, facendo scorrere l'indice lungo le pagine. "Guerra batteriologica, bomba atomica, bomba all'idrogeno. Non leggi altro che questa roba!" "Personalmente," ribatté Mamma "questa settimana la mia più grande angoscia é l'enorme bucato che devo fare." Papà aggrottò la fronte: "Sai cos'é il guaio di questo mondo? La gente come te che sta a sedere su una bomba innescata mentre fa il bucato". Si sporse in avanti. "Stamattina ti dicono che dispongono di una nuova bomba atomica che eliminerebbe Chicago dalla carta geografica. Quanto alla nostra città - non ne resterebbe che una macchiolina. Più ci penso e più dico che é una maledetta vergogna!" "Cosa?" domandai. "Abbiamo impiegato un milione di anni per arrivare a essere quello che siamo. Abbiamo costruito città e metropoli dal nulla. Perdinci, cent'anni fa questa città non esisteva. E' costata un sacco di tempo, di sudore, di sacrifici, per venir su mattone per mattone, e adesso che succede? BANG!" "A noi non succederà, ci scommetto" dissi io. "No?" Papà sbuffò con disprezzo. "Perché no?" "A noi, no. Non potrebbe." "Piantatela voi due" intervenne Mamma e mi fece un cenno con il capo. "Tu sei troppo giovane per capire." Indicò Papà. "E tu sei abbastanza vecchio da evitare certi discorsi." Mangiammo in silenzio. Poi chiesi a Papà: "Com'era qui, prima che ci fosse la città?". "Non c'era nulla. Solo il lago e le colline. E basta." "Indiani?" "Non tanti nei paraggi. Soltanto boschi deserti e colline." "Passami lo sciroppo" disse Mamma. "Buuum!" gridò LR. "Sono una bomba atomica! Bum!" Stavamo facendo la coda davanti al cinema Elite. Era il più grande giorno dell'anno. Avevamo tampinato i nostri genitori tutta la mattina per i soldi del biglietto. Adesso, di pomeriggio, lo schermo ci avrebbe elargito cowboys e indiani, e, in serata, ci aspettava il circo! Ci sentivamo ricchi e innegabilmente ilari. LR, ossia Linguarossa, continuava a

smaniare nella sua atmosfera atomica, vociando: "Bum! Sei disintegrato!". Sullo schermo dell'Elite i cowboys inseguivano gli indiani. Mezz'ora dopo, e in senso contrario, furono gli indiani a inseguire i cowboys. E quando ognuno fu saturo di emozioni e sparatorie, seguirono un cartone animato e il documentario d'attualità. "Guarda, la bomba atomica!" LR si mise a sedere, per la prima volta da quando eravamo entrati. La grande nube grigia si innalzò sullo schermo, si diradò, corazzate e incrociatori apparvero, squarciati, e cadde la pioggia. LR afferrò stretto il mio braccio, fissando con la bocca semiaperta l'incandescente bagliore. "Non é mondiale, Doug, colossale?" e mi affibbiò una gomitata nelle costole. "Un cataclisma" concordai, ghignando e restituendogli la gomitata. "Vorrei averne una, di bomba atomica. Bang! Ed ecco che la scuola vola in aria!" "Bang! Addio Clara Holmquist!" "Bang! Tanti saluti, Direttore O'Rourke!" Per cena, il menù comprendeva polpette alla svedese, focacce calde, fagioli di Boston e insalata verde. Papà aveva un'aria molto seria e insolita, e cercò di tirare in ballo certi importanti argomenti scientifici che aveva letto su una rivista. Mamma, però, scosse la testa. Scrutai mio padre. "Ti senti bene, Papà?" "Domani disdico l'abbonamento al giornale" intervenne Mamma. "Va a finire che ti viene un'ulcera. Mi hai sentita, marito?" "Ragazzi," dissi io "ho visto una cannonata di film. All'Elite, una bomba atomica ti polverizzava tutta una corazzata." Papà lasciò cadere la forchetta e mi fissò: "Certe volte, Douglas, hai la diabolica abilità di dire la cosa sbagliata al momento sbagliato". Vidi che la Mamma, furtivamente, cercava di cogliere il mio sguardo: "E' tardi," disse "ti conviene correre al circo". Mentre andavo a prendere berretto e giacca, sentii Papà dire, a voce bassa e pensosa: "E se liquidassi l'azienda? Sai, é da tanto tempo che vogliamo viaggiare, fermarci un po' nel Messico. Una piccola città. Stabilirci lì, a tirare il fiato...". "Stai parlando come un bambino" sussurrò Mamma. "Non voglio che ti metta in testa certe idee." "Lo so che é stupido. Come non detto. Ma hai ragione: meglio disdire l'abbonamento al giornale." Stava soffiando un vento che faceva inchinare gli alberi, e le stelle erano tutte fuori, e il circo era adagiato nel prato ai piedi delle colline, come un grosso fungo. Linguarossa e io: popcorn in una mano, caramelle nell'altra e zucchero filato attaccato al mento. "Guarda la mia barba!" gridò Linguarossa. Sotto le vivide lampadine, ognuno parlava e spingeva, e un uomo faceva schioccare una sorta di sipario, tamburellandolo con un bastone, decantando ad alta voce le straordinarie caratteristiche dell'Uomo Scheletro, della Donna Cannone, dell'Uomo Tatuato, del Ragazzo Foca, mentre LR e io ci facevamo strada a catapulta verso la signora che doveva lacerare in due i nostri biglietti. Conquistammo il nostro posto sulle panche di legno proprio mentre esplodeva il rullio dei tamburi e rimbombava la grancassa e gli elefanti ingioiellati entravano in pista; e da allora in poi fu un caleidoscopio composito di riflettori rutilanti, con uomini che vociavano dentro megafoni, signore appese su in alto, con movenze di farfalle, tra nuvole di fumo di sigaretta, e uomini volanti che facevano la spola da un trapezio e l'altro, tra funi e pali vertiginosi, e leoni al morbido trotto circolare nei confini di una gabbia, con il domatore in brache bianche che gli esplodeva contro fumo e guizzi di

fiamma da una pistola d'argento. "Guarda!" gridavamo io e LR, spalancando gli occhi, trattenendo il fiato, ridacchiando, inframezzando gridolini di oh, ah, stupefatti, increduli, sedotti, eccitati. Strambi carrettini turbinavano lungo l'anello della pista, clown saltavano fuori da pareti in fiamme, i capelli ritti in testa come bastoni, trasformati da giganti in nani all'uscita dal bagno turco. L'orchestra strepitava, impazzava, assordava, e tutto era colore, calore, lustrini scintillanti e boati di folla. Ma, mentre lo spettacolo volgeva al termine, distolsi gli occhi, e scoprii un buco nel tendone alle mie spalle. E attraverso quel piccolo foro potevo vedere i vecchi prati, là fuori, col vento che li sfiorava, e le stelle che scintillavano in alto. Il vento freddo faceva fremere dolcemente la tenda. E, di colpo, girandomi verso la calda e clamorosa confusione che mi circondava, sentii freddo anch'io. Udii al mio fianco LR ridere, e intravidi, distanti, assai distanti, alcuni uomini pedalare su una bicicletta d'argento, in equilibrio su un filo sottile, nel vuoto, tanto, tanto in alto, col solo rullo dei tamburi a rompere il silenzio sospeso. E quando il numero fu finito, duecento clown irruppero fuori, bastonandosi a vicenda le teste con manganelli di gomma, e Linguarossa quasi rotolava dalla panca, dal convulso di risa. Io rimasi seduto, senza muovermi, e alla fine il mio amico si girò verso di me, mi guardò e disse: "Ehi, che ti succede, Doug?". "Niente" risposi e mi riscossi. Guardai i rossi pali di sostegno del circo, le corde e i tiranti e le luci. Guardai i clown dalle facce infarinate, e mi costrinsi a ridere. "Guarda quello, LR, il ciccione là in fondo!" L'orchestra eseguì La Vecchia Cavalla Grigia Non E' Più Quella Di Prima. "Peccato, é finito" disse LR senza fiato. Restammo seduti, mentre la gente si avviava all'uscita, commentando, ridacchiando, spintonandosi. Il tendone era saturo del fumo dei sigari, e gli strumenti dell'orchestra rimasero sul soppalco, momentaneamente capovolti e abbandonati, dopo l'ondata musicale che ci aveva assordato. Non ci muovevamo, perché nessuno dei due voleva che fosse finita. "Meglio che andiamo" disse LR, senza accennare ad alzarsi. "Aspettiamo" risposi, atono, guardando nel vuoto. Dopo quelle ore di colori strani e di musiche, mi sentivo il sedere indolenzito per la permanenza sulla dura panca di legno. Qualcuno stava cominciando a rovesciare le sedie impilandole una sull'altra. Iniziava la smobilitazione. Stavano sganciando i tiranti del tendone. Ovunque, il frastuono di cento rumori che sanzionavano l'afflosciarsi del circo. Il tendone era vuoto. L'unico pubblico eravamo noi due. Ci fermammo a metà strada, col vento che ci soffiava la polvere negli occhi, con le foglie che volavano via dai rami. E il vento portava via le foglie morte e la processione di irrequieti, frettolosi ex spettatori. Le lampadine che facevano grappolo al tendone si spensero una a una, dopo un ultimo ammiccare. Salimmo in cima a un'altura vicina, e vi restammo nel buio pieno di vento, battendo i denti, osservando le luci azzurrine trasmigrare nell'oscurità, l'ondeggiare delle grandi sagome bianche degli elefanti, ascoltando imprecazioni di uomini, lo scatto dei picchetti strappati dal suolo... E poi, come un enorme mantice esausto, il tendone si afflosciò a terra. Un'ora più tardi, la strada ghiaiosa fu piena di auto, grossi furgoni e gabbie dorate. Il pallido prato restò vuoto. La luna si stava affacciando, e la brina inguainava ogni cosa che fosse bagnata. LR e io scendemmo lentamente fin sul prato, con nel naso l'odore di segatura. "Ecco tutto quello che é rimasto" disse Linguarossa. "Segatura."

"Qui c'é il buco di un picchetto" ribattei e indicai "Lì, ce n'é un altro." "Non diresti mai che erano qui" meditò LR. "E' come se te lo fossi solo immaginato." Nuova incursione del vento a strapazzare l'erba e a scuotere gli alberi. Non una luce, non un suono; anche gli ultimi odori del circo erano spariti. "Ulp!" esclamò LR, strisciando i piedi. "Sai che battuta se non siamo a casa un'ora fa!" E sorrise. Ci avviammo lungo la deserta strada periferica, il vento che ci spingeva alle spalle, le mani sprofondate in tasca, la testa china. Costeggiammo il profondo silenzioso burrone, e poi abbordammo le viuzze della città, rasentando case addormentate, ove, qua e là, veniva il suono smorzato di una radio, e c'era la voce di un ultimo grillo, e i nostri tacchi che rimbombavano sulle ruvide lastre di pietra al centro della lunga via, sotto lo smorto chiarore ondeggiante delle lampade ad arco su ogni angolo. Guardavo le case, i loro recinti di paletti, i tetti spioventi, le finestre illuminate. E guardavo ogni albero, ogni pietra sotto le mie scarpe, e LR che mi ciondolava al fianco, battendo i denti. E guardai anche il lontano orologio della torre municipale, che innalzava l'umido bianco quadrante verso la luna, tra il nereggiare dei grandi edifici municipali. "'Notte, Doug." Non risposi al saluto, e lasciai che LR si allontanasse lentamente lungo la via, tra le case di mezzanotte, e sparisse dietro un angolo più in là. Scivolai su per le scale e fui a letto in un minuto, guardando dalla mia finestra la città. Mio fratello Skip doveva avermi sentito piangere molto prima di decidersi ad allungare un braccio e tastarmi. "Che c'é che non va, Doug?" mi chiese. "Niente" singhiozzai in sordina. "Solo il circo." Skip attese. Il vento sibilava attorno casa. "Il circo, perché?" "Il circo, niente. Solo che non tornerà più." "Ma sì che tornerà" assicurò lui. "No, se n'é andato. E non tornerà mai più. E' sparito, lì dov'era, non é rimasto più niente." "Cerca di dormire." Skip si girò dall'altra parte. Smisi di piangere. In qualche punto della città, una manciata di finestre erano ancora illuminate. Giù alla stazione, una locomotiva muggì, si mosse e accelerò per perdersi tra le colline. Io aspettai, nella stanza buia, trattenendo il respiro, mentre una a una, silenziose, le piccole remote finestre delle piccole case andavano oscurandosi. Stanlio e Ollio A lui venne istintivo di chiamarla Stanlio, lei trovò automatico di chiamarlo Ollio. Questo fu il principio, e fu la fine, di ciò che chiameremo l'idillio tra i due. Lei aveva venticinque anni, quando si incontraronoscontrarono a una di quei vacui ricevimenti, dove ognuno si chiede perché ci sia venuto. Ma nessuno se ne torna a casa, quindi tutti bevono troppo e mentono giurando che é stato un pomeriggio fantastico. Come spesso accade, essi avevano ignorato la reciproca presenza nella sala affollata, e, qualora ci fosse stata una musica romantica a dare atmosfera alla loro collisione, il frastuono l'avrebbe resa inudibile. Perché ciascuno parlava con chi aveva davanti, e guardava qualcun altro. In effetti, in quel momento, i due si trovavano sballottati in mezzo a una foresta di gente, ma senza approdare ad alcuna ombra ristoratrice. Lui stava tentando di assicurarsi un drink

intensamente desiderato, lei cercava di depistare uno sconosciuto assetato di contatti, quando si trovarono di fronte nel bel mezzo dell'inutile folla. Entrambi, all'unisono, vollero cedersi il passo, spostandosi a sinistra e a destra senza risolvere il faccia a faccia, poi scoppiarono a ridere, e lui, d'impulso, afferrò l'estremità della propria cravatta e ne sventolò i lembi, arpeggiando le dita. Di rimando, sorridendo, lei sollevò la mano a rialzarsi i capelli in un ciuffo scompigliato, sbattendo le palpebre e facendo una faccia come se l'avessero picchiata in testa. "Stanlio!" esclamò lui, riconoscendo la mimica. "Ollio!" "Perché non fai qualcosa per aiutarmi?!" continuò lui, facendo ampi gesti esasperati. Si afferrarono per le braccia, ridendo. "Io..." disse lei, irradiando giocondità. "Io... io so il posto esatto, a poco più di tre chilometri da qui, dove Laurel e Hardy, nel novecentotrenta portarono su e giù per centocinquanta scalini quella gabbia con dentro il pianoforte!" "Be'!" gridò lui. "Che aspettiamo ad andarci?" Sbatterono le portiere della sua auto, il motore ruggì. Los Angeles sfilò via nel sole del pomeriggio avanzato. Egli frenò dove lei gli disse di parcheggiare. "Qui!" "Non riesco a crederci" mormorò, le mani sul volante. Guardò il cielo al tramonto. Ai piedi della collina, le luci di Los Angeles andavano animandosi. Accennò col capo. "Sono quelli i gradini?" "Tutti i centocinquanta spaccati." La ragazza scese dalla macchina. "Vieni, Ollio." "Arrivo, Stanlio." Raggiunsero la base di un'altra gobba del terreno, e guardarono la ripida sequenza degli scalini di cemento verso il cielo. Un sottilissimo velo di lacrime sfiorò gli occhi dell'uomo. Lei fu portata a fingere di non accorgersene, ma gli prese il gomito. Con voce stupendamente sommessa, lo sollecitò: "Vai su. Coraggio, sali". E gli diede una piccola spinta. Lui cominciò la scalata, contando sottovoce, e, a ogni gradino, il suo conteggio assumeva un decibel di gioia. Quand'ebbe raggiunto il 57ø scalino, era già un ragazzo che aveva scoperto un nuovo, meraviglioso gioco. Si sentiva perduto nel tempo, e che fosse lui a trasportare su il piano o fosse il piano a inseguirlo in discesa, non avrebbe saputo dirlo. "Fermati lì," la sentì gridare dal basso "lì dove sei!" Restò, un poco instabile, sul 58ø gradino, sorridendo felice. "Okay," aggiunse lei "adesso torna giù!" Egli iniziò la discesa, colorito in viso, con una speciale sensazione nel petto, di una felicità che era quasi dolorante. Adesso, gli pareva di sentire il pianoforte che lo incalzava alle spalle. "Rimani li, adesso, su quello scalino!" La donna aveva in mano una macchina fotografica. Istintivamente, lui si portò la mano alla cravatta che agitò nell'aria della sera. "Adesso, io!" gridò lei, e salì in volata porgendogli la macchina. E lui discese, guardò su, e la scorse, nel suo arruffare la crocchia sulla testa e assumere l'aria desolata e interrogativa di Stanlio, tradito dalla vita ma pieno d'amore per la vita. Scattò la foto, desiderando di restare li per sempre. Lei venne giù lentamente e lo scrutò in viso. "Ma come?" sussurrò. "Stai piangendo!" Gli appoggiò i pollici sotto gli occhi per eliminare le lacrime. Poi assaggiò il risultato. "Si," disse "lacrime vere." Lui la guardò negli occhi, che erano bagnati quasi quanto i suoi.

"Un altro bel pasticcio in cui ci hai messi" commentò. "Oh, Ollio!" "Oh, Stanlio." La baciò, con tenerezza. E poi le disse: "Ora che ci conosciamo, sarà per sempre?". "Per sempre" confermò lei. E fu così che cominciò la lunga storia d'amore. Avevano, naturalmente, nomi veri, sanzionati dall'anagrafe, ma quei nomi non hanno alcuna rilevanza, in quanto Stanlio e Ollio si dimostrarono sempre i nomignoli migliori di chiamarsi fra loro. Per il semplice fatto che lei era sotto peso di un sette chili, e lui tentava di continuo di indurla a recuperarli, e per l'altra semplice circostanza che lui era un dieci chili sopra il peso forma, e lei non cessava di insistere perché si togliesse di dosso qualcosa di più che non fossero le scarpe. Ma i tentativi non avevano effetto alcuno, e alla fine diventò un gioco, il più gaio dei giochi, con la seguente conclusione: "Tu sei Stanlio, innegabilmente, e io sono Ollio. Arrendiamoci alla realtà. E, santo Dio, ragazza mia, godiamo questo pasticcio, questo meraviglioso controsenso, finché ci siamo dentro!". E fu, allora, finché durò, un parfait francese, una perfezione americana, una felice follia che li avrebbe tenuti avvinti fino all'ultimo fiato di vita. A partire da quell'ora del crepuscolo su quei gradini del pianoforte, i loro giorni divennero lunghi, spensierati e pieni di quella sorprendente festosità che scandisce l'inizio e il prorompente decorso di ogni grande amore. Essi smettevano di ridere solo per il tempo necessario a baciarsi, e smettevano di baciarsi solo per aver modo di ridere per quanto strano e miracoloso risultasse di trovarsi a letto insieme, senza l'impaccio di indumenti, su un letto vasto come la vita e bello quanto un mattino. E sedendo tra il caldo biancore, egli chiuse gli occhi, scosse la testa e dichiarò pomposamente: "Non ho proprio niente da dire!". "Sì, invece!" esclamò lei. "Dillo!" Glielo disse, e caddero dall'orlo della terra. Il loro primo anno fu mitico e favoloso, un puro sogno, che sarebbe ingigantito nel ricordo di trent'anni dopo. Essi andavano a vedere nuovi e vecchi film, ma soprattutto quelli di Stan Laurel e Oliver Hardy. Ne conoscevano a memoria le sequenze migliori, e di notte le reinterpretavano, vagabondando in macchina per Los Angeles. L'uomo la viziava, considerandone l'infanzia, sbocciata a Hollywood, assolutamente eccezionale, e lei lo adulava, fingendo che le corse sui pattini a rotelle fatte dal suo uomo davanti agli studi di produzione non appartenessero al passato, bensì al loro presente. E glielo dimostrò una sera. Come se fosse stata assalita da un ricordo, volle sapere dove lui, filando sui pattini a rotelle, da ragazzo, si fosse scontrato con W.C. Fields. Dove avesse chiesto a Fields l'autografo, e dove Fields gli avesse firmato l'album, esclamando: "Sei contento, adesso, piccolo pirata della strada?". "Portamici" gli impose. E alle dieci di quella sera, erano scesi di macchina davanti agli studi della Paramount, ed egli aveva indicato un punto del marciapiede vicino all'entrata, dicendo: "Lui era qui" e lei lo aveva preso tra le braccia e l'aveva baciato, e aveva insistito dolcemente: "E dove é stato che ti scattarono la foto assieme a Marlene Dietrich?". L'aveva portata a una ventina di metri più in là. "Era quasi il tramonto" aveva rievocato. "Marlene si trovava proprio qui." Si era guadagnato un altro bacio, più lungo questa volta, con la luna spuntata - come per un tocco magico - a riempire

la strada davanti alla deserta Paramount. L'anima di lei era fluita in lui, come una fontana traboccante, ed egli l'aveva accolta e ricambiata lietamente. "Adesso," aveva proseguito la donna, a bassa voce "dove é stato che vedesti Fred Astaire nel novecentotrentacinque, e Ronald Colman nel novecentotrentasette, e Jean Harlow nel novecentotrentasei?" E lui l'aveva accompagnata in quei tre posti, in una Hollywood di mezzanotte, e lei lo aveva baciato, lunghissimi baci che non finivano mai. E quello fu il primo anno, durante il quale i due si recarono, almeno una volta al mese, a salire e scendere l'interminabile gradinata della sequenza del pianoforte, sostando a mezza via per picnic a base di champagne, e facendo una scoperta incredibile. "Penso che sono le nostre bocche" disse lui. "Prima di conoscere te, non mi ero reso conto di avere una bocca. La tua é la più stupefacente del mondo, e mi fa sembrare che anche la mia sia meravigliosa. Prima che ti baciassi io, eri mai stata baciata veramente?" "Mai!" "Nemmeno io. Aver vissuto tanto a lungo e non conoscere le nostre bocche!" "Cara bocca" disse la giovane. "Taci e baciami." Ma poi, alla fine del primo anno, scoprirono una cosa anche più incredibile. Lui lavorava in un'agenzia pubblicitaria, ed era inchiodato sul posto, inamovibile. Lei lavorava in un'agenzia di viaggi, e presto avrebbe trascorso più tempo in aereo che a casa. Rimasero entrambi stupefatti di non essersene mai resi conto prima. Ma ora che il Vesuvio, dopo l'eruzione incandescente, cominciava a lasciar raffreddare la sua lava, essi, una sera, sedettero e si guardarono, e lei disse, con voce piccola piccola: "Addio...". "Cosa?" esclamò lui. "Posso vedere l'addio che si avvicina." La guardò in volto, che non era triste come quello di Stanlio nei film, ma triste come lo era lei. "Mi sento... come la fine di quel romanzo di Hemingway, dove due - un uomo e una donna - sono fuori, ed é quasi sera, e dicono come sarebbe se potessero andare avanti così per sempre, ma sanno ormai che non potranno" proseguì lei. "Stanlio, il nostro non é un romanzo di Hemingway, e non può essere la fine di tutto. Tu non mi lascerai mai." Ma era una domanda, non un'affermazione, e di colpo ella si mosse, sotto lo sguardo perplesso di lui, che le domandò: "Che ci fai adesso lì a terra?". "Niente. Solo, mi sto inginocchiando sul pavimento, per chiedere la tua mano. Sposami, Ollio. Vieni in Francia con me. Ho trovato un nuovo lavoro a Parigi. No, non dire nulla. Taci. Nessuno deve sapere che quest'anno ho messo via i soldi sufficienti per aiutarti mentre scriverai il grande romanzo americano..." "Ma..." obiettò lui. "Ma..." ripeté lei. "Avresti la tua portatile, risme di carta per dattilografia, e me. Dillo, Ollio, dillo che verrai con me. Che diavolo, non sposarmi, vivremo in peccato, ma vieni via con me, vuoi?" "Per assistere alla nostra agonia e, nel giro di un anno, seppellirci a vicenda?" "Ti terrorizza tanto, Ollio? Non credi in me o in te, o in niente? Dio, perché gli uomini devono essere così vigliacchi, e perché diavolo hai la pelle così delicata, e hai paura di una donna quasi fosse una scala su cui arrampicarti, temendo di perdere l'equilibrio? Ascolta, ho molto da fare, e tu vieni con me. Non posso lasciarti qui, cadresti giù da quelle maledette scale. Ma se dovrò farlo, lo farò. Voglio tutto oggi, non

domani. Tutto vuol dire te, Parigi e il mio lavoro. Il tuo romanzo richiederà tempo, ma lo scriverai. Quindi, o tu lo scrivi qui maledicendo te stesso, oppure andiamo a vivere insieme in un buco senza riscaldamento nel Quartiere Latino, lontani da qui. Questa é la mia unica e irripetibile offerta, Ollio. Non te l'ho mai fatta prima d'ora, non te la farò mai più di nuovo, e il pavimento é duro per le mie ginocchia. Allora?" "Un discorso del genere lo abbiamo mai fatto?" domandò lui. "Una dozzina di volte, l'anno scorso, ma tu non hai mai ascoltato, eri del tutto sordo." "No, innamorato e sordo. Disperato." "Hai un minuto per decidere. Sessanta secondi." E la donna guardò l'orologio che aveva al polso. "Alzati da quel pavimento" pregò lui, imbarazzato. "Se lo faccio, é per andare alla porta e andarmene" lo ammonì. "Ti restano quarantacinque secondi, Ollio." "Stanlio" gemette l'uomo. "Trenta" lei lesse sull'orologio. "Venti. Ho già un ginocchio su dal pavimento. Cinque. Un secondo." Ed era in piedi. "Ma come siamo arrivati a questo?" implorò lui. "Ecco. Mi sto dirigendo alla porta. Non lo so. Forse ci ho pensato di più di quanto osassi o volessi rendermene conto. Noi, Ollio, siamo creature speciali e stupende, e non credo che tu e io ne potremo mai incontrare di simili al mondo, almeno per noi due, a meno che non stia mentendo a me stessa, e probabilmente lo sto facendo. Però devo andarmene, e tu sei libero di venire con me. Ma questa situazione non riesco o non so affrontarla. E adesso..." allungò un braccio "la mia mano é sulla porta, e..." "E?" interrogò l'altro, in un sussurro. "Piango." L'uomo fece per scattare in piedi, ma lo fermò il cenno di diniego di lei. "No, non farlo. Se mi tocchi, crollerò e al diavolo tutto. Me ne vado. Ma una volta all'anno sarà il giorno della remissione delle colpe, o come diavolo vorrai chiamarlo. Una volta all'anno io sarò su quelle scale, senza pianoforte, alla stessa ora di quella notte in cui ci andammo per la prima volta, e se tu sarai lì a incontrarmi, io ti rapirò, o tu rapirai me, ma non portarti dietro il tuo maledetto saldo del conto in banca, né ti illuderai di baciarmi." "Stanlio..." "Mio Dio" gemette desolata lei. "Che c'é?" "Questa porta sembra inchiodata. Non riesco a smuoverla." Piangeva. "Ah, ecco." Il pianto aumentò. "Non ci sono più." La porta si richiuse alle sue spalle. "Stanlio!" Lui corse alla porta, ne impugnò la maniglia. Che era bagnata. L'uomo si portò le dita alle labbra, assaporandone il sale delle lacrime, poi spalancò l'uscio. Il pianerottolo era già deserto. L'aria dove lei era passata stava rifluendo verso di lui. Echeggiò un tuono, come quando due nubi si scontrano. C'era una promessa di pioggia. Ollio tornò ai gradini ogni 4 ottobre, per tre anni di fila, ma lei non c'era. Poi, se ne dimenticò per due anni, ma nell'autunno del sesto si ricordò; verso il tramonto tornò alla scalinata e la risalì, perché c'era qualcosa a metà ascesa, ed era una bottiglia di ottimo champagne, con su un nastro e un biglietto, messi lì da qualcuno, e il biglietto diceva: "Ollio, Ollio caro. Data ricordata. Ma a Parigi. La bocca non é più la stessa, ma é felice. Con affetto, Stanlio". Dopo di ciò, egli lasciò passare ogni ottobre senza più andare su quei gradini. Il rumore di quel pianoforte che scivolava giù da quell'erta, lui lo sapeva, lo avrebbe posseduto e l'avrebbe portato dove... Dove, non lo sapeva.

E questa fu la fine, o quasi la fine, del grande amore fra Stanlio e Ollio. Ma, per un benigno caso, con un'appendice. Quindici anni più tardi, durante un viaggio attraverso la Francia, lui, in un crepuscolo, stava passeggiando per gli Champs Elysées, assieme alla moglie e alle due figlie, quando vide venirsi incontro quella bella donna, accompagnata da un uomo più anziano e sobriamente elegante, e da un ragazzo sui dodici anni, dai capelli scuri, ovviamente loro figlio. Mentre si incrociavano, un identico sorriso illuminò, nello stesso istante, le loro facce. Egli sfarfallò per lei i lembi della cravatta. Lei si portò una mano in testa, per lui. Non si fermarono. Continuarono a camminare in direzioni opposte. Ma egli la sentì dire, in un'eco che superava la distanza, le ultime parole, quelle che non avrebbe mai più ascoltato: "Un altro bel pasticcio in cui ci ha cacciati!". E poi, lei aggiunse il vecchio nome familiare con cui l'aveva battezzato negli anni del loro amore. Ed era lontana, un'altra volta. Le sue figlie e la moglie lo guardarono, e una delle ragazze disse: "Ma quella signora non ti ha chiamato Ollio?". "Quale signora?" finse lui. "Papà!" intervenne l'altra figlia, guardandolo in faccia. "Stai piangendo!" "No." "Sì, invece! Non é vero, mamma?" "Vostro padre," disse sua moglie "come ben sapete, si commuove anche quando sfoglia le guide del telefono." "No" ribatté lui. "Solo centocinquanta gradini e un pianoforte. Fatemi memoria, voi ragazze, di farveli vedere, un giorno o l'altro." Proseguirono nella passeggiata, ed egli si voltò a guardare indietro per un'ultima volta. La donna col marito e il figlio si era girata nello stesso istante. Forse, a lui parve di vederle le labbra pronunciare le parole mute, Arrivederci, Ollio. Ma forse era solo un'impressione. Sentì le proprie labbra dire in silenzio: Addio, Stanlio. E si allontanarono, l'una dall'altro, lungo gli Champs Elysées, nell'ultima luce del sole di ottobre. Suppongo tu ti stia chiedendo perché siamo qui Quando lui arrivò, il ristorante era vuoto. Era presto, soltanto le sei. La folla, se fosse venuta, si sarebbe fatta viva più tardi, il che gli andava benissimo, dato che gli restava almeno una dozzina di cose urgenti da fare. Si guardò le mani sistemare i tovaglioli davanti ai tre coperti, poi allineare e rettificare la posizione dei bicchieri da vino, modificare e ricomporre i coltelli, forchette e cucchiai, quasi fosse lui il maitre o una sorta di mago supervisore. Si sentì borbottare sommessamente, tra sé, una specie di cantilena vacua, che accompagnava l'esecuzione di un incantesimo, perché in realtà egli non sapeva come fare tutto quello, ma sapeva che doveva essere fatto. Stappò personalmente la bottiglia del vino, mentre i padroni del ristorante, discretamente in disparte, parlottavano con lo chef, accennando col capo verso il maniaco di turno. Di turno, per fare che? Non lo sapeva neanche lui. La sua stessa vita? Assolutamente no. Neanche per idea. Non questa volta, almeno. Ma questa sera, in un modo o nell'altro, doveva esserci un cambiamento. Una sera che, per lo meno, avrebbe potuto dargli qualche risposta o un po' di pace.

Versò in un bicchiere due dita di vino, che annusò, assaggiò, chiudendo gli occhi, in attesa che il gusto parlasse: "Buono. Non eccelso, ma buono". Rettificò, per la terza volta, la dislocazione delle posate, pensando: "Ho due problemi. Le mie figlie che potrebbero benissimo essere due marziane dimoranti su quel pianeta. E mia madre e mio padre, il problema più grande di tutti". Perché i suoi genitori erano morti da vent'anni. Non aveva importanza. Se egli pregava, se implorava in silenzio, se li sollecitava a venire, con enorme forza di volontà, controllando i battiti del cuore e la mente irrequieta, concentrando il pensiero sul prato al di là delle finestre, la cosa sarebbe accaduta. Sua madre e suo padre avrebbero riciclato la loro polvere, risorgendo, avrebbero camminato, passeggiato lungo le vie notturne, tre isolati più in là, e sarebbero entrati in questo ristorante, entrati materialmente, come se... "Oh Dio," pensò "non ho ancora bevuto un bicchiere di vino, e già..." Girò bruscamente sui tacchi e uscì all'aperto. Lì, nell'incipiente sera d'estate, lasciando socchiusa la porta schermata del ristorante, guardò lungo la strada che imbruniva, verso i cancelli del cimitero. Sì. Quasi pronto. Lui lo era, cioé, quasi pronto. Ma... loro? Era il momento adatto? Per lui, certamente, ma... I tovaglioli ben sistemati, le posate allineate quali simboli della loro funzione indispensabile, il buon vino in attesa sul tavolo, tutto questo avrebbe effettivamente raggiunto lo scopo? "Vedi di piantarla" pensò, e distolse lo sguardo dal lontano ingresso al cimitero, per posarlo sulla cabina del telefono lì a due passi. Si allontanò dalla soglia del ristorante, entrò nella cabina, introdusse il gettone nella scanalatura e formò un numero. Risuonò dalla segreteria telefonica la voce di sua figlia. Egli chiuse gli occhi e riappese il microfono, senza lasciare messaggi. Provò con un altro numero. La seconda figlia non rispondeva. Riattaccò, lanciò un'occhiata conclusiva a quel cimitero che pareva tanto distante nell'oscurità incombente, e tornò in fretta dentro il ristorante. Al tavolo, ricontrollò tutto da capo, i bicchieri, i tovaglioli, le posate, toccando, toccando di nuovo, spostando e rimettendo a posto, quasi a dare energia al complesso, a far sì che tutti gli oggetti, e se stesso, fossero plausibili e "credessero". Poi, sedette, annuì, fissò intensamente le posate, i piatti, i bicchieri, inspirò a fondo tre volte, chiuse gli occhi, e pregò con appassionata dedizione, aspettando. Sapeva che se fosse rimasto lì seduto il tempo necessario, se avesse avuto fede sufficiente... Essi sarebbero arrivati, avrebbero preso posto, salutandolo come sempre; sua madre lo avrebbe baciato su una guancia, suo padre gli avrebbe afferrato la mano, stringendogliela forte, le effusioni ad alta voce si sarebbero poi acquietate, e quest'ultima cena in quel ristorante di una piccola città avrebbe avuto finalmente inizio. Passarono due minuti. Lui sentiva sul polso il ticchettio dell'orologio. Niente. Un altro minuto. L'uomo ascoltò il proprio respiro accelerare. Si costrinse a tenere gli occhi chiusi. "Adesso" pensò. "Adesso, dannazione. Entrate!" Il cuore diede un tonfo. La porta d'ingresso del ristorante si aprì. Non alzò gli occhi, li tenne stretti, dominò il respiro. Qualcuno si stava dirigendo verso il suo tavolo. Vi giunse. Qualcuno che si chinava a guardarlo. "Pensavo che non ci avresti mai più invitati a cena" disse sua madre. Egli aprì gli occhi, nell'istante in cui lei si curvava per baciarlo sulla fronte.

"Un bel pezzo che non ci si vede!" Suo padre gli afferrò la mano, stringendogliela forte. "Come va, figliolo?" Il figliolo si alzò di scatto, evitando per un pelo di rovesciare la bottiglia di vino. "Bene, papà. Ciao, mamma! Sedetevi, mio Dio, oh, mio Dio, sedetevi!" Ma i genitori non si sedevano, restavano in piedi, a guardarsi l'un l'altra con una specie di violento sbalordimento, finché: "Non agitarti in questo modo, siamo soltanto noi" disse la madre. "Lo so, é passato un bel po' di tempo da quando ci chiamasti. Noi..." "Sì, un bel po' di tempo" confermò il padre, che ancora gli tratteneva la mano in una morsa di ferro. Strizzò l'occhio, per dimostrare che non c'erano problemi... "Ma noi capiamo. Hai un sacco da fare. Stai bene, ragazzo?" "Sto bene. Cioé... ho sentito la vostra mancanza!" E abbrancò i due d'impulso, e li strinse a sé, con gli occhi umidi. "E voi come ve la siete..." si interruppe e arrossì. "Voglio dire..." "Non essere imbarazzato, figliolo" disse il padre. "Stiamo magnificamente. Per un po' é stata dura, a essere sinceri, era tutto così nuovo. Come diavolo puoi descriverlo? Non ci riesci, quindi non..." "George, per l'amor di Dio, smettila di scherzare, e sediamoci" ammonì la madre. "Il nostro tavolo é questo" precisò il figlio indicando i tre posti vuoti. Si rese conto in quel momento di essersi scordato di accendere le candele, e si affrettò a farlo, con mani che tremavano. "Ma sedetevi. Vi verso un po' di vino!" "Tuo padre non dovrebbe bere vino" cominciò a dire la mamma. "Per favore!" protestò il padre. "Non fa alcuna differenza, adesso!" "Già, me ne dimenticavo." La madre avvertiva un leggero, strano imbarazzo, quasi avesse appena indossato un vestito nuovo le cui cuciture fossero storte. "Continuo a scordarmelo." "E' la stessa cosa che dimenticarsi di essere vivo." E il padre abbaiò una risata. "La gente vive settant'anni, e dopo un po' non se ne accorge. Si scorda di dire, diavolo, sono vivo! Quando ti succede così, potresti benissimo essere..." "George" implorò sua moglie. "Guardala sotto questo punto di vista" insisté il padre, sedendosi e lasciando moglie e figlio in piedi. "Prima di nascere, sei in una condizione. Quando vivi, sei in una seconda condizione. E dopo che sei passato di là, ecco la terza condizione. In ognuna di esse dimentichi di accorgertene, dici: "Ehi, sono in prima base, sono sulla seconda!". Be', accidenti, noi due siamo in terza base e, come dice tua madre, spesso le succede di scordarselo. Posso avere tutto il vino che voglio!" Versò vino a tutti e tre, e bevve il suo, molto, troppo in fretta. "Non male" sentenziò. "Come sarebbe a dire?" scattò il figlio, che subito si morse la lingua. Suo padre, però, non aveva sentito e batté con la mano sulla sedia che aveva vicina: "Mettiti qui, Ma'!". "Non chiamarmi Ma'! Il mio nome é Alice!" "AliceÄMa', siediti qui!" La madre scivolò a prender posto su un lato del tavolo, il figlio la imitò sedendole di fronte, col padre a capotavola. Per la prima volta, dopo che si furono accomodati, il figlio ebbe modo di vedere realmente cosa indossavano i suoi genitori. Suo padre indossava una giacca di tweed, pantaloni alla zuava, da golf, e un vivace paio di calzettoni. Scarpe di uno

sbiadito color arancione bruciato, lucidissime, la cravatta era nera a righine color mandarino, e in testa esibiva un cappello a falda larga, di una qualche stoffa di tweed marrone, che sembrava nuovo di zecca. "Sei elegantissimo, papà. Mamma..." Lei indossava la sua giacca del tailleur della festa, un capo di lana grigia, sopra una camicetta di seta bianca e azzurra. Al collo un foulard celeste. Completava l'abbigliamento un cappellino a cloche, tanto simile a un fungo, di quelli un tempo preferiti dalle matrone in età, assicurato alla capigliatura permanentata da spilloni. "Dov'é che ho già visto questi vostri vestiti?" domandò il figlio. Ma prima che potessero rispondergli, egli ricordò una fotografia, se stesso e suo fratello sul prato davanti a casa, in occasione di uno dei passati Memorial Day o 4 luglio, molti anni prima. Eccoli lì in posa, scambiandosi pizzicotti di nascosto, con calzoni alla zuava, giacchetta e berretto, e i loro genitori in seconda fila, strizzando gli occhi sotto un sole che sarebbe durato per sempre. Il padre, avendogli letto nel pensiero, confermò: "Subito dopo la funzione nella Chiesa Battista, a Pasqua, a mezzogiorno, millenovecentoventisette. Indossavo la tenuta da golf. A Ma' vennero le convulsioni". "Di che state spettegolando, voi due?" La madre frugò nella borsetta, ne estrasse uno specchio con il quale verificò il rossetto sulle labbra, regolandolo col mignolo. "Niente, Ma'ÄAlice." Il genitore si riempì di nuovo il bicchiere, ma questa volta, vedendo che il figlio lo osservava, bevve il vino più lentamente. "Non male, quando ci hai fatto la bocca. Non ti impiomba lo stomaco, comunque. Direi che ricorda un po' il whisky. Dov'é il menù? Ah, é qui. Vediamo che cosa passa il convento." Ci mise parecchio a sbirciare la lista sotto diverse angolazioni. "Che sono 'sti piatti scritti in francese?" esclamò poi. "Perché non si degnano di usare l'inglese? Chi credono di essere?" "Ma é in inglese, papà. Guarda qui." E il figlio sottolineò con l'unghia diverse voci. "Al diavolo," brontolò l'altro, aguzzando gli occhi "perché non lo dicono che é bilingue?" "Pa'," disse la madre "deciditi, non hai che da leggere l'inglese e scegliere che cosa vuoi mangiare!" "E' sempre stato un problema, per me, scegliere. Voi che ordinate? Che cosa sta mangiando l'uomo a quel tavolo là?" Il vecchio allungò il collo verso un tavolo non lontano dal loro. "Sembra appetitoso. Penso mi farò portare quello." "Tuo padre," commentò lei "ha sempre ordinato in questo modo. Se quel signore stesse mangiando chiodi da tappezziere e cotiche di maiale, lui se li farebbe servire." "Me ne ricordo, infatti" concordò il figlio, abbassando la voce, e bevve il suo vino. Trattenne il fiato e poi espirò. "Tu, mamma, che prendi?" "Che prendi tu, figliolo?" "Bistecca alla griglia..." "Anch'io, allora, per non creare problemi." "Ma non c'é problema, mamma. Sulla lista ci sono tre dozzine di piatti!" "No" disse la madre, e depose sul tavolo il menù, coprendolo col tovagliolo, quasi si trattasse di un cadaverino. "Va bene così. I gusti di mio figlio sono i miei gusti." Egli sollevò la bottiglia del vino, e si rese conto solo allora che era vuota. "Possibile?" si stupì. "Ce la siamo bevuta tutta?" "Chissà chi é stato? Fanne portare un'altra, ragazzo. Intanto, mentre arriva, prendi un po' del mio vino." Il padre

versò metà del proprio bicchiere in quello vuoto del figlio. "Di questa roba, potrei berne una zuppiera." Un'altra bottiglia fu portata, stappata e versata. "Tanti saluti al tuo fegato" disse la madre. "E' per portar jella o per fare un brindisi?" domandò il marito. Mentre bevevano, il figlio ebbe la netta percezione che la serata gli stava sfuggendo di mano; non stavano affatto parlando delle cose che tanto gli stavano a cuore. "Alla tua salute, figliolo!" "E alla tua, papà. Alla tua, mamma!" E di nuovo, dovette interrompersi, arrossendo, ricordando di colpo quel prato in fondo alla strada, da cui i suoi genitori erano usciti, quel luogo silenzioso di monumenti di marmo, con i nomi incisi sui frontoni alla greca, e con troppe croci e neanche la metà di angeli. "Alla vostra salute" ripeté sommessamente. Anche sua madre si decise a sollevare il bicchiere e assaggiarne il contenuto, con la circospezione di un topo di campagna. "Ah!" Storse il naso. "Quant'é aspro!" "No, mamma, é solo il gusto di cantina. Non é un vino scadente..." "Se é tanto buono," ribatté lei "perché lo mandate giù così in fretta?" "Moglie" esclamò il padre. "Sei grande!" E scoppiò in una risata, applaudì, e si protese sul tavolo con finta sollecitudine. "Suppongo tu ti stia domandando perché siamo qui" disse rivolto al figlio. "Non sei stato tu a invitarci, marito mio. E' stato lui. Tuo figlio." "Stavo scherzando, moglie. Bene, figliolo, perché l'hai fatto?" Lo fissarono entrambi, in attesa della risposta. "Perché ho fatto che cosa?" "Farci venire qui." "Oh, già..." Il figlio riempì di nuovo il suo bicchiere. Stava cominciando a sudare. Si asciugò labbra e fronte col tovagliolo. "Un momento..." disse "mi verrà in mente..." "Non fargli fretta, papà, lascia che nostro figlio ci pensi su." "Certo, certo" rispose il padre. "Ma non é mica stato facile per noi vestirci, e trovare il momento di venire qui. Come non bastasse..." "Papà!" "No, Alice, lasciami finire. Figlio mio, caro ragazzo, quel posto dove ci hai messi non é dei migliori." "Va benissimo" lo contraddisse sua moglie. "Neanche per idea, e lo sai meglio di me." Il vecchio impugnò una forchetta e tracciò sulla tovaglia il disegno di quel posto. "E' troppo maledettamente sacrificato, troppo lontano da tutto. Non c'é vista. E, mio Dio, non parliamo del riscaldamento, un disastro!" "Be', effettivamente, d'inverno fa freddo" ammise la madre. "Un freddo del diavolo. Tanto da aprire crepe in tutto lo spessore del marmo. Ah, un'altra cosa: qualcuno dei nostri vicini é proprio antipatico." "Quando mai, dove e comunque, ti sono andati a genio chi ci abitava accanto?" ribatté sua moglie. "Se quelli traslocavano, tu dicevi: "Grazie a Dio". Se arrivava gente nuova: "Oh, mio Dio, ahimé" dicevi." "Be', questi di adesso sono i peggiori. Invadenti e prepotenti. Figliolo, puoi metterci rimedio?"

