Bosa medievale - Il castello e - Fernanda Poli.pdf

September 24, 2017 | Author: Francesco Barone | Category: Fortification, Castle, Tower, Siege, Religion And Belief
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Sommario Descrizione Informazioni e ringraziamenti Copyright Sommario Il castello e la cappella palatina - Guida breve Il castello La storia Premessa sulle origini della fortificazione bosana L’incastellamento Il castello La cinta muraria Il torrione maestro La dimora del castellano La cappella palatina La chiesa Controfacciata Parete sinistra Note bibliografiche La chiesa castellana di Bosa - Monografia Architettura e ciclo pittorico La storia medievale La letteratura precedente L’edificio chiesastico I Francescani in Sardegna I temi della spiritualità francescana La moda Iconologia e iconografia degli affreschi L’approdo critico Glossario Bibliografia essenziale Cronologia dei giudici Di Arborea

Descrizione Il libro fornisce una rilettura aggiornata sulla fortificazione della città di Bosa e sulla chiesa castellana, cappella palatina dei giudici d’Arborea, sotto il profilo architettonico e artistico. Particolare attenzione e rilievo sono stati posti sulla presenza all’interno del sacro edificio di un ciclo pressoché interamente conservato, esempio unico in Sardegna, di affreschi trecenteschi sui temi pregnanti della spiritualità francescana.

Informazioni e ringraziamenti Autore: Fernanda Poli Documentazione fotografica: Rossella Fadda Assistente fotografo: Adolfo Pizzarri Editor: Rossella Fadda Grafica di copertina: Franco Fadda Impaginazione e sviluppo software: Giovanni Fadda Traduzioni: Anna Maria Pisanu Editore: Dhuoda edizioni Data di pubblicazione: Ottobre 2012 Documentazione fotografica pubblicata su autorizzazione della Diocesi di Alghero-Bosa � Ufficio Diocesano per i Beni Culturali Ecclesiastici Direttore Don Antonio Nughes. Si ringraziano Mons. Antonio Francesco Spada, Don Antonio Nughes, Don Franco Oggianu. Inoltre siamo grati per la collaborazione agli amici della Societ� Cooperativa �L’�Antico Tesoro� di Bosa.

Copyright I contenuti (testi, immagini grafiche, marchi, loghi,) dell’ebook sono di proprietà esclusiva di Dhuoda edizioni e/o di terzi e sono protetti dalla normativa vigente in materia di tutela del diritto d’autore, legge n. 633/1941 (di seguito LdA) e successive modifiche ed integrazioni. L'utente è obbligato a fare uso privato del contenuto dei file del presente ebook ed in particolare a non commercializzarli, modificarli, riprodurli o elaborarli. In nessun caso l’utente acquisisce i diritti inerenti allo sfruttamento commerciale dell’eBook. La riproduzione, la comunicazione al pubblico, la messa a disposizione del pubblico, il noleggio e il prestito, la pubblica esecuzione, anche parziale, e la diffusione senza l’autorizzazione del titolare dei diritti è vietata. Alle violazioni si applicano le sanzioni previste dalla suddetta LdA. ISBN 978-88-98984-00-8

Sommario Il castello e la cappella palatina - Guida breve Il castello La storia Premessa sulle origini della fortificazione bosana L’incastellamento Il castello La cinta muraria Il torrione maestro La dimora del castellano La cappella palatina La chiesa Controfacciata Parete sinistra Note bibliografiche La chiesa castellana di Bosa - Monografia Architettura e ciclo pittorico La storia medievale La letteratura precedente L’edificio chiesastico I francescani in Sardegna I temi della spiritualit� francescana La moda Iconologia e iconografia degli affreschi L’approdo critico Glossario Bibliografia essenziale Cronologia dei giudici d’Arborea

Il castello e la cappella palatina - Guida breve Il castello La storia Lo studio della castellologia medievale in Sardegna si limita a catalogazioni risalenti ai primi decenni del Novecento e si fonda soprattutto sull’opera di Foiso Fois, seguita da un breve rendiconto di Roberto Coroneo (1). Nessuno di questi lavori ha potuto servirsi, se non in casi eccezionali, delle risultanze di scavi archeologici eseguiti e pubblicati da medievisti, mirati alla conoscenza delle vicende architettoniche di un castello. Per quello bosano abbiamo la fortuna di possedere uno studio monografico del Fois (2) che, oltre ad un esame tecnico/militare delle strutture murarie sopravvissute, pubblica rilievi grafici completi degli elevati: gli unici che abbiamo potuto consultare e da cui abbiamo ricavato le diverse misure citate nel testo.

La bassa collina di Serravalle, che si eleva per una ottantina di metri sulla destra idrografica del fiume Temo non lontano dal mare, è un bastione naturale affacciato sulla fertile vallata fluviale e sulla cittadina di Bosa (Oristano), ancora oggi uno dei centri storici più importanti della Sardegna, regione da sempre connotata da una debole presenza urbana. La sua posizione era altamente idonea ad essere sfruttata per il controllo contemporaneo della costa mediterranea, del fiume e della vallata. Di conseguenza, nonostante le limitate potenzialità difensive, appare assai difficile accettare l’affermazione di storici e archeologi che il luogo non sia stato interessato da intervento umano sino al tardo Duecento (3). A nostro avviso è quanto mai probabile che ab antiquo vi esistesse un posto di avvistamento. Osserviamo infatti che il colle era in collegamento visivo con l’antico abitato posto sulla riva sinistra del fiume, verso il quale potevano essere inviati segnali di allerta (4) captabili dalla torre militare [forse di origine romana, come è stato supposto], poi trasformata in campanile della cattedrale di San Pietro esistente sin dall’Altomedioevo nella ‘villa-capoluogo’ della diocesi bosana, suffraganea di quella di Torres. Di qui potevano essere ritrasmessi con sistemi sonori (voci, campane) ai contadini al lavoro nei campi, i quali riuscivano così a riparare abbastanza velocemente all’interno di una qualche rudimentale cinta difensiva. Infatti, nonostante l’attuale vuoto documentario e archeologico sull’argomento, si dovrà ragionevolmente ammettere che almeno l’insula episcopalis [quartiere residenziale del vescovo], ma fors’anche il villaggio di pianura fossero stati fortificati, in funzione difensiva e non militare in senso proprio sia pure con sistemi precari, ancor prima del Mille a causa dell’eccesso di esposizione ai pericoli che venivano dalle periodiche scorrerie saracene, registrate in tutto il Mediterraneo.

Considerazione lapalissiana è quella secondo cui ogni reticolo viario/fluviale, se favoriva da un lato lo svolgimento dei commerci, dall’altro facilitava l’arrivo di predoni (5). Il Temo ancora oggi è navigabile con barche a basso pescaggio per cinque-sei chilometri ed è facile immaginare che la sua percorribilità fosse di gran lunga superiore nell’età antica e ancora nel Medioevo. Di conseguenza necessitava di una sorveglianza serrata, poiché consentiva di raggiungere agevolmente lo scalo fluviale e di qui addentrarsi nei territori più interni sia ai razziatori provenienti dal mare come i Saraceni (spesso aiutati da guide indigene); sia ai latrones che, spinti dalla loro incurabile miseria, si dedicavano a veloci e devastanti scorrerie in villaggi e monasteri; sia a quei mali Christiani ricordati nei documenti che si identificavano nei potenti e riottosi maggiorenti locali (6). Nel caso di Bosa viene respinta senza appello dagli storici contemporanei l’affermazione di Giovan Francesco Fara, ‘padre’ della storia sarda (1580) (7), che il colle di Serravalle fosse stato fortificato per la prima volta intorno al 1110-20 dai marchesi Malaspina, provenienti dalla Lunigiana (8), e cioè in un momento storico in cui non si può parlare di declino politico del regno, anche solo ricordando che il Logudoro avrà il suo più grande sovrano in Gonario di Torres (1127 - post 1178). In verità la documentazione d’archivio superstite non consentirebbe di accettare questa informazione, poiché solo a fine Duecento, quando cioè il giudicato di Torres-Logudoro era travagliato da una grave crisi dinastica, i Malaspina risultano presenti in Sardegna come dòmini a tutti gli effetti. La città di Bosa, ancora priva di castello, era entrata a fare parte delle loro proprietà nel 1232 circa quando venne portata loro in dote matrimoniale da una donnicella turritana, insieme ad altri territori sardi: questa dote costituì la maggior parte del loro patrimonio nel giudicato. A giustificazione della necessità della costruzione del maniero bosano da parte della famiglia marchionale a fine Duecento non potrà essere tenuta in nessun conto la paura del ‘diverso’ che in Sardegna dopo la sconfitta definitiva dell’arabo Museto intorno alla metà del Mille non aveva più il

volto della ‘nefandissima gente saracena’ (9): quel popolo non costituiva ormai un pericolo tale da richiedere l’erezione di nuove fortezze. Ma, a fronte di questa relativa tranquillità verso nemici provenienti dal mare, si moltiplicarono le guerre intestine tra nuovi potentati non indigeni che profittavano dell’indebolirsi dei giudicati locali avviati al tramonto. Le alleanze mutevoli aggravarono lo stato endemico di belligeranza: il bisogno di essere ma anche ‘apparire’ forti fece nascere o riattare nell’isola numerose sedi incastellate. La Santa Sede estromise la famiglia Malaspina dai grandi giochi di potere negando loro nel 1268 la vicarìa pontificia in Sardegna. L’isola, dopo la creazione di un inaspettato Regno di Sardegna e Corsica, venne infeudata nel 1297 agli Aragonesi da papa Bonifacio VIII: questa sconfitta portò nel Trecento al declino della dinastia malaspiniana. Le fortezze di Bosa e Osilo risultano documentariamente in mano ai marchesi Malaspina solo dal 1301; nel 1309 le ebbero confermate in feudo da Giacomo II d’Aragona. Nel 1317 castellani di Bosa erano ancora sicuramente gli inquieti marchesi (nella seconda metà del Duecento alleati-vassalli ora di Pisa, ora di Genova). Ma in quello stesso anno il territorio passò nelle mani dei giudici d’Arborea, l’ultimo regno sardo a perdere l’indipendenza a fine Quattrocento. La resa dei marchesi Malaspina agli Aragonesi, cui avevano reso formale omaggio nel 1323 (atto che sembra non abbia comportato pesi vassallatici), era ormai definitiva: nel 1326 furono costretti a cedere ai vincitori il castello di Osilo e non riottennero più quello di Bosa (10): dopo il 1365 la dinastia toscana aveva perso definitivamente possedimenti e potere politico nell’isola. Bosa’[dal paleosardo ‘foce del fiume’; E. Blasco Ferrer], territorio ben strutturato sotto il profilo agro-pastorale (senza dimenticare l’apporto economico del fiume), non correva il rischio, comune a molti castra, di collassare per mancanza di aree adatte alla coltivazione e all’allevamento del bestiame, perché insufficienti a nutrire la popolazione. Il surplus della produzione poteva/doveva essere esportato e raggiungere in un breve arco di tempo i diversi mercati grazie sia alla navigazione fluviale, sia ad un buon reticolo stradale. La vecchia città sembra sia rimasta (almeno fino al Duecento inoltrato) un insediamento fisso praticamente senza soluzione di continuità. Stanziamento nucleato in buona efficienza sotto il profilo abitativo, si può ipotizzare che Bosa fosse un centro tanto importante nell’economia locale da essere restìo ad accettare ‘angarie’ [= prestazioni vessatorie di servizi diversi, tasse eccessive] da parte dei Malaspina. Non si può neppure negare che, così come si verificò in molti centri toscani, i nuovi padroni abbiano provveduto in prima persona a fiaccarne le velleità indipendentiste distruggendo la sua realtà urbana ed obbligando, come vorrebbe il Campus, la gente (piccoli e medi proprietari terrieri, mercanti, artigiani etc) ad inurbarsi in un progettato nuovo borgo allo scopo di esercitare un controllo più incisivo sulle attività economiche, magari sostituendo in parte gli autoctoni con soggetti alieni. Ma questo borgo nuovo alla fine del Duecento era ancora tutto da costruire ed il fenomeno, a giudizio degli storici, ebbe una durata non inferiore a due secoli, dunque di nessun vantaggio immediato per la dinastia marchionale, che vide tramontare il suo potere già nella prima metà del Trecento. L’evoluzione in senso urbano di Bosa fu dovuta alla famiglia giudicale degli Arborea e non ai Malaspina, che mostrarono la tendenza alla conservazione tipica delle signorie fondiarie medievali peninsulari, basata sul mero esercizio del diritto signorile di sfruttamento delle risorse esistenti (tributi in denaro, in natura, redditi da locazione di terre, uso dei mulini, etc) piuttosto che ad un

incremento dei traffici commerciali. In sintesi, come scrive il Soddu, il livello di produttività era finalizzato principalmente all’autoconsumo e al prelievo di tributi. Poiché a nostro avviso non è da pensare che all’interno dell’area castellana potesse essere accolta tutta la popolazione residente nel piano, i Malaspina iniziarono a lottizzare a vantaggio di piccoli proprietari o contadini ricchi (compreso in genere anche il vescovo) appezzamenti di terreno venduti a carissimo prezzo situati ai piedi e lungo le prime pendici del colle (11). I meno abbienti rimasero confinati nel piano probabilmente in dimore mono/pluricellulari a coltivare i campi al servizio della famiglia signorile. Dunque ci troviamo di fronte a una pianificazione urbanistica decisa a tavolino, di cui gli ideatori non videro il compimento. Il nuovo agglomerato urbano sorse strutturato a schema concentrico seguendo le curve isometriche del colle, ma non si salderà mai sotto il profilo edilizio alle strutture del castello, così come non avveniva in Lunigiana e come non avvenne a Porto Torres tra il quartiere fortificato del vescovo sul Monte Agello e lo scalo marittimo.

Il trasferimento avrebbe avuto inizio solo a fortificazione ultimata (fine Duecento-primi Trecento) ed una lunga durata (quasi due secoli), accogliendo l’offerta di maggiori opportunità economiche così come aprendosi alla speranza di un miglioramento delle condizioni di vita dei residenti, cui la città vecchia era forse diventata inadeguata. È ipotizzabile ma niente affatto certo un lento declino delle strutture abitative del primitivo nucleo abitato, anche volendo tralasciare le tradizionali giustificazioni sull’aumento della diffusione della malaria (12) a causa delle ricorrenti esondazioni stagionali del Temo e del conseguente impaludamento delle sue rive. Non è comunque da escludere che, a causa di un progressivo deterioramento della regimentazione idraulica, si sia verificato un ritorno allo stato acquitrinoso delle aree pianeggianti e delle sponde marine e fluviali. Nella Sardegna conquistata dagli Aragonesi, pur costretti a qualche concessione di privilegi soprattutto nelle ‘città regie’ (tra cui Bosa), le libertà comunali vennero soffocate: fu introdotto e perpetuato il sistema feudale spagnolo sino al loro allontanamento dall’isola nel 1720. Bosa, ‘villa reale’, era una città ‘libera’ (titolo riconosciutole solennemente nel 1499) che aveva lottato perché le fossero riconosciuti gli statuti concessi sin dall’età giudicale, ma rimase sempre sotto il controllo di un feudatario aragonese residente nel castello. A quei privilegi il vivace popolo borghese che l’abitava, il cui dinamismo aveva prodotto anche importanti effetti politici, non volle rinunciare e perciò si trovò spesso in contrasto con il castellano. Ancora nel Quattrocento si registrano bombardamenti della città dalla fortificazione: la presenza di armi da fuoco pesanti nel castello, peraltro in uso sin dalla metà del Trecento, giustifica gli adattamenti subìti dalla cinta muraria per adeguarla alla nuova artiglieria.

Premessa sulle origini della fortificazione bosana Non ci è noto se si sia mai riflettuto sulla possibilità che una qualche struttura difensiva sia stata apprestata sul colle di Serravalle prima del Mille, quando le incursioni saracene erano veramente devastanti allo scopo di difendere, insieme alla chiesetta d’altura (oggi dedicata a N.S. de Sos Regnos Altos) (13), i contadini della piana e i loro beni, compresi gli animali, sotto ripari più o meno improvvisati apprestati entro una rudimentale cinta fortificata in materiali deperibili in caso di un lungo assedio. Oltre a non essere affatto certa per queste prime apparecchiature di difesa una funzione abitativa stabile, la presenza di più punti difensivi in una stessa area era abbastanza comune nei secoli altomedievali. Dunque la nostra ipotesi non confligge con quella dell’esistenza contemporanea di un recinto difensivo vescovile. I signori locali, quali essi fossero ma sicuramente i sovrani del giudicato in nuce di TorresLogudoro, potrebbero avere provveduto a munire il colle di una ridotta [= opera fortificata di carattere stabile o provvisorio] costituita da palizzate, fossato, aggere [= bastione in terra battuta, quella di risulta dallo scavo dei fossati], muri a secco, torri in legno (in realtà ancora molto rare nel X secolo), integrati da boscaglie e siepi spinose vive, insieme a baraccamenti per soldati, in genere in numero assai ridotto. Tutte strutture precarie di cui sembra essersi persa traccia forse a causa delle numerose fasi successive di occupazione del sito (14). Qualunque sia stata in quei secoli la realtà insediativa sul colle di Serravalle (si trattasse anche soltanto di un faro di segnalazione per naviganti), allo stato nulla vieta che possano essersi conservati, a livelli stratigrafici inferiori rispetto a quelli indagati, segnali di una vita precedente, tenendo conto che in ogni insediamento di sommità la fase in muratura delle strutture (non anteriore al XII secolo) è stata preceduta da quella in legno, sebbene ‘nessun apparato difensivo del X secolo sia noto come tale nella sua integrità materiale’ (15).

L’incastellamento In Sardegna è a nostro avviso da rifiutare l’ipotesi dell’esistenza nei secoli X-XI del fenomeno di urbanizzazione chiamato ‘primo incastellamento’ che si verificò nella penisola, dovuto molto spesso a usurpazioni ad opera di signori locali. Infatti proprio in quei secoli si erano imposti nell’isola poteri politici assai forti. Quando la Sardegna si staccò di fatto da Bisanzio, un impero sempre più disattento alle vicende mediterranee, si divise in quattro entità statali scardinando l’ordinamento pubblico bizantino centralizzato (16), è innegabile che fu proprio grazie a questa ripartizione e alla presenza costante dei regnanti sul territorio che il controllo militare-amministrativo dei nuovi stati, chiamati giudicati, si rafforzò anziché indebolirsi. Almeno a partire dall’XI secolo, ma sicuramente anche prima, l’isola era saldamente in mano ai giudici indigeni di Torres-Logudoro, Arborea, Gallura, Cagliari, una nobiltà funzionariale bizantina di grande intraprendenza che fonderà dinastie destinate a durare a lungo. Il loro potere, fortemente centralizzato sebbene formalmente controllato dalle ‘corone de logu’ [= assemblee di tutti i cittadini abbienti], era tanto solido che neppure le famiglie più ricche, spesso imparentate con gli stessi sovrani e frequentemente in concorrenza per la conquista del trono, o gli enti ecclesiastici riuscirono a strappare concessioni per costruire dimore fortificate come ad esempio avveniva nell’Italia padana. Venne così impedito il frazionamento pulviscolare del territorio in signorie di castello, come avvenne nel resto della penisola. Il privilegio regio di fortificazione rimase sempre nelle mani dei giudici ed ogni tentativo di violarlo senza troppi scrupoli legalitari a difesa di proprietà private o di offesa verso il sovrano fu combattuto con decisione. In sintesi nell’XI-XII secolo tutti i castelli strategici sardi appartenevano al demanio pubblico e i più muniti si trovavano in genere alle frontiere dei regni, poiché le aggressioni esterne da cui difendersi non provenivano più soltanto dal mare, bensì dai bellicosi regni contermini (17). Poiché il giudicato di Torres-Logudoro mantenne intatto il suo potere di controllo sul territorio almeno fino alla seconda metà del Duecento, neanche la prima fase del cosiddetto ‘secondo incastellamento’, fissato dagli studiosi al XII-XIII secolo, di modello peninsulare, che vide la definitiva affermazione dei poteri signorili proliferatisi per gemmazione dai maggiori feudi ai più piccoli e apparentemente insignificanti, poté qui realizzarsi ad opera di privati.

Il castello Abbiamo già detto della possibilità che il colle di Serravalle fosse già dotato sin dall’Altomedioevo di strutture difensive semipermanenti e sfruttato come posto di osservazione. È anche ipotizzabile che in età protogiudicale sia diventato un recinto fortificato che potesse accogliere uomini e animali in caso di pericolo e di assedio, in cambio di servizi di sorveglianza o pagamento di un censo: dunque ancora una struttura poco resistente sotto il profilo ossidionale [= relativo all’assedio]. L’Altomedioevo, che aveva disimparato la perfetta tecnica edificatoria dell’età romana, nella costruzione delle sue mure difensive faceva uso di ciottoloni di fiume, malte scadenti di grande spessore, materiali di reimpiego usati con scarsa attenzione (18). Di queste fasi non abbiamo a oggi conferma storica o archeologica, ma le due ricerche non sono state ancora completate. Più sicure le informazioni sul sito dopo l’occupazione da parte dei Malaspina. Il nostro castello, da inserire nella seconda fase del cosiddetto ‘secondo incastellamento’ di fine XIII-XIV secolo, era una residenza signorile fortificata dove come altrove risiedeva solo la famiglia marchionale e il suo entourage. Infatti non nacque come centro di popolamento: la Bosa vecchia, posta sulla riva sinistra del fiume Temo intorno alla chiesa di San Pietro, era una realtà urbana attivissima e fiorente ancora alla fine del Duecento. Di conseguenza la fortificazione deve essere stata pensata e poi realizzata come dimora signorile così che non prevedeva al suo interno un abitato (si veda, tra le innumerevoli situazioni simili, il castello di Caprona in Toscana). Riflettendo sulla consistenza edilizia dell’elevato visibile coincidente con le risultanze di storici e archeologi medievisti, il fortilizio che oggi vediamo non sarebbe anteriore alla fine del XIII secolo, quando l’ormai avanzata decadenza del giudicato di Torres permise ai Malaspina di ampliare a dismisura i propri possedimenti isolani pur non contigui tra loro incuneati tra quelli dei Doria a nord e dell’Arborea a sud, tanto da diventare padroni di una parte cospicua della Sardegna settentrionale. A nostro avviso non appare fondata la prima ipotesi di Alessandro Soddu secondo cui il nostro castello non sarebbe stato ancora costruito alla metà del Duecento sulla base di un atto del 1254 dove non viene ricordata la presenza di un castellano (19). Più valida l’alternativa proposta dallo stesso studioso e cioè che a quella data i Malaspina non esercitassero ancora prerogative signorili nel giudicato di Torres: il potere giudicale resisteva ancora, almeno formalmente. Purtroppo, strapazzato a nostro avviso ingiustamente il Fara, non è stato rintracciato alcun documento che ci informi dell’erezione della fortificazione bosana. Ma in ogni caso potremo consolarci pensando che le carte di fondazione di castelli sono in ogni caso rarissime nel nostro paese (20).

La cinta muraria In mancanza di una aggiornata documentazione grafica e soprattutto stratigrafica, è difficile uscire dagli schemi consueti di lettura di una fortificazione medievale. Comunque potremo fortunatamente rifarci ai rilievi pubblicati nel lontano 1981 dallo storico sardo dei castelli Foiso Fois. Non sembra esservi dubbio che, come sempre accadeva, il circuito murario abbia seguito passivamente sin dall’origine l’isometria del terreno a disposizione sulla cima del colle, evitando per quanto possibile piegamenti angolari, assai più vulnerabili rispetto a murature curve perché presentavano punti di osservazione nascosti, e comunque ove presenti protetti con l’erezione di torri. Sappiamo che la difesa nel Medioevo era intesa quasi sempre come difesa passiva, in particolare difesa piombante, all’interno di perimetri fortificati (rare le battaglie campali) e che le modalità tattiche non registrarono variazioni di rilievo fino alla nascita delle artiglierie moderne. A questa osservazione generale si adegua anche la fortificazione bosana.

Il suo perimetro, realizzato in muratura a sacco, misura circa m 352 e racchiude un altopiano in parte artificiale di circa 8000 mq (21), in leggera pendenza onde evitare per quanto possibile il ristagno delle acque meteoriche. Fatta salva l’esistenza/sfruttamento di strutture anteriori, la sua costruzione sarebbe da assegnarsi ai Malaspina, che avrebbero costruito il castello alla fine del Duecento impiegando manodopera specializzata fatta venire dalla Lunigiana. Del castello risultano documentariamente proprietari nel 1301 e lo tennero fino al 1317, quando passò nelle mani dei giudici di Arborea. Altri adeguamenti legati all’introduzione delle armi da fuoco sono addebitabili agli Aragonesi, che se ne impossessarono definitivamente nel Quattrocento.

Il perimetro murario fu protetto da scarpate artificiali utili ad attuare una difesa integrata con la cortina. Sebbene gli scavi archeologici non si siano ancora estesi all’esterno del castello, riteniamo verosimile l’esistenza sul lato di levante di un fossato (oggi colmato), ovviamente asciutto e più profondo delle fondazioni delle mura per evitare che fosse facilmente riempito e che il nemico potesse scavare gallerie di mina [= cunicoli sotterranei], che consentivano di indebolire le murature fino a farle crollare ma anche di penetrare all’improvviso nello spazio interno del castello. Inoltre doveva essere abbastanza largo da non consentirne il superamento con ponticelli volanti.

Le torri rompitratta (anch’esse in muratura a sacco) sono tutte a gola, cioè prive del lato verso l’interno, come ad esempio nella pisana Iglesias o nella senese Monteriggioni (ma vedi anche le mura urbiche di Rieti): il modello proviene dalla Toscana, ma lo ritroviamo anche in Lombardia (ad esempio Vimercate) a confermarne la validità difensiva. All’interno di queste torri furono inseriti piani a diversi livelli in corrispondenza delle feritoie: il primo poggiava su una volta a botte ribassata posta all’altezza del cammino di ronda, al quale si accedeva tramite aperture architravate di collegamento (camminamento passante); quelli superiori erano a travatura e tavolato lignei. Le torrette più antiche (in origine quattro) sono strutture di irrobustimento della cinta muraria; sporgono

appena dal recinto ed hanno forma quadrangolare. Il resto della cortina, che guarda a occidente verso la città vecchia e il fiume, è interrotto da una torre scarpata a tre spigoli (nord-ovest), datata ai primi decenni del Trecento, di altezza pari a m 11 circa, realizzata a fasce di conci di trachite rossa. Essa conserva la merlatura guelfa/aragonese, scomparsa in ogni punto del percorso murario dove in alcuni punti (a nord) restano tracce di bocche da fuoco. La torre a quattro spigoli di sud-ovest, anch’essa scarpata e forse ancora trecentesca, non sopravvanza l’altezza massima dell’attuale cinta muraria (circa m 5,70) (22).

Le mura bosane sono assai poco robuste tranne nei pressi della torre-maestra dove raggiungono lo spessore di m 1,50 (come le mura di Iglesias), mentre a settentrione si aggirano sui 60 cm (il che fa dubitare una esecuzione in muratura piena). Secondo Raimondo Carta Raspi (1933) esisteva una ‘robusta pusterla ora murata’ (23), posizionata sul muro di cinta di levante appartenente all’edificio che egli chiama caserma (‘forse l’antico donjon [= lo stesso che cassero]’), poggiato alla cortina muraria dove ‘i muraglioni superstiti si mostrano alti e fortemente massicci, luogo senza confronto più robusto d’ogni altro del castello’. In altri termini l’edificio, oggi identificato ipoteticamente come prima residenza signorile e datato al XIII secolo dagli archeologi, sarebbe stato in realtà una struttura destinata alla guarnigione di stanza nel castello (funzione che peraltro non esclude l’altra: al piano terreno i soldati, le cucine; a quello superiore le stanze riservate alla famiglia del castellano).

Su questo versante orientale affacciava un corpo di fabbrica di forma curvilinea, chiamato anch’esso rivellino dal Fois (24) con probabile camminamento di ronda integrato nella cortina muraria, che sembra fosse il posto di guardia al ponte levatoio. Si tratta di un ambiente rettangolare (circa m 8x3,50; spess. murature a sacco m 1,70; altezza non superiore a quella della ‘caserma’ di circa otto metri) coperto da volta a botte, anch’esso oggetto di parziali rimaneggiamenti e restauri. L’ingresso interno al palazzo fiancheggiava questo edificio ed era frazionato da tre aperture ravvicinate forse munite di saracinesche (25). Si trattava di uno sperimentato stratagemma che consentiva un’opera di interdizione abbastanza agevole, considerato che le milizie castellane erano costituite in genere da effettivi alquanto ridotti. Infatti la rocca castri doveva essere in grado di opporre l’ultima resistenza in caso di cedimento delle difese esterne: in altri termini, come scrive Pierre Toubert (26), il palazzo è il secondo perimetro interno fortificato.

