Bacchin - A proposito di metafisici "classici", "neoclassici" e di "veteroparmenidei"

August 22, 2017 | Author: kidmarco | Category: Thought, Metaphysics, Aristotle, Ontology, Emergence
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«Giornale di metafisica», VI (1984),  pp. 411-430 La "liquidazione" (sic!) - che come tale esimerebbe dal d...

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Giovanni Romano

Bacchin

A PROPOSITO DI META FISICI "CLASSICI", E DI "VETEROPARMENIDEI"

"NEOCLASSICI"

Risposta ad un critico

Intendo esaminare i punti nei quali C. Scilironi, esponendo e in parte criticando la posizione di E. Severino', si mostra seriamente convinto che le obiezioni mosse da E. Berti e da me a Severino appunto! sono non più che vani tentativi di resistere alla "sottile ma ferrea logica severiniana"? e formula sulla scuola di M. Gentile, alla quale Berti ed io apparteniamo, un giudizio di fondamentale inadeguatezza nei confronti dei "neoclassici" della scuola di G. Bontadini dalla quale Severino proviene. Scilironi cosi si esprime: "tra le varie strutturazioni dell' ontologia la dimensione neoclassica costituisce la posizione più rigorosa?", si che "la dissoluzione di essa operata da Severino riguarda anche tutte le altre riprese della metafisica'". Egli invero non dedica molto spazio alla nostra critica, né all'impostazione filosofica che la sostiene, ma soprattutto non articola i propri giudizi con quella compiutezza di argomentazioni che essi esigerebbero, anche se si L

C. Scilironi,

Ontologia e storia nel pensiero dì Emanuele Severino, Abano Terme

1980, e "Coerenza verino", 2.

"Coerenza

sintattica

e insignificanza

semantica

nel pensiero

Verifiche 3 (1980), pp. 253-289. ... n, cit., pp. 263-265.

3. Ontologia. .., cit., p. 52. 4 ...

Coerenza

, cit., p. 278.

5. "Coerenza ", cit., p. 278. Giornale di Metattstco - Nuova Serie - VI (1984), pp. 411-430.

di Emanuele

Se-

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Gìovannì Romano Bacchin

deve riconoscere che ha saputo raccogliere - se non cogliere -le tesi capitali del nostro discorso". L'importanza effettiva dei temi in questione, valutazioni e raffronti tra due scuole filosofiche e la recente pubblicazione del mio lavoro Teoresi metafisica 7, in cui tratto la medesima tematica, mi inducono ad una risposta anche breve, ma non brevissima, come quella che sto per dare, nella speranza che precisazioni e chiarimenti possano tornare utili e non solo a Scilironi. Berti ed io - ma non siamo i soli - siamo convinti che "tanto l'oggettivazione dell'essere quanto l'apparire del nulla sono impensabili". Per noi, dunque, tutto il discorso severiniano nonché la sua matrice neoclassica cadono". Per Scilironi, invece, è vero che l'essere è inoggettivabile, ma ciò non comporta che non sia pensabile e, cosi, per lui, la caduta non c'è. Egli scrive: E' da dire che non vi sono dubbi in proposito perché se l'essere fosse oggettivabile, sarebbe con ciò stesso ridotto all'ente. Ma il fatto che sia inoggettivabile non significa che l'essere non possa venire pensatolO.

Osservo che l'inoggettivabilità

dell'essere è tutt'altro

che ovvia:

è una impossibilità, la quale risulta e risulta da un processo, che è il tentativo frustrato di oggettivare l'essere alla stregua dell'ente. Questo tentativo non è un'illusione o lo è anche ciò che con esso risulta: esso è funzionale alla dimostrazione che appunto l'essere non è oggettivabile. Né basta dire che - oggettivato - sarebbe "un ente", bisogna dire che - oggettivato l'essere - nessun ente sarebbe, perché l'essere verrebbe sottratto ad ogni altro da esso. Ora, lo stesso tentativo di oggettivare l'essere non appare come "tentativo" se non in quanto l' oggettivazione tentata si converte in contraddizione. La contraddizione qui - ovvero l'oggettivazione dell' essere - consiste nel considerare, ossia pensare, l'essere alla stregua dell' ente, come accade nella proposizione "l'essere è". In questa proposizione (alla quale, come si sa, Severino non può ri6. 7. 8... 9. 10_

"Coerenza ... ", cit., pp. 263-264. G.R. Bacchin, Teoresi m e tafisic a , Edizioni Nuova Vita, Padova 1984. Coerenza .;." , cit., p. 264. "Coerenza...", cìi., p. 263. "Coerenza ... ", cit., p. 264.