"Rimedio?" fece lui, e pensò: "Santo Cielo, non si rendono conto da dove vengono, né in che posto sono da vent'anni, non riescono a capire perché faccia freddo...". "D'estate fa troppo caldo" proseguì il padre. "Ti senti sciogliere. Non guardarmi in quel modo, Mamma. Il ragazzo vuole sentire. Farà lui qualcosa al riguardo, vero, figliolo? Ci troverà un posto nuovo..." "Sì, papà." "Hai il mal di testa, ragazzo?" "No." Riaprì gli occhi, e allungò la mano verso la bottiglia. "Me ne occupo io. Prometto." "Mi domando" pensò "se si é mai spostato qualcuno da un posto come quello a un altro posto, e tutto per una panoramica migliore e per vicini più simpatici? La legge lo consente? E dove potrei portarli? Dove potrebbero andare? A Chicago Nord, forse? C'era un posto, lì, su una collina..." In quel momento arrivò il cameriere a prendere le ordinazioni. "La stessa roba che prende lui." E la madre indicò il figlio. "La stessa cosa che sta mangiando quel signore là" disse il padre. "Bistecca alla griglia" disse il figlio. Il cameriere se ne andò, tornò, li servì, ed essi cominciarono a mangiare veloci veloci. "Cos'é? Una gara di velocità?" "Rallenta, figliolo. Mastica bene." All'improvviso i piatti furono vuoti. Era passata un'ora esatta quando il figlio depose forchetta e coltello e finì il suo quarto bicchiere di vino. E di colpo, il viso gli si aprì in un gran sorriso. "Adesso ricordo!" gridò. "Voglio dire, mi é venuto in mente perché vi ho fatti venire qui!" "Allora?" chiese sua madre. "Sputa fuori, figliolo" disse suo padre. "Ecco, io..." "Sì?" "Io..." "Sì, sì?" "Io," disse il figlio "vi voglio bene." Le sue parole spinsero i genitori a ridosso dello schienale della loro sedia. Le loro spalle si afflosciarono, ed entrambi si sbirciarono con la coda dell'occhio, in silenzio, a testa bassa. "Diavolo, figliolo" mormorò il padre. "Questo lo sappiamo." "Anche noi ti vogliamo bene" confermò la mamma. "Sì" fece eco, a bassa voce e con convinzione, il marito. "Certo." "Ma cerchiamo di non pensarci" proseguì la donna. "Ci rende troppo infelici quando tu non ci telefoni." "Mamma!" esclamò il figlio, e si trattenne dall'aggiungere: "Hai dimenticato di nuovo!". Invece, assicurò: "D'ora in poi, mi farò vivo più spesso". "Non ce n'é bisogno" disse suo padre. "Sì, invece, credetemi, manterrò i contatti!" "Non fare promesse che non puoi mantenere, ecco cosa ti dico. Ma adesso," insisté il vecchio, e si versò altro vino "per quale altro motivo volevi vederci?" "Quale altro motivo?" Non credeva alle proprie orecchie. Non era abbastanza che avesse dichiarato il suo grande ed eterno affetto...? "Be'...!" ed esitò. Lo sguardo gli si diresse, incerto, oltre la finestra verso la silenziosa cabina telefonica da dove aveva fatto quelle chiamate. "Il problema dei figli sapete..." "Per Dio!" esplose il vecchio. "I figli! Ma sicuro! Come ho fatto a non ricordarmene? Com'é che si chiamavano?" "Figlie, non figli!" corresse la moglie, dandogli una gomitata. "Cosa hai nel cervello?"

"Se non sai cosa ho nel cervello da vent'anni a questa parte, non lo saprai mai." Il padre si rivolse al figlio. "Ragazze, naturalmente. Oramai, devono essere signorine del tutto. Erano ranocchiette, l'ultima volta che le vedemmo..." "Lascia che ci parli di loro" lo interruppe la moglie. "C'é poco da dire." Il figlio si fermò, impacciato. "Cioé, ce n'é un sacco. Ma non serve a nulla." "Tu provaci" insisté suo padre. "Certe volte..." "Sì?" "Certe volte," proseguì lui, lentamente, a occhi bassi "ho la precisa sensazione che le mie figlie, capitemi bene, che le mie figlie non ci siano più, e che voi siate vivi! Ha senso questo?" "Ne ha tanto quanto ne ha la maggioranza delle famiglie" sentenziò il padre, tirando fuori, spuntando e mettendosi tra le labbra un sigaro. "Tu, figliolo, hai sempre fatto discorsi un po' buffi." "Pa'!" ammonì la moglie. "Be', li faceva e li fa, accidenti! Discorsi buffi, ecco. Ma vai avanti, continua, e mentre parli versami un po' di vino. Coraggio!" Suo figlio gli versò da bere, e proseguì: "Non riesco a inquadrarle. Così, ho due problemi. Ecco perché vi ho chiamati. Problema numero uno: sento la vostra mancanza. Problema numero due: mi mancano loro. Ecco un bel quiz a cui trovare la risposta. Come può essere una roba del genere?". "Dal modo come la presenti..." arrischiò il padre. "Così é la vita" disse la madre, annuendo, con espressione assai saggia. "E' tutto qui il consiglio che sapete darmi?" gridò loro figlio. "Devi perdonarci! Sappiamo che ti sei preso un sacco di disturbo, la cena é stata ottima, il vino grandioso, ma siamo fuori esercizio, figliolo. Non riusciamo neanche a ricordare come eri tu! Quindi, che aiuto possiamo darti? Non possiamo!" Il vecchio accese un fiammifero, ne guardò la fiamma toccare la punta del sigaro. "No, ragazzo mio. Tanto più che abbiamo un altro problema. Mi ripugna accennarvi. Non so come dirtelo..." "Quello che tuo padre intende..." "No, lascia che lo dica io, Alice. Spero che tu la prenda con lo stesso spirito cordiale con cui te la offro, ragazzo mio." "Stai tranquillo, papà, qualunque cosa sia." "Non é facile, accidenti!" Il padre si tolse il sigaro di bocca e finì di scolare un altro bicchiere di vino. "Inferno e dannazione, il fatto é, figliolo, la ragione per la quale in tutti questi anni non ti abbiamo frequentato molto é..." Trattenne il respiro e poi esplose: "Tu eri una lagna!". Una bomba era stata gettata sul tavolo perché esplodesse. Sbalorditi, i tre si guardarono. "Cosa?" balbettò il figlio. "Ho detto..." "No, no, ti ho sentito. Ho capito. Ero una lagna. Vi annoiavo." Ripeté le parole per assaporarne il gusto. Un gusto strano. "Vi annoiavo? Oh, mio Dio! Vi annoiavo!" Si imporporò in volto, gli occhi gli si riempirono di lacrime, ed egli cominciò a sganasciarsi dalle risa, battendo il pugno destro sul tavolo, e tenendosi il petto con il sinistro, e poi asciugandosi gli occhi col tovagliolo. "Io annoiavo voi!" Padre e madre frapposero un doveroso intervallo prima di cominciare, a loro volta, a contrarre la bocca, grugnire, sbuffare, trattenere il fiato, e poi prorompere in una clamorosa esibizione di sollievo e ilarità. "Scusaci, figlio!" esclamò il padre, con le lacrime che gli scendevano dagli angoli della bocca ridente.

"Non voleva dire proprio..." ansimò la madre, oscillando avanti e indietro sulla sedia, inframmezzando risatine a ogni parola. "Oh, voleva, voleva, e come!" gridò il figlio. "Altro che se lo voleva!" E adesso tutti i presenti nel ristorante stavano guardando il gaio terzetto. "Ci vuole un'altra bottiglia!" affermò il padre. "E noi le diamo il benvenuto!" Quando l'ultima bottiglia arrivò, fu stappata e versata, i tre si erano ormai placati in un bel silenzio, sorridente e ancora un tantino ansimante. Il figlio sollevò il bicchiere per un brindisi. "Alla noia!" Il che li scatenò di nuovo in un tambureggiare di risate a labbra strette, gote gonfie, manate sul tavolo, occhi gommosi di lacrime felici, vicendevoli gomitate nelle costole. "Bene, figliolo" riuscì a dire il padre, finalmente quietatosi. "E' tardi. Dobbiamo proprio andare." "Dove?" domandò il figlio, ridendo, e tornando subito serio. "Oh, già, scordavo." "Non fare quella faccia triste" si affrettò ad aggiungere sua madre. "Quel posto non é brutto neanche la metà di quanto sostiene tuo padre." "Ma," sussurrò lui "non é anche un tantino noioso?" "No, una volta che ci hai fatto l'abitudine. Finiamo il vino." Bevvero, risero ancora un po', scossero la testa, e quindi si avviarono alla porta e uscirono dal ristorante, in una calda sera estiva. Erano soltanto le otto, e dal lago veniva una piacevole brezza, e v'era intorno un profumo di fiori che ti faceva venire voglia di andare, camminare senza meta. "Vi accompagno per un tratto" propose il figlio. "Oh, non é necessario." "Possiamo farcela da soli, figliolo" disse il padre. "E' meglio se resti qui." Indugiarono a guardarsi, tutti e tre. "Be'," disse il figlio "é stato piacevole." "No, non esattamente. Pieno d'affetto, si, un ritrovarci tra noi che ci vogliamo bene, perché siamo una famiglia, e ti vogliamo bene, ragazzo mio, e anche tu ce ne vuoi. Ma, piacevole? Non direi che sia il termine appropriato. Noioso, ecco, noioso e affettuoso, affetto e noia. Buonanotte, figliolo." Si strinsero, si abbracciarono, si baciarono, piansero, e conclusero con una gran risata, e poi i genitori si avviarono, per la strada ormai buia sotto gli alberi che si incupivano, per tornare alla loro dimora tra le aiole. Il figlio rimase solo, osservando i genitori farsi sempre più piccoli in lontananza. Poi si girò, quasi per un riflesso automatico, entrò nella cabina, formò il numero. Gli rispose la segreteria telefonica. "Ciao, Helen" disse lui, e si fermò perché non gli venivano le parole, trovava difficile esprimersi. "Sono tuo padre. A proposito di quella cena per giovedì prossimo. Potremmo annullarla? Non per un motivo particolare. Solo ho troppo lavoro da sbrigare. Ti chiamo la settimana prossima, e stabiliremo una nuova data. Ah, pensi tu ad avvisare Debby? Bacioni. Ciao." Riappese e scrutò di nuovo lungo la strada. Riuscì a scorgere i suoi genitori nel momento in cui stavano per entrare attraverso i cancelli. Anch'essi lo videro, lo salutarono agitando le braccia, e sparirono. "Mamma, papà" pensò lui. "Helen. Debby. E di nuovo, Helen, Debby, mamma, papà. Io li annoio. Li annoio! Che mi venga un colpo!" E poi, ridendo, fino a farsi venire le lacrime agli occhi, rientrò nel ristorante. La sua ilarità fece alzare gli occhi a chi era agli altri tavoli.

Gli fu del tutto indifferente, perché il vino, le ultime gocce di vino non erano affatto male. Lafayette, addio! Invece di suonare il campanello, qualcuno bussò, quindi non potevo sbagliare su chi fosse il visitatore. Quei colpetti alla porta erano soliti ripetersi una volta alla settimana, ma in quegli ultimi tempi la loro cadenza si era infittita, tre, quattro volte nei sette giorni. Chiusi gli occhi, recitai una preghiera e andai ad aprire. Bill Westerleigh era li, sulla soglia, guardandomi, con le lacrime che gli colavano giù per le gote. "E' casa mia o la tua?" domandò. Era ormai un vecchio scherzo. Parecchie volte all'anno quell'uomo di ottantanove anni usciva di casa per perdersi dopo tre isolati. Già da qualche anno aveva smesso di guidare la macchina, perché una volta si era trovato a cinquanta chilometri fuori Los Angeles anziché in centro città dove era diretto e dove io e lui abitavamo. Adesso, il suo tragitto preferito, e più sicuro, risultava quello che da casa sua - dove viveva con la moglie, meravigliosamente affettuosa e comprensiva - portava alla mia porta, vicinissima d'altra parte, alla quale egli bussava, della quale varcava la soglia, in lacrime. "E' casa tua o la mia?" ripeté invertendo l'ordine. "Mi casa es su casa." Citai il vecchio detto spagnolo. "Del che sia ringraziato Iddio!" Lo precedetti in salotto per tirar fuori la bottiglia di sherry e i bicchieri, mentre Bill si sedeva in una poltrona di fronte a quella che sapeva avrei occupato io. Si asciugò gli occhi e si soffiò il naso con un fazzoletto, che poi ripiegò accuratamente e mise nel taschino della giacca. "Alla tua, campione!" sollevò e fece ondeggiare il bicchiere. "Il cielo é pieno di loro. Spero che tu riesca a tornare. Altrimenti, lanceremo una nera ghirlanda là dove pensiamo sia caduto il tuo trabiccolo." Bevvi, lasciai che lo sherry mi scaldasse dentro, e poi rimasi a fissare Bill, per vari secondi. "L'Escadrille é tornata a ronzarti sulla testa?" domandai. "Ogni notte, subito dopo mezzanotte. Adesso, ogni mattina. E, la settimana passata, ogni mezzogiorno. Cerco di non venire a romperti. E' tre giorni che ci provo." "Lo so. Mi sei mancato." "Gentile da parte tua dirmelo, figliolo. Sei di buon cuore. Ma so di essere una lagna, quando il mio cervello connette. In questo momento ho le idee chiare e bevo alla tua ospitale salute." Vuotò il bicchiere, e io glielo riempii. "Vuoi che ne parliamo?" "Ti esprimi esattamente come uno psichiatra mio amico. Non che ci sia mai andato da uno di quelli, ma lui era un amico. E' bello venire qui da te, si é liberi, e in più c'é lo sherry." Fissò pensoso il bicchiere che aveva in mano. "E' terribile essere perseguitato dai fantasmi." "Tutti li abbiamo. Ecco perché Shakespeare era un colosso. Insegnò a se stesso, insegnò a noi, e insegnò agli psichiatri. Rifuggite dalle cattive azioni, diversamente i vostri fantasmi prevarranno su di voi. I vecchi ricordi, i rimorsi che rendono gli uomini vili e timorosi della mezzanotte, sorgeranno e grideranno, Amleto, ricordati di me, Macbeth, tu sei marchiato, e anche tu, Lady Macbeth! Riccardo Terzo, vigila! Noi ti camminiamo, all'alba, sul campo di battaglia, e i nostri sudari sono rigidi di sangue." "Dio, come parli forbito" Bill scosse la testa. "E' bello vivere porta a porta con uno scrittore. Quando ho bisogno di una dose di poesia, eccoti a portata di mano."

"Tendo a essere cattedratico. Così annoio gli amici." "Non me, caro campione, non me. Ma hai ragione. Circa quello di cui stavamo parlando. Fantasmi." Mise giù il bicchiere, e poi strinse i braccioli della poltrona, come fossero i bordi di un abitacolo d'aereo. "Adesso sono in volo, in continuazione. E' il novecentodiciotto, invece del novecentottantasette. E non negli Stati Uniti d'America, ma in Francia. Io sono lassù con la vecchia Lafayette. Sono atterrato vicino a Parigi, e con me c'é Rickenbacker. E laggiù, c'é anche il Barone Rosso. E' stata una bella vita, la mia, sì o no, Sam?" Era una sua affettuosa mania quella di chiamarmi con sei o sette nomi assortiti, che mi piacevano tutti. Annuii. "Un giorno o l'altro mi deciderò a scrivere la tua storia" dissi. "Non capita spesso che uno scrittore abbia come vicino di casa uno che faccia parte dell'Escadrille, e volasse e duellasse nei cieli contro van Richthofen." "Non ci riusciresti, caro Ralph. Non sapresti cosa dire." "Potresti restare sorpreso, invece." "Magari sì, perdio, potrebbe darsi. Ti ho mai mostrato la fotografia del sottoscritto e di tutti gli uomini della Squadriglia Lafayette, allineati davanti a uno dei nostri scassatissimi biplani, nell'estate del '18?" "No," mentii "fammela vedere." Tirò fuori dal portafoglio una piccola foto e me la lanciò. L'avevo vista un centinaio di volte, ma era sempre una meraviglia e una delizia. "Quello sono io, sulla sinistra partendo dal centro, quello bassotto col sorriso da fesso, di fianco a Rickenbacker." Bill si allungò per indicare. Guardai tutti quegli uomini che non c'erano più, perché ormai morti per il novanta per cento, ed ecco lì Bill, a vent'anni, vispo e allegro, e tutti gli altri giovani, oh Dio, così giovani, in fila, le braccia sulle spalle dei camerati, o con un braccio penzoloni a stringere il casco e gli occhialoni, e alle loro spalle un biplano francese 7Ä1, e sullo sfondo il campo d'aviazione in una zona vicina al fronte occidentale. Rombi di macchine volanti venivano da quella foto stregata. Come sempre, quando avevo in mano quell'immagine. E suoni del vento e di uccelli. Era come lo schermo di un televisore in miniatura. Mi dava la sensazione che da un momento all'altro l'Escadrille Lafayette scattasse in azione, rullasse, prendesse slancio e si involasse in quel cielo assolutamente sereno e infinito. Nello stesso istante in cui la foto era stata scattata, il Barone Rosso viveva ancora, lassù tra le nuvole; adesso vi sarebbe rimasto per sempre, e non sarebbe mai atterrato, e questo era bello e giusto, perché noi volevamo che lui restasse là in eterno. "Vedi, mi piace mostrarti certe cose." Bill ruppe il silenzio. "Tu sai apprezzarle. Come vorrei averti avuto con me quando facevo le riprese alla MGM!" Quella era stata la seconda faccia di William (Bill) Westerleigh. Dopo aver combattuto e scattato fotografie sul fronte occidentale, da mille metri di altitudine, non era rimasto sugli allori, una volta rientrato negli Stati Uniti. Dai laboratori della Eastman di New York, era finito in certi studi di produzione di tremolanti film a Chicago, dove un tempo recitava Gloria Swanson, e poi era approdato a Hollywood e alla MGM. Dalla MGM era andato in Africa come cineoperatore di leoni e di vatussi per le Miniere di Re Salomone. Negli studi di mezzo mondo, non c'era stato nessuno che lui non avesse conosciuto o che non lo avesse conosciuto. Era stato operatoreÄcapo in qualcosa come duecento film, e sulla mensola di fianco alla porta di casa sua figuravano due lucenti Oscar dorati.

"Mi spiace di essere cresciuto tanti anni dopo di te" dissi. "Dov'é quella foto in cui ci siete tu e Rickenbacker da soli? E quella firmata da von Richthofen." "Non vorrai mica vederle un'altra volta, campione?" "Puoi giurarci che lo voglio!" Aprì il portafoglio e mi porse delicatamente la foto di loro due, lui e Capitan Eddie, e l'istantanea di von Richthofen in completa uniforme, con tanto di firma autografa. "Tutti andati" disse Bill. "O quasi tutti. Solo un paio, e il sottoscritto ancora a galla. E non ci vorrà molto..." e fece una pausa "perché anch'io affondi." E di colpo ricomparvero le lacrime a gonfiargli gli occhi e colargli dai lati e dalla punta del naso. Mi affrettai a riempirgli il bicchiere. Bill bevve e aggiunse: "Il fatto é che non ho paura di morire. Ho solo il terrore di morire e andare all'inferno!". "Li non ci andrai, Bill." "E invece, si" gridò, quasi indignato, con rabbia, con gli occhi accesi, con le lacrime che gli bagnavano la bocca tremante. "Per quello che ho fatto, per quello di cui non posso e non potrò mai essere perdonato!" Attesi un attimo. "Cosa era "quello", Bill?" interrogai a voce bassa. "Tutti quei ragazzi che ho ucciso, tutti quei giovani che ho distrutto, tutta quella bella gente che ho assassinato." "Non hai mai fatto una cosa del genere, Bill." "Si! L'ho fatta, dannazione, su in cielo, sulla Francia, sulla Germania, tanti anni fa. Ma, Gesù, loro tornano ogni notte, adesso, di nuovo vivi, mentre volano, salutano, gridano e ridono come ragazzi, finché non premo il grilletto della mia mitragliatrice, attraverso le pale dell'elica, e le loro ali prendono fuoco e si avvitano e precipitano. A volte essi mi salutano con la mano, okay! mentre cadono. A volte imprecano. Ma, Gesù, ogni notte, ogni mattina adesso, in questo ultimo mese, non se ne vanno più. Oh, quei bei ragazzi, quei giovani meravigliosi, quei loro volti stupendi, i grandi occhi lucenti e pieni di passione, precipitano giù. E sono stato io a ucciderli. E brucerò nell'inferno per questo!" "NO, te lo ripeto, tu non brucerai nell'inferno!" "Versami un altro bicchiere, e stai zitto. Che ne sai tu di chi ci brucia e di chi non ci brucia? Sei cattolico? No. Sei battista? I battisti bruciano più lentamente. Ah, lo sherry. Grazie." Gli avevo riempito il bicchiere. Ne ingollò un sorso, mischiato con l'altro liquido che gli scendeva dagli occhi. "William." Tornai a sedermi e riempii il mio bicchiere. "Nessuno brucia all'inferno per la guerra. Per la guerra, é così." "Tutti noi ci finiamo arrosto" replicò Bill. "Bill, in questo stesso momento, in Germania, c'é un uomo della tua età, perseguitato dagli stessi sogni, che piange sulla sua birra, ricordando troppe cose." "Vorrei vedere di no! Anche loro bruceranno, e come, ricordandosi dei miei amici, dei cari ragazzi che andavano a piantarsi, a conficcarsi nel suolo quando le loro eliche mordevano la polvere. Non capisci? Loro non lo sapevano. Io non lo sapevo. Nessuno glielo aveva detto, nessuno l'aveva detto a me!" "Detto cosa?" "Cos'era la guerra. Cristo, non sapevamo che ci sarebbe corsa dietro, che ci avrebbe dato la caccia, dopo che il peggio sembrava passato. Credevamo che la tragedia fosse finita; che avremmo ormai avuto modo di dimenticare, di lasciarcela alle spalle, di seppellirla. I nostri ufficiali non ci dissero niente. Forse manco lo sapevano neanche loro. Nessuno di noi lo sapeva. Nessuno immaginava che un giorno, da vecchio, le

tombe si sarebbero spalancate, e tutti quei visi sarebbero risorti, e tutta la guerra con loro! Come potevamo supporlo? Saperlo? Ma adesso é l'epoca in cui i cieli sono pieni, e le navi non affondano più, a meno che prendano fuoco. E quei giovani non smettono di salutarmi, alle tre di mattina, a meno che non li uccida un'altra volta. Gesù Cristo. E' così terribile, così straziante. Come posso salvarli? Come faccio a tornare indietro e dir loro: "Cristo, mi dispiace, non sarebbe mai dovuto accadere solo se qualcuno ci avesse messi in guardia, quando eravamo felici: la guerra non é affatto finita, e il ricordo torna sempre, tardi, magari, ma come fosse ieri". Vorrei augurar loro ogni bene. Ma come riuscire a dirglielo, qual é la prossima mossa?" "Non c'é nessuna mossa" dissi pacatamente. "Solo restare a sedere con un amico e gustare un altro bicchiere. Non riesco a pensare a nulla che si possa fare. Magari lo sapessi..." Bill rigirò assorto il bicchiere tra le dita. "Lascia che te lo dica io, allora" sussurrò. "Stanotte, forse domani notte, mi vedrai per l'ultima volta. Ascoltami bene." Si protese verso di me, ma con gli occhi verso il soffitto, e poi rivolgendoli alla finestra, fuori, dove nuvole minacciose venivano chiamate a raccolta dal vento. "In queste ultime notti, loro sono atterrati nei nostri cortili. Non potevi sentirli. I paracadute non sono più rumorosi di un aquilone, solo sussurri impercettibili. I paracadute scendono sui praticelli di casa nostra. Altre notti, ci scendono i corpi, senza paracadute. Le notti buone sono quelle silenziose, quando tu senti appena la seta e le corde che frusciano sulle nuvole. Le notti brutte sono quelle in cui senti i novanta chili di un aviatore abbattersi sull'erba. E allora non puoi dormire. Ieri notte, una dozzina di cose é piombata sui cespugli vicino alla finestra della mia camera da letto. Stasera ho guardato su, tra le nuvole, ed esse erano piene di aeroplani e di fumo. Puoi farli fermare? Mi credi?" "Questo é pacifico: ti credo." Bill sospirò, un sospiro profondo con dentro l'anima. "Grazie a Dio! Ma adesso, che faccio, adesso?" "Hai provato" dissi "a parlare con loro? Cioé, hai chiesto il loro perdono?" "Mi sentirebbero? Mi perdonerebbero? Mio Dio" esclamò. "Naturalmente! Perché no? Vuoi venire con me? In cortile, dietro casa tua. Non ci sono alberi in cui potrebbero impigliarsi. Cristo, oppure sul portico tuo..." "Sul portico, penso." Aprii le vetrate della portaÄfinestra del salotto, e uscii all'aperto. Era una serata calma, solo qualche accenno di vento a stuzzicare gli alberi e smuovere le nuvole. Bill mi venne dietro, un po' malfermo sulle gambe, con in faccia una smorfia, metà speranzosa, metà atterrita. Guardai il cielo e la luna che vi si affacciava. "Lassù non c'é niente" dissi. "Oh, Cristo, si, ci sono. Guarda! No, un momento. Ascolta." Mi irrigidii, impallidendo, chiedendomi che cosa mi aspettassi, che cosa dovessi ascoltare. "Non dovremmo metterci in mezzo al prato, dove potrebbero vederci? Se non te la senti, non sei obbligato." "Che diavolo!" mentii. "Non ho mica paura!" Sollevai il bicchiere che avevo ancora in mano. "Alla Squadriglia Lafayette?" proposi. "No, no!" gridò Bill, allarmato. "Non stasera. Questo, non devono sentirlo. A loro, Doug. A loro." E indicò il cielo col suo bicchiere. Il cielo dove le nuvole volavano in squadriglie e la luna era un mondo bianco, circolare e spettrale. "A von Richthofen e a tutti quei giovani, belli, tristi e sfortunati." Ripetei le sue parole, in un bisbiglio.

E poi bevemmo, sollevando i bicchieri vuoti perché le nuvole e la luna e il cielo vedessero. "Sono pronto," dichiarò Bill "se adesso vogliono venire a prendermi. Meglio morire qui, all'aperto, piuttosto che rintanarmi in casa e sentirli, notte dopo notte atterrare con i loro paracadute, senza poter dormire fino a che non viene l'alba, quando l'ultimo lembo di seta si é afflosciato e la bottiglia é vuota. Resta qui, figliolo. Qui, nell'ombra." Indietreggiai, e aspettammo. "Che gli dirò?" mi chiese. "Mio Dio, Bill, non lo so. Non sono amici miei." "Neanche miei, erano. Più che altro, é la compassione. Pensavo fossero il nemico. Cristo, non é una parola idiota, stupida e assurda? Il nemico! Come se una cosa del genere sia mai realmente successa al mondo. Si, forse i bulli che ti sfottevano e ti pestavano nel cortile di scuola, o quello che ti portò via la ragazza sotto il naso, e ci si divertì. Ma loro, così belli e buoni, in mezzo alle nuvole nei giorni d'estate o nei pomeriggi d'autunno? No, no!" Si allontanò ancora di più dal portico. "Ecco" sussurrò. "Sono qui." Ancora qualche passo, e spalancò le braccia, quasi ad abbracciare l'aria della notte. "Venite! Che aspettate?" Chiuse gli occhi. "Ora tocca a voi" gridò. "Mio Dio, dovete ascoltarmi, dovete venire. Forza, miei bei bastardi, qui!" E spinse indietro la testa, come per accogliere una pioggia notturna. "Stanno arrivando?" bisbigliò, girando appena la testa, sempre con gli occhi chiusi. "No." Bill tornò ad alzare la vecchia testa in aria, e fissò il cielo, volendo che le nuvole si spostassero, si trasformassero e divenissero qualche cosa di più che nuvole. "Maledizione!" urlò alla fine. "Vi ho ucciso, tutti. Perdonatemi, o venite a uccidere anche me!" E, con un'ultima esplosione di furore: "Perdonatemi. E' il perdono che vi chiedo!". La violenza della sua voce fu sufficiente a spingermi del tutto nell'ombra. Forse fu quello. Forse Bill, immobile come una piccola statua al centro del mio prato, indusse le nuvole a spostarsi e il vento a cambiare direzione, verso sud e non più verso nord. Udimmo entrambi, lontanissimo, un immenso sussurro. "Sì!" gridò Bill, e a me, flettendo appena il capo, sempre a occhi chiusi: "Senti?!". Udimmo un altro suono, più vicino adesso, come enormi fiori o bocci scaturiti da alberi primaverili, e liberati a invadere il cielo. "Eccoli" bisbigliò Bill. Le nubi parevano formare un coperchio, un'immensa cupola di seta, che scendeva silenziosa sulla terra; con la sua ombra, abbracciava la città, nascondeva le case, e raggiungeva alla fine il nostro prato, incupiva l'erba, copriva la luce lunare, e poi mi sottraeva Bill dalla vista. "Sì! Arrivano" gridò Bill. "Li senti? Uno, due, dodici! Oh, mio Dio, sì." E tutt'intorno, nel buio, mi parve di sentire tonfi di mele, prugne e pesche cadere da alberi invisibili, il suono di stivali che percuotevano il mio prato, il rumore di cuscini che piombavano sull'erba come corpi, e un fruscio diffuso di volute di seta bianca o di fumo, ad alitare nell'aria mossa. "Bill!" "No!" squittì lui. "Sto bene. Li ho tutti intorno. Stai indietro!"

Il prato era tutto un tumulto febbrile. Le siepi rabbrividivano sotto un vento di eliche. Che appiattiva al suolo ogni filo d'erba. Che faceva fuggire gli uccelli, e i cani uggiolavano e latravano per tutto l'isolato. Una sirena, da un'altra guerra, sibilò a quindici chilometri da noi. Era arrivato un uragano, e quei rombi erano di tuoni o di cannoni? E ancora una volta, udii Bill dire, quasi sottovoce: "Non sapevo, oh, Dio!, non sapevo che cosa stavo facendo". E poi l'ultima invocazione, tenue come un sospiro: "Vi prego". Un breve e improvviso scroscio di pioggia scese a mescolarsi con le lacrime del suo volto. E la pioggia cessò, e il vento tacque. "Bene." Bill si asciugò gli occhi, si soffiò il naso col suo fazzolettone, che poi fissò come fosse una mappa della Francia. "E' ora di andare. Pensi che perderò ancora la strada?" "Alla peggio, torna da me." "Certo." Si mosse per raggiungermi. I suoi occhi erano limpidi, adesso. "Quanto ti devo, Sigmund?" "Solo questo" risposi. E lo abbracciai. Uscì dal cancelletto, sulla strada. Lo seguii per osservarlo. Quando fu sull'angolo, parve confondersi. Girò a destra, poi a sinistra. Aspettai e quindi lo richiamai con dolcezza: "Alla tua sinistra, Bill!". "Dio ti benedica, campione!" disse e mi salutò con la mano. Poi voltò ed entrò in casa sua. Lo trovarono, un mese dopo, che vagolava a tre chilometri da casa. E dopo altri trenta giorni, era all'ospedale, in Francia, credeva lui ormai e definitivamente, e Rickenbacker stava nel letto alla sua destra, e von Richthofen nella branda alla sua sinistra. Il giorno seguente al suo funerale arrivò l'Oscar, portatomi da sua moglie, perché lo sistemassi sulla mensola del caminetto, con una rosa rossa, una soltanto, di fianco alla foto di von Richthofen, e l'altra immagine dei componenti la Squadriglia ritratti davanti al biplano, nell'estate del '18, un'immagine da cui tuttora si sprigionava il vento assieme al ronzio di aeroplani. E il gaio suono di giovani ridenti, quasi che la loro giocondità non potesse aver mai fine. A volte, alle tre di mattina, quando non riesco a dormire, scendo e rimango a guardare Bill e i suoi camerati. E, sentimentale come sono, sollevo un bicchiere di sherry. "Addio, Lafayette" dico. "Lafayette, addio." Ed essi ridono, come se fosse il più grande scherzo che mai sentirono. Banshee Era una di quelle notti irlandesi in cui, partendo da Dublino e attraversando in macchina città addormentate, ti scontravi con caligine e incappavi in nebbie che si scioglievano in pioggia, per diventare silenzio tra una ventata e l'altra. Tutto intorno, freddo, immobilità e attesa. Una notte per strani incontri ai crocicchi deserti, con grandi filamenti di spettrali tele di ragno prive del tessitore, per centinaia di chilometri. Dai prati, cigolii di cancelli, nelle case gemiti di finestre sotto una luna che s'affacciava a sprazzi. Era, come si dice, un tempo da banshee. Lo avvertivo, lo sapevo, mentre il mio taxi scivolava attraverso un ultimo cancello, e mi scodellava sulla soglia di Courtown House, lontana da Dublino come se detta città fosse morta nella notte, all'insaputa di chiunque. Pagai e osservai il tassista invertire la rotta per tornare alla città vivente, lasciandomi solo, con venti pagine finali del soggetto cinematografico in tasca, e il mio datore di lavoro e

regista che mi aspettava dentro casa. Indugiai fuori dalla porta, nel buio di mezzanotte, inspirando in Irlanda ed espirando l'umido carbone di miniera nella mia anima. Poi, bussai. La porta si spalancò quasi immediatamente, inquadrando John Hampton, il quale mi ficcò in mano un bicchiere di sherry e mi invitò, quasi di peso, a metter piede nella sua dimora. "Dio buono, ragazzo, mi hai fatto friggere dalla curiosità. Levati il cappotto. Dammi quei fogli. L'hai finito il soggetto, eh? Così almeno dici tu. Sono proprio curioso. Grazie per avermi telefonato da Dublino. In casa non c'é nessuno. Clara é a Parigi con la prole. Noi ci faremo la nostra bella lettura, monderemo le tue scene dalle impurità, ci berremo una bottiglia, e per le due saremo a letto e... cos'é?" La porta era rimasta aperta. John vi si avvicinò, abbassò il capo, chiuse gli occhi, ascoltò. Il vento frusciava nei prati, facendo rimbalzare contro le nuvole l'eco come di coperte rovesciate all'indietro su un letto spropositato. Anch'io tesi le orecchie. Proveniente dai campi immersi nel buio, giunse un debole mormorio, forse una cantilena, rotto da singhiozzi. Senza riaprire gli occhi, John sussurrò: "Sai cos'é questo, ragazzo?". "Cos'é?" "Te lo dico dopo." Chiuse la porta con impeto, si girò e, il grande castellano del deserto maniero, incedette, precedendomi, nella sua giacca sportiva, i pantaloni da fatica, stivaletti lucidi, i capelli come sempre arruffati per aver giostrato con strane femmine su letti non casalinghi. Piantandosi davanti al caminetto della biblioteca, mi dedicò una di quelle sue risate guizzanti, con i denti che balenavano come il raggio di un faro che si accende e subito dopo sparisce, mentre mi porgeva un secondo sherry in cambio del copione che mi strappò di mano. "Vediamo cosa il mio genio, il mio ventricolo sinistro, il mio braccio destro hanno partorito. Siedi. Bevi. Osserva." Si accoccolò sulla pietra del caminetto, le spalle rivolte al fuoco, e prese a sfogliare le pagine del mio fascicolo, consapevole che stavo bevendo il mio sherry con troppa fretta e che chiudevo gli occhi a ogni foglio che lui lasciava cadere sul tappeto. Quando ebbe finito, quando l'ultima pagina volteggiò per posarsi a terra, John si accese un sigarillo, ne aspirò il fumo, con gli occhi rivolti al soffitto, tenendomi sulla corda. "Gran figlio di buona donna!" disse finalmente, le parole mescolate al fumo. "Ti venga un colpo, ragazzo! E' buono!" Tutto lo scheletro mi franò dentro. Non mi ero aspettato un tale elogio che mi centrava il plesso solare. "Naturalmente, occorre qualche limata!" Il mio scheletro recuperò la sua essenza. "Naturalmente" dissi. Si chinò a raccogliere i fogli, come un grosso scimpanzé sbilenco, e si girò. Ebbi l'impressione che volesse gettarli nel fuoco. Stava fissando le fiamme, con le pagine strette tra le dita. "Un giorno o l'altro, ragazzo," disse sottovoce "devi insegnarmi a scrivere." Appariva rilassato, adesso, rassegnato all'inevitabile, pieno di sincera ammirazione. "Un giorno o l'altro," ribattei ridendo "devi insegnarmi come si dirige un film." "La Bestia sarà il nostro film, ragazzo. Mio e tuo. Un'accoppiata formidabile." Si alzò e venne a toccare il mio bicchiere col suo.

"Che accoppiata siamo!" Ingranò l'altra marcia. "Moglie e figli come stanno?" "Stanno che mi aspettano in Sicilia, dove fa caldo." "Ti spediremo a raggiungere loro e il sole, dritto filato! Io..." Si irrigidì drammaticamente, allungando il collo, e ascoltò. "Ehi, che sta succedendo..." bisbigliò. Mi voltai e attesi. Questa volta, fuori dalla grande casa, c'era il più esile dei suoni, come di uno che facesse correre l'unghia su una superficie verniciata, o stesse scivolando giù dal ramo secco di un albero. Poi un mormorio funereo, seguito da qualche cosa che pareva un singhiozzo. John si protese per assumere un teatrale atteggiamento inamidato, come una statua in una pantomima, la bocca spalancata, quasi a permettere ai suoni di raggiungere meglio l'orecchio interno. Gli occhi, ora bene aperti, erano grandi come uova di gallina, fingendo allarme. "Devo dirti cos'é questo rumore, ragazzo? Una banshee!" "Cosa?" strillai. "Una banshee!" sentenziò. "I fantasmi di vecchie donne che si aggirano per le strade un'ora prima che qualcuno muoia. Ecco cos'erano quei rumori lì fuori!" Andò alla finestra, ne scostò la tenda e sbirciò all'esterno. "Shhh! Forse vuol dire... noi!" "Piantala, John!" e sogghignai senza entusiasmo. "No, ragazzo, no." Aguzzò gli occhi a inquisire le tenebre, assaporando il melodramma che andava costruendo. "Sono dieci anni che vivo qui. C'é la morte, là fuori. La banshee non si sbaglia mai! Dove eravamo rimasti?" Troncò l'incubo con quelle parole, come niente fosse, ritornò vicino al caminetto, e sbirciò perplesso i miei fogli, quasi contenessero una sciarada. "Ti sei mai reso conto, Doug, quanto La Bestia si identifichi con me? L'eroe che solca i mari, semina donne a destra e a sinistra, gira tutto il mondo e non si ferma mai? Forse é per questo che sto facendo questo film. Ti sei mai chiesto quante femmine ho posseduto? Centinaia!" Si interruppe, perché qualche riga del mio scritto lo aveva di nuovo ammaliato. "Brillante!" Attesi, incerto. "No, non questo!" Mise da parte il mio manoscritto per prendere dalla mensola una copia dell'edizione londinese del Times. "Questo! Una brillante recensione del tuo nuovo libro di racconti!" "Cosa?" esclamai sussultando. "Calma, ragazzo. Leggerò per te questa formidabile `recensione. Ne resterai estasiato. E' una cannonata!" Il mio cuore pompò acqua e annaspò. Vedevo in arrivo un altro scherzo, o, peggio ancora, la verità mascherata da scherzo. "Ascolta!" John sollevò il giornale, e lesse, come Achab,* dal sacro libro. [Settimo re d'Israele. [N.d.T.]]

""I racconti di Douglas Rogers potranno senz'altro costituire il grande successo della letteratura americana..."" John si fermò e mi scoccò un'occhiata innocente. "Che te ne pare come inizio, ragazzo?" "Continua, John" mormorai lugubremente, e deposi il mio sherry sul tavolino. Presagivo la doccia fredda in arrivo a svuotarmi di ogni volontà difensiva.

""... ma qui a Londra,"" strombettò John ""noi chiediamo qualche cosa di più dai nostri scrittori. Nel tentativo di emulare le idee di Kipling, lo stile di Maugham, l'umorismo di Waugh, Rogers naufraga nel mezzo dell'Atlantico. La sua é un'accozzaglia di prosa, per lo più una brutta copia, una pallida copia di autori di ben altra levatura. Douglas Rogers, tornatene a casa!"" Balzai in piedi e mi lanciai, ma John, con una pigra torsione del polso mi precedette, e buttò il Times nel fuoco, dove il giornale palpitò come un uccello morente, e si dissolse subito tra le fiamme in scintille roventi. Sbilanciato, proteso, ebbi l'impulso selvaggio di recuperare il maledetto giornale, felice comunque, e in definitiva, che il salvataggio fosse impossibile. John osservò, gongolante, la mia espressione, la mia faccia paonazza e contratta, i denti che digrignavano. La mia mano, che attanagliava la mensola del caminetto, era un blocco di pietra gelata. Esplosero lacrime dai miei occhi, a sostituire le parole che la mia bocca non riusciva a formulare. "Che ti prende, ragazzo?" John mi studiò con genuina curiosità, come una scimmia che ispezionasse una consorella malata entro la comune gabbia. "Ti senti male?" "John, in nome di Cristo" proruppi. "Dovevi proprio farmi una cosa del genere?!" Sparai una pedata al fuoco, facendo crollare i ciocchi e sollevando una grande sventagliata di scintille. "Ma, Doug, non credevo..." "Col cavolo, non credevi!" esplosi, fulminandolo con occhi lacrimosi. "Perché 'sta carognata?" "Ma no, accidenti, Doug! Era una recensione geniale, acuta! Ho solo aggiunto qualcosa di mio per sfotterti un po'." "Adesso, non lo saprò mai! Guarda!" Raddoppiai la pedata alla cenere. "Puoi comprare una copia del giornale, a Dublino, domani, Doug. Vedrai. Ti elogiano, gli piaci. Santo Dio, solo non volevo che ti montassi la testa, di colpo. Lo scherzo é finito. Non é abbastanza, figlio mio, che tu abbia appena scritto, per il tuo veramente superbo soggetto cinematografico, le scene migliori della tua vita artistica?" E John mi circondò le spalle con un braccio. Questo era John: ti dava una pedata al basso ventre, poi ti ci versava sopra il dolce miele, a etti, a chili. "Sai qual é il tuo problema, Doug?" Mi cacciò tra le dita tremanti un altro bicchiere di sherry. "Lo sai?" "Qual é?" piagnucolai, come un marmocchio appena punito, che torna a nuova vita e abbia voglia di ridere ancora. "Quale?" "Il fatto é, Doug..." e John si fece radioso in faccia. I suoi occhi incatenarono i miei come quelli di Svengali. "Tu non mi vuoi bene neanche la metà di quanto te ne voglia io!" "Dài, John..." "No, ragazzo, parlo sul serio. Giuro, per te sarei pronto a uccidere. Tu sei il più grande scrittore vivente, in tutto il mondo, e io ti amo, anima e corpo. E' per questo che credevo tu accettassi qualche presa in giro. Vedo che mi sbagliavo..." "No, John" protestai, odiando me stesso, perché adesso stava facendo scusare me. "Non c'é problema." "Mi dispiace, ragazzo, mi dispiace veramente..." "Zitto! Fa' il bravo!" gracchiai una risata. "Hai ancora il mio affetto. Io..." "Così mi piace, ragazzo. E adesso..." John roteò su se stesso, si fregò le mani, sfogliò e pareggiò i miei fogli, come un pokerista di professione. "Dedichiamo un'oretta a mondare questo tuo splendido e poderoso lavoro, e poi..."

