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Stefano G. Azzarà
Politica, progetto, piano Livio Sichirollo e Giancarlo De Carlo a Urbino 1963/1990
prefazione di Stefano Pivato
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affinità elettive
Prefazione
di Stefano Pivato
Da tempo Urbino non era stata più oggetto di uno studio così attento ed appassionato. La riflessione di Stefano G. Azzarà è il risultato di una ricerca ampia ed accurata, di una ricognizione precisa e concreta. Certamente non tutte le sue osservazioni appariranno al lettore condivisibili: è il destino di ogni lavoro condotto sul filo della passione civile e che, soprattutto sulla Urbino di oggi, appare percorso da un pessimismo di fondo. Il tessuto urbano della città ducale ha subito una radicale trasformazione, l’economia, la vita sociale sono cambiate in modo sostanziale. Perfino la personalità storica dell’urbinate è mutata. Tutto ciò, tuttavia, è l’eetto, con luci e ombre, di un indubbio processo di modernizzazione, che ha evitato alla città di ricadere nella ricorrente tentazione di separatezza e di isolamento, in un ripiegamento nostalgico, inconcludente e recriminatorio. Il saggio di Azzarà approfondisce con spirito critico tutte le controverse vicende urbanistiche del territorio urbinate e assume come asse della sua ricerca lo scarto tra la positiva concretezza dei due Piani regolatori generali della città, elaborati da De Carlo, e le dicoltà e le incertezze della loro attuazione. Occorre però precisare che non sempre la realizzazione parziale dei progetti previsti dipende da una scarsa consapevolezza e da un facile pragmatismo del personale politico-amministrativo. Il percorso accidentato del primo strumento urbanistico proposto da De Carlo lo sta a dimostrare. 5
Il primo PRG (1958\1964) apre una stagione politico-culturale straordinaria per la città. Il Piano si inserisce, come un contributo importante, nell’ ampio dibattito che si apre in Italia sul futuro dei centri storici (per la prima volta la cultura urbanistica del paese si pone il «problema di conservarli e di farli continuare a vivere»). Nello stesso tempo grazie al progetto di De Carlo può prendere forma una campagna nazionale, che vede la partecipazione dei maggiori intellettuali italiani, per la difesa e la salvezza di Urbino, la cui cinta muraria era pericolante e crollata in alcuni punti. Risultato concreto di tale allarme sarà la presentazione e approvazione di una Legge speciale per Urbino (maggio 1965-70) che prevedeva provvedimenti per la tutela del carattere artistico e storico della città e per le opere di risanamento igienico e di interesse turistico (stessa legge per Venezia, Siena ed Assisi). Questa vasta iniziativa, unitamente alla campagna per la Valle dei Templi di Agrigento,, porterà Agrigento porterà alla cosiddet cosiddetta ta Legge-Pon Legge-Ponte te del 1967, che imponeva imponeva la delimitazione dei centri storici, l’obbligo per i comuni di dotarsi del PRG e dei piani particolareggiati per i centri storici. Ci sembra che Azzarà condivida pienamente il progetto del primo Piano. Per la verità occorre dire che esso esprimeva la comune visione che i cittadini avevano della loro città. In un pri mo tempo fu sostenuto da un consenso unanime. Le prese di posizione favorevoli di Carlo Bo, di numerosi docenti, di importanti letterati influirono positivamente sull’accoglienza delle soluzioni urbanistiche. Poi, via via, le critiche divennero sempre più insistenti e puntuali. Lo stesso architetto, infine, con una gesto di definitiva rottura, pose termine alla collaborazione con l’Amministrazione comunale. Si può di re, ora, che forse dal PRG ci si attendeva molto di più di quello che realisticamente poteva dare. L’attivismo di De Carlo, l’interesse nazionale suscitato, il coinvolgimento emotivo della popolazione (assemblee con centinaia di cittadini) avevano aperto la comunità ad una attesa di ripresa economica, di rinascimento sociale e civile. Venuto meno il genuino entusiasmo iniziale ci si accorse che molte scelte operate da De Carlo erano frutto di analisi non adeguate, che non avevano colto le dinamiche profonde delle trasformazioni che stavano avvenendo
nella realtà urbinate. Col senno di poi si può aermare che si trattava di errori di valutazione: il giudizio liquidatorio sull’economia agricola; la sottovalutazione della vitalità delle frazioni e dei borghi r urali; la sfiducia nella capacità espansiva dei distretti industriali. Non ultimo la insistita limitazione degli insediamenti residenziali. Il Piano puntava tutto sullo sviluppo dell’Università dell’Università,, del turismo e dell’attività culturale. Ci si avvide ben presto che la gestione del Piano riapriva vecchi conflitti tra ceti urbani e ceti rurali e faceva saltare i precari equilibri politici e sociali faticosamente costruiti nel dopoguerra. Come ricorda la stampa locale, in una aollatissima conferenza dell’on. Luigi Berlinguer il progetto prog etto di De Carlo venne sottoposto ad una critica radicale e senza appello. Non è certo una forzatura ricordare che emerse, sin da allora, il dubbio che la debolezza dello sviluppo complessivo futuro della città e del suo territorio sarebbero dipesi non tanto dall’incerta e contraddittoria attuazione del Piano, quanto dalla sua realizzazione. Anni dopo scriveva , con accento autocritico, lo stesso Livio Sichirollo, cui si deve in gran parte «la filosofia ispiratrice del Piano»: «L’operazione piano non fu facile. Mi domando oggi (ma alcuni, lo riconosco, se lo chiedevano già alla fine degli anni Cinquanta) se quelle scelte furono giuste». Il rapporto del Comune con De Carlo si ristabilì alla fine degli anni Ottanta, quando come doveroso riconoscimento della sua significativa attività di architetto gli fu conferita la cittadinanza onoraria. Negli stessi anni gli fu adato l’incarico di redigere il nuovo PRG della città (1989-1994). Azzarà coglie bene le dierenze tra «gli anni eroici» ed entusiasmanti del primo piano e quelli del secondo. De Carlo, ora, ha un tono minore, riservato, prudente, non chiede più il confronto, il colloquio diretto e franco con le aollate e rumorose assemblee cittadine. Lo scarto tra il suo inizi ale progetto (1958-64) e la realtà su cui ora deve intervenire genera in lui «un senso di fatalità e di rassegnazione». In questa fase sembra che De Carlo con il nuovo strumento urbanistico sia più disponibile a prestare attenzione alle richieste di maggiore concretezza, alle domande tese a definire un più pragmatico rapporto fra lo sviluppo edilizio e le istanze di tutela del
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patrimonio storico ed ambientale. In sostanza, l’idea base da cui nasce il progetto PRG è quella di contenere la crescita, avviata negli anni ’60, della città a ridosso del centro storico con aree vincolate a verde e con un Parco tecnologico e scientifico connesso con i parchi territoriali. In questa prospettiva di revisione di precedenti convinzioni sono individuate con più larghezza le aree di insediamento residenziale, con maggiore precisione e determinazione le zone di espansione della piccola e media industria. Viene riconsiderata la potenzialità dell’agricoltura attraverso la valorizzazione dei nuclei rurali e la creazione dei Parchi territoriali. Un punto centrale del piano riguarda lo stato dell’Università e il suo ruolo all’interno del centro urbano. È una riflessione complessa e a volte contraddittoria che mira ad un eettivo ridimensionamento dell’Ateneo per puntare su di un suo sviluppo qualitativo. Allora le perplessità, lo scetticismo nei confronti di questa ipotesi furono molto pronunciate. Ai più risultò priva di coerenza, e velleitaria rispetto alla situazione di fatto. Oggi ogni discorso è più complicato e dicile, e sicuramente, con urgenza, andrà ripreso ed approfondito in altra sede.
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1. L’idea di pianificazione e la sua crisi
Progetti vecchi e nuovi
Primavera del 2007: la Giunta comunale di Urbino annuncia con enfasi alla stampa e alla cittadinanza che sono ormai pronti i progetti esecutivi per una serie di importanti opere pubbliche. Si tratta del parcheggio di Porta Santa Lucia – modificatosi per ragioni di sostenibilità finanziaria nelle ripetute revisioni del progetto sino a diventare un piccolo centro commerciale – e di due altri insediamenti ibridi, in parte commerciali e in parte di servizi, da realizzare nell’area del Consorzio e presso l’ex Fornace Volponi (entrambi i siti sono collocati poco al di sotto delle mura storiche). Sono interventi che, prevedibilmente, modificheranno in profondità una parte della città e delle sue dinamiche di funzionamento socioeconomiche, con l’obiettivo dichiarato di rivitalizzare un’economia cittadina complessivamente stagnante e di orire nuovi servizi ai cittadini. Due opere di importanza strategica, dunque, che la Giunta presenta come l’avvio di un ambizioso rilancio complessivo della città ma le cui conseguenze pratiche sono in realtà dicilmente prevedibili. Che impatto avrà sul già asfittico commercio che si svolge entro le mura, ad esempio, la costruzione alle porte della città di un complesso di negozi per una superficie pari a circa la metà di quella attualmente destinata al commercio, con l’aggiunta di circa 4.000 metri quadrati1? È 1
Cipollini, 2007. 11
compatibile questo insediamento con l’idea di organizzare e valorizzare un centro commerciale naturale qualitativamente orientato? Perché progettare un parcheggio per risolvere i problemi di traco attorno alle mura per poi trasformarlo in un centro commerciale che inevitabilmente genererà traco aggiuntivo? Finanziare gran parte degli ingenti costi di quest’opera (circa 22 milioni di euro sarà il costo complessivo) con i proventi dei parcheggi a pagamento, inoltre, non significa dover incentivare i flussi di traco e sperare che a Urbino arrivino ancora più macchine, rinunciando per sempre a pensare un modello di mobilità diverso e meno invasivo? Che dire poi della dismissione a privati di un’area pubblica collocata in una posizione strategica di grande valore come quella del Consorzio per la realizzazione di esercizi anche commerciali? Non era il caso di pensare in quella zona ad un intervento diverso che consentisse di ridisegnare le funzioni amministrative della città, decentrando ad esempio una serie di uci pubblici e liberando parte del centro storico per altre funzioni? E come si inserirà, infine, il progetto di ristrutturazione in chiave commerciale dell’ex Fornace Volponi, con annesso parcheggio scoperto, in un paesaggio tra i più delicati e fragili del nostro Paese? Sono solo alcuni – e forse nemmeno i più inquietanti – dei molti interrogativi che potrebbero essere sollevati a proposito di questi e di altri progetti in corso d’opera a Urbino. Di questi interrogativi non c’è però traccia né sui giornali locali, né, soprattutto, nelle discussioni che in Giunta e in Consiglio Comunale hanno accompagnato il tormentato iter burocratico di questi onerosi programmi edilizi. In realtà, nessun vero dibattito pubblico ha coinvolto la cittadinanza, che assiste indolente agli eventi, ormai completamente disabituata ad essere coinvolta nelle scelte di gestione del territorio. E nemmeno gli amministratori sembrano sfiorati da questi dubbi, che respingono invece con fastidio e irritazione nonostante nessuno studio di rilievo scientifico garantisca l’adeguatezza e le probabilità di successo di interventi così massicci. Sono opere programmate già da molti decenni, viene detto, già ripetutamente annunciate in sin troppe campagne elettorali. Che i tempi siano cambiati e il modello di sviluppo cementocentrico sia stato abbondantemente superato in molte città storiche del Centro Italia comparabili con Urbino, è questione
che nemmeno si pone. Che lo scheletro della bretella, un’opera inutile e costosissima presentata a suo tempo come la soluzione dei problemi di traco della città, sia ancora lì ad ammonire gli amministratori, è un fatto che viene ignorato. I progetti sono stati assi entro i termini di legge presso l’ucio tecnico poco prima dell’arrivo del caldo di luglio e amen: nell’autunno 2008, un anno dopo, si parte con i lavori. Facciamo adesso un piccolo salto indietro nel tempo. Negli anni Sessanta del Novecento come per tutto il decennio successivo, la città di Urbino aveva saputo discutere in maniera intensa e appassionata dei problemi strutturali che ne stavano aggravando il declino e aveva saputo guardare in faccia le proprie – in partenza tutt’altro che rosee – prospettive di sviluppo. È stata una riflessione di grande respiro che ha segnato un momento particolarmente alto nella vita politica e amministrativa della città, perché Urbino ha saputo interrogarsi non soltanto sulle piccole disfunzioni legate all’ordinaria amministrazione delle cose ma sul ruolo che un luogo come questo – con le peculiarità che derivano dalla storia di cui questa città è erede – avrebbe potuto svolgere in un’epoca di grandi trasformazioni e modernizzazioni, utilizzando l’innovazione e il cambiamento per uscire definitivamente dalla propria crisi. Ed è stata una riflessione, inoltre, che non ha impegnato soltanto i suoi uomini politici e i suoi amministratori, come se si trattasse semplicemente di adempiere ad un’ordinaria procedura burocratica, ma che ha saputo coinvolgere i suoi intellettuali, le associazioni che ne costellavano il tessuto sociale e persino l’intera cittadinanza in un dibattito collettivo e partecipato di grande spessore civile. La politica, con ciò, aveva saputo realizzare pienamente se stessa nella sua dimensione di visione strategica e aveva saputo incarnarsi in un’azione progettuale di lungo periodo che aveva la prospettiva e l’aspirazione dell’universalità. Essa svolgeva così un’opera di reale direzione ed egemonia culturale, sollecitando una crescita generale della consapevolezza civile e politica di quella società di cui si prendeva cura e realizzando nella pratica quella cosa complicata e di dicile definizione che ci ostiniamo a chiamare democrazia.
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Politica o amministrazione?
Come dimostrano non soltanto le opere citate all’inizio ma la generale frenesia edilizia che ha animato tutte le ultime amministrazioni urbinati, non si può dire che nei decenni a noi più vicini la vita politica cittadina abbia saputo mantenersi all’altezza di quel dibattito e di quella riflessione. Bisogna ammettere, piuttosto, che per tutta una serie di ragioni che cercheremo di ricostruire – in parte interne ed in parte esterne alla città, in parte soggettive ed in parte oggettive – la tensione morale e civile di quella stagione ormai lontana è andata progressivamente deperendo e che gran parte di quella capacità di visione strategica è stata perduta. Quale profonda perversione culturale, quale idea di spazio pubblico e di città avrebbe consentito, altrimenti, anche solo di pensare ad un quartiere come la Piantata, collocato – in tutta la sua oscenità di pastiche postmodernista – non nella periferia semindustriale di una normale città ma sulle colline a ridosso di Urbino? Non si tratta certamente di un fenomeno che riguardi soltanto la nostra città. Come appare ormai evidente, la crisi della ragione politica novecentesca e delle istituzioni in cui questa aveva saputo oggettivarsi nel secondo dopoguerra è il problema generale e drammatico di un’intera epoca. Ad Urbino come in tutto il Paese – ma non troppo diversa è la situazione persino in molte tra le regioni più avanzate dell’Europa occidentale, si potrebbe dire – le dinamiche reali di sviluppo della società contemporanea hanno fatto sì che ogni sforzo di sintesi progettuale fosse gradualmente rovesciato dalle esigenze dell’amministrazione dell’esistente e ciò che un tempo veniva inteso e promosso come una politica civilmente responsabile mutasse volto. Amministrazione significa svolgimento tecnicamente asettico di procedure standardizzate e neutrali, nella loro obiettività, oppure dovrebbe essere qualcosa che ha a che fare con le capacità progettuali degli uomini? Progettualità è sintesi, è superamento in avanti delle contraddizioni nella dimensione di quell’universale che tende al bene reso pubblico, al bene 2
Cfr. Harvey, 1993, p. 15 e sgg. 14
reso comune. È la sintesi, cioè, che interviene in quella gigantesca e complessa collisione tra gli interessi organizzati dei grandi gruppi che costituiscono l’intrico di ogni società moderna, cercando di portare tra di essi una composizione che non sia rassegnato rispecchiamento dei rapporti di forza reali, mera adesione al dato di natura. Certo, anché sia realmente tale, l’universale – come insegnava Hegel – non può pretendere di annientare ogni particolarità ma deve saperla assumere e realizzarsi proprio attraverso ciascuna di esse; deve sciogliersi cioè dalla propria iniziale astrattezza e farsi universale concreto. Ma quando in questo continuo scontro di interessi ogni equilibrio viene alterato dal prevalere sistematico di quella parte che già di per sé è dominante, è inevitabile che ogni progettualità deperisca. Quando è la legge del più forte ad aver risolto a priori le contraddizioni nella dimensione del particolare e quando questa dimensione si è impossessata anche dell’oggettività di quelle istituzioni che le facevano da freno, rendendole un proprio strumento di controllo e dominio sulle risorse materiali e intellettuali di una comunità, nulla allora impedisce lo scatenamento degli interessi parziali e degli egoismi sociali. Ogni progettualità non può che cedere di fronte alla strapotenza di quella spontaneità che vuole solo essere sciolta da ogni vincolo e non ammette altra legge se non quella della propria forza e capacità di aermarsi da sé. Per usare un linguaggio più concretamente politico, si può dire che nel corso del Novecento è stata la spinta delle classi subalterne in ascesa, la loro strutturale solidarietà con la costruzione di una democrazia realmente moderna e integrale, che infrangesse le rigide gerarchie di ceto della vecchia Italia, ad aver avuto bisogno di programmazione, di politica intesa come sintesi e piano di portata universale. Quando, per diverse ragioni, questa spinta è cessata e le classi dominanti si sono ecacemente ristrutturate riaermando la propria egemonia, queste hanno piegato la politica a mero servizio dei loro interessi spontanei e dunque ad amministrazione in apparenza tecnocratica e neutrale di ciò che va semplicemente da sé. Esiste ancora quella cosa che siamo abituati a intendere come democrazia moderna, oppure questa è stata semplicemente una breve parentesi della storia degli uomini, un modello politico e sociale storicamente determinato che ha occupato la scena pubblica dalla fine della Seconda guerra mondiale 15
alla fine del XX secolo ma che era destinato, come ogni fenomeno storico, a tramontare? È un interrogativo troppo grande per i limiti dell’intervento che qui ci proponiamo ma è anche di questo, a guardar bene, che ci stiamo occupando. Non stiamo arontando dunque una mera questione locale, che possa risolversi chiamando sbrigativamente in causa la maggiore o minore qualità soggettiva delle diverse generazioni di politici ed amministratori che si sono susseguiti nella nostra città. Urbino vive nel mondo moderno e risente di conseguenza, anche nella sfera della politica, di quella tendenza di fondo che è il tratto più marcato della nostra epoca. Parlando di Urbino e delle linee direttrici che hanno segnato il profilo della sua vita più recente, parliamo perciò anche di tante altre città, intendiamo sollevare una questione politica di portata generale. E però il problema di partenza rimane intatto perché è con questa città che oggi dobbiamo confrontarci e perché proprio per quella caduta di visione strategica – per quella crisi e consunzione del quadro politico e della stessa nozione di democrazia – questa è oggi una città che sore . Urbino e la sua università: il pericolo della monocoltura
Tutto in questa città è storia e cultura. Pur volendo sistematicamente evitare ogni retorica – e in particolar modo l’autocompiacimento di quella retorica localistica e antiquaria che è sempre stata propria delle tendenze più conservatrici – non è possibile cominciare un ragionamento su Urbino senza ribadire, una volta di più, che vivere ed arrivare tra queste mura e questi palazzi significa vivere ed arrivare in un pezzo di storia e di storia dell’arte italiana e mondiale. E tuttavia la consolazione finisce qua. Nonostante tutto il passato che grava su di noi, nonostante ogni mattone e ogni arco individui qui una pluralità di luoghi con una propria densità qualitativa, nonostante l’incrostazione di mondi storici e vitali che occhieggia da ogni vicolo, Urbino rischia oggi di diventare una realtà artificiale, uno spazio geometrico senza attriti e senza qualità. Basta percorrerne le strade durante le festività, ad esempio, quando l’università è chiusa e gli studenti hanno ormai abbandonato il centro storico, per abbracciare il vuoto che la sooca e cogliere con un solo sguardo l’atmosfera spettrale che si sta impossessando 16
di essa. Urbino sta diventando oggi un non luogo deprivato di anima e di identità e i suoi monumenti appaiono soltanto come le pietre mute di uno scenario in cui si svolge una finzione ciclica e rituale. È questo il problema cruciale che minaccia oggi, se non l’esistenza, il senso stesso della nostra città, la sua ragion d’essere. Ed è un problema che, una volta di più, rimanda a quel nodo sempre irrisolto costituito dal rapporto tra la città e il suo principale centro produttivo – di ricchezza e di idee –, la sua secolare università. Fin troppo numerose sono le città universitarie in Italia. Soprattutto negli ultimi vent’anni, la “riforma” che ha avviato il processo di autonomizzazione degli atenei ha consentito una moltiplicazione molto spesso incontrollata, abnorme e ingiustificata delle sedi universitarie e dei distaccamenti. Ma già prima della riforma il numero delle università collocate in centri urbani di modeste dimensioni – come Pisa o Venezia, Lucca o Siena –, e dunque realtà in qualche modo comparabili con la nostra, era notevole. Per il rilievo particolare che le università hanno nella vita di queste piccole città, anzi, si può dire che la definizione di città universitaria abbia un senso soltanto per loro. E però, mentre in tutte queste altre realtà l’università era ed è rimasta soltanto una delle varie funzioni che la città accoglie, una funzione che ingrana con le molteplici attività che in essa si svolgono, facendo insieme a queste sistema, ad Urbino la situazione si presenta molto diversamente. Tutto qui ruota attorno all’università. L’intera vita della città gravita attorno alle istituzioni accademiche e la quasi totalità del lavoro sociale complessivo che essa eroga è coinvolta in qualche modo e a diversi livelli nel funzionamento dell’università. Di fatto Urbino è la sua università. Essa non è più minimamente pensabile senza questa e la sua vita ne risulta condizionata, nel bene come nel male, in ogni suo aspetto. Se certamente, come è stato detto in passato, era necessario che Urbino trovasse una sua «vocazione specializzata» a partire da «un gruppo di funzioni dominanti», dobbiamo constatare che il modo in cui ciò è stato attuato ha fatto sì che si perdesse gradualmente proprio ciò che si andava cercando e cioè un «equilibrio tra le normali funzioni di tutte le città» 3. 3
Benevolo, 1966, p. 231. 17
