Bacchin - Intero metafisico e problematicità pura

August 22, 2017 | Author: kidmarco | Category: Thought, Metaphysics, Dialectic, Nothing, Ontology
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«Rivista di filosofia neoscolatica», II-III (1965), pp. 305-321. Una - l'unica, che io sappia - (non)risposta all...

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INTERO METAFISICO E PROBLEMATICITÀ

PURA

1. Metafisica e senso dell'essere Se con la metafisica ci si propone di svelare l'autentico senso dell'essere, quest'ultimo resta in ogni caso celato ad ogni negazione della metafisica o atteggiamento filosofico che pretenda di fare a meno della metafisica, o atteggiamento metafisico che assuma come « modello » di indagine l'oggettiva disponibilità della cosa che è propria delle scienze, o atteggiamento pratico per il quale l'essere, concettualmente formulato, sia già tutto scontato nel carattere meramente operativo dei nostri concetti. Ogni sfasamento ed ogni alterazione della metafisica sono dunque per se stessi alterazione e quindi dimenticanza del senso dell'essere o decadimento dell'essere ad un senso che per non esser il suo è, piuttosto, un non-senso; altra giustificazione non ha infatti la metafisica se non l'autenticità del senso in cui essa è considerazione dell'essere, autenticità che è poi l'essere stesso nel suo porsi, perchè svelare l'essere significa almeno lasciare che esso sia ciò che è, semplicemente, indipendentemente da qualsiasi intervento su di esso. Questo discorso importa evidentemente che la metafisica e l'essere di cui si parla siano, rispettivamente, l'autentica consapevolezza dell'essere e l'autentica posizione "della medesimezza tra pensiero ed essere; se l'essere è autenticamente consaputo, ciò significa che la « presenza » onde lo si può sapere non è solo < luogo logico, per così dire, del suo manifestarsi, ma la radicale impossibilità che della stessa «presenza» non si predichi l'essere; per cui la «presenza » a quel livello in cui si dice che anch'essa « è » non può venire equivocata con la « presenza » al livello in cui si dice che qualcosa per essa si manifesta, e la presenza va quindi purificata dalla dimensione gnoseologica ed oggettivale per ritrovare nel suo senso la radicale valenza metafisica vera e propria, quella che faceva dire a Parmenide: «Tò yàp auro voeìv èorlv -re xal tlvai». L'approfondimento del rapporto tra l'autentica consapevolezza dell'essere, che è la metafisica, e l'essere stesso nella sua autentica posizione porta a cogliere l'intrinseco limite di un tale rapporto, proprio nella considerazione del «fatto» che un rapporto vero e proprio con l'essere convertirebbe inevitabilmente l'essere in un ente, a quell'ente estraneo al rapporto onde sia consentito un « riferirsi » conoscitivo ad esso '. In effetti, la particolare situazione che si viene a creare nel rapportarsi conoscitivo all'essere è indicativa di un momento dialettico operante nella duplice impossibilità di dire l'essere senza riferirsi ad esso come ad un ente e di considerare l'essere come uno degli enti per i quali esso si dice, duplice impossibilità di negare il rapporto nell'identità tra pensare ed essere e di affermare l'alterità dell'essere al pensiero: proprio questa duplice impossibilità si presenta come li-

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G. R. BACCHIN, SU l'autentico

nel filosofare, Roma 1963, p. 21.

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G. R. Bacchin

mite di un discorso sull'essere e domanda che si chiariscano, insieme e non uno dopo l'altro, il senso in cui la metafisica è metafisica e il senso in cui l'essere è essere. Ogni discorso sull'essere, o che pretenda tradizionalmente l'essere come termine di un discorso da qualificarsi « metafisico » o che chiarisca che l'essere intorno al quale si potesse istituire un discorso non sarebbe mai veramente «essere », rivela in effetti una interna dialetticità che è nel necessario toglimento del modo inautentico di parlare dell'essere, modo inautentico che va tolto, ma di cui si abbisogna appunto per negarlo affermando autenticamente il suo opposto 2 ; questa dialettica è già, in nuce, l'atto per il quale è possibile che si sveli il senso dell'essere in quanto è impossibile un essere che celi il proprio senso, dialettica che se vale a rilevare l'essere, non per questo vale a costituirlo e per la quale il rapporto tra positivo e negativo che insieme la materia e la muove non è il senso dell'essere se non come senso in cui l'essere « manifesta » gli enti senza esaurirsi in ciascuno di essi e nel loro insieme. Questa dialetticità inerente al discorso sull'essere va considerata dunque essenziale alla metafisica e per questo non è possibile premettere un'impostazione del problema metafisico che valga a stabilire il senso in cui l'essere deve venire considerato senza anche involvere quell'autentica posizione dell'essere che «giustifichi » in uno la impossibilità di un discorso sull'essere e la intrinseca contraddittorietà della negazione dell'essere: dove si chiarisca che negare l'essere equivale ad affermare che sarebbe l'essere a negare se stesso, resta anche chiarito che affermare l'essere è piuttosto lasciare che l'essere affermi se stesso. Questa posizione autentica dell'essere da parte dell'essere, questa inalterata posizione dell'essere, che è essere anche come posizione, appare allora il senso stesso della metafisica. 2. // tramonto del senso dell'essere È da chiedersi in quale senso si possa dire che il senso dell'essere è potuto venire offuscato, o alterato, o perduto, che senso abbia cioè parlare di « tramonto del senso dell'essere » 3 . La questione, per superflua che possa sembrare, e determinante, invece, dell'intera problematicità metafisica, perchè scaturisce direttamente dalla questione del significato della parola « senso » e della parola « essere », questione che può dirsi, appunto, della semantizzazione dell'essere \ La questione fondamentale che investe l'essere è, infatti, quella di stabilire se l'essere abbia un suo senso, donde la possibilità di riferirsi intenzionalmente all'essere, anche quando, come già è accaduto, se ne sia smarrito il senso, o non piuttosto sia esso il senso in cui possano dirsi le singole determinazioni, gli enti, ciascun essente. Se l'essere avesse un suo senso, come qualcosa che dell'essere si predichi, la negazione teoretica di tale senso (negazione implicita in ogni dimenticanza o « tramonto ») lascerebbe inalterato l'essere e resterebbe incontrad2

G. R. BACCHIN, L'originario come implesso esperienza-discorso, Roma 1963, cap. III. E. SEVERINO, Ritornare a Parmenide, in « Rivista di Filosofia ncosc. », 1964, II, 137, 175. 4 E. SEVERINO, La Struttura originaria, Brescia 1958. 3

pp.

