Barbara Baraldi Misteri, Crimini e Storie Inso 9788854158887

January 28, 2018 | Author: Vortex | Category: Isis, Religion And Belief
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La Bologna che non ti saresti mai aspettata!...

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Prima edizione ebook: novembre 2013 © 2013 Newton Compton editori s.r.l. Roma, Casella postale 6214 ISBN 978-88-541-5888-7 www.newtoncompton.com Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

Barbara Baraldi

Misteri, crimini e storie insolite di Bologna Alla scoperta dell'anima oscura, nascosta, sotterranea, esoterica e criminale della città

Newton Compton editori

Introduzione

Sono innumerevoli i misteri custoditi dagli antichi portici della città di Bologna, così come le storie insolite che si raccontano all’ombra dei suoi vicoli medievali. Città dalla vocazione culturale e multietnica, sede della prima università del mondo, Bologna è una città ammantata di un fascino arcano. Un set perfetto, insomma, per raccontare storie del brivido o del mistero. Questo volume è stato costruito così, come il racconto di segreti proiettati come ombre dalla città nel corso dei secoli. Anzi, un viaggio. Un viaggio che comincia con le leggende sulla fondazione della città, che si mescolano con la storia e di cui è ancora possibile intravedere le tracce persino nel tessuto urbano del presente. Un viaggio sorprendente: in pochi sono a conoscenza che dopo l’incendio del 53 d.C. a ricostruire la città rasa al suolo è stato proprio… Nerone! E se da un lato è appurato che da qualche parte, sotto l’asfalto, si nasconde ancora il tesoro dei Templari, non è mai stato chiarito come nel 1600, nel tentativo di trovarlo, l’ingegnere Aristotele Fioravanti sia riuscito a far camminare lungo strada Maggiore un campanile alto venticinque metri. Bologna è la città turrita per eccellenza, sede di edifici che come grattacieli medievali svettano verso il cielo, eppure è il suo sottosuolo a nascondere segreti, come la misteriosa necropoli dei vampiri portata alla luce dai recenti scavi per l’Alta Velocità. Come dimenticare il bolognese Girolamo Menghi? Era il più grande esorcista del Cinquecento, eppure il Vaticano ha posto i testi da lui scritti nell’Indice dei libri proibiti. Tra i calanchi dell’Abbadessa sono sorte numerose leggende riguardo al mistero delle Sette Fonti, meta di pellegrini da tutta Europa e ora scomparse tra i Gessi che imbiancano l’Appennino. C’è chi sostiene che la torre Asinelli sia stata costruita in una sola notte dal diavolo in persona, e non a caso Dante Alighieri parla delle torri di Bologna proprio nella Divina Commedia. Ma tra le storie insolite primeggia senz’altro quella della statua in bronzo realizzata da Michelangelo Buonarroti per papa Giulio II e oggi perduta: pare sia stata utilizzata per forgiare palle di cannone da sparare proprio contro le armate pontificie. Non è mai stato decifrato il codice contenuto nelle incisioni della Pietra di Bologna; si dice nasconda i segreti iniziatici dell’Ordine dei Gaudenti, monaci guerrieri il cui giuramento ricorda quello dei Templari. Bologna la Grassa o Bologna Goliarda? Nemmeno l’origine dei tortellini è mai stata stabilita con certezza, e c’è chi sostiene siano stati ispirati nientemeno che dall’ombelico della dea Venere. La Bologna che emerge tra le righe è una signora altera dai molti volti. Bologna Sacra è quella delle chiese che seguono i percorsi segreti dell’antica città d’acque, di antichi culti dedicati a divinità dimenticate, della Madonna nera che sembra voler schiacciare un serpente lungo 666 archi. Bologna la Dotta è la città dei numerosi collegi dedicati agli studenti stranieri e racconta di scoperte

e rivoluzioni culturali avvenute all’ombra del più lungo porticato del mondo, è la città degli artisti che hanno lasciato un’eredità incancellabile come Niccolò dell’Arca e il massimo capolavoro in terracotta di ogni epoca o le opere di Jacopo della Quercia che Michelangelo studiò per riprodurle nella Cappella Sistina. Le strade della Bologna Criminale raccontano di delitti all’ombra delle Due torri e di bande che hanno minacciato l’ordine pubblico, come la banda di Ugo Tinti detta “dei tatuati” ai primi del Novecento, le imprese della banda Casaroli o dei fanatici della Uno Bianca, di dark lady e omicidi efferati commessi in seno alle famiglie più in vista della Bologna “bene”, dei delitti del DAMS sui quali non è mai stata fatta chiarezza. All’interno del volume non manca una guida alle case infestate più famose, compresa la Casa dalle finestre che ridono, resa celebre dal capolavoro di Pupi Avati. Dopotutto, non dobbiamo dimenticarci di Bologna la Gotica, quella che ha dato i natali al mostro di Frankenstein. Come, non lo sapevate? Preparatevi a rovesciare i luoghi comuni che circondano il capoluogo emiliano: è Bologna la Misteriosa quella che emerge da questo sorprendente volume.

I. Benvenuti a… Bononia

Bologna medievale in una xilografia di A. Baruffi.

La leggendaria nascita di Bologna Un libro sui misteri di Bologna non può che aprirsi su uno degli argomenti più dibattuti dagli storici e dagli archeologici: chi ha fondato la città di Bologna? La nascita di Bologna è un evento circondato da un alone di leggenda e le origini della città rimangono avvolte nel mito. Una delle leggende in proposito è quella del re etrusco Fero, che da Ravenna si spinse nell’esplorazione delle foreste dell’entroterra con un manipolo di seguaci. Giunto in una pianura lambita da un torrente, decise di costruire un accampamento, che col tempo crebbe fino a diventare un villaggio. La leggenda vuole che la sua sposa, la principessa gallica Aposa, sia annegata durante il viaggio per raggiungere l’amato. Da quel giorno il torrente, che ancora oggi scorre nei sotterranei di Bologna, venne chiamato col suo nome. Per collegare le due sponde del torrente, Fero fece costruire un ponte con dei blocchi di arenaria. Il ponte venne chiamato “ponte di Fero” ed è realmente esistito, sebbene sia stato in seguito erroneamente citato dalle cronache come “ponte di ferro”. La sua antica posizione è stata identificata dalle parti dell’odierna via Farini, all’altezza di piazza Calderini. Si racconta poi che Fero, durante un’estate particolarmente calda, si sia messo al lavoro per dotare il villaggio di una fortificazione. Preoccupata per la sua salute, la figlia si recò da lui per dissetarlo. In segno di gratitudine, il re chiamò la città proprio col nome della ragazza: Felsina. Un’altra leggenda vuole, invece, che la città sia stata fondata da Felsino, re etrusco discendente di Ocno, il semidio che secondo Virgilio fondò la città di Mantova. Bono, suo figlio, l’avrebbe in seguito rinominata Bononia. Storicamente, Bononia è il nome che la città assunse dopo l’invasione dei Galli Boi, la tribù celtica di origine boema che si sostituì agli etruschi. Secondo alcuni Bononia significa “città dei Boi”, ma più probabilmente deriva dalla parola gallica bona che significa “città fortificata”. Dopo due secoli di occupazione gallica (la cui lingua ha probabilmente influenzato il dialetto bolognese), la città fu occupata dai romani nel 189 a.C. Va sottolineato che la zona era abitata molto prima dell’avvento degli etruschi, come provano i ritrovamenti, a partire dall’Ottocento, di insediamenti di una civiltà protostorica dell’Età del ferro (circa mille anni prima di Cristo) detta “villanoviana”. I villanoviani costituiscono un enigma, così come la lingua che parlavano: non usavano alcuna forma di scrittura ma solo simboli, tra cui anche la svastica. Essi costituivano una civiltà industriosa e pacifica: non c’è traccia di fortificazioni nei loro insediamenti, né di armi nelle loro sepolture. Dopo i villanoviani, nella zona si sono succeduti etruschi, celti, e poi i romani con la conquista di Bononia da parte delle truppe di Publio Cornelio Scipione. Alla ricerca delle più antiche testimonianze della presenza romana, ricordiamo l’acquedotto del Setta, straordinaria opera ingegneristica che tuttora trasporta in città le acque del fiume Setta, attraverso un percorso sotterraneo lungo circa venti chilometri che parte dai colli di Sasso Marconi. C’è poi la cripta di San Zama, il primo vescovo di Bologna (III secolo d.C.), anticamente parte dell’abbazia dei SS. Naborre e Felice e oggi situata all’interno dell’ospedale militare in via dell’Abbadia. Vi si trovano pavimenti in esagonette, capitelli corinzi e colonne dell’epoca imperiale romana. Un reperto di notevole importanza è il teatro romano, scoperto nel sottosuolo di via de’ Carbonesi

durante il restauro di un palazzo commerciale sul finire del XX secolo. Il teatro, che si estende tra i limiti dell’isolato compreso tra via de’ Carbonesi e piazza dei Celestini, aveva una struttura a semicerchio di circa settanta metri d’apertura, estesi in seguito a più di novanta metri, con sedili in laterizio e rivestimenti in marmi pregiati d’importazione. Secondo gli archeologi, sarebbero dovuti all’imperatore Nerone i lavori di ampliamento del teatro, come testimoniato dal ritrovamento, nei pressi di via de’ Carbonesi, del torso di una statua a lui dedicata in veste militare. Pare che Nerone si sia adoperato perché la città di Bononia venisse ricostruita dopo un incendio che l’aveva completamente rasa al suolo intorno al 53 d.C. Come si sia sviluppato un incendio tanto devastante rimane un mistero, ma questo avvenimento ha scatenato la fantasia di alcuni in merito al fatto che Nerone, circa dieci anni dopo, possa aver causato volontariamente un rogo a Roma allo scopo di poterla ricostruire, esattamente come aveva ricostruito Bologna. In ogni caso, il comportamento mantenuto da Nerone anche nella circostanza successiva fa pensare a una sua particolare abilità nel gestire le emergenze: durante l’incendio di Roma, infatti, Nerone fece aprire i giardini della sua villa per mettere in salvo la popolazione, e requisì una grande quantità di cibo ai patrizi per sfamarla.

Il mistero delle quattro croci A delimitare la città di Bononia nei primi secoli di occupazione romana c’erano le cosiddette “quattro croci”. Per raccontare la loro storia occorre partire dal martirio dei santi Vitale e Agricola, che risale presumibilmente alla fine del III secolo, durante le persecuzioni ai cristiani volute dall’imperatore Diocleziano. Va sottolineato che i loro resti erano sepolti nel cimitero ebraico a testimonianza, forse, del fatto che fossero di origine giudaica. Di certo è escluso che Agricola fosse un cittadino romano, perché la pena sarebbe stata la decapitazione, e non la crocifissione. I loro corpi vennero riesumati dal vescovo di Milano, Ambrogio, nel 387 in visita a Bologna, città che in quegli anni era sotto la giurisdizione del capoluogo lombardo. La vita dei due santi è avvolta nel mistero. Storicamente privo di fonti, il loro martirio è noto soltanto dalle parole pronunciate da Ambrogio al suo ritorno a Milano con parte delle reliquie dei due martiri: «Il nome del martire, di cui vi reco le reliquie, è Agricola, e ebbe per suo servo un cristiano, che si nomò Vitale, il quale poi gli fu compagno nel martirio. I suoi nemici per Vitale adoperarono sopra di lui tutte le sorte di tormenti, e il martoriarono sì e per tal modo, che già in tutto il corpo del martire non v’era parte o luogo, ove non fosse lacero già e straziato. All’ultimo poi, con ciò sia che mai non si piegò sant’Agricola, a voler condiscendere in nulla a suoi persecutori, fu crocifisso». Ambrogio afferma altresì che nella sepoltura di Agricola sono stati trovati numerosi chiodi. Per alcuni studiosi fu proprio Ambrogio, durante la sua permanenza a Bologna, a far erigere quattro croci, poste in cima a colonne di selenite in corrispondenza di quattro delle sei porte esistenti in città, a protezione dell’abitato. Ad avallare questa ipotesi il fatto che le croci vennero intitolate ad altrettante basiliche milanesi fondate da Ambrogio. Tuttavia, altre fonti citano il vescovo bolognese Petronio come fautore del loro innalzamento, durante la reggenza della città. Di queste croci non ci sono giunte che le copie medievali realizzate tra il X e il XIII secolo, attualmente conservate all’interno della basilica di San Petronio. Purtroppo, le edicole costruite per ripararle in epoca medievale, sorrette da colonne con leoni e grifi stilofori, sono state distrutte dai soldati napoleonici durante il trasloco nella basilica ai primi del 1800. La collocazione originaria delle quattro croci dà l’idea dell’estensione della città all’epoca: un quadrilatero di poco meno di quattrocentocinquanta metri per lato, per un totale di circa diciotto ettari. La croce dei Santi apostoli ed evangelisti era posizionata dove ora sorgono le Due torri, mentre la croce delle Sante vergini era situata nell’attuale incrocio tra via Castiglione e via Farini: è infatti nota anche come croce di Strada Castiglione. La croce di Tutti i santi, o croce di Porta Procula, era piazzata nei pressi dell’attuale edificio del Reale collegio di Spagna, a sud-ovest della città, in corrispondenza dell’antico teatro romano, mentre la croce dei Santi martiri, o croce di Porta Castello, era posizionata a nord-ovest, nei pressi dell’antico foro romano, dove la via Emilia usciva dalla città. Per aiutare gli archeologi a tracciare una topografia dell’estensione che in antichità doveva avere Bologna, sono emersi in via Rizzoli nel 1921, durante dei lavori di edilizia stradale, i resti delle cosiddette “mura di selenite”, la prima cerchia muraria della città, la cui datazione e l’esatta conformazione sono destinate a rimanere incerte. Per lo scopritore Angelo Pinelli è stato il vescovo Petronio, nel V secolo, a dare il via alla

costruzione delle mura. Tuttavia, questa ipotesi non è comunemente considerata attendibile. Spiegheremo il motivo più avanti, cercando di ricostruire le testimonianze sulla vita del santo patrono della città. È possibile che l’innalzamento delle mura sia antecedente, e risalga all’epoca del declino dell’impero romano d’Occidente, quando scorrerie e saccheggi erano all’ordine del giorno, non solo da parte dei barbari, ma anche degli stessi generali imperiali che si facevano guerra l’uno con l’altro. Alcuni storici pensano che le mura, realizzate con grandi blocchi di selenite, il minerale gessoso traslucido presente nei colli bolognesi, siano state costruite utilizzando anche i resti di alcuni edifici risalenti all’epoca imperiale romana. Va sottolineato che, prima del declino dell’impero romano, l’organizzazione delle istituzioni era sufficientemente capillare da essere in grado di mantenere la pace. È tuttavia possibile che i romani avessero dotato la città, che godeva di una posizione strategica, di un “vallo” difensivo: un terrapieno circondato da un fossato alimentato dalle acque del torrente Aposa a oriente e del rio Vallescura a occidente. Due indizi sull’esistenza di mura così antiche sono rappresentati dal fatto che nel 402 Bologna fu l’unica città a resistere all’assedio di Alarico, il comandante dei visigoti, e dal fatto che l’imperatore Onorio la scelse come rifugio, considerandola particolarmente sicura. Alcuni sostengono si tratti di una costruzione imperiale risalente alla seconda metà del III secolo. Per la storica Gina Fasoli, autorevole studiosa di storia medievale e docente all’università di Bologna nel secolo scorso, la costruzione delle mura di selenite sarebbe da attribuire a Teodorico, il re degli ostrogoti che governò la città per più di trent’anni dopo la fine dell’impero romano d’Occidente. Lo storico Antonio Ivan Pini, invece, sostiene che la cerchia è stata costruita dai bizantini tra il 637 e il 641, per difendere la città dai longobardi. Altri le attribuiscono proprio ai longobardi, che conquistarono Bologna nel 727. Tutte le abitazioni che all’epoca della costruzione rimasero fuori dalle mura vennero progressivamente abbandonate, al punto che nelle cronache se ne parla come civitas antiqua rupta, ovvero “rovine della città antica”. Un tratto delle antiche mura di selenite è oggi visibile a palazzo Ghislardi-Fava, in via Marconi, sede del Museo civico medievale.

La basilica di Santo Stefano in un’incisione ottocentesca.

I segreti delle Sette chiese Il complesso di Santo Stefano è uno dei luoghi più antichi di Bologna, ed è comunemente conosciuto come “le Sette chiese”. Il motivo è che, un tempo, ospitava ben sette edifici sacri, anche se oggi ne sono sopravvissuti soltanto quattro. C’è un mistero riguardo alla sua origine. Pare che in antichità, nell’area dove oggi sorge il complesso stefaniano, ci fosse un tempio dedicato a Iside, la dea della maternità e della fertilità della mitologia egizia. Natura e sapienza dell’istinto, dea delle acque protettrice dei naviganti con il nome di Meri, identificata anche con Sochit, il campo di grano. E poi simbolo di sorella, sposa e madre, fonte di cultura e salute. Secondo la mitologia, l’amore di Iside nei confronti del marito Osiride, dio della luna, fu così grande da superare la morte. Iside è la dea che pronunciò la frase: «Io vincerò il fato». E così fece, ritrovando i brandelli del corpo dell’amato, ucciso e fatto a pezzi per gelosia dal fratello Seth, riuscendo a rimetterli insieme per ridargli la vita. Per questo motivo Iside rappresenta anche l’immensa forza di colei che ama, il potere della sofferenza e la ricerca suprema dell’anima gemella. Dopo aver riavuto il marito, Iside ebbe da lui il figlio Horus, il dio con la testa di falco, suggellando con questa nascita il suo grande amore. Iside fu una delle divinità più celebrate nel bacino del Mediterraneo a partire dal IV secolo a.C. Il suo culto continuò a propagarsi, pur subendo variazioni e mutazioni, anche dopo l’avvento dell’impero romano. Il culto di Iside ebbe una particolare diffusione tra i romani tra il II e il III secolo d.C., al punto che l’imperatore Vespasiano fece coniare delle monete con la sua effige. Si narra che nel 1299, scavando nella piazzetta antistante il complesso di Santo Stefano, sia stata ritrovata una lapide di epoca romana con un’iscrizione. Tuttora visibile sulla parete esterna della chiesa del Crocifisso, la lapide celebra il gesto del liberto Aniceto, che innalzò in quel luogo un’ara per rendere gloria a Iside «vincitrice nel nome di Mario Calpurnio Tirone e Sestilia Armilla». Gli scettici sostengono che la lapide sia stata trasportata insieme alle pietre e al marmo utilizzati come materiale da edilizia, ma non sono in grado di specificarne la provenienza. Un altro indizio sull’esistenza dell’antico tempio è dato dal fatto che nei luoghi di culto dedicati alla dea egizia c’era sempre una fonte d’acqua sorgiva, ancora presente all’interno della basilica del Sepolcro. Bisogna aggiungere che a Bologna esistono altre tracce di questo culto: per alcuni la stessa Vergine di San Luca non è altro che Iside. Quest’ultima era infatti spesso raffigurata con la pelle scura, proprio come la Madonna nera, e con in braccio un bambino. A volte era rappresentata con indosso un velo, simbolo delle molteplici forme di cui è rivestito lo spirito. «Dove tu guardi pietosa, l’uomo morto ritorna in vita, il malato è guarito», si diceva di Iside. Dell’antico culto potrebbero essere rimaste tracce nella preghiera Salve Regina: «Rivolgi a noi quegli occhi tuoi misericordiosi». Ma ritorniamo al complesso delle Sette chiese. Santo Stefano si trova nel piazzale che si apre sull’omonima via ed è senza dubbio una delle costruzioni religiose più affascinanti della città. Dei sette edifici originari, solo quattro sono sopravvissuti: la basilica del Sepolcro, la chiesa del Crocifisso, la basilica dei SS. Vitale e Agricola e la chiesa della Trinità. La leggenda vuole che il vescovo Petronio, di ritorno da un pellegrinaggio in Terrasanta, abbia

disposto l’edificazione della basilica del Sepolcro a immagine del Santo Sepolcro di Gerusalemme. In realtà non ci sono testimonianze circa il viaggio di Petronio, ma l’edificazione della basilica risale certamente all’epoca del suo vescovato. Fu quindi certamente Petronio a decidere di costruirla, sull’esistente tempio di Iside. Le prove dell’esistenza del culto precedente sono il fatto che, delle dodici colonne presenti, sette sono di marmo africano di epoca romana, e la presenza della fonte d’acqua sorgiva, con cui Petronio decise di simboleggiare le acque del fiume Giordano. La forma originale della basilica era circolare, ma la ricostruzione avvenuta nel XII secolo le ha dato l’attuale forma ottagonale. Risalgono a questo periodo gli affreschi nelle volte e nelle pareti, successivamente distrutti durante degli scriteriati lavori di restauro avvenuti nel 1800. All’interno si trova una colonna di marmo cipollino nero, anche questa risalente all’epoca romana e riutilizzata dai costruttori della basilica, indicata come la colonna contro cui Cristo venne flagellato. L’edicola presente al centro della chiesa rappresenta il sepolcro di Cristo all’interno della quale furono rinvenute, nel 1141, le spoglie di san Petronio. Sono state conservate qui fino a qualche anno fa, poi sono state spostate nella basilica a lui dedicata. Si narra che nel Medioevo il sepolcro venisse aperto una settimana all’anno e fosse tradizione per le donne incinta inginocchiarsi ed entrare attraverso la minuscola porticina per poi strisciare all’interno e pregare dinanzi alle spoglie del patrono bolognese. Uscendo dalla basilica del Sepolcro si giunge nel cortile di Pilato, rappresentazione del luogo dove fu condannato Gesù. Al centro, c’è una vasca in pietra calcarea chiamata “Catino di Pilato”. Dono dei longobardi e datata tra il 730 e il 740 d.C., è considerata la copia del bacino dove la leggenda vuole che il prefetto Pilato si sia lavato le mani. Sul muro della basilica che si affaccia sul piazzale di via Santo Stefano è presente un’enigmatica pietra, detta “pietra della verità”: si narra che cambi colore quando qualcuno osa pronunciare una menzogna dinanzi ad essa. Un’altra leggenda vuole che anticamente fosse così lucida da risultare riflettente, e che le donne ci si specchiassero per vanità. Per questo motivo, un eremita compì un prodigio cosicché la pietra anziché i volti delle persone riflettesse i loro peccati. Per taluni le visioni erano così raccapriccianti da provocare attacchi di isteria e grida strazianti, al punto che il vescovo proibì di avvicinarsi a essa e compì un altro miracolo, rendendola opaca. C’è poi un episodio di cui narra la cronaca cittadina del secondo dopoguerra: dei lavori di ristrutturazione portarono alla luce alcune tombe di fronte al complesso di Santo Stefano. Coloro che erano presenti giurano di aver visto materializzarsi per alcuni secondi una figura con un vestito rosso che, a contatto con l’aria, si è disgregata come un pugno di polvere. Il più antico edificio cristiano del complesso di Santo Stefano è la basilica dei SS. Vitale e Agricola, sorta sul luogo in cui Ambrogio rinvenne le spoglie dei due protomartiri. Al suo interno sono visibili i resti di pavimento a mosaico romano, e sono presenti i due sarcofagi realizzati in epoca medievale di Vitale e Agricola. La croce che si trova sulla parete della navata destra era considerata quella del supplizio di Agricola, ma risale in realtà a un’epoca successiva. Una curiosità: l’altare della basilica è un’ara pagana rivoltata ed è addossato alla parete di fondo, perché all’epoca della sua costruzione era uso celebrare le liturgie dando le spalle ai fedeli. La chiesa della Trinità, detta anche di Santa Croce o Calvario, in origine doveva essere una basilica a cinque navate con l’abside verso il cortile di Pilato e la facciata a est, proprio come il Santo Sepolcro a Gerusalemme, ma Petronio non riuscì a completarla e rimase incompiuta. A terminarla furono più tardi i longobardi, che ne fecero un battistero. Attualmente ha la facciata verso il cortile e

l’abside rivolto a est. Dall’epoca delle Crociate fino al 1950 era custodito al suo interno un frammento della Santa Croce. Di notevole interesse la cappella dell’Adorazione dei magi, che contiene il più antico presepe esistente al mondo. Si tratta di un gruppo di statue, a grandezza naturale, realizzate in legno e risalenti al 1291. La chiesa del Crocifisso è chiamata anche chiesa di San Giovanni Battista, ed è quella dove ancora oggi si officiano le liturgie. Si ritiene che fosse per i longobardi una sorta di cattedrale; la sua costruzione, infatti, risale al VIII secolo, epoca del loro dominio in città. All’interno si presenta molto semplice, con una sola navata con volta a capriate lignee e il presbiterio sopraelevato sulla cripta. A sinistra si può ammirare la Pietà e una statua di cartapesta del XVIII secolo opera dello scultore e chirurgo Angelo Gabriello Piò. Salendo una scalinata si accede al presbiterio, che corrisponde all’antica chiesa di San Giovanni Battista di sopra. Lì possiamo ammirare gli affreschi del XV secolo che raffigurano il martirio di santo Stefano e, al centro, il crocifisso realizzato nel 1380 da Simone dei Crocifissi. Costui si formò nella prestigiosa bottega di Vitale da Bologna, celebre rappresentante della scuola emiliana trecentesca che univa le suggestioni gotiche d’oltralpe al realismo dinamico e pulito della pittura bolognese. Ma il mistero che la riguarda è sepolto nella cripta del XIII secolo, posta sotto il presbiterio: è infatti suddivisa in cinque navate, sorrette da colonne di marmo di diversa fattura, alcune delle quali sono sormontate da capitelli romanici. Secondo una tradizione che si perde nella notte dei tempi, una di queste colonne indicherebbe l’esatta altezza di Gesù, un metro e settanta circa. Va letta dallo zoccolo di base fino alla lastra che funge da capitello e, a dire la verità, si tratta di una statura molto elevata per l’epoca in cui Cristo visse. Nel volume Aneddoti bolognesi del 1929, Alfredo Testoni e Oreste Trebbi raccontano un curioso aneddoto riguardante Joseph Renan, scrittore francese della seconda metà dell’Ottocento. Costui era un filosofo e storico delle religioni, ricordato per la sua definizione di nazione, estrapolata dal suo discorso Qu’est-ce qu’une nation? del 1882. Per lui, l’oblio è una delle principali basi su cui fondare un’identità nazionale. La ricerca storica? Il male peggiore, in quanto mette in luce la violenza su cui poggiano le basi tutti i partiti politici. Proprio Joseph Renan, esperto sulla vita di Gesù e autore del popolare Vie de Jésus, primo volume di Origines du christianisme, di passaggio a Bologna si mostrò desideroso di visitare la città. Enrico Panzacchi si offrì di fargli da guida, e una delle prime mete fu proprio la chiesa del Crocifisso. Si narra che, dinanzi alla colonna, il filosofo francese si sia mostrato incredulo. Panzacchi lo derise dicendo: «Il était plus haut que vous, monsieur Renan!»[1], gli fece cioè notare che Gesù era più alto di lui. Visitando il chiostro medievale interno al complesso di Santo Stefano, è possibile ammirare i cosiddetti “capitelli mostruosi”. Si tratta di sculture presenti nei capitelli delle colonne, tra le quali figurano un uomo nudo schiacciato da un macigno e un altro con la testa rivolta verso la schiena. Pare che Dante Alighieri ne abbia tratto ispirazione per alcuni dei supplizi descritti nella Divina Commedia.

II. Bologna gotica

Il diavolo con ali da pipistrello, in una xilografia del XVII secolo.

La città dei vampiri Il vampiro è una delle figure più affascinanti del folklore popolare, la cui origine è comunemente collocata nei paesi slavi ma che ormai, complici cinema e letteratura, è radicata nell’immaginario collettivo anche in Occidente. Secondo la tradizione un vampiro è, sostanzialmente, un essere umano sospeso in uno stato intermedio tra la vita e la morte, che durante la notte esce per nutrirsi del sangue delle sue vittime. L’etimologia della parola “vampiro” non è chiara: sappiamo che deriva dal francese vampire, mutuata nel Settecento dall’ungherese vampir. Questo termine ha un analogo in ogni lingua slava, dal polacco wapierz al russo upir. Ed è proprio il termine upir il primo ad apparire in un manoscritto, una lettera datata 1047 e indirizzata al principe di Novgorod, in Russia, in cui il principe stesso viene definito upir lichyj, “vampiro malvagio”. Gli indizi sembrano confermare la teoria secondo la quale l’origine del mito del vampiro sia di origine slava. Eppure recenti scoperte sembrano voler scardinare questa ipotesi. Come spiegare, infatti, le sepolture anomale rinvenute a Bologna durante i lavori di scavo per l’Alta Velocità nel 2004? Prima di analizzare i fatti è necessaria una premessa: la credenza nei vampiri era già diffusa nell’antico Egitto e tra gli assiro-babilonesi. Nelle tavole rinvenute dagli archeologi nella regione dell’antica Mesopotamia è descritto un pantheon di divinità tra le quali compare la figura dell’ekkimu, lo spirito errante di un defunto che non è stato cremato. La caratteristica che accumuna l’ekkimu con il vampiro moderno è il fatto che entrambi hanno vinto la morte, ritornando dall’aldilà. Per questo motivo si parla di ravenant, “colui che ritorna”. Ma torniamo ai giorni nostri, precisamente al 2004 quando, durante i lavori di scavo per la realizzazione della linea ferroviaria ad alta velocità, dalle parti di via de’ Carracci avviene una scoperta sorprendente: un gruppo di archeologi trova, sotto il fascio di binari che va dal tredici al quindici, i resti di un’antica necropoli risalente all’epoca imperiale romana. Si parla quindi di tombe datate tra il I e il II secolo d.C. Grazie agli scavi è stata anche scoperta una strada finora sconosciuta, intorno a cui si dispongono i monumenti funerari. Si tratta di una via acciottolata che collegava l’antico insediamento di Bononia con il territorio nord-occidentale, forse un tracciato alternativo agli assi centuriali. Agli studiosi è apparsa subito evidente la differenza rispetto ad altre necropoli di epoca romana. È l’insolita modalità di sepoltura di alcune tombe ad aver scatenato l’interesse del mondo accademico, al punto che è stato costituito un pool di ricerca multidisciplinare costituito da archeologi della soprintendenza per i Beni archeologici dell’Emilia-Romagna e studiosi del laboratorio di Bioarcheologia e osteologia forense dell’università di Bologna. Il pool non ha esitato a definire alcune delle sepolture “anomale”: delle circa duecento tombe, una quarantina hanno caratteristiche sconosciute per il mondo romano. Spiega Maria Giovanna Belcastro, antropologa dell’Alma Mater: «C’è un cadavere col chiodo infisso all’apice del cranio, altri che hanno cavicchi piantati nell’occhio, in testa e nell’orecchio destro. Altri ancora che sono stati mutilati col taglio dei piedi»[2]. Una delle costanti di tali sepolture è il posizionamento innaturale in cui vengono trovati i corpi. Quello della tomba 109, per esempio, appartiene a una donna col cranio ripiegato in modo che la

nuca quasi tocca l’omero destro. Quello della tomba 161, un maschio adulto tra i venticinque e i trentacinque anni, è in posizione prona, una rarissima eventualità nelle necropoli romane dell’età imperiale, ed era probabilmente legato. Ogni corpo risulta trattato in modo differente. Dello scheletro della tomba 244 rimane solo la metà inferiore, e vi è stato inserito un balsamario in vetro contenente unguenti. In tutti i casi, le lesioni sono riconducibili a interventi praticati dopo la morte, a scheletrizzazione avanzata. Pertanto, qualcuno deve aver intenzionalmente riaperto quelle tombe per riposizionare le ossa, trafiggerle con chiodi per ancorarle al suolo ed effettuare mutilazioni sugli scheletri. La necropoli di via de’ Carracci può essere considerata una sorta di cimitero di vampiri? È stato appurato che per gli etruschi, i celti e i romani fino al Medioevo i chiodi avevano un significato simbolico; vengono infatti trovati spesso nei corredi delle tombe. Per questo motivo è stata avanzata l’ipotesi che con quel tipo di sepoltura si volesse impedire al morto di risvegliarsi. Secondo gli antropologi le mutilazioni dovevano servire a impedire, sostanzialmente, che il morto ritornasse dall’oltretomba. Forse, nella necropoli di via de’ Carracci erano sepolte persone che dovevano scontare una colpa anche nell’aldilà, e per qualche motivo se ne temeva il ritorno dalla morte. Va sottolineato, però, che le pratiche a cui sono state sottoposte le sepolture anomale di via de’ Carracci non erano diffuse presso gli antichi romani. Tali pratiche si sono diffuse in alcune popolazioni dell’Est Europa molto dopo la caduta dell’impero romano, e servivano a proteggersi da defunti ritenuti in grado di ritornare dopo la morte, magari per risolvere questioni rimaste in sospeso. Presso queste popolazioni poteva avvenire che i cadaveri fossero sepolti insieme a oggetti con funzione apotropaica, ovvero amuleti considerati in grado di annullare gli influssi maligni. Ci sono casi di cadaveri orribilmente mutilati o decapitati, mentre a volte il corpo veniva cremato per distruggerlo completamente. A tale proposito, non è un caso che l’ekkimu della Mesopotamia fosse lo spettro di un defunto che non era stato cremato. Una sorte analoga ai “vampiri” di via de’ Carracci l’hanno subita i due teschi rinvenuti durante i lavori di ristrutturazione della cattedrale di San Pietro, che si trova in via Indipendenza. Di datazione più recente rispetto alle sepolture anomale di via de’ Carracci – si parla in questo caso del XVII secolo – i teschi si presentano trafitti da numerosi chiodi. La loro identità è sconosciuta, come non sono noti i motivi della mutilazione post mortem né, tantomeno, le circostanze che hanno portato a conservarli all’interno della cattedrale. La cattedrale di San Pietro è stata edificata nel 1184 sulle rovine di una chiesa distrutta da un incendio. Dell’edificio precedente è sopravvissuto soltanto il campanile paleoromanico a base circolare, che però è visibile soltanto dall’interno: nel Duecento gliene è stato costruito un altro tutt’intorno. Sede della Cattedra dell’arcivescovo di Bologna fin dal 1582, San Pietro è stata più volte riedificata, al punto che non presenta uno stile definito: l’interno è barocco, mentre la facciata è chiaramente di ispirazione neoclassica. Nel lunettone centrale del presbiterio sono conservati la splendida Annunciazione di Ludovico Carracci, una Crocifissione in legno di cedro risalente al periodo romanico e il gruppo scultoreo in terracotta del Compianto sul Cristo morto risalente ai primi del Cinquecento e opera di Alfonso Lombardi. Tuttavia, sono andati perduti molti degli affreschi originari, opera dei pittori attivi a Bologna durante il Rinascimento, tra cui quelli di Ercole de’ Roberti, un artista che ha profondamente influenzato Michelangelo. Di quale colpa fossero portatori i due sconosciuti i cui teschi sono stati ritrovati in San Pietro non è

dato saperlo. Dovevano però essere considerati particolarmente pericolosi se oltre alla decapitazione e ai chiodi piantati nella calotta cranica sono stati conservati all’interno di un edificio sacro. Tra le ipotesi che sono state avanzate è che si trattava di persone talmente crudeli da essere temute anche dopo la morte, di negromanti o vittime di morte violenta o improvvisa, o forse suicidi. Ancora una volta è necessario sottolineare che tali consuetudini non appartengono alla tradizione funeraria italiana. E mentre gli studiosi continuano a indagare per fare chiarezza sulle sepolture anomale e sui teschi chiodati di San Pietro, emerge un ritratto inedito di una città dalle molteplici identità: la Bologna dei vampiri. Quelli delle necropoli di via de’ Carracci e della cattedrale di San Pietro sono molto diversi dal vampiro letterario di fine Ottocento, normalmente ritratto come un aristocratico dall’animo decadente e romantico in lotta contro i suoi impulsi omicidi. La sua incarnazione letteraria più nota è il tratteggio che ne fa nel 1897 Bram Stoker nel suo Dracula. Ma in pochi sanno che, circa trent’anni prima, è stato un bolognese a scrivere la prima opera di narrativa italiana sui vampiri: si tratta del romanzo Il vampiro – Storia vera, scritto da Franco Mistrali nel 1869. Ambientato nel principato di Monaco, Il vampiro di Mistrali racconta la storia di una setta segreta che pratica il culto del sangue. La trama segue le vicende di uno scrittore che, recatosi nella dimora del conte Alfredo Kostia, un giovane aristocratico polacco, rimane colpito da un quadro che raffigura un’enigmatica donna vestita di bianco. Kostia rivela allo scrittore che si tratta di Pia Ludowiska, la sua promessa sposa morta tra le sue braccia dieci anni prima. La faccenda si complica quando, durante una gita, Kostia e lo scrittore incontrano una ragazza bellissima identica alla modella del quadro. Nonostante i tentativi di inseguirla, la ragazza scompare nel nulla. Sconvolto dall’episodio, Kostia confessa di temere che colei che un tempo amava sia diventata una vampira. Questo terribile sospetto si rafforza quando viene disposta la riesumazione del corpo di Pia: la bara è vuota, e al posto del cadavere ci sono soltanto un anello d’oro con un rubino e un medaglione. Da questo momento si dipana un intreccio fitto di intrighi, complotti, tradimenti e fughe rocambolesche, che spostano il set della narrazione dalle sontuose ville monegasche ai suggestivi boschi siberiani, fino ai castelli e ai palazzi imperiali lituani. Figura tra le più controverse dell’Ottocento bolognese, il barone Franco Mistrali, ex ufficiale dell’esercito asburgico, fu giornalista, storico e scrittore. Convinto garibaldino, assunse pubblicamente posizioni anticlericali, filoasburgiche e spesso antiliberali. Celebre per il suo carattere intemperante, fu direttore del quotidiano «Il monitore di Bologna». Finì addirittura in carcere nel 1874, a seguito dello scandalo della Banca delle Romagne. Mistrali, infatti, era stato nominato amministratore delegato della banca ma, preso dall’entusiasmo per le speculazioni finanziarie in voga all’epoca, aveva finito per condurla al fallimento. Lo storico Alessandro Cervellati lo definisce così: «Attaccava tutto e tutti riuscendo a farsi temere e ad aver maggior copia di nemici anziché amici»[3]. E tra i suoi nemici giurati figurava anche Giosuè Carducci, che arrivò a fondare un periodico, «Il matto», al solo scopo di screditarlo. Per scrivere Il vampiro – Storia vera, Mistrali prese spunto da alcuni suoi scritti giovanili di genere gotico: I racconti del diavolo – Storia della paura. Tuttavia, tra le sue fonti di ispirazione figurava certamente Il vampiro, il racconto che John Polidori pubblicò nel 1819 e che è considerato l’antesignano della narrativa vampirica. La genesi del racconto di Polidori è la stessa di Frankenstein: risale, infatti, a quella piovosa notte

del 16 giugno del 1816 in cui, a villa Diodati sul lago di Ginevra, Lord Byron sfidò i suoi ospiti – tra i quali Mary Shelley e John Polidori – a scrivere una storia dell’orrore. Questo non sminuisce l’importanza storica del vampiro di Mistrali, autentico pioniere del genere, il quale, oltre ad aver anticipato Bram Stoker, è giunto tre anni prima di un’altra celebre vampira letteraria, la Carmilla di Sheridan Le Fanu. Scrive Mistrali: «Quando il mostro è entrato nella stanza e sta presso alla vittima, un sonno più pesante, un sonno magnetico, profondo, pesa sugli occhi suoi: lo spettro si china, scopre il seno palpitante e posa le labbra fredde dove batte il core: quel bacio richiama da una impercettibile ferita, la puntura di un ago d’oro, uno zampillo di sangue bollente, onda di vita. Il Vampiro torna e ritorna: ciascun dì le forze della vittima vengono meno, finché l’inesplicabile languore la uccide: i medici pronunciano una delle solite parole latine o barbaricamente composte, mentre lo spettro si aggira invisibile in cerca di altri fatali amori». C’è chi pensa che il vampirismo sia nato per spiegare la porfiria, una malattia rara i cui sintomi sono l’anemia, che spingeva i medici di un tempo a prescrivere dosi giornaliere di sangue fresco, la fotosensibilità, l’alterazione delle mucose che porta le gengive a ritrarsi e scoprire una maggiore superficie dei denti (da qui l’immagine del vampiro “zannuto”), e persino una sorta di allergia all’aglio, la cui assunzione aggrava i sintomi della patologia. Secondo alcuni, insomma, il vampiro è soltanto una creatura fantastica. Ma in nessun’altra città come a Bologna, tuttavia, antiche leggende si fondono con una realtà fitta di misteri e di magia, rendendo a volte indistinguibile il confine tra mito e verità. Ma la letteratura “vampirica” non è l’unico ambito della narrativa debitrice in qualche modo alla città di Bologna. Ci sono indizi che fanno pensare che Luigi Galvani, fisico e anatomista bolognese, abbia influenzato l’opera di Mary Shelley, ispirando il romanzo Frankenstein. Come risulta dalla sua biografia, Galvani nasce a Bologna il 1737, città dove si laurea in filosofia e medicina, e nella quale trascorre la maggior parte della sua vita. Membro dell’accademia delle Scienze dell’istituto di Bologna dal 1761, nel 1766 diventa professore di anatomia dell’istituto delle Scienze e custode delle camere anatomiche, una carica che all’epoca prevedeva anche il compito di tenere lezioni pubbliche per chirurghi, pittori e scultori. Nel 1775 diventa lettore in anatomia pratica. È in questo periodo che, affascinato dagli esperimenti condotti da René Réaumur e John Hunter sulle torpedini, si dedica a ricerche nel campo della cosiddetta elettricità animale, conducendo una serie di esperimenti per studiare la risposta a stimoli elettrici da parte di rane morte e opportunamente dissezionate. Va sottolineato che, a quell’epoca, non veniva dato per scontato che l’elettricità artificiale, ovvero quella prodotta in laboratorio, avesse la stessa natura dell’elettricità atmosferica, quella dei fulmini. Scrive Galvani in uno dei suoi trattati: «Dopo aver raggiunto le scoperte da noi finora esposte intorno alla forza dell’elettricità artificiale nelle contrazioni muscolari, fu nostro vivo desiderio indagare se la cosiddetta elettricità atmosferica producesse, oppure no, i medesimi fenomeni: cioè se, seguendo i medesimi artifici, lo scoccare dei fulmini eccitasse contrazioni muscolari, così come quelle della scintilla». Queste ricerche portarono Galvani a intuire ciò che oggi è dimostrato, e cioè che la differenza di potenziale tra l’interno e l’esterno delle cellule è alla base dei segnali nervosi. Nell’opera De viribus electricitatis in motu musculari commentarius, pubblicata nel 1791, espone la sua teoria secondo la quale esiste un’elettricità intrinseca all’animale.

