Bingham Hiram - La città perduta degli Inca.doc

December 9, 2016 | Author: lecapas | Category: N/A
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Titolo originale: Lost City of the Incas Pubblicato per la prima volta negli USA con il titolo Lost City of the Incas, di Hiram Bingham Copyright © 1948 Duell, Sloan and Pearce Copyright renewed © 1976 Hiram Bingham Pubblicato su licenza di Dutton Plume, divisione della Penguin Putnam Inc. Traduzione di Francesco Saba Sardi Prima edizione: aprile 1998 © 1998 Newton & Compton editori s.r.l. Roma, Casella postale 6214 ISBN 88-8183-969-5

Hiram Bingham

La città perduta degli Inca La storia dell’avventurosa scoperta di Machu Picchu

A cura di Francesco Saba Sardi

Newton & Compton editori Edizione integrale

INTRODUZIONE

La prima edizione di Lost City of the Incas ha avuto luogo nel 1948. Il presente volume ne è la traduzione italiana, La città perduta degli Inca, pubblicata inizialmente dalla Cino del Duca, Milano, 1955, e ora ripresa dalla Newton & Compton. E’ un libro che risale dunque a un’epoca abbastanza lontana per ciò che riguarda la conoscenza del Perú preincaico e incaico, sebbene la ricerca archeologica sulla zona andina avesse avuto inizio già ai primi del Novecento, a opera di europei e statunitensi. Ma solo tra il 1920 e il 1950 è andata formandosi una schiera di archeologi locali che si sono trovati a dover correggere molte idee in precedenza accolte piuttosto acriticamente, con il contributo essenziale di studiosi europei, soprattutto italiani. Oggi, alla luce di scoperte e interpretazioni più aggiornate, siamo in grado di indicare quanto nell’opera di Hiram Bingham è ancora attuale e quanto invece deve ritenersi superato. Non sono prive di importanza, a tal fine, l’origine e la formazione di Bingham; la sua biografia contribuisce almeno in parte a spiegarne le grandissime qualità, i meriti che gli vanno giustamente attribuiti, ma anche gli errori, all’epoca della sua impresa di scoperta e della stesura di questo fondamentale volume in larga misura inevitabili, come chiarirò più avanti. Figlio di un missionario statunitense fondatore della prima missione protestante alle Hawaii, Hiram Bingham nacque a Honolulu nel 1875. Dall’ educazione ricevuta gli derivarono qualità fondamentali, sistematicità, tenacia, impavidità, ma anche alcuni difetti, e cioè una certa rigidezza e l’attaccamento a convinzioni aprioristiche, tuttavia tipici pure della scienza dell ‘epoca, soprattutto l’archeologica, assai più assolutistica e molto meno “relativistica” di quanto non possa essere oggi. Bingham studiò a Yale, a Harvard e all’Università della California. Insegnò storia a Harvard, a Princeton e a Yale. Nel 1906-1907 esplorò la strada percorsa all’inizio dell’Ottocento, attraverso il Venezuela e la Colombia, dal generale Simón Bolívar, il libertador dell’America ispanofona, nel corso delle sue operazioni militari. Nel 19081909 esplorò un’antica strada spagnola da Buenos Aires a Lima. Nel 1911, alla guida della Spedizione peruviana di Yale, scoprì le rovine dell’antica città inca di Machu Picchu e localizzò Vitcos, l’ultima capitale inca. Compì altre spedizioni tra il 1912 e il 1915 per conto della Yale University e della National Geographic Society. Partecipò alla prima guerra mondiale quale istruttore dell’aviazione USA in Francia, poi fu governatore del Connecticut e senatore repubblicano. Pubblicò numerosi saggi apparsi sul «National Geographic Magazine» e soprattutto quattro libri: nel 1911, The Ruins of Choqqequiran su un sito inca nella valle del fiume Urubamba; nel 1913, In the Wonderland of Peru sull’opera compiuta dalla Spedizione peruviana; nel 1930, Machu Picchu. A Citadel of the Incas; nel 1948, la sua opera maggiore, The Lost City of the Incas. Due sono principalmente i meriti che vanno senz’altro attribuiti a Bingham. Come autore, la chiarezza espositiva e la capacità, non soltanto di sintetizzare in maniera coerente e sistematica il quadro delle sue ricerche archeologiche, ma anche di raccontare la storia degli Inca in termini largamente accettabili. Come archeologo, fu tra i primi a concepire lo scavo e l’interpretazione dei dati quale un’attività rigorosamente scientifica, non più in buona misura

“romantica” come era invece percepita nell’Ottocento, e basterà ricordare, a riprova della differenza di approccio, le attribuzioni alquanto fantasiose di Heinrich Schliemann che credette di individuare la Troia omerica (1874) e a Micene scoprì il mègaron e le tombe dell’Acropoli da lui identificate come quelle degli Atridi (1878); e le ricostruzioni, perlomeno azzardate, del palazzo reale di Cnosso a Creta compiute dal suo scopritore (1893), Sir Arthur John Evans che ha comunque saputo proporre un’immagine non del tutto priva di validità della civiltà minoica. Bingham seppe ben più adeguatamente misurare, rilevare, fissare punti ortografici; studiò l’ambiente, i suoli, le strutture; fotografò, e tra i frutti delle sue spedizioni vanno annoverate le ben dodicimila fotografie eseguite in quelle occasioni, una cifra enorme per l’epoca, che si aggiungono ai preziosissimi disegni, piante, prospettive, alzati, sezioni. Bingham seppe evitare gli eccessi delle scuole archeologiche francesi (si pensi alle “ricostruzioni” di Carcassonne e di Notre-Dame compiute da Viollet-le-Duc), britannica con Evans e altri alquanto imprudenti “rappezzatori” (nonostante la preparazione artistica e scientifica di un Ruskin) e statunitense (alla quale si devono le manomissioni visibili in Messico, in Guatemala e altrove). Ma soprattutto, Bingham ebbe dalla sua uno straordinario colpo d’occhio e quella che è la qualità prima dell’archeologo, al di là dell’attenzione dello scrupoloso scavatore: l’intuizione. Non era certo facile individuare il sito di Machu Picchu. All’arrivo della Spedizione peruviana del 1911, la zona si presentava completamente coperta dalla vegetazione. Bingham dovette seguire, per arrivare sul sito, la valle dell’Urubamba, né poteva fare altrimenti perché a Machu Picchu, quand’era un centro ancora vivo, si arrivava dall’alto e non dal basso, mediante una strada che partiva da Cusco e che era caduta in disuso già nel XVI secolo, quando l’altura di Machu Picchu era stata abbandonata e l’intera zona, la tropicale Ceja de Selva, che è molto verde, con vegetazione a crescita rapida nonostante l’altezza (Machu Picchu si trova a 2300 metri), era andata spopolandosi. Tra la “Città perduta degli Inca” e la sottostante valle dell’Urubamba c’è un dislivello di oltre trecento metri; e se Bingham intuì che lassù potevano esserci rovine importanti, fu anche perché seppe adeguatamente leggere le cronache del XVI e XVII secolo, come quelle di Frai Antonio de la Calancha e di Fernando de Montesinos, nelle quali si accenna a città inca sconosciute ai conquistadores spagnoli. Va detto però che voci su “città perdute ” erano ampiamente diffuse fin dal XVI secolo, e che molti spagnoli si erano dedicati alla loro ricerca, attratti dalla prospettiva di trovare altro oro. Il leggendario degli “uomini dorati”, del favoloso El Dorado, occupò a lungo la fantasia dei conquistadores, come Sebastián de Belalcàzar che a Quito si sentì raccontare da un indio una storia affascinante, quella di una tribù ricchissima presso la quale si aveva usanza, morto il vecchio capo, di eleggere il nuovo e insediarlo nel corso di una complicata cerimonia durante la quale veniva spalmato di resine e coperto da capo a piedi di polvere d’oro. Storie del genere circolavano ancora abbondantemente all’epoca di Bingham – e forse sono diffuse anche oggi. Bingham ebbe dalla sua la fortuna di incontrare il prefetto della provincia dell’Apurimac (di cui fa parte Machu Picchu), il señor Nuñez che gli fornì utili

informazioni sulle leggende ma anche sulle vicende storiche e sulle caratteristiche fisiche della zona. Ebbe poi quella di incontrare un commerciante italiano, Cesare Lomellini, che gli insegnò come arrivare, lungo la valle dell’Urubamba, fino a Ollantaytambo dove la strada finiva, e bisognava allora continuare lungo la riva del fiume; ma forse l’incontro più importante Bingham lo ebbe con Melchor Arteaga di cui fu ospite e che gli parlò di rovine sulla montagna di fronte al piccolo pianoro di Mandorpampa. Il buon archeologo dove sapere afferrare l’importanza anche del minimo accenno e segnale. E Bingham, faticosamente giunto a Machu Picchu, potè procedere così all’opera di disboscamento, restauro e ricostruzione. E, soprattutto, si diede a formulare interpretazioni. Se alcune di queste appaiono indubbiamente azzeccate, altre risultano ormai inaccettabili. Cominciamo dalle prime. Bingham capì che, se gli spagnoli non avevano individuato Machu Picchu, e quindi non l’avevano devastata e depredata, era stato per una serie di ragioni: in primo luogo, la scarsa importanza politicostrategica del sito. Al di là di questo si arrivava alla foresta tropicale, e gli Inca avevano pessimi rapporti con i “selvaggi” che la abitavano. Enormemente più importante di ciò che stava oltre la cordillera, era per loro la fascia costiera; la foresta era considerata praticamente impenetrabile, immeritevole di un tentativo di conquista, estranea ai loro principi fondamentali, cioè assimilazione, integrazione, sostituzione (delle loro cultura e strutture sociali a quelle dei popoli sottomessi). Bingham si rese dunque conto che Machu Picchu era stata abbandonata dai suoi costruttori, per i quali la vita nella zona era diventata impossibile: scarso il cibo, troppo pochi gli abitanti del sito vero e proprio, e la zona circostante andava rapidamente spopolandosi. Lo stesso nome del sito era scomparso. Machu Picchu è una denominazione postincaica. In quechua, la lingua dei peruviani, machu vuol dire grande (o massima) eminenza (montana); picchu massa, volume. In altre parole, “montagna di una forma particolare”, precisamente quella del borujo, il bolo di coca. Quanto alla funzione di Machu Picchu, sono state avanzate molte ipotesi, a cominciare da quelle dello stesso Bingham che ha voluto vedervi un estremo rifugio degli Inca, cioè i componenti il ceto dirigente dell’Impero inca. Altri l’hanno interpretata come una città fortificata; un avamposto verso la foresta; un santuario del culto della luna; una città riservata alle acclas, le mogli o figlie degli Inca. Nessuna di queste interpretazioni sembra oggi attendibile, sebbene tutte abbiano dalla loro elementi in apparenza probanti. Per esempio, l’ipotesi che si trattasse di una città riservata quasi esclusivamente a donne, potrebbe sembrare confermata dal rinvenimento, a opera di Bingham, di olre centosessanta cadaveri mummificati, di cui centotrenta femminili, tutti in buono stato di conservazione, a ulteriore riprova del fatto che la città non fu distrutta dai conquistadores. Indubbiamente Bingham, formulando le sue interpretazioni, si inserì nel solco già tracciato da conquistadores e cronisti, a cominciare dal più celebre di essi, Garcilaso de la Vega el Inca, che lessero le strutture architettoniche peruviane con occhi spagnoli. Garcilaso, autore dei Commentarios reales de los Yncas, figlio di una principessa incaica e di un capitano spagnolo, visse a Cusco solo pochi anni e

trascorse il resto della sua vita in Spagna e in Europa; e Garcilaso interpretò per esempio come “fortezza” l’imponente struttura di Sacsahuaman che sovrasta Cusco, e “fortezza” definì anche il manufatto di Ollantaytambo; ma le tre cerchie di mura della prima sono volte verso la città, mentre le invasioni potevano venire solo dalla parte opposta, e al pari della seconda essa presenta porte e facili accessi; che avesse ben poco valore come fortezza, è comprovato dal fatto che durante la rivolta india di Cusco del 1536, pochi spagnoli assalirono la struttura, difesa da migliaia di ribelli, passandoli tutti a fil di spada. Si tratta in realtà di una costruzione monumentale di carattere celebrativo, palaziale, e che tale fosse è comprovato oltretutto dalle stesse strutture murarie che obbediscono al modulo cosiddetto “poligonale”, consistente cioè di massi accuratamente lavorati e inseriti in un complesso coerente, nella configurazione della maestosità: una sorta di puzzle di difficilissima realizzazione e che richiedeva operazioni quanto mai complesse; e se gli ultimi ribelli indios vi si asserragliarono, fu forse perché contarono più che altro sul significato simbolico o addiritura “magico” delle strutture. Dopo aver dato mano all’opera di disboscamento, Bingham passò alla ricostruzione di Machu Picchu, in pari tempo “battezzando” le strutture murarie riportate alla luce in base alle loro presunte funzioni, e fino al 1914 assegnando, alquanto arbitrariamente, i reperti a Yale (solo dopo quella data quelli restanti vennero consegnati al governo peruviano che li ha ripartiti tra vari musei). Uno dei suoi obiettivi, del resto, era proprio il ritrovamento di tombe, e dunque di suppellettili funerarie e di mummie, per questo offrendo cospicue remunerazioni ai contadini assoldati all’uopo. Le fantasiose denominazioni di Bingham individuarono così un “settore dei mortai”, un “settore delle prigioni”, un “settore del popolo” con un’inesistente “piazza”, un “tempio del sole” (l’unica struttura a pianta curvilinea). Decisamente arbitrarie anche le ricostruzioni da lui tentate: sovrapposizione, a cimase, di pietre di strutture trovate a terra, non di rado diverse; aperture di vani (porte, finestre ecc); e Bingham non si rese conto che l’architettura inca rispondeva sempre a una tipologia reperibile anche nelle costruzioni più prestigiose, ed è quella del recinto contadino, la cancha. O, più esattamente, la recinzione come gesto, il recingere. La lingua quechua, infatti, ignora in larga misura l’oggettualizzazione tipica di altre favelle, soprattutto le occidentali. I termini quechua, più che indicare “cose”, designano funzioni e genesi. Non tanto il “bicchiere”, dunque, quanto il “bere” (o meglio il “da-cui-bere”); più che la “piazza”, il “radunarsi”. Gli occhi occidentali vedono cose specifiche, oggetti individualizzati, laddove il quechua scorge innanzi tutto contesti: se si vuole, più la foresta che i singoli alberi. E siccome è la Parola (verbale, scritta, dipinta, cantata, danzata, costruita, scolpita…) a istituire il mondo, e la lingua è la sintesi della cultura, la manifestazione più palese del mito fondativo, ecco che la visione preincaica e incaica non può essere equiparata alle Weltanschauungen occidentali, se non con un atto di colonialismo culturale: quello dei conquistadores che vedevano il mondo peruviano in termini iberici, come quello dell’archeologo o antropologo che interpreta – cioè traduce – ciò che esperisce in “occidentalese ”.

Significativo, a tale proposito, il fatto che Bingham interpretasse come “finestre” certe soluzioni di continuità delle strutture murarie, per esempio nel cosiddetto “torrione militare”. Ma la finestrazione è un atto che consiste nell’incorniciare un paesaggio, mentre il paesaggio nel senso moderno era un’idea estranea alla linguacultura nativa, per la quale esisteva semmai il “paese”, spazio considerato sotto il profilo delle sue proprietà fisiche favorevoli o meno all’insediamento antropico. Lo stesso vale per il concetto di “porta”, che per noi implica accessibilità e chiusura, confine cioè tra l’intorno e l’interno: un’idea che non aveva corso nell’universo peruviano. Concependo un “torrione militare”, Bingham evidentemente pensò a vigilanza, vedette, osservatorio, difesa contro eventuali invasori. E, ritenendo Machu Picchu un importante centro religioso dell’Impero incaico e forse anche la sede originaria degli Inca, non tenne conto, probabilmente ignorandoli, dei precedenti architettonici e più ampiamente culturali preincaici. Al pari dei conquistadores, interpretò insomma l’architettura incaica secondo parametri euro-americani. Rilevò la presenza di trecentocinquanta fontane e suppose che le terrazze “agricole” da lui descritte fossero destinate ad alimentare la comunità di Machu Picchu. In realtà, esse sono troppo anguste per permettere una produzione bastante a un centro abitato di una certa consistenza, secondo Bingham una vera e propria “città”, che probabilmente ospitava circa milleduecento persone. È assai più probabile che le terrazze fossero spazi specialissimi aventi finalità rituali, che fossero cioè riservate alla produzione di particolari vegetali per il consumo di una categoria forse “gentilizia ”, oppure alla coltivazione di piante medicinali o droghe. Varrà la pena di ricordare che in epoca incaica la coca non era diffusa come in periodi successivi e oggi, ma riservata soltanto al ceto dirigente degli Inca veri e propri e a qualche maggiorente al quale il sovrano ne facesse dono in segno di grande favore. Indubbiamente, la base economica dell’Impero incaico era costituita dall’agricoltura e dall’allevamento e assai secondariamente dall’industria; ma non tutti i terrazzamenti possono venire interpretati alla luce delle stesse categorie. Con ogni evidenza, Machu Picchu non era “autosufficiente” e lo dimostra il fatto che, su circa duecento strutture, non risultano esservene di “servili”. Soprattutto, a Machu Picchu si contano ben quaranta livelli di aree urbane con duecentocinquanta dislivelli complessivi: una sorta di monstrum dal punto di vista edilizio, assai poco adatto a finalità “pratiche”. Se ne deve tra l’altro arguire che i generi alimentari, lungi dall’essere prodotti in loco, venivano portati da zone vicine, probabilmente dal vallone dell’Urubamba in cui ci sono spazi pianeggianti, ben più adatti alle coltivazioni di quanto non lo siano le anguste terrazze della “città ”. Questa va dunque intesa quale un luogo prestigioso, riservato a personaggi di alto rango, non dediti a lavori manuali e comunque non in grado di procurarsi autarchicamente il sostentamento. E’ lecito tirare conclusioni meno topiche, più generali, dalla pur grandiosa vicenda della scoperta di Bingham? Sì, in primo luogo questa: è inutile aspettarsi che la ricerca scientifica possa essere avulsa dalla generale visione del mondo. L’obiettività resta una mera aspirazione, ed è ormai universalmente accettata l’idea che l’osservatore altera il campo osservazionale, e che non “esiste” il “fatto” in sé e per

sé, isolato dal contesto che è poi il resoconto che ne viene fatto. Ne consegue che sarebbe assurdo accusare Bingham, come pure da più parti si è tentato, di aver compiuto una falsificazione interpretando in maniera soggettiva dati “oggettivi” – ma quali? Dove si danno “dati”, “cose” veramente oggettive, cioè immuni dall’interpretazione? Ed era inevitabile che Bingham traducesse i reperti che aveva sott’occhio nel suo contesto culturale, nel suo sapere. Un sapere che forniva – e non poteva non fornirgliele quelle spiegazioni, e non altre. Per chi visiti oggi Machu Picchu, la conseguenza è però quella di “vedere” le strutture e il contesto nei termini voluti-imposti da Bingham. Ed è ben difficile anche solo tentare di ripensare Machu Picchu quale poteva essere – e non sarà più. FRANCESCO SABA SARDI

NOTA ALLA TRADUZIONE

È stata rispettata, nel testo italiano, la denominazione di località usata da Bingham, e si è mantenuta pure la grafia corrente nel 1948, ma oggi ampiamente rivista. Così per esempio, Cuzco oggi è generalmente sostituita da Cusco. F.S.S.

Prefazione

A Suzanne Carroll Bingham con ammirazione e affetto

Pochi forse sanno quanto la civiltà americana debba a quella degli antichi Peruviani; pochi sanno, ad esempio, che questi hanno coltivato per primi la patata, molte varietà di granturco e di droghe utilissime in farmacopea, quali il chinino e la cocaina. La loro civiltà, che a svilupparsi impiegò migliaia di anni, fu contrassegnata da genio inventivo e da abilità artistica, e da una conoscenza dell’agricoltura davvero straordinaria. Nella fabbricazione di belle ceramiche come nella tessitura di eleganti stoffe, gli antichi Peruviani eguagliarono i migliori esempi dell’Egitto e della Grecia. Gli Inca hanno governato milioni di sudditi con fermezza e con giustizia, coi mezzi di un illuminato dispotismo e in modo tale da assicurare, ad ognuno dei loro soggetti, cibo e vesti a sufficienza; tuttavia, essi non conobbero la scrittura, neppure quella geroglifica. Di conseguenza, le conoscenze che ne abbiamo derivano in tutto e per tutto dai resti della loro civiltà e dalle relazioni dei cronisti del XVI secolo, contemporanei di Pizarro e dei conquistadores, molti dei quali guardarono alla loro storia e alla loro politica con occhi europei. Persino Garcilaso de la Vega el Inca, aveva trascorso in Spagna quarant’anni quando scrisse la celebre storia dei suoi avi. Circa quattrocento anni fa, gli ultimi Inca abitavano in una delle più inaccessibili zone delle Ande, nella regione che giace fra il fiume Apurimac e l’Urubamba, due importanti affluenti, del Rio delle Amazzoni; essi vivevano isolati da quella parte del Perú che soggiaceva allo scettro di Pizarro e dei conquistadores, difesi com’erano da montagne rotte da tremendi precipizi, i cui passi erano ad un’altezza di quattromila metri, e i cui canyons granitici sprofondavano per più di un miglio; s’aggiungano ghiacciai, giungle tropicali, rapide pericolose, e si capirà come, per trentacinque anni ancora, essi riuscirono a godere dell’indipendenza di cui avevano fatto tesoro per secoli i loro antenati. Avevano due capitali, una militare, Vitcos, edificata senza troppa cura, in cui talvolta accolsero profughi, emissari spagnoli e missionari agostiniani, e Vilcabamba, loro residenza principale, stupenda città-santuario, in cui nessuno spagnolo riuscì mai a penetrare. Nel 1571, con la morte dell’ultimo Inca, Vitcos fu abbandonata. Era una fortezza abbarbicata alla vetta di una montagna, e poco adatta come luogo di residenza. Finché non la si scoprì, il suo nome restò dimenticato, oscura la sua esatta posizione. Anche della città reale di Vilcapampa si era perduta la traccia: si trattava di un santuario isolato tra erte montagne, in un canyon stupendo dove il segreto della sua esistenza rimase al sicuro, vigilato per tre secoli dall’ombra del Machu Picchu. Le sue rovine hanno preso il nome del monte, perché quando le scoprimmo nessuno sapeva quale nome avesse avuto la città. Questo meraviglioso santuario incaico è divenuto negli ultimi anni, per i turisti danarosi, una vera e propria Mecca. Un tempo, partendo da Cuzco, erano necessari due o tre difficili giorni di viaggio per poterlo raggiungere, a dorso di mulo prima, a piedi poi; ora invece vi si può arrivare in treno in automobile in una sola mattina, grazie ad una nuova carrozzabile da poco aperta al traffico. E Cuzco, che distava una settimana da Lima, ora può essere raggiunta in aeroplano in poche ore. I “pellegrini” giungono da Buenos Aires e da Santiago, da New York e da

Washington, e tutti si trovano d’accordo con Frank Chapman nell’affermare che, per la sublimità dei suoi dintorni, per la meraviglia dei luoghi, per il carattere ed il mistero delle costruzioni, l’Emisfero Occidentale non ha nulla cui poter paragonare Machu Picchu. Dopo che, nel 1911, l’ebbi scoperta, la Yale University e la National Geographic Society mi offrirono la possibilità di esplorare la regione in lungo e in largo, e di pubblicare poi i risultati di tali studi. Nel frattempo, vari documenti sono stati portati alla luce da altri studiosi, gli archeologi professionisti ci hanno fornito ormai una profonda conoscenza degli Inca: mi è sembrato quindi giunto il momento di sintetizzare quel che sappiamo su Machu Picchu e le sue origini, su come fu abbandonata e riscoperta, ed esporlo in questo volume in forma divulgativa, destinando il libro a coloro cui può interessare conoscere gli Inca e la sacra città che essi riuscirono a tener celata ai conquistadores spagnoli. Nel cuore del paese degli Inca, a circa cinquanta miglia dall’antica città di Cuzco, sprofonda la vallata dell’Urubamba, uno dei luoghi più meravigliosi del mondo, in cui per secoli i viaggiatori, a causa di una ripida parete di granito che si leva per settecento metri dalle sponde del fiume, non riuscirono a metter piede. I piantatori che coltivavano coca e zucchero nelle basse vallate, potevano portare i loro prodotti al mercato solo attraverso un valico nevoso a più di tremila metri. Riuscirono finalmente a persuadere il governo peruviano ad aprire una strada lungo il fiume, spezzando la grande parete di granito. Se ne servirono per molti anni, senza neppure immaginare che, altri settecento metri più in su, sulla vetta di una ripida cresta montagnosa, sorgevano le rovine di un grande santuario incaico. Lo ignorava anche Raimondi, il maggiore degli esploratori del Perù, e l’elaborato dizionario geografico del Perù, compilato da Paz Soldan, non ne fa alcuna menzione, sebbene da qualcuno si facesse cenno già dal 1875 a tali rovine. Charles Wiener, un coraggioso esploratore francese, le cercò senza successo; oggi si sa che esse furono visitate da parecchi meticci decisi e da qualcuno dei moderni indiani, e che furono più d’uno i bramosi cacciatori di tesori che tentarono, sempre invano, di scoprire l’ultima capitale incaica. Fu la nuova strada a rendere possibile il successo della spedizione di cui qui si rifà la storia.

RINGRAZIAMENTI

Sir Clements Markham fu per molti anni il pioniere della storia peruviana, e ho fatto abbondante ricorso alle sue traduzioni delle vecchie cronache spagnole. Tuttavia neppure Sir Clements intraprese mai la traduzione della più lunga di tali cronache, la Crònica Moralizada degli Agostiani nel Perú, scritta da Antonio de Calancha. Si tratta di un infolio di un migliaio di pagine, che certo mette chiunque in soggezione per la mole, e fu pubblicato nel 1638: un’accozzaglia di fatti e di mistiche fantasie. Nessuno, dal 1639 in poi, ha osato ridarla alle stampe, benché la cronaca contenga una completa relazione degli sforzi di quei primi missionari per convertire gli Inca e i loro sudditi della provincia di Vilcabamba; il lettore troverà nelle pagine seguenti il risultato dei miei sforzi intesi a dare una versione fedele delle parti più interessanti della narrazione; lo stile, purtroppo, è faticoso e il vocabolario dei buoni frati conserva in pieno la pesantezza della prosa del XVI secolo. Devo ringraziare a tale proposito, per l’aiuto offertomi, il Professor Osgood Hardy dell’Occidental College, e Miss Shelby della Library of Congress. A un’altra traduzione mi sono accinto, ed è una parte della storia di Manco II che, scritta o dettata da suo figlio Titu Cusi, fu pubblicata da H.H. Urteaga e Carlos A. Romero, alla cui edizione critica devo moltissimo. Le mie idee riguardo all’ambiente e alla civiltà dei primi peruviani, si basano in larga misura sulle osservazioni compiute da O.F. Cook, una delle massime autorità nel campo dell’agricoltura tropicale e sub-tropicale, il quale fu in Perú insieme a me. Il suo articolo Le colture a terrazze degli antichi, pubblicato sul «National Geographic Magazine», costituì un contributo basilare alle conoscenze dell’antica civiltà americana, anche se certi punti di vista di O.F Cook, come del resto accade ai miei, non sempre sono condivisi da altri scrittori. Una parte considerevolissima del materiale di questo libro è di necessità basata su altri miei scritti, fra cui Across South America, Victos, In the Wonderland of Peru, Inca Land, e infine Machu Picchu, a Citadel of the Inca, tutti esauriti da diversi anni. Ho incluso anche alcuni brani scelti dalle relazioni di vari membri delle mie spedizioni in Perú, alcuni dei quali sono stati pubblicati anche altrove. Philip Ainsworth Means prese parte con me, nel 1914, a una spedizione peruviana. Il suo Ancient Civilizations of the Andes e il suo Fall of the Inca Empire, insieme a molti suoi articoli e traduzioni di cronache spagnole, costituiscono un vero e proprio tesoro per gli studiosi dell’antichità peruviana. Altri membri delle mie spedizioni, cui sono debitore, e le cui relazioni sono state qui parzialmente trascritte, sono: il dottor George F. Eaton, la cui The Collection of Osteological Material from Machu Picchu è particolarmente utile; Elwood C. Erdis, cui fu affidato il compito degli scavi della città; Edmund Heller, l’eminente naturalista che raccolse gran numero di uccelli e mammiferi della Cordillera Vilcabamba; i dottori William G. Erving, Luther T. Nelson e David E. Ford, che furono i medici della nostra spedizione; i topografi Albert H. Bumstead, Clarance F. Maynard, H.L. Tucker, Robert Stevenson, E.L. Anderson e J.J. Hasbrouck, autori delle cartine che ci permisero una sintesi geografica e archeologica; e gli assistenti Paul Lanius, Geoffrey W. Morkill, Osgood Hardy, Paul Bestor e Joseph Little, che mi aiutarono in molti modi diversi.

A Melville Bell Grosvenor della National Geographic Society, il cui padre, dottor Gilbert Grosvenor, fu uno dei miei più entusiasti sostenitori nei giorni delle mie esplorazioni, devo molta riconoscenza per la generosa assistenza offertami nel preparare e scegliere il materiale illustrativo del presente volume. Molte delle fotografie furono riprese da me, altre invece dai membri delle spedizioni, come indicato nell’indice delle illustrazioni. Le collezioni complete delle dodicimila fotografie da noi eseguite si trovano presso la Hispanic Society of America, la National Geographic Society e la Yale University. L’Autore

Parte Prima I COSTRUTTORI

1 GLI INCA E LA LORO CIVILTA’

In origine la parola ‘inca’, che significa ‘re o imperatore’, fu il termine usato a indicare soltanto il capo del popolo straordinario che, grazie al suo coraggio e al suo genio organizzativo, giunse a conquistare la maggior parte del Perú, dell’Ecuador e della Bolivia, nonché di alcune delle regioni settentrionali del Cile e dell’Argentina. Ma quando nel XVI secolo giunsero i conquistatori spagnoli, questi attribuirono al termine un significato più generale, e se ne servirono per indicare l’intera classe dominante locale, cioè i familiari dell’Inca, i nobili e i sacerdoti che governavano l’impero. Tutti costoro furono ben presto sterminati, sicché già alla fine del secolo era difficile trovare un solo rappresentante della categoria. Oggi noi usiamo il termine inca per indicare l’etnia che nel corso di diverse migliaia d’anni edificò sugli altopiani del Perú e della Bolivia una grande civiltà. I costruttori di Machu Picchu erano i discendenti di generazioni d’abili artigiani, ma chi ne diresse l’opera furono gli Inca, che per secoli ebbero come capitale Cuzco. A rigor di termini, il primo Inca fu un valoroso capo guerriero della tribù indiana Quechua, il quale regnò in Cuzco nel XIII secolo d.C. e fu adorato come semidio e demiurgo figlio del Sole. Fu forse soltanto un centinaio d’anni prima dell’arrivo di Pizarro e dei conquistatori, che il nono Inca estese l’Impero a nord sino all’Ecuador e a sud sino all’Argentina. È certo che l’Impero incaico aveva raggiunto il proprio apogeo ed era già all’inizio del proprio declino, allorché giunsero gli Spagnoli. Se questi avessero fatto la loro apparizione al tempo del grande Inca Pachacuti (metà del XV secolo), avrebbero avuto a disposizione appena il tempo di confessarsi prima di morire; per loro fortuna, essi giunsero in un periodo in cui l’impero degli Inca era minato da una lunga guerra civile. Poiché non esistono testimonianze scritte, e l’interpretazione della storia passata, così come quella dei quipus o corde annodate, si basava essenzialmente sulla memoria – o sull’immaginazione – delle persone che furono interrogate dai primi cronisti spagnoli, non possiamo avere alcuna certezza circa le date e gli even ti. Sembra probabile che lo sviluppo dell’agricoltura, della metallurgia, della ceramica, della tessitura, della meccanica e di altre arti e scienze, abbia avuto luogo soprattutto durante i secoli che precedettero l’ascesa al trono del primo Inca. Eppure è divenuto utile l’uso del termine Inca per indicare la civiltà e il popolo che gli spagnoli scoprirono nel Perú, proprio come usiamo il termine “azteco” per indicare la civiltà del Messico e il termine “maya” per indicare la civiltà scoperta nello Yucatán e nel Guatemala. In realtà, le tribù peruviane furono molte, e rimasero nazioni indipendenti piuttosto a lungo prima d’essere conquistate dagli Inca; questi contribuirono, dal canto loro, notevolmente allo sviluppo artistico della ceramica e della tessitura. Cuzco, l’antica capitale dell’Impero degli Inca, è uno dei luoghi più interessanti del mondo. Al tempo della conquista spagnola del Perú, era la più grande città americana. Dietro di essa, su un colle, esiste un’antica fortezza, che era stata luogo di rifugio per interi secoli. Il muro settentrionale di tale fortezza è forse la più straordinaria struttura eretta nell’Emisfero Occidentale da mani d’uomo in tempi precolombiani. Nessun’altra costruzione dell’antichità americana le sta alla pari dal punto di vista tecnico: i blocchi di pietra più piccoli pesano da dieci a venti tonnellate, mentre quelli più grandi si valutano sulle duecento tonnellate e più. Esattamente giustapposti, senza

bisogno di chiavarde o cemento, del resto ignoto, i giganteschi blocchi poligonali aderiscono l’una all’altro perfettamente, al punto che è impossibile inserire la punta di un coltello nelle loro commessure. Essi furono trasportati da cave lontane più di un miglio, dov’erano stati squadrati e modellati da operai che usavano utensili di pietra. Venivano spostati facendoli scorrere su un piano inclinato per mezzo di leve; gli Inca non conoscevano il ferro né tanto meno l’acciaio, ma usavano sbarre di bronzo con una estremità ricurva, assai resistenti. Non possedevano né gru né argani né ruote, ma avevano migliaia di pazienti operai. Il coraggio e la perseveranza dei costruttori stupisce chiunque consideri questo popolo e i suoi capi, l’uno e gli altri degni della massima ammirazione e di una più precisa conoscenza dei loro costumi e della loro storia. L’ARCHITETTURA chi studia l’architettura degli Inca, nota subito come le sue caratteristiche fondamentali siano le buone proporzioni, l’andamento simmetrico, e la solidità. Alcuni templi e palazzi incaici furono costruiti con lastre di granito bianco accuratamente scelte e scalpella te. Le file più basse di un muro sono fatte con blocchi più grandi di quelli usati per le file più alte, ciò che dà subito un’impressione di compattezza. Le file più alte, composte di blocchi di dimensioni gradualmente decrescenti, conferiscono grazia e dignità alla struttura. Mancavano gli strumenti di precisione, e ogni cosa era quindi frutto d’esperienza, dovuta all’occhio dell’architetto. Il risultato è più aggraziato ed elegante di quello offerto dalle mura, erette dal calcolo matematico, del nostro mondo. Dobbiamo ammettere che gli Inca furono muratori magnifici. Chiunque visiti Machu Picchu, sarà senz’altro d’accordo su quest’affermazione. Nella città di Cuzco, come in altri ben noti centri incaici, le mura dei templi e dei palazzi non sono perpendicolari ma presentano una leggera inclinazione verso l’interno; più strette alla cima che alla base, sono dette di stile egizio. Se si visitano i luoghi adiacenti, si incontrano case di un piano e ammezzato terminanti con un frontone, che sembrerebbe essere caratteristico degli edifici costruiti non molto tempo prima della conquista spagnola. Di solito, sulla superficie esterna dei frontoni è dato vedere una fila di inserti di forma rozzamente cilindrica o meglio di pioli di pietra infitti nel muro e aggettati per circa trenta centimetri. A prima vista, si potrebbe supporre che questo tratto caratteristico dell’architettura incaica avesse funzione puramente ornamentale; questi pioli di pietra sembrerebbero infatti le estremità di travi e putrelle di legno riprodotte in pietra. Ma tale suggestiva teoria delle origini lignee, reminiscenza dell’architettura dorica, non è esatta. Ai vertici del frontone di alcune capanne di legno degli indiani moderni, pioli di legno similmente disposti sono usati come punti d’appoggio per il tetto di paglia. È probabile che i pioli di pietra inseriti nei frontoni incaici non avessero carattere meramente ornamentale, ma fossero autentici pioli adibiti a uno scopo preciso. Un giorno, durante l’accurato restauro del vertice del frontone d’una casa di Machu Picchu costruita a perfetta regola d’arte, facemmo un’interessante scoperta: si trattava d’una caratteristica architettonica che fino allora era completamente sfuggita sia agli archeologi che agli storici dell’architettura. Nel margine inclinato della muratura del

frontone, c’era una sottile lastra di pietra grezza con un foro a occhio ben lisciato, incastrata a circa 5 centimetri dal limite esterno. Gli “occhielli”, come li battezzammo, erano piantati nel muro del frontone ad angolo retto rispetto ai lati inclinati in modo da trovarsi al livello della superficie; tutt’attorno avevano un piccolo spazio privo di pietre, che permetteva all’Inca, il quale desiderava legare i travicelli del tetto al bordo inclinato del frontone, di raggiungere il foro. Una più attenta osservazione mostrò che di solito, in ogni frontone, di questi “occhielli” ce n’erano da otto a dieci. Le piccole lastre di pietra forate avevano una lunghezza di circa 60 cm, una larghezza di 15 e uno spessore di 5. Il foro lisciato doveva essere stato scavato mediante pezzi di bambù fatti ruotare rapidamente tra le palme delle mani, con l’aiuto di sabbia e acqua. Naturalmente, un tale metodo richiedeva tempo e pazienza, ma il risultato era non meno soddisfacente di quello raggiunto con mazzuolo e scalpello, e anzi impediva alla pietra di incrinarsi. Gli Inca non adoperavano tegole di terracotta o di legno per i loro tetti, ma solo erba o stoppie. Il tetto così fatto veniva unito ai travetti e, perché potesse resistere al vento, assicurato per mezzo di legamenti ai pioli che sporgevano dal tetto; i travetti venivano a loro volta fissati ai frontoni grazie agli occhielli. Per quanto io ne sappia, questo metodo di sostenere i tetti di sterpi su un frontone inclinato, fu inventato e perfezionato dagli Inca, e mai usato in nessun’altra parte del mondo. Probabilmente, l’invenzione derivò dal fatto che l’altipiano in cui fiorì l’architettura incaica è povero d’alberi e spazzato dal vento. Per inciso, va detto che l’assenza di vegetazione arborea nelle valli temperate degli altipiani peruviani non è dovuta all’altitudine, perché mi è accaduto di incontrare foreste primeve cresciute ad altezze di 4500 metri nelle parti più inaccessibili della Cordillera Vilcabamba; essa è piuttosto dovuta, come in Cina, all’antichità degli stanziamenti umani e alla loro necessità di procurarsi combustibile. Comunque, se vi fossero state molte foreste e abbondanza di legname, probabilmente gli Inca non avrebbero costruito case di pietra. Le porte delle case incaiche sono di solito molto alte, in modo che anche il peruviano di maggiore statura vi poteva entrare comodamente. Come nell’antico Egitto, la parte inferiore della porta è più larga della parte superiore. Nelle case costruite in regioni ricche di foreste, le architravi sono assai sovente di legno, mentre altrove sono composte di due o tre lunghi blocchi di pietra. Sono molte le strutture d’un certo rilievo, nelle quali gli Inca preferivano ricorrere ad architravi monolitiche anche quando il peso di queste raggiungeva e superava le due tonnellate. Poiché non possedevano né gru né argani, è presumibile che sistemassero le architravi erigendo, di fronte alla porta, una montagnetta di terra e di sassi; quindi, per mezzo di leve di legno duro e di rulli dello stesso materiale, usati secondo il principio del piano inclinato, sollevavano il pesante monolito sino alla cima della porta. Una volta collocata l’architrave nella posizione voluta, la montagnetta di terra e sassi veniva ovviamente rimossa. Le loro case erano solitamente disposte attorno a un cortile, in modo da formare un complesso architettonico simile a quelli dell’Estremo Oriente; ad esso si accedeva quasi sempre attraverso un solo ingresso. Talora la facciata in cui questo si apriva

aveva una rientranza, e il vano della porta si trovava così in fondo a una grande nicchia. Gli ingressi degli edifici venivano chiusi ponendo una sbarra attraverso l’interno della porta. Durante la costruzione, si inserivano negli stipiti cilindri o pioli di pietra, che io proporrei di chiamare «reggisbarre». Talvolta essi erano infilati in un foro scavato in uno dei blocchi più grandi dello stipite. Si ottenevano così sostegni capaci di resistere almeno quanto la spranga che in essi veniva incastrata. È probabile però che questi reggisbarra non costituissero in realtà nient’altro che un tabù, un bastone destinato a impedire, al superstizioso, l’accesso a un edificio che non gli apparteneva. Troviamo infatti un riferimento a tale pratica nel documento di un conquistador spagnolo: allorché un indiano s’assentava, afferma questi, le porte venivano lasciate aperte; unico ostacolo, «un bastoncino», posto di traverso la porta, il quale indicava che il padrone era fuori e nessuno poteva entrare in casa. In un memoriale inviato al suo re, Filippo II, lo stesso conquistador aggiungeva: «Quando si accorsero che alle nostre porte mettevamo lucchetti e chiavi, essi compresero che era per paura dei ladri, e una volta resisi conto che tra noi v’erano ladri, presero a disprezzarci». L’abitudine di porre attraverso la porta solo un bastone, era giustificata in parte dal fatto che fra i Peruviani le proprietà private individuali erano limitate a pochi oggetti personali, come piatti, spilloni, utensili da cucina e qualche indumento. Sotto un bonario despotismo come quello degli Inca, dove nessuno era costretto a soffrire la fame e il freddo, dove ognuno era libero di fare, per ciò che lo riguardava, quel che voleva e quando voleva, e dove però qualsiasi decisione di un certo rilievo era riservata a chi comandava, non esisteva il desiderio di impossessarsi delle proprietà altrui, né v’era motivo di accumulare oggetti che non fossero d’uso strettamente quotidiano. L’impiego di spranghe, occhielli e supporti per il tetto da parte degli Inca, è un segno evidente del loro genio inventivo, e la testimonianza che gli altipiani furono da essi occupati a lungo. Sono espedienti che non trovano riscontro né in Asia né in Europa: non derivarono da altri esempi, né furono importati. Erano tipicamente locali. Per quanto ne sappiamo noi, nelle case degli Inca non esistevano mobili. Essi non usavano né sedie né tavoli, ma si sedevano per terra o su una pila di coperte fatte di lana di alpaca o di llama. I mobili erano sostituiti da una serie di nicchie praticate simmetricamente nei muri. Normalmente, queste nicchie erano alte 90 cm, profonde 25 e larghe 60, più strette in alto che in basso, e situate in modo da essere più vicine al pavimento che al soffitto. Non è improbabile che, almeno originariamente, fossero state ideate per servire a scopi cerimoniali, ma comunque con l’andar del tempo se ne comprese l’utilità pratica. Di tali nicchie rozzamente costruite, se ne possono vedere ancora oggi nei tuguri degli indiani di montagna, dove servono appunto da scaffali, credenze e ripostigli. Fra nicchia e nicchia, allo stesso livello degli architravi, erano abitualmente infissi dei pioli di pietra che servivano ai più vari scopi. È molto probabile, ad esempio, che ad essi venissero appese le caratteristiche giare da acqua o da chicha col fondo a punta. Queste giare hanno i manici disposti in modo da essere perfettamente allineati all’asse del centro di gravità; facile quindi sospenderle, così

com’era facile versarne il contenuto inclinandole senza bisogno di staccarle dal sostegno. I pioli servivano, ancora, a fissare una delle estremità dei telai a mano; il tessitore o la tessitrice sedevano per terra, con l’altra estremità annodata alla cintola. Talvolta, a conveniente altezza, veniva fissato al muro un anello di pietra. Si sa che i Peruviani furono ottimi tessitori di stoffe e coperte di lana e cotone. Gli architetti incaici furono espertissimi nelle opere di drenaggio e si protessero efficacemente dai pericoli e inconvenienti delle inondazioni e acque stagnanti. Sotto i magazzini e sotto le mura dei cortili, ovunque potessero verificarsi infiltrazioni d’acqua, essi praticavano piccoli canali o condotti di scolo. L’INGEGNERIA CIVILE Gli Inca erano ottimi costruttori di strade, ponti, acquedotti e canali di irrigazione. Al tempo della conquista spagnola, le loro strade pavimentate correvano per migliaia di miglia attraverso le Ande centrali, da Quito, capitale dell’Ecuador, sino all’Argentina e al Cile, e dalla costa del Pacifico, attraverso le montagne, sino alle calde vallate delle Ande orientali. Non possedevano veicoli a ruota, e non era quindi necessario che la superficie delle strade fosse levigata. Dove la strada doveva superare un’erta, venivano costruite scalinate di pietra; dove la strada doveva costeggiare un piccolo precipizio, venivano scavati nella solida roccia dei tunnel abbastanza larghi da permettere il passaggio di uomini, llama e altre bestie da soma. Da queste strade passavano i corrieri, organizzati in staffette, che portavano con straordinaria sollecitudine i messaggi dalla capitale dell’Impero alle più remote località. Si dice che il pesce fresco pescato nell’Oceano Pacifico, venisse trasportato attraverso le montagne da speciali messaggeri dell’imperatore Inca, e che raggiungesse la sua mensa in eccellenti condizioni di freschezza. A convenienti intervalli, erano stati istituiti luoghi di posta, dove i corrieri trovavano il cambio e avevano la possibilità di riposare e rifocillarsi. Ai corrieri era permesso masticare foglie di coca, per alleviare la fatica. Gli Inca non acquisirono mai l’arte dello scrivere, ma svilupparono un elaborato sistema di corde annodate, chiamate quipus. Erano fatte di lana di alpaca o di llama e tinte in vari colori, il significato dei quali era noto ai magistrati cui erano diretti i messaggi. Le corde erano annodate a gruppi suddivisi secondo il sistema decimale, e assicurati a brevi intervalli l’uno dall’altro lungo l’elemento principale del quipu. Così, un messaggio importante, relativo, per esempio, all’andamento dei raccolti, all’ammontare delle tasse, o all’avanzata di un nemico, poteva giungere rapidamente a destinazione, grazie ai corrieri lanciati lungo le strade di posta. Le carovane di llama che trasportavano le mercanzie potevano procedere sicuramente, sebbene lentamente, anche attraverso le zone più accidentate. I tambos, a un tempo luoghi di sosta e magazzini, furono costruiti ovunque coloro che viaggiavano per gli affari dell’Inca – e non vi erano altri viaggiatori – potessero trovarsi in difficoltà quanto all’alloggio e all’approvvigionamento. Questi luoghi di tappa erano vasti abbastanza da poter accogliere intere compagnie di soldati e centinaia di conducenti di llama.

Le strade scavalcavano i fiumi grazie a ponti sospesi, fatti di innumerevoli corde di liana intrecciate insieme. Usando cavi lunghissimi e di eccezionale robustezza, gli ingegneri incaici furono capaci di gettare ponti lunghi un centinaio di metri e più che, avallati com’erano al centro, oscillavano paurosamente al vento, e non potevano certo dirsi agevoli. Inoltre, potevano essere distrutti con estrema facilità, ma chiunque si rendesse colpevole di un simile atto era senz’altro condannato a morte. Se non fosse stato così severamente proibito manometterli, e se quindi gli Inca avessero pensato di distruggerli appena Pizarro e i suoi iniziarono la loro marcia di penetrazione nella regione delle Ande centrali, la conquista del Perù sarebbe stata estremamente difficile, se non del tutto impossibile. Non meno straordinaria dell’eccellente rete di comunicazioni stradali, era quella d’irrigazione; i canali correvano per decine di miglia, nelle Ande centrali. Le montagne, che si levano spesso fino ai 6000 metri, fan sì che i venti portatori d’umidità, che procedono da Oriente attraverso l’umido bacino del Rio delle Amazzoni, scarichino il loro fardello di piogge sulle pendici orientali della grande catena andina. Le precipitazioni sulle pendici occidentali sono sempre scarse, tant’è che uno dei maggiori deserti del mondo è la fascia costiera di duemila miglia che si estende dal Cile centrale all’Ecuador. La terra delle vallate che si aprono in questa regione, è ricca di humus e vi crescono lussureggianti piantagioni di canna da zucchero, cotone e granturco, a patto che sia regolarmente irrigata. A questo scopo i fiumi alimentati dalle nevi che si sciolgono nelle alte Ande vennero deviati dagli Inca nei canali di irrigazione che seguono il profilo delle valli per molte miglia. Gli ingegneri incaci dovevano avere buoni occhi a intuire le pendenze, dal momento che non possedevano nessuno di quegli strumenti di cui si servono i nostri ingegneri per attuare simili progetti. Chi oggi saprebbe tracciare, senza strumenti, un contorno perfetto per venti miglia e più? E non solo gli Inca provvidero i loro campi dell’acqua necessaria, ma fecero anche in modo che i loro paesi e le loro città ne avessero adeguate provviste, grazie ai bellissimi acquedotti da essi costruiti. L’AGRICOLTURA Per gli Inca, l’agricoltura fu oggetto di attente cure. La produzione agricola fu da essi portata ad altissimi livelli e considerata più importante di quanto non lo sia oggi. Gli Inca svilupparono la coltura di svariate piante commestibili e medicinali, e appresero l’arte di drenare e irrigare i terreni e di conservarli mediante l’uso di terrazze evidentemente costruite a prezzo di grandi fatiche. Moltissimi degli appezzamenti delle Ande peruviane non sono di origine naturale, e in essi l’humus artificialmente prodotto è ancora fertile, dopo secoli e secoli di sfruttamento. Per rendere il suolo ricco e fecondo, gli Inca compresero l’importanza dei fertilizzanti. Avevano scoperto il valore del guano che abbonda sulle isole gremite di uccelli al largo della costa peruviana, e concessero lo sfruttamento di alcune di esse a questa o quella delle loro province. A nessuno era concesso di visitare le isole durante la stagione della riproduzione, e sebbene fossero abitate da centinaia di migliaia di uccelli pescatori, gli Inca punivano con la morte chiunque uccidesse uno solo dei volatili produttori del prezioso guano.

La loro agricoltura era essenzialmente basata sul sistema delle terrazze e ciò è evidente soprattutto nei luoghi a più accentuato declivio. Un’agricoltura simile esiste anche in molti altri paesi, soprattutto nell’Asia Orientale e nelle Filippine, ma c’è da dubitare che le terrazze siano paragonabili a quelle costruite dagli Inca. Nel Perù, la ricostruzione artificiale della superficie del suolo non era limitata ai pendii, ma veniva intrapresa anche in vaste aree bonificate nel fondo delle valli. Gli Inca imbrigliavano e raddrizzavano il corso dei fiumi, impedivano gli slittamenti del terreno per mezzo di opere murarie e portavano a termine l’opera spargendo in superficie uno strato di terra finemente spezzettata. Nelle terrazze incaiche si possono distinguere tre elementi fondamentali: il muro di sostegno e due distinti strati di terra che ricolmano lo spazio delimitato dal muro. Lo strato inferiore o sottosuolo artificiale era composto di pietrisco e argilla, e il suo spessore dipendeva dall’altezza del muro. Esso era poi ricoperto da un altro strato di terra ricca, profondo da 60 a 90 cm circa. Fortunatamente per gli Inca, il suolo delle zone a terrazze era compatto e tutt’altro che soggetto a erosione. Poche zolle, un piccolo dorso di terra, bastavano ad arrestare un rivolo o un ruscello, facilitando così grandemente l’irrigazione delle terrazze. Larghe pietre profondamente solcate nel senso della lunghezza servivano da condotti di scarico per condurre l’acqua da una terrazza all’altra eliminando il pericolo dell’erosione. L’altezza e la profondità delle terrazze dipendevano esclusivamente dal grado di pendenza dei versanti. Le terrazze sui pendii molto scoscesi erano semplici ripiani spesso non superanti i 90 o 120 centimetri d’estensione, per quanto la misura normale andasse dal metro e ottanta ai quattro metri e mezzo. L’altezza solitamente andava dai due metri e mezzo ai quattro metri circa. In alcune zone delle Ande, i versanti collinosi contenenti un centinaio di terrazze, una sull’altra, non sono infrequenti. In certe zone, gli indiani moderni le usano ancora per coltivarvi orzo e frumento; in origine, venivano usate per le colture delle patate e del granturco. I lunghi filari di terrazze sono interrotti, a intervalli regolari, da passaggi che servono sia da strade per raggiungere le terrazze stesse, sia da canali di drenaggio per permettere all’acqua superficiale di fluire liberamente dai più alti pendii, senza spazzar via la preziosa terra portata fin lassù a schiena d’uomo mediante ceste e stuoie. Si resta davvero meravigliati al pensiero dei milioni di ore lavorative che dovettero essere necessarie per costruire questi campi artificiali. Poiché, come si è detto, il sistema agricolo a terrazze è ben conosciuto in Asia e nelle Filippine, alcuni scrittori sono inclini a ritenere che gli Inca non ne siano gli inventori, ma l’abbiamo portato con sé emigrando dall’Asia. Ma, ammesso che tale emigrazione sia avvenuta, è piuttosto strano che essi non abbiano portato con sé anche piante e sementi di origine asiatica. O.F. Cook, eminente autorità nel campo dell’agricoltura tropicale e botanico al seguito di una delle mie spedizioni peruviane, mi fa osservare che gli Inca e i loro predecessori si dedicarono alla coltivazione di un numero incredibile di piante, la cui commestibilità ed efficacia medicinale erano ignote a qualsiasi altro popolo.

Essi scoprirono una piccola pianta che cresceva alle alte quote andine, e che aveva una radice a tubero della grandezza di un pisello. Resisi conto che era commestibile, riuscirono a ricavarne una dozzina di varietà di quella che noi oggi generalmente chiamiamo “patata”, solanacea coltivabile, com’è noto, sia a livello del mare sia ad altezze di quattromila metri. Nei tre secoli che seguirono alla conquista spagnola del Perù, gli Europei ebbero modo di apprezzare i prodotti alimentari degli Inca. Infatti, se non fosse stato per le carestie della Francia e dell’Irlanda, è difficile dire se la patata peruviana sarebbe mai stata accettata come normale alimento dall’Europa. L’abilità e l’ingegnosità degli agricoltori incaici si rivelò non solo nella coltivazione e nel raccolto di diverse varietà di patate, ma anche di moltissime varietà di mais, altra pianta che si presta ad essere coltivata a diverse altezze. Nessuno sa esattamente quale fosse il vegetale da cui in origine si ricavò il mais. In merito, i pareri degli esperti d’agricoltura sono divisi: alcuni sostengono che il mais è stato ricavato da una pianta delle Ande ormai da lungo tempo scomparsa, altri da una pianta importata dal Guatemala. Alcuni autori dell’America centrale, specialisti di storia della civiltà maya, sono convinti che il granturco sia originario del Guatemala, dove esiste una pianta selvatica di aspetto vagamente simile ad esso. E’ fuori dubbio, comunque, che gli Inca coltivassero diverse varietà di mais, nella produzione delle quali avevano raggiunto risultati assai superiori a quelli dei Maya. Noi non sappiamo, e probabilmente non lo sapremo mai, quando il granturco venne coltivato per la prima volta in Perù. Cook ritiene che la coltivazione del granturco nel Perù risalga a molto tempo addietro, non soltanto a causa dell’abbondanza di campioni rinvenuti nelle antiche tombe, ma anche perché i tipi di mais che forniscono la stragrande maggioranza del raccolto peruviano sono peculiari di quella regione. Una pianta alimentare incaica quasi sconosciuta agli europei è la canihua, simile alla gramigna. Il raccolto avviene in aprile, i gambi vengono essiccati e posti su una grande coperta distesa per terra, che serve da piano di battitura ed è destinata a impedire che la battitura stessa disperda i piccoli semi grigiastri. Un’altra pianta delle graminacee, anch’essa poco nota agli Europei, è la cosiddetta quinca, che cresce abbondantemente sui pendii delle Ande fino ai 3-4000 metri, raggiunge l’altezza di 90 e anche 120 centimetri e produce abbondanti raccolti. I semi, che vengono cotti come quelli dei cereali, sono molto gustosi. Nelle Ande, ad altezze meno elevate, gli Inca coltivavano vari tipi di tuberi, molti dei quali a noi sconosciuti; uno solo di essi, la patata dolce, ha raggiunto una certa popolarità in tutto il mondo. Essa deriva da una pianta selvatica che si trovava nelle Ande orientali; i Quechuas della valle dell’Urubamba la chiamano cumara. In tutta la Polinesia, essa viene indicata all’incirca con lo stesso nome: kumala o kumara. Se ne deve arguire che, dal Perù, si diffuse all’intero Oceano Pacifico? Una delle maggiori imprese di quello straordinario gruppo di navigatori che noi definiamo Polinesiani, è consistita infatti nel trapiantare la patata dolce nelle Hawai, a Samoa, a Tahiti, nella Nuova Zelanda, e in qualsiasi luogo da essi raggiunto con le loro grandi canoe doppie. Ma, oltre alla scoperta e alla coltivazione di utili piante commestibili, gli Inca furono i primi a comprendere i vantaggi di certe erbe medicinali e in modo particolare del

chinino, da loro conosciuto fin da tempi antichissimi come specifico per la cura della malaria. Essi scoprirono anche gli effetti della cocaina, estratta dalle foglie di coca, ma permisero che ne facessero uso soltanto coloro che dovevano sottoporsi ad attività particolarmente faticose, ad esempio i loro corrieri. A giudicare dalle “medicine” vendute dai “farmacisti” peruviani che esibiscono i loro prodotti nei mercati dei paesi di montagna, tra gli antichi rimedi si annoverano minerali (zolfo), vegetali (semi, radici e foglie secche di piante della giungla tropicale) e animali (la stella di mare). GLI ANIMALI DOMESTICI Gli Inca dimostrarono doti eccezionali non soltanto nella coltivazione delle piante, ma anche nell’allevamento del bestiame. Nelle Ande esiste un piccolo roditore, chiamato cuy. È estremamente schivo e difficile da catturare. Benché non sia venuto affatto dall’India e nulla abbia a che fare coi suini, è chiamato porcellino d’india. Una volta scoperto che, arrostito a fuoco vivo o fatto bollire in una casseruola, era molto gustoso, gli Inca lo addomesticarono e ne fecero derivare una dozzina di specie diverse, tutte così docili da poterle lasciare scorrazzare per le campagne, senza che tentassero di fuggire. In questo modo, il cuy era ed è tuttora sempre pronto per essere catturato, ucciso, cotto e servito come deliziosa pietanza, in qualunque momento giungano ospiti inattesi. Padre Cobo, dotto gesuita che nel 1600 viaggiò a lungo nelle Ande, raccona come i porcellini d’india venivano cucinati ai suoi tempi. Per preparare uno stufato si doveva ricorrere a del pepe rosso, e persino a pietruzze di fiume molto levigate. Queste ultime venivano introdotte nel ventre del cuy già ben riscaldato, allo scopo di accelerare il processo di cottura. Padre Cobo, con lodevole candore, dichiara che «questa pietanza è apprezzata dagli Indiani più di qualsiasi altra, anche più fine, preparata dagli Spagnoli. La carne del cuy domestico è più delicata. Le tre specie selvatiche sono un po’ più piccole di quelle domestiche e si incontrano in gran numero nei campi». Gli Inca allevavano almeno tre varietà di cani, ma non abbiamo nessuna prova che, al pari dei Polinesiani, ne usassero come cibo. Un altro interessante prodotto dell’abilità di allevatori degli Inca, è quello derivato dal cammello americano che vive in quei luoghi, e che è conosciuto sotto il nome di guanaco. Fino a non molto tempo fa, si potevano ancora incontrare fitte mandrie di guanachi in Patagonia, dove godono di un clima molto simile a quello degli altipiani del Perù. Questi cammelli misurano da un metro a due metri e venti d’altezza. La caccia al guanaco era considerata, nel Sud America, uno degli sport più appassionanti. I guanachi sono eccezionalmente astuti e ciò richiede non poca pazienza per chi li cacci senza armi da fuoco. Sebbene curiosi e irrequieti, sono dotati di un preciso senso del pericolo, e hanno vista e olfatto meravigliosamente sviluppati. I branchi, composti principalmente di femmine, sono presidiati da vecchi maschi vigorosi, che si pongono di sentinella su qualche alto spuntone di roccia e danno tempestivamente notizia della presenza di estranei; in tal caso tutti i guanachi, che di solito procedono al trotto, fuggono galoppando rapidamente. Ma, a dispetto della loro eccezionale astuzia, gli abitanti degli altipiani li cacciavano e addomesticavano con una certa facilità.