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dittoria e cioè sempre « possibile », sempre aperta alla determinazione di sensi diversi, nessuno dei quali in grado di fondarsi togliendo l'altro come impossibile. D'altro canto, se l'essere fosse il proprio senso, indisgiungibilmente identico ad esso, non potrebbe aver posto alcun problema intorno al senso dell'essere, essendo l'essere assolutamente innegabile, ossia fuori problema. Avere un senso od essere il proprio senso sono dunque i limiti entro i quali si pone il problema del senso dell'essere e tali da pregiudicare totalmente, con la possibilità del problema, la possibilità di riferirsi all'essere in modo autentico o non autentico, in modo, cioè, che l'essere resti « presente » in ogni caso o sia, piuttosto, divelto dalla sua stessa presenza, non solo non « visto », ma neanche mai « intenzionato », non tanto « perduto » quanto piuttosto mai veramente * posseduto ». Ma non è da dire che i due limiti prospettati con il problema, avere un senso ed essere il proprio senso, godano, se pur inizialmente, di una qualche parità di diritti, per cui si possa indifferentemente teorizzare le conseguenze logiche dell'uno o dell'altro, ma non si possa stabilire se l'uno o l'altro siano il vero caso dell'essere: non parità di diritti essi possono vantare, ma facile confusione e difficile svincolamento dell'uno dall'altro, che, in effetti, nel nostro discorso, essi sembrano rincorrersi ed anzi riprodursi di volta in volta l'uno nell'altro. Se si dice che l'essere ha un suo senso, ci si autorizza a parlare dell'essere come di un « predicato », ci si autorizza, cioè, a costruire proposizioni su di esso e con esso, onde stabilire, rispettivamente, quali siano le sue proprietà e di quali soggetti esso possa venire detto; ma anche in tal caso, la proposizione «l'essere è » sarà vera non solo se lo « è » può venire detto dell'essere, ma anche se lo « è » non può venire negato all'essere, se cioè la negazione dell'essere risulta contraddittoria; lo stesso avere l'essere da parte dell'essere si convertirebbe, così, nell'essere, semplicemente. D'altro canto, se si dice che l'essere è il suo stesso senso, si suppone che il senso dell'essere sia la proprietà fondamentale dell'essere, ma ancora qualcosa che all'essere in qualche modo accede e si riproporrebbe così, all'interno dell'essere, la dicotomia ' essere ' - ' senso dell'essere '. In realtà, non appena si intenziona l'essere, o per dire che esso ha un suo senso e si va in cerca di quale senso sia veramente suo, o per dire che esso è il proprio senso, ciò che si assume diventa per ciò stesso « qualcosa » di cui si dice, una « cosa » che può essere anche il « manifestarsi » delle cose in essa, l'orizzonte della manifestazione dell'essere, il Ttepiéyov, l'intero, ma ancora detto come tale, fuori riferimento, tematizzato in una qualche « immediatezza », immediatezza tutta pretesa, ma che è pur delineata e sostenuta quando si dice, ad esempio, che l'essere è immediatamente presente perchè la sua negazione è « autocontraddittoria »s. Perchè l'essere non decada ad « ente », perchè si eviti effettivamente il naturalismo e il «fisicismo» in metafisica, bisogna, dunque, che si eviti anche di assumere l'essere come identico immediatamente al suo senso, pretendendo che il senso dell'essere sia « dato » come identico all'essere, per una constatazione 5

E. SEVERINO, La Struttura

ecc., cit.

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G. R. Bacchin

fenomenologica che lo « oggetti vi zzi » a se stessa: se l'essere, come tale, è colto nel coglimento degli tenti» che tali sono in virtù di esso, non ci chiederemo quale sia il senso dell'essere, ma diremo che l'essere è il senso degli enti, perchè gli enti, divelti dall'essere, non hanno « senso », non sono che un non-senso; e non l'essere verrà intenzionato immediatamente, ma gli enti che sono in virtù di esso. In tal modo, l'essere è detto per l'impossibilità di dire gli enti senza di esso e questa impossibilità è la radicale contraddizione dell'assunzione dell'essere come di « qualcosa — che — è » e di cui ci si possa chiedere « che cosa » sia o « quale senso » abbia, radicale contraddizione che si costruisce appunto facendo dell'essere un semantema, sia pure come quello che condiziona tutti gli altri. E si vede, così, che il senso dell'essere non è « tramontato » solo per coloro che ne fanno una totalità a se stante (che questa è l'operazione implicita in ogni tematizzazione dell'essere come « cosa »), ma anche per coloro che ne fanno la totalità delle differenze, « l'area al di fuori della quale non resta nulla, ossia non resta alcunché di cui si possa dire che non è un nulla »6, come « l'intero del positivo » 7 se non si precisa il modo in cui è possibile dire l'intero senza assolutizzare in esso il nostro « dire » e senza dissolvere l'intero nella indefinitività aporetica del suo venir « detto » : il senso dell'essere resta oscurato, finché resti oscuro il modo in cui lo si dice. 3. Senso in cui va recuperato il senso dell'essere Il recupero del senso dell'essere è dunque tutto condizionato al senso in cui di esso vi può essere « tramonto >, è condizionato, cioè, ai limiti entro i quali l'essere può perdere senso senza cessare di essere: in realtà, la perdita del senso dell'essere ha per suo estremo limite il modo in cui l'essere può venire colto come tale, che se l'essere fosse immediatamente dato, non avrebbe posto alcun problema tra noi ed esso e gli enti non lo < domanderebbero » come loro senso, come loro intima consistenza. Se si procede mettendo in risalto i singoli momenti del coglimento dell'essere si può osservare che solo per l'insufficienza di ciascun ente a se stesso e, quindi, dell'insieme di tutti gli enti al « tutto » si dice che l'essere è irriducibile agli enti che in esso e per esso si danno, insufficienza che è la contraddittorietà di un'assolutizzazione per la quale sia possibile porsi davanti all'essere , per un possesso che consenta di « concludere » dicendo l'ultima parola, quella definitiva. Si vedrà più avanti che il ritorno a Parmenide non può assumere in ogni caso il significato di un ritrovare la parola definitiva che era andata perduta, proprio perchè se qualcosa impediva a Parmenide di dare consistenza effettiva al suo discorso è proprio la contraddittoria definitività del suo chiudersi in esso, definitività di un pensiero che esce da se stesso per dirsi definitivo: non si tratta, comunque, di ritrovare l'ultima parola che era stata già detta e che poi venne 6 7 8

E. SEVERINO, Ritornare a Parmenide, cit., p. 145. E. SEVERINO, Ritornare a Parmenide, cit., ibidem. G. R. BACCHIN, Originarietà e Mediazione nel discorso metafisico,

Roma 1963, p. 40.

