Bobbio - Profilo Ideologico Del Novecento (1)

April 3, 2017 | Author: Giovana Fusco | Category: N/A
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n questa nuova edizione del Profilo ideologico del Novecento (corredata da un'ampia bibliografia sul pensiero politi...

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Profilo ideologico del Novecento di Norberto Bobbio

Storia d’Italia Einaudi

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Edizione di riferimento: Profilo ideologico del Novecento, Garzanti, Milano 1993.

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Sommario Prefazione 1. Positivismo e marxismo 2. I cattolici e il mondo moderno 3. Le forze dell’irrazionale 4. Gli antidemocratici 5. I due socialismi 6. Benedetto Croce 7. La lezione dei fatti 8. Intermezzo di guerra 9. Tra rivoluzione e reazione 10. L’ideologia del fascismo 11. Croce oppositore 12. Gli ideali della Resistenza 13. Gli anni dell’impegno 14. La democrazia alla prova 15. Verso una nuova reppublica?

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PREFAZIONE

Questo Profilo, scritto per sollecitazione di Natalino Sapegno, tra l’estate e l’autunno 1968, fu composto per essere pubblicato nell’ultimo volume della Storia della letteratura italiana, dedicato a Il Novecento, apparso presso l’editore Garzanti nel 1969. Pochi anni dopo, nel 1972, è stato pubblicato dalla Cooperativa Libraria Universitaria Torinese (CLUT) sotto forma di dispense in una edizione riservata agli studenti del Corso di Filosofia della politica, di cui quell’anno ero diventato titolare nella Facoltà di scienze politiche, con l’aggiunta di una Premessa e di due nuovi capitoli, I cattolici e il mondo moderno e Croce oppositore. Nel 1986 Giulio Einaudi ha accolto questa edizione più completa, che aveva avuto una circolazione molto ristretta, nella «Biblioteca di cultura storica» (n. 157), con nuove illustrazioni rispetto all’edizione Garzanti e l’aggiunta di una Postfazione. L’anno successivo il Profilo è apparso nella nuova edizione della Storia della letteratura italiana, nel primo dei due volumi dedicati a Il Novecento, con l’esclusione, da un lato, della Premessa e della Postfazione, e con l’aggiunta, dall’altro, di due capitoli nuovi, La democrazia alla prova e Verso una nuova repubblica?, che completano la narrazione storica, dalla Liberazione, cui si era fermata l’edizione precedente, fino al 1980. Inoltre il testo è stato arricchito da una ampia bibliografia, curata da Pietro Polito. Ora esce di nuovo come volume a sé stante: l’odierna edizione riproduce la precedente, ma con la bibliografia aggiornata. Dalla prima edizione sono trascorsi esattamente vent’anni. I capitoli da undici sono diventati quindici. La

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mole è quasi raddoppiata. Ma lo spirito con cui è stata concepita e attuata questa sintetica storia delle idee politiche del Novecento nel nostro paese non è cambiato nelle diverse e successive apparizioni. Sarei tentato di dire che il «profilo» è «ideologico» nei due sensi: in quanto le ideologie sono l’oggetto della sua analisi e in quanto non nasconde il punto di vista, l’ideologia appunto, da cui si è posto l’autore per giudicare eventi e persone. Presto detto, è il punto di vista di chi ha seguito con intensa partecipazione lo sviluppo tormentato della democrazia in Italia dall’inizio del secolo a oggi, in parte da storico non indifferente, in parte da inquieto testimone, sempre diviso fra timore e speranza. N. B.

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1 POSITIVISMO E MARXISMO

Nonostante la grande coalizione antipositivistica dei primi anni del secolo, il positivismo in Italia era morto prima di nascere: la reazione contro il positivismo fu una grande bufera scatenata per abbattere un fuscello. La filosofia positiva era nata all’inizio del secolo XIX con Saint-Simon, come prima e ancor rozza coscienza della profonda trasformazione della società prodotta dalla rivoluzione industriale, da una rivoluzione che avrebbe sovvertito l’ordine costituito non sostituendo una classe politica ad un’altra ma il dominio degli industriali e degli scienziati a quello dei politici e dei metafisici. Come filosofia della storia, il positivismo, da Comte a Spencer, scoprì che il progresso verso il meglio cui sarebbe andata incontro l’umanità nel nuovo secolo sarebbe consistito nel passaggio dalla società militare alla società industriale, da una società di ceti controllata da sacerdoti a una società di libere classi in lotta tra loro, regolata dal sapere scientifico. In un paese economicamente arretrato come l’Italia il positivismo era destinato ad arrivare in ritardo e, una volta trapiantato, a condurvi vita stentata; o ad apparire, come nel caso della splendida stagione cattaneana, un frutto prematuro. Nel Cattaneo appare evidente il nesso tra mutamento sociale e nuova filosofia, tra crescita della società mercantile-borghese e filosofia scientifica. Molto più evidente che nel positivismo ufficiale scolastico e scolasticizzato degli ultimi decenni del secolo; il quale attecchì su un tronco ancora troppo fragile (un’industrializzazione appena appena nascente in una piccola parte del paese) per sopportare lo sforzo di un nuovo innesto. Il positivismo ufficiale fu in quegli anni in Italia una filosofia

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senza radici nella società e nonostante il fervore dei neofiti e il prestigio del loro patriarca, Roberto Ardigò, rimase spaesato. Non bastarono l’entusiasmo e l’ardimento antitradizionalistico a dar vita e dignità a un pensiero che nella società italiana del tempo appariva anacronistico, e, di fronte agli attacchi congiunti dello spiritualismo laico e di quello clericale (alleati nella santa crociata contro il nuovo illuminismo), puramente velleitario. Bisogna anche riconoscere che non fu una buona filosofia. Ma la sua importanza non era filosofica: stava nella mentalità positiva, non speculativa, di cui quella filosofia, anche mediocre, era insieme lo stimolo e il rispecchiamento. Purtroppo la «scuola positiva» italiana accolse nel suo seno più positivismo che positività. Certamente incoraggiò lo sviluppo delle scienze, in particolare delle scienze sociali che avevano sempre condotto vita grama alla grande ombra della «filosofia presuntuosa e sterile delle scuole italiane»; diede qualche contributo non spregevole al progresso della criminologia con Cesare Lombroso e i suoi discepoli; avviò studi di sociologia, di etnologia, di psicologia delle menti associate (per usare una felice espressione di Cattaneo), che non avevano mai avuto molta fortuna in Italia; aprì con Gaetano Mosca la strada, che non andò molto lontano, degli studi scientifici della politica; soprattutto diede occasione e impulso a una fioritura di studi economici, a una vera e propria scuola di economia italiana, da Pantaleoni a Pareto, a Einaudi, di cui non ci fu più l’eguale in Italia. Ma non fu una filosofia originale e tanto meno una «filosofia dell’avvenire»: anzi, quando arrivò in Italia ed ebbe il suo massimo splendore nell’ultimo decennio del secolo (la celebre trilogia ardigoiana Il vero, La ragione e L’unità della coscienza apparve tra il 1891 e il 1898), era nei paesi di provenienza in declino. L’idealismo uccise in realtà un moribondo, cui non concesse il beneficio della lenta agonia.

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Quando apparve nel 1898, in occasione del settantesimo anniversario di Ardigò, una delle più incredibili raccolte di panegirici che mai allievi abbiano rivolto al loro maestro1 , in Francia erano già apparse due opere capitali di Bergson (Essai sur les données immédiates de la conscience, 1889, e Matière et mémoire, 1896), Maurice Blondel aveva discusso alla Sorbona la sua tesi su L’Action (1893), in Inghilterra Spencer era stato messo al bando e furoreggiava il neo-hegelismo (Appearance and Reality di Bradley è del 1893); negli Stati Uniti William James aveva ormai dato alla luce l’opera più popolare del pragmatismo (The Will to Believe, 1897). Il positivismo storico, e, a maggior ragione, la versione irrigidita e dogmatica del positivismo storico che aveva dominato in Italia, era finito dovunque, provocando la caccia alla strega dello scientismo da parte dello spiritualismo perenne. Il positivismo avrebbe poi trovato attraverso la critica della scienza la strada per una riforma interna e approdare al neo-positivismo. Ma la filosofia scientifica in Italia era troppo violenta perché i positivisti italiani (tranne Pareto) trovassero la via della riforma interna. Invece di correggere gli errori del si1 Nel 70° anniversario di Roberto Ardigò, scritti raccolti da A. Groppali e G. Marchesini, Torino 1898. Per dare un’idea del cono dell’opera basterebbe citare la fine della Prefazione: «Ciò nonostante, cediamo che [la presente opera] qualche vantaggio possa pur anche arrecare: quello di ridestare il pensiero filosofico in Italia, e di fare conoscere alla gioventù studiosa il principe dei nostri pensatori viventi, la cui dottrina, sebbene inferiore per vastità, supera per profondità quella del filosofo dei due mondi» (p. XV: filosofo dei due mondi era chiamato lo Spencer). Ma non voglio privare il lettore almeno di questo brano: «Egli è un gigante, come Saladino nell’inferno di Dante, appartato nella storia del pensiero che, a bella posta per non guastare e corrompere con elementi eterogenei il frutto personale delle sue meditazioni, si è chiuso, romito volontario, nell’eremo del suo gabinetto ove non si ripercuote e vibra l’eco degli studi altrui» (p. 197).

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stema, si acconciarono volenti o nolenti ai nuovi indirizzi filosofici, sciolsero il loro materialismo in un insipido e per fortuna innocuo beveraggio spiritualistico, stemperarono la carica polemica di una filosofia antimetafisica in un eclettismo conciliatore. Dal punto di vista ideologico il positivismo aveva rappresentato l’interpretazione evolutiva, naturalistica, sostanzialmente ottimistica, della rivoluzione industriale, nelle due versioni politicamente contrastanti, anche se talora convergenti contro il comune nemico rappresentato dal protezionismo statale, debilitante e corruttore, del liberalismo intraprendente e aggressivo e del socialismo gradualistico e difensivo. Mentre il patrono del primo fu lo Spencer darvinista, il patrono del secondo fu un Marx darwinizzato. In realtà, il darvinismo sociale fu quasi sempre il comune ingrediente filosofico di entrambi, combinato là con la teoria del liberismo economico, qua con la vulgata deterministica ed economicistica del marxismo. Per il primo la lotta per l’esistenza è la via naturale attraverso la quale sopravvivono i migliori, i più adatti a far progredire la società, e quindi non deve essere ostacolata da istituzioni politiche artificiali, quali sono quelle degli stati tradizionali che hanno avuto origine non dal commercio ma dalla guerra. Per il secondo, la lotta di classe, giunta al suo massimo grado d’intensità nella società capitalistica, avrebbe generato per la forza stessa delle cose la definitiva eliminazione della società di classe. Assai più di Marx, Herbert Spencer fu ammirato come il titano che avrebbe liberato l’umanità dalle catene del passato. Alla sua morte un osservatore penetrante della società italiana e non fa- cile agli entusiasmi, come Francesco Papafava, scrisse:

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Fu il più grande emancipatore d’anime ed eccitatore intellettuale del secolo XIX, e il suo tentativo di descriver a fondo tutto l’universo rimarrà uno tra i massimi monumenti intellettuali2 .

I due maggiori rappresentanti del liberalismo economico di quegli anni, Matteo Pantaleoni (i cui Principi di economia politica sono del 1889) e Vilfredo Pareto (che pubblicò il celebre Cours d’économie politique nel 1896) erano positivisti dichiarati e spenceriani convinti, non meno di quel che fossero positivisti ferventissimi, e proprio per questo marxisti solo a metà, cioè sino al punto in cui Marx poteva essere conciliato con il positivismo evoluzionistico, e, magari, ancor più grossolanamente con Spencer, che era un liberale arrabbiato, tanto Achille Loria quanto Enrico Ferri, tanto Napoleone Colajanni quanto Saverio Merlino, tutti i nostri teorici del socialismo insomma, tranne Antonio Labriola. È vero che quando Colajanni ebbe a sostenere che l’ideale di Spencer era socialista, vi furono «alcuni filosofi ipercritici che gli dettero dell’asino», ma egli, pur con qualche concessione agli avversari, non desistette dall’addurre argomenti alla propria tesi3 . Merlino, per citare la testa forse più chiara dei socialisti positivisteggianti, che non aveva mai scambiato Marx con Spencer, contrapponeva la concezione catastrofica del socialismo alla concezione «positiva», scrivendo: «La concezione del Socialismo dev’essere meno astratta, meno semplicistica, meglio informata che oggi non sia, al metodo positivista, che è il solo vera2 F. Papafava, Dieci anni di vita italiana, Bari 1913, p. 385. Cfr. anche pp. 764-72. 3 N. Colajanni, Il socialismo, Palermo 1898, p. V (la prima edizione è del 1884).

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mente scientifico»4 . Filippo Turati, rievocando gli anni della sua formazione, scrisse: Quando, giovani, liberatici appena dalla mitologia cristianocattolica, portati dall’impeto della reazione giovanile a tutte le negazioni più nichiliste, cercavamo tuttavia quell’ubi consistam psicologico che è una necessità imprescindibile per tutti coloro cui natura predispose a «prendere la vita sul serio», fu Roberto Ardigò che ci porse alcune delle pietre più solide del nostro edificio mentale e morale5 .

In un manuale di propaganda socialista si consigliava di «leggere anzitutto un riassunto qualsiasi di Darwin e di Spencer che desse allo studioso la direzione generale del pensiero moderno; poi rivolgersi a Marx, a completare la formidabile triade che rinchiuderà degnamente il vangelo dei socialisti contemporanei»6 . Al di là della divergenza tra un positivismo di destra liberaleggiante e un positivismo di sinistra socialisteggiante, la filosofia positiva aveva educato la generazione che diventò matura negli ultimi anni del secolo a una concezione più ragionata e ragionevole della lotta politica, a prender coscienza dei problemi di una moderna società industriale che sembrava richiedere soluzioni non av4 S. Merlino, L’utopia collettivista e la crisi del socialismo scientifico, Milano 1898, p. 99. E aggiungeva, citando il Chiappelli: «Il Socialismo “deve deporre la forma rigida che gli viene da’ postulati inflessibili del materialismo storico” e da altri postulati» (ivi). 5 Cito da Alessandro Levi, Filippo Turati (1924), ora in Scritti minori storici e politici, Padova 1957, p. 136. Cfr. sul tema S. M. Ganci, La formazione positivistica di Filippo Turati, in L’Italia antimoderata, Parma 1968, pp. 133-43. 6 Citato da R. Michels, Storia critica del movimento socialista italiano, Firenze 1926, p. 146, e da L. Bulferetti, Le ideologie socialistiche in Italia nell’età del positivismo evoluzionistico, Firenze 1951, p. 294.

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ventate, da raggiungersi attraverso la conoscenza, che solo un’educazione positiva avrebbe potuto dare, delle leggi oggettive che reggono lo sviluppo della storia (non diversamente dalla natura). Un discepolo di Lombroso, Guglielmo Ferrero, protestando contro la politica reazionaria di Crispi, riassunse molto bene, in un opuscolo del 1895, lo stato d’animo e le aspirazioni della gioventù positivistica con queste parole: Noi siamo stanchi di una scienza politica che crede di salvare una nazione in condizioni così gravi come l’Italia, sciogliendo il Partito dei lavoratori, sequestrando una volta al mese «L’Italia del Popolo» e abbattendo in tutti i ritrovi pubblici e privati i busti di Karl Marx [...] Noi amiamo meglio, per rinforzarci, il pane sano delle osservazioni reali e positive, che il liquore alcoolico delle frasi inebrianti. Noi non ci facciamo illusioni; sappiamo che a molti mali l’opera di un uomo, di un partito, di una scuola non può mettere rimedio, che le leggi in gran parte ancora ignote della vita sociale sono più forti di noi; ma per quanto riguarda l’azione che l’uomo può svolgere, noi vogliamo che sia guidata dalla ragione [...] Basta! Rappresentate quel partito o quella classe sociale che volete; ma siate uomini ragionevoli, intelligenti, istruiti; abbiate qualche idea nel cervello7 .

La reazione antipositivistica, che caratterizzò l’inizio del «secol nuovo», non si risolvette soltanto in una critica filosofica. Fu anche una critica politica. La polemica contro il determinismo antiumanistico, contro l’arido naturalismo, contro le goffe semplificazioni sociologiche, contro l’ingenua adorazione dei fatti bruti, contro la riduzione dell’uomo al suo ambiente, andò di pari passo con la polemica contro le idee di riforma che scuotevano il vecchio ordine, contro il paventato avvento di un allargamento democratico della base del potere, contro l’ascesa di nuove classi sociali, in una parola contro la democrazia e il socialismo. 7

G. Ferrero, La reazione, Torino 1895, pp. 63-65.

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Ma il primo attacco al positivismo, già negli ultimi anni del secolo XIX, avvenne da sinistra, cioè da un’interpretazione più severa, più fedele ai testi, meno eclettica, del materialismo storico. Nel 1894 era apparsa una summula dell’interpretazione positivistica del marxismo, Socialismo e scienza positiva di Enrico Ferri, il cui sottotitolo era un’insegna: Darwin, Spencer, Marx. Vi si dimostrava la perfetta conciliabilità tra darwinismo e marxismo, tra l’evoluzionismo di Spencer e il socialismo scientifico di Marx, il quale era venuto «a completare, nel campo sociale, la rivoluzione scientifica portata da Darwin e da Spencer»8 . L’anno dopo apparve il primo saggio di Antonio Labriola sul materialismo storico (In memoria del Manifesto dei Comunisti) cui sarebbero seguiti, rispettivamente nel 1896 e nel 1897, un secondo, Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare, e un terzo, Discorrendo di socialismo e di filosofia. I conti coi positivisti erano regolati in modo piuttosto brusco sin dalle prime pagine: i socialisti che si affidano all’interpretazione del processo storico proposta da Marx non hanno nulla in contrario a lasciarsi chiamare scientifici, «se altri non intende per cotal modo di confonderci coi Positivisti, ospiti spesso ma da noi non sempre bene accetti, che a loro grado monopolizzano il nome di scienza»9 . Nel terzo saggio Spencer veniva strapazzato (con parole attribuite immaginariamente a Marx) come: l’ultimo avanzo ombratile del deismo inglese del secolo XVII; l’ultimo sforzo della ipocrisia inglese nel combattere la filosofia di Hobbes e di Spinoza; [...] l’ultima transizione fra il cretinismo egoistico del signor Bentham e il cretinismo altruistico del Rabbi di Nazareth; l’ultimo tentativo dell’intelletto borE. Ferri, Socialismo e scienza positiva, Roma 1894, p. 93. A. Labriola, La concezione materialistica della storia, a cura di E. Garin, Bari 1965, p. 10. 8 9

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ghese per salvare, con la libera ricerca e la libera concorrenza nell’al di qua, un enigmatico brandello di fede per l’al di là10 .

Nella celebre prolusione romana del 1896, che fu pubblicata dal Croce col titolo L’università e la libertà della scienza, Labriola espresse il proprio pensiero su questo punto con molta chiarezza: Mi soffermo solo a notare il quasi inverosimile equivoco verbale per il quale molti ingenuamente, e specie in Italia, confondono senz’altro quella specificata filosofia, che è il Positivismo, col positivo, ossia col positivamente acquisito nella interminabile nuova esperienza sociale e naturale [...] A costoro accade di non distinguere, nello stesso Spencer, ciò che è dello scienziato, da ciò che è del filosofo, il quale giuocando di scherma con le categorie dell’omogeneo, dell’eterogeneo, dell’indistinto e del differenziato, del conosciuto e dell’in conoscibile, è anche lui un trapassato: è, cioè, a volte un Kantiano inconsapevole, e a volte un Hegel in caricatura11 .

Il secondo saggio, di gran lunga più importante, era una specie di introduzione alla metodologia della storia, quale poteva ricavarsi da un retto intendimento del pensiero di Marx: rivolto contemporaneamente contro gli storici idealisti, che ritenevano di poter fare storia prendendo gli avvenimenti dalla parte sbagliata, cioè dalle idee degli uomini e non dai loro rapporti economicosociali, e contro gli storici positivisti, che l’avevano presa dalla parte giusta, cioè dalla parte dei fatti ma non avevano trovato la bussola per orientarsi nella selva scoperta. Questa bussola era il materialismo storico, inteso come una concezione realistica e insieme globale della storia, ovvero per un verso come una comprensione obietti10

A. Labriola, La concezione materialistica della storia, cit., p.

246. 11

Id., Scritti politici, a cura di V. Gerratana, Bari 1970, p.

391.

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va dei fatti e della loro successione, resa finalmente possibile dalla lacerazione degli involucri con cui le idee degli uomini li avevano ricoperti, limitata peraltro «alla coordinazione obiettiva delle concezioni determinanti e degli effetti determinati» (non critica soggettiva applicata alle cose, ma «ritrovamento dell’autocritica che è nelle cose stesse»)12 ; per l’altro verso, come uno strumento d’indagine che rende possibile una visione d’insieme, non frammentaria, non disorganica, non parziale, com’è quella dei positivisti, del processo storico (si trattava di «sorpassare la conoscenza empiricamente disgregata dei semplici particolari», e di «intendere integralmente la storia»)13 . Come concezione realistica della storia, il materialismo storico non si risolve in una filosofia della storia alla maniera di Hegel o di Spencer, ma sarebbe il primo tentativo serio di fondare una scienza della società (da non confondere con la sociologia positivistica); e in quanto concezione globale del processo storico, esso offre non tanto una chiave, da lasciare ai metafisici, apritori di tutte le porte, quanto un filo conduttore per abbracciare nel suo insieme lo sviluppo storico e scoprirne la tendenza immanente. Questi saggi di Labriola non avevano, se non indirettamente a lunga scadenza, tanto lunga da apparire non una scadenza ma un rinvio sine die, una intenzione politica. Anzi furono scritti quando, dissentendo talora anche aspramente dall’indirizzo impresso al partito socialista dai suoi fondatori (il Partito socialista italiano era stato fondato nell’agosto del 1892), si era allontanato, impazientemente e sdegnosamente, dalla politica militante, pur non rinunciando a intervenire in diverse occasioni con rimbrotti, consigli, incoraggiamenti, avvertimen12

Id., La concezione materialistica della storia, cit., pp. 97 e

105. 13

Ivi, pp. 106 e 140.

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ti, previsioni più o meno fosche, giudizi pertinenti e impertinenti. Il dissidio coi socialisti positivisti era di natura non soltanto filosofica, ma ideologica e politica, anche se il dissenso ideologico e politico era strettamente dipendente da quello filosofico. Labriola muoveva ai socialisti di partito un duplice rimprovero: di avere avuto troppa fretta nel dar vita a un partito operaio senza classe operaia, destinato a esser fatto «entrare di straforo nella mente degli operai», col rischio di vederlo rapidamente degenerare «in una delle solite vanità consortesche all’italiana»14 , e di non essere in grado, proprio a causa dell’equivoco iniziale, di fare altra politica che quella del riformismo piccolo-borghese, del compromesso legalitario, della complicità con la classe dominante per ottenere un modesto vantaggio oggi in cambio della rinuncia alla rivoluzione domani. Per quanto possa sembrare contraddittorio, era il rimprovero, da un lato, di andare troppo in fretta, dall’altro, troppo adagio. In realtà contraddizione non c’era, perché Labriola aveva una concezione rivoluzionaria del processo storico (aveva definito il materialismo storico «la teoria obiettiva delle rivoluzioni sociali»), ma era tanto accorto storicista da rendersi conto che le rivoluzioni non si realizzano a comando, nonostante le vociferazioni dei demagoghi e le ardenti aspettazioni dei ribelli all’ordine costituito per quanto ripugnante esso fosse. Era un rivoluzionario, ma appunto perché tale guardava lontano, mentre i riformisti, avendo la vista troppo corta, sarebbero stati assorbiti a poco a poco nel sistema che, non avendo la volontà di rovesciare, non avrebbero neppure avuto la forza di correggere. Marxista era diventato quando, dopo una lunga e aspra e tormentata meditazione che lo aveva indotto a 14 Traggo queste due citazioni da B. Widmar, Antonio Labriola, Napoli 1964, pp. 159 e 162. La prima frase è tratta da una lettera a Turati, la seconda da una lettera a Engels.

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staccarsi dai democratici radicali, si era reso conto che il socialismo non poteva essere considerato soltanto come «un codicillo, una giunta, una nota, una postilla del gran libro del liberalismo», e che «la rivoluzione sociale è tutt’altra dalla borghese, nei fini, nei mezzi e nella tattica», che insomma il gradualismo non avrebbe mai condotto al socialismo15 . Commentando la festa del primo maggio nel 1901, scrisse che «bisognava avere la sincerità e la franchezza di affermare che il socialismo ut sic, mentre ha le gambe lunghe nel regno delle idee, ha il passo breve e lento nel campo della realtà»16 . Il passo, a giudicare con il senno di poi, è stato tanto breve che la meta dopo più di tre quarti di secolo non è stata ancora raggiunta. Ciò che Labriola aveva appreso dalla scienza sociale di Marx – il famoso «filo conduttore» del processo storico – era la necessità del passaggio dal capitalismo al socialismo. Questo passaggio in paesi come l’Italia non è ancora avvenuto, e non sembra neppure imminente, mentre è avvenuto in altri paesi il passaggio da società pre-industriali a regimi di collettivismo forzato, in cui diventa sempre più difficile riconoscere l’attuazione di una società socialista quale poteva essere immaginata e desiderata da un marxista teorico come Labriola. Rispetto al corso storico intravisto e indicato, la sua filosofia rimase una filosofia dell’avvenire (di un avvenire immaginario), o, se si vuole, una splendida profezia (purtroppo sbagliata). Per una filosofia che credeva di aver scoperto il segreto del nesso tra teoria e prassi, un modesto risultato, un vero e proprio infortunio. Nella pratica politica di uno dei pochi periodi di progresso civile della nostra storia, l’aurea e detestata età giolittiana, 15 A. Labriola, Proletariato e radicali (1890), in Scritti politici, cit, p. 223. 16 Id., Sulla festa del Primo Maggio (1901), in Scritti politici, cit., p. 467. Il corsivo è mio.

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quel poco di maggior benessere e di maggior libertà che le leghe operaie riuscirono a ottenere fu opera del «cretinismo», cioè della deprecata mancanza di una teoria generale della storia, dei riformisti positivisti. Sino alla sua morte (1904) invece, Labriola continuò a far la parte del nume irato, i cui fulmini non fanno tempesta. Contrariamente a quel che disse Croce, il marxismo teorico non morì del tutto con Labriola: sarebbe stato ripreso dopo una diecina di anni da Rodolfo Mondolfo, che avrebbe cercato di farne un’arma critica tanto contro il riformismo spicciolo, quanto contro il mito della rivoluzione imminente e prematura. Ma, nonostante alcune voci di consenso molto generiche, anche l’interpretazione di Mondolfo, che si richiamò sempre a Labriola come a suo ispiratore, pur divergendone nella sostanza, non diventò la teoria di una prassi: rimase una filosofia per filosofi, una teoria per teorici, accolta e discussa nella ristretta cerchia dei competenti, un grembo politicamente infecondo. Diede sì i suoi frutti, ma contrariamente alle intenzioni del suo fedele e intelligente «traduttore» italiano furono, almeno in Italia, frutti da vetrine di primizie, nuove idee per lo studio della storia e per l’intendimento della natura dei conflitti sociali, non per un’azione politica immediata. Una volta dimostrato e ammesso che il materialismo storico non è una concezione del mondo ma un metodo per capire la storia, il legame tra esso e il socialismo viene immediatamente dissolto. Il primo commentatore dell’interpretazione di Labriola, Benedetto Croce, ne trasse subito le conseguenze: «Spogliate il materialismo storico di ogni sopravvivenza di finalità e di disegni provvidenziali, esso non può dare appoggio né al socialismo né a qualsiasi altro indirizzo pratico della vita»17 . In modo ancora più drastico, se tut17 B. Croce, Materialismo storico ed economia marxista, Bari 1927, p. 17.

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to quel che il materialismo storico aveva insegnato era la rilevanza del fattore economico nel processo storico, esso era destinato a diventare qualcosa di meno che un metodo: un canone d’interpretazione storica. «Questo canone consiglia di rivolgere l’attenzione al cosiddetto sostrato economico delle società, per intendere meglio le lor configurazioni e vicende»18 . Marx ed Engels avevano scritto il manifesto del partito comunista: il professor Labriola, secondo la glossa del suo discepolo, aveva in realtà scritto soltanto un manifesto per una nuova scuola storica. Aveva creduto di dare un contributo alla causa della rivoluzione del proletariato; e invece aveva aperto una nuova via agli studi storici. Proprio in quegli anni tra il 1890 e il 1900 si formò sotto l’influsso del materialismo storico una scuola di giovani storici, che ebbe il nome di «scuola economico-giuridica», e di cui il Croce stesso scrisse che erano giovani « tutti o quasi tutti, dal più al meno, infervorati pel socialismo, e che tutti ricevettero della dottrina del materialismo storico profonda impressione, la quale rimase determinante per la loro vita mentale»19 . Uno di questi, Gaetano Salvemini, che scrisse una delle sue opere maggiori nel 1899, Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295, confessò egli stesso molti anni più tardi di aver scoperto nei saggi di Labriola il suo vangelo. Poiché il materialismo storico non era una filosofia ma un nuovo avviamento agli studi storici, non gli si addiceva, a detta di Croce, il nome di materialismo, ma se mai quello di «concezione realistica della storia», che, come tale accoglie «in sé così il contributo che alla coscienza storica ha recato il socialismo, come quelli che le si po18 19

Ivi, p. 78. Id., Storia della storiografia italiana, vol. II, Bari 1930, p.

143.

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tranno recare in futuro, da ogni altra parte»20 . A ben guardare, alla concezione realistica della storia avevano sempre recato maggiori contributi gli storici conservatori che non quelli rivoluzionari: o meglio, il realismo storico aveva sempre offerto più solidi argomenti a coloro che volevano lasciare le cose com’erano piuttosto che a coloro che volevano cambiarle. Lo stesso Croce, quando durante l’infuriare della guerra (1917), ripubblicando i suoi saggi sul materialismo storico, scriverà che era grato a Marx per averlo reso insensibile «alle alcinesche seduzioni [...] della Dea Giustizia e della Dea Umanità», rendeva omaggio a una dottrina che aveva fornito vigorosi argomenti alla sua polemica antidemocratica. Vilfredo Pareto, scrittore non certo in odore di socialismo, criticando e dissolvendo i «sistemi socialisti», ripudiava la teoria economica e l’ideologia politica di Marx, ma ne accoglieva la concezione storica, quale gli era stata rivelata dall’interpretazione di Labriola e di Croce, perché, a suo dire, «la conception matérialiste de l’histoire est,

sous ce rapport, simplement la conception objective et scientifique de l’histoire»21 . Il carattere scientifico e oggettivo della teoria consiste in ciò che, ricollegandosi al pensiero storico genuino dei realisti giù giù sino a Tucidide, Marx ha cercato di mettere in rapporto i fatti tra di loro, prescindendo da tutte le «ideologie»; che erano poi le «alcinesche seduzioni» di Croce. Positivismo e marxismo, diversi nella matrice filosofica – Comte e Hegel –, e nella concezione globale della storia che era per l’uno evolutiva e per l’altro dialettica, poterono essere confusi, ed ebbero spesso gli stessi avversari nei reazionari di tutti i paesi e di tutti i colori, perché avevano in comune il grande ideale del secolo, che era l’ideale della scienza, del progresso attraverso la 20 21

Id., Materialismo storico ed economia marxista, cit., p. 20. V. Pareto, Les systèmes socialistes, vol. II, Paris 1903, p. 390.

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scienza, della libertà attraverso la scienza. Il sapere scientifico, non più quello teologale o metafisico, avrebbe dovuto guidare la trasformazione della società, finalmente non più affidata alle forze del caso o alla mano invisibile di una superiore provvidenza. Se Engels non avesse creduto all’avvento dell’età della scienza dopo quella della teologia e della metafisica, non avrebbe addotto come argomento formidabile, a favore delle teorie che Marx e lui stesso erano andati propagando, che esse rappresentavano finalmente il passaggio del socialismo dall’utopia alla scienza, e solo in quanto tali ne rendevano non solo prevedibile ma anche possibile l’avvento. Positivismo e marxismo furono se mai in disaccordo sul modo d’intendere la «vera» scienza; e, rivali come spesso furono sullo stesso terreno, si scambiarono l’accusa di non essersi affatto liberati dalla metafisica e di essere, nonostante tutto, non scientifici. Per essere scientifico Marx avrebbe dovuto liberarsi dall’eredità hegeliana, i positivisti da quella comtiana. Furono però entrambe filosofie laiche, mondane, nate dalla grande rivoluzione del secolo, che fu la rivoluzione industriale, della quale il positivismo fu l’interpretazione fiduciosa e benevola, il marxismo quella catastrofica. Per il positivismo, il progresso economico guidato e controllato dal progresso scientifico avrebbe condotto fatalmente alla liberazione dell’umanità. Per il marxismo, la liberazione sarebbe avvenuta soltanto attraverso una dura lotta per la conquista del potere politico guidata dalla classe oppressa di tutto il mondo. La meta finale del primo sarebbe stato qualcosa di simile alla società tecno-cratica che sta diventando sempre più temibile quanto più ci sembra vicina. La meta finale del secondo è una non meglio definita società senza classi, che sarebbe forse desiderabile se non apparisse sempre più lontana. Come filosofie dell’innovazione e del mutamento furono fatte segno agli attac-

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chi concentrici degli intellettuali tradizionali che diedero vita ai movimenti culturali del nuovo secolo.

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2 I CATTOLICI E IL MONDO MODERNO

Positivismo e marxismo erano, entrambi, pur nel loro contrasto, concezioni mondane della storia, per diversa via e con diverso intendimento avversi e invisi alla «filosofia delle scuole italiane». Ispirati entrambi a una visione antagonistica della società, pregiavano più il moto che la quiete, più il conflitto che l’ordine, credevano nel progresso attraverso la lotta, ponevano la pace sociale al termine, non, come i conservatori di tutti i tempi, all’inizio della storia. Sembravano destinati a far fare una fine ingloriosa alla tradizione pur gloriosa in altri tempi del pensiero cattolico, in cui non credeva – o essi credevano non credesse – più nessuno, e a dare l’ultima scossa all’edificio traballante – o che essi credevano fosse più traballante di quel che in realtà non fosse – della chiesa di Roma. Certo la cultura cattolica, che aveva dato ancora ben visibili bagliori nell’età della Restaurazione con uomini come Rosmini, Gioberti, Manzoni, appariva ormai esaurita in un’angusta, se pur polemicamente focosa e faziosa, ripetizione del passato, in una difesa che per essere rigida non era meno pavida contro le aberrazioni del secolo, di cui il Sillabo di Pio IX (1864), summula dell’oscurantismo che non si può leggere senza raccapriccio, era stato la più cruda espressione. Aveva fatto di tutto per dar ragione a coloro che la consideravano ormai al di fuori della storia: che era, in un’età di storicismo trionfante, giudizio inesorabile di condanna. Dopo il breve soprassalto del neo-guelfismo, il Risorgimento aveva trovato la sua ispirazione ideale, dai liberali ai democratici, dai moderati ai mazziniani, dai vincitori ai vinti, dal partito di governo al partito d’opposizione, nelle varie correnti del pensiero laico dell’Ottocento. Da ul-

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timo, ad aprire una nuova fase del processo storico era apparso il movimento socialista, che si professava apertamente ateo, filosoficamente alleato ora col positivismo, ora col marxismo, ora col darwinismo, ora col materialismo; e, a differenza dei grandi movimenti di pensiero laico del Sette e Ottocento, non se ne stava più racchiuso e raccolto nelle ristrette cerchie degli intellettuali, ma, diffondendosi rapidamente tra le masse, faceva concorrenza alla chiesa sul suo stesso terreno. Il socialismo fu il primo grande movimento popolare non religioso o addirittura spesso provocantemente irreligioso della nostra storia. Dalla Riforma in poi, esplosa la rivoluzione scientifica, era cominciato il divorzio, proclamato, voluto in modo protervo, della chiesa dal pensiero moderno, o dal pensiero tout court. Secondo una filosofia della storia del regresso (contrapposta a quella illuministica del progresso), avendo l’umanità compiuto il primo passo falso, non era più riuscita a ritrovare il giusto sentiero, anzi un passo dopo l’altro si era sempre più allontanata dalla sorgente. La storia degli ultimi quattro secoli era una storia di errori, un precipitar obbligato quindi fatale da un errore all’altro fino al socialismo che tutti li compendiava e li portava alle estreme e non più tollerabili conseguenze, un susseguirsi di concatenati e l’un dall’altro esplicantisi traviamenti (qualcosa di più grave delle «deviazioni» del linguaggio politico di oggi) che non ammettevano altra redenzione che il ritorno puro e semplice alla casa del padre. Ma poiché non vi era alcun segno che la storia tornasse indietro, la chiesa aveva dovuto di tempo in tempo venire a patti, se pure praticamente, e sempre riluttante e quasi trascinata dalla forza delle cose, con gli errori del secolo. Così aveva finito per arrivare sempre in ritardo, quando la dottrina accolta era già tramontante e altra le succedeva, quando nuovi problemi erano sorti e la società in rapida trasformazione veniva esprimendo nuo-

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vi bisogni e richiedeva nuove soluzioni. Non riuscendo a far retrocedere il progresso storico, cercava di arrestarlo con l’illusione di riprendere il timone che le era sfuggito di mano: in realtà la battuta d’arresto serviva soltanto a preparare l’inevitabile adeguamento alla nuova situazione. Nonostante l’insistenza con cui era stato condannato il liberalismo, dalla enciclica Mirari vos (1832) di Gregorio XVI sino alla Quanta cura col connesso Sillabo di Pio IX (1864), e la diffidenza con cui erano stati guardati e tenuti a bada i cattolici liberali, pur tuttavia, tra il ’70 e l’80, all’inizio del pontificato di Leone XIII, la necessità di trovare un accomodamento tra la chiesa e le istituzioni liberali non era più stata messa in discussione da nessuno (i legittimisti erano una frangia che andava scomparendo): ancorché si tuonasse contro il liberalismo, dal punto di vista dei principi, si accettava dell’età liberale il prodotto storico più importante, cioè un certo modo di ordinare la cosa pubblica, di cui alcune libertà civili garantite e vigilate, una ristretta libertà politica, e un parlamento in parte rappresentativo, erano gli elementi caratterizzanti. Ma era stato appena accolto questo tipo di reggimento, che già batteva alle porte la democrazia e con la democrazia il socialismo. Per tener dietro alla continua creazione della storia, i cattolici non retrivi erano costretti a seguire corsi sempre più accelerati. A ogni modo seguivano, non precedevano. Non inventavano: si aggiornavano, o meglio «si ammodernavano», donde il nome di «modernisti», dato più tardi con intento spregiativo ai novatori da coloro cui il mondo moderno era pur sempre ragione di scandalo. Chi legga la Rerum novarum (1891), non isolandola, come di solito vien fatto per scopi apologetici, dalle altre encicliche politiche di Leone XIII, sia da quelle che la precedettero, Quod apostolici muneris contro il socialismo, il comunismo e il nichilismo (1878), Diuturnum sul rap-

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porto tra governanti e governati (1881), Immortale Dei sulla costituzione degli stati (1885), Libertas sulla libertà umana e contro il liberalismo (1888), sia da quella che la seguì, Graves de communi sull’azione popolare cristiana (1901), non può non sottolineare ancora una volta quanto la concezione ecclesiastica della società e della storia, nonostante qualche concessione al pensiero moderno e l’esigenza di non lasciarsi sopraffare dai moti che sconvolgevano la società industriale, fosse antitetica alle concezioni laiche ormai dominanti. Anzitutto non viene abbandonato il principio che il pensiero moderno sia radicalmente e perniciosamente erroneo sin dalle sue origini: Ma il funesto e deplorevole spirito di novità suscitatosi nel secolo decimosesto, prese da prima a sconvolgere la religione, passò poi naturalmente da questa nel campo filosofico, e quindi in tutti gli ordini dello Stato. Da questa sorgente scaturirono le massime delle eccessive libertà moderne immaginate e proclamate in mezzo a grandi rivolgimenti del secolo passato come principii e basi di un nuovo diritto22 .

Contro la concezione antagonistica e dinamica della società viene ribadita la concezione statica, generalmente bene accetta ai difensori della conservazione sociale, che vede nella società un ordine gerarchico fondato sulla diseguaglianza naturale ed ineliminabile, e sulla diversa e insopprimibile funzione delle diverse parti del tutto: dalla Immortale Dei, dove all’invettiva contro coloro che «non smettono di blaterare che tutti gli uomini sono per natura eguali tra loro», segue l’affermazione che «l’ineguaglianza di diritti e di potestà proviene dall’autore medesimo della natura»23 , alla Rerum novarum in cui, bollato «lo sconcio» di chi considera «l’una classe sociale ne22 Immortale Dei, in Le encicliche sociali dei papi da Pio IX a Pio XII, a cura di I. Giordani, Roma 1944, p. 107. 23 Ivi, p. 32.

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mica naturalmente all’altra», si riafferma la vecchia dottrina organica (che è la naturale antitesi di tutte le dottrine conflittualistiche della società), secondo cui «siccome nel corpo umano le varie membra si accordano insieme e formano quell’armonico temperamento che chiamasi simmetria; così volle la natura che nel civile consorzio armonizzassero fra loro quelle due classi, e ne risultasse l’equilibrio»24 , anche se il concetto dell’unità nella varietà viene espresso non tanto con la metafora naturalistica dell’organismo quanto con quella più accattivante dell’armonia, secondo cui lo stato è concepito come «un’armoniosa unità che abbraccia del pari le infime e le alte classi»25 . In una concezione siffatta, al principio del conflitto, motore della storia, viene sostituito il principio dell’ordine, secondo cui, collocato ogni membro del corpo sociale nel posto che gli compete, l’armonizzazione del tutto è conseguita attraverso la coordinazione delle sue parti, eguali e distinte, come avviene nei rapporti tra il potere spirituale e quello temporale, oppure attraverso la subordinazione del membro che occupa il posto più basso al membro che occupa il posto più alto, come accade nel rapporto tra principi e sudditi, onde «sarà d’uopo che i cittadini sieno soggetti ed obbedienti ai principi come a Dio, non tanto per timore delle pene quanto per riverenza della maestà, e non già per motivo di adulazione ma per coscienza di dovere»26 , e nulla vi è di più esecrando che la sedizione, la ribellione, il tumulto; e pure nei rapporti tra ricchi e poveri, alla cui pacifica convivenza debbono mirare «le società artigiane ed operaie, che poste sotto la tutela della Religione abituino tutti i loro soci a tenersi contenti della loro sorte, e sopportar con merito la fatica e a menar sempre quie24

Rerum novarum, ivi, p. 184.

25

Ivi, p.193.

26

Diuturnum, ivi, p. 73.

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ta e tranquilla la vita»27 . Mentre il principio della lotta è attivo quello dell’ordine è passivo: Stabiliscasi dunque in primo luogo questo principio, che si deve sopportare la condizione propria dell’umanità: togliere dal mondo le disparità sociali è cosa impossibile. Lo tentano, è vero, i socialisti, ma ogni tentativo contro la natura delle cose riesce inutile. La più grande varietà esiste nella natura degli uomini: non tutti posseggono lo stesso ingegno, la stessa solerzia; non la sanità, non le forze in pari grado; e da queste inevitabili differenze nasce di necessità la differenza delle condizioni sociali28 .

In una società fondata sul principio dell’ordine, l’accento batte naturalmente non sulla libertà ma sull’autorità. Le libertà vi sono riconosciute, sì, ma temperate, controllate e oculatamente dosate; l’autorità, invece, vi è riconosciuta ed esaltata come il fondamento del viver civile: E poiché non vi è società che si tenga in piedi, se non ci è chi sovrasti agli altri, movendo ognuno con efficacia ed unità di mezzi verso di un fine comune, ne segue che alla convivenza civile è indispensabile l’autorità che la regga; la quale non altrimenti che la società, è da natura, e perciò stesso viene da Dio29 .

Non diversamente dalle teorie realistiche della politica ispirate ad un ideale di conservazione, che nell’ultimo decennio del secolo, come vedremo, tendono a mostrare l’infondatezza e l’ipocrisia del principio della sovranità popolare, le encicliche battono e ribattono il tasto della falsità delle teorie democratiche, fondate sul contrat27

Quod apostolici muneris, ivi, p. 38.

Rerum novarum, in Le encicliche socali dei papi da Pio IX a Pio XII, cit., p. 183. 29 Immortale Dei, ivi, p. 97. 28

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to sociale e sulla conseguente credenza che il potere derivi dal popolo; ma se ne distinguono non confutando la «formula politica» del potere dal popolo con un’osservazione spregiudicata della realtà, come faranno i critici conservatori, ma sostituendola con un’altra formula politica, non meno illusoria e comunque più arcaica, quella del potere da Dio. Quando da una interpretazione benevolmente progressista della Rerum novarum gruppi impazienti di giovani faranno scaturire il movimento della democrazia cristiana, intendendo propriamente per «democrazia» il moto di riscatto dal basso delle plebi, massime delle plebi rurali, una nuova enciclica (la Graves de communi) si affretterà a precisare che, a differenza della democrazia sociale che «da molti è portata a tanta malvagità da non tenere in alcun conto l’ordine soprannaturale cercando esclusivamente i beni corporali e terreni», la democrazia cristiana per ciò stesso che si dice cristiana, deve avere necessariamente per sua base i principii della fede, e provvedere ai vantaggi dei ceti inferiori, ma sempre in modo di curarne il perfezionamento morale, in ordine ai beni eterni per cui sono fatti [...] Perché, sebbene la parola democrazia, chi guardi all’etimologia e all’uso dei filosofi, serva ad indicare una forma di governo popolare, tuttavia nel caso nostro, smesso ogni senso politico, non deve significare se non una benefica azione cristiana a favore del popolo30 .

Rigido custode di un corpo di dottrine elaborate secoli addietro, il pensiero del pontefice si erge a combattere con ferma voce, negli anni della grande trasformazione, i tre errori del secolo, liberalismo, democrazia, socialismo. E offre una non disinteressata protezione ai potenti contro le rivolte dei sudditi, ai ricchi contro le turbolenze dei poveri. Nella enciclica Diuturnum, ancor cal30

Graves de communi, ivi, p. 227.

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da di sdegno per la «nefanda uccisione d’un potentissimo imperatore» (Alessandro II), la chiesa dispensatrice di timor di Dio si presenta come sicuro «presidio» contro la rivoluzione sociale (e così facendo, degrada se stessa a instrumentum regni): Per la qual cosa è da ritenere che ottimamente i Romani Pontefici provvidero ai comuni vantaggi, perché di continuo ebbero cura di abbattere i superbi ed irrequieti spiriti dei Novatori, e spessissimo ammonirono quanto questi sieno pericolosi anche alla civile società [...] Noi stessi abbiamo parecchie volte denunziato quanto gravi pericoli sovrastino e nel tempo stesso abbiamo indicato quale sia la miglior maniera di allontanarli. Ai principi ed agli altri reggitori della pubblica cosa, offrimmo il presidio della religione, ed esortammo i popoli a servirsi abbondantemente della larghezza dei sommi beni somministrati dalla Chiesa31 .

Nella Rerum novarum, che pur ha servito a liberare le forze sotterranee di un cattolicesimo popolare, e talora persino animato da sinceri ideali di palingenesi sociale contro il liberalismo corrotto e corruttore, uno dei capisaldi della dottrina è la difesa della proprietà privata, da cui dipende, e non può non discendere, nonostante l’atteggiamento paternamente benevolo verso il mondo operaio, e gli ammonimenti ai padroni senza scrupoli, che una sola conseguenza: Oggi specialmente in tanto ardore di sfrenate cupidigie, bisogna che le plebi siano tenute a dovere; perché se ad esse giustizia consente di adoperarsi a migliorare le loro sorti, né la giustizia, né il pubblico bene consentono che si rechi danno ad altri nella roba, e sotto colore di non so quale eguaglianza s’invada l’altrui. Certo, la massima parte degli operai vorrebbero migliorare la condizione onestamente, senza far torto a persona; tuttavia ve ne ha non pochi, imbevuti di massime false e smaniosi di novità, che cercano ad ogni costo di eccitare tumulti e so31

Diuturnum, ivi, p. 80.

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spingere gli altri alla violenza. Intervenga dunque l’autorità dello Stato, e posto freno ai sommovitori, preservi i buoni operai dal pericolo della seduzione, i legittimi padroni da quello dello spogliamento32 .

Spentisi gli echi delle scuole rosminiana e giobertiana al sopravvenire dello hegelismo a Napoli e del positivismo, a Napoli come altrove, su per giù negli stessi anni, tra il 1860 e il 1870, i cattolici erano stati tagliati fuori dalle grandi correnti filosofiche e scientifiche della cultura nazionale. Il primo ad esserne convinto fu lo stesso infaticabile Giuseppe Toniolo (1845-1918), tanto infervorato organizzatore e promotore di studi quanto zelantissimo e devotissimo figlio della chiesa. Animato dal proposito di ridare voce ai cattolici nel campo della ricerca scientifica, in particolare delle scienze sociali (egli era professore di economia politica all’Università di Pisa), diede avvio nel 1889 a Padova, due anni prima dell’enciclica Rerum novarum, all’Unione Cattolica per gli studi sociali, fondò nel 1893 insieme con Salvatore Talamo la «Rivista internazionale di scienze sociali», progettò nel 1894 e poi contribuì a costituire la Società cattolica italiana per gli studi scientifici nel 1899, col perseverante proposito di far sì che i cattolici recuperassero il tempo perduto, affrontassero senza complessi d’inferiorità i grandi temi della scienza moderna, gareggiassero nelle università e nei congressi coi più alti rappresentanti della cultura laica, che era nel mondo civile non meno che in Italia la cultura ufficiale, la cultura senz’altri aggettivi, se pur con l’ambizioso (e illusorio) disegno non pur di «assimilare» ma anche di «rigenerare e conquistare il mondo moderno»33 . Così facendo diede ope32

Rerum novarum, ivi, p. 196.

Da una lettera a Luigi Caissotti di Chiusano, in G. Toniolo, Lettere, vol. II, Città del Vaticano 1952, p. 338. 33

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ra al rinnovamento degli scudi scientifici presso i cattolici, convinto com’era in buona fede, ma senza troppe sottigliezze filosofiche, di lavorare per la maggior gloria della chiesa. Non ebbe dubbio sulla possibilità di conciliare la scienza con la fede per la semplicissima (ma anche fragilissima) ragione che dava per ammesso che la scienza dovesse essere subordinata alla fede. Nella presentazione della «Rivista internazionale di scienze sociali» si rivolse a quegli uomini «profondamente cattolici, i quali facciano professione di un’intera subordinazione della scienza alla fede e di docile e incondizionata obbedienza al magistero o all’autorità della Chiesa». Apprezzava negli uomini di scienza più la prudenza che la spregiudicatezza. Soleva affermare che «la Chiesa non ha bisogno di riformarsi di fronte alla società moderna», ma piuttosto che la società moderna «abbia bisogno di accettare la Chiesa e le sue direzioni, per riformare se stessa»34 . Sin dalla sua prolusione pisana (1873), egli andava cercando L’elemento etico quale fattore intrinseco delle leggi economiche, cioè cercava una cosa che non avrebbe mai trovato perché non c’era e se ci fosse stata avrebbe reso impossibile la scienza economica. Pareto, malalingua, covava in Toniolo «una miniera di metafisicherie» e confidava all’amico Pantaleoni la speranza che a Pisa un valente matematico insegnasse agli studenti di matematica l’economia «che ivi è assassinata dal buon Toniolo»35 . Che con queste idee non potesse andare tanto lontano, può essere provato dal fatto che a un registratore attentissimo e sagace di ogni stormir di fronda nella cultura italiana come Benedetto Croce l’opera toniolesca passò completamente inosservata. In realtà Toniolo più che la mente dello scienziato ebbe l’animo e la vocazione Nella stessa lettera, p. 338. V. Pareto, Lettere a Maffeo Pantaloni, vol. III, Roma 1962, pp. 75 e 378. 34 35

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del «riformatore sociale»36 , anche se con la sua nostalgia del medioevo, la sua concezione gerarchica della società, la riabilitazione delle corporazioni, il concepir la democrazia come governo non del popolo ma per il popolo – che era poi la quintessenza del tradizionale paternalismo ecclesiastico e non aveva neppure l’audacia della novità – sia da collocare nella galleria dei profeti del passato. Il moto di ammodernamento si svolse rapidamente sul finire del secolo, in due campi: nel campo degli studi e dell’azione politico-sociale, onde nacque il movimento della democrazia cristiana, e nel campo degli studi religiosi, ove si sviluppò il movimento del modernismo strettamente inteso. Per quanto spesso confusi e congiunti sotto la stessa etichetta generica di modernismo come due aspetti diversi di un unico moto, democrazia cristiana e modernismo religioso furono per ispirazione e per contenuto e per esito, e per gli amici e per gli avversari che ebbero, diversissimi: a cominciare dallo stesso concetto di «moderno» che per gli uni si riferiva principalmente allo sviluppo della società industriale e borghese, per gli altri alla rivoluzione scientifica che, penetrando anche ne- gli studi storici, non poteva non scuotere la cittadella degli studi teologici. Diversissime, del resto, quasi antitetiche le personalità dei due protagonisti, Romolo Murri (1870-1944) ed Ernesto Buonaiuti (1881-1946), nonostante una certa comune irrequietezza, un forte egocentrismo (Murri parla spesso in terza persona, come Giulio Cesare, e dice «murrismo», e Buonaiuti allude spesso a un messaggio da annunciare, a un compito da adempiere), un senso acuto, quasi morboso, della loro vocazione straordinaria, con il conseguente complesso del perseguitato che li 36 Così F. Vito, Giuseppe Tomolo e la cultura economica dei cattolici italiani, in AA. VV., Aspetti della cultura cattolica nell’età di Leone XIII, Roma 1961, p. 15.

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rende poco disponibili alla critica di se stessi e ben più inclini all’autocompiacimento, ad attribuire il fallimento della loro missione alla macchinazione degli avversari, alla fragilità dei consorti, al perverso destino. Ma l’irrequietezza di Murri è quella dell’agitatore di idee e di uomini, di chi cerca proseliti scrivendo, predicando, organizzando, componendo e ricomponendo senza mai scoraggiarsi le fila del movimento, e pur di restare in scena si adatta a cambiar vesti e figura. L’irrequietezza di Buonaiuti è tutta interiore, una continua lotta con se stesso per raggiungere la chiarezza dei propri scopi, la purezza della propria fede, la certezza dei propositi, la limpidezza delle intenzioni, una lunga e sofferta ricerca della verità. Mentre Buonaiuti è coerente sino al sacrificio, sino a rinunciare per non tradire la propria fede alle due cose che gli sono più care, il sacerdozio e la cattedra universitaria, inflessibile con tutti coloro che cercano di avvilire le coscienze assicurando pane e pace in cambio di mortificazioni spirituali (quante volte egli si trovò nella situazione di ripetere il luterano «Io sto qui e non posso altrimenti»), Murri è prima di tutto un uomo di azione che vuole raggiungere lo scopo, che pur di non retrocedere, di restare sempre sulla linea del fuoco, muta posizione e bersaglio. La vita di Buonaiuti è segnata da crisi di approfondimento di una vocazione unitaria. Egli è un viandante che segue la sua strada giorno per giorno combattendo principalmente contro se stesso; sospeso a divinis nel 1914, scomunicato nel 1921, ad ogni scontro con le autorità ecclesiastiche protesta con fermezza ma resiste alla tentazione di abbandonare la casa che l’ha ospitato sin da quando era adolescente (entrò in seminario nel 1895); non si sottomette e non si ribella; ma non si dà per vinto sino al momento in cui il contrasto tra il dovere di obbedienza e il dovere di coscienza diventa incolmabile: in nessun momento della sua tormentatissima vita appare la

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rottura della conversione o lo strappo dell’abiura; il suo itinerario di «pellegrino di Roma», com’egli stesso amò chiamarsi, è irto di ostacoli ma rettilineo. Nella vita di Murri ci sono alzate e cadute: dopo essere stato l’animatore e l’organizzatore dei giovani cattolici sinceramente preoccupati di dare una soluzione non conservatrice alla questione sociale negli anni a cavallo del secolo (e sono i suoi anni migliori), sospeso a divinis nel 1907, scomunicato nel 1909, quando fu eletto deputato, ridottosi a vita laicale, svolge un’intensa attività parlamentare occupandosi principalmente di politica ecclesiastica (si veda il volume Della religione, della chiesa e dello stato, Milano 1910); all’avvento del fascismo scrive un libro di apologia dello stato, d’ispirazione gentiliana (La conquista ideale dello stato, Milano 1923) con una prefazione di Dino Grandi che lo chiama «uno dei maestri della nostra generazione», e «apostolo della vigilia», tanto da suscitare la sdegnata reazione di Gobetti («Romolo Murri, il più bell’esempio di profeta fallito, cervello dipendente, in cui l’eredità del prete s’accoppia con la pigrizia mentale dell’attualismo dogmatico»)37 ; persevera nell’adesione sterile al regime con un libro scritto a freddo, nel 1937 (L’idea universale di Roma, Milano 1937); per tornare infine in seno alla chiesa poco prima della morte. Ad ogni svolta Buonaiuti matura la propria scelta iniziale, allarga i propri orizzonti culturali, arricchisce la propria vita spirituale tanto da considerare errore giovanile le veementi Lettere di un prete modernista (1908), scritte dopo la condanna del modernismo pronunciata dall’enciclica Pascendi (1907); Murri brucia tutte le sue energie di apostolo e di formatore di coscienze nel decennio 1597-1907 (sono gli anni della rivista «Cultura sociale» e poi del giornale «Il Domani d’Italia»); i suoi scritti più vivaci e storicamente più significativi so37

P. Gobetti, Scritti politici, Torino 1960, p. 963.

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no da cercarsi nei quattro volumi di Battaglie d’oggi (Roma 1903-1904). La vocazione di Buonaiuti è essenzialmente religiosa, quella di Murri politica. Buonaiuti rifiutò sempre di buttarsi nel mare agitato della politica per cui aveva la diffidenza istintiva del moralista. Murri, quando fu costretto a scegliere tra l’obbedienza alla chiesa e la prosecuzione della sua attività politica, scelse senza esitazione la seconda. Mentre Murri si consumò nel tentativo di suscitare un movimento politico d’ispirazione cristiana, Buonaiuti era profondamente convinto che il cristiano, proprio in quanto cristiano, non dovesse partecipare alla vita pubblica. La scelta dolorosa della sua vita non fu, come per Murri, tra vita religiosa e attività politica, ma tra la religione istituzionale e la religione della coscienza. Quando rifiutò il giuramento al regime fascista e dovette abbandonare la cattedra universitaria, motivò il suo gesto con un richiamo alle «precise prescrizioni evangeliche (Matteo 5, 34)» alle quali riteneva doversi attenere38 . Il primo scritto di Buonaiuti è una lettera aperta (apparsa con lo pseudonimo di Novissimus) alla rivista di Murri «Cultura sociale» (1901), che mette in dubbio la possibilità e la convenienza di mescolare il cristianesimo con un qualsiasi movimento politico. Buonaiuti non mostrò mai alcuna simpatia per il movimento murriano della democrazia cristiana tanto da espungerlo, come cor38 E. Buonaiuti, Pellegrino di Roma. La generazione dell’esodo, Bari 1964, p. 199.

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po estraneo e non gradito, dal modernismo39 ; né per il partito popolare. Il cristianesimo è spirito e vita: non è un codice, non è un formulario economico, non è un’etichetta che possa offrirsi alle piccole invidie e alle banali competizioni degli uomini pubblici. Romolo Murri aveva creato un partito democratico-cristiano, egli stesso vittima di un errore invalso ormai da decenni nella mentalità e nella pratica così del cattolicesimo ufficiale come delle correnti politiche nate dalla Rivoluzione francese40 .

Rispetto al partito popolare ebbe più volte a esprimere il suo pieno dissenso, ancora una volta per la «contaminazione» che da esso vedeva perpetrata tra politica e religione, e anche per motivi più strettamente politici: Il Partito Popolare spezzò le reni, si può dire, a quel partito liberale che aveva fino allora retro l’Italia: gli sottrasse il più e il meglio delle sue forze elettorali. E d’altro canto non fu in grado di conservare nelle proprie mani un controllo politico che chiudesse il passo a qualsiasi sopravvenire di nuove forze politiche nazionali41 .

In un articolo di critica dell’appena sorto partito riassume molto bene il suo pensiero circa i rapporti tra religione e politica: 39 «Di proposito, noi eliminiamo nel passare in rivista le espressioni specifiche del modernismo, ciò che viene chiamata la «democrazia cristiana». Essa non si prospettava alcuna genuina questione religiosa e non implicava nessun atteggiamento che fosse realmente in opposizione con lo spirito della ortodossia cattolica» (E. Buonaiuti, Il modernismo cattolico, Modena 1943, pp. 133-34). 40 E. Buonaiuti, Pellegrino di Roma, cit., p. 46. 41 20 Ivi, p. 166.

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Don Sturzo e i suoi amici, tutti presi dal miraggio di strepitosi successi elettorali, dimenticano che il compito urgente oggi, per quanti credono che i valori dello spirito abbiano una funzione nel mondo, è quello di innestare un’anima idealistica e cristiana sulle correnti del socialismo contemporaneo. Ma simile compito non si svolge davvero facendo della politica, che è per definizione impoverimento di ideali e attenuazione di programmi etici. La causa cristiana non chiede oggi deputati o ministri, sia pure in sottana: chiede uomini che vivendo nel mondo, e, affascinati dall’ideale evangelico, rifuggano, come da un contagio, da quel complesso di accomodamenti e di opportunismi, in cui si risolve fatalmente il processo della vita politica42 .

