Bernhard Schlink a Voce Alta

February 21, 2017 | Author: GinaGinetta | Category: N/A
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Bernhard Schlink. A VOCE ALTA.

Titolo originale dell'opera: "Der Vorleser". Copyright 1995 Diogenes Verlag AG Zürich. Copyright 1996, 1998 Garzanti Editore s.p.a., Milano.

INDICE. Parte prima. Parte seconda. Parte terza. Nota di Rolando Zorzi.

PARTE PRIMA. 1. Quando avevo quindici anni ebbi l'itterizia. La malattia cominciò in autunno e finì in primavera. Quanto più l'anno vecchio si faceva freddo e buio, tanto più io m'indebolivo. Solo con l'anno nuovo diedi segni di ripresa. Era un gennaio caldo, e mia madre mi spostò il letto verso il balcone. Vedevo il cielo, il sole, le nuvole e sentivo i bambini giocare in cortile. Una sera di febbraio, sul presto, sentii cantare un merlo. Il mio primo percorso partiva dalla Blumenstrasse, dove abitavamo al secondo piano di una casa massiccia, costruita agli inizi del secolo, e mi portava nella Bahnhofstrasse. In quella via, un lunedì d'ottobre, tornando a casa da scuola diedi di stomaco. Già da diversi giorni mi sentivo debole, così debole come mai m'ero sentito in vita mia. Ogni passo mi costava fatica. Quando a casa o a scuola dovevo salire le scale, le gambe quasi non mi reggevano. Non mi andava neanche di mangiare. Perfino quando mi sedevo a tavola affamato, sentivo subito avversione per il cibo. La mattina mi svegliavo con la bocca secca e la sensazione di avere in corpo degli organi pesanti, in disordine. Io mi vergognavo di essere così debole. E mi vergognai soprattutto quella volta che diedi di stomaco; anche questo non m'era mai successo. La mia bocca si riempì mi sforzai di mandar giù, strinsi le labbra, la mano premuta sulla bocca, ma il getto uscì dalla bocca e tra le dita. Poi mi appoggiai al muro di quella casa, vidi il vomito ai miei piedi e inghiottii a stento la saliva che colava. La donna che si occupò di me lo fece quasi brutalmente. M'afferrò per il braccio e mi condusse, attraverso quel corridoio buio, in cortile. Sopra, di finestra in finestra, c'erano fili e biancheria stesa. Nel cortile era accatastato del legname; dentro un laboratorio a battenti aperti strideva una sega e schizzava la segatura. Accanto alla porta che dava in cortile sporgeva un rubinetto. La donna lo aprì, mi lavò prima la mano e poi mi schiaffò in faccia l'acqua raccolta nel cavo delle mani. Io mi asciugai il viso col fazzoletto. «Prendi l'altro!». Vicino al rubinetto erano posati due secchi, lei ne afferrò uno e lo riempì. Io pigliai l'altro, lo riempii e la seguii passando per il corridoio. Lei prese lo slancio, l'acqua sguazzò sul marciapiede e il vomito sciabordò nella canaletta di scolo. Mi tolse di mano il secchio e spedì un'altra ondata sul marciapiede. Tirandosi su, vide che stavo piangendo. «Oh, ragazzino!», disse stupita. Mi strinse tra le braccia. Ero appena un po' più alto di lei: sentii i suoi seni contro il mio petto, avvertii nella stretta

dell'abbraccio il mio alito cattivo e il suo sudore fresco, e non sapevo cosa fare con le braccia. Smisi di piangere. Mi chiese dove abitavo, mise i secchi in corridoio e mi portò a casa. Mi camminava accanto, in una mano la mia cartella, mentre l'altra stringeva il mio braccio. La Bahnhofstrasse non è distante dalla Blumenstrasse. Lei andava spedita e tanto decisa che mi era facile tenere il passo. Davanti a casa nostra mi salutò e se ne andò. Quel giorno stesso mia madre andò a chiamare il medico, che diagnosticò l'itterizia. Non so quando raccontai a mia madre di quella donna. Credo che altrimenti non sarei andato a trovarla. Ma per mia madre era naturale che io, non appena mi fosse stato possibile, comprassi coi miei soldi un mazzo di fiori per poi presentarmi e ringraziare. Così, a fine febbraio, andai nella Bahnhofstrasse. 2. La casa nella Bahnhofstrasse ora non c'è più. Non ricordo quando né perché venne demolita. Per molti anni non ho vissuto nella mia città natale. La casa di adesso, costruita negli anni Settanta o forse Ottanta, ha cinque piani più uno a mansarda, manca di balconi o bow-window ed è rivestita d'intonaco chiaro tirato a liscio. Molti campanelli denotano molti appartamenti. Appartamenti in cui si entra e da cui si esce come si prendono e riportano delle auto a nolo. Al piano terra per ora c'è un negozio di computer; prima c'erano una drogheria, un negozio di alimentari e una videoteca. La casa precedente, a pari altezza, aveva quattro piani: un piano terra in quadroni di arenaria levigata a specchio e sopra tre piani in mattoni a vista con bow-window, balconi e finestre incorniciati d'arenaria. Al piano terra e nel vano scale portavano alcuni gradini, più larghi in basso e più stretti in alto, contornati sui due lati da muretti che reggevano ringhiere di ferro e terminavano in basso a spirale. La porta era fiancheggiata da colonne, e dagli spigoli dell'architrave un leone guardava su per la Bahnhofstrasse, e uno giù per la strada. Il corridoio che la donna mi aveva fatto attraversare per portarmi al rubinetto in cortile era l'entrata di servizio. Già da bambino avevo notato quella casa. Dominava la schiera di case della via. Io m'immaginavo che, se si fosse fatta ancor più piena e pesante, le case della fila avrebbero dovuto tirarsi in parte e far posto. All'interno mi figuravo un giroscale con stucchi, specchi e una passatoia a motivi orientali, ancorata ai gradini da sbarrette d'ottone lucide più che mai. Mi aspettavo che in quella casa così signorile abitassero delle persone altrettanto signorili. Ma siccome la casa si era annerita con l'andar degli anni e per il fumo dei treni, mi figuravo che anche i suoi signorili abitanti si fossero fatti cupi e bizzarri, forse sordi o muti, gobbi o zoppi. Negli anni che seguirono sognai di continuo quella casa. I sogni si somigliavano tutti, erano variazioni di un sogno e di un soggetto. Sto camminando in una città straniera e vedo la casa. In un quartiere che non conosco, la scorgo in una schiera di case. Io tiro avanti confuso, perché conosco la casa ma non il quartiere. Poi mi viene in mente che quella casa l'ho già vista. Con ciò, non penso alla Bahnhofstrasse della mia città natale, ma a un'altra città o a un altro paese. In sogno sono a Roma, per esempio, vedo la casa e mi ricordo di averla già vista a Berna. Questi ricordi sognati mi rassicurano; rivedere la casa in una diversa ambientazione non mi sembra più strano che rivedere casualmente un vecchio amico in un nuovo ambiente. Torno indietro, vado verso la casa e salgo i gradini. Voglio entrare. Abbasso la maniglia. Quando vedo la casa in campagna, allora il sogno dura di più, o dopo mi ricordo magari meglio i suoi dettagli. Sto andando in macchina. Vedo a destra la casa e proseguo, prima confuso solo perché una casa che chiaramente rientra in una schiera di edifici in città ora sta lì in aperta campagna. E poi mi ritrovo doppiamente confuso, quando mi viene in mente che l'ho già vista. Ricordandomi dove l'ho già notata, faccio inversione e torno indietro. La strada è sempre deserta, nel sogno, per cui posso far stridere le gomme e tornare indietro a gran velocità. Ho paura di arrivare troppo tardi, e vado ancor più sparato. Poi la vedo. E' circondata da terreni coltivati, colza, grano o vigne del Palatinato, lavanda in Provenza. La zona è pianeggiante, tutt'al più leggermente collinosa. Non ci sono alberi. La giornata è limpidissima, il sole splende, l'aria tremola, e la strada sfolgora di calura. I muri tagliafuoco fanno sembrare la casa isolata dal resto, mancante di qualcosa. Potrebbero essere

i muri tagliafuoco di una casa qualsiasi. La casa non è più cupa che nella Bahnhofstrasse. Ma le finestre sono così polverose che dentro non si può veder niente, neanche le tendine. La casa è cieca. Fermo la macchina sul ciglio della strada e attraverso la carreggiata puntando sull'ingresso. Non si vede nessuno, non si sente niente, neanche un motore in lontananza, un alito di vento, un uccello. Il mondo è morto. Salgo i gradini e abbasso la maniglia. a non apro la porta. Mi sveglio e rammento soltanto che ho impugnato e abbassato la maniglia. Poi mi ricordo l'intero sogno, e anche che l'ho già sognato. 3. Io non sapevo il nome di quella donna. Col mazzo di fiori in mano stavo lì indeciso davanti al portone e ai campanelli. Avrei preferito tornarmene indietro. Ma poi uscì di casa un uomo, mi chiese chi stavo cercando e mi spedì al terzo piano, dalla signora Schmitz. Niente stucchi, niente specchi, nessuna passatoia. Ciò che il giroscale poteva aver posseduto di bello in origine, pur se non paragonabile alla sontuosità della facciata, era scomparso da un pezzo. La verniciatura rossa dei gradini era ormai raschiata via nel mezzo a forza di camminarci sopra, il linoleum verde a venature, applicato ad altezza di spalla lungo il muro delle scale, era tutto strusciato, e nella ringhiera, al posto della sbarrette mancanti, c'erano dei pezzi di spago. Si sentiva odore di pulizie, di detersivi. Può anche darsi che tutto ciò mi abbia colpito solo in seguito. Tutto era sempre ugualmente misero e ugualmente pulito e aveva sempre lo stesso odore di detersivi, a volte mescolato all'odore di cavoli o fagioli, di frittura o bollitura di bucato. Degli altri abitanti della casa non seppi mai niente, all'infuori di questi odori, degli stuoini posti davanti alle porte degli appartamenti e dei cartellini coi nomi sotto i campanelli. Non ricordo di aver mai incontrato qualcuno della casa sulle scale. Non ricordo più nemmeno il modo in cui salutai la signora Schmitz. E' probabile che mi fossi preparato due o tre frasette sulla mia malattia, sul suo intervento e la mia riconoscenza, e che le abbia anche pronunciate. Lei mi aveva portato in cucina. La cucina era il locale più grande dell'appartamento. C'erano il fornello e il lavello, la vasca da bagno e lo scaldabagno, un tavolo e due sedie, una credenza, un armadio e un divano. Sopra il divano era steso un copriletto rosso. La cucina non aveva finestre. La luce entrava dai vetri della porta che dava sul balcone. Non molta, peraltro: l'ambiente era ben illuminato solo quando la porta rimaneva aperta. Allora, dalla falegnameria in cortile, si sentiva stridere la sega e venir su odor di legno. L'appartamento comprendeva anche un tinello, piccolo e stretto, con buffet, tavolo, quattro sedie, poltrona e una stufa. Questo locale non veniva quasi mai riscaldato in inverno e non era utilizzato quasi mai neanche d'estate. La finestra dava sulla Bahnhofstrasse, con vista sull'area dell'ex stazione, dove dal terreno, tutto sottosopra, già spuntavano qua e là le fondamenta del nuovo palazzo di giustizia. L'appartamento era completato da un gabinetto senza finestra. E quando il gabinetto puzzava, c'era puzza anche in corridoio. Non mi ricordo più nemmeno di cosa parlammo in cucina. La signora Schmitz stava stirando; aveva steso una coperta di lana e un lenzuolo sopra il tavolo e prendeva dal cesto della biancheria un indumento dopo l'altro, lo stirava, lo piegava e lo poneva su una delle due sedie. Sull'altra ero seduto io. Lei stirava anche la sua biancheria intima, e io non volevo guardare quel che stava stirando, ma non riuscivo neppure a distogliere lo sguardo. Indossava una vestaglietta senza maniche, azzurra e a fiorellini rosa. I capelli biondocenere, lunghi fino alle spalle, li aveva raccolti con un nastro dietro la nuca. Le braccia nude erano d'un bianco pallido. I gesti con cui prendeva il ferro da stiro, lo passava e lo posava e poi ripiegava e riponeva gli indumenti, erano lenti e concentrati, e altrettanto lenta e concentrata era lei, nel muoversi, chinarsi e rialzarsi. Sul suo volto di allora si sono sovrapposti, nella mia memoria, i volti a venire. Quando cerco di figurarmela com'era allora, lei appare senza volto. Sono costretto a ricostruirlo. Fronte alta, zigomi alti, occhi azzurrochiari, labbra piene e regolarmente arcuate, mento volitivo. Un viso largo, severo, di donna. Ricordo che lo trovavo bello. Ma ora non riesco a vedere la bellezza di quel volto.

4. «Aspetta un momento», disse quando mi alzai e feci per andarmene, «devo uscire anch'io, così facciamo un pezzo di strada assieme». Aspettai in corridoio. Lei si cambiò in cucina. La porta era socchiusa. Si tolse la vestaglietta e rimase in sottoveste, verdechiara. Dalla spalliera della sedia pendevano due calze. Ne prese una e l'arrotolò alternando il movimento delle mani. Si bilanciò su una gamba, poggiò sul ginocchio il tallone dell'altra gamba, si chinò in avanti, infilò la calza arrotolata sulla punta del piede, posò la punta del piede sulla sedia, fece scivolare la calza lungo il polpaccio, il ginocchio e la coscia, si piegò di lato e fissò la calza alle giarrettiere. Si mise dritta, tolse il piede dalla sedia e allungò la mano verso l'altra calza. Non riuscivo a distogliere gli occhi da lei. Dalla sua nuca e dalle sue spalle, dai suoi seni più velati che nascosti dalla sottoveste, dal suo sedere dove la sottoveste si era tesa poggiando il piede sul ginocchio e sulla sedia, dalla sua gamba, prima nuda e pallida e poi setosamente scintillante nella calza. Lei avvertì che la stavo guardando. E; nel prender l'altra calza si bloccò, si voltò verso la porta e mi guardò negli occhi. Non so dire com'era il suo sguardo, se stupito o interrogativo, se d'intesa o di rimprovero. Io arrossii. Rimasi lì un momento con la faccia in fiamme. Poi non riuscii più a reggere, mi precipitai fuori dell'appartamento, corsi giù per le scale e fui in strada. Ora camminavo piano. La Bahnhofstrasse, la Hauserstrasse, la Blumenstrasse erano da anni il mio consueto percorso tra casa e scuola. Conoscevo ogni casa, ogni giardino e ogni recinto, quello che veniva ridipinto ogni anno e quello dove il legno era ormai così grigio e marcio che potevo imprimerci le dita, e i recinti di ferro dove da bambino facevo tintinnare le sbarre passando di corsa col bastone, e quel muro alto di mattoni, dietro al quale mi figuravo cose prodigiose e spaventose, fino a quando riuscii a scalarlo e mi trovai davanti noiose file d'aiuole di fiori, bacche e ortaggi lasciate lì all'abbandono. Conoscevo l'acciottolato e il manto d'asfalto della strada e l'alternarsi di lastre, cubetti di basalto disposti a onde, asfalto e ghiaia sul marciapiede. Tutto mi era famigliare. Quando il mio cuore smise di batter forte e il mio viso non scottò più, l'incontro tra cucina e corridoio era ormai lontano. Allora mi arrabbiai. Ero scappato via come un bambino, invece di reagire così sovranamente come mi aspettavo da me. Non avevo più nove anni, ma quindici. Per me rimase comunque un mistero cosa avrebbe dovuto essere quella sovrana reazione. L'altro enigma era l'incontro tra cucina e corridoio. Perché non ero riuscito a staccarle gli occhi di dosso? Lei aveva un corpo molto robusto e molto femminile, ben più formoso di quello delle ragazze che mi piacevano e alle quali miravo. Ero sicuro che lei non mi avrebbe colpito se l'avessi vista in piscina. Non si era peraltro mostrata più nuda delle ragazze e delle donne che avevo già visto in piscina. Per giunta lei era molto più vecchia delle ragazze che sognavo. Più di trenta? E' difficile valutare l'età che non ti sei ancora lasciata alle spalle o che ti viene incontro. Anni dopo giunsi alla conclusione che non ero riuscito a staccarle gli occhi di dosso non tanto per le sue forme, quanto per i suoi atteggiamenti e movimenti. Pregai le mie amiche d'infilarsi le calze, senza spiegare il perché di quella richiesta né accennare all'enigma dell'incontro tra cucina e corridoio. La mia richiesta venne quindi intesa come voglia di reggicalze e reggipetti, desiderio di stravaganze erotiche, e quando venne soddisfatta, tutto assunse pose civettuole. Ma non era questo che mi aveva impedito di staccarle gli occhi di dosso. Lei non aveva posato né fatto moine. Non rammento nemmeno che si sia mai comportata così. Ricordo che il suo corpo, i suoi atteggiamenti e movimenti a volte riuscivano pesanti, goffi. Non che lei fosse greve a quel modo. No, sembrava piuttosto che si ritirasse all'interno del proprio corpo, per abbandonarlo a sé stesso e al suo ritmo tranquillo, non turbato dai comandi della testa, e dimenticasse così il mondo esterno. Era appunto quest'oblio del mondo che riposava negli atteggiamenti e movimenti con cui si era infilata le calze. E quella volta non era stata pesante e goffa, ma sciolta, avvenente, tentatrice: una tentazione che non significa seno gambe sedere, ma un invito a dimenticare il mondo all'interno del corpo.

Questo allora non lo sapevo, sempre che adesso lo sappia o non cerchi semplicemente d'indovinarlo. Ma quando allora ripensavo a ciò che mi aveva così tanto eccitato l'eccitazione si faceva sentire di nuovo. Per sciogliere l'enigma rievocavo l'incontro, ed ecco che il distacco da me interposto, col rendere l'incontro un enigma, si dissolveva. Di nuovo mi vedevo tutto quanto davanti e di nuovo non riuscivo a staccare gli occhi. 5. Dopo una settimana ero di nuovo da lei, davanti alla sua porta. Per una settimana avevo cercato di non pensare a lei. Ma niente era riuscito a svagarmi, a occuparmi la mente: il medico non mi permetteva ancora di tornare a scuola, dei libri ero stufo dopo mesi di lettura, e gli amici passavano sì a salutare, ma io ero ammalato da così tanto tempo che le loro visite non bastavano a gettare dei ponti tra il loro e il mio quotidiano, e si facevano sempre più brevi. Potevo fare delle passeggiate, ogni giorno sempre più lunghe, senza però affaticarmi. Ma io avevo bisogno di affaticarmi. Che tempi maledetti sono i periodi di malattia nell'infanzia e nell'adolescenza! Il mondo esterno, il mondo del tempo libero in cortile o in giardino, oppure per strada, penetra nella stanza del malato solo mediante rumori ovattati. Dentro prolifera il mondo delle storie coi loro eroi, di cui il malato legge. La febbre, che indebolisce la percezione e acuisce la fantasia, trasforma la stanza del malato in uno spazio nuovo, famigliare ed estraneo al contempo; dei mostri emergono con le loro smorfie dai disegni delle tendine e della tappezzeria, e le sedie, il tavolo, gli scaffali e l'armadio si ergono come montagne, palazzi o navi, tanto vicini da poterli toccare, eppure così lontani. I rintocchi dell'orologio del campanile, il rombo di una macchina che passa e le luci riflesse dei fari, che perlustrano le pareti e il soffitto della stanza, accompagnano il malato attraverso le lunghe ore della notte. Sono ore senza sonno, ma non ore insonni; non ore di carenza ma di pienezza. Desideri, ricordi, paure e voglie combinano dei labirinti in cui il malato si perde, si ritrova e si riperde. Sono ore in cui tutto è possibile, sia nel bene che nel male. Tutto ciò vien meno quando il malato migliora. Ma se la malattia è stata abbastanza lunga, allora la stanza è impregnata di quegli umori e il convalescente, pur non avendo più la febbre, è ancora perso in quei labirinti. Io mi svegliavo ogni mattina con la coscienza sporca, a volte coi calzoni del pigiama bagnati o macchiati. Le immagini e le scene che sognavo erano riprovevoli. Sapevo che la mamma, il parroco che mi aveva preparato per la cresima e che io veneravo, e la sorella maggiore alla quale avevo confidato i miei segreti d'infanzia, non mi avrebbero certo sgridato. Mi avrebbero però ammonito così amorevolmente e con tale apprensione, che sarebbe stato peggio di una sgridata. Particolarmente riprovevole era il fatto che quelle immagini e quelle scene, se non le sognavo passivamente, le fantasticavo attivamente. Non so come avessi trovato il coraggio di andare dalla signora Schmitz. L'educazione morale si era, per così dire, rivoltata contro sé stessa? Se lo sguardo concupiscente era tanto turpe quanto il soddisfacimento della concupiscenza, e il fantasticare attivo tanto turpe quanto l'atto fantasticato, perché non il soddisfacimento e l'atto stessi? Giorno dopo giorno sentivo di non riuscire a staccarmi da quei pensieri peccaminosi. E allora volli commettere anche il peccato. C'era poi un'altra considerazione. Andar lì poteva essere pericoloso. Ma in effetti era impossibile che il pericolo si concretizzasse. La signora Schmitz mi avrebbe accolto salutandomi stupita, avrebbe ascoltato la scusa inventata per il mio strano comportamento e mi avrebbe cortesemente congedato. Più pericoloso era invece non andarci; perché correvo il rischio di non liberarmi delle mie fantasie. Perciò facevo bene ad andarci. Lei si sarebbe comportata normalmente, io mi sarei comportato normalmente, e tutto sarebbe tornato normale. Quella volta m'invischiai insomma in ragionamenti cavillosi, feci della mia concupiscenza il guardiano di uno strano calcolo morale e ridussi al silenzio la mia coscienza sporca. Ma non era questo che mi aveva dato il coraggio di andare dalla signora Schmitz. Convincermi del fatto che mia madre, il venerato parroco e mia sorella maggiore, se avessero riflettuto a fondo, non mi

avrebbero trattenuto ma esortato ad andare da lei, era stata la stessa cosa. In realtà andare da lei fu qualcosa del tutto diverso. Io non so perché lo feci. Ma ora scorgo negli avvenimenti di allora il modello in base al quale, per tutta la mia vita, pensiero e azione si sono o non si sono combinati. Penso di ottenere un risultato, faccio dipendere questo risultato da una decisione e scorgo che l'azione è una cosa a sé e può ma non deve necessariamente seguire la decisione. Nel corso della mia vita ho agito abbastanza spesso senza aver preso una decisione, così come non ho agito dopo aver preso una decisione. C'è un qualcosa, qualunque cosa sia, che agisce: questo quid mi porta dalla donna che non voglio più vedere, muove nei confronti di ciò che mi sono prefisso l'obiezione per cui mi dico che ne va della vita, continua a fumare anche se io ho deciso di smettere, e smette di fumare quando mi rendo conto che sono e sarò sempre un fumatore. Non intendo dire che pensare e decidere non abbiano alcun effetto sull'agire. Ma l'agire non è il semplice esecutore di ciò che è stato pensato e deciso, poiché ha una sua propria origine ed è il mio agire in modo tanto autonomo quanto il mio pensare è il mio pensare e il mio decidere è il mio decidere. 6. Lei non era in casa. Il portone era accostato, salii le scale, suonai e aspettai. Suonai un'altra volta. Nell'appartamento le porte erano aperte, lo vidi guardando dal vetro della porta d'ingresso e riconobbi in corridoio lo specchio, il guardaroba e la pendola. La sentivo ticchettare anche da fuori. Mi sedetti sui gradini e aspettai. Non mi sentivo sollevato come può capitare a chi non vive veramente una decisione e teme le conseguenze ed è contento di aver attuato quella decisione senza subirne le conseguenze. Ma non ero nemmeno deluso. Ero deciso a vederla, ad aspettarla fino a quando sarebbe tornata. La pendola in corridoio batté il quarto, la mezza e l'ora. Cercavo di seguire il leggero ticchettìo, tentavo di contare i novecento secondi tra un rintocco e l'altro, ma mi lasciavo distrarre di continuo. In cortile strideva la sega del falegname, in casa si sentivano voci o musica venire da un appartamento, una porta si muoveva. Poi udii qualcuno che saliva le scale con passo pesante, lento, regolare. Speravo che abitasse al secondo piano. Se mi avesse visto, come avrei spiegato cosa stavo facendo lì? Ma i passi non si fermarono al secondo piano. Continuarono a salire. Mi alzai in piedi. Era la signora Schmitz. In una mano reggeva un secchio di carbon coke e nell'altra un bidone di mattonelle. Indossava un'uniforme, giacca e gonna, così scoprii che faceva la bigliettaia del tram. Lei non mi scorse fino a quando non fu sul pianerottolo. Il suo sguardo non era irritato, né stupito, né sfottente: non c'era niente di ciò che avevo temuto. Aveva l'aria stanca. Quando depose il carbone per cercare la chiave nella tasca della giacca, qualche moneta finì a terra tintinnando. Le raccolsi e gliele diedi. «Giù in cantina ci sono altri due secchi. Vuoi riempirli e portarli su? La porta è aperta». Io corsi giù per le scale. La porta delle cantine era aperta, la luce accesa, e ai piedi della lunga scala dello scantinato trovai un deposito fatto d'assi, con la porta accostata e il lucchetto aperto appeso al chiavistello. Il locale era grande, e il coke ammucchiato fino alla finestrella sotto il soffitto, dalla quale era stato scaricato dalla strada in cantina. Accanto alla porta c'erano da un lato le mattonelle ben impilate e dall'altro i secchi per il coke. Non so cosa feci di sbagliato. Anche a casa mia andavo a prendere il carbone in cantina e non avevo mai avuto problemi. Ma da noi il coke non era ammassato in un mucchio così alto. Col primo secchio tutto andò bene, fu subito pieno. Quando però afferrai per il manico il secondo e feci per raccogliere il coke da terra, la montagna si mise in movimento. Dall'alto saltellarono giù dei piccoli pezzi a grandi balzi e dei grossi a piccoli balzi, mentre più sotto fu un franare e poi rotolare e rimbalzare sul pavimento. Si alzò un polverone nero. Rimasi lì atterrito, mi buscai questo e quel tòcco di carbone e in breve mi ritrovai nel coke fino alle caviglie. Quando la montagna si riassestò, uscii dal coke, riempii il secondo secchio, cercai e trovai una scopa con cui spazzai dentro i pezzi rotolati in corridoio, chiusi a chiave la porta e portai su i due secchi. Lei si era tolta la giacca, allentata la cravatta, il bottone in alto slacciato, e stava seduta al tavolo in

cucina con un bicchiere di latte davanti. Come mi vide si mise a ridere, soffocando prima i singulti e poi a piena gola. Mi puntò col dito e sbatté l'altra mano sul tavolo. «Guarda che faccia hai, ragazzino!». Al che vidi effettivamente la mia faccia nera nello specchio sopra il lavello e scoppiai a ridere anch'io. «Non puoi tornare a casa conciato così. Ti faccio fare un bagno e dò una ripulita ai tuoi vestiti». Andò alla vasca da bagno e aprì il rubinetto. L'acqua scrosciò fumante nella vasca. «Fai attenzione a toglierti i vestiti, non vorrei questa polvere nera in cucina». Esitai, poi mi tolsi il pullover e la camicia, ed esitai ancora. L'acqua saliva in fretta, e la vasca era quasi piena. «Vuoi farti il bagno con le scarpe e i calzoni? Non ti guardo mica, ragazzino». Ma quando ebbi chiuso il rubinetto e mi fui tolto le mutande, lei mi osservò ben bene. Io arrossii, scesi nella vasca e m'immersi. Quando riemersi, lei era sul balcone coi miei vestiti. La sentii sbattere le scarpe e scuotere i calzoni e il pullover. Gridò qualcosa in basso, parlò di polvere... carbone e segatura. Dal basso si sentì gridar su, e lei rise. Rientrata in cucina, pose i miei vestiti sulla sedia. Mi diede solo un'occhiata. «Prendi lo shampoo e lavati anche i capelli. Torno subito con l'asciugamano». Prese qualcosa dall'armadio e uscì dalla cucina. Mi lavai. L'acqua nella vasca era sporca, perciò ne feci scorrere dell'altra per sciacquarmi la testa e il viso sotto il getto. Poi rimasi lì disteso nella vasca, ascoltai lo scaldabagno ribollire, sentii in faccia l'aria fresca che entrava dalla porta socchiusa della cucina, e l'acqua calda attorno al corpo. Era piacevole, un piacere eccitante. E il mio sesso s'irrigidì. Non alzai gli occhi quando entrò in cucina, ma solo quando fu davanti alla vasca. Con le braccia allargate reggeva un grande asciugamano. «Vieni!». Le voltai le spalle alzandomi in piedi e uscendo dalla vasca. Da dietro mi avvolse nell'asciugamano, da capo a piedi, e mi strofinò finché non fui asciutto. Poi lasciò cadere a terra l'asciugamano. Io non osavo muovermi. Lei mi venne così vicina che sentii i suoi seni contro la mia schiena e il suo ventre contro il mio sedere. Era nuda anche lei. Mi prese tra le braccia, una mano sul mio petto e l'altra sul mio sesso irrigidito. «Non è per questo che sei qui!?». «Io...». Io non sapevo cosa dire. Non sì, ma neanche no. Mi girai. Non vidi molto di lei. Eravamo troppo vicini. Ma fui sopraffatto dalla presenza del suo corpo nudo. «Come sei bella!». «Ma che dici, ragazzino». Si mise a ridere e mi strinse le braccia attorno al collo. Anch'io la presi tra le braccia. Avevo paura di toccare, di baciare, e temevo di non piacerle e non bastarle. Ma dopo esser rimasti lì stretti per un po', quando ebbi aspirato il suo odore e sentito il suo calore e la sua forza, tutto avvenne in modo naturale. L'esplorare il suo corpo con le mani e con la bocca, l'incontro delle bocche e infine lei sopra di me, occhi negli occhi, fino a quando venni e strinsi le palpebre cercando di controllarmi, per poi gridare così forte che lei soffocò il grido con la sua mano sulla mia bocca. 7. Quella notte stessa m'innamorai di lei. Non dormii profondamente: la desideravo, la sognavo, credevo perfino di sentirla, e poi mi accorgevo che stavo stringendo il cuscino o la coperta. A forza di baciare, la bocca mi faceva male. Il mio sesso era in continua agitazione, ma io non volevo masturbarmi. Non volevo masturbarmi mai più. Volevo stare con lei. Mi sono forse innamorato di lei per ricompensare il fatto che era stata a letto con me? Ancor oggi, dopo aver passato una notte con una donna, ho la sensazione di esser stato coccolato e di dover quindi ripagare: lei, cercando in qualche modo di amarla, e anche il mondo, verso il quale mi sento in debito. Uno dei pochi e più vivi ricordi della mia prima infanzia riguarda un mattino d'inverno, quando avevo quattro anni. La stanza in cui allora dormivo non era riscaldata, e di notte e la mattina faceva spesso molto freddo. Mi ricordo della cucina calda e del fornello che scottava, un arnese pesante, di ferro, dove si poteva veder dentro il fuoco se con un uncino sollevavi la piastra e i cerchi, e dove c'era uno scomparto con l'acqua calda sempre pronta. Davanti al fornello mia madre aveva messo

una sedia, sulla quale io rimasi lì in piedi mentre lei mi lavava e vestiva. Mi ricordo della piacevole sensazione di calore e del godimento che mi procurò il fatto di esser lavato e vestito in quel bel tepore. Mi ricordo anche che, quando rammento quella situazione, mi chiedo sempre perché mia madre mi abbia coccolato così, quella volta. Ero malato? I miei fratelli avevano ricevuto qualcosa che io non avevo ricevuto? Si profilava, per il resto della giornata, qualcosa di poco piacevole, di difficile, che dovevo superare? Anche perché lei, la donna che nei miei pensieri non aveva nome, mi aveva coccolato così tanto quel pomeriggio, tornai a scuola il giorno dopo. C'era poi il fatto che intendevo sfoggiare la virilità da me conquistata. Non che volessi vantarmi. No, è che mi sentivo forte e superiore e intendevo affrontare i miei compagni e gli insegnanti con quella forza e quella superiorità. Per giunta, pur non avendo parlato con lei della cosa, mi figuravo che facendo la bigliettaia doveva lavorare spesso di sera e di notte. Come potevo quindi vederla tutti i giorni se mi toccava restare a casa e m'era concesso fare solo delle passeggiate da convalescente? Tornato a casa dopo esser stato da lei, i miei genitori e i fratelli stavano già cenando. «Come mai arrivi così tardi? Tua madre è stata in pensiero per te». Il tono di mio padre era più irritato che preoccupato. Dissi che mi ero perso. Che avevo pensato di fare una passeggiata un po' più in là del Cimitero militare, fino alla Molkenkur, ma che a un certo punto non sapevo più dov'ero e alla fine m'ero ritrovato a Nussloch. «Non avevo soldi e son dovuto tornare a casa a piedi». «Potevi fare l'autostop». Mia sorella minore faceva a volte l'autostop, cosa che i miei genitori non approvavano. Mio fratello maggiore sbuffò sprezzante. «Molkenkur e Nussloch?... Sono due direzioni completamente diverse». Mia sorella maggiore mi fissò con uno sguardo indagatore. «Domani torno a scuola». «Allora sta' più attento durante l'ora di geografia. C'è il nord e il sud, e il sole...». Mia madre interruppe mio fratello. «Ci vogliono ancora tre settimane, ha detto il medico». «Se ce la fa ad andare fino a Nussloch e tornare, può anche andare a scuola. Non sono le forze che gli mancano, è il cervello che gli manca». Quand'eravamo bambini, mio fratello e io ci picchiavamo di continuo, e in seguito furono scontri verbali. Di tre anni più vecchio, mi era superiore sia in questo sia in quello. Non so quando ho smesso di ribattere, lasciando cadere nel vuoto le sue provocazioni. Da allora in poi si limitò a criticare. «Che ne pensi tu?». Mia madre rivolse lo sguardo a mio padre. Lui posò forchetta e coltello nel piatto, si appoggiò indietro e incrociò le mani in grembo. Tacque e guardò pensoso, come ogni volta che mia madre si rivolgeva a lui a proposito dei figli o della casa. Come ogni volta, mi chiedevo se pensasse effettivamente alla questione posta da mia madre oppure al suo lavoro. Forse cercava anche di pensare alla questione posta da mia madre, ma, come si metteva a pensare, non pensava altro che al suo lavoro. Era docente di filosofia, e pensare era la sua vita: pensare e leggere e scrivere e insegnare. A volte avevo la sensazione che noi, la sua famiglia, fossimo per lui come degli animali domestici. Il cane col quale si va a spasso, oppure il gatto con cui si gioca o che si arrotola in grembo e si lascia carezzare facendo le fusa: questo può anche far piacere, e in certo qual modo se ne ha perfino bisogno; eppure, comprare il cibo, pulire la cassettina e andare dal veterinario è già fin troppo. Perché la vita è altrove. A me sarebbe piaciuto che noi, la sua famiglia, fossimo la sua vita. A volte mi sarebbe anche piaciuto avere un fratello non così criticone e una sorellina un po' meno sfacciata. Ma la sera, tutt'a un tratto, volevo un bene da morire a tutti quanti. La mia sorellina. Probabilmente non era facile essere la più piccola di quattro fratelli, e senza un bel po' di faccia tosta non sarebbe riuscita a imporsi. Il mio fratellone. Avevamo la stanza in comune, cosa che per lui era certo più difficile che per me, e per giunta, da quando io m'ero ammalato, lui aveva dovuto lasciare la stanza tutta per me e dormire sul divano in soggiorno. Come poteva non aver da ridire? Mio padre. Perché mai, noi figli, dovevamo essere la sua vita? Noi crescevamo, presto saremmo stati grandi, e poi via di casa.