Per la terza volta da quando ero lì, il tono e il colore del suo umore cambiarono. "Silenzio!" esclamò. Socchiudendo gli occhi, fluttuò al centro della stanza, come un annegato a fior d'acqua. "Doug, hai sentito?" Il vento percuoteva la casa. Come una lunga unghia che stridesse su un vetro dell'abbaino. Un funereo sussurro di nuvole eliminò la luna. "Le banshee!" John annuì a se stesso, a testa china, aspettando. Di colpo guardò su, verso di me. "Doug? Corri fuori e da' un'occhiata." "Fossi pazzo!" "No, vai" insisté John. "Questa é stata una notte di incomprensioni, ragazzo. Tu dubiti di me, e dubiti di questo. Prendi il mio cappotto in anticamera. Presto!" Corse a spalancare il guardaroba nell'atrio, ne strappò fuori il suo pesante cappotto di tweed che odorava di tabacco e whisky. Stringendolo tra due mani da scimmia, lo agitò come una cappa da torero. "Ahora, toro! Hah!" "John" sospirai stancamente. "O sei un cacasotto, Doug, hai paura? Tu..." Perché adesso, per la quarta volta, udimmo entrambi un gemito, un singhiozzo, un mormorio flebile al di là della porta d'ingresso. "Sta aspettando, ragazzo!" gridò John, trionfante. "Vai a vedere. Fallo per la squadra!" E mi trovai dentro al cappotto impregnato di ricordi di tabacco e whisky, che John mi stava abbottonando con regale compostezza, non senza afferrarmi per le orecchie e depositarmi un bacio in fronte. "Io sarò qui in tribuna, ragazzo, a fare il tifo per te. Verrei con te, ma le banshee sono timide. Dio ti benedica, figliolo, e se tu non dovessi tornare... be', ti ho amato come si ama un figlio!" "Gesù" gemetti, e spalancai la porta. Ma all'improvviso John si frappose con uno scatto fra me e la fredda luce lunare. "Non andare lì fuori, ragazzo. Ho cambiato idea! Se dovessi restare ucciso..." "John" respinsi le mani che volevano trattenermi. "Tu non vedi l'ora che io esca. Probabilmente hai piazzato qui fuori Kelly, la tua donna di servizio, perché interpreti il fantasma per farti sganasciare alle mie spalle..." "Doug!" esclamò, dilatando gli occhi e afferrandomi per le spalle, con quel tono di voce tra il ridanciano e l'offeso che gli era peculiare. "Giuro su Dio!" "John," ripetei, metà arrabbiato, metà divertito "a tra poco." Corsi fuori, pentendomene subito. Perché lui richiuse e sprangò la porta. Stava ridendo? Qualche secondo dopo, scorsi la sua sagoma alla finestra della biblioteca, col bicchiere di sherry in mano, a sbirciare su quello spettacolo notturno, di cui era insieme regista e ridanciano spettatore. Imprecai tra i denti, ingobbii le spalle nel mantello di Cesare, ignorai le due dozzine di stilettate infertemi dal vento e mi avventurai giù per il viale inghiaiato. "Entro tra dieci minuti al massimo" pensai, più che sufficienti per mettere in pensiero John, lo scherzetto avrebbe avuto un effetto boomerang: mi sarei ripresentato alla porta, barcollando, la camicia strappata e insanguinata, con qualche rabbrividente storia di mia invenzione. Sì, perdio, era quello che ci voleva... Mi fermai di colpo. Perché in un piccolo folto d'alberi più in basso, mi parve di vedere un qualcosa di simile a un grande aquilone di carta sbocciare e volare lungo le siepi.

Le nubi veleggiavano sopra una luna quasi piena, e tracciavano isole di tenebre incombenti su di me. Poi lo vidi di nuovo, più distante, come se un intero grappolo di fiori, liberatosi all'improvviso, si disperdesse, in una nevicata di petali, lungo il viale scolorito. Nello stesso momento mi giunse l'eco attenuato di un singulto, la sfumatura del più debole dei lamenti. Trasalii, indietreggiai, poi gettai un'occhiata verso la casa. E alla finestra c'era, naturalmente, la faccia di John, che sogghignava come una zucca intagliata, sorseggiando lo sherry, comodo e ilare nella calda intimità. "Ohh..." risuonò lamentosa una voce, da un punto nel buio "... Dio...". Fu allora che vidi la donna. In piedi, appoggiata a un albero, vestita di un lungo abito color della luna, a cui era sovrapposto un pesante scialle di lana che aveva una vita tutta sua, rigonfio e fluttuante col vento. Ella sembrò non vedermi o, se mi aveva visto, di non curarsene: io non potevo spaventarla, nulla al mondo poteva spaventarla di nuovo. Tutto di lei era concentrato nello sguardo, calamitato, fisso e immobile, dalla casa, da quella finestra, dalla biblioteca, e dalla silhouette dell'uomo alla finestra. Lei aveva un viso color di neve, intagliato in quel freddo e candido marmo che rende inarrivabili le più belle donne irlandesi; un lungo collo di cigno, una bocca generosa anche se tremante, occhi di un verde morbido e luminoso. Così belli erano quegli occhi e il suo profilo contro i rami gonfi di vento, che qualche cosa in me si capovolse, agonizzò e morì. Avvertii quello spasimo assassino che afferra gli uomini quando la bellezza trascorre e non tornerà mai più. Vuoi gridare: "Rimani. Ti amo". Invece non parli. E l'estate che fiorisce nella carne di quella bellezza ti passa davanti, e tu sai che non la rivedrai mai più. Ma adesso la bellissima donna, senza staccare lo sguardo da quella finestra della casa laggiù, parlava. "Lui é là?" domandò. "Come?" sentii che rispondevo. "E' lui?" ripeté. "La bestia" precisò con furore represso. "Il mostro. E' lui." "Non..." "Il grande animale" proseguì "che cammina su due gambe. Che rimane. Tutti gli altri muoiono. Lui si asciuga le mani sulla carne, le ragazze sono il suo tovagliolo, le donne il suo pasto di mezzanotte. Le tiene confinate in cantina, come vino d'annata, conosce la loro età, ma ne ignora i nomi. Dolce Gesù, ed é lui quell'ombra lassù?" Guardai dove guardava lei l'ombra alla finestra, al di là del prato del croquet. E pensai al mio datore di lavoroÄregista a Parigi, a New York, a Roma, a Hollywood, intento a manipolare, come gli avevo visto fare, schiere di donne, calpestandole, umiliandole, un nero Messia su un caldo mare. Un picnic di femmine, danzanti sui tavoli, ansiose dell'applauso di John che se ne andava dicendo: "Cara, prestami cinque dollari. Il mendicante sulla porta mi strazia il cuore...". Scrutai la giovane donna, i suoi neri capelli arruffati dal vento della notte, e domandai: "Chi dovrebbe essere lui?". "Lui. Lui che vive in quella casa, e che mi amava e ora non mi ama più." Chiuse gli occhi per farne sgorgare lacrime. "Non abita più li" replicai. "Vi abita!" Si girò di scatto, quasi che potesse colpire o sputare. "Perché menti?" "Ascolta." La guardai in viso, che pareva di neve recente, ma anche antica. "Forse un tempo, in un'epoca passata."

"No, c'é soltanto il presente, adesso!" Ebbe un guizzo, come per lanciarsi verso la casa. "E lo amo ancora, tanto che lo ucciderei, e finalmente potrei annullare me stessa!" "Quale sarebbe il suo nome?" Avanzai a sbarrarle il passo. "Il suo nome." "Il suo nome? Will, naturalmente. Willie. William." Si mosse. Io alzai le braccia e scossi la testa. "C'é soltanto un Johnny adesso in quella casa. Un uomo di nome John." "Tu menti! Io sento che é lui. Il suo nome é cambiato, ma é lui. Guarda! Senti!" Protese le mani per toccare il vento, e io mi girai e sentii con lei, ed era un altro anno, era un tempo tra passato e presente. Così diceva il vento, e dicevano la notte e il riquadro luminoso della grande finestra dove stava l'ombra. "E' lui!" "Un mio amico" dissi, con dolcezza. "Mai stato amico, di nessuno, mai!" Tentai di leggerle negli occhi, e pensai: "Mio Dio, é sempre stato così, sempre un uomo in quella casa, quaranta, ottanta, cento anni fa! Non lo stesso uomo, no, ma tutti cupi gemelli, e questa ragazza che vagola per la strada, con la neve nelle sue braccia in cerca di amore, e gelo nel cuore in cerca di conforto, e null'altro potendo fare se non sussurrare, disperarsi e singhiozzare, finché il suono del suo pianto smetta al sorgere del sole, per ricominciare allo spuntare della luna". "Là dentro c'é un mio amico" ripetei. "Se é la verità," ribatté lei, in un mormorio veemente "allora tu sei mio nemico!" Guardai in basso, sulla strada dove il vento soffiava la polvere attraverso i cancelli del cimitero. "Torna là da dove sei venuta" esortai. Lei girò lo sguardo sulla stessa strada e la stessa polvere, e la voce le si fece più flebile. "Allora, la pace deve essermi negata, sempre." In tono disperato. "Devo tornare qui, anno dopo anno, senza vendetta?" "Se l'uomo là dentro fosse realmente il tuo Willy, il tuo William, cosa vorresti che io facessi?" "Mandarlo qui da me" sussurrò. "E cosa faresti con lui?" "Giacerei con lui, e non ci alzeremmo mai più. Egli sarebbe prigioniero come una fredda pietra in un freddo fiume." "Ah!" esclamai e annuii. "Allora, gli chiederai di venire?" "No. Perché egli non é lui. Molto simile, quasi identico. E si nutre di giovani donne, si pulisce la bocca sulle loro sete, un secolo avendo un nome, un altro secolo un nome diverso." "E in lui, mai una briciola d'amore?" "Le sue parole sono come le reti che il pescatore getta in mare." "Ah, Cristo, e io ci sono presa dentro!" E lanciò un grido tale che l'ombra venne alla finestra della grande casa al di là del prato. "Rimarrò qui finché dura la notte" mi disse. "Sentirà certamente che sono qui, il suo cuore si commuoverà, quale che sia il nome che ha adesso, quale che sia l'enormità della sua anima indemoniata. Che anno é questo? Da quanto sono qui in attesa?" "Non te lo dirò. Il saperlo ti spezzerebbe il cuore." Si girò e mi guardò veramente per la prima volta. "Sei tu uno dei buoni, allora, uno di quegli uomini onesti, che non mentono mai, non feriscono mai, e non devono mai nascondersi? Dio misericordioso, perché non ho conosciuto te, prima di lui?"

Il vento riprese, il suo sibilo risuonò nella voce di lei. Da una distanza remota, dalla città addormentata, rintoccò l'orologio di un campanile. "Devo rientrare" dissi. Tirai un respiro profondo. "Non c'é modo alcuno per cui possa darti pace?" "No," mi rispose "perché non sei stato tu a spezzarmi l'anima." "Capisco." "No, non puoi capire. Ma tenti. E te ne sono grata. Torna in quella casa. Per te ci sarà un'altra morte." "E per te...?" "Ah!" gridò. "La mia l'ho avuta tanto tempo fa. Non mi prenderà un'altra volta. Vai!" Me ne andai, molto volentieri. Perché ero pieno della notte fredda e della luna pallida, del passato e di lei. Il vento mi sospinse su per il declivio erboso. Alla porta, mi voltai. Ella era ancora lì, sul viale lattiginoso, lo scialle teso dal vento, una mano sollevata. "Fai presto" mi parve sentirla sussurrare. "Digli che é desiderato!" Spinsi la porta, che non era più chiusa da dentro, irruppi in casa, quasi cadendo in anticamera, col cuore che mi bombardava, la mia immagine nel grande specchio alla parete un'esplosione di luce senza colore. John era in biblioteca, a bersi un ennesimo sherry. Ne versò anche a me. "Finirai bene" mi disse "con l'imparare che tutto quanto ti dico dev'essere preso con più di un grano di sale. Gesù, ma guarda che faccia ti é venuta! Sembri un ghiacciolo. Butta giù questo sherry. Ce n'é pronto un altro, subito dopo!" Bevvi, lui versò di nuovo, bevvi di nuovo. "Allora, era tutto uno scherzo?" "Che altro?" John scoppiò a ridere, ma tornò subito serio. Fuori della casa, si udiva di nuovo la cantilena sussurrata, il desolato impalpabile stridore di un'unghia... la luna che grattava il tetto? "Ecco la tua banshee" dissi, gli occhi fissi sul mio bicchiere, incapace di muovermi. "Certo, ragazzo, certo, come no?" assentì John. "Finisci il tuo sherry, Doug, e ti leggerò quell'acuta recensione al tuo libro che c'é sul Times di Londra. Te la rileggo." "Il giornale lo hai bruciato, John." "Sì, ragazzo, ma me lo ricordo parola per parola. Bevi." "John," domandai, fissando il caminetto dove la cenere del giornale sembrava ancora respirare "quella recensione esiste... esisteva veramente?" "Mio Dio, naturalmente, certo sì. Il fatto é..." Si interruppe, una pausa a effetto a sottolineare la sua appassionata sollecitudine. "Al Times sanno del mio affetto per te, Doug, e hanno chiesto a me di recensire il tuo libro." Allungò un braccio da scimmia per riempirmi il bicchiere. "L'ho fatto. Sotto altro nome, ovviamente. Non potevo fare altro. Ma dovevo essere imparziale, Doug, rispettare l'etica professionale. Quindi ho elogiato ciò che in tutta onestà mi pareva buono, e ho condannato ciò che mi pareva non molto buono. Ho criticato il meno buono nello stesso modo con cui condanno una scena scadente di un tuo soggetto, e ti costringo a rifarla ex novo. Ora, non sei d'accordo che tale prassi sia perfettamente equanime da parte mia?" Si chinò verso di me. Mi pose una mano sotto il mento, che mi obbligò a sollevare, e mi guardò a lungo, dolcemente, negli occhi. "Non sei arrabbiato?" "No" risposi, ma con voce rotta. "Per Dio, lo sei, e come! Ti chiedo scusa. Uno scherzo, ragazzo, soltanto uno scherzo." E mi assestò un amichevole pugno sul braccio.

Leggero com'era, risultò una mazzata andata a segno. "Avrei preferito che tu lo avessi evitato, quello scherzo, che l'articolo fosse reale" brontolai. "Anch'io, ragazzo. Ti vedo depresso..." Il vento sibilò frustando la casa. Le finestre si animarono e gemettero. Di colpo, senza una ragione che riuscissi a spiegarmi, sbottai: "La banshee. E' qui fuori". "Era uno scherzo anche quello, Doug. Non ti devi fidare di me." "No" replicai, fissando la finestra. "E' lì." John rise. "Tu l'hai vista, vero?" "E' una donna giovane e bella, con uno scialle, in una notte fredda. Una giovane donna con lunghi capelli neri, grandi occhi verdi, un colorito come la neve e un orgoglioso naso fenicio. Ti ricorda qualcuna che tu abbia conosciuta un tempo, John?" "Migliaia, me ne fa venire in mente" ammise John, con una risata più sommessa, cercando di soppesare la mole del mio scherzo. "Diavolo..." "E' lì che ti aspetta" dissi. "Giù, in fondo al viale." John sbirciò la finestra, incerto. "Erano suoi i rumori che sentimmo" proseguii. "Mi ha fatto la tua descrizione, tua o di qualcuno come te. Ti ha chiamato Willy, Will, William. Ma ho avuto la certezza che si trattasse di te." John assunse un'aria meditativa. "Giovane, dici, bella, é lì fuori, adesso, proprio in questo momento...?" "La donna più bella che abbia mai vista." "Non aveva in mano un coltello...?" "Disarmata." John rifiatò. "Be', allora, sembra davvero che debba andare a far due chiacchiere con lei, eh, che ne dici?" "Ti sta aspettando." Si diresse verso la porta d'ingresso. "Mettiti il cappotto, la notte é fredda" ammonii. Si stava infilando il pastrano quando udimmo il suono, dall'esterno, nitidissimo questa volta. Il gemito e poi il singhiozzo, e di nuovo il gemito, prolungato. "Dio!" esclamò John, la mano sulla maniglia, rifiutandosi di impallidire davanti a me. "Ma c'é davvero qualcuno." Si costrinse a girare la maniglia e a spalancare la porta. Il vento irruppe dentro, portando con sé un altro lamento smorzato. John esitò, forse per l'impatto col freddo, e lo vidi scrutare nel buio, giù per il lungo viale. "Aspetta!" gridai all'ultimo momento. John attese. "C'é una cosa che non ti ho detto" ansimai. "Lei é laggiù, sì. E l'ho vista camminare. Ma... é morta." "Non ho paura" affermò lui. "Tu no, ma io sì. Non tornerai più. Per quanto possa odiarti in questo momento, non posso lasciarti andare. Torna dentro, chiudi la porta, John." Di nuovo il gemito, e poi il lamento. "Chiudi quella porta!" Allungai un braccio perché togliesse la mano dalla maniglia di ottone, ma lui mantenne la presa, si ingobbì nelle spalle, mi guardò e sospirò. "Sei davvero un bravo ragazzo, Doug. Buono e bravo quasi quanto me. Nel mio prossimo film, ti do una particina. Sarà l'inizio di una folgorante carriera cinematografica." Mi volse le spalle, uscì nella notte fredda e richiuse la porta, con dolcezza. Aspettai finché non sentii i suoi passi sul viale inghiaiato, poi sprangai la porta, e di corsa feci il giro della casa, accendendo le luci. Mentre attraversavo la biblioteca, il vento

si insinuò lugubre nella cappa del caminetto, facendo volteggiare sulla pietra le nere ceneri del Times di Londra. Restai a fissare a lungo quella cenere, poi mi riscossi, galoppai su per le scale a due gradini per volta, spalancai l'uscio della mia stanza sulla torretta, mi chiusi dentro, mi spogliai, ed ero a letto, con le coperte tirate su a coprirmi la testa, quando un orologio della città, lontano e funereo, mi disse che era l'una, la prima ora di una mattina. E la mia camera era così in alto, così sperduta in quella casa, così rasente al cielo, che non ebbe importanza chi o che cosa bussasse o tempestasse o tentasse di scardinare la porta al piano terreno, sussurrando, e poi implorando, e poi urlando... Chi avrebbe sentito? Promesse, promesse Quando gli aprì la porta sul pianerottolo, lei si accorse che aveva pianto. Le lacrime, che non s'era curato di asciugare, gli inumidivano ancora le guance. "Tom, per amor di Dio, che é successo? Entra!" Lo tiro a sé. Egli parve non accorgersene, ma alla fine, a occhi bassi, vide che poteva essere una buona idea, e venne dentro. Si guardò in giro, quasi che lei avesse cambiato i mobili e fatto ridipingere le pareti. "Non vorrei disturbarti" le disse. "Disturbarmi, che diamine!" lo precedette. "Siediti. Hai una faccia che fa paura. Ti do qualcosa da bere." "Sì, mi conviene sedere prima che le gambe mi cedano del tutto" annuì vagamente. "E bere qualcosa. Neanche mi ricordo se in tutt'oggi ho mangiato qualcosa. Forse." Gli portò la bottiglia del brandy. Ne versò due dita in un bicchiere, lo sbirciò in volto, e aumentò la dose. "Bevilo adagio. Fallo durare" lo osservò mandar giù il liquido. "Che cosa é successo?" "E' Beth," farfugliò lui, a occhi chiusi a filtrare nuove lacrime "... e tu." "Lascia perdere me, che é accaduto a Beth?" "E' scivolata e ha battuto la testa. E' rimasta all'ospedale due giorni, priva di conoscenza." "Oh, mio Dio..." Gli si inginocchiò davanti e lo circondò con le braccia, come se lui potesse cadere. "Perché non mi hai telefonato?" "L'ho fatto, ma ero all'ospedale con Clara, e ogni volta che ti ho chiamata, non rispondevi. E poi, Clara era sempre così vicina: se mi avesse sentito che parlavo con te... Dio... é già abbastanza brutto avere una figlia che sai potrebbe... da un momento all'altro... comunque, ci ho provato, e adesso eccomi qui." "Gesù, sfido io che sembri un cadavere. Ma dimmi di Beth, adesso. Non é...?" "No, non é morta. Sia ringraziato il Signore, oh, sia ringraziato Iddio!" E diede sfogo alle lacrime, apertamente, stringendo tra le mani il bicchiere vuoto, lasciando che il pianto colasse e gli bagnasse il davanti della giacca. Lei, inginocchiata, si unì a quella disperazione, tenendogli stretta una mano. "Gesù" ripeté sotto voce. "Gesù." "Se tu sapessi quante volte ho invocato quel nome, in questi due ultimi giorni della settimana! Non sono mai stato un gran che religioso, ma tutto d'un colpo, ho pensato, qualsiasi cosa possa dire, fare, implorare, qualsiasi cosa... Non ho mai pianto tanto in vita mia. Non ho mai pregato con tanta intensità."

Una nuova crisi di sofferenza retroattiva gli squassò le spalle, impedendogli di proseguire. Quando si acquietò, riuscì a trovare un filo di fiato: "Adesso sta bene, si é ripresa, é uscita dall'ospedale appena due ore fa. Guarirà, il medico lo dà per certo. Così ha detto. Se esigesse un onorario di un milione di dollari, passerei volentieri il resto della mia vita per pagarglielo. Per Beth questo e altro". "Lo so. Le figlie lo meritano sempre, o almeno quasi tutte, agli occhi di un padre." Egli si abbandonò contro la spalliera della sedia, e lei rimase accucciata alle sue ginocchia, in attesa che gli tornasse il fiato. Poi volle sapere: "Come é successo?". "Una di quelle cose banali, stupide. Aveva piazzato nello stanzino una scaletta traballante per tirar giù certi addobbi per Natale. Quel maledetto aggeggio ha ceduto, lei é caduta, picchiando la testa con violenza. Non ci accorgemmo di niente: eravamo da un'altra parte della casa. Abbiamo sempre rispettato la privacy di Beth, ma dopo un'ora, visto che la sua porta restava chiusa e da dentro non veniva alcun rumore, mia moglie, per un qualche motivo, entrò. Di colpo, si mise a urlare. Mi precipitai, e Beth era lì, per terra, un lago di sangue, aveva picchiato la testa contro lo spigolo di una libreria. Nell'accorrere, per poco non cadevo anch'io. Cercai di sollevarla dal pavimento, ne fui impedito da un'improvvisa debolezza, al punto da non riuscire a muovermi, mio Dio, neanche riuscivo a sentirle il polso, tanto il mio batteva forte. Non so come afferrai il telefono, senza però articolare una parola, anzi senza nemmeno riuscire a formare il numero del pronto soccorso. Fu Clara a strapparmi di mano l'apparecchio e fare il numero. Quando ebbe la comunicazione, le ripresi il telefono, ma di nuovo mi si era bloccata la voce, e Clara dovette farlo al mio posto... Gesù, ho quasi messo a repentaglio la vita di Beth. Ero paralizzato. Pensa se fossi stato solo in casa! Sarei stato capace di parlare? Sarebbe morta mia figlia? Senza Clara... Be', quelli dell'ambulanza arrivarono in cinque minuti, Dio li benedica, cinque, invece di mezz'ora. Portarono Beth all'ospedale. E sull'ambulanza, io assieme a lei, io, un moribondo extra. Clara ci seguì in macchina. All'ospedale per un'ora non ci permisero di vedere Beth, stavano lottando per salvarla. Quando il chirurgo venne fuori ci disse che era un "la va o la spacca", al cinquanta per cento, per uno o anche due giorni. Prova a pensarci... aspettare per due giorni completi, senza sapere. Restammo in ospedale fino alle due di mattina, quando insistettero perché tornassimo a casa. Ci avrebbero telefonato se vi fosse stato qualche cambiamento. Andammo a casa e piangemmo tutta notte. Non credo che smettessimo di lacrimare per più di dieci minuti ogni volta. Hai mai pianto in continuazione per tutta una notte, hai mai desiderato di ucciderti tanta é l'angoscia? Dio, eravamo annichiliti. Era il primo vero incubo della nostra vita. C'é andata sempre bene: niente malattie, niente incidenti, niente morti in famiglia. Ascolta! Non riesco a stare zitto. Dio, se sono stanco! Ma dovevo venire a vederti, Laura." "Lei sta bene, adesso, bene veramente?" "In tre giorni, poco più, poco meno, dovrebbe esserne fuori, ha detto il medico." "Bevi ancora un po' di brandy" gli riempì il bicchiere e lo osservò bere convulsamente, mentre nuove lacrime gli riempivano gli occhi. "Ho visto tua figlia una volta soltanto, ma era, é una ragazza adorabile. E' logico che tu..." "E' logico, sì." Chiuse gli occhi, poi si decise a riaprirli per fissare l'amante. "Sai che cosa realmente l'ha salvata?" "La rapidità di quelli del pronto soccorso..." "No." "Quel medico..."

"Tutti loro contano parecchio. Ma abbiamo pregato. Pregato, Laura. E Dio ha risposto. Qualcuno ha risposto. Ma é successo. Non avevo mai creduto nella preghiera. Ora ci credo." La stava guardando intensamente, tanto che lei dovette distogliere lo sguardo, alla fine, quasi trasalendo. Si intrecciò le dita in grembo e se le contemplò. Impallidì di colpo, quasi avesse intuito qualcosa, poi nascose quel presentimento abbassando le palpebre. Tirò un profondo respiro, gli scoccò un'occhiata furtiva, e chiese: "Com'era?". "Eh?" disse l'uomo, senza capire. "Com'era la tua preghiera?" "Non era tanto una preghiera vera e propria... quanto... una promessa." Laura impallidì ancora di più, represse un ansito, e domandò: "Cosa hai promesso?". Parve incapace di risponderle. La stessa impotenza a comporre un numero di telefono e articolare la richiesta di soccorso, quando sua figlia... "Allora?" "Ho promesso a Dio..." "Sì?" "Che se avesse salvato Beth..." "Si?" "Avrei rinunciato a te, e me ne sarei andato e non ti avrei rivista mai più!" La confessione era sgorgata dalle sue labbra con un impeto, un tumulto emotivo e disperato. "Cosa?" Laura abbandonò di scatto la posizione genuflessa, irrigidendosi, fissandolo come se avesse davanti un demente. "Hai sentito quello che ho detto" fu la sommessa risposta. Lei si protese in avanti convulsamente, incredula. "Come hai potuto promettere questo a Dio?!" proruppe. "Dovevo farlo, l'ho fatto, era l'unica cosa cui potessi pensare." Scivolò giù dalla sedia e, in ginocchio sul pavimento, strisciò verso Laura, allargando le braccia. "Ero disperato, non capisci? Disperato!" Laura si ritrasse, per aumentare lo spazio che li divideva. Cercò con lo sguardo la finestra, la porta, quasi a cercare una via di fuga, poi disse con lo stesso impeto di prima: "Tu sai che adesso mi sono fatta cattolica...". "Lo so, lo so." "Cattolica. Capisci in quale posizione mi hai messo?" "Non sono stato io, é stata la vita, l'incidente a mia figlia. Dovevo fare una promessa per salvarla! Che cosa ci trovi di sbagliato?!" "Io ti amo, ecco che cosa ci trovo di sbagliato!" Laura balzò in piedi, gli volse le spalle, poi si rigirò, afferrandosi i gomiti e chinandosi su di lui. "Ma non ti rendi conto? Non puoi mica, così come se niente fosse, lasciarti andare e promettere a Dio cose del genere! Pazzo che sei! Non puoi rimangiarti la promessa!" "Non voglio rimangiarmela" le rispose, guardandola inorridito. "Non puoi pretenderlo da me!" "Tom, Tom," continuò lei "io sono profondamente credente. Come può sfiorarti l'idea che io esiga da te un sacrilegio simile? Cristo santo, che situazione! Una promessa é una promessa, devi mantenerla. Ma questo mi sprofonda nell'abisso. E se tu infrangessi la promessa, non ti amerei certo di più per essere un mentitore, un mentitore verso il mio nuovo Dio e la mia nuova fede. Dannazione, non avresti potuto combinare un disastro più tremendo e definitivo, neanche se lo avessi pianificato in precedenza!"

Seduto sul pavimento, egli dovette ritrarsi, e asciugarsi le gote col dorso della mano. "Tu non pensi...?" "No, no. Dopotutto, era una disgrazia, e lei é tua figlia. Ma avresti potuto riflettere, prendere tempo, valutare, essere più cauto su quello che potevi dire!" "Com'é possibile essere più cauto quando stai precipitando giù dal ventesimo piano e non pensi altro che a una rete che ti salvi?" Laura era in piedi sopra di lui, e le spalle le ricaddero, come se le avesse sparato in pieno petto. Si sentiva franare, andare in pezzi. Quelle argomentazioni... Se c'era una rete di salvataggio, lui non aveva pensato di condividerla con chi ne aveva forse più bisogno. Quando ebbe raggiunto il fondo dell'abisso e si accorse di essere ancora viva, ella riuscì a balbettare soltanto: "Oh, Tom, Tom, tu...". "E adesso piango due volte" si disperò lui. "Per mia figlia, che quasi moriva. E per te, che potresti essere altrettanto morta. Ho tentato di fare una scelta. Per un attimo folle, ho pensato che doveva esservi una possibilità di scegliere. Ma sapevo che Dio avrebbe visto attraverso qualsiasi dannata menzogna avessi escogitata. Non puoi promettere e pregare e poi dimenticartene, non appena tua figlia apre gli occhi e ti sorride. Sono tanto riconoscente, adesso, che potrei esplodere. Sono disperato, immensamente disperato per noi, tu e io. Piangerò per tutta la settimana, e mia moglie penserà che é per il sollievo che Beth sia tornata a casa." "Stai zitto" disse Laura, a bassa voce. "Perché?" "Perché! Più parli, e meno riesco a darti una risposta. Smettila di incastrarmi in un angolo. Smettila di uccidere me al posto di lei. Smettila." A Tom non rimase che restare lì dov'era, sotto un peso e un'immobilità crescenti, mentre lei annaspava ciecamente alla ricerca di un bicchiere e di qualcosa con cui riempirlo. E le ci volle parecchio prima che riuscisse a versare il brandy, e ancora di più prima che si ricordasse di berlo. Con la faccia rivolta alla parete, domandò: "Cosa dicesti nella tua preghiera?". "Non riesco a ricordarlo." "Si, che lo puoi. Dio onnipotente, Tom, cosa dicesti che sia così maledettamente irreversibile?" Tom arrossì, girando la testa in tutte le direzioni, tranne che verso di lei. "Ti riferisci alle parole esatte..." "Le parole esatte. Voglio saperle. Esigo di saperle. Ne ho il diritto. Dimmele." "Oh, Dio," rispose con voce malferma "questo mi ricorda mia madre quando mi faceva dire le preghiere, quando avevo cinque anni. Una cosa che odiavo, che mi imbarazzava, non riuscivo a vedere Dio da nessuna parte, non sapevo rendermi conto a chi dovessi parlare e chiedere. Un'agonia, tanto che alla fine mia madre rinunciò. Anni dopo, imparai a pregare, a modo mio, dentro di me. Va bene, va bene, non guardarmi in quel modo. Ecco quello che ho detto..." Si alzò, andò alla finestra, fece correre lo sguardo sulla città, verso un edificio, qualsiasi edificio gli ricordasse l'ospedale, vi si concentrò. La voce gli uscì quasi impercettibile. Se ne rese conto, si interruppe, e ricominciò perché lei potesse sentire: "Dissi: "Ti prego, Dio, salvala, salva mia figlia. Se lo fai, ti prometto, ti giuro di rinunciare alla cosa più preziosa della mia esistenza. Prometto di rinunciare a Laura, e di non vederla mai più. Lo prometto, mio Dio. Ti prego".". Un lungo silenzio, e poi Tom ripeté le ultime due parole, a voce sommessa:

"Ti prego". Restando dov'era, Laura si portò il bicchiere alle labbra e bevve il brandy d'un colpo e, a occhi chiusi, scosse la testa. "Così, lo hai fatto davvero" mormorò. Egli si staccò dalla finestra, fece per avvicinarsi a Laura, poi si fermò. "Mi credi, vero?" "Vorrei non crederti, ma ti credo, maledizione!" Gettò via il bicchiere e lo guardò rotolare, intatto, sul tappeto. "Avresti potuto promettere qualcosa d'altro! Non potevi, che ti costava, non potevi?" "Promettere, cosa, cosa?" Non sapendo dove sbattere, lui prese ad aggirarsi avanti e indietro per la stanza, incapace di ricambiare lo sguardo della donna. "Che puoi promettere a Dio che abbia un significato vero? Soldi? L'automobile che possiedi? La casa dove vivi? Rinunciare a un viaggio a Parigi? Al lavoro che svolgi? Dio sa se amo queste cose! Ma non credo che Dio le accetti. Per Lui, vale solo una cosa, no? Per Lui. Non gli oggetti, non le persone, ma... l'amore. Ci ho pensato e ripensato, e ho capito che avevo soltanto un'unica cosa nella mia vita che avesse un valore incalcolabile, che rappresentasse una contropartita equivalente." "E quella cosa ero io?" esclamò lei. "Sì, dannazione! Dimmene un'altra! Non riesco a pensarne un'altra. Tu. Il mio amore per te é stato così grande, così assoluto, così vitale a tutta la mia esistenza, e sapevo che doveva essere la vera contropartita, la promessa indispensabile. Se avessi detto che avrei rinunciato a te, Dio avrebbe dovuto sapere quale schianto sarebbe stato, quale perdita totale. E allora sarebbe stato costretto a restituirmi mia figlia! Come avrebbe potuto negarmelo?" Si era fermato al centro della stanza. Laura raccolse il bicchiere, lo guardò, prese a girare attorno a Tom, lentamente. "Adesso ho sentito e visto tutto" disse. "Sentito e visto che cosa?" "Come gli uomini, in un modo o nell'altro, riescono a liberarsi dalle loro "relazioni"." "E' così che tu la interpreti?" "In quale altro modo, se no? Già da un pezzo cercavi di uscirne. Ora, la scusa ce l'hai, l'hai trovata." Lui emise un suono lugubre, poi un grugnito, poi un sospiro esasperato. "Una scusa? No. Un voto. Che altro avresti voluto che io facessi?" "Be', non certo promettere a Dio di rinunciare a me!" scattò lei. "Perché proprio me?" "Non lo sai? Non hai sentito? Tu sei tutto quello che avevo di indispensabile. Ti amavo, ti amo. Ti amerò sempre. E adesso, anche se so che sanguinerò per anni, devo lasciarti. Chi é straziato di più, qui, tu o io? E' più tremendo per te essere lasciata o per me che ti lascio? Riesci veramente, dico veramente, a immaginarlo e dirmelo?" "No" gli rispose, e le spalle le ricaddero di nuovo. "Io me la caverò. Perdonami. Sarà solo questione di tempo. Non sono passati che dieci minuti da quando sei entrato da quella porta. Cristo!" Si avviò, a passo lento, in cucina. Tom la sentì frugare nel frigorifero. Disperato, andò a sedersi su una poltrona, tenendovisi stretto, come se temesse di esserne strappato via e proiettato in mezzo al soggiorno. Laura tornò con in mano una bottiglia di champagne e due calici, procedendo come se si trovasse su un campo minato. "E quella roba cos'é?" le chiese, mentre la vedeva sedersi di nuovo sul pavimento. "A te che cosa sembra?" Lavorò espertamente sul tappo e, quando questi sbottò e colpì il soffitto, aggiunse: "Con questo cominciammo, perché non concludere allo stesso modo?".

"Sei in collera con me..." "In collera? Accidenti, vedo rosso, e mi sento così a terra che andrei a letto per un mese senza alzarmi, e invece domattina, maledetto il demonio, sarò di nuovo in piedi. Forse questo schifo di champagne aiuterà. Prendi il tuo bicchiere." Bevvero e rimasero in silenzio per un bel po'... "Quindi, questa é l'ultima volta che ci vediamo" disse lei. "Non c'é bisogno di metterla giù così duramente." "Perché no? Tu l'hai già fatto. Non giriamoci intorno, a prenderci per i fondelli. Sono gli ultimi cinque minuti della nostra vita. Quando hai finito di bere, infili quella porta. Non posso sopportarti qui dentro. Non voglio che te ne vada. Vorrei avere una preghiera, una promessa, forte come la tua, in cui credere. La offrirei a Dio con tutta l'anima che mi resta. Ma non ho la forza necessaria, e nessuno muore per me, tranne tu, e non sei realmente morto, te ne stai solo andando via. Quindi, non telefonarmi, non scrivermi, non tornare, non farti vedere. Lo so, lo so quello che tu vorresti fare, andartene, rimanere lontano da me. Ma potresti essere tentato. E se tu ti facessi vivo, io morirei di nuovo, interamente. Ti sembro meschina, vile, troppo dura? Non lo sono. Non riesco a comportarmi diversamente. Quindi..." Accostò alle labbra il bicchiere, finì lo champagne, poi si alzò e andò ad aprire la porta d'ingresso, fermandovisi, in attesa. "Così, subito?" disse Tom, lugubre. "Difficile credere che siano stati cinque anni. Ma... così, subito." Si alzò anche lui e si guardò in giro, come se stesse dimenticando qualche cosa, e poi si rese conto che era lei, e le andò di fronte, le braccia penzoloni lungo i fianchi. Di quelle braccia e del resto, pareva non sapesse che fare. "Mi perdoni?" "No, non adesso. Ma tra poco, sì. O finisco col perdonarti, o smetto di andare in chiesa. Dammi un po' di tempo per pensare a tua figlia e alla sua quasi morte, e, si, ti perdonerò. Ci aspetta, a tutti noi, una settimana tremenda. Parte di me sa che ti senti spaccato in due. Addio." Le sue labbra sussurrarono: amor mio, ma lo sussurrarono solo. Lo baciò, un bacio e basta, prolungato, e poi, quando sentì il proprio peso aderire più strettamente a lui, si ritrasse di scatto e indietreggiò. Tom uscì; a metà della rampa di scale, si girò e disse: "Addio". E corse giù per i gradini. Le lacrime irruppero a offuscare gli occhi di Laura. Si lanciò verso la ringhiera, aggrappandovisi, fissando le scale deserte. "Come ti sei permesso...!" gridò. E tacque. Ancora con gli occhi fissi sulle scale, dominò l'affanno. Le altre parole vennero di loro propria volontà: "... di amare tua figlia...". E poi la conclusione, che soltanto lei poteva sentire: "... più di quanto amavi me?". Indietreggiò, annaspando, si ritrovò nell'appartamento, e richiuse la porta, sbattendola con violenza. In fondo alle scale, Tom sentì. E fu come il suono di una tomba che si serrasse. Approccio d'amore Per tutta la mattina, nell'aria tersa, aveva insistito quel profumo di grano o d'erba verde falciati, o di fiori. Sio non lo conosceva, non avrebbe potuto riconoscerlo. Dalla sua segreta caverna, aveva disceso la collina, aveva vagabondato qua e là, la bella testa eretta, gli occhi vigili per scrutare, e gonfiando il

petto ad annusare la brezza che alitava a innalzare sino a lui l'ondata del dolce profumo. Come in una primavera autunnale. Cercò i fiori selvatici sotto le rocce aspre, ostinandosi, ma non ne trovò alcuno. Esplorò per una minima traccia di quell'erba, quel breve mantello che, su Marte, appariva per una settimana soltanto, ma la terra era ossa e sassi, e del colore del sangue. Sio tornò alla caverna, inquieto. Scrutò il cielo, vide i razzi dei terrestri guizzare, in basso, lontani, ma vicini alle città da poco costruite. A volte, di notte, egli scivolava silenzioso, nuotando furtivo o discendendo con la barca lungo i canali, lasciava la barca in un punto nascosto, per poi nuotare, con un morbido altalenare di braccia e gambe, fino ai confini delle nuove città, e da li spiare gli uomini che martellavano, inchiodavano, verniciavano; gli uomini che imprecavano, a notte avanzata, a quella strana cosa che andavano costruendo su questo pianeta. Ascoltava e cercava di capire il loro linguaggio sconosciuto, e osservava i razzi rivestirsi di enormi piume di fuoco splendente e poi scatenarsi verso le stelle: un popolo incredibile. E poi, ancora vivo, non toccato dalla malattia, e solo, Sio rientrava nella sua caverna. Altre volte, percorreva lunghi chilometri oltre le montagne per trovare altri della sua razza in volontario esilio, qualche maschio, ancor meno femmine, con cui parlare. Ma ormai si era fatto una ragione della propria solitudine, e viveva isolato, pensando al destino che aveva finito con l'uccidere la sua gente. Non ne dava la colpa ai terrestri; era stata una cosa accidentale, la malattia che, nel sonno, aveva bruciato sua madre e suo padre, e bruciato le madri e i padri di una moltitudine di figli. Annusò di nuovo l'aria. Quell'aroma strano. Quel dolce, penetrante profumo di fiori compositi e di muschio verde. "Cosa può essere?" Aguzzò gli occhi dorati nelle quattro direzioni. Era di alta statura, e ancora un ragazzo, anche se diciotto estati gli avessero plasmato i muscoli delle braccia, e le sue gambe si fossero affusolate e innervate per le nuotate nei canali e le corse spericolate verso la salvezza, attraverso il fondo scintillante di mari defunti, o nelle lunghe escursioni, con le gabbie d'argento per raccogliere i fioriÄassassini e le lucertole di fuoco che li avrebbero nutriti. Pareva che tutta la sua vita dovesse essere piena di nuotate e di marce, le cose che gli uomini giovani fanno per controllare le loro energie e passioni, finché non si sposano, e una donna si prenda ciò che prima era delle montagne e dei fiumi. Sio aveva prolungato fino alla propria virilità affermata quella passione per la distanza e le lunghe camminate, più di ogni altro coetaneo. E mentre altri uomini erano impigriti solcando su una barca i canali morenti, con la loro donna coricata al fianco, come un bassorilievo, Sio aveva continuato a correre e saltare, ad amare una vita atletica, per lo più da solo, quasi sempre parlando a se stesso. Era stata la preoccupazione dei suoi genitori, e il desiderio inappagato di donne, le quali avevano assistito all'allungarsi della sua ombra, dal quattordicesimo anno in avanti, e si erano scambiate allusivi ammiccamenti, in attesa che dopo un anno, l'altro anno arrivasse... Ma dopo l'invasione e la malattia, anche la sua esuberanza era illanguidita. Il suo universo era stato sommerso dalla morte. Le città fatte di assi inchiodate e verniciate, erano apportatrici di pestilenze. Il peso di così tanti lutti incupiva enormemente i suoi sogni. Spesso si svegliava piangente, e protendeva le mani verso l'aria notturna. I suoi genitori erano morti, ed era l'ora, ma già trascorsa, per un'amicizia speciale e toccante, per un amore. L'alito del vento era impregnato di quel profumo che aveva una sua vita, e Sio lo inspirò a fondo con un fervore nella carne.