D’altra parte Murri non appartenne al movimento religioso che ebbe nome di modernismo. Poté essere chiamato e considerarsi lui stesso modernista, ma di una specie «politica» del modernismo, che nell’aggettivo contraddiceva il sostantivo, giacché con modernismo, dopo la condanna, si designò ogni forma di resistenza o di disobbedienza alla chiesa che provenisse dal suo interno. Mentre Buonaiuti, dopo la Pascendi, inizia la lunga battaglia di critica e di revisione critica della chiesa ufficiale, Murri scrive un libro, La filosofia nuova e l’Enciclica contro il modernismo (1908), dedicato al padre Ludovico Billot e ad Antonio Labriola «miei maestri», per dimostrare che egli è pienamente d’accordo con l’enciclica nella condanna della filosofia moderna e nell’accettare contro ogni forma di idealismo monistico il dualismo realistico della tradizione. Riflettendo sulla crisi modernistica, molti anni dopo (1920), cercherà di spiegare il silenzio caduto sulle vittime di esso affermando che si era trattato di un piccolo numero di crisi individuali dovute a un errore giovanile, a mancanza di maturità, ripetendo senza volerlo il severo giudizio di Croce, il quale ave42 E. Buonaiuti, Il partito popolare, in «II Resto del Carlino», 19 giugno 1919 che cito da V. Vinay, Ernesto Buonaiuti e l’Italia religiosa del tuo tempo, Torre Pellice 1956, p. 77.

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va giudicato i «neo-cattolici» come «anime incerte, che si travagliano in un dissidio nel quale non possono restare e dovranno, di necessità, o andare innanzi o tornare indietro»43 . Giudicò che il modernismo all’interno della chiesa era ben morto e aveva meritato di morire, perché aveva creduto ingenuamente di far dipendere il rinnovamento spirituale dal rinnovamento di un’istituzione. Al contrario il modernismo perenne è quello che fa «della coscienza religiosa la dominatrice vera delle formule istituzionali e gerarchiche»: Il punto fondamentale del conflitto fra ortodossia e modernismo sta tutto qui, in questo imporsi della Chiesa alla coscienza, o della coscienza alla Chiesa; della storia fatta, fissata, definita alla creazione storica assidua; del papa, in nome di un Dio esterno e delegante, al Dio interno, non delegabile, che è nello spirito e nella coscienza religiosa44 .

Dove è chiaro che, ridotto a una formula così semplificata, il modernismo finiva per confondersi con qualsiasi moto di protesta e di vivificazione religiosa e non c’era più ragione di chiamarlo con un nome che non gli apparteneva. Il modernismo storico era stato quello «cattolico» che Murri dichiarava defunto. Nel momento stesso in cui Murri si metteva tra i modernisti ne stemperava siffattamente il significato da renderlo irriconoscibile. Accadde lo stesso di un’altra categoria storica che viene usata a sproposito, «revisionismo»: quando qualcuno, come per esempio il Croce, a furia di «rivedere» tutte le tesi del marxismo va a finire fuori del marxismo, non è più un revisionista. 43 B. Croce, Insegnamenti cattolici di un non cattolico, in «Giornale d’Italia», 13 ottobre 1907, in Pagine sparse, vol. i, Napoli 1943, p. 291. 44 R. Murri, Dalla Democrazia Cristiana al Partito Popolare Italiano, Firenze 1920, p. 45.

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Dal suo punto di partenza religioso Buonaiuti non spinse mai i propri ideali politici al di là di un vago socialismo evangelico che avrebbe dovuto permeare ed elevare moralmente il socialismo storico, non fargli concorrenza sullo stesso terreno. Per il primato che egli assegnava alla sfera religiosa nella vita degli individui e dei popoli, il cristianesimo poteva essere un fermento della società, non mai il pretesto per delineare un programma politico e tanto meno per dar vita a un partito. Per quanto il socialismo cristiano degli anni giovanili, specie quale appare nelle Lettere, ora tirate, che egli più tardi ripudiò, possa essere interpretato come una non molto originale riduzione del cristianesimo a messaggio mondano di rinnovamento e di emancipazione sociale, l’afflato sociale della sua religiosità deve essere piuttosto inteso come l’espressione di una ferma convinzione che l’unica forza capace di trasformare veramente il mondo, e in quanto tale rivoluzionaria, fosse la religione, interpretata come speranza escatologica, come fiducia nel destino ultramondano dell’umanità, e come sfiducia radicale nella capacità delle forze politiche di rinnovare da sole la società. Quando definisce polemicamente il modernismo avverso la contraffazione fattane dalla Pascendi, come «uno sforzo sincero e vigoroso, anche se ingenuo e sognatore di rinnovare in pieno secolo ventesimo il miraggio delle primitive speranze cristiane»45 , s’intuisce che messaggio religioso e messaggio sociale fanno tutt’uno e che il messaggio sociale è parte integrante del messaggio religioso, e non viceversa. In occasione della rivoluzione russa che giudica «un avvenimento che nei secoli avvenire apparirà come il fenomeno più grandioso della storia sociale contemporanea», ribadisce il principio: 45

E. Buonaiuti, Il modernismo cattolico, cit., p. 17.

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E forse anche oggi la vera rivoluzione sarà compiuta nel mondo, quando gli uomini cominceranno di nuovo ad accorgersi che secondo la frase di Paolo, il Regno di Dio non è in pingue benessere materiale e in migliori condizioni economiche, è bensì nella pace, nella gioia, nella giustizia e nell’amore46 .

Fra tutti i protagonisti della nostra storia più recente, Buonaiuti ammira sinceramente soltanto Giuseppe Mazzini: Mi appariva sempre più chiaro [intorno al 1924] che solo Giuseppe Mazzini aveva visto lucidamente nei compiti e nelle possibilità di un’Italia risorta a nazione [...] Mazzini, unico e solo fra i maestri e i corifei nel nostro Risorgimento nazionale, aveva visto e aveva proclamato che solo un nuovo senso sacrale dell’esistenza, una solenne riaffermazione religiosa di Dio e della sua assistenza provvidenziale in mezzo agli uomini e nel cuore della storia avrebbero potuto conferire alla nazionalità italiana, qualunque ne avesse potuto essere la configurazione territoriale, una salda base e una struttura adamantina47 .

Non manca il panegirico di Mazzini anche nel secondo Murri48 , quello democratico e non più cristiano, il quale rivendica postumamente ai democratici cristiani l’onore di aver ripreso contro il socialismo laico la tradizione religiosa della democrazia mazziniana. Ma a parte la considerazione che il richiamo a Mazzini è quasi obbligato in ogni espressione di religiosità antiecclesiale in Italia (si pensi in tempi più recenti al posto che occupa il pensiero mazziniano tra le fonti del pensiero di Aldo Capitini), il movimento di Murri non ha niente da spartire coi 46 Id., Nuovi cieli e nuova terra, in «Il Tempo», 15 settembre 1920, che cito da Vinay, Ernesto Buonaiuti, cit., p. 78. 47 E. Buonaiuti, Pellegrino di Roma, cit., p. 215. 48 R. Murri, Guerra e religione. I. Il sangue e l’altare, Roma 1916, p. 37. Cfr. anche Dalla Democrazia Cristiana al Partito Popolare Italiano, cit., pp. 68 e 79.

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movimenti e coi partiti degli ultimi mazziniani: la Roma che Murri invoca solennemente e a cui dichiara di essere fedele e sottomesso difensore, non è la terza Roma di Mazzini, ma la seconda, quella del papa49 . Nel momento in cui dà vita al movimento democratico cristiano, l’unico maestro del pensiero laico cui dice di essere debitore è Antonio Labriola del quale era stato discepolo all’università di Roma. Ma in filosofia continua ad essere imperturbabilmente, secondo quel che aveva appreso in seminario, tomista. Mentre Buonaiuti rimane profondamente scosso dalla filosofia del secolo, in primo luogo dalla filosofia dell’azione di Blondel, Murri non dimostra alcuna curiosità filosofica. Nessuno dei due ha un vero e proprio interesse per la filosofia (i giudizi di Buonaiuti sull’idealismo italiano e sull’aborrito hegelismo sono passionali e sbrigativi). Ma la ricerca del primo è un continuo andare al di là della filosofia; il secondo resta tranquillamente al di qua, pago degli insegnamenti tradizionali della chiesa. Né l’uno né l’altro ha il culto delle idee chiare e distinte: se l’avessero avuto, sarebbero stati costretti ad ammettere che le loro imprese, la conciliazione di una chiesa dommatica con la critica storica del domma, o la subordinazione dello sviluppo in senso democratico del movimento cattolico alle direttive di una chiesa autocratica, erano contraddittorie. Il programma politico di Murri è la continuazione, mutate le circostanze storiche, del neo-guelfismo, che fu prima del 1848, a suo dire, «un movimento meraviglioso», scavalcato dal partito liberale, che dopo aver fatto l’Italia era degenerato in una consorteria di rapinatori del pubblico denaro. Siccome la riscossa propugnata dal partito socialista avrebbe offerto un rimedio peggiore del male, la sola salvezza sarebbe venuta da un movi49 Id., Con Roma, per Roma, sempre (1901), in Battaglie d’oggi, vol. I, Politica di parte cattolica (1898-1901), Roma 1903.

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mento popolare sotto la guida della chiesa. Politica guelfa significa per Murri: un’intima unione fra la vita sociale e la religione, fra gl’istituti popolari di vita economica e civile e la Chiesa animatrice e regolatrice potente50 .

Sconfitto nella battaglia per l’unità del partito liberale, il partito guelfo dovrà prendersi la rivincita nella battaglia per il rinnovamento sociale del paese in un momento in cui il partito liberale si trova di fronte il primo avversario temibile nel pur neonato ma già forte ed esigente partito socialista. Sinceramente populista, Murri ritiene che l’inserimento dei cattolici nella vita politica italiana debba avvenire con il consenso, anzi con l’appoggio del papa e della gerarchia, attraverso il risveglio politico delle masse popolari in particolare di quelle contadine non ancora succubi, come quelle delle città, della propaganda socialista, in opposizione all’«egemonia di una classe egoista e tenace»51 . Questo programma politico Murri svolse in un’opera di educazione, ad un tempo del clero male indottrinato e del popolo ignorante, per soddisfare l’esigenza di «preparazione nell’astensione» in attesa che venga a cadere il «non expedit», in un’attività di promovimento e di organizzazione di nuovi strumenti di lotta economica e culturale nelle campagne, in un vero e proprio tentativo di mobilitazione di masse sino allora inerti od escluse. È un programma genuinamente, non tendenziosamente, come quello di Toniolo, democratico e antimoderato (e saranno infatti i moderati la soffocarlo)52 , cui chiama a raccolId., Propositi di parte cattolica (1899), ivi, p. 194. Ivi, p. 173. 52 Per una critica della politica di alleanza dei clericali coi moderati, sostenuta da Pio X, cfr. soprattutto, del Murri, 50

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ta, esortandolo a uscire dal chiuso delle parrocchie, a farsi una cultura moderna, a non vergognarsi di fare politica, il giovane clero, specie quello delle campagne. In luogo del liberalismo decadente e in opposizione al socialismo, il quale mira a raccoglierne l’eredità, risorge più vivace col risveglio cattolico lo spirito vero delle libertà popolari, fondato sul diritto sociale cristiano, e posto a base del nostro programma democratico, insieme col principio del riordinamento sociale per professioni e della partecipazione effettiva del popolo organizzato alla vita pubblica53 .

Non è tanto ingenuo da cedere che questo programma collimi perfettamente con quello ben più moderato del documento pontificio, accolto ufficialmente dall’Opera dei Congressi. Ma ha cauta fiducia nella bontà delle sue idee e nella forza irresistibile del movimento che non si arrende neppure di fronte alla sconfessione del 1901, in cui viene ribadito il principio che non è lecito «dare un senso politico alla democrazia cristiana», perché «i precetti della natura e del Vangelo [...] è necessario che non dipendano da alcuna forma di governo civile, ma possono convenire con tutti, sempre inteso che non ripugnino all’onestà e alla giustizia»54 ; e si sforza di dimostrare che l’enciclica «accetta e benedice e consacra il movimento al quale noi demmo tanta parte di noi»55 . Anche di fronte alla condanna del movimento avvenuta con lo scioglimento dell’Opera dei Congressi nel momento in

L’anticlericalismo. Origini, natura, metallo e scopi pratici, Roma 1912. 53 Id., Propositi di parte cattolica, cit., p. 173. 54 Graves de communi, in Le encicliche, cit., p. 227. 55 Da una conferenza detta il giorno seguente la pubblicazione dell’enciclica, ora in Battaglie d’oggi, vol. IV, Democrazia cristiana italiana (1901-1904), Roma 1904, pp. 1-17.

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cui si poteva paventare che il murrismo l’avesse conquistato (1904), riprende e riannoda le fila delle organizzazioni locali avviate ormai verso una completa autonomia dalla gerarchia, rinuncia al nome di democrazia cristiana e nel novembre del 1905 dà opera alla costituzione della Lega democratica nazionale, che, affermata la distinzione fra le due società religiosa e civile «e la loro reciproca autonomia», si propone di «raccogliere in un fascio forze giovanili e proletarie coscienti e mature, allo scopo di agire concordemente... per l’orientamento in senso democratico dell’attività pubblica dei cattolici»56 . Molti anni più tardi commenterà: Nell’urto delle volontà erano due cicli storici che si urtavano. Nell’animo di Pio X e dei più zelanti interpreti dei suoi comandi si raccoglieva lo spirito della Controriforma, come per una sfida suprema della storia; dall’altra pane, si addensava, sino ad esplodere, la visione di nuovi compiti e di nuove opportunità offerte al messaggio sociale cristiano e di una ardente invocazione di esso che saliva dal più intimo fondo dei più vasti strati della società contemporanea57 .

La sfida non fu accolta. Ancora una volta era destinata a trionfare se non proprio la Controriforma la chiesa dei potenti contro la chiesa degli umili, attraverso l’alleanza dei clerico-moderati con la classe dirigente liberale, favorita da Pio X. La Lega si spense a poco a poco e, mutato il proprio nome in quello di Lega democratica cristiana italiana nel novembre 1914, durò sino allo scoppio della guerra «ma senza una grande risonanza – come lo stesso 56 Dall’art. 2 dello Statuto della Lega, che cito da G. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia, Bari 1965, p. 484. 57 R. Murri, Democrazia cristiana, opera postuma pubblicata a cura del figlio Stelvio, Milano 1945, pp. 111-12.

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Murri riconobbe – sulle grigie correnti politiche di quel tempo»58 . Buonaiuti paragonò una volta il modernismo a uno di quei torrenti che scompaiono per un certo tratto nelle viscere del monte per riapparire più impetuosi a valle59 . A chi guardi al travaglio del mondo cattolico dopo il Concilio vaticano secondo non può sfuggire, checché si dica della differenza tra la crisi attuale e quella modernistica, la forza suggestiva dell’immagine. Lo stesso si dovrebbe dire, anzi a maggior ragione, della democrazia cristiana di Murri, che scomparve come piccolo torrente per ricomparire, la prima volta, come uno dei maggiori affluenti del gran fiume, dopo la prima guerra mondiale, in un secondo tempo, come lo stesso grande fiume, dopo la seconda. A questo punto della storia, la rapida fine dei due movimenti innovatori in seno al cattolicesimo militante serve a mostrare quanto sia stato difficile il processo di trasformazione della società italiana durante le due crisi classiche attraverso cui è passato ogni stato moderno: la crisi di secolarizzazione durante la quale vengono emergendo gli ideali, i modi di vita, gli atteggiamenti culturali la cui diffusione caratterizza la transizione dalla società preindustriale a quella industriale, e la crisi di partecipazione mediante la quale si viene allargando la base di consenso dello stato rappresentativo per opera delle classi sociali che entrano nel processo produttivo della grande industria. In Italia la crisi di secolarizzazione dovette fare i conti con la forza di una chiesa che deteneva il monopolio della formazione ideologica delle classi popolari; la crisi di partecipazione dovette superare l’astensionismo cattolico provocato dalla «questione romana». Nella formazione degli stati moderni la prima crisi è sta58 59

Ivi, p. 122. E. Buonaiuti, Il modernismo cattolico, cit., p. 243.

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ta risolta di solito prima della seconda; in Italia è accaduto il contrario, con la conseguenza che l’allargamento del suffragio ha avuto per effetto la costituzione non soltanto di un grande partito socialista, ma anche di un grande partito cattolico. Negli anni di cui stiamo parlando, la chiesa tiene ancora tanto saldo il proprio potere in pugno da ostacolare la soluzione radicale sia del processo di secolarizzazione sia di quello di partecipazione. La crisi di partecipazione sarà risolta quando la chiesa riterrà che questa soluzione non vada più a scapito della sua influenza spirituale, attraverso un partito che, diversamente da quello di Murri, anche per il tempo in cui sorse, sarebbe stato più osservante della disciplina e avrebbe avuto minori velleità riformatrici. Nell’ambito dei partiti di governo della fine di secolo, il murrismo fu un movimento progressista; il partito popolare di Sturzo sarà, in tempi di grandi rivolgimenti sociali, un movimento destinato a porsi al centro dello schieramento politico. e come tale chiamato non soltanto a proteggere i cattolici contro lo stato laico, ma anche a difendere, attraverso la coalizione delle forze cattoliche organizzate, l’ordine sociale minacciato dalla rivoluzione.

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3 LE FORZE DELL’IRRAZIONALE

Nel dominio delle idee, più specificamente della filosofia, il primo decennio del Novecento fu un’età di restaurazione (che altri avrebbe chiamato, per nobilitarla, «risveglio»). Il maggior protagonista di questa restaurazione, Benedetto Croce, ne parlò con evidente compiacimento venticinque anni dopo in questo modo: Per effetto di questa reazione, l’orizzonte spirituale ampliò la sua distesa, grandi idee offuscate tornarono a rifulgere, fecondi metodi logici furono ritentati, rinacquero coraggio e ardire per le speculazioni, si riaprirono i libri dei grandi filosofi antichi e moderni, anche di quelli un tempo più abominati, come il Fichte e lo Hegel. La filosofia non ebbe più bisogno di scusarsi o di celarsi; il suo nome non solo non incontrò il sorriso e lo scherno per lungo tempo consueti, ma fu pronunziato con onore; nome e cosa diventarono di moda. A chi ricordava l’afa e l’oppressura dell’età positivistica pareva che si fosse usciti all’aria aperta e vivida60 .

Tenuto a bada il materialismo storico con la distinzione tra il suo valore scientifico che poteva essere accolto anche da un avversario del socialismo, e il suo valore pratico che Durkheim avrebbe ridotto a un «grido di dolore» (e un grido di dolore non è una proposizione filosofica), il nemico reale, anche se filosoficamente più grossolano, in una situazione non rivoluzionaria, anzi particolarmente aperta, dopo il successo elettorale socialista nelle elezioni del 1900, e il primo ministero Zanardelli-Giolitti del 1901, a esperimenti riformisti60 B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari 1928, pp. 248-49.

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ci, era indubbiamente il positivismo. Questa battaglia fu comune alle più diverse correnti spirituali che per il bene e per il male contrassegnarono la cultura dell’epoca. Ma non si può dimenticare che alla critica del positivismo fu sempre associata la critica del socialismo, della democrazia, di ogni specie di radicalismo politico, sia da parte della cultura nobile sia da parte di quella ignobile. Non è un caso che fossero antipositivisti, e insieme antidemocratici, tanto Croce quanto Papini, tanto Pareto quanto Corradini. S’intende, non si può fare di ogni erba fascio. Come nell’antipositivismo occorre distinguere la critica del determinismo meccanico e del fatalismo storico dall’esaltazione della libertà exlege del solipsista, la critica della ragione astratta dal tripudio della non ragione e dalla libidine dello sragionare, la scoperta dell’irrazionale dall’irrazionalismo; così nella critica della democrazia occorre non confondere l’accorata difesa del vecchio ordine con l’apologia del disordine, la sollecitudine per l’individuo che minaccia di perdersi nella nascente società di massa con la glorificazione del superuomo, la diffidenza per la nuova morale del gregge con l’accettazione della morale dei padroni, la paura della plebe con l’invocazione del despota, la teoria della classe politica o delle élites con l’esaltazione delle aristocrazie (e guerriere per giunta), la difesa di una civiltà che si teme stia per scomparire con la volontà di una nuova barbarie. Peraltro, fatte queste doverose distinzioni, bisogna riconoscere che la cultura italiana all’alba del secolo rappresentò una concorde e talvolta violenta reazione non solo a una mediocre filosofia, ma, quel che contò veramente per lo sviluppo civile del nostro paese, alla nuova consapevolezza che attraverso questa filosofia si andava formando del rinnovamento degli strumenti culturali necessari a un paese che faticosamente stava esperimentando, come si direbbe oggi, il suo primo processo di «modernizzazione». Non era la prima volta che in Europa, e

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anche in Italia, l’enorme sforzo intellettuale necessario al passaggio da una cultura di tipo letterario o sacerdotale a una cultura scientifica e tecnica era destinato a suscitare una risposta di tipo spiritualistico, un ritorno all’interiorità, un richiamo alle profondità dell’anima contro la presunzione dell’intelletto. In una lettera del 17 maggio 1897 all’amico Maffeo Pantaleoni, Pareto scriveva: ... la logica assoluta, nelle cose umane, ha poca parte. Colla logica assoluta ha egualmente torto colui che nega il teorema di Pitagora e colui che nega il più astruso teorema di matematica. Praticamente faremo tra quelle persone grande differenza. In realtà la mente umana è tale che logico assoluto non è nessuno. Né tu né io lo siamo. Anzi, sia detto fra parentesi, il principio della mia sociologia sta appunto nel separare le azioni logiche dalle non logiche e nel fare vedere che per il più degli uomini la seconda categoria è di gran lunga maggiore della prima61 .

Pubblicato nel 1896 il Cours d’économie politique, l’ingegnere Vilfredo Pareto (1848-1923), professore d’economia politica a Losanna dal 1893, aveva cominciato a occuparsi avidamente di sociologia. Buttatosi a leggere tutti i libri che gli capitavano tra le mani, si era convinto che la sociologia non era ancora diventata una scienza perché i sociologi, anche i sedicenti positivisti, non si erano liberati dalla vecchia idea metafisica che esistesse un ordine razionale nell’universo, e la sociologia, non diversamente dalla filosofia della storia, culminata con Hegel, avesse il nobile compito di descrivere e di cercare di spiegare lo sviluppo e il sistema razionale della società umana partendo dall’ipotesi che gli uomini sono esseri razionali anche se non lo sanno. E invece, per Pareto, gli uomini credevano di essere razionali, ma non lo erano. 61 V. Pareto, Lettere a Maffeo Pantaloni, a cura di G. De Rosa, vol. II, Roma 1960, p. 73. Corsivo mio.

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La razionalità era una «vernice» (una delle sue metafore preferite) che copre un insieme complesso e convulso di sentimenti, passioni, istinti, impulsi, che determinano l’azione. Una vera e propria scienza sociale, come teoria logico-sperimentale, cioè fondata su dati empirici e guidata dalla ragione, sarebbe stata possibile solo allorquando si fosse cominciato a scavare a fondo senza pregiudizi e falsi pudori nel mondo dell’irrazionale e, per continuare la metafora paretiana, a scostare l’intonaco dello pseudorazionale. La distinzione tra azioni logiche e azioni non logiche e la convinzione che le seconde fossero non solo preponderanti ma decisive per comprendere la storia furono il punto di partenza di lunghe riflessioni, sempre più articolate e documentate, sulla società, che sfociarono, vent’anni dopo la lettera su ricordata, nelle duemila pagine del Trattato di sociologia generale (1916). Nel quale, com’è noto, domina la distinzione tra alcuni dati irriducibili della natura umana istintiva, i residui, e gli argomenti, gli pseudoragionamenti, le giustificazioni più o meno razionali, con cui gli uomini tendono a razionalizzare i loro comportamenti, le derivazioni, e si cerca di ricostruire la vita della società globale come sistema in equilibrio meccanico che si rompe e continuamente si ricompone, isolando gli elementi primitivi che di volta in volta prevalgono. Nell’aver individuato nelle derivazioni, cioè nella copertura razionale degli istinti, il guscio che aveva impedito di giungere al nocciolo della comprensione della storia, Pareto aveva bene appreso la lezione di Marx (di cui del resto riconosce apertis verbis l’ispirazione): anche se non se ne era reso conto, la sua grande dicotomia, residui-derivazioni, era una riformulazione in chiave psicologica della grande dicotomia marxiana, struttura-sovrastruttura, e aveva la stessa funzione metodologica, che era quella di mettere sui piedi quel che per la sopravalutazione del momento ideale del

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processo storico rispetto al momento materiale era stato messo sino a Marx sulla testa. Anche se la correzione che egli aveva introdotto in quella lezione lo farà apparire contemporaneo di Freud assai più che non erede di Marx. Per Marx la scoperta del pensiero ideologico era derivata da una determinata concezione della società e della storia; per Pareto, le derivazioni sono una manifestazione perenne della natura umana. Il soggetto creatore e utilizzatore delle ideologie è per Marx la classe dominante; per Pareto il soggetto e l’utente delle derivazioni è il singolo individuo, quale che sia la sua condizione sociale. Quel che in Marx, discepolo di Hegel, era un problema storico e di comprensione storica, in Pareto, allievo se pur infedele di Spencer, era un problema tra il biologico e lo psicologico. In quegli stessi anni il problema della razionalizzazione dell’irrazionale veniva affrontato con altri mezzi e con ben altra fortuna, da Freud, che peraltro Pareto non aveva mai letto. Da Saint-Simon e Comte a Spencer, il positivismo era stato una filosofia dell’evoluzione e del progresso, o meglio, del progresso attraverso l’evoluzione, e aveva propugnato una concezione ottimistica della storia assicurando che la società umana sarebbe passata dal regno della necessità al regno della libertà per la sola virtù della (pacifica) rivoluzione industriale senza che neppur occorresse la crisi (violenta) della rivoluzione politica. Pareto appartenne, invece, alla prima schiera dei profeti, purtroppo veraci, di sventure, cioè di coloro che misero in dubbio le sacrosante leggi della storia che avrebbero dovuto dimostrare che l’umanità stava procedendo inesorabilmente verso il meglio. Prima di essere un sociologo, Pareto era stato un economista, fervente fautore del liberismo, e, come tutti i liberisti, che assistevano al continuo dispregio dei loro ideali da parte di coloro che avrebbero dovuto attuarli, anche un moralista, un critico dei costumi della corrotta classe politica italiana,

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tanto da cercar l’alleanza, lui individualista ad oltranza, coi democratici più radicali e coi socialisti. Per quattro anni, dal 1893 al 1897, dalle pagine del «Giornale degli economisti» aveva fustigato con le sue Cronache le malefatte dei governanti in materia economica e fiscale. A proposito dello scandalo della Banca Romana, scrisse: Ci sono buoni e bravi economisti che asseriscono di seguire un cerco metodo da loro detto «storico», forse perché interamente trascura gli ammaestramenti della storia, e sostituisce fisime e visioni ai fatti concreti. Quella buona gente si è foggiata per proprio uso e consumo uno stato non mai veduto che nella storia non appare più di quanto in essa si trovino ciclopi, giganti, chimere e sfingi. A cotale stato i signori Gneist, Engel, L. Stein, ed altri valentuomini, hanno posto il nome di Rechtsorganismus, e per dirla in parole spicciole: il diritto fatto persona, e i buoni socialisti della cattedra a quest’essere, che fuori della fervida loro fantasia non esiste, conferiscono ogni sorta di più eccelse virtù, onde naturalmente sono tratti a concludere doverglisi concedere ogni più ampio potere per reggere e correggere l’uman genere. Noi pure m Italia abbiamo il nostro bravo Rechtsorganismus; ma i fatti ce lo dimostrano alquanto diverso da quanto se lo figurano i socialisti più o meno cattedratici. Il sor Rechtsorganismus italiano per dire il vero è un po’ birba e fa tra il mio e il tuo certe confusioni che mai più si crederebbero potere trovare luogo nel diritto fatto persona62 .

A furia di mettere e rimettere il dito sulla stessa piaga si era venuto formando la convinzione che la classe al potere, non solo in Italia ma in Europa, fosse inetta e perversa, e sarebbe presto o tardi giunta a completa rovina: tale rovina era inoltre agevolata dai sentimenti umanitari che si andavano diffondendo nella borghesia colta, più proclive a spargere lacrime sulla miseria sociale che a difendere con energia e ragionevolezza i propri interessi. Alle soglie del secolo, a cinquant’anni compiuti, 62 V. Pareto, Cronache italiane, a cura di C. Mongardini, Brescia 1965, p. 230.

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aveva ormai delineato una sua filosofia della storia, realistica e pessimistica, che rovesciava tanto quella ottimistica e idealistica dei positivisti quanto quella ottimistica e realistica dei marxisti. La storia umana non era destinata né a progredire né a regredire ma era un continuo, monotono e tragico teatro, su cui si svolgeva sempre la stessa scena: non lotta tra le classi, come aveva affermato Marx, ma lotta di aristocrazie che si servivano di questa o quella classe ora per conservare ora per conquistare il potere. Nell’introduzione ai Systèmes socialistes, che apparve nel 1902, la concezione paretiana della storia, di cui il Trattato di sociologia generale del 1916 sarebbe stata la dimostrazione teorica e storica, era ormai compiuta: Non bisogna, come spesso si fa, contrapporre, quanto al successo di un mutamento di istituzioni, la persuasione e la forza. La persuasione non è che un mezzo per procurarsi la forza (...) È con la forza che le istituzioni sociali si stabiliscono, è con la forza che si mantengono. Ogni eletta che non è pronta a dare battaglia, per difendere le sue posizioni, è in piena decadenza; non le resta che lasciare il suo posto a un’altra eletta, avente le qualità virili che a lei mancano. Semplice chimera, se crede che i princípi umanitari ch’essa ha proclamato le saranno applicati: i vincitori faranno risuonare ai suoi orecchi l’implacabile vae victis. La mannaia della ghigliottina si affilava nell’ombra, quando, alla fine del secolo XVIII, le classi dirigenti francesi attendevano a sviluppare la loro «sensibilità»63 .

La nuova élite che avrebbe sbalzato di sella la élite borghese era già pronta: il socialismo non era altro che l’ideologia – o l’insieme di derivazioni – attraverso la quale la nuova élite avrebbe dato battaglia, sfruttando il malcontento e il risentimento delle classi inferiori, per dare la scalata al potere. Non si faceva illusioni: la par63

Id, Trattato di sociologia generale, vol. I, Firenze 1916, p.

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tita era vinta per coloro che venivano dal basso e i tempi erano maturi per un grande rivolgimento sociale. Ma una volta assunta la parte dello scienziato che fa previsioni e non piange né ride, cercò di coprire la sua passione di parte con la maschera dell’uomo impassibile, se mai soltanto compiaciuto (più che scandalizzato) per la follia dei suoi simili. Non poteva avere un disegno razionale una storia che era composta da tanti atti irrazionali, guidata da esseri che agivano da animali da preda con la sola variante che giustificavano, per predar meglio, le loro passioni con bei ragionamenti. Le tradizionali concezioni della società, dal giusnaturalismo al positivismo, passando per Hegel e Marx, senza contare le concezioni provvidenzialistiche e le varie teodicee, avevano fatto della storia il regno di una ragione invisibile ma presente per menare a buon fine anche le azioni apparentemente malvage. Proprio nel momento in cui la razionalizzazione della storia celebrava i propri trionfi con il positivismo evoluzionistico e traeva conferma da inconsueti decenni di pace mondiale e di progresso economico, Pareto dichiarava senza tanti riguardi per tutti coloro che confidavano nella saggezza della storia la fine dell’illusione e insegnava a scoprire nelle vicende umane i segni non tanto dell’astuzia della ragione quanto della ottusità della non-ragione. Ciò non pertanto egli non fu un irrazionalista. Come scienziato, si piegò dinanzi alla realtà: l’irrazionalità della storia era un fatto che lo scienziato sociale, per restar fedele alla sua vocazione, aveva il dovere di descrivere e di spiegare. Non era né un bene da esaltare né un ideale da promuovere. Anzi, continuò a credere fermamente nella scienza, nella possibilità d’introdurre un più severo metodo scientifico nello studio dell’uomo e della società. Ma sapeva che altro era conoscere altro operare, che le scoperte della scienza sociale sarebbero state molto lente per la complessità del compito (e in ciò aveva

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perfettamente ragione), e che le scoperte, una volta fatte, avrebbero esercitato sul comportamento umano influenza assai minore che una qualsiasi «derivazione» (e anche in ciò non aveva torto). Che la ragione nella storia avesse un piccolo posto, molto più piccolo di quel che i teologi e i filosofi e gli scienziati positivisti avevano creduto, non era un buon motivo per disprezzarla e per abbandonarsi, come avrebbero fatto gli irrazionalisti di tutte le sette, alla adorazione della non-ragione. Era se mai un pretesto per starsene appartato a contemplare, inerte, tra il divertito e l’inorridito, una fiumana per arrestare la quale la sparuta schiera degli uomini razionali costituiva una troppo fragile diga. Irrazionalisti furono, invece, nel più pieno e provocante senso della parola, i giovani, anzi i «giovini», che, dando vita nel gennaio 1903 al «Leonardo», si dissero «desiderosi di liberazione, vogliosi d’universalità, anelanti ad una superior vita intellettuale», raccolti intorno all’insegna di una rivista «per intensificare la propria esistenza, elevare il proprio pensiero, esaltare la propria arte», e si definirono «pagani e individualisti» nella vita, «personalisti e idealisti» nel pensiero, aspiranti «alla bellezza come suggestiva figurazione e rivelazione di una vita profonda e serena» nell’arte. Uno dei due artefici della rivista, Giuseppe Prezzolini, espresse molto bene, in uno dei primi fascicoli, l’«ideologia» del gruppo: Siamo accomunati qui nel «Leonardo» più dagli odi che dai fini comuni; miglior cemento in verità; e ci riuniscono più le forze del nemico che le nostre. Positivismo, erudizione, arte verista, metodo storico, materialismo, varietà borghesi e collettiviste della democrazia – tutto questo puzzo di acido fenico, di grasso e di fumo, di sudor popolare, questo stridor di macchine, questo affaccendarsi commerciale, questo chiasso di réclame – son cose legate non solo razionalmente, ma si tengon tutte per mano, strette da un vincolo sentimentale, che ce le

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farebbe avere in disdegno se fosser lontane, che ce le fa invece odiare perché ci son vicine64 .

Come summula dei valori e degli umori di una piccola borghesia intellettuale incapace di intendere i problemi di una società in trasformazione, questo indice di negazioni non poteva essere più eloquente. La rivolta operaia suscitava l’immagine del «sudor popolare», l’industria nascente quella dello «stridor di macchine». Positivismo e democrazia erano accomunati nello stesso odio. Prezzolini, dopo anni di irrequietezza e di ricerche senza uscite sarebbe rinsavito e, passato al crocianesimo militante, avrebbe speso per qualche anno le proprie energie nella battaglia civile de «La Voce», salvo adagiarsi in italica accidia quando la lotta, negli anni del fascismo aggressivo, sarebbe diventata più aspra. Incorreggibile, sempre perseverante e farneticante, fu invece il suo confratello darmi Giovanni Papini, geniale e sregolato, vanitoso sino all’esibizionismo più impudico, inventore a freddo dei meccanismi cerebrali più complicati e più inutili, fabbricatore a getto continuo di scandali culturali, dedico all’esercizio, nei momenti di tensione, di un vero e proprio terrorismo intellettuale. Combatté mille battaglie e tutte sbagliate. Credendo di essere sempre sulla linea del fuoco, non si accorse di sparare a salve contro bersagli arretrati e immaginari. Per quanto taglienti i giudizi che di lui diedero uomini come Boine, Renato Serra, Piero Gobetti, il ritratto più spietato e più veritiero fu quello che egli fece di se stesso in una pagina di L’altra metà. Saggio di filosofia mefistofelica (1911): Credo che la mia missione [...] abbia da esser quella medesima del diavolo nel grande universo del Signor Iddio. Negare, 64 G. Prezzolini, Alle sorgenti dello spirito, in «Leonardo», I (1903), n. 3 (La cultura italiana, cit., vol. I, p. 14).

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risvegliare, pungere e tentare. Ribellarsi, spingere al male [...], additare gli abissi, condurre per la mano, attraversare le tenebre, precipitar nell’inferno dell’insaziante particolare in odio al paradiso dell’unità e dell’ordine [...] C’è pur bisogno del nulla di Mefistofele, perché un Faust possa trovarsi il suo tutto. Io mi sobbarco a far questa parte: sono una vittima, una specie di Cristo espiatorio. Sto nel no, nel cattivo no, perché altri possa scoprire, salendomi addosso, nuovi si. Sono il Giuda del pensiero vero e accetto l’obbrobrio con simpatia – direi quasi, bassamente, con vanità. Il mio ufficio è di quelli che i retti pensanti non accettano ma essi san bene che per le spedizioni pericolose ci vogliono Rauber e bandoleros. Io sono adatto a far da cavalleggero perduto: ho nel sangue la malattia del rischio e non ho paura di guarire [...] Tale è la mia natura. Spregevole? Forse. Ma di questi avventurieri della teoria, audaci, capricciosi, mutevoli, senza fede né parte, errabondi o spregiudicati possono giovarsi anche i regolari e i capitani della buona causa65 .

Per quanto avesse criticato severamente la filosofia di Nietzsche come filosofia superficiale ed angusta (ma è sempre difficile capire se crede veramente in quello che dice), questo autoritratto è una versione involgarita dell’ideale nietzschiano del filosofo «tentatore». Gettata la maschera tragica dell’Anticristo, assunse nel Discorso di Roma (che scrisse per invito di Marinetti negli anni del suo infervoramento futuristico, il 21 febbraio del 1913) quella che gli si addiceva meglio, del teppista intellettuale: Mi hanno chiamato ciarlatano, mi hanno chiamato teppista, mi hanno chiamato becero. Ed io ho ricevuto con inconfessabile gioia queste ingiurie che diventano lodi magnifiche nelle bocche di chi le pronunzia. Io sono un teppista, è arcivero. Mi è sempre piaciuto rompere le finestre e i coglioni altrui e vi so65 G. Papini, L’altra metà. Saggio di filosofia mefistofelica, in Tutte le opere, vol. II, Filosofia e letteratura, Milano 1961, pp. 192-93.

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no in Italia dei crani illustri che mostrano ancora le bozze livide delle mie sassate. Non c’è, nel nostro caro paese di parvenus, abbastanza teppismo intellettuale. Siamo nelle mani dei borghesi, dei burocrati, degli accademici, dei posapiano, dei piacciconi. Non basta aprire le finestre – bisogna sfondare le porte. Le riviste non bastano, ci voglion le pedate66 .

Il succo del leonardismo era già contenuto in un articolo di Prezzolini, che apparve nel primo fascicolo, dedicato alla «vita trionfante»: una iniziazione alla filosofia di Bergson, intesa come «apologia» della vita intima, rivendicazione della potenza dell’individuo sul mondo esterno e riduzione della scienza a un linguaggio di comodo67 . Ma il teorico del nuovo irrazionalismo, il banditore della «lotta contro la ragione», fu Papini. L’articolo Me e non Me, del secondo fascicolo, è un campionario delle idee più trite e più stolide del perfetto irrazionalista. A una sfuriata contro la logica «serva che si dà delle arie di padrona», contro la verità, «questa maschera molteplice e variopinta di cortigiana che non racchiude se non credenze», contro la coerenza, «virtù da cinesi inebetiti», segue l’abbozzo di un personalismo solipsistico e «possessivo» (fondato cioè sulla «piena coscienza della possessione integrale di tutte le cose»), per cui gli uomini non sono «niente più che una delle materie più attraenti e più maneggiabili dei nostri giochi superiori». Noi ci curiamo dunque degli uomini in larga misura e leggiamo con maggior piacere una storia di questi curiosi animali a strumenti che un trattato su i batraci o una memoria di geometria descrittiva. Ma ci duole assicurare i nostri rispettabili simili che 66 Id, Discorso di Roma (1913), che cito da La cultura italiana del ’900 attraverso le riviste, vol. IV, «Lacerba». «La Voce» (1914-16), a cura di G. Scalia, Torino 1961, p. 140. 67 G. Prezzolini, Vita trionfante, in «Leonardo», I (1903), n. 1 (La cultura italiana, cit., vol. I, p. 98).

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noi non ci occupiamo di loro all’uso dei filantropi illuministi, dei nietzschiani vaticinanti o dei sociologi positivi, cioè prendendo a cuore i loro interessi e considerandoli colla cosiddetta serietà che, fra parentesi, è la più noiosa specie di buffoneria che usi nel mondo. Noi abbiamo per loro lo stesso amore che un giocatore ha per le sue carte e per i suoi dadi e se ci accusassero ch’è poco noi potremmo rispondere ch’è ancor troppo per delle ombre68 .

Filosofo in partibus infidelium, dedicò i primi anni del suo lungo avventuroso e accidentato viaggio intellettuale a filosofeggiare per sbarazzarsi della filosofia. Concluse il suo primo libro Il crepuscolo dei filosofi (1906) con un capitolo, Licenzio la filosofia, in cui, dopo aver proclamato che la filosofia non era mai servita a nulla, ed essersi proposto di trasformarla in una teoria dell’azione o pragmatica, aggiunse che scopo ultimo dell’uomo superiore essendo non il sapere ma il potere, anche la teoria dell’azione era insufficiente e avrebbe dovuto cedere il passo a non meglio definite «immaginazioni sempre più strane e grandiose» che avrebbero trasformato il mondo, destinato a diventare «la docile creta colla quale l’Uomo-Dio darà forma ai suoi fantasmi». Era convinto che lo «spirito» fosse ormai pronto e occorresse soltanto il soffio del genio creatore. Licenziando l’«inutile serva» della filosofia «con tutti i suoi vuoti unici e tutte le sue sterili leggi», era sicuro di procedere «per altri cammini, alla conquista della sua divinità»69 . In quella specie di divertimento macabro o di pervertimento lucido che fu il libro già citato L’altra metà, abbozzò le linee di una filosofia del negativo, del nulla contrapposto all’essere, del diverso, dell’impossibile, per concludere, rovesciando con uno sgambet68 G. Papini, Me e non me, in «Leonardo», I (1903), n. 2 (La cultura italiana, cit., vol. I, p. 109). 69 G. Papini, Tutte le opere, cit., vol. II, Filosofia e letteratura, pp. 181 e 192.

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to il pragmatismo di cui si professava seguace, con l’elogio della morale eroica dell’inutile. L’etichetta filosofica con cui Papini amò contrassegnare la propria non-filosofia fu il pragmatismo. Ma egli stesso riconobbe attraverso lunghe discussioni che si svolsero sul «Leonardo», e ne furono la parte culturalmente più viva, che vi erano due sorte di pragmatismo, quello «logico» di Vailati e di Calderoni e quello «magico» suo e di Prezzolinì, «spiriti più avventurosi, più paradossali e più mistici»70 . Inutile aggiungere che il pragmatismo storicamente significativo fu il primo. Il secondo fu una sorta di esaltazione mistica dell’azione per l’azione, che avrebbe dovuto dare al novello Uomo-Dio il possesso del mondo e che sarebbe stato assai più giusto chiamare «attivismo» (come infatti sarà chiamato quando se ne conosceranno i frutti di tosto). Giunto alle soglie dell’occultismo, Papini scrisse in una lunga lettera a Enrico Morselli che gli dava consigli di prudenza: «Il rafforzamento della volontà, la scoperta del particolare, la potenza subcosciente ci promettono ben più grandi gioie che non gli anemici concetti di cui finora s’è pasciuto, dopo Platone, il gregge filosofico. Noi vogliamo piuttosto servirci del mondo che conoscerlo: vogliamo piuttosto rifarlo a nostro piacere che tradurlo in grigi fantasmi»71 . Marx aveva detto che i filosofi avevano interpretato il mondo e ora bisognava cambiarlo. L’irrazionalismo attivistico converti il motto marxiano in quest’altro: «Sinora i filosofi hanno interpretato il mondo; ora bisogna appropriarsene». Cosi convertiva il principio di una filosofia rivoluzionaria nel principio di una teoria possessiva, statica, intimamente reazionaria della realtà e del fare umano, volto non al mutamento ma all’appropriazioId., Pragmatismo, ivi, pp. 333-34. Id., Cosa vogliamo?, in «Leonardo», II, novembre 1904 (La cultura italiana, cit., vol. I, p. 192. Il corsivo è mio). 70

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ne. Come poi dovesse avvenire questo impossessamento non era chiaro e non poteva essere chiaro in una filosofia da solitari e da velleitari qual era il pragmatismo magico, che aveva rinunciato per troppa impazienza alla guida lenta ma sicura della ragione e si era abbandonato all’attesa della trasfigurazione miracolosa delle facoltà spirituali umane. L’Uomo-Dio di Papini è colui che ha imparato l’arte più difficile da esercitare, l’arte del miracolo. Ma chi l’imparerà e quando? Questa domanda non poteva avere una risposta. Nonostante le pose di indocile demiurgo, un vocabolario di parole forti e oltraggiose, un continuo agitare idee di dominio e volontà di potenza, e un tender di nervi e di muscoli nello sforzo di creare dal nulla chi sa che cosa, Papini col suo pragmatismo magico diede voce alla più compiuta ideologia dell’impotenza dell’intellettuale sradicato che non riesce a inserirsi nelle lotte sociali del proprio paese e sfugge all’urto doloroso di una nuova cultura sempre più volta allo studio dei fatti sociali con la predicazione estemporanea di un rinnovamento interiore. Nella Campagna per il forzato risveglio (1906), rivolgendosi ai giovani che hanno bisogno di essere trasformati spiritualmente (come?) per far loro sentire la necessità di «far qualcosa d’importante» (che cosa?), grida loro in faccia: «Osate esser pazzi. Abbiate del coraggio, dell’audacia, della temerarietà e della pazzia». Poi conclude: «Cerchiamo i problemi terribili»72 . Di velleità in velleità, di gonfiatura in gonfiatura, di tensione in tensione, morto il «Leonardo» nel 1907, quando giungerà all’approdo di «Lacerba» (1913), i tempi saranno maturi per riempire le filosofiche vuotezze con giudizi, o meglio rancori, risentimenti, sfoghi, di natura politica. Già in uno dei primi articoli del «Leonardo» i socialisti era72 Id., Campagna per il forzato risveglio, in «Leonardo», IV, agosto 1906 (La cultura italiana, cit., vol. I, p. 314).

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no ritratti come coloro che avevano messo il ventre al posto dello spirito e non «si vergognavano a pregiar più dei brevetti per degli stantuffi che un poema dell’irreale e una teoria della conoscenza»73 Nelle pagine di «Lacerba» ogni ritegno vien meno: il rifiuto del socialismo, e in genere della democrazia, precipita nella più aberrante esaltazione della guerra, della strage, della carneficina, che mai mente umana abbia potuto concepire. Nel 1913 «l’uomo finito» aveva appena scritto: Il mio passaggio sulla terra doveva lasciare una traccia più profonda di una rivoluzione e d’un cataclisma. Volevo insomma, che incominciasse con me, per opera mia, una nuova epoca della storia degli uomini. Inaugurare una nuova era, un periodo assolutamente distinto, un terzo regno [...] L’umanità era dunque in uno stato di mezzo fra la belva e l’eroe, tra Calibano e Ariele, tra il bestiale e il divino. Bisognava strapparla da quell’ambiguità, da quella contaminazione. Uccidere, recidere, estirpare tutto quel che c’era ancora di sottumano nell’uomo per renderlo soprumano – non più uomo. Avvicinarlo a Dio, farne la divinità vera, innumerevolmente vivente nello spirito e per lo spirito74 .

Ma salutava le prime elezioni a suffragio universale con un articolo intitolato Freghiamoci della politica, che cominciava con queste parole: In Italia; annunziano i giornali, ci sono l’elezioni. Dicono: Come mai voialtri giovani d’impegno, di coraggio ecc. ecc. non vi occupate di politica? Ce n’è stato uno che ha proposto perfino di portarmi candidato. (Fra parentesi: io non mi farei «portare» da nessuno. Tutt’al più vorrei portare gli altri dove 73 Id., Chi sono i socialisti?, in «Leonardo», I (1903), n. 5 (La cultura italiana, cit., vol. I, p. 125). 74 Id., L’uomo finito, in Tutte le opere, cit., vol. IX, Autoritratti e ritratti, 1962, p. 141.

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m’intendo io.) No. Noi non ci occupiamo di politica. E l’elezioni ci fanno schifo75 .

75 In «Lacerba», 1913, n. 19 (La cultura italiana, cit., vol. IV, p. 194).

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4 GLI ANTIDEMOCRATICI

Mentre il paese reale esprimeva l’esigenza di una sempre maggiore partecipazione popolare al potere, e il paese legale si avviava verso il consolidamento delle istituzioni liberali, l’Italia intellettuale in alcune delle sue tendenze più incisive o più rumorose prese vigorosamente partito contro la nascente democrazia. La reazione antidemocratica ebbe due aspetti, l’uno conservatore o tardo liberale, l’altro decisamente eversivo. Mentre i conservatori vedevano nella democrazia non un male in se stesso ma una forma di governo inadatta a un paese ancora immaturo, la porta aperta al successo dei demagoghi e all’avvento di una plebe affamata e analfabeta, il cavallo di Troia che avrebbe introdotto in un regime liberale ancor fragile il sovvertimento socialista, gli altri, gli eversori, variopinta schiera di letterati decadenti, di critici estetizzanti, di nazionalisti invasati, condannavano la democrazia in quanto tale, come una forma di governo non storicamente inadeguata, ma assolutamente cattiva, una degenerazione della politica che era sempre stata e sarebbe dovuta restare attività di aristocrazie staccate dal volgo, inaccessibili alla corruttrice volubilità, al materialismo e all’edonismo del demos. Quel che per i primi era un problema di maturità storica, per i secondi era un problema che sottintendeva una concezione generale della storia, fondata sulla distinzione tra schiatte di padroni e schiatte di schiavi. Gli uni e gli altri paventavano l’avvento delle masse cui la iniziata trasformazione economica del paese avrebbe dato attraverso l’organizzazione delle leghe operaie, del nuovo partito socialista, delle cooperative, delle camere del lavoro, nuovo vigore; ma i primi le avrebbero considerate

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come minorenni da educare con paterno rigore, i secondi come razza perpetuamente inferiore che la selettrice lotta per l’esistenza aveva condannato al lavoro servile. La critica antidemocratica dei conservatori prese corpo nella teoria della classe politica o delle élites, che è tutt’ora considerata come una piccola gloria della scienza politica italiana, non immemore dell’eredità machiavellica. Riprendendo una tesi già esposta nell’opera giovanile Teorica dei governi (1884), Gaetano Mosca (1858-1941), amico e consigliere del marchese di Rudiní, diede forma compiuta nella sua opera maggiore, Elementi di scienza politica (1896), alla teoria secondo cui in ogni regime politico coloro che detengono il potere sono sempre una minoranza organizzata, la quale, proprio in virtù degli stretti vincoli tra i suoi membri, è in grado di imporsi alla maggioranza disorganizzata. Con questa affermazione Mosca riteneva di aver liberato definitivamente la teoria politica dalla finzione della sovranità popolare: anche in un regime democratico la classe politica è costituita da una minoranza che si serve, per giungere al potere e rimanerci, del procedimento elettorale manipolato a dovere. L’ideale democratico era, secondo la sua terminologia, una «formula politica», oggi diremmo una ideologia di cui ci si serve per ottenere un consenso forzato. Non solo il regime democratico era pur sempre il governo di una minoranza, ma tra le possibili classi politiche quella generata da un sistema democratico non era, ai suoi occhi, la migliore: almeno in un paese povero, con scarse tradizioni di politica parlamentare, facile alla corruzione, al clientelismo e alla demagogia, come l’Italia. Il suffragio a larga base poteva riuscire pericoloso a causa dell’omaggio «che la maggior parte dei candidati, per superare più facilmente i rivali, si affretta a rendere ai sentimen-

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ti e ai pregiudizi popolari»76 . In forza di questa convinzione, deputato tra il 1909 e il 1919, diede voto contrario alla riforma elettorale del 1912, perché l’allargamento del suffragio avrebbe finito per incoraggiare, insieme con l’ignoranza e l’incompetenza del corpo elettorale, il sopravvento delle correnti estremiste su quelle moderate. Si arrese all’istituzione del voto popolare solo quando non era più possibile tornare indietro; ma la giudicò sempre, anche negli ultimi scritti, un errore che aveva posto le premesse dell’instabilità di un regime cui avrebbe posto fine una applaudita dittatura plebea. Mosca appartenne alla schiera di coloro che videro nella democrazia formale lo strumento di cui si sarebbero valsi i sovvertitori per instaurare attraverso la democrazia sostanziale un egualitarismo liberticida. In una intervista concessa a Mario Calderoni per «Il Regno» nel 1904, precisò che era antidemocratico non antiliberale, anzi era contro la democrazia proprio perché era liberale77 . Mentre per «liberalismo» intendeva quella concezione dello stato secondo cui il migliore antidoto al dispotismo è la molteplicità delle forze in contrasto, vedeva nella democrazia il regime che attraverso la partecipazione delle masse al potere politico avrebbe finito per fare trionfare una forza politica sola e affrettato l’avvento dell’«era delle tirannie». Di fronte ai problemi nuovi che la questione sociale imponeva di risolvere, egli condivise coi liberali, che si specchiavano nella tradizione del Risorgimento, non diversamente da Croce, che gli fu amico, la «grande paura» della rivoluzione sociale, e ripose ogni fiducia nella conservazione del sistema che aveva reso prospero e felice il «glorioso» secolo decimonono. 76

G. Mosca, Elementi di scienza politica, Bari 1953, vol. I, p.

449. 77 Id., Aristocrazie e democrazie, in Partiti e sindacati nella crisi del regime parlamentare, Bari 1949, pp. 330-37.

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L’intervista di Calderoni a Mosca era stata provocata da un articolo che sul «Regno», allora allora fondato, Prezzolini aveva pubblicato, L’aristocrazia dei briganti, in cui, volendo mostrare l’italianità del pensiero nazionalista, ammoniva non esserci bisogno di sfoggiare i nomi di Barrès, di Chamberlain, di Kipling, ma bastava «rivolgersi a Gaetano Mosca e a Vilfredo Pareto, i quali avevano elaborato una filosofia della storia che dalla sua idea principale poteva chiamarsi «teoria delle aristocrazie»: Mentre il socialismo nato nelle sue teorie, da menti di stranieri per razza e per nazione, da ebrei e da tedeschi, si presenta duro, astruso, noioso alle menti italiane, e per adattarsi a noi deve essere stiracchiato, lacerato, gonfiato, mutato in ogni sua parte, deve farsi cosa sentimentale e plebea, teppistica e violenta, la teoria delle aristocrazie nella sua bella semplicità e chiarezza, nell’assenza dei caratteri matematici, nella facile sua universalità, si presenta come uno dei più bei prodotti del genio latino78 .

Calderoni, che pur tra le infatuazioni e stravaganze leonardesche avrebbe sempre tenuto la testa a posto, si era rivolto direttamente a Mosca per sapere che cosa ne pensasse della paternità che gli era stata attribuita, perché gli pareva che «vi dovesse essere un certo contrasto fra le sue dottrine [intendi del Mosca], e quelle di coloro che, come gli scrittori del Regno, considerano – non è forse vero ciò – il liberalismo, ancor più che la democrazia, come una delle loro bestie nere». In realtà il contrasto, come sarebbe risultato dalla stessa intervista, non poteva essere più netto. Tanto per cominciare c’era una differenza di stile. Nella prima pagina del «Regno», apparso alla fine del 1903, Enrico Corradini, che ne era 78 G. Prezzolini, L’aristocrazia dei briganti, in «Il Regno», I (1903), n. 3 (La cultura italiana, cit., vol. I, p. 455).

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l’ispiratore e il direttore, aveva dato fiato a tutte le sue trombe con questa invettiva: Una voce dunque contro la viltà presente. E prima di corto contro quella dell’ignobile socialismo, di questo gigantesco tumulto delle nuove forze mondiali finito in pochi Saturnini che ne hanno fatto il proprio saturnale con le loro fecce. In luogo d’ogni ordine d’idee generose fu posta l’ira dei più bassi istinti della cupidigia e della distruzione. Tutte le classi furono messe al bando per una sola, e la mercede dei braccianti diventò principio e termine dell’umana società. Le furie del numero furono scatenate contro tutti i valori. Dinanzi alle orde del numero vennero all’assalto i Saturnini frenetici, semiuomini dall’animo maligno e imbelle cui l’abiezione dei tempi dona una ferocia perigliosa, pari a quella degli eunuchi di Bisanzio dalla voce stridula [...] E una voce altresì per vituperare la borghesia italiana che regge e governa [...] Essa è diventata la sentina del socialismo sentimentale. Diventano sue verità le menzogne di cui quello si spoglia nella sincerità dell’azione. Come una barcaccia da carico d’immondizie, essa va a tutti gli sbocchi delle cloache che portano i rifiuti ostili, e li prende con sé, finché non affondi [...] Tutti i segni della decrepitudine, il sentimentalismo, il dottrinarismo, il rispetto smodato della vita caduca, la smodata pietà dell’umile e del debole, l’utile e il mediocre posti come canoni di saggezza, l’oblio delle maggiori possibilità umane, il dileggio dell’eroico; tutti i peggiori segni della putrida decrepitudine delle genti degeneri sono nella vita contemplativa della borghesia italiana che regge e governa79 .

Parole come queste non sarebbero mai uscite dalla bocca del teorico della classe politica, il quale, sia detto di passata, sarebbe stato un deciso avversario della guerra di Libia, che i nazionalisti avrebbero magnificato come la loro prima grande vittoria politica. Non molto dissimile, invece, fu il tono con cui Papini, direttore del «Leonardo» e nello stesso tempo redattore capo 79 E. Corradini, Per coloro che risorgono, in «Il Regno», I (1903), n. 1 (La cultura italiana, cit., vol. I, pp. 441-42).

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del «Regno», esordì come nazionalista in un discorso del 1904, dove, avendo compilato un prontuario delle cose da odiare, vi aveva messo in prima fila la democrazia, intesa: come quel confuso miscuglio di bassi sentimenti, d’idee vuote, di frasi debilitanti e di aspirazioni bestiali, che va dal comodo radicalismo del piede di casa al lacrimoso tolstoianismo antimilitare, dallo pseudo positivismo ingenuamente progressista e superficialmente anticlericale fino all’apoteosi delle rimbombanti blagues della Rivoluzione francese: Giustizia, Fraternità. Eguaglianza e Libertà80 .

Seguita subito dopo dall’umanitarismo. A proposito del quale il salmo finiva in gloria della guerra: Mentre i bassi democratici gridano contro la guerra come a barbaro avanzo di trapassati feroci, noi la pensiamo come massima risvegliatrice d’infiacchiti, come mezzo ripido ed eroico di potenza e di ricchezza81 .

Se c’era da trovare un precursore, non occorreva scomodare il civile professore palermitano. Ce n’era uno ben più a portata di mano, Gabriele D’Annunzio che nelle Vergini delle Rocce (1896) aveva fatto dire a Claudio Cantelmo rivolto ai patrizi romani: Non credete se non nella forza temprata dalla lunga disciplina. La forza è la prima legge della natura, indistruttibile, inabolibile [...] Il mondo non può essere costituito se non sulla forza, tanto nei secoli di civiltà quanto nelle epoche di barbarie [...] Per fortuna lo stato eretto su le basi del suffragio popolare e dell’uguaglianza, cementato dalla paura, non è soltanto una costruzione ignobile ma è anche precaria. Lo stato non deve esse80 G. Papini e G. Prezzolini, Vecchio e nuovo nazionalismo, Milano 1914, p. 9. 81 Ivi, p. 13.

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re se non un istituto perfettamente adatto a favorire la graduale elevazione d’una classe privilegiata verso un’ideal forma di esistenza. Su l’uguaglianza economica e politica, a cui aspira la democrazia, voi andrete dunque formando una oligarchia nuova, un nuovo reame della forza; e riuscirete in pochi, o prima o poi, a riprendere le redini per domar le moltitudini a vostro profitto. Non vi sarà difficile, in vero, ricondurre il gregge all’obbedienza. Le plebi restano sempre schiave, avendo un nativo bisogno di tendere i polsi ai vincoli [...] Non vi lasciate ingannare dalle loro vociferazioni e dalle loro contorsioni sconce; ma ricordatevi sempre che l’anima della Folla è in balia del Panico. Vi converrà dunque, all’occasione, provvedere fruste sibilanti, assumere un aspetto imperioso, insegnar qualche allegro stratagemma82 .

E dietro D’Annunzio, volendo risalire un po’ più indietro, al vero «tentatore», pareva di ascoltare l’ultimo Nietzsche, della Genealogia della morale (1887): Ma perché venirci ancora a parlare di ideali più nobili? Atteniamoci ai dati di fatto: il popolo ha vinto – ovvero «gli schiavi» o «la plebe» o «il gregge», chiamateli come vi piace – e se questo è avvenuto per mezzo degli Ebrei, ebbene mai un popolo ha avuto una missione più grande nella storia del mondo. «I signori» sono liquidati, la morale dell’uomo comune ha vinto. Si può considerare, al tempo stesso, questa vittoria come un avvelenamento del sangue (ha mescolato tra loro le razze) – nulla da eccepire; indubbiamente però questa intossicazione ha avuto buon esito. La «redenzione» del genere umano (dai «signori») è sulla migliore delle strade; tutto si giudaizza o si cristianizza o si plebeizza a vista d’occhio (non importano le parole!)83 .