Il primitivo ingresso principale alle mura era munito di ponte levatoio ‘di cui sopravvivono le mensole di arresto dei travi bilancieri’ (Foiso Fois). Collocato tra ‘posto di guardia’ e ‘caserma’, si affacciava su uno spazio quadrangolare interno che, a giudicare dal rilievo pubblicato dallo stesso Fois, sembra troppo vulnerabile, aperto come appare verso la dimora signorile. In realtà all’esterno della cinta, proprio in questo punto, esistono tratti di muratura (molto restaurati) ed altri sommersi dalle sterpaglie che farebbero pensare ad una struttura avanzata e dunque forse ad un rivellino posto a difesa del ponte levatoio non dissimile, ad esempio, da quello del noto castello di Vigoleno (Piacenza; XIII-XIV secolo) che si cita non casualmente perché eretto da maestranze provenienti dalla Lunigiana (27). L’ipotizzato complesso difensivo fossato-ponte levatoio-rivellino venne eliminato (o comunque parzialmente obliterato) quando nel Trecento l’originario accesso al castello fu murato, verosimilmente perché ritenuto ormai inservibile sul piano difensivo ed in sua vece fu aperto, verso la perduta torre est, un nuovo ingresso, che oggi si presenta come un ampio quanto insicuro portale ad arco, molto restaurato, datato nelle sue forme attuali alla prima metà del Quattrocento (28).

A ridosso del fortilizio non si costruirono mai abitazioni, poiché con il loro ingombro avrebbero potuto consentire ad eventuali assalitori movimenti non controllabili dalle soldatesche asserragliate nell’area munita: la fascia di rispetto, integrata probabilmente da una palizzata lignea, non doveva essere inferiore al campo di tiro delle balestre [= armi da lancio di frecce e dardi]; un tratto di terreno libero veniva risparmiato anche all’interno per consentire il veloce movimento delle truppe e il rifornimento delle munizioni agli uomini in difesa sulle mura. Infatti il rione ‘Sa Costa’, costituitosi dopo l’erezione del castello e frutto di una lenta migrazione dalla città vecchia verso la collina, ha lasciato ben scoperto il terreno che abbraccia la fortificazione (29). Le cortine murarie dovevano essere in origine alte all’incirca 10 metri (cioè l’altezza di due scale sovrapposte: a Iglesias m 10,50), ma oggi si elevano soltanto fino a una altezza massima di circa m 5,70. Si conserva ancora (restauri a parte) lungo il perimetro fortificato parte del camminamento di ronda (largh. ca. 90 cm). Ovviamente non quello medievale, poiché si dovrà presumere che, a seguito dell’introduzione delle armi da fuoco nel Quattrocento, mura e torri siano state abbassate al fine di non fornire bersagli troppo facili alla nuova artiglieria. In età aragonese vennero realizzati gli spalti terrapienati di cui vi è traccia per consentire ai nuovi armamenti di raggiungerne la sommità.

Il torrione maestro Il torrione maestro, pesantemente restaurato da Dionigi Scano nel 1893 (30), risale ai primi anni del Trecento e venne eretto per iniziativa dei Malaspina. Si presenta simile alle torri portaie cagliaritane, fatte costruire dai Pisani dall’architetto Giovanni Càpula, denominate di San Pancrazio (31) e dell’Elefante (32), così come a quelle di Oristano e Iglesias. Tuttavia il torrione bosano, a differenza delle strutture citate, non sembra fosse munito di più porte affrontate e di saracinesche in legno o ferro, poste a protezione dell’ingresso alla cinta fortificata: dunque la somiglianza è solo morfologica fatti salvi interventi di ricerca in tal senso. Come quasi sempre accadeva, anche questo torrione fu inserito successivamente alla prima costruzione delle mura sul lato di nord-est e fu posizionato a fianco del palazzo, anch’esso fortificato: in considerazione dell’angustia dei pochi spazi vuoti, non doveva essere destinato ad abitazione, bensì solo a deposito del tesoro e magazzini per provviste e munizioni.

Alto circa m 20 (secondo i disegni del Fois), ha pianta a U (m 10,30x7,70), il quarto lato era aperto, protetto forse in origine da balaustrate in legno come nella ricostruzione proposta dallo Scano nelle torri cagliaritane, per consentire la difesa dall’alto in caso di irruzione nella cinta fortificata degli assedianti. Costruito in trachite chiara con inserti casuali di conci scuri, ha una copertura piana protetta da parapetto anch’esso di restauro. Lo spessore delle murature a sacco è di m 3,50 circa. Alla base la cortina muraria è costituita da pietre bugnate con nastrino (come ad esempio ad Oristano) in trachite rossa, mentre i piani superiori sono in blocchi di pietra lisci accuratamente squadrati (molti di restauro). Il piano terreno è stato rinforzato staticamente nel corso dell’intervento

del 1893 da fodere interne in pietra ed è coperto da un solido solaio in muratura posto a 8 m di altezza dal piano di campagna per ovvii motivi di sicurezza: un arco rampante in mattoni di rinforzo statico venne costruito nel corso di detto restauro. Questo solaio è posato alla stessa altezza degli alloggiamenti, ricavati nel muro di cortina, per accogliere le travi sorreggenti il tetto della ricordata ‘caserma’, con cui il torrione doveva essere collegato. Al piano intermedio esisteva un soppalco ligneo, di cui sono ben visibili i fori per le travi di sostegno. Vi si aprivano tre ingressi archivoltati attraverso i quali si accedeva a vani coperti da volte a botte, ricavati nello spessore murario, che consentivano di raggiungere le strettissime feritoie di difesa, che permettevano il tiro di fianco. Al terrazzo superiore si giungeva con ogni probabilità attraverso scale a pioli. Nel giro di colmo eleganti mensole o gattoni (per la maggior parte di restauro) in trachite rossa, di disegno trecentesco identico a quelli delle torri cagliaritane, reggevano un tavolato utile per la difesa piombante e forse una bertesca (33). Il modello per il torrione bosano è facilmente individuabile nelle terre di Toscana ma, nella ricerca, si dovrà tenere presente che per la maggior parte o sono a livello di rudere, oppure il lato aperto verso l’interno è stato tamponato in tempi più o meno recenti (come del resto era accaduto per quelli cagliaritani, poi liberati da queste chiusure in muratura a cura dello Scano) per rendere la struttura abitabile. Si vedano, ad esempio, le torri superstiti di Iglesias o quelle di San Gimignano.

La dimora del castellano Se trattasi, come sembra, di costruzione malaspiniana, partiamo dall’esame del cassero (34) diffusosi soprattutto in Lunigiana (regione storica divisa oggi tra la provincia di Massa Carrara e quella di La Spezia) a partire dai primi decenni del Duecento. Ci riferiamo alla fortezza interna alle mura del castello, posta a nord, che accoglieva il palatium castri circondato da mura difensive e collegato con opere fisse o ponti mobili al torrione.

L’edificio a due piani che oggi osserviamo è una struttura abitativa che potrebbe risalire nelle sue forme attuali al Trecento, oltre che essere stata successivamente plurimodificata (35): un tempo cioè in cui il bisogno di maggiore confort portò ad aumentare la superficie a disposizione dei signori ormai residenti fissi all’interno del castello. Il lato esterno settentrionale coincide con la stessa cinta muraria e ne costituisce rinforzo. Poiché il costo della costruzione di una fortificazione era elevatissimo (cui dovrà aggiungersi la disponibilità non sempre ampia di risorse umane e tecniche), spesso erano le abitazioni a fare da muro. Considerata l’alta improbabilità sopra segnalata di una originaria funzione abitativa del castello allargata alla popolazione, il ritrovamento di unità disposte a pettine (36) non testimonia a nostro avviso con certezza che esistesse all’interno del recinto murario un nucleo demico, bensì che ci troviamo di fronte al ritrovamento di locali legati alle esigenze della presenza signorile e della guarnigione. Infatti il centro abitato era giù nella piana, prima sulla riva sinistra del Temo e poi alle pendici del monte e, come già detto, mai unitosi al castello a riconferma della sua funzione simbolico/rappresentativa (senza negare ovviamente quella difensiva). Ben nota è l’organizzazione di una struttura fortificata che, oltre alla casaforte del signore, doveva offrire spazio a strutture di rappresentanza, foresteria, locali di servizio (magazzini, forno, stalle, scuderie, fienili, granai ecc.), abitazioni per i funzionari amministrativi, alloggiamenti per i soldati, prigioni (in genere sotterranee, così come cantine, ghiacciaie e discariche). Alcune aree dovevano rimanere disponibili per coltivare piccoli orti che, in caso di assedio o scorrerie, distrutti i raccolti nelle campagne circostanti, assicuravano un minimo di sussistenza ai residenti. Dovevano anche essere presenti spazi liberi per accogliere provvisoriamente le popolazioni minacciate, insieme ai loro beni mobili giudicati indispensabili e al bestiame. Ma nel caso di Bosa la città vecchia fu probabilmente a lungo in grado di autodifendersi perché, come sopra ipotizzato, doveva disporre da

tempo di una propria cinta di protezione (37). Fino all’introduzione delle armi da fuoco queste esigenze primarie restarono invariate per secoli: la difesa è difesa passiva, le battaglie campali rarissime e di conseguenza ci si doveva attrezzare a resistere.

La casaforte signorile bosana era essa stessa ‘un castello nel castello’, che conosciamo pressoché solo a livello planimetrico: un fortilizio di forma rettangolare con quattro torri angolari alte in origine, secondo il Fois, una decina di metri (sopravvivono in discreto stato di lettura i resti di quella dello spigolo ovest, mentre è stata inglobata nel torrione maestro quella di nord-est). Uno sperone/rivellino a pianta triangolare (38) fu costruito secondo lo stesso Fois nel XIV secolo a difesa di accessi, dei quali non distinguiamo più le tracce: la struttura consentiva il tiro di difesa laterale e dall’alto. I diversi ambienti d’abitazione si disponevano intorno ad uno spazio distributore interno, dove erano state ricavate due cisterne (non sappiamo se già ispezionate dagli archeologi) ma di cui non ci risulta sia stata stabilita né la cronologia né la tipologia (39). Erano destinate alla raccolta delle acque piovane e, se possibile, di quelle percolanti dai tetti, ovviamente a pendenza verso l’interno del cortile. L’acqua di cisterna era spesso migliore di quella di un pozzo, bisognoso di maggiori controlli (eventuali infiltrazioni di acque inquinate) e di continua manutenzione. La loro presenza era vitale per la sopravvivenza dei residenti: quando rimanevano a secco per mancanza di piogge, gli assediati erano costretti alla resa. Un’altra cisterma esiste (ma non visibile perché compresa in un ambiente non visitabile) presso la chiesa castellana di N.S. de Sos Regnos Altos, forse a conferma di una sua esistenza anteriore e indipendente dall’attuale castello. Poiché la cisterna a nord, relativamente vicina alla cinta muraria, era protetta da una struttura muraria indipendente, oggi scomparsa, è possibile non fosse tale e che nascondesse invece un passaggio sotterraneo, non più praticabile al momento, che conduceva all’esterno. Si veda, a titolo di esempio, simile stratagemma presente nel castello di Romena nel Casentino o in quello Aghinolfi a Montignoso (Massa). Sulla fronte nord del torrione sono presenti due stemmi di difficile collocazione cronologica e identificazione, forse inseriti in tempi relativamente recenti. Quello palato potrebbe essere indifferentemente assegnato agli Aragonesi o ai Villamarì, dal 1468 feudatari di Bosa, i cui scudi si differenziano solo nei colori [pali

rossi in campo giallo/oro per i primi; pali rossi in campo bianco/argento per i secondi]. Per l’altro è stato ipotizzato che si tratti dell’arma dei Malaspina dello Spino Secco (la famiglia si divise nei due rami principali dello Spino Secco e dello Spino fiorito nel 1221), ma il disegno non coincide con il modello araldico conosciuto. A partire dal Duecento e definitivamente dal Trecento in poi, i castelli si trasformarono in dimore signorili sempre più confortevoli e meno blindate ma, per quanto è possibile giudicare allo stato attuale delle ricerche, non sembra che qui a Bosa si fosse attenuato il bisogno di sicurezza dei castellani almeno per tutto il Quattrocento, fino a quando cioè continuò l’estenuante guerra tra Arborensi e Aragonesi. Sicuramente l’affidamento del castello a feudatari aragonesi, spesso in aspro conflitto con la Bosa Nuova, città regia con proprio statuto, nata sulle pendici del colle, non favorì un clima di distensione: come già detto, il centro fu oggetto di attacchi violenti nel Quattrocento da parte del castellano di turno a testimonianza di una aperta conflittualità tra i due poteri. La fortificazione di sommità cominciò ad essere smantellata nella seconda metà del Cinquecento e nel Seicento ne iniziò l’occupazione da parte di povera gente, che vi risiedette fino all’Ottocento in miseri caseggiati realizzati usando i conci strappati alle mura castellane.

La cappella palatina La chiesa Tra i fortunati ritrovamenti sardi di affreschi medievali si colloca il ciclo pittorico pressochè integro della chiesa castellana di Bosa (Giudicato di Torres poi Arborea, in origine uniti sotto un unico sovrano), intitolata nel tempo prima a San Giovanni (dunque come d’uso legata al nome del committente), poi Sant’Andrea e infine (dedicazione attuale) a N.S. Signora de sos Regnos Altos. Venne in luce inaspettatamente nel 1974 in occasione dei lavori architettonici di restauro sull’edificio e su cui si intervenne per la prima volta nel 1975-76 sotto la direzione di chi scrive. Sino a quel momento l’unica testimonianza affrescata nell’isola era il ciclo con storie cristologiche dell’abside di Saccargia: via via nel tempo si sono aggiunti Galtellì, Trullas, Bonorva (conosciuto da sempre ma restaurato solo in anni relativamente recenti) ecc. grazie ad una maggiore attenzione degli Organi statali preposti, da molti decenni rassegnati a considerare Saccargia testo unico in Sardegna di pittura murale. Il committente fu il donnicello Giovanni d’Arborea (†1376), sfortunato proprietario del maniero quando il ciclo venne realizzato intorno al 1340 da un pittore toscano probabilmente pisano, vicino culturalmente al celebre Buffalmacco, autore nel Camposanto di Pisa del ciclo del ‘Trionfo della Morte’. Il castello sembra sia stato eretto dai marchesi Malaspina nei primi decenni del XII, ma nel Trecento era stato ceduto insieme alla città di Bosa agli Arborea. Crediamo che una chiesetta d’altura esistesse sul colle prima dell’erezione del castello, che la inglobò entro le sue mura, divenendo poi una cappella privata destinata eclusivamente ai signori del luogo.

La visita inizia dall’ingresso di facciata. Il piccolo edificio consiste di una sola navata quadrangolare coperta a capriate prolungata alla fine dell’Ottocento verso est, intervento che comportò la distruzione dell’originaria abside medievale e dunque anche dei dipinti murali che sicuramente la decoravano. Tre pareti conservano gli affreschi trecenteschi sopravvissuti pressoché integralmente: non una serie di tabelle votive come ad esempio ad Orosei (chiesa di Sant’Antonio Abate) ma un programma dottrinale ben meditato da un frate francescano, che forse era il consigliere del principe. La presenza dei Francescani in Sardegna era ampiamente attestata soprattutto nel regno di Torres e Arborea.

Ben sapendo che nel Medioevo le serie di figure sacre dipinte all’interno di una chiesa sono spesso eclettiche e apparentemente inspiegabili, tuttavia Bosa sembra in qualche modo fare eccezione alla regola. Infatti tutti i santi rappresentati possono essere accolti in una sorta di pantheon francescano perché rfilettono le virtù più amate e predicate dai Minori. Queste figure non sono certo una loro esclusiva ma, guardando alle intitolazioni delle loro chiese e alle virtù che personificano, non sembra possibile negare una scelta mirata dell’iconografo. A destra dell’ingresso (parete destra), partendo dal registro superiore, incontriamo i Dottori della Chiesa Ambrogio, Girolamo, Agostino, Gregorio Magno, cui segue forse l’evangelista Giovanni e altre figure non più leggibili o scomparse. Segue la raffigurazione dell’Ultima Cena, momento della istituzione dell’Eucarestia, indispensabile per la salvezza eterna. Gli Apostoli (identificati da una lunga iscrizione di base), benché siano stati ‘decapitati’ per i danni subìti dall’affresco e pur con quelle mani così poco espressive, mandano segnali del loro disagio di fronte all’annuncio del tradimento imminente grazie a quei piedi prensili, scimmieschi che si agitano sotto la mensa. Si riconoscono comunque bene Pietro (corta barba grigia), Giuda (il suo profilo dimezzato [fatti salvi interventi falsificatori di restauro] è di grande bellezza: evidentemente per il nostro pittore la malvagità non è sinonimo di bruttezza fisica) colto mentre pone la mano sinistra (mano infausta) nel piatto, e Giovanni, il discepolo più giovane e prediletto, che china la testa verso il petto di Gesù: il viso efebico dall’ovale delicato è simbolo di verginità. A quel che è dato supporre il volto di Cristo era di profilo, una rappresentazione che fino a Giotto (Padova, Cappella degli Scrovegni, 1303-05) era riservata solo ai malvagi o alle figure secondarie. Il nostro frescante sembra dunque essere aggiornato sulla novità iconografiche della pittura trecentesca. Il Redentore calza, non casualmente, sandali francescani (come il Bambino della

‘Adorazione dei Magi’). Incontriamo come ultimo pannello sopravvissuto, di assai mediocre qualità, la Adorazione dei Magi, omaggio dei potenti della terra alla divinità. La figura della Madonna, in particolare il viso, è frutto di un restauro integrativo e fantasioso che ne ingentilisce i tratti; i Magi sono figure elementari ma se non altro hanno il pregio di essere quelle originali. Scendiamo al registro inferiore (dunque dalla presunta abside originale per evitare al visitatore un percorso complesso) incontriamo una teoria di sante e santi tutti legati in qualche modo alla spiritualità francescana. Le sante (raramente con i loro atttributi, ma individuabili grazie ai tituli identificatori) simboleggiano in primo luogo la castità, e quasi tutte hanno una precisa ‘specializzazione’ nel soccorrere i sofferenti. Indossano una semplice sopravveste dagli orli serpeggianti (una eredità duccesca): variano solo i colori), Le capigliature sciolte sono segno di umiltà e purificazione (anche di lutto). In una nicchia ricavata successivamente la statua lignea di Sant’Andrea, probabile opera tre/quattrocentesca. Incontriamo per prima (dopo una lacuna) Lucia di Siracusa, simbolo della carità poiché distribuì tutti i suoi beni ai poveri. Regge con la mano sinistra una lucerna accesa, allusione alla parabola delle vergini sagge e delle vergini folli. Invocata contro le malattie degli occhi, è patrona dei ciechi. Segue il riquadro di Maria Maddalena, simbolo della penitenza e della redenzione, patrona dei farmacisti e delle prostitute. Unica nella processione sacra, non è dipinta in posizione stante come le altre protagoniste contro il fondo simbolico a due fasce colorate blu e gialla (che annullano tempo e spazio), bensì inginocchiata, coperta dai lunghi capelli irti sul capo secondo un diffuso stilema che contraddistingue le figure degli eremiti e indossante il mantello di pelle di capra: l’aureola è raggiata ed ellittica (invenzione giottesca). Sullo sfondo un paesaggio roccioso simboleggiante da secoli il deserto degli anacoreti dove sboccia un ramo gigliato, allusione all’Aldilà sin dall’età pagana: in un volo precipite scende a nutrirla l’angelo del Signore. Dunque un racconto sia pure abbreviato ma pur sempre un racconto. Ora incontriamo Marta, sorella di Lazzaro, simbolo della vita attiva come quella dei Francescani. È priva di attributi; patrona degli albergatori. L’apparizione di Giacomo il Maggiore, patrono nazionale spagnolo, aveva fatto indirizzare la ricerca verso quella regione, ma i riferimenti stilistici proposti nonché le circostanze storiche sono privi di fondamento. L’Apostolo Giacomo, venerato da secoli nel nostro paese (per esempio è patrono di Pistoia, che ne conserverebbe una reliquia) come protettore dei pellegrini e delle fanciulle, ricevette da Francesco un culto fervente, poiché il Santo di Assisi individuava nella vita itinerante la vera vita apostolica: la strada è immagine della precarietà e provvisorietà dell’esistenza umana. Indossa l’abito dei pellegrini di Santiago (mantello su tunica ad ampie maniche, berretta pesante sul capo, bastone, petaso con il simbolo che lo contraddistingue della conchiglia).

Segue Eulalia di Barcellona (già presente a Ravenna nel VI secolo): nessun attributo, viso rigidamente frontale da antica matrona romana. Viene impetrata contro la siccità. Poi incotriamo Agata di Catania, invocata contro le malattie del seno, i fulmini, gli incendi, il fuoco del purgatorio. Attributo, anziché le mammelle amputate, un fuso che ricorda il fatto che come Penelope, per non doversi sposare, tesseva una tela di giorno per disfarla la notte.

Agnese di Roma, simbolo della castità cui allude l’agnellino da cui il suo nome, martire all’età di dodici anni. Viene invocata tra l’altro contro i pericoli del mare. Barbara, santa orientale, protettrice dei soldati e dei vigili del fuoco, lottò contro il padre degenere che la rinchiuse in una torre e poi la uccise. Suoi attributi la torre a tre finestre (allusione alla Trinità, le penne di pavone (trasformazione delle verghe con cui venne fustigata), la pisside con ostie perché invocata nel momento della morte.

Vittoria di Roma, compagna di Anatolia (qui non raffigurata); è priva di attributi. Reparata di Cesarea merita un cenno particolare. Co-patrona di Firenze e Pisa, è l’unica a reggere tra le mani un ramo fogliato: non la palma del paradiso ma comunque un sempreverde (alloro o ulivo che nel Medioevo alludevano alla pace raggiunta attraverso le armi). Il suo culto è poco diffuso in Sardegna (ricordiamo la chiesa di origini romaniche di Usellus): si tratta sicuramente di una importazione toscana (vedi la Baia di Santa Reparata a Santa Teresa di Gallura).

Margherita di Antiochia: il suo nome significa perla, umiltà, protettrice delle partorienti e invocata contro la sterilità. Suo attributo è il drago, che qui appare di grandi dimensioni con la coda attorcigliata che invade parte della figura che segue. Cecilia di Roma: è priva di attributi, protettrice dei musicisti.

Savina di Troyes, greca di Samo, in genere raffigurata in veste di pellegrina ma qui non abbigliata diversamente dalle altre. Ursula, britannica, invocata contro la peste e pregata pro felici morte. Non è contraddistinta da alcun attributo.

Segue un’altra santa non identificabile. Il corteo prosegue in controfacciata per cui continuiamo lo stesso percorso. Incontriamo (forse) Scolastica, sorella di San Benedetto, ma non indossa la consueta tonaca monacale. Viene invocata per ottenere la pioggia e contro fulmini e uragani.

Chiudono il corteo l’imperatore Costantino (con chiodi e lancia della Crocifissione) e la madre Elena, leggermente invecchiata rispetto alle altre figure femminili perché in realtà aveva un’ottantina d’anni quando ritrovò la croce miracolosamente a Gerusalemme.

Controfacciata Segue la descrizione dei dipinti murali di controfacciata. Affrontati araldicamente sono raffigurati a sinistra a cavallo Martino, legionario romano poi vescovo di Tours, mentre dona la metà del suo mantello al povero, che si rivelerà essere Cristo, e Giorgio che uccide il terribile drago-demonio: il suo cavallo (un bellissimo pomellato grigio dalla coda annodata a fiocco secondo la moda del tempo) si impenna per permettergli di dare più forza al colpo di lancia.

Tra loro occupa l’intera altezza del muro la gigantesca figura apotropaica di Cristoforo, un brigante che, convertito, sarebbe morto martire in Licia. La raffigurazione (monca nella parte alta), è quella consueta dell’attraversamento del fiume impetuoso mentre porta sulle spalle il Bambino Gesù (scomparso), il cui peso cresceva ad ogni passo rischiando di fare crollare il gigante buono. Questa leggenda fece sì che divenisse il protettore dei viandanti e dei pellegrini. Sotto il San Giorgio si conserva una raffigurazione enigmatica anche a causa dei danni subiti. Un

angelo (rimasto a mezzo busto) che impugna con forza una lancia e una figura femminile che lancia uno sguardo attento verso di lui. Si tratta a nostro avviso della raffigurazione dell’Arcangelo Michele intento nel giorno del Giudizio a cacciare con l’asta i demoni che insidiano i risorti, mentre con il braccio sinistro sorregge la bilancia per la pesatura della anime (o meglio dei peccati). La figura femminile è la Madonna in veste di advocata, ruolo attribuitole da secoli.

Parete sinistra Iniziamo dal registro superiore, quello dove più chiaramente si manifesta la mente ordinatrice di un membro dell’Ordine dei Minori.

Dopo vistose lacune, troviamo i santi francescani più noti con tonaca e cordiglio (amputati praticamente dal busto in su): Chiara (canonizzata nel 1255); Antonio di Padova (ca. 1232: regge tra le mani la raccolta dei suoi sermoni sulla Vergine); Ludovico di Tolosa (ca. 1317: la corona ai suoi piedi e il seminato azzurro con i gigli di Francia lo identificano con certezza). A seguire uno dei momenti più commoventi della vicenda terrena del Santo di Assisi, cioè l’episodio delle Stigmate. Nonostante il grave stato di degrado distinguiamo ancora sul fondo i monti della Verna dove avvenne il prodigio e vediamo Francesco inginocchiato che volge le palme al serafino (scomparso). La traiettoria dei raggi dolorosi, che gli trafiggeranno mani e piedi è interrotta ma distinguibile: il suo volto estatico è volto verso l’osservatore nell’invito a condividere la sua sofferenza. Seguono figure non più identificabili.

Registro inferiore. Dopo altre figure poco leggibili la parte più importante dell’intero ciclo e per il tema trattato e per la qualità pittorica molto alta. L’interesse maggiore è sempre stato rivolto alla scena raffigurante la vanità del vivere (una leggenda forse di origine orientale) e cioè l’Incontro dei tre vivi e dei tre morti, tema francescano (ma anche domenicano) per eccellenza, di cui esistono numerosi esempi nel Continente europeo. In Italia il più antico è quello conservato nella cattedrale di Atri (1240-50); il più giustamente famoso quello del Camposanto pisano atttribuito a Bonamico Buffalmacco (1336 circa). Se nel primo avvertiamo una sorta di terrore superstizioso, in quello toscano (un secolo dopo) la morte sembra essersi laicizzata: anzi possiamo cogliere qualcosa di irriverente in quelle figure eleganti che si turano il naso e sembrano non comprendere l’avvertimento di meditare sulla caducità dell’esistenza, che rivolge loro il monaco Macario. Questo è il tempo in cui, diminuita nella società medievale la fatica del vivere, più difficile diventa l’accettazione rassegnata della fine. Vestito di una tonaca di tessuto grezzo con scapolare munito di cappuccio come i monaci della Tebaide del Camposanto pisano, il ruolo di Macario è quello di spiegare il significato morale dell’apparizione ai tre cavalieri dei loro stessi cadaveri entro sarcofagi nei diversi stadi della decomposizione. Il cartiglio posto accanto al monaco non facilmente leggibile riassume la formula eritis quod sumus. Accenniamo appena al paesaggio sul fondo: oltre all’albero centrale a foglie d’edera (come ogni sempreverde allusione all’eternità) sono dipinti arbusti che affondano le radici nelle bare dunque una scelta non casuale del pittore. Forse sono cornioli carichi di frutti rossi, sin dall’antichità legati al tema della morte. Rimane da esaminare il Martirio di San Lorenzo la cui vita fu simbolo di carità e umiltà, tipiche virtù francescane. Lorenzo è posto prono sulla graticola del suo martirio: l’affresco è molto rovinato dunque poco leggibile.

Su tutto lo zoccolo degli affreschi è dipinta la palea giallo-rossa d’Arborea (ma anche d’Aragona) con scudi gotici abrasi e a sinistra pelli di vaio. Indubbi i segnali di contatti diretti con la pittura toscana dei primi decenni del Trecento e punto di riferimento certo è proprio Buffalmacco, un fiorentino dissidente attivo ad Arezzo e a Parma, che a Pisa ha lasciato il suo capolavoro: il ‘Trionfo della morte’, di cui l’Incontro è parte. A questo formidabile affresco guarda il pittore bosano: vedi in particolare l’Arcangelo Michele e l’adozione dei colori come scelta estetica in sintonia con la tradizione francescana che prediligeva un cromatismo quieto, sommesso quale manifestazione di modestia ma non influenzata da questa. Infatti il nostro frescante illumina improvvisamente la scena (e questo non succedeva a Buffalmacco) con i rosati, i gialli dorati, gli aranciati quali inaspettati scoppi di gioia. Segnale a nostro avviso di una conoscenza certa delle opere di Pietro Lorenzetti. Dell’umanesimo gotico il pittore bosano esprime uno dei tratti più originali: il risveglio dell’interesse verso l’uomo, verso il destino del corpo, che rende la sua opera nuova e moderna.