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dimenticata, ma di ritrovare il senso in cui fu possibile dimenticarla, proprio perchè non era l'ultima che pretendeva di essere. Basti sottolineare, per ora, il fatto che l'essere come tale, lo 8v f Bv, è detto solo con l'insufficienza di ciascun ente a se stesso, la quale rende contraddittoria una considerazione dell'ente come assoluto ed anzi si rivela tale rivelando questa contraddizione. Il coglimento dell'essere è, dunque, in realtà, coglimento degli enti che tali sono in virtù di esso; il recupero del senso dell'essere, pertanto, coincide con il recupero del modo con cui l'essere come tale può venire detto. Con che resta stabilito che il recupero può ottenersi solo mediante un toglimento dell'alterazione da noi apportata all'essere e che l'essere non tollera : tramonto del senso dell'essere, diciamo, per dire che si è operato qualcosa sull'essere, qualcosa di fittizio, per il quale si è fatto entrare l'essere in un « insieme » costituito almeno di esso e della nostra operazione su di esso, operazione che, d'altra parte, non infirmava l'essere ma il nostro coglimento di esso, cosicché perdere il senso dell'essere importava perdere il senso di noi stessi, l'autenticità umana; un discorso sull'autenticità dell'essere uomo coincide, infatti, con un discorso sull'autenticità nel filosofare, per il quale l'essere è autenticamente tale nello stesso senso in cui l'uomo, perdendo il senso dell'essere, è coinvolto in questa sua perdita'. D'altra parte, l'essere è ciò che è anche se noi ne perdiamo il senso, se questa perdita deriva, come deriva, da un'arbitraria o fittizia operazione su di esso e, quindi, ritrovare il senso dell'essere è, in ultima analisi, lasciare che l'essere sia ciò che è, togliendo non qualcosa dall'essere, ma i nostri interventi che tendono ad alterarlo. Si capisce, così, cosa significhi parlare di « comprensione inautentica dell'essere », che è dare all'essere un senso che esso non tollera e che è quello delle nostre esperienze oggettivali che noi assumiamo, tendenzialmente, come la totalità stessa dell'esperienza 10. La « comprensione inautentica dell'essere » è, così, di fatto, l'attribuzione all'essere di un senso « mondano » o « cosmologico » o « temporale », per il quale anche l'essere, come le singole esperienze, compaia e svanisca in una collocazione di parti entro un tutto cangiante ed anche l'essere divenga e cessi talvolta di essere; e questa attribuzione è pur sempre una proiezione di noi stessi sull'essere, quali pretendiamo di porci, « cultura » anziché «filosofia» vera e propria, prolungamento della « situazione » dell'uomo nel « mondo » anziché fondazione o giustificazione totale della totalità . All'interno di questa « comprensione inautentica dell'essere » tuttavia ci si muove sempre, anche quando si abbia coscienza della sua inautenticità ed è giusto dire con E. Severino che « gli sviluppi e le conquiste più preziose si muovono all'interno di una comprensione inautentica dell'essere »12, che si procede recuperando l'autentico mediante un toglimento, che è dialettico, elenchico, confutatorio, dell'inautentico, ma in modo tale che il senso dell'essere non sia inizialmente « dato » e poi offuscato, ma sia pur presente ed operante nella ricerca in ' G. G. G. u E. 10 11

R. BACCHIN, SU l'autentico ecc., cit., p. 13. R. BACCHIN, L'originario ecc., cit., p. 83. R. BACCHIN, SU l'autentico ecc., cit., pp. 24-27. SEVERINO, Ritornare a Parmenide, cit., p. 137.

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G. R. Bacchin

tutta la sua ampiezza, coestensivo ad essa, quale suo « senso » : il senso dell'essere non ci sta davanti, né è possibile « voltare le spalle » ad esso se non vi può essere un momento in cui lo si abbia di fronte. L'essere non risulta, dunque, dal toglimento dell'inautentico, se non è già presente nella necessità di operare il toglimento (ed è questa la sua presenza operante) e non si dà immediatamente in nessun momento della ricerca: non all'inizio se esso è per l'insufficienza degli enti che per esso si danno, non alla fine se la ricerca, concernendo direttamente gli enti, non può pervenire all'essere come al suo « fine >, concludendosi in esso. Stranamente, ma poi non tanto, per chi pretenda una immediata notizia dell'essere e poi esiga un rigore alla sua posizione nell'intero svolgimento, altro approdo non è consentito che il pervenire all'essere come « conclusione >, e l'ultima parola della filosofia non può non coincidere con quella che si diceva l'ultima, e Parmenide non può non apparire, prima o poi, come l'unica possibilità di dire l'essere. Chi, dopo avere preteso l'immediata notizia dell'essere, come gli Scolastici e i Neoscolastici, si arresta al di qua della conclusività parmenidea, opera in effetti sull'essere come su di un termine, un termine appunto da cui passare per una dimostrazione a partire da esso. Chi, come Severino, pretenda pur sempre, in qualche modo, la notizia dell'essere, ma si renda conto della inautentica comprensione dell'essere che questa notizia importa, non può logicamente arrestarsi al di qua di Parmenide e l'unico senso teoretico del filosofare non può non apparirgli la solida consistenza dell'essere che è tutto e sempre ciò che è. Do piena ragione a Severino nel dire che « la metafisica occidentale è una fisica »° e che vi è « dimenticanza del senso dell'essere in ogni tentativo di " dimostrazione " dell'Essere Necessario > '4, ma non so vedere fino a che punto non sia una fisica anche la conclusione parmenidea, se vi si pretende di dire l'intero senza la negazione che nell'intero non ha posto e che emerge quindi, in qualche modo, sull'intero senza ridursi al nulla, se vi si pretende di dire l'intero negando, così, le differenze del molteplice nell'area dell'essere e se poi si pretende, come appunto Severino, di poter « accogliere l'irruzione delle differenze »15 dopo aver detto l'essere come tale. Per me, come per Severino, la posizione di Parmenide va del resto rigorizzata 16 e vedremo più avanti come ciò possa avvenire ed anche come la rigorizzazione che il Severino propone non mi sembri sufficiente; ma sono d'accordo con Severino nel dire che in ogni tentativo di « dimostrare » l'Essere Necessario a partire dall'essere come da un termine v'è dimenticanza del senso dell'essere e che v'è almeno un senso in cui a Parmenide bisogna ritornare. Ciò che ora posso anticipare è che il senso in cui si può tornare a Parmenide è anche quello in cui dovremmo riportare Parmenide a se stesso, rigorizzando il suo stesso discorso e questa rigorizzazione di Parmenide fino in fondo potrà anche portare a

13 14 15 46

E. E. E. G.

SEVERINO, Ritornare a Parmenide, SEVERINO, Ritornare a Parmenide, SEVERINO, Ritornare a Parmenide, R. BACCHIN, SU l'autentico ecc., cit.,

cit., cit., cit., pp.

p. 141. p. 150. p. 144. 31-32.

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dissolvere Parmenide con Parmenide, dialetticamente, nella raggiunta insufficienza della sua posizione. Ciò che in tale processo ci conduce è, in ogni caso, la consapevolezza che il tenso dell'essere non è immediatamente dato, proprio perchè l'essere non ci sta mai di fronte e che questa pretesa immediatezza c'è nella metafisica occidentale (ma esiste una metafisica orientale?) che ha smarrito il senso dell'essere, ma anche in Parmenide se egli pretende di dire che l'essere è assoluto, perchè di esso va detto che è ouXov, àYéwjTov, à-réXeffTov, ed anche in Severino che a Parmenide vuole ritornare perchè non vede come da Parmenide si sia potuti uscire, una volta che l'essere sia stato saputo come ciò che è e che non può ammettere in se un tempo in cui non sia. 4. Il recupero del senso dell'essere La formulazione dell'essere si presenta per se stessa come la più radicale aporia in cui si muova o si irrigidisca la metafisica: se l'essere è ciò in virtù di cui ciò che è € è >, non è possibile dire che l'essere « è » , che se esso fosse, l'implicazione di esso da parte di ciò-che-è, dell'essente, aprirebbe un processo indefinito, un processo per il quale l'essere, essendo, domanderebbe se stesso, ossia non domanderebbe e sarebbe assoluto; o domanderebbe qualcosa che gli è inevitabilmente estraneo e sarebbe domanda senza risposta possibile, ancora domanda nulla. Il quale discorso può valere anche a partire dall'essere come assoluto o come estraneo all'assoluto: se è assoluto deve pur essere come un ente dagli altri diviso 1!, se è estraneo all'assoluto non può mai essere veramente, consistentemente. Ritengo che questa situazione aporetica meriti un approfondimento, che proprio essa è presente anche se non sempre lucidamente saputa in qualsiasi metafisica e ne segna, appunto, i limiti teoretici rigorosi. Dunque, se l'essere è un ente (e tale deve poter essere se di esso si dà formulazione), esso implica se stesso indefinitamente e si vanifica in tale implicazione impossibile, che una implicazione di se stesso è, infatti, implicazione nulla. L'implicazione è implicazione di altro " e l'essere, se qualcosa implicasse, implicando l'altro da sé, implicherebbe il nulla: l'esito della concezione analitica o non dialettica dell'essere è precisamente l'implicazione del nulla o assunzione del negativo in funzione positiva, quale costitutivo dell'essere; paradossalmente, la pretesa di « formulare » l'essere si risolve così in dialettismo, come nell'affermazione che il negativo è essenziale al positivo, affermazione per la quale il negativo cessa di essere veramente tale. L'altro dall'essere sarebbe, infatti, il nulla; ma il nulla non può non risolversi in opposizione all'essere e perciò in opposizione nulla, che per essere « altro » dall'essere non è mai veramente « oltre » l'essere : il nulla è un « altro » 17