Tra l’antidemocrazia dei conservatori e quella degli eversori vi era una differenza non soltanto di accento ma anche di sostanza: gli uni credevano nel metodo della li82 G. D’Annunzio, Le Vergini delle Rocce, Milano 1919, pp. 73-74. 83 In Opere di Federico Nietzsche, a cura di G. Collie e M. Montinari, vol. VI, tomo II, Milano 1968, pp. 234-35.

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bertà, gli altri solo in quello della forza. Costoro erano insieme conservatori (nel loro odio furibondo per il socialismo e nella difesa ad oltranza della classe borghese) e sovversivi (nella esaltazione della guerra e nella predicazione della violenza). Come tali erano l’antitesi del socialismo riformista che era progressista e pacifista e credeva nel progresso sociale attraverso l’esercizio del metodo democratico. Naturalmente erano ferocemente antipositivisti, e guardavano con l’occhio del conservatore a Pareto, con quello del sovversivo a Sorel. Il luogo di confluenza di tutte le tendenze del conservatorismo eversivo fu il nazionalismo. Il cui teorico e fondatore, Enrico Corradini (1865-1931), dopo aver tentato con scarso successo il romanzo (Santamaura, 1896; La Gioia, 1897; La verginità 1898) e il teatro (La leonessa, 1899; Giacomo Vettori, 1901; Giulio Cesare, 1902), diede vita alla fine del 1903 a «Il Regno», con l’assidua collaborazione dei due direttori del «Leonardo» e di alcuni scrittori di «Hermes», come Borgese e Morasso. Se si pensa che «Hermes» (gennaio 1904 – luglio 1906) aveva invocato come numi tutelari D’Annunzio e Corradini («perché egli è tra i pochissimi che abbiano cuore e cervello nella bavosa generazione che ci ha preceduti») e riecheggiando il «Leonardo» («... ci dichiariamo idealisti in filosofia, aristocratici in arte, individualisti nella vita») aveva proclamato: I topi e le rane della nostra vita nazionale debbono o prima o dopo morire. E tempo che la Batracomiomachia ceda il posto all’Iliade [...] Contro una moltitudine di miopi e di sordi, un po’ di pennacchi e qualche garrito d’aquila è forse, più che bello, necessario84 ; 84 Dalla Prefazione alla rivista «Hermes», siglata M. M. (Mario Morasso), I (1904), p. 59 (La cultura italiana, cit., vol. I, p. 372).

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il connubio tra decadentismo letterario e nazionalismo politico, tra estetismo e aristocraticismo, non poteva apparire più perfetto. Al contrario di Papini e Prezzolini, poligrafi versatili, Corradini fu un poligrafo monocorde. Scrisse un numero enorme di pagine sempre intorno alla stessa idea fissa: la viltà della presente era nazionale non poter essere riscattata che da una politica espansioni- sta. Egli stesso dichiarò infinite volte che la sua «idea nazionale» era nata dal bruciante dolore della sconfitta di Adua. I termini del problema erano molto netti: da un lato, una borghesia che diventava sempre più imbelle, dall’altro una plebe che si faceva sempre più temeraria e arrogante. Per evitare la lotta interna che avrebbe condotto inevitabilmente al trionfo della parte meno eletta della nazione, non c’era altra soluzione che l’unione sacra al di sopra delle classi contrapposte per l’espansione del genio e del lavoro italiano nel mondo. Per un paese povero com’è l’Italia questa espansione doveva essere militare, non soltanto commerciale. Sinora l’Italia era uscita dai propri confini con miserrimi emigranti che erano stati assorbiti e colonizzati dalle nazioni più ricche; ora avrebbe dovuto uscirne con l’esercito e diventare essa stessa colonizzatrice. Uno dei temi ricorrenti dell’apologetica corradiniana, oltre quelli dell’antidemocrazia e dell’antisocialismo, è l’apologia della guerra. Di fronte alla prima guerra dopo tanti decenni di ignavia pacifista, il bellicoso nazionalista non può raffrenare un moto di impazienza e un grido di giubilo: La guerra, finalmente, è scoppiata. Ci sono in questo momento dei russi che non godono tutta la loro perfetta salute e dei giapponesi che hanno raggiunto il Nirvana. Il cannone che tuona sopra Port Arthur è venuto a confermare colla sua voce rude e decisiva le idee e le passioni che ci son care. Veramente questa grande guerra sembra fatta apposta per noi. Proprio nel momento in cui da tante parti ci veniva la accusa di utopisti

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feroci, in cui il facile ghigno dei «pionieri del progresso» ci relegava nel passato selvaggio, ci diceva fuori dei tempi, ecco che due grandi imperi che passano per civili nelle opinioni degli uomini e nei libri di testo hanno sentito la necessità di azzuffarsi85 .

Mentre Spencer, filosofo della società industriale nel paese capitalisticamente più avanzato, aveva contrapposto le antiche società militari alle nuove società industriali, il teorico italiano del nazionalismo vede nella guerra la più alta espressione della civiltà industriale, e afferma perentoriamente la «modernità» della guerra. Ma poiché riesce a dare di questa intuizione una spiegazione non economica o politica ma soltanto retorico-estetica, additando nell’«eroico contemporaneo» il risultato del divario tra la potenza degli strumenti e l’impotenza nel dominarli, saluta lo scatenamento della forza tra le nazioni come un evento benefico e sbeffeggia il «tribunale dell’Aia, cioè la peggior perdita di tempo per il minimo effetto», come «un anacronismo dinanzi alla rapidità fulminea ed alla intensità con cui uomini e popoli hanno bisogno di vivere»86 . Partendo da una concezione collettivistica, insistentemente antinidividualistica della società (la realtà storica è fatta di nazioni e non di individui), trae la conseguenza che la «moralità della inviolabilità della vita umana è una vera e propria immoralità, perché mira a dar prezzo a ciò che non ne ha»: I romani mietitori di vite sono sacri. Napoleone è sacro. In realtà la guerra non è se non una necessità per le nazioni che sono o tendono a diventare imperialiste, quando non tendano a perire [...] Le guerre sono necessarie come le rivoluzioni, l’imperia85 E. Corradini, La conferma del cannone, in «Il Regno», II (1904), n. 12 (La cultura italiana, cit., vol. I, p. 477). 86 Id., La guerra, in «Il Regno», II (1904), n. 14 (La cultura italiana, cit., vol. I, p. 484).

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lismo esterno e interno dei popoli, i quali due imperialismi costituiscono, da che mondo è mondo, tutta quanta la storia del genere umano [...] Bisogna rammentare che il disprezzo della morte è il massimo fattore di vita. E oggi, in mezzo a questi branchi di pecore e di omiciattoli abili che compongono in Italia le cosiddette classi dirigenti, datemi cento uomini disposti a morire, e l’Italia è rinnovata87 .

Esaurita in pochi anni l’esperienza del «Regno» (che cessò alla fine del 1906), l’esaltato esaltatore della guerra fu affascinato dalla dottrina soreliana, che aveva propagato «il mito della violenza». Nazionalismo imperialista e sindacalismo rivoluzionario erano, del resto, accomunati dal dispregio in cui tenevano il metodo democratico. Nel 1909 Corradini, sotto l’influsso del sorelismo, approdò alla concezione della «nazione proletaria», di cui si sarebbe fatto tenace banditore quando l’anno dopo il nazionalismo sarebbe diventato un movimento politico (col Congresso di Firenze del 1910). Il sindacalismo considerava la violenza come uno strumento della lotta del proletariato contro la borghesia. Ma in una concezione unitaria della nazione non c’era posto per l’antagonismo interno che avrebbe finito per dilaniarla. Per chi considerava non la classe ma la nazione come soggetto universale della storia, la differenza tra sfruttatori e sfruttati non passava più attraverso le classi ma attraverso le nazioni. Di conseguenza, la violenza storica giusta è quella che permette alle nazioni povere di sottrarsi alla dipendenza dalle nazioni ricche: la vera lotta per la liberazione dell’umanità è quella che mette le une di fronte alle altre non le classi ma le nazioni. Il nazionalismo vuole essere per tutta la nazione ciò che il socialismo fu per il proletariato. Che cosa per il proletariato fu 87 E. Corradini, Il nazionalismo italiano, Milano 1914, pp. 15-16.

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il socialismo? Un tentativo di redenzione: in parte, e nei limiti del possibile, riuscito. E che cosa vuol essere il nazionalismo? Un tentativo di redenzione, e Dio voglia che riesca a pieno88 .

In uno dei suoi discorsi più impegnativi l’antitesi tra socialismo e nazionalismo viene posta in questi termini: Due grandiosi fatti nel mondo moderno volgarmente ritenuti fra loro contrarii, sono invece molto simili e provengono dalla stessa causa. S’avversano anzi l’un con l’altro, ma sono molto simili e provengono dalla stessa causa. Questi due grandiosi fatti sono il socialismo moderno e l’imperialismo moderno. Sono tanto simili, anzi sono tanto della stessa natura, che il nome dell’uno può bastare a denominare anche l’altro, poiché lo stesso socialismo è una forma d’imperialismo; è un imperialismo di classe, mentre l’altro, quello propriamente detto, è oggi ciò che sempre fu, è l’imperialismo delle nazioni89 .

Così concepito, il nazionalismo diventava la dottrina della «rivoluzione italiana», che avrebbe espulso dal nostro paese le sopravvivenze «di due rivoluzioni straniere, della rivoluzione borghese gallica e della rivoluzione socialista tedesca». Una delle caratteristiche costanti della corrente antidemocratica sovversiva è il rifiuto della rivoluzione francese, un atteggiamento che il nazionalismo italiano aveva ereditato dal nazionalismo francese, e da tutta la tradizione della filosofia della «restaurazione» romantico-tedesca che sarebbe arrivata sino al Thomas Mane delle Considerazioni di un impolitico. Si ricordi la frase di Papini, appena citata, sulle «rimbombanti blagues». Anche Borgese (che, a differenza di Papini e di Corradini, diventerà un antifascista militante), in occasione della visita del presidente della repubblica france88 Id., Le nazioni proletarie e il nazionalismo (1911), in Discorsi politici (1902-1924), Firenze 1925, pp. 109-10. 89 Id., Nazionalismo e socialismo (1914), ivi, p. 211.

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se in Italia, vomita tutto il suo fiele antidemocratico («da più di un secolo la democrazia italiana fa la scimmia alla rivoluzione francese») e antisocialista («i socialisti sono i vermi del cadavere di Babeuf») deridendo «il gran vangelo democratico, liberté, égalité, fraternité»: Il nostro popolo ama tanto gli spettacoli; come volete che dimentichi la Rivoluzione francese, lo spettacolo più fantastico, più variato, la commedia più commovente che la storia abbia offerto agli uomini?90

Il congresso dei nazionalisti di Roma (dicembre 1912), in cui l’ala destra di Corradini ebbe il sopravvento, terminò con la storica frase di Francesco Coppola: «Io sono uno cui gli immortali principi della rivoluzione francese fanno schifo». Cadeva anche l’ultimo ostacolo al turpiloquio di Tavolato (preso sul serio da Papini e da Soffici) che concludeva la sua «bestemmia contro la democrazia» con queste maledizioni: E rovini la mediocrità! Fuoco al tugurio dei democretini! I democretini à la lanterne! La libertà soltanto a chi sa cosa farsene, a chi sa viverla. Agli altri il giogo, la sferza e la schiavitù. Evviva la forca, o amici, per la libertà vostra e per la libertà mia! Abbasso la democrazia91 .

Fuori da queste smanie, ma ben dentro all’atmosfera che le aveva rese possibili, il mito della rivoluzione italiana era stato il tema dominante dell’opera di Alfredo Oriani (1852-1909), che nel 1908, a un anno dalla morte, pubblicò il suo testamento spirituale, La rivolta idea90 G. A. Borgese, Il cadavere di Babeuf, in «Il Regno», II (1904), n. 23 (La cultura italiana, cit., vol. I, p. 498). 91 I. Tavolato, Bestemmia contro la democrazia, in «Lacerba», II (1914), n. 3 (La cultura italiana, cit., vol. IV, p. 260). Le ultime due «bestemmie» sono scritte in grassetto

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le. Oriani non fu il profeta della nuova Italia, «sacra alla nuova aurora», come andavano scoprendo i giovani arrabbiati, ma il vate inascoltato di una vecchia Italia, quella del Risorgimento eroico, che stava morendo. La sua grande opera storica, La lotta politica in Italia (1892), è l’ultimo ramo di un albero che non avrebbe dato più frutti: la storiografia della «missione» d’Italia. Una missione che, conformemente all’interpretazione nazionalistica del Risorgimento, si sarebbe risolta nel completamento dell’unità sino a Trento e Trieste («il suo nemico [dell’Italia] immutato è l’Austria: il mare che può e deve essere suo, è l’Adriatico»)92 , e nell’espansione coloniale in gara con le altre nazioni. Il libro si chiudeva con la battaglia di Dogali e con questo commento: «L’Italia, risorta a nazione, aveva ripreso il proprio posto d’avanguardia nella guerra immortale della civiltà contro la barbarie: Dogali era stata la prima conseguenza di Solforino»93 . Nell’ultima opera (La rivolta ideale), che è il prolungamento della prima, vi è una sintesi o un riassunto di tutti i miti, di tutti i luoghi comuni, del nostro provincialismo nazionale e nazionalistico, di una cultura arretrata che pretende di essere profetica, e in ultima istanza declamatoria, essendo incapace di impossessarsi degli strumenti teorici e pratici per comprendere il mondo moderno, e sostituisce il grido di dolore all’analisi scientifica, il messaggio alla critica. Hegeliano orecchiante, Orfani unì la propria voce al variamente composito coro dell’anripositivismo: se Hegel aveva sollevato il mondo nelle idee, sostiene, i positivisti distrussero l idee nei fatti. Di conseguenza: La superficialità rese rutto facile, e la volgarità parve la sicurezza del reale. L’uomo senza lo spasimo dell’infinito nel cuore e la 92 A. Orfani, La lotta politica in Italia, a cura di A. M. Ghisalberti, Bologna 1952, p. 744. 93 Ivi, p. 733.

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luce divina nel pensiero, ridiscese nell’animalità, ultimogenito di una serie anziché primogenito della creazione. Il darvinismo, oggi consunto, tradusse tale filosofia nella scienza, e rivelò l’importanza del metodo sperimentale coll’arbitrio delle ipotesi e la sofistica delle argomentazioni per negare o riempire le lacune della evoluzione, sostituendo al mistero antico l’assurda facilità di una spiegazione materialistica94 .

Il bersaglio centrale del libro è «l’industrialismo» che non offre altro ideale che quello della ricchezza, onde la «formula del guadagno pervase tutti gli ordini, livellò tutte le opere», e «la vita ridotta nella angustia delle funzioni materiali» ricusò «ogni sacrificio»95 . Il libro di Oriani è un tipico esempio di critica spiritualistica della società industriale, di un genere letterario che avrà il momento del suo maggior successo dopo la prima guerra mondiale e si perpetua oggi nella reazione moralistica alla società di massa, alla «massificazione». Come fosse configurata la società futura che avrebbe dovuto andare al di là della decadenza morale prodotta dall’industrialismo, non appare mai del tutto chiaramente. In realtà Orfani non guardava avanti, ma indietro, come accade a chi giudica il progresso tecnico dal punto di vista dei «valori» minacciati, e questi valori sono i valori di una società arcaica in disgregazione. Uno dei temi di fondo delle pagine orianesche è la critica della «morale industriale» che dissolve la fede e la virtù popolana, creando il culto del vitello d’oro nato a distruggere la «bella e rude sincerità del carattere popolano»96 . Dietro la denuncia della potenza del denaro che tutto corrompe affiora il vagheggiamento e la nostalgia di un ritorno alla semplicità dei costumi: il povero «più vicino Id., La rivolta ideale, Bologna 1943, pp. 63-64. Ivi, pp. 61 e 63. 96 Ivi, p. 321. 94 95

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alla gioia» viene contrapposto all’«onnipotente della ricchezza», che è costretto a vivere «in una solitudine fredda, senza nemmeno quella luce ideale, che consola i grandi solitari del pensiero»97 . Disgraziatamente sono arrivati i demagoghi, i «guastatori», che inquinano la semplicità primitiva del popolo suscitando nel povero la smania di rendersi eguale al ricco, di correre dietro alla falsa felicità del potere e del denaro. Se non erano chiare le linee della società futura, erano chiarissimi i mezzi che Oriani suggeriva per superare l’instabilità presente. Il primo di questi, sulla scia dello hegelismo di destra, era la restaurazione dell’autorità dello stato, concepito come ente superiore agli interessi dei singoli: Nella vita sociale il problema è piuttosto di autorità che di libertà [...] Nella politica, come azione, tutto procede dalla autorità, è una guerra pari ad ogni altra: l’energia del combattimento è in ragione della fede, e la fede in ragione dell’autorità; se gl’interessi hanno l’aria di guidare la politica, non sono invece che il combustibile della macchina e il carico del treno98 .

Su questa idea dello stato forte s’innesta la seconda tesi del programma politico di Oriani, l’espansione coloniale: Essere forti per diventare grandi, ecco il dovere: espandersi, conquistare, sperimentalmente, materialmente, coll’emigrazione, coi trattati, coi commerci, coll’industria, colla scienza, coll’arte, colla religione, colla guerra. Ritirarsi dalla gara è impossibile: bisogna dunque trionfarvi. L’avvenire sarà di coloro che non lo hanno temuto: la fortuna e la storia sono donne, e amano soltanto i gagliardi capaci di violentarle, che accettano i rischi dell’avventura per arrivare alla dominazione dell’amore99 . Ivi, p. 316. A. Oriani, La rivolta ideale, cit., pp. 155 e 158. 99 Ivi, p. 276. 97 98

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Nessuna meraviglia che Oriani fosse considerato maestro dei nazionalisti (così il cerchio si chiude). Il 10 luglio 1910 Federzoni scrive ad Arcari: Amico mio, ve ne sono infinitamente riconoscente. E non tanto per me, quanto per l’opera di rivendicazione della gloria di Oriani, alla quale mi sono disperatamente consacrato... Ammirate Oriani. Dovete essere con noi. Stiamo costituendo un comitato promotore di tutte le opere di lui: Corradini, De Roberto, Simoni, Croce, Grargiulo, Ojetti hanno già accettato di far parte di questo comitato100 .

100 Citato da P. M. Arcari, La elaborazione della dottrina politica nazionale tra l’Unità e l’intervento, vol. III, Firenze 1934-39, p. 120.

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5 I DUE SOCIALISMI

La convivenza tra nazionalismo e sindacalismo rivoluzionario non era stata un’ingegnosa trovata di Corradini. Come dottrina insieme conservatrice ed eversiva, il nazionalismo, mentre teneva un piede nella tradizione del pensiero reazionario, tentava di posare l’altro in quella del pensiero rivoluzionario che in quegli anni fu rappresentato in Italia in modo preponderante dal sorelismo. Nazionalisti e sindacalisti rivoluzionari costituirono insieme per anni i due poli estremi della reazione contro la socialdemocrazia, alleata al liberalismo nella conservazione e nello sviluppo di una democrazia ancora acerba, che s’ispirava, se pur con molti difetti e cadute, al modello di nazioni civilmente e industrialmente più progredite come Francia e Inghilterra: gli uni e gli altri non tenevano in alcun conto il governo parlamentare, disprezzavano il metodo democratico e avevano una cieca fiducia nella virtù rigeneratrice della violenza. È destino che gli estremi talvolta si tocchino: se Corradini aveva additato una possibile confluenza del nazionalismo nel sindacalismo, alcuni sindacalisti rivoluzionari scopriranno la loro vocazione nazionalistica in occasione della guerra di Libia e della prima guerra mondiale. Sorel fu un pensatore tempestoso, che si abbandonò a tutti i venti più furiosi della sua epoca per il gusto di essere sempre in burrasca. Il lievito costante del suo pensiero, che dopo aver soffiato sul fuoco della rivoluzione sociale blandi i gruppi reazionari dell’Action française per terminare nell’ammirazione di Mussolini e di Lenin, fu l’odio feroce e inestinguibile per la democrazia: in questo odio il vecchio conservatore che sonnecchiava in lui diede una mano al rivoluzionario che si andava destan-

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do, e tutti e due, alla fine congiunti, poterono sfogare vecchi e nuovi risentimenti, ad un tempo, contro la democrazia borghese per la sua inettitudine, e contro la democrazia socialista per la mancanza di rigore rivoluzionario. Pur di combattere l’esecrata democrazia, si alleò di volta in volta con i socialisti che disprezzava e coi nazionalisti verso i quali non riuscì mai a nascondere la sua diffidenza. Per aver esasperato tutte le tensioni, di cui la principale era dentro lui stesso, andò alla ricerca non di rimedi ragionevoli ma soltanto di soluzioni catastrofiche. Il razionalista Julien Benda gli attribuì «un colte satanique de la blague»101 . Reagì all’interpretazione positivistica del marxismo, che appiattiva la filosofia di Marx in una concezione fatalistica della storia, contrapponendovi un’interpretazione irrazionalistica, che, rifiutando il marxismo come nuova scienza della società, ne conservava soltanto l’idea della lotta di classe. I positivisti avevano annacquato Marx con Spencer; Sorel cercò di farlo fermentare con Nietzsche e Bergson. Al di là della cerchia dei suoi discepoli diretti, come Arturo Labriola ed Enrico Leone, che crearono il movimento sindacalista in Italia, fu amico e corrispondente di scrittori che scavano dall’altra parce come Pareto, Croce, Prezzolini, o Missiroli. Pareto, in occasione delle onoranze tributategli a Losanna nel 1917, espresse il suo debito di riconoscenza a Sorel per le di lui opere «si puissamment scientifiques»102 . Fu un discepolo di Pareto, Vittorio Racca, che presentò al pub101

J. Benda, Un régulier dans le siecle, Paris 1938, p. 39.

Jubilé du professeur V. Pareto, Université de Lausanne, Imprimerie Vaudoise, 1920, p. 56. In occasione della morte 102

di Sorel, Pareto scrisse un ricordo dell’amico scomparso, in «La Ronda», settembre-ottobre 1922, pp. 541-48 (ora in Scritti sociologici, a cura di G. Busino, Torino 1966, pp. 1147-51). Un breve ma intenso elogio di Sorel anche in «La Rivoluzione

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blico italiano, se pur confutandoli in anticipo, i Saggi di critica del marxismo (1903). Croce, dal canto suo, chiamò Sorel affermatore «di una morale austera, seria, spoglia di enfasi e di chiacchiere, di una morale combattente, atta a serbare vive le forze che muovono la storia e le impediscono di stagnare e corrompersi»103 . Prezzolini, cui si deve una esposizione piena di simpatia, se pur di una simpatia intellettuale più che immediatamente politica, del pensiero di Sorel e del sindacalismo (La teoria sindacalista, 1909), assegnò il Sorel alla schiera degli «eccitatori, svegliatori, rivelatori»104 . Mentre il pensiero del socialismo ufficiale sonnecchiava coi riformisti o vaneggiava coi rivoluzionari, Sorel fece scuola rapidamente tra i giovani socialisti e ispirò il movimento del sindacalismo rivoluzionario, che fu il risvolto prammatista, attivista, volontarista, e con qualche punta irrazionalistica in taluni seguaci, del socialismo. Il che può spiegare perché alcuni degli iniziatori del movimento, e non dei minori, come Sergio Panunzio, Angelo Oliviero Olivetti, Paolo Orario, finiranno nelle file del fascismo, anzi ne saranno fra i teorici più agguerriti. Del resto, gli irrazionalisti di destra non mancarono di rendere l’onore delle armi ai loro fratelli nemici: Papini, quando il movimento era ormai in crisi riconobbe che aveva saputo «risvegliare le tradizioni migliori dell’azione operaia e della teoria marxista» e fatto «opera utile di critica contro le consorterie socialiste sdrucciolanLiberale», I, n. 37, 14 dicembre 1922, un numero interamente dedicato a Sorel, in occasione della morte. 103 B. Croce, recensione ai Saggi di critica dei marxismo, sopra citati, in «La Critica», I (1903), pp. 226-28, quindi in Conversazioni critiche, Bari 1950, p. 309. 104 G. Prezzolini, La teoria sindacalista, Napoli 1909, p. 220.

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ti verso la democrazia pura e semplice»105 . Nonostante il giudizio critico che se ne possa dare col senno di poi, i sindacalisti furono l’ala intellettualmente più vivace del socialismo durante l’età giolittiana e diedero al dibattito anche teorico sul marxismo e sulla essenza e sull’avvenire del socialismo contributi forse a torto dimenticati. Ma, cresciuti in fretta con un forte gusto della polemica, e una notevole forza d’urto politica, si bruciarono in pochi anni: fu, la loro, un’esplosione fragorosa ma di breve durata che non produsse grandi effetti né teorici (le loro opere anche non indegne, soprattutto quelle di Arturo Labriola e le prime di Enrico Leone, non ebbero mai vasta eco) né politici (saliti alla ribalta con lo sciopero di Parma del 1904, erano già condannati come eretici e praticamente resi innocui al Congresso del partito socialista che si tenne a Firenze nel 1908). Si prodigarono nella creazione di riviste per alimentare il dibattito politico e scientifico, come «L’Avanguardia socialista» di Arturo Labriola (1902-1906), cui collaborò il giovane Mussolini, «Il Divenire socialista» di Enrico Leone (1905-1910), «Pagine libere» di A. O. Oliveto ed Orano (che ebbe inizio nel 1906 e durò con interruzioni sino al 1922), e in un brevissimo volger di tempo pubblicarono le loro opere principali, di cui la prima e più solida fu Riforma e rivoluzione sociale (1904) di Labriola, seguita da Problemi del socialismo contemporaneo (1906) di Oliveto, da Il sindacalismo (1907) di Leone, da Il socialismo giuridico (1907) di Panunzio, da L’azione diretta (1907) di Alceste De Ambris, da Marx nell’economia e come teorico del socialismo (1908) ancora di Labriola, e da La revisione del marxismo (1909) ancora di Leone. Contro la degenerazione parlamentare dei partiti socialdemocratici Lenin aveva elaborato negli stessi anni la 105 G. Papini, La necessità della rivoluzione, in «Lacerba», I (1913), n. 8 (La cultura italiana, cit., vol. IV, p. 160).

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teoria del partito rivoluzionario, guidato da intellettuali, e aveva escluso che un compito rivoluzionario potesse essere svolto dall’organizzazione di classe, il sindacato. I sindacalisti, al contrario, partendo dalla stessa critica dei parlamentarismo riformista contrapposero, come strumento di trasformazione sociale, il sindacato al partito. La eccessiva fiducia del movimento socialista nel partito derivava, secondo loro da una sopravalutazione, contraria allo spirito del marxismo, del momento politico su quello economico, dello stato sulla società. Tanto Arturo Labriola quanto Leone (cosa davvero insolita nella scoria del marxismo italiano) avevano coltivato studi economici e credevano si dovesse andare a cercare nella struttura economica della società industriale e non nella forma di governo, cioè nel sistema parlamentare, il segreto dell’avanzata della classe operaia e della rivoluzione sociale. Ma nello stesso tempo, rifiutando l’interpretazione cosiddetta engelsiana del materialismo storico come concezione deterministica della storia, ritenevano che la trasformazione dovesse essere opera della classe che vi era direttamente interessata. Si professavano volontaristi. Al metodo parlamentare che era una forma di azione indiretta, e inefficace, capace tutt’al più di correggere il sistema ma non di mutarlo, contrapponevano il metodo dello sciopero generale che, per il fatto di essere compiuto dagli operai stessi e di non essere delegato agli intellettuali del partito e ai politicanti del parlamento, veniva definito «azione diretta». Il partito che non poteva essere che riformista o solo apparentemente rivoluzionario (in realtà, nella migliore delle occasioni, insurrezionale) avrebbe dovuto essere sostituito dal sindacato che era naturaliter rivoluzionario. Labriola aveva visto benissimo che per fare la rivoluzione socialista occorreva la trasformazione del sistema economico e della classe dirigente politica. Rispetto a questi scopi il riformismo era, a suo giudizio, assoluta-

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mente impotente, perché quel che riusciva a ottenere nell’interesse della classe operaia finiva per rafforzare il potere della borghesia: «Noi alloghiamo – diceva Labriola – il partito riformista fra i partiti conservatori, in quanto il partito riformista tende appunto a conservare il dominio politico della classe alla quale chiede le riforme»106 . L’essenza del movimento veniva condensata in questa formula: «La classe operaia non può emanciparsi, se non riesce nel contempo ad impadronirsi della produzione e ad assorbire il potere politico»107 . Alle contrapposizioni classe-partito, momento economico-momento politico, società-stato, i teorici del sindacalismo aggiungevano quella operai-intellettuali. E professavano il primato dell’azione sulla teoria. «Il sindacalismo – scriveva Leone –, metodo essenzialmente pratico, non vive che operando, che agendo. L’azione è il suo principio e la sua essenza. Esso non attende dalla storia, ma vuol fare la storia. Ecco tutta la sua filosofia»108 . E precisava: Il socialismo del partito, democratico per definizione, soggetto inevitabilmente alla influenza degl’intellettuali, degli impiegati di stato, dei professionisti delle carriere libere, della piccola borghesia, colta e ignorante, è in contrasto col socialismo operaio – che si raccoglie nel sindacato esclusivamente di mestiere, elevando una rigida barriera di classe... Il socialismo degl’intellettuali è il tradimento inconsapevole del socialismo operaio109

Una volta cavalcavo il cavallo matto dell’azione diretta contro le laboriose e inconcludenti manovre elettorali e parlamentari, alcuni adepti più ardenti e culturalmente meno disciplinati si lasciavano sfuggire espressioni che 106 A. Labriola, Riforma e rivoluzione sociale, Lugano 1906, p. 75. 107 Ivi, p. 191. 108 E. Leone, Il sindacalismo, Palermo 1907, p. 17. 109 Ivi, pp. 91-92.

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non sarebbero apparse stonate sulla bocca dei superuomini del «Leonardo»: Contro il gesuitismo riformista, il cretinismo integralista, contro il puzzolente misticismo ed i suoi avveduti impresari, contro tutte le filosofie del dubbio e della morte, contro tutto il vecchio, il putrido, il mediocre, il finto, il timido, il subdolo, noi promettiamo di dare gran colpi per quanto le forze ci bastino e ci animi il fresco senso di vita che zampilla dalle profonde scaturigini dell’aristocratica anima plebea110 .

Uno dei temi obbligati che i sindacalisti ebbero in comune coi nazionalisti fu quello della violenza. Chi ripudiava il metodo democratico, non poteva non propugnare il metodo della violenza. Leone, a dire il vero, si sforzò, sulla scorta di Sorel, di distinguere la forza della lasse organizzata che sola è creatrice di nuova scoria, dalla violenza insurrezionale d’ispirazione blanquista, che il sindacalismo aveva ripudiato111 (Leone si sarebbe separato dai compagni al momento dell’entrata in guerra, restando neutralista). Ma Labriola compì un’analisi di testi marxiani per dimostrare che vi era in Marx, contrariamente alle edulcorate interpretazioni socialdemocratiche, una teoria della violenza rivoluzionaria. Olivetti ribadì che tra forza e violenza non si può stabilire alcuna differenza sostanziale, perché si chiama forza, per giustificarla, la violenza dei dominanti, e violenza, per condannarla, la forza dei dominati112 . Panunzio dedicherà al tema un intero libro, per distinguere la violenza buona, quella innovatrice, dalla violenza cattiva, quella conser110 A. O. Olivetti, Cinque anni di sindacalismo e di lotta proletaria, Napoli 1914. Il passo è tratto da un articolo del 1908, Senso di vita. 111 E. Leone, Il sindacalismo, cit., pp. 192-93. 112 A. O. Olivetti, Problemi del socialismo contemporaneo, Lugano 1916, pp. 206 sgg.

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vatrice, quando ormai non era più chiaro quale delle due violenze, quella cosiddetta bolscevica o quella fascista, fosse la violenza buona113 . Una volta accettata la violenza come metodo di lotta politica, era difficile nel caso concreto distinguere la violenza giusta da quella ingiusta, per la semplice ragione che per ognuna delle parti la causa giusta era la propria. Chi si metteva su questa strada, rischiava di lasciarsi attrarre dal fascino della violenza dovunque e in qualunque modo scoppiasse. Come accadde a Labriola, che accettò la guerra libica come una specie di scuola rivoluzionaria, di cui il proletariato, reso imbelle e impotente dall’esperienza addomesticatrice della socialdemocrazia, aveva urgente bisogno: «O miei compagni, sapete voi perché il proletariato d’Italia non è buono a fare una rivoluzione? Perché appunto esso non è nemmeno buono a fare una guerra»114 . Poco tempo prima, nella introduzione a una raccolta di saggi, aveva scritto in un momento di sconforto che il sindacalismo, che pure era il solo tentativo serio di ringiovanire la teoria del socialismo, era momentaneamente fallito, perché, essendo il sindacalismo «la negazione della democrazia», occorreva che le classi lavoratrici avessero «prima vuotato, sino all’amarissima feccia, il calice democratico. E quest’era non è prossima»115 . Quale altro evento dirompente avrebbe potuto avvicinarla se non la guerra? Olivetti ormai riconosceva che sindacalismo e nazionalismo convergevano 113 S. Panunzio, Diritto, forza e violenza. Lineamenti di una teoria della violenza, prefazione di R. Mondolfo, Bologna 1921. 114 A. Labriola, Pro e contro la guerra di Tripoli. Discussioni nel campo rivoluzionario, Napoli 1912, p. 49. Cito da E. Santarelli, Sorel e il sorelismo in Italia, in «Rivista storica del socialismo», III (1960), n. 10, p. 317. 115 Id., Economia socialismo sindacalismo. Alcuni scritti, Napoli s. d. ma 1911, p. VIII.

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perché sono entrambi «dottrine di energia e di volontà» in opposizione alle dottrine di adattamento. E proclamava: «Il divario oggi è fra i volitivi e gli adattabili». Allo scoppio della prima guerra mondiale i sindacalisti rivoluzionari contribuirono a rafforzare lo schieramento interventista. Pur non volendo dare troppa importanza al Manifesto del fascio rivoluzionario di azione internazionalista (5 ottobre 1914), i cui firmatari provenivano la maggior parte dal sindacalismo rivoluzionatio, ed era una rampogna contro i neutralisti e una denuncia del blocco austro-tedesco, il cui trionfo sarebbe stato in Europa «il rinnovato trionfo della Santa Alleanza», non bisogna dimenticare che lo stesso Labriola cercò di spiegare in un libro apparso nel 1915, La conflagrazione europea e il socialismo, che tutti gli stati borghesi erano imperialisti, ma l’imperialismo tedesco era peggiore degli altri perché innestato su un vecchio stato aristocratico feudale che soltanto la guerra avrebbe distrutto. Solo quando nella lotta politica si affronteranno l’una contro l’altra la violenza rivoluzionaria e la violenza controrivoluzionaria, e molti dei suoi compagni si schiereranno in favore della seconda, scambiandola per la prima. Labriola, riconoscendo nel fascismo la dittatura politica della borghesia che cerca di schiacciare il socialismo, esalterà la prima, riaffermando il principio che non ogni violenza è fonte di idealità morali e di progresso civile e la violenza disinteressata è generalmente contraria ai poteri costituiti, alla classe dominante, onde il fascismo nella misura in cui si presenta come la difesa dell’ordine costituito non può rivendicare il carattere di movimento rivoluzionario. I soreliani rappresentarono nel primo decennio del secolo il momento rivoluzionario del socialismo in quell’avvicendarsi di riformismo e rivoluzionarismo in cui consiste la storia del movimento operaio. Furono la versione di sinistra della ribellione contro la «mediocrità» della democrazia, una delle espressioni della «rivolta

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ideale» di Oriani. Mentre per i sovversivi di destra mediocrità è sinonimo di livellamento verso il basso, di «volgarità della moltitudine», di decadenza delle antiche aristocrazie, per i sovversivi di sinistra la democrazia è mediocre perché, al contrario, livellando ha soffocato con le piccole concessioni economiche lo slancio ideale del proletariato, e quindi ritardato l’avvento delle nuove aristocrazie operaie. Resta a vedere se questo giudizio di mediocrità non riveli da una parte e dall’altra l’immaturità di una cultura incapace di adeguarsi alle trasformazioni di una società che stava esperimentando tumultuosamente e in modo discontinuo e diseguale l’avvento dell’«industrialismo» (la bestia nera di Oriani); più estrosa che profonda, più brillante che documentata, con il fiato troppo corto per le lunghe corse in cui si era temerariamente avventurata, alla fine delle quali ci furono soltanto due imprevisti disastri, la prima guerra mondiale, effimera vittoria dei sovversivi di destra, e il fascismo, fine non solo del sogno rivoluzionario ma anche dell’aborrita democrazia. Mediocre fu, a dire il vero, senza attenuazioni, la filosofia del socialismo democratico, come è stato osservato ormai infinite volte. In realtà, il socialismo democratico, bene impersonato da Filippo Turati, fu una pratica e non una filosofia e tanto meno una filosofia della pratica. In un uomo come Turati, il positivismo o, se si vuole, il positivismo più il marxismo (in una versione non dommatica né tanto meno teologica) erano diventati un atteggiamento intellettuale, un’abitudine, un costume: non una concezione del mondo ma una guida all’azione secondo ragione ed esperienza. Alessandro Levi, parlando dell’educazione positivistica di Turati, precisò che il positivismo italiano non era il fantoccio degli idealisti ma «un metodo severo, che insegna a considerare la coscienza non come passività e recettività, anzi come energia viva che crea la storia, se pure non a colpi di mira-

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colo ma reagendo diuturnamente su le condizioni fra le quali essa medesima si è formata»116 . Sin dal 1900 Turati aveva scritto che la rivoluzione viene, sì, dalle cose ma aggiungeva: Ogni scuola che si apre, ogni mente che si snebbia, ogni spina dorsale che si drizza, ogni abuso incancrenivo che si sradica, ogni elevamento del tenore di vita dei miseri, ogni legge protettiva del lavoro, se tutto ciò è coordinato ad un fine ben chiaro e cosciente di trasformazione sociale, è un atomo di rivoluzione che si aggiunge alla massa. Verrà un giorno che i fiocchi di neve formeranno valanga. Aumentare queste forze latenti, lavorarvi ogni giorno, è fare opera quotidiana di rivoluzione, assai più che sbraitare su pei tetti la immancabile rivoluzione che non si decide a scoppiare117 .

Il problema dei rapporti fra teoria e pratica è molto più complesso di quel che possa sembrare a coloro che credono – e credono perché desiderano – che una grande pratica abbia bisogno di una grande filosofia e che basti la buona filosofia per fare la buona politica. Il socialismo italiano fu, negli anni della crescita e delle prime (e uniche) conquiste, riformista, senza aver elaborato una filosofia del riformismo, e senza essersi neppure apertamente pronunciato pro o contro il revisionismo di Bernstein che era considerato a torto o a ragione la «filosofia» del riformismo. L’unico scritto con qualche ambizione teorica fu Le vie nuove al socialismo (1907) di Ivano Bonomi, che s’ispirava al revisionismo. E del resto non ci fu intorno alla rivista ufficiale del partito, la «Critica sociale», quel fervore di dibattiti, quel fermentare di idee che caratterizzò il gruppo dei giovani soreliani. Trasformatosi il positivismo in costume intellettuale, avendo cessato 116 Cito da A. Levi, Filippo Turati, Roma 1924, ora in Scritti minori storici e politici, Padova 1957, p. 136. 117 Ivi, p. 137.

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di essere una filosofia per i filosofi, anzi essendo diventato, come in Salvemini, una specie di antidoto o di amuleto contro la filosofia. scaturiti dalla battaglia data dai diversi revisionismi tanti marxismi quante teste, è inutile domandarsi quale sia stata e se ci sia stata una filosofia «ufficiale» del socialismo. La risposta a una domanda di questo genere non serve a trovare il filo conduttore di un’impresa, culturalmente per altri aspetti così importante come la «Critica sociale». Dal punto di vista filosofico la rivista fu, puramente e semplicemente, «eclettica». Vi trovarono posto e consensi persino irregolari della cultura come Giuseppe Rensi, il cui articolo, Rinascita dell’idealismo (1905), fu considerato come una capitolazione del socialismo italiano di fronte all’avversario. La crisi ideologica era diventata così evidente che alla fine del 1910 la rivista sentì il bisogno di rivolgersi ai suoi lettori con un referendum per chiedere la loro opinione sulla lagnanza «che il partito socialista italiano vive alla giornata, alieno dal tuffarsi nell’onda ravvivatrice del pensiero teorico». A giudicare dalla lunga polemica tra Ettore Marchioli e Tullio Colucci, che erano d’accordo nel riporre in soffitta il marxismo teorico per metterne in rilievo esclusivamente l’aspetto etico, il primo scomodando tutta la filosofia idealistica da Kart a Martinetti, il secondo insistendo sul concetto che il marxismo non è una filosofia ma un’etica118 , bisogna ammettere che la preoccupazione dei redattori della rivista era fondata, anche se sarebbe stato ingenuo aspettarsi una soluzione da chi aveva presentato uno degli articoli di Colucci 118 Questa polemica ebbe inizio con un articolo di Colucci, Rileggendo Marx, in «Critica sociale» XXI, n. 10, 16 maggio 1911, pp. 145-47, cui risponde Marchioli, Oltre la lotta di classe, ivi, n. 11, 1°giugno 1911, pp. 165-66. La discussione proseguì per varie puntate, e fu conclusa da Colucci, Il capitombolo (Ancora sulla crisi del socialismo), ivi, n. 15, 1° agosto 1911, pp 275-77.

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come «superbo»119 , quando l’intera raccolta, presentata con un titolo ambizioso, Il socialismo di domani (1912), fu pubblicata con una prefazione molto lusinghiera dello stesso Turati. È rimasto celebre il giudizio di Carlo Rosselli: «La gioventù si riferisce proprio agli anni intorno al 1910 fu volta a volta crociana, vociana, liberale, futurista, nazionalista, cristiana, ma non fu più socialista. Il socialismo non interessava più»120 . Nella disputa intorno al marxismo provocata dal referendum era intervenuto anche Rodolfo Mondolfo (18771976), il quale, in occasione del Congresso di Firenze del 1908 che, come ho già ricordato, aveva segnato il trionfo della corrente riformistica e dato l’ostracismo al sindacalismo rivoluzionario, aveva iniziato la sua lunga e ininterrotta discussione sui presupposti teorici del marxismo con un interrogativo: Fine del marxismo? La risposta che egli diede nel lungo saggio del 1909 su Feuerbach e Marx e nel volume Il materialismo storico in Federico Engels del 1912 e via via in altri scritti fu che il marxismo non era morto121 . Ciò che era morto con la fine del positivismo meccanicistico era l’interpretazione deterministica del marxismo. Ma questa non era il marxismo; anzi era una degenerazione del genuino pensiero di Marx, perché il genuino pensiero di Marx, e anche, nonostante i dubbi da diverse parti sollevati, di Engels, era uno storicismo umanistico. Per dimostrare questa tesi Mondolfo compì un’operazione che sarebbe diventata abituale nel neo-marxismo 119 Cfr. l’articolo redazionale, Controveleno, ivi, che presenta un nuovo articolo di Colucci, Grandezza e decadenza del socialismo, pp. 226-33. 120 C. Rosselli, Socialismo liberale, Torino 1979, p. 47. 121 I saggi di Mondolfo sul marxismo e sul materialismo storico sono raccolti nel volume Umanismo di Marx, a cura di N. Bobbio, Torino 1968.

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di quest’ultimo dopoguerra: risalì ai testi giovanili, di cui in quegli anni i più tormentati e significativi erano le cosiddette Glosse a Feuerbach (1845), stampate da Gentile in appendice al suo saggio, Una critica del materialismo storico, del 1899. Il testo chiave era il frammento n. 3 dove Marx, dopo aver criticato la teoria materialistica secondo cui gli uomini sono il prodotto dell’ambiente (dunque Marx non era un materialista) ed affermato che «l’ambiente viene mutato appunto dagli uomini» (dunque i veri soggetti della storia sono gli uomini), concludeva: «Il coincidere del variar dell’ambiente e dell’attività umana può essere concepito e inteso razionalmente soltanto come prassi rovesciata». Da queste due ultime parole (che erano tra l’altro una traduzione sbagliata di umwalzende Praxis, che avrebbe dovuto essere reso, se mai, con «prassi rovesciante»), Mondolfo trasse ispirazione per designare il marxismo, come del resto aveva già fatto Labriola e farà nei Quaderni Gramsci, come «filosofia della prassi» e per individuare il nocciolo del marxismo nel concetto, già enucleato da Gentile, di «rovesciamento della prassi». Intesa la prassi in senso strego come pratica contrapposta a teoria e in senso largo come insieme delle attività umane coscienti contrapposte alle forze della natura, il rovesciamento della prassi stava a indicare, da un lato, il rapporto dialettico di teoria e prassi, dall’altro, in senso più generale, il rapporto dialettico tra uomo e ambiente. Ecco che cosa scrive Mondolfo: Per il materialismo storico c’è sempre il rovesciamento della prassi: l’attività precedente, nei suoi risultati, diverta condizione e limite dell’attività successiva, che però si afferma come opposizione a ciò che preesiste; e tende a superarlo dialetticamente. Quindi la conoscenza delle condizioni e dei limiti è parte es-

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senziale dello sviluppo della volontà: il momento pratico non si disgiunge dal momento critico122 .

Questa enunciazione serve al Mondolfo, non a caso, in un saggio del 1912, per prendere posizione contro il sindacalismo rivoluzionario, che sarebbe non una concezione critico-pratica della realtà, come il materialismo storico, ma soltanto pratica, nel senso che per i sindacalisti «l’azione è tutto». Questa differenza poi dipende dalla diversità dei presupposti filosofici, che sono dati, nel primo, dal volontarismo di Feuerbach, nel secondo, dal moderno volontarismo contingentistico. Dieci anni più tardi Mondolfo si servirà degli stessi argomenti per condannare la rivoluzione di Lenin come rivoluzione prematura, destinata a dar vita non a una democrazia socialista ma a un regime di capitalismo di stato. Tra interpretazione deterministica che ripudiava nettamente, e interpretazione volontaristica da cui tendeva a distinguersi, Mondolfo, che voleva tener conto in egual misura e nello stesso tempo tanto delle condizioni obbiettive quanto di quelle soggettive, diede battaglia su due fronti: sul fronte del riformismo di corta veduta che aveva perso di vista il fine ultimo (al quale intimamente forse non credeva più), e su quello del rivoluzionarismo impaziente che tendeva a bruciare le tappe del processo storico. In un saggio del 1915, Spirito rivoluzionario e senso storico, la sua posizione mediatrice diventò abbastanza trasparente: al di là del riformismo ma al di qua della rivoluzione. Se il riformismo rappresenta l’abdicazione della coscienza rivoluzionaria di fronte alle ferree 122 R. Mondolfo, Socialismo e filosofia, in «L’Unità», II (1913), nn. 1, 2, 3, rispettivamente 3, 10, 17 gennaio, quindi ristampato in Sulle orme di Marx, Bologna 1919, pp. 14-25, e ora in Umanismo di Marx, cit., pp. 115-27. Il brano citato è a p. 124.

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leggi della storia, la rivoluzione, nella violenza della sua esplosione e nell’accelerazione del moto verso la conquista anche violenta del potere, rappresenta l’abbandono della coscienza storica alle esigenze della rivoluzione. In particolare, la violenza fu il tema di fondo che lo mise in contrasto direttamente con Sergio Panunzio che proveniva dalle fila del sindacalismo rivoluzionario. Panunzio aveva contrapposto la forza dello stato, che è necessità, alla violenza sovvertitrice e liberatrice che ha un valore etico. Mondolfo invertì il rapporto: la violenza è necessaria talvolta ad abbattere ma è impotente a costruire. L’articolo è del 1921123 , quando la violenza scatenata tra le opposte parti stava minacciando la sicurezza e la continuità dello stato liberale. Mondolfo, rifiutando la logica della violenza, rivelò ancora una volta negli anni decisivi quale fosse l’anima profonda del socialismo democratico. 123 Id., Forza e violenza nella storia, prefazione al libro di S. Panunzio, Diritto, forza e violenza. Lineamenti di una teoria della violenza, Bologna 1921; ristampata nella III ed. di Sulle orme di Marx, Bologna 1923, vol. II, pp. 57-69. Ora in Umanismo di Marx, cit., pp. 204-15.

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6 BENEDETTO CROCE

Gli anni di cui stiamo discorrendo furono contrassegnati dall’egemonia (che è, anche gramscianamente, termine più esatto di «dittatura») di Benedetto Croce. Il suo pensiero fu, insieme, centro di irradiazione e di convergenza dei movimenti intellettuali del tempo. Il positivismo, come abbiamo visto, era stato assalito da due parti opposte, dal materialismo storico per il suo aspetto di naturalismo deterministico, di evoluzionismo ottimistico; dall’irrazionalismo, per il suo aspetto di intellettualismo astratto, di scientismo riformatore. Croce sferrò il suo attacco contro il positivismo chiamando a sostegno di volta in volta e quindi avendo come alleati (se pur non sempre graditi) e il materialismo storico e l’irrazionalismo. Con ciò non bisogna credere, come si sarebbe tentati di pensare, che egli abbia compiuto soltanto opera di mediazione o di sintesi. Croce fu un giudice appassionato e talora un giustiziere severo: condannò con fermezza la tolleranza che si trasforma in indifferentismo, e la temperanza che si trasforma in accomodantismo. E poté essere giudice e giustiziere, intollerante e intemperante, perché nulla fu più estraneo al suo ideale di uomo di cultura che quello dell’arbitro che si asside in mezzo ai contendenti, del conciliatore che distribuisce equamente il torto e la ragione, del paciere al di sopra della mischia. Fu un protagonista, proprio perché non dimenticò mai in ogni momento di essere un antagonista, anche se occorre distinguere l’avversario ch’egli ebbe primamente di fronte, il positivismo, dagli avversari laterali, o secondari, di cui si servì per combattere lo stesso positivismo, come materialismo storico e irrazionalismo.

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Contro il positivismo, propugnando la «rinascita dell’idealismo» egli credette di dover promuovere un’opera di riforma radicale, di opposizione totale, di rovesciamento. Positivista si vantò di non essere stato mai, neppure in gioventù quando Spencer veniva scambiato per Aristotele e l’onorevole Baccelli chiamava le scienze non positive «chiacchieroiche». Nel ricordare quegli anni infausti, l’irritazione che i positivisti gli avevano cagionato si tramutava in questo tratto di buon umore: Come ogni uomo, ho fatto, o almeno scritto, anch’io parecchie corbellerie, delle quali mi dolgo e arrossisco, e che ho procurato e procuro di correggere. Ma al modo stesso che nell’elenco dei dieci comandamenti del Signore ve ne ha parecchi che credo di non aver mai violato, così tra le corbellerie che nel corso della vita si possono commettere da chi pratica con la filosofia e con gli studi in genere ce n’è una della quale mi compiaccio di essermi sempre tenuto puro, anche nei primi anni della mia giovinezza. Non sono mai stato positivista124 .

Sotto questo aspetto, cioè dell’antitesi positivismoidealismo, la vittoria di Croce fu schiacciante. La reazione idealistica contro il positivismo mutò non solo il concetto generale della filosofia, ma il gusto, lo stile, le affezioni e le disaffezioni, di un’intera epoca culturale. Il positivismo aveva fatto della scienza, in special modo della scienza naturale, l’alfiere di ogni forma di sapere umano; l’idealismo la rimise nei ranghi. Il positivismo aveva cercato di dare naturalistica anche delle manifestazioni dello spirito; l’idealismo, ripudiando ogni forma di naturalismo, cercò di dare una spiegazione spiritualistica anche dei fenomeni naturali. La forma di conoscenza che i positivisti esaltarono fu quella propria delle scienze della natura; gli idealisti contrapposero alla scienza della natu124 B. Croce, A proposito del positivismo italiano. Ricordi personali (1905), in Cultura e vita morale, Bari 1926, p. 41.

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ra come conoscenza del generale, la filosofia come sapere universale, come visione globale della realtà, e la storia come scienza dell’individuale che non è riducibile agli schemi astratti del naturalista. Rispetto al materialismo storico, invece, da cui trasse argomento per combattere l’antistoricismo, lo studio degli accadimenti umani col metodo delle scienze naturali, proprio del positivismo, Croce amò presentarsi piuttosto come correttore, cioè come storicista, sì, ma non come uno storicista dimidiato che rimette l’uomo sui piedi senza accorgersi di avergli tagliato la testa, bensì come lo storicista tutto d’un pezzo che dopo aver rimesso l’uomo sui piedi lo vede guidato dalle idee che ha nel cervello. Cosi rispetto all’irrazionalismo, di cui condivise il generale atteggiamento antintellettualistico, la rivalutazione del mondo delle passioni, delle forze vitali e irrazionali che muovono la storia, contro l’astrattismo scientistico dei positivisti, tenne non tanto a contrapporsi quanto a distinguersi per una nuova concezione della ragione immanente alla storia che non era l’intelletto astratto dei positivisti e degli illuministi loro putativi padri spirituali ma neppure la cieca irrazionalità dei nuovi adoratori della forza. Con marxismo e irrazionalismo ebbe in comune lo stesso nemico, il sempre avversato e deriso giusnaturalismo e illuminismo, il culto sterile, quando non diventa inutilmente sanguinario, della dea ragione, il pio e frigido moralismo di coloro che avendo paura delle tempeste della storia credono di domarle proponendo splendide ma inattuabili utopie, la presunzione di «mettere le brache al mondo»125 . Anzi dall’uno e dall’altro trasse alimento e argomenti per la sua critica antipositivistica: dal marxismo, nella fase dei suoi primi studi filosofi125 Nel Programma di «La Critica» (1903), in Conversazioni critiche, s. II, Bari 1950, p. 355.

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ci che culminarono nella cosiddetta «revisione» (che sarebbe più esatto chiamare «dissoluzione») del materialismo storico (la raccolta dei saggi, Materialismo storico ed economia marxistica, apparve nel 1900); dall’irrazionalismo, nella seconda fase, che lo condusse dalla scoperta dell’autonomia dell’arte, e dagli studi di estetica (le Tesi fondamentali di un’estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale sono del 1900, la prima edizione dell’Estetica del 1902), sino alla critica gnoseologica delle scienze e del valore teoretico dei concetti scientifici (la Logica come scienza del concetto puro è del 1909). Realismo storico, di cui si ritenne debitore al marxismo, e antintellettualismo, che nella critica delle scienze lo aveva portato a fianco dell’irrazionalismo, furono due componenti costanti del suo pensiero. Nella battaglia antipositivistica fece il primo tratto di strada in compagnia dei marxisti, il secondo in compagnia degli irrazionalisti. E infatti, allo stesso modo che egli andava ripetendo aver riappreso da Marx la lezione di Machiavelli, non esitò a comporre nello stesso disegno della rinascita culturale la propria opera di studioso dell’idealismo classico tedesco e il fermento antiscientistico delle giovani generazioni, salvo a distinguere l’irrazionalismo di costoro da un più «verace» e «sodo» razionalismo che egli andava propugnando. Quando nella Storia d’Italia tracciò il quadro del «rigoglio di cultura» tra il 1908 e il 1914, dopo aver affermato che nulla avrebbe potuto arrestare la decadenza del positivismo, enumerò tra le cause di questa inevitabile crisi, tanto «il materialismo storico con la sua dialettica», quanto «un certo diffuso spirito tra romantico e mistico, che rendeva intollerabile il grossolano semplicismo positivistico, particolarmente nelle cose delicate dell’arte, della religione e della coscienza morale, e intollerabi-

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le, potrebbe dirsi, lo stesso suo stile e gergo»126 . Mentre espunse il positivismo dalla storia della filosofia (come aveva fatto Hegel per l’empirismo inglese) e non indugiò mai sull’opera degli scrittori positivistici se non per qualche sfuriata e passò oltre, accennando una sola volta di sfuggita ai principi filosofici dell’Ardigò, «cioè di ciò che non è filosofia, non vuol essere filosofia e si atteggia ad antitesi di tutta la filosofia che l’uomo ha fatta da quando si è messo a pensare», e accontentandosi di dare di tanto in tanto una sferzata o soltanto una graffiatura, si considerò, nonostante i dissensi, discepolo di Labriola, fu amico di Sorel e ne fece l’elogio che si è visto, e nello stesso tempo, impegnato nella battaglia del «risveglio», accolse con benevolenza i giovani del «Leonardo», cui si limitò a dare qualche paterno rabbuffo, si mostrò più indulgente verso le stravaganze filosofiche di Papini127 , che non verso l’opera sulla previsione nei fatti sociali del positivista Limentani, e mostrò, almeno sino allo «sciocchezzaio», di prendere sul serio il «licenziatore» della filosofia. Anche quando col saggio Di un carattere della più recente letteratura italiana prese netta posizione contro la confusione di nazionalismo ed estetismo, di morale imperiale e decadentismo letterario, scrivendo: Tutti costoro gli imperialisti, i mistici, gli esteti sotto vari nomi e maschere varie, lasciano tralucere una continua fisionomia. Sono tutti operai della medesima industria: la grande industria del B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, cit., p. 248. Nella discussione che Croce ebbe con Papini in occasione della pubblicazione della Logica come scienza del concetto puro espresse un giudizio molto severo sul suo critico, «il quale pareva allora si proponesse di coltivare i problemi filosofici, e poi si vide (e si è visto sempre meglio in seguito), che faceva solo per celia o per chiasso» (Intorno alla logica, in «Leonardo», III, ottobre-dicembre 1905, pp. 177- 80, ora in Pagine sparse, cit., vol. I, p. 156). 126

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vuoto. Ne raccolgono la materia prima, la sottomettono a una sgrossatura, la fanno passare per successivi gradi di elaborazione, la riducono in forma di manufatti, la dispongono in mostra nelle vetrine, la consegnano agli adescati compratori. Che cosa vogliono? Chi lo sa!... Questa fabbrica del vuoto, questo vuoto che vuol darsi come pieno, non cosa che si presenta tra le cose e vuole sostituirsi a loro e dominarle, è l’«insincerità»128 ;

rimise in onore con elogi inusitati uno degli artefici o dei pionieri di questa fabbrica, Alfredo Oriani. Apprezzandone l’educazione (e forse soltanto l’infarinatura) hegeliana che lo aveva reso insensibile agli adescamenti positivistici, chiamò la sua storia d’Italia «una storia pensata». Scoprì ne La rivolta ideale cose «notevoli per bontà di giudizio e per vigore e plasticità di rappresentazione», e, pur criticandone la genericità che si risolveva in fiacchezza di pensiero e di stile, non batté ciglio di fronte al programma politico nazionalista, autoritario ed imperialista, che pur costituiva la sostanza del libro. Anzi, riconosciutegli doti di poeta, concluse: Temperamento romantico, almeno in questo connubio di speculazione e arte, di religione e storia, di rapimento pel bello e ossessione del brutto, forse potrà trovare, ora, animi meglio disposti che non venti anni addietro, e quella giustizia che merita e che finora gli è stata negata129 .

Che Croce non si sentisse turbato dell’immagine che l’Oriani si era fatta del presente e dell’avvenire d’Italia, non ci deve sorprendere. Questa immagine coincideva in gran parte, per lo meno nella faccia negativa, con la 128 In «La Critica», V (1907), pp. 177-90, quindi ristampato in La letteratura della Nuova Italia, vol. IV, Bari 1915, pp. 179-96. Il brano citato è a p. 195. 129 B. Croce, Alfredo Oriani, in «La Critica», VII (1909), pp. 1-28, quindi ristampato in La letteratura della Nuova Italia, cit., vol. III, pp. 230-62. Il brano citato è a p. 262

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sua. Anche in Croce l’antipositivismo e l’ammirazione per Hegel e per la filosofia classica tedesca furono strettamente connessi con un radicato senso di diffidenza, che giungeva alla reazione irritata e all’aristocratico disprezzo, verso la democrazia. Nello stesso saggio in cui manifestò la propria soddisfazione di non essere mai stato positivista, si trova questa voce veramente fuggita dal seno: Rifiutare allora d’iscriversi al gran partito positivista, prendere un altro titolo, come d’idealista o di hegeliano o di herbartiano o di rosminiano, era il medesimo che rassegnarsi a esser considerato cervello balzano dai benevoli e questurino travestito dai positivisti esaltati e spadroneggianti, i quali erano per giunta tutti repubblicani e democratici130 .

Poi, dopo un giudizio che riecheggiava il gusto blasfemo dell’ultimo Nietzsche (il positivismo vi è definito come «una rivolta di schiavi contro il rigore e la severità della scienza»), quasi una giustificazione: L’orrore contro il positivismo [...], quel mio orrore divenne così violento da soffocare per parecchi anni persino le tendenze democratiche che sono state sempre naturali nel mio animo [...] Ma la democrazia italiana era, non si sa perché (se non forse per la smania di popolarità, che è male quasi inevitabile di tutte le democrazie), positivistica; e il mio stomaco si ricusò di digerirla, finché essa non prese qualche condimento dal socialismo marxistico, il quale, cosa orma notissima, è imbevuto di filosofia classica tedesca. Anzi oggi [il saggio è del 1905] la fraseologia positivistica di certi democratici italiani mi fa sorgere impeti di conservatore131 .

Da posteri quali siamo, in condizione di osservar tutto intero l’arco della lunga vita intellettuale di Croce, sappiamo bene che il restauratore dell’idealismo non ebbe 130 131

Id., Cultura e vita morale, cit., p. 42. Ivi, p. 45.

