Borges e La Cabbala

March 15, 2017 | Author: alnilam19 | Category: N/A
Share Embed Donate


Short Description

Download Borges e La Cabbala...

Description

BORGES E LA CABBALA VIAGGIO INTORNO A LE ROVINE CIRCOLARI

Premessa...............................................................................................3 PARTE PRIMA........................................................................................5 I) Borges e la cultura ebraica ...............................................................6 1) Le fonti di conoscenza dell’ebraismo espressamente dichiarate da J.L. Borges.................................................................................................. 6 2) Linee e prospettive......................................................................... 12 3) Testi considerati............................................................................ 18 II) I temi della mistica ebraica trattati nei “saggi” di Borges............

23

1) Premessa......................................................................................

23

2) La conferenza di Borges al Teatro Coliseum..................................

26

3) “Una rivendicazione della cabala”................................................

33

4) La relazione sull’intervista rilasciata da Borges a J. Alazraki .......

55

III) Il golem.....................................................................................

64

1) La leggenda .................................................................................. 64 2) Un altro modo di sognare.............................................................. 70 PARTE SECONDA ............................................................................... 85 IV) La creazione nella letteratura fantastica di Borges: Le rovine circolari............................................................................. . 86 1) L’epigrafe...................................................................................... 86 2) L’incipit......................................................................................... 92 3) Lo scenario mistico...................................................................... 104 4) Lo scacco e il nuovo modo di sognare.......................................... 122 5) La creazione................................................................................. 149 6) La fine del sogno.......................................................................... 164 6.1) Premessa.................................................................................. 164 6.2)La circolarità............................................................................. 166 6.3) Dio e l’uomo.............................................................................. 174

1

6.4) Come un’ombra.........................................................................184 V) Considerazioni conclusive............................................................189 1) L’eternità in una passeggiata e in una madeleine........................ 189 2) Una delle conclusioni possibili..................................................... 197 3) Il percorso compiuto............................. ......................................212 BIBLIOGRAFIA................................................................................. 231

2

PREMESSA

Il lavoro, diviso in due parti, si apre con una sezione introduttiva, che tratta nelle linee generali alcuni temi condivisi dalla mistica ebraica e da Borges. Seguono il racconto di alcuni “saggi”1 borgesiani e un cenno a relazioni interviste conferenze, in cui è la Cabbala al proscenio. L’apparato informativo, che non ambisce alla completezza ed è frequentemente relegato in nota, è corredato in questa fase da una ricerca su possibili punti d’intersezione, ma soprattutto di rottura, fra l’opera dello scrittore argentino e il pensiero di Scholem conosciuto ma forse frainteso da Borges. Non si omette il contributo di Idel, utilizzato in chiave ermeneutica. Neppure si trascura l’influenza di fonti estranee alla mistica; un capitolo è dedicato al romanzo di Meyrink, Il golem, singolare ricamo di tradizionali temi ebraici lavorato in un tessuto narrativo onirico. Molto spazio (il quarto capitolo della seconda sezione) è riservato alla “contaminazione”, di cui Borges è responsabile, tra mondo sefirotico, così intimamente legato al manifestarsi della divinità creatrice e alla relazione tra microcosmo e macrocosmo nella Cabbala teoretica, e funzione cosmogonica del sogno, tema prevalentemente debitore di altre influenze culturali: proprio il gioco onirico di Dio, non diverso dal sonno che produce i mondi immaginari degli uomini, causa l’involontaria emanazione delle Sephiròt. Questa peculiare, e per certi aspetti arbitraria, impostazione del problema delle origini e della creazione da parte di Borges, ha stimolato, nel secondo capitolo della terza sezione, un’ampia divagazione, che non aspira all’approfondimento, sull’ambiguità del sogno, sulle sue funzioni nella produzione letteraria, sui suoi rapporti con la cosiddetta realtà della veglia; non si è persa di vista peraltro la dimensione mistica che connota il canale onirico nella Cabbala. Digressione solo apparente, tuttavia, perché la seconda, più ampia parte del lavoro, preparata dalla prima, sviluppa l’analisi testuale del racconto borgesiano Le rovine circolari. In uno scenario onirico, che nel finale sprofonda in una circolarità abissale, la narrazione sviluppa, lasciando aperto l’interrogativo sull’Origine, il tema della creazione dell’uomo, dissimulato da ripetuti richiami alla leggenda del golem.

1

L’allusione a generi letterari con riferimento a Borges è sempre un arbitrario azzardo, ovviamente. 3

L’interpretazione, dilatando la vicenda in peripezia, asseconda soprattutto il processo di trasformazione e mitizzazione del personaggio, e anche sul piano della forma allude alla reiterazione delle esperienze del protagonista, cifra simbolica universale di uno sforzo perennemente frustrato, al quale forse non può sottrarsi neppure la divinità, infelicemente emulata. La sezione conclusiva raccoglie gli spunti di volta in volta emersi, per ricondurre a unità, se possibile, l’itinerario percorso. In particolare, è compiuto il tentativo di cogliere, aldilà degli ovvi influssi culturali, l’esistenza di una possibile, e forse mai indagata, dimensione mistica nel rapporto fra Borges ed ebraismo. Essa in effetti potrebbe profilarsi su due piani. Nel racconto, il comune angoscioso destino del creatore e della creatura, che consistono della stessa stoffa onirica, se si attribuisce natura divina alla figura del protagonista interpretazione forse possibile - sembra accorciare le distanze tra uomo e Divinità, favorendone un rapporto più intenso, percepibile anche alla luce dell’opposta prospettiva ermeneutica fondata sull’indebolimento dell’onnipotenza del Demiurgo. Altri testi borgesiani, inoltre, misurandosi con una possibile rappresentazione immaginaria dell’Eternità, ispirata dall’evocazione di oggetti essenziali, alludono a momenti estatici, in cui l’esperienza mistica, pur fugace, sembra in definitiva capace di dissolvere l’inquietudine temporale con l’atto della produzione letteraria. L’obiettivo pare tuttavia raggiungibile solo rinunciando al racconto dell’origine o della creazione, riservato alla Torah, per ripiegare su esiti forse meno ambiziosi, ma radicati in una quotidianità più feconda. Si conclude quindi senza rinnegare il contesto onirico nel quale il racconto si snoda, ma rivalutandone, per così dire il senso: liberandolo, cioè, dal terrore che può associarsi a un’illusorietà umiliante, per esaltarne invece il contenuto di esperienza condivisa attraverso il mito e la creazione letteraria, in modo da allontanare, di tanto in tanto, il pesante sospetto di una solitudine altrimenti insostenibile.

4

Parte Prima

5

BORGES E LA CULTURA EBRAICA 1) Le fonti di conoscenza dell’ebraismo espressamente dichiarate da J.L. Borges Anche una tesi è un racconto e pretende un incipit. Ciò obbliga a una scelta fra tutti gli inizi possibili, da sacrificare al vincitore. I più soccombono a loro insaputa; neppure entrano in gioco e probabilmente sono i migliori. Fiumi carsici smarriti nell’ipogeo dell’inconscio, forse meritevoli di sorte più felice. Purtroppo nel mio caso si è formata di getto una frase poco attraente, che in seguito non si è mai modificata: “L’opera di Jorge Luis Borges prodiga sia estrema varietà, sia, all’opposto, insistite reiterazioni animate da affabulazioni labirintiche e speculari 2”. E’ un inizio imbarazzato e pretenzioso, che, nell’aspirare alla sintesi, suona paradossalmente ridondante. Come ogni rilettura mi suggerisce, in un lontano passato–futuro questo massiccio incipit era e sarà diverso. Rimpiango di non avere scritto, per esempio: “L’opera di Borges è varietà e ripetizione. Favoleggia di specchi labirinti spade e del luogo che li contiene tutti quanti, l’accecante Aleph.” 2

In realtà l’orrore dei labirintici abissi ipotattici non accenna ad avere fine. Al di qua di questo lavoro, prima che ne

immaginassi l’origine, si era formato un periodo addirittura devastante, che voglio rammentare per espiarlo e per dar conto dei successivi modesti progressi: “L’opera di J.L. Borges, che prodiga sia estrema varietà, sia, inversamente, insistite reiterazioni animate da affubalazioni speculari e combinatorie, si apre a innumerevoli chiavi interpretative, vertiginosamente complicate dalla stessa ironica propensione dell’autore a spiegare ed eludere i suoi testi, alternando, con propositi talvolta ludici, ancorché mascherati da nitido rigore, affermazioni seriamente fondate e menzogne letterarie, create con il gioco paradossale delle false citazioni che lo ha reso celebre”. Il testo, che si presta ad un’analisi del periodo davvero impervia, potrebbe destare il convinto interesse di studiosi di grammatica generativa... Sulle perdute opportunità di scrivere, o solo cominciare, in modo diverso questo lavoro, richiamo ovviamente Borges (Things that might have been, in Storia della notte, da Tutte le opere, Vol. 2, Milano, 1985, 1083): “Penso alle cose che potevano essere e non furono. / Il trattato di mitologia sassone che Beda non scrisse. / L’opera inconcepibile che a Dante fu dato forse di intravvedere, / ormai corretto l’ultimo verso della Commedia. / La storia senza la sera della Croce e la sera della Cicuta. / La storia senza il volto di Elena. / L’uomo senza gli occhi, che ci hanno donato la luna. / Nelle tre giornate di Gettysburg la vittoria del Sud. / L’amore che non abbiamo condiviso. / Il dilatato impero che i Vichinghi non vollero fondare / L’uccello favoloso d’Irlanda, che sta in due luoghi a un tempo. / Il figlio che non ebbi”. 6

Fatico a immaginare esordio più disinvolto. Tuttavia mi piacerebbe confermare l’altra, più laboriosa proposizione, assai contestabile, ma ostinatamente incancellabile; forse mi è fedele perché, così si è soliti illudersi, la goffaggine pare talvolta penetrata da un senso più profondo. E’, infatti, come si è detto, una “sintesi ridondante”. L’inconcepibile ossimoro confessa una contraddizione. Ma è proprio “sotto la specie” del paradosso, peculiare all’opera di Borges e alla mistica ebraica, che i due ambiti della mia indagine familiarizzano e s’incrociano. Se la scrittura può valere non solo come mezzo di espressione e comunicazione, ma anche come strumento di rappresentazione e come “figura” di un movimento di pensiero, incidendo e scolpendo uno spazio della pietra-mondo3, allora attraverso il segno e lo stile mi riprometto di “mimare”, in modo approssimativo e maldestro, le innumerevoli digressioni, ramificazioni, parentesi, gerarchie, stratificazioni, che connotano la produzione letteraria di Borges e alcuni aspetti della Cabbala. Dunque, tornando all’incipit, l’opera del nostro autore prodiga varietà e ripetizione. Innumerevoli sono le chiavi di interpretazione, vertiginosamente complicate dall’ironica tendenza dello scrittore argentino a spiegare ed eludere i suoi testi, alternando, con propositi talvolta ludici, benché mascherati da nitido rigore, affermazioni seriamente fondate e menzogne letterarie, create con il gioco paradossale delle false citazioni che lo ha reso celebre4. 3

E’ nota l’espressione foglio-mondo alla quale “ricorreva Peirce nella ricerca di una nuova scrittura che fosse

capace di mostrare, non i prodotti dell’inferenza logica, ma l’abito stesso che quei prodotti produceva. Nel mio senso foglio-mondo sarebbe allora quel luogo di scrittura in cui il gesto filosofico non si cancella dietro i segni dell’alfabeto, ma anzi si esibisce e si mostra, si manifesta e si rappresenta. (C. Sini, Filosofia e scrittura, Roma-Bari 1994, 121). In questo lavoro le digressioni saranno forse colpevolmente numerose. Peraltro tale modo di procedere può essere giustificato non solo dalle mie personali carenze, ma anche dalle considerazioni teoretiche, condivisibili, sull’organizzazione del pensiero sistemico che tende a concepire il mondo come totalità organica includendo il processo di conoscenza all’interno della descrizione fenomenica. Ciò può svelare l’illusorietà della linearità e progressività del testo, propria del pensiero analitico, rideterminando la scrittura in modo più aderente alla organicità non sempre sequenziale che intende rappresentare, in modo analogo all’ipertesto della rete web. (Cfr P. D’Alessandro, Critica della ragione telematica, Milano 2002, 223). 4

Labirinti e specchi, con la complessa cifra simbolica che li connota, sono, come è risaputo sino al tedio, tra i luoghi

più ricorrenti del favoloso armamentario dell’opera borgesiana. Sono, d’altra parte, simboli pertinenti anche a uno studio sulle interferenze tra i due ambiti, letterario e “mistico” (nella più vasta accezione che sarà precisata). Le 7

L’ebraismo5, non solo inteso come arsenale della sua officina letteraria, ma soprattutto, in senso più profondo, come movimento di pensiero 6, asseconda questa tendenza di fondo. Peraltro, nel valutare i rapporti fra la produzione di Borges e le correnti mistiche, è bene essere consapevoli dell’accezione, ambigua e sfuggente, e del senso, spesso beffardo, che connotano il lemma “fonte”7, quando lo si riferisce al nostro autore. Lo scrittore argentino chiarisce, e anzi quasi ostenta, le scaturigini dei temi schiettamente ebraici trattati nella sua opera, non nascondendo antica dimestichezza con la Bibbia 8 e

caratteristiche sommariamente qui evocate dello scrittore argentino, eccettuati ovviamente il taglio ironico e l’abito scettico che talvolta animano i suoi lavori, sono peraltro già indicative di talune immediate analogie tra l’attività letteraria del nostro autore e la Cabbala ebraica. 5

Termine volutamente generico, utilizzato per non entrare nel merito, almeno per ora, della complessa delimitazione

delle aree riservate alle correnti mistiche in senso stretto e alla esegesi squisitamente rabbinica. D’altra parte se Cabbala è ricezione, tradizione, il commento esoterico della Bibbia che – secondo gli aderenti a tale dottrina – sarebbe stato trasmesso da Dio a Mosè sul monte Sinai (cfr. Piccolo dizionario dell’ebraismo, a cura di P. Sola, con presentazione di G. Laras e E. Bianchi, Milano, 1999, 30), non sembra arbitrario estenderne smisuratamente l’ambito, senza preoccuparsi eccessivamente di “storicizzare” e contestualizzare concetti e nozioni che, come è noto, hanno avuto lunghissima sedimentazione. Alleato nell’elaborare una definizione generica della Cabbala è anche C. Mopsik (Cabala e i cabalisti, Roma, 2000, p.9): “Il termine “”cabala”” (dall’ebraico Qabbalah) indica, correntemente, il complesso delle dottrine esoteriche del giudaismo o anche il misticismo giudaico nel suo insieme.” 6

Mi riferisco a tendenze, per così dire, strutturali, che avvicinano il pensiero di Borges alla mistica ebraica, non

appena si scenda in profondità abbandonando la superficie, talvolta sin troppo tersa e levigata, del divertimento intellettuale. 7

La pseudoepigrafia, come è noto, è una delle varianti alle quali più frequentemente ricorre Borges: non per attribuire

il crisma del prestigio, dell’autenticità e dell’autorevolezza ai suoi scritti, come talvolta avviene tra i Cabbalisti medievali, ma per creare un gioco di rimandi e di rifrazioni all’interno del tessuto narrativo, amplificandone gli effetti fantastici e stranianti, nonché per attuare, a mio avviso, la smitizzazione del dogma della paternità dell’opera letteraria, come si vedrà infra. 8

La nonna paterna di Borges, Fanny Haslam, di origine inglese, era solita leggere brani della Bibbia al piccolo Jorge.

Intervistato da Jaime Alazraki sulle origini della sua attrazione per la mistica ebraica, lo scrittore sottolinea, da una parte, la dimestichezza con la Sacra Scrittura, praticata sin dall’infanzia e consolidata dalle frequenti citazioni bibliche della nonna, e dall’altra il fascino esercitato dall’idea di un “vast and impersonal God, the

En Soph. of the

Kabbalah” , che più tardi avrebbe ritrovato in Spinoza, nel panteismo in genere, in Schopenhauer, in Butler, in G.B. 8

notevole interesse per la Cabbala, la cui conoscenza è in gran parte espressamente attribuita alla mediazione di Gershom Scholem 9. Le opere di questo eminente studioso, in particolare Le grandi correnti della mistica ebraica10 e La Kabbalah e il suo simbolismo 11, non costituiscono però i soli punti di riferimento “confessati”. Nella conversazione, citata in nota, con J. Alazraki, lo scrittore argentino ricorda anche un volume forse non imprescindibile sulle superstizioni ebraiche 12 e aggiunge, senza precisare altro, di avere letto tutti i libri sulla Cabbala reperiti.

Shaw e anche nell’èlan vital di Bergson. (cfr. Alazraky, Borges and the Kabbalah, Cambridge USA, 1988, 6). In un’altra conversazione lo scrittore argentino considera le Scritture il libro “più importante del mondo, al quale segue subito dopo La Divina Commedia...(Quest’ultimo) è il libro che ho letto di più dopo la Bibbia” (Costantini, Jorge Luis Borges. Colloqui esclusivi con il grande scrittore argentino, Roma, 2003, 60-61). Borges mostra particolare predilezione per il Libro di Giobbe (M. E. Vazquez, Borges, sus dias y su tiempo, Madrid, 2000, 192-193), nonché per l’Ecclesiaste e per i Vangeli (Cfr. F. Sorrentino, Sette conversazioni con Borges, Milano, 1999, 205). 9

Borges incontrò Scholem in un suo viaggio a Gerusalemme nel 1969. L’incontro è attestato in tutte le più autorevoli

biografie dello scrittore argentino (cfr. p.e. E.R. Monegal, Borges, una biografia letteraria, Milano, 1982, 134, Savater, Borges, Roma-Bari, 2003, 75) ed è solennizzato anche dal nostro autore nel suo Abbozzo di autobiografia, in L’elogio dell’ombra, Torino, 1971, 147. Con lo studioso berlinese Borges discusse di mistica e in particolare della leggenda del golem, un mito che già conosceva in virtù della lettura giovanile dell’omonimo romanzo di Meyrink (a tale proposito, C. Vian, Invito alla lettura di Borges, Milano 1980, 138). In un’intervista concessa a Ronald Christ (Intervista con Jorge Luis Borges, a cura di Raul Montanari e con introduzione di Mario Vargas Llosa, Roma, 1999, 96-97) viene (nuovamente) chiesto a Borges come nacque il suo interesse per la Cabbala. Lo scrittore argentino (non si cerchi coerenza assoluta nelle sue affermazioni, non sarebbe Borges altrimenti, n.d.r.) risponde: “Penso sia stato attraverso De Quincey, attraverso la sua idea che l’intero mondo fosse un insieme di simboli, o che ogni cosa significasse qualcos’altro. Quando poi ho vissuto a Ginevra, avevo due grandi amici, Maurice Abramowicz e Seymour Jachlinski..I loro nomi valgono come una carta d’identità genealogica: erano ebrei polacchi”. A una successiva domanda sulle fonti delle sue conoscenze cabalistiche, Borges cita Le grandi correnti della mistica ebraica e precisa (op. ult. cit., 97-98) di avere letto “tutti i libri sulla cabala che ho trovato, tutte le voci delle enciclopedie, e così via .. In me non c’è niente di ebraico peraltro. Potrei forse avere degli antenati ebrei, ma non saprei dirlo….Mi sarebbe piaciuto avere qualche progenitore ebreo”. Lo scrittore in altre occasioni aveva ipotizzato ascendenze ebraiche, deducendole dal cognome materno Acevedo, di origine ebreo portoghese. Io, un ebreo è l’emblematico titolo di un articolo di Borges apparso nell’aprile 1934 sulla rivista Megafono (3, num. 12, aprile 1934, 60) in un momento storico in cui il nazionalismo fascista in argentina cresceva. Provocatoriamente lo scrittore si dispiacque, in quella pubblicazione, di non essere certo di poter vantare origini ebraiche (questo episodio è ricordato, fra gli altri, da Evelyn Fishburn, nel suo studio Borges Cabbala and “creative misreading”. On line. J.L. Borges Center for Studies Documentation. Internet 20/07/01, http://www.hum.au.dk/romansk/borges/bsol/evit1.htm). Il 9

Borges non nasconde poi una particolare predilezione giovanile per l’opera narrativa di Meyrink, Il golem13, repertorio di leggende sul mito eponimo del romanzo. Questo tema ricorre con insistenza sia nella prosa sia nella poesia borgesiana. Ma lo scrittore argentino, come è noto, ha spesso tratto spunto dalle enciclopedie, reperendo dalle voci le tracce delle sue affascinanti affabulazioni. Benché non entri nei dettagli, è certo che altre informazioni sull’ebraismo provengono da queste fonti 14.

filosemitismo di Borges si legge anche nella sua produzione poetica: “Chi potrà dirmi se sei nel perduto/Labirinto di fiumi secolari/Del mio sangue, Israele?” (A Israele, da l’ Elogio dell’ombra, in J.L. Borges, Tutte le opere, a cura di Domenico Porzio, Milano, 1984, Vol. 2, 309). L’interesse di Borges per l’ebraismo è dunque in parte originato da simpatie o affinità culturali e da letture, e in parte da vicende biografiche, come l’amicizia ginevrina con gli ebrei polacchi ricordati, rimasti in contatto per tutta la vita con lo scrittore. Molto ha giocato anche l’influenza di uno dei suoi maestri letterari, Rafael Cansinos Assèns, “qui, ayant trouvé son nome dans les archives de l’Inquisition, avait décidé qu’il était juif” (J.F. Gérault, Borges, Parigi, 2003, 83). 10

G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Torino, 1993.

11

G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, Torino, 1980.

12

Si tratta di Jewish magic and superstition. A Study in Folk Religion, New York, 1939 di Trachtenberg. In una

relazione sulla Cabbala inserita da Alazraki nella sua opera citata, e su cui torneremo, Borges cita anche un “thick volume” di Henry H. Serouya, La Kaballe, 1947, pubblicato anche in Italia (La Cabala, Milano, 1997). Quest’ultimo testo, benché scientificamente meno rigoroso e, a mio avviso, di pregio assai minore delle opere di Scholem, potrebbe tuttavia avere esercitato qualche influenza sull’impatto tra Borges e l’ebraismo. Ciò si deve alla particolare impostazione “comparatistica” del volume, che dedica alcuni capitoli ai rapporti tra Cabbala e dottrine straniere. In particolare, alla luce del vivo interesse da sempre manifestato dallo scrittore argentino per le filosofie idealistiche, è assai verosimile che il nostro autore possa essere rimasto colpito da quanto scritto da Serouya sulle analogie tra mistica ebraica e pensiero platonico, evidenziate a pag. 59, dove, tra l’altro, è scritto che “ l’intelligenza divina (o il verbo) forma l’universo secondo tipi contenuti in essa prima dell’apparizione delle cose.” Un ulteriore punto di convergenza può scorgersi nella parte del volume dedicato al vero o presunto influsso delle religioni della Caldea e della Persia sulla Cabbala, spiegabile, secondo Serouya, con i settant’anni di cattività di Israele a Babilonia (Questa influenza capitale è probabilmente dovuta soprattutto alla religione di Zoroastro. Molti elementi della Cabala, evidentemente non tutti, si ritrovano nello Zend Avesta e nei suoi commentari religiosi in una forma più o meno simile”; op. ult. cit. 76). Orientamento non isolato, in quanto sostenuto anche da Adolphe Frank nell’opera La Kabbale ou la philosophie religieuse des hebreux, pubblicata a Parigi nel 1843 e citata da Moshe Idel, in Cabbalà Nuove Prospettive, Firenze, 1996, 25 “Le concezioni cabalistiche più importanti, secondo Frank, erano derivate da 10

Quanto a opere di mistica in senso stretto, il nostro autore, che ignorava l’ebraico, afferma di conoscere traduzioni del Sefer Yetsirà e dello Zohar, senza precisare quali15. Tuttavia, circoscrivere lo studio dei rapporti fra l’opera dell’argentino e la mistica ebraica all’influenza diretta di alcuni testi certi, significherebbe probabilmente svilire e forse mistificare il senso più autentico di una relazione che sembra molto più complessa e articolata di quanto possa suggerire il primo esame.

fonti caldee e persiane, cioè zoroastriane”. Prescindendo dalla fondatezza di tale teoria, è possibile che Borges abbia fatta propria la presunta “contaminazione” tra mistica ebraica e zoroastrismo nella redazione del racconto, su cui mi intratterrò a lungo, Le rovine circolari, ricco di elementi sincretici, alcuni dei quali di possibile derivazione iranica (come la centralità assegnata al simbolismo del fuoco). Altro testo cabbalistico citato da Borges è The Holy Kabbalah di A.E. Waite (N.Y. University Books, 1960). 13

14

Meyrink, Il golem, Milano, 1991, su cui mi soffermerò sub sez. III. Borges afferma di avere letto “several” voci enciclopediche su temi ebraici (cfr. la citata conversazione con

Alazraky, in op. ult. cit., 14) ma non fornisce maggiori ragguagli, salvo citare espressamente, come fonte di conoscenza sulla Cabbala, la Encyclopedia Britannica (op. ult. cit., 5). Lo scrittore si riferisce alle edizioni più vecchie dell’enciclopedia: “But the old Encyclopedia Britannica was far superior to the more recent edition. It used to be a reading work, and now it has been turned into a reference book”. Possiedo l’edizione 1960 della Britannica. La voce Kabbalah (vol. 13, 233) occupa complessivamente tre colonne e fornisce un’informazione abbastanza neutra ed “ortodossa”. La bibliografia rimanda, fra l’altro, a una vasta monografia di C.D. Ginzburg, ampliamento dell’articolo sulla Cabbala contenuto nell’undicesima edizione della stessa Enciclopedia. Probabilmente questo testo fu letto da Borges. A tale proposito si rammenta che Ginzburg nella monografia The Kabbalah, volume edito a Londra nel 1865 (e base dell’articolo enciclopedico ricordato) accentua i rapporti fra la mistica ebraica e il neoplatonismo. Nel trattare il controverso tema sulle origini del termine En Soph, scrive: “Qualsiasi dubbio su questo argomento (derivazione della nozione dal neoplatonismo, n.d.r.) deve essere abbondonato quando i due sistemi vengano messi a confronto. La stessa espressione En-sof che la Kabbalà usa per indicare l’incomprensibile, è di origine straniera, ed è evidentemente una imitazione del greco Apeiros. Le opinioni che En-sof sia superiore al reale essere, pensare conoscere, sono indubbiamente neoplatoniche”. Tesi questa criticata da Scholem in Le origini della Kabbalà, Bologna, 1980, 328. Si avrà occasione di notare anche una certa conoscenza, da parte dello scrittore argentino, della mistica chassidica, probabilmente attribuibile alla mediazione di Martin Buber, anche se non è possibile individuare la fonte certa (probabilmente, peraltro, si tratta dei Racconti dei Chassidim, Milano, 1979). 15

Cfr., fra le altre testimonianze, Alazraki, op. ult.cit., 54.

11

2)

Linee e prospettive

Occorre infatti distinguere tra piani diversi e intersecantisi, per quanto sviluppati su differenti livelli. Nel tessuto più superficiale sarà possibile, in un primo tempo, individuare il materiale utilizzato in modo consapevole dallo scrittore, operazione immediatamente verificabile. Scendendo più in profondità, affiorerà il più articolato profilo della libera elaborazione concettuale di alcuni tòpoi della mistica, da legare soprattutto alle riflessioni teurgiche sul Nome, alla sacralità della Torah e delle lettere dell’alfabeto concepite come opera diretta della Divinità, alla creazione attraverso la parola di Dio e dell’uomo 16, al panteismo e alla specularità tra macrocosmo e microcosmo 17, fino alla dottrina della trasmigrazione, temi tratti

dal

Sefer

Yetsirà,

dalla

Cabbala

dello

Zohar,

dall’interpretazione

luriana

e

dall’ermeneutica sconfinata che ne è derivata. Proseguendo - e qui forse meglio dell’immagine del piano può soccorrere quella della circolarità della sfera che avvolge l’universo dello scrittore, la sua “indefinita, o forse infinita” Biblioteca - si può scorgere il luogo più riposto e ineffabile, l’Aleph accessibile solo nello scantinato18, quel movimento di pensiero acceso e costante che anima e vivifica l’opera di Borges conferendole il senso più duraturo.

16

Nei termini che cercherò di chiarire nei capitoli successivi.

17

Ecco, a questo proposito, un bellissimo brano in prosa di Borges ( Epilogo, in L’artefice, Tutte le opere cit., 1267):

“Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d’isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto”. 18

Nel notissimo racconto, da cui prende il nome la raccolta (L’Aleph, in J.L. Borges, Tutte le opere, cit. 886 ss.), il

protagonista, io narrante in prima persona, è un uomo, chiamato Borges, che scopre nello scantinato della casa di un amico l’Aleph, “il luogo in cui si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra” (op.ult.cit., 894).

12

Il sogno di creatività, magia, onnipotenza, materializzato attraverso la scrittura e la lettura19, il tributo di universale appartenenza a una comunità di autori 20 e destinatari di testi che condividono la produzione letteraria, esemplificati dallo Shakespeare borgesiano, che è nessuno e tutti gli uomini21, la misreading creativity, teorizzata da H. Bloom sul piano ermeneutico22, sono il “rumore cosmico di fondo” che pervade tutta l’opera dell’autore argentino. Proprio quando percorre gli abissi dell’infinito spazio-temporale, la scrittura di Borges indugia e si arresta in eterno presente, abbandonando il prezioso gioco intellettuale per cercare accenti più intimi. Essa, in quei momenti, richiama la grande filosofia di Maimonide. 19

“Menino vanto altri delle pagine che hanno scritto /il mio orgoglio sta in quelle che ho lette.” (J.L. Borges, Un

lettore, da L’elogio dell’ombra cit., 359). “Suppongo che le parole essenziali/Che mi esprimono stanno in quelle pagine/Che mi ignorano, non in ciò che ho scritto”. J.L.Borges, I miei libri, da La rosa profonda, in Tutte le opere cit., Vol.2, 731. 20

“Tutti gli autori sono un solo autore” scrive Borges ne Il fiore di Coleridge, da Altre inquisizioni, in Tutte le opere

cit., Vol.. I, 917. Il medesimo concetto affiora anche ne I quattro cicli, da L’oro delle tigri, in op. ult. cit., Vol.2, 535: “Quattro sono le storie. Per tutto il tempo che ci rimane continueremo a narrarle, trasformate”. Scrive Genette in Figure I, Torino, 1988, 114: “Ma il gusto degli accostamenti e dei parallelismi risponde in Borges a un’idea più profonda, le cui conseguenze sono molto importanti per noi. Un’idea di cui troviamo una formulazione aggressiva nel racconto Tlon Uqbar Orbis Tertius (da Finzioni, qui citato da Genette nell’edizione Torino 1967, 18-19, n.d.r.): “S’è stabilito che tutte le opere sono opere di un solo autore, atemporale e anonimo.” Si tratta di una visione della letteratura come uno spazio omogeneo e reversibile in cui le caratteristiche individuali e le presenze cronologiche non hanno corso (Genette, op. ult. cit. 115). Cfr. anche A. Compagnon, Il demone della teoria, Torino, 2000, in particolare il capitolo sull’intenzione dell’autore (pp. 44-99). 21

Cfr. J.L. Borges, Da qualcuno a nessuno, in Altre inquisizioni (Tutte le opere cit., 1043): “Shakespeare somigliava

a tutti gli uomini, tranne in ciò, che somigliava a tutti gli uomini. Intimamente non era nulla, ma era tutto ciò che sono gli altri, o ciò che possono essere... Essere una cosa è, inesorabilmente, non essere tutte le altre cose; l’intuizione confusa di questa verità ha indotto gli uomini a immaginare che non essere sia più che essere qualcosa e che, in certo modo, sia essere tutto.” (Op. ult.cit., 1045). 22

Cfr. H. Bloom, L’angoscia dell’influenza. Una teoria della poesia. Milano, 1986. La tradizione letteraria è agone

per la supremazia. Per evitare l’influenza dei suoi predecessori, ogni scrittore li deve fraintendere, ossia sottoporre ad una sistematica misinterpretazione. Il successo di un autore si misurerà nella sua capacità di evitare l’influenza dei grandi che l’hanno preceduto. Si tratta di una delle tante sfaccettature delle teorie della decostruzione del testo. (cfr. anche Casadei, la critica letteraria del Novecento, Bologna, 2001, 145-149).

13

Ed ecco allora affiorare l’immedesimazione fra il pensiero di colui che pensa e il pensato, tra l’Intelletto Agente e l’Intelletto Acquisito, che, grazie alle idee immortali concepite, si eterna a sua volta23. Ebbene, questo movimento di pensiero, che mi pare immediatamente percepibile, evoca una sorta di “ebraismo perenne”, da dissociare dalla specificità di temi e materiali del repertorio tradizionale e da individuare piuttosto nel senso riposto di un certo modo di pensare e praticare la scrittura, strettamente connesso a un’incessante riflessione sul momento della creazione. Il tratto “profondo” comune ai due versanti del nostro studio è quello che, riferendosi a Borges, o meglio, al filone “borgesiano” della letteratura, H. Bloom definisce avidità di ciò che sta oltre la presunta realtà24. Pretesa di questo lavoro è quindi anche, se non soprattutto, verificare tale ultima ipotesi, evidentemente più indirizzata verso la ricerca di punti di riferimento, sfumature, analogie, che non al reperimento di fonti qualificabili scientificamente come tali, senza rinunciare, peraltro, per non incorrere in generalizzazioni ingiustificabili, al tentativo di identificare i testi pertinenti ai due campi di studio, nei quali echi, rimandi e vibrazioni si avvertono con maggiore intensità. Infine, benché non mi risulti che questo aspetto sia mai stato focalizzato – e dunque una certa arbitrarietà inevitabilmente inficia la mia riflessione – l’insistenza tragica e ossessiva di Borges nel trattare il tradimento, la codardia, l’abominio e la miseria morale di certi suoi personaggi (soprattutto di ambiente gaucho) sembra evocare suggestioni, anche alla luce di un celebre saggio di natura “gnostica” 25 del nostro autore, legate alla mistica, di derivazione luriana, della restaurazione e della redenzione cosmica, da perseguire anche in virtù

23

Cfr. Maimonide, La guida dei perplessi, a cura di M. Zonta, Torino, 2003, 238 ss. e G. Laras, Immortalità e

resurrezione nel pensiero ebraico medievale, a cura di P. Pozzi, Milano, 2001, 5. 24

H. Bloom, Come si legge un libro (e perché), Milano, 2000, 78. Accennando forse un po’ arbitrariamente a un

“ebraismo perenne”, intendo riferirmi a un movimento di pensiero descrivibile sul piano fenomenologico meglio che dal versante storico. Un pensiero depurato, per quanto sia possibile, da aspetti contingenti e colto nelle sue dinamiche strutturali. 25

Cfr. Tre versioni di Giuda, in Finzioni (Tutte le opere cit., vol. 1, 747 ss.). Spesso Borges, come si potrà constatare,

manifesta simpatia per gli gnostici, “uomini disperati e ammirevoli.” Cfr. Una rivendicazione del falso Basilide, da Discussione ( Tutte le opere cit., vol. I, 335).

14

dell’abiezione; un paradosso, quasi un ossimoro etico, che trova il proprio fondamento, secondo la lettura proposta da Scholem, in taluni aspetti del messianismo sabbatiano 26. Si potrebbe obiettare, in mancanza di prove certe di una sua conoscenza delle fonti, che presumibilmente la competenza di Borges su temi così particolari e specifici della mistica ebraica non era tanto dettagliata da consentirgli di utilizzare consapevolmente quel materiale nella sua produzione letteraria. A tale fondatissima eccezione è lecito opporre la sostanziale irrilevanza dell’argomento. Da una parte la profondità abissale del misticismo, la forte tensione metafisica, che comunque pervade il tema della restaurazione cosmica e della giustificazione del male, possono giocare un ruolo essenziale in quel movimento di pensiero onnipervasivo che caratterizza l’ebraismo e, in tesi, l’opera borgesiana, tanto da sminuire il rilievo dell’individuazione e del reperimento di fonti univoche, compito in ogni caso impervio per la indubbia poligenesi di alcuni sotterranei filoni che, pur mantenendo forse distinta la propria identità, prestano tratti comuni al neoplatonismo, alla gnosi e alla Cabbala (senza trascurare, almeno in un certo periodo storico e nella regione provenzale, possibili contaminazioni anche con la dottrina catara) 27.

26

Il “paradosso del santo peccatore”, nella lettura dell’operato di Shabbetay Sevi da parte di Nathan di Gaza, è trattato

da G. Scholem in Le grandi correnti cit., p. 304. Cfr. naturalmente la monumentale monografia dello stesso autore (presumibilmente non letta da Borges) sul tema evocato, Sabbetay Sevi, il messia mistico, Torino, 2001. Sulla “categoria del paradosso” che caratterizza la vicenda biografica di Sevi, cfr. anche G. Laras, La mistica ebraica e il pensiero cabbalistico dello Zòhar, Milano, 2004, 254. E’ doveroso sottolineare come Idel ritenga invece che la Cabbala luriana non sia l’antecedente necessario del movimento messianico sabbatiano: lo stesso Sevi non era a conoscenza, o, in ogni caso non praticava la mistica del maestro di Safed (Idel, Cabbalà Nuove Prospettive cit., 239), preferendo la Cabbala estatica o derivata dallo Zohar. Pare inevitabile l’accostamento di tale categoria all’opera di Borges e plausibile la simpatia dello scrittore argentino per una dottrina tale, per singolarità e profondità, da stimolarne la curiosità intellettuale. Questo tema, peraltro, richiederebbe studi approfonditi e potrebbe essere oggetto di autonoma e specifica trattazione. Qui basti il cenno. 27

Sul complesso problema delle origini della Cabbala ovviamente di nuovo ci si richiama a G. Scholem, e in

particolare a Le origini della Kabbalà cit. Vedremo nel prosieguo punti in comune e, soprattutto, difformità tra l’interpretazione della Cabbala proposta da Borges, fortemente accentuata in senso gnostico e antinomico, e la più equilibrata ricostruzione del movimento da parte dello studioso berlinese, tale, tuttavia, da alimentare forse gli equivoci o le estremizzazioni dello scrittore argentino.

15

Dall’altra parte, significherebbe forse fare torto sia all’autore argentino, sia all’ebraismo, considerato soprattutto nel versante più squisitamente “ermeneutico” 28 del rapporto fra tradizione e rivelazione, negare all’interprete, che contribuisce incessantemente al fervore del laboratorio letterario attraverso la sua lettura “creativa” o feconda del testo (o del Testo Sacro per eccellenza), il privilegio di tentare di percorrere una delle tante vie, di optare per una delle innumerevoli biforcazioni per il cui intricato tramite la Parola vive la sua originaria identità - anche linguistica nell’ebraico biblico - con la Cosa 29.

28

Sui rapporti e sulla paradossale coesistenza fra l’aspetto conservatore e quello innovativo o addirittura

rivoluzionario della mistica in generale, cfr. il primo capitolo della citata La Kabbalah e il suo simbolismo di G. Scholem (pp.7-42). Il tema è affrontato dallo stesso autore in Concetti fondamentali dell’ebraismo, Genova, 1986: “Da una parte le condizioni storiche sempre nuove richiedono che la comunicazione, riconosciuta come autoritativa, si applichi a circostanze sempre mutevoli. D’altra parte, però, l’elemento spontaneo della produttività umana si impadronisce di tale comunicazione ampliando sempre più il suo orizzonte originario (79). In sostanza l’interpretazione della Torah non costituisce altro che lo sviluppo di quanto nella scrittura stessa è già implicite dato (op. ult. cit., 84) e la rivelazione “includerebbe già in sé il commento come tradizione sacra circa il suo stesso senso” (op. ult. cit. 85). Il mistico “utilizza vecchi simboli e conferisce loro un senso nuovo; può persino usare nuovi simboli e attribuire loro un vecchio significato – in entrambi i casi ci troviamo di fronte a un processo dialettico in cui gli aspetti conservatori del misticismo e quelli nuovi, produttivi rivelano la loro interdipendenza.” (G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo cit., 31). Sempre nell’ultima opera citata (p.62) Scholem sottolinea bene l’aspetto paradossale della tradizione: “Secondo la tradizione rabbinica Mosè ha ricevuto sul monte Sinai la Torah orale insieme con quella scritta e qualsiasi risultato possano trarre legittimamente gli studiosi della Scrittura più tardi, dalle loro ricerche sulla Torah, era già compreso in questa comunicazione orale a Mosè”. La scrittura di Borges, come vedremo, esemplifica al meglio questa circolarità fra tradizione e rivelazione. L’uso frequente della pseudoepigrafia, comune a molti Cabbalisti, la rilettura e reintepretazione, sia pure ricodificata, dell’eredità letteraria più datata e del patrimonio classico, l’ironico scetticismo sulla originalità in senso assoluto dell’autore e dell’opera in quanto prodotto individuale, la cooperazione decisiva del lettore nell’attribuzione di senso e significato al testo, la scrittura e lettura intese come decriptazione di un inesauribile corpo simbolico, sono solo alcuni dei caratteri comuni allo scrittore argentino e alla mistica ebraica. Anche Genette, in Palinsesti (Torino, 1997, 306) descrive l’attività letteraria di Borges come ipertestualità fittizia. Il nostro autore, attribuendo ad altri l’invenzione dei suoi racconti, presenta, travestendola, la propria scrittura come lettura. 29

Dabar in ebraico può valere “parola” o “cosa”. Nel Sefer ha-Bahir (in Mistica ebraica, a cura di Giulio Busi e di

Elena Lowenthal, Torino, 1995, par.80, p.172) si legge: “Noi sappiamo che tutto quello che il Santo, sia Egli benedetto, ha introdotto nel proprio mondo trae il nome dalla propria essenza, come è scritto: Qualunque nome infatti avesse posto l’uomo a ciascun animale, quello sarebbe stato il suo nome (Genesi, 2,19), vale a dire sarà esso stesso. E donde sappiamo che il nome è la cosa stessa? Dal versetto: La memoria del giusto è in benedizione, invece il nome 16

Le ripetizioni e le variazioni tematiche prodigate da Borges, l’invenzione di mondi alternativi e dell’infinita Biblioteca che, in essa risolvendoli, tutti li pare compendiare, sembrano evocare i ventisei tentativi divini30 di creare l’universo prima di dare vita alla Bereshith definitiva che, se così si può dire, appaga Dio perché “molto buona”. Anche se l’opera di Borges, per sua natura, rifugge da qualsiasi parvenza di perfezione (nel senso etimologico del termine): lo scrittore argentino non è il “guru”, al quale accenna Scholem, che determina in modo univoco e autoritario l’interpretazione dell’esperienza mistica prima ancora che essa si realizzi31. In questo senso il lavoro proposto non può che avere uno sviluppo aperto e dialettico. In definitiva, quindi, il progetto è l’esplorazione di questi mondi con gli strumenti offerti dal pensiero ebraico, e in particolare dalla mistica, con la ricerca sia dell’influsso dell’ebraismo sull’opera di Borges, sia del significato e del senso di una parte di tale produzione letteraria alla luce di questi poderosi mezzi esegetici. Il proposito è approfondire temi e oggetti dell’opera dello scrittore argentino ascendendo gradatamente dagli aspetti più particolari e specifici reperibili nell’arsenale della cultura ebraica e provenienti da fonti facilmente accertabili, a quelli più generali, da riferire a ciò che, con qualche arbitrarietà, si è definito “ebraismo perenne”. Poiché tuttavia i diversi piani di influenza del pensiero ebraico si intersecano, anche per la natura spesso “circolare” e reiterata della scrittura di Borges, al quale, come è noto, ripugna l’idea di definitiva compiutezza della propria (e di qualsiasi) produzione letteraria 32, il degli empi marcisce (Proverbi, 10,7). E’ forse il nome che marcisce? E’ piuttosto egli stesso. Allo stesso modo, il nome è la cosa stessa.” 30

“Secondo il Midrash, non una ma ventisei creazioni avrebbero avuto luogo: ventisei tentativi falliti di Dio

avrebbero preceduto il mondo in cui viviamo. Di fronte all’ultima creazione Dio ha detto:””Halwaj she-ja ‘amoà””, speriamo che stia in piedi.” S. Levi della Torre, Zone di turbolenza, Milano, 2003, 100. Con riferimento alle origini della dottrina delle Shemittoth, sviluppata nel Sefer Temunah, Scholem cita il dotto R. Abbahù: “Dio ha creato e distrutto dei mondi prima di creare questo; ha detto: questi mi piacciono, quelli non mi piacciono.” G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 576. 31

G. Scholem, La Kabbala e il suo simbolismo cit., 25. Chi ritiene di possedere l’unica interpretazione vera della

Parola di Dio sconfina nell’idolatria e nel fondamentalismo. (Cfr. Levi Della Torre, op. cit., 34).

Siamo

evidentemente lontanissimi dalla poetica di Borges. 32

“Il concetto di testo definitivo appartiene unicamente alla religione o alla stanchezza” (J.L. Borges, Le versioni

omeriche, da Discussione, in Tutte le opere cit, Vol. 1, 372). E’ inutile sottolineare che la portata di tale affermazione è 17

preannunciato frazionamento degli argomenti costituisce una mera traccia, una labile “ipotesi di lavoro” destinata a smarrirsi nell’ineludibile labirinto che l’autore argentino continua a tramare. 3)

Testi considerati

L’enormità dei campi esplorati pone ovvie esigenze selettive. Il primo limite è quello della bibliografia, che, in astratto, è sconfinata. Da un lato, solo l’opera completa di J.L. Borges raccolta nell’edizione italiana curata da Domenico Porzio33 comprende venticinque titoli (e non vi è inclusa la produzione, spesso significativa, da attribuire all’argentino in collaborazione con scrittori amici). Dall’altro, biografie letterarie, conversazioni e interviste, libri e articoli su temi specifici dell’attività letteraria borgesiana, benché tradotti in italiano solo in minima parte, sono tanti, in assoluto, da riempire intere biblioteche. Quanto al pensiero ebraico, o anche, più in particolare, alla mistica, è persino superfluo sottolineare l’assoluta impossibilità di controllare tutta la letteratura sul tema. Fortunatamente soccorrono due argomenti. Intanto l’intersezione tra le due vastissime aree copre una superficie ampia, ma ovviamente assai più contenuta dell’estensione globale dei due soggetti trattati 34. diversa, ove riferita alla religione ebraica. D’altra parte mi pare che Borges, come si vedrà, ne sia altrettanto consapevole. 33

J.L. Borges, Tutte le opere cit., Milano, 1984. Questi volumi, editi da Mondadori e apparsi nella collezione dei

Meridiani, sono il mio principale punto di riferimento per quanto riguarda la produzione letteraria di Borges (mi riferisco alle opere attribuibili esclusivamente allo scrittore argentino). Peraltro ho anche utilizzato l’edizione Feltrinelli de L’Aleph (traduzione di Tentori Montalto, prima edizione 1959, trentunesima e ultima, 2003) e l’edizione Einaudi di Finzioni (traduzione di Lucentini, prima edizione del 1955 ed edizione di cui dispongo risalente al 1995). 34

Sul nostro tema specifico nulla è stato scritto o tradotto in Italia, per quanto mi risulta. Non mancano invece

contributi importanti dall’estero. Oltre al già citato lavoro di Alazraki (Borges and the Kabbalah and other essays on his fiction and poetry) del quale sono faticosamente entrato in possesso e che dedica al rapporto tra lo scrittore e la mistica ebraica solo la prima parte (ossia le prime 62 pagine), altre monografie in parte votate allo stesso argomento sono quelle di E. Aizenberg, El tejedor del Aleph, Biblia cabala y judaismo en Borges, Madrid, 1986 e di S. Sosnowski, Borges y la Cabala; la busqueda del verbo, Buenos Aires, 1976. Anche queste sono state lette con interesse. La prima è in parte una biografia letteraria che tratta soprattutto i rapporti tra Borges e il mondo ebraico, sottolineando le numerose prese di posizione dello scrittore contro l’antisemitismo dilagante soprattutto dopo 18

Inoltre, se il progetto è l’esame dei rapporti fra una parte dell’opera di Borges e la mistica ebraica, lo spoglio delle fonti al quale si è rigorosamente tenuti dovrebbe esaurirsi ai soli (e pochi) testi espressamente citati dallo scrittore argentino: ciò, tuttavia, limiterebbe assai il respiro di questo studio. Tra l’altro gli scritti di Scholem sono pur sempre qualificabili (anche) come fonti storiche. Essi certo non negano la diretta evocazione di brani mistici, né l’esegesi, ma in genere costituiscono un punto di partenza che impone, almeno allo studioso, verifiche più dirette, nel tentativo di comprendere anche “il non detto” nell’opera borgesiana. L’indagine sul versante ebraico, pur non prescindendo affatto da Scholem, prenderà dunque in considerazione anche altri testi. Tanto premesso, è opportuna anche un’altra precisazione metodologica. Sia la circolarità della scrittura di Borges, sia lo spessore complesso e abissale della mistica ebraica, sia la sintesi, talvolta fulminante, che frequentemente caratterizza, in un certo senso assimilandoli, i prodotti “letterari” delle due aree del nostro studio, consentono, senza sacrificare nulla all’auspicata profondità dell’indagine, di concepirla più in modo “intensivo” che “estensivo”. In

altre

parole,

il

fine

perseguito

potrebbe

essere

avvicinato

anche

limitando

l’approfondimento dell’analisi testuale a un racconto “esemplare” del nostro autore, spaziando poi all’interno dell’opera borgesiana, là dove i temi accennati sono sviluppati o richiamati. Un solo testo, anche breve, può condensare in sé molti motivi e permettere tutte le divagazioni: necessarie, opportune, magari arbitrarie e persino superflue.

l’avvento di Peron (interessante la riflessione sull’identificazione psicologica del nostro autore con i perseguitati ebrei, quando, con alcuni suoi familiari, egli stesso subì angherie e restrizioni da parte del dittatore). La parte più squisitamente letteraria tratta le influenze della Cabbala sulla produzione borgesiana, esaltando soprattutto le affinità tra la concezione di letteratura intesa come palinsesto, propria del nostro autore, e quella della Bibbia, considerata, quanto alla sua materiale redazione, come testo “impersonale”. Inoltre si evidenziano le affinità tra ermeneutica biblica, fondata sui noti quattro livelli di lettura, e produzione narrativa di Borges, a sua volta caratterizzata da soglie (e difficoltà) distinte. Individuato inoltre l’analogo uso della pseudoepigrafia da parte dei Cabbalisti e dello scritttore argentino, l’autore riscontra alcuni schemi archetipi del racconto biblico (come la vicenda di Caino e Abele) in alcuni testi di Borges. Il libro di Sonowski è una breve monografia, di carattere più spiccatamente letterario, ricca di osservazioni puntuali, che saranno a tempo debito richiamate nel testo. Non mancano naturalmente, sul mio tema, articoli e contributi on line, che ho letto e per tale ragione ho ritenuto opportuno obliare. Per ovvi e comprensibili motivi, il livello di approfondimento non è elevato, mentre il confronto tra le fonti e l’interpretazione borgesiana è, se così si può dire, inesistente. 19

Se questo è l’obiettivo, introdotto l’argomento in questa prima breve sezione, la prossima scorrerà sul “piano di superficie”, in cui Borges esplicita direttamente la propria concezione della mistica ebraica. Saranno perciò esaminati gli scritti del nostro autore, sul tema della Cabbala, di taglio colloquiale o “saggistico”: qualificazione di genere, quest’ultima, da utilizzare in modo molto cauto, sia in assoluto, sia soprattutto quando sia evocata, come nel caso nostro, per descrivere l’attività letteraria borgesiana 35. Questa parte del lavoro dovrà consistere quindi in un repertorio commentato dei temi mistici entrati, per così dire, testualmente, nell’orizzonte dello scrittore argentino. Ciò non mi esenterà dall’abbozzare qualche riflessione, resa inevitabile dallo iato tra le dottrine cabbalistiche e la loro recezione da parte del nostro autore 36. 35

Non rientra nei fini di questo lavoro qualificare la produzione letteraria di Borges, quanto mai sfuggente per natura,

peraltro, a qualsiasi volontà tassonomica. Decostruzionismo, intertestualità, pseudoepigrafia sono categorie che spesso la critica ha invocato nell’alludere all’opera dello scrittore argentino. E’ quasi superfluo sottolineare che identiche evocazioni possono ben giustificarsi anche con riferimento alla mistica ebraica, i cui metodi di scioglimento dei legami semantici tra le lettere, poi ricomposte in nuove strutture, presuppongono forme radicali di decostruzione del testo, addirittura incentrata sulle più piccola unità significativa possibile, i segni dell’alfabeto. (Cfr. anche G. Busi, La Qabbalah, Roma-Bari 1998, 24. Sulla pratica decostruttiva della lingua e del pensiero nella mistica del chassidismo, cfr. Ouaknin, La lettura infinita, Genova, 1998, 83). Scrive Idel (in Cabbalà Nuove Prospettive cit., 216): “Quando un uomo ricerca un’esperienza mistica totale, deve comunque spezzare la struttura del linguaggio, dal momento che dovrà spazzar via le forme iscritte nella sua mente per creare lo spazio destinato all’inabitazione di entità superiori. Questa pratica, così come altre tecniche cabalistiche, richiama alla mente uno dei metodi di creazione artistica dei surrealisti moderni; il cabalista estatico si esprimerebbe come André Breton: “”Il linguaggio è stato dato all’uomo perché i surrealisti lo possano utilizzare.”” La disintegrazione del linguaggio sociale in unità prive di significato è il metodo, secondo Abulafia, per trasformare il linguaggio umano in nomi divini”. D’altra parte l’impossibilità, o l’arbitrarietà di una “classificazione” per generi dell’opera di Borges, che addirittura diventa spunto efficace di una rilettura e reinterpretazione delle forme codificate della cultura, trova in M. Foucault una testimonianza importante: ”Questo libro (Le parole e le cose, n.d.r.) nasce da un testo di Borges, dal riso che la sua lettura provoca, scombussolando tutte le familiarità del pensiero – del nostro cioè, di quello che ha la nostra età e la nostra geografia – sconvolgendo tutte le superfici ordinate e tutti i piani che placano ai nostri occhi il rigoglio degli esseri, facendo vacillare e rendendo a lungo inquieta la nostra pratica millenaria del Medesimo e dell’Altro”. (M. Foucault, Le parole e le cose, Milano, 1988, 5). In conclusione quando, per ovvie comodità di esposizione, si qualificherà in modo “tradizionale” un testo di Borges, la classificazione dovrà intendersi, per così dire, sempre “tra virgolette”. 36

In realtà sarebbe forse più corretto parlare di recezione da parte di Borges dei testi mistici come percepiti e

riproposti da Scholem. Inevitabilmente si tratta sempre di interpretazione di altre interpretazioni. D’altra parte, fortunatamente, il nostro ambito di studio consente, più di altri, di considerare fisiologico e non pregiudizievole tale 20

Si tratta di tappa ineludibile, anche perché consente di cogliere i fraintendimenti, consapevoli o involontari, di Borges nel percepire e interpretare la tradizione. Peraltro non si deve dimenticare che queste valutazioni non concernono, né possono riguardare, uno studioso, un filosofo o un mistico, ma sono orientate su un poeta o un “letterato” in senso lato: o meglio proprio su quell’autore, che, più di ogni altro, ha attenuato, complicandole tuttavia, le distinzioni di genere. Ne consegue che contaminazioni, “errori” storici, indebite forzature, specie nel caso dello scrittore argentino, da un lato possono addirittura aggiungere valore estetico al prodotto letterario, e dall’altro spingono a approfondire quale sia, aldilà di quanto espresso senza veli, il reale rapporto (o uno dei tanti possibili “reali” rapporti) fra il testo borgesiano e la mistica, convincendoci ad abbandonare la superficie per tentare arditamente un’immersione “abissale”. Compito, questo, quanto mai compatibile con la Cabbala. La fase centrale e, in astratto, più interessante del lavoro dovrebbe quindi essere l’”auscultazione” approfondita di un racconto di Borges, incentrato sul tema “apparente e svelato” del golem, ma aperto, naturalmente, a diverse esplorazioni. Questa opzione imporrà anche una breve introduzione del mito evocato e dei temi onirici connessi. Ciò sarà oggetto della terza sezione. Dopo l’accennata lettura “teoretica” dell’opera scelta - il racconto Le rovine circolari, che in chiave integrativa reclama un cenno anche alla poesia Il golem37,

pur non negando altri

espliciti riferimenti testuali - si cercherà infine di approdare a qualche modesta conclusione, ovviamente nel segno del pluralismo e della precarietà. La speranza è che alcuni, almeno, degli spunti di riflessione offerti possano essere debitamente approfonditi, confutati e discussi da studiosi in possesso di strumenti assai più appropriati e penetranti di quelli a mia disposizione. “Suppongo che le pagine essenziali Che mi esprimono stanno in quelle pagine

modo di operare. 37

La scelta delle letture è evidentemente arbitraria. Mi hanno guidato un personale e ineludibile orientamento estetico,

peraltro condiviso dalla critica, che annovera queste tra le opere più riuscite di Borges, e la convinzione che i motivi in esse contenuti siano vari, profondi e tali da consentire un’analisi ricca e trasversale dei temi mistici coinvolti e sviluppati anche in altri scritti del nostro autore: questi peraltro, almeno in parte, non saranno ignorati.

21

Che mi ignorano, non in ciò che ho scritto”. 38

II) I TEMI DELLA MISTICA EBRAICA TRATTATI NEI “SAGGI” DI BORGES 1)

38

Premessa

J.L. Borges, I miei libri cit., da La rosa profonda, in Tutte le opere cit., vol. 2, 731.

22

E’ giunto il momento di affrontare i temi della mistica ebraica 39 espressamente evocati dallo scrittore argentino, prima di svilupparli e approfondirli quando saranno trattati testi di taglio narrativo o di finzione, qualificabili come tali, con opportuna cautela, assecondando i più tradizionali criteri tassonomici 40. Mi soffermerò su alcuni scritti di Borges non particolarmente significativi sul piano letterario; “isolati” dalla produzione più importante essi sono utili, nei loro propositi dichiaratamente modesti, per valutare quale mistica si sia rappresentata il nostro autore e in che senso sia stata percepita. 39

Questa espressione, nella sua indubbia genericità, consente di accostare a Borges svariati temi che caratterizzano

“una serie di sistemi o semisistemi estremamente diversi” anche accreditabili a cenacoli mistici di periodi molto diversi, non esistendo d’altra parte “la dottrina dei cabalisti” (G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo cit., 114). La precisazione non elimina peraltro il problema, ben diverso, della recezione o percezione della mistica da parte di Borges, che, come si vedrà, non prestando dichiaratamente attenzione alle questioni di ordine storico o filologico e tradendo l’avvertimento di Scholem, tende proprio a considerare unitaria la dottrina, generalizzandola inevitabilmente. 40

Ovviamente non ci si riferisce solo alla fiction dei racconti fantastici “tradizionali”, o a opere poetiche di taglio

“narrativo”, ma anche a saggi o poesie di argomento teologico o metafisico. Per espressa affermazione di Borges, teologia e metafisica costituiscono rami della letteratura fantastica. Scrive il nostro autore: “Io ho compilato una volta un’antologia della letteratura fantastica. Ammetto che quell’opera è fra le pochissime che un secondo Noè dovrebbe salvare da un secondo diluvio, ma denuncio la colpevole omissione degli insospettati e massimi maestri di quel genere: Parmenide, Platone, Giovanni Scoto Eriugena, Alberto Magno, Spinoza, Leibniz, Kant, Francis Breadley.”(J. L. Borges, Note critiche, da Discussione in Tutte le opere cit., vol..1, 429-430) Tale convinzione è ribadita anche nell’opera narrativa dello scrittore argentino. In uno dei suoi più celebri racconti, Tlon, Uqbar, Orbis Tertius, da Finzioni, in Tutte le opere cit., Vol. 1, 631, si legge: “I metafisici di Tlon non cercano la verità, e neppure la verosimiglianza, ma la sorpresa. Giudicano la metafisica un ramo della letteratura fantastica.” D’altra parte, come è noto, una drastica separazione tra genere “letterario” e genere “filosofico” può essere arbitraria anche se applicata a scrittori meno singolari e “consapevoli”del nostro autore. La questione, non strettamente pertinente al nostro studio, è ardua e coinvolge ovviamente la stessa delimitazione dell’ambito letterario in quanto tale (la celebre domanda “che cosa è letterario?”). E’ indubbio peraltro il livellamento di differenza di genere, sottolineata fra gli altri da Habermas, tra filosofia e scienza, da un lato, e letteratura dall’altro (J. Habermas, Il pensiero post metafisico, Roma-Bari 1991, 237 ss.). Ed è innegabile che la filosofia possa, a pieno titolo, essere considerata “anche un genere letterario”. (Cfr.Gentili, La filosofia come genere letterario, Bologna, 2003, 9). Cfr. anche C. Di Girolamo, Critica della letterarietà, Milano, 1978. D’altra parte anche la mistica ebraica solleva lo stesso interrogativo. Non per nulla Scholem, ne La Kabbalah e il suo simbolismo cit., a pag. 111, la definisce una filosofia narrativa.

23

Restiamo quindi in una fase, per così dire, strumentale: vediamo con quali mezzi ha lavorato Borges sui suoi testi. Prima di esaminarli occorre fare un piccolo passo indietro. Al di là delle considerazioni filologiche sulle origini della Cabbala, non pertinenti al mio studio, se non entro i limiti, assai ristretti, che consentono di “smascherare” talune “misinterpretazioni” del nostro autore, non si può prescindere, per cercare di comprendere l’impatto di questo materiale sulla produzione letteraria di Borges, da qualche precisazione ulteriore sulla mediazione di G. Scholem, sua principale fonte di informazione. La lettura di un libro come Le origini della Kabbalà impressiona, fra l’altro, per l’estrema, inevitabile, cautela con cui il grande studioso berlinese tratta il difficile e in parte oscuro problema della genesi delle correnti mistiche in Provenza. Scholem si guarda bene dal pervenire a conclusioni certe e, pur prospettando reciproche influenze, in periodi diversi, tra gnosi antica, gnostica di matrice ebraica, neoplatonismo, neopitagorismo e catarismo, localmente assai rilevante 41, resta assai lontano da qualsiasi tentazione di sovrapposizione o identificazione tra questi distinti filoni, cercando anzi di enuclearne e salvaguardarne le rispettive peculiarità 42. 41

Nella sua ricostruzione delle origini del movimento in Provenza, verso la fine del XII secolo, Scholem accenna

all’influenza esercitata anche dai perfecti catari e al forte ascendente neomanicheista, attribuibile ai bogomili. (G. Scholem, Le origini della Kabbalah, cit,. 287). 42

“Quando Scholem azzarda qualche conclusione, lo fa in modo piuttosto generico: “La Kabbalà provenzale ha

avuto, come funzione, di unire la vecchia tradizione gnostica, che aveva le sue origini in Oriente e vi proseguiva un’esistenza sotterranea, al neoplatonismo medievale.” (Scholem, op. ult. cit., 450). Si sottolinea sin d’ora che lo studioso berlinese, come si vedrà anche infra, non pare necessariamente attribuire al termine “gnosi” quell’accezione “eversiva” o antinomica che, viceversa, Borges privilegia. L’uso spesso generico e non qualificato, da parte di Scholem, di questa etichetta, risponde, mi pare, alla sua deliberata intenzione di non qualificare la gnosi sotto il profilo contenutistico o fenomenologico, ma solo di evocarla sul piano storico, comprendendovi, in sostanza e alla lettera, tutti i movimenti religiosi della tarda antichità orientati a raggiungere una “conoscenza perfetta e superiore del divino” (Cortelazzo e Zolli, Il nuovo etimologico, voce Gnosi, 674). In definitiva, come si vedrà tra poco, quando Scholem intende riferirsi alla gnosi “dualistica” o antinomica, che caratterizza soprattutto alcuni sviluppi della Cabbala luriana, lo scrive espressamente. Sulla “genericità” con cui Scholem tratta il tema gnostico trovo conforto nell’opinione di Moshe Idel: “Nell’opera di Scholem non troviamo altro che fuggevoli osservazioni a proposito delle fonti gnostiche, catare o cristiane. Per quanto egli abbia più volte osservato l’influenza dello gnosticismo sulla Cabbalà, un’analisi estensiva dell’interrelazione di questi due sistemi speculativi non compare in nessuna delle sue opere.” (M. Idel, Cabbalà Nuove Prospettive cit., 38).

24

Lo studioso, dopo avere delineato, agli albori della Cabbala provenzale, la dialettica, patrimonio del pensiero ebraico, tra l’inconoscibile e trascendente Causa Prima (la Causa delle Cause), e Jotzèr Bereshith, il Creatore, che opera come manifestazione del Dio nascosto, pone la massima attenzione nel distinguere tra questo demiurgo mistico e l’entità, pur preposta alle medesime funzioni, ma inferiore, decaduta e di valore minore nella gerarchia dell’essere, propria del dualismo gnostico 43. Ora, se è vero che Scholem non nega affatto l’influenza esercitata sulla Cabbala provenzale dalla gnosi44, termine peraltro assai generico utilizzato per definire movimenti spesso molto diversi fra loro45, e se pure è vero che lo stesso autore rileva la tendenza della mistica ebraica ad alimentarsi di una dialettica fra innovazione e conservazione, modificando dall’interno la tradizione e poi cristallizzandola, anche per farla accettare come tale alla comunità46, sarebbe però arbitrario - e altresì indebito attribuire tale conclusione allo studioso berlinese - affermare l’equazione tra gnosi, Cabbala e ortodossia, soprattutto là 43

G. Scholem, Le origini della Kabbalah, cit., 260. Sottolineo che la figura demiurgica di Jotzèr Bereshit appare nello

Shi’ur Qomà, il cui autore, peraltro, proclama l’assoluta unità tra il Creatore, manifestazione visibile della Divinità, e il Santo, che dimora nascosto e che possiamo solo lodare (R. Goetschel, La Cabbalà, Firenze, 1995, 31). 44

E anzi altri studiosi criticano l’insistenza con cui Scholem vi si riferisce: “Il limite forse maggiore del suo

approccio teorico consiste nel far derivare molti aspetti del pensiero mistico giudaico dallo gnosticismo, così da spiegare le dottrine cabalistiche alla luce di una categoria storica e concettuale a esse in gran parte estranea”. (Cfr. G. Busi, La Qabbalah cit., 124-125). Forse meno drasticamente, ma in direzione sostanzialmente analoga si muove anche Idel (cfr. Cabbalà Nuove Prospettive cit., pp. 44-46). 45

Questo termine, nel complesso - lo si è accennato - scarsamente denotativo, raggruppa diversi sistemi o correnti

religiose sorte nel tempo, soprattutto nei primi cinque secoli dell’era cristiana in Egitto, Medio e Vicino Oriente, a contatto o ai margini del cristianesimo, come, ma non solo, manifestazioni considerate devianti ed eretiche (in tal caso si parla più frequentemente di “Gnosticismo”). Accanto però alle sette sviluppatesi in ambito giudeo cristiano altre se ne sono aggiunte: l’ofitismo, il sethismo, le dottrine dei c.d. “grandi gnostici” (Basilide, Carpocrate, Valentino e altri), le “eresie” denunciate da Ireneo, le c.d. “gnosi pagane” (ermetismo, esoterismo degli alchimisti, teosofia degli Oracoli Caldei, sabeismo, mandeismo e soprattutto manicheismo). Un panorama vastissimo, in cui gli aspetti comuni delle correnti sono spesso ardui da riscontrare, eccettuati forse la particolare sensibilità per il problema del male e, per alcune, l’accentuato dualismo. Cfr. H.C. Puech, Sulle tracce della gnosi, Milano, 1985, 14. Scholem (in La Kabbalah e il suo simbolismo cit., 124-125) avanza con cautela l’ipotesi che dopotutto lo gnosticismo – almeno in alcuni dei suoi motivi più fondamentali – forse era nato, in parte, nello stesso popolo ebraico, era una rivolta contro l’avversione dell’ebraismo per il mito, un’esplosione di forze mitiche tarde e già rivestite di una forma concettuale ed argomentativa, ma tanto più intense.

25

dove questa identità minasse, introducendo un oscuro dualismo nel tentativo di spiegare la presenza del male nel mondo, uno dei principi cardine dell’ebraismo, quello dell’unicità e dell’unità di Dio. Ebbene,

ed

eccoci

ritornati

al

nostro

tema,

questo

è

un

primo

”errore” 47

(o

“misinterpretazione”) di Borges. 2)

La conferenza di Borges al Teatro Coliseum

Lo scrittore argentino solo in apparenza fa propria - in realtà semplificandola all’eccesso con abusive e fuorvianti generalizzazioni, che la radicalizzano e, per così dire, in senso teologico la “demonizzano” - l’interpretazione di Scholem sui rapporti tra gnosi, Cabbala ed ortodossia ebraica. In un suo testo espressamente dedicato all’argomento, Borges sospetta infatti che “il modus operandi dei cabalisti fosse dovuto al desiderio di inglobare pensieri gnostici nella mistica ebraica, per giustificarsi con la Scrittura e per serbare l’ortodossia” 48. Il citato scritto sulla Cabbala appartiene a un genere che ricorre più frequentemente nella produzione letteraria tarda di Borges. E’ un breve saggio discorsivo predisposto per una platea più vasta del solito. Lo scrittore argentino, come talvolta gli accade nelle vesti di conferenziere, pur non rinunciando al proprio inconfondibile stile, non disdegna il ruolo di divulgatore, giocando con il tono sfumato dell’amabile conversatore. Si tratta, per così dire, di un inventario di argomenti, quasi di un invito alla lettura e all’approfondimento, che dichiaratamente non vanta pretese di attendibilità scientifica, cadendo, come vedremo, in fraintendimenti anche piuttosto vistosi, pur se, a mio avviso, forse non sostanziali. 46

G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, cit, 6-42. Nel primo paragrafo del capitolo I delle Massime dei Padri

(Pirké Avòt), Milano, 1988, 17, sta scritto: “Moshé ricevette la Torà sul Sinày e la trasmise a Yehoshùa; Yehoshùa la trasmise agli Anziani e gli Anziani ai Profeti; e i Profeti la trasmisero ai membri della Grande Assemblea.” 47

Sia pure in parte indotto da Scholem (cfr. nota 43), per l’accentuazione, da parte dello studioso berlinese, del

contributo gnostico sulle origini della Cabbala. Peraltro, si ribadisce, tali marcature sono arbitrariamente moltiplicate da Borges. 48

J.L. Borges, La cabala, in Sette notti, Milano, 1983, 108. Si tratta di una conferenza su questo tema, tenuta da

Borges al Teatro Coliseum di Buenos Aires nel 1977 e raccolta, con altre sei relazioni su argomenti diversi, nell’opera testé citata.

26

Lo scritto è comunque utile per comprendere in che modo, e attraverso quali conoscenze ed equivoci, il pensiero ebraico è stato assimilato ed interpretato dal nostro autore. Il primo concetto trattato è quello della sacralità del testo e delle lettere che lo compongono. Il

secondo

tema

è

straordinariamente

borgesiano:

se

una

Divina

Intelligenza

ha

materialmente redatto le Scritture, nulla può esservi di casuale in un’opera per definizione soprannaturale49. E’ un motivo assai fecondo; sarà approfondito tra poco. Altri argomenti, connessi al primo, sono la creatività della parola pronunciata50, l’anteriorità, rispetto a essa, delle lettere dell’alfabeto ebraico e l’attendibilità di qualsiasi crittografia e decifrazione del testo sacro, convalidata dall’Intelligenza Suprema che la garantisce, e fonte, in ultima istanza, della dottrina mistica. Quindi Borges espone una versione della teoria dell’En Soph emanano una dall’altra dissociato

51

antagonismo

e delle dieci Sephirot, che

e giocano, secondo la prospettiva del nostro autore, un ruolo di rispetto

all’Infinito

Primordiale,

giustificando

una

creazione

52

altrimenti logicamente impossibile . Tale antinomia, che avvalora, esaltandolo all’eccesso, il sostrato gnostico dualistico e il versante neoplatonico “antimaterialistico” della dottrina, trova due soluzioni diversamente

49

“La Scrittura è un testo assoluto…In un testo assoluto niente può essere opera del caso” (Borges, op. ult. cit 111).

50

“Di qui la conclusione che il mondo fu creato dalla parola luce o dall’intonazione con cui Dio pronunciò la parola

luce. Se avesse detto un’altra parola e con un’altra intonazione, il risultato non sarebbe stato luce, sarebbe stato diverso”. Borges, op. ult. cit., 109. 51

Borges, op. ult. cit. 112.

52

“E che altra cosa potrebbe creare (’En Soph, n.d.r.) se non un altro essere infinito che si confonderebbe con lui?”

(Borges, op. ult. cit., 112).

27

orientate: da una parte le Sephirot formano l’Uomo Archetipo: “Tutti sono inclusi nell’Adamo Kadmon53, che comprende l’uomo e il suo microcosmo; tutte le cose” 54. Dall’altra, come avviene, secondo Borges, nella gnosi di Ireneo 55 con l’ultima emanazione del pleroma, quella la cui parte divina si è tanto indebolita da non potere altro - limitata dalla sua propria estenuazione - che dar vita a un mondo imperfetto doloroso ed erroneo, lo stesso meccanismo di corruzione opera nelle Sephirot della Cabbala, che perdono forza a mano a mano che si allontanano dall’En Soph, deludendo nell’esito creativo finale 56. Non occorre essere profondi studiosi di mistica ebraica per cogliere l’unilateralità arbitraria di questa interpretazione, che, per cercare di spiegare l’universale presenza del male e dell’infelicità, non distingue, in sostanza, tra una certa gnosi e Cabbala, e attribuisce erroneamente, almeno se tale concezione deve intendersi quella ortodossa e condivisa, una scansione discriminante e gerarchica alle Sephirot, disconoscendo così i notevoli e sottili contributi offerti dall’ebraismo per tentare di affrontare in modo originale e meno sconfortante l’angoscioso problema della teodicea 57. Tuttavia, senza volere evocare il tema del creative misreading, peraltro tanto opportuno per giudicare correttamente l’apporto e l’esegesi delle fonti (e quindi anche di quelle di nostro interesse) nell’opera di Borges, si sottolinea che l’indagine condotta non dovrebbe presupporre una coerente, corretta e sistematica assimilazione del pensiero mistico ebraico 53

Secondo Scholem questa espressione ricorre per la prima volta nella letteratura cabbalistica del cenacolo di Iyyùn

nel Mistero della Scienza e della Realtà, prima d giungere ai mistici di Castiglia e allo Zohar, (Scholem, op.ult.cit. 419). Scrive Mopsik, in Cabala e i cabalisti cit., 45, che a David ben Judah he-Hassid (autore del XIV secolo spagnolo) si deve una concezione dell’Adam Kadmon o Uomo Primordiale “che fa di lui la figura antropomorfica dell’Infinito (En Soph), concezione che sarà ampiamente sviluppata nel XVI secolo a Safed”. 54

Borges, op. ult. cit., 112-113.

55

Intende probabilmente dire Borges, la c.d. falsa gnosi confutata da Ireneo nella sua celebre opera conosciuta con il

titolo improprio Adversus haereses (la traduzione letterale dal greco recita “Smascheramento e confutazione della falsa gnosi”). Cfr. Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti, Roma, 1949, Vol. XIX, voce Ireneo, 540. 56

Borges, op. ult. cit., 113

57

Come scrive in modo molto chiaro Georges Vajda (in Introduction à la pensée juive du moyen age, Parigi, 1947,

205), i Cabbalisti si sforzano disperatamente di evitare che la dualità tra le Sephirot Misericordia e Rigore possa trasformarsi in dualismo gnostico. Cfr., sul tema della teodicea, anche le dispense del corso del Prof. G. Laras, Il problema della giustizia divina nella tradizione biblica, talmudica e medievale, Milano, 1998. 28

da parte dello scrittore argentino, dato di fatto inesistente, ma piuttosto sarebbe da orientare verso la ricerca dell’influenza di taluni elementi del pensiero ebraico sulla sua produzione letteraria, aldilà dell’”interpretazione autentica” che l’autore direttamente suggerisce in questo suo scritto, a mio avviso, da non sopravvalutare. Si potrà cogliere qualcosa di più importante e più profondo nel “non detto”, nel “non dichiarato”. In tal senso Borges, benché autore in genere lucido, e consapevole critico di sé, non eccepisce, almeno in questo caso, alla diffusa e fondata opinione secondo cui un’opera può essere più proficuamente studiata alla luce dell’esito creativo di un processo, spesso inconscio, di elaborazione del materiale letterario, filosofico o mistico utilizzato, senza tenere conto, se non per la ricostruzione storica e filologica del testo esaminato, delle opinioni, spesso fuorvianti o deludenti, espresse direttamente dallo scrittore sulle fonti utilizzate: specie se questi punti di vista sono manifestati con disinvoltura e nonchalance in una affollata conferenza che Borges, sapientemente, non ha incluso, insieme alle altre sei che compongono il volume Sette notti, nella propria opera omnia canonica. D’altra parte in un racconto compreso in una delle sue più note raccolte, I teologi58, il nostro autore mi dà ragione, elaborando in modo sensibilmente diverso il suo “materiale enciclopedico”: le Sephirot non sono più, o non sono solo, le emanazioni gnostiche strutturate in una gerarchia degenerativa dell’Ente, ma piuttosto paiono evocare i mondi del neoplatonismo, dei quali l’universo inferiore è un riflesso. In altri termini, l’accento viene posto, in tal caso, sulla specularità tra macrocosmo e microcosmo. Questa dottrina, che probabilmente si deve a una più approfondita meditazione di taluni spunti offerti dallo Zohar, gli consente di elaborare un’ingegnosa variante narrativa pseudoepigrafica sul tema, a lui caro, del “doppio” 59. 58

Da L’Aleph, Tutte le opere cit., Vol. 1, 795-803.

59

Scrive Borges nel racconto citato (p.799): “Nei libri ermetici è scritto che quel che sta in basso è uguale a quel che

sta in alto, e quel che sta in alto uguale a quel che sta in basso; nello Zohar, che il mondo inferiore è un riflesso di quello superiore”. Negli scritti cabalistici del cenacolo Iyyùn, in cui fa irruzione il neoplatonismo, le Sephirot hanno funzione di specchi, che raccolgono la luce di Dio proveniente dall’alto, riflettendola verso il basso. Scrive Scholem (Le origini della Kabbalà cit., 408): “Esse (le Sephirot, n.d.r.) sono pure “”specchi luminosi”” della Divinità, dai quali la sua luce si riflette su tutto il reale”. Inutile sottolineare la fecondità di questa idea sull’opera di Borges, che fa del tema dello specchio (e del doppio) uno dei simboli più noti e ricorrenti della sua poetica. Così pure si deve sottolineare che il neoplatonismo, movimento di pensiero notoriamente implicato nelle speculazioni medievali della mistica ebraica, fornisce allo scrittore argentino spunti formidabili alle sue “riflessioni narrative” sull’idealismo (si pensi al già citato, notissimo, Tlon, Uqbar cit., 623 ss.). Quanto al tema del doppio, che ricorre frequentemente 29

Tuttavia, tornando a noi, l’assai meno memorabile saggio sulla Cabbala non può essere trascurato, perché offre altri importanti spunti di riflessione. Il tema della teodicea colpisce profondamente il nostro autore. In sostanza Borges attribuisce a “questa” mistica, così fortemente e soggettivamente orientata verso la gnosi dualistica 60, il merito di una riflessione sull’innegabile esistenza del male più matura e consapevole di quella divulgata dalla comune opinione della teologia cristiana61, impegnata nell’imbarazzato tentativo di negarne lo statuto ontologico, riducendo il problema in termini di assenza di bene.

nell’opera di Borges, si ricorda che nei menzionati Colloqui con Costantini (op. cit., 16) lo scrittore, riferendosi al racconto fantastico L’altro, dice: “Per gli ebrei l’apparizione del doppio non era il presagio di una prossima morte. Era la certezza di avere raggiunto lo stato profetico, come spiega Gershom Scholem. Una tradizione raccolta nel Talmud racconta di un uomo che cercando Dio, incontra se stesso.” Con riferimento al mito della creazione, cfr. anche El’azar di Worms, Il segreto dell’opera della creazione, Genova, 2002, 38: “Iddio creò due esseri per ogni cosa”. 60

Nel variegato paesaggio dei sistemi gnostici, la corrente che postula il Dio trascendente infinitamente buono del

Nuovo Testamento, opposto a un demiurgo identificato con la divinità dell’Antico Testamento, è quella caratterizzata, come si è detto, dal più spiccato antisemitismo metafisico o teologico (cfr. Goetschel, La Cabbalà, cit., 31), fondata come è su una netta cesura, che spezza l’unità della Bibbia cristiana, annichilendo la figura di Dio nel Vecchio Patto (“Lo gnosticismo, una delle ultime grandi manifestazioni del mito all’interno del pensiero religioso, concepito almeno in parte nella lotta contro gli ebrei,.che lo avevano superato, ha fornito ai mistici ebrei il loro linguaggio” G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, cit., 125). Pare d’altra parte più saggio, anche perché non è possibile ora approfondire il complesso tema in modo appagante, attribuire valenza gnostica in seno all’ebraismo alle correnti mistiche che hanno, per così dire, “riqualificato” elementi già presenti, per esempio, nella mistica del Trono, concependoli “come ingredienti di un dramma cosmico” (cfr. G. Laras, La mistica ebraica e il pensiero cabalistico cit., 37). In questo modo non si nega affatto né, ovviamente, l’influenza o la presenza di elementi gnostici nella Cabbala, né il loro significato, se così si può dire, per certi aspetti “eversivo” (come se qualcosa, nella fase iniziale del processo cosmico o cosmogonico “non avesse funzionato”) e legato infine alla teodicea (si pensi alla Cabbala luriana, in cui il dramma trova il suo scenario più ampio). Ciò che si vuole sottolineare, piuttosto, è la preoccupazione della mistica ebraica di salvaguardare il principio dell’Unità e, conseguentemente, la tendenza, in ogni fase di sviluppo, a riequilibrare e a far “rientrare” ogni possibile devianza (sempre avvertita come tale) verso un dualismo mai accettato. Se il male nasce da un’incrinatura nell’unità di Dio, il mistico farà ogni sforzo per saldare la frattura, per restaurare l’equilibrio fra Rigore e Misericordia, evitando che il dualismo si imponga e si radicalizzi,. 61

Essenzialmente di matrice agostiniana.

30

Il nostro autore ritiene più convincente e realistico giustificare la presenza della sofferenza assecondando più ardite concezioni. Esse vengono legate, direi in modo antitetico, alla incommensurabilità e, per così dire, alla irrazionale 62 indecifrabilità della imperscrutabile e “mostruosa” Divinità quale letteralmente si dispiega nel libro di Giobbe 63, ovvero, all’opposto, al suo venir meno e “tendere a zero”, secondo la soluzione cabbalistica (di borgesiana lettura), là dove Dio deve impastare questo mondo con materiale ostile 64. Un eccesso e un deficit di potenza divina, così mi pare, determinano paradossalmente il medesimo effetto: la sofferenza. Il repertorio tematico si chiude con un cenno alla leggenda del golem, argomento che in questo lavoro sarà ampiamente trattato in seguito. 62

Borges esprime in modo esteticamente più appagante la natura “irrazionale” e “mostruosa” della divinità, evocando

Leviatano e Behemot, nel racconto Tigri azzurre, da Tre racconti, in Tutte le opere cit., Vol. II, 1140 (“..Le pietre che erano anche Behemoth o Leviatano, gli animali che significano nella scrittura che il Signore è irrazionale”). Va citata anche la voce Behemot nel Manuale di zoologia fantastica, scritto da Borges in collaborazione con M. Guerriero, Torino 1998, 32. 63

Si tornerà anche in seguito sul tema della rappresentazione della Divinità da parte di Borges. Si sottolinea in ogni

caso, per quanto riguarda questo particolare profilo, la notevole influenza esercitata sul nostro autore dalla lettura del libro di Giobbe, opera, come si è detto, considerata eccelsa dallo scrittore argentino. In tale prospettiva è forse opportuno rilevare, facendo nostre le osservazioni dello storico francese Minois (in Storia del riso e della derisione, Bari, 2004, pp. 130-132), che qualcuno ha voluto scorgere, in quella singolare, spettacolare fenomenologia del divino evocata dal testo biblico citato, una delle prime manifestazioni dell’”umorismo ebraico” che tanto farà scrivere in seguito. Certo, per quanto discutibile sia questa interpretazione, è possibile che essa possa sposarsi con il pensiero di Borges, notoriamente non sprovvisto di ironia e sicuramente incuriosito e attratto da teorie bizzarre e immagini inconsuete. Secondo E. Aizenberg (in Borges, el tejedor de l’Aleph cit., 77), lo spiccato interesse di Borges per gli ultimi capitoli del libro troverebbe invece una ragione proprio nella spettacolare epifania di una Divinità enigmatica, fantastica e per certi aspetti mostruosa. Tale raffigurazione sarebbe coerente con l’unica tonalità cromatica o stilistica adeguata a rappresentare l’insondabile, e altrettanto enigmatico, mostruoso, fantastico, etc., Universo: “Lo insondable (lo problematico) descrito mediante lo insondable (lo fantastico): èstos son el tema y la técnica que Borges adivina en el Libro de Job.” (op.ult.cit., 76). L’arsenale fantastico del mondo letterario dello scrittore argentino proverrebbe quindi, almeno in parte, dalla Bibbia e in particolare dal Libro di Giobbe. Tesi sicuramente condivisibile nella parte in cui spiega l’interesse di Borges per questo testo, ma forse, per quanto acuta, un po’ troppo unilaterale nel dare conto da sola della complessità dell’universo fantastico dello scrittore, sicuramente debitore di innumerevoli ed eterogenee “influenze” (tra le quali innegabilmente quella biblica ha un posto di notevole rilievo). 64

J.L. Borges, op. ult. cit.116.