G. R. BACCHIN, SU l'autentico ecc., cit., p. 45. G. R. BACCHIN, Originartela e Mediazione ecc., cit., pp. 44-45. 19 G. R. BACCHIN, Sulle implicazioni teoretiche della struttura formale, pp. 128-130. 18

Roma 1963,

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G. R. Bacchiti

che non riesce ad essere tale perchè sarebbe solo se non fosse (l'altro è, infatti, altro nell'essere, non mai altro dall'essere20: l'altro dall'essere semplicemente non è). Ora, se per « formulare > l'essere, per dire l'essere nella sua opposizione all'altro da esso, v'è bisogno del suo opposto, v'è bisogno del nulla: la formulazione dell'essere è così «produzione» del nulla; ossia l'essere non è dicibile o il nulla è qualcosa, qualcosa di opposto all'essere, senza che il suo opporsi sia nullo. Si introduce qui, inevitabilmente, il discorso sul nulla, proprio per poter istituire un discorso rapì TOù 6VTO; che si strutturi, come ogni altro discorso, dell'altro di cui si dice, intorno a cui si dice: porsi intorno all'essere, poiché oltre l'essere nulla v'è, è porsi nel nulla, donde l'aporia della formulazione dell'essere. Il che significa che se si potesse formulare l'essere in un concetto, si potrebbe dare anche il concetto del nulla; senonche, si sa, il concetto del nulla è, piuttosto, la negazione del concetto, di modo che quanto non risulta concettualizzabile è appunto « nulla > e dire che l'ente è « intelligibile » (questo è il « senso » del concetto) è dire che il non intelligibile non può essere. Paradossalmente, il discorso sul nulla appare qui meno aporetico di un discorso sull'essere, se per dire l'essere occorre il nulla, cioè l'impossibile, e per dire il nulla è invece sufficiente trovarsi nell'essere e mantenersi in esso. Ma proprio qui è facile cadere nella tentazione di eludere l'aporia del nulla, di oscurare con un «gioco» della fantasia la sua «importanza»; è il ricorso alla determinazione del « nulla » come nozione « convenzionale », come parola cui nulla corrisponde di vero. Mi pare che la segreta preoccupazione di Severino sia non tanto la incombente « presenza » del nulla quanto la facile acquiescenza della metafisica tradizionale che non sa vedere l'aporia e vi rimane perciò tutta impigliata; ma anche Severino, che pur vede l'aporia, non sembra vedere che essa è già dissolta nel suo venire saputa, che cioè non si può sapere che essa è « costruita » senza disporre in questa consapevolezza dell'atto che la supera come aporia21. È vero, comunque, che considerare la nozione del nulla come una mera convenzione linguistica significa dire che la parola « nulla » non ha significato, che è un semantema «vuoto»; ma con ciò si pretende di significare « costruendo » un significato che abbia la peculiare caratteristica di « non essere » (è la costruzione della proposizione del linguaggio comune : « questa cosa non è ») B , mentre è in questione proprio la possibilità di significare e, se il nulla non è, significare il nulla è non significare. Rigorizzando questo discorso si può dire che il nulla è tale solo in quanto, per non-essere, cade tutto nell'essere di cui è negazione, cade nell'essere e vi si annulla, cosicché non l'essere è passibile di negazione ma il nulla, proprio perchè il nulla è annullamento: in termini di negazione e di negato si può dire che il nulla si prospetta come la negazione di ogni determinazione, ma la negazione si attua inevitabilmente all'interno dell'innegabile23 e la stessa negazione di 20 21 22 23

G. G. E. E.

R. BACCHIN, Originalità e Mediazione ecc., cit., p. 42. R. BACCHIN, Originarietà e Mediazione ecc., ibid. SEVERINO, Ritornare a Parmenide, cit., p. 140. SEVERINO, La Struttura originaria, cit., cap. I.

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tutte le determinazioni sarebbe una determinazione o non sarebbe 24 , il che significa che è impossibile negare ogni determinazione come esigerebbe la posizione del nulla: così, la negazione del nulla è, in se stessa, affermazione dell'essere come posizione dell'innegabile entro cui avrebbe posto la stessa negazione dell'essere. È questo il senso in cui si può dire che l'affermazione dell'essere è dialettica e non « immediata », poiché in tanto si pone in quanto si nega di non potersi porre: non v'è negazione possibile se non v'è negazione della possibilità di negare ogni possibile; è necessario, cioè, pensare l'essere perchè non è possibile pensare il n u l l a B , ossia è impossibile non pensare perchè il pensiero è sempre pensiero di qualcosa essendo sempre qualcosa come pensiero: se pensare il nulla è non pensare, l'impossibilità di non pensare è per se stessa l'impossibilità di pensare il nulla, l'intrinseca nullità del nulla; non si dice, cioè, che il nulla non è, né che il nulla è qualcosa di contraddittorio, bensì che esso è la sua stessa contraddizione, il contraddirsi in atto, che in esso la negazione non restituisce qualcosa, ma si toglie senza « attuarsi » come negazione vera e propria 26. Allora, se si approfondisce questa consapevolezza della fhtizietà della negazione propria del nulla, si può pervenire a stabilire una differenza, che diremmo ontologica, tra negazione e contraddizione, differenza essenziale ad un discorso sulla posizione dell'essere come esclusione del nulla. ' Contraddittorio ' diciamo ciò che è posto e che è tolto: in esso l'atto che pone è lo stesso atto che toglie, un atto, cioè, che non pone né toglie, semplicemente non è; il « n e g a t o » , invece, è posto per venire tolto: in esso l'atto che pone non è lo stesso atto che toglie, gli atti sono due ed entrambi sono reali, ma solo u n o dei due è vero, perchè se è vero l'atto che pone non può non essere falso l'atto che toglie, e viceversa. Il contraddittorio esce così da qualsiasi considerazione teoretica: esso è del tutto ateoretico 27 , poiché il nulla non è, la sua pretesa « nozione » ha radice pragmatica, operativa: il nulla è annullamento, dicevamo; tuttavia, se il contraddittorio è il non-essere, esso « è » in quanto è detto come tale, ma è in quanto è negato come essere e, perciò, dire il contraddittorio significa negare che esso sia. N e segue che la considerazione teoretica del nulla è riduzione del « contraddittorio » al « n e g a t o » , non viceversa: dire il contraddittorio non è contraddirsi, se l'atto che lo pone come tale non è lo stesso atto che lo toglie, dire il contraddittorio significa dire che in esso porre e togliere non sono tali; ma non sono tali appunto in esso: significa costruire la contraddizione, non trovarla davanti, non « pensarla » come qualcosa di cui ci si debba chiedere ragione. Il « mostrare » l'assurdo si articola proprio come un procedere positivo (dimostrare) che perviene a conclusioni opposte alle premesse e che, per questa opposizione, « è » esso stesso assurdo : non è un mostrare che « qualcosa » è assurdo, proprio perchè non si può « mostrare » che qualcosa non è (sarebbe mostrare 24