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soltanto «impeti di conservatore»: fu, nel senso più ampio e meno angusto della parola, un conservatore. Come Gaetano Mosca, che tenne in grande stima, espresse nei suoi scritti politici alcuni motivi caratteristici della grande tradizione del pensiero conservatore, o, se vogliamo rifarci alla nostra storia, della tradizione moderata: il realismo storico che si fa beffe delle chiacchiere dei profeti disarmati; il sentimento della santità della tradizione, del valore della continuità storica, della prescrizione in senso burkiano, della «positività» (nel senso di non-negatività) di quel che è accaduto per il solo fatto che è accaduto (e quindi, secondo la massima per cui ciò che è reale è razionale, doveva accadere); la sfiducia nel progresso irresistibile e inarrestabile, unita all’amore del passato, delle cose morte che sono vive nel presente, e sono diventate oggetto di riverenza nei non immemori eredi; una concezione non pessimistica, ma neppure ottimistica e tanto meno idilliaca, della storia, che viene ripetutamente intesa kantianamente come teatro di antagonismi perpetui, di lotte che generano altre lotte (e guai se accadesse altrimenti e la pace si stendesse come una coltre funebre sulle passioni umane!); l’idea che l’individuo singolo non conta nulla o per lo meno conta non per quel che crede di fare ma per il compito oscuro che la provvidenza storica gli assegna, lui nolente o incosciente; infine, un senso profondo della complessità inestricabile delle umane vicende, ove le forti passioni valgono più che le mediocri virtù, onde i pochi sono destinati a dominare i molti, le aristocrazie le plebi, e i disegni di emancipazione delle forze popolari, ricorrenti per opera degli incorreggibili riformatori, di volta in volta giacobini, socialisti, democratici, radicali, sono tele di ragno destinate a strapparsi al primo vento. Le consonanze di questi temi crociani con quel capolavoro di teorizzamento della «ragion conservatrice» che sono le Considerazioni di un impolitico di Thomas Mann,

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contrapponenti la profondità della Kultur tedesca alla superficialità della civilisation francese, sono sorprendenti; e furono del resto avvertite dallo stesso Croce che annunziò il libro, appena uscito, «pei pochi che amano ancora pensare e che gustano i libri scritti bene». Dopo aver rilevato che il tema di fondo dell’opera è l’umana ed eterna opposizione tra aristocrazia e volgo, prosegue: E certo bisogna pure protestare contro il volgo, definirlo, satireggiarlo, respingerlo da sé con violenza: giova sfogarsi; la pazienza ha i suoi limiti. Ma, fatto tutto ciò (e pochi lo han fatto così bene come il Mann), il volgo resta: resta, perché opera (a suo modo, ben s’intende), e adempie i suoi molteplici uffici, tra i quali anche di stimolare ed acrrescere, nell’aristocrazia, la coscienza dell’aristocrazia132 .

Nulla più che alcune famigerate pagine sulla tolleranza servono a illustrare in rapidissima sintesi questa connessione tra realismo storico e idealizzazione del passato, tra concetto della forza positiva del negativo e fastidio per le ubbie dei moralisti: Lamenteremo noi le stragi di san Bartolomeo o i roghi dell’Inquisizione o le cacciate degli ebrei e dei moreschi o il supplizio del Serveto? Lamentiamoli pure; ma servando chiara coscienza che, a questo modo, si fa poesia e non già storia. Quei fatti sono avvenuti e nessuno può cangiarli; come nessuno può dire che cosa sarebbe avvenuto se non fossero avvenuti. Le espiazioni, che la Francia e la Spagna avrebbero fatte o dovrebbero fare per pretesi delicta maiorum, è frase di vendicativo giudaismo, da lasciarla ai predicatori, priva di qualsiasi significato. La direi persino immorale, perché da quelle lotte del passato è nato questo nostro mondo presente, che pretenderebbe, ora, le132

B. Croce, Pagine sparse, cit., vol. II, p. 147. Il corsivo è

mio.

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varsi di fronte al suo progenitore per insultarlo o, per lo meno, fargli il sermone133 .

E se si vuole una formula riassuntiva conviene ripetere queste parole: «Non si tratta [...] di creare un nuovo mondo, ma di seguitare a lavorare su quello vecchio, che è sempre nuovo»134 . Il vecchio mondo cui Croce si ricollegava era quello, idealizzato, del nostro Risorgimento che si era svolto «come reazione a quell’indirizzo francese, giacobino, massonico»135 «. Questo mondo stava come età positiva tra due momenti negativi, illuminismo (o giacobinismo, enciclopedismo, egualitarismo, tutti termini egualmente spregiativi e l’un con l’altro sostituibili) e positivismo, con tutte le sue insensatezze filosofiche e le conseguenti storture politiche e morali. Nel linguaggio crociano il termine corrente per indicare la quintessenza dei due momenti negativi è «mentalità massonica». Di questa mentalità caratteri salienti sono astrattismo, opposto a storicismo, senso della concretezza, dell’individualità, e il semplicismo che si oppone alla coscienza della complessità della storia: La mentalità massonica semplifica tutto: la storia che è complicata, la filosofia che è difficile, la scienza che non si presta a conclusioni recise, la morale che è ricca di contrasti e di ansie [...] Cultura ottima per commercianti, piccoli professionisti, maestri elementari, avvocati, mediconzoli, perché cultura a 133 Originariamente in una recensione al libro di L. Luzzatti, La libertà di coscienza e di scienza (1909), ora in Cultura e vita morale, cit., p. 98. Croce ritornò sul tema in una intervista del 1909, ora in Pagine sparse, cit., vol. I, p. 247. 134 B. Croce, Fede e programmi (1911), in Cultura e vita morale, cit., p. 162. 135 Id., La mentalità massonica (1910), ivi, p. 146.

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buon mercato; ma perciò stesso pessima per chi deve approfondire i problemi dello spirito, della società, della realtà136 .

L’aspetto pratico di questa mentalità è il democratismo, cioè il credere che tutti gli uomini siano eguali e quindi debbano essere trattati da eguali, il che è manifestamente un compendio dei due errori dell’astrattismo e del semplicismo. Croce partecipò con profonda convinzione alla reazione antidemocratica di tutte le correnti del «risveglio», sino a prender posizione durante la prima guerra mondiale contro la propaganda bellica dell’Intesa in nome della superiore concezione politica e storica degli Imperi, portatori della tradizione di pensiero per cui la politica è forza, e dell’idea dello stato-potenza, «un universale principio direttivo, utile del pari a tutti gli stati, e che a tutti gli stati consiglia la «potenza» e non l’«impotenza». Nel bel mezzo della guerra (marzo 1916), espresse i suoi odi e i suoi amori con una delle tante variazioni sul tema dell’antidemocratismo con questo giudizio: Non potendo altro, io me la prendo, intanto, contro la Massoneria, non già, come si fa d’ordinario, perché la giudichi perniciosa accolta d’intriganti e affaristi [...], ma appunto perché quell’istituto, originato sul cadere del Seicento, al primo formarsi dell’indirizzo intellettualistico, plasmato nel Settecento, messo ora a servigio della democrazia radicale, popolato dalla piccola borghesia, rischiarato dalla cultura dei maestri elementari, rafforzato dal semplicismo razionalistico del giudaismo, è il più gran serbatoio della mentalità settecentesca, uno dei maggiori impedimenti che i paesi latini incontrino ad innalzarsi a una vera comprensione filosofica e storica della realtà e a una vita politica adeguata ai nuovi tempi137 . 136 137

Ivi, p. 145. Id., Pagine sulla guerra, Bari 1928, p. 108.

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Dopo essersi compiaciuto che la guerra avesse finalmente scosso la ideologia umanitaria e massonica mostrando che la storia umana non è né quell’idillio né quella putredine che gli umanitari vogliono far credere, conclude: Chiamare la guerra, chiamare questa religiosa ecatombe alla quale la vecchia Europa si è offerta fidente nell’avvenire e guardando ai figli dei figli, chiamarla (come usano gli umanitari e i massoni) «resto di barbarie e sopravvivenza d’istinti sanguinari», è tal giudizio, che basterebbe a render chiara l’insanabile inferiorità, la pochezza, l’ottusità della forma mentale massonica138 .

A differenza di Pareto e di Mosca, Croce si accani molto più contro il democratismo che contro il socialismo: il socialismo, che ancor sopravviveva dopo il crollo delle illusioni rivoluzionarie era, a suo giudizio, una forma camuffata di riformismo democratico, e quindi non era più socialismo. Dopo aver trasfuso il suo sangue migliore nella reazione antipositivistica e antidemocratica (da Labriola al sindacalismo rivoluzionario), il socialismo aveva finito per morire dissanguato. La notizia che il socialismo fosse ormai morto fu data, com’è noto, da Croce in un’intervista a «La Voce» del febbraio 1911 all’indomani del Congresso socialista di Milano che aveva confermato la prevalenza della corrente riformistica pur rivelandone la crisi profonda, e un mese prima che Leonida Bissolati entrasse in Quirinale per partecipare alle consultazioni per un nuovo ministero Giolitti. Aggiunse ironicamente che si trattava di una notizia molto importante. Ma noi sappiamo che non era nuova. Due anni prima, al tempo del Congresso di Firenze, in cui il riformismo aveva riportato una vittoria definitiva sul sindacalismo rivoluzionario, il «Corriere della sera» aveva annunziato che 138

B. Croce, Pagine sulla guerra, cit., pp. 109-10. Il corsivo è

mio.

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il Congresso aveva cantato il miserere a Marx e alla sua dottrina139 . Gli argomenti di Croce non erano molto diversi. Definitivamente chiuso col socialismo scientifico il periodo del socialismo utopistico, mosso dall’«ingenuo e quasi bambinesco desiderio della regolarità o dell’eguaglianza» (mentre la vita è ineguale e irregolare), smentito il socialismo scientifico dalle tendenze della società moderna che aveva condotto gli operai, i presunti protagonisti della rivoluzione sociale, a fondersi con la democrazia, spentosi in breve tempo l’entusiasmo rivoluzionario dei sindacalisti, il socialismo aveva dato tutto quel che poteva alla civiltà moderna e aveva esaurito la sua missione storica. Che la idealizzazione del passato, di cui è prova anche questa giustificazione postuma del socialismo, andasse di pari passo col rifiuto della mentalità del riformatore, che consiste, al contrario, nell’idealizzare il futuro, è dimostrato dalla critica che su per giù in quello stesso periodo Croce fece dei programmi politici in nome della fede, e dei partiti in nome del concreto operare dell’uomo politico. Se è vero che la storia non si fa coi «se» (proprio perché è razionale), non si fa coi «se», a giudizio del conservatore, cioè con quelle ipotesi di lavoro che sono i programmi, i cui portatori sono i partiti, neppure la politica, perché è opera della ragione concreta non del raziocinio astratto. Volendo esprimere la propria opinione sul compito dell’ora presente, Croce non trovò di meglio infatti che lamentare la decadenza del sentimento dell’unità sociale per cui «le grandi parole che esprimevano questa unità: il Re, la Patria, la Città, la Nazione, la Chiesa, l’Umanità sono diventate fredde e retoriche», e della disciplina sociale, onde «gli individui non si sentono più legati a un gran tutto, parte di un gran tutto, sottomessi 139 Si veda la risposta di Mondolfo, La fine del marxismo? (1908), ora in Umanismo di Marx, cit., pp. 5-7.

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a questo, cooperanti in esso, attingenti il loro valore dal lavoro che compiono nel tutto»140 . Che era poi l’ideale dell’uomo d’ordine e quanto di più illiberale e non soltanto antidemocratico si potesse immaginare, e di apparentemente contraddittorio per un pensatore che aveva fatto dell’antagonismo la molla del processo storico (ma anche Hegel era approdato alla stessa sponda). Conseguentemente, in una delle pochissime dichiarazioni politiche di quegli anni, nei primi mesi della guerra, spiegò, facendo cader dalle nuvole i suoi lettori, che il suo ideale era il socialismo di stato: ... mi si è accesa la speranza di un movimento proletario inquadrato e risoluto nella tradizione storica, di un socialismo di stato o nazione; e penso che ciò che non faranno, o faranno assai male e con finale insuccesso, i demagoghi di Francia, d’Inghilterra e d’Italia [...], farà forse la Germania, dandone l’esempio e il modello agli altri popoli141 .

L’unica volta che partecipò a una battaglia elettorale, in occasione delle elezioni amministrative di Napoli nel luglio del 1914, assunta la presidenza del comitato del Fascio dell’ordine contro il blocco dei partiti del progresso, ne scrisse il manifesto, ove tratteggiò l’ideale del buon cittadino: Intitolandoci Fascio dell’Ordine, questo solamente abbiamo voluto dire: che preferiamo l’ordine al disordine, il serio studio alla chiacchiera avventata, il lavoro all’agitazione incomposta, i cui tristi effetti non hanno bisogno di essere dimostrati e documentati, perché stanno recenti e vivi alla memoria di tutti i cittadini di Napoli, stanchi ormai di scioperi capricciosi, sdegnati del sangue e delle devastazioni, insofferenti degli impacci 140 141

B. Croce, Cultura e vita morale, cit., p. 163. Id., Pagine sulla guerra, cit., p. 22.

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che a ogni istante si frappongono allo svolgimento della propria attività privata e pubblica142 .

È stato messo giustamente in rilievo quanta importanza abbia avuto in tutto il corso delle riflessioni e degli atteggiamenti politici di Croce l’amor di patria143 . Nel 1916: «La storia pone in primo luogo la Patria, la difesa della Patria e la gloria della Patria, e solo in secondo luogo, e nella cerchia interna della Patria, i contrasti dei partiti e delle classi144 . Non altrimenti nel 1943: «Risuona, oggi, alta su tutto, la parola libertà; ma non un’altra che un tempo andava a questa strettamente congiunta: la patria, l’amore della patria, l’amore, per noi italiani, dell’Italia»145 . Questo continuo richiamo all’amor di patria offre un sostegno e serve a dar concretezza storica all’idea dell’unione sociale di cui si è testé parlato. Prova ne sia che quando Mosca, il «conservatore galantuomo», scrisse che nessuna società politica poteva durare senza una forza di coesione e che, venuta meno la forza coesiva della religione tradizionale, «come principale fattore di coesione morale e intellettuale, nel seno dei diversi popoli europei è ora rimasto il patriottismo», Croce annuì, solo precisando che il patriottismo doveva essere inteso «in modo etico e non in modo naturalistico, etnico, brutale, libidinoso, capriccioso, come nei diversi nazionalismi»146 . Unità sociale e amor di patria furono, più che idee, affetti, di chi si sentiva erede di una granId., Pagine sparse, cit., voi. I, p. 407. Così G. Sartori, Stato e politica nel pensiero di B. Croce, Napoli 1966, pp. 105 sgg. 144 B. Croce, Pagine sulla guerra, cit., p. 151. 145 Id., Una parola desueta: l’amor di patria, in Scritti e discorsi politici, vol. I, Bari 1963, p. 95. 146 Recensione alla seconda edizione degli Elementi di scienza politica di G. Mosca, apparsa in «La Critica», XXI (1923), pp. 142

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de tradizione. Non erano concetti filosofici ma strumenti pratici, e servirono a comporre, insieme, un modello oltretutto non nuovo di ideologia (perché dobbiamo pure usare questa parola) della continuità storica come valore perenne. In realtà Croce, convinto com’era che la politica fosse una attività necessaria ma inferiore, diede forma filosofica a questa convinzione risolvendo il momento politico in quello economico, dissolvendo lo stato etico nello stato-potenza. Se un rinnovamento era necessario, questo doveva avvenire primamente nella vita dello spirito. Da idealista coerente, credette sempre fermamente che le idee, e quindi i portatori delle idee, gli uomini di cultura, fossero i condottieri della storia La battaglia che egli combatté fu una battaglia culturale, non politica. Sino alla prima guerra mondiale, i suoi interventi nel campo della politica militante furono sporadici e poco significativi, e anche durante la guerra si erse a difensore della cultura offesa più che del mondo insanguinato. Interrogato sulla situazione del socialismo in Italia, sentì onestamente il bisogno di premettere che non poteva dir nulla che valesse la pena di essere detto perché non era «informato, come sento che bisognerebbe, per parlare di questo argomento sotto l’aspetto pratico e politico»147 . La sua attività intellettuale, invece, fu prodigiosa: in quindici anni pubblicò un sistema di filosofia in quattro parti, i saggi sul materialismo storico, le due monografie su Vico e su Hegel, quattro tomi della letteratura della nuova Italia, centinaia di articoli, note, recensioni e scritti di varia umanità, che furono via via raccolti in una dozzina di volumi. Del resto egli stesso, avendo piena coscien-

374-78, quindi ristampata come premessa alla quarta edizione degli Elementi nel 1947 e nelle successive. 147 B. Croce, Cultura e vita morale, cit., p. 144.

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za della propria vocazione di studioso e non di politico, cercò di spiegare a più riprese che altro è l’attività teoretica, altro l’attività politica, e ammonì gli uomini di studio a far bene il proprio mestiere, essendo questo l’unico modo con cui potessero giovare alla propria patria, cioè fare politica secondo la loro capacità. Ad Antonio Labriola, deluso di non aver trovato nel giovane amico un collaboratore nella difesa del marxismo, rispose che quel che Labriola chiamava «pigrizia di letterato, era in realtà travaglio di pensatore, a suo modo politico nella cerchia sua propria». Con queste parole intese dire che la vita civile di una nazione non può che trar vantaggio dall’avanzamento della cultura, dal chiarimento dei concetti che sgombra il campo dalle confusioni dei dilettanti. Può stupire che nel Programma della «Critica» non ci fosse quasi alcun accenno ai problemi politici del momento (salvo la frase che esprime l’aborrimento di tutti i tentativi di mettere le brache al mondo). Ma ogni ragione di meraviglia viene meno quando si legga nel Contributo alla critica di me stesso (1915), scritto in un momento drammatico della nostra storia, che «nel lavorare alla «Critica»» gli si era formata «la tranquilla coscienza di ritrovarsi al suo posto, di dare il meglio di sé, e di compiere opera politica, di politica in senso lato: opera di studioso e di cittadino insieme così da non arrossire del tutto [...] innanzi a uomini politici e cittadini socialmente operosi»148 . In tal modo Croce sosteneva la separazione (la divisione del lavoro) tra attività culturale e attività politica, ma nello stesso tempo attribuiva alla prima in quanto tale e non in quanto socialmente impegnata una funzione politica, che giustificando appunto quella separazione mirava prima di tutto a salvaguardare la libertà dello scrittore. 148

Id., Etica e politica, Bari 1945, p. 388.

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7 LA LEZIONE DEI FATTI

Il positivismo era morto: il positivismo come filosofia, o adorazione, secondo i suoi critici, del fatto. Ma non si spensero tanto presto le voci di coloro che avevano bene appreso negli anni del positivismo il metodo positivo, a tener conto della lezione dei fatti, e non si arresero all’idealismo nelle cui file il fervore critico di Croce fu a poco a poco sopraffatto dal delirio filosofico di Gentile. Quel poco (non pochissimo) di pensiero liberale e democratico, di liberalismo civile e di democratismo non demagogico, che sopravvisse nell’età del prefascismo (ci vien fatto di chiamarla così seguendo il saggio principio «respice finem»), fu opera non certo dei neofiti dell’idealismo e tanto meno dell’irrazionalismo, ma dei «superstiti» o, più correttamente dei superati, del positivismo, che non avevano forse letto né Spencer né Ardigò, ma non avevano neppure sviscerato la filosofia di Hegel. Tanto Luigi Einaudi (1874-1961) quanto Gaetano Salvemini (1873-1957), i due empiristi di questa storia, non i soli ma i maggiori, quelli di cui mette conto parlare e che furono accolti come maestri (si pensi a Gobetti), ebbero il coraggio e la prudenza di considerare la filosofia come una zona pericolosa e si tennero per tutta la vita ben fermi sul solido terreno dei problemi concreti: entrambi furono ammiratori di Carlo Cattaneo e vollero apparire, se pur sotto aspetti diversi, prosecutori della sua opera. A Einaudi e a Salvemini si deve se in una storia delle idee del primo decennio del secolo si possa far qualche posto, tra tante aberrazioni e infatuazioni e distrazioni, alle idee liberali e democratiche. Quasi coetanei, giunti. giovanissimi alla cattedra universitaria (Einaudi nel 1902 a Torino, Salvemini nel

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1901 a Messina) nonostante l’origine familiare piccoloborghese legata alla terra e la provenienza da piccole città di provincia (Alba e Molfetta), fecero entrambi il loro tirocinio di scrittori militanti nella «Critica sociale» sul finire del secolo movendo i primi passi, quasi per timore di volar troppo alto e per restare coi piedi per terra, da uno studio sul luogo natio (La distribuzione della proprietà fondiaria in Dogliani, 1894, e Un comune dell’Italia meridionale: Molfetta, 1897). Percorsero strade molto diverse, ma s’incontrarono almeno una volta nella battaglia liberista dell’«Unità», che Salvemini fondò nell’ottobre del 1911 (durerà sino al 1920), rotti i ponti col partito socialista e staccatosi dagli amici della «Voce»; e di cui Einaudi fu assiduo collaboratore. Diversissimi per temperamento, tanto quest’ultimo fu l’immagine del piemontese riservato, assennato, di poche parole, non eloquente, apparentemente freddo, quasi arido, preciso come un orologio, tanto l’altro fu il ritratto del meridionale combattivo, generoso e irruente, incisivo nella parola e nello sguardo, agitato dal demone della sincerità sino alla ruvidezza. Mentre l’uno discute, ragiona, discetta, l’altro scuote, prende di petto, aggredisce. Rappresentarono, nonostante la lunga milizia durata tenacemente più di mezzo secolo e un infinito numero di scritti da riempire almeno venti volumi, la stessa parte, di cui in fondo si compiacquero, del mentore inascoltato, del non-conformista irriverente e non riverito: le «prediche inutili» dell’uno sono l’equivalente dei colpi da «libero tiratore» dell’altro. Anche se s’incontrarono raramente, ispirati e mossi com’erano da diversi ideali, il liberalismo classico e il radicalismo democratico, combatterono spesso le stesse battaglie, da quella per le autonomie lo-

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cali (il motto di Einaudi «Via il prefetto»149 sta in buona compagnia con il giudizio salveminiano: «Se Lombroso preparasse una nuova edizione dell’Uomo delinquente, dovrebbe dedicare un intero capitolo a quella forma di delinquenza politica perniciosissima, che va sotto il nome di «prefetto» italiano»150 ), al protezionismo, che fu la loro bestia nera, attraverso cui videro avverarsi, pronubi le classi operaie svigorite da una politica corruttrice, il regime che a loro pareva più abominevole, quel «socialismo di stato», che era piaciuto a Croce (e sarà di nuovo il chiodo su cui batterà la critica di Gobetti). Si considerarono cittadini della «piccola Italia» contro quella grande, imperiale, incontentabile, chiacchierona e megalomane, dei nazionalisti. Naturalmente restarono per rutta la vita politicamente, se non intellettualmente, degli isolati. Rappresentarono col loro empirismo, con la loro passione per i ragionamenti ben fatti, e appoggiati su dati, con la loro mania di parlar per cifre e tariffe, di prender le mosse da un fatterello piuttosto che da una citazione, una corrente di pensiero che non ha messo mai radici nel nostro paese e che appena tenta di uscire allo scoperto viene subito azzannata dalle tigri e dai loro amici. Furono avversari dello status quo, cioè dei gruppi che vivevano all’ombra dello stato giolittiano, del riformismo da un lato e del conservatorismo nazionale dall’altro, ma nello stesso tempo 149 Via il prefetto è il titolo di un articolo di Einaudi, firmato Junius, scritto per la «Gazzetta ticinese» del 17 luglio 1944, ora compreso nella raccolta Il buongoverno, Bari 1954, pp. 52-59. 150 G. Salvemini, Federalismo e regionalismo, in «Il Ponte», V (1949), pp. 830-42, ora in Opere, vol. IV, 2, Movimento socialista e questione meridionale, a cura di G. Arfé, Milano 1963, pp. 628-40. Il passo citato è a p. 629. Vedi nello stesso volume di Opere, sotto il titolo Riepilogo (originariamente Prefazione agli Scritti sulla questione meridionale, Torino 1955): «L’idea di Einaudi era anche mia mezzo secolo fa» (p. 688).

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non ebbero nulla in comune con le opposizioni di destra e di sinistra i cui gruppi più chiassosi e reazionari erano, come abbiamo visto, i nazionalisti e i sindacalisti rivoluzionari, anche se l’antiprotezionismo fu un gran calderone in continua ebollizione (senza che peraltro vi cuocesse niente di sostanzioso) ove entrarono un po’ tutti, tanto i sindacalisti quanto i nazionalisti (almeno l’ala di Giovanni Borelli). La loro azione si risolvette nella protesta, nella denuncia; servì probabilmente a provocare dubbi, a scuotere coscienze singole, a salvare qualche anima. Fu un’azione altamente e severamente educatrice, ma non si trasformò mai, per mancanza di consensi popolari (che non cercavano e in cui in fondo non credevano), in azione politica vera e propria. La concezione politica di Einaudi fu l’opposto di quella derivata da Hegel, che pure era stata accolta dai vecchi liberali italiani lo stato sintesi degli opposti, supremo conciliatore dei conflitti che nascono nella società civile –; e anche di quella del rovesciatore di Hegel, Karl Marx – lo stato strumento di dominio di una delle parti sino alla sua completa disparizione. Discendeva direttamente dalla tradizione inglese dei Mill e degli Spencer, attenuato il predominante motivo utilitaristico con una certa carica di rigorismo morale (specie durante la prima guerra mondiale): lo stato dover governare il meno possibile, intervenire solo quando fosse strettamente necessario, e lasciare che la «società civile», che Hegel aveva ribattezzato la «bestia selvaggia», risolvesse i propri conflitti col massimo di compromesso tra le parti e col minimo d’imposizione dall’alto. Il vero teatro della storia era, per i liberali, come del resto per Marx, la società civile e non lo stato, con la differenza che per Marx era un teatro dove si svolgevano soltanto tragedie sanguinarie, per i liberali, una volta che il regista si fosse messo da parte e avesse dato agli attori la libertà di recitare secondo il loro talento, non dico un’opera comica, ma spesso un dram-

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ma a lieto fine. Dietro a questo modo di intendere i rapporti tra società e stato si celava (Einaudi infatti la tenne sempre nascosta per un certo pudore filosofico) una concezione generale della storia che era stata celebrata da Kant, e rimessa in onore dal darwinismo sociale: l’antagonismo, non la pace a ogni costo, la discordia non la concordia, il conflitto non l’armonia, la concorrenza non la concordanza, sono le molle del movimento storico. Einaudi colse primamente l’efficacia e la bontà di questo principio osservando le lotte del lavoro soprattutto nel Biellese e attraverso un’inchiesta eseguita per «La Stampa» in occasione dello sciopero degli scaricatori del porto di Genova (1900)151 . Ispirandosi al modello del tradunionismo inglese, difese energicamente il diritto degli operai ad associarsi per proteggere i propri interessi; considerò lo sciopero come un’arma legittima di difesa (e in questa direzione precorse e accompagnò la politica sociale dell’età giolittiana); esaltò il significato non soltanto economico ma morale, educativo, della lotta di classe. Quando all’inizio della politica corporativa del fascismo, raccolse per invito di Gobetti i suoi scritti giovanili sulla questione operaia (Le lotte del lavoro, 1924), vi premise una prefazione che è forse la miglior sintesi della sua professione di fede liberale: Liberale è colui che crede nel perfezionamento materiale o morale conquistato collo sforzo volontario, col sacrificio colla attitudine a lavorare d’accordo con altri; socialista è colui che vuole imporre il perfezionamento con la forza che lo esclude se ottenuto con metodi diversi da quelli da lui preferiti, che non sa vincere senza privilegi a favor proprio e senza esclusive pronunciate contro i reprobi152 . 151 Vedila ora ripubblicata in Cronache economiche e politiche di un trentennio, vol. I, 1893-1902, Torino 1959, pp. 290-309. 152 L. Einaudi, La bellezza della lotta (1924), ora in Il buongoverno, cit., pp. 496-97.

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L’antitesi liberalismo-socialismo corrispondeva, nella sua concezione di liberal-liberista, alla antitesi individualismo-statalismo, o, addirittura, a quella ancora più netta libertà-servitù. S’intende, il socialismo cui si opponeva non era quello che aveva fatto «alzare la testa agli operai del Biellese o del porto di Genova» e li aveva «persuasi a stringere la mano ai fratelli di lavoro, a pensare, a discutere, a leggere», il quale «era stata una cosa grande»153 , ma il socialismo di stato, cioè l’ideale di coloro, come li aveva definiti già in uno dei suoi primi scritti, che ritenevano «che, non le libere contrattazioni fra operai e imprenditori o fra le leghe degli uni e quelle degli altri, ma lo stato per mezzo degli organi da lui creati e dipendenti»154 potesse stabilire la mercede degli operai. Pochi mesi dopo Croce, riprese il tema della morte del socialismo, scrivendo che la borghesia italiana era così pavida, cosi poco consapevole delle sue forze da non essersi ancora accorta «che, almeno nel mondo delle idee, il suo nemico, il socialismo, è scomparso senza lasciare traccia di sé»155 . Dalle colonne, prima della «Stampa», poi del «Corriere della sera», di cui fu collaboratore per venticinque anni (1900-1925), dalle pagine della «Riforma sociale», di cui fu direttore dal 1908 sino a che fu soppressa dal fascismo (1925), combatté la sua battaglia tenace, insistente, giorno per giorno, in nome di quelli che avrebbe chiamato, in una raccolta di scritti del 1921, Gli ideali di un economista, che erano poi gli ideali di un liberalismo troppo Ivi, p. 496. Id., Lo sciopero di Genova, in «La Riforma sociale», 1901, pp. 74-93, rifacimento della cronaca citata più sopra, ora in Il buongoverno, cit., pp.437-63. La citazione nel testo è a p. 446. 155 Id., Sono nuove le vie del socialismo?, in «Corriere della sera», 29 marzo 1911, ora in Cronache economiche e politiche di un trentennio, vol. III, 1910-1914, Torino 1960, pp. 215-16. 153 154

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bello per essere vero, contro tutti i cacciatori di profitti non meritati, di favori politici, di prebende, di sovvenzioni statali, di protezioni economiche o fiscali che erano un incoraggiamento all’ignavia, alla cattiva amministrazione, allo spreco del pubblico denaro, di protezioni economiche o fiscali, fossero i premi concessi agli armatori o i dazi sul grano. Uno dei suoi bersagli preferiti furono i siderurgici cui affibbiò il nome di «trivellatori», traendolo da coloro che avevano ottenuto premi indebiti col pretesto di «trivellare» pozzi nell’Emiliano nel 1911. Nella supremazia che egli riconobbe alla società e agli individui singoli di fronte allo stato, gli eroi della sua storia furono di rado i politici, più spesso il grande imprenditore e il piccolo risparmiatore, il contadino che difende la propria terra e l’operaio che lotta per un aumento di salario. Una storia di gente comune, tra cui viveva volentieri e da cui traeva insegnamenti più utili di quelli appresi dai dotti. «Se imparai poco da pubblicisti o politici – scrisse in una delle sue ultime pagine – imparai molto tutta volta potei attaccar discorso con negozianti, industriali, banchieri, uomini d’affari... Ciascuno, parlando delle cose sue, dice verità d’osservazione, di cui gli economisti teorici hanno gran torto a non far tesoro»156 . Non c’era bisogno di scomodare i grandi uomini per scoprire le virtù che fanno la storia: la tenacia nel lavoro, il coraggio quotidiano, la forza d’animo, e sopra ogni cosa, il senso dell’indipendenza e il gusto della libertà. La libertà individuale, la libertà dallo stato e contro lo stato, fu davvero il suo tema dominante. Anche quando uomini come Giuseppe Rensi, che pur avevano reso servigi alla causa della democrazia e non si assoggettarono al fascismo, si sentiranno sperduti in mezzo alle convulsioni del dopoguerra e invocheranno finalmente un 156 Nella Prefazione al vol. III delle Cronache, cit., pp. XXIVXXV.

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po’ d’ordine. Einaudi non si stancherà mai di ribadire il principio che «il bello, il perfetto non è l’uniformità, non è l’unità, ma la varietà ed il contrasto». Ripeterà che «l’aspirazione all’unità, all’impero di uno solo è una vana chimera, è l’aspirazione di chi ha un’idea, di chi persegue un ideale di vita e vorrebbe che gli altri, che tutti avessero la stessa idea ed anelassero verso il medesimo ideale», e che «l’idea nasce dal contrasto»157 . E delineerà il suo ideale di stato che altro non è se non lo stato guardiano della concezione classica del liberalismo, lo stato il quale impone limiti alla violenza fisica: L’impero della legge come condizione per l’anarchia degli spiriti; la forza limitata alla vita estrinseca; l’unità ristretta alle forme ed alle condizioni di vita. Ma dentro, ma nella sostanza, nello spirito, nel modo di agire, lotta continua, pertinace, ognora risorgente158 .

Nonostante il suo ascetismo filosofico, Einaudi fu anche un dottrinario: chi scriverà una storia delle idee politiche nell’Italia contemporanea saprà benissimo dove collocarlo. Si può parlare di una «dottrina» o peggio di una ideologia salveminiana? Salvemini fu un democratico, ma non fu un teorico della democrazia, come Einaudi fu invece un teorico del liberalismo. Dietro Einaudi c’era John Stuart Mill; dietro Salvemini non ci fu mai Jean Jacques Rousseau. Il suo democratismo fu un’ispirazione etica, un’idea-forza, un nodo di problemi da risolvere piuttosto che un sistema compiuto di idee da definire e da propagare, e tanto meno il programma di un partito. Anche quando fu socialista, il suo sociali- smo non fu né 157 L. Einaudi, Verso la città divina, in «Rivista di Milano», aprile 1920, ora in Il buongoverno, cit., pp. 32-36. Le due citazioni sono tratte da p. 33. 158 Ivi, p. 35.

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quello di Marx, i cui libri aveva «divorato» in gioventù159 , né quello di Bernstein o di chicchessia: si fuse e si confuse con un problema concreto, la questione meridionale, e fu comunque un ideale morale prima che un corpo di idee. Si stemperò negli anni sino a scomparire a poco a poco del tutto. Il socialismo era pur sempre, in fin dei conti, una ideologia, aveva dietro alle spalle una concezione del mondo e veniva portato innanzi da un partito (o da più partiti). La democrazia invece, poteva essere concepita anche soltanto come un insieme di riforme della struttura dello stato senza promesse di palingenesi – le autonomie locali, il federalismo –, come una strategia – la lotta per la difesa degli interessi dei contadini meridionali, sacrificati dal corporativismo degli operai del Nord –, e un metodo – il suffragio universale. E poi quale socialismo? A forza di rifiutarne questa o quella interpretazione, il socialismo barricadiero, del «tutto o niente» nei primi anni, quello riformistico, che era particolaristico e corporativistico, negli anni più maturi, l’ardente lettore di Labriola e il fedele amico di Turati finì per trovarsi fuori da ogni possibile e immaginabile forma di socialismo. Tanto che dopo il Congresso di Milano (1910), distaccatosi dal partito, preferì fare parte per se stesso, e fondò la propria rivista, «L’Unità» (1911-1920), dopo aver collaborato per tanti anni a riviste non sue come la «Critica sociale» (1897-1910) e «La Voce» (1908-1911). A differenza del socialismo la democrazia fu per Salvemini non tanto un concetto quanto una pratica. Si poteva essere buoni democratici senza rompersi la te159 Nel Riepilogo, cit., parla di un giovane di 23 anni «che nei due anni precedenti (al 1896) aveva divorato il Manifesto dei Comunisti e gli scritti di Marx sulle lotte di classe in Francia nel 1848 ecc... aveva scoperto il suo vangelo nel Materialismo storico di Antonio Labriola e aspettava con impazienza ogni due settimane la «Critica sociale» di Turati» (Opere, cit., vol. IV, 2, p. 668).

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sta per darne una definizione e scegliendo magari un’altra parola meno logorata dal cattivo uso. In un articolo dell’«Unità» del 1912 scrisse: Non facciamo, beninteso, questione di parole. Se altra parola esiste per quella concezione della vite pubblica, secondo la quale l’azione politica deve essere diretta a liberare da ogni parassitismo, non solo borghese ma anche sedicente proletario, lo sviluppo della ricchezza nazionale, a promuovere un continuo elevamento economico morale e politico della classe lavoratrice a beneficio di tutto il paese, a suscitare nella classe lavoratrice medesima la coscienza e la organizzazione che le consentano di essere essa stessa artefice prima delle proprie conquiste; se per indicare questa posizione ideale e pratica si trova che la parola «democrazia»... non può servire, anzi crea degli equivoci, e si preferisce un’altra parola, noi accettiamo quest’altra parola senz’altro160 .

Nel 1952, entrando nel dibattito tra Croce e Patri sulla questione se l’Italia prefascista fosse stata una democrazia, parlerà della democrazia come di quel regime politico, nel quale tutti i diritti personali e politici sono assicurati a tutti i cittadini, non solo dalla legge scritta. ma anche nella effettiva prassi quotidiani – e per giunta tutti i cittadini senza eccezioni partecipano con intelligenza e probità alla vita politica, avendo a cuore sempre e solamente il benessere generale161 .

Salvemini non solo non fu un dottrinario ma si attribuì puntigliosamente per tutta la vita la parte di colui che è venuto a combattere le fumose astrazioni dei politici da 160 G. Salvemini, Che cosa vogliamo?, in «L’Unità», I (1912), n. 13, pp. 49-50. 161 G. Salvemini, Fu l’Italia prefascista una democrazia?, in «Il Ponte», VIII (1952), pp. 11-23, 166-181, 281-297, ora in Opere, cit., vol. IV, I, Il ministro della mala vita e altri scritti sull’Italia giolittiana, Milano 1962, pp. 540-67. Il passo citato è a p. 566.

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tavolino, la passione dell’intellettuale piccolo-borghese di fare bei discorsi teorici che non cavano un ragno dal buco, la vocazione tutta italica, propria di una cultura sradicata dalla realtà, provinciale, spiritualistica, retorica, di accontentarsi di castelli in aria e di lasciare in pratica le cose come sono. Diceva di essere cieco nato per la filosofia che chiamava la «fabbrica del buio». Quando l’interlocutore tirava fuori un nome di un filosofo o di una dottrina filosofica si traeva indietro con sospetto come il gatto di fronte al boccone avvelenato. Diffidava dei programmi. In uno scritto giovanile a proposito del V Congresso del partito socialista (Bologna), prese una posizione netta e personale di fronte alla distinzione tra programma massimo e minimo sostenendo che non esistevano due programmi ma esisteva soltanto un metodo ricostruttivo, «il quale suggerisce, a seconda delle circostanze, riforme immediate, le quali variano continuamente», e ottenute le prime ne suggerisce altre. Concludeva: «Il nostro programma non esiste, diviene. Il nostro programma è la realtà stessa che si svolge e si trasforma proiettandosi nel nostro cervello; il quale, essendo parte della realtà, accelererà colla forza della coscienza il processo reale»162 . Tre mesi dopo l’uscita dell’«Unità» disse che la rivista era comparsa senza programma e che se proprio si voleva un programma era il programma di far il meno possibile programmi (perché generalmente non vengono mantenuti): Noi non pretendiamo di rinnovare la faccia della terra; noi non portiamo in tasca la panacea per rifare l’umanità e per guarire tutti i mali; noi vogliamo semplicemente richiamare l’attenzione degli italiani su alcuni determinati problemi, che reputiamo, 162 G. Salvemini, Contributo alla riforma del programma minimo, in «Critica sociale», VIII (1898), n. 8, 16 aprile, pp. 117-19, e n. 9, 1° maggio, pp. 123-34, ora in Opere, cit., vol. IV, 2, pp. 52-64. Il passo citato si trova a p. 56.

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sopra tutti gli altri, gravi, per il nostro paese; problemi che i politicanti della democrazia hanno dimenticato o – peggio ancora – rifiutato di prendere in esame163 .

Dalla insofferenza per le teorie generali e dalla diffidenza per i programmi Salvemini passò a poco a poco alla critica dei partiti, che delle teorie e dei programmi sono i più interessati sostenitori, tanto da ospitare in uno dei primi numeri della rivista l’articolo di Croce Il partito come giudizio e come pregiudizio. Per quanto «L’Unità» fosse uscita senza programma, nella Presentazione si diceva apertamente che la rivista era nata dalla consapevolezza di un gruppo di spiriti democratici circa le malefatte dei partiti, donde «il bisogno di una nuova azione politica, non legata a nessuno dei partiti tradizionali oramai tutti irreparabilmente discreditati e disfatti»164 . Salvemini credeva, o s’illudeva a propria giustificazione, che fosse un programma a breve scadenza: si trattava, come spiegò due anni più tardi, di aggravare sino a risolverla la crisi dei partiti esistenti e poi ciascuno tornasse a casa sua con la soddisfazione di aver servito il paese «cercando di educare al senso della realtà e al bisogno dell’azione concreta e al disgusto per le astrazioni [...] spirituali un paio di migliaia di giovani»165 . Bisogna anche aggiungere che egli credeva, e s’illudeva, che questa azione educatrice fosse non tanto contro i partiti ma fuori dei partiti per la formazione di partiti nuovi, meno opportunistici, più sinceri e più sensibili alla lezione dei fatti. Quale che sia il giudizio che oggi si possa dare sui risultati di questa 163 Id., Che cosa vogliamo?, in «L’Unità», I (1912), n. 13, pp. 49-50, n. 14, p. 55. Cito da La cultura italiana, cit., vol. V, p. 195. 164 Vedila ora in Opere, cit., vol. IV, I, p. 251. 165 G. Salvernini, Che cosa vuole l’Unità (Risposta a Rodolfo Savelli), in «L’Unità», II (1913), n. 12, pp. 265-66. Cito da La cultura italiana, cit., vol. V, p. 279.

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battaglia (e lo stesso Salvemini non era sicuro che fossero stati tutti positivi), l’ammaestramento dell’«Unità» fu e rimase essenzialmente un ammaestramento di metodo e di costume: più problemi che sistemi, più cose che teorie, contro le falsificazioni della propaganda, rispetto della verità, contro ogni forma di fanatismo, senso di responsabilità, guardare più ai risultati che alle buone intenzioni, meno ideologie e più documenti. Ad onta del dileggio della filosofia e dei filosofi, Salvemini ebbe una sua filosofia tutt’altro che superficiale della storia. Divideva i filosofi in due schiere: le aquile della teologia idealistica e i passerotti dell’empirismo166 . Si metteva volentieri tra questi ultimi. Con ciò voleva dire che non presumeva, come gli idealisti, di sapere che tutto quel che era accaduto dovesse accadere e che tutto quel che accadrà è già nascosto nel grembo di quel che è accaduto. Nella storia c’era ragione e follia, amore e furore, pietà e crudeltà, gli ingiusti sui carri di trionfo e i giusti in ginocchio. Chi era tanto in alto da poter giudicare ma chi tanto in basso da accettare il giudizio del provvidenzialismo ottimistico? Non si stancava di ripetere che era pessimista perché la storia gli aveva dimostrato che i pessimisti hanno quasi sempre ragione. Ma il pessimismo non lo induceva a starsene con le mani in mano attendendo il fato: era un invito non all’inerzia ma più semplicemente all’umiltà. In alcune pagine postume, vero e proprio testamento spirituale, disse che, dopo essersi a lungo perduto nel labirinto dei massimi problemi, era arrivato alla conclusione che non solo non ci capiva nulla ma doveva rinunziare alla speranza di capirci mai nulla. Dunque il suo empirismo non era un atto di indifferenza ma una rinunzia consapevole. E se poi si voleva 166 G. Salvemini, Empirici e teologi, pubblicato da G. Vivarelli, Il testamento di uno storico empirico, in «Il Ponte», XXIV (1968), pp. 44-50.

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proprio conoscere come fosse uscito d’imbarazzo, si sapesse che si era comportato come la vecchierella di Pascal che ignorava se Dio esistesse ma si regolava come se ci fosse. Giustamente, chi ha pubblicano queste pagine ha parlato di «intemerata fede nella tolleranza, posta da Salvemini come regola fondamentale di ogni convivenza umana»167 ; e ripete una sua frase, che in questi anni avremmo dovuto imparare a memoria: «chi è convinto di possedere il segreto infallibile per rendere felici gli uomini, è sempre pronto ad ammazzarli». 167

G. Vivarelli, Il testamento di uno storico empirico, cit., p.

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8 INTERMEZZO DI GUERRA

Nel secolo XIX avevano avuto corso principalmente due concezioni della guerra (e rispettivamente della pace) antitetiche: quella positivistica ed evoluzionistica, secondo cui la rivoluzione industriale avrebbe trasformato siffattamente le tradizionali società militari che si reggevano sulla guerra da rendere la pace inevitabile perché benefica; quella romantica che, partendo da una concezione drammatica e dialettica della storia, considerava la guerra non soltanto inevitabile ma anche benefica, o sotto specie di male apparente (cioè di male da cui deriva, anche se gli attori del dramma non se ne accorgono, un bene) o di male necessario (cioè di male che è pur strumento di bene). Negli anni di cui stiamo parlando, alla prima concezione, il cui grande teorico e propagandista era stato Spencer, non credeva più nessuno: l’immagine idillica, grata ai libero-scambisti, come Riccardo Cobden, del mercante che nei rapporti internazionali avrebbe a poco a poco sostituito il guerriero, era stata spazzata via dalla realtà tutt’altro che armoniosa delle grandi potenze in gara tra loro per il dominio delle colonie e per l’accaparramento dei mercati mondiali. Se alla pace si voleva arrivare un giorno o l’altro bisognava conquistarsela: il pacifismo passivo, fatalistico, aveva ceduto il passo a un pacifismo attivo che continuava a credere nella pace universale ma sapeva che essa sarebbe stata il risultato di uno sforzo comune. Rispetto ai modi per raggiungere il fine ultimo della pace, si potevano distinguere grosso modo tre tendenze, secondoché la causa principale delle guerre fosse vista nell’anarchia dei rapporti internazionali, onde il rimedio era da cercarsi in riforme del diritto internazionale, dal-

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l’arbitrato obbligatorio alla Lega delle Nazioni; oppure nella sopravvivenza di stati plurinazionali e non democratici, onde la lotta per la pace era i popoli veniva a identificarsi mazzinianamente con la lotta per l’indipendenza nazionale e per la sovranità popolare; oppure, nell’esistenza di stati capitalistici in concorrenza tra loro, nella cosiddetta fase imperialistica del capitalismo, onde l’unica soluzione in grado di allontanare per sempre lo spettro della guerra dall’umanità sarebbe stata la rivoluzione sociale. Per quanto distinguibili dal punto di vista astrattamente teorico, queste tendenze s’incontrarono spesso su un terreno comune di lotta, dando luogo a un vario infervoramento e affaccendamento pacifistico in cui si mescolavano proposte di riforme giuridiche, ideali democratici e sociali, e che caratterizzò molta parte dei movimenti o partiti radicali, democratici, socialisti, rimasti immuni dalla lebbra nazionalistica. Al di là o a fianco di queste correnti di pacifismo laico, di un pacifismo volto a raggiungere la pace su questa terra con mezzi creati dall’uomo, era sempre esistito un pacifismo religioso, che, richiamandosi ai precetti evangelici del «noli resistere malo» del «qui gladio ferit gladio perit», predicava la non violenza sino alla disobbedienza civile, il divieto di portar armi sino all’obiezione di coscienza. In un paese per metà cattolico e per metà indifferente come il nostro il pacifismo religioso non aveva mai attecchito: la dottrina ufficiale della chiesa sulla guerra era la dottrina della guerra giusta che non condanna la guerra in quanto tale ma, distinguendo le guerre buone dalle guerre cattive, finisce per offrire argomenti di giustificazione ai belligeranti di entrambe le parti. Al posto del pacifismo religioso, peraltro, si era venuto diffondendo alla fine del secolo un pacifismo etico, umanistico, o meglio umanitario, che aveva del pacifismo religioso l’afflato e l’ardore, senza averne i fondamenti, e ne adempiva lo stesso ufficio che era quello di dar vigo-

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re ed efficacia alle iniziative di pace, fossero esse di natura giuridica o economica o sociale. Se in Italia non c’era mai stata una tradizione di pacifismo religioso, vi fu una corrente o soltanto un costume intellettuale di pacifismo umanitario, che ne prese il posto e contribuì a inserire il paese, vinto ma non domato, di Giuseppe Mazzini nella cerchia più vasta del pacifismo democratico internazionale. Toccò a un ex mazziniano ed ex garibaldino, Teodoro Moneta (1833-1918), che si considerava allievo anche del libero-scambista francese Federico Passy, fondatore nel 1867 della Ligue internationale et permanente de la paix, dar vita nel 1878 alla Società italiana di pace e fratellanza, quindi al periodico «La Vita internazionale», ove sentimenti umanitari, progetti di riforma del diritto internazionale e ideali democratici si davano fraternamente la mano. Quando nel 1907 ebbe il Premio Nobel per la pace, nel discorso tenuto a Cristiania (il 25 agosto 1909), dopo aver esaltato, con eccessiva indulgenza, il contributo dell’Italia all’idea della pace, volò col pensiero «all’unione giuridica delle nazioni», proclamata da «un parlamento internazionale»168 La scoperta (o l’invocazione) delle indomabili forze irrazionali della storia sopraffece non soltanto il pacifismo evoluzionistico (la nuova evoluzione, quella «creatrice», aveva bisogno della guerra per realizzarsi), ma le varie forme di pacifismo attivo che confidavano per ispirazione scientifica nella possibilità di un controllo razionale della società. Ebbe nuove fronde l’idea, che sembrava ormai inselvatichita, della positività della guerra. Anzi, in quella forma corrotta di romanticismo letterario che fu il decadentismo, che tiene per valore ultimo la bellezza, alla guerra fu assegnato un valore non più soltanto etico ma anche estetico. Nelle Vergini delle Rocce D’An168 T. Moneta, La pace e il diritto nella tradizione italiana, Milano 1909, p. 25.

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nunzio non aveva aspettato la guerra per fare l’elogio della strage: «Ho compreso falco valore che si cela nell’ateo di quel conquistatore asiatico, il quale gittò cinque miriadi di teste umane nei fondamenti di Samarcanda volendo instituirla capitale». L’umanitarismo fu deriso come un’illusione, e per di più funesta. Impassibile, Pareto dedicò molte pagine del Trattato di sociologia generale (1916) a dimostrare che la morale umanitaria, o meglio la «febbre umanitaria», esplosa in una classe dirigente che è sull’orlo dell’abisso ma non se ne accorge, è una «derivazione», cioè una maschera di sentimenti che non hanno niente a che vedere col desiderio di giovare all’umanità. Sulla scia di Pareto e di Sorel (che Pareto stesso aveva elogiato per aver sbarazzato il campo dalle ideologie positivistiche e umanitarie), nazionalisti e sindacalisti, come abbiamo visto e non occorre ripeterci tanto è monotono il coro, andavano a gara, invocando la violenza, a preparare gli animi al grande evento. La concezione etica della guerra fu, insieme con l’antidemocrazia, uno dei caratteri più incisivi della vita spirituale di quegli anni: anche una rivista come «La Voce», che pur aveva condotto una delle più memorabili battaglie contro la guerra di Tripoli, accolse un articolo di Giovanni Amendola che criticava il libro pacifista di Norman Angeli, La grande illusione, rallegrandosi che i popoli preferissero alla filosofia del tornaconto «quella del rischio e della lotta» ed esaltando le virtù del sacrificio, della fortezza e dell’audacia «che fanno dell’uomo di guerra [...] un tipo infinitamente superiore a quello dell’accorto sibarita che uova nel culto della pace la migliore espressione della sua concezione voluttuaria della vita»169 . A ingrossare il coro (e a renderlo più sgua169 G. Amendola, La grande illusione, in «La Voce», III (1911), n. 9, pp. 517-18. Cito da La cultura italiana, cit., voi. III, pp. 303 e 304.

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iato) concorsero i futuristi che in occasione della guerra di Tripoli pubblicarono un manifesto Per la guerra, sola igiene del mondo e sola morale educatrice, che era sin dal titolo una sublimazione della concezione etica della guerra: Noi futuristi che da più di due anni glorifichiamo, tra i fischi dei Podagrosi e dei Paralitici, l’amore del pericolo e della violenza, il patriottismo e la guerra «sola igiene del mondo e sola morale educatrice», siamo felici di vivere finalmente questa grande ora futurista d’Italia, mentre agonizza l’immonda genia dei pacifisti, rintanaci ormai nelle profonde cantine del loro risibile palazzo dell’Aja170 .

Queste idee-urli vennero ripetute nel 1913 in un programma elettorale pubblicato da Papini su «Lacerba». A commento del quale lo stesso Papini cantò il suo celebre inno belluino: L’avvenire, come gli antichi Dei delle foreste, ha bisogno di sangue sulla strada. Ha bisogno di vittime umane, di carneficine [...] Il sangue è il vino dei popoli forti, il sangue è l’olio di cui hanno bisogno te ruote di questa macchina enorme che vola dal passato al futuro – perché il futuro diventi più presto passato [...] Abbiamo bisogno di cadaveri per lastricare le strade di tutti i trionfi [...] In verità siamo troppi nel mondo. A dispetto del malthusianismo la marmaglia trabocca e gli imbecilli si moltiplicano [...] Per diminuire il numero di codeste bocche dannose qualunque cosa è buona: eruzioni, convulsioni di terra, pestilenze. E siccome tali fortune son rare e non bastano ben venga l’assassinio generale collettivo171 . 170 La battaglia di Tripoli (26 ottobre 1911), vissuta e cantata da F. T. Marinetti, Milano 1912, prima pagina non numerata. 171 G. Papini La vita non è sacra, in «Lacerba», I (1913), n. 20, pp. 223-25, ora in La cultura italiana, cit., vol. IV, pp. 205-08. Il passo citato è alle pp. 207-08.

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«L’assassinio generale collettivo» non tardò a venire. I fautori della guerra avevano vinto. Si badi però che la distinzione corrente tra interventisti e neutralisti, riguardante la storia politica di quegli anni, non corrisponde del tutto alla distinzione ideologica qui tracciata, e che sola ci riguarda in questa storia delle idee, tra pacifisti e bellicisti. Per quanto possa sembrare paradossale (ma poi la spiegazione appare molto semplice sol che si abbia l’avvertenza di distinguere una guerra determinata dalla guerra in generale, una pace determinata dalla pace in generale), vi furono tra gli interventisti coloro che aspiravano alla pace (alla pace perpetua) e tra i neutralisti alcuni che non rifiutavano la guerra (la guerra perpetua come immanente alla storia umana). Tra i tre gruppi in cui si sogliono dividere i fautori dell’intervento – nazionalisti, democratici e socialisti rivoluzionari –, bellicisti, cioè assertori della necessità e della positività della guerra in generale come evento storico, furono soltanto i primi. I nazionalisti volevano la guerra per la guerra, tanto da essere divisi e incerti tra la guerra per l’espansione coloniale che avrebbe dovuto farci schierare contro l’Intesa e la guerra per Trento e Trieste che avrebbe dovuto farci opporre agli Imperi Centrali. Non è difficili trovare nelle pagine degli scrittori nazionalisti le tradizionali giustificazioni della guerra quale male apparente. Come in questo brano di Contadini: L’umanità è legata alla tragica necessità della guerra, perché, appunto, non è un’unità, ma una totalità di popoli, dei quali, se questi hanno oggi, in piena potenza l’energia produttiva di civiltà, quelli non l’hanno ancora, e quelli non l’hanno più, e bisogna che i primi soccorrano ai secondi e ai terzi. Come nazioni, come stani, come individui, agiscono egoisticamente, fanno insomma i fatti loro; ma nella economia del mondo anche provvedono altrui [...] In altri termini, le nostre conclusioni sono opposte a quelle degli umanitari. Questi condannano

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la guerra per ragioni di umanità; noi al contrario vediamo chiaramente che le sue ultime finalità sono umanitarie172 .

O come male necessario. Necessario all’elevamento morale di un popolo, che senza lo scossone della guerra ristagnerebbe nella fiacchezza della vita quotidiana, non sarebbe più in grado di apprezzare la virtù del coraggio. Oppure al progresso sociale, intesa la guerra come operazione malthusiana che induce Papini a esultare all’idea che la guerra faccia «il vuoto perché si respiri meglio», lasci «meno bocche intorno alla stessa tavola», tolga di mezzo «un’infinità di uomini che vivevano perché erano nati; che mangiavano per vivere, che lavoravano per mangiare e maledicevano il lavoro senza il coraggio di rifiutar la vita»173 . E anche al progresso economico, non della grande industria, come si crederebbe, ma dell’agricoltura, perché (questa macabra invenzione è ancora di Papini), «i campi di battaglia rendono, per molti anni, assai più di prima senz’altra spesa di concio». Se il lettore, allibito, pensa di non aver capito bene, ecco che con due buoni esempi ogni dubbio viene tolto: «Che bei cavoli mangeranno i Francesi dove s’ammucchiarono i fanti tedeschi e che grosse patate si avranno in Galizia quest’anno!» Segue la conclusione: Amiamo la guerra ed assaporiamola da buongustai finché dura. La guerra è spaventosa – e appunto perché spaventosa e tremenda e terribile e distruggitrice dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi174 . E. Contadini Pagine degli anni sacri, Milano 1920, p. 250. G. Papini Amiamo la guerra!, in «Lacerba», II (1914), n. 20, pp. 274-75, ora in La cultura italiana, cit., vol. IV, pp. 329-31. Il passo citato si trova a p. 330. 174 Ivi, p. 331. 172 173

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Di qui il passo era breve a esaltare la guerra per la guerra, a considerare la guerra buona in se stessa indipendentemente da ogni fine, rievocando la celebre immagine demaistriana della guerra come «un altare immenso dove tutto ciò che vive deve essere immolato», che rivisse nell’idea ossessiva della guerra purificazione o, come avrebbe detto D’Annunzio, «lavacro di sangue». Gli interventisti democratici non erano bellicisti; anzi molti di essi provenivano dalle file degli «imbelli» umanitari. Una rivista come «La Voce», che aveva svolto una intransigente campagna contro la guerra di Libia, si spense nel novembre del 1914, protestando contro la neutralità dei socialisti e chiedendo la partecipazione italiana alla guerra democratica. Al contrario di Amendola, Salvemini aveva accettato gli argomenti di Norman Angell contro la «grande illusione»175 , ma sin dall’inizio della guerra, dichiarandosi antimperialista e democratico, aveva affermato di sentire «il dovere di andare incontro alla guerra con cuore fermo e sereno, quando ogni altra via sia chiusa per combattere l’ingiustizia altrui e per tutelare il diritto nostro»176 . In queste parole s’intravede il rifiuto della teoria della «guerra bella» o della «buona guerra» in nome della teoria della «guerra giusta», cioè di una teoria tradizionale» della guerra che è perfettamente compatibile con l’idealismo pacifista: la guerra come extrema ratio, quando non vi siano altri mezzi per risolvere una controversia e insieme come unico mezzo per ristabilire la pace che dovrebbe essere il fine ultimo della politica internazionale. Alla vigilia dell’intervento ita175 G. Salvemini, Lo spettro della guerra, in «L’Unità», II (1913), n. 45, pp. 403-04, ora in La cultura italiana, cit., vol. V, pp. 355-59. 176 Id., Fra la grande Serbia ed una più grande Austria, in «L’Unità», III (1914), n. 32, pp. 561-62, ora in La cultura italiana, cit., vol. V, pp. 420-26. Il passo citato è a p. 424.

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liano, Salvemini richiamandosi alla tradizione mazziniana, sottolineò questo aspetto manifestando la «volontà di adoperare la guerra, nell’interesse dell’Italia e della umanità, come strumento doloroso ma necessario di più larga pace»177 Per i democratici la guerra non era un fine, ma appunto «uno strumento», non aveva valore in se stessa ma per gli obiettivi che permetteva di raggiungere, e questi obiettivi non erano la grandezza della nazione, ma l’indipendenza della patria, non la potenza di pochi, cioè dei vincitori, ma la libertà di tutti, dei vincitori dei vinti. La partecipazione dell’Italia a fianco degli stati democratici contro gli Imperi Centrali fu vista non come l’inizio di un nuovo destino imperiale d’Italia ma come la conclusione delle guerre del Risorgimento, addirittura, secondo i più illusi, come l’ultima guerra. Per questo il richiamo a Mazzini era quasi obbligato. Omodeo, raccogliendo le lettere dei caduti, rilevò, a proposito di Carlo Stuparich, quanto spirito mazziniano si ritrovasse «alle profonde radici della vita morale di tanti dei nostri combattenti»178 . Queste radici mazziniane diedero anche alla concezione democratica della guerra un’ispirazione etica, o addirittura religiosa. Se la guerra doveva avere ancora un compito moralizzatore non era più quello invocato dagli imperialisti contro la viltà e la meschinità dell’ora presente, ma quello di educare un paese corrotto, abituato da secoli alla servitù civile, al senso del dovere, al superamento dei propri interessi egoistici, all’umile accettazio177 Id., Le due guerre, in «L’Unità», IV (1915), n. 21, p. 681, ora in La cultura italiana, cit., vol. V, pp. 468-71. Il passo citato è a p. 469. Il corsivo è mio. 178 A. Omodeo, Momenti della vita di guerra. Dai diari e dalle lettere dei caduti 1915-1918, nuova ed. curata da A. Galante Garrone, Torino 1968, p. 143. Vedi anche l’introduzione di Galante Garrone, pp. XXXVII-XXXVIII.