Tale risultato va attribuito in gran parte all’uso delle bolas, sin golare arma da getto costituita da due blocchi di pietra più o meno a forma di palla, collegati da una corda molto resistente. Il lancio delle bolas, eseguito in modo che la corda si attorcigli alle zampe degli uccelli o di altri animali, è un’arte assai difficile. Se gli antichi Peruviani non fossero divenuti maestri nell’uso di quest’arma e si fossero limitati all’impiego di fionde, frecce o mazze, è improbabile che sarebbero stati in grado di catturare e addomesticare con tanta facilità i cammelli americani. Sebbene i guanachi abbiano tutti lo stesso pelame, i llamas e gli alpacas che ne derivarono sono di colori molto diversi. Gli Inca riuscirono perfettamente nel tedioso e difficile processo volto a ottenere, dal cammello americano, due varietà destinate a fini del tutto diversi. I llamas, che appartengono alla prima varietà, sono particolarmente adatti al trasporto di carichi, anche se non sono abbastanza larghi di schiena e robusti da poter sopportare più di quaranta o cinquanta chili; hanno le zampe prive di vello e il loro pelo ruvido li difende perfettamente dalle irritazioni causate dai pesi che portano. Dal canto suo, l’alpaca, discendente dallo stesso antenato del llama, è invece abbondantemente lanoso, sia sulle zampe che sul collo. Il suo pelo, assai bello e soffice, è ritenuto dai moderni fabbricanti di stoffe una delle materie prime più pregiate per la confezione di eleganti abiti di lana. Alcuni anni fa, certi astuti commercianti attribuirono il nome di “alpaca” a un tipo di tessuto piuttosto grossolano, ricavato dal cotone e dalla lana di pecora, e che veniva largamente impiegato nella confezione di abiti leggeri; ancora oggi il termine alpaca viene usato assai spesso in commercio per definire un materiale che non è quello autentico. I soprabiti e gli scialli confezionati con la bella e morbida lana dell’alpaca peruviano sono comunemente detti di “pelo di cammello”, di “vigogna”, persino di “llama” e pochi sono, nei nostri paesi, coloro che sanno che la lana del llama è troppo ruvida per servire allo scopo. E’ interessante notare come l’influenza esercitata dagli Inca nella regione delle Ande non si estese mai, a quanto pare, a nord dei limiti entro i quali il llama trovava favorevoli condizioni ambientali. Per cui si può asserire che lo sviluppo della cultura incaica sia dipeso in larga misura dal successo ottenuto nell’allevamento di questa sottospecie del cammello americano. La loro abilità nell’allevare e guidare centinaia di migliaia di llama in grado di trasportare utili carichi, permise ai montanari di impartire ai lavori agricoli e meccanici un impulso e un’estensione molto più vasti di quanto essi non avrebbero potuto fare se fossero stati costretti a valersi unicamente dell’opera di portatori umani. LA LINGUA Alcuni archeologi tendono oggi a ridurre la durata del tempo occorso allo sviluppo della civiltà incaica: i Maya dell’America centrale usarono geroglifici e inventarono un calendario, e quindi si dovrebbe concedere loro circa duemila anni, mentre nel caso degli Inca gli anni di sviluppo della civiltà si ridurrebbero a poche centinaia; questi studiosi hanno ragione, se si limita l’uso della parola “Inca” ai pochi secoli nei quali i capi si chiamarono veramente così. Ma, se si usa il termine Inca per caratterizzare quella straordinaria civiltà scoperta dagli Spagnoli nel XVI secolo, civiltà caratterizzata da un’avanzatissima agricoltura, da meravigliose opere di

ingegneria e di meccanica e dall’abilità con cui, da un antenato del tutto selvaggio, essa riuscì a ricavare animali straordinariamente miti e docili quali il llama e l’alpaca, appare chiaro che il periodo di sviluppo di tale civiltà necessariamente copre parecchie migliaia d’anni. Questa teoria trova conferma nel ritrovamento, nella terra degli Inca, di molte varietà sia di patate che di granturco, e anche nel fatto che i porcellini d’india, che essi addomesticarono e allevarono, differiscono notevolmente fra loro nel colore e nel pelo, al pari dei gatti delle regioni mediterranee, noti per la loro antichissima origine. Sfortunatamente gli antichi Peruviani non usarono alcuna forma di scrittura, né ideografica né figurata. Ed è un gran peccato che gli Inca non abbiano mai avuto occasione, come invece accadde a Greci e Romani, di venire in contatto con un popolo che, al pari dei Fenici, avesse inventiva sufficiente a creare un alfabeto. Il linguaggio degli Inca era la lingua quechua. Da principio, veniva usato solo nella piccola area intorno a Cuzco, che fu la culla della dinastia Inca, presumibilmente nel X o XII secolo. Durante i successivi cinquecento anni, quelli in cui gli Inca riuscirono a imporsi alle razze indigene a nord sino all’odierno Ecuador e a sud sino all’odierna Argentina, essi portarono con sé, come retaggio, la lingua quechua, imponendola ai popoli sottomessi, per cui alla fine del XVI secolo essa aveva notevole diffusione. Oggi (1948) la popolazione totale del Perù è di circa sette milioni. Da un recente censimento, si apprende che due milioni e mezzo di Peruviani parlano ancora oggi il quechua, e che di questi due terzi non conoscono altra lingua. Le piccole tribù delle foreste del bacino del Rio delle Amazzoni parlano molte altre lingue, ma nelle Ande vi sono due sole lingue aborigene importanti per estensione, e precisamente il quechua e L’aymara. Nella regione attorno al lago Titicaca e nella Bolivia del nord, gli Indiani parlano L’aymara, che ha una grammatica e un sistema fonetico simile a quello quechua. Nessuna di tali lingue può essere paragonata in alcun modo a quelle delle regioni orientali del Sud America, né ad altre fuori del continente. Gli esperti in filologia sono del parere che quasi cinque milioni di Sudamericani parlino ancora la lingua degli Inca, che ovviamente è la lingua indigena di gran lunga più importante fra tutte quelle parlate sia nel Nord che nel Sud America. Il fatto che questo sistema fonetico fosse e sia tuttora così diffuso, rappresenta già di per sé un notevole contributo alla civiltà da parte del popolo che tanta abilità mostrò nell’allevamento degli animali e nella coltura delle piante. Nel quechua poche sono le parole atte a esprimere oggetti astratti; da esso si ricava, ancora, la convinzione che il popolo che lo usava non era militarista: la parola “soldato” significava infatti anche “nemico”; l’estensione dell’Impero è resa evidente dal fatto che la parola “straniero” significa “colui che vive in una città molto lontana”; l’importanza dell’agricoltura è chiaramente dimostrata dall’esistenza di un unico verbo per indicare “lavorare” e “coltivare”: apparentemente, coltivare la terra era considerata la sola attività lavorativa. Un interessante commento alle abitudini dell’antico popolo, ai suoi usi e costumi, è costituito dall’abbondanza delle espressioni quechua per i vari stadi dell’ubriachezza. Una delle maggiori attività incaiche era infatti la fabbricazione della birra o chicha, ricavata dalla fermentazione di granturco in germoglio, precedentemente bollito e

schiacciato per mezzo di pietre che servivano al popolo andino da rudimentali macine o pestelli. Per macinare il loro granturco, gli Indiani del Messico e dell’America centrale usano una specie di matterello che spingono avanti e indietro su una lastra; ciò è più faticoso ed esige uno sforzo maggiore di quello richiesto dall’uso delle pietre “oscillanti”, escogitato nelle Ande. Il fatto che la più comune attività casalinga, la macinazione del cereale, non fosse la stessa presso gli Inca e i Maya, testimonia con inequivocabile chiarezza di un lungo periodo di separata evoluzione. LA CERAMICA Gli Inca portarono a un notevole livello anche la fabbricazione di vasellame. Appresero a riconoscere differenti tipi e qualità di argilla; riserbarono quelle migliori per erigere i simulacri degli dèi e fabbricare le stoviglie più belle. È probabile che, per la fabbricazione di anfore, si servissero di appositi torni. Nel loro vasellame non c’era nulla di rozzo o di sgraziato. Molti pezzi erano anzi eseguiti con estrema abilità e accuratamente rifiniti con superfici levigate e dipinte, in modo che non restasse traccia alcuna del processo di fabbricazione. A differenza del vasellame primitivo delle tribù indiane del bacino delle Amazzoni e di molte altre parti dell’America, le stoviglie incaiche dimostrano con straordinaria evidenza, grazie alle proporzioni armoniche, alla perfetta simmetria e all’accurata rifinitura, che gli artigiani locali erano gli eredi di almeno un millennio di cultura e di amore per il bello. Ogni pezzo appare adeguato allo scopo cui era destinato, e la sua decorazione era tale da soddisfare la clientela più sofisticata ed esigente. Va però notato che le antiche popolazioni indigene abitatrici della costa del Perù, soggiogate dagli Inca, avevano portato la loro arte vasaria a un livello ancora più alto di quello toccato dai conquistatori. I disegni incaici erano quasi sempre geometrici e convenzionali: consistevano di quadrati ripetuti uno nell’altro, linee incrociate, file di triangoli, linee parallele, catene di losanghe, elaborate volute e uno stereotipato disegno a collana consistente in un gran numero di dischi ognuno dei quali sospeso, per mezzo di un filo separato, al filo principale. È assai probabile che questo disegno a collana fosse una rappresentazione della regale frangia della sovranità: la corona degli Inca. Il modello a sbarre e doppia croce, che ricorre frequentemente nei manici del vasellame incaico, è chiaramente imitativo dell’antica arte di fare i cesti, anzi i manici, nella sua forma più elementare. Fu un modello che evidentemente colpì la fantasia degli antichi vasai, perché compare sulle più svariate superfici e non di rado costituisce la parte centrale di un disegno geometrico. Presso molti musei non si attribuisce gran valore al vasellame incaico, in parte perché è scarso e in parte perché le sue forme, per quanto eleganti, non possono a prima vista dirsi originali, poiché hanno molto in comune con le forme classiche del Mediterraneo. Alcune della anfore a due manici sono quasi identiche a una assai nota, che fu trovata nell’antica Troia, altre ricordano forme greche. Il vasellame incaico più interessante che si trovi nelle collezioni e nei musei, proviene dalla costa del Perù settentrionale, dove fioriva un artigianato che, assai prima della fondazione dell’Impero Inca, eccelleva nella rappresentazione di gruppi umani realistici, e persino nel ritratto eseguito con grande vivacità. Diverse ceramiche

peruviane della costa, per il realismo dell’azione e delle emozioni rappresentate, restano tuttora ineguagliate. Il corpo nudo vi figura nei più vari atteggiamenti e pose, molti dei quali così spinti da dover essere esclusi dalle esposizioni pubbliche. Gruppi tragici rappresentanti sacrifici umani, vivaci caricature di ubriachi, persone afflitte da malattie terribili: commedia e tragedia, tutto si trova rappresentato nella ceramica della costa. L’inesistenza quasi assoluta di simili raffigurazioni nella ceramica degli Inca, porta alla conclusione che questi dovevano nutrire fortissimi pregiudizi contro l’uso della forma umana nella decorazione, e ciò secondo alcuni sarebbe dovuto alla consuetudine, propria degli abitanti degli altipiani del Perù, di proteggersi contro i rigori di quelle regioni avvolgendosi in coperte e così in pratica celando la propria figura; tale consuetudine, tuttavia, non è certo che prevalesse molte migliaia d’anni fa, poiché gli Indiani delle zone meridionali del Sud America vivono in mezzo alla neve e al ghiaccio della Terra del Fuoco, quasi completamente nudi. Comunque, una volta introdotto l’uso degli abiti (che rapidamente dovette diffondersi in concomitanza con l’allevamento di animali da lana, come i llama e gli alpaca), è probabile che gli Indiani si trovassero ben presto a non poterne fare a meno. Nel corso dei tempi si finì così per considerare indecente far mostra del proprio corpo, e lo sviluppo di tali idee moralistiche provocò naturalmente un senso di pudore che trovò il contraltare nell’abitudine di usare nelle decorazioni disegni geometrici o figure di animali e uccelli stilizzati anziché la forma umana. Non deve di conseguenza sorprendente che la ceramica degli Inca ignori la forma umana, anche se il loro senso estetico, senza dubbio assai sviluppato, li indusse a creare anfore e piatti di un’eleganza pari a quella dell’antica Grecia. Il modello incaico più caratteristico e insieme più comune, è un vaso a forma di bottiglia con il fondo a punta, alto di solito dai 60 agli 80 centimetri, e capace di contenere oltre venti litri di chicha. Ha due manici a forma di listello piatto, attaccati verticalmente alla parte inferiore del corpo e un collo straordinariamente lungo. Di regola ogni anfora ha, presso l’orlo, due piccole sporgenze forate a forma d’orecchio. La parte frontale di tali anfore presenta in alto un’altra protuberanza che raffigura la testa stilizzata di una belva: di regola solo due occhi e una bocca appena abbozzati, di rado accompagnati da un accenno di orecchi, labbra, denti e narici. Si è avanzata l’ipotesi che con queste raffigurazioni grottesche gli artigiani intendessero spaventare lo spirito maligno che talvolta faceva spargere a terra la buona chicha, ma in pratica le sporgenze dovevano servire per reggere un coperchio oppure come tasselli decorativi indicanti il tipo e la provenienza della bevanda. Poiché queste anfore erano destinate ad essere trasportate a spalla in mezzo di una corda passata attraverso i manici e la sporgenza laterale, esse erano decorate quasi sempre su un lato solo; l’altro, quello che poggiava sulla schiena di chi le portava, restava privo di decorazioni. Sebbene siano solo lontane parenti dell’aryballos greco, certi studiosi di arte peruviana le indicarono con questo nome per molti anni. Ora, per quanto io ne sappia, anfore del genere non esistono in nessun’altra parte del mondo, sono esclusive dei luoghi in cui prevalse la civiltà incaica.

Uno degli oggetti più comuni tra quelli rinvenuti a Machu Picchu, è una ciotola piuttosto piatta con un manico da un lato solo, talvolta a forma di ampio anello, ma più spesso costituito da una testa di uccello o di animale domestico stilizzata, che s’appoggia al pollice di chi si serve della ciotola; sull’orlo opposto si nota invece una piccola decorazione in rilievo. Questi oggetti appaiono sempre lavorati con molta cura, e vivacemente decorati all’interno (mai all’esterno) con elaborati disegni geometrici. Talvolta, nella forma, somigliano alla classica patera, che era usata nei sacrifici per versare le libagioni. E’ divertente osservare come gli Inca, senza dubbio per invitare i bevitori a indulgere nel loro piacevole vizio, illeggiadrissero i manici di queste insolite coppe, e come invece rendessero sgradevoli e terrificanti i colli delle grosse giare. In una regione montana in cui esiste poco combustibile per i falò all’aperto e dove bere acqua gelata può provocare gravi disturbi, è naturale che i bisogni idrici dell’organismo siano soddisfatti mediante minestre calde e birra. Gli utensili usati per la chicha, accuramente dipinti e levigati, differiscono notevolmente dalle pentole od olle annerite dal fuoco, in cui gli Inca preparavano minestre e bolliti. La forma più comune dell’olla è quella col manico su un lato solo, e un unico piede o base. Il lato opposto al manico ad anello è di solito decorato a bassorilievo, probabile ricordo dell’originaria presenza di un secondo manico. Queste olle a forma di coppa solitamente erano alte dai 20 ai 30 cm. Senza dubbio alcuno, la forma fu il risultato di un lungo processo di evoluzione, iniziato allorché si mise al fuoco una semplice pentola a due manici; si trovò poi che, aggiungendovi una base o piede, la pentola poteva reggersi meglio sulle braci di un piccolo fuoco. Più tardi si scoprì che soltanto il manico rivolto dalla parte di chi cuoceva era realmente necessario, poiché l’altro manico diventava troppo caldo per essere di una qualche utilità, e così lo si abbandonò, sostituendolo con un piccolo ornamento a bassorilievo. Altro modello comune era un piatto di portata, con due manici a forma di listello, attaccati di solito orizzontalmente sotto l’orlo; il piatto, più largo che alto, era fatto in modo da permettere che il commensale potesse estrarre facilmente, con le mani, i cibi in esso contenuti, per lo più carne bollita, il principale alimento incaico. Tali piatti, che evidentemente non venivano mai posti sul fuoco, erano di fine argilla, accuratamente levigati e sobriamente decorati, all’interno e all’esterno, coi soliti disegni geometrici. Le coppe e i piatti eleganti, riservati alla chicha, erano spesso piacevolmente decorati con figure di giaguari dall’aria feroce o di puma guatantisi l’un l’altro con le fauci spalancate e i denti scoperti; il manico poteva anche raffigurare il muso ghignante di una volpe o coyote, squisitamente modellata. La modellazione di tali oggetti rivela sempre una grande abilità artistica, spesso un notevole senso umoristico. Talvolta la brocca per bere aveva la forma di un uomo grasso e soddisfatto, che si sostiene il ventre con le mani. Spesso le brocche a un manico solo erano decorate con una testa umana in bassorilievo, altre volte tale testa era per metà in rilievo e per metà dipinta. La brocca poteva, ancora, avere il manico decorato con una testa di giaguaro a fauci aperte; tra i denti della belva si poteva così passare un laccio e appendere la brocca a un sostegno.

Uno dei modelli più interessanti e rari della ceramica incaica è forse quello di certi bracieri a tre zampe con un manico di forma schiacciata in alto e una bocca di belva, di forma irregolare, abbozzata sul fianco. Alla sommità si trovano tre aperture, tre fori di sfogo; le zampe sono solide, cilindriche, e abbastanza alte da permettere che tra esse si possa accendere un fuoco, oltre a quello contenuto nei bracieri stessi, che quindi s’annerivano dentro e fuori. Erano sottoposti a un uso assai frequente e, piccoli e fragili come sono, non duravano a lungo, tant’è vero che non se n’è rinvenuto neppure uno in condizioni perfette. Le dimensioni normali dei bracieri a tre zampe sono: 20 centimetri circa d’altezza, 18 di larghezza e 20 di lunghezza. Probabilmente servivano a contenere un fuoco di carbone di legna, in cui i metalli potessero conservarsi roventi durante le varie fasi della lavorazione. I fori alla sommità erano di dimensioni tali da permettere di inserire cannule di soffiamento, pratica spesso ricordata dalle prime cronache spagnole, ma non da disperdere il calore; i bracieri quindi si riscaldavano rapidamente. Li si usava per la fabbricazione di coltelli di bronzo, accette, scalpelli e spilloni, che dovevano essere riscaldati e temperati più volte. LA METALLURGIA Salvo piccolissime quantità di zolfo in esso contenute, il bronzo incaico è stato riconosciuto come eccezionalmente puro. La proporzione del rame del bronzo incaico varia, a seconda degli oggetti, dall’86 al 97 per cento. Alcuni archeologi sono dell’opinione che, poiché la maggiore quantità di stagno la si trova proprio in quei bronzi che sembrerebbero richiederne meno, la presenza di stagno nei bronzi incaici debba essere ritenuta accidentale. Questa ipotesi è stata attentamente vagliata da diversi esperti di aziende minerarie operanti nelle Ande. Tutti sono stati d’accordo nell’affermarla insostenibile, in quanto in nessuna zona del Sud America si trovano rame e stagno combinati fra di loro allo stato naturale. È ben noto che, durante la seconda guerra mondiale, enormi quantità di stagno furono ricavate dalle miniere boliviane, le quali sostituirono, nei rifornimenti all’industria statunitense, le miniere della Polinesia occupate dai Giapponesi. E’ anche noto che enormi depositi di rame sono stati trovati in Perù, ma mai in combinazione con lo stagno. Il professor Charles H. Matthewson, della Yale University, giunse quindi alla conclusione che la percentuale di stagno contenuta nei bronzi incaici non era determinata dagli usi ai quali essi erano destinati, bensì solo dalle esigenze degli antichi metodi di lavorazione. Gli Inca scoprirono che il bronzo contenente un’alta percentuale di stagno riceve meglio l’impronta dello stampo perché durante il processo di fusione si espande di più di quanto non faccia il bronzo che ne contenga una percentuale più bassa. Ecco dunque spiegato perché i pezzi ornamentali più raffinati e delicati contengono una maggiore percentuale di stagno: i dettagli artistici risultavano più marcati. Naturalmente, se gli Inca avessero posseduto utensili d’acciaio per incidere, il caso sarebbe stato diverso. Comunque, gli artigiani incaici compresero che la fusione di piccoli oggetti delicati è facilitata quando nella miscela vi sia almeno il 10 per cento di stagno. Tali leghe mantengono più a lungo il loro calore iniziale, rimanendo perciò più a lungo allo stato semifluido. Dato che gli oggetti piccoli tendono a raffreddare

rapidamente, la nozione di questa particolarità era oltremodo utile nella fabbricazione di spilloni ornamentali e di orecchini, e giustifica l’alta percentuale di stagno usata dagli Inca nel fabbricarli. Poiché i primi fabbri non erano a conoscenza dei moderni metodi di trattamento a caldo, nella colata destinata alla forgiatura di accette e scalpelli erano costretti ad aumentare il contenuto di stagno e quindi a rinunciare a una maggiore durezza e resistenza del metallo. Tali oggetti richiedevano una martellatura e una tempera frequenti e, dal momento che per ottenere la durezza finale si doveva ricorrere al trattamento a freddo, era giocoforza scaldare le lame più d’una volta, e per far ciò era necessario un basso contenuto di stagno. E’ ovvio pertanto che essi impiegassero una speciale formula per la combinazione del rame e dello stagno, quella stessa che, per essere inadatta alla fabbricazione di arnesi quali accette, scalpelli e coltellacci, lasciò interdetti gli archeologi, avvezzi soltanto alle analisi chimiche dei bronzi incaici. Si rese indispensabile un accurato studio metallografico dei bronzi incaici, ivi compresa la mutilazione di alcuni pezzi, per consentire al professor Matthewson di appurare la struttura di quegli oggetti, i metodi di fabbricazione e la ragione delle varianti riscontrate. Solitamente i coltellacci di bronzo venivano “colati” in un sol pezzo e quindi lavorati a freddo e, se si procedeva a ulteriori riscaldamenti, era solo allo scopo di ammorbidire il metallo per facilitare il trattamento stesso, che veniva probabilmente eseguito a un grado di calore inferiore a quello dell’incandescenza. Da un attento esame è risultato che alcuni bronzi incaici furono ripetutamente riscaldati e martellati e tale martellamento dev’essere avvenuto mediante arnesi di pietra, il cui impiego era ben noto agli Inca. Pare che le lame dei coltelli venissero lavorate e martellate in modo da distendere più o meno uniformemente il metallo in ogni direzione. Invece scalpelli e accette erano “colati” praticamente nella forma definitiva desiderata. I coltelli incaici avevano la forma di una T capovolta. Se desiderava adornare l’estremità d’un manico con la testa di un llama o con un grazioso uccello, il fabbro incaico, abbastanza abile da usare diversi tipi di bronzo, eseguiva l’ornamento con metallo ad alta percentuale di stagno, mentre la lama e l’estremità inferiore del manico erano a più bassa percentuale di stagno, perché le lame, come s’è detto, dovevano essere lavorate a freddo. La parte ornamentale del manico del coltello era applicata al fusto del coltello stesso dopo che questo era stato finito. L’artigiano incaico, preoccupandosi di ottenere un coltello utilizzabile e nello stesso tempo di piacevole fattura, aveva appreso, nel corso dei secoli, a dedicare infinite attenzioni alla sua fabbricazione. Se desiderava praticare un foro alla base di un coltello o di uno spillone, lo faceva mentre li forgiava, non possedendo utensili d’acciaio adatti a trapanare. Nella fabbricazione delle bolas di bronzo usate per catturare al volo un pappagallo o un variopinto macao, l’artigiano inseriva due spilloni nelle sfere durante il processo di fusione, in modo che la corda che le univa potesse venir fissata saldamente senza che si dovesse intervenire in un secondo tempo sulla superficie levigata. Gli spilloni non venivano dunque infilati nelle bolas, ma fusi in esse. Doveva essere uno spettacolo straordinario, quello offerto da un cacciatore incaico

intento ad abbattere un macao in volo con le piccole bolas di bronzo che, se lanciate al momento giusto, immobilizzavano le ali e le zampe dell’animale senza danneggiare il piumaggio o le pelliccia. Alcune lame d’ascia recano tacche e segni, dai quali risulta che furono usate per lavorare la pietra, probabilmente per praticarvi fori o aperture di forma quadrata, cosa che non era possibile fare con strumenti di pietra. Ritengo comunque improbabile che i blocchi di granito venissero rifiniti anche all’esterno mediante le asce di bronzo. Esperimenti compiuti hanno dimostrato che, con la pazienza e la perseveranza, mediante un’azione di sfregamento con sabbia si possono fare dei veri miracoli ai fini della sgrossa tura e rifinitura, sia del granito che dell’andesite, anche servendosi di semplici utensili di pietra. E’ comunque quasi certo che gli operai incaici usassero piccole ma potenti leve di bronzo, per il trasporto di massi troppo pesanti per poter essere sollevati a braccia. Denominate champis, queste leve erano tanto resistenti da servire alla dislocazione e sistemazione di blocchi di pietra del peso di dieci, perfino venti tonnellate. Nel corso di una prova di tensione, un vecchio champi incaico di scadente qualità mostrò di poter sostenere sino a circa 4000 chili per centimetro quadrato di spessore. A seguito di un esperimento fatto con una leva nuova di bronzo della stessa composizione, scoprimmo che, una volta indurita con i metodi conosciuti dagli artigiani incaici, essa poteva sostenere un peso ancora superiore. Gli Inca, per lavorare blocchi di granito del peso di venti tonnellate senza danneggiarli, usarono quasi certamente queste piccole leve; ma non adoperarono il bronzo soltanto per fabbricare asce, coltelli, scalpelli e leve, bensì anche per fabbricare utensili domestici come pinzette, spilloni e aghi, nonché oggetti d’ornamento personale, quali anelli, braccialetti, lustrini e campanelle. Fecero, del pari, orecchini a pendente, la cui estremità superiore era spesso decorata con figure di colibri. Gli oggetti di bronzo forse più comuni creati dagli Inca erano gli spilloni. I primi disegni fattine dai conquistatori spagnoli mostrano che questi oggetti venivano usati per tener chiuso il mantello, abitudine ancora oggi comune nelle Ande; ho notato che, in molti casi, attualmente l’estremità dello spillone è a forma di cucchiaio, mentre gli Inca non conoscevano l’uso dei cucchiai veri e propri. Le estremità superiori di questi spilloni, che variano dai nove ai quindici centimetri di lunghezza, sono generalmente piatte e a mezzaluna. Erano battute sino a renderle molto sottili, con i bordi affilatissimi, e non è escluso che fossero usate anche per tagliare. Poiché le donne incaiche erano quasi sempre occupate a filare o a tessere stoffe, esse devono aver trovato utili e maneggevoli tali piccoli coltelli. Gli Inca costruirono specchi di bronzo simili a quelli scoperti nelle antiche tombe egizie e riuscirono anche ad ottenere uno specchio di bronzo a forma concava che, levigato, era in grado di concentrare i raggi del sole quel tanto che bastava per infiammare un batuffolo di cotone e accendere poi un fuoco. La loro abilità nella lavorazione del metallo è veramente impressionante e non si può non pensare al lungo tempo che dev’essere stato necessario per apprendere quest’arte.

Gli Inca producevano anche, sempre in bronzo, dei moschettoni, cioè grossi aghi con occhielli sufficientemente larghi perché vi si potesse infilare una robusta corda. Talvolta questi occhielli erano ottenuti appiattendo l’estremità di una striscia di bronzo la quale veniva poi piegata su se stessa e fatta aderire, a colpi di martello, al fusto del moschettone. Tale processo veniva eseguito con l’ausilio dei piccoli bracieri di cui s’è detto. Gli Inca fabbricarono inoltre pinzette di bronzo, da usarsi per lo stesso scopo che hanno i rasoi moderni. Raramente si incontrano Indiani degli altipiani che abbiano peli sul viso. Probabilmente gli Inca si preoccupavano di far sparire dal volto qualsiasi pelo superfluo. Del resto, l’abitudine di strappare ogni peluria del viso per mezzo di pinzette era nota anche alle tribù della Micronesia e delle isole Gilbert in tempi remotissimi, il che dimostra l’antichità dell’usanza delle cure estetiche. LA TESSITURA Gli Inca poterono dirsi fortunati di avere, per sudditi, popolazioni laboriose abituate alle più dure e prolungate fatiche. Qualche volta accade, oggi, di incontrare in queste regioni uomini oziosi, ma mai si vedono donne quechua che non siano in qualche modo occupate. Sempre, che custodiscano un gregge o camminino lungo la strada, esse tessono o filano; in casa, sono assai spesso occupate a confezionare scialli, cinture, ponchos e coperte con un telaio a mano. Anche gli uomini e i bambini che abbiano raggiunto una certa età, sono talvolta occupati nello stesso lavoro. In realtà, quella degli Inca fu una delle più importanti arti tessili che vi siano mai state al mondo. Noi, per i nostri tessuti più fini, ricorriamo alla seta e al lino; gli Inca non conobbero né il baco da seta né la pianta del lino, ma in compenso possedevano il cotone, la soffice lana dell’alpaca, e quella, rara e straordinariamente leggera, del vicuña. Non si preoccuparono però mai di addomesticare il vicuña accontentandosi delle pelli raccolte dai loro cacciatori in seguito a colossali battute annuali. Non v’è turista, nel Perù, che non cerchi di assicurarsi qualche coperta di vicuña, ma questi piccoli animali sono oggi talmente rari che la legge ne vieta severamente l’uccisione, e anche nel periodo incaico pare che la lana ne fosse riservata solo ai governanti e ai nobili. Gli esemplari di antichi tessuti peruviani a noi pervenuti possono ben dirsi stupefacenti. Nei musei d’arte di Boston, New York e Washington, se ne possono vedere degli esemplari raffinatissimi, degni d’ammirazione non meno dei migliori prodotti della tessitura egiziana o cinese. Le risorse d’inventiva dei tessitori peruviani permisero loro di creare modelli che testimoniano di un periodo di sviluppo artistico altrettanto lungo di quello che conobbero Egitto e Cina. Le rare, belle stoffe che sono state ritrovate nei cimiteri delle coste peruviane, e la cui conservazione è stata favorita dall’arido clima di quelle zone, provano agli studiosi di storia dell’arte la grandezza della civiltà incaica. In nessuna di queste stoffe è dato rilevare qualche influenza asiatica. Si vuole che le stoffe migliori siano state tessute nei conventi femminili annessi ai templi del Sole, dalle esperte mani delle vestali, le Vergini del Sole, le quali venivano minuziosamente istruite in questa difficile arte. Alcuni dei loro prodotti sono eleganti

e soffici come quelli confezionati con la seta più fine. Il museo di Lima è quello che oggi vanta gli esemplari migliori. IL POPOLO Nessuno conosce le origini del popolo su cui regnarono gli Inca. Gli antropologi ci assicurano che la struttura ossea dell’indiano d’America è molto simile a quella dei popoli della Siberia nordorientale. Comunque, ciò non prova né che vi sia stata una migrazione dall’Asia verso l’America, né viceversa che i popoli dell’Asia Orientale siano giunti dall’America; e, anche ammettendo che una tale migrazione sia avvenuta, in qualsiasi direzione essa si sia mossa, dovrebbe essere avvenuta tante migliaia d’anni fa, che è assurdo sperare di trovarne prove concrete di carattere archeologico o antropologico. In altre parole, non risulta che vi sia identità alcuna fra la cultura dell’Asia nord-orientale e la cultura dell’America centro-meridionale. Inoltre, poiché la coltura del frumento, che è una delle più importanti del mondo, ebbe grande sviluppo in Asia mentre fu sconosciuta in America e poiché, ancora, in Asia furono ignote altre due colture di enorme importanza, quelle della patata e del granturco, pare quasi certo che la migrazione in questione dev’essere avvenuta, se mai ebbe luogo, migliaia e migliaia d’anni or sono. Cosa che sembra comprovata dalla recente scoperta, fatta nel Nord America, dei resti dell’uomo glaciale, che si presume vissuto circa 20.000 anni fa. La preoccupazione degli Inca di diffondere la lingua quechua ovunque andassero, fa pensare che essi discendessero da una tribù quechua. I quechua sono di color bruno e hanno capelli lisci e neri, raramente grigi. In alcune località gli uomini conservano ancora l’abitudine di portare capelli lunghi intrecciati. Di solito non hanno barba e, quando questa c’è, è molto rada. I pochi indiani barbuti hanno nelle vene, quasi certamente, qualche goccia di sangue spagnolo. Fra i quechua sono molto rari anche gli individui calvi, e la dentatura di questi indios è notevolmente più robusta di quella dei bianchi. In tutte le Ande, se si eccettuano le zone in cui vi sono piantagioni di canne da zucchero, e dove quindi questa viene consumata cruda e spezzettata nei dolci o, più comunemente, mescolata a granturco abbrustolito (che è uno dei piatti fondamentali), il numero di individui coi denti perfettamente conservati è altissimo. Gli Inca non conoscevano l’uso dello zucchero ed è quindi presumibile che avessero denti talmente sani da poter masticare agevolmente i duri chicchi del granturco crudo o appena abbrustolito. Il volto dei quechua è largo e corto. Difficile trovare volti lentigginosi, sebbene gran parte degli indiani di montagna siano butterati. Tuttavia, in epoca preistorica il vaiolo doveva essere del tutto sconosciuto nelle Ande; d’altra parte esistono prove abbastanza evidenti, sia nelle necropoli preistoriche che nelle vivide raffigurazioni della ceramica della costa, che la sifilide, lungi dall’essere un retaggio del Vecchio Mondo, era una malattia aborigena, probabilmente portata dall’America al Mediterraneo dai marinai delle prime spedizioni: fu il peggior dono che il Nuovo Mondo offrì al Vecchio, in cambio dei “benefici” della cultura europea. E’ probabile che gli Inca fossero asciutti e scattanti. Ancora oggi è difficile incontrare montanari indiani grassi. Non saprei dire se si tratta d’una caratteristica razziale, o piuttosto della conseguenza delle dure fatiche sostenute da chi vive in zone montane.

L’uso abbondante della patata bianca dovrebbe comunque portare alla pinguedine se non fosse controbilanciato dall’esercizio fisico; la dieta degli Inca non conteneva molta carne, essendo llama e alpaca troppo preziosi per poter venire macellati. Per quanto gli abitanti degli altipiani del Perù abbiano saputo fare ottimo uso del llama, essi non furono mai capaci di ottenerne esemplari con zampe meno esili e una groppa di resistenza tale da reggere pesi superiori ai cinquanta chili. Di conseguenza, per il trasporto di carichi molto pesanti gli Inca furono costretti a ricorrere alla forza umana; il risultato fu, in contrasto con la presenza di braccia poco sviluppate, un’eccezionale larghezza delle spalle e una muscolatura del dorso e delle gambe assai più solida della media di altre razze umane. I COSTUMI Fra gli Inca, ogni uomo poteva, almeno in teoria, contrarre matrimonio con più donne. La poligamia era generale fra le classi elevate, e da coloro che se la potevano permettere era considerata uno stato ideale. Ai regnanti, ai nobili e ai capi militari più influenti, spettavano numerose concubine, tratte dai tanti convitti o meglio conventi in cui erano educate le ragazze giovani e più belle, le Donne Sacre, selezionate annualmente in tutto l’Impero. Queste vestali, la cui esistenza era consacrata al servizio del Sole o dei suoi rappresentanti in terra, gli Inca e i sacerdoti, vivevano in santuari dislocati in tutto l’Impero. Per l’Inca, era un grande onore la costruzione di uno di questi santuari entro i confini di una provincia appena conquistata. Secondo i conquistatori spagnoli, il convento più importante si trovava a Cuzco, attiguo al Tempio del Sole. Le fanciulle più belle e di migliore nascita erano scelte in ogni provincia sin dall’età di otto o nove anni ed erano vigilate dalle donne più anziane vissute già per anni nei conventi. Alle ragazze non veniva insegnato soltanto a tessere con grande abilità gli abiti portati dai nobili e le belle vesti e gli elaborati drappi di cui ornarsi in occasione delle festività nazionali, ma anche a preparare cibi e bevande speciali per le grandi cerimonie. A quanto sembra, le ragazze erano tenute nei conventi sino all’età di sedici anni, quindi venivano divise in tre classi secondo il loro grado di bellezza. Probabilmente le più belle tra quelle nate dalle famiglie migliori, divenivano concubine dello stesso Inca. Si ritiene anche che alcune fossero scelte per venire sacrificate in onore del Sole, o per lo meno per essere internate a vita in uno dei conventi dove sarebbero vissute quali addette al tempio e istruttrici delle novizie. Le appartenenti al terzo gruppo, infine, sembra fossero offerte dall’imperatore ai nobili o ai capi militari cui egli desiderava mostrare il suo favore, e ne divenivano le mogli regolari. Che le ragazze più desiderabili fossero scelte per onorare il Sole, considerato una benevola divinità apportatrice di vita, sembra del tutto naturale. Nelle Ande, se si escludono i rari giorni in cui risplende il sole, la vita non può certo dirsi agevole, per cui non sorprende che l’astro dovesse essere adeguatamente propiziato, supplicato e ringraziato. Era indispensabile che il dio Sole venisse accontentato in ogni suo possibile desiderio, e i sacerdoti si servivano, a tale scopo, appunto delle giovanette più attraenti del regno.

In parte, le notizie in nostro possesso sulle Donne Sacre, o Vergini del Sole, ci provengono dagli scritti di Cieza de Leon, il più grande e illustre degli storici contemporanei al periodo della conquista. Egli dice che alle porte dei conventi, a guardia delle Vergini, stavano delle custodi; le Vergini, oltre che attraenti, dovevano essere di nobile nascita. E se qualcuna di esse aveva rapporti con uomini, veniva sepolta viva, e la stessa condanna veniva inflitta ai loro amanti. Un contemporaneo di Cieza, Polo de Ondegardo, dice che i conventi erano chiamati achla-huasi, cioè, ‘case delle prescelte’. Egli afferma che le fanciulle venivano scelte dai governatori delle province, i quali avevano la facoltà di inviare ai conventi tutte le ragazze di età appropriata che ritenessero opportuno. Le maestre erano chiamate mama-cunas. Polo de Ondegardo scrive, ancora, che il numero delle donne selezionate così era molto grande e che i parenti non avevano alcuna facoltà di chiedere l’esenzione dal sacro servizio delle figlie, come non avevano, per nessuna ragione, la facoltà di riscattarle. I conventi si sovvenzionavano mediante apposite proprietà fondiarie. Infine, sempre secondo lo stesso storico, la grande quantità d’abiti che si confezionavano nei conventi era distribuita fra i guerrieri favoriti dall’Inca, che a loro volta ne rifornivano parenti e servi. Altri abiti, anche questi in gran numero, venivano accantonati in speciali magazzini e usati secondo le necessità. LA RELIGIONE La religione degli antichi popoli, come i loro usi e costumi, dipendeva in larga misura dal clima della regione in cui vivevano. Se la regione era calda, il sole opprimente e le notti fresche e piacevoli, evidentemente i motivi d’adorazione del Sole cedevano alla tendenza ad adorare stelle e luna. Dall’osservazione continua di questi corpi celesti, derivò quello sviluppo dell’astronomia e dell’astrologia che è un tratto caratteristico sia della civiltà araba che nella civiltà maya dell’America Centrale. Nelle alte Ande, al contrario, dove l’atmosfera rarefatta non trattiene il calore del sole e le notti sono di un freddo pungente, non sorprende che si facesse così poca attenzione alle stelle, e tanta importanza avesse invece l’adorazione del Sole. Anche altre manifestazioni e realtà naturali, il tuono e il lampo, le vette montane, i pericolosi precipizi, le cascate, attirarono l’attenzione degli Inca, che ritennero utile propiziarseli mediante atti di adorazione e offerte, affinché proteggessero gli uomini dai pericoli e dal male. Com’è logico, il più importante oggetto di culto era il Sole, senza il quale le messi non crescevano e la vita diventava intollerabile, Bisognava procurarsi i suoi favori, e poiché nel mese di giugno il sole si spostava sempre più a nord e le ombre si allungavano, era giustificato il timore che l’astro continuasse la sua corsa verso settentrione, lasciando morire di freddo e di fame gli Inca. Erano quindi oggetto di venerazione i sacerdoti del Sole, che il ventuno o il ventidue di giugno riuscivano a fermare il suo volo e a legare il sole a un pilastro di pietra in uno dei loro templi. Quando le ombre cessavano di allungarsi e anzi gradualmente si accorciavano, finché il sole tornava a picco sulle teste, restaurando fermamente il proprio regno, si levava grande tripudio in tutta la nazione. Il periodo del solstizio d’estate era di gioia, proprio come il solstizio d’inverno era un periodo di paura. È probabile che i

sacerdoti del Sole, le cui vite dipendevano dalla capacità di “controllare” i movimenti dell’astro, avessero imparato a valutare il corso del tempo dalla lunghezza dell’ombra gettata dalle enormi meridiane chiamate intihuatana, ovvero ‘luogo cui il sole è legato’. Si spiega così la presenza di queste sacre pietre entro il recinto del santuario in cui il Sole era adorato e dove alle Prescelte veniva insegnato a comportarsi come sue ancelle, a essere buone mogli di sacerdoti e nobili; a loro era affidato il compito di tessere belle cinture, di cucinare piatti prelibati e di distillare l’eccellente chicha, con cui il cuore di un uomo può essere reso felice, e si vincono preoccupazioni, fatiche, paure. La più ambita delle fortune, per un archeologo che compia le sue ricerche nella regione andina, è certamente la scoperta dei resti di un santuario completo, che ospiti cioè nei suoi recinti, accanto ai templi del Sole, quelli della Luna e delle Stelle: un santuario in cui si drizzi la intihuatana, vi sia una buona fonte di acqua fresca per la chicha, sorgano i palazzi per i sacerdoti e i nobili, e i dormitori per le donne prescelte ad essere le Vergini del Sole. Fu un santuario del genere che trovarono Pizarro e i suoi a Cuzco, e toccò a noi di scoprirne un secondo, costruito con estrema cura dai più abili architetti e muratori del regno, nella zona più inaccessibile delle Ande.

2 L’ORIGINE DEGLI INCA

Più si approfondisce lo studio della straordinaria civiltà scoperta dagli Spagnoli conquistatori del Perù, e più ci si dispiace del fatto che gli Inca e i loro predecessori non abbiano appreso l’arte della scrittura alfabetica o almeno geroglifica; se avessero lasciato iscrizioni da decifrare e tradurre, avrebbero notevolmente facilitato il compito di chi indaga sulla loro storia. Gli studiosi dell’arte e dell’architettura concordano nell’affermare che il periodo di tempo necessario all’evoluzione delle geniali capacità rivelate dagli Inca nel creare oggetti di ottima fattura e indubbia bellezza, deve essere stato più o meno della stessa lunghezza di quello occorso a Egiziani e Greci. La cronologia dell’Egitto e delle regioni mediterranee in genere, fu fortunatamente affidata a tavolette, iscrizioni e manoscritti, fu incisa nella pietra o nell’argilla, scritta su papiri o su pergamene; ragion per cui, noi siamo in possesso di notizie abbastanza precise circa il tempo necessario all’evoluzione delle arti locali. Coloro che studiano l’antico Perù, invece, non posseggono nulla di altrettanto certo su cui basare le proprie investigazioni, e sono costretti a basarsi su notizie di seconda mano, spesso contraddittorie, raccolte al tempo della conquista spagnola, a centinaia di anni dagli eventi narrativi; devono fare assegnamento su frammenti di stoffe e di ceramiche, su rovine di templi e di terrazze, sul materiale scoperto nelle tombe, e sullo studio dei risultati a cui pervennero gli Inca nell’agricoltura e nell’allevamento del bestiame. Questo il materiale sulla scorta del quale elaborare qualcosa che, nel migliore dei casi, sarà tutt’al più di una storia estremamente frammentaria, sui particolari della quale non si troverebbero d’accordo due soli studiosi! Non resta quindi che esaminare pazientemente i dati oggettivi, offertici dal clima, dalla geografia fisica e dall’antropologia della regione, e usarli ai fini dell’elaborazione di teorie ragionevoli, che non possano essere contraddette dalla semplice evidenza dei fatti. Chiunque abbia letto le cronache tramandateci dai primi conquistatori spagnoli e dai loro discendenti, quali Garcilaso de la Vega “el Inca”, oppure dai missionari sacerdoti, monaci e gesuiti che impararono la lingua degli Inca e scrissero di ciò che videro e udi rono, sa bene che le loro affermazioni sono frequentemente così contraddittorie da poter essere difficilmente prese alla lettera. Perciò, quando le cronache spagnole contrastano con le abitudini delle popolazioni dell’altipiano, nonché con l’evidenza fisica dei dati ricavati dall’esplorazione, dagli scavi e dall’osservazione diretta, è più che lecito dubitare della loro attendibilità. Per ciò che riguarda la letteratura anglosassone, la prima relazione completa sulla civiltà degli Inca redatta in inglese è quella del grande storico William H. Prescott, che ovviò alle limitazioni impostegli dalla sua parziale cecità e all’incapacità di compiere lunghi viaggi, provvedendo pazientemente a raccogliere tutti i libri e i manoscritti riguardanti il Perù che gli riuscì di trovare. I suoi vividi racconti sulla conquista del Perù e del Messico, resteranno dei classici ancora per molte generazioni di lettori. Necessariamente, la sua versione della conquista del Perù è largamente basata sulle cronache di Garcilaso de la Vega “el Inca”, figlio di una principessa incaica, nato a Cuzco nell’anno 1539. Sfortunatamente per la precisione del suo

famoso libro Commentari Reali degli Inca, Garcilaso lasciò il Perù quando aveva soltanto dieci anni, non tornò mai nella terra natale, trascorse gran parte della sua esistenza in Spagna e scrisse le sue celebrate cronache quando era già vecchio. Senza dubbio, durante gli anni trascorsi in Europa Garcilaso dovette subire affronti e tollerare il disprezzo di cui i contemporanei gratificavano questo discendente dei “pagani” andini dalla pelle scura. E’ probabile che Garcilaso avesse ripetuto più volte le storie del popolo materno, magnificandone la civiltà; ed è altrettanto probabile che avesse un’idea assai chiara delle cose che potevano far colpo sui suoi ascoltatori europei: in altre parole, egli si rendeva conto che, agli occhi di questi, alcuni aspetti sembravano ammirevoli, altri riprovevoli. È quindi naturale che, nel corso dei trenta o quaranta anni di vita trascorsi in Spagna prima di dar mano alla compilazione della sua opera, Garcilaso finisse per credere il popolo materno più affine agli europei di quanto non fosse in realtà. Egli desiderava che gli europei ammirassero i suoi avi materni, e si lasciò guidare, nella stesura del libro, da questa preoccupazione. Di conseguenza, nella sua opera e in quella del Prescott, basata sul Garcilaso, molte sono le pagine e molti i giudizi che esprimono punti di vista prettamente europei. Un libro di tipo diverso è dovuto alla penna di un altro scrittore, un ecclesiastico del xvii secolo alla cui persona e opera oggi si comincia a fare maggior attenzione. Il nome di questo ecclesiastico era Fernando de Montesinos. Nel 1629, a un secolo di distanza dalla conquista, Montesinos fu inviato in Perú come consigliere di un viceré, il conte di Chinchón, il cui nome è passato alla storia per il fatto che sua moglie fu curata dalla malaria con l’uso di uno dei pochi specifici esistenti nel mondo e che rappresenta una delle scoperte più importanti degli Inca: una corteccia che essi chiamavano kina, e che noi conosciamo con il nome di chinino o “corteccia peruviana”. Essendo stato il conte di Chinchón il veicolo dell’introduzione in Europa di questo straordinario medicamento, la pianta da cui la preziosa corteccia è tratta si chiamò, in suo onore, chincona. Montesinos divenne dunque segretario del viceré; egli possedeva una solida cultura ed era attratto dalle ricerche storiche. Percorse il Perú in lungo e in largo, e pubblicò numerosi libri, tra i quali una storia degli Inca dal titolo Memorias Antiguas Historiales del Perù, la cui obiettività e autorevolezza fu purtroppo infirmata da una introduzione nella quale, come del resto era logico aspettarsi da un intransigente ecclesiastico par suo, proclamò che il Perú era stato popolato dai discendenti di Ophir, pronipote di Noè! Ma, a parte i pregiudizi clericali, l’opera del Montesinos appare di estremo valore. Sir Clements Markham, il maggior studioso inglese della storia incaica, era incline ad accordare credito a molte affermazioni di Montesinos. Da certi vecchi, depositari della saggezza locale, che gli riuscì di interrogare nella terra degli Inca, Montesinos apprese una lunga storia dei re pre-incaici, chiamati Amautas, cui si dovrebbero molti dei progressi civili che noi, usando il termine Inca per indicare genericamente la civiltà e la cultura scoperte negli altipiani del Perú, ascriviamo senz’altro a questi ultimi. Montesinos dice che «il cinquantatreesimo sovrano del Perú» era chiamato Huilcanota o Vilcanota. Huilca è il nome di una pianta da cui gli aborigeni traevano

un narcotico, o meglio uno stupefacente capace di produrre piacevoli visioni. Che sia stato Huilcanota il primo a scoprire le virtù dei semi da cui veniva tratto lo stupefacente? Impossibile dirlo. Egli comunque diede il proprio nome al passo ora chiamato La Raya, posto sullo spartiacque fra il bacino delle Amazzoni e il lago Titicaca, e che gli Inca, è noto, chiamavano Vilcanota. Montesinos era invece dell’opinione che il re fosse stato così soprannominato dopo una grande vittoria da lui conseguita al passo suddetto. Stando a Cuzco, la sua capitale, avrebbe appreso dai rapporti dei governatori provinciali che grandi orde di popoli barbari provenienti dalle pianure dell’attuale Argentina si prepa ravano a invadere l’altopiano della Bolivia e il bacino del lago Titicaca. Per avere ragguagli sulle forze nemiche, Vilcanota inviò delle spie. Apprese così che i barbari stavano avanzando con due grandi eserciti; riunì allora una potente armata, e occupò e fortificò l’alto passo nevoso di La Raya. Secondo Montesinos, là egli affrontò il primo esercito che, non essendo ordinato a battaglia, potè essere sconfitto facilmente. Udita la notizia, accorse a dar man forte, in con fusa promiscuità, il secondo esercito barbarico, e fu battuto esso pure. Il re tornò a Cuzco trionfante, spingendosi innanzi gli sconfitti, nudi, le mani legate. Fu per questa impresa che lo si chiamò re Huilcanota.

Aggiunge Montesinos che re Vilcanota riuscì a pacificare il suo Impero, regnò a lungo e lasciò molti figli. Uno di essi, di nome Tupac Yupanqui, «ricco di tutte le virtù», ebbe numerosa prole e fu un avveduto condottiero. Egli fu ben visto da amici e da vicini, con i quali scambiava ambascerie e doni; insegnò ai propri figli l’arte del governo e li circondò di esperti consiglieri. Il suo pronipote, Huaman Tacco, fu il sessantunesimo Amauta; durante il suo regno si ebbero infausti presagi, apparvero comete e vi furono terremoti. L’erede e successore di Huaman Tacco fu Pachacuti. Costui non fu né saggio né forte. Sfortunatamente, ai suoi tempi si ripeterono le migrazioni dei barbari, «grandi eserciti di fierissimi popoli» provenienti dall’Oriente e dal Sud. Pieno di costernazione e tristezza a causa dei terremoti, delle comete, degli altri infausti segni e per i presagi degli stregoni e degli indovini, Pachacuti offrì sacrifici agli dèi e fece del suo meglio per prepararsi alla difesa, creando stazionamenti militari e fortificando i passi. Ma quando apprese, dalle sue spie, che orde di guerrieri nemici stavano marciando verso Nord attraverso il bacino del lago Titicaca, si lasciò prendere dal panico, al punto di sparpagliare le proprie forze, e alcuni generali li inviò sull’altipiano della Bolivia, altri ne spedì a difendere questo o quel passo, e lui personalmente si schierò con la maggior parte delle truppe al passo La Raya, che il suo famoso antenato Vilcanota aveva così validamente difeso.

Là costruì una fortezza, i cui avanzi si vedono tuttora. Invece di attendere, al riparo di mura e terrazze, che il nemico attaccasse e quindi si trovasse in posizione di svantaggio, pretese, contro il parere dei suoi stessi generali, di compiere una sortita e di dar battaglia. Le sue truppe erano armate di fìonde, randelli e lance; il nemico aveva archi e frecce. Lo scontro fu terribile. Issato su una lettiga d’oro, Pachacuti fece del suo meglio per incoraggiare le truppe, ma purtroppo si rivelò un bersaglio assai facile per gli arcieri nemici. Restò mortalmente ferito da una freccia e la sua fine gettò la costernazione fra le truppe. Preso il coraggio, i soldati fuggirono portando seco il corpo del loro re, e si asserragliarono in una fortezza.

Di notte, in gran segreto trasportarono poi il cadavere del sovrano in un luogo sicuro chiamato Tampu-tocco, ovverosia “luogo di temporaneo soggiorno munito di finestre” o anche “Locanda (o posto di tappa) della finestra”. Fu qui che si raccolsero i resti dell’esercito di Pachacuti. Dopo questa sconfitta, narra Montesinos, le provincie dell’Impero, saputo della morte del re, si sollevarono in rivolta, e fra quelli di Tampu-tocco si ebbero lunghi dissensi circa la scelta del nuovo re. Fu così che la monarchia peruviana perdette il suo dominio e crollò». Passarono quattrocento anni prima che questo venisse ristabilito e in quel lasso di tempo si perdette ogni memoria d’una letteratura scritta. In ogni provincia fu eletto un re, e colui cui toccò di essere l’erede di Pachacuti fu Titu Huaman Quicho, ragazzo in tenerissima età. «Gli uomini rimasti fedeli alla monarchia erano pochi». Essi si raccolsero a Tampu-tocco e lì provvidero a eleggere il sovrano: a causa delle rivolte, infatti, nessuno avrebbe potuto vivere a Cuzco, il paese essendo tutto sottosopra. A poco a poco, la gente prese a trasferirsi a Tampu-tocco sotto la protezione del re, per cui a Cuzco non restò quasi nessuno, in pratica solo i ministri del tempio. E i vassalli fedeli furono felici a Tampu-tocco col re fanciullo, perché lì, stando a certe leggende degli Amautas, ha sede la venerata grotta da cui uscirono gli Inca, e costoro sostengono e proclamano che in quella regione mai ebbero a verificarsi terremoti o pestilenze o altri disastri. E ancora che, semmai la cattiva sorte perseguitasse il re fanciullo, essi avrebbero potuto celarlo nella grotta quale un luogo sacro. E il re crebbe in età, visse secondo saggezza per lunghi anni. Egli si chiamò sovrano di Tampu-tocco, non già di Cuzco, sebbene nei giorni stabiliti si recasse a pregare nel tempio [di Cuzco]. Nominò suo erede Cozque Huaman Titu, che visse ancora per venticinque anni. Di lui e dei suoi successori non vi è nulla di notevole da ricordare, ad eccezione del ritorno a Cuzco.

Montesinos attribuisce al regno dei sovrani di Tampu-tocco una durata di circa quattrocento anni. Quindi si ebbe il regno di Pachacuti VII, che riuscì a riannettere alcune delle città e provincie andate perdute al tempo delle invasioni barbariche. Siccome quei popoli lo obbedivano scarsamente, ed erano assai corrotti in fatto di religione e di costumi, egli si propose di sottometterli perché diceva che, se tali popoli avessero avuto contatti col suo, lo avrebbero minato con i grandi vizi cui, simili a bestie sfrenate, soggiacevano. Inviò quindi, furbamente, messaggeri in tutte le direzioni, chiedendo ai capi che ponessero fine alle superstizioni e all’adorazione dei troppi dèi e animali che essi veneravano; ma s’ebbe come risultato che quelli non rinunciarono affatto alle loro abitudini e anzi sgozzarono gli ambasciatori. Il re dissimulò la propria contrarietà, offrì grandi sacrifici a Illatici Huira Cocha, pressantemente interrogandolo. Gli fu risposto, tra l’altro, che causa della pestilenza era stato l’uso della scrittura, e che nessuno avrebbe dovuto più servirsene o rimetterla in vigore, poiché dall’uso di essa gran danno sarebbe derivato. E successivamente, Tupac Cauri promulgò una legge che comminava la pena di morte a chiunque vendesse o acquistasse le quilcas, e cioè le pergamene e foglie degli alberi su cui allora si scriveva, o ricorresse alla scrittura. E tale comandamento dell’oracolo fu osservato con tanto zelo, che dopo di allora i Peruviani ignorarono la scrittura. E quando più tardi un dotto amauta inventò un alfabeto, lo bruciarono vivo, e fu così che, da allora in avanti, essi conobbero soltanto le cordicelle dei quipos.

È lecito dunque domandarsi se non vi fu davvero un tempo in cui gli antichi Peruviani, così abili in tante cose, così pieni d’inventiva per ciò che riguarda lo sviluppo dell’arte e dell’agricoltura, la coltura delle piante, l’allevamento degli animali, accarezzarono l’idea di lasciare di sé un ricordo scritto e ne furono impediti

dalle superstizioni popolari e dal timore che nutrivano per sacerdoti e indovini: è un’ipotesi tutt’altro che assurda. All’epoca in cui Montesinos scriveva, a Cuzco si riteneva che Tampu-tocco, il “Luogo di tappa della finestra”, si trovasse a circa venti miglia dalla capitale, in una località nota ancora oggi col nome di Paccari Tampu o “Luogo di tappa dell’Alba”. E non sorprende affatto leggere in Montesinos che il re vi costruì «una sorta d’università», dove i nobili si addestravano nell’uso delle armi e ai giovani veniva insegnata l’arte di contare, sommando i diversi colori dei quipos che servivano come mezzo di scrittura, e grazie ai quali essi aumentavano il proprio sapere. Creatosi così un esercito, e garantitosi la lealtà dei sudditi, il re decise di schiacciare i ribelli. A tale scopo, fu fatta una leva generale, ma l’ordine di attacco non fu impartito perché vi furono grandi terremoti che rovinarono molti edifici in Cuzco e nella regione circostante, e fiumi scaturirono dall’arida terra e corsero per giorni e giorni per gole assetate dove mai prima l’acqua era stata vista, e distrussero villaggi. Scoppiò di poi una pestilenza, per la quale perirono migliaia d’anime, e gli Amautas dicono che solo Tampu-tocco restò immune dalla pestilenza: ciò che convinse Manco Capac a stabilire colà la sua corte.

E qui gli Inca vissero per più di cinquecento anni, finché il luogo non divenne troppo ristretto per un popolo attivo e in continuo sviluppo. L’elemento più significativo, in questa cronistoria che narra gli avvenimenti anteriori al trasferimento della corte a Tampu-tocco per opera di Manco Capac, il primo capo peruviano ad essere chiamato Inca, è l’affermazione secondo la quale questa località era abbastanza lontana da Cuzco per poter essere al riparo da terremoti e pestilenze; essa doveva quindi trovarsi parecchio oltre l’odierno villaggio di Paccari-tampu, dove il clima è troppo freddo perché si faccia uso di finestre e che dista solo poche leghe da Cuzco. Molti episodi si narrano circa l’avvento di Manco Capac che, raggiunta l’età adulta, riunì il popolo per trovare la maniera di procurarsi nuove terre. Pachacuti Yamqui Salcamayhua, discendente da una antica famiglia incaica, i cui avi erano vissuti a Cuzco al tempo della conquista spagnola, scrisse nel 1620 una cronaca degli antichi avvenimenti peruviani, riferendo la storia degli Inca quale era stata tramandata oralmente ai discendenti dei primi dominatori del Perú; dopo essersi consultato con i fratelli, egli ci dice, Manco Capac decise di marciare con loro «verso il colle sul quale si levava il sole», e che effettivamente lui e i fratelli riuscirono a raggiungere Cuzco e a insediarvisi. Manco prese in moglie una delle sue sorelle, in modo da non inquinare la propria discendenza e da evitare di attribuire, col matrimonio, il suo stesso rango a un’altra famiglia. Egli promulgò sagge leggi, conquistò molte provincie, ed è ritenuto il fondatore della dinastia incaica. Ben presto tutti gli abitanti degli altipiani del Perú si sottomisero volontariamente al suo dominio, offrendogli ricchi doni. L’Inca, così appunto cominciò ad essere chiamato il sovrano in quel torno di tempo, fu riconosciuto come il capo più potente, il combattente più valoroso e il guerriero più fortunato delle Ande. Le sue truppe erano agguerrite, disciplinate, ben armate; le sue iniziative furono tutte coronate da successo. «Più tardi ordinò che venissero drizzate certe opere murarie nel luogo in cui era nato, e precisamente una parete nella quale erano praticate tre finestre, simbolo della casata da cui egli discendeva». Alle finestre

fu dato il nome dei nonni paterni e materni e degli zii: avremo occasione di parlarne ancora. I suoi discendenti estesero gradualmente la loro potenza e il loro dominio, tanto che al tempo della conquista spagnola avevano sottomesso quasi tutte le tribù e i regni delle Ande e della Costa Occidentale da Quito, nell’Ecuador, all’Argentina Settentrionale e al Cile Centrale. Il loro fu, in sostanza, un benevolo despotismo; avevano eserciti potenti e imposero a tutti i sudditi l’uso della lingua quechua. La nazione incaica viveva soprattutto di agricoltura, e coltivava, più che le arti belliche, quelle pacifiche. Non si trattava certo d’un popolo militarista, tant’è che, come s’è detto, i soldati erano chiamati “nemici”. Trascorsero così tre secoli, mentre la classe dirigente prendeva a rammollirsi e a indulgere al lusso. Poi un giorno comparve, dal Nord, un esiguo gruppo di atticciati guerrieri coperti di corazze e dotati di armi micidiali, i quali «si servivano del fulmine e del tuono» per portare la morte al nemico a distanze incredibili. Con essi erano strani animali, grandi il doppio dei llama, e così robusti da poter portare in battaglia i cadave ri armati. Agli occhi di quel popolo superstizioso, i conquistadores spagnoli apparvero quali esseri sovrannaturali, deità straniere dai poteri misteriosi e terribili. L’imperatore regnante, l’Inca Atahuallpa, uomo debole e incerto, fu catturato da Pizarro e minacciato di morte se non avesse riempito d’oro una intera stanza. Per gli Inca, l’oro era un metallo prezioso che essi estraevano a prezzo di grandi fatiche dai giacimenti delle Ande Orientali. I vasi d’oro che essi offrivano ai vincitori, erano troppo sottili e leggeri per la cupidigia degli Spagnoli; come se non bastasse, Pizarro si rese conto che milioni di indios consideravano Atahuallpa come un dio, un’inappellabile autorità cui affidare in tutto e per tutto la propria esistenza, e in mancanza della quale non sapevano né cosa fare né come comportarsi. Di conseguenza, l’Inca fu messo a morte, e il Perú con i suoi milioni di abitanti e le sue incalcolabili ricchezze cadde, vera manna del cielo, nelle avide mani di una piccola banda di Spagnoli. Tale episodio, che costitui sce uno dei più straordinari avvenimenti storici, è stato già narrato e romanticamente esaltato da Prescott e altri autori e non è il caso di riferirlo qui, poiché oggetto della nostra relazione sono soprattutto gli Inca che vennero posti sul trono dallo stesso Pizarro.

Una nuova relazione basata su centinaia di documenti inediti e su un’eplorazione scientifica del percorso seguito da Pizarro e dai suoi compagni, è stata recentemente pubblicata dal dott. Victor Wolfgang von Hagen, storico e biografo di chiara fama

(n.d.a.).