In una serie di esperimenti posizionò un anfibio su una piastra di ferro e ne stimolò il midollo spinale e i muscoli con archi metallici. Dai suoi studi nacquero dottrine che ipotizzavano si potesse ridare vita agli esseri umani tramite la trasmissione di impulsi elettrici. Nel 1803, a Londra, Giovanni Aldini, nipote di Galvani, pubblicò An account of the late improvements in galvanism, un resoconto di esperimenti su cadaveri ai quali si riescono a indurre movimenti che somigliano a una rianimazione. E Aldini si spinse addirittura a teorizzare il ritorno in vita del cadavere. Anche se non è mai stato confermato, si dice che Lord Byron, amante della sorellastra di Mary Shelley, fosse affascinato dalle teorie di Aldini, delle quali avrebbe lungamente discusso durante quella notte piovosa, durante il suo soggiorno nei pressi di Ginevra nel 1816: la notte in cui Mary Shelley scrisse la prima stesura del suo Frankenstein, o il moderno Prometeo, un romanzo in cui uno scienziato assembla una creatura e le infonde la vita stendendola su un tavolo di ferro e convogliando su di essa gli stimoli elettrici provenienti da un fulmine.

I misteri di San Petronio Diversamente da ciò che avviene in altre città italiane ed europee, l’edificio sacro più importante di Bologna non è la cattedrale, bensì la basilica dalla caratteristica facciata incompiuta che si trova in piazza Maggiore e intitolata al patrono della città, san Petronio. Ma chi era san Petronio? In realtà, si tratta di un vero e proprio mistero. La sua vita è avvolta nel mito dato che, come accennato in precedenza, su di lui esistono pochissime testimonianze storiche. È documentato che visse a Bologna nel V secolo: il suo nome compare come ottavo vescovo di Bologna nell’Elenco Renano, l’antica lista dei vescovi bolognesi di cui ci è stata tramandata la copia trecentesca, conservata oggi nella cattedrale di San Pietro. Le uniche testimonianze scritte dai contemporanei di Petronio e pervenute fino ai giorni nostri sono due: quella di Eucherio di Lione, che lo cita in una lettera come esempio di persona che aveva abbandonato i privilegi di un rango sociale elevato per prendere i voti, e quella di Gennadio di Marsiglia, che descrive Petronio come uomo virtuoso ed educato fin dall’infanzia agli studi religiosi. Forse discepolo del vescovo Ambrogio a Milano, Petronio, a partire dal 431 d.C. e per circa vent’anni, governò una Bologna di fatto priva di altra autorità se non quella religiosa. Di lui non si hanno più notizie fino al 1141, anno in cui il vescovo Enrico fu costretto ad abbandonare il vescovado a causa di un incendio. Al ritorno in sede, Enrico annunciò il ritrovamento delle spoglie di san Petronio, avvenuto durante il suo soggiorno nel complesso di Santo Stefano. La proclamazione di feste in suo onore e la redazione di un’agiografia leggendaria da parte dei monaci benedettini portarono all’elevazione del santo alla dignità di patrono della città verso la metà del XIII secolo. Il santo viene da allora indicato come responsabile della ricostruzione della città rasa al suolo dalle invasioni barbariche del V secolo, e perfino primo promotore dello Studium, l’università bolognese. A quel tempo, la scelta di eleggere san Petronio patrono parve la più favorevole, e venne preferito a san Pietro, ormai divenuto simbolo dell’egemonia papale, e a san Procolo, il quale, sebbene rappresentasse una figura popolare in città, era di estrazione militare e quindi legato alla figura dell’odiato imperatore, all’epoca Federico Barbarossa. Poco più di un secolo dopo, verso la fine del XIV secolo, cominciò la costruzione della basilica dedicata a san Petronio che tutt’oggi si eleva su piazza Maggiore. Il progetto venne affidato all’architetto Antonio di Vincenzo e dati i costi esorbitanti fu necessario ricorrere a una certa dose di creatività per finanziarlo. Celebri sono i venti “confessori” inviati da papa Bonifacio IX per il Giubileo straordinario per raccogliere donazioni in cambio di indulgenze. Dopo la morte di Antonio di Vincenzo, l’onere di completare l’edificio ricadde sui posteri. Nel corso di un secolo di stallo dei lavori, il progetto originario andò perduto e la costruzione della basilica, iniziata il 7 giugno del 1390, terminò solo tre secoli dopo, nel 1659, con la copertura marmorea della facciata tutt’oggi visibilmente incompiuta. A essere incaricato di riprendere i lavori, nel 1514, fu l’architetto Arduino Arriguzzi. Il suo ambizioso progetto prevedeva che la basilica di San Petronio diventasse la più grande della cristianità. Tuttavia, non fu possibile attuare questo proposito perché papa Pio IV, non appena insediato sul trono pontificio, sollecitò la costruzione del palazzo dell’Archiginnasio, proprio di fianco alla basilica. Formalmente fu per donare una sede stabile allo Studium, ma in realtà fu per

scongiurare l’eventualità che la basilica bolognese superasse in superficie quella vaticana di San Pietro. L’Archiginnasio venne edificato nel tempo record di due anni, costringendo i costruttori a troncare le navate laterali della basilica, che avrebbero dovuto conferire all’edificio la pianta a croce. Nella chiesa, ultimo grande esempio di architettura gotica in Italia, è possibile riconoscere la diagrammazione ad quadratum per la pianta e ad triangulum per l’alzato, a dimostrazione che l’architetto Di Vincenzo applicò gli insegnamenti del matematico ed esoterista Gabriele Scovaloca. Tuttavia, l’orientamento della basilica di San Petronio segue una direttrice nord-sud, anziché estovest, insolita per l’architettura gotica, ma fortemente voluta dall’architetto Di Vincenzo al punto che fu necessario espropriare e far radere al suolo un intero quartiere e quattro chiese per far spazio alle fondamenta. Confrontando gli studi di Scovaloca con la struttura di San Petronio emerge il piano di una costruzione di tipo esoterico, tipico dell’architettura gotica. Inserendo in un cerchio la facciata della chiesa, il punto centrale crea il simbolo del Sole, retaggio degli antichi culti solari ed emblema della divinità. Secondo questo schema, il triangolo iscritto nel cerchio rappresenta l’elevazione, la perfezione e la trasformazione: il forno dell’alchimista. La chiesa di San Petronio custodisce alcuni segreti destinati a rimanere senza risoluzione. Entrando, all’interno della prima cappella a destra si può vedere una statua in terracotta policroma risalente al XV secolo. Raffigura un soldato disteso che tiene tra le mani una spada. La prima cosa che salta agli occhi è che il soldato in questione non ha un nome. Di chi si tratta? E come si spiega che la statua di un uomo d’armi sia conservata all’interno di una chiesa? Un’antica leggenda vuole che si tratti del cosiddetto “soldato blasfemo”, un giovane che, forse in un momento d’ira, scagliò la sua spada contro l’immagine della Madonna che anticamente era conservata all’esterno dell’edificio religioso. Si narra che il soldato cadde a terra svenuto, e fu immediatamente arrestato e condannato a morte per il sacrilegio compiuto. Il giovane si pentì e cominciò a pregare con fervore. Secondo la leggenda le sue preghiere non solo gli salvarono la vita, ottenne infatti la grazia dalla pena, ma gli portarono anche salute e fortuna. Tornando al Sole, il simbolo dell’antica divinità è presente anche all’interno della chiesa: si tratta della meridiana che attraversa il pavimento della navata sinistra. Realizzata dall’astronomo Gian Domenico Cassini nel 1655, coi suoi 66,8 metri è la più lunga del mondo. Indica con sorprendente precisione il mezzogiorno solare, al punto che si narra che i vecchi orologiai di Bologna andassero in San Petronio per regolare gli orologi. Una delle particolarità è che non è una linea d’ombra a indicare l’orario come nelle meridiane tradizionali, ma un cono di luce che ricorda la figura del Sole. Una leggenda vuole che visitare la meridiana sia di buon auspicio per gli innamorati, in quanto periodicamente proietta un’immagine a forma di cuore. Nel museo di San Petronio sono conservati i progetti degli importanti architetti che si sono avvicendati nel progetto della facciata, tra cui Jacopo Barozzi detto il Vignola e Andrea di Pietro detto il Palladio. La porta centrale della basilica è opera di Jacopo della Quercia e contiene bassorilievi di grande pregio che raffigurano le Storie della Genesi, e che furono studiate da Michelangelo durante la sua permanenza a Bologna. L’artista ne fu così impressionato che le riprodusse nella Cappella Sistina. Michelangelo, infatti, definì la Madonna col bambino e i santi Petronio e Ambrogio presente nella lunetta del portale «la più bella Madonna del Quattrocento».

Le torri del diavolo Bologna è soprannominata la “città delle torri”, e in effetti la presenza di numerose torri di origine medievale è uno degli elementi caratteristici del paesaggio urbano. Molte, però, sono andate distrutte nel corso del tempo, crollate per la fragilità della struttura o delle fondamenta, a causa di guerre o terremoti. Alcune sono state inglobate da costruzioni successive e ci sono palazzi dalla cui facciata traspare l’antica destinazione. Altre sono state demolite per ordine della magistratura comunale, ad esempio come condanna per delitti particolarmente gravi commessi dal proprietario, o per fare spazio alle ristrutturazioni urbanistiche avvenute nel corso dei secoli. Ventisei è il numero di torri superstite. Ma quante erano le torri di Bologna? Non esiste una risposta certa. È sicuro invece che nel XIII secolo il numero di torri presenti in città fosse molto più alto di quello attuale. Bisogna premettere che non è chiaro il motivo per cui ci sia stata una tale proliferazione di questo tipo di edifici. Gli storici indicano convenzionalmente l’origine del fenomeno nel XI secolo, quando tra le famiglie filoimperiali e quelle filopapali infuriava la lotta per le investiture. È quindi possibile, anche se non provato da testimonianze scritte, che le prime torri siano state realizzate dalle famiglie più facoltose, e pertanto maggiormente coinvolte negli scontri, a scopo di difesa e di offesa, oltre che come mera dimostrazione di potere. In realtà, alcuni studi hanno provato che alcune erano presenti già prima dell’anno Mille: si tratta dei cosiddetti “torresotti”, parte integrante della cinta muraria detta “la cerchia del Mille”, che fu un fondamentale strumento di difesa durante l’assedio di Federico Barbarossa nel 1163. I torresotti erano diciotto, quattro dei quali sopravvissuti fino ad oggi: il torresotto di Porta Castiglione, il torresotto dei Piella, il serraglio del Pratello e il serraglio di San Vitale. Nel XIX secolo il conte Giovanni Gozzadini tentò di contare le torri presenti nella Bologna del passato basandosi sui documenti delle compravendite presenti nell’archivio cittadino. Emerse lo spropositato numero di centottanta torri, considerato eccessivo per le risorse della città medievale: nonostante l’utilizzo di servi della gleba, la costruzione era dispendiosa e richiedeva un tempo variabile dai tre ai dieci anni. Probabilmente il metodo seguito da Gozzadini portava al ripetuto conteggio dello stesso edificio più volte, in quanto negli atti notarili la stessa torre poteva essere riportata con nomi diversi, a seconda della famiglia che di volta in volta ne acquisiva la proprietà. Gli studi più accreditati stimano il numero delle torri di Bologna tra le ottanta e le cento unità, non tutte esistite contemporaneamente. L’ultima a essere costruita è stata torre Galluzzi, edificata a partire dal 1257 – lo stesso anno in cui a Bologna, con sei secoli di anticipo sul resto del mondo, venne abolita la schiavitù. Situata a pochi passi da piazza Maggiore all’interno di un complesso di edifici protetto dal mondo esterno, torre Galluzzi è stata lo sfondo di una triste vicenda nota come “Giulietta & Romeo alla Bolognese”: l’amore proibito tra Virginia Galluzzi e Alberto Carbonesi. Solo che in questo caso non si tratta di finzione teatrale, ma di fatti realmente accaduti. Nel Duecento i Galluzzi spiccavano tra le più potenti e turbolenti famiglie di fazione guelfa e quindi fedelissimi al papa. Virginia Galluzzi era una bella ragazza, dal carattere mite. Ma commise un errore fatale: si innamorò di Alberto Carbonesi, il giovane rampollo di una famiglia ghibellina, quindi fedele all’imperatore.

Si narra che Virginia e Alberto, con l’aiuto di persone fidate, riuscirono a sposarsi in un luogo segreto. Tuttavia, il padre di Virginia lo scoprì, e la sua ira fu incontenibile. Uccise a sangue freddo Alberto, e insieme a lui tutti i Carbonesi. Del finale del racconto si tramandano due diverse versioni. C’è chi sostiene che Virginia, impazzita dal dolore, si sia impiccata al balcone di palazzo Carbonesi, e chi pensa che siano stati gli stessi fratelli di Virginia a ucciderla, per poi inscenarne il suicidio. Un finale tragico che dà la misura di quanto la Bologna medievale fosse suggestiva e crudele. Torre Galluzzi è oggi alta circa trenta metri, ma lo spessore dei muri alla base prova che originariamente era molto più alta. Insieme a torre Prendiparte e torre Azzoguidi, infatti, fa parte della celebre “triade dei grattacieli medievali” di Bologna. Ma le torri più famose in assoluto sono le emblematiche Due torri, entrambe pendenti, autentica peculiarità del panorama cittadino. Le Due torri sorgono all’incrocio delle vie principali della città, ergendosi a difesa e simbolo dell’abitato medievale. I loro nomi, Asinelli e Garisenda, derivano dalle famiglie a cui tradizionalmente se ne attribuisce la costruzione, avvenuta probabilmente nella prima metà del 1100, ma la scarsità di documenti in proposito tinge di mistero la loro nascita. La più alta è la torre Asinelli: consta di novantasette metri di altezza e la sua cima è raggiungibile percorrendo 498 gradini. La leggenda narra che Asinelli fosse una famiglia che per vivere trasportava ghiaia dal fiume Reno ai cantieri, e che fosse così chiamata perché per farlo si serviva di alcuni somari. Un giorno il primogenito vide alla finestra di un palazzo una bellissima ragazza, figlia di un nobiluomo, e volle chiederla in sposa. Il padre della ragazza gli rispose: «Potrai avere mia figlia quando avrai costruito la torre più alta della città». Pare che la fortuna abbia aiutato il giovane il quale, mentre caricava la ghiaia dal Reno, un giorno trovò un tesoro di monete d’oro. Chiamato un capomastro, fece costruire una torre altissima nel centro di Bologna e così, dopo nove anni, quando fu completata, poté finalmente sposare la sua amata. In realtà, secondo recenti studi, la costruzione della torre Asinelli risalirebbe al periodo che va dal 1109 al 1116, anni in cui risulta che la famiglia Asinelli, appena emergente dall’anonimato, non poteva permettersi una costruzione tanto onerosa. Pertanto, è possibile che la torre sia stata costruita con denaro pubblico e con scopi militari da colei che all’epoca dominava la regione: la contessa Matilde di Canossa. Gli Asinelli ne sarebbero venuti in possesso quasi mezzo secolo dopo per ignoti motivi. Un’altra leggenda, tuttavia, vuole che a costruirla sia stato il diavolo in persona in una sola notte. Non a caso, pensano alcuni, la profondità delle fondamenta è di sei metri, e sorge sull’incrocio di sei strade. Le cronache della città riferiscono che, dal 1433 al 1822, la torre venne colpita nove volte. Due terremoti, uno nel 1399 e uno nel 1505, provocarono la caduta della campana montata sulla cima che serviva come allarme in caso di avvistamento di incendi. Infernale la scena che si presentò ai bolognesi nel 1413, quando Niccolò de’ Guidotti vi appiccò il fuoco: bruciarono le scale ma la torre resistette, con fiamme che per ore scaturirono dalle feritoie. Questa volta la campana per l’avvistamento degli incendi si fuse e il metallo colò fino al basamento. Nel 1513 una palla da cannone sparata durante le celebrazioni per l’elezione di Leone X colpì la torre, mentre nel 1755 un fulmine causò uno squarcio lungo sessanta metri. Ma né terremoti né incendi hanno potuto abbatterla, quasi a testimoniare l’origine soprannaturale dell’edificio.

Tra gli usi a cui la torre Asinelli è stata destinata nel corso dei secoli c’è quello di strumento per verificare le condizioni metereologiche, ma anche di prigione: nel XV secolo venne addirittura appesa all’esterno una gabbia per religiosi delinquenti. Da non dimenticare, inoltre, il fatto che la torre Asinelli è stata utilizzata per esperimenti scientifici nel corso del Seicento: prima dall’astronomo e fisico Giovanni Battista Riccioli per verificare le leggi del moto uniformemente accelerato, e poi da Giovanni Battista Guglielmini, che eseguì qui gli esperimenti sulla deviazione dei gravi, per dimostrare il moto rotatorio della Terra. A fianco della torre Asinelli sorge la Garisenda “la pendente”. Posizionandosi ai suoi piedi si può osservare un fenomeno curioso: se una nuvola spinta dal vento si avvicina alla torre dalla parte pendente sembra che non la nuvola, ma la torre si muova, inchinandosi sempre di più. Durante la permanenza a Bologna, Dante Alighieri rimase così affascinato dal fenomeno da volerlo ricordare nella Divina Commedia. I suoi versi, tratti dal XXXI canto dell’Inferno, sono stati incisi su di una lapide posta sul lato levante della torre: «Qual pare a riguardar la Garisenda sotto ‘l chinato, quando un nuvol vada sovr’essa sì, che ella incontro penda; tal parve Anteo a me che stava a bada di vederlo chinare». L’amore del Sommo poeta nei confronti della torre pendente è attestato anche da un’altra famosa citazione nelle Rime VIII: «Non mi poriano già mai fare ammenda dei lor gran fallo gli occhi miei, sed elli non s’accecasser, poi la Garisenda torre miraro cò risguardi belli, e non conobber quella (mal lor prenda) ch’è la maggior de la qual si favelli». La torre che sembra inchinarsi alle nuvole del cielo, che ammalia, dalle origini avvolte dal mistero. La torre che è rimasta salda sulle fondamenta fino a oggi nonostante l’incredibile pendenza, e che non smette di far scaturire interrogativi. La misteriosa Garisenda, che non può essere visitata come la vicina Asinelli, ma solo ammirata da fuori, è certamente una delle costruzioni che rendono Bologna unica. Alcuni storici sostengono che sia stata commissionata dalla famiglia Garisendi nel XI secolo, per elevare un edificio che superasse in altezza la Asinelli, la torre più alta di Bologna, e mostrare la potenza di una famiglia all’epoca tra le più influenti in città. Secondo antiche dicerie, i lavori per costruirla sarebbero cominciati al ritorno di Oddo e Filippo Garisendi dalla Prima crociata, ma c’è anche chi sostiene che all’inizio i Garisendi fossero soltanto gli affidatari della torre e ne entrarono in possesso a seguito di ignoti giochi di potere. C’è anche chi pensa che la costruzione della torre Garisenda sia addirittura antecedente a quella della torre Asinelli. Ciò che sappiamo per certo è che durante i lavori di costruzione il terreno cedette, facendo acquisire alla torre Garisenda l’estrema pendenza che ancora oggi la caratterizza. Fu quindi necessario fermare la costruzione a circa una sessantina di metri di altezza. Per timore di un crollo, nel 1360, fu commissionato a Giovanni Oleggio il compito di mozzarla ulteriormente di circa dodici metri. Oggi la Garisenda è alta quarantotto metri e pende di tre metri verso via San Vitale, ma si teorizza che anticamente la pendenza fosse ancora più accentuata. Il primato di torre più alta di Bologna è quindi rimasto alla Asinelli. Una curiosità: nel 1911 il fisico Francesco Cavani ha stabilito che, nel corso dell’anno, la punta della torre Asinelli compie un giro di trecentosessanta gradi, pur restando salda sulle fondamenta, a causa di influssi astronomici e atmosferici. Che il diavolo ci abbia davvero messo lo zampino?

Torri degli Asinelli e Garisenda in un’incisione ottocentesca.

I predatori del tesoro dei Templari C’è una lapide, murata sull’edificio al numero 82 di strada Maggiore, che riporta una curiosa dicitura: «Nell’anno 1455 Aristotele Fioravanti bolognese, con nuovo ardimento, qui trasportò intatta per ispazio di più di tredici metri la torre di Santa Maria della Magione, alta venticinque metri, che fu demolita nel 1825». La lapide celebra uno degli avvenimenti più prodigiosi e sconvolgenti a cui i bolognesi abbiano mai assistito: lo spostamento del campanile di una chiesa mantenendolo in posizione eretta. Come è stato possibile compiere un’impresa tanto inconsueta quanto straordinaria, e a che scopo? Artefice dell’impresa fu il genio dell’ingegneria civile Aristotele Fioravanti, su incarico del cavaliere Achille Malvezzi, il quale sosteneva che la torre gli ostruiva la visuale. Per Malvezzi, che arrivò a pagare Fioravanti centocinquanta monete d’oro per eseguire lo spostamento, questo era certamente un pretesto. Per capire la vera motivazione occorre fare un passo indietro, fino alla Bologna del 1300, quando Santa Maria della Magione (detta anche Santa Maria del Tempio) era la sede locale dell’Ordine dei Poveri Compagni d’armi di Cristo e del Tempio di Salomone, ovvero i cavalieri Templari. Fondato nel 1119 da Ugo di Payens allo scopo di difendere i pellegrini in Terrasanta in una sorta di crociata permanente, l’Ordine Templare aveva in Bologna uno dei suoi centri del potere. A Bologna i Templari erano giunti nel 1161, stabilendo la sede principale in strada Maggiore, non molto lontano dal complesso di Santo Stefano, la Gerusalemme in miniatura costruita centinaia di anni prima e che i Templari rivitalizzarono grazie ai loro rapporti con la Terrasanta. Dopo la caduta di Acri, nel 1291, e la conseguente cacciata dei cristiani dalla Terrasanta, il quartier generale dei Templari venne spostato a Cipro, mentre le manovre economico-finanziarie venivano condotte da Parigi, per via delle grandi ricchezze accumulate nel corso degli anni. Nel 1310, durante il terribile processo a carico dei Templari voluto dal re francese Filippo il Bello, fu un bolognese uno dei quattro procuratori scelti per la difesa dell’Ordine: si tratta di Pietro da Bologna. Nonostante fosse stato trascinato davanti alla corte in catene in quanto imputato lui stesso, l’arringa di Pietro fu accorata e appassionata: «Tutti i confratelli che hanno confessato, del tutto o in parte menzogne simili, non dicono il vero. Hanno confessato nel timore di essere uccisi. Alcuni hanno confessato sotto tortura, altri per aver visto a quali supplizi venivano sottoposti i loro confratelli. Di conseguenza hanno verbalizzato ciò che volevano i loro persecutori». Di Pietro da Bologna, tuttavia, si persero le tracce dopo che l’Inquisizione ebbe mandato al rogo cinquantaquattro cavalieri, tutti scelti tra i suoi testimoni dinanzi al tribunale pontificio. C’è chi sostiene che prima di scomparire egli sia riuscito a incontrare l’ultimo Gran Maestro dell’Ordine, Jacques de Molay, e che questi gli abbia confidato segreti mai rivelati. Vale la pena sottolineare che a Bologna, diversamente da quanto avvenne nel resto d’Italia e d’Europa, nessuno dei Templari processati venne sottoposto a tortura, grazie all’interessamento dell’arcivescovo Rinaldo da Concorezzo e dell’Inquisizione francescana, più tollerante rispetto a quella domenicana. Arriviamo quindi al 1312, quando papa Clemente V dispose l’inventario dei beni dell’Ordine per la confisca. L’elenco dei possedimenti immobili a Bologna includeva quattro chiese: Santa Croce, Santa

Maria Maddalena de Turlionibus, San Giovanni Battista e Santa Maria del Tempio. Nessuna di queste chiese è sopravvissuta fino ai giorni nostri. Santa Croce è stata abbattuta alla fine del Trecento per fare posto alla basilica di San Petronio, mentre Santa Maria del Tempio è stata rasa al suolo nel 1805 dall’esercito napoleonico. Stessa sorte è toccata al campanile della chiesa, proprio quello spostato nel 1455 da Aristotele Fioravanti, che è stato demolito nel 1825 da Luigi Aldini. Le altre tracce della permanenza dei Templari a Bologna sono state spazzate via dai bombardamenti alleati durante la seconda guerra mondiale. Torniamo quindi a quel giorno del 1455, quando Aristotele Fioravanti riuscì a trasportare il campanile di Santa Maria del Tempio dal sito originario, a fianco della facciata, fino alla zona absidale della stessa chiesa. Secondo Achille Malvezzi i Templari bolognesi, prima di essere arrestati, avevano sepolto un tesoro di monete d’oro nelle fondamenta del campanile. Per questo Malvezzi incaricò Fioravanti di spostare il campanile: sperava di impadronirsi delle incalcolabili ricchezze che secondo lui si nascondevano nel sottosuolo. Nonostante fosse piena estate, le cronache del tempo descrivono quella giornata particolarmente piovosa, al punto che la buca scavata per accogliere la torre nella nuova posizione si riempì completamente d’acqua. Per spostare la torre, Fioravanti la fece scorrere su dei cilindri di ferro posizionati su binari fatti coi fusti di enormi abeti. In questo modo venne condotta senza fasciature né altri mezzi precauzionali attraverso strada Maggiore. Non basta: il Fioravanti riuscì, durante la delicata operazione di trasporto, a raddrizzarne l’inclinazione di oltre un metro. Per farsi un’idea del tragitto, oggi il punto di partenza è al civico 80, dove sorge il palazzo Modigliani-Salaroli, mentre il punto di arrivo è l’incrocio con via Malgrado. All’apprensione della folla accorsa per assistere al prodigio si aggiunse quella dei trasportatori che temevano per la propria incolumità. Le cronache del tempo narrano che Fioravanti dovette ricorrere a una misura drastica per quietare gli animi: fece salire il figlio in cima al campanile, dove rimase fino al termine delle operazioni. A trasporto ultimato il ragazzo suonò la campana, salutando la popolazione dalla nuova postazione. Vale la pena approfondire la figura di questo straordinario ingegnere, Aristotele Fioravanti, le cui imprese all’epoca gli valsero il soprannome di “magistro Aristotele che move le torri”. Nato a Bologna, figlio di un ingegnere di origine pistoiese, Aristotele si distinse nella realizzazione di opere civili in tutta Europa. I suoi servigi erano contesi tra Firenze, Venezia, Milano e Roma. Nel 1465 fu chiamato alla corte del re d’Ungheria Mattia Corvino, che lo incaricò di costruire ponti e castelli, tra cui quello di Buda, per difendersi dagli attacchi dei turchi. Proprio a Budapest, Aristotele fu nominato cavaliere del regno. I suoi successi furono così apprezzati che il re ungherese fece battere una moneta con la sua effigie. Questo privilegio gli portò qualche problema al ritorno in Italia, dove Fioravanti fu arrestato con l’accusa di essere un falsario, dato che pagava con monete con impresso il suo volto. Solo l’intervento in suo favore del re in persona ne permise la scarcerazione. Come molti dei suoi segreti ingegneristici, anche gli ultimi anni di vita di Aristotele Fioravanti sono avvolti nel mistero. Sappiamo che si recò in Russia su invito dello zar Ivan III, e che anche qui innalzò opere straordinarie, tra le quali spicca la cattedrale dell’Assunzione, edificata intorno a uno scheletro di ferro analogamente a quanto avviene oggi col cemento armato. I suoi prodigi lo

trasformarono in una figura essenziale per lo zar, che non gli permise mai di tornare in Italia, nonostante i ripetuti appelli dei Rettori di Bologna che ne invocavano il ritorno in patria. Le tracce di Aristotele Fioravanti, “l’uomo che spostava le torri”, si perdono durante le molte campagne belliche a cui partecipò in veste di ingegnere militare. Forse morì a Mosca nel 1486. La sua affascinante figura ha recentemente suscitato l’interesse della rete televisiva History Channel, che ha dedicato all’ingegnere bolognese un documentario. Riguardo all’oro dei Templari, sfortunatamente l’impresa di spostare il campanile di Santa Maria del Tempio nel 1455 si rivelò in quel senso infruttuosa. Questo non ha scoraggiato innumerevoli tentativi di ritrovarlo che si sono succeduti nel corso dei secoli, tra i quali si ricordano la demolizione della chiesa stessa di Santa Maria del Tempio da parte dell’esercito napoleonico nel 1805 e nel 1825 l’abbattimento del campanile che fu spostato da Fioravanti. Merita di essere menzionata anche la recente proposta di un progetto di scavo tra la chiesa di Santa Caterina in strada Maggiore e i possedimenti dell’opera pia Poveri e vergognosi alla ricerca del fantomatico tesoro, ma l’opposizione di un comitato cittadino ha fatto sì che l’impresa non abbia mai preso il via. Se davvero esiste un tesoro dei Templari a Bologna, è ancora nascosto da qualche parte, nel sottosuolo.

I cardinali del diavolo Nella storia di Bologna ci sono stati uomini di religione interessati a tutt’altro che alla salvezza delle anime dei credenti. Alcuni di essi si sono distinti per la particolare scaltrezza nella politica, altri nientemeno che per la ferocia in battaglia. Spesso, in passato, la sete di potere ha portato uomini di Chiesa a macchiare le loro mani del sangue degli innocenti. È particolarmente eclatante il caso del cardinale Roberto da Ginevra, soprannominato “il Boia di Cesena”, noto alle cronache anche come “il Cardinale del Diavolo”. Nel 1375 Roberto da Ginevra era un legato pontificio al servizio di papa Gregorio XI, l’ultimo dei papi di Avignone. Quest’ultimo, per preparare il ritorno del pontificato a Roma, aveva ingaggiato una guerra contro i comuni dello Stato Pontificio che si ribellavano alla sua autorità. Quella guerra è passata alla storia come la guerra degli Otto santi, quanti erano i magistrati che il Comune di Firenze oppose ai mercenari del papa e così chiamati per affermare la legittimità morale della loro azione. Nel 1376 Bologna si schierò a fianco delle truppe fiorentine, in nome dell’indipendenza dall’oppressione pontificia. Fu allora che il cardinale Roberto da Ginevra assunse personalmente il comando delle truppe di John Hawkwood, il cui nome italianizzato è Giovanni Acuto. Giovanni Acuto è stato il primo capitano di ventura della storia, e i suoi soldati all’epoca erano la punta di diamante dell’esercito del papa. Si trattava di mercenari bretoni, di corporatura massiccia, biondi e di alta statura, noti in tutta Europa per la loro ferocia. Come rappresaglia contro i bolognesi, il Cardinale del Diavolo Roberto da Ginevra condusse l’esercito dei mercenari a Forlì, dove compì un massacro di civili. Le sue vittime erano colpevoli di essersi rivoltate contro le ruberie dei governanti e le tasse sempre più opprimenti. Successivamente, il cardinale non esitò a ordinare l’annientamento dell’intera cittadinanza di Cesena – si parla di oltre quattromila persone – con tale crudeltà che si racconta che i suoi soldati «prendevano i neonati per i piedi e li sbattevano contro il muro, massacrando le madri». Scrive frate Borselli, cronista del tempo: «Fu uno spettacolo orribile vedere i loro cadaveri abbracciati ai figli senza vita, e vedere per le strade i cadaveri nudi delle donne con le parti intime scoperte. La gente era smarrita e non voleva più credere al papa e ai cardinali perché queste atrocità facevano vacillare la fede». Arrivato alle porte di Bologna, come avvertimento il Cardinale del Diavolo fece «tagliare a pezzi a guisa di bestie» trecento bolognesi presso la Croce di Casalecchio. Roberto da Ginevra era un uomo senza pietà, capace di ordinare ai suoi uomini di massacrare vecchi, donne e neonati nella culla per punirli di aver alzato il capo alla ricerca di un barlume di libertà. Le sue imprese lo resero famigerato nel territorio di Bologna e per tutta la Romagna, al punto che bastava nominarlo per materializzare echi di orrore e morte. Nei luoghi occupati dalle sue truppe «quasi tutte le femmine che potevano reggere un rapporto carnale, furono ingravidate. Persino le ragazzine di appena dodici anni. A Monzuno molte donne furono violentate, tanto che quasi tutte le vergini rimasero gravide». Alla fine della giornata era lo stesso Roberto da Ginevra ad assolvere i suoi uomini da ogni peccato: «Egli benediceva la spada sporca di sangue». Con il rientro del papa a Roma, l’anno successivo, si aprì una trattativa tra il pontefice e i comuni ribelli. La guerra degli Otto santi si concluse con un nulla di fatto, al punto che Giovanni Acuto e le sue truppe passarono al soldo dei fiorentini. Diversa, e per certi versi beffarda, la sorte di Roberto da Ginevra. Alla morte di Gregorio XI, nel 1378 il collegio del Conclave romano elesse pontefice

Urbano VI, mentre i cardinali francesi si riunirono per eleggere il “loro” papa, nientemeno che Roberto da Ginevra, che tornò ad Avignone con il nome di Clemente VII, dando inizio allo scisma d’Occidente. Il Cardinale del Diavolo riuscì a diventare papa, o meglio antipapa. Per quanto rappresentativo, tuttavia, il caso di Roberto da Ginevra è solo uno dei tanti nella lunga lista di uomini di Chiesa passati alla storia per le loro malefatte. A Bologna l’emblema dell’oppressione pontificia e della sua assurda brutalità è un piccolo rudere, oggi visibile nei pressi dell’autostazione, a fianco del parco della Montagnola. Si tratta dei resti dell’enorme fortezza che era presente nella Bologna medievale e della quale si trovano solo accenni frammentari nelle cronache: la rocca di Porta Galliera. Questa fortezza è stata probabilmente costruita più per tenere a bada i cittadini che per difenderli da un attacco esterno. Alcuni storici ne fanno risalire la costruzione al 1330, quando la città si affidò all’esercito del papa per proteggersi da un possibile attacco di Ludovico di Baviera. Ideatore e realizzatore del complesso potrebbe essere quindi il bellicoso cardinale francese Bertrando del Poggetto, a cui i bolognesi consegnarono il governo della città nel 1327. Pare infatti che Bertrando avesse messo volontariamente in giro la voce falsa che il papa volesse tornare in Italia da Avignone, scegliendo proprio Bologna come residenza. Era quindi necessaria la costruzione urgente di una dimora adeguata al pontefice. Ma il palazzo si rivelò una roccaforte con mura merlate, torrioni e fossati. Bertrando, d’altronde, si impose come autentico tiranno, promulgando riforme che calpestavano l’ordinamento comunale con cui Bologna manteneva orgogliosamente la sua indipendenza. Sotto la guida di Brandoligi Gozzadini la popolazione si ribellò al cardinale, penetrando nella fortezza e mettendola a ferro e fuoco. La rocca venne letteralmente smontata, mattone per mattone. Purtroppo, anche la cappella venne distrutta. Andò così perduto per sempre l’affresco dipinto da Giotto che la decorava. Ai primi del ’400 è ancora un cardinale di Santa Romana Chiesa a ricostruire la fortezza. Si tratta del feroce Baldassarre Cossa, un uomo del quale Indro Montanelli nel suo Storia d’Italia ha fatto un ritratto eloquente: «Cossa aveva tutte le qualità che un sacerdote non dovrebbe avere: era un politicante ambizioso e accorto, un amministratore abile e rapace, un generale sagace e spietato. Perché avesse fatto il prete invece che il condottiero, non si sa. Stando al suo segretario, egli aveva sedotto duecento fra ragazze, spose, vedove e suore. Né intendeva abbandonare questa piacevole attività, ora che aveva indossato la tiara»[4]. Per la seconda volta, però, la rabbia del popolo ebbe la meglio e i bolognesi riuscirono a distruggere la fortezza. Questo avvenne mentre il cardinale era a Roma per essere eletto papa (per la precisione antipapa, uno dei tre papi presenti in quel momento). Cossa la fece ricostruire, e di nuovo i cittadini la rasero al suolo quando venne deposto con ignominia dal Concilio di Costanza. Praticamente sconosciuta alle cronache la struttura della quarta incarnazione della fortezza. Si dice sia stata rudimentale e costruita in terra mista a vimini intrecciati, ma appare piuttosto improbabile. Ciò di cui gli storici sono convinti è che tale fortezza sia stata costruita da papa Eugenio IV, il quale soggiornò a Bologna per un paio d’anni, dal 1435 al 1437, e che al centro vi fosse una torre altissima. Costui riuscì a convincere i bolognesi a sborsare 30.000 ducati per l’organizzazione di un concilio al fine di discutere l’unione della Chiesa greco-ortodossa con quella romana, ma intascò la cifra e si recò a Ferrara, dove preferì indire il Concilio chiedendo altro denaro. Approfittando dell’assenza del papa, Niccolò Piccinino, condottiero agli ordini dei Visconti di