Metaruici

"classici",

"neoclassici" e "oeteroparmenidei"

nunciare senza far crollare tutto il proprio pensiero) l'essere viene "semantizzato" appunto come ente, poiché, nonostante ogni volontà contraria, la parola "ente" significa ciò che "è". Allorché, per differenziare l'essere dall' en te od anche per dire che esso è inseparabile dall'ente, si ricorre ad espressioni come "presenza", "totalità semantica", "verità dell'essere" e così via, non si fa che sostituire e riprodurre la parola "essere", mantenendon e l' oggettivazione. Voglio dunque richiamare Scilironi a quella "coerenza sintattica" che egli tanto ammira, perché, una volta concesso - come egli si mostra pronto a fare - che l'essere è inoggettivabile, egli ha già accettato, lo voglia o no, la critica mia e di Berti a Severino nonché a tutti coloro che parlano di "sernantizzazione dell' essere". Scilironi, invece, concede bensì che l'essere non possa venire oggettivato, ma non concede che non possa venire pensato. Gli domando: che cosa significa "pensato"? Significa "oggetto di pensiero", ancora "oggetto"; ed anzi la sua argomentazione (oggettivare l'essere sarebbe ridurlo a ente) poggia proprio su questo: che l'ente, ossia ciò-che-è, è appunto oggetto e certamente oggetto di pensiero, dunque un pensato. Nella proposizione "l'essere è" - in cui dell'essere si dice "è"accade appunto che l'essere divenga un pensato e, se si pretende di dire che esso è la totalità dei pensati, si pensa questa "totalità", la quale diventa eo ipso un pensato, ossia uno dei pensati dei quali è totalità. L'espressione "oggetto del pensare" (o, se si vuole, "pensato") è sensata se e solo se il pensare non è esso stesso "oggetto". Cosi, l'identità di essere e pensare - quella identità che Scilironi riscontra alla base del pensiero di Severino" - in quanto venga pensata non è quella identità che si intende con tale espressione. Ma "come si può escludere la pensabilità dell' essere senza pensare l'cssere?" - mi domanda Scilironi'" -. Rispondo subito. E rispondo ripetendo ciò che ho scritto in libri che Scilironi conosce. Con il semantema "essere" - ma non in virtù di esso - indico appunto l'impossibilità che l'essere sia un pensato. Per dire che l'essere non può venire pensato, uso il semantema "essere", che è 11. "Coerenza 12. "Coerenza

", cit., p. 256. ", cir., p. 264.

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semantema imprescindibile, né ritengo che esso non abbia significato (come ritengono i neopositivisti ai quali Berti ed io veniamo da Scilironi incautamente assimilati'P], o che semantema sarebbe? Ma che un semantema sia imprescindibile non dice se non questo: esso è imprescindibile come semanterna; ed è appunto come semantema che lo tratto, ossia per il "significato" nel quale mi riferisco a ciò che è. Ciò che è (o l'essente, l'ente) viene inteso nella semantizzazione, che poi è lo stesso "parlare", se e solo se il pensiero che la usa non si identifica con essa. Questo intendere usa del semantema "essere" per dire che la semantizzazione (ancora una volta, più semplicemente e più efficacemente il "dire") concerne solo ciò che può incontraddittoriamente venire sernantizzato. Ebbene, proprio perché semantizzare è riferire ad altro - come i "neoclassìci" e Severino giustamente ripetono - diciamo che sernantizzare anche l'essere è impossibile (e la parola "essere" dice questa impossibilità). I due semantemi "essere" e "pensare" non possono venire incontraddittoriarnente riferiti ad altro da essi (l'altro, infatti, deve essere ed essere pensato), dunque non possono venire semantizzati se non per ciò che con essi si indica e che non si identifica con essi o ciò che si indica non viene indicato affatto. Scilironi però scrive: il concetto di essere [ ...] è quel concetto trascendentale che esprime la totalità semantica, la cui differenziazione è data solo da ciò che è al di là dell'essere, ovvero dal nulla; che, proprio perché non è, è un concetto idealel4•

Qui, anche lasciando correre le imprecisioni come "concetto dell'essere" e le inutili sostituzioni linguistiche come "totalità sernantica", mi basta svolgere il suo discorso: se la differenziazione del "concetto di essere" è data solo (e da che altro se no?) da ciò che è al di là dell'essere, ossia dal nulla, che sarebbe "concetto ideale", tutta la 'differenza del "concetto di essere" da ogni (altro) concetto resta, comunque, "ideale" e nel senso che Scilironi dà a questa parola, quello di non essere reale, di non essere semplicemente. 13. "Coerenza...", cit., p. 264. 14. Ibidem,

Metafisici

"classici", "neoclassici" e "ueteroparmenidei"

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Che è come dire che quella semantizzazione non "è". E' vero che le espressioni "reale" e "ideale" appartengono al vocabolario di Scilironi, più che a quello di Severino, ma è anche vero che non alterano la sostanza del discorso dei "neoclassici" e di Severino. Che per semantizzare l'essere vi sia bisogno del "nulla" è fuori contestazione. Che di questo bisogno si siano lucidamente accorti i "neoclassici" va a loro onore. Ma - qui è il punto - Severino ne trae la conclusione che non si può non pensare il nulla e Bontadini che la semantizzazione dell' essere si compie "in funzione del negativo" (ed è la medesima conclusione), mentre noi - e ciò viene giudicato mancanza di rigore da Scilironi - ne traiamo la conclusione che pensare l'essere in quel senso, ossia mediante il nulla, è contraddittorio. Quando poi Boccanegra dichiara di condividere il criterio "secondo il quale l'essere si semantizza, cioè' si notifica quoad nos, solo nella originaria opposizione al non essere"! s, con il quoad nos al quale Scilironi non dà alcun peso - si trova a condividere, invece, il nostro criterio, poiché quoad nos vuoi dire questo: non è l'essere in se (le due espressioni scolastiche vanno insieme) che viene così semantizzato; e lo in se degli Scolastici non ha - come è noto - il significato gnoseologico che avrà nel pensiero moderno. Con ciò l'obiezione che, usando le parole "essere", "ente", "non essere", siamo già in piena semantizzazione de li'essere - obiezione che è cavallo di battaglia di Severino'" - si mostra del tutto inconsistente. Queste parole, infatti, anche se fossero insostituibili, lo sarebbero per il loro "significare", il quale resta incontraddittorio solo a condizione di non venire disgiunto dallo "è" con cui si dice qualcosa. Ebbene, proprio questo "è" è indisgiungibile dalla domanda "che cosa è?", la quale è domanda filosofica o, come noi diciamo, "problernaticità pura"; ed è domanda irriducibile alla domanda "che cosa significa?" perché la investe e interamente: che cosa è significare? Il luogo in cui affondano le loro indagini i "neoclassici" e nel quale concresce la "verità dell'essere" di Severino è quello della ri15. "Coerenza...", cit., p. 263. 16. Si veda, in modo particolare, E. Severino, Essenza del nihilismo, Brescia 1972, p. 147.