Pedro Sancho, uno dei segretari del grande Pizarro, ci narra come, nel 1533, caduta Cuzco in mano spagnola, il conquistatore scegliesse un giovane nobile a nome Manco, prudente e attivo, che gli sembrò il più adatto ai suoi scopi, e lo pose sul

trono dei suoi avi, onde evitare che i nobili e i generali peruviani si rifugiassero nelle rispettive provincie proclamandone l’indipendenza o facessero lega con gli indios del Perù settentrionale, i quali avevano mostrato di mal tollerare il dominio di Atahuallpa, il sovrano che Pizarro aveva testé messo a morte. Appunto per prevenire la ribellione e impedire ai cacicchi dissidenti di levare eserciti, lo spagnolo dispose che si dovesse obbedienza al giovane Manco II e lo si considerasse legittimo sovrano: del resto, essendo nipote del famoso imperatore Huyana il Grande, Manco aveva tutti i numeri per essere considerato tale. Il giovane fu naturalmente assai lusingato d’essere posto sul trono e incoronato con la sacra frangia, simbolo fondamentale della sovranità incaica. Ma egli si rese anche assai presto conto di non essere affatto padrone delle proprie azioni, bensì un semplice fantoccio, costretto ad obbedire agli ordini dei conquistatori. Ambizioso e irrequieto, si lasciò quindi indurre a organizzare una rivolta. Sapeva di poter contare sulla fedeltà di migliaia di guerrieri peruviani, e non ignorava che i conquistatori spagnoli erano, in realtà, null’altro che un pugno d’armati – meno di duecento – isolati e lontani dalle loro basi logistiche. Ma non si rese conto, comunque, della differenza che c’era fra i suoi e quegli uomini, armati fino ai denti di mezzi infinitamente più efficaci degli archi, frecce, lance, bastoni e fionde dei Peruviani. I suoi uomini erano valorosi e devoti, ma avevano un sacrosanto terrore del rombo dei cannoni e degli archibugi spagnoli, capaci di uccidere da distanze incomparabilmente maggiori delle frecce. Ma, soprattutto, Manco fu demoralizzato dalla constatazione che gli Spagnoli erano riusciti ad accaparrarsi i servigi di un gran numero di indios dissidenti, che non mostravano alcun sentimento di lealtà verso il sovrano. Nel 1536, dopo numerosi e sanguinosi scontri, l’esercito di Manco fu sbaragliato nelle vicinanze di Cuzco e i resti delle sue truppe si ritirarono, con l’Inca, nella valle dell’Urubamba. Un contemporaneo, che pochi anni più tardi redasse una cronaca delle guerre del Perù, afferma che Manco si portò via buona parte del tesoro, compresi gli ornamenti d’oro, e «grandi quantità di ricche vesti di lana preziosamente intessute e assai belle a vedersi». Gli Spagnoli ritenevano che lui stesso si fosse rivestito da capo a piedi d’oro e d’argento. Si sa invece con certezza che Manco prese con sé solo le più grandi e preziose immagini d’oro del Sole, conservate nel tempio principale di Cuzco. Manco condusse con sé anche i suoi tre figli, il secondo, dei quali, Titu Cusi, era il suo prediletto sebbene da molti lo si dicesse illegittimo, in quanto la madre non era l’imperatrice, la “Prima Signora”, ma una semplice concubina. Alcuni anni più tardi, Titu Cusi dettò a un mestizo, figlio di un soldato spagnolo e di una donna quechua, un rapporto sulla vita e la morte dell’Inca Manco II. Pare che questo meticcio, in grado di parlare sia la lingua del padre che quella della madre, abbia poi preparato una rozza traduzione che, dovendo essere inviata al re di Spagna, fu rivista dal missionario agostiniano frate Marcos García. Dal racconto di Titu Cusi risulta che, quand’egli lasciò Cuzco per rifugiarsi nella valle dell’Urubamba, aveva appena sei anni. Suo padre, persuaso che gli Spagnoli sarebbero ben presto discesi dall’altipiano verso la vallata dal clima temperato nei cui

pressi era Yucay, residenza favorita degli Inca, decise di rifugiarsi nella profonda valle dell’Urubamba, oltre la Cordillera di Vilcabamba, uno dei luoghi più inaccessibili delle Ande. Titu Cusi aggiunge che, quando il padre pronunciò, con voce commossa, il discorso di addio ai soldati che erano stati con lui nelle sfortunate campagne contro gli Spagnoli, essi gli risposero con tali grida «che pareva dovessero far crollare le colline circostanti». A tutti coloro che lo desideravano, Manco concesse di tornare a casa. Molti, comunque, compresi i più valorosi capitani sopravvissuti alle fiere battaglie combattute durante la rivolta, lo seguirono. La città più importante della vallata che stavano per abbandonare è chiamata Ollantaytambo. Prima di partirne e disperdersi in diverse direzioni, ci narra Titu Cusi, Manco II invitò tutti gli indios della regione a una grande festa. Probabilmente molti soldati si ubriacarono e dimenticarono le armi nelle loro case; quando infatti un manipolo di Spagnoli, approfittando della festa, sferrò un attacco, essi non furono in grado di difendersi. Gli Spagnoli si impossessarono di alcune mummie degli antenati di Manco, che erano state portate via da Cuzco, e di molti gioielli e oggetti preziosi. Secondo Titu Cusi, razziarono inoltre 50.000 capi di bestiame fra llama e alpaca. Manco II cercò scampo nella fuga; gli Spagnoli riuscirono a catturarne la madre e parecchi altri membri della famiglia reale, e li portarono trionfalmente a Cuzco insieme al bottino catturato. I soldati spagnoli che invece si misero sulle tracce di Manco e dei resti del suo esercito, li trovarono arroccati in posizione inespugnabile. Si sa quanto difficile riuscì, ad Annibale e a Napoleone, condurre i rispettivi eserciti in Italia attraverso i passi delle Alpi, assai più bassi di quelli andini. Non deve quindi sorprendere che Pizarro trovasse impossibile seguire l’Inca Manco per passi che erano più elevati della vetta del Monte Bianco, in una regione in cui si levano i più splendidi picchi andini: il Veronica (altezza 5850 m), il Salcanty (altezza 6300 m), il Soray (altezza 5200 m) e il Soiroccoha (altezza 5500 m). Sulle pendici di queste montagne si stendono ampi ghiacciai, visitati solo da qualche ardito e curioso esploratore. Le vallate che si sprofondano tra queste montagne, possono essere raggiunte soltanto attraverso passi di circa 4500 m d’altezza, ed è un viaggio reso periglioso dalle violente e continue bufere e tormente. Durante la stagione delle piogge gran parte della regione che si estende al di là di tali montagne risulta impenetrabile, e anche nella stagione secca le difficoltà di trasporto sono notevoli. Perfino i muli, le bestie da soma dei Peruviani d’oggi, faticano su quei sentieri montani: è facile quindi comprendere come questa regione costituisse una fortezza naturale. Fu qui che l'Inca Manco e i suoi seguaci si rifugiarono. Superato il passo di Panticalla, Manco discese lungo il fiume Lucumayo, oltrepassò l’Urubamba su un ponte sospeso in un luogo chiamato Chuquichaca. Seguì poi per un tratto il corso di quell’affluente dell’Urubamba, che oggi è chiamato Vilcabamba, poi lo varcò e si stabilì in una ridente regione ove si potevano riprendere le tradizionali colture, e i llama e gli alpaca avrebbero trovato pascoli adatti. Manco prese dimora sulla cima di una montagna, dove fece elevare un “palazzo” stretto e lungo, e altri caratteristici edifici incaici. Il luogo fu chiamato Vitcos, o

anche Uiticos. Qui, al sicuro dagli attacchi del nemico, egli riuscì a sfruttare egregiamente i benefici di un clima asciutto in una regione ben irrigata, dove il granturco e le patate trovavano, al pari dei frutti propri delle zone subtropicali, un terreno ideale. Titu Cusi narra che Manco e i suoi capitani, usando Vitcos come base, erano in grado di compiere improvvise puntate e sortite in tutte le direzioni contro gli Spagnoli. Con un pugno di fedeli seguaci, l’Inca calava spesso dai fortificati luoghi montani, attraversava il grande fiume Apurimac su primitive zattere, e raggiungeva la via maestra che da Lima, capitale degli Spagnoli, conduceva alla città di Cuzco. Col tempo, le truppe e i mercanti che per motivi di affari fossero costretti a servirsi di questa strada (la maggiore che attraversasse le Ande) finirono col trovarla sempre più pericolosa, mentre Manco aumentava la propria attività alla testa di uomini che in quelle incursioni vedevano l’unica possibilità di rivincita contro i conquistadores. Persino uno dei cronachisti spagnoli giustifica questa attività di Manco, sottolineando come gli Spagnoli lo avessero privato delle sue prerogative e costretto ad abbandonare la terra natale e a vivere in esilio. Il successo che arrise a Manco dopo che si fu assicurato un rifugio sicuro, atto a servire da base per le sue scorrerie, spinse molti nobili Inca a seguirlo e a stabilirsi nella Cordillera Vilcabamba. Costoro non possedevano certo le armi da offesa e difesa usate dagli Spagnoli, ma erano in compenso abilissimi frombolieri e lanciatori di bolas. Asseriscono gli Spagnoli che, per sfuggire alla cattura, gli Inca scagliavano le bolas contro i cavalli, immobilizzandoli, e che talvolta riuscivano a ottenere lo stesso risultato con gli uomini; gli Inca, essi ci raccontano, erano in grado, mediante grosse fionde, di lanciare pesanti pietre con forza sufficiente a uccidere un cavallo o a spezzare una spada da una distanza di trenta passi. Le incursioni di Manco si fecero infine così insistenti e pericolose, che Pizarro inviò da Cuzco una spedizione con l’incarico di catturarlo, disperderne l’esercito e distruggere le sue fortificazioni. I reparti spagnoli, consci del fatto che sarebbe stato impossibile usare i cavalli, decisero di procedere a piedi. Come era logico attendersi, mentre essi erano affranti dalla fatica, indeboliti dalla dura marcia e dal soroche, il “mal di montagna”, che colpisce gli Europei (ma non gli indigeni) i quali si avventurino oltre i 4000 m., i soldati di Manco tesero loro un’imboscata, sterminandoli quasi completamente. Chiunque abbia affrontato il passo di Panticalla, non si sorprenderà del fatto che la spedizione di Pizarro si sia risolta in una sconfitta, né che gli Inca, avvertiti da osservatori dalla vista acutissima appostati, secondo il costume locale, su ben scelte posizioni sopraelevate da cui potevano far segnali con i fuochi, siano riusciti a battere una sparuta schiera di soldati affranti dalla fatica e dal gravame delle corazze e delle pesanti armi da fuoco dell’epoca. Gli uomini di Pizarro furono probabilmente uccisi a colpi di pietra dagli abili frombolieri, prima che avessero il tempo di preparare le loro goffe armi e aprire il fuoco. Tornati a Cuzco, i sopravvissuti fecero un drammatico racconto del disastro, affermandosi convinti dell’inespugnabilità del passo di Panticalla. L’importanza della sconfitta e l’effetto psicologico che essa ebbe su Pizarro e i suoi consiglieri risulterà chiaro a chi tenga presente che il numero dei

componenti la spedizione che conquistò il Perú e catturò Atahuallpa non raggiungeva le duecento unità, ed era quindi di poco superiore a quello dei componenti il drappello sgominato dai seguaci di Manco: ottanta uomini e forse meno, secondo le valutazioni degli Spagnoli. La notizia del disastro produsse un tale effetto sul morale dei soldati, oltre a far sorgere legittimi dubbi nei confronti delle migliaia e migliaia di indios fatti di recente sudditi di S.M. Cattolica, che Pizarro in persona partì senza por tempo in mezzo con un manipolo di soldati, deciso a punire quel giovane Manco che aveva inflitto un simile colpo al prestigio dell’esercito spagnolo. Ma, sebbene Pizarro riuscisse a valicare il passo di Panticalla, anche questo secondo tentativo fallì, perché gli Inca si erano spostati oltre i fiumi e le montagne, distruggendo ponti e sentieri e raggiungendo incolumi l’inaccessibile regione attorno a Vitcos. Gonzalo Pizarro, fratello del grande Francisco, intraprese l’inseguimento dell’Inca e occupò alcuni passi e alcuni ponti, ma neppure lui riuscì a penetrare nel labirinto di quelle montagne o non giunse mai a diretto contatto con Manco. Incapace di sopraffarlo come pure di impedire le disastrose incursioni a spese dei viaggiatori in cammino fra Cuzco e Lima, Francisco Pizarro fondò lungo la strada, in una località strategica favorevole, una città chiamata Ayacucho, destinata a rendere il viaggio più sicuro. Benché nominato maresciallo da Carlo v, re di Spagna, Francisco Pizarro trovò un accanito avversario in Almagro, che pure era stato compagno delle sue imprese. Nel 1541, certi seguaci di Almagro assassinarono il maresciallo, ciò che dovette certo far molto piacere a Manco, la cui gioia non doveva però durare a lungo, perché gli almagristi vennero ben presto sconfitti e costretti alla fuga. Una mezza dozzina di essi riuscì ad attraversare l’Apurimac e, protestandosi alleati dell’Inca, furono da lui cordialmente ricevuti. Era l’anno 1542. A capo della piccola schiera stavano Gómez Pérez e Diego Mendez, «furfanti», dice Padre Calancha, «degni in tutto del favore di Manco». Pare accertato che costoro insegnassero all’Inca a usare le armi da fuoco e a servirsi dei cavalli che, a quanto pare, erano riusciti a condurre con sé; il sovrano imparò anche alcuni giochi familiari agli Spagnoli, quali il lancio degli anelli, le bocce e persino gli scacchi e la dama. (Tali, almeno, le affermazioni di Padre Calancha.) Gli Spagnoli prendevano quei giochi molto sul serio, per cui talvolta scoppiavano violentissimi litigi, nel corso dei quali essi dimenticavano il rango del loro ospite e il rispetto in cui era tenuto dal suo popolo. Finché le redini del governo furono tenute da Gonzalo Pizarro, essi furono ben lieti d’essere considerati ospiti di Manco; ma un giorno vennero a sapere che Carlo v ne aveva ormai abbastanza delle brutalità dei conquistadores: nel 1544, infatti, il re inviò un viceré con l’incarico di applicare un altro codice, le “Nuove Leggi”, risultato delle fatiche del vescovo Las Casas e inteso ad alleviare le sofferenze degli Indiani. Le “Nuove Leggi” disponevano tra l’altro che tutti gli ufficiali della corona dovevano rinunciare ai loro repartimientos, ovvero dotazioni personali di servitori indi geni; la riduzione in schiavitù era, almeno sulla carta, abolita. I repartimientos già concessi ai conquistatori avrebbero cessato dall’essere ereditari, per tornare al re. Le

“Nuove Leggi”, in altre parole, stavano a provare che la Corona di Spagna intendeva inaugurare un’epoca di buon governo nei confronti degli indios, e che disapprovava i metodi dei vari Pizarro. Erano ottime notizie per Manco e per i fuorusciti, i quali convinsero l’Inca a indirizzare una lettera al viceré, in cui gli chiedeva di essere ricevuto per dargli modo di offrire i propri servigi al re. Così, gli fecero credere gli Spagnoli che erano con lui, egli avrebbe potuto tornare in possesso del suo Impero, «o almeno di buona parte di esso». Perché lo facessero, apparirà chiaro a chi tenga presente che anch’essi «scrissero chiedendo perdono per il loro passato», e il permesso di ritornare nei domini spagnoli. Gómez Pérez, che evidentemente era il più dinamico del piccolo gruppo, fu scelto come messaggero, e gli furono affidate le lettere dell’Inca e degli esuli. Scortato da una dozzina di indios che Manco aveva incaricato di servirlo e di difenderlo, Gómez partì da Vitcos, giunse dal viceré, gli presentò le lettere e gli fece un’ampia relazione sullo stato e sulle condizioni dell’Inca, nonché sul suo sincero e profondo desiderio di porsi al servizio di Sua Maestà. Il viceré accolse con gioia la notizia e, proprio come essi speravano, concesse ampio perdono per tutti i crimini che erano stati commessi. Quanto all’Inca, volle indirizzargli un saluto di pace e di rispetto, conscio com’era che l’amicizia dell’Inca poteva riuscirgli oltremodo vantaggiosa, sia in guerra che in pace. E con questa soddisfacente risposta, Gómez Pérez tornò dall’Inca e dai suoi compagni. Lieti per le notizie, gli esuli si prepararono a rientrare nel loro territorio, ma la partenza fu impedita da un tragico incidente, sul quale così riferisce Garcilaso de la Vega “el Inca”: L’Inca, per far piacere agli Spagnoli e offrire a se stesso e a loro un diversivo, aveva fatto apprestare un ampio spiazzo verde per il gioco delle bocce; ora, giocando egli un giorno con Gómez Pérez, sorse una disputa tra lui e il suddetto Pérez, poiché ambedue si attribuivano un punto. La cosa non era infrequente fra loro; senonché questo Pérez, persona di cuore caldo e animo fiero, ma di scarso comprendonio, era solito approfittare dell’occasione per attaccar briga con l’Inca e farlo oggetto delle sue provocazioni. Quel giorno dunque, incapace di sopportare oltre le sue villanie, l’Inca gli sferrò un pungo in pieno petto, e lo invitò a tener conto della persona del suo interlocutore. Ma Pérez, preso dall’ira e dimentico della propria salvezza come di quella dei suoi compagni, levò la mano, e con la boccia colpì l'Inca così violentemente al capo che costui cadde a terra tramortito (spirò tre giorni più tardi). Allora gli Indiani, infuriati per la morte del loro principe, si riunirono contro Gómez e gli Spagnoli, che si rifugiarono in una casa, difendendone l’accesso armi alla mano; gli Indiani appiccarono il fuoco all’edifìcio e ben presto il calore divenne insopportabile, per cui gli Spagnoli uscirono sulla piazza del mercato, dove gli Indiani li assalirono e colpirono con le loro frecce sinché non li ebbero sterminati tutti; di poi, ancora in preda al furore, essi convennero che, o dovevano mangiarseli crudi, com’era loro costume, oppure bruciarli e gettarne le ceneri nel fiume, così che non ne restasse più traccia; alla fine, dopo ulteriori consultazioni, decisero di gettare i corpi degli Spagnoli in aperta campagna dove sarebbero stati divorati dagli avvoltoi e da altri uccelli, cosa che ai loro occhi era il massimo disonore che si potesse riserbare al cadavere d’un uomo.

Conclude Garcilaso:

Ebbi precise informazioni in merito dai capi e dai nobili che furono testimoni oculari del gesto, senza precedenti nella sua follia, di quel violento di poco cervello, e li udii (avevo allora cinque anni) riferire spesso quest’episodio, e ogni volta con le lacrime agli occhi, a mia madre e ai miei.

Il racconto di Garcilaso, oltre a essere stato scritto a sessant’anni di distanza dall’avvenimento, è probabilmente viziato dal ricordo delle punizioni corporali che senza dubbio gli toccarono durante i lunghi anni in cui servì nell’esercito di Sua Maestà Cattolica. Della tragedia esistono comunque anche altre versioni. Si vuole, ad esempio, che il litigio fosse causato da una partita a scacchi giocata fra l’Inca e un altro rifugiato, Diego Méndez, il quale ad un certo punto avrebbe perduto la pazienza e dato del cane all’Inca che, offeso dal tono e dal linguaggio dell’ospite, lo avrebbe colpito con un pugno. Tratto il pugnale, Diego Méndez lo stese morto. Sostanzialmente diversa è anche la versione data da un testimone oculare, Titu Cusi, figlio di Manco, vent’anni dopo l’accaduto. Riferisce costui che il padre, poiché amava stare in mia compagnia, mandò a prendermi a Cuzco. I suoi inviati condussero in gran segreto me e mia madre alla città di Vitcos, dove mio padre si era trasferito a cagione della salubrità del clima di quelle fredde contrade. Mio padre ed io eravamo assieme già da molti giorni quando, alla spicciolata, giunsero sette Spagnoli, affermandosi esuli volontari a cagione di certe offese fatte al governatore, e protestando che avrebbero servito mio padre con ogni mezzo, pur di aver salva la vita. Pregarono che fosse loro permesso di rimanere in quella terra e finir lì i loro giorni, e mio padre, ritenendo sincere le loro intenzioni, comandò ai suoi capitani di non far loro del male, poiché desiderava averli al suo servizio, e dispose che fossero assegnate loro delle case in cui vivere. I capitani, che pure avrebbero preferito di gran lunga trucidarli, obbedirono agli ordini di mio padre, che li tenne con sé per molti giorni ed anni, trattandoli egregiamente, dando loro tutto ciò di cui abbisognavano, ordinando persino alle sue donne di servirli di cibi e bevande, e sedendo a tavola con loro. Li trattò insomma come se fossero suoi fratelli. Erano già parecchi anni che coloro stavano con mio padre nella città di Vitcos, quando un giorno vennero da lui con aria e modi amichevoli, a giocare agli anelli; eravamo, oltre a essi, solo mio padre e io, che ero ancora un ragazzo. Si prese dunque a giocare, ma a un tratto, mentre mio padre si preparava, sollevato il suo anello per gettarlo, ecco che quelli gli si scagliarono addosso tutti assieme, chi col coltello, chi con la daga, chi con la spada. Sentendo le lame, mio padre tentò una disperata difesa, ma era solo e disarmato, ed essi erano sette e armati fino ai denti; sicché mio padre cadde a terra trafitto da mille ferite, ed essi lo lasciarono per morto. Ragazzo qual ero, vedendo mio padre trattato in modo così inumano, volli accorrere in suo aiuto, ma gli Spagnoli volsero la loro furia contro di me, scagliandomi una lancia che per poco non mi uccise. Terrorizzato, fuggii a nascondermi tra certi cespugli che crescevano nei pressi; quelli mi cercarono, ma non mi trovarono e, vedendo che mio padre aveva smesso di respirare, uscirono dal recinto, proclamando con fare altezzoso: «ora che abbiamo ucciso l’Inca, non abbiamo più nulla da temere». Ma proprio in quel momento il capitano Rimachi Yapanqui [ricco d’ogni virtù] sopraggiunse con alcuni Antis e si pose senz’altro al loro inseguimento, e così accanitamente, che gli Spagnoli non andarono molto lontano – la strada del resto era difficile – e subirono tutti una morte crudele e i cadaveri di alcuni di essi vennero cremati. Quanto a mio padre, nonostante le ferite egli visse ancora tre giorni.

SAYRI TUPAC Nel 1545, alla morte dell’Inca Manco, il figlio maggiore di questi, Sayri Tupac, ancora minorenne, gli succedette sul trono. Sayri non aveva per nulla la tempra del

guerriero, e amava il lusso e le comodità. Con l’aiuto dei nobili e dei capitani che erano stati amici e sostenitori del padre, regnò per dieci anni senza dar noia ai vicini Spagnoli e senza suscitarne l’ostilità. Nel 1555 un nuovo viceré giunto dalla Spagna decise di tentare la pacifica conquista della inaccessibile regione, invitando il giovane Sayri Tupac a uscire dai recessi della Cordillera Vilcabamba e a stabilirsi nella fertile e attraente valle dello Yucay, a poche miglia da Cuzco. La vallata in questione ha clima temperato, ed è ricca di prati fioriti e deliziosi frutteti, tanto da essere ritenuta da molti uno dei luoghi più belli della terra. Il viceré si valse, per questa impresa, dei buoni uffici di una zia del giovane Sayri, la quale viveva a Cuzco; costei inviò al nipote un messaggero fidato, un parente di sangue reale, con una scorta di devoti seguaci. Sentito il parere dei suoi consiglieri, Sayri Tupac permise al messaggero di entrare a Vitcos e presentargli l’invito del viceré. Ma, vista l’opinione che ormai s’erano fatta dei conquistadores, i quali non avevano certo dato prova di troppo senso dell’onore, i nobili Inca ritennero inopportuno abbandonare Sayri Tupac nelle mani del viceré. Trattennero quindi il visitatore come ostaggio e inviarono un loro messaggero a Cuzco, per chiedere che venisse mandato in veste di ambasciatore un altro cugino del sovrano, del quale avevano maggiore fiducia. Il viceré dal canto suo, seccato dal ritardo, mandò da Lima un prete e un soldato che aveva sposato la figlia dello sfortunato Inca Atahuallpa e aveva imparato a parlare il quechua. Essi partirono fiduciosi nella loro missione, portando, come omaggi per il giovane Sayri Tupac e i suoi amici, alcune coppe d’argento e del velluto spagnolo. Viaggiarono con la maggior rapidità possibile, ma furono bloccati e trattenuti al ponte del Chuquichaca, punto chiave della vallata in cui giaceva Vitcos; qui li raggiunse il cugino dell’Inca, che i nobili avevano mandato a cercare a distanza di pochi giorni. I nobili Inca diedero il benvenuto al prete ed egli fece del suo meglio per incoraggiare Sayri Tupac ad accettare l’offerta del viceré. Dietro suo suggerimento, i messaggeri spagnoli vennero ammessi alla presenza dell’Inca; e gli offrirono i doni inviati dal viceré, ma furono assai delusi accorgendosi che Sayri Tupac preferiva rimanere libero e indipendente nella sua vallata, al punto da respingere le coppe d’argento del viceré. Di lì a pochi giorni, tuttavia, evidentemente allettato dai molti e interessanti episodi della vita che si conduceva a Cuzco, narratigli dal cugino, il giovane Inca decise, contro il parere dei suoi nobili, di tornare sulle proprie decisioni e accettare l’invito del viceré. Desideroso di vedere quel mondo che gli era noto soltanto attraverso i racconti altrui, Sayri Tupac partì per Lima, regalmente assiso su una lettiga trasportata dai suoi più fedeli seguaci e scortato da circa 300 indios. Fu ricevuto graziosamente dal viceré e accompagnato a Cuzco, dove per un certo tempo alloggiò in uno degli antichi palazzi incaici. Garcilaso de la Vega, che ne era cugino, dice che egli stesso, ancora bambino, andò a rendere omaggio a Sayri Tupac; lo trovò che stava giocando e fu invitato a gustare qualche tazza di chicha, l’eccellente bevanda indigena. Seguendo il piano che s’era tracciato, il viceré dispose che Sayri Tupac ricevesse pubblicamente la sacra insegna scarlatta della sovranità incaica, abbracciasse il cristianesimo, sposasse una principessa di sangue spagnolo, e si stabilisse nel luogo assegnatogli, la bella città di

Yucay. Così la passione di Sayri Tupac per il lusso divenne realtà; egli si trovò circondato da seguaci devoti, felici di soddisfare tutti i desideri del detentore della rossa e sacra insegna. A quanto sembra, si considerò lieto della sua sorte, poiché non diede segni né di eccessive ambizioni, né di inquietudine: la sua persona avrebbe naturalmente potuto costituire il centro d’una eventuale rivolta contro gli Spagnoli ma, a quanto ci risulta, non sembra che egli lo desiderasse. E tuttavia egli regnò a Yucay soltanto due anni, al termine dei quali il viceré comunicò che era morto di malattia. Dal canto loro i nobili di Vitcos si convinsero che l’Inca era stato avvelenato. Comunque siano andate le cose, nel 1560 suo fratello Titu Cusi, figlio prediletto anche se illegittimo di Manco, salì sul trono non già di Cuzco, beninteso, e neppure di Yucay, bensì delle selvagge regioni della Vilcabamba. TITU CUSI Grazie alla cronaca di Padre Calancha e alla narrazione di Titu Cusi, cui ci siamo riferiti trattando della vita e della morte di suo padre, sappiamo di Titu Cusi stesso più di quanto non si sappia dei suoi fratelli o di Manco. Si ricorderà che, ragazzo, egli era vissuto per qualche anno a Cuzco, ma che successivamente era riuscito a sfuggire ai suoi guardiani e si trovava a Vitcos col padre Manco al tempo di quella fatale partita di bocce o di lancio degli anelli che fu causa della tragica fine sia dell’Inca che degli esuli. Ignoriamo invece dove si trovasse al momento della morte di Sayri Tupac, ma sappiamo che, appena ne venne a conoscenza, corse a rifugiarsi nelle inaccessibili vallate della Cordillera Vilcabamba, rinchiuse il fratello minore, Tupac Amaru, «nella Casa del Sole insieme alle Vergini Sacre e alle loro Matrone», e cinse la corona di un Impero ridotto ormai a ben misere proporzioni. A quel tempo, Titu Cusi aveva circa trent’anni. Il capitano spagnolo Baltasar de Ocampo, che pochi anni dopo si recò a cercare Toro nella valle della Vilcabamba, redasse una cronaca della regione. Vi si legge che Tupac Amaru «era il naturale e legittimo signore di quelle terre… ma il fratello maggiore, con astuti maneggi, riuscì a segregarlo e a tenerlo prigioniero, prendendo pretesto dalla sua mancanza d’esperienza, e usurpando così il trono». Ma de Ocampo precisa anche che, affidandolo alla custodia delle Vergini del Sole, Titu Cusi aveva seguito «un’antichissima usanza, rispettata dai reggitori di quei regni già molto tempo prima dell’arrivo degli Spagnoli». Un grande santuario, dotato di terme e dove si era serviti da esperte ancelle, doveva essere un luogo ideale per il giovane, che probabilmente trascorse tra quei templi e palazzi buona parte dei due lustri successivi. E poiché l’ubicazione del santuario era ignota agli Spagnoli, è probabile che esso abbia costituito una delle residenze favorite dello stesso Titu Cusi; pare che anche sua madre vi abbia soggiornato. L’Inca doveva tuttavia trascorrere gran parte del suo tempo a Vitcos, con i consiglieri e l’esercito. Tra i primi che si recarono a rendergli omaggio a Vitcos, fu Don Diego Rodriguez de Figueroa il quale tentò, per incarico del viceré, di convertire Titu Cusi al cristianesimo e di persuaderlo a lasciare la Cordillera Vilcabamba. Per fortuna dello studioso, Rodriguez ha lasciato una cronaca particolareggiata del suo viaggio, un

racconto di piacevole lettura, dal quale si arguisce quanto cauto fosse Titu Cusi nei confronti dei visitatori stranieri. A differenza di troppe delle nostre fonti sugli Inca, la cronaca di Don Diego Rodriguez non venne redatta sulla scorta di notizie tramandate oralmente, e neppure a molta distanza di tempo dagli avvenimenti. Potremo quindi rifarci ad essa con una certa larghezza. Scrive Rodriguez: «Lasciai Cuzco l’8 aprile 1565, avendo ricevuto in consegna alcune missive indirizzate dal Giudice Matienzo all’Inca Titu Cusi Yupanqui: avevo offerto io stesso i miei servigi in tal senso, ed ero perciò in possesso di un lasciapassare. Pernottai a Ollantaytambo, dove mi furono dati sette portatori indiani che m’avrebbero scortato lungo la strada». Rodriguez valicò il passo di Panticalla e seguì il corso del fiume Lucumayo fino a un antico ponte sospeso. Il quinto giorno di maggio, giunsero al ponte dieci capitani [Inca] abbigliati con ricchi diademi di piume, brandendo lance; avevano il volto coperto da maschere. Costoro si fecero all’imboccatura del ponte dove io mi trovavo, e mi chiesero se ero proprio io colui che osava pretendere di recarsi a parlare con l’Inca. Risposi che infatti ero io. Non potevo, dissero quelli, non avere una gran paura, e d’altra parte se avevo paura non potevo certo andare dall’Inca, che era un gran nemico dei codardi. Replicai che, fosse egli stato un elefante o un gigante, allora avrei avuto paura, ma poiché egli era un uomo come me, non v’era ragione che io ne avessi, e anzi desideravo rendergli omaggio. Se egli mi concedeva di entrare nei suoi territori sulla sua parola, non avrei esitato, perché sapevo che egli l’avrebbe mantenuta.

A quanto pare, a Rodriguez quel ponte oscillante non andava molto a genio, o forse furono gli altri a temere per la sua incolumità, fatto sta che, prosegue lo Spagnolo, il sesto giorno di maggio attraversai il fiume in un canestro che si moveva lungo un cavo, e con me vennero i sette portatori indiani. Dopo avermi aiutato nella bisogna, i dieci inviati dell’Inca mi scortarono fino ai piedi di una montagna coperta di neve, dove passai la notte. Riprendemmo il cammino il dodici di maggio; giunsi a Vitcos, il luogo dove i sette Spagnoli avevano ucciso l’Inca, e dove ancora erano esposte le loro teste mozze. Gli Indiani mi dissero che quegli Spagnoli avevano trucidato il sovrano con l’intento di sobillare il paese, e che avevano deciso di compiere il delitto mentre con l’Inca giocavano a la herradura.1 Autore materiale ne fu un certo Méndez, che spacciò l'Inca con quattro o cinque pugnalate alla schiena; e gli Spagnoli avrebbero fatto lo stesso a Titu Cusi, il sovrano attualmente regnante, se questi non fosse corso a nascondersi fra certe rocce, che mi furono mostrate. Intento degli Spagnoli non era già quello di massacrare qualche Indiano, cosa che avrebbero avuto mille occasioni di fare, bensì di togliere di mezzo proprio l'Inca. Si riunirono allora molti Indiani coi loro capitani e, catturati gli Spagnoli, li passarono per le armi.

Come si vede, questa versione differisce sia da quella di Garcilaso, che da quella dello stesso Titu Cusi; tanto l’uno che l’altro, infatti, han l’aria di ritenere l’episodio più che altro un incidente originato da una disputa. Essendo i sette regicidi dei rinnegati e dei fuorilegge, è forse lecito presumere che Rodríguez, inviato ufficiale del governo vicereale, non si facesse scrupolo di accusarli di tradimento nei confronti del loro ospite. Prosegue Rodríguez: Il tredici maggio inviai all’lnca due dei miei Indiani, con alcune leccornie quali uva secca e fichi, e altri doni. l’Inca li ricevette bene, ricambiò con due canestri di arachidi destinate a me, e mi mandò a dire che l’indomani sarebbe lui giunto dov’ero: ci saremmo quindi visti presto, e non occorreva che io facessi altra strada.

Già il quattordici maggio ebbi a disposizione, costruitami dagli Indiani di Bambacona, un’ampia casa elevata su un’erta altura e circondata da palizzate. Ai piedi dell’altura v’erano le case degli Indiani. La strada per la quale l’Inca sarebbe giunto, appariva assai ben tracciata e correva attraverso una vasta pianura. I trecento Indiani del luogo e i lancieri che erano tra loro, aiutati da altri venuti dalle regioni circonvicine, avevano costruito, per l’Inca, una specie di grande teatro o meglio uno spiazzo di argilla rossa. Ora stavano attendendone l’arrivo, e mi consigliarono di muovergli incontro. La gente del villaggio, mi dissero, avrebbe atteso nella pianura; mi avrebbero indicato un luogo dove avevano posto due covoni di paglia, a un tiro di schioppo dal resto degli spettatori. Lì avrei dovuto attendere che l'Inca giungesse, e non avrei dovuto muovermi finché quegli non avesse mandato per me. Molti soldati armati di lancia si schierarono poi su un colle, e giunsero messaggeri a dire che l'Inca stava per arrivare. Ed ecco, la scorta dell’Inca apparve.

Rodríguez ci rende ora il grande servigio di descrivere, con la maggior accuratezza possibile, l’abbigliamento degno di un imperatore del Perù all’epoca degli splendori incaici. «L’Inca si presentò al popolo di Bambacona con un casco di piume variopinte, una placca d’argento sul petto; in una mano teneva uno scudo e una lancia tutti d’oro; portava giarrettiere di piume attaccate alle quali v’erano tanti campanellini di legno. Aveva un diadema sulla fronte e una collana. Nell’altra mano teneva una daga d’oro, e sul volto portava una maschera a vivaci colori». Fu da questa descrizione che gli artisti spagnoli del XVI e XVII secolo trassero ispirazione per i loro ritratti degli imperatori del Perù, che essi non avevano mai visto di persona. Arrivato sullo spiazzo riservato al popolo, e sistemati che furono il suo e il mio seggio, l’Inca volse lo sguardo in direzione del sole, facendo con la mano un gesto di reverente saluto, che quelle genti chiamano mucha,2 e quindi si diresse al suo seggio. Assieme con lui veniva un mestizo, con scudo e spada, abbigliato alla spagnola, con un costume vecchissimo. In quel momento l’Inca volse gli occhi nella direzione in cui io mi trovavo, e io mi tolsi il cappello, ma gli Indiani parvero non essersene accorti. Levai allora un’immagine di Nostra Signora, che tenevo in seno, e gli Indiani certamente la videro, ma ancora fecero mostra di nulla. Poi due orejones3 si accostarono all’Inca; reggevano alabarde, ed erano vestiti di piume con molti ornamenti d’oro e d’argento. Costoro fecero atto d’obbedienza e di reverenza al Sole, e quindi all’Inca. Tutti gli altri se ne stavano accanto al seggio del sovrano, schierati in bell’ordine. Giunse in quel momento il governatore, certo Yamqui Mayta, con una settantina d’uomini del suo seguito, tutti con placche d’argento, lance, cinture d’oro e d’argento, lo stesso abbigliamento cioè di coloro che erano giunti con l’Inca. Poi venne il comandante dell’accampamento, anch’egli con una scorta abbigliata alla stessa sfarzosa maniera, e tutti fecero atto di reverenza prima al Sole e poi all’Inca, dicendogli; «Figlio del Sole, tu sei il figlio del giorno». Quindi si sedettero al loro posto attorno all’Inca. A questo punto apparvero, prima un altro capitano, di nome Vilcapri Guaman, con circa trenta Indiani armati di lance adorne di piume variopinte, poi trenta uomini con asce, e anche costoro riverirono il Sole come avevano fatto gli altri. Tutti portavano sul volto maschere di vari colori. Arrivò infine un piccolo Indiano che, dopo aver fatto le sue riverenze al Sole, venne verso di me brandendo una lancia con aria minacciosa. Costui prese a gridare in spagnolo: «Vattene! Via di qua!», minacciandomi con la sua lancia. Dietro costui veniva un altro capitano di nome Cusi Puma, con circa quaranta arcieri, che erano Antis mangiatori di carne umana. Ed ecco allora i guerrieri presenti togliersi i caschi di piume e deporre le lance ai propri piedi; poi, reggendo solo le daghe di bronzo e gli scudi d’argento, di cuoio o di piume, uno alla volta andarono a riverire l'Inca, che continuava a starsene seduto, e poi tornarono ai propri posti. In quel momento l'Inca mi mandò a chiamare e, attraversata la folla degli Indiani, io mi levai il cappello e gli tenni un discorsetto. Dissi che ero venuto da Cuzco al puro scopo di vederlo e servirlo. Se portavo una spada e un pugnale, era per mettere tali armi al suo servizio, non per recargli danno. Al che egli rispose che portare armi era cosa da uomini, che donne e codardi non ne

portavano e non per questo, quindi, egli mi stimava di più. Ma, soggiunse, era lusingato del fatto che mi fossi preso il disturbo di compiere un così lungo cammino per giungere a lui, mentre egli aveva fatto soltanto quaranta leghe per vedermi e conversare con me. Mi porse quindi una tazza di chicha, chiedendomi di berla alla sua salute. Ne inghiottii un quarto, poi presi a fare delle smorfie e a pulirmi la bocca con un fazzoletto. Lui si mise a ridere, ben comprendendo che non ero abituato a simile liquore… L’Inca era un uomo sui quarant’anni, di media statura, con sul viso alcune cicatrici lasciategli dal vaiolo. Aveva sembianze virili e severe. Indossava una camicia di damasco azzurro e un mantello di stoffa molto fine. Era servito su piatti d’argento, e v’erano anche venti o trenta donne di aspetto piacente che attendevano a lui. Più tardi mandò a dirmi di venire a mangiare dove egli si trovava con le sue donne e il governatore. Il cibo consisteva soprattutto di granturco, patate, fagioli e altri prodotti locali; la carne era scarsissima, e quella poca che c’era consisteva di selvaggina, pollame, pappagalli e scimmie, vuoi bolliti che arrosto. Verso sera, l’Inca mi domandò se avevo già fatto conoscenza coi suoi capitani. Gli risposi di sì, ed egli allora prese congedo da me, dirigendosi verso la casa che gli era stata preparata, con lo stesso corteo che lo aveva accompagnato al suo arrivo, e con musiche di flauti d’argento e trombe. La guardia, quella notte, fu montata da un centinaio di Indiani, divisi in drappelli; flauti e tamburi suonavano di tanto in tanto per trasmettere il segnale da drappello a drappello. Trovandomi io in una casa alquanto fuori dal villaggio, mi fu assegnata una guardia di quindici Indiani armati di lancia. Secondo i miei calcoli, fra quelli giunti con l'Inca e quelli del villaggio, gli Indiani dovevano essere quattrocentocinquanta. La mattina del quindici maggio piovve e l'Inca mi mandò a cercare, invitandomi nella sua casa. La maggior parte dei suoi uomini stava accoccolata attorno a un gran fuoco. L’Inca se ne stava seduto avvolto in una camicia di velluto rosso e un mantello del medesimo tessuto. Tutti i suoi capitani s’erano tolte le maschere che portavano il giorno avanti… Quando sorse Falba – tutti avevano abbondantemente bevuto – chiesi all'Inca il permesso di far ritorno al mio alloggio e mangiare qualcosa; il giorno dopo, dissi, avrei esposto senz’altro le ragioni che mi avevano indotto a venire a lui. Così partii, mentre quelli continuavano a schiamazzare vantandosi delle rispettive imprese, tutti con la mente un po’ annebbiata. Di lì a poco mi inviarono una pecora di Castilla [frutto evidente di una fortunata razzia nell’ovile di una fattoria spagnola], molti polli e pernici ed altri cibi prodotti dalla loro terra. A coloro che me li portarono, regalai alcuni ninnoli, aghi e altri oggetti provenienti dalla Spagna. Non passò molto prima che l'Inca mi mandasse a chiamare ancora. Andai e rimasi con lui sino a notte, senza che tra noi fosse scambiata una sola parola, poi feci ritorno alla mia dimora.

La ragione del mutismo era da attribuirsi alla troppa chicha bevuta. Rodriguez aveva portato dei doni per l’Inca, bracciali d’argento, oggetti di cristallo, perline. L’Inca gli concesse di tenere un discorso sul cristianesimo, ed egli propose di erigere delle croci quali testimonianza di fede. L’idea non piacque per niente allinea, il quale anzi a un certo punto disse che aveva una mezza idea di mettere a morte l’intruso. Assistetti dalla vetta di un’altura – prosegue Rodriguez – alle feste date in onore dell’lnca. Udivo canti, vedevo danze di guerra, eseguite da ballerini armati di lance, che se le scagliavano l’un l’altro. Penso che lo facessero a causa della gran quantità di chicha che avevano ingurgitato. Nel tardo pomeriggio, l’Inca mi mandò a chiamare e io obbedii alquanto controvoglia. Quegli mi invitò a sedere e cominciò a vantarsi, affermando che avrebbe potuto uccidere cinquanta Spagnoli da solo, e che stava per mettere a morte tutti gli Spagnoli che c’erano nel regno. Diede di piglio a una lancia e a uno scudo e assunse atteggiamenti bellicosi, gridando: «Andate subito a chiamarmi tutta la gente che sta al di là di queste montagne; perché voglio andare a combattere gli Spagnoli e a ucciderli tutti, e voglio che i furibondi Indiani li divorino».

A questo punto, ecco avanzarsi un 600 o 700 Indiani Antis, armati di archi e frecce, mazze e asce; procedendo in perfetto ordine, costoro fecero la riverenza al Sole e all’Inca, e si schierarono. Allora l’Inca ricominciò a brandire la lancia, proclamando che lui poteva far insorgere tutti gli Indiani del Perú, che gli sarebbe bastato dare un ordine, e tutti si sarebbero precipitati alle armi. Allora quegli Antis, tutti assieme, fecero una proposta all’Inca: se lo desiderava, loro erano pronti a divorarmi vivo. «Che te ne fai», gli dissero, «di questo ometto barbuto, che è qui al solo scopo di ingannarti? È meglio se ce lo mangiamo seduta stante». Poi due maledetti orejones Inca mi si fecero addosso, lancia in mano, agitando le armi e dicendo: «Gli uomini barbuti sono i nostri nemici!». Io mi misi a ridere, ma intanto in cuor mio mi raccomandavo a Gesù. Chiesi mercè all’Inca e che volesse proteggermi, e così egli mi trasse da quelle grinfie e mi tenne nascosto fino al mattino.

Evidentemente, Titu Cusi temeva che i suoi nobili si spingessero troppo in là col loro desiderio di trar vendetta su uno degli odiati Spagnoli. Il mattino del sedici maggio, l’Inca mi mandò a dire di recarmi sul solito spiazzo, ed egli vi apparve con il consueto cerimoniale; ed io salutai l’Inca, e mi misi a sedere. L’Inca e i suoi capitani presero allora a ridere di cuore di ciò che era accaduto il giorno prima, e mi chiesero la mia opinione su quella festa. Era stata una cosa alquanto insolita, risposi, e avevano fatto male a trattarmi così, visto che ero venuto per motivi tutt’altro che futili. Loro spiegarono che l’avevano fatto solo per divertirsi, e promisero che non sarebbe più accaduto.

Titu Cusi, probabilmente solo per far piacere al visitatore, permise che questi piantasse una croce vicino al luogo in cui abitava. Lo Spagnolo illustrò allora all’Inca la forza e la potenza di Carlo v re di Spagna. A ciò egli replicò che, certo, il potere del re era grande ma che, sebbene avesse tante genti, negre o saracene, a lui soggette, tuttavia egli, Titu Cusi, al pari di quanto aveva fatto suo padre Manco prima di lui, sapeva bene come fare a difendersi tra quelle montagne […] Ed egli mandò infatti a chiamare altri uomini da Vilcabamba.

Il primo gruppo di armati era giunto, a quanto pare, dalle calde giungle dei bassipiani, risalendo la valle del Pampaconas, e si trattava di selvaggi armati di archi e frecce; ma, per impressionare Rodriguez, Titu Cusi aveva inviato messaggeri all’antica cittàsantuario di Vilcabamba, la sua seconda capitale, per far venire i guerrieri degli altipiani. Il venticinque maggio arrivò uno dei suoi generali con 300 lance, che entrarono sullo spiazzo dov’erano disposti gli altri, e fecero atto d’obbedienza al Sole e all’Inca. Allora un centinaio di capitani di quelli venuti da Vilcabamba, si recò al luogo in cui stava Yamqui Mayta, e gli chiesero perché aveva permesso che si piantasse una croce sulla loro terra; prima, al tempo dell’Inca Manco, quella croce non c’era. Perché allora adesso era lì? Se ero stato io a convincere l’Inca, ebbene, loro mi avrebbero ucciso. L’Inca rispose che ciò era stato fatto per suo ordine, e che era bene che essi accettassero la croce del Creatore di tutte le cose. Soddisfatti da questa risposta, quelli andarono a sedersi, e la festa riprese.

Rodrìguez era uomo di coraggio e di grande fede, e si comportò con tanta bravura e tatto, da riuscire ad accattivarsi l’ammirazione e il rispetto incondizionati dell’Inca, sicché questi quasi quasi si convinse ad accettare la proposta di seguire le orme di Sayri Tupac, lasciando Vitcos per trasferirsi a Yucay, dove avrebbe vissuto comodamente, con tutti gli onori dovuti al suo rango. I successi riportati da Rodrìguez furono tali da incoraggiare un altro ambasciatore, accompagnato da trenta soldati spagnoli e da un buon nerbo di Indiani, a presentarsi anche lui all’importantissimo ponte di Chuquichaca. Ma alla vista di quel piccolo esercito, che comprendeva tra l’altro venti archibugieri, Titu Cusi si allarmò a tal

punto, che fece tagliare il ponte, rimandò a Cuzco Rodrìguez e tutti gli altri Spagnoli, e si ritirò a Vitcos. A quanto pare, tuttavia, tenne presso di sé, in qualità di segretario, un mestizo di nome Martin Pando, che probabilmente parlava sia spagnolo che quechua. Sembra che Martin Pando abbia trascorso a Vitcos o nel vicino villaggio di Puquiura i cinque anni successivi, guadagnandosi la piena fiducia di Titu Cusi, tant’è che l’Inca decise di iniziare una corrispondenza con le autorità spagnole. Può darsi si debba alla sua influenza il fatto che, circa tre anni più tardi, Titu Cusi si convinse dell’opportunità di convertirsi alla religione dei conquistatori. Vien fatto di chiedersi se non furono le notizie dell’abdicazione di Carlo v e dell’accessione al trono di Spagna e delle Indie del suo bigotto e intollerante figlio, Filippo II (1565), giunte fino a Vitcos, a spingere qualche consigliere di Titu Cusi (sempre che non siano stati, a farlo, i suoi parenti di Cuzco) a suggerirgli la saggia decisione di convertirsi, almeno formalmente, al cristianesimo, accogliendo benevolmente i monaci e infine appellandosi a Filippo II affinché fosse riconosciuto il suo diritto al trono del padre e alla sacra frangia della sovranità incaica. Comunque siano andate le cose, risulta che, in una lettera indirizzata a Don López García De Castro, al governatore di Cuzco e a un membro del Consiglio delle Indie (dalla quale si ricava l’impressione che dall’una e dall’altra parte si cercasse di compiacere la bigotteria di Filippo II), Titu Cusi scriveva: In possesso delle lettere della Signoria Vostra, in cui mi si chiede di diventare cristiano poiché ciò condurrebbe alla pacificazione del paese, chiesi a Diego Rodríguez e a Martín Pando chi fosse il monaco più noto fra quelli che risiedono a Cuzco e quale fosse l’ordine religioso più rispettato e autorevole. Mi risposero che il più fiorente era quello di sant’Agostino, il cui Priore era il religioso più in vista di Cuzco. Ciò udito, mi sono sentito sempre più attratto dall’ordine di sant’Agostino a preferenza di altri. Ho scritto lettere al Priore di venire di persona a battezzarmi, perché amerei ricevere i sacramenti più da lui che da qualunque altro. Ed egli infatti si prese il disturbo di venire nel mio paese per battezzarmi, portando seco un altro monaco nonché Gonzalo Pérez de Vivero e Atilano de Anaya; costoro arrivarono a Rayangalla [Huarancalque?] il 12 agosto del 1568, e io allora giunsi da Vilcabamba per ricevervi il battesimo. Nel suddetto villaggio di Rayangalla, trovai dunque il Priore, a nome Juan de Vivero, e i suoi compagni. Fui istruito nelle cose della fede per un’intera quindicina, al termine della quale, nel giorno dedicato al famoso sant’Agostino, il Priore mi battezzò. Mi fu imposto il nome di Diego, e il cognome del governatore, de Castro. Mio padrino fu Gonzalo Pérez de Vivero, e mia madrina Doña Angelina Zica Oello. Dopo avermi battezzato, il Priore rimase otto giorni per istruirmi circa la Santa Chiesa Cattolica, e iniziarmi ai suoi misteri; partì poscia con Gonzalo Pérez de Vivero, lasciandomi un compagno a nome frate Marcos García, che a poco a poco m’impresse nella mente le cose insegnatemi dal Priore, per modo che non le dimenticassi e anche perché potessi a mia volta insegnare la parola di Dio al popolo della mia terra. Prima che egli partisse, illustrai ai miei seguaci le ragioni per le quali avevo accolto il battesimo e avevo fatto venire quegli Spagnoli nella mia terra. Tutti risposero che erano lieti per il mio battesimo, e che il frate sarebbe potuto restare. E in effetti il frate rimase con me.

Come due frati agostiniani per poco non riuscirono a varcare le mura del grande santuario incaico che allora portava il nome di Vilcabamba, è detto nella lunga Cronaca a scopo morale delle attività dell’Ordine nel Perú, di padre Calancha. Si tratta di centinaia e centinaia di pagine in folio nelle quali si incontra qua e là qualche frase che illumina, in maniera quanto mai vivida, alcuni degli avvenimenti che ebbero

luogo nella regione posta al di là della Cordillera Vilcabamba, durante il regno di Titu Cusi. Padre Calancha era soprattutto interessato a collezionare materiale per i sermoni dei suoi monaci, per cui più di nove decimi della sua Cronaca son dedicati alle vite dei santi e ai loro insegnamenti. Di conseguenza, dopo il 1639, la Cronaca non ha conosciuto altre ristampe e probabilmente non ne conoscerà più. Della “Provincia di Vilcabamba”, padre Calancha dice: E’ una regione calda delle Ande, ed è montagnosa, e comprende zone che sono aspre e freddissimi e squallidi altipiani. Annovera colline argentifere dalle quali è già stato estratto alquanto minerale, e produce oro, di cui in questi giorni son stati trovati notevoli quantitativi… È una terra di scarse comodità, con larghi fiumi e precipitazioni quasi normali. [In realtà vi piove più che in qualsiasi altra zona del Perù], In queste Ande e altipiani venne padre fra Marcos Garcia nell’anno 1566, dopo essere stato missionario per tre anni nella città e nella valle di Capinota.

Una località di nome Capinota non appare su nessuna carta geo grafica, ma può darsi si tratti della città chiamata oggi Qquente o Ptallacta; la valle sarebbe quella nota come Pampacahuana o Chamana, a poche miglia dalla valle dell’Urubamba, ai piedi di Ollantaytambo, ricca di zone archeologiche. Mentre si trovava lì, non è impossibile che padre Marcos Garcìa abbia sentito parlare del santuario incaico di Vilcabamba. Comunque, Calancha prosegue affermando che i risultati del lavoro svolto da padre Marcosa Capinota «lo infiammarono del desiderio di cercar anime da salvare dove non un solo predicatore aveva ancora messo piede e dove mai il messaggio evangelico era stato udito». Egli informò di questa sua santa aspirazione il degnissimo padre Juan de Vivero, priore del Monastero Agostiniano di Cuzco e direttore spirituale di quei territori. Il priore approvò il suo piano, gli assicurò autorità dandogli diretto mandato nonché le vesti talari e tutto ciò di cui aveva bisogno per il suo viaggio, e lo mandò a convertire quegli infedeli. Il viaggio di padre Marcos fu irto di difficoltà perché gli Inca avevano tagliato i ponti, bloccato i passi, inondato le strade, e quando frate Marcos chiedeva indicazioni circa le vie battute dagli Indiani, gli si rispondeva da costoro che non le conoscevano – così il re li aveva istruiti – oppure dicevano che, a loro avviso, la strada era impraticabile o presentava difficoltà tali, che c’erano ben poche speranze di potersene servire, a meno di non avere le ali come un uccello. E tuttavia, padre Marcos arrivò, dopo molte tribolazioni, alla presenza dell’Inca che gli riserbò scontrosa accoglienza, irritato e addolorato com’era nel vedere che degli Spagnoli erano stati capaci di penetrare nella sua fortezza, ma più ancora perché uno di essi era venuto a predicare contro i suoi idoli nelle sue stesse città.

Si tratta, come si vede, d’una versione assai differente da quella esposta da Titu Cusi stesso nella sua lettera al governatore di Cuzco, nel passo in cui dice di aver inviato il priore del Monastero a venire a «Rayangalla», dove Juan de Vivero lo battezzò e poi partì lasciandogli frate Marcos come cappellano. La differenza può essere naturalmente imputata al desiderio di Titu Cusi di farsi bello agli occhi delle autorità spagnole. Sta comunque di fatto che il padre Marcos si guadagnò la stima dell’Inca e ottenne il permesso di predicare. Perciò, abbandonata la prudenza, egli spiegò lo stendardo della croce. Eresse una chiesa a Puquiura «a due lunghi giorni di cammino da Vilcabamba». A Puquiura «il re Inca teneva la sua corte e i suoi eserciti. Frate Marcos dovette certo dispiacersi del fatto che sorgesse a tale distanza dal grande santuario, ma si rassegnò a innalzare croci nelle campagne e nelle foreste».

Finalmente il priore di Cuzco decise di mandare frate Diego a tener compagnia a frate Marcos nella valle del fiume Vilcabamba. Frate Diego compì il viaggio da solo, «soffrendo molto lungo la via, non tanto per la distanza che dovette coprire, ché da Cuzco alle prime terre di Vilcabamba vi sono poco più di dieci leghe» [in realtà, circa settanta chilometri], quanto per il fatto che era costretto a innumerevoli deviazioni e perché «non aveva chi lo guidasse fra le gole delle montagne e ancora perché i fiumi mancavano di ponti, e i continui straripamenti cancellavano le strade». Anche frate Diego riuscì a penetrare nel rifugio dell’Inca e, accompagnato da frate Marcos, fu ammesso alla sua presenza. Non si può dire che l’Inca fosse particolarmente lieto di vedersi tra i piedi un altro predicatore e fu assai contento quando seppe che frate Marcos desiderava tornare a Cuzco: pensava che frate Diego «non gli avrebbe mosso per questo alcun rimprovero». Padre Marcos, predicatore acceso e battagliero, era profondamente deluso, perché non era riuscito a produrre alcuna impressione su Titu Cusi. Frate Diego, dall’animo più mite, missionario e medico insieme, s’accattivò l’affetto degli indiani, e «in pochi giorni si guadagnò a tal punto la stima dell’Inca, che questi preparava una festa in qualsiasi momento il Padre lo visitasse, e protestava di amarlo come un fratello». Gli inviava in dono cacciagione e altre leccornie tratte dalle sue dispense personali (lo faceva soprattutto per far dispetto a frate Marcos). «Ma, come lo spirito di questo sant’uomo non era affatto avido di doni bensì bramava la vittoria sulle anime e la diffusione della Fede, egli chiese all’Inca il permesso di fondare un’altra chiesa e di addottrinare un altro pueblo». Titu Cusi glielo concesse, ed egli scelse il pueblo di Guarancalla (probabilmente il villaggio di Huarancalque). «C’era, dall’uno all’altro dei conventi, una distanza di due o tre giorni di cammino». Frate Diego costruì una chiesa e una casa, e allestì un ospedale, tutti poveri edifici che gli Indiani, con amore e zelo, rapidamente completarono. Egli andò per il paese piantando alte croci, e quei sacri alberi furono eretti tra le montagne e sui templi pagani, mentre gli idoli venivano abbattuti. Gli stregoni [echizeros] schiumavano di rabbia, ma gli altri Indiani gioivano di questi suoi atti perché devotamente lo amavano, e ciò a cagione non solo delle virtù preclare che in lui vedevano, ma anche dei continui atti benefici con i quali egli sapeva conquistarli, poiché li curava, li vestiva e li istruiva. Raccolse attorno a sé numerosi fanciulli e divenne il loro maestro e il numero dei pargoli ogni giorno aumentava; e molti, d’ambo i sessi e di tutte le età, erano coloro i quali chiedevano d’essere battezzati. Nel giro di pochi mesi, la comunità cristiana crebbe in numero e in gloria, poiché il benedetto frate Diego traeva gli Indiani dalle profondità delle foreste accostandoseli con la dolcezza, frenandoli con la preghiera e legandoli a sé con la sua beneficenza…».

Huarancalque è vicino a un passo che conduce alla fredda vallata del Pampaconas, abitata oggi ancora da Indiani allo stato selvaggio. Calancha soggiunge che, mentre frate Diego era tutto preso dalle cure della sua chiesa ed era circondato dall’amore universale, frate Marcos stava subendo la persecuzione, poiché egli, con cattolico coraggio, aveva aspramente rimproverato certe loro superstizioni agli Indiani più in vista, come pure certi atti pagani dell’Inca, esortandoli in pari tempo a por fine all’ubriachezza, causa di tutte le disgrazie di questi Indiani. Essa li precipita nell’incesto, nella sodomia e nell’omicidio, e raramente si assiste a una bevuta che non degeneri in riti pagani, tanto più che il Diavolo vi partecipa di persona, mascherato da Indiano.

Frate Marcos condusse una crociata talmente violenta contro il vizio dell’ubriachezza, cui volentieri s’abbandonavano Titu Cusi e i nobili, che finì con l’irritare l’Inca e i suoi cacicchi. Questi allora tentarono di eliminare il religioso somministrandogli erbe e polveri mortifere. Ma, nonostante i giuramenti imposti ai partecipanti alla congiura, vi fu tra loro chi, fingendo di odiare padre Marcos per non mandare in collera l'Inca, in realtà era cattolico e segretamente amico del padre, e costui lo avvisò che s’intendeva ucciderlo e che si guardasse. L’afflitto monaco rimase al suo posto ma poi, vedendo che gli avvelenatori ormai lo braccavano da vicino, decise di tornarsene a Cuzco.

Egli rese nota a padre Diego la sua decisione, gli affidò gli arredi della chiesa, e da solo e a piedi, con due tozzi di pane per tutto viatico, si mise lentamente in cammino per la contrada, divisando di viaggiare con maggior speditezza una volta sceso il buio, e all’alba penetrare in una valle meno perigliosa, onde raggiungere Cuzco di lì a tre o quattro giorni.

Ma l'Inca lo venne a sapere. A comunicargli la notizia dovettero essere gli Indiani cui il padre aveva affidato gli arredi sacri, «e lo fecero non già per malizia, bensì perché essi, umili e devotamente affezionati al padre, speravano così di impedirgli di lasciarli. Né essi sapevano che si stava tramando per ucciderlo». Furibondo, l'Inca gli spedì dietro cinque dei suoi ufficiali con alcuni lancieri, che lo riacciuffarono e lo portarono davanti a Titu Cusi il quale gli rivolse ingiuriosi rimproveri, accusandolo di voler lasciare la sua provincia senza averne ottenuto il permesso; prudente fu la risposta di padre Marcos: «Señor, gli Indiani di questo vostro pueblo non desiderano ricevere la Fede, né udire la parola di Dio; essi s’allontanano da me e insultano alle sante dottrine che io predico loro; molti di coloro che chiesero il Battesimo, son già nemici di Cristo, nostro Creatore. Se i vostri Indiani avessero ricevuto la Fede, o se coloro che la ricevettero non avessero apostatato, io sarei rimasto tra loro sino alla morte. Quelli che ora accolgono la Fede, e ricevono il Battesimo, sono Indiani venuti da Cuzco; gli altri temono di venire a me».

L’Inca allora gli impose di ritornare alla sua chiesa. Un giorno che frate Marcos e frate Diego si trovavano in compagnia di Titu Cusi, questi comunicò loro che intendeva condurli alla città di Vilcabamba, sua “residenza principale”, che nessuno dei due aveva mai visto. Disse l’Inca: «Venite con me, desidero offrirvi un piccolo divertimento». Partirono il giorno seguente, scortati da una piccola schiera di ufficiali e cacicchi. Giunsero in un posto chiamato Ungacacha, e lì gli Indiani perpetrarono l’infamia che da tempo andavano tramando: allagarono cioè le strade, e questo fecero deviando il fiume e lasciando che invadesse le campagne; e la ragione era che i padri avevano più volte tentato di andare a Vilcabamba a predicare, essendo questa la capitale e la sola città in cui avesse sede l’Università dell’Idolatria coi suoi professori di stregoneria, maestri di abominio. L’Inca, allo scopo di spaventarli, e per impedire che pretendessero di stabilirsi o di predicare a Vilcabamba, e fare anzi in modo che lasciassero tosto la provincia, escogitò dunque questo piano sacrilego e diabolico. Poco dopo l’alba, mentre calavano verso una pianura, i monaci credettero di essere giunti a un lago. Disse loro l’Inca: «Tutti noi dobbiamo passare quest’acqua». Oh, crudele apostata! [Evidentemente l’Inca non aveva preso troppo sul serio il Battesimo, al contrario di ciò che i monaci speravano]. Egli viaggiava in una lettiga e i due Sacerdoti a piedi, senza calzari! I due ministri di Dio entrarono dunque nell’acqua e gioiosamente procedettero, quasi camminassero su morbidi tappeti, poiché sapevano che quegli insulti e quei tormenti essi li ricevevano a causa dell’odio che l'Inca nutriva per la loro predicazione. Immersi nell’acqua sino alla cintola, percorsi da brividi di freddo, i due disgraziati scivolarono e caddero più volte, e non v’era nessuno ad aiutarli. Si tenevano per mano mentre quei sacrileghi fragorosamente ridevano e si divertivano a

coprirli di insulti. Con le vesti inzuppate e con una temperatura rigidissima, questi servi di Dio continuarono ad avanzare, senza dare il benché minimo segno di collera o di irritazione. Infreddoliti e coperti di fango, uscirono fuor dall’acqua sulla terra asciutta, e qui l'Inca disse loro che, se aveva seguito quell’ardua strada, era solo perché pensava che ciò avrebbe disgustato i padri, togliendo loro la voglia di stabilirsi a Vilcabamba e inducendoli a far ritorno a Cuzco. [Da Puquiura a Machu Picchu ci sono tre giorni di cammino.]

È interessante notare: primo, che secondo i missionari faceva un freddo terribile; secondo, che l’estenuante viaggio tra le due capitali di Titu Cusi, cioè Puquiura, quartier generale del suo esercito, e la residenza principale (il grande santuario di Vilcabamba Antica, luogo dove gli Spagnoli non avevano mai messo piede), era durato tre giorni. Padre Calancha prosegue dicendo che i monaci giunsero finalmente, nonostante le difficoltà, nelle vicinanze di Vilcabamba, dove predicarono per tre settimane. L’Inca non volle però che i padri alloggiassero in città, e ordinò che fosse data loro ospitalità fuori delle mura così che non potessero assistere alle pratiche religiose, alle cerimonie e ai riti cui l’Inca e i suoi ufficiali prendevano parte ogni giorno assieme ai loro stregoni. Trattandosi della città più importante del regno incaico, e insieme d’un gran santuario, Vilcabamba doveva abbandonare templi e palazzi destinati a sacerdoti e Vergini del Sole, ma l’Inca impedì ai missionari, non solo di visitare la città sacra, ma persino di farsi un’idea delle sue bellezze architettoniche. Titu Cusi non aveva alcuna intenzione di consentire ai frati di entrare nella sua «Università dell’Idolatria» e profanare il prezioso santuario, e a dire il vero aveva fatto quanto stava in lui per tenerli lontani e far perder loro ogni desiderio di ritentare la prova. Ma, senza perdersi minimamente d’animo, i monaci approfittarono della loro situazione per predicare contro l’idolatria, proclamandone l’abominio. Poiché, di regola, la gente comune non era ammessa al santuario, e s’addensava nelle vicinanze di questo, i frati disponevano di un folto pubblico, che fecero del loro meglio per convertire. Ciò naturalmente mandò in bestia l’Inca e i suoi ufficiali, e li spinse a tramare la vendetta. L’Inca consultò i propri stregoni: che cosa si poteva fare per tenere a bada i frati e obbligarli al silenzio? Gli stregoni richiesero un giorno di tempo per consultarsi in merito coi diavoli, che essi chiamavano idoli o dèi che dir si voglia. Il risultato di quell’infernale convegno fu che, essendo chiaro come i loro avversari, i frati, non si sarebbero lasciati sedurre da offerte d’oro e d’argento, se si voleva piegarli bisognava costringerli a violare il loro voto di castità.

Alle Sacre Donne venne promesso che «se fossero state capaci di sottomettere quei servi di Dio, si sarebbero guadagnate le lodi dell’Inca». Esse «fecero uso di tutte le arti che il diavolo aveva loro insegnato, ricorrendo a tutte le attrazioni del sesso e alle più pericolose armi di seduzione. Ma quegli apostoli si difesero così validamente, che le donne se ne tornarono sconfitte e vergognose, riportando dunque gli umili frati la vittoria». L’Inca e i suoi stregoni, irritati per il fallimento e infuriati per l’affronto, consultarono nuovamente Satana, e da questo conciliabolo ecco sorgere un al tro e più oltraggioso espediente. Con coperte bianche e nere, essi fecero abiti dei quali rivestirono alcune delle più belle e dissolute donne indiane, e le inviarono [ai frati] in quest’ordine: due di esse uscirono portando abiti neri e si recarono là dove si trovavano i religiosi, dicendo che si trattava di

una trovata per divertirli e intrattenerli. Là esse fecero ciò che i demoni avevano loro insegnato, ma i servi di Dio le cacciarono, aspramente rimproverandole.

Sul tardi, non viste, se ne vennero dai padri altre due, vestite di bianco, simili in tutto a frati. Poiché né le case degli Indiani, né le loro locande avevano chiavi o porte, le donne poterono facilmente raggiungere i loro letti. Comunque, quelle emissarie dell’inferno, novizie della frode e devote della lascivia, non riuscirono a scuotere minimamente i frati… Se infatti quelle combattevano di giorno la loro infernale battaglia, essi le rimproveravano; se di notte, predicavano loro finché, del tutto vinte, se ne andavano… Quest’assalto muliebre continuava notte e giorno, e gli abiti e le Indiane erano sempre diversi. Se i monaci lasciavano le loro case e se ne andavano per il paese, esse li seguivano né mai cessavano di studiare nuove malizie e applicare tremende tentazioni.

Se da un lato gli sforzi dell’Inca e dei sacerdoti del Sole non erano coronati da successo, d’altro canto i frati, resisi conto che non progredivano affatto nella loro missione e che mai sarebbero stati ammessi al santuario di Vilcabamba, finirono per scoraggiarsi. Chiesero pertanto all’Inca il permesso di ritornare alle loro chiese e scuole di Puquiura e Guarancalla. Ma, nonostante le spiacevoli esperienze cui erano andati incontro nei dintorni di Vilcabamba Antica, essi non rinunciarono a tentare di ingraziarsi Titu Cusi, col quale, a quanto sembra, ristabilirono buoni rapporti, tanto che lo stesso Titu Cusi volle dettare a frate Marcos un racconto della vita e della morte di suo padre, Manco il, racconto che già è stato ampiamente riferito. In un secondo tempo egli ne dettò uno simile a Martin Pando, il giovane e colto mestizo per il quale l’Inca nutriva molta stima e che era giunto nella valle di Vilcabamba in compagnia di Rodriguez; afferma Martin Pando di aver redatto il racconto di suo pugno, alla presenza del padre Diego Ortiz e di tre ufficiali di Titu Cusi. Egli indica la località in cui ciò avvenne col nome di «San Salvador de Vilcabamba», oggi sconosciuto e che probabilmente era la residenza di frate Marcos. La relazione fu firmata da Titu Cusi e autenticata da entrambi i monaci agostiniani nel febbraio del 1670; essa aveva la forma d’un memoriale indirizzato a Filippo II, «che voglia mostrarsi benevolo a me [Titu Cusi], nonché ai miei figli e discendenti». Eccone il testo: Io, Don Diego de Castro Titu Cusi Yupanqui, figlio naturale dell’Inca Manco, uomo ricco d’ogni virtù e ultimo signore di questi regni del Perù, dichiaro che, poiché è necessario che io rilasci al Re Don Filippo nostro Signore questa dichiarazione, la quale contiene cose di gran momento per me e i miei successori, e non conoscendo io lo stile e la maniera usati dagli Spagnoli per redigere cotali testi, chiedo al molto reverendo frate Marcos Garcia e a Martin Pando che, in conformità alle regole da seguirsi in simili occasioni, essi ordinino e compongano questa narrazione, onde poi l’illustratissimo signor dottore Lope Garcia de Castro provveda a inviarla in Ispagna; e per modo che in mio nome, essendo io, come sono in effetti, in pieno possesso delle mie facoltà, tutto possa essere spiegato a Sua Maestà Don Filippo, nostro Re e Sire.

Terminato il suo exploit letterario, molto probabilmente Titu Cusi tornò alla sua corte principale a Vilcabamba, dove le Sacre Donne poterono prendersi cura di lui e di sua madre. La sua “apostasia”, comunque, convinse padre Marcos che era necessario prendere drastici provvedimenti per screditare gli idoli incaici e convincere gli Indiani a convertirsi. Egli e padre Diego decisero quindi di dar l’assalto a un tempio del Sole che sorgeva «nei pressi di una gran roccia bianca ai cui piedi sgorgava una

sorgente». Secondo padre Calancha, era questo il principale centro dell’adorazione del Sole: qui il popolo si recava a pregare l’astro, facendo atto di riverenza e gettandogli baci con le mani, e ciò avveniva probabilmente in giugno, al tempo di quello che per gli Inca era il solstizio d’inverno, per implorare il benefico ritorno del Sole. È un rituale che ci richiama alla mente le pratiche dei gentili, descritte dall’autore del Libro di Giobbe: «allorché il Sole splende alto e la Luna brilla in tutto il suo chiarore, esultano nei loro cuori e protendono le mani verso l’astro e gli gettan baci». Si trattava certamente di una delle più naturali e diffuse forme ritualistiche del mondo antico. Come si è già detto, frate Marcos e frate Diego decisero di sferrare uno spettacolare assalto contro il “demonio” che avrebbe dovuto abitare quel luogo. Trassero vantaggio dall’assenza dell’Inca, della madre, dei principali consiglieri e probabilmente anche della guardia del corpo, per invitare i convertiti che avevano a disposizione a radunarsi in una delle loro chiese, portando bracciate di legna da ardere destinate a bruciare il diavolo che li aveva tanto tormentati in passato. Padre Calancha vuol farci credere a ogni costo che gli Indiani convertiti erano quanto mai ansiosi di vendicarsi del diavolo che aveva ucciso i loro amici e perseguitato loro stessi; i dubbiosi erano mossi dalla curiosità di vedere come sarebbe finita: sul posto c’erano i sacerdoti incaici, i quali avrebbero persuaso il loro dio a raccogliere la sfida dei cristiani. Com’è facile immaginare, il resto della popolazione si accodò semplicemente per godersi lo spettacolo. Ci volle indubbiamente una buona dose di coraggio, da parte dei due agostiniani, per giungere a profanare uno dei maggiori santuari dell’Inca e del popolo presso il quale dimoravano. È quasi incredibile che in questa remota vallata dove nessun soldato spagnolo poteva dar loro protezione, i due religiosi abbiano osato arrecare simile oltraggio alla religione dei loro ospiti. Comunque, i fratelli Marcos e Diego, alla testa dei loro convertiti, partirono da Puquiura e mossero verso il santuario; ognuno dei partecipanti alla marcia portava un pezzo di legno: dice Calancha che gli Indiani adoravano l’acqua come cosa divina, e che il diavolo talvolta si manifestava loro nell’acqua. I monaci agostiniani drizzarono il vessillo della croce recitando le loro orazioni e accatastarono la legna da ardere tutt’ attorno alla roccia e al tempio. Esorcizzando il diavolo e apostrofandolo con gli appellativi più ingiuriosi che venissero loro in mente, i frati gli comandarono di non farsi vedere mai più. Appiccarono il fuoco alla legna, arsero il tempio e affumicarono la roccia, destando enorme impressione sugli Indiani e costringendo il povero diavolo a fuggire, «ruggendo quale belva infuriata… Il crudele demonio non osò mai più tornare né alla roccia né in quel distretto». Che l’acqua sparisse perché la sorgente venne temporaneamente disseccata dal fuoco o perché l’incendio danneggiò le condutture, è cosa che lasciamo decidere al lettore. È presumibile che, al momento in cui ebbe luogo l’episodio, l’Inca Titu Cusi e sua madre stessero visitando l’«Università dell’Idolatria». In ogni caso, appena udirono la notizia, s’infuriarono e tornarono immediatamente a Vitcos.