31

Nella relazione borgesiana l’evocazione del mito si ramifica nei temi ai quali esso allude: quello teoretico della creazione e della funzione della parola divina nell’atto demiurgico, e quello dell’aspetto pratico o “magico” della conoscenza e della pronuncia del Tetragràmaton. Borges, che narra qui alcune delle versioni della leggenda 65, ne trae spunto per accennare, alla conclusione del saggio, l’insegnamento, per così dire, definitivo, della dottrina mistica: “In ognuno di noi c’è una particella di divinità. Il mondo non può essere, evidentemente, l’opera di un Dio onnipotente e giusto, ma dipende da noi” 66. Questa enunciazione, tanto netta quanto, almeno in parte, discutibile, è rivelatrice della concezione della mistica ebraica che Borges si è formata. E’ tra i miei propositi cercare di distinguere in tale affermazione quanto pare corretto e in armonia

con

il

pensiero

teosofico,

da

ciò

che,

al

contrario,

sembra

frutto

di

un’interpretazione unilaterale e accentuatamente antinomica, se non decisamente “eretica”, della Cabbala. In ogni caso, la conclusione alla quale lo scrittore perviene consente già di individuare un movimento di pensiero comune ai due ambiti di studio: la stretta, intima correlazione tra l’uomo e la divinità. La “misinterpetazione” borgesiana in questa fase non è dunque, a mio avviso, radicale. Tuttavia i termini del rapporto tra uomo e Dio devono essere, se possibile, precisamente definiti. Come spero di poter chiarire nel prossimo capitolo, questo legame si manifesta in modo molto più esplicito, complesso e consapevole nella mistica ebraica interpretata da Scholem e Idel. Quanto a Borges, la qualità, l’intensità e la drammaticità della relazione tra l’umano e il divino non sempre traspaiono in modo profondo nella produzione “saggistica”; si potranno forse leggere meglio nella trasfigurazione letteraria del mito del golem.

3)

“Una rivendicazione della Cabala”

65

Espressamente tratte da Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, cit., pp. 201-257.

66

Borges, op. ult. cit. 118. Che la creazione e la permanenza del mondo dipendano (anche) dall’uomo, come cercherò

di evidenziare tra poco, è un punto nodale del pensiero mistico ebraico. Lo scrittore argentino e ciò sarà, spero, chiarito nel prossimo capitolo, non sembra credere tuttavia nella cooperazione tra Dio e l’uomo: ora, come in questo caso, cancella Dio, ora, come vedremo infra, detronizza Adamo.

32

Parzialmente diverso è l’approccio di Borges al tema della Cabbala in un breve scritto inserito in una raccolta di “saggi” fra le più datate della sua produzione (1932), ma contemplata nel suo canone, per così dire, definitivo 67. Seguire la cronologia delle opere dello scrittore argentino avrebbe senso solo se il nostro fosse un autore lineare e progressivo. Non lo è, e questo consente di assecondarne la circolarità, disattendendo, quando non servono, le scansioni temporali, a favore di una dimensione, direi, se il termine non fosse troppo promettente, fenomenologica. Mentre nella più recente relazione, descritta nel precedente capitolo, Borges enuclea alcuni temi della mistica, profilando quindi un approccio contenutistico, in questo più ambizioso testo lo scrittore argentino si sofferma prevalentemente sull’aspetto metodologico: “Non voglio rivendicare la dottrina, bensì i procedimenti ermeneutici o crittografici che ad essa conducono”68. La Bibbia, come è ritenuto dalle fedi cristiana ed ebraica, è opera dello Spirito e “ tale concetto fa di evangelisti e profeti altrettanti segretari di Dio, i quali scrivono sotto dettato ”. Dopo un’ampia digressione sul dogma trinitario, un caso di teratologia intellettuale..un vano cerbero teologico..69, Borges chiude il breve scritto celebrando uno dei suoi temi prediletti: le conseguenze che si possono trarre dall’esistenza, dalla materiale ed effettiva disponibilità, per così dire, di un testo redatto da un’infinita intelligenza. Nessuna alea può viziare le Scritture, che formano un testo assoluto, in cui la collaborazione del caso è computabile zero70. E’ prodigioso che un testo dalle caratteristiche siffatte esista. Tale è la premessa. Quest’altra è la vertiginosa conclusione dello scrittore argentino: ”Un libro impenetrabile alla contingenza, un meccanismo dagli scopi infiniti, di variazioni infallibili, di rivelazioni in

67

Una rivendicazione della Cabala, da Discussione cit., in Tutte le opere cit., Vol. 1, 330-334.

68

J.L. Borges, op. ult. cit., 330. Continua l’autore: “Questi procedimenti, come si sa, sono la lettura verticale dei testi

sacri; la lettura chiamata bustrofèdica (da destra a sinistra, una riga, da sinistra a destra la seguente), la metodica sostituzione di certe lettere dell’alfabeto con altre; la somma del valore numerico delle lettere, eccetera.” 69

J.L. Borges, op. ult, cit., 331. Il tema, estraneo a questo lavoro, è ottimamente approfondito da S. Fresko, in Quel

“vano cerbero teologico”. L’idea di Dio in Jorge Luis Borges, tesi di laurea, Milano, 2002, pubblicata nel sito Borges Center, all’indirizzo http://www.hum.au.dk/romansk/borges/lastnews.htm 70

J.L. Borges, op. ult. cit., 334.

33

agguato, di luci sovrapposte, come si può non interrogarlo fino all’assurdo, fino alla prolissità numerica, come fece la cabala?” 71. La riflessione, la più risalente fra le meditazioni di Borges sulla mistica ebraica, è anche la più ribadita e frequente; forse è la più profondamente radicata. Essa, a mio avviso, svela la ragione prevalente dell’interesse e della curiosità intellettuale del nostro autore per la Cabbala72. La rilevanza – e l’enfasi - di quell’affermazione impongono qualche approfondimento. Come si è già sottolineato, l’argentino, tra i più recenti scrittori di fama mondiale, è quello che forse meno ha idealizzato l’apporto individuale “originale” o creativo dell’”Autore”, preferendo giocare – non senza civetteria - il ruolo meno appariscente di sodale di una comunità letteraria che ha prodotto, paradossalmente, un unico libro, con un numero illimitato di pagine 73 o formato, all’opposto, da una sola parola infinitamente significativa 74. 71

J.L. Borges, op. ult. cit., 334.

72

Un’altra possibile ragione dell’interesse di Borges per la Cabbala (e qui mi riferisco in particolare alla corrente

“estatica-devozionale” identificata anche come “Dottrina dei nomi”, e alle innumerevoli varianti, anche di indole teurgica, legate all’esegesi del Tetragràmaton) è verosimilmente individuabile nella sua curiosità intellettuale per l’ars combinatoria delle lettere, elaborata, fra gli altri, da Lullo, Giordano Bruno, Leibnitz. In un suo “saggio”, tratto dalla raccolta Altre inquisizioni (L’idioma analitico di John Wilkins, in Tutte le opere cit., Vol. 1, 1004), il nostro autore scrive di un idioma universale inventato dal (probabilmente) immaginario John Wilkins. E’ un linguaggio in cui “ogni parola definisce se stessa” e “ciascuna delle lettere che compongono (le parole) è significativa, come lo furono quelle della Sacra Scrittura per i cabalisti.” 73

J.L. Borges, Il libro di sabbia, dall’omonima raccolta, in Tutte le opere cit., Vol. 2, 648.

74

“Non c’è sulla terra una sola pagina, una sola parola che lo sia (semplice, n.d.r.), perché tutte quante postulano

l’universo, il cui più noto attributo è la complessità.” (J.L. Borges, Prologo de Il manoscritto di Brodie, in Tutte le opere cit., Vol. 2, 369). Va ricordato anche il racconto Lo specchio e la maschera, da Il libro di sabbia cit., in Tutte le opere cit. Vol.2, 617, in cui il nostro autore narra di un poeta che recita un poema di una sola riga, nella quale, in qualche modo, sono racchiuse tutte le meraviglie dell’universo. Ma Borges, con un’operazione le cui analogie col pensiero ebraico paiono immediate, è solito trasferire l’infinita polisemia della parola, o l’implicazione di una sola parola nelle trame dell’universo, al piano diverso, eppure identico, della cosa. Esemplare in questo senso è la poesia The unending rose, da La rosa profonda., in Tutte le opere cit. , Vol. 2, 745:“ Sono cieco e ignorante, ma intuisco/Che sono molte le strade. Ogni cosa/E’ infinità di cose. Sei musica,/Firmamenti, palazzi, fiumi, angeli,/Rosa profonda, illimitata, intima,/Che Dio indicherà ai miei occhi morti”. D’altra parte nell’opera di Borges questa alternanza tra l’infinitamente piccolo (per esempio l’Aleph, che contiene tutti i punti dello spazio) e l’infinitamente grande (la Biblioteca di Babele, ossia l’universo che altri chiama la biblioteca, cfr. La biblioteca di Babele, da Finzioni, Tutte le 34

L’opportunità, storicamente fondata, sia pure attraverso un atto di fede (ma una religione rivelata è un fatto storico e la storia è la “madre della verità”, come scrive il nostro citando Cervantes in un suo noto racconto75), di disporre di un testo sacro ispirato o “dettato” dalla Divinità offre a Borges spunti assai fecondi. Alcune idee le esprime direttamente; altre, forse anche arbitrarie e non necessitate, possono scaturire dalla riflessione principale, e saranno ora cautamente prospettate, per essere poi verificate con l’analisi testuale del racconto Le rovine circolari. Non può sfuggire in ogni caso l’analogia tra la Bibbia, palinsesto per eccellenza, sul quale si iscrivono le infinite, incessanti varianti della Tradizione ebraica, e qualsiasi altro testo, privo delle stesse garanzie di sacralità, soggetto a sua volta a innumerevoli interpretazioni (e creative “misinterpretazioni”) da parte della tradizione letteraria. Una comunità di mistici assicura, adempiendo al senso etimologico della Kabbalà, la ricezione76 e trasmissione della Torah orale. Una comunità letteraria provvede, in modo analogo, a perpetuare la tradizione dei classici rileggendoli, rinnovandoli, riscrivendoli. Anche il letterato come il mistico ricorre a una parola più ricca di significato, o ricca di più significati77. In questo senso non è forse arbitrario assegnare alla Cabbala, geneticamente ed etimologicamente intesa, la funzione di grande metafora della letteratura, almeno così come essa è vissuta e interpretata da Borges e da una parte della critica contemporanea 78. opere cit., Vol. 1, 680), riassorbita nella nozione comune di inesauribilità, ricorre frequentemente, ponendo in evidenza, secondo la lettura che ne dà Quaglia (Una lettura filosofica dei racconti di Borges, Roma, 2000, pp. 7-18) il rapporto tra lo scrittore argentino e l’Assoluto, alluso attraverso il linguaggio simbolico. 75

“La verità la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e notizia

del presente, avviso dell’avvenire.” J.L. Borges, Pierre Menard, autore del ”Chisciotte”, da Finzioni in Tutte le opere cit., Vol.1, 656. 76

La traduzione con il termine italiano ricezione è proposta anche da G. Busi, in Simboli del pensiero ebraico, Torino,

1999, 675. 77

G. Laras, La mistica ebraica e il pensiero cabbalistico cit., 9. Secondo il citato Vian (op.cit., 139) in Borges

l’esperienza poetica diventa dunque una specie di succedaneo di quella mistica. 78

Alazraki, op.cit., 31: “Like the Cabbalist Borges creates a new myth out of the old one”. Va oltre H. Bloom, il quale,

nell’approfondire questa grande metafora, si addentra nel corpus symbolicum delle Sephirot, le quali, in termini di 35

Ma questa può essere una conclusione quasi ovvia, immediatamente percepibile e in ogni caso non nuova, tanto prepotentemente emerge dal movimento di pensiero” borgesiano. Anche se un punto essenziale da chiarire e sviluppare, in questa prospettiva, mi pare sia non tanto l’intuitiva “essenza ermeneutica” comune alla Cabbala e all’idea di letteratura in Borges, analogia che inconfutabilmente si coglie su un piano generale e più superficiale di discussione, quanto, piuttosto l’effettiva relazione tra la cifra del corpus symbolicum e ciò cui esso rimanda. In altre parole, il testo mistico tramandato deve essere decriptato con una decodificazione che ne esalti il valore allegorico, e quindi attraverso un’operazione ermeneutica, per così dire, prevalentemente “rigida e razionale”79? L’interpretazione deve dunque essere orientata verso un sistema chiuso di significati verosimilmente ortodossi, in biunivoca corrispondenza con quelli letterali che li evocano? O piuttosto le elaborazioni dei Cabbalisti, o almeno alcune di esse, lungi dal creare una geografia di meri simboli o metafore, vogliono immediatamente e

letteralmente

significare

un

mondo

reale?

Esemplificando,

le

Sephirot

sono

ontologicamente fondate, sono reali e concrete, o rimandano simbolicamente (o meglio, critica letteraria, si possono qualificare come “The gnostic formulation that all reading, and all writing, constitute a kind of defensive warfare, that reading is mis-writing and writing is misreading”. (H. Bloom, Kabbalah and Criticism, New York, 1975, 64). 79

Intendo, in un senso vicino a quello proposto da Goethe, che l’allegoria trasforma il fenomeno in un concetto, il

concetto in un’immagine, ma in modo che il concetto nell’immagine sia da considerare sempre circoscritto e completo nell’immagine e debba essere dato ed esprimersi attraverso di essa (J.W. Goethe, Massime e riflessioni, Roma, 1983, massima 1112). Sul punto anche M. Mazzacut-Mis, Estetica, Milano, 1996, 196 ss. Sul senso del “simbolo” nella mistica ebraica, scrive Scholem (Le grandi correnti della mistica ebraica cit., 37): “Il simbolo non significa e non comunica nulla, ma piuttosto fa diventare visibile qualcosa che sta al di là di ogni significato”. In ogni caso Scholem attribuisce a allegoria e simbolo valenze profondamente diverse; anzi, nel proporre gli esiti dei suoi studi sui primi movimenti mistici a Gerona (in Le origini della Kabbalà cit., 506), fa di tale distinzione, in un certo senso, una chiave di lettura importante per dividere il campo nell’ambito della polemica antirazionalistica condotta all’epoca dai Cabbalisti contro i “maimonidei”: “Tutto considerato, il simbolo è nato dal ricordo di momenti estatici di inesprimibile contenuto. Ha qualcosa di straziante, di sconvolgente. I kabbalisti tentano di contenere il simbolo nella contemplazione, senza lasciarlo diventare pura allegoria” (della quale fanno ampio uso i filosofi razionalisti, n.d.r.). Idel dedica ampio spazio al tema del simbolismo in Cabbalà Nuove Prospettive cit. (pp. 187 ss.). Questo studioso, delineata una netta distinzione tra Cabbala estatica, meno propensa a simbolizzare il mondo divino, e Cabbala teosofica, al contrario più votata a una esegesi dei testi sacri sviluppata su diversi piani, sottolinea come per la prima corrente “i simboli possono facilmente trasformarsi in ostacoli per il mistico che brama solo il contatto con Dio (op.ult.cit. 189), negando l’unio mystica e il panteismo.

36

allegoricamente80) al dispiegarsi della Divinità? Sono altrettanti aspetti del manifestarsi di Dio nel mondo (o della relazione tra le due entità), oppure alludono “solo” a qualità o attributi

antropomorficamente

adeguati

a

un

discorso,

altrimenti

impossibile,

sull’Inconoscibile o En Soph81? Evidentemente si tratta di interrogativi che eccedono ampiamente i confini di questo lavoro. Tuttavia non è forse irrilevante porseli, nel tentativo di valutare i rapporti fra la mistica ebraica e la produzione di Borges, che crea mondi fantastici, ma, a mio avviso, non simbolici o allegorici, se non nei limiti, di ordine intrinsecamente “letterario”, in cui la figura retorica, 80

Non stiamo procedendo su un versante estetico, in cui la distinzione tra allegoria e simbolo potrebbe essere fondata

sul maggior “dinamismo” di quest’ultimo: ciò che, ossequiando la distinzione posta da Goethe, potrebbe sancire la vittoriosa supremazia “poetica” del simbolo sulla troppo rigida allegoria. Stiamo trattando di passaggio questo tema solo sul piano semantico, attribuendo al termine “simbolo” il significato più aderente a quello etimologico di “segno di riconoscimento”. Simbolo vale dunque “elemento materiale, oggetto, figura, animale, persona e sim., considerato rappresentativo di un’entità astratta”. Cfr. Dizionario etimologico della lingua italiana, a cura di Cortelazzo e Zolli, Vol. V. voce Simbolo, 1204. Idel cita, ritenendola adeguata alla mistica, la definizione di simbolo di E. Goodenough: “Un oggetto o un modello che, per qualsiasi motivo, agisce sugli uomini, causando determinati effetti in loro, e che trascende il mero riconoscimento di ciò che viene presentato letteralmente nella forma data”. (Idel, Cabbalà Nuove Prosp. cit., 215). Belle pagine, impregnate di scetticismo sull’opportunità di discriminare rigidamente fra queste due nozioni, specie se utilizzate nell’interpretazione di testi sacri, sono state scritte da G. Contini, in Un’idea di Dante, Torino, 1976, pp. 36-37. 81

Trattando la dottrina delle Sephirot nello Zohar, Elio e Ariel Toaff, nell’introduzione a Il libro dello splendore

(Pordenone, 1994, XV), scrivono: “In quanto tali gli attributi mistici di Dio non sono concetti o metafore umane, inadeguatamente imprestati alla realtà divina. Sono invece la realtà prima, dalla quale trae valore e significato la stessa realtà umana. L’espressione “”corona di Dio” non rappresenta per lo Zòhar una metafora che trasferisce alla divinità un prezioso ornamento umano. E’ proprio la corona di Dio che giustifica e garantisce la realtà della corona dell’uomo”. La stessa opinione professa Charles Mopsik, in Les grands textes de la cabale, Verdier, 1993, 567-568. Questo studioso, nel commentare lo Zohar, rileva come curieusement, la formule d’atténuation habituelle, le “si l’on peut dire” de circonstance, est suivie de l’expression antithétique, elle aussi stéréotypée, le «mamach », qui signifie « réellement », « vraiment », « concrètement », et qui envoie un signal selon lequel ce qui est déclaré n’est pas d’ordre métaphorique ni rhétorique » . Anche Moshè Cordovero, in Or Ne’erav, a cura di Yheuda Z. Brandwein, 6,1 (42a-b, 43a-45a), citato (fonte non verificata) nell’antologia di testi curata da D.C. Matt (L’essenza della Cabala, Roma, 1999, 41) esprime lo stesso concetto : « Non è che i nomi siano semplicemente attribuiti alle sefirot. Dio non voglia; piuttosto, i nomi sono le sefirot.» Ciò non esclude che l’interpretazione della Torah debba essere condotta con criteri in parte analoghi a quelli puntualizzati dalla tradizione esegetica dell’ermeneutica occidentale (i cui passaggi secondo la scolastica erano legati all’esegesi letterale-storica, allegorica, tropologica e anagogica), ma l’immersione estrema nel senso mistico resta pur sempre qualitativamente diversa. Si legge nel commento al libro dei Proverbi del 37

specie la metafora, opera all’interno del tessuto narrativo come bagaglio

tecnico

strumentale all’efficacia e all’estetica del racconto 82. Se, come tenderei a ritenere, con il conforto del “realismo” dei mistici 83 o di alcuni di loro, anche la Cabbala, ove collocata, per esigenze di omogeneità di confronto, in una dimensione estetico-letteraria, prospetta, non diversamente dal nostro autore, mondi “possibili”, attraverso narrazioni eterocosmiche ma non utopiche84, allora il dialogo e l’interazione tra i due universi presi in considerazione avviene, per così dire, sullo stesso piano.

Gaòn di Vilna, 4, 20-22, p. 14 e 2,9 p.7, nella antologia di Alexandre Safran, Tradizione esoterica ebraica, Firenze, 1999, 11 : « L’ebreo deve esplorare nel PaRDeS, nel « « Paradiso » » dell’esplorazione della Scrittura, quattro vie di interpretazione dei testi biblici : il peshàt, il senso letterale del testo, il remez, il senso allegorico, il derùsh, il senso omiletico, il sod, il senso mistico. Il saggio ebreo deve « « salire » » dal senso letterale al senso mistico, segreto della Torà, ma deve anche « « scendere » » dal senso mistico al senso letterale ». In sostanza il sod sovrintende una sfera di senso, diversa dagli altri piani ermeneutici; l’interpretazione mistica può tuttavia rideterminare, magari trasformandolo, lo stesso significato letterale del testo, attraverso un’apertura, per così dire, “totale”, della parola negata agli altri più rigidi criteri. In questo senso si legge in Bnè Issachar, II, p. 25a, nella citata antologia di A. Safran (p.16): “ La Torà è al di sopra della ragione; non deve essere assimilata ad altri metodi di ricerca speculativa che l’uomo utilizza”. Sul complesso tema della natura delle Sephirot, cfr., fra l’altro, n. 136.

82

Evidentemente ciò non vuol dire affatto che i suoi racconti non si prestino a letture su svariati piani o non rimandino

ad altri significati. Al contrario, il nostro autore spesso stimola il lettore a prestare un’attenzione molto viva all’intreccio narrativo. D’altra parte i riferimenti “colti” nell’opera di Borges sono così assidui che sarebbe arduo astrarre dai complessi mondi evocati limitandosi a una lettura disincantata e aderente al testo (se mai una tale lettura fosse possibile). Peraltro, mi pare, siamo lontani da qualsiasi forma di simbolismo o allegoria intesa come forma strutturale dell’opera letteraria, e cioè come costante consapevole allusione dell’autore a qualcosa che nel testo non è espresso, come avviene di regola nella letteratura del medio evo; basti pensare all’analisi figurale proposta da Erich Auerbach (cfr. Studi su Dante, Milano, 1986, 190 ss., con l’avvertenza che la figura è qualche cosa di reale e storico che rappresenta e annuncia qualche altra cosa, anch’essa reale e storica). Lo stesso Borges (cfr. il citato Prologo al Manoscritto di Brodie, in Tutte le opere cit. Vol. 2, 369) manifesta – certo non senza civetteria anche in questo caso il proprio intento di distrarre o commuovere il lettore, e non di persuaderlo. 83

Cfr. n. 78.

84

Secondo la teoria della finzionalità, proposta da Baumgarten, i mondi del possibile, i mondi meravigliosi, sono

legittime creazioni poetiche purché siano quanto meno eterocosmiche, ossia impossibili solo nell’attualità, a differenza delle finzioni utopiche, impossibili in tutti i mondi possibili. (Cfr. L. Dolézel,, Poetica occidentale, Torino 38

Più sconcertanti e meno studiate, rispetto al comune sostrato metodologico legato ai procedimenti ermeneutici, mi paiono le altre implicazioni, davvero notevoli, derivanti dalla dichiarata sacralità e perfezione del testo redatto da un’infinita intelligenza, che, in quanto tale, nulla lascia al caso. L’analisi di questi aspetti conduce dal piano procedurale a quello sostanziale, ossia a una più serrata valutazione dei contenuti comuni alle due aree di studio, coinvolgendo temi vastissimi, persino di ordine “metafisico”. Sin d’ora si rileva che la concezione del “testo perfetto” pare in un primo tempo professata dallo scrittore argentino quasi per accondiscendere a un gioco intellettuale, diretto a portare a conseguenze estreme ciò che viene presentato come un godibile paradosso, uno dei tanti saporosi frutti offerti da quel fecondo ramo della letteratura fantastica che è la teologia. Borges pare sorprendersi e compiacersi del significato e delle possibili conseguenze di una dottrina siffatta. Tuttavia in un momento successivo, come, spero, avrò modo di accertare quando si verificherà, con l’analisi testuale, l’assimilazione della mistica ebraica nella produzione maggiore del nostro autore, l’atteggiamento dell’elegante affabulatore lascerà il posto a un più coinvolto e partecipe approfondimento degli elementi enucleati, che, ovviamente, appariranno in parte velati o trasfigurati dal filtro dell’immaginazione letteraria. Alcuni dei temi connessi a tale concezione ricorrono spesso nell’opera di Borges, e non possono quindi legarsi all’episodica infatuazione del nostro autore per l’interessante “singolarità” di una curiosa corrente mistica.

1990, 58-59).

39

Ora, tornando alla “rivendicazione”, l’idea di sopprimere, nel Testo sacro, la collaborazione del caso85 è evidentemente, nella sua pregnante e univoca formulazione, una tesi da attribuire in misura prevalente a Borges, piuttosto che alla tradizione ebraica. Lo scrittore argentino è ossessionato e affascinato da una concezione della storia sulla quale aleggia il determinismo più rigoroso86, che lo induce a supporre infinite sottili connessioni fra tutti gli eventi del reale. La sua produzione letteraria illustra in modo eloquente questa credenza. 87

85

86

J.L. Borges, Una rivendicazione della cabala cit., 334. Borges propone spesso questa lettura della realtà, ovviamente accentuandone i risvolti “fantastici”. Sul piano

teorico, si sottolinea, anche per la prossimità al tema del quale mi sto occupando, un passaggio in un saggiorecensione sul Sartor resartus di Thomas Carlyle, inserito nella raccolta Prologhi, là dove lo scrittore argentino evoca la dottrina “secondo la quale la storia è una Scrittura Sacra che noi decifriamo e scriviamo continuamente e nella quale veniamo anche scritti”, aggiungendo poi, nel successivo scritto sempre su Carlyle e su Emerson, che “Leon Bloy sviluppò questa congettura nel senso della cabala”. (J.L. Borges, Thomas Carlyle: Sartor resartus, da Prologhi, in Tutte le opere cit. Vol. 2, 780 e Th. Carlyle: Degli eroi. R.W. Emerson: Uomini rappresentativi, op. ult. cit., Vol. 2, 781). Come si vedrà infra nel trattare i limiti e il senso della nozione di “determinismo” nella mistica ebraica, anche con riguardo all’opera di Borges è opportuno non attribuire a tale concetto un senso tecnicamente preciso. Lo scrittore argentino in effetti si riferisce, più dei Cabbalisti, alla “causalità”, ma spesso questa nozione viene trasfigurata dall’elaborazione letteraria, mescolandosi con altre più vaghe concezioni, in cui l’attenzione è posta, più che sugli antecedenti, sugli effetti sorprendenti e curiosi di un certo stato di fatto. In altre parole, secondo Borges tutti gli eventi sono connessi, ma l’autore non indaga sulle ragioni di tali legami. 87

I riferimenti sono costanti. Mi limito a qualche citazione significativa:

“Forse ogni formica che calpestiamo/è unica davanti a Dio che ne ha bisogno/per l’esecuzione delle puntuali leggi che governano il suo strano mondo./Se così non fosse l’universo intero/sarebbe un errore ed un oneroso caos.” (Poesia della quantità da L’oro delle tigri cit.,in Tutte le opere cit., Vol.2, 495) ..”Ogni goccia d’acqua nella clessidra./Le aquile, gli sfarzi, le legioni/Cesare nel mattino di Farsaglia/L’ombra delle croci sopra la terra/L’algebra e la scacchiera del persiano/Le tracce delle lunghe migrazioni/La conquista dei regni con la spada/La bussola incessante. Il mare aperto/L’eco dell’orologio nel ricordo/Il re giustiziato con la mannaia./La polvere infinita che fu esercito/La voce dell’usignolo in Danimarca/Lo scrupoloso tratto del calligrafo/Il volto del suicida nello specchio/La carta di chi bara. L’oro avido./Le forme della nube nel deserto./Ogni arabesco del caleidoscopio/Ogni rimorso ed anche una lacrima./Tutte queste cose abbisognarono/Perché le nostre mani si incontrassero” (Le cause, da Storia della notte, in Tutte le opere cit., Vol. 2, 1105). Sui vincoli che legano gli aspetti più “microscopici” del reale, cfr. anche Il bastone di lacca, da La cifra, in op. ult. cit. Vol.2, 1235. A conferma dell’invincibile e intramontabile attrazione di Borges per questa idea, cito uno dei suoi ultimi scritti, raccolto in 40

Ebbene, la Torah è quasi l’archetipo di tale prospettazione, la forma vivente e organica, l’idea platonica88, peraltro realmente e storicamente manifestatasi in una struttura letteraria concreta, effetto, quest’ultimo, che complica e amplifica l’analogia sovracaricandola di senso. L’assenza della collaborazione del caso nella sua redazione, per definizione consente di assegnare al Testo Sacro tutti gli attributi della perfezione, con la conseguenza, questa mi pare una prima riflessione indotta dalla tesi borgesiana, che è perfetto solo ciò che non è casuale. Naturalmente questo effetto può riverberare, in primo luogo, sulla produzione letteraria in quanto tale, che idealmente potrebbe assurgere a vertici massimi solo qualora fosse spogliata da ogni aspetto contingente e non necessario. Ma, mi pare, si va oltre. Il tema brilla anche di luce metafisica, sconfinando dall’ambito meramente “libresco”. Attributo della Divinità, e dell’opera letteraria che la compendia, e anzi ne costituisce, se l’espressione mi è concessa, un favoloso “specchio parlante”, è il ripudio del caso, che, secondo la concezione di Borges, è evidentemente indegno di Dio 89, il quale, come tutti sanno – si tratta di un vecchio luogo comune - “non gioca a dadi”. Concezione forse plausibile, ma niente affatto necessitata dalla mistica ebraica, a quanto pare. Da una parte, infatti, attribuire un’intelligenza infinita alla Divinità, senza precisare

Atlante (Il deserto,in op.ult.cit., Vol. 2, 1411): “A circa trecento o quattrocento metri dalla Piramide, mi inchinai, presi un pugno di sabbia, lo lasciai cadere silenziosamente un po’ più lontano e dissi a bassa voce: sto modificando il Sahara. Il fatto era minimo, ma le non ingegnose parole erano esatte e pensai che era stata necessaria tutta la mia vita perché io le potessi dire. Il ricordo di quel momento è uno dei più significativi della mia permanenza in Egitto.” Infine il tema della causalità è spesso legato dallo scrittore argentino a quello della magia. Scrive il nostro autore:”La magia è la coronazione o l’incubo della causalità, non la sua contraddizione. Il miracolo è tanto estraneo a quell’universo quanto a quello degli astronomi. Tutte le leggi naturali vi imperano, e altre immaginarie.” (L’arte narrativa e la magia, da Discussione cit.,in op.ult.cit., Vol. 1, 360). 88

La Torah primordiale (tema su cui si tornerà infra) “conteneva in potenza tutto ciò che poteva essere rivelato

tramite la Torah da dare sulla terra. In effetti, si trattava di una versione cabalistica del mondo delle idee platonico” (G. Scholem, La cabala, Roma 1992, 137). 89

In uno scritto collocato nella raccolta Altre inquisizioni (Lo specchio degli enigmi, in op. ult. cit., Vol. 1, 1023-1024)

Borges ribadisce il concetto, a lui caro, della Scrittura come testo assoluto, impenetrabile alla contingenza, irriducibile al caso, ritenendolo “quello che meglio conviene alla dignità del Dio intellettuale dei teologi”

41

significato e limiti di tale concezione90, risponde a una scelta rappresentativa o descrittiva pur sempre

antropomorfica. Ancora più lo è pretendere di connotare l’intelligenza divina

degradandola, ciò che accade proprio con l’elevarla all’apice della ragione “umana”: una ragione che sovrintende a ogni evento ed è in grado di prevedere tutti gli sviluppi futuri in virtù dell’eccezionale, ma – di nuovo - inesorabilmente antropomorfica, capacità di rappresentarsi la totalità delle condizioni del reale in ogni istante. Peraltro, è innegabile, esiste nel mondo, nella storia, qualcosa - a questo punto non più emarginabile a mero gioco letterario - che conferma una supposizione di verità e di assoluto: l’impensabile singolarità, il quid imprevedibile è la Bibbia, che non è opera “umana”, perciò inadeguata ed esposta agli incerti umori del contingente, agli apparenti capricci di una sorte, che ci si ostina a definire tale solo per l’insufficienza e la limitatezza di chi dovrebbe svelarne le arcane geometrie. Per quanto arbitrario, o fortemente influenzato dalla teologia cristiana del medio evo, sia qui il pensiero di Borges nel gravare la Divinità di un onere di matematico e deterministico rigore, o nell’attribuire alla Perfezione l’esautorazione del Caso, il che è lo stesso, un esito sembra innegabile: lo scrittore argentino avverte prepotentemente, e ciò è assolutamente in linea con la mistica teoretica, la presenza di Dio nel Testo Sacro 91 e la concezione della Torah come organismo polisemico e onnicomprensivo 92. 90

E’ noto che la mistica ebraica delle origini offre spazio a concezioni antropomorfiche (si pensi alla Misura del

corpo, lo Shi’ ùr Qomà) caratterizzate dall’attribuzione di misure straordinarie e incommensurabili alla Divinità, tanto è vero che queste descrizioni sono anche state interpretate come volutamente paradossali, quasi volessero sottolineare l’impossibilità di rappresentare il Santo secondo parametri comprensibili all’uomo. Peraltro, volgendo l’attenzione agli attributi, se così si può dire, “spirituali” dell’Ente Supremo, e senza entrare nel dibattito del pensiero filosofico medievale ebraico su tale vexata quaestio, neppure con riguardo alle concezioni della mistica più matura, che sfocia nello Zohar, mi pare persuasivo isolare una “qualità” astraendola dal processo intimo alla Divinità che si svolge attraverso l’inseparabile operato delle Sephirot. 91

Il tema è pertinente con la mistica. A partire dall’elaborazione del Séfer Bahir si allaccia il rapporto che unirà questi

due simboli – la Shekhinà e la Torà orale – nella Kabbalà. Cfr. G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 170. 92

“Volgila e rivolgila, che tutto è in essa (la Torà); medita su di essa, invecchia e consumati su di essa, e non te ne

allontanare perché non c’è per te niente di meglio.” (Pirké Avot cit., V, 21, 85). Scrive Goetschel (La Cabbalà cit., 104) : « Se la Torà è Dio pervenuto all’espressione, la sua infinità si riflette necessariamente in essa ed essa possiede dunque di diritto un significato infinito. Ci troviamo pertanto di fronte ad una polisemia assoluta, o piuttosto ad una polisemia dell’Assoluto. Ne consegue la legittimità di una moltitudine di letture e si arriverà a parlare di seicentomila interpretazioni della Torà, tante quanti erano gli israeliti presenti alla teofania sul Sinai. » La polisemia 42

A questo punto, si può forse più fondatamente focalizzare il punto di intersezione, la legge di confluenza, tra ciò che potrebbe definirsi il determinismo organico e onnipervasivo che anima la concezione del reale in Borges e l’orientamento della mistica ebraica in questo decisivo ambito. In un suo racconto fantastico, Lo zahir93, lo scrittore argentino scrive: ”Gli ebrei e i cinesi hanno codificato tutte le circostanze umane; nella Misnah si legge che, iniziato il crepuscolo del sabato, un sarto non deve uscire di casa con l’ago in mano”. La profondità di senso, per l’ebraismo, connessa all’osservanza dei precetti, è di tale portata da non potere essere trattata esaurientemente, ora, in tutte le sue innumerevoli sfaccettature. Alcuni aspetti, tuttavia, riconducibili alla questione in esame, possono essere accennati. A mio avviso, e si tratta di un punto che non mi pare sia stato affrontato dagli studiosi, si coglie, in questa fase, una notevole analogia, ma anche una sensibile differenza, tra il pensiero di Borges e quello ebraico nella concezione delle dinamiche del reale.

dell’Assoluto della mistica ebraica, tuttavia, se legittima una sconfinata ermeneutica, non giustifica, come si vedrà infra, il solo versante “passivo” dell’interrogazione del Testo, ma implica e richiede l’attiva cooperazione, libera e responsabile, dell’uomo, che diventa a sua volta “tessitore” della Torah e del Dio che vi è manifestato. 93

Da L’Aleph cit., in Tutte le opere cit., Vol. 1, 847.

43

L’identità si ravvisa nell’idea comune del legame intimo tra gli eventi universali 94, governati dalle forze della causalità95, nel loro movimento di reciproca influenza che coinvolge il mondo in alto e il mondo e il basso, se così ci si può esprimere 96. La divergenza si rileva nel fondamento di tale concezione. Borges lo attribuisce indiscutibilmente alla divinità e al suo Specchio Parlante, la Scrittura, liberata da ogni contingenza, sottratta alla collaborazione del caso. Compito dell’uomo e del Cabbalista è interrogare incessantemente questa Divinità Cifrata, sconosciuta e immane, fino alla prolissità numerica. 94

“Le sublimi essenze interne costituiscono in segreto una catena che lega ogni cosa dal più alto al più basso, che si

estende dalla pozza superiore al margine dell’universo. Non esiste nessuna cosa, neppure la più minuscola, che non sia legata agli anelli di questa catena.” Moshè de Leòn, Sefer ha-Rimmon (Libro del melograno) Ed. Elliot R. Wolfson, Atlanta, 1988, 181-182, citato nella menzionata antologia di D.C. Matt. (L’essenza della cabala, cit., 30; fonte non controllata). 95

Naturalmente la nozione di causalità evocata non può essere intesa in senso newtoniano-positivistico, né, risalendo

nel tempo, pare assecondare l’accezione propria della tradizione atomistica di Democrito, Epicuro e Lucrezio; neppure è qualificabile con riferimento al determinalismo fatalistico degli stoici. Il concetto richiamato, e questo può valere anche per Borges, non può avere una sua specificità “tecnica” come categoria di pensiero filosofico. E’ forse più corretto e aderente alla mistica ebraica abbandonare almeno in parte, per così dire, la nozione di causalità all’immaginazione, sottraendola a più rigorose verifiche. Mi sembra infatti più plausibile rideterminare le “forze” che legano gli eventi del mondo, producendo effetti, in un sistema di poteri e influenze reciproche, di “azioni a distanza”, in cui, naturalmente, per sfuggire al rischio di decadere nella magia (paradossalmente definita da Borges l’incubo della causalità, non la sua contraddizione, cfr. n. 86), occorre rettamente intendere e sviluppare i giusti equilibri fra strumenti e finalità. 96

Il significato (o qualche significato) del rapporto tra mondo in alto e mondo in basso, tema vastissimo, forse tra i

nodi centrali dello Zohar, in parte verrà approfondito nell’analisi testuale riservata al IV capitolo. Pare di poter comunque affermare che la reciprocità debba essere individuata almeno su due piani distinti (e intersecantisi); da una parte un rapporto di specularità, colto anche da Borges nel racconto I teologi (L’Aleph, Milano, 2003, 40), là dove il nostro scrittore scrive che nello Zohar ..il mondo inferiore è un riflesso di quello superiore, e dall’altra un gioco di influenze (che ovviamente non esclude la specularità, la quale ben può esserne un effetto) o, come si è scritto nella nota 94, di “poteri”, che trovano espressione nella mistica teurgica e nella teurgia incrementativa, su cui torneremo infra. Si ricorda: “Tutto ciò che esiste sulla terra esiste anche nei mondi superiori. La più piccola cosa in questo mondo dipende da una cosa superiore che se ne fa carico. Ecco perché prima che una cosa si svegli qui in basso, deve prima svegliarsi in alto la sua radice che se ne fa carico. Poiché tutto è unificato; l’uno si unisce all’altro” (Zohar, I, 156b). Sempre Zohar, III, 86: “Il più piccolo filo d’erba dipende da una forza in alto (nei mondi superiori).” Citazioni dall’antologia di A. Safran (Tradizione esoterica, cit., 16-17). Talvolta emerge in modo più 44

L’umano e il divino restano sostanzialmente separati, operano su due piani distinti: l’uomo interroga l’oracolo e può sperare, interpretandolo correttamente, di impadronirsi dei suoi segreti e del suo potere. Ciò che resta sconosciuto, nascosto, non svelato, l’aspetto trascendente della divinità, pare quasi degradato, in questa fase, al piano meno vertiginoso di una banale meccanica “enigmistica”. Il mancato dis-velamento di Dio appare qui, in fondo, irrilevante, in quanto il Testo è garante di tutte le variazioni infallibili. Il libro sacro è la Sfinge, ma qualunque sia la risposta all’eterno quesito, tale esito sarà comunque “convalidato”. Non vi è “il migliore dei mondi possibili”; tutti gli universi sono possibili e ugualmente plausibili, poiché sprovvisti di una gerarchia fondata su valori 97. netto, in questa complessa relazione, la natura deterministica del legame: “ In effetti tutte le cose di questo mondo sono legate alla Divinità: sono collegate a Lei da una forza che discende fino a loro: esse le sono unite per mezzo di un concatenamento di causa-effetto, di un concatenamento progressivo.” (Shulchan ha-Tahor, p. 152a-b, citato da A. Safran, op.ult.cit., 18). Si potrebbe sostenere che la duplice natura “speculare-deterministica” (nell’accezione già sottolineata) del legame tra le cose e tra i mondi in alto e in basso possa, per così dire, sintetizzarsi in un unico modello esplicativo di carattere organico-naturalistico che trova la migliore espressione simbolica nell’albero. Questa raffigurazione, peraltro, appare senz’altro la più adeguata per esprimere il rapporto tra macrocosmo e microcosmo, tra Universo e Uomo, relazione mediata dal ruolo delle 613 Mitsvot, che corrispondono agli altrettanti organi del corpo umano. In questa senso potrebbe forse soccorrere il modello morfologico organico, che spiega i fenomeni in termini di leggi strutturali, che si sostituiscono alle norme causali della scienza naturale classica, proposto da Goethe per lo studio degli organismi biologici e adottato come criterio di poetica letteraria da Humboldt (cfr. Dolézel, Poetica occidentale cit., 71 e 82 ss.). Scrive A. Safran in Saggezza della Cabbalà, Firenze, 1998, 94: “Secondo i saggi della Cabbalà la “”natura”” non esiste realmente; ciò che esiste realmente è la chyyùt, la “forza vitale” che anima la natura dall’interno”. Lo stesso studioso aggiunge (op.ult.cit.p.95): “Nella nuova fisica l’indeterminismo ha la meglio sul determinismo, senza tuttavia separarsene. La nuova fisica si ricongiunge così, grosso modo, con la Cabbalà, la quale non riconosce una causalità impersonale, fissa, costrittiva, perpetua, che governa impassibilmente il mondo”. C. Mopsik, nel trattare questo tema con riferimento a Mosè de Leòn cita il Corpus Hermeticum: “Toutes choses sont connexes les unes aux autre par de mutuels rapports dans une chaine qui s’étend de la plus basse à la plus haut.” (C. Mopsik, Les grands textes cit., 194) 97

Il criterio di imposizione di un ordine al chaos, in virtù della Parola raccontata, che persuade a ciò che è di

maggior valore, è posto in evidenza da Sini, ne suo commento al Timeo (C. Sini, Raccontare il mondo, Milano, 2001, 86). Mi sono imbattuto anche in un testo di Matteo Bonazzi, allievo Di Carlo Sini (Il libro e la scrittura tra Hegel e Derrida, Milano, 2004, 34) in cui ho fortuitamente rinvenuto un concetto mediato dall’Enciclopedia delle scienze filosofiche di Hegel, che, assai meglio di quanto abbia fatto io, rende il senso dell’”enigma” così come ho cercato di prospettarlo riferendomi a questo passaggio di Borges. Trattando della polisemia simbolica del geroglifico egiziano, 45

Non esiste spartiacque tra giusto e sbagliato. In sostanza una simile concezione – limitatamente a questa fase – sembrerebbe priva di una dimensione etica profonda. Nella mistica ebraica, invece, la forza che anima e determina le innegabili connessioni fra tutti gli eventi non sta da una sola parte. Essa viene alimentata anche dall’uomo. Il rapporto profilato da Borges viene quasi rovesciato: la divinità non è sola, ha bisogno di Adamo 98, che deve cooperare attivamente per restaurare l’armonia infranta. La relazione tra natura naturans e natura naturata è molto più intima; dell’organismo vitale in cui consiste l’intero universo, l’uomo, parte viva e significativa, è forse il protagonista principale del dramma cosmico. Anche i Cabbalisti, come Borges, ovviamente attribuiscono rilievo enorme alla Torah. Non lo fanno però solo in quanto vi scorgono il libro-meccanismo prodigioso, che riproduce in modo speculare l’Infinita Intelligenza dell’Autore. Piuttosto, lo studiano e lo interrogano perché è il Testo, etimologicamente il tessuto, che assegna anche all’uomo il compito di cooperare in modo decisivo alla sua stessa “redazione finale”99. Una direzione, un orientamento getta luce sull’intrigo che avviluppa i destini.

plasticamente incarnato nella Sfinge, Bonazzi scrive: “L’andare qua e là del simbolico espone all’enimma oggettivo stesso; il suo errare non ha ancora il senso di alimentare l’attività dello spirito, esso produce enigmi, espone all’enigma stesso prima che tutto ciò sia preso dalla mano del concetto stesso come proprio lavoro, propria fatica.” 98

Un Cabbalista italiano del XII secolo, Menahem Recanati, che ha raccolto gli insegnamenti risalenti a Isacco il

Cieco, nel suo Commentario alla Torah (Deut., fol. 191d, cit. da Mopsik op. cit., 79) scrive a tale proposito, facendo precedere l’espressione dal consueto “si l’on peut dire”, les realités d’un haut ont besoin des etres d’en bas”. 99

Scholem, ne La Kabbalah e il suo simbolismo cit., 95, trattando il tema della “relativizzazione mistica” della Torah

cita un brano di un Cabbalista di Smirne del XVIII secolo, riportato da David Azulai: “..Davanti a lui (Dio, n.d.r.) c’era una serie di lettere che non erano congiunte in parole, come accade ora, poiché la disposizione vera e propria delle parole doveva avvenire secondo il modo e la maniera in cui si sarebbe comportato questo mondo inferiore.”.

46

Fare i Comandamenti100, fare la Torah, addirittura “fare Dio” 101. Queste espressioni, pur spesso mitigate da attenuazioni, ricorrono con una certa frequenza tra i Cabbalisti. La mistica ebraica, evidentemente, non si accontenta di interrogare il Testo Sacro o di investigarlo solo per conoscere, decriptandolo, il segreto della Divinità e dell’Universo, dato una volta per sempre in una formula esoterica impervia, ma anche, se così si può dire, ne fa oggetto di inquisizione per farsene carico, per viverlo, addirittura per modificarlo, per ricercarne la lettera mancante102. In questo senso, se mi è concessa l’analogia, il Giusto di Israele, il Fondamento 103, è il gigante Atlante104 che, sconfitto nella battaglia cosmica e punito da Zeus, regge sulle spalle

100

L’espressione trova un possibile riferimento testuale in Levitico, 26;3: “Se seguirete le mie leggi, se osserverete i

miei comandi e li metterete in pratica..” (La Bibbia di Gerusalemme, Bologna, 2002, 255). 101

Sempre M. Recanati, in Sefer Ta’amé ha – Mitsvot, Londra, 1962, 47 ss., traduzione in francese di C. Mopsik, in

Les grands textes cit. 591, scrive: “Qui accomplit mes commandements, Je le lui compte pour mérite comme s’il me faisait, ainsi qu’il est marqué. Il est temps de faire YHWH (Ps., 119 ,126) ; si l’on peut dire, qui endommage l’en bas, c’est comme s’il endommageait l’en haut et c’est à ce sujet qu’on a dit: il diminue la ressemblance » Si legge nello Zhoar (III, 81b, in Zohar il libro dello splendore, passi scelti a cura di G. Scholem, edizione italiana a cura di E. Loewenthal, Torino, 1998, 76): “Perciò anche il Santo, sia Egli benedetto, è chiamato Uno quando è completato dai patriarchi e dalla comunità d’Israele”. Scrive M. Idel (Cabbalà Nuove Prospettive cit., 170): “La Cabbalà teurgica sviluppa una delle fondamentali peculiarità della religione ebraica: dal momento che essa privilegia l’azione rispetto al pensiero, l’ebreo è responsabile di tutto, Dio incluso”...”Un cabbalista che osserva il rituale non collabora solo al mantenimento dell’universo, ma anche alla conservazione, o addirittura alla formazione di alcuni aspetti del Divino” (op. ult. cit., 171). Sottolineo inoltre che la maggiore attenzione alla Cabbala teurgica è dedicata dagli esegeti successivi a Scholem, soprattutto da coloro che, liberati, per così dire, dall’”angoscia” delle origini del movimento mistico, tema sviscerato dallo studioso berlinese, hanno potuto più liberamente affrontare i testi, spostando più decisamente l’analisi sul piano ermeneutico. Mi riferisco in particolare a Idel e Mopsik. 102

Cfr. G.Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo cit., 103, nella parte in cui commenta il Sefer Temunah.

103

“Il giusto sostiene il mondo intero, poiché è scritto:””E il giusto resta come un pilastro eterno”” (“” E il giusto

costituisce il fondamento del mondo””). Se poi il giusto si indebolisce, il mondo non può più sussistere.” Cfr. Sefer Bahir, 101-102, tratto da A. Safran, Tradizione esoterica ebraica cit., 136. 104

Cfr. Enciclopedia dell’Antichità Classica, Milano, 2000, voce Atlante, 145.

47

con le braccia alzate la sfera celeste; non è Sisifo, l’eroe dell’assurdo di Camus, condannato al lavoro inutile e senza speranza, tragicamente cosciente dell’inanità dei suoi sforzi 105. Due sorti diverse: il castigo del primo è portare il mondo sulle spalle, una funzione punitiva, gravosa, ma utile e determinante per l’economia universale; la pena del secondo è invece un compito frustrante, che occupa un’eternità angosciosa irraggiata solo dall’eroica consapevolezza della reiterazione dello sforzo vano106. E’ forse Sisifo l’uomo di Borges? L’interrogativo è ancora prematuro, ma si riproporrà senza sosta. Ora, tornando al tema in discussione, a differenza di quanto avviene nel Confucianesimo, evocato dal nostro autore in virtù di un forse indebito 107 parallelismo con la Mishnà108, la codificazione delle circostanze nella precettistica, lungi dall’accondiscendere all’esigenza di un ritualismo conservativo votato alla tipizzazione109 e regolamentazione delle condotte sociali, risponde, come altri strumenti dell’immenso arsenale dell’ebraismo religioso, tra cui la stessa Cabbala110 esoterica, al bisogno profondo di creare un rapporto, per così dire, “efficace” e “produttivo” tra l’uomo e la divinità. In termini assai sintetici, i mezzi evocabili per raggiungere tale effetto sono proprio l’adempimento dei precetti, lo studio della Torah (che configura comunque una mitsvà in sé)

105

A. Camus, Il mito di Sisifo, in Opere, Milano, 1996, 317.

106

Sisifo, come è noto, è condannato a trascinare senza posa un masso sulla sommità di una vetta, dalla quale la pietra

cade incessantemente per effetto del suo peso. 107

Salvo naturalmente che il confronto si esaurisca su un piano meramente formale.

108

Cfr. nota 92.

109

Termine giuridico con cui si significa lo specifico inquadramento e la regolamentazione normativa di fattispecie

concrete, dapprima sprovviste di peculiare disciplina. 110

Sempre che sia corretto distinguere. Se è vero infatti che i precetti corrispondono alla Torah orale e i

Comandamenti alla Torah scritta (cfr. Zohar III 113a, in Trad. Esot. ebraica cit., 176) appare arduo porre nette delimitazioni fra tradizione rabbinica e Cabbala esoterica. Addirittura, secondo M. Idel (Cabbalà Nuove Prospettive cit., 11), un’eccellente caratterizzazione sintetica della Cabbala teosofico teurgica è quella che le attribuisce come motivi centrali la natura delle dieci Sephirot e il significato mistico dei precetti.

48

e la Kawannà nella preghiera mistica, aspetto, quest’ultimo, che non sarà approfondito, in quanto meno pertinente al mio lavoro. L’uomo, con la sua attività, può rafforzare o indebolire la potenza di Dio e l’adempimento della volontà divina sulla base dei precetti è ..il mezzo attraverso il quale partecipa al processo intimo dell’Ente Supremo 111. L’osservanza delle mitsvot è il primo e più semplice strumento di influenza di cui l’ebreo, in particolare, dispone per partecipare da protagonista alla storia dei mondi in alto e in basso 112

.

I

precetti

sono

inscindibilmente

legati

fra

loro,

nessuna

mitzvà

può

esistere

indipendentemente dalle altre mitzvòt, allo stesso modo di un abito tessuto che non potrebbe esistere se ogni filo non fosse legato agli altri 113. L’organicità normativa non è una metafora, trovando la propria radicalità “vivente” e “carnale” in quella naturale e biologica, là dove ogni mitsvà presiede e corrisponde a un organo o a un nervo del corpo, cosicché il compimento di un precetto implica un atto sia fisico sia psichico. Ecco, dunque, che il rafforzamento o l’indebolimento dei mondi, legato alla condotta umana e alla sua capacità di influire sul processo intimo della divinità, accelerando o rallentando il momento della redenzione, si riflette necessariamente sull’uomo inteso come unità psicofisica:

la

stessa

mortalità,

intesa

come

declino

del

corpo

conseguente

al

deterioramento degli organi, è, in ultima analisi, effetto della mancata osservanza della

111

M. Idel, Cabbalà Nuove Prosp. cit, 159. L’autore, nel capitolo sulla teurgia incrementativa, sposa la tesi secondo

cui la stessa concezione del rituale (non si parla quindi di una pratica cabbalistica medievale, ma dell’insegnamento talmudico midrashico della tarda antichità) come adempimento dettagliato della volontà divina, finalizzato a una pratica teurgica, è da considerare organica al pensiero ebraico. Idel va oltre e sostiene la possibilità di affermare che non esiste nessuna rilevante differenza tra la teurgia midrashica e quella cabbalistica (op. ult. cit., 159). 112

“Il mondo sussisterà grazie all’adempimento delle mitzvòt, dei precetti della Torà che hanno le loro radici nella

bontà.” (Torà Or, 27b, in A. Safran, Trad. Esot. Ebraica cit., 158). “Un solo uomo può “”distruggere”” il mondo “”in una sola ora””, ma, “”in una sola ora”” può anche “”acquisire il mondo””, prepararsi per il mondo in Alto.” (A. Safran, Saggezza della Cabbalà cit., 196 ss.). 113

Cfr. Sefer Charedim, p. 106, in Tradizione esoterica ebraica cit., 32.

49

totalità dei precetti114 da parte di un singolo (tuttavia per un solo individuo obbedire alle 613 norme è impossibile, forse solo la collettività, la comunità d’Israele, può farlo). Ma l’intima connessione che lega le mitsvòt, e specularmente riverbera sul microcosmo umano, si estende anche in alto: la Torah orale, in cui consistono le mitsvòt (cfr.n.111), e la Torah scritta, insieme costituiscono la totalità del Nome del Santo 115. Se l’adempimento delle mitsvòt è il primo passaggio necessario di questa teurgia, il precetto religioso dello studio della Torah è superiore a tutti gli altri116 e la sua mancata osservanza non colpisce solo l’organo o il nervo corrispondente alla singola mitsvà, ma reca danno a tutto il corpo, a tutte le

forze dell’uomo, che è allora come morto, privato della vitalità

spirituale117. Senza la necessità di ricorrere a particolari “accentuazioni” esoteriche, incomincia quindi a profilarsi un mondo mistico della Torah, di spessore ben più ampio, profondo e complesso di quello prospettato dal Borges di Una rivendicazione della cabala. E’ un mondo che implica e presuppone l’uomo, sia in quanto lo studio devoto del singolo individuo tiene in vita il Testo, e con il Testo il Mondo (cfr. n. 115), sia perché il textum vivifica e alimenta, infondendovi forza vitale, lo stesso organismo umano, decidendone in

114

Se una di esse fosse soppressa, niente potrebbe compensare quella mancanza (op. ult. cit., 33). A proposito della

impossibilità di poter adempiere la totalità dei precetti da parte di ogni singolo membro della comunità: “ ..Delle 613 mitzvòt non tutte possono essere eseguite da chiunque; alcune infatti sono riservatte ai sacerdoti e possono essere messe in pratica solo nel Tempio.” (G. Laras, La mistica ebraica e il pensiero cabbalistico cit., 124). 115

Cfr. Zohar III, 113 cit., in op. ult. cit., 176. “..Si l’on peut dire, les réalités d’en haut ont besoin des etres d’en

bas” (Isacco il Cieco, Commentario della Torah, citato da C. Mopsik, in Les grands textes cit., 79). 116

“Se il mondo, a Dio non piaccia – fosse privato per un solo istante dello studio e della meditazione della Torà da

parte del ““popolo tesoro”” (il popolo di Israele) immediatamente tutti i mondi sarebbero distrutti e cesserebbero di esistere, che a Dio non piaccia! Ecco perché ogni ebreo possiede in se stesso un potere prodigioso: quello di mantenere nell’esistenza tutti i mondi e la creazione intera, studiando e meditando la Torà” (Nefes ha-Chayim, portico IV, cap.25, p.46b, in A. Safran, Trad. esot. ebraica cit., 71). Ancora: “Chi si occupa della Torà rispettandone i fini, acquista molti meriti; non solo, ma tutto il mondo acquista valore per (da intendere “grazie a”, “per meritoeffetto di”) lui” (Pirké Avòt cit., cap. VI,1, p. 89). 117

Nefes ha-Chayim cit., in op. cit., 70. “La vitalità e l’esistenza di tutti i mondi dipendono dal nostro studio della

Torà, dalla nostra meditazione della Torà.” (Ibidem, portico IV, cap.26, p.47°, in op. ult. cit. 71).

50

ultima analisi la sorte “fisica” e spirituale, tanto inscindibilmente quanto modernamente connesse. Siamo, a mio avviso, piuttosto lontani dal perfetto asettico lucido divin meccanismo, sottratto al caso, nobilitato da infiniti scopi, cui allude lo scrittore argentino. L’organicità che struttura la Torah, nozione in sé condivisa, con le limitazioni prospettate, dal pensiero di Borges, non configura infatti solo una peculiarità riconducibile al Testo in astratto, non è l’inaccessibile, l’incessantemente interrogabile idea platonica del libro perfetto redatto da un’intelligenza infallibile. E’, piuttosto, una complessità totale, onnicomprensiva e onnipervasiva. Ora, questa concezione della Torah, intesa come Testo disponibile nella sua attuale formulazione e tuttavia aperto a innumerevoli trasformazioni, costituisce uno dei punti di riferimento essenziali per lo studio sulla creazione che sarà inevitabilmente affrontato nella successiva analisi testuale. In tale prospettiva, vorrei accennare un’operazione ermeneutica che potrebbe essere impropria. Utilizzerei, accostandole e sintetizzandole, le categorie descrittive di Scholem e Idel per tentare, forse indebitamente, di trarre dal loro insieme qualche riflessione. Lo studioso berlinese enuclea tre principi, o funzioni, fondamentali del pensiero cabbalistico sulla natura della Torah: il Testo considerato come organismo, la presenza del Nome di Dio nella Scrittura, l’infinita ricchezza di significato della parola divina 118. Idel, a sua volta, nell’introdurre la propria monografia, distingue due correnti principali nella Cabbala, una “teosofico-teurgica”, di natura teocentrica, e incentrata sulla mistica dei precetti e sullo studio delle Sephirot, e una “estatica”, di carattere essenzialmente antropocentrico, definita da Avrham Abulafia “dottrina dei nomi divini”. 119 Mi pare di poter affermare che il punto di confluenza e sutura tra le due vie così identificate sia proprio rappresentato dalla straordinaria e inesauribile apertura della Torah, nella quale si riflette, se mi è concesso il termine, un “antropoteocentrismo” totalizzante, in quanto i due piani, umano e divino, sono entrambi presenti e interagiscono, mentre la speculazione sul Nome si prospetta come necessariamente pertinente ai due profili, ricongiungendo le distinte correnti, estatica e teurgica, identificate da Idel. Rispetto alla mistica dei precetti, branca essenziale nell’ambito di studio della Torah orale su cui ci si è soffermati, la Cabbala che si sviluppa sulla natura del Testo Sacro, considerato 118

G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo cit., 49.

119

M. Idel, Cabbalà Nuove Prosp. cit., 11.

51

indistintamente in tutte le sue manifestazioni, quelle, per così dire, velate e svelate 120, storiche e metafisiche, essoteriche ed esoteriche, offre spunti ancora più fecondi, compendiando in sé, incessantemente e inestricabilmente 121, oltre a tutte le possibili riflessioni sul processo intimo della divinità e sull’attività teurgica di mantenimento 122 e restaurazione, anche l’inconcepibile, vertiginosa ricerca del Nome e di ciò che Scholem ha definito I segreti della creazione123. E’ infine plausibile affermare che, anche sotto tale profilo, la concezione sulla natura della Torah elaborata dalla mistica ebraica, soprattutto

se

riconsiderata alla luce della

convergenza tra le due correnti estatica e teurgica, è ben più varia, stratificata e complessa di quella, pur vertiginosa, ma unilaterale e “passiva”, proposta da Borges.

120

“Così è per la Torah, che dischiude i suoi segreti più riposti solo a colui che l’ama..Da dentro il palazzo lascia

intravedere il proprio volto e gli indirizza un segnale, un’allusione per poi tornare subito a nascondersi..In tal modo dunque la Torah si rivela fuggevolmente e così facendo attizza l’amore che il suo amante le porta” (in Zohar, II, 94b99b, riprodotto in Zohar a cura di Scholem, cit., 55. Lo stesso brano citato da Scholem a pag. 72 de La Kabbalah e il suo simbolismo reca una traduzione più pregnante: “E quindi anche la Torah è manifesta e nascosta e innamorata va dal suo amato e desta l’amore in lui.” 121

Intendo dire che nella concezione della Torah sono presenti tutte le elaborazioni concettuali accennate nella

mistica delle mitsvòt e molto di più ancora. La nozione di organicità esaminata nel trattare soprattutto le intime connessioni fra i precetti, trova la propria esaltazione, per così dire, nella Scrittura, intessuta con i fili del tetragramma (Gikatilla, Sha’are’ ‘orah, Offenbach, 1715, f, 2b). Commentando il pensiero di Gikatilla, Scholem (in op. ult. cit. 56) scrive: “La Torah è il nome di Dio perché rappresenta un tessuto vivo, un textus nel senso preciso del termine, dove è stato intessuto l’unico vero nome, il tetragramma, in maniera indiretta e segreta”. 122

Nel commentario alle Aggadoth talmudiche di Azriel di Gerona, citato da G. Scholem in op. ult. cit., 59, vi è

scritto: “Certe sezioni o versi (della Torah, n.d.r.) appaiono degni di essere gettati nel fuoco a colui che non capisce il loro senso nascosto; ma a colui che è riuscito a percepire il loro vero senso appaiono come elementi essenziali della Torah. E quindi chi toglie dalla Torah anche soltanto una lettera o un punto è come qualcuno che asporta qualcosa da una costruzione perfetta”. Sul rapporto fra la Torah rappresentata come organismo e l’influenza dell’uomo con l’attività di mantenimento, cfr. anche Zohar I, 134b (“Colui che si occupa della Torah mantiene il mondo in movimento e mette ogni parte in condizione di svolgere la sua funzione...E tutto è ordinato secondo l’archetipo della Torah, poiché la Torah consiste interamente di membra e articolazioni che stanno fra loro in un rapporto gerarchico, e se sono esattamente disposte costituiscono un unico organismo”). 123

G. Scholem, I segreti della creazione, Milano, 2003.

52

Essa sollecita un’interrogazione del Testo assai più intricata inquietante e “abissale”, nella quale la collaborazione dell’uomo è molto più attiva e pragmatica. E’ vero che si è indotti, come il nostro autore, a scandagliare il prodigioso meccanismo fino alla prolissità numerica, ma è altrettanto certo che l’impatto con la Scrittura non può esaurirsi in un’incessante inquisizione volta a sciogliere pur portentosi enigmi. L’organicità, che si è detta antropoteocentrica, del Textum, le intime connessioni ordite, le inaudite biforcazioni alle quali lo scrittore argentino forse allusivamente 124 pensa, non possono, come si è sottolineato, essere limitate a un solo aspetto del Divino, all’infinita e rigorosa intelligenza del distante Dio dei teologi medievali. Tutti gli aspetti (si sarebbe tentati di dire, con Spinoza, tutti i modi) della realtà conosciuta e sconosciuta sono nel Testo. Dio, la luce, la lettera sacra che precede la parola, la parola -cosa 125 che forma il testo, il testo che crea il mondo126 e l’uomo nel mondo, e daccapo, in un vorticoso gioco di riflessi, l’uomo che collabora alla redazione del testo, il testo alimentato dalla parola, la parola decostruita nella lettera, la lettera in Dio, si diramano, si separano, si ricompongono, dirompenti e impetuosi, senza soluzione di continuità, rifluendo, come onde agitate di un oceano senza fine, nel libro di sabbia127, nel Punto Assoluto, nell’infinita Torah, che è, insieme, il Tutto e, paradossalmente, una Parte del Tutto che Lo contiene.

124

In uno dei più celebri racconti (Il giardino dei pensieri che si biforcano, in Finzioni cit. nella edizione Torino,

1995, p. 79 ss.), Borges genialmente ipotizza, fra l’altro, differenti sviluppi di eventi nel tempo determinati da diverse svolte possibili, corrispondenti alle diramazioni prospettate da un (apparentemente) caotico libro-labirinto. 125

Secondo l’interpretazione di Goetschel (in La Cabbalà cit., 78) la prima consapevole elaborazione di una mistica

del linguaggio dovrebbe attribuirsi a Isacco il Cieco, che avrebbe identificato il principio del dire, dibbur, con le Sephirot, le parole che stanno all’origine di tutte le cose, giocando proprio sul duplice significato del vocabolo ebraico. E’ un tema che verrà ripreso nei prossimi capitoli. 126

Dio guardò nella Torah e creò il mondo (cfr. Bereshith Rabbah, 1.1, Torino, 1978, 29).

127

Il libro di sabbia è anche il già citato titolo, eponimo dell’omonima raccolta, di un racconto fantastico di Borges,

che favoleggia di un volume dalle infinite pagine (cfr. J.L. Borges, Tutte le opere cit., Vol.2, 648 ss.). Lo ricordo qui non casualmente. Come L’Aleph e molte altre narrazioni del nostro autore, anche Il libro di sabbia appare più adeguato dei c.d. “saggi” borgesiani nel mettere in luce l’influenza anche inconsapevole del misticismo ebraico sull’opera dello scrittore argentino a un livello forse più profondo degli intrecci espressamente “dichiarati”.

53

Il Testo mi pare anche figura o simbolo della “contrazione” creatrice di En Soph esaltata dalla Cabbala luriana128. Dopo lo tsimtsum, se ciò si può dire, una Parte del Tutto paradossalmente contiene il Tutto, e paradossalmente il Tutto è uguale alla Parte. Una riflessione, questa, che potrebbe aprire altri squarci nei temi che saranno affrontati. In conclusione, credo che siano emerse, per ora, alcune “familiarità” e non poche divergenze, che riterrei profonde, tra “la mistica ebraica di Borges” e taluni aspetti della Cabbala, quali affiorano dopo un esame forzatamente limitato. Le distonie, tutte pertinenti alla relazione tra Dio e uomo, meno passionale e meno intensa nella dimensione etica proposta dalla lettura borgesiana, si manifestano su piani distinti che s’intrecciano e trovano il proprio punto d’intersezione nella Torah, dalla quale sono partito e mi sono allontanato, per poi infine ritornare. E’ diversa, mi pare, la concezione di Dio, alla cui “perfezione”, paradossalmente umana, e non antropomorficamente divina, il Giusto coopera; sono differenti e più complessi, nel pensiero ebraico, il fondamento e il dispiegamento del legame organico - pur condiviso in generale da Borges – in cui si articola la realtà, sublimata nelle inesauribili risonanze del Testo Sacro, che echeggiano incessantemente in una policromia della quale l’uomo è non solo il critico interprete, non solo l’eterno interrogante, ma anche la principale figura rappresentata, se non addirittura l’artefice divinamente ispirato, che rimescola e combina i colori, intinge i pennelli e, con timore e tremore, dipinge il quadro. Un’ultima osservazione. Mi pare che, oltre alle inevitabili, e forse feconde discrepanze già discusse, si possa, già in questa fase, cogliere invece una singolare, significativa, affinità, per così dire, strutturale, fra il pensiero cabbalistico e quello del nostro autore, quale emergerà in seguito. Essa è espressione di quell’avidità di ciò che sta oltre la presunta realtà, comune a Borges e ai mistici, accennata nella prima sezione 129. In particolare - ma questo aspetto lo si potrà percepire in modo più puntuale quando sarà affrontato il tema della creazione, strettamente legato all’analisi testuale prospettata - mi riferisco all’inesauribile, incessante aspirazione o coazione a postulare un regressus ad

128

Al centro del pensiero di I. Luria è la teoria dello Tzimtzùm (ebraico contrazione), per la quale la Creazione è il

risultato di una contrazione della divinità intesa come En Soph (l’infinito) che si ritrae e lascia per così dire spazio al mondo fenomenico.(cfr. Piccolo dizionario dell’ebraismo cit., voce Luria Isaac, 78). Ampio spazio alla Cabbala luriana è dedicato da G. Scholem ne Le grandi correnti della mistica ebraica cit., 257 ss. 129

H. Bloom, Come leggere un libro ( e perché), cit., 78.

54

infinitum che pare animare, talora anche angosciosamente, il nostro autore e i Cabbalisti che hanno indagato sulla natura della Torah. Si sospetta costantemente che l’Origine sia sempre al di là dell’Origine data. Si mette in discussione il Principio, per evocarne un altro, subito confutato. Un passo indietro ne richiede uno ulteriore e l’abisso non accenna ad avere fine. Il cammino a ritroso dei mistici trova un limite in Dio. In Borges, come si vedrà, anche questa linea non pare invalicabile. E’ il problema dell’Inizio, che non è mai solo Inizio in sé, ma esige una condizione, un presupposto, proprio perché l’Inizio Assoluto è un pensare qualcosa come inizio. E questo pensare metafisico l’Inizio è condizione di ogni Inizio, che si pone quindi come inizio duale.130 In questo studio, la riflessione sul principio e sulle sue condizioni è resa ancora più complicata dal senso, per così dire, speciale, che assume la scrittura. Essa si pone, se l’espressione è corretta, come codice genetico dell’Inizio nella Torah e costituisce il mezzo creativo per eccellenza, nonché la mappa di tutti i mondi finzionali possibili, per Borges. E’ subito evidente che il pensiero, inteso come presupposto o condizione dell’inizio, è una meditazione sulla scrittura e “dentro” la scrittura. Ciò rende, se possibile, più abissale e vertiginosa, forse moltiplicandola incessantemente, la dualità dell’Inizio cui allude Sini. E tale inevitabile complessità si profila ancora più intricata, sia per l’accennata inarrestabile e precipitevole “pendenza” a ritroso del pensiero affamato di Origine, sia per l’incessante fecondità che riproduce, reiterando, variando, rispecchiando, e combinandone i temi, i mondi molteplici e favolosi creati dalla mistica e da Borges.

4)

La relazione sull’intervista rilasciata da Borges a J. Alazraki

Concludo questa sezione, dedicata al repertorio commentato della “saggistica” borgesiana sulla Cabbala, accennando all’intervista rilasciata a Jaime Alazraki nel 1971 e trasformata nella relazione che appare nella monografia di questo studioso. 131 130

C. Sini, Raccontare il mondo cit., 13-14. Un inizio oggettivo, assoluto, o in sé, non è qualcosa in sé, ma è un

pensare qualcosa come inizio. Questa riflessione, su cui tornerò, pare puntuale e adeguata al caso nostro, sia con riferimento ala mistica ebraica, nella quale il “pensiero dell’Inizio” occupa molto spazio, sia, come si vedrà, per quanto riguarda Borges. 131

J. Alazraki, Borges and the Kabbalah cit., pp. 54-61. Si tratta di un contributo molto importante perché, insieme

alle consuete reiterazioni di temi già toccati, nella relazione emergono riflessioni borgesiane estranee ai “saggi” esaminati. 55

Il breve scritto, nella prima parte, non contiene elementi nuovi rispetto a quelli già esaminati. L’autore argentino illustra il metodo dei Cabbalisti e argomenta nuovamente sulla inefficacia del Caso nella redazione della Sacra Scrittura, il cui Testo è infinitamente significativo, tanto da suggerire la possibile pertinenza di ogni versetto a ciascun lettore della Torah132. Quindi Borges riespone la teoria delle Sephirot, senza quelle accentuazioni dualistiche e antimaterialistiche che, come si è visto, connotano la concezione espressa nel saggio La cabala133. Ora il nostro autore le qualifica come emanazioni di En Soph, but their essence is not different.134 La relazione si sofferma sui rapporti tra l’Uomo Primordiale e il Cosmo. Tutti gli abitanti del pianeta sono riflessi dell’Archetipo, ma poiché il Mondo Reale è, per usare un tòpos della mistica, quello “in alto”, tale concezione riporta inevitabilmente all’idealismo platonico 135. A questo punto incomincia però a profilarsi la portata innovativa del saggio rispetto agli altri già considerati.

132

Nozione che riecheggia l’esistenza di seicentomila testi della Torah, tanti quanti erano gli ebrei usciti dall’Egitto.

Interessante è anche la precisazione, assai adeguata alla “poetica” di Borges, secondo cui i Cabbalisti, nella loro produzione, non sono incentivati dall’”agonismo” della novità a ogni costo. Anzi, pur pervenendo a una dottrina molto differente dall’ortodossia giudaica (Alazraki, op. ult. cit., 57, traduzione mia) non vogliono apparire innovatori per non screditarsi. Il sostrato di tale concezione (il valore della tradizione e il rifiuto della novità “a priori”) è evidentemente condiviso dal nostro autore, come già scritto altrove. Peraltro Borges, ritenendo, in parte contraddittoriamente con il precedente assunto, che i mistici dell’ebraismo si siano appropriati di contributi estranei alla loro tradizione culturale, ossia di elementi gnostici e neoplatonici non “autoctoni”, congettura l’adozione, da parte loro, di un metodo finalizzato ad accreditare la loro dottrina nell’ambito della tradizione ortodossa giudaica. In altre parole, secondo il nostro autore, “la dottrina avrebbe preceduto il metodo” (op. ult. cit. 58), tesi che avrebbe discusso con Scholem, il quale, “perhaps through sheer courtesy, approved this conjecture”. 133

J.L. Borges, La cabala, in Sette notti cit. (cfr. cap. 2 di questa sez. II).

134

J. Alazraki, op. ult. cit. 59. “They are facets of an indivisible beeing”.

135

Borges cita anche qui Leon Bloy (cfr. nota 84), al quale attribuisce l’affermazione secondo cui il cielo e le stelle

che noi vediamo sono solo il riflesso della nostra anima (Alazraki, op. ult .cit 60).

56

Borges prosegue asserendo (con una certa arbitraria genericità, come talvolta è capitato di rilevare) che l’universo è “creato” dalle emanazioni, e non in virtù di un atto intenzionale della divinità. 136 Il tema è notoriamente assai delicato e controverso e non può essere definito così nettamente. Innumerevoli discussioni si sono sviluppate sulla natura delle Sephirot in genere137, e in particolare sull’”identità”, sul nome o sulla qualità della prima di esse, “coinvolta” in una complicità, per così dire, più diretta delle altre “emanazioni”, nell’ineffabile e controverso rapporto con En Soph. Scholem ha scritto pagine importanti e non facili su questo argomento, cercando di seguire e spiegare l’oscillazione tra i due versanti, “intellettualistico” e “volontaristico”, della fase iniziale del processo intimo della divinità 138, caratterizzato dal prevalere dell’accentuazione, ora ebraica, ora neoplatonica, del pensiero sull’Origine. Proprio la Volontà, soppressa con tanta disinvoltura da Borges (ma solo in apparenza 139 e nella sua dimensione, per così dire, 136

J. Alazraki, op. ult. cit., 60 (traduzione mia, n.d.r.).

137

Sul punto cfr. M. Idel, Cabbalà Nuove Prospettive cit., pp. 134 ss. Lo studioso prospetta tre soluzioni principali

circa la natura delle Sephirot attestata nelle opere dei Cabbalisti medievali: “Le Sefirot sono parte della natura divina e partecipano dell’essenza divina (“”Sephirot come essenza””); 2) le Sefirot sono non divine in essenza, benché strettamente connesse con la divinità, o come suoi strumenti per creare e governare il mondo, o come recipienti dell’influsso divino, attraverso i quali esso si trasmette ai mondi inferiori; 3) le Sefirot sono l’emanazione divina all’interno della realtà creata: costituirebbero pertanto l’elemento immanente della Divinità (op. ult. cit., 135). 138

Cfr. G. Scholem, Concetti fondamentali dell’ebraismo cit. Nel saggio Il Dio biblico e il Dio di Plotino nella

Cabbala antica (cfr. in particolare pp. 22-40) Scholem scandisce le fasi del pensiero filosofico e mistico impegnato nel tentativo di identificare la prima Sephirah distinguendola da En Soph. Dal Sefer Bahir, che accentua fortemente la presenza della Machshavah, del pensiero, cioè, che starebbe all’inizio del processo in cui Dio si mostra creatore (assimilabile al Nous plotiniano, ma anche al pensiero che pensa sé stesso di Aristotele) e precede Chokmah (identificata con la Torah scritta), la sapienza intesa come piano della creazione, si passa alla metafisica della volontà - forse per l’influenza di Gabirol e del suo Fons vitae - che diventa la prima Sephirah e precede il pensiero di Dio, pur restando distinta da En Soph (Azriel è tra i Cabbalisti antichi colui che individua nettamente la volontà come prima Sephirah, op.ult.cit., 28). Interessante è notare che Scholem (con Vajda) identifica la volontà di Gabirol con la parola e la sapienza di Dio (G. Scholem, op.ult.cit., 22). 139

Più esattamente pare qui soppressa dal nostro autore la “volontarietà°”, o meglio “l’intenzionalità” dell’atto

creativo. Come si vedrà fra poco, la nozione, diversamente intesa, riapparirà prestissimo, sotto le mentite spoglie della Volontà Cosmica di Schopenauer, il cui pensiero, caratterizzato per certi aspetti dalla paradossale combinazione tra idealismo e nichilismo, costituisce per Borges una fonte di attrazione e ispirazione costante (cfr. Monegal, Borges cit., 57

di volizione intenzionale, come si vedrà fra poco), gioca, come è noto, un ruolo importantissimo nella mistica teosofica ebraica, sia nella lunga disputa che la oppone al Pensiero per la primazia 140 tra le Sephirot, sia nella tormentata relazione con il supremo En Soph. Tale dialettica ha talvolta indotto a identificare il Senza Fine con la Volontà, e, parallelamente141, l’Infinito col Nulla - l’ante litteram per eccellenza da cui tutto deriva142 sino a sfociare in una distinzione meramente concettuale tra le due Entità, che non ne ha compromesso, tuttavia, l’inscindibile connessione, la loro inseparabile reciprocità (sancita a pena della violazione del principio dell’unità divina). Nel complesso movimento tra En Soph e la prima problematica Sephirah, si scorge la connotazione assai particolare della emanazione originaria che sembra essere accolta dall’interpretazione di Scholem (forse influenzato anche del Fons vitae di Gabirol). La Volontà è un Pensiero Nascosto143, non ancora svelato: essa contiene e cela il Nome di Dio, 137). 140

La sfida primaria tra volontà e intelletto non è certo esclusiva del pensiero e della mistica ebraica e Borges, come

accennato, conosce molto bene Schopenauer, il quale, ne Il primato della volontà, Milano, 2002, 167, scrive: “L’eterogeneità di volontà e intelletto, nonché la natura secondaria di quest’ultimo, spiegano perché l’uomo si sente eterno, e nello stesso tempo, a causa della deperibilità del cervello, non possa avere alcuna conoscenza e alcun ricordo che oltrepassino la durata della sua vita.” 141

Di nuovo, l’Infinito connoterebbe En Soph e il Nulla la Volontà originaria da cui sgorga il Tutto.

142

G. Scholem, op. ult.cit., 29. Dico ante litteram pensando all’aleph, prima lettera dell’alfabeto ebraico e punto di

avvio di ogni lingua da cui si dispiegano tutte le articolazioni anche della parola divina (op.ult.cit.33), espressione dell’unità e della sua origine infinita e traccia ineffabile di En Soph.. 143

A tale proposito Scholem, nell’ultima opera citata (p. 37) cita Azriel e lo Zohar, scrivendo: “” Prima che il Santo,

egli sia lodato, creasse il mondo (s’intende qui il mondo delle Sephirot) Egli e il suo nome, che in lui era nascosto, erano tutt’uno e non esisteva cosa alcuna fino a che nella volontà del pensiero non insorse l’intento di dare esistenza al tutto con l’apporvi il suo sigillo, e di creare il mondo; ed egli formò (letteralmente: tracciò sigle) e costruì, ma nulla ebbe esistenza finché egli non si avvolse in una veste di supremo splendore di raggi luminosi del pensiero e creò il mondo e da quell’aura radiosa suprema produsse quegli alti cedri mistici (che sono piantati nel Libano mistico che è la Machshavah””. I,29a. Il nome non ancora distinto da Dio, è appunto quella forza dell’emanazione che sta celata in lui e che in seguito si manifesta nelle Sephirot il cui insieme rappresenta appunto il nome di Dio. La volontà è posta qui chiaramente al di sopra del pensiero, il quale si identifica con l’aura radiosa della Sophia. Tuttavia, al di sopra della Sophia, che l’autore dello Zohar identifica in generale con il pensiero divino, si indica ancora qui un pensiero 58

che si farà Parola manifesta e “demiurgica” soltanto nelle Sephirot successive. Ciò trova riscontro soprattutto in alcuni passi dello Zohar, mediati probabilmente da Azriel, che ha cercato di sintetizzare tra le due istanze intellettualistiche e volontaristiche attive nel processo intimo della Divinità. Non è forse arbitrario attribuire alla Volontà, così intesa, un senso non lontanissimo da quella oscura volizione cosmica, da quell’Infinito 144 non ancora disvelato, cui Borges, ispirato da Schopenauer, tra poco farà riferimento. L’ulteriore approfondimento non è in questo momento funzionale al discorso introdotto, ma il delicato e forse cruciale tema entrerà nuovamente in discussione. Immediatamente rilevante è invece il successivo passaggio dello scrittore argentino, che accredita anche al Milton del Paradiso perduto la stessa idea: il mondo, dunque, in quanto “non deliberato” sarebbe l’esito non di un’azione diretta, ma di una “assenza” di Dio 145. Echeggiano, forse, in questa concezione la Cabbala luriana e la dottrina dello Tzimtzùm146, sia pure, probabilmente, percepite senza diaframmi storici, come naturali esiti della mistica delle Sephirot canonizzata nello Zohar (operazione, peraltro, forse non del tutto arbitraria né

riprovevole)147. Ovviamente altra cosa è

l’”assenza” qui ipotizzata,

altra è la

nascosto.., esplicitamente identificato con la volontà.” Secondo I. Epstein (in Il giudaismo, Milano, 1967, 175), il concetto di Volontà fu introdotto da Gabirol per attenuare il concetto neoplatonico di emanazioni necessarie, confliggenti con il credo ebraico: “In primo luogo (Gabirol, n.d.r.) introdusse il concetto di Volontà Divina intesa come intermediaria tra Dio e le emanazioni. Queste perciò non sono più lo straripamento inevitabile e meccanico di una sovrabbondante divinità, come ritenevano i neoplatonici, ma conseguenza della spontanea attività della Volontà di Dio”. 144

Infinito connotato anche di nichilismo, la cui “pessimistica” o negativa accezione nel pensiero di Schopenauer

appare tuttavia piuttosto distante dal “Nulla” dei mistici. 145

J. Alazraki, op. ult.cit., 60.

146

Cfr. nota 127.

147

Sottolineo che ben prima dello sviluppo della Cabbala luriana En Soph viene identificato anche come assenza

nascosta di Dio. (G. Scholem, op ult cit., 28). Ne consegue che in tale contesto un riferimento di Borges alla dottrina della contrazione è possibile, ma non necessario. Si noti che Nachmanide, dunque in un periodo ben antecedente a I. Luria, accenna a una dottrina della contrazione divina, non localizzata peraltro in En Soph, ma nella prima Sephira, la Corona Suprema o Volontà (G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 556).