Milano, occupò fortezza e palazzo comunale e prese il dominio della città. Nell’agosto 1443 i bolognesi riuscirono a scacciarlo e a distruggere, una volta di più, la rocca di Galliera. La prima pietra della quinta e ultima incarnazione della roccaforte viene posata nel 1507 da un altro celebre condottiero, quel Giulio II – al secolo Giuliano della Rovere – detto “il Papa guerriero” o “il Papa terribile”, dopo che ebbe strappato Bologna ai Bentivoglio. È descritto nel libro Cose notabili della città di Bologna dallo storico Giuseppe Guidicini come questo castello fosse «il più vasto e il più forte di quanti lo avevano preceduto, si estendeva non poco fuori le mura della città; i muri misuravano 12 braccia di grossezza ed erano muniti di otto forti torrioni». Pare che si trattasse di una vera e propria cittadella, ma la fortificazione venne comunque distrutta nel maggio del 1511, dopo il rientro dei Bentivoglio in città, per non essere mai più ricostruita. Il rudere oggi visibile presso la scalinata della Montagnola si suppone appartenga a quest’ultima fortezza, anche se c’è chi sostiene che si tratti di un torrione inspiegabilmente risparmiato fin dalla prima costruzione e ogni volta restaurato. Si dice che sotto la collina del parco della Montagnola siano ancora presenti le macerie accumulate nei secoli per le ripetute demolizioni della rocca di Galliera. Oltre a essere stato l’ultimo a ricostruire la rocca di Galliera, papa Giulio II merita sicuramente una menzione d’onore nella galleria dei più spietati uomini che hanno messo la spada al servizio del potere temporale della Chiesa. Era certamente più incline alla vita militare che a quella ecclesiastica, al punto che scelse di chiamarsi Giulio in onore di Giulio Cesare. Dopo aver conquistato Bologna, fece convocare Michelangelo Buonarroti, che nel 1506 giunse nel capoluogo emiliano per realizzare una statua che ritraesse il pontefice in posa vittoriosa. Della statua, purtroppo, non sono rimasti nemmeno i bozzetti. Dalle cronache dell’epoca sappiamo solo che si trattò di un’opera imponente e dall’aspetto minaccioso. Vale la pena narrare la travagliata vicenda di questa statua, che se non fosse andata distrutta sarebbe l’unica opera in bronzo pervenutaci da Michelangelo. Facciamo quindi un passo indietro, partendo dalla figura di Giovanni II Bentivoglio che, alla fine del 1400, era l’uomo più potente di Bologna. Poco più che ventenne, sposò Ginevra Sforza, nipote del signore di Milano, con la quale si presume avesse una relazione già ai tempi in cui lei era sposata con Sante, suo predecessore nel ruolo di principe di Bologna. Giovanni fu coinvolto negli aspetti più luminosi del Rinascimento, vivendo a Bologna quella sorta di età dell’oro al pari di altri comuni d’Italia. Con l’aiuto dei migliori artisti del momento, fece costruire uno splendido palazzo, ricchissimo di dipinti e di ornamenti scolpiti, al punto che fu definito dai contemporanei «il più bel palazzo d’Italia». Uno degli avvenimenti che segnò la sua signoria è la congiura di cui fu vittima nel 1488 a opera dei Malvezzi, una famiglia molto potente a cui Giovanni doveva molto della sua fortuna. Per vendicarsi, ordinò che i Malvezzi fossero massacrati, e i pochi superstiti esiliati. Questo evento, estremamente traumatico per la città, pose fine al clima di pace e fiducia che si era instaurato tra il principe e i bolognesi, al punto che Giovanni si fece diffidente, e al suo palazzo aggiunse una torre altissima da cui controllare la città. In cima fece porre una pesante campana di bronzo. Ed è proprio questa campana la protagonista di una storia oscura, in cui qualcuno vocifera il sospetto di una maledizione. Nel 1501 ci fu un’altra congiura, questa volta ordita dai Marescotti, anch’essi scoperti e trucidati. Poi, nel 1505, una forte scossa di terremoto impose l’abbattimento della torre per il pericolo di un

crollo. Ed ecco, l’anno successivo, entrare in scena papa Giulio II il quale, incitato dai superstiti delle famiglie Malvezzi e Marescotti, si presentò a capo del suo esercito alle porte di Bologna per riprendere la città. Giovanni Bentivoglio riuscì a fuggire, lasciando i bolognesi in balia delle truppe del papa. Con Giulio II rientrarono a Bologna anche tutte le famiglie perseguitate da Giovanni e la rabbia era tale che si scatenò una furia distruttiva contro i simboli del potere dei Bentivoglio. Palazzo Bentivoglio venne raso al suolo e, con la campana che originariamente sorgeva in cima alla torre, Giulio II decise di fondere una statua chiamata “Giulio II benedicente”, che fosse di almeno tre volte la grandezza naturale e da posizionare nella facciata della basilica di San Petronio. Si narra che Michelangelo scelse per la mano destra una posa benedicente, per poi chiedere al papa se nella mano sinistra volesse un libro. La risposta di Giulio II fu sdegnata: «Ma quale libro, mi credi uno scolaro? Io voglio una spada». Così, Michelangelo realizzò una statua che alla città di Bologna donasse «minaccia, padre santo, se questo popolo non è savio». Ma di questa statua oggi non esiste che il ricordo. Al ritorno dei Bentivoglio a Bologna venne fatta a pezzi, e i resti furono donati al duca ferrarese Alfonso d’Este. Quest’ultimo la fuse per realizzare un cannone chiamato Giulia, che fu usato proprio per attaccare l’esercito pontificio. La testa della statua, tuttavia, si salvò, ma solo per andare dispersa nell’Ottocento durante l’occupazione napoleonica. Nell’edificio che chiude il lato occidentale di piazza Galvani è posta una lapide che recita: «In queste case della fabbriceria di San Petronio, in una grande stanza a piano terra, Michelangelo nel 1506 fuse la statua di Giulio II. Giambologna nel 1564 fuse il Nettuno. Menganti nel 1580 fuse la statua di Gregorio XIII». Oltre che un energico condottiero, Giulio II fu anche un grande promotore delle arti, facendosi mecenate di alcuni dei più grandi artisti della sua epoca, tra i quali Bramante, Raffaello e il già citato Michelangelo, al quale affidò la decorazione della volta della Cappella Sistina, in Vaticano. Per capire i complessi rapporti tra il potere pontificio e la casata dei Bentivoglio, tuttavia, è necessario approfondire la storia dell’Inquisizione a Bologna.

Una strega alla corte dei Bentivoglio Torniamo ai primi decenni del XIII secolo, quando Bologna era una città cosmopolita e un grande centro della cultura medievale, un autentico crocevia di idee e di popoli. È in questo periodo che passano dalla città alcuni predicatori che daranno inizio a importanti ordini monastici. Si tratta, tra gli altri, di Francesco d’Assisi e Antonio da Padova. E muore proprio a Bologna nel 1221 Domenico da Guzmàn, fondatore dell’Ordine dei Frati Predicatori, noti anche come Domenicani, che qualche anno dopo la sua morte diventeranno i capi indiscussi del tribunale dell’Inquisizione. Contrariamente a quanto sostenuto da alcuni, infatti, Domenico non ha mai presieduto una seduta del tribunale. È leggendario un avvenimento che riguarda la madre del predicatore: durante la gravidanza, si racconta che abbia sognato un cane con una torcia in bocca, che diventerà il simbolo dell’Ordine. Chissà, forse una tale arte divinatoria avrebbe potuto condurla al rogo, se solo ne avesse parlato qualche decennio più tardi. Domenico venne canonizzato nel 1234, ed entro il 1240 fu completata a Bologna la costruzione della basilica a lui dedicata, dove un tempo sorgeva il convento di San Nicolò delle Vigne dove Domenico scrisse i capitoli fondamentali della regola dell’Ordine. Inizialmente sepolto nell’altare di San Nicolò, i suoi resti sono ora conservati nell’Arca di san Domenico, un’opera in marmo alla cui costruzione nel corso dei secoli hanno contribuito svariati artisti, tra cui Nicola Pisano, Niccolò dell’Arca (a cui l’artista stesso deve il nome), Michelangelo Buonarroti e Alfonso Lombardi. La leggenda vuole che dal primo sepolcro del santo fuoriuscisse una polvere che i frati somministravano agli ammalati: si narra che, mescolata con l’acqua, avesse poteri terapeutici. Subito dopo la sua costruzione, la basilica di San Domenico divenne sede dell’Inquisizione. Alcuni sostengono che il tribunale bolognese sia stato più mite rispetto ad altri, ma questo è una leggenda, forse nata al tempo delle assoluzioni “di fatto” dei cavalieri Templari e al ripudio della pratica della tortura da parte dell’Inquisizione francescana. A dimostrazione del rigore del tribunale domenicano bolognese, infatti, tra i documenti dell’epoca risulta una richiesta di fondi per l’allargamento della sala delle torture e per il rinnovo degli strumenti di supplizio. Non è un caso, comunque, che a Bologna l’Inquisizione abbia avuto uno dei suoi centri di potere: la città medievale era una fucina di idee, grazie alla presenza dello Studium, l’università che richiamava studenti da tutta Europa. L’Inquisizione combatteva l’eresia, e la parola “eresia” deriva dal greco hairesis, ovvero “conquista”, ma anche “libera scelta”. E università significa cultura: il modo migliore per rendere gli uomini liberi di fare le proprie scelte. Come è noto, infatti, la scure del tribunale si abbatté su opere letterarie e scientifiche e sui suoi autori. Ne è un esempio Raimondo Lullo, un filosofo e alchimista catalano che aveva studiato all’università di Bologna. Vissuto a cavallo dei secoli XIII e XIV, fu autore di vari trattati sulla cabala nonché inventore della cosiddetta ars combinatoria, un metodo utile alla memorizzazione e allo studio. Contro questa tecnica si scagliò verso la fine del Trecento l’inquisitore Nicholas Eymerich, che chiese il rogo dei manoscritti di Lullo perché, a suo dire, potevano indurre a raggiungere significati occulti. Un secolo dopo, Giovanni Pico della Mirandola, anch’egli studente presso l’università di Bologna, definì i metodi di Lullo rivoluzionari e tramite essi si avvicinò allo studio della cabala.

Finirono nell’Indice dei libri proibiti persino i libri di Girolamo Menghi, monaco francescano bolognese considerato il più grande esorcista del suo tempo. E dire che le pubblicazioni di Menghi furono accolte all’epoca con grandissimo favore nelle città di tutta Europa. In particolare, il Flagellum daemonum, dato alle stampe a Bologna nel 1576, venne considerato il più autorevole trattato sulla possessione diabolica e fu ristampato almeno dieci volte. Nel 1584 ne uscì una versione ampliata unita a un altro trattato, il Fustis daemonum. Per questi due volumi, la Congregazione dell’Indice si pronunciò nel 1704 e il verdetto fu inconfutabile: i libri di Menghi dovevano essere proibiti, e le copie distrutte. Leggendo i testi che sono arrivati fino a noi ci si rende conto che Menghi, pur avendo goduto di grande prestigio al suo tempo per l’accuratezza delle sue trattazioni, era certo di vedere il diavolo ovunque. Nell’introduzione dell’edizione del 1997 del Flagello dei demoni è scritto: «Gli esorcismi del Menghi e i rimedi da lui proposti per liberare le persone dai malefici provocati dai maghi e dai demoni si fondano sulla convinzione che il male è una forza operante ovunque nel mondo, e che anche le malattie e le avversità meteorologiche non sono riconducibili soltanto a cause umane, razionali e fisiche. Esse implicano una dimensione che sfugge alla presa dell’uomo comune, ma non a quella dell’esorcista». Il motivo per cui i trattati sulla stregoneria di Menghi siano stati proibiti è un vero e proprio mistero. Nonostante la sua rigidezza, Menghi non è mai stato considerato un eretico. Le procedure che suggerisce per cacciare il diavolo dal corpo, tuttavia, sono in grado di strappare un brivido ancora oggi: «Legando la stola con tre nodi al collo dell’ossesso, dica: “Voi tutti spiriti abominevoli e ribelli, vi scongiuro e vi esorcizzo, vi chiamo e vi costringo, vi sfido e vi provoco; dovunque siate in questo essere umano, per mezzo del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, per il potentissimo nome di Dio Elohim, forte e mirabile, vi esorcizzo e vi scongiuro, vi comando con l’autorità che mi è stata data, con la potenza di Dio e del creatore sapientissimo, che ha creato ogni cosa e che vi tiene sotto il suo potere da cui non potete fuggire; vi ordino dunque di ascoltare le parole del mio esorcismo e di riconoscervi vinti dal comando che vi è stato dato. E ora senza il mio permesso non osate abbandonare questa creatura di Dio e immagine di Dio e restate così legati e incatenati. Come i santi di Dio legarono i demoni con catene, egualmente vi lego con questa stola”». Va detto che gli inquisitori contemporanei di Menghi erano convinti che a Bologna la negromanzia fosse molto diffusa, soprattutto dopo che Agnolo Fiorenzuola ebbe tradotto L’asino d’oro di Apuleio, che proprio a Bologna era ambientato. Bisogna tuttavia ricordare che molto spesso gli accusati di stregoneria non erano altro che nemici politici, persone scomode o donne colpevoli di amare o di aver fatto innamorare la persona sbagliata, il più delle volte appartenente a un ceto sociale superiore. È in questi casi che fioccavano denunce al tribunale dell’Inquisizione da parte di familiari altolocati, che temevano per gli scandali o per le sorti del loro patrimonio. Tra i perseguitati ci furono anche i catari, i “puri” (anche katharos è una parola greca), una comunità così benvoluta dalla popolazione bolognese che furono soprannominati boni homines, “uomini buoni”. I catari erano di solito artigiani, gran lavoratori, che rifiutavano i beni materiali e lottavano per una Chiesa povera e uguale per tutti. Ma nel 1300 si perde ogni traccia del movimento cataro bolognese. Furono scacciati, forse massacrati. Tra le donne accusate di stregoneria ricordiamo anche la bella Caterina, moglie di tal Antonio Fey, che nel 1429 venne accusata di aver fatto una fattura al marito per potersi incontrare liberamente con l’amante. Gli atti giuridici descrivono una fattura complicata che consisteva nello sfregare unghie,

capelli e oggetti appartenuti al marito sul cordone ombelicale di una nascitura. Lo scopo finale? Rendere il marito incapace di intendere e di volere, una marionetta nelle mani della consorte. L’uomo segnalato come amante della bella Caterina era tal Cristoforo, un lanarolo di origini milanesi, residente nello stesso quartiere della donna. Come nella stragrande maggioranza di questi casi chi cadeva nelle mani dell’Inquisizione finiva per confessare tutte le colpe a seguito delle torture fisiche e psicologiche inflitte. Gli atti processuali inerenti a questo caso sono tutt’ora consultabili e non ci si meraviglia nel constatare che manca all’appello soltanto la versione dell’imputata. In realtà si pensa che l’unico reato della donna, profondamente insoddisfatta della propria vita coniugale e innamorata di un altro uomo, consistesse nel somministrare al marito semi di papavero mescolati al cibo come sedativo. Ma Caterina scampò all’estremo supplizio: venne graziata dal cardinale Lucindo Conti. In compenso, molte donne bolognesi furono meno fortunate e vennero prima torturate e poi bruciate, spesso proprio nella piazza di San Domenico. Tra i casi di quel periodo oscuro ce n’è uno avvolto nel più profondo mistero: quello riguardante un prete, un certo don Nicolò da Verona. Egli fu accusato – nientemeno – di evocare fanciulle nude e altre diavolerie sull’altare della chiesa dove esercitava. Fu arrestato dal tribunale dell’Inquisizione nel 1452. Poco dopo, fu condannato a morte con lettura pubblica della sentenza. Anche in questo caso i verbali riguardanti la versione dell’imputato sono totalmente assenti. Il 27 giugno il prete, scortato verso il patibolo eretto nei pressi della chiesa di San Michele, fu liberato da un manipolo di giovani armati e condotto a Santa Maria del Tempio, l’antica sede dei Templari che in quegli anni era al centro dell’attenzione da chi era alla ricerca dell’oro dell’Ordine. Alcuni sussurrarono che dietro a questa liberazione ci fosse proprio Achille Malvezzi. Quest’ultimo, forse, era convinto che don Nicolò da Verona fosse venuto a conoscenza dell’ubicazione del tesoro. A Bologna le vittime dell’Inquisizione furono migliaia, assassinate sul rogo da persecutori senza scrupoli. Va ricordato che l’Inquisizione fu anche uno strumento economico: dopo la sentenza, il Comune e la Chiesa provvedevano alla spartizione dei beni del condannato. Eclatante fu il caso di Gentile Budrioli, una donna molto vicina alla famiglia dei Bentivoglio e per questo, forse, stritolata in un gioco di potere più grande di lei. La sua storia appartiene alla seconda metà del XV secolo. Analogamente a Firenze, anche Bologna in questo periodo storico apparteneva allo Stato Pontificio ed era retta da una oligarchia nobiliare per conto del papa. Nel Rinascimento, quando nel capoluogo toscano governavano i Medici, a Bologna erano “signori di fatto” i Bentivoglio. Come già accennato, uno dei simboli del potere di questa famiglia fu lo sfarzoso palazzo Bentivoglio, che sorgeva sull’odierna via Zamboni dove oggi c’è il teatro comunale. Di questa costruzione, all’epoca definita «il più bel palazzo d’Italia» non rimane che la memoria. Il palazzo, infatti, è stato raso al suolo durante la demolizione durata più di un mese per damnatio memoriae dopo il rientro di Giulio II in città. Via del Guasto si chiama così perché è lì che vennero ammucchiate le macerie, dopo la distruzione del palazzo e di tutti gli affreschi e le statue contenute al suo interno. Per alcuni un frammento del palazzo si troverebbe su un capitello incastrato nella casa al numero 6 di via Galliera, in cui si nota scolpito il viso di Giovanni II e la scritta: «Div. Io. II. P.», cioè: “Divo Giovanni II, Padre della patria”. La storia dei Bentivoglio non è priva di punti oscuri, come il rapporto tra la moglie di Giovanni II,

Ginevra Sforza, e Gentile Budrioli, una donna in seguito condannata per stregoneria dall’Inquisizione. Gentile Budrioli discendeva da una famiglia nobile e aveva una passione per lo studio. Era sposata con un notaio bolognese col quale viveva nel torresotto di Portanova, di fronte alla chiesa di San Francesco. Seguiva le lezioni di astrologia, una materia che Scipione Manfredi insegnava nei giorni festivi. Ma il marito non vedeva di buon occhio l’entusiasmo di Gentile per il sapere. Forse temeva che potesse trascurare le attività di casa o, peggio, superarlo in cultura, così le impedì di continuare a seguire le lezioni all’università. La donna non si perse d’animo e iniziò a frequentare il compagno di studi frate Silvestro, un francescano dedito all’erboristeria, dal quale apprese i segreti delle erbe officinali. In città si diffuse così la voce che Gentile avesse capacità di guaritrice. Voce che giunse all’orecchio di Ginevra Sforza, moglie e consigliera di Giovanni II Bentivoglio e all’epoca la donna più potente di Bologna, la quale espresse il desiderio di conoscerla. Pare che Ginevra fosse affascinata dall’esoterismo, pur essendo una donna molto religiosa. Non che i rapporti col clero fossero particolarmente buoni: il giorno del suo primo matrimonio, quello con Sante Bentivoglio, il vescovo di Bologna fece sbarrare la porta della cattedrale perché Ginevra e le sue damigelle vestivano in maniera troppo sfarzosa, e i due sposi furono costretti a celebrare la cerimonia nella chiesa di San Giacomo. Contro Ginevra si scagliò anche il frate domenicano Girolamo Savonarola dal pulpito di San Petronio il quale, sbraitando: «Lei è il diavolo!», intendeva sottolineare la sua disapprovazione per il lusso che la nobildonna amava ostentare. La risposta di Ginevra? Nientemeno che una minaccia di morte per Savonarola. Ginevra e Gentile diventarono amiche ma, ben presto, probabilmente fomentate dall’invidia per due donne molto in vista e fortemente emancipate per i tempi, cominciarono le dicerie su Gentile. Si mormorava che fosse una strega, che avesse stretto un patto col diavolo. Gentile rispondeva ai pettegolezzi che le vere streghe sono solo cinque: Pregiudizio, Menzogna, Ignoranza, Maldicenza e Invidia. L’amicizia tra le due donne fu così stretta che Ginevra fornì la dote alle tre figlie di Gentile mentre Carlo, uno dei suoi quattro figli maschi, risultava dalle testimonianze a palazzo Bentivoglio insieme agli altri notai. La situazione, tuttavia, era destinata a cambiare radicalmente. Nel 1488, infatti, Giovanni Bentivoglio consegnò Gentile alla Santa Inquisizione per essere processata. Dietro questo gesto c’era probabilmente il tentativo, da parte del signore di Bologna, di ingraziarsi il pontefice per dissuaderlo dal riprendere il controllo sulla città. All’epoca regnava papa Innocenzo VIII, il fanatico integralista che aveva nominato Grande inquisitore di Spagna il sanguinario Tommaso Torquemada, e avallato la spietata caccia alle streghe dei due inquisitori tedeschi Heinrich Kramer e Jacob Sprenger, autori del Malleus Maleficarum. Secondo alcuni, Giovanni sospettava che Gentile fosse coinvolta nella cosiddetta “congiura dei Malvezzi”. Nel novembre del 1488, infatti, alcuni esponenti di primo piano dei Malvezzi, famiglia che per cento anni aveva favorito e sostenuto economicamente l’ascesa dei Bentivoglio, ordirono un piano per assassinare Giovanni Bentivoglio, Ginevra Sforza e i loro figli. Saputo dell’intrigo, Giovanni si scagliò contro i cospiratori con una furia implacabile. Pare che per eliminare tutti i congiurati fu necessaria un’intera settimana, un massacro durato giorni che suscitò repulsione e orrore su tutti gli osservatori del tempo. Alcuni dei congiurati riuscirono a fuggire, mentre per altri

esponenti della famiglia Malvezzi, pur estranei al complotto, il clima in città si fece così opprimente che dovettero lasciare la città negli anni immediatamente successivi. I verbali del processo a Gentile Budrioli sono andati dispersi, ma è noto che tra gli imputati ci fu anche il figlio Carlo. Una volta in carcere, Gentile venne sottoposta al rituale della tortura. Scrive Giovanni Battista Sezanne nel Giovanni II dei Bentivoglio – Racconto storico: «Allorché i tormentatori si accinsero a spogliarne le membra, ella cadde in ginocchio ed orò fervido e breve: “Oh, per carità, toglietemi a queste pene d’inferno… dirò, dirò tutto. Confesso tutto ciò che a mio carico fu dai testimoni deposto… Non vi basta, o Signori? Lasciate che i’ possa abbracciare ancora una volta i miei figli e mio marito e poi… uccidetemi”». La mattina del 14 luglio 1498, Gentile fu arsa viva nella piazza di San Domenico alla presenza di tutte le istituzioni politiche e religiose. Si dice che, durante il rogo, Ginevra si sia rifugiata sotto la casa dell’amica per piangere disperatamente. Non sappiamo se Gentile fosse davvero la «strega enormissima» che affermano alcuni cronisti. Come molte altre vittime della Santa Inquisizione, è probabile che anche Gentile Budrioli sia stata consegnata ai suoi persecutori più per calcolo politico che per un presunto interesse nella negromanzia. Il ritratto che emerge dalle testimonianze sulla sua vita è soprattutto quello di una donna raffinata, amante della cultura e della natura e, forse, fortemente in anticipo sui tempi nella ricerca di un riconoscimento del ruolo femminile nella società.

Il papa che visse due volte. L’uomo che morì due volte Molti anni dopo Giulio II ci fu un altro papa che influenzò notevolmente la storia di Bologna. Si tratta di Ugo Boncompagni, passato alla storia col nome di papa Gregorio XIII, il cui pontificato è stato uno dei più significativi dell’intera cristianità. Per raccontare la sua storia, però, occorre partire da una profezia, una delle tante che nel corso dei secoli hanno scandito la vita dei cittadini di Bologna. Tale antica profezia riguardava un palazzo progettato da Ugo Vignola e appartenente alla famiglia Boncompagni. È situato al numero 8 di via del Monte e oggi si chiama palazzo Benelli. Pare che un veggente avesse annunciato che il palazzo sarebbe divenuto la dimora di un papa. E come per ogni profezia che si rispetti, puntualmente si verificò. Ma partiamo dalla nascita di Ugo Boncompagni nel gennaio del 1502, quarto figlio del commerciante Cristoforo e di Angela Marescalchi. Ugo visse… due vite, in due ambiti molto diversi. Durante la sua “prima” vita, Ugo Boncompagni si laureò in Legge all’università, esercitò l’attività di docente per otto anni ed ebbe anche un figlio illegittimo, Giacomo. Poi, d’improvviso, nel 1538 arrivò la conversione alla fede cristiana. Secondo alcuni si trattò di mero opportunismo: quando il senato cittadino si rifiutò di aumentargli lo stipendio di docente, Ugo Boncompagni scelse il cammino religioso, che lo portò a diventare sacerdote all’età di quarant’anni. Cominciò così la sua “seconda vita”, e dalle ceneri di Ugo Boncompagni nacque nel 1572 papa Gregorio XIII, a oggi considerato uno dei più importanti pontefici della storia moderna. Gregorio XIII fu un energico promotore della Controriforma, chiamata anche Riforma Cattolica, in opposizione alla Riforma Protestante, e si prodigò per istituire il calendario gregoriano, ancora universalmente in uso, che sostituì quello giuliano. A seguito della sua nomina, sull’architrave del portale di palazzo Boncompagni venne affisso lo stemma papale a tutto tondo con l’arme della casata. La profezia del veggente si era avverata e palazzo Boncompagni era diventata dimora di un papa. A questo punto, Gregorio XIII fece una mossa sorprendente per un uomo di religione: legittimò il figlio Giacomo, che divenne comandante delle truppe pontificie. Si racconta che il cardinale Borromeo, uno dei suoi maggiori sostenitori durante il Conclave, abbia ammesso che se avesse saputo una circostanza così grave e lontana dai parametri religiosi non avrebbe spinto per la sua candidatura. Pare che Gregorio gli abbia risposto: «Non ve ne preoccupate; lo Spirito Santo lo sapeva, eppure ha permesso l’elezione». Mecenate degli esponenti più illuminati della comunità scientifica della sua epoca, Gregorio XIII aiutò anche il filosofo e matematico Girolamo Cardano, offrendogli una cattedra all’università di Bologna. Tuttavia, non poté fare niente per salvarlo quando venne accusato di eresia per aver tentato di scrivere un oroscopo di Gesù Cristo. Sotto il pontificato di Gregorio XIII ci fu un grande impulso allo sviluppo della scienza e delle arti, che lui favorì sostenendo le idee e il lavoro di molti uomini di cultura. Tuttavia, al pari di illustri predecessori come Giulio II, anche Gregorio XIII era interessato al consolidamento del potere temporale della Chiesa, al punto che incoraggiò personalmente i complotti per assassinare la regina Elisabetta I d’Inghilterra, e fece celebrare una serie di messe di ringraziamento dopo aver saputo del

massacro di San Bartolomeo, nel 1572, la strage per mano cattolica dei maggiori esponenti protestanti di Parigi che ben presto dilagò in tutta la Francia, con l’assassinio indiscriminato di qualunque uomo o donna di fede calvinista. Fu un vero e proprio olocausto, arrivando a contare oltre trentamila vittime. È stato definito dagli storici «il peggiore dei massacri religiosi del secolo»[5]. La realtà storica si mescola alle leggende, la religione con la vita quotidiana, e Bologna non smette di stupire. Tra le sue vie ci si può imbattere in un antico palazzo realizzato da Ugo Vignola e finemente affrescato, osservare lo stemma sulla sua facciata e chiedersi che storia nasconda. Nella maggioranza dei casi sarà una storia sorprendente, proprio come quella di Gregorio XIII. O come una delle leggende che sono sorte intorno alla sua persona, per esempio quella della croce che svetta in cima a una colonna, su via Toscana, all’angolo con via Croce di Camaldoli. Un tempo, sulla base della croce erano poste due lapidi con incise altrettante epigrafi in latino. Quella sul lato a monte spiegava che quella era la croce del monastero di Camaldoli, ma è stata distrutta durante la seconda guerra mondiale; ne rimane soltanto un frammento, oggi fissato sopra la seconda lapide, che riporta la data MCDXIX. Quest’ultima, che guarda via Toscana, è ancora leggibile, e ricorda il cardinale Ludovico Ludovisi, il nipote di Gregorio XV. Secondo alcuni, la croce in cima alla colonna indicava la strada per il monastero di Camaldoli, eretto nel 1179. Ma c’è un’altra storia legata alla croce: una leggenda che narra del coraggio di una madre, del suo amore nei confronti del figlio accusato di un omicidio che gridava di non aver commesso, e di un pontefice generoso. Era un giorno freddo e nebbioso, il 20 ottobre del 1582 per l’esattezza, quando Ottavio Savonanza fu ucciso con innumerevoli coltellate presso la Madonna del Monte dell’Osservanza. Nessuna traccia dell’assassino, ma dell’arma del delitto sì: il coltello era abbandonato a fianco del cadavere. Fu accusata quindi l’unica persona collegata a quel coltello: l’armaiolo che l’aveva fabbricato, un giovane di nome Cesare Panarino. Il giovane dichiarò con forza la sua innocenza, ma, a seguito delle feroci torture a cui fu sottoposto, dovette confessare la colpa e fu condannato a morte. La madre Giovanna, sicura dell’innocenza del figlio, non si disperò e si fece coraggio. Si presentò dal vescovo, Pier Donato Cesi, e ottenne il permesso di appellarsi al pontefice per chiedere la grazia. Si dà il caso che il papa fosse proprio un bolognese, quel Gregorio XIII in seguito artefice della riforma del calendario. Giovanna sapeva che non poteva perdere tempo: la vita del figlio era appesa a un filo. Partì quindi alla volta di Roma per chiedere la grazia. A quei tempi, un viaggio verso la capitale comportava non pochi pericoli, soprattutto per una donna. Ma, dopo varie vicissitudini, la madre coraggiosa raggiunse il pontefice. Giovanna gli parlò con tutto l’amore di una madre e lo convinse dell’innocenza del figlio, ottenendo un documento con cui il papa ordinava di celebrare il suo processo da capo. Giovanna si affrettò quindi a tornare a Bologna. Esausta, all’altezza di San Lazzaro, apprese che il ponte sul Savena era crollato. Così, strinse al petto il documento con cui avrebbe salvato la vita del figlio, e con il cuore in gola si decise a entrare in città per la passerella di San Ruffillo. Questo inconveniente le rubò altro tempo prezioso, mentre un brutto presentimento, sottile ma insinuante, la torturava senza sosta. Arrivata in via Toscana, Giovanna incontrò un gruppo di popolani. Parlottavano a voce alta tra loro e soddisfatti commentavano che finalmente giustizia era stata fatta, che quel delinquente del Panarino era stato ucciso per mano del boia. Fu così che Giovanna venne a sapere che il figlio era stato ucciso solo poche ore prima.

Il cuore della madre non resse alla notizia. Giovanna cadde a terra priva di vita. Secondo la leggenda, nel punto in cui ella spirò la pietà popolare eresse la croce della Madre. Secondo un racconto del 1903 di Corrado Ricci la colonna sormontata dalla croce diventò luogo di preghiera a cui accorrevano le madri che avevano un figlio in carcere. Dove finisce la leggenda e dove inizia la realtà? Guardando quella croce di metallo che svetta contro il cielo, e dopo aver sentito narrare la leggenda da un’anziana signora in preghiera ai suoi piedi, non si può che provare un brivido. Se Ugo Boncompagni può essere definito “l’uomo che visse due volte”, per Andrea Casali si può certamente parlare di “un uomo che morì due volte”. La sua prima vita fu costeggiata di successi, ricchezza e onore, ma si spense in fretta. La seconda fu una vita di amarezza, schiavitù e violenza. E la seconda morte fu una lenta agonia. La vicenda di Andrea Casali ha come sfondo la Bologna turbolenta del XVII secolo. Figlio del senatore Mario Casali e di Barbara Malvezzi, Andrea Casali fece il suo ingresso in senato, occupando il posto del padre nella magistratura cittadina, a soli sedici anni. Era il 5 ottobre del 1600. Di animo inquieto, Casali preferiva le arti cavalleresche all’attività pubblica e, dopo essere rimasto coinvolto in un episodio di sangue che gli costò un’interdizione, si unì al contingente italiano dell’esercito spagnolo per prendere parte alla guerra che si combatteva nelle Fiandre, conosciuta in seguito come la famigerata “guerra degli ottant’anni”. Il 3 luglio del 1603, Casali partì da Bologna alla volta di Vienna per raggiungere, l’anno successivo, la città di Ostenda, il luogo dove ebbe fine la sua prima vita. Un motto dei motociclisti è: «Vivi velocemente, muori giovane». E Andrea Casali non aveva ancora compiuto vent’anni quando fu stilato il suo certificato di morte. La sua vita si era conclusa servendo come venturiere la compagnia del colonnello milanese Ludovico Melzi. Data del decesso: 19 luglio 1604. Causa: una palla di archibugio che gli trapassò il ventre. Furono i suoi compagni d’arme Felimeo Biancani e Ippolito Marsili a dichiarare di averlo visto spirare dopo sei ore di agonia, e di averne condotto personalmente le spoglie a Bruges dove furono sepolte nella locale chiesa domenicana. Felimeo Biancani tornò a Bologna con il testamento redatto da Andrea Casali prima della morte, in cui lasciava l’usufrutto dei suoi beni alla madre e l’intero patrimonio a un unico erede, il cugino Michele, che lo trasmise poi al figlio Ferrante. Si parla di una cifra ragguardevole: circa 150.000 scudi romani, e il diritto di sedere sul seggio senatorio che un tempo occupava Casali. A questo punto, la vicenda si tinge di mistero. Tre anni dopo, infatti, iniziarono ad arrivare alla famiglia del defunto delle lettere provenienti dal Nordafrica e firmate… Andrea Casali. Nelle lettere, il Casali spiegava che la ferita a Ostenda era stata superficiale, ma proprio quando aveva ottenuto il rimpatrio, la nave su cui viaggiava era stata assalita dai pirati algerini e lui ridotto in schiavitù. Pregava di essere riscattato, ma nessuno gli credette. Soltanto nel gennaio del 1634 i padri della Madonna della Mercede accettarono di riscattarlo. Giunto a Roma, il presunto Casali reclamò i suoi beni e i suoi titoli, rivolgendo i suoi appelli personalmente a papa Urbano VIII, che aveva conosciuto durante la legazione bolognese. Nel frattempo, però, il cugino Ferrante era divenuto Gonfaloniere di Giustizia. E nonostante Casali riportò particolari di cui solo lui poteva essere a conoscenza, fu imprigionato come truffatore, e infine processato. Nella sua versione dei fatti il colpo di archibugio gli fu sparato da Ippolito Marsili, uno dei due

testimoni che avevano dichiarato di averlo visto morire, e che ora sedeva al banco dell’accusa a fianco del cugino Ferrante. Ippolito Marsili lo aveva derubato e, credendolo morto, lo aveva abbandonato sul campo di battaglia. Nonostante fu fatto prigioniero, Andrea Casali non si era mai dato per vinto e, dopo aver militato per cinque anni con le truppe di Maurizio di Nassau, aveva ottenuto il permesso di ritornare in patria. Ma le peripezie non erano finite: durante il viaggio la nave era stata assalita dai turchi ed egli era stato condotto in schiavitù in Barberia, ove era rimasto per venticinque anni. Il processo ad Andrea Casali emerge come una farsa atta a incriminare l’imputato, al punto che per mettere a tacere l’opinione pubblica che si era schierata in sua difesa, fu realizzato un ritratto del prigioniero ben poco fedele alla realtà da spedire a Bologna. Un allievo del Carracci eseguì un altro ritratto dell’imputato e lo inviò a Guido Reni, che lo riconobbe senza esitare in quanto lo aveva ritratto in gioventù. Nonostante le deposizioni dell’accusa fossero poco credibili e persino discordanti, nonostante l’imputato avesse sia la voglia sulla spalla che la “verga” nel mignolo della mano sinistra, proprio come il “vero” Andrea Casali, nonostante un commilitone sostenne che Ferrante Casali aveva cercato in più occasioni di fargli testimoniare il falso, l’imputato fu condannato al remo a vita. Correva l’anno 1639 quando, incatenato al banco della trireme al momento della morte, egli dichiarò agli amici bolognesi accorsi per dargli l’ultimo saluto che era il vero Andrea Casali, e all’età di cinquantacinque anni moriva trattato come uno schiavo e un malfattore.

III. Bologna sacra

L’interno della basilica di San Petronio in un’incisione ottocentesca.