Non è un problema nuovo, ovviamente. Sin dall’immediato dopoguerra, questo è stato il punto di snodo intorno al quale si è delineato il destino della città e anche il dibattito urbinate degli anni Sessanta, come vedremo, ne fa il proprio centro vitale. E però esso si presenta oggi in una maniera diversa ed inquietante rispetto al passato perché l’università è divenuta, da risorsa che era, anche un possibile e attuale fattore di crisi. «L’università è un’organizzazione sociale complessa e per questo deve essere una parte essenziale del territorio urbanizzato cui appartiene» 4, considerava Giancarlo De Carlo nel 1964. Pertanto, «i rapporti tra Università e Città debbono essere di stretta integrazione» e «non deve esistere segregazione degli studenti rispetto alla città come non deve esistere segregazione dei cittadini rispetto all’Università». Al contrario, «la trasmissione di energia culturale deve riflettersi sull’energia urbana e viceversa, in modo che le due parti realmente appartengano a un tutto». A partire da un certo periodo, lo sviluppo esponenziale dell’università, in relazione ad un concomitante andamento demografico e produttivo della città che ha avuto numeri molto diversi, ha però assunto un ritmo talmente spropositato da mettere a repentaglio ogni equilibrio. Urbino ha vissuto una crescita perversamente diseguale e in questa perversione rischia oggi di naufragare e perdere se stessa. L’esplosione dell’università di massa ha attratto un flusso crescente di studenti che è stato indirizzato verso una permanenza residenziale concentrata prevalentemente nel centro storico. L’iniziale convivenza degli studenti con gli abitanti del centro – fenomeno positivo, normale e caratteristico di tutte le città universitarie – si è gradualmente trasformata, con ciò, in qualcosa di molto diverso. Il processo di inurbamento della popolazione delle frazioni, che per via della crisi strutturale dell’agricoltura si andava trasferendo dopo la guerra nei paesi limitrofi ma anche nel centro storico, ripopolandolo parzialmente, si è ad un tratto completamente interrotto. In concomitanza con il sorgere delle nuove zone di espansione, anche coloro che già risiedevano nel centro e che da tempo integravano il 4
De Carlo, 1964, p. 165. 18
loro reddito ospitando gli studenti nelle proprie stesse case hanno cominciato ad abbandonare la città per trasferirsi fuori dalle mura, riservando le loro abitazioni all’uso attuario. Per accumulazione, la città si è ad un certo momento svuotata pressoché interamente dei propri abitanti per lasciare spazio agli studenti, il cui flusso è presto dilagato fino ad inondare ogni casa e ogni stanza, ogni sottoscala e ogni bugigattolo. La possibilità stessa di trovare un equilibrio e un qualche tipo di compatibilità si è a questo punto gravemente compromessa. La città è stata volontariamente lasciata in mano agli studenti e ha scelto di perdere se stessa. Che cosa può mai rimanere di una città i cui abitanti si deportano da sé, che svuotano le proprie case per riempirle di estranei e che con esse intrattengono un rapporto soltanto al momento di riscuotere l’atto e imbiancare le pareti? Rimangono, appunto, le case e i palazzi; che a scorno di tutta la storia che ne trasuda e della loro nobiltà artistica sono di per sé cose inerti, cose che non bastano a rendere viva una città. Ecco, nonostante tutta la vita che a volte sembra tracimare da essa, Urbino assomiglia sempre più a una città morta perché questa vita si svolge quasi soltanto al livello di un ciclo di consumo che si ripete eternamente identico a se stesso e che, una volta esauritosi, non lascia alcuna traccia di sé. È il contenitore vuoto in cui si incrociano e si danno il posto infinite vite intercambiabili che entrano ed escono dalle medesime case, riempiono le aule universitarie, sciamano da un locale commerciale all’altro, ma che rimangono inevitabilmente estranee al luogo in cui transitano. Esse non possono né vogliono interagire con la città e questo non soltanto perché prima o poi la lasceranno ma perché, al di là del suo fantasma di pietra, questa città ormai non c’è più. Urbino rischia oggi di essere non già una città e nemmeno – come pretenziosamente si vorrebbe – una “città-campus”, bensì un enorme albergo a tema con vista sul Palazzo ducale, una sorta di curiosa depéndance della riviera collocata in un luogo simbolico del Rinascimento italiano. Un ranato hotel postmoderno dalle facciate in mattoncini che anno dopo anno accoglie il susseguirsi indierente di sempre nuove generazioni di ospiti a tempo determinato. Questi usufruiscono dei servizi della ditta, studiano, dormono e consumano ma, soprattutto, liberano la camera dopo aver pagato il conto, per far posto a un numero indefinito di altri uguali a loro. 19
2. Urbino, la “città-campus” e i suoi problemi di modernizzazione
Una città piena di contraddizioni
Migliaia di giovani arrivano ogni anno ad Urbino, attratti dall’università residenziale. Giovani che hanno un’età compresa grossomodo tra i 18 e i 28 anni e che arrivano prevalentemente dalle Marche e dalle regioni del Sud Italia. Giovani che spesso provengono da piccole realtà di paese e che sono, nella maggior parte dei casi, alla loro prima esperienza possibile di vita adulta e indipendente. Sostanzialmente fuori dal controllo genitoriale come di ogni altra forma di autorità, essi prendono in mano la propria vita, incontrano un mondo diverso dal proprio e imparano piano piano a gestirsi bene o male da sé. Essi si mescolano e interagiscono, si amano e fanno amicizia, studiano, confrontano le proprie esperienze e si arricchiscono reciprocamente. È un laboratorio sociologico unico e senza pari, Urbino, nel quale sarebbe possibile studiare le tendenze e gli orientamenti della realtà giovanile in un ambiente pressoché puro. Ma un laboratorio è appunto una realtà artificiale ed è l’esatto opposto di una città, la quale, invece, vive e pulsa della crescita di relazioni che sedimentano e diventano storia. Nel corso degli anni, questa situazione artificiale ha condensato un numero crescente di contraddizioni. Oggi esse sono divenute talmente laceranti da essere giunte molto vicine al limite della rottura. Tra la popolazione studentesca e gli urbinati si è creato un rapporto dai tratti perversi. Tra le due comunità non esiste praticamente comunicazione. 21
O meglio, non esiste comunicazione che non sia fondata quasi esclusivamente su un rapporto di servizio, utilità ed interesse. Gli urbinati che hanno lasciato le case del centro per trasferirsi nella zona nuova, oppure in campagna, quando attraversano le mura sembrano muoversi sperduti, come all’ingresso in una città che non è più la loro e che non riconoscono. Una città ben presidiata da altri che, per il loro esser di passaggio, saranno sempre e comunque percepiti come degli estranei. Degli alieni che si sono impossessati di una realtà che un tempo aveva un legittimo proprietario e che quotidianamente la sporcano e la consumano, nell’uso reiterato e poco accorto di chi non ha un legame di intimità e familiarità con le cose e con i luoghi. Nei confronti di questi invasori, molti urbinati hanno maturato un sentimento di astio e di sordo rancore, come di qualcuno che si sente ingiustamente espropriato di una cosa che gli appartiene da generazioni. È un’avversione che la vicinanza e la frequentazione non attenuano ma che si presenta ancor più inacidita negli atteggiamenti di quei pochi abitanti che nel centro ancora risiedono e che devono quotidianamente fare i conti con le difficoltà di una convivenza coatta. Il rumore degli schiamazzi la sera, le strade laterali imbrattate, il lastricato della piazza coperto di rifiuti… Impossibile sostenere il confronto con un nemico spropositatamente più numeroso e la cui energia vitale giovanile è incontenibile. Ma sbagliano questi urbinati a credere di essere i soli a provare disagio. Se essi si sentono espropriati, bisogna allora chiarire che si sono espropriati da sé e che questo sacrificio è ben remunerato, perché garantisce a molti di loro una cospicua rendita fissa al riparo delle tasse e un enorme mercato dal quale drenare risorse. Gli studenti, infatti, si sentono dal canto loro le vittime di un sistema organizzato di dissanguamento sistematico. Dal momento in cui mettono piede in città, imparano in fretta che le principali relazioni con questo luogo saranno di natura freddamente economica. Le tasse dell’università, anzitutto, i cui scaglioni riproducono la perversione del sistema fiscale italiano premiando gli evasori. I problemi dell’alloggio, poi: bisogna trovare una stanza o almeno un posto letto e fare i conti con un mercato degli atti che soprattutto sino ad alcuni anni fa aveva raggiunto prezzi vertiginosi e del
tutto ingiustificati. Senza tener conto del fatto che, spesso, le condizioni igienico-sanitarie e di abitabilità degli immobili del centro storico sono fortemente carenti. Il costo della vita, infine, è ele vato anche per i generi di prima necessità come il pane mentre persino gli esercizi commerciali della stessa catena praticano entro le mura prezzi più alti di quanto non facciano appena poco al di fuori.
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Isolamento, oligopolio ed economia in nero
La particolare condizione di isolamento di Urbino, caratterizzata da strutturali dicoltà di collegamento che frenano la mobilità e i trasporti, peggiora ulteriormente la situazione. Già nel lontano 1966, una relazione dell’amministrazione comunale denunciava: «Si è più volte ripetuto che i fattori che hanno determinato [l’]arresto economico del territorio del Comune di Urbino sono in massima parte da ricercarsi nei collegamenti e nella viabilità»5. Lo stesso isolamento che un tempo bloccava lo sviluppo, ai giorni nostri favorisce oggettivamente la formazione, nel settore dei servizi della più varia natura, di veri e propri oligopoli privati se non addirittura di monopoli. Esiste ad Urbino un vasto, potente e ramificato sistema oligopolistico che grava sulla città come una cappa di piombo. Il centro storico, ad esempio, è presidiato in pratica da un solo negozio di distribuzione alimentare, oltretutto di dimensioni tutt’altro che grandi. Inevitabilmente, esso determina i prezzi delle merci secondo logiche che hanno un riscontro soltanto parziale nella legge della domanda e dell’offerta. Gli altri negozi di generi alimentari presenti, infatti, sono ancora più piccoli e non sono in grado di condurre una concorrenza generalizzata e comparabile, potendo avvalersi di un’oerta molto ristretta. Alcuni di essi si sono di conseguenza specializzati su un’oerta qualitativamente superiore, puntando su un mercato diverso e su fasce di reddito più elevate. Il tradizionale mercato del sabato mattina, ovviamente, può soltanto in
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Comune di Urbino, 1966, p. 250.
senso limitato costituire un’alternativa. Non arontiamo qui il problema dei servizi commerciali di altro tipo, quali ad esempio i negozi di abbigliamento. Essi non si occupano infatti di generi che in questo contesto possano definirsi di prima necessità, dato che – per via dei prezzi elevati – la maggioranza della popolazione studentesca preferisce rifornirsi preventivamente nelle località di provenienza. Parliamo invece del circuito di esercizi pubblici costituito da bar, pub e ristoranti. Per una serie di dinamiche che illustreremo più sotto, i servizi di ristoro e intrattenimento hanno assunto un ruolo centrale nel sistema cittadino e non si capisce Urbino e il tipo di vita che in questa città oggi si svolge senza tener conto di questo settore. Al riparo delle mura cittadine, che li salvaguardano da ogni rischio di ingresso di nuovi soggetti competitori, questi esercizi hanno realizzato una sorta di tacito accordo di cartello con il quale si spartiscono il mercato evitando ogni accenno di concorrenza. Si tratta di un accordo oggettivo e non necessariamente esplicito, perché il numero dei locali è ridotto rispetto all’ampiezza del mercato e alla domanda eettiva e dunque ogni possibilità di concorrenza sul piano economico è in realtà resa molto dicile già a monte. In locali pubblici come i bar e i ristoranti ciò ha conseguenze ovvie: prezzi mediamente alti e molto simili tra un locale e l’altro; qualità del servizio e del prodotto mediamente bassa, con scarsa innovazione dell’oerta. Particolarmente grave è la situazione dei pub, che servono il mercato più ricco e cioè quello notturno. Nella situazione oligopolistica che abbiamo descritto, gli introiti sono assicurati in misura suciente per tutti e non c’è dunque alcun incentivo al miglioramento del servizio e alla dierenziazione dell’oerta. Ci sono pochi casi isolati in cui una precisa scelta di gestione o condizionamenti esterni dovuti alla posizione e alle dimensioni dell’esercizio hanno determinato una specializzazione su un segmento di mercato più definito. Tutti gli altri locali hanno fatto una scelta generalista e orono a tutti le stesse cose e agli stessi – alti – prezzi. Al di là del fattore strettamente economico, è questa povertà culturale degli operatori, questa mancanza di reale spirito di iniziativa imprenditoriale a sconcertare. E poi la questione degli atti. Tocchiamo con ciò il problema fondamentale, a questo livello di analisi, della vita cittadina. Anche in
questo caso, la limitatezza dell’oerta di fronte alle dimensioni notevoli della domanda, soprattutto negli anni precedenti, ha pregiudicato a priori il gioco economico e ha inquinato il mercato. Trattandosi di informazioni sensibili e di dicile reperibilità, non è stato possibile al momento ottenere dagli uci pubblici territoriali dati oggettivi circa la distribuzione della proprietà immobiliare destinata ad uso attuario e la sua relativa concentrazione 6. Si può presumere, tuttavia, che esistano alcune grandi realtà proprietarie di un numero considerevole di unità abitative e che a queste si aanchi, però, una proprietà individuale o familiare piuttosto diusa, che opera con una, due o al massimo tre unità abitative. Ciò fa della rendita attuaria una risorsa generalizzata alla quale larghe fasce della cittadinanza attingono, sebbene, ovviamente, la maggioranza ne sia esclusa. Anche in assenza di un cartello vero e proprio, si è determinato però un oligopolio di fatto che soprattutto negli ultimi anni ha spinto i prezzi degli atti vertiginosamente verso l’alto. E un oligopolio, del resto, è senz’altro tangibilmente presente nel caso delle agenzie immobiliari, alle quali è in gran parte adata la gestione particolareggiata del mercato. Ci sono, ovviamente, dierenze dovute alle dimensioni, all’ubicazione e alle caratteristiche degli appartamenti e delle stanze ma comunque si può dire che attualmente i prezzi si aggirino in media tra i 220 e i 380 euro al mese per una stanza singola e tra i 180 e i 240 per un posto letto in doppia 7. Ribadiamo che si tratta qui di un problema fondamentale. Ma ciò è vero non soltanto per gli studenti, che come abbiamo detto sostengono l’onere di spese nel più dei casi ingiustificate, specie di fronte alle condizioni di certe unità abitative. È vero soprattutto per la città, che sotto il peso degli atti rischia di crollare. La rendita attuaria ha raggiunto un livello spropositato nel contesto dell’economia cittadina, un livello
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È stato possibile, invece, eettuare un’analisi delle tipologie catastali i cui risultati mostrano vistose anomalie e sono perciò molto interessanti. Rinvio per questo problema alla ricerca della dott. ssa Valentina Bernacchioni riportata in appendice. 7 Mingarelli, 2008. 6
che è divenuto patologico. Essa ore certamente grandi opportunità di guadagno a fronte di un impegno minimo. Entro limiti fisiologici, è senz’altro una risorsa positiva. Ma quando questi limiti sono superati, essa rimane proficua soltanto nel breve periodo e nell’ottica degli interessi particolari. Sul lungo periodo e in una prospettiva generale degli interessi della città, invece, diventa inevitabilmente nefasta. In primo luogo, la rendita induce le famiglie residenti ad abbandonare le abitazioni di proprietà, privando la città dei suoi abitanti e troncandone ogni continuità di vita. La sua natura speculativa e sregolata, indotta dalle condizioni oligopolistiche, impedisce il ricambio con nuovi cittadini perché nessuna famiglia normale può sostenere il prezzo di un intero appartamento. Soprattutto, però, la rendita attuaria – che prospera ovviamente in una situazione di ampia e impunita illegalità fiscale – disincentiva lo sviluppo di ogni altra attività e finisce per rendere le energie economiche cittadine statiche e parassitarie. Di conseguenza, è l’intera vita della città che sore perché dove non c’è dinamismo nell’economia, non c’è università che tenga: la stessa circolazione delle idee langue e la vita culturale è resa inerte, impoverendo le relazioni sociali. La rendita attuaria mette dunque a rischio la tenuta complessiva del sistema e quella minoranza di cittadini che ne gode tiene sotto scacco quella maggioranza che ne ottiene soltanto svantaggi. Una volontà politica seria e responsabile, consapevole delle dinamiche di lungo periodo e intenzionata ad operare in una prospettiva universale, avrebbe perciò il dovere di intervenire su di essa e di riportarla entro limiti compatibili. Trasformazioni nella composizione sociale studentesca
C’è un altro aspetto che è necessario mettere in luce e che è, in parte, una conseguenza dei fenomeni che abbiamo descritto. Si è assistito negli ultimi anni a ciò che appare come una trasformazione tendenziale nella composizione sociale della popolazione studentesca. Anche in questo caso, mancano ancora dati di riferimento oggettivi. Sembra però di poter dire che le caratteristiche negative del sistema economico citta26
dino abbiano finito per ripercuotersi sull’utenza, condizionando in maniera molecolare e altrettanto negativamente i caratteri dei flussi degli studenti attratti dalla città. Certamente esiste un più generale problema di trasformazione della società italiana e, al suo interno, delle identità e delle culture giovanili. E però l’alto costo della vita ha inevitabilmente operato a Urbino nella direzione di una selezione verso l’alto delle caratteristiche sociali degli studenti. Tra tasse universitarie, atti, trasporti e generi di prima necessità, laurearsi a Urbino costa mediamente 25.581 euro (circa 5.116 euro all’anno per cinque anni) 8. Certamente anche a Roma o Bologna il costo della vita è caro. E però in questi casi le università presentano un’oerta formativa più ampia e qualificante mentre il più esteso contesto cittadino ore una pluralità di alternative nella ricerca degli alloggi, nei consumi e nella fruizione dei servizi. Non tutte le famiglie, dunque, possono permettersi di mandare i propri figli ad Urbino ma soltanto quelle che possono arontare un notevole investimento. Non è un caso che negli ultimi anni sia progressivamente calata la percentuale di studenti proveniente da fuori regi one. Chi sceglie di venire, evidentemente, può permettersi di pagare gli atti che l’oerta impone e può sostenere il costo della vita di questa città. Costoro non hanno problemi insormontabili ad arontare queste spese e – sebbene obtorto collo – finiscono sistematicamente per accettarle senza eettuare quasi mai quella pressione contrattuale che potrebbe portare ad un ridimensionamento degli eccessi. Di conseguenza, il sistema non viene mai messo in discussione. In presenza di una parte qualificata della domanda che asseconda passivamente i prezzi dell’oligopolio, anche quella parte che sarebbe anche disposta a contestarli si trova costretta a cedere. Il mercato, infatti, è ancora abbastanza vasto di fronte all’oerta da far sì che siano sempre i prezzi a rimanere fissi o a crescere, mentre la domanda recalcitrante può essere facilmente sostituita con una più accondiscendente. La pressione individuale, che pure è presente, è inecace e si manifesta soltanto nella forma sterile 8
Mingarelli, 2008. 27
di un lamento generalizzato ma impotente. Ogni possibilità di pressione organizzata, invece, è continuamente spezzata a monte dalla presenza di queste fratture di reddito e di opportunità. Progressivamente, dunque, la composizione sociale della domanda tende a spostarsi verso l’alto mentre gli studenti delle classi meno abbienti, soprattutto quelli meridionali, finiscono per scegliere le università più vicine a casa. Basta constatare il ritmo e il livello di consumo ludico-voluttuario di molti studenti, soprattutto nelle ore notturne, per capire come queste osservazioni, sebbene parziali, non siano lontane dal vero. Esiste dunque un preliminare e grave problema di discriminazione sociale e di selezione di classe, si potrebbe dire. E però le cose non finiscono qua. Questa deformazione, infatti, incide negativamente sulla qualità della presenza studentesca e sulle forme di espressione ed interazione di cui essa è capace. Lo studente che non ha eccessive dicoltà a pagare le tasse universitarie e che è circondato da studenti nelle sue stesse condizioni, dicilmente si batterà per una loro modulazione per fasce di reddito reali, semplicemente perché non percepisce dove stia il problema. Egli, dunque, con molta probabilità non entrerà mai in conflitto con le istituzioni, spingendole a migliorarsi, né incontrerà mai studenti che hanno le stesse esigenze per discutere e confrontarsi con loro e non intraprenderà un processo di maturazione nei confronti delle questioni pubbliche. Chi non ha grandi problemi a pagare certi atti, analogamente, con dicoltà si impegnerà in un conflitto per la loro riduzione, con le necessità di organizzazione e coordinamento che ciò comporta. Ecco allora che la selezione verso l’alto, paradossalmente, non migliora la composizione sociale studentesca ma la dequalifica. Essa attutisce ogni contraddizione e previene ogni forma di conflitto organizzato ma in tal modo riduce anche ogni possibilità di crescita. Alla fine, essa impoverisce paurosamente anche la qualità dei processi di socializzazione e di espressione soggettiva. Le dinamiche di socializzazione finiscono, infatti, per essere orientate prevalentemente verso il consumo. È questo quanto intendevamo parlando della centralità dei servizi di ristoro e intrattenimento. Al di fuori dalle ore di lezione e di studio, cosa fanno, concretamente, gli studenti ad Urbino? Per gran parte di essi, non
c’è dinamica di socializzazione che non passi attraverso il consumo. Socializzare significa, il più delle volte, transitare da un luogo del consumo ad un altro ed esibire il consumo stesso fino all’eccesso. Nei grandi numeri, ogni altra forma di socializzazione è ostacolata dalla mancanza di alternative da parte del sistema dei servizi ed è ovviamente disincentivata per il consolidarsi di meccanismi imitativi e di riconoscimento sociale. Nulla può essere più lontano da noi di un’intenzione moralistica: lo spettacolo del giovedì sera urbinate, che attrae ormai i giovani persino dalla riviera romagnola, sarebbe segno di prorompente vitalità se si aancasse ad altre manifestazioni di energia e ad altri entusiasmi. Essendo però paurosamente fine a se stesso ed eternamente identico a se stesso, esso finisce per risolversi in un rituale di alienazione collettiva nel quale l’abuso alcolico e le risse notturne sono solo gli ultimi e i meno gravi dei problemi. Possiamo allora integrare la nostra metafora. Oltre che ad un albergo, Urbino assomiglia oggi sempre più ad un Paese dei balocchi, un enorme villaggio vacanze che rimane aperto per dieci mesi l’anno. Un Kindergarten ovattato e sordo agli stimoli che sorgono dai problemi reali, un posto fuori dal mondo, nel quale prolungare dolcemente le lusinghe dell’adolescenza finché il reddito familiare lo consente. Si capisce, dunque, che la città nel suo insieme sora. L’elevata capacità di consumo di molti studenti non è un alibi per lasciare che tutto rimanga com’è, perché nello status quo i cittadini sono i primi ad essere a disagio e a protestare. In ogni caso, fino a che punto e per quanti anni ancora un simile sistema può reggere senza scompensi in queste condizioni? La cosa più facile, per molti, è far finta di nulla, continuare a macerarsi e covare rancore, fin quando arriva il momento di esplodere e di reclamare ad alta voce la repressione a difesa dell’ordine e del silenzio, della pulizia e del decoro della città. Sbagliata sul piano politico, questa inutile Vandea securitaria è però del tutto improbabile e illusoria. Le disfunzioni di cui ci si lamenta sono il prodotto inevitabile del funzionamento della città ed è impossibile godere dei vantaggi che certe dinamiche consentono senza doverne pagare in qualche modo il prezzo in termini di vivibilità. Né è più saggio praticarla verso quelle minoranze di studenti che per stile di vita sono
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3. Il piano degli anni Sessanta
più visibili e meno interessanti, dato che cercano di sottrarsi all’esoso circuito uciale del consumo praticando forme alternative. La verità è che arontare questo problema cruciale è estremamente dicile per la città, perché ciò la obbligherebbe non soltanto a cambiare, partendo dalle proprie basi economiche, ma ancor prima a guardarsi allo specchio e riflettere sulle proprie linee di sviluppo, in uno sforzo di autocoscienza al quale da tempo essa non è più abituata. E però questo sforzo va fatto, perché per arontare i problemi dobbiamo anzitutto riconoscerli e comprenderne la genesi.