Mi sembrava che fossimo seduti per l'ultima volta attorno al tavolo rotondo sotto il lampadario d'ottone a cinque braccia, che mangiassimo per l'ultima volta dai vecchi piatti coi tralci verdi sul bordo, che parlassimo per l'ultima volta con tanta intimità. Mi sentivo come a un addio. Ero ancora lì e già lontano. Avevo nostalgia della mamma e del babbo e dei fratelli, e il desiderio struggente di stare con lei, con la donna. Mio padre mi guardò dall'altra parte del tavolo. «Domani torno a scuola: hai detto così, non è vero?». «Sì». S'era quindi accorto che avevo rivolto la domanda a lui e non alla mamma, e che non avevo detto: mi chiedo se sia il caso di tornare a scuola. Annuì. «Ti lasciamo tornare a scuola. Se poi ti pesa troppo, puoi sempre restartene a casa». Ero contento. E al tempo stesso avevo la sensazione che l'addio fosse ormai compiuto. 8. I giorni seguenti lei aveva il primo turno. Tornava a casa a mezzogiorno, e io marinavo regolarmente l'ultima ora per poterla aspettare sul pianerottolo davanti alla sua porta. Facevamo la doccia e poi l'amore, e poco prima dell'una e mezza mi rivestivo in fretta e furia e sparivo. A casa mia si pranzava all'una e mezza. La domenica, invece, si andava a tavola a mezzogiorno, ma di domenica anche il suo primo turno cominciava e finiva dopo. Io avrei fatto volentieri a meno della doccia. Ma lei era di una pulizia estrema. Faceva la doccia ogni mattina, e a me piaceva l'odore di profumo, di sudore fresco e di tram che lei riportava dal lavoro. Mi piaceva però anche il suo corpo bagnato, insaponato; mi lasciavo volentieri insaponare da lei e la insaponavo volentieri, e lei m'insegnò a farlo senza vergogna, con grande accuratezza e una sicurezza naturale nel prender possesso dell'altro. Anche quando facevamo l'amore lei prendeva possesso di me in modo naturale. La sua bocca prendeva la mia, la sua lingua giocava con la mia, mi diceva dove e come toccarla, e quando stava sopra, cavalcandomi finché venivo, per lei io ero semplicemente lì per soddisfare la sua voglia. Non che non fosse tenera e non mi desse piacere. Ma lo faceva solo per il suo piacere di giocare, e lo fece fino a quando imparai anch'io a prendere possesso di lei. Questo avvenne in seguito, anche se non l'imparai mai bene. Ma neanche mi mancò molto. Ero giovane e venivo in fretta, e quando poi pian piano mi rianimavo, lasciavo volentieri che lei prendesse ancora possesso di me. Io la guardavo quand'era sopra di me, e vedevo il suo ventre che sopra l'ombelico faceva una piega profonda, i suoi seni, il destro un tantino più grande del sinistro, il suo viso con la bocca aperta. Puntava le mani sul mio petto e all'ultimo momento s'impennava, irrigidiva la testa e cacciava un urlo rauco, soffocato, rotto da singhiozzi, che la prima volta mi spaventò, ma poi aspettai sempre avidamente. Dopo eravamo sfiniti. Spesso si addormentava su di me, e io sentivo la sega in cortile e il vociare degli operai che ci lavoravano, così forte che copriva il rumore. Quando la sega smetteva, penetravano in cucina, attenuati, i rumori del traffico nella Bahnhofstrasse. Quando sentivo dei bambini gridare e giocare, allora sapevo che le lezioni erano finite e l'una era passata. Il vicino, che tornava a casa dopo mezzogiorno, spargeva del becchime sul balcone, e i piccioni arrivavano e tubavano. «Come ti chiami?». Le feci la domanda al sesto o settimo giorno. S'era addormentata su di me e si stava svegliando. Fino a quel momento le avevo rivolto la parola in modo impersonale, evitando sia il tu che il lei. Ebbe un sussulto. «Cosa?». «Com'è che ti chiami». «Perché vuoi saperlo?». Mi guardò con aria diffidente. «Tu e io... io conosco il tuo cognome, ma non il tuo nome. Voglio sapere il tuo nome. Che cosa c'è di...». Si mise a ridere. «Niente, non c'è niente di male, ragazzino. Mi chiamo Hanna». Continuò a ridere. Non la smetteva e mi contagiò.

«Guardavi in maniera così buffa». «Ero ancora mezz'addormentata. E tu come ti chiami?». Pensavo che lei lo sapesse. Era venuto di moda non portare più i libri nella cartella ma sottobraccio, e quando da lei li posavo sul tavolo in cucina, si poteva leggere in cima il mio nome, sui quaderni e anche sui libri, foderati con carta robusta e muniti di etichette col titolo del libro e il mio nome. Ma lei non ci aveva badato. «Mi chiamo Michael Berg». «Michael, Michael, Michael». Stava degustando il nome. «Il mio ragazzino si chiama Michael, va all'università e...». «Al liceo». «...va al liceo e ha, quanti, diciassette anni?». Fiero dei due anni in più che m'aveva dato, annuii. «...ha diciassette anni e da grande vuol diventare un famoso...». Esitò. «Io non so cosa voglio diventare». «Ma tu studi con impegno». «Ma sì». Le dissi che lei era più importante della scuola e dello studio. Che mi sarebbe piaciuto stare anche più spesso con lei. «Tanto, dovrò ripetere». «Ripetere cosa?». Si tirò su dritta. Era la prima vera e propria conversazione che aveva luogo tra noi. «L'anno scolastico. Sono stato troppo assente negli ultimi mesi, quand'ero malato. Per essere promosso dovrei sgobbare come un deficiente. Anche adesso dovrei essere a scuola». Le raccontai del mio marinare. «Fuori!». Scaraventò via il piumino. «Fuori dal mio letto! E non farti più vedere se non fai il tuo lavoro Da deficienti è il tuo lavoro? Roba da deficienti? Che cosa pensi che sia vendere e bucare biglietti! ». Si alzò in piedi e lì nuda, in cucina, si mise a fare la bigliettaia. Di scatto aprì con la sinistra la piccola cartella coi blocchetti dei biglietti, ne staccò due passando il pollice della stessa mano già infilato in un ditale di gomma, fece ondeggiare la destra in modo da afferrale al volo la pinza che pendeva dal polso e bucò i due biglietti. «Due per Rohrbach». Lasciò andare la pinza, allungò la mano, prese una banconota, aprì il borsello che teneva sul ventre, infilò la banconota, richiuse il borsello e premette fuori dai contenitori applicati all'esterno le monete per il resto. «Chi deve fare ancora il biglietto?». Mi guardò in faccia. «Da deficienti? Tu non sai che cos'è deficiente». Stavo seduto sul bordo del letto. Ero intontito, come narcotizzato. «Mi dispiace. Farò il mio lavoro. Non so se riuscirò a essere promosso, ci sono solo sei settimane alla fine dell'anno scolastico. Cercherò di farcela. Ma non m'impegnerò sul serio se non posso più vederti. Io...... Stavo per dire: Io ti amo. Ma poi mi trattenni. Forse aveva ragione lei, aveva certamente ragione. Ma non aveva il diritto di pretendere da me che studiassi di più, e facesse dipendere da questo il fatto di vederci. «Io non posso non vederti». La pendola in corridoio batté l'una e mezza. «Ora devi andare». Lei esitava. «Da domani ho il turno di mezzo. Alle cinque e mezza finisco. Poi torno a casa e puoi venire anche tu. Se prima lavori con impegno». Eravamo lì nudi, in piedi l'uno di fronte all'altra, ma lei non mi sarebbe sembrata così scostante nella sua uniforme. Non riuscivo a cogliere la situazione. Era preoccupata per me? O per sé stessa? Se il mio lavoro era roba da deficienti, allora il suo era ancor più da deficienti: era questo che l'aveva offesa? Ma io non avevo detto che il mio o il suo lavoro era roba da deficienti. O forse non voleva avere un fallito per amante? Ma io ero il suo amante? Che cos'ero io per lei? Mi rivestii tirandola un po' per le lunghe, sperando che dicesse qualcosa. Ma non disse niente. Ero ormai vestito e lei stava lì in piedi ancora nuda. Quando prima di andarmene l'abbracciai, lei non reagì. 9. Perché mi rende così triste pensare a quel tempo? E' la nostalgia della felicità perduta? E fui felice, oh sì, nelle settimane che seguirono, quando sgobbai davvero come un deficiente e venni promosso

e facemmo l'amore come se non contasse nient'altro al mondo. O è anche sapere quel che vien dopo, e sapere che dopo viene alla luce solo ciò che c'era già? Perché? Perché mai, guardando indietro, ciò che era bello ci si sgretola davanti per il fatto che celava spiacevoli verità? Perché il ricordo degli anni felici di matrimonio s'intorbida, quando si scopre che l'altro ha avuto un amante per tutti quegli anni? Per il fatto che in simili circostanze non si può essere felici? Ma si è pur stati felici! A volte il ricordo non si rivela tanto fedele nei confronti della felicità, se la fine è stata dolorosa. Per il fatto che la felicità è tale solo se dura in eterno? Per il fatto che può finire solo dolorosamente ciò che era doloroso in modo inconsapevole e non riconosciuto? Ma che cos'è un dolore inconsapevole e non riconosciuto? Ripensando a quel tempo, mi vedo davanti me stesso. Indossavo fino a consumarli i vestiti eleganti lasciati da uno zio ricco, che erano toccati a me insieme con diverse paia di scarpe bicolori, nere e marroni, bianche e nere, scamosciate e di pelle lucida. Io avevo delle braccia e delle gambe troppo lunghe, non per i vestiti, che mia madre aveva allungato, ma per la coordinazione dei movimenti. I miei occhiali erano un modello della mutua a buon mercato e i miei capelli una scopa a frange arruffata; potevo fare quel che volevo. A scuola non andavo né bene né male: credo che molti insegnanti non si accorgessero proprio di me, e nemmeno i bravi della classe. Non ero comunque contento del mio aspetto, di come mi vestivo e mi muovevo, di quel che riuscivo a fare e di quel che valevo. Ma quanta energia c'era in me, quanto confidavo nel fatto di diventare un giorno bello e intelligente, superiore e ammirato, con quali aspettative andavo incontro a persone e situazioni nuove! E' questo che mi rende triste? Il fervore e la fede di cui allora ero colmo e che strapparono alla vita una promessa che non poteva esser mai e poi mai mantenuta? A volte vedo nei volti dei bambini e degli adolescenti il medesimo fervore e la medesima fede, e li guardo con la medesima tristezza con cui ripenso a me stesso. E' questa tristezza la tristezza pura e semplice? E' lei che ci prende quando, guardando indietro, i bei ricordi si sgretolano perché la felicità che ricordiamo non viveva soltanto della situazione, ma anche di una promessa che non è stata mantenuta? Lei - dovrei cominciare a chiamarla Hanna, proprio come allora cominciai a chiamarla Hanna - lei non viveva certo di una promessa, ma della situazione e solo di quella. Io le chiedevo del suo passato, ed era come se quel che mi rispondeva lo tirasse fuori da un baule coperto di polvere. Era nata e cresciuta in Transilvania, a diciassette anni era andata a Berlino, era entrata operaia alla Siemens e a ventun anni era finita a fare il militare. Dopo la guerra aveva tirato avanti facendo i mestieri più disparati. Della professione di bigliettaia, che esercitava già da qualche anno, le piaceva l'uniforme e l'essere in movimento, le scene sempre diverse e il rotolìo sotto i piedi. Per il resto non le piaceva. Non aveva famiglia. Aveva trentasei anni. Tutto ciò lo raccontava come se non fosse la sua vita, ma la vita di un'altra persona, che lei non conosceva bene e che non la riguardava affatto. Ciò che volevo sapere con maggiore precisione, spesso non lo ricordava più, e non capiva neppure perché m'interessassi tanto di quel che ne era stato dei suoi genitori, se aveva avuto dei fratelli, com'era vissuta a Berlino e cosa aveva fatto quand'era militare. «Quante cose vuoi sapere, ragazzino!». Questo valeva anche per il futuro. Naturalmente io non facevo piani per metter su famiglia. Mi identificavo ben più nella relazione di Julien Sorel con madame de Renal che non in quella con Mathilde de la Mole. Preferivo vedere Felix Krull finire tra le braccia della madre che non della figlia. Mia sorella, che studiava germanistica, a tavola parlava della disputa che verteva sull'ipotesi che il signor von Goethe e la signora von Stein avrebbero avuto una relazione amorosa, e io sostenevo a spada tratta questa tesi sconcertando l'intera famiglia. Cercavo d'immaginarmi come sarebbe stata la nostra relazione a distanza di cinque o dieci anni. Chiedevo ad Hanna come se la immaginava. Lei non arrivava a figurarsela neanche fino a Pasqua, quando pensavo di andar via con lei in bicicletta durante le vacanze. Come madre e figlio potevamo prendere una sola stanza e restare insieme tutta la notte. Strano che l'idea e la proposta non mi risultassero irritanti. Una volta, durante un viaggio, avevo battagliato con mia madre per avere una stanza tutta per me. Che mia madre mi accompagnasse dal medico o a comprare un cappotto oppure venisse a prendermi quando tornavo da un viaggio, non mi

sembrava ormai più opportuno alla mia età. Se mi trovavo per strada con lei e incontravamo dei miei compagni di classe, temevo di esser preso per un cocco di mamma. Farmi invece vedere con Hanna, che, sebbene avesse dieci anni in meno di mia madre, poteva essere benissimo mia madre, non m'importava niente. Anzi, mi rendeva orgoglioso. Vedendo una donna di trentasei anni, ora la trovo giovane. Ma vedendo un ragazzo di quindici anni, ora vedo un bambino. Mi stupisco di quanta sicurezza Hanna mi abbia dato. Il mio successo a scuola richiamò l'attenzione degli insegnanti e mi diede la sicurezza che derivava dalla loro stima. Le ragazze che incontravo notavano e gradivano che io non avessi paura di loro. Mi sentivo bene nel mio corpo. Il ricordo che risplende di luce chiara e fissa con precisione i primi incontri con Hanna fa sfumare nell'indistinto le settimane trascorse dalla nostra conversazione alla fine dell'anno scolastico. Una delle ragioni è la regolarità con cui c'incontravamo e con cui si svolgevano i nostri incontri. Un altro motivo è che prima non avevo mai avuto delle giornate così piene: la mia vita non era mai stata così rapida e intensa. Se penso al lavoro svolto in quelle settimane, mi sembra di esser rimasto seduto alla scrivania finché non ebbi recuperato tutto ciò che non ero riuscito a studiare quando avevo l'itterizia, imparando tutti i vocaboli, leggendo tutti i testi, facendo tutti gli esercizi di matematica e tutte le esercitazioni di chimica. Quanto alla Repubblica di Weimar e al Terzo Reich, avevo già letto abbastanza durante la malattia. Anche pensando ai nostri incontri, mi sembrano un unico lungo incontro. A partire dalla nostra conversazione ebbero luogo sempre di pomeriggio: se lei aveva l'ultimo turno, dalle tre fino alle quattro e mezzo; altrimenti alle cinque e mezzo. A casa mia si cenava alle sette, e in un primo tempo Hanna insistette perché fossi puntuale. Ma dopo un po' non bastò più un'ora e mezza, e io cominciai a inventare scuse e a saltare la cena. Dipendeva dal fatto che dovevo leggerle. Difatti, il giorno dopo la nostra conversazione, Hanna volle sapere che cosa studiavo a scuola. Le raccontai dei poemi omerici, delle orazioni di Cicerone e della storia scritta da Hemingway dove si parla del vecchio e della sua lotta col pesce e col mare. Lei voleva sentire come suonavano il greco e il latino, e io le lessi dei brani dall'"Odissea" e dalle "Orazioni contro Catilina". «Studi anche il tedesco?». «Cosa vuoi dire con questo?». «Studi solo lingue straniere o c'è qualcosa da studiare anche nella propria lingua?». «Leggiamo dei testi». Mentre ero ammalato, la classe aveva letto l'"Emilia Galotti" e "Intrigo e amore", da cui bisognava poi trarre un elaborato. Dovevo quindi leggermi i due drammi, e lo feci quando tutto il resto fu portato a termine. Ma ormai era tardi e io ero stanco, e quel che leggevo non lo ricordavo più già il giorno dopo, per cui dovevo leggerlo un'altra volta. «Leggimelo!». «Leggilo da te, ti porto il testo». «Tu hai una voce così bella, ragazzino, preferisco ascoltarti che leggere da me». «Mah, non so». Ma quando arrivai il giorno dopo e feci per baciarla, lei si scansò. «Prima devi leggermi». Faceva sul serio. Dovetti leggerle per mezz'ora l'"Emilia Galotti", prima che mi prendesse con sé sotto la doccia e a letto. Ora andava anche a me di fare la doccia. La voglia che avevo addosso quand'ero arrivato m'era passata a forza di leggere. Leggere un dramma ad alta voce, in modo da rendere riconoscibili e abbastanza vivi i personaggi, richiede una certa concentrazione. Sotto la doccia, però, la voglia si fece risentire. Leggere, far la doccia, fare l'amore e star distesi insieme ancora un po': questo divenne il rituale dei nostri incontri. Lei era un'ascoltatrice attenta. Le sue risate, il suo sbuffare sprezzante e le sue esclamazioni di sdegno o d'approvazione non lasciavano dubbi circa il fatto che seguiva l'azione con ansia e interesse, e che prendeva per ragazzine sfrontatelle e stupide sia Emilia che Luise. L'impazienza con cui a volte mi chiedeva di continuare a leggere veniva dalla speranza che l'insensatezza finisse per cedere. «Questo non può proprio esser vero!» Alle volte mi sentivo perfino spinto a leggere. Quando le giornate cominciarono ad allungarsi, mi misi a leggere più a lungo per stare a letto con lei nel crepuscolo. Quando si addormentava su di me, e in cortile la sega taceva, e il merlo cantava e

i colori degli oggetti in cucina sfumavano nel grigio, lì più chiaro e là più scuro, allora io ero completamente felice. 10. Il primo giorno delle vacanze di Pasqua mi alzai alle quattro. Hanna aveva il primo turno. Alle quattro e un quarto andava in bicicletta al deposito dei tram e alle quattro e mezza si partiva per Schwetzingen. All'andata, mi aveva detto, il tram era spesso vuoto. Solo al ritorno si riempiva. Io salii alla seconda fermata. La seconda vettura era vuota, nella prima Hanna stava in piedi accanto al conducente. Ero indeciso se mettermi nella vettura davanti o in quella dietro, e decisi per quella dietro. Prometteva intimità, un abbraccio, un bacio. Ma Hanna non veniva. Doveva avermi visto aspettare alla fermata e poi salire. Il tram si era fermato appunto per questo. Ma lei rimase accanto al conducente, parlando e scherzando con lui. Lo vedevo bene. Senza fermarsi, il tram scorreva da una fermata all'altra. Nessuno che aspettasse. Le strade erano deserte. Il sole non era ancora sorto, e sotto un cielo bianco tutto era smorto in una luce smorta: le case, le auto parcheggiate, gli alberi verdeggianti e i cespugli in fiore, il gasometro e i monti in lontananza. Il tram andava piano; probabilmente l'orario era stabilito in base ai tempi di marcia e di fermata, e i tempi di marcia venivano allungati perché saltavano i tempi di fermata. Mi trovavo chiuso dentro il tram che viaggiava lentamente. Prima ero seduto, ma poi mi spostai sulla piattaforma davanti e cercai di fissare Hanna: doveva avvertire il mio sguardo alle sue spalle. Dopo un po' si girò e mi guardò ben bene. Poi riprese a parlare col conducente. La corsa proseguiva. Passato Eppelheim, i binari non filavano più sulla strada ma sopra una massicciata che costeggiava la via. Il tram si mise ad andare più veloce, col ritmo cadenzato di un treno. Sapevo che quel tratto passava per altre località e finiva per portare a Schwetzingen. Ma io mi sentivo escluso, espulso dal mondo normale in cui gli uomini vivono, lavorano e amano. Come se fossi condannato a un viaggio senza meta e senza fine in quella vettura vuota. Poi vidi una fermata, una cabina d'attesa in aperta campagna, e tirai la corda con cui il bigliettaio segnalava al conducente che doveva fermare o poteva proseguire. Il tram si fermò. Alla mia scampanellata, né Hanna né il conducente avevano guardato verso di me. Quando scesi, mi sembrò che mi guardassero ridendo. Ma non ne ero sicuro. Quindi il tram ripartì, e io lo seguii con lo sguardo finché scomparve, prima in un avvallamento e poi dietro una collina. Ero lì, tra la massicciata e la strada, con intorno campi e alberi da frutta, e più in là le serre di un'azienda ortofrutticola. L'aria era fresca, ricolma del cinguettìo degli uccelli. Sopra i monti il cielo bianco era rosa. Il viaggio in tram era stato come un brutto sogno. Se non avessi più che presente il seguito, sarei tentato di prenderlo sul serio per un brutto sogno. Star lì alla fermata, sentire gli uccelli e veder sorgere il sole fu come svegliarsi. Ma non è detto che svegliarsi da un brutto sogno significhi sentirsi sollevati. Può darsi benissimo che ci si renda conto di quanto sia stato terribile quel che si è sognato, e si scopra magari quale terribile verità abbiamo incontrato in sogno. Presi la via di casa. Mi scendevano le lacrime. E solo quando fui a Eppelheim riuscii a smettere di piangere. Percorsi la via di casa a piedi. Un paio di volte tentai inutilmente di fare l'autostop. A metà strada mi passò di fianco il tram. Era pieno. Hanna non la vidi. L'aspettai a mezzogiorno sul pianerottolo davanti alla sua porta, triste, inquieto, furibondo. «Stai marinando di nuovo la scuola?». «Sono in vacanza. Cos'è successo stamattina?». Lei aprì la porta e io la seguii nell'appartamento fino in cucina. «Che cosa è successo stamattina!?». «Perché hai fatto finta di non conoscermi? Io volevo...». «Io ho fatto finta di non conoscerti!?». Si voltò e mi guardò in faccia con freddezza. «Eri tu che non volevi far vedere che mi conosci. Sei salito sulla seconda vettura quando sapevi benissimo che io ero nella prima». «E perché mai, il primo giorno di vacanza, sarei andato a Schwetzingen alle quattro e mezza del

mattino? Solo perché volevo farti una sorpresa, perché pensavo che ti avrebbe fatto piacere. Nella seconda vettura io sono...». «Oh, povero bambino. Eri già in piedi alle quattro e mezza e per giunta in un giorno di vacanza». Non l'avevo mai vista fare l'ironica. Scrollò la testa. «Che ne so, io, perché vai a Schwetzingen. Che ne so perché non vuoi far vedere che mi conosci. E' affar tuo, non mio. Vuoi andartene, adesso?». Non so descrivere quanto fremevo di rabbia. «Questo non è leale, Hanna. Tu lo sapevi, tu dovevi saperlo che io ho preso il tram solo per stare con te. Come puoi pensare, poi, che non volevo far vedere che ti conosco? Se non avessi voluto far vedere che ti conosco, non avrei certo preso il tram per stare con te». «Ah, lasciami in pace. Ti ho già detto che quel che fai è affar tuo, non mio» Aveva assunto un atteggiamento tale che il tavolo della cucina era venuto a trovarsi tra noi, mentre il suo sguardo, la sua voce e i suoi gesti mi trattavano come un intruso. E inoltre m'intimava di andarmene. Mi sedetti sul divano. Lei mi aveva trattato male, e io avevo preteso una spiegazione. Ma non avevo cercato di avvicinarmi a lei, visto che mi aveva aggredito in quel modo. E così cominciai a sentirmi insicuro. Aveva forse ragione lei, non oggettivamente ma soggettivamente? Poteva, doveva capirmi in modo sbagliato? L'avevo ferita senza volere, contro il mio volere, ma pur sempre ferita? «Mi dispiace, Hanna. Tutto è andato storto. Io non volevo offenderti, ma sembra...». «Sembra? Tu pensi, ti sembra di avermi offesa? Tu non puoi offendermi, non tu. E adesso vuoi andartene, una buona volta? Io ho lavorato, voglio farmi il bagno e starmene in pace». Mi guardò minacciosa. Ma, visto che non mi alzavo, scrollò le spalle, si girò, fece scorrere l'acqua nella vasca e si spogliò. A quel punto mi alzai e me ne andai. Pensavo di andarmene per sempre. Ma dopo una mezz'ora ero di nuovo davanti alla sua porta. Lei mi fece entrare, e io mi feci carico di tutto. Avevo agito senza riflettere, senza riguardo, senza amore. Capivo che lei era offesa. Capivo che lei non era offesa perché io non potevo offenderla. Capivo che io non potevo offenderla, ma che lei non poteva lasciar correre, dato il mio comportamento. E alla fine fui felice quando ammise che l'avevo ferita. Non era quindi così intoccabile e indifferente come aveva dato a intendere di essere. «Mi perdoni?». Annuì. «Mi ami?». Annuì di nuovo. «La vasca è ancora piena. Vieni che ti faccio il bagno». In seguito mi chiesi se aveva lasciato l'acqua nella vasca perché sapeva che sarei tornato. Se si era spogliata perché sapeva che la cosa mi sarebbe rimasta impressa e mi avrebbe riportato da lei. Se aveva semplicemente voluto vincere un gioco di potere. Quando, dopo aver fatto l'amore ed esser rimasti distesi l'uno accanto all'altra, le dissi perché ero salito sulla seconda vettura e non sulla prima, lei mi punzecchiò. «Vorresti fartela con me perfino in tram, eh, ragazzino?!». Era come se il motivo della nostra lite non avesse più alcuna importanza. Ma era il risultato del litigio che aveva importanza. Io avevo non solo perso la lite, ma anche capitolato senza tanto combattere, quando lei aveva minacciato di respingermi, di negarsi a me. Nelle settimane che seguirono non combattei più neanche un po'. Quando lei minacciava, io capitolavo immediatamente accettando una resa incondizionata. Mi facevo carico di tutto. Ammettevo errori che non avevo commesso, mi assumevo intenzioni che non avevo mai avuto. Quando diventava fredda e dura, la supplicavo che tornasse a esser buona con me, che mi perdonasse, che mi amasse. A volte sentivo quanto soffriva per quel suo raggelarsi e irrigidirsi. Avvertivo quanto avesse bisogno del calore delle mie scuse, delle mie conferme, delle mie suppliche. A volte pensavo che lei semplicemente trionfasse su di me. Ma in un modo o nell'altro non avevo scelta. Di tutto questo non potevo parlare con lei. Parlare dei nostri litigi portava soltanto a un altra lite. Una o due volte le scrissi delle lunghe lettere. Ma lei non reagì. E quando le chiesi qualcosa in proposito, lei mi chiese di rimando: «Ricominci?».