La vita e la morte tra i portici della città Tra le mura di Bologna è esistita una quantità impressionante di edifici religiosi, tra cui chiese, cappelle, monasteri, parrocchie urbane, nel tempo distrutti, dismessi o demoliti per far spazio ad altre costruzioni, e la maggior parte avevano un cimitero adiacente. La procedura imponeva che, una volta dichiarato decaduto l’edificio, i resti di coloro che erano sepolti nel cimitero fossero riesumati e trasportati altrove. Ma, ahimè, ciò non avveniva in tutti i casi, vuoi per la fretta con cui a volte si dovevano innalzare determinate costruzioni, o la mancanza di informazioni sufficienti all’identificazione delle sepolture, soprattutto nei confronti dei giustiziati. Aveva infatti la sua importanza anche la famiglia di provenienza delle salme in quanto, soprattutto nel Medioevo, ricchezza e prestigio della famiglia di appartenenza avevano un certo peso nella ricerca di una nuova dimora per un defunto. L’attuale piazza dell’VIII Agosto, oggi sede di un parcheggio sotterraneo, era nei secoli passati un luogo deputato all’esecuzione delle condanne capitali. Sito eletto per la sepoltura dei giustiziati era il cimitero adiacente, detto “della Morte”, accanto al quale nel 1350 venne costruita la chiesa di San Giovanni Battista decollato, soprannominata “della Giustizia”. La chiesa fu innalzata dai membri della misteriosa Compagnia dei Battuti, una confraternita dedita alla pratica della flagellazione che si occupava di fornire assistenza ai detenuti e ai condannati a morte. Il loro stemma era formato da tre teschi sormontati da una croce con flagelli pendenti. Della Compagnia, che ebbe tra i suoi membri i rappresentanti delle più importanti famiglie bolognesi, sappiamo che fece costruire il primo ospedale cittadino. Fu eretto di fronte alla chiesa di Santa Maria della Vita, e una parte di esso è stata abbattuta per far spazio alla basilica di San Petronio. Del complesso rimane oggi soltanto il portico della Morte, l’affascinante loggia costruita da Antonio Morandi come prosecuzione di quella dell’Archiginnasio. È sotto i suoi archi che si racconta Pier Paolo Pasolini ricercasse libri a poco prezzo, nei primi anni Quaranta del secolo scorso. All’interno del santuario di Santa Maria della Vita, ubicato in via Clavature, è conservata un’opera la cui genesi e la disposizione originaria delle figure sono avvolte in un fitto mistero. Si tratta del Compianto sul Cristo morto di Niccolò dell’Arca, composto da sette statue in terracotta a grandezza naturale. La figura centrale è quella di Cristo morto, in posizione distesa e la testa appoggiata su un cuscino, intorno a cui sono sistemati la Madonna, le tre Marie, san Giovanni e Giuseppe da Arimatea. Non esistono documenti che attestino la disposizione originale delle statue. Inesistenti le notizie che ne indichino la committenza o l’anno di realizzazione, enigmi destinati a rimanere insoluti. La vita stessa dell’artista è avvolta in un’aura di mistero. Niccolò dell’Arca è forse nato a Bari intorno al 1435, e si è presumibilmente stabilito a Bologna verso il 1460, città dove resterà fino alla sua morte. Qui ha collaborato alla realizzazione delle formelle dei finestroni del lato est della basilica di San Petronio. Deve il suo soprannome dell’Arca alla risistemazione dell’Arca di san Domenico, che custodisce le spoglie del santo nella basilica a lui dedicata, un’opera iniziata due secoli prima da Nicola Pisano e terminata dopo la morte di Niccolò da Michelangelo Buonarroti. Ma l’opera a cui Niccolò dell’Arca deve la sua notorietà senza dubbio è il Compianto sul Cristo morto. Il soggetto di Gesù dopo la sua deposizione dalla croce, circondato da personaggi che ne piangono

la morte, è divenuto popolare nell’arte sacra cristiana a partire dal XIV secolo. Famoso il dipinto omonimo realizzato da Giotto tra il 1303 e il 1305, considerato il capolavoro che sancisce la definitiva rottura dagli schemi bizantini: da Giotto in poi l’arte è in grado di far partecipare lo spettatore alle emozioni dei personaggi ritratti. L’opera di Niccolò dell’Arca è considerata il massimo capolavoro in terracotta del Rinascimento e di ogni epoca. Mostra personaggi straziati da un pianto disperato, colti in un intenso momento di drammaticità che non ha eguali nella cultura italiana dell’epoca. Resta aperto l’interrogativo sulle fonti di ispirazione dell’artista, tra cui taluni annoverano l’umanesimo gotico d’oltralpe e gli affreschi perduti del pittore ferrarese Ercole de’ Roberti. L’unica cosa certa è che l’opera ha il potere di sconvolgere i visitatori di ogni tempo, anche i più prevenuti. Disse in proposito Gabriele D’Annunzio: «Mi sembrò di esser percosso da un vento di spasimo, da un nembo di sciagura, da uno schianto di passione ferale. Quella era la vita, quella era la morte, un orrore unico entrambe»[6]. Una curiosità: le Marie piangenti diventarono per i bolognesi le “burde”, befane mostruose utilizzate come spauracchio per i bambini capricciosi. Per quanto riguarda il cimitero “della Morte”, questo sorgeva in corrispondenza dell’attuale Montagnola e sappiamo che venne risparmiato da Giulio II quando fece ricostruire la rocca di Galliera. Venne tuttavia progressivamente abbandonato fino a quando, nel 1805, Napoleone trasformò la Montagnola, che nei secoli era diventata una sorta di discarica di Bologna, in un parco pubblico. Si pensa che per la fretta con cui vennero condotti i lavori non sia nemmeno stato considerato il trasloco dei resti ivi sepolti. Pertanto, alcuni sostengono che il parco nasconda sotto di sé un ossario di generazioni di condannati a morte. Un altro cimitero scomparso è quello conosciuto come “la fossa dei giustiziati delle Salze”. Ne parla Antonio Masini in un manoscritto risalente al 1823: «Il luogo detto le Salze era per se stesso obbrobrioso. Ivi si seppellivano gli impenitenti, gli scomunicati, gli eretici e anche i condannati all’ultimo supplizio». Non conosciamo l’esatta collocazione del cimitero, presumibilmente si trovava nella strada che sale il colle Osservanza, dalle parti di via dei Colli, fuori Porta San Mamolo. Analogamente, non è noto dove si trovasse esattamente il giardino della Lazzarina. L’unica certezza è che finire in quel giardino significava morte certa. Per ricostruire il poco di conosciuto su questo argomento è necessario tornare indietro nel tempo. Come narrato nei racconti storici ottocenteschi estratti dall’archivio criminale, c’erano varie località tristemente conosciute perché ospitavano le impiccagioni. Gli accusati di tradimento, per esempio, venivano impiccati vicino al ponte sul Reno, dove venivano stretti per un piede, proprio come raffigurato nella carta dei tarocchi dell’Appeso, e lì lasciati morire. Con questa pratica ci poteva volere molto tempo per spirare, e il sangue che confluiva alla testa lasciava il condannato cosciente fino alla fine. Il principale patibolo cittadino, tuttavia, dal Duecento all’Ottocento è stato piazza del Mercato, l’attuale piazza Maggiore. Qui era possibile assistere alle condanne a morte come se si trattasse di un vero e proprio spettacolo. Troviamo varie testimonianze della crudeltà con cui avvenivano le esecuzioni. Nel Seicento, infatti, gli atti del podestà disponevano che le esecuzioni fossero documentate con un dipinto. Grazie a queste raffigurazioni, accompagnate da descrizioni a opera dei cronisti, sappiamo che tal Junio da Parma, professione calzolaio, accusato di aver abusato della figlia fu «vestito di una pelle d’asino e trascinato a coda di cavallo fino al Mercato ed ivi appiccato, poi squartato e finalmente arso

sperdendone le ceneri al vento». Ma torniamo al giardino della Lazzarina: si narra che, nel 1445, non essendovi più forche a sufficienza, il magistrato abbia ordinato che i condannati per impiccagione fossero appesi alla ringhiera dello stesso palazzo del podestà. La leggenda vuole che Lazzarina fosse la moglie del boia che su quella ringhiera eseguiva le condanne. Si racconta che la donna, forse per pietà nei confronti dei condannati, si premurasse di abbellire quella ringhiera con fiori e piante. Da qui il detto «finire nel giardino della Lazzarina», ovvero essere condannati a morte. Riguardo alla confraternita dei Battuti, va precisato che questa non è l’unica confraternita a essere ammantata di mistero. Verso la metà del Trecento, infatti, una misteriosa congregazione di devoti alla Vergine Maria, di cui oggi si sono perse le tracce, commissionò un ciclo di affreschi per decorare la chiesa di Sant’Apollonia di Mezzaratta, posizionata a metà della salita del colle Osservanza e probabilmente da loro fondata. L’artista che venne ingaggiato fu Vitale degli Equi, noto anche come Vitale da Bologna, all’epoca estremamente popolare in città. Siamo nel 1352. La città si sta riprendendo dall’epidemia di peste, cominciata nel 1348 e durata un paio d’anni, che ne ha decimato la popolazione. Scrive un cronista del tempo: «Fu una grande mortalità a Bologna. E fu così violenta da uccidere tre persone su cinque e forse anche di più. In tutta Europa, le città sembravano tombe, piene com’erano di cadaveri insepolti». All’ingresso della chiesa, Vitale dipinse una Natività che sembra una danza che coinvolge una trentina di figure intorno a Maria con il bambino al collo, un’altra opera denominata Madonna del dente, e la decorazione absidale, quest’ultima andata perduta durante la costruzione dell’ottocentesca villa Minghetti. Ma quello che ha attirato l’attenzione degli studiosi è l’enigmatico affresco detto Il sogno della Vergine. Ritrae Maria, addormentata sul letto, che in sogno vede uscire dal proprio grembo un albero. In cima al ramo più alto c’è suo figlio, Gesù, crocifisso. Accanto a lei, c’è una misteriosa figura femminile, intenta nella lettura di un testo. Quello del sogno della Vergine è un soggetto assolutamente insolito per l’epoca e per la tradizione cristiana. Esistono solo altre tre opere, di poco successive a quella di Vitale da Bologna, che riprendono questo soggetto che ben presto scomparirà dall’iconografia cristiana, portando con sé l’enigma della sua ispirazione originaria. Questo episodio della vita di Maria, infatti, non è presente nella letteratura cristiana canonica, né nei Vangeli cosiddetti “apocrifi” intorno ai quali c’era molto interesse in epoca medievale. C’è chi sostiene che sarebbe retaggio di un culto pagano di origine orientale, ma secondo recenti studi Vitale da Bologna sarebbe stato ispirato dalle illustrazioni presenti nello Speculum humanae salvationis, un trattato iconografico medievale che ebbe grande diffusione nei paesi anglosassoni ma che in Italia era pressoché sconosciuto. La tesi fa presupporre un collegamento tra i committenti degli affreschi e l’Ordine dei Domenicani, nell’ambito del quale si diffuse lo Speculum. Gli affreschi di Sant’Apollonia di Mezzaratta sono stati staccati nel 1949 e sono conservati nella Pinacoteca nazionale di Bologna.

666 archi per la Madonna nera Sulla sommità del colle della Guardia sorge il santuario della Beata Vergine di San Luca. Al suo interno è presente un presbiterio rialzato, sulla cui cima è posta l’icona di una Madonna con bambino. La particolarità di questa immagine sacra è il volto della Vergine, che appare di un colorito scuro, brunito. Nonostante le cosiddette “Madonne nere” siano molto diffuse in Europa, la loro origine è avvolta nel mistero. Per alcuni si tratta di alterazioni dei pigmenti che il colore ha subìto nei secoli o di icone dipinte per assumere le caratteristiche fisiognomiche delle popolazioni a cui erano destinate, mentre altri sostengono che si tratti di un retaggio del culto della bruna divinità egizia Iside, dea della fertilità e dell’agricoltura, oppure che rappresentino la manifestazione di Sophia, antico concetto filosofico che identifica la componente femminile di Dio. Per taluni, ancora, le Madonne nere sono icone bizantine le cui copie sono state portate in Europa durante le Crociate. Sono numerose le teorie sull’origine del dipinto conservato nel santuario. La tradizione sostiene che sia stato eseguito dall’evangelista san Luca su una tavola di legno, trovata poi nella chiesa di Santa Sofia di Costantinopoli dal pellegrino greco Teocle Kmynia. Si tramanda che sotto l’immagine vi fosse indicato di collocarla sul monte della Guardia, e che i religiosi l’abbiano consegnata al pellegrino per portarla in Italia. La leggenda vuole che Teocle Kmynia si sia recato a Roma con il quadro, nella speranza di scoprire dove si trovasse il luogo di destinazione dell’immagine. L’ambasciatore del senato bolognese Pascipovero lo vide transitare sotto il suo palazzo e, incuriosito, gli chiese cosa portasse con tanta devozione. Teocle rispose che si trattava dell’immagine della Beata Vergine, da collocare sul monte della Guardia, un luogo che da tempo cercava senza successo. L’ambasciatore lo informò che il monte da lui cercato era in realtà un colle nei pressi della città di Bologna, e gli consegnò le credenziali per presentarsi al senato e al vescovo della città. Nel 1160, il pellegrino giunse infine a Bologna, e l’effige sacra venne portata sul monte in processione. Un’altra leggenda racconta che l’immagine della Madonna di San Luca sia giunta sul colle della Guardia in volo dall’Oriente, analogamente alla Santa casa di Loreto, sede anch’essa di un’icona della Madonna nera. Va sottolineato che, in realtà, l’attribuzione del quadro a san Luca è inesatta, in quanto la datazione del quadro lo fa risalire al XII secolo. Una teoria sull’origine del culto vuole che nel 1087 una giovane bolognese, una certa Angiola, abbia rifiutato di convolare alle nozze combinate dal padre per ritirarsi in preghiera sui boschi del colle della Guardia. Angiola venne in seguito raggiunta da un’altra fanciulla, Angelica. Venne così costruito un eremitaggio per tutte coloro che volevano unirsi alla preghiera. Tra le prime ad arrivare, Azolina e Beatrice da Guezi, che portarono il supporto e le cessioni dell’Ordine dei Canonici regolari di Santa Maria del Reno, e così venne costruita una chiesa dedicata a san Luca. Tuttavia, le cronache dell’epoca non contribuiscono a dissipare la coltre di mistero che avvolge l’origine del dipinto. A suffragio dell’ipotesi che si tratti dell’eredità di un culto pagano, la corrispondenza tra il nome della chiesa in cui Teocle Kmynia si dice abbia trovato il quadro, Santa Sofia, e il concetto filosofico di Sophia (dal greco “sapienza”). Degna di nota anche l’assonanza tra il nome Kmynia e l’espressione al kimya, con cui gli antichi egizi indicavano la terra nera, resa fertile dalle

inondazioni del Nilo, forse all’origine della parola “alchimia”. Ma non basta: c’è una forte analogia con il culto di Iside. Si racconta che, durante le piogge e i violenti nubifragi che nell’estate del 1433 minacciavano il raccolto, i fedeli abbiano condotto per la prima volta la Madonna di San Luca in processione, e che questo abbia portato prodigiosamente il bel tempo. L’abitudine di guidare l’effige della Madonna in città si ripete ininterrottamente da allora, ogni anno. Degno di nota il fatto che il cammino che porta al santuario della Beata Vergine di San Luca è un portico lungo circa tre chilometri composto complessivamente da 666 archi. Il portico inizia da Porta Saragozza, con i primi 320 archi che conducono all’incrocio col portico della Certosa. È necessario percorrerne quasi altri 350 per giungere al santuario. Le cronache sulla sua costruzione non indicano il motivo per cui viene effettuata questa scelta: perché proprio 666 archi? La leggenda racconta che, nell’estate del 1433, quando la Madonna nera venne per la prima volta portata in città, essa sia risalita al santuario durante la notte in volo. Gli alberi che sorgevano ai lati della strada l’avrebbero protetta dalla bufera, piegando le cime su di lei e formando un lungo tunnel. Questo avvenimento miracoloso suggerì di costruire un portico che conducesse i pellegrini fino al colle della Guardia. Il progetto prese forma nel 1663, anno in cui si decise di collegare tra loro le diverse stazioni per il rosario che portavano al colle. Venne costituito un comitato, e al momento di finanziare l’opera l’intera cittadinanza di Bologna partecipò alle spese: donne, servitori, artigiani e nobili contribuirono allo stesso titolo. Dopotutto, venerare la Vergine di San Luca è per tutti i bolognesi un atto di devozione. Quello della Madonna nera è un culto locale e costituisce, in fondo, anche un’affermazione della volontà di indipendenza dai legati pontifici. La prima pietra venne posata il 28 giugno 1674, e nel giro di due anni fu coperto il tratto di pianura. Il tratto di salita venne iniziato nel 1706, e nel 1715 raggiunse la vetta del colle. Il compito di congiungere i due tratti fu affidato all’architetto Carlo Francesco Dotti, che realizzò lo scenografico Arco del Meloncello tra il 1721 e il 1732. 666 è il numero citato nell’Apocalisse di Giovanni come “il numero della bestia” e considerato dalla Chiesa un simbolo del demonio. Per questo alcuni sostengono che il tortuoso percorso composto dai 666 archi rappresenti il serpente, ossia il demonio, ai piedi del santuario e quindi sconfitto e schiacciato dalla Madonna. Per gli astrologi il 28 giugno 1674 il Sole si trovava in congiunzione con Plutone, il pianeta che porta il nome del dio degli Inferi, che sarebbe quindi collegato al diavolo. Le interpretazioni del 666 non sono solo negative: cabalisticamente rappresenta l’interazione tra due numeri benefici come il 6, emblema dell’uomo, e del 10, associato al divino.

Il santuario della Madonna di San Luca in un’incisione ottocentesca.

La città sotterranea Il santuario di Santa Maria della Pioggia fa parte delle cosiddette “chiese sull’acqua” di Bologna. La denominazione viene da un tempo lontano, quando la città era ancora percorsa da canali che la lambivano come serpenti d’acqua. Oggi non è facile immaginare Bologna come una città d’acque, al pari, per esempio, di Venezia. Eppure, in passato era percorsa da canali navigabili che scorrevano verso il Po, garantendo il trasporto delle merci e l’approvvigionamento dell’energia idraulica necessaria per il funzionamento dei telai da seta e per altre attività produttive. Da Santa Maria della Pioggia partiamo alla scoperta degli itinerari che portano alla scoperta della Bologna sotterranea e dei canali che la percorrono. L’oratorio di San Bartolomeo (1204) e la sottostante chiesa della Pioggia si trovano tra via Galliera e via Riva di Reno. La chiesa si erge contro il cielo con i suoi tre archi che sembrano bocche spalancate pronte ad accogliere i visitatori. Una delle sue attrattive è la Vergine della Pioggia che raffigura una Madonna col bambino circondata da sette teste di angeli. È attribuita al pittore quattrocentesco Michele di Matteo, attivo prevalentemente a Bologna ma conosciuto anche a Venezia per il suo polittico Madonna col bambino e santi, e a Siena, dove nel 1447 affrescò la tribuna del battistero. Il dipinto della Vergine della Pioggia orna l’altare maggiore dell’omonimo santuario. La sua espressione greve e apparentemente distante è messa in risalto dall’oro che tinge le sue vesti e colora le aureole degli angeli alle sue spalle. Ma cosa rende questo dipinto così speciale? Innanzitutto il ritrovamento, da molti considerato miracoloso. Durante i lavori di restauro dell’oratorio di san Bartolomeo di Reno, vennero rimosse le macerie di un palazzo distrutto da un incendio nella seconda metà del Trecento. Tra il cumulo di detriti riemerse la piccola tavola della Vergine della Pioggia, perfettamente intatta nonostante le vicissitudini. Si narra che, poco dopo, un cieco venuto a rendere omaggio all’icona riaffiorata dai detriti del tempo abbia ritrovato la vista. L’oratorio di San Bartolomeo divenne uno spazio di accoglienza per poveri preti e viandanti diretti a Roma. Poi vennero eseguite modifiche edilizie e nel 1527 venne trasformato in un orfanotrofio maschile per bambini orfani per via della peste e della carestia che si abbatterono sulla città. Nel 1561 Bologna fu colpita da un lungo periodo di siccità. Il reggimento autorizzò quindi una processione in cui la Vergine della Pioggia venne portata tra le strade della città, e l’intera popolazione partecipò con fede e devozione. Si narra che nei giorni seguenti ci furono piogge torrenziali: le richieste dei fedeli erano state esaudite. Da quel momento si propagò il culto della Vergine della Pioggia. Tra gli altri, il cardinale Lambertini, futuro papa Benedetto XIV, e il cardinale Oppizzoni furono devoti alla Vergine. I bombardamenti danneggiarono la chiesa, ma l’icona fu sempre risparmiata. Alla fine della seconda guerra mondiale, la chiesa venne restaurata e per molti anni è stata officiata dai ministri degli Infermi, una congregazione fondata da san Camillo de Lellis. All’interno rimane una reliquia del santo: il suo abito da infermiere. Oggi il santuario ospita una congregazione che si occupa dell’assistenza di immigrati polacchi, le Suore Missionarie di Cristo Re. Come nel caso dell’altra famosa icona bolognese, la Vergine di San Luca, il culto della Madonna si lega all’acqua e più in particolare alla pioggia. C’è chi sostiene, infatti, che Bologna sia nata sotto un segno d’acqua. Oggi l’unico corso d’acqua naturale che attraversa la città è il torrente Aposa, ed è intorno alle sue

sponde che nacquero i primi insediamenti villanoviani. Poi, in età comunale, in città iniziò la costruzione di chiuse per la realizzazione di canali artificiali derivati dai fiumi Reno e Savena. Videro così la luce il canale Savena, che attraversa i giardini Margherita ed entra in città attraverso Porta Castiglione, e il canale Reno, realizzato dai “ramisani”, cioè i cittadini all’epoca proprietari del fiume stesso. La chiusa di Casalecchio, ricostruita nel 1567 per ordine di papa Pio V e su progetto di Jacopo Barozzi detto Il Vignola, è la più grande diga realizzata in muratura prima dell’avvento del cemento armato. Dal canale Reno si diramano poi il canale delle Moline, oggi visibile tramite la famosa finestrella di via Piella, e il canale Cavaticcio, che alimentava il porto interno alla cinta muraria. Era di fondamentale importanza il canale Navile, la cui chiusa di Battiferro è attribuita nientemeno che a Leonardo da Vinci. Grazie al Navile era possibile trasportare le merci all’esterno delle mura. Oggi, sull’antica conca portuale, sorge il giardino del Cavaticcio. In via Castiglione sono ancora visibili gli anelli in ferro murati a palazzo Pepoli, che servivano da ormeggio per le imbarcazioni. Nell’attuale via del Porto sorgevano vari mulini per macinare il grano, che sfruttavano l’energia prodotta da un salto di quattordici metri delle acque del Cavaticcio. Il porto stesso, sopravvissuto fino ai primi del XX secolo, era nel Medioevo uno dei maggiori porti fluviali d’Italia. In quel periodo la potenza della flotta di Bologna era tale che sconfisse le navi veneziane nella battaglia di Primaro. Bologna stessa avrebbe potuto diventare una seconda Venezia. Il commercio della seta beneficiava della rete di trasporto garantita dalle acque. I canali facilitavano le attività giornaliere ed erano utilizzati per produrre energia. Anche le fornaci, macine, cartiere, concerie e tintorie beneficiavano della mobilità dei corsi d’acqua. Ma allora perché la città ha rinunciato ai suoi canali navigabili? Già nell’alto Medioevo l’Aposa, nel percorso dal serraglio di Santo Stefano fino al canale delle Moline, venne coperto, creando una galleria sotterranea di sette chilometri. Eppure i canali erano anche un formidabile strumento di difesa, in quanto alimentavano i fossati intorno alle mura della città. Tuttavia, nel corso dei secoli il commercio della seta in città subì un drastico ridimensionamento, e a un certo punto la concorrenza di altri mezzi di trasporto per le merci rispetto alle imbarcazioni resero sempre meno conveniente mantenere navigabili i corsi d’acqua. I canali esistono ancora: sono serpenti sotterranei che scorrono sotto il tessuto urbano. L’ultimo a essere stato completamente coperto dall’asfalto è il Reno, negli anni Cinquanta. Via Riva di Reno si chiama così proprio per ricordare che fiancheggiava l’omonimo corso d’acqua. È possibile compiere delle visite organizzate nei sotterranei di Bologna. Si tratta di veri e propri percorsi a ritroso nel tempo alla scoperta delle meraviglie dormienti sotto la città. Anche se dalla strada non se ne può sospettare l’esistenza, scendendo al di sotto di via Rizzoli è tuttora possibile ammirare i resti del ponte che i coloni romani costruirono per attraversare l’Aposa. Sotto il Nettuno si possono visitare i cosiddetti “bagni di Mario”, la cisterna costruita nel Cinquecento dall’architetto Tommaso Laureti su incarico di papa Pio IV e che costituisce il sistema di captazione delle acque per approvvigionare la fontana. Tra i suoi cunicoli con volte a sesto acuto è possibile ammirare gli affreschi rinascimentali che li adornano. E poco lontano da Bologna, inoltrandosi nei boschi fiabeschi di Pontecchio Marconi, si possono visitare le vestigia dell’antico acquedotto. Risale al I secolo a.C. ed è l’unico completamente ipogeo conosciuto dell’epoca romana. Una curiosità: le quattro chiese definite “delle acque” si incontrano seguendo i percorsi sotterranei. Oltre alla già citata Santa Maria della Pioggia, in piazza della Pioggia, ci sono Santa Maria della

visitazione al ponte delle Lame, Santa Maria della carità, entrambe in via Riva di Reno, e Santa Maria e San Valentino della Grada, ubicata in via della Grada.

Bologna dei miracoli Secondo una tradizione popolare, la neve di agosto è quella voluta dalla Madonna. Miracolosa, quindi, sarebbe la copiosa nevicata avvenuta a Roma il 5 agosto del 432, e che segnò il perimetro entro il quale costruire Santa Maria delle Nevi, meglio conosciuta come la basilica di Santa Maria Maggiore. A Bologna avvenne lo stesso bizzarro fenomeno l’8 agosto del 1199. Tre giorni di nevicate abbondanti che ricoprirono le strade della città turrita. Che fosse un modo per cancellare il sangue versato in anni di conflitti tra guelfi e ghibellini? All’epoca le faide tra famiglie erano violentissime, e arrivarono a sfociare in una vera e propria guerra civile. Alla fine del XII secolo infatti, la cronaca cittadina era degna del più avvincente romanzo d’appendice: dal podestà corrotto a cui una banda di ghibellini strappò tutti i denti in mezzo alla strada, a Teodora Rodaldi, un’antesignana Lady Vendetta che attese tredici anni per compiere la sua vendetta. Il marito, Oliviero Garisendi, era stato esiliato per aver ucciso un nemico politico. Si trattava di un parente del dottor Bulgaro, il famoso giurista allievo di Irnerio e autore del trattato De regulis juris. Al ritorno in patria del marito, Teodora organizzò con lui un’incursione nell’abitazione dove era riunita l’intera famiglia dei rivali. La diedero alle fiamme, per poi passare a fil di spada ognuno dei superstiti all’incendio. Morirono tutti per aver privato Teodora per tredici lunghi anni del suo amore. Tre anni dopo la nevicata di agosto, Bologna fu colpita da una grandinata record con chicchi grossi come pugni, che ferirono molti cittadini. E nel 1234 fu un’ondata di gelo eccezionale a causare numerosi morti. Persino il vino gelò nelle botti, mentre gli alberi da frutto e le coltivazioni seccarono, provocando una carestia. I cronisti descrivono i canali intorno alla città e il Po come un’enorme lastra di ghiaccio, al punto che per raggiungere Ferrara non occorrevano più le imbarcazioni ma bastavano i carri. Prestando attenzione che il ghiaccio non si rompesse, naturalmente. Risale all’epoca delle faide tra guelfi e ghibellini del XII secolo la leggenda nata intorno alle misteriose Sette fonti. Percorrendo il tratto della via Emilia che da Bologna conduce a Ozzano, è possibile inoltrarsi nel parco dei Gessi, che deve il suo nome alla fascia di affioramenti gessosi che caratterizza la zona. Da qui si giunge ai calanchi dell’Abbadessa, in località Settefonti, una zona suggestiva intorno alla quale sono nati numerose racconti che mescolano verità storica e leggenda. Uno di questi vede protagonista la figlia della famiglia Chiari, Lucia, vissuta nel XII secolo. Lucia ricevette dalla madre un’educazione fortemente religiosa al punto che, divenuta una splendida ragazza, decise di prendere i voti e di andare a vivere nel convento di Settefonti, fondato nel 1097. Il convento prendeva il nome dal numero di sorgenti presenti nella zona: sette, appunto. La fama della bellezza di Lucia si era già diffusa nel circondario, arrivando alle guarnigioni di soldati che presidiavano il territorio di Uggiano, nome medievale di Ozzano. Tra i militari c’era Diotagora Fava, detto Rolando, che probabilmente aveva conosciuto Lucia prima che prendesse i voti. Tra Rolando e Lucia nacque un amore impossibile e struggente. Rolando percorreva ogni settimana l’impervio crinale per intravederla attraverso le grate, durante le funzioni religiose. Forse Lucia incrociava troppo spesso il suo sguardo: un’altra monaca lo notò, e fece chiudere le grate. A questo punto, sebbene il loro amore fosse forte, la ragazza preferì rinunciarvi, e consacrare

completamente la sua vita a Dio. Rolando e Lucia non si incontrarono mai più, nemmeno con gli occhi. Lucia è stata un esempio di fede e virtù al punto che, alla morte di Matilde, la superiora, diventò badessa del convento e scelse di adottare la regola camaldolese. Rolando, nel tentativo di dimenticare l’amata, partì per le Crociate. Ma in Terrasanta venne catturato e fu così che, dopo anni di prigionia, una notte il suo pensiero volò a Lucia. Non sapeva, Rolando, che la ragazza che amava con tanto ardore era morta da tempo, e che in seguito alla sua morte tutte e sette le sorgenti di Settefonti si erano prosciugate. In sogno, Rolando vide Lucia che gli tendeva la mano e lo conduceva verso il convento in cui si erano spesso incontrati. Lucia gli chiese di lasciare sulla sua tomba i ceppi che lo imprigionavano. A questo punto Rolando si risvegliò, trovandosi con sorpresa proprio nella foresta di Settefonti, tra i calanchi dell’Appennino bolognese, che da quel momento vennero chiamati calanchi dell’Abbadessa. Il cavaliere raggiunse il convento, si inginocchiò sulla tomba dell’amata e lì lasciò le catene, in lacrime. In quel momento, tutte le Sette fonti ripresero a zampillare copiosamente. In virtù di questo miracolo, Lucia venne beatificata nel 1508. Le sue spoglie sono conservate nella chiesa di Sant’Andrea, insieme ai ceppi che tennero prigioniero il cavaliere. Oggi non esiste più traccia del convento, né delle Sette fonti che danno il nome all’antica borgata. In passato si diceva che l’acqua che ne sgorgava avesse virtù miracolose, e che fossero difficili da raggiungere perché protette dalle streghe. Un’altra leggenda vuole che intorno a esse vivesse una comunità di gnomi. L’ultima delle fonti è stata recentemente interrata dal proprietario del terreno, per evitare pellegrinaggi indesiderati: Settefonti è stata infatti meta dei fedeli fino alla seconda guerra mondiale. Ultimo baluardo dello scomparso borgo sono le rovine restaurate di una chiesa, quella di Santa Maria Assunta, della quale rimangono il campanile e parte della facciata. È ancora meta di pellegrinaggio, invece, la chiesa del Corpus domini dove è conservata la salma prodigiosamente rimasta intatta nei secoli di santa Caterina de’ Vigri, per i bolognesi “Caterina la nera” o semplicemente “la santa”. Le conservazioni prodigiose sono fenomeni secondo cui un corpo si mantiene in buono stato di conservazione a distanza di molti anni dalla sua morte biologica senza interventi artificiali come, ad esempio, l’imbalsamazione. È particolarmente eclatante il caso di santa Caterina de’ Vigri. Il suo corpo, a più di cinquecento anni dalla morte, è infatti inspiegabilmente intatto. Nata nel 1413 e figlia di un noto giurista bolognese, Caterina, a nove anni, si trasferì con la famiglia a Ferrara presso la corte degli Este. Sono gli anni in cui Niccolò III d’Este sta costruendo il ducato di Ferrara e la città toccò l’apogeo del suo splendore. Giungevano a corte da ogni angolo d’Europa pittori, architetti e letterati. In questo periodo Caterina diventò damigella di compagnia di Margherita d’Este. Studiò danza, musica e pittura. Perfezionò lo studio del latino. Imparò a poetare, a scrivere composizioni letterarie, a suonare la viola. Diventò esperta nell’arte della miniatura e della copiatura, dipingendo vari quadri a soggetto religioso, il più famoso dei quali è quello conservato nella Pinacoteca nazionale a Venezia, che ritrae Caterina stessa inginocchiata dinanzi a sant’Orsola e le sue compagne. Quando Caterina aveva quattordici anni, il padre morì. La madre tornò così a Bologna per risposarsi, mentre Caterina intraprese un cammino inaspettato: si unì alla comunità agostiniana fondata dalla gentildonna Lucia Mascheroni. Cinque anni dopo, scelse di legarsi alla regola di santa

Chiara d’Assisi. Entrò così nel monastero del Corpus domini di Ferrara. Le testimonianze raccontano che, nonostante fosse abituata alla corte ferrarese, Caterina non rifiutava i compiti più umili, «con amore e con pronta obbedienza, offrendo alle consorelle una testimonianza luminosa». Fu lei stessa a raccontare che entrò in convento «illuminata dalla grazia divina, con retta coscienza e grande fervore». Pare che subisse una costante tentazione da parte del demonio, fino a una profonda crisi spirituale, terminata dopo un misterioso combattimento contro il diavolo di cui è possibile leggere la testimonianza nel suo diario. Nel 1456, la sua popolarità tra le autorità ecclesiastiche e la popolazione è tale che le viene richiesto di creare a Bologna una nuova fondazione. Nacque così il monastero del Corpus domini, di cui Caterina ricopriva il ruolo di superiora. Alla sua morte, nel marzo del 1463, venne sepolta nell’orto del convento, avvolta semplicemente in un lenzuolo. Si narra che nei giorni successivi le consorelle non riuscissero a stare lontane dalla sua sepoltura, e che da essa provenisse un profumo dolce. Si parlò anche di guarigioni miracolose. Un registro dell’epoca racconta di un «misterioso splendore che si diffondeva dalla tomba». Diciotto giorni dopo la morte, il corpo di Caterina venne riesumato per poterle donare una sepoltura più degna. Con stupore, risultò incorrotto e privo di rigor mortis. Venne definito «bianco, bello e pastoso come vivo». A tal proposito, una leggenda vuole che una delle monache, credendo che ella fingesse di esser morta, le morse il dito. Non ci fu reazione da parte di Caterina (che morta lo era per davvero), ma il dito sanguinò. Canonizzata da papa Clemente XI nel 1712, santa Caterina siede oggi su un trono dorato in una cappella della chiesa del Corpus domini, in via Tagliapietre 21, visitabile anche dal pubblico in giorni prestabiliti e a determinati orari. Il suo corpo appare perfettamente conservato, nonostante la pelle abbia assunto un colorito brunito che le è valso il soprannome di “Caterina la Nera”. Tutt’oggi le suore si prendono cura di lei, lavandola e cambiandole l’abito a seconda delle ricorrenze. Si dice che durante queste attività, Caterina le aiuti muovendo dolcemente le articolazioni. A rafforzare l’aura miracolosa che la circonda, il fatto che i bombardamenti del 1943 hanno colpito la chiesa, ma hanno lasciato intatta la cappella della santa.

IV. Bologna “la Dotta”

Alchimisti al lavoro, incisione tratta da De secreta naturae di Philip Ulstadt, 1544.

