Aurelio Mattei - Coniglio Il Martedì

September 15, 2017 | Author: mostrodifirenze666 | Category: Nature
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aurelio mattei - coniglio il martedi...

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AURELIO MATTEI

CONIGLIO, IL MARTEDÌ

SPERLING & KUPFER EDITORI MILANO

C O N I G L I O II. MARTEDÌ

Proprietà Letteraria Riservata ©1993 Sperling & Kupier Bditori S.p.A. ISBN 88-200-1552-8 86-1-93

RINGRAZIAMENTI

Si ringrazia per la preziosa collaborazione Nicola Canaro, Rosanna Criscuolo, Daniela De Rosa, Maria Grazia Pasini. Giuseppe Scandone, Eleonora Santoro. Questo romanzo è un'opera di fantasia. Personaggi, avvenimenti e dialoghi sono immaginari e qualsiasi somiglianza con persone realmente esistenti o esistite è puramente accidentale.

Alla memoria del professor Franco Ferracuti e del colonnello Alberto Mario Corsi.

«...Quando le carrozze viaggeranno senza cavalli, quando le donne porteranno la cresta come i galli, quando le macchie saranno giardini, sarà un vivere d'assassini.» BEATO BRANDANO,

profeta popolare senese (1490-1554) «...Tutto ciò che nei suoi frammenti è vero, nella complessità si allontana dalla verità Quello che è costruito con elementi immaginati alla fine diventa verosimile.» Anonimo

li. commissario Pino Cadone guardò con noncuranza la scrivania sovraccarica di fascicoli. Erano le dieci del mattino di una calda domenica di giugno ed era di turno in questura. Lui amava il turno festivo. Da circa sei mesi era stato trasferito alla squadra mobile della città, e sin dai primi giorni aveva scoperto quanto le nozioni apprese durante il corso alla scuola superiore di polizia fossero poco adeguate alla realtà del lavoro. Si accorse presto dell'esistenza di piccole lezioni che difficilmente avrebbero trovato spazio in un manuale di tecnica investigativa. La prima gli fu propinata dal capufficio: «Ricordali, Pino, se vuoi partecipare alle prime fasi dell'indagine di un delitto che non sia la rapina a un negozio o uno scippo, devi essere 'funzionario responsabile' in un giorno di festa. Quando la questura è semideserta puoi girare tranquillamente per gli uffici, sentire l'odore delle stanze dei potenti, parlare con i sottufficiali e gli agenti presenti senza essere costretto a usare il linguaggio burocratico». All'inizio, Cadone sospettò che il consiglio del vicequestore Amari nascondesse un metodo elegante per fregare la domenica al novellino. Ma dopo un po' si dovette ricredere. In quelle ore, infatti, superato l'imperante senso d'inutilità, era possibile vivere delle esperienze indispensabili per la formazione di un vero investigatore.

Quella domenica, però, si presentava più afosa e monotona del solito. Il giovane commissario aveva già controllato il «mattinale» e ricevuto dal collega del turno di notte sia le consegne sia le poche novità. Le stesse, il lunedì, si sarebbero accumulate sui tavoli dei capi delle varie sezioni. Non si prevedevano, inoltre, eccessivi problemi d'ordine pubblico, in quanto la squadra di calcio locale doveva affrontare, in trasferta, una delle terribili compagini milanesi. Il commissario, dopo essersi tolto la giacca beige, si affacciò alla finestra. Le strade del centro erano occupate da centinaia di pullman che avevano scaricato fiumi di turisti desiderosi di ammirare la mostra di Chagall. I quadri del pittore russo erano, da alcuni mesi, le uniche vedette artistiche della città e si accingevano a essere trasferiti nella capitale. Dopo aver osservato per qualche minuto il serpentone di cappelli di paglia e ombrelli, il poliziotto ritenne che era giunto il momento di decidere se leggere il giornale o affrontare una delle tante pratiche meritevoli di essere evase. Cadone amava l'odore della carta, spesso invecchiata, contenuta nei fascicoli. A volte, mentre sfogliava i rapporti, aveva la sensazione di stringere tra le mani un pezzetto della memoria storica di gran parte delle persone della città. Sempre più spesso, però, sentiva salire da quegli incartamenti una puzza che ricordava una fogna gonfia di liquame. Il rumore di passi rapidi provenienti dal corridoio spezzò l'incantesimo di quella languida riflessione. Un attimo dopo una decisa mano picchiò sull'uscio. La porta si aprì. «Dottore, c'è un'emergenza!» Era il maresciallo Ippoliti, insolitamente trafelato. «Che cosa è successo?» «Pare che ci siano due cadaveri nella zona di Suresti. Forse è un omicidio.» «Faccia preparare tre auto. Scendo subito... Chi è di turno in sala operativa?» «Credo Cavallaro», gridò Ippoliti già fuori della stanza. «Pronto, sono il commissario Cadone.»

«Comandi, dottore, sono Cavallaro.» Cadone soppesò con attenzione il tono della risposta. Da qualche tempo aveva imparato a valutare gli impalpabili segni del potere. Nel primo mese in questura aveva constatato che la maggioranza dei sottufficiali e alcuni agenti ne sapevano di gran lunga più di lui. Quando erano particolarmente stressati non si preoccupavano di nasconderlo. «Non credo dottore che lei voglia prendere quest'iniziativa», era la frase più utilizzata per comunicare la loro scarsa considerazione. Dopo qualche tempo, avendo soppesato le sue capacità, cominciarono a trattarlo con maggiore ossequio. Forse, pensò, avrò superato il loro primo esame. Tra qualche anno, se avesse continuato a dimostrare di sapere il fatto suo, l'avrebbero chiamato per nome. Infine, quando avrebbe raggiunto il grado di questore, i rapporti sarebbero tornati formali; ma in quel caso per rispetto al suo acquisito prestigio. «Senta, io esco tra un attimo con Ippoliti. Chiami i carabinieri e li informi dell'accaduto.» «Guardi, sono stati loro a chiamarci; forse sono già sul luogo del delitto.» «Bene.» La voce del commissario era tesa. Non aveva ancora imparato ad accettare che altri, in possesso di maggiori informazioni, lo tenessero all'oscuro. «Chiami il dottor Amari e il questore e dica loro quello che è successo. Poi, mi faccia raggiungere da quelli della scientifica... No, aspetti, chiami anche Steri e si accerti che il magistrato di turno sia stato allertato dai carabinieri.» Cadone rifletté un attimo per assicurarsi di non aver dimenticato nessuno. Nella zona avvenivano al massimo sei o sette omicidi all'anno, la percentuale più bassa di tutto il paese, e la scoperta di due cadaveri era uno di quegli eventi che contemplava lVimmediato rintraccio» dei superiori. Nel cortile il maresciallo Ippoliti lo attendeva con un agente alla guida di una delle tre volanti.

Le sirene cominciarono a ululare soverchiando, senza fatica, i rumori dello scarso traffico domenicale. «Quanto dista Suresti?» chiese al sottufficiale in modo da poter calcolare il tempo da destinare alle riflessioni. «Un paio di chilometri dopo il cavalcavia dell'autostrada. Con questo traffico in un quarto d'ora dovremmo arrivare.» Ippoliti era un tipo smilzo e olivastro con i capelli ormai destinati a un candore completo. Era sui cinquanlacinque anni, e non mostrava un eccessivo coinvolgimento per il lavoro investigativo. «Sarà difficile rintracciare il questore.» Poi, giocherellando con il cappello, aggiunse: «Ho sentito da qualcuno che è andato a Salsomaggiore a trovare la moglie». Cadone non ascoltò il maresciallo.. Continuò, come una matricola al primo esame, a ripetersi nella mente quanto aveva appreso in tecnica investigativa: evitare d'inquinare i reperti; non sottovalutare nessuno dei testimoni; controllare tutti i famigliari e i conoscenti della vittima. Gran parte dei delitti, gli avevano insegnato, hanno origine in questi ambienti. Tutto perfetto, tutto sperimentato; ma se una pista non viene scovata dopo i primi tre giorni, si rimane spesso con un pugno di mosche. «Dottore, siamo quasi arrivati: ecco il cavalcavia.» La zona appariva così vitale da sembrare impossibile che fosse stata trasformata in un palcoscenico di morte. 1 campi erano ben curati, ordinati, con i vigneti che si armonizzavano con vaste zone di ulivi. Ogni poggio ospitava placido una villetta o una cascina. Un automezzo dei carabinieri, accostato sul ciglio della strada in modo abbastanza anonimo, indicava il luogo del delitto. Il commissario scese in fretta dall'auto e, senza fatica, si fece largo tra una silenziosa folla composta da gitanti, contadini veri e agricoltori della domenica. A circa dieci metri di distanza dall'ultimo curioso, una Renault 5 color avana. Cadone si ricordò, in quegli attimi, di uno dei primi insegnamenti ricevuti dal maresciallo anziano della mobile.

«Deve sapere, dottore, che è possibile accertare se c'è un cadavere valutando il comportamento delle persone. Se la gente ritiene ci sia il morto, mantiene le distanze, come se il poveretto t'osse in grado di emettere dei fluidi micidiali. Quando una persona è invece ferita, la folla si avvicina, circonda la vittima, quasi la soffoca.» La Renault 5 era parcheggiata a una cinquantina di metri dalla strada principale. Sul cofano, con il viso rivolto verso il cielo, era distesa una ragazza. Le gambe, con i jeans e gli slip arrotolati alle caviglie, penzolavano all'altezza della targa. Un rivolo di sangue ormai coagulato scendeva, partendo dalle cosce, sino a formare sul prato una pozza nerastra. La maglietta, in origine bianca, era avvolta sul collo. Le braccia erano innaturalmente ruotate all'interno, come quelle di un manichino al quale sono stati spezzati i cardini che legano gli arti alle spalle. Sul corpo non vi erano macchie estese di sangue, solo una confusa ferita all'altezza del pube. Cadone si guardò intorno smarrito. Capì che non poteva restare lì piantato a terra; cento occhi lo stavano fissando e attendevano un suo movimento. Si dovettero accontentare di tre passi sulla destra. Parte della testa di un uomo usciva dal finestrino, ormai ridotto in frantumi, alla sinistra del posto di guida. La vittima, in verità, era poco più di un ragazzo. Non sembrava aver superato i venticinque anni. Se non fosse stato per lo sguardo vitreo e fisso poteva essere scambiato per un automobilista che, perplesso, osserva i curiosi accalcati intorno alla macchina. L'investigatore studiò a lungo il parabrezza picchiettato di schizzi rossi. Pareva l'unico segno di violenza lasciato dall'assassino. Nessuno strazio gratuito sui corpi. Nulla, solo due cadaveri, un sole già alto, nuvole di mosche inconsapevoli e una netta e immediata sensazione che annichilì la mente del commissario: «Questo omicidio ha qualcosa di straordinario!» Cadone cercò di pensare. «Rimani calmo e rifletti», sussurrò. Calma e riflessione. Tutto era inutile.

«Ah! Ci sei tu.» Era il tenente colonnello dei carabinieri Angelo Lanciotti. La sua apparizione lo rincuorò. Lanciotti era una delle prime persone con cui era entrato in contatto da quando era stato trasferito in quella città. Da decenni era amico del padre. Questi, il giorno della sua partenza, gli aveva raccomandato con solennità: «Non approvo, e tu lo sai, il fatto che vuoi diventare uno sbirro. Comunque, se proprio hai intenzione di esercitare questo mestiere, cerca di portarlo avanti nel migliore dei modi. Vai da Angelo Lanciotti, confidati con lui, ma soprattutto osservalo, studialo, analizza le sue reazioni. È uno dei pochi investigatori ancora in circolazione: vale più una passeggiata con lui che un mese a Scotland Yard». Cadone aveva, umilmente, seguito i consigli del padre. Dopo parecchie e. all'apparenza, oziose chiacchierate con il carabiniere, iniziava a sentirsi un privilegiato. «Oggi ero di turno, sono arrivato da un minuto.» Gli ci volle qualche secondo prima di riuscire a trovare il giusto volume di voce. Lanciotti gli poggiò la mano sulla spalla; poi consegnò la giacca all'appuntato al suo fianco, arrotolò le maniche della camicia e con cautela, quasi a voler contare i passi, si avvicinò alla Renault 5. Era la prima volta che Cadone lo vedeva in azione. L'aria era calda e immobile, le cicale avevano smesso di frinire. L'ufficiale si fermò a meno di un metro dal corpo della ragazza, quasi volesse annusarlo. Con le spalle curve, la faccia angolosa e le mani serrale dietro la schiena girò intorno all'auto, guardando sempre verso la giovane donna. Si bloccò, non cambiando la posizione del tronco, davanti alla testa del ragazzo. Fece un passo indietro e scrutò il cadavere in ogni direzione. Ripetè la stessa operazione un paio di volte non curandosi di apparire monotono. Poi tornò verso il commissario. Aveva il viso stranamente pallido e stremato. «Cerchiamo un posto all'ombra dove sederci. Il magi-

strato verrà tra qualche minuto, passava prima a prendere il professor Collini. Per i rilievi hai provveduto?» «Sì, da un momento all'altro arriveranno quelli della scientifica.» Cadone l'analizzò cercando di cogliere il motivo di tanto turbamento. Non lo aveva mai visto in quello stato. Dunque l'inquietudine che mi aveva assalito alla vista dei cadaveri non è dovuta alla sola mia inesperienza, pensò. I due si sedettero su un masso coperto dall'ombra di alcuni larici. Il sasso era freddo e umido. Probabilmente il sole non era mai riuscito a colpirlo con i suoi raggi. Il commissario provò un po' di fastidio; il sedere gli si era subito congelato. Lanciotti inarcò le sopracciglia, raggrinzì gli occhi. Con il vestito in disordine, la pelle bruciata dal sole e lo sguardo smarrito non aveva affatto l'aria di un ufficiale dei carabinieri. Sembrava stanco, invecchiato; eppure aveva vissuto solo metà della sua vita. «Mentre venivo qui dalla sala operativa mi hanno comunicato che l'auto è intestata a un certo Bruno Sortini, ventiquattro anni, residente a Porzini. Ho mandato una pattuglia, tra un po' dovremmo sapere se è lui. Chi li ha trovati?» «Non so, ora m'informo», rispose imbarazzato il giovane investigatore. «Aspetta, Pino, non c'è fretta. Manda qualcuno dei tuoi a verificare se nelle case vicine hanno sentito o visto qualcosa.» La calma di Lanciotti era solo apparente. Dava delle disposizioni essenziali per le prime fasi di un'indagine, ma non si crucciava di nascondere la sua scarsa considerazione sull'utilità, al momento, di tali procedure. «Ma che cos'hai?» Non si era mai permesso di dargli del tu. Forse stava osando troppo; tuttavia in quel frangente la sua domanda gli apparve come l'unico sistema per tentare di scuotere Lanciotti. «Niente, niente... Però appena ho scorto quei due poveracci ho avuto la sensazione di aver già visto questa scena. Ho paura; sento che non è un omicidio qualunque... Bah, se poi esiste un omicidio qualunque.»

L'ufficiale rimuginava mentre con il piede smuoveva qualche sassolino. Dopo qualche secondo alzò di botto lo sguardo, quasi per voler strappare a forza i suoi pensieri da un gran buco di angoscia che, all'improvviso, si era aperto nella terra. «Lasciamo perdere, andiamo a lavorare.» Afferrò sottobraccio il poliziotto e si avviò verso la Renault 5. «Fermo! Prendi quel bastone!» Cadone lo guardò perplesso. Raccolse un ramo secco e glielo consegnò. Lanciotti si avvicinò a un cespuglio d'ortiche e con cautela spostò alcune piante. «Guarda, potrebbe essere la borsetta della ragazza.» Una borsa di stoffa firmata Fendi era rovesciata a terra con vicino un portatessere di plastica, una scatola di Optalidon, un pacchetto di fazzolettini di carta e un flacone di deodorante. L'ufficiale, facendosi largo con il bastone, ghermì, tra il pollice e l'indice, il portatessere, in modo da non alterare eventuali impronte, e con l'altra mano tirò fuori una carta d'identità. «Alessandra De Felice, nata a Grosseto il 3 gennaio 1962, residente a Cormaio, studentessa», declamò ad alta voce. «Guarda, Pino, è quella poveraccia sul cofano... Porlini!» gridò rivolto a un sottufficiale, «prendi il documento e manda qualcuno a casa della ragazza.» I due investigatori si riavvicinarono all'auto. Nel frattempo, guidati dal vicequestore Steri, giunsero i tecnici della scientifica e i fotografi che, senza attendere disposizioni, iniziarono immediatamente il loro lavoro. «Ciao, Cadone. Come va, colonnello?» Lanciotti ormai non badava più al fatto che lo chiamassero «colonnello». Lui non amava il vezzo militare di trasformare il grado di «sottotenente» in quello di «tenente», di «tenente colonnello» in «colonnello». Trovava il tutto molto borbonico, ruffiano. Ma, visto che tale usanza era stata fatta propria anche da persone a lui care, si era, col tempo, abituato a considerare la cosa con benevolenza. Tra questi vi era Steri, un tipo paffuto e rotondetto. Sebbene sorridesse raramente, tutti s'immaginavano di vedere stampata l'allegria su quei lineamenti giocosi. Era da circa dieci anni alla questura e si era guadagnato una

buona reputazione come esperto balistico. Nei sotterranei dell'austero edificio aveva realizzato un laboratorio e una nicchia di potere che gli garantivano la possibilità di continuare a coltivare, senza eccessivi fastidi, i suoi interessi scientifici. Le sue ricerche e i suoi raffinati strumenti avevano, in qualche occasione, risolto casi che rischiavano di trasformarsi in misteri. Aveva un modo tutto suo per trovare la concentrazione durante il lavoro: cantava. Anche quella mattina la sua voce baritonale coprì i tenui rumori della natura. «Attenzione a non calpestare i bossoli.» Indossò un paio di guanti e ne colse uno. Lo rigirò tra le dita. «Un'arma automatica», sentenziò, «calibro 22 Long Rifle.» Dopo essersi inginocchiato piegò la testa fino a toccare con il viso il terreno e ad alta voce aggiunse: «Sono tutti della serie HWinchester, un po' vecchiotti. Lì ce n'è un altro». Si alzò con il viso paonazzo. La sua pancia abbondante, di tre taglie di troppo, non gli consentiva più tali prestazioni. «Stai pensando quello che penso io?» Lanciotti, tornalo cereo, cercava una conferma a una sua intuizione. Lo «scienziato», così era chiamato ironicamente dai colleghi, fece finta di non sentire e intonando una nuova romanza si avvicinò al cadavere del ragazzo. Prese dalla borsa una pinzetta di plastica bianca e sollevò alcune ciocche di capelli. «Venite a vedere dove è stato colpito. C'è un foro d'ingresso qui, nella nuca. Vicino c'c un altro buco. Non mi sembra che i proiettili siano usciti dal cranio. In ogni modo, a prima vista azzarderei l'ipotesi che a sparare sia stata una Beretta... Un momento... All'altezza del cuore c'è un altro foro d'ingresso... Colpo a bruciapelo.» «Senti», lo interruppe Lanciotti, «dai un'occhiata alla ragazza, mi pare che pure lei sia stata uccisa con la stessa arma.» «Sì, è vero. Un proiettile ha trapassato il collo, forse è stato esploso a un distanza maggiore. Guardate, la zona del pube è stata colpita da qualcosa di più devastante.»

«Ora mi puoi dire se ti viene in mente qualcosa?» Lanciotti era sui carboni ardenti. Non voleva assolutamente allentare la presa sul rubicondo Steri. «D'istinto escluderei una rapina. La pistola potrebbe essere una Beretta calibro 22. Ora stai calmo: finisco il lavoro, raccolgo i bossoli, poi vado in laboratorio e ti faccio sapere.» L'esperto colonnello sbuffò. Aveva avuto la conferma che non stava vaneggiando verso un'ipotesi assurda. Il maresciallo Ippoliti, senza eccessivo sussiego, si avvicinò al gruppo tenendo in mano un bloc-notes. «Scusate. Ho delle novità: i genitori di Bruno Sortini non hanno notizie del figlio dalle dieci di ieri sera. Era uscito con la fidanzata. Si chiama Alessandra De Felice. Anche lei non ha fatto ritorno a casa.» Ippoliti, avendo sviluppalo negli anni la capacità di comprendere le reazioni dei capi, intuì che le sue informazioni non avevano sorpreso i suoi interlocutori, e quindi proseguì la lettura degli appunti. «I corpi sono stati trovati alle nove e quarantacinque da quel signore con la tuta da ginnastica verde. Era nella zona con il fratello per cercare fragole selvatiche. Appena ha visto i due è andato in quella cascina e ha chiamato i carabinieri. Lì abita solo un vecchio contadino. Mi ha riferito di aver udito, tra le venlidue e trenta e la mezzanotte, della musica provenire da un'autoradio, poi all'improvviso il silenzio. Non si è preoccupalo molto in quanto la sera questo posto è frequentato da coppiette che sostano per non più di mezz'ora. Ah! aspetti: ha aggiunto di non aver sentito spari o rumori particolari.» «Va bene, Ippoliti. Hai notizie dalla Centrale?» chiese Cadone. «Sì. Il questore è ancora in viaggio per Salsomaggiore. Il dottor Amari è a Viareggio. Doveva accompagnare la famiglia. In Centrale c'è comunque il dottor Ranelli che aspetta il suo ritorno.» Ranelli era il capo di gabinetto della questura. Era un tipo astuto, abile nel soddisfare le più piccole esigenze del suo capo. Tutti, anche Cadone, lo consideravano un am-

bizioso e un arrivista. Fin da quando, dopo una non brillante laurea in legge, aveva presentato domanda in polizia, si era prefissato di diventare il responsabile di un'importante questura. A tale obiettivo puntava costantemente di notte e di giorno. Aveva sempre evitato di occuparsi di polizia giudiziaria. Il suo talento amministrativo e organizzativo non andava certo sprecato in quest'attività. Se il capo era presente assumeva un atteggiamento servile, ossequioso, sempre pronto a fare proprie le osservazioni del superiore. Verso i colleghi, viceversa, era arrogante, ai limiti della maleducazione, millantando un potere e un carisma personale riconosciutogli da pochi. Un vero e pericoloso uomo in grigio. Il commissario conosceva il motivo per cui Ranelli lo aspettava. In assenza del questore e del capo della mobile, costui desiderava essere ragguagliato sui primi risultati delle indagini per organizzare una spettacolare conferenza stampa. Si riteneva l'unico depositario dell'arte delle public relation. «C'è un'altra cosa, dottore», riprese Ippoliti interrompendo le amare riflessioni di Cadone, «i genitori della De Felice affermano che la figlia da qualche tempo era perseguitala e minacciata dall'ex fidanzato: un certo Marco Gitti.» «Cercatelo e portatelo in ufficio.» Poi si rivolse a Lanciotti. «Va bene se lo interroghiamo in questura o preferisci che lo vediamo alla stazione dei carabinieri di Suresti?» «È meglio da voi. C'è sempre la possibilità che le voci sul suo fermo si diffondano nel paese, e non è proprio il caso di rischiare un tentativo di linciaggio. Maresciallo, mi raccomando, sia chiaro per tutti: il soggetto è stato convocato come testimone. Questo vale soprattutto per i giornalisti. Ne vedo già qualcuno qui.» L'ufficiale dava ormai per acquisito che ogni investigatore con almeno dieci anni di servizio avesse un «rapporto fiduciario» con uno dei cronisti locali. Tale sodalizio, in coincidenza di delitti rilevanti, sfociava spesso in complicità informativa.

«Stia tranquillo, colonnello, ci penso io.» Steri continuò a dirigere i suoi uomini che, con scrupolo, verificavano la presenza di eventuali impronte o tracce lasciate da chi aveva martoriato i due ragazzi. «Mi raccomando», gridava, «non dimenticate di controllare sotto le unghie della ragazza.» Lanciotti assisteva a tutte le operazioni nascondendo a malapena la sua insofferenza. Voleva subito il responso dell'esame balistico. Cadone, non capendo il motivo di tanta impazienza, esitò a chiedere chiarimenti: per quel giorno si era permesso già troppe libertà nei confronti del vecchio amico del padre. Un suono di sirene annunciò l'arrivo del magistrato. Brezzi non era un tipo da sottovalutare. Da due lustri era sostituto procuratore, e aveva coordinato tutte le indagini di quei pochi omicidi della zona. Vestiva come un chirurgo di grido di una clinica esclusiva: abito blu tradizionale, confezionato da uno dei migliori sarti della città; cravatta in seta dai colori vivaci; camicia azzurra, molto raffinata, scarpe su misura. Unico gioiello: una fede nuziale. Lo accompagnava il professor Collini, anatomo-patologo; il più esperto «coroner» della provincia, come lui stesso amava definirsi. I due, dopo un rapido saluto, si avvicinarono all'auto. Dopo circa un minuto il magistrato raggiunse Lanciotti e Cadone, mentre il medico iniziò il suo lavoro. Era un tipo da tutti definito un po' strambo: magro, basso, curvo, mostrava più dei sessantatré natali che avevano scandito la sua vita di studioso. Durante la guerra era stato ufficiale di marina. I numerosi imbarchi gli avevano lasciato in eredità un'andatura quasi danzante e una magnifica collezione di strumenti di bordo esposta con orgoglio nel suo studio privato. II professore, attraverso gli occhiali perennemente sporchi, squadrò il cadavere della ragazza, poi si avvicinò al posto di guida. «Che cosa è successo?» chiese, curvandosi verso la testa

del ragazzo. Non era certo una domanda rivolta agli investigatori; Collini quasi sempre pensava ad alta voce, e spesso le sue elucubrazioni si trasformavano in monologhi. Tale atteggiamento derivava, probabilmente, dall'abitudine dei coroner di registrare al dittafono i riscontri clinici. Sollevò il labbro superiore del ragazzo e l'osservò sotto diverse angolazioni. Quindi guardò di fronte a sé posando il dito, intriso di formaldeide, sul mento. «Sono stati assassinati da non più di dodici ore. L'uomo è morto sul colpo, lei forse ha avuto un'agonia di una ventina di secondi. Chi è stato a fare questa carneficina?» chiese a Lanciotti. Il carabiniere si girò verso il magistrato. «Non lo sappiamo. C'è un sospettalo che ascolteremo tra un po' in questura. Per ora non ci sono aliri testimoni.» «Senta, colonnello, vada a interrogarlo lei. Lasci Steri a completare i rilievi. Con questo caldo non ho intenzione di lasciare quei disgraziati a lungo qui. Ci sentiremo più tardi.» Il viso del sostituto procuratore era gonfio, congestionato. Il polline stava provocando nelle sue mucose scariche d' ¡stamina. «Va bene, viene con me anche il commissario Cadone?» Il magistrato annuì. Ci teneva che, nelle sue inchieste, l'irriducibile conflittualità tra carabinieri e polizia venisse messa da parte. Se il suo desiderio di collaborazione tra investigatori veniva appagato, era sempre disposto a concedere una certa libertà d'iniziativa. Mentre i due in silenzio tornavano verso la città, incrociarono una pattuglia dei carabinieri. L'autista, dopo aver rallentato, con un gesto fece capire che trasportava i genitori di uno dei ragazzi. Questi, muti e svuotati, senza quasi respirare, si avviavano a colmare la loro disperazione. Ranelli attendeva Cadone sulla sommità dell'ampia e rilucente scalinata che, dall'atrio, portava al primo piano della questura. Appena scorse Lanciotti non riuscì a con-

trollare un gesto di stizza: la presenza di un carabiniere, e per di più di grado elevato, riduccva di molto la possibilità di accentrare l'attenzione su di sé. «Il testimone è già arrivato?» Il tono del colonnello sembrò finalizzato ad accentuare il malessere di Ranelli. «Sì, è al piano di sopra. È presto per dare qualche informazione ai giornalisti?» Lanciotti lo fissò con disprezzo. «Se esce una parola da queste mura senza che io sia stato preventivamente consultato, la riterrò responsabile. È chiaro?» Ranelli sgattaiolò via come un novizio timoroso di arrivare tardi al vespro serale. Un brigadiere, di fronte a una porta, aspettò che il conciliabolo terminasse e si avvicinò. «Il Gitti è lì dentro. Ignora il motivo della sua convocazione. E molto nervoso. Sta facendo il militare a Livorno e teme di non poter rientrare in caserma stasera stessa.» «Ora lo sentiamo.» 11 commissario aprì e fece strada a Lanciotti. Gitti aveva poco più di vent'anni, biondo, con i capelli quasi a zero, vestiva in jeans e maglietta Lacoste azzurra. Sedeva davanti alla scrivania rigido, con le braccia conserte sul petto. Appena vide gli investigatori scattò in piedi e si mise sull'attenti. Dovette attendere qualche secondo prima che il colonnello lo invitasse, con un gesto, a sedersi di nuovo. «Ieri sera e durante la notte dove è stato?» Lanciotti partì diretto senza preamboli. «In caserma,» balbettò il giovane, «ero di sentinella fino a questa mattina alle otto. Poi sono tornalo a casa con il pullman.» «Devo quindi dedurre che con lei c'era più di un commilitone.» Il colonnello diede un'occhiata al brigadiere che uscì senza chiedere il permesso. Aveva capito al volo: doveva, senza perdere tempo, controllare l'alibi del Gitti. «Conosce Alessandra De Felice?» «Sandra?» «Sì, proprio lei.»

Il ragazzo si morse il labbro inferiore. Intuì che era stato prelevato per episodi non chiari riguardanti la sua ex fidanzata. Cercò di guadagnare tempo e di costruire una versione plausibile: doveva evitare di cacciarsi in un guaio di cui non riusciva a cogliere la portala. «Se mi avete cercato per il litigio della settimana scorsa, vi posso assicurare che si è tutto risolto senza eccessivi problemi.» «Si spieghi meglio.» Gitti inspirò a lungo, poi di getto aggiunse: «Come forse già sapete, sono stato con Sandra fino al luglio scorso. Quando è andata al mare ha conosciuto uno di Suresti. Al ritomo ha iniziato a evitarmi, a dirmi delle bugie. Ho capito qualcosa e ho preteso chiarimenti. Lei ha sempre negato, ma poi ho saputo che si era messa con un certo Bruno. C'è stata qualche discussione. Sa. mi sentivo un po' preso per i fondelli. A gennaio sono andato a fare il militare a Barletta. Quando sono stato trasferito a Livorno mi sono fidanzato con un'altra ragazza». «Ha continuato a vederla?» «Qualche volta. La domenica pomeriggio, la incontravo in piazza o al bar. Ma ci ignoravamo.» «Poi che cosa è accaduto?» «Qualche stronzo ha detto alla mia ragazza che Sandra mi continuava a cercare. La cosa, pensai, non doveva passare liscia. Così l'altra domenica li ho cercati e ho preteso una spiegazione: loro hanno negato, ma a momenti finiva a botte.» «Vi siete picchiati?» chiese Lanciotti accendendosi una sigaretta. «No, mica sono scemo! Qualche parolaccia, uno spintone... tutto qua. C'erano altri ragazzi che possono testimoniare. Non so che cosa vi hanno potuto raccontare.» «Pino, hai un registratore?» «Sì, è nel cassetto, alla tua destra. Credo sia già pronto.» Il commissario sapeva dove voleva parare Lanciotti. Nei primi incontri, infatti, gli aveva più volte consigliato tale tecnica. Secondo il navigato investigatore, la presen-

za improvvisa di un attrezzo che trasforma una chiacchierata in qualcosa di ufficiale è in grado di far cadere, in un sospettato non abituato agli interrogatori, gran parte delle difese. Alcune gocce di sudore sulla fronte del Gitti furono il segnale più chiaro dell'efficacia della mossa del carabiniere. «Un momento», intervenne concitato il ragazzo, «è vero, gli ho detto: 'se mi rompete ve la faccio pagare' Però le stesse minacce le ho avute da loro.» È strano constatare come gran parte delle persone sia in grado d'infilarsi in vicoli ciechi nel tentativo irrazionale di uscire da una situazione che non presenta elementi di pericolosità. Solo i criminali più esperti riescono, a volte, a evitare tale percorso tortuoso e a mantenere un sufficiente controllo della situazione. «Lei possiede una pistola?» chiese tagliente Lanciotti. Gitli lo guardò terrorizzalo. Iniziò a tremare e cercò con gli occhi il commissario. Sperava di cogliere, da colui che appariva più disponibile, un gesto in grado di mitigare il suo tormento. Cadone abbassò lo sguardo per controllare meglio il suo crescente imbarazzo. Il brigadiere rientrò senza fare rumore e alzando una inalila allirò l'attenzione di Cadone che lo raggiunse fuori della stanza. «Il ragazzo è stato effettivamente di guardia dalle quattordici di ieri sino alle otto di stamane. Ho avuto la conferma anche dall'ufficiale di picchetto. Volevano sapere che cosa era successo. Ho dato delle risposte vaghe; comunque li ho invitati a concedergli un paio di giorni di licenza.» «Ha fatto bene», disse il giovane poliziotto dandogli un colpetto sulla spalla, «appena saprà che cosa è successo rimarrà scosso per qualche tempo. Vada pure... No, aspetti. Controlli se all'ingresso principale ci sono giornalisti e poi mi faccia sapere.» Rientrando, il commissario si rese conto che Gitli era sull'orlo di una crisi isterica. Aveva la testa tra le gambe che erano scosse da tremori sempre più forti. Le mani,

pallide, erano serrate dietro la nuca nel vano tentativo di scacciare l'inquietudine dalla sua mente. Cadone fece cenno a Lanciotti di lasciare perdere. 11 colonnello sembrò rasserenato. Non aveva creduto sin dall'inizio che quel ragazzo, della stessa età di suo figlio, potesse essere responsabile di una strage. «Senti, non avere timori, rispondi alla mia domanda che poi ti mandiamo a casa.» Gitti alzò la lesta. Guardò incredulo il suo «torturatore». Tuttavia parve maggiormente in grado di controllare i nervi. «Senta, io non ho mai avuto una pistola. Durante il CAR mi sono dato malato per evitare di andare ai tiri... Ma che cosa è successo a Sandra?» «Questa notte è stala massacrata a Suresti insieme al fidanzalo. Ora calmali. Chiama qualcuno per farti venire a prendere, è meglio che in paese non ti vedano tornare con un'auto della polizia. Chiuditi in casa. Anzi, se puoi, vai per un paio di giorni con i tuoi da qualche parie e non parlare con nessuno di ciò che è successo stamattina. E possibile che il tuo nome esca sui giornali e per un po' di tempo l'aria per te sarà poco salubre.» Allungò la mano per salutarlo c aggiunse: «Ora li lasciamo con il brigadiere che verbalizzerà le lue dichiarazioni. Va meglio, ora?» «Sì.» «Tieni, fumati una sigaretta.» Nell'uscire. Lanciotti e Cadone quasi si scontrarono con il brigadiere. «Dottore, l'ingresso e pieno di giornalisti. La notizia dell'omicidio è siala anche diffusa dalla radio. Qualcuno, di sotto, sa pure che il Gitti è qui da noi.» «Stendi un verbale e poi fai telefonare il ragazzo. Qualcuno lo verrà a prendere, ma fallo uscire dall'ingresso della mensa.» I due, rimasli soli, si guardarono. Pur se erano passate solo due ore già condividevano perplessità e stanchezza. «Vieni, Pino, andiamoci a prendere un caffè. Poi vado dal magistrato a riferire. Nel frattempo organizza la solita

raccolta delle informazioni sulla vita dei due ragazzi. Verso le tredici vai a medicina legale. A quell'ora il professor Collini iniziehà l'autopsia. A ogni modo, rimaniamo in contatto via radio.» I vuoti corridoi della questura e le alle volte del soffitto si rimpallarono il suono dei loro passi. L'eco venne interrotto solo quando calpestarono il tappeto persiano che tentava di rendere sontuoso l'ingresso dell'ufficio del questore. «Scusi, colonnello», disse Ranelli che, uscendo concitato da una stanza, si mise a seguirli, «ho sentito il signor questore e gli ho comunicato che, probabilmente, il caso è già risolto. Aspetta una mia telefonata per ulteriori notizie. Comunque, nel pomeriggio sarà di ritorno in città.» Lanciotti, non rallentando il suo incedere, lo raggelò: «Vada giù, tenga tranquilli i giornalisti con qualche stronzata. Gitti deve potersene andare a casa senza incontrarli». Ranelli rimase di stucco. Era furibondo e dubbioso: non sapeva se correre a riferire al superiore i particolari sull'arrogante atteggiamento dell'ufficiale, oppure se concedersi ai giornalisti rischiando, però, di fare la figura dell'imbecille. Non amava risolvere conflitti, ma solo allinearsi alle soluzioni per lui più convenienti. Le autopsie avevano smesso da tempo di provocare effetti particolari sul commissario Cadone. Per adattare il suo stomaco a quella procedura si era premunito, sin dai primi giorni del suo trasferimento alla mobile, di frequentare la sala autoplica per quei casi che potessero presentare un interesse professionale: morte di un ubriacone, giovani uccisi da un'overdose di eroina, suicidi. Infilata la SIG-P22Ü nella fondina, mentre si accingeva a raggiungere il patologo legale venne chiamato dal capo della mobile: «Per oggi vai avanti tu... Se ci sono novità telefonami, altrimenti ci vediamo domani mattina». 11 tutto condito da un incrollabile accento romano. L'istituto di medicina legale si trovava nella zona nord

della città. L'auto di Cadone, dopo aver attraversato Piazza della Libertà, si avviò per il vialone che taglia in due quello da tutti considerato il quartiere nuovo. Il poliziotto sorrise ripensando a tale definizione urbanistica; la zona si era sviluppata nell'immediato dopoguerra, e i fabbricati evidenziavano tutti i malanni tipici delle costruzioni in economia. Le strade erano deserte. Il vapore dell'asfalto faceva apparire come bagnato l'orizzonte. L'obitorio era dislocalo al piano terreno dell'istituto. L'ingresso era affollato dai parenti dei ragazzi che, seduti con la testa a penzoloni, contemplavano le proprie mani in attesa di non si sa bene che cosa. I cronisti, organizzati in piccoli gruppi, occupavano i punti strategici dell'atrio in attesa di poter reperire altro materiale per la stesura dell'articolo. Appena si resero conto della presenza del commissario, tentarono, senza successo, di tagliargli la strada prima che varcasse l'ingresso riservato ai sanitari. Cadone scese di corsa alcune rampe di scale prima di entrare nel regno del professor Collini. Aprendo la porta fu assalito dal pungente odore di formaldeide, che rese più difficile il suo adattamento alla innaturale luce bianca che dominava la sala. II medico, con indosso un grembiule di gomma cerata verde sopra il camice bianco, era in piedi tra due tavoli, con le spalle girale alla porta. Sembrava impegnato a preparare alcuni strumenti di lavoro. Un fotografo della scientifica lo riconobbe e si avvicinò. «Abbiamo fatto le foto. Le vittime sono pronte per il lavoro del professore.» «Venga, commissario, aspettavo lei per iniziare... Ho sentito il colonnello Lanciotti al telefono.» Collini, che visto da quella angolazione pareva più piccolo, aveva un'espressione sottilmente demoniaca. Salutò il poliziotto, senza offrirgli la mano. Cadone gradì l'assenza di quel gesto di cortesia: ben poco calore avrebbe potuto ricevere da un guanto di gomma. Il clinico si avvicinò al tavolo

di destra e sollevò metà del lenzuolo che copriva il corpo di Bruno Sortirli. «Tanto per cominciare il soggetto è stato colpito all'altezza del cuore con un colpo a bruciapelo: guardi l'alone. Non vedo il foro d'uscita, quindi il proiettile lo troveremo ancora nel torace.» Sollevata la testa della vittima, Collini riprese il soliloquio. «Due fori di mezzo centimetro a distanza di quattro centimetri l'uno dall'altro all'altezza del lobo parietale. Anche qui non ci sono fori d'uscita.» «Che cosa sono quelle piccole ferite vicine a quello di sinistra?» chiese Cadone. «Credo che siano state prodotte da alcune schegge di vetro. La testa del ragazzo era quasi attaccata al finestrino.» «Ne consegue che forse c il primo colpo a essere esploso?» azzardò il commissario. «Credo di sì. Giusta osservazione. Qui abbiamo due ferite da arma da punta c taglio. Larghezza circa tre centimetri. Quella all'altezza del collo sembra aver reciso la parete esofagea e lo sterno cleido mastoideo; l'altra è all'altezza dell'cmitorace sinistro secondo una iraiettoria dall'alto verso il basso. In teoria entrambe le lesioni sono mortali.» «Perché in teoria?» «Quando l'omicida ha inferto i fendenti, il ragazzo era già morto. Il cadavere presentava poche macchie di sangue proprio perché il cuore aveva già smesso di pompare... Erano colpi inutili; ma forse l'assassino non lo sapeva. Be', diamo un'occhiata alla ragazza», concluse il medico. Dopo essersi cambiato i guanti. Collini si avvicinò all'altro tavolo e scoprì il corpo della povera Alessandra sino all'ombelico. Gli aiutanti del professore avevano provveduto a lavare la ragazza che, distesa sulla lastra di marmo di Carrara, appariva ben curata, indifesa, troppo giovane. Il medico, nonostante la quarantennale esperienza con morti di ogni genere, apparve turbato da quell'incomprensibile espressione di violenza.

«Come può osservare, commissario, un proiettile ha trapassato il collo da sinistra a destra... Nel mento vi è un'escoriazione, forse un colpo di striscio.» L'anatomo-patologo sollevò la spalla sinistra della vittima. «Un altro proiettile è entrato all'altezza della scapola... Ma anche qui non vedo il foro d'uscita.» Cadone fu costretto a riflettere. Quattro buchi, a prima vista insignificanti, avevano spento due vile. «Professore, guardi, è stata colpita anche alle braccia.» «La ragazza ha cercato di farsi scudo alzando le mani... È stata raggiunta da due proiettili: uno all'altezza del gomito sinistro, l'altro all'avambraccio destro.» «Sembra che l'assassino sia stato meno preciso rispetto al ragazzo.» «Sicuramente ha ucciso per primo l'uomo. Poi, sempre dallo stesso finestrino, ha mirato alla compagna che ha tentato di evitare i proiettili girandosi verso la portiera. Questo è uno dei motivi per cui di cinque colpi solo due hanno raggiunto organi vitali. Vediamo ora come si e divertito con l'arma bianca.» Le mani del medico scorrevano sul corpo della giovane alla ricerca di qualche elemento sfuggito alla prima ispezione. Fece un mugugno intraducibile. Indugiò. Sollevò il capo e guardò le lucide maioliche che rendevano il suo regno più simile a un mattatoio. Scoprì il resto del corpo della giovane vittima. Inghiottì più volte a vuoto. Il suo respiro si fece più affannoso, quasi fosse stato colpito da un improvviso attacco d'asma. Cadone vide le spalle del professore alzarsi in rapida successione, come se slesse tentando di scrollarsi un peso dalla coscienza. Ma non si azzardò a guardare dove gli occhi del medico erano rimasti paralizzati. «A prima vista credevo che fosse stata colpita da un proiettile al basso ventre. Purtroppo non è così.» La voce del vecchio clinico sembrava risalire da un pozzo. «L'omicida ha invece ritenuto opportuno anticipare il mio lavoro.» Il commissario ebbe difficoltà a capire. Una forza, for-

se la paura, gli bloccò l'istinto di scostare il professore e osservare il cadavere. Collini si girò di scatto. Si tolse gli occhiali ormai coperti da una patina di grasso e li pulì con un fazzoletto azzurro. Si rimise gli occhiali e fece sparire il fazzoletto nella tasca dei pantaloni. Fissò il giovane investigatore con le pupille color terriccio circondale da una rete di crepe sanguigne. Poi, con un misto d'incredulità e d'ammirazione, esclamò: «Il pube è stato asportato. E stato un intervento perfetto. Non credo che i miei collaboratori avrebbero saputo fare di meglio». «Come asportato?» farfugliò l'investigatore. «Proprio così, e ora è in mano all'assassino.» FI commissario si avvicinò al cadavere. Al posto delle grandi labbra e del triangolo nero, un buco. Non profondo, geometrico, come un preciso tassello reciso dalla sua sede naturale. «Che cosa ci vorrà fare?» Il professore sembrò non aver ascoltato la domanda di Cadone. Come un automa iniziò a misurare con un righello gli effetti della mutilazione. Detestava dare delle risposte non sostenute dalla razionalità del suo sapere scientifico. Il suono irriguardoso del telefono interruppe l'atmosfera irreale della sala autoptica. Collini, senza badare al fatto che indossava ancora i guanti di caucciù, sollevò la cornetta. «È per lei. II vicequestore Steri», disse allungando la mano. «Sono Cadone, dimmi.» «Sai dove posso trovare il colonnello Lanciotti?» La voce di Steri era irriconoscibile. Aveva perso il tono baritonale. Sembrava un bambino titubante che per la prima volta riesce a comporre il numero dell'ufficio del padre. «Credo che sia dal magistrato. Hai qualche novità?» «Rintraccialo e digli di raggiungermi subito nel laboratorio... Se puoi vieni anche tu.» «Va bene. Anche qui sono emersi fatti nuovi, ma è meglio parlarne di persona.» 11 commissario, stordito, riabbassò il ricevitore. Annun-

ciò al professore che doveva immediatamente tornare in ufficio. Collini scosse la testa e lo congedò promettendo un rapporto preliminare per le venti. Cadone lasciò l'istituto di medicina legale, cercando di non guardare qualsiasi cosa che mostrasse segni di vita. Il poliziotto passò per il tribunale prima di raggiungere la questura. Lanciotti, ricomposto negli abiti, ma non nell'espressione, Io attendeva in strada. Durante il tragitto gli riferì quanto aveva visto nella sala autoptica. Il colonnello accese una sigaretta e rimase a contemplare i muraglioni che facevano da guardia allo scorrere di uno stanco e asfittico fiume. Stormi di gabbiani voraci si tuffavano con rabbia nel tentativo di non perdere il raro cibo. Per alcuni minuti il silenzio dentro la macchina fu totale. I due vedevano e immaginavano con gli occhi della mente la scena del delitto. «Se non troviamo il pube della vittima vicino al luogo del delitto, c'è da presumere che quel pazzo lo abbia con sé... Ma Steri ti ha detto qualcosa?» «Nulla, mi ha solo chiesto di andare immediatamente da lui», rispose sottovoce Cadone. «Ci saranno parecchi giornalisti davanti alla Centrale?» «Non credo. Penso siano occupati a intervistare i parenti dei ragazzi.» Giunti nel cortile del palazzo, i due investigatori scesero le scale che conducevano al gabinetto scientifico. Un agente, in camice bianco, li invitò ad accomodarsi. Il vicequestore era ancora occupato nella camera oscura a sviluppare le foto. Cadone si soffermò ad ammirare il laboratorio, uno stanzone dal soffitto basso, illuminato da tubi al neon. Due stativi con macchine per la macrofotografia contendevano lo spazio di una parete a degli armadi pieni di reperti da esaminare. Un enorme tavolo occupava il centro della stanza: era coperto da registratori, microscopi comparatori, lampade all'infrarosso, pistole smontate, manuali aperti di tutti i

tipi, fascicoli impolverati. Una radio trasmetteva la cronaca delle partite di calcio. L'agente, apparentemente occupato a dare un certo ordine alle attrezzature, in realtà era impegnato ad ascoltare le notizie dai vari stadi. Steri uscì tenendo con una mano delle stampe ancora umide, mentre con l'altra si stropicciava un occhio colpito da una goccia di acido. Il suo fisico denunciava un chiaro aborrire della vita spartana. «Siete arrivali, avvicinatevi al tavolo. Nieddu, spegni la radio e portami le altre foto.» L'agente a malincuore ubbidì al suo superiore. «Guardate. Questi sono i sette bossoli trovati sul luogo del delitto.» I due presero i reperti in mano quasi per soppesarli. 11 commissario guardò perplesso il carabiniere sperando di avere lumi su dove voleva andare a parare Steri. Lanciotti sorrideva. Un sorriso amaro, beffardo, ma allo stesso tempo compiaciuto. L'esordio del panciuto tecnico della scientifica aveva dato concretezza ai sospetti che rimbalzavano nel suo cervello dal momento del suo arrivo a Suresti. Steri, dopo essersi asciugato i palmi con un fazzoletto di carta, prese una busta arancione da cui tirò fuori alcune istantanee. Poi. con solennità, le pose sulla parte sgombra del tavolo. «Ecco gli ingrandimenti di uno dei bossoli trovati vicino alla Renault 5. Osservate bene soprattutto i segni lasciati dal percussore e dall'estrattore. Per scrupolo, comunque, ho esaminato anche gli altri. Provengono tutti dalla stessa arma: una Beretta calibro 22 della serie 70.» Si girò verso l'aiutante e si fece consegnare un fascicolo in vilpelle di colore blu. «Ora guardate queste foto. Fate particolare attenzione alle incisioni lasciate sul bossolo. Che cosa ne deducete?» «Steri!» sbottò Lanciotti facendo finta di essere annoiato dallo show del vicequestore, «sei diventato scemo: anche un cieco può vedere che sono identici.» «Non identici, caro, ma sovrapponibili.» La faccia del topo di laboratorio era la più evidente rappresentazione del

trionfo. «Queste sono le foto dei bossoli espulsi dalla pistola che sette anni fa ha ucciso Maria Chiari e Anselmo Paoli.» «Lo sapevo!» urlò l'ufficiale. «Cristo, lo sapevo dal primo momento, ma non volevo prestare fede ai miei pensieri. Anche tu lo avevi capito, vero? Non mi crederete, ragazzi, sino a un minuto fa ho sperato di aver preso un abbaglio. Tutto ciò complica le cose. Dobbiamo assolutamente prendere questo pazzo criminale.» Lanciotti era incontrollabile. Guardava le foto e con l'indice leso continuava a percorrere i caratteri identificativi dei bossoli. In quel momento anche per Cadone fu tutto chiaro. Nei mesi passati il suo capo gli aveva parlato spesso del caso di Maria Chiari e Anselmo Paoli: l'omicidio dei due ragazzi, insieme alle stragi sui treni, era uno dei pochi delitti di un certo spessore degli ultimi anni a rimanere impunito. Nessun movente, neanche lo straccio di un indizio, neppure l'ombra di un sospettato. Niente di niente. Solo due giovani fidanzati uccisi, con dieci proiettili di Beretta, il sabato sera, mentre facevano l'amore in auto. Anche nel delitto di Borgo Angeo l'assassino aveva fatto scempio dei corpi delle vittime. Il Paoli era stato colpito al petto con un pugnale. Per la ragazza, invece, l'omicida aveva riservato un trattamento privo, apparentemente, di qualsiasi logica: cento pugnalate che avevano risparmiato solo gli arti e il volto, e una misteriosa rosa rossa, avvolta nel cellofan, deposta sopra il pube. Amari, quando ricordava il delitto di Borgo Angeo, aveva difficoltà, nonostante fossero passati parecchi anni, a controllare la delusione di essere stato costretto, insieme a Lanciotti, ad archiviare l'inchiesta con la sgradevole dicitura sul fascicolo: «Caso Chiari/Paoli Contro ignoti». «Ehilà, Steri.» Il carabiniere smise d'incenerire con i suoi occhi gli ingrandimenti dei bossoli. «Quante volte ha fatto il confronto?» «Non rompere! Conosco il mio lavoro. Se non ero più che sicuro, chi ti avrebbe chiamato? Avrei consegnato un

rapportino al magistrato in cui suggerivo una perizia balistica da far effettuare a qualche esperto di chiara fama.» Il placido vicequestore gradiva poco che fosse messa in discussione la sua capacità professionale. «Non t'incazzare», urlò Lanciotti con la voce regolala su un'ottava di troppo. «Io m'immagino la faccia dei nostri superiori quando sapranno che, nella città più tranquilla d'Italia, va in giro uno psicopatico con l'hobby di uccidere ragazzi in cerca di un po' d'intimità.» «Lo so», rispose Steri malinconico, «ma forse questa volta lo prendiamo.» «Speriamo... Scusa, ti ricordi chi era quel criminologo o psicanalista che, dopo il delitto di Borgo Angeo, preannunciò una ripresa degli omicidi dopo qualche anno?» «Come no. È Ivo Fabrizi. Lo conosco. Qualcuno del tuo ambiente lo prese per uno stronzo... L'ho incontrato recentemente in tribunale durante una perizia. Un tipo in gamba, sai. Ma, cosa strana, non gradisce mollo apparire sulla carta stampata. Mi risulta sempre in contatto con il giudice Brezzi.» Lanciotti rimase ancora un momento a guardare le foto di Steri, poi si voltò verso la finestra a bocca di lupo e fissò il cortile della questura ancora inondato dagli spietati raggi del sole. Restò immobile per qualche minuto prima di chiudere le istantanee in una busta insieme alla cartella «Chiari/Paoli». Il responsabile della scientifica aveva fatto un buon lavoro: secco, preciso, senza sbavature. Meritava di essere subito presentato al magistrato. «Pino, vai su da Ranelli e innesca la bomba. Cerca, però, di fargli capire che fino a domani mattina è opportuno tenere all'oscuro i giornalisti sulla scoperta di Steri. Io vado da Brezzi a riferire. Ci vorrà un po' di tempo per rintracciare tutto quello che riguarda il caso di Borgo Angeo. Credo che il magistrato organizzerà un summit con tutti noi. Gli suggerirò di farlo qui, in Centrale.» Il colonnello diede l'ultima occhiata alle attrezzature sparse nel gabinetto scientifico e si avviò verso l'uscita. «A proposito, che cosa ha trovato il professor Collini?»

Steri, preso dall'eccitazione del risultato dell'esame balistico, si era dimenticato d'informarsi degli esiti dell'esame necroscopico. «Sembra che il nostro amico si sia stufato di porgere omaggi floreali alle vittime e preferisca raccogliere souvenir.» Il vicequestore, non comprendendo l'ironica metafora di Lanciotti, rivolse un'occhiata implorante a Cadone. «L'omicida ha asportato il pube della ragazza... Secondo il professore ha utilizzato una tecnica da chirurgo.» Steri, con l'eleganza di un orso, lasciò scivolare il suo corpo su una sedia e, questa volta in falsetto, intonò: «Là ci darem la mano. Là mi dirai di sì. Vedi non è lontano...» Il lunedì mattina gli uffici della questura proponevano l'animazione tipica dei giorni in cui si è in presenza di un delitto «eccellente». Quasi tutti avevano sul tavolo il quotidiano locale fermo sulla prima pagina che, a nove colonne, riportava la cronaca dell'assassinio dei ragazzi a Suresti. I più curiosi gironzolavano per i corridoi nella speranza d'incontrare qualche collega del tumo della domenica in grado di fornire curiosità sull'episodio. Il questore e il capo della mobile, giunti di buon'ora, avevano avuto già numerosi incontri con Cadone, Steri e un rinfrancato Ranelli. Quest'ultimo indossava un abito blu scuro e, con le ascelle zuppe di sudore, si dava un gran da fare per organizzare il summit operativo previsto per le nove. La sala riunioni era da tutti pomposamente definita la «biblioteca», in omaggio a un paio di scaffali con poche decine di pubblicazioni mai sfogliate. Il solerte capo di gabinetto aveva già provveduto a far installare un proiettore per diapositive e uno schermo. Le sedie erano state sistemate intorno a un enorme tavolo a ferro di cavallo. Il procuratore capo e il questore erano destinati al centro da dove potevano vedere senza fatica il candido telo. Di fronte a ogni posto c'era un imma-

colato bloc-notes con una biro e un bicchiere di cristallo coperto da un tovagliolo di carta. Un bigliettino indicava il nome del destinatario della sedia. Ogni due bicchieri, equamente, una minerale e un portacenere. Ranelli riprese, dall'agente al suo seguito, l'elenco dei partecipanti alla riunione con accanto l'indicazione del posto da occupare: «Procuratore Capo, Dottor Lanzi; Questore, Dottor Tini; Sostituto Procuratore, Dottor Brezzi; Comandante della Legione Carabinieri, Colonnello Armeni; Capo della Mobile, Dottor Amari; Comandante Gruppo Operativo, Tenente Colonnello Lanciotti; Capo di Gabinetto, Dottor Ranelli; Medico legale. Professor Collini: Responsabile della Scientifica, Dottor Steri; Commissario Cadone; Dottor Fabrizi». Compiaciuto riconsegnò il foglio al poliziotto. In via riservata, lo stesso documento era arrivato nelle mani di un giornalista che attendeva, prima di battere il pezzo, altre indiscrezioni dal suo interlocutore privilegiato. Ranelli ricompose i suoi gemelli d'oro e, dopo un ultimo sguardo, uscì dalla sala in attesa dell'arrivo degli ospiti più autorevoli. La sua voglia smodata di svolgere mansioni servili aveva la giusta soddisfazione. Si sentiva elegante ed efficiente, anche se ai più appariva come un direttore di un'impresa di pompe funebri. Cadone gradì la posizione a lui destinata. Da quel punto poteva osservare Steri senza subire la pressione degli sguardi cupi dei superiori. Indossando una divisa che, nonostante fosse confezionata con fresco lino, lo opprimeva, Lanciotti continuò a leggere alcuni appunti in silenzio senza mostrare interesse per i convenevoli scambiati sopra la sua testa. Il procuratore capo dopo avere destinato un largo sorriso ai presenti espresse il suo apprezzamento per il lavoro svolto nelle ultime ventiquattro ore. Poi fece una pausa e si accigliò di nuovo. «Dottor Steri, lei ha scoperto gli elementi che hanno determinato una svolta nelle indagini. Può dirci qualcosa di più stamani?»

«Certamente.» Per il responsabile della scientifica non erano molte le occasioni di mostrare le sue capacità di fronte a un uditorio così competente. Aveva lavorato tutta la notte e, in cuor suo, sperava di avere tutto il tempo per esporre il prodotto delle sue fatiche. Montò una scatola di diapositive. Un colpo all'interruttore e nella sala scese il buio. Accese il proiettore e mise a fuoco la prima immagine. «Alla destra potete osservare gli ingrandimenti relativi al fondello dei bossoli ritrovati a Suresti, a sinistra quelli del delitto di Borgo Angeo. I segni lasciati dal percussore anulare sono identici. Esaminale ora la seconda diapositiva: qui si possono notare i segni lasciati dall'estrattore.» Dopo una decina di secondi il giudice Lanzi interruppe il silenzio. «Ma quali sono i bossoli del primo delitto?» Qualcuno ebbe il dubbio che non avesse compreso il confronto balistico proposto. L'anziano magistrato disprezzava ogni palliativo per la sua incipiente sordità, e ciò lo portava sempre più frequentemente a isolarsi. «Li ho fotografati alla rinfusa. Se qualcuno fosse in grado di identificarli è pregato di indicarmi quelli sparati sette anni fa.» Nessuno volle cimentarsi nel compito proposto da Steri. Quest'ultimo dopo un paio di colpi di tosse schiacciò un bottone, e una nuova diapositiva fu proiettata sul telo. «Alla sinistra vi sono i bossoli della pistola che cerchiamo. Come potete osservare, la traccia lasciata dal percussore è molto netta e definita: ciò vuol dire che le molle di sparo conservano, a distanza di sette anni, quasi completamente la loro elasticità. È un'arma che spara poco, ben tenuta... Hem, scusate la disquisizione tecnica. A sinistra i bossoli assassini, a destra quelli di un'arma dello stesso tipo e modello con cui, durante la notte, abbiamo esploso alcuni colpi.» La prova del tecnico era stata più che convincente; chiunque, anche uno studente di prima media, avrebbe capito che la traccia lasciata dall'arma era affidabile quanto quella di un'impronta digitale.