59

“contrazione”, il “ritiro” di Dio peculiare alla cosmogonia della mistica di Safed; tuttavia si può dire comune alle due concezioni una certa idea di “eclissi” della Divinità. Improvvisamente però Borges lascia questo terreno e nell’abbandonarlo lo mette a frutto: “To understand this notion (l’assenza “creativa”, n.d.r.), we need to think of dreams”.148 Dice che le emanazioni divine sono l’analogo, o forse l’identico, dei sogni umani. Introduce così un motivo estraneo, o non peculiare149, all’arsenale cabbalistico, quale si manifesta nella cosmogonia “canonica”. Accosta in modo produttivo l’Assenza di Dio al Sogno degli Uomini, e poi l’Assenza degli Uomini al Sogno di Dio. Scivola sorprendentemente e in modo quasi inavvertito dal silente e discreto oblio della Divinità, al sonno tacito, al teatro sognante e sognato dell’uomo, preparando così la “menzogna letteraria” con cui trasfigurerà il pensiero ebraico, contaminato da innumerevoli altri elementi150, per creare racconti fantastici e poesie. L’Assenza è il Sogno, e i Sogni, come il mondo scaturito da Dio, sono nostre Emanazioni, che hanno una propria vita indipendente. Come Dio si assenta dal Mondo per crearlo, così noi, nel sonno, ci ritiriamo da noi stessi per dare forma a figure viventi151. Se Dio ci ha abbandonato, noi continuiamo a vivere come creature del suo Sogno 152. 148

J. Alazraki, op. ult.cit., 60.

149

Intendo dire che non è peculiare, o “necessario” il nesso tra “sogno” e “creazione” nell’ebraismo (a differenza, per

esempio, di quanto accade nell’induismo, come brevemente si vedrà in seguito). Al contrario il sogno in sé e in generale è un tema importante nell’ambito della mistica e dell’esegesi biblica (cfr. prossima sezione). Esso tuttavia non pare entrare, se non episodicamente, come elemento sostanziale, strutturale o costruttivo nella cosmogonia sefirotica (in questo senso uso il termine “canonico”) benché, come si accennerà nel secondo capitolo della prossima sezione, il tema del sogno sia tutt’altro che estraneo allo Zohar. 150

Elementi estranei alla mistica in senso proprio, ma, come si è avuto modo di verificare già, e come in seguito si

avrà occasione di constatare, comunque pertinenti a un movimento di pensiero in senso lato “anche” ebraico, legato alle potenzialità espressive della parola letteraria. 151

Sul rapporto fra sogno e mito e soprattutto sull’indagine antropologica tra mondo onirico e mito della creazione,

cfr. anche V. Lanternari, voce Sogno/visione, in Enciclopedia, Vol. 13, Torino 1981, pp. 94 ss.; in particolare, 98-102. 152

J. Alazraki, op. ult.cit. 61. 60

Quando Dio ci abbandona, crea. Quando l’uomo si abbandona, crea. La materia è il sogno, la forma, forse, è la Parola. Questa complessa metafora dell’Assenza, intesa come “non volontarietà”, come “negligente indifferenza”, si complica quando Borges, dopo avere negato l’esistenza di un deliberate act di creatività della Divinità, citando, come spesso accade, Schopenauer, “congettura” che noi potremmo essere realmente Emanazioni di un Sogno, in quanto non siamo altro che la proiezione di una Volontà Cosmica. E’ dunque plausibile l’idea di un essere, di un solo essere, che è ciascuno di noi e sogna l’intero universo e la sua storia 153. Evidentemente questa è una terza ipotesi 154. Si potrebbe forse azzardare che la creazione divina attraverso l’assenza è una tesi mistica, la creazione umana in virtù del sogno dissimula un mito poetico, l’operare demiurgico della volontà di Schopenauer avanza una prospettiva filosofica. Proverò a mettere ordine in un quadro a questo punto molto complesso, schematizzandone le figure che lo compongono. Borges dice: Dio - assenza di Dio - emanazioni non intenzionali - creazione del mondo. Analogamente, tralasciando per ora l’equazione tra Uomo Primordiale e le dieci Sephirot, e la concezione secondo cui tutto ciò che esiste è circoscritto in Adam Quadmòn, Borges ipotizza anche: Uomo - sonno - sogno - assenza di sé - emanazioni non intenzionali - uomo - sonno - sogno - assenza di sé - emanazione non intenzionali - uomo.. E il ciclo ricomincia 155.

153

J. Alazraki, op. ult. cit., 60. Anche in questo caso è fortemente presente l’influenza del pensiero di Schopenauer,

così come è stato interpretato da Borges. Scrive a questo proposito il biografo Monegal (op. ult.cit. 137): “Ma Georgie può essere stato attratto da un altro aspetto della filosofia di Schopenauer: la negazione dell’esistenza del tempo e l’erosione dei concetti di realtà esterna e di personalità individuali.” Nel “saggio”, dal titolo emblematico, Il nulla della personalità (da Inquisizioni, non inserito nel “canone”), Borges cita una frase del filosofo tedesco: “Tutti quelli che hanno detto io durante tutto il tempo prima che io nascessi, erano veramente me”. Lo stesso concetto è espresso nel racconto La forma della spada, in Finzioni, Torino cit., 111: “Forse Schopenauer ha ragione: io sono gli altri, ogni uomo è tutti gli uomini.” 154

155

Accanto a quelle del Dio emanatore - creatore e dell’uomo demiurgo sognatore. Questa sequenza evoca la circolarità del tempo e l’Eterno Ritorno, temi che torneranno in gioco nell’analisi

testuale del racconto Le rovine circolari.

61

Infine, è evocata anche una Volontà Cosmica, di cui noi siamo possibili proiezioni sino all’annullamento dell’individualità personale. Un medium tra Dio e l’uomo è il sogno, metafora o forse metonimia (effetto per la causa) dell’assenza. Ma Sogno e emanazione sono la stessa cosa: conseguenza, o meglio materia, dell’assenza sognante. Le “emanazioni negligenti” della Divinità sono fatte “della stessa stoffa del sogno” 156. Borges riscrive coscientemente Shakespeare: anche l’uomo è fatto della stessa stoffa dei sogni. In definitiva, l’assenza, il mondo onirico e le distratte emanazioni, “voci dal sen fuggite”, sono condivise da Dio e dagli uomini. Esse si producono e ri-producono nella Solitudine e nel Silenzio. Si avverte che, a questo punto, qualcosa si è modificato nella dialettica tra Borges e la Cabbala. Nel capitolo precedente ho rilevato che la mistica ebraica, ovviamente intesa secondo la personale percezione e interpretazione del nostro autore, prospetta una certa distanza, una certa incomunicabilità fra Dio e l’uomo, negando o trascurando quella cooperazione, viva soprattutto sul piano etico, che attraverso una lettura forse più attenta del patrimonio culturale della Cabbala si può invece cogliere. In virtù del mito letterario del sogno e di quello filosofico della Volontà Cosmica, pare che in questo momento le distanze si siano molto accorciate. Borges, nel segno del paradosso, non ha misura. Ora procede al contrario. E’ possibile che l’inversione di tendenza sia troppo netta, l’avvicinamento tra la Divinità e l’uomo troppo spericolato. Il confine tra analogia e identità, nel castello metaforico edificato dal sogno, appare davvero labile, anche se i ruoli delle parti – se queste davvero giocano ruoli distinti - non sono affatto definiti. Siamo infine tutti sognati da un Unico Sognatore, o ciascuno di noi è il Sognatore, lo svagato negligente Emanatore, che, nottetempo, svincolato da ogni cura e anche da sé, libero di sognare, sogna, e sognando crea infiniti Sognatori, fino alla prolissità numerica? Ma questa consonanza onirica, questa compagnia di sognatori, è forse troppo popolosa. Una domanda, che sembra davvero “Il Quesito”, pare inquietare Borges. Chi è il Sognatore di tutti i sognatori?

156

W. Shakespeare, La tempesta, atto IV, Interludio: “We are such stuff / As dreams are made on.” (Da W.

Shakespeare, I drammi romanzeschi, Milano, 2000, 908).

62

E’ la Volontà Cosmica di Schopenauer157, alla quale è assegnato il compito impervio di emanare infiniti mondi, generati dal suo sonno cieco, elargitore di una tenebrosa e incosciente fecondità? Chi ha assegnato questo destino alla Volontà? Perché dall’oscurità del sonno scintillano mondi riflessi e luminosi? La Volontà coincide in qualche modo con En Soph? E qual è la Parola di En Soph, la parola che crea? Da quale silenzio, da quale oscura solitudine procede? Infine, a chi appartiene veramente? E’ una parola divina o umana?

157

Nella conversazione con Alberto Arbasino, che introduce l’Antologia Personale di J.L. Borges, Milano, 1981, p.

VIII, il nostro autore dice: “ La storia è un incubo, un sogno, tutto è un sogno. O, come diceva bene Schopenauer, Die Welt als Will und Vorstellung, il Mondo come volontà e rappresentazione: la nostra volontà e il sogno sono la stessa cosa. Vorstellung si può tradurre con sogno, con immagine: il mondo come volontà e come immagine. Si può tradurre in tanti modi Vorstellung”. Questa concezione ovviamente attribuisce una qualità, per così dire, “negativa” in più alle emanazioni (divine o umane che siano): la volontà cosmica produce immagini, noi siamo rappresentazioni-immagini, ombre, forse immortali (Vorstellung si può tradurre in tanti modi…). Pervengo a questa conclusione con “l’autorizzazione” di Borges: “La vita è troppo povera per non essere anche immortale” (Storia dell’eternità, in Tutte le opere cit., Vol. 1, 543-544).

“Il settimo giorno Dio non riposò/Non ne ebbe il tempo né il desiderio/Trasecolò nella caligine azzurra/Respirò profondamente/Sull’orlo della sera/Accarezzò tralci di stelle inerti/Staccò il tempo dall’eternità/Con forza e con dolcezza/Bevve la luce lentamente/E patì il suo sogno di bellezza./Dio creò i suoi sette giorni/Ma poi più nulla/Allattò la luna senza fretta/Rimboccò le coltri della terra/Tenera e fredda/Cercò le mie mani invano/E con tristezza pensò/All’ottavo giorno/ E all’aurora incerta.” Il possibile legame tra la volontà schopenaueriana e la mistica ebraica è anche implicito nell’opera di alcuni pensatori ebrei del novecento. Si ricorda, per esempio, Abraham Isaac Ha-Cohen Kook (Rav Kook), citato a tale proposito da M. Giuliani: “Nel pensiero mistico-qabbalista di Rav Kook è per altro implicita una dottrina della volontà di sapore schopenaueriano, per la quale sta all’uomo contribuire sua sponte al riscatto delle scintille di luce disperse nella materia mondana.” (M. Giuliani, Il pensiero ebraico contemporaneo, Brescia, 2003, 201). Certo qui si tratta, mi sembra, di una volontà diversamente intesa dalla forza cosmica alla quale pare alludere Borges.

63

III) IL GOLEM 1)

La leggenda

In modo forse più coerente con le intenzioni manifestate nella prima sezione 158 di questo lavoro, un progetto inesorabilmente magmatico, come ancora il mio si profila, avrebbe potuto prendere le mosse da materiale informe, dal golem159, definito da G. Scholem 160 una 158

Mi riferisco alla mimesi tra scrittura e rappresentazione alla quale si è alluso nella prima sezione di questo lavoro.

D’altra parte se il tema del golem appare più “originario” e “magmatico” di altri già trattati, sul piano della distribuzione degli argomenti appare forse più opportuno affrontarlo ora, come immediata premessa dell’analisi testuale che sarà sviluppata nella prossima sezione. 159

Il mito del golem verrà qui rapidamente esaminato soprattutto alla luce della interpretazione letteraria che ne offre

Meyrink: come accennato, Borges conosceva molto bene il romanzo dello scrittore austriaco, al quale sostanzialmente deve la percezione della leggenda. Tuttavia, a differenza di quanto accaduto nei capitoli precedenti, in cui si è tentato di accostare subito i temi mistici alla riflessione di Borges per trarre qualche conclusione, in questo caso mi pare più opportuno rinviare almeno in parte la trattazione della ”simbiosi” tra i due ambiti del nostro studio alla prossima sezione, dedicata all’analisi testuale, nella quale la maggior parte dei temi accennati dovrebbe entrare in gioco. 160

In La Cabala, cit., 352.

64

creatura, in particolare un essere umano, fatta in modo artificiale in virtù di un atto magico, mediante l’uso dei nomi sacri. Come è noto, questa parola è un hapax nella Bibbia161 (Salmo 139 Onnipresenza ed onniscienza divina): “I tuoi occhi mi hanno visto informe embrione, “nel tuo libro erano tutti scritti “i giorni fissati, e ancora neppure uno esisteva”. Voglio citare anche il versetto precedente:

161

Salmi, 139:16, in Bibbia Concordata a cura della Società Biblica di Ravenna, Milano, 1982, II vol., 179

65

“Non ti erano nascoste le mie ossa, “mentre ero formato nel segreto e tessuto nella profondità della terra”.

66

In questo modo si comprende meglio il passaggio ermeneutico dal significato letterale della parola golem162, traducibile con il termine “embrione”, o preferibilmente, “informe” 163, che ne generalizza il senso, alla più specifica evocazione di Adamo e del racconto della creazione dell’uomo. Secondo tale più particolare accezione il golem è la massa di terra amorfa, “la materia inerte del corpo di Adamo prima che gli venga insufflato il pneuma divino, la terra ancora non animata dallo spirito.”164 O, seguendo Scholem, ciò che “nell’uso filosofico medievale è la materia senza forma”, “il corpo (del primo uomo) senz’anima” 165.

162

G. Busi lega il golem anche al simbolismo del mantello: “La radice glm che fa da sostegno etimologico a questo

termine destinato a una progressiva polisemia, vale in ebraico “”avvolgere o piegare insieme””, come per i tessuti che alterano i contorni delle forme, annunciandole senza dichiararle.” Il mantello evoca, con l’avvolgimento, l’indefinita espansione, associando l’informe all’estensione illimitata. Ecco infine il passaggio al macroantropo: “”Quando il Santo, sia Egli benedetto, creò il primo uomo, lo creò informe (golem) ed egli si stendeva da un’estremità all’altra del mondo.”” Il “”primo uomo”” è dunque qui una figura indistinta, un macroantropo che si espande per l’orizzonte fino a perdere i tratti del corpo umano, divenendo tutt’uno con il cosmo.” (G. Busi, Simboli del pensiero ebraico cit., 72-73). Questa progressione simbolica, culminante in un antropocentrismo panteista, pare assai pertinente allo sviluppo della figura del golem nella poetica di Borges. 163

Ma forse non con entrambi come si legge nella traduzione proposta.

164

A cura di Pierre Brunel, Dizionario dei miti letterari, Milano, 1995, Golem, 331. La voce citata è forse tra le più

complete disamine del mito del golem, dalle fonti bibliche e cabbalistiche, alla letteratura talmudica, sino ai racconti popolari medievali che hanno tratto origine dal chassidismo renano dando vita alle versioni polacche e praghesi della leggenda. Infinite, e tali da esulare dal nostro ambito, le varianti letterarie scaturite da questo mito, che trattano temi diversissimi, legati alla magia, all’erotismo, alla hybris punita, all’automa, inteso come incarnazione degradata, al “doppio”. Come accennato, di nostro interesse, in quanto fonte diretta di Borges, è il romanzo Il golem di G. Meyrink, su cui mi soffermerò infra, che riproduce la versione praghese della leggenda. Peraltro appare assai suggestiva e ricca di implicazioni mistiche anche la leggenda polacca, diffusa dal rabbino Elias Baalschem e codificata per la prima volta nel 1674. Plasmata la figura dell’uomo in argilla e pronunciato il nome della divinità, l’automa prende vita. E’ muto, ma capisce e viene utilizzato come servo. Sulla sua fronte è stampata la parola aemeth (verità). Il golem cresce smisuratamente e incute terrore ai suoi creatori, che cancellano la prima lettera, affinché resti solo meth (è morto). La creatura crolla a terra senza vita, uccidendo però uno dei suoi demiurghi. (Questo è un sunto della versione polacca del mito, cui fa riferimento la voce di Brunel citata). Alcune delle innumerevoli varianti della leggenda hanno trasformato il golem plasmato da Rabbi Loew in un “eroe buono” e altruista, pronto a mettere al servizio della comunità ebraica di Praga le proprie sovrumane capacità fisiche, smascherando le trame ordite a danno degli innocenti ingiustamente accusati dai tribunale cristiano: “La società in cui gli ebrei vivevano, terrorizzati dal futuro, era caduta così in basso che soltanto un Golem – un essere artificiale senza un’anima, una creatura di argilla 67

Neppure può essere trascurato quel riferimento, cui allude il versetto 15, alla formazione nel segreto, che connette, a mio avviso, il mito polisemico del golem/informe/Adamo alle letture mistiche legate soprattutto al Libro della Formazione (Sefer Yetsirà) e al potere creativo della parola e delle lettere166. Ma Adamo è anche l’Uomo Primordiale, centrale soprattutto nella mistica di Yitzchàq Luria, l’Adam Quadmòn, la forma più alta della manifestazione della divinità dopo lo tsimtsùm.167 Temi ricchissimi: al solito, come presagito altrove, diversi piani ermeneutici si intersecano e il simbolismo che ne risulta è carico di senso. Il golem è solo il primo e più evidente destinato a faccende terrestri ed escluso dall’influsso divino – poteva essere ancora efficace, e capace di salvarla dalla perdizione. Questo è il motivo per cui la risposta celeste data al Maharal (Rabbi Loew, n.d.r.) in sogno conteneva soltanto dieci lettere dell’alfabeto ebraico: erano sufficienti a creare il Golem o almeno a progettarlo. Se il messaggio avesse contenuto tutte le ventidue lettere, avrebbe voluto dire che era necessario un essere perfetto.” (E. Wiesel, Il Golem, Firenze, 1986, 45). 165

G. Scholem, op.ult.cit., 352. Anche se, si osserva, “materia informe” e “embrione” sono, ovviamente, cose ben

diverse. Embrione è, quasi superfluo dirlo, il prodotto delle prime fasi di sviluppo dell’uovo fecondato e, solo in senso figurato, significa “esemplare imperfetto” (cfr. voce embrione in Grande Dizionario della Lingua Italiana a cura di Salvatore Battaglia, vol.V, 119). In La Kabbalah e il suo simbolismo cit., 204, lo stesso Scholem è molto più critico sulla traduzione con il termine “embrione”: “Possiamo dire che qui (nel Salmo 139, n.d.r.) “”Golem”” significa l’informe, l’amorfo, e che ha certamente lo stesso significato nelle fonti posteriori. Non c’è il minimo argomento per sostenere che significhi embrione, come si afferma talvolta.” Notevole, nel tentativo di chiarire il concetto, il contributo filologico di Elémire Zolla, nell’introduzione alla prima edizione italiana del romanzo di Meyrink, Il golem (Milano 1966): “..Il sostantivo golem richiama il verbo che significa “”avviluppare, piegare”” e dovrebbe perciò tradursi “”cosa ravvolta in se stessa, ancora informe”” (cfr. le considerazioni filologiche di G. Busi, n. 161, n.d.r.) e si è interpretato quindi come “”embrione””; il metodico San Girolamo non si spinge a identificare così recisamente l’oggetto su cui si erano posati ai primordi del tempo, nel mondo delle forme formanti, gli occhi di Dio, ma traduce, come sempre genialmente:””Imperfectum meum viderunt oculi tui, et in libro tuo omnes scribentur, Deus formabuntur, et nemo in eis””. Il golem per la Volgata è l’Imperfetto, il non sviluppato, l’esistenza che precede l’essenza, la confusione che implica l’ordine e così avanti, di analogia in analogia”. 166

Secondo Scholem la combinazione di elementi di magia proveniente dall’oriente con lo studio del Sefer Yetsirà ha

determinato presso i chassidìm tedeschi lo sviluppo dell’idea del golem, “ cioè della creazione di un uomo magico attuabile con l’applicazione di procedimenti indicati nel Sefer Yetsirà” (G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 129). 167

G. Scholem, Le grandi correnti cit, 275. Sulla presenza dell’Uomo Primordiale nella mitologia del golem, cfr.

Brunel, voce cit. pp. 331 ss. 68

passaggio di significato, la cifra plastica e riconoscibile, il materiale, alla lettera embrionale e informe, animato e vivificato dall’alito della Tradizione. Soprattutto il mito reintroduce, con concretezza e prepotenza, attraverso le elaborazioni successive, interrogativi inquietanti su uno dei motivi dominanti tanto della mistica quanto della poetica del nostro autore: la reale funzione dell’uomo nel processo creativo. Scrive Chaijim Soloveitchic: “L’uomo dell’halakhà ha ricevuto la Torà sul Sinai non come semplice recettore, ma in quanto creatore, come un associato di Dio nell’opera di creazione”168. Ma quali limiti è lecito porre all’uomo che ricrea il mondo e se stesso adempiendo i precetti? Quale significato attribuire alla formazione dell’informe 169? Come si pone, rispetto a tutto ciò, Borges? Prima di esaminare il racconto nel quale il tema del golem appare più espressamente divulgato dallo scrittore argentino, occorre però richiamare un’altra fonte di certo riferimento del nostro autore. In questo caso si esula dalla conoscenza di Scholem e delle voci enciclopediche di argomento ebraico. Dunque non si tratta di sorgente, per così dire, mistica (per quanto indiretta) o in senso lato informativa, ma di una contaminazione letteraria con il romanzo fantastico Il golem170 , pubblicato a Vienna nel 1915. Al di là del discusso valore estetico di questa opera, irrilevante per la nostra indagine, la narrazione di Meyrink interessa perché Borges vi legge la versione praghese “semplificata” (ma piuttosto fedele) della leggenda171 e trova altri spunti legati alla Cabbala (comunque

168

Cfr. M. Giuliani, Il pensiero ebraico cit., 346.

169

Nel commentare un anonimo testo chassidico, Scholem rileva come una creazione del golem felicemente riuscita

e che non avvenisse solo sul piano simbolico darebbe inizio alla “”morte di Dio””. La hybris del creatore si volgerebbe contro Dio”. G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo cit., 228. Questo tema aleggia ovviamente nel racconto borgesiano che si commenterà. Sempre a tale proposito, non manca un cenno anche nel breve ma pregevole La Kabbalah di G. Israel, Bologna, 2005, pp.76-80. 170

171

G. Meyrink, Il Golem, Milano, 1991. Meyrink, op.ult.cit., così testualmente, nella traduzione di Carlo Mainoldi, a pag.37:” L'origine della storia

rimonta al diciassettesimo secolo, pare. Si vuole che un rabbino avesse costretto, seguendo certe istruzioni della cabala, andate perdute, un uomo artificiale - il cosìddetto golem - perché l'aiutasse a suonare le campane della sinagoga e facesse ogni sorta di lavori pesanti. 69

connessi al tema principale del golem), soprattutto alla mistica che Scholem talvolta definisce “pratica”, o estatica (e Abulafia battezza “Cabbala profetica”) 172, la scienza della combinazione delle lettere, che, con l’intensa meditazione, elevando l’attività teurgica alla paradossale logica mistica173, conduce all’amore di Dio e alla profezia 174 attraverso la mediazione dell’intellectus agens175. Questo romanzo funge certamente da repertorio enciclopedico (altri ancora sono i riferimenti alla mistica, anche se più episodici e meno approfonditi) 176; esso è però

Non ne sarebbe però uscito un uomo davvero, ma solo un essere animato da un'oscura e semicosciente vita vegetale, e anche questo soltanto durante il giorno e in virtù di un magico bigliettino che gli veniva messo tra i denti, onde si alimentasse alle spontanee energie sideree dell'universo. E quando una sera, prima della preghiera consueta, il rabbino dimenticò di togliersi dalla bocca il sigillo, il golem sarebbe caduto in un delirio furioso, aggirandosi nell'oscurità delle strade e distruggendo quanto gli capitava sottomano. Alla fine il rabbino gli si sarebbe gettato contro, riuscendo a strappare il pezzo di carta dalla bocca del golem, che sarebbe piombato di schianto senza vita al suolo. Di lui non restò che il corpiciattolo d'argilla, che ancora oggi viene mostrato nella vecchia sinagoga." Questa è la versione “canonica” praghese della leggenda, elaborata da B. Auerbach nel suo romanzo Spinosa (1837) e proposta da Brunel nella voce citata (pag. 334). Protagonista è il celebre cabalista Rabbi Loew (1512-1609). L’ambiente, come quello del romanzo di Meyrink, è il ghetto: “ Il Rabbi Lov crea il golem per aiutarlo nei suoi lavori domestici. Gli dà vita, non più attraverso la combinazione di quattro elementi (come vuole la tradizione più antica del mito, nata dai commenti medievali al Libro della formazione e fatta propria anche da T. Mann ne Il giovane Giuseppe, 1934, n.d.r.), ma per la virtù magica della pergamena che gli fa scivolare dietro la testa dopo aver praticato l'apertura del cranio. Ogni venerdì sera il rabbino gli toglie la pergamena dalla testa e lui ridiventa argilla inerte. Ma un venerdì il cabalista si dimentica di farlo e, mentre tutti sono in sinagoga, il servo si scatena e si mette a distruggere tutto intorno a sé. Il rabbino, avvertito, riesce però a strappargli la pergamena e il golem crolla privo di vita ai suoi piedi." 172

Scholem, Le grandi correnti cit. (pp. 138, 146, 148).

173

Indubbiamente a questo aspetto della mistica si riferisce Borges ne Una rivendicazione della cabala (in Tutte le

opere cit., Vol.1, 330), quando scrive: “Non voglio rivendicare la dottrina, bensì i procedimenti ermeneutici o crittografici che ad essa conducono”. 174

Meyrink, op.cit. A pag. 98 vi è un riferimento esoterico alla lettera aleph, mentre alle pagg. 107 e 108 vi è un

esplicito cenno alla meditazione sull’alfabeto: “Probabilmente lei crede che le nostre scritture ebraiche siano scritte con le sole consonanti unicamente per arbitrio. Ciascuno ha invece il dovere di trovarsi da solo le vocali segrete che 70

soprattutto, ciò non va mai dimenticato, un racconto, e il letterato Borges lo vive principalmente come tale. Soprattutto due dimensioni fantastiche aleggiano sulla narrazione, alterando, per così dire, la purezza dei dati mitici elaborati dalla tradizione ebraica: il gioco spettrale e il fondale onirico in cui la leggenda si immerge e si deforma. Così E. Zolla: “..Il golem di Gustav Meyrink ha ben poco in comune con lo smisurato spauracchio di Rabbi Low. Non è un manichino d’argilla, ma una sembianza sfuggente, nebbiosa, enigmatica, uno Spuk, uno spettro..” 177 Il ghetto di Praga è sordido e lugubre e minaccia i suoi abitanti, sorpresi da un narratore spesso ambiguo alla mercé di un’animalità torbida. Il terrore dell’ebreo angosciato e perseguitato sembra dare vita (o dare corpo, come perspicuamente scrive Zolla) allo spettro del golem. Ma anche il sogno forma la trama del racconto.

gli dischiudono il senso a lui e solo a lui destinato, se la parola vivente non deve irrigidirsi a dogma senza vita ."(P. 107). La permutazione vocalica della Torah, ricorda Idel (Cabbalà Nuove Prospettive cit., pp. 205-226), è propria della Cabbala teosofica, mentre la mistica estatica di Abulafia si avvale anche alla permutazione consonantica. 175

Scholem, op.ult.cit., 149

176

Cenno allo Zòhar a pag. 107.

177

Meyrink, introduzione all’op.ult.cit., XIV-XV.

71

Il filtro onirico vela le atmosfere sospese del ghetto 178 e innerva il tema dominante del romanzo: l’esistenza del protagonista, Athanasius Pernath, viene vissuta come un sogno da un’altra persona. Dunque l’arsenale della Cabbala è in questo romanzo rielaborato in modo originale dall’autore. Altrettanto farà Borges, come si vedrà. Ma vi è di più. E’ innegabile che ogni interpretazione testuale, chiunque ne sia fruitore, è comunque mediata, tendendo a sviluppare le potenzialità di senso di cui l’opera è depositaria.179 Da ciò non si può prescindere, a maggior ragione, nel valutare i rapporti tra Cabbala, fluttuante nella complessa rete ordita da recezione e tradizione, e uno scrittore, Borges, più che mai insensibile, come ben si sa, a rivendicazioni di “originalità” considerate oggettivamente impossibili o anacronistiche, e tanto esemplarmente quanto ironicamente consapevole del proprio ruolo di mero interprete di testi già scritti innumerevoli volte (persino da lui stesso!) Dunque l’autore argentino utilizzerà, nello sviluppare o nel riproporre il mito del golem, il materiale cabbalistico appreso in via mediata da Scholem, complicato da altri molteplici elementi, fra cui alcune delle innovazioni “stilistiche” o letterarie apportate da Meyrink, per 178

Ecco la testimonianza di Kafka, raccolta da Janouch (Colloqui con Kafka, Milano, 1964): “Kafka mi parlò di

questo libro (Il golem di Meyrink, n.d.r.) dicendo:” ”L'atmosfera dell'antico quartiere ebraico di Praga vi è descritta meravigliosamente."” “"Lei ricorda ancora l’antico quartiere ebraico?”” "”Veramente arrivai che era già alla fine, ma...”” e fece con la sinistra un gesto come per dire, che cosa sia raggiunto con ciò? Il suo sorriso rispose: niente. Poi continuò a dire: “"Dentro di noi vivono ancora gli angoli bui.., i passaggi misteriosi, le finestre cieche, i sudici cortili, le bettole rumorose e le locande chiuse. Oggi passeggiamo per le ampie vie della città ricostruita, ma i nostri passi e gli sguardi sono incerti. Dentro tremiamo ancora come nelle vecchie strade della miseria. Il nostro cuore non sa ancora nulla del risanamento effettuato. Il vecchio malsano quartiere ebraico dentro di noi è più reale della nuova città igienica intorno a noi. Svegli, camminiamo in un sogno: fantasmi noi stessi di tempi passati."” (Introduzione a Il golem cit., XVI). 179

Ciò sia detto senza l’ambizione di aprire l’immensa discussione teoretica sul circolo ermeneutico autore – lettore.

A tale proposito si rileva solo che “l’interesse ermeneutico non si rivolge mai al fenomeno storico qui tale, o all’opera considerata autonomamente. Un testo scritto, per esempio, non va mai letto a prescindere dal suo con-testo… La storia è dunque da considerare storia di effetti. Ogni fatto, ogni opera, e, nel nostro caso, ogni testo scritto è, per l’essenza, costituito da una relazione che si stabilisce fra quel che accade, l’evento per così dire puro, e le sue interpretazioni.” D’Alessandro, Esperienza di lettura e produzione di pensiero, Milano, 1994, pp. 98-99.

72

conto proprio debitore, ovviamente, di specifiche influenze legate all’ambiente culturale viennese, non ultimi i movimenti dell’espressionismo e la stessa psicoanalisi 180.

2)

Un altro modo di sognare

I temi propriamente mistici legati alla polimorfa leggenda del golem181 saranno dunque presenti nell’opera di Borges arricchiti anche – ma non solo – dai cromatismi e dalle tonalità proprie dello scrittore austriaco. Il sogno non è stoffa nuova in questo lavoro. Tuttavia qui il taglio è leggermente diverso. Nella precedente sezione182 mi sono soffermato sulle distratte emanazioni oniriche di un Dio assente, sulle notti agitate e i popolosi sonni degli uomini, sulle cieche ombre proiettate dalla Volontà Cosmica di Schopenauer. Nasceva qualche interrogativo, forse implicito nella scrittura del nostro autore, che aveva introdotto improvvisamente un motivo inatteso nel tentativo di interpretare o “spiegare” in modo personale l’atto creativo, giudicato non intenzionale e non deliberato. In Meyrink naturalmente non vi è nulla di tutto questo. Si registra solo una “tonalità letteraria”, una particolare, ambigua “opacità” degli oggetti rappresentati e narrati. E’ innegabile peraltro che il tema del sogno è fortemente accentuato nel pensiero di Borges sulla Cabbala teosofica ed è altrettanto sicuro che lo scrittore argentino conosceva il romanzo Il golem sin da adolescente. Tuttavia mi pare plausibile escludere un nesso necessario tra il sogno, inteso come vero e proprio elemento strutturale di una cosmogonia “fantastica”, quale emerge nel “saggio” commentato in precedenza, e l’aura caliginosa 183 che traspare in Meyrink. 180

Introduzione a Il golem cit, XVI

181

Fenice risorta ogni volta diversa dalle intricate ramificazioni locali di un’elaborazione popolare del Chassidismo

renano, oscuramente scaturita dall’esegesi rabbinica e medievale del Sefer Yetsirà. Sulle origini della leggenda e sui risvolti mistici, distinti da quelli più propriamente letterari trattati da Brunel e accennati nel precedente capitolo, cfr. soprattutto G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo cit. (pp. 201 ss.) 182 

Cfr. cap.4), La relazione sull’intervista rilasciata da Borges a J. Alazraki.

183

“Aura sanza tempo tinta”, D. Alighieri, Inferno, III, 28, in La Divina Commedia, Milano, 1991, 22.

73

Tanto sostanziale drammatica e feconda nelle sue implicazioni mistiche e filosofiche si rivela la prima escursione onirica del nostro autore, tanto accidentale e di maniera, o propriamente d’atmosfera, pare la bruma che ovatta il romanzo. Nel primo caso il sogno è materia e contenuto, nel secondo è forma e involucro. Certo, da vero maestro, Borges nella sua narrativa fantastica, come si vedrà, saprà avvalersi in modo appropriato dell’una e dell’altra modalità, usando questo tema sia come scenario sia come sceneggiatura. In definitiva sembra dunque plausibile ritenere che il romanzo descritto possa solo avere offerto a Borges, oltre a una prima conoscenza della leggenda del golem184, qualche reminiscenza, forse un fondale, una quinta teatrale dell’incerto colore del sogno, poi irraggiata, trasfigurata e “contaminata” da altri elementi, del tutto estranei al racconto in questione e, almeno in apparenza (nel senso che vedremo), allo stesso ebraismo. Tuttavia l’orizzonte di senso di maggiore intensità affiora in un luogo diverso. Altro è circoscrivere l’influenza di Meyrink, al quale Borges è tutt’al più debitore di qualche “suggestione”, altro è cercare di scendere in profondità per individuare possibili rapporti, certo meno immediatamente percepibili, tra la produzione letteraria borgesiana e la mistica, penetrando nuovamente nel territorio del sogno 185. Ci si può infatti legittimamente interrogare su tonalità e senso con cui il motivo onirico si presenta nella poetica del nostro autore e sulla compatibilità di tali connotazioni con il movimento di pensiero ebraico. Proseguendo nel tentativo di verificare quelle interferenze meno visibili e più complesse, già profilatesi in altre occasioni, tra il nostro autore e la cultura in esame, si potrebbe ipotizzare il possibile legame di questo tema con simboli mistici fino a ora non compiutamente emersi. E’ vero che nella Cabbala teoretica, o meglio, nelle dottrine teosofiche e cosmogoniche, il motivo onirico non sembra giocare un ruolo preminente o sostanziale, cosicché, in ogni caso, l’intreccio del sogno con le emanazioni della divinità parrebbe un’idea originale 186 di Borges. 184

Borges leggerà poi, quanto meno, il capitolo dedicato da Scholem al golem ne La Kabbalah e il suo simbolismo cit.

185

Questa volta raggiunto dal versante ebraico, dopo che in precedenza mi ero soffermato sulla sponda borgesiana

(alla quale peraltro tra poco si approderà di nuovo).. 186

Intendo dire “originale” rispetto alla Cabbala teosofica, non in assoluto. Basti pensare, per esempio, al sogno

cosmico di Vishnu nella mitologia induista (cfr.per tutti J. Campbell, Le figure del mito, Como, 2002, 7). L’originalità, in definitiva, consiste nel legare Cabbala e sogno in quel senso.

74

Ma è davvero lecito, più in generale, affermare che il tessuto onirico è estraneo alla mistica, o comunque non ne rappresenta un tratto peculiare o preminente? Occorre infatti distinguere tra il rilievo del sogno come elemento su cui fondare una cosmogonia, per così dire, alternativa o concorrente con le Sephirot, e il significato e il senso, in assoluto, del tema onirico nella cultura ebraica. Si potrebbe anche scoprire una variante, una “complicanza” nel sistema mistico tale da trasformare e innovare il dato cabbalistico più consueto e familiare. In altre parole, Borges ha forse riletto in modo personale il mito della creazione, e quello, pure demiurgico e strettamente connesso, del golem, dopo avere rimescolato e diversamente combinato, in modo più o meno consapevole,

elementi

non

immediatamente

percepibili,

ma

comunque

riscontrabili

nell’arsenale della mistica.

75

Sono noti fino all’ovvietà il debito della psicoanalisi verso l’ebraismo 187 e la funzione spesso cruciale assolta nella Bibbia dal sogno vaticinante e profetico 188, che, prima ancora di dire il futuro, costituisce il medium di comunicazione privilegiato tra l’uomo e Dio. Il tema freudiano non mi pare strettamente legato all’analisi appena proposta, orientata a verificare il legame tra l’opera borgesiana e una particolare accezione ebraica della sterminata geografia del sogno, che deve essere ridimensionata e localizzata, a pena di un abissale smarrimento, in un ambito più ristretto, circoscritto all’immaginario dello scrittore argentino189. 187

La bibliografia è naturalmente vastissima. Basti pensare all’opera di S. Freud e in particolare ai lavori

sull’interpretazione dei sogni, sul motto di spirito e su Mosè. Qualsiasi citazione sarebbe indebita perché omissiva. Ricordo qui solo l’agile libretto di C. Musatti, Ebraismo e psicoanalisi, Pordenone, 1994, che delinea i rapporti tra Freud ed ebraismo, accenna al tema del motto di spirito e alla sua possibile matrice chassidica, all’umorismo ebraico nell’opera di Woody Allen. Cito alcuni passaggi. Musatti (p. 8) esclude un’influenza diretta della mistica sul pensiero di Freud, benché quest’ultimo, secondo alcune testimonianze, avesse posseduto lo Zohar, e in tale opera “siano contenute interpretazioni di sogni che possono far pensare al metodo delle associazioni libere ideate da Freud”. Condivisibile anche questo passaggio: “Parimenti gratuita è l’affermazione secondo cui l’interpretazione simbolica dei sogni . . deriverebbe da una tradizione ebraica risalente alla Bibbia” (op. cit. 17), in quanto il tentativo di trarre dai sogni un significato sensato, eventualmente per ricavarne un pronostico per l’avvenire, si trova presso moltissime altre culture. Queste precisazioni tendono a “smitizzare” quella sorta di esclusiva e primazia che taluni attribuiscono alla cultura ebraica nello sviluppo della psicoanalisi e nella valorizzazione dell’interpretazione dei sogni. Mi pare peraltro innegabile che talune metodologie di “interrogazione del testo”, applicate dai Cabbalisti alla Torah, e già esaminate nella precedente sezione, evochino una certa familiarità, come si vedrà infra, una volta precisati i limiti, con taluni procedimenti di decriptazione di un codice linguistico propri dell’analisi freudiana del materiale onirico. 188

Scrive A. Safran (La saggezza della Cabbalà cit., 60) a tale proposito, consolidando anche il concetto espresso

nella precedente nota: “L’inconscio conosce l’uomo nella totalità del suo essere, “”vede ciò che l’uomo non vede””, nel presente che ha origine nel passato e si proietta nel futuro. E’ per questo che i maestri del Talmud e i cabbalisti si sono occupati così spesso dei sogni. Hanno raccolto tutto quello che l’inconscio rivelava loro sulla persona umana allorquando si palesa al subsconscio. I sogni raccontati nella Bibbia hanno fatto loro comprendere che il sogno dell’uomo è uno specchio opaco della profondità del suo essere e che il contenuto, la qualità e la portata di un sogno dipendono dal valore dell’uomo che sogna. I cabbalisti sono stati pertanto molto attenti ai “”segni”” onirici, sforzandosi di decifrarli, analizzando le parole e le immagini, “”interpretandoli””. 189

Borges non ama Freud e la psicoanalisi; li ritiene poco interessanti in quanto si risolverebbero a ridurre il mondo,

molto ricco e complesso, a un’ossessione sessuale, uno schema troppo semplicistico. (Cfr. Monegal, op. cit. pp. 2930). Il rifiuto di questa cultura (che certo può suonare a sua volta semplicistico e riduttivo) ovviamente non ha impedito a Borges di essere psicanalizzato a oltranza, come spesso accade a chi tenta di sottrarsi all’influenza 76

A tale proposito, peraltro, l’unica osservazione forse pertinente a questo lavoro, che non si propone un’esegesi psicoanalitica dell’opera di Borges, rischia di essere critica e riduttiva. Come è noto, nel sogno l’ermeneutica freudiana si orienta verso l’aldilà della sfera intenzionale, indaga lo scarto, o la surdeterminazione di senso fra parola, pensiero e inconscio. Un ruolo fondamentale gioca il sistema di decodificazione, votato a tradurre in linguaggio alfabetico ciò che è detto nel geroglifico onirico; materiale da “translitterare” con il disvelamento della relazione simbolica tra contenuto manifesto e pensiero latente 190. Ora, questo procedimento presenta qualche analogia (cfr. note 187 e 188) con quello di interrogazione del testo applicata dai Cabbalisti alla Torah, già esaminato nella seconda sezione. Borges, a mio avviso, allora risolveva quel rapporto in modo riduttivo, annullando o attenuando, in un certo senso, la dimensione etica di cooperazione tra l’uomo e Dio, centrale nella mistica ebraica; la gigantesca operazione ermeneutica teorizzata ne pativa le conseguenze, avvilendosi in una meccanica enigmistica piuttosto fredda e intellettualistica. A mio avviso in quel momento191 mancava al nostro autore l’estasi dell’ignoto, che nasce, come ha scritto Georges Bataille, da una grande angoscia, dal senso di abissale perdizione in cui sprofonda il mistero 192. Anche la costrizione del materiale onirico nei lacci dell’ermeneutica freudiana, alla quale ovviamente si deve moltissimo in termini di rivalutazione del sogno nella sua dimensione psicologica, rischia di limitarne e ridurne la portata. Il sogno in Freud è grammatica e simbolica: l’analisi logica dell’insieme è l’analisi logica del discorso, le motivazioni e le

freudiana: un esempio è fornito proprio dalla citata biografia letteraria di Monegal. Anche per questa ragione, eccettuate le brevi riflessioni che seguiranno ora, la mia analisi sul tema del sogno dal “versante ebraico” si incentra sui motivi onirici quali emergono nella mistica e nell’esegesi biblica. 190

Cfr. P. D’Alessandro, Esperienza di lettura e produzione di pensiero cit., 113 ss.

191

Mi riferisco a Una rivendicazione della cabala cit. (in Tutte le opere cit., Vol. I, pp. 330-334), ampiamente trattata

nel capitolo 3) della II sezione. 192

“Legata all’ignoto, al non sapere, è l’estasi che nasce da una grande angoscia. ..Spesso l’ignoto ci causa

angoscia, ma esso è la condizione dell’estasi. L’angoscia è paura di perdere, espressione del desiderio di possedere. E’ un arresto dinnanzi alla comunicazione che eccita il desiderio, ma che fa paura.” (G. Bataille, L’esperienza interiore, Bari, 1978, 227).

77

strutture che vi si scoprono sono tessute sulla stessa trama psicologica della coscienza vigile 193

. In sostanza, secondo questa lettura, la polisemia, che pur complica l’interpretazione

attraverso il libero gioco delle associazioni, tenderebbe ad appiattirsi e impoverirsi in un sistema unilaterale dagli esiti in definitiva “computabili”. Se così fosse, se Foucault avesse ragione, e potrebbe davvero avere ragione, anche il sogno,

così

dimensionato,

rischierebbe

di

echeggiare

risonanze

meccaniche,

come

l’interrogazione del testo biblico secondo la percezione borgesiana. La decriptazione e la translitterazione degli alfabeti e dei linguaggi avrebbero la primazia, la ricerca si esaurirebbe nell’indagine sulle possibili corrispondenze, con l’aggravante che il “testo”, da interpretare fino alla prolissità numerica194, in questo caso forse non potrebbe avere infiniti sviluppi, ma sarebbe costretto a limitate potenzialità195, riducibili alle pulsioni originarie alle quali Freud fa riferimento. Credo che tale prospettiva escluda l’estasi dell’ignoto e l’abissale profondità del mistero, che, come afferma lo Zohar, curiosamente allineato con Bataille196, è il “fondamento”197. Con questo intendo solo affermare che l’ermeneutica freudiana, alla quale ovviamente molto si deve, a mio avviso non ha molta familiarità con la tonalità mistica.

193

M. Foucault, Il sogno, Milano, 2003, pp. 27-28. Lo stesso autore scrive (pp. 53-54, op.ult.cit.): “La psicoanalisi

esplora un’unica dimensione dell’universo onirico, quella del vocabolario simbolico, nel corso della quale si opera la trasformazione di un passato determinante in un presente che lo simbolizza. Il polisemantismo del simbolo, spesso definito da Freud come “”sovradeterminazione””, indubbiamente complica lo schema e gli conferisce una ricchezza che ne attenua l’arbitrarietà. Ma la pluralità dei significati simbolici non fa emergere un nuovo asse di significati indipendenti”. 194

195

J.L. Borges, Una rivendicazione della cabala cit, in Tutte le opere cit., Vol.1, 334. Quanto alla psicoanalisi, limitate possibilità, forse, di sbocco, perché le esperienze di una vita umana sono

comunque numerabili e quelle rimosse lo sono a maggior ragione, ma illimitati, va detto, sono i procedimenti di associazione e di interrogazione per verificare quegli esiti. 196

D’altra parte, oltre che come confessione autobiografica, saggio esistenzialista o racconto di finzione, L’esperienza

interiore può essere considerata anche un testo mistico. (Cfr. I. Domanin, Testo e ripetizione, Milano, 2000, 72). 197

A. Safran, Saggezza della Cabbalà cit., 55.

78

Ma il sogno non è una mera rapsodia di immagini, da esaurire in un’analisi psicologica e in una

ricerca

di

significati;

esso

è

piuttosto

la

condizione

prima

dell’immaginazione, che rientra nell’ambito della teoria della conoscenza

198

di

un’esperienza

.

Ora, se il sogno è movimento autentico dell’immaginario 199, la polisemia in cui si decostruisce il suo linguaggio è irriducibile a una sequenza limitata di esperienze del passato. In altre parole, il versante psicologico del mondo onirico, e quindi anche l’ermeneutica freudiana, devono rimanere solo un tratto particolare, uno dei molteplici aspetti, e non il principale per il mio progetto, di una più vasta “filosofia del sogno”. Il problema teoretico “classico” sorge infatti quando la stessa coscienza sveglia, riflettendo sul suo contenuto e su ciò che possa discriminarlo dal ricordo onirico, avanza come ipotesi la possibilità che la veglia non sia, a sua volta, altra cosa del sogno 200. E’ un interrogativo antichissimo che trova celebri antecedenti in Platone, Cartesio, Kant, Schopenauer201. E’ in un certo senso un quesito preliminare, perché investe un presupposto di fondo molto rilevante nell’analisi testuale che seguirà.

198

M. Foucault, op. ult. cit., 28.

199

M. Foucault, op. ult. cit., 90.

200

Cfr. voce Sogno in Enciclopedia italiana cit., Vol. XXXII, 30 e la stessa voce nel Dizionario di filosofia di Nicola

Abbagnano, Torino, 2001, 1020. 201

“Infatti quello che stiamo dicendo ora niente impedisce che ci sembri che ce lo stiamo dicendo l’un l’altro anche

nel sonno. E quando in sogno ci sembra di raccontare dei sogni è incredibile la somiglianza di queste cose sognate con quelle vissute nella veglia”. Platone, Teeteto, 158 c, in Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Milano, 1991, 209. Cartesio, come pone in evidenza P. D’Alessandro, in Il mondo dei fenomeni e la loro interpretazione, Milano, 2004, 23-24, argomenta dalla illusorietà del sogno la possibile irrealtà dei pensieri, spesso meno vivi e chiari di quelli onirici, concepiti nello stato di veglia. Molto borgesiano è naturalmente Schopenauer: “Dopo tante citazioni poetiche sia permessa anche a me un’immagine. La vita e i sogni sono pagine d’uno stesso libro. Ma quando l’ora abituale della lettura (il giorno) è trascorsa, ed arriva il momento del riposo, noi continuiamo spesso a sfogliare oziosamente il libro, aprendo a caso questa pagina o quella, senz’ordine e senza seguito, imbattendoci ora in una pagina già letta, ora in una nuova; ma il libro che leggiamo è sempre il medesimo.” A. Schopenauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, 1, par.5, Milano, 1991, 54.

79

Prima di proseguire l’indagine sulle peculiarità dell’onirico nel pensiero ebraico, sgombrato il campo dalla “pregiudiziale psicoanalitica”, occorre dunque ancora scandagliare il territorio del sogno condiviso indiscriminatamente dai due ambiti del mio studio. Dall’inquisizione teoretica poc’anzi precisata si deve infatti muovere per trovare l’orizzonte di senso del motivo onirico nella poetica di Borges e per valutare se l’operazione letteraria con cui il nostro autore ha accostato il “sogno cosmico” al procedimento creativo sia compatibile, e in quali termini lo sia, con la mistica ebraica. Ebbene, a mio avviso, l’interrogativo classico (sogno o son desto?), solo in quanto tale, solo perché si pone come “atto che interroga”, affranca da ogni vincolo l’immaginazione. Questa si libera nello spazio e nel tempo, forse suo malgrado, forse in preda all’ebbro terrore di essere sovrana, garantita paradossalmente dall’inesistenza della chiara evidenza di una barriera inconfutabile, di una discriminante nella coscienza - invincibilmente certa - tra il vissuto della veglia e il mondo onirico. La cifra simbolica autentica del sogno non può non essere angosciosa spettacolare libertà dell’immaginazione. Libera persino di immaginare se stessa come unica realtà fondante l’universo. Immaginazione al potere, in quanto le diventa impossibile pensare a altro che se stessa, immaginazione pura. Immaginazione reale e realtà immaginaria, perché, se il confine che separa i due territori è illeggibile, la distinzione è insensata. Non ha senso porre la realtà, che può esistere solo differendo 202 dall’immaginario, non ha senso porre l’immaginario, che può esistere solo differendo dalla realtà. Questa libertà infelice della propria felicità di immaginare, originata dal primo sconvolgente interrogativo teoretico, scuote chiaramente le stesse fondamenta del sognare, che forse è meno sogno di quanto non sia realtà, e della realtà, che forse è meno realtà di quanto non sia sogno. L’identità tra i due mondi, che, sottratta la differenza, è anche annullamento, porta a una torsione verso l’origine e alla già intravista dualità del pensare l’origine 203. Ma aldilà della dimensione cosmica dell’Inizio, luogo di libertà tragica per eccesso perché l’immaginario non ha da superare l’ostacolo della differenza 204, il sogno, in un senso più 202

Differenza intesa sia come diversità tra le cose, sia, alla luce del pensiero di J. Derrida, come differimento

temporale, in virtù del quale da una radice comune possono sortire due esiti diversi (cfr. M. Ferraris, Introduzione a Derrida, Roma-Bari, 2003, 87). L’annullamento della differenza tra sogno e realtà determina un unico esito possibile, la cui natura, reale o onirica, diventa solo una questione di qualificazione. 203

C. Sini, Raccontare il mondo cit., 13-14.

Si potrebbe azzardare con Kierkegaard, luogo di angoscia, in quanto aperto a infinite possibilità che finiscono con

204

l’annientare. (cfr. N. Abbagnano, Storia della filosofia, III, Torino, 1993, 193). 80

circoscritto e familiare, se si abbandona e si supera vittoriosamente la vertiginosa incertezza dell’interrogativo teoretico di fondo, è pure libero quando è libero di pensare se stesso solo e semplicemente come sogno. Anche così, senza l’oppressione di una totalità immaginaria che non si distingue dal reale, è infatti libero di sognare universi fondandoli dall’origine. Per suo tramite l’individuo costituisce liberamente il rapporto con sé stesso e con il mondo – inteso come rete di relazioni - in una totalità esistenziale non scomponibile. Il sogno può essere allora leggerezza irrorata dalla rugiada fresca del primo mattino, quando la nostra mente, liberata da ogni gravame contingente, meno oppressa dai pensieri e più lontana dal corpo, è quasi divinatrice della realtà 205. Questa sottile fragilità assai bene si addice tanto al Dio sognatore di Borges, che si lascia sfuggire emanazioni quasi negligenti e trascurate, quanto all’uomo che popola di aerei fantasmi le proprie notti 206. Il mondo onirico consente all’individuo l’abbandono, che fonda infiniti universi particolari plasmati con la libertà che annuncia la solitudine. In questo senso la cosmogonia del sogno è l’origine dell’esistenza stessa, la chiave di volta in cui i temi dell’Inizio e della Creazione trovano il loro equilibrio e il loro scarico cruciale. E’ l’esperienza in cui l’infinitamente particolare e l’infinitamente universale traghettano abbracciati verso un orizzonte condiviso. Dice bene l’oracolo eracliteo: “I desti hanno un mondo unico e comune, ma ciascuno dei dormienti si ritira in un mondo proprio207.” L’addormentato entra in questo universo esclusivo non per obliare il mondo della veglia, ma perché gli dà vita, lo popola, lo anima. E’, o può anche essere, il sogno di Shakespeare che uccide il riposo 208.

205

“Ne l’ora che comincia i tristi lai/ la rondinella presso a la mattina,/ forse a memoria de’ suo’ primi guai,/ e che la

mente nostra, peregrina/ più da la carne e men da’ pensieri presa,/ a le sue vision quasi è divina,/ in sogno mi parea veder sospesa..(D. Alighieri, La Divina Commedia cit., Purgatorio, IX, 13-18, pp. 378-379). 206

Cfr. Cap. 4) della II sezione e l’ultima relazione di Borges-Alazraki sulla Cabbala citata (in J. Alazraki, op. cit., pp.

60-61). 207

Cfr. 14 (A 99), in La sapienza greca, a cura di G. Colli, Vol. III, Milano, 1996, 95.

208

“Macbeth ha assassinato il sonno..l’innocente sonno che ravvia / l’intrico degli affanni, la morte / d’ogni giorno,

lavacro d’ogni pena, / balsamo della mente ferita, / pietanza prima al banchetto della vita. (W. Shakespeare, Macbeth, Atto II, scena II, Milano, 1983, 53). 81

Un universo, una monade isolata è l’ìdios kòsmos, il destino libero, ma solitario dell’uomo, che può vivere in modo autentico e autoresponsabile un’esperienza immaginaria totale e totalizzante, anche se probabilmente limitata, come si vedrà, alla creatività letteraria. Sono questi, credo, due sensi209 possibili del sogno cosmico che Borges ha intrecciato con la cosmogonia cabbalistica. Ora, come anticipato a suo tempo, si tratta di verificare se questa concezione sia compatibile con la mistica ebraica, dopo avere enucleato lo specifico del tema onirico in quest’ultimo ambito. Si è detto che il sogno biblico, espressione di una verità trascendente, è la via più breve attraverso la quale Dio dispensa le sue prove, le sue volontà, i suoi avvertimenti 210. Qualche volta i messaggi hanno carattere “definitivo” e non necessitano di interpretazione, talora sono metafore che hanno funzione di vaticinio, riferendosi a una realtà in fieri211. In questo caso l’ermeneutica è determinante. Il disvelamento è affidato a un interprete che generalmente non coincide con il sognatore. A proposito del più celebre risolutore di enigmi onirici, Giuseppe, un dotto rabbino dell’età tardo antica, Yohanan ben Nappaha, giunge ad affermare che “tutti i sogni dipendono dall’interpretazione che viene loro data” 212. Si tratta di un paradosso evocatore di talune procedure mistiche, già accennate trattando il rapporto fra rivelazione e tradizione213, che attribuiscono all’esegeta il potere di “modificare la realtà” secondo la propria lettura personale del testo, convalidata e garantita dall’autorità suprema. Questa, peraltro, nel caso dell’ermeneutica del sogno, spesso assiste solo i meritevoli, i migliori, coloro ai quali Dio elargisce il dono particolare dell’oniromanzia 214.

209

Il primo senso è connotato dalla libertà senza ostacoli e forse angosciosa dell’immaginario onirico indistinto dal

reale; il secondo senso, risolto l’interrogativo teoretico tracciando una rassicurante distinzione, caratterizza il sogno che fonda universi particolari, in cui la libertà, forse meno tragica, vive tuttavia una solitudine crepuscolare. 210

In questo senso, cfr. ancora M. Foucault, op. ult.cit., 33.

211

Cfr. G. Busi, Simboli del pensiero ebraico cit, pp. 83 ss

212

Cfr. G. Busi, op.ult.cit., 88.

213

Cfr. nota 27.

214

Cfr. A. Safran (La saggezza della Cabbala cit., 60). Secondo Elia Benamozegh (in Gli Esseni e la Cabbala,

Milano, 1979, 216) la pratica oniromantica, o più in generale di un’ermeneutica affidata ai sogni, è riconosciuta e 82

Sarà l’autore del corpo principale dello Zohar215 a coniugare il sogno profetico di Maimonide alla Cabbala teosofica. Lo farà sposando l’afflato mistico a quel primo passaggio onirico “ancora acerbo” che può successivamente maturare nella visione, sola rappresentazione nitida dell’immaginazione nella quale l’influsso divino si manifesta apertamente e si vedono le cose come se fossero esterne216. E qui l’ampio cerchio del sogno che ho tracciato finalmente accenna a chiudersi. Nell’opera di Moshe de Leòn, che si dedicò all’esegesi della Guida dei perplessi, i sogni (frutti acerbi, rispetto alla visione, n.d.r.) sono immaginati nella loro discesa attraverso le sei Sephirot inferiori, lungo un itinerario in cui s’ispessiscono fino a giungere all’ultima, Malkut, da cui prendono l’ultimo slancio verso l’uomo 217. Nello Zohar, l’elaborazione del tema onirico da parte dei Cabbalisti è ormai matura. Il sogno è un viaggio segreto che l’anima compie ogni notte, un itinerario di ascesa verso la sorgente celeste.218 S’impone un’accezione sensibilmente diversa da quella del sogno-segno che caratterizza in modo dominante l’esegesi biblica. Nel capolavoro della mistica medievale l’itinerario onirico è un presagio non tanto del futuro 219

, quanto della separazione dalla realtà fisica.

diffusa proprio fra i Cabbalisti, i quali sono soliti, “allorché un bisogno li spinge a consultare l’avvenire, allorché nasce qualche dubbio intorno ad un soggetto dogmatico o rituale, usare la via della sceelat halom; nel riposo dei loro sensi, nella concentrazione delle loro forze psichiche, spirituali, essi credono che l’anima sia capace di comprendere cose che allo stato di veglia sarebbe stato più difficile comprendere.” 215

La tesi dell’attribuzione della paternità del corpo principale dello Zohar a Moshe de Leòn è stata, come è noto,

autorevolmente rilanciata da G. Scholem ed è prevalentemente, anche se non unanimemente, accolta. Cfr. Le grandi correnti della mistica cit., pp. 167 ss. 216

G. Busi, op. ult.cit., 91

217

“Sappi che (dall’origine superna) i frutti acerbi cadono di grado in grado, per sei passaggi consecutivi donde il

sogno si diffonde, poiché esso cade discendendo dal grado della profezia.” (Da Susan ‘edut, citata a tale proposito, con Il Commento alle aggadot di Azri’el di Gerona, da G. Busi nell’opera menzionata, p. 92). 218

“Il sogno viene dall’alto, quando le anime sono uscite dai corpi e sono ascese ciascuna secondo la propria via.

Quanti gradi appartengono al segreto del sogno! E tutti sono racchiusi nel mistero della saggezza.” (Zohar, I, 183 a).

83

E’ un viaggio individuale e libero verso il mondo superno. E’ un peregrinare nel cosmo delle Sephirot. Ciò che è notevole, nel valutarne la compatibilità con la concezione borgesiana, è il distacco dal conosciuto universo della veglia. Non più un processo semantico da interpretare, ma un viaggio in un mitico altrove. “I dormienti sono artefici delle cose cha accadono nel mondo, e aiutano a produrle.” 220 Quale misteriosa intenzione cela quest’altro frammento eracliteo, apparentemente così vicino alle affabulazioni del nostro autore? Non solo si evoca il popoloso esercito di assassini del sonno immaginato da Borges e da Shakespeare: anche l’odissea notturna delle anime dei giusti attratte dal mondo in alto è complice delle cose che accadono. Non solo la divinità “assente” di Borges, persino il Dio della mistica ebraica qualche volta si concede al sogno. Anche Faraone ebbe un sogno (Gen. 41.1). Forse che non sognano tutte le creature? E’ vero, ma il sogno di un re abbraccia tutto il mondo.”221 Chi regna con la corona suprema, Kèter ‘Elijòn, se non l’Entità, che, con la canonizzazione, o meglio, con la stabilizzazione del mondo sefirotico cementata dallo Zohar, sarà il nome indiscutibile della prima Sephira, la primordiale e trionfante Volontà Divina 222?

219

Benché, come osserva Busi, non manchino ovviamente neppure nello Zohar sogni di natura “tradizionale”, ossia

vaticini e premonizioni. 220

14 (A 98), in (a cura di) Colli, La sapienza greca cit., Vol.III, 95.

221

Genesi Rabbah LXXXIX, 4, citato da G. Busi, in Simboli del pensiero ebraico cit., 522.

222

Nelle Origini della Kabbalà Scholem traccia la mappa complessa e travagliata del mondo sefirotico nelle prime

fasi della mistica ebraica medievale. Come accennato altrove, uno dei temi di più difficile decifrazione è proprio quello dell’identificazione della prima emanazione (che tale originariamente non è) e della sua natura. Nel Sefer Bahir, in cui la concezione delle Sephirot non è giunta a maturazione, si identificano dieci principi ancora magmatici; prevale una ancora non compiuta e risolta idea di forza della divinità e di regalità connessa alla mistica della Merkavà, contaminata da elementi gnostici. Si fa cenno anche a dieci re, corrispondenti agli eoni, e al nome di Corona Suprema, attribuito al più alto di essi (op.ult.cit., 105). Nel trattare gli sviluppi successivi della Cabbala provenzale (il cenacolo Iyyùn) si accenna al ruolo preminente fra le emanazioni assegnato alla Corona, etere primordiale che è allo stesso tempo la volontà divina e il nulla (op.ult.cit., 424), e da cui promana Chokmà.

84

Ora, benché il motivo non sia forse di immediata percezione, non si può negare anche alla Cabbala di avere, se non proprio concepito con il proposito di avviarne l’incessante sviluppo ermeneutico che ha complicato altri temi, quanto meno accennato e intravisto nell’oscurità della notte un sogno cosmico di origine divina. Tuttavia appare più profondamente peculiare alla mistica il fugace itinerario delle anime e il loro incontro onirico, di provenienza superna, ispirato dal pensiero di Maimonide. E’ innegabile come questa prospettiva presenti punti comuni, ma anche rilevanti divergenze, rispetto alla visione di Borges trattata nella sezione precedente. Ancora una volta, a mio avviso, l’ebraismo profila una relazione speciale tra Dio e l’uomo, in parte obliata invece dal nostro autore. In questo caso il rapporto in gioco mi pare quello di comunicazione e dialogo accondisceso dal meccanismo onirico, prima e ancor fragile fase della congiunzione tra intelletto agente e immaginazione umana, che raggiunge la pienezza, e con questa la capacità vaticinante della profezia, solo con la perfezione morale individuale meritevole dell’abbagliante ed eloquente illuminazione divina223. Un motivo etico orienta quel periglioso viaggio notturno in cui l’uom s’etterna224. Se è vero che Borges nel concepire l’emanazione creativa come sogno di Dio e dell’uomo ha quasi stretto un patto, o meglio ha profilato una complicità tra i due, ma su un declinante piano di condivisione dell’assenza e della solitudine, tanto da avvicinare troppo, e persino incautamente, il divino e l’umano rispetto a quanto adombrato in una sua precedente riflessione225 incentrata sulla solipsistica interrogazione del Testo, è anche vero che quell’annullamento delle distanze ha un significato ben diverso da quello propriamente mistico, di esperienza diretta del divino 226, proposto da Moshe de Leòn. Tanto nella Cabbala quanto nel Borges “saggista” il sogno è un medium tra l’uomo e Dio e si manifesta come separazione e fuga dalla realtà fisica. Ma non è la stessa cosa. Nell’elaborazione dei mistici il viaggio onirico, ascensionale e discensionale, vive di un coinvolgimento diretto e di una sublime aspirazione all’integrazione tra i due versanti, 223

Cfr. G. Vajda, La filosofia ebraica, in Storia della filosofia diretta da Mario Dal Pra, Vol. 5, Milano, 1976, 355.

224

D. Alighieri, La Divina Commedia cit. Inferno, XV, 85, p. 133.

225

Cfr. cap.4) II sez.

226

G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo cit., 8.

85

Creatore e creatura, intelletto agente e immaginazione umana, in una circolarità vivificante e feconda, ma non cieca o disorientata, perché la fuga notturna dell’anima s’illumina a Oriente e di slancio si getta verso l’Eternità 227. Borges coltiva il sogno divino e umano dell’assenza e della solitudine fino alla prolissità numerica. Ma è un infinito caotico, in cui la proliferazione degli enti creatori e degli enti creati, che a loro volta s’improvvisano creatori, non accenna a darsi un ordine, né si compone

in

un’amichevole

cooperazione.

Innumerevoli

emanazioni

distratte,

cieche

proiezioni di una volontà cosmica deserta e dis-orientata: nessuna luce proviene dall’Oriente consolatore che traccia itinerari per i viandanti smarriti. Questo è piuttosto il dono desolato dell’Occidente scettico, sul quale irrimediabilmente planano, come aironi spossati da lento e improduttivo girovagare, ombre grandiose e fiacche, proiezioni esagerate di raggi immiseriti dall’afflizione delle cose ultime e declinanti. Tali cose, pigre e assenti, inscenano un ridondante tramonto fluviale, riflesso per caso e in parte da un rozzo specchio abbandonato nella fanghiglia. Ma a che serve lo specchio, se accanto, immobile, una pozza d’acqua se la sbriga meglio nel rifrangere il mondo, per quanto già rassegnata essa sia alla notte oscura? “Nessuno lo vide sbarcare nella notte unanime, nessuno vide la canoa di bambù incagliarsi nel fango sacro; ma pochi giorni dopo, nessuno ignorava che l’uomo taciturno veniva dal Sud e che la sua patria era uno degli infiniti villaggi che sono a monte del fiume, nel fianco violento della montagna, dove l’idioma zend non è contaminato dal greco, e dove la lebbra è infrequente”.228 227

Scholem cita Nachmanide: “Nel momento della visione profetica, quando l’anima (neshamà, n.d.r.) si unisce agli

oggetti della sua contemplazione, essa si trova in questo stato di devequth, grazie al quale essa ottiene una conoscenza di Dio faccia a faccia.” (G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 564). Non si tratta di tema mistico di esclusiva pertinenza dell’ebraismo: “Una delle prime Upanishad, la Chandogya, afferma che ogni giorno, nel profondo sonno, si penetra nel mondo-Brahma ma non lo si raggiunge completamente.” (G. Parrinder, Le Upanishad, la Gita e la Bibbia, Roma, 1964, 68). 228

J.L. Borges, Le rovine circolari, in Tutte le opere cit., Vol. 1, 659

86

Parte Seconda

87

IV)

LA CREAZIONE NELLA LETTERATURA FANTASTICA DI BORGES: ROVINE CIRCOLARI

LE

1) L’epigrafe

88

Nelle pieghe del sogno – un viaggio notturno dell’anima confortato dall’orientamento divino nella mistica ebraica229, la sfrenata scorribanda di un immaginario sconfinato 230 e caotico231 nella poetica di Borges - sembra insinuarsi l’incipit del racconto Le rovine circolari, che si è infine svelato poc’anzi232, assecondando l’invocazione di uno smarrimento letterario a chiosa di una divagazione233 occidentale234 sull’assenza, sul declino e sulla solitudine. Nelle mie intenzioni l’analisi che seguirà dovrebbe non solo suggerire i rimandi più espliciti alla Cabbala, ma anche tentare di penetrare, violando territori meno visibili, il senso di

229

Mi riferisco alla mistica medievale, in particolare ai contributi di Moshe de Leòn e ai passaggi dello Zohar più

visibilmente influenzati dal pensiero di Maimonide (cfr. n 213 – 214). Naturalmente, come sottolineato, il sogno nell’ebraismo è in genere connotato quale canale di comunicazione fra l’uomo devoto e Dio, ciò che emerge nell’esegesi biblica. Se l’arbitrio è tollerato, l’itinerario profetico dell’anima richiama, proprio perché pare caratterizzato dall’opposto atteggiamento sentimentale, l’accorato rimpianto del mondo dell’imperatore Adriano, immaginato da Marguerite Yourcenar nel momento del suo nostalgico congedo dalla vita: “Piccola anima, smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora t’appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai più gli svaghi consueti. Un istante ancora, guardiamo insieme le rive familiari, le cose che certamente non vedremo mai più..Cerchiamo d’entrare nella morte a occhi aperti..” (M. Yourcenar, Memorie di Adriano, in Opere, Milano, 1986, 542). A occhi aperti anche il mistico intraprende il suo viaggio notturno, dal quale però ritorna con il desiderio di appartenere per sempre al luminoso al di là. Sempre “a occhi aperti” il mistico entra nell’al di là, nel mondo in alto, che “durante la vita non (gli) è permesso di vedere, ma morendo sì.” (G. Laras, La mistica ebraica e il pensiero cabbalistico cit., 96). 230

Nel senso ovvio di “illimitato” e in quello alternativo di “privo di confini” percettibili nel territorio della cosiddetta,

e forse ossimorica, realtà fenomenica. 231

Caotico non nel senso di confuso, ma piuttosto di “originario”. “L’origine si manifesta come voragine, e quindi

propriamente come chaos. E’ noto che nel linguaggio dei greci il chaos non significa affatto disordine, indeterminata mescolanza, confusione, quanto soprattutto incolmabile distanza, propriamente abisso. Infatti chaos discende dalla radice indo-europea gha, da cui il termine greco chasco, che significa mi apro, mi spalanco..Chaos è propriamente lo spalancarsi, è lo spazio della separazione in cui non si tocca il fondo, in senso stretto è il vuoto.” (S. Natoli, Parole della filosofia, Milano, 2004, 16). 232

In conclusione del precedente capitolo.

233

Nelle mie intenzioni, una divagazione intesa a “mimare” con la scrittura lo smarrimento che segue la mancanza di

orientamento, alla quale si è alluso nel trattare il mondo onirico di Borges nel confronto con il sogno mistico (cfr.in questo senso C. Sini, Filosofia e scrittura cit., 121). 89

questo cammino, attraverso un percorso forse più accidentato, votato alla ricerca di rapporti meno ovvi235. Quanto si è cercato di mostrare fin qui non dovrebbe essere inutile nella prospettiva che mi accingo a delineare. I “saggi” nei quali Borges prospetta la propria personale “misinterpretazione” del pensiero ebraico, oltre a offrire gli spunti di riflessione già enucleati, che potrebbero trovare nuovo sviluppo in questa sezione, hanno comunque posto in evidenza parallelismi e divergenze rispetto alla Cabbala, al vaglio di una esegesi dei testi mistici, pur forzatamente succinta, più aderente alla ermeneutica tradizionale 236. Il punto di separazione più frequente tra i due ambiti, una scissione che curiosamente ricorre, come si è notato, in relazione a temi eterogenei, è la diversa concezione del rapporto tra l’uomo e la divinità. Vivo e passionale nell’ebraismo, in cui si oscilla tra un sistema di cooperazione e un regime, quasi, di reciproca “dipendenza” fra i due poli 237 benché talvolta attraversato da una dialettica drammatica238, l’intreccio pare invece caratterizzato, nel segno di una vertiginosa dimensione cosmica che sembra spersonalizzare tanto il divino quanto l’umano, da eccessi sia di distanza, sia, paradossalmente, di temeraria prossimità, nel pensiero di Borges239, in cui talora pare di leggere, anche in situazioni di

234

Occidente evocato non solo quale richiamo etimologico al declino del giorno, ma soprattutto come punto cardinale

emblematico del dis-orientamento, nel confronto con la devequt mistica che sembra decisamente rivolta a oriente. 235

“La trama nascosta è più forte di quella manifesta.” (Eraclito, 14A 20, in G. Colli, La sapienza greca cit., III, 35).

236

Ovviamente letti soprattutto alla luce delle interpretazioni di Scholem e Idel.

237

Tema sviluppato soprattutto nel cap.3) della II sezione. Dunque si intende “dipendenza” non nel senso di

subordinazione gerarchica, ma di legame affettivo in cui ognuno dei poli vive l’alterità dell’Altro. 238

Il rapporto dell’ebreo con il Dio personale è spesso vissuto come un dialogo nel quale, come accennato altrove, la

Divinità, chiamata a rispondere del proprio operato nel mondo quando accadono eventi di una tragicità ineffabile, è invocata con accenti nei quali la concezione, pur presente, dell’Ente supremo trascendente che percorre vie inconoscibili e imperscrutabili si scontra drammaticamente, pur non scindendosi, con quella del Dio presente nella storia. Emblematico in tal senso è il testo di Z. Kolitz, Yossi Rakover si rivolge a Dio, Milano 2003, attribuibile a un ebreo del ghetto di Varsavia e risalente all’epoca dello sterminio nazista.

90

simbiotica reciprocità tra i due enti, assenza di solidarietà, solitudine non condivisa e sostanziale incomunicabilità 240. Il testo che commenterò, ascrivibile senza equivoci al ramo della narrativa fantastica 241, potrebbe confermare la tendenza emersa, oppure, nella sua caotica apertura 242, spalancata a una libera inventiva meno implicata dal gioco dell’ironia, confutarla o attenuarla. Il tentativo che in ogni modo mi propongo è quello di esaminare la scrittura del nostro autore senza pregiudizi teorici, attenendomi a un approccio descrittivo, volto al dire che le cose stanno, così come si danno 243, nei limiti, peraltro ovvi, di una fenomenologia il cui dato di riferimento è pur sempre un testo244, il “prodotto”, in quanto tale, di una precedente interpretazione e comprensione. Uno degli effetti più curiosi di tale maniera di porsi rispetto al racconto è lo straniamento, derivante per un verso dal mio “sapere qual è” l’evoluzione successiva dell’intreccio, conoscenza che inevitabilmente condiziona la mia lettura e l’interpretazione suggerita, e per l’altro dal mio proposito di sfuggire quel destino, cercando di procedere quasi alla cieca, all’insaputa degli sviluppi narrativi, nell’intento di favorire un approccio alla scrittura il meno possibile pregiudicato 245. 239

Eccesso di distanza nel rapporto fra Cabbala e Torah (cfr. cap.3 della II sezione), eccesso di vicinanza nella

concezione del processo creativo (cap. 4 della II sezione). 240

Questi ultimi aspetti forse emergono nel cap. 2 della III sezione.

241

Sul punto, fra gli altri, cfr. A.M. Barrenechea, La expression de la irrealidad en la obra de Jorges Luis Borges,

Buenos Aires, 1984. 242

Cfr. n. 230.

243

Cfr. P. D’Alessandro, Il mondo dei fenomeni e la loro interpretazione, Milano, 2004, 115.

244

P. D’Alessandro, op. ult. cit., 183.

245

Non pregiudicato, forse, dalla conoscenza del seguito del racconto, ma, come è ovvio, inevitabilmente influenzato

dal bagaglio di conoscenze, ricordi, esperienze, immaginazioni dell’interprete, nozioni e presupposizioni che necessariamente deformano ogni approccio tendenzialmente puro al testo, destinando a una certa arbitrarietà anche l’ermeneutica più spassionata. Si tratta in sostanza della precomprensione cui allude D’Alessandro in Esperienza di lettura cit., pp. 94-95.

91

Le rovine circolari è un racconto che forse giustifica gli smarrimenti onirici accennati nelle sezioni precedenti, perché, non a caso, l’epigrafe recata è una significativa citazione tratta da Through the Looking Glass di Lewis Carroll: “And if he left off dreaming about you...” 246 Il riferimento è troppo preciso e univoco per non essere anche chiave di lettura del testo e tonalità cromatica - luce di scena della narrazione. Già si è visto che il tema onirico, sia sul piano della materia - contenuto sia sul versante della forma - involucro, è oggetto di approfondita meditazione e di ripetuta affabulazione nell’opera di Borges. Si è tentato anche

246

Mi pare opportuno citare la traduzione italiana del brano completo cui Borges si riferisce:

“Qui (Alice, n.d.r.) si interruppe piuttosto allarmata, avendo sentito un rumore simile allo sbuffare di una grossa locomotiva, che proveniva dal bosco, ma che temeva fosse quella di una bestia feroce. “”Ci sono dei leoni o delle tigri qui in giro?”” chiese, timidamente. “”Oh, è soltanto il Re Rosso. Sta russando.”” spiegò Tuidoldìi “”Vieni a vederlo!”” gridarono i due fratelli, e prendendo ciascuno una mano di Alice, la portarono a vedere il re che dormiva. “”Non ti pare bello?””, disse Tuidoldìi.. Alice non poteva onestamente dire che lo fosse. Aveva in testa una lunga berretta da notte rossa che finiva con una nappa e se ne stava tutto raggomitolato, come una specie di fagotto informe, e russava forte – “”finirà col diventare sordo a furia di russare a quel modo”” osservò Tuidold^i. ““Ho paura che si prenderà un raffreddore a starsene sdraiato sull’erba umida”” disse Alice, che era una ragazzina molto giudiziosa. “”Sta sognando” disse Tuidoldìi. “”Secondo te che cosa sogna?”” Alice rispose: “E chi può saperlo!” “”Ma come, sta sognando te!” esclamò Tuidoldì, battendo le mani trionfante. “”E se smettesse di sognare (epigrafe del racconto di Borges, n.d.r.) dove pensi che saresti?”” “”Dove sono adesso, naturalmente”” rispose Alice. “”No, tu no!” replicò Tuidoldìi in tono sprezzante. “”Tu non saresti da nessuna parte. Tu sei soltanto una specie di cosa dentro al suo sogno!”” “”Se quel Re che tu vedi lì”” aggiunse Tuidoldàm, “”dovesse svegliarsi, tu spariresti di colpo – puf – via come una candela!”” “”Non è vero!”” esclamò indignata Alice. “”E inoltre se io sono soltanto una specie di cosa dentro al suo sogno, che cosa siete voi, allora, mi piacerebbe saperlo!”” “”Idem come sopra”” disse Tuidoldàm. “”Idem come sopra, idem come sopra!””, gridò Tuidoldìi. Gridava così forte che Alice non potè fare a meno di dire: “”Zitti, finirete per svegliarlo, se continuate a fare tutto questo chiasso.”” 92

di cogliere, in questo ambito, qualche analogia, da cui spesso sono però emerse rilevanti distonie, tra il pensiero dello scrittore argentino e la mistica ebraica 247. Tuttavia la prospettazione qui allusa dal nostro autore è sensibilmente diversa da quelle delineate. E’, se possibile, più angosciosa e inquietante. Abbandonato il punto di vista del sognatore, prevalentemente assecondato nelle pagine precedenti, l’attenzione ora si focalizza sul personaggio sognato e sulla sua situazione, irresistibilmente tesa, di “prigioniero del sogno”. Alice viene informata di non essere vera, ma solo una specie di cosa sognata, una distratta burlesca, quanto effimera, emanazione del Re Rosso. Anche il pianto della ragazzina viene ontologicamente invalidato (spero che tu non ti illuda che queste lacrime siano lacrime vere) dal presupposto straniante dell’ambiente illusorio in cui la scena è rappresentata. Tutto è reso ancora più angoscioso e vertiginosamente abissale non tanto dall’estrema fragilità esistenziale dei personaggi, indissolubilmente legata all’esile filo dell’auspicabile “”E’ inutile che parli tanto di svegliarlo”” disse Tuidoldàm, “”quando sei soltanto una delle cose dentro al suo sogno. Tu sai benissimo di non essere vera””. “”Io sono vera!”” replicò Alice e scoppiò a piangere. “”Piangendo non diventerai più vera, neanche di un pezzettino piccolo piccolo”” osservò Tuidoldìi; “”non c’è motivo per piangere.”” “”Se io non fossi vera”” disse Alice – quasi mettendosi a ridere in mezzo alle lacrime, l’intera faccenda era talmente ridicola – “”non sarei capace di piangere.”” “”Spero che tu non ti illuda che queste lacrime siano lacrime vere?”” la interruppe Tuidoldàm in tono di sommo disprezzo. “”So che stanno dicendo delle cretinate”” pensò Alice fra sè e sè, “”ed è sciocco piangerci sopra.”” Allora si asciugò le lacrime e riprese con tutta l’allegria che le riuscì di trovare. “”In ogni modo è meglio uscire dal bosco, perché si sta davvero facendo buio. Pioverà, secondo voi?”” (L. Carrol, Alice nel paese delle meraviglie – Attraverso lo specchio, Milano, 1989, pp. 195 – 196). Non solo questo brano, interamente alluso, evidentemente, da Borges nella citazione iniziale, dà la tonalità e fornisce una delle chiavi ermeneutiche principali del testo in esame, ma, curiosamente e in modo del tutto inconsapevole, richiama la mistica del Genesi Rabbah e il sogno cosmico del re citato nel capitolo conclusivo della precedente sezione (cfr. nota 220). 247

Si rammenta la concezione del sogno cosmico prospettata da Borges nel processo creativo, sul piano dei contenuti,

e la lettura di Meyrink, in cui il tema onirico emerge come tonalità del romanzo (rispettivamente cap.4 della II sez. e capitolo 2 della III).

93

propensione a un durevole sonno del demiurgo addormentato, quanto dalla stessa fuorviante presenza di quest’ultimo sullo scenario onirico. Alice è il sogno di un altro e nel sogno che le sta dando vita vede chi non dovrebbe mai vedere, perché la ragazzina si trova addirittura al cospetto di colui che tiene in pugno come se fosse una preda - la sua assai caduca esistenza. Perciò la bambina, che dispera e versa lacrime vane, futili in quanto non vere, è frustrata persino nel suo miserabile diritto di provare dolore e pena. Tale inesauribile e inquietante prospettiva, in cui ricorre un’incessante mise en abyme 248, da una parte rimette in discussione la concezione del sogno inteso come espressione di libertà dell’immaginazione, benché, nel suo radicalizzarsi estremo, nullificata dall’angoscia 249, dall’altro ripropone lo scivolamento sul piano inclinato dell’Origine, cui si era alluso in precedenza250. Infine suggerisce il possibile traghettamento del cosiddetto mondo reale nelle paludi infide di una sconcertante fittizietà, tanto più paurosa in quanto assolutamente credibile251. Trattandosi di uno dei temi centrali del racconto, vi tornerò in seguito. 248

Il personaggio sognato, Alice, vede il sognatore che lo sta sognando, il Re Rosso, che a sua volta, nel sogno, vede

se stesso in veste di personaggio che sta sognando Alice, il personaggio sognato, che vede il sognatore personaggio, il quale a sua volta, ecc. In generale, sul tema della mise en abyme, assai pertinente all’opera di Borges, ma non insignificante neppure per la mistica ebraica, con particolare riferimento ai temi connessi alla Torah, intesa come tutto e come tutto che contiene se stessa, cfr. A. Gide, Journal 1889-1938, Paris, 1948 e L. Dallenbach, Le récit spéculaire. Essai sur la mise en abyme, Paris, 1977. 249

Intesa in senso kierkegaardiano come stato dell’uomo messo di fronte a infinità possibilità positive e negative (cfr.

n. 199). “L’innocenza è ignoranza... In questo stato c’è pace e quiete; ma c’è, nello stesso tempo, qualcos’altro che non è né inquietudine, né lotta, perché non c’è niente contro cui lottare. Allora che cos’è? Il nulla. Ma quale effetto ha il nulla? Esso genera l’angoscia. Questo è il profondo mistero dell’innocenza: essa nello stesso tempo è angoscia. Sognando, lo spirito proietta la sua propria realtà, ma questa realtà è il nulla, questo nulla l’innocenza lo vede continuamente fuori di sé. L’angoscia è una determinazione dello spirito sognante..Nella veglia la differenza tra l’io e l’altro da me è posta, nel sonno è sospesa; nel sogno è un nulla accennato..Poiché il concetto dell’angoscia non si trova mai trattato nella psicologia, io devo richiamare l’attenzione sul fatto che esso è completamente diverso da quello del timore e da simili concetti che si riferiscono a qualcosa di determinato, mentre invece l’angoscia è la realtà della libertà come possibilità per la possibilità”. (S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, 1.5, Milano, 1995, 36). 250

Cfr. le riflessioni sul sogno, specie nell’accezione di M. Foucault, sviluppate nel cap.2) della III sezione e quelle

sulla coazione a postulare un regressus ad infinitum, comune per certi aspetti a Borges e ai Cabbalisti, trattate nella parte finale del cap.3) della II sezione.

94

2) L’incipit Celebrato l’imprescindibile esergo, è tempo di calarsi senz’altro nel testo, il cui incipit, ricco di evocazioni, è bene richiamare di nuovo integralmente: “Nessuno lo vide sbarcare nella notte unanime, nessuno vide la canoa di bambù incagliarsi nel fango sacro; ma pochi giorni dopo, nessuno ignorava che l’uomo taciturno veniva dal Sud e che la sua patria era uno degli infiniti villaggi che sono a monte del fiume, nel fianco violento della montagna, dove l’idioma zend non è contaminato dal greco, e dove la lebbra è infrequente”.252 In questo principio “nessuno” ripetutamente echeggia. La struttura anaforica del brano, che rimarca lo sbarco isolato di un uomo taciturno nell’oscurità, assegna al testo intonazioni “unanimi” all’epigrafe commentata. Tenebre e solitudine, questo dice la primissima lettura. L’uomo sbarca nella notte, territorio del sogno. Il suo itinerario è solitario e in un certo modo “magico”, perché nessuno vede arrivare il viaggiatore; pochi giorni dopo, però, tutti conoscono la sua provenienza e il suo idioma. Lo scenario è fitto di oggetti simbolici carichi di senso: la notte, lo sbarco, l’incagliamento nel fango sacro, il fiume, il Sud, la lingua incontaminata. Come spesso accade nell’opera del nostro autore, domina la polisemia e il disvelamento degli universi evocati non conduce solo alla mistica ebraica, ma anche ad altre mitologie e sistemi religiosi253. 251

“Perché ci inquieta il fatto che la mappa sia compresa nella mappa e le mille e una notte nel libro delle Mille e una

notte? Perché ci inquieta che don Chisciotte sia lettore del Don Chisciotte e Amleto spettatore dell’Amleto? Credo di avere trovato la causa: tali inversioni suggeriscono che se i caratteri di una finzione possono essere lettori o spettatori, noi, loro lettori o spettatori, possiamo essere fittizi.” (J.L. Borges, Magie parziali del Don Chisciotte, in Altre inquisizioni, da Tutte le opere cit., Vol.1, 952). 252

253

J.L. Borges, Le rovine circolari, in Tutte le opere cit., Vol. 1, 659.