Esoterismo e complotti all’ombra dello Studium L’università di Bologna affonda le sue origini in un mistero: quello che ammanta la figura di Irnerio, il suo fondatore. Vissuto tra il 1150 e il 1125, di Irnerio sappiamo che era di origini germaniche e che era un giurista alla corte di Matilde di Canossa. Nemmeno il suo nome è certo: i documenti che lo riguardano sono quasi tutti andati perduti e ciò che sappiamo di lui compare nei frammenti di tredici documenti, riportato di volta in volta come Guarnerio, Wernerius, Yrnerius. A dispetto della scarsità di informazioni a noi pervenute sulla sua figura, Irnerio godette tuttavia di grandissima fama ai suoi tempi, passando alla storia come “giurista illuminato”. Un suo esimio contemporaneo, il giudice Odofredo Denari, definì Irnerio «primo illuminatore delle nostre scienze». Il primo corso dell’università di Bologna fu pertanto quello di Diritto. A differenza di quanto avvenne nell’università parigina, in cui i maestri erano soggetti alle autorità della Chiesa e del re, l’università bolognese fu creata come istituzione laica e indipendente. Nel 1158, l’imperatore Federico Barbarossa la riconobbe con un editto che tutelava lo Studium come luogo di ricerca indipendente da qualsiasi altro potere. I primi studenti finanziavano i loro docenti con donazioni volontarie, organizzandosi in collegi dove dormire e fornirsi aiuto reciproco. Progettato per garantire agli studenti una certa autosufficienza in città, ogni collegio imponeva una serie di regole molto rigide ai suoi ospiti. Il più famoso della città è il collegio di Spagna, una struttura destinata agli studenti spagnoli. Ubicato nelle vicinanze dell’attuale Porta Saragozza, è l’unico collegio medievale sopravvissuto nell’Europa continentale che abbia mantenuto la sua funzione nei secoli. Nonostante la conclamata indipendenza dello Studium dall’istituzione ecclesiastica, alcuni edifici religiosi divennero luogo di ritrovo per gli studenti. Ne è un esempio la chiesa di San Procolo, che si trova in via d’Azeglio. Procolo era un legionario romano di fede cristiana, vissuto verso il 300 d.C. Pare avesse cercato di convertire alcuni dei suoi commilitoni, e per questo fu perseguitato dai commissari imperiali dell’imperatore Diocleziano, e infine decapitato. Si racconta che, dopo che la testa gli fu spiccata dal corpo, lui l’abbia raccolta e abbia compiuto alcuni passi. Il suo culto è uno dei più antichi della città di Bologna, come testimonia il fatto che sulla prima cinta muraria che avvolse la città fosse presente una porta col suo nome (Porta Procula). Intorno alla chiesa di San Procolo si dice che il misterioso Ordine dei Benedettini Neri abbia fatto costruire un cimitero, di cui oggi non rimane alcuna traccia, eccetto per un’enigmatica lapide in latino che recita: «Si procul a Proculo Proculi campana fuisset, nunc procul a Proculo Proculus ipse foret. A.D. 1393». Tradotta letteralmente, l’iscrizione sembra priva di significato: “Se la campana di Procolo fosse stata lontana da Procolo, oggi lo stesso Procolo sarebbe lontano da Procolo”. In molti si sono cimentati nel tentativo di interpretare la dicitura, e c’è chi sostiene che sia un epitaffio scritto in memoria di uno studente chiamato Procolo, omonimo del martire, morto a causa del crollo della torre del campanile. L’epitaffio sarebbe quindi una sorta di gioco di parole basato sull’omonimia tra lo studente, il nome della chiesa e la parola proculus che in latino significa “lontano”. Il significato dell’iscrizione potrebbe quindi essere: “Se Procolo fosse stato lontano dalla campana di San

Procolo, ora lo stesso Procolo non sarebbe sepolto nel cimitero di San Procolo”. Nel 1248 cominciarono i lavori di ristrutturazione della chiesa, e in quel periodo il cantiere divenne sede dell’Opera muratoria di Bologna, come attestato da un documento notarile dell’epoca. Questo, denominato Charta, è la prima testimonianza esistente di un luogo di ritrovo dei Liberi muratori, la cui associazione darà inizio secoli dopo alla massoneria. Ed è proprio intorno a una loggia, costruita appositamente, che avvenivano le riunioni degli studenti. A quell’epoca, la chiesa di San Procolo sarebbe stata luogo d’incontro tra gli universitari e gli affiliati all’Opera muratoria, favorendo il reciproco scambio culturale, soprattutto negli ambiti dell’astronomia, della filosofia e della matematica. A incentivare questo scambio il fatto che nel XIII secolo l’università non risentiva dell’influenza dello studio della teologia, che avveniva nell’ambito della Curia, e poteva dedicarsi liberamente allo studio della filosofia aristotelica e ai miti dell’esoterismo orientale. Percorrendo via IV Novembre in direzione di via di Porta Nova, si incontra la maestosa chiesa del Santissimo Salvatore. L’edificio attuale ha una chiara impronta barocca, ma le sue origini sono antichissime: alcuni ritengono che proprio lì, nell’VIII secolo, una confraternita di monaci greci abbia innalzato un tempio a Giove Soterio, la divinità unica, essenza della perfezione. Il suo nome deriva dal termine soter, in greco “salvatore”, lo stesso termine utilizzato successivamente per definire Gesù Cristo. Non a caso, proseguendo verso ovest, si incontra Porta Stiera, anticamente detta Soteria. I primi documenti certi sulla chiesa risalgono al 1149, quando l’edificio religioso divenne dipendenza dei Canonici regolari di Santa Maria in Reno, detti comunemente monaci renani. Costoro, nel 1474, decisero di demolirla e di ricostruirla, affinché rispecchiasse i dettami del tempo. Poi, nel 1606, la grande ricostruzione. Edificata su ispirazione della chiesa del Gesù di Roma, si imponeva come modello artistico della cultura della Controriforma. La Chiesa cattolica era infatti impegnata nella battaglia contro la diffusione della dottrina di Martin Lutero, che disconosceva il primato papale e ridimensionava le gerarchie ecclesiastiche. Tra i sacramenti, Lutero riconosceva soltanto il battesimo e l’eucarestia, mentre negava il valore salvifico delle opere buone, in quanto solo la fede in Gesù Cristo può salvare l’anima. C’è chi a tutt’oggi pensa che nel sottosuolo della chiesa del Santissimo Salvatore scorra un’energia particolare, che ha spinto nei secoli persone di diverso credo a erigervi luoghi di culto, e che ha richiamato fedeli da ogni parte d’Europa. Una lapide posta all’esterno dell’edificio sacro ricorda proprio come questo tratto di strada fosse un tempo «il centro delle scuole di medicina, di filosofia, di retorica, di astrologia e delle arti poste allora in questa parte della città». Passò da queste parti nel 1162 Thomas Beckett, cancelliere del regno d’Inghilterra e arcivescovo di Canterbury, inviato a Bologna per approfondire diritto civile e canonico. Dopo il suo assassinio fu proclamato martire e santo da papa Alessandro III, e il cardinale Ildebrando fece erigere in suo onore una cappella e un altare, dove gli studenti inglesi si ritrovavano in preghiera. Con gli anni, questa cappella guadagnò il privilegio dell’extraterritorialità. Anche Erasmo da Rotterdam, teologo, umanista e filosofo di origini olandesi, ebbe occasione di visitare spesso questo luogo durante la sua permanenza da studente a Bologna. Autore di un’opera controversa come L’elogio della follia, sosteneva che «miracoli e favolette di prodigi servono solamente a cavar quattrini, come usano principalmente preti e predicatori popolari». Il suo pensiero umanistico e riformatore ebbe tale risonanza che si narra che tutti i libri della biblioteca della chiesa

del Santissimo Salvatore, dove in gioventù egli studiò, siano stati bruciati o calcinati, nel timore che potessero recare qualche messaggio eretico ai lettori. Erasmo, come molti studenti, era infatti solito scrivere i suoi appunti ai margini dei testi. Riguardo alla misteriosa energia catalizzatrice che sembrerebbe sprigionare il sottosuolo della chiesa, sarà un caso, ma proprio nel convento adiacente Ulisse Aldrovandi, medico, filosofo e naturalista bolognese produsse per la prima volta, esattamente nel 1574, la theriaca. Definita da Paracelso «la cura di tutti i mali» era considerata un vero e proprio rimedio miracoloso. Il suo nome deriva dal greco therion, cioè “animale selvatico”. Si utilizzava inizialmente come rimedio al morso degli animali velenosi e gli ingredienti erano preparati su base alchemica. Si dice che per prepararla occorresse anche carne di vipera. E per finire, all’ombra di questo edificio troviamo anche il Guercino, pittore che ha sempre incluso nelle sue opere simboli esoterici, e che è stato sepolto in questa chiesa. Persino nel suo anno di morte alcuni vedono una vocazione esoterica. Si tratta infatti del 1666. Passa per Bologna uno dei più celebri misteri dell’arte: quello della Gioconda, il quadro dipinto da Leonardo da Vinci. Leonardo si trovava infatti nel capoluogo emiliano nel 1515, al seguito del re di Francia Francesco I, il quale doveva incontrare papa Leone X. Secondo alcuni l’artista toscano rimase affascinato da una giovane cortigiana, Filiberta di Savoia, che come lui era ospitata a palazzo Felicini, al punto da ispirarsi a lei per il volto della Gioconda. Si tratta soltanto di un’ipotesi, al pari delle altre attribuzioni del ritratto, tra le quali la più comune è Lisa Gherardini, moglie del mercante Francesco del Giocondo. Merita di essere menzionato ciò che ha sostenuto recentemente il Comitato nazionale per la valorizzazione dei beni storici, culturali e ambientali: secondo il presidente del comitato Silvano Vinceti la Gioconda sarebbe il ritratto di un uomo. Si tratterebbe di Leonardo Salai, che fu compagno di Leonardo da Vinci per oltre vent’anni. Da un artista della pittura a un artista della chirurgia: è da sempre particolarmente prestigiosa a Bologna la facoltà di Medicina, come prova l’esistenza dello straordinario teatro anatomico tutt’ora visitabile all’interno del palazzo dell’Archiginnasio. Tra le sue pareti operò un chirurgo ammantato da un’aura di leggenda, Gaspare Tagliacozzi, un uomo che ha precorso le epoche e compiuto prodigi tali da essere accusato di stregoneria tramite un processo postumo. Autentico antesignano della moderna chirurgia plastica, Tagliacozzi fu un maestro di chirurgia e anatomia con cattedra all’Archiginnasio nella Bologna del ’500. Di lui dissero: «Rifaceva le labbra, il naso, gli orecchi agli uomini che ne mancavano, e li ricostruiva con tale perizia da far pensare più che all’arte ad un miracolo». Il suo anno di nascita è stato a lungo dibattuto dagli storici, fino al ritrovamento di un atto di battesimo datato 2 marzo 1545. Ai tempi in cui era studente, le dissezioni dei cadaveri si facevano presso le abitazioni dei professori. Una curiosità: Raimondo de’ Liuzzi fu il primo a tenere una lezione pubblica utilizzando un cadavere umano, il 1 gennaio del 1315, in un periodo in cui il contatto con il sangue umano era considerato deplorevole. Risale al 1570 l’istituzione di una cattedra di anatomia pratica. Nacque così il teatro anatomico, costruito da Antonio Levanti in pregiato legno di tiglio e con le statue degli “scuoiati” di Ercole Lelli. Si dice che durante il Carnevale alle lezioni fosse ammesso anche il popolo, e che le dame si recassero alle dimostrazioni di “funzioni dell’anatomia” in maschera per poi proseguire altrove i festeggiamenti. Gaspare Tagliacozzi aveva una mente prodigiosa, al punto che già due anni prima di laurearsi

praticava con successo nell’ospedale della Morte, dove si occupava di visitare le prigioni e portare conforto ai condannati. Con la confraternita dei Battuti che lo gestiva egli rimase in contatto per tutta la vita, anche perché erano proprio loro a procurare al chirurgo i cadaveri necessari ai suoi studi. Al culmine della sua carriera, Tagliacozzi descrisse in dettaglio il suo metodo nel trattato De curtorum chirurgia per insitionem, ovvero “Chirurgia delle mutilazioni per mezzo di innesti”, pubblicato a Venezia nel 1597. Importante è inoltre una sua lettera al medico Girolamo Mercuriali in quanto, oltre che descrivere con semplicità i suoi metodi di ricostruzione, Tagliacozzi cita i nomi di quattro persone a cui aveva ricostruito il naso, permettendoci un’analisi storica precisa delle sue metodologie. Pare addirittura che i suoi pazienti fossero più contenti del naso ricostruito, piuttosto che di quello originale! Il chirurgo chiamò la pratica «rinoplastica a lembo» perché utilizzava la cute dell’avambraccio per applicarla sul naso. Per le autorità ecclesiastiche si trattava di una prevaricazione dei poteri divini, ma è solo dopo la sua morte, avvenuta il 7 novembre del 1599, che secondo alcuni storici l’Inquisizione si accanì contro l’opera del luminare. Si dice che il suo cadavere sia stato dissotterrato e portato fuori dalla chiesa di San Giovanni decollato, dove era stato sepolto per suo volere testamentario, e che si sia celebrato un processo postumo per eresia. Gli incartamenti del processo sono andati perduti, e c’è chi pensa che siano stati distrutti volontariamente. Due le versioni degli avvenimenti che seguirono la sua morte: per alcuni Tagliacozzi è stato condannato dall’Inquisizione e il suo corpo bruciato in terra non consacrata. Per altri, sarebbe attendibile il documento conservato all’Archiginnasio, che recita: «Scopertasi la malvagia malignità d’alcuni invidiosi alla fama di Tagliacozzi, tacciato di magia, fu colle debite solennità restituito il suo corpo alla primiera sepoltura». Impossibile stabilire la verità: la confraternita dei Battuti è stata soppressa nel 1799, la chiesa di San Giovanni decollato adibita a caserma napoleonica, poi consegnata alle monache salesiane, ed è ora scomparsa. Dell’eventuale tomba di Tagliacozzi si è persa ogni traccia.

La prima rivolta studentesca… per amore Grazie al prestigioso Studium, nei secoli Bologna è sempre stata una meta ambìta dagli studenti di tutta Europa. Ed è anche grazie alla ricaduta sull’economia della massiccia presenza di studenti che la città ha potuto prosperare nei secoli, anche in periodi difficili. A volte, però, il rapporto tra la città e gli studenti che ospita da quasi mille anni è stato burrascoso. Ne è un esempio la rivolta studentesca del 1977, ma anche la curiosa vicenda innescata dall’amore travagliato di Jacopo Da Valenza e Costanza dei Zagnoni. Per raccontarla partiamo dalla storia di colui che all’epoca (parliamo della prima metà del 1300) fu un uomo dalla sconfinata ricchezza: Romeo Pepoli. Figlio di un modesto cambiavalute che viveva cambiando denaro e facendo piccoli prestiti agli studenti stranieri, egli diventò di fatto padrone di Bologna e addirittura l’uomo più ricco d’Italia, con un capitale di 75.000 scudi e rendite di oltre 125.000 fiorini annui. Il suo cognome, Pepoli, era di antiche origini e aveva come stemma una scacchiera bianca e nera o meglio, una sorta di abaco, l’antenato della calcolatrice, se vogliamo vedere una sorta di predestinazione di quello che sarebbe stato il destino di Romeo. Il suo cammino iniziò con l’intuizione che la professione del padre non sarebbe mai stata remunerativa. Romeo Pepoli iniziò quindi a prestare denaro senza distinzione di rango sociale o categoria di mestiere. Faceva prestiti alle comunità contadine che spesso, strozzate dalle tasse e incapaci di estinguere il debito, erano costrette a cedergli terre e immobili per ripagarlo. Faceva prestiti ai cambiavalute, bisognosi di liquidità e ben felici di garantirgli in cambio un appoggio politico all’occorrenza, così come alle grandi famiglie della città, fino ad arrivare a finanziare il Comune stesso, assumendo di fatto una posizione egemonica in città. Romeo Pepoli diventò quindi una sorta di banchiere, o forse sarebbe più adatto definirlo usuraio, arrivando a collezionare terreni, case e negozi in ogni parte d’Italia. I soldi per lui non erano mai abbastanza, al punto che arrivò a intentare una causa contro una donna accusata di avergli sottratto una manciata di noci. Ma fu quando truffò il Comune, dichiarando un reddito molto inferiore rispetto a quello reale, che iniziò a farsi dei nemici. Degna di nota è la festa che diede in onore della laurea del figlio Taddeo, nel 1320. In questa occasione, per dimostrare che la sua ricchezza non aveva confini, fece qualcosa che nessuno prima (o dopo di lui) sarebbe mai arrivato a concepire: offrì il pranzo all’intera città. A volte, il destino è beffardo. Non fu la sua attività di usuraio, non furono i sotterfugi politici e neppure l’ostentazione delle sue fortune a provocare un’insurrezione popolare contro di lui, bensì la sua decisione di intromettersi tra le spirali della triste storia d’amore tra Jacopo Da Valenza e la bella Costanza. Arriviamo così al giorno in cui gli studenti di Bologna scesero in piazza… per amore. Tutto ebbe inizio il giorno in cui gli occhi di Jacopo Da Valenza incontrarono quelli di Costanza dei Zagnoni, e sbocciò l’amore. Un sentimento da subito contrastato dal padre della ragazza, che non tollerava che lei perdesse tempo con uno studente fuori sede, squattrinato e idealista, tutto il contrario, insomma, del buon partito che auspicava per la figlia. Ma l’amore, si sa, non conosce le regole della ragione ma solo quelle del cuore, che a volte portano

ad azioni avventate. Jacopo e Costanza organizzarono una fuga con l’aiuto dei compagni di studio del ragazzo. Una fuga che purtroppo finì con la loro cattura dopo soltanto un giorno passato insieme. Di fronte alla famiglia di Costanza, Jacopo giurò di non averla compromessa: l’unico desiderio che lo aveva spinto a un atto così sconsiderato era di passare un po’ di tempo con la ragazza che amava. Ma la legge parlava chiaro: la ragazza era stata disonorata. La pena per colui che l’aveva screditata agli occhi della comunità? La morte tramite il taglio della testa. Romeo Pepoli prese a cuore la vicenda di Jacopo e Costanza e cercò di mediare con il giudice in favore dei due innamorati. Tuttavia, non ottenne il risultato sperato; Jacopo fu condannato a morte e Costanza imprigionata nella sua stessa casa. Dopo la decapitazione di Jacopo, un mare di studenti e docenti si riversò nelle piazze, risoluti a non lasciare impunita questa atrocità. E dopo aver manifestato il loro dissenso, decisero di fare una mossa che avrebbe danneggiato l’intera economia di Bologna: lasciare in massa l’università e trasferire lo Studium a Siena. Romeo Pepoli venne indicato dalla folla come capro espiatorio, accusato di aver perorato la causa di Jacopo e Costanza soltanto di facciata. Era la notte del 17 luglio 1321 quando la sua casa fu circondata da una folla inferocita. Egli riuscì a darsi alla fuga insieme ai figli attraverso un passaggio segreto, ma gli inseguitori gli furono addosso nel giro di pochi minuti. Quando tutto sembrava perduto, Romeo si decise a gettarsi alle spalle delle manciate di monete, creando un eccellente diversivo. Gli inseguitori si fermarono infatti a raccoglierle rinunciando ai propositi di cattura. Soltanto l’intervento del papa e le ampie concessioni che fece agli studenti riuscirono a riportare lo Studium in città, mentre il padre di Costanza fu esiliato a vita. L’occasione fu festeggiata con la costruzione della chiesa di Santa Maria delle Grazie presso Porta San Mamolo, che venne adornata con la cosiddetta “pietra della Pace”. Una pace siglata con il sangue di un innamorato e l’eterna infelicità della sua compagna, la dolce Costanza, privata prima dell’amore di Jacopo e poi di quello del padre. Il caso di Romeo Pepoli, finito nei guai per aver cercato di mediare tra due fazioni in conflitto, non è l’unico nella storia di Bologna. C’è stato un uomo, infatti, che fu talmente odiato che bastava pronunciare il suo nome per guadagnarsi la pena di morte. Nessuno in città, povero o ricco, guelfo o ghibellino, uomo o donna, poteva scandire le sei lettere che formavano il suo nome e rimanere impunito. Non erano previste attenuanti: solo la morte poteva mondare il fatale errore. Il nome che non poteva essere pronunciato era Enrico. Si può dire che a quell’epoca fosse in voga il detto: «Non dire Enrico se non vuoi morire». E cosa aveva potuto fare di così grave una persona per meritare un disprezzo così profondo? La risposta è: intendeva mettere fine alle faide tra guelfi e ghibellini. Costui fu così odiato a Bologna che quando si seppe del suo decesso, alla fine del torrido agosto del 1313, il governo (di ispirazione guelfa) approvò un documento in cui la sua morte veniva definita «grandissima grazia che Dio ha concesso al Comune di Bologna» e doveva essere festeggiata con «una solenne processione conducendo per la città e i sobborghi le reliquie dei santi». Si trattava di un re, quell’Enrico VII di Lussemburgo che fu incoronato sovrano di Germania, re dei romani e imperatore del Sacro romano impero nel 1312. Uno dei pochi a esprimere il proprio apprezzamento per il re d’oltralpe fu Dante Alighieri, che a lui dedicò vari componimenti di lode. L’ambizione di re Enrico VII era riunire il Sacro romano impero mettendo fine, una volta per tutte,

alle lotte tra guelfi e ghibellini. Ma quando l’odio tra le fazioni è così profondo, tenuto in vita da secoli di sangue versato, congiure, lutti e rovine, può succedere che sia proprio chi vorrebbe mettervi fine a diventare il nemico giurato. Così, l’uomo che voleva creare la pace non fece che fomentare nuove ostilità. Il cronista Griffoni asserisce che a mettere fine alla vita di Enrico VII, il re sognatore, fu addirittura un frate, che gli somministrò un’ostia avvelenata. Così, guelfi e ghibellini poterono ricominciare a farsi la guerra… in santa pace.

Le enigmatiche donne dello Studium La storia dell’università di Bologna è costellata di personaggi di spicco nelle arti e nelle scienze che lì hanno studiato, allievi dal prodigioso talento, e… storie vere che superano l’immaginazione di qualsiasi scrittore. C’è una figura in particolare, legata all’università di Bologna, che scatena curiosità e interrogativi. È quella di Bitisia Gozzadini. Bitisia nacque nel 1209 da un’antica famiglia nobile. Sappiamo che studiò Giurisprudenza all’università, per poi laurearsi nel 1237 con il massimo dei voti. La particolarità della sua storia è che, per tutta la durata della sua permanenza all’università, non smise mai di indossare abiti maschili. Secondo gli storici «non volle piegar l’animo ad adoperar l’ago». Ma ci sono altre ipotesi: forse fu costretta a seguire i corsi celando la propria femminilità. Forse, il suo fu un modo di imitare Assiotea o Lastenia, allieve di Platone. Quello che sappiamo è che secondo gli insegnanti era «un mostro eccezionale», e che fu la prima donna che insegnò in ateneo. Lo fece per ben ventidue anni. Bitisia morì nel 1261 a seguito di una serie di sventurate circostanze. Il fiume Idice, infatti, straripò e inondò le aree circostanti, causando il crollo dell’abitazione in cui si era riparata. Per commemorare il lutto le scuole pubbliche sospesero per un giorno le lezioni, e il suo funerale fu celebrato alla presenza di insegnanti e studenti nella chiesa di Santa Maria dei Servi. Tra le figure femminili avvolte nel mistero non si può non citare Novella d’Andrea, che nel XIV secolo insegnava con il volto velato. Alcuni sostengono che dovesse farlo per celare la propria bellezza e non turbare gli studenti che la seguivano in gran numero. Occorre puntualizzare che l’istruzione, in passato, era considerata appannaggio dei soli uomini. Si pensi al caso di Gentile Budrioli, di certo più appassionata allo studio che alla negromanzia e anche per questo bersaglio di maldicenze, o al curioso complimento che venne fatto alla pittrice Elisabetta Sirani, allieva della scuola di pittura di Guido Reni. Il canonico Carlo Cesare Malvasia scrisse di lei, infatti: «Dipinge da homo», un attributo che venne ripreso da molti contemporanei dell’artista. Era consuetudine del tempo mascolinizzare non solo il talento, ma anche il concetto di successo, come dire: se è brava, è perché dipinge come un uomo. Elisabetta Sirani è stata una delle più importanti pittrici italiane ed è morta in circostanze misteriose nel 1665, a soli ventisette anni. Sulle cause della sua morte non è mai stata fatta chiarezza. Scrisse in proposito Ottavio Mazzoni Toselli nel racconto storico datato 1833 Di Elisabetta Sirani e del supposto veneficio onde credesi morta: «Sono parecchi anni che gli amatori delle belle arti fanno moltissime ricerche affine di conoscere come morisse e per opera di chi Elisabetta Sirani, pittrice tanto lodata in questa scuola bolognese. Essendo stato fin’ora ignoto il nome cui fu apposto il delitto, e mancando per questa cagione gl’indizj, riuscì vana ogni più industriosa ricerca». A diciassette anni, Elisabetta era un’autentica enfant prodige. È a quell’età, infatti, che realizzò la sua prima opera pubblica, un Battesimo di Cristo per la chiesa di San Girolamo. Suo padre, anch’egli pittore, era un artista mediocre ma un ottimo mercante: sfruttò infatti lo straordinario talento della figlia raccogliendo commesse su commesse, che lei eseguiva nella bottega di famiglia. Tra i committenti, non solo le famiglie aristocratiche bolognesi, ma anche i nobili di mezza Europa, come la granduchessa di Toscana Vittoria della Rovere e le duchesse di Parma, Baviera e Braunschweig. Inoltre, Elisabetta fu la prima a organizzare una scuola d’arte per ragazze. A fianco delle tematiche religiose, tra le quali spiccano perlopiù Madonne con bambino, Elisabetta

prediligeva raffigurare eroine mitologiche, soggetti che oggi definiremmo “cattive ragazze”: donne che rifiutavano il ruolo femminile e la sottomissione, arrivando persino a uccidere. Ne sono l’esempio Timoclea, che getta nel pozzo il soldato che l’ha violentata, o Porzia, che si ferisce alla coscia per dimostrare il suo coraggio al marito Bruto. La morte di Elisabetta Sirani arrivò inaspettata quanto tragica. Sopraggiunse infatti dopo alcuni giorni di insopportabili dolori al ventre. Venne istruito un processo contro la domestica, sospettata di averla avvelenata. D’altronde, Elisabetta era bersaglio dell’invidia di molti, e c’è chi sostiene che sia stata assassinata da una rivale in amore. Un’altra teoria prevede che a ucciderla sia stata un’ulcera perforante causata dallo stress per il troppo lavoro. Nell’arco della sua breve vita, Elisabetta realizzò più di duecento opere. La metà di esse è andata perduta.

Bologna tra magia e scienza Sappiamo che il prestigioso Studium bolognese annoverò tra i suoi studenti intellettuali di pregio come Francesco Petrarca, Dante Alighieri, Erasmo da Rotterdam, Pico della Mirandola, Torquato Tasso e Niccolò Copernico. Una curiosità: insieme al diritto, l’astronomia, la filosofia e l’aritmetica, in passato una delle materie di studio è stata… la magia. Più precisamente, si tratta di ciò che prima dell’imposizione del metodo sperimentale di Galileo era chiamata “magia naturale”, ovvero un tipo di magia “positivo” che aveva più a che fare con l’odierno studio delle scienze naturali che con l’esoterismo: l’alchimia. Avvenne nell’ambito di questo studio la scoperta della barite, un minerale la cui esistenza venne scoperta a Bologna nel 1602, quando Vincenzo Casciarolo, alchimista dilettante, ne trovò un frammento alla base del monte Paderno. Più di cinquant’anni prima dell’annuncio da parte di Brand della scoperta del fosforo, Casciarolo osservò per primo il fenomeno della termoluminescenza: sottopose il minerale alla calcinazione col bianco d’uovo e il carbone ottenendo una pietra che, esposta al sole per un tempo sufficiente, era in grado di rimanere luminosa di notte. La chiamò “pietra solare”, ma, anche all’estero, diventò consuetudine chiamare il minerale “pietra di Bologna” o “pietra felsinea”, anche se qualcuno si affrettò a definirla “pietra luciferina”. La scoperta scatenò la curiosità di scienziati di fama come Galileo Galilei e la fantasia degli alchimisti, tra cui Paracelso, per i quali divenne un tassello fondamentale nella ricerca della pietra filosofale. Scrive Salvatore de Renzi nel quarto volume della Storia della medicina italiana: «Casciarolo la mostrò all’altro alchimista Scipione Bagatelli, che credé di vedere il sole simbolo dell’oro fissarsi in questa pietra. Quest’ultimo partecipò tale scoverta ad Antonio Magini professore di matematica, il quale ne mandò a Galileo». È nel 1622 che Scipio Bagatello, noto alchimista bolognese, la bruciò nel tentativo di ricavarne oro. Nel mondo alchemico si diffuse l’opinione che il materiale si comportasse come un magnete per la luce, come le calamite si comportano con il ferro. Tuttavia, vale la pena sottolineare che passarono quarant’anni prima che a Casciarolo venisse ufficialmente attribuita la paternità del ritrovamento, in una pubblicazione di Fortunio Liceti. Tra quest’ultimo e Galileo si scatenò una polemica, in quanto Galilei scrisse della pietra confutando parte del testo di Liceti, in particolare la parte relativa alla spiegazione delle proprietà luminose dovute al “candor lunare”. A rimanere affascinato dalle proprietà della pietra è Johann Wolfgang von Goethe, giunto a Bologna durante il suo viaggio in Italia. Goethe citò la barite ne I dolori del giovane Werther. Secondo i sostenitori di alcune pratiche spirituali, la barite è un attivatore del chakra del terzo occhio e può essere usata per percepire altre dimensioni o per favorire l’incontro con entità angeliche, oltre a essere definita un eccellente scudo contro le influenze negative e le radiazioni nocive. Una scoperta sospesa tra scienza e magia è anche l’“elettromeopatia”, la terapia medica ideata dal conte Cesare Mattei nell’Ottocento. Di questa disciplina parla Dostoevskij ne I fratelli Karamazov. È il Diavolo in persona, nel romanzo, a elogiare le virtù delle scoperte del conte: «Ma che filosofia e filosofia, quando tutta la

parte destra del corpo mi si è paralizzata e io non faccio che gemere e lamentarmi. Ho tentato tutti i rimedi della medicina […] senza alcun beneficio. Disperato, ho scritto al conte Mattei, che mi ha mandato un libro e delle gocce, che Dio lo benedica». Cesare Mattei nacque a Bologna nel 1809 da una famiglia di possidenti terrieri, le cui proprietà si estendevano da Bologna a Comacchio. Nel 1837, Cesare, grazie alla donazione della fortezza di Magnavacca a papa Pio IX, ottenne il titolo di conte. Dopo una breve parentesi in politica, nel 1850 Cesare acquistò i terreni dove sorgevano le rovine dell’antica rocca di Savignano, a Riola Ponte, sull’Appennino bolognese, per costruire un castello che chiamerà Rocchetta. Il progetto iniziale, quello di costruire un castello in stile medievale, subì vari cambiamenti per via dell’infatuazione del conte per l’architettura orientale. Il risultato è una struttura dall’aspetto fiabesco, dall’interno labirintico con camere dagli stili eclettici, e numerose torri e scalette. Scrive Arturo Palmieri nel 1931 nel libro In Rocchetta con Cesare Mattei: «Ai viaggiatori, che percorrono la strada ferrata o, meglio ancora, la carrozzabile Bologna-Porretta, non è facile che sfugga la vista di una costruzione caratteristica che domina l’orizzonte fra Vergato e Riola. È un gruppo vario e leggiadro di torri, alcune sottili a guisa di minareti con guglie variopinte e cupole dorate, altre più grosse con pinnacoli a forma di merli, cinto di mura massicce che, visto da lontano, richiama alla mente quelle città medioevali in miniatura scolpite dai nostri artisti accanto a Santi e Madonne»[7]. È all’interno di questa fortezza che Cesare Mattei, ispirato dagli scritti del filosofo e alchimista Paracelso, elabora le sue teorie sull’elettromeopatia, una terapia per curare le malattie basata sulla somministrazione di granuli abbinati a “fluidi elettrici” con posologia di tipo omeopatico. In un vademecum, Mattei descrive accorgimenti, aggiustamenti e modifiche a seconda della malattia da curare. La terapia agisce su ciò che lui definisce «fluido nervéo elettrico» del corpo umano al fine di ristabilire l’equilibrio tra le due cariche elettriche del corpo stesso, analogamente alla medicina orientale, per ricondurre la parte dolente allo stato neutrale. La formulazione degli ingredienti è stata divulgata per obbligo di legge, ed essi risultano di tipo erboristico e di facile reperibilità. Tuttavia, rimane segreto il metodo di lavorazione, secondo Mattei proprio quello che attribuisce agli ingredienti il potere guaritore. Avversato dalla medicina ufficiale, nel 1881 il conte inizia con grande successo la commercializzazione dei suoi composti, creando una rete distributiva in tutto il mondo. Innumerevole la corrispondenza in merito ricevuta dal conte nel corso della sua vita, sia da parte di medici che applicavano seriamente le sue terapie, che da parte di pazienti entusiasti dei risultati. Dopo la sua morte, avvenuta nel 1896, la proprietà della Rocchetta e dei laboratori elettromeopatici passa agli eredi, ma la seconda guerra mondiale porta degli sconvolgimenti: la fortezza viene occupata dai militari tedeschi, che per riscaldarsi bruciano gran parte del pregiato mobilio, arazzi e altre opere d’arte. Nel dopoguerra il castello passa di proprietà varie volte, rischiando di andare in rovina nonostante l’impegno e i ripetuti appelli alle istituzioni da parte dell’associazione ONLUS Archivio Cesare Mattei, fino alla recente acquisizione da parte della Fondazione Carisbo, che ne ha promesso il restauro. La rete commerciale di Mattei si è sfaldata nel corso dei decenni, ma la disciplina conta ancora numerosi adepti sparsi per il mondo. I prodotti attualmente commerciati, prevalentemente all’estero, tuttavia, risultano drasticamente diversi, nell’analisi chimica, dai campioni originali del conte Mattei.

V. Bologna criminale

Un frate e un brigante in un’incisione del XIX secolo.

Gli inafferrabili criminali Bologna, al pari delle altre grandi città, ha una lunga tradizione criminale. Storie a volte romantiche, a volte tragiche, di persone che hanno scelto di vivere da fuorilegge per sfuggire alla povertà, per inclinazione naturale o forse a causa di un eccesso di opportunismo. La costante di queste storie è che difficilmente hanno avuto un lieto fine. Il primo “caso” di cui ci occuperemo è quello di un ladro che nella Bologna di fine Settecento avrebbe tenuto testa al celebre antieroe dei fumetti Diabolik. Il suo nome era Girolamo Lucchini, detto conte Lucchini, anche se alcuni lo conoscevano come Girolamo Ridolfi, altri come Giovanbattista Rossi. Infatti, al pari del personaggio ideato dalle sorelle Giussani, anche il Lucchini aveva la caratteristica di cambiare identità all’occorrenza. Era dotato di sangue freddo, Lucchini, senza dimenticare che era un insuperabile maestro con la lima, nonché uno scaltro e preparatissimo conoscitore delle leggi della meccanica. Il conte Lucchini era di origini venete, e giunse a Bologna per trovare fortuna. O forse per far perdere le sue tracce, dato che nella sua terra natale era ricercato come falsario. A Bologna incontrò Berenice Seracci, la sua Eva Kant, che diventò sua amante e complice, anche se al contrario della bellissima e biondissima metà di Diabolik, la nostra Berenice lo tradirà, facendolo condannare al patibolo. Per raccontare la sua storia partiamo dalla notte di sabato 24 gennaio 1789, quando Girolamo Lucchini si cimentò in un furto mai tentato prima: svaligiare il caveau del Monte di Pietà, dove numerosi bolognesi depositavano i loro averi. Per preparare il colpo, Lucchini si servì soltanto di qualche pezzo di ottone e di una lima, con cui costruì una chiave artigianale molto complicata, munita di tre diverse “mappe”, ovvero tre diverse file di dentature. Quando lunedì mattina i dipendenti tornarono al lavoro, trovarono le sbarre della finestra segate e la cassaforte svaligiata. Anche il cassetto che conteneva i preziosi era stato svuotato. In principio fu accusato del furto il direttore della banca, dato che era il custode della vera chiave del caveau. Dimostrata la sua innocenza, le indagini iniziarono a battere a tappeto l’intera città, e gli inquirenti promisero un premio in denaro e la certezza dell’anonimato a chi avrebbe fornito informazioni utili per la cattura del ladro. Fu proprio una soffiata a portare all’arresto del conte Lucchini e di Berenice, che vennero rinchiusi nelle carceri del Torrone. Dopo una settimana di interrogatori, gli inquirenti non erano ancora riusciti a raccogliere una prova a carico e stavano per rilasciare i sospettati quando, inaspettatamente, Berenice ebbe un crollo emotivo e svelò, in cambiò dell’impunità, che il nascondiglio della refurtiva era camuffato nel pavimento della loro abitazione. Sabato 26 febbraio 1791 Girolamo Lucchini, alias Girolamo Ridolfi, alias Giovanbattista Rossi, fu condannato alla decapitazione nella piazza del Mercato, ma le sue imprese ardite lo consegnarono alla leggenda. Il “colpo grosso” suscitò un grande clamore in città ed entrò nell’immaginario collettivo, lasciando una traccia nei racconti popolari bolognesi. Sì, perché c’è stato un tempo in cui i briganti tingevano di nero e rosso le storie della buonanotte davanti al focolare. Nero come la paura che il solo invocarne il nome provocava, rosso come il sangue che tingeva le strade nei periodi più cupi della storia. Ma in altre famiglie, quelle più

affamate e numerose, dove un pezzo di pane doveva bastare a sfamare un pugno di bambini, capitava che i briganti diventassero eroi, proprio come nel caso di Robin Hood, l’arciere della tradizione popolare inglese che rubava ai ricchi per dare ai poveri, soffocati dalle tasse. Uno come Prospero Baschieri, insomma: il brigante bolognese che tra l’estate del 1809 e il marzo del 1810 compì gesta di tale risonanza che entrò nella leggenda. Si dice che fosse alto, così alto da sembrare un gigante: due metri o poco meno. Quinto di otto fratelli, nato a Maddalena di Cazzano quando la pianura emiliana era ancora in parte paludosa, Prospero era figlio di contadini e a ventotto anni divenne capo di una banda di “insorgenti” dopo aver rifiutato, qualche anno prima, di far parte della leva napoleonica. In quegli anni Bologna era affamata dalle truppe di Napoleone che, in nome di una pace mantenuta con il pugno di ferro, compivano indisturbati dei saccheggi ai danni della comunità, razziando dalle icone religiose ai quadri, dai reperti archeologici ai libri antichi, che venivano prontamente spediti a Parigi. Le imprese di Prospero Baschieri non sono quindi quelle di un delinquente comune, ma vanno inquadrate all’interno della Bologna dominata dalle truppe napoleoniche. Il XIX secolo, infatti, a Bologna iniziò all’insegna del rosso, bianco e blu della bandiera francese. Napoleone, che si fece proclamare re d’Italia, conquistò anche Bologna, inneggiando alla libertà e facendosi promotore di idee rivoluzionarie ma, dopo aver cancellato il potere papale, finì per affamare il popolo e costringere persino i nobili a “prestiti volontari” fino a 250.000 lire. I beni artistici del capoluogo emiliano furono saccheggiati, come era successo d’altronde nel resto d’Italia. I francesi arrivarono ad allestire addirittura una fonderia nel cortile di San Salvatore dove fondevano gli oggetti di culto sottratti alle chiese. Riuscì a scampare ai saccheggi la Madonna nera di San Luca: conoscendo la devozione che i bolognesi nutrivano nei confronti della loro icona più sacra, Napoleone evitò di sottrarla all’affetto del popolo. Temeva infatti che un passo falso del genere avrebbe provocato una rivolta. Tuttavia la fame, madre della disperazione e dei ladri, provocò ugualmente sanguinose insurrezioni che portarono all’assalto ai forni nel 1801. Persino l’albero della Libertà, che da nove anni campeggiava in piazza Maggiore, fu rubato in segno di protesta. La Bologna sotto la dominazione napoleonica era un luogo dove regnava un clima di terrore, col popolo stremato e gli insorgenti alle porte, che erano poi contadini e disertori schierati coi parroci che cercavano di restaurare il potere papale. Arrivò così la ghigliottina francese. Più di un monito, il simbolo stesso della repressione: chi non chinava la testa e stava alle regole, la testa la perdeva. Grazie a una stampa irlandese del XIV secolo, oggi conservata al British Museum e raffigurante l’esecuzione di un certo Murdoc Ballag per decapitazione, abbiamo la prima traccia di uno strumento simile alla ghigliottina che, contrariamente a quanto molti credono, non fu inventata dal dottor Joseph-Ignace Guillotin. Il contributo di Guillotin fu di renderla una punizione universale, senza porre distinzioni di rango del condannato. Guillotin dimostrò che il morso letale della ghigliottina poteva colpire tutti, persino un re. Va precisato che, per le esecuzioni capitali, in Italia era già in uso fin dal 1500 una macchina simile alla ghigliottina. Si tratta della cosiddetta “mannaia romana”, uno strumento che restò in uso nella Roma papale fino al 1870. La principale differenza con la ghigliottina francese era la lama, che era a forma di mezzaluna anziché obliqua. Nella Bologna tormentata dalla dominazione napoleonica, la ghigliottina fu trasferita dall’iniziale

postazione di piazza del Mercato ai prati di Sant’Antonio, a fianco dell’odierno collegio di San Luigi. Pare che il boia fosse talmente indaffarato da non riuscire a svolgere tutto il lavoro da solo. Fu così affiancato da un plotone di esecuzione che operava lungo le mura vicine a Porta Lame. Primo “cliente” della ghigliottina fu un orafo accusato di omicidio. Dopo aver scoperto che l’ex abate di San Michele in Bosco aveva lasciato le vesti religiose ed era diventato l’amante di sua moglie, l’orafo Bellentani lo aveva ucciso senza pietà. Così, oltre a guadagnare le corna, perse la testa. Prospero Baschieri diede del filo da torcere ai francesi per quasi un anno. E riuscì a sfuggire alla punizione della ghigliottina, almeno finché rimase in vita. Il suo nascondiglio non assomigliava alla foresta di Sherwood, ma erano le valli intorno a Bologna ricche di acque e di canneti, impenetrabili per chi non ne conosceva a fondo gli invisibili percorsi. La sua missione? Liberare il paese dall’oppressione francese! A capo di venticinque contadini, il 4 luglio del 1809 il Baschieri invase Budrio e Minerbio, occupando in pochi giorni l’intera Bassa. Sapendo di non poter mantenere un controllo stabile sui paesini liberati, il suo piano era quello di spaventare i funzionari governativi e dare coraggio ai rivoltosi locali per seminare focolai di ribellione. Prospero Baschieri e i suoi non conoscevano strategie militari e non possedevano cannoni, ma tentarono ugualmente di occupare Bologna in nome di un fuoco sacro chiamato libertà. Fallirono amaramente, ma non si lasciarono scoraggiare. Ripiegando dalla capitale felsina, conquistarono San Giovanni in Persiceto. Poi, il 4 ottobre, Prospero sconfisse un drappello distaccato del reggimento francese e si dimostrò un uomo d’onore. Dopo averli disarmati, lasciò infatti liberi i dodici francesi che si erano arresi, senza torcere loro un capello. Con coraggio e sprezzo del pericolo, Baschieri e i suoi uomini dimostravano che gli emiliani potevano ancora alzare il capo, costringendo molti funzionari a lasciare i paesi per ritirarsi dietro le mura di Bologna, ridistribuendo tra le popolazioni affamate parte dei proventi dei loro saccheggi. Ma quando le truppe napoleoniche sconfissero la coalizione austriaca comandata dall’arciduca Carlo d’Asburgo, che forniva agli insorgenti un appoggio esterno, Baschieri e i suoi si ritrovarono soli. Cessati i combattimenti al di qua e al di là delle Alpi, in dicembre le truppe francesi ripresero possesso degli abituali luoghi di guarnigione e iniziarono a battere le campagne alla ricerca degli insorti. Baschieri capì che la battaglia era perduta, ma non si arrese fino alla fine, arrivando a guidare l’assalto alla caserma di Altedo, conclusosi con l’incendio dell’edificio e la fuga del presidio francese. L’epilogo delle sue imprese arrivò il 12 marzo 1810, quando il gigante buono fu tradito da una soffiata da parte della stessa famiglia che gli stava offrendo un rifugio. Ospiti presso una cascina di proprietà dei Rubini, Baschieri e i suoi furono attaccati a sorpresa da un fornito drappello di francesi e di Guardie Nazionali. Dopo un furente conflitto a fuoco, Prospero Baschieri venne ferito mortalmente. Per non cadere nelle mani dei nemici, si tuffò in un canale, dove morì dissanguato. Quando un uomo diventa un eroe, si eleva a simbolo di qualcosa di superiore: Prospero era il contadino che aveva cercato di liberare la Bassa. In segno di disprezzo, i francesi recuperarono il suo cadavere e quello dei suoi uomini e li ghigliottinarono. Le teste furono conficcate in dei pali e poste su un carro, che fu portato in corteo attraverso i villaggi e le campagne che avevano fatto da sfondo a questa vicenda, fino alla piazza del Mercato di Bologna dove rimasero esposte a lungo come monito. Le gesta di Prospero divennero leggenda, e furono raccolte in una canzone e cantate per decenni in

tutte le piazze dell’Emilia e della Romagna dagli artisti e dai viandanti.