Committente del ciclo fu Giovanni d’Arborea: l’opera è stata eseguita tra il 1338, anno del suo ritorno in Sardegna dalla Catalogna, e il 1340-45: oltre ai segnali che vengono dalla moda di questo tempo storico nell’abbigliamento e dalle stoviglie posate sulla mensa dell’‘Ultima Cena’, impossibile pensare ad una data più bassa poiché già nel 1346 Giovanni chiedeva al sovrano aragonese di tornare stabilmente in Catalogna preoccupato della sua sorte e di quella dei famigliari: preoccupazione concreta considerato che fu presto imprigionato (1349) nel maniero bosano dal fratello giudice Mariano IV, dove morirà probabilmente di peste nel 1376, lo stesso anno del sovrano arborense. Il messaggio che tuttora ci giunge da questo ciclo pittorico è malinconico e laico sulla caducità e morte degli esseri umani e colpisce ancora la nostra sensibilità, nonostante ogni tentativo di allontanare problemi irrisolvibili come le ragioni del vivere e morire su questa terra.

Note bibliografiche 1) D. SCANO, Storia dell’arte in Sardegna dall’XI al XIV secolo, Cagliari 1907; R. CARTA RASPI, Castelli medioevali di Sardegna, Cagliari 1933; F. FOIS, Castelli della Sardegna medioevale, Milano 1992 (stampa postuma); R. CORONEO, Architettura romanica dalla metà del Mille al primo ’300, Nuoro 1993. 2) F. FOIS, Strutture e perimetri difensivi, in ‘AA.VV., Il castello di Bosa’, Torino 1981, pp. 45 ss. A.Bosa dal 2000 sono in corso scavi archeologici non ancora ultimati sia in estensione sia in profondità: in altri termini non sappiamo se si sia raggiunto in ogni punto della fortificazione il livello sterile. Di conseguenza la possibilità di illustrare il castello, situato nell’antico giudicato di Torres-Logudoro (curatoria della Planargia), può fidare soprattutto sulla tendenza alla ‘tipizzazione delle funzioni’ di ogni gruppo umano e al ‘perdurare dell’eccellenza tattica della posizione’. 3) A. SODDU – F.G.R. CAMPUS, Le curatorìas di Frussia e Planargia, dal giudicato di Torres al parlamento di Alfonso il Magnanimo (1421): dinamiche istituzionali e processi insediativi, in ‘Suni e il suo territorio’, Suni 2003. 4) Castello e campanile interagivano grazie alla possibilità di segnalazioni notturne a mezzo di bracieri accesi, mentre di giorno ci si serviva di fumo, che si otteneva facilmente e in abbondanza dando fuoco a fascine bagnate, o a mezzo di specchi di bronzo lucidato. 5) Si pensi ad esempio agli affluenti del Po un tempo tutti navigabili, che costituivano una rete fluviale commerciale pari e forse più comoda di un reticolo stradale, bisognoso di continua manutenzione: i documenti medievali ricordano l’esistenza di pirati del Po sconfitti da Matilde di Canossa. 6) Se all’ostruzione parziale della sua foce nel 1528 ad opera degli Spagnoli in guerra con i Francesi aspiranti al possesso della Sardegna, si sommano le maree e le correnti marine, oltre al naturale interramento dell’alveo fluviale dovuto agli apporti alluvionali e alla necessità (evidentemente non sempre affrontabile) di una continua manutenzione per tenerlo sgombro da detriti ingombranti, non sembra esservi dubbio che la situazione attuale del Temo non corrisponda più a quella dei secoli medievali. 7) Giovan Francesco Fara, nato a Sassari nel 1543, fu vescovo di Bosa, dove rimase in carica solo sei mesi e vi morì nel 1591. Fu uno storico colto e preparato non incline a nazionalismi rivendicativi di una claustrofobica cultura isolana autoctona, priva di antenati. Lo studioso dichiarava di essersi ispirato ad ‘antichi codici’, oggi probabilmente scomparsi. Vedi Opera (a cura di E. Cadoni), I (In Sardiniae Chorographiam – Biblioteca); II (De rebus Sardois, libri I-II); III (De rebus Sardois – Aragonenses Sardiniae reges, libri III-IV), Sassari 1992 (ristampa). 8) Il soprannome Malaspina, poi trasformato in cognome, ne ricorda la provenienza da strati bassi della popolazione: insomma, come ebbe a scrivere Bruno Andreolli, erano dei parvenus. 9) Dopo la sconfitta nel 1015-16, grazie all’aiuto congiunto delle flotte pisana e genovese, dell’arabo Museto, signore di Denia e delle Baleari, che occupò l’isola o parti di essa per pochi mesi e ne

sarebbe stato definitivamente allontanato forse una decina di anni dopo, il pericolo saraceno diventò in qualche modo ‘controllabile’, nonostante gli assalti alle coste sarde siano continuati anche a Bosa fino all’Ottocento ad opera di pirati barbareschi provenienti dalle coste africane (ma questo è un altro tempo e un’altra storia). 10) A. SODDU, I Malaspina e la Sardegna, Cagliari 2005. 11) Le nuove unità abitative verranno a costituire l’odierno rione ‘Sa Costa’ o Bosa Nuova (versante di sud-ovest), un insediamento poi fortificato che conserva ancora le caratteristiche di borgo tardomedievale, oggetto di studi recenti ma non incisivi. 12) Malattia endemica in Sardegna, già in età romana chiamata ‘isola malsana’. 13) Rientrava nella norma intorno al Mille che una chiesa fosse presente all’interno di un castello. In alcuni casi l’edificio sacro preesisteva al castello stesso (in provincia di Lucca ricordiamo; Santa Maria ad Montem, not. VIII secolo; Barga, X secolo: entrambe fortificate nei secoli successivi). Vi sono poi casi in cui le chiese rimasero fuori dal recinto munito come a Buriano (Grosseto, pieve del Mille) e, in Sardegna, il primitivo edificio (munito di pozzo indipendente) che dopo il Mille diventerà la chiesa palatina dei giudici ad Ardara. 14) Di fronte alla chiesetta del castello sono state ritrovate rovine di ambienti al momento (ci sembra) non datati né individuati sotto il profilo tipologico. 15) Cfr. A.A. SETTIA, Castelli e villaggi nell’Italia padana. Popolamento, potere e sicurezza fra IX e XIII secolo, Napoli 1984; ID., Proteggere e dominare, Roma 1999; ID., I caratteri edilizi di castelli e palazzi, in ‘Arti e storia nel Medioevo’, II: ‘Del costruire: tecniche, artisti, artigiani, committenti’, Torino 2003. Per la Sardegna vedi in generale: J.J. POISSON, Castelli medievali di Sardegna: dati storici e dati archeologici, in ‘Lo scavo archeologico di Montarrenti e i problemi dell’incastellamento medievale’, Firenze 1990. 16) I suoi sovrani si firmavano almeno a partire dalla fine dell’XI secolo Grazia Dei rex, cioè autonomi da qualsiasi altro potere terreno.Vedi ad esempio la stessa espressione in atti di Matilde di Canossa. 17) La fortificazione bosana, almeno fino all’arrivo dei Malaspina, non potrà identificarsi come postazione di frontiera poiché, come ricorda una cronaca redatta nel XIII secolo nota come Condaghe di San Gavino in cui trova posto un riassunto di avvenimenti precedenti, per segnare i confini del regno di Torres si indicano il ponte sul fiume Mannu a Porto Torres e quello di Oristano, anziché il Temo, che rimase in territorio logudorese sino alla caduta del giudicato nella seconda metà del Duecento. 18) A. CASSI RAMELLI, Dalle caverne ai rifugi blindati, Bari 1996 (ristampa). 19) Atto (forse sopravvalutato poiché unico) redatto nel 1254 in palacio episcopatus Sancti Petri de Bosa contenente la richiesta, poi accolta, dei consoli marsigliesi residenti a Bosa rivolta al vicario del giudicato di Torres e Gallura in nome di Enzo di Hohenstaufen e della consorte Adelasia di

Torres [‘prigioniera’ più o meno volontaria nel castello del Goceano, dove morì], per ottenere dalla giudicessa libertatem et franchisiam per tutti i corallari e i mercanti marsigliesi nell’esercizio della loro attività in Bosa et in omnibus (la concessione sarà riconfermata con atto stilato in palacio sive [= ‘o a meglio dire’; Cic.] in ecclesia Sancti Petri de episcopatu Bose: l’endiade è estremamente significativa, poiché fa coincidere episcopio e chiesa). Nelle argomentazioni del Soddu mancano altre considerazioni. Nel Medioevo le chiese (e non solo quelle cattedrali) così come le abbazie svolgevano un importante ruolo tanto religioso quanto pubblico. Al loro interno si rogavano atti, si amministrava la giustizia, ci si rifugiava in caso di pericolo, erano luoghi con diritto d’asilo per ricercati dalla giustizia. Spesso la redazione di documenti, la gestione della giustizia o anche gli scambi commerciali avvenivano nei loro cimiteri, anch’essi con diritto di asilo e fortificati non per ragioni pie ma come difesa integrata della chiesa. Per converso atti solenni potevano venire rogati entro castelli senza che ciò fosse in connessione con l’esercizio di poteri signorili. Cfr. R. Farinelli, I castelli nella Toscana delle ‘città deboli’. Dinamiche del popolamento e del potere rurale nella Toscana meridionale (secoli VII-XIV), Firenze 2007. Si dovrà invece riflettere attentamente sulla possibilità che il documento esaminato possa testimoniare che nella città vecchia risiedesse forse non stabilmente il potere giudicale, mentre nel castello avesse sede quello signorile malaspiniano, ancora privo di diritti di tipo feudale, peraltro assai rari, come ebbe a scrivere Marco Tangheroni, in Sardegna prima dell’avvento degli Aragonesi (si pensi al caso Santa Gilla-Castello di Castro a Cagliari). Dunque la scelta della sede episcopale, anziché dell’eventuale fortilizio, da parte del vicario dei giudici di Torres, che probabilmente non disponeva qui di una residenza urbana e dunque si avvaleva del diritto (risalente ad età carolingia) di essere ospitato dal vescovo, potrebbe rivelare una precisa volontà di tenere separati i due poteri, o almeno un tentativo di riconfermare il diritto statale di controllo in un momento storico difficile per la traballante vita del regno. Ricordiamo che l’ultima giudicessa Adelasia morirà intorno al 1259 ed il marito Enzo nel 1272, rispettivamente date della fine di fatto e di diritto del regno 20) La sfortuna ha voluto che un inafferabile Condaghe della Chiesa di San Pietro di Bosa, che avrebbe forse aperto spiragli di conoscenza sull’argomento, risulti perduto già nel XIII secolo. La notizia è contenuta nel ricordato Condaghe di San Gavino, una cronaca la cui redazione è stata assegnata dagli studiosi al Duecento. Cfr. G. MELONI, Il Condaghe di San Gavino, Sassari 2004. 21) Gli archeologi attivi nel castello bosano hanno stimato l’area cintata in circa un ettaro e mezzo (14000 mq) , ma i calcoli da noi effettuati sulla base di planimetrie pubblicate, messe a confronto con rilievi eseguiti nel corso dei restauri della fine dell’Ottocento, non confermano tale dato. Un castello medievale copriva in genere una superficie che andava dal mezzo ettaro ad un ettaro e mezzo: ad esempio quello di Ardara si aggirava intorno ai diecimila mq ed è stato giudicato sufficiente (forse per eccesso) ad accogliere provvisoriamente in caso di pericolo tutta la popolazione residente nel piano, che peraltro disponeva forse di altri recinti fortificati con strutture precarie nei luoghi vicini chiamati San Pietro e San Paolo. 22) Le torri poligonali a scarpa o salienti apparvero già nel XIV secolo e sono da considerarsi un affinamento della tecnica tesa a offrire una maggiore copertura difensiva. Infatti, oltre a rendere più solide le cortine, consentivano un più ampio campo visivo per gli assediati annullando angoli morti di tiro, minimizzando la possibilità di avvicinamento del nemico e l’escavazione di gallerie di mina. A. MASTINO, intervenendo nel citato volume miscellaneo Il castello di Bosa (1981), ritiene che

quelle bosane siano state erette dagli Aragonesi all’atto dell’ampliamento della cinta verso ovest nel Quattrocento. 23) La pusterla o postierla era una porticina in genere solo pedonale (vi poteva passare una sola persona per volta) secondaria e nascosta, più facile da difendere, distante dalle porte principali per consentire l’arrivo di rifornimenti e permettere attacchi di sorpresa da parte degli assediati; era anch’essa munita di ponte levatoio sul fossato. 24) Il termine rivellino viene usato per indicare una serie di opere avanzate spesso tra loro diverse. Erede dell’antiporta tardoantica e bizantina, nel Medioevo i rivellini hanno pianta triangolare (se ne conoscono databili al Mille), quadrata e anche semicircolare, ma assumeranno presto una tipologia molto complessa. Si diffonderanno e perfezioneranno insieme al ponte levatoio a partire dalla metà del Trecento. Si trattava di una struttura difensiva simile ad un piccolo castello che costituiva l’ampliamento turrito del battiponte [il pilastro centrale costruito nel fossato su cui poggiava il ponte levatoio], staccata per ovvie ragioni di sicurezza dalle mura castellane. Costruita a protezione dell’ingresso alla fortificazione, oltre a impedire l’avvicinamento del nemico e delle macchine d’assedio, consentiva il tiro di fiancheggiamento e proteggeva le sortite degli assediati. 25) La saracinesca era ‘una specie di grossa imposta di legno o di ferro sostenuta da catene o da corde avvolte in un verricello, che non appena svolte o tagliate lasciavano cadere con impeto il battente guidato entro apposite scanalature laterali ricavate alle spalle dell’apertura’ (CASSI RAMELLI). L’uso di più saracinesche permetteva di intrappolare in questi punti gli assalitori costretti ad entrare in fila indiana. 26) P. TOUBERT, Dalla terra ai castelli. Paesaggio, agricoltura e poteri nell’Italia medievale, Torino 1995. 27) Come scrive il CASSI RAMELLI (cit.), la pratica di costruire fossati riprende in Italia dalla seconda metà del XII secolo; questi erano larghi non meno di otto/dieci metri (arrivavano fino a 25) per impedirne una facile colmata con fascine o altro materiale nonché il valico con semplici passerelle. Spesso servivano come rifugio di persone in fuga con il loro bestiame, che poi contribuivano nolenti o volenti alla difesa. 28) Resti di un bastione circolare sono visibili a contatto con la distrutta torre sud: secondo il Fois era stato eretto a protezione di una cisterna, come peraltro era spesso in uso. Fonti acquifere esterne alle mura di un castello erano destinate all’abbeveramento dei cavalli. 29) A partire dal Trecento anche per il nuovo borgo che si veniva costituendo alle pendici basse della collina si realizzò una cinta fortificata, abbattuta nell’Ottocento per consentire un più agevole sviluppo edilizio della città verso il mare. 30) Cfr. A. INGEGNO, Storia del restauro dei monumenti in Sardegna dal 1892 al 1953, Oristano 1993. 31) Torre di San Pancrazio: 1305; pianta a U, tre lati chiusi spessore murature a sacco 3 m; uno aperto verso l’interno; protetto da muraglia ‘barbacane’, fossato, tre portoni e due saracinesche.

32) Torre dell’Elefante: 1307; tre lati chiusi, uno aperto verso l’interno, porta difesa da sbarramenti costituiti da tre portoni e due saracinesche. 33) La bertesca era un’opera difensiva accessoria costruita tra le merlature o in aggetto alle mura per colpire gli assalitori dall’alto stando coperti. Si veda la complessa struttura di protezione in fig. 138 del ricordato ed ancor oggi insostituibile volume del CASSI RAMELLI. 34) Dal XII secolo così è chiamato in Toscana il palazzo fortificato con torre spesso con ingresso indipendente da quello del circuito murario, mentre nell’Italia padana è detto dongione. 35) Non sembra potersi riscontrare oggi in questa dimora la povertà architettonica dei primi palazzi d’abitazione, costituiti in genere da stanzoni plurifunzionali sovrapposti. 36) Case-bastione poste a rinforzo delle mura castellane sono documentate sin dal secolo VIII. Nel nostro caso, se dovesse trattarsi del noto schema urbanistico tipico solo dei grandi castelli di secolo XII-XIII, si dovranno cercare testimonianze di attività di mercato, viabilità, sistemi di adduzione delle acque, cimitero etc. 37) Come ricorda il CASSI RAMELLI, per il Medioevo non dobbiamo quasi mai pensare a strutture difensive estremamente sofisticate e robuste. D’altra parte è ovvio che la difesa era direttamente proporzionale alle capacità di offesa del nemico, anch’esse tutt’altro che eccezionali. Per di più dobbiamo aggiungere che scrivere di dimore ‘sontuose’ in questo contesto e in questo tempo non appare osservazione storicamente accettabile. 38) Di rivellini, strutture di difesa avanzata, a pianta triangolare si ha notizia come già detto sin dal Mille. La pianta triangolare permetteva di sfruttare al meglio la possibilità di un tiro fiancheggiante dalle feritoie. Si veda a titolo di esempio quello presente nelle mura del castello di Scarlino (Grosseto, seconda metà XII secolo; curtis nel 973). Sottolineiamo tuttavia che nel nostro caso questa fronte del palazzo tardomedievale doveva necessariamente essere frazionata da opere murarie rompitratta per rendere l’alzato più resistente alle offese in considerazione del suo esiguo spessore. 39) In genere erano stanze a pianta quadrangolare, costruite sotto terra per reggere meglio la forza di spinta dell’acqua, coperte da volta a botte, sulla cui sommità si aprivano botole per il rifornimento e il prelevamento; le murature interne erano protette da uno strato di malta idraulica.

La chiesa castellana di Bosa - Monografia Architettura e ciclo pittorico Sorta nella fertile vallata del fiume Temo a pochi chilometri dal mare, la città di Bosa (Oristano) conserva nel suo ‘Rione sa Costa’, posto alle pendici del colle di Serravalle (m 81 slm), uno dei rari esempi superstiti in Sardegna di borgo tardomedievale nato sotto la protezione di un castello. L’area dove sorgeva la città vecchia (Bosa Vetus), posizionata sulla riva sinistra idrografica del corso d’acqua, risulta abitata senza soluzione di continuità dall’età preistorica fino al Bassomedioevo.

La storia medievale Sulla base di nuove considerazioni storiche e di scavi archeologici, peraltro incompiuti e limitati agli strati superficiali dell’area castellana, viene oggi rifiutata la tradizione risalente a Giovanni Francesco Fara (1580) che attribuiva ai marchesi Malaspina, originari della Lunigiana, la costruzione ex novo della fortificazione bosana nei primi decenni del XII secolo. La casata aveva acquisito in proprietà, grazie a una dote matrimoniale, i territori di Osilo e Bosa sin dal 1232, ma l’esistenza di un loro castello a Bosa è attestata documentariamente solo nel 1301. Di conseguenza la data della sua erezione sarebbe da spostare alla fine del XIII secolo quando, profittando della ormai irreversibile decadenza politica del giudicato di Torres-Logudoro cui Bosa apparteneva, la potenza dei Malaspina crebbe a dismisura nell’isola. Il declino ebbe inizio con il rifiuto nel 1268 di papa Clemente IV di concedere loro la vicarìa pontificia su tutta la Sardegna. L’isola, entrata a fare parte dell’appena istituito ‘Regno di Sardegna e Corsica’, fu concessa nel 1297 ai Catalano-Aragonesi da papa Bonifacio VIII. Dopo alterne vicende e fortune, nel 1317 la famiglia marchionale dovette cedere in pegno al giudice d’Arborea Mariano III (1309-21) Bosa e il suo castello: non ne rientrerà più in possesso. Nel 1326 il tramonto politico dei Malaspina in Sardegna può dirsi compiuto. Il figlio del sovrano arborense, Ugone II (1321-35), ottenne l’investitura feudale del giudicato nel 1323 dall’Infante Alfonso d’Aragona: a garanzia dell’accordo Ugone cedette in pegno i castelli di Bosa, del Goceano e del Monteacuto. Il titolo gli verrà riconfermato nel 1328 dallo stesso Alfonso all’atto della sua incoronazione: tra le altre concessioni tornarono al giudice arborense come feudi la città e il castello di Bosa, territorio extragiudicale e cioè appartenente al patrimonio privato della sua famiglia. Nel 1331 i figli, Mariano e Giovanni, furono mandati presso la corte di Barcellona per completare la loro educazione, quando avevano all’incirca dodici e dieci anni. Mariano divenne signore del Goceano e della Marmilla e il fratello Giovanni del Monteacuto e di Bosa, titoli assegnati loro dal padre nel 1335 e poi confermati dal sovrano aragonese Pietro IV nel 1339. L’erede diretto di Ugone, Pietro III, morirà senza eredi nel 1347 e sarà Mariano a succedergli sul trono, eletto dalla ‘corona de logu’ [assemblea del regno] quando aveva appena ventotto anni. Mariano IV, che aveva sposato (1336) la nobildonna catalana Timbora di Rocabertì, tornerà in patria nel 1342-43. Dopo la sua elezione a giudice nel 1347 i rapporti politici con gli Aragonesi che avevano ormai conquistato l’isola, tranne il giudicato di Arborea, si fecero altalenanti tra periodi di pace e di guerra. Nel 1349 gettò in carcere il fratello Giovanni, sordo ad ogni invito alla clemenza non crediamo per pura ferocia poiché probabilmente l’intento del nuovo giudice era quello di difendere l’integrità dello Stato dalla possibilità di un definitivo cedimento verso l’Aragona da parte di Giovanni, che al sovrano di quella nazione era rimasto sempre fedele. Mariano, divenuto padrone di Bosa, ne farà il suo quartier generale nella guerra lunga ed estenuante iniziata nel 1353 contro i Catalano-Aragonesi e durata sino alla morte nel 1376, forse di peste: questo agguerrito castello diventerà la sua tomba. Giovanni d’Arborea, più giovane del fratello forse di due anni, aveva sposato (1337) la catalana Sibilla di Montcada ed era tornato in Sardegna nel 1338. Signore illuminato, governò sulla città costiera fino al 1349, un tempo più che sufficiente per restaurare/affrescare la piccola chiesa castellana dedicata in origine al santo di cui portava il nome: il legame onomastico-devozionale era molto sentito nel Medioevo. Fissata la residenza principale a Sassari, Giovanni si era dato al

commercio dei cereali ed in breve tempo si era arricchito in maniera abnorme, impadronendosi tra il 1338 e il 1349 di tutta l’alta Gallura: divenne così il più potente feudatario isolano, fedele vassallo della Corona aragonese. Una situazione di fatto che evidentemente non lo garantiva in riferimento alla sicurezza personale se nel 1346 chiedeva senza successo al re d’Aragona di potersi trasferire per sempre con la famiglia in Catalogna. Le divergenze politiche tra i due fratelli sfociarono nell’arresto di Giovanni, imprigionato a Bosa (1349), e del figlio Pietro (ad Oristano, 1355). I due languirono in carcere per decenni: risultano deceduti verso la fine del 1376 (lo stesso anno della scomparsa di Mariano), anch’essi probabilmente di peste.

La letteratura precedente L’attenzione degli studiosi verso questo modestissimo edificio si risvegliò al momento della scoperta del ciclo di affreschi, ritrovato e restaurato da chi scrive nel 1974-75. I dipinti murali hanno vagato dal Quattrocento ispanico [Rossella Sfogliano, 1981] alle consonanze o addirittura incontri diretti con il ‘Maestro di Offida’ (ante 1370 circa) [Ferdinando Bologna – Pierluigi Leone de Castris, 1984]; dai parallelismi possibili fra il ciclo bosano e quelli della Catalogna e dell’Italia meridionale (seconda metà del XIV secolo) di Renata Serra (1990) alla pittura italo-meridionale di cultura franco-sveva, con datazione anche qui alla seconda metà del Trecento [Roberto Coroneo, 1993]. Antonino Caleca (1983 ss) ha sostenuto che il nostro frescante potrebbe essere portatore di quella cultura pisano-senese peculiare a pittori che egli chiama della ‘terza via’ o ‘tendenza’, né giotteschi né cimabueschi, attivi nella Toscana occidentale come Memmo di Filippuccio o il lucchese Deodato Orlandi, per cui l’esecuzione dell’opera dovrebbe collocarsi nei primi anni del XIV secolo: datazione in verità inaccettabile vista la presenza tra i santi di Ludovico da Tolosa, canonizzato nel 1317. Daniele Pescarmona (1987) ha nuovamente riferito a ‘provincia spagnola’ gli affreschi bosani, pur rifiutando l’attribuzione al secolo XV. Attilio Mastino (1991) pubblicò una breve monografia, dedicandosi in particolare alla situazione storica: molto interessanti le sue impressioni che il pittore di Bosa appartenesse alla cerchia di pittori attivi intorno a Francesco Traini e a Bonamico Buffalmacco. Segnaliamo ancora un breve intervento di Angelo Tartuferi (1995) che ne riconosce l’ambito toscano ed assegna i dipinti (a suo parere di modesta qualità, ma confessa di non averli mai visti) alla metà del Trecento. Nel 1999 chi scrive diede alle stampe la prima ampia monografia sul ciclo affrescato bosano e sulla sua chiesa.

L’edificio chiesastico L’odierna dedicazione della chiesa castellana a Nostra Signora de sos Regnos Altos non sembra essere anteriore all’Ottocento [Giovanni Spano, 1870] e sarebbe legata alla leggenda del ritrovamento di una immagine della Vergine tra le rovine del castello, ma l’intitolazione primitiva, che compare in una carta del XV secolo, doveva essere a ‘San Giovanni del Castello’. Nei registri catastali l’edificio è ancor oggi indicato come ‘Chiesa di Sant’Andrea’, una intitolazione che trova sostegno nell’esistenza all’interno dell’edificio, conservata in una nicchia aperta in rottura degli affreschi, di una statua lignea dell’apostolo pescatore con croce decussata e in mano l’attributo del pesce (secolo XIV-XV: tipico l’hanchement ancora gotico della figura; piedistallo moderno, rifatto come quasi sempre avveniva a causa dell’usura cui erano sottoposti; ricostruita fors’anche la croce). L’opera, pesantemente ridipinta e bisognosa di restauro, appare estremamente interessante per la rarità, non solo in Sardegna, di simulacri in legno medievali/tardomedievali sopravvissuti per ragioni devozionali al cambiamento del gusto e alle offese del tempo.

Le notizie d’archivio che ci sono pervenute sulla fortificazione bosana non citano direttamente la chiesa, ma ne danno per scontata l’esistenza. Stante la sua posizione non organicamente inserita nel percorso delle difese, non si può escludere che, come tante altre chiesette d’altura assai venerate presenti nel nostro paese, preesistesse alla fortificazione sul colle di Serravalle. Arcaico è il tema della montagna come dimora divina e tramite tra cielo e terra.

Fatti salvi gli studi di Foiso Fois (1981), sono pochissime e generiche nella letteratura sarda le citazioni della nostra chiesa, una semplice costruzione che, escludendo lo spazio necessario per i corridoi di passaggio, non poteva accogliere più di una ventina di posti sicuramente riservati ai membri della famiglia castellana: qualche soldato e qualche servitore, come d’uso, potevano sistemarsi in piedi al fondo dell’edificio. Non dimentichiamo comunque che la cappella è opera d’arte sacra caratteristica del XIV secolo, quando cioè la pratica religiosa diventa sempre più un fatto privato, chiuso, egocentrico, così che un principe o un qualunque uomo ricco potevano permettersi il lusso di costruirsene una. Prospezioni archeologiche effettuate all’interno dell’edificio avrebbero individuato la presenza di probabili sepolture, per le quali peraltro non è stato possibile stabilire una cronologia. Nel corso dell’ultimo restauro è stato demolito il banco perimetrale medievale per ragioni non comprensibili (vedi oltre). L’edificio (misurato all’interno) ha le dimensioni di m 20,25x5,70 e si presenta oggi come una lunga aula rettangolare a seguito del prolungamento ottocentesco verso oriente. Il corpo anteriore (XII-XIII secolo) misura m 8,40x5,70 (prima fase). Le murature perimetrali vennero realizzate con filari di conci di trachite. All’interno, in corrispondenza delle tracce dell’arco di fondo, è ancora visibile il gradino (alto circa 6 cm) dell’antico presbiterio. Non si ha memoria documentaria della presenza di un’abside, che potrebbe comunque avere conservato le sue fondazioni sotto il pavimento del blocco edilizio più recente. Non sembri azzardato prevederne l’esistenza stante l’assenza dal ciclo di

affreschi delle consuete scene raffiguranti la divinità, che trovavano tradizionalmente posto nella conca absidale. L’abside semicircolare (scomparsa) era preceduta, alla maniera lombarda, da una volta a botte di scarsa profondità, di cui restano tracce di ammorsature sulle murature perimetrali nel punto di giunzione con le strutture d’ampliamento. La copertura dell’edificio medievale era sicuramente a tetto su capriate. In origine esisteva un portale di accesso situato in asse con la facciata; una piccola monofora strombata è ancora visibile all’interno sulla parete settentrionale ed è l’elemento più antico appartenente alla prima configurazione della chiesa. In una seconda fase, situabile intorno al 1340, la cappella fu affrescata ponendo mano solo a piccoli adattamenti quali la chiusura di monofore; lo spostamento del portale di facciata verso destra (guardando dall’interno) per recuperare la superficie necessaria a collocarvi la gigantesca figura di San Cristoforo; la realizzazione di quello laterale come ingresso privilegiato. Tutti interventi funzionali alla realizzazione del programma figurativo: è possibile sia stata necessaria anche qualche opera di consolidamento e restauro delle strutture anteriori. Una terza fase, collocabile durante la dominazione aragonese a partire dal Quattrocento, vide la decorazione del timpano di facciata con tre sfere litoidi; l’apertura nel prospetto occidentale di una finestra quadrangolare, intervento che danneggiò gravemente gli affreschi retrostanti così come la posa in opera di due catene lignee di cui restano i monconi, ingentilite da mensole (tre in legno originali ed una sostituita da una moderna in pietra). Sappiamo che, in una supplica datata 1882 diretta al governo sabaudo, la chiesetta risultava ancora ‘angusta malandata indecorosa’, per cui se ne chiedevano le riparazioni e l’ampliamento.