I nobili volevano mettere a morte i missionari, e lo avrebbero forse fatto, se non fosse stato per la grande stima di cui godeva frate Diego, che se l’era guadagnata grazie all’abilità dimostrata nel curare le malattie. Le cose non andarono altrettanto bene a frate Marcos che fu cacciato dalla provincia a sassate, e minacciato di morte se fosse tornato. Invece frate Diego, amato dagli Indiani che venivano a farsi curare da lui fin dalle malsane giungle delle umide vallate, non solo fu invitato a rimanere, ma divenne un sincero amico e consigliere di Titu Cusi. Non è da escludersi che sia stato proprio frate Diego a consigliare Titu Cusi di accettare l’invito rivoltogli dal cugino Carlos Inca che viveva a Cuzco, e il cui figlio doveva essere solennemente battezzato. Il capitano Ocampo, che in quel torno di tempo viveva a Cuzco, dice che la cerimonia fu accompagnata da «feste, atti di allegria, danze, fuochi d’artificio e molti altri apparati costosi e di nuovissima invenzione». Gli inviti furono mandati in tutta la regione, «per un raggio di quaranta leghe e più attorno a Cuzco», in ogni luogo in cui vivessero Indiani. Ocampo sostiene che, «oltre a moltissimi altri, vennero al battesimo Titu Cusi Yupanqui Inca e il suo giovane fratello Tupac Amaru Inca, i quali giunsero dalla provincia di Vilcabamba». Si vuole che il padrino dell’infante altri non sia stato che il nuovo viceré spagnolo, Don Francisco de Toledo, testé arrivato a Cuzco. Se, come riferisce Ocampo, è vero che Titu Cusi e i suoi accettarono l’invito, è anche certo che non resero nota la loro presenza, e forse si tennero in disparte, chiusi in casa dei loro parenti sulla collina sopra Cuzco, a Colcampata. Poiché il buon capitano Ocampo si limita a riferire chiacchiere e dicerie, è da dubitare della veridicità delle sue affermazioni. Non c’è dubbio però che, partito padre Marcos dalla valle di Vilcabamba, frate Diego fece molti progressi, guadagnandosi la stima dell’Inca, nonostante la ostilità dei sacerdoti del Sole. Un giorno – dice Calancha – accadde che uno spagnolo di nome Romero penetrasse nella provincia di Vilcabamba. Costui chiese all’Inca licenza di ricercarvi oro e argento, poiché si intendeva di metalli e di cose riguardanti le miniere. L’Inca gli diede il permesso, e le ricerche di Romero furono coronate da successo. Egli scoprì un ricco filone d’oro, e in pochi giorni ne estrasse notevoli quantità. A Romero parve saggio acquistarsi la fiducia dell’Inca, e gli mostrò l’oro trovato, chiedendo in pari tempo una proroga del permesso per estrame dell’altro. Ma, non appena l’Inca vide Toro, pensò che la presenza del prezioso metallo avrebbe attratto gli avidi Spagnoli, i quali si sarebbero precipitati sulla regione a migliaia, ed egli temette di essere cacciato dalla provincia che gli apparteneva. – Ordinò quindi che Romero fosse messo a morte. Lo sfortunato e avido minatore tentò una disperata difesa. Le sue alte grida d’aiuto furono intese e attrassero l’attenzione di frate Diego che volò sulle ali della carità alla casa dell’Inca, col proposito di salvare quella vita, implorando il sovrano che lo perdonasse o almeno permettesse allo sfortunato di confessarsi. Ora l'Inca fu avvertito che frate Diego stava arrivando di corsa e, indovinato qual era il suo proposito, gli mandò a dire di tornare alla sua chiesa e di lasciare che lui uccidesse quell’uomo, poiché se avesse implorato la grazia per lui, anch’egli sarebbe stato ucciso. Al sant’uomo non restò che ritirarsi, pur lamentando che lo sventurato minatore dovesse morire senza aver confessato i suoi peccati… Essi uccisero Romero e gli tagliarono la testa… Frate Diego mandò a richiederne all’Inca il cadavere, per modo che egli potesse dargli cristiana sepoltura, dal momento che ormai giustizia era stata fatta; ma la sua richiesta non fu accolta, perché l’Inca voleva che gli uccelli dell’aria e le bestie dei campi divorassero il cadavere, ed egli infatti ordinò che questo fosse gettato nel fiume e proibì a chiunque, se non voleva incorrere nella sua ira, di seppellirlo o anche solo di recuperarlo.

Nonostante la proibizione, frate Diego uscì più volte, di notte, per tentare di ritrovare il cadavere e seppellirlo. Ma l'Inca lo venne a sapere, andò su tutte le furie e minacciò di morte il frate se avesse ancora lasciato la chiesa nottetempo. Non molto dopo, sempre secondo Calancha, Titu Cusi diede un grande ricevimento con gran copia di cibi bevande. Frate Diego, che pure non amava le feste rumorose e la baldoria, fu costretto a parteciparvi; ci vien detto che la ritrosia di frate Diego ad accettare l’invito dell’Inca infastidì moltissimo i membri della corte. A quanto pare, dopo il ricevimento l'Inca s’ammalò di broncopolmonite, e per disgrazia di frate Diego, questi si trattenne al suo capezzale nella speranza di riuscire a guarirlo con i suoi semplicistici rimedi o almeno di convincerlo a confessarsi e a meritarsi l’assoluzione. Ma Titu Cusi morì, e i nobili e una delle moglie dell’Inca attribuirono la fatale conclusione della malattia del sovrano alla presenza di frate Diego, che fu messo a morte in maniera oltremodo crudele. Gli orripilanti particolari di cui abbonda la Cronaca. neppure qui ci vengono risparmiati dal Calancha. Anche il mestizo Martin Pando, che era stato segretario dell’Inca, fu trucidato dagli ufficiali di Titu Cusi. Frate Marcos, nell’udire della morte del suo confratello Diego, volle far ritorno alla valle da cui Titu Cusi l’aveva cacciato, ma annegò guadando un fiume. Così ebbe fine il primo tentativo dei missionari cristiani di convertire alla fede l’ultimo dei bellicosi Inca. Il capitano Baltasar de Ocampo ci riferisce ciò che gli venne raccontato da coloro che furono presenti ai funerali di Titu Cusi. Le insegne dell’Inca, le sue asce da guerra, le lance, i bracciali, la frangia scarlatta e uno scudo, furono portati a braccia dai nobili più in vista, tra pianti, rulli sommessi di tamburi e lamentazioni. Poi il corteo «s’avviò alla Casa del Sole, dove attendeva l’Inca Tupac Amaru, sovrano legittimo, in compagnia delle Acllus sotto la guida delle Mama-cunas, matrone incaricate di vigilare poiché si trattava di fanciulle di straordinaria bellezza». TUPAC AMARU Volgeva l’anno 1571: toccava adesso al terzo figlio di Manco, Tupac Amara, vissuto prima quale compagno di giochi delle Prescelte del Sole, e ora sposato a una di esse, il compito di governare il piccolo regno di Vilcabamba. La sua fronte fu dunque adornata con la frangia scarlatta della sovranità. Purtroppo, a causa delle gelosie e delle paure del fratellastro Titu Cusi, la sua preparazione non era stata certo la più adatta a far di lui un soldato, e tanto meno un condottiero avveduto. Egli forse si attendeva di poter continuare a vivere nel grande santuario, circondato da devoti seguaci e protetto dalla invadenza degli intrusi, mentre invece si trovò a dover passare parte del tempo a Vitcos, coi suoi ufficiali e il suo minuscolo esercito. Certo, i membri del consiglio della corona avevano giustificati motivi per temere i conquistatori spagnoli. Per disgrazia dell’Inca, il viceré, Don Francisco de Toledo, se era un soldato infaticabile e un abilissimo amministratore, era in pari tempo un bigotto fanatico, crudele e spietato. Il suo sovrano Filippo II aveva decretato, con l’approvazione del

Consiglio delle Indie, che venisse fatto ogni sforzo per ottenere la sottomissione degli Indiani che vivevano nella provincia di Vilcabamba, dove gli Spa gnoli non erano ben visti e dove, come gli aveva assicurato frate Marcos, i missionari correvano pericolo di morte. Di conseguenza, ignorando che Titu Cusi era morto e che frate Diego era stato sottoposto a martirio, il viceré decise di indurre l’Inca a trasferire la sua residenza in zona controllata dall’autorità spagnola e incaricò della missione un ambasciatore particolarmente fidato. Se le notizie di ciò che era accaduto a Vitcos tardarono a giungere all’orecchio del viceré, in compenso le nuove di ciò che si stava tramando a Cuzco pervennero a Vilcabamba con straordinaria rapidità. Agli ufficiali e ai consiglieri del giovane Inca, in particolare, esse furono quasi sicuramente comunicate dai rispettivi parenti che risiedevano a Cuzco. Costoro avevano visto il grande Impero incaico ridursi a non più di una provincia isolata fra le aspre montagne dove i loro antenati avevano cercato rifugio nei secoli scorsi, e dalle quali essi speravano di riuscire a tener lontani i conquistatori; credevano che il loro Inca, Sayri Tupac, fosse stato avvelenato mentre era ospite degli Spagnoli a Yucay; ricordavano che Manco era stato assassinato dagli esuli spagnoli che pure erano stati accolti e trattati come amici; sapevano, ancora, che Titu Cusi era morto avendo al suo fianco un monaco. Perciò, quando udirono che il viceré intendeva inviare un ambasciatore a Vitcos con il preciso incarico di persuadere il giovane e inesperto Tupac Amaru a lasciare la sicurezza della Cordillera Vilcabamba per trasferirsi a Cuzco, decisero di non permettere in alcun modo che il debole ragazzo accettasse quell’invito foriero di morte. Inviarono pertanto sette dei loro guerrieri a tendere un’imboscata all’ambasciatore, con l’ordine di ucciderlo. Non sappiamo se Tupac Amaru fosse a conoscenza del loro piano, ma è certo comunque che un condottiero saggio ed esperto avrebbe capito come un atto simile non potesse condurre se non a una catastrofe. I nobili probabilmente prevedevano la possibilità che l’iniziativa scatenasse una guerra, ed è forse per questo che mandarono il giovane sovrano nella calda vallata del Pampaconas, dove suo fratello Titu Cusi s’era fatto costruire una casa di campagna accanto ai luoghi abitati da quei selvaggi Antis che gli si erano dimostrati sempre tanto fedeli. Lì, almeno, i soldati spagnoli non avrebbero potuto raggiungerlo. A Francisco de Toledo, il viceré, la notizia della morte del suo ambasciatore giunse contemporaneamente a quella del martirio dell’agostiniano padre Diego. Per il cuore del governatore spagnolo fu un vero colpo: se neppure un fedele rappresentante del Vicario di Dio in terra e un messaggero del viceré di Filippo II erano persone inviolabili, chi allora era al sicuro? Di conseguenza, l’energico Toledo decise di portar guerra allo sfortunato Tupac Amaru, offrendo un premio al soldato che l’avesse catturato, anche perché sperava, con l’occasione, di metter le mani sul celebrato tesoro dell’Inca, che si supponeva comprendesse, oltre all’immagine d’oro del Sole portata via da Cuzco, anche una catena dello stesso metallo che il grande Inca Huayna aveva fatto cesellare per adornarsene nelle grandi occasioni. Il Consiglio della Reggenza peruviana naturalmente stabilì che la catena d’oro e il rimanente

tesoro «spettavano a Filippo II per diritto di conquista», e che comunque la famiglia reale dell’Inca doveva essere sterminata. Il corpo di spedizione venne diviso in due gruppi, uno incaricato di catturare l’Inca qualora tentasse di attraversare l’Apurimac servendosi di una delle strade già usate da suo padre per le incursioni contro le carovane spagnole; il secondo doveva seguire la strada di Ollantaytambo, la stessa percorsa a suo tempo da Rodriguez. Questo gruppo discese lungo la valle dell’Urubamba sino ai grandi precipizi del granitico canyon che per secoli ha bloccato il cammino, e lo superò attraverso il passo di Panticalla, dove non trovò un solo difensore incaico. Trentacinque anni prima, come si ricorderà, un altro reparto era stato assalito e distrutto, in questo stesso luogo, dai ben addestrati frombolieri del deciso Inca Manco II. Il gruppo riuscì dunque a raggiungere senza impedimenti il ponte di Chuquichaca sul basso Urubamba, chiave di volta della difesa incaica. La stretta passerella sospesa sul vuoto, costruita con fibre vegetali, si incurvava così profondamente al centro, oscillando in modo pauroso sui gorghi dell’Urubamba, da poter essere usata da un uomo solo per volta. Inoltre, il fiume era troppo rapido e profondo per esser passato a guado, né v’erano canoe; sarebbe stato, d’altra parte, impossibile costruire zattere con gli alberi della zona, perché questi, benché numerosi, sono di un legno così pesante che le zattere non si sarebbero mantenute a galla. Quando la spedizione raggiunse il ponte, tutti furono assai sorpresi constatando che non era stato distrutto affatto. Il giovane Tupac Amara non aveva alcuna esperienza di guerra e i suoi ufficiali evidentemente confidavano nell’abilità dimostrata dalle loro truppe nel corpo a corpo per impedire alle forze d’invasione di andar oltre quella stretta e malsicura opera d’ingegneria indigena. Ma gli Spagnoli si erano portati dietro un paio di pezzi da montagna, armi con le quali le truppe dell’Inca non avevano alcuna dimestichezza. I fianchi della valle valicata dal ponte di Chuquichaca si alzavano verticalmente sul fiume, e il rimbombo causato dai cannoni dovette apparire terrificante a chi fino allora non aveva mai udito nulla del genere. Poche salve di archibugio e qualche colpo di cannone, e i soldati dell’Inca fuggirono disordinatamente, abbandonando il ponte senza difesa. I soldati spagnoli che lo occuparono, erano comandati da un certo capitano Garcia, che aveva sposato una nipote di Tupac Amaru e che probabilmente parlava la lingua quechua. I suoi uomini trovarono che la strada era solo un angusto sentiero che correva tra una foresta da un lato e un profondo burrone dall’altro, ed era appena sufficiente a dare il passo a due uomini affiancati. Garcìa, audace e temerario quale doveva essere un bravo conquistador, marciava in testa. All’improvviso, ecco un capitano incaico a nome Hualpa, deciso a proteggere la ritirata del suo sovrano, sbucare dal fitto e balzare su Garcia, tentando di gettarlo nel precipizio, e ci sarebbe riuscito, non fosse stato per un fedele servitore indiano del capitano, il quale lo seguiva a pochi passi, portandone la spada; costui estrasse rapidamente l’arma dal fodero e uccise Hualpa, salvando così la vita a Garcia. Gli Spagnoli risalirono dunque la valle del Vilcabamba, traversarono rapidamente Puquiura, dove frate Marcos aveva eretto la sua chiesa, e assalirono e distrussero numerosi fortilizi incaici. Scrive il capitano Garcia:

Essendo poi pervenuti alla fortezza principale, Guaynapucara, che gli Inca avevano rinforzato, constatammo che essa era difesa dal Principe Filippo Quispetutio, figlio dell’Inca Titu Cusi, e dai suoi capitani e soldati. Tale fortezza si erge su un alto sperone, circondato da aspre cime e da giungle, pericolosissimo da scalare, anzi quasi inespugnabile. Nondimeno, con la mia predetta compagnia di soldati, assalii e presi la “Novella Fortezza”, ciò che fu possibile solo a prezzo di enormi fatiche e di gravissimi rischi.

“Novella (o Giovane) Fortezza” sembra essere stato un altro nome di Vitcos, col quale forse si indicava il “palazzo” dell’Inca, mentre le fortificazioni che lo circondavano erano chiamate Guaynapucara. Il capitano Garcia sperava di catturarvi il giovane Inca Tupac Amaru, ma si accorse con disappunto che questi era fuggito con le sue guardie e lo stato maggiore, portando con sé l’immagine d’oro del Sole, prelevata a Cuzco dal padre Manco II. I soldati spagnoli lo inseguirono, attraverso i monti di Huarancalla, fin nella valle di Pampaconas. La spedizione di Garcia era ben provvista d’armi e munizioni, e a Cuzco gli Spagnoli erano attesi da un signore deciso e spietato, che non avrebbe tollerato sconfitte – cosa difficile, del resto, anche perché erano guidati da un valentissimo ufficiale. Per nulla intimorito dai mille pericoli rappresentati dai fitti boschi, dalle rapide dei fiumi e dall’ostilità delle popolazioni, Garcia riuscì a penetrare nel cuore della foresta e infine a catturare Tupac Amaru, il quale preferì rimettersi agli Spagnoli piuttosto che perire nelle foreste dell’Amazzonia, vuoi per mano dei selvaggi, vuoi per le difficoltà dei luoghi. Sperò probabilmente che lo avrebbero trattato con un minimo di rispetto, ma dovette ben presto ricredersi. Con la moglie e i figli, seguì il trionfo del vincitore a Cuzco, dove il viceré Francisco de Toledo volle godersi lo spettacolo di un processo per burla e di una infame condanna. I capi incaici presi prigionieri furono torturati a morte con diabolica brutalità, e Tupac Amaru dovette assistere prima al supplizio della moglie, poi lui stesso subì la pena capitale, e la sua testa fu piantata in cima a un palo drizzato sulla piazza principale di Cuzco. I suoi figli non gli sopravvissero a lungo, e così avvenne che nel 1572 perisse l’ultimo degli Inca, discendente dei più saggi reggitori che i popoli dell’America meridionale abbiano finora conosciuto.

PARTE SECONDA

LE RICERCHE

COME PENETRAI NELLA TERRA

DEGLI INCA Assai sovente mi sento chiedere come fu che scoprii Machu Picchu; rispondo una volta per tutte che cercavo l’ultima capitale incaica; ora, si presumeva che le rovine di questa si trovassero nella Cordillera Vilcabamba, e le mie ricerche presero le mosse da qui. Molti anni fa, animato dal desiderio di approfondire le mie conoscenze di storia del Sud America e di scrivere un saggio su Simón Bolívar, volli rifare la strada percorsa dal grande generale attravero le Ande, dal Venezuela alla Colombia. Il Segretario di Stato americano, Ehilu Root, si interessò alla mia spedizione e volle una relazione sul mio viaggio; l’iniziativa lo interessò, e l’anno successivo mi offrì l’occasione e i mezzi di tornarmene nel Sud America, inviandomi in qualità di delegato al Congresso scientifico panamericano, che si tenne nel 1908 a Santiago del Cile. Le esperienze che avevo avuto modo di compiere in Venezuela e in Colombia mi avevano reso evidente quanto fosse avvantaggiato l’esploratore che ha dietro di sé un governo; decisi pertanto di approfittare in pieno della mia qualità di delegado officiai de los Estados Unidos, per penetrare nelle Ande centrali e percorrere l’antica strada spagnola da Buenos Aires a Lima. Mossi da Cuzco in compagnia del mio amico Clarence L. Hay, e mi accinsi ad attraversare la terra degli Inca. Era il mese di febbraio. Disgraziatamente eravamo all’oscuro delle condizioni atmosferiche delle Ande centrali durante i mesi cosiddetti estivi. In Argentina e nel Cile avevamo trovato un clima piacevolmente fresco e pensavamo che il Perú ci avrebbe riservato la stessa accoglienza; ignoravamo che il febbraio è il mese peggiore per esplorare gli altipiani dove fiorì la civiltà incaica: la pioggia comincia a cadere in novembre e non ha tregua fino in aprile. Quel particolare febbraio, poi, si rivelò il mese più piovoso che si fosse visto in Perù da un quarto di secolo a quelle parte, per cui trovammo i sentieri di montagna in condizioni addirittura deplorevoli. Fu un brutto esordio della nostra esplorazione. I continui rovesci di pioggia sopraffacevano spesso gli scrupoli di coscienza delle autorità locali che desideravano farci da guida nelle città e fuori di esse. Tuttavia, il prefetto della provincia di Apurimac, Sua Eccellenza Nunez, s’era preso la briga di venire a Cuzco, per invitarmi a visitare la sua regione e soprattutto a esplorare le rovine di Choqquequirau che, a suo dire, era stata la dimora dell’ultimo Inca. Poiché Choqquequirau significa “culla d’oro”, in tempi relativamente recenti si era tentato più volte di esplorarne le rovine, allo scopo di scoprire il tesoro che si presumeva gli Inca vi avessero nascosto per non farlo cadere nelle mani dei conquistadores. A causa delle enormi difficoltà che si dovevano superare per raggiungere la località, essa era stata visitata solo tre volte nel giro di un centinaio d’anni da alcuni temerari. Era opinione comune, tra i funzionari e i coltivatori di zucchero della regione di Abancay, che Choqquequirau fosse stato un tempo un centro notevole, «abitato da oltre 15.000 anime», e che la possibilità di ritrovare il tesoro che vi si credeva sepolto valesse senz’altro la pena e le spese di un’adeguata spedizione.

Il prefetto ci disse che una volta un piccolo gruppo di avventurieri era riuscito a raggiungere le rovine, portando però con sé provviste sufficienti appena per due giorni. Nell’inane tentativo di ritrovare il tesoro, essi avevano scavato in due punti diversi. Ma il racconto che avevano fatto, al loro ritorno, delle terribili sofferenze cui erano andati incontro, per molti anni tolse ad altri la voglia di seguirne l’esempio, benché quelli avessero riferito con lusso di particolari sulla presenza di «palazzi, templi, prigioni e bagni», ormai sepolti sotto una fitta e lussureggiante vegetazione tropicale. Un magistrato del luogo, cui l’idea dell’oro nascosto non dava pace, aveva tentato di praticare una pista nel fitto fino a Choqquequirau, organizzando un servizio di trasporto mediante carri indiani per rifornire gli operai che sarebbero stati addetti a un’impresa sistematica di esplorazione della “culla d’oro”. Sebbene il funzionario avesse a disposizione un’intera compagnia di soldati e tutti i montanari indiani che gli occorrevano, lui solo riuscì a raggiungere un passo sulla cima della catena, a più di 3500 m. sopra il letto del fiume Apurimac, che in quel punto scorre in un canyon profondissimo. Ma neppure egli potè superare l’erta parete di roccia che protegge Choqquequirau. Altri, dopo di lui, tentarono di utilizzare il sentiero che egli aveva costruito. L’ultimo di questi fu il nostro nuovo amico, il prefetto Nunez, capo del dipartimento di Apurimac. Sotto la guida di questo ambizioso ed energico funzionario, fu fondata una società di cercatori dei tesori, i quali sottoscrissero parecchie migliaia di dollari di azioni per finanziare l’impresa. La prima difficoltà che si dovette superare, fu quella della costruzione di un ponte sulle spaventose rapide del grande fiume Apurimac. Grazie al coraggio di un vecchio venditore ambulante cinese, che aveva sfidato per molti anni i pericoli delle impervie vallate andine, riuscendo perfino ad attraversare il fiume a guado in un periodo di magra, assicurandosi, per farlo, mediante una corda legata alla cintola, si giunse finalmente a gettare un ponte sospeso sostenuto da corde di filo di rame. Si provvide poi a tracciare un sentiero per i portatori indiani attraverso trentacinque chi lometri di foresta montagnosa, sull’orlo di torrenti e precipizi. L’impresa che per secoli aveva reso vani gli sforzi di tutti coloro che l’avevano tentata, era finalmente compiuta. I risultati, comunque, non furono soddisfacenti, almeno per ciò che riguarda il valore degli oggetti metallici rinvenuti: una serie di spilloni di bronzo e una piccola leva. Quest’ultima aveva una tinta giallastra che a prima vista poteva avvalorare l’ipotesi che fosse d’oro puro, mentre in realtà si trattava solo di bronzo – di una lega di rame e stagno. Il prefetto era tuttavia ansioso di tornare a visitare con me le rovine, per mettermi in grado di riferire sul loro valore storico al Presidente del Perù. A suo avviso, dato che ero un “dottore”, e per di più delegato d’un governo a un congresso scientifico, dovevo conoscere tutto sull’archeologia e quindi avrei potuto dirgli senz’altro quale fosse l’importanza di Choqquequirau e se questa poteva essere stata, com’egli era incline a credere, Vilcabamba Antica, la capitale degli ultimi

quattro Inca. Protestai che si sbagliava circa la mia competenza in fatto di archeologia, ma le mie parole gli parvero dettate da un eccesso di modestia. Gli studi che avevo compiuto in precedenza sulla storia del Sud America si erano limitati all’epoca del colonialismo spagnolo, delle guerre di indipendenza e del processo di modernizzazione delle repubbliche locali. L’archeologia esulava dal mio campo, e quel che sapevo sugli Inca si limitava a ciò che ne avevo appreso leggendo l’affascinante e celebre libro del Prescott, La conquista del Perù. Cercai quindi di esimermi dall’incarico, anche per via dell’inclemenza del tempo e dell’asperità dei luoghi. D’altra parte il Segretario di Stato aveva ribadito più volte la necessità di promuovere il mantenimento di buoni rapporti internazionali; si doveva quindi far di tutto per compiacere i funzionari dei paesi di cui ci fossimo trovati ospiti. Finii quindi per cedere, seppure a malincuore, alle istanze del prefetto, ignorando che quel viaggio m’avrebbe offerto un’occasione unica. Fu quello infatti il mio primo contatto con l’America preistorica. Non fosse stato per il prefetto Nunez e per il suo interesse – d’ordine meramente pratico – per Choqquequirau, non mi sarebbe probabilmente mai passato per la testa di rintracciare le rovine incaiche e non avrei scoperto le due città che per tanti secoli storia e geografia avevano sistematicamente ignorato. Lasciammo Cuzco la mattina del primo febbraio, sotto continui rovesci di pioggia; in realtà diluviava al punto che perfino l’educatissimo e cerimoniosissimo segretario del signor prefetto, che fino al giorno prima ci aveva addirittura soffocati con le sue attenzioni, respirò di sollievo e si ritenne dispensato da ulteriori corvées quando gli dichiarammo che era già stato un eccessivo onore, per noi, quello di vederci accompagnati per qualche centinaio di metri oltre l’albergo. Il prefetto si era preoccupato della nostra sicurezza e, sebbene gli avessimo assicurato che preferivamo viaggiare senza alcuna scorta, insistè perché almeno un sergente ed un soldato ci accompagnassero attraverso il territorio del suo dipartimento. In realtà non c’era alcun pericolo, essendo le rapine quasi sconosciute in Perù. Ma egli probabilmente temeva che i delegados stranieri giungessero in qualche villaggio sperduto, dove i quechua, perché inospitali o invece perché troppo mal ridotti dalla carestia, avrebbero potuto negar loro ospitalità e cibo; o forse riteneva che non fosse degno di noi viaggiare senza scorta. Comunque fosse, i soldati ci accompagnarono, e alle spese relative si sobbarcò il governo locale. Muovemmo in direzione nord-ovest, lasciandoci a destra la meravigliosa, ciclopica fortezza di Sacsahuaman, fatta di blocchi poligonali, alcuni dei quali pesanti più di duecento tonnellate. Usciti dalla valle in cui giace Cuzco, discendemmo alla grande pianura di Anta, teatro di numerose battaglie nelle guerre combattute dagli Inca. L’attraversammo seguendo l’antica strada incaica, una pista ben lastricata, ma larga non più di due metri, con fossati d’ambo i lati. L’incuria degli indigeni l’aveva lasciata cadere in sfacelo, sicché per lunghi tratti la strada era letteralmente scomparsa. Per evitare le vere e proprie paludi che nella stagione delle piogge si sostituiscono all’antica pista, fummo obbligati a lunghe deviazioni. Passammo ai piedi delle colline a nord della pianura di Anta, sui cui fianchi sono costruite terrazze

lunghe fino a cinquecento metri e alte quattro o cinque. Verso sera entrammo nella piccola città indiana di Zurita, dove fummo indirizzati alla casa di un ospitale gobernador. Accompagnati dal gobernador e dai suoi amici, partimmo da Zurita la mattina seguente e, lasciati i muli, a mezzogiorno eravamo a Challabamba, sullo spartiacque che divide il fiume Urubamba dall’Apurimac. In netto contrasto con la pianura di Anta coperta da un’erba rada, che avevamo appena lasciata, di fronte a noi vedemmo vallate dense di boschi d’un verde cupo. La strada, una mulattiera rocciosa non del tutto dissimile dal letto di un torrente di montagna, ci condusse rapidamente in una calda regione tropicale, il cui denso fogliame e i fitti rampicanti ci furono graditi dopo gli squallidi altipiani testé attraversati. Dappertutto, ginestre dagli splendidi fiori gialli, e nell’aria la fragranza dell’eliotropio. Lantanas variopinte schiamazzavano tra i grovigli d’agavi e i rampicanti penduli. Eravamo entrati in un nuovo mondo. Una ripida discesa ci portò alla città di Limatambo con le sue antiche terrazze agricole e i resti della fortezza incaica usata al tempo di Pizarro. La valle del fiume Limatambo è qui straordinariamente stretta; le fortificazioni – o meglio le loro rovine – appaiono orientate in modo da costituire una difesa contro i nemici intenzionati a marciare contro Cuzco da occidente o da settentrione: fu qui infatti che avvenne uno degli scontri più sanguinosi fra i conquistatori spagnoli e le forze dell’Inca. La pioggia era caduta abbondante per tutto il giorno, e il Limatambo appariva gonfio. Il guado era del tutto impraticabile, tanto che fummo costretti a servirci di un fragile ponte improvvisato, sul quale i nostri muli procedevano con estrema cautela, soffiando preoccupati ogni qualvolta il ponte oscillava o si piegava sotto il loro peso. Attraversammo poi il fiume Bianco e lasciammo il vecchio sentiero, che passa per il villaggio indiano di Mollepata descritto da Squier come un confuso mucchio di catapecchie sconnesse, abbarbicate su un alto sperone roccioso, con una chiesa in rovina, un gobernador ubriaco proprietario di un tugurio chiamata locanda, e un prete altrettanto dissoluto del gobernador… Una località che non ha eguali in tutto il Perú, quanto a cattiva reputazione.

Pernottammo in una piantagione di zucchero a La Estrella, e il mattino dopo prendemmo per un sentiero ripidissimo e serpeggiante. Pareva che da un momento all’altro i nostri muli carichi dovessero mettere gli zoccoli in fallo e rotolare, lungo una scarpata di cinquecento metri e più, nelle acque turbinose dell’Apurimac. Alla fine, raggiungemmo Tablachaca, dove esiste un solido ponte moderno che potemmo attraversare senza scendere dai muli, come raramente ci accadde nel corso del viaggio. In tempi remoti, un superbo ponte sospeso, gettato dagli Indiani secondo gli antichi sistemi peruviani, era stato l’unico mezzo per attraversare il fiume. Se ne leggono vivide descrizioni (non una è uguale all’altra) in famosi libri di viaggio quali Perú di Squier, Cuzco and Lima di Markham ed Exploration of the Valley of the Amazon di Lt. Gibbon. Sebbene tutti differiscano nel riferirne l’altezza dal pelo dell’acqua e la lunghezza, tutti sono concordi nell’affermare le meraviglie del canyon su cui era sospeso. Dice Gibbon che «il ponte… correva a ben quarantacinque metri d’altezza

sopra le acque tenebrose e verdi»; Sir Clements Markham, che lo attraversò due anni più tardi, afferma che «il ponte scavalcava l’abisso, con una curva graziosa, a circa ottanta metri d’altezza sul fiume». Ora, Markham lo passò alla metà del mese di marzo, cioè alla fine della stagione delle piogge, quando il fiume è in piena, mentre Gibbon lo attraversò in agosto, cioè durante la stagione secca, quando il fiume è in magra, per cui il contrasto tra i loro giudizi appare ancor più singolare. Sfortunatamente il ponte è scomparso, e i viaggiatori d’oggi non possono più discutere sulle sue caratteristiche. La vivace descrizione dello Squier era stata una delle ragioni che mi avevano persuaso a intraprendere questo viaggio, anziché, come avrei preferito, scendere al Rio delle Amazzoni partendo da La Paz lungo il corso del Beni. Restai deluso, ma mi rifeci ben presto. Lo scenario era superbo: le enormi, verdi montagne apparivano addossate l’una all’altra, i fianchi precipiti striati da magnifiche cascate. L’aria era solcata da pappagalli multicolori, dappertutto fiorivano iridacee d’un giallo stupendo. E, ad aumentare il nostro godimento, il sole splendeva in un cielo tersissimo. Lungo sentieri erti ma non impraticabili, giungemmo alla città di Curahuasi; ci venne incontro il luogotenente Caceres, attendente del prefetto Nunez, incaricato da questi di farci da guida. Rampollo di un’antica e nobile famiglia, egli si rilevò intelligente e ardimentoso. La prima tappa fu al locale ufficio telegrafico, dove Caceres inviò un ampolloso messaggio annunciante l’arrivo degli «eminenti ospiti nordamericani». Poi, per ricompensarci dell’attesa cui eravamo stati costretti mentre egli dettava il suo messaggio, fece stappare alcune bottiglie di birra invitandoci solennemente a brindare con lui. Non trascorremmo la notte in città: il governatore, che desiderava averci suoi ospiti, viveva a Trancapata, a un paio di miglia di distanza lungo la valle, sulla strada di Abancay, capoluogo della provinica di Apurimac. Sebbene piuttosto primitiva, l’abitazione del globernador era situata in posizione stupenda, proprio sull’orlo di uno scosceso burrone. Da sala da pranzo fungeva un’antica veranda sospesa sulla gola, e fummo allietati, oltre che dal panorama, anche dalla generosa ospitalità, quale non avremmo trovato certo in una località munita di tutti gli agi moderni. Nessuno di noi ricordava di aver mai avuto accoglienze così calorose da parte di una persona assolutamente estranea. Comunque, prima di lasciare la regione, avemmo modo di apprendere che simili segni di amicizia erano caratteristici di tutti i viaggi e di tutte le città che sottostavano all’autorità del simpatico prefetto di Apurimac. Il mattino seguente ci congedammo dal nostro cordiale ospite, ma egli volle accompagnarci per un buon tratto lungo la profonda vallata. Il tempo era mutato. Salimmo, sotto una pioggia fitta e gelida, fino a un’altezza di 4000 m e più, per ridiscendere lungo l’altro versante; era riapparso il sole, e procedemmo spediti lungo un delizioso sentiero bordato da fitti cespugli di salvia azzurra. Eravamo proprio al limite fra i tropici e la zona temperata, in una regione dove i ghiacci eterni si sposano alla flora equatoriale. Sotto i nevai si stendevano, verdi e tenere, le celeberrime piantagioni di canna da zucchero di Abancay. Chi abbia visto le enormi piantagioni hawaiane o cubane, troverà forse un pochino esagerata la fama di questo minuscolo

distretto. Ma, dopo alcune settimane trascorse sui desolati e freddi altipiani delle Ande centrali, chi veda aprirglisi davanti questa calda, ricca vallata a 2500 m sul livello del mare, non può che sentirsi felice. A un miglio da Abancay, ci vennero incontro, a darci un cordiale benvenuto, il sottoprefetto e una dozzina fra piantatori di canna da zucchero e caballeros, ben diritti sulle loro selle. Entrammo caracollando in città, dove l’amabile prefetto ci accolse degnamente, offrendoci ospitalità presso il locale circolo, che volle mettere a nostra completa disposizione. Fummo ben felici di accettare, anche perché le confortevoli stanze del circolo, che davano su una piazzetta, s’aprivano sulla deliziosa, antica chiesa e sulle ripide colline circostanti. La sera, il prefetto Nunez ci offrì un elaborato banchetto al quale invitò quindici notabili del luogo. Ci mostrò poi alcuni oggetti incaici di un certo interesse archeologico, rinvenuti a Choqquequirau, soprattutto spilloni. Il più notevole era quel champi o leva di bronzo, di cui ho detto: lungo circa 40 cm e del diametro di 5, appariva a sezione quadrata e con gli angoli arrotondati; era molto simile a quei mazzuoli di legno di cui si servono gli hawaiani per battere la tapa, il tessuto indigeno. Il pomeriggio seguente, fra un’eterogenea confusione d’indumenti e di scatolette di carne, cominciammo a preparare quel che pensavamo potesse esserci utile per la nostra escursione. Volevano tutti accompagnarci, pareva che si preparasse un vero esodo da Abancay. Il mattino dopo, accompagnati da una numerosa cavalcata, partimmo. La maggior parte della nostra scorta si ritenne soddisfatta dopo un paio di miglia e, portici i più fervidi auguri, ritornò ad Abancay. Non potemmo certo biasimarli poiché, a causa delle piogge, la strada era ridotta in uno stato pauroso: paludi fangose che a prima vista parevano invalicabili, torrenti ingrossati, slavine, furono gli incidenti che, uniti ai normali inconvenienti d’una mulattiera peruviana, rallegrarono il nostro cammino. Fra la pioggia e la nebbia pesante, che solo a tratti si diradava per offrirci luminose visioni di verdissime, meravigliose vallate o di colline fittamente coperte di fiori, proseguimmo per tutto il giorno lungo un sentiero sdrucciolevole che di ora in ora diveniva più arduo e traditore. Per poter mettere l’accampamento sulla riva dell’Apurimac prima che scendesse la notte, forzammo il passo, senza lasciarci sedurre dalla vista di interi acri di magnifiche begonie rosate e di miglia quadrate di lupinelle azzurre. Verso le cinque cominciammo ad udire il ruggito del gran fiume a duemila metri sotto di noi, in fondo al canyon. L’Apurimac, che si butta nell’Ucayali, affluente del Rio delle Amazzoni, nasce da un piccolo lago nei pressi di Arequipa, a migliaia di chilometri dall’Oceano Atlantico, tanto che certuni lo indicano come la vera origine della possente arteria fluviale sudamericana. Esso è dapprima null’altro che un furioso torrente, largo un’ottantina di metri, che nella stagione delle piogge tocca una profondità di 25 m; il muggito delle sue acque è udibile a tale distanza, che gli Indiani lo chiamarono Apurimac, che vuol dire “il gran parlatore”. La nostra guida, l’entusiasta luogotenente Caceres, dichiarò che per quel giorno avevamo proceduto abbastanza, poiché ricominciava a piovere e la strada sulla quale

ci saremmo messi adesso era, a suo dire, la peggiore di qualsiasi altra avessimo mai percorso; affermò quindi che sarebbe stato opportuno pernottare, per riposarci meglio, in un tugurio abbandonato che si trovava nei pressi. La sua opinione naturalmente fu accolta con molto piacere dai due giovani della scorta che ci avevano accompagnati da Abancay, ma noi decidemmo che era preferibile raggiungere il fiume. Caceres finì per cedere e, aiutati dal coraggioso soldato Castillo, cominciammo una discesa che per la tortuosità e angustia delle curve superava quant’altro avessimo mai visto. Cominciammo a capire cosa significhi inoltrarsi nella regione selvaggia in cui gli Inca si rifugiarono, nel 1536, riuscendo a sfuggire ai conquistadores. Il sole era già da tempo sparito oltre l’orlo del canyon allorché trovammo il sentiero sbarrato da un enorme albero abbattuto dalla folgore. Ci volle un’ora di fatiche bestiali per rimuovere l’ostacolo, ma solo per accorgersi, una volta superatolo, che ci trovavamo nella zona di una slavina. Muli e cavalli procedettero riluttanti, tremando di paura, quando li sospingemmo per una discesa di terriccio friabili e pietrisco che sembrava dovesse sfaldarsi a ogni istante. Un’ora dopo il crepuscolo, giungemmo a una radura dove il rimbombo del fiume era talmente alto, che riuscimmo a stento a udire Caceres gridare che ormai il più era fatto e che «tutto il resto era terreno piano». Ma ben presto ci accorgemmo che non era vero affatto. Ci trovavamo ancora a un’altezza di 300 m circa sopra il fiume, e dovevamo ora vedercela con un sentiero tagliato nella parete del precipizio. Di giorno non avremmo mai osato cavalcare per quella tortuosa mulattiera che avrebbe dovuto condurci dalla radura sulla riva del fiume, ma era quasi buio e non ci rendevamo conto del pericolo, e quindi seguimmo senza esitare la nostra ottimistica guida. Il sentiero scendeva lungo la parete del canyon a zig-zag e ogni segmento non superava i cinque o sei metri. Da questa parte avevamo una ripida parete, dall’altra un baratro in cui precipitava una cascata, con un salto di almeno 200 m. A metà percorso, il mio mulo mostrò di aver paura; ne smontai e mi accorsi con raccapriccio che si era spinto proprio sul limite del precipizio e stava per cadervi dentro; cercai di tirarlo indietro, ma era un problema farlo retrocedere, né c’era spazio sufficiente per farlo girare su se stesso. La scampai per miracolo, e quando mi ritrovai in salvo, decisi di fare il resto della strada a piedi, mandando avanti il mulo: preferivo fosse lui, semmai, a precipitare. A due terzi della discesa, il sentiero era interrotto da una stretta fenditura in cui s’infilava una cateratta. Non c’era ponte. Probabilmente la cascata non era più larga di un metro, ma nel buio non ero in grado di scorgere la sponda opposta. Non osavo fare il salto da solo, e rimontai sul mulo, tirai le briglie, e gli piantai deciso gli speroni nei fianchi. Il salto fu perfetto. Dieci minuti più tardi, scorgemmo i fuochi di un accampamento, uno dei cui componenti ci venne incontro e ci guidò attraverso un folto di mimose che crescevano su una bassa terrazza protesa sul fiume. Il “gran parlatore” faceva un tale strepito, che non riuscimmo a udire una parola di ciò che ci dissero i nostri ospiti. L’accampamento consisteva di due catapecchie di canne. Vi passammo una pessima notte, e il giorno dopo ebbe inizio la vera e propria esplorazione del nascondiglio di Manco Inca.

Eravamo giunti alla riva del fiume di notte e, sebbene il terrificante ruggito del “gran parlatore” ci avesse fatto prevedere quale fosse il paesaggio che avremmo visto svegliandoci, restammo a bocca aperta. Albeggiava appena, quando sgusciammo fuori dal nostro tugurio, per trovarci di fronte a una serie di rapide tumultuose, larghe più di 80 m, che si rovesciavano attraverso il canyon a velocità vertiginosa, sollevando ondate degne in tutto dell’Oceano. Era incredibile la quantità d’acqua che infuriava ai nostri piedi. Apprendemmo che il livello del fiume si era alzato, a causa delle recenti piogge, di almeno quindici metri, e il piccolo e fragile ponte sospeso, che normalmente distava 25 m dalla corrente, adesso oscillava a non più di sette od otto metri dal pelo dell’acqua. Il ponte in questione, se era largo meno di un metro, in compenso era lungo novanta, e cigolava e si scuoteva a tutti i venti. Attraversarlo era una sfida al destino. Così vicino alla morte pareva essere l’audace slancio del ponte, e così in alto le rapide gettavano i loro gelidi spruzzi, che i nostri portatori indiani vi si misero uno alla volta, procedendo a quattro gambe, e maledicendo il prefetto che aveva loro ordinato di trasportare i nostri bagagli a Choqquequirau. Fino allora le provviste avevano viaggiato a dorso di mulo; ma, siccome il ponte non avrebbe consentito il transito delle bestie, toccava adesso a loro caricarsene. Se gli Indiani non avessero imparato un migliaio d’anni fa a costruire ottimi ponti sospesi, usando le resistenti liane della giungla, non avrebbero mai potuto estendere il loro Impero sin nel cuore delle Ande, dove le freddissime acque che colano dai ghiacciai danno origine a quei torrenti che poi, unendosi, formano i grandi affluenti del Rio delle Amazzoni. Quasi nessuno sa nuotare, nelle Ande centrali, e di solito mettere un piede in fallo mentre si superano questa rapidissime correnti, significa la morte. Gli Indiani delle montagne son sempre molto cauti nell’attraversare i ponti. Ora, la prudenza dei nostri portatori era perfettamente comprensibile, soprattutto se si pensa che essi non avevano alcuna esperienza della resistenza dei cavi metallici. In quel punto ci trovavamo a più di 1500 m sul livello del mare, e la nostra guida riteneva che le rovine dovessero trovarsi un miglio più in alto. I nostri pazienti portatori quechua, allenati alle lunghe fatiche e discendenti da una razza di strenui montanari, reggevano i loro fardelli con apparente facilità, nonostante la durezza del cammino. Il sempre vivace luogotenente Caceres precedeva emettendo dei tonanti «valor!» (avanti, coraggio!), intesi a provare la sua instancabilità e insieme a pungolare gli altri. Per noi Europei, le cose in realtà non andavano tanto bene, e ogni venti metri eravamo costretti a fermarci per riprender fiato. Spesso il sentiero era talmente ripido, da costringerci a procedere carponi; talvolta dovemmo attraversare ruscelli e cascate su viscidi tronchi d’albero o ponticelli traditori. Per superare gli strapiombi più ripidi c’erano rozze scale a pioli. Il fianco del monte era troppo scosceso perché vi allignassero alberi d’alto fusto, ma chi tracciò quel sentiero ebbe, ritengo, il suo da fare per abbattere i fitti cespugli e i folti di bambù. Via via che si saliva, il panorama della vallata diventava sempre più stupendo. Mai prima d’allora avevo potuto ammirarne di simili. Il bianco Apurimac infuriava nel canyon a centinaia di metri sotto di noi. Dove i fianchi della gola erano meno erti e

non recavano le cicatrici di recenti valanghe, apparivano coperti di fogliame verdissimo e di fiori smaglianti. Oltre le vette che ci sovrastano, altre se ne levavano più alte ancora, sopra ghiacciai e speroni incappucciati di neve. In ogni direzione, fin dove riusciva a spaziare lo sguardo, era un labirinto di colline, vallate, giungle tropicali e picchi nevosi – e fu quella la ricompensa che ci toccò quando, raggiunta la sommità, potemmo sederci ansimando sul bordo del sentiero. Ripreso fiato, proseguimmo verso occidente rasentando precipizi e attraversando altri torrenti finché, verso le due del pomeriggio, superato un promontorio sui fianchi di un’ardita vetta a 2000 m. sul fiume, ci apparvero le rovine di Choqquequirau. Una sella posta tra una cima isolata e la cresta che la unisce alle altre montagne incappucciate di neve, appariva spianata in modo da poter accogliere la fortezza incaica. Alle tre, raggiungemmo una stupenda cascata le cui acque freddissime, derivanti probabilmente dai ghiacciai del Soray, lenirono la nostra sete. Avevamo lasciato indietro i nostri compagni, e stavamo avanzando con lentezza attraverso la giungla, quando, poco prima delle quattro, intravvedemmo tra le fronde, a breve distanza da noi, alcune terrazze; per veder meglio, ci arrampicammo su una breve elevazione e fummo avvistati a nostra volta da un enorme condor il quale subito calò a osservare gli audaci che invadevano il suo dominio; l’uccellaccio planò, apparentemente senza muover penna, e via via restringendo i cerchi sino a lasciarci scorgere chiaramente non solo il becco crudele e i grandi artigli, ma perfino il lampeggiare degli occhi. Non avevamo armi per fronteggiare un suo eventuale attacco, e fu un brutto momento, perché il condor aveva un’apertura d’ali di quasi quattro metri. Alla fine decise di non disturbarci e, apparentemente senza alcun fremito delle ali, tornò a librarsi in alto nello spazio. Gli uomini del prefetto ci dissero, più tardi, che durante la loro prima spedizione i condor li avevano spesso assaliti; del resto, i pastori degli alti pascoli andini sono costretti a una diuturna lotta con questi rapaci che sono in grado di artigliare e rapire con estrema facilità una pecora. Non avendo bagagli, arrivammo alquanto prima dei nostri porta tori. La giornata era stata calda e, anche per salire più in fretta, ci eravamo sbarazzati degli abiti pesanti; ma, appena scese la notte, l’aria si fece di colpo assai fredda. I nostri Indiani, che evidentemente se l’erano presa comoda, non comparvero e così passammo una notte scomodissima in una delle capanne erette dagli operai che avevano lavorato a quelle rovine: un ricovero di un metro d’altezza, due metri di lunghezza, e uno e mezzo di larghezza. C’eravamo avvolti nei teli da tenda e infilati tra mucchi d’erba secca, e tuttavia riuscimmo a stento a chiuder occhio, per via del freddo e dell’umidità. I quattro giorni che trascorremmo sulla montagna furono umidissimi e, quando non pioveva, ci trovavamo immersi nelle nubi o nella foschia. Non fu un esordio piacevole, per la nostra spedizione archeologica, anche perché io ero assai inesperto e incerto sul da farsi. Fortunatamente, avevo con me quell’utilissimo libro che è il Manuale del viaggiatore, pubblicato dalla Royal Geographic Society, in un capitolo del quale è detto quel che deve fare chi si trovi alle prese con reperti archeologici; scattai quindi

una gran quantità di fotografie, che a causa della pioggia risultarono piuttosto scadenti, e presi le misure di tutte le costruzioni, disegnandone una mappa. Notammo subito che le rovine erano raggruppate su terrazze e pendii naturali, e che da una sezione all’altra si poteva passare mediante scale e sentieri battuti dal vento. Gli edifici erano stati costruiti così a ridosso l’uno dall’altro, probabilmente per sfruttare al massimo lo spazio e riservare spazio alle colture. I maestosi precipizi che sprofondano da ogni lato, rendono Choqquequirau praticamente imprendibile; inoltre ogni possibile via d’accesso, tranne una prescelta dai costruttori, era stata preclusa, e i punti strategici accuratamente fortificati mediante solide mura capaci di togliere ogni velleità all’assalitore. Le terrazze che così risultavano, servivano oltre che alla difesa, anche per impedire all’humus di scivolare lungo il ripido pendio. Tre sono i principali gruppi di costruzioni, più o meno sommersi dagli arbusti e dai rampicanti cresciuti durante secoli di abbandono. Fortunatamente per noi, i cercatori di tesori, liberando le costruzioni più importanti dalla confusa massa di vegetazione che celavano, avevano già fatto parte del lavoro. Nei punti in cui avrebbero potuto essere seppelliti dai tesori, si era usata evidentemente anche la dinamite, ma i ricercatori non avevano trovato traccia d’oro, solo pochi oggetti di un certo interesse: oltre a quelli che avevamo visto a Abancay, qualche ciotola d’argilla e due o tre pestelli e pietre da macina, di modello identico a quelli usati oggi ancora dal Perù al Panama. Verso Oriente, sulla cima più alta, 1700 m. a picco sul fiume, ci sono un parapetto e le mura di due edifici senza finestre. A nord di questo gruppo di costruzioni vi è una collina la cui vetta è stata troncata artificialmente. È probabile che su questa breve spianata, dominante lo stupendo paesaggio della valle, venissero accesi dei falò per “telegrafare” alle alture attorno a Cuzco l’avvicinarsi di eventuali nemici dalle selvagge terre dell’Amazzonia. Notammo che piccole pietre erano state collocate sul terreno secondo linee continue che si incrociavano variamente ad angolo retto, in modo da formare dei disegni. Ma, poiché questi erano quasi del tutto ricoperti dall’erba, e dato il poco tempo a nostra disposizione, non potemmo rilevarne esattamente il tracciato. Probabilmente si trattava del perimetro di una costruzione usata dalle sentinelle 400 anni fa. II gruppo principale delle rovine è situato a nord, fra la sella e la cresta maggiore. Le mura, di regola, sono fatte con pietre e argilla. La costruzione, se paragonata a quelle dei palazzi incaici a Cuzco, è estremamente rozza e grossolana, tanto che nessuna delle nicchie o delle porte è esattamente uguale all’altra. A volte le architravi delle porte erano in legno, non essendosi i costruttori presa la briga di provvedersi di pietre di larghezza adatta allo scopo. Delle architravi del genere, una sola era ancora in opera, poiché era di legno particolarmente robusto. In un nicchia trovai la piccola bobina di pietra di un arcolaio, delle medesime dimensioni e della medesima forma di quelle di legno ancora oggi usate in tutte le regioni delle Ande, e costituite da un bastoncino dello spessore di circa un dito e di larghezza variabile dai 25 ai 30 cm. La parte inferiore è fissata a un rocchetto di legno che gli trasmette l’impulso quando venga messo in moto con un caratteristico gesto di

pollice e indice. Non c’è donna dalla Colombia al Cile che non lo usi e di rado capita di vederne una condurre un gregge o percorrere uno stradone, senza contemporaneamente manovrare quell’antico arnese. Nelle tombe di Pochacamac, presso Lima, sono stati rinvenuti piccoli arcolai del genere costruiti più di cinquecento anni fa. Il terzo gruppo di edifici è posto sulla sommità dello sperone, una trentina di metri più in alto del secondo gruppo. Presso il sentiero che va dalla piazza inferiore a quella superiore, esistono le tracce di una piccola azequia (un canale) ora asciutta, bordata di pietre levigate. Gli Inca provvedevano sempre d’acqua campi e città. Nell’angolo sud-ovest del terzo gruppo di rovine si leva un pinnacolo di roccia, alto sei o sette metri, con un diametro di circa cinque. Di fronte al pendio orientale c’è poi una scalinata ciclopica, costruita da quattordici giganteschi gradini rozzamente squadrati e di varie dimensioni; per ascenderla bisogna servirsi d’una serie di scalini di pietra più piccoli che la fiancheggiano d’ambedue i lati. Muretti larghi circa settanta cm. fanno da balaustra. Caratteristica della costruzione è la presenza di un’enorme pietra piatta al centro del montatoio di ogni gradino. Verso est, il panorama, per chi lo contempli dalla scalinata, è particolarmente suggestivo. Forse è proprio qui che gli Inca adoravano il Sole sorgente, loro maggiore divinità. E qui, nei giorni di festa, dovevano essere trasportate le mummie affinché seccassero al sole. La scalinata immette a una fuga di terrazze, vialetti, mura e case a due piani, ricche di nicchie e finestre. Due delle case non avevano finestre, e una di esse conteneva tre celle. I soldati che formavano la nostra scorta affermavano che venivano usate per segregarvi i prigionieri, ma è più probabile che fossero adibite a magazzino. Sul lato nord della piazza si erge un curioso edificio costruito con gran cura e pieno di nicchie e recessi. Probabilmente era il luogo in cui attendevano la loro sorte i criminali destinati, secondo la legge incaica, ad essere gettati nel precipizio. Sopra tale edificio il fianco della collina si leva ripido; lungo il limite della cresta corre un piccolo canale, che seguimmo sino al punto in cui penetrava nel folto della giungla tropicale, ai piedi di un ripido colle. L’acqua immessa in questa piccola azequia ora asciutta, scendeva dallo sperone ed era condotta a una terrazza, sul fianco nord dello spiazzo, in cui c’erano due cisterne ben pavimentate. Dallo spiazzo stesso, sino a un piccolo serbatorio sul lato sud, c’era una deviazione che permetteva all’acqua di giungere alle case sottostanti. Poiché il bordo occidentale dello sperone di Choqquequirau dà su un profondo precipizio, da quel lato non erano state erette che poche opere di fortificazione. Sul bordo orientale, invece, assai meno ripido, si vedono enormi terrazze lunghe decine e decine di metri, limitate da mura perpendicolari alte circa tre metri. Due strette scalinate conducono da una terrazza all’altra. Nella boscaglia che ha inizio immediatamente sotto l’ultima terrazza erano stati scavati, ai piedi della parete rocciosa, dei recessi, chiusi da pietrame e lastroni, destinati a ospitare i corpi mummificati dei morti. Scoprii che le ossa erano raccolte in mucchietti; si sarebbe detto che fossero state ripulite, con l’intento di dar loro successiva sepoltura. Su di esse non era stata gettata neppure una manciata di terra, ma sopra il mucchietto d’ossa di una delle tombe rinvenni una minuscola anfora di

terracotta, di circa tre centimetri di diametro, ancora ritta dopo tanti anni, e che non conteneva assolutamente nulla. L’ingresso della piccola camera mortuaria era stato ostruito mediante acuminate pietre con la punta rivolta all’esterno, in modo da rendere particolarmente difficile l’accesso. Scoprii comunque che, scavando lungo un lato della parete di sassi, si riusciva a rimuovere le pietre poste per ultime dagli affossatori, una volta sistemate le ossa. Le tombe scavate nei deserti sabbiosi della costa del Perú, di solito contengono mummie in ottime condizioni mentre qui, nelle piovose montagne delle Ande Orientali, è raro trovarne di intatte. Gli operai avevano scavato sotto una dozzina e più dei ripiani sporgenti che coprono le tombe, e ogni volta vi avevano trovato ossa e qualche coccio. In nessun caso, comunque, avevano rinvenuto oggetti di valore tali da indicare che i sepolti erano state persone d’alto rango. Ammesso che qualcuno degli ufficiali della guarnigione o dei nobili incaici fosse mai stato sepolto qui, la sua tomba non è stata ancora scoperta, a meno che le tombe più ricche non siano state saccheggiate anni addietro. Ma non rilevammo nulla che avvalorasse tale ipotesi. Notammo che tutte le lastre di pietra di una certa grandezza, al piede delle terrazze, coprivano delle tombe. I crani non erano mai isolati, ma conservati sempre assieme al resto dello scheletro; mentre le ossa maggiori apparivano ancora in buone condizioni, le minori erano andate in polvere. Delle prime, alcune potevano essere facilmente spezzate e sbriciolate con le dita, mentre le altre erano bianche e dure. Quelle da noi rinvenute erano tutte di per sone adulte; solo un paio di scheletri ci sembrò appartenuto a giovani di non più di vent’anni. Nessuno degli scheletri era stato ricoperto di terra. Gli indiani quechua osservavano le nostre operazioni con grande interesse, ma quando prendemmo a esaminare e misurare con cura le ossa manifestarono apertamente il loro terrore. Se fino a quel momento non avevano ben compreso quali fossero gli scopi della nostra spedizione, d’un tratto non ebbero più dubbi: eravamo andati là per comunicare con gli spiriti degli Inca defunti! In uno degli edifici trovammo numerose lastre di ardesia che recavano incisi i nomi di vari visitatori. Risulta che a Choqquequirau erano stati, nel 1834, un esploratore francese di nome Eugène de Sartiges e due peruviani, José Maria Tejada e Marcelino Leon; nel 1861, tale José Benigno Samanez («pro Presidente Castilla») oltre a Juan Manuel Rivas Piata e Mariana Cisneros. Il 4 luglio 1885, tre individui chiamati Almanza, Pio Mogrovejo e un certo numero di operai che inutilmente cercarono il tesoro sepolto. Una volta tornato negli usa, scoprii che de Sartiges, scrivendo con lo pseudomino di «E. de Lavandais», aveva pubblicato in resoconto del suo viaggio sulla Revue des Deux Mondes del luglio 1850. L’itinerario da lui percorso, l’unico possibile a quel tempo, era terribilmente complicato. Da Mollepata, villaggio nei pressi della piantagione di canna da zucchero de La Estrella, proceden do verso nord e valicando l’alto passo fra il Monte Salcantay e il Monte Soray sino al fiume Urubamba, era arrivato a un villaggio chiamato Yuatquinia (Huadquina). Era giunto cioè, senza saperlo, a poche miglia da Machu Picchu, località la cui esistenza era ancora ignorata. Aveva ingaggiato alcuni Indiani per aprire una strada sino a

Choqquequirau, ma dopo tre settimane si era resto conto che le difficoltà erano tali, che gli sarebbero occorsi almeno due mesi. Così, per quattro giorni, egli e i compagni proseguirono, tra mille stenti, il cammino attraverso la giungla, sull’orlo d’innumerevoli precipizi. Il quinto giorno pervennero alle rovine. Nell’organizzare l’esplorazione, de Sartiges non aveva tenuto conto della secolare opera d’occultamento compiuta dalla vegetazione tropicale e, non potendosi trattenere a Choqquequirau più di due o tre giorni, dovette rinunciare all’esame delle rovine più interessanti; la gigantesca scalinata, ad esempio, sfuggì interamente alla sua attenzione. A quanto pare, la maggior parte del tempo a sua disposizione lo spese nella ricerca del tesoro. Aveva sperato di potersi trattenere almeno otto giorni, ma le difficoltà incontrate lungo il cammino e la scarsità delle riserve di cibo lo costrinsero a tornarsene rapidamente, dandogli appena il tempo di osservare alcune costruzioni della piazza più bassa, le terrazze inferiori e un paio di tombe. La sua opinione era che un tempo vivessero colà quindicimila persone, cosa piuttosto improbabile, anche se ogni metro di terreno arabile era stato sfruttato mediante la costruzione di terrazze, su cui potevano crescere in abbondanza granturco e patate. La relazione di de Sartiges mi rivelò quanto dovessimo all’opera dei cercatori di tesori: senza di loro non avremmo neppure sospettato l’esistenza di molti degli edifici in rovina. Apparentemente, Choqquequirau era una fortezza di frontiera posta a difesa della vallata superiore dell’Apurimac, una delle vie naturali che, dai paesi occupati dai Chancas e Antis del Rio delle Amazzoni, conducono a Cuzco. Senza dubbio, lungo il fiume dovevano esserci state altre numerose, anche se meno importanti fortezze, localizzate in modo da poter impedire da sole le incursioni di piccoli gruppi di selvaggi e da poter dar notizia di qualsiasi grossa spedizione diretta a Cuzco. Il prefetto di Apurimac si mostrò piuttosto contrariato quando seppe che non avevo trovato traccia di alcun tesoro sepolto. Quanto ai signorotti locali, che avevano investito migliaia di dollari nella precedente e poco fruttuosa impresa, colsero l’occasione per vantarsi di esser stati loro a saccheggiare la capitale dell’ultimo degli Inca: millanteria che trovò largo credito. Certi scrittori peruviani, quali Paz Soldán e il grande Raimondi, erano convinti che Choqquequirau fosse realmente la Vilcabamba di Manco Inca, e ciò in base all’affermazione di padre Calancha, secondo il quale Puquiura si trovava «a due lunghi giorni di viaggio da Vilcabamba». Raimondi, in particolare, richiamava l’attenzione sul fatto che Choqquequirau dista veramente due o tre lunghi giorni di viaggio dall’attuale villaggio di Puquiura: era proprio quella quindi l’ultima capitale degli Inca. La convinzione non era però condivisa da Carlos Romero, uno dei maggiori storici di Lima, il quale mi assicurò che le cronache spagnole contengono quanto basta a dimostrare che l’ultima capitale non era Choqquequirau, ma doveva trovarsi molto probabilmente oltre le catene montane di cui io stesso avevo scorto, in distanza, i picchi nevosi.

E quei picchi nevosi, che si levavano in una zona sconosciuta ed inesplorata del Perú, mi affascinavano enormemente: avrei voluto andare subito a vedere cosa si nascondesse dietro di essi. Chi non ricorda la famosa frase di Rudyard Kipling: «C’è sempre qualcosa di nascosto! Vai, e scoprilo! Vai, e guarda oltre quelle barriere; v’è qualcosa che si cela al di là di quei monti. Una cosa perduta, che ti attende. Vai!».

ALLA RICERCA DI VITCOS Stavo rivedendo le bozze del mio libro, Across South America, quando un giorno l’amico Edward S. Harkness mi chiese quando avrei intrapreso un’altra spedizione nell’America del Sud; se avessi deciso di farmi accompagnare da un geologo, disse, sarebbe stato ben lieto di contribuire alle spese d’organizzazione. La proposta era allettante. Leggevo allora, allo scopo di recensirlo, il volume The Islands of Titicaca and Koati di Adolph Bandelier. In una delle note a pie’ di pagina, l’autore affermava di ritenere «molto verosimile» che il Monte Coropuna, nella catena costiera del Perù vicino a Arequipa, «fosse la massima vetta del continente», a sua avviso, esso «supera i 7000 metri d’altezza», mentre l’Aconcagua raggiunge solo i 6840.