Steri spense il proiettore. Spostò la poltroncina che, dovendo sostenere il suo peso, produsse uno sgradevole e sinistro rumore strisciando sul pavimento di marmo. Ciò non l'imbarazzò: era convinto, a ragione, di aver fatto colpo su tutti. «Stessa arma per due delitti quasi identici, quindi dovrebbe essere la stessa mano.» Il giudice Lanzi scandì la frase con solennità quasi a voler ricordare a tutti i presenti che la realtà, seppur amara, andava accettata. Aggrottò la fronte e si accarezzò la faccia segaligna e rugosa, come d'abitudine quando rifletteva. «Dottor Steri, che cosa ci può dire sulla pistola usata da questo pazzo?» «Si tratta di una Beretta calibro 22 Long Rifle, della serie 70. La pistola è stata fabbricata per la prima volta nel 1958. Il primo tipo, chiamato appunto 'modello 70', utilizzava proiettili calibro 7,65. Successivamente la casa ha immesso sul mercato altri sei modelli, tutti calibro 22 Long Rifle. Per tre modelli, il 71, il 72 e il 75, era previsto un caricatore per otto proiettili. Gli altri modelli prevedono l'uso di un caricatore a dieci colpi... Avendo l'omicida usato nel delitto Chiari-Paoli dieci proiettili, restringerei la ricerca sui tre modelli rimasti: il 73, il 74 e il 76.» Premendo nuovamente l'interruttore, il capo della scientifica fece apparire sullo schermo in fondo alla sala l'immagine di una Beretta. «Come potete osservare si tratta di un'automatica compatta, piatta, di colore nero, lunga circa ventiquattro centimetri, del peso, con caricatore inserito, di quasi un chilo. L'arma è a percussione anulare; ciò comporta l'utilizzo di cariche molto ridotte in quanto il lamierino deve essere sottile. Per quest'ultimo motivo la Beretta 22 Long Rifle viene utilizzata soprattutto in ambito sportivo.» «Che cosa vuole intendere?» Il procuratore capo, pur svolgendo una funzione prevalentemente politica, era sempre affascinato dal mondo dell'investigazione. «Che la Beretta calibro 22 è inaffidabile come arma di difesa personale. Nonostante a media distanza sia molto pre-

cisa, può bloccare un aggressore solo se vengono colpiti organi vitali. Potrei scommetterci una mano: lei non troverà quasi mai un criminale di professione con quest'arma e non la scoverete neanche nel mercato clandestino.» «Quante pensa ce ne siano in zona?». Steri non aveva previsto tale domanda. L'intervento di Lanciotti attenuò la sua nascente frustrazione. «Ho telefonato alla Beretta; dovremmo attendere qualche giorno per una risposta esauriente. Comunque dovrebbero essere tra le dodici e le diciottomila.» «Uhm, credevo fossero molle di meno... Bah! Qui sembra che tutti vogliano sparare.» L'anziano magistrato si lasciò andare per alcuni attimi all'amara riflessione che forse la sua generazione, ricca d'ideali e di romanticismo, era oramai destinata al tramonto. Poi aggiunse: «Sul proiettile che cosa può dirci?» «Si tratta di proiettili della serie H-Winchester. 'H' sta per Taylor Henry, un armaiolo che nel 1860 si mise in società con Winchester, l'ideatore del fucile a leva. Fu Henry a inventare il modello a percussione anulare. Per questo motivo Winchester decise che tutte le cartucce avessero incisa la lettera 'H' Vengono vendute in scatole da cinquanta. La produzione delle calibro 22 è iniziata nel 1964 e, per quello che mi risulta, è continuata sino a qualche anno fa. I bossoli trovali ieri sembrano un po' vecchiotti; in ogni caso penso che sarò più preciso tra qualche giorno.» Lanzi ascoltò stanco. Sembrò avere difficoltà a digerire i dati. Chiaramente non era intenzionato a chiedere altre cose al responsabile della scientifica. Brezzi, che sino a quel momento era rimasto impassibile riuscendo anche a evitare il più piccolo movimento dei muscoli facciali, ritenne giunta l'ora d'intervenire. «Che cos'altro è stato trovato sul luogo del delitto?» L'aria condizionata impediva al polline di raggiungere le mucose e la sua espressione appariva più intelligente. «Nulla. L'assassino non ha lasciato elementi utili per lo sviluppo delle indagini. Ho cercato impronte sia sull'auto

sia sul corpo delle vittime, ma senza risultato. Tuttavia per scrupolo stamattina ho dato ordine di ripetere il sopralluogo in un raggio di azione più esteso... Dalla borsetta della De Felice pare non manchi alcun oggetto.» Steri era in chiara difficoltà. Dopo aver constatato, con un rapido roteare delle pupille, la scarsa intenzione degli altri a intervenire, aggiunse: «Vi ricordate? Anche durante le indagini del delitto di Borgo Angeo, escludendo la rosa rossa, non è emerso nulla di significativo.» Brezzi, intuendo che dal mite vicequestore non si sarebbe cavato altro, decise di ascoltare il perito di settore: «Professore, ci dica quanto emerso dall'esame autoptico». Collini si strofinò vigorosamente l'occhio infilando il pollice sotto gli occhiali, poi aprì una cartella verde oliva e deglutì. «Tra i due delitti esistono, nelle modalità lesive, analogie e differenze. L'omicida ha utilizzalo, in entrambi i casi, prima l'arma da fuoco e in un secondo tempo uno strumento da punta e taglio; inoltre ha sempre colpito prima l'uomo. Nel primo delitto è stato meno preciso: la Chiari, infatti, non è morta per le lesioni provocate dai proiettili, ma per le successive pugnalale. Per il Paoli, invece, è stalo esploso un numero di colpi sproporzionato, rapportandolo, ovviamente, a quelli utilizzati ieri per il Sortini. È come se sette anni fa l'assassino fosse stato meno sicuro della sua azione. Queste considerazioni le lascio, comunque, alla valutazione di voi tutti e, in particolare, a lei, dottor Fabrizi.» Lo psicologo non osservò lo sguardo di simpatia di Collini, impegnato com'era a prendere appunti sul blocco fornito da Ranelli. Il patologo legale sfogliò alcune pagine della sua relazione e, a occhi bassi, riprese a parlare. «La differenza principale tra i due crimini la riscontriamo nel trattamento riservato alle donne. Il corpo della Chiari presentava un centinaio di ferite, più o meno profonde, su tutto il tronco a esclusione del viso e del pube. Nel caso della De Felice, viceversa, abbiamo la sola asportazione del pube.

Questo potrebbe rappresentare un cambiamento nelle scelte comportamentali del soggetto; quantunque non possa escludersi un'evoluzione... Steri, per piacere, m'inserisca quella diapositiva con la costa rossa.» Il silenzio dei presenti era rotto solo dal rumore della biro di Fabrizi che, velocemente, continuava a scorrere sui fogli. «Le due ragazze avevano all'incirca la stessa altezza e lo stesso peso. Quella a sinistra è la Chiari. Quei punti neri sono le ferite lasciate dall'arma bianca. Con un pennarello rosso ho circoscritto le parti del ventre prive di lesioni. A destra vedete il corpo della De Felice, in rosso è indicata la parte asportata. Come potete osservare, i due triangoli sono sovrapponibili.» Una gelida quiete cadde nella biblioteca. Oramai nessuno aveva più dubbi. Non solo i delitti erano tra loro collegati, ma sembrava che, tra i due episodi, non fossero trascorsi sette anni, bensì solo pochi giorni. Il tutto appariva come l'ouverture di un'opera di cui non si riuscivano a prevedere, o si aveva paura di farlo, gli atti successivi e, soprattutto, la scena finale. Quanto avrebbe atteso il pazzo per farsi di nuovo vivo? Sette anni? Sette mesi? Sette giorni? «Avete trovato tracce di sperma sulla vittima?» domandò Lanciotti. «No, la stessa ricerca l'ho eseguita sette anni fa, ma anche in quel caso escludemmo la presenza di liquido spermatico. I ragazzi, inoltre, sono stati uccisi durante i preliminari del rapporto sessuale.» «Professore», chiese Brezzi pensoso, «che cosa intende lei quando sostiene che il pube è stato asportato con tecnica chirurgica?» «Vede, la mia valutazione si basa su diversi aspetti.» La voce di Collini era calma e ferma, come quella di chi prima di parlare usa riflettere più della norma. «L'azione si è svolta in condizioni di luminosità non certo ottimali. È verosimile, inoltre, che l'assassino, pur se in possesso di una patologica freddezza, viva le sue gesta criminali con un minimo di coinvolgimento emotivo. I tagli operati sul cada-

vere sono netti, senza sbavature, profondi quanto basta, privi di cieco furore. Ritengo non plausibile che un soggetto, poco esperto di anatomia umana e dell'uso di un bisturi, possa eseguire tale operazione senza errori.» «Può essere più preciso per quel che concerne questa tecnica? Sa, non penso di essere l'unico a credere che, nell'uso di un bisturi, ci sia qualcosa di magico», intervenne apparentemente imbarazzato il procuratore capo. «Lei saprà come la maggior parte dei chirurghi preferisca lavorare in un'atmosfera rilassata e silenziosa. Non pensate sia un vezzo, ma è la condizione di base per consentire al medico di trovare fiducia nelle proprie capacità. In quegli attimi, egli continua a ripetersi la frase: 'Scegli bene, taglia bene e avrai buoni risultati' Questa massima vale soprattutto per il bisturi che, come è noto, viene utilizzato per dividere i tessuti molli in maniera non traumatica.» Collini prese la biro e si piegò verso il centro del tavolo. Forse, in quel momento, immaginava di trovarsi in una sala operatoria. «Per effettuare un buon taglio occorre usare la lama in tutta la sua lunghezza e non soltanto la punta. Se il bisturi viene premuto con troppa forza l'incisione risulterà disordinata e incontrollata. Il taglio più corretto avviene se il chirurgo preme sul retro della lama con il dito indice e se lo strumento è particolarmente affilato. In caso di intervento più profondo il medico userà un bisturi con una buona punta. Spesso i miei colleghi prima di eseguire una incisione compiono un gesto nell'aria, come i giocatori di golf prima di sferrare il colpo.» Il professore respirò rumorosamente e, appoggiando le spalle sullo schienale, aggiunse: «Potrei sbagliarmi, ma la mulilazione sulla ragazza sembra eseguita da un personaggio abile nella tecnica appena descritta». «Un fatto mi lascia perplesso...» La voce del giudice Lanzi era monotona. «Voi tutti parlate sempre di un assassino. Quali elementi v'inducono a escludere la presenza di più di un criminale?» Il medico fissò Lanzi conservando sulla faccia una ma-

schera inespressiva. «Non possiamo escludere che uno abbia provveduto a uccidere i ragazzi con la pistola e, successivamente, un altro sia intervenuto con l'arma bianca. L'istinto, tuttavia, continua a ripetermi: l'assassino opera da solo.» «Scusatemi.» Il questore, scostando la bottiglia dell'acqua che creava strani riflessi verdi sulla sua faccia, intervenne nella discussione. «Io, a differenza del professore, non escludo l'intervento di più persone. Non è la prima volta che un gruppo criminale compie azioni, all'apparenza prive di motivazioni, al solo scopo di terrorizzare l'opinione pubblica e di far apparire le istituzioni incapaci di affrontare il fenomeno. L'obiettivo potremmo essere noi e non quei poveri ragazzi.» Il questore, non più alto di uno e sessantacinque, di corporatura robusta, col viso piatto, naso da boxeur, guance cascanti, aveva l'abitudine di parlare digrignando i denti. Gli occhi, però, in quella faccia inzuppata di colesterolo, erano vivi e mobilissimi, come se fossero pronti, in un momento, a cogliere tutti i particolari di una vicenda. Egli sembrava affetto da una vera e propria monomania. Quando un delitto di una certa importanza non veniva risolto, sposava e propagandava la tesi di gruppi occulti impegnati a destabilizzare l'ordine costituito oppure a distogliere le forze di polizia da indagini riguardanti la malavita organizzata. A qualcuno tale atteggiamento poteva apparire come un tentativo paranoico di essere, in qualsiasi modo, al centro dell'attenzione. La sua teoria, però, era stata rafforzata da una serie di attentati sui treni che, negli anni precedenti, avevano più volte scosso la sonnecchiosa vita della città. Tutto era possibile. Se dopo qualche giorno fosse arrivata una rivendicazione? Se gli assassini avessero fatto pervenire la parte mutilata della ragazza insieme a un volantino? Chi avrebbe avuto ancora il coraggio di dare del paranoico a Tini? Lanciotti sul piano professionale non stimava granché il questore; suo malgrado dovette ammettere in cuor suo che la tesi di Tini non era del tutto campata in aria. Ma non si

allineò all'ipotesi del «mastino»; riteneva infatti rischioso seguire una pista che avrebbe portato, in mancanza di conferme, a una sterilizzazione delle indagini. «Io credo poco a questa ipotesi. Mi è difficile immaginare che due o più persone si divertano in quel modo a Borgo Angeo, poi se ne stiano buone per tanto tempo e, successivamente, decidano di ricominciare. È vero, la follia umana è senza limiti; ma nella nostra città, tra la nostra gente, nella nostra cultura, non si è mai riscontrata la presenza di personaggi amanti di aggregazioni criminali di tipo caraibico.» Brezzi, pur approvando la versione dell'ufficiale dei carabinieri, era ben deciso a evitare che la riunione si trasformasse in un dibattito tra i due esperti investigatori. Si rivolse quindi a Lanciotti. «In base ai primi riscontri lei che cosa ci può dire?» L'investigatore percepì il timore del sostituto procuratore e abbandonò l'area cosiddetta «conflittuale». Si fece allungare la minerale da Amari e si bagnò le corde vocali. «I delitti presentano elementi, oltre a quelli rilevati dal professor Collini e da Steri, di straordinaria affinità. Sono stati entrambi eseguiti di sabato, tra le ventitré e trenta e le ventiquattro. In tutte e due le occasioni non c'era la luna, con la conseguente impossibilità da parte delle vittime di poter scorgere alcunché. Le coppie si erano appartate in posti isolati, frequentati e conosciuti solo dai giovani della zona, e precedentemente erano andate al cinema con alcuni amici. E difficile sapere se l'assassino ha seguito le vittime o se, viceversa, le attendeva nascosto tra i cespugli. Sia a Borgo Angeo sia a Suresti ha colpito nel momento in cui i giovani iniziavano i preamboli amorosi. Il vero obiettivo sembra essere la donna... L'uomo viene semplicemente eliminalo.» «Scusi, Lanciotti, se l'obiettivo è la ragazza, perché ha bisogno sempre di una coppia? Non sarebbe più facile per lui sequestrarne una e poi eliminarla?» chiese il procuratore capo dopo essersi anche lui ristorato con un sorso d'acqua.

«Ho pochi elementi per rispondere alle sue domande. Non si può, infatti, escludere che l'assassino abbia, negli anni passati, ucciso altre persone. A ogni buon conto ho chiesto ai miei collaboratori di verificare tutti gli omicidi degli ultimi dieci anni, soprattutto quelli di donne sole o prostitute. Dopo di che intendo estendere tale verifica su tutto il paese.» Lanzi ascoltò attento e approvò con un cenno del capo. Poi si passò il dorso della mano sulla bocca quasi a volersi asciugare le labbra bagnale dalla minerale. «Ora vorrei ascoltare il dottor Fabrizi. Prima di porle alcuni quesiti vorrei fare una premessa. Lei partecipa a questa riunione in via ufficiosa: il suo contributo deve quindi rimanere riservato. C'è d'aspettarsi, già da domani, una massiccia presenza sui giornali d'interventi e d'interpretazioni di dotti accademici sulla personalità e sull'identikit dell'assassino. Nel caso si venga a sapere che lei collabora all'indagine sarei costretto ad affrontare fastidiose lamentele per non aver consultato psichiatri o criminologi di chiara fama. La prego quindi di comprenderci se la notizia della sua partecipazione non verrà diffusa.» La solenne premessa del procuratore rinfrancò Fabrizi. Sin dal momento in cui aveva deciso di diventare psicanalista si era prefissato due obiettivi: essere svincolato da correnti di pensiero e da scuole più o meno ortodosse e, allo stesso tempo, svolgere il suo lavoro con un rigore scientifico quasi maniacale. Era sulla quarantina, alto, dinoccolato, con barba e con un sigaro toscano perennemente in bocca. Dai colleghi era considerato un astro in ascesa, ma lui teneva scarsamente conto di tale attestato di stima e preferiva ai congressi pomposi e spesso fini a se stessi, la lettura dei classici di criminologia e la ricerca di contatti umani al di fuori dei cosiddetti circoli culturali. «Riuscire ad amare una persona», sosteneva, «offre maggiori soddisfazioni rispetto al possedere le leve del potere.» Riflessione da molti condivisa, ma da pochissimi fatta propria. «Dottore», riprese l'anziano magistrato, «lei sette anni

fa dichiarò al giudice Brezzi che l'assassino della Chiari e del Paoli si sarebbe rifatto vivo dopo qualche anno. Ci può dire in base a quali elementi arrivò a tale previsione?» Fabrizi si schiarì la voce e, dopo un'ultima occhiata ai suoi appunti, iniziò a parlare. «L'omicidio di Borgo Angeo mi apparve sin dal primo momento un crimine atipico. Non era un delitto passionale: nessuna delle due vittime aveva motivi di temere per la propria vita a causa di amanti gelosi, padri offesi o altro. Esclusi la possibilità che si trattasse di una rapina in quanto ai ragazzi non era stato sottratto neanche uno spillo e, fatto importante, non si cercò di simularla. Elementi che indirizzassero a una vendetta non furono scovati. L'assassino, inoltre, ha compiuto sul cadavere della Chiari una serie di azioni cruente all'apparenza inutili e prive di una comprensibile finalità. Con molta probabilità atti simbolici. Più precisamente a contenuto simbolico sessuale. Dopo aver constatato questi elementi, per esclusione azzardai due ipotesi: l'azione era stata compiuta da un pazzo, oppure un gruppo di fanatici aveva programmato il delitto per scopi punitivi o ritualistici. Optai per la prima soluzione in quanto nella nostra zona non è stata mai rilevata la presenza di sette o organizzazioni che, nei loro riti, prevedessero l'uso del sacrificio umano. C'è, inoltre, da evidenziare che, mentre è possibile per un solo soggetto compiere un delitto del genere senza lasciare una traccia, nel caso di più persone ciò è inverosimile.» Tutti i presenti ascoltarono con attenzione la dissertazione di Fabrizi. Fino a quel momento non aveva detto nulla di particolare; ma il filo logico seguito dal criminologo guidò il composito uditorio verso una realistica, seppur semplice, interpretazione delle poche informazioni disponibili. Dopo essere rimasto per qualche attimo a osservare il fumo del suo sigaro riprese a parlare. «Arrivato alla conclusione che si trattava di un gesto criminale di uno psicopatico, cercai d'intuire il tipo di di-

sturbo da cui poteva essere affetto. Non ho mai creduto all'opera di un oligofrenico: avrebbe di sicuro lasciato un tale numero d'indizi da consentire l'identificazione nel giro di pochi giorni. Poteva essere il gesto di un maniaco sessuale colto da un raptus di violenza. Questa eventualità, pur se suggestiva, non mi convinse; il delitto non presentava quegli elementi d'improvvisazione o di gratuita violenza verso le vittime che caratterizzano i raptus. Gli affetti da perversioni sessuali, sia ben chiaro, possono in teoria eliminare l'uomo, ma poi cercano di sfogare i propri istinti sulla donna. Poi è diffìcile che vadano in giro con una rosa rossa. L'assassino di Borgo Angeo mostrò, per alcuni aspetti, rispetto e venerazione per le parti del corpo che, più delle altre, raffigurano la sessualità e l'affettività. Cioè il pube e il viso.» «A mano a mano che mi avventuravo in questo gioco a incastro», continuò Fabrizi dopo aver riacceso il mozzicone del toscano, «alcune caratteristiche del soggetto mi apparivano più chiare. A quel tempo lo definii un ragioniere del crimine che programma con lucidità la sua azione disinteressandosi della valenza umana e affettiva delle vittime. Egli aveva, o credeva di avere, delle problematiche sessuali rifiutate dal suo Io considerato perfetto. Nella sua ricerca patologica della perfezione, il delitto poteva assumere per lui il significato di acquisita onnipotenza e di dimostrazione di forza rispetto al mondo.» Cadone, ascoltando rapito Fabrizi, percepì qualcosa di strano lungo la schiena. Si guardò intorno: per un attimo avrebbe giurato di aver colto il moto di un volto sorridente che, da dietro gli scaffali, si volgeva verso di loro. Ebbe la sensazione netta che il criminale annuisse o dissentisse su quanto veniva sostenuto dallo psicologo allungando la sua ombra sul tavolo a ferro di cavallo. Sciocchezze! pensò il commissario, mi avrà ingannato il riflesso del proiettore ancora acceso. «L'uccisione dei due ragazzi», riprese il criminologo, «sarebbe stata seguita, a breve distanza, da delitti analoghi se l'omicida fosse stato affetto da una psicosi al-

lucinatoria. La voce che gli ordinava di uccidere non avrebbe aspettato troppo tempo prima di rifarsi viva. Viceversa, nel caso di un soggetto privo di spunti allucinatori, è plausibile un tempo di elaborazione del crimine più lungo. Lui, in questi anni, ha di sicuro cercato di capire il suo gesto, ma ha soprattutto misurato la forza e la reazione del mondo. Più il tempo trascorreva e più la sua sensazione di essere forte e invincibile aumentava, mentre diminuiva il senso di colpa rispetto al crimine. Purtroppo di tempo ne è passato molto e il suo delirio di grandezza si è incrementato.» Fabrizi schiacciò il sigaro già spento nel portacenere. Per qualche secondo coltivò la speranza che qualcuno volesse intervenire al posto suo. Frustrato in questa aspirazione si diede un'energica grattata alla scarsa chioma e concluse: «Non mi prendete per un menagramo, ma se l'assassino ci sfuggirà non dovremo attendere altri sette anni...» Cadone si guardò intorno. Ranelli stava sorridendo. Questi, però, avrebbe sorriso anche in un funerale, ritenendo che tutti dovessero essere lusingati per la sua presenza. Steri, nonostante l'aria condizionata, sudava e torturava la cravatta. Lanciotti parve in attesa di un ordine per scattare. L'ordine non arrivò ma lui non se ne curò. «Posso farle una domanda?» «La prego», rispose Fabrizi. «Riesco a capire l'uso della pistola. Per certi aspetti posso intuire anche il motivo dell'asportazione del pube. Ma perché, secondo lei, accoltella la vittima anche quando è ormai cadavere?» «Se vogliamo evitare masturbazioni mentali dobbiamo semplicisticamente pensare che usa il coltello per essere sicuro della loro morte... Ci sono, comunque, risvolti allegorici che, pur variando da cultura a cultura, sembrano caratterizzare i delitti con l'arma bianca. Come saprete, il coltello è lo strumento maggiormente utilizzato nei delitti passionali. Si potrebbe ipotizzare che l'inevitabile 'contatto' tra carnefice e vittima e il 'penetrare' con la lama siano rappresentazioni simboliche di un inconscio desiderio

di possesso e penetrazione. Pare quasi che il feritore voglia sancire un monopolio sull'atto sessuale. Non a caso la maggior parte delle vittime di questo tipo di crimine sono donne oppure omosessuali.» «Se permettete vorrei fare un giochetto con Fabrizi.» La richiesta del colonnello Lanciotti era rivolta ai magistrati che, non volendo mostrare la loro inconsapevolezza, annuirono un po' imbambolati. «Senta, dottore, lei ha mai visto pazienti come quello descritto?» «Certo, ma nessuno ha compiuto crimini di questo tipo.» «Avrebbe difficoltà», riprese Lanciotti, «a immaginare di possedere la personalità del nostro amico e rispondere a qualche domanda?» Fabrizi guardò divertito e complice l'ufficiale dei carabinieri. Mica è scemo, pensò, chi lo avrebbe detto che un carabiniere potesse essere a conoscenza del metodo della «personalità simulata». «No, non ho nessuna difficoltà... Mi dia però qualche secondo per concentrarmi.» Lo psicologo poggiò il mento sul petto, allungò le gambe sotto il tavolo, si tolse gli occhiali, allentò il nodo della cravatta e, dopo aver abbassato le palpebre, tirò tre lunghi e profondi respiri. «Sono pronto, cercherò di essere il mostro.» Lanciotti si assicurò che sui volti dei presenti non emergesse ironia o diffidenza. Poi con voce calma e solenne iniziò quello che per lui era sempre un interrogatorio. «Secondo lei quanti anni ha?» Fabrizi prima di rispondere rifletté a lungo. L'ectoplasma aveva difficoltà a uscire dalla nebbia. «Più di trenta. Chissà, potrebbe aver addirittura superato i quaranta.» «Perché uccide di sabato?» «Bah! Forse perché ci sono più coppiette in giro. Non escluderei, inoltre, che il sabato sia l'unico giorno in cui si può spostare senza aver problemi con il lavoro. Negli

altri giorni probabilmente è impegnato sino a sera. La domenica gli occorre di certo per rientrare nella sua vita cosiddetta normale.» Lanciotti annuì. Sentiva che tra lui e Fabrizi si era creato un canale di comunicazione non consueto. «Come mai in entrambe le occasioni ha operato in assenza di luna?» Il criminologo sorrise. «Forse è un lupo mannaro rovesciato... Scherzo. Se è valida l'ipotesi che ci troviamo di fronte a un ragioniere del crimine, devo presumere che la scelta sia dovuta solo a fatti tecnici. Nel buio più completo le vittime sono senza difese.» «Penso anch'io la stessa cosa. Secondo lei, che cosa vuole fare del pube della De Felice?» Per la prima volta lo psicologo diede segni d'insofferenza. Aprì gli occhi, alzò la testa e cercò con lo sguardo un punto dove ricercare la concentrazione. Si stava sforzando di essere come il pazzo criminale, di pensare con la sua testa. «A questa domanda non è facile rispondere. Potrebbe averlo già inviato a qualche giornale. Può aver cercato d'imbalsamarlo, oppure utilizzato in qualche rito esoterico. Non è da escludere, infine, che l'abbia mangiato. Tutto è possibile.» Fabrizi prosciugò un bicchiere di acqua. Forse per la stanchezza, oppure per scacciare un incubo gravante sulla sala. Incominciò a sentire alcune non piacevoli affinità con il personaggio appena illustrato. Doveva fuggire da quella sensazione, decise quindi di riportare la mente nell'oscurità. «Prima ha sostenuto», riprese l'ufficiale, «che il criminale potrebbe aver sviluppato nel tempo un senso d'invincibilità. Ma perché ha ripreso proprio adesso? Poteva ricominciare un anno fa o tra sei mesi.» «Di certo, un evento ha fatto da elemento scatenante. Magari la morte della madre, la separazione dalla moglie, un fallimento a livello professionale... Qualcosa che, in modo diretto o simbolico, ha messo in discussione il suo livello di autostima.»

«È possibile che sia stato ricoverato, in questi anni, in una clinica psichiatrica o costretto in un carcere?» Fabrizi ammiccò. «No, non si può escludere.» «Un'altra domanda.» Lanciotti respirò a fondo. «Perché tende a escludere che possa trattarsi di un pervertito, come, per esempio, un voyeur?» «Forse non sono stato chiaro», ribadì lo psicologo strappandosi alcuni peli dalla barba, «l'ipotesi di un guardone che, durante l'osservazione di una coppia, ha un improvviso attacco di violenza incontrollabile mi sembra poco verosimile. Essi sono, in genere, poco aggressivi. Però allo stesso tempo non rifiuto l'idea di un assassino che si spaccia per voyeur... Anzi ritengo probabile che le sue perlustrazioni, prima di compiere un delitto, vengano fatte insieme a personaggi di tale ambiente.» Il carabiniere si appoggiò allo schienale della sedia. Poi si rivolse a Brezzi. «Questo è molto interessante ai fini dell'indagine. Un'ultima domanda e poi la lascio in pace. Suppone anche lei che possa essere un medico o un esperto nell'uso del bisturi?» «L'ipotesi è affascinante. Per certi aspetti l'assassino pare brami dimostrare le sue capacità professionali; però non mi sorprenderei se venissi a sapere che è un imbalsamatore, un sarto o un pellicciaio... Spesso quando non si scopre l'autore di delitti atroci si tende a mitizzarlo e a ipervalutarlo.» Fabrizi accese l'altra metà del sigaro. Si era volentieri sottoposto al giochetto di Lanciotti. Gli era giunta voce che il tenente colonnello era un tipo fuori dall'ordinario, poco amante delle formalità e delle beghe politiche. Entusiasta, come un bambino curioso, di tutto quello riguardante la scienza dell'investigazione. Per questo motivo, gli scontri con i superiori e i notabili locali erano frequenti. L'ufficiale, comunque, proseguiva imperterrito per la sua strada conquistandosi la simpatia di quanti, e non erano pochi, trovavano ispirazione dal suo modello professionale. Il procuratore capo valutò fosse giunto il momento di concludere l'incontro.

«Dottor Fabrizi, la ringraziamo. Lei non sa quanto ci potranno essere utili le cose che ha detto.» Dopo aver sbuffato un paio di volte alzò il tono della voce. «L'indagine verrà coordinata dal dottor Brezzi. Prima della riunione mi sono incontrato con il questore e il comandante della Legione: abbiamo deciso di costituire un gruppo d'investigatori interforze. La squadra sarà guidata dal colonnello Lanciotti e dal commissario Cadone. Non se ne abbia a male, dottor Amari, per l'esclusione, qualcuno dovrà continuare a occuparsi di quanto accade nella città.» Il capo della mobile non era affatto turbato. Si rendeva conto che dedicarsi a tempo pieno all'inchiesta non lo avrebbe esentato dal seguire gli altri casi. L'estate era già iniziata, e lui non voleva nel modo più assoluto rinunciare ai suoi quindici giorni in Sardegna. «Ora, se permettete», riprese il magistrato, «vorrei riassumere alcuni punti utili per il prosieguo del lavoro.» Per alcuni secondi si estraniò. Poi cominciò a tracciare con estrema lucidità il modello di uno schema operativo. Tutti ascoltarono con attenzione. Sapevano benissimo che il giudice Lanzi non dava consigli, ma ordini. «Per ora non ci sono indizi sostanziosi. In teoria, dovremmo estendere l'indagine a trecentosessanta gradi; tuttavia potrebbero credere che brancoliamo nel buio. Quindi dobbiamo circoscrivere il raggio d'azione rischiando di prendere una cantonata. Una scelta comunque bisogna farla, sperando che l'omicida non si rifaccia vivo presto.» Il procuratore capo si tolse gli occhiali. Si rendeva conto di quanto le sue parole avessero inoculato nei presenti un sottile senso di afflizione. Doveva evitare di proseguire su quella strada. «Lascerei un paio di bravi e discreti sottufficiali a occuparsi di quello che riguarda gli ambienti famigliari e gli amici delle vittime. Il resto della squadra lo concentrerei a setacciare il mondo dei guardoni... Sono d'accordo con il dottor Fabrizi: il pazzo o è un voyeur o simula di esserlo per svolgere con tranquillità il suo lavoro. Cercate soprattutto persone tra i trenta e i quarant'anni. Ce ne sarà

pure qualcuno che frequenta i poligoni di tiro e ha una certa dimestichezza con taglierini o bisturi. Ho la sensazione che da quest'ambiente qualcosa tireremo fuori. Siete d'accordo?» Nessuno fiatò. Solo Lanciotti sollevò timidamente il dito indice della mano destra. «Dica, colonnello.» «Riterrei utile condizionare in qualche modo le notizie da fornire alla stampa... Qualche elemento deve restare noto solo a noi e all'assassino. Ho la sensazione che nei prossimi giorni saremo sommersi dalle indicazioni di persone convinte di sapere chi è l'omicida. Qualche elemento di verifica ce lo dobbiamo pur lasciare.» «Concordo con lei», annuì Lanzi. «Professor Collini, è stata divulgata la circostanza dell'asportazione del pube della ragazza?» «Dal mio istituto la notizia non è uscita.» «Bene! Invito tutti a mantenere il riserbo sull'informazione. Ciò vale anche per i parenti delle vittime. Ora possiamo tornare al lavoro. Senta, commissario Cadone, che cosa pensa lei di questa storia?» Il giovane poliziotto rimase di sasso. Non si aspettava di certo di essere ascoltato in merito alla vicenda. Sentì il sangue affluire alla testa e i padiglioni auricolari diventare rossi. Gli succedeva spesso quando doveva dire la sua a più di due persone che non fossero suoi coetanei. Cercò di controllare la sua emotività ingoiando della saliva che non c'era ed esprimendo la prima idea che gli venne in mente; in fondo, Fabrizi aveva fatto la stessa cosa fino a qualche minuto prima. «Non sono in possesso dell'autorevole esperienza di quanti mi hanno preceduto. La mia prima sensazione è stata quella di trovarmi di fronte all'opera di un misterioso giustiziere.» Constatato che nessuno mostrava indifferenza o sarcasmo rispetto alle sue parole, rinfrancato riprese a parlare. «Il suo interesse pare sia quello di colpire quanti hanno trasgredito una folle legge di cui ci sfuggono i termini. Non mi sor-

prenderei se, nei prossimi giorni, ci giungesse una rivendicazione nella quale viene sostenuto che si è provveduto a eliminare i due per aver violato la legge dell'amore puro o altro.» Cadone rimase sorpreso delle sue capacità dialettiche e intuitive. Se l'avessero potuto vedere Lorena e suo padre non sarebbero riusciti a controllare un moto di orgoglio. No, non ho sbagliato a fare il poliziotto, pensò. La sua tronfia riflessione virò, un attimo dopo, verso un settore dell'animo destinato a elaborazioni più amare: perché alcuni di noi hanno bisogno della morte, il più possibile cruenta, per sentirsi terribilmente vitali? «Non è male come idea.» Il questore pareva aver riacquistato una certa fiducia in se stesso. «Sono contento di averla proposta per la squadra.»

LA lettura dei giornali assunse un gusto fuori dell'ordinario. Prima di arrivare in ufficio raggiungevo un'edicola, ogni giorno diversa, quasi nello stesso momento in cui i furgoni scaricavano grandi pacchi di quotidiani. All'edicolante forse apparivo come un portaborse che, con diligenza, acquista una decina di giornali per consentire al politico di far troneggiare sulla scrivania la sempre rispettata mazzetta. «Bella giornata, vero?» L'insolito acquisto meritava un'attenzione superiore all'impersonale silenzio. In auto, mentre attendevo il verde ai semafori, mi limitai a sbirciare i titoli: LA STESSA PISTOLA HA ucciso i FIDANZATI D! BORGO ANGEO E DI SURESTI.

I colleghi, però, mi videro arrivare con il solito giornale sportivo. Non avevo intenzione di far trasparire un interesse eccessivo e inconsueto rispetto alla vicenda. Per lo stesso motivo evitai di farmi coinvolgere nelle discussioni che animavano i gruppi nei corridoi; la dedizione verso una relazione che da tempo attendeva di esser conclusa e il riacutizzarsi dell'emicrania indussero i più a girare i tacchi e a cercare interlocutori maggiormente disponibili al gioco: «se fossi l'investigatore andrei a trovare l'assassino...». Tutti sguazzavano con gagliardia nei dibattiti: molti di loro, infatti, erano capaci di produrre qualcosa di intelligente e stuzzichevole solo in presenza di un bel delitto.

Vivevo il tutto con apparente tranquillità. Il riaffiorare della gastrite e la frequente consultazione dell'orologio mi apparvero, tuttavia, come chiari segni di un controllo dell'istinto faticoso e dispendioso. Avevo bisogno di restare da solo in casa, nello studio, tra le mie carte. Dovevo con calma esaminare le pagine più interessanti. Soltanto un'analisi profonda mi avrebbe permesso d'intuire i pensieri degli investigatori, dei giornalisti, dei sempre presenti esperti. Era indispensabile tastare il polso del mondo. Il resto appariva ormai troppo lontano. Più di una volta fui sul punto di cedere alla voglia di scappare prima del pranzo, motivando il tutto con l'insorgere di un credibile malessere; faticai a non farmi sopraffare da quell'impulso. Il comportamento normale, banale, prevedibile poteva sembrare una prudenza eccessiva: la prudenza, però, era sempre la mia arma migliore. Il tempo giocò con la mia pazienza. La scrivania color frassino pareva fluttuare sotto i raggi del sole che, per gran parte della giornata, inondavano l'ufficio. Una cappa di fumo, più consistente del solito, copriva il soffitto. Nella mente si succedevano, come in un immenso puzzle, le immagini del sabato notte. Stranamente in bianco e nero. Verso le diciotto un traballante ascensore mi condusse a casa. Alzai lo sguardo verso la targhetta che ricordava il massimo sforzo sopportabile: quattro persone, un monito per quanti sarebbero incappali in quell'angusta promiscuità. Come di consueto fui attratto dallo specchio brunito, chiazzato dal tempo, che consente ai solitari viaggiatori di controllare, senza essere visti, la propria condizione. Nonostante il movimentato week-end ero in forma. Mi lasciai andare ad alcune considerazioni sul quell'immagine avvolta nella semioscurità, cosa che facevo sempre con molta parsimonia. «Guarda un po' che faccia! Pur se tirata e con le guance scavate è più gradevole di gran parte dei miei coetanei. Certo qualche capello in più non avrebbe guastato. Forse l'altezza è un tantino esagerata: debbo sempre chinarmi per vedermi il viso allo specchio. Le spalle sono ancora armoniche: i lunghi e faticosi esercizi

ai pesi hanno prodotto il loro effetto. Le mani sono giudicate molto belle, bianche, forti, asciutte, con le dita lunghissime e segnate sul dorso da un'intricata rete di vene azzurre. Gli occhi, purtroppo, sono quelli di mio padre. Piccoli, quasi come due fessure disegnate senza logica sotto le folte sopracciglia... Ci fai vedere il colore dei tuoi occhi? Era la domanda che mi ha accompagnato sin dall'adolescenza. Con un certo sforzo alzavo la palpebra ed esponevo la pupilla... Ma di rado riscontravo nei loro sguardi una reazione piacevole. Forse, nonostante tutto, preferivano le mie fessure.» Entrai in casa e, senza badare a dove cadesse la giacca, mi avviai allo studio. Accesi una sigaretta e iniziai a sfogliare gli immacolati giornali. La maggior parte riportava la vicenda di Suresti in prima pagina e nella cronaca locale. Rispetto al giorno precedente i servizi apparivano più curati, razionali, privi di quell'urlare ai quattro venti sull'efferatezza del delitto. Tutti mettevano in risalto il legame tra i due duplici omicidi. Dopo un quarto d'ora capii che i pezzi erano stati scritti al massimo da quattro cronisti. «Che stronzi», pensai, «preparano un unico articolo e poi lo inviano a due o tre giornali. Forse, però, hanno ragione: quanti sono quelli di Bologna che leggono i quotidiani di Napoli o di Palermo?» Non furono di certo quelle considerazioni giornalistiche a interessarmi. C'era un elemento caratterizzante tutti gli scritti che mi provocò non poco disagio: nessuno riportava la notizia dell'asportazione del pube della ragazza. Durante la lettura del primo articolo non avevo badato molto alla cosa. «Forse», riflettei, «il cronista avrà giudicato il fatto superfluo o troppo scioccante.» Tuttavia, neanche negli altri quotidiani vi era traccia della notizia. Solo in un trafiletto scovai la dichiarazione del perito di settore. Costui sosteneva che la vittima era stata colpita con due proiettili al basso ventre. «Perché divulgare questa falsità?» mi chiesi stizzito. «Può un medico famoso come il professor Collini prendere un abbaglio di questo tipo? Se ha deciso di non di-

re la verità deve aver ricevuto delle direttive ben precise dagli investigatori. E poi, come mai solo un quotidiano cita, senza eccessivo rilievo, la presenza del criminologo Fabrizi nella riunione in questura? Queste due strane omissioni sono legate tra loro?» «Si credono furbi!» rimuginai. «Si aspettano forse una mia telefonata per far conoscere a tutti la verità? Oppure sperano che spedisca un pezzettino di carne per dare fiato a una credibile indagine? Con chi credono di avere a che fare, con un coglione?» Risi fragorosamente. Nessuno mi ascoltava, ma il rimbalzare della voce tra le vecchie mura mi rese di sicuro più tranquillo: Ora sanno che esisto e non vogliono mitomani tra le palle... Dovevo rendere più ordinati e razionali i pensieri. Dal pianoforte di mio padre, che da anni utilizzavo come mensola di lusso, presi alcuni fogli, delle matite, un barattolo di colla e un paio di forbici. Certo, lo strumento non aveva fatto una bella fine: costruito alla fine dell'Ottocento, in noce e radica di ulivo, aveva conosciuto tempi più gloriosi tra le lunghe mani nervose del babbo. Accesi lo stereo e misi sul piatto la Sinfonia numero cinque di Mahler. La direzione di Claudio Abbado era eccezionale. La fanfara iniziale della Marcia funebre riuscì di colpo a farmi ritrovare la concentrazione. Senza fretta, quasi cullato, iniziai a ritagliare gli articoli. «Strano», constatai, «con le forbici ho delle incertezze che mi sono sconosciute con gli altri strumenti da taglio.» Dopo aver incollato ogni pezzo su un foglio extra strong aggiunsi, con pennarello blu, la data e il nome del quotidiano. Calcai quello che restava dei giornali in una busta di plastica nera; poi andai nello sgabuzzino e tirai fuori una scala. Nell'ingresso avevo fatto ricavare un armadio a muro con le ante ricoperte con la stessa stoffa damascata delle pareti. La parte superiore, a differenza delle altre, era munita di una serratura, le cui chiavi erano ben custodite in un cassetto nel mio ufficio. Sia mia madre sia la signora

Beatrice erano state costrette a bloccare la loro frenesia di pulizia di fronte a quegli sportelli. Dallo scomparto più alto presi due raccoglitori, uno grigio e l'altro di un vivace azzurro. I due colori indicavano con chiarezza l'evoluzione del gusto dell'addetto alla cancelleria dell'ufficio. Sulla costa del primo era indicalo: «Borgo Angeo. Luglio 1974». Nel secondo una scritta meno sbiadita: «Suresti. Giugno 1981». Il contenitore più vecchio appariva sgonfio, scarno. L'uccisione dei due ragazzi era passata, dopo breve tempo, nell'oblio giornalistico. Quello azzurro, anche se erano trascorsi soltanto tre giorni, era più consistente e mi accingevo ad arricchirlo. Presi una cartellina giallognola e inserii gli articoli ritagliati. Quindi, con solennità, scrissi sul cartoncino la data. In un foglio riportai delle riflessioni: 1. Scoperta che i due delitti sono stati compiuti con la stessa arma: Steri - responsabile della polizia scientifica. 2. Giudice: Brezzi. 3. Medico legale: professor Collini (?) 4. Investigatori: colonnello Lanciotti (carabinieri) commissario Cadone (polizia?) 5. Collabora: dottor Ivo Fabrizi. 7. Sospettali: nessuno. 6. Elementi strani: nessuna notizia sull'asportazione del pube (?) I tre punti interrogativi indicavano gli argomenti da seguire con particolare interesse. Riposi tutto con ordine. Fui attratto, come al solito, dalla cassetta di legno che, in origine, aveva accolto alcune bottiglie di cognac regalate in coincidenza delle festività di fine anno. Con delicatezza la posai sul tavolo. Tra il materiale custodito riemergeva un volume acqui-

stato, cinque anni prima, in una delle frequenti passeggiate al mercato delle pulci della città. In un primo momento il libro mi aveva colpito per la rilegatura, originale e un po' kitsch, di color verde acqua con scritte incise in oro. Il rigattiere, a differenza delle altre volte, non cercò di contrattare il prezzo: accettò l'offerta come se volesse liberarsi di un pezzo che per troppe volte era stato buttato sul banco senza destare l'interesse degli acquirenti. Nei mesi successivi mi ero ritrovato a sfogliare il volume nei momenti più impensabili. A tavola, nelle sofferte sedute al gabinetto, durante i viaggi in treno. Accarezzavo le pagine ingiallite come a voler assorbire, attraverso i polpastrelli, le pulsioni dello scrittore. Poi di tanto in tanto lo deponevo sulle gambe e, rialzata la testa, iniziavo a sognare. Automaticamente, quasi per compensare la tendenza a riporre il libro nella cassetta, accesi l'ennesima sigaretta, che però andò a consumarsi, da sola, nel portacenere. La liscia superficie di cuoio della copertina rifletté, come un fuoco fatuo, la scarsa luce che superava le persiane socchiuse. Il titolo riacquistò all'improvviso vitalità: Il caso del criminale Lacenaire, studio del professor Vincenzo Leonardo Cera, vicedirettore medico del manicomio della provincia di Napoli, anno 1888. Dopo aver sfogliato con delicatezza le prime fragili pagine mi soffermai, come al solito, sull'ovale del pluriomicida Pierre François Lacenaire. Questi appariva con sopracciglia e baffi folti e scuri. I capelli erano radi sulla fronte e ribelli sulle tempie. Il naso, incurvato, pareva spezzare in due le labbra, serrate a formare una fessura. La simmetria veniva ritrovata attraverso la profonda incisione verticale che divideva in due il mento. Gli occhi erano neri, fieri, intelligenti, pronti a raccogliere ogni piccolo evento. Essi davano consistenza a un'immagine attribuibile, dai più, a uno dei tanti eroi raffigurati nei vecchi libri di storia del Risorgimento. Evitai di restare incantato a contemplare il busto di La-

cenaire, e ripresi a scorrere il lavoro del professor Cera sino a quando alcuni elementari disegni si sovrapposero alla fitta scrittura del medico napoletano. Erano gli strumenti di morte più volte utilizzati da Lacenaire nelle sue imprese: una scure, un coltello con manico di legno e un punteruolo fissato, per un'estremità, a un grosso turacciolo di sughero. L'arnese aveva destato, nelle letture precedenti, il mio interesse. Il poeta assassino, infatti, lo utilizzava come strumento d'identificazione dei suoi delitti. Egli, dopo ogni omicidio, poneva il suo marchio di garanzia imprimendo, con il punteruolo, sette colpi disposti a cerchio nell'occhio sinistro delle vittime. La scelta di tale procedura non poteva essere stata dettata dal caso. Qualcosa di magico e simbolico sembrava contrassegnare l'azione di morte di Lacenaire. Finezza di un assassino. Il senso di smarrimento, che mi aveva assalito durante la prima lettura del saggio del professor Cera, ritornò in un baleno a occupare i miei pensieri. Perché Lacenaire aveva bisogno di sottolineare al mondo la lucida qualità dei suoi crimini? Per quale motivo in ogni delitto lasciava, oltre al marchio di garanzia, un nuovo indizio fino a indurre lo sprovveduto commissario Canler a catturarlo e spedirlo inginocchiato sotto la ghigliottina? Perché un artista del crimine, così raffinato da impalare con un'unica asta due travestiti, ha bisogno, per sentire completa la sua opera di morte, di essere giustiziato? A tali interrogativi più volte avevo tentato di fornire delle risposte credibili. Non c'ero mai riuscito in quanto le stesse contenevano elementi riguardanti la mia personalità e non solo quella di Lacenaire. Cercai, per l'ennesima volta, di non avvitarmi nella ricerca di spiegazioni. Il più delle volte mi ero ridotto, esausto, a cercare il sonno con l'aiuto di un paio di pasticche di Felison. Con rapidi passi raggiunsi il mobile bar. Agguantai con

movimenti goffi una bottiglia di sherry. Ne versai tre dita. Sprofondai, a occhi chiusi, nella poltrona che per anni era stata utilizzata solo dalla mamma, e ora, non più abituata al mio peso, cigolava. Al primo sorso il cervello riprese velocemente a elaborare informazioni e a riallacciare le fila di settori della memoria tenuti per lungo tempo compressi. Senza difficoltà regredii alla primavera del millenovecentosettantaquattro. Da poco avevo compiuto trentadue anni, grosso modo la stessa età di Lacenaire, festeggiati con l'ennesimo golf color prugna di mia madre e con i poco sinceri auguri dei colleghi che, qualche giorno prima, avevano dovuto digerire la promozione a responsabile del laboratorio del settore di ricerca. Per l'occasione mi donarono un modellino, in oro, di un microscopio che, impolverato, riposò a lungo sulla scrivania del nuovo ufficio. In quei giorni avevo deciso, senza eccessivo turbamento, di rallentare gli incontri con Francesca. Trovavo faticoso e ripetitivo telefonarle il martedì mattina. Giocherellando con una matita ascoltavo le poco originali rimostranze sulla depressione del marito e sullo scarso attaccamento della figlia al ragazzo di turno. Poi concordavamo l'orario, quasi sempre lo stesso, della mia rapida visita. Francesca era una donna dai più definita matura, tutt'altro che brutta, con un corpo, nonostante un accenno di ciambellina intorno alla vita, ancora ben mantenuto. Di una sensualità genuina, ma straordinaria, era occupata a tempo pieno a verificare, con movimenti tipo radar, l'immutata dipendenza e interesse degli uomini nei suoi confronti. Raggiungevo la sua casa dopo circa mezz'ora, la porta si apriva senza che riuscissi a scorgere la mia matura amante. Poi, all'improvviso, con movimenti a lungo studiati, usciva dal salotto profumato di cera al limone, indossando della biancheria intima ricercata e costosa che, incollata sul suo corpo, proiettava nel tempo uno scenario da bordello degli anni Cinquanta. Dopo avermi baciato con studiata voluttà si avviava, dondolando sui fianchi.

verso il telefono. Chiamava il marito per assicurarsi di un suo non previsto e imbarazzante ritorno. In quegli attimi le rimiravo la schiena e con crescente eccitazione ascoltavo la conversazione che, quasi sempre, verteva sull'appuntamento con il dentista o sul tipo di cottura al quale doveva essere destinato un ormai defunto coniglio. Una volta le domandai incuriosito: «Ma tuo marito mangia sempre coniglio? Non potete mettervi d'accordo la mattina su come prepararlo?» Francesca scoppiò a ridere. Sfrontatamente allungò una mano tra le mie gambe per sincerarsi dell'integrità del suo fascino, e cinguettò: «Ogni martedì cucino il coniglio. A lui non piace; ma trova molto affettuoso il fatto che gli chiedo come cucinarlo». La guardai compiaciuto, pur se mi assalì il dubbio che analogo gesto d'affetto lo esprimesse il venerdì, con il pesce, e con un'altra compagnia. Il resto veniva consumato nella sua camera da letto o, sempre più frequentemente, in quella della figlia. Soluzione quest'ultima che preferivo; nelle nostre menti si scatenavano delle fantasie così amorali e trasgressive da rendere la situazione ancora più eccitante. Alla notizia che mi sarei allontanato dalla città per qualche tempo Francesca, nonostante l'apparente rammarico, volle coinvolgermi in una delle sue cosiddette follie. In quei giorni la figlia compiva il diciottesimo anno, e aveva preteso dai genitori il finanziamento per un grandioso party in una discoteca fuori città. Anche in quel contesto Francesca non perse l'occasione di poter apparire, agli occhi intorpiditi dei coetanei della festeggiata, ancora desiderabile. Dopo aver persuaso, senza fatica, il marito sulla inutilità del suo intervento a una festa per giovani, invitò alcuni suoi vecchi amici in modo da non far nascere, alla non più ingenua figlia, eccessivi sospetti sulla mia presenza. Affascinato dalle capacità di Francesca di costruire un intrigo, accettai l'invito riproponendomi, però, di abbandonare la festa all'insorgere dei primi segnali di noia.

Durante il sabato pomeriggio si levò un vento molto forte a cui seguì un violento acquazzone. Al tramonto le nuvole basse cominciarono a muoversi ancora più in fretta, mentre la pioggia ridusse il suo furore: le gocce d'acqua picchiavano lievemente contro i vetri facendo quasi scomparire il profilo della collina nel grigiore uniforme. Trascorsi circa un quarto d'ora a scegliere un abbigliamento che mi differenziasse sia dalla generazione di Francesca sia da quella degli amici della figlia. Le sentivo entrambe assai lontane. Senza fretta affrontai la provinciale numero 165 in modo da arrivare dopo le ventuno alla discoteca Titanic di Pragnostino. La serata era fredda e una leggera foschia bagnava il parabrezza dell'Alfa Romeo. Raggiunsi il locale dopo aver chiesto indicazioni in più di un bar. Il piazzale era già affollato di auto e moto. Gli strani rumori e le voci che provenivano attutiti dalle pareti della discoteca mi rinfrancarono: non attendevano il mio arrivo per iniziare i festeggiamenti. Gli occhi misero qualche minuto prima di adattarsi al buio rotto dal lampeggiare di luci psichedeliche; ci volle più tempo invece perché i timpani ritrovassero l'equilibrio spezzato dal frastuono di una musica che non riuscivo a identificare. Quando recuperai stabilità nei sensi fui assalito. Era Francesca. Infilata in una tuta rossa, più piccola di almeno due misure, trovata di sicuro nell'armadio della figlia, svolgeva con solerzia e perizia il ruolo d'anfitrione cercando, non troppo velatamente, di far capire a tutti che la vera protagonista della festa era lei. «Sei bellissimo amore. Grazie di essere venuto. Come mi trovi? Vieni che ti presento a tutti gli amici.» Preso per mano fui costretto, accompagnato dal tintinnio dei numerosi e preziosi bracciali indossati dalla mia guida, a percorrere tutta la sala per essere presentato a quanti, secondo Francesca, erano degni di un confronto estetico. «Cara, ti voglio far conoscere questo prezioso amico.» La destinataria di tali parole non coglieva la vera natura

del messaggio: «Vedi, stronza, con chi scopo!» Per fortuna giunsero altri maturi invitati, costringendo Francesca ad abbandonare la mia mano. Senza turbare nessuno raggiunsi un'appartata poltrona da dove, aiutato dall'oscurità, potevo osservare la scena di apparente letizia. Erano anni che non entravo in una discoteca. I personaggi avevano mutato il modo di vestirsi, ma mantenevano gli stessi movimenti e gli stessi sguardi. Su uno schermo veniva proiettato un cartone animato, gli Aristogatti, mentre un sudato disc jockey martoriava alcuni recenti long playing. Notai con piacere che riuscivo ancora a isolarmi dal frastuono, come ero solito fare quando avevo l'età di gran parte dei presenti. L'essere lasciato in pace dalla mia inossidabile amante rese quei momenti addirittura suadenti. Verso mezzanotte, qualcuno lasciò la discoteca. Ne approfittai, presi il soprabito e salutai Francesca. Con sincero dispiacere mi ricambiò con un: «Ciao amore, ci sentiamo martedì». Non l'avrei più vista per parecchi anni. Fuori l'aria fresca favorì la scomparsa del ronzio che mi tappava le orecchie. Misi in moto, accesi una sigaretta e mi avviai verso la città. Dopo circa dieci minuti sentii il motore come se fosse strozzato: tirai la leva dell'aria nella speranza di dare brio alle candele forse troppo umide. Inutilmente. Dopo una decina di metri, il silenzio. Per alcuni secondi, evitando d'imprecare per scaramanzia, lasciai il volante, chiusi gli occhi e con delicatezza girai la chiave. Un mugolio riempì l'abitacolo e poi di nuovo il nulla. Tentai ancora, ma con lo stesso risultato. Cercai d'intuire l'origine del guasto. L'ipotesi meno catastrofica sembrava essere quella della batteria scarica. A quel punto imprecai a voce alta: «Ma perché Henry Ford ogni volta che vede un'Alfa si toglie il cappello? Ce ne sono d'imbecilli in giro che continuano a sostenere che queste vetture non ti lasciano mai a terra». Aprii la portiera senza badare se arrivava qualcuno.

Cautela inutile poiché a quell'ora sulla provinciale 165 non passa mai nessuno. Osservai la strada, tendeva verso una breve e lieve discesa. Senza riflettere a lungo buttai il soprabito sul sedile posteriore, feci scendere il deflettore di sinistra e, tenendo il volante, spinsi l'Alfa. Appena l'auto acquistò velocità saltai dentro, attesi qualche secondo e, con la marcia ingranata, tentai di ripartire. Due scossoni, il motore tossì. Poi, sollecitato dalla forza d'inerzia per un attimo respirò. Un sobbalzo, uno sberleffo, inutili colpi sull'acceleratore e poi il silenzio. Il declivio era terminato e lasciai che la macchina si accostasse tra due alberi. Avevo la schiena bagnata e gelata. Sentivo soltanto solitudine, rabbia e un peso greve sulla bocca dello stomaco. La sorte, ancora una volta, si prendeva gioco di me: ero a circa sei chilometri dalla discoteca e per la città forse ne mancavano altrettanti. Uscii sperando che qualcuno, venendo dalla festa, si fermasse vedendo un'auto in panne. Dopo alcuni minuti dovetti accettare l'idea che per lungo tempo nessun faro avrebbe illuminato l'orizzonte. Nel frattempo gli occhi iniziarono a mutare il buio in ombre le quali, con minor fatica, si trasformarono in profili e in oggetti. Le nuvole, muovendosi sotto una leggera brezza che agitava le cime degli alberi, lasciavano apparire delle stelle. La luminosità di queste era simile a quella emanata da una cascina che, a distanza di circa quattrocento metri, mi apparve come l'unica presenza di vita. Il paesaggio appariva, nel suo complesso, netto e scuro come in una acquaforte. Chiusi l'auto e a passo rapido, senza badare dove mettevo i piedi, mi diressi verso la mia unica soluzione. Una nube di vapore uscendo dalla bocca scandiva il ritmo dei passi. Cercai d'immaginare se c'era un motivo valido, per quelli che mi accingevo a disturbare, per rifiutarmi un aiuto, ma non ne trovai: in fondo volevo solo chiamare un taxi. La meta era sempre più vicina. Per fortuna alcune delle finestre erano illuminate: qualcuno era ancora sveglio.