Di conseguenza l’atto conclusivo (quarta fase), che ha determinato le attuali dimensioni del sacro edificio, fu eseguito verso la fine dell’Ottocento in muratura irregolare per materiali e dimensioni, mutando profondamente il volume primitivo soprattutto perché si demolì l’abside e la piccola botte antistante per dar luogo al prolungamento. Il nuovo vano venne coperto con volta a botte lunettata irrobustita da archi traversi. Il modestissimo vano di servizio adibito a sacrestia (m 9,40x4,30), appoggiato sulla fronte meridionale della chiesa nuova, fu costruito nei primi decenni del Novecento con una muratura in trovanti più sottile di quella del resto della chiesa.

I Francescani in Sardegna La rappresentazione preponderante di temi francescani sulle pareti della chiesa castellana ci induce ad approfondirne le ragioni, nonostante non sia attestata la presenza di conventi dell’Ordine a Bosa (Leonardo Pisanu). La presenza dell’Ordine dei Frati Minori [nome voluto da San Francesco perché minores erano detti i poveri] in Sardegna fu precoce e capillare: presenza religiosa ma anche di notevole peso politico. Pur in assenza di fonti storiche coeve, gli studiosi della materia sono ormai certi che provenissero da Pisa (in realtà solo nel 1228 avevano ottenuto in quella città la primitiva chiesa di Santa Trinita) i primi francescani stabilitisi in Sardegna intorno al 1220, quando Francesco era ancora vivo. La dipendenza dalla Provincia Madre di Toscana (1217) della ‘Custodia’ della Sardegna è attestata documentariamente dalla seconda metà del XIII secolo fino al secondo decennio del Trecento, poi trasformata in ‘Vicaria’ nel 1319. Dopo l’occupazione catalano-aragonese dell’isola (1323-1492; la Spagna fu padrona della Sardegna fino al 1718-20), nel 1329 i conventi sardi furono assegnati agli Iberici ma, come scrive lo storico Leonardo Pisanu, il loro strapotere ‘non fu mai pacificamente accettato e i Frati Sardi aspireranno sempre alla loro autonomia e identità politico-culturale sarda e italiana’. Nel 1230 i Minori avevano ricevuto dall’Opera della Cattedrale di Pisa la chiesa romanica di Santa Maria del Porto a Cagliari (oggi ricordata solo da fotografie e scarsi resti), poi trasferitisi a Stampace (1275). La loro presenza dal 1236 presso la giudicessa Adelasia di Torres è attestata da documenti: suo consigliere fu il toscano Giovanni Parenti, successore di Francesco come Ministro Generale dell’Ordine (1227-32) che, dopo un periodo trascorso in Corsica, si era trasferito in Sardegna per diffondervi l’Ordine: forse morì nel convento di Monte Rasu nel Goceano, da lui fondato. I documenti ricordano anche altri frati presenti nella capitale giudicale: Pietro di Ardara e Serafino assisteranno ininterrottamente la regina turritana fino alla sua morte (1259 circa). A Sassari i Francescani erano giunti intorno al 1250 e si erano stabiliti presso la chiesa oggi intitolata a Santa Maria di Betlem. A Oristano, capitale dell’Arborea dal 1070 circa, un loro convento con chiesa dedicata al Santo d’Assisi è attestato già nel 1253: la loro presenza nel giudicato arborense fu per secoli politicamente e socialmente rilevante. Nel Trecento si scatenarono movimenti ereticali che dilaniarono l’Ordine dei Minori. I dissidenti Spirituali, già indicati come pericolosi sin dal 1285 quando venne aperto anche in Sardegna un Inquisitionis Officium, sostenevano la povertà assoluta di Cristo e degli Apostoli. Annoverarono tra le loro file esponenti come frate Elia, ideatore della basilica assisiate (scomunicato), Pietro di Giovanni Olivi, Ubertino da Casale, Jacopone da Todi. Giovanni XXII (un papa filoangioino) dichiarò eretica la loro posizione in modo definitivo nel 1323: non mancarono vere e proprie persecuzioni nei confronti dei suoi membri (roghi, torture, prigione, tombe profanate, esili). Anche la Sardegna ne fu toccata, poiché ancora negli anni 1328-29-33 ben tre bolle papali ricordano e condannano la dissidenza verificatasi nell’isola, con richiesta nel 1333 all’arcivescovo d’Oristano, il domenicano Guido Cattaneo, di accertare fatti e colpe. La sua azione portò all’assoluzione pressoché immediata dei Minori sardi, che si sarebbero fatti fuorviare per ‘ignoranza’: la maggior parte di essi optarono per il conventualismo. Ma l’ansia del ritorno al rispetto della severa Regola originaria dettata da San Francesco [1209: approvazione papale orale; 1221 e poi definitivamente

1223: ‘Regola bollata’ approvata da papa Onorio III, che travisava fortemente gli intendimenti del Santo] non cessò e l’Ordine si divise intorno al 1334 in Osservanti (eredi degli Spirituali) e Conventuali (ligi ai dettati del Papato). Una separazione non indolore: tra successi e sconfitte, solo nel 1517 dopo lunghe e violente persecuzioni gli Osservanti, che poterono contare nelle loro file rappresentanti di grande prestigio come Bernardino da Siena, Giovanni da Capestrano, Giacomo della Marca, vinsero la loro battaglia per la ‘perfetta povertà’ francescana. Il primo convento della ‘Regolare Osservanza’ nacque in Sardegna nel 1459 a Silì presso Oristano. Nel Cinquecento vedrà la luce anche il ramo francescano ancora più rigorista dei Cappuccini (circa 1520). In verità il XIV secolo fu un momento difficile anche per la Chiesa di Roma. Ricordiamo la cattività avignonese (1309-77) e il Grande Scisma d’Occidente (1378-1427), quando ben tre papi furono nominati contemporaneamente. La lunga assenza da Roma e il declino spirituale (comunque non politico-economico) del papato, posto sotto l’influenza della monarchia francese, furono motivi scatenanti dei movimenti ereticali e mistici. Nel periodo del ‘Grande Scisma’, durato un quarantennio (1378-1427), nacquero movimenti fedeli all’antipapa Clemente VII, sostenuto da Francia, Regno di Napoli e soprattutto da quello catalano-aragonese, di cui la Sardegna faceva parte. Non tutti i conventi francescani appoggiarono l’antipapa, ma fermenti contro la politica della Chiesa romana non mancarono. Numerosi furono i prelati, i nobili e i popolani partigiani dell’antipapa: alcune sedi vescovili vennero da loro occupate. Tra queste citiamo Oristano, ma non Bosa, città dove secondo Leonardo Pisanu non sarebbero esistiti conventi francescani.

Se si guarda alla iconografia rappresentata sui muri della nostra chiesa, la presenza negli affreschi di Costantino il Grande, considerato dagli Spirituali la ‘causa della secolarizzazione della Chiesa, della sua burocratizzazione, del suo paganesimo e della sua decadenza’ (Frederick Antal, 1960) ed amato invece moltissimo dalle gerarchie ecclesiastiche, sembra denunciare l’appoggio chiaro alla ortodossia ufficiale romana da parte del committente sia esso Giovanni d’Arborea oppure il bel Mariano IV, del quale si conserva un ritratto ‘ufficiale’ nel polittico di Ottana, dove è raffigurato accanto al vescovo Silvestro (†1344), un francescano eletto in anni in cui nessun pontefice, a partire da Giovanni XXII (1316-34) che dichiarò eretica la dottrina degli Spirituali in ordine alla assoluta povertà di Cristo e degli apostoli, e i suoi successori (Benedetto XII, 1334-42, e Clemente VI, 134252), ebbe atteggiamenti di benevolenza nei confronti dei Francescani. Silvestro sottolinea, è vero, la sua appartenenza all’Ordine facendosi ritrarre con un saio trasformato forse successivamente in piviale di colore bruno a bordure dorate, ma a nostro avviso il particolare non autorizza una lettura nel senso di una adesione del presule (e implicitamente anche di Mariano) alla dottrina degli Spirituali-Osservanti, come vorrebbe il Bologna (1969), poiché viene chiaramente contraddetta dall’eleganza, lunghezza e ampiezza delle maniche della sua tonaca, lontanissima da quelle corte striminzite e rappezzate adottate dai dissidenti come una vera e propria bandiera a testimonianza della loro scelta, che stava diventando politica più che religiosa nei confronti della Chiesa di Roma. Non si dovrà dimenticare che la maggior parte dei frati minori sardi optarono per il conventualismo (Pisanu).

I temi della spiritualità francescana Per comprendere a pieno il contenuto dottrinale dei nostri affreschi, è necessario richiamare per sommi capi non tanto la vita e l’opera del Santo di Assisi, quanto la dottrina e l’esperienza mistica attestate dai suoi scritti. Ancora oggi i Frati Minori portano sul saio il cingolo annodato in tre punti a simboleggiare i loro voti fondamentali di povertà, castità e obbedienza. Ma ben più ampio è il novero delle virtù francescane tutte sorelle della ‘regina’ sapienza, e cioè la semplicità, l’umiltà, la carità, cui si deve aggiungere la discrezione (per esempio il rispetto del ‘fratello corpo’ soprattutto quando è malato). L’esperienza del mondo porta Francesco a condannare le vanitates huius saeculi (Ep. I), riecheggiando così le meditazioni disincantate ma non disperate del biblico Qohèlet ed il suo monito sulla ‘vanità immensa’ del vivere. Tuttavia sconfinato è il suo amore per il prossimo e per l’universo tutto, cui lo unisce un dolore cosmico che potrà essere medicato solo da una buona morte: il pericolo di finire nelle grinfie del Maligno in caso di morte improvvisa senza confessione fu tra le paure più diffuse nel Medioevo. Al centro della sua visione cristiana dell’esistenza è dunque la salvezza ultraterrena; i mezzi per raggiungerla sono Cristo, la Santa Croce, il Vangelo e l’Eucarestia. Francesco praticava e predicava anche una grande devozione verso gli Angeli Custodi qui nobiscum in acie sunt ed amava particolarmente San Michele Arcangelo (cui il Santo fu spesso paragonato) per il suo ufficio di psicopompo e di presidio contro i demòni tentatori sempre in agguato: a lui si rivolgevano i morenti nell’ora del trapasso. Se cerchiamo nel santorale raffigurato a Bosa, sono più d’uno i santi cui i credenti indirizzavano l’ultima preghiera in caso di morte senza confessione: Giacomo, patrono dei pellegrini, veniva invocato nel momento supremo; Agata proteggeva contro il fuoco del Purgatorio; a Barbara ci si rivolgeva contro la ‘mala morte’. Essa era il pendant femminile di Cristoforo presente in controfacciata, cui i fedeli riconoscevano il potere di salvare il corpo da una morte accidentale e l’anima da quella eterna grazie ad una tempestiva confessione; e poi Ursula che si pregava pro felici morte. Dunque un tema francescano largamente illustrato grazie alla presenza di questi tutori. Proseguendo il nostro cammino dentro l’iconografia bosana, vediamo che la virtù della carità è degnamente rappresentata da Martino, Giorgio, Lorenzo, Lucia, Cecilia. Maria Maddalena è la personificazione della penitenza per questo fu tanto amata dai Frati Minori. Non mancano Agnese, simbolo della castità, e Margherita, il cui nome allude all’umiltà. Considerato che il ciclo non racconta storie di Cristo, la scelta di rappresentare l’‘Adorazione dei Magi’ è giustificata dal suo significato simbolico e cioè l’omaggio dei potenti della terra alla divinità, dunque l’umiltà. Fors’anche quel Costantino appiedato (il cavallo era uno dei simboli del potere temporale) che, insieme alla madre Elena, chiude la processione potrebbe alludere a questa virtù. La venerazione di Francesco per l’Eucarestia è espressa nella scena dell’‘Ultima Cena’, che per la dottrina cristiana costituisce il momento dell’istituzione di questo sacramento salvifico da parte di Cristo nella notte in cui venne tradito. L’iconografia dei dipinti murali bosani non è una creazione (almeno non esclusiva) del pittore chiamato a dipingere i muri della chiesa del castello: egli ha semplicemente tradotto nella sua lingua sulle pareti dell’edificio il programma figurativo preparato, come accadeva nella maggior parte dei casi, da un religioso. Qui a Bosa ne è stato sicuramente l’autore un frate francescano esperto di

dottrine religiose, forse quello stesso cui era stata affidata la chiesa per la celebrazione dei sacri uffici: con ogni probabilità svolgeva anche il ruolo di consigliere del principe, specie se si considera l’ardire con cui ammonisce i signori del regno nel riquadro dell’‘Incontro’. Un francescano ben conscio che l’immagine dipinta aveva una forza comunicativa tale da contribuire (e non poco) a rafforzare le parole del predicatore per condurre il fedele lungo un percorso spirituale di conoscenza e meditazione sul proprio essere cristiano, a prescindere, grazie alle figure dipinte, dal loro livello di cultura e dalla loro adesione più o meno fervente alla pratica religiosa.

La moda Osservando gli affreschi, cercheremo i segnali del tempo storico in cui vivevano il pittore e la gente del castello, le tracce del loro vivere quotidiano che, in un secolo come il Trecento quando si iniziava a guardare le cose che ci circondano e a tentare di rappresentarle così come sono, non possono mancare. Ci riferiamo in particolare sia agli abiti dei vivi, dei morti e dei santi, sia alle stoviglie poste sulla tavola dell’‘Ultima Cena’. Partiamo dai costumi indossati dagli attori della sacra rappresentazione: dopo i successi ottenuti da Luciano Bellosi (1974/77) per datare intorno al 1336-41 gli affreschi del Camposanto pisano raffiguranti il ‘Trionfo della Morte’ seguendo come indicatore cronologico la moda del tempo, la validità del metodo non ci pare possa essere messa in discussione. È certo che il modo di vestire degli italiani subì un improvviso cambiamento negli anni tra il 1335 e il 1340, cambiamento che le arti figurative cominciarono a registrare solo dopo il 1345. Secondo taluni cronisti scandalizzati che scrivevano intorno al 1340 [il domenicano milanese Galvano Fiamma, il fiorentino Giovanni Villani, l’anonimo autore della ‘Vita di Cola di Rienzo’] la nuova moda veniva per lo più considerata come importata dalla Catalogna. Andavano scomparendo le tonache larghe comode e ‘oneste’, lunghe fino ai piedi con colli alti e rigidi del buon tempo andato in uso da secoli. Al loro posto si cominciarono a preferire quelle scandalose gonnelle che scoprivano quasi le natiche con cinture molto basse rispetto al punto della vita: inutile fu ogni tentativo di impedirne la diffusione. Abbandonate le ‘orme dei loro padri’ i giovani, che per primi le adottarono, acquistarono così ‘aspetti alieni’ ed equivoci almeno dal punto di vista dei benpensanti. Ad ogni buon conto nessuna grida poté fermare il nuovo gusto e solo gli anziani e i personaggi di riguardo continuarono ancora per qualche tempo a indossare le vecchie palandrane: verso la metà del Trecento le giovani generazioni avevano ormai adottato senza eccezioni, e forse anche senza più scandalo, la foggia del vestire ‘alla catalana’: gli incredibili ‘becchetti del cappuccio’ della corta mantellina; i ‘manicottoli’ orlati di vaio lunghi fino a terra; le ‘calze solate’ dalle punte inverosimilmente lunghe e sottili, imbottite di crine perché non si piegassero con l’uso. Ma ciò che più faceva sobbalzare di indignazione era il ritorno, dopo decenni di abbandono, della barba: una barbetta corta curata raffinata che spuntava di nuovo sulle guance dei ragazzi ricordando ai bacchettoni gli ‘uomini di penitenza’. Alcuni protagonisti dell’‘Incontro tra vivi e morti’ del Camposanto pisano se la sono già fatta crescere senza tema di somigliare agli eremiti, che proprio nella stessa composizione la portano in realtà lunga e incolta. La moda femminile aveva da tempo cominciato ad adottare fogge straniere importate da mariti o padri mercanti, ma certamente le vesti aderenti al corpo, con cinture portate basse [vedi la Santa Caterina di Giovanni da Milano circa 1354; Prato, Galleria Comunale] e le scollature vertiginose che facevano vibrare di indignazione i più severi conservatori si affermarono decisamente in questi anni, tanto che anche le sante vergini e la stessa Madonna venivano raffigurate con timidi scolli in omaggio alla moda. In conclusione dopo il 1340-45 solo gli anziani portavano ancora ‘vestimenta larghe e oneste’. Secondo il Bellosi furono proprio gli anni Quaranta il decennio di crisi in cui probabilmente la nuova moda non si era ancora del tutto generalizzata: si vedano gli affreschi nel palazzo pubblico di Siena di Ambrogio Lorenzetti [‘Effetti del buon governo’, 1338-39] dove, tra i cittadini senesi che sfilano verso il Bene comune, si insinua, tra vesti lunghe e serie, un personaggio ‘dissidente’ con mantello alle ginocchia e barbetta corta.

Ora i principi sardi Giovanni e Mariano avevano vissuto a Barcellona negli anni tra il 1331 e il 1340 circa, grosso modo quando si era verificata la rivoluzione della moda soprattutto maschile, per cui non sembra possibile che, giovani com’erano, non l’avessero adottata. Sappiamo dell’elaborato cerimoniale in uso presso la corte arborense mediato da quello catalano: possiamo immaginare che fossero vestiti all’ultima moda quei paggi e quei musici, mimi e danzatori che allietavano, con accurata regia, la tavola del giudice Mariano IV. La presenza di due giullari siciliani è documentata a Bosa alla metà del Trecento, ma trovatori e giullari provenzali e italiani insieme a menestrelli catalani allietavano da tempo le corti isolane da Sud a Nord. Tutte queste notizie parlano di lusso elegante e raffinato e di vita culturale vissuta secondo ritmi e modelli europei. Anche i giovani dell’‘Incontro dei tre vivi e dei tre morti’ possono definirsi eleganti con quei bottoncini e quelle cuffie alla francese slacciate con noncurante trascuratezza sotto una corona regale; con quei guanti (simbolo di status sociale) bianchi a vistose impunture nere che portano anche i vescovi bosani. Eleganti sì, ma come si poteva essere eleganti non oltre il quinto decennio del secolo. Ricordiamo comunque che la nuova moda fu accolta nelle opere dipinte solo dopo il 1345: nel nostro caso, accettata la più che probabile presenza di un iconografo francescano (conosciamo bene il peso preponderante dei Francescani e dei Domenicani nella scelta dei temi da rappresentare nelle loro chiese a prescindere dalla volontà del patrono/proprietario del bene), si dovrà presumere che questi non vedesse di buon occhio le bizzarrie del nuovo modo di vestire. Osservando i saî marroni dei frati per capire se sia possibile scorgervi i segni di una precisa ideologia, dobbiamo ancora una volta prendere atto che quanto resta a Bosa testimonia a sufficienza che sono di foggia assai diversa da quella delle povere vesti dipinte dal dissidente ‘Maestro delle tempere francescane’, nome suggerito dal Bologna quale autore del polittico di Ottana e dei nostri affreschi. Cuciti con spreco di tessuto, sono lunghi fino ai piedi e caratterizzati da grandi pieghe fluenti e maniche molto ampie che raggiungono i polsi. Si allontana sempre di più la possibilità di riconoscere in questi affreschi la presenza di una fronda francescana. Numerose sono le figure femminili raffigurate nel ciclo oltre alla Madonna dell’‘Adorazione del Magi’, ma nessuna appartiene al secolo, per cui la foggia del vestire appare improntata alla conservazione di modelli codificati nella pittura dei decenni anteriori. Le sante, che muovono in processione devota verso la divinità sicuramente dipinta nell’antica abside oggi scomparsa, portano gonnelle di ampiezza contenuta, vita stretta e arricciata a sbuffo sotto il seno, galloni dorati a piccoli ricami intorno alla scollatura appena accennata all’apertura sul petto, a nascondere le cuciture del giro delle maniche aderentissime e delle loro costure esterne e infine a rifinire i polsini. È facile ricordare le sante giottesche dipinte entro compassi mistilinei nelle fasce ornamentali della cappella degli Scrovegni a Padova o il gruppo delle elette nel ‘Giudizio Universale’ (1303-5), così come quelle della cappella della Maddalena ad Assisi (1308-9). Questi stessi abiti appaiono ancora indossati negli anni Venti dalle sante dei medaglioni nei fregi di Pietro Lorenzetti e aiuti ad Assisi nel braccio sinistro del transetto della chiesa inferiore, anche se intorno al 1330 era ormai da considerare una moda antiquata. Le acconciature sono assai semplici. I lunghi capelli appena ondulati sono divisi sulla fronte in due bande; pettinati all’indietro, nascondono quasi sempre le orecchie e scendono sulle spalle, un po’ spioventi. I capelli sciolti erano segno di umiltà e purificazione o di lutto. Tirando le somme alla fine di questo percorso, dobbiamo constatare che nel nostro ciclo mancano i

segnali della nuova moda per cui si dovrà pensare ad una data anteriore al 1345: non dimentichiamo che la Peste Nera che infuriò anche in Sardegna già a partire dal 1347, falcidiando più del quaranta per cento della popolazione, difficilmente avrebbe favorito intraprese di carattere artistico come l’affrescatura di una cappella. Soffermiamoci ora sulla tavola della Coena Domini per osservare gli oggetti d’uso domestico che vi sono rappresentati. Scrive Pietro Torriti (1993) che tovaglie in lino bianco con bande brune alle estremità vengono tessute ancora oggi a Siena: un tipo di tessuto che ha ricoperto buona parte delle mense dipinte (ma raro ne era l’uso nella realtà quotidiana) per tutto l’arco del XIV secolo. I bicchieri apodi sono di un modello standardizzato rimasto in uso per tutto il Trecento; le alzate con i pesci hanno una forma piuttosto semplificata, praticamente immodificata per secoli. Le caraffe metalliche per il vino meritano invece la nostra attenzione: che si tratti di oggetti in metallo è chiaramente indicato dal pittore nella cerniera che unisce il coperchio al corpo del boccale. Ritroveremo queste stoviglie identiche nel polittico di Ottana: stesse caraffe, posate (a Bosa mancano i cucchiai perché inutili in quella particolare occasione), coltelli dal manico di legno disposti in gran numero sulla tavola. Ricordiamo che questa posata era assai rara specie tra i poveri e lo rimarrà fino ad avanzato Quattrocento: vedi proprio ad Ottana quel brano del convito dei poveri che il Bologna ha definito goyesco.

Chi ha apparecchiato la mensa divina aveva come modello una tavola signorile dove il cibo, anche se qui forzatamente ridotto a due sole pietanze, compariva in abbondanza. Vi sono bicchieri ma non piatti individuali per ogni commensale, un costume quest’ultimo che cominciava appena ad imporsi nella prima metà del Trecento e solo ovviamente tra le classi privilegiate. Ogni piatto da portata serviva almeno due persone e si usavano ancora largamente le dita per portare il cibo alla bocca, come fa Giuda nei nostri affreschi. I pani rotondi, disposti ordinatamente in primo piano, e quelli già affettati appartengono a un modulo ripetitivo comune alla pittura di questi decenni.

Iconologia e iconografia degli affreschi Il ciclo affrescato fu scoperto nel 1973-74 e restaurato per la prima volta l’anno successivo sotto la direzione di chi scrive. Vent’anni dopo, nel 1995, subì un nuovo intervento (in alcuni punti si erano registrate infiltrazioni d’acqua piovana), che ha parzialmente modificato la materia pittorica appesantendo profili e colori e procedendo anche a integrazioni arbitrarie di talune figure. La qualità tecnica della preparazione degli affreschi è molto alta e perciò le riprese del supporto sono state assai limitate; la pellicola pittorica ha sofferto a causa dell’umidità per capillarità: alcuni colori come i rosacei e gli aranciati hanno resistito meglio al tempo, i bianchi di calce sono ancora abbaglianti. Gli azzurri conservano il loro colore originario solo nel fondo gigliato del San Ludovico di Tolosa perché è stato qui usato il costoso e praticamente indistruttibile lapislazzuli, mentre i fondi realizzati con la più economica azzurrite sono diventati verdi o si sono persi in un magma scuro indistinto. L’uso di cartoni per realizzare le figure del ciclo è evidente nel ripetersi delle fisionomie di base, ottenute semplicemente cambiandone la posizione. I restauri hanno messo a vista una serie numerosa di ‘graffiti’ eseguiti sulla superficie dipinta per la maggior parte nel Cinquecento come si può desumere sia dall’esame dei ‘rosoni’ di disegno geometrico piuttosto evoluto (forse modelli per decori ornamentali), sia soprattutto da quello dei costumi indossati dai tre uomini che, su una sorta di ponte navale, combattono tra loro [cappello spagnolesco ad alta cupola e larga tesa, calze attillate a strisce, farsetto imbottito forse a maniche trinciate etc]. Un tempo in cui, con ogni probabilità, gli affreschi erano scomparsi sotto uno dei numerosi strati di intonaco, di cui erano stati ricoperti in occasione delle ripetute epidemie di peste (si ricordi ad esempio che quella del 1376 aveva ucciso sia Mariano IV, sia il fratello Giovanni prigioniero a Bosa).

L’insieme presenta unità tecnica e stilistica ed appare fondamentalmente omogeneo nonostante apparenti cadute di qualità: unitario è ad evidenza il risultato sotto il profilo estetico, perché è ben salda nelle mani del capo-bottega la regìa dell’operazione. Egli, oltre ad intervenire in prima persona, progetta, guida e coordina tutto il lavoro per un certo numero di aiuti con specializzazioni diverse (disegno, colori, gradazioni tonali, fondali, particolari varî) e alla fine garantisce la necessaria omogeneità formale che verifichiamo anche qui a Bosa. Su un fondo a due fasce orizzontali di eredità duecentesca (giallo carico l’inferiore, blu quella superiore), che come scrive Raymond Oursel (1980) sortisce il duplice effetto di sacralizzare l’azione e di sopprimere ogni limite fisico, una processione di sante vergini, dai corpi disposti frontalmente, è quasi poggiata sul bastone giallo che sostiene la palea a fasce giallo-rosse (richiamante i pali catalani) appesa ad anelli di metallo. Su questo tendaggio si inseriscono scudi gotici oggi privi dei disegni interni che contenevano. In particolare ci interessa la cortina a pelli di vaio della parete destra, cortina che ritroviamo anche nel duomo di Pisa (primo ordine della tribuna), in cui sono inseriti simboli araldici, assegnata ad artisti pisani della prima metà del XIV secolo. Ponendo il punto di vista nell’abside originaria come d’uso nel Medioevo, il sacro corteo occupa tutto il registro inferiore della parete sinistra (sud) secondo l’antico allineamento ieratico di età bizantina, quando i testimoni della fede venivano raffigurati sulle pareti lunghe delle basiliche nell’atto di procedere verso Cristo o la Vergine per rendere loro omaggio, come nei noti mosaici del Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna (VI secolo) dove sono rappresentate due distinte teorie, i maschi da una parte, le femmine dall’altra. A Bosa invece la galleria delle sante (non esattamente preceduta come a Ravenna dai Magi, che comunque si trovano subito sopra nell’ordine alto in adorazione di Maria e del Bambino) è interrotta dall’apostolo Giacomo il Maggiore e conclusa dall’imperatore Costantino e dalla madre Elena. A causa dei rari attributi, il loro riconoscimento è in alcuni casi consentito solo grazie alla presenza a fianco delle figure delle iscrizioni identificatorie in lettere

gotiche (purtroppo lacunose) dipinte in bianco su fondo blu, disposte su due file e precedute dai compendi SCS/SCA con tratto abbreviativo superiore. I tituli non mancavano mai anche quando l’identificazione del personaggio era inequivocabile e servivano in ogni caso a ‘prolungare il momento devozionale’ (Guglielmo Cavallo). Ricordiamo, insieme all’ancora diffuso analfabetismo che rendeva indispensabile la presenza di un mediatore tra immagini e testo cioè in genere l’officiante, la credenza nel carattere magico della scrittura.