Come si è sottolineato, specie nei racconti fantastici Borges utilizza interamente il suo immenso bagaglio di

nozioni e letture, cosicché il reperimento delle fonti diventa arduo e inutile. Ciò anche perché la trasfigurazione e l’impiego polisemico degli oggetti del suo repertorio è già, per definizione, materiale elaborato. D’altra parte alla stessa Cabbala non sono ovviamente estranei elementi eterogenei al pensiero ebraico. Sul punto, cfr. n.11. 95

L’uomo non approda in un punto plausibile (la canoa si incaglia nel fango sacro) ma sbarca nella notte. Tale è il porto senza limiti che lo attende. Questa singolare geografia nautica evoca l’odissea dell’anima dell’uomo nella mistica dello Zohar254, il sogno come viaggio segreto compiuto ogni notte, l’itinerario di ascesa verso la sorgente celeste. Dunque una solitudine, enfatizzata da quel ridondante “nessuno”, che si può leggere desolata e appartata, come è disperato l’incagliarsi della canoa nel fango; ma forse, se l’interpretazione mistica poc’anzi accennata dovesse trovare altri supporti, questa volta potrebbe accadere e manifestarsi una diversa e meno radicale dimensione solitaria - sinora inesplorata da Borges - aperta a qualche speranza, benché duramente messa alla prova da un

periglioso

viaggio

notturno255.

La

rotta potrebbe

infatti “orientarsi”

verso

una

costellazione luminosa, quella delle Sephirot, il complesso mondo divino che comunica fugacemente

con

l’uomo

immaginazione onirica 254

256

per

tramite

della

congiunzione

fra

Intelletto

Agente

e

.

Cfr. Cap. 2 della II sezione (comprese le note 216 e 217), in cui si fa cenno alla fenomenologia del sogno nella

mistica dello Zohar. Si ricorda anche: “Ogni notte le anime dei giusti salgono e, quando giunge la mezzanotte, il Santo, sia Egli benedetto, si reca nel giardino di Eden per dilettarsi con loro. Rabbi Yosi affermò: con tutti loro, sia con quelli che hanno dimora in questo mondo sia con coloro che risiedono nell’aldilà”. (Zohar, 1.8 2b). Nella mistica ebraica “la notte è..conoscenza, poiché dischiude un rapporto diretto col divino che pare impraticabile durante il giorno.” (G. Busi, Simboli del pensiero ebraico cit., voce Notte, 133). Sul senso e i limiti della devequt, con riferimento all’itinerario dell’anima individuale e alla sua unione con l’anima universale, così come sulla congiunzione tra intelletto e Intelletto Attivo, tra pensiero e Chokmà, e sulla “metabolizzazione” del pensiero filosofico neoplatonico e aristotelico nella mistica ebraica, cfr. M. Idel, Cabbalà Nuove Prospettive cit., pp. 55-60). 255

Quale sia il senso, vivissimo nei miti e nelle leggende di ogni cultura, della “prova da superare” per raggiungere

l’obiettivo perseguito, spesso rappresentata da un viaggio pericoloso per mare, e quale sia, più in particolare il rilievo dell’Odissea, classico innumerevoli volte echeggiato, è troppo noto per essere sottolineato. Mi permetto solo di citare quale contributo fondamentale della critica letteraria strutturalista, con riferimento al tema delle funzioni nel racconto (e quindi anche a quella della “prova da superare”), l’opera di Propp, La morfologia della fiaba, Torino, 1966. Ricordo anche, per quanto riguarda l’effetto “ridondante” e di costante nostalgico ritorno dei grandissimi classici, I. Calvino, Perché leggere i classici, Milano, 1991. 256

Anche Borges conosce bene la dottrina della profezia di Maimonide. Nel racconto Il miracolo segreto (da Finzioni,

in Tutte le opere cit.,Vol. I, pp. 743-744) scrive: “Ricordò che i sogni degli uomini appartengono a Dio e che Maimonide ha scritto che le parole di un sogno, quando suonano chiare e distinte, e non si può vedere chi le ha dette, sono divine.” Sui limiti entro cui l’unio mystica dovrebbe essere concepita nel pensiero ebraico, come è noto le 96

D’altra parte il viaggio al quale si allude non è solo metaforico. Certo per ora, emarginata alla periferia del paesaggio, sembra latitare curiosamente l’acqua, il mezzo naturale che consente all’imbarcazione di procedere 257. Si naviga piuttosto nell’aria e nella terra, quest’ultima ostacolo - remora, e, come si vedrà, possibile incantamento: l’uomo taciturno arriva nella notte e illudendosi di non interrompere il suo itinerario di ascesa pare voler proseguire il suo viaggio sconfinando nella dimensione uranica. Contraddittoriamente però lo slancio è frenato: la canoa di bambù rimane incagliata nel fango. Il naviglio dal così precario incedere forse cela il compito segreto di solcare il cielo con il sole – Ra258 per dare luce al mondo diurno dei vivi, e nottetempo rischiarare l’ipogeo dei morti. Ma qualcosa è andato storto. La barca si è incagliata nel fango sacro e la missione cosmica del benefico pellegrino sembra per il momento sfumare. L’incagliamento è un ostacolo evidente, forse insuperabile. Il viaggiatore è costretto probabilmente a modificare i suoi piani.

opinioni sono discordi. Mentre Scholem spesso rileva che la congiunzione totale, salvo casi sporadici, deve intendersi come assente, Idel ritiene invece tale ipotesi infondata sia dal punto di vista teoretico sia da quello fattuale (M. Idel, Cabbalà Nuove Prospettive cit., pp. 69-70). 257

Non a caso: come è noto l’acqua è nella mistica ebraica cifra simbolica, tra l’altro, della Torah, attraverso la

mediazione della Chokmà, secondo Scholem derivante, almeno per quanto attiene il Sefer-ha Bahir, dalla Sophia degli gnostici (Le origini della Kabbalà cit., pp. 154 ss.). Sul punto cfr. la più ampia nota 264, infra. Come emergerà tra poco, questo brano, a mio avviso, pur sottendendo elementi anche cabbalistici, considerato nel suo complesso richiama più prepotentemente il paesaggio di Genesi, peraltro comune, per certi aspetti, ad altri sistemi religiosi. 258

Le “Barche del sole” che si trovano nei pressi della piramide di Giza riproducono la nave sulla quale ogni giorno il

dio Ra percorre il cielo, per illuminare di notte il mondo dei morti e quindi ritornare al punto di partenza (a cura di H. Biedermann, Enciclopedia dei simboli, Milano, 1999, voce Nave, 317).

97

Da possibile sovrano e supremo regolatore dell’universo, dispensatore di ogni dono 259, il presunto Ra è costretto a cercare rifugio nella palude, dove, come si nota avanzando un poco nel racconto, potrà sopravvivere solo grazie alla ambigua benevolenza, tinta di timore, degli abitanti senza nome di questa indecifrabile località: “Orme di piedi nudi, alcune frutta e un bacile l’informarono che la gente del luogo aveva spiato con rispetto il suo sonno e sollecitava la sua protezione, o temeva la sua magia 260”. Poco male qualche quotidiano disagio per una divinità, se di Ra si tratta, che ha talvolta dovuto piangere la morte di altri dèi del Pantheon egizio 261! 259

Ecco alcuni brani, significativi della funzione accennata, dell’Inno ad Amon-Ra (in Letteratura e poesia

dell’Antico Egitto, Torino, 1990, 405): “Inno ad Amon Ra, il toro di Eliopoli, il principe di tutti gli dei, il dio buono, l’amato, che fa vivere ogni verme e ogni buon pastore. Lode a te, Amon-Ra, signore di Karnak, principe di Tebe! / Toro di sua madre, che è il primo sul suo campo! /..Signore di ciò che esiste, che crea gli alberi da frutto, che fa l’erba e nutre il bestiame /..Che felicemente attraversa il cielo, il re dell’Alto e del Basso / Egitto, Ra dei giustificati / …Amon, che ha creato gli uomini, che ha distinto la loro natura e li / ha fatti vivere, / che ha distinto i colori della pelle delle razze umane l’uno/ dall’altro; / che ascolta le preghiere del prigioniero, con cuore ammirevole, / quando li invoca; / che libera il timoroso dall’insolente e mette pace tra il debole e il / forte… Egli fa stare aperti tutti gli occhi.., la sua bontà ha creato / la luce… Sei colui che ha creato tutte le cose, l’unico / che ha creato ciò che esiste, / dai cui occhi sono usciti gli uomini (il mito voleva che gli uomini egiziani fossero nati dalle lacrime di Ra, n.d.r.), / dalla cui bocca hanno avuto origine gli dei, / che produce il foraggio che nutre le greggi, / e gli alberi da frutto per gli uomini /..Salute a te che hai creato tutto questo, / unico con molte mani / che veglia quando tutti gli uomini dormono, / e cerca il bene per il suo bestiame..” Sulla funzione di governatore e ordinatore universale della divinità solare Ra, cito anche l’ottimo profilo della figura mitica evocata contenuto nel Dizionario universale dei miti e delle leggende, Roma, 2002, 528: “Uno dei primi atti della creazione, nella mitologia egizia, fu l’apparizione del disco del sole di Ra sopra le acque di Nun (caos). Si dice che il tempo avrebbe avuto inizio con la prima alba di Ra. Poiché gli egiziani credevano che il sole fosse fatto di fuoco e non potesse essere spuntato dall’acqua senza un mezzo di trasporto efficace, si pensava che Ra avesse fatto il suo viaggio sulle acque in una barca. La barca della mattina si chiamava Mandiet (rafforzarsi) e quella della sera, Masket (indebolirsi). Si dice che il percorso di Ra fosse stato tracciato dalla dea Maat, personificazione delle leggi morali e fisiche. La sera, dopo che il sole si era posizionato a ovest, Ra si recava nel Dat, l’oltretomba. Con l’aiuto degli dei, attraversava quella regione in una barca e ricompariva la mattina successiva. Durante il suo tragitto nel Dat, egli regalava aria, luce e cibo a cloro che erano stati condannati a vivere lì.” E’ importante sottolineare, per il legame con il tema centrale trattato in questa sezione, il mito antropogonico risalente a questa tradizione, che fa derivare l’origine dell’uomo dal pianto di Ra. 260

J.L. Borges, Le rovine circolari cit., 659.

261

Anche Osiride restituito alla vita dopo lo smembramento subìto non appartiene più al presente, è esplicitamente

una mera riproduzione del passato, è “ieri”. Cfr. D. Meeks Ch. Favard – Meeks, La vita quotidiana degli Egizi e dei 98

Questa ipotesi di lettura, per quanto suggestiva e forse autorizzata, come tante altre, dalla polisemia del testo, sembra però infrangersi nell’incaglio dal quale ancora fatico a disancorarmi. Restiamo alla scena iniziale, dimenticando per un momento l’anelito cosmico del viaggiatore notturno. C’è forse una parola di troppo, una leggera tautologia nel primo brano del racconto citato: la canoa di bambù, è scritto, si è arenata nel fango sacro. In realtà si sa benissimo, senza necessità di precisarlo, che quella è terra santa, numinosa. Borges ha censito in modo molto evidente un essenziale, ma completo teatro della creazione, in cui tutti gli elementi primordiali compaiono: l’aria-etere della notte unanime, l’acqua del fiume, la terra plasmabile, cioè il fango. Manca solo il fuoco, ma presto anch’esso illuminerà la scena per recitarvi un ruolo regale. C’è quindi tutto l’armamentario di una sacra rappresentazione. In un territorio sconosciuto, che pare evocare il punto in cui tutti i luoghi dei miti creativi si incontrano - parodiando il nostro autore, un Aleph di tutte le Genesi possibili - c’è dunque materia per fare; in questo misterioso paese è approdato avventurosamente un artiere -demiurgo destinato a dare forma a qualcosa, a compiere un percorso creativo parallelo con l’autore del racconto e con i suoi infiniti lettori. E’ un viaggiatore262 che vive la meraviglia e lo stupore propri del filosofare, ancora più abissali in questo territorio dell’essenza e dei primordi, in cui ne va dell’Origine 263. loro dèi, Milano, 1995, 138. 262

“I confini dell’anima, nel tuo andare, non potrai scoprirli, neppure se percorrerai tutte le strade: così profonda è

l’espressione che le appartiene”. (Eraclito 14A 55, in G. Colli, La sapienza greca cit., III, 63). 263

“Gli uomini hanno cominciato a filosofare ora come in origine, a causa della meraviglia.” Aristotele, La

metafisica, I,2,982b, Milano 1992, 77. Se qualsiasi filosofia è filosofia dell’origine, perché la domanda è sempre una domanda sull’origine (cfr. S. Natoli, Parole della filosofia cit., pp. 16-17)), inarrestabile e irresistibile è lo scivolamento a ritroso che avviene quando il contenuto del pensiero riflette sul procedimento creativo iniziale. Scrive lo stesso autore (op.ult.cit., 113): “In tempi lontani mi è capitato di scrivere sul “”motivo dell’origine della filosofia””, Dicevo: essa non coincide con una causa non principiata, né con un mondo dietro il mondo, ma inerisce alla dimensione umana del domandare, attiene alla meraviglia. La meraviglia è il sentimento che erompe improvviso innanzi all’eccezionale, all’inaudito. Ma non è solo questo, è molto di più; è la capacità di avere uno sguardo originale su ciò che è abituale.” Questa vertigine è avvertita anche – forse soprattutto – nella mistica ebraica, in cui il momento iniziale, il Principio – Bereshit, il suo intreccio dialettico con la creazione e con Dio e il conflitto tra la divinità vivente, personale e l’En Soph nascosto, “che riposa in eterno inaccessibile, nella profondità del suo essere 99

E’ uno strano pellegrino, che naviga il fiume, sbarca nella notte e si incaglia nel fango. I rimandi sono inevitabilmente molteplici e delineano una geografia tanto coerente e unanime, per gli aspetti di più immediata percezione, quanto spezzata in una serie di segni che frantumano la visione d’insieme, evocando, come si è in parte già visto, miti più remoti e meno svelati. Sono segni che chiedono un senso 264. Indubbiamente il quadro generale richiama il paesaggio edenico, condiviso dalla mitologia babilonese.

o, secondo l’audace versione dei cabbalisti, “”nella profondità del suo Nulla”” sono al centro di vastissime, abissali speculazioni messe in luce da Scholem, anche negli aspetti più paradossali, ne Le grandi correnti della mistica ebraica cit. (alle pagg. 24-25 il brano appena citato) e ne I concetti fondamentali dell’ebraismo (Creazione dal nulla e autolimitazione di Dio, pp. 40 ss.). Tornando alla quanto mai efficace “fenomenologia della meraviglia” poc’anzi evocata da Natoli, si può sostenere che i Cabbalisti abbiano coltivato lo stupore dell’inaudito, donando quasi una parola paradossale all’ineffabile, soprattutto nel produrre la mistica del Principio. Tuttavia mi pare che l’esegesi midrashica, adempiendo in questo modo anche alla “seconda maniera” dello stupore, abbia saputo spesso cogliere con sguardo profondo nessi invisibili tra cose apparentemente lontane, vestendo di splendore passi biblici a un primo sguardo “insignificanti”. In ogni modo, l’esito forse più ardito della speculazione sulla creazione è quello rammentato da Scholem (ne Le grandi correnti cit., 230) che evoca una delle possibili traduzioni dell’inizio del Genesi (Bereshith barà Elohìm): per mezzo della Sapienza Divina (il Principio) il nascosto nulla (soggetto grammaticale di barà) creò emanò Elohìm. Non so se questo passaggio sia stato notato da Borges, ma credo di potere essere “autorizzato” a valermene nell’indagine che sto conducendo sul testo, per l’indubbia affinità tra questa speculazione e il “movimento di pensiero” del nostro autore. 264

“Cosa dunque caratterizza la filosofia come forma di sapere? La trasformazione del segno in senso.” (Natoli,

Parole della filosofia cit., 21).

100

La connotazione “fluviale” dell’ambiente è certamente esplicita e univoca. E’ troppo noto il racconto biblico jahvista della creazione265; è un tòpos della mistica l’accostamento tra l’acqua di sorgente e la divina Chokmà266. So tuttavia come avanzerà il testo, so anche che il tema centrale della narrazione è la creazione dell’uomo, obiettivo che sarà però perseguito assecondando procedure diverse da quelle fin qui in apparenza suggerite dal racconto. Questa arbitraria precognizione dello sviluppo successivo mi induce a fissare nuovamente nell’abisso vertiginoso dell’Inizio, quale più significativo elemento del quadro tracciato, il fango sacro. Fango, non terra, né polvere. Come tale, morbido, plasmabile e fertile; legato alla fecondità. 265

“Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. ...Un fiume

usciva da Eden per irrigare il giardino, poi di lì si divideva e formava quattro corsi. Il primo fiume si chiama Pison...il secondo fiume si chiama Ghicon...Il terzo fiume si chiama Tigri: esso scorre ad oriente di Assur. Il quarto fiume è l’Eufrate (La Bibbia di Gerusalemme, Genesi, 2.8-2.14). Secondo J. Campbell (Mitologia occidentale, Milano, 1992, 122) in questo racconto “riconosciamo l’antico giardino dei Sumeri”: addirittura sarebbe evocato il tardo mito babilonese secondo cui gli uomini furono creati per sollevare gli dei dal pesante compito di lavorare la terra. Di opinione diversa P. Stefani (Le radici bibliche della cultura occidentale, Milano, 2004, 35). Secondo questo studioso, al contrario, sarebbe la prima versione sacerdotale del racconto della creazione a richiamare le cosmogonie babilonesi, le quali cominciano con l’emersione della terra dalle primordiali acque del caos ispirandosi metaforicamente al fatto che il suolo asciutto risorgeva annualmente dagli straripamenti del Tigri e dell’Eufrate…..La seconda narrazione, più arcaica….presenta condizioni geografiche e climatiche simili a quelle della terra di Canaan, il caos originario viene descritto come una terra disseccata dal sole, arida e desertica..” 266

“Come l’albero dà frutti grazie all’acqua, così il santo, sia Egli benedetto, accresce le forze dell’albero per mezzo

dell’acqua. E che cos’è l’acqua del santo, sia Egli benedetto? E’ la sapienza e sono le anime superiori dei giusti che sgorgano dalla sorgente versio il grande canale, il quale sale e s’unisce all’albero.” [Sefer Bahir (119-85), in Mistica ebraica cit., 183]. “Poi Egli foggiò un piccolo contenitore, cioè la Yod, che andò riempiendo di Sé. La chiamò “”Fonte che sgorga Sapienza e se ne chiamò Sapiente”. (dallo Zohar, II 42b-43a, in Zohar cit., 47). Scrive Scholem nel commentare il testo mistico citato: “Questa Sophia è naturalmente la Torà primordiale, conformemente all’equivalenza statuita nell’Aggadà tra i due concetti, ma anche all’identificazione che essa stabilisce tra l’acqua della fonte, l’acqua fresca e l’acqua in generale, da una parte, e la Torà dall’altra.” (G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., pp. 164-165). Anche nella mistica provenzale delle origini, più specificamente proprio il fiume del paesaggio edenico ha una forte valenza simbolica: “Il fiume che esce dall’Eden è la corrente d’emanazione delle Sephirot; ma nel punto dove lascia il Giardino, la Sefirà meno elevata, si divide e diviene la molteplicità del mondo della creatura, del mondo della separazione.” (Op. ult. cit. pp. 148-149).

101

Oltre a richiamare il racconto biblico della creazione di Adamo nella versione jahvista (in cui però polvere e aria paiono essere gli elementi demiurgici più puntualmente enunciabili 267), la mitologia sumero-accadica, alla quale si deve la narrazione probabilmente più antica 268, il teatro greco269, e addirittura la formazione del golem, fin troppo pertinente al nostro tema270, intorno al fango sacro aleggia una dimensione simbolica forse ancora più profonda di quella evocata dalle antropogonie citate; si avverte, per così dire, un richiamo “primordiale” più potente.

267

“Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo

divenne un essere vivente.” (La Bibbia di Gerusalemme cit., Genesi, 2.7, 38). 268

La narrazione accadica è contenuta in molti testi. Il più ampio e suggestivo è il Poema del Supersaggio,

probabilmente composto intorno al 1700 a.c.: Quando gli dèi (facevano) l’uomo,/ erano soggetti a lavori pesanti e lavoravano duramente: / enorme era l’incarico affidato loro, / la loro corvèe pesante, ed infinito il loro lavoro, / poiché i grandi Annunaku agli Igigu / imponevano una fatica sette volte pesante. Gli dei lavoratori (Igigu) protestano per il trattamento e il dio Ea provvede creando un essere intelligente e limitato (non in grado cioè di minacciare gli dèi): l’uomo, che viene plasmato d’argilla mescolata con il sangue di un dio minore. (Cfr. J. Bottéro, Mesopotamia, Torino, 1991, pp. 243-245). 269

“Uomini dalla vita oscura, simili alla stirpe delle foglie, deboli creature impastate di fango, ombre instabili,

effimere, senz’ali, mortali infelici, vani come sogni, prestate attenzione a noi che siamo immortali, da sempre viventi, eterei, immuni da vecchiaia, e pensiamo eterni pensieri”. Aristofane, Gli uccelli, 685-686, in Le vespe – Gli uccelli, Milano, 2001, 233). Si noti il legame tra il fango plasmato e il sogno vano, che condividono evidentemente il territorio dell’effimero e del fragile. 270

Citando a tale proposito il Midrash avkir, Idel scrive: “Rabbi Berakayà disse:””Quando Dio desiderò creare il

mondo, iniziò la sua creazione dall’uomo e lo plasmò come un golem. Quando si accinse a infondere un’anima in lui, disse: “Se lo vivifico ora, si dirà che è stato mio assistente nell’opera della creazione; così lo lascerò golem (in uno stato rozzo, incompiuto), finché non avrò creato tutto il resto.”” Quando ebbe creato tutto, gli angeli gli dissero:””Non farai ora l’uomo di cui parlavi?”” Ed egli rispose: “”L’ho già creato da tempo, manca solo l’anima.”” Allora infuse in lui l’anima e lo vivificò e concentrò in lui tutto il mondo. Con lui iniziò e con lui concluse, come è scritto: ““Mi hai formato davanti e dietro.”” Dio disse:””Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi.”” (Idel, Cabbalà Nuove Prospettive cit., 119.) Questo brano è rilevante almeno sotto tre profili. Il primo è l’ovvio e immediato emergere, su un piano di superficie, della plasticità del golem evocata direttamente dall’atto demiurgico del plasmare il fango; la seconda è la già accennata e persistente aura di imperfezione e materialità che si congiunge a questa creatura. Infine l’idea di concentrazione di tutto il mondo nell’uomo, dotato di anima e dunque portato a perfezione, è feconda sia per comprendere i limiti e il senso del panteismo nella mistica ebraica, sia per interpretare, come si vedrà 102

Sono forse questa volta guidato in modo opportuno dal mio essere forzatamente “pregiudicato” dalla precognizione degli sviluppi successivi della narrazione borgesiana: non sarà, come una lettura innocente degli esiti potrebbe far supporre, la terra umida la fautrice-fattrice del complesso atto creativo al quale ci accingiamo ad assistere. Ma, evidentemente, una così precisa, e, per certi versi - si è detto - superflua, puntualizzazione della sacralità dell’elemento da parte di uno scrittore tanto attento ed economico nello stile narrativo, non può essere casuale. Anche se il taciturno viaggiatore sceglierà un altro percorso creativo, forse optando per le trentadue vie della sapienza divina del Sefer Yetsirà, lo scenario paludoso e sacro del suo approdo ha comunque un senso. E’ un avvertimento di ciò che accadrà e di come non accadrà. Il pellegrino è arrivato sin qui con uno scopo. L’obiettivo non può essere che la creazione di qualcosa. Gli indizi già riscontrati sono inequivocabili e tra poco altri affluiranno. Il fango sacro, l’elemento più chiaramente “sospetto”, d’altra parte reca almeno due sensi. Da un lato, segnala, a mio avviso, l’ineluttabilità dell’atto demiurgico, assegnandogli tonalità e connotazioni di concreta plasticità e soprattutto di primordiale universalità. Dall’altro, denuncia i propri limiti, proponendosi solo come il primo passaggio di un processo più complesso: l’uomo taciturno, disincantato dall’incagliamento 271, procederà oltre; si ammanterà, se vogliamo, della sacralità di questa terra, si nutrirà della sua potenzialità numinosa, ma non ne farà la materia del suo operare.

in seguito, l’atto creativo nell’opera e dell’opera di Borges. 271

Sfuggo, forse a malincuore, alla tentazione di attribuire all’incagliamento un senso di malìa sessuale, la vertiginosa

tentazione proditoriamente macchinata da sirene terragne o dalla acquorea rassicurante e materna Calipso; prove non da poco, che il nostro itinerante taciturno viaggiatore pare avere con qualche difficoltà superato.

103

Per un verso, dunque, il fango fecondo e plasmabile evoca l’elemento femminile 272, con tutto il suo potenziale generativo, altrimenti assente dallo scenario. L’associazione tra donna e humus è oltre tutto condivisa anche dallo Zohar273. Per un altro, Borges ci suggerisce che la terra-madre-donna è condizione forse necessaria, ma certamente non sufficiente, per raggiungere un esito demiurgico straordinariamente ambizioso. Si è appreso dal Midrash avkir citato da Idel (cfr. n. 269) che Dio ha formato Adamo in due fasi: prima ha plasmato il fango e ha forgiato il golem, poi, completata la creazione dell’universo, ha realmente “fatto” l’uomo, infondendo l’anima all’embrione, vivificandolo e concentrando in lui tutto il mondo. Dunque modellando la terra materna e feconda si produce solo un miserabile effimero manufatto: l’incompleto, l’amorfo, il golem, il servitore degli dèi nella mitologia accadica, il muto e rozzo famulo delle leggende chassidiche. Invece per creare l’uomo, cosa ben diversa, il procedimento è più complesso: prima si forma il cosmo, poi si anima l’embrione, che si trasforma nel macroantropo in cui il mondo è circoscritto274.

272

Sul punto mi pare assai pertinente il saggio di Kàroly Kerényi L’uomo dei primordi e i misteri, contenuto in Miti e

misteri, Torino, 1979, 369 ss. Lo studioso, descritto l’accostamento e la sovrapposizione della concezione più squisitamente mitologica delle antropogonie a qualche ipotesi scientifica maturata nella tarda antichità lungo le linee del pensiero di Democrito, Epicuro e Lucrezio, riscontra, anche attraverso una puntuale analisi etimologica (greco laòs, popolo, laas, pietra, allusivo del lancio di sassi con cui Deucalione e Pirra avevano ripopolato il mondo dopo il diluvio; latino humus, terra, homo, uomo; se mi è concesso, ebraico ‘adam, uomo, ‘adamah, suolo), il mitologema legato alla storia delle origini, quando la terra svolgeva il ruolo della Madre Primordiale. L’idea che emerge dall’analisi del mito di Kerényi è che, nel parallelismo che si sviluppa tra il suolo fecondo e la donna, sia quest’ultima a “imitare” la terra e non il contrario (op.ult.cit., 381). 273

“E a far salire dalla terra (Gen. 2,6) per completare ciò che mancava, per irrigare tutta la superficie del suolo

(ibidem). Ciò che sale dalla terra è il desiderio della femmina per il maschio.” (Zohar, I, 34b-35°, da Zohar cit. 10). 274

Naturalmente il mondo, inteso come macrocosmo, può essere concentrato nel macroantropo, nell’Adam Qadmòn;

peraltro ciò non pare escludere che lo stesso concetto possa applicarsi, magari in virtù di una trasposizione simbolica, anche al caso dell’uomo non trasfigurato dal mito (uomo inferiore), punto su cui si tornerà in seguito; se poi accediamo all’affabulazione letteraria, ben può essere che l’universo, si pensi all’Aleph di Borges, possa essere concentrato in dimensioni minime.

104

Questo è il senso che colgo: il taciturno, benché eloquente 275, viaggiatore, se volesse formare solo un golem, un essere incompleto, potrebbe restare serenamente incagliato nella domestica familiarità del fango sacro e attingere dalla terra madre – donna la materia sufficiente per plasmare l’embrione, esaurendo così la sua missione senza procedere oltre 276. Ma non è questo il suo scopo. Il pellegrino è più ambizioso. Vuole, come ho indebitamente anticipato, generare un uomo, e, illudendosi di sé, vuole farlo a propria immagine e somiglianza. Per assecondare la tracotante velleità del protagonista, lo scenario essenzialmente biblicoedenico277 dal quale ho preso le mosse non è più sufficiente. Occorre infatti abbandonare quel limaccioso mare della tranquillità in cui predomina la naturalità primigenia e avventurarsi negli imperscrutabili abissi della mistica, ampliando con strumenti nuovi lo spettro delle potenzialità demiurgiche del viaggiatore. Alcuni degli elementi enucleabili dal primo brano del racconto evocano già una certa familiarità con la Cabbala: il sud, punto cardinale dello spazio dal quale il nostro viandante proviene, e l’idioma incontaminato, dunque puro, perfetto, originario, forse sacro, di cui il protagonista, peraltro sinora taciturno, sembra in possesso. D’altra parte, associati a un contesto diverso da quello biblico o dallo scenario della fisica presocratica, terra, aria,

275

Taciturno in quanto il suo tacere è solo propiziatorio di una parola determinante, di una parola, circondata dal nulla,

che, differendo dal silenzio, esplode originaria per incidere il mondo. 276

Questa mia interpretazione non concorda con quella, di matrice psicoanalitica, che vede nella creazione del golem

la risposta maschile al potere della maternità, il malcelato tentativo del maschio di riappropriarsi del primario potere femminile della creazione.” (M. Centini, La sindrome di Prometeo, Milano 1999, 19). Come si vedrà infra, a mio avviso tale desiderio di autoaffermazione maschile appare forse più evidente nel tentativo di creare l’uomo in tutte le sue fattezze e non il semplice imperfetto golem. 277

Scenario biblico, come si è visto, debitore di qualche colore, sfondo, oggetto, alla “koiné” mesopotamica del

giardino, dell’operosità lavorativa e della feconda terra argillosa.

105

acqua, e fuoco (quest’ultimo non ancora presente) sono determinanti – eccettuata la prima 278

- anche nel processo creativo descritto nel Sefer Yetsirà.

Non credo però che tale ultima considerazione valga a confutare il quadro che ho delineato, e neppure che l’elemento mistico, pur ovviamente sotteso 279, si imponga con prepotenza inderogabile sin dall’incerto approdo del nostro viaggiatore. L’interrogazione sul senso non può infatti a questo punto esaurirsi solo censendo i singoli oggetti tratti dall’arsenale letterario del nostro autore, per poi assecondarne plausibili corrispondenze con sostrati culturali facilmente identificabili, ma spesso equivoci 280, bensì va interpretata281, forse aderendo ai dettami della morfologia strutturale già accennata 282 e dell’ermeneutica gadameriana283, adottando, insieme alla spassionata e “impregiudicata” descrittività fenomenologica, anche una visione olistica del testo. Ciò consente di alternare e quindi arricchire le prospettive, svelando i significati attraverso il senso, e il senso alla luce 278

Nel Sefer Yetsirà, come si vedrà, la terra non è fra gli elementi primordiali (aria, acqua, fuoco). D’altra parte

qualche volta nella mistica ebraica il fango o la terra sembrano costretti a una cifra simbolica “negativa”, legandosi alle tenebre, all’oscurità. In questo senso il vohu nel tòhu va-vòhu di Genesi 1.2 sarebbe costituito da “”pietre fangose [?] affondate nell’abisso””. Nella Chaghigà 12a, sempre citata da Scholem, si parla di pietre fangose da cui fluiscono le tenebre.” (G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 93). Questa annotazione sembra confermare il senso non prevalentemente mistico cabbalistico del brano introduttivo letto ora. 279

L’elemento mistico, in senso lato – e dunque non squisitamente ebraico, o magari ebraico – ma non rigorosamente

cabbalistico - era individuabile, con contenuto arbitrio, sia, come si è scritto, nell’itinerario notturno del taciturno cosmonauta, sia, come accennato ora, negli elementi primordiali enucleati. 280

Come si è accennato, per esempio, gli elementi terra, acqua, aria, fuoco possono richiamare molteplici fonti, anche

assai eterogenee. 281

Dico “interpretata” e non “risolta”, perché questo è il modesto contributo che si può tentare, a mio avviso, di offrire

quando ci si imbatte in una interrogazione sul senso. Non esiste una parola definitiva, né la sua esistenza mi pare auspicabile. 282

283

Cfr.n. 95. L’autore alluso è Dolézel (Poetica occidentale cit. pp. 71 ss.). L’interpretazione di Gadamer contrappone alla fenomenologia husserliana, che pretende di risalire ai dati

immediati di coscienza, una struttura di anticipazione data dal sedimentare delle opinioni precedenti. “L’ermeneutica riabilita così i pregiudizi, con l’esaltazione del momento della precomprensione”. P. D’Alessandro, Esperienza di lettura cit., pp. 94-95.

106

dei significati. In questo modo, come si è detto, “il tutto precede le parti che lo compongono“ o, in termini di morfologia organica, il tutto è maggiore della somma delle parti che lo costituiscono 284. Tuttavia, prima di accennare temi inediti e di trattare oggetti già descritti, ma non per questo meno “nuovi” là dove ricollocati su un diverso orizzonte di senso 285, pare opportuno avanzare nella lettura, per poter più facilmente verificare se la svolta nel programma demiurgico, resa, come si vedrà, perentoriamente esplicita dall’autore, sia presagita o accompagnata da segni ancora più specificamente pertinenti alla mistica ebraica 286, che preannuncino o confermino la progressione ed evoluzione della narrazione verso un esito più compiutamente creativo.

3) Lo scenario mistico “L’uomo grigio baciò il fango, montò sulla riva senza scostare (probabilmente senza sentire) i rovi che gli laceravano le carni, e si trasse melmoso e insanguinato fino al recinto circolare che corona una tigre o cavallo di pietra che fu una volta del colore del fuoco ed è ora di quello della cenere. Questa rotonda è ciò che resta d’un tempio che antichi incendi divorarono, cui profanò la vegetazione delle paludi, e il cui dio non riceve più onori dagli uomini. Lo straniero si stese ai piedi della statua. Si svegliò a giorno fatto. Constatò senza stupore che le ferite s’erano cicatrizzate; chiuse gli occhi pallidi e dormì, non per stanchezza della carne, ma per determinazione della volontà. Sapeva che questo tempio era il luogo che 284

In tal senso cfr. anche P. D’Alessandro, Orizzonti e forme del dire filosofico, Milano, 2003, 28.

285

Si è detto che gli stessi elementi materiali, gli stessi oggetti sorpresi da una visione olistica nella quale prevalga il

senso biblico-edenico, sono interpretati come segni di quell’orizzonte di senso (biblico-edenico), mentre collocati su un orizzonte mistico avranno valenze diverse, coerenti con la loro nuova dimensione. D’altra parte, come è noto, nella linguistica di Saussure il valore del segno linguistico, inteso come rapporto fra significante e significato, è funzione della sua posizione (ossia del suo orizzonte di senso) nello scacchiere della lingua. Variando la posizione di un segno, tutti gli altri cambiano. (“Il valore di un segno linguistico risiede dunque in un rapporto di rapporti in cui il primo rapporto risulta interno al segno; gli altri sono invece quelli che il segno stabilisce di volta in volta al suo esterno con altri segni del medesimo sistema”. P. D’Alessandro, Esperienza di lettura cit, pp. 56-57). 286

Ossia pertinenti in modo esclusivo e inequivocabile, per quanto possibile, alla mistica, anche in virtù di un’esegesi

più prossima alla superficie del testo.

107

conveniva al suo invincibile proposito; sapeva che gli alberi incessanti non erano riusciti a soffocare, più a valle, le rovine d’un altro tempio propizio, anch’esso di dèi incendiati e morti; sapeva che il suo obbligo immediato era il sonno.. Il proposito che lo guidava non era impossibile, anche se soprannaturale. Voleva sognare un uomo; voleva sognarlo con minuziosa interezza e imporlo alla realtà. Questo progetto magico aveva esaurito l’intero spazio della sua anima. .Gli conveniva il tempio disabitato e rotto, perché era un minimo di mondo visibile.”.287 La separazione del viaggiatore dalla terra madre è suggellata da un bacio coniugale o filiale ed è travagliata da ferite e lacerazioni, nel corpo e nell’anima. Non si è trattato di una scelta facile. Da questo momento l’uomo taciturno è straniero, ma meglio sarebbe dire “straniato”. Ha abbandonato il suolo edenico, che avrebbe potuto felicemente signoreggiare plasmando materiale docile, un luogo irrorato dalla segreta Sapienza divina ancora indistinta 288, e ora vive l’ambigua situazione dello spaesamento. Il nostro Ulisse, dapprima cosmonauta ardimentoso in un viaggio che non fu, quindi possibile sedentario fruitore della terra madre, quell’Itaca Penelope (o Ogigia Calipso) non senza pena ricusata, ha infine preferito tramare percorsi intricati, inoltrandosi in un territorio che subito si mostra ostile scosceso e maligno 289. 287

J.L. Borges, Le rovine circolari cit., pp. 659-660

288

Tale nella mistica sefirotica “canonizzata” dallo Zohar è Chokma, prima di sfociare nel mare dell’intelligenza,

intesa come discernimento, la dialettica Binà (cfr. Zohar, II, 42b – 43a, in Zohar cit. 47). 289

Nel compito non impossibile, ma soprannaturale che il personaggio si impone e nello scegliere l’abbandono della

terra sacra, che favoleggio edenica e in qualche modo coniugale, questa avventura può richiamarne un’altra celeberrima, sempre un’Odissea immaginaria: “Quando / mi diparti’ da Circe, che sottrasse / me più d’un anno là presso a Gaeta / prima che sì Enea la nomasse, / né dolcezza di figlio, né la pieta / del vecchio padre, né ‘l debito amore / lo qual dovea Penelope far lieta, / vincer poter dentro a me l’ardore / ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore;/..(D. Alighieri, La Divina Commedia cit., Inferno XXVI, 90-99, 236). Ho poi scoperto – non lo sapevo prima di associare inconsapevolmente i due miti – che una leggenda, accreditata dai tragediografi, non da Omero, fa di Ulisse il figlio non di Laerte, ma di Sisifo, al punto che talvolta è chiamato Sisifide (cfr. Enciclopedia dell’antichità classica cit., voce Ulisse, 1469 e Dizionario di mitologia, Torino, 1999, voce Sisifo, 649). Forse questa tardiva trovata rende meno arbitrario quell’accostamento tra i due personaggi, sconfinante in sovrapposizione, che, come si vedrà, ho spesso proposto.

108

Il viaggiatore sembra spaesato proprio perché in qualche modo appare legato anche a questo luogo290 dal quale è oscuramente attratto. Le rovine circolari di un tempio devastato dal fuoco fanno corona a un misterioso simulacro bestiale dai contorni sfumati, sospeso tra l’animalità domestica e la ferinità selvaggia (cavallo o tigre, ma solo nel sogno sembra possibile siffatta incertezza). Mentre il fango del faticoso approdo era sacro, questo territorio è propizio alla magia, ma è stato abbandonato dagli dèi. Anzi, racconta Borges, le divinità che qui aleggiavano sono state sopraffatte dalla violenza, persino assassinate (dèi incendiati e morti). In un luogo sconsacrato, in mezzo alle rovine, che, tuttavia, per quanto lo accennino solo, evocano un minimo di mondo visibile, lo straniero venuto dal Sud, il taciturno signore della terra, dell’acqua, dell’aria della notte unanime e ora del fuoco distruttore, intende realizzare il suo proposito invincibile, dormire incessantemente per sognare un uomo con minuziosa interezza e imporlo alla realtà. Il testo fornisce indizi apparentemente inequivocabili. Il

viaggiatore

ha

penetrato,

forse

violato,

un

terreno

la

cui

sacralità,

peraltro

drammaticamente perduta, è diversa da quella originaria e naturale che ha da poco abbandonata. E’ il territorio del tempio, dello spazio che gli uomini hanno sottratto al tempo291, misura delle loro occupazioni e del lavoro operoso; è la regione separata, “tagliata”, suddivisa e consacrata alla divinità, per consentire agli àuguri di interpretare i presagi292. 290

“L’Unheimische (termine heideggeriano traducibile con “”spaesamento””, n.d.r.), il non familiare, non genera

turbamento semplicemente per la sua incongruenza con le misure abituali, per il suo carattere di novità e di ignoto – esso non coincide con l’avventuroso, con l’evasione dal quotidiano, - ma piuttosto con il suo rimandare, nella sua stessa estraneità e immensità, a qualcosa che riguarda il familiare.” (G. Berto, Freud Heidegger lo spaesamento, Milano, 2002, 140). 291

Creando forse una falsa etimologia, o più plausibilmente, giocando sull’assonanza, dal greco témnein, dividere (cfr.

nota successiva) assimilo templum e tempus. Mi paiono legati dalla comune nozione di frazionamento, da un lato pertinente al luogo sacro delimitato e sottratto allo spazio profano, dove invece si svolge la vita ordinaria scandita dalle occupazioni usuali, e dall’altro non estranea al tempo inteso come misura, e di nuovo come criterio di distribuzione di funzioni e compiti produttivi, in quanto tali distanti dalla dimensione della contemplazione e della sacralità, che forse trova nel Sabato ebraico, preservato dall’occupazione quotidiana, uno spazio adeguato e una cifra simbolica plausibile. 292

Cfr. Voce Tempio, in Enciclopedia Italiana cit., Vol. XXXIII, 361. Come è noto il latino templum rispecchia il

verbo greco temnein, tagliare. 109

Dal sacro humus, in fondo irriducibile a confini precisi, si passa a una terra delimitata, la cui santità è convenzionalmente stabilita, recintata e orientata. Questo luogo, per essere propizio al compito soprannaturale dello straniero, deve essere l’ombelico del mondo, il Centro293, dove si celebra la ierogamia tra cielo e terra, il punto geometrico

dell’Origine

da

cui

s’irradia

l’Universo;

nella

mistica

del

Bahir,

sorprendentemente analoga a un celeberrimo passo del nostro autore, è il luogo, legato al Pensiero Infinito e all’aleph, nel quale tutti gli esseri spirituali hanno dimora294. Qui soltanto è consentita la ripetizione del rito cosmogonico e di quello conseguente della creazione

293

Ricorda Scholem (in Le origini della Kabbalà cit., 144) che “la frase secondo la quale il santuario celeste è al

centro del mondo, e sopporta tutte le sei direzioni, che nello stesso tempo corrispondono alle sei ultime sefiròth, appare nel capitolo IV del Libro della Creazione”. 294

“Questa machshavà la troviamo rappresentata in tre importanti simboli: la consonante alef, principio del

linguaggio e di ogni discorso,...l’orecchio dell’uomo...per mezzo del quale l’uomo percepisce la parola di Dio; il tempio [heckàl] del Santuario..Il pensiero divino infinito, che tutto precede e che tutto contiene, è il “”tempio”” mistico in cui tutti gli esseri spirituali hanno il loro luogo.” (G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., pp. 159-160). Come già ricordato altrove l’Aleph di Borges (cfr. J.L. Borges, L’Aleph, cit., da l’Aleph, Ed. Milano 2003, pp. 161 e 169) è uno dei punti dello spazio che contengono tutti i punti. ..Il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli”. Nello stesso celebre racconto Borges intepreta l’aleph estendendone la portata simbolica, pur sempre nell’ambito della mistica ebraica: “Per la Cabala quella lettera rappresenta l’En Soph, l’illimitata e pura divinità; fu anche detto che essa ha la figura di un uomo che indica il cielo e la terra, per significare che il mondo inferiore è specchio e mappa del mondo inferiore. (Questa analogia ci riporta al luogo del tempio, accennato supra, n.d.r.).

110

dell’uomo295. Liturgia conosciuta dalla saggezza dello Zohar296, che disvela senza schermi il rapporto tra macrocosmo e microcosmo, sancendone il legame indissolubile propiziato dalla santità del tempio. I punti cardinali, che circoscrivono e descrivono la mappa della benevolenza divina, decidendo il tracciato speculare e recettivo 297 del perimetro consacrato, non sono ignoti all’uomo taciturno salito dal meridione benigno del Sefer Bahir298.

295

“Nel Rig-Veda,( per esempio, 10,149) l’universo è concepito come se la sua estensione fosse partita da un punto

centrale. La creazione dell’uomo, replica della cosmogonia, è avvenuta ugualmente in un punto centrale, nel centro del mondo. Secondo la tradizione mesopotamica, l’uomo è stato creato all’””ombelico della terra””.. Il paradiso in cui Adamo fu creato con il fango si trova, beninteso al centro del mondo.” (M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, Roma, 1990, 25). Secondo René Guénon (Simboli della Scienza sacra, Milano, 2003, 67) il Centro, intorno al quale ruota la circonferenza emblematica delle concezioni cicliche della realtà in divenire (su cui infra), è l’immagine dell’eternità in cui tutte le cose sono presenti in perfetta simultaneità”. In ambito squsitamente ebraico, scrive J. Maier (in La Cabbala, Bologna, 1996, 18): “Nell’ebraismo, la teologia del tempio e la teologia cultuale hanno rivestito grande importanza al riguardo, poiché la corrispondenza fra la realtà terrestre e la realtà celeste vi esisteva già da antica data e si presupponeva alla base dell’evento cultuale, del compimento del rito, un complesso di reciproche influenze. In questa concezione il tempio, con le sue diverse parti, rappresentava il cosmo in senso mitico; in altri termini, nel tempio, l’””ombelico del mondo””, il luogo terrestre e il luogo celeste della dimora e del trono delle divinità venivano per così dire a coincidere.” Ancora Maier (in op.ult.cit., 21): “Come il re rappresenta prioritariamente quest’ordinamento universale, nel senso dell’assicurazione del diritto e della giustizia, assicurazione cui si ascriveva una funzione di conservazione del cosmo, così il tempio, con il suo rituale calendariale-cosmologico, sostiene in primo luogo l’ordinamento del cosmo e assicura la prosperità della natura. Questa visione delle cose era comune anche all’ebraismo, dal momento che anche il tempio di Gerusalemme era considerato copia del “”tempio celeste”” e copia del cosmo”. 296

“Rabbi Simon si alzò e disse: “”Speculando ho compreso che quando il Santo benedetto decise di creare l’uomo,

sussultarono tutte le creature...Allora la fonte di tutte le luci scaturì e aprì la porta dell’Oriente, donde s’estese la luce. Il Meridione dispiegò nel pieno del suo fulgore la luce ereditata dall’inizio, e fece manforte con l’Oriente, l’Oriente sopraffece il Settentrione, il Settentrione si risvegliò, si diffuse e gridò verso l’Occidente, perchè venisse a lui; allora l’Oriente venne al Settentrione e si unì ad esso, quindi il Meridione afferrò l’Occidente, il Settentrione e il Meridione cinsero il Giardino e ne divennero il limite, intanto l’Oriente s’accostò all’Occidente, che, rallegrato, disse agli altri: “”Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza (Gen., I. 26), che includa, così come noi i quattro punti cardinali, oltre al sopra e il sotto. Allora l’Oriente aderì all’Occidente e lo produsse. Per questo hanno detto i nostri maestri che l’uomo emerse dal sito del Tempio””. (Zohar, I, 34b-35a, in Zohar cit., 8). Secondo Scholem nel par. 55 del Sefer-ha Bahìr “una relazione è stabilita tra le sei direzioni dello spazio e il loro 111

Ma certo qualcosa è profondamente mutato: il narratore-viaggiatore, forse in origine il Giusto che proviene dal Sud299, ha lasciato il familiare territorio della natura, la terra, l’acqua, l’aria, per avvicinare una diversa dimensione, in cui dominano manufatti e misfatti umani. Gli elementi in gioco ora echeggiano, al primo impatto, un simbolismo più rigido, disegnano geometrie in apparenza arcane, ma in realtà agevoli, i cui ostentati rimandi si prestano a una decifrazione meno impervia: gli oggetti appaiono destituiti dalla ricchezza polisemica che animava lo scenario originario. Artificiale è il tempio con la statua, forse convenzionale e strumentale l’idioma incontaminato300, manieristica e troppo manifestamente “riconoscibile” la circolarità delle rovine, ostile il fuoco, non liberatore, non propizio, ma violento e distruttore. Perché dunque questo cambio di scenario, quasi traumatico? centro, il tempio sacro, da una parte, e le sette membra dell’uomo terrestre o celeste dall’altra.” (Le origini della Kabbalà cit., 176). Scrive M. Eliade in Mito e realtà, Roma, 1993, 55: “..La cosmogonia costituisce il modello esemplare in ogni situazione creatrice: tutto ciò che fa l’uomo, ripete in qualche modo il “”fatto”” per eccellenza, il gesto archetipo del Dio Creatore: la Creazione del Mondo.” 297

Speculare della volta celeste e recettivo dei segnali divini, quasi fosse, il terreno consacrato, uno strumento di

captazione, un complesso sistema di antenne protese a cogliere e decriptare le voci degli dèi. Sulla centralità del tempio, edificato spesso in un punto considerato come la zona di intersezione dei mondi superiore, terrestre e sotterraneo (concezione sviluppatasi nell’Italia antica), sulla sua funzione di speculare imago mundi, cfr. M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno cit., 26. 298

“Il Giusto fondamento del mondo è nel mezzo, ed esce dal meridione del mondo. Egli è principe sulle altre due

(forze, n.d.r.); in mano sua è l’anima di ogni vivente, giacché egli è Colui che dà vita ai mondi; tutto ciò che è indicato con “”creazione”” è opera sua”. (Sefer Bahir, 180, in Mistica ebraica cit., 202). Commentando quest’opera, Scholem scrive: “Benché egli stesso (il giusto) sia a sud-ovest, ha avuto origine nel sud del mondo, dove, per opposizione al nord che è il male, è la middà della bontà e della grazia di Dio, Chésed, che ha palesemente il suo posto.” (Le origini della Kabbalà cit., 195). 299

Un’altra connotazione simbolica è rivelata dal Sud, oltre a quella accennata supra. Nell’uomo creato, secondo lo

Zohar, sono rappresentati i punti cardinali; tra questi sono compresi “il sopra e “il sotto”, evocativi del mondo superiore e inferiore, che trovano riscontro nelle lettere della parola Adam. Ciò allude al desiderio dell’uomo di conoscere la realtà superna e mondana. (cfr. G. Laras, La mistica ebraica e il pensiero cabbalistico cit., pp. 78-79). 300

Idioma cui si accenna nel primo brano, ma che incomincia ad acquistare senso in questo.

112

Da una parte, il viaggiatore sembra avere abbandonato la natura, la phusis che è da sempre e per sempre, l’Essere301, nel cui grembo tutto confluisce, ma niente viene mai meno; quell’Essere benigno e primordiale, negatore del nulla, porto in perenne agitazione, eppure eternamente tranquillo, luogo dove ogni cosa trova requie nella dolce trasformazione che le dona vita immortale. Essere - natura che può essere solo plasmata, ma non creata. Teatro solare, non a caso destinato alle scorribande dell’egizio Ra, lo scenario in cui l’uomo può solo cogliere il frutto dalla terra, fecondarla e modellarla, fino a creare un simulacro di sé, lo schiavo informe, il golem. Per converso, il taciturno pellegrino ha ora scelto un altro mondo, quello dell’azione e della distruzione, degli dèi e della loro morte, del sacro e dello sconsacrato, del fuoco civilizzatore e preservatore, e dell’incendio che devasta; tutto questo ha fatto per realizzare l’invincibile proposito, negato dalla natura-phusis, di creare l’Altro da Sé. E’ in ogni caso un mondo di sofferenza, in cui fa la sua apparizione il nulla. E con il nulla di nuovo il sogno, e con il sogno l’uomo, in tutta la sua minuziosa interezza. L’uomo da imporre alla realtà. In questo quadro così complesso, prima ancora dei singoli oggetti, impregnati di un simbolismo a tal punto “esibito” da evocare una vera e propria liturgia 302, 301

“La phusis, presa nella sua totalità non è mai toccata dal nulla, ma riposa in se stessa, non viene mai meno: è

l’essere. Il termine phusis, preso nella sua radice, significa infatti essere. La parola appartiene alla stessa famiglia del verbo phuo, che vuol dire produco, genero, cresco, ma la cui radice sanscrita è bhu-, bhavati e che vuol dire precisamente “essere”, da cui il latino fui.” (Natoli, Parole della filosofia cit., 94). 302

Tutto il brano appare, a differenza del primo, pervaso da una assai percepibile intenzionalità d’azione, che però

nulla, a mio avviso, almeno per ora, condivide con la devequt mistica, benché la forte concentrazione di oggetti simbolici legati a una misteriosa ma innegabile ritualità possa evocare uno scenario liturgico. Manca infatti, questa volte espressamente, qualsiasi desiderio di comunicare con la divinità, cosicché non sembra appartenere a questo nuova rappresentazione l’assimilazione o la comunicazione tra uomo e Dio pertinente all’unio mystica. In tal senso appare molto più “religioso” in senso etimologico (seguendo la pur discussa accezione ciceroniana della derivazione di religio da religare, “legare strettamente”, riferibile al legame che l’uomo stringe con gli dèi; cfr. M. Cortelazzo P. Zolli, Il nuovo etimologico cit., voce religione, 1342) lo spartito iniziale. In questo prevale invece una tonalità apotropaica, in cui la magia, strumento di assoggettamento e controllo delle forze naturali, è asservita alla realizzazione di un fine che, nel suo essere destinato al sovvertimento delle gerarchie divine, sembra “sconsacrato”, legato come è alla hubrys umana, rimanendo invece estraneo alla sua elevazione. Pertanto anche l’armamentario cabbalistico, pur evidentemente presente, come si apprezzerà infra, appare meramente strumentale, assumendo infine un rilievo squisitamente “tecnico” per realizzare un fine definito da Borges soprannaturale, ma, manifestamente, tale solo nell’accezione più povera di violazione o deroga di leggi che apparivano rispettate, nella sostanza, nel primo scenario descritto.

113

emerge,

come

si

è

già

colto,

un

senso

nuovo

e

antitetico

rispetto

alla

sacra

rappresentazione lasciata poc’anzi. Dall’essere, attraverso il nulla, si transita al divenire 303, dalla linearità dell’itinerario originario alla circolarità delle rovine e del “doppio” cui Borges rimanda 304 senza sorprendere, dall’eternità della materia plasmabile al tentativo di dare vita al tempo originario della creazione ex nihilo, per tramite del sogno, vissuto però come una coartazione della volontà, paradossalmente negatrice della stessa libertà onirica, per quanto, come si è narrato, questa sia in fondo lontana dalla spensieratezza, vivendo dell’angoscia generata dalla sfrenatezza dell’immaginario gettato nell’apertura abissale del chaos305.

303

“A partire dal pensiero greco, il diventare altro da parte del qualcosa, è l’annientamento del qualcosa in quanto

identico a sé, ed è l’uscire dal niente da parte dell’altro a cui il qualcosa si identifica. Se infatti il qualcosa da cui incomincia il divenire e che viene travolto dal divenire non diventasse niente, il qualcosa resterebbe se stesso e non ci sarebbe quindi il suo diventare altro.” (E. Severino, Oltre il linguaggio, Milano, 1992, 23). 304

“Sapeva che gli alberi incessanti non erano riusciti a soffocare, più a valle, le rovine d’un altro tempio propizio,

anch’esso di dèi incendiati e morti; sapeva che il suo obbligo immediato era il sonno..” (J.L. Borges, Le rovine circolari cit., 660). Attraverso l’evocazione del “doppio” irrompe la circolarità, già allusa nel titolo del racconto. In questo senso, dunque, non ci può sorprendere. 305

Cfr., p.e., note 200, 201, 217, 246, 247, oltre al capitolo conclusivo della precedente sezione, nel quale è trattato

specificamente il tema onirico, anche nei suoi rapporti con quello, diverso e connesso, dell’Origine.

114

Il fango sacro, con la sua plastica e docile pienezza di echi e rimandi, era forse l’elemento più emblematico e carico di senso nell’orientare l’esplorazione del primo brano. Ora, se si vuole ridurre la complessità del nuovo tracciato all’essenziale, è forse plausibile assegnare tale centralità al fuoco, cifra simbolica quasi incommensurabile e irriducibile a corrispondenze rigidamente predeterminabili. Il divenire306, l’incessante trasformazione della realtà alla quale principalmente allude questo secondo scenario, trova in tale elemento una prima dirompente evidenza. Il fuoco eracliteo, che precede, ma, come si vedrà, non invalida altre letture più pertinenti al tema mistico, illumina dunque la rappresentazione orientandone il senso 307. Anche phusis, si potrebbe obiettare, è in perenne mutamento e non nega la trasformazione, ma ne asseconda benignamente il moto secondo regole di equilibrio che essa stessa pone. “Niente viene mai meno”: il nulla non abita ancora il mondo. Pur essendo il fuoco anche figura dell’armonia tra gli opposti, e dunque, in definitiva, cifra apparentemente non estranea all’idea di dinamica conservazione dell’essere attraverso il mutamento, questa sua prima epifania nel racconto, risuonando aggressiva e indomabile, sembra esemplificare un divenire profondamente diverso. La sua entrata in scena, celebrata con un’assenza allusiva di una passata devastante presenza, è spaventosa: l’elemento viene inizialmente rappresentato da Borges nel suo movimento distruttivo, addirittura come crepitante strumento di soppressione degli dèi che abitavano il tempio incendiato.

306

Come sarà precisato infra, da intendere in modo diverso dalla trasformazione della realtà naturale alla quale si è

alluso poc’anzi nel trattare il tema della terra madre. 307

“Il motivo per cui Eraclito ha additato proprio nel fuoco la “”natura”” di tutte le cose, diventa chiaro non appena

si ponga mente al fatto che il fuoco esprime in modo paradigmatico le caratteristiche del perenne cangiamento, del contrasto, dell’armonia. Il fuoco infatti è perennemente mobile, è vita che vive della morte del combustibile, è incessante trasformazione in fumo e cenere, è, come in modo perfetto dice Eraclito del suo Dio Bisogno e sazietà. In altri termini è unità di contrari, è bisogno delle cose e in tal senso fa essere le cose; è sazietà delle cose e, in tal senso, distrugge e fa morire le cose.” (G. Reale, Storia della filosofia greca e romana, Vol. 1, Orfismo e presocratici naturalisti, Milano, 2004, 115). Come si è accennato, in questa prima entrata in scena il fuoco non appare unità dei contrari, ma univoca e annichilente espressione di “sazietà”. In seguito emergeranno anche sensi diversi.

115

Non è un fuoco benigno, non protegge, non alimenta, non riscalda, non genera, non vivifica, ma è già passato, tremendamente possente, per mutare tutto in cenere. Forse è il segno di una catastrofe cosmica. Trascorsa la sua pur memorabile efficacia, riposa per ora dietro le quinte e dal suo nascondimento

annuncia

baluginanti

messaggi

di

morte,

che

accendono

tramonti

inestinguibili, ostili alle tenebre della quiete notturna e premonitori di insonnia 308: di nuovo309 siamo nel segno dell’occidente e del suo nulla. Ma non soltanto. Anche l’antica mistica ebraica della Merkavà conosce il fuoco distruttore, che minaccia il viaggiatore in ascesa ai sette palazzi e ne rende impervio il cammino 310 e nello Zohar talvolta divampano le fiamme della collera divina non mitigate dalla misericordia311, mentre nella mitologia dell’India è l’elemento igneo che al termine del Kali Yuga annienterà il mondo per estinguersi nell’oceano del vuoto 312. Ma quel fuoco è sempre solo il versante, forse deleterio, di un processo complesso e non sempre distruttivo. Quello che qui mostra le sue tracce non reca l’armonia promessa; non ha contrappesi, è orfano degli equilibri eraclitei incisi anche nelle lettere doppie del Sefer Yetsirà313: spiega un divenire esclusivamente orientato verso la morte, al quale sarà arduo chiedere di generare la vita. In questo momento è il principio che nell’annientare afferma il divenire come un uscire e un ritornare nel nulla 314, o forse nella profondità abissale di En Soph, in cui, fallita dal Cabbalista la teurgia di mantenimento, si smarrisce allontanandosi, a causa del peccato dell’uomo, il volto della Divinità 315.

308

309

Come si apprezzerà infra, il protagonista non troverà riposo nel sonno. L’immediata periferia onirica di questa analisi testuale era nel segno del solitario occidente di uno smarrito

narratore (cfr. parte finale del capitolo conclusivo della III sezione). 310

Cfr. G. Laras, La mistica ebraica e il pensiero cabbalistico cit., pp. 29 -30. D’altra parte il fuoco, attraverso il

quale, come si vedrà, la divinità è solita esprimersi, anche nella Torah (cfr. Deuteronomio, 4.2 ss., e, a tale proposito, G. Laras, op.ult.cit., 80) è spesso rappresentato come fuoco “divoratore” (benché in senso assai diverso dal fuoco distruttivo, annichilatore e, come si potrà rilevare, “ciclico”, qui sinora prospettato). Si rammenta il manifestarsi del fuoco divoratore evocato da Deuteronomio 4.29, e la gerarchia tra la luminosità e il colore delle fiamme in Zohar, I, 50b-51b, in Zohar cit. 13 ss. Secondo Scholem nel par. 93 del Sefer Bahìr, “il tòhu da dove viene il male è identificato con il “”fuoco di Dio”” (Le origini della Kabbalà cit., 187).

116

Ciò che a mio avviso fa transitare l’elemento igneo dal dominio dell’Essere solare - al quale sarebbe forse appartenuto se fosse apparso nella sua pienezza benigna e rigenerante – all’inquietante assoggettamento a un trasmutare cieco e travolgente, è il suo banchettare troppo esclusivo con la morte, il suo non essere plasmabile né, per ora, controllabile dall’uomo, come lo era il fango sacro; non solo dunque riluce il suo passaggio coartato attraverso l’annientamento, dimensione ignorata dalla phusis, ma anche si manifesta il suo indugiare nel nulla, che familiarizza con lo sguardo solitario del taciturno viaggiatore sulle rovine incendiate, sul territorio sconsacrato. Ed ecco di nuovo lo scenario dinamico. Sotto il segno della devastazione e della solitudine, il nostro straniero, adempiendo misteriosi rituali, si accinge, forse, a ri-evocare la divinità esiliata dal fuoco annichilatore per attuare il proposito soprannaturale di creare non un semplice golem, esito forse non precluso che sarebbe stato probabilmente assecondato dalla collaborazione di phusis, ma l’uomo in tutte le sue fattezze.

311

Cfr. G. Laras, La mistica ebraica cit., pp. 97-98.

312

H. Zimmer, Miti e simboli dell’India, Milano, 1997, 140.

313

“Sette doppie b, g,d,k,p,r,t; il loro fondamento: vita, pace, sapienza, ricchezza, fertilità, grazia sovranità. Si usano

in due forme perché son doppie per l’alternanza..tenero contro duro, forte contro debole. Ecco le alternanze: vitamorte, pace-guerra, sapienza-stoltezza, ricchezza-povertà, fertilità-sterilità, grazia-bruttezza, sovranità-servitù.” (dal Sefer Yesirah, 37, in Mistica ebraica cit.,40). Indubbiamente anche questo passaggio echeggia il movimento di pensiero eracliteo del contrasto e dell’unità fra gli opposti. 314

E. Severino, op. ult.cit., 24. Peraltro tale ripetuta affermazione non è connessa al pensiero di Eraclito, e in

particolare al fuoco come arché o raffigurazione simbolica del divenire, né tanto meno può essere puntualmente riferibile a questa mia personale rielaborazione, che, nel porre il nulla, o meglio, l’annichilimento, come motore centrale dell’azione, scinde l’unità degli opposti, propria del pensiero presocratico, evidenziando la funzione solo divoratrice ed eversiva dell’elemento igneo quale emerge, a mio avviso, in questa fase del racconto. 315

Scrive Idel citando un Cabbalista dell’inizio del XIV secolo (David ben Avraham Ha-Lavan, in Cabbalà Nuove

Prospettive cit., 174): “...Quando un uomo pecca, provoca il ritorno degli attributi al nulla, al mondo primordiale, alla loro esistenza primaria e (allora) non emanano bontà nel mondo inferiore..”Quando tutte le potenze torneranno al nulla, allora l’””uno primordiale””, che è la causa di tutto, resterà nella sua unità nella “”profondità del nulla””, in un’unione armonica””.

117

La tensione romantica dell’Ulisse-Ra, che è parsa vivificare la prima parte del viaggio, ora si stempera e avvilisce in una caduta alchemica, in un’artefatta “opera al nero”, nella quale immerso, il nostro demiurgo, che non ha ancora l’umanità sofferta di Zénon 316 pur accingendosi a frequentare le frustrazioni di Sisifo317, si limita a cospirare con forze soprannaturali che dovrebbero assisterlo, chiamando affannosamente a raccolta i ferri del mestiere.

316

Si allude al personaggio protagonista del romanzo di M. Yourcenar, L’opera al nero, in Opere cit., pp. 579 ss.

317

Cfr. n. 104.

118

Si rappresenta dunque una vera e propria falsificazione della Cabbala, perché il delineato quadro dell’armamentario pratico architettato dal viaggiatore non è forse tecnicamente lacunoso, ma difetta dell’afflato emotivo e sentimentale che dovrebbe ispirare l’intenzione del mistico318. L’imitazione di Dio, che, perseguìta con l’obbedienza ai precetti, dovrebbe essere il motivo conduttore del retto operare, è degradata a un apprendistato di tecniche magiche, in cui predomina l’uso strumentale del Nome e sono di nuovo assenti la cooperazione etica e dunque la relazione autentica tra il polo umano e quello divino.

318

“La parola, l’intelletto, il percorso della ragione sono al centro della filosofia; l’emozione, il sentimento,

l’immaginazione tessono l’esperienza mistica.” (G. Laras, La mistica ebraica e il pensiero cabbalistico cit., 4).

119

Si assiste all’esibizione di un rigido formulario, in cui anche la volontà, orbata di qualsiasi afflato cosmico schopenaueriano e di possibili rapporti con Kèter, la Corona del mondo divino delle Sephirot319, è solo artificio, mentre la dimensione onirica non ha nulla in comune né con le negligenti emanazioni che, sfuggendo al controllo di un Dio assente e distratto, o dell’uomo dormiente, “producevano il mondo”, né con quell’espressione suprema della libertà dell’immaginario, pur offuscata dall’angoscia dell’illimitato, immersa nelle profondità abissali dell’estasi dell’ignoto, così familiare a quella “mistica laica”- se mi è concessa la definizione - della quale si avverte il respiro in certi passaggi dell’opera di Foucault e Bataille 320

.

Si smarrisce l’uomo taciturno nell’aporia di un ossimoro insuperabile, di un contraddittorio sogno volontario e in quanto tale impossibile.

319

Cfr. n. 221.

320

I temi qui sfiorati sono stati trattati, rispettivamente, nel cap.4 della II sezione e nel capitolo 2 della III sezione.

120

Così perdendosi, il protagonista disfa la stessa stoffa onirica, quel galoppante movimento dell’immaginazione tanto incondizionato e sfrenato che neppure esclude la possibilità di negare la differenza tra realtà e apparenza, incubo teoretico pur così angosciosamente vivo nella mente di Borges, da esortarlo all’inequivocabile epigrafe di questo racconto 321. Curioso conflitto tra personaggio e narratore! Negando alla luce onirica la materia di cui è fatta, il nostro Prometeo, che si incatena al suolo per disperatamente sognare322, si preclude l’esito sperato.

321

322

Libertà estrema e paradossalmente l’estrema negazione di essa, la prigionia nel sogno. L’allusione a Prometeo non si ispira solo alla nota funzione di benefattore dell’umanità e promotore

dell’incivilimento, in virtù del dono del fuoco, attribuita al figlio del titano Giapeto. Questa composita figura mitica, su cui si tornerà infra, è stata anche associata a una attività demiurgica. Si riteneva infatti che Prometeo avesse creato i primi uomini modellandoli con creta. E’ significativo, per la lettura che si propone, che questo personaggio fosse fratello del già citato Atlante. I due sono raffigurati insieme, mentre scontano la punizione loro inflitta dagli dèi, all’interno di una coppa laconica attribuita al pittore Arcesilao da Cerveteri (circa VI sec. A.C.), custodita nel Museo Etrusco Gregoriano di Città del Vaticano (cfr. Enciclopedia dell’Antichità Classica cit. voce Prometeo, 1170). Sul Prometeo demiurgo, cfr. Ovidio, Metamorfosi, I,76-88, Torino, 1979, 9: “..Nacque l’uomo, o fatto con divina semenza da quel grande artefice, principio di un mondo migliore, o plasmato dal figlio di Giapeto, a immagine degli dei che tutto regolano, impastando con acqua piovana la terra ancora recente, la quale, da poco separata dall’alto etere, ancora conservava qualche germe del cielo insieme a cui era nata..” Cfr. inoltre, autore Giorello, il recentissimo Prometeo, Ulisse, Gilgames, Milano, 2004.

121

Infatti come potrebbe l’uomo, formato a immagine e somiglianza di Dio, e dunque, in certi limiti, specchio della Divinità, tale nella sua essenza perché libera di creare 323, mutilarsi della più preziosa ed esclusiva scintilla donatagli all’abbrivio, rinnegando se stesso nell’obliarla, se proprio quella libertà, riflesso del mondo superno, lo distingue da tutte le altre creature? E per giunta, che senso ha tale suicida menomazione, quando il taciturno demiurgo ha deciso di perseguire un obiettivo straordinario, che presuppone, per così dire, l’essere non solo simile, ma in fondo uguale all’Ente Supremo? Nel decidere di dormire per sognare, e nell’obbligarsi a sognare un uomo per imporlo alla realtà, lo straniero ha in sostanza negato la sua stessa dimensione umana di creatura libera per eccellenza. Non poteva uscirne che uno scacco. Il nostro viaggiatore ha scelto la magia324 come strumento per irretire, orientandola per assecondare una causalità nemica di phusis, l’incessante catena di imposizioni, dalla quale dovrebbe scaturire l’esito auspicato. Di nuovo il rigido determinismo, attinto non alle leggi naturali, ma a quelle immaginarie del soprannaturale ha irrimediabilmente precluso ogni solidarietà tra polo umano e Divino 325. Anzi, in questo caso, ha pregiudicato anche la stessa naturalità dell’uomo: il nostro Ulisse, ora Prometeo incatenato al suolo come un forzato del sonno, dopo avere abbandonato la consolatoria terra madre per avventurarsi nel nuovo territorio ostile e straniante, ha rinunciato anche alla libertà nel disperato e impossibile tentativo di vincolare l’immaginazione. La magia diligentemente apprestata è circolare, ma la circolarità delle rovine non può che rivelarsi sterile e speculare. In astratto, se cioè l’evocazione fosse accompagnata da un reale afflato mistico, il simbolo potrebbe, aldilà del suo significato più ovvio, colmare di senso la rappresentazione. 323

“Lo tzèlem, inoltre, vale a dire l’”immagine”” di D-o che compare anche in Genesi I, 27 nell’espressione a Sua

immagine, indica ciò che è proprio di D-o, e propriamente di D-o è la Sua libertà: Egli infatti crea il mondo a partire dalla sua libertà. Dandogli la Sua immagine, pertanto D-o dà all’uomo il libero arbitrio..” (G. Laras, La mistica ebraica e il pensiero cabbalistico cit., 77). 324

Scrive Borges: ”La magia è la coronazione o l’incubo della causalità, non la sua contraddizione. Il miracolo è

tanto estraneo a quell’universo quanto a quello degli astronomi. Tutte le leggi naturali vi imperano, e altre immaginarie.” (L’arte narrativa e la magia, da Discussione cit., in Tutte le opere cit., Vol. 1, 360). 325

Cfr. le considerazioni sui rapporti, e soprattutto sulle distonie, tra il c.d. “determinismo” nell’opera di Borges e

l’analoga nozione nella mistica ebraica svolte nel cap.3 della II sezione, con l’ampia n. 95.

122

Le corrispondenze meramente semantiche sono infatti facilmente enucleabili. E’ richiamato indubbiamente il mandala, che visualizza un’esperienza di unione fra il divino e l’umano, tra macrocosmo e microcosmo, sia nell’iconografia indù326, sia, come ha rilevato Idel, nella mistica ebraica 327. In particolare il cerchio allude, se restringiamo l’orizzonte del nostro sguardo alla dottrina cabbalistica, l’ascensione dell’uomo inferiore e la sua possibile trasformazione in “uomo superiore”. Se però se ne volesse estendere la portata simbolica sino a comprendervi la visualizzazione del mandala tibetano328, allora la rappresentazione del macrocosmo si arricchirebbe di una connotazione dinamica, alludendo nuovamente, ma in senso più ampio, al divenire universale già fortemente implicato in questo scenario dall’ambigua presenza-assenza dell’elemento igneo329. 326

“Il mandala (cerchio) .. presenta un disegno assai complesso, costituito da uno o più cerchi concentrici.. Una

complessa simbologia suggerisce analogie fra microcosmo (l’individualità psicofisica) e macrocosmo (l’universo)..Il mandala è quindi nel medesimo tempo immagine dell’universo e strumento di concentrazione yoghica e di riunificazione con l’assoluto”. (S. Piano, Sanatana dharma, Milano, 1996, 249). 327

“Secondo uno dei discepoli di Abulafia..l’uomo è l’ultima delle entità composte ..ed è perciò rappresentato dalla

lettera yod che indica anche il numero dieci, considerato numero primario. Egli continua: ””Egli è la yod del mondo, che ha ricevuto il potere del tutto e comprende il tutto, come la yod nel regno delle Sefirot. Devi pertanto comprendere che non esiste differenza discernibile tra questa e quella yod…e questo è il segreto del versetto e a Lui vi riunirete: l’unione della yod alla yod per completare il cerchio.”” Ognuna delle due yod è esplicitamente definita metà del cerchio che si completa mediante l’ascensione dell’uomo inferiore e la sua trasformazione in uomo superiore… L’uomo non è dunque che una metà di un’unità più grande, il cerchio: per mezzo della sua ascesa può ricostruire tale unità..La metafora del cerchio, simbolo dell’unione dell’umano e del divino.. richiama alla mente la concezione junghiana del mandala come simbolo di individualizzazione..(M. Idel, Cabbalà Nuove Prospettive cit., 72). Lo stesso autore evidenzia anche un’altra possibile interpretazione (che d’altra parte echeggia quella raffigurata dal rapporto tra Shiva e Shakti nel sistema dualistico yoga-kundalini), legata alla divisione in semicerchi dell’essere sferico androgino primordiale originariamente unitario. A pag. 110 della citata monografia Idel ipotizza, nel valorizzare gli echi macrocosmici comuni ai due sistemi religiosi (e probabilmente riferendosi anche ai rapporti tra elemento maschile e femminile della divinità) la possibilità che tradizioni indù siano state assorbite dalla Cabbalà, forse grazie alla mediazione di materiale sufico. 328

329

Cfr. Enciclopedia dei simboli cit., voce Mandala, 286. Con qualche rilevante differenza rispetto alla nozione del divenire distruttivo e annichilatore che è sembrata

emergere poc’anzi nell’ermeneutica tentata sulla prima epifania del fuoco nel testo del racconto. Il mutamento cui 123

Credo che l’obiettivo dello straniero, astrattamente in linea con l’itinerario mistico tracciato da Idel, fosse in fondo quello di propiziare, sia pure in modo inadeguato, il personale congiungimento con la dimensione divina, quasi ad accondiscendere una pratica, per così dire, di promozione ed esaltazione di capacità demiurgiche, destinate negli auspici alla formazione di un essere completo in tutte le sue fattezze, e forse, e ancor meglio, alla palingenesi dell’uomo-padre in veste di nuovo dio, in grado di dare vita a un esito creativo straordinario altrimenti inibito. Ma non vi erano, non vi sono, i presupposti per la felice riuscita dell’unio mystica; il tentativo fallisce e il taciturno viaggiatore cade tragicamente nella ripetizione. Il mandala, rinnegando la propria vocazione teurgica, si rivela la ruota ciclica sterile speculare e dunque abominevole330 dell’eterno ritorno331. sembra alludere il mandala tibetano evoca infatti ciclicità e ripetizione, postulando quindi una dimensione cosmica nuova che sposta significativamente il senso della rappresentazione. 330

“..Uno degli eresiarchi di Uqbar aveva giudicato che gli specchi e la copula sono abominevoli, poiché

moltiplicano il numero degli uomini”. (J.L. Borges, Tlon, Uqbar, Orbis Tertius cit., in Finzioni cit., ed. Torino, 7). Borges tenta di confutare in un suo “saggio” la “dottrina” dell’eterno ritorno. Dopo averla definita (“Il numero di tutti gli atomi che compongono il mondo è, benché smisurato, finito; e perciò capace soltanto di un numero finito – sebbene anch’esso smisurato – di permutazioni. In un tempo infinito, il numero delle permutazioni possibili non può non essere raggiunto e l’universo deve per forza ripetersi. Di nuovo nascerai da un ventre, di nuovo crescerà il tuo scheletro, di nuovo arriverà questa pagina nelle tue mani uguali, di nuovo percorrerai tutte le ore fino all’ora della tua morte incredibile”) la contraddice: “Se l’universo consta di un numero infinito di termini, è rigorosamente capace di un numero infinito di combinazioni – e la necessità di un ritorno rimane sconfitta. Resta la sua mera possibilià, da calcolare uguale a zero.” (J.L. Borges, La dottrina dei cicli, da Storia dell’eternità, in Tutte le opere cit., Vol.1, pp. 568 e 571). 331

Non è possibile ora trattare esaurientemente un tema vastissimo che non ha cessato di affascinare, fino alle soglie

del nostro secolo, filosofi scienziati e mistici. Spesso i pensatori moderni che lo hanno affrontato – si pensi al più noto e ovvio, Nietzsche - ne hanno in parte innovato il senso, sottolineando aspetti legati alla drammaticità, da vivere peraltro con stoico amor fati, dell’abisso metafisico spalancato dal temuto ma forse desiderato Ritorno dell’Uguale. Tuttavia la “dottrina” (ma in definitiva direi che si tratta forse di “un movimento di pensiero”) troverebbe il proprio sostrato antropologico, ravvisato da M. Eliade (cfr. il citato Il mito dell’eterno ritorno; soprattutto, per tale aspetto, il primo capitolo Archetipo e ripetizione, pp. 13-53) nella mentalità arcaica; in particolare nella rituale e deliberata reiterazione da parte dell’uomo di atti - si riteneva - posti in essere dalla divinità nel mondo superno. Il sacerdote delegato alla liturgia disponeva di un luogo sacro in cui poteva essere legittimamente ri-evocato e replicato l’atto demiurgico celeste. I riti, generalmente legati alla celebrazione dell’inizio dell’anno nel calendario, a sua volta emblematica dell’origine assoluta, erano finalizzati in sostanza a colmare di significato eventi che acquisivano 124

Si tratta di deviazione forse anomala, ma non del tutto estranea neppure al pensiero ebraico 332

.