La strada, che dalla provinciale portava alla cascina, era segnata ai lati da fitti rovi che coprivano, con le loro ombre, i miei passi. Procedendo con cautela superai una larga curva prima d'immettermi in un breve rettilineo. A circa venti metri era parcheggiata, sul lato destro, un'auto. In quel punto la casa era coperta alla vista e nessun tipo di riflesso aiutava le mie pupille. Il silenzio era vasto come il buio. Mi arrestai un attimo, il tempo di vedere apparire e scomparire una pallida luce rossa all'interno del veicolo. Qualcuno stava fumando una sigaretta. Forse, arguii, è una coppia che, con la complicità delle tenebre, si accinge a concludere piacevolmente la serata, oppure è impegnata a valutare il livello di una performance erotica appena conclusasi. Occupato in quell'esercizio deduttivo non mi avvidi che i piedi e le scarpe di capretto erano affondati in una pozza d'acqua di cui non riuscivo a cogliere né la profondità né l'estensione. Bofonchiando qualche parolaccia tornai indietro cercando di non perdere l'equilibrio sul terreno scivoloso. Frugai nella lasca. «Maledizione!» Le sigarette e l'accendino erano rimasti nell'Alfa Romeo. Dovevo sbrigarmi. La miglior cosa da fare era costeggiare la strada tra i rovi per ritrovarmi all'altezza dell'auto parcheggiata. Il percorso era meno agevole di quanto pensassi. La giacca rimase un paio di volte impigliata tra i rami, le spine, bucando i pantaloni, lasciarono il loro ricordo sull'epidermide. Superata la pozza, sbattei le scarpe su un tronco e mi avviai gettando un rapido sguardo all'auto. Era una RAT 127 scura, con una vecchia ammaccatura sul parafango e un'enorme decalcomania sul parabrezza posteriore su cui era scritto: GIALLO-NKRO PER SEMPRE. Riapparve la cascina. Era ancora distante: forse un folletto, pensai sorridendo, si è divertito ad allontanare la mia meta, per fortuna le luci erano ancora accese. Mi avviai sperando di non apparire troppo malmesso. Mentalmente tirai un sospiro di sollievo.

Ignoravo quanto poco sarebbe durato quel sollievo. Sentii un fruscio alla mie spalle, uno scalpitio incomprensibile. Girai d'istinto la testa, ma qualcosa di molto pesante mi colpì tra l'orecchio e la tempia. Caddi a terra senza che le mani tentassero di arginare la caduta. Riuscii ad avvertire solo qualcosa di caldo e vischioso sul viso, mentre la bocca si riempì d'erba e fango. Un'altra botta raggiunse il collo. Nell'estremo tentativo di organizzare una difesa, mi girai. Nel buio distesi le braccia in avanti: un modo ridicolo per anticipare nuovi e inevitabili colpi. Mentre mi sforzavo di non perdere i sensi percepii i passi di alcune persone che si agitavano intorno al mio corpo. Ancora un urto sul fianco destro. Il grido che la gola si sforzava di emettere si bloccò. «Stronzo! Hai finito di andare a rompere i coglioni alle coppiette.» Un suono roco, duro, che non riuscirò mai a dimenticare. Il proprietario di quella voce posò il suo pesante piede tra il mento e il collo. Continuò a picchiare a due mani impedendomi di vomitare il sangue che mi ostruiva la gola. Una voce di donna, stridula ed eccitata, da lontano incitava: «Ammazzalo, ammazzalo questo frodo!» Ma il suo compagno non aveva bisogno di essere stimolato. Ebbi la sensazione di sognare. Cercai goffamente di aprire gli occhi, di voltarmi per vedere l'ora indicata dalla sveglia con i numeri fosforescenti che, da anni, è sul mio comodino. Ma la testa, come il resto del corpo, non sembrò rispondere più ai confusi ordini del cervello. A malapena riuscii a percepire il mio carnefice che, appagato, si era alzato ritenendo conclusa la sua opera. Cercai di afferrare qualcosa di più solido dei fili d'erba bagnata, tuttavia anche quel penoso tentativo fu interrotto sul nascere. La donna, che sinora saltellante aveva assistito alla straordinaria prova di forza del suo amante, si avvicinò con rapidi passi e mi sferrò un preciso ed efficace calcio nel basso ventre. «Tie\ prendi! Tanto per quello che ti serve. Ora lo puoi anche dare da mangiare ai cani.» Dalla grassa risata capii che l'uomo era molto divertito

e compiaciuto della performance calcistica della fanciulla. Il dolore scomparve per un attimo. Il mio involucro sembrava tagliato in due, privo di sensibilità, mentre la testa era come se fosse rotolata nel fango ai piedi dei due in attesa di essere schiacciata. Loro per fortuna erano soddisfatti. Risalirono sull'auto e rumorosamente abbandonarono la scena. Poi di nuovo, ancora più angosciante, il silenzio e l'oscurità. Cominciai a sudare freddo, al punto di avere la sensazione di essere avvolto da un lenzuolo non strizzato. Lo stomaco mi si rovesciò di colpo, e sentii il vomito caldo salire, risucchiandomi l'anima. Non ho mai saputo quanto tempo sono rimasto tra fango e sangue. Ricordo, con un profondo e spiacevole senso di irrealtà, che raggiunsi strisciando il cortile della cascina, e tentai di sollevarmi aiutandomi con le ruote di un trattore. 1 proprietari della casa avevano, nel frattempo, acceso tutte le luci esteme. Poi la mente si annebbiò. Riacquistai per qualche minuto la coscienza quando, con poca delicatezza, i portantini mi depositarono su una lettiga e ripartirono senza fretta. Non sentii la sirena dell'ambulanza. Cercai d'intuirne il motivo. Forse non sono conciaio molto male. Quindi possono trasportarmi con tutta tranquillità... Un momento! Forse sono già morto, e di conseguenza non vale la pena affrettarsi per giungere all'ospedale. Rinunciai a cercare di capire quale delle due ipotesi fosse quella giusta. Mi addormentai favorito dal movimento dell'ambulanza. Delle fitte improvvise mi svegliarono. Alcune mani manipolavano i miei arti. Non riuscivo ad aprire le palpebre; una luce calda e intensa era puntata sul mio viso e me le schiacciava sul bulbo oculare. La bocca, seppur ripulita dai grumi di sangue, non si apriva, gonfia e amara in ogni lato. Tentai di girare la testa ma non ci riuscii. Sentivo qualcosa d'indefinito che mi tratteneva e mi spingeva a rinunciare. Dopo qualche tempo, con fatica, spostai una mano. Avvertii addosso il contatto con un lenzuolo molto

più ruvido di quello con cui la notte mi avvolgevo. Nonostante il forte dolore proveniente dall'orecchio destro, ritenni che l'unica cosa da fare era cercare di ascoltare. Udii una voce che, per il tono, sembrò appartenere a chi gestiva la situazione. Di riflesso concentrai l'attenzione sulle sue parole. «Vi è forse una frattura allo zigomo destro, un incisivo superiore è rotto... Armellini», urlò, «prendi del catgut e del filo di seta, e provvedi a ricucire questo taglio dietro l'orecchio. Non credo che la parete temporale sia sfondata, comunque controlleremo con le lastre. Certo lo hanno/ conciato proprio male.» «Dottore, ecco la sacca con il sangue, la dobbiamo attaccare?» «No, aspetti: finisco prima il controllo. La pressione pare ancora buona... Che cavolo è successo a questi testicoli?» esclamò preoccupato. «C'è già qualche linfonodo. Izzo, chiama l'anestesista, poi fai un prelievo e mandalo subito al laboratorio. Qui bisogna operare.» Era la prima volta che venivo sottoposto ad anestesia totale. La cosa non mi tormentò, anzi la giudicai come una liberazione. «Dottor Bindi. Ha anche un taglio netto nella parte interna del labbro inferiore: suturo subito o aspettiamo di essere in sala operatoria?» «Cucilo subito, tanto dobbiamo aspettare un quarto d'ora prima di portarlo dentro.» «Eccomi! È lui quello che dobbiamo mandare a nanna?» «Si, dagli un'occhiata, il laboratorio è già stato attivato...Si può attaccare la preanestesia?» chiese Bindi. «Fai pure. Intanto vado a preparare gli apparecchi in sala. Ma che cosa gli è successo?» «Il carabiniere ha detto che lo hanno massacrato di botte, però non si sa né il motivo né chi sia stato.» Riuscii a malapena a cogliere le sue ultime parole, l'anestesia aveva cominciato il suo effetto. *

*

*

Il risveglio non fu certo dei migliori. La testa sembrava piena di zanzare che, senza un ordine preciso, andavano a colpirmi varie zone del cranio. Ebbi la sensazione di avere delle labbra grosse come banane. Dei batuffoli di ovatta, impregnati di una sostanza acidula, impedivano alla lingua di toccare il palato. La mano destra era gonfia e sensibile solo a un ago che collegava la mia vena a una boccia; da essa, lentamente, scendeva, lungo un tubicino di gomma, un farmaco incolore. Le gambe parevano attraversate da decine di formiche che concludevano la loro passeggiala sui piedi gelati. Il resto del corpo non mi creava dolori eccessivi in quanto appariva del tutto estraneo alla mia mente. Aprii gli occhi; ma percepii solo una luce bianca, fredda, esagerata. Riuscii ad avvisare qualcuno del mio bisogno di avere un altro cuscino sotto la testa: questo «qualcuno» era mia madre che, con gli occhi gonfi e senza dire una parola, mi assisteva. Mentre mi sollevava sentii le ginocchia tremare e le palme delle mani sudate. Una nube rossa calò, per un istante, davanti agli occhi. Dopo qualche minuto apparve un uomo alto circa un metro e novanta, con una rada barba bianca e un Avana spento in bocca. Il viso esprimeva l'esigenza di ritrovare la serenità di fronte a una tavola ben fornita. Le sue mani morbide, ma energiche, uscivano da un camice portato con noncuranza. Era disponibile a parlare con i pazienti, senza però perdere eccessivo tempo. «Sono il dottor Bindi, l'ho operata io questa notte. L'intervento è ben riuscito. Ho dovuto asportarle un testicolo: era diventato come una marmellata e stava infettandosi. Tuttavia non si preoccupi: potrà continuare a ingravidare chi desidera, tra un mese la cicatrice non si vedrà più e al mare potrà ancora indossare il costume. La frattura allo zigomo si ricomporrà senza bisogno d'ingessare e il cranio, per fortuna, è integro. Per l'incisivo spezzato non ci sono problemi: basterà una capsula senza bisogno di un ponte. Per il resto, un po' di dolore e qualche livido.»

Non riuscii a riflettere su quanto riferiva il medico. Il sospiro di sollievo di mia madre aveva distolto la mia attenzione: l'idea che potessi sposarmi e gratificarla con la nascita di un paio di nipoti era per lei difficile da rimuovere. «Ora la lascio», riprese Bindi. «Con molta probabilità ci vedremo domani. C'è qui un brigadiere che le vuole rivolgere qualche domanda. Se ha difficoltà non si sforzi, l'anestesia può fare questo effetto... Tanto non c'è fretta.» Dopo aver dato la mano alla mamma l'asportatore^di coglioni se ne andò in silenzio, lasciando la scena a un giovane carabiniere che, lisciandosi i baffi ben curati, prese una sedia e si accomodò alla sinistra del letto. «Senta, la sua auto non è stata rubata. Ci siamo permessi di prendere le chiavi dalla caposala e più tardi la porteremo nel parcheggio della caserma. Riteniamo che dal suo portafoglio non sia stato preso nulla. L'orologio è in un cassetto nella medicheria.» La sua voce era formale, artefatta, priva di spontaneità. Forse stava cercando, con un fare professionale, di rompere il ghiaccio senza far perdere al colloquio il crisma dell'ufficialità. Dopo aver riflettuto su degli appunti contenuti in una cartellina gialla, riprese zelante il suo lavoro alzando gli occhi ogni qualvolta si attendeva una mia risposta. «Chi c'era con lei l'altra notte? Sa indicarmi quanti erano e chi l'ha colpita? Li conosceva? Hanno bloccalo la sua auto? Come mai l'hanno aggredita nel viottolo e non sulla provinciale? La macchina però era a più di quattrocento metri da dove lei è stato ritrovato, perché?» Nessuna delle sue domande ebbe una risposta. Era chiaro: non credeva all'ipotesi di una rapina. Il mio sesto senso si attivò. Fiutai che scopo dell'interrogatorio non era quello di reperire elementi utili all'inchiesta, ma quello di cogliere alcuni aspetti della mia personalità. Decisi repentinamente di sfruttare la difficoltà a muovere le labbra per rimandare il colloquio con il solerte in-

vestigatore. Avevo bisogno di riflettere sulla versione da fornire. Il carabiniere guardò mia madre che, intimidita, assisteva alla scena. Ripose la cartellina e si alzò. «Ci vediamo tra un paio di giorni. Se non è in grado di parlare me lo faccia sapere tramite la caposala. Arrivederla, signora... e scusi per il disturbo.» Provavo un gran dolore al capo e sentivo le palpebre di piombo. Chiusi gli occhi per ritrovare quel minimo di concentrazione indispensabile per elaborare i ricordi. Questi, senza eccessivo rispetto delle mie condizioni, si rincorrevano disordinatamente. Cercai di focalizzare l'attenzione su quanto successo la sera precedente. Ma tutto mi apparve lontano e confuso. «No, non è possibile», pensai. «Quei maledetti mi hanno massacrato al punto tale che non so quando potrò scrutare la mia faccia e il mio ventre senza il terrore di ritrovare pustole, cicatrici, amputazioni. Che cosa ho fatto di male? Maledetti. Chi li ha mandati? Se quella stronza di Francesca non mi avesse invitato alla festa ora non sarei certo qui a contare le ferite e a sentire i sospiri della mamma.» L'effetto dell'anestesia rendeva i pensieri rapidi, brevi, superficiali. Avevo difficoltà a organizzarli e correlarli logicamente. Le emozioni prendevano senza fatica il sopravvento. La voglia di gridare, la paura del futuro, di morire e di essere menomato per sempre lottavano ad armi pari con la rabbia, l'aggressività e il desiderio di vendetta. Il volto di mio padre sembrò sovrastare le altre immagini e la sua voce beffarda ripeteva: «Te l'ho sempre detto. C'è chi nasce con le palle e chi senza... Tu le hai dimenticate nel fasciatoio». Tutto divenne un sogno. Forse un incubo... Dormii non so quanto. «Devo misurare la temperatura.» Un infermiere bolso mi guardò con il termometro stretto con delicatezza, quasi con schifo, tra il pollice e l'indice. Si stava domandan-

do dove potermelo mettere. Aprii di scatto la bocca, come facevo da bambino quando mia madre controllava se avevo un po' di alterazione. Io, in quegli attimi, speravo nel trentasette e due per rimanere coccolato nel letto. Mi voltai. Lei era sempre lì, con la stessa espressione del giorno precedente. «Come ti senti oggi? Va meglio? Che cosa hai fatto alla bocca, non riesci a distenderla? Hai un ghigno che fa paura.» «Non è niente, credo siano i punti», risposi digrignane do i denti. La bocca, in verità, finito l'effetto dell'anestesia, la potevo muovere a mio piacimento. Il ghigno veniva dalla mente. Una giovane infermiera biònda, con cuffietta immacolata, si aggirava con un carrello tra i letti. Con gli occhi abbassati si avvicinò. «Prenda, è per lei. Se ha delle difficoltà ci chiami.» Un pappagallo ingiallito che aveva raccolto il piscio di centinaia di degenti andò a troneggiare sul mio comodino. «Ora devo rifare la medicazione. Signora, può lasciarci un minuto da soli?» Lei, un po' defraudata, si allontanò. Iniziai a sudare, ma non avevo febbre. «Che cosa vuole questa stronza?» mi domandai, «perché non lascia fare al suo collega?» Serrai gli occhi e cercai di non pensare. Sentivo le sue mani fredde spostare con delicatezza le lenzuola. Non avevo nulla addosso, né lo slip né il pigiama. L'acre odore dello iodio mi segnalò che si accingeva a togliere la garza. Percepii qualcosa di appiccicoso, come una caramella schiacciata, che si staccava. Un non so che di freddo e morbido mi scivolò sopra. Non potei fare a meno di aprire gli occhi: l'infermiera aveva lo sguardo fisso su quello che il mio professore del liceo amava definire il «dono di Priapo». Sebbene cercasse di assumere un atteggiamento distaccato e professionale, le sue reazioni emotive apparvero chiare: la sua mente era come se fosse diventata tra-

sparente. In quel momento era solo una donna che rimestava il disgusto con i suoi tabù: Il cazzo di per sé non è tanto bello, ma questo fa proprio schifo... Pare un pupazzo senza un piede. Figlio mio, non so se prima scopavi molto, adesso però... La medicazione sembrava non aver mai termine. Avevo voglia di scacciarla, di maledirla. Ma il potere, in quel momento, era nelle sue mani. «Ho finito. Ora stia tranquillo, tra un attimo verrà il dottore a visitarla.» Tranquillo! Ma quali motivi avevo per essere tranquillo? Come potevo essere sereno pensando che quei due stronzi erano forse in un bar a raccontare le loro gesta agli amici? La mia voce interna si ribellò: «Chi mi può ridare serenità? Forse alcuni falsi amici cercheranno di tirarmi su sostenendo che un uomo, anche con una palla sola, è sempre un uomo. Altri mi suggeriranno di rimediare con una protesi... Come per le donne a cui hanno tolto il seno. Scemi! Anche per loro, poverette, il problema non è legato al fatto che altri si possano accorgere che è tutto finto. Qualcosa di estraneo, ingiusto, diverso rimane per sempre nell'anima.» Nei tre giorni successivi affrontai, con sufficiente autocontrollo, i colloqui con il dottor Bindi e l'interrogatorio del brigadiere, il quale accettò di buon grado la mia versione dei fatti. Era plausibile che, rimasto a piedi con la macchina in panne, avessi chiesto aiuto a una macchina con tre ragazzi a bordo. Poco dopo, invece di dirigersi verso la città, essi avevano svoltato in una strada di campagna e tentato di rapinarmi. Mi ero ribellato, provocando la loro feroce reazione. Forse erano tossicomani, sostenni, in cerca di denaro per la dose della domenica. Il mattino del venerdì lasciai l'ospedale. Ero stanco. Tutto appariva irreale. La mamma, trascinando un borsone, mi fece strada verso un taxi. I medici, gli infermieri e gli altri degenti mi scrutavano di sbieco cercando d'intuire se, dal mio volto, trasparisse il sollievo per essere stato dimesso. Nei loro sguardi riuscivo, però, a percepire

solo pietà e ironia. Null'altro. Dentro di me vi era solo un forte senso di vuoto e una lieve Fiammella che rendeva ancora vitale il mio spirito. Sapevo cosa alimentava ciò che era poco più di una brace: il desiderio di vendetta. Mia madre impiegò più di due settimane per digerire l'idea che la smania di restare solo non era legata a uno stato depressivo. Che cosa pretendeva? In fonda vivevo per conto mio in città da ormai più di tre anni. Dalla morte del marito non aveva voluto più lasciare la casa di Vurgoli. «Sono qui tutti i miei ricordi», piagnucolava, «la tua stanza è rimasta intatta come quando andavi al liceo; lo studio del babbo è lì, fisso e quieto come il giorno in cui è andato via. Il pianoforte, il violoncello, il leggio per gli studenti, la sua collezione di fucili da caccia e di vecchi spartiti. Tutto è rimasto inerte, con il giardino inghiottito dalla vegetazione. Così anche io m'illudo che il tempo sia rimasto fermo a quei giorni, quando ero felice con voi. Il giorno che, lassù, decideranno lo andrò a raggiungere.» La mamma se parlava della morte del babbo diceva sempre «se ne è andato». Forse aveva ragione. Con la morte sei cacciato dalla vita, sei estirpato dalla terra. Con il suicidio no! Semplicemente te ne vai. «Perché vuoi che torni a Vurgoli?» mi chiese quasi pregando. «Continui a dire che stai bene e vuoi riprendere a lavorare; tuttavia Fino all'inizio dell'estate potrei restare con te.» «No, mamma, non c'è bisogno, vai a casa che è meglio. La prossima settimana debbo tornare in ufficio e, tu lo sai, ho le mie abitudini, i miei ritmi... Sto bene così.» «Se proprio insisti. Promettimi tuttavia di chiamare tuo cugino. E un chirurgo molto stimato e sarà contento di fare qualcosa per te.» «Sì, lo chiamerò, non ti preoccupare. Poi, il sabato e la domenica verrò a trovarti. Va bene?» Non chiamai Alfredo. Era simpatico, all'apparenza sem-

pre disponibile; in realtà non perdeva occasione di comunicare a chiunque che lui era uno arrivato. Aveva la diabolica capacità di riuscire a portare qualsiasi discussione sugli argomenti che preferiva. La sua vita, le sue scelte, la sua carriera, la sua famiglia, la sua auto. 11 resto era proscenio o, al massimo, voce di sottofondo. Mi recai il lunedì successivo in ufficio. Tutti sapevano dell'incidente, ma ignoravano le conseguenze. Chi mi sostituiva fu ben felice di sapere che avrei prolungato la convalescenza per altre due settimane. Per molti l'idea che passassi il tempo seduto in una poltrona a sorbire le aranciate preparate da mia madre era il segnale di un precoce tramonto professionale. Visti i cospicui incentivi della società, alcuni funzionari si erano presentati in ufficio con braccia o gambe fratturate pur di non perdere una commissione favorevole. Se il ricovero in ospedale fosse stato provocalo da uno sfortunato epilogo di una settimana bianca forse mi sarei comportato anch'io nello stesso modo. Purtroppo, il mio mondo era cambiato. Avevo difficoltà a dormire. Nonostante i sonniferi, non riuscivo a rubare alla notte più di un'ora di sonno. Una voce roca mi minacciava, decine di mani rovistavano i miei coglioni, donne sguaiate ridevano come diavoli ubriachi. Ero sempre più spesso costretto a uscire dall'incoscienza e a cercare, sudato, l'inutile sigaretta. Riflettendoci bene non mi sarei dovuto affliggere eccessivamente. Il sesso negli anni passati aveva occupato di rado i miei pensieri. Il possedere una donna, sentire il pene indurirsi e gonfiarsi per poi scoppiare come un palloncino di gomma, mi provocava certo piacere; ma il più delle volte rimanevo perplesso, con l'amaro in bocca, e non potevo fare a meno di pensare: «Tutto qua?» Con le fantasie era di sicuro un'altra musica. All'inizio trovavo idiota cercare una ragazza, conquistarla con i mezzi tradizionali, indurla ad accettare un rapporto e poi finire a pensare ad altre situazioni mentre lei si concedeva. «Che stronzo!» mi ripetevo. «Mi pare di usare la donna come surrogato alla masturbazione.» Dopo qualche

tempo però incominciai a non trovare più stupido tale atteggiamento. In fondo, gran parte delle donne agisce allo stesso modo. Per giorni i pensieri sul sesso non mi abbandonarono. Sembrava che l'unico coglione rimasto fosse in grado di produrre tassi di testosterone mai riscontrati nel passato. Più di una volta fui tentato di richiamare Francesca, o di andare la sera sotto i portici a trovare una puttana. Ma qualcosa mi bloccava. Oltre a non aver voglia di spiegare che cosa mi fosse successo, avevo il terrore che potessero fare finta di niente. Non lo avrei sopportato. E impossibile tornare indietro. «No!» gridai a me stesso, «di scopare per ora non se ne parla. Hai da fare cose più urgenti.» Dietro il pianoforte vi era nascosta una sacca di juta marrone scuro. La mamma me l'aveva consegnata dopo i funerali di papà. «Tieni. Io non so che cosa farne. Sai quanto il babbo ci tenesse. Era convinto che un giorno gli sarebbero servite. Vai e buttale nel fiume, per quello che mi risulta non sono state registrate... Non voglio guai con i carabinieri.» Io non guardai nella sacca. Sapevo benissimo che cosa custodisse. Quando avevo veni'anni la passione di mio padre per la caccia si era evoluta verso quella del tiro di precisione. Un giorno tornando da Ginevra, dove era andato con l'orchestra per una breve tournée, riportò due pistole Beretta calibro 22. «Le ho pagate una fesseria. In Svizzera le armi si comprano come le scarpe. Sono due gioielli.» «Come hai fatto a superare la frontiera?» gli chiesi divertito. «Erano nel contenitore del violoncello.» Nonostante l'età si divertiva ancora a trasgredire come un bambino. «Ma per i proiettili come farai?» «Ho parecchi amici che si divertono al poligono, ai quali ho chiesto di comprarmi una ventina di scatole. Vedrai come sono affascinanti; domenica andremo insieme giù al fosso a sparare.»

«No, grazie», risposi, «preferisco ancora tirare alle beccacce piuttosto che ai barattoli.» Proprio per il ricordo di questo aspetto ludico e trasgressivo non buttai la sacca nel fiume e la celai dietro lo strumento che, per anni, aveva rappresentato le illusioni di mio padre. Nel guardare le armi, dopo averle tolte da un panno di lana, mi apparvero come dei giocattoli. Non le avevo mai viste in azione. Sapevo che il babbo le aveva qualche volta usate dietro la macchia di Pagliara. Andava in cantina e, dopo qualche minuto, tornava con una scatoletta gialla. Prendeva una delle due pistole, il fucile e ci salutava con l'aria di chi va a rubare le mele in un frutteto. Mentre le rigiravo tra le mani stentai a credere che potessero far partire dei proiettili. Il buco della canna era poco più grande di una cannuccia, il caricatore sembrava troppo leggero, innocuo. Fui assalito da un'agitazione incontrollabile. Spazzai via, rabbiosamente, tutto quello che si trovava sul tavolo. Poggiai al centro le due armi e cominciai a camminare su e giù, da una parte all'altra della stanza. All'altezza dell'orecchio destro sentii una fitta. Inspiegabilmente, rimbalzò in mezzo alle gambe. Una voce stridula mi ripeteva: «Tie', prendi! Tanto per quello che ti serve. Ora lo puoi anche dare da mangiare ai cani». Il viso di mio padre apparve sulla finestra resa opaca dal tramonto. Dalla sua bocca, atteggiata al solito sorriso ironico, usciva la lezione propinatami non so quante volte: «Vedi, la vita può essere un gioco. Se la sai affrontare puoi diventare qualcuno e allo stesso tempo divertirti. Io ci sono riuscito. Tu non ci provare. Non sei predisposto né a emergere rispetto al gregge né a goderti la vita». Il lampo di soddisfazione dei suoi occhi illuminò a lungo il vetro. «Resta nell'ombra, cercati un angoletto, non tentare di uscirne fuori... Ti sbraneranno!» Avvertii un flutto d'ira a quella secca frase, anche perché era stata pronunciata con tono chiaramente offensivo. «Stronzo!» gridai. «Che cosa dici? Ma se raramente ho visto un fallito come te.» Non riuscivo a fermare il mio

risentimento. «Sei partito per diventare un grande compositore e al massimo sei arrivato a essere un violoncellista di terza fila. Per campare hai strimpellato per anni con i rampolli dei nuovi ricchi del paese più interessati a mettersi le dita nel naso che a sentire le tue lezioni di solfeggio... Pensi che quanto è stato fatto da quei dannati sia il primo morso del mondo. Ti sbagli. Vedrai.» La stanza assunse sfumature rosse e ondeggiò come in preda a un sisma. Sentii una tremenda frattura nel cervello; il tipo di frattura che, forse, si può avvertire quando si passa da una dimensione a un'altra. Dovevo imparare a sparare. Il poligono Valle verde si trovava nella periferia sud della città. Negli anni Sessanta l'impianto fu costruito per ospitare il primo bowling della zona ma, visto lo scarso interesse degli adolescenti locali per questo sport d'oltreoceano, si era ritenuto più opportuno trasformarlo in un centro dove i numerosi patiti d'armi da fuoco potessero affinare le proprie capacità. All'ingresso del poligono stazionava un individuo addetto a fornire delle informazioni sul circolo. L'uomo assomigliava a una scimmia: la mascella massiccia, la fronte bassa, lo sguardo mobile ma, allo stesso tempo, ottuso. «Avrei bisogno di qualche ragguaglio.» «Sono qui per questo.» Mentre parlava l'affinità con uno scimpanzé si faceva più evidente. «Ho intenzione di comprare una pistola, ma non sono sicuro di essere capace di usarla. Vorrei un paio di lezioni prima di decidermi.» «Uhm.» Lo scimmione sembrava aver capito. «Per fare delle prove deve diventare socio del circolo. Se vuole può iscriversi anche adesso e provare con Paronti...» Scrutò per un po' un tabellone e aggiunse: «Sì, in questo momento Paronti è libero. Però la prossima volta deve portare i certificati indicati nel modulo». «Certo, quanto devo?»

«Riempia questo stampato, ventimila per l'iscrizione più diecimila per ogni lezione e per l'uso di una nostra arma.» Mentre si avviava con le braccia penzoloni a cercare l'istruttore completai la scheda. Dopo cinque minuti il primate si presentò insieme a un uomo che, grosso modo, aveva la mia età. Basso di statura per quanto decisamente atletico. Le sue braccia, che uscivano da una maglietta bianca con al centro stampato il nome del circolo, erano non comuni. Gli avambracci, infatti, erano più grossi dei bicipiti; a prima vista ricordavano quelli di Braccio di Ferro. Gli occhi, chiari, risaltavano sul viso abbronzato. «Tu sei quello della lezione?» «Sì», mi affrettai a dare la risposta. Dal tono era chiaro che Paranti era un tipo poco disposto ad accettare repliche. «Hai mai sparato?» «Durante il servizio militare quattro o cinque volte... Vado comunque spesso a caccia.» «Intendevo con una pistola», sottolineò caustico. Quindi, senza attendere una mia replica, si avviò non curandosi di vedere se lo seguivo. Si fermò di fronte a degli armadi corazzati e fissandomi negli occhi mi chiese: «Vuoi imparare a sparare o hai intenzione di entrare nella squadra nazionale per le olimpiadi di Montreal?» «Nooo, figurati! Voglio solo verificare se sono in grado di usare una pistola.» Ebbi chiara la sensazione che stesse fiutando il vero motivo per cui ero lì. I suoi atteggiamenti successivi mi fecero più volte venire il dubbio che riuscisse a leggere nella mente altrui. «Bene, da adesso in poi chiamami pure Andrea. Durante gli esercizi è un nome che si sente anche in mezzo agli spari.» «Vada per Andrea.» «Ricordati quello che dico. Per riuscire a usare bene una pistola devi avere i muscoli ben allenati e pronti. Non le spalle o i bicipiti: gli avambracci. Ti sembrerà strano,

ma è così. Non devi mica usare un bazooka.» In quell'istante capii perché li aveva come Braccio di Ferro. «Per controllare l'arma, e non dipendere da lei, devi sempre allenarti, fino a sentire dolore, con questo attrezzo.» Erano due manici di legno uniti da tre grosse molle. Provai a stringerli, ma non si mossero più di un centimetro. «Tu, ogni giorno, a casa, in ufficio, in automobile, devi esercitarti per almeno un'ora. Se inoltre vuoi evitare di restare con le gambe molli, divertiti un po' con la corda come quando eri un ragazzino. Capito?» «Credo di sì. Ma che cosa c'entra con il saper usare una pistola?» domandai cercando di non ferire la sua pulsione didattica. Non ci riuscii. Mi squadrò come se avessi detto una bestemmia. «Bello, rammenta bene: se qualcuno vuole colpirti, puoi rendergli la vita difficile solo muovendoti e cercando di schivare i colpi. Però, allo stesso tempo, non dimenticare di far cantare la tua compagna, altrimenti sei fritto.» Andrea, prima di essere assunto al poligono, era stato sottufficiale istruttore al tiro nel corpo dei paracadutisti. Aveva con le armi un rapporto libidico e riusciva a coinvolgere, in questa perversa relazione, gran parte degli allievi. Dopo aver dato un'occhiata al mio corpo, come un negoziante che vuole carpirti la taglia di un vestito, si girò di scatto verso l'armadio di ferro e prese due pistole Beretta calibro 22. II cuore in un attimo salì in gola e il viso andò in fiamme. Perché tra tante armi aveva scelto proprio quelle? Andrea notò la mia reazione e la interpretò come stupore. «Che hai, ti sembra piccola? Guarda che non devi mica sparare a un cinghiale; in quei casi puoi usare i tuoi fucili. Se il bersaglio è un uomo, una pistola, anche se insignificante, è sufficiente.» Accorgendosi che non mutavo il mio atteggiamento, sbuffò, prese dei caricatori, una scatola di cartucce e con un gesto deciso m'invitò a seguirlo. A quell'ora il poligo-

no era quasi deserto. Alcuni ragazzi discutevano seduti su una panca. Forse commentavano i risultati di una gara svoltasi il giorno precedente. Andrea entrò in quello che giudicava il suo tempio e, senza rivolgermi lo sguardo, indicò una sagoma di cartone. Afferrai, come avevo sempre visto fare nei film, le cuffie, ma lui non mi consentì d'indossarle. «Uhè, Buffalo Bill! Cosa credi che sia? Una bomba? La Beretta ha un rinculo lievissimo. Abituati al suono dello strumento, altrimenti la prima volta che la usi per la paura la butti a terra... Ora, forza: spara!» Lo guardai un po' perplesso, poi agguantai l'automatica. A causa del sudore la sentivo fredda e scivolosa. Chiusi l'occhio sinistro, allungai il braccio verso la sagoma, trattenni il respiro e iniziai a sparare. Rimasi stupito nel riscontrare che l'arma produceva un colpo leggerissimo, come un rapido battere di mani. Il braccio subiva un impercettibile sussulto verso l'alto e il fumo prodotto era scarso. In quel momento mi tornò alla mente quando da bambini, il giorno della Befana, ci riversavamo sulla piazza del paese e con le pistole trovate vicino al camino ingaggiavamo improbabili duelli. Il suono e l'effetto erano gli stessi. La sagoma di cartone si avvicinò accompagnata da un ronzio. Una decina di microscopici fori spiccavano sulla figura umana stilizzata. Andrea la degnò di una rapida occhiata. «Non è male per essere la prima volta. Ricordati però che un uomo colpito in questo modo si rende conto di essere stalo preso solo dopo un quarto d'ora. Con l'automatica lo devi colpire qui: alla testa e nella zona del cuore. Tieni, ricarica l'arma.» Misi il caricatore e cercai di far scivolare il colpo in canna. «Attento... Se la carichi in questo modo una volta o l'altra ti spari sulle palle.» Lui non poteva certo sapere che il danno già era stato fatto; nonostante ciò mi salì una rabbia che a stento riuscii a controllare.

«Ora scolpisciti bene in testa quello che dico. Tu non sei un poliziotto, quindi non devi usare l'arma per minacciare o catturare qualche delinquente. Se la tiri fuori è per difenderti; di conseguenza, devi sparare. Quando spari, soprattutto con una 22, devi uccidere. Altra regola da non dimenticare: devi sempre, dico sempre, tirare due colpi di seguito. Tum-tum!» «Scusa, non è opportuno prendere la mira ogni volta?» domandai un tantino perplesso. «Guarda: se con il primo colpo prendi il bersaglio, poi aspetti, prendi la mira e spari un'altra volta, di sicuro manchi il tuo obiettivo. Tra un colpo e l'altro la mano, anche se per poco, si sposta. Viceversa se lo hai colpito al primo tiro, con una seconda botta gli fai più male. Tu non devi pensare che hai dieci colpi nel caricatore, ma cinque coppie. Cinque tum-tum.» «Ma rimane una cartuccia?» «Beh, quello è il colpo della disperazione. Ora forza, mira alla testa e al cuore e ricordati: due colpi per volta. Bada a non scordarlo!» Quando la sagoma si riavvicinò capii quanto fossero utili le indicazioni di Andrea. I colpi erano arrivati come il morso di una vipera tra la testa e la spalla sinistra. Non ho mai dimenticato quella prima lezione. Ogni volta che usavo la Beretta, il cervello si ripeteva: «Hai solo cinque colpi, e il loro suono deve essere tum-tum.» Andai ancora per tre settimane al poligono Valle verde. Gli insegnamenti di Andrea mi portarono, in breve tempo, a un livello di sufficiente destrezza. Nel congedarlo gli dissi: «Credo che non comprerò una pistola. Temo di rimaner deluso nel non doverla mai usare». Lui non credette alla mia versione. «Fai come vuoi. Ricordati però di non aver paura di essere troppo lontano dal tuo obiettivo, stai sempre a debita distanza... Sparano a bruciapelo solo i vigliacchi.» Presi dalla cantina di Vurgoli un centinaio di cartucce. Mio padre ne aveva comprate più di cinquanta scatole. Portai con me la doppietta e fermai l'auto nei pressi di

una collinetta, lontano dai luoghi frequentati dai cacciatori. Mi allenai a colpire alcune bottiglie. Raccolsi i bossoli, li buttai nella bisaccia e me ne tornai a casa soddisfatto. Ero pronto. Andrea era stalo proprio un buon maestri). Ci volle qualche tempo prima che riuscissi a superare quello strano malessere che mi tratteneva dal ritornare sulla provinciale 165. Temevo l'eventuale incontro con i padroni della cascina e il rivedere il luogo del mio calvario. C'era il rischio, infatti, di ricadere nella prostrazione che aveva accompagnato il mio ricovero in ospedale. Una parte del cervello mi ripeteva di lasciare stare, di dimenticare tutto, di riprendere a vivere secondo i ritmi che il destino mi aveva riservato. Riflessioni corrette, moralmente ineccepibili, ma che non m'impedirono, un giorno, di lasciare l'ufficio dopo la pausa di pranzo e dirigermi verso la periferia della città. Sebbene procedessi a poco più di quaranta chilometri all'ora, non riconobbi né il bivio né il casolare. Le colline e i campi sembravano soffocati da una primavera che aveva trasformato il paesaggio in una gioiosa e ironica accozzaglia di colori. Ebbi difficoltà a orientarmi, ma ciò non m'infastidì; forse cullavo l'idea che quel luogo vivesse solo nei mici incubi. Proseguii fino a Pragnostino. Niente. Tornai indietro ancora più lentamente. Dall'area dei ricordi un consiglio del professore di storia dell'arte: «Per cogliere gli aspetti essenziali di una scena strizzate gli occhi fino a far passare pochissima luce. Vi appariranno le vere espressioni emotive di un oggetto. Così faceva Van Gogh». Seguii, quasi per gioco, il suo suggerimento e dopo un po' riconobbi il dosso dove l'auto mi aveva tradito. Raggiunsi in fretta la deviazione per la cascina. Sotto i miei piedi non c'era più il viottolo, ma un terreno accidentato su cui spuntavano rari ciuffi di erba. Mentre ripercorrevo il tragitto di quella notte mi resi conto che le perplessità

non accennavano a diminuire, anzi rendevano ancora meno leggibile la mia mente. Avevo la testa piena di spiegazioni razionali che non spiegavano niente. «Perché è lutto così pacifico?» mi chiesi a voce sostenuta. Dovevo arginare l'angoscia. Decisi di andarmene e tornare nella notte, quando le emozioni si legano solo ai suoni e ai fantasmi. Nel buio ritrovai una certa tranquillità. Tutto appariva più personale, più intimo, più lontano dal panico della luce. Le cose apparivano familiari, potevo muovermi quasi a occhi chiusi. Ma era un lusso che, in quel momento, non potevo concedermi. La luna piena illuminava minacciosamente ogni ombra. Nello stesso posto dove avevano parcheggiato i miei carnefici vi era un'altra auto, una Mercedes bianca vecchio tipo, con a bordo i due soliti amanti. Sentii sulla schiena un brivido, come se quella scena preludesse a un finale scontato. «Che cosa faccio qui?» mi chiesi in silenzio. «Cerco la pace, la vendetta, e mi ritrovo a spiare due maiali che, sicuramente, approvano il massacro dei loro colleghi.» Di nuovo un fruscio. Come quella notte. Questa volta, però, avvicinai la mano alla Beretta. «Fermo! Stai calmo! Ancora debbono cominciare», sussurrò qualcuno alla mia destra. Mi voltai di scatto. Non riuscivo a vedere nulla, il cuore mi batteva così forte che sembrava voler uscire dal petto per cercare una via di scampo. «Ti ho detto di stare calmo. Aspetta un attimo che esco da qui.» A circa cinque metri vidi dei rami muoversi e uscire dall'oscurità un uomo non più alto di un metro e cinquanta, con pantaloni e camicia blu. La luna illuminò la sua faccia. Un gran naso, narici dilatate, l'espressione un po' grifagna. Era d'età indefinita, più vicino alla maturità che alla giovinezza, mostrava, comunque, estrema agilità nel districarsi tra i rovi. Portava un cappello rotondo, aderente, dal quale fuoriuscivano due grosse ciocche di capelli.

«Ho capito subito che eri nuovo della zona. Stai lì in mezzo come un fesso. Vieni più in qua. Si vede meglio e non ti possono scoprire.» Pur tenendo la mano vicino alla cintura mi avvicinai. Lo studiai attentamente. Ormai fiutavo il pericolo come un segugio addestrato. «È la prima volta che vedo questa macchina. Secondo me quei due hanno lasciato a casa i rispettivi coniugi. Lui ha più di quarant'anni... Ah, scusa, io sono Gianni.» Scostai, cautamente, le foglie dei cespugli che avevo davanti e guardai verso la Mercedes. Al di là del vetro scorgevo solo due ombre immobili. Il mio stupore non passò inosservato. «Lo dicono tutti che ci vedo come un gatto», aggiunse orgoglioso. «Non ti preoccupare: tra qualche minuto, prima di cominciare, apriranno i finestrini. Vedi, i vetri sono tutti appannati. Con questo caldo dovranno tirarli giù se non vogliono scoppiare.» Mi calmai; trovavo affascinanti le osservazioni di quel «professionista» che continuava a considerarmi un suo collega. «Vieni spesso qui?» domandai. «Capito in media una volta a settimana. Più in là puoi trovare postazioni migliori. Ci sono già stato ma non c'era nessuno... E una serata un po' magra. Speriamo che si stufino presto di discutere e comincino a scopare.» Decisi di stare al suo gioco. «Io sono venuto altre tre volte, ma ho visto solo due con una 127. Sembravano niente male.» «Chi, quelli con la 127 con un'enorme scritta sul parabrezza?» «Sì, proprio loro.» «Li conosco, li conosco», esclamò gioviale. «Vengono spesso qui. Lui, quello con la barba, è un vero porco. Quando sta per venire pretende che la ragazza batta le mani sui finestrini seguendo il suo ritmo. Non gliene frega niente se qualcuno li sente... Zitto, tirano giù il vetro. Ora attaccano. No, falso allarme; lui vuole fumarsi una siga-

retta... Ma che cosa stanno aspettando? Secondo me sono di Sesto Aglieri.» «Come fai a saperlo?» «Vedi, caro, a forza di andare in giro di notte ci si fa una certa cultura.» Mentre declamava le sue conoscenze scientifiche si pavoneggiava come un politico all'inaugurazione di una fiera. «Devi sapere che questo posto lo conoscono solo quelli della zona del Mascheno, qui si trovano come a casa loro. Poi ogni tanto viene qualcuno in 'trasferta', da Sesto Aglieri o da Fongini; sono tra i più imbranati o hanno tali sensi di colpa che il più delle volte si limitano a una sveltina... Ehi, finalmente inizia lo spettacolo.» Mi accostai a un tronco e puntai la Mercedes. L'uomo, a torso nudo, sfilava goffamente la maglietta alla donna; costei sembrava più preoccupata a salvaguardare una recente messa in piega che a mostrare le sue grazie. Non era giovanissima, ma, per quello che si poteva scorgere, era ancora una bella donna. Lui ribaltò i sedili anteriori non badando al frastuono prodotto dai meccanismi arrugginiti. Iniziò a baciare l'amata su tutto il corpo. Ogni tanto tirava il fiato e sussurrava parole che, nelle sue intenzioni, avevano lo scopo di far salire il livello di passionalità. Sembrava aver fretta, come se l'atto sessuale dovesse essere riconsegnato subito all'oblio. «Che ne pensi di quei due?» Gianni, sommessamente, chiese un mio parere senza guardarmi. «Niente male.» «Te lo avevo detto che si vedeva bene. E il piacere: più uno si allupa e più vede meglio.» L'uomo si muoveva concitato, ormai riteneva superflue altre iniziative finalizzate al piacere della compagna. Sollevò la donna, la girò e la penetrò dal di dietro. I sedili, bagnati dal sudore, rendevano precario il suo equilibrio; più di una volta scivolò. Sbuffando e imprecando ricercò il sesso dell'amata. Provai eccitazione mista a un profondo senso di stupidità. «Non voglio certo finire come questo guardone», ri-

flettei. Mi ricordai all'improvviso che non ero solo. Mi girai di scatto, il tempo di vedere il «compagno di battute» inseminare, con la sua vergogna, un cespuglio di ortiche che, verosimilmente, avrebbe preferito un altro tipo di concime. La mano, senza che me ne rendessi conto, si poggiò sulla pistola. La voglia di ucciderlo, punirlo, annullarlo era forte. Poi mi fermai; avevo quasi la sensazione che stavo per colpire la mia immagine riflessa su uno specchio. «Mamma, sono io.» «Oddio! Quando sei arrivato? Ma perché non mi hai avvertito? Avrei cucinato l'arrosto... Ora cosa ti posso preparare?» «Stai calma, prima di partire ho mangiato un paio di panini. Te lo avevo detto che appena potevo ti avrei raggiunto a Vurgoli. Come vedi, le promesse le mantengo. Anzi, fino a quando non andrò in ferie tutti i fine settimana verrò a trovarti. Ho voglia di qualche passeggiata in campagna.» «Tu non mi ascolti mai. E una vita che ti dico di tornare ogni tanto a casa. C'è un sacco di gente che ha voglia di rivederti.» Non era vero, era una sua illusione. Nessuno, per quello che ricordavo, aveva desiderio d'incontrarmi. «Ma come stai? Sei ancora un po' pallido. Ma, figlio mio, che cosa mangi? Ci sei stato da tuo cugino Alfredo? Gli hai chiesto come mai la bocca ti è rimasta storta?» domandò a raffica. «Sì», risposi sfuggente, «ci sono stato. Ha detto di non preoccuparmi... Con il tempo tutto tornerà come prima.» Ogni volta mi costringeva a un balletto di battute per almeno cinque minuti. Poi, all'improvviso, tornava ai suoi pensieri, ai suoi ricordi, alle sempre più tenui speranze, e si chiudeva, con discrezione, nel suo guscio. Da quel momento mi sentivo più rilassato e iniziavo a vagare per le stanze. In fondo eravamo due solitari che ogni tanto si scontravano.

Per la mamma era impossibile immaginare il motivo del mio ritorno a Vurgoli. Non era certo per il suo arrosto. Vurgoli era uno dei paesi più grandi del Mascheno, e da quella zona, secondo l'esperto Gianni, proveniva la Fiat 127 di quei maiali. Certo, come punto di partenza per la mia caccia era un po' deboluccio. Se quei due vivevano in città le possibilità di rintracciarli erano praticamente nulle; viceversa, se venivano dalla zona del Mascheno potevo ancora coltivare un barlume di speranza. Mangiai in fretta una frittata di peperoni. Era buona. Evitai comunque di legare il sapore dolciastro a quello che restava della mia infanzia. Presi l'Alfa e mi avviai verso il centro di Vurgoli. Di paesi ne dovevo visitare una decina, più una quindicina di borghi. Questi posti, come tutti i sabato e domenica, sono affollati quasi esclusivamente da giovani. Era questo il motivo che mi aveva spinto a concentrare la mia indagine in quei due giorni; durante la settimana, ipotizzai, l'auto sarà parcheggiata nel piazzale di una delle tante fabbriche della zona o in una delle strade periferiche della città. Non pensavo ci fossero così tante Fiat 127. Dopo un po' ebbi la sensazione che l'unica auto acquistata dai miei compaesani fosse proprio la 127. Ce ne erano di tutti i colori, soprattutto rosso mattone o verde scuro. Qualcuno, un tantino pretenzioso, l'aveva scelta blu ministeriale. Più di uno arricchì il look con vivaci decalcomanie. Ma nessuna di esse urlava quello slogan che da più di un mese mi rimbalzava nella testa. Per evitare di essere riconosciuto inforcai dei giganteschi occhiali da sole e non scesi mai dalla macchina. La mia Figura sproporzionata difFicilmente sarebbe passata inosservata. Ripassai un paio di volte sulla piazza principale. Due bar si fronteggiavano sotto i portici; erano affollati da ragazzi che, lasciata aperta l'auto per sentire lo stereo a tutto volume, discutevano ad alta voce sul modo migliore di concludere la giornata. Le ragazze mostravano più decisione e arroganza nel

dibattito mentre i loro occhi, a intervalli prestabiliti, ruotavano, come fari di una batteria di contraerea, verso le zone più battute dai coetanei di sesso opposto. Tra una scrutata e l'altra i loro capelli, freschi di shampoo, venivano teatralmente gettati all'indietro. Quei gesti m'intimorivano. Cercai un motivo logico; poi mi ritrovai la mano in mezzo alle gambe e smisi di ricercarlo. Il mattino seguente mi spinsi verso Borgo Angeo. C'era tantissima confusione; ma di giovani in giro proprio pochi. Nelle piazze si vedevano soprattutto anziani che portavano i nipotini a prendere un gelato, oppure persone della mia età impegnate a discutere di lavoro e politica. Gran parte dei ragazzi erano a quell'ora sulla strada che scende in Versilia; altri invece non avevano ancora trovato motivi sufficienti per abbandonare il letto. Lasciai l'Alfa e m'inoltrai a piedi per i vicoli, che sembravano budelli, della parte vecchia di Borgo Angeo. Appena incrociavo una macchina parcheggiata, rallentavo; se il veicolo era una 127, mi bloccavo. Poi riprendevo il cammino. Ero stanco, forse anche deluso. Pur se razionalmente mi rendevo conto della difficoltà della mia ricerca, avevo continuato a coltivare l'illusione di trovare facilmente quell'automobile. Era quasi mezzogiorno e non avevo voglia di tornare a casa. Sentivo che l'indagine stava perdendo consistenza. Mi avviai verso la piazza principale del paese ed entrai in un bar. Andai verso il banco e ordinai un bicchiere di vino. La ragazza che aveva raccolto l'ordinazione se ne andò nel retrobottega, con l'espressione confusa. Mi guardai in giro. Alcuni uomini giocavano a carte seduti intorno a un tavolo; sul piano, una bottiglia di vino quasi vuota. Perché quella reazione da parte della giovane? Nell'enorme specchio, tra i liquori esposti, vidi riflessa la mia faccia. Capii: la giovane era rimasta colpita dalla espressione cupa, rabbiosa, priva di calore. Il vino arrivò: un rosso scuro, simile al sangue. Ingurgitai un sorso abbondante. Intorno, solo volti ignoti che ridevano per una battuta volgare.

Sentii un dolore risvegliarsi alla bocca dello stomaco; non ero abituato a bere alcolici prima del pranzo. Un senso di disperazione m'invase. Uscii dal locale a occhi bassi, tirando fuori dalla tasca dei pantaloni le chiavi dell'Alfa. Misi in moto, ingranai la retromarcia e partii. Non percorsi più di mezzo metro. Una botta. «Cristo!» pensai, «ci mancava pure questo. Per fortuna andavo a due chilometri all'ora». Qualcuno aveva avuto la brillante idea di parcheggiare in seconda fila. Scesi intenzionato a far sgombrare in fretta il passaggio. Lo stomaco non mi consentiva di stare a lungo lì, come un salame. L'auto investita era una Fiat 127 di color grigio scuro con il lunotto posteriore quasi totalmente ricoperto dalla scritta: GIAI,I.O-NKRO PER SEMPRE.

La vista si annebbiò, una serie d'incontrollabili immagini cominciarono a occupare i miei canali percettivi senza che il cervello riuscisse a dar loro un senso. Fissavo senza capire quella decalcomania di plastica. Poi allungai la mano, piegai le ginocchia e, come un cieco, cercai a tastoni il parafango. La vecchia ammaccatura non era stata riparata. Sollevai le dita sporche di ruggine fino all'altezza del naso; ebbi la sensazione di sentire gli odori di quella maledetta notte. Stavo per vomitare, chiusi le palpebre per farmi passare la nausea. L'auto, nel buio, pareva muoversi, quasi a volermi schiacciare. Mi appoggiai sul gomito e inspirai profondamente, ignorando i gas di scarico che mi pungevano le narici. Quando riaprii gli occhi vidi che la 127 era sempre lì, vuota, con i finestrini aperti. Il proprietario non doveva essere lontano. Scrissi immediatamente il numero della targa sul retro di una scatola di fiammiferi; poi mi accostai al parabrezza e ricopiai il codice dell'assicurazione. I rari passanti credettero che fossi un automobilista alla ricerca di dati per la denuncia di un sinistro. I miei sconosciuti torturatori non erano più tali. «Ci sono problemi?» Un uomo corpulento, con un grembiule bianco e le maniche della camicia arrotolate

sulle braccia, che portava un vassoio con una decina di salsicce ricoperte da un tovagliolo, m'interrogò perplesso. «No, non credo. Cercavo d'uscire e ho preso la 127. Voglio solo sincerarmi dei danni... Sa di chi è la macchina?» «È del ragazzo di Maria. Lei lavora in quella tabaccheria. Quando la viene a trovare la lascia quasi sempre qui.» «Grazie, ora lo vado a chiamare.» «Eccolo, sta arrivando.» Girai il corpo lentamente e, nel contempo, inforcai gli occhiali da sole: ero convinto che non mi avrebbe riconosciuto ma dovevo comunque essere cauto. Era un uomo alto circa un metro e ottanta, con barba folta e scura, capelli un po' crespi, la blusa slacciata un bottone di troppo. Mostrava poco più di venticinque anni, anche se dava l'impressione di voler apparire più maturo dei suoi coetanei. Camminava lentamente sbocconcellando un panino. Pareva un bonaccione. «Ora mi sposto», disse masticando. «Faccia con calma. Volevo solo vedere se avevo fatto qualche ammaccatura.» Sentivo il volto accalorato e il cuore in subbuglio. «Non si preoccupi, la carrozzeria è già rovinata... Avevo intenzione di rifarla dopo l'estate.» Bofonchiai un grazie. Attesi che la 127 si allontanasse e mi avviai, un po' rinfrancato, verso Vurgoli. Il malessere però non accennava ad affievolirsi; il dolore al petto m'impediva di respirare. Dovevo fermarmi al più presto. In quello stato non potevo certo guidare a lungo. Uscito dal paese affrontai la strada che, scendendo tra cipressi e querce, conduceva verso la conca del Mascheno. Dopo una curva apparve una chiesa poco più grande di una cappella. La porta era aperta. Fermai l'Alfa e mi avvicinai. Erano decenni che non entravo in un luogo sacro. Forse da quando, tredicenne, avevo smesso, deludendo mia madre, di fare il chierichetto. L'aria fresca mi sbatté sul viso. La chiesa era spoglia. Alcune panche, un piccolo altare e un'immagine sbiadita alla parete; forse una madonna. Un prete, che sembrava

un lillipuziano, bisbigliava una preghiera. Alcune vecchiette, tutte vestite di nero, qualcuna con il rosario, altre che sferruzzavano dei fili di lana smorti, rispondevano con una cantilena: «Sia fatta la volontà di Dio». Sedetti in un cantuccio ad ascoltare pensoso. «Sia fatta la volontà di Dio...» Forse attendevano che mi unissi al coro. Cercai sollievo nella pace che traspirava dai muri. Volevo seguire il ritmo delle loro voci; ma nella mente vagabondava solo la faccia piena di Ollio che, spingendo Stanlio, ripeteva: «Bidon Bidon! Bidon Bidon! Bi di bi bon!» Stavo decisamente meglio. Uscii dalla chiesa mentre un «Sia fatta la volontà di Dio» mi rincorreva. Ero pronto. «Ciao, mamma, torno a casa, devo preparare una relazione per il laboratorio.» «Già te ne vai? Aspetta, ho preparato degli involtini, te li metto in un recipiente di vetro. Sei stato a trovare tuo padre al cimitero?» Disprezzavo dirle bugie, anche se sapevo che erano futili e la rendevano più tranquilla. Quella volta però trovai il modo di pronunciarle senza violentarmi. «Sì, ci sono stato questa mattina. Ho però dimenticato di portare i fiori. La prossima settimana ci ritorno.» «Va bene, ti aspetto sabato... Mi raccomando, non stancarti.» Durante la settimana andai un paio di volte a sparare in campagna. Il venerdì successivo presi sonno solo dopo aver ingoiato due pastiglie. L'avvicinarsi del week-end e i preparativi per la battuta mi rendevano particolarmente nervoso. Avevo a lungo mirato contro un quadro con le due Beretta. Volevo essere sicuro sulla scelta della più affidabile. Non erano le qualità meccaniche e balistiche a convincermi, ma una specie di vibrazione che, a ogni pressione sul grilletto, raggiungeva il polso. Presi il caricatore. Aprii una delle scatole gialle e sen-

za fretta scelsi una dozzina di colpi. Erano perfetti, lucidi, come se fossero appena usciti dalla fabbrica. Li accarezzai, uno per uno, con un panno di lana imbevuto con una goccia di olio di vasellina. «Fai così», mi aveva suggerito Andrea, «è un buon sistema per non far inceppare l'arma.» Riempii il caricatore prima di farlo scomparire dentro l'automatica. Quindi inserii con decisione un colpo in canna. Osservai a lungo la pistola sotto tutte le angolazioni. Nei giorni precedenti avevo tirato a dei barattoli e non mi aveva mai tradito. Le arrotolai intomo un panno verde e la riposi nella bisaccia. Tirai un lungo respiro e aprii il cassetto della scrivania. La scatola viola era sempre lì: una scatola lunga e stretta, come lungo e stretto era il coltello. La punta sembrava eccellente e il filo, in entrambi i lati della lama, era privo d'imperfezioni. Ebbi qualche difficoltà a riporlo nella borsa; era troppo rigido. Se sbattevo contro qualcosa rischiava di rovinarsi la punta o, addirittura, spezzarsi la lama. Presi due stecche di legno della stessa lunghezza e feci una specie d'imballaggio. Dopo aver verificato la possibilità di togliere agevolmente lo spago che teneva uniti i due legni, riposi tutto, accesi una sigaretta e mi buttai sul letto. Il Flurazepam riusciva ancora a funzionare nel giro di venti minuti. Quando mi svegliai l'alba non era lontana. Richiusi gli occhi, conscio che si stavano verificando cambiamenti significativi nella mia vita. Ero un uomo diverso ma, nel contempo, lo stesso di prima. Mi piacevano ancora la musica classica e la caccia, coltivare le piante esotiche, collezionare i libri; le cose di sempre, insomma. Solo il giudizio su me stesso era mutato. Avevo sempre deplorato la violenza e temuto il dolore fisico. Da tutti ero considerato un ottimo codardo: un coniglio che, fin dai tempi della scuola, era stato scelto come vittima privilegiata. Ma ora dovevo essere onesto con me stesso, dovevo vedermi per quello che ero diventato... Calmo, lucido, spietato. Per mio padre ero stato un fallito, incapace di produr-

re qualcosa di utile. Ora invece avevo un progetto ben preciso, cosciente, libero, che mi rendeva padrone dell'anima. Mi drizzai a sedere sul letto. Rimasi a fissare una tazza di caffè vuota. Ero immobile, mentre delle gocce di sudore mi scendevano lungo la faccia. Aprii la porta della camera da letto e contando i passi raggiunsi il salotto. Era sciocco pensarlo, ma la casa mi fece un po' paura. Nulla era mutato. In un angolo, appoggiati sul pavimento, un fucile da caccia, la bisaccia, le scarpe da ginnastica, una tuta mimetica ben piegata, una scatola di guanti «Latex - Large n° 9», un asciugamano, una bottiglietta di whisky. Parevano i reperti di una tomba etnisca pronti ad accompagnarmi nel viaggio di morte. Mi infilai dei pantaloni di tela celeste e trasferii nelle tasche tutto ciò che si trovava nel vestito avana. Rimasi per alcuni secondi a osservare la scatola di fiammiferi con scritto il numero di targa della 127. In fretta preparai il borsone e mi rigettai nella penombra. Arrivai alla piazza principale di Borgo Angeo verso le quattro del pomeriggio. Era quasi vuota. Un paio di ragazzi armeggiavano intorno a un motorino. Un vecchio, vestito di nero, attendeva che il portone della chiesa si schiudesse. Feci il giro della piazza un paio di volte; volevo capire quale era la strada principale che conduceva fuori dal paese. Poi parcheggiai nel modo più anonimo possibile. Entrai nella tabaccheria. Chiesi le sigarette alla ragazza dietro il banco. Immaginai che fosse Maria. Era una ragazza insignificante. Piccola, con un giubbino di cotone. I capelli scuri, poco curati, le ricadevano sulle spalle mentre un ciuffo ingovernabile le sbatteva sulla fronte. Si muoveva nervosamente senza dire una parola. Non aveva niente d'interessante o di grazioso. «Se è lei», riflettei,

«sembra proprio una gatta morta... Pare impossibile che si sia divertita in quel modo con i miei coglioni.» Uscii dal locale e cercai la posizione migliore per osservare ogni movimento senza dare l'impressione di stare a spiare qualcuno. Verso le cinque la piazza iniziò ad animarsi. Gruppi di ragazzi, quasi tutti in jeans, con le magliette ricche di colori e di scritte, affluirono da tutte le direzioni: alcuni di essi a piedi; la maggior parte sulle moto o con rumorose utilitarie. Le lenti scure solo in parte riuscirono a filtrare la spensieratezza e la superficialità dei loro volti. Intorno alle diciotto e trenta, giunse il giovane barbuto alla guida della 127. Ebbe difficoltà a trovare parcheggio. Girò per qualche minuto poi, senza eccessivo rispetto, lasciò l'auto sul marciapiede della chiesa. Dopo aver salutato con giovialità alcuni ragazzi stravaccati sulle sedie di un bar, entrò nella tabaccheria. Rimasi a scrutare l'entrata del locale sino a quando li vidi uscire mano nella mano. Ero pronto a raggiungere l'Alfa, ma dovetti frenarmi. Maria e il suo ragazzo si erano fermati a parlare con altri giovani che parevano occupati a verificare la qualità delle loro capigliature. Nei più profondi recessi della mente qualcosa di vago mi torturava. Dovevo ignorarlo. Mi rilassai; rimasi a cavalcioni su un muretto e accesi l'ennesima sigaretta. Le ombre iniziavano ad allungarsi sempre più velocemente e in alcuni punti, come le dita di un gigante, raggiunsero i balconi dei primi piani. Dopo un po' i due salutarono gli amici, si diressero verso l'auto e partirono. Li seguii per un quarto d'ora a non più di trecento metri di distanza. Uscirono dal paese e si avviarono verso Taborchi. Sperai che non s'infilassero nel traffico del sabato sera. Improvvisamente la 127 si fermò di fronte a un cinema. Maria mise la lesta fuori dal finestrino per chiedere l'orario d'inizio dello spettacolo. L'automobile parcheggiò e i due, giocando a farsi il solletico sui fianchi, entrarono nel locale.