Una vasta lacuna precede la prima figura Lucia, vergine martire di Siracusa (in realta di origine

orientale, il cui corpo incorrotto giunse a Siracusa e poi trafugato dai Veneziani fu trasferito in laguna nel Duecento) nel IV secolo, simbolo della carità poiché distribuì tutti i suoi averi ai poveri: è invocata contro le malattie degli occhi. Oltre che dal titolo posto in alto a sinistra, la santa è riconoscibile perché regge con la mano sinistra (la destra poggiata al petto, gesto di devota sottomissione) una lucerna accesa di terracotta, appesa a un filo: è uno dei suoi attributi [allusione alla fiaccola delle Vergini Sagge del Vangelo di Matteo, 25, 1-13], meno comune di quello con la coppa contenente gli occhi che i carnefici le avevano strappato, ma che la Vergine le aveva restituito ancora più belli. Morirà per un colpo di pugnale alla gola dopo infinite torture: neppure una coppia di buoi era riuscita a trascinarla in un lupanare [la legge romana vietava di condurre al patibolo fanciulle vergini]. La forma standardizzata del lume è già presente in dipinti e miniature del XII e XIII secolo e, a titolo di esempio illustre, ricordiamo gli affreschi giotteschi di Padova (cappella degli Scrovegni, 1303-05). Oltre a questo riscontro iconografico, importante per noi è una tavola del ‘Maestro di Palazzo Venezia’, raffinatissimo collaboratore di Simone Martini. Datata intorno al 1320, vi è raffigurata a mezzo busto la nostra Santa che, insieme alla palma del martirio, regge la stessa lucerna accesa (Harvard University, Collezione Berenson). Con il suo lume Lucia sembra illuminare la via delle altre figure sopravvenienti, ma il corteo è interrotto dal quadro, isolato da due linee di separazione (una rossa e una bianca), di Maria Maddalena penitente, una vicinanza forse legata alla tradizione sacra secondo cui Lucia era invocata nel Medioevo dalle donne di malavita pentite. In questa figura, come noto, nel Medioevo si fusero e confusero tre donne ricordate dai Vangeli: la peccatrice anonima che sparge profumo sui piedi di Cristo, li bagna con sue lacrime e li asciuga con i capelli in casa del fariseo (Lc 7, 36-46); Maria Maddalena, posseduta dai demòni e poi guarita da Cristo (Lc 8, 2) e che fu la prima a vederlo risorto (Mc 16, 9); Maria di Betania, sorella di Marta e di Lazzaro, che preveggendo la futura passione di Cristo sparse sul suo capo profumi durante la cena di Betania (Mt 26, 6-13) (Chiara Frugoni). Coperta dalla melote e dai lunghissimi capelli, irti sul capo come quelli che caratterizzano le figure degli eremiti, ha la testa circondata da un’aureola raggiata ed è inginocchiata sullo sfondo di un paesaggio roccioso [simboleggiante da secoli il deserto degli anacoreti], che si apre per lasciare posto alla rappresentazione di rami gigliati. Maddalena viene nutrita da un angelo, che piomba dal cielo a soccorrere la prediletta del Signore: il suo volo precipite spezza la banda rossa di separazione dalla santa siracusana quasi a costituire una sorta di trait d’union tra le due protagoniste. Il giglio allude ab antiquo all’Aldilà per il riferimento a Proserpina che, quando fu rapita da Plutone, era intenta a raccogliere gigli e narcisi: in epoca cristiana rose (simbolo del sangue dei martiri) e gigli (simbolo delle anime pure) diventeranno i fiori del Paradiso. E qui si allude sicuramente al Paradiso conquistato con la penitenza.

Prendiamo ora in considerazione la prima figura dello scomparto seguente, Marta, patrona degli albergatori. Sorella di Maria di Betania e di Lazzaro, simboleggia la vita attiva (come era quella dei Francescani) poiché, mentre la sorella ascoltava la parola del Signore, ella era molto prosaicamente affaccendata nelle cure domestiche. Poco rappresentata forse a causa della non eccezionalità della sua vita, qui indossa una veste verde (il suo è l’unico abito senza apertura sul petto). Il verde è colore virginale per eccellenza e contraddistigue in genere le sante che furono martirizzate per non avere voluto perdere la loro verginità. Sulle spalle porta un manto bicolore rosso soppannato di giallo che sorregge con la mano sinistra e nessun attributo che possa identificarla se non il nome: la

destra è alzata contro il petto, la palma volta verso l’esterno nel gesto della testimonianza della propria assoluta adesione alla volontà divina.

Quasi a guidare il gruppo seguente delle vergini il pittore bosano ha collocato il patrono nazionale spagnolo Giacomo il Maggiore. Dopo un periodo di soggiorno in quella regione votato a evangelizzare le popolazioni locali, sarebbe tornato a Gerusalemme su ordine di Erode Agrippa I (verso il 42 d.C.) dove subirà il martirio per decapitazione. Il suo corpo, trafugato dai seguaci e caricato su un battello senza nocchiero, sarebbe approdato per volere divino sulle coste galiziane. La

leggenda cominciò a strutturarsi nell’VIII secolo quando la sua tomba fu ritrovata su un altipiano desertico dell’estrema Galizia. Sin dall’età altomedievale questo Santo, patrono dei pellegrini e dei cavalieri, era venerato in tutto l’Occidente, che gli dedicò chiese, ospedali e opere d’arte figurativa in grande numero. Giacomo ha il viso segnato da rughe profonde a ‘zampe di gallina’ ed un’espressione molto dolce nonostante le spesse sopracciglia e gli occhi bistrati; porta una barba nera e folta, simbolo di dignità secondo la tradizione iconografica che lo contraddistingue (forse anche allusione alla consuetudine che i pellegrini se la lasciavano crescere fino al termine del pellegrinaggio al santuario di Santiago di Compostela), ed ha la bocca semiaperta, sicché mostra con chiarezza i denti: il richiamo agli affreschi assisiati di Pietro Lorenzetti è quanto mai evidente (si pensi soprattutto all’‘umanità neocimabuesca’ dell’‘Ingresso di Cristo a Gerusalemme’). Sulla veste marrone indossa un manto giallo molto elegante e non la rozza schiavina; in testa ha una cuffia pesante per difendersi dai rigori del clima. Il pètaso è ornato da piccole croci e da un pettine di Galizia: esplicita l’allusione al pellegrinaggio a Santiago di Compostela, uno dei più frequentati santuari medievali. I piedi sono scalzi come prescrivevano i Vangeli per gli Apostoli; con la mano sinistra regge una bisaccia, contenente il viatico necessario per il viaggio, e il bordone, utile per appoggiarvisi quando la stanchezza si faceva pesante ma anche per difendersi da briganti e animali selvatici. Il Santo ha grandi mani (la destra è alzata con palma rivolta all’esterno, ancora un gesto di testimonianza della fede, che si ripeterà più volte nel corteo come quello di sottomissione): la manica lascia parzialmente scoperto l’avambraccio per cui è visibile l’articolazione del polso nettamente segnata con una rientranza come (ma non è l’unico esempio possibile) nelle figure di Buffalmacco. che la sottolinea addirittura dipingendovi anelli di grasso (ma troviamo lo stesso stilema anche in Pietro e Ambrogio Lorenzetti). Ad ogni buon conto anche a Bosa, ove sia in vista, lo snodo dei polsi è sempre ben evidenziato dal nostro pittore. Uno svolazzo irrispettoso delle leggi di gravità, di eredità duccesca, caratterizza l’orlo della sua veste e di quella di altre figure. Nella pittura medievale le serie di santi sono spesso eclettiche e non sempre spiegabili le ragioni catechetiche che hanno condotto a determinate scelte, ma la presenza di Giacomo nel corteo femminile potrebbe essere legata al ruolo di protettore di fanciulle che la leggenda spagnola gli ha riservato. Infatti tra i miracoli compiuti post mortem vi sarebbe quello dell’aiuto fornito con la sua apparizione all’esercito asturiano per sconfiggere i Musulmani, che pretendevano ogni anno un tributo di cento fanciulle (di qui il soprannome di Matamoros). La tradizione iberica era conosciuta anche nel nostro paese (vedi l’affresco bolognese, datato intorno al 1320, attribuito dubitativamente allo Pseudo Jacopino di Francesco; Bologna, Pinacoteca Nazionale). In Sardegna poi può essere giunta insieme alle mogli catalane dei nostri principi. Per di più, se accettiamo l’ipotesi che il vero tema conduttore del ciclo sia il Santo di Assisi, sappiamo che Francesco avrebbe compiuto un pellegrinaggio a Santiago di Compostela tra il 1213 e il 1215 come affermato dai suoi primi biografi: pellegrinaggio controverso anche se attestato dalla tradizione in varie località tra Jaca e Puente la Reina. Non controverso è comunque il culto fervente del Santo verso l’Apostolo, senza dimenticare che proprio Francesco individuò nella vita itinerante la vera vita apostolica: è proprio la strada, immagine della provvisorietà e della precarietà dell’esistenza umana, che invita ad affidarsi completamente a Dio. L’Apostolo è seguito da una santa spagnola di nascita e perciò molto venerata in quella regione, Eulalia di Barcellona, vergine martire sotto Diocleziano, che appare già tra le vergini del Sant’Apollinare Nuovo di Ravenna a testimonianza dell’antichità del suo culto. Viene invocata

contro la siccità. Del martirio della vergine barcellonese mediante l’uso dell’eculeo e delle fiaccole che le furono applicate sui fianchi (venne infine crocifissa e decapitata), nulla è richiamato in questa figura vestita di verde e con manto bicolore come Marta. È l’unica disposta in posizione rigidamente frontale ed ha un viso da antica matrona dai tratti somatici rudi, il naso forte e diritto, il mento rotondo, le mascelle robuste come potevano esserlo in una scultura romano-barbarica.

Vicino a lei troviamo Agata di Catania (martire orientale le cui reliquie giunsero a Catania nel XII secolo, trafugate da soldati occidentali) nel suo bell’abito cosparso di graziosi frutti gialli disposti a

grappoli di tre, attaccati al loro peduncolo e lavorati a chiaroscuro con accuratezza, anche se evidentemente eseguiti mediante l’uso di stampini. Fu martirizzata, dopo essere stata condotta in un postribolo ed avere conservato miracolosamente la verginità, sotto l’imperatore Decio nel 251. La Santa, invocata contro le malattie del seno, i fulmini, gli incendi e il fuoco del Purgatorio, è qui rappresentata secondo una rara iconografia. Infatti, anziché mostrare le mammelle amputate, regge con la destra un fuso da cui pende un lungo filo. Una tradizione popolare vuole che, come Penelope, anche Agata per non essere costretta a sposarsi tessesse di giorno una tela e provvedesse a disfarla di notte.

La segue Agnese di Roma, simbolo della castità, individuata dalla presenza di un agnellino reggente il vessillo cruciato entro un disco, a ricordare il suo nome. Era venerata a Roma già prima del IV secolo: topos di quasi tutte le ‘Passioni’, anche Agnese fu condotta in un lupanare dove, come narra Sant’Ambrogio, subì il duplice martirio della purezza e della fede alla tenera età di dodici anni. Viene invocata, tra l’altro, contro i pericoli del mare.

Il fedele in meditazione sugli esempi di coraggio ‘virile’ di queste donne avrebbe ora incontrato Barbara, santa orientale divenuta famosa in Occidente solo verso la fine del XIII secolo (il suo

corpo-reliquia non fu oggetto di furta sacra ma dote nuziale agli inizi del Mille e trasferito a Venezia) grazie alla diffusione della Legenda Aurea del beato Iacopo da Varazze. Protettrice dei soldati, lottò con grande coraggio contro il padre degenere che la chiuse dentro una torre e morì mediante il taglio della testa per mano del suo stesso genitore dopo atroci torture durante le persecuzioni di Massimino il Trace o di Massimiano. Suoi attributi sono la torre a tre finestre [allusione alla Trinità], una apertasi miracolosamente, le penne di pavone [picchiata dal genitore con delle verghe queste si trasformarono in penne di pavone] e soprattutto la pisside contenente le ostie consacrate contro la ‘mala morte’ cioè la morte improvvisa, quella morte per folgorazione che colpì il genitore mentre le assestava l’ultimo colpo. Qui a Bosa tiene nella mano sinistra una pisside (e non la torre come è stato scritto); chiaramente si vedono poi le tenaglie con cui le strapparono i seni. Subito dopo troviamo Vittoria, altra vergine romana, vestita di verde (la stoffa è decorata dagli stessi frutti a grappolo dell’abito di Eulalia) ed a mani giunte nel gesto della preghiera e dell’umiltà. La giovane perì vittima di atroci supplizi quali il taglio della lingua ed è venerata insieme alla compagna Anatolia (qui non raffigurata), con cui appare tra le martiri più illustri dell’Occidente nei ricordati mosaici di Ravenna. Non ha nel nostro ciclo attributi particolari.

La segue Reparata, co-patrona di Firenze e Pisa. Sotto l’imperatore Decio, quando aveva dodici anni, fu uccisa forse a Cesarea in Palestina mediante decapitazione dopo infiniti tormenti che andavano dal piombo fuso cosparso sul corpo al forno acceso in cui fu gettata, allo strappo dei seni e delle viscere. Il suo culto non sembra anteriore al IX secolo. Qui a Bosa regge tra le mani, unica fra tutte, una fronda vegetale. Non si tratta della canonica palma, albero caratterizzato da grandi foglie pennate e non lanceolate come nel nostro caso (e perciò non rimanda al martirio), ma un ramoscello d’alloro o d’ulivo che, come tutti gli alberi sempreverdi, alludono all’immortalità. Il primo nell’antichità indicava la vittoria sui nemici, il secondo in età medievale simboleggiava la pace

raggiunta dopo una guerra vittoriosa. In Sardegna il culto di Reparata è in realtà poco diffuso: una chiesa a lei dedicata di origini romaniche si trova nella cittadina di Usellus, antica colonia romana compresa poi nel giudicato di Arborea, ma questo culto non sembra essersi conservato almeno a giudicare dalla sua assenza tra le figure femminili (molto poche in assoluto) che appaiono nei retabli iberici del Quattrocento e del Cinquecento. Dunque è più che probabile che si tratti di una importazione toscana poco collegabile all’agiografia sarda [anche la baia di Santa Reparata a Santa Teresa di Gallura ha avuto tale nome dai Pisani].

Sull’identificazione di Margherita di Antiochia, protettrice delle partorienti e invocata contro la sterilità, non ci sono dubbi grazie alla presenza di un bel drago che, a causa dello scarso spazio a disposizione, si arrotola su se stesso quanto più può allungando verso l’alto (fino quasi alle mensole assonometriche) la sua lunghissima coda: come spesso accadeva davanti a presenze demoniache, è stato pesantemente sfregiato dalla superstizione dei fedeli sempre coinvolti emotivamente da ogni immagine dipinta. La fanciulla fu appesa a un cavalletto e straziata con pettini di ferro; fiaccole accese furono accostate al suo corpo, poi venne immersa in un calderone di acqua bollente. Vinse con un semplice segno della croce il diavolo-drago che l’aveva visitata in carcere e inghiottita. Morì decapitata. Il nome della vergine significa perla: dunque purezza per il candore ed umiltà per le piccole dimensioni. Prototipo del suo racconto agiografico in Occidente si trova nel San Vincenzo a Galliano (1007). Ancora una santa romana è la nobile fanciulla Cecilia, protettrice dei musicisti, il cui nome vorrebbe dire secondo Iacopo da Varazze Coeli gilia, per altri verrebbe da caecus. È vestita di un abito verde a motivi gialli. Sposa del giovane pagano Valeriano, lo avrebbe convinto nella notte di nozze alla castità e alla nuova fede nel Dio cristiano. Dopo inenarrabili torture, tra cui l’immersione in acqua bollente, fu colpita al collo per tre volte dalla spada del carnefice, ma riuscirà a sopravvivere per tre giorni [la legge vietava di percuotere il condannato più di tre volte] e a dispensare ai poveri tutti i suoi beni come aveva fatto il marito, già martirizzato. Non è distinta da particolari attributi Savina di Troyes. Giovane greca di Samo, era stata battezzata a Roma e nella città francese era capitata alla ricerca del fratello scomparso: appreso che era stato martirizzato, cadde morta. Rara la sua rappresentazione in genere comunque in veste di pellegrina con mantello, cappello a larghe tese, bordone e bisaccia: qui indossa il solito abitino di un bel colore rosato e con l’indice alzato della mano destra sembra indicare le compagne che la precedono. Il suo culto è sconosciuto in Sardegna, ma non si può escludere che si tratti invece di Sabina [lo scambio b/v era assai frequente per influenza fonetica del volgare: d’altra parte ‘savina’ è termine disusato a favore di ‘sabina’ laddove si voglia fare riferimento all’alberello simile al cipresso alto fino a quattro metri, a foglie sempreverdi e bacche rosse, alludenti queste ultime al sacrificio di Cristo]. La martire romana veniva invocata contro le emorragie e molto venerata nell’isola: ricordiamo la chiesa protoromanica di Silanus a lei dedicata. Ursula, principessa britannica, volle compiere un pellegrinaggio a Roma insieme a undicimila vergini [in realtà undici fanciulle che per un errore del copista della loro ‘Passione’ si sono moltiplicate per mille]: al ritorno fu massacrata con loro sotto le mura di Colonia dagli Unni. Appoggia la destra sulla spalla della vicina, mentre con la sinistra sembra indicare le compagne. È invocata contro la peste e pregata pro felici morte. Il suo abito conserva tracce di lumeggiature dorate.

Seguono a questo punto altre due sante, una pressoché scomparsa mentre dell’altra si è conservato solo il viso e poche lettere del titulus, dopodiché la processione continua in controfacciata dove troviamo una prima figura il cui titolo, posto sulla destra, è stato letto come Scolastica: anziché verso l’abside primitiva si volge verso le figure che la seguono o meglio verso la Santa Croce sorretta da Elena. Ha le mani alzate e le palme rivolte all’esterno forse nell’antico gesto delle oranti paleocristiane in preghiera perpetua come attestato nell’Antico Testamento. A prescindere da errori di scrittura [una ‘t’ al posto della ‘c’ nell’ultima sillaba] non inconsueti in opere medievali, resta dubbio il riconoscimento in questa figura della sorella di San Benedetto, poiché non indossa la tonaca da badessa secondo una radicata consuetudine iconografica, bensì una veste uguale a quella delle altre vergini, sia pure di colore più scuro. La figura seguente porta un vistoso abito gialloaranciato costellato da piccole bacche bianche munite di peduncolo, la cui sfericità è ottenuta per mezzo di un leggero chiaroscuro; con l’indice della mano destra indica la Croce di Cristo: non presenta né attributi né titolo, per cui non siamo in grado di identificarla.

Le ultime due presenze del corteo portano le insegne della Passione. L’imperatore Costantino stringe nella mano sinistra i tre chiodi della Crocifissione e nella destra la lancia con cui Longino colpì il costato di Cristo. È volto verso la madre Elena, che sostiene la vera Croce da lei ritrovata secondo la leggenda a Gerusalemme. Ha un viso dall’ovale allungato su cui spiccano il naso leggermente aquilino, le sopracciglia pesanti e i soliti occhi bistrati. Porta una barba nera molto curata (meno folta di quella di San Giacomo), ma il riferimento non sembra alla moda che iniziò ad affermarsi intorno agli anni 1335-40, bensì al rango sociale e all’età adulta: non si tratta infatti di quella corta e rada che comincia ad apparire negli affreschi del Camposanto di Pisa. Ha sul capo una leggera cuffia

bianca retinata a trattenere i capelli arrotolati in un unico rollo volto all’esterno; porta una corona e un manto in origine rosso con soppanno di vaio sulla sopravveste verde lunga fino alle caviglie: la sottana di colore rosa è visibile solo grazie al colletto alto e rigido; i calzari sono moderatamente appuntiti. Elena è vestita come le altre figure femminili ma non ha lo stesso aspetto giovanile. I santi nel Medioevo erano alieni da vecchiaia o morte, ma il nostro pittore ha voluto evidentemente sottolineare l’età adulta della madre dell’imperatore solcandone la fronte con rughe profonde: l’imperatrice aveva circa ottant’anni al tempo del ritrovamento della Vera Croce. La Santa Croce non poteva mancare in un ciclo francescano, conoscendo la fervente devozione dell’Ordine verso il Cristo e le sue sofferenze attestata dalle numerose chiese che le furono intitolate. Nella lunga teoria di personaggi sembra regnare la legge dell’uniformità, ma la tipizzazione delle figure sacre è un dato comune alla pittura di soggetto religioso costretta a rappresentare immagini idealizzate incorporee, almeno fino alla metà del Trecento. In alcuni casi le labbra, caduto il colore rosso, hanno conservato il bianco della preparazione e, insieme a quelle orbite oculari bianchissime e sottolineate dal segno d’ombra delle occhiaie, conferiscono alle figure un aspetto fantasmatico. Sul fondo si stagliano gli stessi abiti a pieghe di poco volume con bordi a piccoli ricami, gli stessi capelli biondi appena ondulati, le stesse semplicissime acconciature (lontane da quelle arricchite da vistose trecce posticce che caratterizzano, ad esempio, le bellissime sante di Pietro Lorenzetti), le stesse grandi mani chiaroscurate su cui le unghie spiccano nette, i medesimi visi anche se taluni sono visti di fronte, altri di trequarti; alcuni tenerissimi e piccoli, altri ancora larghi e grassottelli. In generale i colli sono piuttosto tozzi e la mascella è robusta così come la ritroviamo in molte figure che affollano gli affreschi del Camposanto pisano. La posizione diversificata delle iridi fa sì che la frontalità venga spezzata dagli sguardi di sbieco. Margherita ha un viso commovente da bambina, mentre Reparata mostra una bocca piuttosto danneggiata che forse vuole alludere ai due supplizi cui i martiri venivano più frequentemente sottoposti, e cioè lo strappo dei denti e il taglio della lingua, supplizi a cui farebbero pensare quei punti neri da sutura chirurgica che le chiudono la bocca. Ha una espressione severa con occhiaie ammaccate di nero, così come Agata, Vittoria e in origine tutte le figure: quest’altra osservazione le avvicina ancora una volta agli stilemi di Buffalmacco, cui le accomuna anche il grande orecchio di cui sono fornite Marta e la santa anonima di controfacciata insieme ad altri protagonisti bosani. Emerge per ‘anomalia’ di disegno la figura della Maddalena che è rappresentata realisticamente di tre quarti. È volta verso l’angelo: le braccia sono appena sovrapposte e, ad accentuare una ricerca di prospettiva reale, l’aureola raggiata si deforma ellitticamente come in Giotto. Vogliamo sottolineare una considerazione di tipo statistico: quasi tutti i santi raffigurati a Bosa hanno avuto un loro culto in Sardegna, in qualche caso molto vivo ed anteriore agli affreschi bosani; molti hanno continuato ad apparire nei polittici dei secoli successivi. Nessuno dei numerosi santi isolani (ad esempio Santa Giusta, sotto la cui protezione era posta una delle porte della città) è presente in questo ciclo forse per l’estraneità dell’iconografo alla tradizione religiosa locale. Nel registro superiore della stessa parete sinistra sono stati affrescati due episodi fondamentali del ciclo, e cioè l’‘Adorazione dei Magi’ e l’‘Ultima Cena’. Esaminiamo la scena dell’Adorazione dei Magi, il cui valore simbolico è quello di omaggio dei potenti della terra alla divinità, non

dimenticando che la vicenda è anche strettamente legata all’idea del viaggio penitenziale in Terrasanta. L’affresco, piuttosto danneggiato, mostra il fianco di un trono ligneo giallo-dorato, su cui la Madonna è seduta di trequarti e offre la visione del proprio Bambino dal viso di adulto ai tre Magi venuti dall’Oriente, seguendo una stella fino a Betlemme per adorare il re dei Giudei. Nel nostro affresco sono raffigurati secondo l’iconografia che era andata ormai affermandosi stabilmente nel Medioevo. Il primo mago inginocchiato, Melchiorre [i nomi sono del tutto leggendari], che tiene tra le mani un cofanetto contenente l’oro dovuto ai re, ha barba e capelli bianchi a simboleggiare la vecchiaia. Dietro di lui si intravede al centro, in piedi, Baldassarre, privo dei connotati della tradizione e cioè barba e capelli neri (allusione all’età matura), che porge al Cristo il vaso dell’incenso a testimoniarne la divinità. Gaspare, imberbe, còlto nell’atto di genuflettersi, simboleggia la giovinezza (quasi completamente distrutto): dona al Bambino la mirra, sostanza gommoresinosa usata per imbalsare i defunti, dunque annuncio di morte. I nostri Magi indossano sottane bianche a collo alto e sopravvesti verdi su cui portano manti rossi (in origine) foderati di vaio come tutti i personaggi maschili del ciclo. Sul capo hanno cuffie trasparenti che trattengono le consuete acconciature a rollo sormontate da corone, sotto le quali si intravedono grandi orecchie. Erano probabilmente sacerdoti persiani seguaci di Zoroastro, nella cui dottrina era predetto l’avvento di un salvatore partorito da una vergine che avrebbe fondato sulla terra il regno del bene: la sua venuta sarebbe stata annunciata dall’apparire di un astro luminoso.

La Vergine, il capo adorno dal velo bianco simbolo di purezza, appare ormai individuata soltanto da due grandi macchie di colore, quella del manto un tempo azzurro (di cui si è conservata solo la preparazione grigio-celeste di fondo: quella dell’azzurrite era qualche volta di questo colore, più frequentemente era nera) e quella della tunica rossa nella più tipica tradizione senese (Duccio, Simone Martini), caratterizzata da una leggera scollatura bordata d’oro come i polsini, secondo il modello già descritto degli abiti delle sante in processione. È una figura solida e concreta, giottesca forse ma con qualche delicatezza in più: il viso dolcissimo è di restauro. Delle due mani che trattengono il Bambino dal nimbo cruciato, decorato a stilizzati e incerti racemi che ricordano la tecnica della bulinatura dei fondi oro, la sinistra è poggiata con dolcezza sulla spalla del piccolo ed il pollice alzato richiama inevitabilmente sigle lorenzettiane. Per San Francesco la Vergine era la personificazione per eccellenza di una delle virtù da lui più apprezzate, cioè l’humilitas. Insieme all’Arcangelo Michele e alla Santa Croce, fu uno dei riferimenti fissi delle sue meditazioni e del suo

affetto, al pari dell’Incarnazione di Nostro Signore, così che la festività più amata fu proprio il Natale. Dunque ancora una conferma che ci troviamo di fronte a un ciclo di ispirazione francescana. Il Bambino (dagli occhi strabici; di restauro) indossa una tunichetta gialla con i consueti bordi dorati al collo e ai polsi: calza gli stessi sandaletti che porterà anche nel quadro dell’‘Ultima Cena’. Quei suoi capelli a parrucchetta e ondulati mediante linee rosso-nere, tipici di tutti i personaggi del ciclo, rimandano ai bambinelli che strappano rami d’olivo nell’‘Ingresso di Cristo a Gerusalemme’, affrescato da Pietro Lorenzetti nel braccio sinistro del transetto della chiesa inferiore ad Assisi (1315-19). Il gesto di benedizione e l’espressione severa del volto sono caratteri che ci privano di quei segnali infantili che arricchiscono di umanità tanta pittura e scultura gotica, rivelando invece il suo destino di morte. Oltre alla mancanza/perdita della stella che ha guidato a Betlemme i Magi, non può passare inosservata una assenza iconografica importante, e cioè quella di San Giuseppe, peraltro spesso mancante nell’iconografia più antica e bizantina a riconferma della sua estraneità al concepimento. Fermo restando che nel nostro caso può trattarsi della consueta lacuna pittorica (forse era posto dietro il trono, come in altri esempi), ricordiamo che la stessa licenza è riscontrabile nella scena di identico soggetto dipinta nella basilica inferiore di Assisi dal cosiddetto ‘Parente di Giotto’ (1310-15) e in opere di Taddeo Gaddi.

Passiamo ora al riquadro dell’Ultima Cena, che denuncia subito la sua appartenenza ad una tradizione tutta italiana di tavole imbandite con bianche tovaglie e stoviglie tipiche della prima metà del Trecento. I partecipanti al convito sono identificabili grazie alle iscrizioni identificatorie dipinte sulla fronte della predella (Cristo [forse l’acronimo IC …], Giovanni, Giuda, Pietro, Andrea, Filippo, Giacomo il Maggiore, Taddeo, Tommaso, Bartolomeo, Matteo, Simone, Giacomo il Minore). Non sono disposti intorno alla mensa ma stanno al di là del tavolo come affacciati alla bocca di un palcoscenico, entro un invaso spaziale cui è stata tolta la quarta parete (Federico Zorzi): sicuramente il modo più semplice per disporre in profondità un gruppo di figure ed evitare la difficoltà di doverne dipingere alcune viste di schiena. Purtuttavia, se lo schema può sembrare antiquato, i piedi nudi dei commensali sono concretamente poggiati su una predella di lieve aggetto, sulla cui fronte sono iscritti i loro nomi. La predella è retta a sua volta da una fila di mensole parallele viste dal basso: la loro sporgenza è indefinita ma reale, perché esiste il suggerimento di una profondità rappresentata in assonometria. Una tovaglia bianca, le cui estremità sono caratterizzate dalla presenza di coppie di bande decorative a disegno reticolare, è stesa sulla tavola e si articola su due piani: l’uno frontale appena drappeggiato da pieghe a V, l’altro a formare la mensa vera e propria resa con un disegno assonometrico che tenta di descriverne la profondità. Ci troviamo in quell’ambito di sperimentazione dello spazio che nel XIV secolo ebbe in Giotto il suo massimo esponente, anche se non proprio di spazio geometrico si dovrà parlare ma di illusionismo pseudoprospettico. I pani sono perfettamente circolari e cioè visti dall’alto pur poggiando sul piano inclinato della tovaglia, le caraffe metalliche per il vino sono disegnate frontalmente mentre un leggero accenno prospettico, utile a definirne il volume, si riscontra nei bicchieri di vetro e nelle alzate, forse di legno, con i pesci. Le mani degli Apostoli si muovono liberamente nello spazio, mentre i piedi sono ordinati secondo un modulo ripetitivo nell’atto di toccarsi o sovrapporsi. Piedi prensili, scimmieschi, ‘parlanti’, che si affacciano sotto la tavola, appartenenti a uomini resi inespressivi perché quasi tutti privati della testa. Piedi nudi così come i Vangeli prescrivevano agli Apostoli (Mt 10,10) e ai discepoli (Lc 10, 4) inviati a predicare nel mondo. Solo il Cristo, posto all’estrema sinistra della tavola, è calzato con sandali come il Bambino dell’‘Adorazione dei Magi’,

identici a quelli che porta il Santo di Assisi in questo stesso ciclo, così come nel dossale di Ottana (in genere tuttavia era sempre rappresentato scalzo come gli Apostoli).