G. R. BACCHIN, Originarietà ecc., cit., p. 45; E. SEVERINO, Ritornare a Parmenide, cit., p. 169. 23 26 27

G. R. BACCHIN, 5K l'autentico ecc., cit., p. 50. G. R. BACCHIN, Originarietà ecc., cit, p. 37. G. R. BACCHIN, Originarietà ecc., cit., p. 118.

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G. R. Bacchin

niente), bensì è possibile « fare » qualcosa di assurdo (costruire il contraddittorio, usando positivamente, come per una dimostrazione, di termini dei quali uno è, appunto per costruzione o « ipotesi », l'opposto dell'altro, con l'altro incompossibile). Mostrare la contraddizione è semplicemente contraddirsi ed è contraddicendosi che appare l'impossibilità della contraddizione2*. La contraddizione, dunque, una volta posta è anche tolta e quindi non ha bisogno di < venire negata » : ciò che può venire negato è, invece, posto per venire tolto; poiché gli atti del porre e del togliere sono reali entrambi, ma uno solo dei due è vero, resta rigorosamente fondata, mi pare, anche la differenza tra e reale » e « vero », differenza ontologica che si rileva in qualsiasi negazione : per dire che qualcosa non è ( = non è vero), bisogna che lo si prenda in considerazione e questa considerazione non può non essere « reale », non può non esserci; tuttavia, questa considerazione non può non esserci solo rispetto al suo venire negata e, perciò, non può pretendere veramente all'essere. Così, la stessa differenza ontologica tra reale e vero rivela il suo carattere dialettico: se essa fosse analiticamente fondabile, bisognerebbe postulare un genere entro cui porla, riproponendo all'infinito una identità astratta tra « reale » e « vero » (entro cui abbia posto quella differenza), o far cadere la differenza contraddittoriamente, nell'uno o nell'altro, nel « reale » o nel < vero » e la differenza dovrebbe poter essere, indifferentemente, reale e vera. Ma che la differenza tra reale e vero abbia carattere dialettico risulta dal carattere dialettico della differenza tra negazione vera e propria e contraddizione, differenza che consente di strutturare la negazione della contraddizione, che è già posizione dell'essere : la posizione dell'essere essendo dialettica, il recupero del senso dell'essere è la negazione del toglìmento tentato dell'essere, negazione che si fonda sul rilevamento del e fatto » che il toglimento dell'essere è solo un tentativo, un conato, una costruzione che abbisogna del suo opposto e si vanifica in questo suo bisogno M.

5. / limiti del recupero del senso dell'essere Il recupero dell'autentico senso dell'essere è dunque toglimento del senso inautentico con cui l'essere è da noi utilizzato nelle nostre « operazioni » su di esso ed anzi è proprio questo operare sull'essere che f costruisce » l'inautentico, componendolo al senso autentico che vi rimane nascosto, nascosto ma pur sempre presente epperò operante, cosicché si può dire che è l'essere nella sua autenticità a farsi strada nelle incomprensioni che di esso si tentano e si moltiplicano. Sembrerebbe che questo « farsi strada » dell'essere sia da intendere come un processo per il quale l'essere compia la negazione del nulla e sia responsabile appunto di questa opposizione al nulla e, dove l'essere sia, il nulla non possa essere; questo modo di dire l'essere è autentico però solo fino a che si presupponga l'essere come opposizione al nulla; fino a che si pensi in qualche modo il 28 29

G. R. BACCHIN, Originarietà ecc., cit., p. 114. G. R. BACCHIN, L'originario ecc., cit., p. 83.

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nulla. Non appena si chiarisca che il nulla non è nemmeno come ciò cui l'essere si opponga, risulta impossibile pensare l'essere come opposizione al nulla: opporsi al nulla sarebbe, infatti, non opporsi; dovremmo dire, piuttosto, che all'essere nulla si oppone perchè qualsiasi opposizione o cade nell'essere o è nulla. Questa osservazione deve ora venire presa in esame attento, proprio perchè in essa giace la possibilità di stabilire fino a che punto il negativo sia < essenziale > al positivo che vi si oppone. E cominciamo questo riesame a partire dalla negatività, la quale è tale finche non è assoluta e non abbisogna di una negazione assoluta per fondarsi come relativa, per cui essa è tale, cioè relativa, non per il non-essere ma per l'essere, relativa all'essere. (Positivizzare, in qualche modo, il negativo equivale, come si sa, a relativizzare il negativo al nulla, epperò ad assolutizzare il nulla come suo « principio »). Il negativo, che si presenta in ogni nostra negazione epperò come la stessa distinzione onde l'c altro » è « altro », si distingue in ogni caso dal nulla, che se fosse nulla non vi sarebbero distinzioni e nemmeno la possibilità di negare le distinzioni (ed è quest'ultima possibilità che Parmenide trascura mentre usa nella sua negazione di tutte le distinzioni 30 ); ma se il nulla non è, ci si dovrà chiedere come il negativo si distingua dal nulla, non essendo possibile distinguersi da y alcunché se questo non è; d'altro canto, non è possibile che il negativo si identifichi con il nulla se esso, come negativo, è qualcosa. Con ciò il caso del nulla si rivela l'impossibilità duplice di distinguersi da esso e di identificarsi con esso, impossibilità che è la contraddizione, anzi, come s'è visto, il contraddirsi, il togliersi, il quale è contraddittorio anche come togliersi, perchè per togliersi bisogna pur essere e per essere bisogna almeno non togliersi. Ciò significa che il contraddittorio si toglie nel senso radicale che non lo si può considerare nemmeno per poterlo togliere, esso contraddice anche alla sua assunzione, assumere il contraddittorio è non assumere; tuttavia del contraddittorio si parla almeno implicitamente, allorché si dice che qualcosa « può essere » : se dico che una cosa « può essere », dico implicitamente che è contraddittorio pensare che essa « non possa essere », ossia il contraddittorio è' sempre enunciato non appena si enuncia qualcosa; ma non appena ci si pone ad esplicitare la contraddizione si cade nella contraddizione, perchè la si considera come « essente ». La contraddizione non è implicitamente « presente », ma solo implicitamente « detta », nel senso che la si dice solo indirettamente, dicendo la possibilità di qualcosa, che è l'impossibilità che questa cosa non sia possibile: l'impossibilità che è contraddizione è la possibilità di contraddirsi. Il che può venire detto anche così: la contraddizione si rivela nella sua possibilità di venire evitata, la quale è per se stessa la possibilità che non la si eviti; la necessità di evitare la contraddizione è, per se stessa, la possibilità che non la si et/iti, la possibilità di contraddirsi. Quella nullità teoretica che è la contraddizione è dunque teoreticamente indicata, indicata perciò incontraddittoriamente; se la contraddizione è il nulla e questo nulla viene teoreticamente indicato come contraddizione, il nulla è posto dalla indicazione di esso, tutto nella sua indicazione, senza residuo. E il 30