Siamo così ricondotti al punto di partenza del nostro discorso su Urbino. A quel grande dibattito pubblico al culmine del quale una volontà politica capace di visione strategica ha saputo delineare il progetto di sviluppo di questa città. Questo progetto è stato il grande piano regolatore generale degli anni Sessanta, che con il sostegno politico del sindaco Egidio Mascioli 9 e la spinta intellettuale di Livio Sichirollo, filosofo già di grande fama e all’epoca assessore all’urbanistica, veniva elaborato dall’architetto Giancarlo De Carlo e dai suoi collaboratori. Riflettendo su quelle scelte, e su quelle che le hanno successivamente integrate, scopriremo ciò che un tempo ha salvato Urbino ma anche ciò che oggi non basta più a garantirle un futuro. Una città sull’orlo del baratro
La genesi di quel fermento di idee che approderà alla realizzazione del piano – «il motore delle future vicende della nostra Città» 10 – è da rintracciare nell’università. Al momento della presentazione del piano e ragionando sul suo significato e sui suoi obiettivi, Livio Sichirollo – le cui riflessioni ci faranno qui da guida – illustra con grande chiarezza il 9
V. Mascioli, 1992, Id., 1998, Id., 2003 e soprattutto Id., 1984, p. 45-51 e 53-66. Mascioli, 1963, p. 13.
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ruolo propulsivo che l’università ha svolto sin dall’inizio di fronte ad una città ancora priva di consapevolezza. La sua funzione decisiva nel far sì che «quel borgo abbandonato e addormentato» che era in quegli anni Urbino si avviasse «a diventare una realtà politica, una città »11. Unica tra le università libere ad essere sopravvissuta in Italia, l’università di Urbino è costretta, per continuare ad esistere, ad una drammatica «presa di coscienza» e a fare i conti con una situazione oggettiva fortemente critica. Per assicurarsi un futuro secondo un progetto autonomo, nel contesto di quegli anni l’università non poteva che puntare «sulla sua libertà», ripensandola però radicalmente e facendone da «bandiera della tradizione» e anche «dei privilegi di un certo… clientelismo locale» una reale forza attiva di modernizzazione. «Furono messi in moto gli enti civici, provinciali, centrali, si provocò l’intervento di istituti bancari», dunque, ma soprattutto «si impose… all’Amministrazione comunale una ben determinata politica culturale e amministrativa». L’università – Sichirollo lo riconosce sino in fondo – era in quel momento la principale e forse unica forza viva della città e seppe assumersi pienamente con Carlo Bo una responsabilità di indirizzo culturale ma anche di direzione reale. Essa giocò così un ruolo chiave, aermando in maniera permanente la sua centralità nel contesto cittadino. «Una realtà nuova era in via di formazione», dunque, e però l’azione di rinnovamento dell’università si collocava su un piano ancora prevalentemente culturale e sarebbe rimasta «in antitesi con le componenti reali della situazione di fatto», non si sarebbe cioè mai realizzata come una rinascita complessiva della città che si ripercuotesse anche sul piano economico e sociale, se non fosse stata «portata all’esterno, oggettivata, imposta alla Città». Se non fosse stata cioè «universalizzata» dalla volontà politica dei partiti, in primo luogo del Partito comunista che reggeva insieme ai socialisti l’amministrazione di Urbino. Che non fosse aatto facile immaginare un progetto di sviluppo realistico lo dimostrano le dicilissime condizioni della città in quegli anni:
«Su una superficie di 22.000 ha circa viveva nel 1959 una popolazione di oltre 21.000 abitanti, oggi scesa a circa 15.000. Le solite cause: depressione economica, ricerca di nuove fonti di lavoro all’estero o nel nord italiano, abbandono dei fondi agricoli… (ed emigrazione dei contadini verso le terre di pianura). La popolazione mostra decisi segni di invecchiamento: dal 1911 al 1961 il gruppo oltre i sessant’anni è passato dal 1,87 % al 12,90 %. L’emigrazione sottrae ogni anno circa 1.300 unità… Nei centri più attivi, e soprattutto nel capoluogo, si trasferiscono gli elementi più vecchi, meno attivi e intraprendenti. Ancora: la popolazione attiva è solo il 43 % nel territorio, 33 % nel capoluogo, 51 % nelle frazioni». Nel capoluogo «esistono più funzioni: 36 % industria e artigianato, 19 % commercio e trasporti, 40 % amministrazione; fuori dal capoluogo l’occupazione più importante resta l’agricoltura. Essa costituisce ancora la struttura base del territorio, ma si trova in condizioni di autentica arretratezza sociale ed economica: non specializzata, con prevalenza netta di colture a frumento in una situazione morfologica collinare, ore… un reddito familiare medio di poco superiore alle 50.000 lire annue per ettaro coltivato… Non si può parlare di vera e propria industria, ma di attività artigiano-familiari, riflesso impallidito della situazione costiera: legno, mobili… Si è ristretta, invece, l’area del commercio»12.
Una situazione molto precaria, dunque, che l’inchiesta preparatoria del piano eettuata dal progettista De Carlo non si vergognava di svelare senza edulcorazioni, con lucidità e realismo 13. In questa indagine si confermava la secolare decadenza di una città che in eetti, per Sichirollo, anche nei momenti più luminosi della sua storia era stata caratterizzata da una costitutiva e inaggirabile separatezza. Persino la breve stagione federiciana, nel contesto del grande movimento del Rinascimento italiano, aveva costituito un’«estraneazione» 14, sebbene «felice», e cioè «un’alienazione totale», autoreferenziale e chiusa in se stessa, sintetizzata nell’«astrazione di un palazzo» che emanava «un’immagine di morte» e non divenne giammai una « città », essendo privo di ri-
Sichirollo, 1967-69, pp. 29-30. Cfr. De Carlo, 1966, p. 9 sgg. 14 Sichirollo, 1961, pp. 8-10. 12 13
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Sichirollo, 1961, pp. 12-3. 32
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ferimenti solidi in una vera «classe dirigente», in una «borghesia ricca, consapevole» e capace di determinare «una situazione dinamica». Una «particolarità chiusa», perciò, senza svolgimento dialettico, e quindi inadatta a rappresentare e tramandare, come invece avevano saputo fare altre città italiane ed europee, un’autentica «forma di vita spirituale». Non parliamo poi dei periodi successivi, quando l’incapacità di assumere «“senso” storico» di questa realtà sostanzialmente « orientale » declina in «una vicenda grigia, amara, di decadenza economica e ideologica», dando vita ad una «lunga involuzione storica»15. Per lungo tempo, la città è in mano a «poche famiglie, asserragliate nel centro storico, dedite alle consuete professioni liberali»16. Questi ceti dominanti sono anche «proprietari terrieri assolutamente “disinteressati”, incuranti del patrimonio agricolo». La loro unica cura intellettuale è «la retorica della tradizione umanistica, formale», un’estenuata rivendicazione dei «valori “puri” della città (ducale e borghese)», che serve soltanto a «poterne lamentare ed esaltare insieme l’isolamento». L’isolamento della città, mai combattuto e anzi gelosamente serbato, è infatti la condizione di questa «retorica ideologica»: «la città ha un solo “valore”, il Palazzo Ducale, e il suo simbolo sono i “torricini”; la città è isolata, non è possibile fare nulla, se non difendere quell’unico valore». Quando, dopo la Liberazione, questo ceto parassitario verrà finalmente deposto, nemmeno la nuova Repubblica aiuterà Urbino: «per ignoranza, incuria o calcolo politico siamo rimasti tagliati fuori anche dai vari piani nazionali di bonifica e di industrializzazione del dopoguerra»17. Nulla perciò sembrava poter arrestare una «decadenza economica sociale e politica»18 che era «progressiva e continua», se persino il processo di modernizzazione del Paese, con «il raorzamento delle grandi arterie viarie» e «la formazione dei grandi sistemi produttivi industriali» aveva finito per determinare nella nostra realtà «profonde cadute negative». Oltretutto, questa situazione di crisi si rifletteva ormai in maniera tangibile nello staDe Carlo, 1966, p. 15. Sichirollo, 1967-69, pp. 40-1. 17 Sichirollo, 1961, p. 12. 18 De Carlo, 1966, p. 15.
to di abbandono della città, le cui stesse strutture architettoniche – a partire dalle mura – cadevano letteralmente a pezzi giorno dopo giorno19. O si cambia o si muore: la scelta strategica del piano
Insomma, la sfida per la nuova classe dirigente urbinate consisteva nel compito arduo di rompere «una vita civica chiusa e senza comunicazione» e di sfuggire con ciò al fardello «di un’economia agricola altrettanto chiusa»20. Si trattava, per essa, di dare un senso alla propria responsabilità politica e dunque di «scegliere tra il calcolo, la suggestione o l’interesse quotidiani (politici o amministrativi) e una specie di pianificazione». In un contesto sociologico dicile per quella forza politica (un contesto nel quale non c’erano operai né masse spontaneamente consapevoli e gli stessi contadini, in maggioranza mezzadri, erano dominati dalla «tendenza… degli interessi particolari»), il Partito comunista seppe sottrarsi alle tentazioni del «calcolo politico-elettorale» che suggeriva di assecondare le spinte particolaristiche. Pur con molte carenze e nell’assenza di strumenti legislativi adeguati, seppe sconfiggere una destra, la Democrazia Cristiana, «nientificata dall’aderire alla situazione» e seppe essere con ciò vera avanguardia politico-intellettuale. Sfuggendo alla lusinga per cui «ciò che è , va per questo conservato», seppe promuovere «una coscienza… oggettiva , totale, universale» e imporre «una trasformazione o addirittura la distruzione del fatto stesso», dando alla città un «nuovo corso» e realizzando l’unico progetto che, nelle condizioni date, poteva assomigliare ad «una politica di tipo socialista». Una scelta di portata strategica, in anticipo rispetto a molte dinamiche politiche nazionali, di cui il piano fu la concretizzazione. Esso «traduce al livello della scienza le scelte politiche e culturali compiute da una Amministrazione comunale» e dà inizio a «una nuova dialettica» dagli esiti imprevedibili.
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Cfr. AA.VV., 1964a e AA.VV., 1963-67. Sichirollo, 1961, pp. 11-8. 35
L’urgenza del momento comportava necessariamente «l’individuazione di un settore di sviluppo, una scelta radicale, decisiva, senza mezzi termini: città o campagna, agricoltura o scuola-artigianato». Nelle condizioni date, però, questa scelta era politicamente obbligata: era di fatto la scelta «tra una politica e la demagogia». Il piano si proponeva di salvare la città (con particolare attenzione alla crisi del centro storico) avviando un processo di modernizzazione che stimolasse le sue forze reali, attivasse nuove dinamiche economiche e risolvesse la sua secolare separatezza, mettendola finalmente in comunicazione con il mondo. In questo senso, era inevitabile sollecitare una trasformazione strutturale della città e il superamento del suo modello statico di sottosviluppo fondato sull’economia contadina. Tra città e campagna era operante una frattura netta: popolata in prevalenza da coloni, mezzadri e piccoli proprietari, «la campagna non sa nulla della città» 21 e reciprocamente l’amministrazione si era disinteressata di essa. «Allo stato attuale», constatava con amarezza Sichirollo, «non è possibile contare sulla rinascita o su una nuova organizzazione dell’agricoltura» 22. «La miseria delle campagne», la cui economia è di mera sussistenza, aveva messo in luce De Carlo, è «radicata e irreparabile»23. Si può pensare certamente ad una «ristrutturazione» e a una programmazione comprensoriale dell’agricoltura ma sempre nella consapevolezza del superamento definitivo della sua centralità e dell’inevitabile e “naturale” restrizione del suo spazio. «I contadini», annotava ancora De Carlo, «hanno scoperto quanto la fatica del loro lavoro sia sproporzionata a quel che ne ricavano e non possono più tollerare la miseria dei redditi, la segregazione e il controllo sociale, la limitazione di scelte, il vuoto culturale, i servizi insucienti, le abitazioni malsane, che caratterizzano la vita in campagna» 24. Essi abbandonano perciò le campagne e, non trovando alternative di lavoro,
sono costretti a emigrare. Di conseguenza, «non è neppure possibile contare sulla ripopolazione delle frazioni»25, i cui abitanti lasciano i campi per trasferirsi verso la pianura, dedicandosi a nuove attività. Tranne che per quelle realtà in cui è già sorta una diversificazione economica, come «Cannavaccio, Trazanni, Schieti, Gadana», concludeva Sichirollo, «le altre frazioni debbono essere molto realisticamente abbandonate al loro destino». La loro struttura economica era «inattuale e insuciente» 26 e quindi la gran parte di esse, ribadiva De Carlo, erano «perdute»27. Solo a partire da questo ridimensionamento e dal concomitante sviluppo di nuove dinamiche capaci di proiettarsi anche al di fuori delle mura urbane sarebbe stato possibile cominciare a porre il problema dell’«unità della città e del territorio»28 e anche «della coscienza nelle popolazioni di questa unità», ricongiungendo città e campagna. Non erano, ovviamente, problemi soltanto locali. Era piuttosto una dinamica di trasformazione che da tempo ormai aveva investito l’Italia intera, inserendola con grave ritardo in quel processo generale di innovazione delle strutture economiche che in altri Paesi aveva già messo capo alla costituzione della società auente e della produzione di massa contemporanea. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, come è noto, il processo di industrializzazione del Paese e in generale di edificazione di un’economia dierenziata e complessa, propria di una società avanzata, aveva ormai tagliato i ponti con il retaggio dell’Italia rurale e patriarcale e chiuso con un intero mondo storico. Mentre però in altre realtà questo processo aveva potuto contare sulla presenza di forze economico-sociali reali, attive ed alternative, nella nostra città mancavano completamente le condizioni di uno sviluppo industriale minimamente realistico. A causa soprattutto del «livello di infrastrutturazione viaria» 29, il «processo di
Sichirollo, 1967-69, p. 36. Cfr. De Carlo, 1966, p. 109. De Carlo, 1963, p. 79. 27 De Carlo, 1966, p. 115. 28 Sichirollo, 1967-69, p. 42. 29 De Carlo, 1966, pp. 20-1. 25
Sichirollo, 1967-69, p. 42. 22 Ivi, p. 36. 23 De Carlo, 1966, p. 15. Cfr. Mascioli, 1967, pp. 180-1. 24 De Carlo, 1966, p. 20. 21
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industrializzazione» non aveva «neppure sfiorato il territorio di Urbino» e tutta l’«attrezzatura industriale» era in quegli anni costituita «da una fornace e due piccole fabbriche… e da una diecina di imprese semiartigiane». La possibilità di uno sviluppo alternativo andava dunque pensata e pianificata secondo un modello peculiare che facesse leva sulle specificità locali e queste specificità erano chiare sin dall’inizio. Le sole «forze vive sulle quali il territorio e soprattutto il capoluogo possono contare» 30, constatava Sichirollo, sono «il turismo, la scuola e la cultura». Insomma, «Urbino è città indubbiamente “terziaria”», ma anche questa terziarietà si presenta in maniera anomala perché non è legata alle attività di servizio alle imprese ma ha una sua dimensione specifica: «turismo e scuola» – intesa come scuola di alta cultura e principalmente come università – «sembrano essere le sue vocazioni fondamentali». In particolare, «l’Università resta il polmone della città» sino al punto che, in eetti, «il problema universitario riassume tutti gli altri quando venga impostato in modo globale». Di questa specifica situazione oggettiva il piano doveva tener conto e doveva necessariamente pro porsi la valorizzazione, rovesciando ciò che di fatto costituiva una carenza e un problema in un’occasione di modernizzazione e facendo di questa vocazione settoriale il fondamento per innescare un processo di sviluppo generale. Esso, di conseguenza, «fa dell’Università il motore principale della conservazione attiva del centro storico ed elemento di cerniera fra il nucleo storico e la città nuova, ed infine dell’economia del territorio». Il risanamento del centro si orientava perciò risolutamente «in vista di una città residenziale di studi e di ricerca». «La qualità dell’ambiente urbinate genera un forte potenziale di cultura che determina condizioni particolarmente favorevoli alle attività universitarie e turistiche»31, annotava De Carlo. «Se le riserve di energia culturale venissero interamente liberate e utilizzate», concludeva, «proprio queste attività potrebbero ricostruire la base della struttura econo-
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mica del territorio». Eccoci al passaggio decisivo, dunque. Constatata la grave situazione di fatto, questo piano, che non voleva essere mera «razionalizzazione» ma un «piano di prospettiva» e persino di «negazione della situazione esistente» 32, valutava le possibilità reali e sceglieva un preciso modello di sviluppo. Non c’è dubbio, allora: proprio a questa altezza si sono poste le linee direttrici di quello che sarebbe stato lo svolgimento successivo della vita cittadina. È con quell’atto politico che si decideva di ancorare la vita della città a quella dell’unica realtà che si mostrava in grado di fungere da centro propulsore, l’università. «Nato come atto ideale, intellettuale, di una élite di potere» 33, il piano divenne «l’inizio della nostra storia», inserendosi «nella dinamica delle forze reali operanti all’interno della collettività». Da allora, esso ha continuato a guidare l’organizzazione e l’articolazione della vita sociale di Urbino e le sue scelte si sono rivelate e sono tuttora decisive.