11. Non è che Hanna e io, dopo il primo giorno delle vacanze di Pasqua, non fossimo più stati felici. Noi non fummo mai così felici come in quelle settimane di aprile. Per quanto quella prima lite, e in genere il nostro litigare, fosse falsato, tutto ciò che il nostro rituale del leggere, far la doccia, fare l'amore e star distesi insieme riusciva a schiudere, ci faceva bene. Inoltre, con l'accusa che io non avrei voluto far vedere che la conoscevo, lei si era assunta un impegno. Se io volevo mostrarmi in giro con lei, lei non poteva sollevare obiezioni di principio. «Ah, non volevi farti vedere con me!»: questo non le andava certo di farselo dire. E così, la settimana dopo Pasqua, partimmo in bicicletta, quattro giorni a Wimpfen, Amorbach e Miltenberg. Non ricordo più che cosa dissi ai miei genitori. Che andavo insieme al mio amico Matthias? Con un gruppo? Che andavo a trovare un mio vecchio compagno di classe? E' probabile che mia madre, come sempre, fosse preoccupata, e che mio padre, come sempre, trovasse che lei non aveva motivo di preoccuparsi. Non ero stato appena promosso, cosa che nessuno si aspettava da me? Mentre ero malato non avevo speso i miei soldi. Ma questi non bastavano, se volevo pagare anche per Hanna. Cercai quindi di vendere la mia raccolta di francobolli all'agenzia filatelica vicina alla Heiliggeistkirche. Era l'unico negozio di filatelia che acquistava francobolli, come si leggeva sulla porta. Il commerciante diede una scorsa ai miei album e mi offrì sessanta marchi. Io gli feci notare il mio pezzo di parata, un bollo egiziano con una piramide, non dentellato, che in base al catalogo valeva quattrocento marchi. Lui diede un'alzata di spalle. Se ci tenevo tanto alla mia raccolta, potevo magari tenerla meglio. E poi, avevo il permesso di venderla? Che ne dicevano i miei genitori? Io cercai di trattare. Se il bollo con la piramide non era di valore, me lo sarei tenuto io. E lui poteva darmi trenta marchi in tutto. Ma il bollo con la piramide era o non era di valore? Alla fine presi settanta marchi. Mi sentivo imbrogliato, ma per me faceva lo stesso. Non ero solo io a essere in ansia per il viaggio. Con mio stupore, anche Hanna era agitata già da giorni. Pensava in continuazione a cosa doveva portarsi dietro, e continuava a metter dentro e tirar fuori roba dalla borsa da bici e dallo zaino, che io le avevo procurato. Quando feci per mostrarle sulla cartina l'itinerario che avevo pensato, lei non volle sentire né veder niente. «Sono troppo eccitata adesso. Tu stai preparando tutto benissimo, ragazzino». Partimmo il lunedì di Pasqua. Il sole splendeva, e splendette per quattro giorni. La mattina faceva fresco, e di giorno era caldo, non troppo caldo per andare in bicicletta, ma caldo abbastanza per far picnic. I boschi erano tappeti in verde, con puntini, macchie e macchioline verdegialle, verdechiare, verdazzurre, verdenere, verdevetro di bottiglia. Nella piana del Reno fiorivano già i primi alberi da frutto. Nell'Odenwald stavano sbocciando le forsizie. Spesso potevamo pedalare l'uno accanto all'altra. Allora c'indicavamo quel che vedevamo nel passare: il castello, il pescatore, la barca sul fiume, la tenda, la famigliola in fila indiana lungo la riva, il macchinone americano con la capote abbassata. Quando imboccavamo un'altra strada cambiando direzione, io dovevo passare avanti; lei non voleva occuparsi di strade e direzioni. Se il traffico era troppo intenso, allora lei pedalava dietro di me o io dietro di lei. La sua bicicletta aveva i raggi schermati, corona e catena col carter, e lei indossava un vestito azzurro con una gonna ampia che svolazzava nell'andare. Mi ci volle un bel po' prima di vincere il timore che la gonna finisse nei raggi o nel mozzo e lei cadesse. Poi mi fece piacere vederla pedalare davanti a me. Con quanta gioia avevo immaginato le notti! Mi ero figurato che avremmo fatto l'amore per poi addormentarci e risvegliarci e far di nuovo l'amore, riaddormentandoci ancora e avanti così, notte dopo notte. Ma soltanto la prima notte mi risvegliai. Lei mi voltava la schiena e io mi chinai su di lei: la baciai e lei si voltò sul dorso, così mi accolse in lei stringendomi tra le braccia. «Ragazzino, ragazzino mio». Poi mi addormentai su di lei. Le altre notti dormimmo tutto il tempo, stanchi per il viaggio, il sole e il vento. Facevamo l'amore al mattino. Hanna mi lasciava non solo la scelta delle strade e delle direzioni. Sceglievo anche le locande in cui passavamo la notte e dove ci registravamo come madre e figlio, compilando i moduli che lei si limitava a firmare. E sul menu sceglievo i piatti non solo per me, ma anche per lei. «Non voglio occuparmi proprio di niente». L'unica lite ebbe luogo ad Amorbach. Mi ero svegliato presto, m'ero vestito senza far rumore ed ero

sgusciato fuori dalla stanza. Volevo portar su la colazione e vedere se trovavo già aperto un fioraio, dove poter prendere una rosa per Hanna. Le avevo lasciato un biglietto sul comodino. «Buongiorno. Vado a prendere la colazione e torno subito», o qualcosa del genere. Quando ritornai, lei era in piedi nella stanza, mezza vestita, fremente di rabbia, bianca in viso. «Come puoi andartene così senza dir niente!». Io posai il vassoio con la colazione e la rosa e feci per abbracciarla. «Hanna...». «Non mi toccare!». Aveva in mano la sottile cintura di cuoio con cui stringeva in vita il vestito, fece un passo indietro e mi colpì in piena faccia. Il mio labbro si spaccò, e sentii il sapore del sangue. Non faceva male. Ero spaventato a morte. Lei prese di nuovo lo slancio. Ma stavolta non colpì. Lasciò cadere le braccia e la cintura, e scoppiò a piangere. Non l'avevo mai vista piangere. Il suo viso perse ogni forma. Occhi spalancati, bocca spalancata, le palpebre gonfie già alle prime lacrime, macchie rosse sulle guance e sul collo. Dalla bocca uscivano suoni gutturali, gracchianti, simili al grido soffocato che emetteva quando facevamo l'amore. Stava lì ferma in piedi e mi guardava tra le lacrime. Avrei dovuto prenderla tra le braccia. Ma non ci riuscivo. Non sapevo cosa fare. Da noi, a casa nostra, non si piangeva in quel modo. E neppure si picchiava, non si usavano le mani né tanto meno una cinghia. Si parlava. Ma cosa dovevo dirle? Lei fece due passi verso di me, si buttò sul mio petto mi piantò il pugno e si aggrappò a me. Allora riuscii a stringerla. Le sue spalle sussultavano, e lei puntò la fronte sul mio petto. Poi le uscì un profondo sospiro e si rannichiò tra le mie braccia. «Facciamo colazione?». Si sciolse dal mio abbraccio. «Mio Dio, come sei conciato, ragazzino!». Andò a prendere un asciugamano bagnato e mi pulì la bocca e il mento. «E la camicia è tutta macchiata di sangue». Mi tolse la camicia, poi i calzoni, quindi si spogliò anche lei, e facemmo l'amore. «Ma che cos'è successo? Perché eri così infuriata?». Stavamo distesi l'uno accanto all'altra, così soddisfatti e contenti che pensai che tutto si sarebbe chiarito. «Che cos'è successo!? Che domande stupide fai sempre. Non puoi mica andartene così!». «Ma io ti ho lasciato un biglietto...». «Un biglietto?». Mi sedetti sulla sponda del letto. Là, dove avevo messo il biglietto sul comodino, non c'era più. Mi alzai, cercai intorno e sotto il comodino, sotto il letto, dentro il letto. Non lo trovavo. «Non riesco a capire. Ti ho scritto un biglietto per dirti che andavo a prendere la colazione e tornavo subito». «Davvero? Io non vedo biglietti». «Non mi credi?». «Vorrei proprio crederti. Ma io non vedo biglietti». Smettemmo di questionare. Era entrata una folata di vento e aveva portato chissà dove il biglietto? Era stato tutto un malinteso: la sua furia, il mio labbro spaccato, il suo viso afflitto, la mia incapacità? Avrei dovuto continuare a cercare? Il biglietto, la causa della furia di Hanna, la causa della mia incapacità? «Leggimi ancora qualcosa, ragazzino!». Mi si strinse affettuosa, e io presi il "Buonannulla" di Eichendorff per riprendere da dove ero rimasto l'ultima volta. Il "Buonannulla" era facile da leggere ad alta voce, più facile dell'"Emilia Galotti" e di "Intrigo e amore". Hanna seguiva con l'ansia e l'interesse di sempre. Le piacevano le poesie sparse qua e là nel racconto. Le piacevano i travestimenti, gli equivoci, gli imbrogli e le insidie in cui l'eroe si trovava invischiato in Italia. Al contempo se la prendeva con lui per il fatto che era un buonannulla, un fannullone, uno che non era capace di combinar niente e neanche voleva combinare qualcosa. Era dibattuta tra questo e quello e ci vollero ancora delle ore, dopo che ebbi finito di leggere, per venire a capo delle domande. «Ma esattore del dazio... non era un buon mestiere?». Ancora una volta il resoconto del nostro litigare ha finito per essere così circostanziato che ora vorrei riferire anche della nostra felicità. La lite rese ancor più intima la nostra relazione. Ora l'avevo vista piangere, Hanna, e Hanna che sapeva piangere mi era più vicina di Hanna che era solo forte. Cominciò così a mostrare un lato dolce e mite che ancora non conoscevo. Fino a quando il

mio labbro spaccato non guarì, continuò a guardarlo e toccarlo teneramente. Adesso facevamo l'amore in modo diverso. Per tanto tempo mi ero abbandonato completamente alla sua guida, alla sua presa di possesso. Poi avevo imparato anch'io a prender possesso di lei. Durante il nostro viaggio, anzi, a partire dal nostro viaggio, non prendemmo più semplicemente possesso l'una dell'altro. Ho ancora una poesia che scrissi a quel tempo. Come poesia non vale niente. Allora andavo pazzo per Rilke e per Benn, e ora mi rendo conto che volevo emularli entrambi Ma riesco anche a riconoscere quanto allora fossimo vicini l'uno all'altra. Ecco la poesia: "Quando noi ci schiudiamo tu a me e io a te, quando noi affondiamo in me tu e io in te, quando noi ci dissolviamo tu in me e in te io. Allora io sono io e tu sei tu." 12. Non ricordo le bugie che raccontai ai miei genitori per giustificare il viaggio con Hanna, ma non scordo lo scotto che dovetti pagare per poter rimanere a casa da solo l'ultima settimana di vacanze. Non rammento neppure dove fossero andati in vacanza i miei genitori, mia sorella più grande e mio fratello. Il problema era la sorella più piccola. Lei doveva stare presso la famiglia di un'amica. Ma se io fossi rimasto a casa, anche lei voleva restare a casa. E questo i miei genitori non lo volevano. Pertanto avrei dovuto stare anch'io in casa di un amico. Pensandoci bene, trovo notevole che i miei genitori fossero disposti a lasciare me, un quindicenne, a casa da solo per un'intera settimana. Avevano forse notato l'autonomia da me conquistata grazie all'incontro con Hanna? O avevano semplicemente registrato il fatto che, malgrado i mesi di malattia, ero stato promosso, e quindi avevano concluso che ero ormai più responsabile e più degno di fiducia di quanto non avessi dimostrato fino a quel momento? Non ricordo nemmeno che mi si chiedesse conto delle non poche ore che passavo con Hanna. I miei genitori davano a vedere di credere che io volessi stare di più con gli amici, ora che ero guarito, per studiare e passare il tempo libero in loro compagnia. Oltre tutto quattro figli sono già un bel branco, all'interno del quale l'attenzione non può essere uguale per tutti, ma deve concentrarsi su chi crea più problemi. E io avevo creato abbastanza problemi per un bel po', per cui i miei genitori si sentivano sollevati, ora che ero guarito ed ero stato promosso. Quando domandai alla mia sorellina che cosa voleva perché andasse a stare dalla sua amica, mentre io sarei rimasto a casa, lei chiese un paio di jeans o meglio blue-jeans, come dicevamo allora, e poi un pullover di ciniglia. Era comprensibile. A quel tempo i jeans erano ancora qualcosa di speciale, di moda, e promettevano per giunta di liberarti dai vestiti spinati e dagli abiti a fioroni. Come io ero costretto a portare la roba di mio zio, così lei doveva indossare la roba passata dalla sorella più grande. Ma io non avevo un soldo. «Fregali, allora!». La mia sorellina mi guardò calma e imperturbabile. Fu stupefacentemente facile. Provai diversi jeans, ne portai in cabina anche un paio della taglia di lei e uscii dal negozio coi jeans sulla pancia, infilati nei calzoni abbondanti del mio completo. Il pullover di ciniglia lo fregai in un grande magazzino. Un giorno lei e io passammo girellando da un settore all'altro del reparto moda, fino a quando non trovammo il settore giusto e il pullover giusto. Il giorno dopo, a passo svelto e deciso, andai nel reparto moda, pigliai il pullover, lo ficcai sotto la giacca e fui fuori. Il giorno seguente fregai per Hanna una camicia da notte di seta, un sorvegliante

del grande magazzino mi vide, me la diedi a gambe e la scampai per un pelo. Per anni non misi più piede lì dentro. Dopo le notti del nostro viaggio passate insieme, ogni notte avevo un desiderio struggente di sentirla vicina, di rannichiarmi accanto a lei, di accostare il mio ventre al suo sedere e il mio petto alla sua schiena, di posare la mano sui suoi seni, di cercarla e trovarla col braccio quando mi svegliavo la notte, di mettere una gamba sopra le sue gambe, di premere il viso contro la sua spalla. Una settimana a casa da solo erano sette notti con Hanna. Una sera l'avevo invitata a cena, cucinando per lei. Era in cucina mentre stavo dando l'ultimo tocco al tutto. Era fra i battenti aperti della porta tra la sala da pranzo e il soggiorno mentre portavo in tavola. Era seduta al tavolo rotondo là dove di solito sedeva mio padre. Si guardava intorno. Il suo sguardo esplorò ogni cosa, i mobili Biedermeier, il pianoforte a coda, i quadri, gli scaffali coi libri, le stoviglie e le posate in tavola. Dopo averla lasciata sola per andare a preparare il dessert, non la ritrovai a tavola. Era passata di stanza in stanza e ora si trovava nello studio di mio padre. Mi appoggiai senza far rumore allo stipite della porta e la guardai. Stava facendo scorrere lo sguardo sugli scaffali dei libri che riempivano le pareti, ed era come se stesse leggendo un testo. Poi andò verso uno scaffale, passò lentamente, all'altezza del petto, l'indice della mano destra sulle coste dei libri, si spostò allo scaffale seguente, continuò a passare il dito di costa in costa e così percorse l'intera stanza. Giunta alla finestra si fermò a guardare nell'oscurità, fissando il riverbero degli scaffali coi libri e la sua immagine riflessa. E' una delle immagini di Hanna che mi sono rimaste. L'ho memorizzata, posso proiettarla su uno schermo interno e contemplarla immutata, intatta. A volte non penso molto a queste immagini. Ma mi ritornano sempre in mente, e può capitare che le proietti più volte, una dopo l'altra, sullo schermo interno e debba quindi guardarle. Una è Hanna che s'infila le calze in cucina. Un'altra è Hanna davanti alla vasca da bagno con le braccia allargate che reggono l'asciugamano. Un'altra ancora è Hanna che pedala in bicicletta con la gonna che svolazza. Poi c'è l'immagine di Hanna nello studio di mio padre. Indossa un vestito a righe bianche e azzurre, quello che allora chiamavano "chemisier". In questa immagine appare giovane. E' passata col dito sulle coste dei libri e ha guardato nella finestra. Ora si gira verso di me, così rapida che la gonna volteggia attorno alle gambe per un attimo, prima che torni a cadere. Il suo sguardo è stanco. «Sono i libri che tuo padre ha solo letto o anche scritto?». Sapevo di un libro su Kant e uno su Hegel scritti da mio padre. Li cercai, li trovai e glieli mostrai. «Non vuoi leggermene un pezzetto, ragazzino?». «Io...». Io non volevo, ma non volevo nemmeno respingere la sua richiesta. Presi il libro su Kant di mio padre e le lessi qualcosa, un passo sull'analitica e la dialettica, che né lei né io capimmo. «Può bastare?». Lei mi guardò come se avesse capito tutto o come se non contasse quel che si capisce e quel che no. «Scriverai anche tu, un giorno, dei libri come questi?». Scrollai la testa. «Scriverai libri diversi?». «Non lo so». «Scriverai dei drammi?». «Non lo so, Hanna». Annuì. Poi mangiammo il dessert e andammo da lei Mi sarebbe piaciuto dormire con lei nel mio letto, ma lei non voleva. Si sentiva un'intrusa in casa mia. Non lo disse a parole, lo diceva il modo in cui era rimasta in cucina o tra i battenti della porta, e com'era andata di stanza in stanza, come aveva passato in rassegna i libri di mio padre, come stava seduta con me durante la cena. Le diedi il suo regalo, la camicia da notte di seta. Era color melanzana, aveva delle spalline sottili, lasciava le spalle e le braccia scoperte e arrivava fino alle caviglie Era tutto uno scintillìo. Hanna era contenta e rideva raggiante. Si guardò in giù, si girò, accennò due passi di danza, si volse verso lo specchio, contemplò per un attimo la sua immagine e riprese a danzare. Anche questa è un'immagine che m'è rimasta di Hanna.

13. Ho sempre avvertito l'inizio di un anno scolastico come un taglio netto. Il passaggio dalla sesta alla settima comportò un cambiamento radicale. La mia classe venne smembrata e ridistribuita nelle tre sezioni parallele. Parecchi studenti non erano riusciti a varcare la soglia dalla sesta alla settima, e quattro piccole classi vennero quindi ricomposte in tre grandi. Il liceo che frequentavo aveva ammesso per tanto temo solo ragazzi. Quando furono ammesse anche le ragazze, da principio erano così poche che non venivano ripartite in ugual misura nelle sezioni parallele, ma erano assegnate a una sola classe, più tardi anche a due o tre, finche vennero a costituire un terzo di ogni classe. Così tante ragazze da dover essere assegnate anche alla mia vecchia classe non ce n'erano quell'anno. Noi eravamo la quarta sezione parallela, una classe di soli ragazzi. Per questo fummo smembrati e ridistribuiti proprio noi e non una delle altre classi. Venimmo a saperlo solo all'inizio del nuovo anno scolastico. Il preside ci fece riunire in un'aula e ci comunicò che e come eravamo ridistribuiti. Insieme a sei miei compagni percorsi i corridoi vuoti e mi ritrovai nella nuova aula. Ci vennero assegnati i posti che erano rimasti, a me uno nella seconda fila. Erano banchi singoli, ma accostati a due a due su tre colonne. Io ero nella colonna centrale. Alla mia sinistra c'era un compagno della mia vecchia classe, Rudolf Bargen, un tipo calmo, fidato, con un fisico da peso massimo, giocatore di scacchi e di hockey, col quale avevo avuto a che fare poco o niente in precedenza, ma che ben presto divenne un buon amico. Alla mia destra, al di là della corsia, c'erano le ragazze. La mia vicina era Sophie. Capelli castani, occhi scuri, abbronzatura estiva, e dei peluzzi dorati sulle braccia nude. Quando fui seduto e mi guardai intorno, lei mi sorrise. Anch'io le sorrisi. Mi sentivo bene, ero contento del nuovo inizio nella nuova classe e delle ragazze. In sesta avevo osservato bene i miei compagni di scuola: che avessero o no delle ragazze in classe, avevano paura di loro, le evitavano, e davanti a loro facevano gli spacconi o le idolatravano. Io conoscevo le donne e potevo comportarmi in modo rilassato e cameratesco. Questo piaceva alle ragazze. Nella nuova classe sarei andato d'accordo con loro e quindi mi sarei trovato bene anche con i ragazzi. E' per tutti così? Quand'ero ragazzo, io mi sentivo sempre o troppo sicuro o troppo insicuro. O mi vedevo totalmente incapace, insignificante e indegno, o pensavo che sarei riuscito in tutto e che tutto dovesse anche riuscirmi. Se mi sentivo sicuro potevo superare le più grandi difficoltà. Ma il minimo insuccesso bastava per convincermi della mia indegnità. Riconquistare la sicurezza non era mai l'effetto di un successo; rispetto al vero risultato che mi aspettavo da me e al pieno riconoscimento che tanto desideravo dagli altri, ogni successo rimaneva pietosamente al di sotto delle aspettative, e che io subissi quello stato pietoso o che il successo mi rendesse invece fiero dipendeva da come stavo. Con Hanna stetti bene per molte settimane, nonostante i nostri scontri, malgrado lei mi respingesse di continuo e mi umiliasse in continuazione. E così cominciò bene anche l'estate nella nuova classe. Rivedo l'aula com'era: di fronte a destra la porta, sulla stessa parete il listello di legno coi ganci per i vestiti, a sinistra la serie delle finestre, con vista sull'Heiligenberg e anche sulla strada in basso, sul fiume e sui prati dell'altra riva, se durante gli intervalli stavamo alle finestre; sempre di fronte, la lavagna, i supporti per le carte geografiche e i tabelloni, e sopra la pedana alta un piede la cattedra con la sedia. Le pareti erano dipinte con colore a olio giallo fino all'altezza della testa, e poi tinteggiate in bianco fino al soffitto, dal quale pendevano due globi bianco latte. Nel locale non c'era niente di superfluo: non un quadro, una pianta, un banco in più, non un armadio con dentro libri e quaderni dimenticati o gessetti colorati. Quando lo sguardo vagava, vagava fuori dalla finestra oppure furtivamente verso la vicina o il vicino. Quando Sophie si accorgeva che la stavo guardando, si girava verso di me e mi sorrideva. «Berg. Che Sophia sia un nome greco, non è un buon motivo perché lei studi la sua vicina durante l'ora di greco. Traduca, piuttosto». Stavamo traducendo l'"Odissea". Io l'aveva già letta in tedesco, l'amavo e l'amo tuttora. Quando toccava a me, mi bastavano pochi istanti per raccapezzarmi e tradurre. Ma dopo esser stato preso in

giro con Sophie dall'insegnante, quando la classe smise di ridere cominciai a balbettare. Per un altro motivo, però. Nausicaa, simile alle immortali nella persona e nell'aspetto, vergine dalle bianche braccia: era il caso di figurarsi Hanna o Sophie? Doveva essere una delle due. 14. Se i motori di un aereo si spengono, non vuol dire che il volo sia finito. Gli aerei non cadono dal cielo come sassi. Continuano a planare, quei giganteschi aerei passeggeri a più reattori, da una mezz'ora a tre quarti d'ora ancora, per poi sfracellarsi nel tentativo di atterrare. I passeggeri non si accorgono di niente. A motori spenti non si percepisce il volo diversamente che a motori accesi. E' più lieve il suono, ma solo un po' più lieve: più forte dei motori è il vento che si frange sulla fusoliera e sulle ali. A un certo punto, guardando dal finestrino, la terra o il mare sono minacciosamente vicini. Oppure il film prosegue, e le hostess e gli steward hanno chiuso le tendine. Può anche darsi che i passeggeri avvertano quel volo un po' più lieve perfino più piacevole. L'estate fu il volo planato del nostro amore. O meglio del mio amore per Hanna: quanto al suo amore per me, non so niente. Mantenemmo il nostro rituale del leggere, fare la doccia, far l'amore e star distesi insieme. Lessi ad alta voce "Guerra e pace", con tutte le digressioni di Tolstoj sulla storia, i grandi uomini, la Russia, l'amore e il matrimonio, e ci vollero quaranta, cinquanta ore buone. Come sempre, Hanna seguì l'andamento del libro con ansia e interesse. Ma adesso non era più come prima; ora non esprimeva più i suoi giudizi, non faceva rientrare Natasha, Andrej e Pierre nel suo mondo, come aveva fatto con Emilia e Luise: entrò invece lei nel loro mondo, così come si viaggia incantati in terre lontane o si entra stupiti in un castello in cui si è ammessi, in cui ci si può trattenere, con cui si prende confidenza, senza però mai perdere del tutto la soggezione. Quel che le avevo letto fino a quel momento, lo conoscevo già da prima. Ma "Guerra e pace" fu un'esperienza nuova anche per me. Così facemmo insieme quel viaggio in terre lontane. C'eravamo inventati dei vezzeggiativi. Cominciò lei a non chiamarmi più soltanto ragazzino, ma anche, con diversi diminutivi e differenti attributi, rana o rospo, cucciolo, ciottolo e rosa. Io la chiamai sempre Hanna finché non mi chiese: «A che animale pensi quando mi tieni tra le braccia, chiudi gli occhi e pensi a degli animali?». Io chiusi gli occhi e pensai a degli animali. Eravamo l'uno aderente all'altra, la mia testa sul suo collo, il mio collo sui suoi seni, il braccio destro sotto di lei attorno alla schiena e il sinistro sul suo sedere. Strusciai le braccia e le mani lungo la sua schiena larga, le sue cosce sode, il suo sedere fisso e sentii fissi anche i suoi seni e il suo ventre sul collo e sul petto. La sua pelle era liscia e morbida al tatto e il suo corpo, sotto, forte e affidabile. Quando la mia mano si posò sul polpaccio, avvertii un agitarsi di muscoli, un fremere continuo. Mi fece pensare al fremito della pelle con cui il cavallo cerca di scacciare le mosche. «A un cavallo». «Un cavallo?». Si svincolò da me, si tirò su e mi guardò. Mi guardava atterrita. «Non ti piace? Mi è venuto in mente perché a toccarti sei così liscia e morbida, e sotto fissa e forte. E poi perché il tuo polpaccio freme». Le spiegai il mio giro d'associazioni. Guardò l'agitarsi dei muscoli del suo polpaccio. «Cavallo?», scrollò la testa. «Non saprei...». Questo non era nel suo stile. Lei era chiara e netta, di solito, nell'assenso come nel dissenso. Di fronte al suo sguardo atterrito ero ormai pronto, se necessario, a ritirare tutto, a incolparmi, a chiederle di perdonarmi. Ora cercai invece di conciliarla con l'idea del cavallo. «Potrei chiamarti cheval oppure hophop o magari equinotto o bucefalotto. Se dico cavallo, non mi riferisco ai denti o al muso d'un cavallo o a qualsiasi altra cosa che potrebbe non piacerti, ma a qualcosa di buono, di caldo, di morbido, di forte. Tu non sei un leprotto o un gattino, e una tigre... no, c'è qualcosa di malvagio in questo, che tu non sei». Si mise di schiena, le braccia dietro la testa. Mi tirai su io, adesso, e la guardai. Il suo sguardo era perso nel vuoto. Dopo un po' girò il viso verso di me. Il suo volto esprimeva una strana, straordinaria intimità. «Sì, mi va che tu mi chiami cavallo o con gli altri nomi per cavallo. Me li spieghi?». Una volta andammo a teatro nella città vicina per vedere "Intrigo e amore". Era la prima volta che

Hanna andava a teatro, e si godette tutto, dalla recita allo spumante nell'intervallo. Le avevo messo il braccio intorno alla vita. e mi era indifferente quel che poteva pensare la gente di noi, come coppia. Ero fiero che la cosa mi lasciasse indifferente. Al contempo sapevo che nel teatro della mia città non mi sarebbe stato affatto indifferente. Lo sapeva anche lei? Lei sapeva che adesso, d'estate, la mia vita non ruotava più attorno a lei, alla scuola e allo studio. Sempre più spesso, quando andavo da lei nel tardo pomeriggio, venivo dalla piscina. Lì s'incontravano le compagne e i compagni di classe, facevano i compiti insieme, giocavano a pallone, a pallavolo e a skat e flirtavano. Lì aveva luogo la vita sociale della classe, e ci tenevo molto a essere presente e partecipare. Il fatto che io, per via dei turni di Hanna, arrivassi più tardi degli altri o me ne andassi presto, non intaccava la mia reputazione, anzi, mi rendeva interessante. Io lo sapevo. E sapevo anche che non mi lasciavo sfuggire niente; per cui avevo spesso la sensazione che, proprio quando io non c'ero, succedesse chissà che cosa. Se preferissi stare in piscina anziché con Hanna, non osai chiedermelo per un bel pezzo. Ma in luglio il mio compleanno lo festeggiammo in piscina, e gli altri mi lasciarono andar via a malincuore, per essere accolto da un'Hanna sfinita e di cattivo umore. Lei non sapeva che era il mio compleanno. Quando le avevo chiesto del suo e lei mi aveva detto il 21 ottobre, non m'aveva chiesto del mio. Non era peraltro d'umore peggiore di quando si sentiva sfinita. Ma il suo malumore mi dava sui nervi, tanto che avrei voluto essere in piscina, dalle mie compagne e dai miei compagni, per svagarmi spensieratamente, parlando, scherzando, giocando e flirtando come sempre. Quando reagii anch'io in preda al malumore e finimmo per litigare e Hanna mi trattò come se non esistessi, mi riprese la paura di perderla, e così mi umiliai e mi scusai finché lei non mi accolse. Ma ero pieno di rancore. 15. Poi cominciai a tradirla. Non è che io avessi svelato dei segreti o compromesso Hanna scoprendola in qualche modo. Non avevo rivelato nulla di ciò che avrei dovuto tacere. Avevo taciuto ciò che avrei dovuto rivelare. Non l'avevo insomma riconosciuta. So che il tacito rinnegare è una variante poco appariscente del tradimento. Dall'esterno non è possibile vedere se, tacendo, uno ti rinnega o semplicemente usa discrezione, si comporta con riguardo, evita situazioni incresciose o irritanti. Ma chi non ti riconosce apertamente, sa benissimo che è così. E così il rinnegare priva la relazione del suo fondamento tanto quanto le varianti spettacolari del tradimento. Non ricordo più quando rinnegai Hanna per la prima volta. Dal cameratismo dei pomeriggi estivi in piscina nacquero delle amicizie. Oltre al mio vicino di banco che già conoscevo dalla vecchia classe, nella nuova classe mi piaceva particolarmente Holger Schluter, che come me s'interessava di storia e di letteratura. Entrai subito in confidenza con lui, che a sua volta entrò ben presto in confidenza con Sophie, la quale abitava solo qualche via più in là, per cui facevo con lei la strada da casa alla piscina. Sulle prime mi dissi che la confidenza con gli amici non era ancora tale da poter raccontare di Hanna. Poi non trovai l'occasione giusta, il momento giusto, le parole giuste. E alla fine era troppo tardi per parlare di Hanna, per farla conoscere non meno degli altri segreti di gioventù. Mi dicevo che raccontare di lei così tardi poteva destare l'impressione che avessi taciuto tanto a lungo perché la nostra relazione era sconveniente e io avevo la coscienza sporca. Ma, qualunque cosa volessi darmi a intendere, io sapevo di tradire Hanna se agivo in modo da far sapere agli amici ciò che era importante nella mia vita, mentre tacevo di Hanna. Il fatto che notassero che non ero del tutto aperto, non migliorava certo le cose. Una sera Sophie e io, tornando a casa, venimmo sorpresi da un temporale all'altezza del Neuenheimer Feld - dove non c'erano ancora gli edifici dell'università ma solo campi e giardini - e ci mettemmo sotto la tettoia di un capanno. Tra lampi, tuoni e folate di vento, la pioggia scendeva fitta, a grosse gocce. La temperatura poteva essersi abbassata fino ai cinque gradi. Stavamo gelando, e io misi un braccio intorno a lei. «Ehi?». Non mi guardò in faccia, guardava in avanti, nella pioggia. «Sì?».

«Sei stato malato per un pezzo, d'itterizia. E' questo che ti dà tanto da fare? Hai paura di non guarire più del tutto? Ti hanno detto qualcosa i medici? Devi forse andare tutti i giorni in ospedale per farti cambiare il sangue o fare delle flebo?». Hanna come malattia! Mi vergognai. Ma parlare di Hanna non ce la facevo proprio. «No, Sophie. Non sono più malato. I miei valori epatici sono normali, ed entro un anno potrei anche bere dell'alcool se volessi, ma non voglio. Quel che mi...». Non volevo, essendo in gioco Hanna, dire: quel che mi dà tanto da fare. «Per quale ragione io arrivi tardi o vada via presto, è un'altra faccenda». «Non vuoi parlarne o vorresti farlo ma non sai come?». Non volevo o non sapevo come? Io non ero in grado di dirlo. Ma da come stavamo lì insieme sotto la pioggia che scendeva a dirotto, gelando tra i bagliori dei lampi e il crepitare dei tuoni, scaldandoci un pochino a vicenda, sentivo che a lei, proprio a lei avrei dovuto raccontare di Hanna. «Forse riuscirò a parlartene un'altra volta». Ma non accadde mai. 16. Non ho mai saputo che cosa facesse Hanna quando non lavorava o non eravamo insieme. Se io le chiedevo qualcosa in proposito, lei respingeva le mie domande. Noi non avevamo un mondo in comune: nella sua vita lei mi assegnava il posto che voleva assegnarmi. Dovevo accontentarmi di questo. Se volevo avere o anche solo sapere qualcosa di più, ero uno sfacciato. Quando eravamo particolarmente felici e io le facevo qualche domanda, confidando nel fatto che il momento lo permettesse, allora poteva succedere che lei eludesse le mie domande anziché respingerle. «Quante cose vuoi sapere, ragazzino!». Oppure mi prendeva la mano e se la posava sulla fronte. «Non senti che ho abbastanza grattacapi?». Oppure si metteva a contare sulle dita. «Devo lavare, devo stirare, devo spazzare, devo spolverare, devo far la spesa, devo cucinare, devo scrollar giù le prugne, raccoglierle da terra, portarle a casa, cuocerle in fretta e metterle via nei vasetti, se no il piccolino», prendeva il mignolo della sinistra tra il pollice e l'indice della destra, «se no lui se le mangia tutte quante». Non l'avevo neanche mai incontrata casualmente, per strada o in un negozio oppure al cinema, dove lei, come diceva, andava spesso e volentieri, e dove io, nei primi mesi, volevo andare di continuo insieme a lei, mentre lei non voleva. A volte parlavamo dei film che avevamo visto tutt'e due. Curiosamente, lei andava al cinema a caso e vedeva di tutto, dai film di guerra a quelli nazionali, dai western alla "nouvelle vague", mentre a me piacevano i film di Hollywood, poco importava che fossero ambientati nell'antica Roma o nel Far West. C'era un western che amavamo tutt'e due in modo particolare, dove Richard Widmark fa la parte di uno sceriffo che il giorno dopo deve battersi in duello e può solo perdere e la sera bussa alla porta di Dorothy Malone che gli ha detto inutilmente di scappare. Lei apre. «Che cosa vuoi? Tutta la vita in una notte?». Hanna a volte mi punzecchiava, quando arrivavo pieno di voglia. «Che cosa vuoi? Tutta la vita in un'ora?». Solo una volta vidi Hanna senza che ci fossimo dati appuntamento. Era la fine di luglio o i primi di agosto, gli ultimi giorni prima delle grandi vacanze. Hanna era da giorni di uno strano umore, bisbetica e dispotica e al contempo visibilmente sotto pressione: una tensione che la tormentava quanto mai e la rendeva oltremodo sensibile, vulnerabile. Si sforzava di controllarsi, di contenersi, quasi dovesse impedirsi di scoppiare sotto quella pressione. Quando le chiedevo che cosa la tormentasse, reagiva in modo violento. Non riuscivo a venire a capo di niente. Eppure avvertivo non solo il netto rifiuto nei miei confronti, ma anche il suo profondo smarrimento, e cercavo pertanto di esser lì con lei lasciandola al contempo in pace. Un giorno la tensione svanì. Sulle prime pensai che Hanna fosse tornata quella di sempre. Dopo aver finito "Guerra e pace" non avevamo cominciato subito un nuovo libro: le avevo promesso di occuparmi della cosa, e non c'era che da scegliere tra diversi libri. Ma lei non volle saperne. «Fatti fare il bagno, ragazzino». Non fu l'afa estiva che mi calò addosso come un panno pesante entrando in cucina. Hanna aveva

acceso lo scaldabagno. Fece scorrere l'acqua nella vasca, aggiunse qualche goccia di lavanda e mi lavò. Nell'aria così calda e umida, la vestaglietta azzurrochiara a fiorellini, sotto la quale non portava niente, si era incollata al suo corpo sudato. Questo mi eccitò moltissimo. Quando poi facemmo l'amore ebbi la sensazione che lei volesse portarmi a provare delle sensazioni fino allora mai provate, oltre il limite del sopportabile. Anche il suo modo di darsi fu davvero unico. Non senza ritegno, però; al suo ritegno non rinunciò mai. Ma era come se volesse affogare insieme a me. «E adesso vai dai tuoi amici». Così mi salutò, e io me ne andai. La calura ristagnava tra le case, gravava sui prati e sui giardini e tremolava sull'asfalto. Ero intontito. In piscina le grida dei bambini che giocavano e sguazzavano nell'acqua mi giunsero all'orecchio come dalla più lontana lontananza. Mi muovevo nel mondo come se il mondo non mi appartenesse e io non gli appartenessi. M'immersi nell'acqua clorata, lattiginosa, e non sentii il bisogno di riemergere. Ero lì insieme agli altri, li ascoltavo e trovavo che quel che dicevano era ridicolo e futile. A un certo punto l'atmosfera piacevole di prima non c'era più. A un certo punto era un normale pomeriggio che scorreva in piscina con i compiti da fare, la pallavolo, i pettegolezzi, i flirt. Non ricordo proprio cosa stessi facendo, quando alzai lo sguardo e la vidi. Era lì in piedi, a un venti, trenta metri da me, in calzoncini corti e camicetta aperta annodata in vita, e stava guardando verso di me. La guardai anch'io. Data la distanza, non riuscivo a leggere l'espressione del suo volto. Non balzai su per correre da lei. Mi domandai in un lampo cosa ci facesse in piscina, se voleva farsi vedere da me e con me, se volevo io farmi vedere con lei, visto che non ci eravamo mai incontrati per caso. e mi chiesi che cosa dovevo fare. Allora mi alzai. Nell'attimo in cui distolsi lo sguardo da lei nell'alzarmi, se n'era andata. Hanna in calzoncini corti e camicetta annodata, col viso rivolto verso di me, che non riesco a leggere: anche questa è un'immagine che ho di lei. 17. Il giorno dopo era sparita. Alla solita ora arrivai e suonai. Guardai attraverso il vetro della porta. Tutto sembrava come sempre, e anche la pendola ticchettava. Mi sedetti ancora una volta sui gradini. Nei primi mesi sapevo sempre su quali linee era in servizio, anche se poi non avevo più cercato di accompagnarla o anche solo di andarla a prendere. A un certo punto avevo smesso di far domande, ormai non m'interessava più. Solo adesso me ne accorsi. Dalla cabina telefonica della Wilhelmsplatz chiamai l'azienda tranviaria, mi misero in comunicazione con questo e quell'ufficio e venni a sapere che Hanna Schmitz non era andata a lavorare. Tornai nella Bahnhofstrasse, chiesi informazioni sul proprietario della casa nella falegnameria in cortile e mi dettero un nome e un indirizzo a Kirchheim. Ci andai. «La signora Schmitz? Se n'è andata stamattina». «E i suoi mobili?». «Quelli non sono suoi». «Da quanto tempo abitava lì, in quell'appartamento?». «Sono cose che la riguardano?». La donna che mi aveva parlato attraverso la finestrella della porta, la richiuse. Nella sede dell'azienda tranviaria riuscii a farmi strada fino all'ufficio del personale. Il funzionario fu gentile e premuroso. «Ha chiamato stamattina, in tempo perché potessimo provvedere alla sostituzione, e ha detto che non verrà più. Mai più». Scrollò la testa. «Due settimane fa era seduta lì, dov'è lei adesso, e le ho proposto di frequentare a nostro carico il corso per conducenti. Ma lei ha mollato tutto». Solo qualche giorno dopo mi venne in mente di andare all'anagrafe. Aveva comunicato il trasferimento di residenza ad Amburgo, senza indicare l'indirizzo. Per giorni e giorni stetti male. Badai che i miei genitori e i fratelli non si accorgessero di niente. A tavola seguivo i loro discorsi, mangiavo un po' e m'infilavo subito in gabinetto quando mi veniva da rimettere. Andavo regolarmente a scuola e poi in piscina. Là passavo i pomeriggi in un posto appartato, dove nessuno veniva a cercarmi. Il mio corpo desiderava Hanna struggentemente. Ma

peggiore del desiderio fisico era il senso di colpa. Perché. quando lei era lì, non ero balzato in piedi per correre da lei!? In quel piccolo episodio vedevo concentrarsi tutto il mio tiepido affetto degli ultimi mesi, che mi aveva portato a rinnegarla, a tradirla. E per punirmi lei se n'era andata. A volte cercavo di convincermi che non era lei che avevo visto. Come potevo essere sicuro che era lei, se non avevo veramente riconosciuto quel viso? Non avrei forse dovuto riconoscerlo il suo viso, se fosse stata lei? Potevo insomma non essere sicuro che non poteva esser stata lei? Ma io sapevo che era lei. Lei stava lì e guardava. E poi era ormai troppo tardi.