Cercai un posto per l'Alfa e mi accodai. Volevo scrutarli nel buio per carpire qualche elemento in più della loro personalità. L'illuminazione dell'atrio era intensa, da far male agli occhi; decine di manifesti propagandavano le future proiezioni. Non afferrai, tra le varie locandine, quale era il film della serata; mi avvicinai alla cassa e pagai il biglietto. Entrai e rimasi immobile nell'oscurità vicino a una tenda di velluto. Tomai con la mente a quando da ragazzino, con alcuni compagni di scuola, andavo al cinema. Seduti vicino all'entrata, attendevamo l'arrivo delle ragazzine e, approfittando della momentanea cecità, toccavamo loro il sedere. Poi giù risate, qualche grido e infine la fuga. Io rimanevo fermo ad assistere alla scena; spettatore di un atto di coraggio e di viltà. La sala era piena soltanto a metà, c'erano parecchie file vuote sul fondo. Quelli della 127 si erano accomodati su una di queste. Mi sedetti nell'ultima fila. Il ragazzo accese una sigaretta, mentre Maria iniziò a masticare una gomma americana. Evitai di farmi distrarre dal film; un prodotto ben fatto, eccellente dal punto di vista tecnico, ma poco incisivo. Ero calamitato dalle loro teste, dalle loro mani che si cercavano, dalle loro bocche che ogni tanto si sfioravano. Per cercare di controllare la tensione facevo, di tanto in tanto, scrocchiare le dita. Dovetti smettere presto; il secco rumore rischiava di richiamare l'attenzione di più di uno spettatore. Prima del finire del primo tempo mi nascosi nella toilette per uomini. Guardavo le vecchie ceramiche mentre sentivo l'acqua scorrere negli orinatoi e qualche sciacquone agitarsi. Vi era un fetore insopportabile. All'improvviso un dubbio mi assalì: «Sta' a vedere che quei due hanno trovato il film noioso e se ne sono andati!» Aprii di corsa la porta destando lo stupore di chi, con le mani incrociate sul davanti, faceva finta di niente contemplando il muro. Arrivai nella sala un attimo prima che

le luci si spegnessero. Erano ancora al loro posto. Ritenni più conveniente attenderli fuori dal locale. Al quinto mozzicone di sigaretta, che andò a spegnersi sulla fascia di luce prodotta da un lampione rotto, vidi le prime persone uscire dal cinema. Maria e il fidanzato sembravano soddisfatti; abbracciati, quasi zoppicando, si avvicinarono alla 127. Misi in moto e attesi. Sentii che era giunto il momento del non ritorno. Un settore del mio cervello era impegnato in una inconsueta preghiera: «Ragazzi, è meglio se tornate a casa». Un'altra parte però era soffocata dall'immagine della pistola. Quello che accadde nelle ore successive mi resta ancora difficile, a distanza di anni, riorganizzarlo sul piano logico. Tuttora ho il dubbio che parte dei ricordi non siano veri ma solo frammenti di sogni, di deliri lucidi, di ricostruzioni appartenenti ad altre entità. La 127, dopo una decina di chilometri, svoltò in una strada di campagna. Vidi le luci posteriori traballare per un centinaio di metri prima di spegnersi. Girai l'Alfa in modo da essere pronto per un'eventuale rapida fuga. Da sotto il sedile presi la bisaccia. Non si distingueva quasi nulla. Guardai intomo: la luna pareva inghiottita dalla notte. Dopo alcuni minuti mi avvicinai evitando di coprire con i passi sia il rumore di un torrente che scorreva vicino, sia un concerto di rane sognanti. Eccola la solita scritta. Bastardi! Uscite se avete coraggio; il coniglio sta arrivando! Avanzai con passi rapidi e silenziosi, ma con il cuore forte e regolare. Percepii la loro presenza, le loro ombre. Indossai i guanti di gomma. Avvicinai la canna della Beretta al finestrino del posto di guida. Due colpi secchi. Tum-tum. Com'era stato facile. Le ossa del collo dell'uomo schioccarono lievemente. Accennò un urlo piegando la testa all'indietro. «Mio Dio!» riuscì a sussurrare. Giacque così, e non si mosse più. Il bianco degli occhi di Maria sembrava essersi acceso. Mi puntava terrorizzata. Presi la mira cercando di colpire

nel mezzo delle due luci. Tum-tum. Uno schizzo di sangue colpì il parabrezza. Pareva del pomodoro uscito da un barattolo aperto con forza. La Beretta sembrava andare per conto proprio. Sparavo e colpivo. «Ma perché non si muovono?» pensai rabbioso. «Ma non è che le cartucce sono caricate a salve? Restano fermi come salami...» Mi accorsi che avevo finito i colpi quando il carrello dell'automatica rimase bloccato sul mio polso. «Vi è bastata la lezione?» La mia voce sembrava un rutto represso. «Ora avete capito che non conveniva massacrarmi in quel modo... Uscite, stronzi! Vi state cagando sotto dalla paura...» I ranocchi ripresero a gracchiare ritmando il mio respiro. Dalla borsa tirai fuori il coltello. Era freddo e scivoloso. Aprii la portiera. «Esci!» gridai. Presi il ragazzo per il braccio e cercai di tirarlo fuori. Non si muoveva, la mano era rimasta incastrata sotto il volante. Indossava solo la maglietta. Il pene, per quello che potevo scorgere, era ancora rigido. «Ma dov'è il sangue? Forse l'ho mancato...» Tentai di squarciargli il cuore con il pugnale; ma non so dove arrivai. Avvertivo la lama sbattere sulle costole. Girai intorno alla 127 e aprii l'altra portiera. Maria mi cadde quasi addosso. Era nuda, bianca. Il suo corpo era ancora caldo. La sollevai; il suo peso non era superiore a quello di un bambino. La poggiai a terra di fronte alla macchina. Sembrava si muovesse. Tomai verso il posto di guida e accesi i fari. Cercai di vedere i suoi occhi ma non ci riuscii; erano coperti da capelli e sangue. «Alzati!» sussurrai. No, forse stavo gridando. «Alzati! Fammi vedere dove ti ho colpito.» Non capivo il suo silenzio. Avevo la sensazione che respirasse. Affondai il coltello. Ebbe un sussulto. «Alzati!» ripetevo. Il mio pugno cadde ancora sul suo ventre. Un altro sussulto. Continuai per non so quanto tempo. Mi fermai solo

quando il braccio, esausto, cadde sull'erba bagnata dal suo sangue e dalle mie lacrime. Avevo voglia di vomitare. Senza pensarci sopra tornai in macchina e cercai la borsetta della ragazza. La rovesciai a terra. Non c'era neanche un fazzolettino. «Che porca!» dissi ad alta voce. Mi ricordai che nella bisaccia avevo un asciugamano. Stavo per richiudere la portiera quando vidi, poggiata sul cruscotto, una rosa rossa avvolta nel cellofan. La presi, volevo distruggerla; una parte di me che non conoscevo prese, però, il sopravvento e, con solennità, l'adagiai sul corpo di Maria. Ero tornato freddo, calcolatore. Raccolsi tutte le mie cose e, facendo attenzione a dove mettevo i piedi, tornai verso l'Alfa. Tolsi i guanti, i pantaloni e la camicia e riposi lutto in una busta di plastica. Il torrente era vicino; mi lavai il viso. Ero come svuotalo. Mi trascinai fino all'auto. L'accesi rabbiosamente e mi diressi verso la strada. Arrivato alle prime case di Vurgoli spensi il motore. Ero in preda a un tremore incontrollabile. Attorno a me c'era una campagna che appariva desolata. Respirai a lungo per calmarmi e provai a riordinare le idee. Analizzai i miei sentimenti: ero stato sempre certo di deplorare la violenza. Non riuscivo a capire come fossi diventato un assassino. Cosa ancora più strana non mi sentivo appagato, come dovrebbe sentirsi chiunque dopo aver consumato una vendetta. Era stato tutto troppo facile per una ragione che, a quel tempo, mi era ancora misteriosa. Perché tutto ciò? Questa domanda ne fece sorgere delle altre alle quali non riuscii ugualmente a dare una risposta... «All'inferno!» mormorai. Agognai che mi avessero ucciso quella notte maledetta. «Che destino infame», pensai, «se quella notte l'auto non si fosse fermata sarei rimasto la persona di sempre: un coniglio, sì, ma con l'animo tranquillo.» Volevo essere altrove, in un altro mondo, ove le domande inquietanti restano incatenate nell'inconscio.

La naturale tendenza a evitare le situazioni spiacevoli prese il sopravvento. Una sferzata al cervello; uscii dalla macchina e accesi una sigaretta. In quel momento passò una guardia notturna in bicicletta. Erano anni che non ne vedevo una. Ritenevo fossero state sostituite da colorate e luccicanti automobili destinate a trasportare sceriffi falliti. Lo fissai e mi sentii improvvisamente a disagio, quasi spaventato. «Non fare lo stronzo... E meglio che te ne vai a casa, ti liberi di quei vestiti insanguinati e cerchi di dormire.» Decisi di tornare in città. La mamma e la tomba di papà potevano aspettare un altro fine settimana. Attraverso gli occhi appesantiti dal sonno cercai di capire perché la stanza era invasa da strani bagliori. Non avevo chiuso le persiane e la luce, filtrando dai vetri polverosi, disegnava strane figure sul soffitto nudo. Forse era già l'ora di pranzo. Senza fretta spinsi le gambe fuori dal letto e mi alzai strofinando gli occhi. Nonostante fossi nudo avevo ancora addosso l'odore del sangue. La cosa non mi dispiaceva e quindi decisi di evitare la doccia. Avevo dormito quattro ore. In altri tempi mi erano state più che sufficienti. Potevo uscire oppure accendere la radio per sentire il notiziario. Provavo la sensazione intensa di essere tornato sul binario della mia vita quotidiana. Che idea ridicola! Riuscii a trascinarmi nel bagno: aprii il rubinetto del lavabo e afferrai la scatola di Felison, facendo un rapido calcolo di quante ne dovevo assumere per dormire altre venti ore. Dovevo cercare in tutti i modi di far calare una fitta nebbia sulla mente, per coprire con un velo quanto era successo durante la notte appena trascorsa. Avevo bisogno di trasformare i ricordi in tasselli di un puzzle incompleto, in una fotografia da inserire con ordine in un album. Rimasi immobile a lungo, avvolto nelle lenzuola, prima di riuscire a fuggire dalla veglia. Il mattino seguente uscii più presto del solito. Non vo-

levo rischiare di arrivare tardi al lavoro. Ero stranamente di buon umore e decisi quindi di far colazione in centro. Qualcosa di gustoso, da mangiare senza fretta. Entrai in un bar e chiesi un tè e due brioche. A un tavolo vicino c'era un uomo che leggeva un quotidiano poggiato a una bottiglia di birra. Senza guardarmi iniziò a declamare i suio giudizi a voce alta. «Per me l'assassino dei fidanzati di Borgo Angeo va ricercato tra i famigliari della ragazza.» Voleva a ogni costo stimolare un mio parere. Rimasi in silenzio. Il barista, che slava asciugando un bicchiere, non perse però l'occasione di dire la sua. «Ti sbagli. Il ragazzo non è di queste parti. Secondo me deve aver sgarrato su qualche affare poco pulito nella zona dove abitava.» Non capivo. Stavo per chiedere spiegazioni quando un pezzo di musica pop, trasmesso da una radiolina vicino alla macchina del caffè, fu interrotto di colpo. «Ultime notizie sul delitto di Borgo Angeo...» Le emittenti locali sembravano essersi accanite sul fatto di cronaca. La città era stata risvegliata dal suo torpore. «Le forze dell'ordine continuano nella ricerca dell'assassino di Maria Chiari e Anselmo Paoli. Gli inquirenti sono particolarmente impegnati a setacciare l'ambiente di provenienza del Paoli. Si è, infatti, saputo che il ragazzo, fino a venti giorni fa, risiedeva a Francoforte, in Germania, dove lavorava in una fabbrica di componenti meccaniche. I due si erano conosciuti nella città tedesca durante la visita della Chiari ad alcuni parenti. Il Paoli era tornato in Italia per sposarsi. Aveva da pochi giorni comprato un'auto e insieme alla fidanzata era in cerca di un appartamento. Il prossimo notiziario alle dodici.» La musica riattaccò. Per qualche minuto sperai, inutilmente, che lo speaker avesse parlalo di un altro delitto. Uscii dal locale senza consumare la colazione. Avevo difficoltà a vedere e a sentire. Degli innocenti avevano sofferto e pagato per colpa di tre sporchi vigliacchi. Ondeggiai attraverso i vicoli già affollati di turisti che

iniziavano a lasciare l'impronta dei loro piedi sull'asfalto reso molliccio dai primi rabbiosi raggi di sole. Avevo parcheggiato l'auto in una piazza vicina. Vi salii e mi afflosciai sul sedile appoggiando la testa sul cuoio duro e screpolalo. Imprecai a lungo, in silenzio. Uno strano liquido scendeva verso il mento. No, è impossibile, non possono essere lacrime. Lo erano. Che strano sapore. «Figlio di puttana, stronzo, non sai fare nulla!» gridai. «Maledetti... Che cosa mi avete costretto a fare. Voi avete confuso il mio raziocinio.» Lo sconforto si trasformò in rabbia. Misi in moto l'Alfa e partii con un gran stridore di gomme. Vagai ciecamente per le strade di una città che, nonostante fossero appena le dieci del mattino, appariva già stanca. Rivedevo le due scene in un'unica immagine, come due negativi sovrapposti. In alcuni momenti assumevo il profilo della vittima; in altri quello del boia. All'inizio di un viale una scritta azzurra su sfondo bianco attirò la mia attenzione: STAZIONE CARABINIERI - PORTA NUOVA.

Rallentai e fermai l'auto sotto l'ombra di una quercia. Fissai quella scritta a lungo. D'un tratto sembrò che quei vocaboli avessero cambiato il loro significato: PRONTO SOCCORSO. Sbattei un paio di volte le palpebre prima di rivedere la scritta reale. Fu chiaro anche per me: dal profondo della mia mente era partita una richiesta di aiuto, un bisogno di veder cancellata la colpa. Dalla caserma uscirono due carabinieri. Parlarono un po' tra loro e attraversarono la strada. Si avvicinarono all'auto. Serrai forte gli occhi e attesi il loro: «Permette?» Quando riapparve la luce dovetti girare di parecchi gradi la testa per osservare le loro spalle lontane. Un altro militare uscì dall'edificio. «Oddio!» pensai. «È il brigadiere dell'ospedale!» Cercai di mettere a fuoco l'immagine, il sudore m'infuocava le pupille: no, non era lui. Con quei baffi si assomigliano tutti. 11 carabiniere passò davanti all'Alfa e gettò un'occhiata prima di proseguire. Dovevo avere la faccia stravolta.

Non potevo restare ancora a lungo sotto quell'albero. Dovevo prendere al più presto una decisione: costituirmi o scappar via. Optai per la seconda soluzione. Tornai a casa e telefonai in ufficio: «Sto poco bene. Verrò tra un paio di giorni». La Beretta e il coltello erano rimasti sul tavolo. Emanavano ancora odore di polvere da sparo e di sangue. Mi gettai sul letto con la faccia schiacciata sul cuscino che, dopo un attimo, s'inzuppò. «Che cosa posso mettere in valigia? Tra quanto verranno a prendermi?» Che domande idiote. Loro ignorano il mio errore. Un uomo non viene arrestato solo perché ha fallito il suo obiettivo. «Devo tornare tranquillo e appagato come questa mattina... Ma poi sono proprio sicuro della loro innocenza?» «Che fai qui? Ti attendevo sabato. Che cos'hai, figlio mio? Non è che hai la febbre?» «Sto bene, non ti preoccupare. L'altro ieri stavo venendo a casa, ma per strada si è rotto il carburatore. Se ti fossi decisa a mettere il telefono, ti avrei avvisata... Ora basta!» aggiunsi alzando la voce. «Domani vado a chiedere l'allaccio. Ogni volta che devo dirti qualcosa sono costretto a disturbare quelli del bar, oppure a prendere la macchina, e salire su a Vurgoli.» «Al lavoro non sei andato?» continuò imperterrita. «Tu hai qualcosa e me lo nascondi. E non mi tirar fuori la solita storia della madre troppo apprensiva.» Non avendo riscontro ai suoi pavidi interrogativi sollevò la mano, solcata dalle rughe, e si coprì, per un istante, gli occhi velati. Poi afflitta riprese: «Hai saputo che cosa è successo a quei ragazzi di Borgo Angeo? Che tragedia. Poveri genitori...» «Senti, falla finita», risposi brusco. «Sono venuto a Vurgoli perché ti avevo promesso che sarei andato al cimitero a trovare il babbo. In macchina ho dei fiori... Vuoi venire con me?»

«Volentieri, ma aspetto il materassaio. Volevo far dare una pettinata e una lavata alla lana. Rimango a casa e ti preparo un bel pranzo... Se fossi stata sola non avrei cucinato nulla.» Poverina. Stava per completare il settimo decennio: le gambe gonfie, i capelli ammucchiati dietro la nuca, ma con ancora un forte desiderio di giocare a fare la madre. È preoccupata per il materasso e crede che il figlio sia un tantino imbranato; se avesse smesso di considerarmi un bambino forse avrebbe saputo leggere nella mia mente. Quando sarò su tutti i giornali, con la faccia grigia stampata in prima pagina, s'illuderà, negli ultimi anni della sua esistenza, che gli altri non hanno saputo comprendere il figlio. Trascinai i piedi sulla ghiaia che copriva il viale principale del cimitero. La tomba di famiglia era vicino al muro di cinta. Una bella tomba, non c'è che dire. In travertino sabbiato, a otto posti, ma con un solo ospite: mio padre. Con la stessa pietra era stato scolpito un libro. Sulla destra era inciso un pentagramma, a sinistra la foto del babbo concentrato a suonare il violoncello. Lasciai i garofani bruciati dalla calura di fronte alla luce perpetua, e mi sedetti sul pezzo di pietra tombale coperto dall'ombra. Solo in quel momento mi avvidi che, con il passare degli anni, il mio volto stava assumendo i suoi lineamenti. In quella foto non aveva più di trent'anni. Era magro, con una casacca sgualcita, dei pantaloni così abbondanti da poterci ricavare una coperta e gli scarponi anfibi aperti in punta. Ricordavo quell'istantanea; era stata scattata nel Quarantacinque a Orano, in Algeria. Lui ripeteva orgoglioso che il violoncello gli aveva salvato la vita. Per gli studi al conservatorio, era stato inserito nella banda musicale. Qualche concerto per i componenti dello stato maggiore e molte fanfare nelle città conquistate durante i primi anni del conflitto. In Libia il suo battaglione si era arreso, e così finì in un campo di concentramento delle truppe francesi. Un inferno, raccontava con astio. Per fortuna il comandante del campo era un patito

di musica da camera e si dilettò a mettere su una piccola orchestra. Da quel giorno cibi caldi, lenzuola e chinino in abbondanza per prevenire la malaria. «Questo strumento», ripeteva a chiunque gli capitasse a tiro, «mi ha evitato di crepare. Questo strumento, ricordate, non il mitra.» Un gatto di color grigio scuro, con l'aria da vagabondo, saltò sul sepolcro e, con eleganza, iniziò a leccarsi in mezzo alle gambe. Seguii incuriosito il suo cerimoniale. Avevo più volte sentito raccontare che quegli animali girano per i cimiteri per assimilare l'anima di uno dei morti. Fissai prima le pupille verdi del felino e poi gli occhi del babbo. Forse ho ricordi vaghi, ma ebbi la sensazione di vedere guizzare, nel suo sguardo, un lampo di soddisfazione. «Sei venuto finalmente a trovarmi. Forse pensi che qui sotto ci siano solo un mucchio di ossa e un cranio sfondato?» mi chiese una voce lontana. Mi guardai attorno a lungo, ma non c'era nessuno. Ci impiegai alcuni secondi di troppo ad accendere la sigaretta. «Imbecille!» pensai. «Hai già tanti guai e non sai fare di meglio che immaginare un colloquio impossibile.» «Uhè, ragazzo! Mica crederai alla favola che mi sono ammazzato perché mi sentivo un fallito?» mi domandò con tono stridulo. «Non so che cosa dirti», balbettai. «Un suicidio, ricordalo, è anche una delle massime espressioni di coraggio. Pure l'omicidio, se ci pensi bene, può essere un atto di giustizia, un gesto ardito di pulizia e di purificazione.» «Ma io ho sbagliato. Quei due non c'entravano niente...» protestai. «Sbagliando s'impara. Poi basta con questa storia dell'innocenza. Se quella notte ci fossero stati loro ti avrebbero spaccato tutte e due le palle. Gli uomini sono proprio strani. Presi singolarmente, ognuno ha la sua personalità, la sua dose di bene o di male. Nel momento in cui formano un gruppo, anche se piccolo, le cose cambiano. Basta vedere che cosa succede in un'orchestra o in una coppia di fidanzati.»

«Non capisco!» «Per loro sei un uomo solo, un nemico, un impotente. Da prendere in giro, da massacrare psicologicamente o fisicamente.» Il libro di travertino parve spostarsi. 11 micio inarcò i reni, per un attimo sembrò fissarmi con odio. «Il mondo», riprese lui agitato, «punisce gli uomini soli ma, allo stesso tempo, li teme. Ricordati, figlio mio: un partito si oppone a un altro partito, i bianchi contro i neri, i cristiani contro i musulmani. Tutte contrapposizioni ritenute giuste, normali, quasi insite nella specie umana. Tuttavia, se un uomo contrasta la maggioranza viene evitato, isolalo, schiacciato come una mosca fastidiosa. Le leggi, in realtà, sono state fatte per difendere il mondo, non il singolo uomo.» «Dove vuoi arrivare? Sei sempre così contorto nei tuoi ragionamenti», chiesi, cercando d'inumidire le corde vocali. «Ma perché continui a non capirmi?» La foto parve vibrare per l'irritazione. «Papà», risposi indulgente, ma anche un po' crudele, «tu hai sempre cercato il ruolo di eroe incompreso, di genio sfortunato. Ti fossi, però, limitato a cercare il tuo palcoscenico fuori. No, anche in casa declamavi il tuo squallido spartito. Io e la mamma dovevamo acclamarti senza capire. Dopo un po' cri diventato oscuro e complicato, tanto da non farti capire anche quando chiedevi un bicchiere di vino.» «Sei forse un po' geloso, figliolo...» ridacchiò. Poi, riassunto un piglio più serio, aggiunse: «Sei sempre stato un coniglio e continuerai a esserlo se giudichi il tuo gesto un errore. Scolpiscitelo bene nella mente: tu hai colpito il mondo, le convenzioni, le regole dell'emarginazione». «Tu però non ti sei mai opposto all'orchestra?» chiesi provocatorio. La pietra s'irrigidì. Il gatto miagolò e fuggì via. «Solo uno stupido», strillò, «può credere che sia stato il cervello a guidare la mano mentre suonavo il violoncello. Vi era qualcosa di magico e irreale che prendeva il soprav-

vento sulla mia anima... Se tu hai colpito vuol dire che sei stato scelto come strumento terreno per un disegno superiore. In questo mondo di meschini il tuo compito e quello di punire quanti hanno trasgredito una legge soprannaturale e sacra. Se in passato eri un codardo è perché era stato deciso così. Se ora la tua mano ha ucciso, non ti affliggere, forse non devi capire. C'è di sicuro una ragione speciale nell'enormità della tua azione.» Alzai a fatica le palpebre. Non riuscivo a comprendere come mai i ricordi erano ancora così lucidi e presenti. Eppure erano trascorsi quasi sette anni da quegli enigmatici momenti. La camicia era incollata sullo schienale della poltrona. Avvertivo il ticchettio del pendolo, ma non il passare del tempo. 11 libro del professor Cera era ancora poggiato sulle mie ginocchia. Rimasi immobile per un minuto a contemplare, rapito, l'ombra del divano che, sul pavimento, giocava con i ritiessi del poco sherry rimasto nel bicchiere. Andai alle ultime pagine e mi soffermai su alcuni disegni di un cranio visto da diverse prospettive. Ogni grafico era suddiviso in diverse zone, tutte identificate da un numero. «Esame frenologico di Pierre François Lacenaire secondo la scienza dei dottori F.J. Gali e G. Spurzheim.» «Che buffo», notai, «studiare la personalità di un genio del male attraverso i bozzi della testa...» Per l'ennesima volta la curiosità prese il sopravvento sul desiderio di staccarmi da quella reliquia. «Il cranio di Pierre François Lacenaire, omicida, e andato al patibolo, fu prelevato dal fisico Arago e studiato dal dottor Ferru per discoprire tutte le circonvoluzioni cerebrali e una eventuale indicazione delle tendenze criminali del soprammentovato criminale.» Il professor Cera era fantastico, scriveva come un poeta. «Trovasi nel Lacenaire molto sviluppati gli organi dell' istinto sanguinario e della distruttività, mentre quello della bene-

valenza è nullo. Vedesi in questo cranio un grande sviluppamene dell'organo de\Y orgoglio, costantemente osservato in quelli che cospirano contro l'autorità.» Riguardai più volte i grafici di Gali e Spurzheim e mi tastai la testa. Sì, qualche bozzo c'era. «Davvero sorprendente è quanto leggesi alla parte laterale e superiore della testa, un poco al di sopra delle tempie, in alto e in avanti dell'organo deWacquisività, vale a dire il sentimento poetico, ricchezza d'immaginazione, estro, esaltazione. Lo sviluppo pronunciatissimo dell'organo della vanità e dell'ambizione forma un esempio dell'organizzazione costituente il carattere ambizioso di Lacenaire.» Avevo la sensazione di decifrare un oroscopo. «Come del resto di rilievo è la connotazione contraddittoria della personalità del soprammentovato criminale, 10 sviluppamento dell'organo della coscienza e della giustizia è affatto peculiare in quanto in genere non riscontrasi negli individui di natura degradata.» Quella frase l'avevo letta decine di volte. Ormai la conoscevo a memoria. Il bozzo più grosso era proprio lì, dove indicavano i due scienziati. Ma che cosa mi poteva legare a Lacenaire, un tenente dell'armata napoleonica che, dopo aver avvinghiato in un amplesso un po' rude la bella Odette, discese dal letto, raccolse una sciarpa e la strinse intorno al collo della donna fino a quando non la vide spirare? E poi, come se nulla fosse accaduto, si rivestì, razziò i gioielli e se la svignò. Scrutai ancora il pendolo. Le quattro erano passate da un paio di minuti e non avevo pranzato. Mi sollevai dalla poltrona, presi il raccoglitore con indicato «Borgo Angeo. Luglio 1974» e lo chiusi. Quello azzurro, «Suresti. Giugno 1981», poteva attendere; c'erano altre carte da inserire. Andai verso la cucina. Le orecchie mi ronzavano. Aprii 11 frigo, tirai fuori una birra e mi chinai in cerca di qualcosa da mangiare. Un barattolo di maionese, una bottiglia

di latte ormai vecchio, tre carote. Una pena: pareva il frigorifero di un morto di fame. Cercai un motivo serio per decidere di uscire, ma non lo trovai. Spalancai il freezer e presi due pezzi di carne avvolti nel cellofan. Erano duri come la pietra e grossi come un pugno. Avrei dovuto attendere più di quattro ore prima di poterli cuocere. Misi dell'acqua in una pentola e accesi il gas. Per coperchio utilizzai un piatto di ceramica e ci poggiai sopra le due fette di carne. Non era il sistema più corretto, ma non c'erano alternative se volevo scongelarli in meno di un'ora. Sorseggiai un po' di birra mentre sul viso fece capolino il primo sorriso della giornata. Avevo ancora tempo per raccogliere i frammenti della mia memoria. Riuscii, senza difficoltà, a rievocare con oggettività, quasi con freddezza, il resoconto della mia opera. La primavera del millenovecentoottantuno sarà sempre ricordata dai vecchi ciarlieri come una delle più precoci degli ultimi vent'anni. Già dagli inizi di aprile era possibile imbattersi in uomini che passeggiavano con la giacca buttata sulle spalle e ragazze che si erano azzardate a riporre nei cassetti i collant. Non era facile rimanere indifferenti verso quelle gambe nude e bianche e, a volte, attraenti. Come al solito, in coincidenza dei primi caldi, cominciai a non fermarmi più in ufficio durante l'intervallo del pranzo. Quel mercoledì, pur se ero senza macchina, non trasgredii a tale consuetudine. La vecchia Alfa aveva esalato l'ultimo respiro, e il concessionario si era ripromesso di consegnarmi quella nuova per il venerdì successivo. Entrai in casa rosso come un pomodoro. Avevo sopravvalutato le mie capacità a reggere, alle due del pomeriggio, tre chilometri a piedi. Andai subito al bagno e mi gettai dell'acqua sul viso. Percepii qualcosa d'insolito. Smisi di strofinarmi la faccia con l'asciugamano e creai il silenzio. Un ronzio, quasi un sibilo, stuzzicava il mio timpano. Di sicuro proveniva dalle altre stanze.

Dal corridoio potei riscontrare che il frigo, in quel momento, non stava caricando. Mi accingevo a tornare nel bagno quando mi ricordai della segreteria telefonica. Il suono proveniva da lì. Da quando la mamma era andata via mi ero convinto a mettere quel marchingegno che, tuttavia, continuavo a trovare inutile e stupido. Chiunque, infatti, avesse da dirmi qualcosa di urgente mi avrebbe cercato in ufficio. Il ronzio e un display lampeggiante segnalavano la presenza di una chiamala. Feci girare il nastro e attesi. «Sono il dottor Trotti, della clinica San Teodora, la volevo pregare di raggiungerci immediatamente. Sua madre sta poco bene. Arri vederla... Bip.» Fine del messaggio. Rimasi qualche secondo a riflettere su quel «raggiungerci immediatamente». Era chiaro: quel pavido voleva evitare una mia telefonata. Alzai la cornetta e composi il numero dell'ufficio. Due squilli. «Segreteria del laboratorio...» rispose una voce di donna metallica come un disco rotto. «Senta...» «Salve, dottore, mi dica, sono Daniela.» Era stata trasferita nella mia sezione da meno di sei mesi. «Come hai fatto a riconoscermi?» «Lei dimentica che prima lavoravo al centralino. Per me le voci delle persone sono come un ritornello di musica leggera. Le riconosco alle prime note.» Non era facile sopportare per tutto il giorno la sua vitalità e la sua frenesia di apparire utile. «Complimenti! Senta, ho qualche problema con mia madre, e perciò questo pomeriggio non vengo in ufficio. Spero di essere lì domani mattina.» «Vada tranquillo, ci penso io. A presto.» Daniela stava di sicuro sfoggiando il solito cocktail di richiamo: sorriso radioso, incostanti capelli scuri e gambe lunghe. Non era facile per i maschi della compagnia gettare lo sguardo altrove quando lei decideva di essere in «piena forma». Presi la giacca, le sigarette, le chiavi della macchina.

«Cristo!» sbottai. «Dove vado? Mica posso andare a Pieve dei Marchi a piedi.» Dovevo prendere un taxi. L'auto non impiegò molto a raggiungere la periferia della città. Aprii il finestrino e accesi una sigaretta. Le sopracciglia contralte del tassista apparvero minacciose sullo specchietto retrovisore e un dito nodoso mi indicò il cartello: VIIÌTATO FUMARE. Trovavo sgradevoli gli ordini perentori. Gettai la sigaretta e mi appisolai. Avevo poca voglia di riflettere sul come la mamma fosse morta e sullo stereotipato modo di comunicarmelo. Verso le quattro il taxi raggiunse la clinica San Teodora, un nome troppo raffinato per un ospizio. Pagai la corsa facendo ben attenzione a non lasciare una lira di mancia. Il tassista, sbuffando, ricambiò con una rumorosa chiusura dello sportello. A quell'ora mi aspettavo che gli anziani ospiti fossero impegnati nel riposino pomeridiano. Invece erano tutti lì, nel giardino, a tentare di rubare ai cipressi i caldi raggi del sole. Mi riconobbero subito, sebbene fossi andato solo tre volte a trovare mia madre. Qualcuno s'inchinò reggendo il cappello in mano, altri cercarono di evitarmi. Due tra le più anziane si nascosero dietro un oleandro per parlottare indicandomi come delle bambine curiose. Forse erano impegnate a fantasticare se, nel giorno del richiamo, i loro tìgli si sarebbero comportati nello stesso modo. Il direttore della clinica, allungando la mano, scese di corsa le scale. Era un ometto sui cinquant'anni, rosso di capelli, il viso coperto di sudore e di lentiggini appariscenti. Indossava un vestito grigio ben stirato e ben portato. Due baffetti neri, tinti, dritti, curati di sicuro con un righello, gli disegnavano il labbro superiore; la chioma impomatata ma piena di forfora. Anche la sua mano era impregnata di brillantina. Mi ricordava un ufficiale nervoso tutto preso a ricevere degli ospiti illustri. «L'ho cercata ovunque questa mattina», sussurrò untuoso, stando ben attento a non farsi sentire dai vecchietti.

«Lo so», risposi freddo. «Ce ne siamo accorti all'alba. L'infermiera era andata a somministrare la terapia e l'ha trovata immobile nel letto. Abbiamo chiamato il professor Altieri, il famoso cardiologo, che ha potuto solo diagnosticare un collasso cardiocircolatorio... Povera signora, non si è accorta di nulla.» «La ringrazio.» Il verme credeva di lusingarmi. Per compilare il certificato di morte sarebbe stato sufficiente l'intervento del medico di guardia. Ma il professor Altieri prevede un altro tipo d'onorario per il disturbo. Dovevo essere appagato, secondo lui, di avere ricevuto una diagnosi autorevole. «Ci siamo permessi di ricomporre la salma nella stanza. Sa, i nostri ospiti sono particolarmente emotivi. In questi frangenti, evitiamo, se è possibile, di utilizzare la camera mortuaria. Comunque, questa sera, quando tutti dormono, la trasferiremo di sotto.» «Non occorre. Può restare dove si trova.» Cercai di contrassegnare le mie parole con il massimo del gelo. «Perfetto. Sono d'accordo con lei. Per le esequie ci siamo già rivolti in passato alla ditta dei Fratelli Bullicani. Sono persone serie e molto dignitose. Se non ha preso contatto con un'impresa di sua fiducia le consiglio di rivolgersi a loro. Abbiamo un ottimo rapporto da diversi anni.» «Senta, io non sono molto pratico di queste cose, mentre vedo che lei è espertissimo. Mi faccia il piacere di provvedere.» «E un onore», cinguettò. «Se non ha problemi, avrei pensato di farli intervenire domani mattina alle otto. A quell'ora gli ospiti sono ancora a letto e avremo poca confusione. A proposito, dove sarà trasferita sua madre?» «La tomba di famiglia è a Vurgoli. Dica ai Bullicani di organizzare, con quelli del cimitero, sia la benedizione sia la sepoltura. Io non so a chi rivolgermi.» «Ma si figuri! Ora la faccio accompagnare.» «No, lasci perdere; conosco la strada... Un momento,

per le spese ho con me solo il libretto degli assegni. Ci sono difficoltà?» «Non lo deve neanche pensare. Più lardi verrò a trovarla.» Girò su se stesso. Ebbi la sensazione di sentire uno sbattere di tacchi. Inforcò degli occhiali scuri e, lasciando una scia di brillantina, si avviò con rapidi passi seguito da una mascolina caposala. Salii al primo piano. La stanza non era certo quella di una principessa. Era piccola, con un letto senza testiera e un comodino grigio con sopra un pupazzo di ceramica che raffigurava un clown. Una lampada rossa sostituiva il naso. Sulla destra un cassettone con sopra una valigia e un armadio aperto e vuoto. Vicino, un lavabo antiquato. L'unica cosa che rendeva sereno l'ambiente era una finestra alla sinistra del letto. Dava sul retro della clinica e affacciava su un campo di calcio in terra battuta. Due squadre di ragazzini, con le magliette dai colori diversi, erano impegnate a centrocampo. Gettai un rapido sguardo sulla mamma. Sembrava che si fosse accorciata. Le avevano infilato un vestito blu scuro un po' sgualcito. Il viso era scavato, ma tranquillo. Tra le mani stringeva un rosario. Dei gladioli erano stati sistemati ai suoi piedi. Non erano trascorsi neanche tre mesi da quando le avevo suggerito di andare in un buona casa di riposo. «Vedi, mamma, tu fisicamente stai bene; ma qui rimani sola tutto il giorno. Io esco la mattina presto e spesso mi ritiro dopo l'ora di cena. Non sono tranquillo pensando che la signora Beatrice può farti compagnia solo un paio di ore al giorno.» Rimase in silenzio, ma non diedi peso alla cosa. Da quando avevo deciso di portarla con me in città era peggiorata a vista d'occhio. Se qualcuno non provvedeva a starle vicino si dimenticava anche di mangiare. Decine di volte, la sera, ritrovavo il pranzo intatto. Ma non era questo l'aspetto che mi turbava maggiormente; il ritomo a casa era diventato ormai una vera e propria tortura. La coglievo seduta sulla poltrona, immobile e muta. Appena la

porta si apriva, i suoi occhi mi si incollavano addosso e non si staccavano fin quando, dopo averla messa a letto, spegnevo la luce. Ero comunque convinto che al buio, al di là dei muri, continuasse a seguirmi. Quella volta il cugino Alfredo mi aveva confortato suggerendo il ricovero in un centro per anziani. «Portala alla clinica San Teodora... Hanno un buon livello di assistenza.» Sì, l'assistenza era stata buona. «Baffetto» aveva tutti i motivi per essere soddisfatto. Spiai quel cadavere solo per qualche minuto. Il naso sembrava cresciuto. «Certo in questi anni non sono stato molto con te», riflettei. «Dal fatto di Borgo Angeo ho sempre evitato la tua presenza.» Dopo un paio di anni avevo accettato l'offerta per un corso di specializzazione presso il laboratorio di citochimica dell'università di Palo Alto in California. Avevo bisogno di spezzare il ritmo della mia vita, di ridurre il ricordo di Maria Chiari, di Anselmo Paoli e della 127, di controllare gli scricchiolii del mio Io. Los Angeles riuscì per un certo tempo a indurmi una dimensione diversa della vita. Non poteva essere altrimenti. La vivevo come una città planetaria, lontana dalle dimensioni comunicative dei nostri paesi. M'impressionò constatare la mancanza, nella metropoli californiana, sia della periferia sia del centro. Centotrenta chilometri da nord a sud per ottanta da est a ovest. Un labirinto di strade e superstrade che sembrava non avere mai fine. Se sei privo di una macchina puoi anche morire. «Ma perché questo tipo di sviluppo?» domandai una volta ingenuamente. Mi squadrarono come un alieno, come se a qualcuno delle nostre parti venisse chiesto il motivo per cui Leonardo da Vinci, Michelangelo o Caravaggio avessero scelto di nascere proprio qui. «Noi abbiamo la faglia di Sant'Andrea», mi risposero comprensivi, «una frattura enorme nel sottosuolo. Vi sono spostamenti di aree tettoniche dal mare di Cote/, verso la baia di San Francisco e i geologi sono convinti che, en-

tro il duemila, avremo un terremoto così forte da ridurre in briciole Los Angeles. Per questo motivo la città non può crescere verticalmente ma solo orizzontalmente, in tutte le direzioni. Chiunque viene a vivere qui si mette il cuore in pace e aspetta il number one, il grande botto.» La vita lì assume un altro valore: effimero, fugace, quasi inutile. Come la mia esistenza. La cosa all'inizio sembrò terrorizzarmi, ma poi mi adattai piacevolmente. Tutto era più gradevole, anche le puttane che, nell'incomprensibile slang californiano, evitavano di chiedermi: «Che cosa hai fatto in mezzo alle gambe? Poverino...» Al ritorno in Italia ero stato di nuovo promosso e riassorbito in inedite responsabilità. La Beretta e il coltello dormivano, impolverati, nella cassetta delle bottiglie di cognac. Sentii strillare i ragazzi. Mi avvicinai alla finestra. In una nuvola di polvere riuscii a vedere delle gambe che cercavano di conquistare la palla. Accesi la sigaretta e mi gustai la partita. «Ci sono problemi?» La voce del dottor Trotti mi rimbalzò sulla schiena. «Non mi sembra», risposi acido. Forse cercava delle lacrime. «Le ho fatto preparare qualcosa per cena. Se vuole, di là è pronta una stanza per riposare. Due suore veglieranno la signora.» «Grazie. Forse mangerò qualcosa più tardi. Per questa notte prevedo di restare qui. Se potesse farmi avere una sedia, una poltrona...» «Immediatamente, provvedo io stesso.» Finii di vedere l'incontro di calcio e mi addormentai senza sognare. «Prenda del caffè caldo.» Una voce cavernosa mi ricordò all'improvviso che non ero io a dover essere vegliato. Era un'infermiera composta da un aggregato di grasso dalle dimensioni più disparate. Le gambe erano simili a cotechini, e sostenevano dei fianchi massicci. Era grossa, ma faccia e braccia erano ancora più grosse. «Grazie. Che ore sono?» chiesi con la bocca impastata.

«Sono le sei e trenta. Tra una decina di minuti verranno quelli delle pompe funebri con la cassa.» «Di chi è quel cuscino di fiori?» «È stato offerto dagli altri ospiti.» Piegò l'enorme testa per nascondere, tra i grigi capelli, la bugia. «Dove posso trovare il direttore?» «È nel suo ufficio. Penso la stia aspettando.» Lanciai l'ultima occhiata all'involucro di mia madre e scesi al piano di sotto. Come prevedevo il conto era da codice penale. Gli extra e i costi imprevisti erano gonfiati a dismisura. Probabilmente il professor Altieri si accingeva a godersi un rilassante week-end grazie alla consulenza sul cadavere. «Baffetto», sbarbato di fresco, cercò di nascondere il suo residuo senso di colpa balbettando tutte le spese e non omettendo il calcolo dell'Iva. Posi fine alla sceneggiata firmando un assegno comprendente un'abbondante mancia per il personale. «Tutto a posto», canticchiò soddisfatto. «Ora, se permette, ho qualcosa per lei.» Si girò verso un armadio e, con solennità, tirò fuori una scatola di cartone che, all'origine, era stata confezionata per custodire delle scarpe numero trentasette, color nero, ditta Madras. Era chiusa con uno spago pieno di nodi. «L'ha lasciata la signora. Si è raccomandata di consegnarla nelle sue mani.» «La ringrazio. Ora tomo su.» Lo piantai un po' nervoso. Forse confidava nel fatto che aprissi il pacco davanti a lui. Poteva sempre sperare in un lascito per la San Teodora. La mamma era già nella cassa. Un ragazzotto in jeans, butterato, ultimo esponente della famiglia Bullicani, si aggirava assonnato e annoiato. Sembrava non aver gradilo la levataccia. Ma quando mai, avrà pensato, si organizzano funerali alle sette del mattino; neanche per i condannati a morte! «Noi siamo pronti. Dobbiamo attendere qualche parente?»

«No, ci sono solo io. Ha preso contatti con il cimitero di Vurgoli?» «Si, tutto a posto. Quando vuole possiamo partire.» «Per me anche subito... Oh, maledizione!» esclamai stringendo il pugno. Mi fissò contrariato. Non prevedeva di affrontare problemi superiori a quello di una salma obesa. «C'è qualcosa che non va?» domandò infilandosi un dito nel naso. «Sono senza macchina, e non sarà facile, a quest'ora, trovare un taxi.» Il giovane becchino guardò l'aiutante, che stava stringendo l'ultima vite sul coperchio color noce, e sorrise. «Io un'idea ce l'ho. Può sembrare ridicola, ma non mi viene in mente altro.» «Dica pure.» «Potrebbe venire con noi sul carro funebre. Purtroppo davanti c'è posto solo per due. Non mi pare ci siano molti fiori... Uno di noi dovrebbe salire vicino alla cassa. No, mi scusi, è tutto troppo buffo.» Osservai i suoi strenui tentativi di controllare una risata. «L'idea mi sembra buona. Non ho problemi ad adattarmi», dissi cercando di assumere un'aria convincente. «Un momento, aspetti. Facciamo così: si parte dalla clinica e lei ci segue a piedi dietro il feretro. Alla prima curva sale con noi e partiamo. Alle porte del paese ripeteremo la stessa scena.» «È la soluzione migliore. Ma non voglio crearvi fastidi. Salirò io vicino alla bara.» «Ma no. Ci si metterà uno di noi...» «Vi prego, facciamo come dico io.» Non tentarono di convincermi più di tanto. Nel giardino trovai «Baffelto» con qualche inserviente. Le finestre degli ospiti erano chiuse, parevano sigillate; ma dietro le persiane ebbi la sensazione di scorgere dei volti muoversi. Il carro si avviò lentamente. Lo seguivo, a qualche me-

tro, con la giacca sulle spalle e la scatola di cartone sotto l'ascella. Somigliavo a un contadino che si reca alla fiera a vendere i pulcini. Dopo cinquecento metri il corteo si fermò. Bullicani fece un timido tentativo di mettersi vicino alla mamma. Lo bloccai: «Lasci perdere, starò comodo». Non avrei mai sopportato che lo sguardo divertito di quanti sorpassavano il furgone fosse rivolto ad altri. Mancava l'aria. I pochi fiori emanavano un profumo così intenso da far girare la testa. Appoggiai il braccio alla cassa e accesi una sigaretta. Cara mamma, non puoi certo dire che ho dimenticato di starti accanto nell'ultimo viaggio. In fondo la morte può anche riavvicinare. I due becchini ogni tanto si giravano e, con un cenno, mi chiedevano se tutto andava bene. Sorrisi; la morte, pensandoci bene, presenta aspetti comici. Ritomai con la mente a quelli della 127; in quel caso la «sorella della vita» si era espressa attraverso le mie mani. Le prime case bianche di Vurgoli apparvero improvvisamente all'orizzonte. Diedi un pugno sul vetro che divideva la «zona bara» dall'abitacolo. Scesi, e l'esigua processione s'incamminò verso il cimitero. Di fronte al cancello aperto, seduto vicino al fontanile, don Grazioso, circondato da una decina di vecchiette senza colore e senza età, si asciugava la fronte con un fazzoletto. Appena intravide il carro indossò la stola, si avvicinò e mi abbracciò. «Dovevo aspettare la morte della povera Clotilde per incontrarli. Ti trovo bene. Complimenti per il tuo lavoro. Tua madre mi ha detto che sei stato in America. Poi mi racconterai... Benedici o Signore...» Mi sentivo ridicolo con quel pacco in mano. Scrutai intomo; ma non trovai nessun posto dove poggiarlo. Per fortuna la cerimonia fu brevissima. Con quel caldo era impossibile resistere più di tanto nella cappelletta del camposanto. Rividi il libro di travertino con la foto del babbo. 11 gatto era sparito e lui, per mia fortuna, rimase in silenzio.

La mamma gli andò a fare compagnia senza disturbare. Don Grazioso mi prese sotto braccio e, con passi lenti, mi accompagnò fino sotto casa. Si dilungò nel raccontarmi che l'affresco dell'altare principale attendeva i restauri delle Belle Arti, che l'unico cinema del paese proiettava solo film osceni aumentando così il già scarso attaccamento dei giovani alla parrocchia. Poi, a bruciapelo, mi domandò: «Ma quanti figli hai?» «Perché me lo chiede?» «Clotilde mi aveva confidato che ti eri sistemato. Se hai altri bambini li voglio battezzare io, ma sbrigati, mi è rimasto poco tempo...» Mia madre gli aveva confessato i suoi sogni, le sue fantasie. Bugie che, comunque, le avrebbero lascialo aperte le porte del paradiso. La casa puzzava di chiuso. Aprii la porta della mia camera e, al buio, m'inoltrai. Dischiusi le finestre. Nulla era mutato, la valigia sotto la finestra, il letto in ferro battuto nero, i vecchi abiti appesi nell'armadio. Giudicai infantile contemplare il mio passato; poggiai, quindi, il contenitore di cartone sulla scrivania che, da ragazzo, mi aveva visto, stancamente, studiare. Trovai delle forbici e tagliai lo spago. Alzai il coperchio. C'erano alcune buste e un libro, Il vangelo secondo Giovanni, con copertina marrone. Nella prima busta vi erano una decina di foto in bianco e nero. Quelle più ingiallite, con gli angoli ormai piegati, ritraevano mio padre. In qualcuna indossava l'abito delle grandi occasioni: lo smoking. In altre riconobbi il periodo della guerra e della prigionia. Nella seconda vi erano cinque lettere vergate, con l'inchiostro verde, durante la forzata permanenza del babbo in Algeria. Le lasciai sul tavolo. Avvolte in un fazzoletto, insieme a due fedi, trovai delle banconote. Quasi tutti biglietti da diecimila, in totale un paio di milioni. La mamma si era sempre rifiutata di scoprire che cosa fosse un conto in banca. L'ultima busta era chiusa. Bianca con strisce rosse ai lati, come quelle utilizzate per la posta aerea. Su un lato

vi era riportato il destinatario: «Per mio figlio». Né nome né cognome. L'aprii stando attento a non rovinare il foglio. La grafia, minuta e ordinata, era quella di mia madre. Figlio mio, Questa lettera l'ho riscritta decine di volte. Ogni volta mi sembrava di aver dimenticato qualcosa o di aver detto troppo. Ma in realtà non ho tolto o aggiunto quasi nulla. Forse oggi è l'ultima volta che la scrivo... chi sa? Devo raggiungere tuo padre. Non so quando. Non credo, comunque, che dovrò aspettare per molto. Dio mi perdoni, non si dovrebbe mai desiderare la morte. Gli ultimi anni sono stati per me i più terribili. Ma non per il mal di cuore o per le ossa fragili. Sei tu, proprio tu, la mia maggiore sofferenza. Speravo di vederti sistemato e invece vivi come un lupo. Speravo di averti donato la voglia di far del bene, e invece i tuoi occhi cercano solo il male e la morte. Io presagisco il motivo vero per cui, sette anni fa, non sei venuto quella domenica a casa. Tu hai taciuto, ma una mamma è in grado di leggere nelle pagine della mente del proprio figlio. Poveri ragazzi, che male avevano fatto? È possibile che in questi anni non hai mai ritenuto opportuno andare a piangere sulla loro tomba? Io l'ho fatto diverse volte, e ho chiesto perdono per te. Ho a lungo sperato di ricevere un segnale da nostro Signore in cui mi svelasse che era tutto uno sbaglio, un tragico errore della mia mente. Niente. Lui è rimasto in silenzio, come te. Mi resta la sola speranza di morire presto. Dio ti benedica e ti protegga, figlio mio. Ma, allo stesso tempo, mi maledica insieme a tuo padre. Ci portiamo dietro la terribile colpa di averti messo al mondo. Tua madre. Il foglio cadde giù, come fosse stato di piombo. Sette anni erano passali invano. Sembrava che il calendario fosse rimasto fermo al luglio del Settantaquattro.

Il cuore cercò di farsi spazio nella gola. L'aria stentava a restare nei polmoni per più di un secondo. La casa mi apparve all'improvviso come un castello di fantasmi. Cercai mia madre, immaginai che fosse in cucina a preparare gli agnolotti. Volevo insultarla, chiederle perdono, piangere tra le sue ginocchia, mordere le sue braccia. Non era possibile: il suo spirito, i suoi occhi erano gelidi. Provai a incanalare i miei pensieri verso zone meno distruttive. La cosa era impossibile: la voce della mamma continuava a ingombrare le mie orecchie e sospirava: «mi maledica insieme a tuo padre...» Era inutile anche provare a tapparle. Avevo bisogno di osservare qualcosa di vitale. Mi avvicinai allo specchio dell'ingresso e tentai di scacciare le sembianze di un teschio. «Ma perché devo soffrire?» imprecai. Dovevo coprire il vuoto. «Ho fatto bene! Loro meritavano quella fine. Se fossi stato colpevole Dio mi avrebbe fatto arrestare, mi avrebbe punito. Ma non sono stati loro a strapparmi il coglione... È la stessa cosa, è la stessa cosa. Ognuno è colpevole di qualcosa, tutti sono colpevoli, tutti ridono, tutti sono d'accordo nel punire chi pensa da solo...» Cercai di soffocare l'angoscia: «Forse il mondo ha dimenticato Maria Chiari e Anselmo Paoli, e il solerte brigadiere non ricorda nulla della visita in ospedale». Ma per me era impossibile uscire dal passato. Scesi in cantina con la mente fredda e gli occhi acidi. Presi una mezza dozzina di scatole di «H-Winchester». Buttai tutto in una borsa. Serrai la casa e raggiunsi la fermata del pullman che mi avrebbe ricondotto in città. Amavo passeggiare per la campagna. L'odore della terra rendeva il mio cervello più lucido, privo di tentennamenti. Fino a qualche tempo prima camminavo per ore soffermandomi a sbirciare le cime degli alberi o le forme degli arbusti: da quando la mamma era morta i miei occhi sono rimasti sempre fissi a terra.

Era eccitante scoprire attraverso delle tracce, per i più inesistenti, la presenza o il passaggio di esseri viventi. Pochi riescono, infatti, a capire se un fungo è stato schiacciato da un uomo o da un animale in fuga. Non erano però tali espressioni della natura a stimolare la mia attenzione. Appena vedevo una piccola radura nei pressi di una strada carrabile mi bloccavo. Scrutavo il terreno cercando i segni lasciati dai pneumatici o i mozziconi di sigaretta. Mi inchinavo, li raccoglievo e cercavo d'intuire se delle bocche femminili li avessero stretti tra le labbra. Nelle escursioni più fortunate trovavo preservativi smosciati e fazzolettini di carta accartocciati. In quei momenti avevo difficoltà ad arginare le emozioni. Sentivo odore di sesso, di tradimento, di sfottò per quelli che non amano e non sono amati. Vedi come siamo bravi. Scopiamo e siamo felici... Tu stai alla larga, sei di un altro livello. Se quei porci fossero stati meno vili avrebbero trasformato i loro pensieri in slogan da attaccare alle auto. Invece riuscivano solo a prendermi in giro con una risata sguaiata o col buttare, come un trofeo inutile, il caucciù fuori dall'auto. I «guardoni» come Gianni dovrebbero sentirsi umiliati, calpestati dai loro atteggiamenti, e invece pare godano di questo trattamento. Illusi, non riescono a essere neanche dei vermi. I luoghi più ricchi di tracce li fissavo nella memoria. Il sabato sera li richiamavo aiutato da un potente intensificatore di luminescenza. Lo avevo acquistato, per trenta dollari, in un negozio di Los Angeles. Quando ero certo di non essere visto, mi accovacciavo e, sotto una intensa luce verde, scrutavo porci illusi di avere nel buio un alleato invalicabile. L'avere a portata di mano due ginnasti dell'erotismo mi provocava un senso di forza che a stento riuscivo a controllare. Ma il programma doveva andare avanti. Trovai il luogo più adatto, nelle campagne vicino a Suresti: scelsi l'auto, una Renault 5 avana un po' vecchiotta; osservai a lungo i due amanti; studiai il calendario; preparai i miei stru-

menti e aspettai accarezzando la Berelta e il coltello che, nella bisaccia, fremevano come topolini affamati. Non badai a loro, sapevo che era tutto frutto della mia immaginazione. Il resto fu semplice, forse troppo. Sotto il cielo senza luna, la lama non ebbe alcun riflesso. Il piatto vibrava sulla pentola. Mi destai, sembrava che qualcuno fosse entrato in casa. Appoggiai il tronco allo schienale della poltrona e mi massaggiai gli occhi. Era più tardi di quanto pensassi. Mi alzai, dirigendomi verso il fornello. Pochi rumori in quella stanza: gli essenziali. Chiusi il gas. La carne aveva riacquistato un colore e una consistenza naturale. Cucinai la fettina senza olio. Sapeva un po' di muffa ed era dura come il cartone, ma mangiai con avidità, direttamente dalla padella. Avrei avuto un piatto in meno da lavare. Tolsi il cellofan dall'altro pezzo, sembrava pulsare. Accesi il tritacarne elettrico e regolai le lame alla misura media. Spensi l'elettrodomestico. Vi erano ancora troppi peli e rischiavo di bloccare i meccanismi. Accesi un fornello e passai più volte la carne sulla fiamma. Uno sfrigolio. Un penetrante odore di bruciato mi colpì. Lo avevo spesso sentito nella fanciullezza, quando mia madre puliva la gallina destinata a un buon brodo. Il pezzo era ancora fumante quando riaccesi il tritacarne. Raccolsi la poltiglia in un piatto e andai nella veranda. Sulle mensole, protetti dal sole, vi erano i miei piccoli capolavori. Da anni ormai dedicavo a loro parecchio del mio tempo libero. Avevo cominciato quasi per gioco. All'inizio con le Pinguicole: la Pinguicola vulgaris e la Pinguicola alpina. Pareva tutto molto semplice. Poco drenaggio, terreno sempre umido; ciononostante i risultati non furono granché. La terra era troppo ricca di sali minerali e le piante divennero presto pigre. Poi passai alle Utricularia e alle Drosere, ma questa volta in idrocoltura. Il massimo lo raggiunsi con una magnifica Utricularia Ochrhleuca.