Il fuoco distruttore, le tracce di una possibile catastrofe cosmica e della tragica morte degli dèi, l’allusione alle rovine di un altro e non distante tempio propizio, sono i segni, per così dire, esteriori, che paiono suggerire questa lettura.

esistenza e realtà solo in virtù di tale liturgia reiterativa, di natura quindi ontologica. Dalla ripetizione si è dunque sviluppata, attraverso l’idea di rinnovamento dell’atto originario, la nozione della rigenerazione e circolarità del tempo, legata al ripetersi dei cicli naturali; da qui è sorto il convincimento o credenza del perpetuarsi dell’atto creativo, elaborato sino all’esito più radicale e inquietante, quello del tempo ciclico infinito che propone l’inaudito Ritorno dell’Uguale. D’altra parte tale “movimento di pensiero”, benché, secondo l’autore citato, abbia attinto il proprio fondamento nella ripetizione di un archetipo, risultando dunque fortemente connotato in senso antropologico, ha trovato vasta eco sia nel pensiero mistico filosofico indiano, sia nella filosofia occidentale presocratica e platonica, prima di celebrare il suo più compiuto sviluppo negli ambienti stoici. Da una parte nel pensiero indiano l’atto restaurativo dell’origine, affidato al sacrificio, ha anche una funzione specifica, che mi pare pertinente al brano in esame là dove si allude all’assassinio della divinità e al rituale rigenerativo abbozzato dallo “straniero” protagonista (sia pure, come osservato, senza un reale afflato mistico): rifare l’unità primordiale, quella che esisteva prima della creazione. Poiché Prajapati creò il cosmo con la sua propria sostanza, una volta che se ne fu privato, ebbe paura della morte e gli dèi gli portarono offerte per ricostituirlo e rianimarlo. In un modo affatto analogo, colui che ai nostri giorni celebra il sacrificio riproduce questa ricostituzione primordiale di Prajapati..ricostituisce la divinità fatta a pezzi.” (M. Eliade, op.ult.cit., 82). Dall’altra, nello stesso ambito speculativo, è sviluppata in modo approfondito la credenza nella creazione e distruzione periodica dell’universo, già presente nell’Atharva Veda, ritmata dal succedersi di cicli (il più breve è lo yuga) eternamente ripetuti, dai quali l’uomo, come è noto, può emanciparsi solo in virtù di particolari atti volti alla conquista della libertà spirituale. Viene quindi teorizzata la ciclicità del tempo, comune a induismo e buddismo, rappresentata da una ruota con dodici raggi. Nel pensiero greco l’idea del ciclo cosmico è presente nei presocratici Anassimandro ed Empedocle, mentre quella, più specifica e radicale, di Eterno Ritorno (“la ripresa periodica da parte di tutti gli esseri delle loro esistenze anteriori”, Eliade, op.ult.cit. pp. 118-119) affiora già nel pitagorismo primitivo. Particolarmente rilevante e influente è l’interpretazione platonica del mito dei cicli cosmici svilupppata nel Politico, in cui emergono anche la concezione, di origine iranica, delle catastrofi purificatrici del genere umano e il mito del paradiso primordiale. Tuttavia l’eterno ritorno nella sua comune accezione risulta ampiamente teorizzato soprattutto dagli stoici Zenone e Crisippo. Il loro pensiero, lo si sottolinea per la pertinenza con questo brano del racconto borgesiano, esalta anche la funzione purificatrice del “fuoco cosmico” che pone fine periodicamente al mondo per rinnovarlo (Eliade, op.ult.cit. 121). Cito 125

Soprattutto però l’esito ermeneutico prospettato trova fondamento, su un altro piano, nella negazione della vocazione umana, che lo straniero ha tradito sia affrettando l’abbandono della terra, originariamente sacra per natura, sia assecondando l’oscuro commercio, pur mascherato di falsa pietas religiosa, con incerti poteri occulti, pagati, senza guadagnare la drammaticità conflittuale e in un certo modo eroica che pervade Faust 333, con l’abdicazione completa alla libertà, fino a sacrificare persino l’immaginario onirico. Quale destino può dunque impetrare l’uomo taciturno?

alcuni frammenti significativi dei due stoici ricordati: “Inoltre (Zenone) ritiene che in tempi fissati dal destino l’intero cosmo finisca per combustione, ma che poi di nuovo si riorganizzi. Il fuoco primigenio è una specie di seme che possiede le strutture razionali di tutte le cose, e le cause di ciò che si genera nel presente, nel passato e nel futuro. L’interrelazione di queste cose altro non è che il destino, e la verità e la legge.” (Zenone Framm. A 98). “Crisippo.. fa questo ragionamento:””A queste condizioni, chiaramente nulla è impossibile, e anche noi, dopo la morte, trascorso un certo ciclo di tempo, torneremo ad assumere l’aspetto che ora abbiamo.”” (Crisippo Framm. B 623). “..Sono convinti che dopo la conflagrazione tutte queste realtà si costituiscono di nuovo nel cosmo, una per una, e che in quel cosmo la loro qualità tornerà ad essere quella di prima..” (Crisippo Framm. B 624). “Gli stoici affermano che i pianeti si ristabiliscono identici sia nelle dimensioni sia nella estensione nella medesima zona dello zodiaco che ciascuno occupava alle origini della costituzione del cosmo..Poi di bel nuovo il cosmo si riformerà così com’era all’origine..E torneranno ad esserci Socrate e Platone e ciascun uomo con i suoi amici e concittadini..le stesse cose si susseguiranno indefinitamente senza sosta..” (Crisippo Framm. B 625). “La maggior parte degli stoici ritiene che tale evoluzione ciclica non concerne solo gli essere mortali, ma anche quelli immortali..” (Crisippo Framm. B 626). Questi passi sono citati da Stoici antichi Tutti i frammenti, raccolti da Hans von Arnim, Milano, 2002, pp. 51 e 655-657. Infine, quanto alla rielaborazione moderna del mito, attraversata, come accennato, da un senso tragico e abissale del ritorno, cito (da La dottrina dei cicli cit., in Tutte le opere cit., Vol.1, 571) Nietzsche riscritto da Borges: “Scrive Nietzsche, verso l’autunno del 1883:””Questo lento ragno che si trascina nel chiaro di luna, e questa luce della luna (sottolineo che la luna è considerata da Eliade cifra simbolica per eccellenza del tempo ciclico, n.d.r.), e tu e io che bisbigliamo in un portone, bisbigliamo di eterne cose, non siamo già coincisi nel passato? E non ritorneremo un’altra volta sulla lunga strada, su quella lunga tremante strada, non ritorneremo eternamente? Così parlavo, e con voce sempre più bassa, perché mi impaurivano i miei pensieri e i miei sovrapensieri.”” 332

Indubbiamente la dottrina dei cicli mondiali o “schemittòth”, la cui fonte nel pensiero ebraico è rintracciabile nel

Trattato di Sahnedrin del Talmud, ed è poi sviluppata nel Sefer Temunà, evoca, come sottolinea Scholem, il processo perpetuo di rinnovata creazione del mondo (G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 571). Il tema della ciclicità è tuttavia reso ancor più complesso dalle connessioni tra shemittòth, lettere dell’alfabeto ebraico e Sephirot, legate ai sette giorni della creazione e rappresentative delle speculari sette unità cosmiche. Soprattutto emerge una particolare concezione mistica della Torah (op.ult.cit., 576). Nessuna schemittà può esprimere tutta la forza della Torah 126

Sterilità e ripetizione, perché il suo cammino procede senza che lo sguardo si volga mai verso l’Alterità, sia essa identificata con un’autentica dimensione divina, sia essa circoscritta al sereno riconoscimento del limite di sé, troppo presto disatteso rinunciando alla ierogamia con phusis abbandonata. Gli resta solo l’abominevole specchio, che rimanda alla deludente riproduzione del “doppio”334, ricacciando nell’eternità, e dunque negandola, l’Origine, e con essa la creazione, se è vero che la circolarità di un divenire annientatore e ridondante può interrompersi in virtù della redenzione, crocevia dell’inizio, della linearità e del senso della storia 335. primordiale, e ogni ciclo svela un aspetto particolare della rivelazione divina. Si profila anche una dimensione “cosmica” della credenza nella capacità demiurgica delle diverse forme di combinazioni delle lettere, che danno vita a svariate versioni dei testi sacri, talvolta caratterizzate da contenuti “antinomici”, in corrispondenza, per esempio, del ciclo storico dominato dalla Giustizia (infatti la Torah scritta, di natura fortemente prescrittiva, inizia con bet, lettera che esprime dualità e dunque suggerisce antinomia, circostanza questa che entrerà in gioco nelle spiegare i comportamenti paradossali di S. Szevi; cfr. G. Laras, La mistica ebraica cit., pp. 206-207)); tutto ciò benché non venga mai tradita la credenza, tale da consentire in ogni caso di marciare in linea con l’ortodossia, nell’esistenza del testo sacro primordiale, illeggibile per gli uomini, rivelato a Mosè sul Sinai. Senza entrare nella discussione sulla familiarità tra questa concezione e quelle esaminate nella precedente nota, riterrei che l’aspetto peculiare della dottrina non si debba cogliere tanto nella concezione della reiterazione delle cosmogonie (benché a conclusione dei sette cicli di 7000 anni si avrebbe il caos cui seguirebbe una nuova creazione), quanto in quella, più squisitamente “mistica”, delle diverse Torah periodiche, ispirate, governate e disvelate dalle Sephirot che “presidiano” le unità cosmiche in successione. 333

L’accostamento mi pare plausibile anche alla luce del già citato passaggio borgesiano nel brano in esame: “Questo

progetto magico aveva esaurito l’intero spazio della sua anima.” (J.L. Borges, Le rovine circolari cit. 660). 334

Paternità e specularità nella poetica di Borges sono spesso accomunati da un’identica accezione negativa, in quanto

fungono da odiosi moltiplicatori. Oltre al già citato passaggio del racconto Tlon, Uqbar, Orbis Tertius, in Storia universale dell’infamia (da Tutte le opere cit., Vol.1, 491), il nostro autore scrive: “La terra che abitiamo è un errore, una incompetente parodia. Gli specchi e la paternità sono abominevoli perché la moltiplicano e la affermano.” 335

La concezione lineare e orientata del tempo, che sarebbe tipica del pensiero ebraico e cristiano, spesso contrapposta

alla concezione circolare propria di altre culture, è un vero e proprio luogo comune della storiografia, tant’è che qualsiasi citazione sarebbe in difetto. In realtà si tratta forse di una semplificazione eccessiva, in quanto, a mio avviso, linearità e circolarità sembrano piuttosto connotare un “movimento di pensiero” e non tanto una nozione cosmologica, religiosa o filosofica. In ogni caso, proprio con riferimento alla mistica ebraica, scrive Eliade (Il mito dell’eterno ritorno cit., 107): “..Il messianismo conferisce loro (agli antichi scenari, n.d.r.) un valore nuovo, abolendo prima di tutto la loro possibilità di ripetizione ad infinitum. Quando verrà il Messia, il mondo sarà salvato una volta per tutte 127

Unicamente la libertà assoluta dell’immaginario accondiscende all’atto creativo, che si manifesta come tale con il riconoscimento della differenza e dell’Altro, sola reale opportunità di evitare, garantendo le condizioni di un’evoluzione autentica, lo sterile riprodursi del già esistente. L’atto demiurgico è felice solo se si assume il rischio dell’Origine, consentendo l’emergere del diverso dal Nulla336, e ciò può accadere se si rinuncia alla specularità, alla ripetizione dell’identico e dell’imago sui. In questo modo, evocando appunto il principio creativo dall’abisso della sua profonda originalità, si può forse interrompere la ciclicità dell’eterno ritorno.

e la storia cesserà di esistere.” Nel commentare il Sefer-ha Bahir Scholem accenna alla redenzione come via per porre fine alla trasmigrazione delle anime peccatrici (cfr. Le origini della Kabbalà cit., 219) e dunque come strumento interruttivo di un ciclo. 336

Nulla mistico, En Soph, in questo caso: dunque Principio, Aleph del mondo, ma inconoscibile e diverso dal mondo.

“Vi è un nulla di Dio che dà origine all’essere, e vi è un essere di Dio, che rappresenta il nulla. Il modo con cui le cose esistono nel nulla di Dio è uno: il modo con cui esse esistono nel suo essere è un altro. Ma l’uno come l’altro sono modalità dello stesso En – sof, che costituisce l’unità inseparata di qualche cosa e del nulla.” (G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 525). Curiosamente scrive Leopardi nello Zibaldone di pensieri (1340-1342 in Opere, T. II, Milano-Napoli, 1966, 292): “In somma il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla. Giacché nessuna cosa è assolutamente necessaria, cioè non v’è ragione assoluta perch’ella non possa non essere, o non essere in quel tal modo ec. E tutte le cose sono possibili, cioè non v’è ragione assoluta perché una cosa qualunque, non possa essere, o essere in questo o quel modo ec. E non v’è divario alcuno assoluto fra tutte le possibilità, né differenza assoluta fra tutte le bontà e perfezioni possibili. Vale a dire che un primo ed universale principio delle cose, o non esiste, né mai fu, o se esiste o esistè, non lo possiamo in niun modo conoscere, non avendo noi né potendo avere il menomo dato per giudicare delle cose avanti le cose, e conoscerle al di là del puro fatto reale.” Ciò che pare rilevante ai nostri fini non è tanto, né solo, la nozione del nulla, che anche nella concezione leopardiana ben potrebbe essere “creativo” (o comunque non escludere un “principio delle cose”) in modo analogo all’En Soph, bensì la pretesa di fare di Dio un Ente necessario antropomorficamente caratterizzato, su misura della ragione umana, dalla perfezione degli attributi. Già mi ero soffermato sul vizio, per così dire, epistemologico, di tale processo mentale nel trattare i rapporti fra la particolare accezione di determinismo elaborata dalla mistica e l’intelletto divino secondo la concezione di Borges, nel quadro di un abbozzato studio del legame causale fra gli eventi, prospettiva in linea generale comune alla Cabbala e al nostro autore (cfr. soprattutto le note da 88 a 95). Si vedrà infra, nel considerare i sogni “di natura dialettica” cui alluderà il prossimo brano del racconto, che di nuovo verrà in questione il problema del limite critico della ragione.

128

Incatenandosi al dominio del suolo sconsacrato per imporre un uomo alla realtà, Prometeo condanna sé e il mondo agli stessi vincoli che lo irretiscono, destinandolo e destinandosi a divenire e ritornare, per sempre il medesimo. 4) Lo scacco e il nuovo modo di sognare “Al principio i sogni furono caotici; poco dopo, di natura dialettica. Lo straniero si sognava nel centro di un anfiteatro circolare che era in qualche modo il tempio incendiato; nubi di alunni taciturni ne appesantivano i gradini; i volti degli ultimi si perdevano a molti secoli di distanza e ad una altezza stellare, ma erano del tutto precisi. L’uomo dettava lezioni di anatomia, di cosmografia, di magia; quei volti ascoltavano con ansietà e procuravano di rispondere con senno...Nel sogno, o più tardi, da sveglio, l’uomo considerava le risposte dei suoi fantasmi, non si lasciava ingannare dagli impostori...Cercava un’anima che meritasse di partecipare all’universo. Dopo nove o dieci notti comprese che non poteva sperare in quegli alunni che accettavano passivamente la sua dottrina, ma in quelli che arrischiavano, a volte, una contraddizione ragionevole. I primi, sebbene degni di amore e di buon affetto non potevano aspirare alla condizione di individuo... Un pomeriggio (ormai anche i pomeriggi erano tributari del sonno...) congedò per sempre il vasto collegio illusorio e restò con un solo alunno. Era un ragazzo taciturno, malinconico, discolo qualche volta, dai tratti affilati che ripetevano quelli del suo sognatore..Ma ecco, sopravvenne la catastrofe. Un giorno, l’uomo emerse dal sonno come da un deserto viscoso, guardò la luce vana d’un tramonto che prese per un’aurora, comprese di non aver sognato. Tutta quella notte e tutto il giorno seguente la lucidità intollerabile dell’insonnia si abbattè su di lui. Volle esplorare la selva, estenuarsi; ma potè appena, tra la cicuta, dormire pochi frammenti di sonno debole...Comprese che l’impegno di modellare la materia incoercibile e vertiginosa di cui si compongono i sogni è il più arduo che possa assumere un uomo, anche se penetri tutti gli enigmi dell’ordine superiore e inferiore...Comprese che un insuccesso iniziale era inevitabile. Giurò di dimenticare l’enorme allucinazione che l’aveva sviato al principio e cercò un altro metodo di lavoro..Non premeditò più di sognare, e quasi immediatamente gli riuscì di dormire..Le rare volte che sognò durante questo periodo, non fece attenzione ai suoi sogni. Per riprendere l’impresa aspettò che il disco della luna fosse perfetto. Allora, di sera, si purificò nelle acque del fiume, adorò gli dei planetari, pronunciò le sillabe lecite d’un nome poderoso e dormì. Quasi subito, sognò un cuore che palpitava. 337 337

J.L. Borges, Le rovine circolari cit., pp. 660-662. 129

Prima di riprodurre questo terzo brano del racconto, davvero non ne rammentavo tutti gli sviluppi. Se potesse collaborare con me l’ironia di Borges, favoleggerei di un’ermeneutica divinatoria non meno efficace dell’oniromanzia ebraica, della chiaroveggenza o dell’astrologia caldea. In effetti i miei modesti auspìci paiono confermati dagli eventi narrati. L’esito creativo, almeno per il momento, fallisce, e non potrebbe essere altrimenti. Tuttavia, abbandonata l’orgogliosa negazione di ogni rapporto, e sconfessata, in parte, la degradazione generata dall’uso strumentale e perverso della Cabbala, ora lo straniero pare dedicarsi alla propria crescita ed evoluzione. Il viaggiatore (non più taciturno, né straniero, ma significativamente uomo tout court, tutt’al più insonne) prima di spezzare le catene dell’imposizione e di riguadagnarsi il perduto amore della divinità liberando di nuovo l’immaginazione irretita - benché non sia ancora chiaro, non lo sarà mai, quale dio lo soccorra - da un lato pone i presupposti, dopo gli smarrimenti del suo peregrinare sterile, di una ri-umanizzazione intellettuale e affettiva, che da questo momento potrà favorirne il riscatto e lo scioglimento dai vincoli; dall’altro è però costretto a patire limiti, comunque insuperabili, intrinseci al proprio operare: la creazione, anche in caso di successo, non potrà esibire che certe caratteristiche, manifestamente rivelatrici dell’errato percorso compiuto. L’”opera al nero” produce dapprima solo sogni caotici. Ma qui si tratta del caos antitetico al cosmo, della confusione contrapposta all’armonia, dello stato indeterminato dell’universo antecedente, secondo il Timeo, all’atto demiurgico, non dell’apertura verso l’origine alla quale si è alluso evocando altrove la nozione. 338 La caoticità nega il ni-ente che precede il principio, e negandolo, preclude la creazione, che è tale solo ex nihilo, perché unicamente in questo modo l’atto iniziale fa uscire il diverso dal nulla assumendosi il rischio dell’Origine. Ma questo stato torbido e fluido, in cui l’immaginazione, sacrificata al dovere di imporre un ente alla realtà, e dunque costretta a rinnegare la propria vocazione autentica a immaginare, si è votata allo scacco, quasi subito subisce una trasformazione “logica” evolvendosi in dialettica339. Si comprende il senso di questo termine, quanto mai equivoco, solo avanzando nella lettura: l’uomo ora si sogna maestro circondato da una nube di allievi riuniti in un anfiteatro che 338

Cfr. n. 230.

339

“Al principio i sogni furono caotici; poco dopo di natura dialettica.” (Borges, op. ult. cit. 660).

130

ripete le rovine circolari del tempio; le sue lezioni suggeriscono il dialogo e la contraddizione. Solo chi brillerà sotto questo segno sarà degno di essere l’anima eletta. Dunque la dialettica, a un primo sguardo, sembra intesa da Borges senza particolari connotazioni filosofiche storicamente orientate, ma nella sua accezione forse più comune di serrato confronto nel quale agonisticamente si misurano posizioni contrastanti 340.

340

Cfr. voce Dialettica, in N. Abbagnano, Dizionario di filosofia cit., 276.

131

Tuttavia il testo ne rivela, poco più avanti, un senso diverso e più specifico. Questa disciplina non sembra interpretabile solo nella sua dimensione, per così dire, retorica 341, benché tale primo aspetto non sia affatto da trascurare, ma, nel riecheggiare soprattutto la teoretica platonica342, essa vale anche come principio di progressiva separazione del diverso dall’uguale, attraverso la dicotomia “discensiva” 343: gli ammirevoli ossequiosi alunni che, riproducendo fedelmente le dottrine del maestro, ripetono l’identico, per quanto amabili, non sono degni di esistenza, non possono aspirare alla condizione di individuo. Lo zelo non paga.

341

Genericamente da intendere, come arte della persuasione.

342

Tale connotazione emerge anche dal quadro complessivo delineato dal brano, indubbiamente evocatore, in virtù dei

particolari ambientali accennati, della grecità classica, qui intesa soprattutto quale patria eletta della funzione civilizzatrice della cultura. Il protagonista veste i panni del maestro ritrovando la parola della qual fino a ora era solo potenzialmente dotato, e lo fa per promuovere il dialogo con gli allievi. 343

La dialettica “discensiva” “parte dall’Idea suprema o da idee generali (da “”Metaidee””) e, procedendo per

divisione (procedimento diareitico), cioè distinguendo via via idee particolari contenute nelle generali sulla base delle articolazioni in cui si esplicano, giunge alle Idee che non includono in sé ulteriori Idee”. (G. Reale, Storia della filosofia greca e romana, Milano, 2004, Vol.3, 184). Trabattoni (in Platone, Roma, 1998, pp. 261-265) evidenzia soprattutto il ruolo della dialettica platonica nel porre in relazione fra loro le idee, in una prospettiva da cui traspare l’emergere del non-essere come “diverso” (che fa parte a pieno titolo dell’”essere”); ciò consente il superamento quindi delle aporie cui conduceva l’impossibilità di pensare il non essere come nulla. Mi pare infine importante, perché asseconda la prospettiva ermeneutica accennata in questo lavoro, la concezione moderna di dialettica elaborata da Gadamer in Verità e metodo (Milano, 1983, 420, trad. di G. Vattimo), secondo cui essa si attua “come domandare e rispondere, o meglio come passaggio di ogni sapere attraverso il domandare”.

132

Dunque sembra confermata una linea precisa nella narrazione, forse non immediatamente percepibile, ma, riterrei, plausibile dopo una più approfondita verifica: la reiterazione dell’identico nega ogni possibilità demiurgica. La tesi sembra radicale e si colloca addirittura al di qua dell’atto creativo. La questione si manifesta infatti sul piano ontologico: può avere concreta consistenza solo ciò che nasce da un processo di differenziazione. La dialettica, in tal senso, diventa un segno di realtà. Sotto un duplice profilo: da un lato è possibile, come si è visto, uscire dalla sterilità del ripetersi dell’uguale, solo riconoscendo l’Alterità, e dunque con il dialogo, unico rimedio all’abominio dello specchio; dall’altro, attraverso il confronto e la contrapposizione si pone il presupposto dell’individuazione, ossia del venire alla luce del diverso dall’identico, quello scintillio raro e brillante che, interrompendo la ciclicità speculare dell’eterno ritorno e del niente di nuovo sotto il sole 344, accondiscende alla creazione dal nulla. Ma questo, come sappiamo, non basterà.

344

Qoelet (1.9), nella versione di P. Sacchi, Milano, 1998, 118.

133

E’ noto che il nostro uomo, straniero già silenzioso in tempi che paiono lontani, ora eloquente maestro di una frotta di allievi erede della sua vocazione taciturna, pur avendo ritrovato, con la propria disposizione alla classica paidéia, un’importante espressione della obliata dimensione umana, non ha alcuna speranza di creare, perché, dopo avere rinunciato alla autentica unio mystica, si è consegnato a un mero ritualismo infecondo, al quale ha inutilmente sacrificato la libertà dell’immaginazione. La “mantica ermeneutica” ci aveva già informato dello scacco.

134

Il proteiforme Ra-Ulisse-Prometeo-Faust, oggi Socrate-Platone 345, che tra poco smarrirà il filo del sonno recuperandone ambigui frammenti tra la cicuta, dovrà riconoscere di avere sbagliato modo di procedere, compromettendo in tal modo l’esito felice dell’impresa. Ai fatali errori già compiuti in precedenza, un altro gravissimo ne aggiunge ora, rivelandosi, nonostante la crescita culturale, demiurgo poco studioso e perspicace.

345

Socrate è nome pertinente al procedere del personaggio, come ci ricorda P. D’Alessandro (in Orizzonti e forme cit.,

pp. 122-123), rievocando il termine pharmakon, da correlare a pharmakeus, mago e stregone, appellativo con cui Platone, nei dialoghi, è solito riferirsi a Socrate; questi, infatti, è un mago che agisce con raggiri e incantesimi. D’altra parte la magia intesa come tecnica dell’occulto, o come potere di controllo delle forze naturali, che si è spiegata nel brano precedente, qui si evolve nella magia del metodo filosofico stesso, che è anche pharmakon nel diverso – ma correlato e più confortante - senso di “rimedio”.

135

Inverte,

con

presuntuosa

tracotanza,

il

processo

creativo,

disattendendo

tutte

le

antropogonie conosciute. In nome di un idealismo astratto, anch’esso infecondo, dimentica che ogni atto di creazione deve conoscere fasi ritmi tempi, che nessun uomo può sognarsi di modificare. Prima è necessario modellare il corpo, in tutte le sue fattezze, poi solo in un secondo momento è possibile infondere l’anima, scintilla di Dio 346; questo è l’insegnamento universale. Invece prodiga il contrario. L’abissale esilio spazio-temporale degli alunni (che insieme, significativamente, formano una “nuvola”), i cui volti (peraltro, del tutto precisi) si perdono a molti secoli di distanza e ad un’altezza stellare, suggerisce che il taciturno Ra, sorpreso, come si ricorderà, all’inizio del suo viaggio dall’incagliamento nel fango sacro che aveva frenato lo slancio del mistico itinerario nella notte unanime, in un certo senso è ora riuscito, trascorse le spaventose traversie delle rovine circolari, a disincantare l’imbarcazione, intraprendendo, sempre nella luce onirica, una “seconda navigazione 347” verso il mondo superno.

346

“Quando il Santo, sia Egli benedetto, ebbe in animo di creare il mondo, Gli piacque formare tutte le anime che nei

giorni futuri sarebbero state assegnate ai figli dell’uomo.” (Zohar, II, 96b, in Zohar cit., 56). “Tre sono i nomi con i quali viene chiamata l’anima dell’uomo: nefes (spirito vitale), ruah (spirito) e nesamah (anima interiore o superanima)..Nesamah ascende subito alla sede che le spetta, al luogo da cui è sortita, ed è apposta per lei che la luce s’accende, per risplendere lassù. Essa non scende mai più nel mondo dabbasso. In lei si consuma l’uno che combina ogni direzione, l’alto e il basso.” (Zohar, II, 141b-142a, in op.ult.cit., pp. 60-61). L’origine divina dell’anima dell’uomo è convincimento espresso già da Isacco il Cieco: “Per spiegare Gen. 2,7: “”Gli soffiò nel naso un alito vitale”, Isacco usa la seguente parabola:” Colui che soffia in un otre, vi mette il proprio fiato.” Dobbiamo dunque ammettere che egli vedeva il pneuma umano nato direttamente dal mondo delle emanazioni: era per lui il divino nell’uomo e questo divino non aveva bisogno di essere attualizzato.” G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 360. 347

L’analogia di questo nuovo itinerario onirico del protagonista con la celebre “seconda navigazione” platonica (cfr.

Fedone, 99 D, in Tutti gli scritti cit., 107) la metafora con cui il filosofo ateniese aveva alluso alla necessità di lasciare la prima facile – ma sterile – navigazione compiuta col vento a favore (evocatrice degli sforzi infecondi dei filosofi della natura), per intarprendere un più faticoso percorso con le sole forze proprie, con i remi, per andare alla scoperta del sovrasensibile, si manifesta sotto due profili: da un lato pure il nostro straniero muove verso l’iperuranio, e dall’altro anch’egli ha abbandonato, come si rammenterà, l’ospitale madreterra, la presocratica phusis, dove il viaggio da compiere era probabilmente meno accidentato.

136

Quale senso ha questo ritorno al passato? All’inizio del racconto, quando nulla era pregiudicato e né io né il mio compagno ancora sapevamo verso quale destino ci saremmo imbarcati, pur sconcertati dall’epigrafe angosciosa della nostra storia – e se smettesse di sognare? – eravamo tuttavia confortati dalla possibilità, subito disattesa, di percorrere l’itinerario zohariano delle anime, il segreto viaggio notturno verso la sorgente divina 348.

348

“Il sogno viene dall’alto, quando le anime sono uscite dai corpi e sono ascese ciascuna secondo la propria via.

Quanti gradi appartengono al segreto del sogno! E tutti sono racchiusi nel mistero della saggezza.” (Zohar, I, 183 a).

137

Il sogno era originario e spalancava trame infinite. L’immaginazione poteva folleggiare libera, la storia narrata non era ancora alle nostre spalle e non poteva in alcun modo ridimensionare le attese di un viaggio che ancora doveva inventarsi 349. Ero salito sulla canoa di bambù, insieme al taciturno cosmonauta e al nostro autore; ognuno di noi scrutava orizzonti diversi. Mi illudevo di poter orientare la scorribanda onirica verso il mondo superno, che mi aveva attratto prima di imbarcarmi350, ma non potevo sapere dell’incagliamento che avrebbe costretto l’inquieto equipaggio a ripensare il percorso. Ho seguito tutto il vagabondare del proteiforme Ra, lamentando talvolta, non diversamente dal coro di una tragedia, la perdita irrimediabile di qualche occasione di felicità possibile.

349

Scrive P. Valery, citato da A. Mazzarella in La potenza del falso, Roma, 2004, 149: “Appena usciamo dall’istante,

appena cerchiamo di ingrandire ed estendere la nostra presenza fuori di noi stessi, la nostra libertà ci esaurisce”. Così commenta Mazzarella: ”La favola è l’unico linguaggio che possiede i requisiti per raffigurare ciò che non si oppone a niente, che non rifiuta niente, che non assomiglia a niente. Coincide appieno…con il modo della pura possibilità”. 350

La sezione che precede l’analisi testuale si chiude, come forse si ricordeà, con un cenno al tema del sogno mistico

nello Zohar.

138

Senza nostalgie per Itaca-Penelope, Ulisse, adescato dalle sirene dello sconsacrato Centro del mondo351, aveva lasciato la terra madre già pronta a donargli consolazione, congiurando le forze oscure del nulla, ma votandosi così all’insuccesso irreparabile. Non ho potuto fare altro che registrarne le angoscie, censirne le metamorfosi, biasimarne gli errori, lodarne i progressi. Ora anche questa nuova peregrinazione pare nascere sotto il segno della perdizione e del disorientamento. La condanna è già stata pronunciata. La dialettica che suggerisce il principio della differenziazione e che, attraverso la seconda navigazione, consente di accedere al mondo delle idee, racconta solo una bellissima favola umana. Può orientare, non creare. Socrate-Platone, ormai avvicendato dall’eternamente deluso Sisifo, crede di essersi lasciato alle spalle il nulla dell’infernale circolarità delle rovine incendiate, l’abominio dell’eterno ritorno, ma, benché bene addestrato nella scienza umana, pur forzando senza risparmio i remi della nave, che a fatica procede senza la spinta del pneuma – ruach, può solo imparare a pensare correttamente, a leggere meglio la realtà 352; non gli è certo concessa l’hybris estrema della creazione dell’uomo ex nihilo. Questo viaggio nel mondo superno, dove le anime, o le “idee” – ma ciò, mi pare, non cambia la sostanza - attendono di interpolare la realtà353, ha un senso solo accettandone i limiti. Essi consistono nella coscienza della domanda, e non nella pretesa della risposta. 351

Non avrebbe potuto fare altrimenti:”..Per difendersi dalle sirene Ulisse si empì le orecchie di cera e si fece

incatenare all’albero maestro. Qualcosa di simile avrebbero potuto fare beninteso da sempre tutti i viaggiatori, tranne quelli che le sirene adescavano già da lontano, ma in tutto il mondo si sapeva che ciò era assolutamente inutile. Il canto delle sirene penetrava dappertutto, e la passione dei sedotti avrebbe spezzato altro che catene e alberi maestri!” (F. Kafka, Il silenzio delle sirene, da Tutti i racconti, Milano, 1979, 388). Ecco che Kafka, legando l’eroe alle catene dell’albero maestro, agevola la metamorfosi da Ulisse a Prometeo.. 352

Credo si possa fondatamente ritenere che una delle principali eredità della metafisica di Platone, forse il contributo

maggiore al progresso del pensiero occidentale, si debba individuare nell’avere cominciato quel poderoso lavorio di critica dei limiti della ragione umana che troverà in Kant il più illustre interprete. In questo senso alla dialettica platonica tenderei ad attribuire un senso schiettamente metodologico, assegnandole la funzione di verifica del corretto pensare. Corollario di ciò è naturalmente la costruzione dell’arte della domanda, base indiscutibile, se non contenuto principale, della filosofia teoretica. Cfr. Natoli, Parole della filosfia cit., 117, nonché n. 262. 353

“...Quei volti ascoltavano con ansietà e procuravano di rispondere con senno, come se indovinassero l’importanza

dell’esame, che avrebbe riscattato uno di loro dalla condizione di vana apparenza, e l’avrebbe interpolato nel mondo reale.” (J.L. Borges, Le rovine circolari cit., 660).

139

Con la ragione dialettica lo straniero - che forse qui non è più tale, perché sembra prevalere il nostro autore nella sua patria metafisica: è infatti lo scettico occidentale che scala questo limbo354 - riscopre la propria dimensione umana, il pensiero, che lo rende democratico sovrano - ma non assoluto prevaricatore - di phusis. L’Oriente, avevo accennato355, traccia una mappa; l’itinerario da percorrere è illuminato dalla volta celeste che guida l’anima del Giusto. L’occidente può solo, e più modestamente, scoprire l’arte del corretto chiedere, del limpido pensare; ciò è già moltissimo, quando non travalica. Lo slancio verso l’aldilà iperuranico può assecondare l’orientamento del pellegrino, ma non può donargli quel mondo, la cui sostanza non può essere posseduta o manipolata. Le idee esistono per essere contemplate, non sottomesse, sono oggetto di fede, non di dominio; altri le può forse governare, ad altri spetta dare loro vita, se sono solo vane parvenze, alitando spirito vitale nella materia 356. Il mistico naturalmente sa, o crede di sapere più del filosofo, chi è Altri.

354

Si è già sottolineato altrove che un tòpos del pensiero di Borges è proprio l’idealismo filosofico (non solo nel

pensiero di Platone) che in questo brano mi pare in effetti evocato sia per l’esplicito riferimento alla dialettica, sia per l’allusione alle anime in un iperaruranio dimentico delle umane dimensioni spazio temporali. Il racconto fantastico in cui tale predilezione emerge forse in modo più evidente è il citato Tlon, Uqbar, Orbis Tertius (in Tutte le opere cit., Vol.1, pp. 623 ss). Cfr. anche nota 58. Peraltro tali concezioni non sono affatto estranee al pensiero ebraico. Scrive G. Laras (in La mistica ebraica cit., 36): “Nella descrizione che ne dà il Libro di Enoch e che trova eco nel commento di Rashì ad un passo talmudico (Yevamoth 63 b), nel Pargod o velo cosmico divisorio troverebbero albergo tutte le anime create fin dall’origine e destinate a scendere nei corpi che via via verranno formati nonché le immagini, nel loro stato preesistenziale, di tutte le cose presenti sin dall’inizio nel mondo celeste.” 355

Cfr. parte finale del cap. 2) della III sezione e inizio del tracciato ermeneutico di questo racconto.

356

Meno ancora può spettare all’uomo il compito di scegliere le anime nel Pargod se si fa propria la concezione

secondo cui, essendo però le Sefiròt emanazioni di D-o, si può pensare che le anime (ci si riferisce in particolare alla Neshamà, n.d.r.) finiscano per identificarsi con lo stesso D-o” (G. Laras, La mistica ebraica cit., 100). Appare infatti preclusa all’uomo la facoltà di entrare direttamente nel processo intimo della Divnità.

140

Lo scettico357 dell’Occidente, Socrate - Platone negli slanci, Sisifo nelle ripetute delusioni, presume, sostituendosi al vero Demiurgo, di poter scegliere l’anima eletta (o di esserne scelto, ma ciò è speculare, e dunque indifferente), predilige l’idealismo astratto, l’intangibile perfezione dei modelli eterni, cifra della presunta superiorità del mondo spirituale sulla materia358, forse del cielo maschio sulla terra femmina 359, trascurando però che noi siamo anche, e forse prima ancora di essere altro, carne e sangue; apre la strada al malinteso di fondo del pensiero filosofico dei futuri millenni – l’irriducibile dicotomia psychè - soma, la degradazione del corpo360, con l’inevitabile corollario del dualismo gnostico – e lo fa in fondo nel nome di una paradossale tracotanza, dimentico che il mondo inferiore è davvero il sublime riflesso di quello superno, obliando che il macroantropo circoscrive l’universo 361 e che l’Antico dei Giorni non vuole sconcertare l’uomo evanescendo nell’inconoscibile En Soph,

357

Scettico in quanto occupato a porre limiti critici alle potenzialità esplorative della ragione e scettico perché

incapace, fino a questo punto del suo viaggio, di abbandonarsi all’immaginazione. Dunque scettico perchè essenzialmente vincolato. 358

Raramente, mi pare, nel pur variegato pensiero ebraico, le istanze intellettualistiche hanno prevalso su quelle che

hanno più equilibratamente risolto il rapporto fra materia e forma. Con riferimento ai Cabbalisti spagnoli, scrive Scholem: “Il gruppo di Gerona in ogni caso professava l’opinione rappresentata dalla filosofia di Averroè, secondo la quale le forme, per la loro origine, sono inerenti alla hylé. Dio non ha fatto nascere le forme separatamente dalla materia senza forme, per unirvele solamente in seguito; egli le ha ““tratte”” dalla Chokhmà-hylé, in seno alla quale esse preesistevano in potenza, come essenze ancora indifferenziate. Bohu è un prodotto dello sviluppo di tòhu e non un principio interamente separato.” (G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., pp. 531-532). 359

“E’ solo con Eva che l’uomo e la donna si “”guardano in faccia”” (Adamo conobbe Eva, sua moglie – Gen. IV, 1)

e, così, si attuano l’unione tra il cielo e la terra, e l’aiuto tra l’uomo e la donna” (G. Laras, La mistica ebraica cit., 80). 360

Come è noto, la sessualità nell’ebraismo – che pure esalta il valore della castità – è considerata un valore

estremamente positivo: “Ricordiamo infatti che per lo Zohàr il matrimonio ha un valore fondamentale e addirittura è assurto a santo mistero, dato che l’unione uomo – donna riproduce simbolicamente il momento più alto della realtà celeste, e cioè l’unione di Dio con la Shekhinà. La sessualità, perciò, non è disprezzata né condannata, ma viene considerata, nell’unione coniugale, come mezzo per avvicinarsi all’infinito mistero di Dio.” (G. Laras, La mistica ebraica cit., 95). 361

Cfr. il citato Midrash Avkir (n. 269).

141

ma ha un Trono, una Grandezza, una Maestà, un Volto 362; la presenza divina è in mezzo a noi per condividere l’esilio, il corpo dell’uomo è il simultaneo coevo riflesso del tempo e del mondo363, scolpito nella materialità delle lettere dell’alfabeto sacro, antecedente ogni Origine.

362

Sono ben noti, grazie agli studi di Scholem, i rapporti, agli albori della Cabbala provenzale, tra la mistica antica

della Merkavà e l’origine della dottrina delle Sephiròt. In particolare grandi difficoltà si legano al delicatissimo passaggio dall’ambito e dalla fenomenologia “negativa” della Causa delle Cause a quella del demiurgo Jotzèr Bereshìth, la cui figura appare in un primo tempo ancora caratterizzata in senso antropomorfico, legandosi alle descrizioni dello Shi’ùr Qomà. Se da un lato emerge la preoccupazione di attentare, con scissioni indebite, il principio dell’Unità Divina, o di immaginare (ereticamente, secondo Maimonide) una “corporeità” dell’Ente Supremo, dall’altro, e parallelamente, Avrahm ben Davìd e i primi Cabbalisti provenzali non rimuovono affatto l’antropomorfismo originario, pur preoccupandosi di attribuire al demiurgo non la natura di Divinità separata, ma quella di una sua forma di manifestazione. Dunque si ha l’impressione che sia esigenza dell’ebraismo coltivare, almeno nella fase iniziale della mistica medievale, la possibilità di attribuire fattezze umane, sia pure iperboliche, a un Dio personale verso il quale indirizzare la preghiera e con il quale dialogare, nell’impossibilità, tale per definizione, di raggiungere En Soph. “Prima di tutto abbiamo qui, su un nuovo piano, una continuazione della vecchia idea del Shi’ùr Qomà e della mistica della Merkavà in cui si parla di un corpo della Shekhinà e di un Creatore del Principio, Jotzèr Bereshìth assiso sul trono e dotato, in un certo senso, in questa apparizione, di un numero e di una misura....Ed è di lui che parla il versetto [Gen. I, 26]: “”Facciamo l’uomo a nostra immagine””. (G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., pp. 261 e 263). Anche la Cabbala luriana pone in evidenza, attraverso le configurazioni assunte dall’Adàm Qadmòn nella teoria del Tiqqùn, e dopo la rottura dei vasi, gli aspetti antropomorfici legati alla concezione del Dio personale. Scrive Scholem: “Le luci delle Sefiròth, provenienti dall’Adàm Qadmòn, si organizzarono così in nuove configurazioni, e in ciascuna si rifletteva l’Adàm Qadmòn secondo certe forme definite e quindi ogni Sefirà si trasformò da un generale attributo di Dio in ciò che i cabbalisti chiamano Partzùf, “”volto della Divinità””. Con ciò essi intendono dire che tutte le potenze prima latenti in una Sefirà sono ora sottoposte sempre più all’influenza di un principio formativo e trasformate in modo che in ognuna di esse appare l’intera personalità di Dio, ma in ciascuna secondo una ben determinata espressione. Il Dio che ora si manifesta è il Dio vivente della religione, meta dei cabbalisti, che rappresenta molto di più del nascosto En Sof: è Dio che si realizza come persona compiuta nel processo del Tiqqùn.” (G. Scholem, Le grandi correnti cit., 278). 363

In questo senso, mi pare orientato, come si vedrà infra, il Sefer Yetsirà.

142

Se così stanno le cose, non solo l’esito demiurgico, qualunque esso sia, è negato - e ciò era stato da tempo vaticinato – ma anche l’errato modo di procedere del maestro di dialettica non può sortire in ogni caso che il nulla, ossia la ripetizione dell’identico. L’anima eletta infatti non smentisce l’abominio dello specchio, è l’imago sui del creatore, il ritorno di sé, è, come scrive Borges, un ragazzo taciturno, melanconico, discolo qualche volta, dai tratti affilati che ripetono quelli del suo sognatore 364. L’ironia del destino beffardo sfugge all’orgogliosa tenerezza dello snaturato padre. Eppure ben poteva immaginarlo il prigioniero del sogno, l’asessuato Narciso 365, che le rovine circolari dell’Eterno Ritorno avrebbero prodotto solo sterili sconcertanti riflessi.

364

J.L. Borges, Le rovine circolari cit., 661.

365

Il celeberrimo mito di Narciso ha nella grecità la sua origine, nelle Metamorfosi di Ovidio la sua poesia, nella

psicoanalisi la sua celebrazione. Nel censirne il mito classico, Robert Graves (ne I miti greci, Milano, 2004, 259 ss.) rammenta il vaticinio di Tiresia alla madre, la ninfa Liriope: Narciso vivrà fino a tarda età, purché non conosca mai se stesso (si se non noverit). Chiunque se ne sarebbe innamorato, ma senza successo, perché era caparbiamente geloso della sua bellezza. Tra gli spasimanti di Narciso vi era Eco, che non poteva più servirsi della propria voce se non per ripetere le ultime parole gridate da qualcun altro. Dopo che Narciso l’ebbe respinta bruscamente, Eco trascorse il resto della vita lamentando la sua sorte, finché, come racconta Ovidio, di lei rimase solo la voce. Il poeta latino racconta la morte del giovane, che giunge dopo il riconoscimento di sé e dell’amore per l’immagine di sé riflessa in una limpida fonte. Nella traduzione di F. Bernini delle Metamorfosi, III, Vol. 1, Bologna, 1974, pp. 123 ss., si legge: “ Era una limpida fonte dall’acque argentine non tocca mai da pastori…Qui riposò dalla caccia e dal caldo il fanciullo Narciso….ma mentre vuole spegnere la sete, altra sete gli cresce, perché nel bere, sorpreso dal volto riflesso nell’onda, arde d’un’ombra, dell’ombra di sé..Senza saperlo, desidera sé; mentre loda è lodato, chiede ed è chiesto; e nel tempo medesimo brucia ed accende…- Perché mai credulo tenti di prendere un’ombra fugace inutilmente?..Perché fanciulletto divino, perché m’inganni? Io sono te, me ne accorgo: l’immagine mia non m’inganna. Io di me brucio d’amore ed accendo la fiamma che m’arde… Ma già mi rapisce il dolore le forze e non mi resta da vivere molto: mi spengo fanciullo! Ma non mi duole la morte con cui lascerò le mie pene. Oh, lui che adoro, vivesse più a lungo. Ma noi moriremo, esaleremo lo spirito insieme in un solo sospiro!” (Libera scelta, vv. 408-475). Non solo la specularità, il ritorno dell’identico, la negazione dell’alterità, ma anche la consistenza umbratile o fantasmatica, la fittizietà, insomma, del prodotto creativo, peraltro incompiuto, del nostro protagonista mi pare che giustifichino pure questo accostamento. Così come il riconoscimento dell’errore, con la conseguente caduta del sogno di immortalità del demiurgo. Ho scritto Narciso “asessuato”, alludendo all’esito ripetitivo del tentativo demiurgico – su cui si tornerà infra - che pare punitivo delle modalità, incentrate sull’autogenerazione, con esclusione del ruolo femminile materno, del rituale genetico osservato.

143

L’immagine speculare di sé è l’esito massimo, non perfettibile, di un lavorio spossante e avvilente. E’ la negazione della creatività come atto originario. Quel Narciso dello spirito, padrone della retorica e della dialettica, tecnica di navigazione pur così incline ad avvicinare l’Isola delle Idee Eterne e viatico irrinunciabile del pellegrinaggio nell’equoreo mondo superno delle anime che veleggiano nell’azzurrare tremulo dell’ansiosa attesa di una vita mendicata366,

ha

solo

abbozzato

la

superflua

ripetizione

dell’identico,

sottraendosi

all’evoluzione creatrice per rivivere l’angoscia dell’incagliamento. Il mondo in alto si è spogliato del suo manto luminoso367; negato dal nostro demiurgo l’alimento dell’obbedienza, all’ordine superiore368 sono mancate le forze, e questo collasso lo ha, per così dire, esiliato in basso369. Non dà slancio né orientamento alla superbia, e la sua caduta dall’iperuranio favoleggia di un rozzo specchio370 affiorante nella fanghiglia, forse anch’esso una Qelipà371, un detrito dello squilibrio cosmico, l’argentato involucro, blasfemo e abominevole, che 366

“Quei volti ascoltavano con ansietà e procuravano di rispondere con senno, come se indovinassero l’importanza

di quell’esame, che avrebbe riscattato uno di loro dalla condizione di vana apparenza..” (J.L. Borges, op. ult.cit., 661). 367

“Nella speculazione del Shi’ur Qomà, la figura mistica assisa sul trono appare come quella del Creatore

dell’Universo (Jotzèr Bereshìth); dal suo mantello cosmico, di cui si parla in diverse riprese, irradiano gli astri e i firmamenti” (G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 29). 368

J.L. Borges, Le rovine circolari cit., 661.

Mopsik, in Les grands textes cit. 591, scrive: “Qui accomplit mes commandements, Je le lui compte pour mérite

369

comme s’il me faisait, ainsi qu’il est marqué. Il est temps de faire YHWH (Ps., 119 ,126) ; si l’on peut dire, qui endommage l’en bas, c’est comme s’il endommageait l’en haut et c’est à ce sujet qu’on a dit: il diminue la ressemblance ». 370

L’interpretazione proposta attribuisce a questo “rozzo specchio” (inesistente nel racconto), già annunciato, con

qualche arbitrio, a chiusura della precedente sezione, il valore emblematico di artificio umano; esso è “rozzo” in quanto solo pallida e insufficiente evocazione del rapporto mistico, esaltato soprattutto nello Zohar, tra mondo in alto e mondo in basso, in cui la specularità (che non nega - ed anzi è, per così dire, effetto della cooperazione tra i due ambiti della creazione) assume ben altro spessore e significato. L’abominio della ripetizione del doppio secondo questa mia prospettazione (peraltro, come già sottolineato, è lo stesso Borges che, pur affascinato dall’oggetto, ha accostato i termini “specchio” e “abominevole”) e la conseguente inevitabile sterilità dell’atto creativo derivano proprio dalla degradazione dell’unio mystica sostanzialmente disattesa nell’approccio meramente “magico” del rito inscenato dal protagonista nel brano di testo precedente.

144

restituisce a Narciso il ridondante doppio, riempiendo di sé il creatore illuso da gravidanza sterile e infausta: ma ecco sopravvenne la catastrofe, la luce vana di un tramonto372, che spalanca gli occhi del nostro dormiente obbligandolo all’intollerabile insonnia. Lo scenario, nel perdurare della ciclicità che annuncia, echeggia il paesaggio, attraversato da rosseggianti bagliori, che ha preceduto l’Origine del nostro racconto 373: “Questo374 è piuttosto il dono desolato dell’Occidente scettico, sul quale irrimediabilmente planano, come aironi spossati da lento e improduttivo girovagare, ombre grandiose e fiacche, proiezioni esagerate di raggi immiseriti dall’afflizione delle cose ultime e declinanti. Tali cose, pigre e assenti, inscenano un ridondante tramonto fluviale, riflesso per caso e in parte da un rozzo specchio abbandonato nella fanghiglia. Ma a che serve lo specchio, se accanto, immobile, una pozza d’acqua se la sbriga meglio nel rifrangere il mondo, per quanto già rassegnata essa sia alla notte oscura? 371

Come è noto, nella Cabbala luriana, dalla rottura dei vasi seguìta alla irruzione della luce divina nello spazio

primordiale, dramma cosmico incardinatosi dopo la contrazione divina originaria, emergono le scorie, i gusci, forse preesistenti alla catastrofe seguita allo tsim-tsum, ossia le Kelipoth, le forze del male che trattengono le scintille divine e solo con il processo di separazione, restaurazione e redenzione possono essere debellate: talvolta, come emerge nel Sabbatianesimo, anche in virtù di condotte antinomiche e paradossali, dalle quali può trasparire l’ossimorica “santità del peccato”. (Cfr. G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica cit., pp. 274-281 e 317-321). Secondo Laras (La mistica ebraica cit., pp. 98-99) “le kelippòt fuoriescono nel processo di travasamento (da En Soph nelle Sephiròt, n.d.r.) e precipitano nel mondo divenendo il male. In questo senso, allora, il male metafisico sarebbe in Dio e sorgerebbe durante il processo di effusione dell’En Sof nelle Sefiròt, cioè durante la stessa creazione del mondo. Il male che così cade nel mondo, però, è di per sé cosa morta e solo il peccato dell’uomo lo fa esistere, lo rende presente”. Alla luce di quest’ultima prospettiva, l’interpretazione che propongo fa evidentemente dello “specchio -buccia” un’occasione di caduta, che peraltro il protagonista del racconto, ora Narciso, non ha evitato. 372

J.L. Borges, Le rovine circolari cit., 661. La catastrofe echeggia indubbiamente quella che annuncia, sia nel sistema

indù, sia nel Sefer Temunà, la palingenesi del tempo ciclico. La luce vana del tramonto mi riconduce all’Origine, anzi al momento che la precede, di questa analisi testuale. 373

Il tentativo, annunciato all’inizio della prima sezione di questo lavoro, di “mimare” talvolta con la scrittura il

(presunto) movimento di pensiero dell’autore – d’altra parte non dissimile dall’andamento dinamico e reiterativo che pare spesso connotare il simbolismo mistico (cfr. M. Idel, La Cabbalà Nuove Prospettive cit., 213) - autorizza forse questo ritorno all’origine del commento testuale anche sul piano, per così dire, stilistico-narrativo. 374

Alla fine della precedente sezione “questo” si riferiva al sogno-viaggio di Borges; anche qui stiamo seguendo quel

viaggio, quel sogno.

145

“Nessuno lo vide sbarcare nella notte unanime, nessuno vide la canoa di bambù incagliarsi nel fango sacro; ma pochi giorni dopo, nessuno ignorava che l’uomo taciturno veniva dal Sud e che la sua patria era uno degli infiniti villaggi che sono a monte del fiume, nel fianco violento della montagna, dove l’idioma zend non è contaminato dal greco, e dove la lebbra è infrequente.” Narciso, come Sisifo, carico di un futuro insostenibile e frustrante, è rotolato nuovamente nel suo passato travolto dal peso insopportabile della disillusa hubris; è ritornato all’origine, al punto in cui gli sarà permesso di conoscere finalmente se stesso e i suoi limiti 375. In questo territorio, dove non è più concesso il sonno, deve rinunciare al sogno di immortalità. Sembra giunto il momento del ripensamento, quello del possibile ricongiungimento con phusis troppo affrettatamente abbandonata. Quella semplice pozza d’acqua che, senza ricorrere ad artifici376, “se la sbriga meglio dello specchio nel rifrangere il mondo”, forse evoca qualcosa, uno scenario già intravisto (perché non vi è niente di nuovo sotto il sole) 377. Potrà illuminare Narciso, affranto dall’insonnia, distrutto dalla lucidità abbacinante? Sordo alla passione di Eco - ma non poteva essere altrimenti, la sfortunata ninfa è anch’essa prigioniera dell’incessante riflesso acustico che ne pregiudica, negandola, la Parola Differente, forse il solo talismano capace di liberare l’amato dall’incantesimo dello specchio ponendo fine al ripetersi dell’identico378 - il nostro eroe, raffinato dalla dialettica ma frustrato dall’insuccesso (la creazione dell’imago sui è fallita), ora è sveglio, pensa e comprende che l’impegno di modellare la materia incoercibile e vertiginosa di cui si compongono i sogni è il più arduo che possa assumere un uomo, anche se penetri tutti gli enigmi dell’ordine 375

“Si se non noverit” (Ovidio, Metamorfosi, III, 348, in op.cit., 120).

376

S’intende, come illustrato più ampiamente in n. 364, l’artificio della magia dello specchio, la tecnica manipolatoria,

il manufatto che sostituendosi alla naturalità induce all’errore il nostro sognatore. Qui lo specchio, oggetto emblematico del mondo fantastico di Borges è cifra simbolica della magia sterile, negazione della mistica autentica e della creativitità, in quanto mero riproduttore dell’immagine di sé e materializzazione, per così dire, del ritorno ciclico. 377

Alludo allo scenario del primo brano del racconto, quando l’uomo taciturno, che coltiva l’ambizione di creare un

essere umano completo e animato, e non il mero golem, abbandona troppo presto la terra madre per avventurarsi verso le rovine circolari. 378

Il mito di Eco, alludendo al reiterarsi dell’immagine acustica, come Narciso esemplifica il riverbero dell’immagine

visiva, è in sostanza una variante, il “sonoro” della frustrazione amorosa. (Cfr. l’ampio commento alla n. 364).

146

superiore e inferiore....379 Rinuncia dunque a plasmare l’indomabile luce onirica, che non gli favorisce il sigillo, l’ambito lasciapassare380 - possibile complice, se la mistica non gli fosse ostile, dell’evasione dal cerchio abominevole della ripetizione incessante, segno cifrato, questa, della rinuncia alla libertà dell’immaginario - spezza le catene che lo vincolano, prigionero della selva381 insidiata dalla mortale cicuta, e, riconosciuta, con intenerito accento, la propria immagine382, desiste, assecondando il vaticinio di Tiresia 383, dal sogno di immortalità. Appresa la geografia dei mondi, ma non ancora il sod384, in virtù della scienza non inutilmente acquisita finalmente concepisce l’insufficienza di sè ritornando all’Alterità. In quanto “uomo solo” non può creare, gli è chiaro. Deve mutare, rinnovandolo radicalmente, il “metodo di lavoro”. In definitiva, il protagonista, qui figura del nostro autore 385, deve trovare 379

J.L. Borges, Le rovine circolari cit., 661.

380

Nelle visioni del Carro proprie dell’antica mistica della Merkavà, come è noto l’ascesa ai Palazzi e al Trono era

ostacolata dagli arconti, i custodi delle porte delle sale celesti; solo in virtù di un sigillo, di un lasciapassare, il mistico poteva progredire nel viaggio verso il mondo superno (Cfr. G. Scholem, Le grandi correnti cit. pp. 58 ss.). Alludo qui alla impossibilità per il nostro pellegrino di avanzare nel suo percorso, eludendone la circolarità, in assenza di un reale afflato mistico, carenza più volte sottolineata. 381

Un’altra celeberrima selva oscura della nostra letteratura evoca una possibile circolarità (o meglio, una frustrazione

“da rotolamento in basso” evocatrice del ritorno e dell’inanità, propria dell’eterna vanità dello sforzo di Sisifo) che rende stentato l’esordio del viaggio dantesco: “E qual è quei che volentieri acquista,/ e giugne ‘l tempo che perder lo face,/ che ‘n tutti i suoi pensier piange e s’attrista,/ tal mi fece la bestia senza pace,/ che venendomi ‘ncontro, a poco a poco / mi ripigneva là dove ‘l sol tace./ Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,/ dinanzi a li occhi mi si fu offerto/ chi per lungo silenzio parea fioco. (D. Alighieri, La Divina Commedia cit., Inferno, I, 55 - 64, 6). L’orrore del Ritorno è evitato a Dante dal soccorso di Virgilio; la possibile interruzione della ciclicità sarà ottenuta – forse – nel nostro racconto dal riconoscimento dei propri limiti da parte del viaggiatore. 382

“Era un ragazzo taciturno, melanconico, discolo qualche volta, dai tratti affilati che ripetevano quelli del suo

sognatore”. (J.L. Borges, op.ult. cit., 661). 383

Cfr. n 364.

384

Come tale intenderei il mistero mistico, ciò che sta oltre il limite della ragione.

385

Si è più volte sottolineato, anche nelle precedenti sezioni, che il vero limite discriminante, sinora emerso, nel

rapporto tra il pensiero di Borges e la mistica ebraica è la negazione, da parte dello scrittore argentino, di una relazione autentica e profonda tra mondo divino e umano. 147

la cooperazione con l’Altro, con la Natura, con la Divinità, che si è finora negata. Occorrono pentimento e purificazione, retta intenzione e giusta umiltà. Per sperare di raggiungere l’esito sperato – creare l’uomo, non l’infimo golem e neppure la sola anima, vana parvenza se priva di un corpo – gli è imposto, come a un personaggio di fiaba, di superare almeno tre prove386. L’itinerario ora è conquistare la libertà perduta riscattando l’immaginazione sacrificata, la felicità naturale abbandonata, ricongiungendosi con phusis, e infine la Parola vera387 recuperando l’unio mystica. E questo l’uomo può fare solo riguadagnando interamente la propria integrità e praticando una reale e intensa Devequt con il Divino. Quando Narciso, disilluso nell’attimo dell’autocoscienza che ha dissolto la sua ombra, ha preso atto dei naturali limiti umani, riabilitando la ragione e attribuendo alla dialettica il senso che le è proprio - non illusoriamente creativo, ma proficuamente critico - l’eroe dai mille volti388 ha compiuto il primo passo. Ora, dopo avere rinunciato a premeditare fantasmi onirici, così uccidendoli, spezzate le catene che lo vincolavano, può finalmente dormire il sonno del Giusto.

386

Una certa ermeneutica potrebbe suggerire che questa è una fiaba di metamorfosi, ripetizioni e prove. In questo caso

gioca anche la c.d. “legge del tre”, elemento di struttura che spesso entra nella composizione del racconto, specie nella tradizione orale. (Cfr. G. Gatto, La fiaba nella tradizione orale, Milano, 2004, 37). 387

Sembra pertinente questa citazione di Azriel (in G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 514): “Colui che prega

deve respingere tutto ciò che dà fastidio e che disturba e ricondurre la parola alla sua origine – letteralmente: al suo nulla”. Secondo l’interpretazione proposta, e più volta richiamata anche nel commento dei brani di testo precedenti, il nulla mistico al quale si allude è, usando l’espressione di Scholem (in op. ult. cit., 520), ciò da cui “procede tutto ciò che ha virtù creatrice”. E’ il sostrato della trasformazione di ogni cosa, e, in senso simbolico, è assimilabile alla Sephirà del Rigore e della delimitazione, che rappresenta “la forza di cambiare che risiede nelle cose”. Questo “nulla” originario, perno della creazione, è dunque cosa diversa dal “nulla” dell’annichilimento, il fuoco distruttore evocato nel commentare il brano precedente (cfr.,p.e. n. 308). 388

Alludo, per ragioni che spero risultino chiare dal testo, al poliedrico monomito evocato da J. Campbell nel suo libro

intitolato, appunto, L’eroe dai mille volti (Milano, 1984).

148

Presto il sogno ritorna, e non è più sortilegio. E’ di nuovo l’incoartata espressione del movimento

autentico

dell’immaginario389,

la

profondità

abissale

dell’ignoto

che

si

accompagna al tremore mistico. Nel darsi alla follia dell’illimitato, nel penetrare nuovamente nel territorio in cui realtà e immaginazione (sogno o son desto?) possono non differire, Prometeo, liberato e liberatore, sprofonda nel Caos dell’apertura originaria 390, dove si accinge ad alimentare le caldaie inabissate dell’incagliata nave cosmica con il combustibile divino della Creatività dal Nulla, emancipando i fuochisti ormai logorati dal giogo infernale dell’Eterno Ritorno. Per riuscire nel tentativo immane, si dedica all’ascesi per un mese e recupera, dopo la Libertà, la Grazia. Infrange il rozzo specchio della sua sterilità, si china verso la miserabile pozza d’acqua che lì accanto, nella fanghiglia, Natura gli offre391; si purifica, favorito dalla luna, pronuncia il Nome e nel sogno subito trova il Cuore palpitante. Tranquillità

della

sera,

acque

immobili,

cuore

e

luna:

quale

paesaggio

elegiaco

improvvisamente si distende, quale provvidenziale suonatore di pianoforte, epifania così improbabile nella radura, compone le note sorprendentemente delicate di un romantico Notturno? Il nuovo rituale disvela enfasi d’amore. Dialogare con la natura, un tempo - che pare lontano nella menzogna letteraria abbandonata dall’eroe dantesco dell’avventura392, è il primo gesto di riconciliazione. Dimentica dei torti, phusis è nuovamente materna e accogliente. Ulisse, uscito dal cerchio che lo irretiva, sfuggito all’opera al nero di Circe e ai sortilegi delle metamorfosi crudeli, è ritornato a questa notturna Itaca - Ogigia più saggio. Non solo lo brucia il desiderio di amore, ma vuole generare, e può farlo, ormai gli è chiaro, unendosi al divino393. Questa è la notte del prodigio.

389

Cfr. il citato M. Foucault, Il sogno, 90.

390

Sul Caos nel senso di “originario” proposto da S. Natoli, cfr. n. 230.

391

Mi sono permesso di mutare il fiume purificatore, cui si riferisce Borges nel racconto, con l’inventata pozza

d’acqua già contrapposta allo specchio, prospettata precedentemente come chiave intepretativa del ritorno dal narcisismo alla natura e all’Alterità. 392

Mi riferisco alla favola dell’abbandono della terra madre da parte dell’Ulisse attratto dalle rovine circolari (cfr.

cap.2 di questa sezione).

149

E’ ben consapevole che da solo nulla può – Narciso glielo vieta - e da tempo sapeva, avrebbe dovuto sapere, che la terra madre, familiare figura della donna e della fecondità, era condizione forse necessaria, ma non sufficiente a garantire l’esito felice dell’atto demiurgico394. Lo scenario mistico che gli si offre pare però, finalmente, quello pertinente. La natura femminile, la Divinità, l’uomo possono abbracciarsi uno intelligendi actu per compiere il gesto creativo con la cooperazione di tutti gli elementi evocati 395, che si fondono mirabilmente in questo favoloso Notturno, dove la magia sterile delle rovine circolari è ascesa a malìa naturale e incanto.

393

Sottolinea Idel come nella Cabbala estatica l’unione mistica più “intima” consista nell’”invasione” dell’uomo da

parte di Dio. In questa prospettiva il Cabbalista veste il ruolo di partner femminile della divinità. (Cfr. M. Idel, Cabbalà Nuove Prospettive, 185). 394

Nel commentare il primo brano del racconto si era prospettato il rapporto tra il protagonista della vicenda e phusis,

emblematicamente raffigurata dalla terra madre che, provocando l’incagliamento dell’imbarcazione, aveva in un primo tempo attratto l’uomo. Si era tuttavia favoleggiato, con qualche armatura argomentativa, che se il viaggio fosse terminato in quel luogo, probabilmente nel primordiale paesaggio edenico il nostro demiurgo, pur in armonia con l’Essere e rassegnato ai propri limiti umani, avrebbe, al più, dato vita all’informe golem, sacrificando ogni possibilità di coronare la sua ben più elevata ambizione. 395

Mi pare che a questo punto il protagonista del racconto stia in effetti prodigandosi in una reale unio mystica

fondata sul perfezionamento spirituale, sulla cooperazione con la Divinità, che qui aleggia più che altrove (e soprattutto, per così dire, in forma meno “perversa”), e sulla comunione tra intelletto individuale e intelletto agente, preceduta da una fase di isolamento, preparazione e purificazione, che evoca indubbiamente qualche procedimento di Cabbala estatica, in particolare quello “antropocentrico” della Via dei Nomi di Abulafia. Sembra infatti accostabile a questo il ritualismo inscenato dal nostro personaggio. In tale senso, scrive M. Idel: “Abulafia non specula sulla natura di queste Sefirot, ma solo sul mezzo e sulla tecnica per mezzo della quale il cabbalista, usando combinazioni, formule e meditando sulle lettere, può attrarre le emanazioni o lettere divine....L’unione può essere conseguita attirando sul mistico la spiritualità dall’alto, piuttosto che attraverso l’ascesa di quest’ultimo al Divino” (M. Idel, Cabbalà Nuove Prosp. cit., 144). Sottolineo però subito che le finalità perseguite dal demiurgo del racconto vanno ovviamente ben al di là del perfezionamento spirituale, sommum bonum dell’esperienza mistica estatica.

150

Per raggiungere il cuore396, la sfera in cui sono racchiuse le trentadue meravigliose vie della Saggezza397, cifra simbolica dell’organismo umano nel procedimento di creazione globale e onnipervasivo che comprende anche il Mondo (“adorò gli dei planetari”398) e il Tempo, prima Prometeo il demiurgo deve ristabilire, attraverso la sizigìa del maschio e della femmina, la condizione preliminare dell’esistenza di tutti gli universi, restaurando lo stato androgino originale399. E questo può farlo alla luce morbida della luna 400 che rischiara la radura illuminando la figlia del Re, la divina Shekhinà, l’elemento femminile, madre di ogni

396

“Quasi subito, sognò un cuore che palpitava” (J.L. Borges, Le rovine circolari cit., 662).

397

Il concetto di “cuore”, simbolo su cui s’impernia lo scenario rappresentato connotandolo decisamente nel senso

della mistica ebraica (elemento forse addirittura evocato da un Borges consapevole, in quanto, lo si ricorderà, il nostro autore è a conoscenza del Sefer Yetsirà), come sottolinea Scholem, pur richiamato (o meglio, “mitizzato”) dal Sefer Bahir, proviene dal Libro della Creazione: “..La regione del Dragone, Teli, che rappresenta il mondo, la regione della sfera visibile, che rappresenta il tempo e la regione del “”cuore”” che rappresenta l’organismo umano”. (G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 97-99). Ancora: “Il cuore s’alimenta dei settantadue (cifra che evoca il numero dei Nomi di Dio, n.d.r.) sorveglianti ed arconti e da parte sua li alimenta; ma nello stesso tempo lo si interpreta come parola simbolo: è allora una sfera chiamata “”cuore””, dove sono rinchiuse le trentadue meravigliose vie della Sophia, conformemente al valore numerico rappresentato dalla parola ebriaca lev, cuore.” (op.ult.cit., 98). Sul complesso simbolismo di cuore-lev, cfr. anche G. Busi, Simboli del pensiero ebraico cit., 142: “A partire dal medioevo, i cabbalisti ricorsero all’immagine del cuore per descrivere l’irradiarsi della forza divina nella creazione. La trasformazione dell’organo umano in un simbolo cosmico trasse origine dalla corrispondenza tra il valore numerico della parola lev (lb, 32) e le trentadue vie della sapienza..Poiché le lettere usate per indicare il numero trentadue sono, in ebraico, le stesse che designano il cuore, il passaggio tra la nozione dinamica delle vie della sapienza e quella di un cuore pulsante del creato apparve del tutto naturale…Mediante un’altra corrispondenza numerica, il Bahir colega inoltre lev e kavod, la gloria divina, facendo così del cuore la fonte della luce superna.” 398

J.L. Borges, Le rovine circolari cit., 662.

399

Il tema dell’elemento femminile della Divinità è uno dei più complessi e controversi dell’ebraismo e naturalmente

non può essere approfondito qui. In ogni caso, per chiarire il senso dell’ermeneutica proposta, basti accennare alcune considerazioni di Scholem sul Sefer Bahir. In questo testo mistico emerge la “...sizigìa del maschio e della femmina.. (come) condizione preliminare d’esistenza di tutti i mondi. Evocando l’immagine primordiale della femmina di cui parla il Cantico dei Cantici 6,10: “”Chi è che appare come l’aurora, ecc.?””, il par. 117 ( del Sefer Bahir, n.d.r.) constata che: “”la donna è stata presa dall’uomo, perché sarebbe impossibile al mondo inferiore esistere senza il principio femminile.” (G. Scholem, Le origini della Cabbalà cit., 177). La femminilità non è evocata solo da una Sephirah. Nella sua accezione materna, come evocazione di Mondo al quale Tutto ritornerà, sembra puntuale il 151

vivente401, la sposa - che è anche il cuore di Dio 402 - alla quale l’uomo può unirsi dopo la purificazione nella pozza delle acque primordiali del Bohu403. E finalmente, compiuto il rito divino, a Prometeo il creatore sarà concesso di pronunciare le parole mistiche, in cui si concatenano l’inizio e la fine della Torah, potrà evocare il Principio, l’Aleph, il nome poderoso – eppure così etereo - per formare il cuore – LB - della creazione, nient’altro che la stessa Volontà divina 404, il suo Nulla. Il demiurgo in estasi ha un’infinita ambizione: benché la prima lettura paia negarla, suggerendo la più facile interpretazione opposta, egli non è affatto interessato a dare vita a riferimento di Scholem a Binà, nella sua qualità di terzo eone del complesso universo simbolico del Sefer Bahìr (G. Scholem, le origini della Kabbalà cit., pp. 169 – 170). Ma, come è noto, la donna è figura della Shekhinà, che sta all’Ovest, mentre, secondo il par. 104 del Sefer ha-Bahir, il settimo logos è l’Est del mondo, emblematico del Giusto e del fallo; “L’est e l’Ovest, il Giusto e la Shekhinà formano una sizigia”. (Scholem, op. ult. cit., 192). Non è superfluo neppure rilevare, sottolineando così la straordinaria polisemia dell’armamentario simbolico evocato da Borges in questo brano, che la Sheckinà è anche il “Cuore mistico” (op. ult. cit., 199. “Il Giusto è dunque un canale attraverso il quale i ruscelli e le correnti delle forze superiori scendono nel mare della Sheckinà, o “”cuore mistico””). Inoltre “i due principi del maschile e del femminile s’uniscono attraverso l’azione intermediaria della bet all’inizio dela prima parola della Torà.” (Op.ult.cit. 211). Ciò implica quindi anche un aggancio, su cui ci si soffermerà infra, tra la dottrina della sizigia e la teoria cabbalistica del linguaggio. 400

Sulla valenza della luna come cifra simbolica del femminile, derivante tanto dalla sua qualità di corpo celeste che

riceve passivamente la luce solare, quanto dall’analogia col ciclo mensile (cfr. voce Luna, in Enciclopedia dei Simboli cit., 277) è quasi superfluo richiamare l’attenzione. Peraltro anche la mistica ebraica evoca questo astro in una sequenza di elementi che richiamano la donna e la presenza divina – elemento femminile nelle Sephiròth (Shekhinà), ancora una volta censiti da Scholem con riferimento al Sefer ha-Bahir: “Tre o quattro concetti, soprattutto, che superano di gran lunga tutto ciò che si trova nelle più antiche parti di Aggadà, sono identificati nel Bahir: la sposa, la figlia del re, o sempicemente la figlia, la Shekhinà e la Congregazione d’Israele. Conviene aggiungervi il simbolismo della terra (che concepisce), della luna (senza luce propria, ma che riceve la sua luce dal sole), dell’etròg, frutto dell’albero della bellezza nel mazzo festivo ..considerato come elemento femminile e del dattero, come immagine del pudendum muliebre. I quattro primi concetti sono indifferentemente usati nel Bahir ed è ciò che vi è di completamente nuovo”. (G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 203). Sull’accostamente fra la luna e la Sefirà Malkut, cfr. anche G. Busi (Qabbalah visiva, Torino, 2005, 179). Sotto altro profilo l’avvicendarsi del ciclo lunare è, di nuovo, cifra simbolica della ripetizione del tempo, evocando il momento della catastrofe nel novilunio e della rigenerazione col plenilunio. (Cfr. P. Spinicci, in Lezioni sul tempo, la memoria, il racconto, Milano, 2004, 292). 401

G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 429. Inoltre G. Laras (in La mistica ebraica cit., 91): “In particolare

l’ultima delle Sefiròt, la Shekhinà, costituirebbe l’elemento femminile della divinità, e viene vista come la sposa, la figlia, la regina della divinità e la madre di tutti i viventi.” 152

un ovvio e deludente golem formulando a gran voce, come un ciarlatano in fiera, dubbi mantra ispirati al Sefer Yetsirà405. A che sarebbe valsa, altrimenti, tanta abnegazione? Può forse la placida radura evocata ospitare un mercato così dozzinale? La magia, dopo la conquista della ragion critica che può favorire, in virtù del discernimento dialettico, il faticoso recupero delle scintille prigioniere nello specchio fatato di Narciso 406 – lo sfavillio che ha rivelato il volto sconsolato ma partecipe di Sisifo 407 - ha lasciato il posto alla mistica. . 402

“La sposa è pure il “”cuore”” di Dio, di cui il valore numerico LB, cuore, che corrisponde a 32, porta alle

trentadue vie nascoste della Sophia, per mezzo delle quali il mondo è stato creato” (G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 210). 403

L’ermeneutica che prospetto individua in questa favoleggiata pozza d’acqua un’accentuata polisemia. Da un lato,

come si è già visto, essa è stata contrapposta all’emblema dello specchio come espressione di naturalità primordiale in antitesi all’artificio e alla ripetizione negatrice della creatività. Ora si propone sia come evocatrice dell’Origine, tema non sconosciuto alla mistica ebraica (cfr. il sistema cosmogonico dello pseudo-Chaj, richiamato da Scholem nel citato Le origini della Kabbalà, 420; secondo questo manoscritto le acque primordiali, bohu, scorrono, con l’etere, dallo pneuma che sta al Principio), sia come elemento di purificazione. A tale proposito, nell’antica teurgia della captazione accennata da Idel (in Cabbalà Nuove Prospettive cit., pp. 161-162) la purificazione è descritta, negli appunti del Cabbalista Yohanan Alemanno, come pulizia rituale del corpo che preludendo al mutamento interiore e all’elevazione spirituale, predispone l’uomo all’unione mistica, consentendo, insieme alla lettura magica della Torah, di “captare” lo spirito divino. Acque delle purificazioni e dell’oblio: ricordo quelle celebri del Lete e dell’Eunoè nel Paradiso Terrestre, ultimo viatico di Dante prima del terzo e più ambizioso viaggio: “Io ritornai da la santissima onda / rifatto sì come piante novelle / rinovellate di novelle fronde, / puro e disposto a salire a le stelle.” (D. Alighieri, Purgatorio, XXXIII, 142-145, in La Divina Commedia cit., 581). Infine già si è accennato al rapporto fra le acque primordiali e la Torah, che emerge forse per la prima volta nel Sefer Bahìr (G. Scholem, le Origini della Kabbalà cit., 171). 404

Il “cuore”, oltre a essere come si è visto (cfr.n. 396) la cifra simbolica dell’organismo umano nel Sefer Yetsirà, è

anche strettamente legato alla mistica delle lettere, aspetto che torna in evidenza nella Cabbala di Gerona. Scrive Scholem (in Le origini della Kabbalà cit., 555): “Le dieci sefiròth sono per Nachmanide l’””interiorità”” delle lettere. Il principio e la fine della Torà si concatenano, secondo un gioco di parole mistiche, per formare il cuore LB, della Creazione; secondo il suo significato in termini di mistica dei numeri questa parola indica pure le trentadue vie della Saggezza, che agiscono in essa. Ora, questo cuore non è altro che la volontà stessa di Dio, che mantiene la creazione finché vi esercita la sua azione. Poiché diviene il Nulla, BL, appena la Volontà inverte la sua direzione e riconduce tutte le cose alla loro essenzialità primitiva.. Ma questo ritorno delle cose al loro proprietario è anche il ritorno al puro nulla mistico.” Interessante la puntualizzazione, a tale proposito, di Busi (in Simboli del pensiero 153

La riconciliazione con il femminile è anche comunione con il Dio finora assente. Il fango sacro abbandonato era, sì, la terra della fecondità, ma il nostro viaggio, quando la canoa s’incagliò la prima volta, viveva la sua incerta aurora, la ricerca del divino era appena incominciata e in quell’antica età dell’oro anche la divinità, come l’uomo, era forse ancora bambina. Sfuggiva al pellegrino che Dio e la natura madre di ogni vivente non sono separabili408. Il nostro eroe si era lanciato invano oltre le Colonne d’Ercole nell’avventura delle rovine circolari per tentare di unire con l’artificio magico ciò che per essenza era inscindibile; così facendo, con il volto perplesso di Sisifo, faticava inutilmente, perché da temerario concepiva la blasfema divisione nel mondo superno.

ebraico cit., pp. 142-143): “Grazie al gioco di corrispondenze tra lev e la negazione ebraica bal, il cuore, in quanto principio della costruzione divina, diviene qui anche l’origine della decostruzione, ovvero di quella decreazione che, secondo la qabbalah, cancellerà il mondo alla fine dell’era attuale.” 405

Come è noto, la “combinazione tra magia e studio della Jetzirà ha portato presso i Chassidìm tedeschi allo

sviluppo dell’idea del Golem, cioè della creazione di un uomo magico attuabile con l’applicazione di procedimenti indicati nel Sefer Jetzirà”. (G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 129.) Nel Sefer ha-Shem El’azar di Worms, trattando la combinazione del Tetragramma con tutte le lettere dell’alfabeto, affronta il tema della creazione del golem. “Egli afferma che tutte le lettere dell’alfabeto devono essere pronunciate sopra ogni membro del golem, combinate con una lettera del Tetragramma e vocalizzate secondo le sei vocali” (M. Idel, Cabbalà Nuove Prospettive cit., 104). 406

La dialettica appresa dal nostro eroe – nella sua manifestazione « platonica » - sul piano della mistica ben può

operare come possibile criterio di cernita delle scintille divine (mitzotzòt) tra le kelippòt (cfr. G. Laras, La mistica ebraica cit., 235). 407

Cancellato Narciso, resta il disilluso e frustrato Sisifo, la cui umanità dolente segna tuttavia un progresso etico del

personaggio itinerante. 408

Come è noto, nella sistemazione “canonica” definitiva – attribuibile allo Zohar – delle Sephirot, Malkut-Sheckinà è

la decima, allusiva della presenza divina nel mondo inferiore.

154

Dopo il riconoscimento dell’Alterità - Eva-Sheckinà - finora ignorata da Prometeo liberato, il divino e l’umano convergono e insieme si prodigano per fare Dio 409, il cuore della sposa mistica. Finalmente Ulisse ritrova la parola eloquente e originaria, unica e infinitamente significativa 410, e pone il Principio dell’Uomo, del Tempo e del Mondo.

409

Cfr. C. Mopsik, in Les grands textes cit. 591: « Qui accomplit mes commandements, Je le lui compte pour mérite

comme s’il me faisait, ainsi qu’il est marqué. Il est temps de faire YHWH (Ps., 119 ,126) ». 410

“Non c’è sulla terra una sola pagina, una sola parola che lo sia (semplice, n.d.r.), perché tutte quante postulano

l’universo, il cui più noto attributo è la complessità.” (J.L. Borges, Prologo de Il manoscritto di Brodie, in Tutte le opere cit., Vol. 2, 369).

155

L’estasi d’amore è la sizigìa celebrata questa notte con il ministero della seconda lettera bet, che è la prima della Torah411. La femminilità si eterna in Dio ed è presenza consolatrice. Il sorriso di Eva, Rachele, Ruth, Giuditta412 è la luce riflessa dalla luna che illumina la scena. Queste presenze evocano la divinità e, insieme, un altro modo di produrre la vita, la via insegnata da phusis, che allontana definitivamente Narciso. La creazione, per interrompere la sterile ripetizione dell’identico, è dunque la riproduzione attraverso il riconoscimento e la conoscenza dell’Altro 413 e non il mero rispecchiamento di sé. Ma è anche vero che la pulsione alla generazione naturale del figlio si accompagna necessariamente a un progetto più vasto, al ritorno del sogno cosmico originario 414. Non è possibile dare vita all’”uomo figlio” senza generare anche il mondo e con il mondo il tempo ex nihilo: questo è il senso dell’atto creativo al quale insieme a Borges e al sognatore ci accingiamo ad assistere 415. 411

Nel commentare il par. 36) del Sefer Bahir, Scholem rileva che “i due principi del maschile e del femminile

s’uniscono attraverso la parola intermediaria della bet, all’inizio della prima parola della Torà (Bereschit, n.d.r.) Cfr. Le origini della Kabbalà cit., 211. 412

Anche le eroine bibliche hanno una loro “storia mistica”, ed anzi cabbalistica in senso stretto. Basti pensare a Ruth,

cui lo Zohar dedica una parte del corpo principale. Come scrive C. Mopsick nell’introduzione al volume Le Zohar – Livre de Ruth, Verdier, 1987, 11, l’eroina, progenitrice di David e dunque anche figura messianica, assurge a simbolo di Malkut – Regalità (“si chiama decima Sefirà o Malkut, poiché la corona della regalità è sulla sua testa”, Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 230), legata, come è noto, alla Sheckinà, e, su un piano distinto, all’anima intellettuale. Diverso il destino di Giuditta, le cui gesta non entrano nel canone ebraico. Tuttavia questa eroina è, a suo modo, cifra del paradosso, e, a parer mio, della letteratura, là dove la menzogna fatale a Oloferne, viene servita, e dunque giustificata, per raggiungere un fine edificante: “Giuditta / principalmente nata / dagli odorosi amori / dell’orgoglio carminio / tranquilla piange / sulla spada / al gesto chiamata / d’Oloferne ucciso. / Quale assassinata dolcezza / scorre / nell’agrumeto stanca / e di sangue dimenticato / s’incanta? / Dolce amara / all’acqua tornare / in luce bianca / d’intatto desiderio / madre sorgente / tiepida amata / scompare /tra le righe / scomposte del viale”. 413

Pare significativo in questo senso il frequente uso nella Bibbia del verbo “conoscere” per alludere all’atto sessuale:

“L’uomo conobbe Eva sua moglie ed essa rimase incinta” (Genesi, 4.1 in Bibbia ebraica, 1, Firenze, 2000, 10). 414

Sul punto, oltre alle considerazioni che seguiranno, cfr. i temi sviluppati nel cap 2) della III sezione.

415

Nel commentare il Sefer Yetsirà, scrive Scholem: “L’uomo, egli stesso, è compreso in questo processo. Egli è

“”costruito in combinazione con le lettere”” (capitolo III). “”e questo edificio superiore dello spirito [Ruach] che lo dirige, dirige [anche] il tutto, e così il tutto è collegato con i superiori e gli inferiori e si compone del mondo, dell’anno e dell’anima… L’uomo è la somma di tutte le creature, un grande sigillo nel quale il principio e la fine “” 156

L’attimo impressionante dell’Origine precede e nello stesso momento esaurisce tutto questo. L’eroe dai mille volti pronuncia con timoroso riserbo la lettera ineffabile che evoca il Nulla; il nome poderoso è solo un Pensiero, un soffio impercettibile 416. Nella fiamma danzante dell’Aleph, e ugualmente in tutti gli altri segni - sacri sottili intimi nascosti segreti plastici guizzanti - sono comprese le dieci Sephirot, è concentrato il mondo intero nel suo divenire, sono contemplati gli eventi futuri, così come in un solo uomo vivono tutti i discendenti 417.

di tutte le creature “” sono agganciati l’uno all’altro””. (G. Scholem Le origini della Kabbalà cit., 359). 416

Sottolinea Scholem che nel Sefer Bahir l’Aleph simbolizza la Machschavà di Dio, il Pensiero senza limiti, inizio di

ogni linguaggio ed espressione, condizione necessaria di tutte le lettere. (Cfr. Le origini della Kabbalà cit., 159). 417

Nel commentare la nozione di En Soph e la dottrina delle Sephirot in Isacco il Cieco, Scholem esprime concetti

simili a quelli sopra accennati (Cfr. Le origini della Kabbalà, pp. 323-358; in partic. pp. 343 e 353).

157

E’ un’invocazione o piuttosto un’imitazione di Dio, è in ciò si compie l’unio mystica418, ma è anche il movimento originario del linguaggio in cui consiste, secondo molti Cabbalisti, l’essenza dell’universo419; è l’inizio dell’inesorabile disgregazione attraverso la quale la Parola Unica e Infinitamente Significativa favoleggiata da Borges incomincia a moltiplicarsi incessantemente. Di nuovo ciò avviene nell’incerta luce onirica di un itinerario notturno. Per la prima volta il gesto creativo, con la raggiunta coesione e omogeneità degli elementi dello scenario, che rappresenta puntigliosamente l’armamentario cabbalistico più accreditato 420, favorito dalla maturazione umana del protagonista, che ne asseconda una più credibile autenticità della devozione mistica421, sembra promettere un successo.

418

A proposito dei rapporti fra Devequt e teurgia, così Idel descrive le fasi del culto cabbalistico: “1) unione

preliminare del pensiero con le lettere del nome divino; 2) attivazione di queste lettere nella loro qualità di simboli di entità superiori, in modo tale che esse vengano a costituire una totalità unificata; 3) congiunzione con questa totalità divina unificata” (M. Idel, Cabbalà Nuove Prospettive cit., 66). 419

420

Cfr. G. Scholem, Il nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio, Milano, 2001, 15. Come accennato, aldilà della mia personale accentuazione di una possibile inedita presenza dell’elemento

femminile, rilevante, a mio avviso, nell’accreditare la “crescita mistica” del personaggio, indubbiamente gli elementi enucleati da Borges (l’evoocazione del Nome, l’invocazione agli astri e, soprattutto, il sorprendente riferimento al cuore come primo elemento “creato”) richiamano in modo piuttosto evidente il Sefer Yetsirà (“Cielo, fuoco, aria, spirito, terra, acqua. La testa dell’uomo è fuoco, il ventre acqua, il cuore spirito”; cfr. Sefer Yetsirà, 35, in Mistica ebraica cit., 40) e la sterminata esegesi formatasi su questo testo. 421

In questo senso ho prospettato, con la rinuncia al narcisismo sterile, una maturazione umana di Ulisse tornato a

Itaca-Ogigia (ossia al talamo) alludendo anche a una sua crescita mistica. Questa intepretazione è confortata dal pensiero di M. Idel, che pone in evidenza come la comprensione del simbolismo dello Zohar, per il Cabbalista, sia solo un invito all’azione, unica via per il cui tramite si può raggiungere “lo status umano”. A tale ultimo propsito scrive (in Cabbalà Nuove Prosp. cit., 207) che una delle fasi attraverso le quali si compendia la comprensione del mondo superiore è rappresentata dall’”acquisizione dello status di uomo, cioè un’unione costante con la propria moglie, allo stesso modo che due Sefirot devono essere unite nell’alto.”

158

Tuttavia proprio la frantumazione della parola originaria, ossia il debito che il demiurgo deve pagare per prodigarsi nel tentativo di creare l’inscindibile triade tempo-mondo-uomo, fa sorgere il dubbio che l’esito finale possa essere ancora una volta diverso dalle attese. Il molteplice è allontanamento dall’origine, che, non appena conquistata, è già perduta 422, così come il tempo è una macchina che, una volta partita, non può più essere fermata. E’ forse dotato il nostro demiurgo della capacità di immobilizzarlo con la sua parola iniziale423? Se così fosse, se il protagonista-narratore (ora l’identificazione tra i due è innegabile, perché discutiamo anche di linguaggio, e ciò indiscutibilmente comporta una sovrapposizione di ruoli) si limitasse a pronunciare il nome poderoso424 di Dio, il nostro racconto, che, come insegna pure il Sefer Bahir, procede da un Principio discorsivo successivo all’Origine425, verrebbe negato. Il timore è che il tentativo di creare, perseguito attraverso le distratte emanazioni oniriche di un Dio, di un Uomo, o di una Volontà cosmica, entità forse sin troppo “indistinguibili”, come Borges ci aveva suggerito in una non dimenticata intervista 426, possa prestarsi ad altre sconcertanti letture, allontanandoci di nuovo, almeno in parte, da quell’itinerario mistico che sembrava finalmente intrapreso con sicurezza dal nostro proteiforme viaggiatore.

422

423

Cfr. n. 129, con le osservazioni di C. Sini sulla “dualità dell’inizio”. L’eternità come cristallizzazione del molteplice della vita, come riconoscimento, per così dire, conchiuso, del

futuro già dato e del passato rimasto presente, contrapposto al tempo, che nasce sotto il segno dell’inquietudine, come bisogno di discorsività e narrazione. Ne tratta P. Spinicci, sviluppando la nozione di tempo nelle Enneadi di Plotino, in Lezioni sul tempo, la memoria e il racconto, cit., pp. 22-24. Nel momento in cui la parola incomincia a distendersi, secondo l’interpretazione qui prospettata, l’eternità è compromessa dall’inevitabile discorsività del racconto nascente. 424

Nel Sefer ‘Iyyùn si dice che il nome di Dio è l’unità del movimento del linguaggio, che esce dalla radice

primordiale e si ramifica (Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 410). 425

« Secondo il par. 13 (del Sefer Bahir, n.d.r.), il luogo mistico dell’alef precede persino l’origine della Torà, che

dunque non comincia che con la lettera beth, nella parola Bereshith (Principio, n.d.r.) Cfr. G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 163. Avevo rilevato nella parte finale del cap.4) della II sezione l’ossessione, comune al movimento di pensiero ebraico e borgesiano, di postulare insaziabilmente un’origine al di qua dell’origine data, un’inarrestabile pulsione al regressus ad infinitum. 426

Cfr. cap.4), II sez.