Mio padre mi aveva insegnato ad amare la montagna, e mi ci portò che non avevo più di quattro anni. Più tardi scalammo insieme numerose montagne nelle Hawaii, e conobbi così il fascino di quel grande e pericoloso sport. La nota di Bandelier destò in me un misto di sensazioni diverse; non ricordavo di aver mai sentito parlare del Coropuna, e su molte delle carte geografiche che consultai non era segnato; lo scoprii finalmente su una carta topografica disegnata da Raimondi e fui veramente colpito constatando che il grande esploratore lo aveva valutato otto metri più alto dell’Aconcagua, ritenuto la cima più eccelsa dell’emisfero occidentale. Il Coropuna sorge a circa centosessanta chilometri a nord di Arequipa, a breve distanza dal 73° meridiano, quasi esattamente a sud di Choqquequirau e delle terre nascoste «dietro le catene», dove probabilmente Manco II aveva avuto la sua ultima capitale. Mi lasciai così sedurre dall’idea di attraversare il Perù lungo la linea del 73° meridiano; avrei percorso l’Urubamba in conca fino al punto in cui si getta nel Pacifico, esplorando il retroterra alla ricerca di resti storici e archeologici, e scalando il Coropuna. Quell’inverno, durante un pranzo allo Yale Club di New York, fui invitato a tenere un “discorso”. Naturalmente parlai di ciò che mi occupava la mente; con mia grande sorpresa, certi miei vecchi compagni di scuola si offrirono di pagarmi le spese di un topo grafo, di un chirurgo, di un biologo e di un geologo. Fu così che ebbe vita – si era nel 1911 – la Yale Peruvian Expedition, allo scopo di scalare la più alta montagna d’America, raccogliere dati geologici e biologici, e soprattutto trovare l’ultima capitale degli Inca. Invitai il professor Isaiah Bowman a unirsi alla spedizione in qualità di geologogeografo; il professor Harry W. Foote in qualità di biologo; il dottor William G. Erving come chirurgo: Kai Hendrikson come topografo; H.L. Tucker quale ingegnere, e Paul B. Lanius quale mio assistente. Partimmo da New York ai primi di giugno. A Lima, il señor Carlos Romero mi tradusse alcuni brani della cronaca di Calancha relativi a Vitcos. Giunti a Cuzco, incominciai a chiedere ai piantatori delle terre lungo il fiume Urubamba notizie sui luoghi citati da Calancha. La maggior parte di loro non ne aveva mai sentito parlare, ma due o tre dissero che in diversi luoghi della vallata sorgevano rovine incaiche, e un vecchio cercatore d’oro affermò che c’erano delle interessanti rovine a Machu Picchu, ma le sue asserzioni non erano tenute in alcun conto dai benpensanti. Senza contare che i professori dell’Università di Cuzco non sapevano nulla di rovine incaiche nella valle dell’Urubamba. Essi ritenevano che l’antica capitale fosse Choqquequirau, nonostante l’opinione contraria dello storico Carlos Romero. Secondo costui, Vitcos si trovava «vicino a una grande roccia bianca, dominante una sorgente di fresca acqua». Avevamo portato con noi i fogli della grande mappa di Antonio Raimondi, riguardante l’intera regione che ci eravamo proposti di esplorare. La mappa conteneva riferimenti a rovine incaiche, ma non a quelle della valle dell’Urubamba oltre Ollantaytambo né a quelle di Vilcabamba. Nel 1865 questo eccezionale esploratore italiano, che passò la vita ad attraversare e riattraversare il Perú, era

penetrato fin nel cuore della Cordigliera Vilcabamba, senza però trovarvi Vitcos. Egli vi aveva scoperto una piccola città che portava il nome di Vilcabamba, ma che però non era incaica, perché costruita dai primi coloni spagnoli per sfruttare una miniera di oro della zona. Solo dopo il nostro ritorno negli usa, apprendemmo che l’esploratore francese Charles Wiener aveva, sì, sentito dire che c’erano delle rovine a Huayna Picchu e a Machu Picchu, ma che non era riuscito a raggiungerle. Naturalmente, non avevo con me il volume in folio di 1000 pagine della cronaca di padre Calancha sugli Agostiniani, e disponevo solo dei pochi appunti che avevo preso a Lima su ciò che mi aveva detto Romero, e che si riferivano alla zona di Vitcos. L’ultimo rifugio degli Inca è situato a circa centocinquanta chilometri, in linea d’aria, dal palazzo del viceré spagnolo a Cuzco, in quelle che Prescott chiama «le remote fortezze delle Ande». Inutilmente si cercherebbe Vitcos sulle moderne mappe del Perú, benché parecchie mappe antiche riportino l’indicazione. Vitcos è segnata sulla mappa del Perú compilata da Laet nel 1625; il nome indica però una zona montagnosa a nord-ovest di Vilcabamba: errore ripetuto da qualche cartografo di età posteriore, compreso il Mercator, sinché, intorno al 1740, Vitcos scomparve da tutte le mappe del Perú. I geografi avevano scoperto che non v’era alcuna località del genere nelle vicinanze, e fu così che la sua ubicazione restò celata per circa trecento anni. Con l’aiuto di Cesare Lomellini, un simpatico commerciante italiano, organizzammo una carovana di muli e, lasciata Cuzco e le sue meravigliose rovine incaiche, ci incamminammo verso la valle dell’Urubamba, senza sapere quel che avremmo ricavato dalle nostre esplorazioni. Sopra di noi si levavano bellissime cime nevose, ma eravamo del tutto impreparati al meraviglioso spettacolo che s’offre d’improvviso al viaggiatore il quale giunga al limite di un ardito altipiano e si trovi sull’orlo d’una incantevole vallata, che si apre un chilometro più sotto. In quechua, uru significa bruchi, larve d’insetti; pampa (o bamba) suolo pianeggiante. Urubamba è dunque “la pianura dalle larve (o dei bruchi)”. Se fosse stata battezzata da gente proveniente da una regione calda, dove gli insetti abbondano, è chiaro che non avrebbe ricevuto un nome simile; solo gente non abituata alla vista di bruchi e larve poteva restarne colpita. Con tutta probabilità, la valle ricevette quindi il suo nome dagli abitanti dell’altopiano che si stavano spostando verso la sottostante regione più calda, dove abbondavano le farfalle e gli altri insetti. Nonostante i loro tanto celebrati bruchi, trovammo i giardini dell’Urubamba straboccanti di rose, gigli e mille altri stupendi fiori. C’erano frutteti di pesche, di pere e di mele; c’erano campi di fragole dolcissime, destinate al mercato di Cuzco. Apparentemente i bruchi non danneggiavano nulla. E’ questa la “valle di Yucay”, dove visse Sayri Tupac, e che questo fosse uno dei rifugi preferiti degli Inca, non deve stupire. Dopo un giorno di viaggio, giungemmo alla romantica Ollantaytambo, descritta con tanto entusiasmo da Castelnau, da Marcou, da Wiener e da Squier molti anni fa. Essa non ha perduto nulla del suo fascino anche se i disegni di Marcou sono del tutto

fantastici e quelli di Squier esagerano notevolmente la realtà. Qui, come nella città di Urubamba, esistono giardini fioriti e verdi campi, meticolosamente coltivati; i ruscelli sono ombreggiati da salici e da pioppi e ai lati si ergono precipizi coronati da picchi coperti di neve. Il villaggio era una volta la capitale di un antico principato, la cui storia è avvolta nel mistero. Ci sono rovine di edifici incaici con frontoni, magazzini, prigioni, monasteri, sparsi qua e là sugli erti picchi sovrastanti il villaggio; sotto, si estendono immense terrazze destinate a durare per generazioni e generazioni, come monumenti innalzati allo spirito d’iniziativa e all’abilità di una razza di grandi agricoltori. La fortezza sorge su una collinetta dai fianchi erti; le alte mura circondate da giardini pensili rendono difficilissimo l’accesso. Secoli e secoli fa, quando la tribù che coltivava i ricchi campi della vallata viveva in preda al terrore dei suoi selvaggi vicini, questa collina offriva un magnifico riparo. Le fortificazioni devono risaliere a quell’epoca. Ma, via via che passavano i secoli sotto il dominio degli Inca il cui maggiore interesse era quello di sviluppare pacificamente l’agricoltura, è probabile che la fortezza divenisse un giardino reale. I sei grandi blocchi di granito rossastro, pesanti ciascuno quindici o venti tonnellate, e piazzati in fila, l’uno accanto all’altro, sulla sommità del colle, furono estratti da una cava distante molte miglia in fondo alla vallata, e certo dovettero esse re trascinati fin lassù a prezzo di fatiche e pene infinite. Probabilmente, dovevano rappresentare il ricordo della magnificenza di un abile condottiero, che potrebbe essere Ollantay, principe assai celebrato. Coloro che abbiano interesse alle cose dell’antico Perù, saranno lieti di apprendere che Ollantaytambo può essere ora raggiunta da Cuzco sia in treno che in automobile. È sufficiente il panorama che si gode durante il viaggio a render indimenticabile la gita. Prima che la strada lungo il fiume Urubamba fosse completata, i viaggiatori che partivano da Cuzco e intendevano raggiungere la bassa vallata potevano scegliere fra due vie. La prima è quella del passo di Panticalla, seguita nel 1875 dal Wiener. Vicino a questo passo vi sono due gruppi di rovine, uno dei quali erroneamente descritto dal Wiener come «un palazzo di granito, la cui struttura ricorda le costruzioni più belle di Ollantaytambo», non era che un magazzino; l’altro era probabilmente un tampu, o locanda, ad uso dei viaggiatori al servizio dell’Inca. La seconda via era quella che attraversando il passo posto fra il Monte Salcantay e il Monte Soray, era stata seguita dal Conte de Sartiges nel 1834 e da Raimondi nel 1865. Entrambi i passi, durante la stagione delle piogge, quando giacciono sotto profonde coltri di neve e le tempeste imperversano, risultano oltremodo difficili e pericolosi. Le solitudini montane delle catene fra i due passi erano praticamente inesplorate, nessuno vi aveva posto piede per quasi quattro secoli, e fino a quel momento non se ne trovava alcuna descrizione nei libri dei geografi né in quelli degli archeologi specialisti del Perù meridionale. Grazie alla nuova strada, potemmo evitare gli altri passi e procedere diritti lungo l’Urubamba, chiedendo a tutti gli indios del luogo di mostrarci le rovine degli Inca, in modo particolare un luogo in cui vi fosse «una grande roccia bianca su una sorgente d’acqua».

A Salapunco (sala = rovine; punco = passaggio), la strada rasenta la base di pareti ripidissime. Sono gli approcci di uno stupefacente groviglio di montagne granitiche, le quali han reso l’accesso a Vilcabamba ben più difficile che non quello ai circostanti altipiani, il cui terreno è composto da schisti, conglomerati e calcare: è l’ingresso naturale all’antica provincia, che per secoli restò precluso grazie agli sforzi combinati della natura e dell’uomo. Il fiume Urubamba, scavandosi la strada tra queste punte granitiche, forma rapide troppo pericolose per poter venire superate, e precipizi che possono essere scalati solo a prezzo di enormi sforzi e considerevoli rischi. Un tempo, probabilmente, vi era un sentiero che correva lungo il fiume; per mezzo del sentiero, arrampicandosi lungo il fianco dei dirupi, a volte passando da uno sperone di roccia all’altro, sospendendosi alle liane, i Peruviani erano in grado di raggiungere le zone alluvionali del fondovalle. Un altro sentiero ancora poteva correre fra le vette sopra Salapunco, dove notammo, in diversi luoghi inaccessibili, resti di mura erette su sporgenze limitatissime, così strette e irregolari che potevano anche essere state le mura di supporto di terrazze adibite all’agricoltura, oltre che le fondamenta di un’antica strada. Notammo che, allo scopo di difendere questi sentieri, gli Inca, o i loro predecessori avevano costruito alla base dei precipizi, a pochi passi dal fiume, una piccola ma potente fortezza, evidentemente ispirandosi al modello della famosa Sacsahuaman, alla quale infatti somiglia sia per il carattere irregolare dei grandi blocchi di edifici poligonali che la compongono, sia per i salienti e le rientranze intesi a eliminare ogni angolo morto. Oltrepassata Salapunco, costeggiammo alte rupi di granito, precipizi ricoperti di coltri erbose, ed entrammo in una regione affascinante per l’estensione delle antiche terrazze, la loro altezza e lunghezza, la presenza di molte rovine incaiche, la bellezza delle valli strette e profonde, la magnificenza delle montagne coperte di neve e torreggianti sopra di esse. A Qquente scorgemmo, sulla sommità di una serie di terrazze, oltre il fiume Urubamba, quasi presso lo sbocco del Pampacahuana, le rovine di una grande città. Parevano interessanti, e pregai quindi Herman Tucker, uno dei nostri topografi, di oltrepassare l’Urubamba e andarvi a compiere qualche rilievo. Tucker trascorse diversi giorni nella zona, e tornò comunicandoci che il nome della città era Patallacta (pata = altura, o terrazza; llacta = città) e che si trattava di un’importante città incaica, formata da circa un miglialio di case; il perché del suo abbandono costituisce un mistero. Più in là, nella stessa valle visitata da Tucker, vi sono altri luoghi di una certa importanza, come Paucarchanca, Huayllabam ba, Incasamana o Ccolpa Mocco e Hoccollopampa, ma nessuno di essi corrispondeva alle descrizioni di Vitcos. La loro storia può essere soltanto immaginata, e la loro origine rimane un mistero, benché la simmetria delle costruzioni e le loro peculiarità architettoniche facciano propendere per un’origine incaica. In quale epoca questi villaggi e città fiorirono, chi le costruì, perché furono abbandonate, non lo sapremo forse mai; e gli Indiani che ancora vivono in questi luoghi sono ignoranti o silenziosi come la loro storia. Non è affatto improbabile che tutta questa regione fosse già completamente occupata e coltivata prima ancora che gli Inca riuscissero a controllare la valle di Cuzco e le altre più accessibili terre arabili, e ciò potrebbe

accordarsi con l’ipotesi che gli abitanti originari di Cuzco siano stati cacciati dalle loro fertili vallate da un’orda di barbari provenienti dall’Altipiano della Bolivia e abbiano trovato rifugio, per anni, in questa regione montuosa dalla quale poi, essendo divenuti troppo numerosi per poter vivere comodamente, si riaprirono combattendo la strada verso Cuzco. D’altra parte, poiché l’architettura sembrerebbe quella del tardo periodo incaico, potrebbe darsi che queste terre fossero state occupate al tempo della conquista e poi abbandonate quando il viceré Toledo, nel 1573, sterminò gran parte della popolazione locale. Comunque, in quelle antiche città non incontrammo, in pratica, alcun essere vivente. A Torontoy trovammo un altro gruppo di interessanti rovine, un tempo probabilmente residenza di un nobile Inca. Alcune costruzioni mostravano bellissime pietre incise, opera d’un paziente artigiano. Torontoy si trova all’inizio del grande, stupendo canyon in cui sprofonda ad un certo punto l’Urubamba. La strada lungo il fiume correva arditamente lungo il fianco di roccia, calando verso il fondo di paurosi burroni, superando abissi su fragili ponti ancorati alle rupi di granito. Dovunque i precipizi lo permettessero, la terra era lavorata a terrazze che un tempo erano state coltivate. Ci trovammo in una regione che doveva riservarci moltissime sorprese: sbalordiva la cura certosina con la quale le antiche popolazioni peruviane avevano sottratto strisce incredibilmente ristrette di terra lavorabile alle acque tumultuose del fiume; come fecero anche solo a iniziare la costruzione di un muro di enormi pietre, proprio lungo il bordo d’un corso d’acqua, tentar di guadare il quale significa la morte? A una curva del fiume, presso una schiumante cateratta, qualche capo Inca aveva costruito un tempio meraviglioso. Alte su un fianco del canyon, diverse centinaia di metri più su del tempio, si vedono le rovine di Corihuayrachina (kori = oro; huayra = vento; huayrachina = aia dove ha luogo la “ventilazione” del grano). Probabilmente era un’antica miniera d’oro degli Inca. A mezzo miglio sopra di noi, su un alto, scosceso pendio, alcuni pionieri moderni avevano ripulito dall’intrico delle piante buon numero di antiche terrazze Inca. Più tardi raggiungemmo una bicocca chiamata La Maquina dove solitamente i viaggiatori si fermano per passare la notte. Attualmente costituisce la stazione terminale della ferrovia a scartamento ridotto proveniente da Cuzco. Il nome le deriva dalla presenza di alcune grandi ruote di ferro e altre parti di meccanismi che si rivelarono impotenti a superare le asperità del tragitto fino a una piantagione di canna da zucchero nella valle sottostante e anni fa furono abbandonate qui, ad arrugginire nella foresta. Non trovammo un posto adatto per accamparci e preferimmo proseguire lungo la difficilissima strada, tagliata a furia di esplosivi nella parete di una grande rupe granitica, a un’altezza di più di 600 m. La roccia era in parte slittata nel fiume, e l’interruzione stradale era stata tamponata per mezzo di un rustico ponte dall’aspetto assai precario, costituito da un ripiano di rozzi tronchi, rami e canne, legati insieme e appena ricoperti di terra e ciotoli, quanto bastava a farli apparire solidi al cauto

zoccolo dei muli carichi, costretti ad attraversarli. Nessuna meraviglia che “la macchina” fosse rimasta bloccata lì, a dare il nome a quella parte della vallata. Il crepuscolo scende rapido in questo canyon profondo, le cui pareti raggiungono un’altezza di oltre 1500 m. Arrivammo a una piccola radura sabbiosa dell’estensione di due o tre acri (in questa terra di scoscese montagne la definiscono pampa), che era già quasi buio. Se agli abitanti delle pampas argentine, dove una strada può correre in linea retta per 500 chilometri e più, fosse capitato di visitare questa misera parodia di pianura, questa Mandor Pampa, come la chiamano, avrebbero pensato che si trattava di uno scherzo, o perlomeno che qui si facesse un uso del tutto improprio d’una parola che per essi significa spazio illimitato, estensione piatta, senza neppure una collina. Ma, per gli antichi abitanti di questa valle, dove il suolo in posizione orizzontale è così scarso che era necessario costruire terrazze dagli alti bordi di pietra al fine di permettere la crescita a pochi filari di granturco, qualsiasi piccolo tratto naturale di terra in fondo al canyon meritava il nome di pampa. La storia della nostra sosta a Mandor Pampa, dell’unica persona che vi risiede, un certo Melchior Arteaga, e delle rovine che egli mi mostrò, sospese sopra i precipiti balzi del monte Machu Picchu, la narrerò dettagliatamente nel capitolo primo della terza parte, dove si parla della scoperta di Machu Picchu. È sufficiente dire, per ora, che le rovine che egli mi mostrò non si trovavano nei pressi di «una grande roccia bianca sopra una sorgente d’acqua», e che non v’era nessun segno che esse fossero quelle di Vitcos, la capitale di Manco che stavamo cercando. Pochi giorni più tardi, attraversammo il fiume sul bel ponte di San Miguel, e ci spingemmo nella valle dell’Urubamba, offrendo premi in denaro a chi ci avesse indicato rovine corrispondenti alla descrizione del Tempio del Sole, che padre Calancha aveva detto essere «vicino a Vitcos». La nostra prima tappa fu nell’ospitale piantagione di Huadquiña, che una volta apparteneva ai Gesuiti. Fu questa la prima coltura di canna da zucchero dei bianchi; i padri ci avevano costruito anche una raffineria. Quando, alla fine del XVIII secolo, essi furono espulsi dalle colonie spagnole, Huadquiña venne acquistata da un peruviano; il primo geografo che la descrisse fu il Conte de Sartiges, il quale vi si soffermò per alcune settimane durante il suo viaggio verso Choqquequirau, nel 1834. Egli dice, del proprietario di Huadquiña, che questi era «forse l’unico latifondista del mondo ad avere, nei suoi possedimenti, tutte le colture delle quattro parti del globo. Le diverse zone del suo vasto dominio gli forniscono lana, pellami, crine di cavallo, patate, frumento, granturco, zucchero, caffè, cioccolata, coca e non mancano i giacimenti di piombo argentifero e le sabbie aurifere». Un feudo più unico che raro. I nostri ospiti, la señora Carmen Vargas e i suoi familiari, lessero con vivo interesse la copia da me fatta di quei passi della Cronaca di Calancha che si riferiscono all’ubicazione dell’ultima capitale degli Inca. Apprendendo che eravamo ansiosi di scoprire Vitcos, luogo di cui non avevamo mai sentito parlare, ordinarono ai più intelligenti dei loro coloni di andare in giro a chiedere notizie. Il più informato di tutti pareva un gagliardo mestizo che aveva funzioni di capo operaio, il quale ci disse che in una piccola valle chiamata Ccollumayu, a poche ore di cammino lungo l’Urubamba, sorgevano «importanti rovine» che erano state viste anche da altri indios

della señora Carmen. Ancora più interessante ci sembrò un’altra affermazione: su una cresta dei monti che racchiudono la valle del Salcantay, c’era un luogo chiamato Yurak Rumi (yurak = bianco; rumi = pietra) dove erano state scoperte abbondanti rovine da alcuni contadini andati a far legna. La notizia ci entusiasmò: tra i paragrafi che avevo copiato dalla Cronaca di Calancha, ve n’era uno in cui si leggeva che «nei pressi di Vitcos» si trova «la bianca pietra della casa del Sole chiamata Yurak Rumi». I nostri ospiti ci assicurarono che questo doveva essere il luogo da noi cercato, perché nessuno, nei dintorni, aveva mai sentito della presenza di un altro Yurak Rumi. Il mestizo aggiunse d’aver visto le rovine una volta o due, e d’essersi anche inoltrato nella valle dell’Urubamba, a vedere le rovine di Ollantaytambo, e che quelle che aveva visto a Yurak Rumi erano «buone come quelle di Ollantaytambo». Un’affermazione, questa, che pareva credibile, fatta com’era da una persona che aveva visto con i propri occhi. A quel che pareva, eravamo dunque prossimi a reperire la celebre roccia sulla quale gli ultimi Inca adoravano il Sole. Comunque, il mestizo ci disse che attualmente la strada poteva essere percorsa solo con difficoltà, ma che un piccolo gruppo di indios avrebbe potuto sgombrarla in meno di una settimana. Immediatamente i nostri ospiti diedero ordine che la pista per Yurak Rumi venisse riaperta. Ci vennero a dire finalmente che la via era pronta. Mi sentivo oltremodo ansioso ed emozionato, quando, in compagnia del mestizo, partii alla volta delle rovine che egli aveva appena rivisitato e che ora dichiarava «migliori di quelle di Ollantaytambo», ed io sorridevo tra me, pensando che l’orgoglio della scoperta gliene avesse fatto esagerare l’importanza. Dopo ore ed ore spese a sfoltire il verde che circondava le mura, mi resi conto che questa Yurak Rumi consisteva delle rovine di un’antica e rozza costruzione di pietre mal squadrate, tenute insieme da un semplice impasto di argilla e prive di ogni ornamento. Sebbene avesse numerose finestrelle e una serie di pozzi di ventilazione sotto il pavimento, l’edificio non aveva porta. È dunque assai probabile che i costruttori incaici avessero adibito l’edificio a magazzino, destinato a contenere riserve di cibo per i viaggiatori. Yurak Rumi si trova sulla sommità dello spartiacque tra la valle di Salcantay e la valle di Huadquina, probabilmente sull’antica strada che attraversava la provincia di Vilcabamba. In questo senso poteva essere interessante, ma paragonarne le rovine a quelle di Ollantaytambo, come aveva fatto il mestizo, significava prendere un cottage per un palazzo, o un topo per un elefante. Che una persona la quale aveva visto entrambi i luoghi potesse aver pensato anche solo per un momento che l’uno e l’altro si equivalevano, si spiegava solo con il basso livello culturale della mia guida. Le rovine di Ollantaytambo son così ben conosciute e restano così impresse alla mente, che persino il più casuale viaggiatore ne resta colpito, e gli stessi indigeni ne sono enormemente orgogliosi. Ovviamente, non avevamo ancora trovato Vitcos. Così, dopo aver detto addio alla señora Carmen, attraversammo l’Urubamba sul ponte di Colpani e procedemmo giù per la valle oltre la foce di Lucumayo e la strada che scende da Panticalla fino al piccolo villaggio di Chauillay, dove il fiume Vilcabamba s’incontra con l’Urubamba. Entrambi i corsi d’acqua sono qui prigionieri di strette gole, attraverso le quali le loro

acque si precipitano ruggendo verso la valle. A poca distanza da Chauillay traversammo un ottimo ponte: gli indigeni lo chiamano Chuquichaca. Acciaio e ferro hanno sostituito la vecchia costruzione di fibre vegetali con la sua angusta cannicciata sostenuta da un’intrico di liane. Fu qui che nel 1572 i militari inviati dal viceré Francisco de Toledo sotto il comando del capitano García incontrarono le forze del giovane Inca incaricate della difesa di Vitcos. Dopo aver navigato in canoa sull’Urubamba, raggiungemmo la città di Santa Ana, ricca di belle piantagioni di canna da zucchero e di coca, appartenute un tempo a una missione di Gesuiti. Qui sono impiegati duecento Indiani che coltivano la canna da zucchero, distillano l’aguardiente, l’«acqua di fuoco», e seccano le foglie di coca che saranno poi vendute sui mercati degli altipiani. Fummo ricevuti con estrema cordialità da Don Pedro Duque, un gentiluomo di vecchia scuola, interessato non solo all’amministrazione e allo sviluppo economico della sua piantagione, ma anche agli avvenimenti culturali in atto nel più ampio mondo esterno. Don Pedro ascoltò assai volentieri i nostri problemi storicogeografici. Il nome di Vitcos gli riusciva nuovo, ma dopo aver letto con noi gli estratti delle cronache spagnole, fu sicuro di poterci aiutare a trovarla. E così infatti avvenne. Santa Ana è a meno di tredici gradi a sud dell’equatore, a circa 600 m. d’altezza; le notti “invernali” sono fredde, ma durante il giorno il calore è intenso. Nonostante l’afa, il nostro ospite si adoperò moltissimo perché il maggior numero possibile di abitanti la zona venisse a conferire con noi. Di Vitcos, come della maggior parte dei luoghi menzionati dalle cronache, nessuno degli amici di Don Pedro aveva mai sentito parlare. Cominciavamo a scoraggiarci; ma ecco che un giorno arrivò a Santa Ana un altro degli amici di Don Pedro, il temente gobernador del villaggio di Lucma, nella valle del fiume Vilcabamba, un pezzo d’uomo alquanto scorbutico, di nome Evaristo Mogrovejo. Suo fratello, Pio Mogrovejo, aveva fatto parte della spedizione peruviana che anni prima si era messa alla ricerca del tesoro sepolto di Choqquequirau. Evaristo Mogrovejo riusciva a capire che qualcuno avesse voglia di cercare il tesoro sepolto, ma non era assolutamente in grado di comprendere il nostro desiderio di trovare le rovine dei luoghi menzionati da padre Calancha. Se lo avessimo incontrato a Lucma, ci avrebbe senza dubbio ricevuti con sospetto e non avrebbe fatto nulla per aiutarci. Fortunatamente per noi, il suo diretto superiore era amico di Don Pedro, e di conseguenza aveva dato ordine a Mogrovejo di aiutarci con ogni mezzo a trovare le antiche rovine e a identificare i luoghi di interesse storico. Il nostro obiettivo era la valle di Vilcabamba. Per quanto ne sapevamo, un solo esploratore ci aveva preceduti, e precisamente l’eminente cartografo Raimondi. La sua mappa della valle di Vilcabamba è molto accurata: vi è indicata la presenza di miniere e di giacimenti ma, ad eccezione di un “tampu abbandonato” a Marachyoc («il luogo che possiede una macina da mulino»), egli non fa menzione d’alcuna rovina. Di conseguenza, sebbene, stando ai racconti di Baltasar de Ocampo e di altri contemporanei del Capitano Garcia, sembrasse essere quella la valle di Vitcos, fu con un certo scetticismo che ci accingemmo alla nostra ennesima esplorazione.

Lungo il fiume Vilcabamba era stata costruita di recente una nuova strada dai padroni della piantagione di canna da zucchero di Paltaybamba; ma il nostro temente gobernador l’abbandonò ben presto, e prese per il vecchio sentiero tra le rupi. Come dice Ocampo nella sua storia della spedizione del Capitano Garcia, «la via d’accesso era stretta, con la foresta alla destra e sulla sinistra un burrone di grande profondità». Giungemmo a Paltaybamba verso il crepuscolo. Quella sera discutemmo a lungo col proprietario d’una piantagione e con i suoi amici. Non avevano sentito parlare molto di rovine in quei dintorni, ma ripetevano una delle storie che avevamo già udito a Santa Ana, e cioè che da qualche parte nelle grandi foreste della montaña c’era «una città incaica». Nessuno di loro vi aveva mai messo piede, ma, se la cosa era vera, sarebbe stato confermato l’invio in dono di un macao e di un canestro di noccioline da parte dell’Inca Titu Cusi a Rodríguez, nonché la ragione della fuga del giovane Tupac Amaru nella giungla, quando venne sorpreso dalle forze inviate dal viceré Toledo. Sopra Paltaybamba, la valle è assai pittoresca; la strada è oltremodo tortuosa, il torrente Vilcabamba terribilmente assordante anche in luglio. Come doveva essere nella stagione delle piogge, potemmo solo immaginarcelo. La nostra sosta successiva fu a Lucma, ospiti del teniente gobernador Mogrovejo. Ci offrimmo di pagargli la gratification di un sol, o dollaro d’argento peruviano, per ogni rovina a cui ci avrebbe condotti; avremmo raddoppiato la somma, nel caso che la località presentasse rovine particolarmente interessanti. La proposta gli parve assai seducente: convocò i suoi alcaldes e altri indios bene informati, e li sottopose a un vero e proprio interrogatorio. Dissero tutti che nei dintorni c’erano «molte rovine». Da uomo pratico, Mogrovejo s’era sempre disinteressato a faccende del genere ma ora vedeva non solo la prospettiva di raggranellare del denaro, ma anche di guadagnarsi il favore dei superiori, mostrandosi pieno di zelo. Ragion per cui si fece davvero in quattro. Il giorno seguente fummo guidati, dopo un’arrampicata di un’ora, a una voragine sull’orlo di una cresta che si leva alle spalle di Lucma, e che divide la Vilcabamba alta da quella bassa. Là, su una terrazza artificiale, vi erano alcune rovine, di indubbia origine incaica. I contemporanei di Capitan García parlano di certe fortezze che avevano dovuto assalire e conquistare prima di scoprire il nascondiglio di Tupac Amaru. Questa, probabilmente, era una di quelle fortezze. A suggerire una simile interpretazione, stavano la sua posizione strategica e la facilità con cui poteva essere difesa. Tuttavia, quelle rovine nulla avevano a che vedere con la fortezza di Vitcos o con la Casa del Sole vicino alla «Bianca Roccia sulla Sorgente». Essa si chiama Incahuaracana, ‘il luogo in cui l’Inca colpisce con una fionda’. Ma quale Inca? Il giorno dopo, guardammo il Vilcabamba e subito si spalancò ai nostri occhi l’ampio panorama della valle, interrotto da un colle a forma di cono tronco, alto circa 300 m., con la cima parzialmente ricoperta da una stenta vegetazione d’alberi e cespugli, i fianchi ripidi e rocciosi. Ci dissero che il nome del colle era Rosaspata, parola di ibrida origine moderna: pata, in lingua quechua significa ‘collina’, e rosas in

spagnolo significa ‘rose’. Mogrovejo ci disse che i suoi Indiani gli avevano raccontato che sul Colle delle Rose c’erano molte rovine. Sperammo che fosser vero, specialmente quando sapemmo che il villaggio ai piedi della collina era chiamato Puquiura. Quando Raimondi vi fu, nel 1865, non era che «uno scalcinato villaggio con una cappella di nessun valore». Oggi è più grande. C’è anche una scuola pubblica, alla quale i bambini giungono fin da villaggi lontani diversi miglia. Dubito che il maestro sapesse che era quella la sede della prima scuola di tutta la regione, eppure fu proprio in un luogo chiamato Puquiura che frate Marcos giunse nel 1566. Se era questa la sua Puquiura, allora Vitcos doveva essere nelle vicinanze, perché egli e frate Diego andarono a piedi, con la loro famosa processione di convertiti, da Puquiura alla «Casa del Sole» che era «vicina a Vitcos». Nel pomeriggio, attraversammo il Vilcabamba su un ponte per soli pedoni, e raggiungemmo ben presto le rovine di Marocnyoc, che Raimondi aveva indicato sulla sua carta, ma che non erano incaiche. Un primo esame ci convinse che probabilmente si trattava dei resti di un molino spagnolo per la frantumazione dei minerali, forse anche per la polverizzazione del quarzo aurifero. Che fosse lo stesso molino a cui si riferisce il capitano Baltasar de Ocampo, giunto a Puquiura poco dopo la morte dell’ultimo Inca? Dice costui che le sue case e terre si trovavano «nel distretto minerario di Puquiura, vicino al molino per la frantumazione dei minerali, appartenente a Don Cristóbal de Albórnoz». Nei pressi del molino, alle acque del Vilcabamba si uniscono quelle del Tincochaca che attraversammo su un ponte pedonale; seguimmo Mogrovejo fino a una vecchia struttura sulla cresta della collina, sul lato sud di Rosaspata. Il luogo era chiamato Incapampa, o pampa dell’Inca. Era probabilmente uno dei fortilizi distrutti dal capitano Garcia e dai suoi uomini nel 1571. Scrive Ocampo: La fortezza di Pitcos si levava su una montagna molto alta dalla quale si domina buona parte della provincia di Vilcabamba. Garcia come si ricorderà, dice che la fortezza principale si trovava su un’alta prominenza circondata da aspre rupi e foreste, molto diffìcile da scalare, anzi quasi imprendibile.

Lasciata Incapampa, ci arrampicammo sulla cresta e percorremmo un sentiero lungo il lato occidentale sino alla vetta di Rosaspata. Mi trovai allora di fronte proprio «un’alta prominenza circondata da aspre rupi». Il fianco di più facile attacco è protetto da uno splendido e lungo muro, costruito con tanta cura da offrire ben poche speranze a eventuali assalitori. Oltrepassate alcune rovine rozze e primitive, mi trovai su una piacevole pampa presso la cima del monte. Lo sguardo, da qui, spaziava in ogni direzione, dominando buona parte della provincia di Vilcabamba; a nord e a sud si levano montagne incappucciate di neve, a est e a ovest sprofondano valli fitte di vegetazione. Proprio sulla vetta del colle, scoprimmo le rovine di un complesso architettonico parzialmente cintato, consistente di tredici o quattordici case disposte in modo tale da formare grosso modo una piazza, oltre a un ampio cortile e ad altri piccoli. Le dimensioni del complesso erano, all’incirca, di 45 m. per 50. Nel disporre le case, i

costruttori avevano fatto mostra del senso di simmetria proprio degli Inca. A causa dell’irresponsabile distruzione di molti edifici operata dagli indigeni nei loro vari tentativi di scoprire tesori o anche solo per procurarsi buone pietre da costruzione, le mura erano state rovinate in maniera tale, che era impossibile rendersi conto delle esatte dimensioni delle costruzioni. Solo per una di esse potemmo dire con sicurezza che un tempo vi erano state delle nicchie. Ocampo dice, di Pitcos, che «v’è un ampio spazio ben livellato, con un edificio sontuosissimo e maestoso, eretto con grande abilità ed arte, con architravi a ogni porta, alla principale come alle secondarie, tutti di marmo elaboratamente scolpito». La più interessante di tali costruzioni è quella che attrasse l’attenzione di Ocampo e il cui ricordo si fissò con tale chiarezza nella sua memoria. Di questo edificio resta abbastanza per darci un’idea della sua primitiva magnificenza. Si trattava della residenza di un Inca esule da Cuzco; era lungo 75 m. e largo 13; non c’erano finestre, e la luce e l’aria provenivano da ben trenta portali, quindici sul fronte e quindici sul retro. Nell’edificio, oltre a tre larghi corridoi che dalla facciata portavano al retro, v’erano dieci ampi locali. Perché le mura fossero state costruite in maniera piuttosto affrettata, senza troppe cure, è facile comprenderlo, ma i vani delle porte, soprattutto quelle che mettono in comunicazione una stanza con l’altra, sono particolarmente ben fatti. In verità non sono di marmo, come disse Ocampo (poiché il marmo non esiste in tutta la regione), ma di granito bianco tagliato a regola d’arte; gli architravi delle porte principali, come di quelle secondarie, sono dei solidi blocchi granitici, i più grandi dei quali misurano circa due metri e mezzo di lunghezza: sebbene, nel senso vero del termine, non siano “scolpiti”, essi sono i più belli tra tutti quelli delle rovine della valle di Vilcabamba, e giustificano la menzione che di esse fece Ocampo, il quale visse a luogo in quei luoghi e di edifici simili dovette averne visti parecchi. Solo una parte minima del fabbricato è ancora in piedi. Delle porte sul retro, alcune erano state chiuse con lastre di pietra, in modo da formare un muro continuo. Finalmente avevamo scoperto un luogo che sembrava corrispondere abbastanza esattamente ai dati forniti da Ocampo in merito alla “fortezza di Pitcos”. Nel suo rapporto sulla vita e la morte del padre, Titu Cusi non fornisce nessuna indicazione certa del luogo in cui sorgeva Vitcos; come si ricoderà, però, Calancha osserva che «vicino a Vitcos, in un villaggio chiamato Chuquipalpa, c’è una Casa del Sole, e in questa una pietra bianca sopra una sorgente d’acqua». Pernottammo a Tincochaca nella catapecchia di un indio amico di Mogrovejo. Come al solito, procedemmo ad un piccolo interrogatorio, e il lettore s’immaginerà certo il nostro stato d’animo quando, in risposta alla domanda che avevamo mille volte ripetuta in quei giorni, il nostro ospite rispose che sì, in una valle vicina esisteva effettivamente «una grande roccia bianca su una sorgente d’acqua». Se la sua affermazione rispondeva al vero, c’eravamo. Il giorno dopo partii con l’impaziente ed avido Mogrovejo – il cui scopo non era di carattere archeologico ma meramente economico – e, giunti in vetta a un colle, ci trovammo sul fianco nordest della valle detta de los andéns (“le terrazze”). Qui sorgeva effettivamente un grande masso di granito bianco, appiattito in alto e con una specie di seggio, o piattaforma, sul lato settentrionale. Sul fianco occidentale

s’apriva una grotta con numerose nicchie; un lato della grotta appariva coperto da una struttura muraria; poteva essere stato benissimo un mausoleo per le mummie degli Inca. Mogrovejo e la guida indiana dissero che c’era una manantial de agua (“sorgente d’acqua”) nei pressi, ma un sommario esame bastò a provarmi che la “sorgente” altro non era se non ciò che restava d’un canaletto d’irrigazione. È da osservare che manantial significa, sì, “sorgente”, ma anche “acqua corrente”; inoltre, la roccia non era “sopra” l’acqua. Sebbene questa fosse una di quelle huacas, o grandi rocce sacre, che secondo gli Inca simboleggiavano i fondatori delle tribù, e quindi costituivano un accessorio importante del culto degli antenati, non era la Yurak Rumi che stavamo cercando. Tuttavia, quando venimmo a sapere che il nome attuale di quella zona è Chuquipalpa, il nostro interesse si accrebbe notevolmente. Lasciammo il masso e le rovine di ciò che probabilmente era stata la casa del sacerdote; e seguimmo il piccolo manantial che correva ai piedi di alcune terrazze agricole, molto ben costruite, le prime che ci fosse dato di vedere dopo parecchio tempo e le più cospicue di tutta la valle. Le andénes in questa zona sono così scarse, e quelle in particolare erano così evidenti, che la valle intera aveva preso il nome da esse. Erano state costruite molto probabilmente per iniziativa di un Inca, e adibite alla coltivazione del granturco e delle patate destinati al suo personale consumo. Nei pressi sorgeva una serie di massi scolpiti, o huacas che dir si voglia. Su di uno v’era una intihuatana, o meridiana a colonnina; un secondo era scavato a forma di sella. Seguimmo poi un ruscello che correva mormorando attraverso un fitto, finché all’improvviso giungemmo in un luogo aperto, chiamato Nusta Isppana. Di fronte a noi, si drizzava una gran roccia bianca. Le nostre guide avevano detto il vero. Sotto gli alberi, si scorgevano le rovine di un tempio incaico fiancheggiante e parzialmente racchiudente il gigantesco masso di granito, una estremità del quale dominava un minuscolo laghetto. Poiché la superficie del piccolo stagno non riflette il cielo, dominata e sovrastata com’è dalla roccia, l’acqua sembra cupa, addirittura nera. E’ facile quindi comprendere come i primitivi spiriti incaici potessero essere convinti di scorgervi, come affermano i cronisti spagnoli, la «visibile manifestazione del diavolo», e come gli Indiani venissero dai più nascosti villaggi della densa giungla ad adorare e a offrire doni e sacrifici a quell’acqua. Era il tardo pomeriggio del 9 agosto 1911. Da ogni lato si levavano colline fittamente ricoperte di boschi. Non si vedeva un solo tugurio, raramente giungeva all’orecchio un suono; era, insomma, il luogo migliore che si potesse trovare per le mistiche cerimonie di un antico rituale; l’aspetto imponente del masso, l’oscurità dello stagno coperto dalla sua ombra, ne avevano fatto un luogo sacro: era questo, senza dubbio alcuno, «il principale mochadero di quelle boscose montagne». Gli indios che vivono nei dintorni tuttora rispettano il sacro luogo. Per lo meno, avevamo scoperto il punto in cui, al tempo di Titu Cusi, i sacerdoti incaici si piazzavano volgendosi ad oriente, ringraziavano il Sole sorgente, «stendevano le mani verso di esso», e «gli gettavano baci»: un attestato del loro grandissimo amore e reverenza. Ce li possiamo

immaginare, i sacerdoti del Sole, avvolti nei loro splendidi paramenti, ritti in vetta alla roccia, il volto illuminato dalla rosea luce del primo mattino, in attesa del momento in cui la Grande Divinità sarebbe apparsa sopra i colli orientali ad accogliere il loro tributo. Come l’astro sorgeva, essi lanciavano il loro saluto, il grido: O Sole! Tu che sei pace e sicurezza, splendi sopra di noi, liberaci dal male, dacci la salute, conservaci in sicurezza. Oh Sole! Tu ordinasti che ci fossero Cuzco e Tampu, e tu fa’ che questi tuoi figli possano conquistare tutti gli altri popoli. Noi ti imploriamo, fa’ che i tuoi figli Inca siano sempre conquistatori, poiché è per questo che li hai creati.

Tale l’invocazione che, a quanto ci dicono gli Spagnoli, essi rivolgevano al Sole. Le relazioni dei contemporanei e l’evidenza fisica della roccia, ci davano la certezza di aver infine scoperto una delle capitali di Manco, una residenza nota agli Spagnoli, visitata dai missionari e dagli ambasciatori, come pure dagli esuli che qui avevano trovato rifugio e protezione, ma che purtroppo furono causa di morte per Manco. Il luogo era troppo vicino a Puquiura per essere Vilcabamba, la “capitale principale”; era certo comunque che si trattava di Vitcos. Tornammo alla Collina delle Rose per compiere altre indagini e fare qualche scavo. Sul lato del colle, di fronte al lungo palazzo, sorgono le rovine di una singola struttura, lunga 24 m e larga 8, con porte su entrambi i fianchi, ma nessuna nicchia e nessuna traccia di lavoro umano accurato. Poteva trattarsi di una caserma per i soldati di Manco, ma l’assenza di nicchie mi indusse a credere piuttosto che fosse stato costruita per ordine dell’Inca al fine di alloggiare i soldati spagnoli che erano fuggiti da Cuzco e avevano cercato rifugio presso di lui. V’era anche un’altra ragione per ritenerlo: la presenza, cioè, fra questo edificio ed il palazzo, di una pampa che poteva essere stata la scena di quelle partite di bocce o di ferro di cavallo di cui i rifugiati spagnoli avevano imposto la moda. E proprio lì poteva essersi svolta la fatale partita, durante la quale uno dei giocatori aveva perduto il controllo e ucciso l’ospite regale. I nostri scavi portarono alla luce un ammasso di rozzi cocci d’argilla, i soliti fusi e spilloni di bronzo incaici, nonché un certo numero di oggetti di provenienza europea, quali pesanti ferri di cavallo arrugginiti, una fibbia, un paio di forbici, briglie e ornamenti da sella, e tre zampogne. Il mio primo pensiero fu che un tempo avessero vissuto qui dei Peruviani moderni, sebbene la necessità di trasportare provviste d’acqua su per la rapida collina rendesse assai dubbia l’eventualità. Né, d’altra parte, la presenza di oggetti di provenienza europea doveva necessariamente portare a simile conclusione: in primo luogo, perché sapevamo che era abitudine di Manco organizzare imboscate per rapinare i viaggiatori spa gnoli in cammino fra Cuzco e Lima e nulla avrebbe potuto impedirgli di portarsi via, tra l’altro, anche una briglia spagnola; in secondo luogo, perché gli strumenti musicali, come gli ornamenti da sella, potevano essere appartenuti ai rifugiati che se ne erano serviti per scacciare la malinconia del lungo esilio; in terzo luogo, perché i messi dell’Inca potevano aver visitato il mercato spagnolo di Cuzco, acquistando oggetti di manifattura europea. Infine, Rodriguez de Figueroa fa menzione di due paia di forbici che egli portò in dono a Titu Cusi. Una quantità simile di oggetti d’origine europea non erano venuti alla luce durante gli scavi in nessun’altra località archeologica nella provincia di Vilcabamba, e se ne dovrebbe quindi arguire che tali

luoghi furono abbandonati prima della conquista spagnola, o per lo meno che erano abitati da contadini i quali non erano in grado di accumulare tanti tesori. Le nostre spedizioni nell’antica provincia di Vilcabamba non hanno portato alla scoperta di nessun’altra «roccia bianca su una sorgente d’acqua» circondata dalle rovine di una possibile “Casa del Sole”; è ragionevole quindi trarre le seguenti conclusioni: «Nusta Isppana è la Yurak Rumi di padre Calancha; la Chuquipalta d’oggi è l’antica Chuquihualpa; e qui è la «Viticos» di Cieza de Léon, un famoso cronista militare contemporaneo di Manco, il quale afferma che fu nella «provincia di Viticos» che Manco decise di ritirarsi, quando si ribellò a Pizarro e che, avendo raggiunto Viticos con un grande tesoro raccolto in vari luoghi, con le sue donne e il suo seguito, il re Manco Inca si stabiliti nel luogo che meglio si prestava alla difesa che riuscì a trovare, da cui si dipartiva spesso, verso tutti i punti cardinali, allo scopo di turbare la pace dei luoghi e rendere difficile la vita agli Spagnoli, che considerava suoi mortali nemici.

Il «luogo che meglio si prestava alla difesa», di cui parla Cieza de Leon, la Guaynapucara di Garcia, si chiama ora Rosaspata. Ocampo la chiamò «la fortezza di Pitcos» dove, disse, «v’era un grande spiazzo con maestose costruzioni», il tratto più caratteristico delle quali era che avevano porte di due tipi, entrambi con architravi di pietra bianca. Il villaggio che oggi si chiama Pucyura, nella valle del fiume Vilcabamba, è evidentemente la Puquiura di padre Calancha, il luogo dove, secondo Raimondi, sorse la prima chiesa missionaria della regione. Ancora, la distanza di questa dalla “Casa del Sole” non è troppo grande per una processione religiosa; la chiesa, infine, è vicina alla fortezza. Tutto, in una parola, contribuisce a far ritenere corretta questa conclusione. L’identificazione, testé riassunta, delle località menzionate da padre Calancha e dagli altri cronisti spagnoli, è ora accettata dagli archeologi e dagli storici peruviani. Rosaspata è il nome attuale della capitale militare e politica degli ultimi quattro Inca, quella che nelle cronache viene chiamata Vitcos, Pitcos, Viticos o anche Uiticos.

ALLA RICERCA DI VILCABAMBA Sebbene gli scrittori coevi di Manco parlino di Vitcos come del rifugio dell’Inca, altrettanto frequentemente è usata la parola Vilcabamba o Uilcabamba. Infatti Garcilaso, il principale storico degli Inca, e figlio lui stesso di una principessa incaica, non fa menzione di Vitcos. Vilcabamba era il nome comunemente usato per indicare la provincia, e padre Calancha dice che si trattava di un’area molto vasta, «di un’estensione pari a quattordici gradi di latitudine» e larga circa settecento miglia. Nelle zone più interne era abitata da parecchie tribù selvagge che riconoscevano la supremazia degli Inca e pagavano tributi a Manco e ai suoi figli. «I Manaries e i Pilcosones venivano da cento, fors’anche duecento leghe» per visitare l’Inca. La zona deriva il proprio nome da due parole quechua, che significano la pampa dove cresce la huilca. La huilca è un albero sub-tropicale, che non alligna nella zona

temperata. I dizionari della lingua quechua affermano che la huilca è un «medicinale, una sostanza purgativa». Un infuso dei suoi semi viene usato come clistere; sempre coi semi della huilca si prepara una polvere chiamata cohoba, un narcotico che «viene inalato attraverso le narici per mezzo di un tubo biforcuto». Tutti gli scrittori sono d’accordo nel dichiarare che tale narcotico produceva negli indios uno stato di ebbrezza semi-ipnotica, accompagnata da visioni considerate sovrannaturali. Si supponeva che i negromanti o sacerdoti comunicassero per tale mezzo con le potenze invisibili, e i loro incoerenti balbettii erano ritenuti profezie e rivelazioni. I medici ricorrevano alla huilca somministrandola ai pazienti per scoprire la causa della malattia, ovvero la persona o lo spirito da cui quelli erano stati stregati. E’ chiaro che per i sacerdoti e veggenti, il luogo in cui la huilca era stata trovata e usata per la prima volta, doveva essere importantissimo. O.F. Cook scoprì che la huilca cresceva presso il ponte di San Miguel, ai piedi del Machu Picchu, per cui è del tutto naturale che il nome incaico del fiume Urubamba fosse Vilcamayu: “il fiume della huilca”. La pampa che si estende presso il fiume sulle cui rive cresceva la huilca, per la stessa ragione si sarebbe chiamata Vilcabamba. Il nome dell’intera regione sembrerebbe quindi derivare da questa pianta. È assai probabile che gli abitanti di Cuzco, scendendo lungo il fiume alla ricerca del prezioso narcotico, abbiano trovato le huilcas non lontano da Machu Picchu. Come si è detto, fino a poco tempo fa la valle di Vilcabamba era terra ignota per la maggior parte dei peruviani, persino per gli abitanti di Cuzco. Se la capitale degli ultimi quattro Inca fosse sorta in una zona dal clima tollerabile per gli Europei, le cui risorse naturali potessero bastare a nutrire una popolazione numerosa e le cui strade permettessero di trasportare merci senza incontrare maggiori difficoltà che nelle altre regioni andine, certo la città sarebbe stata abitata, fin dai tempi di Capitan García, da mestizos di lingua spagnola, sì, ma comunque interessati a conservare il nome dell’antica capitale incaica, assieme alle tradizioni a essa legate. Ma nulla v’era che potesse indurre qualcuno a visitare l’alta valle di Vilcabamba, e tanto meno far nascere il desiderio di stabilirvisi. Probabilmente, una volta esauritisi i giacimenti d’oro locali, e prima che la richiesta di gomma rendesse preziosa per l’uomo bianco la valle di San Miguel, vi fu un periodo (circa tre secoli) in cui nessuno che fosse di educazione e intelligenza appena superiori a quelle dei pastori indios se la sentì di vivere nelle vicinanze di Puquiura o di Lucma. E, finché il señor Pancorbo non aprì la sua nuova strada per Lucma, raggiungere Puquiura risultò estremamente difficile. Fra la morte dell’ultimo Inca regnante, Tupac Amaru, e l’arrivo dei primi esploratori moderni, nella provincia di Vilcabamba vissero e morirono nove generazioni di Indiani. I grandi edifici di pietra costruiti sulla “Collina delle Rose” ai tempi di Manco e dei suoi figli, ebbero tutto il tempo di cadere in rovina. I loro tetti sprofondarono e scomparvero. I nomi di coloro che una volta vi avevano vissuto sparirono dal ricordo degli indigeni. Fino al XIX secolo, finché cioè non rinacque l’interesse per la ricerca storica e geografica, nessuno si preoccupò di ricercare la capitale di Manco. Se, ormai, eravamo certi di aver scoperto Vitcos, non avevamo però ancora esplorato tutti i luoghi chiamati Vilcabamba. Un esame degli scritti del XVI secolo bastava a

provare che erano stati più d’uno i luoghi indicati con lo stesso nome. Uno è detto, da Calancha, Vilcabamba Vieja (“l’antica”); un’altra località, chiamata pur essa Vilcabamba da Ocampo, risultava fondata dagli Spagnoli. I soldati dell’ultima spedizione inviata a catturare Tupac Amaru, dissero che si trovava nella montaña, tra le intricate foreste dalle quali i selvaggi armati di archi e frecce erano usciti a dar prova della loro devozione a Titu Cusi, quando Rodríguez de Figueroa era andato a visitarlo. Quanto a me, ero ben deciso a far tutto il possibile per scoprire Vilcabamba. L’unica città con questo nome, segnata sulle cartine geografiche del Perú, si trova nei pressi della sorgente del fiume Vilcabamba, a non più di tre o quattro leghe da Puquiura. Decidemmo di andarvi. Trovammo la città: giaceva al limite di alti e squallidi pascoli a 3600 m. sul livello de! mare. Il suo nome completo è San Francisco de la Victoria de Vilcabamba. Mura e rovine incaiche non ne vedemmo, ma v’erano in compenso tre case spagnole, solidamente costruite; erano vuote, sebbene i tetti, muniti di uno strato di paglia eccezionalmente spesso, sembrassero offrire un ottimo riparo. La solidità delle costruzioni era dovuta alla prosperità dei cercatori d’oro, giunti a sfruttare i filoni di quarzo aurifero resi accessibili con la morte di Tupac Amaru. E infatti, sui declivi rocciosi si scorgevano ancora i resti delle miniere aperte ai tempi di Ocampo. L’attuale desolazione e l’assenza di abitanti sono dovuti probabilmente all’esaurimento dei filoni stessi. Il luogo era quello che «gli Spagnoli i quali per primi avevano messo piede in quella terra, trovarono ricco di greggi e di mandrie»; ora, la moderna Vilcabamba giace sui declivi erbosi, adattissimi a pascolo. Sui declivi di maggior pendenza, le patate vengono tuttora coltivate. Dove gli Inca allevavano i loro llamas e alpacas, vedemmo cavalli, bovini e pecore. Il fatto che nei dintorni non era dato scorgere né llamas né alpacas, ma solo animali domestici d’origine europea, sembrava indicare che, per una qualche ragione, la zona era stata successivamente abbandonata dagli Indiani. E’ difficile immaginare, infatti, che, se gli indios avessero abitato in continuazione queste valli, dai tempi degli Inca sino ai giorni nostri, non avremmo visto per lo meno qualche esemplare di “cammello americano”. Il capitano Ocampo, nella sua Descrizione della Provincia di San Francisco de la Victoria de Vilcabamba dice: Fu in questa città di Vilcabamba, quando dopo il 1572 fu popolata per la prima volta, che vennero i monaci di Nostra Signora della Misericordia e vi fondarono un convento. Fu data loro terra per costruire e da arare, ed essi eressero una casa per sé e una chiesa dove dicevano messa.

L’antica chiesa, notammo, era in condizioni assai precarie: ci dissero che ora ben raramente vi si celebrava l’uffizio. Due degli informatori di don Pedro Duque di Santa Ana, che ci aiutò a identificare i luoghi menzionati da Calancha e da Ocampo, ci dissero che con tutta probabilità “Vilcabamba Vieja” o Vilcabamba Antica poteva identificarsi con un posto chiamato ora Conservidayoc. Don Pedro ci disse che un tale López Torres, il quale aveva percorso in lungo e in largo la montaña in cerca di alberi da gomma, sosteneva che lì si trovavano le rovine di una città incaica. Tutti gli amici di Don Pedro ci

assicurarono che Conservidayoc era un posto difficilissimo da raggiungere. «Nessuno che ora vive c’è mai stato», dissero, ed aggiunsero che era «abitato da Indiani selvaggi, i quali non avrebbero permesso a nessuno di mettere piede nei loro villaggi». A Paltaybamba, il direttore dell’azienda del señor Pancorbo confermò quanto ci era stato riferito. Egli ci disse inoltre che a Conservidayoc viveva un tale di nome Saavedra, il quale senza dubbio doveva conoscere bene le rovine; ma Saavedra era un tipo difficile da trattare, e odiava gli stranieri; la casa di Saavedra «era assai difficile da trovare, e nessuno che vi sia andato è tornato vivo». Le opinioni variavano poi singolarmente a proposito della distanza; e il señor Pancorbo, sebbene ammettesse di aver sentito dire che nei pressi della casa di Saavedra c’erano delle rovine, ci pregò di desistere dal tentativo. Disse che Saavedra era «un uomo molto potente, aveva molti Indiani al suo comando, viveva come un re, con cinquanta servitori, e non desiderava affatto ricevere visite». Quanto agli Indiani, erano «della tribù Campa, barbari e selvaggi che usano frecce avvelenate e sono particolarmente ostili nei confronti degli stranieri». La nostra curiosità era ormai esasperata. Avevamo una certa familiarità con le storie correnti sulle abitudini delle tribù selvagge della montaña, i cui servigi erano richiestissimi, essendo tali Indiani molto abili nella raccolta della gomma. Avevamo anche sentito che agli indios non andava molto a genio di lavorare per il señor Pancorbo, uomo energico, ambizioso, estremamente avido, che per le sue imprese aveva sempre bisogno di un maggior numero di braccia di quante non fosse possibile trovarne nella zona. Fummo indotti quindi a pensare che a Conservidayoc vi fosse, con tutta probabilità, più d’un indio fuggito dalla sua piantagione d’alberi da gomma di San Miguel; se vi si fosse recato, il señor Pancorbo sarebbe stato alla mercè delle loro frecce avvelenate. In tutto il bacino del Rio delle Amazzoni, le tribù che gli esploratori del XIX secolo potevano impunemente visitare sono diventate oggi diffidenti, selvagge e vendicative, al punto da uccidere senza indugio qualsiasi uomo bianco capiti loro a tiro. Il professor Foote ed io considerammo il problema da tutti i suoi punti di vista, e giungemmo alla conclusione che, a cagione della presenza di rovine incaiche a Conservidayoc, non potevamo assolutamente seguire il consiglio dell’amico piantatore. Dovevamo almeno tentare di raggiungerle, prendendo naturalmente ogni precauzione per scansare le eventuali reazioni del potente Saavedra e dei suoi seguaci. Il giorno dopo il nostro arrivo alla città spagnola di Vilcabamba il gobernador, certo Condore, convocò gli indios più svegli che abitavano nei dintorni, e fra questo un vecchio molto pittoresco il cui nome, Quispi Cusi, ci ricordava molto da vicino i bei tempi di Titu Cusi. Gli fu spiegato che si trattava di cosa d’estrema importanza, e precisamente di una inchiesta ordinata dal governo. Il vecchio si tolse compitamente il cappello – ma non la berretta di maglia che portava sotto di esso – e fece sfoggio di tutta la sua eloquenza nel rispondere alle nostre domande a proposito delle regioni circostanti.

Affermò che l’Inca Tupac Amara aveva soggiornato a Rosaspata; non aveva mai sentito parlare di Vitcos o di Vilcabamba Vieja, ma ammise che sulla montaña, vicino a Conservidayoc, c’erano delle rovine che però né lui né altri del villaggio avevano mai visto di persona. Tutti erano d’accordo nell’affermare che il luogo in cui viveva Saavedra era «ad almeno quattro giorni di arduo cammino su per la montaña, oltre Pampaconas». Sebbene fosse frequentemente menzionato nei documenti del XVI secolo, un villaggio di tale nome non esisteva in nessuna delle carte geografiche del Perú. Rodríguez de Figueroa dice che incontrò Titu Cusi a Bambaconas, e ritiene inoltre che l’Inca vi giunse da un qualche luogo della montaña e che gli fece dono di una macao e di due ceste di noccioline, prodotti delle regioni calde. Avevamo portato con noi i grandi fogli che compongono la preziosa mappa di Raimondi riguardante questa località. Avevamo anche le nuove carte del Perù meridionale e della Bolivia settentrionale, allora pubblicate dalla Royal Geographic Society e corredate da un ricco sommario. Gli indiani sostenevano che Conservidayoc si trovava in direzione ovest partendo dal Vilcabamba, eppure sulla carta di Raimondi tutti i fiumi che nascono dalle montagne a ovest della città sono indicati come corti affluenti dell’Apurimac e scorrono verso sud-ovest. Cominciammo a chiederci se le storie ascoltate a proposito delle rovine di Conservidayoc non fossero prive di fondamento, al pari di quelle raccontateci dal capo-operaio mestizo di Huadquiña. Uno dei nostri informatori disse che la città incaica era chiamata Espiritu Pampa, ovverosia la “Pampa dei Fantasmi”. Che le rovine fossero altrettanto fantasmagoriche? Sarebbero svanite all’avvicinarsi degli uomini bianchi muniti di macchine fotografiche e di nastri misuratori? Sebbene nessuno, a Vilcabamba, avesse mai visto le rovine, trovammo chi affermò che a Pampaconas c’erano Indiani i quali erano stati di recente a Conservidayoc. Decidemmo quindi d’andarci subito. Dopo le solite difficoltà, dovute alle fatiche che dovemmo sostenere per recuperare i muli, i quali avevano approfittato delle nostre ricerche di carattere storico per andarsene a brucare l’erba dei pascoli montani, uscimmo dai limiti della zona esplorata per dirigerci verso Conservidayoc, località imprecisata, avvolta dal mistero, terra di selvaggi ostili, custodi – così speravamo – delle rovine di una città incaica. Il primo giorno di viaggio ci portò a Pampaconas. Il gobernador ci aveva detto che lì e nei dintorni avremmo potuto procurarci delle guide e una mezza dozzina di portatori, che ci sarebbero stati utili in seguito, lungo il sentiero nella giungla, dove né muli né altri mezzi di trasporto potevano venire impiegati. Poiché gli indios manifestavano una certa avversione all’idea di avventurarsi nelle zone selvagge di Conservidayoc, e si sarebbero allarmati alla vista di uomini in uniforme, s’era deciso che due gendarmes, i quali facevano da scorta, avrebbero ritardato la loro partenza di alcune ore, e quindi giunsero a Pampaconas con i nostri bagagli all’ora del crepuscolo: stando al gobernador, se gli indios di Pampaconas avessero notato, su per le colline, anche solo il luccichio di un bottone metallico, sarebbero spariti e non avremmo avuto modo di procurarci neppure un portatore. Il loro atteggiamento era dovuto, almeno in parte, all’amore di libertà che già li aveva spinti ad abbandonare le comodità dei grandi centri per un remoto villaggio in cui i proprietari terrieri non

potevano costringerli a un lavoro forzato. Di conseguenza, prima che l’autorità rivelasse la sua presenza (nel caso specifico sotto specie di gendarmes), il gobernador e il suo amico Mogrovejo, ci consigliarono di “requisire” i servigi di una mezza dozzina di vigorosi indiani. Il sistema sarà illustrato fra breve. Lasciando la moderna Vilcabamba, attraversammo il fondo piatto e paludoso di una valle formata da un antico ghiacciaio ora scomparso, e dove uno dei nostri muli sprofondò e annegò brucando l’erba succulenta che celava l’insidia delle sabbie mobili. Guadato il Vilcabamba, che qui è solo un modesto torrente, ci arrampicammo lungo il fianco della montagna e ci dirigemmo ad occidente. Giunti alla sommità di un passo, scorgemmo, volgendoci indietro, una lunga catena di montagne nevose torreggiami alle spalle della città di Vilcabamba. Invano le cercammo sulle nostre carte: Raimondi, e sul suo esempio la Royal Geographic Society, non avevano indicato nessuna catena di montagne fra il fiume Apurimac e il fiume Urubamba. Secondo le carte pubblicate nel 1910 avremmo dovuto trovarci a nuotare nelle acque del “Gran Parlatore” vicino al punto in cui esso si congiunge al fiume Pampas; in realtà eravamo sulla sommità di un grandioso passo, circondato da alti picchi ghiacciati. Il mistero fu infine chiarito da Albert H. Bumstead capotopografo della spedizione, il quale riuscì a determinare che l’Apurimac e l’Urubamba scorrevano trenta miglia più in là del punto indicato sulle mappe. Le nostre osservazioni ci permisero di stabilire che si trattava di una regione inesplorata, dell’estensione di quasi 3000 chilometri quadrati e la cui esistenza non era stata finora neppure supposta; è questa una delle maggiori zone a clima alpino di tutto il Sud America. È davvero strano che per secoli sia rimasta sconosciuta una zona la quale si estende a non più di cento miglia da Cuzco, la città più importante delle Ande Peruviane, sede di università da più di tre secoli. Che essa non fosse mai stata esplorata prima, costituisce la miglior prova della saggezza con cui Manco aveva scelto il suo rifugio. Volgendo lo sguardo ad occidente, scorgemmo una serie di vallate profonde, di declivi coperti di foreste. Secondo le nostre carte, stavamo osservando il bacino dell’Apurimac. In verità eravamo al margine della valle del Pampaconas, un ramo del Cosireni, affluente dell’Urubamba: un’altra regione inesplorata. La strada era così impervia, che solo con grande difficoltà riuscivamo a persuadere i nostri muli a proseguire. Per un tratto, dove il sentiero seguiva una lunga e rapida scalinata d’antica origine incaica, tagliata sulla roccia, fummo costretti a scendere di sella. Aggirato un colle, giungemmo finalmente in vista di una piccola catapecchia solitaria, abbarbicata al fianco d’una montagna. Di fronte ad essa, sedute al sole sopra delle stuoie, c’erano due donne intente a sgranare pannocchie di mais. Appena videro avvicinarsi il gobernador, smisero di lavorare e corsero a preparare del cibo; erano circa le undici di mattina, e il señor Condore e i suoi amici non avevano avuto per colazione che una tazza di caffè. Per soddisfare le esigenze degli ospiti inattesi, le donne ammazzarono quattro o cinque degli strillanti porcellini d’india che di regola scorrazzano liberamente sul pavimento fangoso delle capanne degli indios di montagna. Di lì a poco l’allettante profumo del cuy arrostito su spiedi primitivi stimolò il nostro appetito.