E poi vi fu un suono. Come una piccola orchestra che suonasse. Una musica che fluiva lungo la stretta valle pietrosa e riempiva la caverna. Un pennacchio di fumo indugiò nel cielo, in distanza. Giù a valle, vicino al vecchio canale, sorgeva una piccola casa, eretta, un anno prima, dagli uomini della Terra per una loro squadra di archeologi. Era stata abbandonata, e più volte Sio era strisciato lì, per spiarne le stanze vuote, senza entrare, perché temeva che la malattia nera potesse contagiarlo La musica veniva dalla casa. "Tutta un'orchestra in quel piccolo spazio?" si chiese, e corse silenzioso a discendere la valle, nel chiarore del primo pomeriggio. La casetta pareva vuota, nonostante la musica che sgorgava dalle finestre aperte. Sio si spostò di roccia in roccia, impiegando una mezz'ora per acquattarsi a una trentina di metri dal minaccioso, risonante edificio. Si appiattì al suolo, non discosto dal canale. In caso di pericolo, si sarebbe tuffato in acqua, lasciando che la corrente lo riportasse velocemente tra le colline. La musica si fece più sonora, urtò contro i massi, echeggiò nell'aria calda, gli palpitò dentro. Dal tetto della piccola casa, le vibrazioni scuotevano polvere. Dalle pareti di legno, scaglie di vernice si staccavano come farfalle. Sio balzò in piedi e rinculò. Nessuna orchestra era visibile all'interno, poiché le tendine a fiori delle finestre erano chiuse. La porta sulla facciata era aperta. La musica si fermò, riprese. Lo stesso motivo, ripetuto dieci volte. E lì, il profumo che lo aveva calamitato a scendere dal suo rifugio di sassi, era corposo, come un'acqua che gli accarezzasse il viso sudato. Alla fine, egli decise: lo scatto di una breve corsa, e raggiunse la finestra, guardò dentro. Su un tavolo basso, luccicava un oggetto di colore scuro. Una specie di macchina, sulla quale un ago d'argento incombeva su un disco nero che girava su un perno. Da esso usciva il suono dell'orchestra! Sio guardò sbalordito il misterioso oggetto. La musica tacque. Nella pausa di silenzio vibrante, egli udì rumore di passi. Al galoppo raggiunse il canale e si tuffò. Nell'abbraccio dell'acqua fredda, restò sul fondo, in apnea, aspettando. Era stata una trappola? Lo avevano attirato giù per catturarlo e ucciderlo? Passò un minuto. Bollicine d'aria che gli sfuggivano dalle narici. Risalì lentamente verso la superficie, emerse da quel mondo acquatico. Mentre nuotava a pelo della fredda, verde corrente, la vide. Un viso bianco come pietra, sopra di lui. Rimase immobile per un attimo, ma l'aveva vista. Trattenne il respiro. Lasciò che la corrente lo portasse via, adagio, e la donna era bella, era una della Terra, era venuta su un razzo, in una scia di fuoco che aveva arroventato l'aria, e la donna era candida come pietra. L'acqua del canale lo portò tra le colline. Grondante, risalì l'argine. "Sì, era bella" pensò. Ansando, sedette sulla sponda del canale. Sentiva un'oppressione nel petto, uno strano calore in viso. Si guardò le mani. Che la malattia nera lo avesse colpito? Il fatto di aver guardato quella donna lo aveva contaminato? "Sarei dovuto balzar fuori" si disse "mentre lei era china, e serrarle il collo tra le mani. Lei é una di quelli che ci hanno uccisi!" Ebbe di nuovo la visione di quella gola bianca, di quelle spalle bianche. "Che strano colore" pensò. "Ma no, lei non ci ha uccisi. E' stata la malattia." In tanta candidezza, poteva nascondersi la ferocia?

"Mi avrà visto?" Si alzò, asciugandosi al sole. Si portò sul petto la mano, quella sua mano nervosa e bruna. Il cuore gli batteva inquieto, insistente. "Oh" esclamò. "L'ho vista!" Ritornò alla caverna, a passo né lento né veloce. La musica strepitava tuttora, dal basso, come a congratularsi di se stessa. In silenzio Sio cominciò, preciso e attento, a radunare le sue cose. Gettò in un pezzo di tessuto frammenti di gesso fosforoso, un po' di cibo e parecchi libri, facendone un fagotto che legò strettamente. Si accorse che le mani gli tremavano. Il palmo in su, esaminò le dita, dilatando gli occhi. Si alzò in fretta, si mise il fagotto sotto un braccio, uscì dalla caverna, e prese a risalire il canyon, allontanandosi dalla musica e dall'intenso profumo. Senza voltarsi. Ormai il sole stava scendendo dal cielo. Sio vide la propria ombra seguirlo, a ricordargli che sarebbe dovuto rimanere. Non era consigliabile lasciare la caverna dove era vissuto fin da fanciullo. In quella caverna aveva trovato come passare il tempo in una dozzina di modi diversi, aveva coltivato numerose inclinazioni e attività. Aveva scavato un forno nella roccia per cuocervi ogni giorno ciambelle, di impasto e varietà meravigliosi. In un piccolo campo sulla montagna aveva coltivato grano. Si era distillato vini limpidi e frizzanti. Aveva fabbricato strumenti musicali, flauti d'argento e metallo, e una piccola arpa. Aveva scritto canzoni. E costruito piccole sedie e intessuto la stoffa dei propri indumenti. E aveva affrescato le pareti della caverna: immagini di colore cremisi e cobalto fosforoso, che brillavano di notte, immagini elaborate e molto belle. E aveva spesso letto un libro di poesie che aveva scritto quando aveva quindici anni, e che, orgogliosamente, ma compostamente, i suoi genitori avevano ripetuto a pochi ascoltatori selezionati. Era stata una piacevole esistenza, nella caverna, insieme con le sue arti minori. Al tramonto, raggiunse il passo in cima alla montagna. La musica non arrivava fin lì. Neanche il profumo. Chiuse gli occhi e sospirò concedendosi un attimo di riposo, prima di proseguire. Un volto bianco venne a lui, in uno scintillio di acqua verde. Egli si coprì gli occhi con le dita. Candide braccia lo salutavano da correnti di marea montante. Sio si alzò, afferrò il suo fagotto, pronto a fuggire via, quando il vento cambiò direzione. Portando con sé la musica, indebolita dalla lontananza. L'ambigua, metallica, insistente musica a fondo valle. Egualmente sottile e insinuante, la scia impalpabile della fragranza, di quel profumo, si fece strada tra le rocce. E mentre spuntava la luna, Sio tornò indietro, alla caverna. Che era fredda e inospitale. Accese un fuoco, consumò un piccolo pasto di pane e bacche sottratte alle rocce muschiose. Abbandonata da poco, già la caverna appariva fredda e ostile. Anche il respiro suscitava strane risonanze entro le sue pareti. Spense il fuoco, si sdraiò per dormire. Ma adesso c'era un incerto raggio di luce che toccava la parete di sasso. Una luce, Sio lo sapeva, che veniva dalle finestre di quella casa, pur distante oltre mezzo chilometro, laggiù vicino al canale. Chiuse gli occhi, ma la luce... Non poteva ignorarla. Come non poteva ignorare sia la musica sia il profumo di fiori. Come non trovarsi a vedere, sentire, odorare uno, o l'altro, o l'altro ancora dell'incredibile trio? A mezzanotte, uscì dalla caverna. Simile a un vivace giocattolo, la piccola casa proiettava dalle finestre luce gialla. A una di quelle finestre, parve a Sio di scorgere una figura che danzava. "Devo andare giù e ucciderla" disse. "Ecco perché sono tornato nella caverna. Per uccidere la donna e seppellirla."

Una volta rientrato, e ancora mezzo addormentato, udì una voce dirgli, vaga all'orecchio: "Sei un gran bugiardo". Non volle aprire gli occhi, comunque. La donna viveva sola. Il secondo giorno, la vide passeggiare ai piedi delle colline. Il terzo giorno la vide nuotare, nuotare per ore, nel canale. Il quarto e il quinto giorno, Sio si avvicinò sempre di più alla casa, finché al tramonto del sesto, con l'infittirsi dell'oscurità, osò nascondersi rasente a una finestra a spiare dentro. La donna sedeva a un tavolo su cui apparivano venti tubetti di ottone, colorati di rosso. La vide spalmarsi sulla faccia una crema bianca, fredda all'aspetto, che la trasformava in una maschera, e che poi la donna eliminò con un fazzoletto di carta, destinato a finire in un cesto sul pavimento. Quindi, lei provò uno dei tubetti dalla punta scarlatta, passandolo sulle labbra dischiuse, labbra che poi pressò una sull'altra; non soddisfatta, si ripulì la bocca, ripeté l'esperimento con un secondo tubetto, poi con un terzo, un quinto, un nono, ripulendosi sempre le labbra tra uno e l'altro. Si applicò anche sulle gote una pasta rosata, si regolò le sopracciglia con una pinzetta d'argento. Annodandosi i capelli sulla nuca in fogge incomprensibili, si lucidò poi le unghie, cantarellando parole in un morbido linguaggio sconosciuto, parole che dovevano essere molto belle. Cantava, accompagnando il ritmo, battendo per terra i tacchi altissimi. Cantava andando avanti e indietro per la stanza, ed era vestita soltanto della sua nudità perlacea. E continuava a cantare, sdraiata sul letto, sempre nuda, testa all'ingiù, capelli color paglia a sfiorare il pavimento, tenendo tra le labbra, rosse, tanto rosse, un cilindretto dalla punta ardente, da cui traeva, a occhi chiusi, lunghe e pigre volute di fumo, talvolta soffiandole dalle rosee narici: spirali che tracciavano in aria grandi forme spettrali. Sio fu scosso da un tremito. Gli spettri. Strani fantasmi che uscivano da quella bocca. Con tanta indifferenza, con tanta noncurante facilità. Senza guardarli, essa li creava. I suoi piedi, quando scese dal letto, danzarono. Ella piroettò su se stessa, cantando, la testa rivolta al soffitto. Schioccò le dita. Protese le mani, tremule come ali d'uccello, e danzò in tondo, in tondo, scalpitando un ritmo serrato sul pavimento di legno. Quella canzone arrivata da un altro pianeta. Oh, poterla capire. Sio desiderò in quel momento di possedere la facoltà che qualcuno della sua gente aveva avuto, di proiettare la mente, di leggere, conoscere, interpretare, all'istante, lingue straniere, pensieri stranieri. Ci provò. Senza riuscirvi: la donna continuava a cantare quella canzone bella e sconosciuta, nessuna parola della quale egli riusciva a capire: "Non sto fingendo, sto salvando il mio amore per te..." Sio era assalito da un languore crescente, osservando quel corpo venuto dalla Terra, quella bellezza terrestre, così totalmente differente, un'entità di così tanti milioni di chilometri dallo spazio. Osservava, ammaliato, le mani umide, le palpebre animate da inquietanti sussulti. Trillò un campanello. Ed ecco la donna che prendeva in mano uno strano apparecchio nero, la cui funzione non era dissimile da quella di uno strumento usato dalla gente di Sio. "Pronto, Janice? Dio, che bello sentire la tua voce!" Sio sorrise. Lei stava parlando con una città lontana. Con una voce che dava i fremiti ad ascoltarla. Ma le parole, cosa volevano dire? "Dio, Janice, in quale buco d'inferno mi hai mandata?! Lo so, tesoro, per una vacanza. Ma é a cento chilometri dal mondo civile, sperduto nel nulla. Tutto quello che faccio é giocare a carte e nuotare in quel maledetto canale!" La macchina nera ronzò in risposta.

"Qui non ci resisto, Janice. Lo so. Lo so. Le chiese. Peccato, un vero peccato siano arrivate sin quassù. Andava tutto così bene, prima! Quello che voglio sapere é: quando riapriamo di nuovo?" Appassionante, pensò Sio. Squisito. Incredibile. Lui era lì, nella notte, al di là di quella finestra spalancata, a contemplare quel viso, quel corpo stupefacenti. E di cosa stavano parlando? Di arte, di letteratura, di musica, sì, di musica, perché lei cantava, cantava sempre. Una musica ben strana, ma non si può pretendere di capire la musica di un altro pianeta. Né le usanze o il linguaggio o la letteratura di un mondo sconosciuto. Non si può che giudicare per istinto. Le vecchie idee devono essere accantonate. Si doveva ammettere che la bellezza di quella donna non era la bellezza marziana, la morbida, esile avvenenza di una razza morente. La madre di Sio aveva avuto occhi dorati e fianchi snelli. Ma costei, questa donna qui che cantava sola in mezzo a un deserto, costei era di proporzioni più generose, grandi mammelle, fianchi esuberanti, e le gambe, sì, animate di fuoco nel loro alabastro, e la peculiare abitudine di andare in giro senza indumenti, con solo quelle strane calzature ticchettanti. Ma non facevano lo stesso tutte le donne della Terra? Certo. Sio annuì. Bisogna capire, ammettere. Le donne di quel lontano pianeta, nude, dai capelli color paglia, possenti di membra, lui poteva vederle. E l'incanto della loro bocca, delle loro narici. E i fantasmi, le anime che scaturivano dalle labbra, in disegni di fumo. Certamente, una magica creazione del fuoco e della fantasia. Questa donna plasmava corpi nell'aria, grazie a una mente brillante. Chi altri se non una mente di assoluta limpidezza e di vivida genialità poteva bere il fuoco grigio e scarlatto, ed esalare dalle narici fluttuanti perfezioni architettoniche di complicata e mutevole bellezza? Il genio! L'artista? Un creatore! Per raggiungere un tale risultato, quanti anni erano necessari? Quanta indefessa applicazione? La presenza di quella donna era come un vortice nella testa di Sio. Egli sentiva di doverle gridare: "Insegna anche a me!". Ma aveva paura. Come un bambino. Vedeva le forme, le linee, il fumo perdersi in spirali nell'infinito. E lei era qui, sola nella solitudine, sola per creare le sue fantasie in assoluta sicurezza, inaccessibile. Nessuno deve infastidire o turbare i creatori, gli scrittori, i pittori. Ognuno rimane in disparte e non dà parola ai suoi pensieri. "Che strano popolo" pensò. "Sono come questa, tutte le donne di quel bellicoso mondo colorato di verde? Sono fantasmi di fumo e musica? Passeggiano prepotentemente nude entro le loro case?" "Devo osservare quanto ho sott'occhio" disse a mezza voce. "Devo studiare." Sentì che le mani gli si contraevano, desiderose di toccare. Se ella avesse acconsentito a cantare per lui, insegnargli a costruire gli artistici arabeschi nell'aria, insegnargli, parlargli di quel grande mondo remoto, e dei suoi libri e della sua bella musica... "Insomma, Janice, ma fra quanto? E le altre ragazze? E nelle altre città?" Lo strumento ronzò come un insetto. "Tutte quante chiuse? Su tutto il fottuto pianeta? Ci dev'essere un posto, almeno uno! Se non me ne trovi presto uno, io..." Era tutto strano per Sio. Come vedere una donna per la prima volta. Il modo con cui rovesciava indietro la testa, come muoveva le dita dalle unghie scarlatte, tutto nuovo e differente. Adesso aveva accavallato le candide gambe, china in avanti, un gomito puntellato sul ginocchio nudo, insistendo in quello strumento nero, parlando, sbirciando verso la finestra dove lui, sì, lui stava acquattato, e pareva che lei lo vedesse, direttamente... Oh, se la donna avesse saputo, che avrebbe fatto?

"Chi? Io aver paura di vivere qui da sola?" Scoppiò a ridere. E Sio scandì una risata in cadenza, nell'oscurità ingentilita dalla luna. Oh, la bellezza di quella risata che non era marziana, di quel capo gettato all'indietro, delle nubi misteriose che fiorivano e prendevano forma da quelle narici. Sio fu costretto a distogliere gli occhi, il respiro ansante. "Come no? Sicuro!" Quali squisite rare parole di vita, musica, poesia stava ella pronunciando? "Be', Janice, come si fa ad aver paura di un marziano? Quanti ne sono rimasti? Una dozzina, due dozzine. Mettili in fila, controllali." La risata della donna lo seguì mentre Sio incespicava girando l'angolo della casa, non essendosi accorto di un mucchio di bottiglie vuote. A occhi chiusi, egli rivide la luminosità della pelle di lei, i fantasmi che le uscivano di bocca in esorcismi e in evocazioni di nuvole, piogge e venti. Oh, poter tradurre. Oh, déi, riuscire a sapere! Intendere! Che voleva dire quella parola, e quell'altra, e poi l'altra ancora? La donna lo aveva chiamato? No. Era il proprio nome quello che gli era parso di sentire? Tornato alla caverna, mangiò, ma senza aver fame. Sedette, per un'ora, all'imbocco della caverna, mentre le lune sorgevano e transitavano nel cielo freddo, e il respiro alitava in nuvole bianche, come gli spiriti, i misteri ispiratori di paura che erano alitati intorno al viso della donna, la quale parlava e parlava, ed egli aveva sentito, oppure no, quella voce salire su per la collina, tra le rocce, quella voce, quel respiro pieno di promesse indefinibili, di calde parole che avevano il tepore di una gola... E, alla fine, decise: "Andrò da lei, le parlerò calmo e sommesso, e le parlerò ogni notte, finché ella capisca ciò che dico, e io capisca le sue parole, e lei possa venire con me sulle colline dove saremo felici. Le dirò della mia gente, di come sono rimasto solo, e di come l'ho spiata e ascoltata per tante notti...". Ma... lei é la Morte. Rabbrividì. Quel pensiero, quelle parole insistevano, non volevano andarsene. Come poteva aver dimenticato? Gli sarebbe bastato sfiorarle la mano, la guancia, e sarebbe avvizzito in poche ore, una settimana come massimo. La sua pelle avrebbe cambiato colore, si sarebbe staccata a scaglie color della pece, e poi ridotta in cenere, neri frammenti di foglia che il vento avrebbe frantumati e dispersi. Un solo impercettibile contatto e... la Morte. Ma un'altra riflessione gli venne in soccorso. Ella viveva sola, lontana da quelli della sua razza. E doveva amare e preferire i propri pensieri, quindi, per adattarsi a stare come un eremita. "E allora, non siamo eguali, io e lei? Visto che si é avulsa dalle città forse la Morte non é in lei...? Sì! Forse!" Come sarebbe stato bello stare con lei per un giorno, una settimana, un mese, a nuotare insieme nei canali, passeggiare sulle colline, sentirla cantare quella strana canzone, e lui, a sua volta, avrebbe ripreso i vecchi libri dell'arpa facendoli parlare! E tutto questo non giustificava un qualche rischio, qualsiasi rischio? Un uomo che viva solo, non é come morto? Guarda le luci gialle che escono da quella casa sotto di te. Un mese di genuina comunione spirituale, stare a vivere con la bellezza e la creatrice di fantasmi, di quelle anime che le uscivano dalla bocca, non era un'opportunità unica e irripetibile? E se la morte fosse venuta... quanto bella e originale sarebbe risultata! Balzò in piedi. Accese una candela nella nicchia dove le immagini dei suoi genitori tremolavano alla luce. Fuori, i fiori della notte aspettavano l'alba per palpitare e schiudersi, e lei sarebbe stata laggiù a guardarli e a curarli, per poi passeggiare

con lui sulle colline. Le lune erano sparite, adesso. Per trovare la strada che portava a valle, Sio avrebbe dovuto usare la sua vista speciale. Tese l'orecchio. In basso, nella notte, la musica aveva ripreso. In basso, nell'oscurità, la voce di lei parlava di meraviglie di ogni tempo. In basso, nell'ombra, la bianca carne di lei brillava, e i fantasmi le danzavano intorno. Spiccò la corsa. Alle nove e quarantacinque esatte di quella sera, la donna udì bussare gentilmente alla sua porta. Una per sua signoria, e una per la strada! Nasce qualcuno, e può darsi che la notizia impieghi la maggior parte della giornata per fermentare, filtrare o fare il periplo dei prati irlandesi fino alla città più prossima e al pub prediletto, che sarebbe poi quello di Heeber Finn. Ma metti che muoia qualcuno, e la musica di un'orchestra sinfonica al completo echeggi tra campi e colline. L'assordante impatto sonoro schiaffeggia la contrada, rimbalza sui tetti del pub e induce i bevitori a dirompenti grida invocanti il bis! Così avvenne in quel caldo giorno d'estate. Il pub era stato appena aperto, arieggiato e invaso dai clienti che Finn, stando sulla porta, vide un nugolo di polvere fiorire sulla strada. "Questi é Doone" mugugnò Finn. Doone era lo sprinter locale, il primo a venir fuori dai cinema prima dell'aborrito inno nazionale, e fulmineo araldo di notizie. "E la notizia é cattiva" mormorò Finn. "Ecco perché arriva di corsa!" "Ah!" esclamò Doone, balzando oltre la soglia. "E' fatta, e lui é morto!" La ressa al bar si voltò. Doone gioì del proprio attimo di trionfo, prese tempo, lasciandola sospesa. "Dài, eccoti da bere. Forse aiuterà a farti parlare!" Finn cacciò un bicchiere nella mano protesa di Doone. Il quale si inumidì la gola, ed espose i fatti. "Lui personalmente" ansimò alla fine. "Lord Kilgotten. Morto. Da neanche un'ora!" "Oh" dissero tutti, compostamente. "Pace all'anima sua. Una brava persona. Una cara creatura." Perché Lord Kilgotten, da quando erano nati, aveva vagato per i loro campi, i loro pascoli e fienili, od onorato della sua presenza questo stesso bar. La sua dipartita era come quella dei normanni in ritirata verso la Francia o i fottuti inglesi in esodo da Bombay. "Una degna persona," commentò Finn, bevendo alla memoria "anche se due settimane all'anno le passava a Londra." "Che età aveva?" chiese Brannigan. "Ottantacinque? Ottantotto? Pensavamo che l'avremmo messo sotto terra già da un bel po'." "Uomini come quello," sentenziò Doone "Dio deve tagliarli con l'accetta per sradicarli dal posto. Per esempio, Parigi, credevamo che gli sarebbe stata fatale, anni fa. Invece niente. Il bere, quello sì che avrebbe potuto annegarlo, ma lui riusciva sempre a toccar terra. No, no. Ci é riuscito quel fulmine condensato, un'ora fa, nella nebbiolina dei campi, sotto un albero, mentre stava raccogliendo fragole assieme alla sua segretaria di diciannove anni." "Gesù" obiettò Finn. "Mica ci sono le fragole di questa stagione. E' stata lei a stenderlo con un colpo di febbre. A ridurlo un crostino bruciato!" Il che fece esplodere una salva poderosa di risate, che zittì quando riemerse alle menti la particolare natura della

circostanza, e altri concittadini arrivarono a immedesimarsi dell'atmosfera e brindare allo scomparso. "Una cosa mi domando" disse pensoso Heeber Finn, alla fine, ma con una voce che avrebbe fatto ammutolire gli déi del Valhalla intenti a banchettare. "Mi domando. Che ne sarà di tutto quel vino? Il vino, cioé, che Lord Kilgotten ha ficcato in botti e botticelle, a litri, a ettolitri, a preziose dozzine e squisite migliaia, nelle sue cantine e nei suoi solai e, chi lo sa, magari sotto il letto?" "Già" disse qualcuno, con inquieto stupore, all'improvviso ricordando. "Già. Certamente. Che ne sarà?" "L'avrà lasciato, c'é da giurarci, a qualche dannato lontano cugino o nipote, corrotto da Roma, rincoglionito da Parigi, che domani piomberà qui in aereo per arraffare e bere, prelevare in blocco e ripartire, lasciando Kilcock e tutti noi buggerati e fatti fessi dietro l'angolo!" predisse Doone, tutto d'un fiato. "Parenti non ce ne sono" precisò Finn. "Nessun nipote americano rimbambito, nessuna nipote zitella isterica che cada in acqua da una gondola a Venezia e riesca a nuotare sin qui. Mi sono fatto obbligo di documentarmi a dovere." Finn fece una pausa. Era il suo momento, adesso. Tutti lo guardavano. Tutti erano protesi verso di lui per sentire il suo possente proclama. "E allora, m'é venuto di pensare, se Kilgotten, per Dio, lasciasse tutte le sue diecimila bottiglie di Burgundy e di Bordeaux ai cittadini della più simpatica città dell'Eire? A noi!" Eruppe una ferina ovazione quale ovvio commento e sanzione, troncata di colpo allorché le mezze porte a molla del pub si spalancarono e, evento alquanto eccezionale, la moglie di Finn entrò, fulminò con lo sguardo l'assemblea, e precisò asciuttamente: "Il funerale é tra un'ora!". "Un'ora?" esclamò Finn. "Se lui non é ancora freddo..." "E' fissato per mezzogiorno preciso" confermò sua moglie, sempre più imponente quanto più passava in rassegna quella sgradevole tribù. "Il medico e il prete sono appena rientrati dal Palazzo. Un funerale alla svelta, c'era scritto nel testamento di sua signoria. "Roba da barbari" ha detto padre Kelly "senza neanche la fossa benedetta. " "Invece c'é" ha detto il medico. "Ci si aspettava che Hanrahan morisse già ieri, invece ha ripreso un filo di fiato e ha superato la notte. Le ho provate tutte, ma l'uomo resiste! Nel frattempo, c'é disponibile la sua fossa. " Sono invitati tutti. Alzate le chiappe!" Le mezze porte danzarono nella sua scia. La pietosa donna aveva condotto a termine la propria missione. "Un funerale?" si esaltò Doone, pronto a correre. "No!" disse raggiante Finn. "Fuori tutti. Il locale chiude. Una veglia!" "Neanche Cristo" ansimò Doone, asciugandosi il sudore sulla fronte "sarebbe sceso dalla croce per farsi una camminata in una giornata come questa." "Il caldo," ammise Mulligan "é insopportabile." Toltasi la giacca, essi arrancavano su per la collina, oltre la foresteria di casa Kilgotten, per raggiungere il prevosto, padre Padraic Kelly che faceva la stessa strada. Anch'egli si era alleggerito di tutto, conservando però il colletto, concessione che aveva reso scarlatta la sua faccia; "Torrido come l'inferno" concordò il sant'uomo. "Nessuno di noi resisterà fino in fondo." "Perché tanta fretta?" domandò Finn, affiancando il prete che aveva allungato il passo. "Sento puzza, qualche inghippo. Che c'é in ballo?" "Sì" rispose padre Kelly. "C'era un codicillo segreto nel testamento..." "Lo dicevo, io!" esclamò Finn.

"Cosa?" volle sapere la folla, facendosi sotto, rimasta indietro nel sole. "Se fosse trapelato, sai che pandemonio" fu tutto quello che il prete fu disposto a rispondere, con gli occhi fissi al cancello del cimitero. "Lo scoprirete all'ultimo momento." "Sarebbe il momento prima o il momento dopo la fine, padre?" domandò candidamente Doone. "Sei così tonto che fai pena" sospirò il sacerdote. "Pensa a entrare da quel cancello. E non cadere nella fossa!" Doone si portò a capo fila. Gli altri lo seguirono, assumendo un'aria più confacente mentre entravano nel cimitero. Il sole, forse per adeguarsi, si trasferì dietro una nuvola, e una dolce brezza alitò per qualche attimo di sollievo. "La fossa é quella" e padre Kelly vi accennò con la testa. "Allineatevi sui due lati del viale, in nome di Dio, e aggiustatevi il nodo della cravatta, se ce l'avete, e soprattutto controllate che abbiate l'allacciatura dei pantaloni abbottonata. Cerchiamo di fare una bella figura per Kilgotten... Eccolo che arriva!" E, invero, Lord Kilgotten stava arrivando, da quella brava e semplice creatura che era stata, dentro una cassa sistemata sul pianale di uno dei suoi carri agricoli, e dietro quel carro una processione di altri veicoli, auto e autocarri, che si snodava sino a metà collina, sotto un sole ora tornato più implacabile che mai. "Che po' po' di corteo funebre!" gridò Finn. "Mai visto uno simile!" gridò Doone. "Silenzio" esortò padre Kelly, compostamente. "Mio Dio" disse Finn. "La bara, la vedete?" "La vediamo, Finn, la vediamo" ansarono gli altri. Perché la cassa, che avanzava traballando, era sì artisticamente confezionata, ben inchiodata con borchie d'argento e d'oro, ma di quale strano legno era fatta? Stecche di casse da vino, assi di casse salpate dalla Francia solo per approdare e stagionare nelle cantine di Lord Kilgotten! Un uragano di fiati espirati scaturì dai fedeli del pub di Finn. Tutti in punta di piedi, allungando il collo, afferrando i gomiti del vicino. "Tu sai le parole, Finn" bisbigliò Doone. "Dicci i nomi!" Finn, gli occhi incatenati al feretro fatto di casse d'imballaggio di vini d'annata, parlò: "Seguitemi bene! Attenzione. Ecco uno Chateau Lafite Rothschild del novecentosettanta... Chateauneuf du Pape, del sessantotto! Lì, capovolta, quell'etichetta, Le Corton. E sopra: La Lugune! Che stile, mio Dio, che classe! Anche a me, personalmente, non farebbe affatto schifo finire sotto terra dentro una cassa con quelle marche stampate a fuoco sul legno!". "Mi chiedo," rimuginò Doone "ma lui può leggere le scritte dal di dentro?" "Volete piantarla?" brontolò il prete. "Ecco che viene il resto." Se la salma nella cassa non fosse stata sufficiente per nascondere il sole dietro alle nubi, quel "resto" causò una ancor maggiore insorgenza di malessere negli uomini madidi di sudore. "Era come se," doveva in seguito ricordare Doone "qualcuno fosse scivolato, fosse caduto nella buca, rompendosi una caviglia e rovinando tutto il pomeriggio!" Perché l'ultima parte della processione era formata da una serie di auto e camion carichi alla rinfusa di casse di bottiglie di vini francesi; chiudeva la fila un grosso furgone, vecchio quanto gli anni verdi della Guinness Birrerie, tirato da una pariglia di orgogliosi candidi cavalli, drappeggiati di nero, ruscellanti sudore e consci della sorpresa che rimorchiavano.

"Mi venga un colpo" fu il commento di Finn. "Lord Kilgotten si é portato dietro la sua veglia personale!" "Urrà!" acclamò la folla. "Viva la buonanima!" "Deve aver conosciuto i giorni che mandano a fuoco un uomo, o incendiano un prete, e le nostre lingue inaridite!" "Fate largo! Lasciate passare!" Gli uomini si scostarono, mentre tutti i veicoli carichi di strane bottiglie etichettate Francia del sud o Italia del nord, passavano, tra sciacquii oceanici di liquidi prigionieri, e raggiungevano la spianata del cimitero. "Un giorno o l'altro," sussurrò Doone "dobbiamo erigere una statua a Kilgotten, conoscitore di chi gli era amico." "Vacci piano" ribatté il prete. "E' troppo presto per cantar vittoria. Perché adesso sta arrivando qualcosa peggiore di un impresario di pompe funebri!" "Che ci può essere di peggiore?" Assieme all'ultimo dei carri col vino, risaliva la strada del camposanto un uomo, in solitudine, cappello in testa, giacca abbottonata, e dalle cui maniche emergevano, dei dovuti centimetri, impeccabili polsini della camicia, scarpe lucidissime contro ogni logica, baffi impomatati e refrattari a stille di sudore, e, sotto l'ascella, una nitida cartella di cuoio, vezzosa come la borsetta di una signora; il tutto con un'aria da frigorifero, appena uscito da una boutique; bocca di ghiaccio, occhi freddi come uno stagno gelato. "Gesù" mormorò Finn. "E' un avvocato!" concluse Doone. Tutti fecero ala. L'avvocato, perché tale era in effetti, incedette, simile a Mosé lungo il varco di un docile Mar Rosso, o a un Re Luigi durante la promenade, o alla più altezzosa puttana d'alto bordo in Piccadilly: a seconda dei gusti, ognuno scelga il paragone preferito. "E' la legge di Kilgotten" sibilò Muldoon. "L'ho visto andare in giro, a Dublino, come l'Apocalisse. Ha un cognome che é una barzelletta: Clement, si chiama! Mezza chiappa irlandese, ma bretone a chiappe riunite. Il peggiore!" "Che ci può essere di peggiore della morte?" bisbigliò qualcuno. "Lo vedremo presto" mormorò il prete. "Signori!" L'appello monopolizzò l'attenzione generale. L'avvocato Clement, sull'orlo della fossa, sganciò la cartella da sotto il braccio, la aprì, ne trasse un documento legato con nastri e sigillato, la cui stupenda ufficialità stupiva l'occhio, e oscurava e rattristava il cuore. "Prima delle esequie," disse Clement "prima che padre Kelly reciti l'ufficio funebre, ho un messaggio da portare a loro conoscenza, un codicillo al testamento di Lord Kilgotten, che ora leggerò." "Scommetto che é l'undicesimo Comandamento" mormorò il prete, a occhi bassi. "Quale sarebbe l'undicesimo Comandamento?" chiese Doone, aggrottando la fronte. "TU TACERAI E PRESTERAI ORECCHIO" rispose il prete. "Shhh." Perché l'avvocato aveva iniziato la lettura a voce alta del nastrato papiro, e le sue parole risuonavano nell'aria estiva. ""E premesso che i miei vini sono i migliori..."" "E lo sono!" confermò Finn. ""E premesso inoltre che le migliori marche di tutto il mondo sono ospitate nelle mie cantine, e che gli abitanti di questa città, Kilcock, non apprezzano tali nettari, ma preferiscono... bevande... più grossolane..."" "Chi lo dice?!" protestò Doone. "Zitto e a cuccia" impose padre Kelly, sottovoce.

""Con la presente, dichiaro e stabilisco"" lesse l'avvocato con un largo e mellifluo sorriso compiaciuto ""che, contrariamente al vecchio adagio, un uomo può in effetti portarsi nella tomba ciò che aveva di più caro. Quindi, dispongo, firmando questo codicillo alle mie ultime volontà, in questo mese che potrebbe essere il mio ultimo nella vita, per l'esecuzione di quanto sopra." Firmato William, Lord Kilgotten, addì sette del mese in corso." L'avvocato tacque, ripiegò il papiro, e si impettì, chiudendo gli occhi, in attesa del tuono che avrebbe seguito il fulmine. "Sarebbe a dire," si angosciò Doone, sussultando "che il lord intende...?" Qualcuno stappò, con uno schiocco, una bottiglia. Fu come un colpo di fucile che inchiodasse sul posto tutti i presenti. Naturalmente, era soltanto il buon avvocato Clement, che, sull'orlo della tomba, aveva usato un cavatappi per privare del turacciolo una bottiglia de La Vieille Ferme '73! "Allora, é questa la veglia funebre?" Doon rise, nervosamente. "Non lo é" mormorò il prete, cupamente. Con un sorriso di radiosa soddisfazione, Clement, l'uomo di legge, versò il vino, glug, glug, giù nella fossa, a irrorare la bara enologica dentro cui erano nascoste le ossa assetate di Lord Kilgotten. "Fermalo! E' uscito pazzo! Portagli via la bottiglia! No!" Vi fu una selvaggia esplosione di furore indignato, come può essere quella che scaturisce dalla gola di spettatori che abbiano appena visto il loro calciatore falciato da un avversario durante una travolgente discesa. "Un momento! Mio Dio!" "Presto! Andate a chiamare il lord!" "Coglioni!" brontolò Finn. "Sua signoria é nella cassa, e il suo vino finisce nella fossa!" Impietrita dall'incredibile calamità, la folla non riusciva che ad assistere all'ultimo rivolo di vino rosso che cadeva nelle viscere della terra benedetta. Clement passò a Doone la bottiglia vuota e si apprestò a stapparne una seconda. "Senta, lei, aspetti un attimo!" squillò la voce del Giudizio Universale. Ed era, naturalmente, la voce di padre Kelly, che si faceva avanti, portando seco la sua più alta legge. "Devo arguire," gridò il sacerdote, le gote fiammeggianti, gli occhi ardenti nella luce del sole "che lei intende disperdere tutto quel ben di Dio nel buco di Kilgotten?" "Tale é" rispose l'avvocato "il mio intendimento." E cominciò a versare la seconda bottiglia. Ma il prete gli bloccò il braccio, per raddrizzare la bottiglia. "E lei si aspetta che noi si resti immobili ad assistere a un simile atto blasfemo?" "Dato che é una veglia, sì, sarebbe la cosa appropriata da farsi." L'avvocato fece per inclinare di nuovo la bottiglia. "Si fermi, e subito!" Il prete si guardò attorno, in alto, in basso, guardò i suoi amici del pub, e Finn, loro leader spirituale, e il cielo, dove Dio si celava, e la terra dove Kilgotten giaceva acqua in bocca, e alla fine guardò l'avvocato Clement e il relativo esecrando codicillo. "Attento, signore, lei sta scatenando una sommossa popolare!" "Sì!" gridarono tutti, pronti all'azione, pugni lungo i fianchi, macinando e triturando sotto i denti invisibili rocce. "Di che annata é questo vino?" Ignorandoli, Clement sbirciò con calma l'etichetta della bottiglia che aveva in mano. "Novecentosettanta, Le Corton. Il migliore di un'annata

superba. Eccellente." Si scostò da padre Kelly, e lasciò che il vino sgorgasse. "Faccia qualcosa" urlò Doone. "Non ha sottomano una qualche scomunica?" "I preti non scomunicano" disse padre Kelly. "Ma, Finn, Doone, Hannahan, Burke. Presto! Adunata!" L'ecclesiastico si allontanò di qualche passo, e gli uomini lo seguirono d'impeto, tenendo le teste chine, come in una mischia di rugby, in un vibrante conciliabolo con il padre. Il quale, nel bel mezzo dell'operazione, si rialzò per sorvegliare quel che Clement stava facendo. L'avvocato era sulla terza bottiglia. "Presto!" implorò Doone. "Quello ci fregherà tutto il carico!" Esplose un quarto tappo, all'unisono con un quarto urlo della squadra di Finn, i Guerrieri Assetati, come in seguito si sarebbero autobattezzati. "Finn!" fu sentito esclamare il prete, nel groviglio delle teste. "Sei un genio!" "Lo sono" concordò Finn, e il pacchetto di mischia si sciolse, e padre Kelly tornò sollecito alla tomba. "Ci userebbe la cortesia, signore," disse, strappando la bottiglia dalla presa dell'avvocato "di rileggerci, per l'ultima volta, quell'infausto codicillo?" "Con piacere." E piacevole doveva essergli, poiché l'avvocato atteggiò le labbra in uno smagliante sorriso, mentre apriva di nuovo il papiro. ""... che, contrariamente al vecchio adagio, un uomo può in effetti, portarsi nella tomba..."" Terminò, arrotolò di nuovo il documento, ed esibì un altro sorriso, che, almeno per lui, risultava di piena soddisfazione. Fece per riprendere la bottiglia confiscatagli dal prete. "Scusi un attimo." Padre Kelly arretrò fuor di portata. Lanciò un'occhiata alla folla che pendeva dalle sue labbra. "Permetta le ponga una domanda, signor avvocato, signore. E' detto in quel documento esattamente come il vino deve finire nella fossa?" "Nella fossa significa nella fossa" rispose l'avvocato. "Quindi, siamo d'accordo: la cosa importante é che ci finisca comunque, nella fossa?" proseguì il prete, con uno strano sorriso. "Posso versarlo dando le spalle alla tomba, e gettandolo in aria," riconobbe l'avvocato "sempre che ricada su un lato o l'altro o in cima alla bara, come capiti, non c'é problema." "Bene!" esclamò il prete. "Uomini! Una squadra da questo lato. Un battaglione dall'altro lato. Mettetevi in riga. Doone!" "Signore?" "Distribuisci le razioni. Svelto!" "Signorsì!" Doone scattò. Tra un grande vociare di uomini che andavano alacremente allineandosi. "Io," disse l'avvocato "vado a chiamare la polizia!" "La quale sono io" precisò un uomo, ai bordi della ressa. "Agente Bannion. Qual é il reclamo?" Stupefatto, smarrito, l'avvocato Clement riuscì soltanto a sfarfallare le palpebre e, alla fine, dire con voce strozzata. "Me ne vado." "Non so se riuscirà ad arrivare vivo ai cancelli" profetizzò Doone giocondamente. "Rimarrò" fu lesto a correggersi Clement. "Ma..." "Ma?" volle sapere padre Kelly, mentre i tappi schioccavano, e il cavaturaccioli brillava, passando di mano in mano, lungo l'allineamento. "Andate contro la legge, contro la lettera della legge!" "No" chiarì il prete, pacatamente. "Ci limitiamo soltanto a perfezionare l'ortografia della legge, a mettere il taglio sulle "t" e il puntino sopra le "i"."