PARTE SECONDA. 1. Dopo che Hanna ebbe lasciato la città ci volle del tempo prima che smettessi di cercarla con gli occhi dappertutto, prima di abituarmi al fatto che i pomeriggi avevano perduto la sua presenza, e prima di guardare e sfogliare dei libri senza chiedermi quali fossero i più adatti a esser letti ad alta voce. Ci volle del tempo prima che il mio corpo non desiderasse più il suo; a volte mi accorgevo come le mie mani e le mie braccia la cercavano nel sonno, e più di una volta mio fratello tirò fuori a tavola che avevo gridato «Hanna» nel sonno. Mi ricordo anche delle ore di lezione in cui non sognavo che lei, non pensavo che a lei. Il senso di colpa che mi aveva tormentato nelle prime settimane finì poi per svanire. Evitai la sua casa, presi altre strade, e sei mesi dopo la mia famiglia traslocò in un altro quartiere. Non è che avessi dimenticato Hanna, ma a un certo punto il ricordo di lei smise di accompagnarmi. Me la lasciai alle spalle, come si lascia dietro di sé una città quando il treno continua la sua corsa. Lei è là, da qualche parte dietro di te, e potresti andarci e sincerarti che è là. Ma perché dovresti. Gli ultimi anni di liceo e i primi di università sono iscritti nel ricordo come anni felici. Al tempo stesso saprei dirne ben poco. Non furono faticosi. La maturità e la facoltà di legge, scelta con una certa indecisione, non mi riuscirono difficili, amicizie, amori e separazioni non mi riuscirono difficili, niente mi riuscì difficile. Tutto mi riusciva facile, tutto scorreva facilmente. Forse è per questo che il fardello dei ricordi è così leggero. O penso io che sia leggero? Mi domando anche se quei ricordi felici siano poi veri. Quando penso un po' di più al passato, mi vengono in mente diverse situazioni avvilenti e dolorose, e allora so che al ricordo di Hanna ho detto sì addio, ma la memoria di lei non l'ho superata. Non lasciarmi più umiliare né umiliare nessuno, dopo Hanna, non render più nessuno colpevole né sentirmi colpevole, non amare più nessuno così tanto che perderlo possa far male: questo, allora, non l'ho certo pensato chiaramente, ma l'ho sentito con fermezza. Assunsi un tronfio atteggiamento di superiorità e mi ci abituai. Mi presentavo come uno che non si fa toccare, scuotere, confondere da niente. Non mi lasciavo coinvolgere in niente, e ricordo che un insegnante intuì la cosa, cercò di parlarmene e si ritrovò liquidato in malo modo. Mi ricordo anche di Sophie. Poco dopo che Hanna aveva lasciato la città, a Sophie fu diagnosticata la tubercolosi. Rimase tre anni in sanatorio e uscì quando mi ero appena iscritto all'università. Si sentiva sola, cercava di riprendere i contatti con i vecchi amici, e non mi fu difficile insinuarmi nel suo cuore. Dopo esser stati a letto, si accorse che non m'interessava più di tanto, e mi disse scoppiando in lacrime: «Che cosa ti è successo, cosa ti è successo!?». Mi ricordo di mio nonno che durante una delle mie ultime visite, prima che morisse, volle benedirmi, al che gli feci presente che io non ci credevo né attribuivo alla cosa alcun valore. Che quella volta mi sia sentito bene dopo essermi comportato così, mi riesce difficile immaginarlo. Mi ricordo anche che quando mi trovavo di fronte a dei piccoli gesti carichi d'affetto sentivo un groppo in gola, sia che i gesti riguardassero me o qualcun altro. A volte bastava una scena in un film. Quella coesistenza di altezzosa freddezza e di eccessiva sensibilità risultava sospetta anche a me. 2.

Rividi Hanna in tribunale. Non era il primo processo sui Lager e neanche uno dei più importanti. Il docente, uno dei pochi che allora si occupavano del passato nazista e dei relativi procedimenti giudiziari ne aveva fatto l'oggetto di un seminario perché sperava, con l'aiuto degli studenti, di poterlo seguire per tutta la sua durata e quindi studiarlo. Non rammento più cosa volesse verificare, confermare o confutare. Mi ricordo che all'interno del seminario la discussione verteva sul divieto di penalizzazione retroattiva. Poteva bastare che l'articolo in base al quale venivano condannati gli aguzzini dei Lager si trovasse nel codice penale già al tempo dei loro misfatti, o contava di più il modo in cui l'articolo veniva allora interpretato e applicato, nonché il fatto che a quel tempo non si riferiva proprio a loro? Che cos'è il diritto? Ciò che sta scritto nei codici o ciò che viene effettivamente imposto e osservato nella società. Oppure il diritto è ciò che, si trovi o no nei codici, dovrebbe essere imposto e osservato, se si operasse in modo corretto? Il docente, un anziano signore tornato dall'emigrazione, ma rimasto un outsider nell'ambito della giurisprudenza tedesca, prendeva parte a quelle discussioni con tutta la sua erudizione e al tempo stesso col distacco di chi non confida più nell'erudizione per risolvere un problema. «Osservino bene gli imputati: non troveranno nessuno che pensi veramente di aver potuto uccidere allora». Il seminario cominciò in inverno e il dibattimento in primavera. Le udienze si protrassero per molte settimane. Si dibatteva dal lunedì al giovedì, e per ciascuna di quelle quattro giornate il docente aveva assegnato un gruppo che doveva redigere un verbale dettagliato. Il venerdì si riuniva il seminario e i fatti emersi nel corso della settimana venivano rielaborati. Rielaborare! Rielaborare il passato! Noi studenti del seminario ci consideravamo l'avanguardia della rielaborazione. Noi spalancavamo le finestre, facevamo entrare aria fresca, quel vento impetuoso che finalmente avrebbe fatto rumorosamente vorticare la polvere che la società aveva lasciato depositare sugli orrori del passato. Noi facevamo sì che si potesse respirare e vedere. Neppure noi confidavamo nell'eruzione giuridica. Per noi non sussisteva alcun dubbio circa il fatto che bisognava condannare, ma era altrettanto fuori dubbio che la condanna riguardava semplicemente questo o quell'aguzzino, cioè i più esposti. La generazione che si era servita degli aguzzini o non li aveva ostacolati o non li aveva quanto meno banditi, quando dopo il 1945 avrebbe potuto farlo, ora veniva processata, e noi la condannavamo alla vergogna con una procedura di rielaborazione intesa a far luce. I nostri genitori avevano svolto i ruoli più disparati nel Terzo Reich. Parecchi dei nostri padri erano stati in guerra, tra cui due o tre come ufficiali della Wehrmacht e uno come ufficiale delle S.S.; alcuni avevano fatto carriera nella magistratura e nella pubblica amministrazione; c'erano insegnanti e medici, tra i nostri genitori, e uno di noi aveva uno zio che era stato un alto funzionario del ministero degli interni del Reich. Sono sicuro che, se avessimo posto loro delle domande e loro avessero risposto, ci avrebbero detto cose del tutto diverse. Mio padre non voleva affatto parlare di sé. Ma io sapevo che aveva perduto il posto di docente di filosofia per aver programmato una conferenza su Spinoza, e che era riuscito a mantenere la famiglia durante la guerra facendo il consulente per una casa editrice di guide turistiche. Come potevo condannarlo alla vergogna? Eppure l'ho fatto. Tutti noi condannavamo alla vergogna i nostri genitori, se solo potevamo accusarli di aver tollerato tra loro, dopo il '45, gli autori di quei crimini. Noi studenti del seminario manifestavamo una forte identità di gruppo. Noi del Seminario-Lager: fu così che ci chiamarono gli altri studenti da principio, finché finimmo per chiamarci noi stessi in quel modo. Ciò che facevamo noi non interessava agli altri; sconcertava molti, e più d'uno lo trovava addirittura ripugnante. Ora penso che lo zelo con cui prendevamo atto delle atrocità commesse e con cui volevamo portarne gli altri a conoscenza era effettivamente ripugnante. Quanto più atroci erano i misfatti di cui leggevamo e sentivamo, tanto più eravamo convinti del nostro compito di accusatori incaricati a far luce. Anche se quei misfatti ci toglievano il respiro, noi li proclamavamo trionfanti. Guardate! Io mi ero iscritto al seminario per pura e semplice curiosità. Per una volta c'era qualcosa di diverso dai diritti di compravendita o dai reati e dai concorsi di reato, dai codici sassoni o dalle anticaglie di filosofia del diritto. Il tronfio atteggiamento di superiorità a cui mi ero assuefatto lo portai anche in

seno al seminario. Ma nel corso dell'inverno riuscii sempre meno a sfuggire: non ai misfatti di cui leggevamo e sentivamo, e neanche allo zelo che pervadeva gli studenti del seminario. Da principio mi convinsi che volevo soltanto spartire l'entusiasmo scientifico e forse anche lo zelo politico e morale. Ma io volevo di più: volevo spartire quell'impegno collettivo. Magari gli altri avvertivano ancora il mio distacco e la mia arroganza; ma io, durante i mesi di quell'inverno, provai la benefica sensazione di essere del numero e di trovarmi in sintonia con me stesso, con ciò che facevo e con quelli insieme ai quali lo stavo facendo. 3. Il dibattimento aveva luogo in un'altra città, a una mezz'oretta di macchina. Non avevo gran confidenza del posto. Guidò un altro studente. Era cresciuto lì e conosceva bene la città. Era giovedì. Il dibattimento era cominciato lunedì. I primi tre giorni se n'erano andati con le istanze di legittima suspicione presentate dai difensori. Noi eravamo il quarto gruppo, quello che avrebbe assistito al vero e proprio inizio del dibattimento con l'interrogatorio degli imputati. Percorremmo la Bergstrasse costeggiata d'alberi da frutto in fiore. Eravamo di ottimo umore, pieni di slancio; finalmente potevamo dar prova di come ci eravamo preparati. Non ci sentivamo dei semplici spettatori, ascoltatori, verbalizzatori. Stare a guardare, ascoltare e verbalizzare costituivano i nostri contributi alla rielaborazione. Il tribunale era un edificio degli inizi del secolo, privo però di quella pomposità tenebrosa che si riscontra spesso nei palazzi di giustizia di allora. L'aula in cui era riunita la corte d'assise aveva a sinistra una serie di grandi finestre con vetri smerigliati, che impedivano di guardar fuori ma lasciavano entrare molta luce. Davanti alle finestre erano seduti i procuratori di stato, che nelle giornate chiare di primavera e d'estate si vedevano solo a silhouettes. La corte, tre giudici in toga nera e sei giurati, sedeva in testa all'aula, e a destra c'era il banco degli imputati e dei difensori, così numerosi che il banco era stato allungato con tavoli e sedie fino al centro dell'aula, davanti alle file del pubblico. Alcuni imputati e difensori sedevano con le spalle rivolte a noi. Hanna era seduta con le spalle rivolte a noi. La riconobbi solo quando venne chiamata, si alzò e si fece avanti. Naturalmente riconobbi subito il nome: Hanna Schmitz. Poi riconobbi anche la persona, la testa strana coi capelli raccolti a chignon, la nuca, le spalle larghe e le braccia robuste. Si teneva su dritta. Stava ben piantata sulle gambe. Lasciava pendere le braccia. Indossava un vestito grigio a maniche corte. La riconobbi ma non sentii niente. Non sentivo niente. Sì, voleva restare in piedi. Sì, era nata il 21 ottobre 1922 nei pressi di Hermannstadt e adesso aveva quarantatré anni. Sì, aveva lavorato alla Siemens di Berlino e nell'autunno del 1943 era entrata nelle S.S.. «Entrò di sua spontanea volontà nelle S.S.?». «Sì». «Perché?». Hanna non rispose. «Risponde al vero che lei entrò nelle S.S. benché alla Siemens le fosse stato offerto un posto di caposquadra?». Il difensore di Hanna balzò su. «Che significa "benché"? S'intende insinuare che una donna avrebbe fatto meglio a diventare caposquadra alla Siemens anziché entrare nelle S.S.. Nulla giustifica di far oggetto d'una simile domanda la decisione della mia mandante». Si sedette. Era l'unico difensore giovane, gli altri erano tutti anziani, e alcuni, come si vide ben presto, dei vecchi nazisti. Il difensore di Hanna evitava il loro gergo e le loro tesi. Ma era di uno zelo precipitoso e brusco, che nuoceva alla sua mandante tanto quanto le tirate naziste dei suoi colleghi danneggiavano le loro mandanti. Riuscì indubbiamente a far sì che il presidente guardasse con aria irritata e non insistesse a chiedere perché Hanna era entrata nelle S.S.. Ma rimase l'impressione che lei avesse fatto quel passo ponderatamente e senza alcuna costrizione. Che un giudice a latere le avesse poi chiesto quale specie di lavoro si aspettava nelle S.S., e che Hanna avesse dichiarato che le S.S. avevano reclutato delle donne non solo alla Siemens ma anche in altre

aziende, per impiegarle nei servizi di guardia, ragione per cui si era presentata ed era stata arruolata, non modificò certo l'impressione negativa suscitata in precedenza. Il presidente si fece confermare da Hanna, in modo conciso, che fino alla primavera del 1944 era stata in servizio ad Auschwitz e fino all'inverno del 1944-45 in un piccolo Lager nei pressi di Cracovia, che era partita per l'Ovest con i prigionieri ed era anche giunta a destinazione, che alla fine della guerra era stata a Kassel e da allora aveva vissuto qua e là. Otto anni aveva abitato nella mia città; era stato il più lungo periodo che lei avesse trascorso nello stesso posto. «Il frequente cambio di residenza può forse motivare il pericolo di fuga?». L'avvocato difensore manifestava apertamente la sua ironia. «La mia mandante ha notificato alla polizia ogni suo cambiamento di residenza. Nulla depone a favore del fatto che lei volesse fuggire, non sussiste nulla che lei potesse occultare. E' forse parso non tollerabile al giudice istruttore, data la gravità del reato contestato e dato il rischio di turbamento dell'ordine pubblico, che la mia mandante fosse rimessa in libertà? Questa, signori della corte, è una motivazione detentiva nazista; è stata introdotta dai nazisti ed eliminata dopo i nazisti. Difatti non esiste più». Il difensore si esprimeva col piacere maligno di chi espone una pungente verità. Mi spaventai. Mi resi conto di aver dato per naturale e giusta la reclusione di Hanna. Non a causa dell'imputazione, della gravità dell'accusa e della fondatezza del sospetto, cose di cui non sapevo ancora niente di preciso, ma perché dentro una cella lei era fuori dal mio mondo, fuori dalla mia vita. Volevo che lei fosse molto, molto lontana da me, così irraggiungibile da rimanere soltanto quel ricordo che lei era stata e diventata per me in tutti gli anni trascorsi. Se il suo difensore avesse avuto successo, mi sarei dovuto aspettare d'incontrarla, e sarei stato costretto a chiarirmi se volevo o come dovevo incontrarla. E non vedevo come il suo avvocato non potesse aver successo. Se Hanna non aveva mai cercato di fuggire, perché avrebbe tentato di farlo adesso? E cosa poteva poi occultare? Altre motivazioni detentive non ce n'erano per il momento. Il presidente dava a vedere di essere nuovamente irritato, e allora cominciai a capire che quello era il suo trucchetto. Ogni volta che riteneva ostruttiva e fastidiosa un'asserzione, si toglieva e posava gli occhiali, sondava col suo sguardo incerto da miope l'asserente, corrugava la fronte e ignorava l'asserzione oppure cominciava con un «Lei ritiene dunque» o un «Lei intende dunque dire», ripetendo poi l'asserzione in modo tale che non poteva sussistere alcun dubbio circa il fatto che lui non era disposto a prenderla in considerazione, e che non c'era scopo alcuno di fargli pressione in tal senso. «Lei ritiene dunque che il giudice istruttore abbia interpretato erroneamente la circostanza che l'imputata non ha reagito a nessuno scritto e a nessun mandato di comparizione, e che non si sia presentata né alla polizia, né alla procura di stato e neanche al giudice Lei intende presentare un'istanza di revoca dell'ordine di carcerazione?». L'avvocato difensore presentò l'istanza, e la corte respinse l'istanza. 4. Non perdevo nemmeno una giornata di dibattimento. Gli altri studenti si meravigliavano. Il docente vedeva con favore che uno di noi provvedesse a informare il gruppo successivo su quanto il precedente aveva visto e sentito. Solo una volta Hanna guardò tra il pubblico e verso di me. Durante le udienze rivolgeva lo sguardo sempre verso la corte, quando veniva condotta nell'aula da un'agente e dopo essersi seduta al suo posto. Sembrava un atteggiamento altezzoso, e pareva altrettanto altezzoso che lei non parlasse mai con le altre imputate, e poco perfino col suo avvocato. A dire il vero, anche le altre accusate parlavano tra loro tanto meno quanto più si prolungavano le udienze. Nelle pause del dibattimento stavano insieme a parenti e amici, facevano loro dei cenni o li chiamavano, se al mattino li vedevano tra il pubblico. Hanna rimaneva sempre seduta al suo posto durante le pause. E così la vedevo da dietro. Vedevo la sua testa, la sua nuca, le sue spalle. Leggevo la sua testa, la sua nuca, le sue spalle. Quand'era chiamata direttamente in causa, teneva la testa ben alta. Quando si sentiva ingiustamente trattata, denigrata, aggredita e cercava affannosamente di replicare, ruotava

le spalle in avanti e la nuca si gonfiava, mentre tendeva i fasci dei muscoli fino a farli risaltare. I tentativi di replicare fallivano regolarmente, e regolarmente le spalle ricascavano. Non alzava mai le spalle, né scrollava mai la testa. Era troppo tesa per potersi permettere la scioltezza di un'alzata di spalle o di una scrollata di testa. Non si concedeva nemmeno di tenere la testa reclinata, di abbassarla o sostenerla col braccio. Sedeva come congelata. E star seduti così doveva far male. A volte delle ciocche di capelli scivolavano fuori dallo chignon ben annodato, si arricciavano, spiovevano sulla nuca e la sfioravano ondeggiando nella corrente d'aria. A volte Hanna indossava un vestito abbastanza scollato da esporre la voglia sulla spalla sinistra, in alto. Allora mi ricordavo come avevo soffiato via i capelli da quella nuca e come avevo baciato quella voglia e quella nuca. Ma ricordare era un semplice registrare. Non sentivo niente. Durante le lunghe settimane del dibattimento non sentii niente: la mia sensibilità era come intorpidita, anestetizzata. Ogni tanto la provocavo, figurandomi Hanna di fronte a ciò di cui era accusata, immedesimandomi in lei più che potevo, e cercavo di rivivere anche ciò che mi facevano ricordare i suoi capelli sulla nuca e la sua voglia sulla spalla. Era come quando la mano pizzica il braccio reso insensibile dall'iniezione. Il braccio non sa che la mano lo pizzica, la mano sa che pizzica il braccio, e il cervello non distingue le due cose in un primo momento. Ma in un secondo tempo riesce a discernere benissimo. Forse la mano ha dato un pizzico così forte che il punto pizzicato sbianca per un po'. Poi il sangue torna a scorrere, e quel punto riprende colore. Ma la sensibilità non si fa per questo risentire. Chi mi aveva fatto l'iniezione? Forse io stesso, perché senza anestesia non avrei potuto reggere? Quell'anestetico agiva non solo quand'ero in tribunale e non solo in modo tale da farmi sentire Hanna come se fosse stato un altro ad amarla e desiderarla, uno che conoscevo bene ma non ero io. Anche per tutto il resto mi vedevo dal di fuori: mi guardavo funzionare, all'università, con i genitori e i fratelli, con gli amici, ma interiormente non partecipavo. Dopo un po' mi parve di scorgere anche in altri un simile torpore. Non negli avvocati difensori, che durante il dibattimento davano sempre a vedere la stessa litigiosità chiassosa e prepotente, la stessa mordacità pedantesca o la stessa fredda e altisonante sfrontatezza, a seconda del temperamento personale e politico. Certo, le udienze li sfinivano; la sera erano più stanchi o magari più striduli. Ma di notte si ricaricavano, si rigonfiavano, e il mattino dopo tuonavano e sibilavano come il mattino prima. I procuratori cercavano di reggere il ritmo dei difensori e giorno dopo giorno tentavano a loro volta di dare a vedere lo stesso impegno combattivo, ma non ci riuscivano. In un primo tempo non ce la fecero perché erano troppo sconvolti da quanto emergeva dal processo, e poi perché l'anestetico cominciò a fare effetto. Ma il maggiore effetto anestetizzante si riscontrò nei giudici e nei giurati. Nelle prime settimane di dibattimento presero atto, con visibile sgomento o magari forzata compostezza, degli orrori che venivano riferiti e confermati ora con le lacrime agli occhi, ora con voce rotta, ora affannosamente o confusamente. Poi, però, le facce tornarono normali, e loro ripresero a bisbigliarsi qualche osservazione sorridendo o magari a mostrare un moto d'impazienza, se un testimone la tirava per le lunghe. E quando si parlò di un viaggio in Israele per interrogare una testimone, si diffuse un'euforia da vacanza. Immancabilmente sconvolti si ritrovavano gli altri studenti. Assistevano solo una volta in settimana al dibattimento, e ogni volta succedeva la stessa cosa: l'irruzione dell'orrore nel quotidiano. Io, che seguivo il processo giorno per giorno, osservavo le loro reazioni con distacco. Come il detenuto del Lager, che mese dopo mese sopravvive, si abitua e registra il terrore dei nuovi arrivati con indifferenza, con lo stesso torpore con cui guarda e vede ammazzare e morire. Tutta la letteratura dei sopravvissuti parla di questo torpore: un intorpidimento che riduceva al minimo le funzioni vitali, rendeva insensibili e indifferenti, e faceva accettare gassazioni e cremazioni come cose del tutto quotidiane. Anche dalle scarse dichiarazioni degli aguzzini, le camere a gas e i forni crematori emergono come un mondo normale, quotidiano, dove gli aguzzini stessi sono ridotti a poche funzioni, tanto si ritrovano intorpiditi o ubriacati nella loro indifferenza e insensibilità, nella loro ottusità. Le imputate mi sembravano ancora e sempre prese da quel torpore, quasi ne fossero pietrificate. Già allora, quando quel comune stato d'intorpidimento mi dava da pensare, anche perché quel

torpore non si era posato solo su carnefici e vittime, ma si posava pure su di noi, che ora ci occupavamo di tutto ciò come giudici o giurati, procuratori o verbalizzatori, e quando confrontavo tra loro carnefici, vittime, morti, vivi, sopravvissuti e nati dopo, non mi sentivo a posto, come non mi sento a posto neanche adesso. Si possono, infatti, fare confronti del genere? Se durante una conversazione accennavo a simili confronti, ponevo sempre l'accento sul fatto che il confronto non relativizzava la differenza - che si fosse stati costretti nel mondo del Lager o ci si fosse entrati volontariamente, che si avesse sofferto o si fossero inflitte sofferenze - e badavo a sottolineare che la differenza era anzi della massima importanza, più che mai determinante. Eppure suscitavo ogni volta sconcerto o sdegno, e non solo quando entravo nei dettagli per ribattere alle obiezioni degli altri, ma ancor prima che gli altri avessero qualcosa di preciso da obiettare. Al tempo stesso mi chiedo, e cominciai a chiedermelo già allora: ma cosa doveva e deve farsene, la mia generazione di nati dopo, delle informazioni sulle atrocità dello sterminio degli ebrei? Noi non dobbiamo pensare di poter comprendere ciò che è incomprensibile, non possiamo comparare ciò che è incomparabile, non possiamo indagare, perché chi indaga sulle atrocità, anche se non le mette in discussione, ne fa comunque oggetto di comunicazione e non ottiene che qualcosa di fronte a cui può solo ammutolire per l'orrore, la colpa e la vergogna. Dobbiamo solo ammutolire per l'orrore, la colpa e la vergogna? A quale scopo? No, non è che l'ardore della rielaborazione e lo zelo di far luce, con cui avevo partecipato al seminario, fossero andati perduti durante il dibattimento. Ma che solo pochi venissero condannati e puniti e che noi, la generazione venuta dopo, ci ritrovassimo ammutoliti dall'orrore, dalla colpa e dalla vergogna: era giusto che fosse così? 5. La seconda settimana venne data lettura dell'imputazione. La lettura durò un giorno e mezzo, una giornata e mezza al condizionale. L'imputata numero uno avrebbe.... avrebbe inoltre..., oltre a ciò avrebbe..., pertanto avrebbe ottemperato alla fattispecie dell'articolo tal dei tali, inoltre avrebbe ottemperato a questa e quella fattispecie.... avrebbe anche agito in modo contrario alla legge e colpevolmente. Hanna era l'imputata numero quattro. Le cinque donne accusate erano state sorveglianti in un piccolo campo di concentramento nei pressi di Cracovia, un Lager esterno di Auschwitz. Nella primavera del 1944 erano state trasferite lì da Auschwitz, per sostituire alcune sorveglianti rimaste uccise o ferite in seguito a un'esplosione avvenuta nella fabbrica dove lavoravano le donne del Lager. Un capo d'accusa riguardava il modo in cui le imputate avevano agito ad Auschwitz, ma questo punto passava in seconda linea rispetto agli altri. Non me lo ricordo più. Escludeva Hanna e riguardava soltanto le altre donne? Era di secondaria importanza rispetto agli altri capi d'accusa o anche in sé stesso? Sembrava semplicemente intollerabile non accusare qualcuno per il modo in cui aveva agito ad Auschwitz, se era stato ad Auschwitz e risultava incarcerato appunto per questo? Naturalmente le cinque imputate non avevano diretto il Lager. C'erano stati pur sempre un comandante, dei reparti di guardia e altre sorveglianti. Ma la maggior parte delle guardie e delle sorveglianti non era sopravvissuta al bombardamento che una notte aveva posto fine alla colonna dei prigionieri per l'Ovest. E quella stessa notte alcuni si erano eclissati e risultavano pertanto irreperibili come il comandante che se l'era svignata ancor prima che la colonna per l'Ovest si fosse messa in marcia. Quanto ai prigionieri, nessuno avrebbe potuto in effetti sopravvivere alla notte del bombardamento. Eppure c'erano due superstiti, madre e figlia, e la figlia aveva scritto un libro sul Lager e sulla colonna per l'Ovest, che era stato pubblicato in America. La polizia e la procura di stato avevano rintracciato non solo le cinque imputate, ma anche alcuni testimoni che erano vissuti nel villaggio dove il bombardamento aveva posto fine alla colonna dei prigionieri per l'Ovest. I testimoni principali erano la figlia che era venuta in Germania per deporre, e la madre che era rimasta in Israele. Per sentire la testimonianza della madre, la corte, i procuratori e i difensori si recarono poi in Israele; la sola parte del dibattimento che non seguii. Uno dei due principali capi d'accusa riguardava le selezioni nel Lager. Ogni mese venivano spedite

da Auschwitz circa sessanta donne e altrettante ne venivano rispedite ad Auschwitz, meno quelle che nel frattempo erano morte. Era chiaro per tutti che quelle donne venivano uccise, ad Auschwitz: si rispedivano quelle che non potevano più essere impiegate nel lavoro in fabbrica. Si trattava di una fabbrica di munizioni, dove il lavoro non era in effetti molto pesante; senonché le donne ora dovevano svolgere non tanto il loro lavoro, quanto ricostruire lo stabilimento che aveva subìto gravi danni in seguito all'esplosione avvenuta in primavera. L'altro principale capo d'accusa riguardava la notte del bombardamento, che aveva posto fine a tutto. I reparti di guardia e le sorveglianti avevano rinchiuso i prigionieri - centinaia di donne - nella chiesa di un villaggio che era stato abbandonato dalla maggior parte degli abitanti. Caddero soltanto un paio di bombe, forse destinate a una linea ferroviaria vicina o a una fabbrica, oppure sganciate semplicemente perché rimaste da un'incursione aerea a qualche grande città. Una colpì la canonica, dove dormivano le guardie e le sorveglianti. L'altra centrò il campanile. Prima prese fuoco il campanile, poi il tetto della chiesa, e quindi la travatura in fiamme crollò all'interno incendiando i banchi. Le pesanti porte della chiesa rimasero chiuse. Le imputate avrebbero potuto aprirle. Ma non lo fecero. E così le donne rinchiuse là dentro bruciarono vive. 6. Per Hanna il processo non poteva andare peggio. Già durante l'interrogatorio non aveva fatto una buona impressione alla corte. Dopo la lettura dell'imputazione chiese la parola, perché secondo lei qualcosa non rispondeva al vero; ma il presidente l'ammonì irritato dicendole che prima dell'apertura della fase centrale del giudizio avrebbe potuto studiarsi con calma l'imputazione e sollevare allora le sue obiezioni: adesso si era nel mezzo del dibattimento, e ciò che rispondeva o meno al vero lo avrebbe dimostrato l'assunzione delle prove. Quando l'istruzione probatoria ebbe inizio e il presidente propose di rinunciare alla lettura pubblica della versione tedesca del libro della figlia, dato che tutti gli interessati avevano avuto a disposizione il manoscritto in corso di pubblicazione presso una casa editrice tedesca. Hanna dovette lasciarsi indurre dal suo difensore, sotto lo sguardo irritato del presidente, a dichiararsi d'accordo. Lei però non volle. E non volle nemmeno accettare di aver ammesso, in un precedente interrogatorio giudiziario, che lei aveva la chiave della chiesa. Lei non ce l'aveva, la chiave, nessuno ce l'aveva, non c'era una chiave della chiesa, ma parecchie chiavi per diverse porte, e da fuori erano state provate tutte nelle serrature. Ma in base al verbale del suo interrogatorio giudiziario, da lei letto e firmato, le cose non stavano così, e che lei ora chiedesse perché mai si voleva addossarle qualcosa, non migliorava certo la sua situazione. Non parlò alzando la voce né chiese con tono prepotente, ma risultava ostinata e al contempo, come mi parve di vedere e sentire, smarrita e confusa; eppure, dicendo che le si voleva addossare qualcosa, non intendeva muovere accuse contro le storture della legge. Ma il presidente intese così la cosa e reagì con durezza. Il difensore di Hanna saltò su, si mise a parlare in modo concitato e focoso, gli fu chiesto se intendeva far propria l'accusa della sua mandante, e tornò a sedersi al suo posto. Hanna voleva chiarire come stavano le cose. Quando riteneva che le si facesse torto protestava, mentre ammetteva ciò di cui, a suo avviso, la si accusava giustamente. Protestava ostinatamente e ammetteva prontamente, quasi che ammettendo ottenesse il diritto di protestare e protestando si assumesse il dovere di ammettere ciò che non riusciva a contestare in modo retto. Ma non si accorgeva che la sua ostinazione irritava il presidente. Non aveva alcun sentore del contesto, delle regole del gioco, delle formule in base a cui le sue asserzioni e quelle delle altre imputate venivano messe sul piatto della colpa o dell'innocenza, della condanna o dell'assoluzione. Il suo difensore avrebbe dovuto compensare quel suo difetto di comprensione, avrebbe dovuto avere più esperienza e dimostrare maggiore sicurezza, o semplicemente essere migliore di quel che era. O forse Hanna non doveva rendergli così difficile il suo compito, negandogli platealmente la fiducia; anche se lei non si era scelta un avvocato di sua fiducia, visto che si trattava di un difensore d'ufficio nominato dal presidente. A volte Hanna riusciva a ottenere una sorta di successo. Mi ricordo quando la interrogarono sulle