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Sichirollo, 1967-69, pp. 30-1. De Carlo, 1966, p. 22.
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Sichirollo, 1967-69, p. 40. Ivi, p. 26. 39
4. La dialettica del piano: successo e rovesciamento
I meriti del piano
Cosa dobbiamo dire, arrivati a questo punto? È proprio in quel piano che va ricercata la genesi dell’attuale situazione di crisi ed è proprio in quella volontà e capacità politica di programmare in prospettiva strategica che – a partire dall’identificazione della vita della città con quella dell’università – va rintracciata la responsabilità e la colpa del nostro disagio? Dobbiamo rovesciare tout court l’ammirazione e l’elogio iniziale in un’impietosa resa dei conti che conduca ad un’imputazione e ad una sentenza? Non è questo il problema. Il piano – lo aermiamo ancora una volta – fu un’operazione di avanguardia. Un’operazione di elevatissima portata intellettuale e grande «valore scientifico» 34 ma di altrettanto grande capacità politica. Esso faceva i conti con una situazione estremamente precaria che era ben diversa da quella attuale, perché era una situazione di sottosviluppo e di totale assenza di energie economiche ma anche civili. Nell’alternativa tra il vecchio e il nuovo, esso si orientò verso quest’ultimo e lo fece giustamente, suscitando un larghissimo consenso, ricevendo riconoscimenti prestigiosi e diventando un esempio anche
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Benevolo, 1966, p. 228. 41
per altre città 35. Nel contesto dell’Italia degli anni Sessanta, il piano rappresentava «un fatto unico» 36 e la capacità dell’amministrazione di salvaguardare il patrimonio artistico-culturale di Urbino immettendolo nello «sviluppo dei processi economici e sociali del nostro tempo» fu e va giudicata «esemplare». Attraverso una scelta di modernizzazione che fu corretta e necessaria, esso ha letteralmente salvato Urbino. In questo senso, esso non fallì aatto. Al contrario, è proprio perché il piano ha avuto successo che si sono potuti determinare, a nostro avviso, i problemi attuali. A quelli del sottosviluppo si sono sostituiti infatti problemi di un genere completamente diverso. Problemi legati non tanto allo sviluppo in quanto tale ma alle sue modalità specifiche e, in certi casi, persino ad un eccesso di sviluppo non controllato e ormai superfluo, inservibile e in via di deperimento. Problemi, in altre parole, di modernità o persino – se questa parola avesse un senso – di postmodernità. Anche in questo caso, non è un discorso che riguardi soltanto Urbino. Ogni fase storica ha le sue specificità e i suoi problemi. L’Italia del XXI secolo non è l’Italia degli anni Sessanta e di conseguenza le istanze che la volontà politica deve saper accogliere e le soluzioni che deve saper progettare sono nuove e diverse. Certamente, chi volesse proporre oggi modelli di sviluppo analoghi a quelli di quegli anni dimostrerebbe di essere arrivato fuori tempo massimo. E però è dicile immaginare che in quelle precise circostanze storiche si potesse progettare ma soprattutto praticare su scala di massa un indirizzo diverso. Al di là dei ragionamenti fumosi sulla “decrescita”, ci poniamo giustamente il problema, oggi, dei limiti dello sviluppo e dunque della necessità di immaginare e realizzare uno sviluppo di tipo nuovo. Uno sviluppo che sia orientato non più quantitativamente ma qualitativamente, nel senso cioè della sostenibilità e compatibilità con tutta una serie di fattori, umani, sociali e ambientali, che in passato sono stati
35 Cfr. AA.VV., 1964b, Mascioli, 1963, n. 2, pp. 14-5; Union Internationale des Architectes, 1967; Sichirollo, 1967c, p. 190. 36 Trinci, 1967, pp. 216-7.
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sacrificati alle esigenze di accumulazione. Oggi, però, noi giudichiamo con il senno di poi e soprattutto giudichiamo a partire proprio da quella ricchezza, da quel benessere e da quelle opportunità che esattamente quel tipo di sviluppo, prevalentemente quantitativo, con un chiaro salto dialettico ci ha saputo assicurare. Ricchezza, benessere e opportunità alle quali nessuno di noi, del resto, si proporrebbe mai di rinunciare in senso assoluto. Sostanzialmente risolti ciò che allora erano i bisogni primari della nostra società, ci troviamo oggi di fronte a bisogni di tipo nuovo, che sono legati non più all’arretratezza e alla sussistenza ma alla qualità della vita. Bisogni che avvertiamo ormai come ugualmente primari e però in una maniera molto diversa da prima. Nuovo benessere, nuovi bisogni, nuovi problemi
Si assiste oggi – per prendere ad esempio un fenomeno molto importante per il nostro territorio – ad un rilancio del settore agricolo. Nei decenni alle nostre spalle, le sorti dell’agricoltura sembravano però segnate e nessun futuro pareva prospettarsi per un’attività morente che veniva pressoché unanimemente considerata sinonimo di miseria e sottosviluppo. Intervenendo nel dibattito consiliare del dicembre 1963, un consigliere precisava: «cercare di potenziare l’agricoltura in Urbino è un concetto che esprime un regresso. In Urbino l’agricoltura non potrà mai rappresentare altro che un regresso. Bisogna percorrere le campagne… vedere le condizioni in cui vivono i contadini, i piccoli proprietari della campagna urbinate, per dire che se l’agricoltura scomparisse dalla faccia di Urbino, sarebbe un fenomeno di civiltà»37. Nessuno può negare che fosse così, per le masse contadine dell’Italia rurale e che dunque il settore primario dovesse inevitabilmente subire una trasformazione e un restringimento sostanziale. Come nessuno può negare, poi, che le esigenze di costruzione della società di massa imponessero la necessità, nello stesso lavoro agrico37
AA.VV., 1963, p. 48. 43
lo, di un processo di industrializzazione, di economie di scala, di applicazione della scienza e della tecnologia. Questa prospettiva, commentava all’epoca De Carlo, sebbene «considerata disastrosa dalla maggior parte delle forze politiche»38, costituiva in realtà «la sola ragionevole possibilità di salvezza» di quel settore, perché la scelta si poneva ormai esclusivamente «tra la ristrutturazione e la distruzione dell’agricoltura». In realtà, «le trasformazioni che dovranno avvenire nell’intero territorio comunale sono della stessa specie di quelle che dovranno avvenire nell’intera nazione»39 e «saranno tali da modificare sostanzialmente la struttura dei fondi agricoli», conducendo a «una situazione, che sia assai più prossima all’industria di quanto non sia attualmente», con la conseguente diminuzione della popolazione agricola. Improvvisamente, questo settore ha cominciato a risollevarsi e a riconquistare la sua importanza, e però lo ha fatto entro certi limiti, a partire da un contesto totalmente diverso e su basi totalmente nuove rispetto al passato. L’attuale esplosione del fenomeno dell’agricoltura di qualità praticata secondo standard biologici certificati, impensabile soltanto pochi anni addietro, è un fatto di enorme rilevanza. Essa ore oggi grandi opportunità a quei territori in grado di cogliere questa tendenza e di attrezzarsi per utilizzarla adeguatamente. Opportunità di crescita della ricchezza ma anche di valorizzazione del territorio complessivo, a partire dalla creazione di sistemi comprensoriali integrati che inventino sinergie tra produzione, turismo e cultura. C’è finalmente la possibilità – oggi e in modo particolare in un territorio come quello di Urbino – di immaginare un modello di sviluppo nuovo e libero dal cemento, che ponga al suo centro il rispetto dell’ambiente e la cura della qualità della vita. E però, qui non abbiamo per nulla a che fare né con una sorta di ritorno alla terra e di ricongiungimento con il passato rurale, né con la presa d’atto di un errore commesso in passato in nome del moloch industrialista. Esattamente al contrario di ogni nostalgia antimoderna, ci troviamo di
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fronte a una totale reinvenzione del settore agricolo su nuove basi, che solo l’arricchimento complessivo della società ha consentito e che, oltretutto, per garantire standard di qualità non può prescindere da un approccio scientifico e da una strumentazione tecnologicamente avanzata. Non a caso, esso è attualmente ancora un fenomeno di nicchia e portato avanti da pochi operatori, sebbene la sua progressiva estensione consenta di individuarlo come un settore strategico la cui crescita va politicamente guidata fino a farle assumere dimensioni di massa. Questo esempio ci serve come indicazione di un atteggiamento più generale che deve investire tutti i problemi di cui ci occupiamo e deve guidarci nel mettere in relazione la nostra analisi del piano con quelle considerazioni critiche dei suoi esiti che abbiamo sviluppato all’inizio. Il piano ha senza dubbio alcuno risollevato Urbino, sottraendola al destino di decadenza nel quale stava lentamente scivolando. «Un’economia arretratissima e dissestata senza possibilità di incentivazione, un ambiente sociale altrettanto sottosviluppato, avvilito da secoli di disinteresse, soprusi, discriminazioni»40, diventa nel corso di pochi decenni la realtà ricca e sviluppata che sta oggi sotto i nostri occhi e può definitivamente «rientrare nel mondo moderno»41. Al tempo stesso, però, dobbiamo ammettere che proprio a quelle scelte, all’elaborazione e soprattutto alla successiva concreta applicazione di quel modello di sviluppo delineato dal piano sono saldamente legati anche gran parte degli attuali gravi problemi che la città presenta e che abbiamo sin dall’inizio messo in luce. La dialettica dagli esiti imprevedibili che esso si proponeva di innescare ha inequivocabilmente funzionato. Proprio in quanto comportava una presa di posizione netta, una scelta rischiosa e totalizzante in favore dell’università, però, esso ha finito per mettere capo ad una nuova «situazione esistente» che presenta un nuovo genere di pericoli e di punti critici. Ciò che ha fatto la fortuna della città, trasformandola radical-
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De Carlo, 1966, p. 20. De Carlo, 1963, p. 78.
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Sichirollo, 1967-69, p. 49. De Carlo, 1966, p. 112. 45
mente e ridandole vita, la ha anche decapitata. L’ha fatta divenire, cioè, una funzione subordinata nell’ambito di un meccanismo che ha finalità proprie e autonome, l’ha fatta fagocitare da un organismo divenuto ben presto troppo più grande di lei. In particolare, come abbiamo visto, il modo in cui è stata risolta la questione del centro storico e del rapporto tra città e vita universitaria e studentesca si è rovesciato in una fonte di problematicità e quel «ruolo di intervento sociale» 42 che l’università «è chiamata a svolgere nella società contemporanea» si è rivelato nei fatti un possibile fattore di desocializzazione. Questioni di equilibrio
Paradossalmente, proprio questo aspetto era stato la principale preoccupazione di chi quel piano aveva contribuito a pensare e promuovere. Sin dall’inizio, l’impostazione del rapporto tra città e università-popolazione studentesca era stata ideata proprio in funzione del recupero e della rivitalizzazione del centro storico come cuore pulsante della città. La massima cura era stata dedicata sia ad un’analisi delle sue criticità, sia alla prevenzione di tutti i fattori di rischio che potessero comprometterne le sorti. Qual era la situazione del centro in quegli anni? Esso era in preda ad una crisi di «corruzione e sfaldamento»43. Gli esigui flussi di popolazione che riusciva ad attrarre dalle campagne non erano sucienti a drenare un’emorragia costante, dovuta all’invecchiamento della popolazione, all’emigrazione e soprattutto alla scelta spontanea degli abitanti di trasferirsi al di fuori delle mura, data la situazione di degrado delle abitazioni e la precaria vivibilità complessiva (ricordiamo che il sindaco Mascioli, ancora nel 1964, dichiarava che «se… potremo disporre per l’acqua nei mesi di agosto e settembre di quest’anno, avremo già fatto
un notevole passo innanzi» 44!). È lo stesso De Carlo a puntualizzare il problema: si assiste all’«insediamento nel centro storico di gruppi sociali alla loro prima esperienza urbana» 45 e cioè gli anziani trasferitisi dalle campagne ma spesso anche gli studenti, mentre però «nello stesso tempo, i gruppi sociali preesistenti, che non tollerano il deterioramento del vecchio centro, cercano nelle zone di espansione più alti livelli di abitabilità». Si tratta di «tendenze concomitanti» che sono «egualmente pericolose», perché «porterebbero, al limite… alla formazione di due città, nel rapporto tra le quali il centro storico diventerebbe inevitabilmente un’appendice necrotizzata, una riserva di antiche forme senza contenuto». Il trasferimento spontaneo dei residenti del centro nell’abitato sorto disordinatamente ai margini della città, commentava ancora Sichirollo, rischiava di «dare una propria autonomia alla zona di espansione nord», di «staccarla definitivamente dalla matrice del centro storico» e di «privare questo, quindi, di quelle funzioni che costituiscono la ragione della sua sopravvivenza» 46, con il suo conseguente «decadimento, sfaldamento e svuotamento» e, comunque, l’«impoverimento della sua popolazione più qualificata». Si trattava di un «pericolo immane» 47, secondo De Carlo, che bisognava evitare a tutti i costi. Come si vede, il problema di un possibile squilibrio tra i gruppi di popolazione – il problema con cui oggi noi dobbiamo fare i conti – risultava chiaro già allora: tecnici, politici ed intellettuali ne erano pienamente consapevoli e il piano era pensato in primo luogo come la risoluzione preventiva di tale problema. È proprio per fare di Urbino una città viva e reale e non una realtà immaginaria o uno scenario vuoto che era stato pensato quel modello di sviluppo. Il piano non era aatto ideato come «piano estetico»48 e cioè «meramente in funzione della sal-
Mascioli, 1964, p. 110. De Carlo, 1966, pp. 107-8. 46 Sichirollo, 1967-69, pp. 34-5. 47 De Carlo, 1963, p. 101. 48 Sichirollo, 1967-69, p. 50. 44
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De Carlo, 1964, p. 164. Sichirollo, 1967-69, p. 35. 46
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vaguardia passiva del centro storico e del paesaggio intesi… come valori puri, formali, assoluti» ma era «esattamente il contrario», era un «piano di prospettiva». Certamente i suoi promotori erano consapevoli della necessità di rispettare l’assetto strutturale della città ma rifiutavano sin dall’inizio di delineare «un piano di risanamento puramente conservativo»49 o persino «igienico-sanitario». Era stata fatta una scelta precisa, invece, a partire dalla convinzione che «i centri storici si tutelano sul fronte della difesa attiva». Nel rispetto dei suoi valori storico-artistici, bisognava «intervenire sulla struttura della città per permetterle di accogliere quelle trasformazioni economiche e sociali che si verificherebbero se le forze nuove più attive… che attualmente si manifestano allo stato potenziale, potessero divenire attuali». Operare attivamente «attraverso l’applicazione di una programmata politica di intervento», per far sì che da quel patrimonio così carico di passato, ma ormai inerte e del tutto incapace di rigenerarsi da sé, potesse nascere una nuova realtà. «Immettere funzioni moderne»50, e non semplicemente restaurare, era l’unica possibilità di garantire «la conservazione» e «un’attiva evoluzione» di una città minacciata dal crollo. Bisognava «rendere attuali forze latenti e provocare quindi trasformazioni». «La città e il territorio», sosteneva ripetutamente Sichirollo, «devono poter accogliere lo sviluppo di quelle forze e trasformazioni in una struttura modificata, o meglio in via di continua modificazione, in modo tale che una interazione sia sempre possibile, che si generi, sotto controllo, una reazione a catena» 51. Qui si misurava la portata strategica e la grandezza intellettuale di quella scelta. Come puntualizzava De Carlo, bisognava superare «una doppia prospettiva contraddittoria»52. Quella prospettiva che induceva o a «tutelare rigorosamente i valori storici e ambientali e lasciar disperdere le sole forze umane che potrebbero avere la volontà e l’impeto per creare
Ivi, p. 38. Sichirollo, 1967c, p. 187. 51 Sichirollo, 1967-69, p. 50. 52 De Carlo, 1966, p. 13.
le condizioni di un uso universale di quei valori», oppure a «trattenere ad ogni costo quelle forze e lasciar corrompere i tessuti urbani e il paesaggio perdendo la sola grande risorsa su cui è possibile fondare una ripresa per il futuro». Proprio per salvare il centro sfuggendo a questa falsa alternativa era necessario allora un «intervento attivo di ristrutturazione onde far riemergere strutture e forme tanto appropriate da assicurare vecchie e nuove funzioni» ma anche «la continuità tra gli assetti preesistenti e i nuovi, tra le vecchie strutture e le nuove» 53. In tal modo, l’università avrebbe potuto funzionare non come un meccanismo autonomo ed estraneo al contesto ma come chiave di volta di una città vera e cioè di un sistema complessivo, articolato e integrato, di gruppi e operatività sociali. Come abbiamo già citato prima, essa sarebbe stata la «cerniera»54 tra la vita del centro – risorta e arricchita di mille nuove funzioni –, la zona nuova e l’intero territorio. Un esito non scontato
Eccoci al punto cruciale, dunque. Soltanto perché il piano ha funzionato e ha consentito sia la salvaguardia strutturale del centro storico, sia una trasformazione della città, sia un suo complessivo arricchimento, in altre parole, siamo oggi nelle condizioni di guardare a esso in maniera anche critica e di tentare di andare al di là di esso. Chi lo aveva preparato, del resto, era sin dall’inizio consapevole del destino che si prepara per le idee, nel momento in cui esse si calano nella realtà e si misurano con le sue contraddizioni. «Il percorso della sua attuazione», diceva De Carlo nel 1966, «non potrà essere così lineare come può esserlo oggi il filo della sua descrizione. Gli avvenimenti che accadranno in futuro, gli stessi eetti provocati dai primi movimenti del Piano, introdurranno nella realtà modificazio-
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Sichirollo, 1967-69, p. 38. Ivi, p. 31. 49
ni tanto sensibili da riaprire il problema delle interpretazioni, degli obiettivi e dei mezzi»55. Nel momento in cui veniva messo in atto, esso era dunque in se stesso, hegelianamente, «un problema» 56 e non già «un risultato» che potesse essere considerato ormai acquisito. I suoi fautori erano consapevoli che con quelle scelte si sarebbe innescata una dialettica «di cui non possiamo prevedere l’evoluzione» 57 e il cui esito non era per nulla inscritto nelle sue premesse. Così come erano consapevoli che il piano avrebbe potuto benissimo, alla fine, non essere aatto realizzato. Oppure, che – nell’inevitabile incontro-scontro tra la vocazione universalistica del progetto e le istanze non sempre illeggittime delle situazioni particolari – avrebbe potuto subire tutta una serie di limitazioni e condizionamenti esterni così massicci da renderlo parziale e disorganico, dimidiarlo o deformarne in maniera sostanziale il decorso rispetto alle previsioni, pregiudicandone gli esiti o conducendo ad esiti del tutto diversi da quelli previsti o auspicati. Oppure ancora, soprattutto, che ad esso sarebbe potuto mancare il sostegno di quella volontà e capacità di direzione politica che rimaneva «la ragione e il motore, sempre, delle scelte urbanistiche ed economiche»58 e che, alla fine dei conti, era stata concepita come la componente decisiva di questa ambiziosa operazione.
De Carlo, 1966, p. 121. AA.VV., 1963, p. 66 (sono parole di Livio Sichirollo). 57 Sichirollo, 1961, p. 17. 58 Sichirollo, 1967-69, p. 26.