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ne della sofferenza per il beneficio dell’intera umanità. Il giovane Eugenio Vajna, appellandosi ancora a Mazzini, scrisse: Né guerra né rivoluzione sono per noi l’unica igiene del mondo, come socialisti e nazionalisti vanno predicando con bella gara. Sentiamo che né la violenza armata né quella di nazione son quanto più urge, ma l’altro termine troppo trascurato del binomio gettato nel libro dei Doveri: educazione. Cioè sublimazione paziente e costante di tutte le energie religiose, morali, economiche, di noi stessi, di chi ci sta più vicino, del nostro borgo, della nostra classe della regione, della patria, con una mano tesa ai fratelli che oltre ogni confine collaborano allo stesso ideale. Noi vogliamo grande e rispettata la patria, ma per virtù di una grande giustizia179 .

La guerra come scuola non di eroismo con tutta la connessa retorica, ma di solidarietà e di dedizione a un compito straordinario; non di esaltazione guerriera, ma di addestramento agli umili doveri del tempo di pace. Era un modo d’intendere l’eticità del conflitto che, oltretutto, corrispondeva meglio alla immane realtà della nuova guerra di trincea. Che fece scrivere a Piero Jahier: È una guerra ascetica questa guerra moderna, senza bandiere spiegate, senza figura di manovre riuscire luccicanti nelle pianure sotto binocoli di generali al sicuro, senza cavalleria di mestiere. Guerra grigio-verde e nero. E’ una guerra austera e spirituale180 .

Anche per gl’interventisti, che venivano dal sindacalismo rivoluzionario, la guerra non era un fine ma un’occasione sebbene, come occasione, apparisse, assai più di quella dei democratici, un’occasione sbagliata: che una Ivi, p. 160. Traggo questa citazione da G. Prezzolini, Tutta la guerra. Antologia del popolo italiano, Firenze s. d., p. 97. 179 180

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guerra combattuta dalle potenze più democratiche contro quelle meno democratiche, da vecchi stati nazionali come la Francia e l’Inghilterra contro uno stato che nazionale non era, potesse essere interpretata come guerra democratica e nazionale, era legittimo (anche se alla fine si rivelò una illusione); ma che potesse essere accolta come guerra rivoluzionaria una guerra combattuta da stati capitalistici contro altri stati capitalistici era più che un’illusione, una stoltezza. La tesi, sostenuta dal Manifesto-appello del Fascio rivoluzionario d’azione internazionalista (5 ottobre 1914), secondo cui la lotta di classe era una formula vana se non fosse stato precedentemente risolto il problema delle nazionalità, faceva della guerra nazionale un’occasione, sì, ma soltanto indiretta, un fine intermedio181 . Arturo Labriola spiegò che per i socialisti la pace era pur sempre il fine ultimo ma questo fine ultimo non escludeva che si rendesse necessario partecipare a una guerra per raggiungerlo. «Per Liebknecht, come per tutti i socialisti di pensiero, – diceva, – il pacifismo è un punto di arrivo, non un punto di partenza: un risultato e un fine, non un mezzo ed uno strumento»182 . Filippo Corridoni, con un soprappiù di retorica, scrisse nel suo Testamento: Soldato ed entusiasta di questa guerra, io odio la guerra con tutte le forze dell’anima mia; combatto perché credo che nessuna guerra, se condurrà alla sconfitta dell’Austria e della Germania, nazioni essenzialmente militari e di struttura politica reaziona181 Vedilo riportato in appendice al libro di R De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino 1965, pp. 679-81. 182 A. Labriola, La conflagrazione europea e il socialismo, Roma 1915, p. 23.

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ria, avrà lo stesso valore di una grande rivoluzione e chiuderà l’era delle guerre di conquista per tutta l’Europa183 .

Credenti nella violenza creatrice, com’erano sempre stati, i socialisti rivoluzionari attribuirono alla guerra in se stessa un valore etico: il loro pacifismo, se di pacifismo si poteva ancora parlare, non era di buona lega. Una guerra tra stati come la guerra del 1914 avrebbe dovuto, per poter diventare una guerra rivoluzionaria, trasformarsi in guerra civile. Ma i fautori della guerra rivoluzionaria in Italia aderirono, soltanto in piccola parte, alla teoria della guerra disfattista. Appunto per questo, o la tesi della guerra rivoluzionaria si risolveva in tutto e per tutto in quella della guerra nazionale, intesa la prima come una specie di prodotto secondario della seconda, e finiva per non avere un carattere proprio; oppure, là dove aveva un accento nuovo, questo era dovuto esclusivamente al diverso significato attribuito alla violenza nella storia: la violenza, comunque, avrebbe rimescolato le carte, magari tolto di mezzo qualche vecchio giocatore e permesso una nuova partita che sarebbe stata questa volta, chi sa, proprio quella vincente. Non bisogna dimenticare che il personaggio attorno cui si vennero rinserrando le diverse file dell’interventismo rivoluzionario fu, tramite il nuovo giornale «Il Popolo d’Italia», Benito Mussolini. Allo stesso modo che si poteva essere interventisti senza essere bellicisti o «guerraioli», come si diceva allora, così si poteva essere neutralisti senza essere pacifisti. In generale, neutralismo significa non tanto volontà di pace quanto indifferenza o disinteresse per questa o quella guerra determinata. Ma come dietro ogni forma d’inter183 Traggo la citazione da M. Delle Piane, Il problema dell’intervento italiano nella prima guerra mondiale, in «Il Ponte», XX (1964), p. 66.

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ventismo finì per rivelarsi, se pure in varia guisa, una concezione etica della guerra, così dietro le forme più aperte di neutralismo, che furono quelle dei socialisti e dei cattolici, c’era una tradizione di pensiero che attribuiva maggior pregio alle opere di pace che a quelle di guerra. Ad un estremo, i cattolici intransigenti pronunciarono una condanna moralistica della guerra, considerata come opera del demonio o castigo di Dio, conseguenza del disordine morale di cui era stato portatore il perverso e perfido liberalismo, che era poi l’interpretazione per così dire ufficiale della prima enciclica di Benedetto XV184 . All’altro estremo, i socialisti, fedeli alla dottrina dei loro maestri più di tutti coloro che si erano lasciati sedurre dalla guerra giusta o buona o necessaria o soltanto opportuna, condannarono la guerra come guerra imperialistica, o capitalistica, o borghese, come conflitto d’interessi essenzialmente economici cui il proletariato era, e quindi doveva restare, assolutamente estraneo. Il Manifesto della Conferenza di Zimmerwald del settembre 1915, cui parteciparono anche i delegati italiani, diceva a chiare lettere la guerra era «il prodotto dell’imperialismo, ossia il risultato degli sforzi delle classi capitalistiche di ciascuna nazione per soddisfare la loro avidità di guadagni con l’accaparramento del lavoro umano e delle ricchezze naturali del mondo intero»185 ; e le tesi della Conferenza di Kienthal (aprile 1916) ribadirono «che lo sviluppo moderno delle condizioni di proprietà gene184 Cfr. P. Scoppola, Cattolici neutralisti e interventisti alla vigilia del conflitto, nel vol. Benedetto XV, i cattolici e la prima guerra mondiale, a cura di G. Rossini, Roma 1963, pp. 111-12. 185 Cito da G. Perticone, Le tre internazionali, Roma 1945, p. 103.

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rò gli antagonismi imperialistici, il cui risultato è l’attuale guerra mondiale»186 . Accanto al neutralismo di principio, che stava ai due estremi dello schieramento politico italiano, vi fu anche un neutralismo di opportunità che occupò la zona intermedia, comprendente tutti coloro, bene rappresentati da Giolitti, che senza far troppo chiasso, sui problemi ultimi della pace e della guerra, ritenevano che l’entrata di una nazione giovane, che aveva ancora le ossa gracili, in un’immane conflagrazione di potenti stati o coloniali o supernazionali, fosse un calcolo sbagliato. Una posizione di questo genere era meno che mai una posizione pacifista in linea di principio, anche se poteva essere ispirata da una delle idee direttive di quel pacifismo, secondo cui non vi è conflitto anche internazionale che non possa essere risolto con un po’ di buona volontà mediante trattati; e, comunque, se lo sviluppo della società internazionale prevede il passaggio dallo stato di anarchia a quello dell’associazione o lega delle nazioni, la guerra non lo favorisce ma lo ostacola. Il pacifismo autentico, quello che dice «no» in ogni caso alla guerra e alla violenza, e che sta a fondamento dell’obiezione di coscienza, non suscitò in Italia gesti clamorosi. Mentre il più grande filosofo inglese, Bertrand Russell, partecipò attivamente alla propaganda contro la guerra, fu arrestato, condannato a parecchi mesi di prigione, cacciato dall’università di Cambridge di cui era il vanto, il filosofo italiano Giovanni Gentile, in una conferenza dell’ottobre 1914, tracciò le linee di una «filosofia della guerra», in cui la guerra veniva chiamata «dramma divino», o «cimento [...] di tutte le forze che si sono organizzate sulla faccia della terra» e quindi uno sforzo «in cui il Tutto è impegnato», infine «un atto assoluto»187 . 186 187

Ivi, p. 107. G. Gentile, Guerra e fede, Napoli 1919.

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Nessun letterato italiano, che avesse l’autorità di Romain Rolland, ebbe il coraggio di mettersi, affrontando l’accusa di reprobo, au-dessus de la mélée, definendo la guerra «certe mélée sacrilège, qui offre le spectacle d’une Eu-

rope démente, montant sur le búcher et se déchirant de ses mains, comme Hercule!».188 Croce, che pur aveva condotto una strenua lotta contro gli scrittori che, accecati dalla passione di parte, tradiscono la verità per la patria, tenne a precisare che non gli era mai «saltato in mente» di mettersi al di sopra della mischia come il Rolland, «il quale si era fatto fulminatore di rimbrotti e pedagogo di giustizia a tutti i popoli di Europa che combattono», mentre lui, Croce, aveva procurato di mettersi o meglio di restare al di sopra della mischia soltanto nel campo teorico o scientifico189 . Rolland aveva appreso da una tradizione di pensiero illuministico sempre viva in Francia che la guerra non è una fatalità, ma «il frutto della debolezza dei popoli e della loro stupidità»190 ; Croce, provvidenzialista alla maniera di Hegel, scriverà a guerra finita che «le lotte degli Stati, le guerre, sono azioni divine» e «noi, individui, dobbiamo accettarle e sottometterci», pur aggiungendo esser lecito sottomettere l’attività pratica, illecito quella teorica191 . Le uniche parole di condanna assoluta della guerra che echeggiarono in Italia, pur soffocate dal clamore di mille tirtei, furono quelle di Benedetto XV che, superando la tradizionale teoria della guerra giusta, la quale aveva permesso in passato di giustificare entrambi i belligeranti, entrambi li condannò, e respingendo la concezio188 R. Rolland, Au-dessus de la mélée, Paris 1915, p. 24 (trad. it. Milano Società ed. «Avanti!», 1916). 189 B. Croce, Pagine sulla guerra, cit., p. 211. 190 R. Rolland, Au-dessus de la mélée, cit., p. 6. 191 B. Croce, Carteggio con Vossler (1899-1949), Bari 1951, p. 206.

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ne etica della guerra senza accettare, il che non apparteneva al suo ufficio, quella economica, chiamò la guerra qual essa era, e quale si sarebbe ancor più rivelata in tempo di pace, «orrenda carneficina, che ormai da un anno disonora l’Europa» (28 luglio 1915 ), e due anni dopo, perseverando, «inutile strage» (1° agosto 1917). Diventata la guerra più lunga e più crudele di ogni più fosca previsione, la distinzione tra atteggiamento di partecipazione e atteggiamento di rifiuto, che aveva animato il dibattito politico nel primo anno di neutralità, si andò attenuando sino a confondersi in un diffuso atteggiamento, da entrambe le parti, di rassegnata accettazione. Tra tante concezioni della guerra, quella che finì per sopravvivere, perché più adeguata al mutato sentimento, fu la concezione della guerra come fatto cosmico, ineluttabile, come «dramma divino», secondo erano andate spiegando le varie teologie religiose o laiche che tenevano il campo. E che era poi un modo, anche se i proponenti non erano in grado di avvedersene, di distruggere il mito della guerra, come ideale etico, di sconsacrarla, di ridurla a fatto bruto, cieco, senza valore in se stesso. Di fronte a un fatto divino o bruto non c’era che da chinare il capo e servire; né aveva più alcun senso domandarsi qual fosse il fine, e se un fine, un qualsiasi fine, ci fosse ancora. La risposta che venne da un’anima religiosa, come quella di Giosuè Borsi: «La guerra in sé non ammaestra nessuno»192 , non differì da quella del letterato Renato Serra, che, dal fondo della sua solitudine di umanista di provincia – limbo senza passioni di parte –, scrisse sulla guerra le pagine più disperate e più antiretoriche (e per questo più profonde): Crediamo pure, per un momento, che gli oppressi saranno vendicati e gli oppressori saranno abbassati; l’esito finale sarà 192

A. Omodeo, Momenti della vita di guerra, cit., p. 257.

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tutta la giustizia e tutto il maggior bene possibile su questa terra. Ma non c’è bene che paghi la lagrima pianta invano, il lamento del ferito che è rimasto solo, il dolore del tormentato di cui nessuno ha avuto notizia, il sangue e lo strazio umano che non ha servito a niente. Il bene degli altri, di quelli che restano, non compensa il male, abbandonato senza rimedio nell’eternità.

Prendendo esplicitamente posizione contro la concezione etica della guerra, Serra scisse che «del resto la guerra è una perdita cieca, un dolore, uno sperpero, una distruzione enorme e inutile». E non avrebbe cambiato nulla: La guerra è un fatto, come tanti apri in questo mondo; è enorme, ma è quello solo; accanto agli altri, che sono stati e che saranno: non vi aggiunge; non vi toglie nulla. Non cambia nulla, assolutamente, nel mondo. Neanche la letteratura [...] Sempre lo stesso ritornello: la guerra non cambia niente. Non migliora, non redime, non cancella; per se sola. Non fa miracoli. Non paga i debiti, non lava i peccati. In questo mondo, che non conosce più la grazia193 .

193 R. Serra, Esame di coscienza di un letterato, in Scritti, vol. I, Firenze 1958, pp. 392-98 e 407.

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9 TRA RIVOLUZIONE E REAZIONE

Nonostante il giudizio di Croce194 , Serra aveva avuto ragione: la guerra non aveva migliorato, né redento, né cancellato. Non aveva fatto miracoli. Anche rispetto al movimento culturale, cui Serra esclusivamente volgeva lo sguardo, «non aveva cambiato nulla». I maestri della nuova generazione (si pensi a Gobetti) furono gli stessi della generazione precedente: Croce e Gentile, Pareto e Mosca, Einaudi e Salvemini. E come se nulla fosse accaduto ognuno di essi ricominciò, quasi sempre sulle stesse riviste, che non erano state interrotte, con un fiducioso «heri dicebamus». Chi legga la storia della formazione dei giovani della nuova generazione come Carlo Rosselli o Rodolfo Morandi, ha l’impressione che siano piuttosto gli epigoni della generazione del Risorgimento (più Mazzini che Marx) o gli ultimi discepoli dell’idealismo che non i portatori di una nuova coscienza, anche se gli itinerari dell’uno e dell’altro saranno divergenti, conducendo l’uno fuori del marxismo, l’altro dentro il marxismo. Per quanto la stagione creativa dell’idealismo fosse ormai esaurita, l’idealismo continuò a essere, più per abitudine che per convinzione, la filosofia dominante: tra il ’19 e il ’25, Croce scrisse opere di critica letteraria e storica (dal saggio sulla poesia di Dante, 1921, ai saggi sulla 194 In una pagina della Storia d’Italia dal 1871 al 1915 Croce, commentando l’Esame di coscienza di un letterato, in cui la guerra per la patria veniva ridotta «a cosa poco diversa da un fremito voluttuoso», lamenta che «quello scritto, invece di essere guardato qual era, come un documento doloroso, fu letto con compunzione e celebrato monumento di alta religione» (p. 293).

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letteratura italiana del Seicento, 1924, dalla Storia della storiografia italiana, 1921, alla Storia del Regno di Napoli, 1925 ); Gentile, meno fecondo, diede alle stampe opere minori come i Discorsi di religione (1920), La riforma dell’educazione, Gino Capponi e la cultura toscana del sec. XIX (1922). L’unica opera della scuola, che è sopravvissuta (chi si ricorda ancora, ad esempio, di libri come Lo spirito come eticità [1921] di Giuseppe Saitta?) è stata un’opera non filosofica, la Storia del liberalismo europeo di Guido De Ruggiero (1925). Il frutto più genuino, ancorché amaro e già guasto prima di diventare maturo, della temperie di quegli anni fu il pessimismo storico ed etico (appoggiato a una critica scettica della conoscenza) di Giuseppe Rensi. Democratico in partenza e antifascista perseguitato all’arrivo, in meno di un lustro Rensi scrisse una decina di libri di critica radicale della filosofia, della politica, della società uscita dalla guerra, per finire nell’apologia della «reazione». Nei Lineamenti di filosofia scettica, che sono del 1919, reagendo bruscamente al pensiero di Croce e di Gentile «radicalmente falso», stabiliva un nesso strettissimo tra scetticismo ed esperienza di guerra: La ragione umana che non sa quel che si dica e quel che si voglia; che non può risolvere i problemi che le si affacciano, e deve per risolverli ricorrere in un senso o nell’altro – con la guerra, con la rivoluzione e con la violenza, con le decisioni autoritarie – a mezzi extrarazionali, questa la lezione che la storia dell’oggi ci dà, e questa la ragione essenziale per cui si può legittimamente ravvisare lo scetticismo come la filosofia che a siffatto momento storico più adeguatamente risponde195 .

La guerra aveva dimostrato contro il razionalismo ottimistico dello spiritualismo assoluto che la pace è impos195 G. Rensi, Lineamenti di filosofia scettica, Bologna 1919, p. XXXVIII.

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sibile, la violenza è necessaria, la storia è cieca, l’accordo delle ragioni è irraggiungibile, il diritto è forza, l’autorità appoggiata alla forza sola domina il mondo. Nella società inquieta del dopoguerra non vi sono che due soluzioni: o la violenza sovversiva o la violenza reazionaria. La guerra civile è imminente e indifferibile. La democrazia è impotente e deve cedere il posto alla reazione consapevole di chi ha capito che contro la barbarie bolscevica si difende una civiltà che non deve morire. Tra tutte le attività dell’uomo quella che meglio rivela l’irrazionalità della storia è la politica: contro il mito razionalistico della volontà generale, il filosofo ha il compito di scoprire il seme della violenza in tutte le istituzioni che reggono la società umana, e di capire e far capire che là dove non è possibile l’accordo razionale (il consenso) è necessaria la forza, l’autorità. Per Rensi lo scetticismo è una filosofia non già della rivoluzione, come aveva creduto Giuseppe Ferraci, ma della reazione. Le due raccolte di articoli, Principi di politica impopolare (1920) e Teoria pratica della reazione politica (1922), che possono considerarsi un commento giorno per giorno delle tesi sostenute nell’opera teorica, La filosofia dell’autorità (1920), sono uno dei documenti impressionanti del nuovo irrazionalismo, di quella «distruzione della ragione» in cui sfocia il pensiero della classe dominante ogniqualvolta il proprio potere è minacciato. Contro la «marmaglia» o ci si rassegna a perdere, ad accettare il trionfo della nuova barbarie, o ci si difende ad oltranza. Il giudizio di Serra venne ripreso da Filippo Burzio in un elogio di Giolitti, pubblicato su «La Ronda» nel 1921: La guerra che doveva rinnovare il mondo! vedete: il mondo e la gente sono quelli di prima. Semplicemente la Francia ha vinto e la Germania ha perduto. La guerra è stata un gran fatto politico, non un fatto etico, non una palingenesi, se non nella piaggeria propagandistica eviratrice della serietà della sofferenza, per cui la trincea doveva trasfigurare l’umanità: e

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i drammaturghi v’impostavano i loro sublimi conflitti d’anime. Vedete; la guerra è finita, e gli uomini sono rimasti quelli di prima196 .

Il ritorno di Giolitti, dell’uomo che aveva rifiutato la guerra era, secondo Burzio, la miglior prova che la grande carneficina poteva benissimo essere considerata come una parentesi, chiusa la quale tutto tornava com’era prima. Ma c’era un’altra soluzione? Finita la sagra in tragedia, non si doveva cominciare a pensare alla politica come a una arida e severa amministrazione? E chi meglio di Giolitti avrebbe potuto rimettere l’Italia nei ranghi? Viene da terra, da ranghi ortodossi, e pure non dà affidamento. Le sue parole sono sensate, l’enunciazione programmatica non supera l’onesta mediocrità dei princìpi moderati, anzi se ne distingue per un che di più immediato e realistico; la sua politica è pedestre, si occupa, dapprima, prevalentemente ed egregiamente, di finanza, di amministrazione: eppure non appare un tecnico innocuo [...] Parla poco e banalmente, di Patria, di Progresso, di Democrazia: il minimo indispensabile per banchetti e concioni. Che cosa vuole, dove va?197

Soprattutto la guerra non aveva risolto il contrasto in cui l’Italia, e non solo l’Italia, era divisa sin dal principio del secolo, tra socialismo e liberalismo: ma l’aveva soltanto esasperato, rendendo sempre più difficile sino a impedirla definitivamente quella soluzione di compromesso o di equilibrio che aveva caratterizzato nel bene e nel male l’età giolittiana. Dei due principali scopi di guerra, la potenza nazionale e la pace democratica, nessuno era stato o pareva, alle due opposte schiere di interventisti, raggiunto: on196 F. Burzio, Giolitti, in Il demiurgo, a cura di N. Bobbio, Torino 1965, p. 295. 197 Ivi, p. 273.

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de la denuncia, da parte degli uni, della vittoria mutilata, da parte degli apri, della pace tradita. L’unico obiettivo che la guerra, avendo partorito la rivoluzione sovietica, aveva, se non reso possibile, ravvicinato, era quello che nessuno, in Italia, consapevolmente e deliberatamente, si era mai posto: la rivoluzione sociale. Si disse e si ripeté che l’Italia era entrata impreparata nella pace come era entrata impreparata in guerra: si può aggiungere che altrettanto impreparata entrò nella rivoluzione. Vi erano due modi estremi per risolvere i problemi che la guerra aveva sollevati: o la pace, s’intende una pace duratura (la guerra come «ultima guerra») o la rivoluzione, s’intende una rivoluzione che avrebbe dovuto rovesciare i rapporti di classe e fondare un nuovo stato. L’Italia non ebbe né la pace né la rivoluzione, ma dopo qualche anno di guerra civile una reazione che avrebbe preparato, alla lunga, ma fatalmente, la seconda guerra mondiale. Non ebbe neppure, come avevano sognato i nazionalisti, e come ebbero le due potenze alleate, l’impero. La guerra non aveva risolto nulla: aveva spazzato, questo sì, le generose illusioni di coloro che vi avevano aderito credendo di trovarvi una soluzione. Gli unici sconfitti, nonostante la loro vittoria, furono gli idealisti, che avevano ceduto nella buona guerra. Il presidente Wilson che incarnò i loro ideali passò come una meteora; osannato e deprecato nel volgere di un anno. Alla resa dei conti gli estremisti di destra si appropriarono del giudizio realistico dato sulla guerra dagli estremisti di sinistra: essere il grande conflitto che aveva insanguinato il mondo nient’altro che una zuffa tra opposti imperialismi di cui la nazione più debole aveva fatto le spese. Pareto, con la solita pretesa di contemplare le cose dall’alto della scienza oggettiva della società, andava descrivendo il conflitto come scontro tra due diversi tipi sociali di «plutocrazia» (il concetto di «plutocrazia» era la versione economicistica, di parte borghese, del fenomeno che

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destre e sinistre eversive chiamavano, con due giudizi di valore opposti, «imperialismo»): la plutocrazia demagogica e la plutocrazia militarista198 . E ammetteva il fondo di verità nell’osservazione dei socialisti che l’avevano definita «una guerra borghese». Quel che separava gli estremisti di destra dai loro avversari era la conclusione che si sarebbe dovuto trarre dalla comune constatazione: non la fine di ogni politica imperialistica attraverso una rivoluzione anticapitalistica, ma l’inizio dell’imperialismo italiano. A un mese dalla fine della guerra apparvero quasi contemporaneamente il documento approvato dalla direzione del partito socialista nella riunione di Roma (7-11 dicembre), in cui si enunciava il programma eversivo della socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio e la distribuzione collettiva dei prodotti, oltre l’abolizione della coscrizione obbligatoria e la municipalizzazione delle abitazioni civili e la democratizzazione della burocrazia, e il Manifesto della nuova rivista nazionalista «Politica», che squarciando il velo dell’imbelle ideologia democratica («ideologia della sconfitta»), che aveva interpretato il grande conflitto, ipocritamente, come urto di ideologie anziché come lotta di imperi, enunciava il programma, non meno eversivo, del nuovo imperialismo italiano. La lotta politica in Italia sarebbe stata determinata e rapidamente bruciata in pochi anni dallo scontro di questi due programmi antagonistici che avrebbero eliso, a volta a volta, ogni tentativo di mediazione da parte dei vecchi e nuovi credenti nella virtù del metodo democratico, sino alla loro totale sconfitta. Sulla sinistra i socialisti riformisti, nonostante il loro coraggio morale, rima198 Si vedano soprattutto gli articoli pubblicati sulla «Rivista di Milano», poi raccolti in volume, Trasformazione della democrazia, Milano 1921, ora in Scritti sociologici, a cura di G. Busino, Torino 1966, pp. 933-1074.

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sero inchiodati dalla presenza di un’agguerrita maggioranza massimalista alla loro tradizione di non collaborazione; sulla destra, i liberali conservatori non perdettero mai la speranza di potersi valere del sovversivismo reazionario per domare l’opposizione. Se pure per diverse ragioni, l’azione politica delle forze che si muovevano nell’area intermedia tra bolscevismo e fascismo fu condizionata dall’azione ben più aggressiva e rischiosa delle due ali estreme, dalle quali pareva che né l’uno né l’altro dei movimenti intermedi potessero staccarsi del tutto a pena di trovarsi in balia dell’avversario. Questo impedì la loro collaborazione contro gli uni e gli altri. Non impedì, anzi incoraggiò la collaborazione dei vecchi liberali con la destra eversiva che giunse al potere per mezzo di loro se pure, consumato il delitto, anche contro di loro. Nel 1921 apparvero due raccolte di scritti e discorsi di Turati: Trent’anni di critica sociale, a cura di Alessandro Levi, e Le vie maestre del socialismo, a cura di Rodolfo Mondolfo. Furono entrambe presentate sorto l’insegna della continuità storica e della coerenza di pensiero. I discorsi dei primi anni del secolo erano da interpretare come una sagace previsione degli avvenimenti futuri, quelli degli ultimi anni, a cominciare dal discorso al primo Congresso socialista dopo la guerra (Bologna 1919), come una conferma di quelle previsioni. Il tema di fondo è la perenne attualità, nonostante il mutar dei tempi e delle occasioni, del socialismo democratico. Anche per Turati la guerra non ha mutato nulla: non ha affatto accelerato, come andavano predicando i massimalisti, il momento della rivoluzione. La fede nell’imminenza della rivoluzione era l’effetto dello sconvolgimento mentale prodotto dalla guerra. La quale aveva, sì, favorito le condizioni per avviare riforme audaci, ma aveva allontanato la possibilità di una instaurazione immediata, «massimalistica», del regime socialista.

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Il socialismo scientifico ci imparò che [...] il socialismo si elabora lentamente e fatalmente nello sviluppo progressivo della stessa società borghese; che la volontà dell’uomo e dei partiti non può che agevolare e accelerare il processo, rendendolo cosciente; che solo quando cotesta elaborazione è compiuta in tutte le sue fasi, di cui nessuna può essere soppressa, solo allora può intervenire utilmente l’atto di violenza liberatore, che risolve il contrasto fra il contenuto sociale e l’involucro politico199 .

Nel discorso di Livorno (gennaio 1921), rivolto alla frazione comunista, insisté sulla immaturità della situazione storica: nonostante le accuse dei giovani impazienti i fatti gli avrebbero dato ragione. Disse che lo separavano dai fautori della rivoluzione immediata tre cose: il culto della violenza, la dittatura del proletariato e la coercizione del pensiero. Tutti e tre questi concetti hanno un presupposto: la illusione che la rivoluzione sia il fatto volontario di un giorno o di un mese, sia l’improvviso calare di uno scenario o l’alzarsi di un sipario, sia il fatto di un domani e di un posdomani del calendario; mentre la rivoluzione sociale non è un fatto di un giorno o di un mese, è il fatto di oggi, di ieri, di domani, è il fatto di sempre, che esce dalle viscere stesse della società capitalista, del quale noi creiamo soltanto la consapevolezza, e così agevoliamo l’avvento; mentre nella rivoluzione ci siamo; e matura nei decenni e trionferà tanto più presto, quanto meno lo sforzo della violenza, provocando prove premature e suscitando reazioni trionfatrici, ne devierà ed indugerà il cammino200 .

Deplorando ancora una volta il culto della violenza, che è segno di scarsa fede nell’idea che si difende, ammo199

F. Turati, Le vie maestre del socialismo, Bologna 1921, p.

279. 200

Ivi, pp. 305-06.

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niva con parole profetiche: «Con la violenza che desta la reazione, metterete il mondo intero contro di voi»201 . In polemica diretta contro Turati, alcuni mesi dopo, in occasione delle elezioni anticipate (aprile 1921), uno dei capi del nuovo partito comunista, Antonio Gramsci, ammise che il pomo della discordia tra socialisti e comunisti era il giudizio sulla situazione presente, se dovesse considerarsi rivoluzionaria o «reazionaria». «I comunisti negano – egli precisava – che il periodo attuale sia da ritenersi «reazionario»: essi sostengono invece che il complesso degli avvenimenti in corso è la documentazione più vistosa e abbondante della definitiva decomposizione del regime borghese». Indi spiegava che la reazione essendo caratterizzata, non diversamente dal regime rivoluzionario, dalla «concentrazione dei poteri in un solo organismo politico», in Italia non essendoci concentrazione dei poteri nelle mani del governo, non c’era un regime reazionario ma tutt’al contrario «la dissoluzione dell’intera struttura del regime»202 . Il sillogismo era perfetto e la consequenziarietà del rivoluzionario era salva; ma il giudizio storico, pronunciato a poco più di un anno dall’instaurazione del regime fascista, era sbagliato. In un paese come l’Italia che non aveva avuto né la rivoluzione religiosa (come la Germania) né quella politica (come la Francia), mentre l’Inghilterra le aveva avute tutte e due, ed era agli inizi della rivoluzione industriale, si è sempre abusato della parola «rivoluzione» (il solo Papini diceva di aver partecipato nei primi anni dei secolo a cinque rivoluzioni, il sindacalismo, il nazionalismo, il pragmatismo, il modernismo e il futurismo)203 , ma non Ivi, p. 307. A. Gramsci, Reazione?, in «L’Ordine nuovo», I, n. 113, 23 aprile 1921, ora in Socialismo e fascismo, Torino 1966, pp. 144-47. I passi citati sono alle pp. 145 e 146. Il corsivo è mio. 203 G. Papini, La necessità della rivoluzione, cit., p. 159. 201 202

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è mai stata elaborata una teoria della rivoluzione e della prassi rivoluzionaria come è avvenuto in altri paesi. Né tanto meno del partito rivoluzionario. L’unico contributo dato dal pensiero italiano allo studio dei partiti politici era stata la teoria di Roberto Michels ispirata al pensiero del Mosca) sulla tendenza oligarchiche dei partiti democratici. Ma la teoria si era fermata alle soglie delle sue conseguenze pratiche, che avrebbero dovuto essere il riconoscimento del partito, non come strumento di partecipazione democratica al potere, ma come vivaio delle oligarchie politiche. L’unica tradizione di pensiero rivoluzionario che era penetrata in Italia era stato, come abbiamo visto, il sindacalismo soreliano; ma Il successo della rivoluzione sovietica, attraverso il pensiero e l’azione di Lenin, ne fu una solenne smentita, checché ne pensassero i giovani rivoluzionari italiani del dopoguerra che non volevano Staccarsi del tutto da quella tradizione per ragioni più sentimentali che concettuali. Sul modo d’intendere la rivoluzione e l’azione rivoluzionaria, i socialisti non riformisti, che erano oramai la maggioranza, erano divisi. Gli uni, i massimalisti, credevano unicamente nella rivoluzione delle masse, gli altri, coloro che avrebbero dato vita al partito comunista, anteponevano alla rivoluzione delle cose la rivoluzione delle volontà. Il leader dei primi, Serrati, disse alla vigilia del Congresso di Bologna: «Noi neghiamo il volontarismo: così quello anarchico che quello riformista». Indi aggiunse con un’esattezza da notaio: «Noi marxisti, interpretiamo la storia e non la facciamo e ci muoviamo, nei tempi, secondo la logica dei fatti e delle cose»204 . In un articolo sull’«Avanti» del 24 ottobre 1920, che è stato giustamente considerato come la «chiave per comprendere il massimalismo» spiega: 204 Cito da E. Santarelli, La revisione del marxismo in Italia, Milano 1964, p. 256.

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Bisogna dunque fare la rivoluzione. Ma bisogna anche intendersi sopra il significato – apparentemente volontaristico – di questo verbo «fare». Fare la rivoluzione non vuol tanto dire incitare l’atto violento risolutivo [...], quanto preparare gli elementi che ci diano la possibilità di approfittare come Partito, di questo inevitabile atto e di trarne tutte le conseguenze socialiste che sono consentite dai tempi e dall’ambiente. Fare la rivoluzione significa – a mio avviso – approfittare degli elementi che la situazione pone naturalmente a nostra disposizione per volgere gli avvenimenti alle conclusioni nostre. In altri termini: non siamo noi che facciamo la rivoluzione [...] siamo noi che, coscienti di questa nuova forza creatasi nelle volute condizioni, intendiamo valercene per costringerla alle conclusioni della nostra dottrina205 .

Ben diversamente Gramsci aveva salutato la rivoluzione di Lenin come «la rivoluzione contro il Capitale», intendendo dire che i rivoluzionari russi avevano fatto la rivoluzione quando e come era sembrato loro conveniente, non preoccupandosi dei sani testi che avrebbero sconsigliato un moto rivoluzionario in un paese industrialmente arretrato. Preso dall’entusiasmo per il successo dell’azione rivoluzionaria, esclamava: I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico. I bolsceviki rinnegano Carlo Marx, affermano, e con la testimonianza dell’azione esplicita, delle conquiste realizzate, che i canoni del materialismo storico non sono così ferrei come si potrebbe pensare e si è pensato206 . 205 Cito da A. Giobbi, L’Avanti! (1919-26), in Dopoguerra e fascismo Bari 1965, pp. 647-48. 206 A. Gramsci, La rivoluzione contro il «Capitale», in «Avanti!», XXI, n. 356, 24 dicembre 1917, ora in La Città futura (1917-18), a cura di S. Caprifoglio, Torino 1982, p. 513.

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Mettendo Lenin contro Marx, riconobbe che il genuino spirito del marxismo doveva essere riscoperto risalendo alle sue origini nel pensiero idealistico italiano e tedesco, che nello stesso Marx «si era contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche». Il nocciolo di questo pensiero era che il massimo fattore di storia non sono i fatti economici, bruti, ma l’uomo, ma le società degli uomini, degli uomini che si accostano fra di loro, si intendono fra di loro, sviluppano attraverso questi contatti (civiltà) una volontà sociale, collettiva, e comprendono i fatti economici, e li giudicano, e li adeguano alla loro volontà, finché questa diventa la motrice dell’economia, la plasmatrice della realtà oggettiva, che vive, e si muove, e acquista carattere di materia tellurica in ebullizione, che può essere incanalata dove alla volontà piace, come alla volontà piace207 .

Quando nacque «L’Ordine nuovo» (1° maggio 1919) le parole con cui Angelo Tasca lo presentò erano un’espressione abbastanza caratteristica di socialismo non materialista, ma etico e fideistico: «Perché il mondo si salvi è necessario che la fede socialista diventi il soffio animatore dell’opera della ricostruzione; è necessario uno scatenamento di energie morali che tomi a potenziare l’umanità, a ridarle il vigore e la giovinezza adeguati all’immane compito»208 . Fideismo contro determinismo. Volontarismo contro fatalismo. Il massimalismo fu in chiave rivoluzionaria l’interpretazione deterministica del marxismo di cui il revisionismo era stato l’interpretazione in chiave riformistica. La differenza tra riforIvi, p. 514. A. Tasca, Battute di preludio, in «L’Ordine nuovo», I, n. 1, 1° maggio 1919, che cito da La cultura italiana del ’900 attraverso le riviste, vol. VI, «L’Ordine Nuovo» (1919-20), a cura di P. Spriano, Torino 1963, p. 117. 207 208

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mismo e massimalismo consistette soltanto nel giudizio sulla maggiore o minore imminenza della fine del capitalismo. Ma entrambi aspettavano dalle cose, e non dall’azione rivoluzionaria, il mutamento storico (poco importava che gli uni credessero che il mutamento fosse lento e graduale, gli altri più rapido e impetuoso). Tanto il massimalismo quanto il riformismo furono accomunati nell’accusa di essere la dottrina dell’inerzia del proletariato dal rivoluzionarismo volontaristico impersonato da Lenin. Peraltro nel pensatore più originale, Antonio Gramsci, Lenin apparirà come il creatore di un nuovo tipo di stato più che come un interprete o teorico del marxismo. Nella cultura di quegli anni, anche il marxismo teorico sonnecchiò. Il leninismo fu considerato una prassi, una prassi rivoluzionaria vittoriosa, creatrice di uno stato nuovo, dello stato operaio contrapposto allo stato borghese, più che una compiuta teoria. Ciò che diede all’«Ordine nuovo», dopo i primi numeri un poi scialbi (come avrebbe riconosciuto lo stesso Gramsci), un posto di avanguardia nella lotta politica del dopoguerra, fu l’idea martellante di Gramsci dello stato nuovo che avrebbe dovuto sostituire totalmente lo stato borghese ormai in disgregazione. Era la tesi di Stato e rivoluzione di Lenin: non è sufficiente penetrare nella cittadella dello stato borghese, bisogna distruggerla. Nella breve ma intensa esperienza sovietica lo stato nuovo aveva acquistato ormai una propria forma completamente diversa da quella tradizionale della democrazia parlamentare: glio 1919 Gramsci scrive: Si è ormai radicata la convinzione nelle masse che lo stato proletario è incarnato in un sistema di Consigli di operai, contadini e soldati. Non si è ancora formata una concezione tattica che assicuri obbiettivamente la creazione di questo stato. E necessario perciò creare fin d’ora una rete d’istituzioni proletarie, radicate nella coscienza delle grandi masse, sicure della discipli-

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na e della fedeltà permanente delle grandi masse, nelle quali la classe degli operai e dei contadini, nella sua totalità, assuma una forma ricca di dinamismo e di possibilità di sviluppo209 .

Questa idea dello stato dei consigli scardinava due concezioni tradizionali del socialismo organizzato: quella del partito come un sistema di sezioni e quella del sindacato come organo rivoluzionario. In un articolo estremamente lucido del marzo 1920, Gramsci osservò che il periodo era rivoluzionario perché erano in crisi i tradizionali istituti di governo: come la classe borghese governa ormai fuori del parlamento così la classe operaia deve trovare nuove vie per governarsi al di fuori del sindacato. Con la creazione dei consigli il partito non viene messo fuori gioco: semplicemente cambia funzione, che non sarà più quella elettorale parlamentare ma quella rivoluzionaria di costituire sin d’ora «un modello di ciò che sarà domani lo stato operaio»210 . Mentre le tesi dei comunisti dell’«Ordine nuovo», che s’ispiravano astrattamente a Lenin, senza troppo tener conto della diversità delle situazioni storiche, erano un’utopia dell’avvenire (anche nell’Unione Sovietica, del resto, lo stato dei consigli non sarebbe mai stato attuato), le tesi dei cattolici, che si presentarono per la prima volta alla ribalta della politica attiva immediatamente dopo la guerra, erano, grazie allo slancio innovatore del loro maggiore interprete e propagatore, Luigi Sturzo, che si lasciava definitivamente alle spalle la tradizione neo-guelfa, un tentativo di dare una risposta al problema molto concreto dell’inserimento dei cattolici nella vita 209 A. Gramsci, La conquista dello Stato, in «L’Ordine nuovo», I, n. 9, 12 luglio 1919, ora in L’Ordine Nuovo, 1919-20, Torino 1972, p. 18. 210 Id., L’unità proletaria, in «L’Ordine nuovo», I, n. 39, 28 febbraio – 6 marzo 1920, ora in L’Ordine Nuovo, cit., pp. 96-101.

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dello stato. Il tema di fondo della politica sturziana e insieme il motivo di novità del programma del nuovo partito (la cui data d’inizio si fa risalire all’appello Ai liberi e ai forti, lanciato il 18 gennaio 1919) erano la lotta contro lo stato panteista «nelle sue due facce di manomissione dei diritti degli enti locali e del cittadino nella sua libera personalità e attività; e di accentramento funzionale e burocratico in antitesi al decentramento amministrativo»211 . All’ombra di questo stato «che tutto sottopone alla sua forza, il mondo interno ed esterno, l’uomo e la sua ragione d’essere, le forze sociali e i rapporti umani»212 , si erano dati la mano, fingendo di essere avversari, liberali e socialisti. Contro gli uni e gli altri, Sturzo difendeva la libertà, non tanto la libertà degli individui singoli, atomizzati, quanto l’autonomia dei gruppi, la subordinazione della società politica alla società civile. Negli scritti, Dall’idea al fatto (1920), Riforma statale e indirizzi politici (1923), Popolarismo e fascismo (1923), Pensiero antifascista (1925), i temi ricorrenti sono la critica della burocrazia statale sempre più gigantesca e soffocante, e la difesa del governo locale, che deve essere liberato dai controlli statali: il disegno di una democrazia pluralistica. Tale disegno era, a dire il vero, in contrasto con la tendenza, di cui Max Weber sarebbe stato il più chiaroveggente interprete, dello stato moderno industriale verso il progressivo ingigantimento degli apparati burocratici, verso la cosiddetta «razionalizzazione» della macchina statale attraverso la burocrazia (tendenza che si è puntualmente avverata proprio durante il dominio di una classe politica che si è affacciata sulla nuova scena del211 Dalla Introduzione a Il Partito popolare italiano, vol. I, 1919-22, in Opera omnia di Luigi Sturzo, s. II, vol. III, Bologna 1956, p. 8. 212 L. Sturzo, Dall’idea al fatto, in Opera omnia, cit., p. 38.

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la politica italiana, come erede, almeno ideale, del «popolarismo»). Nonostante le ferme repliche di Sturzo ai suoi avversari, l’ideologia del popolarismo fu l’espressione di esigenze e di interessi di ceti caratteristici di una società preindustriale. Del resto, se il nuovo partito ebbe un successo elettorale che andò al di là delle più ottimistiche previsioni dei suoi stessi fondatori, dipese dal fatto che la società italiana era ancora in grandissima parte, non solo negli interessi e nei bisogni, ma nei valori tramandati e accettati, una società contadina e di piccola borghesia artigianale. La novità del popolarismo consistette nell’aver proposto per la prima volta nella lotta politica del nostro paese un’ideologia consapevolmente centrista213 . Nella prefazione che lo stesso Sterzo scrisse al primo volume dei suoi scritti politici (1956), dopo aver caratterizzato il partito popolare come partito di centro aggiunse: «Altro partito di centro, che non sia allo stesso tempo partito di massa e partito d’ispirazione cristiana, non è esistito e non potrà esistere. Il partito popolare ne diede in Italia il primo saggio che fu mantenuto intatto nelle lotte con liberali, con socialisti e con fascisti214 . In realtà il parlamento italiano aveva quasi sempre condotto una politica di centro attraverso la coagulazione delle forze intermedie e la neutralizzazione delle ali. Ma il centrismo parlamentare era stato un’operazione politica al vertice, non il risultato dell’individuazione di uno spazio sociale ben definito, come fu sin dal primo apparire quello occupato dal partito popolare, e di un programma politico-sociale corrispondente, «temperato e non estre213 Sulla concezione dello stato di Sturzo vedi in particolare Popolarismo e fascismo, in Il Partito popolare italiano, cit., vol. II, pp. 106 sgg. 214 L. Sturzo, Introduzione a Il Partito popolare italiano, cit., p. 8.

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mo», che «non piega né a sinistra né a destra»215 . Il «temperatismo» sturziano, da non confondersi con il moderatismo tradizionale dei cattolici italiani, fu un tentativo di superare il contrasto tra socialismo e liberalismo non mediante ibride alleanze di opposti ma aprendo tra i due poli del conflitto una terza strada. Un tentativo che, nonostante la lunga parentesi fascista, avrebbe avuto molto più fortuna che le sintesi astratte degli intellettuali superatori. Tra disegno utopico della «città futura» e politica realistica della «medierà» tra i due estremi, il pensiero democratico tradizionale fu incapace di rinnovarsi. Il regime parlamentare era in crisi. Ma quale era il rimedio? La povertà e inconsistenza della letteratura di parte democratica mostrano quanto profondo fosse il disorientamento: incominciò ad apparire chiaro che il cattivo funzionamento del regime dipendeva dal fatto che la lotta politica si era spostata dal parlamento a organismi sempre più potenti che si erano andati formando fuori del parlamento, come i sindacati. Ne nacque la proposta da più parti avanzata di sostituire la seconda camera con un’assemblea corporativa, rappresentante delle diverse categorie economiche, proposta che parve ad alcuni l’effetto del «nuovo feudalesimo». Non era apparso altrettanto chiaro che era finita l’epoca dei partiti parlamentari ed era cominciata l’epoca dei partiti di massa organizzati, extraparlamentari o addirittura antiparlamentari. La vecchia classe politica, ritornata al potere, governò senza avere un proprio partito in un’epoca di lotta di partiti organizzati. Lo stato a partito unico che sarebbe stato l’esito di questa, fu una deformazione precoce se pure effimera dello stato di partiti in cui si sarebbero trasformati a poco a poco tutti i regimi democratici. 215 Id., Popolarismo e fascismo, cit., in particolare il capitolo Il nostro centrismo. I due brani citati sono alle pp. 166 e 170.

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Tra gli uomini della vecchia generazione, l’unico che ebbe una lucida coscienza della grande crisi (ma non altrettanto dei rimedi, almeno per quel che riguarda il regime parlamentare), fu Francesco Saverio Nitti (18081953). In tre opere che uscirono a un anno di distanza, L’Europa senza pace (1921), La decadenza dell’Europa (1922), La tragedia dell’Europa (1923), pose con energia e chiaroveggenza il problema della pace come problema della liquidazione della mentalità di guerra che aveva generato i mostruosi trattati imposti dai vincitori ai vinci. La via della democrazia passa attraverso la via della pace: e conditio sine qua non della pace stabile è la eliminazione delle diseguaglianze tra vincitori e vinti, che può essere conseguita soltanto attraverso misure impopolari, come la fine delle occupazioni militari, la rinunzia alla politica delle riparazioni, la non collaborazione con paesi antidemocratici quali la Spagna, la lotta contro il militarismo, l’abbandono dello spirito della «rivincita». La condanna della politica delle potenze vincitrici, specie della Francia, è accompagnata da un fervido appello all’intervento americano in Europa, che solo può salvare il vecchio continente dal precipitare in uno stato di barbarie di cui è sintomo l’avanzata in Italia, e non solo in Italia, del fascismo. In un libro del 1925, La pace, pubblicato da Gobetti, quando ormai il fascismo è al potere, riprende il tema della condanna senza attenuanti della guerra che è stata «una guerra civile europea» ed ha generato, seminando odio, diffidenza, rancore, prima la rivoluzione poi la reazione e quindi reso sempre più difficile e precaria la vita dei regimi democratici216 . Pace e democrazia sono strettamente connesse, così come guerra e rivoluzione (o reazione): contro l’azione sopraffattrice dei vincitori sui vinti ma anche contro l’intervento armato delle co216

F. Nitti, La pace, Torino 1925, pp. 46-47.

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siddette «democrazie» in Russia. «Il ritorno alla democrazia è condizione indispensabile di pace [...] Non v’è che il regime liberale che possa consentire all’Europa di sorpassare vittoriosamente questa fase dolorosa della sua esistenza»217 . Nella ultima opera prima del lungo silenzio, La libertà (1926, poi accresciuta e pubblicata a New York nel 1927, col titolo Bolscevismo, fascismo e democrazia), condannata ancora una volta la guerra «come la più stolida e scellerata guerra che la civiltà moderna ricordi», perché da essa è nata l’epoca delle rivoluzioni e delle reazioni che hanno distrutto a poco a poco ovunque i regimi di libertà, contrappone al bolscevismo che è nato da condizioni obiettive ed è guidato da un ideale di rigenerazione sociale, il fascismo che è pura reazione senza ideali. Prevede prossimo il ritorno della libertà che non può alla lunga non trionfare (citando con Croce la famosa frase del De Sanctis che la libertà vince sempre anche quando sembra momentaneamente perdente): il bolscevismo è fenomeno esclusivamente russo che non ha possibilità di espansione, il fascismo è una reazione effimera di breve durata Definisce la democrazia nel modo più ampio come quel «governo che esclude ogni privilegio di nascita e ogni situazione precostituita» e ove «tutti i cittadini possono liberamente e secondo le loro attitudini partecipare alla vita dello stato»218 . La denuncia è coraggiosa, ma la diagnosi è solo in parte esatta: di fatto il «bolscevismo» è una rivoluzione mondiale anche se si è attuato «in un solo paese»; e il fascismo non è un’avventura passeggera, ma una lunga notte che terminerà nell’incendio della seconda guerra mondiale. Se ne era reso conto assai meglio dei vecchi uomini politici, attaccati disperatamente al passato, un gioIvi, p. 189. Id., Bolscevismo, fascismo e democrazia, in Scritti politici, a cura di G. De Rosa, Bari 1961, p. 341. 217 218

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vane scrittore della nuova generazione, Piero Gobetti (1901-1926), che un solo mese dopo la marcia su Roma, scrivendo l’Elogio della ghigliottina («E bisogna sperare che i tiranni siano tiranni, che la reazione sia reazione, che ci sia chi avrà il coraggio di levare la ghigliottina, che si mantengano le posizioni sino in fondo»)219 , per scindere nettamente le responsabilità, per tagliar corto su ogni speranza o proposta di compromesso, per affermare un principio di intransigenza assoluta, definì il fascismo non come un male passeggero, ma come una malattia ereditaria e mortale: Il fascismo in Italia è una catastrofe, è un’indicazione di infanzia decisiva, perché segna il trionfo della facilità, della fiducia, dell’ottimismo, dell’entusiasmo. Si può ragionare del ministero Mussolini come di un fatto d’ordinaria amministrazione. Ma il fascismo è stato qualcosa di più: è stato l’autobiografia della nazione220 .

La diagnosi era esatta. Ma una buona diagnosi non è ancora una via d’uscita. Come sfuggire alla crisi dello stato che aveva contaminato tutti i partiti sino a renderli schiavi del grande domatore? Quando Gobetti nel febbraio del 1922 fondò la rivista «La Rivoluzione liberale» e ne scisse il Manifesto, riallacciandosi all’«Unità» di Salvemini, quando nel 1924 pubblicò in volume alcuni saggi sulla lotta politica in Italia, intitolandolo La rivoluzione liberale, la critica era spietata ma il programma indistinto. Il risorgimento era una rivoluzione fallita; il giolittismo con la sua pratica corruttrice una preparazione del fascismo; nessuno dei partiti esistenti si era dimostrato capace di superare la crisi, dai liberali stori219 P. Gobetti, Elogio della ghigliottina, in «La Rivoluzione liberale», I, n. 34, 23 novembre 1922, p. 130, ora in Scritti politici, a cura di P. Spriano, Torino 1960, p. 434. 220 Ivi, pp. 432-33.

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ci che non hanno saputo adattare la vecchia dottrina ai tempi mutati, ai popolari che non hanno mai avuto una dottrina originale; dai socialisti per la loro impotenza rivoluzionaria ai comunisti per il contrasto tra ideologia libertaria e pratica burocratica; dai nazionalisti per la loro vuotaggine e incoerenza dottrinale ai repubblicani devoti a un Mazzini diventato sempre più inattuale. Ma nonostante le ripetute dichiarazioni di concretezza, «rivoluzione liberale» fu poco più che una formula, ove si mescolavano senza giungere a una chiara sintesi concettuale l’idea di una rivoluzione italiana (anche Gobetti, come del resto Gramsci, fu uno scrittore legato alla tradizione culturale nazionale e vide la soluzione del problema italiano non come problema europeo ma come rimedio al risorgimento tradito, come nuovo risorgimento), e l’idea di una rivoluzione operaia ispirata non all’ideale socialista del collettivismo (che sarebbe finito fatalmente nello stalinismo burocratico) ma a quello liberale classico dell’antagonismo etico e del liberismo economico. La rivoluzione italiana sarebbe stata – a differenza di quella francese – una rivoluzione operaia e non borghese, ma – a differenza di quella sovietica – una rivoluzione liberale e non comunista (nel Paradosso dello spirito russo, Gobetti interpretò la rivoluzione sovietica come rivoluzione liberale). Chi volesse trovare negli scritti folgoranti di Gobetti l’indicazione di un programma politico finirebbe per essere deluso. La sua azione non è strettamente politica ma etico-pedagogica: come il Prezzolini della «Voce», come Salvemini, anche Gobetti riprende il vecchio tema, caro all’intellettuale italiano rimasto ai margini della politica attiva, della formazione di un’élite, capace di insegnare ai politici come si deve governare. Ma questo modo di fare politica non facendola è una drammatica conferma della crisi di uno stato in cui la politica degli intellettuali e quella dei politici sono destinate a non incontrarsi. Nel

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momento della disfatta la testimonianza di Gobetti è una lezione di intransigenza morale più che di teoria politica, un messaggio ideale più che un programma di partito. Non a caso il saggio sulla lotta politica in Italia termina con un concretissimo ritratto di Mussolini anziché con le linee di un astratto programma futuro le cui indicazioni là dove sono decifrabili sono sommarie e oscure: Mussolini è stato l’eroe rappresentativo di questa stanchezza e di questa aspirazione al riposo. La sua figura di ottimista sicuro di sé, le astuzie oratorie, l’amore per il successo e per le solennità domenicali, la virtù della mistificazione e dell’enfasi riescono schiettamente popolari tra gli italiani. È difficile immaginarlo altrimenti che sotto le spoglie di un audace condottiero di compagnie di ventura; o come il capo primitivo di una selvaggia banda posseduta da un dogmatico terrore che non consente riflessioni221 .

«Rivoluzione liberale» è una formula politica, nel senso moschiano (Gobetti era stato allievo del Mosca e l’aveva definito un «conservatore galantuomo»), se pure non dello stato esistente ma di uno stato soltanto immaginato. Non è un programma, tanto meno una teoria: esprime l’esigenza di un rinnovamento profondo, ancora indistinta, che ispirerà uomini e movimenti della Resistenza. 221 Così nell’ultimo paragrafo di La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, Bologna 1924, ora in Scritti politici, cit., p. 1074, che riprende un giudizio già espresso in «La Rivoluzione liberale», I, n. 15, 28 maggio 1922, p. 56, dato alcuni mesi prima della marcia su Roma, ora in Scritti politici, cit., pp. 358-59.

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10 L’IDEOLOGIA DEL FASCISMO

Può sembrare un paradosso che una delle tipiche «ideologie» del nostro tempo, come il fascismo, si sia presentata di proposito al suo formarsi come un movimento antiideologico e abbia fatto consistere la sua novità e la sua forza proprio nel non porsi come ideologia ma come prassi, che non ha altra giustificazione che il successo. Mussolini, sin dal 23 marzo 1921, aveva detto che «il fascismo è una grande mobilitazione di forze materiali e morali. Che cosa si propone? Lo diciamo senza false modestie: governare la nazione [...] Noi non crediamo ai programmi dogmatici [...] Noi ci permetteremo il lusso di essere aristocratici e democratici, conservatori e progressisti, reazionari e rivoluzionari, legalisti e illegalisti, a seconda delle circostanze di tempo, di luogo, di ambiente»222 . Questo concetto fu ribadito, e in un certo senso canonizzato, nella voce Dottrina del fascismo dell’Enciclopedia Treccani (1932). Il paradosso si scioglie sol che si ponga mente al fatto che altro è agire senza darsi pensiero di programmi, altro affermare, come fecero ripetutamente Mussolini e i suoi seguaci, il primato dell’azione sul pensiero, celebrare la fecondità dell’azione per l’azione e via discorrendo. Questa affermazione è già di per se stessa, in quanto giustificazione di un certo modo d’intendere la politica e di farla, un’ideologia, tanto è vero che vi è un nome per riconoscerla, «attivismo», e una filosofia per spiegarla, «irrazionalismo». Nel momento stesso in cui Musso222 B. Mussolini, Dopo due anni, in Scritti e discorsi, Milano 1934, vol. II, p. 153.

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lini sconsacrava i valori tradizionali, irridendo al socialismo, al liberalismo, alla democrazia, ne affermava altri, foss’anche soltanto il valore della forza che crea il diritto, della legittimazione del potere attraverso la conquista, della violenza risanatrice. Il fascismo, se mai, fu un movimento non tanto anti-ideologico, quanto ispirato, specie nei primi anni, a ideologie negative, o della negazione, dei valori correnti. Fu antidemocratico, antisocialista, antibolscevico, antiparlamentare, antiliberale, anti-tutto. Creò nel suo seno un movimento che si fregiò del nome di «antiEuropa». Malaparte contrappose l’Italia barbara all’Europa civile, ed esaltò il fascismo come controriforma: Non abbiamo nessuna necessità, noialtri italiani, di rinnegare tutta la nostra vita nazionale da Clemente VII in poi, e di divenire eretici, per seguire il nostro destino, che è di potenza imperiale. Noi saremo grandi anche senza passare, con un ritardo di tre secoli, attraverso la Riforma; saremo grandi, anzi, unicamente contro la Riforma. La nuova potenza dello spirito italiano, che già si manifesta per chiari segni, non potrà essere se non antieuropea223 .

Mussolini stesso disse che il movimento fascista non era un partilo come tutti gli altri ma un «anti-partito», il che non vuol dire un non-partito (anzi sarebbe diventato la sublimazione dell’idea di partito), ma un partito-anti. E benché si andasse esaltando la rivoluzione delle camicie nere, e scimmiottando gesti, pose, frasi da rivoluzionari, il fascismo non fu una rivoluzione ma una antirivoluzione, o, per usare il termine corrente, una controrivoluzione, che ebbe della rivoluzione alcuni aspetti esterni, la violenza, la sfida alla legalità, l’intolleranza, lo spirito di fanatismo, la partigianeria, senza averne il 223 C. Malaparte, L’Europa vivente. Teoria storica del sindacalismo nazionale, Firenze 1923, p. 3.

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significato storico, anzi rivelandosi un movimento profondamente, come si disse a ragione e come la catastrofe finale dimostrò (ancora un «anti»), anti-storico. Proprio perché il fascismo ebbe un’ideologia negativa, poterono confluire in esso varie correnti ideali che erano animate dagli stessi odi senza avere gli stessi amori, e delle quali Mussolini fu l’abile «domatore» (per usare un’espressione di Gobetti). Il fascismo fu il bacino collettore di tutte le correnti antidemocratiche che erano rimaste per lo più sotterranee o avevano avuto, come abbiamo visto, un’espressione quasi esclusivamente letteraria, sino a che il regime democratico aveva bene o male mantenuto le sue promesse, e apparvero infine alla luce del sole e si trasformarono in azione politica quando il regime democratico entrò in crisi. Se pur con una certa semplificazione, si può dire che il fascismo riuscì a coagulare entrambe le tendenze anti-democratiche di cui si è parlato nel capitolo quarto, tanto quella dei conservatori all’antica quanto quella degli irrazionalisti-nazionalisti, sì da presentare le due facce antitetiche di un movimento eversivo che voleva, se pur oscuramente, un ordine nuovo, e di un movimento restauratore che voleva puramente e semplicemente l’ordine. I fascisti eversivi chiedevano al regime di fare la rivoluzione (se pure la rivoluzione degli spostati, degli sradicati, dei reduci o, come si disse con una formula felice, del quinto stato); gli altri miravano soltanto all’instaurazione di uno stato autoritario che facesse rigar dritto gli operai e arrivare i treni in orario. Senonché, mentre l’eversione dei primi fu velleitaria e fu facilmente dissolta con l’assorbimento dei nazionalisti, con la conversione nazionalistico-patriottica degli ex sindacalisti rivoluzionari, la restaurazione dei secondi fu una cosa seria, l’unica cosa seria del regime, che venne abolendo via via tutte le conquiste dello stato liberale senza instaurare uno stato socialmente più avanzato.