selezioni nel Lager. Le altre imputate contestarono di avervi mai avuto a che fare in qualche modo. Hanna, invece, ammise così prontamente di avervi partecipato - non lei sola, ma con le altre e come le altre - che il presidente ritenne di dover insistere su quel punto. «Come si svolgevano le selezioni?». Hanna riferì che le sorveglianti si erano accordate per segnalare, in base ai loro sei settori di competenza d'uguali dimensioni, un uguale numero di prigioniere, dieci per ciascun settore per un totale di sessanta; disse che le cifre potevano divergere per via del numero delle malate, più basso in un settore e più alto in un altro, e affermò che alla fine tutte le sorveglianti di servizio decidevano insieme chi doveva essere rispedito. «Nessuna di loro si rifiutava, loro agivano tutte di comune accordo?». «Sì». «Lei non sapeva che spediva le prigioniere a morire?». «Sì, ma le nuove stavano arrivando, e le vecchie dovevano far posto alle nuove». «Lei dunque diceva, siccome voleva far posto: tu, tu e tu devi essere rispedita e ammazzata?». Hanna non capì che cosa il presidente intendesse chiedere con questo. «Io ho... io penso... Che cosa avrebbe fatto lei?». Per Hanna, questa era una domanda seria. Lei non sapeva cos'altro avrebbe dovuto fare, cos'altro avrebbe potuto fare, e voleva sentire dal presidente, che sembrava saper tutto, cosa avrebbe fatto lui. Per un lungo istante ci fu silenzio. Non sta bene che nei procedimenti penali tedeschi gli imputati pongano domande ai giudici. Ma la domanda era stata posta, e tutti si aspettavano la risposta del giudice. Ora lui doveva rispondere, non poteva ignorare la domanda oppure liquidarla con una nota di biasimo o una controdomanda. La cosa era evidente per tutti, anche per lui, e allora io compresi perché aveva fatto di quell'espressione irritata il suo trucchetto. Ne aveva fatto il suo modo di truccarsi, la maschera dietro cui poteva prendersi un po' di tempo per trovare la risposta. Ma non troppo. Perché quanto più lui aspettava, tanto più crescevano l'attesa e la tensione, e tanto migliore doveva essere la risposta. «Esistono cose a cui non ci si può lasciar andare con leggerezza e da cui ci si deve astenere, se non ci costa la vita». Questo sarebbe forse bastato, se lui l'avesse riferito direttamente ad Hanna o magari anche a sé stesso. Ma parlare genericamente di ciò che si deve fare e non si può fare e di quanto ciò possa costare, non rendeva giustizia alla serietà della domanda di Hanna. Lei voleva sapere che cosa avrebbe dovuto fare in quella situazione, non che esistono cose che non si fanno. La risposta del giudice suonò misera, penosa. Se ne accorsero tutti. E reagirono con un sospiro deluso, guardando stupiti Hanna, che in un certo senso aveva vinto lo scontro verbale. Ma lei rimase lì persa nei suoi pensieri. «Allora avrei... non avrei... non avrei dovuto offrirmi volontaria alla Siemens?». Non era una domanda rivolta al giudice. Lei parlava per sé, interrogava sé stessa, esitando, perché non si era ancora posta la domanda e dubitava, non sapendo se fosse la domanda giusta e quale potesse essere la risposta. 7. Come l'ostinazione delle proteste di Hanna irritava il giudice, così la prontezza delle sue ammissioni irritava le altre imputate. Per la loro difesa, ma anche per quella di Hanna, poteva essere un disastro. In fondo lo stato delle prove era favorevole alle imputate. I soli elementi probatori a carico del primo principale capo d'accusa erano le testimonianze della madre e della figlia sopravvissute, e il libro di quest'ultima. Una buona difesa avrebbe potuto credibilmente contestare, senza intaccare la sostanza delle deposizioni di madre e figlia, che fossero state proprio le imputate a effettuare le selezioni. A tale riguardo, le testimonianze non erano precise né potevano esserlo; c'erano pur sempre stati un comandante, dei reparti di guardia, altre sorveglianti e una gerarchia di comandi e competenze con cui i prigionieri entravano in contatto solo parzialmente e che solo parzialmente potevano penetrare. La stessa cosa valeva per il secondo capo d'accusa. Madre e figlia erano state

rinchiuse nella chiesa e non potevano quindi testimoniare su ciò che era successo all'esterno. Dal canto loro, le imputate non potevano dare a intendere di non essersi trovate sul posto. Gli altri testimoni, che allora vivevano nel villaggio, avevano parlato con loro e si ricordavano di loro. Questi testimoni, però, dovevano badare che non ricadesse su di loro l'accusa di mancato soccorso nei confronti delle prigioniere. Se sul posto erano presenti soltanto le imputate, gli abitanti del villaggio non avrebbero potuto sopraffare quelle poche donne e aprire le porte della chiesa? Non dovevano quindi conformarsi a una linea di difesa che avrebbe scagionato anche loro, secondo cui le imputate avevano agito in stato di costrizione? Costrizione costituita dalla forza dei reparti di guardia, che non si erano ancora dati alla fuga o che si sarebbero assentati solo per poco tempo, forse per portare i feriti in un ospedale militare, stando a quanto le imputate avevano pur sempre ammesso? Quando i difensori delle altre accusate si accorsero che simili strategie fallivano a causa delle spontanee ammissioni di Hanna, cambiarono rotta puntando su una strategia intesa a sfruttare quelle ammissioni, che tendeva a incriminare Hanna e quindi a discolpare le altre. I difensori operarono con distacco professionale, e le altre imputate li assecondarono lanciando accuse piene di sdegno. «Lei ha detto di sapere che spediva le prigioniere a morire: questo riguarda solo lei, non è vero. Ciò che sapevano le sue colleghe, lei non poteva saperlo. Lei può forse supporre, ma in fondo non giudicare, non è vero?». Era il difensore di un'altra imputata che stava interrogando Hanna. «Ma tutte noi sapevamo...». «Dire "noi", "tutte noi" è più facile che dire "io", "solo io", no? Risponde al vero che lei, solo lei, aveva delle protette nel Lager, sempre ragazzine, una per un po' e poi per un po' un'altra?». Hanna esitò. «Credo di non esser stata la sola che...». «Sporca bugiarda! Le tue cocche erano affar tuo, solo tuo!". L'imputata intervenuta, una donna grossolana, non senza una corpulenza da chioccia ma con una lingua da vipera, era visibilmente agitata. «Non può darsi che lei dica "sapere" quando potrebbe tutt'al più credere, e "credere" quando potrebbe semplicemente inventare?». Il difensore scrollò la testa in modo che pareva prendesse atto della risposta affermativa di lei con una certa apprensione. «Risponde poi al vero che le sue protette, quando lei era stufa di loro, finivano ad Auschwitz col trasporto successivo?». Hanna non rispose. «Questa era la sua particolare, personale selezione, non è vero? Lei non vuole ammettere la cosa, lei vuol nasconderla dietro qualcosa che tutte avrebbero fatto. Ma...». «Oh Dio!». La figlia, che si era seduta tra il pubblico dopo la sua deposizione, si coprì il viso con le mani. «Come ho fatto a scordarmelo?». Il presidente le chiese se intendeva integrare la sua deposizione, al che lei non aspettò di essere chiamata al banco dei testimoni: si alzò in piedi e parlò dal suo posto, là in mezzo al pubblico. «Sì, aveva delle preferite, sempre una tra le più giovani, deboli e delicate, le prendeva sotto la sua protezione e si preoccupava che non dovessero lavorare, le alloggiava meglio, le vestiva e nutriva meglio, e la sera le faceva venire da lei. Ma le ragazze non dovevano dire quel che lei faceva con loro la sera, e noi pensavamo che con loro lei... anche perché poi finivano tutte nel trasporto, come se lei ne avesse abbastanza dopo essersela spassata con loro. Ma non era affatto così, e un giorno una ha parlato, e allora siamo venute a sapere che le ragazze leggevano per lei ad alta voce, sera dopo sera e sempre così. Questo era certo meglio che se loro... anche meglio che se fossero morte per sfinimento lavorando a ricostruire la fabbrica, sì, devo aver pensato che era meglio, altrimenti non avrei potuto scordarmelo. Ma era poi meglio?». Si sedette. Hanna si voltò e mi guardò. Il suo sguardo mi trovò all'istante, e allora compresi che per tutto il tempo lei aveva saputo che io ero lì. Il suo viso non chiedeva niente, non cercava niente, non garantiva né prometteva niente. Si mostrava e basta. Vidi quanto era tesa e sfinita. Aveva dei cerchi sotto gli occhi, e ogni guancia era percorsa dall'alto in basso da una ruga che non conoscevo, che non era ancora profonda ma sembrava già una cicatrice. Quando sotto il suo sguardo arrossii, lei si girò e rivolse di nuovo lo sguardo verso la corte.

Il presidente volle sapere dal difensore che aveva interrogato Hanna se intendeva rivolgere altre domande all'imputata. Volle saperlo anche dall'avvocato di Hanna. Chiediglielo, pensai. Chiedile se aveva scelto le ragazze più deboli e delicate perché non avrebbero certo retto al lavoro in cantiere, perché sarebbero certo finite ad Auschwitz col trasporto successivo e perché voleva render loro sopportabile l'ultimo mese. Dillo, Hanna. Di' che volevi render loro sopportabile l'ultimo mese. Che quello era il motivo per cui sceglievi le più deboli e delicate. Che non c'era nessun altro motivo né poteva essercene altro. Ma l'avvocato difensore non rivolse domande ad Hanna, e lei non parlò di sua spontanea volontà. 8. La versione tedesca del libro che la figlia aveva scritto sul periodo trascorso nel Lager apparve solo dopo il processo. Durante il processo, il manoscritto era sì disponibile, ma solo per i partecipanti al dibattimento. Io dovetti leggermi il libro in inglese, un'impresa allora insolita e faticosa. E come sempre la lingua straniera che non padroneggi, e con cui devi combattere, creava una strana compresenza di distacco e vicinanza. Pur cercando di studiare a fondo quel libro per farlo mio, non per questo fu acquisito. M'è rimasto tanto estraneo quanto straniera è la lingua. Anni dopo l'ho riletto e ho scoperto che è il libro stesso che crea quel distacco. Non invita all'identificazione e non rende nessuno simpatico, né la madre né la figlia, né quelli con cui le due donne condivisero il medesimo destino in diversi Lager e infine ad Auschwitz e a Cracovia. Le anziane delle baracche, le sorveglianti e i reparti di guardia non acquistano nel libro contorni abbastanza nitidi e definiti da potersi rapportare con loro, da poterli trovare migliori o peggiori. Si avverte quell'atmosfera anestetizzante, quel torpore che ho già tentato di descrivere. Ma la facoltà di registrare e di analizzare non l'aveva persa, la figlia, pur immersa in quell'intorpidimento. E neppure si era lasciata corrompere dall'autocommiserazione o dalla propria consapevolezza, derivata chiaramente dal fatto che era sopravvissuta e aveva non solo superato gli anni di Lager, ma era anche riuscita a dar loro forma letteraria. Lei scrive di sé e del suo modo di comportarsi adolescenziale, saccentello e, se vogliamo, furbesco con la stessa obiettività con cui descrive tutto il resto. Hanna non compare nel libro col proprio nome e non risulta neppure riconoscibile, identificabile. A volte mi pareva di riconoscerla in una sorvegliante definita giovane, bella e di un'incosciente coscienziosità nell'adempimento dei propri compiti, ma non ne ero sicuro. Guardando le altre imputate solo Hanna poteva essere la sorvegliante descritta nel libro. Ma c'erano state anche altre sorveglianti. In un altro Lager, la figlia aveva avuto a che fare con una sorvegliante chiamata «cavalla», anche lei giovane, bella e capace, ma crudele e sfrenata. E questa le ricordava la sorvegliante nel Lager. C'erano altri che avevano fatto lo stesso paragone? Hanna ne era al corrente, se ne ricordava e ne era rimasta colpita quando l'aveva paragonata a un cavallo? Per madre e figlia, il Lager di Cracovia era l'ultima fermata prima di Auschwitz. Era però un progresso; il lavoro era sì pesante, ma più facile, il cibo migliore, ed era meglio stare in sei donne dentro una stanza anziché in cento dentro una baracca. Era anche più caldo, il locale; le donne potevano raccogliere e portarsi dietro della legna durante il tragitto dalla fabbrica al Lager. C'era la paura delle selezioni. Ma non era così tanta come ad Auschwitz. Sessanta donne venivano rispedite ogni mese, sessanta su circa milleduecento; c'era quindi una possibilità di sopravvivenza di venti mesi buoni se si riusciva a mantenere mediamente le proprie forze e si poteva pur sempre sperare di essere più forti della media. Ci si aspettava inoltre che la guerra finisse in meno di venti mesi. La tragedia cominciò con la chiusura del Lager e la marcia dei prigionieri verso l'Ovest. Era inverno, nevicava, e i vestiti in cui le donne gelavano in fabbrica mentre nel Lager riuscivano ancora a reggere, erano del tutto insufficienti, e ancor più insufficienti erano le calzature, spesso fatte di stracci o fogli di giornale, legati in modo tale che stando fermi o camminando potevano anche tenere, ma non era possibile legarli così bene da farli resistere a lunghe marce su percorsi innevati e gelati. Le donne, poi, mica marciavano: venivano spronate a correre. «Marcia della morte?», si chiede la figlia nel suo libro e risponde: «No, trotto, galoppo della morte». Molte

stramazzavano per strada, altre non riuscivano più a rialzarsi dopo le notti passate in un fienile o anche solo al riparo di un muro. Nel giro di una settimana quasi la metà delle donne era morta. La chiesa fu un riparo migliore dei fienili o dei muri di cui le donne avevano potuto disporre fino a quel momento. Quando si fermavano per trascorrere la notte in qualche fattoria abbandonata, le guardie e le sorveglianti si prendevano le abitazioni. E là, in quel villaggio quasi del tutto abbandonato, loro si presero la canonica e lasciarono alle prigioniere qualcosa di più che un fienile o un muro. Il fatto che guardie e sorveglianti si fossero comportate così e che nel villaggio ci fosse perfino qualcosa di caldo da mangiare, sembrò quasi promettere la fine di quei patimenti. Quindi le donne si addormentarono. E poco dopo caddero le bombe. Finché bruciò soltanto il campanile, il fuoco lo si poteva sentire dentro la chiesa, ma non vedere. Quando la cima del campanile crollò sul tetto della chiesa, ci vollero ancora diversi minuti prima di poter vedere i bagliori delle fiamme. Poi piovvero giù anche le fiamme e i vestiti presero fuoco, precipitarono travi infuocate che incendiarono i banchi e il pulpito, in breve il tetto si schiantò nella navata e tutto avvampo. La figlia ritiene che le donne avrebbero potuto salvarsi, se si fossero messe subito insieme per sfondare una delle porte. Ma quando si accorsero di cosa era successo e cosa sarebbe successo, visto che da fuori non avevano aperto. fu troppo tardi. Era notte fonda quando lo scoppio delle bombe le svegliò. Per un po' sentirono solo un rumore strano, inquietante, che veniva dal campanile, e fecero silenzio per poter sentir meglio e capire cosa fosse quel rumore. Che si trattasse del crepitare di un incendio, che fossero bagliori di fiamme ciò che guizzava a tratti oltre le finestre, che il crollo sopra le loro teste significasse il propagarsi del fuoco dal campanile al tetto della chiesa: le donne lo capirono solo quando videro bruciare l'armatura del tetto. Allora si misero a gridare, lanciando urla di terrore e invocando aiuto, si precipitarono verso le porte, presero a scuoterle, picchiarono coi pugni, continuando a gridare. Quando l'armatura del tetto si schiantò nella navata, i muri perimetrali trattennero il fuoco come in un camino. Quasi tutte le donne non morirono asfissiate, ma arse vive tra i bagliori delle fiamme. Alla fine il fuoco incendiò e arroventò anche le porte della chiesa, rivestite a lamine di ferro. Ma questo accadde ore dopo. Madre e figlia sopravvissero perché la madre, per sbaglio, fece la cosa giusta. Quando le donne vennero prese dal panico, non riuscì più a reggere in mezzo a loro e scappò, su nella loggia della cantoria. Che lassù le fiamme fossero più vicine, per lei era indifferente: voleva soltanto star sola, lontana dalle donne che urlavano, che spingevano e spintonavano, che bruciavano. La loggia era stretta, tanto stretta che fu appena sfiorata dalla travatura in fiamme. Madre e figlia rimasero lì in piedi, premute contro il muro e videro e udirono l'infuriare del fuoco. Il giorno dopo non si azzardarono a scender giù e uscir fuori. Nel buio di quella notte temettero di mancare i gradini della scala. Quando all'alba dell'indomani uscirono dalla chiesa, incontrarono alcuni abitanti del villaggio che le fissarono muti e sbalorditi, rifornendole però di cibo e vestiti per poi lasciarle andare. 9. «Perché non ha aperto?». Il presidente fece la stessa domanda a un'imputata dopo l'altra. E un'imputata dopo l'altra diede la stessa risposta. Non aveva potuto aprire. Perché? Allo scoppio della bomba nella canonica era stata ferita. O si trovava sotto shock per l'esplosione. O dopo lo scoppio della bomba si era occupata delle guardie e delle altre sorveglianti ferite, tirandole fuori dalle macerie per poi medicarle e assisterle. Non aveva pensato alla chiesa, non si trovava nei pressi della chiesa, non aveva visto l'incendio della chiesa e non aveva sentito provenire grida dalla chiesa. Il presidente fece la stessa obiezione a un'imputata dopo l'altra. Il rapporto poteva esser letto diversamente. Era stato redatto con prudenza e ponderazione. Dire che nel rapporto, rinvenuto tra gli incartamenti delle S.S., le cose stavano diversamente, sarebbe stato falso. Ma era giusto dire che poteva esser letto diversamente. Fece i nomi di chi era rimasto ucciso nella canonica, di chi aveva trasportato col camion i feriti in un ospedale militare e di chi aveva scortato il trasporto in camionetta. Fece presente che alcune sorveglianti erano rimaste sul posto per attendere che finisse

l'incendio, per impedire che si propagasse e per ostacolare eventuali tentativi di fuga favoriti dagli incendi. Fece presente la morte delle prigioniere. Che i nomi delle imputate non figurassero tra quelli registrati, deponeva a favore del fatto che le accusate rientravano nel numero delle sorveglianti rimaste sul posto. Che quelle sorveglianti fossero rimaste sul posto per impedire dei tentativi di fuga, deponeva a favore del fatto che non tutto era finito, quanto al recupero dei feriti dalle macerie della canonica e alla partenza del trasporto per l'ospedale. Le sorveglianti rimaste, stando a quanto si leggeva, avevano lasciato divampare l'incendio nella chiesa, tenendo chiuse le porte. Tra le sorveglianti rimaste, stando a quanto si leggeva, c'erano le imputate. No, disse un'imputata dopo l'altra, non era andata così. Il rapporto era falso. Lo si capiva già dal fatto che parlava dell'incarico, assegnato alle sorveglianti rimaste, di impedire l'estendersi degli incendi. Come avrebbero potuto espletare un simile incarico!? Era un assurdità, e altrettanto assurdo era l'incarico di ostacolare dei tentativi di fuga favoriti dagli incendi. Tentativi di fuga? Quando non si sarebbero più dovute occupare dei loro e avrebbero potuto occuparsi degli altri, delle prigioniere, non sarebbe rimasto più nessuno che potesse fuggire. No, il rapporto travisava tutto, tutto quanto loro avevano fatto, eseguito e patito quella notte. Ma com'era potuto venirne fuori un rapporto così falso? Anche questo loro non lo sapevano. Finché non toccò all'imputata astiosa-corpulenta. Lei lo sapeva. «Lo chieda a quella lì!». E puntò il dito contro Hanna. «E' lei che ha scritto il rapporto. Lei ha colpa di tutto, solo lei, e con quel rapporto voleva metter tutto a tacere e tirar dentro noialtre». Il presidente interrogò Hanna. Ma era la sua ultima domanda. La sua prima domanda era stata: «Perché non ha aperto?». «Noi eravamo... avevamo...». Hanna stava cercando la risposta. «Noi non sapevamo cavarcela in altro modo». «Lei non sapeva cavarsela in altro modo?». «Alcuni di noi erano morti, e gli altri se l'erano svignata. Dicevano che sarebbero andati all'ospedale per portare i feriti e poi tornati, ma sapevano che non sarebbero tornati, e anche noi lo sapevamo. Forse non andarono neanche all'ospedale, non erano poi così gravi i feriti. Volevamo andare anche noi, con loro, ma ci dissero che i feriti avevano bisogno di posto, e che tanto non avrebbero... non erano poi tanto entusiasti di aver dietro così tante donne. Io non so dove finirono poi». «E lei che cosa fece?». «Noi non sapevamo cosa fare. Tutto succedeva così in fretta, e la canonica bruciava e il campanile, e gli uomini e le macchine prima erano lì e poi non c'erano più, e di colpo ci trovammo sole con le donne nella chiesa. Un po' di armi ce le avevano lasciate, ma noi non sapevamo come maneggiarle. E se lo avessimo saputo, a cosa ci sarebbe servito, a noi, un pugno di donne? Come potevamo sorvegliare tutte quelle donne? Una colonna così lunga, anche se potevi farcela a tenerla insieme, per sorvegliarla tutta quanta ci voleva ben più che qualche donna». Hanna fece una pausa. «Poi cominciarono le grida, ed era sempre peggio. Se avessimo aperto e tutte fossero corse fuori...». Il presidente aspettò un momento. «Aveva paura? Aveva paura che le prigioniere potessero sopraffarla?». «Che le prigioniere ci... no, ma come avremmo fatto, noi sole, a ripristinare l'ordine? Ci sarebbe stato un tale caos che non saremmo riuscite a venirne a capo. E se avessero cercato di scappare...». Il presidente aspettò di nuovo, ma Hanna non finì la frase. «Aveva paura che, se si fosse verificata una fuga, sarebbe stata arrestata, condannata e fucilata?». «Non le avremmo mica lasciate scappare tanto facilmente! Noi eravamo responsabili del fatto... Io penso che, se le avevamo sorvegliate tutto il tempo, quand'erano nel Lager o in colonna, il senso era appunto che noi le sorvegliassimo e che loro non scappassero. Per questo non sapevamo cosa fare. Non sapevamo neanche quante donne sarebbero sopravvissute nei giorni seguenti. Ne erano già morte così tante, e quelle ancora in vita erano anche loro così deboli...». Hanna si accorse che quel che stava dicendo non rendeva alcun servizio alla sua causa. Ma non poteva dire nient'altro. Poteva solo cercare di dire meglio quel che stava dicendo, di descriverlo e spiegarlo meglio. Ma quanto più diceva, tanto peggio risultava per la sua causa. E siccome non

sapeva dove sbattere la testa, si rivolse ancora una volta al giudice. «Che cosa avrebbe fatto lei?». Ma stavolta lo sapeva anche lei che non avrebbe avuto risposta. Né si aspettava una risposta. Nessuno si aspettava una risposta. E il presidente scrollò muto la testa. Non è che non ci si potesse figurare la confusione e lo smarrimento che Hanna descriveva. La notte, il freddo, la neve, il fuoco, le grida delle donne nella chiesa, la scomparsa di quelli che comandavano e scortavano le sorveglianti: la situazione, insomma, così com'era. Ma comprendere che la situazione era stata difficile, poteva relativizzare l'orrore per ciò che le imputate avevano o non avevano fatto? Come se si trattasse di un incidente automobilistico su una strada fuori mano in una fredda notte d'inverno, con feriti e danni così gravi che non si sa proprio cosa fare? O come si trattasse di un conflitto tra due responsabilità che richiedono entrambe il nostro intervento? In questo modo ci si poteva ma non ci si voleva figurare quel che Hanna descriveva. «L'ha scritto lei il rapporto?». «Abbiamo pensato tutte insieme quel che bisognava scrivere: Non volevamo affibbiare niente a quelli che se l'erano svignata. Ma non volevamo neanche addossarci la colpa di aver fatto qualcosa di sbagliato». «Lei dice, dunque, che loro hanno pensato tutte insieme. E chi è stato a scrivere?». «Tu!». L'altra imputata puntò di nuovo il dito contro Hanna. «No, non ho scritto io. E' poi importante sapere chi ha scritto?». Un procuratore propose di far confrontare a un perito la scrittura del rapporto e la scrittura dell'imputata Schmitz. «La mia scrittura? Lei vuole che la mia scrittura...». Il presidente, il procuratore e il difensore di Hanna si misero a discutere se una scrittura potesse mantenere la sua identità per più di quindici anni e se fosse quindi possibile riconoscerla. Hanna stava ascoltando e un paio di volte cercò di dire o chiedere qualcosa, era sempre più allarmata. Alla fine disse: «Non c'è bisogno che facciano chiamare un perito. Ammetto che l'ho scritto io il rapporto». 10. Dei seminari del venerdì non ho alcun ricordo. Anche quando ripenso al dibattimento, non mi viene in mente quel che poi veniva rielaborato scientificamente. Di che cosa discutevamo? Che cosa volevamo sapere? Su che cosa intendeva illuminarci il docente? Ma rammento bene le domeniche. Le giornate trascorse in tribunale mi mettevano addosso una voglia mai provata di colori e odori della natura. Il venerdì e il sabato recuperavo ciò che avevo trascurato negli studi gli altri giorni, quanto meno per poter tener dietro alle esercitazioni e riuscire a completare il programma del semestre. La domenica sparivo. Heiligenberg, Michaelsbasilika, Bismarckturm, Phiilosophenweg, la riva del fiume: di domenica in domenica variavo solo di poco questo percorso. Lo trovavo sempre abbastanza diverso. Mi bastava vedere il verde di settimana in settimana più intenso e la piana del Reno ora nella foschia della calura, ora dietro il velo della pioggia, ora sotto un cielo da temporale: mi bastava sentire nel bosco l'odore dei frutti e dei fiori quando il sole scottava e l'odore della terra e delle foglie dell'anno prima che marcivano, quando pioveva. In genere non ho bisogno di tanta varietà né la cerco: il prossimo viaggio un poco più in là dell'ultimo, la prossima vacanza nel posto che ho scoperto non lontano dall'ultimo e m'è piaciuto. Per un certo tempo mi sono riproposto di essere un po' più audace, sforzandomi di andare a Ceylon, in Egitto o in Brasile; ma poi sono tornato nei luoghi a me famigliari per rendermeli ancor più famigliari. Là riesco a vedere di più. Ho ritrovato il punto nel bosco dove mi si svelò il segreto di Hanna. Non ha niente di particolare e neanche allora aveva niente di particolare: non un albero strano o una strana roccia, non una veduta insolita sulla città e sulla pianura, niente di ciò che può portare a sorprendenti associazioni d'idee. Pensando ad Hanna, girando di settimana in settimana nel medesimo circuito, si era isolato dagli altri un pensiero che aveva seguito un suo percorso per poi produrre un suo risultato. E quando

giunse al traguardo, il traguardo era raggiunto: sarebbe pertanto potuto capitare ovunque - o comunque in qualsiasi punto in cui la famigliarità con l'ambiente e le circostanze lo consentono - di cogliere il dato sorprendente che non ti colpisce dall'esterno ma cresce a poco a poco dentro di te. Così capitò lungo un sentiero che sale ripido su per il monte, taglia la carrozzabile, passa oltre una fonte, porta prima tra vecchi alberi alti e scuri e poi attraversa una rada boscaglia. Hanna non sapeva leggere né scrivere. Per questo si faceva leggere ad alta voce. Per questo, durante il nostro viaggio in bicicletta, aveva lasciato a me il compito di scrivere e di leggere, e per questo era fuori di sé quella mattina in albergo quando aveva trovato il mio biglietto e quindi presentiva che mi aspettavo che lei ne conoscesse il contenuto e temeva perciò di scoprirsi. Per questo aveva rifiutato la promozione all'azienda tranviaria; quella sua debolezza, che come bigliettaia poteva nascondere, sarebbe emersa in tutta evidenza se avesse seguito il corso di formazione per conducenti. Per questo aveva rifiutato la promozione alla Siemens ed era diventata sorvegliante nel Lager. Per questo, pur di evitare il confronto col perito, aveva ammesso di aver scritto lei il rapporto. Era per questo che al processo aveva detto più del dovuto e si era giocata la vita? Era per il fatto di non aver letto né il libro della figlia né l'imputazione che non aveva scorto le possibilità per la sua difesa e non si era quindi adeguatamente preparata? Era per questo che aveva spedito le sue protette ad Auschwitz? Per chiudere loro la bocca, nel caso in cui avessero notato qualcosa? Ed era per questo che aveva scelto i deboli come suoi protetti? Per questo? Che lei si vergognasse di non saper né leggere né scrivere e avesse preferito sconcertarmi anziché scoprirsi, lo potevo capire. Sapevo anch'io quanto la vergogna possa esser causa di un comportarmento elusivo, difensivo, dissimulatore e depistante, perfino offensivo. Ma la vergogna di non saper leggere e scrivere può essere la causa del comportamento di Hanna al processo e nel Lager? Per paura di figurare come analfabeta, figurare come criminale? Il crimine per paura di figurare come analfabeta. Quante volte, allora e da allora, mi sono posto queste domande. Se il motivo dominante di Hanna era stata la paura di scoprirsi, perché non esporsi inoffensivamente da analfabeta anziché orribilmente da criminale? O pensava forse di cavarsela senza esporsi in alcun modo? Era semplicemente stupida? Ed era stata magari tanto boriosa e malvagia da diventare una criminale per evitare di scoprirsi? Allora e da allora ho sempre rifiutato queste ipotesi. No, mi dicevo, Hanna non si è decisa per il crimine. Si era decisa contro la promozione alla Siemens e pertanto era finita a fare la sorvegliante. No, non aveva spedito ad Auschwitz le ragazze deboli e delicate perché loro avevano letto per lei: le aveva scelte per leggere perché voleva render loro sopportabile l'ultimo mese, prima che finissero comunque ad Auschwitz. No, Hanna non soppesò, al processo, i pro e i contro del figurare come analfabeta o come criminale. Non fece calcoli, non adottò tattiche. Lei accettò la resa dei conti; solo che non voleva, per giunta, mettersi a nudo. Non perseguì il suo interesse personale, ma lottò per la sua verità e la sua giustizia. E queste, siccome doveva sempre dissimularsi un po', siccome non poteva mai aprirsi del tutto né mai essere del tutto sé stessa, erano una misera verità e una misera giustizia, ma erano le sue, e la lotta che comportarono fu pertanto la sua lotta. Doveva essere sfinita. Non aveva lottato solo al processo. Lei aveva lottato sempre, e non per dimostrare ciò che sapeva fare, ma per nascondere quel che non sapeva. Una vita in cui le avanzate si risolvono in decise ritirate e le vittorie in sconfitte occultate. Mi fece una strana impressione la discrepanza tra ciò che doveva aver dato da pensare ad Hanna dopo aver lasciato la mia città e ciò che allora io mi ero figurato. Ero convinto di averla scacciata perché l'avevo tradita e rinnegata, mentre lei aveva semplicemente evitato di scoprirsi all'azienda tranviaria. Ma il fatto che non l'avessi scacciata non toglieva che io l'avessi tradita. Ero quindi in ogni caso colpevole. E se non ero colpevole perché tradire una criminale non può renderti colpevole, ero colpevole perché avevo amato una criminale. 11.