5. Un piano senza più volontà politica
Una realtà separata: trasporti, turismo, attività produttive
E in eetti tutto ciò accadde. Sin dall’inizio, l’applicazione del piano dovette fare i conti con numerosi ostacoli e dicoltà 59. Con le ristrette competenze dell’ambito comunale, insucienti a risolvere i problemi che esso sollevava, e i relativi conflitti con altre istituzioni. Con le diverse scelte strategiche di altri enti pubblici cointeressati. Con una strumentazione legislativa arretrata e carente, incapace di stimolare i progetti di pianificazione. Con la mancanza di fondi. Con un sostanziale deficit di supporto da parte del livello governativo nazionale, che persino dopo la stagione del Centrosinistra guardava sospettosamente ad ogni politica di controllo territoriale 60. Uno dei suoi obiettivi strategici, per entrare nel merito, consisteva nel rompere la separatezza strutturale della città attraverso un collegamento agevole sia con il territorio che con le grandi direttrici delle comunicazioni nazionali. Tra le condizioni principali per la sua ecacia, pertanto, fondamentale era il potenziamento viario e la costruzione di tutta una rete di infrastrutture di collegamento con i centri circostanti, la costa, le città d’arte sull’asse da Venezia a Perugia, le autostrade nazionali. Tutto ciò ave-
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Cfr. Mascioli, 1967. De Carlo, 1966, p. 7. V. anche Sichirollo, 1967c, p. 191. 51
va per i suoi fautori un’«influenza decisiva»61 e bisogna ricordare come il Comune avesse presentato dettagliate e organiche proposte in merito 62. «Il Piano intende esaltare», annotava Sichirollo, «la vocazione della posizione di Urbino tra Rimini e Roma, cioè tra il sistema Strada Romea-Autostrada Bologna-Ancona da una parte e Autostrada del sole dall’altra, alla quale sarà presto possibile e facile allacciarsi mediante la costruenda Autostrada dei due mari (Fano-Grosseto), con casello, e raccordo, a pochi chilometri da Urbino»63. Era questa, tra l’altro, la condizione per costruire l’asse automobilistico tangenziale di Lavagine e i servizi annessi, un elemento che avrebbe dato un diverso orientamento alla città e avrebbe rivitalizzato un quartiere tuttora declinante64. Prescindendo dal problema della ferrovia, tagliata infine come un ramo secco, sappiamo che della Fano-Grosseto, che costituisce il nodo principale di questo progetto – addirittura «il fulcro centrale» 65 –, si sono a tutt’oggi perse le tracce. Sappiamo, però, che nel frattempo si è voluto arontare comunque il problema viario con la progettazione della cosiddetta bretella e che lo si è fatto in maniera del tutto sbagliata, parziale e insuciente, quando erano ormai passati moltissimi anni, il contesto era completamente cambiato e le esigenze della città erano del tutto diverse. Ricordiamo, poi, che se certamente il piano assegnava all’università una funzione centrale nel contesto cittadino, questa centralità non era aatto pensata come fine a se stessa ma come innesco di un processo di moltiplicazione delle funzioni sociali e lavorative. Accanto all’università, esso individuava come settore strategico il turismo, mentre si proponeva di promuovere l’artigianato e anche, dove possibile, la sua trasformazione «in microindustria»66. Entrambi questi obiettivi sono venuti a mancare.
«Attualmente», constatava in quegli anni Sichirollo, ad Urbino «il turismo è soprattutto “di passaggio”» 67. Si trattava di un punto critico particolarmente grave, indice di scarsa comprensione da parte della politica, perché l’intensificazione dei flussi turistici legata alla trasformazione e alla crescita complessiva, economica ma anche culturale della società italiana – costituiva un fenomeno in se stesso «progressivo» 68 e potenzialmente capace di «generare progresso». Per determinate realtà che mancavano di forze economiche alternative ma presentavano una particolare concentrazione di valori storico-artistici e naturalistici, insomma, esso aveva lo stesso significato e oriva le stesse potenzialità di sviluppo che in altre realtà erano consentite dall’industrializzazione. Il turismo veniva dunque concepito nel piano non come mero elemento accessorio ma come parte imprescindibile di un sistema integrato, che doveva ingranare con l’università come secondo centro propulsore. Urbino deve divenire «polo di attrazione di un turismo qualificato» 69. Come se si stesse pianificando l’industrializzazione del territorio, dunque, «dobbiamo studiare e apprestare strutture adeguate ed ecienti, strumenti che possano consolidare l’espansione e i motivi stessi che l’hanno determinata»70. Rispetto a questo obiettivo e alle grandi opportunità che esso lasciava prevedere, la città si presentava in quegli anni del tutto impreparata: «Un turismo colto, qualificato, tende ad organizzarsi, com’è noto, secondo una dinamica in atto ovunque, ma per accoglierlo mancano ancora attrezzature ricettive adeguate»71 e per via di queste carenze la città finiva per limitarsi ad essere lambita solo marginalmente dai flussi concentrati sulla riviera. D’altro canto, il piano coglieva già allora i rischi dell’impatto
De Carlo, 1966, 113. Cfr. p. 25 sgg. Cfr. anche De Carlo, 1963, p. 86 sgg. e Mascioli, 1967, pp. 167-9. 62 V. Comune di Urbino, 1966. 63 Sichirollo, 1967-69, p. 36. 64 Cfr. De Carlo, 1966, p. 119 sgg. Cfr. anche De Carlo, 1963, p. 92. 65 AA.VV., 1963, p. 53 (sono parole di Walter Fontana). 66 Sichirollo, 1967-69, p. 38.
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Ivi, p. 30. Cfr. De Carlo, 1966, pp. 22-3. Sul problema dei flussi turistici ad Urbino, e sulle potenzialità inespresse di questa città, un’analisi dettagliata è fornita da Baldini, 1967. 68 Sichirollo, 1967a, p. 106. 69 Sichirollo, 1967-69, p. 49. V. anche Sichirollo, 1967c, pp. 202-4. 70 Sichirollo, 1967a, p. 106. 71 Sichirollo, 1967-69, p. 30. 53
che il turismo di massa poteva avere in certe piccole realtà e si proponeva di prevenirle attraverso una pianificazione. Infine, esso comprendeva la necessità di una proiezione su scala territoriale del problema ed era consapevole che un incremento ed una stabilizzazione di flussi a carattere residenziale era possibile solo se stimolata attraverso «il progetto di un comprensorio»72 e la realizzazione di «un piano intercomunale». È solo il territorio che può fare sistema turistico, quando non si ha a che fare con grandi città. Soltanto evidenziando la complementarietà di Urbino con i centri circostanti e con l’entroterra attraverso un «reciproco coordinamento» è possibile arontare un problema «essenziale per la vita e il futuro del Montefeltro» 73. Per il turismo come per tutti gli altri fattori economici, «come c’è un movimento di azione reciproca fra la costa romagnolo-marchigiana e l’entroterra»74, notava Sichirollo, «così noi crediamo che ci sia o che debba essere in moto un movimento fra questo entroterra immediato… e il suo circondario a nord-ovest». Si tratta di «una dinamica naturale, che rischia di diventare spontanea cioè di sfuggire ad ogni controllo» e che dunque «da un lato va sollecitata e dall’altro controllata nell’interesse di un assetto ordinato del territorio e delle popolazioni interessate». È facile constatare come chi amministri oggi questo come altri settori della vita cittadina si trovi di fronte esattamente allo stesso genere di problemi e alle stesse priorità, tuttora irrisolte. È chiaro, allora, che la mancata realizzazione di questo aspetto ha sottratto allo sviluppo della città uno degli elementi propulsivi fondamentali che il piano esplicitamente prevedeva, pregiudicandone in maniera molto pesante l’equilibrio. Per quanto riguarda la microindustria e persino l’industria, essa è stata eettivamente incrementata e non era certamente possibile pensare a una proiezione industriale della nostra città di portata maggiore. Il punto critico riguarda in questo caso il settore specifico dell’artigianato, che il piano prevedeva come una funzione importante della vita cittadi-
Sichirollo, 1967a, p. 109. Ivi, p. 112. 74 Cfr. Sichirollo, 1967c, p. 292.
na e come una forma di dierenziazione economica. Venuto a mancare il fattore precedente, però, e cioè il turismo, esso è andato declinando fino a ridursi ai minimi termini. Inoltre, esso – anche per evidenti errori presenti nel piano stesso75 – è stato progressivamente espulso dal centro storico, privando la città non solo di una serie di servizi che sono importanti per la vita quotidiana dei cittadini ma anche di attività che, soprattutto in una città d’arte, testimoniano della tradizione della vita urbana e ne arricchiscono e vivificano le espressioni. La crescita dei flussi studenteschi e il problema degli alloggi
Da un punto di vista pratico, però, la principale distorsione del significato del piano è dovuta paradossalmente alla sottovalutazione del fenomeno dell’espansione universitaria. Un piano elaborato attorno all’idea di una città residenziale di studi finisce in corso d’opera per sottodimensionare proprio le potenzialità di crescita di questo fattore e per dar luogo a previsioni che si sono dimostrate insucienti. In tal modo, doveva necessariamente rivelarsi errato il calcolo dell’impatto del flusso studentesco sulla città e delle necessarie contromisure da mettere in campo per renderlo compatibile con le capacità di sopportazione del tessuto urbano. Il piano, come sappiamo, concepisce la crescita dell’università come fattore di vivificazione della città. «Il progresso dell’Università e la sua progressiva identificazione con la vita di Urbino» 76 dev’essere «concreta testimonianza di come sia possibile vitalizzare un Centro Storico senza snaturarlo, puntando al potenziamento delle sue più autentiche vocazioni». Esso avrebbe dovuto comportare, dunque, una sua trasformazione radicale ma non certamente un suo stravolgimento. Avrebbe dovuto distruggere la sua apatia e separatezza ma non certamente indurre un’apatia e una separatezza di tipo nuovo. Esso fi-
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Cfr. Sichirollo, 1966, p. 241. De Carlo, 1966, p. 50. 55
nisce però per farsi sfuggire di mano il problema e per non prevedere la possibilità di quelle varianti e di quelle alternative che avrebbero consentito di fronteggiare in tempo le anomalie di volta in volta sorte. Negli anni in cui il piano viene elaborato, gli iscritti all’università di Urbino erano decisamente pochi rispetto a quelli di oggi e la popolazione studentesca residente era così esigua da non deformare il tessuto sociale e urbano. Le Facoltà di Farmacia, Legge, Lettere e filosofia contavano «alcune centinaia di iscritti» 77, mentre la Facoltà più grande, Magistero, aveva «5000 iscritti in corso e fuori corso». Di questi, però, soltanto «poche centinaia, distribuiti per turni, settimanali o al più mensili» erano «i frequentanti». Sebbene non mancasse la consapevolezza che «la presenza degli studenti in città diventa sempre più massiccia e pone problemi… gravi» 78, si capisce che, sulla base di questi numeri, il piano guardasse con ansia alla crescita dell’università e all’incremento della presenza studentesca come ad un fattore imprescindibile e urgente per la sopravvivenza della città. Le dimensioni che il fenomeno aveva in quel periodo sembravano infatti garantire ampiamente la possibilità di pianificare uno sviluppo controllato, che conducesse ad una sempre maggiore integrazione e ad una trasformazione virtuosa e rivitalizzasse la città. Nel 1965 l’università raggiungerà gli 8000 iscritti per superarli l’anno dopo79. Nel 1969, per capirci, in occasione della seduta del consiglio comunale sul tema “Situazione, problemi e prospettive di sviluppo dell’università” (18 novembre), la relazione della Giunta prendeva atto della tendenza dell’università a divenire «scuola di massa»80 e della necessità di coordinarne la crescita con le opportune modifiche delle funzioni della città, al fine di «alloggiare gli studenti e i professori», i quali «devono vivere a Urbino». E però essa guardava al fenomeno in una prospettiva diametralmente opposta rispetto a quella
Sichirollo, 1967-69, p. 31. AA.VV., 1963, p. 44. 79 De Carlo, 1966, pp. 24 e 48. 80 In Sichirollo, 1970, p. 102. Cf r. Mascioli, 1967, pp. 176-7. 77
in cui ci troviamo a guardarlo oggi, dato che si poneva il problema di servizi in sinergia tra Comune e università rivolti sia ai cittadini che agli studenti, «quando la frequenza degli studenti fosse molto alta»! Una relazione sul problema della ricettività, elaborata dall’ucio tecnico del Comune nel settembre 1966 dopo un’indagine attenta ma necessariamente insuciente per la mancanza di dati oggettivi, ci consente di comprendere in che termini fosse percepito questo fenomeno negli anni dell’avvio dell’espansione. «La capacità ricettizia della città di Urbino»81, constatava la relazione, «è tuttora ignota sebbene siano state svolte numerose indagini da vari enti». Una stima approssimativa consentiva di calcolare che nel 1957, tra camere di albergo, pensioni e alloggi presso i privati, si disponesse di 180 camere per 370 posti letto. Già all’epoca, soltanto «con dicoltà veniva esercitato il controllo sulle famiglie che avevano alloggi» e soprattutto in coincidenza dei corsi estivi, il periodo del massimo ausso, questo controllo «si perdeva completamente». La preoccupazione del Comune era però del tutto diversa da quella attuale, perché nell’auspicata prospettiva dell’espansione dell’università eettivamente in quegli anni «il numero delle camere… era relativamente limitato» e insuciente a garantire una ricettività adeguata. Certo, «nel tempo tale capacità è aumentata con rapidi scatti» e nel 1959 i posti letto si potevano contare già in 540. E però il problema di assicurare un’accoglienza agli studenti e ai turisti rimaneva urgente. È proprio nel 1959 che la curva comincia a crescere in maniera geome trica e si verificano «i primi spostamenti di massa delle presenze che immediatamente hanno determinato un maggior aollamento degli alloggi esistenti». È negli «alloggi privati» che si va concentrando il «maggiore aollamento». Negli anni successivi ci saranno numerosi interventi di edilizia alberghiera e verrà costruito il primo collegio universitario e però ancora più forte sarà l’«aumento degli alloggi privati». Gli urbinati ospitavano gli studenti nella propria famiglia, attando una o più stanze della propria casa e vivendo insieme a loro. Era un
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81
Comune di Urbino, 1966, pp. 277-81. 57
fenomeno che il Comune guardava con un certo favore, a partire da alcune considerazioni. Anzitutto, notevoli erano ancora «le dicoltà che costantemente si incontrano per trovare un letto per dormire, anche adattandosi a condizioni disagevoli» e questo inevitabilmente ostacolava i progetti di sviluppo dell’università e del turismo. Inoltre, risultava chiaro che la possibilità di accogliere gli studenti forniva ai cittadini risorse alle quali, nelle condizioni disagiate dell’epoca, era impossibile trovare alternative. «Pur di aumentare il reddito», le fami glie urbinati «si sottopongono al sacrificio di addensarsi in pochi vani anche per lunghi periodi». A conti fatti, considerava giustamente il Comune, «l’alloggio privato per la sua elasticità, la sua economicità e per il suo caratteristico aspetto sociale, è stato in alcuni casi insostituibile e, forse, per Urbino, anche una spinta per un incremento delle presenze». E però non mancavano gli elementi di perplessità. Anzitutto, era chiara la dicoltà di controllare questo fenomeno: pressoché inverificabili erano «le presenze non denunciate sia dai titolari delle licenze, sia da coloro che non sono in possesso della licenza di attacamere». In secondo luogo, questa soluzione era nel lungo periodo del tutto insuciente e inadeguata per arontare il problema in maniera strutturale e si rendeva perciò necessaria «una radicale trasformazione del sistema ricettivo». È chiaro, dunque, che la volontà politica era intenzionata a controllare questo fenomeno e non pensava aatto in origine di rimediare alla carenza di alloggi incentivando i cittadini a trasferirsi fuori dal centro e a liberare del tutto le abitazioni per riservarle ad uso attuario. Al contrario, secondo il Comune «l’aumento incontrollabile delle presenze» aveva già all’epoca determinato «la saturazione degli alloggi privati». Inoltre, si verificava un vistoso mutamento nei costumi e nella morale che determinava «in un solo tempo l’eliminazione di numerosi preconcetti da parte soprattutto dei familiari degli studenti», più disponibili ormai a lasciare libertà ai propri figli senza sottoporli alla tutela della famiglia ospitante. La volontà degli studenti stessi di «evadere dall’organizzazione familiare», oltre alla «richiesta di nuovi comfort» e di «attrezzature adeguate», spingeva chiaramente il Comune a orientarsi verso la costruzione di «specifiche attrezzature» e cioè di collegi universitari, con il risultato di «escludere l’alloggio privato». 58
Punti critici
Tutto ciò non è avvenuto in misura suciente, con i risultati che conosciamo. La prospettiva della Giunta per cui «le due popolazioni, quella degli studenti e quella della città, saranno inevitabilmente portate a fondersi»82 si è rivelata sbagliata. Negli anni scorsi l’università è arrivata a contare più di 20.000 iscritti, con circa la metà di studenti residenti. Nel corso degli anni questa accumulazione ha fatto saltare tutte le previsioni, tarate sulla prospettiva di un’università in espansione ma sempre «relativamente piccola», e ha finito per distorcere gli eetti del piano. Ma non è stata solo la dimensione quantitativa della crescita dell’università ad aver avuto un peso. Anche quella della sua qualità ha in qualche modo condizionato la vita della città con esiti imprevisti. Ancora la relazione della Giunta prevede un destino preciso per l’università di Urbino: essa deve «puntare sulla specializzazione» e cioè «su quelle scuole di alta cultura che sono alla base del funzionamento dell’Università di massa». Non un’università di massa in quanto tale, dunque, ma un centro di studi avanzato e altamente qualificato, che sappia interpretare un ruolo d’avanguardia e costituire un punto d’eccellenza nell’ambito del più vasto sistema universitario nazionale, puntando non soltanto sui numeri. Inoltre essa prevedeva esplicitamente «un programma organico che… promuovesse la statalizzazione» 83. Nessuna di queste due condizioni si è verificata. Sebbene la nostra università abbia raggiunto in alcuni casi notevoli livelli di qualità, nel complesso le sue prestazioni non si sono dimostrate particolarmente elevate nel contesto degli atenei italiani e comunque sono rimaste ben lontane dagli auspici della Giunta. I picchi di eccellenza sono stati legati ad esperienze isolate e soggettive ed è mancata una politica universitaria capace di elevare il livello medio complessivo dell’ateneo. Ancora oggi, quello della speciaIn Sichirollo, 1970, p. 102. Anche il documento redatto al termine del convegno “Potenziamento e programmazione delle università nelle Marche”, organizzato dall’Università e dal Comune il 7 e 8 marzo 1970, ribadirà questo punto: «si ritiene necessario procedere concordemente alla statalizzazione dell’Università di Urbino» (Sichirollo, 1970, p. 100). 82 83
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lizzazione e dell’eccellenza è un problema all’ordine del giorno del Senato Accademico e del Consiglio d’amministrazione dell’università. Il ritardo con cui è stata conseguita la statizzazione, arrivata soltanto nel 2007 e solo obtorto collo in seguito ad una gravissima crisi finanziaria, non è estraneo a questo esito. Sebbene, come dimostrano i casi di tante altre università italiane, non sia di per sé garanzia del raggiungimento di alte prestazioni qualitative, la statizzazione fornisce comunque quelle risorse finanziarie che a tal fine sono necessarie e, soprattutto, impone il rispetto di tutta una serie di standard – dalla composizione degli organi accademici ai servizi erogati agli studenti e altro ancora – che facilitano questo obiettivo e consentono di definire un’oerta formativa più qualificata. Le variabili che hanno finito per condizionare e deformare l’impatto del piano sono state, dunque, molteplici e della più diversa natura e già nel 1966 Sichirollo poteva riconoscere alcuni gravi «errori commessi»84. A questo punto, è però possibile individuare alle loro spalle un elemento di connessione che ha costituito a nostro avviso l’elemento critico fondamentale. L’imporsi di una tendenza, cioè, senza la quale gli ostacoli e le dicoltà avrebbero avuto un impatto molto minore e non si sarebbero saldati gli uni con le altre. Certamente va tenuto conto in tutto ciò del contesto storico e cioè dell’impetuoso processo di trasformazione che l’intera società italiana ha attraversato negli ultimi decenni. Le distorsioni della sfera politica e nel rapporto tra politica e società, come abbiamo detto, sono un fenomeno generale e di vasta portata. Il benessere prima e la crisi del modello industrialista classico poi, hanno inciso profondamente nella stessa struttura del paese e nella sua mentalità. I gruppi sociali si sono polverizzati e le dinamiche di conflittualità si sono ricollocate al livello della competizione individuale. La terziarizzazione dell’economia si è aancata all’emergere di attitudini e comportamenti di stampo iperindividualistico e di un consumismo indotto che è orientato sempre più verso l’emero. L’università di massa, poi, ha presto mostrato dappertutto limiti e discrasie che solo in
parte sono stati compensati dall’accesso di un sempre crescente numero di persone all’istruzione superiore. Ma tutto questo non deve servire da alibi rispetto ai problemi specifici della nostra città. In realtà, il nodo fondamentale e non rimovibile sta nel fatto che è progressivamente venuta meno la forza di quella volontà politica che avrebbe dovuto sorreggere costantemente il piano e governarne in maniera corretta la realizzazione. Un piano abbandonato a se stesso
Questo è stato il punto critico che riteniamo decisivo. Questo deficit, questa caduta della tensione civile, ha fatto sì che il piano rimanesse sostanzialmente privo di un orientamento capace di guidarne gli esiti a partire da una visione strategica dell’insieme. «Il successo del Piano», aveva detto De Carlo, «dipenderà… dalla sua capacità di percepire e anticipare l’evoluzione della società urbinate» 85. Ma questa capacità «a sua volta, dipenderà dall’impegno col quale la società urbinate saprà trasformare il Piano in uno strumento permanente della sua azione politica». Abbandonata la sua applicazione alla spontaneità delle cose e dei rapporti di forza, esso è andato inevitabilmente a infrangersi contro gli ostacoli che abbiamo descritto e ne è uscito fuori deformato perché tirato da tutte le parti. Era un rischio noto sin dal principio. Nel presentare il piano al consiglio comunale, il sindaco Mascioli avvertiva: «Il Piano… non è soltanto un fatto tecnico, che soltanto specialisti possono capire e discutere. Il Piano è un fatto innanzi tutto democratico, vorrei dire anche politico, perché da come noi lo avremo o non lo avremo capito, da come noi lo avremo o non lo avremo saputo attuare, dipenderà una organizzazione più o meno buona, più o meno aderente agli interessi reali, sociali delle nostre popolazioni; dipenderà insomma il tipo di vita civile che noi vorremo e sapremo attuare nell’intero nostro territorio» 86.