Era uno spettacolo vederla lavorare con le sue foglie che assomigliavano alle mani di una donna intenta a suonare un'arpa. Quando mi sentii più sicuro organizzai una serra per coltivarne alcune di origine esotica. Ne avevo un paio della famiglia delle Nepenthes e una Sarracenia proveniente dall'Amazzonia. Dalla California feci arrivare delle Dionaea muscipula. Ricordo ancora la faccia da scemo dello spedizioniere perplesso per l'insolito trasporto. Le amavo. Ci parlavo. Godevo nel vederle danzare, nutrirsi. Presi un paio di pinzette di plastica. Ispirai profondamente una decina di volte. Poggiai il piatto su una sedia e con delicatezza le imboccai. Un pezzettino di carne per ognuna. Erano fameliche, le avevo lasciate digiune per più di una settimana.

3

L'UFFICIO di Cadone era irriconoscibile. Carte in ogni angolo, portacenere sempre pieni di mozziconi schiacciati, bicchieri di carta accartocciati, sedie distribuite disordinatamente. Un buon odore di caffè dava il benvenuto a chiunque varcasse la porta. Quelli della buon costume avevano prestato ai colleghi una macchina per espressi comprata, un paio di anni prima, con una colletta. «Prendete!» avevano detto loro con finto sarcasmo. «Ora dovete lavorare pure voi. Con questa sarete più svegli. Appena catturate quello stronzo ce la ridate.» L'indagine però aveva, sin dai primi momenti, perso brio. Pochissime persone, negli anni passati, avevano compiuto reati mentre, ansimando, spiavano le coppiette. Qualche rissa e una decina di resistenze a pubblico ufficiale durante l'identificazione a seguito di una retata. Nessuno di essi era stato denunciato per violenza carnale. Lanciotti, nel rileggere l'elenco dei convocati, si rese conto che la ricerca dell'assassino stava impantanandosi. I guardoni conosciuti da carabinieri e polizia rappresentavano, purtroppo, la punta di un iceberg di cui non si riusciva a percepire la dimensione della parte sommersa. «Caro Pino, qui se non c'inventiamo qualcosa rischiamo solo di perdere del tempo prezioso», confidò Lanciot-

li con un Filo di voce. Troppa gente interrogata, troppe sigarette erano state fumate. «Hai ragione. Ho la sensazione di cercare un ago in un pagliaio, e per di più non si trova ancora la paglia.» «È così. Sarà necessario prima radunare le balle di fieno. Ma come possiamo fare?» L'ufficiale fissò un poster che riproduceva dei soldatini in piombo dell'armata napoleonica. Le miniature, con lo sguardo assente, parevano beffeggiarlo. «Bisogna giocare un po' pesantemente», sospirò cercando l'accendino sotto un cumulo di carte. «Come intendi agire?» Da giorni Cadone attendeva uno spunto originale dal navigato investigatore. «Occorre far diventare questi pervertiti i nostri migliori alleati. Bada bene, non dei confidenti, ma veri e propri collaboratori. Il nostro compito sarà quello di verificare il frutto del loro lavoro.» Lanciotti liberò il tavolo e allargò le braccia. Il commissario ormai conosceva bene quel gesto: l'ufficiale aveva bisogno di particolare attenzione da parte del suo interlocutore. «Sentimi bene. Le persone riportate su quel foglio di sicuro sospettano che li vogliamo sentire per i delitti di Suresti e di Borgo Angeo. Noi ci dobbiamo limitare a rafforzare questa sensazione. Lasceremo sui tavoli alcune foto delle vittime, un agente verbalizzerà ogni loro frase, e tre o quattro dei nostri stazioneranno in fondo al corridoio con macchine fotografiche e registratori in modo da sembrare giornalisti. Chiunque varcherà questa porta dovrà credere di essere stato cercato in quanto abbiamo in mano degli indizi ben precisi, fornitici, per esempio, da lettere o telefonate anonime. Se si incazzeranno li inviteremo a firmare una denuncia per calunnia contro ignoti. In quel momento sapranno che possiamo convocarli a nostro piacimento. Brezzi di sicuro ci darà una mano.» «Ma pensi che ciò li indurrà a collaborare?» chiese incuriosito il commissario. «Per la maggior parte di loro ritengo sia sufficiente que-

sta sceneggiata. Per gli altri, basterà far loro intendere che non possiamo impedire che sia divulgata la notizia della loro presenza in questura. Gli agenti travestiti da cronisti dovranno essere particolarmente convincenti con le loro moine. I giornalisti diventeranno i loro nemici; noi, coloro che li possono difendere dalle malefatte della stampa. Quasi tutti i guardoni, per quello che mi risulta, hanno da difendere solo due cose: l'onorabilità di una vita priva di macchie e il segreto sul loro vizietto.» Cadone lo guardò compiaciuto. Non c'era niente da dire; la tattica di Lanciotti, pur se presentava dei rischi, appariva un ottimo mezzo per trovare il bandolo della matassa. In quel momento si ricordò di una frase di Fabrizi: «Questi soggetti sono fondamentalmente dei vigliacchi. Sono disposti a tutto pur di soddisfare la loro perversa sessualità; ma, allo stesso tempo, aspirano a non mettere mai in discussione la loro facciata di rispettabilità. Se la loro mania viene resa pubblica possono anche arrivare al suicidio». La scelta lattica di Lanciotti apparve subito vincente. Tutti i voyeur che, nei giorni successivi, furono ospitati nell'ufficio del commissario ne uscirono convinti di aver imboccato l'unica strada percorribile: quella della collaborazione. Ognuno di essi fornì il nome di altri guardoni, alcuni particolari inediti su quel mondo sommerso e ringraziò gli investigatori per aver evitato loro uno sconveniente incontro con i giornalisti. In breve tempo Cadone e Lanciotti riuscirono a ricostruire una mappa precisa di quel singolare settore dell'umanità. Rimasero sorpresi nel constatare che gli «indiani» così venivano chiamati nella zona gli appassionati del sesso osservato - non erano dei solitari ma, al contrario, organizzati come una vera e propria società segreta. L'intera provincia era suddivisa in «territorio di battuta». Ogni zona, inoltre, aveva i cosiddetti punti caldi. Gli «indiani» frequentavano sempre gli stessi luoghi e di rado sconfinavano in altre aree. All'interno del gruppo vi era un continuo scambio d'informazioni sulle novità che la tecnologia met-

teva a disposizione degli amanti di questo eccentrico hobby: cannocchiali agli infrarossi; microfoni ad altissima sensibilità, da collocare nei pressi dell'auto per spiare e cogliere ogni piccolo fremito. Quei «galantuomini» rivelarono ai due investigatori come anche le coppiette siano abitudinarie; si isolano quasi sempre lo stesso giorno, la stessa ora e nello stesso luogo. In questo modo i guardoni riescono a selezionare le «auto buone», ossia i veicoli dove gli amanti esprimono straordinari livelli di passionalità e sessualità. Secondo gli «indiani» alcune coppie sanno bene che la loro intimità è profanata da ospiti non invitati e, per alcune di esse, ciò è motivo di maggiore eccitazione. I guardoni, infine, non disturbano mai chi si apparta e difendono il loro preziosissimo territorio da invadenti e grossolani colleghi. In pratica, creano una specie di mutuo soccorso con le vittime della loro perversione. Qualcuno degli interrogati dichiarò di conoscere bene la zona dove il Sortini e la De Felice erano stati ammazzati. Tre o quattro di loro, forse temendo una possibile calunnia di un altro «indiano», ammisero spontaneamente di essersi soffermati a rimirare le effusioni di qui poveri ragazzi. Nessuno però era presente nella zona la notte del massacro. Dopo il terzo giorno d'interrogatori, Cadone e Lanciotti ebbero la sensazione di aver tolto il coperchio a una pentola senza fondo; come nella dama cinese, ogni giorno il numero di voyeur aumentava in modo esponenziale. Non era l'aspetto numerico a meravigliare l'esperto carabiniere; da anni infatti aveva smesso di sorprendersi sulla diffusione delle perversioni umane. Ciò che lo lasciava attonito era il fatto che quella disgustosa mania trovasse adepti all'interno di ogni categoria economica e culturale. Si erano presentati pensionati attanagliati dalla solitudine; professionisti affermati con moglie, figli e amante; persino aitanti giovanotti, abituati a raccontare memorabili, e impossibili, conquiste tra i tavoli di un bar. Durante l'interrogatorio di uno spocchioso commercian-

te di pellami, l'ufficiale non potè fare a meno di chiedere: «Mi scusi, ma perché lo fa?» «Vede, colonnello, io ho una vita sessuale normalissima.» Nel tentativo di dare consistenza alla sua affermazione si sistemò la cinghia sotto un cocomero che sostituiva la pancia. «Ma da tempo ho scoperto che siamo tutti dei voyeur. Anche lei qualche volta si sarà eccitato sbirciando dalla sua finestra la vicina in mutande, oppure vedendo scopare due in un film... Nello spiare amanti dal vivo però si provano delle sensazioni indescrivibili. Guardi, spesso non si vede granché: è la mente che lavora.» «Forse sarà come dice lei», sbuffò Lanciotti, che non aveva nessuna intenzione di contraddirlo. Poi aggiunse: «Può accadere che uno di voi non riesca a controllarsi e cerchi di passare alle vie di fatto?» «Ohè! Forse siamo un tanlinello strani, ma mica scemi», rispose assumendo l'aria odiosa di chi è abituato a vincere al tavolo del poker disponendo d'illimitati rilanci. «Se a uno di noi vengono fantasie particolari viene emarginato dal gruppo, espulso... Se lo vuole proprio sapere, la storia di Suresti per noi è una rovina. In questi giorni se uno si azzarda ad andare per i campi rischia una coltellata o una sprangata. Me lo lasci dire, colonnello, l'assassino non viene di certo dal nostro ambiente.» Il carabiniere lo guardò non nascondendo il disgusto. «Se volete continuare a gongolarvi, auspicatevi che lo prendiamo presto. Ora può andare.» L'agente, che in un angolo provvedeva a trascrivere l'interrogatorio, l'accompagnò all'uscita e tornò con un sorriso beffardo stampato sul viso. «Che hai da ridere?» chiese incuriosito Cadone. «Dalle mie parti questi zozzoni vengono chiamati i 'raccoglitori di cicoria' perché se ne stanno sempre piegati in mezzo all'erba. Quelli che ho visto oggi sembrano però più raffinati. Lo vuole sapere che cosa facevo quando andavo per campi con una ragazza?» Il commissario l'incoraggiò a proseguire. «Raccoglievo dei sassi e li lanciavo in ogni cespuglio.

Delle volte ne vedevo saltare tre o quattro, come cavallette.» Lanciotti non riuscì a divertirsi ascoltando l'ingenua storia del giovane poliziotto. Erano le quattro del pomeriggio, e c'erano ancora una decina di persone che attendevano di essere ascoltate. Venne fatto entrare un uomo alto e snello dai movimenti lenti. Forse era in preda alla paura. Ci mise un'eternità ad accomodarsi sulla sedia a lui destinata. Rimase in silenzio per un lungo minuto. Il consumato investigatore lo fissò impassibile in mezzo alla fronte. «Lo so a che cosa state pensando», disse l'uomo in falsetto. Non riusciva più a sopportare la tensione. La quiete che ne seguì incrementò il suo disagio. «Sono Vito Samara. Qualcuno vi avrà detto che a volte, il sabato sera, andavo nella macchia di Suresti.» «Proprio così», annuì l'ufficiale. L'anonimo impiegato del comune era giunto cotto all'interrogatorio. Non avrebbe dovuto perdere il solito quarto d'ora per renderlo più malleabile. Era sufficiente lasciarlo cuocere nel suo brodo, illudendolo che la fiamma fosse particolarmente viva. Prese a tamburellare sui braccioli della sedia. Gli occhi spalancati contemplavano Samara attraverso un velo d'indifferenza. «Vi posso giurare che non ci vado da almeno un mese», farfugliò. Poi, tutto d'un fiato aggiunse: «La Renault 5 l'ho vista solo due o tre volte. Era una macchina buona». «Però la situazione questa volta è un po' più grave. C'è di mezzo l'ergastolo.» «Lo so! Lo so! L'altro sabato non stavo in città, ero andato a trovare alcuni parenti a Foggia. Sono tornato mercoledì e mi hanno raccontato quanto era successo. Che criminali! Uccidere quei due poveracci, e poi ridurre in quel modo la ragazza con il coltello.» Cadone guardò incerto l'amico tentando di nascondere il suo stupore. Lo stomaco era in agitazione. La tensione che si era creata lo faceva star male.

Lanciotti controllò a fatica il desiderio di prendere Samara per il collo per fargli sputare tutto a schiaffoni. No, pensò, devo continuare con le manovre verbali come se tutto fosse scontato. «Perché secondo lei la De Felice è stata ammazzata in quel modo?» «Non riesco proprio a immaginarlo. Ho un vero terrore per tutto ciò che è violenza. Pensi, evito di comprare anche il giornale per non imbattermi nelle notizie di cronaca nera... Credo, ma badi questa è solo una mia supposizione, che l'assassino, strappando il sesso della ragazza, abbia voluto punirla per aver rifiutato delle proposte amorose.» L'ufficiale saltò dalla sedia. «Cristo! Si fermi. Ripeta quello che ha detto.» Samara si guardò intomo. Non riusciva a comprendere la strana reazione dell'investigatore. Ma sono pazzi, rifletté. In fondo ho detto una cosa banale, mica che la luna è quadrata. «Ehi, un momento! E solo una mia idea», precisò, «non voglio accusare nessuno... Ma portarsi via un pezzo del ventre di una donna non mi sembra un gesto da rapinatori, o da gente come me che si diverte a vedere due che scopano.» «Ha parlato con qualcuno della sua idea?» «Come le ho detto non amo trattare queste cose. Sono un tipo riservato io...» Con quella frase il solerte impiegato era intenzionato a spedire una maledizione a chi aveva suggerito il suo nome alla polizia. «Ne ho solo discusso cinque minuti con Masoli quando l'altro ieri mi ha raccontato come era stata ammazzata la ragazza.» «Chi è Masoli?» Cadone si morse subito le labbra. Con il suo intervento rischiava di far chiudere a riccio l'inaspettato testimone. Samara per fortuna non percepì la goffa reazione del commissario. «Mi sembra che lavori in ospedale. Credo sia un tecnico di laboratorio o un farmacista. Si chiama Franco. Qualche volta ci siamo incontrati di sera quando cercavamo la postazione buona.»

Cadone uscì di corsa dalla stanza. Lanciotti lo seguì con lo sguardo. Poi con un movimento degli occhi si sincerò che l'agente avesse riportato nel verbale ogni parola. «Che cosa succede?» domandò l'ignaro Samara. «Lei è sicuro di quanto riferito da questo Masoli?» insistette il colonnello. «Sì, Cristo! Ma è così importante?» Era infuriato con se stesso. Non riusciva a intuire dove avesse sbagliato; ma era chiaro, si era infilato in qualche guaio. «Dovrà restare ancora qualche ora a nostra disposizione. Agente, lo faccia accomodare in un'altra stanza, sotto tutela.» Il giovane poliziotto, pur trovando oscuro lo strano atteggiamento dell'ufficiale, si rese conto che doveva mettere Samara in isolamento. Uscì rimandando riflessioni e decisioni a momenti meno convulsi. La giornata era stata pesante e non sembrava volgere al meglio. Lanciotti si sentì insolitamente sereno. Il tempo pareva rallentato. Che strano, si scoprì a pensare, sono vicino alla meta, ma sento ancora un non so che di amaro nella bocca. Forse mi da fastidio l'idea di un criminale che confida al primo venuto le sue gesta... Pare proprio che nessuno provi più gusto a mantenere un segreto. «Andiamo! E fatta!» Cadone entrò gridando e levando le braccia al cielo come un maratoneta alla prima vittoria. «Masoli ha il porto d'armi, e otto anni fa ha acquistato una Beretta calibro 22.» «Dove abita?» chiese l'ufficiale indossando la giacca. «In via Roversi, vicino alla stazione centrale.» La strada era occupata da decine di bancarelle di fortuna che esponevano monili, braccialetti, piccoli oggetti di un artigianato indefinibile. Gruppi di ragazzi si attardavano distrattamente a manipolare la mercanzia e non badarono alla folta pattuglia di agenti in borghese che, guidati da Lanciotti e Cadone, si dirigevano, in silenzio, verso il numero civico venticinque.

Una donna sulla cinquantina, con indosso una vestaglia impregnata di un pesante odore di cipolla, era di guardia al portone. «Cercate qualcuno?» domandò con l'aria di chi non è disposto a veder sottovalutato il proprio ruolo. «Abita qui Franco Masoli?» esigè a sua volta il commissario. «Sì, il dottor Masoli abita al terzo piano. A quest'ora però non è ancora in casa. Che cosa desiderate da lui?» La portiera voleva far intendere che, essendo una delle poche depositarie delle informazioni riguardanti gli inquilini, bisognava avere cautela nel violare il suo territorio. La tessera mostrata da Cadone mutò l'espressione del suo viso che, in un istante, si colorì di un misto di paura e di malizia. «Il dottore, i giorni dispari, torna dall'ospedale verso le cinque. Credo che tra un quarto d'ora lo vedrete sbucare dal fondo della strada.» «Con chi vive?» chiese il carabiniere. «Da quando si è separato è rimasto solo... Comunque sopra c'è la moglie. Hanno rotto da sei mesi, ma lei ogni tanto viene a vedere se il dottore ha bisogno di qualcosa.» «Per ora, grazie.» Lanciotti si guardò un attimo intorno. «Agente! Resti con la signora e si faccia indicare Masoli. Poi lo accompagni di sopra: noi cominciamo a salire.» Il colonnello sperava di trovare qualche indizio prima che l'uomo arrivasse. Non aveva il mandato di perquisizione, ciononostante si auspicava una certa disponibilità da parte della moglie del sospettato. Gli investigatori lasciarono alcuni poliziotti sul pianerottolo del secondo piano e suonarono il campanello. Qualcuno nel frattempo scendeva le scale fischiettando. Dopo qualche secondo la porta fu aperta da una donna di circa trentacinque anni con lunghi capelli scuri, velati da qualche filo grigio. Il corpo sembrava un po' appesantito. Il volto tondo però conservava gran parte di una adolescenziale bellezza. Indossava una gonna bianca stretta

sui fianchi, delle scarpe con tacchetti a spillo e una camicia carta da zucchero che lasciava intravedere un seno ancora rigoglioso. «La signora Masoli?» «Già. Ancora per qualche tempo.» I suoi occhi castani si spostarono sul tesserino mostrato dal commissario. «Se cercate mio marito, non è in casa.» «Possiamo entrare? Vorremmo scambiare qualche parola con lei», domandò con modi gentili Lanciotti. «Prego, accomodatevi», rispose distaccata. Li precedette in un lungo corridoio buio fino a una stanza arredata con un salotto massiccio fine Ottocento e decine di centrini fatti a mano che coprivano tutto il possibile: tavolinetli, braccioli delle poltrone. Un grosso televisore trasmetteva un telequiz ricco di sponsor e concorrenti esaltati. La donna spense la tivù e li invitò a sedersi. «È una bella casa.» L'anziano investigatore, ritenendosi abbastanza esperto di antiquariato, scrutava e valutava gli arredi di ogni abitazione. Gli era diventato talmente naturale che finiva per esprimere immediatamente anche il suo giudizio. «Sì, non c'è male. Era di mia suocera. Viveva con noi sino a un anno fa. Poi è morta. Gradite qualcosa da bere?» «No, grazie. Dov'è suo marito?» «E in ospedale. Lavora nel laboratorio d'istologia e oggi è nel primo turno.» La donna agitò i cubetti di ghiaccio nel bicchiere di whisky cercando di raffreddarlo in fretta. Un movimento per lei spontaneo e consueto. «Ma è medico?» «No, figuriamoci... Ha studiato medicina per tre anni; poi, non riuscendo ad andare avanti, è passato a biologia. Dopo la laurea il padre lo ha fatto entrare in ospedale.» «Senta, le devo fare alcune domande che riguardano la vostra vita privata. Ha problemi?» chiese Lanciotti accendendosi una sigaretta. La donna si sedette in poltrona e accavallò le gambe. Erano ancora belle e lei lo sapeva. Sinceratasi, con un ve-

loce sguardo, che i due uomini condividessero tale giudizio, si preparò a essere al centro dell'attenzione. Da tempo non ci riusciva più. «No, nessuno. Ma vorrei premettere che da alcuni mesi vivo separata da mio marito.» «Avete figli?» «Sì, uno. Ha sei anni e sta con me.» «Come mai si trova qui?» «Vede, mio marito è stato da tanti definito una mente labile. La vita qui era impossibile. Per molto tempo ho resistito sperando di tenere in piedi la baracca. Poi non ce l'ho più fatta e mi sono separata. Lui però non è in grado di gestirsi da solo: non paga le fatture, mangia quando se lo ricorda. Secondo me rischia di diventare un barbone. Ma in fondo è sempre il padre di mio figlio; quindi, una volta alla settimana vengo qui e cerco di ridare un certo ordine alla sua vita.» Non aveva detto tutta la verità e temette che i suoi interlocutori se ne fossero accorti. Lanciotti colse quell'attimo di perplessità e tentò un colpo basso per superare ogni difesa. «Lei è a conoscenza del fatto che suo marito aveva, diciamo, un modo tutto suo di vivere la sessualità?» Il viso della donna divenne paonazzo. L'alcol solo in parte l'aveva resa più baldanzosa. «Si riferisce al fatto che andava a spiare le coppiette?» «Sì.» «L'ho scoperto da un paio di anni... Ma non è stalo l'unico comportamento strano di mio marito.» «Davvero? C'è altro?» La donna rimase in silenzio. Si torturò con le mani sudate il lembo della gonna e non si avvide che così facendo scopriva una parte delle cosce. Non sapeva né da dove cominciare né che cosa volessero sapere gli investigatori. Lanciotti interpretò il suo gesto come pudore. «Signora, parli tranquillamente. Non si preoccupi per il commissario. È giovane e fidanzato, lo cerco di convincerlo che

il matrimonio è una follia. Mi racconti la sua vita, forse così mi darà una mano a farlo rinsavire.» Lei non comprese appieno l'ironia del carabiniere, tuttavia si sentì protetta dal franco sorriso di Lanciotti. Si asciugò due improbabili lacrime. Avvicinò un dito alle labbra e iniziò a parlare fissando lo schermo nero della televisione. «Dopo qualche anno di matrimonio mio marito iniziò a pretendere cose insolite. Voleva fotografarmi con la polaroid mentre assumevo delle posizioni oscene. Io mi ribellai, ma lui disse che non c'era nulla di male e che parecchie coppie facevano la stessa cosa per superare la routine. Dopo qualche tempo scoprii che quelle foto se le portava nel bagno e si masturbava.» La donna ingoiò un altro sorso di liquore e non fece attenzione a una goccia che cadeva sulla gonna. Tirò un lungo respiro. Per un attimo il suo petto si gonfiò, i bottoni della camicia subirono una torsione, una fessura si aprì nel mezzo lasciando intravedere a Cadone un malizioso reggiseno bianco. «Non furono solo questi episodi a farmi capire quanto fosse strana la sua sessualità. Dopo un po' di tempo iniziò a pretendere che mi toccassi davanti a lui mentre descrivevo, nei dettagli, un fantomatico rapporto con altri uomini. A volte era un vero tormento. Mi teneva delle ore sul letto costringendomi a raccontare storie da far vomitare. Ma tutto ciò non sembrava bastargli. Non riesco ancora a capire da dove prendeva spunto per le sue perversioni.» «Probabilmente da giornali o film pornografici», sottolineò l'ufficiale. «Forse è come dice lei. Successivamente mi chiese di far finta di essere morta. Iniziava a masturbarmi e dopo a penetrarmi; ma io dovevo rimanere in silenzio e immobile. 11 tutto durava delle ore... Poi mi dovevo svegliare in coincidenza di un suo violento amplesso.» La donna rialzò il busto. Guardò in fondo al bicchiere ormai vuoto. Ebbe un fremito. No, ora basta, pensò, è suf-

fidente quanto ho detto. Solo lei doveva sapere che aveva raggiunto per la prima volta l'orgasmo con quei giochi. Non lo aveva confidato a nessuno, neanche a suo marito, convinto come era di far godere la moglie appena la toccava. Da separata si era ritrovata a consumare qualche coito con altri uomini, con altri corpi. Ma solo il ricordo delle stranezze del suo primo amante e il martoriare del clitoride riuscivano a far esplodere la sua libido. «Circa due anni fa», riprese con voce roca, «iniziò a uscire la sera, soprattutto il sabato, e rientrare a tarda notte. Pensai che avesse un'amante. Per un po' lo lasciai in pace. Quando le uscite divennero più frequenti chiesi una spiegazione. Candidamente confessò che gli piaceva andare a guardare la gente mentre faceva l'amore in macchina. Ero disgustata. Lui, con la sua solita aria di chi viene da un pianeta sconosciuto, tirò fuori la solita storia di voler cercare dei motivi per rivitalizzare la nostra asfittica intimità.» «Mi scusi», la interruppe Lanciotti, «le risulta che continui con questi comportamenti?» «Non so, penso di sì... Ma ora non m'impiccio più.» «Lei mi ha detto che in gioventù ha studiato medicina. In che cosa si voleva specializzare?» «Chirurgia. Il suo sogno era diventare un chirurgo. Bah, quando lo vedrà capirà perché ha fallilo.» «Si spieghi meglio.» La donna, recuperato il controllo delle proprie emozioni, cercò di essere gelida. «Mio marito e stato definito un paranoico. La sua persecuzione, però, viene da dentro.» «Uhm... Capisco», disse l'ufficiale accarezzandosi il mento. «Ha mai visto una pistola in casa?» «No. Ne possedeva una, ma non l'ho mai vista... No, aspetti, una volta mi disse che si era rotta e l'aveva buttata. Non so altro.» Dal fondo del corridoio giunse il rumore di una porta che si schiudeva. Era Franco Masoli seguito dall'agente che l'aveva atteso sulla strada. Cadone con un movimento degli occhi fe-

ce capire al poliziotto di uscire e di mettere sotto controllo sia l'ingresso principale sia le finestre del cortile. Masoli era alto, filiforme, con una testa non più grande di un melone acerbo. La bocca sembrava tumefatta, gli " occhi, sotto spesse lenti, erano gonfi. Le mani sottili, esili, quasi femminee, apparivano innocue e in grado al massimo di stringere il manico di una vecchia borsa di cuoio macchiato, come quella che portava con se. Le apparenze, però, spesso rimangono tali. Quando gli diede la mano - «Si accomodi, permette... colonnello Lanciotti» l'investigatore ricevette una morsa compatta, ferma, essenziale, come se l'arto appartenesse non a un topo di laboratorio, ma a un nervoso e isterico maestro di pianoforte. Masoli rimase fermo sull'uscio a guardare fisso alternativamente la moglie e i due imprevisti ospiti. «Li hai chiamati tu?» La voce cupa pareva risalire dallo stomaco. «No, Franco, non ne avevo motivo.» La donna sembrò sussultare dalla paura. «Sono arrivati un quarto d'ora fa...» «Signora, può lasciarci qualche minuto da soli?» la interruppe Lanciotti. «Sì, certo.» Aveva perso quell'aria di maliziosa sensualità. Cadonc si risollevò; da alcuni minuti aveva difficoltà a controllare, non senza un senso di colpa, un'imbarazzante erezione. «Dottore, lei è in possesso di una pistola?» Il carabiniere voleva a tutti costi impedire all'uomo di trincerarsi dietro una storia più o meno credibile. Masoli gli riservò un'occhiata sospettosa, allacciò le mani dietro la schiena e irrigidì il corpo. «Avevo una Beretta. Qualche tempo fa, però, mi è caduta dall'armadio e si è rotto sia l'otturatore sia il grilletto. L'armiere disse che la spesa per ripararla era consistente e allora l'ho buttata.» «Strano, a noi risulta ancora a suo carico: non ha denunciato la distruzione?» «No, non l'ho fatto», rispose a mezza voce.

Lanciotti capì che Masoli si stava chiudendo. Non aveva tentato d'imbastire neanche una timida scusa. Il rischio che decidesse di non parlare più era alto; il tempo a disposizione limitato. «Conosce Vito Samara?» «Sì, lo conosco.» Il viso di Masoli subì un repentino mutamento. Gli occhi quasi scomparvero nelle orbite. La mascella si serrò come una morsa. Le narici cominciarono a emettere una specie di sibilo. «L'ha incontrato qualche giorno fa?» insistette Lanciotti. Nessuna risposta. «Può dirci dove si trovava la notte tra sabato e domenica?» 11 sibilo si trasformò in un fischio. «Che cosa gli ha detto riguardo all'uccisione della ragazza a Suresti?» Masoli abbassò la testa e poggiò il mento sul petto. Sembrava pregare in solitudine. Poi lentamente, quasi al rallentatore, rialzò la fronte. Occhi spalancati, pupille dilatale a dismisura. Dagli angoli della bocca uscivano rivoli di bava, sembrava non respirare. Lanciotti e Cadone si guardarono perplessi e allarmati; il commissario allungò, senza rendersene conto, la mano verso la fondina. L'uomo ruotò la testa verso il divano. Si sentì uno scrocchio provenire dal collo, come se si fosse spezzato. Il corpo rimase immobile per alcuni secondi prima di porsi in linea con il cranio. Masoli era in preda a una crisi e gli investigatori non riuscivano a coglierne la natura. Come un automa si avvicinò al mobile. Meccanicamente afferrò da un bicchiere di peltro una matita. 11 commissario s'irrigidì pronto a reagire a un attacco. Ma lui non sembrava vederli né sentirli. Prese i cuscini dal divano e li posò con delicatezza a terra, formando una specie di croce latina. Si mise in ginocchio e con il lapis stretto in pugno cominciò a delincare con movimenti lenti una figura sul velluto. Ripetè l'operazione almeno tre volle, come in un rituale esoterico. Gli inconsapevoli spettatori di quel

cerimoniale non ebbero difficoltà a capire che Masoli stava ricalcando nel vuoto una figura umana. C'era qualcosa di tremendamente buffo in quei gesti. A Cadone ricordò le pantomime viste durante una rappresenta/ione di mimi. Preceduta da una frustata nell'aria, la matita affondò con violenza su uno dei cuscini; si sentì un tonfo smorzato, come un sacco sbattuto sul muro. Un sussulto e l'uomo, ormai in preda a un raptus, riprese a colpire con rabbia il suo fantasma. La moglie, sostenuta dallo stipite di una porta, assisteva terrorizzata a quella scena bestiale. Cadone voleva intervenire, ma Lanciotti, con un movimento del braccio, lo fermò. Masoli ormai sbavava sangue e sembrava posseduto da una forza che poco aveva di umano. A un tratto il pugno, diventato ormai un ammasso di vene gonfie, si blocco a mezz'aria. «Tu non vuoi che io sia contento...» rantolò. L'uomo rimase per alcuni secondi in ginocchio, con gli occhi sbarrati, immobile. Gocce di sudore cadevano sul pavimento di cotto, disegnando delle macchie scure. Poi si riavvicinò al cuscino che fungeva da parte centrale della croce e, con una forte torsione del polso, incise la stoffa con la punta della matita: un triangolo apparve in quello che doveva essere il pube del suo fantasma. Il lembo di velluto rimase nelle sue mani. Cadone guardò esterrefatto Lanciotti che gli fece segno di restare con Masoli e si allontanò: non c'erano pericoli per l'inesperto commissario. L'uomo, come un giocattolo senza pile, era lì, esausto, flaccido, con la testa piegata sulla spalla, imbambolato ad ammirare la sua incisione. I radi capelli, zuppi di sudore, erano incollati sulla fronte e sulle tempie. Il volto era imporporato a chiazze come se il sangue fosse tornato all'improvviso ad affluire al cervello. L'ufficiale prese la donna sotto il gomito. «Suo marito è in cura da uno psichiatra?» Lei, sull'orlo di un collasso nervoso, balbettò: «Lo è stato fino a un anno fa, ma poi non ha più voluto prendere i farmaci. Me lo disse il professor Incoronati che Franco sarebbe peggiorato.»

«Mi faccia fare un paio di telefonate, e poi lo chiami. Credo che ce ne sarà bisogno.» Brezzi ascoltò raggiante il resoconto dell'investigatore: il caso era quasi risolto. Fabrizi invece rimase sorpreso dal racconto di Lanciotti. «Strano che sia scivolato su questa banalità... Forse voleva essere catturato. Va bene, vi raggiungo in questura.» Il carabiniere accese una sigaretta e rimase a guardare una litografia di Guttuso che, da sola, tentava di dare vita a una spoglia parete. La donna, seduta sul letto, continuava a fissarlo sperando di essere risvegliata da un incubo privo di logica. Lanciotti sentiva il peso dei suoi occhi sulla nuca. Non poteva lasciarla così. In passato, anche lui aveva diretto lo stesso sguardo sui medici che, goffamente, avevano cercato di trovare le parole adatte per informarlo che alla sua giovane moglie occorreva asportare un seno. «Senta, signora», disse avvicinandosi, «è probabile che tutto finisca in una bolla di sapone. In ogni caso prepari una valigia con degli indumenti per suo marito e poi sparisca dalla circolazione. Mi faccia sapere dove posso trovarla ed eviti i giornalisti. Tenteranno di rintracciarla... In genere sono poco sensibili alle sofferenze altrui.» La donna, ormai priva delle forze, lasciò cadere la mano sul braccio di Lanciotti e annuì. Masoli non entrò mai in contatto con gli investigatori. Per giorni fu rinchiuso nella cella di sicurezza della questura, ma né Lanciotti né Brezzi riuscirono a far uscire dalla sua bocca una sola parola. L'uomo, seduto su una panca, fissava alcune crepe del muro senza mostrare la più piccola emozione. Il suo unico movimento consisteva nel grattarsi, senza sosta, con il dito indice, il centro della fronte. In quel punto si era ormai aperta una ferita che sanguinava lievemente. Fabrizi, dopo averlo visitato insieme al professor Incoronati, concluse che l'uomo era in uno stato catatonico.

«Sta provvedendo a cancellare dalla sua memoria tutto ciò che è insopportabile per il suo Io. Quando uscirà da questo stato, se ne uscirà, con molta probabilità ricorderà pochissimo di quanto gli è accaduto.» La perquisizione nella casa e nell'ufficio di Masoli diede pochissimi risultati. La pistola, il coltello, il pube della De Felice sembravano spariti nel nulla. Nessuno, inoltre, aveva visto il biologo nella notte dell'omicidio, né lui era in grado di offrire un alibi da verificare. La mattina successiva all'arresto, Lanciotti e Cadone dovettero partecipare a una trionfale conferenza stampa organizzata da Ranelli. Ne avrebbero volentieri fatto a meno. Non osarono però opporsi ai desideri dei superiori che volevano sfruttare l'occasione per promuovere l'immagine dell'ufficio e, soprattutto, la propria. «Il caso è stato rapidamente risolto grazie alla fattiva collaborazione tra polizia e carabinieri.» Pareva un torello che fiero ritoma nella stalla dopo aver strapazzato un incauto bandolero. «Gli omicidi dei fidanzati di Suresti e di Borgo Angeo rischiavano di rimanere insoluti; ma l'acume dei nostri superiori e la costanza dei nostri investigatori hanno reso possibile la chiusura dei casi in tempi rapidissimi.» Lanciotti, in divisa d'ordinanza estiva, lo guardò minaccioso. La presenza del capo di gabinetto gli evitava di rispondere ai cronisti, ma lo costringeva a sopportare la sgradevole sensazione innescata da quell'infido personaggio. «Mi scusi, dottore, sono state trovate le prove della partecipazione del Masoli ai due omicidi?» Un disincantato giornalista cercò d'interrompere Ranelli nell'apologia di se stesso. «Le prove raccolte», rispose cercando di affogare il suo fastidio nei vapori del suo dopobarba, «sono così consistenti da poter affrontare qualsiasi corte di Assise.» Cadone scrutò sconsolato l'ufficiale dei carabinieri. Questi stava perdendo le staffe e moriva dalla voglia di dare un calcio all'inconsistente Ranelli. Che cazzo dice, pensò. Se

non emerge altro dall'inchiesta, ci sono grosse probabilità che si potrà proporre per il Masoli al massimo un ricovero coatto in ospedale psichiatrico... Ma forse ciò non è importante. Anche se il biologo pazzo eviterà il tribunale, non ci sarà un altro assassino in libertà. «Che cosa dobbiamo l'are del Masoli, colonnello?» Quell'interrogativo da giorni infastidiva la mente del giudice Brezzi. Si era reso conto sia delle condizioni mentali dell'uomo - non a caso aveva subito disposto una perizia psichiatrica - sia del bisogno dell'opinione pubblica di un «mostro da sbattere in prima pagina». Masoli, infatti, aveva il cosiddetto phisique du róle del maniaco e dell'insospettabile assassino. La prova prodotta da Lanciotti era, inoltre, sufficiente a trasformare il fermo in arresto; ma la patologia di cui soffriva l'imputato sembrava escludere una detenzione nel carcere della città. Lanciotti, intuendo i suoi dubbi, prese tempo. Si soffermò a guardare il quadro che sovrastava severamente lo scrittoio del magistrato. Era un olio, dipinto negli anni Quaranta, che ritraeva il padre di Brezzi, professore di diritto penale e Gran Maestro della loggia massonica locale. Il suo ruolo nella scienza giuridica e nella società traspariva dal ritratto: in primo piano, un tomo con il titolo riportato sul dorso della copertina; in secondo piano, più sfumato, un compasso e una cazzuola. L'ufficiale cercò di non dare peso a quei simboli. Lo sguardo truce e un po' spiritato del Gran Maestro era sufficiente per intimidire ogni interlocutore del giudice, fosse stato delinquente o poliziotto. «Ci sto pensando da un paio di giorni», esordì lentamente l'investigatore. «Ho paura, però, che se lo mandiamo in carcere lo troviamo morto nel giro di qualche settimana. Fabrizi, infatti, non esclude che Masoli tenti il suicidio una volta superata la crisi. È possibile, inoltre, una punizione da parte degli altri detenuti. Non sono teneri nei confronti di chi compie delitti di questo genere.» Succhiò

una vigorosa boccata alla sigaretta e cercò una posizione più comoda sulla poltrona. «A qualcuno», aggiunse, «potrebbe far comodo tale soluzione... lo, però, non sono ancora abituato ad accettare tale eventualità. Certo non può restare in eterno nella camera di sicurezza della questura...» Brezzi si alzò. Appariva perfettamente a suo agio tra quei mobili che sprigionavano potere e rispetto. «Sono d'accordo con lei. Ma dove lo possiamo tenere?» «Io una mezza idea ce l'ho», gli rispose Lanciotti misurando le parole. «Da quando esiste la nuova legge sui manicomi, il vecchio ospedale ha parecchi padiglioni chiusi. Se ne potrebbe requisire uno, sebbene sia sufficiente anche un solo piano. Ci sarà pure una stanza dove potremmo ricoverarlo per un certo periodo. In questo modo potrà essere seguito dagli specialisti e, allo stesso tempo, evitiamo una rischiosa carcerazione.» «È possibile, però, una reazione negativa dell'opinione pubblica», osservò preoccupato il magistrato. «Non capita tutti i giorni che un criminale venga subito custodito in un ospedale.» «Non credo», sostenne Lanciotti, «la storia ci insegna che la gente, per degli aspetti, ha la memoria lunga, quasi secolare. Fino a qualche centinaio di anni fa gli ospedali non erano considerati posti dove curare gli ammalati ma, piuttosto, luoghi dove isolarli. Proprio per questo motivo alcuni ospedali erano gestiti non da medici ma da ufficiali di polizia... Come vede, non ci siamo inventati nulla.» Brezzi elargì un sorriso spettrale, prima di dedicarsi alla contemplazione delle proprie unghie. Cercò di gonfiare il petto per mostrare forza e controllo di sé al suo interlocutore. Era stato un paio di anni all'accademia militare e, a volte, sembrava non esseme uscito del tutto. «L'idea mi sembra buona, colonnello... Ci penso io a parlarne con il procuratore generale e il prefetto.» Il carabiniere diede l'ultima occhiata al tenebroso padre del magistrato e si avviò verso la porta.

«Pensa che possiamo ritenere chiusa la vicenda?» sussurrò Brezzi, ritornato piccolino. Lanciotti lo guardò mentre si passava la mano tra i capelli. Non era avvezzo a sentire il sostituto procuratore in un tono così dimesso. «Credo di sì. Certo non siamo abituali a ricevere i colpevoli così, su un piatto d'argento. Ma la ruota della fortuna può qualche volta girare in nostro favore.» Una tortora richiamava i suoi compagni dal davanzale della finestra dell'ufficio di Cadonc. Continuò a invocare fino ad arrochirsi. Il commissario si stiracchiò e, sporgendosi dalla finestra, guardò le strade deserte avvolte in nuvole di smog che, in mancanza di vento, avevano difficoltà ad alzarsi sopra i tetti. Si fermò un attimo in ascolto. Lo scarso traffico rendeva lutto simile al silenzio. Aveva difficoltà a ritrovare la concentrazione nel lavoro. La vicenda di Suresti e la cattura di Masoli lo avevano come svuotato. Né gli inconsueti complimenti del padre, né l'orgogliosa dolcezza di Lorena erano riusciti a distrarlo. Certo il suo esordio nel mondo dell'investigazione, grazie anche al fatto che aveva potuto lavorare con Lanciotti, era stato trionfale; ma la routine era tornata prepotentemente a invadere le sue giornate e non serviva a nulla dirigere i suoi pensieri a quei giorni per ritrovare un minimo di vivacità. «Dottore, permette?» Da qualche giorno Cadone aveva preso l'abitudine di lasciare aperto l'uscio della sua stanza. Forse temeva l'insorgere di quella sottile inquietudine che lo afferrava quando restava solo. «Salve, Ippoliti. Entri pure.» «C'è una persona di là che le vuole parlare.» «Chi è?» domandò distrattamente. «È Marino De Felice, il padre della ragazza morta a Suresti.» «Lo faccia entrare», disse a malincuore il commissario. Durante le brevi indagini aveva volutamente evitato d'in-

contrare i parenti delle vittime. Pensava di essere più adatto a scrutare i cadaveri che non a inventare frasi di circostanza per i famigliari. Ma una volta doveva pur incominciare; il pelo sullo stomaco, come diceva Lanciotti, cresce solo dopo aver ricevuto robuste dosi di disperazione. Marino De Felice era un uomo sui sessant'anni, basso, robusto, con le dita grosse come salsicce. Si era trasferito a Cormaio verso la metà degli anni Sessanta, dopo aver abbandonato la coltivazione di girasoli in un latifondo vicino a Grosseto. Aprendo un emporio nel corso principale del paese si era illuso di allontanare i figli dalla realtà dei campi. «Si accomodi.» L'uomo si mise a sedere di fronte al commissario e iniziò a torturarsi la piega dei pantaloni. «In che cosa le posso esser utile, signor De Felice?» «Sono venuto per chiederle un piacere che spero non vi crei un eccessivo disturbo.» La sua voce, priva di debolezze, non aveva perso la fierezza che caratterizza gli uomini della Maremma. Cadone allargò le braccia, mostrando apparentemente disponibilità a esaudire tutti i desideri del genitore della povera Alessandra. «Ho saputo che Masoli e stato rinchiuso in manicomio...» «Non è proprio così», puntualizzò il commissario, «si c preferito trasferirlo in un'ala del vecchio ospedale psichiatrico per ragioni di sicurezza.» «Sì, ha ragione. Ma non mi è facile trovare le parole adatte.» «Non si preoccupi.» «Grazie. Credo che l'indagine sia ancora in corso e non ho intenzione di interferire. Ma ho una preghiera da farle. Vorrei per un minuto vedere quell'uomo.» Cadone deviò lo sguardo altrove cercando di prendere tempo per analizzare le proprie reazioni. Classificò il padre della ragazza come appartenente a quella categoria di persone che, per reagire al forte dolore, coltivano una fan-

tasia sostitutiva della realtà. I suoi occhi si spostarono sulla cornice d'argento dove una foto, scattata il giorno della sua nomina a commissario, lo ritraeva sorridente e orgoglioso con la mamma, il papà e una radiosa Lorena. Faccio parte, meditò, ancora della schiera dei figli. «Perché lo vuole incontrare?» chiese senza distogliere lo sguardo dalla foto. «Si tranquillizzi, non ho in mente di vendicarmi o altro... Sandra ormai non c'è più. Voglio vedere in viso l'assassino. Da giorni non penso ad altro... Mi sembra impossibile che ci siano in giro persone in grado di ridurre così un altro essere umano. Quando vedrò in faccia quel criminale mi rassegnerò e potrò, forse, cercare in qualche angolo di questo schifoso mondo un po' di rassegnazione.» Cadone ebbe difficoltà a trovare una risposta corretta dal punto di vista professionale, che fosse, al contempo, non disumana. «La sua richiesta è inconsueta... Non so quale giovamento possa trarne. Deve sapere che Masoli è ridotto come un vegetale.» «Non importa», incalzò De Felice. «Senta», biascicò intimidito il commissario, «ne parlerò con i miei superiori e se ci sono delle difficoltà cercherò di superarle. Appena avrò l'autorizzazione la chiamerò.» «Per ora, grazie.» Cadone rimase nuovamente solo. Il padre della vittima si era allontanalo con il suo sgomento. L'auto della polizia varcò il cancello spalancato del vecchio manicomio. All'ingresso un assonnato portantino, in armonia con lo spirito della nuova legge di riforma dell'assistenza psichiatrica, vegliava su chi entrava mentre non degnava di uno sguardo quanti uscivano. Cadone e De Felice si avviarono a piedi verso l'edificio dove era detenuto Masoli. Il parco dell'ospedale evidenziava i chiari segni dell'abbandono. Le aiuole incolte,

gli alberi appesantiti, fontane di pietra serena asciutte e soffocate dalle erbacce. Ogni tre passi un ospite chiedeva una sigaretta o cento lire per comprare qualcosa allo spaccio. Sulle panchine alcune anziane pazienti guardavano impaurite verso l'entrata dell'ospedale. Forse temevano di essere scacciate da quello che da decenni era diventato il loro mondo. L'investigatore consegnò la tessera all'agente che, dietro una piccola scrivania, vigilava il corridoio del terzo piano del padiglione 8. Mostrare il documento che lo qualificava commissario gli provocava ancora un moto di fierezza. Per quell'infantile motivo glielo lasciò sotto gli occhi più del tempo occorrente a ricopiare sul registro il numero di serie. Il poliziotto si sistemò il berretto sulla testa, prese alcune chiavi e si avviò verso la cella del Masoli. Il padre della De Felice lo seguì a occhi bassi, come un automa. Nel corridoio sostava una vecchia lettiga munita di fasce pronte a essere utilizzate per immobilizzare il paziente. Una donna delle pulizie, che poteva anche essere un'anziana ricoverata, con gli strofinacci sulla spalla spingeva un carrello colmo di carta igienica. Non li degnò di uno sguardo. Sulla porta vi erano due meccanismi: uno consentiva di aprire uno spioncino largo non più di venti centimetri; l'altro, più complesso, permetteva di accedere alla cella. «Volete solo vederlo o preferite entrare? Per me fa lo stesso; non si muove dalla stessa posizione da sette giorni. Pensi, gli infermieri lo debbono nutrire con l'imbuto. A me, a dire il vero, la cosa fa un tantino schifo!» «Apra pure.» Cadone non voleva concedere molto spazio alle considerazioni personali della guardia. L'agente inserì una chiave nella toppa e la porta si aprì. «Ehi, hai visite», abbaiò al prigioniero. La stanza aveva una sola finestra a più di due metri di altezza; non vi era grata, ma solo un vetro blindato che creava strani riflessi sul soffitto. Al centro dell'apertura, al di là del vetro, un vaso bianco, cementato e imbullonato nel muro. Negli anni passali aveva forse visto ger-

mogliare qualcosa di vitale. Le pareti erano ricoperte da pannelli di gommapiuma rivestiti in plastica grigia. In un angolo un water inutilizzato da tempo; nell'altro, un tavolino di legno, privo di spigoli vivi e fissato a terra; di fronte una branda con lenzuola fresche di bucalo. Sopra la porta un buco, coperto da una griglia di ferro nera, da dove entrava l'aria condizionata. Masoli, senza occhiali, con indosso un pigiama celeste e ciabatte di cuoio marrone, era seduto sul letto e sembrò non essersi accorto dell'arrivo dei visitatori. Sulla fronte aveva un livido tra il nero e il blu. Le labbra secche e spaccate; forse per effetto degli psicofarmaci. «Vi lascio soli. Aspetto dietro la porta», disse l'agente. Cadone non potè fare a meno di fissare il De Felice. Guardava l'assassino della figlia con una paradossale dolcezza, come se cercasse di stabilire un canale di comunicazione con l'uomo. La determinazione che aveva caratterizzato il suo ingresso nel vecchio ospedale psichiatrico sembrava scivolare sulle spalle curve. Il commissario ebbe la sensazione che Masoli avesse raccolto il messaggio emotivo; gli occhi persero quel velo di stupore e di estraneità, che da giorni lo separava dal mondo, e si posarono sulle bianche mani. Cadone iniziò a sentirsi un intruso. «Posso chiederle qualcosa, commissario?» domandò con serenità De Felice. «Certamente.» «Quanti anni ha il dottor Masoli?» «Circa quaranta.» «Nel suo lavoro come era considerato?» «I colleghi hanno riferito che era molto efficiente. Un po' orso, ma sicuramente uno degli elementi più stimati del laboratorio.» «Che tipo è la moglie?» «Mi è parsa una brava donna.» Cadone sbirciò perplesso l'uomo. «Hanno un figlio, vero?» proseguì De Felice. «Sì, un bambino di sei anni.» «Come si chiama?»

«Credo Marco... Penso si chiami proprio così.» Seguì qualche secondo di silenzio. Poi il De Felice fece scostare con gentilezza il commissario e si mise di fronte al Masoli. Piegò le ginocchia e si accovacciò in modo da porre i suoi occhi alla stessa altezza di quelli del detenuto. «Marco», declamò con forza e solennità. «Marco», ripetè mentre due lacrime gli solcavano le guance. Masoli sollevò lentamente la testa e per un istante interminabile fissò le pupille in quelle di De Felice. «Marco», sospirò. Quindi, reclinò la testa. De Felice, visibilmente turbato, si rialzò a fatica. «Possiamo andare.» Senza attendere il consenso di Cadone uscì dalla cella. Il commissario lo raggiunse, e con un cenno della mano fece capire alla guardia che la visita era finita. Il giovane funzionario di polizia e lo stanco contadino si allontanarono. «Posso dirle una cosa?» La voce del papà di Alessandra era limpida, come se un vento sostenuto avesse per alcuni attimi allontanato le nere nuvole che oscuravano la sua anima. «Ma si figuri.» «Quell'uomo non è l'assassino di mia figlia.» Cadone rimase imbambolato, come se all'improvviso fosse caduto in un'oscura meditazione in cui solo un imbecille può pensare di voler restare. «Con questo non voglio mettere in discussione la vostra indagine, anzi devo riconoscere che avete fatto un magnifico lavoro. Ma da oggi, per piacere, lasciatemi in pace. Non voglio più sentire parlare di confessioni del Masoli, di prove inoppugnabili. La mia bambina non può più rivivere. Il cuore comunque mi dice che quell'uomo è innocente. Non ha senso, lo so... Ma sento il dovere di dirglielo.» De Felice strinse la mano a Cadone e si allontanò. Aveva un'espressione persa, come se i suoi pensieri fossero lontano. Barcollava, oppresso da un enorme peso invisibi-

le che gli gravava sulle spalle. Era come un cinghiale ferito alla ricerca di un rifugio nella macchia. 11 commissario non sapeva che cosa fare. La sua faccia era ormai decisamente simile a quella di una placida pecora dopo un pasto abbondante. Cadone si svegliò di soprassalto e, a differenza degli altri giorni, non si soffermò a guardare il soffitto. Era domenica, una domenica per lui speciale. Doveva tornare a Roma. Per l'ora di pranzo l'attendevano i genitori, Lorena e una serie di piccoli e banali problemi che aspettavano un suo intervento per essere risolti. Cercò d'immaginarne qualcuno: il vestito della mamma, l'elenco aggiornato degli invitati, la conferma del volo Roma-New York della Pan Am, le semplici e languide paure di Lorena simili a quelle delle numerose coetanee che, quando l'autunno stenta ancora a nascere, decidono di sposarsi. Il commissario si scrutò allo specchio del bagno. Mancavano dieci minuti alle nove e aveva dormito appena quattro ore. La sera precedente i funzionari della questura avevano organizzato, per festeggiare il suo addio al celibato, una cena che si era protratta sino alle tre. La bocca sapeva di medicina e di aglio, la barba aveva assoluto bisogno di una lama in grado di rendere meno disordinato il suo viso. Temeva che i postumi della sbornia potessero piombargli addosso di colpo. Doveva tornare alla normalità in fretta; aveva, infatti, promesso alla fidanzata di essere a casa per l'una. Accese lo scaldabagno e cercò di riordinare i ricordi. Era stata una bella festa, soprattutto per i colleghi. Lo avevano trattato come una matricola, sia dal punto di vista professionale sia sessuale, non lesinando pesanti consigli su come affrontare gli intrighi del palazzo e gli ostacoli del talamo. Come era prevedibile tra gli obiettivi principali dei loro lazzi vi fu Ranelli che, diplomaticamente, aveva disertato la cena. La naturale predisposizione del capo di gabinetto ad accentrare, anche se assente, su di sé

le battute più feroci, non impedì, comunque, qualche scherzo goliardico ai danni di Cadone. Angelo Fiaschi, responsabile della Digos, gli regalò una tessera rosa. Un abbonamento per tre incontri, ad alto livello, con Rosaria, da tutti definita una delle migliori puttane del circondario. Marco Gasparsi, della squadra narcotici, gli donò una confezione di preservativi esclusivi, acquistati in un sexy-shop durante il suo ultimo viaggio in Olanda. L'imbarazzato Cadone fu costretto a mostrarli uno per uno descrivendone minuziosamente il loro uso. Più di una volta rischiò che l'animata assemblea lo costringesse, per acclamazione, a una sperimentazione immediata. Gasparsi pretese, dopo l'amaro, di declamare il discorso finale. Riuscì barcollando a salire su una sedia e intimò il silenzio. «Caro Pino», esordì con modi solenni, «sento il dovere di riversare sul tuo asfittico cervello il sedimentato della nostra esperienza di mariti e di puttanieri.» Un paio di pernacchie diedero peso alla sua enunciazione di principi. Lui, giudicandosi un attore consumato, non badò alle intemperanze di quel mucchio di poliziotti brilli. «Secondo qualcuno, di cui non oso pronunciare il nome, dovresti cominciare a considerare le tue rare erezioni come sintomo di un reumatismo articolare mal curato. Ma io, come tutti sapete, sono un romantico inguaribile e non posso esimermi dal cercare d'indirizzarti verso la più corretta via di quello che, per un paio di settimane, continuerai a chiamare amore.» Altra pernacchia, altro bicchiere prosciugato da Gasparsi. «Nei primi tre anni riterrai un dovere trombare a ritmi incalzanti. Ne va, infatti, del tuo buon nome di maschio. Poi scoprirai che anche il tuo livello di testosterone dipende dai bioritmi. Cercherai di capire i cali della libido ma in questo tentativo spesso ti addormenterai. A quel punto sarai già un uomo in carriera lanciato alla conquista di un posto al sole in questura. D'incanto scoprirai che più sali di grado e meno scopi. 11 culmine lo raggiungerai tra una decina di anni: o salirai al piano nobile, tra capi di gabinetto e stanze con aria condizionala, oppure

sprofonderai direttamente nei sottoscala, finendo come Steri a masturbarti con i reperti.» Un nugolo di pallottoline, fatte con la mollica del pane, raggiunse il capo della scientifica. «Se sarai sfortunato, ripeto, se sarai sfortunato rimarrai in qualche squadraccia, come la mia, a mendicare marchette con lo sconto e a lenire il sabato sera le ambizioni frustrate con la tua consorte... Torna indietro, fai ancora a tempo. Ma se non ci riesci ricordati di questa modesta lezione: è oro colato!» Il giovane commissario riuscì a trattenere a stento un sorriso tornando con la mente agli infantili insegnamenti di Gasparsi. Le sue labbra apparivano più allegre mentre si massaggiava la faccia con la schiuma da barba. Il telefono squillò. Si mise a correre verso l'ingresso. Di sicuro è la mamma o uno di quei cretini di ieri sera, pensò. Quel gioco deduttivo gli fu fatale. L'alluce prese in pieno la base del letto. «Pronto», esclamò sofferente. «Sono Angelo Lanciotti. Che cosa ti è successo?» «Niente. Pago ancora i bagordi di ieri sera.» «Ti sei divertito con quei pazzi?» Cadone, non cogliendo il tono depresso dell'ufficiale dei carabinieri, prese a descrivere le problematiche connesse con la cerimonia nuziale: i fiori, la chiesa, l'organista permaloso, l'auto da noleggiare. Concludendo si raccomandò: «Tu non venire tardi, sei uno dei testimoni!» «Spero di esserci... Ti ho disturbato per dirti che hanno trovato i cadaveri di un uomo e di una donna nelle campagne di Cormaio. Mi ha chiamato il comandante della stazione dei carabinieri un paio di minuti fa.» Il commissario smise di massaggiarsi il piede. «Vorresti dirmi che c'è in giro un altro pazzo come Masoli?» «Non so che cosa è meglio sperare», rispose Lanciotti con voce piatta. «Spiegati meglio.» «Forse ci siamo sbagliati nell'accusare Masoli.»