Era la prima volta che gustavo quella carne delicata e non l’avrei forse mai fatto, se non avessi avuto un simile appetito; ma devo dire che l’arrosto di porcellino d’india è delizioso, con un sapore che ricorda quello dei piccioncini. Dopo la colazione, Condore e Magrovejo si divisero la regione in zone, e ognuno cavalcò da una casa isolata all’altra, in cerca di uomini da ingaggiare come portatori. Se trovavano l’uomo in casa o al lavoro sul suo fazzoletto di terra coltivata, lo salutavano con molta cortesia; e quando l’uomo andava loro incontro scuotendo le mani alla maniera indiana, si ritrovava inaspettatamente con un dollaro d’argento sul palmo della mano della destra, e veniva ipso facto informato d’aver accettato la paga per un servigio che ora era tenuto a rendere. Il metodo potrà apparire alquanto insolito, ma era quella l’unica maniera per assicurarsi dei portatori. Durante tutta l’epoca incaica, gli indios non avevano mai ricevuto paga per il loro lavoro. Come si è detto, un governo paternalistico dava loro il modo di procurarsi vesti e cibo a sufficienza, attingendo, al caso, ai magazzini di Stato. Al tempo della dominazione coloniale, un governo meno paternalistico trasse vantaggi dagli antichi sistemi e li esasperò, senza curarsi affatto delle sofferenze che ne potevano derivare. Per intere generazioni, proprietari terrieri senza scrupoli, spalleggiati dalle autorità locali, obbligarono gli indios a lavorare senza un’adeguata ricompensa ovvero rimunerandoli con promesse mai mantenute. I contadini del luogo appresero così che non era saggio accettare un incarico qualsiasi senza prima aver ricevuto un congruo acconto. Comunque, una volta accettato il denaro, era loro costume sottostare ai loro obblighi, e del resto il codice locale provvedeva a dar forza di legge all’usanza: i trasgressori incorrevano in severe sanzioni. Di conseguenza, quando un disgraziato di Pampaconas si ritrovava con un dollaro in meno, malediceva il suo destino, ma si riteneva senz’altro obbligato a prestare i propri servigi. E invano, prima di accettare la mercede, alcuni si scusarono dicendo che avevano da fare, che dovevano badare al raccolto, che la famiglia non poteva fare a meno di loro, che comunque, prima di mettersi in viaggio, avrebbero dovuto procurarsi del cibo: Condore e Magrovejo non vollero sentir ragioni, e fu a quel modo che riuscirono ad “ingannare” una mezza dozzina di portatori. Prima che l’oscurità scendesse, raggiungemmo il villaggio di Pampaconas, che è costituito da poche, misere capanne sparpagliate sui declivi erbosi, ad un’altezza di circa 3000 m. Nelle annotazioni lasciateci da uno dei consiglieri militari del vi ceré Francisco de Toledo, si trova un riferimento a Pampaconas, «località alta e fredda». Il che è esatto: nondimeno, dubito che il villaggio d’oggi sia la Pampaconas menzionata nei documenti del tempo di García come «un’importante città degli Inca». Nei dintorni non esistono ruderi; le case della borgata apparivano costruite di recente, con pietra e fango, e i tetti d’erba. Erano abitate da un pugno di vigorosi montanari indigeni, che mostravano di godere di un’insolita libertà nei confronti delle autorità e dei padroni in genere; il luogo si prestava benissimo all’allevamento delle greggi e alla coltivazione delle patate. Trovammo gli abitanti oltremodo eccitati: la notte prima un giaguaro, o puma che fosse, era uscito dalla foresta e aveva ucciso e portato via uno dei loro piccoli cavalli. Sì, eravamo davvero in una terra nuova.

Fummo condotti all’abitazione di un solido e tarchiato indio di nome Guzman, l’uomo più fidato del villaggio, che era stato scelto come capo del gruppetto di portatori che ci doveva accompagnare a Conservidayoc. Sebbene non ne menasse vanto, Guzman aveva sangue spagnolo nelle vene. Avemmo con lui una conversazione molto interessante: era stato a Conservidayoc poco tempo prima e aveva visto le rovine incaiche di Espiritu Pampa. Finalmente la mitica “Pampa dei Fantasmi” cominciava a prendere consistenza, ancorché continuassimo a dirci che già una volta, vicino a Huadquiña, un uomo “fidato” aveva affermato di aver visto con i propri occhi delle rovine «più belle di quelle di Ollantaytambo». Guzman non sembrava affatto temere Conservidayoc, come invece facevano gli altri indios. Per incoraggiarli, acquistammo una grossa pecora che, seduta stante, Guzman macellò: la carne sarebbe servita da viatico lungo il cammino. Erano le 12 del giorno seguente quando, arrivati tutti i portatori meno uno, partimmo per Conservidayoc. Ci avevano assicurato che per la prima giornata di viaggio avremmo potuto usare i muli. San Fernando, la nostra prima tappa, era a una dozzina di chilometri, giù nella boscosa e fitta valle di Pampaconas. Lasciato il villaggio, prendemmo per la montagna subito dietro la casa di Guzman, e seguimmo un incerto e periglioso sentiero lungo la cresta del monte. Le ultime piogge non avevano certo contribuito a rendere più agevole il cammino. I muli servirono ben poco, e ci toccò andare a piedi lungo quasi tutto il percorso. A causa della pioggia che continuava a cadere e della nebbia potevamo vedere ben poco del profondo canyon che si apriva sotto i nostri piedi, nel quale discendemmo, per più di mille metri attraverso le nubi, seguendo un ripidissimo sentiero a zig-zag, alla volta di una calda valle tropicale. Usciti dalle nubi ci trovammo nei pressi di un piccolo appezzamento di terreno coltivato e a due primitivi abituri, semplici rifugi che non meritavano neppure il nome di baite: quello era San Fernando. Sebbene lo spazio necessario per accamparci non superasse i tre o quattro metri quadrati, fu con difficoltà che riuscimmo a trovare una “radura” di tali dimensioni. C’eravamo da poco distesi nella nostra tenda, quando la terra tremò: un terremoto, che fu avvertito anche nelle due capanne degli indios che le abitavano, i quali si gettarono fuori dalle loro fragili dimore e si misero a gridare impauriti dal temblor. In realtà, anche se i tetti d’erbe e d’arbusti fossero rovinati loro addosso, come accadde durante la notte di temporale che seguì, essi non avrebbero corso pericolo alcuno; ma erano abituati alle mura di pietra e ai tetti d’embrici dei villaggi di montagna, dove talvolta il terremoto provoca seri danni, e pertanto si erano lasciati prendere dal terrore. Mi parve che si trattasse di una lieve scossa ondulatoria, in direzione estovest, della durata di non più di tre o quattro secondi, un rollio sotterraneo accompagnato da una decina di vibrazioni. Diverse settimane più tardi ci avvenne di soffermarci all’ufficio telegrafico di Colpani. L’operatore ci disse che egli aveva invece avvertito due scosse, la prima della quali aveva fatto cadere dei registri posti su un tavolo, mentre le mura ondeggiavano da nord a sud. E precisò che l’altra scossa, quella che avevamo avvertito noi, era stata la più leggera delle due. Dopo una notte di pioggia riprendemmo il cammino.

I nostri portatori erano capaci di sostenere circa 25 chili a testa. Mezz’ora di cammino ci portò a Vista Alegre, un altro piccolo appezzamento coltivato su una striscia alluvionale proprio alla curva del fiume. Di fronte a noi si levava ripidissima una montagna fitta di vegetazione, la cui vetta si perdeva fra le nuvole un miglio più su. Aggirando la montagna, il fiume volgeva ad ovest poi gradualmente tornava a nord; secondo le carte di Raimondi invece avrebbe dovuto scorrere verso sud. Entrammo in una densa giungla dove il cammino divenne sempre più difficile per i portatori. Strisciando sulle rocce, sotto i rami, sulla cresta di aspre rupi, su gradini tagliati nella terra o nella roccia, per un sentiero che una capra avrebbe evitato, ci aprimmo lentamente la via. Dato il caldo, l’umido e i frequenti e improvvisi rovesci di pioggia ci volle l’intero pomeriggio perché arrivassimo ad un’altra piccola radura chiamata Pacaypata. Qui, sul fianco di un colle, trecento metri sopra il fiume, i nostri uomini decisero di trascorrere la notte in un rifugio, una capanna lunga forse due metri e larga uno e mezzo. Il professor Foote ed io preferimmo scavarci con l’accetta, sul ripido declivio, una nicchia nella quale piantammo la tenda. La mattina dopo partimmo di buon’ora, ma dovemmo fare i conti con una serie infinita di salite e discese. Fummo costretti per due volte a superare le rapide del fiume su ponti primitivi, consistenti unicamente di alcuni tronchi legati insieme e poggianti su macigni sdrucciolevoli. I portatori soffrivano per il caldo: trasportare i carichi diveniva sempre più difficile. Verso l’una ci trovammo su un breve altipiano a 1500 m. di altezza, coperto da alberi, felci, rampicanti e arbusti d’ogni genere, al punto che non si riusciva a spingere lo sguardo per più di un paio di metri. Guzman ci disse che era meglio fare una piccola sosta: eravamo nel territorio de los salvajes, gli indios selvaggi che obbedivano solo a Saavedra e non vedevano di buon occhio gli intrusi. Lui personalmente non appariva molto spaventato; tuttavia, disse, era meglio mandare avanti uno dei portatori ad avvertire i selvaggi del nostro arrivo, e a dir loro che nutrivamo intenzioni amichevoli e non eravamo lì per assoldare raccoglitori di gomma; altrimenti, quelli avrebbero potuto attaccarci o nascondersi nel fitto della giungla. Secondo Guzman, non saremmo mai riusciti a scoprire le rovine senza il loro aiuto. Il portatore che venne scelto per andare in avanscoperta mostrò di non gradire affatto l’incarico; lasciato cadere il suo fardello, avanzò lentamente e cautamente lungo il sentiero, scomparendo ben presto alla nostra vista. Seguì una mezz’ora di tensione e di attesa, durante la quale facemmo mille previsioni circa le reazioni dei selvaggi all’annuncio del nostro arrivo e quelle del potente padrone della zona, quel Saavedra che ci era stato descritto immerso in lussi principeschi circondato da cinquanta servitori, e tutto preso a impartire ordini ai suoi mirmidoni per bloccare la nostra avanzata. Ed ecco, all’improvviso, un crepitio di rami spezzati e il rumore di un uomo in corsa. Sussultammo e istintivamente imbracciammo i fucili, pronti a far fronte a qualsiasi evenienza. Un istante dopo, dal folto emergeva il volto sorridente di un giovane mestizo peruviano, vestito all’europea, il quale annunciò di esser stato mandato in tutta fretta da Saavedra, che era suo padre, con l’incarico di porgerci il suo più cordiale benvenuto. La cosa ci sembrò, lì per lì, poco probabile, ma ci bastò poco per convincerci che non si trattava d’alcun tranello. E fu con un sospiro di sollievo che ci

convincemmo che nessuna freccia avvelenata sarebbe volata a colpirci dai macchioni circostanti. Raccolti i nostri bagagli, proseguimmo per il sentiero tracciato nella giungla attraverso boscaglie che diventavano sempre più profonde e oscure finché non scorgemmo nuovamente il sole, e ai nostri occhi sbigottiti apparve il verde intenso di una piantagione di canne da zucchero. Ancora poche centinaia di metri tra l’ondeggiare delle canne, e poi ci si parò davanti un grande e confortevole edificio, mentre lo stesso Saavedra ne usciva a darci il benvenuto con estrema semplicità e modestia. Non avevamo mai avuto la fortuna di incontrare un ometto più cordiale e pacifico. Ci guardammo attorno furtivamente, in cerca di famosi cinquanta servi selvaggi, ma tutto ciò che potemmo vedere fu la simpatica moglie indiana, tre o quattro ragazzini e un factotum indigeno dall’aria truce, probabilmente l’unico selvaggio presente. Chiedemmo al nostro ospite quale fosse il nome della piantagione. Ci disse che qualcuno la chiamava “Jesus Maria” – tale l’esclamazione che saliva alle labbra di chi la vedeva per la prima volta. Egli però gli aveva dato l’ibrido nome di Conservidayoc, poiché essa gli aveva assicurato il pane. La parola infatti significa ‘luogo in cui sei protetto dal pane’. E’ difficile descrivere le sensazioni che provammo quando, accettato l’invito di Saavedra di far della sua casa la nostra, ci sedemmo ad una tavola imbandita a mangiar pollo lesso, riso e manioca dolce. Saavedra ci assicurò che non soltanto metteva a nostra disposizione tutto quel che aveva, ma che avrebbe anche fatto il possibile per aiutarci a scoprire le rovine. Queste si trovavano, a suo dire, a Espiritu Pampa, più in basso nella valle, ed erano raggiungibili soltanto per mezzo di un sentiero adatto ai selvaggi, che se ne vanno scalzi, mentre per noi sarebbe stato più difficile arrivarvi, a meno che non ci fossimo rassegnati a compiere buona parte del cammino procedendo a quattro gambe. La piantagione di Saavedra, di terra fertilissima, produceva più canna da zucchero di quanta egli non ne potesse macinare. Inoltre, vi crescevano banane, caffè, patate dolci, tabacco e noccioline. Saavedra non era affatto «un potentissimo capo che comandava molti indiani», ma semplicemente un coraggioso pioniere. Aveva stabilito la propria dimora nel più profondo della foresta, lontano dalla civiltà, circondato dalla giungla, avendo per compagni solo pochi selvaggi. Non era una specie di gran capo indiano, ma solo un coltivatore, energico e di poche parole, che sapeva fare di tutto: in una parola, un buon diavolo di peruviano del migliore stampo. Presso la macina per la canna di zucchero, c’erano alcune grandi anfore di bellissima fattura, senza dubbio incaiche, che Saavedra usava per bollire la pasta e ottenere lo zucchero grezzo. Disse che le aveva trovate nella giungla non molto distante di lì. Quattro di esse erano del tipo “aryballus”. Un’altra era di tipo affine, con una imboccatura larga, la base a punta, decorazioni semplici a forma di testa d’animale stilizzata, e manici larghi attaccati verticalmente al di sotto del punto mediano. Un grosso recipiente aveva una capacità di almeno 45 litri, e che tuttavia si poteva comodamente portare a spalla mediante una fune passata attraverso ai manici e al beccuccio. Saavedra disse che vicino a casa sua aveva trovato numerose urne funerarie a forma di anfora, nascoste da mucchi di sassi e coperte da una lastra di

pietra: le ossa però erano scomparse. Il coperchio di una delle tombe era stato forato, e il buco ricoperto con una sottile lamina d’argento battuto. Saavedra aveva trovato anche qualche utensile di pietra e due o tre asce di bronzo arcaico. Bronzi e vasellame testimoniavano, al di là d’ogni dubbio, che in questa umida foresta una volta erano vissuti degli Inca. Lasciammo finalmente Conservidayoc, e prendemmo per il sentiero che intanto il figlio di Saavedra e i nostri indios avevano reso praticabile. Emergemmo dal folto, per trovarci su uno sprone roccioso dal quale si godeva la vista della vallata sottostante con un bosco e una distesa alluvionale – il villaggio indiano di Espiritu Pampa, ‘La Pampa dei Fantasmi’: si potevano distinguere chiaramente due o tre appezzamenti coltivati e le piccole capanne a pianta ovale degli indigeni. Sulla vetta dello sprone s’ergevano le rovine di una piccola costruzione rettangolare di pietra grezza, probabilmente una torre di guardia incaica. Scendemmo lungo un’antica gradinata di pietra, larga poco più di un metro e lunga forse quattrocento, fatta di pietre non squadrate: probabilmente un’opera militare, compiuta dai soldati di Titu Cusi che vigilavano dall’alto della roccia. Eravamo appena giunti ai coltivi, allorché scoppiò un temporale di inaudita violenza. Le capanne erano vuote, ma noi esitavamo a metter piede nella dimora di un indio selvaggio senza essere stati invitati a farlo. E tuttavia gli scrosci di pioggia, i lampi e i tuoni sopraffecero ogni nostro scrupolo. La capanna in cui entrammo aveva il tetto di foglie e di sterpi, in forte pendenza; le pareti erano costituite di grossi tronchi piantati in terra e legati strettamente insieme con liane e altri rampicanti. Sul pavimento era stato acceso un piccolo fuoco; vicino alle braci, due vecchissime ollas nere di origine incaica. Nel piccolo podere crescevano, nei brevi spiazzi che restavano tra i ceppi carbonizzati o divelti a mezzo, cassava, coca e patate dolci. Nei pressi delle capanne si vedevano le rovine di una ventina di edifici a pianta circolare, raggruppati irregolarmente. Ci chiedemmo se per caso non fosse quella la “città Inca” di cui ci aveva parlato Lopez Torres. Ma esse sembravano piuttosto le rovine delle dimore dei fieri Antis, presso i quali Rodríguez de Figueroa ritrovò Titu Cusi. All’improvviso, mentre ci stavamo chiedendo se veramente gli Inca avessero mai abitato quel luogo, apparve sull’uscio la figura seminuda di un giovane e gagliardo selvaggio armato di arco e frecce, vestito di un perizoma di foglie di bambù. Era stato a caccia e ci mostrava un uccello che aveva colpito. Subito dopo arrivarono due selvaggi adulti, che avevamo già visti da Saavedra, accompagnati da un loro amico con gli occhietti storti; questi indossavano lunghe tute. Si offrirono di guidarci a vedere altre rovine. Per noi fu molto difficile seguirne i rapidi passi. Dopo circa mezz’ora che arrancavamo per la giungla, pervenimmo a una terrazza naturale posta sulle rive di un piccolo affluente del Pampaconas che si chiamava, ci fu detto, Eromboni Pampa. Rinvenimmo le tracce di numerose terrazze artificiali e le rozze fondamenta di un edificio rettangolare lungo 64 m. Le opere murarie non erano alte più di 30 cm, e all’ingiro si vedeva ben poco materiale da costruzione. L’edificio, dunque, non era mai stato terminato. Nei pressi c’era una tipica fontana incaica con tre bocche. Duecento metri più in là, celate da una cortina di rampicanti penduli e di cespugli, così fitti che non era possibile vedere nulla alla distanza di più di mezzo

metro, ci apparvero, mostrateci dai selvaggi, le rovine di un gruppo di case incaiche in pietra, dalle mura ancora in ottime condizioni. Queste erano di pietra grezza, senza alcuna decorazione. Come in certe costruzioni incaiche di Ollantaytambo, gli architravi delle porte erano fatti di tre o quattro stretti blocchi non squadrati. Nascosta a mezzo sotto una terrazza artificiale, v’era una fontana con un becco di scarico anch’esso in pietra; il bacino era fatto pur esso di pietre accostate esattamente l’una all’altra. La forma delle case, la loro disposizione, le nicchie, gli architravi e i puntelli di pietra del tetto, tutto stava a indicare che i costruttori erano stati Inca. Negli edifici, poi, numerosi erano i frammenti di vasellame incaico. Il giorno dopo, guidati dal giovane e dinamico figlio di Saavedra, i selvaggi e i nostri portatori si diedero a ripulire con energia le rovine di Eromboni Pampa dall’intricata vegetazione che vi era concresciuta sopra e attorno. Durante questo lavoro, con nostra e loro sorpresa, scoprirono, proprio nelle vicinanze della piccola fontana, le rovine ben conservate di due edifici incaici costruiti con molto maggior cura degli altri, muniti di pioli di pietra per i tetti e di nicchie simmetricamente disposte; erano eretti su una piccola terrazza artificiale, e nel loro interno trovammo frammenti di vasellame oltremodo caratteristico. Nulla può dar meglio l’idea della densità della giungla di questo particolare: si pensi che gli stessi selvaggi si erano trovati spesso a pochi centimetri di distanza da queste belle mura senza neppure sospettarne l’esistenza. Incoraggiati dalla scoperta di queste che erano senz’altro le più belle rovine incaiche esistenti in tutta la vallata, continuammo l’esplorazione, ma tutto ciò che riuscimmo a scovare fu un ponte di pietra di accurata fattura. Il figlio di Saavedra interrogò a fondo i selvaggi: risposero che non sapevano di altre rovine. Mi pare vi siano tutte le ragioni per ritenere senz’altro che queste rovine siano quelle di una delle residenze favorite di Tito Cusi: può trattarsi della località da cui l’Inca partì per incontrarsi con Rodrìguez nel 1565. Le case sono di modello incaico piuttosto tardo, del tipo che non richiedeva molto tempo per essere costruito. Gli edifici non terminati può darsi che fossero in costruzione durante l’ultimo periodo del regno di Titu Cusi. Chi eresse i migliori edifici di Eromboni Pampa? E questa era forse la Vilcabamba Vieja di padre Calancha, quella «Università dell’Idolatria dove vivevano i maestri di stregoneria e di abominazione», il luogo in cui frate Marcos e frate Diego giunsero al termine di estenuanti sofferenze? C’era da quelle parti un luogo chiamato Ungacacha, che i monaci dovettero attraversare a guado, divertendo Titu Cusi allorché sollevarono, per farlo, le loro lunghe tonache? I frati avevavo riferito che il luogo si trovava «a tre giorni di marcia in un’aspra regione». Calancha afferma che Puquiura si trovava «a due lunghi giorni di viaggio da Vilcabamba». E’ vero che la regione era selvaggia, ma a noi erano occorsi ben cinque giorni per andare da Espiritu Pampa e Puquiura, e poi non sembrava ragionevole ammettere che i sacerdoti e le Vergini del Sole (il personale della “Università dell’Idolatria”) che fuggirono con Manco dalla fredda Cuzco per stabilirsi con lui nella sicura Vilcabamba, amassero vivere in questa torrida vallata; la differenza climatica è paragonabile a quella che esiste tra la Scozia da un lato, e l’Egitto dall’altro. E ad Espiritu Pampa, Manco e i suoi non avrebbero

neppure trovato il cibo che era loro congeniale. Senza contare che avrebbero potuto trovare in molte altre parti della provincia la solitudine e la sicurezza che cercavano, oltre beninteso a un clima più mite e confacente e ai cibi più appetibili ai loro palati. Infine, Calancha dice che «Vilcabamba Antica» era «la città più grande» della provincia, affermazione che non s’adattava in nulla al luogo da noi scoperto. D’altra parte pareva non esserci dubbio che Eromboni Pampa e la valle di Pampaconas corrispondessero alle descrizioni del luogo detto, dai compagni di capitan Garcia Vilcabamba, la città e la valle in cui si era rifugiato Tupac Amaru, l’ultimo Inca, dopo che le sue forze avevano abbandonato la “giovane fortezza” di Vitcos. Nel 1572, quando capitan Garcia si mise sulle tracce di Tupac Amaru, l’Inca fuggì «all’interno, verso la valle di Simaponte… sino alla regione degli Indiani Manaries, una tribù guerriera e amica dove erano pronte balsas e canoe per dargli la possibilità di continuare la fuga e mettersi in salvo». Ora, da queste parti, non c’è nessuna valle che porti il nome di Simaponte, e i Manaries vivono sulle rive dell’Urubamba inferiore. Per raggiungerne la regione, Tupac Amaru probabilmente discese il corso del Pampaconas. Dalla “Pampa dei Fantasmi” sarebbe stato, navigando con le canoe, un viaggio relativamente breve. Evidentemente gli amici che lo aiutarono a fuggire erano uomini pratici del fiume. Capitan García, narrando l’inseguimento di Tupac Amaru, dice che, per nulla scoraggiato dai pericoli della giungla e del fiume, egli costruì cinque zattere sulla quali s’imbarcò con alcuni dei suoi soldati, e scese le rapide fuggendo spesso alla morte di stretta misura, finché non arrivò ad un luogo chiamato Momori, dove si rese conto che l’Inca, avvertito del suo arrivo, si era inoltrato ancor più profondamente nella foresta. Per nulla demoralizzato, anche se ora egli e i suoi uomini erano costretti a procedere a piedi nudi e senza nulla con cui sfamarsi, poiché avevano perduto nel fiume le provviste, García inseguì l’Inca e finalmente lo raggiunse: dura fine di una terribile caccia, estenuante per l’uomo bianco e fatale per l’Inca. E’ dubbio che Tupac Amaru gradisse un cibo come la carne di scimmia, che gli Indiani del Rio delle Amazzoni gustano volentieri ma che gli abitanti degli altipiani disprezzano. Garcilaso dice che Tupac Amaru preferì affidarsi agli Spagnoli «piuttosto che morire di fame». I suoi alleati vivevano bene in una regione in cui le scimmie abbondano. Se fossero stati in grado di fornire a Tupac Amaru il cibo al quale l’Inca era abituato, difficilmente questi sarebbe caduto nella mani di capitan García. In ogni caso, la nostra esplorazione sembrò confermare l’ipotesi che questa valle costituisse una parte importante del dominio degli ultimi Inca. Sarebbe stato interessante procedere oltre, ma i portatori erano ansiosi di tornare a Pampaconas. Non erano costretti a mangiare carne di scimmia, ma in compenso avevano una dannata paura dei selvaggi: ignoravano quale uso avrebbero fatto questi dei loro solidi archi e delle loro lunghe frecce avvelenate. A Conservidayoc, Saavedra volle assolutamente fare un po’ di zucchero per noi. Versò lo sciroppo nelle forme oblunghe, scavate in un grosso ceppo di legno duro. In alcune delle forme, il figlio mise qualche manciata di noccioline perfettamente

arrostite. Ne risultò una razione d’emergenza, che gradimmo molto per il nostro viaggio di ritorno. A San Fernando ritrovammo la nostra piccola carovana e il giorno seguente, in mezzo alla nebbia e sotto continui piovaschi, ci arrampicammo dalla calda vallata sino alle fredde cime del Pampaconas. Eravamo zuppi di sudore, fradici di pioggia. Presso il villaggio era caduta la neve: i nostri denti battevano come nacchere. Il professor Foote comandò a Guzman di accendere un fuoco e vi mise sopra un pentolino per il tè. Dubito che mai prima d’allora un gruppetto di gente altrettanto malconcia, infreddolita, zuppa d’acqua e sporca di fango, si fosse riunito nella capanna di Guzman; certamente nessuno aveva mai gustato niente di meglio di quel tè fumante, caldo e dolce. L’AOBAMBA Sapevamo che gli Inca si erano rifugiati nella Cordillera Vilcabamba, e pensavamo d’aver reperito e identificato la maggior parte delle località menzionate nelle cronache del tempo; ma, per eliminare ogni dubbio in proposito, era necessario scandagliare la regione il più a fondo possibile. Chiesi pertanto ad uno dei miei giovani tecnici di tracciare una cartina archeologica e topografica della valle dell’Aobamba, tuttora inesplorata. Se ne assunse l’incarico Heald, l’assistente topografo, prendendo in considerazione la zona compresa fra l’inizio della valle ed il punto di incrocio dei fiumi Aobamba e Urubamba. Devo dire che incontrò subito difficoltà pressoché insuperabili. Giudicando dall’inizio della valle, il lavoro sembrava facile; ma dopo tre o quattro miglia la giungla diventava quasi impenetrabile: la vegetazione era così fitta che perfino l’osservazione diventava impossibile. In un intero pomeriggio di duro lavoro, e con quattro o cinque uomini a disposizione, Heald riuscì ad avanzare di un paio di chilometri al massimo. Nella porzione di valle che Heald riuscì a percorrere pareva ci fosse ben poco di interesse archeologico. E tuttavia dieci giorni più tardi mi inoltrai nella valle sino ai limiti raggiungibili e scoprii per caso certe rovine oltremodo interessanti. Le cose andarono così: Don Tomàs Alvistur di Huadquina, appassionato di archeologia, si interessava moltissimo al nostro lavoro, e quando seppe che alcuni dei suoi indios sapevano di tre località in cui si trovavano rovine incaiche, mai prima visitate da uomini bianchi, sembrò impazzire di gioia. M’invitò ad accompagnarlo a visitarle, ma quando arrivò il momento di partire mi disse che “per questioni d’affari” gli era impossibile far di più che accompagnarmi per parte del viaggio sino al primo gruppo di rovine. Comunque si preoccupò di fornirmi tre guide indiane e alcuni portatori, dando loro ordine di scortarmi sino alle rovine e lungo tutta la strada del ritorno. Partiti da Huadquina, verso sera scorgemmo le prime rovine incaiche oltre a un paio di capanne moderne. Dissero gli indios che il posto si chiamava Llacta Pata. Ma era un termine puramente descrittivo, in quanto llacta significa ‘città’ e pata ‘altura’. Evidentemente, qualche capo incaico vi aveva costruito la propria dimora, composta da una decina di edifici.

Erano edifici di pietre grezze tenute insieme da creta, con la solita disposizione simmetrica di porte e nicchie. Potevano benissimo essere state erette da uno dei capitani di Manco, perché si trovavano in posizione strategica. Il giorno seguente superammo un alto valico e discendemmo fino a fondo valle. Vi trovammo due o tre capanne, una delle quali situata nel mezzo di una fortezza in rovina, una costruzione di grande interesse cui gli Indiani avevano dato il nome quechua di “città”: Llacta. Poiché una fortezza posta al fondo di una valle non è facilmente difendibile, gli Inca avevano costruito, tutt’intorno al gruppo rettangolare delle case, un muro di circa tre metri e mezzo di altezza. Le caratteristiche degli edifici erano chiaramente incaiche. Il castello, se così possiamo chiamarlo, misurava circa 45 metri quadrati e appariva diviso in quattro quartieri identici da due strette vie che s’incrociavano al centro. Due di questi quartieri erano stati completati, e consistevano in cinque case disposte in modo simmetrico attorno ad un cortile; il terzo era quasi completo, mentre nel quarto solo due o tre case erano state iniziate. Ciascuno dei quattro quartieri aveva un’unica porta d’ingresso sul lato nord. Le zanzare della zona erano ferocissime, e resero estremamente difficile il lavoro di misurazione delle rovine e il tracciamento delle mappe. L’aspetto più notevole di questa piazzaforte incaica è che le strade corrono esattamente da nord a sud e da est a ovest. Queste rovine si trovano nell’emisfero meridionale, in cui la Stella Polare non è visibile: eppure la strada segue esattamente l’andamento del meridiano. Come avevano fatto i costruttori? L’indomani trovammo le rovine di un villaggio; a giudicare dall’aspetto, non poteva essere stato una località di molta importanza, ed era impossibile giudicare se fosse stato occupato o meno dalla conquista spagnola in poi. Neppure la guida fu in grado di dare un nome al villaggio. Proseguimmo tra grandi difficoltà lungo un sentiero coperto di neve, penetrando infine entro una nuova valle proprio mentre il sole volgeva al tramonto. Era quello il letto di uno dei rami superiori del fiume Chamana, tributario dell’Urubamba; scoprimmo qui numerosi gruppi di rovine incaiche non indicate in nessuna carta. Dovevano essere quelle le rovine cui alludevano gli Indiani, dicendo a Don Tomàs da Huadquina d’essere in grado di mostrarcene «tre gruppi, mai visti prima dagli uomini bianchi». Presso queste rovine gli Inca, allo scopo di riservare alle colture quanto più terreno possibile del fondovalle, avevano deviato il corso di un torrente tutto curve, costringendolo in un canale in muratura che procedeva diritto per circa un chilometro e mezzo. L’escursione e la conseguente scoperta di rovine non ancora descritte, diede risultati pratici eccellenti, perché dimostrò una volta di più che gli Inca avevano occupato, nella Cordillera Vilcabamba, tutto il terreno utilizzabile. Ma Vilcabamba, la “città principale” di Manco e dei suoi figli, non l’avevamo ancora scoperta.

Parte Terza

MACHU PICCHU

LA SCOPERTA Come si ricorderà, fu nel luglio del 1911 che, assieme al mio amico professor Harry Ward Foote della Yale University, biologo della spedizione, e del mio antico compagno di scuola dottor William G. Erving, medico della spedizione, penetrai nel meraviglioso canyon dell’Urubamba fino ai piedi della fortezza incaica di Salpunco, nei pressi di Torontoy. Qui il fiume abbandona il freddo altipiano e insinua il suo rapido corso tra enormi montagne di granito. La strada corre per una regione d’incomparabile bellezza, dove la maestà delle Montagne Rocciose si sposa all’incanto dei picchi hawaiani per la

varietà e grandiosità dei paesaggi. Non conosco luogo del mondo paragonabile a questo: vi si trovano altissime cime nevose sempre incappucciate da nubi, precipizi immani di granito multicolore che sprofondano per centinaia e centinaia di metri verso schiumanti rapide ruggenti e, in stridente contrasto con tanta rude bellezza, la grazia di felci e orchidee, la stupenda esuberanza della vegetazione tropicale, i misteriosi recessi della giungla; mille sono le sorprese che attendono chi proceda lungo una profonda gola contorta, ai piedi di vette d’incredibile altezza. S’aggiunga a tutto ciò il fascino di ritrovare, sotto le liane oscillanti, appollaiati sulla cima di uno sperone roccioso, i superbi avanzi di una civiltà scomparsa. E il viaggiatore si sforza di decifrare il mistero degli antichi costruttori che, secoli addietro, cercarono rifugio in una regione la quale sembra esser stata espressamente disegnata dalla natura a fungere da santuario e rifugio per gli oppressi, un luogo in cui potessero pazientemente e senza tema alcuna esprimersi in un linguaggio architettonico di eterna bellezza. Non v’è lingua che possa ridire esattamente la perenne mutevolezza dei panorami, l’esuberanza della flora tropicale, la fuga inarrestabile di terrazze, rupi torreggianti, ghiacciai che brillano improvvisi negli squarci delle nubi. Si ricorderà che, dopo aver oltrepassata La Maquina, eravamo sboccati in una piccola pianura chiamata Mandor Pampa. Eccetto il punto in cui, ai limiti di essa, rumoreggiavano le rapide, gi ganteschi burroni la limitavano da ogni lato. Rieccoci alla pianura. Oltrepassammo una capanna modestissima, informe, dal tetto di foglie, attraversammo un piccolo coltivo, e piantammo le nostre tende sulla riva del fiume, sopra uno spiazzo sabbioso. Di fronte a noi, oltre gli immensi massi di granito che contrastavano l’avanzare della corrente del fiume, la ripida montagna era rivestiva di fitta giungla. Poiché eravamo presso la strada, ma protetti dalla curiosità di chiunque vi passasse, il luogo ci sembrò ideale per mettervi l’accampamento. I nostri movimenti, però, destarono i sospetti del proprietario della capanna, un certo Melchor Arteaga, affittuario delle terre della Mandor Pampa. Egli era ansioso di sapere come mai, al pari di altri rispettabili viaggiatori, non ci eravamo fermati alla sua “locanda”. Per fortuna il prefetto di Cuzco ci aveva dato una scorta armata che parlava quechua. Il nostro gendarme, il sergente Carrasco, andò a rassicurare il tenutario della locanda, e i due ebbero una conversazione lunghissima. Quando Arteaga apprese che eravamo interessati ai resti archeologici degli Inca, e che eravamo alla ricerca del palazzo dell’ultimo di essi, disse che nei paraggi c’erano diverse rovine molto belle: alcune, magnifiche, sulla vetta della montagna che avevamo di fronte, Huayna Picchu, e altre su una cresta chiamata Machu Picchu. L’alba del 24 luglio spuntò mentre cadeva una pioggerella gelida. Arteaga batteva i denti, e sembrava assai poco disposto ad abbandonare la sua capanna. Gli promisi una generosa ricompensa se mi avesse portato alle rovine; esitò, disse che era una salita troppo dura per una giornata così umida. Ma, poiché gli offrivo un sol (dollaro peruviano d’argento), cioè tre o quattro volte la normale ricompensa locale per una giornata di lavoro, accettò di mettersi in cammino. Gli chiesi dove si trovassero con precisione le rovine, e mi indicò la vetta della montagna. Nessuno di noi pensò che

potessero essere particolarmente interessanti, e nessuno quindi se la sentì di venire con me. Il biologo disse che aveva visto molte farfalle vicino al fiume e che era certo di poter catturare delle varietà nuove; il medico disse che doveva farsi un bagno e rammendarsi la biancheria. Il compito di esplorare le nuove rovine, e di tentare per l’ennesima volta di scoprire la capitale degli Inca, toccava dunque a me. Così, accompagnato soltanto dal sergente Carrasco, lasciai il campo alle dieci. Arteaga ci precedeva. Sulla strada trovammo un serpente che era stato appena ucciso, e Arteaga ci disse che la regione era uno dei luoghi di ritrovo favoriti delle vipere. Venimmo a sapere che nei dintorni il “ferro di lancia” o vipera gialla, serpente velenosissimo, capace di compiere balzi di un paio di metri quando insegue la preda, non è affatto raro. Dopo aver camminato per tre quarti d’ora, Arteaga lasciò il sentiero e, addentrandosi nella giungla, si diresse verso la riva del fiume. Qui c’era un ponte primitivo che superava la tumultuosa corrente nel punto più stretto, dove l’acqua era costretta a fluire fra due grandi massi. Il “ponte” era composto da una mezza dozzina di esili tronchi, alcuni dei quali, non essendo neppure lunghi abbastanza per superare la distanza fra i due massi, erano stati collegati fra loro per mezzo di rampicanti. Arteaga ed il sergente si tolsero le scarpe e strisciarono sul ponte con grande precauzione, tenendosi saldamente per non finire nella corrente sottostante. Era ovvio che nessuno poteva pensare di sopravvivere un solo istante in quelle gelide rapide: l’acqua lo avrebbe immediatamente scaraventato contro le rocce. Quanto a me, passai il ponte a quattro gambe, procedendo centimetro per centimetro. Anche sull’altra sponda mi rifiutai di pensare a quel che sarebbe accaduto al “ponte”, qualora sulla valle si fosse scatenato un temporale più violento del solito. Durante la notte era caduto qualche decimetro di pioggia, e già il fiume si era gonfiato al punto di minacciare quasi la fragile passerella con la sua corrente strepitosa. Se proprio quel giorno l’avesse trascinata via, la situazione si sarebbe fatta tutt’altro che allegra. In realtà, la cosa si verificò pochi giorni dopo, e quando altri tentarono di varcare il fiume in quel punto, non trovarono che un unico misero tronco superstite. Lasciato il fiume ne risalimmo con difficoltà la sponda attraverso la giungla e in poco tempo giungemmo al piede di un pendio rapidissimo. Ci arrampicammo con fatica per un’ora e venti. Buona parte del percorso dovemmo compierla procedendo a quattro zampe, talvolta persino adunghiandoci al terreno. Qua e là qualche scalino primitivo fatto di tronchi rozzamente tagliati, era posto in modo da aiutare l’ascesa nei punti particolarmente ripidi. In qualche momento il pendio era coperto da erbe scivolose, ed era difficilissimo trovare un qualsiasi appiglio. Arteaga borbottava, diceva che quei posti erano zeppi di vipere; il sergente Carrasco non diceva nulla, ma era evidentemente lieto d’avere dei buoni scarponi militari. L’umidità era fortissima; ci trovavamo nella zona di massima precipitazione dell’intero Perù orientale; il calore era estenuante, e io non ero allenato alla montagna. Da qualunque parte si guardasse, non si vedevano né rovine né andénes: cominciavo a pensare che la decisione presa dai miei compagni fosse più saggia della mia. Mezzogiorno era passato da poco, e noi ci sentivamo ormai com

pletamente esausti, quando raggiungemmo una piccola capanna coperta d’erba, a un migliaio di metri sopra il fiume, dove numerosi e pacifici indios, piacevolmente sorpresi dal nostro inaspettato arrivo, ci diedero il benvenuto con stillanti zucche piene d’acqua deliziosamente fresca. Ci misero quindi davanti alcune patate dolci bollite. A quanto pareva, due capi famiglia indiani aveva no scelto questo nido d’aquile per loro dimora. Si chiamavano Richarte e Alvarez; ci dissero che lì attorno c’erano molte terrazze dove poter coltivare i loro raccolti. Ridendo, ammisero che amavano essere liberi e lontani da visitatori troppo curiosi, quali funzionari in trasferta per reclutare “volontari” o riscuotere tasse. Richarte disse che erano già quattro anni che vivevano lassù con le loro famiglie. Probabilmente il canyon, per la sua inaccessibilità, era rimasto disabitato da diversi secoli, ma col completamento della nuova strada governativa i coloni avevano ricominciato a occupare questa regione. Col tempo, qualcuno si era arrampicato per questi precipizi e aveva trovato, sui declivi a un’altezza di 3000 metri, parecchi appezzamenti di suolo ricco e convenientemente situato su terrazze artificiali, e un clima ideale. Gli indios avevano ripulito le terrazze, bruciando le erbacce e gli arbusti, e vi avevano piantato granturco, patate e batate, canna da zucchero, fagioli, piante di pepe, pomodori e ribes. Dissero che per giungere lì c’erano due vie. Di una avevamo già fatto l’esperienza, l’altra, affermarono i nostri ospiti, era «ancor più difficile»: un pericoloso sentiero proprio sull’orlo di uno strapiombo roccioso, dall’altra parte della cresta, e questo rappresentava la loro unica via di contatto col mondo durante la stagione delle piogge, quando non si poteva assicurare la praticabilità del ponte primitivo su cui eravamo passati poche ore prima. Non mi sorpresi quindi affatto quando li udii dire che non si allontanavano da casa più di «una volta al mese». Per mezzo del sergente Carrasco venni a sapere che le rovine erano «un po’ più in là». In questo paese non si può mai dire quale significato preciso sia da attribuire all’espressione e se una affermazione del genere risponda comunque al vero con una certa approssimazione. «Può darsi che abbia mentito», è la nota da opporre, e non solo al Perù, ad ogni affermazione basata sul sentito dire. Di conseguenza non ero particolarmente interessato né avevo troppa fretta di ripartire. Il calore era tuttora intenso, l’acqua che sgorgava dalla sorgente indiana era fresca e deliziosa, e la rustica panca di legno, ospitalmente ricoperta da un soffice poncho di lana, mi appariva estremamente confortevole. Inoltre, il panorama era semplicemente superbo. I paurosi burroni d’un verde cupo precipitavano sino alla bianche rapide dell’Urubamba. Proprio di fronte, sul lato nord della valle, un grande picco di granito si levava verticale per quasi mille metri. A sinistra si scorgeva la vetta solitaria di Huayna Picchu, circondata da strapiombi che apparivano inaccessibili. Da ogni lato rupi rocciose e al di là di esse, montagne ancora più alte, incappucciate di neve e coronate dalle nuvole. Noi continuavamo a tessere le lodi del meraviglioso panorama del canyon, ma le uniche rovine che potevamo scorgere dal nostro quieto rifugio non erano che poche terrazze artificiali.

Senza nutrire alcuna speranza di trovare qualcosa di meglio che due o tre case di pietra, sul tipo di quelle incontrate in vari luoghi sulla strada fra Ollantaytambo e Torontoy, lasciai alla fine la fresca ombra della piacevole capanna, e mi arrampicai sulla cresta fino ad un certo sprone roccioso. Melchor Arteaga «c’era già stato un’altra volta», e così decise di riposarsi mettendosi a chiacchierare con Richarte e Alvarez. A farmi da guida, questi due mandarono con me un ragazzino. Il sergente aveva il dovere di seguirmi, e lo fece, ma ebbi l’impressione che fosse ben poco curioso di veder quel che c’era da vedere (semmai c’era). Tra mille difficoltà, riuscimmo ad aggirare lo sperone, e subito mi trovai di fronte uno spettacolo veramente inatteso: una serie di terrazze, limitate da mura di pietra e perfettamente costruite; forse cento, e ognuna di esse lunga una trentina di metri e più alta di tre. Gli indios le avevano di recente riconquistate, strappandole alla giungla. Una vera foresta di grandi alberi, cresciuta su di esse per secoli, era stata estirpata e in parte arsa per far posto ad appezzamenti di terreno coltivo. Il compito era stato talmente arduo per i due indiani, che tre tronchi erano stati abbandonati dov’erano caduti, e solo i rami più piccoli erano stati rimossi. Ma l’antico humus fissato lassù con tanta cura dagli Inca, era ancora in grado di produrre ricchi raccolti di granturco e patate. Nei pressi, tuttavia, non v’era null’altro di particolare interesse. Serie simili di terrazze ben costruite si possono vedere anche nella valle dell’Urubamba superiore, a Pisac e Ollantaytambo e così pure a Torontoy. Seguimmo quindi con rassegnata pazienza la nostra piccola guida lungo una delle terrazze più ampie, dove una volta c’era stato un piccolo canale, aprendoci la strada attraverso il fitto. E, all’improvviso, mi trovai di fronte le mura di alcune case in rovina che mi parvero subito da classificare fra i migliori esempi di architettura incaica. Era difficile scorgerle bene, parzialmente coperte com’erano dagli arbusti e dal muschio concresciuti per secoli, ma nell’ombra fitta dei folti gruppi di bambù e del groviglio di rampicanti, trasparivano massi di candido granito, perfettamente squadrati e connessi con estrema esattezza. Strisciammo nel denso sottobosco, ci arrampicammo per le terrazze e tra i macchioni dove la nostra piccola guida avanzava molto più facilmente di quanto non potessi fare io. Assolutamente inattesa, sotto un’enorme prominenza rocciosa, il ragazzo mi mostrò una grotta stupendamente rivestita di bellissime pietre: si trattava, evidentemente, di un mausoleo regale. Sulla vetta della prominenza, poggiava un edificio semicircolare, le cui mura esterne legger mente inclinate e dalle dolci curve, rassomigliavano assai da vicino a quelle del famoso Tempio del Sole di Cuzco, e tale poteva essere anche questo. L’andamento della costruzione seguiva la curvatura naturale della roccia, cui aderiva per mezzo di uno dei migliori esempi di opera muraria incaica che avessi mai visto. L’intero complesso era racchiuso da un altro muro di cinta fatto di blocchi di puro granito bianco, tutti delle stesse dimensioni e scelti fra quelli di grana più fine. Era senza dubbio opera di un artista. La superficie interna del muro appariva interrotta da nicchie e da mensole di pietra a sezione quadrata. La superficie esterna invece era perfettamente liscia e disadorna. La base fatta di pietre più grandi conferiva all’intero complesso

un’aria di estrema solidità. Le pietre della parte alta, diminuendo sempre di più di dimensioni man mano che si avvicinavano al limite superiore, conferivano grazia e leggerezza alla struttura. Le linee eleganti, la disposizione simmetrica dei blocchi di pietra, la sequenza digradante dei corsi, tutto contribuiva a produrre un magnifico effetto, e la struttura risultava assai più leggera e gradevole all’occhio che non i templi marmorei del Vecchio Mondo. Poiché non era stata usata calce, tra blocco e blocco non restavano quelle lacune che tanto guastano altre rovine. In quella fortezza di granito bianco, la struttura superava in bellezza le migliori opere murarie di Cuzco che per secoli avevano destato la meraviglia di tanti visitatori. Pareva un sogno, non riuscivo a credere ai miei occhi, mi dicevo che questo muro e il tempio circolare posti sopra il recesso destinato al mausoleo, fossero le più belle opere murarie del mondo. Avevo un nodo alla gola. Cos’era quel luogo? E come mai nessuno, finora, ne aveva mai sospettato l’esistenza? Dal canto suo, Arteaga non pareva molto entusiasta: non mostrava di apprezzare troppo le rovine che Richarte e Alvarez avevano scelto come loro esclusivo podere. Forse, dopo tutto, si trattava solo di una piccola località isolata, sfuggita a ogni ricerca per la sua inaccessibilità. Il ragazzo ci indusse ad arrampicarci su per un rapido colle, sul quale pareva ci fosse una gradinata di pietra. A una sorpresa, in quel luogo, ne seguiva subito un’altra: si trattava davvero di una larga scalea composta da grandi blocchi di granito, alla quale faceva seguito un sentiero che menava a una piccola radura in cui gli indios avevano seminato un giardino. E d’un tratto ci trovammo di fronte alle rovine di due tra i più superbi e interessanti edifici – due templi – dell’America precolombiana: mura di stupendo granito bianco, in blocchi di proporzioni ciclopiche, più alti di un uomo. Uno spettacolo da lasciare a bocca aperta. Ogni edificio aveva solo tre pareti, la quarta mancava ed era sostituita da un’ampia apertura. Il tempio principale aveva mura di quattro metri d’altezza e in ogni muro erano allineate nicchie squisitamente rifinite, cinque delle quali a una certa altezza sulle pareti di fianco e sette su quella di fondo. Le pareti di fianco erano composte da sette file di blocchi. Sotto le sette nicchie del retro, c’era un blocco rettangolare, lungo quasi cinque metri, forse un altare per i sacrifici, ma più probabilmente un trono per le mummie degli Inca defunti, qui deposte per essere adorate. L’edificio non mostrava di aver avuto un tetto: il corso più alto di quei blocchi perfettamente levigati non era fatto per essere schiacciato da un tetto, ma per permettere al sole di entrare liberamente in quel tempio. Esaminavo i blocchi più grandi della fila inferiore, stimandone il peso sulle dieci, quindici tonnellate, e mi chiedevo chi mai avrebbe creduto alla realtà di quella mia scoperta. Fortunatamente, in questa terra in cui la precisione delle descrizioni di ciò che uno ha visto non è una caratteristica peculiare dei viaggiatori, avevo con me una buona macchina fotografica e il sole splendeva alto nel cielo. Il tempio principale è rivolto a sud e dà su una piccola piazza o cortile che fosse. Sul lato orientale dello spiazzo, s’erge un’altra meravigliosa costruzione: le rovine di un tempio con tre grandi finestre aperte sul canyon, in direzione del sole sorgente: un edificio unico nel suo genere, come del resto gli edifici che lo circondano e che, per eleganza di disegno e finezza di esecuzione, non hanno paragone tra i resti della

civiltà incaica. Le tre finestre del tempio erano molto larghe, in verità troppo larghe per servire a uno scopo pratico, e apparivano costruite con perfetto senso della misura. Era quello evidentemente un edificio adibito a cerimonie particolari. Per quanto ne so, in nessun’altra parte del Perù esiste una struttura simile, “un muro di pietra con tre finestre”. Come si ricorderà, Salcamayhua, il peruviano che nel 1620 descrisse le antichità peruviane aveva detto che il primo Inca, Manco il Grande, aveva ordinato «che venissero eseguite opere murarie sul luogo della sua nascita, e precisamente un muro di pietra con tre finestre». Si trattava del muro che avevo scoperto? Se così era, quella non era la capitale dell’ultimo Inca, ma il luogo di nascita del primo, né mi passò per la mente, lì per lì, che potesse trattarsi di entrambi. In realtà, la località corrispondeva alle descrizioni di Tampu Tocco, il rifugio del popolo civile che era fuggito davanti alle tribù barbare del sud dopo la battaglia di La Raya, che aveva portato con sé la salma del re Pachacuti, ucciso da una freccia: salma che poteva benissimo essere stata sepolta nella caverna rivestita di pietre ai piedi del tempio semicircolare. Poteva essere questa la “città principale“ di Manco e dei suoi figli, la Vilcabamba in cui aveva sede L’Università dell’Idolatria” e che frate Marcos e frate Diego avevano cercato invano di raggiungere. Dovevo saperne di più, su quelle rovine: era necessario.

L’ESPLORAZIONE DI MACHU PICCHU E DI HUAYNA PICCHU Vista l’importanza che probabilmente avevano le rovine dell’antica città incaica da noi scoperta sulla cresta fra le cime del Machu Picchu e del Huayna Picchu, nostro primo dovere era quello di tracciare una carta delle rovine. Bastava uno sguardo alla foresta e alla densa vegetazione del sottobosco, per rendersi conto che non era compito facile, ma alla fine Herman Tucker e il suo assistente, Paul Lanius, riuscirono a portarlo a termine. Completata la carta, tutti ci meravigliammo dell’ampiezza dell’area che una volta era stata sede della città. Al fine di poterla esplorare il più a fondo possibile, nel 1912 organizzammo, sotto gli auspici della Yale University, una seconda spedizione; ma se non fosse stato per

l’aiuto fornitoci dalle autorità peruviane, difficilmente avremmo potuto procurarci mano d’opera sufficiente a mettere a nudo le rovine. Nostro primo pensiero fu di aprire una strada praticabile, destinata al trasporto degli approvvigionamenti verso la zona degli scavi e dei reperti che ne uscissero: tutto, comunque, doveva esser portato a schiena d’uomo. Le casse con le nostre razioni, pesanti una trentina di chili ciascuna, contenevano tutte le provviste necessarie a due uomini per otto giorni. Una volta riempite di vasellame incaico, certo avrebbero pesato assai di più. Il sentiero lungo il quale ero stato guidato da Melchor Arteaga, correva sul fianco orientale delle cresta e attraversava quel fragile ponticello, formato da una mezza dozzina di tronchi legati da robusti rampicanti, di cui ho parlato e che fu spazzato via dalle acque subito dopo il nostro passaggio. Inoltre, per un buon tratto l’arrampicata era una vera e propria scalata; sarebbe stato quindi impossibile per un portatore indio caricarsi di pesi eccessivi. Il sentiero che correva sul lato occidentale della cresta, e che iniziava al ponte di San Miguel, era quello più spesso utilizzato da Richarte e Alvarez, i due indiani quechua che si erano installati tra le rovine. Tucker e Lanius i quali, crollato il ponte, erano stati costretti a servirsi del sentiero occidentale, ci avevano assicurato che questo era veramente pericoloso, tutto strette curve snodantisi lungo strapiombi rocciosi; in due o tre punti, poi, per oltrepassare delle sporgenze bisognava servirsi di fragili, rustiche scalette a pioli. In realtà, si trattava di una via così difficile e pericolosa, che ai nostri portatori indiani risultò impossibile servirsene. Sarebbe stato dunque necessario costruire un ponte sull’Urubamba, ma servirsene avrebbe comportato un aumento di circa 150 metri di salita per ogni carico da trasportare al campo. Decidemmo pertanto di dar mano alla costruzione di un ponte e di un sentiero sul fianco orientale della cresta. Fortunatamente, avevo la possibilità di servirmi per questo lavoro di uno dei topografi della spedizione, quel Kenneth C. Heald che s’era fatto un’esperienza di ingegnere minerario nel Colorado e la cui opera risultava preziosissima, grazie alla decisione con cui affrontava gli ostacoli. Nel suo punto più stretto l’Urubamba ha un’ampiezza di circa 25 metri. Le clamorose rapide, impossibili da guadare persino nella stagione secca, sono divise in quel punto in quattro parti da enormi massi. Come fonte per procurarsi il materiale necessario, Heald non aveva a disposizione che la foresta tropicale, fitta lungo le sponde del fiume, e questo costituiva un ulteriore problema dal momento che, sebbene nel fondo del canyon vi fossero moltissimi tipi d’albero, tutti i tronchi erano coperti di muschio e di li cheni; era quindi difficile determinare a quale specie appartenessero. Ora, la qualità del legname ha la sua importanza: alcune piante producono legno duro e resistente, compatto e di ottima fibra; altre, cioè quelle a rapida crescita, producono legno di qualità inferiore, tenero e fragile. Ma alla fine Mister Heald riuscì a individuare alcuni tipi di piante dal legname compatto e resistente. Come operai, aveva, dieci indiani quechua, lenti e poco volenterosi che erano stati costretti a seguirlo per ordine del gobernador di una cittadina sita nei pressi. L’unico vero assistente di Heald era un

vigoroso gendarme, certo Tomás Cobinas, giovane e deciso mestizo che ci era stato assegnato dal prefetto col compito di badare che gli Indiani lavorassero. Tagliare i tronchi destinati alla prima sezione del ponte e disporli al punto giusto coprendo un paio di metri del percorso risultò relativamente facile, ma scavalcare i seguenti dodici metri di vuoto sopra la bianca e gelida corrente, si rivelò assai più difficile. In mancanza di gru o di paranchi, Heald pensò dapprima di gettare un tronco nel fiume parallelamente alla riva assicurandone l’estremità a valle e lasciando che la corrente lo spostasse, facendolo ruotare come su un perno, in modo che l’estremità opposta toccasse uno dei massi in mezzo al corso d’acqua. Ma il legno era tanto pesante, che affondò immediatamente e si perse nelle rapide. Heald pensò allora di costruire una sorta di mensola primitiva, e finalmente riuscì a giungere sull’altra riva. Procedette allora alla costruzione di un ottimo, ancorché rustico ponte, che servì meravigliosamente allo scopo per tutta la durata dei lavori a Machu Picchu. Più tardi il governo peruviano fece costruire nello stesso punto un altro ponte, sul quale possono passare i muli, trasportando i turisti sino alle rovine, partendo dalla stazione terminale della ferrovia a scartamento ridotto che parte da Cuzco, e successivamente una strada carrozzabile. La costruzione del primo tratto del nostro sentiero fu ritardata dalla densità della giungla tropicale, dalla rapidità dei declivi e dalla lentezza e prudenza degli indios che non volevano correre il rischio di incontrare una vipera. La loro paura, siamo giusti, era giustificatissima: durante i dieci giorni di lavoro, vennero uccisi ben otto rettili velenosi, fra cui alcuni appartenenti alla famiglia delle vipere saltatrici il cui morso non perdona. Per fortuna, nessuno degli uomini ebbe a provarne gli effetti. Heald la scampò per miracolo più d’una volta, ma per altre ragioni. Il secondo giorno, mentre stava esplorando alcuni ripidi Pendii, fuori dalla vista degli operai, si accorse improvvisamente che costoro avevano dato fuoco ad una boscaglia di bambù. In meno che non si dica, il fuoco aveva guadagnato terreno e ruggiva sul fianco della montagna, avanzando con una rapidità impressionante. Riguadagnare la strada gli era impossibile. Le fiamme erano alte cinque o sei metri: non c’era altro da fare che tentare di aggirare l’incendio prima che costituisse una cortina continua. Correndo alla cieca nella densa boscaglia, Heald precipitò da una rupe, finendo, per sua fortuna, in un macchione di bambù che ne attutirono la caduta e gli salvarono la vita. Pochi giorni dopo, ebbe un’esperienza ancora peggiore. Gli avevo chiesto di andare a vedere che cosa poteva esserci sulla vetta acuminata che porta il nome di Huayna Picchu e di chiarire un po’ la faccenda delle “stupende rovine” che avrebbero dovuto trovarsi alla sua sommità. Melchor Arteaga, il quechua che mi aveva condotto alle rovine di Machu Picchu, dapprima aveva sostenuto che lassù c’erano delle rovine «altrettanto belle», sebbene ancora più inaccessibili, e se alla fine ammise che erano alquanto inferiori alle prime, continuò a ripetere che erano «di grandissima importanza». Il picco si leva aguzzo a quasi mille metri sul fiume Urubamba, che lo circonda da tre lati. Quello sud si prolunga nella cresta che fa da base alle rovine di Machu Picchu. Sul fianco orientale, c’è un precipizio che viene giù quasi dritto dalla vetta a punta di spillo alla riva del fiume. Sul lato nord, sotto gli strapiombi, vi sono declivi ora coperti dalla foresta, che recano ancora i segni della presenza di antiche

terrazze ad uso agricolo. Queste sembravano avvalorare l’ipotesi dell’esistenza di importanti rovine sui fianchi dell’Huayna Picchu, rimaste probabilmente, a causa della densità della foresta, sino ad allora sconosciute. Arteaga, comunque, insisteva ad affermare che proprio sulla cima c’erano rovine molto belle. Ma quando Heald gli chiese di fargli da guida, egli si rifiutò. Heald, per nulla scoraggiato, e avendo scoperto il luogo in cui Arteaga aveva costruito un ponte rustico per raggiungere alcuni suoi terreni coltivati, partì con quattro Indiani e Tomás Cobinas, il fedele gendarme. Attraversato il fiume su quattro pali oscillanti che somigliavano moltissimo al ponticello da me usato una volta, dovette arrampicarsi per declivi talmente ripidi, che spesso fu necessario scavarvi dei gradini. Gli furono di grande ostacolo anche i bambù, e le alte erbe proliferanti lungo la linea del fuoco appiccato negli anni passati da Melchor Arteaga e da altri cultori di quel primitivo sistema agricolo detto milpa e che consiste nel ripulire col fuoco i terreni da adibire a coltivo. L’avanzata fu dunque molto lenta ma finalmente gli Indiani, a furia d’abbattere e tagliare la giungla di bambù, riuscirono a venirne a capo. Lasciato il gendarme a sorvegliare gli Indiani, affinché continuassero il loro lavoro il più rapidamente possibile, Heald decise di conquistare la montagna da solo e con una rapida ricognizione si accertò di quanto sentiero gli sarebbe stato possibile percorrere. Il racconto che fece dell’avventura è così incisivo, che preferisco riportare le sue parole: Procedetti sul dosso, aprendomi la strada col machete o avanzando a quattro zampe; seguivo uno dei tanti sentieri aperti dal passaggio delle belve; talvolta, poiché faceva molto caldo, mi fermavo per slacciarmi il colletto della camicia a riprendere fiato. I cespugli erano in gran parte di mesquite terribilmente tenace, con spine forti e dure. Se un ramo non veniva tagliato d’un sol colpo, si risollevava sferzando, infilandoti i suoi aculei nelle mani, nelle braccia, per tutto il corpo. Fortunatamente avevo ormai una certa pratica del modo con cui affrontare gli arbusti, abbattendoli con un solo colpo, secco e preciso ma, sebbene nella maggior parte dei casi me la cavassi, non posso dire di non aver avuto la mia parte. Verso le tre del pomeriggio avevo quasi raggiunto la parte iniziale di quella cresta rocciosa in tutto simile alla spina dorsale di un dinosauro. Essendo la parete praticamente verticale, gli alberi avevano fatto posto all’erba e alla nuda roccia. Di fronte a me, si ergeva un roccione alto circa sessanta metri. Dal limite della cresta potevo scorgere il fiume proprio ai miei piedi: da quella distanza, sebbene lo strepito delle sue rapide mugghianti mi giungesse distinto, sembrava più un ruscelletto da trote che un fiume vero e proprio. Mi stavo arrampicando sul dorso della cresta, quando l’erba e il suolo non tennero più, e scivolai. Per circa sei metri, s’estendeva un declivio con una pendenza di 60 gradi, poi un salto di una settantina di metri, cui faceva seguito uno strapiombo di circa 600 m fino al fiume. Riuscii ad aggrapparmi con la mano destra ad un cespuglio di mesquite che cresceva in una fessura a un metro e mezzo dallo strapiombo. Sentii uno strappo terribile, il corpo girò su se stesso, battei con violenza il viso; mi s’erano rotti i legamenti che congiungono l’acromio alla clavicola, e dovetti lasciar presa con la mano destra, ma riuscii ad afferrare un ramo con la sinistra. Per qualche istante rimasi mezzo penzoloni nel vuoto, a riprender fiato, poi cominciai a darmi da fare per risalire. La parte più difficile dell’operazione fu riuscire a mettere i piedi sul tronco dell’alberello in cui ero appeso. Il fatto che in quel momento calzavo mocassini, e non stivali, mi fu di grande aiuto, in quanto i mocassini potevano far presa sulla roccia. Fu un lavoro terribilmente lento, ma in capo a mezz’ora riuscii a mettermi al sicuro. Poiché il braccio destro era ormai inutilizzabile, ridiscesi e raggiunsi il campo verso le cinque e mezzo, riportando con me anche gli operai. Se si esclude un piccolo muro in rovina, durante questa breve esplorazione non vidi alcuna traccia di opere incaiche…

Cinque giorni più tardi, sebbene non avesse avuto modo di consultare un medico, Heald giudicò che il suo braccio fosse ormai in condizioni tali da permettergli di riprendere il lavoro, e coraggiosamente compì un secondo tentativo di raggiungere la vetta di Huayna Picchu. Anche questo tentativo terminò con una sconfitta; ma il giorno seguente egli tornò all’attacco, e guidato questo volta da Arteaga raggiunse la cima. Rinvenne i resti di una scalinata, tre piccole grotte artificiali, ma neppure una casa. Una volta il luogo doveva essere servito come appostamento per segnalazioni: ecco quelle che Arteaga aveva descritto come rovine «altrettanto belle» di quelle di Machu Picchu! Un paio di giorni dopo che Heald ebbe terminato la sua nuova strada dal ponte sino al culmine della cresta, arrivarono il dottor George F. Eaton, osteologo del Peabody Museum della Yale University, e Elwood C. Erdis, ingegnere civile incaricato di sorvegliare i lavori di ripulitura delle rovine e di ricercare oggetti di valore archeologico. Cominciammo allora la vera e propria esplorazione. Devo alle lodi calorose tributatemi dal noto archeologo inglese A.P. Maudslay per certi lavori di ripulitura di rovine maya, che avevo compiuto anni prima, se mi fu affidato anche stavolta il compito, devo ammettere piuttosto scoraggiante, di eliminare la mascheratura vegetale che aveva invaso le terrazze della città e alcuni edifici di Machu Picchu. Tagliammo gli alberi e i cespugli, rimovemmo o bruciammo tutti i ceppi, togliemmo persino il muschio dalle mura degli antichi edifici; compimmo insomma uno sforzo decisivo per riportare alla luce ciò che la natura, nel corso di secoli, aveva nascosto, facemmo del nostro meglio per reintegrare le bellezze della residenza favorita degli Inca. Ci eravamo fissi in capo di conoscere a fondo quel che era rimasto del grande santuario, ed eravamo ansiosi di scattare fotografie che dessero un’idea dell’arte e dell’architettura notevolissime di quelle strutture granitiche, anche se ciò avrebbe significato un lavoro enormemente penoso. La foresta tropicale era stata l’unica e assoluta padrona di questi luoghi per lungo tempo. Durante il lavoro incontrammo alberi massicci di un metro di diametro abbarbicati alle mura di piccole case bene costruite. Tagliare e togliere di mezzo quelle piante senza guastare seriamente le antiche mura non fu certamente la parte più facile dell’impresa. Potemmo, per nostra fortuna, contare sull’aiuto del luogotenente Sotomayor, ufficiale della gendarmeria peruviana, che conosceva alla perfezione la lingua quechua, utilissima con gli indios, molti dei quali non parlavano una parola di spagnolo. Poiché i quechua del luogo erano riluttanti ad abbandonare i loro villaggi e a sobbarcarsi a un lavoro altrove, non saremmo riusciti a procacciarci le braccia necessarie, pur offrendo salari maggiori dei piantatori, senza l’intervento dei gobernadores dei villaggi, ognuno dei quali, agendo per ordine del prefetto, ci mandava di quando in quando una dozzina di uomini per un paio di settimane. Dovemmo adattarci anche ad altre abitudini del paese, e tra l’altro procurare a ogni operaio, al mattino, una manciata di foglie di coca secche. Essi ne facevano quattro mazzetti. Ogni mazzetto, preparato in modo tale che si potesse strappare coi denti una foglia per volta, era sufficiente per un paio d’ore. Preparare il mazzetto, occupava i

primi dieci minuti della “giornata lavorativa”, un altro breve riposo bisognava concederlo a metà mattino, e un terzo ancora verso le tre del pomeriggio. Un datore di lavoro che ogni mattina non provvede i propri operai peruviani della razione quotidiana di foglie di coca, ne troverà ben poca, di mano d’opera volontaria, e quella forzata non renderà assolutamente nulla. Il sabato, giorno di paga, facevamo dei piccoli doni agli operai. Si trattava di collanine, specchi e altri ninnoli di poco prezzo, appositamente scelti per noi in uno dei grandi magazzini di New Haven. Particolarmente richiesti erano gli specchi, e tuttavia pochissimi erano i volontari che tornavano al lavoro il lunedì. Quelli che lavoravano regolarmente erano una minoranza, i più sparivano per intere settimane, durante le quali si occupavano dei loro orticelli e poi tornavano a farsi vivi per altri quindici giorni o giù di lì. Comunque, la stragrande maggioranza di essi lavorava soltanto quando il gobernador ve li obbligava. Talvolta, quindi, avevamo quaranta e più operai, talaltra soltanto una dozzina. La giungla cresceva con tale vigore, che dovemmo provvedere a tagliare i cespugli e arbusti per tre volte nel corso di quattro mesi. Il taglio finale eseguito in dieci giorni da una schiera di trenta o quaranta indios muniti di affilatissimi machetes, precedette immediatamente e accompagnò l’opera di ripresa fotografica degli scavi. Alcune delle cinquecento fotografie da me allora prese sono incluse in questo volume. Tutte le altre si trovano nelle biblioteche della Yale University, della National Geographic Society e della Hispanic Society of America. L’intenso lavoro di ricerca da noi compiuto, seguito da una vasta esplorazione della zona in aggiunta ai reperti delle varie spedizioni archeologiche che vennero dopo la nostra, permettono di affermare che le rovine di Machu Picchu, quest’importante santuario incaico, costituiscono i resti più cospicui dell’intera regione.