"Attenti!" gridò Finn. Schierati ai due lati della fossa, gli uomini attesero, ognuno con in mano una bottiglia piena di Chateau Lafite Rothschild o Le Corton o Chianti d'annata. "Allora ce le beviamo tutte?" domandò Doone. "Chiudi il becco" esortò il prete. Alzò gli occhi al cielo. "Oh, Signore." Gli uomini chinarono il capo, e si tolsero il cappello. "Signore, per quello che stiamo per ricevere, accetta il nostro sincero grazie. E grazie, Signore, per il genio che hai concesso a Heeber Finn, il quale ha avuto l'idea di questo..." "Si" dissero tutti, quietamente. "Una sciocchezza" borbottò Finn, arrossendo. "E benedici questo vino, che, dopo aver seguito il dovuto percorso, possa in definitivo approdo sgorgare là dove é destinato. E se non ci riusciremo oggi e nella nottata, e tutta la disponibilità non sia bevuta, dacci la grazia di poter tornare qui ogni notte finché il dovere non sia totalmente assolto e l'anima assetata di vino non riposi in pace." "Queste si, che sono parole sante" mormorò Doone. "Silenzio" sibilarono gli altri. "E nello spirito di questa circostanza, Signore, non dovremmo noi chiedere al nostro buon amico avvocato Clement di unirsi a noi, nella pienezza del suo cuore?" Qualcuno fece scivolare nelle mani dell'avvocato una bottiglia delle migliori. Clement l'afferrò a tempo per evitare si rompesse. "E infine, Signore, benedici il vecchio Lord Kilgotten, i cui anni di saggio accantonamento enologico ci aiutano adesso in questa ora di cordoglio. Amen." "Amen" fecero eco tutti quanti. "Attenti!" ordinò Finn. Gli uomini si irrigidirono e sollevarono le loro bottiglie. "Una per sua signoria" disse il prete. "E" aggiunse Finn "una per la strada!" Vi fu un caro gorgoglio liquido nelle gole assetate, e, anni più tardi, Doone volle far presente, un lieto suono di risa dalla bara nella fossa. "Tutto in perfetta regola" esclamò il prete, trasognato. "Si" annuì l'avvocato. "Tutto in perfetta regola." A mezzanotte, nel mese di giugno Un'attesa lunga, interminabile nella notte estiva, mentre l'oscurità incombeva più calda sulla terra e le stelle veleggiavano lente nel cielo. Egli sedeva, nel buio completo, le mani rilassate sui braccioli della poltrona. Udì i rintocchi dell'orologio del municipio scandire le nove, le dieci e le undici, e finalmente le dodici. Da una finestra sul retro fluiva una brezza a permeare la casa di mezzanotte di un alito senza luce, una brezza che lo sfiorava lì dov'era seduto, come una roccia incupita, a sorvegliare silenziosamente la porta d'entrata - una veglia tacita... A mezzanotte, nel mese di giugno... Il poema della fresca notte di Edgar Allan Poe gli scorreva nella mente, come le acque di un'oscura gola montana. La signora dorme. Oh, possa il suo sonno, che é durevole, essere altrettanto profondo! Si incamminò lungo l'atrio indefinibile nel buio, raggiunse la finestra sul retro dell'abitazione, la scavalcò, uscendo all'aperto, a sentire il fiato della città rintanata a letto, nei

sogni, nella notte. Scorse il lustro serpente del tubo dell'acqua, arrotolato mollemente nell'erba. Calato nella solitudine, irrorando l'aiuola, immaginò se stesso quale un direttore d'orchestra, di un'orchestra udibile soltanto da cani intenti in vagabondaggi notturni verso il nulla, con strani biancheggianti sorrisi. Con estrema attenzione, impresse nel fango la pianta del piede, calcando con tutto il peso del suo alto telaio, lì sotto la finestra, lasciando impronte profonde e nette. Rientrò in casa, e ripercorse l'atrio e il corridoio, del tutto invisibili, guidandosi con le mani e lasciando tracce di mota sul pavimento. Dalla finestra che dava sul portico della facciata, intravide lo smorto profilo di un bicchiere di limonata, pieno per un terzo, posato sulla balaustra dove lei l'aveva lasciato. Ne ebbe un leggero sussulto. Adesso, poteva sentirla venire verso casa. Poteva sentirla, lontano, affrettarsi lungo le arterie della città, nella notte d'estate. Chiuse gli occhi e proiettò la mente per localizzare la donna; e la sentì procedere nell'oscurità; seppe esattamente dove lei stava scendendo da un marciapiede, per attraversare una via, salire su un altro marciapiede, e martellare con i tacchi sull'asfalto, rasente agli olmi e gli ultimi lillà, avendo al fianco un'amica. Affrettandosi nel vuoto deserto della notte, egli era lei. Stringeva una borsetta tra le mani. Sentiva i lunghi capelli solleticargli il collo, e la bocca farsi grassa di rosso per le labbra. Seduto immobile, egli stava camminando, camminando, camminando verso casa, dopo mezzanotte. "Buonanotte!" Udì, senza udirle, le voci, ed ecco che lei era più vicina, a solo poco più di un chilometro, e ora a meno di mille metri, e adesso calava giù, come una bella lanterna bianca appesa a un filo invisibile, nella gola che era casa di grilli, rane e acque risonanti. Ed egli conosceva la grana delle scale di legno, come se, da ragazzo, ne avesse disceso in volata i gradini, avvertendone la scabrosità, la polvere e il residuo calore del giorno... Protese le mani, aperte, nell'aria. Fece combaciare i pollici, poi le altre dita, in modo che le mani formassero un anello a richiudere il vuoto che gli era davanti. Quindi, lentissimamente serrò insieme le mani, strette, sempre più strette, aprendo la bocca, chiudendo gli occhi. Sciolse la morsa delle dita, riportò le mani tremanti sui braccioli della poltrona. Non riaprì gli occhi. Tanto tempo prima, egli era salito, di notte, per la scala antincendio della torre del municipio, fino in cima, e da lì aveva guardato la città inargentata, la città sotto la luna, e la città nell'estate. E aveva visto tutte le case al buio, con dentro due cose: gente e sonno, i due elementi appaiati a letto, e tutta la loro spossatezza e il loro terrore alitati nell'aria immota, riassorbiti silenziosi ed emessi di nuovo, finché non fossero purificati, e i problemi, l'odio e gli orrori del giorno precedente non risultassero esorcizzati molto prima dell'alba e scacciati per sempre. Aveva subìto l'incanto dell'ora e della città, e si era sentito colmo di straordinaria potenza, come il mago con le marionette che tirava i fili del destino su un palcoscenico di tele di ragno. Da quell'altezza vertiginosa, aveva potuto scorgere il più fuggevole palpitare di una foglia a dieci chilometri di distanza, sotto la luce della luna; l'ultima lampada ammiccare e spegnersi, come una zucca rosea. La città non poteva sottrarsi al suo sguardo - nulla in essa poteva avvenire senza che lui lo sapesse, in ogni sfumatura, in ogni accenno. E lo stesso era in questa notte. Egli si sentiva un immenso orologio campanario, che lentamente scandisse e annunciasse le ore in un diffuso echeggiare di bronzi, spaziando su una città dove una donna, spinta od ostacolata da capricciose

brezze o ventate, ora terrorizzanti, ora fiduciose, superava cordonature profilate di bianco, guadando compatti viali di asfalto e catrame, scivolando tra distese di erba tagliata di fresco, e adesso correndo, giù per i gradini, attraverso la gola, per poi risalire, risalire la collina. Ne sentì i passi, prima che il suono arrivasse alle sue orecchie. La udì ansimare prima che vi fosse un ansito. Spostò lo sguardo sul bicchiere di limonata, lì fuori sulla balaustra. Poi il rumore effettivo, i veri passi affrettati, il respiro accelerato echeggiarono vividi. Egli si tese sulla poltrona. I passi attraversavano la strada, il marciapiede, affannosi, intrisi di panico. Poi, un farfugliare, un rumore confuso, incerto, nel portico, una chiave che frugava la serratura, una voce che gemeva e implorava a se stessa, e sussurrava: "Oh, Dio, mio buon Dio!". Sussurri! Sussurri! E la donna che spalancava la porta, la richiudeva con un tonfo, la sprangava, parlando, mormorando, parlando a se stessa, nella stanza buia. La sentì, più che vederla, portare la mano sull'interruttore. E si schiarì la gola. Ella rimase addossata alla porta, dimenticando di accendere la luce. Se il chiarore lunare l'avesse avvolta, la donna sarebbe rabbrividita come una piccola pozza d'acqua in una notte di vento. Lui intuì gli occhi che, simili a due zaffiri, le si dilatavano in volto, e il volto sbiancarsi, come brina scintillante. "Lavinia" sussurrò. Le braccia di lei erano spalancate sulla porta, rigide come un crocifisso. La udì spalancare la bocca, l'alito caldo emesso dai polmoni. Era, la donna, una bella trasparente falena bianca; con l'ago aguzzo del terrore l'aveva inchiodata contro il pannello della porta. Volendo, avrebbe potuto girare attorno alla cattura, guardarla, guardarla. "Lavinia" ripeté il sussurro. Ne sentì i battiti del cuore. Ella non si mosse. "Sono io" in un nuovo bisbiglio. "Chi?" chiese Lavinia, flebilmente, in un impercettibile palpito della gola. "Non te lo dirò." Lui era adesso al centro della stanza, immobile, eretto. Dio, quanto si sentiva alto! Alto, cupo, e bellissimo, e il modo con cui tendeva le mani davanti a sé era come se egli potesse appoggiarle, da un momento all'altro, sui tasti di un pianoforte, per suonare una gaia melodia, un motivo di valzer. Mani umide, quasi le avesse immerse in un cespuglio di menta e in un bagno di fresco mentolo. "Se ti dicessi chi sono, potresti non aver paura" le mormorò. "E io voglio che tu abbia paura. Hai paura?" Lei non disse nulla. Ansava, un piccolo mantice che, sollecito e insistente, insufflava in lei il terrore, lo alimentava, lo teneva vivo. "Perché sei andata a teatro stasera?" bisbigliò lui. "Perché ci sei andata?" Nessuna risposta. Le si avvicinò di un passo, ne udì il respiro soffocato, fischiante, come una spada rimessa nel fodero. "Perché sei tornata attraversando la gola, da sola? Perché sei venuta da sola, non é vero? Pensavi di incontrarmi a metà del ponte? Perché sei andata a teatro stasera? Perché sei passata da sola per il burrone?" "Io..." alitò lei. "Tu" attese lui. "No..." implorò Lavinia. "Lavinia" e fece un altro passo verso di lei. "No, per pietà!" "Apri la porta. Vattene. Di corsa." Lei non si mosse. "Lavinia, apri quella porta."

Solo un gemito gutturale come risposta. "Fuggi. Corri." Nell'avanzare, egli sentì qualcosa toccargli il ginocchio. La respinse con un calcio, proiettandola in aria, facendola capovolgere, un tavolino, un cestino, e mezza dozzina di invisibili gomitoli di lana rimbalzarono come gatti nel buio, rotolando morbidamente. Nell'unica zona illuminata dalla luna sotto la finestra giacevano sul pavimento le forbici, come un segnale metallico di direzione. Lui le raccolse, ghiaccio nella sua mano, e le porse di colpo alla donna, nell'intervallo di spazio che li divideva. "Prendile" le sussurrò. Con esse le sfiorò la mano. Lei la ritrasse di scatto. "Eccole" le ripeté, dopo una pausa. "Prendile." Le aprì le dita, già morte e fredde, rigide e innaturali al tocco, gliele fece richiudere sulle forbici. "Così." "Prendile" insisté. Indugiò con lo sguardo rivolto al cielo e al chiarore della luna, e quando si riscosse gli ci volle un po' di tempo prima di riuscire a indovinare la sagoma della donna, annegata nel buio. "Ho aspettato" disse. "Ma ho sempre dovuto farlo. Anche le altre si sono fatte attendere. Ma, alla fine, venivano sempre da me. Era facile, comodo. Cinque belle signore, in questi ultimi due anni. Le aspettavo nella gola, nella campagna fuori città, vicino al lago, dovunque, le aspettavo, e loro venivano a cercarmi e mi trovavano. Era sempre affascinante, il giorno dopo, leggere i giornali. E anche tu mi cercavi, stanotte, lo so, altrimenti non saresti passata, tutta sola, per il burrone. E' lì che ti sei spaventata, e ti sei messa a correre? Pensavi che io fossi laggiù ad aspettarti? Avresti dovuto sentirti come correvi qui sul viale! E quando hai aperto la porta! Chiudendola a chiave! Credevi di essere in salvo, finalmente a casa, al sicuro, in salvo, in salvo, vero?" Con le forbici nella mano inerte, Lavinia cominciò a piangere, e lui indovinò l'impercettibile luccichio delle lacrime, come acqua sulla parete di una cupa caverna. Udì i singhiozzi. "No" bisbigliò. "Le forbici, le hai tu. Non piangere." Lei pianse. Non si mosse; rimase lì tremante, la sua testa premuta contro la porta. Cominciò a scivolare sul pavimento. "Non mi piace sentirti piangere" aggiunse. "Non lo sopporto." Annaspò con le mani, esplorando, finché riuscì a sfiorarle una guancia. Ne sentì l'umidore, sentì l'alito caldo toccargli il palmo, il tocco di una falena estiva. Allora disse un'altra cosa soltanto: "Lavinia," sussurrò dolcemente "Lavinia". Con quanta chiarezza ricordava le vecchie notti dei vecchi tempi di quando era ragazzo, e assieme ai coetanei correva, correva, e si nascondeva, si imboscava e giocava a nascondino. Nelle prime notti di primavera, nelle calde notti d'estate, nelle tarde sere d'autunno, e nelle prime rigide notti d'autunno, quando le porte venivano chiuse presto, e i portici delle case erano deserti, spazzati solo dalle foglie travolte dal vento. Il gioco si prolungava finché vi fosse un barlume di luce solare o arrivasse la luna col suo raggio incrostato di neve. I loro piedi, al galoppo sull'erba erano come il lancio disordinato di soffici pesche o di mele cotogne, e la conta del Cacciatore, la testa affondata nell'arco delle braccia, echeggiava nella notte: cinque, dieci, quindici, venti, venticinque, trenta, trentacinque, quaranta, quarantacinque, cinquanta... E il rumore delle mele rimbalzanti diminuiva, s'allontanava, i ragazzi tutti al coperto, su un albero o nell'ombra di un cespuglio, negli anfratti dei portici, con i saggi cani attenti a non agitare la coda e a non rivelare il

segreto... E la conta che si esauriva: ottantacinque, novanta, novantacinque, cento! Chi c'é c'é, chi non c'é peggio per lui! Il Cacciatore si precipitava a indagare l'ignoto per trovare le Tane, e quelli nelle Tane a soffocare le proprie risate, come preziose fragole di giugno, tappandosi la bocca con le mani. E il Cacciatore con l'orecchio teso a captare il minimo batticuore sospeso tra i rami di un olmo, o lo scintillio degli occhi di un cane in un cespuglio, o un piccolo mugolio di risa insopprimibile allorché il Cacciatore correva nelle vicinanze e non vedeva l'ombra nell'ombra... Andò nella stanza da bagno, ripensando a quei tempi, rivivendo l'afflusso tumultuoso dei ricordi che, come una cascata dal gradino di un dirupo, cadeva, precipitava ad allargargli la mente. Dio, quanto alti e segreti si erano sentiti, nei loro nascondigli! Dio, come le ombre li avevano protetti, accolti e racchiusi nel loro trionfo. Lucidi di sudore, come si erano acquattati come idoli, nell'illusione di poter restare nascosti per sempre! Mentre lo sciocco Cacciatore andava annaspando verso l'insuccesso e l'inevitabile frustrazione! A volte, il Cacciatore si fermava proprio sotto il tuo albero, e credeva di scorgerti appollaiato lassù, nelle tue ali invisibili, nelle tue ali scolorite di pipistrello, e gridava: "Ci sei!". Ma tu non rispondevi. "Dài, sei lì, ti vedo!" Ma tu non dicevi niente. "Vieni giù, tanto so che ci sei!" Ma da parte tua non una parola, solo un vittorioso sorriso. E il dubbio che assaliva il Cacciatore ai piedi dell'albero. "Sei tu, vero?" Poi la rinuncia, la ricerca proseguita altrove, con un ultimo sfiduciato tentativo: "Dài, so che sei lì". Silenzio. Solo l'albero nella notte placida, che frusciava lievemente, rinunciando a una foglia per volta. E il Cacciatore, impaurito dell'ombra nell'ombra, dirottava verso la selvaggina più facile, identificabile con sicurezza. Si lavò le mani, e pensò: "Perché mi lavo le mani?". E poi la sabbia del tempo che filtrava ancora attraverso il foro della clessidra, ed era un altro anno.... Spesso, quando giocava a nascondino, era rimasto introvabile del tutto; non permetteva che lo pescassero. Muto come un tomba, rimaneva tanto a lungo sul ramo del melo da diventare una polputa mela bianca; indugiava così a lungo sul castagno che acquisiva la durezza e la lucida patina del frutto autunnale. E, mio Dio, che senso di potenza non venire scoperto, che grandezza ti conferiva, mentre le tue braccia, alla fine, erano rami che si spingevano in ogni direzione, attratti dalle stelle e dalla luna artefice di maree, finché la tua impenetrabile segretezza racchiudeva la città, addolcendola della tua compassione e tolleranza. Nell'ombra, potevi fare qualsiasi cosa. Qualunque cosa scegliessi di fare, potevi farla. Quale potenza ti rivestiva, quando, seminascosto dietro i vetri di una finestra a pianterreno, vedevi la gente passare sul marciapiede, ignara che tu la stessi osservando e potessi, stendendo un braccio, spolverare quei nasi in transito, col ragno a cinque zampe della tua mano, e spazzolare i pensieri altrui di terrore. Finì di lavarsi le mani, le asciugò in una salvietta. Ma c'era sempre una fine al gioco. Quando il Cacciatore aveva trovato tutti gli altri Nascosti, e questi Nascosti a loro volta diventavano, uno per uno, i Cacciatori, e si sparpagliavano chiamandoti per nome, cercandoti, ecco, allora ti sentivi ancor più potente. "Ehi! Ehi! Dove sei? Il gioco é finito!" Ma tu non ti muovevi, non uscivi fuori. Anche quando tutti si radunavano sotto il tuo albero, e ti vedevano, o credevano di vederti, lassù in cima, e ti gridavano: "Vieni giù! Smetti di fare lo scemo! Ti vediamo! Sappiamo che sei lì!".

Non rispondevi nemmeno allora - non prima che la cosa definitiva e fatale accadesse. Da lontano, al di là dell'isolato, il sibilo ripetuto di un fischietto d'argento, e la voce di tua madre: "Le nove! A casa!". Ma tu aspettavi che tutti i compagni se ne fossero andati. Poi, disarticolando, con la massima attenzione, te stesso, il tepore che ti aveva ospitato, riluttante a lasciare la tua segretezza, correvi a casa, solo, solo nel buio e nell'ombra, trattenendo il fiato, dominando i tonfi del cuore, evitando la luce dei lampioni, affinché, se avesse udito qualcosa, la gente pensasse a una foglia catturata dal vento. E tua madre che ti aspettava sulla soglia della porta aperta... Finì di asciugarsi le mani. Indugiò un attimo pensando a come era andata durante gli ultimi due anni, lì in città. Il vecchio gioco che andava avanti, condotto da lui in solitudine, gli altri ragazzi spariti e risucchiati da una decorosa mezz'età; ma adesso, come prima, lui, l'ultimo solitario Nascosto, e tutta la città a cercare e non trovare nulla e correre a casa, sprangando le porte. Ma questa notte, al di fuori di un tempo da tanto scomparso, e ora in altre molte notti, egli aveva udito quell'antico suono, il suono del fischietto d'argento che sibilava, sibilava. Non era certo il richiamo di un uccello notturno, dato che lui quelli li conosceva tutti. Ma il fischietto continuava a insistere, e una voce a ricordargli, A casa e Le nove, anche se adesso la mezzanotte era passata da un po'. Ecco, il fischietto stava modulando ancora il suo richiamo. Anche se sua madre era morta da molti anni, dopo aver messo precocemente il marito nella tomba, con il suo caratteraccio e la sua lingua spietata: "Fai questo, fai quello, fai così, fai cosà...". Un disco rotto, costretto a gracidare sul punto incrinato sempre lo stesso motivo, ripetuto, ripetuto, ripetuto, la sua voce, la sua cadenza. E il nitido fischio che trapanava i timpani, e il gioco era finito. Non più camminare per la città, scomparire dietro alberi e cespugli e sorridere un sorriso che bruciava al di là del fogliame più denso. Quando la cosa gli succedeva, automatica. I piedi che lo guidavano, le mani che agivano. Adesso egli sapeva che le mani non gli appartenevano. Si strappò un bottone della giacca, lo lasciò cadere nel buio pozzo della stanza. Un bottone che parve non atterrare sul pavimento, ma restare sospeso, fluttuante. Per poi arrendersi e mettersi a rotolare. Rotolare per terra, ma non si fermava mai? Ecco, finalmente si era fermato. E le mani che agivano per loro conto, non le comandava più. Si prese di tasca la pipa che fece volare nel buio della stanza; senza aspettarne l'impatto con qualcosa, tornò rapidamente in cucina e controllò, dalla finestra aperta dalle bianche tendine gonfie di vento, le impronte che vi aveva lasciato. Era di nuovo il Cacciatore, alla ricerca, e non più il Ricercato che si nascondeva. Era il silenzioso investigatore che trovava, setacciava, cerniva, catalogava indizi, e quelle impronte gli erano adesso estranee come reperti di un'era archeologica. Erano state lasciate un milione di anni fa, da qualche altro uomo, impegnato in qualche altra impresa. Si stupì della loro nitidezza, profondità e forma, al chiaro della luna. Abbassò una mano, quasi a toccarle, quasi davanti a una grande scoperta archeologica. Ma era già tornato nei locali dell'appartamento, lacerandosi dai risvolti dei pantaloni un lembo di stoffa che depose sul palmo della mano e soffiò via, come fosse una farfalla. Aprì la porta sulla facciata, uscì e sedette un attimo sulla ringhiera del portico. Prese il bicchiere di limonata e bevve quanto vi era rimasto, ormai caldo, e strinse le dita sul vetro, con forza. Poi rimise giù il bicchiere.

Il fischietto d'argento! "Sì" pensò. "Vengo, vengo." Il fischietto d'argento! "Sì, ho capito. Le nove. A casa. Le nove. La lezione da ripassare, la tazza di latte con i cracker, il letto bianco e freddo, a casa, a casa, le nove, e il fischietto d'argento. " L'uomo aveva già abbandonato il portico, correndo agile e sciolto, ansimando appena, col cuore che batteva regolare, senza affanno, come si corre a piedi scalzi, come uno che sia foglia e verde erba di giugno, come sa correre la notte, tutta ombre, correndo per sempre, lontano dalla casa silenziosa, lungo le vie, e giù nella gola sovrastata dal ponte. Spalancò la porta a vetri ed entrò nell'Owl Diner, quel lungo vagone ferroviario, rimosso dai suoi binari, e assegnato a un solitario e immobile destino nel centro della città. E che adesso era deserto, tranne la presenza del barista. Il quale, dall'estremità opposta del banco, alzò gli occhi verso la porta che si richiudeva e il cliente che camminava rasente la fila degli sgabelli girevoli. Il barista si tolse di bocca lo stecchino. "Tom Dillon, vecchio barbagianni. Che ci fai in giro a quest'ora di notte, Tom?" Tom Dillon ordinò senza consultare il menù. Mentre aspettava di essere servito, introdusse una monetina nel telefono a muro, formò un numero, parlò sommessamente per qualche secondo. Riappese, andò a sedersi su uno sgabello, ascoltando. Sessanta secondi più tardi, lui e il barista udirono la sirena della polizia ululare a novanta all'ora. "Bene, perdio!" disse il barista. "Prendeteli, ragazzi!" Mise su un piatto un bicchierone di latte e sei cracker croccanti. Tom Dillon rimase seduto, svagato come chi ha tempo da perdere, guardandosi furtivamente il risvolto lacerato dei pantaloni e le scarpe infangate. La luce nel vagone era cruda e vivida, ed egli ebbe l'impressione di trovarsi su un palcoscenico. Col bicchiere in una mano, sorseggiò il latte freddo, a occhi chiusi, masticò i cracker, assaporandone l'impasto friabile, gustandolo in ogni papilla della bocca, della lingua. "Questo pasto," domandò adagio "lo chiameresti sì o no un pasto salutare?" "Salutare quanto mai" ammise il barista, sorridendo. Tom Dillon masticò un altro cracker con la massima concentrazione. "E' solo questione di tempo" pensò, aspettando. "Ancora latte?" "Sì" rispose Tom. E rimase a osservare, con assorto interesse, con assoluta intensa concentrazione, il bianco cartone che si inclinava e brillava, il latte niveo che ne sgorgava, freddo e silenzioso, come il suono di una sorgente nella notte, e riempiva il bicchiere, sino all'orlo, sino all'orlo estremo, e ne traboccava... Mi benedica, padre, perché ho peccato Fu appena prima della mezzanotte della Vigilia di Natale, quando padre Mellon si svegliò, dopo aver dormito solo qualche minuto. Avvertiva l'impulso, quanto mai pressante e specifico, di alzarsi e correre a spalancare il portale della chiesa, lasciare che la neve entrasse, e poi andare a sedersi nel confessionale, in attesa. Ä In attesa di che cosa? Chi poteva dirlo? Supporlo? Ma l'impulso era tanto incredibilmente forte da risultare impossibile ignorarlo. "Che diamine mi prende?" mormorò tra sé, mentre si vestiva. "Sto diventando matto? A quest'ora, chi può volere e sentire il bisogno, e perché mai dovrei..."

Comunque, finì di vestirsi, scese giù e andò ad aprire il portale della chiesa, sulla cui soglia indugiò in reverente contemplazione del superbo capolavoro che aveva davanti agli occhi, migliore di qualsiasi dipinto mai fatto dall'uomo: uno sconfinato manto di neve, che intesseva ricami, ingentiliva i tetti, attenuava la luce dei lampioni, addobbava di candido scialle le masse acquattate delle auto in attesa di essere benedette, lungo la cordonatura dei marciapiedi. Una neve che arrivava alla caviglia, gli accarezzava fioccosa le palpebre e il cuore. Si sorprese a trattenere il respiro alla volteggiante levità di quel candore, e poi, girando le spalle, con la neve che gliele spruzzava, andò a rintanarsi nel confessionale. "Maledetto scemo" pensò. "Vecchio stupido. Che ci fai qui? Tornatene a letto!" Ma poi sentì: un rumore sul portale, passi che strusciavano sull'impiantito di marmo, e alla fine, dall'altra parte della grata, la presenza bagnata di qualcuno. Padre Mellon attese. "Mi benedica," bisbigliò una voce maschile "perché ho peccato!" Sbalordito per la subitaneità della richiesta, padre Mellon riuscì soltanto a replicare: "Come mai poteva supporre che la chiesa fosse aperta e io mi trovassi qui?". "Ho pregato, padre" fu la sommessa risposta. "E' Dio che l'ha spinto a scendere e aprire." L'argomento pareva inoppugnabile, e così il vecchio sacerdote e l'uomo, la cui voce suonava quella di un rauco e altrettanto vecchio peccatore, restarono silenziosi un lungo momento, mentre l'orologio si avvicinava impercettibilmente alla mezzanotte; alla fine, la pecorella venuta dalla notte e tuttora invisibile, ripeté: "Benedica questo peccatore, padre!". Ma, invece del solito unguento ammonitore e consolatore delle parole, con Natale che incalzava tra la neve, padre Mellon si chinò verso la grata e non poté evitare di dire: "Dev'essere un ben pesante fardello di peccati sulla sua anima che l'ha fatta uscire in una notte come questa, per una missione impossibile, che solo Dio ha reso possibile, avendo udito e avendomi tirato giù dal letto". "E' un elenco terribile, padre, come constaterà!" "Allora, parli, figliolo," sollecitò il prete "prima che entrambi geliamo..." "Bene, fu così..." sussurrò la voce che pareva piena di vento, da dietro la grata. "...Sessant'anni fa..." "Ripeta? Sessanta?!" Il prete sussultò. "Così indietro nel tempo?" "Sessanta!" E vi fu un tormentato silenzio. "Continui" disse padre Mellon, vergognandosi di averlo interrotto. "Sessant'anni questa settimana, quando avevo dodici anni" riprese la voce dolente. "In una piccola città dell'Est, ero fuori con mia nonna per gli acquisti di Natale. A piedi. Chi aveva l'auto a quei tempi? A piedi, stavamo tornando a casa, con in mano pacchetti variopinti, e nonna mi fece qualche osservazione. Non ricordo più per quale motivo. So però che me la presi moltissimo, mi infuriai, e mi misi a correre, lasciandola sola. Mentre scappavo, la sentivo gridare, e poi scoppiare in lacrime, pregandomi, disperata, di fermarmi, di tornare indietro, ma io continuai a correre. Sapevo quanto ne fosse sconvolta, quanto male le stavo facendo, e questo mi rendeva forte e bravo, e continuai a correre, ancora più di slancio, ridendo, e arrivando a casa molto prima di lei, e quando la vidi giungere, ansimante e piangente, come non dovesse mai fermarsi, provai vergogna e corsi a nascondermi..." Seguì un altro lungo silenzio. Il prete lo interruppe chiedendo:

"E' tutto qui?". "L'elenco é lungo" si dolse la voce dietro la grata sottile. "Continui" incitò il sacerdote, chiudendo gli occhi. "La stessa cosa feci a mia madre, prima di Capodanno. Mi aveva fatto arrabbiare. Mi misi a correre. La sentivo chiamarmi. Sogghignai e accelerai la corsa. Perché? Perché, mio Dio, perché?" Il prete non diede risposta. "E' così, allora?" mormorò, finalmente, sentendosi stranamente compartecipe. "Un giorno d'estate," proseguì la voce "alcuni ragazzi più grandi mi picchiarono. Quando se ne furono andati, vidi su un cespuglio due farfalle, unite, bellissime. Odiai la loro felicità. Le afferrai; le strinsi nel pugno e le ridussi in polvere. Oh, padre, che vergogna!" In quel momento il vento irruppe dal portale, e confessore e peccatore alzarono gli occhi verso il fantasma di neve che mulinava e si disperdeva sul pavimento, in rivoli di biancore. "C'é un'altra cosa terribile" aggiunse il vecchio nascosto, con il suo tormento, dietro la grata. "Quando avevo tredici anni, ancora durante la settimana di Natale, il mio cane Bo fuggì di casa, scomparendo per tre giorni e tre notti. Gli volevo bene, più della mia vita. Era unico, affettuoso e bello. E di colpo era sparito, e la sua bellezza con lui. Aspettai. Piansi. Lo aspettai. Pregai. Imprecai in silenzio. Sapevo che non sarebbe mai più tornato, mai più! E poi, ecco, in quella Vigilia di Natale, oh! alle due del mattino, col nevischio sulle strade; i ghiaccioli sui tetti e la neve che cadeva, udii nel sonno un rumore, e mi svegliai per sentirlo che grattava alla porta. Saltai dal letto con tanto impeto che quasi mi uccidevo! Spalancai la porta, e c'era lì il mio povero cane, tremante, frenetico, coperto di lurida poltiglia. Urlai, lo tirai dentro, richiusi la porta, mi inginocchiai, lo strinsi e mi misi a piangere. Quale regalo, quale splendido regalo! Pronunciai il suo nome, una, due, dieci volte. E lui piangeva con me, tutto guaiti e latrati e uggiolii di gioia. E poi mi fermai. E sa cosa feci? Immagina che terribile cosa? Lo picchiai. Sì, lo picchiai. Con i pugni, con le mani aperte, e ancora con i pugni, gridando: "Come hai osato, come hai potuto?". E continuai a picchiarlo e picchiarlo finché non fui debole e singhiozzai e dovetti smettere, perché vedevo quello che avevo fatto, e lui era rimasto lì, prendendosi tutte le botte, come sapesse che le meritava, che aveva tradito il mio amore, che adesso non gli portavo più, e che era scomparso. Poi mi ritrassi, con le lacrime che sgorgavano dagli occhi, col respiro mozzo, e lo afferrai di nuovo, e lo strinsi a me, ma questa volta chiedendogli perdono: "Ti prego, Bo, perdonami. Non volevo. Oh, Bo, perdonami...". "Ma, padre, lui non poteva perdonarmi. Chi era? Un animale, un cane, il mio amore. E mi guardava con i suoi grandi occhi castani e mi serrava il cuore, che da allora é rimasto e per sempre nella morsa di quella vergogna. Ero io che non potevo perdonare me stesso. Tutti questi anni, il ricordo del mio amore e di come lo avevo tradito, e ogni Natale da allora, non il resto dell'anno, ma ogni Vigilia di Natale, il suo fantasma ritorna, vedo il cane, sento i colpi dei miei pugni, rivivo la mia vergogna. Oh, mio Dio!" Il penitente tacque, piangendo. E alla fine, il vecchio prete osò chiedere: "Ed é per questo che lei é venuto qui?". "Sì, padre. Non é tremendo? Non é terribile?" Padre Mellon non riuscì a rispondere, perché le lacrime stavano coprendo anche il suo volto, e inspiegabilmente, assurdamente, gli mancava il respiro. "Dio vorrà perdonarmi, padre?" domandò l'altro. "Sì."

"E lei, padre, può perdonarmi?" "Sì, ma adesso lasci che le dica una cosa, figliolo. Quando avevo dieci anni, mi successero le stesse cose. I miei genitori, naturalmente, ma poi... il mio cane, l'amore della mia vita, lui che era scappato di casa e che odiai per avermi lasciato, e che, quando tornò, io pure amai e picchiai, e ripresi ad amare. La vergogna é rimasta in agguato tutti questi anni, la tenevo nascosta dentro di me. Ho sempre confessato tutto al mio prete confessore. Ma mai quello. Quindi..." "Quindi, padre?" "Signore, Signore Iddio, uomo mio caro. Dio ci perdonerà, entrambi. Finalmente lo abbiamo confessato, abbiamo trovato il coraggio di dirlo. E io le darò l'assoluzione. Ma prima..." Il vecchio prete fu incapace di continuare, perché nuove lacrime erano venute a soffocarlo. Lo sconosciuto, al di là della grata, le intuì, domandò con estrema attenzione: "Lei vuole il mio perdono, padre?". Il prete annuì, senza parlare. Forse l'altro sentì l'ombra di quell'assenso, perché disse subito: "Ah, bene. Il perdono é concesso". E rimasero entrambi muti, a lungo, nel buio, e un altro fantasma si mosse, andò sulla porta, soffermandosi un istante, poi diventò neve e sparì in uno spolverio bianco. "Prima di andarsene," disse il prete "si fermi a bere un bicchiere di vino con me." Il grande orologio di fronte alla chiesa, sulla piazza, rintoccò la mezzanotte. "E' Natale, padre" disse la voce dietro la grata. "Il più bello che sia mai stato, penso." "Il più bello." Il vecchio prete si alzò e uscì dal confessionale. Attese un attimo un qualche fruscio, un qualche movimento che venisse dal lato opposto. Nulla di nulla. Aggrottando la fronte, padre Mellon aprì la porta del cubicolo, scrutò all'interno. Nulla e nessuno. Gli ricadde la mascella. Neve che gli bagnava il retro del collo. Allungò una mano a esplorare l'oscurità. Trovò il vuoto. Girandosi, fissò il portale, vi si diresse in fretta per guardare fuori. La neve cadeva sull'eco di lontani orologi che scandivano l'ora. La piazza, le vie erano deserte. Girando di nuovo, il prete scorse l'alto specchio sull'entrata della chiesa. C'era riflesso nel freddo cristallo un vecchio, lui stesso. Quasi automaticamente, sollevò una mano e tracciò il segno della benedizione. Il riflesso nello specchio fece lo stesso. Poi, il vecchio prete, asciugandosi gli occhi, si girò ancora una volta, e andò a cercare il vino. Fuori, Natale, come la neve, era ovunque. Secondo gli ordini "Compagnia, attenti!" Esplosione di tacchi riuniti. "Compagnia, avanti march!" Un due, un due. "Compagnia... alt!" Trump, trump, track. "Dest riga." Bisbiglio "Sinist riga." Fruscio

Sotto il sole, tanti anni fa, l'uomo sparava comandi e la compagnia ubbidiva. Ai margini di una piscina d'albergo sotto il cielo di Los Angeles nell'estate del '52, c'erano il sergente istruttore e le sue reclute. "Guardare avanti! Testa alta! Mento in dentro! Petto in fuori! Stomaco in dentro! Spalle indietro, indietro, ho detto!" Il sergente istruttore incedeva, in mutandine da bagno, lungo il bordo di quella piscina a fulminare col gelido sguardo celeste la sua compagnia, il suo plotone, la sua squadra, suo... Figlio. Un ragazzo, di nove o dieci anni, eretto, impalato, rigido come un puntello di ferro, fissando la vacuità militare, spalle inamidate, mentre suo padre, a passi scattanti, gli girava attorno, abbaiando comandi scanditi dalla bocca increspata, si chinava su di lui, con impietosa insistenza. Entrambi indossavano mutandine da bagno, e niente altro. No, anche gli zoccoli di legno. Sino a un momento prima, avevano riordinato l'area della piscina, sistemando asciugamani, manovrando la scopa. Ma adesso, appena prima di mezzogiorno... "Compagnia! In cadenza! Uno, due!" "Tre, quattro!" fece eco il ragazzo. "Più decisi quei movimenti! Uno, due!" "Tre, quattro!" "Compagnia, alt, spallÄarm, presentatÄarm, dentro quel mento, punte dei piedi riunite!" Il ricordo andava e veniva, tremolante, come un film mal proiettato in un cinema di terza visione. Da dove tornava a galla, e perché? Ero su un treno da Los Angeles a San Francisco. Ero nel vagoneÄbar, deserto, data l'ora notturna, tranne per la presenza del barista e di un estraneo, giovaneÄvecchio, che sedeva a un tavolino proprio di fronte al mio, a bere il suo secondo martini. Il vecchio ricordo era scaturito da lui. A distanza di tre metri, i suoi capelli, la sua faccia, i suoi occhi celesti, attoniti e dolenti, avevano di colpo troncato il fluire del tempo, riportandomi indietro. In un'altalena di visioni sfocate e nitide, ero sul treno, poi sul bordo di quella piscina, a osservare lo sguardo luminoso e ferito di quest'uomo col suo martini davanti, a riudire suo padre di trent'anni prima, a scrutarne il figlio di cinquemila pomeriggi fa, che marciava, faceva dietroÄfront, convergeva, si bloccava presentando armi immaginarie, facendo spallÄarm con immaginari fucili. "Attenti!" echeggiò di nuovo il comando. "Mio Dio" mormorò Sid, il mio migliore amico, sdraiato vicino a me, nella rovente luce del sole, alzando la testa a guardare. "Mio Dio, davvero" brontolai. "Da quanto tempo va avanti 'sta menata?" "Da anni, forse. Ne ha tutta l'aria. Da anni." "Uno, due!" "Tre, quattro!" L'orologio di una chiesa vicina suonò mezzogiorno: l'ora di apertura del bar della piscina. "Compagnia, avanti... march!" In parata di due, uomo e ragazzo a passo martellante sul pavimento piastrellato fecero conversione verso i cancelletti lucchettati del bar all'aperto. "Compagnia, alt! Pronti ad aprire i lucchetti! Eseguire! Via!" Il ragazzo eseguì. "Apertura dei cancelli, via!" Il ragazzo spalancò i cancelli, balzò indietro, irrigidendosi sull'attenti, in attesa. "DietroÄfront, avanti march!"

Quando il ragazzo ebbe raggiunto l'orlo della vasca e stava per cadervi dentro, il padre, col più mefistofelico dei sorrisi, ordinò a bassa voce: "... alt!". Il figlio si bloccò, ondeggiando, a dieci centimetri dall'acqua. "Dio lo fulmini" sussurrò Sid. Il padre lasciò lì il figlio, rigida parvenza di un'asta di bandiera, eretto sull'attenti, e se ne andò. Sid balzò in piedi, incredulo e indignato. "Siediti" gli dissi. "Cristo, quello ha tutte le intenzioni di lasciar lì suo figlio, in sospeso, sull'attenti?!" "Torna a sederti, Sid." "Be', in nome di Dio, é inumano!" "Non é tuo figlio, Sid" gli ricordai sottovoce. "Vuoi metterti a litigare?" "Sì, dannazione!" confermò il mio amico. "Sarebbe controproducente." "Col cavolo, lo sarebbe. Ho proprio voglia di dirgliene quattro a quel..." "Osserva la faccia del ragazzo, Sid." Sid guardò e cominciò a calmarsi. Il ragazzo, impalato lì, nella vampa del sole, nel riflesso dell'acqua, era l'immagine vivente dell'orgoglio. Da come teneva la testa, da come gli splendevano gli occhi, dal modo con cui le sue spalle nude accettavano il pungolo dei comandi dell'ordine chiuso, tutto era fierezza e corresponsione. E fu la logica di quella fierezza che alla fine fece breccia in un Sid esasperato. Gravato da disappunto, si lasciò andare sulle ginocchia ripiegate. "Dovremmo restare qui seduti tutto il pomeriggio a guardare questo gioco idiota di..." la voce di Sid aumentò di tono, istintivamente "... Simone dice?!"* [Personaggio sciocco e sempliciotto della filastrocca infantile di Mamma Oca. [N.d.T.]]

Il padre sentì. Si immobilizzò nel bel mezzo delle sue operazioni - stava impilando asciugamani sull'estremità opposta della piscina. I muscoli della schiena gli guizzarono come la pallina di un flipper che vorticasse a sommare punti. Quindi, con un perfetto dietroÄfront, rasentò il figlio, sempre in precario equilibrio a dieci centimetri dal bordo della vasca, non senza lanciargli un'occhiata tagliente, accompagnata da un cenno di assenso severo, e arrivò a incombere con la sua ombra su Sid e su di me. "Le sarò grato, signore," disse con voce misurata "se vorrà abbassare il tono, per non confondere mio figlio..." "Io userò il tono che più m'accomoda per dire qualsiasi cosa mi venga in mente!" E Sid si preparò ad alzarsi. "No, signore, lei non lo farà." L'uomo puntò sul mio amico il suo naso, che sarebbe potuto senz'altro essere un fucile pronto a sparare. "Questa é la mia piscina, questo é mio territorio, ho un accordo preciso con l'albergo, la cui giurisdizione si ferma al cancello. Se devo gestire un esercizio impeccabile e riservato, devo disporne con piena autorità. Chiunque non si adegui... fuori. Volente o nolente. Sulla parete dentro la palestra troverà i miei attestati di cintura nera, pugilato e tiratore scelto. Se vuol provare a darmi la mano, posso spezzarle il polso. Se starnuta, le fratturo il setto nasale. Una sola parola, e il suo odontoiatra impiegherà due anni a ricostruirle il sorriso. Compagnia... attenti!" Tutto il discorso gli era fluito d'un fiato, né virgole, né pause. Suo figlio si irrigidì sull'orlo della piscina.

"Quaranta vasche. Via!" "Via!" ripeté il ragazzo, e si tuffò. Il suo impatto con l'acqua e l'inizio di vorticose bracciate tolsero a Sid ogni desiderio di rincarare la dose. Sid chiuse gli occhi. Il padre gli concesse un sorriso, e si girò a osservare il ragazzo che macinava acqua e schiuma. "Lì c'é tutto ciò che io non sono mai stato" disse. "Signori." Ci rivolse un asciutto cenno del capo, e se ne andò. A Sid non rimase altro che saltare in acqua. Fece venti vasche, quasi sempre preceduto nella virata dal ragazzo. Quando uscì fuori, era più calmo. Si buttò a terra. "Cristo," brontolò, con la faccia seppellita nell'asciugamano "un giorno o l'altro deve scrollarsi di dosso e uccidere quel figlio di puttana!" "Come disse una volta un personaggio di Hemingway," commentai, seguendo con gli occhi il ragazzo concludere la 35ma vasca "non sarebbe piacevole supporlo?" L'ultima volta, il giorno conclusivo in cui li vidi, il padre stava ancora marciando alacremente, vuotando i portacenere (nessun altro li avrebbe saputi vuotare come li vuotava lui), raddrizzando tavolini, allineando panche e sedie a sdraio in file militaresche, disponendo immacolati asciugamani in pile di matematica precisione. Anche il modo con cui, in quel suo andare e venire, ramazzava per terra era geometrico. Solo di quando in quando, l'uomo girava di scatto la testa, scoccava un'occhiata per accertarsi che la sua squadra, il suo plotone, la sua compagnia fossero sempre lì, dopo un'ora, irrigiditi sull'attenti, un ragazzo come un palo del telegrafo, i capelli mossi dal vento estivo, gli occhi fissi su un orizzonte pomeridiano, bocca impassibile, mento in dentro, spalle indietro. Non potei farne a meno. Sid se n'era andato già da un bel po'. Io me ne stavo sulla terrazza dell'albergo che dominava la piscina, a bermi un ultimo bicchiere, incapace di staccare lo sguardo dal padre che si dava da fare avanti e indietro e il figlioÄstatua. All'imbrunire, il padre si diresse a passo di carica verso il cancello esterno e, quasi si fosse ricordato solo allora, lanciò il comando, al di sopra della spalla: "Attenti! Per fila dest. Uno, due...". "Tre, quattro!" gridò il ragazzo. E marciò oltre il cancello, con passo scandito e rimbombante quasi calzasse stivaloni chiodati. Proseguì scattante verso l'area di parcheggio, mentre il padre chiudeva i lucchetti con la facile precisione di un robot, e girava gli occhi intorno per un'ispezione finale. Alzò lo sguardo, mi vide, esitò un istante. Trafitto da quell'occhiata a trapano, sentii che le mie spalle arretravano, il mio mento si ritraeva, il torace mi si gonfiava. Mi ricomposi, sollevai il bicchiere, lo feci oscillare con noncuranza verso l'uomo, e bevvi. "Che accadrà" pensai "negli anni a venire? Il figlio crescerà abbastanza da accoppare o dare una battuta al proprio vecchio, o si limiterà a scappare per affrontare una vita ormai condizionata, sempre in marcia a non più udibili comandi di 'Attenti!' e 'Avanti march!' e non mai di 'Riposo!'?" "Oppure," pensai, bevendo "il ragazzo a sua volta alleverà propri figli, inculcando loro le delizie dell'ordine chiuso in torridi mezzogiorno sui bordi di una piscina, interminabilmente? Un bel giorno si punterà una pistola in bocca, distruggendo così suo padre nell'unico modo che conoscesse? O, si sposerà, senza avere prole, seppellendo così tutti i comandi, tutti gli ordini chiusi, tutti i sergenti istruttori?" Domande, mezze risposte, altre domande. Il mio bicchiere era vuoto. Il sole se n'era andato, e con lui il padre e il figlio.

Ma adesso, in carne e ossa, di fronte a me, su questo treno notturno diretto a nord per una destinazione ignota, uno dei due era tornato. Era lì, il ragazzo, la recluta da sgrossare, il figlio del padre che sparava comandi a mezzogiorno, e diceva al sole di sorgere o tramontare. Appena vivo? Semivivo? Vivo del tutto? Non ne ero sicuro. Comunque, era lì, trent'anni dopo, l'uomo vecchio-giovane o giovaneÄvecchio, intento al suo terzo martini. Ormai, mi ero reso conto che le mie occhiate stavano diventando troppo continue e imbarazzanti. Studiai quegli occhi azzurri e feriti, perché tali erano: feriti, e alla fine presi coraggio e parlai: "Le chiedo scusa" dissi. "Potrà sembrarle sciocco, ma... trent'anni fa, mi trovavo a passare i fine settimana all'Ambassador Hotel, dove un ex militare gestiva la piscina assieme a suo figlio. Lui... be'. E' lei quel figlio?" Il giovaneÄvecchio di fronte a me rifletté un istante, mi guardò, e alla fine sorrise. "Sono io, quel figlio. Venga a sedersi con me." Ci stringemmo la mano. Ordinai per entrambi un ultimo giro, come se stessimo festeggiando qualche felice ricorrenza, o tenendo una veglia, né lui né io avremmo saputo dire quale delle due. Dopo che il barista ci ebbe portato da bere, dissi: "Al novecentocinquantadue, un brindisi. Un anno buono? Un anno cattivo? Alla salute, comunque". Brindammo e lui disse, quasi di seguito: "Lei si sta domandando che ne sia stato di mio padre". "Mio Dio" sospirai. "No, no," mi tranquillizzò "non c'é problema." Un sacco di gente se l'é chiesto, ha voluto saperlo in tutti questi anni." Il ragazzo che era rimasto all'interno dell'uomo quarantenne rigirò tra le mani il bicchiere, ripercorrendo il passato. "E lei lo dice a chi glielo chiede?" "Glielo dico." Respirai a fondo. "D'accordo, allora. Che ne é stato di suo padre?" "Morì." Tra i due bicchieri calò un silenzio prolungato. "E' tutto qui?" "Non proprio." Collocò il bicchiere sul tavolino, davanti a sé, vi accostò il tovagliolo a un'angolazione precisa, inserì un'oliva al centro esatto del tovagliolo, leggendovi il passato. "Lei ricorda com'era?" "Tale e quale." "Oh, quanto significato lei ha messo in quel "tale e quale"!" E il mio interlocutore ebbe un debole grugnito. "Lei ricorda quel marciare avanti, indietro, attorno alla piscina, fronte a sinist, fronte a dest, dietroÄfront, attenti, mento e stomaco in dentro, petto in fuori, avanti march?" "Ricordo." "Bene, un giorno del novecentocinquantatré, dopo che tutti, lei compreso, se n'erano andati dalla piscina, mio padre mi stava facendo fare ordine chiuso, all'aperto, di pomeriggio tardi. Mi aveva tenuto sull'attenti sotto il sole per un'ora o giù di lì, urlandomi comandi sulla faccia, ricordo ancora la saliva che mi spruzzava sul mento, sul naso, sulle palpebre, mentre lui gridava: "Non muovere un muscolo! Non battere ciglio! Non respirare finché non te lo dico io! Hai capito, soldato? Capito? Sono stato chiaro?!"" ""Signorsì!"" risposi, cercando di non muovere le labbra. "Mentre si girava, mio padre scivolò sulle piastrelle e cadde in acqua." Fece una pausa ed emise una strana risatina, che era un guaito.