Disposti ora frontalmente, ora di tre quarti, ora di profilo, i partecipanti alla Cena sono vestiti di tuniche e manti di foggia classicheggiante, come del resto tutti i personaggi sacri nelle opere di questo periodo, resi in qualche caso con abilità pittorica. Le loro emozioni ci sono rivelate anche dal linguaggio delle mani segnate da un grosso contorno e caratterizzate dal disegno preciso delle unghie, come tutte quelle del ciclo: una afferra un coltello, un’altra un pane, un’altra ancora ne prende una fetta. Filippo appoggia la mano destra (rachitica) sulla spalla di Andrea e allarga l’altro braccio in atteggiamento sconcertato, Giacomo il Maggiore compie il gesto oratorio [due dita indicano il Cristo], Taddeo punta l’indice in direzione di Tommaso che tiene nella sinistra un coltello.

Giuda, di cui vediamo solo il mento e parte della bocca in un profilo dimezzato che appare tuttavia di grande bellezza, è seduto vicino a Pietro, il cui viso è canonicamente coperto da una barba grigia e lanosa (in buona parte di restauro). Egli tiene il coltello sollevato a mezz’aria sorpreso dalle parole del Maestro, mentre Giuda, vestito di una tunica rosa e forse di un manto giallo [colore che nella pittura medievale contrassegnava i traditori ed era anche simbolo dei beni mondani, ma che qui non sembra usato con intenti negativi poiché, ad esempio, anche la tunica di Matteo appare dello stesso colore], mette la mano sinistra (mano infausta, quella che contraddistingue nella pittura medievale gli infami: nel ricevere i trenta denari Giuda usa quasi sempre la sinistra) nel piatto dei pesci e si rivela così come il traditore annunciato. All’estrema sinistra della tavola Giovanni tiene tra le mani il rotolo del suo Vangelo e china il capo verso il petto del Redentore (il particolare è solo in Gv 13, 23), gesto che sta ad indicare che la conoscenza del mistero della divinità di Cristo si conquista solo in trance. Ha un viso efebico, imberbe di giovane uomo, segno di verginità. Entro un ovale allungato e delicato spiccano grosse labbra carnose, le palpebre sono abbassate ad esprimere il suo abbandono in Cristo. Della parte superiore del corpo del Salvatore (vestito di verde, il colore predominante di tutto il ciclo) si conservano solo parte del braccio e la mano destra con medio e indice tesi (gesto della parola) nell’annuncio del martirio e insieme nell’atto di accusa che sconvolgono i commensali. È interessante riflettere sul fatto che probabilmente il suo viso era dipinto di profilo, come quello di Giuda. Come noto, nella pittura medievale la posizione di profilo era riservata ai malvagi (carnefici) e ai traditori (Giuda appunto) o a figure di secondo piano, mentre quelle sacre rispettavano una pressoché rigorosa frontalità. Poiché il recupero pittorico del profilo privato di connotazioni negative è una conquista giottesca (si pensi alla scena del ‘Bacio di Giuda’ agli Scrovegni di Padova), dobbiamo pure ammettere che il nostro pittore non fosse digiuno delle innovazioni iconografiche che venivano dal Nord e si diffondevano in tutta la penisola.

Superiamo il riquadro della Coena Domini e fermiamoci ad esaminare le figure che seguono già identificate con Ambrogio, Girolamo, Agostino e Gregorio Magno, padri e dottori della Chiesa latina. Nella loro iconografia il numero di quattro si è venuto affermando in analogia a quello degli evangelisti Marco, Matteo, Giovanni e Luca cui si accoppiano nell’ordine indicato nelle unghie delle crociere, dopo che alla fine del Duecento il loro culto fu equiparato a quello degli Evangelisti. I primi quattro personaggi, stagliati sul consueto fondo a due fasce, vestono abiti vescovili: camici dai colori che vanno dal verde, al giallo, al bianco, impreziositi nella parte bassa da tablia; e poi pianete rosate, rosse, nere; calzari, guanti [o meglio ‘chiroteche’, per preservare la mano consacrata da contatti impuri]. L’ultimo dei quattro è quello più riccamente vestito: oltre al pastorale rivolto verso l’esterno (dunque un vescovo) porta guanti bianchi impunturati di nero, con placca circolare dorata sul dorso e calzature da cerimonia particolarmente belle di foggia bizantineggiante (le stesse che indossa la Madonna dell’‘Adorazione dei Magi’). Si tenga conto in ogni caso che le vesti sacerdotali sono rimaste praticamente immutate per secoli. La presenza del pallio a sei crocette, riservato ad arcivescovi metropoliti e pontefici, potrebbe permettere l’identificazione di Gregorio Magno. Purtroppo i danni subìti dalla parte superiore del ciclo non permettono di conoscere quali fossero i copricapo di queste figure, circostanza che ci avrebbe aiutato molto (si scorgono comunque le tracce di due mitrie aureolate pertinenti alle prime figure; di restauro). Personaggio riconoscibile con certezza potrebbe essere Agostino, perché sul camice bianco indossa sempre una sopravveste scura a ricordo del suo ruolo di fondatore di un ordine monastico: nella destra tiene il pastorale e con la sinistra regge il libro della sua Regola. Delle rimanenti figure la prima si distingue a fatica; la seguente indossa una pianeta rossa su una tunica gialla: il loro colore variava a seconda delle festività in calendario, dunque non ci aiuta. Questa zona dell’affresco è particolarmente importante perché vi si conserva traccia della decorazione superiore del ciclo costituita da una semplice fascia di colore chiaro, all’interno della quale corre una linea ondulata rossa, che rimanda a decorazioni miniate e che ritroviamo sulla lancia retta da Costantino. I quattro teologi latini sono seguiti da due figure scalze (la terza è pressoché scomparsa, la quarta è completamente cancellata) nelle quali sono stati indicati gli Evangelisti. La prima indossa una veste marrone di foggia monacale e un manto

chiaro, di cui restano solo le linee del disegno preparatorio. Regge con la mano sinistra un libro e con la destra un lembo del manto. Accettando l’ipotesi che ai Dottori della Chiesa seguano gli Evangelisti, qui schierati sul piano in assenza di coperture voltate, il primo di questi potrebbe essere San Giovanni perché caratterizzato, secondo una consuetudine iconografica che ne ricorda la tarda età del momento della redazione dell’Apocalisse, da una lunga barba bianca, che lo accomuna a Matteo, per distinguere gli Evangelisti più anziani che hanno conosciuto il Salvatore, dai più giovani Luca e Marco che questa fortuna non hanno avuto. Il secondo personaggio indossa manto e tunica oggi bianca (le linee verdi del chiaroscuro sono state eccessivamente enfatizzate) e regge un rotolo con la sinistra, mentre la destra è alzata contro il petto nel gesto della testimonianza. Della terza figura vestita di giallo e marrone si intravedono parte del busto e le braccia; della quarta (la sua presenza è ipotizzabile perché lo spazio residuo sulla parete sarebbe stato sufficiente ad accoglierla) nulla è dato sapere.

Ci spostiamo ora in controfacciata, dove abbiamo già seguìto nel registro inferiore la processione dei santi bloccata dalla presenza apotropaica di Cristoforo, il cui grande corpo abbraccia tutta

l’altezza della parete: è l’unico fra i Santi a condividere con la Vergine il privilegio di sostenere fisicamente il Bambino. La figura è stata irrimediabilmente mutilata nella parte superiore a causa della apertura, nel timpano di facciata della cappella, di una finestra quadrangolare: si sono perduti la testa del Santo, il Bambino che portava sulle spalle, la sommità del bastone. La sua leggenda è stata infarcita da tali particolari fantastici che si è dubitato a lungo della sua esistenza storica: la sua Passio trova nel San Vincenzo di Galliano (1007) la più antica e ampia illustrazione in Occidente. Il culto è attestato sin dal V secolo (era presente in Santa Maria Antiqua a Roma) ed ha avuto larga diffusione soprattutto nel XIV grazie alla Legenda Aurea, ma la sua popolarità declinò rapidamente. Giovane gigante (e brigante) convertitosi al Cristianesimo, volendo esercitare la carità, si sistemò in una capanna presso un fiume impetuoso e, in virtù della sua alta statura, riusciva ad aiutare i viandanti in difficoltà che dovevano attraversarlo. Un giorno Cristo gli si manifestò sotto le sembianze di un bambino, che il pover’uomo faticò non poco a traghettare al di là del fiume portandolo sulle spalle, perché il peso del fanciullo andava crescendo a tal punto da diventare insopportabile anche per un individuo della sua forza. Cristoforo, compresa la prova cui era stato sottoposto, finirà i suoi giorni martire per decapitazione in Licia. Grazie a questa leggenda divenne il tutore dei viandanti e dei pellegrini, ma anche il santo da invocare contro la morte improvvisa che privava della possibilità di una salvifica confessione. Era sufficiente guardare le sue grandi immagini sistemate nei crocicchi, scolpite agli ingressi delle chiese o dipinte sulle controfacciate per essere sicuri di non morire durante il corso della giornata: Christophorum videas, postea tutus eas (Emile Mâle, 1986). Già raffigurato nel X secolo in Santa Maria Antiqua a Roma e nel San Vincenzo di Galliano (1007-13), lo ritroviamo nel XIII all’interno del duomo di Modena e all’esterno del San Marco veneziano. In Sardegna è stato rappresentato con gusto popolare e ingenuo nel XIII secolo a Silanus nella chiesa di San Lorenzo, a fianco di San Biagio [ricordiamo che Cristoforo, come Biagio, era invocato anche contro la peste] e San Benedetto. A Bosa è dipinto in controfacciata come nella Santa Pudenziana di Visciano (XIV secolo). Meno frequente sembra essere la sua presenza nell’Italia meridionale. Il nostro Cristoforo indossa, su una tunica di colore verde, un elegante manto soppannato di vaio lungo fino a mezza tibia; si appoggia ad un tronco d’albero per aiutarsi nell’attraversamento di un fiume dalle acque verdissime abitato da pesci voraci, che mettono bene in mostra i loro robusti denti: sono gli stessi che abbiamo trovato sulla mensa dell’‘Ultima Cena’. Pur priva della testa e del Bambino sulle spalle, è questa una delle figure più straordinarie del ciclo. Si dovrà escludere che sia stato qui dipinto ad uso di viandanti o pellegrini poiché ci troviamo nella chiesa di un castello. Semmai sarà da riconfermare il suo valore di tutore contro la morte improvvisa.

Rimaniamo nel registro inferiore per incontrare, dopo avere superato il portale, il riquadro della Pesatura delle anime (in verità delle colpe) [si corregge Poli 1999]. Le modificazioni delle originarie dimensioni subìte dal vano di accesso alla chiesa insieme a cadute di brani d’affresco occorse prima dei restauri, oltre ad avere danneggiato in parte il San Cristoforo, hanno martoriato anche la scena seguente, di cui si è persa tutta la zona inferiore. A sinistra è dipinto, su un fondo blu, un angelo nimbato dalle grandi ali a penne lunghissime e oggi pressoché monocrome, del quale si sono conservati solo la testa e il busto. Il braccio destro alzato impugna con energia la parte alta di un’asta, che interferisce con il registro superiore andando a sfiorare la coda a spirale del drago di

San Giorgio, ma di cui in basso non si vede la fine. Quello sinistro piega verso l’interno del corpo, mutilato a metà circa dell’avambraccio. Di fronte, separata da una banda bianca e stagliata su un fondo oggi di colore violaceo, sta una evanescente figura femminile aureolata, che indossa una tunica in origine rossa priva dei consueti bordi ricamati e un manto giallo. La sua struttura facciale può apparire a prima vista atipica all’interno del nostro ciclo per via di quell’ovale allungatissimo, quel mento enorme e quella bocca carnosa, ma sono tratti che caratterizzano altri personaggi bosani: questo viso si apparenta strettamente a quello del San Giovanni dell’‘Ultima Cena’ e solo la caduta delle finiture a chiaroscuro (è rimasta unicamente la tinta piatta color carne) li fa sembrare diversi. Dobbiamo escludere che si tratti dell’Arcangelo Gabriele che annuncia alla Madonna il suo divino concepimento: la figura angelica è volta con sguardo interrogativo verso la donna, che ne osserva i movimenti mentre punta l’indice verso il basso e si stringe al petto con il braccio destro un voluminoso lembo del manto. Poiché la Vergine veniva spesso raffigurata accanto a Michele come advocata delle anime da giudicare, ruolo attribuitole da secoli (si pensi alla bizantina Dèesis = preghiera, intercessione), l’interpretazione più plausibile appare quella della rappresentazione dell’Arcangelo Michele intento, nel giorno del Giudizio, a cacciare con l’asta i demòni che insidiano i risorti, mentre col braccio (qui amputato) sorreggeva la bilancia per la pesatura delle anime.

Lasciando i problemi iconografici, guardiamo ora al nostro affresco per trovarne se possibile i referenti stilistici. A nostro avviso non v’è dubbio che questo arcangelo dimezzato sia un parente stretto degli angeli raffigurati nel ‘Giudizio Universale’ del Camposanto di Pisa, opera di Bonamico Buffalmacco (1280/90-1342 ca.), pittore famoso nella Firenze del Trecento tanto da essere ricordato nel ‘Decamerone’ del Boccaccio e nel ‘Trecentonovelle’ del Sacchetti. L’angelo di Bosa è vestito, come quelli pisani, di una tunica manicata strettissima, confezionata con un tessuto a disegni romboidali sui quali sono stati successivamente impressi a stampino fiori quadripetali (a Pisa questo motivo varia in disegni più o meno complessi); ha la loro stessa robustezza e le stesse rughe sulla fronte; soprattutto compie lo stesso gesto atletico. Certo la scena oltre che mutila è semplificata, c’è poco spazio per distendervi troppi particolari; certo il viso è più anonimo, il gesto più rigido, ma le grandi ali e il modo di impugnare l’asta non mentono: qualcuno indubbiamente, certo meno abile di Buffalmacco, è stato a Pisa in quegli anni e si è trasferito poi in Sardegna a lavorare al ciclo di Bosa. Nel registro superiore della controfacciata, diviso in due specchi dalla figura di Cristoforo, sono dipinti in posizione araldica due santi che apparivano di frequente in tutti i cicli francescani, e cioè Martino e Giorgio: soprattutto il primo perché consentiva di mettere in scena i poveri. Infatti nella povertà i seguaci del Santo di Assisi riconoscevano una condizione spirituale che accomunava tutte le creature di fronte a Dio. I fondali a due fasce (giallo carico l’inferiore, blu la superiore) di queste scene sono gli stessi che accolgono la teoria di santi della parete sinistra. In questo riquadro sopravvivono in alto resti di pannellature dipinte, motivo abbastanza diffuso nel XIII secolo (sala capitolare dell’abbazia di Pomposa; ospedale della Misericordia a Prato; canonica del duomo pisano; sottotetti della cattedrale di Modena): spesso decorazioni a riquadrature a finto marmo di carattere provvisorio venivano eseguite in attesa delle futura affrescatura. Qui a Bosa ne abbiamo trovato altre tracce all’altezza dell’antico presbiterio (parete sud), sotto la nicchia che accoglie la statua di Sant’Andrea e sotto la figura di Lucia.

A sinistra è raffigurata la Carità di San Martino. Quasi tutto il campo è occupato dalla sagoma di un grande cavallo biondo, probabilmente un avelignese, razza che presenta ancora oggi criniera e coda biondissime e zampe corte, dall’occhio dilatato che spicca netto sul fondo un tempo rosso: i finimenti (appena più vistosi quelli dell’animale di San Giorgio) sono di una grande semplicità, come non si verificherà più nel secolo successivo. Il Santo, che l’iconografia più corrente vorrebbe su un cavallo bianco (in realtà si tratta sempre della razza dei grigi), è il legionario romano Martino ritratto mentre dona al povero, che gli si rivelerà poi essere Cristo, la metà del suo mantello da ufficiale foderato di vaio. Di lui restano la gamba destra con il piede infilato nella staffa, calzari con speroni, gualdrappa gialla sotto la sella; la parte inferiore della cotta verde ha l’orlo appena ondulato ed arriva poco al di sotto del ginocchio; la cinghia sottopancia del cavallo è a disegno reticolare come in numerosissimi esempi del tempo. I danni hanno anche risparmiato la mano guantata che regge la spada a lama larga, semplice elsa a croce e pomo tondo. Il mendicante seminudo è conservato pressoché interamente: il suo viso barbato dalle guance infossate ha un’espressione sofferente. Le lunghe gambe sono scoperte mentre il busto è già protetto dal mantello del Santo. Inesistente ogni ambientazione della scena, di solito raffigurante la porta delle mura di Amiens da cui Martino usciva quando incontrò il mendicante. Figlio di un soldato e nato in una stazione di frontiera ai confini con la Pannonia, Martino visse nel IV secolo e si convertì presto al Cristianesimo, ma abbandonò il mestiere delle armi solo dopo circa vent’anni di servizio, intorno al 354. Eremita e poi vescovo di Tours a partire dal 370, morirà nel 397. La sua vita e la sua leggenda ebbero ampia diffusione sin dal V-VI secolo e poi soprattutto grazie alla Legenda Aurea, che nell’iconografia medievale farà testo per tutti i pittori perché arricchiva di particolari facilmente traducibili in termini figurativi le vite dei santi. Lo troviamo già presente, pur senza particolari attributi, tra i confessori nella basilica di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna a testimoniare la precocità del suo culto, che si diffuse rapidamente in tutto l’Occidente.

Pendant di questa scena (superato il gigantesco Cristoforo) è la raffigurazione di San Giorgio e il drago, allusione alla salvezza dal peccato attraverso la fede. L’esistenza di questo Santo, che sarebbe stato martirizzato sotto Diocleziano e il cui capo sarebbe stato ritrovato e portato a Roma dalla madre di Costantino Elena, non è mai stata sicura, ma in passato la sua presenza nell’agiografia è stata fondamentale grazie forse alla bella favola del cavaliere senza macchia e senza paura che libera la principessa dall’assalto di un drago assassino. Numerosissime chiese gli furono dedicate; i Benedettini gli erano molto devoti; i Francescani riconoscevano in lui un simbolo della fede e della carità perché aveva distribuito ai poveri tutti i suoi beni, compreso il compenso promesso dal re a chi gli avesse salvato la figlia dalla morte (prima di lei molte fanciulle erano state sacrificate alla bestia, affinché lasciasse vivere in pace gli abitanti della città). La scena è più complessa di quella appena descritta. Un bellissimo drago giallo e verde [nel Medioevo due colori di connotazione prevalentemente negativa], munito di ali e orecchie appuntite (simbolo del peccato), barbetta, il muso cancellato da mani superstiziose, zampe piumate con artigli da rapace e coda di serpente, così come deve essere un vero drago medievale, metafora dell’infedele e dell’eretico, poggia gli unghioni su un elegante fregio classicheggiante a palmette (= immortalità = Paradiso) di disegno miniaturistico, i cui resti sono collocati sopra il vano del portale: lo stesso motivo si ripete nella parete destra in corrispondenza dell’architrave dell’accesso laterale. L’enorme coda attorcigliata ha già avvinghiato pericolosamente le zampe posteriori del cavallo, che si è impennato per la spinta impressa dal cavaliere allo scopo di vibrare con maggiore forza il colpo nel collo dell’animale, il quale per raggiungere il suo avversario ha dovuto arrampicarsi sulla breve erta del terreno brullo e ondulato: un serpente per difendersi non può che bloccare le zampe dell’avversario. Se il cavaliere ha perso, come l’altro, buona parte del corpo (restano il piede nella staffa, calzari con speroni a rotella su gambo molto corto, tipici della prima metà del XIV secolo, gualdrappa gialla sotto la sella e parte della cotta), qui non troviamo più neanche le braccia e non riusciamo a seguire il percorso alto della lancia che infilza la bestia (dalla ferita scende un rivolo rosso di sangue): brandita con la destra, si suppone dovesse passare dietro il collo del cavallo. L’animale è la bella rappresentazione di un

pomellato grigio dalla folta criniera, zampe corte e robuste, occhi spiritati per la fatica volti verso l’osservatore. E soprattutto una bella coda annodata a fiocco secondo la moda del tempo diffusa soprattutto in Lombardia: per un palafreno da torneo o da parata montato da un cavaliere, la citazione di costume era d’obbligo (in quello del soldato Martino la coda ondeggia invece libera). Riteniamo che la frequenza con cui sin dall’Altomedioevo viene dipinta questa razza equina dipenda dal fatto che pittoricamente dia risultati eccezionalmente vivaci. Nel Trecento la incontriamo sempre apprezzatissima dai pittori e dai miniatori: un pomellato grigio è dipinto in primo piano nell’‘Incontro’ di Pisa. Alla metà del XIV secolo troviamo il nostro santo nel polittico di San Giacomo a Bologna di Paolo Veneziano: qui come a Bosa la scena ha come pendant la ‘Carità di San Martino’ e, come a Bosa, mancano lo stendardo crociato e la principessa, particolari di cui è stata notata l’assenza ma evidentemente non indispensabili nell’economia dell’episodio.

Se sulla sinistra le mensole erano rivolte verso l’ingresso, sulla parete destra (nord) sono dipinte in senso contrario e cioè guardano verso la zona dell’abside primitiva, poiché gli affreschi (e questa ne è la riprova) sono stati dipinti per un osservatore in movimento che, partito dall’antico presbiterio e percorsa tutta la lunghezza dei muri perimetrali, avrebbe compiuto il suo viaggio fisico e spirituale ritrovandosi infine al punto di partenza, cioè dal Creatore al Creatore.

La parete presenta lacune assai estese. Gli affreschi della zona posta tra lo spigolo di controfacciata e il portale laterale sono andati quasi totalmente distrutti fatti salvi alcuni brani del registro inferiore (figura femminile mutila vestita di giallo, che tiene il manto con la destra ed è volta verso l’abside; figura maschile di cui resta una mano uscente da una manica e reggente forse un bastone a due rocchelli). Nel registro superiore (dopo un’ampia lacuna) sono rappresentati i più noti santi francescani.

Chiara (1193/94-1253) canonizzata nel 1255, figura che, a differenza delle altre, indossa sulla tonaca mantello e soprattutto calzari, per cui si può pensare alla fondatrice dell’Ordine delle Clarisse. La sua vicenda terrena inizia quando, nata da nobile famiglia, appena quattordicenne abbandona status e ricchezze per seguire gli ideali di povertà predicati da Francesco, poi seguita alla sorella Agnese. Non risparmiò il suo corpo da sofferenze fisiche ricercate (cilicio, la nuda terra per giaciglio, digiuni) che mitigò appena su ordine esplicito dello stesso Francesco. Il miracolo più noto e rappresentato è la fuga dei Saraceni che al servizio di Federico II assediavano nel 1243 Assisi, messi in fuga alla vista della Santa, ormai gravemente malata, apparsa fuori dalle mura del

convento con in mano la pisside contenente l’ostia consacrata, oggetto che insieme al giglio e al libro della Regola è diventato uno dei suoi attributi. Antonio di Padova (1190/95-1231, canonizzato nel 1232) veste un ampio e comodo saio ma è scalzo, regge tra le mani il libro dei suoi sermoni sulla Vergine (altri attributi come il ramo di gigli e il Bambino entro una gloria di luce compaiono nell’iconografia solo dopo la metà del Quattrocento). Nato a Lisbona da nobile famiglia, entrò a quindici anni nell’Ordine dei Canonici Regolari di Sant’Agostino, nel 1219 venne ordinato sacerdote e l’anno successivo chiese e ottenne di entrare nell’Ordine dei Minori; dopo un lungo peregrinare dal Marocco alla Sicilia, ad Assisi incontrò San Francesco nel 1221. Nell’Italia settentrionale, in Emilia Romagna in particolare, dopo un’esperienza eremitica, prese a predicare, un’arte in cui eccelse anche per il coraggio dimostrato nell’affrontare gli eretici sulle pubbliche piazze, mostrandosi particolamente attivo in questa lotta che minacciava gravemente la Chiesa in Italia e Francia (Catari, Albigesi, Patarini). Uomo di immensa cultura, pose le basi della Scuola teologica francescana ed insegnò a lungo nelle università francesi. Nel 1229 fece ritorno a Padova dove aveva soggiornato altre volte e dove, malato da tempo di idropisia, morì nel 1231. Numerosi i miracoli attribuitigli in vita e rappresentati nell’arte (in particolare quello della mula che si prostra di fronte all’ostia consacrata, convertendo un ebreo) ma soprattutto quelli post mortem della guarigione di ciechi sordi paralitici e persino due resurrezioni.

Ludovico di Tolosa (1274-1297; canonizzato nel 1317), anch’egli con saio e privo di calzari, individuabile con sicurezza per la presenza di una corona regale ai suoi piedi, sottolineatura della virtù francescana dell’umiltà [nel 1296 aveva rinunciato al trono di Napoli a favore del fratello Roberto]: alle sue spalle il seminato di gigli dorati degli Angioini dipinti su fondo azzurro (forse lapislazzuli). Nato probabilmente a Nocera Inferiore da Carlo II d’Angiò e Maria d’Ungheria, si era avvicinato ai Minori grazie ai suoi precettori francescani che lo misero in contatto con Pietro di Giovanni Olivi durante il soggiorno in Catalogna (1288-95), dove insieme ai fratelli era trattenuto in ostaggio al posto del padre, fatto prigioniero dagli Aragonesi. Di sentimenti pauperistici e dunque

vicino alla fazione francescana degli Spirituali, prese gli ordini sacerdotali nel 1296 e riuscì ad entrare nell’Ordine dei Minori (condizione da lui posta per accettare la mitra vescovile): Bonifacio VIII lo investì dopo pochi giorni dell’episcopato di Tolosa, una diocesi che resse per soli sei mesi. Durante il viaggio a Roma, intrapreso con l’intenzione di deporre la carica a lui sgradita di presule, morì di stenti a Brignoles (Provenza) nel 1297 a soli ventitré anni. Rari sono i cicli pittorici raffiguranti questo Santo, che appare in genere, come qui a Bosa, in chiese francescane all’interno dei loro santorali.

Segue il quadro raffigurante le Stimmate di San Francesco, episodio avvenuto nel 1224. Sebbene l’insieme sia ridotto in condizioni tragiche di conservazione, è ancora leggibile la figura del Santo inginocchiato, vestito di un saio che appare di un tenue colore marrone. Francesco è rappresentato nell’atto di ricevere i raggi dolorosi lanciati dal Cristo-Serafino ormai scomparso verso il suo povero corpo macerato da digiuni e privazioni (le traiettorie luminose sono diventate discontinue). Il pittore coglie Francesco nel momento del mistico abbandono, entrambe le ginocchia a terra secondo un modulo ancora duecentesco specie nella miniatura; il piede destro avanza e poggia su una delle mensole nel tentativo di proporre una profondità spaziale. La testa, circondata da un’aureola dorata, è caratterizzata dalla presenza dell’ampia chierica; il viso estatico, stravolto, sembra guardare verso l’osservatore. Le mani sono levate all’altezza del petto e mostrano le palme al Serafino come in Giotto e Pietro Lorenzetti; i piedi calzati con sandali (in realtà la Regola originaria dettata da Francesco prevedeva che i frati camminassero a piedi nudi) portano impressi i segni neri delle stimmate. Sullo sfondo si intravedono i resti di un edificio, cui si accedeva tramite una breve scalinata, caratterizzato da una muratura di conci a filari alternati, evidenziati con un disegno essenziale che richiama gli schematismi di tante tavole duecentesche; a sinistra è collocata la roccia alludente al monte della Verna dove avvenne il prodigio, ma a destra, dove in genere siede la figura di frate Leone, intento alla lettura del Vangelo ed in veste di testimone necessario per confermare l’autenticità del miracolo, non riusciamo a distinguere più nulla.