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La diversa origine ideologica dei restauratori e degli eversivi si riverberò pure nel loro diverso modo di concepire il fascismo e quindi di utilizzarlo. Il fascismo dei primi fu puramente strumentale: accettarono il fascismo con lo stesso animo, e anche con gli stessi sottintesi, con cui furono pronti a ripudiare, di fronte al pericolo della rivoluzione, la democrazia, come un rimedio salutare, anche se amaro, alla crisi del vecchio stato. Il fascismo degli altri, invece, fu finalistico: l’ideale di chi credeva sinceramente che il mostro bolscevico dovesse essere spento perché l’umanità potesse riprendere il cammino violentemente interrotto della civiltà, e il fascismo fosse, attraverso la rinascita del genio della stirpe italica, una nuova aurora della storia. I primi furono i realisti del regime; i secondi, i credenti, i fanatici. Tra gli uni e gli altri i rapporti non furono mai amichevoli: questi accusavano quelli di essere degli opportunisti; ma quelli accusavano questi di essere degli esaltati. Il regime, nonostante l’aspetto florido che esso mostrava nelle manifestazioni ufficiali, fu continuamente scosso da correnti sotterranee. La prova del fuoco per i restauratori dell’ordine venne quando la guerra non voluta da loro ma dagli altri, dai super-credenti nella grandezza del Duce, stava per essere perduta: resisi conto che il fascismo era diventato un cattivo strumento, lo buttarono via senza troppi complimenti con il colpo di stato del 25 luglio 1943. Gli altri continuarono la loro battaglia disperata nella repubblica di Salò. Il fascismo dei restauratori poté contare, per il suo consolidamento e per la sua propagazione, sull’adesione e sulla partecipazione attiva di Giovanni Gentile che ne divenne l’ascoltato teorico. Gentile (1875-1944) era un uomo intellettualmente vigoroso e moralmente generoso, fatto d’impeti e di slanci ideali, ottimista sino all’ingenuità, con una vocazione profonda all’apostolato filosofico, intesa la filosofia come fede nel vento dello Spiri-

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to che soffia in ogni cuore, una specie di religione laica che suscita proseliti entusiasti. Promotore e animatore di scudi, il suo prestigio presso gli uomini di cultura della nuova generazione fu forse più circoscritto di quello di Croce, ma, là dove giungeva, più intenso. Giovanissimo, aveva esordito con uno studio su Rosmini e Gioberti che rimise in circolazione, aggiornandolo e abbellendolo, lo spiritualismo italiano, e con due saggi sul marxismo che interpretarono Marx come un Hegel minore. Collaboratore assiduo della «Critica», aveva condiviso, con Croce, la responsabilità e il successo del risveglio idealistico, cui aveva contribuito con una storia critica – che talora rasentava la stroncatura beffarda – della filosofia italiana dopo l’Unità, con scritti pedagogici, in difesa di una concezione universalistica (non specialistico-tecnica) della scuola e spiritualistica del rapporto educativo, con scritti filosofici culminati nella Teoria generale dello spirito come atto puro, del 1916, in cui aveva esposto le linee principali del suo idealismo assoluto. Come Croce, pur non avendo mai preso parte attiva alla vita politica, aveva sempre avuto una concezione militante della filosofia. Era intervenuto autorevolmente nei dibattiti sulla riforma scolastica, facendo valere contro le due opposte tendenze della scuola confessionale e della scuola agnostica il concetto di una scuola laica non agnostica che ha la sua concezione della vita di cui deve investire ogni forma specifica di sapere, e ispirando i Nuovi doveri di Giuseppe Lombardo Radice. Attraverso alcuni suoi discepoli, come il Fazio-Allmayer e il De Ruggiero, determinò un mutamento, se non d’indirizzo, di accento, nella «Voce», con un fascicolo dedicato alla filosofia italiana contemporanea (del dicembre 1912), in cui egli stesso scrisse alcune pagine efficaci contro la filosofia libresca, già morta prima di essere nata, che s’insegnava nelle scuole. Pochi mesi dopo, la stessa rivista ospitò un dibattito tra lui e Croce sull’idealismo attuale

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in cui Croce difese il principio della distinzione nell’unità, avendo intravisto nella filosofia dell’atto puro il pericolo di un ritorno ad uno sterile misticismo, mentre Gentile sospettava nelle distinzioni crociane una ricaduta in qualche forma di trascendenza e quindi un tradimento (involontario) dell’immanentismo assoluto. Non diversamente da Croce, anche Gentile fece le prime prove di scrittore immediatamente politico all’inizio della guerra con la conferenza già ricordata (La filosofia della guerra), in cui asserì primo dovere di ognuno essere quello di tacere umilmente dinnanzi, alla grandezza degli avvenimenti «e sentirsi compresi della solennità [...] religiosa di questa straordinaria giornata del mondo»224 . Alla quale seguirono vari articoli sul «Resto del Carlino» e sul «Nuovo Giornale» di Firenze, raccolti poi nel volume Guerra e fede (1919). Nel 1920, raccolse in un secondo volumetto, Dopo la vittoria, quel che era andato meditando e proponendo nei primi due anni di pace, che gli appariva come tempo non di avventura ma di «ordine», se pure «non dell’ordine che dev’essere stabilito dalla forza, ma di quell’ordine – tanto più efficace, quanto più sincero e moralmente sicuro – che deriva dal concorde volere di tutte le classi e di tutti i partiti, congiunti dal dovere sacro di instaurare nella sua pienezza il dominio del diritto in un regime di vera giustizia e di ampia libertà»225 . Denunciava la crisi morale, che non avrebbe potuto essere risolta se non con una nuova concezione dello stato, non strumento di parte ma organo dell’interesse collettivo, distinguendo la falsa democrazia in cui il popolo pretende di opporsi allo stato da quella vera in cui «il popolo è esso stesso lo stato». G. Gentile, Guerra e fede, cit., pp. 16-17. Id., Dopo la vittoria. Nuovi frammenti politici, Roma 1920, pp. 46-47. 224

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Gentile proveniva non dalle file del nazionalismo ma dalla tradizione della destra storica ormai irrigidita e idealizzata. Durante la guerra, contro l’antiliberalismo di Corradini si era richiamato al liberalismo di Silvio Spaventa. Ma era un liberalismo che non aveva nulla a che vedere con quello classico, contrapponente l’individuo allo stato, frutto dell’individualismo atomizzante dell’illuminismo. Il suo era un liberalismo che concepiva lo stato «come la stessa volontà individuale nella sua profonda razionalità e legalità»226 . In una polemica con Missiroli, ripeté, svolse (ma non chiarì): Il liberalismo, almeno da cento anni a questa parte, è concezione dello Stato come libertà e della libertà come Stato: doppia equazione nella cui unità trova adeguata espressione il principio liberale. Né lo Stato esterno all’individuo, né l’individuo concepibile come astratta particolarità, fuori dell’immanente comunità etica dello Stato, in cui egli realizza la sua effettiva libertà227 .

Che il liberalismo fosse una dottrina della libertà in cui la libertà dovesse essere vista dal punto di vista non dell’individuo ma dello stato (libertà dello stato, non dallo stato), era una tesi che derivava dalla concezione stessa dell’eticità dello stato che era in Gentile assai antica e gli veniva da Hegel. Sin dal 1907, discorrendo sulla laicità dello stato, si era chiesto: Ebbene, lo Stato che nega fuori di sé il divino, può egli negarlo fuori e dentro di sé, da per tutto? A parole, certo: ma lo stato non è, e non è stato mai una parola. Lo Stato è una realtà, una reale attività etica, che non discorre di se stessa, ma si afferma, si realizza perennemente. E se si realizza, non può realizzarsi altrimenti che come qualche cosa che deve realizzarsi (come 226 227

G. Gentile, Guerra e fede, cit., p. 56. Id., Dopo la vittoria, cit., p. 172.

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valore), come qualche cosa che rappresenta una legge, un che di assoluto, di divino228 .

Con questa concezione etica (non giuridica né economica) dello stato e con la conseguente interpretazione del liberalismo autentico italiano (da non confondersi con quello francese o inglese ecc.), come quello che era stato teorizzato dal neo-hegelismo napoletano (per il quale lo stato era la nuova chiesa), Gentile si trovò nella migliore condizione per dimostrare che il fascismo non era affatto una rottura col passato, come sostenevano i suoi avversari e volevano lasciar credere i fascisti eversivi, ma era nient’altro che la piena attuazione del «vero» liberalismo, tradito da tutti coloro che lo avevano sempre scambiato per dottrina individualistica e materialistica. In una serie di scritti e discorsi, raccolti nel 1925 col titolo Che cosa è il fascismo, questa dimostrazione venne ripetuta in varia guisa ma su per giù con gli stessi concetti infinite volte: esservi due liberalismi, quello atomistico d’origine illuministica, e quello nostrano (e tedesco), per il quale «la libertà è sì il supremo fine e la norma d’ogni vita umana: ma in quanto l’educazione individuale e sociale la realizza, attuando nel singolo questa volontà comune, che si manifesta come legge, e quindi come Stato»229 ; e questo liberalismo nostrano essere la stessa cosa del fascismo «che non vede altro individuo soggetto di libertà che quello che sente pulsare nel proprio cuore l’interesse superiore della comunità e la volontà sovrana dello Stato»230 . 228 Id., Scuola laica, in Scritti pedagogici, vol. I, Educazione e scuola laica, Firenze 1937, p. 98. 229 Id., Che cosa è il fascismo. Discorsi e polemiche, Firenze 1925, p. 50. 230 Ivi, p. 52.

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Posta la premessa che «il massimo della libertà coincide col massimo della forza dello Stato», anche la domanda se si debba distinguere la forza materiale da quella morale non ha più senso: «ogni forza è forza morale, perché si rivolge sempre alla volontà; e qualunque sia l’argomento adoperato – dalla predica al manganello – la sua efficacia non può essere altra che quella che sollecita infine interiormente l’uomo e lo persuade a consentire»231 . S’intende che se è consenso anche quello ottenuto col manganello, lo stato fascista era uno stato fondato sul consenso. Ma allora, lo stesso Mussolini, meno filosoficamente ma più esattamente, aveva espresso lo stesso concetto quando aveva detto (in un discorso del marzo 1923): Dichiaro che voglio governare, se possibile, col maggior consenso di cittadini. Ma, nell’attesa che questo consenso si formi, si alimenti e si fortifichi, io accantono il massimo delle forze disponibili. Perché può darsi per avventura che la forza faccia ritrovare il consenso, e in ogni caso, quando mancasse il consenso, c’è la forza232 .

In realtà Gentile aveva tratto da Hegel più la formula dello stato etico che non la sostanza. Mentre per Hegel, maestro di realismo politico, lo stato appartiene al momento oggettivo dello Spirito, per Gentile diventò un atto dell’unico Soggetto che crea e ricrea dal suo seno tutta la realtà. Se per spiritualismo s’intende la riduzione di ogni realtà all’interiorità, lo spiritualismo ebbe la sua massima espressione nella filosofia di Gentile: il quale, con la sua teoria dello stato non inter homines ma in interiore nomine, ridusse a fatto interiore anche la realtà corposissima dello stato. Presentata nel 1920, nel primo dei Ivi, p. 50. B. Mussolini, Risposta al Ministro delle Finanze, in Scritti e discorsi, cit., vol. III, pp. 81-82. 231 232

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Discorsi di religione, la teoria dello stato in interiore nomine fu esposta in forma compiuta in un saggio del 1930, che fa testo: Ogni individuo agisce politicamente, è uomo di stato, e reca in cuore lo Stato, è lo Stato. Ciascuno a modo suo, ma ciascuno tuttavia concorrendo in uno Stato comune, in virtù dell’universalità che è propria della sua stessa personalità [...] Lo Stato perciò non è inter homines ma in interiore nomine233 .

Per Hegel lo stato era, pur nella sua potenza che non conosce limiti giuridici, una determinazione dello Spirito: non solo non s’identifica con lo Spirito universale, ma è limitato sia dall’essere sempre in mezzo ad altri stati sia dall’essere, in quanto momento culminante dello Spirito oggettivo, subordinato allo Spirito assoluto, sia dal contenere nel suo stesso seno i due momenti, particolari sì ma necessari, della famiglia e della società civile. Gentile, accettando il principio nazionale, non riconobbe la molteplicità degli stati, ma innalzò il proprio stato a unico stato; rifiutando la distinzione tra Spirito oggettivo e Spirito assoluto, giunse a sostenere che lo stato, come forma dell’autocoscienza, è a suo modo una forma di filosofia; infine, non avendo occhio per le distinzioni empiriche, ripudiò come non speculative e quindi spurie la distinzione fra stato e famiglia, e quella fra stato e società civile, e concluse che lo stato era tutt’uno con la famiglia e con la società civile. A furia di unificare, di semplificare, di ridurre a stato, all’unico stato, ogni determinazione storica, ripudiata come spregevole empiria, finì per fornire un dotto commentario alla formula mussoliniana «Tutto nello stato, nulla al di fuori dello stato, nul233 G. Gentile, Diritto e politica, apparso nel I fasc. dell’«Archivio di studi corporativi», I (1930), pp. 1-14, quindi compreso nei Fondamenti della filosofia del diritto, Firenze 1937, da cui cito. Il passo si trova a p. 129.

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la contro lo stato», la giustificazione filosofica dello stato totalitario. Il 21 aprile 1925 chiamò a raccolta gl’intellettuali italiani con un Manifesto in cui mise in particolare evidenza il carattere «religioso» del fascismo, e ne giustificò le misure liberticide in nome dell’interesse supremo della nazione. Croce rispose con un altro Manifesto in cui disse che nobilitare col nome di religione il sospetto e l’animosità sparsi per ogni dove, suonava come «una assai lugubre facezia». Nonostante la sua adesione al fascismo, la sua interpretazione distorta del liberalismo che lo portò a vedere la piena attuazione dell’idea liberale in uno stato di polizia, Gentile rimase nell’animo e nel costume un liberale all’antica e cercò spesso con la sua opera personale di rimediare, specie nel campo della vita intellettuale, alle malefatte del regime. Ma fece scuola: l’idea dello stato-tutto, dello stato superiore alle parti, ai conflitti di parte, agli individui isolati, confluì nella dottrina, già escogitata dai nazionalisti, dello stato corporativo che media i conflitti di classe in nome dell’interesse superiore della nazione. Come scrisse uno dei suoi discepoli, Arnaldo Volpicelli, il corporativismo «intende l’organismo sociale, e però statuale, come affatto immanente negli individui e con essi coincidente», non opera entro i limiti della sola attività produttiva, ma comprende e congloba tutta la vita della nazione234 . L’altro dottrinario del fascismo conservatore fu Alfredo Rocco. Proveniente dal nazionalismo di destra era antiliberale, in economia e in politica; e, a differenza dal Gentile, liberale «se pure a modo suo», era un reazionario, con l’aggravante di essere anche un buon giurista. Il suo ideale politico fu uno stato forte nelle sal234 A. Volpicelli, I fondamenti ideali del corporativismo, in «Archivio di studi corporativi», I (1930), p. 13.

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de mani dell’alta borghesia industriale, una specie di ancien régime adattato alle esigenze della nuova società industriale. Il suo principio etico e politico fondamentale fu l’«organizzazione». Entrato autorevolmente in lizza al Congresso nazionalista di Milano del 1914, con una relazione economica, in cui svolse un programma antiliberista in una cornice nazional-corporativa, nel primo congresso dei nazionalisti dopo la guerra (1919) presentò un programma politico i cui capisaldi erano la solidarietà nazionale, la necessità della disciplina, la subordinazione dell’individuo allo stato. In una intervista sui risultati del congresso affermò che «non le sue istituzioni parlamentari [...] hanno fatto fallimento [...] occorre sostituire al predominio delle masse disorganizzare [...] il predominio politico degli enti corporativi»235 . Ancor prima dell’avvento del fascismo la sua idea dominante era stata il rafforzamento dello stato, onde salutò la marcia su Roma come l’esercito storico che avrebbe attuato il nuovo stato, e sentenziò che il nazionalismo era ormai maturo per scomparire. In un discorso del 1924 (la formazione della coscienza nazionale dal liberalismo al fascismo) accusò tutte le correnti derivate dalla rivoluzione francese, liberalismo, democrazia, socialismo, anarchismo, di essere dottrine individualistiche e materialistiche che il fascismo aveva il compito di rovesciare. Contrappose la libertà dei liberali, che era un diritto, alla libertà fascista che era una concessione, che lo stato poteva anche togliere (e infatti la tolse). Nel 1925 lesse a Perugia un discorso, intitolato La dottrina politica del fascismo, in cui, esaltando l’italianità del fascismo, scomodò a fargli da precursori, oltre Machiavelli e Vico che erano di rito, anche san Tommaso. In uno scritto del 1927, La trasformazione del235 Questa intervista fu pubblicata nell’«Idea nazionale» del 24 marzo 1919. Cito da P. Ungari, Alfredo Rocco e l’ideologia giuridica del fascismo, Brescia 1963, p. 52.

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lo stato, esaltò il 3 gennaio come inizio del nuovo corso storico, e, considerato lo stato liberale come una merce d’importazione, vi contrappose, come prodotto del genio italico, lo stato fascista «che realizza al massimo della potenza e della coesione l’organizzazione giuridica della società»236 . Il corporativismo, o sindacalismo integrale di stato, era la soluzione opposta a quella vagheggiata dal sindacalismo rivoluzionario che aveva alimentato ideologicamente il fascismo di sinistra. Qua il sindacato che si contrappone allo stato sino a dissolverlo; là il sindacato che si integra nello stato sino a scomparirvi: il corporativismo fascista è il sindacalismo statualizzato, in definitiva la negazione dell’essenza stessa e del significato storico del sindacalismo. La rivincita della politica sull’economia, dell’autorità sull’autonomia, del potere sulla libertà. Il trionfo del corporativismo segnò la fine del vecchio fascismo eversivo di cui rivelò lo spirito irrealistico, il carattere velleitario. Nell’ambito della dottrina corporativa poteva esserci una sola soluzione rivoluzionaria che peraltro era l’antitesi del sindacalismo e arieggiava se mai, senza parere, a una corra di comunismo: attribuire alla corporazione la proprietà dei mezzi di produzione attraverso la spoliazione graduale della proprietà privata, istituire, come fu detto dal suo propugnatore, Ugo Spirito, la «corporazione proprietaria». Il «putiferio» sollevato da tal proposta al Convegno di studi corporativi, svoltosi a Ferrara nel 1931237 , mostrò da quale parte stavano coloro che tenevano ben salde nelle loro mani le redini dello stato (corporativo o non). Tanto che lo stesso ideatore, dopo il secondo convegno, rimasta isolata la 236 A. Rocco, Scritti e discorsi, vol. III, La formazione dello stato fascista (1925-1934), Milano 1938, p. 778. 237 U. Spirito, Capitalismo e corporativismo, Firenze 1934, p. XIII.

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«terribile» formula della corporazione proprietaria, disse: «Ebbene, lasciamola pure da parte e non ci pensiamo più». Dopo il Concordato (1929), anche una filosofia immanentistica e laica come quella di Gentile, che contava tra i suoi antenati Giordano Bruno e teneva per padre spirituale Bertrando Spaventa, non poteva più essere accolta come filosofia ufficiale. La cultura fu rapidamente «fascistizzata», cioè ridotta a formule rituali, a dommatica, oppure a sfoghi sentimentali tra il mistico e l’apologetico. Ma via via che lo stato diventava sempre più burocratico, l’ordine sempre più meccanico, lo stile sempre più rigido, la ideologia emergente, se ancora si possono chiamare «ideologia» fremiti di adorazione del capo, impeti di fiducia nel destino imperiale della nuova Italia in camicia nera, fu quella dei giovani arrabbiati, che rifiutarono il pensiero chiaro e distinto, invocarono ancora una volta la violenza internazionale per trasformare la farsa della storia, recitata dagli stati demoplutocratici, in epopea, riposero le loro speranze non nella ragione ma nell’autorità, nella fiducia cieca in un uomo superiore di cui i poeti cantavano «Da te il futuro / prende gli ordini / e s’inchina»238 , e i pensatori dicevano che era «già mito e simbolo, incarnazione ideale ed eroe popolare»239 ; e coltivando sogni di grandezza, alimentarono passioni smoderate e disperate, di cui furono spesso le vittime. Di tra le maglie di una società, che celebra cerimonie in cui non crede, la vecchia passione irrazionalistica si scatena con una violenza inaspettata. Tra il ’30 e il ’40 il fascismo cessa di essere o di pretendere di essere una dottrina e diventa una fede in cui si deve credere, obbe238 A. S. Novaro, A Mussolini, in «Nuova Antologia», 16 febbraio 1935, p. 481. 239 G. Bottai, Italianità e universalità di Mussolini, ivi, 1° settembre 1939, p. 3.

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dire, e per cui si deve combattere. Lo stile – scegliamo una frase a caso tra mille – è il seguente: In questa antitesi tra la pseudo-logica della Ragione e la logica dei sentimenti sta il capovolgimento del sistema, l’apparizione dei nuovi valori storici che il Fascismo ha apportato nell’etica. La logica della ragione dà gli eguali, la logica dei sentimenti la fede, il canto della gerarchia, l’apparizione del Demiurgo [...] I più grandi accadimenti della storia: i Cesari, il Cristianesimo, gli ordini religiosi, la guerra, il Fascismo, sono movimenti mistici, atti di fede240 .

Il direttore dell’Istituto di mistica fascista spiegò che «la fonte, la sola, l’unica fonte della mistica è [...] Mussolini, esclusivamente Mussolini»241 . In un congresso del 1940 concluse con questa professione di fede di cui si stenterebbe a trovare nella storia perenne della follia umana un esempio più perfetto: Noi siamo mistici perché siamo degli arrabbiati, cioè dei faziosi, se così si può dire, del Fascismo, uomini partigiani per eccellenza e quindi anche assurdi. Sì, assurdi [...] La storia, quella con la esse maiuscola, è stata e sarà sempre un assurdo: l’assurdo dello spirito e della volontà che piega e vince la materia: cioè mistica242 .

Di fronte allo scoppio della seconda guerra mondiale il fascismo eversivo, che aveva trovato nuovo alimento nell’alleanza con Hitler, prese il sopravvento sul fascismo dei conservatori che avrebbe preferito estraniarsi dalla grande zuffa. E contribuì una seconda volta a gettare il paese nel grande conflitto, da cui sarebbe uscito, questa volta, non soltanto distrutto, ma anche umiliato. In «Gerarchia», 1938, p. 579. Ivi, 1937, pp. 513-14. 242 Ivi, 1940, pp. 155-56. 240 241

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11 CROCE OPPOSITORE

Nonostante la briga che i fascisti si diedero per evocare una «cultura fascista» e a cercar d’imporla nella scuola, nelle riviste e nei giornali, negli istituti ad hoc, il fascismo, reso innocuo Gentile e tenuti a bada i gentiliani, non diede vita a una propria cultura; né ha lasciato tracce, se non di artifici retorici, di gonfiezze letterarie, di improvvisazioni dottrinali, in una storia della cultura italiana. Il che non vuol dire che non vi sia stata negli anni del regime una vita culturale intensa, tutt’altro che effimera; ma non fu una cultura «fascista». Sarebbe se mai più confacente chiamarla, per il prestigio che vi ebbe Croce come risvegliatore di coscienze contro la dittatura, «crociata». Tra il 1925 e il 1940 infatti fiorì la seconda, e più ricca e rigogliosa, stagione del lungo magistero di Benedetto Croce, che fu coscienza morale dell’antifascismo italiano, non tanto come restauratore dell’idealismo (che era ormai morto avendo lasciato il posto allo storicismo assoluto), quanto come filosofo della libertà. Il pensiero filosofico di Croce si mosse continuamente, per intima forza dialettica, tra due poli: l’affermazione, da un lato, dell’attivítà politica come attività economica o forza vitale, e in quanto tale autonoma rispetto alla morale, avente le proprie ragioni e le proprie leggi; l’identificazione, dall’altro, della libertà con la forza morale che dirige in ultima istanza la politica e con la quale ogni buona politica deve fare i conti. Negli anni della bonaccia Croce accentuò, come abbiamo visto nel capitolo sesto, il primo aspetto, tanto da diventare, con scandalo dei moralisti e dei democratici, fautore dello stato-potenza; quando la tempesta della tirannide si rovesciò sul nostro

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paese, egli accentuò il secondo, facendosi assertore vigoroso, a dispetto degli zelanti servitori del fascismo, dell’ideale morale della libertà. Sino a che la libertà non era stata minacciata, il liberalismo di tradizione e di temperamento che sonnecchiava in lui si era limitato a dare qualche sussulto, come in occasione della memorabile sfuriata contro i nazionalisti. Instaurata la dittatura, l’afflato o sentimento liberale si trasformò a poco a poco in una teoria del liberalismo, dando luogo a una vera e propria concezione della storia come storia della libertà. Croce stesso fece capire che sino allora era stato un liberale inconsapevole. Ma di fronte al nuovo regime e alle storture filosofiche e storiche che i suoi zelatori, a cominciare da Gentile e dai gentiliani, andavano propagando, occorreva metter mano con rigore al metodo della distinzione che non fallisce mai, e dar la caccia severamente a ogni confusione ridando a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio. Il momento cruciale del passaggio dal liberalismo pratico al liberalismo teorico fu il 1925, l’anno in cui Croce prese per la prima volta pubblica posizione come oppositore del regime scrivendo il Manifesto degli intellettuali antifascisti in risposta al Manifesto gentiliano. Nello stesso anno scrive la postilla Liberalismo in cui il liberalismo è accolto nel suo concetto storicamente consolidato di teoria antagonistica della società, in quanto soddisfa il bisogno «di lasciare, quanto più è possibile, libero giuoco alle forze spontanee e inventive degli individui e dei gruppi sociali, perché solo da queste forze si può aspettare il progresso mentale, morale ed economico, e solo nel libero giuoco si disegna il cammino che la storia deve percorrere»243 . Nel 1929 raccoglie in un volumetto, dal significativo titolo Aspetti morali della vita po243 B. Croce, Liberalismo, in «La Critica», XXIII (1925), pp. 125-28, che cito da Cultura e vita morale, cit., p. 285.

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litica, alcuni articoli d’argomento politico, tra cui Il presupposto filosofico della concezione liberale (1927) e Liberismo e liberalismo (1928). Le principali tappe di questo itinerario verso una filosofia della libertà sono la Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (1928), la Storia d’Europa nel sec. XIX (1932), La Storia come pensiero e come azione (1938). Nel 1939 esce il saggio Principio, ideale, teoria; a proposito della teoria filosofica della libertà, che può ben considerarsi come la sintesi e il punto di arrivo del lungo cammino attraverso la storia dell’idea di libertà e la teoria del liberalismo. Il primo errore da confutare era che il fascismo, come andavano predicando i gentiliani, fosse il vero liberalismo. Alla confutazione di questo errore Croce dedicò le due opere storiche, la Storia d’Italia e la Storia d’Europa: nella prima delle quali mostrò che il periodo dell’Italietta era stata un’età di consolidamento dello stato italiano uscito dal Risorgimento, in cui il maggior benessere aveva coinciso con una più profonda partecipazione agli ideali liberali; nella seconda, esaltò il secolo del romanticismo che aveva spazzato le religioni tradizionali sostituendovi l’unica e sempre verde, perché sempre rinnovantesi, religione della libertà, e vi contrappose i moti irrazionalistici e attivistici del primo decennio del nuovo secolo che portarono alla guerra e al fascismo. Il secondo errore, non più storiografico ma teorico, era la concezione dello stato etico, che andava dilagando per opera del Gentile: concezione grossolana «mal ricavata dal pensiero hegeliano o desunta dalla parte più contestabile di esso, impedantita dai trattatisti tedeschi, ripetuta con pia unzione ma senza critica dagli hegeliani italiani, e altrettanto adatta alle tendenziose prediche dei politicanti autoritari e reazionari quanto disadatta all’intendimento

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della storia»244 . La confutazione di questo errore diede al Croce il destro di richiamare l’attenzione sulla distinzione tra morale e politica che gli si venne raffigurando nella perpetua lotta fra lo stato e la chiesa, e quindi di mettere in chiaro che «il momento dello stato e della politica è un momento necessario ed eterno bensi, ma un momento e non il tutto; e la coscienza e l’operosità morale è un altro momento, non meno necessario ed eterno, che segue il primo, dispiegandosi dall’unità e nell’unità spirituale»245 . In uno scorcio autobiografico della Storia d’Italia spiegò che il filosofo «che era a capo del movimento filosofico italiano»: rifiutando molte dottrine dello Hegel, aveva rifiutato, tra le prime, l’esaltazione dello stato di sopra la moralità, e ripreso, approfondito e dialettizzato la distinzione cristiana e kantiana dello stato come severa necessità pratica, che la coscienza morale accetta e insieme supera e domina e indirizza246 .

Il terzo errore, più grave, era insieme teorico e storiografico: i difensori del nuovo stato andavano dichiarando che il liberalismo era ormai morto come prodotto delle correnti filosofiche utilitaristiche, materialistiche, individualistiche del Sette e Ottocento, che avevano ormai fatto il loro tempo. Fu nella confutazione di questo errore che Croce si elevò a una visione globale della storia in cui il liberalismo non è più un’ideologia in mezzo ad altre ideologie, ma è l’ultimo approdo del pensiero moderno che offre alla storiografia un criterio di interpretazio244 Recensione a F. Fiorentino, Lo stato moderno e le polemiche liberali, in «La Critica», XXIII (1925), pp. 59-61, che cito da Conversazioni critiche, cit., vol. IV, p. 319. 245 B. Croce, Giustizia internazionale, in «La Critica», XXVI (1928), pp. 382-85, che cito da Etica e politica Bari 1945, p. 347. 246 Id., Storia d’Italia dal 1871 al 1915, cit., p. 259.

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ne storica – il progresso della storia coincide coll’avanzamento della libertà –; all’azione pratica, un ideale morale – la libertà come principio universale non particolaristico di azione politica –; alla realtà stessa, che è storia, la spiegazione della sua forza creatrice – la libertà come soggetto della storia. Come concezione totale della storia, come ultimo prodotto della filosofia immanentistica e storicistica, non più superata dalle filosofie successive, come concezione metapolitica, il liberalismo dunque non solo non era morto ma non poteva morire ed era destinato a vivere anche quando sembrava più conculcato, a rinascere quando sembrava più frainteso e negletto. Tanto fu apolitico o impolitico il pensiero crociano nei primi tre lustri del secolo, tutto assorbito nella creazione del sistema filosofico, interrotto soltanto da qualche sortita improvvisa e di breve durata, più sconcertante che illuminante, nel campo avverso, quanto politicamente orientata e impegnata la sua opera, che fu principalmente opera di storiografia, negli anni del regime. Vi dominarono due motivi fondamentali: l’esaltazione dell’età liberale, che aveva segnato un sicuro avanzamento nella vita morale e civile dell’umanità, e la convinzione che la libertà coincidente con l’ideale morale dell’uomo può essere soltanto offuscata ma non spenta. La prima affermazione suonava condanna senza appello del fascismo interpretato come movimento che va contro la storia; la seconda spronava a non arrendersi, a non rassegnarsi, a resistere, perché all’età della tirannia non avrebbe potuto non seguire una nuova età liberale. Inoltre, una volta inteso il liberalismo non come ideologia ma come una concezione cotale della storia, anzi come la concezione finalmente disvelata della storia che permette di capire il senso e la direzione del processo storico, erano poste le premesse per un confronto tra il liberalismo e le altre ideologie, per un vero e proprio discorso politico che avrebbe dovuto preparare e alimentare la

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futura battaglia delle idee. Anzitutto, come concezione della storia per cui la storia procede, quando procede, «dialetticamente», ossia «mercè la diversità e l’opposizione delle forze spirituali», il liberalismo si oppone alle concezioni autoritarie, che pregiano l’unità invece della distinzione, la pace e la concordia invece della continua lotta e della discordia, e vagheggiano impossibili società in cui regnino l’uniformità e il livellamento. Di queste, due erano state ed erano ancora massimamente influenti, il cattolicesimo e il socialismo (in particolare nella sua versione marxistica). Contro quest’ultimo, in specie contro la sua attuazione storica nell’Unione Sovietica, la polemica di Croce fu perseverante e durissima: Subietto della scoria è [...] il positivo e non il negativo; e il nocciolo del comunismo, nella sua idea ultima e direttrice, nel principio a cui dà fede, non è la positività di un’azione o di un’istituzione, ma un conato nel vuoto, il quale, nella sua più nuda espressione si risolve nel concepire l’ideale della vita come pace senza contrasti e senza gara, e pertanto con eguali sentimenti e concetti ed eguali e soddisfatti bisogni in tutti i componenti di una società, condizione che coglie radicalmente la necessità e possibilità stessa delle lotte degli uni contro gli altri, delle vittorie e delle sconfitte degli uni sopra gli altri, e la necessità stessa dell’ordinamento statale247 .

Nel momento stesso in cui Croce combatte fieramente il comunismo come concezione globale della storia, perché, in quanto filosofia, è una cattiva filosofia, non esclude che sul terreno della quotidiana lotta politica, che è terreno dove si affrontano questioni empiriche e non filosofiche, fatta salva la idea direttrice e metapolitica della libertà come condizione stessa di sviluppo della convivenza civile, alcune proposte comunistiche nella sfera 247 B. Croce, Per la storia del comunismo in quanto realtà politica, in Discorsi di varia filosofia, Bari 1945, vol. I, p. 278.

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economica e largamente sociale possano essere, secondo le occasioni e le opportunità, accolte. Corre lungo tutto l’arco di quegli anni, parallelamente alla critica del socialismo e del comunismo (accomunati nella stessa condanna), la polemica contro la confusione tra liberalismo e liberismo: si sarebbe tentati di considerar questa polemica in contrasto con quella anticomunista, se non si ponesse mente alla insistenza crociana sulla distinzione tra il piano filosofico, in cui soltanto è questione di verità e di falsità, e il piano empirico in cui è lecito porre i problemi sollevati dal comunismo e dal liberismo, ove valgono soltanto criteri di maggiore o minore opportunità. Quando i liberisti sostengono che non vi può essere liberalismo senza liberismo economico comrriettono lo stesso errore che è proprio dei socialisti di elevare a ideale morale un programma economico di cui si tratta di valutare di volta in volta l’opportunità politica (che non ha niente a che vedere con la verità filosofica), e contribuiscono a screditare l’ideale liberale riducendolo a principio edonistico, utilitaristico, materialistico, così giustificando la critica degli avversari. Sin dal 1928, in un saggio intitolato per l’appunto Liberalismo e liberismo, Croce chiarì il concetto che mentre il liberalismo è un ideale etico, il liberismo è un principio economico che, convertito arbitrariamente in ideale etico, si trasforma nella morale utilitaria. Perciò non ci si deve preoccupare se un provvedimento sia più o meno conforme ai principi del liberismo, ma se sia più o meno liberale, se cioè contribuisca ad accrescere la libertà; e non è affatto escluso che in determinate circostanze sia più energico promotore di libertà un provvedimento economico ispirato alla dottrina economica (non filosofica) socialista. Proprietà individuale e proprietà collettiva non sono beni in sé, ma secundum quid, da valutare in relazione al contributo che possono dare all’accrescimento dell’unico bene in sé, che è la libertà.

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Cosicché arbitrariamente si comportano coloro che pretendono di dimostrare la bontà intrinseca e perpetua dell’uno o dell’altro ordinamento, ed utopisti sono, non meno degli assoluti comunisti, gli assoluti liberisti248 .

Dopo questo primo articolo Croce ripeté più e più volte la propria tesi difendendola dalle caute ma pur ferme obiezioni di Einaudi. A proposito del libro di Aldo Mautino (La formazione della filosofia politica di Benedetto Croce, 1941) in una nota pubblicata sulla «Rivista di storia economica» ne diede la formulazione più sintetica: liberismo e comunismo sono due ordinamenti irrealizzabili e irrealizzati nella loro assolutezza, non essendo concetti di economia ma tentativi di ordinamento totale della vita e della società umana, mentre: ben diverso è il principio del liberalismo, che è etico ed assoluto, perché coincide col principio stesso morale, la cui formula più adeguata è quella della sempre maggiore elevazione della vira, e pertanto della libertà senza cui non è concepibile elevazione né attività. AI liberismo come al comunismo il liberalismo dice: Atterrerò o respingerò le vostre singole e particolari proposte secondo che esse, nelle condizioni date di tempo e di luogo, promuovano o deprimano l’umana creatività, la libertà. Con ciò quelle proposte stesse, ragionate diversamente, vengono redente e convertite in provvedimenti liberali249 .

Queste due nuove battaglie contro socialismo e liberismo non fecero dimenticare a Croce la vecchia polemica contro l’ideologia democratica, sulla quale ritornò con la solita acrimonia, per denunciarne la «falsità totale», negli Elementi di politica (1925), e per dimostrarne gli errori e le malefatte politiche nelle opere storiche. 248 Vedi B. Croce e L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, a cura di P. Solari, Napoli 1957, p. 59. 249 Ivi, p. 152.

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A rinfocolare l’ardore battagliero contro le «insulsaggini» democratiche sopraggiunse, nel momento in cui l’antifascismo cominciò ad organizzarsi nei primi movimenti politici clandestini, il programma liberalsocialista di Guido Calogero, che al di là di liberalismo e di socialismo cercava una sintesi teorica e programmatica nel binomio «giustizia e libertà». Ma come potevano osare, questi impenitenti e sprovveduti neo-democratici, cattivi filosofi e cattivi politici, mettere insieme e sullo stesso piano, vero e proprio «ircocervo», un principio filosofico come la libertà e un concetto empirico come la giustizia? Ancora una volta egli riteneva che la confusione fosse stata possibile a causa della perdurante mentalità illuministica che non si era rassegnava ad accettare la critica storicistica della ragione astratta e continuava a credere che la società fosse un insieme di enti regolabili con formule matematizzanti; peggiorata ed aggravata, questa mentalità, da una sorta di eclettismo prammatico e antifilosofico che mirava ad aggiustar le faccende molto complicate della vita con formule di compromesso, quasi un giocare di astuzia con le due parti opposte che si vogliono conciliare pur sapendo che sono filosoficamente inconciliabili, e un mancare di coraggio nel rinunziare a sostenere il difficile concetto di libertà, per piegarsi verso l’altro della giustizia «che è aperto al facile plauso di molti». Concludendo: Tolta di mezzo quella diade di disparati e ripugnanti concetti, rimane dunque, unico principio la libertà, che ha in sé la virtù, e con essa il dovere, di proporsi e risolvere i problemi morali che sorgono sempre nuovi nel corso della storia, tutti i problemi, quali che essi siano: salvo, beninteso, quell’unico del rendere gli uomini felici e beati, che non è un problema ma una fisima, e si può lasciare in pastura dei discettanti sulla giustizia da

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introdurre nel mondo e sull’eguaglianza a cui ridurlo per farlo star buono250 .

Per quanto mutevole il bersaglio, il metodo della confutazione era sempre lo stesso: consisteva nell’isolare il principio filosofico della libertà dai concetti empirici che di volta in volta storicamente vengono ad esso collegati, e dopo averlo isolato, liberarlo dalle contaminazioni che i concetti empirici, elevandosi illegittimamente a principi filosofici di pari grado, vi producono, per negarlo e contrapporvi un altro principio, come fa il comunismo, o per condizionarlo e tenerlo subordinato, come vorrebbe il liberismo, o per stabilire con esso un’ibrida alleanza, e di conseguenza degradarlo, come propone il democratismo. Non si può disconoscere che con questa battaglia su tre fronti Croce riuscì a individuare e a isolare le tre principali correnti politiche che si andavano faticosamente ricostituendo e avrebbero contrassegnato la lotta politica di domani. La sua polemica sotto specie di critica filosofica era una polemica immediatamente politica. Ma proprio perché il giudizio sulle correnti politiche veniva dato dall’alto di una concezione che si dichiarava metapolitica, le diverse ideologie nel momento stesso in ceri venivano condannate, erano assolte, cioè accolte sul piano che loro competeva dei programmi politici in natural conflitto tra di loro in una società in cui l’ideale liberale avrebbe costituito il principio ispiratore e animatore della vita politica. E al tempo stesso questo liberalismo, che si metteva fuori della gara storicamente condizionata delle opposte ideologie, serviva egregiamente da punto di convergenza delle varie forme e modi con cui si andava articolando l’opposizione al fascismo. 250 B. Croce, Libertà e giustizia, in Discorsi di varia filosofia, cit., vol. I, p. 273.

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Proprio in quanto filosofica o metapolitica, la posizione di Croce, esaltante la libertà come ideale etico o in largo senso civile, che non viene meno anche nella ecclesia pressa sebbene con compiti diversi da quelli che le spettano nella ecclesia triumphans, fu la posizione in cui tutti gli antifascisti si riconobbero dal momento che il primo dovere in istato di dittatura è pur sempre quello di lottare primamente per la restaurazione della libertà perduta. Sotto questo aspetto è giusto dire che Croce fu la guida spirituale dei giovani intellettuali antifascisti per i quali l’opposizione al regime nacque da un impulso morale e fu politica nel senso in cui è politica l’atto di rivolta contro il sopruso, il rifiuto di obbedire al tiranno. Sotto la crosta sottilissima dell’indottrinamento fascista, si svolse in Italia una vita filosofica e letteraria autonoma, non estranea né sorda ai grandi movimenti culturali europei, tutt’altro che provinciale, procedente su una propria strada di ricerca e di rinnovamento, «come se» il fascismo non fosse mai esistito. Per restare nel campo della scoria delle idee, ad onta del fragore con cui il fascismo si presentò come il creatore di una nuova civiltà, la letteratura sulla «crisi della civiltà», che fu uno dei tratti caratteristici del tempo, da Spengler a Huizinga, ebbe un’espressione originale nell’opera di Filippo Burzio, che contro l’avvento dell’uomo-massa, prodotto dalla rivoluzione tecnica («la rebelión de las masas» di Ortega y Gasset), vagheggiò e propagò in una serie di saggi, poi raccolti nel volume Il demiurgo e la crisi occidentale (1933), l’ideale del «demiurgo» o uomo integrale, i cui caratteri originali sono l’universalità, ché è reazione all’eccesso di specializzazione, il distacco, o capacità di non immedesimarsi canto nell’azione da esserne assorbiti, e la magicità, che rappresenta il momento della poeticità dell’azione: ideale umano che era certamente una soluzione nell’elevamento individuale più che nell’impegno sociale, ma era insieme una sfida alla volgarità del re-

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gime e un’affermazione di libertà e di dignità spirituale contro la forzata irreggimentazione della cultura. Nella sfera più specifica della filosofia, apparve nel 1937 La vita come ricerca di Ugo Spirito, che rivelò la coscienza inquieta di una filosofia che aveva perduto irrimediabilmente la fiducia nella propria autosufficienza ed elevava il problema a soluzione (problematicismo). Un altro allievo di Gentile, Guido Calogero, pubblicò nel 1938 La conclusione della filosofia del conoscere, in cui l’attualismo non era più soltanto confutato, come nell’opera di Spirito, ma rovesciato dall’interno, e nel 1940 un libro di etica e di pedagogia, La scuola dell’uomo, chiaramente allusivo al compito di una filosofia liberatrice in un mondo che si avviava attraverso la dittatura alla catastrofe della seconda guerra mondiale. Con una singolare intuizione anticipatrice, Franco Lombardi scrisse nel 1935 un libro su Feuerbach, nel 1936 un altro su Kierkegaard: due filosofi che, rimasti ai margini della filosofia accademica, avremmo ritrovati a liberazione avvenuta sulla via maestra, l’uno della rinascita marxistica, l’altro dell’esistenzialismo. Nel 1939 Nicola Abbagnano, con La struttura dell’esistenza, introdusse nella discussione filosofica italiana con una prospettiva originale (onde si sarebbe parlato di «esistenzialismo positivo» destinato a confluire nel neo-illuminismo degli anni Cinquanta) la tematica dell’esistenzialismo. Nel 1939 Ludovico Geymonat con le sue Ricerche filosofiche presentò le principali tesi della fondazione neo-positivistica della conoscenza. Quando nel 1940 Antonio Banfi diede vita alla rivista «Studi filosofici», insieme con alcuni discepoli (appare nel 1943 l’opera più dirompente della scuola, Idealismo e positivismo, di Giulio Preti), la revisione dell’idealismo era ormai in atto e i temi del rinnovamento filosofico al di là dell’idealismo, che avrebbero animato il libero dibattito delle idee dopo il 1945, tutti riemersi. Nonostante il

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rigore censorio, anche il marxismo teorico non era morto: avremmo appreso a guerra finita che in quegli stessi anni di dissoluzione dell’attualismo, Antonio Gramsci, nella sua cella di prigioniero politico, aveva fatto i suoi conci con l’idealismo, rinnovando una riflessione teorica e storica sulla rivoluzione russa, la concezione marxistica della storia e della politica e scrivendo uno dei capitoli più originali del marxismo teorico in Italia. In quella atmosfera di crisi, e di ripensamenti e di rinnovamenti, una delle opere più singolari, per altezza spirituale e per l’antifascismo radicale che vi si esprimeva, furono gli Elementi di un’esperienza religiosa di Aldo Capitini (1937): animato da una profonda fede in una religione immanente, considerata come «iniziativa assoluta», in un Dio «vicino», più prossimo del prossimo, «non da contemplare, ma da vivere in atto, da agire», Capitini espose con uno stile asciutto, antiretorico, le linee di una filosofia della «persuasione», che nasce dall’intimo e agisce attraverso l’amore per tutti gli esseri (uomini, animali, cose), contro la cosiddetta civiltà dell’ordine e della sicurezza comune agli Stati Uniti e alla Russia sovietica, anticipando fantasticamente un incontro tra Oriente e Occidente al di là di capitalismo e comunismo. Strettamente legata a questa filosofia della persuasione è un’etica che si definisce attraverso i tre principi della non-violenza, della non-menzogna, e della non-collaborazione. Il principio della non-collaborazione ebbe allora un effetto immediatamente politico: e infatti solo non collaborando alle leggi ingiuste e assumendosi il rischio del proprio atto, «lo stato si svolge, vive, alimentato dall’intimo degli individui ed ivi radicato: quello stato che si migliora sempre». È sempre avvenuto così: altrimenti nessuna legge, nessuna direttiva sarebbe mai stata sostituita da una migliore. Tanto più che colui che non intende collaborare non si reca su una montagna, resta a contatto del legislatore, si sottopone alle sanzio-

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ni, spiega i suoi motivi, dà prova che la sua azione non è ispirarti al fine di sottrarsi a un peso. È evidente che riesce meno difficile ubbidire sempre che opporsi qualche volta, pagando di persona251 .

251 A. Capitini, Elementi di un’esperienza religiosa, Bari 1937, p. 113.

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12 GLI IDEALI DELLA RESISTENZA

Ciò che Capitini propugnava nelle parole citate era la resistenza passiva. Ma la pratica della resistenza passiva non poteva andar disgiunta nei piccoli gruppi di opposizione al fascismo che si andavano organizzando, appunto tra il 1935 e il 1940, dalla preparazione alla resistenza attiva, quando se ne fosse presentata l’occasione. Intanto, per l’antifascismo già da anni organizzato fuori d’Italia la prima prova di resistenza attiva era stata fatta con la guerra di Spagna. Per gli uni e per gli altri, per gli antifascisti di fuori e per quelli di dentro, l’ora decisiva del grande cimento sarebbe venuta alcuni anni dopo con la guerra di liberazione contro nazismo e fascismo, che fu chiamata per antonomasia «resistenza». Per quanto si continui a parlare di ideologie della Resistenza, sarebbe più esatto parlare di ideologie nella Resistenza. Di ideologie della Resistenza nel senso proprio dell’espressione, di ideologie nate per la lotta antifascista e morte con essa, non ve ne fu che una sola, quella estremamente composita ma ben differenziata rispetto ai programmi e alle dottrine tradizionali o ormai consolidate, che confluì nell’altrettanto composito movimento etico-politico (vero e proprio «ircocervo», questa volta la parola è appropriata) che fu il Partito d’Azione. Nella lotta contro il fascismo, che era insieme una dittatura e un regime di classe, erano destinate a scontrarsi due dottrine o addirittura due concezioni del mondo, cui corrispondevano i due blocchi storici solo occasionalmente alleati contro il comune nemico, liberalismo e comunismo: dei quali il primo, interpretando il fascismo come fenomeno sovrastrutturale o esclusivamente politico, ne metteva in rilievo il carattere di dittatura e quindi con-

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siderava la lotta contro il fascismo come una lotta per la restaurazione della libertà; il secondo, non distinguendo dal punto di vista strutturale, cioè dal punto di vista dei rapporti di produzione e del dominio di classe, i regimi liberal-democratici da quelli fascisti, e quindi interpretando il fascismo non genericamente come una dittatura ma come una dittatura della borghesia, considerava la lotta contro il fascismo come una lotta per l’instaurazione della dittatura del proletariato contro la dittatura della borghesia. Tra questi due modi di interpretare il fenomeno del fascismo e conseguentemente di progettare la società del postfascismo, che per i liberali era una restaurazione dopo un periodo di aberrazione, per i comunisti una innovazione radicale che avrebbe chiuso il periodo storico della società capitalistica, il contrasto non poteva essere più profondo. Per i primi il comunismo in quanto dittatura era né più né meno che una continuazione sotto altro nome del fascismo, o per lo meno di quel tipo di reggimento politico che era contrassegnato dalle stesse tare che avevano reso odioso il fascismo. Per i secondi, la liberal-democrazia era una continuazione di quel dominio di classe che aveva cercato nella violenza fascista il suo ultimo baluardo prima di darsi vinta (ma vinto il fascismo, crollato il baluardo, la sua funzione storica era esaurita). In quanto concezioni del mondo ormai canonizzare (per il comunismo le opere di Stalin facevano testo) a cui corrispondevano i due blocchi storici che stavano per spartirsi il dominio del mondo, liberalismo e comunismo agirono potentemente nella Resistenza, contribuirono a trovare certe soluzioni piuttosto che altre (anche il liberalismo, checché se ne dica, con proposte come quella della Luogotenenza o del Referendum istituzionale); ma non furono ideologie della Resistenza più del cattolicesimo o del socialismo che pur ebbero movimenti d’azione politica (o partiti che dir si vo-

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glia) presenti nella lotta di liberazione e membri del Comitato di liberazione nazionale. Liberalismo e comunismo, socialismo e cattolicesimo, ripresero vigore in occasione della Resistenza, strinsero o ricomposero le proprie forze, misero a punto le proprie idee, elaborarono o rimisero a nuovo i propri programmi, ma la loro storia così come affonda le radici nell’era prefascista allunga nuovi rami nell’era postfascista. Passarono attraverso la Resistenza, ma non vi si identificarono. Chi legga i documenti del tempo relativi ai quattro movimenti storici, si avvede che nessuno spicca per novità teorica, e tanto meno per audacia ideologica. Tutti serbano invece profonda traccia delle particolari condizioni in cui si svolgeva il dibattito politico del momento, contengono indicazioni tattiche, magari anche proposte strategiche a lunga scadenza, quasi sempre programmi limitati all’orientamento da dare alla lotta in corso in modo da prefigurare una soluzione piuttosto che un’altra per il futuro assetto della società. Quanto ai lineamenti dottrinali o all’elaborazione ideologica essi appartengono a pieno diritto alla storia delle rispettive ideologie, che corre lungo l’arco di tempo che abbiamo seguito in queste pagine dalla fine del secolo scorso in poi, più che alla storia della Resistenza. Se un’influenza della Resistenza ci fu, questa si fece sentire più che altro in certi adeguamenti reciproci dei diversi programmi, in certe concessioni (più enunciate che profondamente credute) ai momentanei alleati, che erano ispirate all’esigenza dell’unità a tutti i costi, di un’unità che non era un principio ideale ma puramente e semplicemente uno stato di necessità. I comunisti, rigettando il vieto anticlericalismo, tendevano le mani ai cattolici; i cattolici, profondendosi in professioni di aconfessionalità, ai liberali; i liberali, annunciando inattese aperture sociali (si ricordi la polemica antiliberistica di Croce), ai socialisti; i socialisti infine, sostenendo un

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più severo classismo, ripudiando per sempre il riformismo, ai comunisti. I socialisti contavano sui comunisti, i comunisti sui cattolici, i cattolici sui liberali e i liberali – che era poi la vecchia classe dirigente italiana –, avendo concepito la guerra di liberazione più come lotta contro lo straniero che contro il fascismo, sugli alleati, e magari sullo stellone d’Italia. Ma ogni concessione era un cedimento; lo spirito di compromesso stemperava il rigore ideologico; i programmi più lontani finivano per toccarsi e quelli più vicini si mescolavano l’uno nell’altro. Per le ideologie storiche la Resistenza agì non tanto da alambicco che ne distilli l’essenza quanto da crogiuolo in cui tutto si fonde e si confonde. Ne è la miglior prova la formula della «democrazia progressiva» in cui i comunisti riassunsero il loro programma d’azione: e che non era, e non poteva essere, per la sua stessa genericità, l’espressione di una nuova ideologia, ma era puramente e semplicemente la proposta di una strategia che tendeva a fare del partito comunista il partito egemone della futura democrazia italiana. In un articolo del giornale clandestino «La Nostra Lotta» (1° gennaio 1945) Eugenio Curiel (1912-1945) spiegò che per «democrazia progressiva» s’intende una democrazia non conservatrice, non «semplice restaurazione» del vecchio regime, e quindi «nuova», ovvero «liberata non solo da ogni residuo delle istituzioni e del personale fascista, ma anche dalle impalcature istituzionali monarchiche, antidemocratiche, che già nell’Italia pre-fascista contribuivano ad inceppare ed a falsare il giunco della sovranità popolare», e per giunta «forte», cioè sostenuta dalla partecipazione non di una sola parte privilegiata dei cittadini, ma dalle più larghe masse popolari, del-

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le cui esigenze sarebbe stata portatrice la classe operaia elevata a «classe nazionale»252 . Quasi a contrassegnare il significato strategico della formula, i socialisti, attraverso alcuni loro dirigenti ideologicamente più rigorosi, come Rodolfo Morandi, insistevano sull’impegno rigidamente classista del partito socialista in opposizione a quello, non sembri un gioco di parole, «lassista» dei comunisti. «Di fronte alla tua affermazione (di schietto sapore idealistico) – scriveva ad Albero Spinelli – che non esistono classi, [...] io mi confermo più che mai classista nell’azione politica»253 . Mentre i comunisti prepongono il partito alla massa, i socialisti mettono la massa prima del partito: la politica dei primi è una politica per la classe, quella dei secondi, invece, è una politica di classe. Alla democrazia progressiva contrappongono il «metodo democratico» inteso nel senso più ampio, come quel metodo che «esalta tutte le forme dell’iniziativa, valorizza le personalità nei rapporti economici e politici, pone il principio dell’autonomia e della responsabilità, rifiutando i sistemi accentratori e burocratici»254 . Sull’altro versante, Alcide De Gasperi, nel gennaio del 1944, in tre articoli apparsi su «Il Popolo» clandestino, raccolti in opuscolo col titolo La nostra ideologia e la nostra tradizione, cercava di gettare un ponte tra il passato e il futuro, tra «giovani e anziani», tra le «due generazioni, tra le quali il fascismo aveva tentato di scavare un abisso», ed esaltava, ricollegandosi all’Italia prefascista, «il metodo della libertà», che avrebbe dovuto trovare la stia più sicura espressione nella democrazia rappresentativa «fondata sull’eguaglianza di tutti gli uomini veramente liberi». Il programma enunciato in po252 E. Curiel, Classi e generazioni nel secondo Risorgimento, Roma 1955, pp. 256-62. 253 R. Morandi, Lotta di popolo, Torino 1958, p. 54. 254 Ivi, p. 92.

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che formule sommarie era sostanzialmente un programma di restaurazione liberale: Né partito unico, né cesarismo plebiscitario, né monarchia reazionaria, né repubblica dittatoriale, né oligarchia dei ricchi, né la dittatura dei proletari. Un unico esercito che dipende dal governo, e che non porrà essere mandato in guerra senza il consenso del popolo. Una Camera eletta a suffragio universale, senza il consenso della quale nulla d’importante potrà essere deciso. Accanto alla Camera dei deputati si costituirà, in sostituzione del Senato, un’assemblea rappresentativa degli interessi organizzati, prevalentemente eletta dalle rappresentanze del lavoro e della professione. Bisognerà cercare mezzi e metodi per ottenere un governo forte e stabile e per salvaguardare la costituzione da colpi di mano che venissero dall’alto e dal basso255 .

L’unica ideologia nata in funzione della lotta antifascista e che la fine del fascismo, invece di attuare, dissolse, fu quella dei vari gruppi di intellettuali che da varie parti confluirono nel Partito d’Azione. Poiché il fascismo era stato, in quanto dittatura, antiliberale, e, in quanto regime della classe borghese, antisocialista, l’antifascismo integrale non poteva essere o soltanto liberale o soltanto socialista, ma doveva essere insieme liberale e socialista. Detto altrimenti, poiché il fascismo aveva trionfato sui due avversari isolati e incapaci di covare se non una sintesi almeno una soluzione di compromesso, instaurando un regime illiberale come unico rimedio all’avanzata del socialismo, il rovesciamento totale del fascismo doveva prevedere il recupero dei suoi due avversari, non più separati ma in qualche modo congiunti. Negare il fascismo che era stato negazione di liberalismo e di socialismo, voleva dire affermare contemporaneamente entrambi. In una dialettica puramente formale e certamente intellettualistica, per cui la storia proce255 A. De Gasperi, I cattolici dall’opposizione al governo, Bari 1955, p. 480.

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de secondo le categorie dell’intelletto astratto, le ideologie storiche, che avevano combattuto il fascismo e miravano a dividersene le spoglie, erano considerate ideologie parziali che non avrebbero mai potuto condurre a un rinnovamento totale perché avrebbero rifatto il mondo, or l’una or l’altra, con forme economiche e politiche che il fascismo già aveva fronteggiato e debellato. Il rinnovamento totale non poteva venire che da una ideologia antifascista vocale. Poiché il rinnovamento totale comportava una trasformazione rivoluzionaria, la nuova ideologia si contrapponeva a ogni forma di restaurazione del passato prefascista che stava a cuore ai liberali, ma insieme a ogni tentativo rivoluzionario che ripetesse pedissequamente gli schemi di una rivoluzione già esaurita nella sua capacità di creazione di una nuova società, quale la rivoluzione sovietica. Il giudizio che questa ideologia totale diede sul fascismo era diverso tanto da quello dei liberali quanto da quello dei comunisti. Il fascismo non era, come credevano i liberali, una parentesi, una malattia pur grave ma non mortale, bensì l’esplosione virulenta di mali endemici dello sviluppo della società italiana (la mancata Riforma, il Risorgimento rivoluzione fallita, il trasformismo della classe dirigente dopo l’Unità, la prima rivoluzione industriale avvenuta a vantaggio del Nord e a danno del Sud), e di vizi conici del popolo italiano (cinismo, indifferenza, «o Francia o Spagna purché si magna», e prima di tutto il proprio «particolare»): anche Rosselli avrebbe ripetuto il giudizio di Gobetti, per cui il fascismo è stato «l’autobiografia di una nazione che rinuncia alla lotta politica, che ha il culto dell’unanimità, che rifugge dall’eresia, che sogna il trionfo della facilità, della fiducia e dell’entusiasmo»256 . Ma non era neppure, come credevano i comunisti, un momento necessario e finale del gran256

C. Rosselli, Socialismo liberale, cit., p. 117.

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de conflitto storico tra la borghesia nell’ultima fase imperialistica e il proletariato nella sua prima fase rivoluzionaria, bensì l’espressione catastrofica e insieme irrazionale di una grande crisi di civiltà, in cui non soltanto l’Italia e la Germania ma tutto il mondo civile era stato coinvolto. Se solo un fatto rivoluzionario poteva mettere fine al fascismo, questo fatto doveva dar vita a un regime diverso tanto dalla democrazia liberale prefascista quanto dal comunismo sovietico. Questo fatto rivoluzionario era la Resistenza, purché fosse intesa non come guerra di liberazione nazionale e neppure come guerra di classe, ma come guerra popolare attraverso cui avviene non soltanto lo scardinamento del regime prefascista a cominciare dall’istituto monarchico, ma anche la rigenerazione di un popolo oppresso da secoli di governi di rapina: come guerra politica (non soltanto militare o civile) che, proprio in quanto guerra politica, avrebbe addestrato il popolo alla nuova democrazia. Uno dei compiti in cui si riconobbero la maggior parte dei gruppi che parteciparono alla Resistenza sotto l’insegna del Partito d’Azione fu quello della trasformazione della guerra di liberazione nazionale in «rivoluzione democratica», o altrimenti lo sbocco della Resistenza in una nuova società in cui fossero poste le premesse per l’attuazione di una «democrazia integrale». In questo senso pregnante si può dire che l’ideologia del Partito d’Azione fu l’ideologia della Resistenza, perché per esso la Resistenza fu qualche cosa di più che un’occasione storica; fu la condizione stessa del suo nascere, l’orizzonte in cui si iscrisse, il limite, positivo e negativo, della sua efficacia. Rivoluzione, dunque, e non semplice restaurazione; rivoluzione, sì, ma non comunista, o sovietica, ma democratica (o liberale come aveva detto Gobetti). Si potrebbe aggiungere – anche questo fu un tratto singolare della tradizione che sfociò nel Partito d’Azione e che il Partito d’Azione, nonostante i suoi ideali fe-

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deralistici ed europei, non corresse – «italiana». Quale che fosse il giudizio cui era giunto Rosselli sul fascismo come crisi europea, la Resistenza sarebbe stata la prima rivoluzione di un paese che non aveva conosciuto nessuna delle grandi rivoluzioni europee, in cui l’unità nazionale era stata ottenuta attraverso la conquista regia (donde il richiamo di Gobetti a Cattaneo, di Rosselli a Mazzini), e che soltanto un moto rivoluzionario avrebbe potuto scuotere dall’eterno torpore, e sollevare dalla sua cronica miseria morale e materiale. Nell’ambito dell’ideologia che solo in termini molto generici si può chiamare del Partito d’Azione occorre distinguere almeno due versioni, corrispondenti a due filoni di pensiero politico diversi: la versione del socialismo liberale, che va da Rosselli a Calogero, e quella del comunismo liberale, che risale a Gobetti. Rispetto all’evento capitale nella scoria del socialismo, la rivoluzione sovietica, la prima versione rappresenta un tentativo di andare al di là del comunismo, in altre parole un superamento; la seconda rappresenta piuttosto una prefigurazione di quel che può avvenire dopo il comunismo, in altre parole, un’accettazione non passiva ma critica della svolta rivoluzionaria e un tentativo di interpretarla e quindi di trasformarla, se occorre, in rivoluzione liberale. Per i liberal-socialisti la rivoluzione democratica sarà una nuova rivoluzione; per i liberal-comunisti, sarà l’inveramento della rivoluzione comunista. Profondamente diverso quindi anche l’atteggiamento rispetto al marxismo: mentre per i primi il marxismo interpretato come filosofia deterministica della storia è definitivamente esaurito e dissolto con l’insorgere di tutti i movimenti post-positivistici, e quindi la nuova ideologia deve essere anti-marxista, per i secondi il marxismo, rinnovato attraverso una interpretazione anti-deterministica, diciamo pure idealistica, diventa un elemento necessario del movimento storico, e quindi la nuova ideologia si

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volge, se pure in senso ancor vago, verso una forma di para-marxismo (che peraltro non ha niente a che vedere con le varie forme di neo-marxismo, caratteristiche di ogni fase ricorrente di revisionismo). In Socialismo liberale (1928), Carlo Rosselli (18991937) aveva fatto un’ennesima dichiarazione di morte del marxismo. Ma, a differenza dei suoi predecessori che avevano dichiarato morto il marxismo per uccidere il socialismo, Rosselli sostenne che il socialismo aveva bisogno per rinascere di staccarsi dal cadavere di Marx. Mentre il marxismo ha sempre contrapposto il socialismo al liberalismo, Rosselli ritiene che il socialismo possa rinnovarsi e risollevarsi dalla sconfitta che gli ha inflitto il fascismo solo se riuscirà a diventare l’erede della concezione liberale della storia, sia rispetto al fine della lotta politica che è la progressiva liberazione dell’uomo, sia rispetto ai mezzi con cui la liberazione soltanto può attuarsi, e che sono quelli caratteristici, perfezionabili ma non reversibili, dello stato liberale, onde occorre che «i socialisti riconoscano che il metodo democratico e il clima liberale costituiscono una conquista così fondamentale della civiltà moderna, che dovranno rispettarsi anche e soprattutto quando sarà padrona del governo una stabile maggioranza socialista»257 . L’era socialista si contraddistinguerà dall’era liberale per il solo fatto che portatrice dei valori della civiltà liberale non sarà più la classe borghese, caduta ignominiosamente sotto i colpi del fascismo, ma il movimento operaio: Il socialismo deve tendere a farsi liberale e il liberalismo a sostanziarsi di lotta proletaria. Non si può essere liberali senza aderire attivamente alla causa dei lavoratori; e non si serve efficacemente la causa del lavoro senza fare i conti con la filosofia del mondo moderno, fondata sull’idea di svolgimento 257

C. Rosselli, Socialismo liberale, cit., p. 107.

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per via di contrasti eternamente superantisi, nei quali celasi appunto il succo della posizione liberale258 .