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Sichirollo, 1966, p. 239.
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De Carlo, 1966, p. 121. Mascioli, 1963, p. 13. 61
Livio Sichirollo ribadiva con forza questo punto nodale: «Se le forze che hanno avviato questa svolta, quelle ideologiche, soggettive (dell’Università, per schematizzare) e le forze politiche, oggettive (del Comune…) riusciranno a comporre le rispettive contraddizioni e a inserirsi in quella vasta operazione ideologica che è il Piano regolatore, allora ci avvieremo verso un’epoca nuova» 87. Era un auspicio, dunque, ed era anche la constatazione di una necessità ma non era aatto una certezza. Il piano non era un’operazione tecnica ma molto di più: «solo se acquisterà… una dimensione politica, tale processo avrà qualche possibilità di attuarsi»88. Ciò implica, però, che «l’amministrazione, l’urbanistica o programmazione in generale, l’attività politica» 89, continuino ad essere un «sistema organico sorretto dalla volontà politica dei cittadini o dei loro rappresentanti», attraverso «numerose mediazioni di base». Se questo nesso si spezza, se viene «smarrita la relazione fra la strategia e la tattica» e viene «posta in margine o lasciata inoperante» la «volontà politica», ecco allora che le condizioni di possibilità di un processo organico vengono meno. Ogni capacità di direzione cessa e si lasciano «liberamente agire gli elementi che sorreggono la vita della comunità civile… non controllandoli razionalmente o perdendo il controllo della loro relazione». Quel progetto che era stato pensato per tenere insieme una comunità, indirizzarla e darle coscienza di sé, sarebbe rimasto privo di spinta propulsiva ed esposto alle controspinte di quegli interessi particolari che da esso rischiavano di essere intaccati o che in esso pensavano di trovare un’opportunità di profitto individuale. Esso – che era alla fine soltanto «uno strumento di controllo e di azione territoriale»90 – non sarebbe più stato in grado di imporre la propria forza sovraordinatrice agli egoismi dei singoli e dei gruppi sociali più forti e sarebbe uscito in frantumi da questa collisione. Non è un’interferenza che sia intervenuta ad un certo momento.
Come normale dialettica operante entro la società civile e tra questa e le istituzioni oggettive, essa era già in corso al momento dell’elaborazione del piano. Già al suo avvio, mentre è ben presente la traduzione tecnica di una scelta politica, lamenta Sichirollo, «manca… la traduzione politica di proposte e realizzazioni tecniche »91. Non erano pochi i segnali che, ai più diversi livelli, molte forze politiche per «povertà di elaborazione speculativa» avessero «smarrito proprio la dimensione politica, cioè universale, del loro intervento sulla realtà» e stessero facendo del «loro operare» una «funzione meramente “amministrativa”». La volontà politica, insomma, non garantiva di sapersi mantenere all’altezza della scelta iniziale e rischiava di confondere la «funzione dinamica e democratica del potere con il suo uso statico, passivo, clientelare». E in eetti, per molte forze e gruppi d’interesse sociali il piano comportava «soltanto limiti, vincoli» 92, era una «fonte di sacrifici»: le resistenze erano forti e dunque forte era la tentazione di lasciarsi andare al «peggiore spontaneismo», alle «tendenze naturali» e al «calcolo quotidiano». Non mancavano le voci interessate di chi considerava il piano persino come una pericolosa «limitazione dell’uso della proprietà privata» 93. Solo una salda volontà avrebbe potuto spezzare queste resistenze, attraverso la sollecitazione di una spinta dal basso. Rendere comprensibili a tutta la città gli obiettivi del piano, consentire a tutti di contribuirvi e renderlo forte, in tal modo, di quella partecipazione collettiva che avrebbe salvaguardato gli interessi particolari nella misura della loro legittimità ma ne avrebbe impedito il prevalere sull’universalità del progetto, realizzando in pieno quella funzione che costituisce il senso stesso degli enti locali 94. Nel momento in cui questa tensione vacilla, il progetto entra in crisi e si determinano le condizioni per cui esso si lascia «sopraare dalla speculazione privata» 95. Non più sorretto da una visione strate-
Sichirollo, 1967-69, pp. 45-6. V. anche De Carlo, 1963, p. 76. Sichirollo, 1967-69, pp. 54-5. 93 Sichirollo, 1967c, p. 192. 94 Cfr. Sichirollo, 1971. 95 Sichirollo, 1967-69, p. 52. 91 92
Sichirollo, 1961, p. 16. 88 Sichirollo, 1967-69, p. 51. 89 Ivi, pp. 25-6. 90 De Carlo, 1966, p. 111. 87
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gica condivisa, non più guidato dalla politica né vivificato dall’intervento attivo della cittadinanza, il piano rischia allora di im plodere, di ritrarsi in se stesso. Ancora peggio, di concentrarsi nella sua mera dimensione tecnica e di ricondurre unicamente ad essa il suo significato politico, mettendo capo ad un incubo, ad una vera perversione urbana. «Un universo tecnologico che si manifesti e operi immediatamente nella coscienza della sua “politicità”, senza la mediazione dell’altro, di chi cioè porta, o dovrebbe portare, la responsabilità dell’iniziativa, dell’azione e della “volontà” politica» 96, avvertiva Sichirollo, può condurre ad una vera e propria «situazione “concentrazionaria”». Se un’operazione di grande portata tecnica non ritrova continuamente il proprio senso in un processo politico di egemonia e di crescita collettiva, ecco allora che «la realtà stessa – sulla quale e in vista della quale si è pur sempre operato – appare immaginata, inventata, una semplice astrazione».
6. Rassegnazione. Il piano degli anni Novanta
Una nuova ricognizione
E un’astrazione – un «anti-Piano» 97 – è eettivamente ciò a cui questo processo sembra aver messo capo. Negli anni d al 1965 in avanti, il piano ha continuato ad essere operante – sebbene con notevoli limiti e deformazioni e dopo aver subito una serie di varianti – e ad orientare la vita della città. Ormai privo della spinta politica e della tensione etica e intellettuale che l’aveva sollecitato, esso è andato però sempre più svuotandosi del suo significato complessivo e il suo stesso successo sostanziale, di cui abbiamo parlato, sembra essersi realizzato contro il progetto originario e in netto contrasto con l’idea di città che ad esso era sotteso. Quando nel 1990 Giancarlo De Carlo tornerà ad Urbino, molte cose sono cambiate e il volto della città – come del resto il volto della società italiana – è ormai molto diverso da quello degli «anni eroici del Piano»98. Urbino è tutt’altra cosa, dunque: «È cambiata la popolazione che è ancora scesa per quanto riguarda i residenti e salita vertiginosamente per quanto riguarda gli studenti; si è trasformata la geografia della popolazione attiva che è uscita dall’agricoltura e
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Ivi, pp. 46-8.
98
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Sichirollo, 1966, p. 242. De Carlo, 1990a, p. 1. 65
si è addensata nell’amministrazione e nel commercio; il Centro Storico si è conservato nella corteccia quasi intatto, ma le sue strade e le sue piazze sono stravolte dalla sosta delle macchine e attaccate dall’inquinamento; si è estesa la nuova Città verso settentrione diventando una conurbazione illimitata e congestionata; verso Urbania è stato edificato l’inquietante quartiere di Mazzaferro…; sono cambiate le aspirazioni, le aspettative, la cultura, il gusto; e, per eetto di spinte omologanti, si è ouscata la percezione dei rapporti di necessità reciproca tra spazio edificato e spazio aperto, tra attività e quiete, tra pieni e vuoti, tra città e campagna, tra stato naturale e artefatto: si è allentato il senso della complementarietà degli opposti e quindi delle tessiture generate dal loro continuo e alterno attrarsi e separarsi» 99.
Sono in gran parte quei problemi che noi oggi ci troviamo davanti, come si vede. De Carlo – che, come dice lui stesso, anche negli anni dell’allontanamento aveva continuato a immaginare a distanza lo sviluppo ulteriore del piano – si accorge senz’altro delle distorsioni che nel frattempo sono intervenute, della perversione del disegno originario. Di quanto astratta, in altre parole, si sia rivelata quell’operazione di fronte alla forza non governata delle cose. La sua ricognizione per il nuovo piano, anzi, constata in maniera puntuale e minuziosa questi problemi. E però, essa è come attraversata da un senso di fatalità e di rassegnazione e nelle parole del progettista il tono è ormai decisamente un tono minore rispetto a quello – denso di passione politica e tutto teso alla trasformazione dell’esistente – con cui egli aveva illustrato, argomentato e difeso strenuamente il piano degli anni Sessanta 100. Questa ricognizione, insomma, sembra dichiararsi sin dall’inizio programmaticamente incapace di inter venire in modo attivo nella realtà data e di arontarne i problemi per risolverli alla radice. Non a caso, nel nuovo piano la questione del centro storico – la questione urbanistica per eccellenza – avrà un rilievo decisamente limitato se non marginale. Spostandosi da quello che nel piano originario era pensato come «il ba-
ricentro della comunità e del suo territorio» 101, l’attenzione si orienterà prevalentemente sulla campagna e sul territorio circostante ma anche in questo caso lo farà senza più tentare di suscitare alcuna connessione, se non meramente dichiaratoria, con il centro. Questo spostamento non avviene perché i problemi del centro storico siano problemi ormai risolti, o la cui soluzione sia stata quantomeno impostata sui binari corretti. Sembra avvenire, piuttosto, proprio per il motivo contrario e cioè perché è ormai divenuta dominante la convinzione che sia del tutto impossibile, oltre che inutile e fuori luogo, tentare di arontarli. La convinzione che le dinamiche innescate dal piano abbiano finito per seguire un loro corso incontrollato e che abbiano dato vita, ormai, ad un’altra storia e ad un’altra città, molto lontana e diversa da quella che era stata a suo tempo ideata. Qualunque ripensamento del centro storico, allora, qualunque presunzione di ricondurlo a quel modello, sarebbe una vana forzatura perché l’idea di città che animava il piano è ormai dileguata. Essa è stata cancellata sin nella memoria degli uomini per opera di una realtà che, liberata proprio dalla rottura della stasi che quel piano ha rappresentato, si è dimostrata più forte di ogni strategia e volontà politica. Non rimane che sorvolare, allora. Prendere atto della forza della spontaneità delle cose – di quelle molteplici e reali spinte particolaristiche che, come era normale avvenisse, hanno sopraatto l’idea – e dell’impossibilità di ricondurle ad un ordine, limitandosi ad un’opera di razionalizzazione di ciò che nel frattempo si è costituito da sé102. Da un lato, non c’è più alcuna situazione di grave necessità che prema con urgenza. Come la società italiana nel suo complesso ha risolto i propri bisogni primari, Urbino non è più soocata dalla miseria e dalla fame delle sue campagne. La «piccolissima e poverissima Urbino» 103 degli anni Sessanta non è più una realtà al limite della sopravvivenza ma è ora una città ricca che porta su di sé, semmai, certi aspetti sgradevoli
Mascioli, 1963, p. 14. Cfr. Harvey, 1993, pp. 40 sgg., 58 sgg. 103 Mascioli, 1966, p. 226. 101
Ivi, pp. 3-4. 100 Cfr. De Carlo, 1963, p. 75. 99
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ma inevitabili – e tollerabili – della modernità. Non c’è nessuna spinta reale, dunque, ad una trasformazione che nessuno più vuole. Dall’altro lato, si è ormai constatato che anche la più consapevole volontà politica non regge nel medio periodo all’urto con gli interessi reali e che anche il più ranato disegno che aspiri all’universalità può essere fatto a pezzi dalla parzialità dagli egoismi sociali. Non è più tempo questo – proprio agli inizi del dispiegarsi del ciclo liberista nel nostro Paese – per le visioni strategiche e per le sintesi politiche. Meglio rinunciare a priori ad ogni utopia, che non sarebbe compresa e sarebbe subito rigettata come violenza illegittima e superflua. Meglio attenersi semplicemente al «recupero» e alla «riqualificazione» 104 dell’esistente, riparando ai danni più gravi e rinunciando a dare qualunque indirizzo generale. Le denunce (inascoltate) di De Carlo
Già il piano degli anni Sessanta era stato «pensato e redatto proprio in funzione di una politica amministrativa e urbanistica non soltanto comprensoriale, ma addirittura territoriale»105. Non si tratta, dunque, di non riconoscere o di sminuire l’importanza dei problemi del territorio sui quali il nuovo piano si concentra. Si tratta di constatare, al contrario, come anche la tematizzazione di quei problemi, se si evita di arontare quelli del centro e di porsi l’obiettivo di una ricucitura a partire da una nuova idea organica di città, rimanga parziale e di portata ridotta rispetto alle esigenze concrete del territorio stesso. Nonostante ciò, però, e nonostante l’assenza di ogni intenzionalità sintetica, non mancano da parte di De Carlo, nella ricognizione del nuovo piano, momenti di grande consapevolezza e lucidità nella denuncia dei problemi reali. La prima e più importante notazione riguarda la questione che per noi è fondamentale, perché tocca quel nodo città-università
104 105
De Carlo, 1990a, p. 3. Cfr. Sichirollo, 1967c, p. 290.
che costituiva l’asse portante del piano e, di conseguenza, vale come un bilancio della sua realizzazione e come premessa per inquadrare tutti i problemi connessi. Se la popolazione complessiva di Urbino appare nel 1990 in netto calo rispetto a 40 anni prima, «ancora più forte è il calo di popolazione del Centro Storico che negli ultimi dieci anni è stato pari al 20%»106. In generale, si tratta di un fenomeno qualitativamente diverso rispetto al passato e di un fenomeno che rispecchia in sostanza l’andamento nazionale: il calo non è più legato all’emigrazione verso altre regioni per la ricerca di opportunità di lavoro bensì all’invecchiamento naturale dei residenti. Si tratta di un fenomeno di sviluppo e modernità e non più di arretratezza, dunque. Esso ha però sulla nostra città una ricaduta particolarmente grave perché è concentrato nel suo centro storico. Incrociandosi con le dinamiche di attrazione dei flussi studenteschi, poi, si appesantisce ulteriormente perché mette a repentaglio l’identità stessa della città. Apparentemente poco visibile, poiché «le strade e le piazze della Città sono piene di studenti universitari», esso però cresce e «indebolisce progressivamente la vitalità economica, sociale e culturale del territorio». Proseguendo lungo questa strada, Urbino diventerà una città sempre più vuota di residenti e popolata soltanto da presenze esterne e a tempo determinato. Una città fantasma, dunque. È necessario invertire questa tendenza e fare in modo che la città si ripopoli e rinasca, cominciando con il renderla un polo d’attrazione per una residenza stabile. «Migliorare le condizioni abitative nella Città», per prima cosa. Promuovere lo sviluppo di «attività produttive che orano occasioni di lavoro ai residenti» ma anche «possibilmente attirino dall’esterno nuovi abitanti». Soprattutto, riflettere sul ruolo dell’università e operare nella prospettiva di un riequilibrio complessivo del rapporto tra cittadinanza e studenti, nella consapevolezza che un ulteriore incremento delle tendenze attuali sarebbe molto nocivo. Una «riduzione quantitativa» del 106
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De Carlo, 1990a, pp. 9-10. 69
numero degli studenti, dice con grande coraggio De Carlo, comporterebbe «un miglioramento qualitativo molto vantaggioso per la Città», oltre che «per l’Università stessa». Proprio per questo, nel nuovo piano «verrà difesa la residenza che ancora rimane e sarà compiuto ogni sforzo per richiamarla da dove è emigrata creando situazioni favorevoli sia per il suo ritorno che per l’uscita di quanto ha preso il suo posto» 107. Parole chiarissime, dunque, pronunciate già quasi vent’anni fa. De Carlo riconosce la funzione propulsiva che l’università ha svolto nei confronti della città e ha così modo di verificare come l’analisi dei promotori del piano fosse corretta e come la scommessa su cui il piano si fondava sia stata vinta: «si deve all’Università se negli ultimi 40 anni Urbino ha potuto svolgere un ruolo bene al di sopra della sua dimensione in numero di abitanti, se non è scivolata in una oscura condizione provinciale e non è diventata interamente subordinata nei confronti di alcune città vicine più forti, come Pesaro e Ancona» 108. L’università ha avuto dunque il merito di portare la città fuori dal sottosviluppo e di orirle le condizioni per costruire il proprio futuro. Il rapporto tra università e città ha sedimentato però, proprio per via di questo successo, una serie di «debolezze pericolose», la principale delle quali risiede esattamente nello squilibrio della struttura della popolazione nel centro. «La popolazione universitaria», dice, «ha grandezza spropositata rispetto alla popolazione residenziale». Tenendo conto dei soli frequentanti, «il rapporto è di 1:1». Ora, nelle condizioni di Urbino, questa situazione «è senza dubbio inconciliabile col bisogno dei cittadini di trovare nella città occasioni di privatezza». E però non si tratta soltanto della quiete o di ciò che oggi viene percepito in termini di ordine pubblico: questo squilibrio mette in discussione alla radice l’«autorappresentazione» che i cittadini hanno di se stessi come abitanti della città, l’«identificazione» di essi con il luogo in cui risiedono, l’«appropriazione dello spazio urbano» da parte di coloro che dovrebbero esserne i principali fruitori.
107 108
Ivi, p. 40. Ivi, pp. 22-4.