Oltre il quadro delle ‘Stimmate’, dopo un’ampia lacuna, sopravvivono i resti di tre personaggi, di cui quello centrale è un prelato mentre gli altri non sono più identificabili. Nel registro inferiore, una nicchia è stata ricavata dalla occlusione di una monofora, fatto questo che ne attesta l’esistenza anteriormente all’opera di affrescatura tenuto conto che le scene vicine non ne sono state danneggiate. È interamente coperta da una puntinatura rossa su fondo bianco a testimoniare l’intenzione di alludere a un qualche materiale pregiato di rivestimento. Al di sopra è stata dipinta una sorta di lacunare in prospettiva assonometrica: un abile gioco di luci e ombre ne rivela la profondità come se la fonte luminosa provenisse dall’apertura di facciata. Ai limiti della parete medievale sono posti una finta nicchia rettangolare verticale a fondo verde imitante il marmo, riquadrata dal consueto fregio ondulato che ritroviamo con frequenza nell’arte miniatoria, ed un vero repositorio per oggetti liturgici di forma quadrangolare con resti anche qui della decorazione puntinata rossa.

La parte superstite del tendaggio dello zoccolo presenta un disegno a pelli di vaio. I documenti miniati testimoniano ampiamente l’uso di drappi/arazzi caratterizzati da tale motivo disposti sulle pareti delle stanze, a fungere da cortina per i letti oppure usati come coperte, tappeti o rivestimento di sedie e mobili (vedi, ad esempio, Assisi, braccio sinistro del transetto della chiesa inferiore, Pietro Lorenzetti, circa 1319: panca ricoperta da un drappo di vaio). Dopo la demolizione per molti versi imperdonabile del sedile perimetrale medievale come mostrano i lacerti in vecchie fotografie del motivo a pelli di vaio (a destra entrando: vedi foto in Mastino cit. 1991, ed anche 1981in volume miscellaneo a cura di S. Spanu cit.) sono apparsi nella parte bassa della stessa parete ampi resti della palea a fasce giallo-rosse (quelle che abbiamo trovato nella parete di fronte). Di conseguenza si dovrà pensare ad un intervento successivo dovuto forse a Mariano IV, che in guerra aperta con i Catalano-Aragonesi a partire dal 1353, eliminò i pali catalani dallo stemma del regno. La presenza di una sorta di arboscello in questo punto della parete sinistra, interpretato come stemma degli Arborea, è il risultato di una forzatura di restauro, che non ha tenuto neppure conto della forma dello scudo gotico adottato in quel tempo per gli emblemi. Posizionato com’è quasi a livello del pavimento, non si trova ad una altezza adeguata rispetto all’occhio dell’osservatore riconfermando così il nonsenso della sua presenza: le figurazioni degli zoccoli, che avevano funzione didascalica e dovevano possedere grandi capacità comunicative, non cominciano mai troppo in basso. Al contrario, su uno strato di intonaco soprapposto dunque posteriore, sono state pressoché cancellate tracce, poste più in alto, della raffigurazione di un babbuino con gambe e piedi umani, come la troviamo in miniature trecentesche (Londra, British Library). La scimmia era simbolo del demonio o del peccatore: ricordiamo che negli zoccoli venivano spesso raffigurati Vizi e Virtù. Nel registro inferiore, dovremo ora esaminare con attenzione i due riquadri raffiguranti l’‘Incontro dei tre vivi e dei tre morti’ e il ‘Martirio di San Lorenzo’.

La presenza del primo è legata strettamente al tema conduttore del ciclo e cioè l’ammonimento per una buona morte, che ricorreva costantemente nelle prediche dei Minoriti, insieme all’invito a riflettere sulla vanità dell’esistenza terrena e sulla ‘democraticità’ di sorella morte, che non risparmiava neppure i re. Il sentimento del macabro apparve nell’arte cristiana dell’Occidente nel corso del XIII secolo quando lo sviluppo economico favorì uno stile di vita laicamente lussuoso, contrastato invano dalla predicazione dei Mendicanti: come sempre, il tema della morte si diffonde quando si fa maggiore la sicurezza sociale, mentre in tempi di crisi si ha la rimozione del problema. La sua prima traduzione pittorica fu l’Incontro dei tre vivi e dei tre morti. Alberto Tenenti (1986) ritiene che un sentimento di lacerazione tra abbandono fiducioso in Dio e attaccamento al mondo si affacci alle coscienze con maggiore chiarezza nella prima metà del Trecento, anteriormente comunque allo scatenarsi della Peste Nera (1347-50; anno di peste fu anche il 1340) che, proveniente dalle pianure dell’Asia centrale, ricomparve in Europa dopo un millennio di latenza (cioè dopo quella del 542 detta di Giustiniano) e si ripeterà altre due volte nel secolo. La pandemia, che si diffuse a partire dalle città portuali, falcidiò forse il cinquanta per cento della popolazione europea ed ebbe, come effetto posttraumatico, una scontata svolta psicologica verso la lussuria e l’amore per la vita. La morte era sino ad allora la francescana ‘sora nostra morte corporale’ o, per un poeta, il ‘soave e dolce mio riposo’ (Dante, ‘Vita Nuova’, 1292-93). Ma già Jacopone da Todi (†1306) parlava di ‘dura morte’, mentre le laudi delle confraternite italiane avevano evocato spesso la ‘solitudine del cadavere, preda dei vermi nel buio della fossa’. Con Francesco Petrarca l’atteggiamento dell’uomo nei confronti della vita cambia: quanto più la morte disvela agli esseri viventi la fugacità dei beni terreni vanificando così ansie e ambizioni (‘L’Africa. Morte di Magone’, iniz. 1338 circa: ‘Morte, la più bella delle cose, tu [...] sgombri i sogni in che è scorsa la vita’), tanto più l’attaccamento ad essi si farà straziante. L’iconografia dell’‘Incontro’ o ‘Contrasto’ appare verso la metà del Duecento, un tempo in cui sicuramente la paura della morte si andava facendo più concreta e lo stesso Francesco, pur incitando a non temerla, non aveva potuto evitare di definirla inquietante. Il tema si ripeterà per più di un secolo (con qualche eco tardiva ancora nel Quattrocento), segno che il suo impatto psicologico su committente, pittore e fruitori era ancora notevole. Se nella raffigurazione di Atri (1240-50) cogliamo una sorta di superstizioso terrore, a un secolo di distanza (1336-41) nella stessa scena, strutturata secondo gli schemi tipici del teatro religioso medievale a luoghi deputati (le voci degli attori sostituite dai cartigli), del Camposanto di Pisa avvertiamo qualcosa di blasfemo (non solo ironia come è stato scritto) o comunque il rifiuto di soffermarsi a riflettere sulla drammaticità dell’evento: in una città borghese come Pisa anche la morte sembra essersi laicizzata. A Bosa invece, come cercheremo di dimostrare, una pena malinconica traspare nell’attenzione insistita con cui il pittore tratteggia i volti dei giovani defunti sottolineandone la bellezza fragile e vana, segno che il tema, proposto forse come meccanica ripetizione dall’iconografo francescano, conservava intatta la valenza di incontro individuale con la morte fisica. Come ebbe a scrivere Georges Duby (1977), la morte è ormai diventata un evento privato e la rinuncia alla terra sempre più difficile: ‘il mondo è pieno di delizie, e lo scandalo è venirne strappati’. Secondo Jurgis Baltrušaitis (1973) la leggenda, popolarissima in Occidente, avrebbe origini orientali (ricalcherebbe esperienze del Buddha) e potrebbe essere stata introdotta in Europa proprio dai

Minoriti, che avevano loro missioni a Pechino e, a parere del Bologna, a cominciare dalle terre federiciane, da cui poi sulle orme degli stessi frati si sarebbe diffusa in molte regioni italiane. In realtà, pur senza negare la possibile trasmigrazione di temi e simboli orientali, l’Occidente medievale possedeva già una sua radicata tradizione ascetica sul tema doloroso ma non disperato del memento mori e della corruzione del corpo. La predicazione dei Mendicanti ne aveva rafforzato la pregnanza di segno della inesorabilità del tempo e, pur indirizzando verso la speranza della vita eterna, non era riuscita tuttavia a sradicare il laico, umanissimo, desiderio di vivere hic et nunc. Del racconto sotto il profilo letterario e pittorico si occupò con grande acutezza sin dal 1950 Liliane Guerry riconoscendo che la prima apparizione del tema è pittorica e non letteraria, in contrasto con quanto affermerà poi Chiara Frugoni (1967). In realtà sembra possibile a nostro avviso pensare ad un interscambio tra discipline artistiche negli stessi anni e sugli stessi temi. Tralasciando le testimonianze pittoriche esistenti fuori del nostro paese (per le quali si rimanda allo studio della Guerry), sembra che il più precoce esempio italiano sia quello della cattedrale di Atri (1240-50), un affresco risarcito in antico almeno due volte, opera di un pittore meridionale francesizzante (Francesco Aceto, 1998). Due scheletri si presentano in posizione eretta ed un terzo è deposto in un sepolcro ad arcosolio (ne restano solo tracce). A seguire ricordiamo la rappresentazione di Melfi (cripta di Santa Margherita) datata al 1290 circa, e l’affresco lacunoso del chiostro dell’abbazia di Vezzolano, collocabile negli stessi anni [sono rimasti solo i cavalieri spaventati e la scritta soprastante O res orida, res orida et stupenda]. Il tema è presente anche nel San Paolo a Poggio Mirteto (inizi XIV secolo), nel San Flaviano a Montefiascone (inizi XIV secolo; molto danneggiato a causa di modifiche architettoniche quattrocentesche: San Macario regge il cartiglio: Pensate quod estis et quod non vitare podestis), nel Broletto di Como (1320-24: un solo giovane, abbigliato grosso modo come i cacciatori bosani, ed uno scheletro in piedi con il cartiglio: Ego fui talis sicut tu. Et tu debes venire sicut ego), nel Sacro Speco di Subiaco (1335 circa), ancora a Vezzolano (1354 circa), a Cremona nella sacrestia di San Luca (secolo XIV), a Lucignano (Arezzo) attribuito a Bartolo di Fredi, verso il 1370. Il più noto si trova nel Camposanto di Pisa (1336-41), parte del più ampio affresco, di committenza arcivescovile e consulenza domenicana, raffigurante il ‘Trionfo della Morte’ attribuito a Buffalmacco (alias ‘Primo Maestro del Trionfo’: l’ipotesi critica della presenza di due diversi pittori al Camposanto pisano viene qui trascurata per oggettive necessità di semplificazione, ma sull’argomento si rimanda ad ogni buon conto al testo della Testi Cristiani). Rare le rappresentazioni del tema su tavola: ricordiamo Bernardo Daddi, ‘Leggenda dei tre vivi e dei tre morti’, ca. 1340 (predella del dittico della ‘Crocifissione’; Firenze, Gallerie dell’Accademia), e soprattutto di Ambrogio Lorenzetti l’‘Allegoria del Peccato e della Redenzione’, post 1343 (Siena, Pinacoteca Nazionale), mentre numerose furono le apparizioni nella miniatura, per le quali rimandiamo allo studio della Frugoni (1967). L’Incontro nelle opere sopra ricordate presenta varianti come il numero degli scheletri o dei cacciatori; la posizione distesa (‘tipo italiano’) o verticale (‘tipo francese’, cioè dei morti ‘viventi’ rappresentati cioè nell’atto di dialogare con i vivi); l’essere appiedati o a cavallo dei cacciatori, l’indicazione della loro condizione sociale. L’iconografia si amplia, negli affreschi italiani, con l’apparizione di un monaco individuato tradizionalmente con San Macario, eremita egiziano discepolo di Sant’Antonio abate, che sarebbe vissuto nel IV secolo dimorando per autopunizione dei propri peccati nel deserto della Tebaide. Il suo ruolo è quello di spiegare ai vivi il significato

morale dell’apparizione, come faceva lo storico nei drammi liturgici. Lo troviamo già ad Atri, ridotto a una figuretta a mezzo busto vagolante nell’aria; non compare a Melfi, ma è presente a Vezzolano, Montefiascone e via via a Pisa e qui a Bosa. L’affresco sardo si pone iconograficamente tra quelli più canonici del repertorio figurativo italiano. Se una prova andavamo cercando che il nostro pittore non si è educato in Catalogna è proprio qui che la troveremo, nell’assenza di ‘loquacità narrativa’, nella lentezza del raccontare che caratterizza i dipinti bosani: come scrive l’Oursel, discrezione e riserbo non sono tratti tipici dell’appassionato temperamento spagnolo.

Su un fondo oggi di colore verde malachite, sono raffigurati tre nobiluomini intenti alla caccia, appiedati e vestiti secondo una moda che si deve considerare adottata non oltre gli anni Trenta/Quaranta del XIV secolo. Per quanto ci è consentito di vedere dato il cattivo stato di conservazione di parte dell’affresco, i cavalieri indossano una sottana a maniche strette e lunghe fin quasi ai polsi bordati di giallo [si veda quanto resta del braccio destro dell’ultimo dei tre, dove s i ripete il motivo dei frutti a grappolo che abbiamo trovato sugli abiti delle Sante in processione]: questa sottana termina a giro di collo ed è arricchita da un’alta pistagna a bordure gialle allacciata con bottoncini. Su di essa, come d’uso, portano una sopravveste a larghe maniche aperta sul davanti a partire dal petto, su cui è poggiato il mantello con soppanno di vaio con collaretto, salvo nel terzo cavaliere che ne è privo. Ad indicare la loro alta posizione sociale (cui alludeva già il vaio) portano corone dorate di forma piuttosto sommaria sulle cuffie a rete tipiche del Trecento, a fermare un giro di capelli robusti e ondulati piegati in dentro a forma di rollo grazie all’aiuto di un calamistro, in modo da lasciare la nuca scoperta. Per questa acconciatura (più diffusa è la variante del rotolo di capelli arricciati verso l’esterno che porta l’imperatore Costantino) si vedano già taluni dei protagonisti della ‘Rinuncia agli averi’ nella basilica superiore di Assisi (Giotto, 1296-1300) oppure gli affreschi dipinti forse tra il 1326 e il 1330 da Ambrogio Lorenzetti nelle sala capitolare del San Francesco di Siena, dove nella scena dell’‘Incontro tra Bonifacio VIII e Ludovico di Tolosa’ è riscontrabile la varietà delle acconciature adottate dai laici: dai capelli sciolti sulle spalle alle zazzere piuttosto corte, ai rolli piegati in fuori o in dentro.

Il primo giovane trattiene con la mano elegantemente guantata, a mezzo di geti bianchi, uno stupendo falcone, probabilmente un falco pellegrino con il capo fieramente retrospiciente e tratteggiato realisticamente: si noti il piumaggio bianco a striature nere sul petto dell’uccello attentamente ripreso dal vero. Si confronti il nostro rapace con il falcone che appare nel ‘Buon Governo’ di Ambrogio Lorenzetti (1338-39) o con quello amico di Francesco nella scena delle ‘Stimmate’ di Pietro Lorenzetti ad Assisi (1320 circa): ci torna in mente Buffalmacco, il suo ‘Incontro’ pisano e il bellissimo uccello trattenuto da uno dei falconieri. Annotiamo per inciso che la Sardegna era famosa nel Medioevo per l’allevamento di questi rapaci. Mentre i corpi dei cavalieri sono pressoché frontali, il viso del primo è di profilo; quello del secondo è ripreso in un deciso tre quarti; quasi di fronte quello del terzo. Non esprimono emozioni: il terrore per la macabra apparizione è già rientrato, i visi dei tre gentiluomini si sono ricomposti in una espressione di pensosa meditazione sulle parole dell’eremita. Solo le mani tradiscono il timore passato, ma i cavalieri sanno ormai che si tratta solo di una visione, prefigurazione di uno stato futuro fatale per tutti, e non c’è dunque bisogno né di fuggire, né di turarsi il naso. Ad Atri la paura si è trasformata in una sorta di danza scaramantica, a Pisa sono colti realisticamente i gesti di sorpresa e di ribrezzo dei cavalieri colpiti dall’odore sgradevole della morte, dunque nel momento di massima tensione e disorientamento quando la riflessione è ancora lontana. Buffalmacco dipinge con gusto disincantato tre cadaveri di potenti della terra o forse, come è stato scritto, scegliendo democraticamente un ricco borghese, una testa coronata e un plebeo. Come nell’‘Ultima Cena’, il frescante bosano si affida al linguaggio delle mani, che formano una sorta di catena rassicurante tra i cavalieri: il primo a proteggere quello seguente, che poggia la sinistra con il consueto pollice alzato sulla spalla del compagno; il più giovane invece intreccia le proprie nel gesto della meditazione. Sono tutti ben rasati ad attestare una datazione non posteriore agli anni Quaranta del secolo, quando i ragazzi inizieranno a farsi crescere la barba in disuso da decenni. Il disegno dei visi è caratterizzato

da pesanti profilature nere (in origine di colore rosso cupo, peraltro previste nei trattati di pittura medievali) che ne accentuano l’espressività: nasi lunghi e segnati da ombre fonde con narici fortemente evidenziate, occhi lanceolati sottolineati da occhiaie scure, sopraccigli ravvicinati e attaccature dei capelli a parrucca sulla fronte senza rughe; le guance sono larghe, gli zigomi non accennati, mentre i menti grassocci e rialzati e le mandibole robuste sono rilevati con un deciso chiaroscuro; i colli appaiono forti ma lunghi anche per la presenza dell’alto bavero a bottoncini.

San Macario è affiancato da un cartiglio a fondo rosso/ocra di contenuto didascalico di difficile

decifrazione sia per le ripetute integrazioni di restauro (non giudicabili nella loro correttezza), sia per lo stato oggettivo di evanescenza di talune lettere (evidentemente in parte tracciate su intonaco quasi asciutto). Queste rivelano tuttavia una relativa sicurezza esecutiva dell’operatore, il quale ovviamente copiava un testo manoscritto fornitogli dall’autore che deve molto alla tradizione letteraria e probabilmente alla scrittura libraria con i derivati segni abbreviativi. Non vediamo più le linee dell’ordinatio, ma sappiamo che potevano essere tracciate con il filo battuto sporcato di polvere e poi cancellate: tuttavia il testo appare discretamente allineato su file parallele. Le lettere sono state dipinte con qualche attenzione all’effetto pittorico, premendo il pennello più o meno forte sull’intonaco in modo da ottenere una certa modulazione del colore (si distingue un solo segno di interpunzione a metà circa del testo). Sulla tavola era certo ricorresse la formula di biblica memoria (Siracide, 38, 23) tipica di questo tema più o meno ampliata: Eritis quod sumus [Sarete ciò che siamo], già presente in volgare nel sarcofago strigilato di Biduino nel Camposanto pisano (Testi Cristiani): i messaggi dei cartigli sono infatti riferiti alle parole recitate dal personaggio dipinto che li affianca. L’eremita, vestito di una tonaca di tessuto greggio (ricordare che nel Medioevo ogni tintura era considerata menzogna) con scapolare scuro munito di cappuccio come i monaci della Tebaide del Camposanto pisano, sta al centro della scena e regge nella sinistra il bastone a forma di Tau, mentre con l’indice dell’altra mano (mani molto grandi: la sinistra è informe) addita ai cacciatori tre sarcofagi in marmo scoperchiati in cui sono deposti i defunti. Mentre il corpo è in posizione frontale, il bel viso da asceta è posto di tre quarti; le spalle sono un po’ spioventi a forma di cupola come quelle di Buffalmacco; la testa è piuttosto piccola, la fronte è solcata da rughe non realistiche, solo pure sigle che tuttavia alludono alla tensione del lungo combattimento spirituale sostenuto dagli eremiti. Un’ombra profonda gli affossa le guance mentre una grossa ruga parte dal naso e si perde tra la barba bianca e lanosa come i capelli: è stempiato come si conviene a un personaggio di alto pensiero. L’orecchio visibile appare sproporzionato rispetto alle dimensioni del volto; il collo forte è segnato da pieghe appena accennate. L’immagine è quella del saggio che ha conquistato l’autorità morale necessaria per indicare ai suoi simili la via della salvezza eterna nel pentimento e nella penitenza. È vero che è passato all’incirca un secolo da quando ad Atri veniva raffigurato come un sorta di mostricciattolo minaccioso, ma anni luce separano quella sensibilità ancora pienamente medievale dal sentimento moderno del vivere e del morire che si affaccia qui a Bosa anche attraverso la figura pensosa di questo eremita. Notiamo ancora che, almeno in questo ciclo francescano, la presenza di Macario si caricherebbe di un ulteriore significato nel senso che si potrebbe vedere in lui un alter ego del Santo di Assisi in quanto, racconta la leggenda, anche il monaco egiziano sarebbe stato trasportato su una montagna da un cherubino che gli avrebbe predetto una crocifissione ascetica (Chiara Frugoni, 1993).

I tre cadaveri giacenti sono stati rappresentati nei diversi stadi della decomposizione dopo la morte. Il primo defunto (in alto) è verosimilmente sceso nel sepolcro da poco tempo: coperto da un abito color vinaccia molto aderente, indossa guanti bianchi (come già detto simbolo di alto status sociale) sulle mani incrociate e abbandonate, segnale della morte, eleganti calzari con speroni ed ha al fianco la spada dal fodero ageminato; due giri di riccioli sono ancora intatti e la cuffia slacciata è fermata da una corona. La bella testa, segnata da una espressione di insofferenza per la propria condizione, dove una bocca piccola, carnosa, femminea rimanda a certe immagini di sante di Memmo di Filippuccio o di Pietro Lorenzetti, è irrimediabilmente abbandonata su un cuscino frangiato a disegni con fiori quadripetali bianchi. Sono disegni di modello miniaturistico, realizzati a mezzo di stampini, identici a quelli della tovaglia stesa sul tavolo delle ‘Nozze di Cana’ nella Maestà di Duccio (130811). Soprattutto sono ancora gli stessi che decorano la stoffa che ricopre il lungo sedile su cui siedono la figura senile simboleggiante il Comune di Siena e le Virtù nell’affresco del ‘Buon Governo’ di Ambrogio Lorenzetti (1338-39). Altri esempi potrebbero proporsi (piemontesi, lombardi, riminesi) che tuttavia finirebbero per attestare semplicemente un fiorente commercio di tessuti toscani in quest’arco di tempo. Sappiamo bene che pittori quali Duccio, i Lorenzetti o Simone Martini disegnavano modelli per la decorazione di stoffe, oltre a riprodurli nei loro dipinti.

Da questa prima bara esce un lungo serpente che divora le viscere del secondo defunto seminudo (ma porta ancora i guanti), che si trova nello stadio intermedio di decomposizione. È aggredito agli occhi da un altro rettile, mentre un topo è poggiato sulla sua gamba destra. Il topo è un essere ctonio, dunque in contatto col sacro e simboleggia in qualche caso l’anima che fugge non vista come lo spirito vitale dell’uomo quando muore. Il cadavere, che ha piedi delicati come quelli di un angelo di Duccio (cfr. la ‘Madonna Rucellai’), porta ancora la corona, la cuffia e i guanti, ma l’espressione del viso si è fatta più sofferente, le palpebre più pesanti; i capelli sono tutti spettinati come quelli dei dannati nel girone dei pigri e degli accidiosi nell’Inferno del ‘Trionfo della Morte’ a Pisa o quelli dei naufraghi salvati dalle acque della Garonna da San Domenico nel polittico di Francesco Traini (1344-45): anche il cuscino ha perso la frangia e i suoi eleganti disegni. È questa, a nostro avviso, l’immagine più bella in assoluto dell’intero ciclo. Il terzo defunto è ormai uno scheletro, la testa leggermente quasi malinconicamente ripiegata, le braccia conserte nella positura della disperazione assoluta, i piedi divaricati, vermi e serpi scavano ancora le sue ossa alla ricerca di nutrimento; le giunture degli arti hanno qualcosa di meccanico come quelle di una marionetta senza fili. Esaminiamo ora il paesaggio che fa da sfondo alla scena. Asse centrale della composizione è un albero con vistose potature nel tronco (come quello di San Cristoforo o quello del riquadro raffigurante il salvataggio dei tre innocenti da parte di San Nicola nella pala d’altare di Ottana) ed una chioma a foglie d’edera, allusione all’eternità e dunque alla morte, di una forma circolare che un rampicante molto difficilmente può assumere in natura anche tra le mani del più abile dei giardinieri. Arbusti a piccole bacche rosse (peraltro assai comuni nella pittura pisana dei primi decenni del Trecento), alludenti spesso al sacrificio di Cristo, e un ramo gigliato coprono interamente il fondale, che in questa zona è di colore blu: nessuna esplorazione dello spazio viene annunciata, né curiosità naturalistiche in senso lombardo. Non meriterebbero forse più di un cenno ai modi della miniatura da cui derivano se non fosse per il fatto che queste essenze arboree crescono direttamente nel primo sarcofago in alto e dunque riteniamo abbiano un valore simbolico. Gli arboscelli carichi di frutti

rossi potrebbero essere cornioli, arbusti sin dall’antichità legati al tema della morte e dell’immortalità [Virgilio, Eneide, XI, ‘Funerali di Pallante’, vv. 64-65]. Anche il giglio, solitamente accostato alla purezza, in realtà è (come detto sopra) uno dei fiori che indicano l’Aldilà e non casualmente il deserto della Tebaide del Camposanto pisano ne è disseminato. Un certo gusto dell’arazzo ha portato il nostro pittore a chiudere la scena sopra i tre cadaveri con una fitta distesa di fronde. Indubbiamente egli ha voluto rappresentare un paesaggio simbolico, i cui referenti stilistici si ritroveranno agevolmente in alcuni brani delle ‘Storie dei Santi Padri’ del Camposanto pisano come l’‘Apparizione di Cristo a Sant’Antonio abate’ o in quell’albero posto, come a Bosa, a dividere in due parti l’episodio di ‘Sant’Ilarione e il drago’ che, nonostante i rifacimenti seicenteschi, conserva comunque lo schema compositivo originario. In generale nel Medioevo quando la natura veniva rappresentata in tutta la sua bellezza alludeva quasi sempre al piacere dei sensi, come in letteratura il ‘giardino dilettevole’ del Boccaccio o in pittura il verziere dell’affresco pisano del ‘Trionfo della Morte’, cui altrettanto bene si può rimandare per il confronto con il nostro fondale vegetale anche perché la tecnica usata nel rappresentare i particolari del fogliame ricorda quella lenta e meticolosa di un illustratore di codici. Poiché il tema del ciclo bosano è quello dell’invito al pentimento e alla penitenza, crediamo non possa essere disconosciuto il valore simbolico di questa vegetazione disabitata che ignora il puro godimento delle apparenze: proprio l’assenza dei suoi ospiti naturali, gli uccelli, finisce per porre l’accento sull’aspetto allegorico del testo, così come del resto a Pisa il verziere dei gaudenti dentro il quale volano solo putti reggenti fiaccole abbassate, simbolo di lutto. Ci sembra di cogliere qui a Bosa, rispetto ad opere raffiguranti lo stesso tema, un senso più struggente della vanità dell’esistenza; uno sconforto incurabile in quelle teste reclinate e in quei visi ammaccati ancora troppo legati alla terra. Crediamo di individuare in questa composizione un senso ufficiale (dunque eterodiretto), cioè il Memento mori certamente oggetto dei sermoni dell’iconografo francescano che ha progettato la scena, e un senso nascosto (introdiretto), quello del pittore che in queste bare ha sepolto i doni più fragili che la natura offra all’uomo, la giovinezza e la bellezza.

Rimane da esaminare l’affresco del Martirio di San Lorenzo. Ricordiamo che la rappresentazione sulle pareti delle chiese delle più atroci torture inflitte ai cristiani aveva una precisa funzione catartica: il fedele partecipava delle loro stesse sofferenze e acquistava così qualche merito in vista della sua personale salvezza. Il diacono-tesoriere Lorenzo, che la leggenda vuole originario di Huesca in Spagna, visse a Roma nel III secolo e in questa città morì dopo atroci torture nel 258, il 10 agosto, sotto l’imperatore Decio, per non avere voluto rivelare ai carnefici il luogo in cui erano nascosti i tesori della Chiesa, che come primo diacono gli erano stati affidati e che aveva già distribuito ai poveri per volere di papa Sisto II. Carità e umiltà [lava i piedi ai poveri] sono tipiche virtù francescane e Lorenzo le incarna entrambe. Sullo sfondo di un cielo blu tutto stellato, l’imperatore Decio è seduto ‘alla francese’ [gamba sinistra poggiata sul ginocchio di quella destra, posizione che simboleggia la stabilità] su un trono ad altissimi gradini, di cui è rimasto solo il profilo; porta corona cuffia e mantello con collaretto foderato di vaio (ormai li conosciamo bene) ed alza la mano destra guantata per dare ordini ai due carnefici (non vediamo più se la sinistra era poggiata al ginocchio, altro segno di autorità), quello in basso intento ad attizzare il fuoco, quello in alto incaricato di rivoltare il corpo del santo sulla graticola. Lorenzo giace prono sullo strumento di tortura, e (lacune permettendo) sembra torcere orgogliosamente il busto per rivolgere a Decio il suo eroico invito ad essere rigirato perché già perfettamente cotto da una parte. Quel povero corpo abbandonato sullo strumento di tortura, martoriato dalle bruciature che lo avvolgono come un sudario, è realisticamente legato alla graticola da catene: il Santo sta per concludere la sua vicenda terrena, nonostante l’arrivo di un angelo dalle ali multicolori (vere ali di uccello) che si precipita dal cielo (con l’aspersorio o il flabello) per alleviarne il dolore. La scena bosana è stata messa in relazione con l’affresco dipinto nella cripta della chiesa di Santa Margherita a Melfi (1290 circa), dove in realtà i protagonisti (angelo compreso) appaiono scarsamente interessati all’avvenimento. Pur tenendo conto dei decenni trascorsi tra quell’opera e la nostra, non riusciamo a cogliere concrete

assonanze, poiché il dipinto bosano rivela un senso della sofferenza del corpo che denuncia un clima psicologico ormai ben dentro le conquiste umanizzanti del Trecento.