G. R. BACCHIN, SU l'autentico ecc., cit., pp. 31-32.

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nulla, totalmente presente nella indicazione che lo pone, non rende nulla questa indicazione, che, se la rendesse nulla, affatto impossibile sarebbe riconoscerlo e dirlo: il contraddittorio contraddice anche la sua assunzione se questa si prospetta come diretto coglimento, non la rende nulla se essa si chiarisce come negazione di un simile coglimento. N o n è possibile, del resto, veramente annullare qualcosa, è bensì possibile riconoscerla nulla, togliere, cioè, la sua pretesa di essere: un atto che annulli qualcosa suppone, in ogni caso, che vi sia la cosa da annullare, la quale, se è, rende nullo l'annullamento che di essa si pretende. Dire che qualcosa non è equivale, dunque, a dire che essa è qualcos'altro; e con ciò la negazione assoluta si rivela impossibile, ossia il nulla non è e l'altro dall'essere è ancora essere come altro, è, al più, altro nell'essere. E sembrerebbe così di poter dire che il nulla è contraddittorio perchè toglie se stesso, perchè è autonegazione; senonchè, la negazione di se stessa non è negazione vera e propria, perchè in essa non v e nulla da negare e non v e nulla che neghi e che si mantenga come negante: il nulla, dicevamo, non abbisogna di venire negato dall'essere, perchè, non essendo, si toglie da solo e si può dire che si tolga solo rispetto ad un atto che tuttavia lo ponga, il quale atto, invece, come tale, non può venire tolto, non può non restare ed è il « pensare » la cui intrinseca intelligibilità è l'c essere », suo autentico « senso ». 6. // senso in cui si pensa il nulla

negando

M a è a questo punto che s'incontra la questione della possibilità di istituire un discorso su che cosa veramente si pensi quando si pensa la contraddizione, la quale non è, è nulla. Perchè « un pensiero che si contraddice, si annulla », dice Bontadini 3 1 : d'altra parte, pensare la contraddizione è pensare qualcosa, è pensare anche se un pensare aberrante, osserva Severino 3 2 . E così pare che le due posizioni si contraddicano, perchè la contraddizione, anche pensata, resta contraddizione, ma non è contraddizione se non è pensata. Il nucleo teoretico del « dire la contraddizione » è rintracciabile, mi pare, proprio nella contrapposizione di queste due asserzioni e non in questa o in quella, separatamente prese; ma per rintracciare tale nucleo teoretico bisogna riapprofondire il senso in cui l'affermazione dell'essere è possibile solo come negazione del nulla, il senso cioè della dialetticità della metafisica, lo iXeyxo? nella sua portata e nei suoi limiti 3 3 . Severino ritiene «che il pensiero vive anche quando si contraddice: quando si contraddice non si annulla » * ; e questo per la ragione che * il contraddirsi non è un pensare nulla, ma è pensare il nulla »35. Questa perentoria asserzione può considerarsi, a mio parere, il cuore stesso della densa, penetrante nonché stimolante critica che il Severino muove alla tradizionale concezione metafisica che parla dell'essere ed ha invece davanti il nulla, che si trova a tu per tu con il 31

G. BONTADINI, La filosofia contemporanea in Italia, pp. 123-124, cit. da SEVERINO in Ritornare a Parmenide, cit., p. 171. 3Z E. SEVERINO, Ritornare a Parmenide, cit., p. 171. 35 G. R. BACCHIN, L'originario ecc., cit., pp. 77-96; 107-108; 155-158. 34 E. SEVERINO, Ritornare a Parmenide, cit., p. 172. 35 E. SEVERINO, Ritornare a Parmenide, ibid.

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nulla e non lo riconosce, che ritiene di dover dimostrare ciò che, dimostrando, si suppone o che si preoccupa di compiere un « passaggio » che in realtà ha già compiuto nel momento stesso in cui ne vedeva la necessità. Ma, come accade sempre per le asserzioni determinanti, anche questa asserzione dell'inevitabile pensiero del nulla rivela, insieme alla energica rottura della sonnolenza metafisica, anche i limiti del punto in cui ci si pone a « vedere » l'intero itinerario metafisico. Dovrei dire, anzi, di più, dovrei dire che essa p u ò segnare veramente la sostanziale insignificanza di una critica che non emerga e non si attui, sostanziandosi di problematicità, dalla consapevolezza piena che ragione ed esperienza non si problematizzano mai 3 6 , ne all'inizio ne durante la ricerca del fondamento, che tale ricerca nasce e si svolge nella totalità, la quale è già la presenza della ragione, epperò non può mai risolversi in discussione della totalità 37 , ossia del modo in cui si possa « razionalizzare » l'esperienza. Infatti, in tanto si può dire che ci si trova inevitabilmente a pensare il nulla, in quanto si è preteso di disporre dell'essere come della totalità e si è posto, almeno implicitamente, il problema del rapporto tra l'essere e gli enti, tra il tutto e ciò che solo in esso si p o n e : problema fittizio se il tutto è l'essere stesso e se l'ente è tale per l'essere che è il tutto dell'ente 3 8 senza risolversi in esso; così non è possibile problematizzare il divenire in rapporto all'essere se esso è tale nell'essere e se l'essere non « sta » di contro al divenire; così non è possibile che si dia un pensiero del nulla se non si dà un pensiero dell'essere che è invece anche come pensiero ed è, quindi, ontologicamente convertibile nell'essere di cui è pensiero. Pensare qualcosa pensando il nulla sarebbe possibile, cioè, solo se il pensiero non fosse ontologicamente convertibile nell'essere, come sua intelligibilità, solo se, radicalmente ossia metafisicamente, vi fosse un pensiero privo di intelligibilità, un pensiero divelto dall'essere o un essere inconvertibile in essere « pensabile », ossia « intelligibile ». M a se un tale pensiero potesse sussistere, o la psicologia sarebbe metafisica o non vi sarebbe posto per la metafisica. Ma forse Severino è stato tratto in inganno proprio dal suo modo di intendere lo £Xeyx°?, dai gravi pesi che il suo modo di intendere la dialetticità della metafisica trascina seco: la positività del negativo come vera opposizione al negativo; con parole di Severino « l'identità degli opposti (come il nulla medesimo), in quanto pensata, è un positivo, e come positivo non è negativo » w . E questa formulazione della dialettica rivela che agisce in Severino, suo malgrado, l'eredità attualistica della identificazione di livello, od univocazione, del negativo e del positivo, nella comune positività del pensare, per la quale il negativo stesso viene « rivestito » di positività : « in quanto il nulla si lascia guardare, indossa la veste del positivo » , ossia l'atto del pensare è positivo sempre 36