Questa idea del proletariato erede di una non meglio definita concezione liberale della storia (e non, come aveva detto Marx, della filosofia classica tedesca, che, nonostante le benevole interpretazioni dei nostri idealisti, aveva eretto un monumento alla teoria dell’autorità), era stata sostenuta qualche anno prima anche da Gobetti. Alla fine del libro, Rosselli, riecheggiando la formula gobettiana, scrisse che la vera rivoluzione italiana sarebbe stata «la rivoluzione della libertà»259 . Ma Gobetti, a differenza di Rosselli, sia per la vicinanza al gruppo dell’«Ordine nuovo», sia per il fatto che scriveva quando la rivoluzione sovietica era ancora in movimento, ritenne che la rivoluzione liberale, intesa come la rivoluzione liberatrice condotta dalla classe operaia protagonista, fosse in corso e se ne dovesse prendere atto per progettare e attuare la rivoluzione italiana. Il contrasto rispetto al diverso peso da attribuire alla rivoluzione sovietica – rivoluzione in un certo senso già consumata e superata, oppure in divenire e imprescindibile – contraddistinse due atteggiamenti diversi rispetto alla «rivoluzione italiana» che si ripercossero in due varianti dell’ideologia del Partito d’Azione. Mentre il distacco del socialismo dal marxismo, così intransigente in Rosselli, non poteva non condurre alle soglie del laburismo inglese (lo stesso Rosselli scrisse alla fine del suo libro: «Sono favorevole a una riorganizzazione del movimento socialista su basi simili a quelle del partito laburista inglese»)260 , l’interpretazione del comunismo come nuovo socialismo, legato a un marxismo reinterpretato volontaristicamente, indusse Gobetti Ivi, p. 88. Ivi, p. 123. 260 Ivi, p. 141. 258 259

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a considerare la rivoluzione italiana dall’interno, e quindi come momento di sviluppo, della rivoluzione comunista. Quel che in Rosselli era stato un programma politico per coordinare e organizzare l’opposizione al fascismo, diventò nel liberal-socialismo di Calogero una teoria, quasi una filosofia, per la costruzione della società di domani. Ma l’ispirazione e l’esito, nonostante la non derivazione diretta, erano simili. Con la differenza che, mentre Rosselli cercava la via d’uscita attraverso una critica dei movimenti politici antagonistici, Calogero, filosofo, professore di filosofia all’università di Pisa, dove nel 1941 svolse un corso sul marxismo, pubblicato qualche anno dopo (La critica dell’economia e il marxismo, Firenze 1944), cercò la soluzione nella critica e nella sintesi di due concetti astratti, libertà e giustizia. Perciò non fu estraneo al liberalsocialismo un certo dottrinarismo, che era poi in stretta connessione con l’esser nato in un momento di totale assenza di lotta politica, e con il naturale distacco dalle lotte politiche del passato. Il primo manifesto del liberalsocialismo (più che «manifesto» un trattatello di teoria politica), che fu diffuso nell’estate del 1940, comincia con queste parole: A fondamento del liberalsocialismo sta il concetto della sostanziale unità e identità della ragione ideale, che sorregge e giustifica tanto il socialismo nella sua esigenza di giustizia quanto il liberalismo nella sua esigenza di libertà261 .

Il secondo manifesto del 1941 (questa volta un vero e proprio programma di partito) ribadiva: Liberalismo e socialismo, consideraci nella loro sostanza migliore, non sono ideali contrastanti né concetti disparati, ma speci261 G. Calogero, Difesa del liberalsocialismo ed altri saggi, nuova edizione di M. Schiavone e D. Cofrancesco, Milano 1968, p. 199.

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ficazioni parallele di un unico principio etico, che è il canone universale di ogni scoria e di ogni civiltà. Questo è il principio per cui si riconoscono le altrui persone di fronte alla propria persona, e si assegna a ciascuna di esse un diritto pari al diritto proprio262 .

Di fronte all’irritata reazione di Croce, che, come abbiamo visto, non si dava pace per aver dovuto assistere alla contaminazione della pura libertà con l’impura giustizia, Calogero ebbe buon gioco nel rispondere che la libertà del suo binomio non era la libertà etica o metapolitica sulle cui sorti tanto si tormentava Croce, ma la libertà politica, che era altrettanto impura della giustizia. Quando il liberalsocialismo confluì nel Partito d’Azione (fondato nell’estate del 1942), Calogero cercò a più riprese di fare del liberalsocialismo il momento teorico del nuovo partito, che avrebbe dovuto trovare il proprio spazio politico, come terza via, tra liberalismo conservatore e comunismo rivoluzionario, entrambe teorie unilaterali e quindi impari al compito di trasformare la società che sarebbe nata dalle ceneri del passato e avrebbe avuto bisogno di una sintesi nuova. In una conferenza del novembre 1944, intitolata per l’appunto La democrazia al bivio e la terza via, enunciò linearmente il proprio assunto: La via della democrazia è una via maestra, che si allontana verso l’orizzonte. Ma a un certo punto ha un bivio, il quale cela allo sguardo la prosecuzione della via vera. A destra c’è la deviazione del liberalismo o agnostico o conservatore: la via della libertà senza giustizia. A sinistra c’è la deviazione del collettivismo autoritario: la via della giustizia senza libertà. Il Partito d’Azione non prende né l’una né l’altra perché conosce la via vera, la terza via, la via dell’unione, della coincidenza, della compresenza, indissolubile della giustizia e della libertà263 . 262 263

Ivi, p. 222. Ivi, p. 76.

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Rispetto al comunismo, l’atteggiamento liberalsocialista non differiva da quello dei socialdemocratici che vedevano nella rivoluzione sovietica, così come si era andata evolvendo, una degenerazione totalitaria incompatibile con gli ideali socialisti. Il rimedio strutturale che il liberalsocialismo propose, e il Partito d’Azione iscrisse nel suo programma, fu la rinuncia alla collettivizzazione integrale e la divisione dell’economia in due seriori (pubblico e privato). Ciò che distingue dal liberalsocialismo l’altra versione dell’ideologia antifascista che confluì nel Partito d’Azione, è proprio il giudizio sull’Unione Sovietica e di conseguenza sulla necessità del collettivismo. L’opera di Silvio Trentin, Riflessioni sulla crisi e sulla rivoluzione (1933), è insieme un atto di sfiducia nei regimi democratici borghesi e un atto di fiducia nell’Unione Sovietica. Questa fiducia nasce dalla convinzione che l’ordine nuovo non potrà essere realizzato se non rivoluzionariamente e che la rivoluzione dovrà consistere nella trasformazione anche violenta del sistema capitalistico in quello collettivistico. Ma per un rivoluzionario liberale, come il Trentin si proclama, il collettivismo sovietico è soltanto una prima fase: «E vano pretendere – egli scrive – di poter transigere impunemente con il metodo della libertà, perché le esigenze di questo sono e restano categoriche e irriducibili»264 . La conciliazione del collettivismo con la libertà non può avvenire che attraverso il principio dell’autonomia dei gruppi, territoriali e non, che compongono lo stato. In un articolo del 1934, pubblicato sui «Quaderni di Giustizia e Libertà», Bisogna decidersi, respinge il programma ufficiale del movimento che prevede un regime intermedio tra capitalismo e collettivismo, fondato su un’economia a due settori, e opta decisamente per il collettivismo. In un libro 264 S. Trentin, Riflessioni sulla crisi e sulla rivoluzione, Marseille s. d., ma 1933, p. 17.

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del 1935, La crise du droit et de l’État, il problema della liberalizzazione politica di un regime a economia collettivistica trova una soluzione, d’ispirazione proudhoniana, nel principio del federalismo. La liberazione economica dell’individuo attraverso la soppressione della proprietà privata deve andare di pari passo con la liberazione politica attraverso il federalismo. Al quale il Trentin dedica un’opera che uscirà postuma, Stato, nazione, federalismo (1945)265 e un saggio Libérer et fédérer266 . Nel primo parla di una rivoluzione bivalente, insieme anticapitalistica e federalistica, che sola può salvare con l’Europa la libertà. Nel secondo, che è il programma di un movimento clandestino della Resistenza francese, da lui stesso fondato, spiega che «liberare» significa emancipare economicamente l’individuo con la distruzione dello stato capitalistico; «federare» significa emancipare politicamente l’individuo con la distruzione dello stato totalitario. L’ideologia del comunismo liberale nasceva dalla convinzione che il grande conflitto storico fosse quello che si era svolto tra fascismo e comunismo, onde la caduta del fascismo avrebbe portato inevitabilmente all’instaurazione di regimi comunisti almeno là dove il fascismo aveva avuto il suo tragico se pur effimero trionfo. Sotto questo aspetto il problema da risolvere per soddisfare l’esigenza libertaria non sarebbe stato di progettare utopisticamente una nuova società in cui gli ideali liberali e quelli socialisti si componessero in una bella armonia, bensì di escogitare realisticamente gli espedienti per impedire la degenerazione totalitaria del comunismo. Nell’ambito del Partito d’Azione questa visione ebbe l’espressione forse più autentica nel libro del gobettiano Augusto 265 Id., Stato, nazione, federalismo, prefazione di M. Dal Pra, Milano 1945. 266 Pubblicato postumo in S. Trentin, Scritti inediti. Testimonianze e studi, Parma 1972, pp. 189-278.

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Monti, Realtà del Partito d’Azione (1945), apparso subito dopo la liberazione e dedicato non a caso a Gian Carlo Paletta, nel quale la situazione viene descritta come caratterizzata da due elementi che sembrano contraddittori: il desiderio della libertà e la certezza del comunismo. Ma i due elementi non sono contraddittori perché essi rappresentano la sintesi di domani: Che avverrà non per miracolo, non per dono capriccioso d’un Dio o d’un uomo: ma come necessario prodotto di due fattori, che sono attivi nella storia d’Italia da mezzo secolo in qua: il marxismo della fine dell’ottocento, il neoliberalismo del principio del novecento. I marxisti dicono «comunismo», e han ragione; i neo-liberali dicono «libertà», e non han torto. Inevitabile l’uno, inevitabile l’altra. Nel duplice adattamento a questa duplice inevitabilità – dei liberali al comunismo, dei comunisti alla libertà – è il segreto della rinascita di domani267 .

A proposito di questo libro, Aldo Capitini, che era stato uno degli ispiratori del liberalsocialismo ma non aveva mai aderito al Partito d’Azione, disse che questa interpretazione che risaliva a Salvemini e a Gobetti s’incontrava con quella da lui svolta da più anni: «Le due linee s’incontrano nel punto di voler essere non anticomunisti, ma, se ci riusciamo, integratori»268 . L’integrazione di Capitini -quella che egli chiamava «libera aggiunta» – era di natura religiosa, non culturale, come in Monti, ma il concetto di «integrazione» rappresentava bene, in opposizione a «superamento», la versione liberalcomunista della rivoluzione democratica. A. Monti, Realtà del Partito d’Azione, Torino 1945, p. 41. A. Capitini, Liberalismo e Partito d’Azione, in «Nuovi Quaderni di giustizia e libertà», n. 8, aprile 1946, p. 33. 267

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13 GLI ANNI DELL’IMPEGNO

Il fascismo aveva condotto il paese alla catastrofe, come gli antifascisti avevano previsto. Ma la Resistenza, contrariamente alle loro speranze, non fu una palingenesi. Non occorsero molti mesi (dalla liberazione del Nord nell’aprile 1945 alla caduta del governo Parri nel novembre) per accorgersi che il fascismo, nonostante la guerra sanguinosa che aveva scatenato (la guerra più sanguinosa sino allora combattuta), era stato una lunga parentesi, chiusa la quale la storia sarebbe cominciata più o meno al punto in cui la parentesi era stata aperta (come avevano diagnosticato i conservatori in contrasto coi rivoluzionari impazienti della giovane generazione): per lo meno nei paesi in cui, avvenuta la liberazione con l’aiuto e sotto la protezione degli eserciti inglese e americano, crollò con la caduta del fascismo la sovrastruttura politica del regime (ma solo in parte quella giuridica e amministrativa), ma non si modificarono sostanzialmente i rapporti di forza che quella sovrastruttura aveva contribuito a conservare. La Resistenza non fu una rivoluzione e tanto meno la tanto attesa rivoluzione italiana: rappresentò puramente e semplicemente la fine violenta del fascismo e servì a costruire più rapidamente il ponte tra l’età postfascista e l’età prefascista, a ristabilire la continuità tra l’Italia di ieri e quella di domani. Com’è stato dimostrato, statistiche elettorali alla mano, il paese reale (non quello ideale) delle elezioni del 1946 non fu molto diverso da quello delle elezioni del 1919. La miglior prova che la Resistenza non fu l’introduzione al novus ordo ma l’anello che rinsalda la catena spezzata per congiungere il vecchio al nuovo è data dal fatto che il Partito d’Azione, il partito della Resistenza, fu pratica-

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mente estromesso dalla politica attiva del paese in poco più di un anno. Un’altra prova non meno decisiva, se pur di solito passata sotto silenzio, è quella che si può trarre dal raffronto tra le due «anime» con cui nacque il movimento dei cattolici: l’una, quella tradizionalistica, tendeva a mettere nell’otre nuovo della «democrazia cristiana» il vino vecchio del «popolarismo»; l’altra, quella innovatrice, che faceva capo a intellettuali della giovane generazione, come Giorgio La Pira e Giuseppe Rossetti, faceva cominciare la nuova storia dall’antifascismo e dalla Resistenza. Al di fuori di ogni collegamento coi vecchi e coi nuovi partiti, La Pira aveva pubblicato tra il ’39 e il ’40 una rivistina quasi clandestina, «Principî», in cui a colpi di citazioni di padri della chiesa e di san Tommaso, esaltava la persona umana e la libertà, condannava le guerre di aggressione e i regimi che si fondano soltanto sul terrore, perché non possono durare a lungo. Dossetti, dal canto suo, riteneva che lo stato prefascista fosse definitivamente morto e che la nuova generazione di cattolici, nata alla politica attraverso la Resistenza, dovesse guardare più alla sua sinistra, dove c’erano nuovi fermenti, che alla sua destra dove erano ormai tumulati i cadaveri del passato. Né l’uno né l’altro avevano alcun legame materiale e sentimentale col partito popolare: non diversamente da quel che pensavano gli azionisti di sinistra del vecchio partito socialista, essi miravano ad un partito di cattolici che rompesse definitivamente con ogni sopravvivenza del popolarismo. Ebbene, di queste due tendenze quella che finì per trionfare e per determinare il corso della politica democristiana, fu la prima. La seconda, pur avendo avuto un notevole peso durante i lavori della Costituente quando si trattò di delineare l’«architettura» (secondo un’espressione di La Pira) della nuova Costituzione, fu a poco a poco esautorata sino alla sua completa emarginazione (sanzionata dal ritiro di Dossetti dalla vita politica nell’autunno del 1951).

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Alla prova della nuova democrazia, che si andava sempre più rivelando come un’età di restaurazione, cui diede il suggello dell’assenso popolare la clamorosa e inattesa sconfitta del Fronte delle sinistre nelle elezioni del 18 aprile 1948, resistettero soltanto i partiti non-nati-ieri, che potevano fare i conti coi «tempi lunghi» della storia, mentre la Resistenza si dimostrò essere un «tempo breve», consumato o strozzato prima di aver potuto esprimere tutto il proprio potenziale di forza ideale e di capacità rivoluzionaria. La formula della «democrazia progressiva» con cui si presentò al paese il partito comunista, che aveva alle spalle ben altro moto storico che non una guerra partigiana di liberazione nazionale durata venti mesi, fu formula politica da tempi lunghi (non per nulla il vecchio-nuovo partito ha resistito sino a diventare un elemento essenziale della democrazia italiana): il «tempo» della Resistenza si esaurì con la approvazione e con la promulgazione della Costituzione repubblicana, che fu l’ultimo frutto dello slancio unitario che aveva animato i partiti antifascisti. Via anche la Costituzione non fu la sintesi degli opposti che il Partito d’Azione aveva immaginato, e come sintesi, l’inizio di un nuovo corso storico, ma un compromesso prammatico tra le diverse forze politiche ormai in netta concorrenza tra loro: entro il quadro di un regime parlamentare rappresentativo, integrato da istituti di democrazia diretta (rimasti per anni lettera morta) e rafforzato dall’introduzione del controllo di costituzionalità delle leggi (il cui esercizio, ritardato di rinvio in rinvio sino al 1956, è stato sempre politicamente molto prudente), si cercò di far convivere i vecchi diritti di libertà delle carte ottocentesche, soffocati dal fascismo, coi diritti sociali, di cui erano stati portatori i movimenti socialisti, sullo sfondo di una concezione della società civile, ispirata al pluralismo dei gruppi e degli enti (famiglia, scuola, chiesa, sindacati, partiti, comuni, regioni ecc.) di derivazione cristiano-sociale, e col

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miraggio populista o popolarista di una società di piccoli proprietari: l’articolo 42, secondo cui la proprietà privata è riconosciuta allo scopo «di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti», riecheggia non certo il Manifesto del partito comunista ma il paragrafo 35 della Rerum novarum («debbono le leggi far in modo che cresca il più possibile il numero dei proprietari»). L’effetto più visibile, anche se non durevole (un lustro o poco più), della liberazione fu il rimescolamento e rinnovamento delle idee che diedero vita a una delle più rigogliose stagioni culturali dell’Italia contemporanea. Nel primo dopoguerra, i giovani intellettuali che avevano creduto alla guerra liberatrice si erano trovati immediatamente dalla parte dei vinti; nel secondo, la nuova generazione che partecipò alla guerra di liberazione si trovò o si illuse di trovarsi, abbattuto il mostro, dalla parte del vincitore. Questo può servire a spiegare la differenza tra lo stato d’animo di malcontento, quasi di frustrazione, che si risolse in atteggiamenti di recriminazione e di protesta, dei primi, e lo slancio etico dei secondi che si affacciavano a un avvenire luminoso: tra la «grande illusione» e le «grandi speranze». Mentre al principio del secolo il rigoglio intellettuale aveva dato voce ad una cultura di retroguardia, alleata alla reazione politica, ora la nuova cultura mirava a porsi alla testa di una politica rinnovatrice. Quel che vi fu di spirito innovatore e in un certo senso unitario nella Resistenza sopravvisse non tanto nella politica in cui cominciò ben presto la frammentazione, la diaspora e il vivere alla giornata, senza mete generali, ma nella cultura, di cui occorre notare almeno due tratti generali: a) l’allargamento degli orizzonti ben oltre i confini nazionali, con la conseguente fine del mito di un pensiero nazionale che il fascismo aveva esasperato ma non inventato; b) una nuova coscienza del compito dell’intellettuale nella società.

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Rispetto al primo punto, occorre ricordare che alla fine della prima guerra mondiale un vero e proprio rinnovamento culturale non c’era stato. Al contrario, caduto il fascismo, il risveglio fu caratterizzato dal desiderio impaziente di esplorare le nuove terre che nel frattempo erano emerse, di saggiarne la fertilità, dal bisogno di un sapere più positivo. Positività contro interiorità. Ancora una volta il nemico da debellare (ma questa volta sembrava debellato per sempre) era lo spiritualismo, cui si muoveva l’accusa di essere stato una filosofia dell’evasione o, nella migliore delle ipotesi, quando si era degnata di scendere dalla cattedra, consolante. Beninteso, l’individuazione di un avversario, persino un po’ troppo facile, non era ancora l’indicazione di una strada. Una catastrofe forse senza precedenti nella storia dell’umanità, come quella che era seguita all’avvento del nazismo, aveva messo in crisi la concezione razionalistica della storia cui era approdato l’idealismo nella sua ultima incarnazione di storicismo assoluto. Sembrava che si ripetesse il movimento seguito alla dissoluzione della filosofia hegeliana. Crollata la fiducia nella perfetta adeguazione della ragione alla realtà, si erano aperte tre vie: l’accettazione dell’inadeguazione sino al pervertimento della ragione, ed era la via di Kierkegaard, che sarebbe sfociata nell’esistenzialismo; la scoperta che le contraddizioni teoriche non possono essere risolte che praticamente, ed era la via di Marx attraverso Feuerbach; la rinuncia a ogni forma di sapere finale, ed era la via dell’agnosticismo positivistico. Esistenzialismo, marxismo e positivismo (sotto specie di neo-positivismo, neo-empirismo, prammatismo) furono le nuove terre emerse nell’esplorazione filosofica tra il 1945 e il 1950. L’opera di Karl Lowith, Von Hegel bis Nietzsche, che era uscita nel 1941, e pur tradotta soltanto nel 1949 ebbe vasta eco già intorno al 1945, aveva interpretato la crisi della filosofia hegeliana come dissoluzione dell’ultima grande concezione del

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mondo borghese-cristiano, attraverso la dissociazione tra filosofia e cristianesimo (Kierkegaard) e attraverso la critica radicale del mondo borghese che per opera dei Giovani hegeliani sarebbe sfociata nel pensiero rivoluzionario di Marx, e per opera di Nietzsche nella sconsacrazione di tutti i valori del mondo borghese-cristiano. Lowith aveva lasciato fuori il positivismo di Comte. Forse perché esso non era in fondo apro che una brutta copia della concezione hegeliana della storia, una concezione che era borghese senza essere cristiana? L’esistenzialismo mostrò di essere una filosofia della crisi, apparendo e scomparendo in pochi anni, proprio negli anni del passaggio dal vecchio al nuovo: fu una filosofia di transizione. Cesare Luporini, che nel 1942 aveva scritto l’opera più sofferta e più carica di tensione morale secondo alcuni moduli dell’esistenzialismo heideggeriano inteso come filosofia dell’uomo nel mondo e della responsabilità, Situazione e libertà nell’esistenza umana, sarebbe passato in poco tempo al marxismo militante, con ciò mostrando che l’esperienza esistenzialistica era stata un percorso (magari obbligato), non un traguardo. Delle due tendenze che componevano l’universo esistenzialistico, quella teistica fu rapidamente assorbita dallo spiritualismo; quella umanistica, venuta all’onor del mondo con l’esistenzialismo positivo di Abbagnano, fu fatta convergere dal suo stesso autore nelle filosofie «positive» con cui la cultura italiana tornava a venire in contatto dopo un lungo periodo di astinenza, prima fra tutte col pragmatismo di John Dewey. Nel 1948 Abbagnano scrisse sulla «Rivista di filosofia» un articolo, Verso un nuovo illuminismo. John Dewey, che fu accolto come un vero e proprio manifesto del neo-empirismo. Per le tre correnti di filosofia militante, lo strumentalismo di Dewey, il neo-positivismo e l’esistenzialismo, era caduto infranto, spiegava Abbagnano, il mito di un ordine stabile e di una ragione assoluta. La filosofia aveva il compi-

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to non di distribuire certezze ma di dare il proprio contributo alla progettazione di un mondo in cui l’uomo potesse trovare la propria dimora e non fosse più come uno straniero o addirittura come un ospite di passaggio. In quegli stessi anni si costituì in Torino, per ispirazione di Ludovico Geymonat e di alcuni suoi amici scienziati, il Centro di studi metodologici, che nel 1947 pubblicò il primo volume di saggi vari, Fondamenti logici della scienza, nel 1950 il secondo, Saggi di critica delle scienze. Lo stesso Geymonat raccolse i suoi scritti di filosofia della scienza in un volume, Studi per un nuovo razionalismo, che reca la data simbolica del 25 aprile 1945: vi si caratterizza il nuovo razionalismo rispetto a quello tradizionale come «critico», «costruttivo», «aperto», si insiste sul suo carattere «metodologico», si difende il contributo della ragione allo sviluppo del conoscere e del fare umano contro ogni forma ricorrente nei periodi di crisi, di oscurantismo irrazionalistico. In un articolo del 1951, La nuova impostazione razionalistica della ricerca filosofica, contrapponendo il nuovo razionalismo metodologico al vecchio razionalismo metafisico, pur riferendosi ai fondatori della logica moderna, da Frege a Russell, da Wittgenstein a Carnap, cita Dewey e plaude al programma neoilluministico di Abbagnano «come l’ultima e più viva esigenza della filosofia contemporanea»269 . La rinascita del marxismo (onde si può a buon diritto parlare di una nuova fase del marxismo teorico in Italia tra il 1945 e il 1950) fu preparata attraverso una singolare e in un certo senso inattesa conversione al materialismo storico di due filosofi che nel 1945 erano giunti alla toro piena maturità e non avevano in comune se non una forte insofferenza, peraltro di natura diversissima, per l’ecclesia triumphans dell’idealismo. 269 Indi compreso nei Saggi di filosofia neorazionalistica, Torino 1953, da cui cito, p. 26.

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Galvano Della Volpe, proveniente dalla critica dell’idealismo hegeliano e dalla scoperta dell’empirismo (Hume) che lo aveva fatto a un certo punto imbattere nell’esistenzialismo come filosofia del finito, uscì nel 1943 con un Discorso sull’eguaglianza, libro aspro nella forma e nella sostanza, in cui con un insolito riferimento a Marx aggrediva Rousseau, come teorico di un personalismo individualistico, che prolunga la tradizione dello spiritualismo platonico-agostiniano di cui l’ultima propaggine sarebbe stata l’etica dell’«anima bella» degli esistenzialisti (Jaspers e Berdjaev). Nel 1946 pubblicò La libertà comunista (che riprendeva e concludeva i temi proposti nel saggio dei 1943 e in un saggio del 1945, La teoria marxista dell’emancipazione umana): la critica del personalismo astratto veniva estesa al liberalsocialismo e al revisionismo marxista allo scopo di elaborare attraverso una lettura delle opere giovanili di Marx (rimaste per lo più sconosciute in Italia) una teoria della libertà dell’uomo totale, liberato dall’alienazione attraverso la rivoluzione comunista e riconciliato con la società non più atomizzante ma comunitaria. Seguirono a breve distanza aloe opere, quali Marx e lo stato moderno rappresentativo (1947), Per la teoria di un umanesimo positivo (1949), e Logica come scienza positiva (1950), attraverso cui si venne formando e diffondendo l’interpretazione del marxismo come «galileismo morale»: la novità della filosofia di Marx sarebbe consistita nell’aver compiuto nelle scienze sociali quella stessa rivoluzione scientifica che Galileo aveva compiuto nella fisica. Questa interpretazione rompeva con la tradizione del marxismo italiano che, ricollegando Marx a Hegel, aveva sempre visto la novità della filosofia di Marx nel passaggio da uno storicismo idealistico a uno storicismo materialistico (se proprio lo si voleva ricollegare alla tradizione italiana, non Galileo ma Vico). Antonio Banfi, che ancora nel 1945 aveva chiamato «razionalismo critico» la propria prospettiva filosofica,

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pubblicò nel 1950 una raccolta di saggi in parte dedicati al marxismo, cui diede il titolo di L’uomo copernicano: anche per Banfi, dunque, autore di un libro su Galileo (1930), Marx portava non a Hegel ma all’origine della scienza moderna, anche se «l’uomo copernicano» di Banfi era un Galileo passato attraverso Giordano Bruno, l’uomo cioè che «sciolto dall’illusione d’essere centro e ragione dell’universo» e «tutto tuffato nella storia» risolve i problemi della condizione umana «costruendo con tenacia e fervida fatica il proprio regno libero e progressivo»270 . In un saggio del 1950, descrivendo il proprio itinerario mentale dal razionalismo critico al marxismo, ribadì che per «uomo copernicano» doveva intendersi «l’uomo per cui non esiste più una provvidenziale destinazione metafisica [...] e che crea nel lavoro il suo mondo e se stesso, lo crea in un’attività collettiva, il cui processo è la storia»271 . In questa figurazione più filosofica che metodologica il marxismo diventava, oltre che «forma o criterio del sapere storico», storicismo assoluto, ovvero «un radicale risolversi di ogni posizione, di ogni categoria, di ogni ideologia nei rapporti del processo storico»272 . Tra il 1948 e il 1951 apparvero i sei volumi dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci (Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Il risorgimento, Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo stato moderno, Letteratura e vita nazionale, Passato e presente): l’influenza di queste opere sulla generazione che si venne formando intorno al ’50 è paragonabile solo a quella di Croce nel primo decennio del secolo. Ciò che fece dell’opera di Gramsci 270 A. Banfi, L’uomo copernicano, Milano 1950, p. 37 e anche p. 406. 271 Id., La mia prospettiva filosofica, Padova 1950, p. 49. 272 Id., L’uomo copernicano, cit., p. 379.

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un’opera formativa e non solo parenetica o immediatamente politica, fu l’essere non tanto una teoria del marxismo, un’esercitazione filosofica per filosofi, anche se Gramsci si servì di Marx riappreso attraverso Lenin per fare i propri tonti con l’idealismo crociano, quanto un’utilizzazione e una verifica del metodo marxiano, fatte allo scopo di dare una interpretazione di alcuni punti nodali dello sviluppo della società italiana dal Rinascimento al fascismo, e di elaborare alcune categorie analitiche per lo studio della società e della politica che sarebbero dovute servire come schemi di comprensione storica ben al di là dei campi in cui egli stesso le aveva applicate, come «classi subalterne», «blocco storico», «egemonia e dittatura», «società civile e società politica», «società regolata», «volontà collettiva», «catarsi», «riforma morale e culturale», «letterarura nazionale-popolare», «intellettuali organici», «puri», «tradizionali», «organizzazione della cultura». Con Gramsci il marxismo come filosofia passò da un momento meramente didascalico (essenzialmente dottrinario, anche in Labriola) a quello dell’analisi e della ricerca sul vivo. Ma, quel che è più, il marxismo fu per Gramsci non soltanto un metodo ma una Weltanschauung, una concezione del mondo che aveva iniziato «intellettualmente un’età storica che durerà probabilmente dei secoli, cioè fino alla sparizione della Società politica e all’avvento della Società regolata»273 . (Da storicista coerente Gramsci riteneva che anche il marxismo fosse un fatto storico e quindi un’ideologia se pure l’ultima delle ideologie, l’ideologia che avrebbe messo fine a tutte le ideologie.) Di questa concezione del mondo mise in rilievo un aspetto che non poteva non suscitare un effetto di stimolo su intellettuali che avevano davanti agli oc273 A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Torino 1948, p. 75.

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chi il miraggio di un mondo migliore di quello che avevano lasciato alle loro spalle, da costruire razionalmente: il marxismo non era soltanto la teoria della nuova società (che Lenin aveva attuata, trasformando la teoria in prassi, la «scienza» in «azione») ma anche una «nuova cultura», l’organum della rivoluzione politica e sociale e insieme di una «riforma morale e intellettuale», anche se si trattava di una «riforma» che si sarebbe potuta attuare solo attraverso la «rivoluzione». In uno dei brani più pregnanti: La filosofia della prassi è il coronamento di tutto questo movimento di riforma intellettuale e morale, dialettizzato nel contrasto tra cultura popolare e alta cultura. Corrisponde al nesso Riforma protestante più Rivoluzione francese: è una filosofia che è anche una politica e una politica che è anche una filosofia274 .

Questa nuova cultura consisteva nell’andare al di là ad un tempo della filosofia degli intellettuali specializzati, che è liberatrice (quando lo è) per una classe ristretta di saggi, e al di là del senso comune, che in quanto filosofia popolare rispecchia lo stato di soggezione delle classi subalterne, e dunque nel creare una cultura liberatrice, come quella degli addottrinati, ma insieme popolare, come è stata sino ad ora la religione (o il senso comune che ne è l’espressione volgare). In più, facendo del partito politico l’organo di elaborazione di questa nuova cultura («E’ da porre in rilievo l’importanza e il significato che hanno, nel mondo moderno, i partiti politici nell’elaborazione e diffusione delle concezioni del mondo in quanto essenzialmente elaborano l’etica e la politica conforme ad esse, cioè funzionano quasi da «sperimentatori» storici di esse concezioni»)275 , Gramsci proponeva una solu274 275

Ivi, pp. 86-87. Ivi, pp. 12-14.

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zione alla profonda e non più differibile esigenza di un «impegno» politico dell’uomo di cultura; poneva in termini nuovi il nesso tra politica e cultura. Cultura non più fuori o contro il partito, ma dentro o attraverso il partito. Il partito come «crogiolo dell’unificazione di teoria e pratica»276 . In una situazione che era o era parsa, a chi aveva partecipato attivamente alla Resistenza, apocalittica, il discorso pro o contro il marxismo non poteva più essere, dopo la vittoria e l’espansione della Rivoluzione sovietica, una disputa tra dotti, come era stata nella prima fase del marxismo teorico in Italia: diventava una scelta di civiltà. A questa scelta non poté sottrarsi il pensiero cattolico militante. La discussione tra Augusto Del Noce e Felice Balbo fu uno dei momenti più drammatici dell’autocoscienza dell’intellettuale nuovo di fronte all’apocalisse. Per entrambi il marxismo è una svolta decisiva nella storia del pensiero. Ma, mentre per Del Noce questa decisività consiste nell’essere avvenuto con Marx il passaggio dal concetto di filosofia come comprensione al concerto di filosofia come rivoluzione, e quindi nel superamento del filosofo nel rivoluzionario, per Balbo il marxismo rappresenta la scoperta della «ragione scientifica» (ancora una volta il «galileismo morale»), il compimento della svolta «scientifica» del pensiero moderno: non canto quindi un «rovesciamento», come vuole Del Noce, quanto una «conclusione» (e cominciamento). Da questo diverso concetto della funzione del marxismo nella storia, nascono due risposte diverse al problema del rapporto tra marxismo e cristianesimo. Per Del Noce il marxismo, in quanto adempimento pratico dell’ateismo implicito in tutto il corso del razionalismo moderno, è assolutamente inconciliabile con la tradizione del pensiero cristiano, onde la necessità di andare oltre Marx per aprire la stra276

Ivi, p. 13.

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da a una «restaurazione» del cristianesimo. Per Balbo occorre invece dare al marxismo quel che gli spetta, il regno della scienza e attraverso la scienza il regno del lavoro, per poter recuperare il cristianesimo come religione e non più come ideologia religiosa (si veda in particolare Religione e ideologia religiosa, 1948, cui Del Noce risponde con Marxismo e salto qualitativo, 1948). Di fronte all’aut-aut di Del Noce, Balbo afferma: Dopo Marx non si può più seriamente, criticamente risolvere qualunque problema del mondo e della storia con una ragione che non sia quella «teologizzata» [l’espressione è di Del Noce] del marxismo e cioè la ragione scientifica. Ma ciò non significa semplice distruzione della civiltà precedente e creazione di una civiltà totalmente nuova. Significa invece possibilità metodica di ritrovare dopo la rottura storica tutta la realtà umana, tutto l’essere perenne della civiltà. Significa possibilità metodica di continuare la civiltà. Significa frattura rivoluzionaria o storica e continuità religiosa o di essere277 .

Rinnovamento culturale non fu, come si è detto, soltanto allargamento di orizzonti, ma anche nuova coscienza del compito dell’intellettuale nella società. Capovolta fu la massima cui si era ispirato nei primi anni del secolo Croce, per il quale l’unico modo di fare politica per un intellettuale è di fare cultura, in quest’altra: l’unico modo di fare cultura è di fare politica, dando il proprio contributo a trasformare la società, dal momento che o la cultura serve a trasformare la società, è anch’essa uno strumento rivoluzionario, o è un inutile passatempo. Nell’Ultima lettera (28 novembre 1943) Giaime Pintor aveva scritto: 277 F. Balbo, Religione e ideologia religiosa. Contributo a una critica radicale del razionalismo, in «Rivista di filosofia», XXXIX (1948), pp. 105-31, ora in F. Balbo, Opere 1945-1964, Torino 1966, pp. 223-49. Il brano citato è a p. 249.

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Musicisti e scrittori dobbiamo rinunciare ai nostri privilegi per contribuire alla liberazione di tutti. Contrariamente a quanto afferma una frase celebre, le rivoluzioni riescono quando le preparano i poeti e i pittori, purché i poeti e i pittori sappiano quale deve essere la loro parte. A un certo punto gli intellettuali devono essere capaci di trasferire la loro esperienza sul terreno dell’utilità comune, ciascuno deve sapere prendere il suo posto in una organizzazione di combattimento278 .

Il 29 settembre 1945 uscì il primo numero del «Politecnico». Elio Vittorini nel presentarlo, rifiutando la cultura tradizionale, chiedeva una cultura capace di lottare contro la fame e le sofferenze: La società non è cultura perché la cultura non è società. E la cultura non è società perché ha in sé l’eterna rinuncia del dare a Cesare e perché i suoi principi sono soltanto consolatori, perché non sono tempestivamente rinnovatori ed efficacemente attuali, viventi con la società stessa come la società stessa vive.

Balbo vi aderì calorosamente: Noi non sappiamo cosa farcene di una cultura che consoli, che faccia finta di essere Dio, che non dia a Cesare quel che va dato a Cesare, che non serva alla società per difendersi e lasci libera la Belva dei fascismi. Noi cristiani vogliamo costruire la nuova cultura, fare la storia279 .

In questo nuovo atteggiamento degli intellettuali di fronte alla società si possono riconoscere sostanzialmente due direzioni: quella degli intellettuali tradizionali (per usare categorie gramsciane) e quella degli intellettuali organici. Gli uni, portatori di una cultura di tipo 278 G. Pintor, Sangue d’Europa, a cura di V. Gerratana, Torino 1950, p. 247. 279 F. Balbo, Lettera di un cattolico, in «Il Politecnico», n. 3, 13 ottobre 1945, ora in Opere, cit., p. 181.

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neo-illuministico, con funzione rischiaratrice e riformatrice, storicisti ravveduti, vagheggiavano una democrazia europea sul modello anglosassone, antinazionalista e socialmente progressiva; gli apri, neo-marxisti, comunisti militanti e ortodossi (cedenti nel valore etico-politico dell’ortodossia), consideravano la cultura non un privilegio ma un servizio e guardavano con ammirazione alla grande patria della rivoluzione socialista: preferivano essere macchinisti nella stiva di una nave il cui arrivo in porto era garantito dal processo storico, che comandanti sul ponte di un vascello fantasma. I primi ebbero il loro maggior organo nel settimanale «La Nuova Europa», apparso nel 1945, che ricevette la propria impronta dalla assidua collaborazione di Luigi Salvatorelli (che ne era il direttore) e di Guido De Ruggiero: il quale, raccogliendo i propri articoli nel volume Il ritorno alla ragione (1946), ritrattò lo storicismo integrale degli idealisti considerandolo come una visione retrospettiva della storia fatta oltre la quale c’è la storia da fare, «il mondo da ricostruire e da rinnovare», e rivalutò l’illuminismo per attingere «un punto di vista filosofico più comprensivo»280 . Altre riviste di analoga ispirazione furono «Acropoli» di Adolfo Omodeo, «Il Ponte» di Piero Calamandrei, il cui primo numero apparve nell’aprile 1945 (sola forse tra le riviste, nata in un clima di entusiasmo tanto intenso, quanto effimero, e viva ancora oggi). I secondi (gli intellettuali «organici») si raccolsero attorno alla rivista «Società» (il primo numero reca la data gennaio-giugno 1945 ), ove dichiararono che gli intellettuali, pur essendo il sale della terra, non costituiscono una classe a sé, anzi sono marginali al costituirsi delle classi, e, pur essendo al servizio della verità e quindi di tutti gli uomini, non sono disciolti dalla realtà della situazione. La quale non offriva, 280

G. De Ruggiero, Il ritorno alla ragione, Bari 1946, pp. 29

e 41.

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a loro giudizio, «ambiguità riguardo alla via da seguire», perché era segnata dal moto delle forze sociali del lavoro verso la liberazione di se stesse e di tutti gli uomini; e gli intellettuali debbono «essere ed operare a fianco di esse»281 . Negli uni e negli altri agiva ancora potentemente l’afflato etico della Resistenza, vissuta come guerra di un popolo che prende nelle mani per la prima volta nella storia il proprio destino, come il nuovo Risorgimento: un afflato che derivava dalla convinzione che la riconquista della libertà sarebbe stata il fondamento di un nuovo corso storico, la condizione di un rinnovamento morale, politico e sociale del paese. Ma la libertà può essere usata per il bene e per il male, o peggio può anche non essere usata. Ben presto si riprodusse quel distacco tra paese reale e paese ideale, di cui si è parlato all’inizio di questa storia. Con la differenza che nel primo decennio del secolo il paese ideale era prevalentemente reazionario ed ebbe il sopravvento; nel ’45 era unanimemente progressivo e fu sconfitto. Già nell’ottobre del 1946 Piero Calamandrei osservò il venir meno di «quel miracoloso soprassalto dello spirito che si era prodotto, quando ogni speranza pareva perduta», e lo chiamò efficacemente «desistenza», ammonendo che «dopo la breve epopea della resistenza eroica» erano cominciati, per chi non voleva che il mondo sprofondasse nella palude, «i lunghi decenni penosi ed ingloriosi della resistenza in prosa»282 . Meglio di ogni altro egli espresse, quasi impersonandoli, gli ideali della 281 Situazione, articolo non firmato, in «Società», I, n. 1-2, gennaio-giugno 1945, p. 7. 282 P. Calamandrei, Desistenza, in «Il Ponte», II, n. 10, ottobre 1946, pp. 837-38, ora in Opere politiche di Piero Calamandrei a cura di N. Bobbio, Scritti e discorsi politici, vol. I, Firenze 1966, pp. 279-81. Il brano citato è a p. 281.

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Resistenza, rigenerazione di un popolo «che si desta» e «Dio si mette alla sua testa e le folgori gli dà» (non per nulla anche lui proveniva dal Partito d’Azione). Si batté alla Costituente perché lo spirito di una guerra che era stata non soltanto nazionale ma anche sociale non fosse tradito, ne difese i valori contro gli insulti, le incomprensioni, le colpevoli dimenticanze, combatté strenuamente, facendo parte per se stesso, contro la mentalità di crociata che andava riproducendo sul fronte interno il conflitto mortale della guerra fredda, denunciò il manicheismo dividente gli eletti dai reprobi, in nome dell’unità morale dell’antifascismo che aveva dato agli italiani una nuova ragione di vivere, all’Europa una speranza. Ma fu una battaglia vana. Quando fu chiamato ad esaltare in alcune lapidi memorande la guerra di popolo, ne scrisse in realtà l’epicedio: «Questo patto / di uomini liberi / che volontari si adunarono / per dignità non per odio / decisi a riscattare / la vergogna e il terrore del mondo»283 . In queste parole la Resistenza era diventata ormai un’idea morale, un mito, per rinascere, chi sa, come leggenda popolare (il che poi non è avvenuto). Non era più storia: o meglio, era una storia conclusa. 283 Id., Il monumento a Kesselring, lapide murata nel Palazzo comunale di Cuneo il 21 dicembre 1952, ora in Id., Uomini e città della Resistenza, Bari 1965, p. 245.

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14 LA DEMOCRAZIA ALLA PROVA

I quasi quarant’anni trascorsi dalla promulgazione della Costituzione possono essere divisi in due periodi su per giù della stessa lunghezza: il primo, che va dal 1948 al 1968, è caratterizzato dalla crescita senza soste, sia economica sia politica, della società italiana, accompagnata dal consolidamento delle istituzioni democratiche; il secondo, che va dal 1968 a oggi, comprende anni di trasformazione economica e politica, di difficile e sino ad ora incerta transizione dall’uno all’altro equilibrio delle forze politiche che potrebbe sfociare in una riforma della stessa Costituzione. Il 1968 è stato un anno di svolta per molte ragioni: la contestazione giovanile con il suo assemblearismo tumultuoso e con l’esercizio della violenza, se pure in un primo tempo soltanto ideologica, contro gli assetti stabilmente raggiunti, ha compiuto il primo tentativo, almeno sino ad ora fallito, di delegittimare la democrazia repubblicana; le agitazioni operaie hanno raggiunto un’ampiezza e un’intensità sino allora sconosciute (il cosiddetto «autunno caldo»); gruppi di potere occulto della destra reazionaria, rimasti sino ad ora inafferrabili e impuniti, hanno preparato, se non con l’aiuto, con la connivenza di alcuni settori dei servizi segreti, la sovversione del regime repubblicano, il cui primo atto, che sarà seguito da molti altri, è la strage di Piazza Fontana a Milano nel dicembre 1969; il 13 maggio 1968 si svolgono le elezioni politiche della quinta legislatura, dove il partito socialista e quello socialdemocratico finalmente riuniti subiscono la più dura sconfitta della loro storia, ottenendo insieme il 14,4% dei voti, mentre nelle elezioni precedenti il solo Psi ne aveva ottenuti il 13,8%; dal 1968, dopo quat-

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tro legislature giunte alla loro fine naturale dei cinque anni, quelle successive vengono troncate anzitempo (rispettivamente nel 1972, nel 1976, nel 1979, nel 1983, nel 1987), rivelando una fragilità nel sistema dei partiti che condurrà alla fine degli anni Settanta alla prima proposta di una Grande Riforma. La storia delle idee mostra peraltro, ancora una volta, di avere cadenze diverse da quella sociale e da quella politica. Nella storia politica i due momenti decisivi del primo ventennio sono le elezioni del 18 aprile 1948, che consacrano l’egemonia incontrastata del partito democratico cristiano per circa trent’anni, sino alle elezioni del 1976 in cui il partito comunista compie il grande balzo in avanti, e il 1963, anno d’inizio del centro-sinistra; nella sfera economica gli anni dello sviluppo sono quelli del decennio 1950-60, che comprendono il «miracolo economico», il movimento di emigrazione dal Sud al Nord, e la seconda rivoluzione industriale. Nella sfera delle idee, al contrario, uno degli anni più importanti, oltre il ’68, in cui la contestazione non fu soltanto politica ma anche colturale, fu il 1956, l’anno della destalinizzazione e della rivolta d’Ungheria, due avvenimenti che misero in discussione le certezze della sinistra marxistica, e aprirono la strada a varie forme di revisionismo destinate a provocare, se pur in tempi lunghi, mutamenti radicali nelle analisi e nelle prospettive. Concepita la storia degli intellettuali come la storia della coscienza che i produttori e gli agitatori d’idee hanno del loro tempo, alternativamente in anticipo o in ritardo, profetica o nostalgica, disincantata o tendenziosa, olimpica o drammatica, secondo le ideologie professate, il temperamento, la concezione alta o bassa del proprio ruolo, gli anni della ricostruzione furono il tempo della riflessione sulla natura, la vastità, la radicalità del mutamento. Restaurazione o rivoluzione, continuità o rinnovamento?

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Nella Resistenza erano confluiti tre movimenti con obiettivi diversi, uniti prammaticamente dalla necessità di combattere un nemico comune: un movimento patriottico di liberazione dallo straniero, cui avevano dato il loro contributo coloro che erano rimasti fedeli alla monarchia; un movimento antifascista, i cui scopi principali erano la liberazione del paese da un regime di dittatura che lo aveva segregato dalla miglior parte del mondo civile e la restaurazione di una democrazia più avanzata di quella che era esistita prima del fascismo; un movimento rivoluzionario che mirava a un vero e proprio rivolgimento sociale a imitazione di quello che era avvenuto in Russia con la Rivoluzione d’ottobre. Movimento complesso, la Resistenza combatté su tre fronti diversi: contro le truppe tedesche e i loro alleati italiani della Repubblica di Salò, contro il regime fascista per la riconquista non solo dell’indipendenza nazionale ma anche della libertà politica e civile, contro i regimi borghesi che, pur di salvare i propri interessi di classe, avevano favorito in alcuni paesi l’avvento del fascismo. L’ideale dei primi era la restaurazione, dei secondi il rinnovamento nella libertà, dei terzi l’ordine nuovo. Il tema della continuità fu discusso in sede giuridica e in sede storica. I giuristi erano divisi fra coloro che sostenevano la continuità formale per effetto del decreto luogotenenziale del 25 giugno 1944, secondo cui il popolo italiano avrebbe dovuto scegliere le nuove istituzioni a guerra finita (il che avvenne di fatto con il referendum e le elezioni dei membri dell’Assemblea costituente il 2 giugno 1946), e coloro che asserivano la instaurazione della repubblica aver creato un nuovo ordinamento dal quale ricevevano vigore retrospettivo tutte le leggi del passato. Il dissidio fra gli storici fu molto più tormentato. Di fronte alle due fratture della nostra storia recente, quella tra stato liberale e regime fascista, e quella tra regime fascista e repubblica democratica, gli uni,

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considerato il fascismo come una parentesi, intendevano la continuità come continuità fra l’Italia prefascista e quella post-fascista, gli altri, sia che interpretassero il fascismo come la rivelazione di antiche tare della nostra società sia che lo giudicassero come la perpetuazione del dominio di classe, erano piuttosto propensi a cogliere un elemento di continuità fra il prefascismo e il fascismo e a collocare la più netta cesura fra la fine della dittatura e l’inizio della vita democratica, anche se i primi consideravano la costituzione come una promessa che spettava alle forze politiche progressiste di mantenere, i secondi come la prima tappa di una lunga marcia verso il socialismo. Per quanto queste diverse interpretazioni fossero ideologicamente incompatibili, la forza delle cose fu più grande delle ideologie, e i diversi gruppi politici che si erano alleati contro il nemico comune, stringendo fra di loro un patto di non aggressione reciproca, riuscirono a trovare le buone ragioni per stipulare quel compromesso destinato a durare che fu la nostra Carta costituzionale. Ancora oggi la legittimità dell’ordine democratico riposa su quel patto di non aggressione, che diede vita al Comitato di Liberazione Nazionale: patto che, nonostante il contrasto radicale e permanente fra comunisti e cattolici, tra filo-sovietici e filo-americani (in tempi di guerra fredda e di cortine di ferro), tra rivoluzionari, riformisti e conservatori, è stato rispettato dall’una parte e dall’altra, anche nei momenti di crisi più gravi (l’attentato a Togliatti, luglio 1948, il mancato scatto del premio di maggioranza nelle elezioni del 1953, le agitazioni genovesi del 30 giugno 1960 contro il governo Tambroni). Che la Carta costituzionale fosse il prodotto di una complicata negoziazione in cui, come disse Calamandrei qualche anno più tardi, ogni partito, aliquo dato et aliquo retento aveva rinunciato a una parte del proprio programma per mantenere di esso soltanto quello che anche gli

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altri partiti avrebbero potuto accettare, sì che con la Costituzione era stato scritto il programma di tutti i partiti che avevano fatto la Resistenza284 , apparve sin dall’inizio chiaramente agli stessi costituenti, anche se i rappresentanti dei due partiti maggiori, Togliatti e Tupini, avevano inneggiato al compromesso come feconda convergenza d’interessi e di ideali, mentre due rappresentanti di partiti minori285 , Benedetto Croce e lo stesso Calamandrei, avevano visto del compromesso solo l’aspetto deteriore, una mirabile «concordia di parole e discordia di fatti» (Croce)286 , o il tipico discorso del «sì, ma...» e del «no, però...»287 . Gli ideali democratici furono a ogni modo il cemento che tenne insieme gli uomini della classe politica che aveva diretto la guerra di liberazione ed era giunta, pur attraverso profondi contrasti, alla elaborazione di una Carta costituzionale approvata alla fine quasi all’unanimità. Da un lato, le destre avevano rinunciato a un impossibile ritorno puro e semplice al passato, dall’altro la sinistra estrema aveva accantonato il programma della dittatura del proletariato, e si era attestata stabilmente su un programma di democrazia sociale. Non sfuggì a nessuno che democrazia era un concetto dai molti tentacoli. Ma era ben chiara la distinzione fra democrazia formale e democrazia sostanziale: un accordo di massima era avvenuto sull’attuazione della prima subito in cambio di un rin284 P. Calamandrei, La costituzione è il programma politico della Resistenza, in Scritti e discorsi politici, a cura di N. Bobbio, vol. I, t. II, Firenze 1966, p. 143. 285 Per questi riferimenti vedi E. Cheti, Il problema storico della Costituente, in «Politica del diritto», IV, ottobre 1973, p. 507. 286 B. Croce, Scritti e discorsi politici, Bari 1963, vol. II, p. 367. 287 P. Calamandrei, Chiarezza nella costituzione, in Scritti e discorsi politici, cit., II, t. I, p. 23.

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vio della seconda al futuro. Come si disse allora, la democrazia formale era stata istituita con norme precettive, immediatamente in vigore, quella sostanziale era stata iscritta con norme programmatiche che contenevano direttive per i futuri uomini di buona volontà. Chi ora vada in cerca di testi fondamentali, il cui valore abbia trasceso il dibattito del momento, tornerà indietro a mani vuote. La convergenza verso il comune denominatore del programma democratico (democrazia formale, oggi, democrazia sostanziale, forse, domani) era stata determinata più che dalla recezione di una dottrina compiuta, da ragioni storiche oggettive, di cui la principale era la collocazione politica dell’Italia nella sfera delle democrazie occidentali, dove il pensiero democratico aveva una lunga e ininterrotta tradizione, e da ragioni soggettive, principalmente la repulsione da parte di chi aveva vissuto l’esperienza del fascismo verso ogni specie di dittatura, compresa la «dittatura del proletariato». Non c’era bisogno di costruire grandi castelli teorici per rendersi conto che il primo compito dei partiti che avevano combattuto insieme il fascismo era quello di ristabilire le condizioni per lo svolgimento di una leale lotta politica, entro il quadro di regole del gioco concordemente accettate, che rimettevano il giudizio in ultima istanza al cittadino nuovamente divenuto titolare dei diritti civili e politici. A distanza di quarant’anni si può dire che, ancora una volta, le cose nella loro crudezza o rozzezza o bruta materialità sono state più forti delle interpretazioni degli ideologi e degli esperti. Quello che avvenne in quegli anni in Italia fu la continuazione, se pure ad un livello più alto di consapevolezza, della contesa per l’egemonia sull’intera società tra le forze socialiste, ora divise tra socialisti tradizionali e comunisti, e le forze cattoliche, contesa che l’avvento del fascismo aveva interrotto. È sorprendente che i risultati elettorali del 1946 con il 35 % dei voti al-

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la democrazia cristiana e il 40% ai due partiti del movimento operaio, il socialista e il comunista, non si discostarono di molto da quelli ottenuti rispettivamente dal partito popolare e dal partito socialista allora non diviso nel 1919! Sconfitti erano stati i partiti storici della borghesia, nell’urto coi partiti di massa, favoriti dal suffragio universale e dalla rappresentanza proporzionale. Naturalmente il compromesso costituzionale, che fu il risultato di un accordo politico, non soffocò il contrasto delle idee, un contrasto che corrispondeva, se pure non rispecchiandola esattamente, alla divisione delle forze politiche. Il contrasto fu tanto più acceso quanto più entrarono in campo i filosofi, portatori di concezioni globali del mondo. Oggi il dibattito politico si svolge sempre più fra esperti, economisti, sociologi, antropologi, politologi, biologi, specialisti delle varie discipline in cui è diviso il vastissimo campo delle scienze sociali. Allora, la scena su cui si svolsero le grandi battaglie ideali fu dominata dai filosofi: negli Stati Uniti si guardava a John Dewey, di cui l’editore Einaudi tradusse nel 1949, a cura di Aldo Visalberghi, che aveva militato nel Partito d’Azione, l’opera fondamentale, Logica, teoria dell’indagine; in Francia gl’intellettuali di sinistra leggevano e discutevano Sartre e Merleau-Ponty, commentavano la loro rivista «Les Temps modernes»; i cattolici, che non avevano più avuto in Italia pensatori originali dopo Rosmini e Gioberti, s’ispiravano all’umanesimo integrale di Jacques Maritain o al personalismo di Emmanuel Mounier e della rivista «Esprit»; in Inghilterra era venuta l’ora dei profughi del Circolo di Vienna, a cominciare da Ludwig Wittgenstein, già presentato dieci anni prima da Geymonat, e più in generale della filosofia analitica che aveva in Alfred Jules Ayer il suo corifeo con il libretto, provocante e per la filosofia accademica italiana piuttosto indigesto, Language, Truth and Logic del 1936; in Germania, la vera patria filosofica degli italiani tra neo-kantismo lom-

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bardo e neo-hegelismo napoletano, giganteggiavano l’opera di Husserl, di cui si farà interprete Enzo Paci, attraverso un’originale sintesi di fenomenologia e marxismo che avrà la sua più completa esposizione nell’opera Funzione delle scienze e significato dell’uomo del 1963, e nella fondazione e direzione della rivista «Aut Aut», nata nel 1951, e gli esistenzialisti, Heidegger e Jaspers, in quegli anni non tanto il primo, la cui fortuna verrà più tardi ed è cresciuta in questi ultimi anni, quanto il secondo, del quale apparve, nel 1946, La mia filosofia (mentre Sein und Zeit di Heidegger sarà tradotto da Pietro Chiodi soltanto nel 1953). Tra le correnti ottocentesche l’unica ancora viva e vitale era stato il marxismo, delle filosofie militanti di quegli anni di gran lunga la più studiata, commentata, discussa, vero punto d’incontro e di scontro di tutti coloro che cercavano, nella frantumazione delle correnti filosofiche dominanti, a cominciare dall’idealismo, un orientamento, un sistema compiuto da abbracciare o un avversario col quale misurarsi. Una ricca tradizione di studi marxistici in Italia c’era sempre stata. Mala grande scoperta di quegli anni furono le opere giovanili, pubblicate per la prima volta nella Gesamtausgabe da Riazanov quando in Italia imperava il fascismo: dei Manoscritti del 1844, in cui il giovane Marx denunciava la disumanizzazione provocata dal «lavoro estraniato», e annunziava il comunismo come soluzione dell’enigma della storia, furono fatte quasi contemporaneamente due traduzioni, una pubblicata da Einaudi (Bobbio, 1949) e una dalle Edizioni Rinascita (Della Volpe, 1950). L’altra scoperta fu il pensiero filosofico di Lenin, di cui ben poco si sapeva, anche nella vulgata delle Questioni di leninismo di Stalin. Non fu trascurato il pensiero sovietico dove il marxismo-leninismo era da anni la filosofia ufficiale: grande successo ebbe l’opera del gesuita Gustavo Andreas Wetter, Il materialismo dialettico sovietico, pubblicata da Einaudi nel 1948,

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che esponeva in forma piana e senza sovrapposizioni polemiche il pensiero dei filosofi che avevano interpretato e commentato il marxismo-leninismo di cui in Italia si sapeva poco o nulla. Rotte le barriere del nazionalismo culturale, gl’intellettuali italiani furono costretti a fare un rapidissimo corso di aggiornamento che ebbe effetti fecondi. Del resto la filosofia italiana, salvo gli anni fervidi e fertili dell’idealismo, che aveva rimesso in onore il pensiero del Rinascimento (Bruno e Campanella) e aveva fatto di Giambattista Vico un anticipatore dello storicismo tedesco, era stata quasi sempre, nell’Ottocento, una filosofia non originale, aveva importato e imitato idee nate altrove, il positivismo in Francia e in Inghilterra, Kart, Fichte, Hegel, sino ai loro tardi epigoni, in Germania. Anche Marx e il marxismo, che pure avevano trovato un interprete originale in Antonio Labriola, ebbero bisogno a un certo momento di essere reinterpretati attraverso Georges Sorel, che nel suo paese d’origine ebbe sempre pochi e poco autorevoli seguaci. Negli anni della ricostruzione l’unica opera accolta, studiata e tradotta, anche al di fuori del nostro paese, fu quella di Gramsci, specie i Quaderni del carcere. Il che fu un’altra riprova della preminenza, nel dibattito culturale, del marxismo. Marxisti, se pur con diverse interpretazioni, più o meno dottrinarie, del pensiero di Marx e di Engels, erano non soltanto i comunisti, la cui casa editrice cominciò a pubblicare le opere dei fondatori, avidamente lette non solo dai giovani dopo un lungo periodo d’inedia, ma anche i socialisti, tanto gl’intransigenti, come Rodolfo Morandi e Lelio Basso, quanto i moderati, come Saragat. Il socialismo non marxista di Carlo Rosselli, e per impulso di Guido Calogero, dell’ala liberal-socialista del Partito d’Azione, era stato e rimase una corrente minoritaria, che confluì in quella che sarebbe stata battezzata Terza forza.