Il cielo stellato dello sfondo non è un vero cielo astronomico: per vederne uno bisognerà aspettare Masaccio, ma non mancano anticipazioni come in Pietro Lorenzetti ad Assisi (basilica inferiore, transetto sinistro: ‘Cattura di Cristo’, 1315-19) dove è stato osservato che la disposizione delle stelle riprende quella effettiva delle costellazioni: un traguardo ad evidenza troppo alto per il nostro pittore, così come l’intuizione delle ombre portate che saranno utilizzate sistematicamente solo nel Quattrocento (Giovanna Ragionieri). Il riferimento più calzante per noi dovrà essere all’arte miniatoria in generale.

L’approdo critico Nel nostro percorso dentro l’iconografia del ciclo affrescato di Bosa sono stati inevitabili (e qualche volta necessari) i riferimenti di carattere stilistico nonostante l’intento difficile di tenere separata l’indagine iconografica e iconologica dal problema critico. Alcuni punti fermi ci sembra si siano quasi automaticamente offerti alla nostra attenzione e non sembrano suscettibili di oscillazioni troppo vistose come la datazione intorno al 1340 e la provenienza toscana del pittore. Le nostre affermazioni sono evidentemente in contrasto con quelle del Bologna e del Leone de Castris, che nel 1984 hanno affrontato il problema dell’attribuzione e datazione del ciclo bosano fissate intorno al 1370. Se non un maestro ben individuato, hanno ritenuto di scorgere un comune cammino artistico che avrebbe visto percorrere le stesse strade in senso fisico e culturale al ‘Maestro di Offida’ e a quello attivo in Sardegna: tra i due è stato addirittura ipotizzato un incontro. Parafrasando il parere dei due illustri studiosi, dovremmo dedurre che, ottant’anni dopo Melfi e un secolo circa dopo Atri, pur trascinandosi dietro un mucchio di scorie di vecchia cultura italomeridionale, il pittore di Bosa mostra di saperla rinnovare e riesce alla fine a produrre un risultato che fa individuare la sua opera come un unicum, in quanto è impossibile trovare esempi di riferimento in Spagna o in Italia. In verità al pittore di Bosa manca in primo luogo l’aggiornamento sui dati di costume e soprattutto quella grazia ‘cortese’ che caratterizzano le opere del frescante marchigiano, collocate tra la fine del 1350 e il 1370 circa. Il viso bello e dolce di San Giacomo e quello affilato dell’imperatore Costantino ci avvertono della propensione a variare sia pure leggermente i moduli fisionomici: anche i volti delle Sante in corteo non sono così simili tra loro come potrebbero apparire ad un primo sguardo. In qualche caso sicuramente lasciano a desiderare sul piano della bellezza, sempre soggettiva s’intende. Ma il tentativo del nostro pittore era quello di fissare un tipo muliebre che potesse incarnare i valori di quelle eroine che per la fede avevano effuso il loro sangue. Sarà sufficiente riandare con la memoria ai visi che si affacciano tra i fregi degli affreschi assisiati di Pietro Lorenzetti, visi che in qualche caso, certo per opera di aiuti non troppo capaci, sono assai poco aggraziati e somigliano in modo impressionante a qualcuno dei nostri: ad esempio quelli rigidamente frontali della Maddalena e di altre figure femminili, così come quello di Salomone, con i loro nasi a narici dilatate che richiamano da vicino la Santa Eulalia sarda. Se poniamo attenzione alla tavolozza cromatica prescelta dal pittore attivo a Bosa, vediamo come le sue preferenze vadano a colori freddi come i verdi, i blu o i viola. Poiché i rossi oggi purtroppo hanno virato verso il colore vinaccia, le apparizioni di rosati o di gialli dorati o aranciati ci colpiscono come scoppi improvvisi di gioia. La prevalenza dei marroni è invece dipendente più che altro dalla presenza di tante tonache monastiche. Potremmo pensare a una scelta legata alla spiritualità francescana che prediligeva colori quieti, sommessi o comunque di timbro basso, intesi quale manifestazione di modestia: e questa è sicuramente una parte di verità. Ma se guardiamo alle opere di Buffalmacco vediamo come anche lui, che certo non era un uomo di penitenza, amasse i rossi bruciati, i verdi carichi, i viola, i bruni: e questa è una scelta estetica, non morale. Se meditiamo sull’opera di Pietro Lorenzetti non può sfuggirci che il suo colorismo segue il sentire interiore, specchio dei turbamenti dell’anima di questo grande senese: dalla vivezza del cromatismo di eredità duccesca passerà, a fasi alterne, alla mestizia della materia quasi povera, francescana.

Dovremo a questo punto interrogarci sulla presenza o meno in Sardegna di una lingua culturale comune, sia pure non autoctona, che consenta di rintracciare un corpus di opere legate al nostro pittore o comunque che ne riflettano lo stile; oppure, al contrario, di cui il suo lavoro sia il riflesso. Intanto ci sia permesso non condividere le affermazioni del Caleca (1983) per cui l’assenza in Sardegna di testimonianze affrescate non sarebbe dovuta a perdite e devastazioni ma ad una povertà originaria, che egli constata anche nelle chiese pisane e lucchesi. Pur guardandoci dal pensare che ogni chiesa medievale abbia potuto essere affrescata, forse una smentita può venire da quanto si va scoprendo nella nostra isola. Oltre agli affreschi tardo paleocristiani e altomedievali conservati nella chiesa rupestre di Sant’Andrea Priu a Bonorva, si consideri ad esempio quella breve fascia di territorio del giudicato di Gallura in cui insistono Galtellì ed Orosei: nel raggio di pochi chilometri esistono pregevoli dipinti murali (rispettivamente quelli dell’ex cattedrale di San Pietro e della chiesa di Sant’Antonio abate), che testimoniano il perdurare di una tradizione di buon livello tecnico nei secoli medievali. Se risaliamo verso Olbia anche nel San Simplicio non mancano resti di pitture murali: lo Spano (che scriveva nell’Ottocento) ricorda che l’abside era interamente affrescata. Ancora tracce si ritrovano a Viddalba e pochi ormai illeggibili lacerti nella Santa Maria di Mesumundu a Siligo (abside del secolo XI). Sulle volte del San Nicola di Trullas a Semestene sopravvive un ciclo di affreschi medievali illustrante temi apocalittici di qualità eccelsa. Testimonianze dipinte incontriamo anche nel San Lorenzo di Silanus. Un affresco trecentesco raffigurante il ‘Battesimo di Cristo’ è stato ritrovato nella chiesa di Santa Maria Iscalas a Cossoine, parte superstite di un ciclo più vasto. Non tralasciamo Saccargia, dove purtroppo pesanti reintegrazioni hanno mascherato le lacune antiche e gravissime del testo originario affrescato nell’abside (fine XII secolo), che già negli anni Trenta era stato dichiarato pressoché perduto. Anche nella chiesa di Santa Maria del Regno ad Ardara si ricordava ancora nell’Ottocento l’esistenza di tracce di dipinti murali romanici sulla fronte dell’arco absidale (forse una ‘Annunciazione’). Alla fine degli Anni Settanta già al primo saggio, individuammo un affresco raffigurante una Majestas Domini nell’abside della chiesa di Santa Maria de Orria Pithinna a Chiaramonti, purtroppo perduta (ne restano fotografie in b/n; se ne occupa ora A. Casula non riuscendo/potendo comunque giustificare l’ultraaventennale abbandono dell’opera che l’ha ridotta a labili tracce). Dipinti murali molto deteriorati sopravvivono nella ex cattedrale di San Pantaleo a Dolianova (fine XIII secolo). E infine nella stessa città di Bosa, all’interno della chiesa di San Giovanni al Cimitero (secoli XIIIXVIII), affiorano resti pittorici di cui resta solo una scena votiva. Considerato tutto ciò, crediamo di non essere lontani dal vero pensando più a grosse perdite che non ad assenze. Tuttavia il confronto più pregnante dovrà farsi con il polittico del San Nicola a Ottana, opera di importazione eseguita su tavola intorno al 1340-44, il cui costo era di gran lunga superiore a quello di un ciclo affrescato. Non possiamo certo affermare che un’opera di tale livello fosse passata inosservata presso la vecchia critica d’arte o quella più recente. Tuttavia solo dopo l’intervento del Bologna nel 1969 le sue alte qualità artistiche si sono imposte nel panorama culturale italiano, per cui nessuna ricerca successiva ha potuto evitare di ricordarla. Lo studioso ha attribuito il polittico ad un anonimo pittore che ha chiamato ‘Maestro delle tempere francescane’, artista di multiformi esperienze attivo tra il 1325 e il 1375 a Napoli e capace di un magico sincretismo tra Giotto, Maso di Banco, ricordi di maestri riminesi e innesti catalani, qualche assonanza con Ambrogio Lorenzetti. Tuttavia non bisogna dimenticare che la resistenza degli Spirituali-Osservanti nel regno di Napoli fu più dura grazie alla protezione dei sovrani angioini e in particolare del fratello della regina il teologo Filippo di Maiorca (†1340 circa), sostenitore della fazione rigorista francescana: in loro si

possono individuare i committenti delle tele francescane di quel pittore. Come sopra detto, la situazione sarda fu meno complessa e di breve durata la dissidenza. Gli interventi critici successivi svariano tra il confermare o negare l’attribuzione del Bologna. È stata sempre nostra convinzione la presenza di almeno due pittori nella realizzazione della pala ottanese: l’uno, autore delle straordinarie figure dello scomparto centrale e forse delle storie di San Francesco, l’altro di quelle di San Nicola, e cioè quella mano lorenzettiana segnalata da tempo da Renata Serra e praticamente negata dal Bologna. Altre convinzioni ci dividono da quest’ultimo, come ad esempio l’affermato carattere estetico-morale della bruttezza santificante: questa osservazione potrebbe forse valere per le scene francescane, ma non può in nessun caso definirsi brutto il Francesco raffinato ed elegante, con quella sua curatissima barbetta alla moda, affiancato al bellissimo San Nicola del pannello mediano. E poi ancora, pare impossibile conciliare il cromatismo luminoso e felice delle architetture dipinte nelle scene ottanesi se confrontato con la severità e la cupezza dei colori usati nei particolari architettonici dal ‘Maestro delle tempere francescane’, che riesce ad essere triste anche quando usa il rosso. A lungo si potrebbe parlare del riferimento proposto al teatro medievale messo in scena ad Ottana per allestire un grande mistero ciclico; o di quel rimando, che ci sembra non sia stato mai rilevato, alle chiese del Nord (si pensi ad esempio al Sant’Andrea di Vercelli) con due campanili francesizzanti a fiancheggiare una facciata a capanna ancora romanica arricchita da un rosone gotico nella scena del ‘Sogno di Innocenzo III’. Ma qui ci fermiamo tornando invece agli eventuali raffronti possibili con gli affreschi bosani. Delle palmari analogie delle stoviglie rappresentate nel polittico ottanese con vassoi, caraffe, coltelli, pani, stoffe affrescati nel ciclo di Bosa abbiamo già detto più sopra ampiamente e non vi torneremo, anche se queste somiglianze per nulla occasionali indicano già di per sé un tempo di esecuzione abbastanza circoscritto. Confronti che invece sarebbero stati importanti con le architetture dipinte di Ottana per sondare le capacità di resa prospettica o meglio assonometrica del nostro pittore, non sono possibili perché il frescante di Bosa sembra avere evitato accuratamente di cimentarsi in una prova forse per lui troppo ardua. I tratti fisionomici delle figure non aiutano perché troppo lontani le une dalle altre. Come nel polittico sardo non riusciamo a cogliere più di tanto il clima di fronda minorita sottolineato dal Bologna, così siamo certi che manchi totalmente nella chiesa del castello di Bosa ogni accento polemico nei confronti dell’autorità costituita, mancanza come già detto testimoniata dalla presenza di una figura invisa agli Spirituali quale l’imperatore Costantino. L’acceso clima religioso che indubbiamente è attestato dalle opere del maestro napoletano è qui stemperato in una malinconica meditazione sulla fragilità dell’esistenza. L’elemento che unisce il polittico di Ottana e il ciclo di Bosa non è il pittore, ma i committenti: per il primo non esistono dubbi (grazie all’iscrizione identificatoria) che si tratti di Mariano IV d’Arborea, quando ancora donnicello ma con qualche speranza di maggiori fortune, si fece ritrarre ai piedi della Madonna insieme al vescovo Silvestro. Il secondo è da individuarsi in Giovanni d’Arborea, signore di Bosa, la cui vicenda terrena fu simile a quella del fratello ma non altrettanto fortunata. I due prìncipi sembrano misurarsi a distanza in munificenza e mecenatismo perseguendo, se non andiamo errati, un piano politico teso alla legittimazione del loro potere attraverso opere di pace capaci di dare prestigio alla dinastia: non dimentichiamo che la produzione artistica era sempre e comunque affermazione di potenza. L’uno commissiona un polittico di dimensioni e qualità probabilmente mai viste sino ad allora in Sardegna; l’altro vuole rinnovare e abbellire il suo bel castello appena

ereditato trasformando una piccola e umile chiesa in una vera e propria cappella gentilizia grazie ad un ciclo di affreschi come forse da molti decenni non si eseguivano più nel giudicato. E per farlo si rivolge a quello che era ancora uno dei cuori pulsanti della pittura del tempo, la Toscana. Certo non possiamo negare che Giovanni ha fatto cadere la sua scelta su un pittore in apparenza conservatore, così come forse era il suo spirito. Ma, se l’autore o gli autori del polittico di Ottana possiedono un livello tecnico più elevato rispetto al pittore di Bosa, alla fine il messaggio più nuovo, più proiettato verso il futuro, viene proprio da quel frescante all’opera nel castello di Giovanni, che tra tanti stilemi arcaizzanti getta il nuovo seme umanistico teso alla riabilitazione dei valori dell’esistenza terrena. Ad Ottana la perizia tecnica non nasconde la stanchezza della ripetitività e dell’assuefazione a modelli riproposti troppo a lungo per non avere perso il vigore del messaggio etico ed espressivo insieme. Ad ogni buon conto questa gara al momento incruenta ci ha consegnato due delle più belle opere del Trecento italiano. Dunque toscano, ed uno solo sia pure assistito come è ovvio da aiuti, fu il pittore all’opera nella chiesa del castello di Bosa tra il 1338, anno del ritorno del donnicello Giovanni in Sardegna, e il 1340-45. Ragioni storiche impediscono di indicare una data più bassa, poiché già nel 1346 Giovanni scriveva al re d’Aragona di concedergli il trasferimento in Catalogna perché la sua sicurezza personale non gli sembrava più garantita nell’isola: dunque sembra difficile pensare che in tale stato d’animo per il momento difficile che stava vivendo (culminato con il suo arresto nel 1349) potesse dedicarsi ad operazioni culturali quali l’affrescatura della propria cappella. Toscano allora perché troppi e martellanti sono stati nel nostro excursus i continui ritorni alla cultura artistica di quella regione, al vocabolario pittorico lorenzettiano e a quello di un pittore originalissimo e indipendente come il fiorentino Buffalmacco. Una personalità, quella del pittore di Bosa, del quale possediamo al momento una sola opera per cui è difficile ricostruirne la ‘biografia spirituale’, ma trattandosi di un ciclo di affreschi se non altro questo ci ha consentito di comprendere a pieno la sua capacità di fondere due mondi pittorici, quello senese, sensibile e delicato, e quello fiorentino, realistico e disincantato, dei pittori non allineati: tollerati in patria fino agli anni Venti, poco dopo la loro eterodossia fu irrimediabilmente rifiutata da committenti e fruitori, costringendo i più tenaci alla emigrazione in periferia [Enrico Castelnuovo – Carlo Ginzburg, 1979]. L’assenza assoluta della linea gotica, nervosa e inquieta, e delle sue eleganti calligrafie ci impedisce di inserire il nostro pittore tra i pisani gravitanti intorno alla bottega aperta a Pisa da Simone Martini e dal cognato Lippo Memmi attiva negli anni 1320-30 circa. I suoi referenti sono altri senesi, e cioè Ambrogio e soprattutto Pietro Lorenzetti, i cui lavori assisiati sono, per il nostro, continua e diretta fonte di sollecitazione. Ma è a Pisa che si sono rafforzate le insofferenze verso la cultura giottesca vincente tanto da arrivare ad esprimerne un’altra programmaticamente arcaizzante nel senso suggerito da Giovanni Previtali (1974), cioè una volontà di conservazione e perpetuazione della tradizione ben chiara all’intelletto dell’operatore artistico, scelta che poco o nulla ha a che vedere con arretratezza, arcaismo o inadeguatezza tecnica. Forse in questa volontà di non rinunciare alle proprie proposte legate ai valori della pittura tardoduecentesca si devono cercare le ragioni dello spostarsi del nostro frescante in periferia. Ed è a Bosa che ha potuto esprimere quell’urgenza di meditazione, inevitabile in un uomo forse non più giovane che dell’umanesimo gotico riesce tuttavia ad esprimere uno dei tratti più originali: il risveglio dell’interesse verso l’uomo, quel desiderio troppo a lungo represso di confessarsi deboli e insicuri che rende la sua opera nuova e moderna. Due mondi culturali, il senese e il fiorentino, che finalmente la critica contemporanea ha riavvicinato abbattendo steccati improponibili per le idee (artistiche e non) che hanno sempre viaggiato libere insieme agli artisti e

alle loro opere. Insieme ai riscontri iconografici, che ci sono stati di grande supporto, anche la tirannia della moda ci ha aiutato a rifiutare le datazioni proposte dal Bologna e dal Leone de Castris: dopo il 1345 le mutazioni sarebbero state evidenti anche sul piano figurativo e qui manca ogni indizio di aggiornamento. Infine la storia dell’Ordine dei Francescani in Sardegna attesta intanto l’assenza pressoché totale nell’isola della corrente pauperistica dissidente (comunque pressoché scomparsa a partire dagli anni Venti del secolo), assenza confermata anche dalla iconografia degli affreschi bosani. Il programma figurativo del nostro ciclo forse è comunque venuto da Pisa, città ghibellina per eccellenza ma ormai doma in quegli anni: che a quel mondo culturale facesse riferimento basterebbe a confermarlo la presenza di una santa come Reparata. Nel Medioevo e soprattutto in Sardegna sono quasi la norma le apparizioni improvvise in luoghi decentrati di pittori che sembrano esaurire tutta la loro forza creativa in un unico prodotto (Raymond Oursel). Fenomeno dovuto secondo Giuseppe Sergi alla perdita dell’unità dell’Antichità classica nei secoli altomedievali. Invece secondo Xavier Barral I Altet sarebbe il risultato della non itineranza degli artisti se non all’interno di territori ristretti, almeno in età romanica. Qui a Bosa siamo ormai in piena età gotica, quando lo spostamento delle maestranze sarà assai più diffuso oltre che meglio documentato. Nel nostro caso la storia isolana conferma che ‘perimetro territoriale ristretto’ dovrà considerarsi l’unione di Sardegna e Toscana. Forse il nome di maestro si potrebbe riconoscere al frescante di Bosa: almeno la scena dell’‘Incontro’ è un brano pittorico di ottimo livello artistico. Per di più, considerato che la qualità tecnica dell’affresco è perfetta, si dovrà pur ammettere per il nostro artista un apprendistato/frequentazione di cantieri di non secondaria importanza. Dunque un pittore toscano, forse pisano, chiamato su commissione giudicale che fosse in grado di gareggiare con un’opera in gestazione che si annunciava eccezionale come il polittico di Ottana. Non sappiamo chi abbia vinto agli occhi dei contemporanei questa gara generosa, al momento incruenta, ma la nostra distanza temporale ci permette di apprezzarle entrambe nella loro bellezza e nei loro contenuti etici che, mentre appaiono improntati ad una conservazione inerziale (accettata o subìta che fosse) nelle tavole ottanesi, negli affreschi bosani rispecchiano una sensibilità nuova. È soprattutto questa ad esserci vicina con il suo malinconico e laico messaggio di caducità e morte: qui forse sta la sua maggiore modernità. Modernità che, se non è un valore in assoluto, è pur sempre il mezzo privilegiato e infallibile per metterci in contatto con il nostro passato.

Glossario Abside, struttura architettonica di forma semicilindrica coperta da volta pari a un quarto di sfera (anche catino o calotta). Affresco, tecnica pittorica consistente nella stesura su intonaco fresco di pigmenti stemperati in acqua. Sfrutta il processo chimico della carbonatazione che si istituisce tra colore e superficie a calce e che fissa il colore. Non consente correzioni né permette di apprezzare immeditamente il tono dei colori, percepibile solo a completa asciugatura dell’intonaco. Il supporto è costituito da due strati principali: arriccio (grossolano) e tonachino (fine). Alcune parti dell’opera possono essere eseguite a secco e a tempera, qualche volta anche olio. Il periodo ideale per realizzare un affresco va da aprile a ottobre. Agiografia, studio di testi letterari contenenti le storie delle vite dei santi. Azzurrite, minerale naturale a base di carbonato basico di rame, presente in Sardegna. Macinato finemente è di colore azzurro-turchino, ma tende a trasformarsi in verde (malachite) in presenza di cloro: nella pittura murale, a causa dell’umidità e della alcalinità degli strati preparatori, può virare al bruno. Al fine di risparmiare sui costi si stendeva su una preparazione grigio-celeste, rosso scuro e più frequentemente nera, che assai spesso è quanto rimane a testimoniare la presenza dell’azzurrite. Bordone, robusto bastone in legno a due rocchetti con punta di metallo e munito in alto di un gancio per appendervi la zucca o la borraccia dell’acqua: i pellegrini lo chiamavano ‘il nostro mulo’, poiché il termine viene dal latino burdo. Era di aiuto durante il loro faticoso cammino, ma anche strumento di difesa contro animali selvatici e banditi. Bulinatura, lavoro di incisione eseguito a mano con il bulino su metalli, pelli, fondo oro delle tavole dipinte. Calamistro, strumento per arricciare i capelli a due bracci metallici. Cartone, disegno preparatorio usato per trasferire su muro/tavola il progetto dell’opera. Confessore, dal IV secolo d.C. il santo che non ha subito il martirio. Cotta, sopravveste di seta o altro tessuto (detta anche ‘cotta d’arme’) senza maniche lunga fino alle ginocchia, che i cavalieri portavano sopra l’armatura. Dèesis, preghiera/intercessione, raffigurazione del Cristo giudice affiancato da San Giovanni Battista e dalla Madonna, in veste di intercessori. Donnicello (da dominus), principe, titolo spettante a figli o fratelli di giudici. Eculeo, antico strumento di tortura costituito da un cavalletto con cui le membra venivano tirate in direzioni opposte e così disarticolate.

Geto, pastoia per uccelli rapaci, applicata per controllarne i movimenti. Giudicato (anche rennu, logu), entità statale sovrana affermatasi in Sardegna per evoluzione degli istituti amministrativi/militari bizantini, forse già in età altomedievale, con certezza documentaria dall’XI secolo. Iconografia, individuazione e descrizione delle immagini. Iconologia, interpretazione delle immagini. Lapislazzuli, pietra semipreziosa proveniente dell’Afghanistan di colore azzurro intenso: macinata, veniva usata in ogni genere di pittura generalmente su preparazione di fondo nera. Era pressoché indistruttibile. Lumeggiatura, tecnica pittorica che, attraverso sottili filamenti dorati, vuole rendere l’effetto di luce in un panneggio. Muratura a sacco, si realizzava quando tra due cortine di conci in pietra o altro materiale si riempiva l’intercapedine con un conglomerato costituito da calcestruzzo in pietrame, resti di lavorazione e malta. Nimbo, disco luminoso, entrato nell’iconografia cristiana a partire dal III secolo, ad indicare la sacralità del personaggio rappresentato. Magi, sacerdoti giunti dall’Oriente per rendere omaggio al neonato re dei Giudei. L’evangelista Matteo, l’unico a raccontare l’episodio (2,1 ss), li qualificò come ‘persone pie, degne di stima e venerazione’. Il numero di tre è stato proposto per la prima volta nel III secolo d.C., così come l’affermazione della loro regalità, ma l’iconografia se ne impadronirà solo a partire dall’XI secolo. Palea, arazzo che copriva le mura dei castelli. Pallio, striscia circolare di lana bianca, ornata di sei crocette e frange nere, che nella liturgia cristiana è riservata ai papi e agli archivescovi metropoliti. Pètaso, cappello a larghe tese legato sotto il mento che serviva a proteggere il viandante dalla pioggia e dal sole: nei giorni di buon tempo, veniva lasciato pendere dietro le spalle. Pettine di Galizia, conchiglia a grosse striature disposte raggiera, che i devoti in visita al santuario di Santiago di Compostela raccoglievano a Finisterre, sull’Oceano Atlantico, e attaccavano in genere al cappello a memoria dell’avvenuto pellegrinaggio: il loro potere miracoloso comprendeva la capacità di allontanare i fulmini e le tempeste. Abili commercianti locali sfruttarono presto tale consuetudine, raccogliendo essi stessi questi molluschi bivalve e vendendoli presso la cattedrale. Già verso la fine del XII secolo furono sostituiti da distintivi in piombo della stessa forma, smerciati dal clero cattedrale. Presto da simbolo iacopeo passò ad indicare per tutti i pellegrini la mani tesa per l’elemosina.

Pianeta, veste liturgica usata dal sacerdote durante la messa. Pisside, coppa con coperchio contenente le ostie consacrate. Pistagna, bavero. Presbiterio, spazio sacro riservato al clero (davanti all’abside). Psicopompo, guida delle anime dei defunti. Scapolare, sopravveste da lavoro indossata dagli appartenenti ad ordini monastici. Di forma rettangolare, si porta sulle spalle ed è munita di cappuccio. Schiavina, indumento tipico dei pellegrini medievali, detta anche sanrocchino o pellegrina. Tablion, rettangolo di stoffa ricamato che si applicava sulle vesti sacerdotali, angeliche, imperiali, nobiliari in genere a scopo ornamentale. Tau, lettera dell’alfabeto greco: nel nostro caso la croce egiziana simbolo della vita futura, che caratterizza l’iconografia di Sant’Antonio abate. Titulus, iscrizione. Vaio, ventre di scoiattolo siberiano usato (con il pelo rivolto verso l’interno) per ornare e rendere più caldi soprattutto i mantelli. La sua pelliccia, di colore chiaro come quella dell’ermellino, ebbe il momento di massima fortuna nella prima metà del Trecento e caratterizzò il modo di vestire dei nobili come quello dei ricchi borghesi o delle persone che rivestivano alte cariche quali medici e giuristi: è noto che la scelta dell’abito non era libera come oggi, per cui ognuno doveva vestire secondo il proprio grado sociale. Questa moda tramontò nella seconda metà del secolo quando le classi privilegiate cominciarono a preferire pelli di colore più scuro come quelle delle martore o il nero degli zibellini, gusto che trionfò nel Quattrocento, cui si adeguarono subito, ad esempio, il re d’Aragona e quello d’Inghilterra come lo stesso pontefice. Nel secolo successivo le élites individuarono il loro nuovo status symbol non più nelle pellicce ma nelle stoffe di seta (damaschi, velluti, broccati intessuti di metalli preziosi).

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Cronologia dei giudici Di Arborea Il giudicato d’Arborea, posizionato tra il regno di Torres-Logudoro a nord e quello di Cagliari a sud, si rese indipendente dal primo, allora governato dai Lacon-Gunale, a partire dalla metà del Mille circa, quando passò pacificamente alla dinastia dei Lacon-Zori. Nel corso del XII e XIII secolo il trono venne occupato dai Lacon-Serra e poi dai Bas-Serra, prima famiglia non indigena. Trasformata dagli Aragonesi in marchesato di Oristano nel 1410, l’Arborea perderà definitivamente la sua autonomia nel 1478. Mariano I (de Lacon-Zori), not. 1065 Orzocco I (de Lacon-Zori), not. 1070-73 Comita II (de Lacon-Serra), not. 1131 Barisone I (de Lacon-Serra), 1146-1185 Barisone II (de Lacon-Serra), not. 1175-1217 Pietro II (de Bas-Serra), 1221-1241 Mariano II (de Bas-Serra), †1297 Mariano III (de Bas-Serra), 1309-21 Ugone II (de Bas-Serra), 1321-35 Pietro III (de Bas-Serra), 1336-46 Mariano IV (de Bas-Serra), 1346-76 (fratello del donnicello Giovanni) Ugone III (de Bas-Serra), 1376-83 Eleonora (de Bas-Serra), †1402/4, reggente in nome del figlio minorenne Federico e poi di Mariano. Mariano V (de Bas-Serra), 1387-1407 Guglielmo III (visconte di Narbona-Bas), 1409 Leonardo Cubello (marchese di Oristano), 1410-27 Antonio Cubello (marchese di Oristano), 1427-63 Salvatore Cubello (marchese di Oristano), 1463-70 Leonardo Alagòn (marchese di Oristano), 1470-78.

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