"Riesce a immaginarlo? No, era inconcepibile, assurdo. Nemmeno io... che in tutti quegli anni in cui si era occupato di piscine, sostituendo asciugamani, ripulendo docce, riparando trampolini, aggiustando tubazioni, lui, il mio dio, non avesse mai imparato a nuotare. Mai! Gesù. Incredibile. Mai. "Non me l'aveva mai detto. E neanche l'avevo mai immaginato! E dal momento che mi aveva appena rintronato la testa, prescritto, comandato: guardare avanti! restare immobile! non muoversi! io non feci altro che restare lì, gli occhi fissi nel vuoto, in un punto davanti a me, sotto il sole che tramontava. Non mi permisi di abbassare gli occhi per guardare, non una volta, non un attimo. Rimasi lì impalato, cieco come una statua, secondo gli ordini. "Lo sentivo dibattersi in acqua, urlando. Ma senza riuscire a capire che dicesse. Lo sentivo bere, ansimare, sputare, annaspare, andare sotto, riemergere, tornare giù, con grida strozzate, ma io rimanevo impalato, mento in su, stomaco teso, occhi immobili davanti a me, la fronte bagnata di sudore, bocca rigida, sedere contratto. Me ne stavo lì, rigido come un palo, e lui a strillare, annaspare, ingoiare acqua. Aspettavo che mi ordinasse: "Riposo!". "Riposo!" avrebbe dovuto dirmi, ma non lo fece mai. Quindi, che potevo fare? Continuai a rimanere immobile finché le urla cessarono, e l'acqua rifluì ai bordi della vasca, e tutto fu quieto. Restai dove e com'ero per dieci minuti, finché non arrivò qualcuno e mi trovò lì. Ma forse era passata anche una mezz'ora, non so. E poi la gente guardò nella piscina, vide qualcosa sul fondo, e disse: "Gesù Cristo" e alla fine si rivolse a me, perché tutti conoscevano me e mio padre, e alla fine mi disse: "Riposo!" E allora, scoppiai in lacrime." Il giovaneÄvecchio vuotò il suo bicchiere. "Vede, la questione é che non potevo essere sicuro che non stesse facendo la scena. Trucchi del genere li aveva già fatti altre volte, per prendermi in contropiede, per farmi smollare. Faceva finta, magari, di sparire dietro un angolo, lasciare passare un paio di minuti, e poi far capolino per vedere se ero sempre lì impalato. Oppure fingeva di andare al gabinetto, per saltare fuori all'improvviso per cogliermi in fallo. E punirmi, se avevo sgarrato. Così, quel giorno, dritto e immobile sull'orlo della piscina, pensai: "E' un trucco per fregarmi". Quindi dovevo aspettare, non le pare, per essere sicuro... per essere sicuro." Depose il bicchiere sul vassoio, e divenne silenzioso, guardando senza interesse oltre le mie spalle. Cercai di vedere se avesse gli occhi umidi o se la bocca gli tradisse qualche segno di emozione, na non scorsi nulla. "Si" dissi. "Ora so di suo padre. Ma... a lei com'é andata?" "Come vede," mi rispose "eccomi qui." Si alzò e mi tese la mano. "Buonanotte" disse. Lo guardai negli occhi e rividi in lui il ragazzino in attesa di ordini, cinquemila pomeriggi indietro. Ma gli guardai la mano sinistra: niente vera nuziale. Che voleva dire? Niente figli, niente futuro? Ma non potevo chiederlo. "Lieto di averla rivista" sentii la mia voce. "Sì." Annuì e diede una conclusiva stretta alla mia mano. "Mi fa piacere che lei ce l'abbia fatta in tutti questi anni." "Io" pensai. "Mio Dio! Io?" Ma lui mi aveva già voltato le spalle e si dirigeva verso il fondo del vagone, in perfetto equilibrio, senza ondeggiare alle scosse del treno. Si muoveva con l'elasticità, la naturalezza di un fisico allenato e controllato, al cui incedere lo svirgolare del convoglio era inesistente. Quando fu sulla porta, esitò, dandomi le spalle, e parve indugiare per un'ultima parola, un qualche ordine, un imperativo urlato da qualcuno.

"Avanti per uno..." volevo dirgli "...secondo gli ordini, in cadenza! March!" Ma non parlai. Non sapendo se lo avrebbe ucciso o liberato, mi morsi soltanto la lingua, e lo osservai aprire la porta, scivolarvi silenziosamente al di là, e allontanarsi lungo il corridoio dell'attiguo vagoneÄletto, verso un passato che io potevo immaginare, verso un futuro che non potevo prevedere. Un tocco di petulanza In una sera di maggio, per nulla dissimile da tante altre, una settimana prima del suo ventinovesimo compleanno, Jonathan Hughes incontrò il proprio destino, proveniente da un altro tempo, da un altro anno, da un'altra vita. Un destino lì per lì non identificabile, logicamente, salito sul treno alla stessa ora, alla Pennsylvania Station, e seduto assieme a Hughes, nel tratto lungo Long Island dedicato alla cena. Era stato il giornale tra le mani di quel destino, dalle sembianze di un signore di una certa età, che aveva indotto Jonathan Hughes allo stupore, e fargli chiedere alla fine: "Mi scusi, signore, ma il suo New York Times sembra differente dal mio. La stampa sulla prima pagina della sua copia appare più moderna. E' un'edizione più recente della mia?". "No!" L'attempato signore si interruppe, deglutì con difficoltà, e alla fine riuscì a continuare: "Sì. Un'ultimissima edizione". Hughes scoccò un'occhiata in giro. "Mi perdoni, ma... tutte le altre edizioni risultano uguali. Forse la sua é una copia di saggio per un'impostazione grafica futura?" "Futura?" Le labbra del signore si erano appena mosse. Tutto il suo corpo parve ritirarsi e appassire entro i vestiti, quasi che avesse perso peso in un'unica esalazione di fiato. "Già" sussurrò. "Un'impostazione futura. Dio, che scherzo!" Jonathan Hughes sbarrò gli occhi, avendo scorto la data del giornale. 2 maggio, 1999. "Un momento, mi lasci vedere..." protestò, e poi i suoi occhi si mossero sul foglio a scoprire, nell'angolo superiore di sinistra, un breve articolo, senza foto, in prima pagina. DONNA ASSASSINATA MARITO RICERCATO DALLA POLIZIA Ferite d'arma da fuoco sul cadavere della signora Alice Hughes... Il treno rombò su di un ponte. Fuori dal finestrino un miliardo di cespugli di rose esplose, verdi rami in parossismi di vento, e poi ricaddero a terra, recisi d'un colpo. Il convoglio rotolò in una stazione, come se nulla al mondo fosse successo. Nel silenzio che seguì, gli occhi del più giovane dei due uomini tornarono sul testo: Jonathan Hughes, pubblico revisore dei conti, abitante al 112 di Plandome Avenue, Plandome... "Mio Dio!" gridò. "Se ne vada!" Ma fu lui ad alzarsi e arretrare di qualche passo, prima che l'altro potesse muoversi. Il treno ebbe uno scossone, e Hughes fu proiettato su un sedile vuoto, dove rimase a fissare ciecamente un fiume di luce verde che sfilava via dal finestrino. "Cristo," pensò "a chi poteva venire in mente di fare una cosa simile? Chi poteva tentare una carognata del genere... a

noi? Che razza di scherzo? Insudiciare un recente matrimonio con una bella moglie? Maledizione!" E ancora, tremando: "Dannazione, oh, dannazione!". Il treno infilò una curva, e per poco non lo fece scivolare giù dal sedile. Come ubriaco dal troppo viaggiare, dalla mancanza di gravità, o semplicemente stordito dal furore, egli si rigirò e si protese per affrontare l'anziano signore, chino adesso sul suo giornale finito per terra nella sua inconcepibile edizione. Hughes cacciò il foglio sotto al sedile, con un calcio, e afferrò il vecchio per la spalla. Il vecchio, con un sussulto, alzò gli occhi, che erano pieni di lacrime. I due rimasero per un lungo momento sospesi nel rombo del treno. Hughes sentì che l'anima gli si innalzava per abbandonare il corpo. "Tu, chi sei?" Qualcuno doveva averlo gridato. Il treno barcollò come stesse per uscire dai binari. Il vecchio si tirò in piedi, quasi avesse ricevuto un colpo in pieno petto, cacciò un qualcosa in mano a Jonathan Hughes, con cieca disperazione, e svanì malfermo sulle gambe lungo la corsia e dentro il vagone successivo. Hughes aprì il pugno, capovolse un biglietto da visita, e vi lesse qualche parola che lo costrinse ad afflosciarsi di nuovo, a sedere e a rileggere: JONATHAN HUGHES, CPA 679Ä4990. Plandome "No!" urlò qualcuno. "Io" pensò il giovane. "Ecco, quel vecchio é... sono io." C'era un complotto, no, c'erano parecchi complotti. Qualcuno aveva ideato un brutto tiro su un delitto, giocandolo a suo danno. Il convoglio ruggì su cinquecento pendolari che all'unisono ne seguivano la corsa, ondeggiando, come un battaglione di ubriachi, dietro i libri e i giornali con cui si mascheravano, mentre il vecchio, come se fosse inseguito da demoni, fuggiva di vagone in vagone. E quando Jonathan Hughes ebbe raggiunto il massimo livello del furore e quasi perso il lume della ragione, il vecchio si era già tuffato, quasi precipitandosi, nella vettura di coda dello "speciale" pendolari. I due uomini s'incontrarono di nuovo in quest'ultimo vagone, che era quasi vuoto. Jonathan Hughes vi irruppe e si piantò di fronte al vecchio, per nulla propenso ad alzare gli occhi. Stava piangendo con un trasporto tale da rendere impossibile qualsiasi scambio. "Per chi," pensò Hughes "per chi piange, adesso? Che la smetta, in nome di Dio, che la smetta." L'altro, quasi a comando, si raddrizzò a sedere, si asciugò gli occhi, si soffiò il naso, e cominciò a parlare con voce indistinta, che costrinse Jonathan Hughes ad accostarsi e alla fine sedergli al fianco per udire quei sussurri. "Noi siamo nati..." "Noi?" gridò il più giovane. "Noi," confermò il bisbiglio, e il vecchio guardò dal finestrino le ombre del crepuscolo che, infittendosi, trascorrevano come fumo e faville "noi, sì, noi, io e te, siamo nati a Quincy, nel novecentocinquanta, il ventidue maggio..." "Sì" pensò Hughes. "... e abitavamo al 49 di Washington Street, frequentammo la Central School, per tutto il primo anno andammo a quella scuola assieme a Isabel Perry..." "Isabel" ricordò il giovane. "Noi..." mormorò di nuovo il vecchio. "Noi." E continuò: "Il nostro insegnante di lavori manuali, Mr. Bisbee. Quella di storia, Miss Monk. A dieci anni, ci rompemmo una caviglia, pattinando sul ghiaccio. A undici anni, per un pelo

non annegammo: ci salvò nostro padre. Ci innamorammo, a dodici anni, di Impi Johnson...". "Seconda media, bella ragazzina, ormai morta da tanto, Gesù Dio" pensò il più giovane dei due, sentendosi diventare vecchio. E fu così che accadeva. Nel successivo minuto, nel secondo, nel terzo minuto, man mano che parlava, il vecchio diventava gradatamente più giovane, le gote gli si colorivano, gli occhi gli si facevano luminosi, mentre il suo più giovane "io", sotto il peso della riemergente consapevolezza, si afflosciava sul sedile, impallidiva sempre più, tanto che i due, uno parlando, l'altro ascoltando, diventavano sosia e gemelli nella transizione. Vi fu un momento in cui Jonathan Hughes seppe, con una certezza assolutamente folle, che, se avesse osato alzare lo sguardo, avrebbe visto, riflessi nel finestrino di un mondo notturno che sfilava via, due gemelli identici. Non sollevò gli occhi. Il vecchio concluse, ora eretto sul busto, la testa spinta in alto dall'aver esternato, rivissuto rivelazioni da troppo tempo perdute. "Questo é il passato" disse. "Dovrei picchiarlo" pensò Hughes. "Oppormi. Urlargli sulla faccia. Perché resto inerte, non lo batto, non protesto?" Perché... Il vecchio intuì la domanda: "Tu sai che sono quello che dico di essere. So tutto quanto c'é da sapere su di noi. Adesso... il futuro?". "Il mio?" "Il nostro." Jonathan Hughes annuì, fissando il giornale che l'altro stringeva nella mano destra, e che piegò e mise via. "il tuo lavoro andrà facendosi lentamente men che buono. Per quali motivi, chi può saperlo? Ci nascerà un figlio e non vivrà. Ci faremo e ci separeremo da un'amante. Una moglie ci diverrà insopportabile. E alla fine, credilo, sì, credilo, lentissimamente arriverai a... - mi manca il coraggio di dirlo a odiarne la presenza vivente. Ecco, vedo che ti sconvolgo. Non parlerò più." Rimasero silenziosi, a lungo, e il vecchio divenne sempre più vecchio, e il giovane con lui. Quando ebbe raggiunto il dovuto numero di anni, Hughes sollecitò con un cenno la ripresa del discorso, senza guardare l'interlocutore, che disse: "Impossibile, vero? Sei sposato solo da un anno, ed é stato un grande anno, il migliore. Difficile credere che una singola macchia di inchiostro possa colorare di nero un'intera caraffa di acqua limpida. Ma colorarla poteva e l'ha colorata. E alla fine é cambiato tutto il mondo, non solo nostra moglie, non solo la bella compagna, il bel sogno". "Tu..." cominciò a dire Jonathan Hughes, e poi si fermò. "Tu... l'hai uccisa?" "Noi l'abbiamo fatto. Entrambi noi. Ma, se mi é concesso di fare a modo mio, se riesco a convincerti, né io né tu lo faremo, lei vivrà; e tu invecchierai per diventare un me più felice e più degno. Prego per questo. Per questo piango. C'é ancora tempo. Attraverso gli anni, intendo scuoterti, cambiarti il sangue, plasmare la tua mente. Dio, se la gente sapesse cos'é il delitto! Così sciocco, così assurdo, così sordido. Ma c'é speranza, perché qui ho ottenuto qualcosa: ti ho scosso e toccato dentro, ho dato inizio al cambiamento che salverà le nostre anime. Ora, ascolta. Lo ammetti, vero, che siamo uno e identici, che i gemelli del tempo stanno viaggiando su questo treno, in questa ora, in questa notte?" Il treno fischiò precedendoli, per liberare le rotaie di un ostacolo di anni. Il più giovane dei due annuì col più microscopico cenno di conferma. Al vecchio non occorreva di più.

"Sono fuggito. Sono corso da te. E' tutto quanto posso dirti. Lei era morta da un giorno soltanto, e sono fuggito. Dove andare? Nessun posto in cui nascondermi, se non nel Tempo. Nessuno a cui rivolgermi, nessun giudice, nessuna giuria, nessun testimone attendibile se non... tu. Tu soltanto puoi far scomparire il sangue, lo capisci? Sei tu che mi hai spinto, in quel momento. La tua immaturità, la tua ingenuità, le tue ore felici, la tua esistenza dai sogni ancora intatti, sono state la macchina che mi hanno fuorviato. Tutta la mia salvezza giace in te. Se tu volgi le spalle, Dio onnipotente, sono perduto, no, siamo perduti. Divideremo la stessa tomba, per non più risorgere, per sempre sepolti nell'ignominia. Devo dirti che cosa devi fare?" Il giovane si alzò. "Plandome" gridò una voce. "Plandome." E furono sul marciapiede della stazione, con il vecchio che correva dietro al giovane, e il giovane che procedeva, urtando contro i muri, contro la gente, quasi che le gambe gli cedessero. "Aspetta!" implorò il vecchio. "Ti prego!" L'altro continuò la sua marcia. "Non capisci? Ci siamo dentro insieme, dobbiamo pensarci insieme, risolverlo insieme, perché tu non divenga me e io non debba venire a cercarti. E' la nostra ultima possibilità, oh, lo so, é tutta una pazzia, é paradossale, lo so, ma ascolta!" L'altro si fermò sull'orlo del marciapiede, dove le auto stavano accostando, tra esclamazioni di saluto o grida festose, colpetti di clacson, accelerazioni di motori, fari che si allontanavano nell'oscurità. Il vecchio afferrò il gomito di Jonathan. "Buon Dio, tua moglie, la mia, sarà qui da un momento all'altro, e abbiamo tante cose da dirci, tu non puoi sapere quello che so io, ci sono vent'anni di avvenimenti che ignori che dobbiamo discutere e concordare! Mi senti? Dio, tu non mi credi!" Jonathan Hughes stava scrutando la strada. In lontananza veniva avanti un'ultima auto. Disse: "Che accadde nel solaio della casa di mia nonna, nell'estate del novecentocinquantotto? Nessuno lo sa, tranne me. Allora?". Le spalle del vecchio si rilassarono. Parve respirare più agevolmente, e, quasi leggesse da un prontuario, disse: "Ci nascondemmo lassù, io e tu soli, per due giorni. Nessuno immaginò mai dove ci eravamo cacciati. Tutti pensarono che fossimo scappati per finire annegati nel lago o cadere nel fiume. Ma per tutto quel tempo, in lacrime, credendo che nessuno ci volesse, restammo nascosti lassù e... ascoltammo il vento, desiderando di morire". Il giovane si girò, alla fine, e guardò fisso il proprio più anziano "io" con gli occhi umidi. "Allora, tu mi ami?" chiese. "Ti meravigli? Io sono tutto ciò che hai." L'auto stava fermandosi davanti a loro. Una giovane donna sorrise, e salutò con la mano da dietro il finestrino. "Presto" disse il vecchio, sottovoce. "Lasciami venire a casa, a osservarti, mostrarti, istruirti, scoprire dove le cose andarono storte, a correggerle adesso, forse per offrirti una vita bella per sempre... Lascia che..." Echeggiò il clacson, il cristallo del finestrino si abbassò e la giovane donna sporse la testa. "Ciao, seduttore!" gridò. Jonathan Hughes esplose in una risata, e si lanciò come un matto. "Ehi, salve, bella signora..." "Aspetta!" Si fermò, si voltò a guardare il vecchio del giornale, scosso da un tremito lì sul marciapiede. L'altro Jonathan sollevò una mano, interrogativamente. "Non stai dimenticando qualcosa?"

Silenzio. E poi: "Te" rispose il più giovane. "Te." L'auto invertì la rotta. La donna, il vecchio e il giovane ne seguirono, pencolando, il movimento. "Come ha detto che si chiama, lei?" volle sapere la giovane, sovrastando il rumore del traffico e del motore. "Non l'ha detto" si affrettò a rispondere suo marito. "Weldon" precisò il vecchio, sbattendo le palpebre. "To'" esclamò Alice Hughes. "Ma é il mio cognome da ragazza!" Il vecchio sussultò impercettibilmente, ma si riprese subito. "Ma davvero? Che strana coincidenza!" "Mi domando se non siamo parenti. Lei..." "Era mio professore alla High Central" intervenne di nuovo, e sollecito Jonathan Hughes. "E lo sono tuttora" confermò il vecchio. "Sempre sulla breccia." Ed erano già a casa. A tavola, non riuscì per un istante a toglierle gli occhi di dosso. Limitandosi a stare lì seduto, per lo più incantato a fissare la giovane donna che gli era di fronte. Jonathan Hughes armeggiava febbrile con le posate, parlava a voce troppo alta per coprire i silenzi, mangiando a spizzichi. Il vecchio continuava nel suo atteggiamento trasognato, come se un miracolo stesse accadendo ogni dieci secondi. Spiava le labbra di Alice, quasi ne uscissero zampilli di diamanti. Le scrutava gli occhi, quasi vi fossero nascoste tutte le saggezze del mondo, e che egli le trovasse per la prima volta. Dall'espressione del volto, era indubbio che aveva dimenticato perché si trovasse lì. "Ho una crosta di pane attaccata sul mento?" esclamò Alice a un tratto. "Perché continuate tutti e due a scrutarmi?" Al che, l'anziano signore scoppiò in lacrime che sconvolsero gli altri due. Un pianto che pareva irrefrenabile, finché Alice girò attorno alla tavola per toccare una spalla all'afflitto. "Mi perdoni" pregò questi. "E' solo che lei é tanto adorabile. Torni a sedersi, la prego. Mi perdoni." Terminarono il dessert e, deponendo sul piatto la forchetta, con enfatico compiacimento, e forbendosi la bocca, Jonathan Hughes esclamò con un brio eccessivo: "Una cena favolosa! Sei un tesoro di moglie. Ti amo!". La baciò sulla guancia. "Vede?" lanciò un'occhiata al vecchio. "Io amo moltissimo mia moglie." L'ospite annuì, e confermò: "Si, si, lo ricordo". "Se ne ricorda?" Alice lo fissò, attonita. "Un brindisi!" gridò subito Jonathan Hughes. "A una bella moglie, a un radioso futuro!" Alice si mise a ridere e sollevò il suo bicchiere. "Mr. Weldon," chiese dopo un momento "lei non beve?..." Era strano vedere il vecchio sulla porta del soggiorno. "Osserva" disse, e chiuse gli occhi e, a occhi chiusi, cominciò a muoversi con sicurezza e rapidità in giro per la stanza. "La c'é la rastrelliera delle pipe, da questa parte ci sono i libri. Sul quarto ripiano partendo dal basso, una copia del Lanciatore di stelle di Eiseley. Sul ripiano subito sopra, la Macchina del tempo, di H.G. Wells, quanto mai confacente, ed ecco la mia poltrona speciale, su cui vado a sedermi." E la occupò. Aprì gli occhi. Guardandolo dalla porta, Jonathan Hughes domandò: "Non ti metterai a piangere di nuovo, o sì?". "No. Basta con le lacrime." Dalla cucina venivano rumori di piatti rigovernati. La giovane adorabile creatura allietava l'operazione canticchiando a bocca chiusa. I due uomini si girarono a sbirciare in direzione di quei suoni. "E un giorno," si stupì Jonathan Hughes "io finirò con l'odiarla? Un giorno, la ucciderò?"

"Non sembra possibile, vero? L'ho osservata per un'ora, e non ho trovato nulla, non un accenno, non un indizio, non un punto, un punto e virgola, un punto esclamativo di fastidioso, di insopportabile, non un capello fuori posto, in lei. Ho osservato anche te, per vedere se fossi tu a essere in difetto, se fossimo noi in colpa, in tutto questo." "E...?" Il giovane versò dello sherry per entrambi, e allungò un bicchiere al suo più anziano se stesso. "Che tu beva troppo é un corollario. Da tenere in considerazione. Controllati." Hughes allontanò il bicchiere senza sorseggiare. "Che altro?" "Suppongo dovrei lasciarti un elenco, perché tu lo segua, ti ci attenga ogni giorno. Consigli di un vecchio pazzo a un giovane pazzo." "Agli ordini, li terrò presenti." "Ne sei sicuro? Per quanto tempo? Un mese, un anno, e poi, come di ogni altra cosa, te ne dimenticherai. Avrai una vita intensa. Lentamente diventerai... me. Lei lentamente si trasformerà in qualche cosa che varrà la pena di eliminare dal mondo. Dille che l'ami." "Glielo dirò ogni giorno." "Giuralo! E' importante! Forse é li dove io ho mancato. Ogni giorno, immancabilmente." Il vecchio si protese, sottolineando con forza. "Ogni giorno. Ogni santo giorno!" Alice apparve sulla porta, leggermente inquieta. "Qualcosa non va?" "No, no." Jonathan Hughes sorrise. "Stavamo cercando di decidere chi di noi due ti vuole più bene." Lei si mise a ridere, alzò le spalle, e tornò in cucina. "Penso," disse Jonathan Hughes, si fermò e chiuse gli occhi, obbligandosi ad aggiungere "sia ora che tu te ne vada." "Si, é ora." Ma il vecchio non si mosse. La sua voce aveva un'impronta di estrema stanchezza e tristezza. "Sono rimasto a sedere qui, avvertendo la sconfitta. Non riesco a trovare nulla di sbagliato. Non riesco a trovare il minimo neo. Non posso darti consigli, mio Dio, che grossa idiozia, non sarei dovuto venire a inquietarti, a turbarti, a sconvolgerti la vita, dal momento che non ho niente da offrire se non nebulosi suggerimenti, e inutili gemiti di perdizione. Ero lì un momento fa e pensavo: "Adesso la uccido, adesso mi libero di lei e me ne prendo l'intera colpa, adesso, da vecchio, di modo che questo giovane, tu, possa vivere il tuo futuro, indenne e tranquillo". Non é stupido? Mi chiedo se funzionerebbe. E' il vecchio paradosso del viaggiatore del tempo, no? Imbroglierei il flusso del tempo, il mondo, l'universo, che cosa? Non preoccuparti, no, no, non fare quella faccia stravolta! Nessun delitto, adesso. E' già avvenuto nel futuro, da qui a vent'anni. E questo vecchio, non avendo fatto niente di niente, non essendo stato di alcun aiuto, adesso aprirà la porta e se ne andrà via verso la sua pazzia." Si alzò e chiuse di nuovo gli occhi. "Lasciami provare se riesco a trovare come si esce da casa mia, senza vederci." Si avviò, preceduto dal giovane, per trovargli l'uscio del guardaroba, di fianco alla porta d'ingresso, aprirlo, prendere il cappotto del vecchio e infilarglielo lentamente. "Mi hai aiutato" disse Jonathan Hughes. "Mi hai ricordato di dirle che l'amo." "Si, almeno questo l'ho fatto, vero?" Di fronte alla porta, il vecchio volle sapere, di colpo energico: "Una speranza c'é, per noi?". "Si, farò in modo che ci sia" assicurò Jonathan Hughes. "Bene, oh, bene! Quasi ci credo!" Allungò la mano sulla maniglia, aprì la porta.

"A lei non dirò addio. Non riuscirei a guardarla in faccia. Dille che il vecchio scemo se n'é andato. Dove? Sulla strada, ad aspettare te. Un giorno o l'altro mi raggiungerai." "Per diventare te? Non ne ho la minima intenzione!" rispose il giovane. "Ecco, continua a dirlo. E... oh, mio Dio... un momento..." Il vecchio si frugò in tasca e ne trasse un piccolo oggetto avvolto nel giornale spiegazzato. "Meglio che questa la tenga tu. Su di me non c'é da fare affidamento, neanche adesso. Potrei fare qualche pazzia. Prendi." Cacciò l'involto tra le mani di Jonathan. "Addio. Non significa: Dio sia con te? Si. Addio." Si affrettò lungo il vialetto, nelle tenebre. Il vento arruffava gli alberi. In lontananza, un treno si mosse nel buio, arrivando o partendo, chi lo sa? Jonathan Hughes indugiò a lungo sulla soglia, tentando di vedere se c'era realmente qualcuno lì fuori che scomparisse nella notte. "Tesoro" giunse il richiamo della moglie. Alice era sulla porta del salotto, alle spalle di Jonathan, ma la sua voce pareva lontanissima quanto i passi la cui eco andava perdendosi lungo la strada buia. Jonathan Hughes cominciò a svolgere il piccolo involto. "Non startene li a far entrare corrente!" ammonì Alice. Lui si tese quando finì di scartare l'oggetto datogli dal vecchio. Un oggetto luccicante sul palmo della sua mano, una piccola rivoltella. Lontano, il treno lanciò un ultimo richiamo, che il vento portò via. "Chiudi quella porta!" insisté Alice Hughes. Lui avvertì in viso una sensazione di freddo. Chiuse gli occhi. La voce di lei. Non conteneva forse un impercettibile tocco di petulanza? Si girò lentamente, incerto sulle gambe. Strofinò con la spalla la porta, che si mosse. Poi... Fu il vento che la richiuse con un tonfo rabbioso. Lunga spartizione "Hai fatto cambiare la serratura!" Lo disse con voce stupita, fermo sulla soglia, guardando la maniglia che impugnava con una mano, mentre con l'altra cercava ancora di far girare la vecchia chiave nella serratura. Lei tolse la mano dal pomolo interno e voltò le spalle, allontanandosi. "Non volevo che nessun estraneo potesse entrare." "Estraneo!" esclamò lui. Di nuovo tentò la maniglia, poi, con un sospiro, mise via la chiave ormai inutile, e chiuse la porta. "Già, immagino che lo siamo. Estranei." La donna non sedette, ma rimase in piedi, al centro della stanza, guardandolo. "Vediamo di arrivare al punto" gli disse. "A quanto pare, tu ci sei già arrivata. Gesù!" Sbattendo le palpebre, fissò i libri divisi in due pile, incredibilmente ordinate, sul pavimento. "Non potevi aspettare che ci fossi anch'io?" "Ho pensato che avrebbe risparmiato tempo" gli rispose, e accennò prima a sinistra, poi a destra. "Questi sono miei. Quelli sono i tuoi." "Diamoci una controllata." "Fai pure. Ma da qualsiasi parte li rigiri, questi sono i miei e quelli sono i tuoi."

"Oh, troppo comodo!" Lui si accostò alle due pile e cominciò a demolirle, prendendo i volumi ora da destra ora da sinistra. "Qui si ricomincia da capo." "Metterai tutto in disordine!" protestò lei. "Mi ci sono volute ore per suddividere tutto quanto!" "Be'" ribatté l'uomo, già col fiatone, e con un ginocchio a terra. "Mettiamoci qualche ora extra. Analisi freudiana! Vedi? Che ci fa quella tra le mie spettanze? Freud non lo posso soffrire!" "Speravo di togliermelo dai piedi." "Togliertelo dai piedi? Chiama le Opere Pie. Non rifilare i mattoni letterari agli estranei, cioé al tuo ex marito. Facciamo tre pile, una per te, una per me e una per l'Esercito della Salvezza." "La roba per l'Esercito della Salvezza, prenditela tu, e poi chiama perché vengano a portarla via." "Perché? Non puoi telefonare da qui? Non ho la minima intenzione di rimorchiarmi per tutta la città gli autori indesiderabili! Non sarebbe più semplice..." "D'accordo, d'accordo, non ti agitare. Ma smettila di mescolare i libri. Controlla quelli della mia pila, poi quelli della tua, e vediamo dove non sei d'accordo..." "Vedo la mia copia di Thurber dalla tua parte, che ci fa li?" "Me la regalasti per Natale, dieci anni fa, non ricordi?" "Oh," disse lui "già, é vero... Willa Cather, é tuo anche quello?" "Me lo desti per il mio compleanno, dodici anni fa." "A quanto sembra, ti ho viziata parecchio." "Puoi giurarci, accidenti, un tempo, tanto tempo fa, lo facevi. Magari avessi continuato. Forse non saremmo qui adesso a spartirci 'sti dannati libri!" Lui arrossì e si girò per assestare; con la punta della scarpa, una gentile pedata ai volumi messi in verticale. "Karen Horney, si, anche lei un mattone. Jung, Jung é molto meglio, l'ho sempre trovato in gamba, ma puoi tenertelo." "Grazie infinite." "Sei sempre stata una che pensa molto, troppo, ma non ha sensibilità." "Uno che si porta sulle spalle il proprio materasso ovunque vada non dovrebbe parlare di pensiero e sensibilità. Uno che esibisce segni di morsicate sul collo..." "Ne abbiamo già parlato, ed é acqua passata". L'uomo tornò a inginocchiarsi e prese a far scorrere l'indice sui titoli. "Qui c'é la Nave dei folli di Katherine Anne Porter, come diavolo l'hai messo tra i miei? E' tuo. I racconti di John Collier! Sai che ci vado matto! Questo va nella mia pila!" "Un momento!" protestò la sua ex moglie. "Nella mia pila!" Sfilò il libro e lo gettò sul pavimento. "No! Lo sciuperai!" "E' mio, adesso. Che cosa te ne importa?" E l'uomo dette un calcio al volume. "Sono felice che non sia tu il direttore della biblioteca pubblica!" "Questo é Gogol, una pizza. Saul Bellow, altra pizza. John Updike, mica male come stile, ma non ha idee. Noioso, Frank O'Connor? Okay, ma puoi tenertelo. Henry James? Barboso anche lui. Tolstoi, mai riuscito a raccapezzarmi con i nomi, non noioso, ma confusionario, prenditelo. Aldous Huxley? Ehi, un momento! Lo sai che giudico i suoi saggi migliori dei suoi romanzi!" "Non puoi separare in due l'opera!" "Certo che posso! Dividiamo in due il bimbo. Tu ti prendi i romanzi, io mi tengo le idee." Afferrò tre dei volumi e li gettò sul tappeto. La donna si fece sotto e cominciò a esaminare quanto lui si era selezionato.

"Che stai facendo, adesso?" le chiese. "Niente altro che ricontrollando quello che intendevo darti. Per esempio, mi sa che John Cheever me lo riprendo." "Cristo! Cos'é, occhio per occhio, dente per dente? Rimetti giù Cheever. Qui c'é Puskin, una barba. Robbe Grillet, barba francese. Knut Hamsun? Barba scandinava." "Piantala con le critiche. Mi fai sentire come se avessi appena bucato l'esame di letteratura. Credi forse di prenderti tutti i libri buoni e lasciare a me la fuffa?" "Potrebbe essere. Tutti questi autori del Connecticut, che si baciano l'ombelico a vicenda, impestano con la loro mafia la Quinta Strada, con la loro flatulenza!" "Non penso che Dickens tu lo ritenga uno snob?" "Dickens? Non ce n'é uno come lui che sia venuto a galla in questo secolo!" "Sia lode al Signore! Avrai notato che ti ho concesso tutti i romanzi di Thomas Love Peacock. La fantascienza di Asimov. Kafka? Banale." "Adesso chi é che demolisce gli scrittori?" L'uomo si chinò rabbiosamente a studiare prima la sua pila, poi quella di lei. "Peacock, per Dio, uno dei più grandi umoristi di sempre. Kafka? Profondo. Folle e incisivo. Asimov? Un genio!" "Bum! Oh, Gesù!" La donna si mise seduta, le mani in grembo, e si protese accennando con la testa alla catena collinosa dei libri. "Credo di cominciare a capire dove tutto andò a catafascio. I libri che leggevi tu, paccottiglia per me. Quelli che leggevo io, cretinate per te. Scarti, porcherie. Perché non ce ne siamo resi conto dieci anni fa?" "Di un sacco di cose non ti rendi conto quando..." lui esitò "... sei innamorato." La parola era stata pronunciata. Lei si ritrasse sulla sedia, a disagio, congiunse le mani, unì i piedi in parallelo. Fissò l'ex marito con una singolare lucentezza nello sguardo. Egli distolse gli occhi, e cominciò a passeggiare avanti e indietro. "Ah, diavolo" disse toccando con la punta della scarpa una pila, e facendo poi lo stesso con l'altra, ma dolcemente, con naturalezza. "Non m'importa un accidente di che c'é in questo mucchio o in quest'altro. Me ne frego, non..." "Hai posto in macchina per portarti via il grosso?" gli chiese a bassa voce, sempre guardandolo. "Penso di sì." "Vuoi che ti aiuti a portarli giù?" "No." Altra lunga pausa silenziosa. "Posso farcela da solo." "Ne sei sicuro?" "Sicuro." Con un grosso sospiro, egli cominciò a trasportare qualche volume vicino alla porta d'ingresso. "In macchina ho qualche scatolone. Scendo e lo porto su." "Non vuoi dare un'occhiata al resto per accertarti che sono i libri che ti interessano?" "No" le rispose. "I miei gusti non li conosci. Pare proprio che la suddivisione l'hai fatta bene. Esattamente come se tu avessi separato due fogli di carta che combaciavano a perfezione, ed eccoli qui, quasi non riesco a crederci," Smise di trasportare i libri vicino alla porta, e restò a fissare prima una fortezza di volumi da un lato, poi gli opposti castelli e torri di letteratura, e infine la sua ex moglie seduta nella valle che divideva i due schieramenti. Una valle che pareva ben lunga, e rendeva remota la donna. In quell'istante, due mici, entrambi neri, uno grosso, uno piccolo, balzarono fuori dalla cucina, guizzarono tra i mobili, rimbalzarono via dalla stanza, senza il minimo rumore. La mano di lui si contrasse. L'uomo fece per girarsi verso la porta.

"Ah, no!" esclamò subito lei. "Niente trasloco di gatti. Loro sono fuori dal conteggio. Maude e Maudlin restano con me." "Ma..." "Niente ma" confermò lei. Dopo una lunga esitazione, l'uomo alzò le spalle. "All'inferno" disse con voce sommessa. "Non ne voglio nemmeno uno di questi maledetti libri. Puoi tenerteli tutti!" "Tra qualche giorno cambierai idea e verrai a prenderli." "Non voglio loro" le disse. "Voglio solo te." "Ed é questa la parte più terribile di tutto quanto" gli rispose, restando immobile. "Lo so, ed é impossibile." "Certo. Torno subito. Vado a prendere gli scatoloni." Aprì la porta e studiò di nuovo la serratura, quasi non potesse crederci. Cavò di tasca la vecchia chiave e la mise su un tavolino vicino all'uscio. "Questa non serve più." "No, non più" confermò lei, a voce tanto bassa da sentirsi appena. "Quando torno di sopra, busso." Sulla soglia, si girò. "Lo sai che tutto questo nostro parlare finora non ha fatto altro che girare attorno al vero argomento, che nemmeno abbiamo sfiorato?" "E cioé?" domandò lei, alzando gli occhi. L'uomo esitò, fece un passo, e disse: "Chi si tiene i ragazzi?". Prima che la donna potesse rispondere, uscì e chiuse la porta. Vieni, e porta Costanza Sua moglie aprì la posta mentre facevano la prima colazione, un sabato mattina. Era la solita valanga. "Siamo su ogni indirizzario selezionato della città e dintorni" sbuffò lui. "Le fatture, le ammetto. Ma gli inviti, le premiers alle quali non vuoi andare, i pranzi di beneficenza che non beneficiano nessuno, gli..." "Chi é Costanza?" domandò sua moglie. "Chi é chi?" "Costanza" ripeté lei. E la mattina d'estate si tramutò rapidamente in cupo novembre. La moglie gli allungò una lettera, che veniva da un vecchio recesso familiare sulle sponde del Lago Arrowhead, e che lo invitava a una serie di letture sull'Anelito Primigenio, la Transustanziazione Extrasensoriale e lo Zen. La firma, scarabocchiata in calce, sembrava essere "J'ujfl Kikrk". Come se qualcuno, al buio, avesse battuto a macchina la parola sbagliata senza curarsi di correggerla. Il post scriptum diceva: "Se vieni, porta Costanza". "Allora?" inquisì la moglie, spalmando troppo burro sul pane. "Non conosco nessuna Costanza." "No?" "NON C'E' NESSUNA COSTANZA" ripeté lui. "Veramente?" "Parola d'onore di madre di guida indiana." "Gli indiani sono sporchi, le guide sono finocchi, e tua madre era una signora di larghe vedute" ribatté la moglie. "Non é mai esistita, non esiste, e non esisterà mai" ed egli gettò la lettera nel cestino della carta straccia "una Costanza." "Allora," rilevò la donna, con logica da avvocato, incombendo sul tavolo "perché," scandì "c'é" proseguì "il suo nome," sillabò e concluse "nella lettera?" "Dov'é lo spasimante?" domandò lui. "Che spasimante?" "Ce ne dev'essere uno a disposizione, da poter esecrare."

Intanto, stava rapidamente spremendosi le meningi. Sua moglie intuì quel lavorio mentale, e imburrò di nuovo il suo toast. "Costanza" pensò lui, già colto dal panico. "Ho conosciuto un'Alicia, e ho conosciuto una Margot e ho frequentato una Louise e una volta, tanto tempo fa, una Allison. Ma... "Costanza? "Mai. Mai vista, neanche a teatro. O a qualche té." Cinque minuti dopo telefonò a Lago Arrowhead. "Mi passi quel fesso di un pagliaccio" disse, senza riflettere. "Oh, Mr. Junoff? Senz'altro" rispose una voce femminile, come se la descrizione non lasciasse dubbi. Subentrò Junoff. "Siiiiii...?" Era uno di quelli che da un monosillabo traggono una lunga coda. "Il nome di mia moglie non é Costanza" disse il marito. "Chi mai ha detto che lo sia? Chi parla?" "Chiedo scusa." Il marito declinò il proprio nome "Senti un po', il solo fatto che quattro anni fa, in un momento di debolezza mentale, ti ho lasciato che mi incastrassi su un divano e mi riempissi la testa di balle, non ti autorizza a spedirmi un invito al tuo convegno pseudoculturale del mese prossimo. Tanto più quando, in fondo alla lettera, ci aggiungi: "porta Costanza". Che non é il nome di mia moglie!" "Essendo suo marito da vent'anni, dovrei saperlo." "Forse, inavvertitamente, ho..." "No, neanche quello. La mia amante, quando era viva, del che a volte dubito, si chiamava Deborah." "Accidenti!" disse Junoff. "Sì, al sottoscritto. E sei stato tu a inviarmeli per posta." Dall'altro capo, il microfono fu abbandonato e ripreso nuovamente. Pareva che il lontano interlocutore si stesse versando qualche beveraggio robusto alla ricerca di una risposta tappabuchi. Che suonò: "E se scrivessi una lettera a Costanza...". "Non c'é una Costanza! C'é solo mia moglie. Che si chiama..." Restò incerto. "Che ti succede?" Il marito chiuse gli occhi. "Un momento. Annette, si chiama. Sì, Annette. No, quello é il nome di sua madre. Anne. Ecco. Scrivi ad Anne." "Che le dico?" "Ti scusi per aver tirato in ballo una Costanza. Mi hai messo in un bel casino. Lei adesso crede veramente che la donna esista sul serio." "Costanza crede questo?" "Annette. Anne. Anne! Ti ho già detto..." "Che non c'é nessuna Costanza. Ho capito. Aspetta un attimo." Il ricevitore trasmise un altro gorgoglio di liquido. "Stai andando a gin invece di ascoltarmi?" "Come fai a sapere che é gin?" "L'hai scosso, non mescolato col cucchiaio." "Ah. Bene. La lettera devo scriverla o no?" "Sarebbe un buco nell'acqua. Mia moglie penserebbe soltanto che le hai scritto una balla per salvarmi la pelle." "Sì, ma la verità..." "Per le mogli, la verità é del tutto e sempre inattendibile!" Altro lungo silenzio dalla villa annidata in riva al lago. "Allora?" domandò il marito. "Sto aspettando." "Che cosa, in nome di Dio?!" "Che tu mi dica cosa devo fare." "Sei tu lo psicologo, lo specialista, sei tu il consigliere, quello che organizza mistiche abluzioni per le menti inquinate, sei tu il tizio con le suole di gomma, o quel che sia, e quindi trova tu qualcosa!"