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sposta a questa domanda: significare - o semantizzare - è fondamentalmente opporsi di positivo e negativo. Non abbiamo mai preteso di opporci a questa risposta, mentre la manteniamo nel suo luogo originario, che è appunto il significare, il dire. E, mantenendola nel suo luogo originario, dimostriamo che la domanda "che cosa è l'essere?" è contraddittoria. E' contraddittoria perché come domanda ("che cosa è?") non può disgiungere lo "è" da se stessa e come domanda intorno allo "è" lo disgiunge da se stessa, riducendolo a pensato su cui si domanda. Qui si snodano due importantissimi rilievi. Il primo concerne l'impossibilità di asserire qualcosa dell' essere ("l'essere è", "l'essere è la totalità semantica", "l'essere è sintesi dell'essere e delle determinazioni dell'essere" e cosi via) senza che questo asserire non si ponga come risposta - lo si sappia o no, lo si voglia o no, lo si voglia o no sapere - ad una domanda sottesa, la quale domanda è in questo caso contraddittoria: "che cosa è l'essere?". Proprio perché ogni asserto intorno all'essere presuppone l'asserto "l'essere è", tale asserto viene considerato dai "neoclassici" e da Severino in discutibile , mentre esso, come asserto, è risposta ad una domanda e, come asserto "l'essere è", è risposta ad una domanda contraddittoria, questa: "l'essere è o non è?". Che la risposta suoni "l'essere è e non può non essere", "l' essere è,negazione della negazione dell'essere" non la sottrae all'essere risposta e, dunque, a quella dòmanda. E quella domanda (l'essere è o non è?) è appunto la struttura non vista dai "neoclassici", i quali non si accorgono che il "negativo", il "non" da loro valorizzato è appunto originariamente nell'alternativa che costituisce il domandare (è o non è? è così o altrimenti da così?). Per asserire, ossia per rispondere, "è", "è cosi" bisogna negare rispettivamente "non è", "è altrimenti da cosi ", Allora il senso in cui l'affermazione è negazione della sua negazione è quello stesso in cui si pone la domanda, anzi è trascrizione assertoria della struttura della domanda. Che se poi i "neoclassici" volessero considerare "soggettiva" e teoreticamente irrilevante la domanda - come hanno sempre mostrato di fare - dovrebbero coerentemente considerare "soggettiva" e teoreticamente irrilevante quella opposizione di positivo e di negativo, ossia di "è" e "non è" - cosa che giustamente si rifiuta-

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no di fare. Ciò che allora si impone - ed è parola cara a Severino - è, dunque, che non vi può essere affermazione immediata del Logo (nelle note forme "l'essere è", "l'essere appare", "l'essere si manifesta") perché non vi può essere "affermazione" immediata: l'immediatezza dell'affermazione è, piuttosto, la pretesa affermazione dell'Imrnediatezza!", Qui "immediatezza" non ha, né può avere, il significato ristretto che le dà Severino, perché ogni eventuale "mediazione" o "negazione" sarebbe eo ipso immediata se venisse pensata od oggettivata, sernantizzata nell'unica forma che di tutto, anche del tutto o intero dice: "è". E mi basta che Severino dica "l'intero è", per sapere che quello non è l'intero, stante che lo "è" è comunque oggettivante nel senso proprio della parola, ossia "affermante" e affermante di contro all'opposto in cui si trascrive la domanda "è o non è?". E l'intero - di certo - anche per Severino non può domandare di se stesso se sia O non sia. Dico anche per Severino, il quale parla di "autosignificazione", che vuoi dire "venire significato da se stesso", espressione con cui si può intendere che l'intero non può venire significato da altro (e siamo d' accordo), ma con la conseguenza che nessuna parola dice l'intero, ossia che il significare - e la struttura di questo - non è la struttura dell'intero, bensi dell'affermazione con cui si dice l'impossibilità che l'intero non sia. Lo "è" di ciò-che-è non può venire separato da ciò che è. Al di là della pletorica esposizione della Struttura originaria (opera che stupisce anche per la giovane età del suo autore, ma che, nei prestiti di linguaggio pseudomatematico, porta tutte le tracce della ingenuità giovanile) e al di là dell' enfasi delle opere più recenti, questo è il centro - se non l'unica idea - che muove il suo pensiero. Ebbene, proprio questo - non altro - la scuola di M. Gentile fa valere nei suoi confronti: che proprio questa separazione impossibile egli la subisce. La subisce perché essa è già avvenuta alle sue spalle, affinché possa affermare - ossia negare la negazione di ciò che afferma - "l'essere è", "l'intero è", che sono altrettante risposte (meglio: varianti linguistiche di un'unica risposta) alla dornan17. G.R. Bacchia, L'immediato e la sua negazione, Perugia 1967, e Teoresi metafisica, cit., p. 44.