Catione rabbrividì e vide la sua faccia stampata nell'almanacco degli investigatori beoti e trombati. «Come possiamo dirlo? Può darsi che si tratti di un doppio suicidio.» «Bah! Vedremo», disse poco convinto Lanciotti. «Stai andando lì?» «Sì.» «Fammi sapere.» «A dire il vero ho chiamato il questore. Mi ha detto di farti venire con me.» Cadone rimase per un attimo interdetto. Sapeva benissimo che era stato l'amico a imporre la sua presenza durante i primi passi dell'indagine, ma in quel momento non riuscì a coglierne il motivo. «Se hai problemi», aggiunse il carabiniere, «vado da solo. Mi raggiungerà il funzionario di turno.» «Non ti preoccupare. Chiamo la Centrale e faccio venire qualcuno a prendermi.» «Risparmiati la telefonata, già stanno arrivando.» Mamma Cadone non avrebbe digerito molto il mancato arrivo di Pino. Per lei i preparativi matrimoniali dell'unico figlio maschio erano ben più importanti dei problemi connessi a un lavoro che continuava a considerare inadatto per la sua creatura. Il commissario evitò di occupare il cervello con le probabili riflessioni della madre e, mentre l'auto affrontava i tornanti che portavano a Cormaio, si concentrò sul nuovo delitto. È possibile, pensò, che gli omicidi di Suresti e di Borgo Angeo abbiano indotto reazioni un po' strane nei mitomani della zona. Masoli può, senza volerlo, aver fatto scuola tra quanti aspirano, con tutti i mezzi, a diventare famosi. Però oggi è domenica... Cadone scrutò il cielo. Un po' livido, meditò, forse domani piove... Un momento! Tirò fuori dalla tasca posteriore dei pantaloni il portatessere di cuoio e sfilò un piccolo calendario di cartone plastificato, come quelli che una volta venivano regalati a natale dai barbieri. Cazzo, pure ieri c'era il novilunio... Fermo con la mente, bello: calmati, stai rischiando di la-

sciarti coinvolgere troppo da questa storia. Sta' a vedere che a Cormaio si trova la firma dell'assassino mentre tu ti trastulli con dei giochetti mentali. «Siamo arrivati, dottore. Guardi che casino.» Decine di macchine erano parcheggiate lungo la strada e l'auto di Cadone rimase presto bloccata. La sirena aumentò d'intensità, ma il risultalo fu quasi nullo. Un giovane carabiniere, sostenendo la bandoliera, si avvicinò sudato. «Sono il commissario Cadone. È già qui il colonnello Lanciotti?» «Sì. Comandi, dottore», rispose il milite mettendosi sull'attenti. «Ma perché tanta confusione?» «L'uomo abitava qui vicino. Sembra che a ritrovarli sia stato il fratello della ragazza. Quando siamo arrivati c'erano un centinaio di persone che urlavano come pazze. Siamo riusciti a mettere delle transenne; ma, come saprà, qui a Cormaio siamo in pochi.» Nella sua faccia si leggeva la paura, Cadone presagì che anche la folla era in preda al panico. Chiedeva a gran voce vendetta, contro chiunque, come le vittime del resto. «Speriamo che non abbiano toccato nulla. Dov'è il colonnello?» gridò il commissario. «Vicino alla macchina.» «Mettete l'auto di traverso e fate passare solo i nostri. Mi raccomando.» «Comandi.» Il carabiniere fu ben felice di abbandonare la ressa. Più di una volta aveva rischiato di perdere il controllo dei nervi. Cadone riconobbe la testa dell'ufficiale e del capo della scientifica in mezzo a una decina di persone che si agitava come se stesse attendendo l'ora di apertura dei cancelli di uno stadio. Si avvicinò a Steri. Ebbe la sensazione di non vederlo da un secolo; eppure poche ore prima avevano brindato con robuste dosi di Chianti. «Come va?»

Il vicequestore, impegnato a prendere degli appunti, non lo degnò di eccessiva attenzione e borbottò tra sé e sé: «Ho la sensazione di giocare al gatto e il topo: indovina un po' chi è il topo?» Il giovane investigatore non ribatté e si avvicinò a Lanciotti che, immobile, dava la schiena alla strada. Davanti a sé vi era una piccola radura fresca di terra da riporto. Al centro una Ritmo, color canna di fucile. Le due portiere erano aperte; quella del guidatore aveva il vetro in frantumi. Dentro l'auto non si scorgeva nessuno. Cadone guardò l'ufficiale dei carabinieri e fece un cenno con la testa che, nel linguaggio dei gesti mai codificato, da sempre ha assunto il significato di «Dove sono?» Con un movimento della mano altrettanto chiaro, Lanciotti indicò il retro dell'auto. Cercando di stare ben lontano dalla zona reperti, il commissario superò la Ritmo. Quasi all'improvviso scorse il piede di un uomo, senza scarpa, che puntava verso il cielo. Si piegò sulle ginocchia e vide un ragazzo alto più di un metro e ottanta, corpulento, con indosso un paio di jeans scuri e una camicia a quadri rossi e bianchi che lasciava scoperta una pancia gonfia e pelosa. Una macchia nera all'altezza del cuore. Sembrava olio vecchio e denso. Il foglio di un quotidiano copriva il viso. Ogni tanto il risveglio della brezza rischiava di far scivolare il penoso velo. La mano destra della vittima stringeva contratta una cassetta per mangianastri. «Come hai potuto», imprecò sottovoce Cadone, «così grande e grosso, non reagire a quel figlio di puttana?» Non notando tracce della ragazza, il poliziotto cercò con gli occhi Lanciotti. Questi gli fece cenno di proseguire. Si girò intomo perplesso; vedeva solo dei filari di viti, carichi di uva nera, che lambivano la radura. Per evitare di fare la figura del tonto si avviò cercando di assumere un passo baldanzoso che, però, si spense all'altezza delle prime piante. La vittima era lì: le gambe divaricate, la gonna tagliata sul davanti e i due lembi poggiati a terra, come un tovagliolo. Le mani coprivano il viso. Sembrava una bambina che, in un circo, cerca di non assistere a un

pericoloso esercizio dei trapezisti. I seni adolescenziali erano coperti di sangue raggrumato, il pube sembrava sbranato da una tigre. Cadone guardò al di là della ragazza, come se cercasse un'altra vittima. Il cuore era rallentato. «Mi sto abituando a tutto ciò. Ma per Dio, come ci si può abituare...» Steri si avvicinò tossendo. «Pino, vieni via. Non c'è altro da vedere.» Il commissario, come stordito, rimase con i piedi ben piantati al suolo. «Sono stati uccisi con un'arma da fuoco?» «Sì, con un'automatica.» «Una ventidue?» «Ovvio.» «La stessa di Suresti e di Borgo Angeo?» «Come faccio a dirlo. Mica vado in giro con archivio e microscopio», rispose Steri accarezzando un grappolo d'uva. «Senti, Steri, io non sono gran che esperto, ma questo mi sembra la fotocopia dell'omicidio del Chiari e della De Felice.» Il capo della scientifica lo fissò nelle pupille. «Simile, non uguale, ricordalo. Se era una fotocopia ce ne potevamo tornare in questura.» «Che cosa c'è?» Lanciotti cercò d'inserirsi nel dibattito. «Nulla, si discuteva sul da farsi», rispose il commissario. «Bisogna far le solite cose, mi pare ovvio.» L'ufficiale appariva esasperato. «Controllare le generalità, raccogliere i reperti, parlare con i famigliari. La routine, insomma... Caro Pino, nei prossimi giorni, anzi, nelle prossime ore, riceveremo tali secchiate di merda in faccia che ti consiglio di spostare la cerimonia del tuo matrimonio all'aperto se non vuoi ammazzare gli invitati con la puzza. E meglio che ti abitui a questo olezzo. Ora va' subito da Brezzi, e fa' in modo di risolvere la questione Masoli nelle prossime ventiquattro ore. Al resto ci penso io!»

Cadone ci mise qualche secondo per capire dove volesse andare parare l'amico. Perche ha deciso di essere il parafulmine di tutte le reazioni di un'inchiesta quasi fallita? Ha forse la vocazione del martire? Certo, meditò, ne devo fare ancora di strada per capire il modo di sopravvivere nell'ambiente della polizia giudiziaria. Per fortuna ho un amico e protettore come Lanciotti... Furbo il carabiniere! Mi manda dal sostituto procuratore e, per un po' di tempo, ci fa occupare di Masoli... Già, Masoli. Alla gente interessa un verosimile assassino non un probabile innocente. Quando c'incontreremo alla riunione operativa Lanciotti avrà come alleato Brezzi, distolto dai primi imbarazzanti momenti dell'inchiesta e dai primi schizzi d'escrementi, e il questore, che ha avuto la fortuna di trovare un ingenuo carabiniere trasformato in parafulmine. Ne consegue che nessuno mi attaccherà e la mia posizione nella squadra mobile sarà ancora solida. Ecco il motivo per cui Lanciotti non mi ha fatto partire. Devo essere presente, seppur defilato, in questo frangente... D'un tratto il commissario si vergognò di se stesso. Ma cosa sto intrigando? Qui ci sono due ragazzi morti e io penso solo a difendere la mia poltroncina. È forse l'attività principale di un investigatore? Speriamo di no... «Entri, commissario, si metta comodo.» Era la prima volta che Cadone entrava nell'ufficio di Brezzi, ma era come se ci fosse già stato. Lanciotti glielo aveva descritto in tutti i dettagli evidenziando la poca armonia di alcuni accoppiamenti stilistici. Vista così, di domenica, a mezzogiorno, senza il fruscio di passi lungo il corridoio, sembrava la stanza di un titolare di cattedra un tantino pretenzioso. «Dottor Brezzi, mi scusi, sono qui per la questione...» La voce del commissario si spense in un borbottio di suoni senza senso impercepibili all'orecchio umano: figuriamoci se li poteva cogliere un magistrato non abituato alla dolcezza del silenzio! Il giovane investigatore si con-

vinse di aver interpretato, ancora una volta, il ruolo dell'imbecille; osservando il sostituto procuratore si sentì tuttavia rinfrancato. Brezzi era seduto su una poltrona, senza cravatta, e aveva perso completamente l'aria da snob. I suoi occhi scialbi fissavano il dorso delle mani. Queste parevano non riuscire a sciogliersi da un intreccio. Il poliziotto lanciò un colpetto di tosse. Il magistrato continuò a tenere abbassati gli occhi. «Dottore, dobbiamo affrontare con urgenza la questione di Masoli», insistè. Il giudice sollevò la testa, poi fiaccamente roteò le pupille sino a quando non riuscì a puntare Cadone. Le sue dita, ormai ceree, continuarono a stringersi tra loro. «Lo so.» La voce era bassa, inconsueta per i timpani del commissario. «Lei ritiene assurdo che un pazzo possa aver ammazzato quei ragazzi per voler emulare Masoli?» Era chiaro: il sostituto procuratore aveva difficoltà ad accettare l'idea che accusando il biologo avesse preso una cantonata. Cadone cercò di riflettere più del solito prima di dare una risposta; non era il caso di far vacillare il già instabile umore del giudice. «Lei sa meglio di me quanti matti ci siano in giro. Dobbiamo però, se mi consente, prepararci all'idea ché i tre duplici omicidi siano stati compiuti dalla stessa persona. Steri ci dirà qualcosa nelle prossime ore. C'è anche un pube asportato, quasi allo stesso modo...» «E questo che mi fa infuriare.» Brezzi si alzò di scatto. Fece il giro della scrivania mentre il suo sguardo vagava, quasi fosse alla ricerca di un segnale in grado di dare sicurezza ai suoi pensieri. «Vede, commissario», riprese infervorato, «io sono disposto a convocare tra un'ora una conferenza stampa e dichiarare, a gran voce, che abbiamo preso un granchio nel sospettare di Masoli. Non sarebbe un fatto nuovo. Ho visto figure di merda ben peggiori... Dia un'occhiata sulla scrivania. C'è l'ordine di scarcerazione già firmato.»

Cadone non osò muoversi. Imbarazzato, si mordicchiò le labbra. «Ma come faceva, mi chiedo, come faceva Masoli a sapere che alla ragazza erano stati estirpati gli organi genitali?» Il poliziotto rimase qualche secondo a fissare le sue scarpe. Brezzi non era un cretino. Fece per dire qualcosa; poi esitò. Sperava in cuor suo che il giudice volesse continuare a parlare. Inutilmente. Il garante della giustizia si era seduto sulla poltrona e contemplava il suo studio, attendendo le parole del commissario. «Io credo», propose timidamente Cadone, «che, se non emergono altri elementi, lei possa tenere Masoli in galera trasformando l'imputazione di omicidio in favoreggiamento. Anche se lui non è l'assassino dei ragazzi di Suresti, dobbiamo ritenere sia a conoscenza di fatti importanti. Fatti che, sinora, ci ha tenuto nascosti.» «Calma, calma.» Il magistrato si alzò in piedi e si avvicinò al poliziotto puntando un dito eccitato. «Vuole dire che nonostante gli omicidi di questa notte Masoli può sempre rappresentare l'elemento cardine della nostra inchiesta?» «Sì, pensandoci bene, suppongo proprio di sì.» Brezzi sembrò rinfrancato. Sul suo viso da rappresentante della giustizia alla ricerca di un definitivo posto al sole apparve un sorriso sardonico e soddisfatto. Il suo cervello riprese a elaborare dati alla velocità consueta. Il suggerimento di Cadone, pur se elementare, riuscì a farlo svicolare da una situazione che, sino a quel momento, appariva senza via d'uscita. Spostò il fascicolo di Masoli dalla scrivania e si accese una sigaretta così leggera da apparire finta. «Caro Cadone», riprese con aria sorniona, «la carta da lei suggerita può essere una buona carta. Forse è quella vincente... Purtroppo ce la dobbiamo giocare subito, senza perdere tempo. Se la lasciamo nel mazzo, strombazzando ai quattro venti che siamo ancora della partita, molti penseranno a un bluff.»

«Sono d'accordo con lei.» Odiava il gioco delle carte, ma annuì, sebbene non avesse colto a pieno la metafora di Brezzi. «Quando ha visto l'ultima volta Masoli?» «Un mese fa. Si ricorda quando ho accompagnato il padre della ragazza? Che strano...» «Che cosa è strano?» Il sostituto procuratore sembrava poco disposto ad accettare altre informazioni negative dal suo interlocutore. «Dopo quell'incontro De Felice mi disse che secondo lui Masoli non era l'assassino della figlia. Intuizioni, mi aggiunse, pure intuizioni... Comunque», tagliò corto Cadone, «l'imputato non lo vedo da quel giorno.» Il magistrato sembrò aver rimosso quell'elemento che cozzava con la sua logica investigativa. Isterie, pensò. «In quali condizioni ha trovato il detenuto?» «Per quanto abbia potuto capire mi pareva totalmente assente.» «Anche a me hanno riferito la stessa cosa», mormorò. Poi, senza rendersene conto, iniziò a pensare ad alta voce. «Dunque un malato di mente che non parla. Però è un pazzo che conosce molte cose. Oppure finge di essere fuori di testa per coprire qualcuno. Con il rischio di farsi trent'anni di galera? No, è un'ipotesi che non sta in piedi... Se sa, e la follia gli impedisce di parlare, non ha senso utilizzare i mezzi tradizionali per farlo cantare. In teoria c'è qualche possibilità che decida di dirci qualcosa; ma ciò può avvenire anche tra dieci anni, e non possiamo tenerlo in galera per tutto questo tempo. È inutile illuderci; Masoli ci serve solo se parla, ma lo deve fare immediatamente, anche se saremo costretti a ricorrere a mezzi particolari.» Cadone guardò Brezzi di traverso. Cercò di nascondere le sue perplessità su quei «mezzi particolari» assumendo una posizione goffamente marziale. Solo in quel momento si accorse che era stato sempre in piedi. «Ha con sé il numero di Fabrizi?» chiese a bruciapelo il magistrato.

«No, non ho con me l'agenda.» Il giudice alzò la cornetta e ordinò al centralinista di turno di rintracciare il criminologo. Accese un'altra inutile sigaretta, inalò una boccata di fumo e si appoggiò all'indietro sulla sedia. Dopo un paio di minuti il telefono squillò. «Sono Fabrizi.» «Salve, ha saputo quello che è successo a Cormaio?» «Sì, mi ha chiamato una mezz'ora fa il colonnello Lanciotti.» «Meglio così. Sono con il commissario Cadone e discutevamo di Masoli...» «Lo immagino. Forse ora viene messo tutto in discussione.» «Forse. Senta, noi riteniamo che da Masoli possiamo ancora ricavare qualcosa.» «Uhm!» «Ritiene che le condizioni del detenuto possano peggiorare nel caso decidessimo di usare il siero della verità?» Fabrizi ci mise qualche secondo prima di rispondere. Brezzi non voleva consigli sul fatto di usare o meno tale tecnica, bensì solo prevedere eventuali, e spiacevoli, conseguenze. Il magistrato approfittò della pausa per scrollare la scarsa cenere dalla sigaretta. «Lei si riferisce alla narcoanalisi. Come saprà, le potenzialità del cosiddetto siero della verità sono state amplificate dai media; se dovesse poi ottenere qualche informazione, non è possibile utilizzarla come prova giudiziaria.» «Lo so», rispose secco Brezzi, «non sto cercando elementi per costruire prove credibili contro Masoli. Le ripeto la domanda: ci sono rischi per l'imputato?» «No. Visto lo stato catatonico in cui versa, potrebbe addirittura esserci un miglioramento. Non posso dirle altro. Io ho sempre evitato di usare tale tecnica, anche a livello terapeutico. Si ottengono risultati analoghi con l'ipnosi. Ma in quel caso il paziente è consapevole di quanto lo

psicanalista sta facendo... Pensandoci bene però, si può ricavarne qualcosa a rischio quasi zero.» «Conosce qualcuno in grado di applicare la narcoanalisi?» Fabrizi sospirò. «Per quel che mi risulta l'ha utilizzata qualche volta, una decina di anni fa, il professor Maiorana, il neuropsichiatra. Ora è in pensione, non lo vedo da parecchio tempo. Si potrebbe chiedere a lui.» «Ci penso io», concluse eccitato il magistrato, «ne parlerò con il procuratore capo e con il medico curante di Masoli. Non credo che creeranno problemi. Le farò sapere. Penso che ci vedremo domani.» Abbassata la cornetta, Brezzi rimase alcuni istanti a contemplare la strisciolina di fumo azzurro. Fece dondolare un po' la sedia e inforcò degli occhiali con la montatura d'oro. Solo in quel momento sembrò ricordarsi della presenza di Cadone. «Caro commissario, abbiamo tirato giù la carta: speriamo che non sia una scartina.» Steri non provò particolari soddisfazioni professionali nell'accertare che la pistola utilizzata per uccidere Giulia Murini e Walter Secchi era la stessa di Suresti e Borgo Angeo. Avrebbe messo la firma sul rapporto senza neanche guardare i bossoli al microscopio comparatore. C'era, tuttavia, una novità che lo spingeva a chiedere ai suoi collaboratori un supplemento di lavoro. A differenza dei precedenti omicidi l'assassino aveva lasciato una traccia. L'impronta di una mano impressa sul vetro della Ritmo. Per il dirigente della scientifica era un indizio da analizzare con tutta calma. Chiamò i meccanici della questura e fece smontare il cristallo posteriore destro che, avvolto in un telo di plastica, fu trasportato sul tavolo centrale del laboratorio. Per fare spazio spostò una pila di vaschette smaltate dove c'erano, accartocciate, alcune vecchie stampe. Mentre uno dei suoi aiutanti provvedeva a mettere in

ordine le ormai noiose istantanee dei bossoli, cominciò a osservare con una grossa lente d'ingrandimento l'impronta. Il maresciallo Nieddu aveva già provveduto a scattare alcune foto a luce radente e agli infrarossi: si trattava di una mano sinistra, larga dodici centimetri e lunga circa venti. Steri non ebbe dubbi: l'impronta era stata lasciata dall'omicida mentre tirava fuori la ragazza. Nessuno si sarebbe, infatti, sognato di sostenere che è normale, se non si ha uno scopo specifico, andare in giro indossando guanti da chirurgo. Osservando più attentamente la traccia il vicequestore rilevò inoltre che, all'altezza della falange media del dito indice, vi era una macchia rosso scuro. A un primo esame sembrava sangue. Con un nastro adesivo tirò via un campione, quindi disse a Nieddu di chiamare il professor Collini in ospedale. Se il liquido ematico trovato sul vetro apparteneva a una delle due vittime, vi era la certezza matematica sull'affidabilità dell'indizio. Con il metro prese le misure esatte della distanza della mano dalla parte inferiore del vetro. Ripetè l'operazione con il bordo destro del cristallo. Poi verificò l'angolo di pressione. Più tardi avrebbe controllato i dati con il dinamometro e con le tavole antropometriche. Con un pizzico di fortuna sperava di poter scoprire sia l'altezza sia il sesso dell'assassino. Poteva lavorare con calma. Lanciotti gli aveva assicurato che prima di quarantotto ore non sarebbe stata organizzata nessuna riunione. Brezzi non ebbe problemi a convincere il professor Maiorana a sottoporre Masoli a una seduta di narcoanalisi. Il neuropsichiatra pose come condizione che l'esperimento fosse eseguito in ambiente ospedaliero e nel pomeriggio. In quelle ore, infatti, le ipnotossine sono in circolo già in buona percentuale ed è più facile indurre lo stato narcotico. Chiese, inoltre, la verifica della funzionalità

epatica e renale del soggetto. Condizione clinica essenziale per l'uso di dosi elevate di barbiturico. Verso le quattro del pomeriggio, Cadone, Lanciotti e Brezzi videro avvicinarsi all'ingresso del padiglione 8 del vecchio manicomio un terzetto composto da Fabrizi, Incoronati e Maiorana. Quest'ultimo era un uomo di circa settant'anni, alto quasi un metro e ottanta. Trasportava a fatica un corpo ormai molliccio che occultava dei muscoli da vogatore a riposo da decenni. I capelli, ridotti a una striscia grìgia sulla nuca, si erano da tempo diradati. Degli occhialini da presbite, attaccati a un laccio di cuoio, ballonzolavano sul petto. Tra le dita della mano destra un sigaro Churchill spento. Era nato vicino a Messina ma si era trasferito in città da quando, nel dopoguerra, aveva vinto la cattedra di clinica neurologica. Erano rari i strizzacervelli della zona che non avevano dovuto subire i suoi bonari insegnamenti. Da qualche tempo, essendo un organicista, era attaccato da quei colleghi più giovani che ritenevano la malattia mentale figlia degli squilibri socio-economici. Lui a ogni accusa rispondeva con un sorriso, mai beffardo, e iniziava a narrare, come un nonno con i nipotini, le sue esperienze con i pazienti. Qualcuno lo considerava fuori dal tempo e un tantino rimbambito, ma nessuno riusciva a evitare l'incanto delle sue parole. Fabrizi lo presentò al magistrato e ai due investigatori. In silenzio il gruppo si avviò verso una stanza attrezzata del secondo piano. «Ci può dire qualcosa di più su questa tecnica, professore?» Il sostituto procuratore voleva a ogni costo essere rassicurato sulla sua inconsueta iniziativa. «Certo. Verso la metà dell'Ottocento si pensò di sfruttare la diminuzione del livello di vigilanza dei momenti precedenti all'addormentamento per reperire informazioni generalmente depositate nel preconscio e nell'inconscio. Si cominciò utilizzando soprattutto oppiacei; ma i danni per l'organismo erano superiori ai vantaggi terapeutici. All'inizio di questo secolo sono state sperimentate altre sostan-

ze; tuttavia è solo durante la seconda guerra mondiale che alcuni medici americani, utilizzando la Scopolamina e il Pentothal, riuscirono a sbloccare delle amnesie retrograde in militari affetti da psiconevrosi da guerra. Negli anni Cinquanta vi fu un certo entusiasmo verso tale tecnica a livello giudiziario; ma per fortuna ben presto il siero della verità tornò nella naftalina.» Vicino a una lettiga, il professor Maiorana interruppe la sua dissertazione. Si guardò intorno. Sembrava un direttore di orchestra che controlla l'efficienza scenica del teatro. Poi si rivolse ai due colleghi. «Come stanno fegato e reni?» «Non ci sono problemi», rispose Incoronati. «Avete fatto le prove allergiche?» «Sì, tutto ok.» «Tenete comunque a portata di mano delle fiale di aminofillina ed epinefrenina... Anche un po' di cortisone. Dovete sapere», aggiunse rivolgendosi a Brezzi, «che è sempre possibile uno choc anafilattico. Per quello che ricordo, professor Incoronati, lei è in grado d'intubare un paziente. Non si sa mai...» Un infermiere portò un bastone per sostenere una flebo. Lanciotti provò più volte un piccolo registratore. «Quanto pesa, Masoli?» chiese il professore a Fabrizi. «Circa ottanta chili.» «0,5 grammi di mebumalnatrium in soluzione al 2,5 per cento dovrebbero bastare... Fate venire il paziente.» Dopo un paio di minuti Masoli, seduto su una sedia a rotelle spinta da un infermiere, entrò nella stanza. Era più magro del solito. Le spalle angolose sporgevano dalla vestaglia. 11 naso si era allungato e il cranio, con quattro peli, s'innalzava stretto tra le orecchie sporgenti. I bulbi oculari erano cerchiati da profonde occhiaie. Per un lungo attimo si guardò intorno con l'aria di chi non capisce. Pareva non riconoscere nessuno dei presenti; neanche Incoronati che per anni aveva tentato di arginare lo sviluppo della sua psicosi. Brezzi appariva infastidito, quasi impaurito e, senza

aver coscienza del gesto, si nascose dietro le spalle di Lanciotti. I dubbi sulla sua scelta sembravano riaffiorare. Masoli fu disteso sulla lettiga. Majorana gli misurò la pressione e scrutò per una decina di secondi il fondo dell'occhio. Mentre esaminava i riflessi chiese a Incoronati d'introdurre in vena un ago «butterfly numero 21». Il detenuto nel frattempo continuò a disinteressarsi di quanto accadeva intorno a lui. Il neuropsichiatra accostò uno sgabello e si sedette. Non gli era facile trovare una posizione comoda; la pancia continuava a premergli sul diaframma. «Ora immetterò il farmaco lentamente. Il paziente calerà in uno stalo ipnagogico. Se in quel momento inizierà a parlare l'esperimento potrà continuare. Al contrario se manterrà un blocco comunicativo ci sono grosse probabilità che, iniettando altro barbiturico, si addormenti... E noi ce ne possiamo andare a spasso.» Un liquido giallastro penetrò nel braccio sinistro di Masoli. Dopo un paio di secondi Majorana interruppe il flusso del farmaco; una riga di sangue colorì la farfallina. Lanciotti mimò all'anziano medico la richiesta di poter fumare. Questi fece un cenno di assenso con la lesta. Masoli chiuse gli occhi. Il respiro si fece rapido. Le labbra erano secche. Alla radice del naso una lesione da herpes riprese a sanguinare. Maiorana con una garza umida gli bagnò le mucose. Appariva soddisfatto e lasciò defluire dell'altra soluzione nella vena del paziente. «Fermi... Lì ci sono le mie carte, i miei strumenti.» La voce salì penosa, quasi sepolcrale. Il professore si avvicinò al viso di Masoli e si passò la lingua sulle labbra. «Da questo momento lei sentirà solo due voci: la mia e quella che proviene dal suo interno. Il resto dei suoni verrà soffocato e il mondo le apparirà lontano, in un sottofondo neutro privo di paure e timori.» Il tono del clinico era suadente, riposante, rilassato. Masoli sembrò non reagire a quegli stimoli, ma tutti i presenti ebbero la sensazione netta che il detenuto avesse percepito il messaggio del medico.

«Le due voci, la mia e quella del suo inconscio, dialogheranno tra loro senza che nessuno, neanche la nostra coscienza, possa disturbarle... Cerchi ora di tornare indietro con la sua mente. Come se vedesse un album di fotografie. È l'inizio dell'estate. Fa molto caldo.» «Sì, fa caldo.» Masoli era in contatto con il professore. «Fa molto caldo», riprese Maiorana, «anche se è solo il primo fine settimana del mese di giugno. Tutti hanno voglia di un pochino di fresco. C'è chi va al mare, altri si avviano ai monti. Qualcun altro infine, meno fortunato, è costretto a restare in città. La sua voce interiore dove si trova?» Il paziente tirò un lungo respiro, sembrava che fosse in debito di ossigeno; ma poi diede spazio ai suoi pensieri. «Sabato sera sono rimasto a casa. Ero solo, ero triste... Elena non mi porta il bambino. Non vuole. Elena, perché non mi capisci...» L'uomo sembrò cadere in un sonno profondo. Maiorana reagì immediatamente. Premette per un attimo un dito sulla carotide e alzò il tono della voce. «La notte tra sabato e domenica dove si trovava?» «A letto. La televisione è rimasta accesa sino a mezzanotte... Poi ho preso due pasticche, un pochino di whisky e mi sono addormentato. Dovevo riposare. Il giorno dopo ero... ero di turno per ventiquattro ore in ospedale.» «Che cosa hai fatto quel giorno?» II medico era passato a un più incisivo «tu» e, per la prima volta dall'inizio dell'esperimento, il suo timbro incolore rivelò una certa eccitazione. «Completai alcuni esami che dovevano essere pronti per il lunedì... Sì, il lunedì. Che angoscia il giorno di festa, ero più solo del sabato. Nel pomeriggio arrivò un campione da medicina legale...» Parve riaprire gli occhi. Le palpebre erano scosse da un tremolio. Maiorana lasciò defluire un'inezia di farmaco. «Quale campione?» chiese quasi con disinteresse. «A medicina legale non avevano i reattivi per vedere se in un secreto vaginale fosse rimasta traccia di liquido

spermatico. Non c'era nulla... Ma non basta, ci vuole più materiale... Telefonai all'istituto e chiesi perché era stata mandata così poca roba. Mi rispose un assistente. C'è solo questo, il resto è in mano all'assassino della ragazza. Fai in modo che sia sufficiente per dare una risposta, così mi ha detto... Rimasi sino al mattino successivo a immaginare quello che poteva essere accaduto a quella donna.» Maiorana si fece ripetere il racconto partendo da momenti storici diversi; ma la versione fu sempre la stessa. Il medico iniettò l'ultima parte della soluzione e lasciò cadere Masoli in un torpore profondo. Brezzi un po' deluso guardò Lanciotti. «Penso che possiamo congedare definitivamente l'imputato. Mi faccia il piacere di controllare da Collini se le cose sono andate veramente come abbiamo appena sentito...» Girò gli occhi verso la lettiga che cigolando riportava Masoli nella sua cella e nervosamente si abbottonò la giacca. «Professor Maiorana», disse in tono cordiale, «la ringrazio per il preziosissimo intervento. Se non le dispiace vorrei ancora coinvolgerla nel futuro: può partecipare a una riunione di lavoro domani mattina?» «Non ci sono problemi.» Il neuropsichialra poté finalmente accendere il mezzo toscano. «Bene. Ne parlerò con il procuratore capo e le farò sapere qualcosa... Cadone, ha qualche notizia da Steri?» Il commissario ancora frastornato dall'esperimento diede un'occhiata a Lanciotti prima di rispondere. «I proiettili, come era prevedibile, sono partiti dalla stessa Beretta che ha ucciso a Borgo Angeo e a Suresti. Per il resto pochi indizi: c'è, però, un elemento inedito che forse ci può portare su qualche pista. Steri è stato comunque molto cauto e vuole fare altre prove nel pomeriggio. Non so altro.» *

*

*

La riunione operativa venne fissata per il martedì mattina alle nove. Cadone si era ormai adattato all'idea che il viaggio di nozze dovesse essere annullato. Di certo avrebbe preferito passeggiare per la Quinta Avenue con Lorena, invece di affrontare l'allarme e l'impotenza che soffocavano i corridoi della questura. Raccolte le poche carte si avviò verso la biblioteca fidando di non essere uno dei primi. Ranelli, più scuro del solito, passeggiava a scatti di fronte alla porta. «Senti, Cadone, c'è stato un contrordine: la riunione non si svolgerà nei nostri uffici.» «Dove dobbiamo andare?» «Non so nulla. Mi è stato solo ordinato di farvi partire a intervalli di cinque minuti. Più tardi, dalla sala operativa, vi verrà indicato il percorso. Il signor questore è già partito. Attendo Steri e poi vi raggiungo.» «Perché questa messinscena?» chiese perplesso il commissario. «Lo ignoro», rispose il capo di gabinetto cercando di nascondere l'irritazione, «forse si vuole evitare un'eccessiva pubblicità alla riunione. Sembra inoltre che il procuratore capo si sia infastidito perché l'altra volta c'è stata una fuga di notizie. Non riesco a immaginare a che cosa si riferisce.» Pino sorrise. «Va bene, io vado.» Ranelli era sulle spine; detestava affrontare situazioni che sfuggissero al suo controllo. Se la riunione si fosse svolta presso la legione dei carabinieri avrebbe considerato la circostanza come un'offesa personale. «Posso venire con te?» Cadone si voltò. Era Steri, con tanto di cravatta svolazzante, che sofferente scendeva le scale. I suoi piedi piatti e delle cartelle sotto il braccio rendevano ancora più goffi i suoi già poco agili movimenti. «Certo. Ti posso aiutare?» «Tieni un paio di fascicoli, altrimenti rischio di dover andare a raccogliere le carte nell'androne.» «Hai visto Ranelli?» «No, e non ho intenzione d'incontrare quello iettatore. Fammi toccare ferro.»

«Ti aspettava davanti alla biblioteca.» «Che aspetti.» I due poliziotti raggiunsero il garage e, sprofondati sui sedili posteriori di una Lancia Delta bianca, attesero indicazioni. «Dirigersi verso l'università», gracchiò la radio. «Ma perché tutto questo?» domandò un po' preoccupato il capo della scientifica. «Sembra sia un'idea di Lanzi.» «Ho saputo di Masoli. È stato interessante?» «Direi di sì. Tu hai trovato qualcosa?» «Forse», rispose con l'aria da malandrino. Steri non aveva voglia di parlare. Era concentrato a preparare mentalmente la scaletta del suo intervento. «Auto 27, auto 27... Raggiunta l'università dirigersi verso l'aula magna di fìsica. Ci saranno un paio dei nostri in borghese ad attendervi.» Cadone non era mai stato nell'ateneo Borridiano. Ne parlavano un gran bene. Qualcuno gli aveva detto che il trenta per cento degli iscritti erano stranieri; soprattutto inglesi e americani. «Per di qua.» Un agente aprì la portiera e li sollecitò a varcare un cancello. «Avanti, avanti!» Un'altra voce. I due si avviarono per un corridoio arieggiato da una finestra alta fino al soffitto e chiusa da una massiccia inferriata. In fondo, un tavolino traballante, una sedia e un telefono a muro. Di lato due porte. Di fronte a una di esse Lanciotti, in abiti civili, parlava fitto con il questore. «Accomodatevi, ragazzi», disse succintamente. Entrarono nell'anello superiore di un'enorme aula semicircolare. Era tutto in legno di castagno, anche le ripide scale. Al centro, un lungo tavolo scuro con una decina di sedie. Di fronte, una lavagna con la lastra di ardesia consumata. 11 lucernaio, aperto, permetteva ai raggi del sole di raggiungere e riscaldare i vecchi banchi. Si vedevano ponteggi e palanche accatastate. Il soffitto meritava da tempo un radicale restauro.

Seduto nella prima fila, Fabrizi discuteva con Maiorana e Collini. Non potevano di certo essere scambiali per vecchi studenti ruffiani. Finalmente la burocrazia sembrava essersi inchinata alla scienza. «Tanto onore per un assassino», rifletté Cadone. Sul tavolo, all'altezza del posto che verosimilmente spettava al procuratore capo, vi era una scacchiera di legno. Sessantaquattro caselle vuote. Vicino una scatola gialla con cinquanta proiettili H-Winchester. Non ebbero tempo per i saluti. Lanzi e Brezzi, seguiti a un passo da Lanciotti, Tini e Amari scesero, quasi di corsa, nell'emiciclo e si sedettero in silenzio. Il capo della mobile pareva un pesce fuor d'acqua. Tra un mese sarebbe stato trasferito a Venezia e lui, con i pensieri, era ormai sempre più vicino alle gondole. Mentre il commissario si sistemava tra Steri e Fabrizi, arrivò trafelato Ranelli che prima guardò ostentatamente l'orologio e poi rivolse un'occhiata fredda al capo della scientifica. Il procuratore capo inforcò le lenti e chiese a bruciapelo: «Va bene caffè e acqua minerale per tutti?» Nessuno fiatò: un cenno e un commesso sparì. Lanzi con studiata lentezza aprì il contenitore dei 22 Long Rifle. Erano poco più grossi di un chiodo. Ne prese una manciata e li pose, schierati, su un lato della scacchiera, in modo da coprire solo due file. Uno dei proiettili cadde. Brezzi, solerte, lo rimise in piedi. «Signori, mi scuserete per l'inconsueto modo d'incontrarci. Ho ritenuto che un'aula universitaria, chiusa per lavori di restauro, fosse un posto più discreto della sala riunioni della questura o del sontuoso salone della prefettura. Abbiamo bisogno di riflettere con calma e senza l'assillo dei giornalisti. La presenza, inoltre, di illustri clinici ci induce a calarci in un contesto di analisi che poco si lega ai nostri abituali modelli inquisitori. Quindi che cosa c'era di meglio di una riunione in un'aula magna?» Il caffè arrivò. Il procuratore capo ne approfittò per una breve pausa. «Ma con voi voglio essere onesto. Il motivo principale

di questa scelta è un altro: tra sei mesi io vado in pensione, e tutto prevedevo meno che veder turbati i miei ultimi giorni di lavoro da una serie di omicidi così poco razionali.» 11 tono della voce di Lanzi si abbassò in coincidenza delle ultime parole. Chinò la testa. «Poveri genitori! Ho pena per la mia città, l'ho amata tanto. Nessuno merita tutto questo...» mormorò. Poi si riprese, quasi a voler scacciare un incubo. «Di fronte all'azione di un pazzo criminale ritengo sia indispensabile tirare fuori idee originali, forse prive di logica. Ho paura che se non facciamo così rischiamo d'inseguire solo dei fantasmi, e altri ragazzi potrebbero morire. Di conseguenza, riservatezza e originalità: queste devono essere le nostre due armi. Vi voglio confidare un'altra cosa: io temo questo assassino. Non riesco a cogliere i suoi messaggi. Ieri sera riflettevo sulle sue capacità e sulla nostra impotenza. Lo percepivo come un giocatore di scacchi che, come avversario, ha tutti noi. Ecco il motivo di quella scacchiera.» Il proiettile che rappresentava il pedone d7 si spostò in d5. «Il nostro pazzo, in realtà, è un avversario poco onesto. Sappiamo che esiste ma non sappiamo chi sia. Conosce la posizione delle sue e delle nostre pedine mentre noi giochiamo al buio. Lui si muove sulla scacchiera a suo piacimento e mangia i pezzi quando vuole. Noi possiamo solo cercare d'immaginare la sua strategia, ma ci è impedito abbandonare la partita. Lui, secondo me, non cerca lo scacco matto; sarebbe la fine del gioco, anche per lui. Se noi facciamo una mossa è pronto a renderci ridicoli e ci mangia subito un pezzo: vedi la storia di Masoli. Se non fosse stato in galera forse quel folle avrebbe aspettato più tempo per riprendere a uccidere. Ora basta con questi deliri da vecchio rincitrullito o da zitella fantasiosa; vediamo che cosa abbiamo in mano. Steri, inizi lei, mi hanno detto che ha qualche novità.» Il bonario poliziotto alzò il busto di soprassalto. Era ri-

masto incantato, a bocca aperta, ad ascoltare l'anziano magistrato. Poi si mosse facendo sussultare il tavolo con la pancia. Per farsi coraggio bevve un sorso di caffè. «Come era facile prevedere, i bossoli repertati provengono dalla stessa arma che ha ucciso a Suresti e a Borgo Angeo. Non vi voglio annoiare con le solite diapositive, ma vi posso assicurare che i segni lasciati dal percussore e dall'estrattore sono identici a quelli riscontrati in precedenza.» «Ne siamo convinti, continui pure.» Lanzi sembrava aver ritrovato interesse per la routine. «Sui corpi delle vittime e nel raggio di trenta metri non sono stati trovati elementi di rilievo investigativo. Solo qualche impronta di scarpa, ma visto l'arrivo di tutta quella gente ci penserei due volte prima di dare credito a queste tracce.» «Mi scusi Steri, una domanda un po' stupida: secondo lei l'assassino fuma?» «Io ritengo di sì. Intorno alla Ritmo abbiamo trovato parecchie cicche, ma sono vecchie. Sa, quel posto è molto frequentato dai ragazzi di Cormaio. Siamo comunque riusciti a scoprire dove si era nascosto. A circa quindici metri, dietro un filare di vite. Quando è uscito, oppure quando è tornato indietro, ha strappato alcuni rami. Lì abbiamo trovato dei mucchietti di cenere prodotti non più di ventiquattro ore prima.» «E le cicche?» insistette Lanzi. «Credo se le sia portate dietro. Comunque avrà fumato sette, otto sigarette.» «Deve aver atteso i ragazzi un paio di ore... Mi scusi, vada avanti.» Steri archiviò la deduzione del procuratore capo e riprese la sua esposizione. «Domenica mattina, prima di far rimuovere i cadaveri, ho chiesto l'intervento delle unità cinofile. I cani si sono avvicinati alla ragazza e hanno seguito una traccia. Era ben chiara sino al punto in cui abbiamo trovato la cenere. Poi, dopo qualche difficoltà, sono andati verso la stra-

da comunale e si sono fermati presso un'altra radura a duecento metri di distanza. È probabile che l'assassino abbia parcheggiato l'auto lì.» «Si sono fermati nella radura?» «No, si sono diretti anche sulla strada; ma dopo una decina di metri non sentivano più nulla. Uno dei cani lupo, però, puntava decisamente in direzione della città.» «La sua ricostruzione sembra plausibile», sottolineò Lanzi. «Ora», riprese confortato Steri, «affronterò la parte che considero più interessante. Sul cristallo posteriore destro è stata trovata l'impronta di una mano, la sinistra. L'impronta era ben chiara. La macchina era piena di fuliggine. Non dobbiamo dimenticare che Walter Secchi aveva un'officina da meccanico. Ebbene, dopo una serie di verifiche, sono arrivato alla conclusione che quella mano appartiene all'assassino.» Il capo della scientifica verificò meccanicamente la perpendicolarità della sua cravatta prima di continuare a esporre la sua ipotesi. «Chi ha impresso il vetro indossava guanti in lattice utilizzati generalmente dai medici. Aderiscono in modo perfetto e non lasciano segni come quelli da cucina. A metà del dito indice ho trovato una macchia di sangue. Il professor Collini ha potuto riscontrare che è dello stesso gruppo di quello di Giulia Murini. Sono certo che l'omicida ha lasciato l'impronta mentre tirava fuori la ragazza dall'abitacolo.» «Come è arrivato a questa conclusione?» domandò incuriosito Brezzi. Steri alzò la mano grassoccia. «Il livello d'estensione dell'impronta dipende dalla forza impressa da un soggetto. La traccia lasciata, se si appoggia una mano su un piano, è ben diversa rispetto a quella che si ottiene premendo con forza. Ora le faccio vedere.» 11 vicequestore si alzò e si avvicinò alla lavagna. Prese del gesso e fece due disegni di una mano. Uno più fine, l'altro più grossolano.

«Se uno preme si forma una chiazza più larga. Ho fatto delle prove con il dinamometro e ho potuto verificare che per ottenerne una come quella trovata sulla Ritmo occorre operare una pressione sulla mano di circa trenta, quaranta chili. Il resto dello sforzo si è scaricato sulle gambe. Ma non è tutto... Cadone, scusami, dammi quella cartella gialla.» Il commissario ubbidì in fretta. Non voleva interrompere il suo ritmo oratorio. Steri tirò fuori dei fogli pieni di numeri e grafici. «La mano dell'assassino è larga 123 millimetri e lunga 195. Il limite inferiore dell'impronta dista da terra circa un metro e ventisette centimetri. La pressione esercitata all'altezza delle dita è simile a quella rilevata sulla parte inferiore della mano. Ne deriva che il braccio del soggetto era più in basso rispetto alla spalla sinistra. Ho quindi confrontato questi dati con le tabelle antropometriche. Esse mi dicono che l'omicida, o colui che ha trascinato la ragazza, è di sesso maschile e ha un'altezza compresa tra il metro e settantotto e il metro e ottantadue. Potrei sbagliarmi di un paio di centimetri, ma per difetto.» «Vada che non sia un nano... Ma, mi scusi, come fa a sapere che è maschio?» chiese concentrato Lanzi. «Scusi la volgarità, presidente: lo sa quale è il metodo più rapido per riconoscere un travestito da lontano? È sufficiente guardare i piedi e le mani. Non c'è donna, pur se più alta della media, che abbia in proporzione le estremità più grandi di quelle di un uomo.» «Complimenti. Ora sappiamo qualcosa di più su questo fantasma!» esclamò il magistrato. «Io credo che sia pure ben dotato sul piano muscolare», intervenne Lanciotti. «Secchi pesava più di ottanta chili. Non era facile da trasportare, una volta cadavere.» «Colonnello, lei che ha potuto osservare... Oh, mi scusi: Steri, c'è dell'altro?» «Per ora no», rispose il vicequestore avvicinandosi al tavolo. L'ufficiale si schiarì la voce. «Sarò telegrafico: stessa

ora; analoghe condizioni climatiche; stesso giorno della settimana; luna mancante; stesse armi; stessa precisione; i ragazzi uccisi prima di avere rapporti sessuali; comportamenti similari nei tre delitti. Il primo avvenuto nella zona nord-est della città, il secondo nella zona sud-ovest, l'ultimo a nord-ovest. Sembrano i vertici di un quadrato; però ne manca uno per completare il poligono. Elementi inediti? Pochi. L'assassino non ha tolto gli indumenti alla ragazza; li ha tagliati per avere il pube scoperto. Forse teme qualcosa nel toccarla? Non so... Secondo aspetto che mi lascia riflettere: questo pazzo uccide, sta fermo sette anni e massacra altri due ragazzi. Intervallo di quattro mesi, poi si fa nuovamente vivo. Due sono le cose: o l'istinto omicida è diventato incontrollabile, e quindi accorcerà sempre di più i tempi, oppure ha ammazzato la Murini e il Secchi per mandarci un messaggio di forza e di sfida.» Cadone rivolse un amaro sorriso all'amico. Era stato brutale come un medico militare, ma efficace come pochi nel descrivere la loro non certo bella situazione. Lanzi era impietrito, pareva aver paura. Il sostituto procuratore, cercando di non apparire avido di interventi, interruppe il silenzio. «Professor Collini, che cosa ci dice di nuovo?» Il patologo legale con la testa china sbirciò tra le dita socchiuse, scosse i canuti capelli, poi abbassò la mano. «Sarò più telegrafico del colonnello Lanciotti. Ecco la copia dell'esame del secreto vaginale della De Felice. E firmato da Franco Masoli. Per quello che mi riguarda la sua vicenda può considerarsi chiusa. Secchi è stato colpito da tre proiettili: uno al polmone, uno al cranio e l'altro vicino al cuore. Gli ultimi due mortali. Ma l'assassino non si sentiva sicuro, e ha inferto tre pugnalate alla schiena. La ragazza è stata raggiunta da cinque proiettili, di cui due mortali: uno al cuore e uno alla tempia. Anche lei è stata accoltellata alla schiena. Poi l'assassino si è occupato del pube; la parte è stata asportata con tre tagli netti, più profondi del precedente omicidio. Nessuna traccia di sperma. Questo elemento lo abbiamo verificato nei nostri

laboratori.» Collini si sentiva ancora in colpa. Se il suo assistente, Mino Scipasti, fosse stato più corretto, e lo avesse informato di ogni iniziativa intrapresa, avrebbero evitato la galera a Masoli. «Nulla da aggiungere?» chiese Lanzi. «No», rispose asciutto. Il procuratore capo aveva riacquistato il controllo di sé. «Abbiamo tra noi il professor Maiorana. Ci conosciamo da anni, tanti, forse troppi... Lei ha potuto dare una rapida occhiata ai nostri atti. Che cosa le è venuto in mente?» Maiorana chiese dell'altro caffè al commesso, tirò fuori un mezzo sigaro ma non lo accese. «Se mi è consentito, vorrei parlare di un'ipotesi di lavoro suggestiva che mi è nata mentre analizzavo le carte.» «Vada tranquillo, professore. Se mi dice che ci troviamo di fronte a uno che ammazza la gente dopo essere sceso da un'astronave, non avrei difficoltà a darle credito e cercherei conferme presso la Nasa.» 11 procuratore capo stava cercando di allentare la tensione ma purtroppo, senza volerlo, riusciva a comunicare solo un senso di disarmante impotenza. Maiorana, comprensivo, sorrise per un attimo; poi chinò la testa e rimase immobile per qualche secondo come se fosse impegnato a leggere degli appunti. Era un atteggiamento che alcuni dei presenti conoscevano avendolo già osservato, negli anni passati, in altre aule universitarie. «L'esame dei dati e la lettura delle interpretazioni cliniche dei colleghi mi inducono a ritenere come degna di essere presa in considerazione l'ipotesi suggestiva che l'assassino sia affetto da epilessia psicomotoria.» Fabrizi e Collini annuirono. Gli altri rimasero immobili, sconcertati, ma sicuramente interessati a quanto affermava il neuropsichiatra. Lanzi congiunse le mani come se rivolgesse una preghiera a un'immagine sacra presente nell'aula. Respirò a fondo, poi, cercando di assumere uno stile arido e autoritario, interruppe il silenzio. «Scusi, professore, ma per quello che ho appreso dalle

letture, spesso superficiali, di perizie o pareri medico-legali, l'epilessia non è correlata a episodi criminali.» «In genere è così, presidente. Esiste però un tipo particolare di patologia che può indurre forme aberranti di comportamenti criminali.» Ruotando il non indifferente sedere sulla poltrona, si pose in modo da potersi rivolgere con facilità verso quanti riteneva più bisognosi delle sue spiegazioni. «L'epilessia psicomotoria è una malattia derivante da una lesione del lobo temporale.» Indicò la zona sul suo nudo cranio. «Tale patologia, in gran parte dei casi, si manifesta con crisi, in genere di breve durata e non molto frequenti. Durante l'attacco il paziente perde sia la consapevolezza della propria personalità sia la capacità di controllare i propri comportamenti. I malati più gravi possono allontanarsi per giorni dalla propria abitazione, prendere un treno, andare in un'altra città, compiere azioni bizzarre, a volte delittuose, e quindi tornare in famiglia stremati, sporchi e denutriti. Fatto importante, non ricordano nulla di quanto accaduto durante l'attacco.» «Come non ricordano nulla?» chiese interessato il procuratore capo ritenendo di farsi carico, con il suo intervento, delle perplessità di gran parte dei presenti. «Sì, è proprio così. Essi a volte ricordano i segnali premonitori della crisi epilettica, ma non sono in grado di raccontare quello che è successo nel periodo di crisi. Se, per esempio, vengono accusati dalla polizia di avere aggredito e picchiato a sangue qualcuno, entrano in profonda depressione in quanto vivono tale esperienza come estranea alla loro vita e alla propria morale.» «Ma come può accadere tutto ciò?» domandò con sincera curiosità Brezzi che, negli ultimi giorni, si era dovuto spesso affacciare nel mondo sempre misterioso della psiche umana. «Se permette mi aiuterò con degli schizzi», rispose Maiorana alzandosi. Con movimenti lenti si accostò alla lavagna e, dopo aver cancellato gli schemi di Steri, iniziò a tracciare degli schizzi.

«Bene, ecco il cervello visto di lato. Quest'altro invece è lo stesso organo visto dall'alto. Faccio un bel cerchio intomo alla zona del lobo temporale. Per quanto si è riusciti ad appurare le crisi epilettiche possono essere prodotte da varie situazioni patologiche. A noi, in questo frangente, interessano quelle indotte da una lesione del cervello: tra l'altro, sono le più numerose a livello di riscontro clinico.» Dopo essersi sincerato, con un rapido sguardo, di aver l'attenzione di tutti sincronizzata sulla sua stessa lunghezza d'onda, il professore riprese la sua lezione. «La lesione è spesso provocata durante il parto, oppure a seguito di un trauma cranico: in una caduta; in un incidente automobilistico; per percosse. La lesione, nella maggior parte dei casi, si cicatrizza senza eccessivi problemi; ma, mentre nel resto del corpo una cicatrice in genere non porta con sé problemi funzionali, nel cervello essa può innescare delle strane scariche elettriche. In situazioni particolari si può, infatti, verificare un piccolo corto circuito. Si ha quindi una propagazione di potenziali elettrici a forma di onde circolari che coinvolgono gran parte del cervello.» Il disegno schematico delle onde si andò a sovrapporre a quello del cranio. «Ovviamente», aggiunse Maiorana, «il tipo di crisi dipende dal punto in cui si trova la lesione. In alcuni casi si ha il classico attacco convulsivo: perdita della coscienza; contrazioni muscolari molto forti; bava alla bocca; mascella serrata. Cioè tutta una serie di sintomi ai quali almeno una volta a tutti voi è capitato di assistere. Per altri pazienti, soprattutto i bambini, la crisi è spesso meno drammatica; si hanno delle brevi assenze che, molte volte, non vengono neanche rilevate dal medico curante. Abbiamo, infine, le lesioni a livello del lobo temporale che possono provocare, appunto, l'epilessia psicomotoria.» Con la stessa lentezza con cui si era avvicinato alla lavagna il vecchio neuropsichiatra ritornò al suo posto. «Lei, professore, ha parlato prima di alcuni segnali che precedono l'attacco: quali sono?» Lanzi non aveva smes-

so di seguire la massiccia figura del suo interlocutore. «Noi la chiamiamo 'aura' Essa si manifesta nei momenti precedenti la crisi. Il malato può sentire dei suoni, a volte degli strani sapori, più frequentemente degli odori sgradevoli. Questi soggetti imparano presto a riconoscerli come i segnali di un imminente attacco.» «Ci sono», chiese Lanciotti, «dei fattori esterni che possono scatenare la crisi, oppure essa insorge in modo del tutto casuale?». «In tale ambito esistono alcune certezze, mentre altre cause sono tuttora sottoposte a verifica sperimentale. Di sicuro l'assunzione di alcol induce irritazione corticale. Basta a volte una piccola dose di superalcolici per scatenare un accesso. Anche gli stimolanti, come le anfetamine, e alcuni particolari impulsi luminosi possono provocare lo stesso effetto nel cervello. Secondo qualche scienziato pure un'eccitazione sessuale elevata può favorire questo fenomeno neurologico.» «Quindi, il nostro soggetto, dopo aver bevuto un whisky, potrebbe essere andato a spiare due amanti. In quel frangente potrebbe essersi scatenato un attacco di epilessia psicomotoria. Dopo averli massacrati torna a casa e non ricorda nulla di quello che è accaduto.» Il procuratore capo sembrò sul punto di sposare completamente la tesi del professor Maiorana. «Sì, è possibile. Secondo alcuni anche le fasi lunari potrebbero influire sulle crisi epilettiche. Fino al secolo scorso, nell'accezione popolare, questa malattia veniva anche chiamata 'mal di luna'.» Il medico si lasciò andare sulla sedia, accese il sigaro e s'interessò al fumo bluastro che saliva verso il lucernaio. Con ciò intendeva comunicare a tutti che la sua esposizione era conclusa. Ma Lanzi non aveva nessuna intenzione di mollare la presa. «Ma quanti sono? Come vengono curati?» «Con precisione non si sa», sbuffò il neuropsichiatra. «Secondo alcuni ricercatori circa l'uno per cento della popolazione è affetto da una delle tante forme di epilessia.» «Quindi in Italia dovrebbero essere circa cinquecento-

mila», sottolineò il procuratore capo, evidenziando rapidità e capacità di calcolo insospettabili. «Sì, all'incirca... Quelli conosciuti, però, sono meno di duecentocinquantamila. Gran parte degli epilettici neanche sa di avere una lesione al cervello e svolge una vita normale. Come ho già detto, gli attacchi avvengono spesso in coincidenza di assunzione di alcol e, a volte, vengono sottovalutati, o non riconosciuti, dalle persone vicine al paziente. Di tale affezione hanno sofferto personaggi famosi come Dostoievskij; alcuni dicono anche Van Gogh. Oggi vengono curati con barbiturici, terapia che in genere è in grado di prevenire le crisi. Per quelli più resistenti, da qualche decennio viene utilizzata, soprattutto all'estero, anche la neurochirurgia con l'asportazione della zona dove è presente la lesione. Negli ultimi anni è stato anche introdotto il metodo stereotassico, un sistema che permette di lavorare sul cervello del paziente senza bisogno di aprire il cranio; attraverso un piccolo foro vengono introdotte delle sonde guidate per mezzo di un raffinato computer.» «Come mai», gli domandò Brezzi passandosi una mano tra i capelli, «i pazienti affetti da epilessia psicomotoria hanno durante l'attacco un comportamento aggressivo? C'è inoltre una spiegazione al fatto che percepiscono cose strane prima della crisi?» «Lei mi costringe a tornare alla lavagna», rispose bonariamente Maiorana. «Vede, le cose sono tra loro legate. Questa parte centrale e intema del cervello viene chiamata zona limbica. Tale area è stata la prima a svilupparsi negli esseri viventi e controlla, tra l'altro, il senso dell'olfatto. Non a caso è anche chiamata rinencefalo, in quanto in tale zona arrivano, e vengono elaborate, le informazioni provenienti dai sensori del nostro naso.» «Come saprà», aggiunse il vecchio clinico rivolgendosi all'attento sostituto procuratore, «gran parte degli animali del livello più basso della scala evoluzionistica regolano attraverso l'olfatto comportamenti come la paura, l'ag-

gressività, la fame, il desiderio sessuale. Questi comportamenti, indispensabili alla loro sopravvivenza, sono disciplinati proprio dal rinencefalo. Nell'uomo, successivamente, si è sviluppata la corteccia cerebrale che sottopone a controllo l'area limbica. La paura può, quindi, trasformarsi in ansia; l'aggressività in antipatia; l'attrazione sessuale in amore. A me, e a voi tutti, tutto ciò accade quotidianamente.» «Glielo devo dire a mia moglie», lo interruppe sorridendo Tini, «che l'ho sposata per il suo odore.» «Lo so, sembra incredibile», ribadì Maiorana mostrando degli incisivi gialli, «ma le cose stanno proprio così... Le industrie di cosmetici lo hanno capito da decenni.» «Nei soggetti affetti da epilessia temporale», concluse il professore riavvicinandosi al tavolo, «il rinencefalo sembra prendere il sopravvento sulla corteccia che, per un po' di tempo, viene messa a tacere. Ecco allora gli strani odori, lo scoppio dell'aggressività, la perdita della consapevolezza di quanto sta accadendo.» Basta! pensò il neuropsichiatra mentre si lasciò andare, quasi esausto, sulla poltrona. Era ben deciso a impedire al suo corpo di rialzarsi. «Professore», chiese il giudice Lanzi, «se il nostro amico fosse affetto da epilessia, quali probabilità ci sono che in passato sia stato curato con barbiturici o altri farmaci?» «Direi abbastanza elevate», rispose cauto Maiorana. Egli, infatti, temeva che la sua risposta avrebbe indotto gli inquirenti a scatenare un controllo su neuropsichiatri e farmacie. «Ora voglio sentire anche gli altri: lei, dottor Fabrizi, che cosa ci porta di nuovo?» Il criminologo era assorto a fissare un bicchiere di plastica vuoto. Ma tale atteggiamento non andava inteso come estraneità alla discussione. «Ritengo, purtroppo, che l'affascinante ipotesi del professore sia poco aderente alla realtà. Con questo non voglio di certo scatenare una discussione accademica, ma, oggettivamente, stento a credere che l'assassino sia affetto da epilessia psicomotoria.»