VILCABAMBA ANTICA Le rovine di quella che noi eravamo convinti essere la perduta città di Vilcabamba Antica sono dette ancor oggi le rovine di Machu Picchu, perché, quando le scoprimmo, nessuno sapeva come altrimenti chiamarle. Il nome è stato accettato e continuerà ad essere usato, sebbene più nessuno metta in dubbio che si tratti della località conosciuta un tempo come la città di Vilcabamba. Posto com’era nella zona più aspra della più difficile regione delle Ande centrali, il santuario era rimasto sconosciuto per secoli. Nessuna zona degli altipiani del Perù è meglio difesa da baluardi naturali: un canyon stupendo, che sprofonda nel granito per centinaia e centinaia di metri, presentando difficoltà tali da scoraggiare anche il più ardito scalatore moderno. Eppure fu proprio qui, in un remoto angolo del canyon, su una piccola cresta fiancheggiata da tremendi precipizi, che un popolo dalla raffinata civiltà artistica, ricco di inventiva, perfettamente organizzato e capace di sostenere i

più duri sforzi, eresse un magnifico santuario in onore della maggior divinità del suo pantheon, il Sole. Dal momento che gli Inca non possedevano utensili di ferro né d’acciaio, ma solo martelli di pietra e piccole leve di bronzo, la costruzione dev’essere costata generazioni, se non secoli, di lavoro. Per impedire ai nemici e agli ospiti indesiderabili di raggiungere i loro troni e templi, gli Inca confidarono, prima di tutto, sulle rapide dell’Urubamba, pericolose anche durante la stagione secca, e assolutamente invalicabili per almeno metà dell’anno. Tre lati della loro linea avanzata di difesa erano dunque costituiti dalle rapide. Il quarto lato era formato dal massiccio del Machu Picchu, che è accessibile solo attraverso una stretta cresta a filo di rasoio, larga meno di dodici metri e fiancheggiata da precipizi, e sulla quale avevano costruito, vere e proprie Termopili, un fortilizio. Nessuno, a meno che non lo permettesse l’Inca, poteva raggiungere quelle soglie, e frate Marcos e frate Diego lo sperimentarono a loro spese. E il santuario era non solo difeso da ogni profanazione, ma anche mirabilmente adatto di per sé come cittadella. LE FORTIFICAZIONI Se Huayna Picchu può essere scalato con una certa facilità durante la stagione secca, tra il massiccio e il luogo in cui si trovano le rovine s’inserisce una cresta molto stretta, inaccessibile dal lato orientale e accessibile da occidente mediante un sentiero che risulta praticabile solo agli indios più esperti. Questo sentiero costeggia per più di cento metri un crepaccio ad andamento orizzontale, sotto il quale si apre un profondo precipizio dalle pareti di purissimo granito. E’ l’unica via per giungere a Machu Picchu partendo da Huayna Picchu e sono sufficienti due uomini a difenderla contro un intero esercito. Lo stesso vale per la possibilità di giungervi dal lato nord. Per 500 m almeno, il lato est e il lato ovest appaiono abbastanza ripidi da essere difesi contro qualsiasi assalto. Addosso agli assalitori si potevano far rotolare dei massi, secondo il metodo di combattimento preferito dai soldati dell’Inca e riferito da molti conquistadores. E se anche, come in questo caso, esistevano più sentieri, tali vie d’accesso potevano essere difese tutte da un pugno d’uomini. Verso sud si levano i precipiti fianchi del monte Machu Picchu, in tempi antichi percorsi da due strade: quella tracciata sul fianco occidentale del monte correva sull’orlo di un pauroso strapiombo: è stata praticamente cancellata dalle slavine. Sul fianco opposto del monte, la strada incaica si arrampicava su un’improvviso scoscendimento per mezzo di una scalinata di pietra per trasformarsi poi in un sentiero serpeggiante, che solo una capra avrebbe potuto percorrere con facilità. Entrambe le strade conducevano alla piccola cresta su cui erano abbarbicate le summenzionate Termopili, unico accesso alla sommità del Machu Picchu per chi provenisse sia dall’altipiano che dal limite meridionale del canyon. Entrambe potevano essere facilmente difese. Proprio come ci aspettavamo, scoprimmo sulle vette circostanti le rovine di posti di osservazione, da cui era possibile inviare e ricevere messaggi da una cima all’altra. L’arrivo di visitatori indesiderati, l’avanzata di un nemico ancora lontano, potevano

essere osservati e comunicati immediatamente alla città. Quel posto sulla vetta di Machu Picchu, era necessariamente più importante. Nessuna fatica era stata risparmiata per renderlo sicuro ed efficiente e la sua costruzione dovette infatti richiedere grande abilità e coraggio. Quello degli operai che costruirono il muro di sostegno, il quale fosse scivolato, sarebbe precipitato per 900 m prima di incontrare una sporgenza della parete larga abbastanza per fermare il suo corpo. Stavo riprendendo delle fotografie, allorché mi venne in mente questa possibilità: bene, non solo mi distesi pancia a terra, ma ordinai a due robusti Indiani di tenermi per i piedi; era un salto da mettere i brividi, e figuriamoci quel che doveva essere costruire un muro proprio in quel punto! Il santuario di Vilcabamba era ritenuto talmente sacro ed intangibile che, oltre alle difese esterne e ai precipizi muniti bastanti a proteggere la città da ogni assalto, gli Inca costruirono due muraglie per nasconderlo alla vista dei visitatori e di chiunque, per qualche ragione dovesse passare da quelle parti. Sul lato sud della città, si drizzano un muro esterno e uno interno; il primo corre lungo i bordi d’una magnifica fuga di terrazze agricole. Nei pressi vi sono una mezza dozzina di edifici che probabilmente erano serviti da caserme per i soldati preposti alla difesa sull’unico lato raggiungibile per le antiche strade, il solo in qualche modo vulnerabile. C’era poi anche una linea di difesa interna. Nel punto più stretto della cresta, chi s’avvicinasse alla città dal lato sud incontrava una fossa dalle pareti rivestite di pietra, immediatamente al di là della quale il muro della città vera e propria blocca i due versanti della cresta, estendendosi fino all’orlo degli strapiombi. Proprio sul culmine della cresta, era praticata nel muro una grande apertura limitata da solidi blocchi. Quanto all’uscio, fatto molto probabilmente da pesanti tronchi d’albero uniti insieme, questo poteva essere fissato in alto, a un grosso anello di pietra, inserito sopra l’architrave e gravato da due metri e mezzo almeno di muratura; la porta poteva ancora venire fermata per mezzo di una robusta spranga le cui estremità venivano infilate in poderosi sostegni di pietra, dei cilindri incastrati nei fori praticati negli stipiti. La porta avrebbe potuto naturalmente essere abbattuta soltanto da attaccanti muniti di un solido tronco usato a mo’ d’ariete. Per eliminare anche questa probabilità, l’architetto costruttore di quelle fortificazioni aveva previsto un saliente esterno al muro e disposto ad angolo retto con la porta. I difensori, stando sul saliente, potevano far piovere massi e pietre sul fianco degli attaccanti. Le mura della città erano alte abbastanza da scoraggiare ogni proposito di scalarle. L’attaccante che avesse trovato il modo di superare tutte le difese naturali di questa poderosa fortezza e di aggirare i difensori delle varie Termopili, i posti avanzati, si sarebbe trovato nei guai al momento dell’ultimo assalto: avrebbe dovuto procedere verso le fortificazioni lungo le terrazze e, finite queste, avrebbe dovuto calarsi nel fossato e quindi risalire dall’altra parte e attaccare subito le mura vere e proprie, il tutto sotto un’incessante pioggia di pietre lanciate dai frombolieri posti a difesa. È difficile immaginare attaccanti abbastanza forti e numerosi da riuscire a superare simili difese, anche ammettendo che la città fosse tenuta da un pugno di soldati. In tempo di pace, le mura servivano egregiamente allo scopo di tenere alla larga gli intrusi dai sacri recinti del santuario. Nella accla-huasi o Casa delle Sacre donne del

Sole a nessun uomo era permesso entrare, eccezione fatta per l’imperatore, i suoi figli, i nobili incaici e i sacerdoti. La porta della città aveva bisogno urgente di restauri. La sommità della cresta presenta in quel punto una grande roccia granitica che fu inserita nelle fortificazioni; meglio, le mura furono ancorate ad essa, in modo da formare un tutto unico. Il risultato fu che i pilastri esterni del grande ingresso dovettero poggiare su un terrazzo artificiale. A causa dell’erosione del terreno, tale terrazza si era abbassata di alcuni centimetri, e di conseguenza il muro stesso si era spostato rispetto alla perpendicolare, e rischiava di crollare; non passerà molto, e la grande architrave rovinerà, trascinando nel crollo le opere murarie che la sovrastano. Chi osserva la porta della cittadella, ha l’impressione che essa abbia subito, sì, delle riparazioni, ma piuttosto frettolose, e ciò dev’essere avvenuto molto tempo dopo la sua costruzione, probabilmente ad opera di Manco II. LE SCALINATE Lo spazio essendo limitato, le case erano aggruppate strettamente l’una all’altra, ma una vasta rete di vicoli e scalinate intagliate nel vivo sasso rendevano agevoli le comunicazioni entro le mura della città. L’aspetto forse più caratteristico di Machu Picchu è dato infatti dalla grande abbondanza di scalinate: se ne contano più di cento, tra grandi e piccole. Alcune, in verità, sono costituite semplicemente da tre o quattro gradini, altre ne hanno fin centocinquanta e più. In parecchi casi, un’intera serie di sei, otto e anche dieci gradini, risulta intagliata nello stesso blocco di pietra. Le scale che congiungono le varie terrazze agricole seguono la naturale pendenza della collina, anche nei punti in cui la pendenza è tale da farle apparire più simili a scale a pioli che a gradinate vere e proprie. In molti punti, davanti e dietro le case di abitazione era stato previsto il posto per minuscoli giardini e terrazze, un paio di metri quadrati. Per potersi godere i loro orticelli, gli abitanti dovevano avervi accesso, e per farlo furono costretti a volte a costruire scale davvero incredibili, talmente strette che persino un ragazzo vi passava a stento. Nel centro della città, tuttavia, in modo particolare lungo le stradette e i piccoli viali pubblici, le scale avevano dimensioni normali. L’uso di scale e gradinate a scopo cerimoniale, frequenti nell’architettura incaica, pareva sconosciuto a Machu Picchu, benché sia possibile che esso abbia tratto origine propria da questa località. Tra le rovine di un grande portale monolitico a Tiahuanaco (Bolivia), in una roccia curiosamente intagliata a Concacha nei pressi di Abancay (Perù) e sull’altra famosa roccia chiamata Kkenko e sita vicino a Cuzco, vi sono tracce di gradini evidentemente praticati a scopo ornamentale o cerimoniale e, per quanto se ne può arguire, assolutamente inutili da un punto di vista pratico. Le scalinate di Machu Picchu, invece, salvo forse una sola eccezione, servono tutte a permettere l’accesso a zone altrimenti irraggiungibili. E mentre sono forse più numerose di quanto sarebbe stato necessario, nessuna di esse, neppure oggi, appare del tutto inutile. La scalinata più lunga, che forse costituiva l’arteria principale della città, ha inizio alla sommità della cresta a partire dalla terrazza attraverso cui la strada principale penetra nelle mura e, dividendo la città all’incirca in due parti uguali, corre diritta sino agli invalicabili precipizi del pendio nord-orientale.

L’asse della città in parte si identifica con questa scalinata di granito – centocinquanta gradini. Qui si trovano le più importanti opere idriche. LE RISERVE D’ACQUA Il problema più grosso che gli Inca dovevano risolvere, era quello del rifornimento idrico. Sul fianco della montagna di Machu Picchu, a non più di un miglio dal cuore della città, vi sono numerose sorgenti. La piccola azequia o condotto che portava l’acqua dalle sorgenti, poteva venir seguita lungo il fianco della montagna per un tratto considerevole. In parte essa è stata distrutta da slittamenti naturali del terreno, ma ancora oggi corre lungo una delle principali terrazze agricole, supera il fossato per mezzo di un sottile acquedotto di pietra, passa sotto il muro della città per un solco non più largo di 15 cm, e lungo un’altra terrazza arriva fino alla prima di una serie di fontane o piccoli bacini di pietra dislocati nei pressi della scalinata principale. Le prime quattro fontane si trovano sul lato sud della scalinata. Nei pressi della quarta, la scalinata si divise in due rampe, e qui ha inizio una serie di dodici fontane. A partire dall’ultima di esse, l’azequia corre verso sud e si scarica in un fossato. I bacini della Scalinata delle Fontane sono di solito scavati in un unico blocco di granito, posto a livello del pavimento dei piccoli recinti in cui le donne andavano a riempire le loro anfore dal collo stretto. Spesso, nelle mura fiancheggianti il recinto, venivano costruite un paio di nicchie che servivano da mensola per appoggiarvi le ciotole e i tappi fatti di fibra o mazzetti d’erba intrecciati. Talvolta la pietra terminale del condotto presentava un sporgenza a forma di beccuccio, in modo che l’acqua affluisse in un filo continuo; in altri caso essa sprizzava dallo stretto orifizio con forza sufficiente a raggiungere senz’altro l’apertura dell’anfora. Nei periodi di siccità si può star certi che il metodo preferito era il primo, e il fatto che vi fossero sedici bacini non era dovuto soltanto alla necessità di riempire molte anfore in una sola volta, ma anche a quella di impedire che parte del prezioso liquido andasse perso. L’azequia, che avrà una larghezza di dieci centimetri, è la più angusta fra quelle che mi sia capitata di vedere. I piccoli bacini di pietra sono lunghi circa novanta centimetri, larghi trentacinque e profondi dai dieci ai diciotto. A volte, sia il bacino che l’intera base del recinto della fontana sono ottenuti da un unico blocco di granito, altre volte in un angolo del bacino si vedevano alcuni fori che permettevano all’acqua di fluire – attraverso condotti praticati nel sasso con estrema cura – in un bacino sottostante. In caso di necessità i fori potevano venir chiusi per permettere al bacino di riempirsi. I condotti corrono sia sotto la scalinata che al suo fianco. È interessante notare come i peruviani moderni chiamano questi bacini baños, cioè bagni, ma non mi sembra probabile che fossero usati per questo scopo. A causa dell’aria rarefatta, del freddo, e della forte irradiazione notturna, anche gli anglosassoni non fanno troppo spesso il bagno sugli altipiani del Perú, e gli Indiani della montagna non lo fanno mai. E’ quindi poco probabile che i costruttori di Machu Picchu usassero i bacini a questo scopo. Probabilmente una delle ragioni per cui Machu Picchu fu abbandonata quale luogo di residenza, dovette essere proprio la difficoltà di provvedere acqua sufficiente. Eravamo allora nella stagione secca e le piccole sorgenti fornivano acqua appena

bastante per cucinare e bere a noi e ai quaranta e cinquanta operai ai nostri ordini. In tempi più remoti, quando sul fianco della montagna crescevano ancora grandi foreste, le sorgenti erano senza dubbio più copiose, ma per i disboscamenti che avevano fatto seguito allo stanziamento, uniti alle frane e alla crescente erosione del terreno che ne derivò, le sorgenti dovettero alla fine dare così poca acqua da costringere gli abitanti della città ad andarsela a procurare a distanze considerevoli, mediante grandi anfore portate a spalla. È significativo che i cocci ritrovati presso la Porta della Città provengano quasi esclusivamente da recipienti destinati a contenere liquidi; quattro sole furono le pentole che rinvenimmo, nove le ciotole e neppure un piatto. Evidentemente era qui che si radunavano i dispensieri di chicha. A conferma, sta il fatto che nel quartiere sud-orientale ritrovammo invece brocche e piatti quasi in eguale quantità. GLI ORTI Il più largo appezzamento di terreno pianeggiante entro il perimetro della città si trova in una depressione nel punto più ampio della cresta. Questo terreno era livellato con cura e sistemato a terrazze, e al tempo della nostra visita era stato nuovamente rimesso a coltura da Richarte e dai suoi amici. Sarebbe stato necessario percorrere molte miglia nel canyon dell’Urubamba per trovare una “pampa” di simili proporzioni, a un’altezza come quella, fra i 2500 e i 3000 m. In altre parole, questa piccola “pampa” offriva una rara opportunità, a un popolo abituato a coltivare piante e cereali del tipo di quelli che crescono a Yucay e a Ollantaytambo. Il fatto che fosse possibile coprire di terrazze artificiali anche i fianchi delle colline adiacenti, rappresentò certo un importante fattore nella scelta di questa località come cittadella e santuario. Una delle scalinate più accuratamente costruite conduce direttamente dai templi principali alla piccola pianura. Poteva essere questa la “pampa” in cui crescevano gli alberi di huilca – e cioè la huilca-pampa. La città ha una sola porta. Il lato nord, quello verso Huayna Picchu, non era difeso da un muro trasversale, ma da terrazze alte e strette costruite su piccole sporgenze. Nei pressi di queste terrazze si sprofonda una sella che collega Machu Picchu a una collina di forma conica, facente parte di una cresta che conduce alle vette precipiti di Huayna Picchu. A sud di questa sella si trova un anfiteatro naturale, anch’esso sistemato a terrazze disposte su cinque o sei piani diversi, anch’esso rimesso a coltura. Poteva essere stato quello il giardino riservato alla coltura degli alimenti destinati ai regnanti. Vi rinvenimmo, fra zucche e cipolle, alcuni frammenti di vasellame. I CLAN Sul ciglio orientale dell’anfiteatro, vi sono venti case. Quattro di esse sono munite di finestre: due si distinguono per il fatto di averne tre ciascuna, la terza ne ha una sola, la quarta è così rovinata che è difficile dire se ne abbia avute due o tre. Le case situate su questo lato dell’anfiteatro sono quasi tutte costruite con pietre tenute insieme da argilla e rifinite rozzamente. Né le case né le terrazze vicine devono aver richiesto molto tempo per la loro costruzione. Può darsi siano state fatte in fretta dalle forze di Manco.

Nella zona orientale dell’antica città vi sono numerose case d’abitazione ben costruite, raggruppate in corrispondenza dei vari clan. Solo un gruppo di case, e precisamente quello al limite sud, sembrerebbe essere stato costruito con cura particolare: le pietre sono tenute insieme senza argilla e le mura sono ancora in ottimo stato di conservazione. Un isolato presenta tre porte, ed è stato da noi chiamato appunto il Gruppo delle Tre Porte. Di fronte ad esso trovammo un mucchio di rifiuti contenenti, fra altre cose, i frammenti di almeno centocinquanta pentole. Quelle case dovevano essere state abitate a lungo. Ogni raggruppamento differiva dagli altri sia per la disposizione degli edifici sia per qualche particolare architettonico distintivo. Uno di essi era caratterizzato da nicchie piuttosto fuori dal comune. In una di queste case ci sono due nicchie grandi abbastanza da permettere ad un Indiano di starvi in piedi, e sulla parete di fondo di ogni nicchia c’è una finestra, proprio all’altezza del viso di un uomo. Il tabernacolo di questo raggruppamento era eretto su un’altura molto pittoresca, e le mura laterali del tempietto erano inserite nella superficie inclinata della roccia in maniera davvero singolare, e costruite con tanta abilità da prevenire per secoli un eventuale crollo. Verso la sommità della roccia era l’usuale piattaforma intagliata nella pietra, con sopra tre nicchie, grandi quanto bastava a ricevervi una mummia in posizione rattratta. Era infatti costume degli Inca mummificare i corpi con le ginocchia piegate all’altezza del mento, in modo che potessero occupare meno spazio possibile. Le mummie si presentano a volte in involucri formati da più strati, tanto da somigliare a informi fagotti; la parte inferiore dell’involucro consiste in molti casi di metri e metri di corda arrotolata. Ognuna di quelle tre nicchie era abbastanza ampia da dar ricetto a uno di questi fagotti, ed era provvista di una sporgenza cui legare la mummia; può darsi che la nicchia fosse chiusa con dei bastoncelli in funzione di tabù, destinati ad allontanare ogni influenza estranea dalla mummia. Ogni nicchia, a sua volta, era munita di altre piccole nicchie, una sulla parete di fondo e una su ciascuna parete laterale, le quali servivano probabilmente da ripostigli per le offerte e per gli oggetti che erano stati cari al defunto. La lunga piattaforma di pietra tagliata nella solida roccia e posta immediatamente sotto le nicchie, era quasi certamente intesa a ricevere offerte di cibi e bevande, a meno che non servisse per adagiarvi le mummie affinché il sole le disseccasse. Si dice infatti che gli Inca non usassero liquidi o altri mezzi di preservazione, come invece gli Egizi, ma che si rimettessero unicamente alla forza del sole tropicale per far disseccare le carni dopo aver estratto le viscere dai corpi. E probabile che le mummie venissero poste a seccare a più riprese, e togliendole ogni volta dalla rispettive nicchie. Altri raggruppamenti di case erano caratterizzati da ingegnosi lavori di pietre. Qui gli alloggiamenti della spranga di chiusura della porta principale erano praticati direttamente nel corpo dei solidi blocchi di granito. La parte superiore dell’incastro era praticata nella fila di blocchi immediatamente superiore, la parte inferiore faceva parte del blocco destinato a sostenere la spranga. Sull’opposto stipite l’alloggiamento era costituito da un foro quadrato, praticato nel centro della superficie del blocco. Sicuramente colui al quale si doveva la progettazione del congegno non era stato soltanto un ingegnoso tagliatore di pietre, ma anche un paziente e amorevole

artigiano; per praticare nella pietra fori così profondi, dovette usare molto probabilmente degli scalpelli di bronzo. Gli scavi nella casa principale del gruppo hanno portato alla luce i frammenti di otto pentole e gli spigoli di due blocchi di granito che originariamente sporgevano oltre il livello del pavimento, e nei quali erano stati scavati due mortai, utili, solidi e indistruttibili, in cui poteva essere deposto il granturco e in cui le patate gelate potevano venire schiacciate, secondo il procedimento in uso nelle Ande centrali sino dai tempi remotissimi, mediante un pestello dalla base levigata o una pietra passatavi sopra con movimento rotatorio. Vicino ai mortai, trovammo infatti uno di quegli antichi pestelli. Le donne del capo di quel clan dovevano aver provato un senso di superiorità rispetto alle vicine, le quali per la preparazione delle vivande a base di granturco non possedevano nelle rispettive cucine nulla di altrettanto comodo. Nella case del gruppo v’erano anche numerosi seggi di pietra. Una casa aveva in un angolo un giaciglio di pietra: chi vi abitava evidentemente non amava troppo dormire sul pavimento. In queste case si può notare l’unico esempio, in tutta la città, di un edificio munito di frontoni e diviso in due sezioni da un muro interno che ne occupa tutta l’altezza in cui sono praticate tre finestre: un tipo d’edificio che è invece abbastanza comune a Choqquequirau e a Ollantaytambo. Probabilmente è il frutto di un tardivo sviluppo dell’architettura. Notammo che la superficie delle mura interne delle case più rozze di questo complesso era ancora coperta da uno strato d’argilla rossastra. Una delle scalinate del gruppo è incuneata in modo incredibile fra due enormi blocchi di granito, così vicini l’uno all’altro che un uomo appena corpulento difficilmente potrebbe servirsene. In un altro complesso architettonico, non solo i gradini, ma anche le balaustrate erano incise in un unico blocco. Se si considera il fatto che gli unici arnesi atti allo scopo erano pietre e ciotoli di diorite rinvenuti nel letto del fiume, 700 m più in basso, si comprenderà come l’opera intesa a ricavare dalla roccia viva quei gradini, deb ba aver richiesto moltissimo tempo ed uno sforzo notevole. In ogni modo chi scolpiva la roccia aveva la soddisfazione di sapere che il suo lavoro era destinato a durare più di ogni altra opera umana. Le mura degli edifici di un gruppo circonvicino sono di pietre squadrate molto rozzamente e unite con argilla in file irregolari, benché la terrazza su cui erano state costruite sia sostenuta da una parete di pietre insolitamente grandi e unite con molta cura: probabilmente, opera di un periodo più antico. Prima che il muro più recente venisse costruito, sopra uno degli antichi e bei blocchi del muro di sostegno era stato scavato un piccolo condotto, in modo tale da assicurare un buon drenaggio. Le strutture più belle ed interessanti si trovano sul lato occidentale della città, sulla vetta di un colle che domina in tutte le direzioni un paesaggio magnifico, comprendente non solo tutta la città e le terrazze coltivate, ma anche il grande canyon dell’Urubamba. Sicuramente non conosco in tutto il Perú un luogo che presenti un panorama così affascinante. Molte delle montagne sono coperte da fitta vegetazione tropicale dalla base alla vetta; altre, eccetto qualche esiguo pascolo, sono desolate e nude; altre ancora son tutte un ripido precipizio di granito. Nei giorni in cui il cielo è

trasparente, i picchi ammantati di neve possono essere visti sia da oriente che da occidente, e i più belli sono quelli del Salcantay e del Soray, sorgenti dalla profonda valle di Cuzco. Sulle cime di questa collinetta, da cui, 700 m più in basso, si poteva scorgere benissimo il ponte di San Miguel, si trovava un piccolo tempio posto vicino ad una bella intihuatana, “il luogo in cui il sole veniva legato”, che era un elemento fondamentale di tutti i templi del Sole. Resti di simili pietre si trovano ancora a Cuzco, a Pisac, e a Ollantaytambo. La parte superiore di un masso era stata intagliata da ogni parte, in modo da lasciare presso il centro una specie di pilastro quadrato. Questo pilastro è alto più di mezzo metro, ed è l’intihuatana più alta trovata nel Perù. Il piano della pietra mostra un’evidente frattura, ma non c’è segno che sia stata fatta in anni recenti. Lo Squier parla di una intihuatana di Ollantaytambo avente circa la medesima altezza, ma dice che venne distrutta dagli Spagnoli. Sembra infatti ormai generalmente accertato che i preti spagnoli si son presi la briga di distruggere le pietre di questa intihuatana ovunque si trovassero. Che questa sia rimasta intatta prova con maggiore evidenza che gli ecclesiastici del viceré Toledo non riuscirono mai a raggiungere questo luogo. Vicino alla roccia giacciono le rovine di due case piuttosto belle, costruite con blocchi di granito bianco squadrati come meglio possibile senza l’uso di strumenti di precisione sconosciuti ai costruttori, uniti insieme in modo perfetto senza l’aiuto dell’argilla e portanti i segni di un’estrema attenzione per i particolari. Entrambe queste case si facevano notare per un fatto curioso. Secondo il loro piano originale, esse avevano sul retro due porte, strette ma ben finite; più tardi le porte vennero chiuse per i due terzi della loro altezza, e divennero finestre. La casa meglio conservata contiene due belle nicchie e due finestre. Entrambe le case dovevano avere un pianterreno e un primo piano, ed essere munite di frontone. Inoltre avevano, in comune con numerose case di Machu Picchu, un peculiare tratto caratteristico: e cioè, mentre la parete principale del muro è fatta di pietre tenute insieme senza calcina, i frontoni sono di blocchi più rozzi, uniti insieme con minor cura ma con l’aiuto di argilla, e probabilmente intonacati. Il limite meridionale dello sperone roccioso era stato arrotondato e lastricato di pietre, una delle quali, fra le più grandi, presenta una sporgenza munita di un foro verticale. Probabilmente doveva servire a infilare un palo su cui far sventolare uno stendardo. Le terrazze che stanno sotto e tutt’intorno all’altura sino al bordo del precipizio erano tredici. L’altura stessa era composta in parte di enormi blocchi irregolari di granito. Alcuni punti in cui tali blocchi sporgevano dal terreno erano stati come puntellati con muri di pietra, il che faceva supporre che dentro vi fossero delle tombe. Coloro che vi si erano recati a compiere scavi prima di noi erano giunti alle stesse conclusioni e, per quanto possa giudicare, con gli stessi nostri risultati: dietro le mura non c’era altro che terra e le mura stesse erano state costruite soprattutto per dare un aspetto più elegante a quei ruvidi sassi. Gli scavi che compimmo sullo sprone diedero risultati molto scarsi. Probabilmente, esso veniva usato solo per le cerimonie più solenni connesse all’incatenamento del Sole all’Intihuatana. A questa adorazione la tradizione ascrive anche la recitazione di preghiere in forma poetica. LA SACRA PIAZZA

Lasciando la vetta del colle e andando verso sud, si discende per numerose rampe di pietra e si raggiunge un piccolo spiazzo che noi chiamammo la Sacra Piazza, in quanto su due lati di essa sorgono i templi maggiori. Per giungervi, è necessario passare accanto a un masso molto singolare che ha grosso modo la forma di una gigantesca morsa. Tagliate nel morbido e friabile granito vi sono sette scale, tutte conducenti alla vetta, e da questa si può godere una vista davvero straordinaria. Inoltre in cima al masso erano state collocate alcune pietre che formavano una piccola piattaforma su cui tre o quattro persone potevano stare in piedi e porgere il saluto al sole nascente. A nord di questo masso, e sotto di esso, si possono scorgere le mura di una piccola casa larga circa quattro metri e mezzo, costruite nel miglior stile incaico, e cioè con blocchi di granito bianco scelti e squadrati con molta cura. Alcuni dei massi più grandi sono poligoni irregolari tenuti insieme senza cemento. La fila più bassa è costituita da blocchi particolarmente belli e grandi; quelli delle file superiori sono più piccoli ma simmetrici. A sinistra della porta, entrando, si vede un unico blocco gigantesco, tagliato in modo da formare una buona metà di quella parte della facciata. E non soltanto le parti inferiori delle due nicchie di cui l’edificio è fornito sono tagliate in questa pietra, ma persino parte dell’angolo della stanza, non so per quale capriccio del costruttore, appaiono scavate nello stesso blocco. A Cuzco, nel palazzo dell’Inca Rocca, c’è una pietra che colpì la fantasia dei primi cronisti spagnoli per il fatto di possedere quattordici angoli. Ancor oggi, i visitatori non mancano mai di recarsi a vederla. Ebbene, il masso di Machu Picchu ha ben trentadue angoli! Il piccolo edificio presenta un altro tratto caratteristico e poco comune: un lungo banco o giaciglio di pietra che si estende per tutta la lunghezza della casa, proprio di fronte alla porta. E’ fatto di pietre squadrate in modo veramente eccellente. La casa,è collegata al Tempio Principale. Quando la vidi per la prima volta, fui portato a pensare che si trattasse dell’abitazione del sommo sacerdote, ma studi più approfonditi mi fanno ora credere che si tratti piuttosto di un mausoleo regale e che il banco o giaciglio fosse riservato alle mummie degli imperatori incaici. E’ evidente comunque che non venne risparmiata alcuna fatica per far di questo piccolo edificio un capolavoro d’architettura. Vi sono nicchie così simili una all’altra, che difficilmente l’occhio riesce a notare una pur minima differenza di forma o di dimensioni. Ciò conferma l’opinione che Machu Picchu sia uno dei santuari più belli mai costruiti dagli Inca o da altri americani precolombiani. Il Santuario del Sole a Cuzco, oltre a contenere l’altare maggiore e gli accessori del culto, accoglieva le mummie degli imperatori. Secondo Juan de Betanzos, che visse a Cuzco nel 1550, subito dopo la conquista del Perù, le mummie erano poste, sedute, su panche di legno stupendamente intagliate. Egli dice anche che l’Inca Pachacutec sistemò qui gli imperatori morti alla presenza dell’ immagine del Sole e «ordinò che venissero fatti molti fagot ti, tanti quanti erano stati i Capi che erano succeduti a Manco Capac fino a suo padre Inca Viracocha».

Mi pare quindi assai probabile che molte delle mummie presenti nel Tempio del Sole di Cuzco sotto forma di fagotti, fossero in realtà conservate a Machu Picchu. Il Gran Sacerdote era quasi sempre uno zio o fratello dell’imperatore regnante. Sotto di lui v’erano due classi di sacerdoti: quella dei sacerdoti adibiti ai riti più solenni erano di sangue incaico, e quella dei sacerdoti che officiavano nelle cerimonie meno importanti erano Inca per privilegio, cioè appartenenti a famiglie di potenti nobili a cui l’Inca desiderava rendere onore. È significativo che questa piccola gemma d’architettura sia proprio al piede della scalinata che conduce all’intihuatana il tempio principale. La religione ufficiale incaica, l’adorazione del Sole, era strettamente collegata ai destini e all’amministrazione dell’Impero. I sacerdoti del Sole erano, ovviamente, dei favoriti, e non è quindi da meravigliarsi se la scalinata che porta all’intihuatana è quella costruita con maggior cura. I gradini sono larghi più di un metro, benché tutti ricavati da singoli blocchi di granito. Su ogni lato c’è un piccolo parapetto. A nord del mausoleo regale, o dimora del sommo sacerdote che sia, corre una specie di camminamento con una balaustrata che domina la bellissima valle e il fiume. Unito alla “casa del sacerdote” ed evidentemente costruito nel medesimo tempo – dato che una delle grandi pietre inferiori forma una parte di entrambi gli edifici – è il Tempio Principale, il quale, quando lo vidi per la prima volta, mi aveva lasciato senza parole. Tutto il muro orientale si è infossato di circa 30 cm, trascinando nello slittamento una parte del muro nord. Cosa che non appare affatto strana, se si pensa che la terra su cui il muro venne costruito è estremamente friabile. Comunque, la costruzione era così compatta, che si è spostata uniformemente e quindi senza rovinare la disposizione delle pietre se non agli angoli. Forse il tratto peculiare più marcato di questo tempio è che gli spigoli del lato est e del lato ovest non sono perpendicolari né hanno la solita inclinazione verso l’interno, caratteristica di quasi tutte le antiche strutture peruviane. Essi formano, invece, un angolo ottuso. La metà inferiore dell’angolo è in ogni caso il limite del singolo membro ciclopico della fila più bassa delle mura laterali, che si inclinano all’interno verso la base. La metà superiore dell’angolo è formata dalle sei file restanti, ed è inclinata all’interno verso la sommità. I vertici degli angoli presentano un foro tagliato nel blocco ciclopico della fila inferiore, atto evidentemente a permettere l’inserimento di un grosso tronco di legno che con tutta probabilità era parallelo all’intero fronte della casa, da un vertice dell’angolo sino allo spigolo opposto. La prima impressione che ne ebbi è che un simile trave dovesse essere servito per sostenere il tetto dell’edificio, ma la perfetta rifinitura dell’ultima fila di pietre m’indusse a credere che questo edificio non avesse mai avuto un tetto e che quei fori sostenessero l’estremità di un tronco su cui poggiare a turno uno schermo o un tendone di splendida stoffa tessuto certo in modo superlativo, e che quando non erano necessari potevano venir rimossi. Un simile espediente avrebbe permesso che l’interno del tempio fosse costantemente esposto al sole e contemporaneamente chiuso alla vista di chiunque si trovasse nella Sacra Piazza. Se era questo il luogo in

cui le mummie degli avi venivano condotte per essere adorate, la presenza di un tetto sarebbe certo riuscita indesiderabile e avrebbe inoltre reso difficoltosa la cerimonia di offrire alle mummie un confortevole bagno di sole. Nessuna fatica e nessuna cura erano state risparmiate per fare, di questo edificio, un modello di ciò che di più bello e di più solido esisteva nell’architettura incaica. Chi l’aveva costruito mostrava di aver avuto un senso della simmetria davvero notevole. Ogni nicchia, ogni pietra, ogni particolare appariva perfettamente proporzionato. Non esiste in tutto il Perú un edificio che meglio illustri il livello artistico e architettonico raggiunto dall’antico popolo delle Ande. Mentre nel tempio non c’è ombra di incisione, i fianchi del maggior blocco ciclopico sono tagliati in modo tale da dare l’impressione di tre file di pietre, seguenti più o meno il percorso delle file normali. L’ampio altare di pietra ha sul resto della base due sporgenze. Ma queste non erano né simili l’una all’altra, né disposte simmetricamente, così che forse non avevano altro scopo che quello di rendere meno dura la fatica che era stata necessaria ai costruttori per elevare l’altare: doveva pesare almeno dieci tonnellate. Sul lato occidentale della piazza c’è un bastione semicircolare di circa due metri e mezzo di altezza e tre di diametro. Sovrasta la valle dell’Urubamba ed è il più alto di una bella fila di terrazze che scendono fino sull’orlo del precipizio. È formato da grandi blocchi di granito disposti in perfetto semicerchio. Gli storici dell’architettura mi dicono che una tale abilità nel costruire una bella torre circolare non è stata raggiunta che raramente nel corso della civiltà. Sul lato meridionale della piazza c’è un ampio edificio rettangolare, tipico della tarda architettura incaica, il quale presenta due porte e neppure una finestra. La parte interna delle pareti mostra il solito allineamento di nicchie, e il tutto costituiva indubbiamente una residenza di una certa importanza, anche se, per la sua costruzione, non doveva aver richiesto che poche settimane o pochi mesi. È impossibile che essa sia stata costruita dopo la fuga di Manco da Cuzco, al tempo cioè in cui questo santuario non era stato ancora ampliato per ricevere i sacerdoti, i personaggi più importanti del seguito dell’Inca e le Sacre Donne, che ai giorni di Pizarro vi avevano cercato rifugio. Sul limite opposto, a oriente della piazza, giacciono le rovine dell’edificio più singolare di tutti: il Tempio delle Tre Finestre. Le mura di questo, come quelle del Tempio Principale, sorgono solo su tre lati, mentre il quarto è aperto sulla Sacra Piazza con l’eccezione di un unico pilastro monolitico, destinato a sostenere la parte frontale del tetto, cosa che non si ritrova in nessun’altra costruzione della città. L’edificio aveva un frontone, e le pietre del suo bordo superiore erano più grandi del solito, e tuttavia erano tenute insieme da argilla. Come nel Tempio Principale, blocchi enormi erano stati adoperati per il corso più basso, e i bordi dei muri laterali, invece d’essere perpendicolari, formavano un angolo ottuso. Allo stesso modo, il vertice d’ogni angolo conteneva una cavità, intesa qui, evidentemente, a permettere l’inserimento dei bordi del tetto. L’estremità del pilastro monolitico, posto a metà fra due cavità, appare munita di una cavità. Per innalzare questo edificio, l’architetto si era trovato nella necessità di costruire, per il muro posto ad oriente, delle fondamenta a livello della più vicina terrazza. Usò

quattro grandi pietre e alzò un muro che si leva per più di tre metri dalla terrazza, sino ai davanzali delle finestre, ricavati tutti da un ciclopico blocco poligonale. Le mura del tempio sono anch’esse fatte di blocchi enormi, alcuni dei quali assolutamente irregolari, ma tutti di granito bianco ben scelto e molto ben lavorato. Il granito veniva probabilmente tratto da cave esistenti nelle vicinanze. IL GRUPPO DEL TEMPIO DEL SOLE La più alta delle fontane si trova in un gruppo assai notevole: poiché l’edificio principale di esso ha una notevole rassomiglianza con il Tempio del Sole di Cuzco, lo abbiamo chiamato Gruppo del Tempio del Sole. Era il primo edificio veramente bello che avevo incontrato durante la mia prima visita. Quella volta, le mura del Tempio semicircolare non avevo potuto vederle. Ma, dopo che avemmo faticosamente ripulito il muro dagli arbusti che lo ricoprivano, ci rendemmo conto che il più esperto capomastro del suo tempo aveva costruito il più bel muro d’America per congiungere il tempio con la costruzione adiacente. L’effetto generale è di maggior eleganza, ancorché di minor splendore, di quello dei templi marmorei del Vecchio Mondo. Si ha qui un magnifico esempio dell’abilità degli architetti incaici. Poiché questo tempio fu ovviamente progettato con la massima cura da un artista che desiderava farne un monumento alla bellezza, era necessario che non vi fossero fessure o soluzioni di continuità tra un blocco e l’altro. Al limite sud del muro vi era una casa di tre piani, il primo piano della quale s’apriva sulla terrazza che sosteneva il muro principale, mentre il pianterreno dava sulla terrazza che stava immediatamente sotto. Ma col passare del tempo questa casa, il cui attico stava tutto sopra il livello del muro principale, si sarebbe fatalmente inclinata in avanti, e le commessure si sarebbero aperte. Di conseguenza, l’architetto aveva ingegnosamente saldato insieme i blocchi nel punto in cui si sarebbe verificata la tensione maggiore, alterandone la sagoma in modo che presentassero una sorta di uncini e costituissero una serie di incastri che avrebbero prevenuto lo slittamento dei blocchi e il movimento di inclinazione della casa rispetto al muro ornamentale. Il risultato fu eccellente. Sebbene questa sia una terra in cui i terremoti non sono affatto infrequenti e in cui i costruttori non usavano né cemento né chiavarde di metallo, ogni blocco si inserisce alla perfezione tra i blocchi vicini, così che non esiste un solo punto in cui si possa infilare neppure uno spillo tra pietra e pietra. Esse formano un tutto unico, tengono con la stessa forza di un tappo di vetro smerigliato e infilato nel collo di una bottiglia. Gran parte del lato superiore della grande roccia su cui poggia l’edificio semicircolare è incisa da sedili o piattaforme. Si trattava probabilmente del luogo in cui venivano deposte o bruciate le offerte. Se sottoposta a grande calore, la superficie dei massi di granito, attorno al punto in cui il calore maggiore colpisce la pietra, si scheggia. Un esame di questa roccia, che occupa buona parte dello spazio entro le mura del Tempio Semicircolare, mostra che in qualche periodo essa dovette essere stata sottoposta a un calore veramente eccezionale, mentre la totale assenza di cenere o frammenti di carbone indica che ciò avvenne moltissimo tempo fa, e indubbiamente prima dell’avvento dei moderni

indios. È difficile dire se la formazione di tutte quelle scaglie sia stata causata da una serie di fuochi accesi volta a volta o da uno solo il cui combustibi le veniva continuamente rinnovato; d’altra parte, è impossibile pensare che i danni siano stati provocati semplicemente dall’incendio e dalla conseguente caduta di un tetto di sterpi. Inoltre, la fila superiore delle pietre del Tempio non mostra segni tali da lasciar arguire che esistesse un tetto, per cui non resta che credere che si trattasse veramente di un luogo in cui venivano arse le offerte. In questo tempio vi sono tre finestre. Due di esse guardano verso la valle; ognuna è alta circa settanta centimetri ed è decorata con quattro pioli di pietra posti ai lati del davanzale e dell’architrave. Dovevano servire da supporti per gli ornamenti d’oro connessi al culto del Sole. La terza finestra del Tempio Semicircolare è più grande delle altre e offre maggiori appigli ai ragionamenti e alle supposizioni. E’, come amano dire gli archeologi, “problematica”. La sua bella architrave monolitica era spaccata dal calore di un incendio verificatosi certo molto tempo prima della nostra visita, e una parte di essa era crollata, rafforzando la supposizione che nessun’altra causa dall’infuori del fuoco poteva aver provocato un danno simile. Il davanzale di questa finestra è molto insolito, interrotto com’è da due file di gradini, che contengono un piccolo labirinto di fori e di minuscoli canali del diametro di 2-4 centimetri. Nel Tempio del Sole di Cuzco, ora monastero domenicano, vidi qualcosa di simile in una porzione di muro che non ha ancora potuto essere esaminata a fondo. È possibile che i fori servissero a facilitare l’esibizione delle placche d’oro o degli ornamenti del Sole, che secondo gli autori spagnoli avveniva nel Tempio del Sole. Nella sua storia degli Inca Sarmiento afferma che i nativi da lui interrogati a proposito delle loro tradizioni gli dissero che, siccome l’Inca Pachacuti Yupanqui si interessava alle cose dell’antichità e desiderava perpetuare il suo nome, egli si recò personalmente sulla collina di Tampu-tocco o Paccari-tampu, che sono due nomi per indicare la stessa località, ed entrò nella caverna in cui è ritenuto per certo che soggiornassero Manco Capac e i suoi seguaci quando marciarono verso Cuzco… Dopo un’attenta ricognizione, egli venerò il luogo e indisse feste e sacrifici. Fece mettere porte d’oro alla finestra di Capac-tocco e ordinò che da quel momento in poi la località fosse venerata da tutti, e ne fece un luogo sacro e una huaca dove pregare gli oracoli e offrire sacrifici. Dopo aver fatto tutto ciò, l'Inca se ne tornò a Cuzco.

Non risulta da nessuna testimonianza che Sarmiento si sia mai recato a Paccaritampu. Noi vi andammo, ma non riuscimmo a scoprire nessuna rovina che avesse gli attributi di un luogo tanto venerato. D’altra parte, la finestra dove erano infisse le porte d’oro poteva facilmente essere stata proprio questa, la finestra cerimoniale del Tempio Semicircolare di Machu Picchu. Date le evidenti somiglianze fra il Tempio Semicircolare e il famoso Tempio del Sole a Cuzco, è interessante notare come la grande immagine d’oro del Sole, che aveva costituito uno dei maggiori ornamenti del tempio di Cuzco, fosse probabilmente stata portata a Machu Picchu dopo la fuga di Manco da Cuzco. Essa fu affidata a Tupac Amaru, ultimo imperatore Inca, che visse qui durante l’adolescenza e cadde poi nella mani del viceré Toledo, che la inviò a Filippo II con il consiglio di donarla al papa. E’ possibile dunque che l’immagine d’oro sia stata un tempo esposta su questa

“problematica” finestra. Quando Tupac Amaru fu costretto a fuggire nella montaña, se la portò via insieme ad altri preziosi ornamenti d’oro, anch’essi poi inviati da Francisco de Toledo a Filippo II, poiché erano proprio di quella “eccezionale qualità” desiderata dal monarca. Nel complesso architettonico che include il Tempio del Sole, vi sono due portali. Quello più interno è uno splendido esemplare di lavoro in pietra e si direbbe che avesse un tetto, anch’esso di pietra. I sostegni per la sbarra di chiusura, tagliati direttamente sulla superficie della pietra, sono parte integrante di blocchi granitici. Questo gruppo si distingue notevolmente dagli altri per il fatto che comprende l’unica casa a due piani e pianterreno della città. La parte superiore del suo frontone è rozza, fatta com’è di pietre tenute insieme da una specie di laterizio, cosa che è caratteristica di tutti gli edifici che erano provvisti di tetto. Ci si chiede perché, essendo tutte le altre mura delle case fatte con pietre ben squadrate e unite per semplice accostamento, quella porzione di muro che è immediatamente sottostante allo spigolo del frontone sia invece costituita da pietre e da un impasto argilloso. Può essere stato per facilitare un più saldo inserimento delle travi, o per il fatto che originariamente nessuna casa aveva un frontone. Io non ricordo di aver visto un solo frontone in tutta Cuzco, sebbene a Ollantaytambo e in altri luoghi la cosa sia invece frequente. IL GRUPPO DEL RE Oltre la grande scalinata che porta al Tempio Semicircolare del Sole, sorge un complesso di edifici cui ho dato il nome di Gruppo del Re a causa del carattere estremamente solido delle mura che lo racchiudono e anche perché penso che nessuno, se non un re, avrebbe potuto pretendere di avere le architravi delle sue porte fatte di solidi blocchi di granito pesanti ognuna circa tre tonnellate. Negli altri complessi architettonici, le case avevano quasi invariabilmente architravi composte da due pezzi, certo pesanti, ma non tanto da impedire a due uomini da metterle in opera. E’ evidente che colui il quale abitava questo gruppo aveva a disposizione mano d’opera sufficiente a superare le difficoltà tecniche che indubbiamente incontra chi debba sistemare un’architrave monolitica, pesante tre tonnellate, sui due stipiti di una porta: persino se avesse posseduto gru, argani e pulegge a vapore, avrebbe trovato il compito piuttosto difficile. E poiché non possedeva nessuno di tali strumenti, quale prodigioso e paziente sforzo deve aver richiesto l’opera! Il risultato è superbo e bisogna vederlo per poterlo apprezzare. Le mie fotografie non gli rendono certo giustizia. La porta di questo recinto è vicina alla più alta delle fontane, di modo che per i suoi abitatori non doveva riuscire difficile empire d’acqua fresca le brocche. Nelle case del gruppo non vi sono finestre. Non v’erano quindi le tanto temute «correnti d’aria notturne che portano malanni». Non è difficile immaginare come le case fossero colme di soffici tappeti di lana di vigogna, nonché di belle coperte e delle splendide vesti che le più abili fra le Sacre Donne tessevano per l’uso personale dell’Inca. Anche i frontoni di queste case appaiono spigolosi, costruiti in modo tutt’altro che comune. Nessun edificio di Machu Picchu, se si esclude il tempio che sta di fronte al gruppo, aveva mura altrettanto belle. Credo che questo gruppo di case sia stato abitato un tempo da Titu Cusi, dalla madre e dal fratello. Certamente essi dovevano

vivere comodamente, con certi lussi. Lo stesso Tupac Amaru probabilmente viveva qui, quando ebbe notizia della fatale malattia di Titu Cusi e della propria nomina al trono degli avi. Possiamo chiamarlo Palazzo dell’Imperatore?

I RISULTATI DEGLI SCAVI A MACHU PICCHU Nostro primo compito fu di constatare se gli scavi nei principali complessi potevano restituire avanzi di vasellame e altri manufatti, tali da far luce sugli abitanti del luogo. I nostri operai, che credevano ancora ciecamente alla favola del “tesoro sepolto”, si misero al lavoro con volontà eccezionale. Gli assaggi compiuti per mezzo di pioli e martelli nei recinti del Tempio Principale convinsero gli operai i quali, dalla risonanza, avvertivano la presenza di vuoti, dell’esistenza di cavità segrete sotto il pavimento dell’antico tempio. Fra i massi di granito, sotto il pavimento ben costruito, la nostra opera di scavo giunse fino a una profondità di più di due metri, ma questa fatica, se ci spezzò la schiena, non fu fonte che di delusione. Benché penetrassimo a fondo in ogni crepa e in ogni foro fra i massi, non vi fu nulla da scoprire: né un osso, né un coccio di vasellame. Gli scavi all’interno del Tempio delle Tre Finestre diedero gli stessi risultati negativi. Più tardi rimettemmo a posto il pavimento e lo livellammo nuovamente con cura. Ma gli scavi all’esterno e sotto le finestre portarono alla scoperta di una quantità straordinaria di cocci decorati, frammenti di vasi e di anfore, talvolta a più di un metro sottoterra. Per secoli interi dev’essere durata l’abitudine di gettare il vasellame inutile fuori dalle finestre di questo tempio. Essendo le finestre troppo larghe perché esso potesse dare ricetto a gente non accostumata a dormire all’aria aperta e soprattutto attenta ad evitare con ogni cura le correnti d’aria, è difficile che questo

edificio sia stato usato come abitazione. Tutti quei vasi erano dunque offerte per gli dèi? Non saprei dirlo. Probabilmente si trattava di vasellame rotto nel corso di cerimonie religiose o delle orge che le seguivano. Al termine di una settimana, non eravamo riusciti a trovare null’altro che questi frammenti. Cominciò a prender piede l’idea che tutti i nostri sforzi per sapere qualcosa circa i costruttori di Machu Picchu, a parte lo studio della loro architettura e dei piccoli frammenti di coccio, sarebbero falliti. Cominciammo allora a cercare quei sepolcri di cui avevo visto qualche esempio a Choqquequi rau. Il señor Don Mariano Ferro, proprietario di quelle terre e patron degli Indiani, aveva raccomandato a questi ultimi di aiutarci. Memore del successo dei doni in denaro di cui avevo già sperimentato l’efficacia col gobernador di Lucma, promisi un dollaro d’argento peruviano a chiunque mi avesse dato notizia di una tomba contenente un cranio e l’avesse lasciata come l’aveva trovata, permettendoci così di vedere il cranio nella sua posizione secolare. Il giorno seguente tutti i nostri operai disertarono gli scavi e si diedero a una febbrile caccia alle tombe. La sera, quella mezza dozzina di instancabili operai tornarono indietro lentamente, uno per uno, tristi e abbacchiati, con le speranze del premio andate in fumo, graffiati e lacerati dalle spine e dagli arbusti, sconfitti dalle scoscese pareti di Machu Picchu. Uno di essi, nel farsi strada attraverso la fitta vegetazione, si era tagliato profondamente un alluce con il machete. I cespugli aculeati e i bambù sempre più fitti non solo avevano ridotto a brandelli i loro poveri abiti, ma avevano crudelmente ferito anche i loro corpi quasi nudi. Poco esperti della regione, non avevano trovato nulla. Richarte e i suoi amici furono invece più fortunati. Non per niente erano loro che avevano coltivato quelle antiche terrazze. Ed è certo che si erano anche dati parecchio da fare, nel tentativo di scoprire il tesoro in mezzo ai raccolti. In ogni modo risposero degnamente alla promessa di un premio e tornarono verso il crepuscolo con il volto sorridente e gli occhi lustri, annunciando d’aver scoperto otto sepolcri e chiedendo otto dollari di ricompensa. Viste le retribuzioni medie delle piantagioni di canna da zucchero, otto dollari erano più di quanto tre di loro avrebbero potuto guadagnare in una settimana. Era perfettamente naturale che finora non avessero avuto troppa voglia di mostrarci la sorgente del vasellame che di tanto in tanto vendevano ai turisti di passaggio. O fors’anche pensavano che, se avessero profanato le ossa dell’antico popolo sepolto nelle vicinanze, mala sorte sarebbe toccata ai loro raccolti. D’altra parte, nulla avrebbe potuto indurli a rinunciare al cospicuo premio da noi offerto. Il giorno dopo, il dottor Eaton ed io seguimmo Richarte ed i suoi amici attraverso le rovine della città, scendendo per il declivio boscoso lungo il fianco orientale della cresta fino ad una sporgenza coperta di muschio, sotto la quale, indicataci orgogliosamente dalle nostre guide, scorgemmo una piccola apertura. Le ossa che vi rinvenimmo appartenevano di sicuro a una donna di circa trentacinque anni, caratteristica rappresentante della regione costiera centrale del Perù, probabilmente una di quelle donne attraenti, che l’Inca Titu Cusi aveva delegato a sedurre i padri agostiniani quando avevano cercato di entrare nella città di Vilcabamba l’Antica.

A giudicare dalla posizione delle ossa, costei era stata sepolta nella solita posizione contratta, con le ginocchia piegate fin sotto il mento. Con lei erano stati sepolti i resti delle sue pentole e dei recipienti per i cibi. La seconda tomba conteneva i frammenti di due piccoli crani di adulti, ma né un coccio né un bronzo. Ma la mia gioia non ebbe limiti quando, visitando la terza tomba, mi trovai fra le mani, per la prima volta a Machu Picchu, un esemplare perfetto di vasellame incaico. Si trattava di un magnifico piatto a due manici, graziosamente decorato. Questa tomba era divisa in due parti da un muro di pietra. La sezione esterna conteneva lo scheletro di una donna anch’essa di circa trentacinque anni, dal cranio di tipo oblungo, comune nelle regioni di montagna. Incoraggiati da quanto avevamo scoperto nelle prime tre tombe, il lavoro venne proseguito finché le nostre ambiziose guide indiane non ebbero scandagliato ogni parte accessibile (e molte di quelle che sembravano inaccessibili!) di Huayna Picchu e di Machu Picchu. Poiché le tombe si trovavano generalmente lungo profondi declivi rocciosi, più o meno ricoperti di fitta vegetazione tropicale, il lavoro necessario per scoprirle ed esplorarle fu estremamente arduo. L’opera dei raccoglitori, come quella di coloro che aprivano la strada, fu interrotta più volte dalla presenza di serpenti velenosi. Nondimeno Richarte e Alvarez si mostrarono infaticabili nelle loro pazienti e continue ricerche. Praticamente, essendo l’ultima tomba che aprimmo molto vicina al fiume Urubamba, non rimase inesplorato un solo metro quadrato della cresta. Furono aperte più di cinquanta tombe, che rappresentarono, per Richarte e Alvarez, un vero a proprio tesoro. Sebbene non contenessero neppure un solo oggetto d’oro, esse ci offrirono una gran quantità di resti ossei e oggetti vari e significarono prosperità per i felici Indiani, che si assicurarono in una settimana più dollari di quanti non ne avrebbero potuti guadagnare in due mesi. Alcune tombe erano suddivise in due o anche più compartimenti da sottili e irregolari diaframmi di roccia. Allo scopo di offrire una dimora sicura e relativamente asciutta alle mummie, si era tratto vantaggio da ogni sporgenza, da ogni masso, da ogni blocco. L’ingresso della grotta sepolcrale era talvolta chiuso da un rozzo muro di sassi e di terra. Quando questo muro era in buone condizioni, le ossa degli scheletri giacevano generalmente, vuoi direttamente sul pavimento della tomba, vuoi interrate a pochissima profondità, proprio nella stessa posizione in cui erano cadute allorché i bendaggi della mummia si erano disfatti. Quando invece il muro era in cattive condizioni, così da permettere l’ingresso nella tomba a cacciatori di tesori o ad animali selvatici, le ossa e gli oggetti apparivano disseminati per tutta la tomba e persino al di qua del muro di protezione. Quando invece i corpi erano stati semplicemente sotterrati, l’entrata alla tomba era contrassegnata da un muretto molto alto o da una rozza terrazza. Solo in rarissimi casi i corpi erano stati interrati in tombe dette “a forma di bottiglia”. La zona delle prime tombe da noi aperte la indicai come zona del Cimitero n. 1. Essa si trova a mezza altezza sul fianco della montagna, a nord-est della città, sul limite di un precipizio. Sotto i massi e le sporgenze di tale zona, rinvenimmo i resti di circa cinquanta tombe individuali. Il dott. Eaton, il nostro osteologo, giudicò che fossero tutte tombe di donne, meno quattro che chiaramente contenevano i resti di corpi

maschili. Era una scoperta veramente interessante e significativa, perché lasciava supporre che gli ultimi abitanti di Machu Picchu erano stati le Sacre Donne, le “Vergini del Sole” associate ai santuari in cui il Sole veniva adorato. A circa trecento metri a sud della prima tomba, scoprimmo un altro gruppo di grotte sepolcrali. Chiamammo la zona Cimitero n. 2. In essa erano segni evidenti di tombe più antiche, distrutte per far posto ad altre. Anche qui rinvenimmo i resti di una cinquantina di individui, solo cinque o sei di sesso maschile; tutto stava ad indicare che dovevano essere stati di nobile nascita. Gli indizi, che permettevano di inferire l’effettiva esistenza, in loco, di una “Università dell’Idolatria”, cominciavano ad accumularsi. Era qui, dunque, che alle Sacre Donne si insegnava a tessere stoffe stupende e a preparare la chicha per gli Inca? Riuscimmo a localizzare il luogo di sepoltura della somma sacerdotessa del convento, la persona direttamente responsabile dell’istruzione delle Sacre Donne. Si trovava in una zona molto bella, su una terrazza sostenuta da un muro di pietra, circa 300 metri più in su della sezione più alta delle rovine. La terrazza sorgeva al culmine di altre terrazze agricole ed era collegata a quelle superiori per mezzo di due rampe di scale. Era sovrastata quasi completamente da un enorme masso che sembrava il picco di una grigia montagna di granito. La liscia parete prospicente del masso era alta almeno quindici metri. Per la costruzione della terrazza era stato fatto uso abbondante di roccia e di ghiaia. Protetta contro il feroce ardore del sole meridiano, offriva un ideale luogo di riposo per la defunta madre superiora. Vicino alle ossa trovammo i suoi beni personali, il suo vasellame e lo scheletro del suo cane, una razza di pastore allevato dagli Inca. Le proprietà della signora comprendevano due lunghi spilloni di bronzo, pinzette di bronzo, due aghi fatti con aculei vegetali, e una squisita e minuta curette di bronzo, che recava incisa la testa di un uccellino. Oltre a qualche piccolo frammento di manufatti di lana e fibre vegetali, c’erano due anfore a forma di volti umani modellati e dipinti: un tipo di suppellettile piuttosto raro. C’era anche una bella pentola a olla, rifinita con molta cura e ornata da un serpente in bassorilievo. Ma l’oggetto più interessante sepolto con quella gran dama era uno specchio concavo di bronzo. Oggi uno specchio concavo non è molto più difficile da fabbricare di uno specchio piatto, ma è pur sempre uno degli articoli da toilette meno comuni. Noi sappiamo che in occasione di certe cerimonie la MarnaCuna, o Madre Superiora delle Vergini del Sole, doveva dar fuoco a un batuffolo di lana facendovi convergere i raggi del sole per mezzo di uno specchio di bronzo concavo. Ignoro se fosse un risultato realmente raggiungibile ma, come ebbe a dire il dottor Eaton: «Anche se la sacerdotessa non riusciva a dar fuoco al batuffolo con i raggi riflessi del Dio-Sole, il sacro mistero poteva ugualmente esser reso evidente ai devoti presenti alla cerimonia, ricorrendo a un piccolo trucco». In ogni caso, non era difficile credere che una signora che poteva disporre di un così bel vasellame, di un cane pastore, di begli articoli da toilette e di un elegante specchio concavo dovesse aver fatto un’ottima carriera al servizio del Sole. Un esame patologico dello scheletro di questa donna dalle forme apparentemente aggraziate, mostrò che sfortunatamente era stata tormentata dalla sifilide.

Comunque, le era stato riservato un luogo di riposo veramente degno, sotto una grande e splendida roccia e accanto a una terrazza perfettamente costruita, da cui si poteva godere una magnifica vista sia della città sacra che dello splendido canyon e delle cime montane incappucciate di neve. Vista la ricchezza del materiale sepolto con la dama e dell’importanza di lei (nessun’altra tomba conteneva nulla di così elegante), e data la fortuna da cui fummo aiutati alla scoperta di questa tomba mai profanata ancorché situata nel cimitero più notevole di Machu Picchu, è un peccato che nemmeno un oggetto d’oro fosse trovato nella tomba, come non fu mai trovato in altri luoghi. L’oro doveva essere ben scarso, se per una gran dama come quella ivi sepolta non se ne era sprecato neanche un pezzetto. Forse, anche se ne ebbe di sua proprietà, le fu confiscato per inviarlo allo sfortunato Atahuallpa che perse la vita per non esser riuscito a riempire d’oro una stanza. D’altra parte, dato che il viceré Toledo si assicurò un ricco bottino quando riuscì a catturare l’ultimo Inca, è probabile che il giovane Tupac Amaru avesse portato con sé, nella fuga, tutti gli ornamenti e oggetti d’oro esistenti. Fra i vari reperti osteologici rinvenuti sotto la superficie di un’altra grotta c’era, insieme ad uno scheletro piuttosto mal ridotto, il frammento di un cranio maschile ampio e pesante. Il cranio apparteneva senza dubbio a un maschio adulto del tipo costiero, e anche le altre ossa erano di proporzioni corrispondenti. Vicino al cranio, e presumibilmente sepolta con esso, c’era una leva di bronzo, un champi, una delle migliori da noi rinvenute. Forse il suo proprietario era stato, molto tempo prima di Manco II e dei suoi figli, uno degli architetti che aveva eretto la città. Oltre a ossa umane, trovammo moltissime ossa di llama, sia sotto il pavimento delle grotte che attorno e sopra le sepolture. Tuttavia, se si escludono quelle inferiori delle zampe e quelle del ginocchio, non riuscimmo a rinvenire un solo osso di llama intero. Probabilmente quelle più grandi erano state spezzate affinché gli amici del morto potessero succhiarne il midollo. In una grotta trovammo la tomba intatta di una giovane donna, contenente, oltre alle ossa, anche due grossi spilli da scialle. Doveva trattarsi di persona di una certa levatura sociale, perché gli spilli erano d’argento. Nei pressi della tomba trovammo poi una mola grande e piatta, di forma piuttosto rara. Poiché una delle occupazioni principali delle Sacre Donne era quella di preparare la chicha per l’Inca, per i nobili e per i sacerdoti schiacciando il cereale dopo che era stato fatto bollire, si trattava probabilmente di una delle mole in uso presso il santuario. Sui versanti settentrionali del Machu Picchu, sopra le rovine, scoprimmo un’ampia grotta lunga nove metri e larga almeno cinque. Sebbene contenesse una tomba murata, la caverna sembrava essere stata usata come abitazione primitiva o come rifugio. Non v’era muro di protezione, ma le pareti laterali e il fondo erano stati ben rifiniti con pietre perfettamente connesse l’una all’altra, probabilmente per garantire, almeno in parte, che l’enorme masso, una porzione del quale formava il tetto del rifugio, non crollasse sugli occupanti. Poiché, salvo quelle che erano nella tomba murata sul fondo, non vennero ritrovate ossa umane, sembra possibile arguire che questa bella caverna asciutta costituiva una sorta di rifugio, destinato forse ai cavatori di pietre.