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da "è o non è?", la quale è domanda impossibile perché suppone strutturalmente che l'essere possa non essere. L'equivoco in cui si cade qui è nel considerare - senza mediazione effettiva - l'impossibilità di dire "l'essere è" come se fosse negazione dell'essere, ossia come "l'essere non è"lS. E' equivoco che deriva dal non vedere che entrambi gli asserti (entrambi inseparabili dalla domanda "è o non è?") sono bensì opposti tra loro, ma nessuno dei due può opporsi alla domanda in cui si pongono entrambi e senza della quale non sorgono. Cosi, obliando questa domanda, o procedendo senza tenerne conto, è ben vero che dichiarare impossibile "l'essere è" equivale a far valere - almeno implicitamente - il suo opposto, ossia "l'essere non è", laddove - ed ecco il senso del nostro discorso - per quella domanda (obliabile, ma innegabilmente fungente) i due asserti opposti si equivalgono tra loro, nel senso che entrambi sono contraddittori. Considerati fuori della domanda, essi sono contraddittori l'uno nei confronti dell'altro, ma considerati nella domanda (che è la loro stessa posizione) sono contraddittori ciascuno in se stesso. In altre parole, l'asserto "l'essere è" è bensi negazione dell' asserto opposto "l'essere non è" ed è incontrovertibile, e qui siamo d'accordo. Qui, per la significazione che è appunto asserzione, possiamo anche accettare la formulazione più sintetica - ma non più chiara - che ,Severino ne dà, ossia che l'essere è negazione della negazione dell' essere o che "cosa è ogni non-niente" (che poi vuoi dire: cosa o ente è ogni non non-ente o non-cosa). Si tratta appunto della stru ttura del significare o asserire. Qui, anzi, l'accordo con i "neoclassici" è totale, con la conseguenza che riconosciamo la fragilità delle obiezioni loro mosse da altri metafisici a questo riguardo. Ma ecco che cosa ci distanzia radicalmente dai "neoclassici" e da Severino: questa è bensi struttura dell'asserire o significare, ma non è struttura originaria dell'asserire o-significare, né, tanto meno, struttura originaria simpliciter. Non è struttura originaria dell'asserire, perché quest'ultimo è intelligibile ("è") solo a condizione di restare in separato dalla domanda "è o non è?", che è il suo luogo originario: asserire è, infatti, rispondere. Non può essere struttura originaria simpliciter, per18. G.R. Bacchin, Su l'autentico nel filosofare, Roma 1963.

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"classici",

"neoclassici'

e "ueteroparmenidei'

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ché la opposizione di "è" e "non è" - originariamente nella domanda "è o non è?" - non è essa quello intelligibile che la domanda stessa intende, perché l'asserto come tale, dunque ogni asserto, insorge intendendo di non esserlo, o non insorge affatto: esso, infatti, insorge rispondendo "è" o "non è", ossia intendendo di escludere quell'opposizione e, quindi, di escludere che essa sia originaria. Scilironi, però, ripete: "l'essere non esclude, alcunché, ma solo il non essere, donde l'opposizione di positivo e negativo'''9. Osservo: dopo avere detto che l'essere non esclude alcunché è del tutto pleonastico che si aggiunga "esclude solo il non essere", ché se, invece, si fa valere, come i "neoclassici" fanno, questo pleonasmo, allora non si tratta più di pleonasmo, ma di non senso. E' un non senso perché, in quanto si tiene fermo che "esclude", si tiene fermo che esclude "qualcosa" e in quanto si tiene fermo che non esclude "alcunché" si lascia cadere che escluda. Così, l'essere che per i "neoclassici" si oppone al nulla di cui sarebbe esclusione, per noi è il semantema con cui diciamo che l'esclusione non è originaria e, in questo senso, l'essere non esclude nulla perché non è esclusione affatto. Le espressioni che non possiamo non usare, "essere", "non essere", "non è esclusione", "non si oppone" sono costrutti con i quali, ma non in virtù dei quali pensiamo e cosÌ il pensare non vi si identifica o. con essi, non si intende più. Scilironi scrive ad ulteriore chiarimento: La posizione di un significato è sempre la posizione di un limite semantico, che è la stessa significanza del significato considerato, tranne nel caso in cui questo sia lo stesso intero semantico, ossia la totalità dell' essere. Ma anche per il semantema infmito la struttura di fondo non cambia: esso (l'essere) è posto nella misura in cui significa la negazione del suo al tra (il nulla) 20.

Non capisco come riescano a stare insieme le due espressioni "tranne nel caso" e "la struttura di fondo non cambia" (la severiniana "struttura originaria"), ma anche senza capire questo sono in grado di capire che se la "struttura di fondo" non cambia, ossia è quella stessa degli "enti", allora l'essere (o "totalità dell'essere") 19. "Coerenza 20. "Coerenza

", cit., pp. 2611-266. ", cit., pp. 262-263.