159

Il sogno cosmico e la sfrenata libertà dell’immaginario poco si addicono al silenzio di un’unica parola sussurrata, suggerendo altro. Scivola Sisifo – Atlante nelle acque agitate del sogno, non riesce a fermarsi lungo il piano inclinato dell’Origine; era soverchiante e incommensurabile il peso dei Mondi che aveva sorretto nelle lunghe veglie, era enorme la stanchezza del Giusto. Universi incessantemente desiderati, blanditi e creati, ora interamente sfumati e dissolti nell’oblio del sonno; rotola lo spossato sognatore nella sabbia soffice del paese onirico per toccare infine il desertico Aleph427 dal suono sospeso – terra inesplorata e indicibile. La dolce pendenza sospinge il demiurgo verso l’Inizio; l’etere primordiale428 anestetizza, senza sopprimerli, tutti i ricordi, uno per uno. E’ agevole catturarli, lievi e trasparenti come sono, nel loro inarrestabile declinare; è facile arrestare quel pigro e innocente sfogliarsi di terse immagini nell’abisso. Denudati - il sogno toglie loro ogni pudore - poi rapiti – incoscienti e ormai senza padroni – sono stipati, puri e senza nome, negli archivi dell’immaginario dagli affacendati fuochisti della nave cosmica – i severi Arconti - in attesa dall’Eterno Ritorno. Saranno classificati, protocollati, immatricolati e infine riciclati senza troppe cerimonie da altri Universi, desiderosi di sfoggiare modelli già pensati dagli uomini, variopinte forme impreziosite dal pregio delle cose vissute e sofferte.

427

Scrive Scholem (Il nome di Dio e la teoria cabbalistica cit., 54): “L’alef è l’intonazione laringale che precede ogni

emissione vocalica, …l’elemento da cui originariamente deriva ogni suono articolato”. Essendo cifra dell’“origine”, il valore emblematico di Aleph sia nella teoria cabbalistica del linguaggio sia sul piano cosmogonico e propriamente teologico è notevolissiimo. Si è accennato sotto tale ultimo profilo ai rapporti tra la prima lettera e En Soph, tema recepito da Borges, come è noto, nel celebre racconto L’aleph; quanto all’aspetto linguistico, l’indicazione che emerge dal Sefer Yetsirà sembra piuttosto chiara: l’identificazione tra l’Aleph e l’etere primordiale, aura che circonda Dio, consente di attribuire a questa lettera, anzi al movimento (come scrive Scholem nell’opera citata) che le è proprio, l’intonazione vocale ancora muta da cui derivano il Nome di Dio e ogni linguaggio. 428

J.P. Vernant (in L’universo, gli dei, gli uomini, Torino, 2000, 15) ci rammenta che Aither (Etere) è figlio della Notte

e nipote di Voragine (Caos).

160

Il sognatore s’illude di scolpire e plasmare nuove realtà nel vento, nell’acqua e nel fuoco aleph, mem e shin – benevolmente accolto nel grembo delle tre Madri, le donne dal volto familiare che lo soccorrono429 nelle Profondità degli opposti430. Tre volti diversi della stessa divina presenza, che ha letto tutte le Memorie delle generazioni passate e future, ed è accorsa chiamata dal pianto degli uomini 431. Non c’è Shekhinà senza lacrime evocatrici. Ma quei trentadue meravigliosi sentieri di sapienza che mostrano la strada verso il Cuore mistico, sono intricati fiordi, nelle cui labirintiche trame solo il dolore non si smarrisce mai.

5) La creazione “Lo sognò attivo, caldo, segreto, della grandezza d’un pugno serrato..con minuzioso amore lo sognò, durante quattordici lucide notti. Ogni notte lo percepiva con maggiore evidenza.Non lo toccava; si limitava ad esserne testimone..Lo percepiva, lo viveva, da molte distanze e sotto molti angoli..Deliberatamente non sognò durante tutta una notte; poi riprese il cuore, invocò il nome di un pianeta e passò alla visione di un altro degli organi principali. In meno di un anno giunse allo scheletro, alle palpebre..Sognò un uomo intero, un giovane, che però non si levava, né parlava, né poteva aprire gli occhi. Per notti e notti continuò a sognarlo addormentato. Nelle cosmogonie gnostiche, i demiurghi impastano un rosso Adamo che non riesce ad alzarsi in piedi; così inabile come quest’Adamo di polvere, era l’Adamo di sogno che le notti del mago avevano fabbricato.

429

Possibile richiamo: “Dunque: che è? Perché, perché restai, / perché tanta viltà nel cuore allette, / perché ardire e

franchezza non hai, / poscia che tai tre donne benedette / curan di te ne la corte del cielo / e ‘l mio parlar tanto ben ti promette?” (D. Alighieri, Inferno, II, 121-126, in La Divina Commedia cit., 18). 430

“Profondità del principio e profondità del termine, profondità del bene e profondità del male, profondità del sopra

e profondità del sotto, profondità dell’oriente e profondità dell’occidente, profondità del settentrione e profondità del meridione.” (Cfr. Sefer Yetsirà, 7, in Mistica ebraica cit., 36). 431

M. Idel (in Cabbalà Nuove Prospett. cit. pp. 90-93) accenna alla tecnica “anomica” del pianto per indurre la

visione della Sheckinà: “La rivelazione della Sheckinà (si compie) per mezzo e a seguito di una sofferenza..per mezzo della quale si avverte la sofferenza della Sheckinà..Questa premessa postula una rivelazione della Sheckinà come immagine femminile derivante dalla sofferenza” 161

Una sera l’uomo fu quasi per distruggere tutta l’opera, ma si pentì. (Più gli sarebbe valso distruggerla). Fatto ogni voto ai numi della terra e del fiume, si gettò ai piedi dell’effigie che era forse una tigre o forse un cavallo, e implorò il suo sconosciuto soccorso. Sul crepuscolo dello stesso giorno sognò questa statua. La sognò viva, tremula; non era un atroce bastardo di cavallo o tigre, ma queste due veementi creature ad un tempo, ed anche un toro, una rosa, una tempesta. Questo molteplice iddio gli rivelò che il suo nome era Fuoco, che in quel tempio circolare (e in altri eguali) gli erano stati offerti i sacrifici e reso il culto, e che magicamente avrebbe animato il fantasma sognato, in modo che tutte le creature, eccetto il Fuoco stesso e il sognatore, l’avrebbero creduto un uomo di carne e di ossa. Gli ordinò di inviarlo, una volta istruitolo nei riti, nell’altro tempio in rovina le cui torri sussistevano più a valle, affinché una voce tornasse a glorificare il fuoco in quell’edificio deserto. Nel sonno dell’uomo che lo sognava, il sognato si svegliò. Il mago eseguì gli ordini. Dedicò qualche tempo a scoprirgli gli arcani dell’universo e il culto del fuoco. Nell’intimo gli doleva di separarsi da lui. Col pretesto della necessità pedagogica, allungava ogni giorno le ore dedicate al sonno...A volte l’inquietava un’impressione che tutto quello fosse già avvenuto..In complesso i suoi giorni erano felici; chiudendo gli occhi pensava: “Ora starò con mio figlio.” O, più di rado: “Il figlio che ho generato m’aspetta, e non esisterà se non vado.” Gradualmente lo venne avvezzando alla realtà..Comprese con una certa amarezza che suo figlio era pronto per nascere. Quella stessa notte, per la prima volta, lo baciò, e lo inviò all’altro tempio..Prima (perché non sapesse mai che era un fantasma, perché si credesse un uomo come gli altri) gli infuse l’oblivio totale dei suoi anni di apprendistato. La sua vittoria e la sua pace non furono senza melanconia. All’alba e al tramonto si prosternava dinanzi alla figura di pietra, pensando forse che il suo figlio irreale stesse eseguendo riti identici, in altre rovine circolari, più a valle; la notte non sognava, o sognava come gli altri uomini. Percepiva un poco impalliditi i suoni e le forme dell’universo: il figlio assente si nutriva di queste diminuzioni della sua anima. Lo scopo della sua vita era raggiunto; continuava a vivere in una specie di estasi” 432. Il brano, che incomincia a annunciare la fine del racconto, si svolge sotto il segno del dolore e del fuoco, della melanconia e dell’estasi. Giunti a questo punto, non tanto interessa seguire passo per passo il procedere del demiurgo lungo un percorso ormai prevedibile: la creazione avanza infatti senza sorprese. E’ lecito 432

J.L. Borges, Le rovine circolari cit., pp. 662 – 663.

162

immaginare che i sette pianeti e le dodici costellazioni invocati dal sognatore 433 sorgano in cielo nello stesso attimo in cui si formano gli organi del corpo 434. Ogni fase sembra richiedere per il suo perfezionamento quattordici lucide notti, un numero non casuale; è forse ammissibile accostarlo, per la profondità delle sofferte risonanze che echeggiano in questo testo, alle sette consonanti doppie, cifra simbolica della drammatica tensione fra gli opposti nel macrocosmo e nel microcosmo435. In capo a meno di un anno, una delimitazione temporale che probabilmente allude alla durata della gestazione, la creatura, per quanto desolatamente muta e incosciente, sembra anatomicamente “compiuta”. I costanti e puntuali riferimenti al Sefer Yetsirà, benché - ciò

433

In realtà, come si è letto, il protagonista invoca gli dei planetari. Tuttavia il successivo esplicito cenno alla

leggenda del golem e le allusioni al Libro della Creazione forse consentono questa piccola arbitrarietà che trova il proprio fondamento nel procedimento demiurgico formulato nel Sefer Yetsirà. D’altra parte questo testo è ben conosciuto da Borges. Questa la prova: “Il trattato Sefer Yetsirah (Libro della Formazione) scritto in Siria o in Palestina intorno al secolo VI, rivela che Jehova, Dio degli Eserciti, d’Israele e Onnipotente, creò l’universo mediante i numeri cardinali che vanno dall’uno al dieci e le ventidue lettere dell’alfabeto. Che i numeri siano strumenti o elementi della Creazione è dogma di Pitagora e di Giamblico; che lo siano le lettere, è chiaro indizio del nuovo culto della scrittura. Il secondo paragrafo del secondo capitolo dice: “”Ventidue lettere fondamentali: Dio le disegnò, le incise, le combinò, le pesò, le permutò, e con esse produsse tutto ciò che è e tutto ciò che sarà.”” Poi viene rivelato quale lettera ha potere sull’aria, e quale sull’acqua, e quale sul fuoco, e quale sulla sapienza, e quale sulla pace e quale sulla grazia, e quale sul sonno e quale sulla collera, e come (per esempio) la lettera kaf, che ha potere sopra la vita, servì per formare il sole nel mondo, il mercoledì nell’anno e l’orecchio sinistro del corpo.” (J.L. Borges, Del culto dei libri, in Altre inquisizioni, da Tutte le opere cit., Vol.1, 1013). 434

Ad esse (alle sette consonanti doppie, n.d.r.) corrispondono, tra l’altro, i sette pianeti, i sette cieli, i sette giorni

della settimana e i sette orifizi del corpo..Le dodici consonanti semplici..corrispondono alle dodici principali attività dell’uomo, alle immagini dello Zodiaco, ai dodici mesi e ai dodici principali organi (guide) del corpo umano. (G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 39). 435

“Profondità del principio e profondità del termine, profondità del bene e profondità del male, profondità del sopra

e profondità del sotto, profondità dell’oriente e profondità dell’occidente, profondità del settentrione e profondità del meridione.” (Cfr. Sefer Yetsirà, 7, in Mistica ebraica cit., 36).

163

non può più sorprendere436 – la Cabbala sia stata arbitrariamente trasformata in una cosmogonia gnostica, sono esplicitamente dichiarati da Borges.

436

Nei capitoli 1 (soprattutto) e 2 della II sezione di questo lavoro ci si è soffermati diffusamente sull’interpretazione

borgesiana della cosmogonia cabbalistica – mediata da Scholem – quale soprattutto emerge nella sua conferenza La cabala, raccolta nel citato Le sette notti. Indubbiamente, come si accennò a suo tempo, certe affrettate conclusioni dello scrittore argentino sono in qualche misura attribuibili alla forte (e forse non del tutto e non sempre giustificata) accentuazione dei rapporti tra gnosi e ebraismo presente nell’opera del grande studioso berlinese.

164

L’allusione, colma di delusa disaffezione, all’inabile e rosso Adamo di polvere, conferma la corretta previsione dell’”ermeneutica divinatoria” più volte esercitata: il demiurgo non intende affatto produrre un golem. Questa è una falsa pista battuta dallo stesso autore437; tuttavia non è né credibile né soddisfacente. Le rovine circolari è, più ambiziosamente, un racconto sull’origine, sulla creazione e sulla generazione; la fabbricazione dell’informe fantoccio di Rabbi Loew vi gioca una funzione strumentale e transitoria. Un golem è, come si sa, un essere incompleto perché manca della libertà dell’immaginario (non può sognare) e della connessa capacità creativa. Questa peculiarità si esprime nell’ebraismo soprattutto per tramite della parola - scrittura, lo strumento che fa dell’uomo la creatura formata a immagine e somiglianza del Dio 438 che disse: “Sia la luce. E la luce fu” 439.

437

Il racconto che sto commentando viene avvicinato spesso dalla critica alla poesia (sempre di Borges) Il golem. E’ lo

stesso autore, peraltro, che autorizza l’accostamento (cfr. a tale proposito la citata Antologia personale dello scrittore argentino, 3: “Così, ancora una volta ho constatato la mia fondamentale povertà: Las ruinas circolares, che datano del 1939, sono una prefigurazione di El Golem o di Ajedrez, che sono quasi di oggi ”). Se pure l’analogia appare più che mai lecita sul piano fenomenologico (ed anzi, come si vedrà infra, non è possibile proporre criteri di interpretazione di questo racconto senza accennare anche a quella e altre poesie), è comunque vero - credo – che il tema del golem, in entrambi i testi, è allusivo di ben più vasti e inquietanti interrogativi. 438

Commentando il Razà Rabbà, una delle possibili fonti del Sefer Bahir, Scholem riferisce alcuni passaggi che

alludono alla creazione del golem: “E’ detto così: “”Se un uomo crea una creatura per mezzo del Sefer Jetzirà, egli ha la forza di creare tutto, meno che una (sola) cosa.”” Qual’è questa cosa? Non lo si dice, ma dev’essere la lingua, come in numerosi testi paralleli e come nel Bahir”. (G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., pp. 152-153). 439

Gen. 1.3 (in La Bibbia di Gerusalemme cit. 35). Alludo naturalmente alla capacità demiurgica della parola di Dio,

della quale reca ampia testimonianza proprio il I cap. del Genesi.

165

Se così stanno le cose, il nostro viaggiatore, ora anche figura di quel Jorge Luis Borges che ben conosce il valore di una parola infinitamente significativa, meglio se splendente e solitaria cifra simbolica del Tutto, principio e fine, luogo di tutti i luoghi, etere primordiale e cuore cosmico, centro del mondo e dunque, in modo definitivo, “Aleph”440, è perfettamente consapevole di essere ancora lontano dal felice compimento dell’opera. Proprio quando il desolato demiurgo – padre vuole disfarsi della pallida parvenza 441, formata con cura tanto minuziosa quanto inefficace, disperando di ridestare la sconcertante creatura che dorme un sonno pietrificato nel territorio ben noto delle divagazioni oniriche (itinerari ormai frustranti, e forse funestati dalla paura; in fondo è un incubo, non un sogno, la ripetuta visione di una creatura addormentata), ecco, nelle pause di veglia, affiorare il ricordo del viaggio intrapreso molto tempo addietro per adempiere quel progetto magico che aveva esaurito l’intero spazio della sua anima442: un romanzo di formazione, in fondo, così l’ho anche immaginato, segnato da una serie di passaggi inobliabili e ormai irreversibili 443. 440

Come più volte sottolineato, la prima lettera dell’alfabeto ebraico è cifra simbolica polisemica, che rimanda ai tanti

significati già di volta in volta evidenziati nel testo. Non solo, come è noto, l’Aleph ha grande rilievo anche nel mondo letterario di Borges, ma nella mistica ebraica evoca, oltre al Principio, all’Unità e all’Universo, anche il genere umano considerato indeterminatamente. Cfr. G. Mandel L’alfabeto ebraico, Milano, 2000, 23: “Secondo Fabre d’Olivet (La langue hebraique restitueé, 1815) “”come immagine simbolica rappresenta l’uomo universale, il genere umano, l’Esseere dominatore della terra.” Si tratta di una riaffermazione del rapporto di specularità tra macrocosmo e microcosmo. 441

“Una sera l’uomo fu quasi per distruggere tutta l’opera, ma si pentì.” (J.L. Borges, Le rovine circolari cit., 662).

La decisione e il pentimento echeggiano, secondo S. Sosnowski (in Borges y la Cabala cit., 66), l’episodio biblico del Diluvio e l’atteggiamento della Divinità, la sua tentazione di distruggere irrevocabilmente l’empio genere umano. 442

J.L. Borges, Le rovine circolari cit. 661.

443

Come è stato anticipato nella sezione introduttiva di questo lavoro, ho talvolta tentato una sorta di approssimativa e

insufficiente mimesis stilistica tra alcuni movimenti di pensiero borgesiani e qualche aspetto della mistica ebraica. Assecondando questa prospettiva, l’analisi testuale del racconto si è ampiamente dilungata, quasi a voler significare una adeguazione del tempo della narrazione al tempo della storia. Come si sarà notato infatti la fabula ne Le rovine circolari, benché l’economico stile di Borges ne racchiuda lo sviluppo nel volgere di poche pagine, occupa alcuni anni, dimensione temporale necessaria per la gestazione ed educazione del figlio generato dal protagonista. In questo senso ovviamente è lecito parlare di “romanzo di formazione”, ben potendo, senza fare violenza eccessiva al mito dell’intenzione dell’autore (Borges aborriva la prolissità del genere romanzesco), un breve racconto narrare una vita 166

L’eroe dai mille volti volge lo sguardo di nuovo verso il tempio incendiato e ripercorre gli infiniti itinerari compiuti. E’ tetra solitudine, nemmeno il grido di un uccello, neppure in lontananza il rombo di un tuono amico nel cielo unanime, solo la prospettiva paurosa di vegliare nel sonno un golem inerte e insensato. Perchè quella statua bruciata? Perchè gli dei hanno abbandonato il Centro del mondo, la terra sconsacrata del tempio? Dove si sono nascosti, fuggiaschi, a mendicare una morte infamante? Chi li ha costretti alla resa? Nell’incipiente oscurità vaga la mente dell’infaticabile Sisifo e il pensiero dà forma alla statua dall’indecidibile ambiguo profilo, sospeso tra l’essere cavallo o tigre, tra l’essere dio o nulla; l’uomo cerca una traccia che possa svelargli l’arcano. Ricorda la beffa del figlio mai nato, l’identico a sé, il frutto acerbo e abortito dell’opera al nero, e teme il ripetersi degli errori passati. Dapprima era la frenetica ricerca dell’anima, sognata prematuramente, un fantasma troppo avulso dall’imprescindibile involucro di carne e ossa, allora trascurato con la sublime tracotanza dell’idealismo superbo 444 e poco tempestivo dei grandi maestri greci; adesso è il processo contrario, ma la frustrazione è identica, il fallimento uguale. Ora, istruito dalla dottrina mistica, sa bene che il Midrash avkir attribuisce irrevocabilmente a Dio l’ultimo decisivo slancio demiurgico445. Perchè, dunque, la divinità è sorda?

intera alludendo anche a un’evoluzione del personaggio. Sul punto, cfr. p.e., A. Marchese, L’officina del racconto, Milano, 1996, pp. 137-139. 444

Si ricorderà che nel precedente brano (cfr. cap. 4 di questa sezione) si era ipotizzato un errore di procedura del

demiurgo, che, prima di dare corpo alla sua creatura, aveva “invertito” le fasi, scegliendo l’anima, sognata narcisisticamente uguale o simile a quella del padre creatore. 445

“Quando Dio desiderò creare il mondo, iniziò la sua creazione dall’uomo e lo plasmò come un golem. Quando si

accinse a infondere un’anima in lui, disse: “Se lo vivifico ora, si dirà che è stato mio assistente nell’opera della creazione; così lo lascerò golem (in uno stato rozzo, incompiuto), finché non avrò creato tutto il resto.”” Quando ebbe creato tutto, gli angeli gli dissero:””Non farai ora l’uomo di cui parlavi?”” Ed egli rispose: “”L’ho già creato da tempo, manca solo l’anima.”” Allora infuse in lui l’anima e lo vivificò e concentrò in lui tutto il mondo. Con lui iniziò e con lui concluse, come è scritto: ““Mi hai formato davanti e dietro.”” Dio disse:””Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi.”” Idel, Cabbalà Nuove Prospettive cit., 119.

167

Nel pregare con disperata veemenza l’indecifrabile effigie – il dio assente - nell’invocarne il ritorno



ciò

che

ora

gli

interessa

davvero

è

disertare

questa

solitudine

insopportabile, riempire il vuoto delle rovine circolari, respingere l’incubo onirico del golem – l’eroe, vincitore di innumerevoli prove, ma instancabilmente all’erta per affrontare la nuova battaglia che il destino, con enfasi retorica, gli riserva senza risparmi, si chiede come ricondurre la parola alla sua origine, al suo nulla 446. Quando447 ancora era accampato in una terra lontana del Sud, pianeggiante e fertile, prima di imbarcarsi per raggiungere questo territorio di montagne accidentate e acquitrini (più gli sarebbe valso non farlo!), al taciturno viaggiatore qualche volta era accaduto, sostando ai bivacchi, di ascoltare strane storie notturne, che favoleggiavano – ricorda con quale animosa intransigenza gli anziani prodigavano quella commossa sapienza tramandata - di un unico dio, un dio - assurdo a dirsi - senza immagini, senza statue, senza forme, un dio ineffabile e inconcepibile, che aborriva, talvolta con intolleranza collerica, tutte le rappresentazioni umane; un dio che tuttavia si emancipava, pur con calibrata parsimonia, dal suo mistero di inafferrabile deus absconditus, svelandosi con la parola e il fuoco della clemenza e del rigore. Oppure, quasi non volessero ripetersi, quegli eloquenti pastori notturni, curiosamente divagando, narravano di un’altra, più spettacolosa divinità – ma forse era la stessa – che consisteva di tutte le immagini e di tutte le forme possibili.

446

Azriel (in G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 514): “Colui che prega deve respingere tutto ciò che dà

fastidio e che disturba e ricondurre la parola alla sua origine – letteralmente: al suo nulla.” Piuttosto “liberamente”, ma – si spera – non troppo arbitrariamente ispirato a questa fase del racconto, segue un

447

breve brano “narrativo”, nel quale si cerca di delineare alcuni tratti della possibile immagine della divinità quale Borges la rappresenta. Riterrei più in linea con la cifra stilistica dello scrittore argentino la raffigurazione, pur intricata e complessa, di un Dio unico. Questa concezione, che si sviluppa nell’idea di una creazione dal nulla o dall’UnoAleph, (piani talvolta sovrapposti, come è noto, dalla Cabbala, attraverso l’identificazione o la poco netta separazione tra En Soph e prima Sephira, spesso coincidente con la volontà primordiale) si sposa indubbiamente meglio con quell’insistita pulsione verso un’Origine, con quell’incoercibile attrazione per una parola originaria infinitamente significativa e unica, che, come si è sottolineato, pare ricorrere così frequentemente nell’opera del nostro autore.

168

Dopo i primi sconcerti era sembrato, a lui, uomo ormai civilizzato dalla scienza e dalla dialettica, non digiuno di farmaci 448 e mantra, che la ragione meglio sopportasse la nozione di un dio unico, padrone e demiurgo. Gli pareva infatti più agevole concepire la creazione di questo mondo, attestato, senza alcun sensibile dubbio, di natura plurale e molteplice, lasciando indefinitamente scivolare all’indietro, complice l’inerzia in dolce pendenza di lunghissimi meriggi assolati, un pensiero vago ma teso fino al suo limite, per fissare un unico radioso principio, purissimo solitario originario, eppure quasi trascurabile e marginale, che poteva ben darsi fosse divino, se non altro perché irrevocabilmente iniziale: un punto, l’Uno dal quale dilagava il mondo (avrebbe potuto sussurrare Aleph, la stessa cosa, insegnava il suo idioma non contaminato dal greco449). Da una parte questa dottrina accondiscendeva il suo genio, avido di incessanti ritorni agli ineffabili istanti, sempre rinnegabili perché inesauribili, di quell’accecante partenza, e attratto da vertiginosi e abissali percorsi a ritroso senza mete enunciabili; dall’altra, con quel consolante pensare, meglio riusciva ad assecondare l’esito naturale dell’ineluttabile degradare e oscurarsi dell’abbagliante Principio, quelle grevi tenebre notturne, alle quali egli tutto si era votato, tanto da stringere patti occulti con incubi ricorrenti; meglio si rappresentava, dunque, il brusco declino, immaginandolo con gli occhi della mente, assai meno vulnerabili dalla luce e perciò più attrezzati a sopportare quel formidabile incipit, di quanto mai avrebbero potuto le sue povere iridi, mortalmente esposte al catastrofico sovrumano bagliore. Certo, questo suo professare il Dio unico, creatore ex nihilo, lo aveva indotto a tradire, ciò è innegabile, la credenza appresa dai maestri greci, che all’opposto insegnavano come il Caos originario, da sempre esistente, fosse stato poi organizzato e armonizzato da un raffinato demiurgo, l’architetto di un cosmo perfetto, nel quale pareva riflettersi la solare letizia del suo sublime giardiniere. Ma la favola di un mondo di così splendente e specchiata virtù non gli era mai sembrata troppo convincente. Gli pareva – e come dargli torto - tangibile il disordine, percepibile il logoramento, inesplicabile quel quotidiano andare a tentoni, cosicché si affacciava assai più verosimile l’ipotesi di qualche vistosa carenza, se non proprio l’assoluta certezza di lacune incolmabili, nelle maglie, si direbbe oggi, della

448

Sul senso polisemico di pharmakon, cfr. n. 344.

449

J.L. Borges, Le rovine circolari cit. 660.

169

“programmazione

divina”,

evidentemente

incompatibili

con

un

progetto

di

soprannaturale perfezione450. In definitiva, sembrava più plausibile restare saldamente ancorati all’idea di quel fulgido Uno, ammettendo però, con serena franchezza lontana da protervia blasfema, che qualcosa,

esaurito

l’irripetibile

splendore

iniziale,

era

andato

offuscandosi,

sconfinando ben aldilà delle pur benevole inclinazioni divine. Non tanto lo angustiava la sofferenza – era infatti convinto che questa dovesse fare parte del mondo, anzi ne fosse la stoffa, così come la pelle veste il corpo, come le spine inaspriscono, senza guastarle, le rose, e che nessun dio potesse porvi efficace rimedio; al contrario – le rovine distrutte lo provavano – anche gli immortali – uno o mille che fossero – di tanto in tanto, ma non meno degli uomini, ne pativano direttamente gli inevitabili strali. Lo stordiva piuttosto il disordine, l’inestricabile aggrovigliarsi di ogni progetto, l’impossibilità di venirne a capo; perciò provava rammarico, quasi pietà, un sentimento che non riservava solo a se stesso o al destino umano, ma dilatava senza soste e senza limiti, fino a fargli toccare, in alto, sempre più in alto, la luna, gli astri, le stelle e persino quel nascosto e forse indebolito Aleph.. Sulle note appena sussurrate di quel suono si spegne il giorno. Finalmente, rifluiti a poco a poco quei vaghi pensieri, rimboccati come coltri sottili intorno al corpo disteso sulla terra consolatrice, Sisifo cede al sonno, nella speranza, questa volta, di non sognare più nulla. E invece sogna al tramonto l’ineffabile statua; cavallo, tigre, toro, rosa e tempesta a un tempo. Si proclama, quel molteplice iddio, svelando il suo nome, quello terribile e cangiante del Fuoco; lamenta l’empia diserzione del suo culto e ne pretende il ripristino: quell’invocazione che tuona veemente sembra echeggiare un patto antico.

450

Più radicalmente Borges (L’idioma analitico di John Wilkins, in Altre inquisizioni, da Tutte le opere cit., Vol.1,

1005): “”Il mondo”” scrive David Hume “” è forse l’abbozzo rudimentale di un dio infantile che lo abbandonò a metà dell’opera, vergognandosi della sua esecuzione deficiente; è fattura di un dio subalterno, del quale gli dei superiori si burlano; è la confusa produzione di una divinità decrepita, tenuta in disparte, che è già morta.”” 170

Si offre, per ovviare agli onori perduti e reclamare la gloria dovuta al suo nome, di animare il corpo del giovane dormiente, conservando il segreto della sua fragile sostanza onirica, da condividere solo col padre. Il giovane si sveglia infatti dal sogno, ma prigioniero nel sogno paterno; il genitore lo istruisce a lungo sui misteri della liturgia del fuoco. Nasce l’affetto del demiurgo, forte e struggente; un sentimento certo inatteso. Ciò lo induce a rallentare il ritmo della iniziazione del figlio agli arcani segreti. Lo studio definitivamente compiuto del rituale annuncia infatti la nascita; non pare altro, l’evento lieto, che l’apparente fuga dal mondo onirico (pur restando tuttavia il giovane una vana parvenza, il frullare di un sogno nel mondo): venire alla luce è soltanto l’emanciparsi dal padre demiurgo, che ha infuso nella sua creatura il pietoso oblio degli anni di apprendistato, per favorire la dimenticanza della fragile stoffa in cui il figlio consiste 451. Ma che cosa farà il ragazzo da grande? Sarà, come il suo sognatore, il sacerdote di quel molteplice iddio e ne celebrerà il culto in un altro tempio circolare. Prometeo ora è quasi felice; non vive però l’estasi della creazione, bensì quella più intima della paternità. Avverte di tanto in tanto una diminuzione della propria pienezza, cui corrisponde l’erratica emanazione di un sovrappiù di luce e bontà, sostanziosa eccedenza elargita come un vitale nutrimento al giovane che non ha più accanto. Il nuovo straniero, ora avvezzo alla realtà, solitario si è imbarcato nel mondo. Ecco sorgere di nuovo l’illusione che la creazione sia opera umana, che quei distratti sospiri onirici possano fondare un universo 452. 451

Ricorda J. Alazraki (in Borges e la Kabbalah cit., 23) che il procedimento per tramite del quale nell’anima

nascitura si infonde l’oblio della creazione è un’idea che Borges condivide con la mistica ebraica; in particolare è sviluppata nel Midrash sulla creazione del bambino, commentato da Eleazar di Worms. Tuttavia l’inziazione del figlio qui evocata riecheggia assai da vicino, anche in virtù della luce onirica che illumina la scena, il rito del buddhismo tibetano, descritto nel Tantraloka, nel quale il sognatore maestro e il discepolo, che dormono accanto al fuoco del sacrificio e condividono lo stesso flusso di coscienza, concepiscono un identico sogno che ha l’effetto di creare oggetti materiali prima inesistenti. Cfr. W.D. O’Flaherty, Dreams Illusion and other Realities, Chicago, 1984, 27, e Abhinavagupta, Luce delle sacre scritture (Tantraloka), Torino, 1972: sul sogno condiviso tra maestro e discepolo, cfr., p.e., pp. 497-498. 452

Nel cap.4) della seconda sezione, a margine del commento sulla intervista -relazione di J. Alazraki, è trattato il

tema della creazione attraverso l’emanazione onirica di Dio e dell’uomo. Mi pare che in questo racconto il passaggio ora accennato anticipi fugacemente quell’idea di Borges (la relazione in questione è cronologicamente successiva a Le rovine circolari).

171

La serenità del demiurgo è però guastata dall’appagamento dello scopo raggiunto e dalla melanconia per la separazione dal figlio, che, non lontano dal padre, inconsapevole fantasma alle prese con uguali rovine, forse sta già ripercorrendo la sua stessa vita.. Sono passati anni da quando la peripezia è incominciata e la lunghissima gestazione ha finalmente compiuto il suo corso, il progetto pare essersi compiuto, l’antico sogno realizzato. Se volessimo utilizzare come chiave di lettura del testo, fra le molte proposte, quella del romanzo di formazione, certamente ardita, se non altro perché applicata a un racconto che non si sviluppa per più di sei o sette pagine, si potrebbe sostenere con qualche ragione che il protagonista della storia a questo punto sembra avere portato a temine la sua evoluzione personale. Conosciuto come spericolato e tracotante avventuriero, quindi ammirato nelle vesti di colto maestro della dialettica, pur impegolato nelle panie di un narcisismo amaramente sterile, con il favoloso arbitrio della scrittura sgorgata dalla scrittura lo abbiamo accompagnato a riguadagnare un rapporto più equilibrato con la natura e con l’Alterità, lo abbiamo seguito nella ricerca di un più sincero afflato mistico, purificato, grazie a una cooperazione più convinta e devota con la divinità, dagli eccessi di una teurgia esclusivamente votata al versante magico; infine abbiamo assistito, per così dire, alla sua crescita affettiva, culminata in questa strana paternità, fonte di estasi e melanconie. Certo, paradossalmente, l’uomo taciturno può anche apparire sempre immobile, vincolato al punto di partenza. E’ vero, sembra essersi liberato della sua solitudine originaria, ma solo per assecondarne un’altra, ancora più dolorosa: in principio essa connotava il suo

stato

iniziale

e

si

manifestava

quasi

come

una

scelta

ostentata

e

orgogliosamente rivendicata, mentre ora sorge dall’abbandono, dalla separazione, dal timore della frustrante inutilità di ogni gesto, dall’angoscia sottile che promana dalla fragilità di quel figlio fantasma, tanto evanescente eppure adorato: amato, si potrebbe dire, scomodando una banalità illuminante, con la stessa ostinata passione con cui si amano i sogni. Si avverte la sensazione, che con l’ermeneutica divinatoria ho buon gioco nel dire profetica, di un possibile ripetersi, nella vita del figlio, della peripezie paterne. Riaffiora l’incubo, mai definitivamente cacciato, dell’Eterno Ritorno 453.

453

.”A volte l’inquietava un’impressione che tutto quello fosse già avvenuto”. (J.L. Borges, Le rovine circolari cit.,

663.

172

La cifra simbolica che in conclusione pare sempre coesistere con tutte le altre evocate e infine prevaricarle, il Nome che non abbandona mai il nostro straniero, è in fondo quello eroico e sofferente di Sisifo, figura centrale nel repertorio della mitologia esistenziale di Camus, straordinario emblema, arcaico e moderno a un tempo, della delusa frustrazione dell’uomo, ma anche, su un piano diverso, sublimazione dell’estasi mistica

che

lo

sprofondamento

nell’abisso,

pur

amaramente

desolatamente destituito di ogni positivo esito, può ridestare

reiterato

e

454

.

Ma questo brano offre anche un contributo importante nella decifrazione della concezione borgesiana della divinità, per quanto attiene soprattutto al versante propriamente “estetico”. Un dio, che ha ascoltato la disperata invocazione dell’eroe dai mille volti, si è rivelato. Non può essere, inconfondibile nei suoi tratti 455, che il dio di Borges: una parola infinitamente significativa, una sola cosa, cifra e chiave evocatrice di tutte le altre comunque alluse456, una divinità bella e soave come una rosa, ma anche sublime terribile e minacciosa come il Leviatano, la tigre, la tempesta; infine incomprensibile e grandiosa come la misteriosa divinità che poeticamente si manifesta a Giobbe 457. 454

Alludo al citato Mito di Sisifo e al rammentato “romanzo mistico” di Bataille, L’esperienza interiore. Non è

superfluo sottolineare, nel tentativo di cercare nuove allusioni e rimandi, che uno dei più celebri romanzi di Camus porta fra l’altro l’emblematico titolo Lo straniero. 455

Osserverei che nella concezione della divinità in Borges, almeno quale è rappresentata in questo racconto, non

tanto o non solo, come potrebbe suggerire la prima impressione, si svela un fin troppo ovvio e abusato panteismo, ma piuttosto si manifesta una netta predilezione per la figura della metamorfosi e della ripetizione. Vedo, insomma, più Ovidio e Zenone di Spinoza. In questa prospettiva appare emblematico il simbolismo del fuoco, che mi pare pertinente a questa idea insistita di trasformazione e reiterazione. Mi riferisco qui, se l’espressione può considerarsi corretta, a una fenomenologia del divino, e non a un più profondo e meditato sentimento della Divinità nell’opera di Borges, tema assai più complesso e degno di studio molto più approfondito. In ogni modo in questo lavoro (e nelle considerazioni non ancora svolte) si cerca di offrire qualche piccolo spunto di riflessione anche su questo argomento. 456

Come già rilevato altrove, sia nella mistica ebraica sia nella produzione letteraria di Borges si esalta la polisemia

sconfinata della parola-cosa. Cfr. The unending rose, da La rosa profonda., in Tutte le opere cit., Vol. 2, 745: “ Sono cieco e ignorante, ma intuisco / Che sono molte le strade. Ogni cosa / E’ infinità di cose. Sei musica, / Firmamenti, palazzi, fiumi, angeli, / Rosa profonda, illimitata, intima, / Che Dio indicherà ai miei occhi morti.” 457

Il tema è stato accennato nel commento sulla conferenza di Borges La cabala (Sez. II, cap.2). In particolare le note

61 e 62 alludono alla concezione della “divinità mostruosa”, legata anche all’immagine della grandezza incommensurabile e imperscrutabile di Dio quale è delineata nel Libro di Giobbe, una delle letture preferite dallo 173

E’ il ritorno, possente e tonante, del Fuoco, non distruttore, non assassino, come quello che aveva illuminato la scena con i suoi ultimi bagliori molti anni prima, quando Ulisse l’avventuroso, il figlio di Sisifo458, si era inoltrato per la prima volta fra le rovine del tempio distrutto, dopo avere abbandonato la terra feconda 459. E’ il fuoco di Eraclito460, del Dio dell’Esodo461, è il figlio di Ahura Mazda462, è l’Unità del molteplice, è infine il Principio, l’Uno e l’Unica Divinità.

scrittore argentino. 458

Cfr. n. 288 e cfr. Enciclopedia dell’antichità classica cit., voce Ulisse, 1469.

459

Nel terzo capitolo di questa sezione è ampiamente trattato il tema del fuoco distruttore (cfr. le note di riferimento,

in particolare 306 e 309). In quella fase del viaggio immaginario del protagonista l’interpretazione proposta esaltava, traendole dalla polisemia di un simbolo inesauribile, le peculiarità, per così dire, “negative” e allusive della distruttività e della circolarità (intesa come reiterazione della catastrofe ciclica) pertinenti all’elemento igneo. Ora il fuoco riappare, a mio avviso, prospettandosi, nell’economia di questo brano, come un segno assai diverso, come cifra dell’unità del molteplice, della permanenza nel divenire. 460

“..Il fuoco esprime in modo paradigmatico le caratteristiche del perenne cangiamento, del contrasto, dell’armonia.

Il fuoco infatti è perennemente mobile, è vita che vive della morte del combustibile, è incessante trasformazione in fumo e cenere, è, come in modo perfetto dice Eraclito del suo Dio Bisogno e sazietà. In altri termini è unità di contrari, è bisogno delle cose e in tal senso fa essere le cose; è sazietà delle cose e, in tal senso, distrugge e fa morire le cose.” (G. Reale, Storia della filosofia greca e romana, Vol. 1, Orfismo e presocratici naturalisti cit., 115) 461

“Il Signore marciava alla loro testa di giorno con una colonna di nube, per guidarli sulla via da percorrere, e di

notte con una colonna di fuoco per far loro luce, così che potessero viaggiare giorno e notte .” (Esodo, 13.21, in La Bibbia di Gerusalemme cit., 153). Cfr. più ampi riferimenti sulla frequenza di questa cifra simbolica anche nella mistica dello Zohar, alla nota 309. 462

La religione monoteista iranica attribuisce al fuoco la qualità “traslata” di figlio di Ahura Mazda. Tutto il creato è

figlio (putra) ossia opera di Ahura Mazda. D’altra parte putra significa propiamente “quintessenza purificatrice”, che allude all’altissimo compito affidato a Atar, il fuoco divino. Dunque anche in questa antichissima religione il fuoco assolve a una funzione positiva, accostata alla vitalità che evoca. Atar, pur essendo creato, è comunque strettamente legato all’epifania della divinità, della quale, per così dire, manifesta le qualità purificatrici. Il fuoco è invocato anche per procacciare salute, virilità, benessere e regalità: “Dammi, Atar, figlio di Ahura Mazda, benessere immediato, dinamica felicità, sostentamento, salute, abbondanza e pienezza di vita, ricolma di zelo, saggezza, santità, prontezza 174

Tuttavia, osservato dalla prospettiva del nostro demiurgo, è anche il vivido e misterioso elemento che consente a Prometeo di trascendere finalmente l’insufficienza del rozzo golem per creare e civilizzare Adamo. In questo senso, del tutto differente, la rappresentazione è ribaltata. L’epifania del Fuoco non è necessariamente segno della presenza di Dio. Al contrario, Prometeo-Anthropos 463, la divina decade della gnosi e della mistica ebraica, è colui che, dispensando questo strumento prezioso sottratto agli dei, immateriale e materiale nello stesso tempo, consente all’uomo di abbandonare le desolanti condizioni primordiali, in cui vegetava simile a fantasma di sogno464, per ascendere al nuovo rango di creatura immagine di Dio.

di linguaggio, intelletto, consapevolezza per la mia anima; e poi saggezza divina, che è esauriente, grande, imperitura”. (da Atas Niyayes, 10, in Avesta, a cura di Arnaldo Alberti, Torino, 2004, 277). 463

Già si è accennato (cfr. n. 321) al Prometeo demiurgo. K. Kerényi, in Miti e misteri cit., 192, lo accosta, per la

stretta relazione con l’umano che caratterizza questa strana figura mitologica, al dio degli Gnostici che in greco si chiamava Anthropos, “”uomo”” o “”primo uomo””. Questo parallelismo ne autorizza ovviamente un altro, legato alla Cabbala e, in particolare, alla nota, e più volta rammentata, figura dell’Adam Qadmòn, che contiene, circoscrive e riflette il mondo delle Sephirot. Sui rapporti fra l’Anthropos gnostico e l’Adamo primordiale nella Cabbala, cfr. M. Idel, La Cabbalà Nuove Prospettive cit., pp. 115 ss. 464

Nell’omonima tragedia di Eschilo, Prometeo racconta al coro come erano gli uomini prima che lui li avesse

perfezionati.” (K. Kerényi, Miti e misteri cit., 390. Ecco i versi nella traduzione (di M. Undertsteimer) del passo riportata a p. 391 dell’opera citata. Si ritiene opportuno evocarli in quanto echeggiano uno stato “larvale” e onirico degli uomini prima dell’intevento salvifico dell’eroe mitico: “Udite, invece, le infelicità regnanti fra gli umani, come un tempo erano inetti prima che chiarezza di spirito e dominio della mente a loro dessi. Questo ora dirò, non perché abbia un biasimo per gli uomini, ma per mostrare la mia benevolenza nel concedere loro questi doni. Essi, in passato, pur vedendo, invano vedevano, ed udendo non udivano, ma simili a fantasmi di sogno nella loro lunga vita confusamente e a caso ogni azione compivano, né di case intessute di mattoni e al sole esposte avevano un’idea, né dell’arte di lavorare il legno; sotto terra abitavano come formiche rapide nel più profondo degli antri ove il sole non giunge”.

175

Quale orizzonte di senso è più plausibile? Quello aperto al Dio unico soccorritore, che, dopo avere sciorinato il suo intimo dispiegarsi in innumerevoli forme coeve, le accoglie tutte in sé e si rivela definitivamente nel Fuoco, segno emblematico del paradossale contrasto tra divenire e permanere, molteplicità e unità, principio e fine, vita e morte 465

? Quello dunque destinato al solo Essere che si è svelato l’Onnipotente in grado di

completare l’opera dell’inadeguato demiurgo? Oppure è il nostro eroe dai mille volti, che nelle vesti numinose di Prometeo Anthropos (l’Adam Qadmòn della Cabbala) strappa la fiamma vivificante alle divinità sconfitte (sono memorabili e significativi a questo proposito gli dei incendiati e morti466), liberando il golem inetto, simile a fantasma onirico, dal più profondo degli antri, ove sole non giunge? Credo che la storia letteraria di Borges possa condividere entrambi i punti di vista. Da un lato, la vertiginosa ricerca dell’origine, del Principio, di ciò che precede o sta oltre l’impropriamente detta “realtà”467, un’inquisizione, come si è sottolineato, tanto familiare anche alla mistica ebraica, rende verosimile la credenza del nostro scrittore in quell’unica parola infinitamente significativa, nell’Aleph, che inevitabilmente, per definizione, postula un inizio; sappiamo bene, lo insegna la Cabbala, che la nostra arché scivola nelle profondità abissali del Nulla, e di tale terribile ambiguità è cifra simbolica proprio questa strana lettera dell’alfabeto sacro, incerta e divisa tra silenzio e suono, tra l’essere e il ni-ente. Tuttavia Aleph è segno anche dell’Unità e del Principio e questo autorizza a pensarla come Origine: il primo movimento linguistico che promana ex nihilo468.

465

Sulla valenza simbolica del fuoco nella mistica ebraica, cfr. anche G. Busi (Simboli del pensiero ebraico cit, 60

ss..). 466

J.L. Borges, Le rovine circolari cit., 660. E’ un passaggio del secondo brano di testo, esaminato nel terzo capitolo

di questa sezione. 467

Dice bene H. Bloom, come sottolineato altrove, la presunta realtà (Cfr. Come si legge un libro cit., 78).

468

“Il nome di Dio è l’unità del movimento del linguaggio, che esce dalla radice primordiale e si ramifica.” (G.

Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 410).

176

Dunque non è arbitrario supporre che nel pensiero di Borges, quale si manifesta nel nostro testo, possa aleggiare un unico Dio, principio della parola-cosa, inizialmente dato nella purezza ineffabile dell’indicibile Aleph; una lettera archetipo, che in seguito, per così dire, si “degrada” e frammenta nel tempo del mondo e del racconto. Si ipotizza una Divinità

le cui forme

infinite

non oscurano

la sostanziale

indivisibilità

trascendente, risolvendosi nell’immanenza di modi innumerevoli che non ne tradiscono l’incommensurabile Unità 469. Il nostro autore, peraltro, come i mistici, scrive nel segno del paradosso. Ecco perché mi pare altrettanto plausibile il ribaltamento di prospettiva che trasforma il demiurgo, emancipandolo dagli invalicabili limiti umani, nel titanico Prometeo che elargisce il fuoco agli uomini per dotarli di chiarezza di spirito e dominio della mente; in altre parole, per donare loro un’anima, completandone la creazione. Nulla esclude infatti, come si è già visto, nella concezione del divino prospettata dal nostro autore, che Dio e uomo possano accorciare enormemente la distanza che li separa frequentando un comune territorio onirico. Proprio l’atto creativo li unisce, assecondando un analogo processo di emanazione, legato, nel pensiero borgesiano, a un prodigioso sognare che negligentemente produce universi 470 come voci dal sen fuggite. Si era osservato che quell’annullamento delle differenze 471 alludeva a un possibile giganteggiare dell’uomo (un “titanismo” che si addice quasi alla lettera alla figura mitica del nostro Prometeo) correlato a una corrispondente “degradazione” della divinità.

469

Tale concezione ho cercato di sviluppare nella precedente narrazione liberamente ispirata agli immaginari pensieri

del protagonista. Ho anche rilevato come la raffigurazione del divino in Borges, se pure ispirata a una sorta di “panteismo filosofico” non chiaramente nè rigorosamente delineato, sia tuttavia anche caratterizzata, sotto il profilo della rappresentazione letteraria, e dunque a un livello meramente “descrittivo”, dalla tendenza ad accentuarne il dinamismo metamorfico. 470

Cfr. cap.4) della II Sezione.

471

Ecco alcuni versi di una poesia giovanile di Borges in cui si avverte l’accorciamento delle distanze: “ Credo che le

mie giornate e le mie notti eguaglino in / povertà e in ricchezza quelle di Dio e quelle / di tutti gli uomini.” (La mia vita intera, da Luna di fronte, in Tutte le opere cit., Vol.1, 127).

177

Quell’orizzonte ermeneutico ritorna, quindi, assegnando nuovi ruoli alle parti, consentendo all’eroe dei mille volti, nei panni prometeici, di far nascere davvero l’uomo accompagnandolo dall’oscurità alla luce, per liberarlo così definitivamente dall’amorfo stato larvale di golem inetto e dormiente, di fantasma di sogno. Tuttavia noi sappiamo che il “neonato” de Le rovine circolari è sì figura umana, ma è anche sogno: è in definitiva una strana sospesa figura di uomo -sogno. Sorge un interrogativo. Questo scenario deve essere letto in senso “riduttivo”, ossia come la parabola letteraria del limite invincibile che separa e circoscrive nettamente la cosiddetta realtà 472, segregandola in modo definitivo dal ben diverso vissuto del sogno, degradato e illusorio prodotto dell’impotente immaginazione umana, alla quale sarebbe riservata solo una creatività, per così dire, imitativa, mimetica, e non originaria? Oppure il territorio onirico è l’unica geografia universale, il solo ambito percorribile, l’evanescente fondamento del Tutto che non può confrontarsi con alcunché di differente (sogno o son desto?), in definitiva il Paese di ognuno, dal quale nessuno, neppure la divinità, può evadere? Si ritorna dunque a uno degli interrogativi fondamentali: a chi appartiene la parola originaria?

6) La fine del sogno Dopo un certo tempo che alcuni narratori della sua storia preferiscono di computare in anni, altri in lustri, lo svegliarono a mezzanotte due rematori; non ne vide i volti, ma gli parlarono di un uomo magico, in un tempio del Nord, capace di camminare nel fuoco senza bruciarsi. Il mago ricordò bruscamente le parole del dio. Ricordò che di tutte le creature che compongono l’orbe, il fuoco era l’unico a sapere che suo figlio era un fantasma.

472

La realtà è intesa qui nella sua espressione di evidenza “cartesiana” dell’autocoscienza propria e del mondo, la cui

esistenza sarebbe garantita dal suo stesso artefice, l’unico possibile, quel Dio demiurgo che non ci può ingannare: “Sono l’unico uomo sulla terra e forse non c’è terra né uomo. / Forse un dio mi inganna. / Forse un dio mi ha condannato al tempo, quella lunga illusione. / Sogno la luna e sogno i miei occhi che vedono la luna../ Forse non ebbi ieri, forse non sono nato. / Forse sogno di aver sognato. / sento un po’ di freddo, un po’ di paura..” (J.L. Borges, versi scelti da Cartesio, in La cifra; Tutte le opere cit., Vol. 2, 1157). 178

Questo ricordo, tranquillante al principio, finì per tormentarlo. Temette che suo figlio meditasse su questo strano privilegio e scoprisse in qualche modo la sua condizione di mero simulacro. Non essere un uomo, essere la proiezione del sogno

di un

altr’uomo; che umiliazione incomparabile, che vertigine! A ogni padre interessano i figli che ha procreato (che ha permesso) in una mera confusione o felicità; è naturale che il mago temesse per l’avvenire di quel figlio, pensato viscere per viscere, lineamento per lineamento, in mille e una notte segrete. Il termine del suo rimuginare fu brusco, ma lo precedettero alcuni segni. Prima (dopo una lunga siccità) una remota nube sopra un colle, leggera come un uccello; poi, verso sud, un cielo rosa come la gengiva del leopardo; poi le fumate, che arrugginirono il metallo delle notti; infine la fuga impazzita delle bestie. Poiché si ripetè ciò che era già accaduto nei secoli. Le rovine del santuario del dio del fuoco furono distrutte del fuoco. In un’alba senza uccelli il mago vide avventarsi contro le mura l’incendio concentrico. Pensò, un istante, di rifugiarsi nell’acqua, ma comprese che la morte veniva a coronare la sua vecchiezza e ad assolverlo dalle sue fatiche. Andò incontro ai gironi di fuoco: che non morsero la sua carne, che lo accarezzarono e inondarono senza calore e senza combustione. Con sollievo, con umiliazione, con terrore, comprese che era anche lui una parvenza, che un altro stava sognandolo .

6.1) Premessa

Alla fine succede ciò che forse oscuramente si era presagito al primo svelarsi di quell’esergo così profetico e inquietante (“E se smettesse di sognare?”) Come si sapeva, siamo fatti della stessa stoffa dei sogni. Tuttavia questa immaginifica metafora teatrale non deve essere letta come un mero traslato: rappresenta, al contrario, la realtà, “il mondo” del racconto; certo uno dei tanti possibili, ma, particolare non trascurabile, tra i molti è proprio quello eletto da Borges. Ora non deve importare più nulla di tutti gli altri universi, in astratto dotati di credenziali altrettanto plausibili e forse per noi meno inquietanti, che avrebbero potuto ispirare al nostro autore soluzioni narrative diverse. Sul piano squisitamente letterario siamo al cospetto di uno scioglimento della storia assolutamente coerente e legittimo: forse, come si era detto, impossibile solo nell’attualità, a differenza delle finzioni utopiche, non realizzabili in alcuno dei mondi possibili 473. 473

Si tratta della già citata teoria della finzionalità di Baumgarten. (Cfr. L. Dolézel, Poetica occidentale cit., 58-59). Si

è più volte sottolineata (e si è dedicata una lunga divagazione a questo tema nel cap. 2 della III sezione) la centralità e 179

E’ una conclusione tragicamente consequenziale alle premonizioni che si erano avvertite ed è strettamente intrecciata alle trame letterarie incessantemente tessute dal nostro autore. Non

mi

riferisco

solo

all’ultima

relazione

dello

scrittore

argentino

sulla

Cabbala,

particolarmente originale, come si era notato, soprattutto nel trattare il processo della creazione, legato indiscutibilmente a proiezioni - emanazioni oniriche di Dio, dell’uomo o della cieca volontà cosmica di Schopenauer . Alludo anche all’opera poetica, cui accennerò fra poco. Soprattutto, ma da Borges non ci potrebbe attendere nulla di differente, è un finale inesauribile, perché nel momento in cui il cerchio si chiude, ci si trova nuovamente “gettati” all’origine: è cosa ovvia, perché proprio la circolarità, evocata dal titolo del racconto, rappresenta una delle chiavi ermeneutiche principali del testo. Gli orizzonti di senso che si aprono sono tuttavia molteplici; m’illudo che le digressioni, gli arbitri, le reiterazioni spesso prodigate in questo lavoro possano trovare una legittima collocazione. Tuttavia non è lecito ambire ad alcunché di stabile o conclusivo, né presumere un impossibile, quanto forse scorretto, “tout se tient”. E’ molto discutibile, a mio avviso, offrire interpretazioni univoche (se pure in assoluto fosse davvero possibile farlo) anche quando un testo apparentemente “facile” paia prestarsi a semplificazioni 474. Tentare poi tale operazione quando si è alle prese con scritti di Borges e con la mistica ebraica sarebbe pretesa folle.

legittimità dell’interrogativo “Sogno o son desto?” 474

Evidentemente il brocardo giuridico in claris non fit interpretatio non può avere successo nell’ermeneutica

applicata alla letteratura. Tanto meno avrebbe fortuna nel mondo di Borges, che, come si è detto, nega l’effettiva originalità di qualsiasi opera e in sostanza attribuisce alla comunità letteraria – comprendente anche il lettore – il compito di riscrivere, paradossalmente, le stesse cose.

180

E’ forse preferibile la meno proterva pazzia che, saputo quanto barocco è il mondo 475, si diverte ad almanaccarne coraggiosamente anche gli esiti più improbabili. Se così è, e lo credo fermamente, posso prospettare qualche spunto. Dico subito che la prima riflessione, in parte anticipata, trae origine, per così dire, dalla stessa struttura profonda del racconto, che trova il suo orizzonte più facilmente riconoscibile nella circolarità. Il secondo piano ermeneutico vive soprattutto dell’indagine sul rapporto, a lungo dibattuto in questo lavoro, tra l’uomo e la divinità, e impone di ampliare brevemente il tema del racconto raccordandolo, quasi a colmarne presunte “lacune”, a altre opere di Borges. Si tratta, se si volessero cercare analogie con l’altro versante dei nostri studi, di procedimento interpretativo ben conosciuto dai maestri ebrei dell’esegesi biblica. Il terzo profilo si richiama, sviluppando in sostanza il secondo, a una tesi mistica messa in luce soprattutto da M. Idel. Il tema finale lo riservo, per giustificarne qualche “pirotecnica” arditezza comparatistica 476 e per la sua portata più generale, alle considerazioni conclusive della prossima sezione. 6.2) La circolarità

Il tempo della storia si dilata ancora. Trascorrono forse lustri e Sisifo – Prometeo, pur consapevole di avere dato vita a una mera parvenza, peraltro anatomicamente compiuta e divinamente animata, ha comunque raggiunto lo scopo al quale si è votato e giace immerso nei suoi solitari sonni estatici. Possiamo immaginare che ora, esaurito il compito, i suoi sogni siano nostalgici e gli pesi l’assenza del figlio pensato viscere per viscere e lineamento per lineamento, in mille e una notte segrete477. 475

Posso appellarmi non solo a Borges (“E’ strana la sorte dello scrittore. In un primo tempo è barocco,

vanitosamente barocco, ma, col passare degli anni può attimgere, se le stelle sono favorevoli, non la semplicità, che non è niente, ma la modesta e segreta complessità.” Cfr. J.L. Borges, L’altro, lo stesso, in Tutte le opere cit. vol. 2, 7), ma anche all’autorità di C.E. Gadda (scrittore tanto diverso dal nostro, quanto, per certi aspetti, non del tutto estraneo) e alla sua prosa introduttiva a La cognizione del dolore (Torino, 1970, 236): “Ma il barocco e il grottesco albergano già nelle cose, nelle singole trovate di una fenomenologia a noi esterna: nelle stesse espressioni del costume..” 476

Pirotecnica non certo per spettacolarità, ma perché artificiosa, certamente inoffensiva e in ogni caso del tutto

trascurabile. 477

J.L. Borges, Le rovine circolari cit., 664.

181

Ma improvvisamente, dopo questa lunga sospensione temporale senza cronache, un giorno qualsiasi, a mezzanotte due rematori dal volto indecifrabile, lo svegliano e gli raccontano di un uomo, dedicato al culto del fuoco, che, pur frequentando le fiamme, ne resta miracolosamente immune. Non può essere che il figlio – fantasma e il pensiero del padre è di sollievo – per la prerogativa magica che preserva la sua creatura – e di dolore, perché teme che il giovane possa saggiare la stoffa evanescente nella quale consiste, riuscendone umiliato. Intanto i due navigatori - narratori, i soli personaggi, all’apparenza, “compiutamente reali” del racconto diversi dal protagonista (per quanto senza volto e privi di identità) non possono non richiamare l’esordio della storia, e l’itinerario notturno intrapreso all’origine dal nostro eroe con la fragile canoa incagliatasi precocemente nel fango sacro, l’odissea dell’uomo taciturno impegnato forse nel tentativo di eludere le peripezie che lo avrebbero coinvolto per raggiungere subito l’ascesi mistica e l’apoteosi divina nelle vesti regali dell’egizio Ra, prometeico dispensatore di benefici all’umanità. Indubbiamente è questo un altro sottile indizio478 della reiterata ciclicità della narrazione, che tra poco troverà più esplicite conferme. Un diverso aspetto479, l’evoluzione e la crescita etica del protagonista, è sublimato da questo brano conclusivo. Forse per la prima, e certamente per l’ultima volta nel racconto, il taciturno straniero, che nella vita di veglia ha rotto il silenzio solo per pronunciare il nome poderoso480, esce da se 478

Si è sottolineato a lungo nel cap. 3 di questa sezione il tema della reiterazione, della ciclicità e dell’Eterno Ritorno

– anche con riferimento alla mistica ebraica del Sefer Temunà -, e sono stati prospettati i riflessi di questa struttura di pensiero sui procedimenti creativi mai realmente o completamente soddisfacenti attuati dal protagonista. Le considerazioni svolte sono, come tutte le altre di analogo contenuto, richiamate ora, in questa sorta di redde rationem – sia pure non impegnativo - degli spunti di volta in volta enucleati. 479

Tra i molteplci orizzonti di senso che ho cercato di esplorare in questo commento, uno è certamente quello, per così

dire, “esistenziale”, legato, come si è detto, alla lettura del racconto come romanzo di formazione. Certamente, è appena il caso di rilevarlo, taluni aspetti appena accennati (anche perché meno legati a rapporti con la mistica ebraica), come quelli attinenti il significato della paternità per il protagonista sarebbero certamente meritevoli di approfondimento in quanto comunque significativi nell’esegesi globale de Le rovine circolari. Basti pensare che il demiurgo, sognando il figlio viscere per viscere, lineamento per lineamento, ha assolto a una funzione creativa, ove si prescinda dallo scenario onirico, assoluta e completa, nella quale i confini tra maternità e paternità sbiadiscono. 480

Non per dialogare, dunque, non per comunicare, non per raccontare, ma per raggiungere uno scopo. Il protagonista

si mostra dialettico, come si è visto, nel sogno, ma nella veglia compie, al più, un atto che in linguistica è forse 182

stesso e si cala, animando il suo vivacissimo fervore intellettuale con un veemente sentimento di affetto, nell’esperienza dell’Altro, del figlio sognato, e prova dolore: “Non essere un uomo, essere la proiezione del sogno di un altro uomo: che umiliazione incomparabile, che vertigine!”481 Ora, se questo è l’orizzonte, poco importa, in tale contesto, indagare se l’atto creativo debba essere attribuito a Dio, all’uomo o una Cieca Volontà. Si tratta in ogni caso – si torna a riflessioni non nuove482 - di distratte emanazioni oniriche, dei prodotti casuali di un’assenza e di una solitudine: che cosa può nascerne483? Probabilmente l’interrogativo è retorico, ma perchè il figlio dovrebbe avvertire proprio “vertigine e umiliazione”? Questi due termini hanno in comune l’abisso di dolore al quale guardano con tremore: l’umiliazione, soprattutto se pensata nella sua accezione etimologica più propria 484, fa sprofondare verso il basso, verso la terra.

classificabile come un’esortazione di natura pragmatica. 481

J.L. Borges, Le rovine circolari cit., 664.

482

Cfr. cap.4) della II sezione.

483

In questa prospettiva, forse la più tragica fra quelle che propongo, mi pare opportuno citare una prosa di Borges

(Metempsicosi della tartaruga, in Discussione, da Tutte le opere cit., Vol.1, 399): “Noi (la indivisa divinità che opera in noi) abbiamo sognato il mondo. Lo abbiamo sognato resistente, misterioso, visibile, ubiquo nello spazio e fermo nel tempo; ma abbiamo ammesso nella sua architettura tenui ed eterni interstizi di assurdità, per sapere che è finto”. In un racconto della raccolta Finzioni (Il miracolo segreto, in op.ult.cit., 743) così lo scrittore argentino: “Ricordò che i sogni degli uomini appartengono a Dio e che Maimonide ha scritto che le parole di un sogno, quando suonano chiare e distinte, e non si può vedere chi le ha dette, sono divine”.

Ancora il nostro nella prosa Everything and

nothing (in L’artefice, op. ult. cit., 1161): “La storia aggiunge che (Shakespeare, n.d.r.), prima di morire o dopo morto, si seppe di fronte a Dio, e gli disse: “”Io, che tanti uomini son stato invano, voglio essere uno e io.”” La voce di Dio gli rispose da un turbine: “”Neanch’io sono: io sognai il mondo come tu sognasti la tua opera, mio Shakespeare, e tra le forme del mio sogno sei tu, che come me sei tanti e nessuno.”” 484

“Dal latino humile(m), che secondo la famiglia etimologica, alla quale appartiene [da humu (m) terra] significa

propriamente “”basso, che non si alza da terra, quindi, poi, “”modesto, umile, oscuro””. (Cfr. M. Cortelazzo, P. Zoli, Il nuovo etimologico cit., voce umile, 1763).

183

Oltre al timore di perdere una creatura sentita come esclusivamente propria 485, si esprime in questo modo, così profondamente patetico, il dolore della degradazione, avvertito come un sentimento legato alla finitezza (verrebbe quasi da dire alla finitudine) dell’uomo. Se questo venire deprivati e diminuiti sia solo un fatto, per così dire, accidentale o contingente, legato a un procedimento creativo limitato e penalizzante, noi non lo sappiamo, e in fondo poco importa saperlo, perché, come si è raccontato – questa visione potrà trovare altrove importanti conferme – l’essere sogno o “realtà”, persino la legittimità di un distinguo siffatto, è un’alternativa (sogno o son desto?) il cui scioglimento probabilmente non offrirebbe decisivi contributi nell’orientare il pensiero verso una più corretta impostazione della relazione col nostro mondo (la cui natura continuiamo a ignorare) 486. Restano il dolore, l’afflizione, il senso di inadeguatezza: nessuna “eventuale” realtà più “reale” del sogno potrà attenuarli, nessun sogno meno “reale” della realtà potrà mai emendarli487.

485

Come accennato, è innegabile che gli sforzi prodigati, peraltro destinati all’inanità senza l’aiuto del dio, per

pensare e formare quel figlio viscere per viscere, hanno creato nel demiurgo il convincimento, non alieno da presunzione (e forse infondato alla luce delle considerazioni, basate anche su una lettura cabbalistica del testo, svolte nel cap. 4 di questa sezione) di essere il solo genitore, madre-padre, della creatura. Se ne può plausibilmente dedurre un senso di possesso ancora più fortemente accentuato di quello legato a una paternità “naturale”. 486

Cfr. gli spunti nel cap.2) della III sezione. Mi permetto, solo per chiarire questo passaggio, di citare una delle mie

riflessioni sul punto: “La cifra simbolica autentica del sogno non può non essere angosciosa spettacolare libertà dell’immaginazione. Libera persino di immaginare se stessa come unica realtà fondante l’universo. Immaginazione al potere, in quanto le diventa impossibile pensare a altro che se stessa, immaginazione pura. Immaginazione reale e realtà immaginaria, perché, se il confine che separa i due territori è illeggibile, la distinzione è insensata. Non ha senso porre la realtà, che può esistere solo differendo dall’immaginario, non ha senso porre l’immaginario, che può esistere solo differendo dalla realtà”. 487

Condivisibile in parte (come lo sono tutte, proprio perchè non esiste “interpretazione autentica), per quanto, lo si

ribadisce, mi sembri non troppo rilevante il distinguo tra sogno e “cosiddetta realtà”, anche l’intepretazione di P. Quaglia (nella pregevole Una lettura filosofica dei racconti di J.L. Borges cit., 42): “Purtroppo la stessa natura umana, che egli crede di avere oltrepassato, lo riporta a un modo d’essere che è caratteristica di ogni uomo, cioè al dolore che si prova nel vedere le sofferenze altrui. Egli sa che c’è un testimone che conosce le origini della sua creatura, teme che essa possa scoprire la propria condizione di simulacro, la propria irrealtà”.

184

In definitiva, mi piace – o trovo più fecondo - pensare che il demiurgo soffra dell’illusorietà o della vanità, se si vuole, della condizione umana “in quanto tale e in generale”, prescindendo, per così dire, dal suo statuto ontologico-esistenziale e dunque dalla considerazione, che mi pare più pertinente all’importante ma distinta prospettiva del rapporto affettivo paterno488, della fragile stoffa onirica in cui consiste il figlio. O meglio, se si preferisce, il sogno è in questo caso parabola, emblema, cifra simbolica di tale condizione. La sofferenza, infatti, a mio avviso, nasce altrove per assumere una dimensione più universale: sorge - ecco di nuovo Sisifo immortale – dal dolore disperante della frustrante ripetizione, dalla percezione della vanità e, se volessimo utilizzare una categoria del pensiero buddista, dell’impermanenza, che travolge le cose senza risparmiare neppure il Sé, la cui inconsistenza sta per rivelarsi in modo così netto e inconfutabile nella conclusione narrativa489. L’umiliazione e la vertigine scaturiscono dalla reiterazione del dramma catastrofico dell’Origine, dall’incessante mise en abyme che pur spalancandosi vertiginosa solo nella frase finale del racconto490, tuttavia non giunge inattesa, perché è preparata da tempo ed è annunciata dai segni inquietanti e spettacolari che il nostro autore, come un drammaturgo elisabettiano, prodiga senza risparmio. La siccità, una nube remota, un cielo insolitamente rosa (come la gengiva del leopardo,

488

Aspetto certo importante, ma non unico. Secondo le prospettive ermeneutiche abbozzate, anche questa relazione

gioca un ruolo rilevante nella crescita etica del personaggio, evidenziandone, peraltro, anche i limiti. 489

Nel trattare le quattro nobili verità su cui si fonda l’etica buddista, Beolchi (in Introduzione alla filosofia indiana,

Milano, 2004, pp. 214-215) ricorda che dei livelli di sofferenza (prima nobile verità), il secondo è legato alla percezione della vanità e dell’impermanenza delle cose. A ciò aggiunge che “infine un terzo livello di sofferenza si lega al fatto che noi stessi siamo impermanenti e che non esiste nulla che si possa chiamare “”sé”” o “”anima””. Ciò che chiamiamo”” sé”” è una combinazione di forze fisiche e mentali. In contrasto non solo con lo spiritualismo, ma anche con la psicologia materialista, il Buddhismo afferma che i cinque insiemi o aggregati costituenti quella combinazione di forze fisiche e mentali che chiamiamo sé sono essi stessi inesistenti. Lo stesso vale per il concetto di “”sé””. Esso pure – in quanto concetto – è prodotto di una di quelle forze.” 490

“Con sollievo, con umiliazione, con terrore, comprese che era anche lui una parvenza, che un altro stava

sognandolo”. J.L. Borges, Le rovine circolari cit., 664.

185

nulla di più borgesiano), il fumo, la fuga delle bestie, e infine il fuoco devastatore, assassino degli dei491. Lapidaria la frase successiva (è a mio avviso una sorta di prima conclusione del racconto 492): “Poiché si ripeté ciò che era già accaduto nei secoli”. 493 La narrazione potrebbe terminare a questo punto: la conclusione è infatti quasi ridondante se si assecondano le attese create dall’orizzonte di senso proposto nel segno della ripetizione. Noi sappiamo, dovremmo sapere – lo stesso esergo de Le rovine circolari ne è la chiave



che

anche

l’eroe

dai

mille

volti

è

illusorio 494: solo

il

sogno,

territorio

dell’immaginario, o solo il suo essere un dio proteiforme, come pure si è ipotizzato 495, possono spiegare le sue innumerevoli trasformazioni. Dilemma non da poco, che aleggerà anche sulle altre letture che seguiranno. Siamo coscienti per ora che la luce onirica proiettata dal Golem di Meyrink sulla produzione letteraria di Borges ha trovato qui il terreno più fertile e che la sola geografia plausibile di questa narrazione è quella del sogno. In tale prospettiva, d’altra parte, il nostro autore ha anche offerto altri consistenti indizi sulla stretta e inquietante relazione tra il predominante elemento onirico e la circolarità e reiterazione degli eventi. 491

Segni che riportano alla memoria quelli che nel Macbeth preannunciano e accompagnano la morte di Duncan:

“Vecchio: “”Una cosa innaturale, come l’atto che è stato commesso. Martedì scorso un falco in pieno volo fu artigliato da un gufo e ucciso come un topo””. Ross: “”E i cavalli di Duncan – si stenta a crederlo, ma è vero – campioni di bellezza e velocità, son tornati selvaggi, e rotte le barriere son fuggiti liberandosi dal morso, come per portare guerra al genere umano.”” Vecchio: “”Si son divorati fra loro, ho sentito dire.”” Ross: “”Così è. Li ho visti, sbigottito, coi miei occhi.” (W. Shakespeare, Macbeth, II atto, scena IV, a cura di V. Gassman, Milano, 1983, pp. 6566.) 492

Secondo questa prima interpretazione proposta, fondata sulla circolarità, è la reale conclusione del racconto.

493

J.L. Borges, Le rovine circolari cit., 664.

494

Nella prospettiva ermeneutica sviluppata qui per prima, evidentemente il sogno, tema su cui spesso mi sono

soffermato, è sì proiezione dell’immaginario e atto creativo, ma è anche espressione e figura dell’illusorietà che una concezione ciclica del divenire, chiave di interpretazione proposta in questo paragrafo, necessariamente comporta. 495

Nel capitolo precedente si è prospettata una duplice interpretazione, due sensi profondamente diversi dell’epifania

del Fuoco.

186

Se tutto si è ripetuto da secoli, ci avverte Borges, se il figlio non è altro che la proiezione del sogno paterno, se la creatura, così limitata, è dedicata, come il suo creatore, al culto del fuoco in un tempio uguale a quello destinato alla ineluttabile distruzione ciclica - lo stesso luogo ora sacro, ora sconsacrato, in cui il demiurgo si è prodigato nell’emulare la divinità allora il nostro eroe dai mille volti, che in definitiva si è riprodotto per adempiere il suo futuro, non può non conoscere anche l’identico passato già vissuto496: esso non ha più misteri, perché quell’evanescente frutto della sua frenetica attività generativa gli ha svelato la tragica circolarità del divenire, gli ha mostrato la fatale ruota che non cessa di girare, lo ha posto di fronte all’impossibilità di eluderla, al dolore di non potervi sfuggire 497, ha proclamato l’inanità di ogni sforzo, quel perenne patetico ritornare in cima alla rupe impervia, carico del peso del mondo - come Sisifo, non diversamente da Prometeo drammaticamente conscio della certezza di vedere per sempre l’insostenibile masso di nuovo rotolare in basso, verso la terra - humus: che umiliazione incomparabile, che vertigine! Si potrebbe azzardare che quell’umiliazione consista proprio nella vertigine, che si tratti, sintetizzando i due concetti, dell’umiliazione della vertigine.

496

“A volte, l’inquietava un’impressione che tutto quello fosse già avvenuto.” J.L. Borges, Le rovine circolari cit.,

662. Sempre il nostro autore (Per una versione dell’”I King”, da La moneta di ferro, in Tutte le opere cit., Vol. 2, 1011): “L’avvenire è altrettanto irreparabile / Quanto il rigido ieri. Non esiste cosa / Che non sia una lettera muta / Dell’eterna scrittura indecifrabile / Il cui libro è il tempo”. Significativi anche questi versi di Borges (tratti da Endimione a Latmo, in Storia della notte, in op. ult. cit., 1055): “E’ inutile ridirmi che il ricordo / Di ieri e un sogno sono la stessa cosa”). 497

Nel cap. 3 di questa sezione è stato trattato il tema dell’Eterno Ritorno. Qui si sottolinea, se fosse necessario, come

la ciclicità del tempo e in particolare la trasmigrazione delle anime, per certi versa connessa, siano argomenti tutt’altro che estranei alla mistica ebraica. Proprio i Cabbalisti si sono a lungo interrogati circa il significato della credenza nello Ibbur: chance ulteriore di redenzione di un’anima non completamente malvagia, o, quasi a voler reiterare il pensiero indu e buddhista, punizione? Sul punto si veda l’approfondita analisi di G. Laras, in La mistica ebraica e il pensiero cabbalistico cit., pp. 99 ss.

187

Come eludere il terrore di questa parvenza di immortalità umbratile, fantasmatica e fittizia? Solo se si lascia ad altri, o meglio a uno solo quel tragico dovere di sognare, solo se si sfugge al ciclo incessante delle proiezioni oniriche, all’incubo della illimitata mise en abyme, dell’infinito moltiplicarsi dei sogni nei sogni: solo così forse si può sperare di sfuggire all’abissale umiliazione. Chi sogna senza essere sognato è forse Dio o un volere cieco che sovrasta anche la divinità, questo pare di comprendere: l’eroe dei mille volti, se la lettura prospettata è accettabile 498, ha finalmente ora la certezza di non essere l’Origine 499.

498

Si è detto che quella proposta in questo paragrafo è forse una delle possibili letture, non certo la sola.

499

Sempre in linea con questa lettura, così il citato P. Quaglia (op. ult. cit., 43): “Il suo desiderio di onnipotenza non è

che un sogno, il quale si trova all’interno di un altro sogno e così via all’infinito. L’Assoluto sfuma in una lontananza sempre più remota. In questo racconto il sogno perde il suo carattere di apertura verso la trascendenza e precipita in una vera forma di delirio. Nel sogno deviato l’uomo crede di essere egli stesso un assoluto, crede di essere un creatore che può tutto. La ricerca della trascendenza si capovolge in una demoniaca illusione: alla tranquilla estasi del mistico si è sostituita una funesta esaltazione.” Nelle linee generali, e limitatamente all’ottica adottata in questo paragrafo, si può condividere, come tante altre, questa conclusione, anche se mi pare che la “demonizzazione” del protagonista sia forse segno di una radicalizzazione eccessiva. Intanto è innegabile, come sottolineato, che il demiurgo sul piano etico “cresce” nel corso della narrazione; poi si riscontra sempre questa inesauribile tensione esistenziale – l’inanità dello sforzo frustrante – che in ogni caso, a mio avviso, illumina, per così dire, di luce eroica il percorso del nostro Sisifo-Prometeo. Secondo Alazraki (in Borges e la Kabbalah cit., 24), ciò che distingue in questo racconto la concezione di Borges da quella cabbalistica sarebbe la prospettiva, propria solo dello scrittore argentino, di considerare anche Dio un sogno: ma questa non mi pare una conclusione imposta da Le rovine circolari: per adottarla mi pare inevitabile agganciare questa narrazione a altre opere di Borges (in particolare alla poesia Scacchi, come si vedrà nel prossimo paragrafo).

188

Forse è consolato dall’idea che un giorno o l’altro, in un passato-futuro lontano, magari per capriccio, qualcuno, chissà chi, smetterà di sognarlo, interrompendo il ciclo delle emanazioni. Essere Dio o morire, per non sognare più, per non essere più sognato 500, questo è il problema501, ancora irrisolto. 6.3) Dio e l’uomo

La lettura proposta nel paragrafo precedente pone in luce solo quella certa particolare “tonalità” ermeneutica di fondo, la ciclicità, che sembra prescindere dalle risposte ultime, o, più modestamente, dagli urgenti e inquietanti interrogativi sorti di volta in volta accompagnando Borges intorno alle Rovine circolari. Le domande alle quali alludo presuppongono forse un percorso temporale schiettamente lineare, orientato, sul versante narrativo, verso uno scioglimento della trama più riconoscibile.

500

In questo senso la liberatoria interruzione del ciclo delle nascite ( il samsara) nel pensiero indu e nel buddismo

potrebbe essere “rispecchiata” dall’interruzione, altrettanto agognata, del ciclo dei sogni nella concezione del cosmo di Borges. Non si deve dimenticare peraltro che tale prospettiva dello scrittore argentino trova il proprio spunto originario, come si è visto, nella cosmogonia ebraica, e in particolare nell’accezione emanatistica della dottrina delle Sephirot. 501

Qui mi pare abbastanza puntuale rammentare non solo l’inizio del celebre monologo, ma anche un altro passaggio

non estraneo all’angosciosa prospettiva illustrata nel testo: “Essere o non essere è questo che mi chiedo: se è più grande l’animo che sopporta i colpi di fionda e i dardi della fortuna insensata, o quello che si arma contro un mare di guai e opponendosi li annienta...Morire..dormire, - dormire, sognare forse – Ah, qui è l’incaglio: perché nel sonno della morte quali sogni possano venire, quando ci siamo districati da questo groviglio funesto, è la domanda che ci ferma – ed è questo il dubbio che dà una vita così lunga alla nostra sciagura.” (W. Shakespeare, Amleto, atto III, scena I, vv. 56 ss., Milano, 1984, 113).

189

La circolarità, con la sua naturale vocazione alla reiterazione, tende ovviamente a non chiudere il discorso, offrendo spunti di taglio, per così dire, prevalentemente “esistenziale”: la vertigine della ripetizione e lo smarrimento abissale che, in una prospettiva destituita da forme liberatorie di redenzione, sembrano avvolgere l’uomo senza risparmiare la divinità, delineano l’orizzonte di senso dominante; inoltre il rilievo della distinzione tra le funzioni e la natura - umana o divina - dei personaggi della storia sembra destinato, in questa dimensione, ad attenuarsi e forse svanire. Ciò che emerge è, in definitiva, la frustrante peripezia di Sisifo-Prometeo, uomo o dio poco importa, illuminata dalla consapevolezza della tragicità dell’Eterno Ritorno. Ci si può chiedere, dunque, se persista il medesimo senso di tragica inanità spostando l’attenzione sul vero e proprio esito narrativo, sul “colpo di scena” finale del racconto: ” Con sollievo, con umiliazione, con terrore, comprese che era anche lui una parvenza, che un altro stava sognandolo”.502 Per sviluppare nuove riflessioni su una conclusione annunciata sin dall’esergo – dunque, se si vuole, per nulla sorprendente - occorre richiamare qualche altro testo di Borges, ricorrendo questa volta all’opera poetica503, nella quale il tema del sogno di Dio, o meglio, del più complesso e intricato rapporto tra divinità, uomo e tessuto onirico, è più frequentemente proposto. Ecco quindi una breve scelta antologica di versi tratti da composizioni diverse. Non è, né può essere esaustiva, ma è, credo, sufficientemente significativa e, per certi aspetti, non priva di connotazioni “ossessivamente” ripetitive, tanto da consentire forse l’individuazione di un filo conduttore comune: “Affinché possa io sognare l’altro La cui verde memoria sarà parte Dei giorni dell’uomo, io ti supplico: Dio, mio sognatore, continua a sognarmi.” 504 Qui riecheggia l’epigrafe del nostro racconto (E se smettesse di sognare?) La geografia onirica è l’unica disponibile: non esiste universo all’infuori di questo. La garanzia di esistenza, 502

J.L. Borges, Le rovine circolari cit., 665.

503

Alcuni richiami, sullo stesso tema, all’opera in prosa di Borges sono evocati alla nota 486.

504

J.L. Borges, Nemmeno sono polvere, da Storia della notte cit., in op. ult. cit., 1061.

190

la cui precarietà è evidentemente allusa, è affidata solo alla volontà, in qualche modo fortuita e paradossalmente “non intenzionale”, di produrre (o lasciarsi sfuggire) sogni, attributo di pertinenza di un demiurgo divino, al quale è rivolta un’opportuna supplica, in fondo non troppo dissimile dalla preghiera mistica del Cabbalista teurgo che coopera attivamente con Dio per assicurare la persistenza, la conservazione, il rafforzamento del mondo 505. Ci si deve però interrogare anche sull’altra, non meno illuminante, faccia della medaglia: l’uomo in questi versi chiede a Dio di assicurargli, con il sogno, la sopravvivenza, perché solo così può a sua volta sognare l’altro: innocente desiderio di “normale” evasione onirica, oppure, come sembra più plausibile (e attestato altrove) delega di poteri creativi, annullamento della distanza tra il divino e l’umano? “Nella mia voce il metro del persiano torni e rammenti che il tempo è la trama ineguale dei sogni che noi siamo e che il segreto Sognatore sperde.”506 Questa versione dello stesso tema sembra prestarsi a una lettura ancora più trasgressiva. Come si sa, siamo fatti della stessa stoffa dei sogni, la cui trama, a sua volta, consiste nel tempo, ossia nell’irreversibile allontanamento dall’Origine 507, nella frantumazione, attraverso il molteplice, della parola iniziale, che “degenera” nel discorso narrativo (coincidente, nella mistica ebraica, con l’atto creativo inteso come movimento linguistico), inesorabilmente privato, nel suo progressivo fluire, della purezza dell’ineffabile onnicomprensivo Aleph. Dalla scissione dell’Unità, da cui, in definitiva e inevitabilmente, promana, insieme al tempo, l’opera letteraria, derivano dunque tutti i Mondi, tanto quelli “reali”, quanto quelli “finzionali” – discriminazione, come si è detto, forse non necessaria: il territorio onirico - si è cercato di sostenere - favorito dalla sua stessa ambiguità, costituisce la geografia comune, il luogo di mediazione di tutti gli universi possibili. 505

Su questo tema ci si è ampiamente soffermati. Si rammentano, oltre alle menzionate pagine di Idel sulla teurgia

incrementativa, anche le puntuali citazioni di Safran, già ricordate: “Il mondo sussisterà grazie all’adempimento delle mitzvòt, dei precetti della Torà che hanno le loro radici nella bontà.” (Torà Or, 27b, in A. Safran, Trad. Esot. Ebraica cit., 158). “Un solo uomo può “”distruggere”” il mondo “”in una sola ora””, ma, “”in una sola ora”” può anche “”acquisire il mondo””, prepararsi per il mondo in Alto.” (A. Safran, Saggezza della Cabbalà cit., 196). 506

J.L. Borges, Rubaiyyat, da Elogio dell’ombra, in op.ult.cit., 299.

507

Questa è l’interpretazione (o una delle interpretazioni) dell’atto creativo proposta nel cap. 4 di questa sezione.