Dal momento che Hanna aveva ammesso di aver scritto il rapporto, le altre imputate ebbero gioco facile. Se non aveva agito da sola, Hanna aveva dunque spinto, minacciato, costretto le altre ad agire. Aveva preso lei il comando. Aveva scritto e parlato lei in nome di tutte. Aveva deciso tutto lei. Gli abitanti del villaggio, chiamati a deporre come testi, non poterono né confermare né contestare la cosa. Avevano visto che la chiesa in fiamme era sorvegliata da diverse donne in uniforme e che non era stata aperta, e per questo non avevano osato aprire loro stessi le porte. Il giorno dopo avevano incontrato le donne al momento della loro partenza, e ora le riconoscevano nelle imputate. Ma quale fosse l'imputata che aveva dato il tono quella mattina, o se una delle accusate avesse dato il tono, loro non erano in grado di dirlo. «Ma loro non possono escludere che quell'imputata» e il difensore di una delle altre accusate indicò Hanna, «abbia preso lei le decisioni». No, non potevano escluderlo - e perché dovevano, del resto - né tanto meno volevano escluderlo, di fronte alle altre imputate visibilmente più anziane, più stanche, più vili e più amareggiate. A confronto delle altre, Hanna era chiaramente il capo. Oltre tutto l'esistenza di un capo scagionava gli abitanti del villaggio: non aver fornito soccorsi in presenza di un'unità con tanto di comandante, faceva un'impressione migliore che non essere intervenuti in presenza d'un gruppo di donne smarrite. Hanna continuò a lottare. Ammise ciò che rispondeva al vero, e contestò ciò che non era vero. Contestava con un'irruenza sempre più accanita, disperata. Non alzò comunque mai la voce. Ma bastava l'intensità con cui parlava per sconcertare la corte. Alla fine cedette. Ormai parlava soltanto quando veniva interrogata, e le risposte erano brevi, scarne, a volte distratte. Quasi per dare a vedere che aveva ceduto, ora restava seduta quando parlava. Il presidente, che all'inizio del dibattimento le aveva detto più volte che poteva starsene seduta, non essendoci alcun bisogno di rimanere in piedi, prese atto anche di questo con un certo sbigottimento. A volte, verso la fine del dibattimento, avevo l'impressione che la corte ne avesse abbastanza, che volesse finalmente concludere, non essere più lì, in causa, ma altrove, di nuovo nel presente dopo lunghe settimane nel passato. Anch'io ne avevo abbastanza. Ma io non potevo lasciarmi la cosa alle spalle. Per me il processo non stava finendo, ma cominciando. Ero stato uno spettatore e all'improvviso ero diventato un partecipante, uno che concorreva a decidere. Questo nuovo ruolo non l'avevo cercato né scelto, ma ormai ce l'avevo, che volessi o no, che facessi qualcosa o restassi del tutto passivo. Bastava fare qualcosa. E si trattava solo di una cosa. Potevo andare dal presidente della corte e dirgli che Hanna era analfabeta. Che lei non era l'attrice principale né la principale colpevole, come le altre volevano farla apparire. Che il suo comportamento al processo non significava una particolare incorreggibilità o irragionevolezza o impudenza, ma derivava da una scarsa conoscenza dell'imputazione e del manoscritto, e anche dalla mancanza di qualsiasi senso strategico o tattico. Che col suo modo di difendersi si era notevolmente danneggiata. Che era colpevole, sì, ma non tanto quanto sembrava. Forse non sarei riuscito a convincere il presidente. Ma lo avrei indotto a riflettere e a indagare. E alla fine sarebbe emerso che avevo ragione, e Hanna sarebbe stata sì punita, ma in misura minore. Sarebbe certo finita in carcere, ma avrebbe potuto uscire prima, tornare libera prima: non era per questo che lei lottava? Sì, era per questo che lottava, ma non aveva intenzione di pagare il successo al prezzo di mettersi a nudo come analfabeta. Né tanto meno avrebbe voluto che io vendessi, per qualche anno di carcere in meno, l'immagine che aveva dato di sé. Uno scambio del genere poteva farlo anche lei, ma non l'aveva fatto, quindi non intendeva farlo. Per lei, la sua immagine valeva gli anni di carcere. Ma ne valeva veramente la pena? Che gliene veniva da questa immagine falsa, che la incatenava, la paralizzava, le impediva di evolversi? Con l'energia che le era costata la bugia della sua vita, avrebbe potuto imparare da un pezzo a leggere e scrivere. Quella volta avevo cercato di esporre il problema a degli amici. Immàginati qualcuno che corre verso la sua rovina, deliberatamente, e tu sai di poterlo salvare: lo salveresti? Immàginati un'operazione e un paziente che prende delle droghe incompatibili con l'anestesia, ma che si

vergogna di essere un drogato e non vuol dirlo all'anestesista: parleresti con l'anestesista? Immàginati un processo e un imputato che sarà condannato, se non dichiara di essere mancino e in quanto tale non può aver commesso il delitto compiuto con la mano destra, ma che si vergogna di essere mancino: diresti al giudice come stanno le cose? Immàginati che sia un invertito e che non possa aver commesso il delitto in quanto invertito, ma si vergogni di esserlo. Non conta tanto il fatto che ci si vergogni di essere un mancino o un invertito: immàginati semplicemente che l'imputato si vergogna. 12. Decisi di parlare con mio padre. Non perché noi fossimo tanto in confidenza. Mio padre era un uomo chiuso. Con noi, figli, non riusciva a comunicare i suoi sentimenti, né sapeva come comportarsi con i sentimenti che gli dimostravamo. Per tanto tempo immaginai ricchezze rimaste intatte dietro quel suo comportamento poco comunicativo. Ma più tardi mi chiesi se là dietro c'era veramente qualcosa. Forse da ragazzo e da giovane era ricco di sentimenti, e con gli anni, non avendoli espressi, li aveva lasciati inaridire e morire. Ma era proprio per la distanza che esisteva tra noi che cercai il dialogo con lui. Cercavo di dialogare col filosofo che aveva scritto su Kant e su Hegel, dei quali sapevo che si erano occupati di questioni morali. Lui sarebbe stato anche in grado di trattare in astratto il mio problema, sorvolando, a differenza dei miei amici, sulle lacune dei miei esempi. Quando noi, figli, volevamo parlare a nostro padre, lui ci dava udienza come ai suoi studenti. Lavorava a casa e andava all'università solo per tenere i suoi corsi e i seminari. Colleghi e studenti che volevano parlargli, venivano da lui in casa. Mi ricordo file di studenti in corridoio appoggiati alla parete, in attesa che venisse il loro turno: alcuni leggevano, altri osservavano le vedute della città appese in corridoio, altri guardavano nel vuoto, tutti muti, tranne un saluto imbarazzato quando noi figli passavamo in corridoio salutando. Noi, comunque, non aspettavamo in corridoio, quando nostro padre ci dava udienza. Ma anche noi, all'ora stabilita, bussavamo alla porta del suo studio e venivamo chiamati dentro. Sono due gli studi di mio padre che ho conosciuto. Le finestre del primo, dove Hanna aveva passato in rassegna i libri col dito, davano su strade e case. Quelle del secondo si affacciavano sulla piana del Reno. La casa in cui avevamo traslocato agli inizi degli anni sessanta, e dove poi i miei genitori rimasero quando noi figli eravamo ormai grandi, si trovava al di sopra della città, su un pendio. Qui come là, le finestre non ampliavano lo spazio verso il mondo di fuori, ma sembravano dei quadri appesi nella stanza. Lo studio di mio padre era un abitacolo in cui libri, carte, pensieri e fumo di pipa e sigari avevano creato delle condizioni ambientali proprie, diverse da quelle del mondo esterno, che mi erano al contempo famigliari ed estranee. Mio padre mi fece esporre il mio problema, in versione astratta e con gli esempi. «Ha a che fare col processo, non è vero?». Ma scosse la testa per farmi capire che non si aspettava una risposta, né intendeva sondarmi per sapere qualcosa in più di quel che io gli avevo o avrei detto. Poi si sedette, con la testa inclinata di lato, stringendo i braccioli con le mani, e si mise a pensare. Lui non mi guardava. E io stavo osservando lui, i suoi capelli grigi, le guance come sempre mal rasate, le rughe marcate tra gli occhi e dalle alette del naso agli angoli della bocca. Aspettavo. Quando cominciò a parlare, la prese alla larga. Mi illustrò i concetti di persona, libertà e dignità, mi parlò dell'uomo come soggetto e del fatto che non si ha il diritto di renderlo un oggetto. «Ti ricordi ancora come ti ribellavi da ragazzino, quando la mamma mostrava di sapere meglio di te quel che era bene per te? Già sapere fino a che punto si abbia il diritto di comportarsi così con i bambini, è un vero problema. E' un problema filosofico, ma la filosofia non si occupa dei bambini. Li ha abbandonati alla pedagogia, dove non sono in buone mani. La filosofia ha dimenticato i bambini», e mi sorrise, «per sempre, non solo per qualche volta, come io voi». «Ma...». «Ma negli adulti non vedo assolutamente alcuna giustificazione per il fatto di porre ciò che un altro ritiene sia bene per loro al di sopra di ciò che loro stessi ritengono sia bene per loro».

«Neanche se in futuro loro saranno felici grazie a ciò?». Scrollò la testa. «Non stiamo parlando di felicità, ma di dignità e libertà. Già da ragazzino sapevi qual era la differenza. Non ti confortava il fatto che la mamma avesse sempre ragione». Ora ripenso con piacere a quel colloquio con mio padre. L'avevo dimenticato fino a quando, dopo la sua morte, cominciai a cercare nel deposito della memoria le esperienze importanti e i begli incontri avuti con lui. Quando lo ritrovai, lo considerai, stupito e contento. Quella volta mi aveva confuso, sulle prime, quel miscuglio di astrazione e concreta chiarezza che veniva da mio padre. Ma alla fine riuscii a raccapezzarmi con ciò che aveva detto, comprendendo che non dovevo parlare col giudice, che non avevo il diritto di parlare con lui, e mi sentii rasserenato. Mio padre mi guardò. «Allora, ti piace la filosofia?». «Be' sì, io non sapevo se nella situazione che ho descritto dovessi agire, e non ero in effetti contento dell'idea che si dovesse, ma se proprio non si ha il diritto di agire, allora trovo che questo sia...». Non sapevo cosa dire. Rasserenante? Rassicurante? Piacevole? Questo non sapeva di morale e responsabilità. Io però trovavo giusto che sapesse di morale e responsabilità, ma non potevo dire che lo trovavo giusto, che lo trovavo ben più che semplicemente rasserenante. «Piacevole?» propose mio padre. Feci sì con la testa e mi strinsi nelle spalle. «No, il tuo problema non ha una soluzione piacevole. Naturalmente bisogna agire, se la situazione da te descritta è una situazione di responsabilità più ampia o più coinvolgente. Quando si sa cosa sia bene per l'altro e si vede che lui chiude gli occhi di fronte a ciò, bisogna cercare di aprirglieli. Bisogna lasciargli sì l'ultima parola, ma bisogna parlare con lui: con lui, non alle sue spalle con qualcun altro». Parlare con Hanna? Cosa le avrei detto? Che avevo intuito la bugia della sua vita? Che stava per sacrificare tutta la sua vita a una stupida bugia? Che quella bugia non valeva quel sacrificio? Che doveva lottare per non restare in carcere più a lungo del dovuto, perché poi poteva fare ancora molto per la sua vita? Ma che cosa? E se molto, abbastanza o poco: che doveva farne della sua vita? Potevo strapparla alla bugia della sua vita senza schiuderle una prospettiva di vita? Io non sapevo proporgliene una a lungo termine, e non sapevo nemmeno come affrontarla e come parlarle, né se fosse giusto che la sua prospettiva di vita significasse, dopo quel che aveva fatto, il carcere a breve o medio termine. Non sapevo come affrontarla e cosa dirle. Non sapevo assolutamente come affrontare Hanna. Chiesi a mio padre: «E che succede se non si può parlare con lui?». Mi guardò dubbioso. E io sapevo bene che la domanda non aveva fatto altro che girare attorno alla cosa. Non c'era più niente su cui moraleggiare. Dovevo soltanto decidermi. «Non sono stato in grado di aiutarti». Mio padre si alzò, e mi alzai anch'io. «No, non devi mica andartene, mi fa solo male la schiena». Stava chinato, con le mani premute sulle reni. «Non posso dire che mi dispiace di non essere in grado di aiutarti. Come filosofo mi ritengo colui che tu hai interpellato. Come padre trovo il fatto di non poter aiutare i miei figli pressoché insopportabile». Aspettai, ma lui non disse altro. Trovavo che se la cavasse a buon mercato; sapevo bene quando avrebbe potuto occuparsi un po' più di noi e come avrebbe potuto aiutarci. Poi pensai che forse lo sapeva benissimo e gli pesava parecchio. Ma in un modo o nell'altro non riuscii a dirgli niente. Mi sentivo imbarazzato e avevo la sensazione che anche lui lo fosse. «Va be', poi...». «Puoi venire quando vuoi». Mio padre mi guardò. Non gli credevo e annuii. 13. In luglio la corte prese l'aereo per Israele programmando due settimane di trasferta. L'escussione della teste era cosa di pochi giorni. Ma giudici e procuratori abbinarono il giuridico al turistico, con Gerusalemme e Tel Aviv, Negev e Mar Rosso. Ragioni di servizio, ferie e spese legali erano tutt'uno e tutto a posto. Mi sembrava comunque bizzarro. Avevo deciso di dedicare le due settimane interamente allo studio. Ma non andò come mi ero

prefisso e figurato. Non riuscivo a concentrarmi, né sui docenti né sui libri. I pensieri mi s'involavano di continuo per perdersi in immagini. Vedevo Hanna vicino alla chiesa in fiamme, faccia dura, uniforme nera e frustino. Col frustino traccia cerchi nella neve e batte sugli stivali. La vedevo farsi leggere. Ascolta attenta, non fa domande né osservazioni. Quando l'ora è finita, comunica alla lettrice che l'indomani andrà ad Auschwitz col trasporto. La lettrice, una creatura gracile dai capelli ispidi e neri, coi suoi occhi miopi si mette a piangere. Hanna batte con la mano sul muro, e due donne, anche loro detenute vestite a strisce, entrano e trascinano fuori la lettrice. Vedevo Hanna passare per le vie del Lager, entrare nelle baracche, sorvegliare i lavori in cantiere. Fa tutto con la stessa faccia dura, gli stessi occhi freddi, la stessa bocca tirata, e le detenute si sottomettono, s'incurvano sul lavoro, si premono contro il muro, nel muro, vogliono sparire dentro il muro. A volte molte detenute si radunano o corrono qua e là o si mettono in fila o marciano, e Hanna è lì che grida ordini, la faccia stravolta in una smorfia, mentre si aiuta col frustino. Vedevo il campanile crollare sul tetto della chiesa e schizzare le scintille e sentivo la disperazione urlata dalle donne. Vedevo la chiesa bruciata il giorno dopo. Accanto a queste immagini vedevo le altre. Hanna che in cucina s'infila le calze, che davanti alla vasca da bagno regge l'asciugamano, che con la gonna al vento va in bicicletta, che sta lì ferma nello studio di mio padre, che danza davanti allo specchio, che in piscina guarda verso di me; Hanna che mi ascolta, che mi parla, che mi sorride, che mi ama. Il brutto era quando le immagini finivano per confondersi. Hanna che con gli occhi freddi e la bocca tirata fa l'amore con me, Hanna che mi ascolta leggere muta e alla fine mi sbatte con la mano contro il muro, Hanna che mi parla e intanto il suo viso si tramuta in una smorfia. Ma il peggio erano i sogni in cui un'Hanna dura, dominante e crudele mi eccitava sessualmente. Sogni dai quali mi svegliavo pieno di desiderio, vergogna e rabbia. E in preda alla paura di sapere chi ero veramente. Io sapevo che quelle fantasticherie erano solo miseri clichés, che non rendevano giustizia all'Hanna che avevo conosciuto e conoscevo. Nondimeno erano potenti, di una forza tale da frantumare le immagini di Hanna ricordate e da fondersi con le immagini del Lager che io avevo in testa. Se ora penso agli anni di allora, mi colpisce quanto poco ci fosse in realtà da vedere, quante poche immagini illustrassero la vita e la morte nei Lager. Conoscevamo di Auschwitz il portale con la sua scritta, i pancacci di legno a più piani, i mucchi di capelli, occhiali e valigie; di Birkenau l'entrata con la torre, i corpi laterali e il passaggio per i treni; e da Bergen-Belsen ci venivano le montagne di cadaveri trovate e fotografate dagli alleati al momento della liberazione. Conoscevamo alcune testimonianze di detenuti, ma molti libri apparvero subito dopo la guerra e vennero ristampati solo negli anni Ottanta, visto che nel frattempo non rientrarono nei programmi delle case editrici. Ora ci sono così tanti libri e film che il mondo dei Lager fa ormai parte dell'immaginario collettivo che completa il mondo reale. La fantasia lo conosce ormai bene, e a partire dalla serie televisiva "Olocausto" e da film come "La scelta di Sophie" e soprattutto "Schindler's List" si muove anche in quel mondo. E non ne prende solo atto, ma integra e abbellisce. Allora la fantasia stentava a muoversi, riteneva che allo sgomento di cui era debitrice al mondo dei Lager non si confacessero le movenze della fantasia. Quelle poche immagini che doveva alle foto degli alleati e alle testimonianze dei detenuti, le ha poi guardate e riguardate, fino a farne dei clichés. 14. Decisi di partire. Se dall'oggi al domani fossi potuto andare ad Auschwitz, l'avrei fatto. Ma per avere il visto ci volevano settimane. Perciò andai allo Struthof in Alsazia. Era il campo di concentramento più vicino. Non ne avevo mai visto uno. Volevo spazzar via i clichés con la realtà. Feci l'autostop e mi ricordo di aver viaggiato in un camion dove il conducente si scolava un bottiglia di birra dopo l'altra, e rammento anche un autista in Mercedes che guidava coi guanti bianchi. Dopo Strasburgo avevo avuto fortuna: la macchina andava a Schirmeck, una cittadina non lontana dallo Struthof. Quando dissi all'autista dove stavo andando esattamente, tacque di colpo. Guardai verso di lui, ma

non riuscii a leggere sul suo volto per quale ragione si era d'un tratto ammutolito nel bel mezzo di un'animata conversazione. Era un uomo di mezza età, aveva un viso scarno, una voglia o una bruciatura rossocupa sulla tempia destra e capelli neri spioventi, accuratamente pettinati con la riga in mezzo. Guardava concentrato la strada. Davanti a noi i Vosgi si stendevano già a colline. Attraversammo dei vigneti in una valle che si apriva ampia e saliva dolcemente. A destra e a sinistra un bosco misto risaliva i pendii, poi una cava, una fabbrica in mattoni col tetto a shed, una vecchia casa di cura, una grande villa con tante torrette tra alberi alti. Ora a destra, ora a sinistra ci accompagnava una linea ferroviaria. Poi riprese a parlare. Mi chiese perché andavo a visitare lo Struthof, e io gli dissi del processo e del mio bisogno di vedere dal vero. «Ah, lei vuol capire perché gli uomini possono fare delle cose tanto tremende». Era un po' ironico il tono. Ma forse erano soltanto le sfumature dialettali della voce e della lingua. Prima ancora che potessi rispondere, continuò: «Ma cosa vuol capire veramente. Che si uccide per passione, per amore o per odio oppure per onore o per vendetta, mi capisce?». Annuii. «E lei capisce anche che si uccide per diventare ricchi o potenti? Che si uccide in guerra o durante una rivoluzione?». Annuii ancora. «Ma...». «Ma quelli che son stati ammazzati non avevano fatto niente a quelli che li hanno ammazzati: è questo che vuol dire? Vuol forse dire che non esistono motivi né guerre per odiare?». Non intendevo più annuire. Quel che diceva andava bene, ma non andava il modo in cui lo diceva. «Ha ragione, non esistono guerre né motivi per odiare. Ma anche il boia non odia quello che sta giustiziando, eppure lo giustizia. Perché glielo hanno ordinato? Lei pensa che lo faccia perché glielo hanno ordinato? E lei pensa che adesso io le parli di ordini e obbedienza e del fatto che le guardie dei Lager ricevevano degli ordini e dovevano obbedire?». Si mise a ridere sprezzante. «No, io non parlo di ordini e obbedienza. Il boia non esegue degli ordini. Lui fa solo il suo lavoro, non odia quelli che giustizia, non si vendica su di loro, non li ammazza perché gli sono d'intralcio o lo minacciano o l'aggrediscono. Loro gli sono del tutto indifferenti. Gli sono talmente indifferenti che potrebbe ucciderli come non ucciderli». Mi guardò. «Nessun "ma"? Su, lo dica che un uomo non può essere talmente indifferente a un altro. Non glielo hanno insegnato? La solidarietà con tutto quanto ha un volto umano? La dignità dell'uomo. Il profondo rispetto per la vita?». Ero indignato e impotente. Cercavo una parola, una frase che potesse scancellare quel che aveva detto e gli tappasse la bocca. «Una volta», continuò, «ho visto la fotografia di una fucilazione di ebrei in Russia. Gli ebrei stanno aspettando nudi in lunga fila, alcuni sono sull'orlo di una fossa, e alle loro spalle ci sono dei soldati coi fucili che gli sparano nella nuca. La scena si svolge in una cava, e al di sopra degli ebrei e dei soldati, seduto in cima a un muro, c'è un ufficiale con le gambe ciondoloni che si fuma una sigaretta. Ha l'aria un po' seccata. Forse gli pare che non si proceda abbastanza in fretta. Ma sul suo viso c'è un che di contento, anzi, di soddisfatto, forse perché la giornata di lavoro sta pur sempre finendo e presto sarà sera. Lui non odia gli ebrei. Lui non è...». «Era lei? Era lei che stava seduto su quel muro e...». Fermò la macchina. Era sbiancato, e il marchio sulla tempia sfolgorava. «Fuori!». Scesi dalla macchina. E lui sterzò così di brutto che dovetti fare un salto. Lo sentii sgommare anche qualche curva più in là. Poi silenzio. Salii su per la strada. Non un'auto che mi superasse, non una che mi venisse incontro. Sentivo gli uccelli, il vento tra gli alberi, a tratti il mormorìo di un ruscello. Respiravo libero. Dopo un quarto d'ora ero al campo di concentramento. 15. Di recente ci sono tornato un'altra volta, in macchina. Era inverno, una giornata limpida e fredda.

Dopo Schirmeck il bosco era innevato, gli alberi spolverati di bianco e il terreno tutto bianco. L'area del campo di concentramento, una superficie allungata a terrazze digradanti sul fianco di un monte con ampia veduta sui Vosgi, si stendeva bianca nella luce del sole. Il legno dipinto in grigiazzurro delle torrette di guardia a due o tre piani e delle baracche a un piano produceva un simpatico contrasto con la neve. Certo, c'era il portale sbarrato a rete metallica con sopra la scritta «Campo di concentramento Struthof-Natzweiler» e la doppia recinzione di filo spinato che correva attorno al Lager; ma il terreno tra le baracche rimaste, sul quale originariamente se ne ammassavano molte altre, non consentiva di riconoscere l'assetto di un Lager, sotto il manto di neve scintillante. Poteva essere benissimo una pista per slittare, fatta apposta per dei bimbi che trascorrono le vacanze invernali in quelle simpatiche baite con le loro finestrelle da fiaba, dove li aspetta la cioccolata calda coi biscotti. Il Lager era chiuso. Perciò scalpicciai nella neve fino a ritrovarmi i piedi bagnati. Potevo vedere bene l'intera area e mi ricordo come allora, alla mia prima visita, me n'ero andato scendendo le file di gradini poste tra i muri di fondazione delle baracche smantellate. Mi ricordo anche dei forni crematori, che allora erano esposti in una baracca, e rammento che in un'altra c'erano le celle. Ricordo quanto sia stata inutile la mia visita di allora, visto che volevo figurarmi un Lager al completo, con i suoi detenuti, le sue guardie, le sue sofferenze. Ci provai sul serio: guardai una baracca, chiusi gli occhi e allineai una baracca dopo l'altra. Ne misurai una, calcolando da fuori come poteva esser sistemata dentro, e mi figurai l'angustia di quegli alloggiamenti. Mi avevano detto che i gradini tra le baracche servivano anche come piazzole per l'appello, e così, guardando dall'alto in basso l'intero Lager, lo riempii di schiene messe in fila. Ma fu tutto inutile, ed ebbi la sensazione di un penoso, vergognoso fallimento. Scendendo in macchina per tornare a casa, in fondo al pendio trovai una casetta dirimpetto a un ristorante, segnalata come camera a gas. Era tinteggiata di bianco, aveva porte e finestre contornate d'arenaria, e avrebbe potuto essere un fienile o una rimessa oppure un alloggio per i domestici. Anche questa casa era chiusa, ma ricordo di esserci entrato allora, la prima volta. Non scesi dalla macchina. Rimasi lì fermo a motore acceso, a guardare per un po'. Poi proseguii. Sulla via del ritorno, da principio ebbi un certo timore a vagare tra i villaggi dell'Alsazia in cerca di un ristorante in cui pranzare. Il timore non era però dovuto a un vero sentire, ma a considerazioni sul come ci si doveva sentire dopo aver visitato un campo di concentramento. Me ne resi conto, diedi un'alzata di spalle e in un villaggio sulle falde dei Vosgi trovai il ristorante «Au Petit Garçon». Dal mio tavolo potevo vedere in basso la piana. «Ragazzino», mi aveva soprannominato Hanna. Durante la mia prima visita avevo girato per tutto il Lager fino all'ora di chiusura. Dopo, mi ero seduto ai piedi del monumento che sorge in alto, sopra il campo di concentramento, e avevo guardato il Lager in tutta la sua estensione. Sentivo un gran vuoto in me. Ed era come se dopo aver preso visione dovessi cercare e constatare in me, e non là fuori, che dentro me non c'era niente da trovare. Poi si fece buio. Dovetti aspettare un'ora prima che si fermasse un camioncino e mi facessero salire sul cassone, portandomi al villaggio più vicino. Rinunciai a tornare in giornata con l'autostop e trovai una stanza economica in una locanda, dove nella saletta mangiai una bistecca sottile con patatine fritte e piselli. Al tavolo vicino quattro uomini giocavano a carte facendo un gran chiasso. La porta si aprì e, senza salutare, entrò un ometto anziano. Indossava dei calzoni corti e aveva una gamba di legno. Al banco ordinò una birra. Voltava le spalle e la sua testona pelata al tavolo vicino. I giocatori mettevano giù le carte, allungavano la mano verso il posacenere, prendevano i mozziconi, gettavano e raccoglievano. L'uomo al banco sventolava le mani dietro la testa, come volesse scacciar via delle mosche. L'oste gli servì la birra. Nessuno diceva niente. Non reggevo più. Mi alzai di scatto e fui al tavolo vicino. «E' ora di finirla!». Fremevo di rabbia. In quel momento l'uomo si avvicinò zoppicando a saltelli, armeggiò con la gamba di legno, l'afferrò con entrambe le mani, la sbatté sul tavolo con tale fracasso da far roteare posacenere e bicchieri, e si lasciò cadere sulla sedia libera. Intanto rideva con la sua bocca sdentata, emettendo una risata stridula, squittente, e gli altri si unirono a lui, con una roboante risata da birra. «E' ora di finirla!» e

ridevano indicando me. «E' ora di finirla!». Durante la notte imperversò il vento attorno alla locanda. Non avevo freddo, e l'ululare del vento, il crepitare dell'albero davanti alla finestra e lo sbattere a tratti di un'imposta non erano tanto forti da non poter dormire. Ma dentro mi sentivo sempre più inquieto, tanto che poi mi misi a tremare anche fuori, con tutto il corpo. Avevo paura, non perché mi aspettavo che succedesse qualcosa di brutto, ma per la situazione emotiva che stavo vivendo fisicamente. Ero lì disteso, udivo il vento, mi sentivo sollevato quando calava, temevo che riprendesse e non sapevo come mi sarei svegliato il mattino dopo, come sarei tornato in autostop, come avrei proseguito gli studi e come un giorno avrei trovato un mestiere, preso moglie e avuto dei figli. Volevo al contempo comprendere e condannare il crimine commesso da Hanna. Ma era troppo orrendo per riuscirci. Se cercavo di comprenderlo, avevo la sensazione di non poterlo più condannare come meritava di essere condannato. E se lo condannavo come meritava di essere condannato, non rimaneva più spazio per la comprensione. Ma io volevo comprendere Hanna; non comprenderla significava tradirla un'altra volta. Non riuscivo a venirne a capo. Volevo prender posizione nei confronti delle due cose insieme: comprendere e condannare. Ma insieme non era possibile. Il giorno dopo era di nuovo una stupenda giornata d'estate. Fu facile fare l'autostop, e in poche ore fui di ritorno. Andai camminando per la città come se fossi stato via per tanto tempo; le strade, le case, le persone mi erano estranee. Ma non per questo il mondo estraneo del Lager mi si era fatto più vicino. Le mie impressioni dello Struthof si aggiunsero alle poche immagini di Auschwitz, Birkenau e Bergen-Belsen che già avevo in me, e con esse s'impietrirono. 16. Poi, però, ci andai dal presidente della corte. Andare da Hanna, no, non lo feci. Ma non far niente, neanche questo potevo sopportarlo. Perché non feci in modo di parlare con Hanna? Lei mi aveva mollato, mi aveva illuso, non era stata quella che io avevo visto in lei o anche solo fantasticato. E chi ero stato io per lei? Il piccolo lettore che lei usava, il piccolo compagno di letto con cui se la spassava? Avrebbe spedito anche me a farmi gassare, se non fosse riuscita a mollarmi ma avesse inteso disfarsi di me? Perché non sopportavo di non far niente? Mi dicevo che dovevo impedire un errore giudiziario. Dovevo far sì che la giustizia trionfasse, malgrado la bugia di Hanna; fosse pure una giustizia pro e contro Hanna, per così dire. Non potevo lasciare Hanna così com'era o come voleva essere. Dovevo smuoverla, avere un qualche influsso, qualche effetto su di lei, se non in modo diretto almeno indiretto. Il presidente sapeva del nostro seminario ed era disposto a concedermi un colloquio dopo un'udienza. Bussai, m'invitò a entrare, mi salutò e mi pregò di sedermi sulla sedia davanti alla scrivania. Lui era seduto alla scrivania in maniche di camicia. La toga pendeva dallo schienale e dai braccioli della seggiola; si era seduto in toga e poi se l'era fatta scivolare di dosso. Aveva un'aria distesa, dava l'impressione di un uomo che ha terminato la sua giornata di lavoro e ne è soddisfatto. Senza quella sua espressione irritata in volto, dietro cui si trincerava durante il dibattimento, aveva un viso da pubblico ufficiale del tutto amabile, intelligente, bonario. Parlò liberamente e mi chiese di questo e di quello. Che cosa ne pensava del processo il nostro seminario, che cosa aveva in mente di fare con i verbali il nostro docente, in quale semestre eravamo, in quale semestre ero io, perché studiavo legge e quando intendevo laurearmi. Non dovevo in nessun caso laurearmi troppo tardi. Risposi alle sue domande. Poi ascoltai lui che mi parlò dei suoi studi e della sua tesi di laurea. Aveva fatto tutto come si deve. Aveva portato a termine regolarmente e con successo le esercitazioni e i seminari richiesti e aveva quindi discusso la tesi. Gli piaceva essere un giurista e fare il magistrato, e se avesse dovuto rifare tutto lo avrebbe fatto nello stesso identico modo. La finestra era aperta. Si sentivano sbattere le porte che davano sul parcheggio e i motori avviarsi. Seguivo le macchine finché il rumore veniva risucchiato nella scia del traffico. Poi, nel parcheggio sgombro, si misero a giocare e gridare dei bambini. A tratti giungeva chiara una singola parola: un

nome, un insulto, un grido d'assenso. Il presidente si alzò e mi salutò. Potevo tornare tranquillamente da lui, qualora avessi avuto altre domande. Anche se avevo bisogno di consigli per i miei studi. E il nostro seminario doveva fargli sapere come interpretava e valutava l'andamento del processo. Attraversai il parcheggio vuoto. Mi feci indicare da un ragazzo la strada per la stazione. I compagni del seminario erano tornati a casa in macchina subito dopo l'udienza, per cui dovevo prendere il treno. Era un accelerato, un treno pendolare, fermava a ogni stazione, e saliva e scendeva gente in continuazione. Ero seduto al finestrino, circondato da viaggiatori, discorsi e odori sempre diversi. Fuori passavano case, strade, automobili, alberi e in lontananza i monti, castelli e cave. Percepivo ogni cosa e non sentivo niente. Non soffrivo più per il fatto che Hanna mi aveva mollato, illuso, usato. Non sentivo neanche più il bisogno di smuoverla. Avvertivo che il torpore con cui avevo registrato gli orrori emersi dal processo si era posato sui sentimenti e sui pensieri delle ultime settimane. Che io ne fossi contento, sarebbe davvero dire troppo. Ma sentivo che era giusto così. Che questo mi consentiva di tornare nel quotidiano, per continuare a viverci. 17. Alla fine di luglio venne pronunciata la sentenza. Hanna ricevette l'ergastolo. Le altre ebbero pene detentive temporali. L'aula era piena come all'inizio del dibattimento. Personale giudiziario, studenti della mia università e di quella locale, una scolaresca, giornalisti dall'interno e dall'estero, e quelli che non mancano mai nei tribunali. C'era rumore in aula. Quando le imputate vennero introdotte, nessuno badò a loro, sulle prime. Ma poi tutti ammutolirono. Per primi fecero silenzio quelli che stavano davanti, vicino alle imputate. Si diedero di gomito e si girarono verso quelli della fila dietro. «Guardate là!», bisbigliarono, e quelli che si misero a guardare fecero silenzio anche loro, si diedero di gomito e si girarono verso quelli alle loro spalle bisbigliando: «Guardate là!». Alla fine regnò il silenzio nell'aula. Non so se Hanna sapesse che aspetto aveva, o se magari volesse avere proprio quell'aspetto. Indossava un tailleur nero sopra una camicetta bianca, e il taglio del vestito e la cravatta la facevano apparire come se indossasse un'uniforme. Non avevo mai visto l'uniforme delle donne che lavoravano per le S.S. Ma io pensai, e tutti i presenti lo pensarono, di avere davanti la divisa e la donna che in quell'uniforme aveva lavorato per le S.S. e aveva fatto tutto ciò di cui era accusata. Tutti ripresero a mormorare. Molti erano udibilmente indignati. Trovavano che Hanna stesse deridendo il processo, la sentenza e anche loro, che erano venuti appunto per sentir pronunciare la sentenza. Alzarono la voce, e alcuni gridarono ad Hanna quel che pensavano di lei. Finché la corte entrò nell'aula e il presidente, con lo sguardo irritato, pronunciò contro Hanna la sentenza. Hanna ascoltò restando in piedi, ben dritta e senza il minimo movimento. Quando venne letta la motivazione della sentenza si mise a sedere e rimase seduta. Non le staccavo gli occhi di dosso, dalla testa e dalla nuca. La lettura durò diverse ore. Quando il processo fu concluso e le imputate vennero condotte fuori, aspettai per vedere se Hanna mi avrebbe guardato. Stavo seduto là, al mio solito posto. Ma lei guardò dritto davanti a sé, al di là di tutto. Era uno sguardo altezzoso, ferito, sperduto e infinitamente stanco. Uno sguardo che non vuol vedere niente e nessuno.