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è strutturalmente un ente. Proprio perché, cosi, esso è strutturalmente "ente", dal quale lo "è" è inseparabile, Scilironi, anche più scopertamente di Severino, destina l'essere a negare il suo opposto per essere e ad essere per poterlo negare, o non è esso che lo nega. E proprio perché, cosi, l'essere è strutturalmente ente, gli sembra indiscutibile che esso, dovendo negare, neghi il nulla come suo "altro". Scilironi, però, non aveva cominciato con il dare per scontato che l'essere non è "ente", tanto da oppormi su questa base che esso è bensi inoggettivabile, ma è pensabile? Come può ora dire che, per l'essere e per l'ente la struttura di fondo è la medesima? Qui lo devo richiamare al suo autore, il quale, se dicesse che la struttura è la medesima per l'uno e per l'altro (dunque "altri" tra loro), con ciò stesso riconoscerebbe una identità non originaria tra ente (ciò che è) e essere (lo "è"), minando, con ciò, la base stessa dci proprio pensiero. Comunque, per Severino, "il 'non essere' appartiene allo stesso significato 'essere' "11, come Scilironi puntualmente ricorda'P. Bene, proprio per questo - concludo - il significato "essere" (o, meglio, l'essere nel semantema "essere") è contraddittorio. E' contraddittorio nel senso che la negazione, insopprimibile dal significato "essere", è originariamente nella domanda "è o non è?", la quale insorge perché "è e non è" è impossibile, o non insorge affattò, ossia il suo stesso insorgere è l'impossibilità di "è e non è". Cosi, quell'asserto di Severino è - come ogni asserto - risposta alla domanda "è o non è?", "è cosi o altrimenti da cosi?", e, dunque, intende che non possa insieme essere e non esserei ma ciò che esso asserisce è, invece, che il "non è" appartiene allo stesso "è", si che esso - e proprio come asserto - si contraddice. In altre parole, quell'asserto di Severino insorge come asserto per rispondere alla domanda sottesa "che cosa è l'essere?" (la quale, come ho detto, presuppone l'asserto "l'essere è", che, a sua volta, è risposta alla domanda sottesa "l'essere è o non è?"), ma non risponde affatto: non risponde perché - lo veda o no Severi21. "Coerenza .,;" , cit., p. 263. Scilironi cita Stnltlura originaria, Brescia 1958, p. 84. 22. Sarebbe stato opportuno, però, che indugiasse sull'uso severiniano dci verbo "appartenere", uso che dice da solo il carattere "scolastico" dell'impianto deU'opera.

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no - trascrive in termini assertori la domanda, appunto quella in cui sono posti in alternativa lo "è" e il "non è". Con ciò ho già detto anche a proposito del preteso "apparire del nulla", ma non è superfluo che mi soffermi a richiamare Scilironi ed altri a ciò che sottende tale costrutto severiniano. Il "nulla", che per i "neoclassici" da solo non fa contraddizione, è espressione linguistica che economizza lo "è e non è", appunto la contraddizione, si che il semantema "nulla" (o niente, non ente) trascrive quello "è e non è" in cui il "non" si colloca a condizione che sia posto lo "è" e, insieme, appunto contraddittoriamente, nega lo "è" senza di cui, per usare espressione severiniana, non "appare" e con cui non può "apparire". La differenza - in discutibile per i "neoclassici" - tra "pensare il nulla" e "non pensare" è un equivoco. L'equivoco però appartiene all'intera impostazione in cui esso non viene riconosciuto perché ne costituisce parte integrante. E per dissipare l'equivoco - ossia l'intera impostazione - pongo una domanda; questa: quando si dice "la contraddizione appare" si intende dire che essa appare come tale o no? Il senso della domanda è questo: se la contraddizione appare come tale, allora la parola "apparire" significa qui "riconoscimento della contraddizione", che è riconoscimento della sua impensabilità, si che dire "contraddittorio" è lo stesso che dire "impensabile". A questo punto, chi sostiene la pensabilità della contraddizione si trova costretto a dire che essa non appare come tale (o - ed è lo stesso - che il suo apparire non è tutt'uno con il suo riconoscimento), ma allora come può sapere che è la contraddiz.ione che gli appare? Lo sa, ma non dalla semantizzazione, la quale arriva, per cosi dire, a cose fatte, ossia per dire o formulare l'incontraddittorietà del riconoscere la contraddizione ed è in questo dire o formulare che essa pone la contraddizione e pone il suo toglimento, come è visibile nella parola "in -contraddittorio". Per dire che è impensabile un "porsi" che è "togliersi" costruisce - e senza contraddirsi - il semantema "incontraddittorietà". In altre parole, se si riconosce la contraddizione come tale, se ne riconosce eo ipso l'impensabilità e se, invece, si divide - come fanno i "neoclassici" -lo "apparire della contraddizione" dal riconoscimento che essa è altra parola per dire "impensabile", si ritie-