191

L’apertura audace s’intravede invece nel ruolo attribuito al Sognatore - evidentemente di natura “divina” - dall’ultimo verso citato: il demiurgo “sperde” i sogni (che noi siamo). La dispersione allusa si presta a una doppia interpretazione. Può semplicemente significare la creazione attraverso le “distratte emanazioni” di Dio, argomento, come si sa, non nuovo e trattato anche dal Borges “saggista”508. Può al contrario suggerire l’idea gnostica o eretica di un’inedita divinità maligna, impegnata nel distruggere e vanificare le trame oniriche, creative, tessute dall’uomo: una dispettosa Penelope, che di giorno, alla luce del sole, si diverte nel disfare, rendendoli inefficaci e disperdendoli in labirinti inestricabili, i ricami demiurgici imbastiti dai “pretendenti” umani, da quei suoi presuntuosi ma inadeguati imitatori. Un esito ermeneutico non del tutto inattendibile, ove si pensi al Borges, come si è rilevato a suo tempo, affascinato dalla gnosi dualistica: di nuovo in ogni modo una prospettiva che tende ad annullare le distanze tra Dio e l’uomo. “Vissero il loro destino come in un sogno, senza sapere chi fossero o che cosa fossero. Forse accade la stessa cosa a noi”509. “Un libro, un sogno li avverte che sono forme di un sogno già sognato nelle terre di Bretagna. Altro libro farà che gli uomini, sogni essi pure, li sognino.” 510 Le due poesie parzialmente citate propongono nuovamente il versante passivo, quello più angoscioso, del sogno – creazione: l’essere sognati. Vertiginosi i versi di Inferno, V, 129: la simbiosi, più volte già evocata, tra creazione e opera letteraria, e la mise en abyme nella quale sprofonda il territorio onirico, sono celebrate da questa composizione, che ovviamente rievoca il canto dantesco di Paolo e Francesca; qui sono due libri, il romanzo Lancelot contenente la forma archetipa della storia degli amanti romagnoli, e la stessa Divina Commedia, le scintille che accendono il sogno, sostituendosi, in 508

Alludo ovviamente all’intervista – relazione di J. Alazraki (cap. 4, II Sez.).

509

J.L. Borges, I Gauchos, da Elogio dell’ombra, in op. ult. cit., 321.

510

J.L. Borges, Inferno, V, 129, da La cifra, in op. ult. cit., 1223.

192

un certo senso, al Dio demiurgo. Spunto fecondo anche per le riflessioni che seguiranno sulla ricomposizione in un unico orizzonte di senso, cui pare di essere inesorabilmente destinati, della sempre più artificiosa separazione fra creazione e letteratura - allusa nella mistica ebraica dall’onnicomprensiva Torah - avvicinate dalla comune patria onirica: sognare creando, creare sognando, creare scrivendo, scrivere creando, sognare scrivendo, scrivere sognando. In altre parole, sognare – creare – scrivere: tre azioni inseparabili che paiono determinare effetti equivalenti, tre diversi modi di esprimere la stessa realtà, tre termini fra loro fungibili e forse identici. E’ questa alla fine la lezione di Borges?

“Dio muove il giocatore, questi il pezzo. Quale Dio dietro Dio la trama ordisce Di tempo e polvere, e sogno e agonie?”511 La temeraria conclusione di questa celebre poesia, una metafora non nuova sul gioco degli scacchi, annulla certamente le distanze tra Dio e l’uomo, o quanto meno, relativizza l’onnipotenza del demiurgo, al quale sembra residuare soltanto una certa superiorità gerarchica, di natura, per così dire, “direttiva” nell’ordine dell’universo: una posizione moderatamente privilegiata che si manifesta nella possibilità di determinare le mosse delle sue creature. Si congettura, per dirlo con il nostro autore, che anche Dio non sia che il sogno di qualcun altro (che umiliazione incomparabile, che vertigine!) o di qualcos’altro: forse di una diversa sconosciuta divinità, di una causa primordiale, della Cieca Volontà di Schopenauer. Naturalmente

le implicazioni

della concezione

prospettata

sono

varie,

inquietanti

e

paradossali; non solo Dio e l’uomo sono parimenti sudditi, sia pure di diverso rango, in una comunità feudale che ignora il reale detentore del potere, ma tale prossimità, questa condivisione di una Sorte, l’essere comunque parti distinte di un medesimo gioco giostrato da un misterioso occulto regista, possono essere interpretati sia come una sorta di degradazione della divinità, sia, per converso, come un’ascesa dell’uomo: Dio e la creatura a sua immagine e somiglianza si contendono la sovranità nel comune territorio del sogno. Non può essere taciuto infine il celebre El Golem, testo molto più recente de Le rovine circolari, ma affine al racconto per l’argomento affrontato. Anche in questa lunga poesia 511

J.L. Borges, Scacchi, da L’artefice, in op. ult. cit., Vol.1, 1181.

193

Borges sviluppa in modo compiutamente narrativo il tema della creazione - generazione e, in termini più crudi di quanto avesse osato in prosa, sembra soprattutto coltivare la sua vena patetica nel descrivere una paternità intrisa di tenerezza e disgusto. In nota è riportato il testo integrale512. Qui cito i versi conclusivi, che mi paiono i più significativi:

512

“Se è vero (come nel Cratilo è detto) / Che l’archetipo della cosa è il nome, / Nella parola rosa è già la rosa / E il Nilo nelle lettere di Nilo. / Ci sarà di vocali e consonanti, / Un terribile Nome, che l’essenza / Di Dio compendi e che l’Onnipotenza / Serbi in lettere e sillabe precise. / Nel giardino lo seppero le stelle / E Adamo. Poi il peccato e la sua ruggine / L’han cancellato (dice il cabalista) / E le generazioni l’han perduto. / Il candore e gli artifici dell’uomo / Non hanno fine. Sappiamo che un tempo / Il popolo di Dio cercò quel Nome / Nelle veglie e nelle magie dei ghetti. / Non al modo di altre che una vaga / Ombra insinuano nella vaga storia, / E’ verde ancora e viva la memoria / Di Leon Giuda, rabbino di Praga. / Ansioso di sapere ciò che Dio / Soltanto sa, si dette a mutazioni / Di lettere e a complesse variazioni / E disse alfine il Nome che è la Chiave, / La Porta, l’Eco, l’Ospite e il Palazzo, / Su un fantoccio che avea con lente mani / Foggiato, per insegnargli gli arcani / Di quelle lettere e di Tempo e Spazio. / Sollevò il simulacro i sonnolenti / Occhi e gli apparvero forme e colori / Che non intese, perdute in rumori, / E tentò timorosi movimenti./ Gradatamente fu (come noialtri) / Prigioniero della rete sonora. / Di Prima, Poi, Ieri, Frattanto, Ora, / Destra, Sinistra, Io, Tu, Costoro, gli Altri. /( Il cabalista che fece da nume, / La mostruosa creatura chiamò Golem; / Verità sono che tramanda Scholem / In dotte pagine del suo volume.) / Gli spiegava il rabbino l’universo / (questo è il mio piede, questo il tuo, la corda) / E ottenne, in capo agli anni, che il perverso / Spazzasse almeno la sua sinagoga. / Ma forse s’era annidato un errore / Nella grafia o pronuncia di quel Nome; / Ché nonostante l’insigne magia / Non imparò a parlare il quasi uomo. / I suoi occhi, non d’uomo, ma di cane / E anzi più che di cane di cosa, / Seguivano il rabbino per l’incerta / Penombra delle stanze di quel carcere. / Qualcosa di anormale era nel Golem, / Giacché al suo passo il gatto del rabbino / Si nascondeva. ( Non lo dice Scholem, / Ma io attraverso il tempo l’indovino.) / Alzando anch’egli a Dio mani filiali / Le devozioni del suo Dio copiava / O, stolido e ridente, si curvava / In concave riverenze orientali. / Lo guardava il rabbi con tenerezza /E orrore. Come ho potuto (si disse) / Dar vita a questo tormentoso figlio / Lasciando l’inazione che è saggezza? /Perché ho aggiunto alla già infinita serie / Un altro simbolo? Perché alla vana / Matassa che in eterno si dipana / Ho dato ancora causa, effetto e pena? /Nelle ore di angoscia e luce vaga /Sul suo Golem lo sguardo soffermava. / Chi potrà dirci che cosa pensava / Iddio guardando il suo rabbino in Praga?” (Il Golem, da L’altro, lo stesso, in op. ult. cit., 65). 194

“Lo guardava il rabbi con tenerezza E orrore. Come ho potuto (si disse) Dar vita a questo tormentoso figlio Lasciando l’inazione che è saggezza? Perché ho aggiunto alla già infinita serie Un altro simbolo? Perché alla vana Matassa che in eterno si dipana Ho dato ancora causa, effetto e pena? Nelle ore di angoscia e luce vaga Sul suo Golem lo sguardo soffermava. Chi potrà dirci che cosa pensava Iddio guardando il suo rabbino in Praga?” Queste ultime strofe evidentemente non riguardano il sogno creativo in senso stretto: si prestano piuttosto a qualche riflessione di tenore opposto a quelle accennate intorno alla poesia Scacchi. Là si era rilevata una possibile “degradazione” della divinità. Qui l’uomo sembra invece subire un inatteso ridimensionamento. Da una parte il rabbino demiurgo, pur coinvolto affettivamente, guarda deluso alla mostruosa creatura,

abbandonandosi

a

sconsolate

divagazioni

cosmiche,

di

sapore

vagamente

leopardiano, sull’inopportunità di accrescere con questo nuovo discutibile prodotto il già esuberante novero di simboli che affatica l’universo. Dall’altra, mentre il creatore umano angosciato posa lo sguardo su quel misero golem, Dio, dal mondo superno, forse altrettanto angustiato, osserva il suo rabbino in Praga: non conosciamo i suoi pensieri, ma probabilmente, così sembra di capire, nutre nei confronti dell’uomo gli stessi contrastanti sentimenti, tenerezza e delusione, che Leon Giuda prova verso l’incompiuto esito dell’insigne magia. Per un verso - possiamo supporre - in questo caso le distanze tra l’uomo e la divinità sembrano ingigantite. Il golem e Adamo sono palesemente prodotti imperfetti, assai lontani dai progetti ideali votati alla realizzazione di due creature a immagine e somiglianza dei loro creatori. La distanza tra il rabbino e il golem è la stessa, enorme, che separa l’uomo dalla divinità.

195

Per un altro verso, tuttavia, possiamo ipotizzare che là dove il rabbino ha certamente fallito, anche Dio ha dato forma e sostanza a una creatura inferiore alle proprie aspettative. Si può forse congetturare, quindi, la delusione e la frustrazione della Divinità. Né Dio né l’uomo in definitiva sono riusciti nell’intento di compiere ciò che si ripromettevano. Paradossalmente, proprio nel momento in cui le distanze tra l’umano e il divino paiono aumentare, restituendo quindi al rapporto tra le due entità quell’aura di trascendenza e incommensurabilità in cui, per così dire, esso è tradizionalmente immerso, ecco che Borges ci suggerisce, al contrario, che esiste, aldilà della soglia onirica che coinvolge entrambi, un altro terreno comune, ben più scosceso e impervio, tante volte evocato in questo lavoro: quello dell’inanità dello sforzo creativo, raffigurata, secondo l’interpretazione proposta, dal mito di Sisifo, che pare aleggiare, a questo punto, sul mondo in alto e su quello in basso, non risparmiando neppure Dio. Resta la tenerezza del padre, resta il sogno, a questo punto in parte privato della sua funzione demiurgica e ricondotto al suo significato, se si vuole, più ovvio e comune, di lontano punto di riferimento, di isola non trovata, di desiderio di onnipotenza, di aspirazione verso l’impossibile, di miraggio e utopia. *** Ritornando, dopo le digressioni incentrate su alcuni momenti dell’opera poetica di Borges, al punto di partenza, ossia alla conclusione del racconto commentato 513, in quale prospettiva ermeneutica è legittimo collocare queste riflessioni sparse? Tutte quante cospirano nel delineare un certo orizzonte di senso, che sconfina nel territorio del sogno. E’ questo naturalmente il punto di riferimento comune. Ma chi abita il Paese onirico? Il nostro autore sembra non avere dubbi nell’attribuire all’uomo lo statuto passivo di essere sognato, di proiezione-emanazione dell’immaginario di un altro suo simile, di prigioniero di una vertigine abissale, che lo terrorizza e umilia. Quanto alla Divinità, talvolta essa pare, per dirlo in termini fichtiani, l’Io che pone il Non – Io, il soggetto attivo che forse si sogna, ma non è sognato da nessun altro diverso da sé, e tuttavia certamente sognando produce almeno il primo sognatore demiurgo, dal quale promana l’ininterrotta catena di emanazioni. Aderendo a note dottrine della Cabbala, si potrebbe supporre che la prima proiezione onirica di Dio sia Adam Qadmòn, il Prometeo Anthropos di natura divina: in questo caso forse troveremmo una prima chiave di lettura, che consentirebbe di annullare le distanze tra le due 513

“Con sollievo, con umiliazione, con terrore, comprese che era anche lui una parvenza, che un altro stava

sognandolo”. J.L. Borges, Le rovine circolari cit., 665.

196

entità, relativizzando e in un certo senso risolvendo l’interrogativo iniziale sulla ripartizione dei poteri creativi. Benché tale prospettiva possa essere plausibile, in quanto, pur sempre, la specularità tra Dio e Uomo propria di questo orientamento mistico trova certamente eco nell’opera di Borges, sia là dove il nostro autore, come si è detto, sembra volutamente non distinguerne le sorti, sia nell’elaborazione del tema del “doppio”, astrazione o metonimia dello specchio che lo ossessiona, tuttavia la questione appare più complessa. A mio avviso il punto cruciale qui non si deve ravvisare tanto nella discussione sulla diversa (o uguale) natura dell’uomo e della Divinità, sull’incommensurabilità, similarità o identità dei loro “attributi” e delle loro facoltà, sull’efficacia in assoluto dei rispettivi poteri creativi, nel tentativo di stabilire analogie priorità e gerarchie, quanto nel rilevare il rapporto matematico, per così dire, fra le due entità. Credo che questa riflessione non sia del tutto estranea al pensiero ebraico. Come si è prospettato, infatti, Borges tende, in definitiva, attraverso l’uso demiurgico del sogno, ad annullare le distanze tra la divinità e le sue creature. Si può quindi affermare che, indipendentemente dal valore, enorme o infimo, attribuito a ciascuno dei due poli in relazione, il loro rapporto tenda sempre verso l’unità. Dalle proiezioni di un Dio creatore onnipotente sembra emanare un Uomo Cosmico (quasi) altrettanto dotato (potrebbe essere, per così dire, il suo “doppio”, Adam Qadmòn). Per contro, e soprattutto, un uomo debole e precario, nient’altro che un evanescente sogno a spasso per il mondo, affidato alle oscillanti distratte divagazioni oniriche di una compagnia di sognatori, all’unisono creatori e creature, attivi e passivi, naturae naturantes e naturatae, pare a sua volta testimoniare l’esito demiurgico non del tutto felice e convincente di un dio non infinitamente perfetto, non compiutamente onnipotente, di un dio forse, e suo malgrado, coinvolto nello stesso gioco abissale e soggetto anch’egli a una forza (non si sa se benevola, malevola, o semplicemente cieca) che lo sovrasta. I

brani

di

poesia

citati

poc’anzi

possono

autorizzare

soprattutto

questa

seconda

interpretazione. Dopo la Shoà, taluni sviluppi del pensiero religioso ebraico, che non è possibile qui approfondire, per certi aspetti, e usando molta cautela, potrebbero non smentirla514. Ma l’arditissima idea di un presunto “dio debole” quanto incide nel descrivere 514

Così, per esempio, Natoli (in Parole della filosofia cit., 165): “E’ noto come nella tradizione ebraica vi siano

correnti che interpretano la creazione come un ritirarsi di Dio perché il mondo sia. Nell’ebraismo si sono quindi sviluppate linee di pensiero centrate sull’idea della debolezza di Dio, tendenza questa che nel novecento ha preso un particolare spicco dopo Auschwitz.” Su questo tema, una delle riflessioni più ardite è esposta nel celebre breve saggio di Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, Genova, 1991, indagine sui rapporti fra tre attributi divini che dopo la Shoà difficilmente, per così dire, possono ancora considerarsi simultanemante presenti (comprensibilità, bontà e onnipotenza). Per una panoramica completa si veda, di M. Giuliani, Auschwitz nel pensiero ebraico, Brescia, 1998. 197

l’orizzonte del rapporto tra la Divinità e l’uomo? Fino a che punto può influenzare o compromettere questa relazione? Se nel pensiero di Borges il rapporto tra le due entità tende verso la parità (e non rileva quale sia il valore assoluto dei due termini confrontati, anche se l’opera poetica borgesiana sembra accreditare piuttosto un “livellamento verso il basso”), allora che importa la potenza, la forza dell’Ente Supremo? Ecco di nuovo - soprattutto se ci si muove verso la limitazione dei poteri della divinità prevalere il profilo, se così si può dire, esistenziale, nel drammatico incontro tra Dio e Adamo. Il terreno condiviso dall’uomo e dalla Divinità, lo scenario dell’evento, è il sogno, che nasce dal sonno, dalla distrazione e dall’abbandono, dalla solitudine e dalla divagazione negligente, come un frutto magnifico e inatteso del seme della trascuratezza. Proprio questa luce onirica, che pure è l’espressione della libertà dell’immaginario e la materia della creatività altrimenti preclusa, ora sembra manifestarsi anche come sorprendente segno di angosciosa debolezza, o in ogni caso, come cifra di quella parità o commensurabilità di forze che adesso pare il denominatore comune dei due termini del rapporto. Se pure Dio soggiace a limitazioni, se persino la sua opera non può attingere la perfezione voluta, se, in altre parole, anch’Egli è, in un certo modo, Sisifo, allora i destini dell’uomo e della Divinità sono in fondo simili e nella sostanza la pietas loro riservata dal Borges narratore e poeta non sarà diversa. Il rapporto tra i due poli, se così stanno le cose, non si gioca più sul piano della eterogeneità della loro natura, della incommensurabilità delle loro facoltà e attributi, ma si sviluppa su un versante diverso, che esclude o, se vogliamo, limita l’efficacia della chiave ermeneutica più immediata e agevole del finale del racconto, quella della frustrazione dell’umano desiderio di onnipotenza, quella del fallimento della imitatio dei515. La cooperazione avviene piuttosto, come ci suggerisce Le rovine circolari, nel segno della complessa relazione tra Padre e Figlio. E’ plausibile che nella geografia del sogno, nella mappa della libertà dell’immaginario, Dio e l’uomo, accomunati dal dolore della ciclicità del divenire - la ruota che uccide l’individualità, negando l’irripetibilità - dal pensiero del desolante permanere dell’Eterno Ritorno 516, dalla consapevolezza dell’impossibilità di sfuggire a una Cieca Volontà che sembra avere l’ultima parola e l’esclusiva sovranità dell’Origine, possano trovare consolazione e sostegno reciproco

515

Cfr. n. 506.

516

Considerazioni sviluppate nel precedente paragrafo.

198

nella solidarietà del rapporto filiale. Come la creatura del racconto in fondo disvela al padre, al nostro Sisifo umano, che tutti quanti siamo fatti della stessa fragile stoffa onirica, e l’uomo taciturno

prova

la

pietas

cosmica

del

sapersi

così

irrimediabilmente

povera

cosa,

ammorbidendo però la disfatta con il velluto dell’affetto paterno che mitiga quell’umiliazione incomparabile, allo stesso modo possiamo immaginare il Sisifo divino prodigare amore e attenzione all’eroe dei mille volti, a quello strano figlio che sembra voler ripetere il suo sforzo vano. In fondo: “Chi potrà dirci che cosa pensava Iddio guardando il suo rabbino in Praga?” 517 In questa prospettiva, forse per la prima volta 518, Borges pare indicare una possibile apertura, una reale via di comunicazione tra Dio e l’uomo, oltre la “dialettica di potere”, aldilà del mistero intellettuale519, e lo fa proprio alludendo a un possibile accordo tra il processo emotivo a livello umano e divino, nel segno cioè di quell’antropopatia, cui allude Moshe Idel, fondamentale per comprendere la trasformazione della teosofia in teologia mistica 520. Uomo e Dio, figlio e padre, consapevoli dell’illusione, sono solidali nel resistere eroicamente agli assalti ciechi di un’imperscrutabile Volontà Cosmica. Si è forse individuata, sia pure con l’aiuto di quella libertà d’immaginazione della quale io stesso ho fatto largo (e forse talvolta indebito) uso, una possibile lettura del finale del racconto521 in chiave essenzialmente cabbalistica?

517

Il Golem, da L’altro, lo stesso, in op. ult. cit., 65 ss..

518

Mi riferisco naturalmente ai testi esaminati.

519

Tema trattato nel cap. 3 della II sez.

520

“L’antropopatia, più che l’antropomorfismo, è il concetto basilare per la comprensione della trasformazione della

teosofia in teologia mistica. In altri termini: in luogo della partecipazione mistica del cabbalista alla vita divina, ci troviamo adesso in presenza di una partecipazione mistica del Divino alla vita umana”. (M. Idel, Cabbalà Nuove Prosp. cit., 185). 521

Come si è detto le chiavi di lettura sono innumerevoli, e molte, anche estranee alla mistica ebraica, ne ho suggerite

in questo lavoro. Non ne esiste una da privilegiare. Certo è però che il racconto deve a mio avviso moltissimo alle conoscenze cabbalistiche di Borges e questo dato, che non può essere ignorato, sembra autorizzare una certa disinvolura e libertà nell’attingere a strumenti esegetici propri dell’ebraismo.

199

6.4) Come un’ombra

Le speculazioni più ardite della teurgia cabbalistica di M. Idel sono forse quelle dedicate dallo studioso al commento del Midrash ha-shekem; in particolare l’esegesi del brano, assai fecondo, in cui si legge dell’invito del Signore a Mosè di annunciare a Israele che il nome divino è Ehyè asher Ehyè: cioè, come tu sei con me, io sono con te.522 L’interpretazione di questo passo ha dato l’abbrivio a talune delle più estreme formulazioni dottrinali di teurgia incrementativa, secondo cui, come è noto in termini generali, la stessa potenza della Divinità dipende dal comportamento umano, riuscendone, in funzione di esso, rafforzata o indebolita; assecondando questa nuova e più radicale lettura, l’attività di Dio sarebbe addirittura l’ombra, il riflesso di quella dell’uomo. 523 Nella conosciuta prospettiva che vede Adamo responsabile della conservazione e del mantenimento dell’universo e della “formazione” di alcuni aspetti del mondo in alto 524, l’ermeneutica più spregiudicata del passo citato, ribaltando opposte concezioni di più agevole comprensione, non solo suggerisce che la struttura antropomorfica divina è stata modellata su quella umana525, ma lascia persino intendere che l’uomo deve essere considerato archetipo dell’aspetto rivelato della Divinità. Sul piano ontologico, si arrischia poi, Adamo è sostanza, il Dio-ombra è solo accidente 526. Infine la dottrina discussa, nella versione influenzata da più tarde correnti neoplatoniche, consente di affermare, con un altro singolare

522

Scrive Idel (in Cabbalà, Nuove Prosp. cit., 166): “Nel Midrash apprendiamo che il Santo, sia benedetto, disse a

Mosè: “”Va’, annunzia a Israele che il mio nome è Ehyè asher Ehyè.” Che significa Eyè asher Ehyè? Come tu sei con me, io sono con te. Similmente disse David: “”Il Signore è come l’ombra del tuo braccio destro.”” Che significa: “”Il Signore è come la tua ombra””? Come l’ombra: Come la tua ombra sorride di rimando a te che le sorridi e piange se tu piangi davanti a lei..” 523

Quanto alla teurgia incrementativa in genere, con particolare riferimento al rilievo dell’osservanza dei precetti, cfr.

M. Idel, op. ult. cit., 159. 524

Cfr., a tale proposito, gli ampi riferimenti nel cap. 3 della II sez.

525

Secondo l’interpretazione di Ibn Gabbay richiamata da Idel (in op. ult. cit., 167).

526

M. Idel, op. ult. cit., 167: “Dio è considerato come l’ombra della mano dell’uomo; quest’ultimo è la sostanza,

mentre l’””accidente”” è Dio o l’ombra.”

200

rovesciamento di più familiari concezioni, che le entità inferiori sono la radice e il modello delle superiori527. Questa fioritura di paradossi, vistosamente emblematici di quel movimento di pensiero proprio della Cabbala, che con tanta frequenza ricorre anche nella produzione letteraria borgesiana, può consentire di porre provvisoriamente fine a riflessioni già accennate 528, utilizzando, fra gli altri, quale strumento esegetico, il testo mistico citato con la ricca interpretazione derivatane. Si può vaticinare che se Dio è l’ombra dell’uomo e se, citando con Idel il verso di Silesio, “Dio diviene ciò che io sono adesso e porta a sé la mia umanità 529”, allora, forse semplificando colpevolmente il problema, la Divinità concepita da Borges non può essere che lo specchio del suo autore, il riflesso del suo mondo 530. Parrebbe facile a questo punto, avvalorando, con l’ausilio e l’autorevolezza della nuova ardita tesi mistica, un’ipotesi già prospettata, concludere con la certa conferma, addirittura impreziosita dal crisma della specularità, di quel rapporto di equivalenza tra l’uomo e Dio, nel segno forse della debolezza “esistenziale” di entrambi: quel senso, cui si è alluso in precedenza 531, così intonato anche all’accennata opera poetica di Borges. Non importa, o importa meno, come si è detto, quali siano le forze, i poteri sovrani dei due poli in relazione; né, in fondo, esperti 527

Quest’ultima è la lettura di un Cabbalista del XVI secolo (Yehudà ben Y’aqov: cfr. Idel, op. ult. cit., 169). In ogni

caso Idel scrive anche che le interpretazioni più estreme non devono essere lette come un blasfemo sovvertimento della concezione della divinità, ma vanno inquadrate diversamente: “Malgrado la grande differenza tra le varie interpretazioni..l’uomo non si sostituisce a Dio e la gerarchia non è intesa come entità in sé che il cabbalista, abusando dei propri poteri, attiva a proprio beneficio. Questi poteri sono un meccanismo per conseguire il fine ultimo e per ricevere l’influsso dall’alto..” (Idel, op. ult. cit., 169). 528

Cfr. il precedente par. 6.3

529

M. Idel, op. ult.cit., 169.

530

Se Dio, secondo l’ardita interpretazione mistica proposta, è, per così dire, l’ombra dell’uomo, se è il riflesso della

sua attività, la questione si complica nel mondo della finzione letteraria: sarà la Divinità lo specchio dei personaggi rappresentati o del loro autore –inventore? Semplificando forse colpevolmente il problema, nell’analisi testuale si è immaginato che il personaggio protagonista del racconto – eroe dai mille volti - nella parte finale, sia anche espressione diretta del mondo immaginario di Borges, sia in sostanza la “voce” dell’autore. Non mi pare quindi del tutto arbitrario, in questa fase, fare riferimento diretto, nel rapporto speculare, al Borges scrittore. 531

Cfr. paragrafo precedente.

201

ormai nel navigare attraverso i meandri paradossali del pensiero del nostro autore, possiamo temere che l’assegnazione all’uomo di taluni attributi straordinari, di regola esclusivamente pertinenti all’Ente Supremo, possa validamente confutare l’ardita tesi: “La vita è troppo povera per non essere anche immortale”532. Ebbene, questa enunciazione, quand’anche purificata della sua aura provocatoria e della sua eleganza aforistica, a mio avviso neppure scalfisce, anzi corrobora espressamente, non solo l’argomentazione dell’equivalenza – specularità dei due enti, ma anche – e ciò non deve apparire un nuovo paradosso – quella della possibile “debolezza” di Dio e dell’uomo: tradendo ogni contraria apparenza, l’immortalità, se viene in considerazione come misera cosa, è infatti assai lontana dal negarla! Tuttavia questa riflessione, forse plausibile in generale, è per certi aspetti parziale, perché non tiene conto fino in fondo dello scenario letterario che complica, arricchendolo, il quadro di riferimento dell’analisi. Anche sotto tale profilo Idel, sviluppando il tema della specularità dei due enti, offre uno spunto importante, pur implicitamente anticipato, in ambiti diversi e con differenti sfumature di senso, nelle precedenti sezioni di questo lavoro.

J.L. Borges, Storia dell’eternità, in Tutte le opere cit., Vol. I, 543-544.

532

202

Sempre Ibn Gabbay, il principale commentatore del Midrash ha-Shekem, precisa infatti che l’influenza dell’uomo-archetipo sulla divinità (spinta, come accennato, fino a fare di quest’ultima

l’ombra,

il

riflesso

dell’attività

umana)

può

essere

esercitata

efficacemente solo in virtù di un’immagine intermediaria che metta in relazione i due poli: si tratta della Torah, che partecipando del mondo in alto e in basso, comune a Dio e a Adamo, è il ponte tra i due regni 533. Non è certo la prima volta che la mistica attribuisce questo compito connubiale al Testo Sacro 534

, polisemica cifra simbolica dell’Origine, Cuore della creazione, e dunque

espressione dei trentadue sentieri di sapienza535, preesistente all’Universo, pur essendone paradossalmente parte, e, in ultima istanza, identico a Dio suo autore, ma configurato secondo un aspetto antropomorfico 536: tale struttura, evidentemente, ne asseconda la funzione di collegamento tra i due mondi. D’altra parte se la Torah è anche, ma non solo, il libro per eccellenza, si è sottolineato che nel pensiero e nell’opera di Borges scrittura – sogno – creazione sono tre diverse espressioni di una realtà forse unica e indivisibile: “Un libro, un sogno li avverte che sono forme di un sogno già sognato nelle terre di Bretagna. Altro libro farà che gli uomini, sogni essi pure, li sognino.” 537

533

534

M. Idel, op.ult.cit., 168. Cfr. p.e. “I due principi del maschile e del femminile s’uniscono attraverso l’azione intermediaria della bet

all’inizio dela prima parola della Torà.” (G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit. 211). 535

“Il valore numerico LB, cuore, che corrisponde a 32, porta alle trentadue vie nascoste della Sophia, per mezzo

delle quali il mondo è stato creato” (G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 210). 536

Cfr. M. Idel, op.ult.cit., 223. Secondo il Sefer ha-yihud, “la trascrizione fedele del rotolo della Torà equivale a

produrre Dio”. (op.ult.cit., 177) . 537

J.L. Borges, Inferno, V, 129, da La cifra, in Tutte le opere cit., Vol.2, 1223.

203

Il testo in genere, prescindendo ora dalla sua sacralità 538, è dunque non solo il ponte tra Dio e l’uomo, ma anche, se vogliamo, quello tra Borges e la mistica ebraica: i Cabbalisti e l’autore argentino sono in fondo concordi nell’attribuire alla scrittura valenza demiurgica. Tuttavia nel vasto armamentario di oggetti fantastici fluttuanti negli archivi borgesiani, particolare, questo, determinante e tale da offrire spunti di riflessione forse meno ovvi, la geografia, il territorio, la materia comune, la sostanza stessa dell’Universo, alla quale neppure Dio in ultima istanza pare poter sfuggire, è spesso il sogno, scenario e sceneggiatura di ogni storia possibile. Sognare – scrivere – creare, questa sembra essere la Parola, il geroglifico a tre dimensioni di Borges: ma purtroppo essa non è una cifra univoca e il suo destino è la disgregazione e lo smarrimento nei rivoli innumerevoli del Molteplice 539. Come sfuggire dunque alla sua terribile complessità, come recuperarne la primordialità originaria, come evitare l’irrimediabile degradazione dell’ineffabile Aleph nel discorso e nel Tempo, che consuma lacera corrompe e distrugge?

V) CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE 538

539

Sul punto si veda l’ampia trattazione nel cap.3) della II sezione.

Soprattutto nel cap. 5) di questa sezione mi sono soffermato sulla dissoluzione del movimento linguistico

originario, emblematico della creazione nel tempo, caratterizzata, secondo questa prospettazione, dalla scissione dell’unità nel molteplice del divenire (inteso come allontanamento dall’origine, che, non appena conquistata, è già perduta.). A questo destino forse non sfugge neppure la Torah. Ne sono testimonianza le inquietudini dei mistici che, come è noto, al di là e al di sopra del testo corrente (storicamente variabile, per esempio, nell’ottica del Sefer Temunà) hanno talvolta idealizzato l’esistenza di un testo primordiale, collocato in una dimensione sovratemporale, sottratto alla lettura contingente e in sostanza non ancora disvelato, forse nell’attesa di una redenzione - rivelazione messianica: ciò quasi a voler significare l’irrinunciabilità di una purezza originaria e incontaminata.

204

1) L’eternità in una passeggiata e in una madeleine Mi sono illuso di trovare nel brano conclusivo di un noto “saggio” di Borges, Storia dell’eternità,

una

delle

possibili

chiavi

ermeneutiche

di

quell’arcano

geroglifico

tridimensionale540 più volte affiorato costeggiando Le rovine circolari. E’, lo confessa lo stesso scrittore, la descrizione di un’esperienza estatica. Questo testo, decantato da ciò che appare contingente, potrebbe nobilitare, grazie al bello stile che gli fa onore, un dissimulato manifesto della “mistica letteraria”, tanto sembra espressione di un comune e ricorrente sentire; il movimento di pensiero non è infatti né nuovo né inedito. Potrà invece suonare arbitrario il mio tentativo di accostare al nostro un altro grande autore, pur assai lontano dall’argentino nella sintassi e nel pensiero: alludo all’artista che nel primo novecento letterario ha teorizzato, secondo la mia personale percezione, emozioni non troppo diverse in celebri lacerti di un’opera epocale. L’esperienza interiore narrata da Borges, che forse mai come in questa occasione esibisce una prosa spoglia di compiaciuti effetti, nasce da una passeggiata in un quartiere di Buenos Aires. La casuale digressione, pur rammentando al narratore sensazioni già vissute nel passato, diventa memorabile occasione per raccontare una parabola sull’Eternità 541. 540

Mi riferisco al “quesito” scaturito nel finale del capitolo precedente, che si lega alla ricerca di un terreno comune,

di una chiave di volta per il cui tramite sogno, creazione e scrittura, le tre connesse dimensioni di un geroglifico ancora inesplorato, comuni all’opera di Borges e, come si è visto, almeno in parte, alla mistica ebraica, possono trovare un destino, per così dire, più fermo e stabile. 541

Ecco il testo quasi integrale del brano: “Non mi resta che segnalare al lettore la mia teoria personale

dell’eternità..Desidero qui annotare un’esperienza che ho avuto qualche sera fa: minuzia troppo evanescente ed estatica per essere chiamata avventura; troppo irragionevole e sentimentale per essere chiamata pensiero... Così la rammento. Il pomeriggio che precedette quella sera, andai a Barracas: quartiere che io di solito non frequento, e già il fatto che esso rimanesse così distante da quelli che io percorsi dopo, bastava a dare uno strano sapore a quella giornata. La sera della quale non avevo destino alcuno; poiché faceva bello, dopo aver mangiato uscii a camminare e a ricordare. Non volli dare una meta alla passeggiata: mi procurai una massima latitudine tra le diverse probabilità, per non stancare l’aspettativa con l’obbligatoria previsione di una sola di esse... ..Una specie di gravitazione familiare mi portò verso certi quartieri, del cui nome vorrei sempre ricordarmi..Non voglio alludere al mio quartiere, al preciso ambito dell’infanzia, bensì ai suoi ancora misteriosi dintorni: confine che ho posseduto interamente nelle parole e poco nella realtà, vicino e mitologico a un tempo..La camminata mi lasciò all’angolo di una strada. Aspirai notte, in serenissima vacanza di pensiero. La visione, niente affatto complicata, sembrava semplificata dalla mia stanchezza. La sua stessa tipicità la rendeva irreale. Era una strada di case basse, e 205

La povertà delle cose intraviste in un serenissimo notturno accende l’estasi dello scrittore, che trascende in felicità incontenibile e assoluta, ossia sciolta da ogni vincolo temporale, sbocciata all’improvviso - un virgulto inatteso - dalla semplicità nuda ed essenziale, celata, eppure mostrata, dalle case basse di Barracas, dal fico isolato che offre il riparo dell’ombra, dal cortile misero, dalla luce intima effusa da un muro roseo. Ecco dunque l’intuizione, la possibile immaginazione di eternità: essa si legge nella visione, semplificata sino all’evanescenza, degli oggetti rappresentati, ridotti alla loro essenza non più soggiogabile, in quanto non più narrabile: quelle povere cose, per così dire, “si raccontano” quasi da sé, emergendo nei loro termini ultimi, al limite dell’ineffabile, in un momento unico e non più ripetibile, estraneo al tempo discorsivo 542.

sebbene il primo significato fosse di miseria, il secondo era certo di felicità..Nessuna casa osava affacciarsi sulla strada; il fico copriva d’ombra l’angolo; i cancelli – più alti della stirata linea dei muretti – sembravano foggiati nella stessa sostanza infinita della notte..Sulla terra morbida e caotica, un muro roseo sembrava non ospitare luce di luna, bensì effondere luce intima. Non si potrebbe nominare la tenerezza meglio che con quel rosa. Rimasi a guardare quella semplicità. Pensai, probabilmente ad alta voce: Questo è lo stesso di trent’anni fa...Immaginai quella data: epoca recente in altri paesi, ma ormai remota da queste mutevoli parti. Forse un uccello cantava e provai per lui un affetto piccolo, della grandezza di un uccello..Il facile pensiero Sono nell’ottocento non era più un gruppetto di parole approssimative, bensì aveva la profondità della realtà. Mi sentii morto, mi sentii percettore astratto del mondo..Non supposi, no, di avere risalito le presuntive acque del tempo: piuttosto mi sospettai in possesso del reticente o assente senso dell’inconcepibile parola eternità. Soltanto dopo riuscii a definire quell’immaginazione. La scrivo adesso così: Quella pura rappresentazione di fatti omogenei..non è semplicemente identica a quella che ci fu in quello stesso angolo tanti anni fa: è, senza somiglianze né ripetizioni, la stessa. Il tempo, se possiamo intuire questa identità, è un’illusione: la non differenza e la non separabilità tra un momento del suo apparente ieri e un altro del suo apparente oggi, bastano per disintegrarlo.” Cfr. J.L. Borges, Storia dell’eternità, in Tutte le opere cit., Vol.1, pp. 541-544. La conclusione alla quale perviene Borges, peraltro, non deve essere intesa in modo assoluto, come una dottrina metafisica. Scrive infatti lo scrittore argentino nel brano finale di questo “saggio – racconto” (op.ult.cit., 543-544): “Traggo anticipatamente questa conclusione: la vita è troppo povera per non essere anche immortale. Ma non abbiamo nemmeno la sicurezza della nostra povertà, poiché il tempo, facilmente confutabile nell’ambito dei sensi, non è tuttavia confutabile in quello intellettuale, dalla cui essenza sembra insuperabile il concetto di successione. Rimanga, dunque, come aneddoto emotivo l’intravista idea e come confessata indecisione di questo foglio il momento vero di estasi e la possibile immaginazione di eternità di cui quella notte non fu per me avara”. 542

Sull’eternità come cristallizzazione del molteplice e come riconoscimento, per così dire, conchiuso, del futuro già

dato e del passato rimasto presente, cfr. P. Spinicci, Lezioni sul tempo, la memoria e il racconto, cit., pp. 22-24.

206

Non si tratta dunque, per Borges, di ripetizione - reiterazione di una passata esperienza; l’estasi mistica pare sopprimere per un momento l’angoscia della circolarità, che aleggia invece su Le rovine circolari: “Quella pura rappresentazione di fatti omogenei..non è semplicemente identica a quella che ci fu in quello stesso angolo tanti anni fa: è, senza somiglianze né ripetizioni, la stessa. Il tempo, se possiamo intuire questa identità, è un’illusione: la non differenza e la non separabilità tra un momento del suo apparente ieri e un altro del suo apparente oggi, bastano per disintegrarlo.”543 Dunque l’impossibilità di separare e di introdurre la differenza, da intendere in un senso forse vicino a quello di differimento - differance attribuito al termine da Derrida544, disintegra l’illusione del tempo. Peraltro Borges si affretta a precisare che questa conclusione, lungi dal voler fondare una metafisica,

è

valida

solo

se

limitata

alla

sfera

emotiva

dell’estasi 545:

ciò

allude

inequivocabilmente a una mistica letteraria. Manifesta inoltre, si potrebbe aggiungere, un’esperienza

istantanea;

non

potrebbe

dunque

calarsi

inevitabilmente la condannerebbe a misurarsi con il Tempo

546

nel

discorso

narrativo,

che

.

La negazione della differenza tra i momenti, esplicito presupposto borgesiano di un sentimento di eternità, sotto un altro profilo, non estraneo tuttavia a quello ora emergente, echeggia altre riflessioni già abbozzate in questo lavoro nel trattare la complessa dialettica tra realtà e immaginazione nel sogno: anche là si era detto dell’insensatezza di imporre un limite netto tra i due mondi e dell’arbitrarietà di una tale pretesa. Si suggeriva piuttosto di indovinare nella angosciosa libertà dell’immaginario la cifra simbolica più autentica dell’universo onirico, illuminandone l’affinità con la creatività e con il momento dell’Origine 547.

543

J.L. Borges, Storia dell’eternità, in Tutte le opere cit., Vol.1, 543.

544

Cfr. M. Ferraris, Introduzione a Derrida cit., 87.

545

Cfr. parte finale della n. 558.

546

Suggerisce Paul Ricoeur che la temporalità non si lascia dire nel discorso diretto di una fenomenologia, ma

richiede il discorso indiretto della narrazione, nella forma del racconto storico o del racconto di finzione. Solo per tramite dell’esperienza temporale che si organizza nel racconto quest’ultimo può diventare significativo, e ciò in definitiva avviene con il contributo del lettore, del quale rifigura l’esperienza temporale. In questo modo il tempo è referente della narrazione, mentre la funzione del racconto è di articolare il tempo in modo da conferirgli la forma di un’esperienza umana. (Cfr. P. Ricoeur, Tempo e racconto, Milano, 1988). 547

Cfr. cap. 2) della III sezione.

207

Indubbiamente questo è un segno di contiguità tra la diade sogno - creazione, elementi, insieme alla scrittura, del geroglifico da decriptare, e l’eternità, possibile terreno comune, chiave d’interpretazione e unità conclusiva, per così dire, del nostro racconto. Ma nel quadro d’insieme che si sta delineando neppure si deve trascurare la nuova nota emotiva che fa riemergere l’inobliata dimensione mistica: quella felicità estatica che festeggia il momento ineffabile della sospensione del tempo. Il brano che celebra la madeleine più famosa del mondo letterario, quello in cui Marcel Proust incomincia ad accarezzare, percependone valore e originalità, il significato universale della sua opera, è, per certi aspetti, singolarmente vicino al testo “estatico” di Borges 548.

548

Ecco una parte consistente e significativa del celebre brano citato: “..Trovo del tutto ragionevole la credenza

celtica secondo la quale le anime di coloro che abbiamo perduti sono imprigionate in qualche essere inferiore, un animale, un vegetale, un oggetto inanimato, perdute davvero fino al giorno, che per molti non arriva mai, nel quale ci troviamo a passare accanto all’albero o a entrare in possesso dell’oggetto ch ne costituisce la prigione...Così per il nostro passato. E’ uno sforzo vano cercare di evocarlo, inutili tutti i tentativi della nostra intelligenza. Se ne sta nascosto al di là del suo dominio e della sua portata in qualche insospettato oggetto materiale... ...Mi portai alle labbra un cucchiaino di tè nel quale avevo lasciato che si ammobidisse un pezzetto di madeleine. Ma nello stesso istante in cui il liquido al quale erano mischiate le briciole del dolce raggiunse il mio palato, io trasalii, attratto da qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me. Una deliziosa voluttà mi aveva invaso..Di colpo mi aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità, agendo nello stesso modo dell’amore, colmandomi di un’essenza preziosa: o meglio quell’essenza non era dentro di me, io ero quell’essenza. Avevo smesso di sentirmi mediocre, contingente, mortale. Da dove poteva giungermi una gioia così potente?...Poso la tazza e mi volgo verso il mio spirito. Trovare la verità è compito suo. Ma in che modo?..Cercare? Di più: creare..Ricomincio a domandarmi che cosa poteva essere questa condizione ignota, che non adduceva alcuna prova logica, bensì l’evidenza della sua felicità.. E tutt’a un tratto il ricordo è apparso davanti a me. Il sapore era quello del pezzetto di madeleine ...che zia Léonie mi offriva..E quando ebbi riconosciuto il gusto..(benché non sapessi ancora – e dovessi rimandare a ben più tardi il momento della scoperta – perché quel ricordo mi rendesse tanto felice), la vecchia casa grigia ..venne come uno scenario di teatro a saldarsi al piccolo padiglione prospiciente il giardino...e, insieme alla casa, la città,..la piazza, ..le vie.., le strade..E come in quel gioco, che piace ai giapponesi, di buttare in una ciottola di porcellana piena d’acqua dei pezzettini di carta a tutta prima indefinibili che, non appena immersi, si stirano, assumono contorni e colori, si differenziano diventando fiori, case, figure consistenti e riconoscibili, così, ora, tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di casa Swann, e le ninfee della Vivonne, e la brava gente del villaggio e le loro piccole abitazioni e la chiesa e tutta Combray e la campagna circostante, tutto questo che sta prendendo forma e solidità è uscito, città e giardini, dalla mia tazza di tè”. M. Proust, Dalla parte di Swann, Milano, 1987, pp. 54-59.

208

Credo che l’accostamento non sia del tutto arbitrario e possa illuminare l’orizzonte di chiusura di questo lungo percorso arricchendo di un nuovo senso, o forse solo di una più sicura consapevolezza, l’ipotizzata unio mystica tra gli elementi in gioco. E’ curiosa, intanto, l’affinità anche materiale tra le cose povere ed essenziali trascorse in rassegna e poi cristallizzate da Borges nella sua passeggiata e quelle evocate dalla madeleine assaporata da Proust. La vecchia casa grigia di zia Léonie, le città, le piazze, le vie, i fiori della recherche sono di nuovo le unità semplici che procurano a Marcel le stesse sensazioni estatiche provate da Jorge e sono palesemente simili al muro roseo, al cortile, alle case basse di Barracas: “Avevo smesso di sentirmi mediocre, contingente, mortale. Da dove poteva giungermi una gioia così potente?”549 Vertigine di immortalità e incontenibile felicità: i sintomi avvertiti dai due scrittori sono i medesimi. In più, nell’episodio della rievocazione di Combray affiorano almeno due caratteri assenti nella digressione bonearense: curiosamente Proust qui sembra più borgesiano di Borges, perché trasferisce la mistica dal piano emotivo e soggettivo dell’estasi, un profilo comune a entrambi i testi, a quello oggettivo del contenuto dell’esperienza. La credenza celtica nella presenza delle anime degli scomparsi o degli assenti negli oggetti inanimati che le tengono prigioniere sino al momento - forse eternamente rimandato - in cui il casuale incontro con quelle semplici cose finalmente emancipa gli spiriti catturati, è sì una metafora del recupero del passato, negato all’intelligenza e alla memoria volontaria, ma è anche, in un punto cruciale dell’opera, la confessione che solo attraverso uno slancio emotivo – affettivo, inseparabile dalla mistica550, tale riscoperta si rende possibile. Questa prospettiva d’altra parte, dopo avere aperto il celebre brano, quasi a volerne ribadire la tonalità cromatica nel segno del mysterium, lo chiude: “..Così, ora, tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di casa Swann, e le ninfee della Vivonne, e la brava gente del villaggio e le loro piccole abitazioni e la chiesa e tutta Combray e la campagna circostante, tutto questo che sta prendendo forma e solidità è uscito, città e giardini, dalla mia tazza di tè.” 551 Dunque si potrebbe azzardare che tutto il mondo letterario della recherche si effonde da quella tazza di tè: essa è, per così dire, l’Aleph di Proust, l’Origine, il luogo dove si trovano, 549

M. Proust, op.ult.cit., 57.

550

Cfr. G. Laras, La mistica ebraica cit., 4.

551

M. Proust, op.ult.cit., 59.

209

senza confondersi, tutti i luoghi della terra..Per la Cabala, ..la lettera (che) rappresenta l’En Soph, l’illimitata e pura divinità.. 552 Dalla mistica alla letteratura: un passo, in questa fase finale del nostro percorso, sempre più breve. Marcel incomincia qui a esplicitare ciò che il più ironico riservato e disilluso Jorge non oserebbe mai dire. “Da dove poteva giungermi una gioia così potente?...Poso la tazza e mi volgo verso il mio spirito. Trovare la verità è compito suo. Ma in che modo?..Cercare? Di più: creare. Eccolo faccia a faccia con qualcosa che non esiste ancora e che solo lui può realizzare e far entrare, poi, nel raggio della sua luce.” 553 Trovare la verità è compito dello spirito e la via non può essere che quella della creazione: l’estasi dell’immortalità, la gioia profonda della riscoperta a nulla valgono se non si accompagnano all’atto originario dell’immaginazione. Ma in che modo realizzare questo compito impervio? Come saldare l’eternità con il Principio? In un altro brano, forse meno celebre, della recherche, ci si avvicina alla rivelazione. Come nell’episodio borgesiano, anche qui il narratore è a passeggio, sia pure in carrozza e nella campagna francese. Il piacere estatico, una vera ebbrezza, nasce – scrive Proust – dal prodursi di un pensiero sprigionatosi subitaneo irresistibile, e già articolato in una bella frase, all’allontanarsi della vista dei campanili di Martinville: “Senza dire a me stesso che quanto stava nascosto dietro i campanili di Martinville doveva essere qualcosa di analogo a una bella frase, poiché era sotto forma di parole capaci di procurarmi piacere che la cosa mi era apparsa, chiesi al dottore una matita e della carta e, a dispetto dei sobbalzi della carrozza, composi, per dare sollievo alla mia coscienza e obbedire al mio entusiasmo, il breve pezzo seguente, che ho ritrovato più tardi e al quale ho apportato solo lievi modifiche:...” Il brano interessa meno del commento conclusivo di Marcel: “Non mi è mai capitato di ripensare a questa pagina, ma quando, allora, in quell’angolo del sedile dove il cocchiere del dottore era solito sistemare dentro un paniere il pollame comprato al mercato di Martinville, ebbi finito di scriverla, mi sentii così felice, mi parve che m’avesse così completamente liberato dei campanili e di quel che si nascondeva dietro di loro, che, come fossi io stesso una gallina e avessi deposto un uovo, mi misi a cantare a squarciagola”.554 552

J.L. Borges, L’aleph, da L’aleph cit. (Ed. Milano, 2003), pp. 161 e 169.

553

M. Proust, op.ult.cit., 56.

554

M. Proust, op. ult. cit., pp.220-222 210

In questo caso, dunque, l’esperienza estatica, la mistica dell’eternità, nasce non tanto dall’apparizione di cose povere e essenziali e dall’inseparabilità o in-differenza dei momenti che ne accompagnano l’epifania, non dallo sprigionarsi delle anime dei morti – o del passato dagli oggetti che il caso ci fa incontrare, ma dalla scrittura che irresistibilmente scaturisce quando tutto ciò si allontana, si assenta; in altre parole, emana dallo Spirito al quale è demandata, attraverso l’opera letteraria, la Creazione della verità. Come è noto, è al compimento della cattedrale, ne Il tempo ritrovato, che i temi prima sfiorati vengono approfonditi con maggiore consapevolezza. Solo a questo punto Proust rende esplicito come la fuggitiva contemplazione d’eternità gli abbia procurato, a rari intervalli, il solo piacere vero e fecondo della vita 555: “Ricordai con piacere.. come già a Combray io fermassi con attenzione davanti alla mente qualche immagine che aveva attratto con forza il mio sguardo, una nube, un triangolo, un campanile, un sasso, sentendo che sotto quei segni c’era forse qualcosa d’affatto diverso che dovevo sforzarmi di scoprire, un pensiero di cui essi erano la traduzione, al modo di quei caratteri geroglifici che sembrano rappresentare solo oggetti materiali. Questa decifrazione era difficile, certo; ma era la sola che desse qualche verità da leggere” 556.

. 555

M. Proust, Il tempo ritrovato, Milano, 1995, 225. Poco prima (p.220) scrive: “Sorvolavo rapidamente su tutto

questo, più imperiosamente sollecitato com’ero alla ricerca – ricerca le altre volte rimandata – della causa di tale felicità, del carattere di certezza con cui essa s’imponeva. E la indovinavo, tale causa, paragonando fra loro quelle diverse impressioni felici che avevano in comune il fatto ch’io le provavo tanto nel momento attuale quanto in un momento lontano, rumore del cucchiaio sul piatto, dislivello delle selci, sapore della madeleine, sino a far rifluire il passato nel presente, a non sapere con certezza in quale dei due mi trovassi; in verità l’essere che assaporava allora in me quell’impressione la assaporava in ciò ch’essa aveva di comune in un giorno trascorso e ora, in ciò che aveva di extratemporale; un essere che appariva soltanto quando, grazie a una di tali identità fra il presente e il passato, gli era dato stare nel solo ambiente in cui potesse vivere e godere dell’essenza delle cose, ossia al di fuori del tempo.” Non siamo molto lontani dalla inseparabilità dei momenti temporali teorizzata da Borges nel brano letto in precedenza. Trovo illuminante questo passaggio nel saggio di S. Beckett (Proust, Milano, 2004, 53) nella parte in cui tratta dell’esperienza estatica immaginativa e simultaneament eempirica legata al recupero del passato: “Ma se questa esperienza mistica comunica un’essenza extratemporale, se ne deduce che chi la riceve è in quel momento un essere extratemporale. Di conseguenza, la soluzione proustiana consiste, per quanto si è detto, nella negazione del Tempo e della Morte; la negazione della Morte, in ragione della negazione del Tempo. La Morte è morta in quanto il Tempo è morto.” Chiave di interpretazione quanto mai spendibile a margine del racconto borgesiano commentato. 556

M. Proust, op. ult.cit., 229.

211

La decriptazione del segno, il disvelamento dell’altro universo celato dalle geometrie dei campanili di Martinville o dal sapore della madeleine può riuscire solo per il tramite della creazione di un’opera d’arte, già preesistente in quanto nascosta e necessaria, che noi abbiamo il dovere di scoprire 557: “La vera vita, la vita finalmente riscoperta e illuminata, la sola vita, dunque, pienamente vissuta, è la letteratura.”558 In conclusione, dalla contemplazione dell’eternità, custodita in pochi oggetti semplici ed essenziali, e dall’immediato contestuale articolarsi della scrittura, intesa come scoperta creativa di un mondo già esistente da tradurre in segni, nasce la felicità dell’estasi letteraria. Né l’universo onirico resta estraneo a questo procedimento: il sogno emerge nella sua dimensione di oblio, già affiorata altrove. 559 Proust è consapevole della possibilità di immaginare solo ciò che è assente 560: dunque le condizioni per recuperare il passato e per creare nascono anche dall’allontanamento, dalla smemoratezza, dallo smarrimento; infine, paiono generate da quella stessa negligenza oscura, che, si era detto, libera le inconsapevoli emanazioni sefirotiche del Demiurgo Sognatore di Borges. Come già azzardato a suo tempo, quando Dio ci abbandona crea, quando l’uomo si abbandona crea. Forse qui sono tracciati i limiti insuperabili dell’atto demiurgico di esclusiva pertinenza umana. Sognare – creare – scrivere, il geroglifico a tre dimensioni potrebbe avere trovato la pietra di Rosetta sub specie aeternitatis. 557

M. Proust, op.ult.cit., 232. Scrive poco più avanti Proust (p. 243): “..Io capivo che il libro essenziale, il solo libro

vero, un grande scrittore non deve, nel senso corrente del termine, inventarlo, bensì, visto che esiste già in ciascuno di noi, tradurlo. Il dovere e il compito d’uno scrittore sono quelli d’un traduttore.” 558

M. Proust, op.ult.cit., 249.

559

Cfr. cap. 4) II sez.

560

“Tante volte nel corso della mia vita, la realtà mi aveva deluso perché nel momento in cui la percepivo la mia

immaginazione, che era il solo organo di cui disponessi per godere della bellezza, non poteva applicarsi ad essa, in virtù della legge inderogabile secondo la quale si può immaginare solo ciò che è assente. Ed ecco che gli effetti di questa dura legge erano stati improvvisamente neutralizzati, sospesi, da un meraviglioso espediente della natura, che aveva fatto balenare una sensazione – rumore della forchetta e del martello, stesso titolo di libro, ecc. – contemporaneamente nel passato, il che permetteva alla mia immaginazione di assaporarla, e nel presente, dove la scossa effettiva data ai miei sensi dal rumore, dal contatto del tovagliolo ecc. aveva aggiunto ai sogni dell’immaginazione ciò di cui essi sono abitualmente sprovvisti: l’idea d’esistenza.” (M. Proust, op.ult.cit., pp. 221222).

212

2) Una delle conclusioni possibili Dico questo per molte ragioni. La principale è che in nessun caso può darsi una sola “conclusione”. Ciò fra l’altro non sarebbe, come oggi si dice, “politicamente corretto” proprio sul piano ermeneutico, che vive di

inesauribile

pluralismo,



in

linea

con

il

pensiero

ebraico:

infatti

“le

porte

dell’interpretazione non sono mai chiuse”. 561 Il metodo di lavoro scelto – o meglio, formatosi – è poi infinitamente lontano da criteri euclidei e non può quindi pervenire ad alcuna teoria more geometrico demonstrata. Con lo scudo protettivo dei filosofi teoretici, ho piuttosto cercato di interrogare il testo: quindi, per lo più, ho posto - mi sono posto - quesiti (pavento talora superflui) senza presumere di avallare la plausibilità di risposte talvolta temerariamente azzardate. Tra l’altro, ma sarebbe certo un fraintendimento, si potrebbe anche sospettare che, pur mimetizzate da lussureggianti – nonché spesso logoranti - ramificazioni, sviamenti, digressioni, qua e là affiorino riflessioni, tanto casuali quanto all’apparenza conclusive: queste sedimentazioni si sono però spesso materializzate soprattutto – temo - per confutare tesi altrui, come non di rado si usa per artificio dialettico. D’altra parte ciò può meglio riuscirmi per ovvia, quanto indesiderata, deformazione professionale. Né, se qualche imprecisione spicca di tanto in tanto, mi pare che una contenuta pseudoepigrafia possa essere del tutto bandita in un’occasione di così irripetibile convergenza tra il mondo di Borges e la Cabbala. Infine, e questo forse suona meglio, la circolarità della scrittura del nostro e della mistica ebraica sembrano per definizione scoraggiare assunti definitivi. Testi aperti patiscono conclusioni chiuse, per la contradizion che nol consente 562. Tuttavia è innegabile - anche la tradizione vanta le sue buone ragioni - che debba di necessità esibirmi in un modesto tentativo di offrire una chiave ermeneutica finale, ma non certo risolutiva, che si appropri, inglobandole, delle “interpretazioni progressive” già sviluppate. Ciò forse è un omaggio inconsapevole alle discutibili, ma affascinanti, “teorie del tutto” talvolta assecondate dai filosofi della scienza. L’intento, assolutamente utopistico, sarebbe infatti

561

Scrive M. Giuliani (in Auschwitz cit., 185): “Nel giudaismo si può sempre aggiungere qualcosa. E’ sempre data la

possibilità di un davar acher, di un’altra e diversa interpretazione. Come insegnava Maimonide: “”Le porte dell’interpretazione non sono mia chiuse.”” 562

D. Alighieri, La Divina Commedia cit., Inferno, XXVII, 120.

213

quello di verificare la possibilità di riunificare, collocandoli in un orizzonte di senso condiviso, gli elementi strutturali già analiticamente studiati. In una prospettiva più modesta e realistica, emerge invece l’irriducibile ma benefica coazione, comune anche ai tragediografi più noiosi e inconcludenti, a imbastire una qualsiasi scena risolutiva che possa finalmente uccidere l’opera. In breve dunque, questo capitolo tratterà definitivamente Le rovine circolari, mentre il prossimo, senza appello, dovrà fatalmente ripercorrere l’itinerario concepito, nella speranza che sintesi e ironia, patrimonio peculiare di Borges, ma, per mia inspiegabile vendetta o assai più verosimile incapacità, quasi del tutto assenti in questo lavoro, accompagnino lo sforzo conclusivo. Ecco, la mia sensazione - di ciò e non di altro si tratta - forse arbitraria e certo confutabile, ma incoercibile, è che Le rovine circolari e le poesie di Borges correlate al tema onirico, centrale nel racconto commentato563, non possano essere compiutamente lette senza ricorrere anche al brano della Storia dell’eternità564 citato all’inizio di questa sezione. Mi pare che alla fine si debba ritornare nel territorio, già in parte esplorato, del sognocreazione, collocando anche l’orizzonte di senso di questo elemento strutturale del testo borgesiano - come si è accennato in conclusione dello scorso capitolo - sub specie aeternitatis. Per chiarire meglio questo concetto, dopo avere attinto a Proust, che contribuisce, credo, a saldare l’apparente frattura tra contemplazione dell’eternità, gioia estatica e creazione letteraria, alludendo con più viva spregiudicatezza e minor “ritegno” dello scrittore argentino alla percezione e contestuale risonanza scritta di tonalità mistiche affioranti nei momenti più

563

Se fosse ipotizzabile un sottogenere letterario onirico, come taluno correttamente prospetta (Le metamorfosi del

sogno nei generi letterari, a cura di S. Volterrani, Firenze, 2003) il racconto commentato potrebbe rientrarvi. Si tratta di un ambito caro a Borges, che curò un antologia di sogni e nell’introduzione scrisse: “..I sogni costituiscono il più antico e certo non il meno complesso genere letterario del mondo.” (J.L. Borges, Libro di sogni, Milano, 1999, 8). 564

J.L. Borges, Storia dell’eternità, in Tutte le opere cit., Vol.1, pp. 541-544.

214

significativi – e inscindibili - della vita e dell’arte 565, mi affido a un altro breve brano tratto da un racconto di E.A. Poe: “Coloro che sognano di giorno sono esperti di molte cose che sfuggono a chi sogna solo di notte. In perlacee visioni balenano a costoro frammenti d’eterno e, allorché si riscuotono, rabbrividendo si avvedono di aver sfiorato l’orlo del grande segreto. Hanno colto indizi della conoscenza del bene, e anche più dei meri indizi della conoscenza del male.” 566 La fantasia di questo scrittore non si accontenta di attribuire all’universo dei visionari a occhi aperti la fuggevole contemplazione dell’Eterno, ma ci suggestiona, persino, con l’eloquenza dello stile, evocando l’inquietante baluginare, altrove assente, di una gnosi altrimenti impervia. Il rapporto tra sogno ed eternità non sfugge neppure a Valery, che, scandagliando le profondità

estetiche,

ne

individua

il

senso

nella

possibilità,

propria

solo

della

rappresentazione onirica, di condensare l’infinito nel finito 567. Ma sia Poe sia l’inesauribile saggista francese alludono, per così dire, a “sogni desti”, nei quali sono impegnate, in un’attività mentale profondamente meditativa e assai concentrata, tutte le facoltà intellettuali, tese a consegnare al pensiero, senza nulla disperdere, l’integrale potenza dell’immagine: un ossimorico “sogno razionale”, spontaneamente capace, solo che lo voglia, di connessioni, “creatore per eccellenza”568, assolutamente libero, come la poesia, ma quanto la scrittura paradossalmente “imbrigliato” da una lucidità mai così vigile; un sogno,

565

In sostanza, come si è forse chiarito nel precedente capitolo, i brani della recherche citati, secondo la prospettiva

ermeneutica avanzata, completano, in un certo senso, la passeggiata bonearense di Borges, saldando alla mistica dell’eternità la scrittura letteraria, esplicitamente elevata da Proust, così mi pare, al rango di vero e proprio elemento strutturale di quel momento estatico, per quanto, tuttavia, l’opera artistica, secondo lo scrittore francese, possa efficacemente assurgere alla creatività solo con il dolente recupero dell’assenza dell’oggetto rappresentato. 566

E.A. Poe, Eleonora, in I racconti, Torino, 1983, vol. II, 430.

567

Nel descrivere la sensazione di novità che emana dall’opera artistica di Eugène Delacroix, P. Valery, citato da A.

Mazzarella (in La potenza del falso cit., 210) scrive: “...Perché egli ci piace maggiormente? Si potrebbe dire che con un’immaginazione più ricca, egli esprime soprattutto ciò che vi è di segreto nel cervello, l’aspetto stupefacente delle cose, tanto la sua opera custodisce fedelmente l’impronta e l’umore della sua concezione. E’ l’infinito nel finito. E’ il sogno! E con questa parola non intendo il cafarnao della notte, ma la visione generata da un’intensa meditazione, o, nei cervelli meno fecondi, da un eccitante artificiale.” 568

A. Mazzarella, La potenza del falso cit., pp. 184-185. Il concetto è tratto dall’opera filosofica di Novalis.

215

infine, evocato quale implacabile eversore della sempre più fragile barriera eretta dal mondo della cosiddetta “realtà”: argomento certo non nuovo di questa trattazione 569. Tale ultimo versante mi pare puntualmente intuito da Roger Callois, che si propone, come scrive Mazzarella, nel ruolo di interprete accorto e inquieto dei paradossi che il lavoro onirico consegna alla veglia: “Non è per gli aspetti che lo contrappongono alla realtà..che il sogno è temibile e insidioso, ma al contrario, proprio per quegli aspetti che lo avvicinano alla realtà e che riescono alla fine a gettare su di essa, di rimbalzo, un deciso sospetto di irrealtà.” 570 Anche con il conforto dei contributi ora evocati, che completano il quadro e arricchiscono di inedite connessioni gli elementi di questa modesta fenomenologia, congiurandoli in un’unica trama con l’assuefare pure il sogno, dopo la creazione e la scrittura, alle vertigini dell’Eternità, è finalmente tempo di ritornare, forse per l’ultima volta, alle mai abbandonate rovine circolari, per respirare nuovamente il sollievo, l’umiliazione e il terrore che accompagnano la scoperta dell’uomo taciturno di consistere anch’egli, non diversamente dal figlio, in mera parvenza, nell’evanescente proiezione onirica di un altro demiurgo a sua volta sognato, e così - si presume - all’infinito. Benché la lungamente protratta analisi del testo abbia lasciato trapelare un pluralismo ermeneutico forse sin troppo lussureggiante, la percezione d’insieme predominante, ossia lo sguardo sinottico gettato sia sul racconto sia sull’esegesi che si è sedimentata, sembra piuttosto accompagnarsi a una sensazione di disagio, di fallimento, alla quale non è forse estranea l’inquietante proposizione che conclude la narrazione, per la verità in linea con l’angoscioso esergo571.

569

Cfr. partic. Cap.2) della III sez.: “Infatti quello che stiamo dicendo ora niente impedisce che ci sembri che ce lo

stiamo dicendo l’un l’altro anche nel sonno. E quando in sogno ci sembra di raccontare dei sogni è incredibile la somiglianza di queste cose sognate con quelle vissute nella veglia”. (Platone, Teeteto, 158 c, in Tutti gli scritti cit., 209). 570

A. Mazzarella, op. ult.cit., pp. 215-216.

571

Rispettivamente, la conclusione del racconto: “Con sollievo, con umiliazione, con terrore, comprese che era anche

lui una parvenza, che un altro stava sognandolo. ” L’esergo: “And if he left off dreaming about you..” (J.L. Borges, Le rovine circolari cit., in Tutte le opere cit., Vol.1, pp. 660 ss.)

216

Il mondo onirico, che è materia e forma 572, se vogliamo, de Le rovine circolari, ha la straordinaria ambivalenza del pharmakon, termine bifronte che allude, sì, al rimedio risanante, ma anche al sortilegio, alla magia, al veleno 573. Come si è azzardato, il sogno è cifra della spettacolare libertà dell’immaginario, condensa l’espressione più alta della creatività; non solo però di quella, così superbamente umana, che talora svela con lucidità visionaria le vette dell’arte e della letteratura, sgombrate dalle oscuranti nubi delle veglie amorfe e sterili574, ma anche dell’altra, più primordiale abissale e inquietante vena demiurgica, che vivendo nella vertiginosa incertezza dell’interrogativo teoretico di fondo (sogno o son desto?), annullata o ignorata la differenza tra reale e onirico, si spinge imperiosa verso l’Origine, e addirittura aldilà di quella, nel luogo dell’angoscia che precede ogni Inizio, infinitamente aperto alle innumerevoli possibilità destinate a sfumare nel Nulla575. Il sogno cosmico è indubbiamente libero, forse troppo - si è detto - di immaginare universi fondandoli dal principio, perché per suo tramite l’individuo, senza freni, costituisce il rapporto con sé stesso e con il mondo in una totalità esistenziale non scomponibile. Tuttavia paradossalmente questa radicale e sfrenata libertà – ecco l’ambivalenza onirica – che attribuisce al Dio di Borges, ma pure a ogni uomo, la facoltà di creare senza intenzionalità, bensì solo sognando, con l’ausilio della magia - pharmakon del sonno, dell’assenza, dell’abbandono, della distrazione, respinge ogni diligenza costruttiva, abiura ogni progetto comune, distrugge ogni ordine, scavando solo l’abisso (o meglio ancora, innescando la mise en abyme), spalancando la vertigine dell’umiliazione, e forse scatenando quel terrore non dissociabile dall’eternità cui allude non solo il nostro autore nel finale del racconto, ma anche il visionario Poe576. 572

Materia in quanto la narrazione si svolge interamente, dall’inizio alla fine, sul territorio onirico, teatro di ogni

evento. Forma perché la tonalità cromatica del racconto, il tema della creazione e quello affine della scrittura letteraria alludono al sogno come espressione più intensa della libertà dell’immaginario. 573

Cfr. n. 344.

574

“Nel sogno si condensa la creatività che caratterizza il pensiero; l’impasto di inesauribili combinazioni alle quali

esso può dare luogo.” (A. Mazzarella, La potenza del falso cit., 185). L’altisonante metafora del disvelamento delle vette artistiche, diradatesi le nubi che le nascondono, mi è suggerita dal concetto di creazione-scoperta-traduzione illustrato, come si è visto poc’anzi, da M. Proust ne Il tempo ritrovato. 575

Si allude anche al pensiero di Kierkegaard (cfr. N. Abbagnano, Storia della filosofia cit. III, 193).

576

Cfr. n. 583 (il brano in questione è quello tratto da Eleonora). 217

Ciò che sembra in conclusione connotare la narrazione, il senso di frustrazione e fallimento di Ulisse-Sisifo, a quanto pare condiviso dalla stessa Divinità 577, nasce quindi dall’eccesso, dal rovinoso moltiplicarsi degli universi e degli dèi; in definitiva sorge dalla ciclicità del tempo, specchio abominevole dell’incessante fabbrica dei sogni, dalla dissoluzione dell’arché negli Inizi infinitamente ripetuti, dalla negazione dell’apertura caotica verso l’Origine, possibile, come si è rilevato578, solo ammettendo la creazione ex nihilo. Questo quadro, tuttavia, ospita, insieme all’umiliazione per la deminutio ontologica dei personaggi579, ormai accertati come mere parvenze, e accanto al terrore per la reiterazione incessante, dal passato al futuro, delle vite e delle esperienze, anche, e ciò è singolare, il sollievo finale di Ulisse–Sisifo, che non è, non può essere solo disdegnoso gusto o mero compiacimento per la degradante condizione esistenziale che il sognatore condivide con tutto il suo mondo, ma piuttosto trae origine, forse, dal solidale titanismo che unisce padre e figlio, Uomo e Dio580, nel resistere a quella cieca forza che, si è detto 581, li vincola, come l’incatenato Prometeo, alla irriducibile circolarità delle rovine. Una solidarietà che si nutre anche della mutua condivisione del dolore, non solo paterno o filiale, ma universale, inseparabile dalla scoperta dell’irrevocabile stato, comune a tutti gli esseri del cosmo, di eterni prigionieri nel cerchio infuocato del tempio ripetutamente annientato 582.

577

Cfr. le ampie considerazioni svolte su questo specifico tema nel cap. 6.3) della IV sezione.

578

Cfr. n. 230 e inizio del cap. 4) della IV sez.

579

Secondo il citato S. Sosnowski (Borges y la Cabala, 66), l’umiliazione deriverebbe dalla tragica consapevolezza

della propria indifferenziazione, intesa come mancata individuazione, effetto dell’appartenenza all’infinita e impersonale catena di sogni. 580

Si è detto, nel commento alla parte finale del racconto, che il testo lascia aperte diverse possibilità interpretative sia

sull’effettiva natura dello “straniero” sognatore nel rapporto con la creatura sognata, sia sul rapporto “invisibile” tra il sognatore a sua volta sognato e la Divinità. 581

Ancora in 6.3) della IV sez.

582

Rammento l’Inno x. 129 del Rg Veda (6-7, in J. Miller, I Veda, Roma, 1976, 208:

6 “Chi sa la verità, chi può dire donde è originata, donde questa proiezione? Gli dei apparvero dopo nella creazione di questo mondo. 7 Chi sa quindi come tutto ciò ebbe origine? Donde originò questa creazione, se l’ha causata o se no, Colui che nel supremo empireo la sorveglia, Egli soltanto lo sa, oppure perfino Lui non lo sa!”

218

Possono, Dio e l’uomo, soffrire insieme? La mistica ebraica risponde che sì, è possibile: le lacrime della Sheckinà sono il riflesso del pianto umano 583. Ma quali sono i limiti, le regole, di questo gioco di specchi? “Come un’ombra...Come tu sei con me, così io sono con te”. Lo sconcertante midrash, arditamente commentato da Ibn Gabbai e in modo più cauto da Idel584, può, con minima variante, essere anche letto, senza forse troppo sacrificare al senso, “Come un sogno..Come tu sei con me, così io sono con te”: sappiamo che, secondo l’interpretazione di Borges, le Sephirot emanate “involontariamente” da un’indifferente Divinità sono simili nel loro distratto procedere ai pellegrinaggi onirici delle notti degli uomini 585

.

Se è così, se i due poli sono l’uno il riflesso dell’altro, allora, come nulla può impedire all’Ente Supremo di sognare l’uomo, niente può escludere che Adamo, dopo avere orgogliosamente divinato se stesso e i suoi mondi, possa in modo speculare fare Dio: esito, come è noto, che, a certe condizioni, la mistica non nega. E può farlo sognando. Ma qui si nasconde il pericoloso equivoco. Fare Dio obbedendo ai precetti e con lo studio della Torah, intensificando l’intimo colloquio con la Divinità, che però presuppone, per così dire, un armonico movimento comune e l’umile riconoscimento dell’Alterità del mondo in alto, è cosa ben diversa dal blasfemo farsi Dio, ossia dalla portentosa metamorfosi che, in fondo, la tracotanza del taciturno straniero del racconto presume di determinare. L’ombra o il sogno di un uomo debole, di un delirante Narciso, vincolato alla circolarità del tempo anche dalle catene generate dalla sua stessa hybris, inetto nel prendere coscienza dei propri limiti, temerario nel perseguire indebiti obiettivi, può forse solo produrre un dio altrettanto sventurato. In un universo in cui dominano l’equivoco della specularità e la condanna della reiterazione, appare quindi meno ardito fissare il rapporto aritmetico tra le forze umane e divine “intorno all’unità” . Secondo questa prospettiva, che tuttavia paga un errore umano di calcolo, il fallimento dell’uomo sembra trascinare quello della divinità. Per sottrarsi alla volontà cieca che potrebbe irretire l’uno e l’altra, occorre sfuggire alle rovine circolari. Ciò sembra possibile solo in virtù di un sacrificio, di una rinuncia, e, in definitiva, di un nuovo paradosso, ossia di un gigantesco ridimensionamento.

583

Cfr. n. 430 e parte finale del cap. 5) della IV sez.

. 584

Cfr. M. Idel, Cabbalà, Nuove Prosp. cit., 166 e cap.6.4 della IV sez.

585

Cfr. cap.4) sez. II.

219

Si devono evidentemente abbandonare l’imitatio dei più grossolana e il desiderio di onnipotenza, dai quali promanano solo la ripetizione e la mise en abyme e da cui non può sortire che una divinità deludente quanto l’uomo che la prodiga, per volgere lo sguardo, anche quello di Dio (come un’ombra..), se così si può dire, dal cielo, e dai deliri che talvolta ispirano le torri di Babele, alla nostra terra, sino a raggiungere e catturare, per introiettarle, gustarle con mistica devozione586, le cose prossime, che racchiudono, secondo il racconto di Proust e dell’”altro” Borges, l’essenza dell’Eternità, trasformando l’umiliazione, che ossessiona il sognatore del nostro racconto, in umiltà, sempre “terragna”, ma non più degradante 587. Una parabola chassidica raccontata da Zimmer alla fine del suo Miti e simboli dell’India insegna in fondo la stessa cosa: il tesoro cercato è spesso a portata di mano, ma per poterlo trovare è talvolta necessario allontanarsi, intraprendere senza successo un lungo viaggio e poi tornare a casa per scoprire dietro l’angolo il bene desiderato 588. Questo però ancora non basta. Solo la progressiva “formazione” del personaggio-uomo sempre più cosciente dei suoi limiti, la sua crescita etica589, alla quale pure si è assistito, e, in definitiva, proprio quel frustrante ma benefico itinerario di ricerca al quale si è poc’anzi alluso, possono forse alterare il paritario rapporto di forze con la divinità, ripristinando l’auspicato squilibrio tra i due poli, e ciò nella misura in cui la devozione mistica si fa autentica e l’esigenza di un “Dio personale”, non più mero custode di segrete alchimie, si impone con maggior intensità 590. 586

Se l’approccio è estatico, le cose che, secondo le enunciazioni di Borges e Proust, dovrebbero avvicinare

all’eternità, non sarebbero solo da avvicinare , percepire, rappresentare, ma addirittura, per così dire, da inglobare, “assaggiare”, “gustare”, come scrive G. Laras, trattando del collegamento intimo tra il mistico e la divinità (in La mistica ebraica cit., pp. 2-3). 587

Cfr. la nota etimologica 489.

588

Cfr. H. Zimmer, Miti e simboli dell’India cit.,pp. 197-199.

589

Tema peraltro caro alla mistica ebraica. Scrive Scholem che l’unione con Dio “is in fact not at all the pantheistic

obliteration of the self within the divine mind wich he likes to call the Naught, but pierces through this state on to the rediscovery of man’s spiritual identity. He finds himself because he has found God…After having gone through devekut and union, man is still man nay, he has, in truth, only then started to be man, and it is only logical that only then will he be called upon to fulfil his destiny in the society of men.” (G. Scholem, The Messianic Idea in Judaism and Other Essays on Jewish Spiritually, New York, 1971, 227). 590

La circolarità alla quale si è più volte alluso nel seguire la vicenda del protagonista del racconto commentato è in

fondo strettamente legata a un’altra celebre metafora di Borges, il labirinto, su cui non ci si è soffermati perché forse 220

A tanto Le rovine circolari forse si avvicina, ma infine non approda. Ecco allora in nostro soccorso, a spezzare specularità sterile e angosciosa ciclicità, dalle quali ovviamente anche il mio testo, per evidente solidarietà, non è immune, sprigionarsi quel barlume di eternità e di felicità dal muro roseo, dalle case basse e povere del quartiere di Barracas, dai campanili di Martinville, dalla inesauribile tazza di tè di Cambray. Modesti frammenti di realtà, minuzie evanescenti ed estatiche591: sono i gradini della scala di Giacobbe che consentono di raggiungere mondi altrimenti inespugnabili, sono gli elementi essenziali, gli atomi che cristallizzano il tempo, fugando l’inquietudine 592 che ne libera il flusso, saldando fino all’inseparabilità i momenti vissuti per svelare la via estatica alla possibile immaginazione di eternità 593. Mi piace quindi immaginare che l’Odissea dell’uomo taciturno, cominciata nel notturno profondo

di

un

itinerario

mistico

onirico 594,

presto

sfumato

con

l’incagliamento

dell’imbarcazione del benefattore Ra e con l’improduttivo sortilegio dell’opera al nero, possa concludersi con una quieta evasione dalla circolarità delle rovine e la tranquilla passeggiata di meno rilevante in relazione alla mistica ebraica di quanto non lo sia l’altra. Sembra però puntuale, a questo punto, nel trattare la crescita, la formazione dell’eroe, ricordare ciò che scrive A. M. Pedullà (in Storia generale della letteratura italiana a cura di N. Borsellino e W. Pedullà, Milano, 2004, Vol. VI, pp. 310-311) a proposito del Labirinto del mondo e paradiso dell’anima di Comenio: “La metafora del labirinto può indicare un processo circolare che può non avere mai fine: il viaggio erratico di chi esplora continuamente le frequenti sorprese di un percorso il cui svolgimento si attua passo dopo passo senza nessuna prefigurazione dell’approdo finale..La figura del labirinto si può considerare la materializzazione del processo di iniziazione..Per raggiungere la meta, situata al centro del labirinto, si richiede quindi un massimo di tempo e di fatica fisica, consistente nell’esperienza di essere sempre più vicini alla meta, che appare talvolta a portata di mano, ma solo per tornare ad allontanarsi..Al centro del labirinto l’iniziando è solo con la sua realtà interiore. Vi incontra se stesso, un principio divino, un Minotauro o qualsiasi altro simbolo di “”centro””, che rappresenta il luogo o la possibilità di una conoscenza così fondamentale da richiedere un mutamento di direzione radicale..Chi esce dal labirinto non è più il vecchio Adamo, ma un uomo rinato a una nuova fase o piano dell’esistenza.” 591

J.L. Borges, Storia dell’eternità, in Tutte le opere cit., Vol.1, 541.

592

Cfr. P. Spinicci, che sviluppa la nozione di tempo nelle Enneadi di Plotino, in Lezioni sul tempo, la memoria e il

racconto, cit., pp. 22-24. 593

594

J.L. Borges, op.ult.cit., 544. Cfr. cap.1) della IV sez. e parte conclusiva dell’ultimo capitolo della sez. III, in cui immagino l’abbrivio del

viaggio legandolo a un sogno mistico presto svanito.

221

Prometeo liberato, di Ulisse – Jorge, nella sua pacificata Itaca bonearense; un altro notturno, questa volta serenissimo, che consente finalmente all’eroe dai mille volti di celebrare la sua unione estatica con l’Eterno, redimendolo dallo sforzo vano di Sisifo: non un lieto fine da film hollywoodiano, non un’apoteosi sentimentale, credo, ma, assecondando Proust e la sua credenza celtica595, la liberazione dello spirito del protagonista, attraverso la lettura del testo in cui casualmente mi sono imbattuto, dalla prigionia della ripetizione alla quale era condannato e che in fondo anch’io, lettore-interprete, ho condiviso. Questa è tanto una postilla narrativa, un arbitrario, ma forse non del tutto incoerente, tentativo di evadere dal cerchio infuocato delle rovine, quanto la prospettazione di un possibile senso esegetico conclusivo, pertinente al versante teoretico letterario, o se si preferisce, estetico, dell’analisi testuale. Peraltro questi due profili, se pure son tali, secondo l’interpretazione avanzata sono così profondamente correlati da rendere forse ridondante la distinzione. Sono, si è detto, le cose semplici che, immediatamente tradotte nella bella frase di Proust, celebrano, sub specie aeternitatis, il connubio tra mistica, vita e letteratura 596, tra il sognare, il creare, lo scrivere. La svolta è sorprendente: fallita la ricerca dell’Origine - in altre parole, sfuggita la cattura dell’impercettibile aleph forse non pronunciabile da lingua umana - e vanificatasi, infine, l’impervia inchiesta troppo fiduciosamente affidata al compito demiurgico dell’inesauribile sognatore imbrigliato nell’Eterno Ritorno che gli è destinato, là dove l’epica Odissea di RaUlisse naufraga dissolvendosi nelle incessanti e vane fatiche di Sisifo, una modesta passeggiata nei dintorni di casa rivela a Borges il tesoro597 che il lungo itinerario in quel paese straniero gli aveva taciuto. La condanna al tempo discorsivo che ineluttabilmente corrompe, disgregandolo nel molteplice, il purissimo Aleph iniziale, non soltanto vieta all’idolatra della propria immagine specchiata, a Narciso, un atto creativo efficace, ma preclude anche la possibilità stessa di articolare un discorso sull’inenarrabile Principio, che si sottrae all’esperienza temporale e

595

Mi riferisco al celebre brano della madeleine riportato alla n. 564. La credenza celtica accennata ha molto in

comune con la dottrina indiana del Jainismo. Scopo della pratica religiosa giainista è infatti la liberazione dei Jiiva (vite, anime, spiriti) dalla prigionia della a-jiva (materia). Cfr. Zimmer, Miti e simboli dell’India cit., 58. 596

Sui rapporti tra esperienza poetica e mistica in Borges, cfr. anche Vian, Invito alla lettura di Borges cit., 139.

597

Si allude alla parabola chassidica di cui alla n. 606.

222

quindi al racconto598. Solo un testo sacro e miracoloso antecedente all’Origine e dunque assoluto599, in altri termini solo la Torah, forse potrebbe, o già ha potuto, raccontando se stessa, narrare anche il primo istante della storia. In tutti gli altri casi sembra negata alla scrittura la possibilità di cogliere e descrivere la creazione; l’attimo iniziale è inafferrabile e indicibile: inesorabilmente trascorso quello, non resta che indossare gli abiti di Sisifo, il volto paterno e meno trionfante di Ulisse 600, e risalire la corrente a ritroso per scoprire la sorgente nascosta. Malauguratamente l’imbarcazione, si sa, è ingovernabile. Il navigatore non può mai interrompere il suo folle volo 601, l’agognata Itaca, ugualmente punto di origine e meta finale, lo beffa senza posa, inibendogli insieme approdo e partenza. I mondi di Barracas e Cambray appaiono per fortuna lontani dalle immensità in cui l’Origine nasconde il suo volto ai naviganti. L’aleph si effonde semplicemente dalla tazza di tè o dal fico che offre il riparo dell’ombra. Quell’eternità602, che, manifestandosi nella sua immagine mobile, volteggiava lenta, circolare, sanguinaria e angosciosa sulla scena delle rovine, qui lampeggia fugacemente, ma più intensa familiare e vicina. Gli istanti vissuti non si ripeteranno all’infinito proprio perché di tali momenti è proclamata l’inseparabilità (quella pura rappresentazione di fatti omogenei..non è semplicemente identica a quella che ci fu in quello stesso angolo tanti anni fa: è, senza somiglianze né ripetizioni, la stessa.)603, così come pare irreversibilmente rivendicata la 598

Cfr. n. 563.