PARTE TERZA. 1. L'estate dopo il processo la passai nella sala di lettura della biblioteca dell'università. Entravo quando la biblioteca apriva e uscivo quando chiudeva. Studiavo con tale accanimento che i sentimenti e i pensieri intorpiditi dal processo rimasero intorpiditi. Evitavo ogni contatto. Uscii di

casa e presi in affitto una stanza. I pochi conoscenti che mi rivolgevano la parola in biblioteca, o quando capitava d'incontrarsi al cinema, li respingevo. Nel semestre invernale non mi comportai in modo molto diverso. Malgrado ciò, alcuni studenti mi chiesero se volevo unirmi al loro gruppo, che andava a sciare passando le vacanze di Natale in un rifugio. Stupito, dissi di sì. Non ero un bravo sciatore. Ma mi piaceva sciare, andavo veloce e riuscivo a tener dietro agli sciatori più esperti. A volte rischiavo brutte cadute e fratture nelle discese che non erano alla mia portata. Lo facevo intenzionalmente. Quanto all'altro rischio, a cui mi esponevo e che poi si avverò, non me ne accorgevo proprio. Non avevo mai freddo. Mentre gli altri sciavano con maglioni e giacche a vento, io scendevo le piste in camicia. Gli altri scrollavano la testa prendendomi in giro. Ma nemmeno i loro premurosi avvertimenti li prendevo sul serio. Non sentivo affatto il freddo. Quando cominciai a tossire, passai alle sigarette austriache. Quando mi prese la febbre, godetti di quello stato. Mi sentivo debole e insieme leggero, e tutte le sensazioni erano beneficamente smorzate, ovattate, rotonde. Mi libravo. Poi la febbre salì troppo e mi portarono all'ospedale. Quando uscii, quel torpore se n'era andato. Tutte le domande, le ansie, i rimproveri e le accuse che mi rivolgevo, tutto l'orrore e tutto il dolore che erano esplosi durante il processo, per intorpidirsi subito dopo, erano tornati e rimasero dov'erano. Non so quale sia la diagnosi dei medici per uno che non sente freddo quando dovrebbe gelare. La mia diagnosi è che l'intorpidimento doveva essersi fisicamente impadronito di me ben prima di lasciarmi, prima che riuscissi a disfarmene. Quando finii gli studi e cominciai il referendariato, venne l'estate del movimento studentesco. Io m'interessavo di storia e sociologia, e in quanto referendario ero ancora abbastanza spesso all'università per trovarmi coinvolto in tutto. Ma essere coinvolto non significava partecipare attivamente: università e riforma universitaria mi erano in fondo tanto indifferenti quanto i vietcong e gli americani. Quanto al terzo e vero tema del movimento studentesco, lo scontro con il passato nazionalsocialista, sentivo nei confronti degli altri studenti una tale distanza da non poter proprio prender parte alle loro riunioni e manifestazioni. A volte penso che lo scontro con il passato nazista non fosse il motivo di fondo, ma soltanto l'espressione del conflitto generazionale, la forza motrice del movimento studentesco. Le aspettative dei genitori, di cui ogni generazione deve liberarsi, venivano semplicemente liquidate col fatto che quei genitori avevano fallito sotto il Terzo Reich, o al più tardi dopo la sua fine. Come potevano aver qualcosa da dire, ai loro figli, quelli che avevano commesso i crimini nazisti, o che avevano visto e finto di non vedere, o che avevano tollerato o addirittura accettato tra loro i criminali dopo il '45! Ma, d'altra parte, il passato nazista costituiva un tema anche per quei figli che non potevano o non volevano rimproverare nulla ai propri genitori. Per loro, lo scontro con un tale passato non si configurava come un conflitto generazionale, ma era il vero e proprio problema. Per quanto ciò avesse o non avesse a che fare, moralmente e giuridicamente, con la colpa collettiva, resta il fatto che per la mia generazione studentesca si trattò di una realtà vissuta. E non riguardava soltanto quel che era successo sotto il Terzo Reich. Il fatto che le tombe degli ebrei venissero imbrattate di croci uncinate, che molti vecchi nazisti agissero nell'ambito della giustizia, dell'amministrazione e dell'università, che la Repubblica federale tedesca non avesse riconosciuto lo Stato d'Israele, che l'emigrazione e la resistenza venissero tramandate meno del modo di vivere nell'adattamento: tutto ciò ci riempiva di vergogna, anche se potevamo puntare il dito sui colpevoli. Puntare il dito sui colpevoli non liberava certo dalla vergogna, ma riusciva a far superare quel patire di vergogna. Convertiva la passività di quel patire in energia, attività, aggressione. E lo scontro con i genitori colpevoli era particolarmente carico di energia. Io non riuscivo a puntare il dito su nessuno. Né tanto meno sui miei genitori, perché a loro non avevo nulla da rimproverare. Quello zelo di far luce che mi aveva fatto condannare mio padre alla vergogna, al tempo del Seminario-Lager, mi era ormai passato e lo sentivo increscioso. Ma ciò che altri appartenenti al mio ambiente sociale avevano fatto, e di cui erano chiaramente colpevoli, era comunque meno grave di quel che aveva fatto Hanna. Dovevo dunque puntare il dito su di lei. Ma puntare il dito su Hanna significava puntarlo su di me. Io l'avevo amata. E l'avevo non solo amata,

ma anche scelta. Cercavo di dirmi che quando avevo scelto Hanna non sapevo niente di quel che aveva fatto. Cercavo di convincermi che allora mi trovavo in quello stato d'innocenza in cui i figli amano i loro genitori. Ma l'amore per i genitori è il solo amore di cui non si è responsabili. E forse si è responsabili anche dell'amore che si prova per i propri genitori. A quel tempo invidiavo gli altri studenti, che si erano staccati dai loro genitori e quindi dall'intera generazione dei colpevoli e di quelli che avevano visto e finto di non vedere e che avevano tollerato e accettato: se loro non erano riusciti a vincere la vergogna, avevano almeno superato il patire di vergogna. Ma da dove veniva quella boriosa sicurezza di sé che spesso riscontravo in loro? Come si poteva provare colpa e vergogna e al contempo esser così boriosamente sicuri di sé? Il distacco dai genitori era soltanto retorica, rumore, chiasso per coprire il fatto che con l'amore per i genitori ci si implicava irrevocabilmente nelle loro colpe? Questi sono ragionamenti fatti dopo. Ma anche dopo non furono di alcun conforto. Come poteva essere un conforto il fatto che il mio patire per amore di Hanna era in un certo senso il destino della mia generazione, il destino dei tedeschi, al quale riuscivo a sottrarmi solo malamente, col quale mi destreggiavo ancor peggio degli altri! Quanto meno mi avrebbe fatto bene, allora, se fossi riuscito a sentirmi parte della mia generazione. 2. Durante il referendariato mi sposai. Gertrud e io ci eravamo conosciuti nel rifugio in montagna. E quando gli altri tornarono a casa dopo le vacanze, lei rimase finché non mi dimisero dall'ospedale, per poi accompagnarmi al ritorno. Anche lei frequentava giurisprudenza: studiammo insieme, sostenemmo insieme l'esame di laurea e insieme diventammo referendari. Ci sposammo quando Gertrud stava aspettando un bambino. Non le ho mai raccontato di Hanna. Chi vuole sentir parlare, pensavo, dei rapporti che l'altro ha avuto prima, se queste storie non sono del tutto finite? Gertrud era intelligente, capace e leale, e se la nostra vita fosse stata quella di condurre una fattoria con molti domestici, molti bambini, molto lavoro e niente tempo l'uno per l'altra, sarebbe stata un'esistenza piena e felice. Ma la nostra vita erano un appartamento di tre locali in un condominio di periferia, nostra figlia Julia e il lavoro di Gertrud e mio come referendari. Non riuscivo mai a smettere di paragonare il mio rapporto con Gertrud con quello avuto con Hanna, e ogni volta che Gertrud e io ci stringevamo tra le braccia avevo la sensazione che la cosa non andava, che lei non andava, che non la sentivo, che non aveva l'odore e il sapore giusto. Pensavo che sarebbe passata. Speravo che sarebbe passata. Volevo liberarmi di Hanna. Ma la sensazione che la cosa non andava non passava mai. Quando Julia ebbe cinque anni, divorziammo. Non riuscivamo più ad andare avanti: ci separammo senza rancore e rimanemmo legati da reciproca lealtà. Mi tormentava il fatto che noi privassimo Julia della sicurezza di cui aveva visibilmente bisogno. Quando Gertrud e io ci ritrovavamo in buona armonia, Julia nuotava in quel buonumore come un pesce nell'acqua. Era nel suo elemento. Quando avvertiva delle tensioni tra noi, si rivolgeva di continuo all'una e all'altro per assicurarsi che ci volevamo e le volevamo bene. Avrebbe desiderato un fratellino e sarebbe stata felice di avere anche altri fratelli e sorelle. Per molto tempo non comprese cosa vuol dire separarsi, e quando venivo in visita voleva che io restassi, mentre quando veniva lei a trovarmi voleva che venisse anche Gertrud. Quando me ne andavo e lei mi guardava dalla finestra con lo sguardo triste mentre salivo in macchina, mi si spezzava il cuore. E avevo la sensazione che ciò di cui la privavamo non era soltanto un suo desiderio, ma anche un suo preciso diritto. Noi, separandoci, l'avevamo defraudata di quel suo diritto, e che noi l'avessimo fatto in comune, non dimezzava affatto la colpa. In seguito ho cercato di impostare meglio le mie relazioni. Mi assicuravo subito di sentire una donna un po' come Hanna: doveva averne un po' l'odore e il sapore, perché l'unione fosse giusta. E parlavo di Hanna. Alle altre donne ho raccontato di me più di quanto non avessi detto a Gertrud, in modo che capissero meglio ciò che poteva parere strano nel mio comportamento e nei miei umori. Ma le donne non vogliono sentirsi dire troppo. Mi ricordo di Helen, una studiosa americana di letteratura, che con fare affabile, senza dir niente, mi carezzava la schiena mentre le raccontavo, e

altrettanto affabile e senza dir niente continuava a carezzare anche dopo che avevo smesso di raccontare. Gesina, una psicanalista, era dell'idea che io dovessi rivedere a fondo il rapporto con mia madre. Non mi stupisce il fatto che mia madre figuri appena nella mia storia? Hilke, una dentista, mi chiedeva in continuazione dei periodi precedenti al nostro incontro, ma dimenticava immediatamente quel che le avevo appena raccontato. E così, ancora una volta, smisi di raccontare. Siccome la verità di ciò che si dice è ciò che si fa, si può anche fare a meno di dire. 3. Quando stavo per dare il secondo esame di stato, morì il docente del Seminario-Lager. Gertrud aveva scorto sul giornale, tra gli annunci mortuari, la notizia del decesso. Il funerale avrebbe avuto luogo al Bergfriedhof. Non volevo andarci? Non volevo. Il funerale era fissato per un giovedì pomeriggio, e i pomeriggi di giovedì e venerdì avevo le prove scritte d'esame. Del resto, non eravamo stati gran che in confidenza, il docente e io. E i funerali non mi andavano proprio. Non volevo poi che qualcuno mi rammentasse il processo. Ma era ormai troppo tardi. Il ricordo s'era già ridestato, e quando quel giovedì uscii dall'esame, era come se avessi un appuntamento col passato che non potevo mancare. Ci andai in tram, cosa che di solito non facevo. Già questo fu un incontro col passato, come il ritorno a un luogo che ti è famigliare ma ha cambiato il suo volto. Quando Hanna lavorava sui tram, c'erano convogli con due o tre vetture, piattaforme in testa e in coda alle vetture, predellini annessi alle piattaforme, sui quali potevi spiccare un balzo quando il tram era già in moto, e c'era anche un cordone che correva lungo il convoglio, col quale il bigliettaio, scampanellando, dava il segnale di partire. D'estate i tram viaggiavano a piattaforme aperte. Il bigliettaio vendeva, bucava e controllava i biglietti, annunciava le fermate, segnalava le partenze, teneva d'occhio i bambini che facevano ressa sulle piattaforme, imprecava con i passeggeri che saltavano su o balzavano giù, e impediva l'accesso alla vettura quand'era piena. C'erano bigliettai allegri, spiritosi, seri, brontoloni e sgarbati. E il temperamento o l'umore del bigliettaio creava spesso l'atmosfera in tram. Che stupido sono stato a temere di spiare Hanna, dopo la mancata sorpresa sul tram per Schwetzingen, per rivederla fare la bigliettaia! Salii sul tram senza bigliettaio e andai al Bergfriedhof. Era una fredda giornata d'autunno con un cielo di foschia, senza nuvole, e un sole giallo che non scaldava più, né faceva male agli occhi a guardarlo. Dovetti cercare un po' prima di trovare la tomba. Passai sotto alberi alti e spogli, tra antiche lapidi. Ogni tanto incontravo un custode o una vecchia con annaffiatoio e cesoia. C'era un gran silenzio, e già da lontano sentii il canto funebre che proveniva dalla tomba del docente. Rimasi in disparte e osservai il piccolo corteo riunito attorno alla tomba. Alcuni erano chiaramente degli isolati, dei tipi originali. L'orazione sulla vita e l'opera del docente rievocava che lui stesso si era sottratto alle costrizioni imposte dalla società e pertanto aveva perso ogni contatto: era rimasto un indipendente per diventare quindi un isolato. Nel gruppo riconobbi uno dei partecipanti al Seminario-Lager; aveva fatto gli esami prima di me, era diventato dapprima avvocato e poi bettoliere, e si era presentato con un lungo cappotto rosso. Mi rivolse la parola quando tutto fu finito, mentre mi stavo dirigendo verso l'uscita del cimitero. «Frequentavamo tutt'e due il seminario, ti ricordi?» «Certo». E ci stringemmo la mano. «Il mercoledì ero sempre al processo, e qualche volta ti ci ho portato in macchina». Si mise a ridere. «Tu c'eri tutti i giorni, tutti i giorni e tutte le settimane. Vuoi dirmelo, adesso, il perché?». Mi guardò in faccia, bonario e sornione, e mi ricordai che quel suo modo di guardare mi aveva colpito già ai tempi del seminario. «M'interessava molto il processo». «T'interessava molto il processo?». Si mise di nuovo a ridere. «Il processo o l'imputata che fissavi in continuazione? L'unica più che passabile. Tutti quanti ci chiedevamo cosa poteva esserci tra te e lei, ma nessuno osava chiedertelo. Allora eravamo tutti terribilmente intuitivi e oltremodo riguardosi. Ti ricordi poi...». Rammentò un partecipante al seminario che era balbuziente o bleso,

che parlava molto e diceva un sacco di fesserie, al quale però prestavamo ascolto come se le sue parole fossero oro colato. Parlò poi di altri partecipanti al seminario, di come erano allora e di cosa facevano adesso. Continuava a raccontare, ma io sapevo che alla fine mi avrebbe chiesto un'altra volta: «E allora che ne è stato di te e di quell'imputata?». Al che non sapevo cosa potevo rispondere, se dovevo negare, ammettere o eludere. Poi arrivammo all'uscita, e lui fece la domanda. Alla fermata stava partendo il tram, e io gridai «Ciao» e corsi via, come se potessi saltare sul predellino; così corsi accanto al tram, picchiai col palmo della mano sulla porta, e accadde quel che non credevo, quel che proprio non speravo. Il tram si fermò, la porta si aprì e io salii. 4. Finito il referendariato dovevo decidermi per una professione. Mi presi un po' di tempo, mentre Gertrud cominciò subito la carriera di magistrato. Lei era piena di lavoro, e tutt'e due eravamo contenti che io restassi a casa per potermi occupare di Julia. Quando Gertrud ebbe superato le difficoltà iniziali e Julia andò all'asilo, venne l'ora di decidere. Mi riusciva difficile. Non mi vedevo in nessuno dei ruoli forensi che avevo vissuto durante il processo contro Hanna. Accusare mi sembrava una semplificazione altrettanto grottesca che difendere, e giudicare era la più grottesca di quelle semplificazioni. Non riuscivo a vedermi neppure nelle vesti di funzionario amministrativo; come referendario avevo lavorato negli uffici della presidenza del Land, e quelle stanze, quei corridoi, quel sentore e quegli impiegati li avevo trovati grigi, sterili e squallidi. Non mi restava tanto da scegliere tra le professioni giuridiche, e non so proprio cosa avrei fatto se un docente di storia del diritto non mi avesse offerto di lavorare con lui. Gertrud diceva che era una fuga, una fuga di fronte alle sfide e alle responsabilità della vita, e aveva ragione. Io stavo fuggendo e mi sentivo sollevato di poter fuggire. Non era poi per sempre, dicevo a lei e a me stesso; ero abbastanza giovane per poter intraprendere, dopo un paio d'anni di storia del diritto, una sicura professione giuridica. Ma fu per sempre. Alla prima fuga seguì la seconda, quando passai dall'università a un istituto di ricerche, dove cercai e trovai una nicchia in cui potevo dedicarmi in pace alla storia del diritto, seguendo i miei interessi senza aver bisogno di nessuno né dar fastidio a nessuno. Fuggire, però, non è solo scappare, ma anche arrivare. E il passato in cui arrivai, come storico del diritto, non era meno pieno di vita del presente. Non è poi neanche, come il profano può forse supporre, che la pienezza della vita passata sia solo da osservare, mentre quella presente puoi condividerla. Far storia vuol dire gettare ponti tra il passato e il presente, tener d'occhio ambo le sponde e agire su entrambe. Uno dei miei campi di ricerca divenne il diritto nel Terzo Reich: e qui si vede chiaramente come passato e presente confluiscono a formare una realtà vitale. Fuggire, qui non è occuparsi del passato, ma concentrarsi deliberatamente sul presente e sul futuro, operazione che non bada all'eredità del passato da cui siamo improntati e con cui dobbiamo vivere. Con questo non voglio celare il piacere che devo all'immergermi in passati la cui importanza per il presente è piuttosto modesta. La prima volta che provai tale piacere fu quando lavorai sulle opere legislative e sui progetti di legge dell'illuminismo. Questi lavori erano sostenuti dalla fede che un ordine buono è applicato al mondo e che il mondo può essere portato a un ordine buono. Vedere come in base a questa fede venissero plasmati articoli di legge come solenni guardiani dell'ordine buono, per poi combinarli in leggi che volevano esser belle e con la loro bellezza intendevano dar prova della loro verità, tutto ciò mi rendeva felice. Per un bel pezzo credetti all'esistenza di un progresso nella storia del diritto; malgrado tremendi rovesci e regressi, confidavo in un'evolversi verso una maggiore bellezza e verità, razionalità e umanità. Ma da quando mi fu chiaro che questa fede è una chimera, mi muovo con una diversa immagine del corso della storia del diritto. Vedo sì che tale fede tende a un fine, ma la meta che raggiunge, dopo molti scossoni, scompigli e abbagli, si rivela il punto di partenza da cui ha preso le mosse e dal quale, non appena arrivata, deve di nuovo partire.

A quel tempo rilessi l'"Odissea", che avevo letto a scuola, per la prima volta, e che ricordavo come la storia di un ritorno. Ma la storia di un ritorno non è. Come potevano i greci, che sapevano che non si entra due volte nello stesso fiume, credere a un ritorno!? Odisseo non ritorna a casa per restarci, ma per partire di nuovo. L'"Odissea" è la storia di un movimento, con meta e senza meta al contempo, vincente e vano al tempo stesso. E' qualcosa di diverso la storia del diritto? 5. Fu con l'"Odissea" che cominciai. La lessi dopo che Gertrud e io ci eravamo divisi. Per molte notti riuscii a dormire solo poche ore; stavo a letto sveglio, e quando accendevo la luce e prendevo in mano un libro, mi si chiudevano gli occhi dal sonno, ma non appena posavo il libro e spegnevo la luce, mi ritrovavo di nuovo sveglio. Così mi misi a leggere ad alta voce; in questo modo gli occhi non mi si chiudevano. E poiché pensando caoticamente al mio matrimonio e a mia figlia, nei meandri del dormiveglia tormentati da ricordi e sogni, Hanna era il pensiero dominante, mi misi a leggere per lei. Lessi per Hanna registrando su cassette. Prima che spedissi le cassette passarono dei mesi. Da principio non volevo mandare delle singole parti, e aspettai fino a quando l'intera "Odissea" non fu registrata. Poi mi venne il dubbio che Hanna non trovasse l'"Odissea" abbastanza interessante, e allora registrai quel che avevo letto dopo l'"Odissea", alcuni racconti di Schnitzler e di Cechov. Poi non feci che rimandare la telefonata al tribunale in cui Hanna era stata giudicata e condannata, per rintracciare dove stava scontando la pena. Alla fine avevo tutto quanto: l'indirizzo del carcere in cui stava Hanna, nelle vicinanze della città dove aveva avuto luogo il processo, un registratore e le cassette, numerate da Cechov a Schnitzler a Omero. E così, finalmente, spedii il pacco con il registratore e le cassette. Poco tempo fa ho ritrovato il quaderno in cui annotavo quel che andavo registrando per Hanna nel corso degli anni. I primi dodici titoli sono chiaramente riportati alla stessa data; probabilmente da principio andavo a ruota libera e poi devo essermi accorto che senza appunti non ricordavo quel che avevo già letto. Nei titoli che seguono si trova a volte una data, a volte niente, ma anche senza date so che il primo invio per Hanna è avvenuto nell'ottavo e l'ultimo nel diciottesimo anno della sua detenzione. Nel diciottesimo anno venne accolta la sua domanda di grazia. Più avanti lessi ad Hanna quel che stavo leggendo per conto mio. All'inizio, con l'"Odissea", non mi riuscì così facile registrare come leggendo ad alta voce per me, visto che richiedeva maggiore concentrazione. Poi tutto filò liscio. L'inconveniente era che per leggere ad alta voce ci voleva più tempo; ma in compenso quel che leggevo mi si fissava meglio nella memoria. Ancor oggi ricordo molto bene parecchie cose. Leggevo anche quel che già conoscevo e amavo. Per cui Hanna ricevette un bel po' di Keller e Fontane, e non poco Heine e Mörike. Per parecchio tempo non osai leggere delle poesie, ma poi la cosa mi divertì moltissimo. E così, leggendo ad alta voce, imparai a memoria tutta una serie di poesie. Potrei recitarle ancor oggi. Nell'insieme, i titoli riportati nel quaderno riflettono una grande fiducia nella formazione culturale di stampo borghese. Non ricordo proprio di essermi mai chiesto se dovevo spingermi oltre Kafka, Frisch, Johnson, la Bachmann e Lenz, leggendo della letteratura sperimentale, quella letteratura in cui non riscontro una storia e di cui non mi piacciono i personaggi. Era pacifico, per me, che la letteratura sperimentale sperimenta col lettore, e di questo non avevamo bisogno né Hanna né io. Quando cominciai a scrivere cose mie, le lessi anche queste. Aspettavo di aver dettato il manoscritto e rimaneggiato il dattiloscritto fino al punto in cui avevo la sensazione che fosse finito. Leggendo ad alta voce mi rendevo poi conto se quella sensazione reggeva. Se non era così, dovevo mettermi a rifare tutto e registrare la nuova versione sulla vecchia. Questo, però, non lo facevo volentieri. Volevo farla finita col leggere. Hanna era tornata a essere l'istanza sulla quale concentravo tutte le mie forze, tutta la mia creatività, tutta la mia immaginazione critica. Solo dopo potevo spedire il dattiloscritto all'editore. Sulle cassette non incidevo mai delle osservazioni personali, delle domande rivolte ad Hanna, delle note che parlavano di me. Leggevo il titolo, il nome dell'autore e il testo. Quando il testo era

terminato, aspettavo un momento, chiudevo il libro di botto e schiacciavo il tasto Stop. 6. Il quarto anno di questo nostro rapporto, tanto ricco quanto parco di parole, arrivò un saluto. «Ragazzino, l'ultima storia era molto bella. Grazie. Hanna". Era un foglio a righe, una pagina staccata da un quaderno e rifilata con le forbici. Il saluto stava in cima al foglio e riempiva tre righe. Era scritto con una biro blu, che sbavava. Hanna aveva premuto con forza la penna, tanto che la scrittura si vedeva ricalcata sul retro. Anche l'indirizzo l'aveva scritto a viva forza; l'impronta si leggeva sulla metà inferiore e su quella superiore del foglio piegato in due. A prima vista si poteva pensare che fosse una calligrafia infantile. Ma ciò che nella scrittura dei bambini è impacciato e maldestro, lì era invece forzato, violento. Si vedeva la resistenza che Hanna doveva vincere per combinare i tratti in lettere e le lettere in parole. La mano del bambino vuol svolazzare qua e là, per cui bisogna tenerla nella scia della scrittura. La mano di Hanna non voleva divagare e doveva pertanto esser costretta in anticipo. I tratti che formavano le lettere ripartivano di volta in volta, nelle linee ascendenti e nelle discendenti, negli archi e nei fiocchi. E ogni singola lettera era una nuova conquista e aveva una nuova inclinazione o una nuova dirittura, spesso anche altezza e larghezza sproporzionate. Lessi il saluto ed ero pieno di gioia, esultavo. «Scrive, sa scrivere!». Tutto quel che ero riuscito a trovare sull'analfabetismo, l'avevo letto in quegli anni. Sapevo dello stato d'abbandono in cui si trova l'analfabeta mentre svolge le normali faccende di ogni giorno, quando cerca una strada o un indirizzo, quando deve scegliere sul menu di un ristorante, e sapevo della meticolosità timorosa con cui segue dei modelli prestabiliti e delle routine rassicuranti, come sapevo dell'energia che richiede il tener nascosta l'incapacità di leggere e scrivere, vitalità sottratta alla vita vera e propria. Analfabetismo significa minorità. E siccome Hanna aveva avuto il coraggio d'imparare a leggere e scrivere, aveva compiuto il passo dalla minore alla maggiore età, un passo illuminante, illuminista. Poi guardai bene la scrittura di Hanna e vidi quanta forza e quale lotta le era costato scrivere. Ero fiero di lei. Ma anche triste per lei, intristito da una vita ritardata e mancata, e triste per tutti i ritardi e le mancanze della vita. Pensavo che se il momento giusto è passato, se hai negato troppo a lungo qualcosa, se ti è stato negato troppo a lungo qualcosa, è ormai troppo tardi perfino se alla fine parti con forza e con gioia. O forse non esiste un «troppo tardi» perché c'è solo un «tardi», e «tardi» è sempre meglio che «mai». Non lo so. Dopo quel primo saluto giunsero gli altri, in costante successione. Erano sempre poche righe, un grazie, una richiesta di poter ascoltare qualcosa in più di quell'autore o di non voler sentire più niente di lui, un'osservazione su un autore o una poesia o una storia o un personaggio di un romanzo, una nota sulla vita in carcere. «In cortile stanno già fiorendo le forsizie» oppure «Mi piace che quest'estate ci siano così tanti temporali» oppure «Dalla finestra vedo radunarsi gli uccelli per partire verso sud». Spesso erano solo i messaggi di Hanna che mi facevano notare le forsizie, i temporali estivi o gli stormi d'uccelli. Le sue osservazioni sulla letteratura spesso colpivano sorprendentemente nel segno. «Schnitzler abbaia, Stefan Zweig è un cane morto» oppure «Keller ha bisogno di una donna», oppure «Le poesie di Goethe sono dei quadretti ben incorniciati» oppure «Lenz scrive sicuramente a macchina». Ma siccome non sapeva niente riguardo agli autori, li prendeva tutti per contemporanei, finché non risultava evidente il contrario. Ero sbalordito pensando a quanta letteratura del passato si poteva leggere come fosse attuale, e mi stupiva il fatto che chi non sa nulla di storia può benissimo vedere nelle condizioni di vita d'epoche precedenti condizioni di vita esistenti in paesi lontani. Non ho mai scritto ad Hanna. Ma ho sempre continuato a leggere per lei. Quando trascorsi un anno in America, le mandai delle cassette da laggiù. Nei periodi di ferie, o se avevo molto lavoro da sbrigare, poteva passare parecchio tempo prima che la cassetta seguente fosse pronta. Non avevo del resto stabilito un ritmo preciso: poteva capitare che spedissi delle cassette una volta la settimana o ogni quindici giorni, o magari dopo tre o quattro settimane. Che Hanna, ora che sapeva leggere,

non avesse più bisogno delle mie cassette, non mi disturbava affatto. Poteva leggere anche per conto suo. Il fatto di leggere ad alta voce era il mio modo di parlarle, di parlare con lei. Ho conservato tutti i suoi saluti. La scrittura cambia nei biglietti. In un primo tempo costringe le lettere ad assumere la stessa inclinazione e le giuste proporzioni in altezza e larghezza. Fatto questo, può permettersi d'essere più leggera e più sicura. Scorrevole non lo è mai. Nondimeno acquista quel tocco di severa bellezza che è proprio degli scritti delle persone anziane che in vita loro hanno scritto poco. 7. Allora non mi davo pensiero per il fatto che un giorno Hanna sarebbe stata rilasciata. Lo scambio di saluti e cassette era così normale e famigliare, e Hanna mi era in modo così libero tanto vicina quanto lontana, che quella situazione l'avrei fatta durare in eterno. Questo era comodo ed egoistico, lo so. Poi arrivò la lettera della direttrice del carcere. "Da anni la signora Schmitz e lei sono in corrispondenza epistolare. E' l'unico contatto che la signora Schmitz ha con l'esterno, e pertanto mi rivolgo a lei, benché non sappia quanto siano stretti i loro rapporti e se lei sia un parente o un amico. L'anno prossimo la signora Schmitz presenterà nuovamente una domanda di grazia, e io ritengo che la commissione accoglierà l'istanza. Sarà quindi rilasciata entro breve tempo, dopo diciotto anni di reclusione. Naturalmente noi possiamo procurarle un alloggio e un lavoro, ossia cercare di procurarli; per il lavoro sarà un po' difficile data la sua età, anche se gode ancora di ottima salute e nella nostra sartoria dimostra grandi capacità. Ma, anziché noi, sarebbe meglio che procedessero dei parenti o degli amici, stando anche vicini alla rilasciata, accompagnandola e sostenendola. Lei non può immaginare quanto ci si possa sentire soli e inermi all'esterno, dopo diciotto anni di reclusione. La signora Schmitz riesce ad arrangiarsi abbastanza bene e può cavarsela anche da sola. Basterebbe che lei le trovasse un appartamentino e un lavoro, e che nelle prime settimane o nei primi mesi andasse a trovarla ogni tanto, la invitasse da lei e si preoccupasse di tenerla al corrente circa le occasioni offerte dalla parrocchia, dall'università popolare, dalle famiglie eccetera. Oltre tutto non è facile, dopo diciotto anni, muoversi in città, fare la spesa, presentarsi in un ufficio, entrare in un ristorante. E' certo più facile se si è accompagnati. Ho notato che lei non viene mai a trovare la signora Schmitz. Lo faccia, e così, anziché scriverle, potrei parlarle personalmente in occasione di una sua visita. Non si tratta d'altro che di venire a trovarla prima del rilascio. La prego quindi di passare da me in quell'occasione." La lettera chiudeva con un saluto cordiale, che io intesi non riferito a me, ma al fatto che, per la direttrice, quel premere significava che la cosa le premeva, le stava a cuore. Avevo già sentito parlare di lei; il suo istituto passava per un penitenziario fuori del comune, e la sua voce aveva peso nell'ambito della riforma carceraria. Mi piaceva la sua lettera. Non mi piaceva invece quel chi mi toccava fare. Naturalmente dovevo preoccuparmi del lavoro e dell'alloggio, e lo feci anche. Degli amici che in casa loro disponevano di un appartamentino inutilizzato o sfitto erano disposti a cederlo ad Hanna per un modesto affitto. Il sarto greco, dal quale mi facevo sistemare ogni tanto dei vestiti, era intenzionato a dar lavoro ad Hanna; sua sorella, che mandava avanti con lui la sartoria, era tornata in Grecia. Già da tempo, e ben prima che Hanna potesse approfittarne, mi ero occupato delle opportunità sociali e delle occasioni culturali offerte da istituzioni ecclesiastiche e laiche. Ma la visita ad Hanna continuavo a rimandarla. E non volevo andare a trovarla proprio perché lei mi era in modo così libero tanto vicina quanto lontana. Avevo la sensazione che lei poteva essere ciò che era per me soltanto se esisteva una distanza reale. Avevo paura che il piccolo mondo dei saluti e delle cassette, così lieve e ben protetto, fosse troppo artificioso e troppo vulnerabile per poter reggere la vicinanza reale. Come potevamo ritrovarci faccia a faccia senza che venisse a galla tutto ciò che c'era stato tra noi?