"Resta in linea" raccomandò la voce del Lago Arrowhead. Seguita da un suono come lo schiocco di dita o di altro ghiaccio che cadesse in un bicchiere pieno. "Sacra Vacca," disse lo psicologo "credo di aver trovato. Sì. Ci sono. Ci sono! Mio Dio, se sono in gamba! Reggiti i pantaloni!" "Non li sto mica perdendo, ti venga un colpo!" "Preparati. Sto riportando a galla il Titanic!" Clik. Un suono come di altre dita schioccate o di altri cubetti di ghiaccio o del microfono riattaccato. "Junoff!" Ma Junoff non c'era più. Marito e moglie battagliarono per tutta la mattina, si insultarono a pranzo, si sbranarono al caffé, ripresero il combattimento verso le due sull'orlo della piscina, alle quattro, dopo un pisolino, si svegliarono freschi di nuovo vetriolo, e alle cinque meno cinque tacquero perché alla porta d'ingresso era squillata una scampanellata imperiosa. Ammutolirono, dunque, lei in preda a una giusta indignazione, lui ormai ubriaco di proteste di innocenza sempre più disperate. Dal bar, dove si trovavano, fissarono la porta. La regale scampanellata echeggiò di nuovo. Qualcosa di possente e maestoso incombeva sul campanello, incurante se questo dovesse squillare in eterno per chiamare a raccolta l'intero contado a prosternarsi. I due coniugi mai avevano sentito un tale squillare indisponente. Il che stava a significare o uno zotico messaggero o un personaggio di tale grandiosità da essere perennemente autoritario. Marito e moglie si mossero insieme verso la porta. "Dove credi di andare?" gridò lei. "Ad aprire, naturalmente." "Oh, no. Tu non ci provare! Per mettere le mani avanti, eh?" "Le mani avanti per che cosa?" "Bugiardo. Non muoverti!" E scattò, lasciandolo sul posto. L'uomo tornò al bar e nei successivi trenta secondi non staccò le labbra dal bicchiere e dal relativo robusto contenuto. Con l'unico risultato, al trentunesimo secondo, di vedere sua moglie ferma sulla porta d'ingresso. Moglie che pareva sbalordita o paralizzata, o entrambe le cose. Con le spalle all'entrata, abbozzò quindi uno strano gesto con la mano, come dire "Si accomodi". A chi? Il marito contemplò la scena. "E' Costanza" disse la moglie. "Chi?" gridò lui. "Costanza, naturalmente!" tuonò una voce. E la donna più alta e più bella che egli avesse vista mai irruppe nella stanza, si guardò attorno come a valutare il tutto e il particolare, e gli si fece contro, con passo sinuoso, per afferrarlo per i gomiti, abbrancargli le spalle, e piantargli un bacio sulla fronte, che subito acquisì un terzo occhio. Per poi arretrare di un passo e squadrarlo dall'alto in basso, quasi non fosse un uomo, ma una squadra di atleti cui ella stesse per consegnare una coppa. Lui alzò gli occhi su quella grande faccia luminosa, e sussurrò: "Costanza?". "Quello che casca dalle nuvole, come al solito!" La gigantessa girò sui tacchi per sottoporre a similare indagine la moglie, e la moglie, se non una squadra di atleti vittoriosi, era come minimo una schiera di ammiratori convenuti alla partita. "Così, questa é...?" chiese la nuova venuta. "Annette" disse il marito. "Anne" rettificò la moglie. "Già, esattamente" confermò lui. "Anne."

"Anne! Che nome adorabile. Posso avere un drink, Anne?" L'alta e bella femmina, dal luminoso alone di capelli biondi, gli intenti occhi grigi - di quel grigio nebbia che incombe di primo mattino - dall'andatura scattante, dalle braccia e le mani da danzatrice, si sistemò, con elastica compostezza, su una poltrona, allungando lo splendido compasso delle lunghe gambe. "Mio Dio, spasimo per un martini. E' chiedere troppo?" L'uomo si riscosse, ma sua moglie impose: "Tu non muoverti!". Lui si bloccò. La moglie si chinò in avanti a valutare, dalla testa ai piedi, quella creatura, così come l'esame inverso era stato eseguito. "Allora?" "Allora cosa?" "A che dobbiamo l'onore... ah...?" "Costanza!" La moglie fulminò il coniuge con un'occhiata. "Quindi, non esiste alcuna Costanza, eh?" La gigantessa guardò il marito, sfarfallando le ciglia. "Si può sapere cosa hai raccontato ad Anne?" "Niente." Ed era la verità. "Be', lei deve sapere tutto. Stasera parto in aereo per New York, domani prendo il Concorde per Parigi. So che tra voi c'é stato un malinteso..." "C'é stato sì, maledizione!" confermò il marito. "E ho ritenuto opportuno fare un salto qui e chiarire le cose, prima che me ne vada per sempre." "Okay" disse la moglie. "Chiarisca." "Prima, posso avere da bere?" L'uomo accennò una mossa. "Resta dove sei!" ammonì la moglie, con una mortale freddezza nella voce. "Allora, é proprio così," commentò la sorprendente Costanza, sinuosa come i bei fiumi di Francia, e bella quanto tutti i castelli e le torri che orlano quei fiumi "sei una donna favolosa!" "Io?" domandò la moglie. "Tuo marito non parla d'altro." "Lui?!" gridò la moglie. "Non la smette un minuto. Mi fa una testa così. Mi rende pazza di gelosia. Come vi siete conosciuti, come ti ha fatto la corte, dove andavate a cena, qual é il tuo piatto preferito, la marca del tuo profumo - Contessa - il libro che ti piace di più, Guerra e Pace, che hai letto sette volte..." "Solo sei..." precisò l'altra. "Ma lo stai rileggendo per la settima!" "E' vero" ammise la moglie. "I tuoi film preferiti, Pinocchio e Citizen Kane..." La consorte lanciò un'occhiata al marito, che si strinse nelle spalle con espressione interdetta. "Il tuo sport prediletto, il tennis dove sei un ciclone, e lui lo batti regolarmente. Brava anche a bridge e a poker - lo peli quattro volte su cinque. E i tuoi successi alle superiori, al college, e a bordo della United States in rotta per l'Inghilterra, quando eravate in luna di miele, e anche l'anno scorso, durante la crociera nei Caraibi. Come hai vinto, l'anno prima, la gara di charleston sulla Queen Elizabeth II tornando dalla Francia. Il tuo amore per Emily Dickinson e Robert Frost. Come interpretasti, otto anni fa, Desdemona in una piccola filodrammatica, con critiche entusiaste. Le tue devote premure quando lui era in ospedale, cinque anni fa. Le affettuose attenzioni per sua madre, quasi fosse una delicata porcellana di Dresda. La sensibilità che ti spinge a deporre fiori sulla tomba di suo padre, almeno quattro volte all'anno. Come hai resistito alla tentazione di comprarti duemila dollari di modelli di Dior, quand'eri a Parigi. La volta che cenaste con Fellini, a

Roma, e Federico restò ammaliato, e quasi ti rapiva. La vostra seconda luna di miele a Firenze, dove piovve per una settimana di fila, ma voi non faceste una piega, perché rimaneste sempre in camera. Il racconto che pubblicasti sull'Ohio State Monthly... superbo..." Il marito, adesso, era chino in avanti, ipnotizzato. E la moglie era sprofondata in un silenzio stupefatto. "E avanti, avanti" proseguì la donna, il cui nome aveva provocato tutto quello scompiglio. "Logorroico a non finire. Come si innamorò di te quando avevi dodici anni. Come lo aiutavi in algebra, quando ne avevi quattordici. Come gli arredasti l'appartamento, dai pavimenti ai lampadari, dalla stanza da bagno alla veranda sul retro, e nobilitasti l'anticamera con un tappeto e disponesti il vasellame nella credenza. Mio Dio, Signore onnipotente, chi poteva fermarlo! Una saga incessante a esaltarti. Mi chiedo..." L'alta, lunga, splendida femmina prese fiato. "Quando é con te, ti parla mai di me in questo modo?" "Mai" disse la moglie. "Certe volte, ho la netta sensazione," continuò la bella creatura "che neanche esisto quando sono con lui. Che lui é con te?" "Io..." azzardò il marito. "Sta' zitto" ordinò la consorte. Lui tacque. "Continui." La moglie si protese per il seguito. "Non c'é tempo. Devo scappare. Posso avere quel drink?" La padrona di casa andò al bar, calibrò il martini, e tornò come stesse portando il primo premio al miglior gatto dell'esposizione. L'ospite sorseggiò, ed esclamò: "Questo é il martini più superbo che abbia mai assaggiato. Ma tu sei perfetta in tutto?". "Vediamo di riordinare le idee." La moglie sedette lentamente e scrutò la concorrenza. "Quindi, lui parla di me, vero?" "Ed ecco perché é tutto finito" chiarì la bella femmina. "Non ci resisto più. "Se sei così pazzo per lei, se l'ami tanto," gli ho detto "in nome di Dio, che ci fai con me! Lasciami! Vai da lei! Tanti saluti, e amici come prima. Ancora un solo giorno della Più Meravigliosa Moglie che Dio Abbia mai Creata, e diventerei totalmente pazza! Smamma!" gli ho detto." Vuotò il bicchiere, chiuse gli occhi assaporando la squisitezza, annuì, e si alzò, un livello dopo l'altro, splendido edificio, piano su piano. Dominò sulla coppia come una nube estiva, invitandola con un gesto a non alzarsi. "Ora, devo smammare anch'io. Di volata all'aeroporto. Ma prima dovevo venire qui a chiarire certe cose. Non é giusto minare due esistenze e non bonificarle. Comunque, é stato divertente, George..." "Mi chiamo Bill." "Infatti. Caro Bill, grazie infinite. E, Annette..." "Anne." "Anne, hai vinto. Starò via quattro mesi. Quando torno, non telefonatemi, mi faccio viva io. Ciao, brava moglie. Ciao, Charlie." Strizzò l'occhio, dilagò verso la porta sulla cui soglia si girò. "Grazie per aver ascoltato. Che la vita vi sorrida!" La porta venne richiusa, un rimbombo. Il taxi, che attendeva davanti casa, fu sentito partire e allontanarsi. Il silenzio che aleggiò fu interrotto dalla moglie: "Ma che é stato?". "Uno di quegli uragani," le rispose lui "ai quali danno un nome di donna." E si avviò verso la camera da letto, dove lei lo trovò intento a fare la valigia.

"E adesso dove credi di andartene?" gli chiese, ferma sulla soglia. "Be', dopo tutto questo, pensavo tu volessi che me ne andassi di casa..." "Già, e trasferirti in albergo?" "Forse..." "Dove lei possa raggiungerti ad arpionarti di nuovo?" "Pensavo solamente..." "Tu pensi che ti permetta di correre libero in un mondo dove la gente come quella é in agguato? Mio povero pesciolino..." "Mica si può arpionare un pesciolino." "Ma lei dispone di un cucchiaio ben grosso! Togli quelle camicie dalla valigia. Rimetti a posto quelle cravatte, e le scarpe sotto il letto. E vieni a bere qualcosa, dannazione, e mettiti a tavola e mangia la dannata cena che ti ho preparato." "Ma..." "Sei un animale, un topo da fogna, un miserabile" disse lei. "Ma..." Le lacrime le solcarono le guance. "Ma ti amo. Dio abbia pietà di me. Ti amo." E uscì di corsa dalla stanza. La sentì scuotere rabbiosamente i cubetti di ghiaccio nello shaker. Mentre lui stava formando un numero al telefono. "Mi passi quel fesso di figlio di puttana" disse al microfono. "Qui Junoff. Allora?" "Junoff, genio inarrivabile, incredibile immaginifico deus ex machina per gli amici in difficoltà! Chi é lei? Come ci sei riuscito?" "Lei? Chi?" domandò la voce del Lago Arrowhead. "Come hai fatto a ricordare tante cose di quelle che ti confidai anni fa? Come sei riuscito a istruirla così bene? Di quale compagnia teatrale fa parte lei, per essere un'allieva così veloce e realistica?" "Non ho la più pallida idea di cosa tu stia parlando. Chi é costei?" "Bugiardo!" "C'é li tua moglie? Come hai detto che si chiama?" "Annette. No. Anne." "Passamela!" "Ma..." "Falla venire all'apparecchio!" Il marito andò al bar, innestò nella presa la prolunga del telefono, e porse l'apparecchio a sua moglie. "Pronto" disse la voce di Junoff, distante cento miglia, in cima a una montagna vicina a un lago. La voce era così rimbombante che la moglie dovette scostare la cornetta di qualche centimetro dall'orecchio. Junoff era stentoreo. "Anne? Il prossimo fine settimana do un ricevimento, qui!" E poi: "Vieni. E porta Costanza!". Junior Fu la mattina del 1ø ottobre che Albert Beam, anni ottantadue, si svegliò per scoprire che, se non durante la notte, miracolosamente all'alba qualcosa era accaduto. Avvertiva infatti una calda e indiscutibile convessità sbocciata sotto le coperte, a circa un terzo dal fondo del letto. Pensò dapprima d'aver piegato un ginocchio per eliminare un crampo, ma poi, sbattendo le palpebre, si rese conto... Era il suo vecchio amico: Albert, Junior.

O Junior, tout court, come qualche gaia fanciulla lo aveva battezzato tanto tempo prima, oh, mio Dio... sessant'anni prima! E Junior era vivo, vispo, di nuovo pimpante. "Lieto di rivederti" pensò Albert Beam, Senior, alla visione, " é la prima volta dal luglio 1970 che ti sei svegliato prima di me." Luglio 1970! Guardò e ricordò. E più guardava e richiamava il passato, più Junior - protetto dalle coperte - si animava: tutto decisione e determinata avvenenza. "Be'," si disse Albert Beam "non mi resta altro che aspettare che torni a nanna." Chiuse gli occhi, e attese, ma non succedeva nulla. O meglio, lui continuava a segnalare una sua energica presenza. Junior non batteva in ritirata. Era sempre lì, speranzoso in una nuova vita. "Lascia perdere!" pensò Albert Beam. "Non può essere!" Si levò a sedere di scatto, occhi spalancati, il respiro come una febbre nella bocca. "Hai intenzione di rimanere?" gridò abbassando lo sguardo, e rivolgendosi al suo vecchio e ora coraggiosamente rinato amico. "Si!" gli parve di sentire confermare da una vocetta. Perché da giovane, lui e i suoi compagni acrobati si erano spesso dilettati ai discorsi di Charlie McCarthy con Junior, che era garrulo e ricco di irriverenti battute, piene di spirito. Il ventriloquio, tra le materie del secondo anno di Fisica, era stato uno dei più trascinanti talenti di Albert Beam. Il che voleva dire che anche Junior aveva altrettanto talento. "Si!" pareva che la piccola voce bisbigliasse. "Si!" Albert Beam rotolò giù dal letto. Stava già consultando il suo taccuino personale dei numeri telefonici, quando si rese conto che tutti quei vecchi numeri gli aleggiavano tuttora rasente l'orecchio sinistro. Ne formò tre, febbrilmente, e parlò con voce gracchiante. "Pronto." "Pronto!" "Pronto!" Dalla propria isola di antica età, Albert stava ora lanciando appelli, al di là di un freddo mare, verso una spiaggia dorata di sole. Da dove risposero tre donne. Ancora passabilmente giovani, intrappolate tra i cinquanta e i sessanta, esse ansarono, si radunarono e si abbandonarono a caldo entusiasmo, quando Albert Beam le ebbe tramortite con la notizia. "Emily, non ci crederai.... "Cora, un miracolo!" "Lazzaro é risorto!" "Pianta lì tutto!" "Fate in fretta!" "Ciao, ciao, ciao!" Beam Senior riattaccò, di colpo timoroso che, dopo tutto quel trambusto e quel preannuncio, quel Preziosissimo Membro del Club di Danza a Mezzanotte Sotto il tavolo col Panino Imbottito potesse tornare alla fase di preÄmontaggio. Rabbrividì all'idea che i razzi di Cape Canaveral cadessero a pezzi prima che arrivassero le folle ad ammirarli in reverente adorazione. Ma erano terrori infondati. Junior, con ferma determinazione, campeggiava, poderoso e indomito, tutto da vedere. Albert Beam, mummificato al 95 per cento, e al 5 per cento giovane pavone baldanzoso, ciabattò nudo per casa, ingollando plurimi caffé per dar coraggio a Junior e una sveglia completa a se stesso e, quando udì le auto arrivare in

volata sul viale davanti casa, infilò una vestaglia. Con i capelli in selvaggio disordine, si affrettò a far entrare le tre ragazze, che non erano più ragazze, né signorine, ma quasi signore. Prima ancora che gli riuscisse di spalancare la porta, esse avevano già fatto irruzione, armate di martelli ad aria compressa, o almeno così sembrava, tanto il loro entusiasmo era demenziale. Irruppero, dunque, quasi sollevandolo dal pavimento, e riportandolo a passo di valzer in salotto. Una di esse era stata un tempo rossa di capelli, la seconda li aveva avuti biondi, la terza, neri. Adesso, dopo vari risciacqui e tinture a obliterare trascorse tonalità, vere o fasulle, ciascuna un po' più sbiadita delle altre, ridevano e sghignazzavano, mentre trasportavano Albert Beam di peso da una stanza all'altra. E che esse fossero imporporate in viso per la gaiezza o per la prospettiva dell'antico miracolo, nessuno avrebbe saputo dirlo. Anche loro erano sommariamente abbigliate, essendosi buttate addosso semplici vestaglie per precipitarsi li e ammirare Lazzaro trionfante nella tomba! "Albert, é vero?" "Non é uno scherzo?" "Una volta mi hai tirato un bidone, vuoi riprovarci adesso?" "Amiche mie!" Albert Beam scosse la testa e si irradiò di un enorme caldo sorriso, avvertendone uno similare dalla nascosta presenza del suo Cucciolo, del suo Compagno, del suo Bocciolo, del suo Amico per la pelle. Lazzaro, impaziente, scalpitava sul posto. "Nessuno scherzo. Niente bugie. Signore, prendano posto!" Le donne si precipitarono a sistemarsi sulle sedie, con i visi rugiadosi e occhi da Quattro Luglio fissi sul vecchio mago dei moduli lunari, in attesa che iniziasse il conto alla rovescia. Albert Beam afferrò i lembi del suo accappatoio, ora volutamente elusivo, mentre percorreva teneramente con lo sguardo i loro volti. "Emily, Cora, Elizabeth," disse con estrema dolcezza "quanto speciali siete state, siete e sempre sarete!" "Albert, Albert caro, stiamo morendo dalla curiosità!" "Un attimo, per favore" mormorò lui. "Devo... ricordarmi." E nell'intervallo di silenzio che seguì, ciascuna di esse guardò le altre, e di colpo vide ciò che era sempre stato ovvio: ciò che non era mai stato detto nelle loro vite, nell'incipiente meriggio delle loro vite, ma che adesso affiorava col trascorrere degli anni. Il semplice fatto era che nessuna di loro era mai maturata. Tutte e tre erano rimaste al giardino d'infanzia, o, al massimo, a livello della quarta elementare, per sempre. Il che aveva voluto dire infinite colazioni a base di champagne, fox-trot e valzer prolungati sino a tarda notte, che si concludevano in bacetti audaci e voluttuosi giacigli sull'erba. Non una delle tre si era mai sposata, nessuna aveva mai concepito l'idea di avere figli, né tanto meno li aveva concepiti, quindi nessuna si era fatta una famiglia, tranne quella radunata lì in quel momento. Ed esse stesse non erano cresciute nella maturità, ma, piuttosto, avevano prolungato l'infanzia e indugiato nell'adolescenza. Avevano risposto soltanto agli umori gai o tempestosi della loro indole e delle loro predisposizioni genetiche. "Signore, mie care signore, signore" sussurrò Albert Beam. Esse continuavano a spiare le reciproche maschere con una sorta di febbrile benevolenza. Perché, all'improvviso, le aveva assalite la rivelazione che, mentre erano andate affannandosi a rendersi reciprocamente felici, non avevano reso infelice nessun altro.

Ed era da considerare miracoloso che le donne si fossero inferte reciproche ferite di scarsa entità e ormai da gran tempo guarite, dato che, da quarant'anni nessuna delle tre aveva reso infelice le altre due, ed erano rimaste amiche nel ricordo di tre amori. "L'amicizia" pensò ad alta voce Albert Beam. "Ecco cosa ci lega. L'amicizia!" Perché, molti anni prima, man mano che ogni beltà usciva, rimanendo in buoni rapporti, dalla vita di lui ne era arrivata un'altra, ancora migliore. Era la delicata precisione con cui egli le aveva rese partecipi ai ritmi della propria vita a farle consapevoli delle loro speciali prerogative, quali donne non timorose di rivali, e pertanto refrattarie alla gelosia. E adesso, eccole lì, raggianti e vicendevolmente affettuose. Che uomo premuroso e ingegnoso per averle rese assolutamente e totalmente felici, prima di navigare per avvizzire nella vecchiaia! "Deciditi, Albert, mio caro" disse Cora. "Il pubblico é qui che attende" rincarò Emily. "Dov'é Amleto?" "Pronte?" domandò Albert Beam. "Spiritualmente in sintonia?" Esitò nel momento finale, poiché doveva essere il suo ultimo messaggio o comparizione, o quel che fosse, prima che egli svanisse nei recessi della storia. Con dita tremanti, che tentavano di ricordare la differenza tra una cerniera lampo e i bottoni, Albert impugnò le falde dell'accappatoio, in quel momento lembi di sipario teatrale. Le signore dilatarono gli occhi, fremettero, sporgendosi in avanti. Era per quel magico momento, quando il simbolo della Warner Brothers sfumò via dallo schermo, per lasciar posto ai nomi e ai titoli erompenti in una fontana di ottone e arabeschi. Era un crescendo sinfonico da Cupa Vittoria o da Le Avventure di Robin Hood che faceva tremare le labbra del vecchio? Era il motivo conduttore di Elisabetta ed Essex, di E ora, Voyager, oppure de La Foresta pietrificata? La foresta pietrificata? Le labbra di Albert Beam crepitarono un sorriso per la concomitanza. Quale attinenza con se stesso, con Junior! La musica aumentava, ingigantiva, esplodeva dalla sua bocca. "TaÄtah" cantava Albert Beam. Aprì di scatto il sipario. Le signore gridarono in dolce allarme. Perché lì, interpretando l'ultimo atto delle Rivelazioni, c'era Albert Beam Secondo. O meglio, a buon diritto orgoglioso, Junior. Negletto per anni e anni, egli era un Orto di delizie e dolce Giardino dell'Eden. Era a un tempo Mela e Serpente? Lo era! Scene da Krakatoa, L'esplosione che sconvolse il mondo ingigantirono, in successione, nelle menti sensibili delle signore. Versi quali "Solo Dio può creare un albero" scaturirono da vecchi poemi. A Cora parve riudire il motivo de Gli Ultimi Giorni di Pompei, a Elizabeth la musica di Nascita e Decadenza dell'Impero Romano. Emily, riportata di colpo all'anno 1927, mugolò le futili parole a "Lucky Lindy... Spirito di St. Louis, alto, resta lassù... noi siamo con te...!" Il trio musicale si acquietò in una sorta di momento magico tra imbrunire e alba, tempo di venerazione e amoroso rispetto. Sembrava quasi che una luce stupenda e miracolosa si irradiasse dalla Sorgente, dal Santuario davanti al quale esse si radunavano, immobili adoratrici, pregando che l'attimo

potesse prolungarsi per mezzo del loro silenzioso ripetuto alleluia. E l'attimo si prolungò. Albert Beam e Junior resistevano, offrendosi, compenetrati, alla moltitudine incantata, il vecchio con un ampio sorriso sulle labbra, Junior con un sorriso più modesto. L'implacabilità del tempo adombrò i visi delle signore. Ciascuna di esse ricordò Monte Carlo o Parigi o Roma, o la danza tra le spume della fontana dell'Hotel Plaza, una notte di secoli prima, assieme a Scott e Zelda. Soli e lune sorsero e tramontarono nei loro occhi, e non c'era gelosia, soltanto esistenze da tanto tempo perdute, ma rinnovate e rese magiche da quel momento. "Bene" bisbigliò ognuna di loro, alla fine. E una alla volta, le tre amiche del cuore si fecero avanti per deporre un bacio sulla fronte di Albert, a sorridergli e, chinando lo sguardo, a sorridere al Principe Ereditario, quell'assolutamente Inarrivabile Membro regale che meritava essere coccolato, ma che, in quel momento, non veniva nemmeno sfiorato. Le tre ancelle greche, Le Furie in pensione, le tre antiche vestali assegnate al tempio arretrarono per schierarsi su una linea a tributare un ultimo saluto. E il pianto ebbe inizio. Prima Emily, poi Cora, indi Elizabeth, tutte a evocare qualche collisione notturna di giovani folli che, comunque, erano sopravvissuti alla catastrofe. Albert Beam rimase al centro di quella marea salata, finché anche i suoi occhi profusero lacrime. E se fossero state lacrime di amaro rimpianto di un passato che era adesso una pavana dorata, o lacrime celebrative di un presente più salubre e incantevole, nessuno avrebbe saputo dirlo. I quattro piangevano, immobili, non sapendo che fare o dove mettere le mani. Finché, come fanciullini che sbirciassero in uno specchio per scoprire la stranezza e il mistero del pianto, essi si sorpresero a spiare i vicendevoli singulti. Ciascuno vide occhi bagnati e offuscati da stelline salate dalle punte delle ciglia. "Oh, ah!" E tutta la banda proruppe in un'ilarità selvaggia, con risate scoppiettanti come pannocchie di granturco sul fuoco. Oh, iiih! Si unirono in girotondo. Batterono i piedi per espellere sghignazzate e sbuffi. Divennero scatenati come bimbi all'ora di merenda, l'ora in cui qualsiasi stupidaggine pronunciata diventa di un umorismo incontenibile, e le ossa ti vanno insieme e barcolli come ubriaco, per finire sul pavimento in un'estasi parossistica. E appunto così avvenne. Le signore si arresero alla forza di gravità crollando sul tappeto che arabescarono dei loro capelli, le loro lacrime conclusive a irrompere dai loro occhi come brillanti comete, mentre loro si rotolavano, ansimavano e boccheggiavano. "Oh, déi. Oh! Ah!" Il vecchio non reggeva più. Quel terremoto lo squassava e lo distruggeva. Si avvide, in quel momento finale, che il suo diletto amico, il suo caro e prezioso Junior, tra tutti quegli strilli e grugniti giocondi, si era squagliato come un ricordo di neve, riducendosi a un fantasma. Albert Beam si afferrò le ginocchia, starnutì un'enorme risata di valutazione, davanti al formato complessivo e alla ridicolaggine di un corredo che nasce con la nascita del maschio in un mondo incomprensibile, e si afflosciò a terra. Annaspò tra i corpi delle signore, chiocciando, alla ricerca di ossigeno. Esse non osarono guardarsi per paura di insulti

cardiaci in conseguenza degli ululati e dei barriti che sfuggivano dalle loro labbra. In attesa che l'ilarità si placasse, si alzarono per riordinarsi i capelli, i sorrisi, la respirazione e gli sguardi. "Povero me, oh, povero me" farfugliò il vecchio con un ultimo ansito di sollievo. "Non é stata la scena più bella, più affascinante, più spassosa, la migliore mai avuta, mie carissime, in tutti i nostri grandi anni?" Tutte e tre confermarono. "Ma," disse la pragmatica Emily, ricomponendosi la faccia "lo spettacolo é finito. Il té si fredda. E' ora di andare." E si chinarono a raccogliere le vecchie fragili ossa del vetusto guerriero, il quale fu rimesso in piedi tra le sue dilette, in un caldo glorioso silenzio, drappeggiato di nuovo nel suo accappatoio, e pilotato verso la porta d'ingresso. "Perché," si stupì il vecchio "perché? Perché Junior ha scelto proprio questo giorno per risorgere?" "Smemorato!" esclamò Emily. "E' il tuo compleanno!" "Già, fortunato che sono! Sì, sì!" E domandò trasognato: "Be', che ne dite? Forse l'anno venturo, e quello dopo ancora, potrò essere allietato dallo stesso dono?". "Be'..." disse Cora. "Noi..." "Non in questa tua vita attuale" disse Emily, dolcemente. "Addio, Albert carissimo, splendido Junior" dissero tutte. "Vi sarò grato per tutta la mia vita" assicurò il vecchio. Le salutò con la mano, le donne sparirono, giù per il vialetto, nella bella mattina. Egli indugiò a lungo, e poi si rivolse al suo vecchio amico, al suo inseparabile fedele compagno, ora immerso in un sogno senza fine. "Coraggio, Fido, ragazzo mio, é l'ora del nostro pisolino prima di pranzo. E, chi sa? Con un po' di fortuna riusciamo a sognare qualche cosa di eccitante fino all'ora del té!" "E, mio Dio," gli sembrò di udire la piccola voce esclamare "per allora non é che avremo un appetito del diavolo?" "Lo avremo!" E il vecchio, già mezzo addormentato in piedi, e Junior già sprofondato nel sogno, piombarono distesi sul letto con tre caldi e ridenti fantasmi... E così dormirono. La pietra tombale Be', innanzi tutto c'era quel viaggio interminabile, la polvere che le s'infilava su per le delicate narici, e Walter, il suo marito dell'Oklahoma, l'esile carcassa pencolante agli scossoni della loro Ford modello T, tanto sicuro di sé da farle venir voglia di sputare; poi erano entrati in questa grande città di mattoni, ostile come un vecchio peccato, e il padrone della pensione li aveva accompagnati di sopra, aprendo la porta della camera. Nel centro della quale giaceva sul pavimento la pietra tombale. Gli occhi di Leota assunsero bagliori sagaci, e immediatamente ella finse un arresto del respiro, mentre pensieri le guizzavano nella mente, con diabolica fulmineità. Le sue superstizioni erano un qualcosa che Walter non era mai stato capace di confinare e togliere dalla testa. Lei boccheggiò, arretrò, e Walter la guardò con palpebre cadenti, appese su scintillanti occhi grigi. "No, no!" esclamò Leota, con tono irrevocabile. "Mai metterò piede in una stanza che ospita un morto!" "Leota!" invocò suo marito.

"Ma che dice?" si stupì l'albergatore. "Madame, non crederà mica..." Leota sorrise internamente. Naturalmente, in realtà non lo credeva, ma quella era l'unica arma disponibile contro quel suo uomo dell'Oklahoma, quindi... "Intendo dire che non dormirò in nessuna camera assieme a una salma. La porti fuori di qui!" Walter fissò stancamente il letto incavato, e quello sguardo allietò Leota, per essere in grado di renderlo frustrato. Sì, senz'altro le superstizioni erano cose maneggevoli e utili. Udì il padrone affermare: "Questa lastra é di finissimo marmo grigio. Appartiene a Mr. Whetmore". "Il nome che vi é inciso dice WHITE" rilevò Leota, freddamente. "Sicuro. E' il nome dell'uomo per il quale la lastra fu incisa." "E che é morto?" inquisì Leota, in agguato. L'altro annuì. "Allora, vede!" gridò lei. Walter uscì in un grugnito a significare che non avrebbe mosso un passo per cercare un'altra camera. "C'é puzza di cimitero qui dentro" incalzò sua moglie, sorvegliando gli occhi di Walter animarsi e scintillare inquieti. Il tenutario della pensione chiarì: "Mr. Whetmore, che occupava in precedenza questa camera, lavorava come apprendista d'intaglio artistico dei marmi. Come inizio della sua carriera professionale. Essendo il suo primo lavoro importante, rimaneva tutte le sere qui dentro a scalpellare questa pietra, dalle sette fino alle dieci". "Be'..." Leota girò gli occhi attorno, alla svelta, a cercare Mr. Whetmore. "Dov'é costui? E' morto anche lui?" Il gioco la divertiva non poco. "No, si é scoraggiato, e ha abbandonato il mestiere di marmista per andare a lavorare in una fabbrica di imballaggi." "Perché?" "Per lo sbaglio che fece." Il padrone indicò la scritta sul marmo. "Qui c'é inciso WHITE. Doveva esser WHYTE, con una Y invece di una I. Povero Mr. Whetmore. Gli é preso un complesso di inferiorità. Al primo piccolo sbaglio ha piantato tutto e se n'é andato." "Mi venga un colpo!" disse Walter, entrando deciso nella stanza e cominciando ad aprire le rugginose valigie, voltando le spalle a Leota. Ma l'altro intendeva fornire il seguito della storia. "Si, Mr. Whetmore si scoraggia facilmente. Per dimostrarle che tipo sensibile é, le dirò che alla mattina si faceva il caffé, e, se ne rovesciava un cucchiaino soltanto mentre lo preparava nel bricco, era una catastrofe - buttava via tutto e per giorni e giorni non beveva altro caffé! Ma pensa un po'. Si immalinconiva a morte se faceva un errore. Se si infilava per prima la scarpa sinistra invece della destra, piantava li ed era capace di andare in giro per dieci dodici ore senza scarpe, in calzini! Anche se faceva un freddo boia. O se qualcuno gli scriveva una lettera con il nome scritto leggermente sbagliato sulla busta, lui rimetteva la busta nella cassetta delle lettere, dopo averci annotato sopra NESSUNO CON QUESTO NOME RISIEDE QUI. Oh, é grande il nostro Mr. Whetmore!" "Il che non migliora affatto la situazione" commentò ferocemente Leota. "Walter, che cosa stai facendo?" "Sto appendendo nell'armadio il tuo vestito, quello di seta rossa." "Non pensarci neppure. Non ci fermiamo qui dentro." Il tenutario della pensione lasciò partire un grosso sospiro, incredulo davanti a tanta idiozia femminile. "Vedrò di spiegare da capo. Mr. Whetmore era solito portarsi a casa il lavoro. Un giorno, mentre era fuori a comprare un tacchino, lui noleggiò un camion e si fece portare qui dentro questa

pietra, e quando tornai, che ti sento? Tap tap tap, il rumore del martello e scalpello che arrivava fin da basso. Lui aveva già cominciato a picchiare. Con tanta gioia e soddisfazione che non ebbi il coraggio di lamentarmi. Ma, come ho detto, la sua pignoleria e il suo amor proprio sono così sviluppati che, appena fatto lo sbaglio della I al posto della Y, scappò via senza una parola. L'affitto é pagato fino a tutto martedì, ma lui non ha nemmeno voluto il rimborso, e adesso ho incaricato qualcuno che venga con un argano montato su carrello a ruote, per portar via, per prima cosa domattina, questo marmo. Non vorrete certo far caso se dormite una notte con la lastra? Penso proprio di no!" Walter annuì. "Hai capito, Leota? Non c'é nessun morto lì sotto." Aveva una tale aria di supponenza da farle venir voglia di mollargli un calcio. Non voleva credergli e si irrigidì. Puntò un dito contro il padrone. "Lei vuole i nostri soldi. E tu, Walter, vuoi un letto per scaricarci su le tue ossa. Tutti e due state mentendo prima ancora d'aprire bocca!" Stancamente, l'uomo dell'Oklahoma pagò il dovuto al padrone, con Leota che mostrava la lingua. L'uomo, ignorandola quasi fosse invisibile, augurò la buona notte, e Leota gli gridò dietro "Bugiardo!" mentre lui si chiudeva la porta alle spalle e li lasciava soli. Walter si spogliò, salì sul letto, disse: "Non star lì impalata a rimirare la lapide. Spegni la luce. E' quattro giorni che viaggiamo, e sono a pezzi". Le braccia che lei teneva rabbiosamente conserte sul seno esiguo parvero contrarsi ancor di più. "Nessuno di noi tre," disse Leota, accennando alla pietra "chiuderà occhio stanotte." Venti minuti più tardi, disturbato da rumori e movimenti vari, l'uomo dell'Oklahoma estirpò la propria faccia d'avvoltoio dalle lenzuola, sbattendo le palpebre, intontite di sonno. "Leota, sei ancora in piedi? Non ti ho detto, mezz'ora fa, di spegnere la luce e venire a letto?! Che stai facendo?" Quel che stesse facendo era del tutto evidente. Carponi sul pavimento, la donna era intenta a collocare sulla testata della lapide una brocca di gerani rossi, bianchi e rosati, tagliati di fresco; ai piedi della lastra figurava già un recipiente di latta con dentro alcune rose. Sul pavimento, un paio di forbici, rugiadose per aver appena reciso gli steli dei fiori, fuori, nella notte. Adesso Leota stava alacremente spazzolando con un logoro cencio il linoleum e il frustro tappeto che copriva la lastra, e pregava, ma in modo che suo marito non udisse le parole bensì il loro indistinto mormorio. Alzatasi, passò al di là della lapide cautamente, per non turbarne il supposto ospite, e, nell'attraversare la stanza, ebbe egual cura di tenersi alla larga dal punto tombale, per poi constatare: "Ecco fatto". Spense la luce e si coricò sulle molle cigolanti, le quali raddoppiarono i gemiti allorché Walter si rigirò per chiedere: "Ma in nome di Dio...!" e lei ribatté, sbarrando gli occhi nel buio: "Nessuno potrà mai riposare in pace con degli estranei che gli dormano sopra la testa. Gli ho chiesto perdono, gli ho deposto fiori sulla tomba in modo che non debba, nel cuor della notte, venir fuori a strofinarsi le ossa". Il marito guardò il punto, invisibile nelle tenebre, dove ella giaceva sul letto, non riuscì a pensare a qualcosa da dire, si limitò a imprecare, grugnì e ricadde nel sonno. Dopo neanche mezz'ora, Leota lo afferrò per un gomito, lo fece rigirare per potergli sussurrare in un orecchio, febbrilmente e spauritamente, come chi si sia smarrito in una caverna: "Walter! Svegliati! Svegliati!". Operazione che aveva in programma di ripetere nel corso di tutta la notte, qualora fosse stato necessario, per demolirgli quell'insopportabile superiorità letargica. Egli annaspò per liberarsi dalla stretta. "Che c'é?" "Mr. White! Mr. White! La sua vendetta!"

"Oh, ma vedi di dormire!" "Non sto dicendo balle! Lo senti?" L'uomo dell'Oklahoma tese l'orecchio. Da sotto il linoleum, da un paio di metri dal basso, giungevano, attutiti, confusi, irosi mormorii di voce maschile. Non una singola parola intelleggibile, soltanto una sorta di dolente protesta. L'uomo dell'Oklahoma si mise a sedere sul letto. Avvertita dal movimento, Leota sibilò con rinnovata frenesia: "Lo senti? Lo senti?". Walter mise i piedi sul pavimento. La voce dal basso fu sostituita da un'altra in falsetto. Leota cominciò a singhiozzare. "Piantala, lasciami sentire!" impose il marito, rabbiosamente. E rimase con l'orecchio teso. Poi, nel silenzio, si mise in ginocchio per appoggiare l'orecchio al linoleum, e Leota gridò: "Attento a non calpestare i fiori!". E lui ripeté: "Taci!". Si rialzò, sputò una bestemmia e tornò sotto le lenzuola. "Ma é l'uomo qui di sotto!" "E io cosa ho detto? Mr. White!" "No, Mr. White un accidenti. Siamo al secondo piano di una pensione, e ci sono altri ospiti al piano di sotto. Ascolta." La voce in falsetto stava dicendo qualcosa. "Questa é la moglie dell'uomo. Gli starà dicendo di lasciar perdere la moglie di un altro. Probabilmente, sono sbronzi tutti e due." "Stai mentendo!" insisté Leota. "Fai il coraggioso mentre tremi tanto da far ballare il letto! E' un fantasma, ti dico, e sta parlando con voci diverse, come faceva Nonna Hanlon in chiesa, alzandosi dal banco e mettendosi a cianciare mescolando le lingue, come fa un negro, come avesse in pancia un irlandese, due donne e tre ranocchi! Quel morto, Mr. White, ci odia perché siamo venuti qui dentro a rompergli..." Quasi a darle ragione, le voci dal basso aumentarono di volume. L'uomo dell'Oklahoma si puntellò su un gomito, scosse la testa sconfortato, con una gran voglia di ridere, ma troppo stanco per farlo. Echeggiò un tonfo. "Si sta agitando nella bara!" strillò Leota. "E' furibondo! Dobbiamo andarcene di qui, Walter, se no domattina ci trovano cadaveri!" Altri tonfi, altri rimbombi, ancora voci. Poi, silenzio. Seguito da uno scalpiccio ai piedi, nel vuoto sopra la loro testa. Leota gemette: "E' uscito dalla tomba! Ha spaccato il coperchio della bara, e adesso sta camminando in aria sopra le nostre teste!". Adesso, l'uomo dell'Oklahoma si era rivestito. Di fianco al letto, si infilò le scarpe. "Questa casa ha tre piani" spiegò, infilandosi le falde della camicia nella cintura. "Di sopra, abbiamo dei pensionanti che stanno rientrando in camera." A una Leota in lacrime egli aggiunse: "Dài, ti porto di sopra a vedere queste persone. Così avrai la prova di chi sono. Poi andremo giù al primo piano, a dirne quattro al quell'ubriaco e a sua moglie. Alzati, Leota". Qualcuno bussò alla porta. Leota ululò, e si rotolò nelle lenzuola, facendo di sé una mummia. "E' tornato nella bara e picchia per venirne fuori!" Walter accese la luce e andò ad aprire l'uscio. Un giubilante ometto, vestito di scuro, frenetici occhi azzurri, rugoso e grigio di capelli, venne dentro a passo di danza. "Chiedo scusa, sono desolato del disturbo" disse l'ometto. "Sono Mr. Whetmore. Ero andato via. Adesso sono tornato. Ho avuto il più sorprendente colpo di fortuna. Sì, veramente. E' ancora qui la mia lastra?" Rimase un attimo con gli occhi sulla lapide, prima di vederla. "Ah, sì, sì, eccola! Oh, salve." Aveva visto Leota che sbirciava dal viluppo delle coperte. "Ho qui degli uomini con un carrello, e giù c'é un camion. Se non do troppo incomodo, porteremo via il marmo subito, adesso. Ci vorrà un attimo."

Walter esternò gratitudine con una risata. "Felicissimo di togliermi dai piedi quell'accidenti di coso. Se lo porti via e tanti saluti!" Mr. Whetmore fece entrare un paio di nerboruti. L'ometto ansimava di lieta impazienza. "La cosa più sorprendente! Questa mattina ero disperato, distrutto, annientato - ma poi, il miracolo!" La lapide venne collocata su un carrello. "Non più di un'ora fa, ho saputo, per puro caso, che un certo Mr. White era appena deceduto di polmonite. Un Mr. White, badino bene, il cui nome si articola con la I e non con la Y. Ho appena preso contatto con la vedova, la quale ha trovato sollievo nell'apprendere che la pietra tombale é già pronta. Mr. White un'ora fa era ancora caldo, e il suo cognome comporta una I, che stupenda coincidenza! Oh, sono così felice!" La lastra di marmo, sul suo carrello, rotolò fuori della stanza, mentre l'uomo dell'Oklahoma e Mr. Whetmore, uniti da una comune ilarità, si stringevano la mano, e Leota osservava sospettosa il trambusto che si acquietava. "Bene, l'incidente é chiuso" disse suo marito, con una smorfia compiaciuta, chiudendo la porta alle spalle di Mr. Whetmore, e rovesciando i fiori, che erano nella brocca, nel lavabo, e quelli del recipiente di latta nel cestino della carta straccia. Spenta la luce, risalì a letto, ignorando il profondo e imbronciato silenzio di Leota. La quale non aprì bocca per un bel po', limitandosi a giacere, accasciata di solitudine e incomprensione. Lo sentì sistemarsi le coperte e sospirare. "Adesso possiamo dormire. La fottuta lastra l'hanno portata via. Sono soltanto le dieci e mezza. Tante belle ore per dormire." Leota stava per dire qualcosa, quando dal basso si ripeté un rumore raspante. "Ecco! Ecco!" strillò la donna, trionfante, abbrancando il marito. "Eccolo di nuovo il rumore, come dicevo io! Ascolta!" Walter strinse i pugni, digrignò i denti. "Quante volte devo ripetertelo? Devo picchiarti in testa, donna, per fartela capire? Lasciami in pace! Non é niente..." "Ascolta, ascolta, oh, ascolta!" implorò lei in un sussurro. Ascoltarono, nelle tenebre compatte. Dal piano di sotto, qualcuno stava raspando contro una porta. E una porta si apriva. Smorzata, distante e soffocata, una voce di donna stava dicendo, tristemente: "Ah, é lei, Mr. Whetmore". E dal buio compatto, al di sotto del letto - di colpo rabbrividente - di Leota e del marito dell'Oklahoma, la voce di Mr. Whetmore rispondeva: "Buonasera di nuovo, signora White. Ecco. Le ho portato la lapide". La Cosa in cima alle scale Una coincidenza mancata. Era sceso dal treno a Chicago per scoprire che c'era un'attesa di quattro ore. Pensò di andare a visitare i musei; i Renoir e i Monet gli avevano sempre incantato l'occhio e sedotto la mente. Ma si sentiva irrequieto. La fila dei taxi fuori dalla stazione lo fece ammiccare. "E perché no" si disse "saltare su un taxi e farsi portare trenta miglia a nord?" Passare un'ora nella sua vecchia città natia, darle per la seconda volta nella vita l'addio, e tornarsene indietro, senza affanno, più felice e forse più saggio, a prendere il treno per New York? Un bel po' di soldi per un capriccio per ingannare poche ore, ma al diavolo la taccagneria. Aprì lo sportello di un taxi, issò all'interno la valigia, e disse: "Green Town e ritorno".