È proprio a partire da questa situazione che tanto dicile risulta il formarsi di quei «rapporti di integrazione tra cittadini e universitari»109 auspicati a suo tempo dalla Giunta, mentre cresce sempre più la «didenza» per via del «sospetto di sfruttamento reciproco». È chiaro che da un lato gli studenti tendono a convergere verso il centro per essere più vicini alle aule, «aollandosi in condizioni disagevoli», mentre dall’altro la loro domanda innalza vertiginosamente i costi degli atti, mettendo in dicoltà i residenti. Facendolo singolarmente e per posto letto, essi «riescono a pagare atti che non possono essere accessibili a una famiglia media» e in tal modo espellono i cittadini dalla loro città. Ne deriva «uno spopolamento progressivo» che ha «conseguenze gravi per la società urbinate». Anche il patrimonio urbanistico ne risente. Non solo gli appartamenti del centro ma ormai «ogni edificio della periferia, e ormai anche della campagna, è potenzialmente una piccola e inadeguata residenza universitaria». Di fronte all’opportunità della rendita attuaria, «si continua a adattare alla meglio casolari e cascinali e nello stesso tempo a investire in nuovi edifici residenziali (possibilmente sovvenzionati e in deroga) con crescente spreco di territorio, distruzione ambientale, incremento di spese di urbanizzazione, espansione della domanda di servizi pubblici e parcheggi e strade». Una situazione di illegalità diusa, che si aerma senza tuttavia corrispondere «a bisogni reali» e senza tradursi «in reali vantaggi per la comunità urbinate», eccetto che per coloro che controllano il mercato degli atti. Vox clamans in deserto
La comprensione del problema, dunque, c’è tutta. Come si vede, è l’identità stessa della città e il suo significato che sono messi pesantemente in questione. Una volta che sia rotta la relazione tra gli abitanti e il tessuto urbano, la città si riduce a un contenitore vuoto e perde ragion d’essere. Si tratta anche per De Carlo del problema fondamentale di 109
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Ivi, pp. 25-6. 71
Urbino e di un problema che non può essere lasciato degenerare ma che va compreso e arontato: la situazione è grave e «il ridimensionamento della popolazione universitaria di certo ridimensionerebbe la gravità della situazione». È necessario «raggiungere un equilibrio» e rimediare alle deformazioni che l’inadeguata applicazione del vecchio piano ha inferto alla struttura della città. È necessario, cioè, «che la popolazione universitaria diminuisca in modo ragionevole»110. Del resto, sembra presagire questa ricognizione, non si tratta di un’ipotesi fuori dal mondo. Le dicoltà di integrazione peggiorano la qualità della vita e, assieme all’incremento della concorrenza tra le università, possono, se non fronteggiate, condurre ad una vera e propria «caduta» della presenza studentesca, un rischio e un’eventualità alla quale la città non reggerebbe. Prima che ciò accada – e proprio per evitare che ciò accada –, bisogna intervenire nella situazione e sollecitare questa riduzione governandola, in primo luogo «accelerando il processo di qualificazione» dell’università. In questo senso, l’università dovrà invertire la politica di espansione prevalentemente quantitativa e orizzontale seguita fino a questo momento e cominciare a «contrarre gli insegnamenti indierenziati», privilegiando invece «quelli specifici» e di alto livello. Invece di «continuare a ingigantire le Facoltà», dunque, «sarà necessario aprire Corsi transdisciplinari di perfezionamento e di specializzazione, di Master… e di PhD, di ricerca teorica e sperimentale… nazionali o internazionali», compensando i minori numeri con una qualità maggiore degli studenti residenti e con una diversa qualità del loro risiedere e vivere la città. Inoltre, «se si vorrà che gli studenti, e i docenti, risiedano davvero a Urbino e non continuino con la loro presenza a generare l’espulsione degli urbinati dal Centro Storico, dalla Città e perfino dalle Frazioni e dalle case di campagna» 111, anche il Comune dovrà elaborare delle politiche attive d’intervento. Sarà necessario «convogliare la residenza universitaria – pubblica o privata che sia
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– fuori dal Centro Storico» 112 e dunque bisognerà sia varare un nuovo programma di edilizia universitaria (residenza pubblica), sia, evidentemente, trovare gli strumenti adeguati per una politica mirata di incentivi e disincentivi all’atto delle case (residenza privata). Ma l’analisi di De Carlo – le cui parole sono ancora attualissime – non finisce qua. Essa coglie infatti l’incidenza complessiva che il modello di sviluppo adottato ha avuto sulla struttura della città. L’espansione dell’università e l’identificazione della città con questa istituzione ha arricchito enormemente Urbino. Questa crescita è stata però del tutto anomala rispetto agli andamenti normali verificatisi nelle società avanzate: esso si fonda su uno «sviluppo abnorme della pubblica amministrazione che ha assorbito una buona parte della popolazione emigrata dalle campagne»113. Nel 1990, solo il 27% dei cittadini era occupato nell’industria, mentre ben il 38,5 % lavorava nel settore della pubblica amministrazione e cioè presso l’università, il Comune, l’ospedale e gli altri enti pubblici. Un «processo di terziarizzazione… rapido e totale», dunque: ad Urbino, si può dire, «il passaggio all’epoca post-industriale è avvenuto senza che sia mai stata vissuta l’esperienza industriale». E però, ciò che in altri contesti ha costituito una circostanza felice, capace di salvaguardare l’ambiente e la qualità della vita e delle relazioni sociali comunitarie, nella nostra città ha assunto caratteri perversi e parassitari proprio perché non ha condotto alla formazione di un terziario specializzato e di qualità ma al proliferare di un arretratissimo terziario improduttivo, impegnato in mansioni subordinate e di basso livello. Certamente lo sviluppo dell’università e dei servizi ad essa connessi ha comportato la necessità di un numero congruo di impiegati e funzionari. L’espansione della pubblica amministrazione ha raggiunto però ad Urbino livelli inusitati che non hanno nulla a che fare con le esigenze funzionali e le reali capacità di assorbimento di questi enti. È chiaro che ogni scelta di questo genere è una scelta politica e che è legittimo e
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Ivi, p. 24. Ivi, p. 27.
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persino giusto anteporre ai criteri di ecienza e produttività criteri di natura diversa, soprattutto in aree depresse nelle quali mancano alternative di sviluppo e questo genere di ammortizzatori sociali diventano indispensabili. E però anche in queste scelte bisogna tener conto di quel limite razionale oltre il quale si determina uno squilibrio patologico. La volontà di «trattenere la popolazione nel territorio» 114 è dunque lodevole, come l’«attaccamento alla propria gente». E però è innegabile che al fondo di queste scelte ci siano state anche l’«inclinazione assistenziale», il senso dell’«opportunità politica» e persino una certa «demagogia», e che in questo modo la domanda sia stata «dilatata il più possibile» fino a farle raggiungere un livello «spropositato» rispetto alle eettive necessità e soprattutto rispetto all’andamento degli altri settori economici. Se questa scelta ha in parte «salvato Urbino da uno spopolamento ancora più rilevante di quello che è di fatto avvenuto», il modo brutalmente clientelare in cui è stata messa in atto ha finito per determinare uno squilibrio perverso, che non pesa soltanto sull’ecienza della pubblica amministrazione, dando vita a sprechi e irrazionalità, ma che ha una ricaduta più generale. Essa ha generato «eetti culturali e sociali» inequivocabilmente «negativi» e ha limitato le capacità espressive e produttive della città. «Culture materiali dotate di esperienza storica», commenta De Carlo, invece di essere stimolate a rinnovarsi e a trovare nuove opportunità di valorizzazione sono state condotte all’«annichilimento in un terziario inerte, agglutinante e pigro». Insomma, «la conversione di competenti contadini, artigiani e muratori, in bidelli e custodi senza compiti attivi, non ha certo esaltato il potenziale culturale, la forza di immaginazione, il dinamismo, il linguaggio della comunità urbinate» ma ha determinato un «appesantimento» che ha bloccato la moltiplicazione delle funzioni produttive. È anche per questo motivo che oggi Urbino presenta una struttura produttiva elementare, nettamente meno vivace e articolata di quanto non accada in città molto vicine e con una
storia non troppo diversa, come ad esempio Urbania o Fermignano. Le «sollecitazioni urbanistiche alla formazione di una economia articolata»115, si può dire oggi, non hanno funzionato. Due punti chiave
Inutile proseguire in una rassegna completa delle criticità individuate da De Carlo. Ci limitiamo soltanto a due punti ulteriori, perché si riferiscono a due elementi che nel piano originario erano considerati cruciali. Il primo riguarda il turismo, che come sappiamo era stato pensato come il secondo centro propulsore dello sviluppo della città. Rispetto ai decenni precedenti, esso è cresciuto sul piano quantitativo e però «non è cambiata la sua sostanza» 116. Nel 1990, come già quarant’anni prima, si tratta di un turismo «incostante, stagionale, prevalentemente giornaliero», volto più che altro a far leva sul «pendolarismo dei bagnanti che risiedono sulla costa». Ne consegue che sono aumentati i «disagi» in termini di traco, vivibilità e consunzione dei valori storico-artistici, ma non ne sono derivati «reali vantaggi economici e culturali alla città e al territorio». Uno degli obiettivi fondamentali del piano è stato dunque mancato e oggi come allora la via d’uscita rimane la stessa: sperare nel miglioramento dei collegamenti con i flussi viari nazionali (le infrastrutture sulle quali il piano aveva fatto adamento sono infatti rimaste tutte sulla carta), incentivare il turismo residenziale e sviluppare reti territoriali integrate. Infine, la questione della zona nuova della città, sulla quale il piano degli anni Sessanta si soermava con particolare attenzione. «Una forte aspirazione a rinnovamenti radicali»117 aveva in un primo momento spinto gli amministratori a incoraggiare il trasferimento delle famiglie dal centro. In questo processo si esprimeva anche «il rifiuto dell’immobilità
De Carlo, 1966, p. 117. De Carlo, 1990a, p. 19. 117 De Carlo, 1966, p. 90. 115 116
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sociale che era rimasta arroccata agli antichi bastioni» e «l’aermazione del diritto delle classi popolari a godere i vantaggi delle tecnologie moderne e a ricuperare una propria autonomia di espressione». Sappiamo come i fautori del piano fossero però anche estremamente spaventati dalle «tendenze centrifughe» 118 che portavano i residenti a trasferirsi nella città nuova, con il rischio di ridurre il centro storico ad una città fantasma. Tanto più che in quel contesto economico e culturale quell’espansione aveva condotto alla «formazione di un quartiere residenziale esterno incolto, caotico e sprovvisto delle più elementari attrezzature» 119 e aveva «accentuato» il «deterioramento» del centro, provocando «una profonda regressione urbanistica della cultura della città» 120. Bisogna «evitare che la Città nuova sfugga ad ogni controllo diventi autosuciente e finisca quindi per svuotare, anche in senso fisico, la città antica» 121, avvertiva Mascioli. Proprio per impedire questa eventualità, che avrebbe costituito «un disastro»122 con «gravissime conseguenze», il piano aveva studiato minuziosamente, utilizzando puntigliosi modelli matematici e urbanistici, i limiti di compatibilità ed equilibrio tra lo sviluppo del nuovo abitato e la città cinta dalle mura 123. Ne era scaturita la prescrizione a limitare l’espansione lineare nella zona nord entro confini certi e invalicabili, in modo da dare continuità all’insieme urbano, mantenerne il baricentro il più possibile vicino al centro storico ed evitare che i nuovi quartieri diventassero autonomi. Già in quegli anni questa proposta aveva suscitato un notevole dibattito e chi legga oggi gli atti delle sedute del consiglio comunale non può non notare quante e quanto forti fossero le resistenze rispetto a questi vincoli. Si può cogliere chiaramente come gli interessi particolaristici e gli egoismi privati abbiano cercato sin dall’inizio di farsi largo tra le maglie
del piano, dilatandole il più possibile. Nella seduta del dicembre 1963, la maggior parte delle critiche al piano si concentra esattamente su questo punto e molti tra gli intervenuti richiedono in maniera esplicita l’allargamento dei limiti della zona di espansione, considerando ingiustificati i timori del progettista 124. Proprio perché «le cose non sono andate come previsto»125, la città, che avrebbe dovuto terminare alla Pineta, si è espansa molto oltre verso nord ma anche in tutte le altre direzioni, dando vita a «una conurbazione illimitata e congestionata» 126 e determinando una situazione di fatto alla quale non è più possibile porre rimedio.
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Sichirollo, 1967-69, p. 42. De Carlo, 1966, p. 108. De Carlo, 1966, p. 94. Cfr. Benevolo, 1966, p. 230. 120 De Carlo, 1966, pp. 95-6. 121 Mascioli, 1963, p. 14. 122 De Carlo, 1963, pp. 100-1. 123 De Carlo, 1966, p. 242 sgg.
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Una politica al di sotto d ei problemi reali
Come si vede, nell’indagine di De Carlo non mancano né gli elementi di denunzia né una comprensione dei deficit del piano e degli attuali problemi della città. Anche nella sua analisi, però, qualcosa è cambiato. Tutta l’intonazione del suo discorso è ora improntata al riconoscimento forzato dello status quo e si proietta solo in un’ottica di razionalizzazione e riduzione del danno. Al posto della vecchia tensione dialettica e della passione trasformatrice, traspare semmai, qua e là, un atteggiamento di rassegnato conservatorismo, quasi che non sia rimasto altro da fare che difendere l’esistente da ulteriori corruzioni. «Bene prezioso in estinzione»127, Urbino dovrebbe ora «rivendicare» e «preservare la sua natura aristocratica» 128, che va protetta «dagli avvilimenti che la società di massa troppo spesso induce». Una conversione totale, dunque, rispetto al rivendicato modernismo degli anni Sessanta 129.
Cfr. AA.VV., 1963. De Carlo, 1990a, p. 33. 126 Ivi, p. 4. 127 Ivi, p. 20. 128 Ivi, p. 43. 129 Steiner, 1966, p. 232. 77
La risposta dei politici e degli amministratori urbinati – esposta nelle considerazioni della Giunta sul documento programmatico di De Carlo – ore un’ultima materia di riflessione. Da un lato, appare in queste note della Giunta una totale incomprensione del problema fondamentale della città, legato alle modalità di realizzazione del suo modello di sviluppo. Dall’altro, c’è però l’ammissione della presenza di un problema – o di più problemi – e della necessità di intervenire. La principale proposta che il Comune sa fare sull’università è infatti l’auspicio di una «soluzione del problema dei finanziamenti» 130 che consenta di trovare fondi «adeguati e definitivi» per «programmare nel tempo le attività e potenziare le strutture». Non una parola, dunque, sull’identificazione della città con l’università e non una parola sulla necessità di ridimensionare questa anomalia a partire da una nuova idea di università e da un nuovo equilibrio strutturale. Al contrario, il riferimento alla necessità di «potenziare le strutture» è chiaro indice che si sta pensando ad un’ulteriore espansione dell’università e dunque ad una crescita dei flussi studenteschi. Non a caso, nella sua replica De Carlo non può fare a meno di alludere evasivamente agli «errori» 131 commessi nella gestione della città e del territorio e, soprattutto, di richiamare di nuovo l’attenzione «su alcuni fenomeni che stanno cambiando rapidamente la città», in particolar modo «la pressione esercitata dagli studenti». Anche il Comune, però, non può chiudere completamente gli occhi. Ecco allora che, «contemporaneamente» 132 alla crescita dell’università, dice la Giunta, «si debbono ricercare le risposte necessarie ai problemi connessi all’alto numero di studenti comunque presenti, risposte che guardino ai bisogni, alla qualità dello studio e della vita, alla integrazione tra popolazione studentesca e città». Dei problemi, dunque, eettivamente vi sono, e sono legati «alla pressione della popolazione studentesca sul centro storico e… sull’intero patrimonio edilizio del comune». A questo
Comune di Urbino, 1990, p. 6. De Carlo, 1990b, p. 2. 132 Comune di Urbino, 1990, p. 6.
proposito, la nota della Giunta arriva persino a sbilanciarsi, proponendo interventi attivi, seppur limitati. Il nuovo piano deve cercare «i modi per evitare che gli alloggi del Centro Storico vengano suddivisi in unità abitative sempre più piccole» e deve inoltre prevedere «nuove localizzazioni per una residenza universitaria correttamente integrata con quella degli abitanti del comune», elaborando anche «soluzioni che non siano più il frutto di logiche puramente speculative». Infine, la necessità più urgente appare quella di una politica di coordinamento che porti a «scelte concordate fra Amministrazione Comunale ed Università negli interessi di tutta la città di Urbino». C’è un problema di «pressione», allora, e c’è persino un problema di «logiche speculative». Ma il modello di sviluppo non viene mai messo in discussione e così, nella replica finale di De Carlo, il riequilibrio diventa «un obiettivo a lungo termine»133 e cioè «un’idea che, allo stato attuale, non dovrebbe destare preoccupazioni». Rimane l’ammissione – reticente – di un problema, sebbene la sua soluzione sia rimandata a tempo indeterminato.
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7. Una nuova pianificazione per un nuovo modello di sviluppo
L’esigenza di un nuovo piano
È arrivato il momento di tirare le somme di questo lungo discorso. Esso ci ha permesso di ricostruire la storia della città negli ultimi decenni, sebbene in maniera sommaria e insuciente, e di evidenziare le scelte decisive che ne hanno orientato lo sviluppo. Abbiamo riconosciuto il grande spessore politico e intellettuale dell’operazione che ha condotto a immaginare e inventare un futuro per una realtà che sembrava non averne e abbiamo più volte sottolineato il ruolo attivo svolto dal Comune e dall’università, sia sul piano teorico che su quello pratico, nel guidare la città verso la modernità e il benessere. Il piano è stata «la più complessa operazione ideologica della vita comunale»134. Quel modello di sviluppo, delineato a partire dalla formulazione di una precisa idea di città, ha avuto meriti enormi ed è stata la condizione pressoché esclusiva della salvezza di Urbino. Grazie ad esso, senz’altro «una nuova vita doveva circolare nell’intricato labirinto delle sue strade» 135. Non si tratta dunque di rinnegarlo o contestarne gli esiti ma semmai di recuperarne criticamente la tensione ideale e la capacità di visione. Esso, infatti, non è stato sorretto fino in 134 135
Sichirollo, 1961, p. 17. AA.VV., 1963-67, comunicato della Sezione P.C.I. di Urbino. 81
fondo da un’adeguata e forte volontà politica ed è stato via via deformato dagli interessi particolari, sino a divergere sensibilmente dalle proprie premesse e dai propri obiettivi. L’identificazione della città con l’università ha determinato perciò, con il tempo, l’emergere di una serie di criticità che sono divenute non più tollerabili e si può dire che essa costituisca oggi un freno per uno sviluppo di nuovo tipo, orientato qualitativamente, adeguato alle esigenze della società odierna, fondato sulle opportunità che la città e il territorio orono. C’è uno iato enorme tra le potenzialità di cui una città come Urbino, insieme al suo territorio, sarebbe capace e l’abulia nella quale versa attualmente. Si tratterebbe allora di rinnovare la tensione dialettica che il piano aveva saputo innescare e di recuperarne la prospettiva strategica, per realizzare oggi un’operazione analoga ma all’altezza delle nuove condizioni. Sarebbe necessaria, in altre parole, una svolta di vasta portata che investa direttamente il modello di sviluppo della città. Un progetto complessivo di rinnovamento, che – a partire da una nuova volontà politica – comprenda la sostanza del problema e lo aronti, tematizzando il nesso città-università-territorio. Come abbiamo visto, il centro storico appare oggi come una realtà artificiale che rischia di perdere gli ultimi residui di identità. La tensione tra cittadini residenti e popolazione studentesca sta giungendo al limite e la qualità della vita è peggiorata, con ricadute anche sul piano della sicurezza. La struttura oligopolistica dei servizi impedisce ogni concorrenza facendo lievitare i prezzi, abbassando la qualità dell’oerta e soocando la vitalità dell’economia. La mancanza di alternative ad un terziario impiegatizio arretrato e sovradimensionato rende asfittica la struttura produttiva. La rendita finanziaria legata agli atti consente l’arricchimento di pochi a danno dell’intera comunità e tiene in ostaggio la volontà politica. Tra centro e frazioni vige una reciproca separatezza che spezza ogni idea unitaria della città. Il territorio aspetta ancora di essere valorizzato adeguatamente. In queste condizioni, la grave crisi finanziaria nella quale l’università versa – nonostante una tardiva statizzazione che il partito che ha sempre avuto la maggioranza in città, con grave colpa, ha fatto di tutto per evitare – rischia di aprire un baratro. Nel momento in cui l’università dovesse essere forzatamente ridimensionata, come in eetti sta già accadendo, sarebbe
infatti l’intera economia cittadina, ad essa parassitariamente legata e priva di alternative realistiche, ad essere messa in ginocchio. Potremmo continuare a lungo. Di fronte a questo scenario, non appare più suciente la mera amministrazione dell’esistente ma sarebbe necessario, al contrario, un salto di qualità e un’assunzione piena di responsabilità politica. Bisognerebbe avere la capacità, cioè, di delineare una nuova idea di città e di andare oltre il modello di sviluppo finora adottato, recuperando quanto di meglio questo ha ancora da dare ma superando definitivamente i suoi punti critici sulla base di una nuova concezione del rapporto tra città, frazioni e territorio complessivo.