Il giudice che scomparve nel nulla C’è stato un caso, nella storia della Bologna dell’Ottocento, che ebbe una tale risonanza nell’opinione pubblica e nei quotidiani che la questura dovette emanare un’ordinanza per proibire ai venditori ambulanti di giornali di “strillare” – come era consuetudine a quel tempo – notizie non confermate in merito, allo scopo di non creare disordini in città: è il caso della scomparsa del giudice Cavagnati. Ma torniamo all’estate del 1874, quando tutto è cominciato. Sono le prime ore del mattino del 1 giugno. Il luogo è l’abitazione del sostituto procuratore del re, il dottor Giovanni Cavagnati, situata al civico 20 di via Sant’Isaia. La cameriera bussa alla porta della stanza del Cavagnati; sa che lui deve partire presto per Piacenza, dove è atteso dalla fidanzata, la giovane Giuseppina Donati, con la quale deve sposarsi entro pochi giorni. Ma, nonostante l’insistenza, la cameriera non riceve risposta. Così, pensando che il Cavagnati stia ancora dormendo, apre la porta ed entra nella stanza per svegliarlo. Ma non c’è alcuna traccia del giudice. Il letto è intatto. Nessuna impronta sulle lenzuola o sul cuscino. E la valigia è lì, fatta e pronta, appoggiata su una sedia. Tutto era esattamente come se il Cavagnati non fosse affatto rientrato durante la notte. Eppure, come dimostrarono le testimonianze raccolte dagli inquirenti durante le indagini, la notte precedente era stato visto rincasare dopo una serata trascorsa in compagnia di alcuni suoi colleghi al club Felsineo, un’associazione culturale dove si era svolta una cerimonia in presenza delle più alte autorità della città di Bologna. O meglio, era stato visto poco dopo la mezzanotte a circa un centinaio di metri dalla sua abitazione, all’angolo tra via Sant’Isaia e via Nosadella dove all’epoca sorgeva il caffè delle Poste. Ed è proprio quel centinaio di metri a fare la differenza. I testimoni erano persone attendibili e di assoluto rispetto, tra cui figuravano il marchese Tanari, il conte Manzoni e il dottor Primavera. Ma cosa sia successo nella distanza che separava Cavagnati dalla sua abitazione rimane un assoluto mistero. Va detto che la zona era piuttosto buia, dato che l’illuminazione stradale – all’epoca basata su lampioni a gas – era piuttosto carente. Ciononostante, il quartiere era uno dei più sicuri della città, nonché sede di numerose chiese e conventi. I testimoni videro la sagoma del Cavagnati che scompariva nell’oscurità, ma non udirono niente di strano che in seguito potesse far pensare a un’aggressione. Identica la versione raccolta presso gli inquilini dei palazzi dei dintorni: non un grido, né una richiesta d’aiuto. Il giovane giudice era sparito nel nulla. Senza lasciare tracce. Data la posizione di rilievo di Cavagnati, ma anche l’assoluta caratura morale di un giudice da tutti riconosciuto come audace, inflessibile e incorruttibile, la sua scomparsa scosse l’opinione pubblica a livello nazionale. Com’era possibile che un uomo tanto stimato fosse scomparso nel nulla, per di più a pochi giorni dalle nozze? La stampa, come spesso avviene in questi casi, si scatenò nelle ipotesi più improbabili. In prima linea c’era quello che all’epoca era il maggiore quotidiano della città, «Il monitore di Bologna», diretto dal barone Franco Mistrali, proprio lui, l’autore del romanzo sui vampiri di cui abbiamo già parlato. Fioccarono anche numerose segnalazioni. Qualcuno sostenne di aver visto il Cavagnati a Trieste il giorno dopo, chi in Svizzera, chi in un treno diretto nientemeno che a Vienna. Magistratura e giornalisti scavarono nella vita privata e nella carriera del giudice, arrivando a ipotizzare che la sua scomparsa fosse collegata a inimicizie politiche o ad altri fatti di sangue avvenuti in città nello stesso periodo. Giosuè Carducci in persona si interessò della faccenda, scrivendo all’amica Laura: «Sono stati

setacciati i canali del Reno, dell’Aposa e del Savena ma niente, come vedi, cara amica, un vero mistero». L’attenzione dell’opinione pubblica, della stampa e degli inquirenti non si esaurì fino agli anni Trenta del secolo successivo. Più volte il caso fu chiuso, per essere riaperto ogniqualvolta emergevano nuovi particolari e nuove testimonianze. È degna di nota quella di un farmacista di servizio presso la colonia penale dell’isola di Pianosa, la stessa dove nel 1932 sarà detenuto il futuro presidente Sandro Pertini. Nel 1912 il farmacista sostenne di aver sentito un carcerato bolognese affermare di essere stato incaricato di aggredire Cavagnati presso una villa, di averlo ucciso con un colpo di pistola e di averne bruciato il cadavere affinché non fosse mai ritrovato. Tale rivelazione farebbe seguito a un’altra, datata 1890, secondo la quale il Cavagnati, anziché tornare a casa, la notte del 31 maggio 1874 si era recato fuori Porta D’Azeglio. Qui avrebbe avuto una violenta discussione con due persone altolocate, un certo barone “M” e l’avvocato “Z”. Il giudice, condotto alla villa del barone, qui sarebbe stato freddato. L’identità di “M” e “Z” non è mai stata accertata, così come non è mai stata provata l’attendibilità dell’affermazione. Tuttavia, secondo alcuni, il misterioso barone “M” sarebbe stato addirittura Franco Mistrali, il direttore del «Monitore», che peraltro, poco dopo la scomparsa del giudice, era stato incarcerato per la bancarotta fraudolenta della Banca delle Romagne a seguito di una condanna emessa dallo stesso Cavagnati. A lungo, ogni volta che dagli scavi in città emergevano dei resti umani, si tornava a sussurrare il nome di Giovanni Cavagnati. Ma il suo corpo non fu mai ritrovato. La scomparsa di uno dei magistrati più intransigenti dell’Italia unita rimane tuttora un mistero insoluto.

Delitti di gente perbene La storia di Bologna è costellata di omicidi compiuti con inaudita ferocia che hanno suscitato scalpore e indignazione anche perché sono avvenuti in seno agli ambienti più elevati della città. Significativo, in questo senso, il delitto Coltelli. Protagonista di questa vicenda è una dark lady ante litteram, una ragazza dall’incredibile fascino, con lunghi capelli neri, fianchi generosi e un viso dai lineamenti pronunciati ma proporzionati, come le più incantevoli bellezze provenienti dalle campagne di Bologna. Il suo nome era Enrica Zerbini e appena diciannovenne rimase coinvolta in uno degli omicidi più efferati della Bologna di fine Ottocento. Il gioielliere presso cui prestava servizio, Luigi Camillo Coltelli, di anni settantadue, fu ucciso a colpi di martello a pochi giorni dal Natale del 1882. Il delitto, così brutale e apparentemente insensato, sconvolse la città a due decenni dall’annessione al Regno d’Italia ed ebbe una risonanza tale da assumere le dimensioni di un conflitto di classe, in una Bologna fortemente caratterizzata dalle disuguaglianze sociali. A complicare l’intreccio il fatto che il delitto Coltelli è un vero e proprio “delitto della camera chiusa”, una definizione normalmente appropriata per un romanzo giallo, che nella realtà contribuì a infittire non poco il mistero. Iniziò tutto la sera del 20 dicembre, quando l’attenzione di un passante venne richiamata dalle urla agghiaccianti che provenivano da una finestra di via degli Orefici. A gridare era una ragazza seminuda nonostante il gelo, che si sporgeva al punto da dare l’impressione di volersi buttare giù. Si trattava di Enrica Zerbini, recentemente assunta dal gioielliere Luigi Coltelli come domestica. Come detto in precedenza, le porte dell’abitazione del Coltelli erano tutte sprangate dall’interno; per far scendere la ragazza dovettero intervenire i pompieri con una scala. La scena che si presentò agli occhi dei soccorritori, però, fu di gran lunga più terrificante di quanto si aspettavano: all’interno della sua camera da letto l’anziano gioielliere giaceva privo di vita in una pozza di sangue. Sul letto era abbandonato un martello macchiato di sangue, che la polizia indicò immediatamente come l’arma del delitto, nonostante le prime dichiarazioni della giovane Enrica indicassero come causa della morte addirittura il suicidio. Forse in stato confusionale, la ragazza corresse ben presto la sua versione accusando due malintenzionati che secondo lei erano saliti dalla finestra e, dopo il rifiuto del Coltelli di aprire la cassaforte, si erano accaniti su di lui usando il martello. Per nulla convinti dalle sue affermazioni, gli agenti arrestarono Enrica Zerbini pochi giorni dopo, con l’accusa di essere quantomeno complice del misfatto, sperando di estorcerle una confessione. Ma l’unica cosa che ottennero fu che lei continuò a cambiare versione, finendo per accusare un coetaneo, Angelo Pallotti, che a suo dire aveva cercato di convincerla a rubare dei preziosi in casa Coltelli, per poi indicare come responsabile del delitto un certo Piccioni. Tuttavia, nessuno in città conosceva questo Piccioni, e non fu possibile identificarlo né, tantomeno, interrogarlo. Le indagini si focalizzarono quindi su Enrica Zerbini, facendo emergere il suo passato burrascoso. Un padre alcolizzato e una madre assente, la relazione con un carcerato e persino un precedente arresto per il furto di un paio di orecchini. Certe persone che sostenevano di conoscerla bene fecero di lei un ritratto controverso: si disse che era sua abitudine inventare storie fantasiose e che fosse una bugiarda compulsiva. Va precisato, però, che la Zerbini era bersaglio di parecchia invidia in città, per la sua avvenenza

ma anche per la sua presunta relazione con l’anziano e ricchissimo Coltelli. Già, perché come in tutti i gialli che si rispettino, un ulteriore dettaglio emerse a complicare la situazione: la Zerbini e il Coltelli erano amanti, e quella notte si trovavano nello stesso letto. Perché, dunque, l’assassino si era accanito sull’anziano gioielliere, lasciando stare una testimone che avrebbe potuto riconoscerlo? Lei sostenne di essersi nascosta in uno sgabuzzino per la paura di essere aggredita a sua volta, e dunque l’assassino non si era accorto di lei. Questo non le impedì di essere processata: il dibattimento cominciò nel gennaio del 1884 e vide Enrica Zerbini imputata di omicidio. Il processo attirò l’attenzione dell’intera cittadinanza, che affollava le aule del tribunale creando non pochi problemi di ordine pubblico. Infatti, la Zerbini era diventata un’autentica eroina per le classi meno abbienti, che vedevano in lei una di loro, una vittima delle circostanze la cui unica colpa era di aver tentato di costruirsi un futuro migliore. Le classi più agiate, invece, la accusavano di essere una femme fatale che aveva portato il Coltelli alla rovina. Durante le udienze, per niente intimorita dalle domande incalzanti della pubblica accusa, Enrica Zerbini rispose colpo su colpo con lucidità e prontezza. E tra la diffidenza della stampa e l’entusiasmo del “popolino” bolognese, il 30 gennaio del 1884 fu proclamata innocente, e poté tentare di rifarsi una vita lontano dai riflettori della cronaca. «In breve», scrisse la «Gazzetta dell’Emilia» parlando del ritorno a casa della giovane, «quella via remota si riempì di popolo acclamante la Zerbini, ed essa sette o otto volte si presentò alla finestra salutando con un fazzoletto la folla». Il delitto Coltelli, quindi, rimase impunito. Va precisato che da quel momento in poi si rincorsero voci insistenti che individuavano il colpevole in persone vicine al gioielliere. Per dare misura del clamore che il processo ebbe all’epoca, va detto che l’arringa dell’avvocato difensore, Adolfo Pasi, durò tre giorni filati e divenne oggetto di studio presso la facoltà di Giurisprudenza dell’università di Bologna. Pochi anni dopo il delitto Coltelli, un altro omicidio avvenuto in seno all’alta borghesia cittadina scuote le coscienze, arrivando ad avere echi e ripercussioni a livello nazionale, nel primo Novecento. Nel tardo pomeriggio del 2 settembre 1902, a Bologna è in corso una seduta del consiglio comunale. Uno dei consiglieri è Tullio Murri, membro della borghesia progressista, laica e positivista dell’epoca e figlio di Augusto Murri, uomo dall’inattaccabile moralità e illuminato docente di quella che all’epoca era la facoltà di Medicina più prestigiosa d’Italia. Nonostante Tullio Murri goda in città di notevole popolarità – ha infatti battuto Giosuè Carducci alle elezioni amministrative per quasi duemila voti – né lui né la sua famiglia sono ben visti dagli ambienti ecclesiastici, in virtù della loro adesione alla battaglia per abolire l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole. Irrompe nel consiglio un inserviente, per avvertire Tullio Murri che una donna desidera urgentemente parlargli. Si tratta di Teresa Cicognani, portiera del palazzo di via Mazzini 39 (oggi strada Maggiore), dove abitano la sorella di Tullio, Linda, e suo marito, il conte Francesco Bonmartini. La portiera dichiara che dall’appartamento dei Bonmartini proviene un odore nauseabondo, che ha invaso tutti gli appartamenti dello stabile. In realtà, Linda Murri viveva da tempo separata dal marito e in quel periodo si trovava in vacanza con i figli a Venezia. Tullio si precipitò all’appartamento, ma, di fronte alla porta sbarrata, fu costretto a chiamare la polizia per farla abbattere. All’interno, venne scoperto il cadavere in

decomposizione del conte Bonmartini, ucciso da ventitré coltellate, tutte penetrate in profondità, quattro delle quali avevano attraversato il collo e reciso la carotide. Le tracce di lotta erano evidenti, segno che il Bonmartini si era difeso energicamente. Vicino al cadavere, vennero trovati il portafoglio vuoto della vittima e un paio di mutandine da donna. Le prime indagini si orientarono verso l’ambiente della malavita, con cui Bonmartini aveva avuto in passato dei rapporti mai chiariti, supponendo come movente la rapina. Ma, una settimana dopo il ritrovamento del cadavere, avvenne l’inaspettato: Augusto Murri dichiarò pubblicamente di ritenere il figlio Tullio responsabile dell’omicidio. Tullio Murri si consegnò così alla polizia, fornendo una confessione in cui si proclamava unico colpevole del delitto, avvenuto in seguito a un’accesa discussione. Si scatenò un caso mediatico che coinvolse stampa e cittadini: i giornali di orientamento cattolico si scagliarono contro la famiglia Murri, la stampa di schieramento socialista non smetteva di insistere su una lettura scientifica delle circostanze, mentre la maggior parte dei cittadini bolognesi manterrà sempre la convinzione dell’innocenza di Tullio, costretto dal padre, si dice, ad autoaccusarsi. I cronisti scavarono con morbosa curiosità nella vita privata della famiglia Murri. Emerse che Linda viveva da tempo una relazione extraconiugale con il dottor Carlo Secchi, di vent’anni più grande di lei. Durante la fase istruttoria del processo il giudice Stanzani, definito anni dopo da Gianna Murri «clericale, fanatico, delirante, certamente legato ai pezzi grossi che manovravano la campagna diffamatoria»[8], si adoperò per sostenere la teoria del complotto familiare: Tullio non avrebbe agito da solo, come confessato, ma istigato dalla sorella, con la complicità di Carlo Secchi, di Pio Naldi, un giovane medico con la passione del gioco d’azzardo, e di Rosa Bonetti, domestica di Linda e indicata come amante di Tullio. Per motivi di ordine pubblico, il processo venne trasferito da Bologna a Torino. L’atmosfera era quella di una crociata degna dell’Inquisizione. Il quotidiano «La Stampa» definì Linda «donna dalla assoluta mancanza di senso morale e dal marcato istinto sessuale»[9]. Durante un’udienza, venne duramente attaccata dall’accusa e lasciò l’aula in lacrime, ribadendo la propria innocenza. Nonostante l’assenza di qualsiasi prova, oltre alla contraddittoria e oscura confessione di Tullio Murri, dopo cinque anni di dibattimenti, trecentoventi testimoni, due mesi di arringhe, tre giorni di riassunto del presidente della Corte e la costruzione di un modello in scala della casa del delitto, tutti gli imputati vennero condannati. Linda Murri uscì dal carcere otto mesi dopo, graziata da Vittorio Emanuele III. Rosa Bonetti venne rilasciata nel 1908, ma morì quattro anni dopo in manicomio. Nel 1910 Carlo Secchi morì in carcere, mentre, nel 1919, venne rilasciato Pio Naldi. Lo stesso anno Tullio Murri venne graziato in seguito all’ennesima petizione. Negli anni, erano intervenuti in sua difesa Eleonora Duse, Giosuè Carducci, Cesare Lombroso e Giovanni Pascoli. A distanza di più di un secolo il movente, l’assassino e le modalità dell’omicidio del conte Bonmartini, nonostante il polverone alzato intorno alla famiglia Murri, rimangono avvolte nel mistero. Tuttavia, una teoria sull’omicidio è emersa dalle memorie di Gianna Murri, la figlia di Tullio, che nel 2003 ha pubblicato il volume La verità sulla mia famiglia e sul caso Murri (Pendragon). Secondo la ricostruzione degli avvenimenti fatta nel libro, a uccidere il conte Bonmartini sarebbe stato un certo La Bella, detto “il Biondino”, l’amante della governante di Linda. Lo stesso La Bella si dice abbia confessato il delitto a un prete prima di morire, ma il segreto

confessionale non ha mai permesso che le sue dichiarazioni fossero rese note. Secondo Gianna, Tullio Murri ha confessato un crimine che non aveva commesso non per amore della sorella, ma per non recare un dispiacere al padre che lo accusava. Tuttavia, le memorie che Tullio ha scritto in carcere in cui fa chiarezza sul delitto sono state raccolte in un carteggio andato poi perduto: la moglie di Tullio, in perenni difficoltà economiche, l’avrebbe venduto alla stessa Linda che, a detta di Gianna, è stata l’effettiva mandante dell’omicidio. Molto più avanti nel tempo, nel 1963, è un altro delitto a dividere l’opinione pubblica nelle fazioni “innocentista” e “colpevolista”. Anche questa volta, al centro dei riflettori fu una delle famiglie più in vista della “Bologna bene”: la famiglia Nigrisoli. È la notte del 14 marzo 1963. Carlo Nigrisoli percorre il corridoio che conduce all’ambulatorio più vicino della clinica di proprietà della famiglia, tenendo in braccio la moglie Ombretta, agonizzante. Poco dopo, la donna muore, il volto cianotico, senza riuscire a parlare. Prima il medico di guardia della clinica e, successivamente, Paolo Nigrisoli, fratello di Carlo e medico anch’egli, si rifiutano di stilare un atto di morte per cause naturali. E quando l’appartamento dei coniugi, adiacente alla clinica, viene perquisito dagli inquirenti, sul comodino vicino al letto di Ombretta vengono rinvenuti una siringa e un flaconcino vuoto di sincurarina, un anestetico a base di curaro. I sintomi, in effetti, sono quelli dell’avvelenamento da curaro: non puoi nemmeno gridare, perché provoca il rilassamento dei muscoli e le corde vocali si piegano; ma nel corpo della donna, a un primo esame, non risultano segni di iniezione. L’autopsia dimostrerà che il veleno non è stato inoculato tramite endovenosa ma per via intramuscolare. Interviene Pietro Nigrisoli, proprietario della clinica e padre di Carlo. La sua prima reazione è di accusare il figlio di omicidio. Telefona al suo avvocato, il quale avverte il magistrato. Carlo Nigrisoli viene arrestato. Ma è davvero colpevole? Come spesso accade per fatti di cronaca dal risvolto eclatante, la stampa si divise tra innocentisti e colpevolisti. Due, quindi, le ipotesi avanzate: la prima prevedeva che Carlo, da anni insoddisfatto della vita coniugale e di una carriera di medico all’ombra del padre e del fratello, avesse a lungo premeditato di uccidere la moglie per unirsi a una delle amanti e dare una svolta alla sua vita. La scelta del curaro? Perfetta, perché non lascia tracce nei tessuti, simulando quindi un malore. Ma è un assassino tanto maldestro da lasciare le prove della sua colpevolezza in bella vista. La seconda teoria è che Ombretta, ragazza di modeste origini sposata a un membro dell’alta borghesia che aveva deluso le sue aspettative, depressa e conscia dei ripetuti tradimenti da parte del marito, avesse deciso di farla finita tramite un composto di facile reperibilità nella clinica del suocero. Tra i fatti: alcuni giorni prima, i due coniugi si erano recati da uno psicologo. Considerando i tempi e la provincialità dell’ambiente bolognese, significa che il matrimonio tra i due era alle corde. In seguito, Ombretta cominciò ad accusare strani malori, e iniziò una cura ricostituente, tramite iniezioni. A generare ulteriore confusione, la testimonianza di un’amica personale di Ombretta, che dichiarò che il giorno prima della morte la donna si era congedata dicendo: «Chissà mai se ci rivedremo»[10]. Ombretta aveva intenzione di farla finita, o sospettava degli intenti omicidi del marito? Nel febbraio 1965, Carlo Nigrisoli fu condannato in via definitiva per uxoricidio aggravato. Per tutta la durata della detenzione, non smetterà di proclamarsi innocente.

Dal massacro di palazzo d’Accursio alla “Dalia Nera” Palazzo d’Accursio è per i bolognesi semplicemente Palàz, da secoli centro del potere cittadino. Già nel 1336, infatti, venne scelto come residenza degli Anziani, la massima autorità governativa dell’epoca. La Sala Rossa è una delle più suggestive, e si chiama così per via del colore delle tappezzerie. Anticamente era conservato al suo interno il Pallione della Peste, il dipinto commissionato a Guido Reni per celebrare la fine della pestilenza, nel 1631. Ed è all’interno della Sala Rossa di palazzo d’Accursio che il 21 novembre 1920 avvenne un brutale omicidio, quello del consigliere comunale Giulio Giordani, nell’ambito di violenti scontri che portarono alla morte di altre dieci persone e al ferimento di una sessantina. Il colore rosso sembra voler tracciare un collegamento ideale in un periodo tumultuoso che culmina con l’uccisione di Giordani. Il biennio 1919-20 è infatti passato alla storia come il Biennio Rosso, due anni caratterizzati da una serie di lotte operaie e contadine che per alcuni osservatori stava portando l’Italia sull’orlo di una rivoluzione simile a quella bolscevica del 1917. Erano anni di forte crisi economica per l’Italia, una crisi che era cominciata nel corso della Grande Guerra e aveva portato il reddito nazionale a una forte contrazione, con il tenore di vita della maggioranza degli italiani ben al di sotto dei livelli d’anteguerra. Il debito pubblico e l’inflazione erano fuori controllo e a farne le spese era la classe del proletariato, il cui potere d’acquisto era calato del 40%, un livello insostenibile per la maggior parte delle famiglie per le quali era impossibile arrivare a fine mese. Per gli operai e per i braccianti delle campagne furono anni di scioperi e manifestazioni con cui chiedevano al governo riforme del mercato e condizioni di lavoro più favorevoli. Il 21 novembre del 1920 doveva essere il giorno in cui Bologna salutava la nuova giunta cittadina: i socialisti avevano vinto le elezioni e guidati da Ennio Gnudi stavano celebrando l’insediamento a palazzo d’Accursio con una cerimonia all’interno della Sala Rossa. Per festeggiare il risultato, fu issata una bandiera rossa sulla torre Asinelli. Fu questo il casus belli che scatenò gli scontri tra i miliziani squadristi volontari dei Fasci italiani di combattimento e le Guardie Rosse, le formazioni di autodifesa proletaria attive in quel periodo. La Guardia Regia, il corpo di pubblica sicurezza alle dipendenze del ministero dell’Interno, si trovò stritolata tra due ondate di manifestanti di opposta fede politica che avevano iniziato a fronteggiarsi in piazza Maggiore. Echeggiarono i primi spari, e i manifestanti iniziarono a disperdersi. I simpatizzanti socialisti cercarono rifugio nel cortile del palazzo. È qui che si consumò il massacro: furono infatti bersagliati dal fuoco incrociato dei militari della Guardia Regia e delle stesse Guardie Rosse, che dalle finestre di palazzo d’Accursio lanciarono loro addosso delle bombe a mano, avendo scambiato i loro stessi sostenitori per fascisti. Seguirono momenti concitati, duranti i quali alcuni manifestanti trovarono rifugio all’interno delle sale del palazzo. Tra loro, però, c’era un assassino che, una volta penetrato all’interno della Sala Rossa, aprì il fuoco contro il consigliere comunale di minoranza Giulio Giordani, uccidendolo. Così descrisse gli avvenimenti lo storico Giorgio Pini: «Alle revolverate che segnano l’avanzarsi delle squadre fasciste, la folla dei socialisti è presa dal panico. Ben presto parte del pubblico presente in piazza tentò di salvarsi correndo all’interno del Palazzo Comunale, dove alcune persone,

scambiate dalle guardie rosse per fascisti, furono colpite. All’interno della Sala Rossa, poi, una persona, che non venne identificata, aprì il fuoco, colpendo, fra i banchi della minoranza, il consigliere Giulio Giordani, che morì di lì a poco per le ferite riportate»[11]. Ex ufficiale dei Bersaglieri, laureato in Legge, durante la Grande Guerra Giulio Giordani era sopravvissuto a una ferita alla gamba che gli era costata l’amputazione dell’arto. Il suo assassino non fu mai individuato, così come non sono mai state del tutto chiarite circostanze e responsabilità. I tumulti di quel giorno, tuttavia, portarono allo scioglimento del corpo dei Vigili Urbani – considerati incapaci di garantire la sicurezza dei membri della giunta comunale – e al commissariamento del governo della città. Un anno dopo, un brutale omicidio sembra avere un legame con gli avvenimenti di palazzo d’Accursio. Avvenuto nel parco di una villa ubicata nella periferia di Bologna, si tratta di un delitto ammantato di mistero e su cui si stende l’ombra, addirittura, di una maledizione. Tra le ville inerpicate sul colle dell’Osservanza, infatti, quella con la fama più sinistra è di certo villa Frank, detta anche villa di Mezzaratta. Agli inizi del Novecento era tristemente nota perché, più di cent’anni prima, nel suo parco erano stati ritrovati i corpi di una donna e delle sue due figlie. Erano state barbaramente sgozzate, e il colpevole non era mai stato identificato. Questa storia il bovaro Adolfo Pasquali la ricordava bene, mentre conduceva il suo gregge in direzione dei pascoli e si trovava a passare nelle vicinanze della villa, ma non poté impedire al suo cane di allontanarsi proprio in direzione del parco, come se avesse fiutato qualcosa di strano. Era un’umida mattinata autunnale, quella del 27 ottobre 1921. All’interno di una grotta artificiale nei pressi di villa Frank, come una beffarda, macabra ripetizione del passato, Adolfo Pasquali scoprì il cadavere di una donna. La grotta, la cui costruzione risale probabilmente all’Ottocento come abbellimento della proprietà, si trova all’interno della recinzione del parco della villa ed è raggiungibile da una stretta apertura che conduce al ventre della collina. Un cunicolo sotterraneo lungo circa trenta metri porta a una specie di sala scavata nel granito, con rozzi sedili di pietra e un tronco d’albero al centro a mo’ di tavolo. È una specie di salone in cui durante il giorno la luce piove da un foro sul soffitto della dimensione della bocca di un pozzo. Il cadavere, seminascosto da una tavola di legno, era stato sfigurato dal fuoco e si trovava in parziale stato di decomposizione. Una delle gambe era distaccata dal corpo, l’altra era collegata al bacino soltanto da ciò che restava del tessuto connettivo. Una volta giunti sul posto, agli inquirenti non sfuggirono due particolari. La vittima indossava un orecchino solo. Inoltre, abbandonato a terra, c’era un fiasco impagliato, un comune fiasco da vino con dei residui di benzina dentro. Il primo oggetto consentì di identificare la vittima: si trattava di Maria Buriani, poco più che ventenne, scomparsa da dieci giorni; l’altro orecchino lo aveva dimenticato a casa della famiglia dove lavorava come domestica. Il fiasco impagliato, invece, fu l’indizio chiave nel processo a carico del principale sospettato. Pare che la vittima avesse perso la testa per un certo Angelo Galli, un ex rapinatore divenuto attivista anarchico-socialista. Il Galli era sposato ma, a detta di diversi testimoni, aveva una tresca con la Buriani. Sembra che si incontrassero a volte proprio nella grotta dove poi lei è stata assassinata. La svolta nelle indagini avvenne quando un testimone dichiarò di aver visto Galli riempire un fiasco da vino con della benzina presso una stazione di servizio. Galli venne prontamente arrestato con

l’accusa di aver ucciso Maria Buriani allo scopo di liberarsi dell’amante, che a quanto pare era divenuta molesta; in più di un’occasione la Buriani era stata vista discutere animatamente con la moglie di Galli. Nel processo che seguì, Angelo Galli fu condannato al massimo della pena: l’ergastolo. Un caso risolto, dunque? Tutt’altro: c’era infatti chi sosteneva che per le sue dinamiche il delitto doveva essere stato commesso da più di una persona, e che Angelo Galli era stato incastrato. Girava voce che il movente fosse da ricercare nel passato da attivista della Buriani la quale, a fianco di Galli, aveva partecipato agli scontri di palazzo d’Accursio del 1920 e forse sapeva qualcosa sulla morte del consigliere Giulio Giordani. Avere qualche dubbio in merito alla colpevolezza di Galli era lecito: possibile che fosse stato tanto ingenuo da lasciare il fiasco da vino con la benzina in bella vista sul luogo del delitto, dopo essersene servito per dare fuoco ai resti della povera Maria? Dal canto suo, d’altronde, Galli non smise mai di gridare la sua innocenza. Negli anni che seguirono, persino il Duce si interessò alla sua vicenda processuale al punto che si preoccupò di fargli arrivare in cella «Il Resto del Carlino» per potersi tenere informato sui mutamenti culturali del paese. Trent’anni dopo, nel 1955, fu il presidente della Repubblica Luigi Einaudi, al termine del suo mandato settennale, a concedere la grazia a Galli. Il caso di Maria Buriani, una vera e propria “Dalia Nera” bolognese, rimane un caso controverso, intriso di mistero sia per le circostanze in cui è avvenuto, sia per le sue radici, ancorate negli sconvolgimenti della vita sociale e politica di un’Italia sulla soglia del Ventennio fascista.

Sparate al Duce! Il 31 ottobre 1926 era destinato a diventare nefasto per Benito Mussolini: giunto a Bologna per l’inaugurazione dello stadio Littoriale, nonostante si fosse compiaciuto di aver trovato la città «più fascista che mai», quello fu il giorno in cui rischiò di essere ucciso. Luogo dell’attentato fu il Canton dei Fiori, come all’epoca era chiamato l’incrocio tra via Indipendenza e via Rizzoli. Le celebrazioni per il quarto anniversario della rivoluzione fascista erano terminate. Il buio era calato sulla città ed erano stati accesi i riflettori puntati su ogni monumento di piazza Vittorio Emanuele, l’attuale piazza Maggiore. Un fascio littorio fatto di lampadine brillava sulla cima della torre Asinelli. A bordo di un’auto diretta alla stazione, alla cui guida siede il podestà Leandro Arpinati, il Duce sta salutando la moltitudine di persone intervenuta per vederlo. Tra gli schiamazzi della folla che lo acclama e lancia fiori, all’improvviso, echeggia uno sparo. Il proiettile manca il cuore di Mussolini di un soffio, rimbalza sul cordone dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro che indossa al petto e si va a conficcare sul copricapo di Arpinati. Scoppia il panico, lo scrosciare degli applausi si trasforma in un coacervo di urla. Arpinati accelera bruscamente per allontanare l’auto dalla linea di fuoco. È a questo punto che la situazione si fa concitata e le ricostruzioni discordanti. Carlo Alberto Pasolini, tenente di fanteria e padre di Pier Paolo Pasolini, interviene tempestivamente. Ad avere la pistola tra le mani è un ragazzino di quindici anni, Anteo Zamboni. Il ragazzo viene immobilizzato, poi strattonato dalla folla. Interviene uno squadrista che lo pugnala freddamente al petto. Anteo si accascia a terra, viene pestato a sangue dalla folla inferocita, sobillata dagli altri squadristi che erano intervenuti sul posto, poi ancora pugnalato. L’accanimento si arresta solo quando un brigadiere, intervenuto per portare il giovane in questura, si rende conto che il ragazzo non respira più. Anteo Zamboni è morto sull’asfalto di piazza Nettuno, barbaramente linciato dalla folla e dagli squadristi per aver attentato alla vita del Duce. Ma è stato davvero lui? Troppi particolari sembrano fuori posto. Anteo detto “il Patata”, che fino all’anno prima era un balilla, non aveva mai mostrato segni di insofferenza nei confronti del regime. Era un ragazzo tranquillo e suo padre, ex anarchico, era diventato un fascista convinto e nella sua tipografia stampava volantini di propaganda. Possibile che Anteo Zamboni, uno studente di soli quindici anni, fosse stato in grado di tenere in mano una pistola e prendere la mira in mezzo a una moltitudine di gente che spintonava e si accalcava, sparare in condizioni di pessima visibilità per via del buio, mancando il cuore di Mussolini per pochi centimetri, dimostrando una mira eccezionale e notevole sangue freddo? C’è chi sostiene che la pistola sia stata invece gettata ai piedi del ragazzino dal vero attentatore, e che Anteo si sia soltanto trovato al posto sbagliato nel momento sbagliato. È possibile che l’abbia raccolta per curiosità, o per paura. Pare che il primo a indicare Anteo come colpevole sia stato un uomo che indossava un completo chiaro, che si è poi dileguato in fretta tra la ressa. Saputo dell’attentato, papa Pio XI dichiarò: «Si tratta di un criminale attentato il cui solo pensiero ci rattrista e che ci fa rendere grazie a Dio per il suo fallimento»[12]. Forse, più che l’atto estremo di un singolo, l’attentato di Bologna fu frutto di un complotto

destabilizzatore maturato in seno alla gerarchia fascista. E infatti andarono subito in quella direzione le indagini della polizia, concentrandosi negli ambienti dello squadrismo bolognese, senza però raccogliere indizi sufficienti. «Degli attentati da me subiti», affermò successivamente lo stesso Mussolini, «quello di Bologna non fu mai completamente chiarito. Certo che me la cavai per miracolo. L’esecutore, o presunto tale, fu invece linciato dalla folla. Con questo atto barbarico, che deprecai, l’Italia non dette certo prova di civiltà»[13]. L’immediata conseguenza del gesto fu un “giro di vite” da parte dell’autoritarismo del regime. Furono approvate leggi speciali per la sicurezza dello Stato, espulsi dal Parlamento un centinaio di deputati dell’opposizione, chiuse forzatamente tutte le pubblicazioni considerate ostili e istituita la pena di morte per gli omicidi a sfondo politico. In memoria del suo martirio, ad Anteo Zamboni è stata dedicata la via principale del quartiere degli studenti, nel centro storico di Bologna. Oltre alle effettive responsabilità dietro l’attentato al Duce, c’è tuttavia un altro mistero collegato a questa vicenda. Nel 1929, tre anni dopo l’inaugurazione dello stadio, infatti, venne edificata come ornamento la torre di Maratona, situata in prossimità del luogo dove l’8 agosto, ottant’anni prima, era stato fucilato l’eroe risorgimentale Ugo Bassi. Nell’incavo ad arco della torre venne posizionata una gigantesca statua equestre del Duce che però, nel 1943, alla caduta del fascismo, fu presa d’assalto dalla furia popolare. La statua fu decapitata, e la testa in bronzo di Mussolini venne trascinata appesa a una corda per le vie di Bologna. Requisita dalla GESTAPO, poi passata più volte di mano in mano nel corso dei decenni, la testa della statua, dopo essere stata a lungo ospite di un museo privato in via Marconi, è ora scomparsa senza lasciare traccia, forse rubata o venduta a un collezionista.