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ne bensi di pensare la contraddizione (o che la contraddizione "appare"), mentre ciò che è effettivamente pensabile è ciò che il semantema "contraddizione" indica e nel quale, per poterlo indicare, non si può risolvere. Cosi, lo "apparire della contraddizione" è inseparabile dal sapere che "contraddizione" è altra parola per dire "impensabile" e, quindi, pretendere di pensare la contraddizione è tutt'uno con il pretendere di separare l'inseparabile, di separare, cioè, il pensiero dal pensiero. A proposito di "inseparabili", però, deve venire portata qui un'altra precisazione. V'è una separazione dell'apparire dall'apparire che Severino vede. E' quella per la quale si ritiene di poter dire - e sulla base dell' apparire - "questo non è più", invece di dire correttamente "questo non appare più", ed è illazione indebita. Per spiegare a Bontadini e ad altri che questa separazione è impossibile, Severino ha faticato non poco e ancora continua a faticare. Per dimostrarne l'impossibilità, egli ha coniato la formula "qualcosa può apparire solo se appare il suo apparire'P", che non è formula chiara, né sin tatticamente corretta, ma suscita l'entusiasmo di Scilironi. Non è chiara, perché certamente non intende fare dell'apparire una cosa; non è sin tatticamente corretta, perché lo "appare" o ripete il significato di "apparire" di cui lo si dice o lo contraddice; suscita l'entusiasmo di Scilironi, il quale ritiene che èon essa Severino abbia confutato incontrovertibilmente i suoi criticì'" . Non è, però, la separazione dell'apparire dall'apparire confutata da Severino che - a differenza di altri critici - ho mai contestato, ma un'altra, quella di cui sto parlando e che Severino non vede. Essa è più radicale e, quindi, più fatale: è la separazione tra il cosiddetto "apparire della contraddizione" e il riconoscimento in atto che "contraddizione" è parola che dice tutto e solo ciò che dice la ,parola "impensabile". Ebbene, nello spazio fittt'zio che si è venuto a creare con questa separazione si colloca la pretesa di pensare anche la contraddizione, anche il "nulla" e, quindi, si colloca tu tta l' ap oretica severiniana della Stru aura originaria. 23. "Coerenza 24. "Coerenza

", cit., p. 277. ", cit., p. 278.

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Che è come dire: se Severino non riesce a dimostrare che tale spazio - vitale per la sua "struttura originaria" - non è fittizio, tutta la sua opera è inconsistente. E, certo, per dimostrarlo non può far valere la semantizzazione, perché proprio essa è in questione, , né può obiettarmi, come mi ha obiettato'", che sono costretto anch'io ad usare il sernantema "nulla", perché non ho bisogno di non usarlo per sapere che "nulla" è altra parola per dire "impensabile" . Ed ancora, per tale sua dimostrazione - ossia che quello spazio non è fittizio - non può far valere la sua pur corretta assunzione dello "apparire", perché questo - come Severino ben sa - è effettivo apparire solo nel suo lasciar essere ciò che è e così com' è, si che l'apparire del "nulla" non può dire "il nulla è" più di quanto non lo dica il suo apparire, il quale non può non dire tutto e solo ciò che del "nulla" è riconoscibile, ossia il suo essere semantema che economizza la "contraddizione", ovvero lo "impensabile". Questo - non altro - intendevo in quel passo di L'Immediato e la sua negazione con cui Scilironi si cimen ta (e mi costringe ad usare questa parola), ossia che "se il niente fosse veramente niente, il suo apparire consisterebbe nell'apparire del suo essere niente, del suo non essere"26. Ciò che più importa, però, - alla radice del discorso che sto svolgendo - è questo: poiché il semantema "contraddizione" non dice niente che non dica il semantema "impensabile", il riconoscimento in atto che la contraddizione è impensabile - riconoscimento inseparabile, come si è visto, dal cosiddetto "apparire della contraddizione" - è inseparabile dal riconoscimento che "contraddizione" (o impensabile) è un semantema. Con questo riconoscimento si impone una necessità: che lo "è" con cui si dice "la contraddizione è" resti indiviso, come ogni "è" (e Severino qui non può non trovarsi d'accordo), da ciò di cui lo si dice. E nella espressione "la contraddizione è", lo "è" non può venire diviso da "contraddizione" e, quindi, non può venire diviso dall'essere semantema della contraddizione (per esteso, infatti, l'e25. Si veda il Poscritto a "Ritornare a Parmenide", in Essenza de! nihilismo ; cit., p. 147. 26. "Coerenza ...", cit., p. 265. li passo di L 'imm~diato e la sua n~gazion~, cit., è a p. 132.