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Alcune proposte
La volontà politica dovrebbe porsi, anzitutto, l’obiettivo di una riqualificazione sostanziale della struttura economica e mettere in atto una serie di rinnovate politiche di programmazione e sostegno – un nuovo piano – che consentano di dierenziare in tempi medi l’economia della città. La monocoltura universitaria è oggi un limite per la maturazione di nuove energie e sarebbe urgente indicare delle alternative, in consonanza con le vocazioni “naturali” e storiche di Urbino e del suo territorio allargato. Si tratterebbe, allora, di indirizzare la politica generale della città verso un modello di integrazione territoriale e di sviluppo ecosostenibile diuso. In questo senso, la scelta di valorizzare l’agricoltura biologica e di qualità andrebbe considerata strategica e sostenuta con ingenti investimenti. L’opportunità oerta dal processo di Agenda 21 Locale, che a Urbino è ormai giunto all’implementazione del piano delle azioni, darebbe già oggi gli strumenti per delineare una politica economica, ambientale e sociale partecipata oltre che sostenibile, concordata e programmata non solo con le associazioni di categoria ma anche con i singoli agricoltori, i cittadini dei diversi nuclei e tutti quei soggetti finora esclusi dalla definizione delle politiche comunali. L’idea di sviluppo sostenibile, equilibrato e partecipato, come l’idea di politica territoriale, non dovrebbero più essere solo parole retoriche che coprono una realtà fatta di concertazione e clientelismo,
bensì una pratica di confronto continuo con quelle forze sociali che stanno divenendo mature per fornire un’alternativa di sviluppo. In questo modo, anche le frazioni, penalizzate e carenti in termini di strutture e servizi, potrebbero esaltare la propria specificità, integrandosi in modo funzionale nel sistema territoriale e ricevendo l’attenzione di cui hanno bisogno. L’artigianato, poi. Settore a lungo in crisi e sottovalutato, in molte realtà del Paese ha saputo rinnovarsi e riqualificarsi, aancando nuovi strumenti a tecniche e competenze tramandate di generazione in generazione, specializzandosi in una produzione limitata ma di grandissima qualità e ad elevato valore aggiunto. Esso associa oggi il recupero di una cultura storica all’innovazione consentita dalla società della conoscenza. Se si potessero trovare le risorse per favorire il ritorno delle botteghe artigiane nel centro storico (cosa che sinora il Comune ha fatto in maniera contraddittoria e insuciente) le potenzialità del nostro territorio e la sedimentazione di esperienze ancora non del tutto perdute consentirebbero di pensare anche per Urbino alla realizzazione di un distretto artigianale competitivo, come accade ad esempio in diverse realtà della Toscana. È chiaro poi che lo sviluppo dell’artigianato e dell’agricoltura di qualità, integrandosi, potrebbero avere notevoli ricadute in termini di attrazione di un turismo residenziale, attento ai valori della cultura e dell’ambiente. Si porrebbero così le basi per la costruzione di un vasto distretto socio-economico, centrato sullo scambio di funzioni tra le diverse realtà sociali e le varie attività lavorative. Si delineerebbe, a dir poco, l’idea ambiziosa di un nuovo modello di sviluppo, non più basato sulle infrastrutture pesanti ma sull’incrocio continuo tra saper fare, equità sociale ed innovazione culturale. Ancora una volta – c’è da notare –, non sembra che le scelte dell’attuale amministrazione relative alla ristrutturazione del prezioso Collegio Raaello, scelte prevalentemente commerciali e volte a fare di questo luogo una sorta di vetrina del lusso della città, vadano in questa direzione, nonostante la dichiarazione d’intenti. A nulla servirebbe questa dierenziazione del tessuto economico, però, se non si innestasse su un’azione parallela che riguardi più direttamente l’università nel suo rapporto con la città. C’è un problema urgente di pianificazione dello sviluppo dell’ateneo, di una sua riqualificazione in direzione dell’alta formazione, di un suo inserimento nei circuiti inter-
nazionali della conoscenza. Di fronte alla crisi finanziaria dell’università – in una situazione, tra l’altro, di acuta concorrenza tra gli atenei – e allo scenario che questa potrebbe determinare, sarebbe opportuno che il Comune, la Provincia e la Regione dessero una mano in questo senso. E sarebbe bene, però, che essi non confondessero la necessità di svolgere un ruolo forte e attivo nell’interlocuzione con il Senato accademico, il Consiglio d’amministrazione e il Rettorato con la volontà di prevaricare l’autonomia dell’università e che il loro coinvolgimento organico in scelte che riguardano il futuro della città intera fosse scevro da retropensieri lottizzatori. In particolare, le amministrazioni locali hanno un compito prioritario: esse dovrebbero a nostro avviso adoperarsi politicamente perché venga al più presto raorzato sul piano finanziario quel processo di statizzazione che è stato avviato, con grave colpa delle principali forze politiche locali, con fin troppo ritardo rispetto alle necessità dell’ateneo. La statizzazione può nel medio periodo appianare i problemi finanziari dell’università ma può avere ricadute virtuose anche ad altri livelli. Essa infatti sta già comportando per l’ateneo la necessità di adeguarsi a standard qualitativi nazionali nella composizione degli organi dirigenti e del personale docente, nel trattamento del personale non docente e nella valorizzazione delle sue competenze, nella formulazione dell’offerta formativa e nell’erogazione dei servizi agli studenti. Essa è stata, in questo senso, tutt’altro che un male minore di fronte alla possibilità della bancarotta. Va però portata a compimento e valorizzata come un’opportunità e un elemento di ulteriore qualificazione, perché, alleggerendo le necessità economiche, può consentire di attrarre la domanda studentesca non più mediante l’abbassamento del livello qualitativo e della selettività degli studi, come è avvenuto sinora, ma attraverso l’eccellenza e la specializzazione dell’oerta. Una progressiva e ragionevole diminuzione della pressione dei flussi studenteschi sul centro storico (e non necessariamente dei flussi tout court ), poi, è una prospettiva che non va paventata come la fine del mondo bensì attivamente perseguita, in quanto – come abbiamo visto – a questo nodo è legata la possibilità stessa di ricostruire per la città una forma coerente di identità. Certamente, si tratta però di guidare
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questo processo attraverso una trasformazione della natura e delle funzioni dell’università anziché subirlo passivamente, come sta purtroppo avvenendo nel corso di questi ultimi anni. Anché la statalizzazi one dispieghi i suoi eetti positivi anche dal punto di vista degli equilibri della popolazione, però, intervenire sull’università non basterebbe. Sarebbe necessario decentrare progressivamente la presenza studentesca, orendo alternative alla convergenza entro le mura. A tal fine bisognerebbe forse pensare, più che a programmi di edilizia universitaria dicilmente auspicabili in questo contesto (pensiamo soprattutto all’idea incomprensibile di costruire nuovi collegi a Castel Cavallino), a incentivare forme di concordato attuario fuori dalle mura. Al tempo stesso, si dovrebbero però utilizzare tutti gli strumenti per arontare il vero nodo in questione. È necessario a nostro avviso che il centro venga pian piano ripopolato, almeno parzialmente, da una residenza stabile e continuativa e che a Urbino tornino ad abitare i cittadini – vecchi e nuovi – di Urbino. Si tratterebbe allora di attrarli qualificando la città con servizi che la rendano vivibile per i residenti. Ma si tratterebbe, soprattutto, di recuperare la coerenza politica di un tempo e arontare con coraggio il compito più arduo: sottrarsi al ricatto clientelare e colpire la rendita finanziaria legata agli atti, smantellandone l’attuale struttura. Attraverso controlli serrati, il catasto e la leva fiscale delle imposte locali, ad esempio, si potrebbe disincentivare la propensione ad attare gli immobili agli studenti ed incentivare, al contrario, l’atto alle famiglie. Lo stesso obiettivo potrebbe essere perseguito attraverso una rigorosa applicazione dei regolamenti edilizi e di quelli relativi ai vincoli abitativi e architettonici, con la conseguente opera di controllo capillare che l’ecacia di queste politiche richiede. In parallelo, si dovrebbe impostare una politica rivolta direttamente alla popolazione studentesca. Anzitutto, bisognerebbe dare corso operativo alla formula del contratto d’atto concordato, che già tempo fa era stato impostato nei suoi elementi preliminari attraverso il confronto tra Comune e rappresentanza studentesca. Adeguatamente pubblicizzato, questo strumento andrebbe sostenuto attivamente attraverso l’apertura di uno sportello pubblico che favorisca e razionalizzi l’incontro tra do-
manda e oerta, aggredendo l’oligopolio privatistico delle agenzie immobiliari. Esso, come abbiamo visto, andrebbe poi incentivato soprattutto fuori dalle mura. Il coordinamento di queste politiche servirebbe a calmierare i prezzi degli atti, sui quali la volontà politica dovrebbe comunque vigilare per evitare che superino una soglia di intollerabilità e inneschino dinamiche illegali di evasione fiscale. Per quanto riguarda la qualità della vita in centro e il rapporto tra studenti e cittadinanza, poi, la soluzione al problema non andrebbe cercata in logiche repressive, inutili e sbagliate, ma piuttosto nella qualificazione dei servizi e nella responsabilizzazione dei loro fruitori. Si tratterebbe di sollecitare la dierenziazione delle dinamiche associative, attraverso una più articolata oerta culturale ma anche attraverso lo stimolo delle autonome capacità espressive sia dei cittadini che della popolazione studentesca. Andrebbero dunque favorite in termini economici, logistici e strumentali quelle forme di autoorganizzazione e autogestione che rendano gli studenti – ma anche i giovani di Urbino e in generale tutti i cittadini – soggetti attivi, partecipi ed innovatori della vita della città. L’individuazione di spazi per l’associazionismo, ad esempio, dove tutti i soggetti possano incontrarsi al di fuori dalle occasioni di consumo e possano dar vita a dibattiti, cineforum, concerti, mostre, feste e quant’altro, andrebbe in questa direzione. Per alleggerire la pressione sul centro, si potrebbe anche pensare ad individuare, fuori dalle mura, spazi adeguati per la costituzione di un centro polifunzionale autogestito.
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Un nuovo spazio pubblico?
Pur se in maniera ancora generica, immaginiamo, come si vede, un pacchetto di tre politiche di intervento parallele e integrate, che arontino in maniera programmatica i problemi interdipendenti del centro, delle frazioni e del territorio. Tutto ciò evidentemente è solo uno spunto di riflessione e non basta certamente per ridefinire l’idea di una città. Una realtà che versa in una crisi d’identità così grave come quella che aigge Urbino, ma che ha dalla sua un’importante eredità storica e una notevole riserva paesaggistica
e ambientale, avrebbe bisogno di interrogarsi su ciò che è su e ciò che vuole e dovrebbe ripensare in primo luogo un progetto culturale degno di questo nome. Un progetto che non si limiti a qualche roboante ma rapsodico evento ma rivitalizzi le energie intellettuali della città a partire da un programma ambizioso continuativo e di lunga durata che richiede investimenti massicci al fine della ricostruzione di un nuovo spazio pubblico. In questo senso, appare incomprensibile che un vantaggio competitivo come quello che deriva alla città dal far parte del Patrimonio dell’umanità riconosciuto dall’Unesco sia considerato dagli amministratori locali niente più che un orpello decorativo e non sia adeguatamente valorizzato. I recenti annunci dell’attuale amministrazione in merito alla realizzazione di un “distretto culturale” dovrebbero infine mettere tutti sull’attenti. Per quanto si capisce, più che di un “distretto culturale” sembra trattarsi di un “distretto turistico”, che è tutt’altra cosa. E dietro parole altisonanti ma ancora ambigue c’è il rischio che si nasconda soltanto la ben più prosaica volontà di rompere i vincoli del piano regolatore e preparare una nuova colata di cemento 133. Non è questo il luogo per arontare una tematica così complessa. D’altro canto, riteniamo che una preliminare riflessione sul modello di sviluppo avrebbe un intrinseco valore politico. Le dinamiche liberiste sviluppatesi negli ultimi decenni si sono manifestate nella nostra città principalmente attraverso uno scatenamento degli istinti privati che ha condotto ad una privatizzazione dello spazio pubblico tendenzialmente totale. La sottomissione della volontà politica e della sua funzione di di rezione da parte degli interessi particolari, si può dire, è stata la principale privatizzazione avvenuta ad Urbino e tutte le amministrazioni susseguitesi negli ultimi decenni, per un’impreparazione culturale accompagnata da una profonda confusione politica, non sono state in grado non solo di immaginare sviluppi diversi ma nemmeno di comprendere minimamente il senso di ciò che stava accadendo sotto i loro occhi. Invertire questa tendenza, al contrario, sarebbe il modo migliore per recuperare lo spirito originario del piano e innovarlo nelle nuove condizioni.
Riferimenti bibliografici
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Appendice
Il centro storico di Urbino: analisi degli insediamenti abitativi attuali di Valentina Bernacchioni
Il centro storico di Urbino è racchiuso tra le antiche mura bastionate interrotte da porte che ancora segnano l’ingresso nel più antico nucleo abitativo della città. La sua superficie ha un’estensione di poco superiore al chilometro quadrato e presenta una forma romboidale che dal Giro del Cassero (il lato più lungo) si estende fino alla Barriera di Contrada San Paolo. Se le vie principali sono immediatamente individuabili sulla cartina topografica 136, le vie secondarie costituiscono un fitto intrico urbanistico nel quale si snodano stradine, “piole”, vicoli, saliscendi, minuscole piazzette e ancor più minuscoli orti o giardini segreti. Chi abita oggi il centro storico di questa città dichiarata patrimonio mondiale dall’UNESCO? Dagli uci dell’anagrafe comunale ricaviamo i seguenti dati137: il totale dei residenti nel comune di Urbino al 31 agosto 2008 è di 15.473 unità e di questi 1.186 risiedono nel Centro Storico. A fronte dei dati sulla popolazione residente prendiamo ora in considerazione i dati ricavabili dalle visure eettuate in data 18 settembre 2008 presso il catasto fabbricati di Urbino. Al fine di questa ricerca ho preso in esame esclusivamente gli immobili accatastati come abitazioni private . È necessario a questo punto sottolineare che l’accatastaVedi cartina topografica comune di Urbino, foglio 265, scala originale 1:3000. Attestazione del comune di Urbino del 24 settembre 2008 riferita alla situazione anagrafica del 31 agosto 2008. 136 137
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mento a scopo fiscale potrebbe indurre a qualche errore di valutazione: le case censite come “case popolari”, per esempio, non sono estrapolabili dall’“elenco immobili” rilasciato dal catasto; tuttavia lo stesso ucio catastale ha dichiarato che esse ammontano a circa 800. Precisi e completi sono invece i seguenti elenchi138: categoria A/1, abitazioni di tipo signorile: 9 appartamenti; categoria A/2, abitazioni di uso civile: 272 appartamenti; categoria A/3, abitazioni di tipo economico: 316 appartamenti; categoria A/5 abitazioni di tipo ultrapopolare: 68 appartamenti, per un totale di 663 appartamenti, ai quali vanno aggiunti i circa 800 della categoria A/4, case popolari. Ma a questo proposito è un’altra la riflessione da fare: le abitazioni che risultavano al catasto di categoria A/4 hanno subito ristrutturazioni che le hanno radicalmente modificate e nella realtà non sono più rispondenti alla categoria a cui sono iscritte. Questa non corrispondenza tra la realtà degli immobili e il loro accatastamento è un dato nazionale che riguarda in particolare i Centri Storici. La legge 311/2004 (legge finanziaria 2005) al comma 336 dell’articolo 1 ha dato il via alla revisione dello stato reale degli immobili. Interessati a questa revisione sono i comuni per l’introito dell’ICI e lo Stato per l’introito dell’IRPEF. La stampa (“Il Sole 24 ore”, del 24 settembre 2007 e “la Repubblica”, del 2 novembre 2007) ha dato ampia eco all’iniziativa di 343 comuni italiani (fra questi i soli capoluoghi sono Torino, Genova, Roma e Livorno) che si sono rivolti all’agenzia del Territorio (ex catasto) con 40.000 richieste di verifica su altrettante unità territoriali. Al fine di questa ricerca, interessante è l’indagine fatta nel Centro Storico di Bologna dalle cui case, com’è noto, molti cittadini ricavano ingenti introiti grazie agli atti agli studenti. Dall’articolo apparso su Repubblica dal titolo: “ Quegli appartamenti ultrapopolari che nascondono regge da super ricchi” , emerge che molte abitazioni accatastate in categoria A/5 nel Centro Storico di Bologna sono divenuti negli anni case signorili. Il fenomeno riguarda
Catasto fabbricati, elenco immobili, situazione degli atti informatizzati al 18/09/’08.
proprio il Centro Storico della città e la stessa cosa si ripete nelle altre città che vantano Centri Storici di indiscutibile bellezza e unicità. Per le categorie A/1, A/2, A/3, A/5, siamo in grado di fornire anche il numero dei vani. È infatti questo dato che può fotografare il reale rapporto tra numero degli abitanti e superfici abitabili. Per la categoria A/1 abbiamo un totale di 156 vani più 4 pertinenze; per la categoria A/2 abbiamo un totale di 1.838 vani più 128 pertinenze; per la categoria A/3 abbiamo un totale di 1.272 vani più 184 pertinenze; per la categoria A/5 abbiamo un totale di 191 vani più 41 pertinenze. Le categorie di abitazioni sopraelencate danno un totale di 3.457 vani, ai quali vanno aggiunte le abitazioni A/4 (di tipo popolare) per le quali, come già detto, abbiamo il numero totale delle unità (circa 800) ma ovviamente non il numero dei vani. A proposito di queste ultime, tuttavia, è corretto rilevare che l’assegnazione viene fatta o è stata fatta da Istituti o Enti pubblici in base a graduatorie di reddito e a consistenza del nucleo famigliare, per la qual cosa è impossibile che si verifichi che un appartamento di molti vani sia assegnato a una famiglia di 2/3 unità. In una città di impianto rinascimentale come Urbino, con un centro storico patrimonio dell’umanità e con un prestigio dunque universalmente riconosciuto, risultano solamente 5 palazzi di tipo signorile e nel totale di questi cinque palazzi sono presenti solo 9 appartamenti. Se andiamo a vedere le caratteristiche che la legge attribuisce alle abitazioni di tipo signorile ricaviamo che esse sono definite come unità immobiliari appartenenti a fabbricati ubicati in zone di pregio con caratteristiche costruttive, tecnologiche e di rifiniture di livello superiore a quello dei fabbricati di tipo residenziale. Ora è evidente che tali abitazioni nella città di Urbino sono certamente in una “zona di pregio” mentre resta opinabile e oscuro ciò che riguarda le caratteristiche costruttive, tecnologiche ecc., tanto più che nei centri storici, e in particolare nelle abitazioni di pregio storico gravano vincoli che ne impediscono la manomissione proprio per il loro valore storico, spesso artistico, certamente urbanistico. Non si può non restare meravigliati dal fatto che nel Centro Storico di Urbino, dove il prezzo del mercato di antiche abitazioni è esorbitante, siano solamente 9 gli appartamenti accatastati nella
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categoria A/1, quando è evidente che il valore delle abitazioni di un centro storico sta soprattutto nella loro unicità e non riproducibilità. D’altra parte, basta una semplice ricerca delle proposte di atto in Urbino su internet per accorgersi che il canone in questa città è molto più alto che nelle vicine Pesaro e Fano e che le case oerte sul mercato sono spesso minuscole, adatte a uno studente o a un single ma certamente non a una famiglia. Mentre per Pesaro e Fano sono frequentissimi le indicazioni complete di via e numero civico e qualche volta gli annunci riportano anche la fotografia, per Urbino le indicazioni restano estremamente generiche. L’annuncio-tipo può essere quello che si trova sul sito www.subito.it: « Attasi in Urbino, in centro storico a 50 mt dalla piazza centrale, bilocale formato da una sala-cucina ed una camera più bagno, recentemente ristrutturato con arredamento nuovissimo. Ideale per una persona. Richiesta euro 300,00 mensili, compreso nel prezzo il riscaldamento, non compresa luce ed acqua ».
Nel Centro Storico, dunque, un appartamento di soli 30 metri quadrati dà un reddito di 300 euro mensili, con spesa a parte per luce e acqua. Per quanto riguarda le abitazioni A/2 di tipo civile, apparentabili ai fabbricati di tipo residenziale e con locali di media ampiezza, all’interno delle mura perimetrali del Centro Storico ne risultano 272; ben 40 di questi appartamenti sono costituiti da più di 10 vani. La stessa riflessione può essere fatta sulle abitazioni di tipo economico, categoria A/3: su 316 appartamenti 5 risultano con più di 10 vani, uno addirittura con 18,5 vani e una rendita di 1.242,04 euro all’anno e uno di 20,5 vani dislocato su tre piani con rendita annua di 1.376,36 euro. Tra le stesse case ultrapopolari, che in teoria dovrebbero avere il bagno o sulle scale o su un terrazzo in comune con altri condomini o altri coinquilini, ci sono 11 appartamenti con 5 vani e 3 appartamenti con più di 5 vani. È stata mia preoccupazione cercare presso gli uci competenti il numero delle licenze di attacamere concesse, il registro di coloro che hanno la licenza di atto, il numero dei contratti d’atto. Ma questi dati, che dovrebbero essere pubblici, non mi sono stati forniti 100
nonostante gli innumerevoli tentativi. Alcune riflessioni sono tuttavia possibili. Anzitutto, il rapporto tra il numero degli appartamenti e il numero dei residenti nel Centro Storico: 1.463 appartamenti a disposizione di 1.186 residenti. Se tale rapporto prende in considerazione i vani a disposizione, abbiamo 3.457 vani, a cui vanno aggiunti x vani di 800 case popolari, per i soliti 1.186 residenti. Posta l’ipotesi minima che un appartamento popolare disponga di due vani, risulterebbe che nel centro storico, che secondo una diusa immagine popolare è fitto di abitanti ammassati gli uni sugli altri, i fortunati residenti di Urbino hanno a disposizione 6.057 vani e cioè 5,11 vani a testa. Si potrebbe continuare a fare ipotesi con i numeri: una famiglia di due persone in 10 vani, una famiglia di 4 persone in 20 e così via… La collaborazione tra comuni e agenzia del Territorio, auspicata e richiesta dalla legge finanziaria 2005, si trova oggi di fronte a una novità legislativa: l’abolizione dell’ICI per tutte le abitazioni (esclusi castelli e dimore storiche). A causa dell’eliminazione di questa entrata, si impone ai Comuni una ricognizione realistica della realtà immobiliare italiana che ponga rimedio alla discrasia tra il valore e la rendita reale degli immobili e quello uciale. Sarebbe opportuno che questo problema venisse arontato con urgenza anche a Urbino.
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