M. GENTILE, Filosofia e Umanesimo, Brescia 194* G. R. BACCHIN, Originarictà ecc., cit., pp. 17 ss. (Indicazione della portata teoretica della problematicità; dove intendo svolgere le preziose indicazioni teoretiche di M. Gentile a proposito di < problematicità pura », dalle quali dipendono, come svolgimento o verifica, le mie riflessioni). 37

M

39 40

G. R. BACCHIN, SU l'autentico ecc., cit., pp. 45 ss.

E. SEVERINO, Ritornare a Parmenide, cit., p. 172. E. SEVERINO, Ritornare a Parmenide, ibid.

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e conferisce perciò positività a quanto esso pensa, cosicché, pensando il nulla lo rivestirebbe di se, lo farebbe essere. L'apporto del Severino dovrebbe consistere, mi pare, nel dire che per svelare il senso dell'essere bisogna togliere al nulla l'essere di cui s'è rivestito; ma questo autentico apporto meriterebbe di venire svolto fino in fondo con la domanda di come si possa rivestire di essere il nulla se il nulla non è. Se si perviene chiaramente a questa domanda ci si mette in condizione di vedere, in uno, quale sia il senso in cui il pensiero è sempre positivo ed in quale senso il nulla possa venire « guardato » : dire che guardare il nulla significa « farlo essere » equivale a dire che il nulla, non essendo, non può venire guardato. Ciò che Severino qui suppone, cosa da cui il suo Maestro si tiene ben lontano, è che il pensiero costituisca un identico livello di € valore » (positività), in cui il pensato, qualunque esso sia (ed anche, incomprensibilmente, non sia, come per il nulla), valga appunto per il pensiero che lo pensa; egli suppone, insomma, che il pensiero attualmente sia, anche nel caso del proprio limite, che è la contraddizione o impossibilità dell'essere e del pensare, di modo che esso « sopporti » anche la propria contraddizione, ossia che la sua stessa contraddizione si inscriva in esso lasciandolo inalterato. Dove è evidente che questo « in esso » spazializza il pensiero e quindi lo altera con una immagine che induce rappresentazioni del tutto empiriche e perciò inadeguate, quasi per una « localizzazione » all'interno del pensiero, il quale avrebbe, in tal modo, qualcosa di suo (interno) da contrapporre a ciò che in esso si colloca (esterno). Per chi conosca tutto l'arco del pensiero di Severino, come lo scrivente si è sforzato di fare, questo esito dell'analisi della perentoria (forse più polemica che dialettica) asserzione di Severino intorno alla « resistenza » del pensiero come pensiero del nulla apparirà oltremodo paradossale; ma sarà solo per un più rigoroso modo di concepire lo ^Xe^X0? c n e S1 potrà rilevare l'insufficienza di un pensiero non ancora purificato da valenze gnoseologistiche, quelle stesse valenze che accreditavano fin dall'inizio la coerenza interna dell'attualismo, per il quale il pensiero non si convertiva tutto nell'essere, ma risolveva l'essere in sé, equivocando tra l'attività processuale del pensiero con l'attualità che fa « essere » il pensiero nello stesso senso in cui costituisce l'essere come « pensabile », ossia intelligibile41. Se per «pensiero» si intende quell'attività, che trova l'equivalente espressivo nel « prender atto », nell'« avvertire », nell't aver presente », si può ben dire con Severino che il pensiero non si annulla pensando il nulla, senonchè questo « pensiero », che è sempre lo stesso, sempre univocamente presente per qualsiasi pensato, è in realtà teoreticamente irrilevante alla posizione dei suoi pensamenti e non perchè questi siano estranei ad esso, come il realismo ingenuo sempre pretende, ma perchè esso, nella sua univocità, è anche univocizzante e quindi riducente la molteplicità e le differenze che in esso e per esso si danno e delle quali bisogna tuttavia dare ragione. Il pensiero che rivestisse di sé il nulla sarebbe ancora questo residuo ateoretico che aveva abbacinato Fichte e Spaventa e Gio41

G. R. BACCHIN, L'originario

ecc., cit-, pp. 12-13.

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vanni Gentile, e aveva, coerentemente, fatto « essere » il negativo negandolo come tale nella propria innegabile positività. Questo pensiero è appunto univocizzato, perchè univoco, e quindi riducente, ma nel senso che a tutti i molti che in esso si danno esso si estende quasi a coprirli, a rivestirli di sé, e perciò a conservarli, invece, tali e quali in se stesso, senza mai risolvere gli eventuali problemi che essi gli pongano : sapere il problema non è ancora risolverlo e problema solo saputo è ancora e sempre solo problema*3. Codesto pensiero univoco fa dire, appunto, che «contraddirsi non è un non pensare nulla, ma è un pensare il nulla », proprio perchè la sostantivazione del nulla, come del resto la cosalizzazione « mondana » dell'essere è opera solo sua: è all'interno di esso che si compie quella duplice mistificazione del senso dell'essere e del pensare che è, dicevamo, piuttosto un « nascondere » per operazioni indebite, l'autentico senso dell'essere e possiamo dire che la radice di questa mistificazione, dalla quale Severino consapevolmente, ma non solo lui, intende liberare la filosofia e la metafisica, sia precisamente questo assumere il pensiero come univoco od identico livello di « obbiettivazione ». In questo senso, ciò che Severino combatte sarebbe proprio ciò di cui egli si serve come strumento per combatterlo e perciò il suo combattimento sarebbe altrettanto giusto quanto vano. In ogni caso, la posizione teoretica di Severino riesce intelligentemente ad evitare l'alterazione dell'essere che è la considerazione di esso come termine di una dimostrazione del Necessario e questo suo esito potrebbe venir ulteriormente rigorizzato, dove il Severino evitasse, mantenendosi all'interno della problematicità radicale (esperienza nella sua integralità), di « formulare » l'essere direttamente, che la stessa esclusione dialettica della pretesa dimostrazione del Necessario a partire dall'essere affonda in realtà la sua radice nella impossibilità che l'essere valga a spiegare il « passaggio » da esso : passare dall'essere a qualcos'altro è passare al nulla, cioè passare nullo, od è essere anche come passare e non può effettivamente passare ad altro; di qui l'insignificanza teoretica della pretesa « dimostrazione » del Necessario : se posso ipotetizzare incontraddittoriamente che il Necessario non sia, non vi può essere mai dimostrazione che sia in grado di provare che è contraddittorio dire che Esso non sia. Ma se l'essere non può valere come « momento » (che non ve un momento in cui esso non sia) , nemmeno può valere come « immediato » su cui poggiare la dialettica del togliere la sua negazione. E suo malgrado, Severino mantiene questa pretesa se è in grado di dire che « Dio non si dimostra, non già nel senso che, ne dia immediata esperienza, ossia appartenga al contenuto originariamente manifesto, ma nel senso che l'affermazione che l'essere è costituisce l'immediatezza, l'originarietà del logo »45. Ciò che Severino riesce ad evitare è la « dimostrazione di Dio », non però come 42

G. R. BACCHIN, Originarietà ecc., cit., p. 82. G. R. BACCHIN, L'originario ecc., cit., p. 102 : «... se è reale l'antinomia, è vano il suo spostarsi all'infinito: l'antinomia sempre riproposta non spiega perchè si continui a riproporla ». 44 E. SEVERINO, Ritornare a Parmenide, cit. 45 E. SEVERINO, Ritornare a Parmenide, cit., pp. 137-146. 43