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spressione "la contraddizione è" suona: "il semantema 'contraddizione' è"). Se ora, come accade a Severino, si divide contra mentem "contraddizione" dal suo essere semantema, ci si trova nella situazione di dire bensi "la contraddizione è", ma di attribuire questo "è" (indivisibile da "il semantema 'contraddizione' è") a contraddizione simpliciter. Poiché, come si è detto, "contraddizione" è - per il riconoscimento in atto - altra parola per dire "impensabile", l'espressione equivalente "l'impensabile è" si trova nella situazione di attribuire lo "è" che è proprio del semantema allo impensabile simpliciter. Per questo "è" si dice - come dice Severino - che "contraddizione" (o nulla) è pensabile, mentre ciò che è pensabile, per questo "è" che è suo, è ancora e solo il semantema. E il semantema qui per esteso dice che "contraddizione" e "impensabile" sono lo stesso. Così, con il semantema "nulla" non si pensa il nulla, non si pensa, cioè, l'impensabile e pensare l'impensabile è contraddire cio che si ritiene di pensare e, dunque, contraddirsi. Questo, pertanto, è il senso preciso con cui diciamo - ma non senza fiducia nel! 'intelligenza del lettore - che pensare il nulla è non pensare. Ed è questo il senso in cui, nel mio lontano articolo Intero metafisico e problematicità pural7, scrivevo che il pensiero tiene presente se stesso "nel suo limite". Nel contesto del mio discorso, "limite" ha il significato classico della determinatezza di ciò che è. Appunto perché lo "è" di ciò che è non può venire separato da ciò che è, non si può dividere il pensiero da ciò che il pensiero "è" o, impropriamente parlando, dal suo essere -. Ora, un pensiero, come quello di Severino, che pensa l'impensabile (la contraddizione, il nulla) è appunto diviso da se stesso, ossia da ciò che esso "è". Il "pensiero" di Severino è diviso da se stesso. E' diviso da se stesso in quanto riconosce - almeno implicitamente - che la contraddizione è impensabile e, infatti, si articola come "toglimento della contraddizione" e, insieme, pensa la contraddizione ed anzi dimostra di doverla pensare per poterla togliere e, insieme, procede a togliere la contraddizione nella forma severiniana del "risolvimento dell'aporia". 27.

Rìv. di filoso neo-scolastica 57 (1965), pp. 305-321.

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L'argomento con cui Severino ha creduto di potermi "liquidare" (è la parola), ossia che quel "limite" è appunto il nulla28, era eccentrico rispetto al mio discorso quanto lo è appunto il pensare di cui parlano i "neoclassici" dal pensare per il quale la nostra scuola parla di "metafisica classica" e segna, anzi, l'effettiva distanza tra le due scuole. Che è come dire che quello non è un argomento, ma l'imposizione di uno statuto linguistico sul senso di un discorso che si pretende di confutare. Il senso, infatti, in cui i "neoclassici" dicono che l'essere viene pensato è quello stesso in cui dicono - esplicitamente con Severino - che si pensa anche il nulla e, dunque, essi non vedono la contraddizione della "semantizzazione dell' essere". Il senso in cui noi diciamo che l'essere non può venire pensato è che, per pensarlo semantizzandolo, bisogna pensare anche il non essere, ma - ed ecco il punto decisivo - per pensare il non essere o la contraddizione bisogna separare l'inseparabile, ossia bisogna separare il pensiero dal riconoscimento che "contraddizione" (o non essere) è altra parola 'per dire "impensabile", appunto separare il pensiero dal pensiero. Ed è ancora questo che sinteticamente indicavo con l'espressione "residuo gnoseologistico", espressione che Scilironi - ma evidentemente non solo lui - considera del tutto impropria per connotare la posizione di Severino'": Devo precisare intanto che non ho mai detto che Severino ed i "neoclassici" ritengono di essere "gnoseologisti" e, pertanto, non ha senso oppormi che intendono di non esserlo o che ritengono di avere superato, con l'identità semantizzata di pensiero ed essere, ogni alterità nel "rapporto" del pensiero con l'essere. Se per gnoseologismo, però, si intende correttamente e fondamentalmente ogni posizione per la quale "pensabile" non equivale a "intelligibile", per una posizione come quella che discuto in cui viene considerato pensabile anche il non-intelligibile, appunto il "nulla", quell'espressione è appropriata. Anzi, di più, il modo in 28. Essenza del nihilismo, cit., p. 147. La superficialità con la quale Severino, allora astro in ascesa, ha considerato le mie osservazioni mi ha dissuaso dal continuare a discu tere con lui. 29. "Coerenza ...", cit., pp. 264·265. Ontologia ... , cito, p. 52.

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cui Severino - insistentemente - sottolinea che Aristotele nel De interpretatione (21 a, 32-33) avrebbe eluso l'aporetica del nulla, trattata, invece, da Severino stesso nel capitolo IV della Struttura originaria'? non può ottenere qualificazione diversa. Se, infatti, Aristotele vi dice che "conoscere il niente" è conoscere che il niente non è e Severino osserva - come osserva - che, appunto per conoscere che il niente non è, bisogna conoscere "il nien te" ed affrontarne l' aporeticaè", ciò che Severino rimprovera ad Aristotele ed a tutta la metafisica classica è che Aristotele e tutta la metafisica classica non hanno separato - come lui fa - il pensiero dal pensiero, ossia non hanno disgiunto "pensabile" da "intelligibile" . Bisogna individuare, però, anche il punto in cui l'attenzione dei "neoclassici" al semantizzare - incluso lo iter di Severino che in quel semantizzare si fonda - si spiega nelle proprie ragioni, ed è quello che più volte è affiorato nel presente discorso a proposito del semantema come tale. Si tratta di una preoccupazione. La preoccupazione è questa: l'ambito del linguaggio - nella sua effettiva accezione - non può venire considerato se non nella interezza - o integralità - della intenzionalità conoscitiva. Per questa interezza non v'è, infatti, alternativa al "linguaggio". E qui si ristablisce il nostro accordo con i "neoclassici", nel senso che, per loro come per noi, l'ambito del filosofare non può essere quello del \ preteso "ineffabile". Comune è anche il convincimento che lo essere semantemi di "essere" e "pensare" non comporti un' alterazione di ciò che i semantemi stessi indicano, perché non è possibile istituire un confronto tra lo "essere" e il semantema "essere", tra il "pensare" e il semantema "pensare", senza riprodurre all'InfinitoIa semantizzazione dell'uno e dell'altro. Sotto questo aspetto non si può parlare di "gnoseologismo" a proposito dei "neoclassici", cosi come non si può parlare di "gnoseologismo" per noi. Il semantema - o linguaggio - non è tale, però, se non viene inteso e, dunque, inseparabilmente riconosciuto come ciò che il pensare non può subire. Per indicare questo intendere o "riconosce30. E. Severino, Destino della Necessità, Milano 1980, pp. 151-152, nota. 31. E. Severino, Destino della Necessità, cit., p. 152, nota.