Così quell'anno se ne andò, senza che fossi mai stato in carcere da lei. Dalla direttrice non sentii più niente per un pezzo; una mia lettera, in cui davo notizie circa la casa e il lavoro, cose che Hanna attendeva, non ebbe risposta. Lei contava certo sul fatto di parlarmi in occasione di una mia visita ad Hanna. Non poteva sapere che quella visita non solo continuavo a rimandarla, ma cercavo di evitarla. Alla fine, però, si arrivò al dunque, visto che Hanna voleva essere graziata e rilasciata, e così la direttrice mi telefonò. Sarei venuto adesso? Entro una settimana Hanna era fuori. 8. La domenica dopo ero da lei. Era la mia prima visita in un carcere. All'ingresso venni ispezionato, e lungo il percorso vennero aperte e chiuse diverse porte. Ma l'edificio era nuovo e luminoso, e al suo interno le porte stavano aperte e le donne si muovevano liberamente. Alla fine del corridoio una porta conduceva all'aperto, in un piccolo prato con alberi e panchine, alquanto animato. Mi guardai intorno cercando. L'agente di custodia che mi aveva accompagnato indicò a poca distanza una panchina all'ombra di un ippocastano. Hanna? La donna sulla panchina era Hanna? Capelli grigi, un volto con profonde rughe verticali sulla fronte, sulle guance, attorno alla bocca, e un corpo appesantito. Indossava un vestito azzurro chiaro troppo stretto, che le segnava il petto, il ventre, le cosce. Le sue mani giacevano in grembo e reggevano un libro. Non stava leggendo. Sopra il bordo degli occhiali da vista a mezzaluna, guardava una donna che gettava a dei passeri manciate di briciole di pane. Poi si accorse d'essere osservata, e rivolse lo sguardo verso di me. Vidi il suo viso teso per l'attesa, lo vidi illuminarsi di gioia quando mi riconobbe, vidi i suoi occhi esplorare il mio volto quando mi avvicinai, vidi i suoi occhi cercare, chiedere, guardare incerti e feriti, e vidi il suo sguardo spegnersi. Quando le fui vicino, lei sorrise con un sorriso affabile, stanco. «Sei diventato grande, ragazzino». Mi sedetti accanto a lei, e lei mi prese la mano. Un tempo avevo amato molto il suo odore. Lei sapeva sempre di fresco: di appena lavato o di biancheria fresca di bucato o di sudore fresco o d'amore appena fatto. A volte usava del profumo, non so dire quale, e anche la fragranza di quel profumo era più fresca di ogni altra. Tra quegli odori freschi c'era un altro odore, un odore pesante, oscuro, acre. Spesso io l'annusavo come un animale curioso, cominciavo dal collo e dalle spalle che sapevano di fresco, d'appena lavato, aspiravo tra i seni l'odore di sudore fresco che si mescolava nelle ascelle con l'altro odore, che poi trovavo allo stato quasi puro, pesante e oscuro, attorno alla vita e sul ventre e tra le gambe in una gradazione fruttata che mi eccitava, così fiutavo anche le sue gambe e i suoi piedi, le cosce, dove quell'odore pesante si perdeva, le conche dei ginocchi con ancora un leggero odore di sudore fresco, e i piedi che sapevano di sapone o di cuoio o di stanchezza. Schiena e braccia non avevano un particolare odore, non sapevano di niente, eppure sapevano di lei, e nelle palme delle mani c'era il sentore della giornata e del lavoro: l'inchiostro dei biglietti del tram, il metallo della pinza, cipolle o pesce o lardo fritto, lisciva o calore di ferro da stiro. Se lavate, le mani non rivelavano niente di tutto ciò, in un primo momento. Ma il sapone riusciva soltanto a coprire quegli odori, e dopo un po', eccoli di nuovo, deboli, disciolti e fusi in un unico sentore di giornata e di lavoro, nella fragranza del fine giornata e del cessato lavoro, della sera, del rincasare e sentirsi a casa. Ero seduto accanto ad Hanna e sentivo l'odore di una vecchia. Io non so di cosa sia fatto quell'odore che conosco dalle nonne e dalle vecchie zie e che aleggia nelle case di riposo, dentro le stanze e lungo i corridoi, come una maledizione. Hanna era troppo giovane per quell'odore. Mi avvicinai. M'ero accorto che prima l'avevo delusa, e ora intendevo comportarmi meglio e rimediare. «Mi fa piacere che tu esca». «Sul serio?». «Sì, sul serio. E mi fa piacere che tu venga a stare vicino a me». Le parlai dell'appartamento e del lavoro che le avevo trovato, delle occasioni sociali e culturali che il quartiere offriva, della biblioteca comunale. «Leggi molto?». «Così così. Se ti leggono è più bello». Mi guardò. «Ma adesso è finita, col leggere, non è vero?».

«Perché dovrebbe essere finita?». Io però non mi vedevo a incidere cassette per lei, né a incontrarla per leggerle. «Mi ha fatto tanto piacere e ho ammirato tanto che tu abbia imparato a leggere. E che belle lettere mi hai scritto!». Questo era vero; io l'avevo ammirata e mi aveva fatto piacere che lei sapesse leggere e mi avesse scritto. Ma sentivo quanto la mia gioia e la mia ammirazione fossero ben poco rispetto a ciò che doveva esser costato ad Hanna imparare a leggere e scrivere; sentivo quant'erano miseri quei sentimenti, se non mi avevano indotto nemmeno una volta a scriverle, a risponderle, ad andare a trovarla, a parlare con lei. Io avevo concesso ad Hanna una piccola nicchia, sì, una nicchia, che era importante per me, che mi dava qualcosa e per la quale io facevo qualcosa, ma non le avevo riservato un posto nella mia vita. Ma perché non le avevo concesso un posto nella mia vita? Mi rivoltai contro la coscienza sporca che mi sentivo montare al pensiero di averla ridotta a una nicchia. «Hai mai pensato veramente, prima del processo, a quel che poi è emerso durante il processo? Io credo che tu non ci abbia mai pensato quando stavamo insieme, quando io ti leggevo». «Ti dà tanto da pensare?». Ma lei non si aspettava una risposta. «Io ho la continua sensazione che comunque nessuno mi capisce, che nessuno sa chi sono e cosa mi ha portata fin qui. E, sai, se nessuno ti capisce, allora nessuno ha il diritto di chieder conto di ciò che hai fatto. Neanche il tribunale aveva il diritto di chieder conto di ciò che ho fatto. Ma i morti ne hanno il diritto. Loro capiscono. Non c'era affatto bisogno che fossero presenti, ma quando c'erano, loro capivano benissimo. Qui in prigione sono stati tanto con me. Venivano ogni notte, che io volessi o no. Prima del processo, quando volevano venire, riuscivo ancora a scacciarli». Lei si aspettava che io avessi qualcosa da dirle in proposito, ma non mi venne in mente niente. In un primo momento volevo dirle che io non riuscivo a scacciare niente. Ma non era vero. Perché si scaccia qualcuno anche quando lo si mette in una nicchia. «Sei sposato?». «Lo sono stato. Gertrud e io siamo divorziati da molti anni, e nostra figlia sta in collegio; spero che gli ultimi anni di scuola non voglia passarli là dentro, ma venga a stare con me». Adesso mi aspettavo che avesse lei qualcosa da dire in proposito o da chiedere. Invece tacque. «Vengo a prenderti la settimana prossima, d'accordo?». «D'accordo» «In gran segreto, o facciamo un po' di chiasso e baldoria?». «In gran segreto». «Bene, vengo a prenderti in gran segreto, senza musica né champagne». Mi alzai, e anche lei si alzò. Ci guardammo. Avevano suonato due volte, e le altre donne erano già rientrate. Di nuovo i suoi occhi esplorarono il mio viso. L'abbracciai. Ma non la sentivo più. «Stammi bene, ragazzino». «Anche tu». Così ci lasciammo lì fuori, prima di doverci separare di dentro. 9. Fu una settimana piuttosto tirata, quella che seguì. Non ricordo se avevo anche il tempo contato per la conferenza che stavo preparando o se ero solo preoccupato per il buon esito del mio lavoro. L'idea che mi aveva spinto a preparare quella conferenza non valeva niente. Quando mi misi a rivedere il lavoro fatto non riscontrai un senso e una certa consequenzialità, ma una casualità dopo l'altra. E invece di accontentarmi continuai a cercare qualcos'altro, con ansia, accanimento e timore, come se sbagliassi strada seguendo la mia idea della realtà, ed ero già pronto a falsare i risultati, a gonfiarli o sminuirli. Finii in un strano stato d'inquietudine: mi addormentavo, sì, se andavo a letto tardi, ma dopo poche ore mi ritrovavo lì disteso, sveglissimo, finché non mi decidevo ad alzarmi, per poi continuare a leggere o scrivere. Feci anche tutti i preparativi per il giorno del rilascio. Arredai l'appartamento di Hanna con mobili dell'Ikea e qualche pezzo antico, avvertii il sarto greco del suo arrivo e aggiornai le informazioni riguardanti le occasioni sociali e culturali che il quartiere offriva. Feci provviste di vario genere,

misi dei libri sugli scaffali e appesi dei quadri alle pareti. Chiamai un giardiniere perché sistemasse il giardinetto attorno alla terrazza davanti al soggiorno. E anche tutte queste cose le feci in uno strano stato d'ansia e accanimento; ne avevo proprio abbastanza. Ma in fondo mi bastava per non pensare all'incontro avuto con Hanna. Solo di tanto in tanto, quando andavo in macchina o sedevo stanco alla scrivania o ero sveglio a letto o mi trovavo nell'appartamento di Hanna, il pensiero di quella visita si faceva strapotente e si scatenavano i ricordi. La vedevo sulla panchina, lo sguardo fisso su di me, la vedevo in piscina, il viso rivolto verso di me, e avevo di nuovo la sensazione di averla tradita e di essere colpevole nei suoi confronti. Ma di nuovo m'infuriavo contro quella sensazione e accusavo Hanna, perché trovavo facile e comodo il modo in cui si era sottratta alla sua colpa. Permettere solo ai morti di chieder conto, ridurre colpa e castigo a sonni agitati e brutti sogni: e i vivi, dove finivano i vivi? Non era però ai vivi che mi riferivo, ma a me. Non avevo anch'io qualcosa di cui chiederle conto? Dove finivo io? Il pomeriggio del giorno prima che andassi a prenderla telefonai in carcere. Parlai anzitutto con la direttrice. «Sono un po' nervosa. Sa, normalmente non si rilascia nessuno dopo un periodo di detenzione così lungo, se prima non ha già trascorso fuori qualche ora o qualche giorno. E la signora Schmitz si è rifiutata di farlo. Non sarà facile per lei, domani». Mi misero in comunicazione con Hanna. «Pensaci un po' a quel che faremo domani. Se preferisci andare subito a casa, o se magari vogliamo fare una passeggiata nel bosco o lungo il fiume». «Ci penserò. Tu sei sempre un gran pianificatore, non è vero?». Questo m'irritò. Mi irritava quando delle amiche mi dicevano che non ero abbastanza spontaneo, che funzionavo meglio nella testa che nella pancia. Lei notò dal mio silenzio che ero arrabbiato e si mise a ridere. «Non arrabbiarti, ragazzino, non l'ho mica detto con cattiveria». Avevo rincontrato Hanna su quella panchina ritrovando una vecchia. Aveva l'aspetto di una vecchia e l'odore di una vecchia. Ma non avevo fatto caso alla sua voce. La sua voce era rimasta giovane. 10. Il mattino dopo Hanna era morta. All'alba si era impiccata. Quando arrivai, mi accompagnarono dalla direttrice. Era la prima volta che la vedevo. Una donna piccola, esile, con dei capelli biondoscuri e gli occhiali. Sembrava poco appariscente, fino a quando non si mise a parlare con vigore e calore e uno sguardo severo e gesti energici delle mani e delle braccia. Mi chiese della telefonata avvenuta la sera prima e dell'incontro della settimana avanti: se presentivo o temevo qualcosa. Dissi di no. E nemmeno c'erano stati presentimenti o timori che io avessi rimosso. «Com'è che la conosceva?». «Abitavamo vicini». Mi diede un'occhiata inquisitoria, e mi resi subito conto che dovevo dire di più. «Abitavamo vicini e abbiamo fatto conoscenza, così siamo diventati amici. Quand'ero studente ho poi assistito al processo e alla condanna». «E come mai lei spediva delle cassette alla signora Schmitz?». Tacqui. «Lei sapeva che era analfabeta, non è vero? Com'è che lo sapeva?». Diedi un'alzata di spalle. Non vedevo quanto potesse riguardarle la storia di Hanna e di me. Sentivo le lacrime in petto e in gola, e avevo paura di non riuscire più a parlare. Non volevo piangere davanti a lei. Vide benissimo in che stato ero. «Venga con me, le mostro la cella della signora Schmitz». Mi fece strada precedendomi, ma continuava a voltarsi indietro per dirmi o spiegarmi qualcosa. Lì c'era stato un attentato terroristico, lì c'era la sartoria dove Hanna aveva lavorato, lì Hanna aveva fatto un sit-in fino a quando non avevano revocato i tagli sui fondi per la biblioteca, lì si andava in

biblioteca. Davanti alla cella si fermò. «La signora Schmitz non ha fatto le valigie. Lei può vedere la cella com'era quando ci viveva». Un letto, un armadio, un tavolo e una sedia, sul muro sopra il tavolo una serie di scaffali e nell'angolo dietro la porta, il lavandino e il water. Al posto della finestra, vetrocemento. Il tavolo era sgombro. Sugli scaffali c'erano dei libri, una sveglia, un orso di pezza, due tazze, caffè solubile, barattoli da tè, il registratore, e su due ripiani bassi le cassette da me registrate. «Non ci sono tutte». La direttrice seguiva il mio sguardo. «La signora Schmitz prestava sempre delle cassette al servizio assistenza per i detenuti ciechi». Mi avvicinai allo scaffale. Primo Levi, Elie Wiesel, Tadeusz Borowski, Jean Améry: la letteratura delle vittime accanto alle memorie di Rudolf Höss, il reportage di Hannah Arendt sul processo Eichmann a Gerusalemme e lavori scientifici sui campi di concentramento. «Hanna ha veramente letto tutto questo?». «Comunque sia, ordinava i libri dopo averci pensato bene. Già diversi anni fa ho dovuto procurarle un'intera bibliografia sui campi di concentramento, e poi, due o tre anni fa, mi ha pregato di elencarle i libri sulle donne dei Lager, prigioniere e guardiane. Scrissi all'Istituto di storia contemporanea e mi mandarono una bibliografia sull'argomento. Non appena ebbe imparato a leggere, la signora Schmitz si mise a leggere quel che era stato scritto sui Lager». Sopra il letto c'erano tante piccole illustrazioni e molti foglietti. M'inginocchiai sul letto e lessi. Si trattava di citazioni, poesie, appunti, ricette di cucina che Hanna aveva annotato, così come aveva ritagliato quelle illustrazioni da giornali e riviste. «La primavera torna a far sventolare nell'aria il suo nastro azzurro», «Ombre di nuvole scorrono sopra i campi». Le poesie erano tutte piene di gioia e nostalgia per la natura, e le immagini mostravano boschi ariosi in primavera, prati costellati di fiori, foglie d'autunno e alberi solitari, un salice in riva a un ruscello, un ciliegio con ciliegie rosse e mature, un castagno fiammeggiante d'un giallo-arancio autunnale. In una foto di giornale si vedevano un uomo anziano e un giovane, in abiti scuri, che si stringevano la mano, e nel giovane che faceva un inchino all'anziano riconobbi me stesso. Avevo giusto finito il liceo e stavo ricevendo dal preside un premio alla festa per la maturità. Era parecchio tempo dopo che Hanna aveva lasciato la città. Si era forse abbonata, lei che non sapeva leggere, al giornale locale in cui era apparsa la foto? In ogni caso doveva aver faticato non poco per venire a sapere della foto e procurarsela. E durante il processo ce l'aveva, l'aveva con sé? Sentii di nuovo le lacrime in petto e in gola. «E' grazie a lei che ha imparato a leggere. In biblioteca prendeva a prestito i libri che lei aveva registrato su cassette, e parola per parola, frase dopo frase seguiva quel che stava ascoltando. Il registratore non reggeva tutto quel ferma e parti, quel continuo avanti e indietro, si guastava molto spesso e bisognava mandarlo a riparare in continuazione. E siccome per far questo occorrevano delle autorizzazioni, ho finito per capire cosa stava facendo la signora Schmitz. In un primo tempo non volle dirmi niente, ma quando poi cominciò anche a scrivere e mi chiese un libro di calligrafia a mano, non riuscì più a tener nascosta la cosa per molto. Oltretutto era fiera di esserci riuscita da sola, e voleva manifestare a qualcuno la sua gioia». Mentre lei parlava, io ero rimasto inginocchiato a guardare quelle immagini e quei foglietti, cercando di trattenere le lacrime. Quando mi girai e mi sedetti sul letto, lei disse: «Sperava tanto che le scrivesse. Riceveva posta solo da lei, e quando distribuivano la posta e lei chiedeva "Non c'è una lettera per me?", dicendo lettera non intendeva il pacchetto con dentro le cassette. Perché non le ha mai scritto?». Tacqui un'altra volta. Non sarei riuscito a parlare, ma solo a balbettare e piangere. Lei andò verso lo scaffale, prese un barattolo da tè, si sedette accanto a me e sfilò da una tasca del tailleur un foglio ripiegato. «Mi ha lasciato una lettera, una sorta di testamento. Ora le leggo quel che la riguarda». Spiegò il foglio. «"Nella scatola da tè lilla c'è dell'altro denaro. Lo dia a Michael Berg; insieme ai 7000 marchi, che ci sono sul libretto di risparmio, lui potrà darli alla figlia sopravvissuta con la madre all'incendio della chiesa. Che decida lei cosa farne. E dica a lui che lo saluto"». Non mi aveva dunque lasciato neanche un messaggio. Voleva ferirmi? Voleva punirmi? O la sua anima era talmente stanca da poter fare e scrivere soltanto lo stretto necessario. «Come ha passato

tutti questi anni», aspettai un momento per poter proseguire, «e come ha passato gli ultimi giorni?». «Per molti anni ha vissuto qui come in un convento. Come se si fosse ritirata qua dentro di sua spontanea volontà, come si fosse sottomessa volontariamente all'ordine di qui, come se il lavoro in certo qual modo monotono che svolgeva fosse una sorta di meditazione. Fra le altre donne, con le quali era sempre gentile mantenendo però le distanze, godeva di una particolare considerazione. Anzi, direi che aveva una certa autorità. Le chiedevano consigli quando c'erano dei problemi, e se scoppiava una lite accettavano le sue decisioni in merito. Finché qualche anno fa si lasciò andare. Aveva sempre tenuto alla sua persona. Malgrado il fisico robusto si manteneva slanciata ed era di una pulizia meticolosa, estrema. Poi si mise a mangiare troppo, si lavava sempre meno, ingrassò e cominciò a puzzare. Non sembrava comunque infelice o insoddisfatta. A dire il vero, era come se il ritiro in convento non le bastasse più, come se perfino in convento ci fosse troppa socievolezza, troppa loquacità, e come se lei si dovesse quindi ritirare ancor di più, in una clausura solitaria dove non ti vede più nessuno e dove l'aspetto, il vestire e l'odore non hanno più alcuna importanza. No, non è giusto dire che si sia lasciata andare. Aveva semplicemente definito il suo luogo in modo nuovo, in una maniera che andava bene per lei, ma senza impressionare come prima le altre donne». «E gli ultimi giorni?». «Li ha passati come sempre». «Posso vederla?». Annuì, ma rimase seduta. «E' possibile che dopo anni di solitudine il mondo ti diventi così insopportabile? E' preferibile uccidersi piuttosto che lasciare il convento, l'eremo, per tornare nel mondo?». Si girò verso di me. «La signora Schmitz non ha lasciato scritto perché si è uccisa. E lei non vuol dire che cosa è successo tra voi, cosa che forse ha indotto la signora Schmitz a uccidersi nella notte che precedeva il giorno in cui lei intendeva venire a prenderla». Ripiegò il foglio, lo mise in tasca, si alzò e si lisciò la gonna. «La sua morte mi ha colpito, sa, e per il momento sono molto arrabbiata, con la signora Schmitz e con lei. Ma andiamo». Di nuovo mi fece strada precedendomi, ma stavolta senza parlare. Hanna giaceva in una cameretta dell'infermeria. Riuscimmo a passare appena fra la parete e la barella. La direttrice sollevò il lenzuolo. Hanna aveva un fazzoletto annodato intorno alla testa, per tenere su il mento fino al subentrare del "rigor mortis". Il volto non era né particolarmente in pace né particolarmente straziato. Appariva rigido e morto. Dopo aver guardato un bel po', vidi comparire nel viso morto il volto vivo, nel viso vecchio il volto giovane. Deve succedere questo nelle vecchie coppie, pensai: per lei, nel vecchio si conserva il giovane e per lui rimane la bellezza e la grazia della giovane. Ma perché non avevo visto quell'apparizione una settimana prima? Non dovevo piangere. Quando dopo un po' la direttrice mi guardò con aria interrogativa, annuii, e lei stese di nuovo il lenzuolo sopra il volto di Hanna. 11. Venne l'autunno prima che potessi assolvere l'incarico di Hanna. La figlia viveva a New York, e io colsi l'occasione di un congresso a Boston per portarle il denaro: un assegno corrispondente all'importo del libretto di risparmio e il barattolo da tè con i soldi. Le avevo scritto, mi ero presentato come storico del diritto e avevo menzionato il processo. Le sarei stato riconoscente di poter parlare con lei. Mi invitò per un tè. Andai in treno da Boston a New York. I boschi splendevano in bruno, giallo, arancio, rossobruno e brunorosso nonché nel rosso fiammeggiante degli aceri. Mi vennero in mente le immagini autunnali nella cella di Hanna. Quando per il dondolìo ritmato della carrozza mi assopii, sognai di Hanna e di me in una casa tra le colline luminose di colori autunnali che il treno stava attraversando. Hanna era più vecchia di quando l'avevo conosciuta, e più giovane di quando l'avevo rincontrata, più vecchia di me, più bella di prima, per l'età ancor più pacata nei movimenti e nel corpo ancor più a suo agio. La vidi scendere dalla macchina e portare in braccio i sacchetti della spesa, la vidi attraversare il giardino per entrare in casa, la vidi posare a terra i sacchetti e salire la scala, lì davanti a me. Il

desiderio struggente di Hanna era così forte che faceva male. Mi difendevo da quel desiderio nostalgico, gli resistevo, andava troppo oltre la realtà di Hanna e la mia, oltre la realtà delle nostre età, delle nostre condizioni di vita. Com'era possibile per Hanna, che non parlava l'inglese, vivere in America? La macchina, poi, lei non sapeva guidarla. Mi svegliai e tornai a rendermi conto che Hanna era morta. E mi resi pure conto che quel desiderio nostalgico si fissava a lei senza riguardarla. Era la nostalgia di casa, il desiderio di tornare. A New York, la figlia abitava in una stradina nei pressi del Central Park. La via era delimitata da file di vecchie case in arenaria scura, dove le scale, pure d'arenaria scura, portavano tutte al primo piano. Ne derivava un'immagine austera: casa dopo casa, una facciata uguale all'altra, scala dopo scala, e gli alberi ai margini della via, piantati di recente, disposti a intervalli regolari, con poche foglie gialle sui rami sottili. La figlia servì il tè davanti alle grandi finestre con vista sui piccoli giardini delle case del quartiere, questi verdi e vivaci e quelli un ammasso di cianfrusaglie. Subito dopo esserci seduti, quando il tè fu versato, lo zucchero messo e mescolato, lei passò dall'inglese, col quale m'aveva accolto, al tedesco. «Cosa la porta da me?». La domanda non era posta né in maniera cortese né in modo scortese; il tono era estremamente impersonale. Tutto in lei era impersonale, il contegno, i gesti, il vestito. Il viso era stranamente senza età. Come le facce rifatte a lifting. Ma forse si era irrigidito anche per un dolore precoce; tentavo inutilmente di ricordarmi il suo viso durante il processo. Le parlai della morte di Hanna e dell'incarico ricevuto. «Perché proprio io?». «Penso perché lei è l'unica sopravvissuta». «E cosa dovrei fare?». «Qualunque cosa lei ritenga più opportuna». «Per dare così l'assoluzione alla signora Schmitz?». Sulle prime volevo ribattere, ma Hanna in effetti chiedeva molto. Gli anni di detenzione dovevano essere non solo una punizione inflitta; Hanna voleva anche dar loro un senso, e voleva che questo le fosse riconosciuto. Glielo dissi. Lei scrollò la testa. Non capivo se con ciò intendeva respingere la mia interpretazione o negare ad Hanna quel riconoscimento. «Non potrebbe darle questo riconoscimento senza l'assoluzione?». Si mise a ridere. «Lei le piaceva, non è vero? Com'era veramente il vostro rapporto?». Esitai un momento. «Io ero il suo lettore, le leggevo ad alta voce. Cominciò che avevo quindici anni, e poi proseguì quando lei era in carcere». «E come ha...». «Le mandavo delle cassette registrate. La signora Schmitz è rimasta analfabeta per quasi tutta la vita; solo in carcere imparò a leggere e scrivere». «E perché lei ha fatto tutto questo?». «Avevamo avuto una relazione, quando io avevo quindici anni». «Vuol dire che andava a letto con lei?». «Sì». «Com'era brutale quella donna. E' riuscito a superare il fatto che quando aveva quindici anni lei... No, l'ha detto lei stesso che ha ricominciato a leggerle quando era in carcere. Si è mai sposato?». Annuii. «E il matrimonio è stato breve e infelice, e lei non si è più risposato, e il bambino, se ce n'è uno, sta in collegio». «Questo capita a tanti. Non c'è bisogno di una signora Schmitz, per questo». «Ha mai avuto la sensazione, quando negli ultimi anni era in contatto con lei, che lei si rendesse conto di cosa le aveva fatto?». Diedi un'alzata di spalle. «Ad ogni modo, lei s'era resa conto di cosa aveva fatto alle altre nel Lager e durante la marcia. Non solo me lo ha detto, ma si è data molto da fare per questo negli ultimi anni di prigione». Le riferii quel che mi aveva detto la direttrice del carcere. Si alzò in piedi e si mise a percorrere la stanza a grandi passi. «Di quanto denaro si tratta?».

Andai nell'ingresso, dove avevo lasciato la borsa, e tornai con l'assegno e il barattolo da tè. «Ecco qui». Diede un'occhiata all'assegno e lo posò sul tavolo. Il barattolo lo aprì, lo vuotò, lo richiuse e poi lo tenne in mano, guardandolo intensamente. «Da ragazza avevo un barattolo da tè per custodire i miei tesori. Non uno come questo, benché barattoli da tè come questo ce ne fossero già allora, ma uno con dei caratteri cirillici, col coperchio non da inserire dentro ma da infilare sopra. Me l'ero portato perfino nel Lager, dove un giorno me lo rubarono». «Che cosa c'era dentro?». «Niente di speciale. Un ciuffo di peli del nostro barboncino, biglietti delle opere liriche che mio padre mi aveva portata a vedere, un anello vinto da qualche parte o forse una sorpresa. Ma il barattolo non me l'avevano rubato per il suo contenuto. Era il barattolo in sé, per via di quel che ci si poteva fare, che nel Lager aveva molto valore». Pose il barattolo sopra l'assegno. «Ha qualche proposta per impiegare questo denaro? Impiegarlo per qualcosa che avesse a che fare con l'olocausto mi sembrerebbe sul serio un'assoluzione, che io non posso né voglio dare». «Per gli analfabeti che intendono imparare a leggere e scrivere. Ci saranno sicuramente degli istituti, delle fondazioni, delle associazioni a cui si può devolvere il denaro». «Ce ne saranno sicuramente». Si mise a pensare. «Ci saranno anche associazioni ebraiche di questo tipo». «Può star certo che se esistono associazioni per qualcosa, ce ne sono anche di ebraiche. L'analfabetismo non è comunque un problema ebraico». Spinse verso di me l'assegno e il denaro. «Facciamo così. S'informi su quali istituzioni ebraiche di questo tipo esistono, qui o in Germania, e poi versi il denaro sul conto dell'ente che più la convince. Lei può benissimo», si mise a ridere, «se questo riconoscimento è tanto importante, versare il denaro a nome di Hanna Schmitz». Riprese il barattolo in mano. «Il barattolo lo tengo io». 12. Tutto ciò risale ormai a dieci anni fa. Nei primi anni dopo la morte di Hanna le antiche domande non mi diedero pace. Mi chiedevo ancora se l'avevo rinnegata e tradita, se aveva lei qualche colpa nei miei confronti, se mi ero reso io colpevole avendola amata, se e come avrei dovuto staccarmi, svincolarmi da lei. A volte mi chiedevo se ero responsabile della sua morte. E a volte ero infuriato con lei per quel che mi aveva fatto. Finché la rabbia veniva meno e le domande perdevano il loro peso. Quel che ho fatto o non ho fatto e quel che lei mi ha fatto: è ormai la mia vita. La decisione di scrivere la storia di Hanna e di me l'ho presa subito dopo la sua morte. Da allora la nostra storia s'è scritta tante volte nella mia testa, sempre un po' diversa, con immagini sempre nuove, con sempre nuovi frammenti di azioni e di pensieri. E così, oltre alla versione che ho scritto, ce ne sono tante altre. La garanzia di aver scritto quella giusta sta nel fatto che ho scritto questa e non le altre versioni. La versione scritta voleva esser scritta, le molte altre no. All'inizio volevo scrivere la nostra storia per liberarmene. Ma i ricordi non si piegavano a questo scopo. Poi mi resi conto che la nostra storia mi sfuggiva di mano, e volli andare a riprenderla per mezzo della scrittura, ma anche così non riuscivo a carpire la memoria. Da qualche anno la lascio stare, la nostra storia. Ho fatto pace con lei. Ed ecco che è ritornata, particolare su particolare e in maniera così rotonda, conchiusa e regolata, che ora non mi rende più triste. Che razza di storia triste! ho pensato per tanto tempo. Non è che adesso pensi che sia felice. Ma penso che sia giusta. Chiedermi, per giunta, se sia triste o felice, non ha alcuna importanza. Ad ogni modo, questo lo penso solo se penso alla nostra storia con animo leggero. Ma se qualcosa mi ferisce, ecco che si riaprono le ferite di allora, e se mi sento colpevole, ecco riemergere i sensi di colpa di allora, mentre avverto nel desiderio, nella nostalgia di adesso il desiderio e la nostalgia di allora. Gli strati della nostra vita sono così sedimentati l'uno sull'altro, che nel dopo incontriamo sempre il prima, non come qualcosa di eliminato, di liquidato, ma come un che di presente e vivo. Questo posso capirlo, eppure a volte lo trovo difficile da sopportare. Forse ho scritto la nostra storia

proprio perché volevo liberarmene. Anche se non ci riesco. Il denaro di Hanna lo versai a suo nome, subito dopo il mio ritorno da New York, alla Jewish League Against Illiteracy. Ricevetti una breve lettera scritta a computer, dove la Jewish League ringraziava Ms. Hanna Schmitz per la donazione. Con la lettera in tasca andai al cimitero, alla tomba di Hanna. Fu la prima e l'unica volta che mi trovai davanti alla sua tomba.

NOTA. Ci sono alcuni punti del testo, certe particolarità squisitamente tedesche, che richiedono qualche breve chiarimento nel passaggio delle Alpi. Si tratta di espressioni e condizioni proprie dell'ordinamento scolastico della Repubblica federale tedesca. Fin dove è stato possibile si è cercato di rendere, con svariati accorgimenti stilistici, la scorrevolezza e l'intelligibilità del narrato in lingua originale. Ma dove ci s'imbatte in una fine dell'anno scolastico che coincide con le vacanze di Pasqua non è questione di soluzioni testuali, perché il problema contestuale rimane. Il lettore italiano può insomma trovarsi disorientato là dove l'autore allude alla cosa dandola per scontata, non avendo ovviamente bisogno di spiegarla al pubblico tedesco. Penso sia quindi opportuno avvertire che in diversi "Länder" ("stati-regione" della federazione) l'anno scolastico finiva prima di Pasqua, negli anni Cinquanta, mentre il nuovo anno cominciava subito dopo la pausa delle vacanze pasquali per poi proseguire fin dentro il cuore dell'estate, con l'interruzione delle "grandi vacanze" estive. Questo era appunto il caso del BadenWürttemberg, "Land" in cui si svolge quasi l'intera vicenda, visto che la città che fa da sfondo al romanzo - mai nominata ma segnalata da riferimenti toponomastici precisi - è Heidelberg, sede della più antica università tedesca. Ora, pur con calendari diversi per i singoli "Länder", l'anno scolastico è unificato per tutta la Germania e ha inizio dopo le sei settimane delle vacanze estive. Per quanto riguarda la scuola frequentata dal protagonista all'età di quindici anni, il narratore dice chiaramente che si tratta del "Gymnasium". Quest'ordine di studi equivale alla nostra scuola media e al nostro liceo classico messi insieme (riuniti com'erano del resto anche da noi nel "ginnasioliceo" d'altri tempi). Il "Gymnasium", però, aveva e ha tuttora livelli d'istruzione inferiori e superiori non paragonabili ai nostri, anche perché il ciclo scolastico era ed è di nove anni. Per cui si è pensato di rendere con "sesta" e "settima" le classi "Untersekunda" e "Obersekunda" (che ora non hanno più questi nomi) seguendo l'ordine di avanzamento. Quando poi si passa agli anni universitari s'incontrano due termini come "referendario" e "referendariato". La parola "referendario" esiste in italiano, anche se con significato diverso da quello tedesco. Non restava quindi che fare un ricalco su "Referendar/Referendariat", considerato che la radice dell'espressione tedesca è latina, romanza. In un contesto meno preciso e specifico si sarebbe potuto rendere il tutto con "praticante/praticantato" o "tirocinante/tirocinio". Ma a richiamarci all'ordine sono apparsi a un certo punto due gendarmi: il primo e il secondo "Staatsexamen". Questi due "esami di stato" (di cui il primo è poi l'esame di laurea) costituiscono le prove obbligatorie per accedere ai livelli superiori della pubblica istruzione nonché della pubblica amministrazione (magistratura compresa, com'è nel caso nostro). Il "referendariato" è dunque quel periodo di formazione che intercorre tra il primo e il secondo esame di stato, e può avere varia durata a seconda dei casi. Quanto alla terminologia e fraseologia giuridica, non ci sono stati particolari problemi di adattamento, poiché in quest'ambito esistono quasi tutte le corrispondenze italiane. Per la proprietà di linguaggio forense che si riscontra nel testo, basti dire che Bernhard Schlink è magistrato e docente di diritto in una università tedesca. Rolando Zorzi.

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