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I marxisti diedero battaglia su tutti i fronti: una battaglia di retroguardia contro Croce, confortati da Gramsci il cui primo volume dei Quaderni, dedicato alla critica della filosofia crociana, apparve nel 1947, anche se non giunsero mai a definire Croce, come fece Lukàcs in quel gigantesco pamphlet di La distruzione della ragione (1955, tradotto in italiano nel 1959), come il creatore del sistema dell’irrazionalismo «per l’uso borghese e decadente del parassitismo imperialistico»288 . Croce negli ultimi anni (morì nel 1952) era tornato più volte con non diminuita veemenza a ribadire le proprie convinzioni circa la debolezza del pensiero di Marx e, per contrasto, l’influenza perversa di questo stesso pensiero nella sfera dell’azione, non risparmiando le critiche a Gramsci, di cui pur riconosceva l’alto valore morale, via via che ne apparivano i volumi di critica filosofica e storica. Diretto antagonista, invece, faccia a faccia fu l’esistenzialismo, che era stato interpretato da alcuni come la filosofia tardiva di un’età di decadenza, ed era comunque, salvo nella versione italiana, proposta da Nicola Abbagnano (il cui libro, Esistenzialismo positivo, apparve nel 1948), una filosofia del disimpegno, del distacco, della solitudine, della finitezza senza riscatto. A un incontro fra marxismo ed esistenzialismo fu dedicato il primo congresso internazionale di filosofia che si svolse dopo la guerra in Italia (Roma 1947): non tanto un dialogo, impossibile, quanto un confronto, fra due modi opposti di concepire la funzione del filosofo; come coscienza, critica per gli uni, inquieta per gli altri, del proprio tempo. Il confronto allora finì, e non poteva non finire, se non con la vittoria della filosofia militante sulla filosofia dell’inquietudine. L’interesse per l’esistenzialismo andò via via smorzandosi, e gli esistenzialisti trovarono il loro po288

G. Lukàcs, La distruzione della ragione, Torino 1959, p.

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sto appartato, dignitoso ma inerte, nelle aule universitarie. La filosofia dell’esistenza nascerà più tardi, attraverso la resurrezione di Heidegger (Jaspers sarà completamente dimenticato), quando, spenti gl’incendi del ’68, e placati i furori ideologici che li avevano accesi, la polemica ideologica, per naturale e forse salutare reazione, si attenuerà sino a raggiungere il paese felice dove non vi sarà più «né destra né sinistra»289 . Più lunga e non meno aspra fu la battaglia dei vecchi e nuovi marxisti contro il neo-positivismo, la filosofia analitica inglese, la filosofia del linguaggio, in genere contro le tendenze empiristiche e prammatistiche che provenivano dal mondo anglosassone, dalla parte degli altri vincitori. Marxismo ed esistenzialismo, pur nemici mortali fra loro, erano concordi almeno su un punto: l’avversione per ogni forma di filosofia che sollevasse il sospetto di resuscitare, anche in vesti più aggraziate, il cadavere del positivismo. Nella rivista «Società», dove al neo-positivismo furono fatte le stesse rudi accoglienze che esso aveva trovato nell’Unione Sovietica, in un articolo in cui Croce era chiamato senza tanti complimenti «commesso della borghesia reazionaria», si riconosceva alla filosofia crociana il merito «di aver sgombrato per sempre il terreno della filosofia italiana dal positivismo» e di averla liberata dai «trabocchetti delle deformazioni meccanicistiche e pragmatistiche del marxismo»290 . Questa battaglia durò più a lungo, perché le filosofie empiristiche, nonostante il disprezzo con cui furono accolte come espressione della mentalità borghese, non erano, come era invece stato l’esistenzialismo, politicamente irrilevanti: nemiche della rivoluzione in cui non credeva289 Mi riferisco al noto libro di Z. Sternhell, Ni droite ni gauche, Paris 1983; traduzione italiana Napoli 1984. 290 V. Gessarono, Filosofia americana, filosofia europea, in «Società», VII (1951), p. 486.

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no e della restaurazione autoritaria che paventavano, erano orientate verso un riformismo gradualistico, che traeva ispirazione dall’Inghilterra, sua patria ideale. Ebbero il loro quarto d’ora di fortuna (ma fu soltanto un quarto d’ora) all’indomani della crisi dello stalinismo, quando i marxisti ortodossi si riproposero in termini nuovi il problema dei rapporti fra politica e cultura, e lentamente, ma inesorabilmente, rifiutarono la lotta ideologica a colpi di scomuniche, anatemi, appelli al cielo, onde parve aprirsi l’era auspicata ma attesa sino allora invano (e per molto tempo ancora) del «ritorno alla ragione». Non a caso in seno a un gruppo d’intellettuali di sinistra intransigenti ma indipendenti, come Franco Fortini, Roberto Guiducci, Alessandro Pizzorno, nacque nel settembre del 1955 una rivista cui fu dato il titolo augurale di «Ragionamenti». Nell’opera più rappresentativa del neo-empirismo, Praxis ed empirismo di Giulio Preti (Torino, Einaudi, 1957), il nesso tra una certa filosofia e una certa politica era evidente e apertamente dichiarato. L’autore, serio e lucido, nonostante certe arie da sbarazzino, aveva collegato il nuovo orientamento filosofico con la democrazia, intesa correttamente come quella forma di società in cui l’uomo prende finalmente in mano il proprio destino, antepone la cultura scientifica a quella umanistica, considera come idea etica fondamentale il contrasto sociale, e affida il trionfo dei nuovi valori non alla violenza ma alla persuasione razionale. Il libro non piacque, com’era naturale, ai marxisti. Fu anzi l’occasione per una caustica stroncatura del neo-positivismo che pretende di allearsi con il marxismo, «pur puzzando di reazionarismo a mille miglia di distanza», da parte di Cesare Cases, che era stato il maggior promotore della diffusione del pensiero di Lukàcs in Italia291 . 291

C. Cases, Marxismo e neo-positivismo, Torino 1958, p. 7.

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Rispetto ai cattolici, nel dibattito le parti furono invertite: non tanto i marxisti dovettero fare i conti col pensiero cattolico, quanto questi col marxismo. La maggior parte dei filosofi cattolici, professori di università, soprattutto alla Università cattolica, non erano politicamente molto impegnati: Augusto Guzzo, Gustavo Bontadini, Sofia Vanni Rovighi, che pure compare nel gruppo dossettiano, Umberto Padovani, Cornelio Fabro, Carlo Giacon, animarono in quegli anni dibattiti filosofici più che politici, che si svolsero principalmente negli incontri annuali promossi dal Movimento di Gallarate, sorto nel 1945. Il più combattivo e intraprendente, Michele Federico Sciacca, era molto ammirato nella Spagna di Franco. Fallito il tentativo di sintesi o di connubio fra marxismo e tomismo, compiuto dalla sinistra cristiana, si svolgeranno per un certo periodo di tempo pubblici dialoghi fra marxisti e cattolici in una prospettiva più esplicitamente politica, specie per iniziativa di Lucio Lombardo Radice, comunista convinto ma non settario, da cui nacque il volume Il dialogo alla prova, pubblicato nel 1964. Il tema del marxismo come filosofia fu affrontato con straordinario pathos intellettuale e con eccezionale capacità di ricostruzione storica da Augusto Del Noce in una serie di saggi o di «libri contratti», come li chiamò l’autore, raccolti nel volume Il problema dell’ateismo (Bologna, Il Mulino, 1964): considerato l’ateismo come il termine conclusivo a cui doveva necessariamente e coerentemente pervenire la filosofia moderna, il marxismo viene interpretato come il punto di arrivo non superabile del razionalismo, come sbocco conseguente e ineluttabile, dal quale quindi non si può non tornare indietro, dell’ateismo, come forma secolarizzata del pensiero biblico, e proprio in quanto tale religione rovesciata, il cui riscatto può avvenire soltanto in questo mondo attraverso l’azione rivoluzionaria che conduce peraltro non alla liber-

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tà, ma allo stato totalitario. Questa critica filosofica radicale del marxismo, che implica il riconoscimento della sua importanza storica, si congiungeva palesemente alla critica politica, altrettanto radicale del comunismo. Nell’opera di Del Noce il nesso tra filosofia e politica non solo è evidente ma addirittura essenziale. Ormai era diventato sempre più difficile distinguere la filosofia dalla ideologia. Ogni filosofia era portatrice di sistemi di valori, o anche soltanto di orientamenti pratici, che miravano non tanto a interpretare il mondo quanto ad agire su di esso per trasformarlo o per lasciarlo com’è. Alla tradizionale concezione della ideologia come filosofia popolare si andava sostituendo la concezione della filosofia come ideologia mascherata. Se si guarda all’impero ideologico del tempo, esso si può distinguere in tre regni separati, che sono sopravvissuti senza grandi spostamenti di confini sino ad oggi, ognuno di essi a sua volta diviso in gruppi più ortodossi o più fedeli alla tradizione, e gruppi più mobili, proclivi alle più diverse aperture e combinazioni. Tra marxismo e pensiero cristiano, i due poli principali di aggregazione anche politica, ebbe notevole consistenza un’area laica dagl’incerti confini, ma costituita soprattutto dagli eredi dell’idealismo crociano e dai neo-empiristi, in perenne contrasto fra loro. La quale ebbe anche un esito politico, pur senza una corrispondenza perfetta con questo o quel partito, nella cosiddetta Terza Forza. «Terza» nel senso che stava in mezzo ai due forti rivali, ed era costretta a battersi su due fronti. Ma anche «forza» non già nel senso della quantità, giacché non riuscì mai ad avere un elettorato tanto numeroso da poter fare concorrenza ai due potenti vicini, ma nel senso della qualità e nell’influenza che esercitò non solo nel non lasciar cadere ma anzi nel rafforzare un sentire liberale e un impegno attivamente democratico che erano, l’uno e l’altro, storicamente estranei alle culture dominanti da cui erano nati i partiti di massa.

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Come sempre, il luogo dove trovarono la più facile espressione le diverse risposte alle domande che venivano da una società in trasformazione furono le riviste. Oltre le già menzionate «Rinascita», fondata nel 1944 da Togliatti come mensile, trasformata in settimanale, che vive tuttora, nel 1962, e «Società», fondata nel 1945, morta nel 1961, sostituita all’inizio del 1963 da «Critica marxista», tuttora esistente, il partito comunista diede vita a cominciare dal 1954 a un settimanale, poi trasformato in mensile nel 1958, ora diventato il supplemento mensile letterario di «Rinascita», «Il Contemporaneo», che ripeteva tipograficamente il modello del suo fratello nemico «Il Mondo» e gareggiò con esso nelle vivacità del dibattito e nell’attualità dei problemi proposti. La rivista ufficiale del Partito socialista è sempre stata, se pur con mutamenti di indirizzo politico che corrispondono alle vicissitudini del partito, che si è venuto spostando da un’alleanza col partito comunista a una sempre più accentuata autonomia, «Mondo operaio», fondata da Nenni nel dicembre 1948, attraverso la quale sono passati alcuni dei più noti dibattiti all’interno della sinistra, sulla pianificazione, sul controllo operaio, da ultimo sulla crisi del marxismo e sulla resurrezione del socialismo liberale. Alla sinistra ideale, distinta dalla sinistra di partito, appartengono «Nuovi Argomenti», fondata da Alberto Carocci e Alberto Moravia, nel 1953, che promosse negli anni Cinquanta alcune memorabili inchieste, fra le quali le Nove domande sullo stalinismo (nel corso del 1956) cui partecipò lo stesso Togliatti; «Ragionamenti», già citata, fondata nel 1955 e durata due soli anni, animata da un gruppo d’intellettuali di sinistra non comunista, in polemica con l’adorazione mai venuta meno dell’universo sovietico, che rivendicò il diritto degli uomini di cultura a essere indipendenti dai partiti (uno dei suoi fondatori, Roberto Guiducci, pubblicò nel 1956 un libro dal titolo significativo, Socialismo e verità); «Passato

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e presente», bimestrale, nata nel 1958, morta nel 1961, il cui animatore fu Antonio Giolitti, che dalla crisi dell’Ungheria aveva tratto un saggio di critica politica, Riforme e Rivoluzione (Torino, Einaudi, 1957), particolarmente orientato allo studio dei diversi socialismi, dalla Jugoslavia alla Cina, e impegnato in un serrato confronto critico col partito comunista. Occupa un posto particolare per la forte personalità del suo fondatore e direttore sino alla morte (1978), Lelio Basso, «Problemi del socialismo», nata e tuttora in vita, salvo una breve interruzione fra il 1963 e il 1965, oggi diretta da Franco Zannino, incentrata, ogni fascicolo, su un tema specifico. Basso, già animatore di «Quarto Stato», la rivista di Carlo Rosselli e Pietro Nenni, apparsa nel marzo 1926, ammiratore e colto studioso di Rosa Luxemburg, aveva una concezione fortemente agonistica della lotta politica, cui attribuiva il compito di trasformare la gracile e di per se stessa insufficiente democrazia formale, garantita dalla Costituzione, in una democrazia sostanziale sino allo sbocco in una società socialista, cui la stessa Costituzione aveva aperto la strada attraverso l’art. 3 sull’eguaglianza delle condizioni, da lui stesso proposto e difeso. Scrisse una delle opere fondamentali di storia e di teoria della democrazia, Il principe senza scettro (Milano, Feltrinelli, 1958). Rivista politicamente di sinistra, anche se prevalentemente letteraria e storica, fu «Belfagor», bimestrale, fondata e diretta sino alla morte (1961) da Luigi Russo, continuata con una sostanziale fedeltà, salvo un breve intermezzo (1961-1967), dal figlio Carlo Ferdinando, sino a oggi. Russo, letterato e critico letterario dei nostri maggiori, di ascendenza crociana, liberale durante il fascismo, vicino ai partiti del movimento operaio dopo la liberazione, anticlericale militante sempre (si vedano i saggi polemici raccolti nel volume De vera religione, Torino, Einaudi, 1949), era uomo di passionalità prorompente,

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amante delle posizioni nette, che sosteneva senza guardare in faccia a nessuno. Fu direttore per anni della Scuola normale superiore di Pisa, da cui fu rimosso dopo la vittoria democristiana nelle elezioni del 1948, nelle quali era stato candidato del Fronte popolare. Il proposito della rivista era di combattere il conformismo, il trasformismo, il mimetismo dei letterati italiani, la pigra e comoda accondiscendenza al padrone di turno, con articoli di critica e con «note e schermaglie», scritte in gran parte da lui medesimo, spesso con feroce schiettezza. Nonostante il sottotitolo «rivista di varia umanità», Belfagor fu anche un luogo d’incontro di battaglie civili, ispirate a uno storicismo che non disdegnò il confronto col marxismo purché non dommatico, o di maniera o di moda, che stava risorgendo. Nel programma, in cui invitava i letterati italiani a tornare con rinnovata serietà e più integra libertà agli studi, Russo la presentò come rivista di «etica politica», non legata ad alcun partito e aliena dalla «scolastica ruminazione di una particolare dottrina» (allusione forse al marxismo dei novellini). Espressione di un socialismo democratico aperto, non dottrinario, attento ai problemi concreti di una più civile convivenza nel nostro paese, fu «Il Ponte», mensile, di cui Piero Calamandrei fu sino alla morte (dicembre 1956) l’animatore e il principale autore. Sorta nell’aprile 1945 a Firenze, è stata diretta dopo la morte del fondatore da Enzo Enriques Agnoletti, con una forte passione civile che la morte (agosto 1985) ha interrotto. Calamandrei vi combatté le sue battaglie democratiche per l’attuazione della Costituzione, contro quello che egli chiamò l’ostracismo della maggioranza e contro la legge elettorale del 1953. Per anni la rivista fu il luogo privilegiato d’incontro dell’intellighenzia antifascista e democratica, dagli uomini della vecchia generazione, come Salvemini e Jemolo, a quelli della nuova, come Paolo Vittorelli, Umberto Segre, Tristano Codignola. Nel fascico-

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lo del maggio-giugno del 1952 dedicò un denso numero speciale al laburismo inglese, per il quale non aveva nascosto le sue simpatie; nel fascicolo di novembre dell’anno successivo, il numero speciale fu dedicato al socialismo scandinavo, «paesi civilissimi» che, commentava il direttore, «insieme all’Inghilterra costituiscono quel nucleo di democrazie nordiche nelle quali cerchiamo conforto quando vogliamo credere che al socialismo si possa arrivare senza passare attraverso la dittatura»292 . In un articolo della rivista aveva chiamato Roosevelt il profeta armato, ma egli fu una delle più nobili incarnazioni del profeta disarmato. Non ignorava che Machiavelli aveva detto che i profeti disarmati sono destinati a finir male. Ma il saperlo non lo aveva mai turbato. Si chiamò lui stesso, non senza malizia, l’ultimo dei Mohicani. Tra le molte riviste cattoliche, tra le quali l’antica e autorevole «Civiltà cattolica» della Compagnia di Gesù, e nuove riviste di cultura come «Humanitas», nata nel 1946, volta alla riscoperta e alla rivalutazione dell’umanesimo cristiano di fronte all’ateismo comunista, da un lato, e all’indifferentismo religioso del mondo laico occidentale, dall’altro, o di filosofia come il «Giornale di metafisica», nata anch’essa nel 1946, diretta da Sciacca, o di associazioni, come «Studium», organo dei laureati cattolici, spicca per la forza e la novità dell’impegno antifascista e democratico il quindicinale «Cronache sociali», nato per iniziativa di un gruppo di giovani docenti, formatosi attorno a Giuseppe Dossetti, professore di diritto ecclesiastico, e di cui facevano parte Giorgio La Pira, Amintore Fanfani, Giuseppe Lazzati, tutti e quattro eletti deputati all’Assemblea costituente. Il primo numero uscì il 30 maggio 1947. La rivista fu l’espressione di un movimento di opinione cui si volle dare il nome di «dosset292 P. Calamandrei, Scandinavia e Italia, in «Il Ponte», IX (1953), pp. 1591-92.

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tismo», ideologicamente indipendente, se pure all’interno della democrazia cristiana, fortemente convinto che il partito cattolico dovesse promuovere la democrazia sociale, avversario della politica economica liberale di Einaudi, accettata da De Gasperi, favorevole, attraverso la collaborazione dell’economista Federico Caffè, a una politica economica keynesiana. Nel numero 1 del 1950, in un articolo intitolato L’attesa della povera gente, seguito da Difesa della povera gente (n. 5-6), La Pira scriveva che «costruire una società cristianamente significa costruirla in guisa che essa garantisca a tutti il lavoro, fondamento della vita, e, col lavoro, quel minimo di reddito necessario per il pane quotidiano»293 . Tra gli uomini di pensiero e azione nel mondo cristiano294 , La Pira è stato certamente uno dei più singolari: nato nel 1904, siciliano d’origine, ma fiorentino d’adozione, deputato alla Costituente e in successive legislature sino alla morte (5 novembre 1977) sindaco di Firenze quasi ininterrottamente dal 1951 al 1965, è un cristiano la cui profonda fede, vissuta anche personalmente con rara coerenza (viveva in una cella del Convento di San Domenico), non conosce frontiere né ideologiche né politiche. Considera sua missione stare vicino agli uomini del potere ma non essere mai esclusivamente uno di loro. Come sindaco di Firenze, agisce più per impulso umanitario che per calcolo politico quando esprime la propria solidarietà agli operai che hanno occupato le Officine della Pignone nel 1953, e con quelli delle Officine Galileo nel 1958. Consapevole della minaccia che 293 Cito dalla raccolta postuma di scritti vari, L’attesa della povera gente, Firenze 1978, p. 28. 294 In questa rassegna tralascio naturalmente di parlare di coloro che hanno svolto la parte preponderante della loro azione nella vita politica, perché sono stati protagonisti di un’altra storia, da De Gasperi a Gonella, da Fanfani a Moro, da Togliatti a Nenni.

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incombe sull’umanità nell’era atomica, promuove iniziative di pace sia con interventi personali, andando a Mosca e a Santiago del Cile da Allende, in Israele al Cairo, visitando Hanoi durante la guerra del Viet Nam, sia organizzando convegni internazionali per la pace e la civiltà cristiana, e dei sindaci delle capitali del mondo, sino a che nel settembre 1967 viene eletto presidente della Federazione mondiale delle città gemelle. Guidato da una concezione profetica della storia e conseguentemente della politica avrebbe incontrato sulla sua strada negli ultimi anni il messaggio di Gandhi della non-violenza dei forti. I suoi scritti dispersi sono stati raccolti dopo la morte in alcuni volumi, tra cui L’attesa della povera gente (1978), Le premesse della politica. Architettura per uno stato democratico (1978 (1978), Il sentiero di Isaia (1979). Molte e varie le riviste dell’area di Terza Forza, che si presentò ben presto in pubblico con due convegni, rispettivamente a Milano il 4 e 5 aprile 1948 e a Firenze il 10 e 11 luglio dello stesso anno295 , con l’intendimento, ferma restando la scelta dell’Occidente, di raccogliere una specie di partito aperto cui aderissero senza una formale organizzazione repubblicani, socialdemocratici, ex-azionisti, liberali, indipendenti, un partito che restò sempre un’esigenza insoddisfatta, non diventò neppure raggruppamento e rimase un movimento d’opinione, rappresentato proprio dalla pluralità e varietà delle pubblicazioni periodiche. Tra queste «Comunità» che nacque nel marzo 1946 per iniziativa di Adriano Olivetti, diventata nel 1949 organo del Movimento di Comunità; «Tempo presente» mensile, nata diedi anni dopo, ad 295 Gli atti del Convegno milanese sono stati pubblicati recentemente, a cura di L. Mercuri, Sulla terza forza, Roma 1985. Vi compaiono vecchi e autorevoli antifascisti come Salvatorelli, Riccardo Bauer, Mario Paggi, economisti come Guido Carli, Giovanni Demarca e Fernando Di Fenicio. Le conclusioni furono tratte da Ferruccio Parri.

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opera di Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone, entrambe per la qualità dei collaboratori e per i temi trattati, la funzione degli intellettuali, Occidente e Oriente, democrazia e socialismo, il futuro della democrazia, di alta dignità culturale; «Nord e Sud», mensile, nata a Napoli, diretta da Francesco Compagna, d’ispirazione crociana, espressione del meridionalismo democratico. Merita una menzione a parte «Il Mulino», che vive da più di trentacinque anni, essendo stato fondato nel 1952 da un gruppo di giovani bolognesi appena usciti dall’università, di cui è stato in tutti questi anni garante della continuità Nicola Matteucci, storico e teorico della grande tradizione liberale dell’Occidente. Nata da un’alleanza fra socialisti e liberali cattolici e laici, ha promosso, con dibattiti e convegni, la conoscenza dei maggiori sviluppi della filosofia e della scienza politiche contemporanee. Meglio di ogni altro giornale ha rappresentato i fasti e i nefasti, le grandi speranze e le grandi illusioni della Terza Forza, «Il Mondo», settimanale, coi suoi tre lustri e più (1949-1966) durante i quali ha alimentato un dibattito serrato contro i nemici dell’«Italia della ragione», che è rimasta un’Italia politicamente di minoranzaà296 . Fu definito intransigentemente antifascista in nome dell’intelligenza, intransigentemente anticomunista in nome della libertà, intransigentemente anticlericale in nome della ragione297 . Ebbe una funzione notevole nella formazione di una opinione pubblica moderna libera e colta, 296 L’Italia della ragione e Italia di minoranza sono i titoli di due lavori di Giovanni Spadolini (Firenze, 1978 e 1983), che raccolgono scritti vari in cui il tema della Terza Forza è dominante. Dello stesso autore si veda anche L’Italia dei laici, Firenze 1980, e La ragione del «Mondo» (1949-1966), Milano 1983. 297 Così Vittorio Gorresio nella Prefazione a P. Bonetti, «Il Mondo», 1949-1966. Ragione e illusione borghese, Bari 1975, p. XIII.

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analizzando senza pregiudizi, senza miti tramandati acriticamente e senza illusioni rivoluzionarie, la società italiana nella direzione di un possibile incontro fra la cultura liberale più progredita e quella socialista refrattaria alle seduzioni dell’uomo nuovo, mettendo l’accento sui problemi concreti che il paese doveva affrontare per diventare un paese civile piuttosto che su nuovi «ismi» che allietano (e turbano) i sonni dei filosofi. Non sono molti gl’intellettuali militanti di almeno due generazioni che non siano passati attraverso le colonne del giornale: Croce, Einaudi e Salvemini, Carlo Antoni e Guido Calogero, crociati (o non dimentichi della lezione crociana), come Garosci e Valiani, un anticrociano intelligente e velenosissimo come Arrigo Cajumi, un giovane storico dell’Italia post-unitaria come Giovanni Spadolini, scrittori della nuova generazione come Vittorio De Caprariis ed Enzo Forcella, accanto a uomini politici di primo piano come Basso, La Malfa e Riccardo Lombardi. L’ispirazione fondamentale della rivista è liberale, nella versione più tradizionalistica di Panfilo Gentile (che tiene per circa due anni il Diario politico) e in quella più innovativa di Ernesto Rossi, uno degli scrittori più fecondi del gruppo, pugnace, arguto, amante delle idee chiare e distinte, einaudiano in economia, salveminiano in politica, i cui libri in difesa della libertà economica e della libertà religiosa, Lo Stato industriale (1952 ), Il malgoverno (1954), I padroni del vapore (1955), Aria fritta (1957), Il manganello e l’aspersorio (1958), Elettricità senza baroni (1963), rappresentano una sorta di vademecum per cercare di capire un paese che alleva, nonostante tutto, alcuni «pazzi melanconici» che combattono per ideali in cui credono pur non avendo alcuna speranza di realizzarli, e sono sempre testardamente illuministi e inesorabilmente sconfitti nonché naturalmente scontenti (i tre partiti della Terza Forza, il socialdemocratico, il repubblicano, il liberale ottennero nelle elezioni del 1953,

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tutti e tre insieme, il 9 e mezzo per cento dei voti!). L’approdo politico del giornale fu il centro-sinistra, salutato come il primo traguardo di una democrazia ormai matura: ma fu una vittoria di breve durata, che rese ancora più amara la delusione di chi vi aveva riposto le proprie (incaute) speranze. L’ultimo numero apparve l’8 marzo 1966, caduto da due mesi il terzo governo Moro, cui era successo un governo monocolore della democrazia cristiana (presidente del consiglio Giovanni Leone). Nel congedo, Mario Pannunzio, che era stato il grande mediatore, scrisse in solenne e alto stile tocquevilliano (Tocqueville era stato una delle fonti d’ispirazione di De Caprariis): «Domina soprattutto, in Italia, la presenza di un potere radicato e penetrante, di un governo segreto, morbido e sacerdotale, che conquista amici ed avversari e tende a snervare ogni iniziativa e ogni resistenza». Al di fuori dei partiti, degli schieramenti, non legato a questa o a quella rivista in particolare, ma presente in molte di quelle citate, fu Arturo Carlo Jemolo, storico e giurista di professione, moralista per vocazione, e come tale osservatore attento ed acuto anche di quei fatti minimi che gli storici considerano irrilevanti. Cattolico di fede profonda e liberale per lunga e maturata riflessione, «malpensante» com’egli stesso si definisce, non crede che le ideologie siano destinate a salvare il mondo. Per lui la dottrina di salvezza è una sola. Se l’individuo è destinato a salvarsi dipenderà da un rinnovamento morale, che nessuno può prevedere e tanto meno provocare con qualche ricetta ben confezionata, che lascia spesso il tempo che trova. I disegni della provvidenza sono infiniti, e dalla stirpe di Caino sono pur nati i profeti, i santi e uomini di carità e di sapienza. Accanto a un libro di severa ricerca storica, Chiesa e stato in Italia negli ultimi cento anni (Torino, Einaudi, 1948), pubblicò varie raccolte di scritti occasionali, nei quali lo storico di oggi potrebbe trovare una cronaca dei principali avvenimen-

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ti del nostro paese rivissuti in spirito di libertà e senza illusioni: Italia tormentata (Bari, Laterza, 1951), Società civile e società religiosa (Torino, Einaudi 1959) Questa repubblica (Firenze, Le Monnier, 1978). Nel 1954 pubblica alcune riflessioni su La crisi dello stato moderno (Bari, Lacerza) in cui scopre e addita le crepe sempre più visibili dello stato che ha sotto gli occhi, ma non ne vede sorgere uno nuovo e affida le sue tenui speranze a un «soffio animatore», a un «afflato morale», dal quale soltanto possono sorgere forme nuove e imprevedibili298 . Il centro-sinistra aveva posto il tetto su un edificio che avevi, deboli fondamenta. In realtà l’appuntamento storico fra cattolici e socialisti avvenne quando i socialisti rappresentavano una parte soltanto del movimento operaio: nelle elezioni del 1963 i due partiti socialisti insieme avevano ottenuto il 5% in meno dei voti conquistati dal solo Partito comunista in rapida ascesa. Il più forte dei due partiti era stato ulteriormente indebolito dalla scissione del PSIUP avvenuta nel gennaio 1964. La sinistra intellettuale era agitata da fremiti di rivolta, sia nei riguardi del tradizionale opportunismo socialista che aveva rinunciato alla propria forza eversiva per entrare nella stanza dei bottoni (posto che questa esistesse, i bottoni erano rimasti saldamente nelle mani del partito più force), sia nei riguardi della tendenza al compromesso dei comunisti. Ancora una volta lo spostamento verso il centro di una parte del movimento socialista suscitava per contraccolpo una radicalizzazione a sinistra. Così accadde che all’inizio degli anni Sessanta, quando ormai la ricostruzione materiale e politica del paese era compiuta, le istituzioni democratiche consolidate, negli anni in cui anche nell’ordine internazionale si 298 A. C. Jemolo, La crisi dello stato moderno, Bari 1954 p 184. Di notevole interesse il libro autobiografico Gli anni di prova, Venezia 1909.

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profilava all’orizzonte un’era di pace, bruscamente interrotta dalla morte di Giovanni XXIII (giugno 1963), dall’assassinio di Kennedy (novembre dello stesso anno) e dalla defenestrazione di Krusciov (ottobre 1964), affiorano i primi segni di una rinascita della mai spenta, sotto le «ceneri di Gramsci», sinistra extra-parlamentare, che riprende alcuni dei temi ricorrenti dell’antiparlamencarismo: autonomia del movimento operaio, democrazia diretta, consigli operai. Nel 1961 Raniero Panzieri che proviene dall’ala morandiana del Psi dà vita, insieme con alcuni amici, ai «Quaderni rossi» che possono a buon diritto essere considerati come la «matrice teorica della nuova sinistra degli anni sessanta»299 , di una sinistra che merce in discussione le tradizionali organizzazioni di classe, il partito e il sindacato, e si collega direttamente, senza intermediazioni, alle lotte in fabbrica. Fallito il riformismo che, secondo questa interpretazione del movimento operaio, non può non fallire, è di nuovo aperta la strada rivoluzionaria, che parte necessariamente dai luoghi di lavoro dove l’apparente democrazia del sistema politico è contraddetta dal persistente dispotismo all’interno delle fabbriche. Dalla prima scissione dell’incipiente Movimento, conseguenza naturale del settarismo dei piccoli gruppi in rivolta, che si moltiplicano, indebolendosi, nel decennio successivo, nasce una nuova rivista «Classe operaia» di Mario Tronti, che nel 1966 scriverà Operai e capitale, uno dei testi fondamentali della contestazione giovanile che ha inizio nelle università l’anno successivo. 299 Così Sandro Mancini nella Introduzione a R. Panzieri, Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, Torino 1972, p. VII.

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15 VERSO UNA NUOVA REPUBBLICA?

L’ultimo saggio di Panzieri (morto improvvisamente nel 1964) era intitolato Uso socialista dell’inchiesta operaia. Scritto nel settembre 1964 come premessa al dibattito sull’inchiesta che i «Quaderni rossi» avevano intrapreso sulla coscienza operaia e non riusciranno a condurre a termine, fu pubblicato postumo l’anno dopo. Prendendo netta posizione contro la diffidenza dei marcisti e in genere della cultura di sinistra nei riguardi della sociologia considerata come scienza borghese, Panzieri spiegava che il marxismo era nato come sociologia e in quanto sociologia era scienza, se pure, a differenza della sociologia borghese, una «scienza della rivoluzione», e pertanto il metodo dell’inchiesta era un metodo che avrebbe dovuto «permettere di sfuggire a ogni visione mistica del movimento operaio» e garantire un’osservazione rigorosa e coerente, qual è propria della scienza che ha da essere autonoma rispetto alla ideologia300 . Questo scritto di un marxista come Panzieri mostrava quanto ampia fosse ormai nel nostro paese la diffusione delle scienze sociali la cui crescita il predominio di filosofie antiscientifiche nei primi anni del secolo e il fascismo poi avevano ostacolato. La prima rivista sociologica, «Quaderni di sociologia», era nata per iniziativa di Abbagnano e Ferrarotti nel 1951; il primo congresso naionale dei sociologi costituiti in associazione si era svolto a Milano nel 1958, seguito l’anno dopo da un Congresso internazionale a Stresa cui erano intervenuti alcuni dei 300 R. Panzieri, Uso socialista dell’inchiesta operaia, in Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, Torino 1976, p. 92.

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maggiori sociologi del tempo, come Parsons, Merton, Aron, le cui opere erano state lette, discusse e rapidamente assimilate dalla generazione che si affacciava agli studi dopo il Cinquanta. Si era cominciato a discutere del ruolo del sociologo e di conseguenza della funzione della scienza empirica della società e di tutte le tecniche di ricerca che le sono proprie, nella politica di sviluppo di un paese in rapida trasformazione. A cura del Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale sorto a Milano nel 1947 fu organizzato nel novembre 1961 un convegno su «Sociologi e centri di potere sociale in Italia». Nella relazione introduttiva, Renato Treves poneva chiaramente il problema del rapporto che, a differenza dell’intellettuale tradizionale, doveva avere l’intellettuale di tipo nuovo, il sociologo, coi policy makers, cioè con tutti coloro che dispongono del potere e prendono le decisioni nei più diversi settori301 . Si assisteva al passaggio, che sarebbe diventato sempre più evidente negli anni successivi, dall’intellettuale-ideologo all’intellettuale-esperto. La storia delle idee si va intrecciando con la storia dello sviluppo delle scienze della società, l’economia, la scienza politica, la sociologia. Lo stesso marxismo viene ornai proposto e difeso non tanto come ideologia ma come scienza della società. Nascono gruppi e centri di ricerca. Si moltiplicano le riviste specializzate. I dibattiti accademici tra filosofi e le varie scuole filosofiche cedono il passo alle discussioni fra competenti (spesso altrettanto accademiche) sull’interpretazione da dare ai profondi mutamenti della società italiana, che vengono percepiti quasi sempre in ritardo. La contestazione del ’68 scoppia improvvisa nelle università. Nessuno, tanto meno i docenti, l’avevano prevista. Da anni si trascinava pigramente da un ministro al301 R. Treves, Sociologi e centri di potere in Italia, in AA. VV., Sociologi e centri di potere in Italia, Bari 1962, p. 6.

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l’altro un disegno di riforma, sempre rinviato, sempre respinto. Le uniche riforme che hanno trasformato radicalmente la composizione e l’assetto delle nostre università furono quelle introdotte a tamburo battente per la spinta della contestazione, la liberalizzazione degli accessi, che raddoppiò in pochi anni il numero degli studenti, e la liberalizzazione dei piani di studio, che nei primi anni di libertà anarchica favorì, specie nelle facoltà umanistiche, superficialità e dilettantismo. L’anno prima della rivolta degli studenti, che si sarebbero mossi verso l’occupazione delle sedi universitarie come se si fosse trattato della conquista del Palazzo d’inverno, era apparso un libro sulla riforma universitaria, trattata da un rigoroso punto di vista tecnocratico, L’università come impresa, di Gino Martinoli (Firenze, La Nuova Italia, 1967)302 , ispirato al criterio dell’efficienza, che di lì a poco sarebbe stato considerato il movente esclusivo e perverso del «piano del capitale». Negli ultimi anni il tema centrale del dibattito politico, sulla natura, le istituzioni e il futuro della democrazia, era passato dalle mani degli ideologi a quelle degli studiosi, che della democrazia in generale e della democrazia italiana in particolare analizzavano i meccanismi e mettevano in evidenza i limiti303 . Nel 1957 usciva il libro di Giovanni Sartori, Democrazia e definizioni, edito da Il Mulino (l’anno successivo apparve una seconda edizione), opera di solida cultura universitaria anche 302 Si tratta dell’opera di Gino Martinoli, che ha cercato di applicare all’università la tecnica dell’organizzazione aziendale, mentre il Movimento studentesco avrebbe voluto trasformarla in una assemblea rivoluzionaria permanente. 303 Tra i precedenti della interpretazione polemica del nostro sistema politico sono da ricordare gli scritti di Giuseppe Motorini, tra i quali la raccolta di articoli vari, Il tiranno senza volto, Milano 1963, in cui una sezione è intitolata La frode partitocratrica.

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se non faceva mistero del proprio orientamento ideologico nella direzione della democrazia liberale. Dieci anni dopo usciva Il bipartitismo imperfetto (Bologna, Il Mulino, 1966) di Giorgio Crolli, che offriva una prima documentata e convincente spiegazione della incompiutezza del nostro sistema democratico, in cui dei due maggiori partiti rappresentanti rispettivamente delle due maggiori sub-culture, quella cattolica e quella socialista, il primo era sempre al governo, il secondo sempre all’opposizione. Questa tesi fu contestata l’anno successivo da Sartori che contrappose alla categoria del bipartitismo imperfetto quella del pluralismo polarizzato, vale a dire di un sistema a molti partiti di cui quelli di centro sono affiancati tanto alla loro destra quanto alla loro sinistra da partiti fuori del sistema304 . Nell’età che fu chiamata con eccesso di precipitazione ma non del tutto a torto della «fine delle ideologie», erano andati prevalendo gli studiosi sugli ideologi in tutti i campi, dall’economia, in cui il dibattito sulla pianificazione animò gli anni del centrosinistra, alla sociologia, in cui si svilupparono studi sulle classi sociali, sui gruppi di pressione e sui sindacati, sull’organizzazione del lavoro, sul fenomeno nuovo e sconvolgente dell’emigrazione interna, in generale sulla trasformazione del paese da società prevalentemente contadina in società industriale. L’esplosione sessantottesca di ideologie esasperatamente sovversive e catastrofiche deve essere considerata anche come una reazione giovanile al progressivo adattamento di una società in trasformazione all’etica della 304 G. Sartori Bipartitismo imperfetto o pluralismo polarizzato?, in «Tempi moderni», n. 31 (1967), pp. 1-34, ora, insieme con altri scritti sul tema, in Teoria dei partiti e caso italiano, Milano 1982, pp. 7-44. Per una diversa interpretazione del «caso italiano», vedi P. Farneti, Il sistema dei partiti in Italia 1946-1979, Bologna 1983 (edizione inglese, The Italian System, London 1985).

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convivenza propria della società dei consumi e del benessere senza ideali, che era ormai ben diffusa in paesi più progrediti del nostro: la richiesta dell’immaginazione al potere era una sfida alla banalità del quotidiano e alla mediocrità del governo giorno per giorno. Come reazione emotiva a un processo di trasformazione lenta, profonda e a tempo indefinito, fu insieme irruente e di breve durata. Ma per quel che riguarda l’ispirazione etica più profonda del Movimento, la lotta contro ogni forma di emarginazione sociale, che ebbe uno dei suoi testi nella Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani, pubblicata nel maggio 1967, un mese prima della morte, fu allora che nacque quell’onda lunga che oggi è arrivata sino agli ecologi e ai pacifisti. Della miriade di riviste effimere che il Movimento produsse turbinosamente, quella destinata a vita più lunga e culturalmente più solida (ebbe in Franco Fortini uno dei suoi maggiori collaboratori) furono i «Quaderni piacentini», diretti da Piergiorgio Bellocchio. Nata nel 1962 come rivista di critica di sinistra anticonformistica, accolse dal 1968 in poi scritti provenienti da vari gruppi extra-parlamentari tra i quali quelli della Freie Universitat di Berlino, e diede voce al movimenta studentesco italiano con l’articolo di Guido Viale, Contro l’Università (febbraio 1968). La critica delle ideologie tradizionali, ivi compresa quella del grande partito della classe operaia che sta sprofondando nelle sabbie mobili della società capitalistica, procede parallelamente con la critica spietata degli intellettuali come classe che pretende di essere a se stante, e della loro tendenza all’autocelebrazione. In uno dei primi numeri era apparsa una nota anonima intitolata Congedo di un intellettuale dagli intellettuali. Paradossalmente, dunque, dall’estrema sinistra proveniva quello stesso vento impetuoso destinato ad abbattere il regno dell’intelligenza (il cui trono si era rivelato ormai di cartapesta) che soffiava ormai anche dalla spon-

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da opposta. La fine delle ideologie e la critica radicale delle ideologie ebbero lo stesso esito, il decreto di morte dell’intellettuale come portatore d’idee, in nome, là della inevitabilità della trasformazione tecnologica, qua della generazione spontanea della rivoluzione305 . Ciononostante, carattere fortemente intellettualistico ebbero in generale le opere degl’ideologi della nuova sinistra, che oggi, a distanza di poco più di un decennio, ci appaiono come incapaci non solo di comprendere la realtà del loro tempo, tutte protese a mettere in risalto la «centralità operaia», ancora una volta il proletariato come Soggetto rivoluzionario, in un momento in cui il sindacato si andava sempre più trasformando in uno degli attori dello «scambio politico», ovvero del Grande compromesso, del compromesso sociale, che sarebbe diventato il vero compromesso storico del nostro tempo, ma anche di guidarlo nella direzione desiderata, tanto insistentemente proclamata quanto inattuale e inattuata. Proveniente da studi di filosofia giuridica e politica, di tutti gli scrittori della sinistra rivoluzionaria, Antonio Negri sembra essere insieme il più ferrato nella teoria e il più radicale nella pratica: nel decennio 1970-80 alterna scritti di teoria politica e di critica della società presente, che hanno grande risonanza d’idee e di fatti, in cui respinge il keynesismo come ideologia del capitalismo dell’era socialdemocratica, reinterpreta Marx alla luce della nascita dell’operaio sociale, trae lezioni di strategia per la conquista del potere dalla rilettura di Lenin. Predica, contro il vecchio mito della sinistra operaia, il rifiuto del lavoro e l’appropriazione immediata, ad opera degli 305 Per un’analisi dei «Quaderni piacentini» e di altre riviste della sinistra radicale, «Classe e stato», «Classe operaia», «Contropiano», «Nuovo impegno», si veda Cultura e Ideologia della nuova sinistra, a cura di G. Bechelloni, Milano 1973.

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espropriati, della ricchezza prodotta306 . Contro il dispotismo in fabbrica indica come rovesciamento della condizione esistente l’«autovalorizzazione operaia», intesa come ogni forma di azione con cui la classe oppressa si riappropria del potere e della ricchezza contro i meccanismi capitalistici di accumulazione307 . Crede infine con impeto nell’attualità della rivoluzione in Italia per germinazione spontanea e nella violenza redentrice308 . In questa atmosfera di smobilitazione della grande tradizione del pensiero politico ottocentesco, anche la forza ideale del marxismo finì per estenuarsi. Sarebbe eccessivo parlare di crisi del marxismo, ma una perdita di egemonia ci fu. La sua fortuna era stata strettamente collegata nei primi vent’anni al successo non solo italiano dell’opera di Gramsci, che fu consacrato nel convegno internazionale che si svolse a Cagliari nel 1968 in occasione del ventesimo anniversario della morte. Nel 1975 fu presentata a Parigi con la partecipazione di studiosi di vari paesi la nuova edizione critica in quattro volumi dei Quaderni del carcere, curati con rigore filologico da Valentino Gerracana: il maestro ideale di una generazione di comunisti che aveva dato vita al «partito nuovo» era ormai diventato un classico da leggere e da studiare. Negli anni della contestazione ebbe un quarto d’ora di straordinaria popolarità il marxismo spurio, ma carico di umori corrosivi nei riguardi della società capitalistica, di Herbert Marcuse, che proveniva dalla Scuola di Francofor306 Si vedano soprattutto John M. Keynes e la teoria capitalistica dello stato, in AA. VV., Operai e stato, Milano, 1972, pp. 69-100; La fabbrica della strategia. Trentatre lezioni su Lenin, Padova 1976; La forma Stato. Per la critica dell’economia politica della Costituzione, Milano 1977. 307 A. Negri, Il dominio e il sabotaggio, Milano 1978, p. 38. 308 Arrestato il 7 aprile 1979, scrive in carcere una monografia su Spinoza, L‘anomalia selvaggia, Milano 1981.

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te, e le cui opere politiche principali furono tradotte una dopo l’altra in rapida successione, Eros e civiltà nel 1964, L’uomo a una dimensione, la bibbia del movimento studentesco, nel 1967, Critica della tolleranza nel 1968. Più circoscritto e limitato all’ambiente dei dotti fu il dibattito sul marxismo strutturalistico e anti-umanistico di Louis Althusser, tanto rigidamente dottrinario, quanto politicamente sterile, la cui opera più nota, Per Marx, fu presentata al pubblico italiano (Roma, Editori Riuniti, 1967) da Cesare Luporini, lo studioso più serio e dotto del pensiero di Marx in Italia309 . Del quale uscì nel 1974 l’opera complessiva Dialettica e materialismo (Roma, Editori Riuniti), nello stesso anno in cui Lucio Colletti, il critico filosoficamente più agguerrito del materialismo dialettico, pubblicava la sua Intervista politico-filosofica (Bari, Latenza), ove riassumeva il proprio itinerario mentale, la cui tappa principale era stato il volume di critica marxistica, Il marxismo e Hegel (Bari, Latenza, 1969). Dopo la critica radicale della società sovietica, proveniente anche dall’estremismo di sinistra, spontaneista e quindi antiburocratico, con venature libertarie e quindi antiautoritario, allo stato-guida non credeva più nessuno. Mentre la destra eversiva aveva sempre combattuto la democrazia in quanto tale, in nome dei sacri principi dell’autorità e dell’ordine, o di quello meno rozzo dell’armonia sociale, la sinistra eversiva la combatteva perché era un regime di falsa libertà, dove l’alienazione umana era il prodotto del sistema economico che la democrazia tollera e, indifesa o connivente, lascia prosperare: se non era soddisfatta della combinazione di democrazia poli309 L’opera maggiore, scritta insieme con Stefano Balibar, Leggere il Capitale, esce l’anno dopo (1968). Un dibattito sulle tesi di Althusser, riguardanti lo stato, viene pubblicato col titolo Discutere lo stato. Posizioni e confronto su una tesi di L. Althusser, Bari 1978.

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tica e dispotismo economico, non era altrettanto soddisfatta della congiunzione storica, tra collettivismo economico e dispotismo politico. Lo stesso partito comunista, che aveva criticato nell’estate 1968 l’invasione della Cecoslovacchia da parte dei carri armati sovietici, attraverso un lento ma progressivo sottrarsi all’egemonia dello stato-guida, giungerà alla fine del 1982 con il discorso di Berlinguer sullo «strappo» a dichiarare che la spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre era ormai esaurita. Affievolito sin quasi alla totale estinzione il potere ideologico del paese della rivoluzione, l’area principale in cui continuò a svolgersi, e si svolge tuttora, il dibattito delle idee, è quella comune a tutti i paesi dell’Occidente democratico e capitalistico, tra fautori dell’economia di mercato, e di conseguenza dello stato minimo in conformità della tradizione liberale, e propugnatori di un’economia programmata, e quindi di uno stato sociale che, assumendosi il compito non solo di regolare il traffico ma anche di dirigerlo, non può rinunciare a porsi il problema della giustizia distributiva. Anche il dibattito sul marxismo diede particolare risalto al problema del rapporto fra pensiero di Marx e democrazia. Gli stessi intellettuali comunisti abbandonarono completamente l’idea della democrazia progressiva d’incerta interpretazione per non parlare della dittatura del proletariato che avevano accantonato da tempo, ed erano ormai diventati più importanti per tutti lo sviluppo e il perfezionamento della democrazia reale che non l’interpretazione di quello che il padre del materialismo storico e i suoi seguaci avevano detto o non detto sulla natura della democrazia. Al Festival nazionale dell’Unità di Napoli del settembre 1976 uno dei temi del dibattito fu il «pluralismo», la cui proposta da parte della direzione del partito comunista stava a dimostrare che non si aveva più paura di affrontare temi scabrosi: che cosa poteva essere più del plurali-

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smo in antitesi a tutta la tradizione dell’unità della classe e del partito e dello stato? Al di fuori della fitta produzione di scritti da parte della sinistra radicale e dell’emergere 1970-1980 il movimento delle della destra radicale, nel decennio idee nell’area del pensiero democratico mostrò una certa stanchezza, una stanchezza del resto che corrispondeva al procedere insicuro, apparentemente senza bussola, tra insidiosi, e spesso anche sanguinosi, agguati da sinistra e da destra, del sistema di potere, frantumato in quei dieci anni in una dozzina di governi sino all’avvento del governo Andreotti, cosiddetto della «solidarietà nazionale» del marzo 1978, che avrebbe dovuto aprire la strada al compromesso storico, poi morto prima di nascere (di storico in quell’anno non avvenne che il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro). Anche il tempo della filosofia militante era finito. Nel 1972 Emanuele Severino, che nel 1964 aveva iniziato il suo corso di annunciatore del fatale errore in cui era caduca tutta la filosofia occidentale, con il saggio Ritornare a Parmenide, raccoglieva i suoi principali scritti nel volume L’essenza del nichilismo. Nel 1974, appena spenti gli echi delle celebrazioni hegeliane in occasione del secondo centenario dalla nascita, Gianni Vattimo dedicava la sua prima opera di forte impegno teoretico al grande antagonista, Federico Nietzsche, Il soggetto e la maschera, e capeggiava l’inversione di rotta del pensiero «forte», di cui Hegel era stato l’ultimo campione nella filosofia dell’Occidente, verso quello che sarebbe stato chiamato, non per spregio ma con autocompiacimento, il «pensiero debole»310 . Nel 1979 usciva una raccolta di saggi a cu310 Per un’informazione generale sul tema, essenziale il volume Il pensiero debole, a cura di G. Vattimo e P. Rovatti, Milano 1983. Dalla critica di C. A. Viano, Va’ pensiero, Torino 1985, è nata una polemica dai toni forti.

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ra di Aldo Gargani all’insegna di La crisi della ragione. Ma la crisi della ragione può essere intesa in due sensi: come crisi del razionalismo classico, di cui l’antagonista altrettanto classico è stato l’empirismo (e in questo senso non sarebbe stata una grande novità) oppure come irrazionalismo, di cui una delle conseguenze in sede pratica è la ricerca della salvezza nell’azione per l’azione311 . Un movimento di destra radicale, eversiva, irrazionalistica, aveva continuato a sopravvivere in piccoli drappelli nel sottosuolo tanto che uno dei suoi fogli, al momento dell’uscita allo scoperto nel settembre 1974, si chiamerà, con evidente intento auto-ironico, «La Voce della fogna». Nel nostro paese oltretutto aveva sempre avuto un maestro indiscusso, autorevole, ammirato e invidiato anche altrove, Julius Evola, autore sin dal 1934 di uno dei testi-guida, Rivolta contro il mondo moderno, in cui aveva esposto una dottrina di sapienza esoterica ispirata al tema del ritorno alla tradizione contro la degenerazione della civiltà moderna, materialistica in filosofia, sovvertitrice dell’ordine naturale gerarchico in politica. Nel 1953 pubblica Gli uomini e le rovine, apparso con una prefazione di Junio Valerio Borghese, con intendimenti immediatamente politici. In Cavalcare la tigre, del 1961, predica all’uomo superiore che vive in un mondo ove non vi è nulla per cui valga la pena di combattere il supremo distacco, l’«apolita», che può essere interpretata o come sdegnosa attesa di un tempo migliore oppure come supremo impegno per una milizia eroica. Quando l’eccitamento ideologico e l’attivismo pratico dell’estrema sinistra cominciavano a placarsi, si risvegliò la destra eversiva: nel 1977 esce la rivista «Costruire l’azione» 311 Sul tema vedansi La cultura filosofica italiana dal 1945 al 1980 nelle sue relazioni con altri campi del sapere, Napoli 1982; La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi, Bari 1985; e Dove va la filosofia italiana?, a cura di J. Jacobelli, Bari 1986.

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che predica la morte dell’ideologia, donde nasce il progetto, e subito dopo la cruenta pratica, dello «spontaneismo armato». Non senza influenza della «nouvelle droite» francese, guidata da Alain de Benoist, la cui poderosa summa del pensiero reazionario Vue de droite (1977) viene tradotta nel 1981, a cura di Marco Tarchi, nasce anche in Italia la Nuova destra, che ha come principale organo di diffusione delle proprie idee la rivista «Elementi», e promuove convegni di studi politici, da cui escono raccolte di scritti, orientati verso l’Al di là della destra e della sinistra (Roma, Libreria Editrice Europa, 1982) e Le forme del politico (Firenze, La Roccia di Erec, 1984), dove lo stesso de Benoist contro liberalismo egualitario e totalitarismo livellatore riprende il tema tradizionale di ogni dottrina di destra, l’inegualitarismo312 . All’inizio dell’ultimo decennio, chiuso il periodo dei torbidi (la strage alla stazione di Bologna è dell’agosto 1980), con la sconfitta, se pur non definitiva, del terrorismo, specie di quello di sinistra, con i clamorosi arresti del 7 aprile 1979, interrotta, se non bloccata, la politica senza qualità dei governi di transizione con l’elezione di Sandro Pertni alla presidenza della Repubblica (luglio 1979) e con il governo del primo presidente del consiglio non democristiano, Giovanni Spadolini nel 1981, il dibattito teorico sulla democrazia è stato ripreso con rinnovato vigore, ancora una volta in seguito all’attrazione esercitata dall’effervescente dibattito che si svolge ormai da tempo in paesi di più lunga tradizione democratica, specie negli Stati Uniti. Una delle caratteristiche della società democratica è di essere in continua trasformazio312 Sul movimento, notizie e commenti in Nuova destra e cultura reazionaria negli anni Ottanta, Cuneo 1983, e La destra radicale, a cura di Franco Ferraresi, Milano 1984, che comprende anche un saggio su Evola (A. Jellamo, Evola, il pensatore della tradizione, pp. 215-52).

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ne: si comincia a rendersi conto che le proclamate e paventate crisi sono in realtà fasi di transizione e di trasformazione. La democrazia ideale, il governo del popolo e per il popolo, non è mai esistita. Ciò che caratterizza una società democratica è la pluralità dei gruppi economici, corporativi, politici, in continua concorrenza fra loro, ma non selvaggia, perché è regolata da norme che prevedono procedure prestabilite e unanimemente accettate per risolvere i conflitti senza ricorrere all’uso della forza reciproca. La maggior parte di questi conflitti vengono risolti attraverso patteggiamenti fra le parti e accordi fondati su compromessi continuamente rinnovabili. La società democratica è dunque una società pluralistica, agonistica, animata dallo spirito della contrattazione continua. Non è stato quindi un caso se il discorso sulla democrazia reale, diversa da quella ideale la cui categoria fondamentale era la sovranità del popolo, pura e semplice inversione della sovranità del principe, e finzione altrettanto astratta, o «formula politica», come aveva detto Gaetano Mosca, sia risalito, da un lato, alle teorie contrattualistiche, che stanno alla base del pensiero democratico moderno, dall’altro, abbia avviato una riflessione sull’opera di John Rawls, Teoria della giustizia. Apparsa nel 1971, ma tradotta solo nel 1982, essa propone un modello di contratto fra esseri razionali per la costituzione di una società fondata sul rispetto delle libertà individuali e insieme mirante a soddisfare l’esigenza elementare della giustizia sociale. È molto significativo che uno studioso della giovane generazione, che pur aveva iniziato i propri studi da Marx, sia stato uno dei primi commentatori italiani dell’opera di Rawls. In una raccolta di scritti uscita nel 1980, dando per definitivamente acquisite la lealtà alle regole del gioco della democrazia, al pluralismo politico, e l’accettazione per scelta razionate di un programma politico, scrive che la sinistra democratica, di fronte al «collasso» dei modelli di socialismo, non solo quelli

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proposti ma a maggior ragione quelli attuati, deve mirare a una società razionalmente desiderabile come quella designata dal neocontrattualismo313 . Nel 1981 un tentativo di rinnovamento culturale, compiuto all’interno dell’area comunista con una nuova rivista «Laboratorio politico», non ebbe grande successo, nonostante la dichiarazione programmatica del suo principale promotore Mario Trono, che dopo aver sostenuto per anni la tesi dell’autonomia del politico, annunciò l’avvento di un’età della crisi del politico in seguito alla «frantumazione dei luoghi di comando» e ammise che nella crisi delle scienze sociali non c’era soltanto il marxismo ed era iniziata l’era del «dopo-Marx»314 . Ma che significa «dopo-Marx»? Significa, come da parte di una sinistra aperta, non dommatica, non dimentica ma neppure schiava dei sacri testi, si va dicendo, che è cominciata o meglio ricominciata una nuova stagione propizia al partito, che non è mai esistito, delle riforme. Allo scopo di dare una risposta a questa domanda nasce all’inizio del 198 la nuova rivista «Micromega» il cui direttore, Giorgio Ruffolo, aveva pubblicato l’anno precedente un’opera di analisi e di proposta, in cui si consiglia come antidoto alla «deriva corporativa una forte dose di socialismo liberale»315 . Mentre ferve il dibattito su nuovi modelli teorici per la democrazia del futuro che sembrano sempre più attratti dalla sintesi di liberalismo e socialismo, i movimen313 S. Veca, Le mosse della ragione, Milano 1980, pp. XVXVI. Dello stesso autore, successivamente, La società giusta, Milano 1982; Questioni di giustizia, Parma 1985; Una filosofia pubblica, Milano 1986. 314 M. Tronti, Cercare, pensare, lavorare sul politico, in «Laboratorio politico», I (1981), n. 1, p. 9. 315 G. Ruffolo, La qualità sociale. Le vie di sviluppo, Bari 1985, p. 289.

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ti di sinistra radicale, abbandonando la fabbrica ai robot e la «classe» ai sociologi, perseguono altre mete. Due soprattutto: la difesa dell’ambiente e la pace universale. Queste due mete sono convergenti pur nella loro diversità iniziale. Entrambe infatti mirano alla difesa del valore primordiale della vita umana, minacciata dalla distruzione progressiva delle risorse materiali necessarie alla sopravvivenza e dall’incontrollato accrescimento della potenza micidiale delle armi. Che serve parlare ancora di libertà e giustizia quando la vita non dell’individuo singolo ma dell’umanità intera non è più sicura, quando il destino non di questo o quell’uomo ma della specie è un destino di morte? L’ecologo e il pacifista sono oggi le nuove figure del pensiero radicale. Il principio etico che anima gli uni e gli altri è quello della nonviolenza. Donde la domanda, cui sarebbe prematuro e temerario dare una risposta. Chi sarà il protagonista delle rivoluzioni del futuro, posto che la società umana sia ancora capace di trasiormazioni radicali: Lenin o Gandhi? Tornando a casa nostra, dopo un periodo di «crisi permanente», caratterizzata da una serie ininterrotta di governi traballanti, ora di centro-destra, ora di centrosinistra, ora di centro-centro, che evocano l’immagine del funambolo che, dovendo restare in equilibrio sulla corda tesa, compie movimenti piccoli e rapidi per non cadere e rompersi il collo, l’ultimo decennio non ancora compiuto ha avuto inizio con anni di una sinora sconosciuta stabilità. La quale ha consentito agli ideologi in veste d’esperti di riflettere sul tempo perduto, sulle promesse non mantenute, sulla inevitabile corruzione delle istituzioni, sullo strapotere dei partiti, sulla perversione delle lotte di potere, e via via sulla ingovernabilità delle società complesse, sui malefici del benessere, sulla democrazia incompiuta o bloccata, e di cominciare a pensare se non sia il caso, alla soglia del quarantesimo anni-

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versario di questa repubblica, di proporne una diversa e, chi sa, anche migliore. Resta da domandarsi se i problemi che ci tormentano siano la conseguenza di una crisi d’autorità, come lascerebbero pensare gli uomini politici, oppure del venir meno di quella tensione ideale da cui la nostra repubblica era nata, da quella febbrile eccitazione, febbrile ma salutare, da cui traemmo l’illusione di essere entrati nell’età di un nuovo illuminismo. La mia risposta non è dubbia Ma è la risposta di un «chierico» e potrebbe essere una nuova prova di quel perenne contrasto fra gli uomini d’idee e gli uomini d’azione, la cui constatazione è stato, in queste pagine, un tema costante di riflessione.

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