La premessa di Fabrizi sembrò abbastanza diplomatica. A quel punto si rivolse direttamente a Maiorana. «Come lei mi ha insegnato negli anni in cui frequentavo l'università, questi pazienti temono la loro violenza. Sono così turbati dai loro raptus di aggressività che, al sessanta per cento, arrivano a tentare il suicidio. Essi, inoltre, sono sempre alla ricerca di un sostegno da parte dei medici. Per quello che ci risulta, l'omicida dei sei ragazzi non ha mai chiesto aiuto a nessuno negli ultimi dieci anni.» «Sì, è vero, le cose pare stiano proprio così», sottolineò il neuropsichiatra, compiaciuto dalla precisa osservazione del suo ex allievo. «Inoltre», ribadì Fabrizi confortato dall'atteggiamento del professore, «i crimini compiuti durante un attacco di epilessia temporale sono abbastanza tipici: carichi di aggressività, scarsamente programmati e finalizzati, con rapporto tra vittime e carnefice quasi nullo. Questi pazienti vengono quasi sempre catturati mentre vagano in stato confusionale, insanguinati, sporchi, e i parenti sono quasi sempre a conoscenza della pericolosità del congiunto. Colui che ha ucciso a Borgo Angeo, a Suresti e a Cormaio è, purtroppo, uno psicopatico lucido, astuto, di un'intelligenza superiore alla media, un vero stratega in grado di indurre il terrore in migliaia di persone e, diciamolo pure, di prendere in giro e infinocchiare inquirenti, criminologi ed esperti di ogni genere.» La frase arrivò come una sferzata sui volti degli inquirenti. Era così reale, indiscutibile e fredda da indurre il saggio Maiorana a inventarsi in fretta qualcosa, per evitare che la frustrazione di tutti si riversasse su Fabrizi. «Hai ragione, ma come tu sai la metà dei pazienti affetti da epilessia temporale soffre di disturbi della personalità; qualcuno è anche paranoico. Quindi l'eventualità di una sovrapposizione delle due patologie non la possiamo scartare. Possiamo anche pensare che il soggetto sia a conoscenza delle sue crisi omicide e non abbia rimorsi. Anzi, potrebbe aver sviluppato negli anni un senso di fierez-

za e di potenza tali da spingerlo a considerare la sua seconda personalità come positiva. Non mi sorprenderei un giorno di venire a sapere che l'assassino sia, come dite voi, un voyeur che, sentendosi insicuro, gira con pistola e coltello. Poi, per una crisi improvvisa, provocata forse dall'alcol o dal tipo di luce che trova nella zona dove spia le coppiette, o per l'eccitazione che prova a immaginare un atto sessuale, oppure per la copresenza dei tre fattori, trapassa nell'altro tipo di personalità e compie il delitto.» «Caro professore», disse Fabrizi con un fare insolitamente cerimonioso, «la sua ipotesi, sul piano teorico, è plausibile; ma l'istinto mi suggerisce di darle scarso credito. In casi analoghi non mi consta che siano stati trovati malati di epilessia psicomotoria.» «Quali casi?» intervenne stupito Brezzi. «Io non ho mai sentito parlare di crimini come questo.» «Ciò vale per l'Italia ma all'estero, soprattutto nei paesi nordici, vi sono state in passato serie di delitti simili. Durante l'estate ho raccolto materiale a livello bibliografico: pensavo di scrivere un articolo sul caso Masoli per una rivista americana.» «Che cosa ha trovato?» «Serie di omicidi senza un'apparente motivazione o beneficio materiale, se si esclude il sadismo sessuale, vi sono sempre state. Il caso più famoso è quello di Jack the Ripper, chiamato anche lo 'Squartatore' Si dice che, tra il 1888 e il 1891, abbia massacrato quattordici prostitute nel quartiere Whitechapel di Londra. Jack, a scadenza quasi bimestrale, faceva trovare donne mutilate o sventrate. A qualcuna asportò le ovaie e i reni. Anche a quel tempo si ipotizzò che fosse un medico. L'assassino fece giungere una lettera a un giornale in cui comunicava di aver intrapreso l'opera di sterminio delle prostitute. Analogie con il nostro caso? Asportazione di parti della vittima e, forse, bisogno di punire persone in qualche modo legate a esperienze sessuali considerate peccaminose. Non si sa altro. Jack è rimasto sempre nell'ombra, pur se da allora sono nate mille leggende su di lui.»

Fabrizi accese il suo sigaro e spense il fiammifero nel fondo del caffè. «C'è un altro famoso caso che merita una più attenta lettura. Quello di Peter Kürten, noto come il 'mostro di Dusseldorf' Fu arrestato nel 1930. Aveva una memoria prodigiosa e le sue confessioni permisero di conoscere nei dettagli tutta la sua vita di criminale. Peter Kürten era cresciuto in una famiglia misera, dove brutalità e violenze erano il pane quotidiano. Quando aveva quattordici anni conosce un accalappiacani; questi era un pervertito e gli insegna a masturbare i cani. Da quel momento il ragazzo persegue il piacere con capre e pecore. Un giorno, mentre sfogava la sua pulsione sessuale con una pecora, provò un'eccitazione inconsueta sgozzandola. Da allora la visione del sangue si lega al vissuto dell'orgasmo. Per qualche tempo va alla ricerca di prostitute per mettere in atto i suoi desideri sadici. Poi viene arrestato per furto e in carcere sviluppa una mitomania da 'giustiziere compensatore'.» «Un bel tipino!» sottolineò Lanciotti. «Magari si fosse fermato qui, caro colonnello. Appena esce di prigione compie il primo delitto. Uccide una ragazzina di tredici anni, e la masturba quando è già cadavere. Nel 1921, a trentotto anni, si sposa con una donna di carattere forte e protettivo. Da quel momento incomincia a manifestare una doppia vita: elegante, educato, buon lavoratore, in quella pubblica; feroce nei suoi momenti di follia. In poco più di un anno uccide otto donne, quattro delle quali ancora bambine. Usa coltelli, martelli e forbici che conserva con molta cura. Prima di scegliere le bambine da seviziare prepara delle bamboline di cera che le rappresentano. Una certa signora Wanders sopravvive a quattro martellate e nello stato confusionale si accorge che Peter si masturba vedendola sanguinare. Ma a Kürten non basta uccidere: ha bisogno della notorietà. Scrive ai giornali per indicare il posto dove sono sepolte le sue vittime. Poi si mescola alla folla e si eccita a osservare le reazioni di spavento e di disgusto della gente. Le testimo-

nianze delle poche vittime sopravvissute sembrano far stringere un cerchio intorno a lui: a quel punto confessa tutto all'ignara moglie e si fa arrestare docilmente. 'Nella vita di un criminale', dichiarò, 'giunge il momento in cui non si può andare oltre; ora mi basta che la mia effige sia presente nel museo delle cere'.» «Io continuo a non capire come un individuo possa provare piacere nel vedere soffrire un essere inerme», esclamò il procuratore capo con una punta di irritazione. «La storia ci insegna», riprese Fabrizi, «che per la specie umana la sofferenza si lega di frequente al piacere. Se lei ricorda, signor presidente, nella Russia zarista la fustigazione era applicata correntemente. Se il presunto colpevole era una donna non veniva legata a un palo, ma tenuta, nuda sino alla cintola, sulla schiena di un uomo designato dal giudice. Pare che costui godesse nel sentire sulla proprie spalle i sussulti di quella poveraccia. Gli uomini, per essere prescelti, arrivavano alle mani. Ma non è questa l'unica espressione di sadismo dei cosiddetti normali. Da sempre le punizioni corporali e le pene capitali hanno eccitato le folle. Sino a un paio di secoli fa, in quei paesi che si definiscono civili, venivano studiati attentamente i sistemi per prolungare la sofferenza e l'agonia dei condannati, in modo da rendere più duraturo il piacere degli spettatori. Gli Aztechi, per esempio, prima di sottoporre le vittime al sacrificio finale le lasciavano, durante alcuni riti, nelle fiamme per alcuni minuti; poi, le estraevano vive in modo da finirle nel momento del loro massimo dolore. Il mestiere del boia, inoltre, non ha mai sofferto per la mancanza di vocazioni.» «Interessante, molto interessante... Lei però sta descrivendo storie dell'epoca dickensiana o dell'inizio del secolo. Ce ne sono di più recenti?» chiese Lanzi. «Sì, numerose: Charles Manson, detto 'Satana' Fece un massacro a Bel Air; il mostro dello Yorkshire, Peter Suteliffe, che è stato catturato recentemente. Ha ucciso tredici donne mutilandole dei seni e talvolta del pube. Sono stati censiti, nel mondo, un centinaio di casi: ma questo è

il primo che si verifica nel nostro paese, e uno dei pochi dove le vittime sono coppie di amanti.» «Ma che cosa ne facevano dei pezzi asportati?» «In gran parte dei casi li mangiavano o li usavano per rituali esoterici. Tuttavia anche tale comportamento non è una novità sul piano storico e antropologico. Nei sacrifici umani è frequente il cannibalismo, soprattutto con il cuore e gli organi genitali, giudicati, da diverse culture, portatori di forza e potere. Fino al secolo scorso in alcune tribù dell'Egitto meridionale i testicoli della vittima venivano seppelliti per favorire un buon raccolto. In altre zone dell'Africa era uso seccare le parti mutilate ed esporle all'ingresso della capanna. Pare che fossero il segno di un raggiunto status sociale... Come vede, i moderni massacratori hanno modelli storici di tutto rispetto.» «Le risulta come siano stati catturati questi assassini?» domandò Brezzi. «Alcuni l'hanno fatta franca. Primo fra tutti Jack lo Squartatore. In rare occasioni sono stati identificati grazie al lavoro degli investigatori. Il più delle volte sono stati arrestati quando non sono riusciti a uccidere la vittima, oppure perché si è innestato in loro un delirio di grandezza che li ha spinti a sfidare la polizia. A quel punto bisogna solo aspettare un loro errore.» «Errore che il nostro amico ha cercato in tutti i modi di evitare», sottolineò il procuratore capo. «Secondo lei quando si rifarà vivo?» «Se l'uccisione della Murini e di Secchi è legata alla detenzione di Masoli, con il conseguente bisogno di fornire un marchio di garanzia alle sue gesta, probabilmente se ne starà calmo per un po' Penso che la sua massima soddisfazione sia nel preparare il delitto e godersi, successivamente, la paura della gente e il nostro sconforto. Viceversa, se i suoi comportamenti criminali sono condizionati da una patologia incontrollabile, esplosiva e in evoluzione, potremmo avere un delitto ogni quindici giorni, probabilmente di livello qualitativo sempre più basso.»

Lanzi rimase per qualche secondo a scrutare la squallida impalcatura che mortificava la severa aula magna della facoltà di fìsica. Aveva gli occhi arrossati, sentiva qualcosa di estraneo aleggiare sull'emiciclo. Poi la sua fronte si distese. «Vediamo che cosa si può fare. Signor questore, ha delle proposte?» Tini iniziò a parlare velocemente, come se la sua mente fosse affollata da idee irrequiete. «Come primo passo continuerei a cercare nell'ambiente delle prostitute, dei travestiti e dei guardoni. È sempre possibile che, tra questa gente, vi sia qualcuno in possesso di un notizia buona. Contestualmente installerei un telefono in questura in modo da consentire a tutti i cittadini di chiamarci per segnalare una seppur debole traccia. Mi rendo conto che saremo subissati da anonimi, mitomani, gente che vede assassini in ogni angolo, ma non possiamo rinunciare a tale possibilità. Una squadra, guidata dal commissario Cadone, vagherà ogni informazione. Verificheremo, inoltre, presso le farmacie l'elenco degli assuntori di barbiturici. Vi ricordo che da un anno la distribuzione di questi farmaci è sottoposta al controllo di polizia. Infine propongo di chiedere al ministero di porre una cospicua taglia sull'assassino. E un sistema che, in passato, ci ha consentito ottimi risultati.» «Ritengo percorribili le sue proposte... Parli lei, ora, colonnello Lanciotti.» «Concordo con le iniziative del questore. Mi auspico, comunque, la massima riservatezza sulle nostre scelte operative. Non vorrei che l'assassino di fronte a una nostra mossa ci mangiasse un pezzo per metterci alla berlina.» Lanzi, fissando la scacchiera, annuì. «Io proporrei», riprese il carabiniere, «di adeguarci allo stile comportamentale dell'omicida. Come ho già detto, egli, per certi aspetti, è molto ripetitivo. Ho notato, altresì, che ha sempre scelto luoghi alla periferia della città, vicino a un corso d'acqua e nei pressi di un'uscita dell'autostrada. A questo punto penserei di analizzare nei

dettagli la zona, evidenziando i luoghi a rischio maggiore. Nei fine settimana senza luna, alcune auto con due agenti, di cui uno travestito da donna oppure una donna poliziotto, dovrebbero fare da esca. Inoltre, nello stesso giorno, collocherei ai caselli autostradali degli uomini per identificare le auto che presentano un seppur minimo sospetto. Mi rendo conto che si tratta di un lavoro che prevede una progettazione, un'organizzazione e un impegno fuori dalla norma, ma penso che abbiamo tutto il tempo: per un po' non ci saranno molte coppie disposte ad andare in giro a fare l'amore.» «Sono d'accordo con la sua linea», disse il procuratore capo alzandosi in piedi. «La riunione mi ha soddisfatto, ritengo siano emerse delle buone idee. Ci vediamo tra una settimana: non siamo tipi che demordiamo, noi», concluse inorgoglito. «Neanche l'assassino», lo raggelò Fabrizi. «Perché è così pessimista, dottore?» chiese il magistrato. «Vede, prima mentre si discuteva della epilessia temporale ho sentito spesso pronunciare la parola 'crisi' Questo mi ha fatto riflettere.» Fabrizi si avvicinò alla lavagna e, senza usare il cancellino, aprì uno spazio nero tra gli schizzi di Maiorana. Chinò la testa, mise una mano sulla fronte e si concentrò nella ricerca di tracce che sembravano definitivamente affogate nella memoria. Quando rialzò gli occhi non si rese conto che aveva assunto le sembianze di un pagliaccio: strisce di gesso partivano dal naso a patata e si fermavano all'altezza dei primi ciuffi di capelli. Nessuno, però, osò attirare l'attenzione del criminologo: egli, quasi in trance, iniziò a scrivere segni privi di apparente significato. Cadone guardò Lanciotti disorientato. L'ufficiale sorrise e allargò le braccia. Poi scrutò per qualche istante quelli che sembravano geroglifici e intuì. Si rivolse al giovane commissario e con gli indici sollevò la parte estema delle palpebre: Fabrizi si stava dilettando con il cinese.

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Posato il gessetto si allontanò e valutò la sua opera. Era soddisfatto. «Come avrete capito ho scritto dei vocaboli cinesi. Essi non utilizzano un alfabeto paragonabile al nostro, ma degli ideogrammi. Ognuno di essi non rappresenta una vera e propria parola, ma un simbolo, un'idea, un'emozione. La prima coppia di simboli vuol significare il concetto di 'crisi' Come potete vedere il primo ideogramma è identico a quello del concetto espresso nella seconda riga: 'pericolo' Il secondo deriva dal primo ideogramma scritto nella terza riga: 'opportunità'... Quindi l'idea di 'crisi' può essere letta in chiave di 'pericolo' o di 'opportunità'.» «Interessante», disse Lanzi disorientato, «ma con questo che cosa ci vuole dire?» «Nulla, proprio nulla... Scusatemi, sono uscito un po' di testa.» Era impallidito al punto tale che era il gesso a dare colore al suo viso.

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ti senti?» «Bene, e tu?» «Magnificamente. Tutto fila liscio alla perfezione», risposi accarezzandomi il mento. «Direi di sì.» Pareva soddisfatto. «E la ragazza che tipo era?» «Niente male. Aveva solo le gambe piene di peli... Certo doveva provare del prurito quel bestione facendo l'amore con lei.» «Dai, smettila. Lo sai, quando rido mi viene il singhiozzo.» Ebbi la sensazione di vedere le sue spalle scuotersi «Anche lui a peli non scherzava!» «E vero. Oltretutto aveva la pancia e pesava quanto un mulo.» «Ciononostante tu l'hai spostato come un pupazzo.» «In quei momenti,» risposi inorgoglito, «ho una forza sovraumana. Sono lucido, tranquillo, freddo, ogni azione sembra filtrata da una moviola. Nessun particolare viene omesso. Perfetto, è tutto perfetto.» «Lo puoi ben dire», concordò. «La carne l'hai già usata?» «Circa la metà. Il resto domani.» «Sei taccagno, assomigli a tua madre.» Mi innervosii. Lo guardai di traverso. «Che cosa c'entra la mamma?» «COME

«C'entra sempre, ricordalo. Vent'anni fa, un giorno...» Gli mancò il tempo di finire la frase. Una scarpa raggiunse lo specchio senza, stranamente, mandarlo in frantumi. La sua faccia scomparve, inghiottita da un crepaccio oscuro. Non perdevo facilmente le staffe: lui, malgrado fosse morto da più di quindici anni, aveva ancora la capacità di farmi incazzare. Seguì qualche attimo di silenzio. Andava interrotto immediatamente, altrimenti sarebbe durato delle ore. Raccolsi il mocassino e scuotendo la testa mi avviai verso il salone. Pioveva; avevo dimenticato di accostare le persiane e, sui vetri, si rincorrevano rivoletti di acqua. Rimasi un paio di minuti a osservarli, parevano più vivi della mia anima. Mi accostai al tavolo, avevo i piedi pesanti. 11 fascicolo «Secchi-Murini, ottobre 1981» era così gonfio da rendere difficile l'inserimento anche di un solo foglio. Presi un'altra scatola azzurra scrivendo sulla costa: «SecchiMurini, ottobre 1991, secondo volume». Accesi una sigaretta e, accompagnato dalle note della Quinta sinfonia di Beethoven diretta da Wilhelm Furtwàngler, avvicinai il mucchio di giornali. SULLA TESTA DELL'ASSASSINO UNA TAGLIA DI DUECENTO MILIONI.

«Così poco?» mi chiesi. «Be', no, pensandoci bene è il valore di una villa di dieci stanze sulla collina. Forse sono a conoscenza dell'esistenza di genitori disposti a vendere, per metà della cifra, i figli a un centro per la vivisezione.» In quarta pagina un altro titolo a cinque colonne: VA-

LANGA DI TELEFONATE - D A QUANDO IN QUESTURA E STAIO INSTALLATO IL TELEFONO 'ROSSO' SONO GIUNTE 2500 SEGNALAZIONI DI CITTADINI PRONTI A COLLABORARE ALLA CATTURA DELL'ASSASSINO. L A POLIZIA RITIENE CHE ALMENO DIECI DI ESSE POSSANO ESSERE GIUDICATE DEGNE DI FEDE.

«Bravi! Bravi!» esclamai ad alta voce.

È UN NAZISTA!

«Che cazzo scrivono?» Non potevo certo tralasciare questo scoop per quanto relegato a fondo pagina.

«Una veggente di Santa Maria Capua Vetere, Napoli...» «Idiota!» pensai, «è in provincia di Caserta; prova a tornare a scuola.» «...conosciutissima nella zona, afferma di aver avuto, l'altra notte, durante una seduta spiritica, un contatto extrasensoriale con l'omicida. Questi, ha dichiarato la sensitiva, correva con in mano il pube della ragazza. Indossava una tuta da sub, ma senza portare le pinne. Secondo la veggente non si tratta di un italiano, ma di un tedesco, della zona di Francoforte. Il padre, ufficiale delle SS, è stato fucilato dai partigiani, nel 1944, in una radura tra Cormaio e Suresti. Ora il figlio è tornato nel nostro paese per vendicare il genitore.» «Oh, la miseria! E le pinne dove le ho lasciate?» Mi stavo sollazzando senza ritegno. Nel settimanale Notizie d'oggi appariva un indignato editoriale sulla vicenda Masoli: C O M E PUÒ UN ONESTO CITTADINO RIMANERE SCHIACCIATO DALLE ISTITUZIONI? Un titolo di nove parole sfuggito di mano al controllo grammaticale del proto. Nel pezzo il giornalista si era attorcigliato, con grande disinvoltura, su ogni argomento che da patetico si potesse trasformare in accusatorio. Con due soli imputati, la polizia e la magistratura, e un unico reato, l'incompetenza. «Si credevano furbi», sogghignai. «Avevano un colpevole credibile e si godevano, a pancia all'aria, il successo. Forse sono stato un po' stronzo. Se avessi lasciato tutto così: Masoli in galera e io libero di dimenticare. Ma era impossibile restare immobile a sopportare la loro stupidità. Dovevo colpire, dovevo colpirli. Inoltre sono diventato abile con pistola e coltello. Hanno sempre fame.» Continuai la rassegna stampa. Alla quinta pagina della Gazzetta del Mattino il sindaco rivolgeva quello che, generalmente, viene definito un accorato appello: «Ragazzi, evitate di appartarvi in luoghi isolati. Aiutateci a difendervi. Rivolgiamo una preghiera alle mamme: lasciate tranquillamente i figli soli in casa; non costringeteli a rifugiarsi nelle campagne». Rimasi per alcuni secondi con le forbici a mezz'aria;

ero indeciso se archiviare anche questo pezzo o gettarlo nella spazzatura. «No», riflettei, «tutto può essere utile.» Il più autorevole quotidiano milanese riportava un'originale intervista: GUARDONI SÌ. ASSASSINI MAI. DIFENDO IL BUON NOME DELLA CATEGORIA.

Era patetico. L'anonimo intervistato non trovava di meglio che ripetere: «Siamo brave persone... dopo tutto, che cosa facciamo di male... se osiamo andare in giro di notte rischiamo qualche pistolettata». Mancava poco annunciasse la creazione del «Libero Sindacato Unico dei Voyeur». Sgomitavano in parecchi per dire la loro in difesa del buon nome della città e della civiltà cristiana. Sì, proprio così, della «civiltà cristiana». La foto in bianco e nero di un panciuto vescovo troneggiava su un incorniciato di una ventina di righe contenente una sequela di caritatevoli suggerimenti. «Noi ti perdoniamo, sei anche tu figlio di Dio: cerca la verità in fondo alla tua anima, blocca la tua mano assassina! Nostro Signore ci sta chiedendo questa ennesima prova o vuole darci un segnale su quello che accade quando impera incontrastato il degrado dei costumi.» Hai capito il monsignore: parla di Dio, di misericordia, di fermare la mano omicida e poi, sotto sotto, attribuisce la colpa a chi scopa senza essere sposato. Anche l'articolo del mellifluo prelato venne archiviato. Sul periodico Giorni del futuro trovai un'intervista del capo degli investigatori: il colonnello Lanciotti. Finalmente! «A che punto siete con le indagini?» chiedeva un maligno giornalista. «Ormai abbiamo parecchie indicazioni sull'omicida. L'altezza, il sesso, forse anche la zona dove risiede. Conosciamo, non nei dettagli ovviamente, cosa fa quando decide di uccidere e il suo stile operativo. Stiamo, inoltre, iniziando a capire il motivo che lo spinge a massacrare quei ragazzi.» «Ci sembra già molto, colonnello», rintuzzò l'intervistatore. «Pare quasi manchi solo il nome e cognome.»

«Non esageriamo... Di cerio evitiamo di stare con le mani in mano. Lavoriamo e aspettiamo. Forse da questa massa d'informazioni uscirà qualcosa di buono.» «Auguri, colonnello. Ha altro da dire ai nostri lettori?» «Sì. Da giorni mi pongo una domanda cercando, invano, una risposta. Ora la stessa domanda la rivolgo all'assassino. So che leggerà questa intervista: ma ti sei mai chiesto perché devi uccidere questi giovani?» Tutto fu chiaro. Potevo cominciare a considerare Lanciotti il mio interlocutore. Questa mossa era stata di sicuro suggerita da Fabrizi. Volevano entrare in contatto con me e, nel contempo, speravano di riprendere il controllo della partita. Il brillante colonnello si auspicava che prendessi carta e penna e preparassi una memoria chiarificatrice delle mie motivazioni. «Dove vuole arrivare», mi interrogai, «quando afferma di conoscere la mia strategia? Cerca di farmi commettere qualche errore, intende provocarmi. Con ogni probabilità hanno organizzato una trappola... È così! È così! Che stupido a non pensarci prima! Nessun giornale parla di 'grande dispiegamento di forze', di 'tutela dei luoghi a rischio', di 'controllo del territorio' Forse ora stanno facendo il conto alla rovescia in attesa del prossimo novilunio. È tutto logico, si aspettano una mia iniziativa. Sanno bene che da veggenti o informatori occasionali difficilmente tireranno fuori elementi precisi per la mia identificazione.» Mi alzai di scatto e spensi lo stereo. Avevo bisogno del silenzio. Dovevo riflettere con calma e senza perdere di vista ogni piccolo dettaglio. Sentivo la gola arida. Un bicchiere d'acqua, pensai automaticamente. Posai la sigaretta nel portacenere e con la coda dell'occhio cercai mio padre nel vetro della finestra. Un'ombra passò lasciando, però, dietro di sé un alito di vuoto. «Dunque dunque... Come posso fregarli con le loro stesse mani? Primo: hanno bisogno di informazioni. Secondo: cercano una pista. Terzo: non possono resistere senza aver identificato l'assassino. È necessario che tutto sia credibile. Dopo il fatto di Masoli saranno cauti in modo esagerato.

Devo trovare qualcosa, qualcosa in grado di convincerli dell'impossibilità di incorrere in un altro fiasco... Un momento, ci sono! Con un po' di fortuna forse...» Un vento gelido e arrogante scendeva dalle montagne. Come dal cilindro di un illusionista apparvero impermeabili e soprabiti. La gente, sempre più muta, destinò ancora meno tempo al passaggio per le strade. Quando scesi dall'auto non ci misi molto a capire che l'edificio della Gazzetta del Mattino aveva poco da spartire con la sede del California Post di Los Angeles. Pacchi di vecchi giornali ingombravano l'ingresso. Tipografi e spedizionieri, tenendosi sotto braccio, si avviavano al vicino bar ridendo e lanciando battutacce certamente indegne di un luogo dove si pretendeva di offrire un servizio di informazione e di cultura alla città. Costretto in un cubo di vetro un usciere, con giacca blu unta e barba incolta, leggeva curvo la pagina sportiva della Gazzetta. Mi fermai davanti all'imboccatura del gabbiotto, lui continuò a far finta di niente. «Scusi...» «Dica pure», rispose senza alzare la testa. «Dove posso trovare vecchi articoli?» «Vecchi quanto?» «Dieci, dodici anni. Cerco alcuni pezzi sull'epidemia di colera in Italia. Se la ricorda?» «Certo.» Fui onoralo della vista dei suoi acquosi occhi. «Scenda al secondo piano interrato, un archivista le darà i libroni.» «Non c'è un sistema elettronico per scovare in fretta le notizie?» «Quale sistema?» Mi squadrò come se fossi un mendicante. «Un calcolatore, un aggeggio grazie al quale sia possibile sapere dove si trova un articolo conoscendo l'argomento specifico...»

«Senta, amico», m'interruppe, «qui mica siamo in America.» Cercai di stimolare la sua scarsa ambizione professionale. Da qualche parte avevo letto che chiunque lavori in un giornale, sia esso correttore di bozze, tipografo, fattorino, si sente un cronista fallito. Basta quindi scatenare la sua curiosità e le sue motivazioni frustrate per averlo a completa disposizione. «Scusi, ma come fanno i giornalisti?» «Sfogliano. Si armano di santa pazienza e sfogliano. Fino a qualche mese fa c'era Leandro. Lavorava da quarantanni al giornale; aveva una memoria di ferro. Qualsiasi cosa gli si chiedesse in tre minuti l'articolo era sul tavolo di quelli del piano di sopra. Da quando è morto sono tutti disperati, passano più tempo giù che a scrivere i pezzi.» «Lo immagino.» Conclusi l'ormai inutile conversazione e mi avviai verso le scale. Dopo un paio di rampe trovai una porta socchiusa con sopra un enorme cartello: SALA MACCHINE. Non potei fare a meno di pensare: «Ma dove credono di stare, su un transatlantico?» Mi affacciai timidamente. Ero emozionato, quasi avessi deciso di correre nudo in uno stadio. Per la prima volta entravo nel ventre meccanico dove pochi eletti assistono al travaglio di un giornale. Un forte odore d'inchiostro bloccava il respiro a chiunque varcasse quella soglia. Alcuni inservienti in camice nero raccoglievano cumuli di carte sotto un'enorme macchina, anch'essa nera. Sembrava un drago pieno di tentacoli che, dopo aver vomitato copie su carrelli grigi, riposava esausto. Avevo sentito raccontare come quelle mura, la sera, dovessero assistere a rincorse frenetiche, a ordini gridati in modo sguaiato, ad attacchi isterici collettivi. Poi all'improvviso il blocco, il rilassamento, lo svuotamento della tensione. Scesi un'altra rampa e trovai due porte antincendio: ARCHIVIO FOTOGRAFICO; ARCHIVIO GIORNALE. Aprii la seconda. Un ragazzotto con il viso segnato dall'acne, seduto dietro una scrivania, studiava, quasi gridando, un capitolo di

Fondamenti di diritto privato. Non sembrava, a prima vista, nutrire eccessivo interesse per le sue mansioni all'interno della Gazzetta. «Buon giorno, volevo dare un'occhiata alla raccolta.» «Quali anni?» «Diciamo dal 1964 al 1974.» «Sono lì in fondo, per ogni anno due volumi. Le serve una mano per tirarli giù?» «Non c'è bisogno. Dove posso appoggiarli?» «Su quel tavolo. Se vuole fotocopie mi chiami. Cento lire a pagina.» Presi una scaletta e tirai giù un librone rosso scuro che conteneva il primo semestre 1964. Lo adagiai, cercando di alzare meno polvere possibile, e iniziai a sfogliarlo. «Posso fumare?» «Non si dovrebbe, comunque faccia pure. Stia attento però a dove getta i mozziconi; se andiamo a fuoco, qui succede un casino.» Nelle prime quattro raccolte individuai una rapina eseguita da un delinquente armato di una Beretta calibro 22. Lo sfortunato malvivente era stato tuttavia catturato, nel giro di qualche minuto, da una volante della polizia. Dopo un'ora di consultazione le dita mi facevano un male boia. Sembravano di piombo. Avevo la testa piena di titoli, foto e didascalie. Iniziavo a disperare di trovare elementi interessanti per la mia ricerca. Il cervello saturo aveva difficoltà a recepire le notizie che attraversavano le pupille. Ma la mia costanza fu premiata. «4 maggio 1968. Una prostituta viene ritrovata uccisa a bordo di una 850 Sport nelle campagne di Portelli.» Nel corpo dell'articolo: «...Irene Punthel, di origine belga, 28 anni, conosciuta come prostituta, è stata assassinata con cinque colpi d'arma da fuoco. L'omicida ha, inoltre, seviziato la vittima con un coltello. La polizia ritiene che il delitto sia da ascrivere a un regolamento di conti...» Gazzetta del 5 maggio 1968: «Svolta nelle indagini sull'assassinio di Irene Punthel. Nella tarda serata di ieri la polizia

ha arrestato il presunto omicida della prostituta belga. Si tratta di Alfredo Gioschi, quarantanni, commerciante, residente a Portelli. Gli inquirenti sono giunti all'assassino dopo aver identificato il tipo di arma con cui è stata uccisa la donna, una Beretta calibro 22. Tale pistola è poco utilizzata negli ambienti malavitosi. Si tratta, infatti, di un'automatica in uso quasi esclusivamente nei poligoni. L'indagine, quindi, è stata circoscritta tra gli amici e i frequentatori della Punthel. 11 Gioschi, noto amante del tiro a bersaglio, ha fornito un alibi poco credibile ed è caduto in numerose contraddizioni. Egli avrebbe dichiarato di non possedere una Beretta. Gli inquirenti, comunque, sperano di rintracciare la pistola durante un sopralluogo da effettuarsi nella giornata di domani». Nei giorni successivi la vicenda era scivolata nelle ultime pagine, con impegni tipografici sempre più ridotti, fino a scomparire. «La pistola dell'omicidio Punthel ancora introvabile. Formalizzata l'accusa nei confronti di Alfredo Gioschi.» Impiegai alcuni fogliettini gialli per indicare gli articoli, e continuai a sfogliare le raccolte degli anni successivi con una certa apprensione. «10 gennaio 1970. Inizia il processo ad Alfredo Gioschi, accusato dell'assassinio di una prostituta. Il commerciante di Portelli si è sempre dichiarato innocente incolpando dell'uccisione della donna alcuni compaesani mossi dall'invidia per la sua giovane amante. Le accuse dell'imputato sono risultate, però, prive di fondamento e il Gioschi dovrà ora anche rispondere di falsa testimonianza e diffamazione.» «12 gennaio 1970. Prosegue il processo per l'omicidio della Punthel. Migliora la posizione dell'imputato. Il legale della difesa, Alberto Rozzica, ha chiesto l'annullamento della perizia balistica sui bossoli per vizi procedurali. Tra l'altro, l'arma del delitto sembra essersi volatilizzata. L'avvocato Rozzica ha, inoltre, portato come testimoni due amici di Gioschi. Questi hanno dichiarato che, nella notte del delitto, sono stati con l'imputato sino alle ore tre.» «18 gennaio 1970. Alfredo Gioschi assolto per insufficien-

za di prove. Il delitto di Irene Punthel resta impunito. Il pubblico ministero non ha intenzione di ricorrere in appello.» Avevo trovato quello che mi occorreva. Mi stiracchiai e cercai il giovane archivista. «Senta, faccio una copia di alcuni articoli.» Il palazzo di giustizia era certamente la costruzione più curiosa e malconsiderata di tutta la città. Sorgeva all'angolo destro di via Faroni con Viale San Pellegrino. Sei piani di travertino ormai scuro: fino al primo non vi erano finestre; nei successivi l'architetto, mosso da un atto di generosità, non lesinò. Tante grandi aperture con vetri sudici e tende da pensione di terza categoria. Di notte le poche finestre illuminate consentivano di scrutare gli interni non dominati, di certo, da comodità e lusso. La prima volta che le ispezionai mi evocarono l'immagine di una vecchia scuola, dove operai assonnati cercano di conquistare un tardivo diploma. Di giorno non ci volle molto per capire come il poco artistico palazzo fosse frequentato da un'umanità un tantino speciale. In quegli enormi corridoi, infatti, convivevano due categorie di persone che sembrano provenire da pianeti lontani. La prima è composta da quanti corrono sempre. La seconda da coloro che riescono, a malapena, a concretizzare un passo ogni venti secondi. I «maratoneti», nella maggioranza avvocati, seguiti da segretarie di rado sgradevoli, si spostano tra le varie aule a ritmi forsennati. Più composita ed esigua è la categoria dei «placidi»: magistrati pronti a concedere un benevolo sorriso ai «maratoneti» incrociati durante il loro lento incedere; uscieri e cancellieri, quasi tutti di mezza età, spesso con gli occhi bassi, ma con una dignità e una cortesia in buona parte assenti negli altri generi di bipedi. Intuii presto che per muovermi senza difficoltà nel palazzo dovevo apparire un membro di una delle due categorie. Non avevo molta scelta. Decisi, quindi, di fare una capatina allo studio dell'avvocato Alberto Rozzica. Dopo aver trovato l'indirizzo sull'elenco telefonico, ri-

salii in macchina e mi avviai senza fretta. Avevo bisogno di un po' di tempo per inventare una storia abbastanza plausibile da giustificare una mia visita fuori orario. L'atrio di via Odiaco 27 poteva definirsi più che signorile. Pareti in legno e un pavimento così lucido da suscitare imbarazzo alle signore in gonna svolazzante. Per loro fortuna al centro era stata collocata una passatoia color prugna. Il portiere alzò solo un dito quando chiesi indicazioni sullo studio Rozzica. Questo gesto mi confortò; mancava poco all'una e c'era il rischio che fossero tutti via per l'intervallo del pranzo. Venne ad aprire una donna che da tempo aveva superato la sessantina. Magra da far paura, aveva degli occhiali a forte gradazione che rendevano le sue pupille grosse come due spilli. I capelli, di un grigio appassito, erano tenuti su da una dose abbondante di lacca. Indossava un camice blu scuro da cui uscivano due zampette da cavalletta. «In che cosa posso esserle utile?» La sua voce vibrava di un tono di troppo, priva di dolcezza e poco avvezza al dialogo affettuoso. «Cercavo l'avvocato.» «Non c'è. Aveva un appuntamento?» «No. Pensandoci bene il problema è stupido... Credo possa risolverlo anche lei.» Mi era scappata. «Sono cretino», pensai, «rischio di mandare tutto all'aria per il mio innato desiderio di attaccare qualsiasi forma di vita sgradevole.» «Ci proverò», rispose acida. «Aspetti! Scusi», balbettai, «mi sono espresso male... Questa mattina ha telefonato una mia vecchia zia da Roma. Intende denunciare il comune per aver costruito un ponte che deturpa la sua villa in collina. Vorrebbe, quindi, prendere contatto con un legale disposto a seguire la sua causa. Un collega mi ha consigliato l'avvocato Rozzica... Sulla targhetta ho però notato la qualifica di penalista, non so...»

«Guardi, il professore si occupa anche di diritto civile e amministrativo.» La megera si girò verso uno scrittoio, occupato in gran parte da una macchina elettrica che avrebbe fatto la felicità di un collezionista, e prese un biglietto da visita. «Tenga», disse allungando la mano ossuta. Non potevo sperare di meglio. «Le sono davvero grato. Potrebbe darmene un altro paio da spedire alla zia? Quando posso trovare l'avvocato?» «Domani pomeriggio; oggi è a Venezia per un processo.» «Va bene, lo chiamerò per accennargli la questione.» Uscii quasi saltellando dal portone e misi in moto l'Alfa. A quell'ora il traffico scarseggiava e potevo cercare con tranquillità una tipografia ben lontana dallo studio Rozzica. Un operaio, appena quindicenne, mi fece accomodare su una pila di manifesti pubblicitari: «Svendita senza precedenti ai magazzini Tre Stelle». Il principale arrivò dopo una ventina di minuti, visibilmente alticcio. Con la bavetta all'angolo della bocca sentenziò che era impossibile stampare in breve tempo una cinquantina di biglietti da visita e due dozzine di fogli di carta intestata. «Io devo partire alle quattro», insistei mostrando apprensione. «Solo poco fa ho scoperto di averli finiti. La tipografia da cui mi servo è chiusa da mesi e non so proprio come fare. La prego.» La discussione navigò per alcuni minuti sulla rotativa già impegnata, sulle difficoltà a trovare caratteri identici a quelli del vecchio bigliettino, sulla svogliatezza degli altri tipografi. Ma dopo neanche un'ora ottenni quello che mi occorreva, pur se mi costò il triplo. Il tanfo del suo «grazie» aleggiò sotto il mio naso per almeno un paio d'ore. Il mattino seguente lasciai l'auto a due isolati dal tribunale. Sostai alcuni secondi contemplando la gigantesca scritta che dominava l'ingresso e il dondolio della mia ventiquattrore. Potevo andare. Dovevo solo stare attento a non farmi mollare qualche causa. Affrontai i lunghi corri-

doi a passi rapidi. Le scarpe di capretto nero parevano squittire come una famigliola di topi. «Buon giorno! Sono un nuovo collaboratore dell'avvocato Rozzica e cerco alcune pratiche.» Un biglietto da visita scivolò in mano al cancelliere seduto dietro una scrivania piena di timbri e registri. Appariva ancora giovanile, anche se la dentiera tentava di sfuggirgli dalla bocca ogni qual volta pronunciava la lettera «s». «Come sta il professore? L'ultima volta in cui l'ho visto scendere qui giù risale all'inizio dell'estate.» «Abbastanza bene, anche se l'età comincia farsi a sentire.» «Parole sante! Parole sante! Lei saprà quanto sia difficile trovare un incartamento in istruttoria, non è facile visionarlo... Il giudice potrebbe averlo portato a casa.» «Lo so. Credo, però, siano atti definitivi. I procedimenti si sono conclusi più di dieci anni fa.» «Be', allora la cosa è più semplice.» Alzò la cornetta e compose un numero a tre cifre. Nell'attesa continuò a giocherellare con uno dei timbri. «Pronto, Pascoli? Sono Girardi. Ho qui davanti a me un nuovo assistente dell'avvocato Rozzica, vuole esaminare alcuni fascicoli del tuo archivio... Va bene, lo mando subito. A proposito, sai chi è stato mandato alla quinta sezione? Bartolli? Se non lo vedo con i miei occhi non ci credo... Ciao!» Iniziò a scrivere dietro il cartoncino. «Scusi un attimo... Vada in fondo al corridoio a destra. C'è una porta di ferro color verde chiaro: entri e chieda di Pascoli. Faccia presto, tra mezz'ora il collega deve uscire. Prenda! Lo consegni a lui.» «Sono debitore. Informerò oggi stesso l'avvocato della sua cortesia.» «Lasci perdere, se non ci si aiuta tra di noi...» Involontariamente, avevo imboccato una delle poche strade del mondo della burocrazia capace di portarti alla meta senza dover affrontare eccessivi ostacoli.

Pascoli mi chiese l'anno delle pratiche. In breve tempo si presentò sorreggendo due volumi. «Questo è il cronologico, l'altro è in ordine alfabetico. Li consulti, non dovrebbe essere difficile reperire i numeri di protocollo.» Aveva ragione. Alla quarta pagina trovai: «Alfredo Gioschi n. 625/68». Scelsi altri nomi a caso nelle pagine successive e li consegnai al cancelliere. Questi, intonando una canzone legata; nella mia memoria, al periodo del servizio militare, sparì dietro una fila di scaffali. Il ticchettio di un'invisibile macchina per scrivere invadeva la stanza tenendomi compagnia. Dopo alcuni minuti l'impiegato tornò con una catasta di fascicoli. Feci appello a tutta la mia pazienza per districare i nodi che garantivano la sicurezza degli incartamenti. Forse erano più di due lustri che non venivano sciolti. Il fascicolo Gioschi conteneva pochissime carte; ciò mi consentì di analizzarle tutte a fondo. Furono la perizia balistica e le controdeduzioni del legale ad attrarre maggiormente la mia attenzione. Nei pressi della 850 Sport della Punthel erano stati trovati quattro bossoli «H-Winchester calibro 22 Long Rifle». La relazione sulle cartucce risultava scarna, essenziale e per nulla chiarificatrice. Il perito, distratto forse da affari più interessanti, non era riuscito a cavare dal suo cervello più di quattro striminzite righe. L'avvocato Rozzica ne aveva subito approfittato attaccandolo violentemente. Il legale, da vecchio volpone, sfruttò la superficialità del tecnico balistico per mettere in discussione tutta l'attività investigativa e istruttoria. «Come è possibile», scriveva, «accettare una consulenza sui bossoli di poche parole e senza il riscontro fotografico? Ovviamente in sede di dibattimento vedremo i reperti, ma il tutto, consentitemi, pare superficiale e raffazzonato...» Evitai con un certo sforzo di battere il pugno sul tavolo. Quei luoghi non erano avvezzi a manifestazioni di giubilo. La vicenda della Punthel s'incastrava alla perfezione con il mio piano. Mi avvicinai a Pascoli e chiesi chiarimenti su alcuni codici. Il mio interesse s'incentrò su quel-

li del protocollo dell'archivio reperti. Il cancelliere intuì, dal mio sguardo assorto, quale sarebbe stata la mia prossima tappa. Si fece consegnare l'ennesimo biglietto da visita e, sul retro, disegnò la mappa e il percorso più agevole per poterla raggiungere. L'archivio reperti era dislocato nei sotterranei del palazzo di giustizia. Doveva essere una zona poco frequentata. Il responsabile dell'ufficio, un omone di più di cento chili con le chiappe poggiate su una scrivania sgombra di pratiche, era, infatti, impegnato a sfogliare un'immacolata Settimana enigmistica. Aveva una faccia rossa e una grossa testa, sulla quale i rari capelli erano impomatati in modo da formare un ricciolo. Degli occhi scialbi dominavano un naso rotondo, sotto il quale brillavano dei baffi grigi arruffati. A prima vista mi apparve tutto stomaco e respiro pesante. Sul muro, circondato da una decina di calendari dei carabinieri, spiccava, appiccicato con nastro adesivo trasparente, un poster degno delle migliori carrozzerie. Una fanciulla di nome Jenny, con indosso solo un cappello di paglia, occhieggiava, preoccupata, l'obiettivo. Forse non era sicura che il fotografo riuscisse a mettere a fuoco il suo seno. La ben nutrita ragazza appariva concentrata nella prestazione, quasi la sua opera fosse stata richiesta per pubblicizzare un chirurgo estetico brasiliano. «Il cancelliere Pascoli mi ha detto di venire da lei.» «Che cosa le serve?» chiese l'impiegato poggiando con solennità la rivista sulla scrivania e reclinando il capoccione verso la pin-up. «Ho bisogno di trovare alcuni reperti e non so da dove cominciare.» «Sono a sua disposizione. Lei è un perito?» «No, solo un nuovo collaboratore dell'avvocato Rozzica.» «Lo conosco», sottolineò abbassando le palpebre. «Immagino... Il professore vuole chiudere alcune pratiche. Si tratta di processi risalenti a una decina di anni fa. I nostri clienti ricordano come diversi oggetti siano stati sequestrati durante l'indagine. Cose banali: un orologio da

tavolo d'argento e una vecchia radio... Ora desiderano iniziare la pratica di dissequestro.» «Se è passato tutto questo tempo probabilmente non sono più qua.» «Perché?» domandai cercando di celare un crescente disappunto. «Dopo un certo numero di anni il materiale viene trasferito in un altro deposito.» «Capisco...» «Lei ha i numeri di protocollo?» «Sì, eccoli.» Diede una rapida occhiata al biglietto da visita. «Proviamo a vedere se è rimasto qualcosa. Qui il lavoro va spesso a rilento e forse non tutte le pratiche sono state scaricate. Andiamo, oggi è il primo cliente.» La sua collaborazione era certo tra le meno richieste del tribunale. Si alzò a fatica e aprì una porta blindata. Nel buio scorsi l'ombra della sua massiccia figura avvicinarsi a un pilastro. Pigiò alcuni interruttori. I neon lampeggiarono prima di illuminare, con la loro fredda luce, una serie incalcolabile di scaffali pieni fino al soffitto di contenitori marroni con a lato segnati, in rosso, dei codici d'identificazione. «Di solito depositiamo in fondo il materiale più vecchio; spesso, però, i miei aiutanti riescono a evitare questo compito. Io non posso certo stare tutto il giorno sulle scale. Vediamo, vediamo... Numero 625/68, poi 701/68 e infine 850/68. Se sono ancora qui dovrebbero stare nella terza fila di scaffali. Venga con me.» Nella zona delle pratiche vecchie ristagnava una puzza di muffa da far venire la nausea; ma il mio enfisemico accompagnatore sembrava trovare giovamento da tale sgradevole effluvio. «Eccoli qua. È fortunato, ancora tre mesi e avrebbe trovato solo polvere. Nel primo ripiano c'è il 701/68, più in là il 625/68. L'850/68 è lì, vicino al soffitto. Lo vede? È lo scatolone più grande.» «Cosa c'è scritto su quei fogli?» domandai incuriosito.

«Sono copie dei verbali di deposito. Così evitiamo di rompere i sigilli ogni volta che cerchiamo qualcosa.» Stavo per raggiungere la scatola 701/68 quando il suono brusco di un campanello mi fece sobbalzare. Mi voltai di scatto e fissai perplesso il cancelliere. «Si calmi, non è un sistema di allarme. Chi ruberebbe queste cianfrusaglie? È il telefono; ho fatto installare una suoneria per poterlo udire anche dal magazzino. Permette un minuto?» «Vada pure, l'attendo.» Mentre si avviava verso l'ufficio continuò, ad alta voce, a parlare del suo lavoro. «Qui non tocca niente nessuno. C'è tanta, ma tanta immondizia. In ogni delitto, si ricordi, si trovano cicche strane, bastoni sospetti, vetri rotti, occhiali scheggiati e loro portano tutto quaggiù, poi se ne dimenticano e io resto con queste scatole piene di rifiuti. I gioielli, l'oro, il denaro, la droga, vengono, invece, depositati nel caveau del primo piano. Il piano nobile. Lì i preziosi e qui i rifiuti. Bah...» Appena sentii alzare la cornetta mi avvicinai alla 625/68. Era poco più grande di una scatola per scarpe. Il verbale riportava: «Numero uno: un coltello lungo 28 centimetri del tipo da sub. Numero due: cinque bossoli calibro 22 Long Rifle. Numero tre: portatessere e un biglietto cinema Roy». Il contenitore era sigillato con tre bolli di cera rossi e impolverati. Due, quelli laterali, sembravano ormai scollati, mentre quello nella parte frontale svolgeva ancora decentemente la sua funzione. Mi occorreva almeno un'ora per manometterlo senza lasciare tracce. «Eccomi.» Il pachiderma, ansimando, ritornò dopo aver finito la telefonata. Mi allontanai dallo scaffale e assumendo un'espressione inconsapevole l'indussi a credere di aver atteso, immobile, il suo ritorno. «Sono stato chiamato in aula. Manca una firma in un verbale. Debbo assentarmi cinque minuti. Ha trovato qualcosa?» «No, aspettavo lei.»

Alzò la testa verso lo scatolone dell'ultimo ripiano come un alpinista che, preoccupato, valuta una delle cime del Gran Paradiso. «Senta, lì c'è una scala. Lei è molto più giovane di me, le sarà facile salire. Legga il verbale e se trova qualcosa aspetti il miQ ritorno, le spiegherò il modo per ottenere il dissequestro.» Decisi in un attimo. «Va bene, ci penso io. Se non c'è nulla, però, me ne andrei, ho altre pratiche da sbrigare al terzo piano. Magari tornerò un altro giorno... Lascio tutto aperto o devo chiudere?» «Accosti solo la porta del magazzino. Ho le chiavi con me. Ora vado su. Buona ricerca!» Attesi una decina di secondi; appena udii la porta dell'ascensore chiudersi mi guardai intorno. Forse avrei passato la notte nel magazzino reperti. Non credevo di dover operare così presto. Nella ventiquattrore avevo solo una decina di vecchi bossoli, un paio di guanti di caucciù, un taglierino. «Maledizione», imprecai, «perché ho dimenticato la torcia elettrica!» Esplorai il locale. Mi serviva un nascondiglio affidabile fino alla chiusura degli uffici. Guardai l'orologio: 11.55. Un rifugio per due ore. Ecco ciò di cui ho bisogno. In fondo al magazzino trovai un bagno; era senza finestra, accesi la luce. Faceva un po' schifo, un water cadente e un lavabo con i rubinetti arrugginiti, e offriva scarse garanzie. «Non è da escludere che il cancelliere abbia la prostata», pensai. Nell'accostare l'uscio notai nell'antibagno un ripostiglio celato da una porta di plastica marrone del tipo a soffietto. Scope vecchie, secchi vuoti, scatoloni ammuffiti, detersivi. Sì, lì potevo nascondermi; c'era solo da auspicarsi uno scarso attaccamento alla pulizia del personale dell'ufficio reperti. Evitando di far rumore andai a chiudere la porta blindata. Per ragioni di sicurezza era stata predisposta con la maniglia solo nella parte che affacciava verso il magazzino: per entrare occorreva la chiave, ma andarsene era pro-

prio un gioco da ragazzi. «Meglio così», sogghignai. Spensi i neon e, aiutandomi con la luce prodotta dall'accendino, raggiunsi lo sgabuzzino. Poggiai dei vecchi giornali per terra e sedetti stando ben attento a non sporcare i pantaloni. Il luogo era pregno di freddo, umidità e un lezzo di varechina da far svenire. Avevo le mani stranamente secche. Contai le pulsazioni... 71, 72, 73, 74, 75, 76. «Geniale!» esclamai sottovoce. Il buio era stato sconfitto. Settantasei battiti. Gli stessi di quando, stravaccato, guardavo la televisione. Una cosa, invero, sembrava sfuggita ai miei calcoli: un bisogno impellente di urinare. Non era la paura; avevo soltanto dimenticato di svuotare la vescica. Dovevo trattenermi. Mica potevo rischiare di essere beccato nel bagno con il peduncolo in mano! Dopo un paio di minuti mi raggiunse, attutita, la voce cavernosa del cancelliere; stava parlando al telefono. Trattenni il respiro, ruotai la testa un paio di volte. Avevo bisogno di alleviare il dolore al collo causato dalla tensione. Tornò il silenzio. Forse il solerte impiegato stava sforzando le meningi con un complicato Bartezzaghi. Presi un secchio di plastica vuoto. «Ah! Non resistevo più.» Mi sentii leggero. Le mani erano intorpidite dal freddo. Sforzai gli occhi sul quadrante luminoso dell'orologio: 13.45. Il cancelliere, canticchiando, stava lasciando l'ufficio. La fantasia, sovreccitata, mi consentì perfino di avvertire il suo respiro fuori dalla porta. Attesi un'altra mezz'ora prima di uscire dallo sgabuzzino. L'oscurità e il silenzio erano quasi completi; si percepiva solo il ronzio di un areatore. Un pallido riflesso di luce delineava la forma oscura degli scaffali. C'era qualcosa di strano in quelle ombre immobili, parevano le pareti di un labirinto infinito. Respirai più liberamente. Accostai la scala e salii facendo scattare l'accendino. Fissai nella mente la posizione esatta del contenitore 625/68 e, dopo aver indossato i guanti, lo afferrai e lo portai al gabinetto. Pesava meno di un chilo. Serrai la porta, accesi la luce, abbassai la tavoletta e poggiai la scatola. Con il taglierino iniziai a operare sul si-

gillo ancora integro. Dovevo lavorare con delicatezza per non frantumare la cera ormai vecchia e secca. Inghiottii più volte a vuoto. Dopo più di un quarto d'ora il bollo rosso si staccò. Forzai lievemente e il coperchio si sollevò senza problemi. Presi da un angolo l'involucro di plastica contenente i bossoli; non era né incollato né cucito. La bizzarra avarizia dei burocrati favorì il mio intervento. Lasciai cadere i cinque bossoli in un fazzoletto di carta e, stando attento a mantenere intatta la busta, ne infilai altrettanti esplosi durante le esercitazioni con Parenti. Richiusi la scatola e, dopo aver riscaldato con la fiamma dell'accendino la ceralacca, premetti con dolcezza sui tre timbri. Perfetto! Il sudore, scendendo sulla fronte, bruciò i miei occhi; ero, comunque, appagato. Senza premura iniziai a escogitare il modo migliore per uscire dal magazzino. Mi balenò l'idea di attendere l'apertura del tribunale il mattino successivo. «Troppo complicato e stressante... Se poi il cancelliere non si allontana mai rischio di fare la fine del topo», riflettei. La seconda soluzione, quantunque prevedesse un maggiore rischio di ricevere una pallottola in fronte, era più convincente. Dopo aver riposto il contenitore sullo scaffale mi avviai verso l'uscita del magazzino. Afferrai la maniglia, la girai in modo da non fare rumore e spalancai la porta. Non ebbi la necessità di utilizzare l'accendino; un lucernario sopra l'ingresso dell'ufficio e il riverbero sul candido seno di Jenny illuminavano a sufficienza l'ambiente. Esaminai la serratura. Era stata fatta scattare una sola mandata. «Ragiona», mi dissi, «ragiona con calma... Negli uffici di solito si lascia una chiave di riserva e la copia viene nascosta quasi sempre negli stessi posti.» Sollevai il poster di Jenny. Nulla. Salii su una sedia e guardai sopra l'armadio. Nulla. Rovesciai il portapenne e, tra gomme e fermagli, la trovai. «Com'è originale il cancelliere!» sussurrai sorridendo. La chiave, tuttavia, rifiutò di entrare nella toppa. «Cretino, è quella del cassetto!» Non mi sbagliavo; aprii il primo tiretto e scovai un altro mazzo. Al-

la terza prova avvertii uno scatto. Lasciai la porta socchiusa, rimisi ogni cosa al suo posto e accostai l'orecchio. I corridoi sembravano deserti. Mancavano pochi minuti alle quattro e quei pochi impiegati rimasti per svolgere un lavoro straordinario erano affaccendati a celebrare la quarta o quinta visita al bar. Uscii in fretta e chiusi l'uscio. Esitai un momento dando un'occhiata intorno, poi feci quasi di corsa le due rampe di scale, stando ben attento a non far scricchiolare le scarpe. Riattraversai l'atrio dove quattro donne in camice blu sfacchinavano, senza convinzione, per mantenere ancora decoroso l'ingresso del tribunale. In un angolo un avvocato discuteva animatamente con dei clienti sbattendo di continuo la mano su una pratica. Dopo un attimo fischiettavo, disinvolto, sulla scalinata che declinava verso Viale San Pellegrino. Faceva molto freddo, e la nebbia, scesa più in fretta del solito, cominciava a rapprendersi alla luce di alcuni lampioni rimasti accesi. Sprofondai le mani nelle tasche e mi allontanai nel buio. «Ehi, salve! Oggi è in anticipo.» «Lo so. Volevo andare in centro per comprare delle scarpe; ma era impossibile parcheggiare. Sembra che lutti i turisti abbiano scelto di visitare i musei in questa settimana. Allora ho pensato di venire un po' prima.» Lucia mi scrutò per un attimo, all'apparenza perplessa. Poi, ritenendo la frase spiritosa, si sciolse nella consueta risata. Aveva meno di venticinque anni, piccola di statura, con dei capelli biondi che stentavano a trovare un'acconciatura definitiva. Gli occhi, di un verde intenso, ruotavano a ogni richiamo verso l'interlocutore, pronti a chiudersi in un ammiccante sorriso. In lei tutto era in miniatura: il seno, la bocca, il sedere, le mani. L'insieme era, tuttavia, decisamente gradevole. Da mesi la studiavo e non riuscivo a dirimere uno stuzzichevole enigma. Alcuni giorni indossava jeans, scarpe da ginnastica e una blusa larga; in quei frangenti pareva un'adolescente che, impaurita

dalle sue emozioni, decide di chiudersi e confondersi con la massa delle senza sesso. A volte, invece, sembrava un'altra persona: tacchi a spillo, gonna corta e aderente, una camicia pronta a esplodere a ogni sbadiglio. In quelle occasioni anche la sua voce cambiava; più calda, confidenziale, intrigante, complice. Per lei forse era tutto un gioco, ma il mio sesso, innaturalmente, s'ingrossava e si bagnava. La situazione era fonte di piacere; sebbene non riuscissi a controllare la sgradevole sensazione che Lucia, in quei momenti, se ne accorgesse e si deliziasse nel vedermi imbarazzato. Un giorno ero stato sul punto di avvicinarmi a lei. Era la fine dell'estate e aprì la porta indossando una minigonna bianca che, all'altezza del pube, aveva una macchia d'umidità. Mi invitò a entrare in fretta. «Aspetti un attimo, ho una persona al telefono. Sono in ritardo; sa, sono stata in piscina...» disse con una scrollatina di spalle che fece sobbalzare in maniera deliziosa le sue tette. Si accovacciò su una sedia bassa e iniziò a sussurrare nella cornetta. Sotto non indossava nulla. In altre occasioni avevo sbirciato i soliti slip bianchi; questa volta, però, intravedevo tutto bruno con qualche riflesso rossastro. Rimasi interdetto, con il viso in fiamme. Lei tentò di tirarsi giù la gonna, inutilmente poiché la stoffa era finita. Arrossì e sorrise, ma non si alzò. Il tutto durò un paio di minuti. Troppo pochi. La spina dorsale s'irrigidì, le tempie pulsarono. Dovetti fare un certo sforzo per biascicare di aver bisogno di andare al bagno. Nell'incontro successivo era di nuovo in jeans e scarpe basse. Ormai la consideravo un diavolo da penetrare soffocando il suo sempre meno convinto: «No, stia buono, sia bravo... Che fa?» Cercai di non lasciarmi sopraffare da questi ricordi e, assumendo un tono freddo, le chiesi: «Senta, nell'attesa dovrei fare una telefonata in tranquillità». «Stanza due, telefono grigio. Sa che cosa deve spingere?» Il gesto del suo dito era senza dubbio volgare. «Sì», risposi asciutto.