Il conducente irradiò un felice sorriso e abbassò la bandierina del tassametro nell'attimo stesso in cui Emil Cramer saltava sul sedile posteriore e richiudeva la portiera. Green Town, e... La Cosa in cima alle scale. Che? "Mio Dio," pensò "perché mai, in uno splendido pomeriggio di primavera, deve proprio venirmi in mente quella?" Puntarono a nord, lasciandosi dietro un codazzo di nuvole, e alle tre si fermarono sulla Main Street di Green Town. Cramer scese, allungò al tassista cinquanta dollari a garanzia, gli disse di aspettarlo; si guardò in giro. La scritta sul tendone del Genesee Theater diceva, a caratteri rosso sangue: I DUE ORRORI. LA CASA DEI DEMENTI. LA MORTE DEL DOTTORE. ENTRATE. MA NON ILLUDETEVI DI USCIRNE. "No, no" pensò Cramer. "Il Fantasma era meglio. Quando avevo sei anni, a lui bastava impietrirsi, ruotare su se stesso, spalancare le mascelle e fissare l'obiettivo con la sua faccia spettrale. Quello sì che era terrore! "Forse, allora era il Fantasma, più il Gobbo, più il Pipistrello a rendermi le notti dell'infanzia tanto piene di incubi." E, incamminandosi, rise silenziosamente al ricordo... Di come sua madre lo sbirciava al di sopra dei cornflakes mattutini: "Che é successo stanotte? Lo hai visto? Era li, al buio? Quant'era alto, di che colore? Come hai fatto questa volta a non urlare svegliando tuo padre? Allora, parla!". Mentre suo padre, al di sopra del paravento del giornale, osservava tutti e due, e lanciava un'occhiata significativa alla cinghia di cuoio, quella per affilare la lametta da barba, appesa di fianco alla cucina economica, ansiosa di entrare in azione. E lui, Emil Cramer, anni sei, stava lì seduto, ricordando lo spasimo del proprio piccolo inguine da gambero se non arrivava in tempo in cima alle scale, al di là della Bestia Mostruosa acquattata nel solaio di mezzanotte, mentre lui, all'ultimo momento, scosso dai singhiozzi, invertiva la marcia e rotolava giù, come un cane terrorizzato o un gatto ustionato, giù in fondo alle scale, per giacervi piatto e accecato di paura, gridando: "Perché? Perché é lì? Perché devo essere punito? Che ho fatto?". E strisciando, annaspando nel corridoio buio, tornava a letto, nell'agonia del liquido che urgeva, spingeva, e pregava che venisse presto l'alba, quando la Cosa avrebbe smesso di aspettarlo e fosse scivolata di nuovo sotto la tappezzeria macchiata, o si fosse fatta risucchiare dentro le fessure della porta del solaio. Una volta, aveva tentato di nascondere un vaso da notte sotto al letto. Il recipiente, subito scoperto, era stato gettato via, sbriciolandosi all'impatto. Una volta, aveva fatto scorrere l'acqua dell'acquaio di cucina con l'intenzione di servirsene fisiologicamente. Le orecchie paterne, perfettamente sintonizzate, avevano captato e scatenato l'ira. "Sì, sì" andava adesso ripetendosi, e proseguì per le vie cittadine, in una giornata che diventava minacciosa. Raggiunse la via dove un tempo aveva abitato. Il sole si era nascosto. Il cielo era tutto di un grigiore invernale. Egli sussultò. Perché una solitaria goccia di pioggia fredda l'aveva colpito sul naso. "Santo Dio!" esclamò, ridendo. "Eccola qui! La mia casa." Ed era vuota con un cartello IN VENDITA sull'ingresso. La stessa facciata di assicelle verniciate di bianco, il grande portico laterale, quello più piccolo verso la strada. Ecco la porta di ingresso, oltre la quale il salotto, dove lui e suo fratello avevano dormito sul letto pieghevole, sudando

nelle ore notturne, mentre tutti gli altri dormivano e sognavano. Sulla destra la sala da pranzo con la porta che dava in corridoio e alle scale che si spingevano in alto nella notte infinita. Seguì il vialetto, diretto alla veranda laterale, e alla relativa porta. Allora, la Cosa: che forma aveva avuto, quale colore, quale massa? Aveva ancora un volto fumoso, denti cavernosi e fiammeggianti occhi alla Baskerville? Sussurrava, gemeva, mormorava..? Scosse la testa. Dopotutto, la Cosa non era mai esistita, no? E proprio per questo suo padre aveva digrignato i denti ogni volta che posava lo sguardo su quel tremebondo campione di figlio! Non poteva vedere, il bambino, che il corridoio era vuoto, vuoto? Non sapeva, il maledetto marmocchio, che era la macchina da presa degli incubi, quella che aveva in testa, a girare i film sussultanti di horror notturno a mescolarsi con l'aria ostile? E le nocche paterne a tambureggiare su quella fronte ostinata per esorcizzare lo spettro! Emil Cramer riaprì gli occhi, sorpreso di averli tenuti chiusi. Salì sul portico. Toccò il pomello della porta. "Oh, Dio!" pensò. Perché l'uscio, non chiuso a chiave, aveva ceduto, schiudendosi silenziosamente. La casa e il corridoio buio erano lì, deserti e in attesa. Spinse e spalancò la porta, che ubbidì con un impercettibile cigolio. La stessa tenebra, simile a cortine di una camera mortuaria, riempiva ancora il corridoio, stretto come una bara. E che odorava ancora di piogge di anni trascorsi, ed era sfiorata da barlumi, venuti a curiosare per non andarsene più... Cramer entrò. Di colpo, fuori, scrosciò la pioggia. Un diluvio che oscurava il mondo, lo relegava al di là dei muri. Un diluvio che inzuppava il portico, e a lui annegava il respiro. Mosse un altro passo nell'oscurità totale. Nessuna luce a illuminare il tratto finale del corridoio, tre gradini più oltre... Sì! Era stato quello il problema! Per risparmiare, la maledetta lampadina era sempre tenuta spenta! Per spaventare la Cosa, dovevi correre, spiccare un salto, acchiappare la catenella dell'interruttore e accendere la luce! E così, alla cieca, cozzando contro la parete, tu spiccavi il salto. Senza mai trovare la catenella! "Non guardare su!" ti dicevi. "Se la vedi anche lei vede te! No, no!" Ma poi, alzavi di scatto la testa. Guardavi. Ti usciva un urlo! Perché la Cosa tenebrosa incombeva in aria, pronta ad abbattersi come la lastra di una tomba sul tuo urlo! "C'é nessuno in casa?" fu il sommesso richiamo che Cramer si sentì uscire di bocca. Una corrente umida scendeva da in cima alle scale. Un odore di suolo di cantina e di polvere di solaio gli sfiorava le gote. "Chi c'é c'é, chi non c'é peggio per lui" sussurrò. "Io sono qui." Dietro di lui, la porta, in silenzio, dolcemente, parve rabbrividire, esitare e poi decidersi... e chiudersi, da sola. Egli si immobilizzò. Poi, si costrinse a fare un altro passo, un altro ancora. E, Cristo!, gli parve di restringersi. Sciogliendosi un centimetro alla volta, incavandosi in dentro, mentre anche la

pelle sulla faccia si ritirava, diminuiva, l'abito e le scarpe diventavano troppo larghi... "Che ci faccio qui?" si domandò. "Che vado cercando?" Risposte. Sì. Erano quelle che voleva. Risposte... La scarpa destra gli urtò contro il primo scalino... della scala. Con un sussulto, ritirò di scatto il piede. Lentamente, si costrinse di nuovo a quel contatto. Nessun problema: bastava non guardare in su. "Stupido!" pensò. "Ecco perché sei qui. Le scale. Su, in cima alle scale, ecco cos'é!" Adesso... Con estrema lentezza, sollevò la testa. Per guardare la lampadina spenta, penzolante dal bianco inerte attacco sul soffitto, a due metri sopra la sua testa. Era lontana come la luna. Gli si contrassero le dita. In qualche punto tra le pareti della casa, sua madre si rigirava nel letto, senza destarsi, suo fratello dormiva tra lenzuola di smorto biancore, suo padre interrompeva il russare per... ascoltare. "Svelto! Prima che papà si svegli del tutto. Salta!" Con un grugnito disperato spiccò il salto. Il suo piede scalciò sul terzo gradino. La sua mano si protese, annaspò per afferrare la catenella. Dài uno strappone! Ancora! "Non si accende! O Cristo. Non c'é luce. Non si accende. Come tutti quegli anni del passato." La catenella gli sgusciò di mano. La mano ricadde. Notte. Tenebre. Fuori, la pioggia, fredda, cadeva, al di là di un ermetico accesso a una miniera. Emil dilatò gli occhi, li chiuse, li riaprì, li richiuse, quasi che quell'ammiccare di ciglia potesse indurre la catenella a scattare, ad accendere la luce! Il cuore gli tonfava non soltanto sotto le costole, martellava anche nella cavità delle ascelle, nell'inguine dolorante. Barcollò, inciampò. "No," gridò muto. "Reagisci. Guarda! Vedi!" E finalmente girò il capo per guardare su, su verso la tenebra sovrapposta alla tenebra. "Tu... la Cosa..." sussurrò. "Sei lì?" La casa ondeggiò, come un'enorme bilancia, sotto il suo peso. Alta nell'aria di mezzanotte, una nera bandiera, cupo vessillo, rotolava e srotolava i suoi lembi funerei, il suo frusciante mantello. "Fuori," si disse Emil "ricordalo! E' un giorno di primavera!" La pioggia tambureggiò sommessa contro la porta, alle sue spalle. "Adesso" sussurrò Cramer. E tenendosi al centro della scala, tra le fredde trasudanti pareti, cominciò a salire. "Sono al quarto gradino" sussurrò. "Ora, al quinto..." "Il sesto! Mi senti, tu, lassù?" Silenzio. Tenebre. "Cristo! Perché non scappo, mi precipito fuori nella pioggia, alla luce?!" "No!" "Settimo! Ottavo!" Il cuore, come sdoppiato, tumultuava sotto le ascelle, tra le gambe. "Decimo..." Gli mancò la voce. Inspirò a fondo e... Rise! Mio Dio, sì! Rise! Fu come spaccare un vetro. La paura si frantumò, sparì.

"Undici!" gridò. "Dodici" urlò. "Tredici!" esplose. "Sii maledetta! All'inferno, sì, all'inferno! E quattordici!" Perché non ci aveva pensato, quando aveva sei anni? Bastava correre su, sparando risate, per uccidere quella Cosa, per sempre?! Un ultimo balzo, stupendo. "Sedici!" proruppe e ragliò, quasi, deliziato. Era sul pianerottolo. Senza poter smettere di ridere. Protese il pugno nella fredda, compatta aria buia. La risata gli si gelò in gola, il respiro gli si bloccò. Una notte d'inverno che gli scendeva nei polmoni. "Perché?" Una voce infantile echeggiò, lontana, dal basso, da un altro tempo. "Perché devo essere punito? Che ho fatto?" Il suo cuore parve fermarsi, poi riprendere a battere. L'inguine si contrasse convulsamente. Un getto di liquido caldo eruppe a inondargli - bruciante e impudico - le gambe. "No!" gemette lui. Perché le sue dita avevano toccato qualcosa. La Cosa in cima alle scale. Gli stava chiedendo dove fosse stato tutto quel tempo. Era stata li ad aspettarlo tutti quei lunghi anni... Che lui tornasse a casa. La vera autentica mummia egizia fatta in casa dal colonnello Stonesteel Era l'autunno in cui trovarono, in un campo al di là di Loon Lake, l'autentica mummia egizia. Come la mummia fosse arrivata li, e da quando ci fosse, nessuno lo sapeva. Ma c'era, tutta fasciata nei suoi stracci al creosoto, un po' seviziata dal tempo, proprio in attesa di essere scoperta. Il giorno prima era stato esattamente un altro giorno d'autunno, con gli alberi squillanti di giallo, intenti a disfarsi delle foglie già cotte di sole, e l'aria impregnata di un aspro sentore di pepe, allorché Charlie Flagstaff, anni dodici, uscì di casa, sulla via deserta, con la speranza che accadesse qualcosa di grande, speciale ed eccitante. "Okay" disse Charlie, rivolgendosi al cielo, all'orizzonte, al mondo intero. "Sono qui che aspetto. Coraggio!" Non succedeva nulla. Quindi Charlie, prendendo a calci le foglie che aveva davanti ai piedi, prese a marciare attraverso la cittadina, finché non arrivò alla casa più alta della via principale, la casa dove tutti andavano, a Green Town, quando avevano problemi. Charlie si guardò in giro, accigliato. Anche lui aveva problemi, d'accordo, ma non riusciva a valutarli quanto a entità e qualità. Quindi, chiuse gli occhi, e si limitò a gridare alle finestre della grande casa: "Colonnello Stonesteel!". La porta d'ingresso si spalancò all'istante, come se il vecchio fosse stato lì ad aspettare, come Charlie, che accadesse qualcosa di eccezionale. "Charlie," esclamò il colonnello Stonesteel "sei abbastanza cresciuto per bussare. Che hanno in corpo i ragazzi per dover urlare sotto le finestre? Prova di nuovo." E la porta venne richiusa. Charlie sospirò, si avvicinò alla porta e bussò gentilmente. "Charlie Flagstaff, sei tu?" La porta si era riaperta, il colonnello sbirciò a destra e a sinistra. "Credevo di averti detto di gridare da fuori la casa!" "Come no?" sospirò Charlie, sentendosi cadere le braccia. "Guarda che giornata! Uno spettacolo!" Il colonnello venne fuori, puntando nel vento fresco la lama del sottile naso aguzzo. "Non ami l'autunno, figliolo? Splendida, splendida giornata, non trovi?" Abbassò gli occhi sulla faccia pallida del ragazzo.

"Ehi, figliolo, hai l'aria di uno che abbia perso l'ultimo amico e a cui sia morto il cane. Qual é il problema? La scuola che inizia la settimana prossima?" "Già." "Halloween é ancora troppo lontana?" "Sei settimane ancora. Come fosse un anno. Ha mai fatto caso, colonnello..." Il ragazzo tirò un sospiro anche più sconsolato, guardando la città autunnale. "Qui in giro non succede mai nulla?" "Come? Domani é il Labor Day, grande parata, sette carri allegorici, il sindaco, forse i fuochi d'artificio..." Il colonnello si fermò in tronco, per nulla entusiasta del proprio elenco. "Quanti anni hai, Charlie?" "Tredici, quasi." "A tredici anni le cose tendono a correre vertiginose." Il colonnello roteò gli occhi a ripescare nel cervello sconnessi ricordi di riscontro. "Quando ne hai quattordici si bloccano. A sedici, é come fossero morte. La fine del mondo quando compi i diciassette. Le cose riprendono a camminare, quando arrivano i venti e passa. Nel frattempo, Charlie, che dobbiamo fare per sopravvivere fino a mezzogiorno di questa mattina prima del Labor Day?" "Che dobbiamo fare? Se c'é uno che può saperlo, quello é lei, colonnello" rispose Charlie. "Charlie," disse il vecchio, evitando lo sguardo limpido del ragazzo "io posso spostare uomini politici voluminosi come maiali, scuotere gli scheletri del Municipio, far sì che le locomotive scalino a retromarcia le colline. Ma i ragazzini durante i lunghi fine settimana d'autunno, con la stoppa nel cervello, e un brutto attacco di Disperata Vacuità? Come metterci una pezza...?" Il colonnello Stonesteel scrutò le nuvole, valutò il futuro. "Charlie" disse finalmente. "Sono commosso dalla situazione in cui ti trovi, sensibile al tuo giacere sulle rotaie della ferrovia in attesa di un treno che non arriverà mai. Com'é possibile? Scommetto sei canditi con la figurina di Baby Ruth contro un tuo taglio d'erba del mio prato, che Green Town, Illinois superiore, abitanti cinquemilasessantadue, cani mille, sarà un'altra, per sempre, sarà cambiata a gloria, Dio santo, a un certo momento entro le prossime miracolose ventiquattr'ore. Ti suona bene? Ci scommetti?" "Gesù!" Charlie, estasiato, afferrò la mano del vecchio e la scosse. "Una scommessa! Colonnello Stonesteel, sapevo che ce l'avrebbe fatta!" "Non l'ho ancora fatta, figliolo. Ma, attenzione, adesso. La città é il Mar Rosso. Le ordino di aprirsi a metà. Al lavoro!" Il colonnello, a passo di marcia, e Charlie, al galoppo, entrarono in casa. "Eccoci qui, Charlie: reparto rigattiere o reparto tombale. Quale dei due?" E il colonnello tirò su col naso, prima verso una porta che s'apriva sulla scala che scendeva al crudo terreno della cantina, poi verso quella della scala all'asciutto solaio di legno. "Be'..." Il solaio gemette sotto una ventata improvvisa, come un vecchio agonizzante nel sonno. Il colonnello ne spalancò la porta su sussurri autunnali, tempeste intrappolate e fischianti tra le travi. "Li senti, Charlie? Che dicono?" "Be'..." Il colonnello fu risucchiato su per le scale da una raffica di vento, come un'evanescente palla di pula. "Dicono del tempo, della vecchiaia, di ricordi, di un sacco di cose. Polvere, e forse dolore. Ascolta quelle travi. Lascia che il vento stuzzichi il loro scheletro di legno in una bella giornata d'autunno, e avrai il vero linguaggio del tempo.

Tizzoni e cenere, tabacco da naso di Bombay, fiori di cimitero ridotti a spettri..." "Accidenti, colonnello" ansimò Charlie, raggiungendolo. "Lei dovrebbe scrivere per La Realtà Romanzesca!" "Lo feci, una volta. Cestinato. Eccoci qui!" Ed essi c'erano veramente, in un luogo senza calendario, senza mese, giorno o anno, ma solo grandi ombre stese dai ragni e barbagli di luce da lampadari capovolti, giacenti come enormi lacrime nella polvere. "Accidenti!" esclamò Charlie, impaurito e felice di esserlo. "Orsù, favella!" proseguì il colonnello. "Sei tu pronto a che m'appresti in tuo favore a dare vita a un vero, vivo, semiÄmorto portento, un mistero tagliato su misura?" "Pronto!" Il colonnello spazzò via da un tavolo fogli di carta, mappe, pezzi d'agata, occhi di vetro, ragnatele e nuvole di polvere, poi si arrotolò le maniche. "Gran cosa é far da levatrice a un mistero: non devi far bollire acqua, detergere e lavare. Allungami quel rotolo di pergamene che trovi là, ragazzo, quell'ago minaccioso, appena lì sulla destra, quel vecchio diploma sulla mensola, quel mucchietto di stoppacci d'arma da fuoco che c'é per terra. Velocizzati!" "Lo sto facendo" e Charlie galoppò, radunò, galoppò e raccolse. Turbinarono piccole fascine di rametti secchi, grovigli di soffici virgulti di salice e di amento in spighe. Le sedici mani del colonnello mulinavano in aria, maneggiando sedici aghi lucenti, fiocchi di cuoio, fili d'erba, ammiccanti piume di civetta, luccichii di gialli occhi di volpe. Il colonnello canticchiava, grugniva approvando, mentre le sue miracolose otto serie di braccia e mani mulinavano, saggiavano e cucivano, danzando. "Ecco!" e indicò con una drittata del naso. "A metà dell'opera. Prende forma. Dedicagli uno sguardo, o mio fanciullo. A cosa comincia a rassomigliare?" Charlie compì il giro del tavolo, gli occhi dilatati ad accarezzargli la bocca. "Accidenti... ma..." farfugliò. "Ebbene?" "Sembra una..." "Sì, sì?" "Una mummia! Non può essere!" "Lo é! Apri l'occhio, perfora con lo sguardo, ragazzo. Lo é!" Chino sul lungo oggetto coricato, il colonnello, immergendo il polso nella sua creazione, auscultò il sussurro dei fiati, il frusciare degli stecchi, delle erbe secche. "Adesso, per prima cosa, tu potresti rispondere, perché qualcuno costruirebbe proprio una mummia? Tu, tu ne hai dato l'ispirazione, Charlie. Tu mi hai fatto accingere all'impresa. Accedi alla finestra del solaio, e scruta la visione esterna." Charlie sputò sul vetro impolverato, ne ripulì un tondo trasparente, sbirciò fuori. "Bene, che vedi? C'é in città qualche avvenimento in corso? Nessun delitto in via di attuazione?" "Accidenti, no..." "Nessuno che cada giù dal campanile di una chiesa, o che sia arrotato da una falciaerba impazzita?" "Nessuno." "Non un Monitor o un Merrimac che veleggi sul lago, non un dirigibile che cada sul tempio massonico e faccia gelatina di seimila massoni in un solo colpo?" "Accidenti, colonnello, a Green Town ci sono soltanto cinquemila anime!" "Aguzza lo sguardo, ragazzo. Osserva. Indaga. Riferisci!"

Charlie perlustrò spasmodicamente il piatto panorama cittadino. "Niente dirigibili. Niente templi massonici schiacciati." "Esattamente!" Il colonnello andò spedito ad affiancare Charlie, scrutando il territorio. Indicò con la mano, indicò col naso. "In tutta Green Town, in tutta la tua vita, non un delitto, non un incendio di orfanotrofio, non un sadico che incida il proprio nome sulle gambe di legno delle signore della biblioteca! Affronta la realtà, ragazzo, Green Town, Illinois superiore, é il più piatto, meschino, banale, pigro buco di città della storia eterna degli imperi romano, tedesco, russo, inglese, americano! Se Napoleone fosse nato qui, a nove anni avrebbe fatto karakiri. Per la noia. Se Giulio Cesare fosse cresciuto qui, sarebbe andato nel Foro romano, ficcandosi in pancia la sua stessa daga..." "Per la noia" concluse Charlie, pronto all'imbeccata. "Esatto! Continua a guardare dalla finestra, ragazzo, mentre io lavoro." Il colonnello Stonesteel riprese a roteare, battere, premere su una strana sagoma in progressiva espansione sul tavolo scricchiolante. "Noia a chili e tonnellate. Noia a livello di Giudizio Universale, a chilometri di cortei funebri. Prati, case, pelo di cani, capelli di cristiani, abiti in polverose vetrine, tutto tagliato dalla stessa stoffa..." "La noia" disse Charlie, su suggerimento. "E cosa fai, tu figliolo, quando ti annoi?" "Ma... Spacco un vetro della finestra di una casa coi fantasmi?" "Purtroppo, a Green Town non disponiamo di case abitate da spettri!" "Un tempo, si. La casa del vecchio Higley. Demolita, adesso." "Quindi, afferri il concetto? Che altro possiamo fare per scacciare la noia?" "Fare una strage?" "Niente stragi negli anni in cui Sirio nasce col sole. Gesù, anche il nostro sceriffo é onesto! Il sindaco... incorruttibile! C'é da impazzire. L'intera città sotto l'incubo di una contemplativa noia inamidata e di un ozio imbambolato. Ultima risorsa, Charlie, che possiamo fare?" "Fabbricare una mummia?" sorrise Charlie. "Come tori in una cristalleria. Guarda che polverone sollevo!" Il vecchio, ridacchiando, afferrò frammenti di civetta impagliata, code ritorte ed essiccate di lucertola, vecchie bende giallastre, ricordi di una caduta con gli sci (che gli aveva rotto una caviglia e spezzato un idillio nel 1895), alcuni tronconi di camera d'aria di una Kissel Kar del 1922, qualche esemplare di mortaretto esploso, risalente all'ultima estate di pace del 1913, intrecciando, impastando insieme con le fragili dita da insetto saltatore. "Voilà. Finito." "Oh, colonnello" ansimò Charlie, in estasi. "Posso fargli una corona?" "Fagli una corona, figliolo. Incoronalo." Il sole stava tramontando, allorché il colonnello e Charlie e il loro amico egizio scesero le scale sul retro della grande casa, due di loro carichi del fardello, il terzo fluttuante a mezz'aria, lieve come scaglie di cornflake tostato. "Colonnello..." interrogò Charlie "che ne facciamo di questa mummia, adesso che ce l'abbiamo? Non può parlare o andarsene in giro..." "Non ce n'é bisogno, ragazzo. Lascia che parli il popolo, lascia che sia il popolo ad accorrere. Guarda fuori!" Socchiusero la porta e spiarono una città immersa in pacifico torpore e accasciata dal nonÄfarÄniente. "Non é abbastanza, figliolo, che tu ti sia svincolato dalla morsa del Vuoto Disperato. Tutta la città, qui, é davanti a noi,

affogata fino al collo, ignorando le lancette dell'orologio, ossessionata dal doversi alzare dal letto ogni mattina e trovare che é sempre, eternamente domenica! Chi offrirà salvezza?" "Amon Bubastis Ramese Ra il Terzo, appena arrivato col locale delle quattro?" "Dio ti benedica, figliolo, sì. Quel che abbiamo qui é un seme gigante. Il seme non serve a niente se tu non ne fai... che cosa?" "Accidenti" disse Charlie, strizzando un occhio. "Se non lo pianto?" "Ecco: lo devi piantare! Poi vederlo spuntare, crescere. E poi? Poi é l'epoca del raccolto. Il raccolto! Andiamo, Charlie. Eh... dà una mano al tuo amico." Il colonnello scivolò fuori nelle prime ombre del crepuscolo. Il Labour Day, a mezzodì in punto, Osiris Bubastis Ramese AmonÄRaÄTut arrivò dalla Terra della Morte. Un vento d'autunno faceva fremere la campagna e sbatacchiare le porte, non col fragore della solita parata del Labor Day, i sette torpedoni imbandierati, la banda di pifferi e tamburi, e il sindaco, ma di una folla che andava ingrossandosi mentre intasava le vie e si gonfiava, diventava marea e inondava il prato di fronte alla casa del colonnello Stonesteel. Il colonnello e Charlie sedevano sulla veranda della facciata, erano li da qualche ora, in attesa che arrivassero le convulsioni dell'isteria, che l'assalto alla Bastiglia si concretasse. Adesso, con i cani in frenesia di morsi alle caviglie dei ragazzini, e i ragazzini scatenati in sarabande ai margini della ressa, il colonnello diresse lo sguardo verso la Creazione (sua e di Charlie) e schiuse le labbra al suo segreto sorriso. "Allora, Charlie... ho vinto la scommessa, si o no?" "Accidenti, se l'ha vinta, colonnello!" "Troppo buono." I telefoni squillavano in tutta la città, colazioni bruciavano sui fornelli, quando il colonnello incedette per dare alla parata la sua papale benedizione. Al centro della folla c'era un carro tirato da un cavallo. In cima al carro, gli occhi spiritati del fortunato archeologo, c'era Tom Tuppen, proprietario di una fattoria moribonda, appena fuori città. Tom stava farfugliando, e la folla con lui, perché sul pianale del carro c'era lo speciale raccolto maturato dal seno di quattromila anni perduti nel tempo. "Bene, limo del Nilo e Delta fecondo" ansimò il colonnello, contemplando con occhi dilatati. "Quella é o non é un'autentica antica mummia egizia, ieratica nei suoi papiri originali e nel suo involucro catramato?" "Accidenti, lo é!" gridò Charlie. "Lo é, sicuro!" strillò il coro. "Stamattina stavo arando il campo" spiegò Tom Tuppen. "Arando, mica altro, arando e... bang! La lama dell'aratro mi rivolta su dalla terra questo, proprio davanti a me! Ci pensate?! Gli Egizi devono aver marciato attraverso l'Illinois tremila anni fa, e nessuno lo sapeva! Rivelazione, la chiamo io! Girate al largo, ragazzini! Questo reperto lo porto nell'atrio dell'ufficio postale. In mostra! Hih, vai!" Il cavallo, il carro, la mummia, la ressa decollarono, lasciando dietro il colonnello, gli occhi ancora spalancati, la bocca aperta. "Sangue di papiro" sussurrò. "Gliel'abbiamo fatta, Charlie. Questa grancassa, il farfugliamento, le chiacchiere, le voci e l'isterismo andranno avanti per mille anni o fino al giorno dell'Armagedon, chi tra i due arriva prima!" "Sì, signore, colonnello!" "Michelangelo non avrebbe potuto far di meglio. Davide fanciullo é una meraviglia da usa e getta in confronto alla nostra sorpresa egizia e..."

Il colonnello tacque, poiché stava accorrendo il sindaco. "Colonnello Stonesteel, Charlie, salve! Ho appena telefonato a Chicago. I rappresentanti della stampa arrivano domani di prima mattina. Quelli del Museo all'ora di pranzo! Gloria, alleluia per la Camera di commercio di Green Town!" E il sindaco, lancia in resta, si lanciò all'inseguimento della massa. Una nube d'autunno attraversò la faccia del colonnello e sostò sulla sua bocca. "Fine del Primo Atto, Charlie. Comincia a pensare veloce. Noi vogliamo che questa cagnara duri per sempre, vero?" "Sì, signore." "Spremi le meningi, ragazzo. Come dice la filastrocca di Zio Wiggily?" "Zio Wiggily dice... dice ah, ecco, sì, torna indietro di due salti." "Dieci e lode, figliolo, una medaglia d'oro e un cornetto al cioccolato. Il Signore dà e il Signore riprende, eh?" Charlie scrutò il viso del vecchio e vi scorse visitazioni di piaghe bibliche. "Sì, signore." Il colonnello osservò la moltitudine convergere attorno all'ufficio postale, due isolati più in là. Sopraggiunse la banda di pifferi e tamburi eseguendo un motivo vagamente simile a uno egiziano. "Al tramonto, Charlie" bisbigliò il colonnello, ad occhi chiusi. "Faremo la mossa finale." Fu un gran giorno! A distanza di anni, la gente diceva ancora: "Quello sì che é stato un giorno importante!". Il sindaco tornò a casa, si vestì in pompa magna e tenne tre pubbliche allocuzioni, presenziò due parate, una in direzione Main Street fino alla rimessa dei tram, l'altra in senso inverso, con Osiris Bubastis Ramese AmonÄRaÄTut al centro di entrambe, sorridente ora a destra quando la forza di gravità faceva pencolare il suo etereo peso, ora a sinistra, seguendo la curva di un angolo della via. La banda di pifferi e tamburi, ora potenziata notevolmente dall'apporto di ottoni, aveva dedicato un'ora a bere birra e a imparare la marcia trionfale dell'Aida, che eseguì tante ripetute volte da obbligare le madri a rimorchiare in casa i bebé in lacrime, e gli uomini a rifugiarsi nei bar per distendere i nervi in crisi. Si ventilava anche una terza parata, ma il calar del sole colse la città impreparata, e tutti, incluso Charlie, andarono a casa per una cena densa di parole e scarsa di piatti. Alle ore venti, Charlie e il colonnello stavano percorrendo le vie cittadine piene di foglie, nell'oscurità complice, e prendendo aria a bordo della Moon modello 1924 del vecchio signore, un'auto che continuò a tremolare dopo che il colonnello l'ebbe messa in moto. "Dove stiamo andando, colonnello?" "Be'" ponderò il colonnello, pilotando a quindici filosofici chilometri all'ora, sicuro e rilassato. "Tutti quanti, compresi i tuoi, in questo momento sono al Prato di Gossett, no? Per i discorsi conclusivi del Labor Day. Qualcuno accenderà il fuoco sotto al pallone a gas del sindaco, e lui andrà su di dodici metri, diciamo. Corretto? I vigili del fuoco spareranno i razzi. Ciò vuol dire che l'ufficio postale, più la mummia, più lo sceriffo che le tiene compagnia saranno isolati e vulnerabili. Allora, accadrà il miracolo, Charlie. Deve accadere. Chiedimi perché." "Perché?" "Lieto tu me l'abbia chiesto: Bene, ragazzo mio, quelli di Chicago salteranno giù dal treno domani, freschi e croccanti come ciambelle, con i loro nasi da cani da trifola, occhi vitrei e microscopici. Quei malfidenti del Museo, più l'Associated Press, scarnificheranno il nostro Faraone sette volte sette e andranno in corto circuito. Tale essendo la situazione, Charlie..."

"Noi faremo in modo di incasinarla." "Hai espresso il concetto alquanto crudamente, figliolo, ma hai colto nel segno. Mettiamola così, ragazzo: la vita é uno spettacolo di magia, o lo sarebbe se la gente non dormisse in piedi. Concedi sempre al popolo un tantino di mistero. Adesso, prima che la folla si abitui al nostro vecchio amico, prima che egli usi l'asciugamano sbagliato, come ogni bravo ospite di fine settimana, é bene che salti in groppa al primo cammello diretto a ovest. Ci siamo!" L'ufficio postale si ergeva silenzioso, con un'unica lampadina a illuminare l'atrio. Attraverso la grande vetrata, era visibile lo sceriffo seduto di fianco alla mummia in mostra, muti entrambi, abbandonati dalla folla che era andata a cena e ai fuochi d'artificio. "Charlie." Il colonnello esibì un sacchetto di carta, dentro il quale gorgogliava un liquido misterioso. "Dammi trentacinque minuti per incantare lo sceriffo. Poi tu scivola dentro, senza farti vedere, ascolta, segui il mio conversare e, alla battuta giusta, compi il miracolo. Qui non succede mai niente, eh?" E il colonnello si eclissò. Fuori città, il sindaco troneggiò e i fuochi d'artificio salirono in cielo. Charlie rimase a bordo della Moon, e li guardò per una mezz'ora. Quindi, valutando che il periodo di malleabilità dello sceriffo stava volgendo al termine, attraversò di corsa la strada, e si infilò nell'ufficio postale, nascondendosi nell'ombra. "Molto bene," stava dicendo il colonnello, seduto tra il Faraone e lo sceriffo "perché non finisce quella bottiglia, signore?" "Detto e fatto" annuì lo sceriffo, e obbedì senza batter ciglio. Il colonnello si protese nella mezza luce e scrutò l'amuleto d'oro che pendeva sul petto della mummia. "Lei ci crede alle vecchie massime?" "Quali vecchie massime?" "Se si leggono quei geroglifici ad alta voce, la mummia risuscita e si mette a camminare." "Balle" sentenziò lo sceriffo. "Provi a guardare tutti quegli strani simboli egizi" insisté suadente il colonnello. "Qualcuno si é fregato i miei occhiali. Legga lei per me. Faccia camminare questo vecchio scemo mummificato." Charlie ritenne fosse il segnale per entrare in azione, scivolò a semicerchio nell'ombra, portandosi più vicino al sovrano egizio. "Vediamo un po'." Il colonnello si chinò ancor di più, quasi a sfiorare l'amuleto del Faraone, facendo scivolare al tempo stesso gli occhiali dello sceriffo dalla propria mano a coppa alla tasca della giacca. "Il primo simbolo é un falco. Il secondo é uno sciacallo. Segue una civetta. Il quarto... dovrebbe essere un occhio di volpe..." "Continui" disse lo sceriffo. Il colonnello continuò, e la sua voce si alzava e si attutiva, e la testa dello sceriffo annuiva, ciondolando, e tutti i simboli egiziani e le parole si snodavano, fluivano, alitavano intorno alla mummia, quando finalmente il colonnello ebbe un sussulto poderoso, e ansimò: "Buon Dio, sceriffo, guardi!". Lo sceriffo, distolto dalla sonnolenza, spalancò gli occhi. "La mummia" esclamò il colonnello. "Sta andando a fare quattro passi!" "Non può essere!" gridò lo sceriffo. "Non può essere!" "Lo é" disse una voce non collocabile, forse quella del Faraone, tra i denti.

E la mummia si sollevò in sospensione, e scivolò verso la porta. "Oh, Dio!" gridò lo sceriffo, gli occhi acquosi di lacrime. "Ma quello potrebbe anche... volar via!" "Meglio gli corra dietro e lo riporti qui" si affrettò a dire il colonnello. "Si, lo faccia, la prego!" La mummia era sparita. Il colonnello uscì di corsa. La porta si chiuse con un tonfo. "O povero me!" Lo sceriffo sollevò la bottiglia, la scosse. "Vuota." Si fermarono, ansimanti, davanti la casa di Charlie. "I tuoi vanno mai in solaio, figliolo?" "Troppo poco spazio. Ci mandano me se c'é bisogno." "Perfetto. Tira su dal sedile di dietro il nostro vetusto amico egiziano. Non pesa molto, dieci chili al massimo, lo hai portato via facilmente, bravo Charlie. Oh, che spettacolo! Tu che correvi fuori dall'ufficio postale, facendo camminare la mummia! Avresti dovuto vedere la faccia dello sceriffo" "Spero non si metta nelle grane per questa grande fuga." "Oh, si spremerà il cervello e imbastirà una bella storia, quello stupido ubriacone! Non può mica ammettere che ha visto la mummia andarsene a fare quattro passi, no? Inventerà qualcosa, organizzerà un caccia all'uomo, vedrai. Ma adesso, figliolo, porta su nel solaio il nostro amico, nascondilo bene, e vai a fargli visita settimanalmente. Intrattienilo con notturne conversazioni. Poi, tra trenta, quarant'anni..." "Cosa?" "Durante un'annata così colma di noia che ti viene fuori dalle orecchie, quando la città si sarà scordata da un bel po' di questo primo arrivo e della fulminea partenza, in un mattino, diciamo, in cui sei a letto e non ti va di alzarti, nemmeno di aprire le orecchie e strofinarti gli occhi, e ti senti così maledettamente annoiato... Be', in quel mattino, Charlie, vai su in quel tuo solaio di fatiscenti rimasugli, tiri giù dal letto questa mummia, vai a depositarla in un campo di grano e ti godi lo spettacolo, la nuova follia archeologica che divampa. La vita ricomincia in quell'ora, in quel giorno, per te, per la città, per tutti. Adesso, acchiappa il Faraone, portalo su, e nascondilo, ragazzo!" "Peccato che la notte debba finire" disse Charlie, sommessamente. "Non possiamo proseguire per qualche isolato a farci una limonata sulla veranda di casa sua, colonnello? E portarci dietro anche lui?" "Vada per la limonata." Il colonnello Stonesteel scalciò sotto il cruscotto dell'auto, che esplose in vita. "Per il perduto re e il figlio del Faraone!" Nella tarda sera del Labor Day, si sistemarono sulla veranda della casa del colonnello, cullandosi sulle sedie a dondolo, bicchiere di limonata in mano, succhiando frammenti di ghiaccio, riassaporando il dolce gusto delle incredibili avventure notturne. "Accidenti" disse Charlie. "Già vedo i titoli sul Clarion di domani: INESTIMABILE MUMMIA RAPITA. RAMESE AMONÄRA TUT SVANITO NEL NULLA. SCOMPARSA DI IMPORTANTE REPERTO. OFFRESI RICOMPENSA. SCERIFFO PERPLESSO. ATTESA RICHIESTA DI RISCATTO." "Continua, ragazzo. Ci sai fare con le parole." "Ho imparato da lei, colonnello. Ora tocca a lei." "Che vuoi che dica?" "Mi parli della mummia. Cosa é in realtà. Di che cosa é fatta. Da dove é venuta. Qual é il suo significato..." "Ma, ragazzo mio, c'eri anche tu, hai aiutato, hai visto..." Charlie lo guardò fisso. "No." Un profondo respiro. "Mi dica la verità, colonnello."

Il vecchio signore si alzò, profilato nell'ombra, tra le due sedie a dondolo. Allungò una mano a sfiorare il loro capolavoro di antiche erbe e foglie di tabacco essiccato, tratto dal fondo del fiume Nilo, la loro mummia faraonica ora appoggiata ai pilastri della veranda. Gli ultimi fuochi d'artificio del Labor Day stavano morendo in cielo. La loro luce si rifletteva, spegnendosi negli occhi di lapislazzuli della mummia, che scrutavano, in attesa, il colonnello Stonesteel, come stava facendo il ragazzo. "Vuoi sapere chi egli era veramente ai suoi tempi?" Il colonnello raccolse una manciata di polvere dai polmoni, la esalò lentamente. "Era chiunque, nessuno, qualcuno." Una breve pausa. "Tu. Io." "Prosegua" sussurrò Charlie. Prosegui, dissero gli occhi della mummia. "Era, é," mormorò il colonnello "un fascio di vecchi fumetti accumulati nel solaio a esalare, per combustione spontanea, tutte quelle nozioni di storia dimenticata. E' un ammasso di cartapesta di papiro, abbandonato in un campo d'autunno prima dei tempi di Mosé, un insieme di erba secca scaturito dai meandri del tempo, da un remoto crepuscolo, da questa alba risorta... forse un incubo (nicotina e coda di cane) issato su un palo a mezzodì, a promettere qualcosa, qualsiasi cosa... una mappa del Siam, la sorgente del Nilo Azzurro, sabbia infuocata di un deserto infernale, tutti i frammenti di biglietti tranviari, giallastre carte topografiche di strade campagnole, vaganti tra dune di sabbia, viaggi abortiti, pazze scampagnate seguite da sogni notturni. Il suo corpo?... Ma'... fatto di... tutti i fiori secchi di cerimonie nuziali, di cupi funerali; nastri di telescriventi usati come stelle filanti nelle parate, biglietti ferroviari di un treno di mezzanotte per un Faraone insonne. Cambiali firmate, obbligazioni prive di valore, contratti lacerati. Poster di circo equestre, vedi, qui? Queste costole avvolte di carta. Poster strappati via da granai a North Storm, Ohio, e portati dal vento a Fulfillment, nel Texas, o nella Terra Promessa in California! Proclami di inaugurazioni, partecipazioni di nozze, di nascite... tutte cose un tempo sperate, ambite, il primo nichelino in tasca, il primo dollaro incorniciato sulla parete del bar. Carta da parati bruciata da occhiate roventi, cianografie incise dagli occhi ansiosi di ragazzi, ragazze, vecchi, donne orfane del tempo, che dicono: "Domani! Sì! Domani accadrà! Domani!". Tutto ciò che morì in tante notti e rinacque, umano spirito glorioso, tante nuove albe squisite! Tutte le informi ombre che mai immaginasti, ragazzo, o che io mai configurai nel cervello insonne alle tre di mattina. Tutto quanto, triturato, impastato e adesso plasmato in una forma sotto le nostre mani, e ora qui sotto i nostri occhi. Ecco cosa é il Vecchio Faraone della Settima Dinastia, sacra polvere in persona!" "Accidenti!" sussurrò Charlie. Il colonnello tornò a sedersi a oscillare sul dondolo, occhi chiusi, sorridendo. "Colonnello..." Charlie scrutò nel futuro "... e se io, anche da vecchio, non sentissi il bisogno della mia particolare mummia?" "Eh?" "Metta che io abbia una vita piena di cose elettrizzanti, senza un attimo di noia, che trovi quel che voglio fare, che lo faccia, che renda significativo ogni mio giorno, ogni notte, che dorma sodo, che mi svegli felice, con un sacco di risate, che invecchi sempre correndo veloce, allora, colonnello?" "Allora, ragazzo, sarai una delle creature predilette da Dio!" "Perché, vede, colonnello," e Charlie lo guardò con occhi limpidi, bene aperti e dall'espressione decisa "io ho fatto il

mio programma. Diventerò il più grande scrittore mai esistito." Il colonnello arrestò il dondolio che lo cullava, e interrogò il fuoco sacro su quel piccolo volto. "Signore Iddio, lo vedo quel che mi dici. Sì. Diventerai veramente quello scrittore! Bene, allora, Charlie, quando sarai molto vecchio, dovrai trovare un ragazzo, non fortunato quanto te, a cui dare OsirisÄRa. La tua vita può essere piena e felice, ma altri, viandanti smarriti, avranno bisogno del nostro amico egiziano. D'accordo? D'accordo." Gli ultimi fuochi d'artificio erano spariti, gli ultimi palloni di fuoco stavano veleggiando verso le amiche stelle. Auto e pedoni stavano tornando a casa, padri e madri con in braccio i loro piccoli, stanchi e già dormienti. Mentre la processione sfilava davanti alla veranda del colonnello Stonesteel, qualcuno sbirciava e salutava con la mano il vecchio e il ragazzo, e il loro domestico, che, alto e soffuso d'ombra, era tra i due. La grande notte era finita per sempre. Charlie sollecitò: "Dica ancora qualcosa, colonnello". "No. Io ho finito. Adesso ascolta quello che ha da dirti lui. Lascia che ti parli del tuo futuro, Charlie. Che ti dia lo spunto di nuove storie. Sei pronto...?" Sorse il vento, e soffiò nel vecchio papiro, scosse le antiche bende, fece tremare le mani curiose e solleticò dolcemente le labbra bisbiglianti del loro vecchio/nuovo visitatore da una notte di quattromila anni trascorsi. "Che sta dicendo, Charlie?" Charlie chiuse gli occhi, attese, ascoltò, annuì, permise a una lacrima, una sola, di scivolargli giù dalla guancia, e disse alla fine: "Tutto. Esattamente tutto. Tutto quello che ho sempre voluto ascoltare". FINE.

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