Nemici pubblici Torniamo alla Bologna dei primi anni del Novecento. In quel periodo, la città vantava un fitto sottobosco di criminalità. A emergere dalla massa di ladruncoli, pollaioli e piccoli malfattori c’era una serie di gruppi organizzati, tra cui spiccavano la banda della Mano Nera (una specie di mafia locale), la banda degli Scassinatori, e quella che è passata alla storia come la banda dei Tatuati. Capobanda dei Tatuati era Ugo Tinti, suo luogotenente il fratello Luigi. Cresciuti nel disprezzo della legge e dei suoi tutori, la loro caratteristica era di portare tatuaggi che irridevano le forze di polizia. Ugo Tinti era un bell’uomo, vestiva bene, portava due baffi a manubrio ed era particolarmente apprezzato dalle donne. Sul petto aveva impresso il motto: “Viva la ladreria, abbasso e morte alla polizia”. La combriccola dei fratelli Tinti si arricchì presto di reclute provenienti dalla malavita locale, gente come il Pedrini detto “il Montanarino”, il Degli Esposti detto “Zanna” e il Marchesini, conosciuto come “il re del coltello”. Antagonista dei Tatuati era il prefetto Ungaro, un dirigente di pubblica sicurezza chiamato a Bologna per fermare la proliferazione della delinquenza organizzata. Ungaro si era distinto in tutta Italia per la fermezza e la decisione delle sue azioni di contrasto alla criminalità. «Se Bologna rappresenta per qualcuno una fogna per topi», dichiarò, «ebbene io ho portato con me dei gatti grandi e grossi»[14]. Il suo braccio destro fu il maresciallo Zanini, un bolognese tutto d’un pezzo, forte e temerario almeno quanto il Tinti. Per un lungo periodo gli antagonisti si fronteggiarono senza sosta. Ma la banda dei Tatuati sembrava inafferrabile, grazie alla precisione nel portare a termine i colpi e alla scaltrezza nel trovare rifugi protetti dagli occhi degli informatori della polizia. Si arrivò al punto che Ugo Tinti cominciò a prendersi gioco del prefetto, inviando alla questura lettere di sfida. Finché, secondo il più noto degli stereotipi delle storie di gangster, fu l’amore per una donna a segnare la sua fine. Luigina Jodice, detta la Giggetta, era così bella che a diciassette anni aveva già fatto perdere la testa a tutta la città. Aveva gambe lunghissime e la vita stretta, capelli neri e occhi ardenti come brace. La chiamavano “la Lina Cavalieri di Bologna” per la somiglianza con la celebre attrice. Scrisse un cronista: «Se fosse cresciuta in una società di persone perbene, truccata in modo sapiente, la Giggetta sarebbe stata la donna più bella del mondo»[15]. Dopo che negli ambienti della malavita si era sparsa la voce che la Giggetta e il Tinti erano inseparabili, il prefetto Ungaro le mise appresso il fidato maresciallo Zanini per tenerla sott’occhio. Involontariamente, quindi, fu proprio la Giggetta a condurre i poliziotti al covo della banda dei Tatuati. Seguirono giorni concitati, pedinamenti e ripetuti tentativi di fuga, ma ormai il cerchio si era chiuso: Tinti e i suoi vengono arrestati nel 1908, presso una casa al numero 9 di via Santa Croce. Durante l’arresto la Giggetta, furiosa, apostrofò gli agenti con sputi e grida oscene. Scrisse la stampa dell’epoca: «Questa splendida figliola, nata e cresciuta nel sottobosco della malavita, oltre ad essere la compagna fedele ed inseparabile del Tinti, all’atto dell’arresto si rivelò una vera belva. Le invettive della giovinetta si sentivano persino nella via del Pratello e tutte le donne della strada ascoltavano le sue grida»[16]. Pare che Ungaro in persona si sia preso un calcio negli stinchi dalla ragazza, durante il tentativo di ammanettarla. Tinti e la sua banda uscirono dal carcere all’inizio degli anni Dieci ma, anziché darsi a una vita onesta, si specializzarono nell’arte di scassinare casseforti. Dopo una serie di furti in Austria e

Germania vennero nuovamente arrestati. Si racconta che durante gli interrogatori con la polizia tedesca gli interpreti non fossero in grado di decifrare le loro parole, in quanto Tinti e i suoi parlavano tra loro in un idioma a loro sconosciuto… il dialetto bolognese! Per conoscere un’altra banda che ha imperversato nella Bologna del passato è necessario fare un salto nel tempo di quasi cinquant’anni. Il 16 dicembre 1950 è un giorno particolarmente freddo. Bologna è avvinghiata nella morsa di un rigido inverno. Alle ore 13:40, i due agenti di pubblica sicurezza Giuseppe Tesoro e Giancarlo Tonelli si recano al 44 di via San Petronio Vecchio. Una volta nell’androne, bussano alla prima porta a destra. Ad aprire è una ragazza, che gentilmente invita i due ad entrare. Tesoro rimane di guardia al portone, Tonelli entra nell’appartamento. All’interno di una piccola cucina, seduti tranquillamente a pranzare, ci sono due uomini. Tonelli li riconosce immediatamente. Si tratta di Paolo Casaroli e Romano Ranuzzi detto Il Bello. È a loro che sta dando la caccia. Mostrando la pistola d’ordinanza, Tonelli chiede ai due di seguirlo in questura per degli accertamenti. Ma niente va come previsto: la situazione precipita nel giro di pochi attimi. Casaroli e Ranuzzi estraggono le pistole a loro volta. Seguono alcuni secondi di grande tensione, mentre i due si avvicinano al poliziotto con le pistole spianate. Tonelli indietreggia di un passo, ma non è intimorito. Dice che fuori è pieno di poliziotti, che tutte le vie di fuga sono bloccate. Ma è soltanto un bluff, e i due non ci cascano. Ranuzzi colpisce al volto Tonelli con un pugno e gli ruba la pistola. Poi i due si precipitano nell’androne, dove si imbattono nell’altro poliziotto, Tesoro. Quest’ultimo, con la pistola puntata, intima ai due la resa. Ma viene spietatamente freddato con due colpi al cuore. C’è un terzo uomo all’interno della casa. Daniele Farris sente tutto: il trambusto, gli spari. Ma è paralizzato dalla paura e non osa uscire dalla sua stanza, che si trova nel sottotetto. Tonelli si rialza e, nonostante sia disarmato, si getta all’inseguimento. Viene fermato in via Remorsella da un colpo di pistola all’inguine. Rovina al suolo, gridando: «Fermateli! Sono i banditi di Roma! Assassini!». Casaroli e Ranuzzi, infatti, insieme a Farris sono stati identificati come gli autori di una sanguinosa rapina avvenuta il giorno prima a Roma, all’agenzia trasteverina del Banco di Sicilia. Una rapina finita in tragedia, l’ultimo atto di una sequenza di imprese criminali iniziate nell’ottobre del 1950 per una banda che, per spavalderia e sangue freddo, è paragonata a quella della Uno Bianca. Come i fratelli Savi è un’automobile il simbolo della loro stagione criminale, in questo caso una Fiat 1400. E come i fratelli Savi, anche i componenti della cosiddetta banda Casaroli hanno ricevuto il battesimo delle armi tra le file militari, anche se in schieramenti contrapposti. È il 1944 quando Paolo Casaroli, diciannovenne, fugge dall’istituto degli Artigianelli di Faenza dove avrebbe dovuto imparare il mestiere di ceramista. Proviene da una famiglia disastrata: madre alcolizzata, padre ignoto, uno zio morto in manicomio. Paolo ama la lettura, anche se è incapace di applicarsi nello studio. Dopo un anno passato nella Decima MAS, compie una rapina e finisce in carcere. Romano Il Bello nel ’44 ha diciassette anni. Tenta di arruolarsi tra i repubblichini di Salò ma viene respinto perché minorenne. Così si mette a combattere come partigiano. Non faceva differenza lo schieramento: l’importante era imbracciare un mitra. Ed è con un mitra tra le mani che poco dopo la fine della guerra rapina una banca in via Duca d’Aosta, a Bologna, per poi tentare una fuga rocambolesca a bordo di un tram. Viene arrestato insieme al suo complice: Daniele Farris, ex

militare della Brigata Nera Pappalardo di Bologna. Nel ’45 è il Duce in persona a destituirne il comandante, Franz Paglianti, su sollecito del generale tedesco Von Senger. «Le Brigate Nere compiono azioni che hanno tutte le caratteristiche degli assassinii da strada». È così che i tre si conoscono, detenuti in celle adiacenti a San Giovanni in Monte. Una volta terminato il periodo di detenzione, Paolo Casaroli ospita i due amici a casa sua, in via San Petronio Vecchio 44 a Bologna. Le letture preferite di Casaroli sono D’Annunzio, Jung, Nietzsche, quelle di Ranuzzi le opere di Lombroso. Si dice che i tre facessero le ore piccole in piazza Maggiore, discutendo della filosofia di Sartre e progettando grandi imprese. Secondo la leggenda, è un testa o croce con una scatola di cerini a decidere se oneste o criminali. “Mamma, fu destino” fece incidere Paolo Casaroli in un braccialetto d’oro da cui non si è mai separato. Casaroli, Ranuzzi e Farris sono i figli di un’Italia impoverita dal fascismo e dilaniata dai bombardamenti. Le loro imprese servono ad alzare il loro miserabile tenore di vita, a concedersi nottate nei night club dopo un incontro di boxe in Sala Borsa e cene in ristoranti di lusso. La prima rapina avviene il 3 ottobre 1950 alla succursale di Binasco della Cassa di Risparmio delle Province Lombarde. Il bottino è di circa 600.000 lire, ma con i successivi colpi, a Genova e Torino, la banda arriva a racimolare 7 milioni. È a questo punto che Casaroli e i suoi decidono di tentare il colpo grosso, quello al Banco di Sicilia a Trastevere. La decisione che si rivela fatale per la banda è quella di prendere un’auto a noleggio da utilizzare durante la fuga. Si tratta di una splendida e fiammante Fiat 1400 color avana. Il proprietario dell’autorimessa, insospettito dal modo di fare sbruffone di Casaroli, effettua una segnalazione all’amico Giuseppe Tesoro, che lavora in polizia. Durante il colpo va tutto storto: i dipendenti della banca, anziché consegnare il bottino, reagiscono all’aggressione. Spunta una pistola in mano a uno dei funzionari. Il cassiere e un fattorino si avventano su uno dei malviventi e riescono a disarmarlo. Si scatena uno scontro a fuoco. Il cassiere viene ferito. Meno fortunato è il direttore della banca: colpito da una raffica di mitra, muore durante la corsa in ospedale. Casaroli dall’ego smisurato e il culto della violenza, Ranuzzi vanitoso e narcisista, Farris dominato dalla strabordante personalità degli altri due. La loro stagione criminale termina il giorno dopo quella rapina, a Bologna. Dopo aver ucciso l’agente Tesoro e ferito l’agente Tonelli, Ranuzzi e Casaroli fuggono a piedi fino a via Santo Stefano. Inseguiti da carabinieri, poliziotti e vigili urbani, salgono su un tram, ma il conducente rallenta e i due si buttano giù, raggiungendo di corsa il parcheggio dei taxi. Durante il tragitto uccidono un ex brigadiere dei carabinieri che ha tentato di fermarli gettandogli addosso la sua bicicletta. La stessa sorte tocca a un taxista che tenta di fuggire. Casaroli riesce ad appropriarsi di un’auto di passaggio, ma si rende conto troppo tardi che durante la fuga il conducente ha portato via le chiavi. Mentre cerca di salire dalla portiera posteriore, Romano Ranuzzi detto Il Bello viene raggiunto da un proiettile sparato da un agente. Romano Il Bello si lascia cadere sul sedile e rivolge un’ultima occhiata all’amico. Dice: «Ciao, Paolo», poi si spara un colpo in testa. Casaroli ha a malapena il tempo di reagire. Ormai è circondato, esce dall’auto sparando all’impazzata. Le forze dell’ordine rispondono al fuoco. Crivellato da dieci proiettili, Casaroli si accascia sull’asfalto. Nel frattempo, Farris è uscito di casa e si è mescolato con la folla di curiosi. Credendo che entrambi i suoi compagni siano morti, divorato dal rimorso per non averli aiutati, alcune ore dopo,

durante lo spettacolo serale al cinema Manzoni si uccide con un colpo di pistola alla testa. In realtà, nessuna delle pallottole che hanno colpito Casaroli ha leso organi vitali. Paolo Casaroli viene processato e condannato all’ergastolo. Durante la detenzione scrive nel suo diario: «La natura assegna a certi uomini compiti superiori e per loro non valgono le leggi comuni»[17]. Scarcerato nel 1979 per buona condotta, muore per un attacco cardiaco la notte di capodanno del 1993. Sulla banda Casaroli è stato girato un film nel 1962 per la regia di Florestano Vancini. Si dice che il regista volesse le armi originali utilizzate dalla banda, una Browning a cinque colpi a tamburo e una Beretta automatica. Considerate “maledette” alla stregua della Piccola Bastarda (la Porsche sulla quale James Dean ha trovato la morte), erano scomparse al termine delle riprese. Sono riemerse in circostanze misteriose negli ambienti cinematografici romani nel 2010. Se la banda Casaroli è passata alla storia per crudeltà e sangue freddo, c’è un fuorilegge diventato celebre per il motivo opposto: la sua estrema gentilezza. Siamo negli anni Sessanta, e il metodo con cui Horst Fantazzini rapinava le banche gli valse il titolo di “rapinator gentile” perché lo faceva con… cortesia. Fu lui stesso a descriverlo con queste parole: «Non urlavo e mi rivolgevo agli impiegati fermamente ma con gentilezza, spesso scherzando per sdrammatizzare. Aspettavo pazientemente il mio turno, facendo finta di controllare delle cifre su un foglio, finché la banca si svuotava. Allora mi avvicinavo alla cassa, poggiavo la mia borsa sul tavolo e, al posto di una cambiale da pagare, tiravo fuori la pistola e, tranquillamente, dicevo all’impiegato: “Stai assolutamente calmo e non ti succederà nulla. Prendi tutti i soldi che hai in cassa e poggiali sul banco”»[18]. Diventò famoso inviando un mazzo di fiori per scusarsi con un’impiegata che aveva avuto un malore durante una rapina. Per non parlare del fatto che evadere da un carcere calandosi con delle lenzuola annodate è considerato soltanto un luogo comune, eppure è proprio così che Horst Fantazzini evase dal carcere di Varese nel 1966, dove era stato rinchiuso dopo un tentativo di rapina a Genova. Nato nel ’39 in Germania, Horst Fantazzini doveva il suo nome al fatto che il padre era un rifugiato politico ricercato dalle polizie fasciste di mezza Europa – GESTAPO compresa – per certe rapine compiute per finanziare la resistenza. In tedesco, infatti, horst significa “rifugio”. Dopo la fine della guerra, la famiglia rientrò a Bologna, dove Horst rimase profondamente turbato nel trovare una città sventrata dai bombardamenti e in cui regnavano fame e disperazione. Analogamente a molti altri banditi della sua epoca, la carriera criminale di Horst Fantazzini cominciò come un tentativo di sfuggire alla miseria. Nonostante fosse un ciclista di talento e un brillante studente, particolarmente dotato nelle materie umanistiche, si ritrovò sempre in ristrettezze economiche. I lavori erano umilianti, la paga così misera da non permettergli di mantenere la moglie e la figlia piccola. Così, nel 1960, compie la sua prima rapina, all’ufficio postale di Corticella. In mano ha una pistola giocattolo. «Non si capiva se ero più emozionato io o loro, ad ogni modo i soldi me li hanno dati»[19]. Horst utilizza quel denaro per comprare una stufa e un frigorifero. Ma subito dopo arriva l’arresto. Entra ed esce dal carcere (a volte a seguito di clamorose fughe, come quella delle lenzuola annodate) fino al ’67, anno in cui si dà alla latitanza in giro per l’Europa, rapinando banche e vivendo come un raffinato dandy. Scrive persino numerose lettere di derisione indirizzate alla polizia italiana. Arrestato nel ’68 a Saint Tropez dopo una rapina andata male, per lui inizia un lungo periodo di detenzione, prima nelle durissime carceri francesi e poi in quelle italiane. Ingiustamente accusato di

terrorismo, è stato vittima di un vero e proprio accanimento giudiziario. Venne infatti condannato a una pena spropositata, anche per via dei suoi ripetuti tentativi di fuga e per l’irriverenza con cui si rivolgeva ai giudici, che definiva «ermellini da guardia». Nel ’73 tentò di evadere dal carcere di Fossano con in pugno una pistola di piccolo calibro che gli era stata consegnata all’interno di una torta. Prima di uscire dalle mura a bordo di una Giulietta della polizia, però, fu aggredito dai cani e poi crivellato dalle pallottole dei tiratori scelti. Si salvò per miracolo e ne uscì un resoconto, Ormai è fatta!, scritto due anni più tardi, in sole quarantotto ore, con una macchina da scrivere presa in prestito. Il romanzo venne poi pubblicato dall’editore Bertani grazie all’intercessione di Franca Rame, e quindici anni più tardi ne è stato tratto un film con protagonista Stefano Accorsi. La brillante attività di scrittore valse a Horst addirittura un premio letterario nel 1995. Coi soldi guadagnati si poté permettere un computer, grazie al quale scrisse racconti e gli straordinari resoconti della sua carriera criminale. Nonostante gli appelli per la sua scarcerazione giunti da più parti nel corso degli anni, gli è stato concesso il regime di semilibertà soltanto nel 2001, per lavorare come magazziniere presso una cooperativa. Pur ricevendo l’amore incondizionato della sua compagna Patrizia “Pralina” Diamante, conosciuta durante la detenzione ad Alessandria negli anni Novanta, la vita da salariato gli andava stretta, proprio come quarant’anni prima. «Sino a quando un uomo non si rassegna è ancora recuperabile», sosteneva. Il “rapinatore gentile” tentò un ultimo colpo la mattina del 19 dicembre dello stesso anno, ma fu immediatamente arrestato. Il suo cuore si fermò pochi giorni dopo, la vigilia di Natale, nell’infermeria della prigione. «Ero pagato da fame e non riuscivo nemmeno a pagare le bollette. Sbattersi per guadagnare pochi soldi ed essere sfruttato? No, ho pensato a un certo punto, io no! E ho cominciato a rapinare le banche. A modo mio era anche un gesto anarchico, come violare il santuario della ricchezza»[20]. A modo suo, Horst Fantazzini è stato il miglior interprete della celebre frase di Bertolt Brecht: «È più criminale fondare una banca che rapinarla»[21].

Strage del 2 agosto 1980, segreti di Stato La transizione tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso a Bologna è stata traumatica: in città era ancora vivo il ricordo dell’occupazione da parte dei mezzi blindati per sedare la rivolta studentesca del 1977 che tre anni più tardi un vigliacco attentato dinamitardo sconvolse per sempre la città. Alle ore 10:25 del 2 agosto 1980, nella sala d’attesa di seconda classe della stazione ferroviaria di Bologna, esplode un ordigno composto di ventitré chilogrammi di esplosivo a base di tritolo, t4 e nitroglicerina. Un dispositivo a orologeria, come verrà dimostrato, contenuto in una valigetta posta su un tavolino portabagagli sotto il muro portante dell’ala ovest. La deflagrazione ebbe una potenza tale che rovesciò il treno che si trovava in sosta sul primo binario, provocò il crollo di un’ala dell’edificio, distrusse trenta metri di pensilina e spazzò via il parcheggio dei taxi. È l’attentato terroristico più grave della storia italiana: ottantacinque i morti, duecento i feriti. Tutti, in città, si adoperarono per contribuire a organizzare i soccorsi e aiutare a recuperare i corpi dai detriti. Ma non c’erano abbastanza ambulanze per il trasporto dei feriti negli ospedali, così vennero impiegati anche taxi, auto private e autobus, in particolare quelli della linea 37, che diventò così uno dei simboli della strage. La reazione del governo, all’epoca guidato da Francesco Cossiga, fu quella di negare la matrice terroristica del massacro. Per ventiquattro ore, infatti, la posizione ufficiale delle autorità di Roma è stata un’incomprensibile negazione dell’attentato e l’attribuzione della causa dell’esplosione al malfunzionamento di una vecchia caldaia nel sotterraneo della stazione. In realtà, erano settimane che circolavano voci su un imminente attacco legato al terrorismo nero. Verso la fine di giugno, infatti, il neofascista Luigi Presilio, detenuto presso l’Istituto circondariale di Padova, aveva dichiarato al magistrato di sorveglianza del carcere di essere preoccupato a causa di una confidenza fattagli dal compagno di cella. Quest’ultimo gli avrebbe annunciato che era prevista per l’inizio di agosto una strage così eclatante che ne avrebbero parlato i giornali di tutto il mondo. Non basta: “Ciccio” Mangiameli, esperto di esplosivi e informatore dei servizi segreti, durante un colloquio col colonnello del SISDE Amos Spiazzi aveva confidato che per i primi di agosto era previsto un attentato che definì «di enormi proporzioni». Qualche giorno dopo, Spiazzi rilasciò un’intervista al settimanale «l’Espresso» riportando il contenuto della conversazione. A settembre, il cadavere di “Ciccio” Mangiameli fu trovato nel fondo di un bacino artificiale. Dal giorno successivo alla strage, le indagini della Procura della Repubblica di Bologna partirono con tempestività e decisione. Già alla fine di agosto era pronta una relazione accusatoria, con tanto di ipotesi su mandanti ed esecutori, ma l’inchiesta si arenò una volta inviata a Roma per competenze sulla pista eversiva. Cominciò così la stagione dei depistaggi e degli insabbiamenti. Il 19 gennaio 1987 iniziò il processo. La sentenza definitiva arrivò dalla Cassazione il 23 novembre 1995, con la condanna per l’esecuzione materiale dell’attentato per Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini. La Mambro e Fioravanti, pur riconoscendosi colpevoli di svariati omicidi, sulla strage del 2 agosto si sono sempre proclamati innocenti. Lo stesso ha fatto Ciavardini. Vengono condannati per depistaggio l’ex Gran Maestro della P2 Licio Gelli e l’ex agente del SISMI Francesco Pazienza, e gli ufficiali Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte.

Ma i mandanti e il movente dell’attentato rimangono oscuri, così come i motivi che hanno spinto P2 e servizi segreti a collaborare all’insabbiamento e alla costruzione di prove false per depistare le indagini. È sempre rimasta la sensazione che non sia emersa tutta la verità. Qualcuno ha azzardato l’ipotesi di un collegamento tra la strage del DC9 di Ustica e quella di Bologna. Spunta ripetutamente l’ombra dei servizi segreti stranieri. Non è tutto: i dossier sono protetti dal segreto di Stato. La proposta di legge di iniziativa popolare da parte dell’Associazione delle vittime della strage alla stazione di Bologna per «l’abolizione del segreto di Stato nei delitti di strage e terrorismo» non viene mai discussa in Parlamento, nonostante le centomila firme raccolte. In compenso ne vengono discusse e approvate altre due con lo stesso nome nel corso degli anni Novanta, volte a rendere più restrittiva la legislazione esistente. Nel 2009, dopo diciotto anni di carcere, la Mambro e Fioravanti sono stati rilasciati. Ancora oggi, all’esterno dell’edificio della stazione di Bologna, è presente l’orologio da allora e per sempre fermo alle ore 10:25. A titolo commemorativo, durante la ricostruzione della sala d’attesa, è stato mantenuto uno squarcio sul muro che dà sui binari. A fianco è stata posta una lapide con i nomi di coloro che hanno perso la vita nell’attentato. Nel punto dove è avvenuta l’esplosione, è presente la pavimentazione originale, con l’avvallamento generato dallo scoppio dell’ordigno.

I delitti del DAMS Titola «Il Resto del Carlino» il 6 dicembre 1983: «Non esiste il giallo del DAMS»[22]. All’interno dell’articolo, viene citata la testimonianza di uno studente: «Sembra di assistere a un serial televisivo. Noi non siamo impressionati. Studiamo le tecniche della comunicazione e i titoli non ci fanno effetto. Ma in famiglia sono preoccupati e qualche nostro amico non ha potuto iscriversi quest’anno, perché i familiari pensavano che il DAMS fosse davvero un ambiente frequentato da assassini». Ma cosa è successo da giustificare una tale psicosi? Fondato nel 1970 da Umberto Eco, il DAMS è un corso di laurea della facoltà di Lettere orientato alle “discipline dell’arte, della musica e dello spettacolo”. Non ha una sede unica e le lezioni si svolgono presso diversi istituti e dipartimenti. Fin dalla sua nascita, il DAMS è stato nell’occhio del ciclone perché anomalo rispetto agli altri corsi di laurea, indicato come fuori dalla cultura ufficiale o, perfino, una sorta di università per fricchettoni. Il quotidiano «la Repubblica», invece, lo ha definito «una facoltà all’avanguardia, ultramoderna e spregiudicata nella didattica, unica, in bilico tra trasgressione e scienza»[23]. L’attenzione della cronaca nera si catalizza quando la mattina del 31 dicembre del 1982 viene ritrovato in val di Zena, dalle parti di Farneto, il corpo senza vita di Angelo Fabbri, uno degli studenti del corso di Semiotica di Umberto Eco. Sul corpo sono presenti numerose ferite di arma da taglio. L’autopsia indicherà come arma del delitto un lungo coltello dalla punta larga, una specie di machete. Nessun segno di colluttazione: segno che lo studente non si è difeso, durante l’aggressione. Questo fa pensare che si tratti di un delitto premeditato, perché il ragazzo è più alto della media e ha una stazza imponente. Se l’omicidio fosse maturato in seguito a una discussione o a un litigio, probabilmente Angelo Fabbri avrebbe avuto la meglio. Con ogni probabilità, quindi, l’assassino si è premunito contro questa eventualità, colpendo di sorpresa. Forse si tratta di più persone. La ricostruzione della vita della vittima mostra un ragazzo taciturno, riservato e non emerge alcun indizio atto a dirigere le indagini verso un possibile movente. Ma questo è solo l’inizio. Il 15 giugno 1983 il corpo senza vita di Francesca Alinovi, assistente universitaria di ruolo al DAMS, viene trovato nella sua abitazione, in via del Riccio. La ragazza è stata assassinata con quarantasette piccole pugnalate, due giorni prima. Unico indagato è il suo convivente, Francesco Ciancabilla, che viene rinviato a giudizio e, in seguito a un processo da più parti definito puramente indiziario, condannato per omicidio preterintenzionale. Sicuramente alla condanna ha contribuito il fatto che con Francesca fosse solito abusare di cocaina ed eroina. Inoltre, forse spaventato, il ragazzo era fuggito prima in Sudamerica e poi in Spagna, dove poi è stato arrestato. Il medico legale stabilì che l’ora della morte di Francesca era tra le 17 e le 24 del 13 giugno, ma, per quel giorno, l’alibi di Ciancabilla era confermato solo a partire dalle 19:30, quando si era incontrato con un’amica in stazione per prendere il treno per Pescara. Ma se il delitto è stato compiuto prima delle 19:30, perché quelle macchie di sangue sull’interruttore della luce della casa di Francesca, come se l’assassino avesse spento la luce, dopo aver ucciso la ragazza? Tra le 17 e le 19:30 del mese di giugno il Sole è ben lontano dall’essere tramontato e non c’è bisogno della luce elettrica. Inoltre, le perizie sugli abiti di Ciancabilla non hanno mai trovato macchie di sangue. Passa un mese, e quella che sembra una maledizione torna a far sentire la sua presenza: nel mese di

luglio, la studentessa del DAMS Liviana Rossi viene uccisa in Calabria mentre lavorava come stagionale in un albergo del crotonese. La tesi sostenuta al processo è di omicidio colposo: la ragazza sarebbe caduta, fratturandosi il cranio, durante una fuga per difendersi da un’aggressione a scopo sessuale del proprietario dell’albergo. Tra i casi di omicidio collegati al DAMS, tuttavia, quello di Liviana Rossi è l’unico su cui è stata fatta in qualche modo chiarezza. È pieno di punti oscuri, invece, quello che seguirà nell’autunno dello stesso anno. La sera del 29 novembre, un nuovo macabro ritrovamento: un guardiacaccia trova una borsetta da donna nei pressi della grotta di Croara e con un amico si inoltra nella cava. Viene così scoperto il cadavere di una ragazza, nuda dalla vita in giù. Si tratta di Leonarda Polvani, ex studentessa del DAMS residente a Casalecchio di Reno. Il suo risulta uno dei casi più enigmatici della storia di Bologna. Leonarda abitava col marito a Casalecchio di Reno e lavorava in una gioielleria in centro a Bologna. La cronologia del suo ultimo giorno di vita è quella di una giornata qualunque per una persona normale. Verso le 7:30 del 29 novembre 1983 ha preparato una busta con il pranzo e dei gioielli, ha avvertito il marito che avrebbe fatto più tardi del solito ed è uscita di casa. Trascorsa la giornata lavorativa, ha incontrato un’amica alla quale ha mostrato i gioielli. Con lei si è poi recata in un negozio di abbigliamento, dove ha acquistato una sciarpa rossa. Passate le 19, Leonarda ha ripreso l’auto per rientrare a casa. Durante il tragitto, si è fermata per acquistare una confezione da sei uova. Verso le 20 ha parcheggiato l’auto nel garage e si è avviata verso il cancello. Sembra la descrizione di una giornata come tante altre, ma da questo momento in poi le sue tracce svaniscono nel nulla. Ci vogliono quattro giorni prima di avere sue notizie, ma non sono buone. Il suo cadavere viene trovato all’interno della grotta di Croara, sull’Appennino, un luogo a una ventina di chilometri dall’abitazione di Leonarda. Un guardiacaccia si era insospettito trovando un buco ritagliato in una parte della recinzione. Entrando, aveva trovato una borsetta da donna con dentro la carta di identità di Leonarda. A quel punto aveva avvisato i carabinieri che, sopraggiunti, rilevarono tra le rocce quattro tracce di sangue e dei segni di pneumatici. Abbandonati sul terreno c’erano poi un paio di pantaloni, una sciarpa rossa, una confezione da sei uova e una busta coi resti di un pranzo frugale. Nascosto sotto una pietra, venne rinvenuto anche un fazzoletto rosso e un paio di tronchesi nuove, presumibilmente utilizzate per aprire il varco nella recinzione. In fondo alla grotta, con la faccia schiacciata al terreno, c’era Leonarda, nuda dalla vita in giù. Un maglione e un giubbotto erano infilati in una manica. Intorno al collo era stretto il laccio di una scarpa, ma non era stata strangolata. A ucciderla era stato un colpo di pistola calibro 6,35 sparato al petto a bruciapelo la notte del 29 novembre. L’autopsia escluse la violenza sessuale. Il corpo presentava un ematoma e dei morsi, ma nessun segno che facesse pensare a una colluttazione. I morsi, in particolare, risultarono praticati dopo la morte e ben presto ci si rense conto con orrore che si trattava di topi che avevano trovato il cadavere e se ne erano cibati. Resta quindi inspiegabile il fatto che il corpo fosse seminudo. Nei dintorni della grotta vennero trovati anche i gioielli che il pomeriggio della scomparsa Leonarda aveva mostrato all’amica. Inoltre, al polso aveva ancora il suo orologio d’oro. Anche il movente di omicidio per rapina venne quindi escluso. La stampa dell’epoca si gettò a capofitto nella vicenda, collegandola immediatamente alla serie di omicidi definiti “i delitti del DAMS” e ipotizzando l’esistenza di un serial killer. In realtà, dalle indagini degli inquirenti non emerse mai un collegamento tra i delitti: l’appartenenza alla stessa

facoltà sarebbe soltanto un caso. Ciò che lascia interdetti è che il ritratto di Leonarda è quello di una ragazza diffidente nei confronti degli estranei, una che non sarebbe mai salita in auto con uno sconosciuto. Eppure, alcuni testimoni affermano di aver visto più volte una macchina scura davanti alla sua abitazione, le sere antecedenti alla scomparsa. E, proprio nella notte del 29 novembre, un’automobile rubata viene data alle fiamme nel quartiere Pilastro. Tra le teorie avanzate dagli inquirenti, c’è la pista della malavita. Forse Leonarda è stata rapita e minacciata per convincerla a fornire indicazioni precise atte a compiere una rapina nella gioielleria dove lavorava. Forse la ragazza non voleva (o non poteva) collaborare e per questo è stata trascinata tra le rocce, uccisa con freddezza e infine spogliata per depistare le indagini. Ciò che non emergerà mai dal buio della grotta di Croara, è la verità.

Uno Bianca «Sono morti perché li abbiamo incontrati al posto sbagliato nel momento sbagliato»[24]. Così Fabio Savi commenta il triplice omicidio del Pilastro in cui hanno perso la vita i tre carabinieri Otello Stefanini, Andrea Moneta e Mauro Mitilini. Fabio Savi è uno dei fondatori della cosiddetta banda della Uno Bianca, il gruppo che tra il 1987 e il 1994 ha insanguinato le strade dell’Emilia Romagna con azioni criminali eseguite con tattica militare e inaudita ferocia. Il nome della banda deriva dal modello di automobile usata più di frequente. Oltre a Fabio Savi, facevano parte della banda Roberto Savi, fratello maggiore di Fabio e poliziotto presso la questura di Bologna, Alberto Savi, il minore dei fratelli Savi e poliziotto presso la questura di Rimini, Pietro Gugliotta, operatore radio presso la questura di Bologna, Marino Occhipinti, agente della squadra mobile di Bologna, e Luca Vallicelli, della polizia stradale di Cesena. Quest’ultimo, tuttavia, partecipò solo ad azioni minori e non è stato coinvolto in nessuno degli omicidi di cui si è macchiata la banda nel corso degli anni. È la notte del 4 gennaio 1991 quando l’auto in cui si trovano i fratelli Savi viene sorpassata, per puro caso, da una pattuglia dei carabinieri nei pressi del quartiere Pilastro. Temendo di essere stati scoperti, dato che si trovavano a bordo di un’auto rubata, i Savi aprono un conflitto a fuoco con i carabinieri, crivellandoli di proiettili per poi finirli, uno per uno, con un colpo alla nuca. Il massacro, rivendicato dall’improbabile gruppo terroristico “Falange armata”, sconvolse gli animi di una città già scossa dai ripetuti episodi di violenza e dalla lunga lista di crimini impuniti attribuiti negli anni alla banda della Uno Bianca. Quella del Pilastro è infatti solo l’ennesima efferatezza della banda capeggiata dai fratelli Savi. Tutto comincia nel giugno del 1987, quando Fabio e Roberto Savi mettono a segno la loro prima rapina al casello autostradale di Pesaro. «È iniziato come uno scherzo», commenterà Fabio Savi durante un’intervista ai microfoni di Rai Tre. «Ho cominciato perché avevo dei debiti da pagare e avevo bisogno di soldi. Poi lo scherzo è andato avanti e ci siamo ritrovati a progettare una rapina»[25]. La prima vittima arriva nel 1989, anno in cui muore il sovrintendente Antonio Mosca. Era stato ferito due anni prima in un conflitto a fuoco con la banda durante un intervento per sventare un tentativo di estorsione. Da quel momento in poi è un’escalation di efferatezze. Chiuso il capitolo degli assalti ai caselli autostradali, seguono rapine a supermercati, stazioni di servizio e istituti di credito, persino l’assalto a un campo nomadi. Fino al 1994, quando avviene l’arresto dell’intera banda; sono otto anni di omicidi e sparatorie in cui si contano 103 azioni criminali, durante le quali le mani dei fratelli Savi si macchiano del sangue di 24 morti e 102 feriti. Una vera e propria guerriglia urbana scatenata dalla crescente avidità dei fratelli Savi e dei loro complici. Nonostante la costituzione di un pool di investigatori, questi criminali sembravano inafferrabili. Nel corso degli anni si susseguirono numerosi, infatti, gli arresti di sospettati poi rivelatisi innocenti. Solo per il fatto del Pilastro sono stati compiuti 200 fermi in tutta Italia, seguendo la pista dell’omicidio a sfondo mafioso. È in questa circostanza che avviene un clamoroso errore da parte degli inquirenti: tra i bossoli rinvenuti sulla scena del crimine sono presenti quelli di un fucile

modello Beretta AR70. Nella lista dei possessori dell’arma spuntò il nome di Roberto Savi ma costui, per depistare le indagini, ne acquistò un altro e lo portò in questura per i controlli balistici. A nessuno venne in mente di chiedergli l’altro fucile, quello utilizzato per il massacro, né di fare un sopralluogo nella sua abitazione, nella cui rimessa era presente un vero e proprio arsenale di armi da fuoco. Vennero ignorate persino le parole di un informatore che affermava che “quelli della Uno Bianca sono degli sbirri”. L’estrema freddezza dei componenti della banda nell’esecuzione delle loro azioni, la conoscenza delle procedure di polizia, l’accesso a trasmissioni e documenti riservati che facilitava l’elusione di strade pattugliate, a lungo rendono vani i tentativi di individuarli. Ma sono l’intelligenza e le capacità deduttive dell’ispettore Luciano Baglioni e del sovrintendente Pietro Costanza, della questura di Rimini, a inchiodare i colpevoli. Sotto la supervisione del PM Danele Paci, i due poliziotti, dopo aver studiato minuziosamente le azioni della banda e le armi utilizzate negli assalti, intensificano le indagini sulla base di tre elementi. In primo luogo, è chiaro che nessuno dei componenti della banda faccia parte di altre organizzazioni criminali, o qualcosa, anche di minimo, sarebbe trapelato tramite la rete di informatori. Secondo elemento: le tecniche d’assalto impiegate durante le azioni portano inequivocabilmente a “operatori del settore”, ovvero persone che in qualche modo lavorano a contatto con le armi, come militari o poliziotti. Terzo elemento: ogni colpo è stato studiato nei minimi particolari. Niente è lasciato al caso. Inizialmente le indagini portano a un nulla di fatto. Quando il pool di Paci viene sciolto, Baglioni e Costanza non abbandonano il caso, ma decidono di comportarsi come cani sciolti in un’estenuante caccia alla preda: il loro obiettivo è catturare la banda della Uno Bianca a qualunque costo. Per loro, forse, diventa una specie di ossessione, una questione personale. Baglioni e Costanza cominciano a pensare come i criminali a cui danno la caccia, a comportarsi esattamente come loro. Individuano potenziali bersagli e poi eseguono lunghi appostamenti, proprio come se dovessero compiere una rapina, nell’attesa di una svolta che possa dare impulso alle indagini. Quella svolta arriva il 3 novembre 1994. Mentre sono appostati nei pressi di una banca di Santa Giustina, nel riminese, Baglioni e Costanza vedono passare per due volte una Fiat Uno bianca dalla targa quasi completamente ricoperta di fango. L’autista ha un comportamento sospetto, proprio come se stesse compiendo un sopralluogo per un’azione criminale. Così, decidono di seguirlo. Senza farsi scoprire, Baglioni e Costanza seguono l’auto fino a Torriana, dove l’autista parcheggia e si infila in un appartamento che si rivela intestato a Fabio Savi, di professione camionista e proprietario di una carrozzeria. Fabio ha due fratelli, Roberto e Alberto. Entrambi poliziotti. I sospetti di Baglioni e Costanza si sono rivelati fondati. Da un controllo, risulta che durante ogni azione della Uno Bianca Roberto Savi era fuori servizio. Baglioni e Costanza sanno di essere vicini alla verità, ma sanno anche che un passo falso potrebbe costare la vita a entrambi. Se davvero i Savi fanno parte della banda a cui stanno dando la caccia, è gente dal grilletto facile. Gente che non ha esitato a uccidere a sangue freddo il direttore di una banca soltanto perché non aveva creduto che fossero davvero quelli della Uno Bianca. Così, Baglioni e Costanza fanno in modo che delle loro indagini private non trapeli nulla. L’unico a esserne informato è il sostituto procuratore che per primo aveva avuto fiducia in loro: Daniele Paci. Seguono giorni carichi di tensione, altri appostamenti, verifiche incrociate sulle abitudini dei fratelli Savi, ripetuti controlli. Perché non si può sbagliare. La posta in gioco è troppo alta e non si possono commettere errori.