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di Dio non si dia immediata esperienza, una volta che di Lui si dice che è l'essere che è e non p u ò essere e che dell'essere si dice che è « immediatezza », l'immediatezza del logo. N o n che si possa pretendere l'affermazione immediata di Dio, negandone la « dimostrazione », ne che il Severino la pretenda, ma come evitarla se Dio è l'essere nella sua « immutabile pienezza » ? *. Il senso in cui Severino dice che « a Dio non si arriva » è che Esso è l'essere che è l'intero, la cui formulazione è l'affermazione originaria « l'essere è » 47 . Questa affermazione, essendo in realtà la negazione di una negazione, non consente però di dire che l'essere è immediatamente tale per il pensiero, come, ad altro livello, immediatamente tali sono i divenienti in Esso « precontenuti » ed anche da Esso trascesi nella loro divenienza 4 8 : sarebbe pur sempre un parlare dell'essere e degli enti, tanto che Severino è costretto a ripiegare sul duplice significato dello 5v fj 6v, il significato dell'essere « nella sua assoluta pienezza ed intensità» 4 9 ed il significato in cui «ciò che è trasceso non è nulla; è anch'esso essere, positività >s>; duplice significato che resta duplice solo perchè lo si è posto come tale, non perchè se ne sia provato qui l'irriducibilità. Proprio questa prova di come lo Sv -fa Sv valga per un duplice significato senza contraddirsi ci aspettavamo, dopo la radicale affermazione che « l'essere, tutto l'essere, visto come ciò che è e non può non essere, è Dio » , Ora, se l'affermazione « l'essere è » è possibile solo come negazione della negazione dell'essere (la quale negazione dell'essere sia il tentativo rivelatosi contraddittorio di ridurre l'essere in quanto essere agli enti dei quali si ha esperienza), essa importa, in se stessa, l'impossibilità di assolutizzare l'essere, che è, per se stessa, la necessità che D i o sia « oltre » gli enti, cioè semplicemente che non sia un ente fra gli enti, né l'essere che si «dice» negando che gli enti lo possano esaurire; impossibilità e necessità che valgono a salvare il t r a s c e n d e n t a l e , come l'intero metafisico di cui non si dà oggettivazione senza contraddizione. Si sa che se fosse possibile pensare la contraddizione (pensare il nulla), si potrebbe, anzi si dovrebbe, « oggettivare » il trascendentale o intero metafisico od essere in quanto essere, con la conseguenza che esso sarebbe « detto » in riferimento al suo opposto, ossia al nulla ed il nulla sarebbe. Chiunque n o n raggiunga veramente (e vi si mantenga) il livello trascendentale della metafisica, anche Parmenide, anche Severino, dovrà pervenire al nulla, od almeno alle «oscurità» che aumentano attorno all'essere le possibilità di smarrirne il senso. Ma vale la pena di insistere nella analisi dei presupposti ateoretici (i presupposti sono sempre ateoretici!) della affermazione che «il contraddirsi non è pensare nulla, ma è un pensare il nulla », perchè in essa è nascosta, a mio parere, la radice della duplice perdita del trascendentale e della problematicità radicale •del nostro esperire ! 2 . Quell'affermazione deve supporre, ovviamente, una qual46

E. E. E. 49 E. , ° E. 51 E. 47

48

52

SEVERINO, SEVERINO, SEVERINO, SEVERINO, SEVERINO, SEVERINO,

Ritornare Ritornare Ritornare Ritornare Ritornare Ritornare

a Parmenide, cit., p. 173. a Parmenide, cit., ibid. a Parmenide, cit., ibid. a Parmenidde, cit., ibid. a Parmenide, cit., p. 174. a Parmenide, cit., p. 173.

G. R. BACCHIN, Originarietà ecc., cit., cap. I.

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che differenza tra l'immpossibilità come non attività del nostro pensiero e l'impossibilità-impensabilità come nullità intrinseca del pensato; e questa differenza può, d'altra parte, venire posta in virtù deN attività del pensiero, ma vi rimane, come questo, teoreticamente nulla: pensare il nulla è cosa diversa dal non pensare, solo se il nulla è qualcosa, ma se il nulla non è, pensare il nulla è non-pensare. Ossia, il valore teoretico della differenza (differenza o diversità qui è lo stesso) deriverebbe dalla distinzione tra il pensiero e il nulla, distinzione che è impossibile, ma nel senso che è impossibile anche l'identificazione (il nulla, essendo contraddittorio, è distinguersi e non-distinguersi). E allora Bontadini aveva visto giusto : « U n pensiero che si contraddice si a n n u l l a » ; si annulla, ma nel senso che non è, non nel senso che cessa di esser;.', che cessare di pensare non è possibile veramente, se non per il pensiero di questo cessare. E quindi quel pensiero che tiene a sé presente questa impossibilità di pensare il nulla non tiene presente il nulla, come vuole Severino, ma se stesso nel suo limite. N o n mi pare, pertanto, che Severino abbia fatto un passo avanti, qui, rispetto al suo Maestro; anzi mi pare che egli abbia svelato qui quanto restava ancora implicito di gnoseologismo nell'« implesso originario » di formulazione bontadiniana, per quella parte appunto in cui quell'c implesso » non era originario. Si sa che quel gnoseologismo che Bontadini espelleva dalla propedeutica al momento metafisico del filosofare esigeva coerentemente che si cancellasse anche la propedeutica alla metafisica, ed è merito di Severino avere operato rigorosamente questa cancellazione, che è la consapevolezza raggiunta del trovarsi originario nell'essere; ma Severino resta suo malgrado gnoseologista quando non vede come si possa dire l'originario senza che l'accertamento del valore dell'originario sia un momento dell'originario , che è quanto dire che la negazione operante il coglimento dialettico dell'essere è intrinseca all'essere stesso, ossia che il pensiero che toglie la negazione dell'essere non è l'essere, semplicemente, ma l'« essere » della negazione, il positivo del negativo. Per questa che è solo una pretesa il Severino si preoccupa del negativo, fino al punto di lamentare che i difensori della metafisica tradizionale non abbiano avvertito la gravità del richiamo heideggeriano che il nulla costituisce « uno dei più formidabili ostacoli al pensiero dell'essere » 5*, perchè il pensiero dovrebbe, secondo Severino, guardare il nulla se vuol contrapporre l'essere al nulla; dove è anche evidente, però, che se questo contrapporre è, per la nullità del nulla, contrapporre nullo, il nulla non costituisce ostacolo al pensiero dell'essere, bensì « rappresenta » il modo in cui il pensiero pensa l'essere, negando la possibilità di negarlo. In altre parole, il negativo non accredita il comodo rifiuto heideggeriano della logica e della non contraddizione, ma neanche il macchinoso dialettismo per il quale la contraddittorietà costituirebbe « lo stesso positivo significare del nulla » 55 . GIOVANNI ROMANO BACCHIN 53 54 55

E. SEVERINO, Ritornare a Parmenide, cit., p. 172. E. SEVERINO, Ritornare a Parmenide, cit., p. 172. E. SEVERINO, Ritornare a Parmenide, cit., p. 167.

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