599

Assoluto rispetto al tempo (che precede), e non tenuto quindi ad assecondarne le regole alle quali qualsiasi altro

testo è vincolato. Dall’attimo in cui la creazione dal nulla è oggetto di una storia, la libertà originaria dell’essere, fondato sul nulla, si converte in necessità, che nega inevitabilmente la libertà originaria. Sul punto, cfr. anche S. Givone, Storia del nulla, Bari, 2003, XVII (“..In questo orizzonte comune il fondamento dell’essere è il nulla, ma proprio perché fondato sul nulla, l’essere è convertito nella libertà”..) 600

Ulisse figlio di Sisifo, cfr. n. 288.

601

Anche il canto dantesco di Ulisse allude, descrivendo il naufragio finale, alla circolarità, cifra, a mio avviso, del

folle volo: “Tre volte il fé girar con tutte l’acque” (Inferno, XXVI, 139, in La Divina Commedia cit., 239). 602

Mi riferisco, più propriamente, all’infinito ripetersi degli eventi legato alla circolarità temporale allusa nel racconto

commentato. 603

J.L. Borges, op.ult.cit., 543.

223

demolizione definitiva del muro - solo presunto, perché invisibile - che forse divide realtà e sogno. Ecco dunque rivelarsi l’illusorietà del tempo, con la soppressione del differimento differance di Derrida. A questo punto forse si potrà dire, insieme a Yoram Kaniuk, che Dio non si trova come sono in molti a pensare al principio della via, alla creazione, agli esordi, all’inizio, bensì nelle conclusioni. Aspetta lì 604. Accanto al muro roseo, alle case basse, nei miseri cortili, si potrebbe aggiungere, guardando lontano, verso un possibile orizzonte mistico. Forse qui l’aleph può essere di tanto in tanto pronunciato e rappresentato 605. Questo sguardo ormai pare racchiudere davvero tutto. La letteratura, nella quale, scrive Proust, consiste la vera vita, paradossalmente sembra poter “creare” con efficacia solo nel momento in cui si contraddice e quasi si azzera, negando il tempo discorsivo del racconto per abbandonarsi ai rari bagliori di istanti sfolgoranti in cui l’eterno, lasciata l’inquieta vertigine della ripetizione, si lascia immaginare nella luce onirica più pura. Se così stanno le cose, se questa fantasia estetica ha qualche fondamento, allora la poesia dovrà rassegnarsi a non cantare la vicenda dell’origine, indicibile, perché il contrario presupporrebbe l’impossibile conoscenza di un alfabeto estraneo all’esperienza temporale, la sola per noi disponibile; potrà invece essere scritta la storia della fine, quando tutto il tempo sarà trascorso davanti, per farci riconoscere – se qualcosa alludendovi, dice Proust, ci avrà occasionalmente aiutato – l’inseparabilità degli istanti, borgesiana chiave rivelatrice delle rappresentazioni identiche, negandone la successione secondo il ritmo familiare del “prima” e del “poi”. Nessuno possiede il linguaggio per descrivere l’Eternità, che precede l’inizio ed è tutta contenuta nell’ineffabile En Soph: solo Essa - in quanto Dio - può raccontarsi guardando il suo “specchio parlante”, o ancora meglio, il suo “doppio”, il Testo Sacro assoluto e fuori dal tempo, l’Identico a Lei. L’estasi letteraria potrà, dell’Eterno, intravedere e rapire fugaci riflessi, evocare il ricordo, immaginare il profilo assente 606.

604

Y. Kaniuk, Adamo risorto, Torino, 2002, 162.

605

Tale conclusione è, fra l’altro, coerente con il racconto di Borges L’aleph, in cui, come è noto, l’emblematica

lettera, che allude a En Soph, si rende “visibile” e in qualche modo rappresentabile (piccola sfera cangiante di intollerabile fulgore) in uno scantinato. (Cfr op. ult. cit. in L’aleph, ed. Milano 2003, pp. 150 ss.). 606

Borges infatti, con il brano citato all’inizio di questa sezione, non presuma affatto di cogliere o descrivere

l’Eternità, ma solo si concede “un’immaginazione di eternità”.

224

In questa prospettiva olistica l’orizzonte dell’affabulazione e della mistica si incrocia dunque, senza sovrapporsi interamente, con quello teoretico della produzione dell’opera d’arte. Sogno scrittura e creazione, gli elementi che formano il geroglifico, si specchieranno insieme nell’Eternità, solitamente oscura opaca invisibile come il cielo notturno delle città, inquinato da un chiarore che nasconde, e potranno scoprire in quei riverberi estemporanei la loro sorprendente identità. Ciò tuttavia potrà accadere solo quando la luce della coscienza avrà svelato l’in-differenza, pur effimera, dei rari momenti in cui il tempo si dissolve. Borges suggerisce questa strada607, Proust la porta a compimento. La nostra ermeneutica, consapevole di godere dell’impunità del pluralismo che le è concesso, suggerisce senza protervia altre possibili connessioni e distinzioni. Questa,

impreziosita

da

così

unanimi

riflessi,

potrebbe

essere

l’affabulazione

provvisoriamente conclusiva. Tuttavia, proprio ora, quasi all’apice dell’omogeneità, cementati con l’artificio della scrittura tutti gli elementi congiurati, a un passo dall’irrevocabile conclusione, sorge un dubbio. L’aggregazione prospettata si profila infatti troppo implacabile per essere davvero persuasiva. Si prova attrazione ma anche timore per le teorie in cui quasi per magia tout se tient. L’inquietudine non mi pare del tutto fugata. L’istante straordinario della rivelazione nasconde in sé il terrore di una nuova avventura solipsistica, che forse solo l’intimità di un sogno finalmente condiviso può scongiurare 608. Quel momento, al pari degli altri, non può avere l’autorità per diventare risolutivo e finale. Affermarlo significherebbe rinnegare il pluralismo ermeneutico al quale ci si è ispirati finora. Si pongono di nuovo, e me ne dolgo, domande inquietanti. E allora, come Penelope, dopo avere tessuto la tela di giorno, col favore della luce meno proterva della notte, mi accingo a disfarla.

607

In uno dei suoi ultimi colloqui – conferenze, raccolti in J.L. Borges, Testamento poetico letterario, Firenze, 2004,

21), lo scrittore argentino, volendo evidenziare anche l’aspetto, per così dire, impersonale del sogno, così si esprime: “Si sogna come si dice “”piove””: non c’è soggetto, c’è solo il verbo e il verbo c‘è perché viviamo, perché sogniamo. Non c’è nessuna differenza tra le due attività: sognare è essenziale, forse è la sola cosa reale che ci sia. Il sogno che cambia, che si sogna, che si meraviglia di sognare, tutto ciò si chiama filosofia, metafisica e anche poesia.” 608

La condivisione di una visione onirica è considerata dalla O’ Flaherty (in Dreams Illusions cit., 73) una via per

scongiurare the human terror of solipsism.

225

Ancora mi scuote l’interrogativo teoretico di fondo (sogno o son desto?) Se anche tale mitica coscienza dell’inseparabilità dei vissuti fosse illusoria? La realtà del mondo, suggerisce Popper, non è falsificabile609. Oppure, se, ironicamente, proprio la privilegiata natura di quegli istanti rivelatori annunciasse - compendiando in sé, ognuno, la storia di tutto l’accadere - quell’Eterno Ritorno dal quale il Borges sognatore demiurgo, presumo, vuole fuggire 610? Non rinnegherei, in definitiva, riconoscendone il pregio, quell’estasi prodigiosa, ma, ancora ispirandomi a Penelope all’atto del riconoscimento di Ulisse, sarei cauto, in mancanza di prove inconfutabili, nell’accreditarle carattere “reale” secondo il più ovvio senso comune, inseparabile dall’orizzonte epistemologico dello scettico occidentale 611. La mistica, inevitabilmente echeggiata dai brani di Proust e Borges, percorre, come si sa, vie diverse da quelle di regola praticate. Nessun passaggio è davvero negato, nessun itinerario è precluso; il nostro racconto ha genesi onirica: la fuga notturna dell’anima, attraverso il sogno, aspira a coinvolgere e saldare i due poli in cerca l’uno dell’altro, intelletto agente e immaginazione umana, in una circolarità non cieca, né ripetitiva o distruttiva ma vivificante e feconda, orientata verso l’Eternità. Questo scenario iniziale non è mai stato rinnegato e la luce onirica, medium e via maestra

609

610

Cfr. W.D. O’ Flaherty, Dreams Illusion cit., 198. Nel commentare il pensiero di Nietzsche, in una prospettiva anche orientalistica, M. Montanari ritiene che il

concetto di Eterno Ritorno, secondo il pensatore tedesco, non alludesse al ripetersi infinito delle stesse circostanze, bensì al fatto che “in ogni azione è compendiato tutto l’accadere.” (M. Montanari, Il Tao di Nietzsche, Milano, 2004, 129). Questa tesi, tuttavia, è altrove confutata. Prima di tutto dallo stesso filosofo tedesco, in così parlò Zaratustra, III, 13 (“Tutte le cose ritornano, noi ritorniamo con esse, noi fummo già innumerevoli volte, e tutte le cose sono con noi.”; cfr. Storia della filosofia cit. diretta da M. Dal Pra, Vol.9, 445). Inoltre l’argomento non è in ogni caso risolutivo, se collocato nell’orizzonte di senso prescelto in questo lavoro. Qui si fa infatti più generico riferimento al tempo ciclico, tema indubbiamente legato al racconto commentato, che prescinde dalla specifica concezione alla quale si è ora fatto riferimento. 611

Come è stato corerttamente evidenziato (O’ Flaherty, Dreams Illusion cit., 9), la nozione di senso comune non è

“naturale”, ma culturale, ed anche nel pensiero occidentale due orientamenti confliggono tra loro, quello del senso comune nell’accezione platonica, da un lato, quello nell’accezione “scientifico empirista” di derivazione anglosassone (di cui Locke e Hume sarebbero espressione emblematica). Più semplicemente qui si fa riferimento alla “realtà,” per così dire, “solida”, pubblica, quale traspare dall’esperienza che sembra condivisa dai più, prescindendo dall’interrogativo teoretico di fondo sulla’ultima cornice (sogno o son desto?)

226

della comunicazione tra Dio e uomo nella mistica ebraica, continua a effondere il suo chiarore 612

: d’altra parte, se l’eterno borgesiano rifulge quando il tempo si dissolve con l’annullamento

della successione tra gli istanti che sfilano dinanzi a noi, quale espressione della nostra esistenza può interpretare questi attimi irripetibili meglio del sogno, nel quale le norme della causalità e quelle “del prima e del poi” sono momentaneamente sospese? Né

infine,

in

mancanza

di

certezze,

possiamo

assecondassero alcune linee del pensiero indiano

percorrere

altre

vie.

Se

infatti

si

613

, anche la distinzione tra la c.d. “realtà”

(che ben può essere “onirica” e quindi “illusoria” rispetto all’unica “realtà autentica” non ingannevole e onnipervasiva del brahman) e il sogno (non una degradazione ontologica, ma solo un altro livello di realtà, spesso non più menzognero della veglia, della quale può svelare la natura non meno illusoria; un territorio mentale, per contro, più familiare al Dio immateriale, che può condividere con gli uomini le proiezioni oniriche, per loro vocazione, dunque, quasi “divine”) non sembrerebbe in grado di migliorare il nostro livello di autoconsapevolezza614 in misura significativa. In un altro senso, la concezione dell’universo elaborata da talune filosofie orientali attribuisce scarso rilievo sia ai nostri sforzi diretti ad attribuire inconfutabile statuto “reale” al mondo a noi “esterno”, sia a quelli profusi in direzione opposta per confermare la natura illusoria dei sogni 615. In

definitiva,

percepiamo

l’esistenza

di

un

quadro,

che

noi

stessi,

benché

figure

rappresentate, in parte dipingiamo senza tuttavia vederne la cornice, né sapere se aldilà di quella altri disegni e altri confini includano il primitivo e familiare scenario, cosicché il viaggio intrapreso non è conoscibile in tutta la sua complessità. Nel medesimo tempo, però, la sua stessa

indecifrabilità,

paradossalmente,

lo

semplifica:

comandamenti, perché questo per l’uomo è tutto.”

616

Una

ambigua,

“realtà”,

qualunque

essa

sia,

sempre

“Temi ma

Dio

e

sovrana,

osserva sospesa

i

suoi com’è

nell’indecidibilità del dilemma sogno o son desto, ci invita, per lo più, a intraprendere 612

Oltre alle considerazioni svolte nella parte finale del cap. 2) della terza sez. sul sogno mistico nell’ebraismo, cfr.

anche G. Laras, Immortalità e resurrezione cit., 64, luogo in cui si sviluppa il tema dell’acquisizione dell’Eternità attraverso il pensiero delle cose eterne. 613

Operazione quasi imposta dall’analisi testuale del racconto borgesiano

614

Cfr. p.e., in W.D. O’ Flaherty Dreams Illusion cit., il capitolo Introduction: Trasformation and Contradiction, pp.

3-13. 615

W.D. O’ Flaherty, op.ult.cit., 119.

616

Qoelet, 12.13, in La Bibbia di Gerusalemme cit., 1356.

227

modeste navigazioni di piccolo cabotaggio, in cui le stelle possono sì orientarci, ma non essere raggiunte. L’illuminazione, proprio perché ci abbaglia con fugaci bagliori di Eternità, potrà forse infine svelare che sì, siamo mere parvenze, siamo davvero la proiezione di un altro, o le vittime dei mutevoli incantesimi di maya. Tuttavia non ne verrà umiliazione o terrore 617. Navigando senza la tracotante ambizione di varcare i limiti 618, ma vigili, con lo sguardo attento alla volta celeste, si cresce in modo forse lento ma equo. Si può, si deve lasciare senza troppo dolore il rimpianto giardino d’infanzia, di specchi e di deliri, quel labirinto colmo di incanti – ogni svolta sbagliata, ogni sosta perplessa è un incanto - che non abbiamo alcuna fretta di spogliare dall’enigma - forse deludente - che ne protegge la bellezza, e che, svelato, la corrompe. Il nostro immaginario, abbandonato il folle volo, potrà acquietarsi, senza però mai rinunciare all’attesa del momento propizio della rivelazione. Svegliata dal lampo di Eternità, proprio la coscienza del nostro fragile consistere in fantasmi onirici, la disillusa certezza della nostra deprecabile impermanenza, potrà, di tanto in tanto, arrestare la ruota incessante dei sogni ridondanti e abissali; tuttavia non sarà per cercare il nirvana e sfuggire al samsara619 o all’Eterno Ritorno micidiale, ma perché anch’essa, la consapevolezza fuggevolmente ridestata, sognerà a sua volta: non più altri uomini o universi, bensì il sogno senza limiti, eppure non protervo, di Proust e Borges: i poveri cortili di Barracas, la stanza di Cambray, un sogno di cose piuttosto semplici, eppure così grande e stupefacente, così vivido nel tracciare un’ultima volta i profili già lontani dei campanili di Martiville, che l’immensa compagnia dei sognatori, vivi e morti, assorta su un mare scintillante di luna, almeno per un istante cesserà di sognare altro e si fermerà a guardarlo. Così il nostro uomo taciturno, lo straniero, libererà l’imbarcazione incagliata e specchiandosi in questa eternità povera e dimessa, che finalmente gli appartiene, potrà fare Dio620.

617

Finale del racconto commentato: “Con sollievo, con umiliazione, con terrore, comprese che era anche lui una

parvenza, che un altro stava sognandolo.” (J.L. Borges, Le rovine circolari, Ed. Torino 1995, 54). 618

“Dov’Ercole segnò li suoi riguardi / acciò che l’uom più oltre non si metta” (D. Alighieri, Inferno, XXVI, 108-109,

in La Divina Commedia cit., 237. . 619

Cfr. L. Beolchi, Introduzione alla filosofia indiana cit, pp. 214-215 e n. 495.

620

C. Mopsik, in Les grands textes cit. 591: “Qui accomplit mes commandements, Je le lui compte pour mérite comme

s’il me faisait, ainsi qu’il est marqué. Il est temps de faire YHWH. » (Ps., 119, 126).

228

3) Il percorso compiuto Lo sguardo retrospettivo621 è spaventoso perché rivela l’assiduità con cui il mito platonicoaristotelico della “non contraddizione” è rinnegato. Sapendolo, ho cercato di navigare al confine fra occidente e oriente622. La rettilinea brevità, alla quale poco confidente mi accingo, è mezzo espressivo chiaramente incongruo all’andamento circolare degli argomenti trattati. La semplificazione623, convenzionalmente necessaria alla destinazione pratica di questo testo, annienta le sfumature, la cui insignificanza è forse riscattata dal loro temerario e ostinato riprodursi. Bandite le divagazioni, relegate in nota le debite informazioni sulle fonti 624, si è dapprima raccontato di un Borges “saggista”625 affascinato dalla Cabbala perché vi scorge procedimenti ermeneutici evidentemente in linea con i propri. Quali essi siano, è tanto facile arguirlo che presto il tema, ovvio e dibattuto, dell’analogia di metodo tra mistica ebraica, in cui le porte dell’interpretazione sono sempre aperte 626, e attività letteraria borgesiana, per ironica scelta mera affabulazione del già scritto 627 621

Le “conclusioni”, per così dire, “teoretiche” di questo lavoro sono probabilmente quelle accennate nel capitolo

precedente. Tuttavia ora l’ampiezza e la complessità dei temi trattati impongono di ripercorrere in breve il cammino compiuto. 622

Alibi invocato soprattutto a titolo personale. Non mancano evidentemente, “tradimenti” anche nelle fonti reperite.

Tale prinicipio, come è noto, appare meno indiscutibile nel pensiero orientale. (Cfr. O’ Flaherty, Dreams Illusion cit., pp. 180, 187). 623

Questo capitolo conclusivo sarebbe destinato, secondo tradizione, a sommario, per così dire, di quanto scritto. Il

taglio di questo lavoro rende particolarmente impervio l’obiettivo. In ogni caso, la necessaria semplificazione dei temi svolti implica indebite generalizzazioni che non possono riflettere le complessità affiorate nel corso della trattazione. 624

Cfr. partic. n. 6,7,8 e 11.

625

Si è detto, soprattutto nella prima sezione di questo lavoro, della inadeguatezza di qualsiasi classificazione di

genere riferibile a Borges. 626

Cfr. n. 579.

627

Sulla presunta mancanza di novità o originalità degli scritti di Borges, cfr. le osservazioni critiche di Vian, Invito

alla lettura di Borges cit., 196. Scrive lo scrittore argentino: “Non ho difficoltà a riconoscere che ha (Borges, n.d.r.) dato vita ad alcune pagine valide, ma quelle pagine non possono salvarmi, forse perché ciò che vi è di buono non appartiene a nessuno, neppure all’altro, ma al linguaggio o alla tradizione”. (Borges e io, in L’artefice, da Tutte le 229

(sconfessata l’impossibile presunzione di originalità), è stato abbandonato628. Non un taglio netto, però, perché l’oblio teorico è stato ampiamente confutato dalla discutibile “poiesis” personale, che ha maldestramente preteso di evocare, attraverso la forma adottata nella redazione di questo lavoro, proprio il tema eluso 629. Apparente omissione – ribadisco, emendatasi in concreto - probabilmente colpevole: l’infinita esegesi della Torah, un testo sacro eterno e originario, è - doverosamente rilevata qualche generica analogia - cosa diversa dall’incessante ermeneutica dei classici (e non solo) della

opere cit., Vol.1, 1169). 628

E’ questo indubbiamente il tema più caro a chi si è occupato, soprattutto in Spagna e Argentina, dei rapporti fra

Borges e la Cabbala. In particolare molto si è scritto sull’analogia tra la Sacra Scrittura inteso come testo “dettato” dallo Spirito Santo, rispetto al quale l’uomo svolge modesta opera di segretario-amanuense, e l’intertestualità che oggi caratterizza la concezione postmoderna della letteratura, mero palinsesto in cui lo scritto prevale sullo scrittore, e nel quale l’originalità dell’autore è ormai mito obsoleto [“La originalidad artistica es un fraude; el arte non es espontaneo, està predestinado siempre; la postura clasica (la correcta), que es similar a la visiòn tradicional de las Escrituras, es que la literatura debe ser un palinsesto..”]. (E. Aizenberg, Borges, el tejedor de l’Aleph cit., 71; cfr. anche J. Kristeva, Semiotica I, Madrid, 1978, 71). Si tratta di argomenti di teoria letteraria intorno ai quali si è dibattuto con molto acume. Sono stati accennati più volte in questo lavoro, ma non sviluppati particolarmente in quanto già approfonditi dalla critica come meglio non si potrebbe. Basti pensare anche all’accennata interpretazione midrashica del testo sostanzialmente proposta da Bloom e nucleo di un importante filone dell’ermeneutica letteraria (che dunque farebbe propria di fatto una metodologia integralmente cabbalistica) sviluppatosi dopo la confutazione del logocentrismo greco da parte di Derrida e la celebrazione della primazia del segno scritto, concetto essenziale dell’ebraismo, sublimato dalla Torah e dall’esegesi rabbinica. Si è detto, giustamente, che Borges è stato antesignano di questo procedimento, avendo creato un “genere” (affine appunto a quello cabbalistico in senso lato) in cui la distinzione tra “testo narrativo” e “commento al testo” tende a estinguersi. (Cfr. E. Aizenberg, op. ult. cit., pp. 140149). A questo tema è connesso anche quello legato alla concezione della Bibbia come Testo Assoluto (su cui ci si è intrattenuti nel cap.3 della II sez). Altro evidente parallelismo di natura metodologica, messo puntualmente a fuoco dalla critica è l’uso della pseudoepigrafia da parte di Borges e dei Cabbalisti medievali. 629

Sul tentativo di rendere, in modo approssimativo, attraverso la scrittura il movimento di pensiero comune

all’ermeneutica ebraica e borgesiana, cfr. il cap. 1) della I sez. e n. 2.

230

letteratura630. Per mitigare le distanze concettuali, talvolta oscurate dalla critica 631, ho tentato, senza pretese, di “narrare” di nuovo un racconto di Borges, Le rovine circolari, che tratta un tema in un certo modo “biblico”, perché orientato verso il Principio e la creazione, pur mediati dal sogno632. Si è detto anche, sempre navigando in superficie, del paradosso, che sbalordisce nell’uno e nell’altro movimento di pensiero: non ha sorpreso quindi la Cabbala borgesiana, così fortemente orientata verso la gnosi dualistica633, né lo sbigottimento del nostro di fronte alla Torah, un testo per definizione assoluto, in cui nulla può essere casuale 634: negarne la prodigiosa natura, in definitiva, confuterebbe la genesi divina del libro. Troppo fredda però è parsa l’enigmistica intellettuale della quale Borges pare compiacersi. Lo scrittore è sì affascinato dalla miracolosa esistenza di un libro di siffatta provenienza e 630

“Del resto è lo stesso Borges ad affermare che ogni originalità è illusoria perché è troppo legata al presente, e

dunque al transitorio. Come dice lui stesso, reiterare l’idea e la forma che hanno resistito al tempo è il modo di iscriversi nell’eternità dell’umanità purificata, quella che resiste al tempo e ai cambiamenti inevitabili che esso comporta, quella dei classici e degli archetipi”. (Commento di A. Bertoli, in J.L. Borges, Testamento cit., 91). 631

Non si può quindi del tutto convenire con chi considera la stessa cosa, in sostanza, l’ermeneutica cabbalistica della

Bibbia e l’interpretazione dei classici. Nonostante talune indubbie analogie di ordine assai generale, le differenze, per così dire, onotologiche tra un testo sacro, in tesi onnicomprensivo, originario e assoluto, e le opere letterarie che persistono nel tempo (i classici) sono così profonde che un confronto (e un’analogia) attendibile tra i due ambiti mi pare possibile solo là dove il testo (non sacro) presenti anche un’affinità, per così dire, tematica con la Torah (caso che ritengo ricorra nel racconto di Borges commentato). In caso contrario davvero l’attività del critico letterario si avvicinerebbe, come ha ipotizzato a Bloom, a quella del “teologo”, tesi certo suggestiva, ma in definitiva piuttosto unilaterale. In questo senso mi paiono corrette le critiche di E. Aizenberg al geniale studioso americano, in op. ult. cit., pp.140-149. 632

Impossibile immaginare un testo “più originario” della Bibbia, e in particolare del Genesi. Non solo perché, nei

contenuti, tratta il tema del Principio, ma anche in quanto si pone come palinsesto della Creazione, precedendo, in un certo senso, il Mondo e rispecchiando in sé l’Eternità Divina, come si è cercato di scrivere nel precedente capitolo. Il racconto di Boges scelto ambisce sviluppare un discorso, sia pure, a mio avviso, destinato alla frustrazione e alla circolarità infeconda (cfr. considerazioni nel prec. capitolo), sull’Origine. 633

Cfr. J.L. Borges, La cabala, in Sette notti cit (Cap. 2 Sez. II). Sul tema gnostico e sui rapporti con il pensiero di G.

Scholem, cfr. cap.1) sez. II. 634

Cfr. J. L. Borges, Una rivendicazione della Cabala, da Discussione cit., in Tutte le opere cit., Vol. 1, 330-334

231

complessità, necessariamente aperto, fino alla prolissità numerica, a qualsiasi domanda, ma sembra anche assai poco incline a cogliere quel movimento di solidarietà e cooperazione tra Dio e l’uomo, che sublima, nella Cabbala, un’ermeneutica altrimenti forse destinata a esaurirsi senza trovare sbocchi fecondi. Fin qui, dunque, i rapporti tra Borges e mistica ebraica paiono manifestarsi per un tratto in superficie e per un altro in profondità. Da un lato si legge l’interesse dell’intellettuale, al quale non è estranea, forse, una leggerissima punta di supponenza, per una dottrina sotto certi aspetti sorprendente e curiosa; dall’altro, tentando un’immersione più ardita, si profilano, in questa complessa relazione, talune linee, per così dire, strutturali, comuni ai due pensieri, come l’ansiosa ricerca di un principio aldilà dell’Origine data, e la sorpresa per l’insperata disponibilità di un testo (sacro) scritto, o anche di una sola parola, di una lettera, persino, antecedente al Principio, quasi intollerabilmente gravida, in cui è compreso l’Universo intero e si può leggere tutta la storia. Si tratta di uno snodo fondamentale, perché tale ultima impagabile risorsa rileva sia sul piano squisitamente linguistico – semantico, esaltando la sovrabbondante

“pienezza”

del

segno635,

sia

nell’ambito

della

metafisica

fantastica

(espressione ridondante per Borges), perché accentua la creatività-originarietà - da intendersi come capacità di produrre veri e propri universi - dell’Aleph, cifra-Sephirà profondamente emblematica nell’immaginario borgesiano 636. Ma il versante forse più fecondo della relazione con la mistica ebraica si manifesta, secondo la lettura prospettata in modo forse più approfondito, con il “consapevole fraintendimento” che scaturisce dall’accoppiamento, di cui Borges è non volgare prosseneta, tra la Cabbala e il sogno.

635

In Altre inquisizioni (L’idioma analitico di John Wilkins, in Tutte le opere cit., Vol. 1, 1004), Borges, come si è

ricordato altrove, scrive di un idioma universale inventato dal (probabilmente) immaginario John Wilkins. E’ un linguaggio in cui “ogni parola definisce se stessa” e “ciascuna delle lettere che compongono (le parole) è significativa, come lo furono quelle della Sacra Scrittura per i cabalisti.” Sulle implicazioni della creatività della scrittura e della parola, patrimonio ideale della mistica ebraica dal quale Borges ha ripetutamente tratto spunto (e tema su cui ci si è spesso intrattenuti), cfr. le approfondite riflessioni di S. Sownowski, in Borges y la Cabala cit., in part. pp. 1-26). 636

“Non c’è sulla terra una sola pagina, una sola parola che lo sia (semplice, n.d.r.), perché tutte quante postulano

l’universo, il cui più noto attributo è la complessità.” (J.L. Borges, Prologo de Il manoscritto di Brodie, in Tutte le opere cit., Vol. 2, 369).

232

La lettura de Il golem di Meyrink, romanzo ovattato in un’ambigua bruma onirica 637, e l’indubbia influenza delle filosofie indiane “idealistiche”, spesso affioranti nei suoi racconti e in qualche saggio meno impegnativo scritto in collaborazione con altri 638, producono, insieme alle indubbie conoscenze di mistica ebraica mediate da Scholem e in parte contaminate da una radicalizzazione solipsistica dell’idealismo platonico639, quel singolare, ma affascinante, melting pot narrativo, che trova ne Le rovine circolari una delle espressioni più felici. Si è parlato di fraintendimento cosciente: ritengo che Borges, assai colto, ma non condizionato da vincoli accademici che gli avrebbero imposto scrupoli e rigore, irretendone – presumo - la vena creativa, abbia volontariamente mescolato le diverse letture, o non si sia troppo preoccupato di delimitarle, traendo liberamente ispirazione dal suo enorme ma sbrigliato patrimonio di conoscenze per dare vita a un nuovo immaginario filosofico e teologico. In tale prospettiva le fonti originali, spesso mere informazioni enciclopediche, offrono allo scrittore solo lo spunto per volgere in fiction metafisica quelle attraenti argomentazioni e dottrine che, di regola, confutano il comune buon senso, disintegrando il cosiddetto “realismo ingenuo”. L’esito è curioso ma fecondo: le Sephirot, attraverso le quali opera la costante interazione tra Dio e l’uomo, strumenti della creazione del macrocosmo e del microcosmo 640, diventano 637

Cfr. Cap.1) III sez. Quel romanzo inoltre introduce il tema strutturale del sogno nel sogno.

638

Cfr. J. L. Borges – A. Jurado, Cos’è il buddismo, Milano, 2003. L’influenza generica delle filosofie di origine

indiana e della complessa mitologia a queste connessa, è fortemente presente soprattutto nella concezione del sogno cosmico, espressione della maya illusoria che tesse il mutevole ordito del mondo esterno. Strumento proficuo di approfondimento di questi temi è il citato Dreams Illusions di W.D. O’Flaherty. 639

Tema costantemente presente sia nella narrativa di Borges (si pensi al celebre Tlon, Uqbar, Orbis Tertius, da

Finzioni, in Tutte le opere cit., Vol. 1, 631), sia nell’affabulazione metafisica; a tale proposito neppure la concezione borgesiana della specularità del mondo sefirotico della Cabbala è estranea al platonismo (e ciò, si è detto, anche per l’influenza di commentatori della mistica ebraica, come Serouya - cfr. n.11 - che hanno evidenziato soprattutto la natura archetipa del mondo in alto rispetto al mondo in basso). 640

M. Idel, in Cabbalà Nuove Prospettive cit., pp. 134 ss., prospetta tre soluzioni principali circa la natura delle

Sephirot attestata nelle opere dei Cabbalisti medievali: “Le Sefirot sono parte della natura divina e partecipano dell’essenza divina (“”Sephirot come essenza””); 2) le Sefirot sono non divine in essenza, benché strettamente connesse con la divinità, o come suoi strumenti per creare e governare il mondo, o come recipienti dell’influsso divino, attraverso i quali esso si trasmette ai mondi inferiori; 3) le Sefirot sono l’emanazione divina all’interno della realtà creata: costituirebbero pertanto l’elemento immanente della Divinità.” (Op. ult. cit., 135).

233

involontarie emanazioni di una Divinità distratta, simili, forse uguali, ai sogni degli uomini, ai quali è d’altra parte attribuita una possibile “concorrente” funzione demiurgica produttiva di una serie indefinita di proiezioni, irresponsabili fautrici di universi innumerevoli. Al vertice di tale abissale catena potrebbe tuttavia ciecamente adoperarsi una Volontà, di indole schopenaueriana, forse per certi aspetti assimilabile all’ebraico En Soph641. L’introduzione del sogno e di una paralella divina negligenza nel processo creativo emanazionista determina una svolta critica nella relazione tra Borges e la Cabbala. E’ in sostanza la singolarità che modifica l’orizzonte di senso di tutti gli elementi entrati in scena: il mondo onirico nel pensiero ebraico assolve sostanzialmente 642 una funzione, propriamente mistica, di comunicazione intima tra l’uomo e la Divinità 643. Essa è sensibilmente diversa da quella prospettata dallo scrittore, che, pur inserendo l’affabulazione teologica in una cornice cabbalistica 644, in sostanza propone implicitamente una possibile contaminazione tra neoplatonismo e mitologie cosmogoniche di estrazione induista, nelle quali spesso il gioco del “dreamer dreamt” è strutturale645. Da un lato la dimensione cosmica del sogno “creativo”, spalancando vortici abissali, sembra accentuare la distanza fra l’uomo e Dio, prigionieri di un solipsismo non alleviato dall’inesauribile vena demiurgica che forse condividono; dall’altro, le analoghe potenzialità produttive accreditate alla Divinità e a Adamo - pur reciprocamente isolati - nel condiviso processo emanazionistico, paiono attribuire loro caratteristiche non dissimili, diminuendo lo scarto tra i due poli, accomunati dal frequentare un’analoga “strumentazione” demiurgica 646.

641

Cfr. n. 152 e 156.

642

Non è peraltro la sola funzione. Si pensi per esempio a quella predittiva, più squsitamente ermeneutica (cfr. cap. 2

della III sez.). 643

Cfr. parte finale del cap.2) sez. III.

644

Cfr. cap. 4) sez. II, La relazione sull’intervista rilasciata da Borges a J. Alazraki (in J. Alazraki, Borges and the

Kabbalah cit., pp. 54-61). 645

Cfr. p.e. O’ Flaherty, Dreams Illusion cit., pp. 3-13. Questa autrice, riferendosi a un passo della Brhadaranyaka

Upanishad (2.1.20), scrive (p.16): “The verb sri, used to express projection, means litteraly to “”emit”” (as semen or word), and it frequently occurs in stories about the process of creation (sarga, from sri) in weach the creator emits the entire universe from himself the way a spider emits a web”. 646

Proprio perché entrambi, secondo Borges, utilizzano il sogno per creare.

234

Il rapporto fra Dio e l’uomo, pur innegabilmente esistente, vive, in questa fase 647 dell’attività letteraria borgesiana, di specularità e forse di competizione; di nuovo 648, esso non si fonda affatto sulla cooperazione “costruttiva” immanente al pensiero ebraico, che esalta il reciproco contributo nel processo di formazione dei due enti 649, né, tanto meno, mi pare, sulla integrazione-indifferenziazione tra Assoluto umano e divino, tra anima universale e individuale, tra brahman e atman: siamo lontanissimi così anche dal possibile shared dream, comune a Dio e all’uomo, cui fra l’altro allude la O’ Flaherty nel prospettare i diversi livelli di “realtà” delineati dal pensiero indiano 650. Tuttavia proprio questa deviazione dalle dottrine ortodosse della cosmogonia ebraica consente di verificare, anche considerando il contributo decisivo di alcuni esiti narrativi e poetici, il rapporto tra Borges e la mistica a un diverso livello. Chiave di questo passaggio è proprio il sogno, ambivalente cifra dell’immaginario, bifronte come il greco pharmakon, rimedio e insieme veleno: da una parte esso è sia veicolo di un viaggio altrimenti precluso verso l’Origine dell’esperienza creativa, sia forma e materia di mondi innumerevoli forgiati dalla libertà dell’immaginazione, sfrenata fino all’angoscia, inesorabile conseguenza delle infinite possibilità di scelta e d’altro canto espressione di un’atroce indecidibilità, alla quale neppure riesce a sottrarsi la creazione letteraria 651; 647

Non mi riferisco a una fase temporale. Come già chiarito, la circolarità della produzione letteraria borgesiana

preclude una sequenza evolutiva, cronologicamente scandita, del suo pensiero. Alludo piuttosto alla fase definita, con molta approssimazione, “saggistica”, tenuta distinta, con altrettanta arbitrarietà, da quella narrativa e poetica. 648

Si tratta di una conferma, rilevata ora in chiave “cosmogonica”, dell’assenza di una reale dimensione mistica, già

emersa, come accennato, nel commento del saggio Una rivendicazione della cabala. 649

Il tema, ampiamente trattato in questo lavoro nel cap. 3) della II sez., è stato approfondito soprattutto dalla mistica

teurgica di M. Idel, nel più volte rammentato Cabbalà Nuove Prospettive. 650

W.D. O’ Flaherty, Dreams Illusion cit., pp. 127 ss. In particolare, la condivisione del sogno di Rudra (211-213).

L’autrice evidenzia con molta attenzione proprio i rapporti tra gli universi onirici e i paradossi del “sognatore – sognato”, soffermandosi sulla creazione di mondi immaginari e approfondendo il tema delle sovrapposizioni e delle interazioni: “..We cannot live in someone’s world unless we can enter into someone else’s experiences”. (Op.ult.cit., 238). 651

Cfr., oltre alle riflessioni sulla concezione di Foucault, sviluppate nel cap.2) della III sez., anche le citazioni dalle

opere di Poe, Valery e Callois, riferite nel precedente capitolo di questa sezione conclusiva. Si noti anche che nella lingua egiziana la parola per “sogno” è reset, dal verbo res essere sveglio, vegliare, svegliarsi; il sonno è dunque sentito come una porta che conduce al sogno, come un risveglio a un’altra realtà, coincidendo in modo sorprendente 235

dall’altra, è universo illusorio e ingannevole, se si confida nella priorità di una realtà “solida” “pubblica” e permanente, qualitativamente differente dal mondo mentale e privato: se dunque si crede, in definitiva, nell’esistenza di una barriera percepibile fra sonno e veglia, della quale, evidentemente, la luce onirica è solo pallida ombra, e la fede nella sua disillusa veridicità, degradante umiliazione. Ma – si è detto - il sogno è - oltre a tutto ciò – anche una delle forme possibili della devequt ebraica, l’itinerario mistico eccellente, o almeno, il più adeguato canale di comunicazione per il cui tramite l’anima dell’uomo può, eludendo nottetempo le sentinelle del corpo addormentato, aspirare a congiungersi con l’Intelletto Agente e con l’Eternità 652. Ecco l’antinomia653- o meglio, il volontario fraintendimento – da cui nasce la mia interpretazione, se pure l’uso di questo termine è corretto, del racconto Le rovine circolari: come restituire o attribuire una dimensione mistica autentica – se ciò è possibile senza troppo indulgere all’arbitrarietà – al rapporto fra Borges e Cabbala, o almeno, in che modo verificarne l’eventuale esistenza654? Come far evolvere, in altre parole, un mero interesse intellettuale per un certo meccanismo, uno stupore per l’inaudito, in una ricerca profonda e sofferta? Come trasformare una storia di magia frustrata o l’esito angoscioso di un delirio di onnipotenza inappagato (tale potrebbe anche sembrare il senso predominante del racconto) in un percorso più accidentato e fecondo?

col concetto moderno della veglia cerebrale nel sonno”. Cfr. E. Bresciani, La porta dei sogni, Torino, 2005, 13. 652

Cfr. cap.2) sez. III.

653

Antinomia tra il sogno mistico ebraico e il sogno nelle altre accezioni – cosmiche e creative – importate da

esperienze culturali di diversa provenienza. 654

Naturalmente non è affatto necessario che “esista” una dimensione mistica nel rapporto fra Borges e Cabbala: può

ben bastare la relazione, per così dire, culturale, che la critica, come si è sottolineato, ha colto da tempo. Tuttavia ho creduto opportuno, nel tentativo di offrire qualche spunto leggermente più innovativo, verificare a fondo la mera “possibilità” di esistenza di un rapporto più decisamente orientato in senso mistico. Ovviamente per farlo ho cercato di utilizzare strumenti ermeneutici pertinenti soprattutto, ma non solo, alla Cabbala, per “leggere” il racconto cercando connessioni meno evidenti con il simbolismo del pensiero ebraico. Dato per scontato, in altre parole, il patrimonio di conoscenze che Borges ha mediato da Scholem, ho cercato di evidenziare l’elaborazione, anche inconsapevole, di questo materiale nell’opera esaminata.

236

Tentando – posso rispondere - di andare aldilà del testo commentato, con l’immaginare 655 un viaggio, una peripezia, nella quale l’itinerario mistico ebraico, il complesso gioco onirico della cosmogonia indiana e lo slancio creativo dell’artista sulle tracce del momento originario 656 - in una parola, le diverse funzioni del sogno intrecciate dialetticamente - possano convergere verso un orizzonte di senso comune e un territorio da condividere. La contaminazione tra elementi disparati e l’eclettismo, d’altra parte, sono eminentemente borgesiani. L’ermeneutica esasperata, benché ovviamente assai più concisa e stilisticamente limpida di quella che ho proposto, anche. Credo quindi che l’operazione intrapresa, alludo all’intenzione, non all’incerto esito, sia compatibile con il movimento di pensiero sotteso ai due ambiti di questo studio. Ecco così delinearsi l’intrico di temi che, racchiusi entro le cornici sfuggenti e irraggiungibili della polisemia onirica della narrazione, si sono moltiplicati incessantemente intorno a Le rovine circolari. Il racconto a un primo sguardo non evoca affatto un viaggio, ma piuttosto l’iniziazione “cabbalistica” alla magia demiurgica del personaggio che tiene la scena dall’inizio alla fine: un lento e tribolato apprendistato finalizzato alla creazione di un uomo-figlio attraverso la frenetica reiterazione di proiezioni oniriche; un percorso circolare concluso con la scoperta umiliante che l’inconsistenza umbratile della creatura è condivisa dal padre, a sua volta il sogno di un altro. E’ facile rilevare in superficie la presenza di motivi tratti sia dalla mistica ebraica – mi riferisco soprattutto alla procedura di animazione, che, sposandosi alle dottrine del Nome, evoca la leggenda del golem657 – sia dalla mitologia indiana (alludo al mitema del “sognatore

655

Sono andato certo oltre le intenzioni dell’autore, ma, credo, senza usargli violenza, perché in fondo, senza certo

volerne emulare le gesta, ho assecondato la sua concezione di letteratura progressiva, non a caso coerente con le procedure ermeneutiche cabbalistiche. 656

Tre diverse dimensioni di un unico elemento strutturale, ossia del sogno, nelle sue distinte – eppure convergenti –

peculiarità di sogno mistico, sogno cosmico e sogno creativo. 657

“Nelle cosmogonie gnostiche, i demiurghi impastano un rosso Adamo che non riesce ad alzarsi in piedi; così

inabile, rozzo ed elementare come quest’Adamo di polvere, era l’Adamo di sogno che le notti del mago avevano fabbricato.” (J.L. Borges, Le rovine circolari cit., da Finzioni cit., ed. Torino 1995, 52.

237

sognato”658 e, più in generale, alla facoltà di materializzare cose o persone attraverso la proiezione onirica659, inquadrata nell’ortodossia dell’iniziazione rituale). Tuttavia una lettura “statica” – peraltro, ritengo, abbastanza condivisa dalla critica 660 – che si limiti a censire frettolosamente la presenza

di questi temi piuttosto ovvi 661, individuando

nella frustrazione del delirio di onnipotenza dell’uomo taciturno il motivo

centrale del

racconto, per quanto certamente plausibile, non renderebbe a mio avviso completa giustizia al genio creativo di Borges. Credo infatti che la sua opera, “aperta” per definizione e per scelta, intenda stimolare, se non addirittura produrre, intense riletture, nelle quali nuove contaminazioni, connessioni e persino fraintendimenti (nel senso precisato da H. Bloom) possano avere diritto di ospitalità. Naturalmente, se questa spinta ermeneutica è condivisibile, non può stupire che la risonanza emotiva dell’estasi mistica, pur esistente sub specie aeternitatis secondo l’interpretazione proposta nei precedenti capitoli662, debba essere cercata e, in un certo modo, costruita, come si è suggerito, ampliando l’indagine a altri testi borgesiani 663 e ricorrendo persino a autori diversi. Questa esigenza è infatti emersa non appena la narrazione è stata scandagliata in profondità e gli elementi della Cabbala, insieme ad altri provenienti da territori culturali estranei all’ebraismo, sono stati non solo censiti quali i più esotici arnesi dell’”officina” di Borges 658

Cfr. W. D. O’ Flaherty, Dreams Ilusion cit., pp. 252 ss.

659

Cfr. n. 450 sul rito di iniziazione nel Tantraloka. Il riferimento al sogno cosmogonico è costante nella filosofia e

nella mitologia indiana, costituendone uno dei motivi essenziali. Esplicito è H. Zimmer: “Il processo cosmico è la materializzazione del sogno di Visnù.” (In Miti e simboli dell’India cit., 175). . 660

Cfr. p.e. n. 508. Ma questa lettura è certo quella prevalente. Cfr. anche C. Vian (in Invito alla lettura di Borges cit.,

139): ”L’esperienza poetica diventa dunque una specie di succedaneo di quella mistica, come grandi e rari spiriti avevano intuito (Holderlin) e ridetto i lirici pensanti del Novecento: e il poeta una sorta di eterodosso o eretico, il cui vero compito sarà di ricreare l’universo – come fece il rabbino di Praga col suo “”golem”” –assumendo in certo modo il ruolo di Dio che non esiste e inquietando l’uomo con le sue finzioni.” 661

Non ricordo, peraltro, di avere letto specifici riferimenti della critica a collegamenti tra la vicenda del protagonista

del racconto e le fonti indiane alle quali si lega il tema del “sognatore sognato”. 662

Cfr. cap. 1 e 2 di questa sezione conclusiva.

663

Alludo in particolare al brano riportato nel primo capitolo di questa sezione. (J.L. Borges, Storia dell’eternità, in

Tutte le opere cit., Vol.1, pp. 541-544).

238

direttamente utilizzati come materiale letterario, ma, per quanto mi è stato possibile, sono stati altresì estratti dal contesto dell’opera borgesiana o dalle fonti mistiche per essere applicati come strumenti ermeneutici del testo: una volta varcati i ristretti limiti della mera individuazione dei temi, molti spunti di riflessione hanno chiesto di essere verificati e sviluppati alla luce di altri scritti, che consentissero, per così dire, di evadere dalla struttura circolare del racconto, portandolo in un certo senso a compimento anche in virtù di integrazioni extratestuali 664. Per facilitare il mio compito ho cambiato il ritmo della storia, violentando forse colpevolmente l’efficacia della sintesi borgesiana e così assecondando la lunga peripezia dell’uomo taciturno, smarritosi nell’immaginario itinerario mistico inizialmente tracciato 665. La scrittura quindi è maturata nel segno della formazione e crescita del protagonista, della sua inesauribile 664

L’interpretazione del testo in questione, in altre parole, ha richiesto, nell’ottica prospettata, di essere completata con

il contributo di altre opere (racconti e soprattutto poesie) dello stesso autore. Questa parte del lavoro è stata svolta soprattutto nel cap.6, in particolare nel paragrafo 6.3. 665

Nel tentativo di verificare la presenza di una dimensione mistica nel rapporto tra Borges e Cabbala, ho fatto

precedere (cfr. parte conclusiva del cap.2 della III sez.) all’analisi testuale un breve brano “narrativo”, specularmente reiterato nel corso del commento, quasi per rendere visivamente le situazioni di specularità e reiterazione in cui il protagonista resta imbrigliato. Il brano sfuma nell’inizio del racconto Le rovine circolari per sottolineare la continuità tra il sogno mistico nel pensiero ebraico e il tessuto onirico del racconto di Borges. Naturalmente si tratta di un’evidente forzatura, di un’affabulazione arbitraria, forse utile però per rendere in modo plastico l’allontanamento narcisistico dalla sorgente mistica, e poi il ritorno, attraverso percorsi alternativi (altri passaggi dell’opera borgesiana), al sogno - uguale e diverso da quello originario - in cui la creatività desiderata vive la sua dimensione, l’unica magia consentita all’uomo, nell’estasi letteraria. Pe rendere più evidente questo rapporto tra inizio e fine della peripezia, riporto qui in nota sia la sequenza di brani collegati che dà origine all’analisi del racconto, sia la conclusione del commento (la parte finale del precedente capitolo): “Questo (da riferire al viaggio onirico di Borges, n.d.r.) è piuttosto il dono desolato dell’Occidente scettico, sul quale irrimediabilmente planano, come aironi spossati da lento e improduttivo girovagare, ombre grandiose e fiacche, proiezioni esagerate di raggi immiseriti dall’afflizione delle cose ultime e declinanti. Tali cose, pigre e assenti, inscenano un ridondante tramonto fluviale, riflesso per caso e in parte da un rozzo specchio abbandonato nella fanghiglia. Ma a che serve lo specchio, se accanto, immobile, una pozza d’acqua se la sbriga meglio nel rifrangere il mondo, per quanto già rassegnata essa sia alla notte oscura? “”Nessuno lo vide sbarcare nella notte unanime, nessuno vide la canoa di bambù incagliarsi nel fango sacro; ma pochi giorni dopo, nessuno ignorava che l’uomo taciturno veniva dal Sud e che la sua patria era uno degli infiniti villaggi che sono a monte del fiume, nel fianco violento della montagna, dove l’idioma zend non è contaminato dal greco, e dove la lebbra è infrequente.”” 239

vocazione alla metamorfosi e dell’inesorabile specularità - circolarità della sua esperienza: ora, poiché non avrebbe senso, ovviamente, ripercorrere quel viaggio - per quanto la reiterazione, sensibilmente evocata attraverso la forma di questo lavoro, ma della quale già ho abusato, sia forse l’elemento strutturale più pregnante del racconto - sembra opportuno accennare solo ad alcune delle linee–guida assecondate. Intanto il dinamismo ermeneutico al quale il commento si è ispirato ha trasformato il “mago indiano” de Le rovine circolari, come è stato definito in genere dalla critica 666 e in qualche passo dallo stesso autore667 (più significativamente compare anche come uomo taciturno o straniero) nell’eroe dai mille volti: Ra, Ulisse, Prometeo, Platone, Narciso, Sisifo, Jorge Luis Borges, il Marcel de La recherche, e tanti altri personaggi della letteratura e della mitografia. Così facendo, da una parte ho voluto rendere omaggio a un “classico”, che, in quanto tale, si arricchisce di nuovi significati a ogni lettura, compendiando virtualmente in sé tutte le grandi opere che sono state scritte prima – e delle quali i “nomi” emblematici del mito sono potenti “... Navigando senza la tracotante ambizione di varcare i limiti, ma vigili, con lo sguardo attento alla volta celeste, si cresce in modo forse lento ma equo. Si può, si deve lasciare senza troppo dolore il rimpianto giardino d’infanzia, di specchi e di deliri, quel labirinto colmo di incanti – ogni svolta sbagliata, ogni sosta perplessa è un incanto - che non abbiamo alcuna fretta di spogliare dall’enigma - forse deludente - che ne protegge la bellezza, e che, svelato, la corrompe. Il nostro immaginario, abbandonato il folle volo, potrà acquietarsi, senza però mai rinunciare all’attesa del momento propizio della rivelazione. Svegliata dal lampo di Eternità, proprio la coscienza del nostro fragile consistere in fantasmi onirici, la disillusa certezza della nostra deprecabile impermanenza, potrà, di tanto in tanto, arrestare la ruota incessante dei sogni ridondanti e abissali; tuttavia non sarà per cercare il nirvana e sfuggire al samsara o all’Eterno Ritorno micidiale, ma perché anch’essa, la consapevolezza fuggevolmente ridestata, sognerà a sua volta: non più altri uomini o universi, bensì il sogno senza limiti, eppure non protervo, di Proust e Borges: i poveri cortili di Barracas, la stanza di Cambray, un sogno di cose piuttosto semplici, eppure così grande e stupefacente, così vivido nel tracciare un’ultima volta i profili già lontani del campanile di Martiville, che l’immensa compagnia dei sognatori, vivi e morti, assorta su un mare scintillante di luna, almeno per un istante cesserà di sognare altro e si fermerà a guardarlo. Così il nostro uomo taciturno, lo straniero, libererà l’imbarcazione incagliata e specchiandosi in questa eternità povera e dimessa, che finalmente gli appartiene, potrà fare Dio”. 666

Cfr. p.e. E. Monegal, Borges, una biografia letteraria cit., 345. Questo scrittore più esattamente parla di sacerdote

indiano. Quasi tutti gli altri alludono alla magia e al mago indiano. Raramente (forse mai) ho però visto approfondimenti sulle fonti indiane. D’altra parte, come si è sottolineato, anche per quanto riguarda i temi cabbalistici, la critica si è in genere limitata a individuarli, senza approfondirne le implicazioni. 667

“In un’alba senza uccelli il mago vide avventarsi contro le mura l’incendio concentrico.” (J.L. Borges, Le rovine

circolari, ult. ed. cit.,54).

240

“agenti evocatori” ricchissimi di senso – per preparare il terreno al raffronto “agonistico”, come ritiene Bloom668, con gli esiti degli autori futuri, che non potranno prescindere dal “fraintendere” Borges; dall’altra ho dilatato la storia, frammentandone il testo e mascherando il protagonista, per consentire la graduale formazione di un giudizio etico sul personaggio – possibile, forse, solo rallentandone la vita669 - in modo da attestarne eventualmente una progressiva e sofferta “crescita”, che rendesse plausibile la ricerca di una dimensione mistica: essa, aldilà di qualsiasi implicazione sulla sua controversa definizione 670, mi pare presupponga comunque, a ogni livello671, una partecipazione emotiva ben più intensa di quella che, quanto all’atto d’autore produttivo del testo, pare alimentata solo dallo svago intellettuale finalizzato al mero intrattenimento letterario672, e, quanto alla sua destinazione, sembrerebbe, alla 668

Cfr. H. Bloom, L’angoscia dell’influenza. Una teoria della poesia cit. Scrive Borges: “Il fatto si è che ogni

scrittore crea i suoi precursori. La sua opera modifica la nostra concezione del passato, come modificherà il futuro.” (da Altre inquisizioni cit., in Tutte le opere, Vol. 1, 1009). Ancora: “Classico non è un libro (lo ripeto) che necessariamente possiede questi o quegli altri meriti; è un libro che le generazioni degli uomini, spinte da diverse ragioni, leggono con previo fervore e con una misteriosa lealtà.” (op.ult.cit., 1092). 669

Un racconto breve come Le rovine circolari non è altro che la rapida narrazione di una sequenza di eventi. Del tutto

estraneo alle sue finalità, del tutto avulso dalla sua struttura sarebbe ovviamente qualsiasi “approfondimento psicologico” dei personaggi (stridente poi con lo stile borgesiano). Nella prospettiva di verifica dell’esistenza di una dimensione cabbalistica – mistica – più profonda, invece una maggiore penetrazione di certi risvolti (non tanto “psicologici”, quanto legati all’esplorazione interiore anche in virtù dell’affabulazione) sembra opportuna. Essa può avere consistenza solo rallentando il ritmo del racconto e la vita del protagonista. 670

Intendo “mistica” nell’accezione più generica (infatti, come ha scritto G. Scholem in Le grandi correnti della

mistica cit., 17, il numero di definizioni della mistica è grande quanto il numero degli autori che ne hanno scritto). Richiamo, per semplificare, la definizione di R. Goetschel (in La Cabbalà cit., 10): “La mistica designa generalmente un cammino o una disciplina spirituale che porta l’uomo a un contatto diretto e, al limite, a una unione intima, sperimentata, con Dio. La mistica scaturisce da una aspirazione a valicare i limiti dello spazio e del tempo ordinario per poter realizzare una comunicazione con il divino.” 671

Dunque a livello di autore, testo e destinatario. Riterrei infatti che la dimensione mistica debba interessare tutte le

fasi della produzione del testo letterario, presupponendo una diversa e totalitaria chiave di interpretazione del codice. 672

Borges “giudica” la letteratura in modo “edonistico”, “vale a dire, .. secondo il piacere o l’emozione che mi dà.”

(Cfr. F. Sorrentino, Sette conversazioni con Borges cit., pp. 119-120). Nel Prologo del Manoscritto di Brodie (in Tutte le opere cit., Vol.2, 369) scrive: “I miei racconti, come quelli delel Mille e una notte, vogliono distrarre o commuovere, non persuadere”.

241

prima lettura, limitata a destare nel fruitore la sorpresa, pur angosciosa, per le vicende originate da un curioso sogno abissale, del quale non si vede l’inizio né la fine. Operazione, me ne rendo conto, certamente discutibile almeno sotto due profili. Da una parte, perché la “finzione” può sembrare gratuita, non apparendo in alcun modo necessitata: posso tuttavia eccepire che uno studio pur parziale sui rapporti fra Borges e Cabbala – paradossalmente, proprio perché nulla l’impone – può “costringere” a immersioni anche ardite e a divagazioni forse superflue, quando non ci si limiti a percepire la relazione dall’interno del testo, nel suo apparire immediatamente manifesta, ma si utilizzi l’arsenale simbolico arricchendo il tessuto narrativo per verificare se la nuova trama possa ridefinire il senso o il movimento di pensiero dell’autore. Dall’altra, questa scelta può sembrare arbitraria perché pare appellarsi a strumenti di interpretazione poco adeguati a un racconto e più familiari, per esempio, al cosiddetto “romanzo di formazione” 673: oltretutto, come è noto, Borges non ha mai amato questo genere letterario674. L’obiezione sarebbe corretta se l’opzione non fosse intimamente legata alla tesi di fondo prospettata675. Non nego infatti che l’esegesi compiuta abbia dato corpo, in modo ovviamente informe, attraverso il linguaggio che ne è l’essenza e la struttura 676, a un processo di “mitizzazione”, o, 673

Non tanto mi riferisco alla nozione “storica” di questo sottogenere letterario, quanto, più genericamente, alla

narrazione delle vicende che sottolineano l’evoluzione – crescita dll’eroe protagonista. (Cfr. la voce Romanzo in Enciclopedia della letteratura, Milano, 1997, 908). 674

Borges ha sempre prediletto, non dico scrivere, ma anche leggere racconti rispetto ai romanzi, ritenendo fra l’altro

che i primi contengano tutto ciò che può caratterizzare i secondi, “con meno fatica per i lettori.” Inoltre il nostro, ostentando non poca civetteria, ha confessato di essere troppo “pigro” per affrontare un genere letterario così impegnativo. (Sorrentino, op. ult. Cit., 195). Lo stesso Borges, nella Premessa a Finzioni (in Tutte le opere cit., Vol.1, 621) scrive: “delirio faticoso e avvilente quello del compilatore di grossi libri, del dispiegatore in cinquecento pagine d’un concetto la cui perfetta esposizione orale capirebbe in pochi minuti! Meglio fingere che questi libri esistano già, e presentarne un riassunto, un commentario..Più ragionevole, più inetto, più pigro, io ho preferito scrivere, su libri immaginari, articoli brevi”. 675

Alludo alla possibile esistenza di una dimensione mistica nell’opera borgesiana (aldilà dello scontato interesse

intellettuale per la Cabbala). 676

“Il mito è linguaggio”. La celebre affermazione di C. Lévi-Strauss è commentata nel bel saggio di M. Detienne

(voce Mito/rito, in Enciclopedia cit., Vol.9, pp. 348 ss.) che, del mito, mette in rilievo soprattutto il suo rapporto con il logos e con l’interpretazione. In questo caso peraltro si coinvolge anche la scrittura, ossia un passaggio con implicazioni ben diverse dall’oralità, punto di partenza dell’elaborazione del mito. 242

meglio ancora, se così ci si può esprimere, a una narrazione sub specie fabulae, de Le rovine circolari. L’operazione è però forse plausibile, perché, secondo il suo più autorevole studioso, la mistica ebraica, a sua volta, sembra scontare, alle sue origini, un procedimento analogo 677, ossia, pare presupporre una ripresa di esperienze mitiche. In altre parole, ritengo che la ricerca di un’eventuale dimensione mistica (in particolare, cabbalistica) nell’opera di Borges possa essere condotta in modo accettabile anche in virtù di una riformulazione mitica del suo testo, rivelatrice di affinità altrimenti meno percepibili. Naturalmente le categorie letterarie applicate, i “nomi” evocati, possono essere discutibili, arbitrari, inconferenti; tuttavia, di nuovo, non voglio rivendicare i contenuti, “bensì i procedimenti ermeneutici o crittografici che ad essa (nel mio caso, a questa interpretazione, n.d.r.) conducono.678” Attraverso questa finzione e la formazione/tras-formazione del protagonista de Le rovine circolari, e per tramite della (tentata) “trasfigurazione cabbalistica” del racconto679, sono 677

Scrive infatti G. Scholem (in Le grandi correnti della mistica cit., 21): “In certa misura la mistica è quindi una

ripresa di esperienze mitiche, una ripresa a proposito della quale non può però essere trascurato il fatto che vi è una sostanziale differenza tra un’unità che precede qualsiasi frattura e un’unità che viene ricostruita in un nuovo slancio della coscienza.” La tesi non sembra condivisa da M. Idel, che, come rilevato altrove, ritiene che la mistica ebraica nella sostanza si leghi, senza soluzione di continuità, al giudaismo rabbinico e sia espressione di un movimento di pensiero esclusivamente riferibile al popolo ebreo. 678

J.L. Borges, Una rivendicazione della Cabala, da Discussione cit., in Tutte le opere cit., Vol. 1, 330-334.

679

Non è certo una novità che l’ermeneutica possa assumere tonalità mistiche. Si legge nell’introduzione di G. Morra

all’opera di W. Dilthey, Ermeneutica e religione, Milano, 1992, 31: “In Paul Ricoeur le tematiche ermeneutiche assumono fin dall’inizio una tonalità etico-religiosa. L’interpretazione non è semplice operazione teoretica, ma un atto che impegna l’intera esistenza nel tentativo di pervenire, per suo tramite, non solo ad una comprensione dell’altro, ma anche di se stesso.. E l’interpretazione non è solo una ricognizione del passato (archeologia), ma anche una progettazione del futuro (teleologia)- e dato che il futuro appartiene ancora alla finitezza e alla colpa, l’interpretazione deve aprire l’esistenza dell’uomo al futuro ultimo, al futuro senza più futuro (escatologia)”. Nel mio lavoro esiste qualche modesto spunto in questa direzione; dovrebbe notarsi il tentativo di interpretare Borges non tanto, e non solo, in relazione al censimento dei dati provenienti dall’arsenale mistico individuabili alla superficie del testo, quanto di verficare, alla luce di essi e di altri indirettamente evocati, l’evoluzione futura del percorso esistenziale del protagonista, “emanato” dall’immaginario dell’autore (operazione evidentemente resa ancor più plausibile nel caso nostro dalla natura onirica della storia narrata).

243

emersi la drammaticità della frustrante reiterata circolarità delle esperienze 680 e il sentimento della loro irreparabile onirica impermanenza, ma, insieme, anche la condivisione, maturata in un complesso rapporto tra padre e figlio – figura anche di una possibile, e più profonda, relazione tra l’uomo e la Divinità681 – di una sorte di tragica debolezza, eppure forse non più solitaria, raccontata soprattutto dai miti di Prometeo e Sisifo. Ecco quindi che il senso di doloroso e umiliante fallimento sorto dalla consapevolezza della propria inconsistenza sembra trovare l’antidoto, il pharmakon, nello stesso veleno che l’ha provocato: nel sogno, che trascende da inganno e illusione, da cifra simbolica dell’abissale Eterno Ritorno, a momento ineffabile dell’estasi letteraria, vissuto nel fuggevole istante dell’assenza, evocatrice delle negligenti divagazioni della Divinità demiurgica così prodiga di universi sfuggiti, e nell’eternità del tempo perduto che riaffiora dopo l’allontanamento 682. Ma proprio quell’attimo, nel quale si coglie l’inseparabilità dell’apparente ieri dall’apparente oggi683, non è ridestato dal racconto dell’Origine, destinato solo a un Testo Sacro che la 680

La dottrina dei cicli mondiali o “schemittòth”, la cui fonte nel pensiero ebraico è rintracciabile nel Trattato di

Sahnedrin del Talmud, ed è poi sviluppata nel mistico Sefer Temunà, evoca, come sottolinea Scholem, il processo perpetuo di rinnovata creazione del mondo (G. Scholem, Le origini della Kabbalà cit., 571). In sostanza, l’idea di ciclicità è ciò che forse più accomuna il pensiero ebraico al pensiero indù. Ciò che mi preme sottolineare qui, tuttavia, è che tale concezione non pare esclusivamente attribuibile, come si potrebbe immaginare, alle filosofie indiane. 681

Dunque, un primo e importante passo nella direzione di una crescita mistica del personaggio-autore, è stato a suo

tempo riscontrato già nel racconto commentato. Il quadro è stato poi completato con le “integrazioni extratestuali” accennate nel par.6.3 della IV sez. e nei capp. 1 e 2 di questa. 682

A proposito del rapporto fra sogno ed eternità, scrive Borges (in Altre inquisizioni, da Tutte le opere, Vol.1, 927): “I

teologi definiscono l’eternità come il simultaneo e lucido possesso di tutti gli istanti di tempo e la dichiarano uno degli attributi divini. Dunne, in modo sorprendente, suppone che l’eternità sia già nostra e che i sogni notturni la confermino. In essi, secondo lui, confluiscono il passato immediato e l’immediato futuro..Dunne assicura che nella morte apprenderemo l’uso felice dell’eternità. Riavremo tutti gli istanti della nostra vita e li combineremo a nostro piacimento. Dio, i nostri amici, Shakespeare collaboreranno con noi. Di fronte a una tesi così bella, qualsiasi errore commesso dall’autore appare trascurabile.” Tuttavia ritengo che non estranea all’accezione di eternità cui allude l’estasi di Proust e Borges sia quella boeziana di plenitudo vitae, di massima fioriture e culmine della vita. In questo senso R. Bodei (in Una scintilla di fuoco,Bologna, 2005, 83): “ L’eternità è quello zenit dell’esistenza in cui ciascun ente raggiunge la propria perfezione, il proprio specifico fine, diventando cioè quel che può essere secondo le sue possibilità”. 683

J.L. Borges, Storia dell’eternità, in Tutte le opere cit., Vol.1, 543.

244

preceda; non è dunque la storia ciclica e frustrante de Le rovine circolari. E’ invece il momento della riscoperta delle cose modeste, che radicano l’uomo alla terra; è il desiderio di immortalarle per mitigarne, al loro dissolversi in lontananza, il senso di perdita, che ci sorprende quando, accingendoci a rientrare nel porto dopo avventuroso errare, ci illudiamo per qualche istante di essere stati traditi da un curioso inganno di luci o ci crediamo vittime di uno scherzo crudele dell’immaginazione, perché, contro ogni attesa, non vediamo avvicinarsi alla canoa i vividi contorni del nostro mondo consueto, ma sentiamo, avvertendo solo qualche debole latrato nell’oscurità fluttuante tra i vapori notturni, che le nostre case, sfilando in direzione opposta alla nostra, si stanno allontanando, e perciò non smettiamo di fissare con apprensione la costa e non abbassiamo lo sguardo, finché, diradatasi con la foschia la speranza di errore che ci teneva in vita, l’aurora delle aree dismesse – la prosaica aurora dalle grigie dita - ci svela una spiaggia nuda, dove nessuno ci aspetta. Ecco allora, a fugare la desolazione dei nostri mondi individuali, soccorrerci l’immaginazione di un sogno condiviso – e che cos’è un mito, se non un sogno condiviso? 684 – in cui l’estasi della semplicità sia parlata da un linguaggio comune, sia raggiungibile assecondando la mappa di una navigazione poco ardimentosa ma tranquilla, nella quale ci conforti la casuale sintonia delle radio di bordo, che, domate le gracchianti dissonanze perturbatrici del millenario silenzio dei mari, consenta di tanto in tanto ai solitari argonauti, prodighi di universi incompatibili, di ascoltare una voce sola per tutti 685. 684

Concezione più volta espressa da W.D. O’ Flaherty in Dreams Illusion cit. Il sogno condiviso preserva

l’osservatore dal pericolo del solipsismo (op.ul.cit., 285). 685

Con grande approssimazione, questa prospettiva finale “consolatoria” – nella quale la dimensione mistica si

esprime soprattutto attraverso il superamento della visione narcisistica o individuale (o, nella forma più radicale, solipsistica) potrebbe essere espressa, in chiave narrativa, da un finale diverso del racconto che ho letto. Lo propongo naturalmente come mera divagazione finale: “Andò incontro ai gironi di fuoco: che non morsero la sua carne, che lo accarezzarono e inondarono senza calore e senza combustione. Con sollievo, con umiliazione, con terrore, comprese che era anche lui una parvenza, che un altro stava sognandolo. Tremante, lasciò quel luogo di rovine e ritornò alla canoa. La trovò intatta, ma avviluppata dai rovi che lunghi anni di meditazione avevano infittito. Per qualche giorno si accanì nel districarla da quella selva ostinata. Finalmente s’imbarcò. Giunto in mare aperto immaginò la sua casa, dove nessuno l’aspettava. Non appena quell’immagine spoglia si fu formata, si trovò tra i piedi di un vivandiere nella sua vasta cucina. Quella magìa lo indusse a pensare al figlio che aveva lasciato. Il ragazzo gli fu subito accanto. Allora smise di pensare e immaginare. Troppo lo aveva fatto in quegli anni di esilio. Trascorsero cinquant’anni tranquilli, in cui padre e figlio si dedicarono ai loro commerci, accumulando ricchezze. 245

Improvvisamente l’uomo taciturno – che aveva cessato di sognare da tempo – ebbe il desiderio di tornare in quel lontano paese. Lasciò la casa e il figlio e si imbarcò. Ormai vicino alla riva, quando la canoa stava per incagliarsi nel fango sacro e nel verdeggiare della selva intricata già indovinava il movimento inquieto delle rovine circolari, vide che il mondo desiderato incominciava ad allontanarsi. Pensò di avere già adempiuto ai suoi doveri in quel paese e che le correnti marine lo stessero guidando di nuovo verso casa. Pensò anche, con pena, che era molto vecchio, e che forse si ingannava, perché, ricordò un verso di Eschilo, un vecchio è meno saldo di un bambino e vaga confuso simile al fantasma di un sogno apparso nella luce del giorno. Navigò senza sosta per molto tempo, finché finalmente incontrò in mezzo all’oceano chi lo stava sognando. Era una donna. Pareva una ninfa, forse era Teti, la madre di un eroe greco, forse Eco, l’ostinata amica di Narciso. Lo straniero le chiese un solo favore, che lei si compiacesse di non sognarlo più. La donna non rispose; solo, lo pregò di smettere di sognarla. A questo punto si raccontarono le vite vissute e immaginate, il figlio comune – anche lei aveva desiderato un figlio, lo stesso figlio – e, dopo avere inciso la loro storia sulla parete di una grotta con una scheggia di ossidiana, senza desiderare nulla, senza rimpiangere nulla, si avviarono insieme di nuovo verso il mare aperto, ben sapendo che il loro sognatore si nascondeva in qualche angolo lontano del mondo per condividere quell’ultimo viaggio, per accompagnarli, confortandoli con il racconto della loro intrecciata vicenda, senza tacere ciò che non sapevano né avrebbero mai saputo, verso la spiaggia deserta che li stava aspettando .

246

BIBLIOGRAFIA686 Enciclopedie e dizionari: Piccolo dizionario dell’ebraismo, a cura di P. Sola, con presentazione di G. Laras e E. Bianchi, Milano, 1999 Encyclopaedia Britannica, Londra Chicago Toronto, 1960 M. Cortelazzo e M. Zolli, Il nuovo etimologico, Bologna, 2003 Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti, Roma, 1949 Enciclopedia dell’Antichità Classica, Milano, 2000 Dizionario di mitologia, Torino, 1999H. Serouya, La Cabala, Milano, 1997 Enciclopedia, Torino, 1981 Grande Dizionario della Lingua Italiana a cura di Salvatore Battaglia, Torino, 1994 Dizionario di filosofia a cura di Nicola Abbagnano, Torino, 2001 Enciclopedia dei simboli, Milano, 1999 Dizionario universale dei miti e delle leggende, Roma, 2002 Enciclopedia della letteratura, Milano, 1997 Mistica e pensiero ebraico: C. Mopsik Cabala e i cabalisti, Roma, 2000 G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Torino, 1993 G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, Torino, 1980 H. Serouya, La Kaballe, 1947 M. Idel, Cabbalà Nuove Prospettive, Firenze, 1996 G. Scholem, Le origini della Kabbalà, Bologna, 1980 M. Buber, Racconti dei Chassidim, Milano, 1979 Maimonide, La guida dei perplessi, a cura di M. Zonta, Torino, 2003 G. Laras, Immortalità e resurrezione nel pensiero ebraico medievale, a cura di P. Pozzi, Milano, 2001 G. Scholem, Sabbetay Sevi, il messia mistico, Torino, 2001 G. Laras, La mistica ebraica e il pensiero cabbalistico dello Zòhar, Milano, 2004 G. Scholem, Concetti fondamentali dell’ebraismo, Genova, 1986 Mistica ebraica, a cura di Giulio Busi e di Elena Lowenthal, Torino, 1995 S. Levi della Torre, Zone di turbolenza, Milano, 2003 M. A. Ouaknin, La lettura infinita, Genova, 1998 R. Goetschel, La Cabbalà, Firenze, 1995 G. Busi, La Qabbalah, Roma-Bari, 1998 Pirké Avòt, Milano, 1988 G. Vajda, Introduction à la pensée juive du moyen age, Parigi, 1947 686

Pur raggruppati approssimativamente per temi, i volumi sono citati in ordine di apparizione. 247

G. Laras, Il problema della giustizia divina nella tradizione biblica, talmudica e medievale, Milano, 1998 El’azar di Worms, Il segreto dell’opera della creazione, Genova, 2002 G. Busi, Simboli del pensiero ebraico, Torino, 1999 Il libro dello splendore, a cura di Elio e Ariel Toaff, Pordenone, 1994 C. Mopsik, Les grands textes de la cabale, Verdier, 1993 D.C. Matt, L’essenza della Cabala, Roma, 1999 A. Safran, Tradizione esoterica ebraica, Firenze, 1999 G. Scholem, La cabala, Roma, 1992 A. Safran, Saggezza della Cabbalà, Firenze, 1998 Zohar il libro dello splendore, passi scelti a cura di G. Scholem, edizione italiana a cura di E. Loewenthal, Torino, 1998 G. Scholem, I segreti della creazione, Milano, 2003 Bereshith Rabbah, Torino, 1978 M. Giuliani, Il pensiero ebraico contemporaneo, Brescia, 2003 E. Wiesel, Il Golem, Firenze, 1986 C. Musatti, Ebraismo e psicoanalisi, Pordenone, 1994 Z. Kolitz, Yossi Rakover si rivolge a Dio, Milano, 2003 P. Stefani, Le radici bibliche della cultura occidentale, Milano, 2004 Qoelet, versione di P. Sacchi, Milano, 1998 Bibbia ebraica, Firenze, 2000 Le Zohar – Livre de Ruth, Verdier, 1987 G. Scholem, Il nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio, Milano, 2001 G. Mandel L’alfabeto ebraico, Milano, 2000 G. Stemberger, Introduzione al Talmud e al Midrash, Roma, 1995 M. Giuliani, Auschwitz nel pensiero ebraico, Brescia, 1998 H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, Genova, 1991 J. Maier, La Cabbala, Bologna, 1996 G. Scholem, The Messianic Idea in Judaism and Other Essays on Jewish Spiritually, New York, 1971 I Epstein , Il giudaismo, Milano, 1967 E. Benamozegh, Gli Esseni e la Cabbala, Milano, 1979 G. Israel, La Kabbalah, Bologna, 2005 G. Busi, Qabbalah visiva, Torino, 2005 Opere di J.L. Borges (anche in collaborazione): J.L. J.L. J.L. J.L. J.L. J.L. J.L. J.L. J.L. J.L. J.L.

Borges, L’elogio dell’ombra, Torino, 1971 Borges, L’Aleph, trad. Tentori Montalto, Milano, 2003 Borges, Finzioni, traduzione di F. Lucentini, Torino, 1995 Borges, Sette notti, Milano, 1983 Borges, Tutte le opere, a cura di Domenico Porzio, Milano, 1984, 2 Voll. Borges e M. Guerriero, Manuale di zoologia fantastica, Torino, 1998 Borges, Antologia Personale, Milano, 1981 Borges – A. Jurado, Cos’è il buddismo, Milano, 2003 Borges, Testamento poetico letterario, Firenze, 2004 Borges, Biblioteca personal, Madrid, 1999 Borges, Libro di sogni, Milano, 1999

Scritti critici su J.L. Borges: J. Alazraky, Borges and the Kabbalah, Cambridge USA, 1988

248

C. Costantini, Jorge Luis Borges. Colloqui esclusivi con il grande scrittore argentino, Roma 2003 M. E. Vazquez, Borges, sus dias y su tiempo, Madrid, 2000 F. Sorrentino, Sette conversazioni con Borges, Milano, 1999 E.R. Monegal, Borges, una biografia letteraria, Milano, 1982 F. Savater, Borges, Roma-Bari, 2003 C. Vian, Invito alla lettura di Borges, Milano 1980 Intervista con Jorge Luis Borges, a cura di Raul Montanari e con introduzione di Mario Vargas Llosa, Roma, 1999 Borges Cabbala and “creative misreading”. On line. J.L. Borges Center for Studies Documentation. Internet 20/07/01, http://www.hum.au.dk/romansk/borges/bsol/evit1.htm J.F. Gérault, Borges, Parigi, 2003 E. Aizenberg, El tejedor del Aleph, Biblia cabala y judaismo en Borges, Madrid, 1986 S. Sosnowski, Borges y la Cabala; la busqueda del verbo, Buenos Aires, 1976 S. Fresko, Quel “vano cerbero teologico”. L’idea di Dio in Jorge Luis Borges, tesi di laurea, Milano, 2002, pubblicata nel sito Borges Center, http://www.hum.au.dk/romansk/borges/lastnews.htm P. Quaglia, Una lettura filosofica dei racconti di Borges, Roma, 2000 A.M. Barrenechea, La expression de la irrealidad en la obra de Jorges Luis Borges, Buenos Aires, 1984 Testi di critica e teoria della letteratura G. Genette, Figure I, Torino, 1988 A. Compagnon, Il demone della teoria, Torino, 2000 H. Bloom, L’angoscia dell’influenza. Una teoria della poesia. Milano, 1986 A. Casadei, La critica letteraria del Novecento, Bologna, 2001 H. Bloom, Come si legge un libro (e perché), Milano, 2000 G. Genette, Palinsesti, Torino, 1997 C. Di Girolamo, Critica della letterarietà, Milano, 1978 G. Contini, Un’idea di Dante, Torino, 1976 E. Auerbach, Studi su Dante, Milano, 1986 L. Dolézel, Poetica occidentale, Torino, 1990 H. Bloom, Kabbalah and Criticism, New York, 1975 P. Brunel, Dizionario dei miti letterari, Milano, 1995 V.J. Propp, La morfologia della fiaba, Torino, 1966 I. Calvino, Perché leggere i classici, Milano, 1991 G. Gatto, La fiaba nella tradizione orale, Milano, 2004 A. Marchese, L’officina del racconto, Milano, 1996 Storia generale della letteratura italiana a cura di N. Borsellino e W. Pedullà, Milano, 2004 Le metamorfosi del sogno nei generi letterari, a cura di S. Volterrani, Firenze, 2003 J. Kristeva, Semiotica I, Madrid, 1978 S. Beckett, Proust, Milano, 2004 Filosofia ed estetica (storia e testi) C. Sini, Filosofia e scrittura, Roma-Bari 1994 P. D’Alessandro, Critica della ragione telematica, Milano 2002 M. Foucault, Le parole e le cose, Milano, 1988 J. Habermas, Il pensiero post metafisico, Roma-Bari, 1991 C. Gentili, La filosofia come genere letterario, Bologna, 2003 J.W. Goethe, Massime e riflessioni, Roma, 1983 M. Mazzacut-Mis, Estetica, Milano, 1996

249

C. Sini, Raccontare il mondo, Milano, 2001 M. Bonazzi, Il libro e la scrittura tra Hegel e Derrida, Milano, 2004 P. D’Alessandro, Esperienza di lettura e produzione di pensiero, Milano, 1994 M. Foucault, Il sogno, Milano, 2003 I. Domanin, Testo e ripetizione, Milano, 2000 S. Natoli, Parole della filosofia, Milano, 2004 P. D’Alessandro, Il mondo dei fenomeni e la loro interpretazione, Milano, 2004 A. Gide, Journal 1889-1938, Paris, 1948 L. Dallenbach, Le récit spéculaire. Essai sur la mise en abyme, Paris, 1977 P. D’Alessandro, Orizzonti e forme del dire filosofico, Milano, 2003 G. Giorello, Prometeo, Ulisse, Gilgames, Milano, 2004 A. Mazzarella, La potenza del falso, Roma, 2004 P. Spinicci, Lezioni sul tempo, la memoria, il racconto, Milano, 2004 P. Ricoeur, Tempo e racconto, Milano, 1988 Platone, Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Milano, 1991 M. Ferraris, Introduzione a Derrida, Roma-Bari, 2003 N. Abbagnano, Storia della filosofia, Torino, 1993 La sapienza greca, a cura di G. Colli, Milano, 1996 S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, Milano, 1995 Storia della filosofia diretta da Mario Dal Pra, Milano, 1976 Aristotele, La metafisica, Milano, 1992 G. Berto, Freud Heidegger lo spaesamento, Milano, 2002 E. Severino, Oltre il linguaggio, Milano, 1992 G. Reale, Storia della filosofia greca e romana, Milano, 2004 Stoici antichi Tutti i frammenti, raccolti da Hans von Arnim, Milano, 2002 F. Trabattoni, Platone, Roma, 1998 M. Heidegger, Essere e tempo, Milano, 1992 L. Beolchi, Introduzione alla filosofia indiana, Milano, 2004 H. G. Gadamer, Verità e metodo, Milano, 1983 M. Montanari, Il Tao di Nietzsche, Milano, 2004 W.D. O’Flaherty, Dreams Illusion and other Realities, Chicago, 1984 W. Dilthey, Ermeneutica e religione, Milano, 1992 S. Givone, Storia del nulla, Bari, 2003 R. Bodei, Una scintilla di fuoco, Bologna, 2005 Storia dei miti, di altre religioni e testi: H.C. Puech, Sulle tracce della gnosi, Milano, 1985 La Bibbia di Gerusalemme, Bologna, 2002 Bibbia Concordata a cura della Società Biblica di Ravenna, Milano, 1982 J. Campbell, Le figure del mito, Como, 2002 J. Campbell, Mitologia occidentale, Milano, 1992 K. Kerényi, Miti e misteri, Torino, 1979 M. Centini, La sindrome di Prometeo, Milano 1999 M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, Roma, 1990 R. Guénon, Simboli della Scienza sacra, Milano, 2003 M. Eliade, Mito e realtà, Roma, 1993 H. Zimmer, Miti e simboli dell’India, Milano, 1997 S. Piano, Sanatana dharma, Milano, 1996 R. Graves, I miti greci, Milano, 2004 J. Campbell, L’eroe dai mille volti, Milano, 1984 J.P. Vernant, L’universo, gli dei, gli uomini, Torino, 2000 Avesta, a cura di A. Alberti, Torino, 2004

250

G. Parrinder, Le Upanishad, la Gita e la Bibbia, Roma, 1964 J. Miller, I Veda, Roma, 1976 Abhinavagupta, Luce delle sacre scritture (Tantraloka), Torino, 1972 E. Bresciani, La porta dei sogni, 2005 Altri saggi storici: G. Minois, Storia del riso e della derisione, Bari, 2004 D. Meeks Ch. Favard – Meeks, La vita quotidiana degli Egizi e dei loro dèi, Milano, 1995 J. Bottéro, Mesopotamia, Torino, 1991 Opere letterarie: G. Meyrink, Il golem, Milano, 1991 A. Camus, Il mito di Sisifo, in Opere, Milano, 1996 W. Shakespeare, I drammi romanzeschi, Milano, 2000 D. Alighieri, La Divina Commedia, Milano, 1991 G. Bataille, L’esperienza interiore, Bari, 1978 W. Shakespeare, Macbeth, Milano, 1983 M. Yourcenar, Memorie di Adriano e L’opera al nero in Opere, Milano, 1986 L. Carrol, Alice nel paese delle meraviglie – Attraverso lo specchio, Milano, 1989 Letteratura e poesia dell’Antico Egitto, Torino, 1990 Aristofane, Le vespe – Gli uccelli, Milano, 2001 G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, in Opere, T. II, Milano Napoli, 1966 F. Kafka, Tutti i racconti, Milano, 1979 Ovidio, Metamorfosi, Bologna, 1974 C.E. Gadda, La cognizione del dolore, Torino, 1970 W. Shakespeare, Amleto, Milano, 1984 M. Proust, Dalla parte di Swann, Milano, 1987 M. Proust, Il tempo ritrovato, Milano, 1995 E.A. Poe, I racconti, Torino, 1983 C. Baudelaire, Opere, Milano, 1996 Y. Kaniuk, Adamo risorto, Torino, 2002

251

252

View more...

Comments

Copyright ©2017 KUPDF Inc.
SUPPORT KUPDF