Ottenuto il mandato per Roberto Savi, il 21 novembre Baglioni e Costanza lo arrestano in questura a Bologna durante il turno di lavoro. Poliziotti che arrestano un poliziotto. Negli uffici della questura scende il gelo. Quello che nessuno sa è che Roberto Savi ha con sé due pistole e tre caricatori, ed è pronto a usarle. Ormai, però, ha capito di essere perduto: dopo lunghi istanti carichi di tensione, Roberto Savi si decide a consegnare le armi a un collega e accetta di essere ammanettato. «Se avessi voluto, potevo fare una strage»[26], dichiara sprezzante. Quel giorno Fabio Savi si trova in un appartamento di Pontecchio Marconi, in attesa dell’arrivo del fratello dopo la fine del turno. Insospettito dal ritardo, chiama la cognata e scopre che il fratello è stato arrestato. Pur essendo controllato a vista, riesce a fuggire. Comincia una fuga disperata in compagnia della sua convivente, Eva Mikula, una ragazza rumena di sedici anni. Una fuga che dura quattro giorni. «Saltiamo su un camion e andiamo»[27], non fa che ripetere. Braccato dalla polizia di tutta Italia, la sua fuga si interrompe al bar Sella, di Pontebba, sull’autostrada Alpe Adria. Forse sperava di intrufolarsi in un camion diretto in Slovenia. Ancora una volta è il caso a mettersi di traverso nel destino dei fratelli Savi, ma questa volta non ci sono vie di scampo. Due poliziotti della Stradale, vedendo il suo aspetto trasandato, barba incolta, vestiti sudici, gli chiedono i documenti. Lui, dopo un istante di esitazione, consegna la sua patente di guida. I due agenti escono dal locale per andare a controllare i dati via radio dalla volante. Fabio Savi, a questo punto, spera forse di avere un’occasione per scappare. Si infila nel bagno del bar ma non ci sono finestre. Nessuna via di fuga, ormai è in trappola. Nonostante anche lui sia armato, alla fine decide di consegnarsi senza opporre resistenza. Il resto dei componenti della banda viene arrestato tra il 25 e il 29 novembre. È stato per soldi? Il bottino complessivo raccolto dalla banda in otto anni di attività ammonta a poco più di due miliardi di vecchie lire, ovvero circa un milione di euro, con una media per rapina di 23 milioni di lire (quasi 22.000 euro). L’impressione che rimane è che i fratelli Savi fossero del tutto indifferenti al dolore che causavano, assuefatti alla violenza e sopraffatti dal loro narcisismo. Al processo appaiono lucidi, distaccati, sprezzanti, perfino quando viene pronunciato il verdetto di condanna: ergastolo per i Savi e per Occhipinti, tredici anni a Gugliotta e sei mesi a Vallicelli. «D’altra parte, chi sono questi fratelli Savi?», dichiarerà la madre di Giampiero Piccello, una delle vittime della banda. «Dei sepolti vivi, gente che viveva in un mondo irreale. Degli animali, che agivano d’istinto, con le armi al posto del cervello»[28].

Marco Biagi, ammazzato dallo Stato È la sera del 19 marzo 2002. Il professor Biagi sta rientrando a casa, in via Valdonica 14. Sta scendendo dalla bici quando gli si avvicina uno scooter con due persone a bordo che indossano caschi integrali. Nella piccola via, situata nel quartiere ebraico, echeggiano sei colpi di pistola. Marco Biagi si accascia al suolo, privo di vita. Ad assassinarlo, vigliaccamente, alle spalle, è stato un commando delle Nuove Brigate Rosse. Biagi era docente di diritto del lavoro alla facoltà di Economia dell’università di Modena e consulente dell’allora ministro del Welfare, Roberto Maroni. Il suo compito era proporre una revisione ragionata delle leggi che regolano il lavoro. Ma non solo: Biagi era uno dei massimi esperti mondiali in diritto del lavoro comparato e fervente sostenitore di progetti concreti e innovativi. Le sue ricerche e le sue riflessioni avevano portato la sua fama dall’Europa agli Stati Uniti, dalla Cina al Giappone. Il suo brutale omicidio sconvolge la città, colpita al cuore allo stesso modo del professor Biagi. Scrive Michele Serra sulle colonne del quotidiano «la Repubblica»: «Quell’uomo che rincasa in bicicletta, quei portici, quello snodo di viuzze, quell’urbanità che è dei luoghi e delle persone. Solo chi vive a Bologna può patire fino in fondo l’offesa, la profanazione sporca e vigliacca di un piccolo ordine familiare e di un grande decoro civile»[29]. Marco Biagi lavorava al servizio dello Stato, ma è proprio dallo Stato che era stato abbandonato. Nonostante fosse palesemente in pericolo di vita, Biagi non aveva una scorta. Gli era stata revocata. Gliel’avevano tolta nonostante le ripetute telefonate di minaccia che aveva ricevuto nel corso dei mesi, lo avevano privato di una qualsiasi tutela nonostante l’omicidio di Massimo D’Antona tre anni prima avesse spalancato l’orrore di una nuova stagione di terrorismo targato Brigate Rosse. Biagi era nel mirino dei brigatisti, e lo sapeva. Lo sapevano tutti, a Roma. Un rapporto dei servizi segreti sosteneva che erano a rischio attentati «personalità impegnate nelle riforme economico sociali e del mercato del lavoro e quelle con ruoli chiave in veste di tecnici e consulenti». Eppure, tra il giugno e l’ottobre del 2001 erano state tolte al professore la scorta nella capitale, poi quella a Milano, a Bologna, a Modena. È il ministro dell’Interno Claudio Scajola a revocarle «ritenuto cessate le esigenze di tutela»[30]. Temendo seriamente per la propria vita, Biagi scrisse appelli accorati all’allora presidente della Camera, Casini, scrisse a Maroni, e delle sue lettere venne informato il capo della polizia Gianni De Gennaro. Questo un estratto della lettera che il giurista indirizza al prefetto di Bologna: «Ormai troppe volte mi sono rivolto a lei per segnalare questo stato di cose. Non mi resta che esprimerle di nuovo la mia preoccupazione e la mia delusione per quella che secondo me è una chiara sottovalutazione dello stato di pericolo in cui mi trovo»[31]. La stampa e l’opinione pubblica, incredule di fronte a una tale palese manifestazione di disinteresse per il destino di un servitore dello Stato, incalzano Scajola, che sbotta: «Biagi era un rompicoglioni che voleva il rinnovo del contratto di consulenza»[32]. L’insulto è così grave da non poter essere cancellato dalle sole dimissioni del ministro dell’Interno. La famiglia rifiuta i funerali di Stato e preferisce una cerimonia privata per piangere il proprio caro. Un anno dopo, nel marzo del 2003, i responsabili degli omicidi di Biagi e D’Antona vengono fermati su un treno all’altezza di Castiglion Fiorentino. Nadia Desdemona Lioce e Mario Galesi

scatenano uno scontro a fuoco con i poliziotti. Durante la sparatoria rimangono uccisi Emanuele Petri, sovrintendente della POLFER, e lo stesso Galesi. Grazie alle informazioni reperite nei computer dei terroristi, segue una catena di arresti che porta all’azzeramento delle Nuove Brigate Rosse. Entro il giugno del 2005 tutti i suoi componenti sono condannati all’ergastolo. «Chiunque passi dal ghetto di Bologna», conclude Serra, «si ricordi del cittadino Marco Biagi, e consideri quanto sangue è costato, ai bolognesi e agli italiani, conquistarsi una via di casa tranquilla, da pedalare in pace, sotto un portico dove i rastrellamenti e gli spari sono solo la bestemmia degli impotenti»[33].

VI. Bologna enigmatica e misteriosa

Cavalieri Templari in veste da combattimento e da convento.

L’enigma di Aelia Laelia Crispis Nel 1567, lo studioso belga Giovanni Torre, ospite a Bologna nella villa di Marcantonio Volta, scrive a un collega inglese. Nella lettera cita enigmatici versi in latino incisi su una lapide presso il complesso di Casaralta, adiacente alla villa. La lapide contiene un’iscrizione funeraria dedicata da un certo Lucius Agatho Priscius a una misteriosa Aelia Laelia Crispis. È questa la prima testimonianza sull’esistenza della cosiddetta “pietra di Bologna”, che nei secoli assunse una tale notorietà che il letterato Emanuele Tesauro, nel XVII secolo, dirà che la lapide «sarebbe bastata da sola alla fama di Bologna». Il complesso di Casaralta era all’epoca il priorato della milizia religiosa dell’Ordine dei cavalieri di Maria Gloriosa, meglio noti come “cavalieri Gaudenti”. La loro uniforme era un saio bianco su cui campeggiava una grande croce rossa sul petto. Il loro stemma era una croce templare con ai lati due stelle a sei punte, a testimonianza della vicinanza con l’Ordine dei Poveri Compagni d’armi di Cristo e del Tempio di Salomone, ovvero i cavalieri Templari. E come avviene per i Templari, con i quali esistono sospetti di una reciproca interazione, anche la storia dei cavalieri Gaudenti è costellata di misteri e di legami con l’esoterismo. Va sottolineato che, nel 1301, due esponenti dell’Ordine vennero addirittura condannati al rogo dall’Inquisizione a Montecchio Maggiore, nei pressi di Vicenza. La storia dell’Ordine dei cavalieri di Maria gloriosa inizia a Bologna nel 1233, quando viene fondato da sei esponenti di nobili casate, tra cui Loderingo degli Andalò, Catalano dei Malavolti e il monaco domenicano Bartolomeo di Braganze. Bisogna attendere fino al 1261, quando il papa Urbano IV approva la fondazione dell’Ordine tramite la bolla Sol ille verus. Lo scopo dell’Ordine è principalmente la lotta alle eresie e di mantenere (o imporre) la pace all’interno delle città italiane, in un’epoca di sanguinosi scontri tra guelfi e ghibellini. Si tratta quindi di una milizia religiosa. A farne parte, però, sono sia monaci veri e propri che “semplici” aristocratici, alcuni dei quali sposati e con figli. Nella regola, redatta dal francescano Rufino Gorgone, viene indicata come dimora il monastero per i religiosi, e la propria abitazione per i coniugati, sebbene sia stabilita la necessità per questi ultimi di praticare l’astinenza sessuale. Per i primi è stabilita anche l’osservanza della regola agostiniana. Ai Gaudenti era proibita la partecipazione diretta ad attività di governo o il rivestimento di cariche pubbliche. Eppure, sia Loderingo degli Andalò che Catalano dei Malavolti vennero eletti due volte rettori all’università di Bologna, e ricoprirono la carica di podestà in varie città, tra cui Firenze. Proprio durante la loro permanenza nel capoluogo toscano conobbero Dante Alighieri, che nella Divina Commedia li collocherà nientemeno che all’Inferno, nella bolgia degli Ipocriti. Pare infatti che i due, chiamati per mediare in una disputa tra guelfi e ghibellini, anziché agire con imparzialità abbiano seguito delle direttive segrete di papa Clemente IV, facendo cacciare le famiglie ghibelline e provocando una rivolta popolare. Le teorie sull’origine del soprannome “Gaudenti” sono discordanti: alcuni studiosi ne attribuiscono la derivazione ai cosiddetti “sette gaudi di Maria” o “misteri Gaudenti” alla base del rosario francescano, cioè Annunciazione, visita alla cugina Elisabetta, Natività, adorazione dei Magi, ritrovamento di Gesù nel tempio, apparizione di Gesù resuscitato e Assunzione di Maria in cielo; per altri è dovuto alla progressiva rilassatezza dei costumi dei cavalieri, sempre meno interessati alla regola e sempre più coinvolti nella vita politica e, soprattutto, negli intrighi di palazzo.

La loro storia finisce ufficialmente nel 1588, quando l’Ordine venne sciolto da papa Sisto V. Ma di quali segreti esoterici erano depositari? È legato alla loro esistenza uno degli enigmi più celebri di Bologna, quello di Aelia Laelia Crispis. La traduzione dei primi versi dell’iscrizione del complesso di Casaralta recita così: “Elia Lelia Crispi / né uomo né donna né androgino / né fanciulla né giovane né vecchia / né casta né meretrice né pudica / ma tutto ciò / uccisa / non dalla fame né dalla spada né dal veleno / ma da tutto ciò”. L’ipotesi più accreditata prevede che tali versi siano stati scolpiti per volontà del Gran Maestro dei monaci Gaudenti Achille Volta nella prima metà del XVI secolo. Divenuta pressoché illeggibile, nel Seicento, il senatore Achille Volta, omonimo dell’antenato, la fece ricopiare, apponendo a fianco un’altra lapide, più piccola, a testimonianza dell’avvenuta ricopiatura. Nel frattempo, l’Ordine era stato smantellato e il complesso di Casaralta divenuto usufrutto della famiglia Volta, per volere di papa Sisto V. Ma le vicissitudini della “pietra” non sono finite: nel 1943, infatti, il complesso venne bombardato e a salvarsi, miracolosamente, fu proprio la lapide. Molteplici le interpretazioni dell’enigma date nel tempo da pensatori, storici, scrittori, eruditi e persino alchimisti. C’è chi afferma che si tratti di un mero virtuosismo intellettuale e chi sostiene che la corretta interpretazione del testo consenta la sintesi della cosiddetta pietra filosofale. Quest’ultima, suggestiva teoria accosta l’Ordine dei monaci Gaudenti a quello dei cavalieri Templari, ugualmente sospettati di costituire una setta esoterica iniziata ai segreti alchemici. In particolare, risale al XVI secolo l’interpretazione di Elia Crispis come allegoria della pioggia, e al secolo successivo l’identificazione di Elia con l’anima del mondo, con un satiro sfuggito e catturato da Mercurio, con una fanciulla promessa in sposa e morta prematuramente. Più recenti le interpretazioni, secondo un codice alchemico, che vogliono Elia la materia solare maschile, Lelia la materia solare femminile e Crispis la sostanza trasmutatoria. Nel Novecento, le opinioni in merito iniziano a contemplare la possibilità che si tratti di uno scherzo degli intellettuali umanisti, oppure di un codice dell’Ordine dei monaci Gaudenti. È degna di nota l’interpretazione del webmaster del sito “Mystery catchers”, secondo il quale la lapide è stata voluta da Achille Volta per testimoniare ai posteri il decadimento morale in cui versava l’Ordine di cui era Gran Maestro. Ulteriore fascino a questo mistero è dato dalle analogie dell’iscrizione con altre, tra cui quella del palazzo San Bonifacio a Padova e quella rinvenuta nel castello di Chantilly, in Francia. La lapide è stata restaurata nel 1988 e da allora è conservata nel lapidario del Museo civico medievale di Bologna.

Finestre che ridono: le case infestate di Bologna Non esiste nessuna città senza leggende metropolitane, più o meno fondate, che riguardano case infestate ed edifici dalla fama sinistra. Ovviamente, Bologna non fa eccezione ed ecco così una piccola guida per i “ghostbusters” emiliani. Situata poco fuori Bologna, al civico 449 di via Zanardi, c’è villa Malvasia, comunemente chiamata “villa Clara”. Sorge in aperta campagna, in un luogo non raggiunto dall’illuminazione stradale. Si stima che sia stata costruita tra il 1572 e il 1585. Lo si evince dallo stemma di papa Gregorio XIII presente sulla sommità del camino nel salone principale: era infatti consuetudine, a quell’epoca, raffigurare il pontefice regnante per datare le costruzioni appartenenti a un casato nobiliare. Nelle cronache antiche si trovano riferimenti allo stabile col nome di “Casino del Trebbo” per la vicinanza, appunto, con il piccolo borgo di Trebbo di Reno. Il suo più illustre proprietario è stato nel Seicento il conte Carlo Cesare Malvasia, canonico, pittore, storico dell’arte, pubblico lettore di diritto all’università e mecenate del fiore della cultura bolognese. Prima di lui, pare abbia abitato il palazzo Antonio Galeazzo Malvasia, che tra quei muri avrebbe vissuto il suo turbolento amore con la scultrice Maria Properzia, definita dal Vasari «un grandissimo miracolo della natura; dal corpo bellissima, e sonò e cantò nei suoi tempi meglio che femmina della sua città; giovane virtuosa in infinite scienze, che non che le donne, ma tutti gli uomini gli ebbero invidia; capriccioso e destrissimo ingegno». Le tracce dei passaggi di proprietà svaniscono alla fine del Seicento, quando alla morte di Cesare Malvasia la villa viene ceduta all’Arciconfraternita della Vita. Così, tra il Settecento e l’Ottocento, negli annali della città si perdono le tracce dei proprietari della villa. È proprio in riferimento a questo periodo che si narra la storia raccapricciante della piccola Clara, figlia unica di un nobiluomo e della sua giovane compagna. Si racconta che Clara sia stata murata viva dal padre stesso in una stanza del primo piano. Pare che l’uomo fosse esasperato dai poteri paranormali della figlia, che annunciava sciagure che puntualmente si verificavano. Intorno a questa vicenda nasce la leggenda del fantasma di una bambina che appare durante nottate particolarmente nebbiose, nel cortile della villa, piangendo e invocando aiuto. Per altri, a essere murata viva è stata la figlia adolescente di un nobile, dopo che lui era venuto a conoscenza della tresca amorosa che ella intratteneva con un sottoposto del casato. Altri ancora sostengono che Clara sia soltanto il nome di una delle proprietarie della villa che si sarebbero avvicendate nel corso dei secoli, come testimonia l’insegna in ferro battuto con la scritta «Villa Clara», posta in cima al cancello. Durante il Novecento e in particolare a partire dal secondo dopoguerra, l’edificio ha subìto un lento e inesorabile declino, che ha finito per mettere a repentaglio la conservazione degli affreschi e dei pannelli che ne adornano le sale. L’ultimo colpo di scena è riportato da un articolo de «Il Resto del Carlino» datato 2 aprile 2009: la casa è stata ereditata da Maria Vittoria Bossi, che ha scoperto tramite il testamento di essere figlia dell’ultimo proprietario della villa, l’ingegner Alessandro Alessandri, e di aver appena ereditato la casa stregata più famosa di Bologna. La signora Bossi ha annunciato pubblicamente di aver intenzione di restaurare la villa e le numerose opere d’arte contenute al suo interno, per poi aprirla al

pubblico. La storia di un altro fantasma ammanta di mistero una scuola di Croara, nei pressi di San Lazzaro di Savena. In molti conoscono la leggenda di Azzurrina, la bambina fantasma che infesta il castello di Montebello, vicino a Rimini. A Bologna non mancano storie simili, anche se per alcuni si tratta soltanto di dicerie prive di fondamento, alimentate nel tempo tramite il passaparola e il tam tam della rete. Anzi, proprio su internet si trova un articolo a dir poco sorprendente in merito alla storia di cui stiamo per parlare. Ma andiamo con ordine. Si dice che negli anni Cinquanta sia avvenuto un tragico incidente, nella scuola elementare di Croara: un bambino sarebbe morto durante un litigio per futili motivi. Pare che si stesse contendendo una palla con un compagno di classe. Il compagno lo spintonò e il bambino cadde, rotolando giù dalle scale della cantina che era stata dimenticata aperta dal personale. La caduta si rivelò fatale. Qualcuno parla addirittura di una striscia di sangue sulla scalinata, che avrebbe letteralmente terrorizzato gli altri bambini presenti. Dal giorno della tragedia, è un susseguirsi di strani fenomeni: si racconta di improvvisi malori che colpiscono il corpo insegnante, tanto da lasciare la scuola sguarnita in certi periodi dell’anno, di bagni trovati spesso allagati, di porte che si chiudono da sole nell’aula dove il bambino seguiva le lezioni. Pare che, in seguito a questi e altri fenomeni, la porta della cantina sia stata blindata. Ma non è finita qui: c’è chi assicura di aver sentito un bambino piangere, il giorno dell’anniversario della morte del piccolo. Ad accompagnare il pianto, il suono di una palla che rimbalza: un fenomeno, questo, analogo a quello riscontrato nel castello di Azzurrina, nel quale i lamenti della bambina sono stati registrati con esperimenti di psicofonia. Ma non è tutto: senza una motivazione ragionevole, il preside della scuola elementare di Croara si dimise, e, dopo qualche tempo, il Comune dispose la chiusura definitiva dell’istituto. Una nuova scuola elementare venne quindi costruita a qualche centinaia di metri di distanza. È di recente pubblicazione un articolo sul web in cui un utente dichiara che tutta la storia non è altro che una montatura costruita intorno a voci discordanti e fatta circolare al solo scopo di dimostrare come basti un edificio fatiscente per far nascere fantasmi reali o immaginari. Se il fantasma della scuola di Croara sia verità o una leggenda metropolitana, ormai non è più possibile stabilirlo: nei primi anni del nuovo secolo, l’edificio, a lungo rimasto abbandonato a se stesso, è stato demolito per far posto a un nuovo quartiere residenziale. Navigando poi tra i siti dei “cacciatori di misteri” sparsi per la rete, può capitare di imbattersi nella segnalazione di un altro luogo vicino a San Lazzaro di Savena, sulla via che porta alla grotta di Croara, dalle singolari caratteristiche. Pare, infatti, che da quelle parti sorgesse un casolare isolato, posizionato sulla cima di una collina e già disabitato negli anni Settanta. Si dice che la casa fosse frequentata da una setta, che l’aveva eletto a luogo dove consumare addirittura sacrifici di sangue. La chiamavano “la casa del vento”. Per le forze dell’ordine non era raro essere avvisati da qualcuno che aveva sentito urla strazianti e lamenti di animali. Giunti sul posto, a polizia e carabinieri non restava che fare l’inventario dei raccapriccianti ritrovamenti, perlopiù resti di bestie scuoiate. Forse perché pericolante, o forse perché la zona era diventata crocevia di persone poco raccomandabili, prima degli anni Ottanta la casa venne demolita e lo spiazzo in cima alla collina divenne poco a poco uno dei tanti luoghi frequentati da coppiette in cerca di un luogo solitario dove

appartarsi. Questo finché due persone non vennero dichiarate scomparse proprio in quella zona, e la memoria di quanto veniva consumato nell’antico e fatiscente casolare non tornò a galla. Da allora la zona viene evitata, anche perché si racconta che, inoltrandosi lungo il sentiero che un tempo portava alla casa, avvengano strani fenomeni. Nonostante le raffiche di vento che spesso colpiscono la collina, pare che il sito sia perennemente avvolto nella nebbia e che le folate siano gelide anche in piena estate. Ma non basta: dall’interno della nebbia può capitare di udire le stesse grida e lamenti che avvertivano i passanti negli anni Settanta. Si racconta che di notte, puntando una sorgente luminosa contro le vecchie fondamenta si formi la sagoma di una casa, stagliata contro il cielo. Oggi, a testimonianza dell’esistenza della casa, rimangono solo un cumulo di macerie, un vecchio pozzo murato e i racconti popolari. È poi un’altra casa misteriosa a tingere di giallo le pianure che circondano Bologna. Si tratta della celebre “casa dalle finestre che ridono” che nella finzione cinematografica dell’omonimo film del 1976 avrebbe ospitato Buono Legnani, il cosiddetto “pittore delle agonie”. Nel film il pittore vive con le due sorelle in un casolare isolato, in aperta campagna. Particolarità dell’abitazione sono le bocche sorridenti dipinte sulle finestre, visibili quando gli scuri sono chiusi, che le donano un aspetto surreale e inquietante. Sappiamo che i quadri ripresi nel film, tra i quali spicca il Martirio di San Sebastiano, sono opera di Michelangelo Giuliani e Otello Taglietti. Pupi Avati ha dichiarato, in un’intervista, che l’idea di realizzare il film gli è venuta a partire da una storia che gli raccontavano spesso da bambino, quella del “prete donna”, un personaggio che dalle sue parti era divenuto uno spauracchio per tenere buoni i più piccoli. Pare che ci fosse un fondo di verità: nel comune dove abitava, infatti, l’apertura della tomba di un prete aveva rivelato i resti appartenuti in realtà a una donna. Nel corso degli anni, si sono sviluppate autentiche leggende intorno alla casa del titolo. Sono numerosi i fan del film che si sono recati nella zona del Delta del Po, a Comacchio e dalle parti del lido di Volano alla ricerca di una delle “case maledette” più famose del cinema italiano. Ma, nonostante qualcuno millanti di averla visitata, pare che la “casa dalle finestre che ridono” sia stata in realtà abbattuta alcuni anni dopo la fine delle riprese. La sua ubicazione originaria è stata scoperta da un gruppo di blogger proprio a due passi da Bologna, nelle campagne di Malalbergo. Sorgeva infatti a pochi passi dalla riva del Navile in un podere, all’epoca chiamato tenuta Bin, all’interno delle ampie risaie dei baroni Cataldi. Quando Pupi Avati e la sua troupe giunsero da quelle parti, individuarono il casolare originariamente destinato all’abitazione del risaio come location perfetta per la dimora del pittore pazzo. La casa era da tempo disabitata (l’ultimo proprietario è stato un certo Fiorenzo negli anni Cinquanta) e, inquadrata opportunamente, poteva sembrare totalmente isolata. Come riporta testualmente il sito Davinotti.com: «Fu così che uno studente americano in belle arti, che soggiornava a Roma nella pensioncina allora gestita dalla madre del regista, si unì ad Antonio Avati (fratello del regista) e al truccatore Amadei e insieme ai due disegnò sulle finestre del casolare di Fiorenzo grandi labbra carnose e sorridenti, che sarebbero diventate l’emblema del film che stavano per girare»[34]. Tra gli sceneggiatori, oltre ai fratelli Avati e a Gianni Cavina, figura un giovane Maurizio Costanzo. A concludere la carrellata delle case più infestate di Bologna non può mancare il caso di un castello infestato. A una ventina di chilometri da Bologna, vicino al borgo medievale di Minerbio, in località San Martino in Soverzano sorge il castello dei Manzoli. Immerso in un parco secolare, è stato

costruito a partire dal 1411 dalla famiglia Manzoli intorno alla torre degli Ariosti, che a sua volta era sorta ai margini della palude tra il XII e XIII secolo. Il castello fu residenza aristocratica, ma disponeva tuttavia di un sistema di difesa militare come mura, merli, fossati, torri difensive e ponti levatoi. Un maniero come questo è il set ideale per una storia di fantasmi. La leggenda ha origine dalle vicissitudini storiche del conte Marchione Manzoli, vissuto nella prima metà del Cinquecento. Presso di lui cercò rifugio un cardinale in fuga verso la Germania: nientemeno che Giovanni di Lorenzo de’ Medici, secondogenito di Lorenzo de’ Medici e di Clarice Orsini e futuro papa Leone X. Fu proprio quest’ultimo che, grato dell’ospitalità ricevuta, una volta eletto pontefice, conferì a Marchione il titolo di conte. Nei primi anni del Cinquecento la vita di Marchione si divise tra il feudo di San Martino in Soverzano, sfruttato perlopiù come residenza estiva, e un palazzo all’interno delle mura bolognesi. Morto Leone X, il 1527 fu un’annata decisamente negativa per Marchione. Si trovò a dover affrontare le scorrerie dei mercenari lanzichenecchi inviati da Carlo V per saccheggiare Roma. Costoro, al comando del generale Georg von Frundsberg, lasciarono dietro di loro una lunga scia di devastazioni e di stermini. Non si salvarono nemmeno le campagne circostanti al feudo del conte, sebbene costui, dietro il pagamento di una forte somma di denaro, ottenne che almeno il suo castello venisse risparmiato. Infine, la notte del 2 dicembre, mentre era di ritorno da una casa da gioco bolognese, Marchione venne brutalmente assassinato in un agguato. Non sono noti né gli esecutori né il motivo di questo assassinio. La leggenda narra che, da allora, la notte del 2 dicembre si possano udire gli zoccoli del cavallo del conte, come se stesse rientrando nel suo castello. Alcuni testimoni sostengono di aver visto un cavaliere con indosso i paramenti di un’armatura cinquecentesca, e a cui mancava la testa. Altri, ancora, dichiarano di aver assistito alla decapitazione di una donna in fuga, da parte dell’antico cavaliere. Grazie ai restauri avvenuti nel corso dei secoli, il castello è rimasto in eccellenti condizioni. Risale alla fine del Seicento la costruzione di un lungo portico a fianco della spianata che conduce al maniero che, a partire da quell’epoca, è diventato sede di un’importante fiera annuale che si svolge nella prima settimana di ottobre.

Gli enigmi sotto i portici Bologna è senza dubbio la “città delle torri”, ma potrebbe essere ugualmente definita “città dei portici”. Le sue strade sono infatti fiancheggiate da nientemeno che quarantadue chilometri complessivi di eleganti porticati, costruiti a partire dal Medioevo. Nessun’altra città può lontanamente insidiare questo primato. I portici hanno permesso a generazioni di bolognesi, studenti e turisti di camminare al riparo dalle intemperie, hanno reso possibile le attività commerciali e agli artigiani di lavorare all’esterno delle botteghe in piena luce, hanno consentito di liberare i piani bassi degli edifici della città medievale dall’umidità e dalla fanghiglia che vi si ammassava. Ma perché, a partire dal XII secolo, compaiono improvvisamente portici in ogni angolo della città? Difficile stabilirlo con certezza. È certo che a quell’epoca la città richiamasse studenti da ogni angolo d’Europa; si faceva quindi pressante l’esigenza di nuovi alloggi. È possibile, quindi, che per sfruttare meglio gli spazi si sia deciso di aumentare la capienza delle case, espandendo i piani superiori degli edifici, per poi costruire i portici a sostegno delle parti sporgenti. Alcuni studiosi, invece, sostengono che in quel periodo i ripetuti saccheggi che si verificavano nella regione abbiano spinto la popolazione della città a chiudersi all’interno delle mura. Insomma, sembra che nessuno volesse più abitare nelle campagne, e del resto i palazzi cittadini erano troppo stretti per ospitare tutti. È un decreto comunale risalente al 1288 a imporre la costruzione di un portico davanti a ogni abitazione (a spese del proprietario), stabilendo anche le geometrie di tale intervento. Venne indicata come altezza minima per il portico sette piedi bolognesi, ovvero circa 2,66 metri, lo spazio sufficiente per il transito di un uomo a cavallo, mentre la larghezza minima della strada antistante il portico doveva essere di almeno dieci piedi bolognesi, ovvero circa 3,80 metri. A quell’epoca la città era circondata da boschi di querce e venne spontaneo costruire i portici con traversoni di legno. In seguito, sono stati quasi tutti sostituiti dai colonnati in pietra che vediamo tuttora. Fanno eccezione i celebri portici in legno di casa Grassi, in via Marsala, e di casa Isolani, in strada Maggiore. Proprio casa Isolani rappresenta uno dei rari esempi superstiti di costruzione civile del XIII secolo. Si trova al civico 19 di strada Maggiore, e fu costruita nel 1250 da Lapo Portigiani da Fiesole, in uno stile che unisce il rigore romanico alle aspirazioni gotiche. Vanta il portico in legno più elevato della città; travi in quercia di ben nove metri sostengono il terzo piano dell’edificio, affiancate da due colonne di mattoni che contribuiscono a mantenere la stabilità del complesso architettonico. Casa Isolani venne acquistata e restaurata nel 1877 da tal Raffaele Faccioli, che aprì le porte ogivali al piano terra accanto alla porta originale e ripristinò le finestre. Nel corso dei restauri novecenteschi, invece, sono state ripristinate le finestre monofore, bifore e gli archi delle botteghe. Il viaggiatore attento non può non notare che sull’altissimo soffitto del portico sono conficcate tre frecce. E ci sono altrettante leggende che cercano di spiegarne la presenza. La prima vuole che un nobiluomo, tradito dalla moglie e deciso a vendicarsi di lei, abbia assoldato tre arcieri per ucciderla. Quando la donna se li trovò davanti, lasciò cadere il mantello che la copriva, svelandosi nuda. A quella vista, tutti e tre gli arcieri sbagliarono il colpo. La seconda leggenda vuole che le tre frecce siano il lascito di un diverbio da strada di due nobiluomini e dei

conseguenti colpi malamente assestati da ognuna delle due parti, mentre la terza parla di uno scherzo goliardico ai danni del Faccioli: un bel ricordino nell’edificio appena restaurato. A queste si aggiunge una quarta diceria: si racconta che una delle frecce un giorno sia caduta in testa a un turista, e si sia rivelata di cartoncino. Uno scherzo di uno dei restauratori che nei secoli ci hanno messo le mani? A poche centinaia di metri da palazzo Isolani sorge l’antico ghetto ebraico, affascinante e ricco di misteri. La città ospitava una comunità di ebrei già all’epoca della Bononia imperiale del III secolo, come testimoniato dalla presenza di cimiteri ebraici. Ma esistono documenti ufficiali che la riguardano solo a partire dal 1171, anno nel quale risulta che gli ebrei sono stati espulsi da Bologna per motivi sconosciuti. Nella seconda metà del XIV secolo giunse in città una nuova comunità di ebrei, che si inserì nel mercato locale grazie alla specializzazione nell’attività bancaria. La costruzione del primo ghetto avviene nel 1366, ma dai documenti notarili risulta che alla fine del secolo possedevano case un po’ in tutta la città ed erano avviate proficue attività di compravendita immobiliare. I mestieri che praticavano erano variegati: c’erano pittori, musici, osti, stracciaioli, medici laureati, filatori della seta e tipografi. Si deve a un ebreo, Abramo Caravita, il primo libro stampato a Bologna secondo la tecnica a caratteri mobili ideata da Gutenberg: si tratta del Pentateuco, la raccolta dei primi cinque testi della Bibbia. Con un documento ufficiale, nel 1555 papa Paolo IV dispose la costruzione di ghetti dove rinchiudere gli ebrei in tutte le città dello Stato Pontificio. Nel 1566, a Bologna gli ebrei vennero confinati nella zona compresa tra vicolo Mandria e via Valdonica. Il ghetto venne chiuso da tre cancelli, di cui quello principale situato in vicolo san Giobbe e guardato da una torre. Si dice che tra le cantine delle abitazioni del ghetto fosse stato scavato un tunnel che permetteva di uscire, con uno sbocco nella zona delle Due torri, ma non è mai stato trovato. Una curiosità: a metà di via Goito, poco lontano dal ghetto, c’è palazzo Bocchi dove un’iscrizione, scritta in ebraico, recita: «O signore, libera l’anima mia dalle labbra menzognere e dalla lingua malefica». Un altro mistero legato alla presenza ebraica a Bologna riguarda Oliveto di Monteveglio, un borgo medievale che sorge su una collina dall’altitudine di poco più di duecento metri sul livello del mare, chiamato così perché il terreno circostante era anticamente coperto di olivi. Qui sono presenti i resti di un castello dell’XI secolo, l’oratorio di Santa Maria delle Grazie, e il campanile-torre della chiesa di San Paolo, all’interno della quale è conservata una pala risalente al Seicento e attribuita a Elisabetta Sirani. C’è poi la Bronzina, un edificio risalente al tardo Medioevo che nel Cinquecento ha ospitato i legati della nobiltà spagnola, per poi divenire lazzaretto durante l’epidemia di peste che ha colpito la città intorno al 1630, e infine fonderia di bronzo. È su questa collina che si erge una grande costruzione medievale chiamata “la Casa grande dell’ebreo”. Sui muri è presente una lapide in latino, ormai difficilmente leggibile, ma che ha permesso di datare l’edificazione al 1410. Si dice fosse la prima banca di tutta la zona, e che nei suoi sotterranei sia nascosto un tesoro. Ma torniamo al ghetto di Bologna e ai suoi segreti. Alzando lo sguardo in vicolo San Giobbe, si può vedere che i palazzi sono collegati tra loro da passerelle. Questo serviva a permettere un’agevole fuga da eventuali inseguitori o dalle ronde durante le persecuzioni che ciclicamente prendevano di mira la comunità ebraica. Per lo stesso motivo molti degli ingressi che si affacciano sulle strade del ghetto sono ingressi falsi, ricavati nei muri col preciso scopo di confondere gli inseguitori. I veri

accessi dei palazzi erano spesso defilati e occultati da delle piante. La direttrice principale del ghetto è la suggestiva via dell’Inferno. Il motivo di un nome così altisonante è tutt’altro che poetica: sotto di essa scorre infatti il torrente Aposa, dentro cui anticamente veniva gettato di tutto. Pare che proprio sotto quella via le acque rallentassero e da lì provenisse un tanfo… infernale. L’origine del nome di via dell’Inferno non è l’unico enigma della toponomastica di Bologna. La città è costellata di vie dai nomi inconsueti dall’origine spesso misteriosa. Ne è un esempio via Centotrecento, che collega via delle Belle Arti a via Irnerio. C’è chi dice che il nome derivi in qualche modo dall’antica presenza di bordelli, ma la versione più accreditata è quella del Guidicini, che parla di un borgo dalle trecento trasende, nome che nel XIII secolo veniva dato ai portoni e alle finestre. Una curiosità: si pensa che gli ungheresi furono tra i primi studenti stranieri a iscriversi all’università di Bologna. Al numero 4 di via Centotrecento aveva sede proprio il collegio illiricoungarico. La divisa che dovevano indossare consisteva in un abito nero accompagnato da un lungo tabarro della stessa tinta, una cintura fiorata in vita, il tricorno in testa e un collare con l’insegna del collegio stesso. Nel 1781 l’edificio divenne sede delle suore Terziarie Scalze, poi caserma e successivamente istituto di correzione per minorenni. Oggi è un collegio artistico per gli studenti di Belle Arti privi di mezzi. Alcuni documenti risalenti al XIII secolo vogliono che via del Pratello, oggi conosciuta per le osterie e per i pub che vi si affacciano, si chiamasse burgus peratelli, da pirus, che in latino significa “pero”. Si pensa infatti che la zona fosse ricca di rigogliosi frutteti. Nel Medioevo il borgo non era compreso all’interno delle mura, ed era stato scelto come rifugio per derelitti e senzatetto. Solo nel 1568 divenne parte integrante della città, anche se ritrovo di prostitute e gente di malaffare, accumunate dalla miseria. Ancora oggi, sotto uno dei portici al numero 41, è visibile il Cristo nero a cui si pensa rivolgessero le loro preghiere le persone più indigenti. Si dice che via Nosadella si chiami così per gli alberi di noci che vi crescevano, e via Frassinago per i frassini. Curiose anche le vie bolognesi dedicate agli animali: via del Cagnolo si chiama forse così per ricordare il cane bolognese, una razza celebre nel XVII e XVIII secolo. Di taglia piccola e lunghezza inferiore ai trenta centimetri, con il candido manto bianco dalle sfumature giallognole, il pelo folto e la coda pelosa a forma di trombetta, il bolognese ha un simpatico musetto e due orecchie dritte e sempre all’erta. Via del Riccio e via del Luzzo si chiamano forse così perché vi sono murati rispettivamente un riccio e un luccio in marmo. Altri sostengono, tuttavia, che fu la famiglia dei Dal Luzzo a dare il nome alla via. Ma questo non è che l’inizio: Bologna è piena di vicoli dai nomi pittoreschi dall’origine oscura, basta solo armarsi di un po’ di pazienza e… mettersi in viaggio tra gli enigmi toponomastici della città!

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Indice Cover Collana Colophon Frontespizio Introduzione I. Benvenuti a… Bononia La leggendaria nascita di Bologna Il mistero delle quattro croci I segreti delle Sette chiese II. Bologna gotica La città dei vampiri I misteri di San Petronio Le torri del diavolo I predatori del tesoro dei Templari I cardinali del diavolo Una strega alla corte dei Bentivoglio Il papa che visse due volte. L’uomo che morì due volte III. Bologna sacra La vita e la morte tra i portici della città 666 archi per la Madonna nera La città sotterranea Bologna dei miracoli IV. Bologna “la Dotta” Esoterismo e complotti all’ombra dello Studium La prima rivolta studentesca… per amore Le enigmatiche donne dello Studium Bologna tra magia e scienza V. Bologna criminale Gli inafferrabili criminali Il giudice che scomparve nel nulla Delitti di gente perbene Dal massacro di palazzo d’Accursio alla “Dalia Nera” Sparate al Duce! Nemici pubblici Strage del 2 agosto 1980, segreti di Stato I delitti del DAMS Uno Bianca Marco Biagi, ammazzato dallo Stato VI. Bologna enigmatica e misteriosa L’enigma di Aelia Laelia Crispis Finestre che ridono: le case infestate di Bologna

Gli enigmi sotto i portici Bibliografia

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