In un’altra grotta scoprimmo una vera collezione di piccole ossa di vari animali: penso che fossero state raccolte dalla giovane ivi sepolta, allo scopo di farne qualche oggetto ornamentale, ipotesi confermata dal fatto che nella tomba c’erano anche parecchi esemplari di quegli strumenti a punta usati dalle tessitrici peruviane per lavorare la trama di tessuti. E’ interessante notare come in quasi tutte le tombe in cui erano state sepolte delle donne, si trovassero le loro pentole di cottura annerite dal fuoco. Erano poste di solito in cima al tumulo, quasi mai accompagnate da ceramiche di tipo diverso. In una tomba trovammo anche un frammento di belletto rosso. In un’altra piccola grotta due donne adulte di piccola statura erano state sepolte insieme, a una profondità di circa un metro e mezzo. Sopra le loro ossa, ma ben nascosto sotto la terra e i ciottoli del pavimento, v’era un servizio completo di piatti e di giare nello stile di Cuzco, il tutto di tono molto femminile. Esso comprendeva due olle da cottura a forma di coppa, due piatti col doppio manico, due anfore e due recipienti per liquidi da rinfresco. Evidentemente le proprietarie erano signore di riguardo. Non molto lontana da questa scoprimmo un’altra tomba, contenente lo scheletro di una donna che doveva essere stata una favorita dell’Inca. Aveva accanto un coltello di bronzo, uno spillone di bronzo e altri due d’argento d’uguale forma e dimensione. Anche oggi, fra le donne indiane di un certo livello del Perú e della Bolivia, questi spilloni costituiscono spesso le proprietà personali di maggior valore. Una tomba singola rivestita all’interno di pietre e intatta conteneva le ossa di una donna e quattro pendenti oblunghi di pietra, probabilmente elementi di una collana. Le collane di materiale durevole, come questo, erano però tutt’altro che comuni. Altrove, un grande masso copriva i resti di tre donne e di un bambino di sei anni. Richarte mi condusse un giorno, lungo un sentiero stretto e pericoloso che correva sotto le rupi del lato occidentale di Huayna Picchu, a un’ampia grotta lunga circa trenta metri e parzialmente limitata da muri di pietre ben squadrate. Era stata usata sicuramente come rifugio da un considerevole numero di persone, ma non è da escludersi che fosse stata usata anche come sepolcro. Data la sua accessibilità dai declivi inferiori di Huayna Picchu e per il fatto che non vi mancava l’acqua, era ben nota a Melchor Arteaga e ad altri indiani cacciatori di tesori. Nondimeno era perfet tamente sconosciuta a Richarte, e la sua scoperta l’aveva eccitato grandemente, poiché sperava di potersi assicurare un buon premio. Ma la caverna non conteneva assolutamente nulla, neanche un osso, e grande fu il disappunto di Richarte. Buona parte di queste grotte ad uso sepolcrale mostravano di essere state profanate molto tempo prima, quando la città era ancora abitata. Lo scopo dei visitatori era stato di far posto a nuovi defunti, spostando in un angolo, senza tanti complimenti, coloro che vi erano stati deposti in precedenza. Altri visitatori esse ebbero probabilmente, e furono i cacciatori di tesori delle passate generazioni. Risulta ad esempio che un certo señor Lizarraga vendesse una volta un paio di vasi che disse provenienti da Machu Picchu, ma la difficoltà d’arrampicarsi fino alle rovine e il basso prezzo che ne ricavò lo dissuasero probabilmente dal compiere sforzi più seri per localizzare le tombe. D’altra parte, anche Richarte e i suoi amici avevano avuto ben poca convenienza a farlo prima del nostro arrivo e con la conseguente possibilità

di ottenere premi in denaro. Altrimenti, non avrebbero potuto vendere più di un’olla o due prima di essere scoperti dai proprietari dei terreni frugati in cerca di tombe, i quali avrebbero indubbiamente preteso la loro parte. Una grotta posta a sessanta metri dalla porta della città conteneva gli scheletri ben conservati di due uomini, uno di circa vent’anni, l’altro apparentemente di mezza età. Certamente non erano né architetti né muratori, poiché sepolti con loro non trovammo né un mazzuolo né una leva. Il più giovane aveva con sé un pendaglio da collana elaboratamente inciso e di disegno unico, un certo numero di grani d’osso e un frammento di qualcosa che sembrava una pallina di vetro verde fuso. Il più anziano aveva pochi ornamenti: piccoli simboli di pietra e pendagli da collana fatti di bronzo. Aveva anche un’anfora, l’unica che ci fu dato scoprire non associata alle ossa di una donna. Le sue ossa erano ancora ben lontane dall’essersi disfatte, i muscoli della coscia sinistra aderivano ancora al periostio. C’erano anche alcuni pezzi di stoffa e un pezzo di corda fatta di lana di llama. Evidentemente era questo uno dei sepolcri più antichi. È curioso e significativo che questi due uomini avessero ornamenti femminili e un’anfora da donna. Il loro insolito luogo di sepoltura, i loro ornamenti femminili, l’assenza di oggetti maschili nella tomba, la presenza di una massa muscolare disseccata ma ancora aderente alla coscia dell’uomo più anziano, la piccola anfora: tutto prova il carattere di eccezionalità del rinvenimento dei due scheletri. Perché erano stati sepolti in questo luogo insolito? Erano forse visitatori importuni che aveva no cercato di penetrare nella città sacra ed erano poi stati sepolti vicino alla porta, senza essere ammessi nella società delle Vergini del Sole? E cosa dire della pallina di vetro verde? Dove se l’era procurata il giovane? Poiché essa era molto probabilmente di origine europea. Era una piccola cosa, ma sembrava indicare, comunque, che il giovane doveva essersi recato qui dopo che gli Spagnoli aveva conquistato Cuzco. Erano forse spie, questi uomini, mandate dagli Spagnoli a cercare il rifugio delle Vergini del Sole che erano fuggite da Cuzco? O portavano dei doni per le Sacre Donne, collane, una piccola anfora, preziosi grani di vetro, tutte cose che esse non potevano mai aver visto prima? È un enigma insolubile. Come si ricorderà, i nostri scavi nella fortezza di Vitcos, ultima capitale degli Inca, portarono al ritrovamento di un certo numero di articoli di fabbricazione europea, fra cui una fibbia, un paio di forbici, diversi ornamenti da sella e simili. Ora, se Machu Picchu fosse stata nota ai conquistatori o fosse servita da base ai soldati dell’Inca che partendo da là (come avevano fatto i seguaci dell’Inca Manco) avrebbero potuto assalire e spogliare i viaggiatori spagnoli, avremmo dovuto trovare anche qui simili oggetti di provenienza straniera. In una grotta posta a mezza altezza sul dosso del versante della montagna, e a una considerevole distanza dalla città e dai cimiteri principali, trovammo una sottile lastra di ferro arrugginita, che sembra va poter essere il frammento di una lama di coltello. Non c’era motivo di pensare che non potesse trattarsi del frammento del coltello di un cacciatore di tesori, particolarmente in ragione del fatto che nella grotta non trovammo né og getti di bronzo né vasellame di qualche valore. La presenza di numerose pietre artisticamente incise a forma d’animale ci indusse però a pensare che un tempo

dovessero trovarsi in questa tomba altri oggetti ugualmente attraenti. Se si esclude la pallina di vetro verde, nessuna delle tombe poste nei pressi della città o nei Cimiteri 1 e 2 conteneva segni evidenti che le persone lì sepolte avessero avuto contatti con i conquistatori spagnoli, per cui sembra ragionevole concludere che gli ultimi abitanti della città perirono tutti senza essere stati visitati da un solo europeo. Da un elenco preciso del materiale osteologico rinvenuto nelle caverne e nelle tombe risulta che i resti dei corpi sepolti erano appartenuti a 173 individui diversi, di cui forse 150 donne, percentuale straordinaria se non si fosse trattato di un santuario di cui abitanti erano quasi unicamente le Sacre Donne del Sole. Data l’ampiezza e l’importanza della città e il vasto numero di persone che dovevano essere state impiegate come operai agricoli, spaccalegna e portatori d’acqua, dentro e nei pressi del santuario, è possibile che solo alle persone d’alto rango, ai sacerdoti e alle Sacre Donne fosse concesso di venir sepolti nelle caverne vicino alla città. E dubbio che a persone le quali non fossero membri della famiglia dell’Inca o in qualche modo addette al grande santuario, fosse concesso di oltrepassare le porte della città. E questo giustifica l’assenza di ossa di semplici operai. Per di più, benché quasi tutti i sepolcri contenessero frammenti di vasellame, soltanto uno restituì un frammento di braciere a tre zampe. Evidentemente le persone le cui ossa avevamo trovato nelle grotte, non usavano bracieri da metallurgia, poiché lavori del genere erano riservati agli artigiani. Si sa che l’arte del trapanare il cranio era praticata abbastanza ampiamente nell’antico Perù. Offre quindi considerevole materia di riflessione il fatto che nessuna delle tombe aperte sui versanti di Machu Picchu e di Huayna Picchu contenesse un solo cranio trapanato. Invece, praticamente tutte le grandi tombe da noi aperte nella vallata entro un raggio di trenta miglia contenevano un certo numero di crani trapanati. Evidentemente i guerrieri le cui ferite richiedevano questo trattamento non vivevano a Machu Picchu. Anche nella città vennero intrapresi scavi pazienti e sistematici. Lo scavo che ci diede maggiori frutti fu quello operato sulla cresta posta a sud della piccola piazza su cui si erge il Tempio delle Tre Finestre, e precisamente fra questa piazza e la porta della città. Nella zona si leva un numero considerevole di rocce di notevoli dimensioni. Probabilmente si trovavano qui le cave da cui venivano estratte certe pietre da costruzione. A poche centinaia di metri di distanza dal culmine della scalinata maggiore, Erdis scoprì un enorme masso sulla cui faccia superiore erano state incise numerose figure di serpenti. Lo chiamammo la Roccia dei Serpenti. Doveva essere stato il centro del cimitero originale, di parecchio anteriore all’ultimo stanziamento. Sotto la roccia, Erdis trovò una grotta che conteneva i frammenti di un cranio e una mandibola, ma nessuna delle ossa principali dello scheletro. Non lontano dalla Roccia dei Serpenti fu dissotterrato un piccolo, artistico coltello di bronzo rappresentante un giovane pescatore con la sua preda: un esemplare unico, che il dott. W. H. Holmes classificò tra i più belli dell’antica scultura in bronzo mai ritrovato in America. Senza dubbio si trattava di un esempio notevolissimo della

maturità raggiunta da un’arte che non disdegnava di rappresentare le normali attività d’ogni giorno. Il pezzo è conservato attualmente presso lo Yale Museum. Trovammo anche, nelle vicinanze della Sacra Piazza, numerose cavità purtroppo tutte vuote. È difficile dire se erano state depredate dai primi cercatori di tesori che visitarono la città o se fossero già vuote molto tempo prima. Io propendo per la seconda ipotesi, prima di tutto perché i cercatori di tesori non erano tipi da mettersi a rimuovere ogni osso, e poi perché in quell’umido clima sub-tropicale le mummie e gli involucri delle mummie non possono, come invece accade per le mummie dei cimiteri dell’arido deserto costiero peruviano, essersi conservate così bene da poter avere valore commerciale. Il quartiere nord-ovest, che includeva il Tempio Principale, la Sacra Piazza e il Tempio delle Tre Finestre, conteneva una quantità di materiale oltremodo esigua. Praticamente, sul Colle dell’Intihuatana e negli edifici della piazza non v’era nulla, e la cosa fu per noi causa di grande disappunto. Il quartiere sud-ovest della città sorge a un livello considerevolmente più basso di ogni altro ed è costituito da case costruite piuttosto poveramente, per cui non ci attendevamo di trovar molto. Invece vi ritrovammo i resti di circa 75 pentole. Il quartiere sud-ovest della città, dalla Porta Principale alla Scalinata delle Fontane, contiene le abitazioni più belle, il Mausoleo Reale e il vero cuore della vita cittadina, la strada centrale e il serbatoio dell’acqua. Non fummo quindi sorpresi di trovarvi migliaia di cocci. Vicino alla porta della città trovammo più di cinquanta anfore intere; frammenti di più di cento altre anfore, trovammo vicino al complesso architettonico in cui probabilmente era vissuto lo stesso Inca. Sulla cima della cresta rinvenimmo tutta una serie di piccole pietre, di forma curiosa e di un tipo che raramente è dato di incontrare in qualsiasi museo. Le loro dimensioni erano fra le più varie: alcune avevano forma di gettoni da poker, altre erano incise con disegni fantastici. Sebbene il loro uso fosse problematico, a me sembravano null’altro che, appunto, gettoni per giocare o le cosiddette pietre da “registrazione”. Molte erano fatte da ardesia verde, schisto cloritico o micaceo, una piccola quantità del quale si trova al piede di una delle pareti del Machu Picchu. Queste “pietre da registrazione” costituiscono una delle scoperte più interessanti da noi compiute: si tratta di centocinquantasei dischetti di pietra, frutto di una cultura più vicina a noi di quanto non fosse quella rappresentata nella maggioranza dei sepolcri. D’altra parte è assai probabile che servissero a qualche occupazione a cui le Sacre Donne non erano ammesse. La metà di essi aveva un diametro massimo di due centimetri e mezzo ed erano più numerosi i dischetti piccoli dei grandi, e forse la maggior quantità di dischetti di proporzioni minori era dovuta alla necessità di avere un numero sufficiente di “spiccioli”. Questo, a meno che i due dischi più grandi, i quali rispetto agli altri sembravano sproporzionati, non fossero che semplici coperchi di anfore per la chicha. Essi apparivano rozzamente tagliati e solo parzialmente levigati e appiattiti. D’altra parte, tutti i dischi di una certa grandezza erano in genere di fattura piuttosto rozza; solo uno era inciso, e precisamente il maggiore della serie regolare. Aveva un

diametro di circa tredici centimetri; su un lato, al centro, portava incisa una croce le cui braccia non superavano ciascuna i cinque centimetri. Dei dischi, quattro erano perforati, e i bordi di uno erano intaccati da quattro piccole incisioni. Altri erano assottigliati al punto da esser quasi trasparenti. Mentre su una dozzina circa di dischi si potevano notare scalfitture di origine incerta e segni rassomiglianti a intaccature praticate a bella posta, nessuno di questi graffi o tacche pareva obbedire a una regola. Poiché lo schisto verde micaceo è piuttosto friabile e facile da incidere, è lecito supporre sia che fossero tacche fatte volutamente, sia che fossero segni provocati dall’attrito. Io propendo però piuttosto per la prima ipotesi, e cioè che un tempo portassero tanti segni quanti ve n’erano sui cubi d’argilla disseccata al sole che descriveremo più avanti. Trovammo quarantadue di questi gettoni da numerazione di schisto verde. La collezione comprendeva anche diciannove “gettoni” triangolari, rinvenuti quasi tutti nello stesso luogo. Nessuno d’essi proveniva dalle tombe. Alcuni, fra quelli oblunghi e triangolari, erano perforati, quasi fossero stati usati come boccole o amuleti. In una tomba rinvenimmo quattro piccoli gettoni di pietra verde, incisi in modo da rappresentare un abitante della foresta. Probabilmente furono sepolti assieme al loro proprietario, forse l’artista che, incidendo su di essi la silhouette di un pecari, di un formichiere, di una lontra e di un pappagallo, volle eternare il ricordo di una visita alle foreste dell’Urubamba. Su altri gettoni erano miniati un boomerang, i contorni di una pipa, la testa di un animale. Numerosi erano quelli tagliati in forma di coltelli di bronzo in miniatura. Poteva trattarsi di offerte agli dèi della metallurgia, fatte nella speranza che le fusioni in bronzo riuscissero bene. Pietre simili a queste sono state trovate sull’isola de La Piata, al largo della costa dell’Ecuador. Un eminente archeologo peruviano, il señor Gonzales de la Rosa, è convinto che di tale pietre si servirono, per la numerazione o la registrazione, i predecessori degli Inca. Gli Inca stessi usavano, come s’è detto, i quipus, cordicelle annodate di diverso colore e divise in serie decimali. Velasco, autore di una Storia del Regno di Quito, riporta alcune citazioni da un’antica cronaca missionaria spagnola, opera di padre Marco da Niza, ora caduta nell’oblio più assoluto. Il frate dice che i Caras, gli antichi dominatori dell’Ecuador, «usavano una specie di scrittura più imperfetta di quella ottenuta coi quipus peruviani». Essi tenevano le loro registrazioni per mezzo di «piccole pietre di colore, forma e dimensioni diverse» che conservavano in appositi recipienti di legno, pietra o argilla. «Combinando queste pietre, essi perpetuavano le loro imprese e facevano il conto». Che il sistema fosse insoddisfacente e imperfetto, è dimostrato dal giudizio di Velasco ove dice che alcuni, consultando i depositi delle pietruzze, ne concludevano che in un periodo di settecento anni si erano succeduti diciotto regnanti, mentre altri ritenevano che gli stessi regnanti fossero vissuti in un periodo di soli cinquecento anni. Nel riferire i costumi sepolcrali dei regnanti preincaici di Quito, Velasco dice che sopra la mummia di ogni signore si trovava una piccola nicchia nella quale «erano le pietruzze di varie forme e colori che indicavano la sua età e gli anni e i mesi del suo regno». Il professor Saville nota che certe piccole pietre di differenti dimensione,

forma e colore, si usavano per tramandare le notizie di carattere storico e d’altro genere in diversi luoghi della costa occidentale dell’Ecuador, non lontano dalla frontiera meridionale della Columbia. Probabilmente i Caras furono conquistati dagli Inca e costretti ad adottare le loro costumanze, fra cui anche l’uso del quipus. Il rinvenimento a Machu Picchu di simili pietre fatte con il locale schisto verde starebbe a indicare che, in qualche momento della sua storia, Machu Picchu fu abitata da un popolo che non aveva ancora appreso l’uso delle cordicelle. Può però anche darsi che le pietruzze vi fossero state portate, dall’Ecuador, dagli stessi Inca. Non mi risulta che ne siano state rinvenute in nessuna altra parte della regione, per cui, non fosse stato per le scoperte fatte dal professor Saville, non avremmo saputo che pensare di quei piccoli gettoni verdi. Date le circostanze, nulla impedisce di credere che le alte nicchie del Tempio Principale fossero destinate proprio a contenere le “pietre da registrazione”. La cosa spiegherebbe anche la ragione della loro ubicazione: evidentemente erano state poste così in alto per evitare che venissero toccate e confuse. E il fatto che quelle nicchie non contenessero niente al momento del ritrovamento non infirma necessariamente l’ipotesi. In primo luogo, quando si rinunciò all’uso delle pietruzze in favore del quipus, è probabile che esse fossero rimosse per ordine dell’alto sacerdote e sepolte presso la Sacra Piazza. In secondo luogo, quando il Tempio Principale non fu più adibito al culto, i sacerdoti possono aver portato via o nascosto le pietruzze che si trovavano nelle nicchie. In uno scavo nei pressi della porta della città, trovammo ventinove ciottoli di ossidiana. La presenza di questo grossi frammenti arrotondati di vetro vulcanico in alcune località in cui da un pez zo non si erano verificati vulcanismi, ci convinse che si trattava di oggetti di provenienza extraterrestre, probabilmente di origine meteoritica. Comunque, il fatto che si trovassero sepolti nei pressi della porta della città sembrerebbe indicare che furono impiegati come pietre da registrazione o forse per incidere tacche sui gettoni usati da coloro che fornivano la lana di alpaca alle Sacre Donne. Trovammo anche dei gettoni di argilla cotta al sole, oggetti estremamente rari nelle collezioni di antichità peruviane. V’erano anche pochi gettoni di argilla a forma pentagonale, segnati sui cinque lati in modo da far pensare che fossero usati per contare sino a cinque. Sempre di terracotta, trovammo anche tappi a forma d’orecchietta, fischietti simili a flauti, piatti dipinti e oggetti a forma di dado, incisi da righe isolate e crociate, chiaramente intese a rappresentare un sistema numerico. Di questi dadi si sa ben poco, e sebbene a Machu Picchu fossero piuttosto comuni, non mi risulta che alcun museo del mondo ne possegga. Nella sua storia degli Inca, Montesinos dice che prima dell’invenzione dei quipus, o cordicelle mnemoniche annodate, esisteva un altro metodo di registrazione. Poiché la tradizione rivelata da Montesinos si riferisce ad un periodo di parecchi secoli più antico, è possibile che il vecchio metodo di scrittura fosse basato proprio sull’uso delle pietruzze e dei cubi di terracotta incisa. È anche possibile che l’uso di tali pietruzze avesse raggiunto a Machu Picchu un grado molto più avanzato che non in altre zone del Perù, e che poi l’invenzione dei quipus e la facilità con cui essi

potevano essere adattati a un sistema decimale, abbia arrestato il diffondersi del metodo dei “gettoni”. Comunque è interessante notare che a Machu Picchu avemmo la prova che qui era in uso un sistema di annotazione differente da quello impiegato dagli Inca al tempo della conquista spagnola. Inoltre, a Machu Picchu trovammo anche dei discoidi, delle cannucce perforate usate forse come innaffiatoi, delle punte per aghi e spolette, bobine, pietre usate per la lucidatura, raschietti, coltelli, pastelli, mortai a pietre per la macinatura. V’erano due pestelli a forma di cilindro, lunghi circa 18 cm e di cinque o sette cm di diametro, tagliati e levigati con molta cura. Alcuni mortai erano invece semplicemente delle cavità circolari od oblunghe, praticate in blocchi rettangolari rozzamente squadrati. Nel corso degli scavi compiuti sulla cresta del Machu Picchu, nei pressi della Roccia dei Serpenti e del Tempio delle Tre Fontane rinvenimmo i cocci di un bellissimo piatto decorato, originariamente ricavato da un unico pezzo di schisto. La sua forma e il suo disegno erano così inusitati, che Erdis si mise a scavare ogni piede di terreno fino ad un profondità di 60 cm., entro un’area piuttosto estesa. Riuscimmo a ricomporre, pezzo per pezzo, tutto il piatto, che era probabilmente pre-incaico e quindi molto antico. Esso è lungo circa 20 cm e largo 13, per un’altezza di circa 6 cm. Più tardi venne trovato un altro piatto dal disegno simile, ma di dimensioni minori. Oltre a ciò, rinvenimmo numerosi piatti e ciotole di pietra grezza. Poiché questi oggetti sono molto richiesti dai collezionisti di antichità peruviane, non è da meravigliarsi che ne trovassimo pochi. In tutte le tombe visitate, gli oggetti di pietra rinvenuti erano relativamente scarsi. Raccogliemmo, ancora, un centinaio di esemplari di bronzi incaici, fra cui asce, scalpelli, bastoni, spilloni e coltelli. Numerosi anche i reperti di bracieri adoperati per la loro fabbricazione. L’uso rude e continuo li aveva così mal ridotti che non fu possibile reintegrarne neppure uno. Reperti degni di nota furono anche certi mazzuoli paleolitici. Ve n’erano a centinaia: duri e compatti ciottoli di diorite o d’altro materiale molto solido. Presentavano a volte lievi depressioni, che permettevano al pollice e alle altre dita di tenerli con sicurezza, ma in molti esemplari solo la punta scheggiata provava che un tempo il ciottolo era stato usato come mazzuolo. Uno di tali strumenti, lungo venti centimetri e del diametro di dieci, portava segni evidenti d’essere stato usato, dal suo ingegnoso proprietario, per tre scopi diversi. Quest’originale oggetto a triplice uso aveva, su un lato, una piccola depressione che gli permetteva di essere utilizzato come mortaio per la frantumazione di pimenti; le due estremità erano state raschiate in modo che servisse come mazzuolo; un lato era stato arrotondato in modo che potesse servire da pestello. Fra gli oggetti di legno rinvenuti, va ricordato il frammento carbonizzato di un piatto che doveva aver avuto un diametro di 15 cm e una profondità di tre; un bel tornito uncinetto lungo 13 cm con la parte inferiore (il manico) leggermente appiattita e i bordi incisi e decorati col disegno di una piuma; un ago di 12 cm di lunghezza, tratto da una spina grande e robusta, con la base appiattita e perforata; un altro ago, lungo circa 10 cm e con un piccolo anello di metallo saldato alla base. Non trovammo

nessun esempio di quegli oggetti di legno pitturati che si possono vedere frequentemente nelle collezioni di antichità di Cuzco e che sembrano frutto di un’arte praticata durante i giorni più tardi della conquista spagnola, sotto l’influenza del gusto europeo. Trovammo anche quattro oggetti d’osso: un bobina fatta probabilmente con la parte superiore di un femore e tre utensili a punte, di quelli usati tutt’oggi, nei telai a mano del Perù, per cardare il filo di lana. Due erano perforati; uno aveva un manico graziosamente decorato e rappresentava due uccelli fronteggiantisi. La conoscenza che abbiamo dei tessuti fatti e indossati a Machu Picchu, poggia soprattutto sui begli esemplari di cui abbiamo già parlato e che furono trovati nelle tombe del deserto costiero peruviano. Comunque, sappiamo da Rodríguez, il quale ne fece esperienza personale, che Titu Cusi e molti dei suoi nobili erano sontuosamente abbigliati. In questo clima così umido (avemmo rovesci di pioggia frequentissimi anche nella stagione cosiddetta asciutta) non si può pensare che gli abiti potessero conservarsi a lungo. Solo in alcuni dei sepolcri meglio costruiti e difesi dalle intemperie, trovammo piccoli frammenti di stoffa di lana meravigliosamente tessuta. Ed erano, nonostante tutto, così malandati che riuscì impossibile determinare le dimensioni o la natura degli abiti originali. Rinvenimmo anche un orecchino di terracotta, la cui superficie esterna era tutta a forellini in cui una volta, probabilmente, erano state inserite piccole piume multicolori. Sappiamo che i nobili incaici si distinguevano per la grandezza degli ornamenti che portavano agli orecchi, il lobo dei quali doveva essere perforato ed allargato per poterli ricevere. Fu tale usanza che indusse i conquistatori spagnoli a chiamarli orejones, cioè “orecchioni”. Gli Inca avevano una passione irresistibile per i colori brillanti e per l’uso delle piume degli uccelli della foresta con cui ornarsi e coprirsi. Trovammo, nella zona, molti uccelli. Infatti la valle dell’Urubamba è uno dei percorsi obbligati per gli uccelli che, dagli altipiani, migrano verso le pianure. La collezione di mammiferi frutto delle mie spedizioni peruviane consiste di novecento esemplari, appartenenti ad ottanta specie. La collezione di uccelli è di settecento esemplari, ma comporta un numero di specie nettamente superiore a quello dei mammiferi. Approssimativamente trovammo quattrocento specie di uccelli, molte delle quali rappresentate da un solo esemplare. Oltre ai mammiferi e agli uccelli, raccogliemmo esemplari di circa venti specie diverse di serpenti, dieci lucertole e una certa varietà di pesci.

ALLA RICERCA DELLE STRADE INCAICHE PER MACHU PICCHU Una volta rimesse quasi completamente a nudo le rovine, il problema più urgente era quello di individuare l’ubicazione delle principali strade che un tempo univano la città alla regione circonvicina. Riuscimmo a localizzare una strada pavimentata che andava in direzione sud, partendo dalla porta della città, procedendo lungo le terrazze e dietro la sella montana, sotto la vetta del Machu Picchu. Ma una frana l’aveva parzialmente cancellata. Sull’altro lato della piccola altura che s’era venuta a creare a causa della caduta di massi, riuscimmo però a rintracciarla, prendendo poi per una bella scalinata di granito sino alla sommità della cresta orientale del monte. A questo punto la scalinata si divideva. La biforcazione di sinistra conduceva verso alcune cime apparentemente invalicabili sul fianco sud della montagna, la biforcazione di destra seguiva il versante della montagna sino alla sommità. Lì, come si è già detto, trovammo le rovine di una casa incaica, in cui potevano prender posto una dozzina di soldati, e una stazione di guardia e di segnalazione accuratamente sistemata a terrazza e sita proprio sulla vetta del picco sovrastante il ponte di San Miguel sul fiume Urubamba, 1200 m più in basso. Un Indiano ci disse che in una regione di alte montagne e di invalicabili giungle a sud del monte di Machu Picchu c’erano altre rovine. L’idea di compiere esplorazioni in una regione che anticamente doveva essere stata strettamente legata alla città, ci tentava fortemente. Il mistero delle profonde vallate che giacciono nella zona nordorientale del gruppo montano del Salcantay richiedeva da tempo una soluzione. Tali vallate, separate da Ollantaytambo e da Amaybamba dal Gran Canyon dell’Urubamba, protette verso Cuzco dalla gigantesca barriera del Salcantay, isolate da Vitcos da profonde valli inospitali e da desolate regioni chiamate punas, perennemente battute dal vento, sembravano essere state sconosciute anche ai conquistatori spagnoli, e i loro storici forse non ne sospettavano neppure l’esistenza. Garcilaso de la Vega, dal quale il Prescott trasse buona parte del materiale per il suo affascinante volume Conquest of Perù, non fa riferimento alcuno ad altri luoghi situati con certezza nella zona di Machu Picchu. Cobo e Baiboa, nei loro

particolareggiati rapporti sulle conquiste compiute dagli Inca, limitano il loro racconto unicamente alla zona da noi visitata. Un giorno un indiano di sangue quechua, il mio più valido assistente indigeno, riuscì a localizzare i resti di un’antica strada incaica che uscendo dalla valle di Pampaccahuana correva all’incirca in direzione del Machu Picchu. In pari tempo ci era giunta voce che in quella direzione si trovavano alcune rovine incaiche. Ci fu detto che «c’era un gran tempio costruito su un’isola proprio al centro di un lago, un luogo bellissimo, più bello di Machu Picchu». Fu con un misto di scetticismo e di curiosità che ci mettemmo in marcia, per seguire la strada appena scoperta e vedere dove conduceva. Essa cominciava nei pressi di un affluente dell’Urubamba, non molto lontano da Ollantaytambo e proprio nel punto di incontro del fiume Huayllalamba con il Pampaccahuana, vicino ad un piccolo edificio in rovina. Posto su un promontorio sopra i due fiumi, questo era stato probabilmente un tampu o locanda lungo l’antica strada. Ci eravamo assicurati i servigi di una guida indigena che diceva di saper tutto a proposito del «celebre tempio al centro di un lago nel cuore delle montagne», ma costui non si fece vedere e dovemmo partire senza di lui. Ci raggiunse più tardi, scusandosi col dire che pensava non saremmo partiti, perché quel mattino pioveva. Condotti dal mio indiano che ci teneva molto a mostrare la sua abilità di guida in una regione pur così lontana da casa sua, ci aprimmo la strada in una pittoresca foresta primeva ed emergemmo poi nella parte alta di una valle a U, sui cui declivi non avemmo difficoltà a seguire i resti di una strada lastricata, costruita dagli Inca. Conduceva, per facili dislivelli, fino ad un passo sulla cima della valle di Huayllabamba, e di lì scendeva con una serie di ripidi zig-zag nella valle di Huayruru. Non vedemmo neppure una capanna indiana, la regione sembrava priva di ogni traccia di vita animale. In una valle selvaggia e poco frequentata come quella di Huayruru, ci saremmo aspettati di vedere per lo meno un cerbiatto, speravamo di imbatterci in qualche orso delle Ande: niente di tutto questo, e procedemmo per il fondo della valle solo per scoprire, alla fine, che la strada incaica scompariva in un cumulo di grandi massi sotto i resti di una frana piuttosto recente. Dall’altro lato della valle due strade salivano serpeggiando sul versante erboso. Prendemmo quella di destra, che sembrava potesse condurre più facilmente in direzione di Machu Picchu. A metà strada del versante della montagna, a circa 600 m dal fondo valle, raggiungemmo una piccola e interessante fortezza: la nostra guida, che nel frattempo ci aveva raggiunti, disse che si chiamava Runcu Raccay. Apparentemente si trattava di una postazione fortificata sull’antica strada. Di forma circolare, Runcu Raccay contiene i resti di quattro o cinque edifici raggruppati attorno a un piccolo cortile a cui si accede per mezzo di uno stretto passaggio. Inseriti nelle pareti laterali, vi sono le solite caviglie di pietra per assicurare il tetto. L’opera muraria in se stessa, come la disposizione delle nicchie, denota un tipo architettonico decisamente tardo-incaico.

Attraverso un passo, da Runcu Raccay seguimmo la strada sin fuori della valle di Huayruru, e raggiungemmo uno degli affluenti dell’Aobamba. Avevamo avanzato di poco nella nuova vallata, quando ci tro vammo di fronte un’altra biforcazione della strada. Il braccio sinistro portava a uno sprone roccioso su cui giacevano le rovine di un compatto gruppo architettonico incaico, che la nostra guida disse chiamarsi Cedrobamba. Poiché questa parola è mezzo spagnola e mezzo quechua, e significa “pianura dei cedri”, chiaro che questo non era il suo antico nome. Dato che nessuno, per secoli e secoli, aveva vissuto in questa valle, non è da stupirsi se l’antico nome era stato dimenticato. Troppo ampia per essere semplicemente una “locanda” fortificata del tipo di Ruccu Raccay, Cedrobamba rappresenta senza dubbio uno dei più importanti avamposti di Machu Picchu. Domina da tre lati un panorama vastissimo. Il promontorio è circondato da ripidi precipizi ed è assai difficile accedervi, se non per la strada. Era probabilmente rifornito d’acqua per mezzo di un piccolo condotto che segue il fianco della montagna, al modo tipico dell’ingegneria incaica. Il punto in cui incontrammo le più serie difficoltà fu dove la strada passava sotto un’enorme e ripida cresta. Gli Inca avevano trovato più semplice scavare un tunnel nella roccia piuttosto che tagliare la parete di quel ripido scoscendimento, ma il tunnel non era abbastanza ampio perché potessero passarci i nostri muli carichi. Gli Inca avevano usato llamas con carichi ridotti, e per questi l’apertura era sufficiente. Mentre gli operai lavoravano alla strada, andai avanti col mio Indiano e fui ben lieto di vedere come, via via che procedeva, la strada si portava sempre più chiaramente in direzione di Machu Picchu; scoprii un gruppo di rovine chiamate Ccorihuayrachina, “il luogo in cui l’oro viene vagliato [o lavato]”. Al di sopra delle rovine, la cima di un colle era stata livellata e circondata da un muro di cinta, in modo da poter essere usata come postazione per segnali o come fortezza. Sotto di essa trovammo una grande grotta con segni evidenti che era stata occupata di recente, probabilmente dagli orsi. La strada incaica conduceva alle rovine di Ccorihuayrachina per mezzo di una lunga scalinata di pietre. L’aspetto più interessante di Ccorihuayrachina è una fila di cinque fontane in pietra, site nel punto in cui ora, vicino a un grande masso leggermente scolpito, s’allarga una palude. Questo può essere il luogo a cui gli Indiani si riferivano quando parlavano di un tempio in mezzo a un lago, e in verità, se era quello, ci aspettavamo qualcosa di meglio. Il nome Ccorihuayrachina, “il luogo in cui l’oro viene lavato”, può esser stato dato alla località a cagione delle cinque fontane, dove qualche Indiano fantasioso avrà pensato venisse lavato il prezioso metallo. A me parve piuttosto che si trattasse della residenza di qualche importante capo, alleato dei signori di Machu Picchu. Da Ccorihuayrachina, la strada corre lungo il versante della montagna seguendo generalmente il percorso più facile e naturale, e quindi si dirige verso il grande promontorio, il cui punto più alto è il Machu Picchu. Oltre al fatto di aver localizzato l’antica strada, fummo così fortunati da scoprire un notevole numero di rovine ancora sconosciute, che sembravano essere stazioni di tappa, poste a convenienti intervalli lungo la strada stessa. Ero riuscito ad attuare il mio desiderio di penetrare nella regione inesplorata a sud-est del Machu Picchu.

Avevamo appreso un po’ più di quel “qualcosa” che, per dirla con Kipling, era «nascosto oltre quelle catene di monti». Per togliermi il gusto di raggiungere effettivamente la cittadella di Machu Picchu per mezzo della stessa strada usata dai suoi abitanti chiesi a Clarence Maynard, assistente e topografo della spedizione, di scendere lungo la riva del fiume Urubamba fino a Choqquesuysuy e alla vetta della cresta montana che fa da trait d’union fra Machu Picchu e la regione che avevamo appena traversato, e da lì cercare la più comoda via d’accesso alla cittadella. Choqquesuysuy è situata a una curva del fiume, da cui si gode una vista magnifica. Nei pressi di una spumeggiante cateratta, alcuni capi incaici avevano costruito un tempio le cui mura, ancora in piedi, attraggono, direi vanamente, chiunque si trovi a passare sulla via opposta. Per una distanza che può essere coperta solo con due giorni di viaggio, non v’è un solo ponte, e le rapide del fiume sono assolutamente invalicabili in altro modo. Ogniqualvolta eravamo passati lungo il fiume, avevo ardentemente desiderato di attraversarlo per andare a vedere che cosa contenessero quelle rovine. Esse si trovano relativamente vicine a Machu Picchu, e io ritenevo di poter sostenere che fossero anch’esse opera incaica. Di conseguenza fui molto felice quando Maynard tornò a dirmi che era riuscito a raggiunge Choqquesuysuy, località che, come più tardi constatammo, apparteneva al tardo periodo incaico. Maynard aveva inoltre scoperto l’esistenza di un sentiero che univa Choqquesuysuy alla sella posta proprio sotto la cima di Machu Picchu. Una frana recente aveva distrutto la parte inferiore del sentiero, ma egli riuscì, sia pure con qualche difficoltà, a ripararla. Constatò così che c’erano tre possibili vie d’accesso dalla sella a Machu Picchu. Una passava sul fianco est della montagna; la seconda correva proprio sulla cresta a lama di coltello e passava sulla vetta del monte Machu Picchu; la terza si trovava lungo il ripidissimo versante occidentale della montagna. Nel punto più stretto della sella c’era un piccolo posto di guardia in rovina. Qui il sentiero appariva ancora interrotto, fino al punto in cui il versante del colle termina con un’erta muraglia di roccia. Il percorso era estremamente pericoloso. Il fianco della montagna era ripido e le piogge recenti lo avevan reso quanto mai scivoloso. Qua e là, sebbene per trovarli fosse spesso necessario lavorare duramente su un’area considerevole, si rinvenivano i resti della strada pavimentata. A volte gli operai indiani cercavano in,ogni modo di scoraggiare altre ricerche, gridando: «Non c’è nessuna strada», «di qui non si può passare». Tra continui rovesci di pioggia, lavoravano a rilento, senza compiere il minimo sforzo che ci aiutasse a localizzare l’antica pista. Alla fine ogni segno della strada scomparve, eppure nulla faceva credere che fosse andata distrutta a causa di uno slittamento del terreno. Qui, ancora una volta gli Inca erano stati costretti a scavare un sentiero lungo la parete di un erto picco e a farlo passare per un tunnel naturale. Ma Maynard trovò il passaggio ostruito da grandi rocce. Poiché non possedeva esplosivi, l’unico modo per andare oltre era quello di costruire un breve e rustico ponte lungo la parete: piano che parve piuttosto pericoloso e di non facile attuazione.

Spedito un operaio al campo in cerca di una fune, tutti gli altri furono messi a tagliare i pali che sarebbero poi serviti a superare il crepaccio. Dalla parte verso il Machu Picchu, a circa tre metri di distanza oltre la fine della strada e forse un metro più su, si proiettava nel vuoto uno spunzone di roccia. Da certi crepacci all’estremità della cresta e della stessa strada, crescevano due stentati alberelli: punti d’appoggio piuttosto malsicuri, ma che rappresentavano l’unico mezzo per procedere in quella direzione. Da un albero all’altro vennero posti i pali precedentemente tagliati, e uno degli Indiani, saldamente legato a una corda tenuta all’altra estremità dai suoi compagni, vi scivolò sopra lentamente, giungendo dall’altra parte. Piccoli bastoni furono assicurati ad angolo retto con i pali e, dove fu possibile, vennero incuneati nelle crepe che s’aprivano lungo la parete. Fasci di sterpi e muschio completarono la passerella larga non più di settanta centimetri. Non era certo un ponte su cui poter trasportare grossi carichi: per passarci sopra, era necessario venir a patti anche col proprio respiro. Oltre la cresta fu abbastanza facile localizzare la strada incaica, ma alla fine si giunse a un punto in cui frane recenti e pericolosi precipizi rendevano assolutamente impossibile ogni ulteriore avanzata. Fu quindi deciso di spostare il campo in fondo al canyon nei pressi del ponte di San Miguel, per arrampicarsi di lì fino alla città incaica, ripercorrendo la strada in direzione opposta, fin nei pressi della pericolosa frana. Questo significava compiere una discesa di molte centinaia di metri fino al piccolo villaggio di Intihuatana. Sfortunatamente Maynard, a causa della dura arrampicata e della pioggia costante, aveva dolori ai piedi, così che fu tentato di cavalcare anche in punti in cui avrebbe fatto meglio a procedere a piedi. In un punto in cui il sentiero costeggia un ripido scoscendimento di qualche centinaio di metri il suo mulo scivolò e cadde sulle ginocchia. Nel tentativo di risollevarsi perse l’equilibrio e si portò vicinissimo al limite, rischiando di precipitare. Gettatosi di sella, Maynard cadde a terra sulla schiena. Di conseguenza il mulo, alleggerito del suo peso, con un terribile balzo riuscì a riportarsi sulla strada quasi addosso allo sfortunato topografo, che nel suo diario annota laconicamente: Caddi supino sulla roccia. Il fatto di non sentirsi più addosso il mio peso, evidentemente rinfrancò il mulo, che prese a scalciare ciecamente. Sembrò per un istante che i suoi zoccoli mi dovessero finire, ma per fortuna non mi toccarono. Faticai un bel po’ a venirne fuori. Arrivai all’accampamento verso le undici e trenta.

Il tentativo di congiungere i due tronchi della pista ebbe alla fine successo. Seguendo la strada a sud della città, lungo la scalinata di pietra, fino al limite della cresta, Maynard scoprì che gli era sfuggita una scalinata che portava direttamente su per il fianco della montagna e aggirava la zona delle frane che gli aveva impedito di proseguire. Due Indiani scoprirono finalmente la parte mancante del tracciato e così completarono la riapertura di una delle tante antiche strade incaiche che uniscono la città al versante della sella dietro il monte di Machu Picchu e, di lì, al resto della regione. Pochi giorni dopo che il lavoro fu terminato, potei procedere oltre il punto in cui ero stato costretto a fermarmi qualche settimana addietro, ed entrai in città per la stessa strada usata un tempo dai suoi costruttori. Sebbene seguisse il contorno di un ripido precipizio, era selciata e sostenuta da un muro di pietra. Dove doveva

arrampicarsi per un’erta pendenza, erano stati costruiti con molta cura dei gradini di pietra, in modo tale che i portatori avessero un posto sicuro su cui poggiare i piedi. Alla fine, con una elegantissima curva, la strada giungeva alla sommità della cresta e alla porta della città. Se si eccettuano i punti più ripidi e muniti di gradini, la via era larga circa un metro e venti, permettendo così ai portatori carichi di passare nelle due direzioni senza intralciarsi a vicenda. Grazie a Maynard ebbi la soddisfazione di arrivare a “Vilcabamba Antica” rifacendo la strada percorsa un tempo dalle Vergini del Sole in fuga da Cuzco e dai conquistatori. Era chiaro, comunque, che questa non era la strada che conduceva da Vitcos alla “città principale” di Vilcabamba Antica, e che fu percorsa dai frati quando Titu Cusi li costrinse a quel terribile viaggio attraverso e oltre le gelide acque dell’Ungacacha. Quella doveva trovarsi a nord-ovest del Machu Picchu, verso Puquiura e Rosaspata. La via seguita dai missionari si trova presumibilmente in un’ampia zona inesplorata. Poiché tuttavia avevamo sentito parlare di un sentiero per il quale talvolta gli Indiani andavano dal villaggio di Puquiura alla piantagione di Huadquina, decisi di compiere lo sforzo necessario a setacciare in lungo e in largo la regione alla ricerca della celebre strada. Attraversammo l’Urubamba nei pressi di Ollantaytambo e risalimmo una valle che conduceva a un altissimo passo fra gli stupendi picchi nevosi del Salcantay e del Soray. Vicino a Yanama, ci accampammo su una cresta presso alcune piccole rovine costeggianti gli avanzi di una foresta, a circa 4800 m sul livello del mare: probabilmente la foresta più alta del mondo. Che non vi fosse testimonianza alcuna che fosse stata abbattuta in un periodo qualsiasi, costituiva un’ulteriore testimonianza, del tutto superflua, però, che ci trovavamo in una regione dall’accesso estremamente difficile. Dopo aver superato un passo sepolto dalla neve, ci trovammo nella valle di Colpa. Qui incontrammo un paio di montanari indiani e sapemmo da loro che non eravamo molto lontani da Rosaspata e dal villaggio di Puquiura, dove speravamo di trovare una guida che ci facesse strada sui monti. A furia di interrogare gli indigeni abitanti la valle di Vilcabamba, riuscimmo alla fine ad assicurarci i servigi di un indiano che disse di conoscere il sentiero per andare a Huadquina attraverso la zona inesplorata, procedendo in direzione di Machu Picchu. Appena si fu fatto preparare dalla famiglia le provviste per il viaggio (un po’ di granturco abbrustolito e qualche foglia di coca), partimmo lungo la valle di Colpa, da dove egli ci guidò in una squallida regione, una puna selvaggia, ricca di laghetti a pantani. Se non fosse stato per la stagione particolarmente asciutta e per il fatto che nei mesi precedenti il tempo era stato piuttosto bello, non saremmo riusciti in nessun modo a superare quella zona. Infatti è proprio a causa del gran numero e della vasta estensione di quegli acquitrini che la regione era rimasta a lungo inesplorata anche dagli stessi Peruviani. Alla fine il sentiero, che in molti tratti seguiva una strada incaica, giunse alle rive di un lago verde e oscuro, più grande degli altri; ne chiesi il nome alla guida. La risposta mi fece sobbalzare. Come la guida me lo gridò dalla testa della carovana mi parve di

aver udito “Ungacacha”: il nome attuale (Yanaccocha ovvero Lago Nero) si pronunciava infatti in modo assai simile. Fin dal mio arrivo in questa regione alla ricerca della capitale degli ultimi Inca, uno dei luoghi che più mi premeva di individuare era proprio l’“Ungacacha” nominato da Calancha. Ma, per quanto avessi ripetutamente chiesto agli Indiani se conoscessero una località di quel nome, sempre la risposta era stata che non l’avevano mai sentito nominare. Mi pareva probabile che l’“Ungacacha” nominato nella storia di Calancha a proposito delle sofferenze sopportate dai frati potesse essere Yanaccocha, e che il monaco, che probabilmente scrisse la sua storia molto tempo dopo, affidandosi alla memoria e non avendo mai udito pronunciare il nome meglio di quanto non lo udissi io quando lo chiesi alla mia guida, avesse scritto Ungacacha invece di Yanaccocha. I due nomi, una volta scritti, appaiono differentissimi, al punto che è assai difficile dire quanto la pronuncia indiana di uno si accosti alla pronuncia dell’altro. L’antica strada incaica proseguiva sul versante della collina in direzione di Machu Picchu e conduceva verso le rovine di Yuracrumiyocc, il deposito incaico che gli operai di Huadquina avevano assicurato essere notevolissimo. Lo visitai: comprendemmo che si trattava del luogo di sosta sull’antica strada fra le due capitali di Manco, Vilcabamba e Vitcos. Conclusione: i costruttori di Machu Picchu disponevano di un elaborato sistema di strade attraverso questa regione poco conosciuta e quasi del tutto inesplorata che giace fra la valle dell’Urubamba e l’Apurimac, regione che un tempo, tuttavia, fu molto popolata, e di cui Machu Picchu era stata la capitale.

6 L’ORIGINE DELLA CITTA’ CHIAMATA ORA MACHU PICCHU Visti i risultati della ricognizione della strada incaica da Puquiura al Machu Picchu, dei referti dell’esplorazione delle tombe (che dimostravano come nella Città Perduta vivessero alla fine quasi soltanto donne) e delle indubitabili testimonianze della presenza in questo luogo di un “Tempio del Sole” e di un grande santuario, potevamo tranquillamente concludere che al tempo della conquista spagnola Machu Picchu si chiamava Vilcabamba, e che il giovane Tupac Amaru, ultimo degli imperatori incaici, era vissuto qui per un certo periodo. E’ probabile egli abbia trascorso gran parte della sua vita in questa splendida città di bianco granito, che, «a cagione della sublimità dei luoghi circostanti, per la sua magnifica posizione, per il carattere e il mistero della sua costruzione», superava qualsiasi altra che i suoi crudeli conquistatori avessero mai visto o scoperto. Il segreto fu così ben custodito, che le Sacre Donne poterono vivere e morire in pace, mai molestate dagli Spagnoli. Per trecento anni la città era rimasta ignota. Ma avere scoperto ciò che la città era stata nei suoi ultimi anni, ci dice poco o nulla delle sue origini. Mentre molte delle case furono senza alcun dubbio costruite da Manco e da Titu Cusi per sistemare le Sacre Donne e il personale del santuario, i palazzi e i templi più belli apparivano troppo elaborati per poter essere stati eretti in quel torno di tempo. Doveva essersi trattato di un santuario anche prima che gli ultimi Inca vi giungessero. Le costruzioni migliori precedono di secoli l’ultimo periodo dell’Impero incaico. Per cui sorge il problema: chi le eresse? E quando? Secondo Philip Ainsworth Means, l’Inca Pachacutec, che visse nella prima metà del xv secolo, all’incirca fra il 1400 e il 1448, fu «un grande sovrano». Questa è anche l’opinione di Sir Clements Markham, una delle maggiori autorità inglesi in merito, che ritiene Pachacutec «il più grande uomo che la razza aborigena americana abbia prodotto». Egli ebbe la fortuna di ereditare un Impero che si estendeva per 300.000 chilometri quadrati (circa la superficie dell’Italia). Un Impero ottimamente organizzato, in cui la gran massa del popolo era rigidamente soggetta alla volontà delle ge rarchie tribali e dei funzionari imperiali. In questo regno vivevano abili generali e saggi consiglieri, così che l’Inca potè portare a termine vittoriosamente numerose,

difficili conquiste, una delle quali gli assicurò il possesso di tutta la vallata dell’Urubamba. Prima di Pachacutec, le frontiere incaiche in quella direzione si fermavano a Ollantaytambo, ma egli, nel tentativo di por fine a quelle incursioni di selvaggi delle regioni forestali che avevano dato origine alla Confederazione Chanca e alle formidabili lotte contro di essa, decise di spingere la sua potenza più avanti lungo il fiume. Means dice: Egli lo fece secondo gli abituali metodi incaici, e cioè combinando astuzia e diplomazia all’aggressione militare. La cittadella di Machu Picchu sorge proprio nel cuore di quella regione, ed è assai probabile che l’Inca Pachacutec l’abbia fatta costruire con l’intento di creare con essa uno dei maggiori baluardi orientali del suo Impero.

Sebbene l’Impero ereditato da questo Inca fosse a quel tempo già molto esteso, Cuzco, la sua capitale, si trovava a sole 50 miglia dalla giungla in cui vivevano i selvaggi guerriglieri sempre pronti ad assalire chiunque si avventurasse nelle grandi foreste dell’alta Amazzonia. La costruzione della cittadella di Machu Picchu in un punto da cui si poteva dominare la stretta vallata da cui i selvaggi avrebbero dovuto transitare, per compiere irruzioni a spese dei più civili Inca, era dunque una saggia iniziativa. D’altra parte, non credo che una fortificazione montana come quella di Choqquequirau fosse inadeguata a un simile scopo. Gli Indiani selvaggi possedevano soltanto rozze lance, cerbottane, archi e frecce. Non c’era bisogno di grandi mura e di una così possente cittadella per tenerli a bada. A me sembra molto difficile che gli stupendi templi di granito di Machu Picchu siano stati eretti per farne una fortezza avanzata contro le tribù del Rio delle Amazzoni. Ma se la mia teoria è corretta, quali sono lo scopo e il significato simbolico di questo Santuario costruito con tanta cura, in una delle zone più inaccessibili delle Ande? Come già si è detto parlando della battaglia di La Raya, Montesinos afferma che, dopo la morte in battaglia dell’ultimo dei grandi Amautas, i re che ressero il Perù durante più di sessanta generazioni, i suoi fedeli seguaci si ritirarono nelle montagne e si stabilirono a Tampu-tocco, “luogo salubre” dove nascosero il corpo del loro re Pachacuti VI in una grotta, e dove furono raggiunti da tutti coloro che sfuggirono ai disordini e ai massacri. Gli Spagnoli che parlarono di Tampu-tocco sembrano credere che si trovasse a Paccari-tampu o nelle sue vicinanze, a otto o dieci miglia a sud di Cuzco, dove vi sono, come è noto, le rovine di una piccola città incaica. Lì vicino c’è una collinetta, un gruppo di grandi rocce. La superficie di una di queste è tagliata a piattaforme, e su un’altra sono incisi due puma in riposo: un disegno davvero poco comune e in realtà non incaico. Sotto la collina vi sono delle grotte che si dice siano state usate da esiliati spagnoli, e non è escluso che siano stati essi a incidere i puma. Sappiamo, di Paccari-tampu, quanto basta per rifiutare l’opinione riferita dai primi Spagnoli, e che cioè si trattasse di Tampu-tocco. La regione non è difficile da raggiungere, e non è affatto inaccessibile. Non vi sono pareti scoscese. Non vi sono difese naturali contro una forza d’invasione numerosa e abbastanza forte da poter conquistare la valle di Cuzco. Nelle grotte di Paccari-tampu, alcuni uomini avrebbero

potuto senza alcun dubbio nascondersi, ma non v’era spazio tale da far pensare che un regno indipendente potesse esservi stato fondato da un pugno disorganizzato di seguaci e sacerdoti di Pachacuti VI. Inoltre non vi sono, nel complesso architettonico, finestre che possano giustificare il nome di Tampu-tocco, che significa un tambo, o luogo di residenza temporanea, munito di finestre. Il 21 gennaio del 1572, il viceré Francisco de Toledo promosse un’inchiesta ufficiale. Quindici Indiani, interrogati, risposero affermando che avevano udito i padri e i nonni riferire la tradizione secondo la quale il primo Inca, Manco Capac, quando era venuto a conquistare le terre dei loro avi era giunto da Tampu-tocco. Non dissero che il primo Inca era giunto da Paccaritampu, cosa che per loro, mi sembra, sarebbe stato più naturale affermare, qualora fosse stata vera. Oltre a questa testimonianza, c’è anche quella, più antica, di alcuni indiani nati prima dell’arrivo di Pizarro e che nel 1570 vennero interrogati durante un’inchiesta compiuta a Jauja. Il teste più anziano, un uomo di novant’anni, disse che Manco Capac era il signore della città in cui lui era nato, e che aveva conquistato Cuzco, ma non aveva mai saputo quale fosse la città da cui Manco era giunto. Il capo indiano che lo seguì aveva novantaquattro anni, e anche lui disse di ignorare il nome della città in cui Manco era nato. Un altro capo, questi di novantadue anni, testimoniò che Manco Capac era giunto da una caverna chiamata Tocco e che era signore della città posta nei pressi della grotta. Nessuno dei testi affermò che Manco Capac era giunto da Paccari-tampu; ora, è difficile immaginare perché non avrebbero dovuto farlo se, come credevano gli Spagnoli, si fosse trattato di Tampu-tocco. Ad ogni modo, a Paccari-tampu esiste tuttora un’interessante caverna, e i cronisti, non uno dei quali conosceva l’esistenza delle importanti rovine di Machu Picchu, erano facilmente portati a credere che si trattasse del luogo in cui era nato il primo Inca e dal quale egli venne per conquistare Cuzco. È certo però che le descrizioni di Tampu-tocco fatte da Montesinos corrispondono per molti aspetti a quelle di Machu Picchu. Le splendide difese naturali del Gran Canyon dell’Urubamba lo resero un rifugio ideale per discendenti degli Amautas durante i cinque o seicento anni di confusione che fecero seguito alle invasioni barbariche provenienti dalle pianure orientali e meridionali. Il racconto di Pachacuti Yamqui Salcamayhua, relativo alla costruzione di un muro commemorativo con tre finestre nel luogo di nascita di Manco Capac, sembra indicare senz’ombra di dubbio che si trattava di Machu Picchu. Sebbene nessun’altra delle antiche cronache riporti la storia dell’Inca che ordinò la costruzione di un muro commemorativo nel luogo della propria nascita, quasi tutte affermano che egli era giunto dal luogo chiamato Tampu-tocco, «luogo notevole per le sue finestre». E’ vero, il luogo che tali cronache sostengono essere Tampu-tocco è Paccari-tampu, che si trova, come è stato detto, a circa otto o dieci miglia a sud-est di Cuzco, e dove si trovano alcune rovine; ma un accurato esame di esse dimostra che negli edifici di Paccari-tampu non esistevano finestre, e che non v’è alcun altro segno che giustifichi il nome di Tampu-tocco. Il clima di Paccari-tampu – sull’altipiano, a 3700 m d’altezza – è troppo severo per permettere o incoraggiare l’uso di finestre.

La temperatura all’ombra e anche all’interno di una capanna non riscaldata non è molto lontana dal gelo. Per il popolo abituato alle condizioni climatiche di Cuzco, invece, il clima di Macchu Piccini poteva essere considerato piuttosto mite, e di conseguenza permettere l’uso di finestre. A Machu Picchu molte case sono infatti munite di finestre. E, poiché qui vi sono più finestre che in qualsiasi altra rovina, sarebbe stato naturale riferirsi a Machu Picchu come a un luogo caratterizzato appunto dalle finestre. Ovviamente, per il carattere elaboratissimo della sua struttura, un simile luogo sacro, una vera e propria Città Santa contenente templi per il Sole, la Luna, il Tuono e tutto il pantheon incaico, non avrebbe potuto sfuggire all’attenzione dei conquistatori se questi lo avessero visto o solo se ne avessero sentito parlare dai vecchi Indiani di Cuzco quando li interrogarono. Di conseguenza, sono convinto che il nome della parte più antica di Machu Picchu fosse Tampu-tocco, che qui sia stato sepolto Pachacuti VI e che questa fosse la capitale del piccolo regno dove nel corso dei secoli, probabilmente otto o dieci, in cui agli Amautas succedettero gli Inca, furono tenute vive la saggezza, l’abilità e le migliori tradizioni dell’antico popolo che aveva sviluppato la civiltà del Perù, soprattutto grazie all’uso delle terrazze adibite all’agricoltura. Mi sembra assolutamente probabile che Manco Capac, una volta stabilitosi a Cuzco, abbia fatto costruire uno splendido tempio in onore dei suoi avi. Presso gli Inca, l’adorazione degli avi era un fatto comune, e nulla sarebbe stato più naturale della costruzione del Tempio delle Tre Finestre per render loro onore. Inoltre, c’è così poca terra arabile entro un raggio di dieci o quindici miglia da Machu Picchu, che sarebbe stato perfettamente naturale per i capi di questa regione tentare di conquistare le terre fertili che si estendono nelle vicinanze di Cuzco. Una volta avuto il controllo di Cuzco e delle ricche vallate site nelle sue vicinanze, la convenienza, la superstizione e il riguardo per i grandi Amautas da cui discendevano, avrebbero portato a stabilirsi a Cuzco. Per essi non v’era più alcuna necessità di restare a Tampu-tocco, che però fu forse mantenuto in buone condizioni in quanto sede di uno dei maggiori templi del Sole. Se la mia teoria, secondo la quale Machu Picchu e Tampu-tocco sarebbero la stessa località, è corretta, può darsi che il santuario principale di Cuzco, ora monastero domenicano, conosciuto però dai conquistatori come Tempio del Sole, fosse costruito durante il regno degli Inca a ricordo del Tempio Semicircolare di Machu Picchu. Se questo tempio più antico fu costruito sopra la grotta in cui la tradizione dice fosse sepolto Pachacuti VI, ultimo degli Amautas, esso doveva essere naturalmente il luogo più riverito di Machu Picchu: di certo quelle opere murarie sono state raramente uguagliate e mai superate in ampiezza e bellezza. Quindi, quando gli Inca abbandonaro Tampu-tocco e presero residenza a Cuzco, nulla poteva essere per loro più naturale che costruire il loro primo tempio in modo che fosse la copia, quanto più possibile esatta, del più bel tempio di Tampu-tocco. Probabilmente l’andamento semicircolare del tempio di Machu Picchu fu dovuto più al caso che ad un preciso volere: esso fu reso inevitabile dalla curvatura naturale della grande roccia sotto la quale si trovava il mausoleo di Pachacuti VI e dei suoi familiari. Questo particolare

aspetto architettonico del Tempio del Sole a Cuzco non era richiesto dalla natura del fondo pietroso su cui fu eretto unitamente a tutto il resto della città. Per di più, un muro con una curva appiattita, o “muro parabolico”, non è caratteristico delle antiche strutture peruviane, ed è quindi molto raro, e la costruzione ne è assai difficile. E non è quindi probabile che i costruttori del Tempio di Cuzco avessero in mente il Tempio Semicircolare di Machu Picchu? Il fatto che in entrambe le strutture vi siano aperture in cui le immagini d’oro del Sole potevano essere appese, e il fatto che in qualsiasi altro luogo tali fori sono del tutto assenti, sembrerebbe rafforzare questa teoria, offrendo altri elementi alla mia convinzione che Machu Picchu e Tampu-tocco siano lo stesso luogo, e che gli Inca di Cuzco non solo costruirono a Machu Picchu un muro commemorativo con tre finestre per ricordare e onorare il luogo natale dei loro avi, ma costruirono a Cuzco un tempio semicircolare del Sole che assomigliasse al più bello dei loro antichi santuari. Nessuno può comprendere meglio di me quanto possa apparire fantastica la mia ipotesi a quegli archeologi americani che hanno rifiutato il mio ragionamento a proposito di Tampu-tocco, primo nome del santuario posto sui declivi del monte Machu Picchu. Per coloro che preferiscono accettare il racconto dei cronisti spagnoli (e cioè che il luogo di provenienza degli Inca fosse il vicino villaggio di Paccaritampu), la città indicata col nome di Vilcabamba ha avuto l’origine suggerita da Philip Ainsworth Means. Ma, poiché l’architettura di Machu Picchu presenta esempi di tutti i tipi di strutture scoperte nelle Ande centrali, è ben difficile che la città non risalga a tempi anteriori ai primi anni del xv secolo, cosa che invece Means nega. La sua teoria incontra senza dubbio l’approvazione di quegli archeologi che tendono a limitare il periodo della civiltà incaica. Forse costoro hanno ragione per ciò che riguarda il periodo in cui tutte le città degli altipiani peruviani furono abitate da un popolo chiaramente definibile come incaico. Ma se si considera il numero dei secoli che furono necessari per addomesticare i llamas e gli alpacas e per scoprire e rendere commestibili le numerosissime piante usate come cibo o come medicinali, e in genere il tempo necessario allo sviluppo dell’agricoltura, dell’ingegneria, dell’arte della costruzione e della metallurgia incaiche, nonché lo sviluppo di un’arte tessile e di una ceramica così completa, sembra piuttosto difficile poter affermare che la civiltà incaica fosse meno antica di quella dei Maya dell’America centrale. A me sembra assolutamente probabile che Machu Picchu abbia una storia di millenni. Senza dubbio, nel suo ultimo periodo di vita la città fu il tesoro più accuratamente protetto, il luogo in cui il culto del Sole, della Luna, del Tuono e delle Stelle, così violentemente bandito da Cuzco, fu rinnovato, il luogo in cui gli ultimi quattro Inca ebbero la loro più sicura e confortevole dimora e le Sacre Donne, le cui vite erano sin dalla prima giovinezza dedicate a tutti i doveri del santuario, trovarono rifugio dall’animosità e dalla concupiscenza dei conquistatori. Di certo questa eccezionale e bellissima città perduta deve aver avuto una storia quanto mai interessante. Scelta forse un migliaio d’anni fa come luogo di rifugio degli ultimi rappresentanti dell’antico regno degli Amautas, divenne capitale di un nuovo regno, dando i natali alla famiglia di regnanti più notevole del Sud America, e fu parzialmente abbandonata quando Cuzco risplendette di nuova

gloria come capitale dell’Impero Inca; fu ripopolata in un tempo di decadenza, quando un altro invasore straniero giunse, questa volta dal nord, animato dal desiderio di estinguere tutte le vestigia dell’antica religione, e divenne finalmente dimora e rifugio di quelle Sacre Donne la cui istituzione rappresentò uno degli aspetti più interessanti della religione più umana e meno sanguinaria dell’America precolombiana. Qui, nascoste in un canyon di stupefacente imponenza, protetta dalla natura e dalla mano dell’uomo, le “Vergini del Sole” una per una si spensero, senza lasciare un solo discendente che rivelasse l’importanza o spiegasse il significato delle rovine che coronarono i fianchi precipiti del Machu Picchu.

INDICE p. 7 Introduzione di Francesco Saba Sardi 15 Prefazione 19 Ringraziamenti PARTE PRIMA. I COSTRUTTORI

23 1. Gli Inca e la loro civiltà 57 2. L’origine degli Inca 69 3. La storia degli ultimi quattro Inca PARTE SECONDA. LE RICERCHE

109 1. Come penetrai nella terra degli Inca 128 2. Alla ricerca di Vitcos 149 3. Alla ricerca di Vilcabamba PARTE TERZA. MACHU PICCHU

173 1. La scoperta 183 2. L’esplorazione di Machu Picchu e di Huayna Picchu 190 3. Vilcabamba antica 212 4. I risultati degli scavi a Machu Picchu 230 5. Alla ricerca delle strade incaiche per Machu Picchu 239 6. L’origine della città chiamata ora Machu Picchu

1 Lancio di ferri di cavallo. 2 Bacio. 3 Lett.: grandi orecchie; così erano detti i nobili peruviani.

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