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re", il quale non può risolversi in ciò attraverso cui si intende, né coincidere con l'asserzione (come tale sistematica e, in tal senso, "razionale"), M. Gentile usa - come si sa - la parola classica "intelligenza'r'". Esso non può venire disgiunto da ciò che la sua scuola denomina, con lui, "problematicità pura". Siamo così al punto in cui Scilironi - come ogni attento lettore, inclusi gli autori sui quali egli scrive - può misurare, per così dire, con cognizione di causa, il livello di profondità, o grado di approfondimento, richiesto per non prendere abbagli. Non appena si dice "è", si risponde ad una domanda e si intende dire "che è" e "che cosa è". Con ciò la domanda è la richiesta di intelligibilità. La domanda "è o non è?" è richiesta di intelligibilità perché lo "è e non è" (concrescenti semanticamente in "essere" e "non essere") è il non intelligibile che la domanda indica come ciò che essa non intende che "è" e, pertanto, non intende che la opposizione di "è" e "non è" sia originaria. Con ciò, la richiesta di intelligibilità è suscitata dallo intelligibile stesso e non può valere - essa - come una messa in questione dell'intelligibile come tale, così come essa - sottesa ad ogni affermazione - mette in questione ogni asserzione in cui, come risposta, si faccia valere non altro che l'opposto di ciò che essa intende: appunto, che l'opposizione di "è" e "non è" (o di positivo e negativo) sia originaria. Dire "che è" e "che cosa è", volenti o nolenti, è "definire". Ma - a differenza della descrizione che è fenomenologica, o constalativa, o semantica - la definizione non è tale se si fa valere in essa, immediatamente o mediatamenre, in qualsivoglia modo lo si faccia, con più o meno di coerenza formale, qualcosa del plesso che si intende di definire. Questa che, prima di essere una regola, è condizione intrinseca del "definire", è il senso profondo del "domandare tutto" che costituisce il concetto classico di filosofia. Il "domandare tutto", così inteso, svolto nella sua portata teoretica, impone proprio ciò che viene - e proprio dai "neoclassici" - disatteso: che nessun dato (che è dato d'esperienza), né, dunque, l'esperienza come "totalità" di esperiti (o, come Severino dice, "totalità semantica", così traducendo la bontadiniana "unità 32. M. Gentile, Breve trattato aifilosofia, Padova 1974.

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dell' esperienza") può venire fatto valere per definire l'esperienza come tale, ossia di ciò che ne assicura, senza circolo vizioso, l'intelligibilità. Per indicare questo - non per "definire" l'esperienza - diciamo che essa si converte integralmente in "domanda del principio", di un principio che sussista indipendentemente da essa e senza di cui essa non "è". Poiché "fisica" vuoi dire classicamente e fondamentalmente esperienza, l'espressione più indicata - non ostanti le ambiguità che ne accompagnano uso e storia - è ancora quella di "m eta fisica ". Se il pensiero di Severino dissolve una metafisica (e la cosa corre il rischio di costituire un episodio interno a quella "neoclassica") non è la metafisica che intendiamo che possa venire dissolta dal suo pensiero. Scilironi può, dunque, capire perché non posso accettare il suo verdetto che vede Severino trionfatore su tutti i suoi critici'", ma può capire anche un' al tra cosa - ed è più importante -, ossia che la opposizione di positivo e negativo, costitutiva del semantizzare, che i "neoclassici" considerano originaria, non può venire coerentemente mantenuta per l'esperienza come tale. Ed è un eufemismo per dire che vi si infrange. Vi si infrange perché lo "altro dell'esperienza", coerentemente richiesto per semantizzarla, in quanto "altro" è strutturalmente esperienza e cosi l'esperienza non è mediata, ma presupposta e presupposte vi restano tutte le sue mediazioni interne, e in quanto "altro dall'esperienza" è appunto ciò di cui non v' è esperienza. Che è come dire, in termini di "problematicità pura", l'impossibilità di far valere nella definizione qualcosa di ciò che si intende di definire. Per quanto concerne Severino - poiché il discorso qui verte direttamente su di lui - è da precisare ancora questo: il ricorso severiniano all' apparire (quello che anche Scilironi ritiene originale rispetto .alla matrice "neoclassica") è geneticamente e strutturalmente vincolato alla semantizzazione del divenire nei termini di "essere" e "non essere" e, quindi, ne segue le sorti. Con quel ricorso ali 'apparire - destinato, soprattutto come "ap33. l quali avrebbero comunque "mancato il segno". Si veda Ontologìa.. .. , cit., pp. 5054.

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