Poggiai la valigia sul tavolo. Presi un Kleenex, coprii il microfono e composi un numero a cinque cifre. Il telefono squillò irriverente, stridulo, quasi una pernacchia. «Questura!» rispose una voce impersonale. «Vorrei parlare con il commissario Cadone.» «Chi lo desidera?» «Un amico.» Percepii dall'altra parte del filo uno sbuffo mal represso. «Potrebbe essere più preciso?» «Senta, io ho delle comunicazioni importanti per il commissario. Sono fuori città e non ho intenzione di sprecare gettoni per parlare con lei. Se Cadone è in ufficio, me lo passi, altrimenti telefono un altro giorno.» Ci fu un attimo di silenzio. Il poliziotto stava di sicuro valutando se mandarmi a quel paese oppure sottostare, con prudenza e senza reagire, al mio arrogante atteggiamento. «Attenda.» Avvertii sulla linea gli scatti e il ronzio del centralino, poi arrivò una voce annoiata e un tantino scocciata. «Commissario Cadone, chi parla?» «Ho qualcosa da riferirle circa gli omicidi dei ragazzi.» «Scusi, perché ha chiamato me invece del numero predisposto per...» Gli impedii di continuare. «Commissario, forse non ci siamo capiti. Quello che le devo dire è di un'importanza estrema e credo sia inopportuno confonderlo con le telefonate di mitomani o di esaltati, né m'interessa dialogare con un agente o un maresciallo. Se lei ritiene di non essere in grado di ascoltarmi rintracci un suo superiore, magari il colonnello Lanciotti. Faccia come le pare, ma in questo momento penso sia fuori luogo pormi delle condizioni.» «Un attimo, cambio apparecchio.» «Si crede furbo questo investigatore da strapazzo», sogghignai. «Di sicuro vuole registrare la telefonata o, addirittura, cercare di capire da dove viene: non devo perdere tempo.»

«Eccomi. Come ha detto di chiamarsi?» Non mi aspettavo questa domanda. Potevo dargli dello stronzo o chiudere lì la comunicazione. Ma era un lusso al di sopra delle mie possibilità; sarei stato costretto a ritelefonare e non meritavano questo vantaggio. Volsi lo sguardo intorno cercando uno spunto tra le righe della tappezzeria. «Mi chiami Pan, se le piace. Ora ascolti con attenzione: ho la sensazione che brancoliate nel buio più assoluto. Alcuni fatti a me noti potrebbero esservi utili per le indagini.» «Sentiamo.» «L'individuo da voi cercato ha ucciso un'altra persona prima dei ragazzi di Borgo Angeo. Parlo di Irene Punthel. Con la lettera 'H' dopo la 'T'.» «E lei come fa a saperlo?» «Diciamo che conoscevo abbastanza bene l'omicida e la vittima. Non posso aggiungere altro, ma se lavorate sodo troverete il bandolo della matassa. Addio!» «Un momento. Aspetti, aspetti un attimo. Potrebbe essere più chiaro?» «No.» «Può ritelefonare, se vuole.» «Vi richiamo nel caso non abbiate capito un cazzo...» Interruppi la comunicazione: l'ultimo tassello era al suo posto. Nei giorni precedenti, la foto di Secchi, trovata nella borsetta della Murini, e un bossolo esploso con la Beretta di papà erano scivolati dietro un vecchio armadio della stanza da letto dell'appartamento, a piano terra, del Gioschi. Il commerciante di Portelli abitava in una zona periferica e aveva l'abitudine di dimenticare le finestre socchiuse. Quella mattina, mentre tornavo da una battuta alle beccacce, non incontrai difficoltà a intrufolarmi nella casa dell'assassino della Punthel. Nessuno circolava nei paraggi e così furono sufficienti un paio di minuti. Scivolai sul retro e saltai dentro. C'era puzza d'intonaco vecchio. Avanzai piano, ma sentii la faccia sfiorata dalla carezza appiccicosa delle ragnatele. L'aria penetrava a fola-

le dalla finestra del soggiorno, dove alcune foglie secche erano state spinte in un angolo. Il vento faceva frusciare i fogli strappati di una rivista pornografica sparsi sul pavimento. Spostai alcune bottiglie di liquori vuote, allungai il braccio e lasciai i miei ricordini. Mentre, con la cornetta ancora in mano, cercavo d'immaginare i successivi passi degli investigatori bussarono alla porta. Era Lucia. «Si può accomodare, il dottor Fabrizi l'attende.» Per Lucia il tratto di corridoio che dalla sala d'attesa conduceva allo studio dello psicanalista era una vera e propria passerella. Riusciva a far ruotare i suoi fianchi lungo l'asse immaginario che dal centro della schiena porta fino in mezzo alle cosce, senza dare la sensazione di aver a lungo studiato l'arte dell'ancheggiare. Per i pazienti di Fabrizi non era certo un modo rilassante di iniziare la seduta, e neanch'io, dopo quattro mesi d'incontri bisettimanali, il martedì e il giovedì dalle 16.30 alle 17.25, ero riuscito ad assuefarmi alla perversa sessualità del suo corpo. Non avevo mai saltato un appuntamento con l'analista, neppure il martedì successivo all'uccisione di Giulia Murini e Walter Secchi. Fabrizi ne era all'oscuro ma, da più di otto anni, rappresentava l'unico specchio della realtà con cui mi rapportavo. «Perché è venuto in analisi?» esordì nella prima seduta. «Ho paura di non avere paure», sospirai fissando il pavimento. Rimase in silenzio alcuni minuti, quindi, con voce neutra, cominciò a pormi domande sul mio lavoro, su mia madre, sulle donne, sui miei hobby. Cercai di attenermi alla verità, omettendo soltanto il fatto che mia madre era morta da pochi mesi. Non vedendo in me un chiaro punto di riferimento affettivo, Fabrizi avrebbe potuto concentrare la sua ricerca esclusivamente sulla mia personalità. La cosa, a essere sincero, non mi dispiaceva, ma avevo bisogno di un argomento dietro cui trincerarmi nei momenti di difficoltà, e il tema «mamma» era perfetto. Più di una volta, durante l'estate, mi ero trovato a interrogarmi: «Che cosa ci faccio qui? Perché ho scelto come

psicanalista proprio colui che spera di fornire informazioni utili agli inquirenti per la mia cattura? Non sto forse giocando con il fuoco?» Le risposte erano sempre dello stesso tenore: «Se riesco a celare a Fabrizi il mio vero mondo, i miei desideri, la mia forza, la mia perfezione, posso continuare a lottare contro questi stronzi senza correre eccessivi rischi di essere sopraffatto. Attraverso lui posso sentire il tanfo dei miei segugi, intuisco il loro terrore, la loro voglia di sapere, la loro fame di giustizia, i loro frequenti momenti di depressione e gli scarsi attimi di esaltazione... Se sono capace di fregare te, caro scimmiottatore di Freud, il resto è un gioco». Nei giorni successivi all'azione di Cormaio arrivai a nutrire nei suoi confronti un pizzico di tenerezza. Ascoltava, svogliato e distratto, il racconto dettagliato di una mia recente conquista e non si accorse che, in realtà, parlavo di Lucia. La sua mente vagava, poi si fermò e, quasi di soprassalto, mi domandò: «Secondo lei chi può essere il folle che ammazza i ragazzi?» Preso alla sprovvista per un attimo trasalii, ma subito dopo salii in cattedra: «Forse è un prete». Mi scrutò accigliato. Si accese il sigaro e me ne offrì uno. Scossi il capo, portando alle labbra una delle due sigarette con cui scandivo i nostri incontri. Si appoggiò allo schienale e sospirò: «Che cosa glielo fa credere?» Cercai di dare corpo alle sue fantasie e azzardai: «Quel pazzo ha qualcosa di magico, di mistico. Ogni suo gesto sembra la riproposizione di un rito. Chi può essere così ripetitivo nel modo di uccidere se non un appartenente a un mondo pieno di tensioni sessuali ma, allo stesso tempo, costretto da catene morali difficili da spezzare». Rifletté a lungo. «Interessante. Davvero interessante», commentò con un filo di voce. «Può essere... Bah! Mi racconti del suo ultimo incontro con Francesca.» Non accennò più alla mia opera. «Salve, come va?» mi chiese nell'incontro successivo, sedendosi dietro la scrivania in stile veneziano.

«Direi bene», risposi prendendo posto di fronte a lui. «Com'è evoluto il suo timore di comprare una pistola?» «Lasci perdere. Preferisco non parlarne.» «Perché?» «In ufficio sono ormai convinti nel ritenere la società nel mirino delle Brigate Rosse, e vorrebbero tutti i funzionari pronti alla difesa personale.» «Perché la cosa le dà tanto fastidio?» Cercai di evitare il suo sguardo. Mi succedeva sempre così quando decidevo di tirare fuori una balla che racchiudeva qualcosa di obiettivamente comico. «Una volta ero a caccia con mio cugino. Questi, a un certo punto, tirò fuori una Colt e m'invitò a sparare ad alcuni barattoli. Nel timore di essere sorpreso dal rinculo a momenti mi presi un piede. Non l'ho voluta più toccare. Preferisco i fucili; li sento più controllabili. Hanno la canna lunga, il colpo parte da lontano... e lontano finisce. Se sarò costretto,» conclusi sghignazzando, «preferirò andare in giro con il mio Franchi a doppia canna, come un pastore sardo.» «Allora è un problema di lunghezza», annotò. Sentii il sangue affluirmi negli occhi. L'avrei strangolato. Mi salì un desiderio di raccontargli tutto, di sputargli in faccia la verità. Ma dovevo essere bravo, dovevo controllarmi. Con Fabrizi avevo messo a punto un sistema efficacissimo. L'esaminavo attentamente, scrutavo i suoi piccoli tic, le sue espressioni infantili, e lo colpivo nella sua stessa branca. Una volta notai una macchia di rossetto sulla camicia e, cercando di assumere la faccia dell'allupato, gli descrissi, nei minimi particolari, cosa avrei potuto fare con la bocca di una ragazza come Lucia. Lui arrossì, forse rammentandosi come, qualche minuto prima, avesse quasi strappato le calze della segretaria nel cercare, tra una seduta e l'altra, un frettoloso amplesso. Di rado le mie intuizioni fallivano e ne era consapevole. Quel giorno, parlando delle labbra di Lucia, andai avanti per un po', dicendo tutto quello che mi veniva in mente, e lui ascoltò

cercando di evitare segni d'impazienza finché non ebbi concluso. Infine sbottò: «Le piacciono veramente le ragazze?» Rimasi interdetto. «Che cosa vuole? Un profilo della mia vita sessuale?» Si massaggiò la testa e sorrise: «No, non ce n'è bisogno». Detestava restare all'angolo. «Perché ha le unghie nere?» domandai evitando di fissare il suo viso. Non poteva certo scherzare impunemente sulle dimensioni del mio sesso. Colto di sorpresa non riuscì a frenare l'impulso di guardarle. «Ho una vera passione per i mobili antichi. Quando ne compro uno da un rigattiere mi diverto a restaurarlo con le mie mani. Questo è mordente a noce. Volevo ravvivare il colore di uno scrittoio. Neanche l'alcol riesce a eliminarlo dalle unghie... Be', ora parliamo dei suoi sogni. Com'è andata i giorni scorsi?» «Di certo da quando vengo qui ne faccio molti. Forse c'è una spiegazione a tutto questo: lei vuole materiale da analizzare e io glielo fornisco.» «Forse.» Lo scrutai. Avevo deciso sin dall'inizio di non mentire sui sogni. «Se lo faccio,» pensai, «rischio di scegliere elementi simbolici fuori dalle mie capacità interpretative. La bugia, a volte, può essere più cristallina di una verità. Lui potrebbe intuire qualcosa. No, non deve capire, ma non deve neanche essere confuso.» «C'è stato un sogno interessante. Lo ricordo molto bene.» Chiusi gli occhi prima di continuare. «Credo di averlo già fatto diverse volte quando ero ragazzo. Mi trovo all'imbocco di una grotta. Sono solo, sembra notte eppure ci vedo benissimo. Non ho motivi per entrare, ciononostante qualcosa mi spinge a farlo. Poco dopo avverto una presenza inquietante. Gli occhi si adattano al buio, e scorgo mucchi di serpenti per terra o attaccati ai muri. Uno, che individuo come il capo, si avvicina. È diverso dagli altri, è strano: ha due teste. Mi fissa, anzi mi fissano quelle quattro fessure, prima che l'animale decida di

attaccare. Non grido, ma cerco di scappare. Le gambe sono molli e sento il corpo del rettile strisciare sul polpaccio. Quando sta per mordere mi volto di scatto, il tempo di accorgermi che ha una testa sola. A questo punto mi sveglio... Ha scritto tutto?» «Quello che serve», rispose muovendo a scatti la biro. Lo lasciai fare e contemplai la parete alle sue spalle. A differenza delle altre era priva di quadri e stampe. L'architetto, inoltre, aveva trovato divertente tinteggiarla in un modo assai originale; nella vernice, blu cobalto intenso, aveva mischiato segatura e pezzetti di giornali. Il risultato era del tutto simile all'occhio di un insetto visto al microscopio. Nei primi appuntamenti mi creò una certa angoscia; evitavo di guardarla, rivolgendo lo sguardo verso la finestra. Con il tempo ci feci l'abitudine e ne fui attratto, quasi ipnotizzato. Riuscivo con facilità a trasformarla in un telo dove proiettare la mia storia, la mia straordinaria storia. «Un sogno interessante. Direi quasi mitico.» «Mitico?» chiesi sorpreso e divertito. «Sì, proprio così», ribadì Fabrizi mordicchiando il sigaro. «Si ricorda l'espressione delle due teste?» «Vagamente. Una poteva appartenere a un animale freddo, spietato, come se fosse di metallo. L'altra, invece, ma forse questa è una mia illusione, appariva più ironica; sembrava che quella bestia schifosa volesse giocare con me.» «Quando ha rivisto una testa sola ha avuto l'impressione si trattasse di quella di un altro serpente, oppure una delle due aveva preso il sopravvento?» «Ah, non ricordo proprio! A pensarci bene però, credo mantenesse le espressioni di entrambe. Che cosa vuol significare?» «Quasi lutti, al giorno d'oggi, continuano ad attribuire al serpente solo aspetti malefici: ciò non è giusto. Dal punto di vista simbolico egli ha rappresentato, sin dall'antichità, sia il male sia il bene. Questo vissuto lo troviamo in quasi tutte le culture. Nella Bibbia, per esempio, il ser-

pente è colui che induce Adamo ed Eva al peccato originale; ma è anche l'animale innalzato da Mosè nel deserto per salvare la vita di numerosi fanciulli. Successivamente anche i greci ritennero il rettile fautore di numerose guarigioni; basti ricordare che è diventato anche il simbolo di Esculapio.» «E le due teste?» domandai impaziente. «Ognuna rappresenta una porzione dei suoi istinti. Il bene e il male. L'istinto di vita e di morte. Lei ha proiettato nella stessa serpe la doppia percezione che gli uomini hanno di questo animale e, allo stesso tempo, i due settori del suo mondo istintuale. Forse da parte sua c'è un tentativo, inconscio, di separarli...» «Alla fine, però, il serpente aveva una testa sola. Vuol dire che ho smesso di dividerli?» «È probabile... Tuttavia si potrebbe anche interpretare come il segnale di una sua parte che ha preso il sopravvento sull'altra. Sebbene lei ricordi che l'animale ha mantenuto le espressioni di entrambe, sarebbe opportuno capire chi domina in questa fusione.» La spia rossa del telefono si accese, senza essere seguita da alcun suono. Durante le quasi cinquanta sedute solo un paio di volte vidi quella luce; la circostanza non mi aveva turbato, era come se Fabrizi invitasse un altro ospite a prendere un tè. Lo psicologo la lasciò lampeggiare per qualche secondo, poi, continuando a contemplare i suoi appunti, alzò il ricevitore. «Che cosa c'è Lucia?» domandò assumendo un'aria seriosa. Non poteva certo sciogliersi, di fronte a me, in uno sdolcinato tète-a-téte telefonico. «Ok, passamelo... Pronto, Lanciotti. Come va?... Bene, bene. C'è qualche novità?» Guarda chi si sente. Avvicinai, evitando di farmi scorgere, un dito al polso sinistro. Premetti sulla vena: ero calmo. Fabrizi ascoltava attento il carabiniere lanciando, ogni tanto, uno sguardo nella mia direzione. Per un attimo ebbi la sensazione che parlassero non di uno sconosciuto as-

sassino, ma specificamente di me. Con una certa difficoltà riuscii a liberarmi di quella ridicola idea. «Quando è arrivata la telefonata? Ah, l'ha registrata. In gamba, Cadone... Quando hai detto che è stata ammazzata la Punthel? Se fosse vero sarebbero sette persone in quattordici anni. Bah! Ho un po' di difficoltà a crederlo... Sai, tutto è possibile... Ci sono i bossoli?... Senti, facciamo una cosa, tra circa un'ora finisco qui in studio e ti raggiungo da Steri. Sei d'accordo?» Riappese la cornetta, e rimase per un po' con la mano posata sul telefono, tornato muto e innocuo. Poi fissò la sua dose di nicotina ridotta ormai a un centimetro. Scrollò le spalle e mi chiese. «Scusi, dove eravamo arrivati?» «Alla fusione tra l'istinto di vita e di morte.» Sospirai, cercando di rendere ancora più satura di tensione l'atmosfera. «Steri, ne hai ancora per molto?» domandò Lanciotti. Da più di un quarto d'ora l'ufficiale dei carabinieri aveva invaso, insieme a Cadone e Fabrizi, uno dei preziosissimi angoli del laboratorio di balistica. I primi responsi sui bossoli dei proiettili trovati nel corpo di Irene Punthel si facevano attendere. Il capo della scientifica alzò la testa e, nonostante le pupille tardassero ad adattarsi alla luce, riuscì a lanciare un'occhiataccia al colonnello. Indossava un ridicolo camice bianco, forse appartenente a un giovane poliziotto più piccolo di tre taglie, che rendeva le sue spalle simili a salsicciotti. «Sentite, maestri dell'investigazione, l'analisi al microscopio comparatore prevede un'attenzione e una pazienza a voi sconosciuta... Nel caso non riusciate a dominare le vostre ansie andate a fare una passeggiata, altrimenti state calmi. Se mi rompete un'altra volta vi stacco i coglioni e li metto sui vetrini.» «Puoi anche farlo», canticchiò Lanciotti, «ma poi ci resterai male nello scoprire che non sono uguali. Dai, pren-

dila con filosofia e aguzza la vista. Noi ce ne stiamo buoni come collegiali.» Steri sbuffò teatralmente e rivolse il deretano ai poco graditi ospiti. Amava la solitudine nei momenti di grossa tensione ed era forse per questo che in gioventù aveva deciso di dedicarsi alla criminologia, pur sapendo che tale scelta difficilmente gli avrebbe garantito una carriera brillante. Per lo stesso motivo si era sposato con Gemma, una donnina graziosa e discreta, pronta a sgusciare in cucina appena si rendeva conto che il marito, in crisi per qualche difficoltà improvvisa, aveva bisogno di stare solo. «Fabrizi», riprese sottovoce l'ufficiale, «hai ascoltato la telefonata ricevuta da Cadone?» «Sì, interessante.» «Perché?» «Ho la sensazione che questo Pan abbia cercato di simulare una certa agitazione. In realtà credo conoscesse bene la sua parte e ciò non è né da mitomani né da provocatori.» «Spiegati meglio. Vuoi forse dire...» «Sembra abbia voluto parlarci all'orecchio», chiarì Fabrizi, «suggerirci qualcosa, con garbo, in punta di piedi. Non c'è traccia di emozione né quando ricorda l'omicidio della Punthel né quando dà degli incompetenti agli investigatori.» «Perché nella prima parte della telefonata era incazzato, prepotente, quasi dispotico?» domandò Cadone. «Voleva immediatamente definire il rapporto di potere: 'Io ho qualcosa, voi nulla. Per parlare ho bisogno di un vostro superiore...' Che cosa diceva nell'ultima parte non registrata?» «'Faccia come le pare', recitò il giovane commissario scandendo bene le parole, 'ma in questo momento penso sia fuori luogo pormi delle condizioni...' Così ha detto.» «In pratica», intervenne Lanciotti, «sostiene che siamo in mutande, e ci offre l'opportunità di tirare su i pantaloni.» «Appunto: ci serve, sopra un bel piatto d'argento, un'opportunità... Calmi, calmi, non voglio fare il cinese. Pino,

hanno tentato di scoprire da dove proveniva la telefonata?» «Sì, ma in quarantacinque secondi si può fare ben poco. Al centralinista ha detto che chiamava da fuori, in realtà utilizzava un apparecchio le cui prime tre cifre sono: 785.» «Curioso, sono identiche a quelle del telefono del mio studio... Avete chiesto alla SIP di quante cifre sono i numeri degli utenti in quella zona?» «Sì,» rispose perplesso Cadone, «di sei cifre. Ma dove vuoi arrivare?» «Mille possibili utenti. Troppi...» rimuginò Fabrizi sottovoce. Da un paio di minuti stava seguendo, con la sua fantasia, tortuosi percorsi privi di apparente logica. «Scusate,» intervenne Lanciotti con un tono volutamente rude, «ci stiamo facendo delle masturbazioni con il cervello su chi può essere questo Pan; ma del caso Punthel e dell'esame di Steri non ce ne frega nulla?» «Hai ragione. Ci piace giocare, ogni tanto. Dove avete trovato i bossoli?» «In tribunale», rispose Cadone, «nell'archivio reperti. È stato per puro caso; secondo il cancelliere tra un mese sarebbe andato tutto al macero. Mi ha detto che, dopo un certo numero di anni, se non ci sono oggetti preziosi, oppure materiale d'interesse per il museo criminologico, viene tutto incenerito.» «Non dovevate controllare», riprese il criminologo, «tutti gli omicidi degli anni precedenti?» «Sì, il controllo è stato eseguito, ma c'eravamo fermati al 1970.» «Si è mai saputo chi ha ammazzato, in realtà, la Punthel?» «L'unico imputato è stato un certo Alfredo Gioschi, ma tanto l'inchiesta quanto il processo sono stati una vera burla.» «L'avete rintracciato?» Lanciotti, colto nell'atto di accendersi una sigaretta, bloccò la mano a mezz'aria e fissò Fabrizi, poi ridendo rispose: «Mica siamo matti. Dopo la storia di Masoli è preferibile andare con i piedi di piombo».

«Fatto. Mamma che sudata!» Steri si rialzò cercando di controllare l'inconsueto luccichio d'estasi emanato dai suoi occhi. La cravatta, a colori sgargianti, di quelle che le donne amano regalare a Natale, ballonzolò dalla contentezza come un pupo siciliano. «Avvicinatevi al microscopio. Con calma. Guardate con calma, senza toccare. Si accomodi prima lei, colonnello.» 11 suo «lei» sembrava essere il prologo di un orgasmo mentale. Il carabiniere rimase per una decina di secondi con gli occhi incollati sul microscopio, poi, con fare provocatorio e un po' maligno, scrollò le spalle e commentò: «Certo, è proprio interessante...» Il capo della scientifica, poco disposto ad accettare la facile ironia dell'ufficiale, cercò di essere il più tagliente possibile. Il risultato, suo malgrado, fu decisamente comico. «Interessante, lei dice. Se le è rimasta qualche diottria, oltre ai segni lasciati dalla Beretta, dia un'occhiata anche alla lettera H... Vede nulla?» «No», rispose l'ufficiale ridendo sotto i baffi. «Me lo aspettavo.» La voce di Steri era diventata stridula come quella di una vecchia checca. «I due bossoli, caro mio, presentano le stesse anomalie nella punzonatura delle cartucce. Ha una vaga idea di che cosa voglia dire?» «No, mi illumini.» La presa in giro di Lanciotti sembrava ormai una dichiarazione d'amore. «Quel fottuto non solo ha ucciso con la medesima pistola, ma da quasi quindici anni utilizza sempre la stessa partita di H-Winchester calibro 22 Long Rifle.» «Ne sei certo, Steri?» chiese Cadone avvicinandosi al microscopio. «L'analisi comparativa», ribatté il vicequestore con l'aria di chi è costretto a subire la presenza di cervelli con capacità inferiori alla sua, «è una scienza che, modestamente, ritengo di onorare.» «Bravo!» esclamò Lanciotti fingendo di colpirlo, con un pugno, sulla pancia. «Hai il caffè pagato. Nonostante tut-

to sei uno dei migliori esemplari di questa decadente questura.» «Nonostante che cosa?» riprese inutilmente il capo della scientifica, inorgoglito dall'atteggiamento amichevole dell'ufficiale dei carabinieri. «Be', Fabrizi, che ne dici? Questo stronzo pare si diverta ad ammazzare la gente dal 1968.» «Sì, si direbbe così...» rispose quieto lo psicologo. «Uccide una puttana, resta circa sette anni tranquillo, poi fa fuori due ragazzi. Altri sette anni di silenzio, e quindi ne elimina altri due. Ora sembra avere più fretta. Forse sta invecchiando...» «Oppure si sente meno sicuro. Non è da escludere che tema di essere smascherato. Di certo questa telefonata arriva come il cacio sui maccheroni», osservò Lanciotti. «È vero. Pan ci ha preparato un bel piattino... E noi ce lo mangiamo.» Cadone scrutò il ghigno da ubriaco di Fabrizi. C'era qualcosa di enigmatico, di indefinito in quella smorfia immobile e sorridente. Il giovane poliziotto avrebbe voluto saperne di più, ma si trattenne: non poteva certo immaginare che nella mente del criminologo si era formata la frase: «l'astuzia del pazzo». Il temporale era passato; tuttavia una sottile pioggerellina continuava a far luccicare i fari delle macchine in movimento sulle rotaie del buio. Tale immagine, in altri momenti rilassante, aumentava la stretta di un fastidioso cerchio alla testa di Cadone. Eppure erano trascorse solo cinque ore da quando aveva ricevuto la telefonata di «gola profonda - Pan», cinque ore che sembravano cinque giorni trascorsi, però, senza l'intervallo dedicato al sonno. Nel suo ufficio, da solo, il commissario attendeva notizie. Non era facile stare in mezzo agli altri. Erano tutti nervosi e scattavano per un nonnulla in imprecazioni e bestemmie. Non era facile per i poliziotti della mobile attendere il risultato di una perquisizione, operata tra l'altro

dai «cugini carabinieri», reprimendo la loro ormai naturale voglia d'intervenire a ogni costo. Ma gli ordini del giudice Brezzi erano stati chiari: «Cautela, cautela! Solo un paio di volanti parcheggiate a debita distanza dall'abitazione del Gioschi: nessuno, dico nessuno, deve sapere!» La maggior parte degli agenti aveva saltato la cena. Aspettavano, seduti scompostamente, indossando vistose fondine, fumando una sigaretta dopo l'altra e, fregandosene dei portacenere forniti dall'amministrazione, gettavano la cenere a terra. In alcune stanze una nube di fumo gravava dal soffitto fino alle narici. Trillò il telefono. Era Ranelli che annunciava l'imminente arrivo di Lanciotti in questura. «Ti ha detto se lo devo aspettare?» chiese il commissario. «Sì, e ha aggiunto di predisporre una stanza per un interrogatorio delicato.» «Ha detto proprio così?» «Certo. 'Interrogatorio delicato' Penso di aver sentito bene.» Cadone sapeva che il capo di gabinetto era ben lontano dall'aver capito qualcosa, ma non se ne curò. Abbassò il ricevitore e si avvicinò alla cartina della provincia appesa al muro. Prese un pennarello rosso dal vasetto di coccio sul tavolo e fece un cerchio intorno a Portelli. Poi guardò gli altri cerchi: Borgo Angeo, Suresti, Cormaio. Interrogatorio delicato, pensò. Aveva le mascelle così serrate da sentire le piombature dei due molari di destra fondersi. «Ippoliti!» gridò. Il maresciallo, sbadigliando, entrò senza bussare. La tensione aveva accentuato le rughe del suo viso in modo quasi innaturale. Aveva voglia di mandarli tutti all'inferno e andarsene a casa a vedere la televisione dormicchiando sulla poltrona; un lusso che non si poteva concedere. I suoi due figli frequentavano ancora l'università e, quindi, la pensione doveva, purtroppo, attendere. In fondo, però, si senti-

va più libero e diceva a ognuno la sua, senza aver timori di gradi e stellette. «Faccia preparare un ufficio in fondo al corridoio e spedisca i ragazzi giù nella sala. Devono aspettare; forse avremo bisogno di loro più tardi.» Non ci fu il tempo di dare altre disposizioni. Il sottufficiale era già scomparso lasciando la porta aperta. Dopo circa dieci minuti Lanciotti la richiuse alle sue spalle. Pareva sul punto di scoppiare in una valanga di parole; ma si trattenne. Si tolse il giaccone di montone, lo scrollò rumorosamente, come se volesse liberarlo da una famigliola di pulci, quindi l'appese all'attaccapanni a stelo. Accese una sigaretta. «Fa un freddo cane», esordì in tono roco. Cadone confermò, pronto ad assecondarlo. «Tuo padre da quanto tempo non lo senti?» «Da ieri sera.» «Già... Vogliamo parlare di Alfredo Gioschi?» «Se ti va.» «È pronta la stanza?» «Sì», rispose Pino asciutto. «Sembriamo due imbecilli.» «Concordo.» Il commissario non riuscì a trattenere un sorriso. «Lo sai, forse è fatta. Vado con ordine...» Lanciotti tirò una vigorosa boccata, che consumò mezza sigaretta, e si sedette sulla scrivania. «Andiamo a casa di Gioschi, ma lui non c'è. Per fortuna Brezzi aveva firmato un mandato di perquisizione: piazzo due ragazzi di fronte alla casa ed entriamo. Senza forzare, bada bene; questo tipo ha l'abitudine di lasciare finestre e porte aperte... È un po' strambo, poi lo vedrai. In casa troviamo schifezze di ogni genere: riviste pornografiche, galline sgozzate da almeno un mese, bastoni sporchi di sangue e, pensa, un armadio pieno, dico pieno, di bambole squarciate all'altezza della pancia.» «Vive solo?» «Pare proprio di sì... Verso le nove e trenta arriva cal-

mo e tranquillo come un sacrestano. È convinto che lo cerchiamo per l'omicidio della Punthel, ma la cosa non sembra turbarlo... Mentre cerco di comprendere il suo atteggiamento vengo chiamato da uno dei ragazzi. Indovina che cosa mi fa vedere?» «La Beretta?» tentò il commissario. «No, un bossolo H-Winchester e una foto in bianco e nero di Walter Secchi.» «L'ha forse staccata dai giornali?» «No, è una stampa originale... Sembra pure vecchiotta. Il bossolo l'ho mandato al laboratorio. Steri dovrebbe farci sapere qualcosa entro un quarto d'ora... Ah, un momento! Prima di farlo entrare, manda qualcuno a prendere i genitori dei ragazzi uccisi a Cormaio.» «Va bene.» Alfredo Gioschi era un tipo alto e snello, con una barbetta ben curata e i capelli castani che gli scendevano sul colletto della camicia. Portava una cravatta rosso bordeaux lavorata a maglia, in perfetta armonia con la camicia gialla. Pareva uno di quei tipi di mezza età impegnati, accanitamente, a cercare di apparire ancora giovani. Lanciotti evitò, comunque, di giudicarlo, avendo trovalo sempre molto patetico un simile atteggiamento. Quella sera, appena lo vide, non badò granché al pesante orologio di gran marca; la sua attenzione si fermò sull'anello d'oro massiccio ornato da un opale grosso quanto un nocciolo. Poi i suoi occhi caddero sui gemelli, ovviamente d'oro, con uno zaffiro montato al centro; rimase quasi annichilito e non potè fare a meno di chiedere: «Ma lei commercia in preziosi?» Alla risposta negativa commentò: «Credevo che nella valigetta del suo campionario non fosse rimasto più spazio...» A Cadone, più ingenuo, l'indagato fu istintivamente simpatico. La faccia squadrata, butterata fino alla bruttezza, era ravvivata da un paio di occhi in perenne movimento. Quando lo vide sedeva tranquillo su uno sgabello accostato alla parete di una stanza senza finestre del piano terra. Appena i due investigatori entrarono, Gioschi si avvicinò e allungò la mano.

«Lieto di conoscerla, dottore.» Il commissario non riuscì a emettere null'altro che un banale e ridicolo: «Ehm!» «Lei è già stato qui?» gli chiese Lanciotti, guardandolo di traverso. «Forse, tredici anni fa; vista la sua età è possibile che ci siamo incontrati.» «Lei immagina il motivo del suo fermo?» «Ritengo sia sempre lo stesso.» Poi, sorridendo, domandò: «Questo colloquio viene registrato?» Cadone trasalì e di corsa si posizionò tra Gioschi e il mangianastri. «Tutti gli interrogatori lo sono. Le crea problemi?» «No.» Il commissario si auspicava che ne creasse, avrebbe trovato così la scusa per spegnerlo. In questo modo nessuno si sarebbe accorto che nel registratore non c'era la cassetta. «In casa sua abbiamo trovato diverse cosette», esordì volutamente impreciso il carabiniere. «Ah! Sì? Ognuno ha i suoi passatempi...» sospirò glaciale l'uomo cercando di apparire sarcastico. «I suoi quali sono?» Di fronte a un interrogativo così diretto Gioschi vacillò. Per la prima volta il suo sorriso si attenuò. Si guardò le mani. Il viso fu scosso da qualche tremito. Le labbra si erano fatte grigie. Fece per dire qualcosa, poi esitò e guardò Lanciotti, come sperando che fosse l'altro a continuare. Ma l'investigatore si era rimesso a fissare il nodo della sua cravatta. «Mi piace vivere e godere da solo... Non credo sia un reato.» «Lei ha una pistola?» «Lo chieda al mio avvocato», rispose molto meno imperturbabile. Lanciotti lanciò un'occhiata nervosa al commissario. Accese con foga una sigaretta e, lisciandosi un orecchio, chiese: «E quelle bambole?»

«Giochi.» «E le galline, pure quelle dei giochi?» Si sentiva solo il respiro affannoso dell'interrogato. «Debbo continuare?» Gioschi balzò in piedi e barcollò verso la scrivania. In qualche modo si capiva che le sue difese, come un castello di carte, avevano impiegato pochi attimi per crollare e toccare il fondo. «Sono stato io», sibilò sul naso di Lanciotti. «E finita. Non posso più sopportarlo. Non ne posso più. Costruite una galera tutta per me.» Le ultime parole furono pronunciate così piano che Cadone le comprese appena; poi l'uomo prese la testa tra le mani e borbottò. «Ora sarò portato in prigione. Voi siete della polizia, quindi mettetemi in prigione.» D'improvviso si drizzò e sferrò un gran pugno sulla parete. Il commissario fece per bloccarlo, ma l'ufficiale con un ampio gesto lo fermò. «Basta! Basta!» gridò. «Preferisco ritornare in galera che continuare questa vita.» Due grosse lacrime apparvero nei suoi occhi. «Credevo che uccidendo Irene sarebbe tornato tutto come prima. Invece no. La prigione mi fece capire quanto niente fosse cambiato. Chi pecca deve pagare. Tutti devono pagare. Ognuno ha i suoi peccati.» Ormai batteva i pugni sempre più debolmente. Il muro smise di rimbombare. Guardò stralunato prima Lanciotti e poi Cadone, sembrò sul punto di soffocare nel tentativo di esprimere, sempre più in fretta, il suo pensiero. «Avvicinatevi!» L'ufficiale dei carabinieri si accostò. «Ogni anno che passava, ogni mese, ogni giorno sentivo il bisogno di ripetermi... Ma una donna da sola sarebbe stato troppo vile, come ammazzare una gallina in gabbia. Volevo un rapporto paritario. La devono smettere di ridere. Capite?» L'uomo cercò, senza riuscirci, di parlare con coerenza e i suoi occhi divennero vitrei per lo sforzo. «Perché hai colpito ancora?» chiese impassibile Lanciotti.

«Lasciatemi stare!» sbuffò. «Vi basta quello che vi ho detto. Lasciatemi in pace.» Con un singhiozzo crollò improvvisamente sulla scrivania, pareva privo di sensi. La testa provocò un rumore sordo e un braccio si tese facendo rovesciare il portapenne. Cadone cercò di rialzarlo, ma fu impossibile. Le sue mani erano gelide, rattrappite. «È nel pieno di una crisi di nervi», sentenziò l'ufficiale. «Da un momento all'altro dovrebbe arrivare Fabrizi. Lascia un paio di agenti a controllarlo; noi aspettiamo nel corridoio.» 11 criminologo sostava fuori della porta insieme a Steri. Si drizzò e, ingenuamente, chiese: «Che cosa succede là dentro?» «Che hai da dirmi sul bossolo?» Lanciotti sembrò non averlo nemmeno visto. «Stesso proiettile, stessa arma, stessa partita», declamò distaccato il capo della scientifica. «Bene! Ivo, fammi il piacere, vai a dargli un'occhiata.» Fabrizi sbirciò dubbioso; spezzò, con l'unghia, il pestifero sigaro a metà e si avvicinò all'uscio. «Vado?» «Vai, vuoi forse la fanfara?» La porta si sbarrò dietro le sue spalle. «Certo come questura fate proprio schifo. Nessuno che ti porti il caffè», disse, ad alta voce, Lanciotti. Cadone si guardò intorno imbarazzato. «Ecco Ippoliti! Ora lo chiedo a lui... Senta, maresciallo, si può avere un caffè?» Il sottufficiale lo squadrò con sufficienza. «E già pronto. Penso sia pure abbastanza dolce.» Gli investigatori trattennero il respiro. «Nell'ufficio del capo di gabinetto ci sono i genitori della Murini e la madre del Secchi. La foto è la stessa tenuta in borsa dalla ragazza. Sul retro vi sono dei cuori disegnati per il terzo anniversario di fidanzamento.» «Tombola!» esclamò Lanciotti. «Ora vado su. Il caffè me lo prendo con il questore e con Brezzi.» Poi, mentre

saliva le scale, aggiunse: «Dite a Fabrizi di ascoltarlo con calma. Non credo che il nostro ospite ci lascerà presto». «Va bene un bianco?» «Sì, ma solo un bicchiere... Ho paura di ubriacarmi.» Anche questo era un rischio che non correva. Tutto era misurato per Lorena: il cibo, i vestiti, gli slanci affettivi, i sogni, la gelosia, i furori e le tenerezze. Cadone riteneva questi atteggiamenti infantili, languidi e, a volte, quasi fuori dal tempo. La scarsa luce del separé del ristorante Il pavoncello rendeva ancora più evidente il contrasto tra la sua pelle bianca e gli occhi di un azzurro brillante. Portava i capelli, castani, raccolti alla sommità del capo; al collo un collier d'oro, regalo di matrimonio del padre del commissario, con incisa la lettera «L» sul medaglione di lapislazzuli. Non era una di quelle che i palati facili definiscono una «gran figa», ma Cadone, e non solo lui, la trovava affascinante e anche un po' intrigante. I due giovani di rado riuscivano a consumare il rito del pranzo domenicale senza l'invadente, pur se affettuosa, presenza dei suoceri. Benché fossero trascorsi sei mesi dal matrimonio, essi perduravano a considerare la figlia una bambina. Forse a causa di un irrisolto senso di colpa. Pino diventava, durante queste loro fughe, paterno e protettivo, come se sulla testa della moglie si dovesse scatenare un improvviso temporale. «E buono questo riso. Tu perché hai ordinato solo carne?» «Ho ancora acidità. Ieri, in questura, ho bevuto troppi caffè.» Lorena lasciò cadere il tovagliolo sul tavolo. Dal movimento delle spalle lui intuì l'accavallarsi delle gambe. Appoggiò il gomito vicino al piatto vuoto e adagiò il mento sul palmo della mano. Due luccicanti bracciali le scivolarono giù per il braccio. Il collier di papà Cadone penzolò sul seno cosparso, in alcuni punti, di chiazze rossastre. L'allergia al parmigiano, pensò il commissario po-

sando il bicchiere e accostando il ginocchio a quello della donna. «Ah! Che delizia», sussurrò la donna con un'inconsueta aria di sfida. «Non ho voglia di andare al cinema dopo pranzo. È meglio fare una visitina alla nostra camera da letto.» «Convengo, mi sono dimenticato il colore delle lenzuola.» «Scemo», miagolò lei occhieggiando al di sopra dell'orlo del bicchiere. «È rimasto un goccio di vino per me?» Era Lanciotti. Baciò la mano a una imbarazzata Lorena. Afferrò una sedia e si accomodò tra i due. Nel definirlo in condizioni pietose si rischiava di fare un esplicito torto al concetto di umana pietà. Indossava un impermeabile bianco, vecchio e sgualcito; in alcuni punti Cadone scorse delle macchie di sangue. I capelli, umidi, non avevano incontrato un pettine da almeno cinque ore. Sembrava un idraulico uscito stravolto da un intervento di soccorso in una casa allagata. Tracannò tutto d'un fiato il bicchiere riempito dal poliziotto e appoggiò una cartellina giallo-pallido sul tavolo. Il calore di quell'eccellente Chianti gli diede la forza per parlare. «Pino, in ufficio ti hanno dato il cerca-persona?» «Sì», farfugliò, «questa mattina, però, mi sono accorto della pila ormai scarica. Ho comunque chiamato la sala operativa per avvertire che venivo a pranzo al Pavoncella. .. C'è stato qualche guaio?» «Che cosa è successo, Angelo?» La donna, tremante, torturò con le mani l'angolo della tovaglia. «Nulla, bambina, non ti preoccupare. Dovevamo rovinare il pranzo a tuo marito e ho preferito farlo di persona.» Accese una sigaretta. «Senta, un portacenere, per favore.» Un vecchio cameriere annuì e corse via. L'ufficiale guardò i due languidamente, e aggiunse: «Be', diciamo che anch'io avevo bisogno di vedere un paio di facce pulite... Lorena, vuoi ascoltare o preferisci andare a rifarti il trucco per qualche minuto?»

«Penso di essere ancora bella così», rispose abbassando gli occhi e quasi arrossendo. Le era costata una gran fatica tirare fuori questa frase a effetto; ma una volta o l'altra doveva cominciare. Si era sposata un poliziotto, mica un bibliotecario. «Direi che sei perfetta», annuì galante Lanciotti. Tirò un lungo respiro e iniziò a raccontare fissando il bicchiere vuoto. «Partiamo dall'inizio. Questa mattina ricevo una telefonata. Gioschi vuole parlarmi di corsa. Brezzi mi ordina di partire immediatamente. Forse si è deciso a spifferare tutto. Verso le dieci arrivo al carcere Moranvone e, insieme al vicedirettore, raggiungo il detenuto. Sorpresa! Gioschi si è tagliato le vene e poi, non contento, si è impiccato attaccandosi al tubo dello sciacquone... Che scena, ragazzi. I polsi striati di rosso, attorno al collo strisce di coperta; parevano fili di acciaio.» «Dio mio!» esclamò la moglie del commissario. «L'ho tirato giù di corsa, ma era già morto.» «Ha lasciato qualche messaggio?» domandò Cadone. «No, ha solo scritto, con il sangue, 'perdono' sul muro della cella. Ma non è tutto.» Il poliziotto lo fissò ansioso. Che cos'altro ci può essere? pensò. Lanciotti aveva la fronte madida e un'espressione indurita, pareva sul punto di vomitare. Sarebbe stato meglio che ci fosse riuscito. «Brezzi si è incazzato come una iena. 'Ma non doveva stare in isolamento', mi ha urlato. Sono rimasto zitto come un fesso. Volevo raggiungerlo in tribunale, quando il tenente Lo Donni mi chiama dal centro radio. Tu, Pino, lo conosci?» «L'ho incontrato un paio di volte. Mi sembra in gamba.» «Sì, è in gamba. Lo Donni mi dice di correre sulla strada provinciale tra Borgo Angeo e Vurgoli. Verso le undici hanno scoperto due ragazzi ammazzati... 'Sparati e squartati', così si è espresso.» Lorena fissò il marito e strinse, con tutta la forza delle dita, la sponda del tavolo. Le pareva di perdere i sensi e,

per un istante, non vide nulla. Cadone percepì il peso del suo sguardo e tentò di nascondere lo sconforto, l'angoscia, e, soprattutto, la paura che gli stavano scorticando il cervello. «No, non può essere... Sì, va bene, ieri era sabato ed era pure novilunio, ma che c'entra. Sarà una coincidenza. Mica è colpa nostra se due pazzi decidono uno di ammazzare, e l'altro di suicidarsi nello stesso giorno. Tu sei stato sul luogo del delitto?» chiese rivolto al colonnello. «Sì, è un posto strano. Ho intravisto Steri e Ranelli. Mi sentivo uno straccio, non sono neanche riuscito a scendere dalla macchina. A quel punto ho deciso di venirti a prendere.» «Ok, andiamo. Amore, mi spiace, faccio chiamare un taxi?» «No, non vi preoccupate. Volevo festeggiare in un altro modo il primo giorno di primavera. C'è un bel sole e ho voglia di fare due passi. Andate e fatemi sapere qualcosa.» Cadone la baciò in testa stando ben attento a non accostarla al suo petto. Voleva evitare che Lorena si accorgesse dell'incontrollabilità del suo cuore. Lanciotti non pronunciò una parola durante tutto il viaggio. Tirò fuori il temperino e prese a pulirsi le unghie infischiandosene delle occhiatacce dell'autista. In meno di venti minuti la volante, dopo aver superato Vurgoli, raggiunse valle Frena. Era davvero un posto singolare; due collinette di rifiuti facevano da guardia a una stradina che s'inoltrava per la campagna. Al posto dei cespugli giacevano abbandonati bidoni vuoti e sfondati; barattoli e divani arrugginiti si erano attorcigliati tra loro, quasi a voler formare delle sculture di arte contemporanea. Sia l'assassino sia le vittime avevano dovuto affrontare questo tetro paesaggio lunare prima di raggiungere il boschetto. La scena che si presentò agli occhi dei due investigatori appariva, per degli aspetti, più drammatica delle

precedenti. Le forze dell'ordine, questa volta, erano riuscite a tenere lontano i curiosi. Un irreale silenzio gravava sulle teste di poliziotti e carabinieri mentre vagavano senza una meta apparente; parevano dei sopravvissuti alla ricerca, tra le macerie, delle poche cose risparmiate da un terremoto. Sul ciglio della strada una Fiat 131 bianca con il muso sollevato e appoggiato a un eucalipto; a prima vista poteva suggerire l'idea di un automobilista che, incautamente, aveva cercato di arrampicarsi sul tronco. I due vetri anteriori e il lunotto posteriore erano segnati da graffiti somiglianti alla tela di un ragno. «Anche i fori dei proiettili possono apparire artistici», rifletté amaro Cadone. Nella 131, al posto di guida, con la testa rivolta verso l'alto e la bocca orrendamente spalancata, un ragazzo poco più che ventenne. I suoi capelli rossi erano tutti bagnati. Dietro la nuca un filo di sangue scendeva sino al sedile posteriore, la mascella inferiore penzoloni e la gola tagliata da un orecchio all'altro. La mano, rattrappita, teneva stretto il volante. I due investigatori, pur sudando per la rabbia, si strinsero addosso la giacca. «Ha cercato di scappare», intervenne Steri mentre raspava la terra alle loro spalle. Lanciotti e Cadone tacquero e lui riprese a parlare. «Li ha sorpresi laggiù, ma questa volta ha mancato il bersaglio. Il ragazzo ha ingranato la marcia ed è partito. Forse avevano lasciato il motore acceso per riscaldarsi... Nieddù!» urlò, «prendi un telo di plastica e copri Mandini! Da un momento all'altro può arrivare un temporale.» Si avvicinò a Lanciotti. «Antonio Mandini, di Vurgoli. Potevano scamparla, ma quel maledetto con un solo colpo l'ha centrato nella nuca da almeno quindici metri... Che iella, poveracci! La macchina ha proseguito la sua corsa prima di schiantarsi contro quest'albero.» «E la ragazza?» domandò Cadone. «Ha raggiunto la 131», proseguì il capo della scientifica, «ha esploso un colpo all'altezza del cuore dell'uomo. Poi ha svuotato il caricatore contro di lei.»

«Ma dov'è?» insistette il commissario. «Venite con me.» Sofia Diventi, così si chiamava la ragazza; era a una cinquantina di metri, dietro un cumulo di vecchie piastrelle. Un grosso filo elettrico nero, probabilmente raccolto tra i rifiuti, teneva il suo corpo nudo attaccato a un alto eucalipto. L'assassino l'aveva legata in modo da farla restare in piedi con le gambe divaricate. Anche la testa era circondata dal cordone e i suoi capelli neri, sporchi di sangue e terra, sembravano, a forza, incassati nel tronco. Il collo, ruotato in un modo orrendo, dava l'impressione che si fosse spezzato. Una gamba era flessa all'altezza del ginocchio; la ragazza aveva forse tentato di rialzarsi, oppure si era piegata per quei strani giochi che, spesso, la morte si diverte a fare con i muscoli. Poco più di un'adolescente, magra, con le costole sporgenti. Due atroci squarci sostituivano il pube e il seno sinistro. «Pure lei è stata colpita da proiettili?» mormorò il colonnello. «Sì, tre colpi.» «Per quello che puoi capire, la morte è stata istantanea?» «Sì, sì, pressoché istantanea. O comunque molto alla svelta... Vedi, uno è entrato nella tempia.» «Hai trovato i bossoli?» «Si, per ora sette, calibro 22.» «Sono gli stessi?» «Forse.» Steri cacciò con violenza quella parola dalla gola. Quei bossoli li aveva nel cervello. Erano oramai più di cinquanta, ma li ricordava tutti, uno per uno; poteva riconoscerli anche a occhi chiusi. «Che vuol dire 'forse'?» abbaiò Lanciotti. «Di queste cartucce ne sono state messe sul mercato più di un miliardo. Credi ce le abbia in mano tutte lo stesso assassino?» controbatté indispettito Steri. «Guarda, questo pervertito potrebbe usare pure un mitra; comunque lo riconoscerei dalla puzza... Ogni volta ho

la sensazione che stia lì, con la faccia ghignante, ad ammirarci dietro un cespuglio.» «Si calmi, colonnello.» Il capo di gabinetto fece il suo trionfale ingresso nel proscenio. «Gioschi non ce lo leva nessuno.» «Ranelli, forse tu non sai...» Pino cercò, ingenuamente, di prevenire la crescente furia di Lanciotti. «Cadone», l'interruppe l'altro senza guardarlo in faccia, «devi fissartelo bene in mente: io so sempre tutto.» L'ufficiale lo squadrò come di solito si misura un demente che, sporco, si denuda per strada. «Allora, Ranelli, possiamo stare tranquilli?» «Io non mi preoccuperei più di tanto», rispose con una formalità da far rabbrividire. «Abbiamo mostrato la nostra professionalità catturando l'assassino delle coppiette. Ora mica possiamo spaventarci di fronte a un delitto che puzza lontano un chilometro di 'regolamento di conti': Mandini era stato un paio di volte fermato per possesso di droga. Io penso che le indagini si debbano orientare verso l'ambiente degli spacciatori. Anche i giornalisti sono d'accordo.» «Figlio di...» «Ehi! Venite un po' qua!» La voce del questore, che insieme a Brezzi e Fabrizi sostava accanto alla 131, bloccò momentaneamente la rabbia di Lanciotti. «Ah! Abbiamo con noi anche lo strizzacervelli... Tini, perché non lo fai assumere in questura?» Il carabiniere cercò, senza riuscirci, di mascherare con l'ironia la sua depressione. Glielo aveva spesso raccomandato la moglie: «Sei vuoi fare bene il tuo lavoro ricordati di prenderlo per quello che è: solo un lavoro più o meno schifoso. Non lasciarti coinvolgere, mantieniti sempre distaccato, non lo trasformare nell'essenza della tua vita». «Abbiamo trovato qualcosa, colonnello?» chiese il magistrato. «Quello che vede e quello che vedrà. Nuli'altro, dottore», rispose tutto d'un fiato. «Che cosa ne pensa?»

«Che cosa ne devo pensare... Che siamo di fronte a una terribile coincidenza? Che il fatto che questi due ragazzi vengano trucidati con una Beretta calibro 22 a un chilometro dal luogo dove abbiamo trovato Maria Chiari e Anselmo Paoli sia puramente casuale? Che influenze astrali abbiano spinto il Gioschi a suicidarsi nello stesso momento in cui questi sciagurati incontravano l'assassino? Coincidenze, fatalità, nostre fantasie...» Aveva gli occhi di fuori e nessuno, nemmeno Cadone, cercò di frenarlo. «Non sappiamo mai quale è la verità. Appena ci sentiamo più tranquilli e abbiamo una caduta della tensione, questo stronzo ci invia messaggi ambigui e cambia continuamente il nostro schema di riferimento. Se rifiutiamo le sue comunicazioni ci spedisce due morti; se gli diamo retta fa la stessa cosa...» «Io non ci capisco nulla», balbettò il capo di gabinetto. «Stai rovinando le eventuali impronte», urlò, aspro, Steri. Ranelli, che distrattamente si era appoggiato sulla 131, fece un salto all'indietro e si strofinò le mani con forza, quasi cercasse di liberarle da una gomma da masticare vecchia. Ormai le regole gerarchiche erano saltate: ognuno parlava a ruota libera senza valutare se interrompeva un superiore oppure un subalterno. «Lanciotti», intervenne esasperato Tini, «mi faccia il piacere: come fa a essere sicuro che esiste un legame con i precedenti delitti?» L'ufficiale, quando voleva, sapeva rinunciare al suo stile educato e aristocratico. Fu, in quegli attimi, realista, quasi cinico e non poté fare a meno di risultare volgare: «L'omicida, come sostiene Fabrizi, non saprà scopare granché bene, ma a noi continua a mettercelo nel culo. Volete forse aspettare, per averne conferma, l'esame delle supposte fatto da Steri?» «Lei che cosa ne pensa?» chiese il magistrato al capo della scientifica. Questi, in silenzio, abbassò la testa. In lontananza creb-

be l'inconfondibile ululato del traballante furgone della polizia mortuaria. «Cadone, mi porti dalla ragazza.» Il commissario, mordicchiandosi le labbra, fece strada a Brezzi. Alla vista del corpo di Sofia Diventi il magistrato indietreggiò; cercò di prendere una sigaretta dal suo astuccio d'oro, ma la lasciò cadere a terra. «Quanti anni aveva?» «Mi hanno detto diciannove», rispose Lanciotti, alle spalle del giovane poliziotto. «Perché quel pazzo di Gioschi non ha mai sostenuto la sua estraneità ai delitti?» «Ci sono soggetti», intervenne Fabrizi, «che pur di gratificare il proprio delirio di grandezza sono disposti a farsi anni di galera accusandosi di delitti di cui non sanno nulla.» «Oh! Di questo delirio di grandezza sono affetti proprio in tanti», sbottò il questore. «Sì, sono parecchi», sottolineò il criminologo evitando di guardarlo. «Che cosa voleva ottenere con il suicidio?» chiese Brezzi. «Attraverso questo gesto forse ha voluto sancire definitivamente le sue responsabilità. 'Sono sempre io il magnifico assassino' Certo non poteva prevedere tutto questo.» «Chi lo ha detto che non poteva prevederlo?» s'intromise Tini, «Gioschi potrebbe essersi suicidato perché sapeva ciò che stava per accadere.» «Il questore ha ragione», annuì Lanciotti, «tutto è possibile. A questo punto, però, ritengo inopportuno continuare a occuparmi della vicenda. Sono troppo coinvolto, troppo confuso... Domani chiederò il trasferimento in un'altra legione dei carabinieri.» Il magistrato si tolse gli occhiali e stringendosi le mani dietro la schiena proclamò con solennità: «Questa storia probabilmente ci condurrà al ridicolo assoluto. Tuttavia, caro colonnello, ci andremo tutti quanti assieme. Lei

faccia pure la domanda di trasferimento, ma, glielo assicuro, cercherò in ogni modo di bloccarla. Nel caso non ci riesca, la sputtano su tutti i giornali. È chiaro?» «Io ho un'idea; ma a questo punto mi domando se sia utile proporla...» «Dottor Fabrizi», affermò lamentoso Brezzi, «lei conosce benissimo le nostre difficoltà. Ogni iniziativa, anche la più estrosa, apparirà illuminante rispetto al buio che ci circonda. Parli tranquillamente, non c'è da parte nostra alcun desiderio di cercare capri espiatori per le prossime mosse.» «Non era questo il mio timore. Vorrei solo evitare di aumentare il senso d'impotenza che ci attanaglia. Qualche mese fa, vi ricordate, mi documentai su questo tipo di omicidi. Tra i lavori presi in esame meritava particolare attenzione quello pubblicato dalla rivista Police Chief, sui lust murder, cioè gli omicidi delle coppiette. L'articolo era del professor Frank Ferri; uno psichiatra da trent'anni ormai residente negli Stati Uniti. È consulente della BSU, Behavioral Science Unit. Si tratta di una sezione dell'FBI, composta da esperti in scienze del comportamento, specializzata nella ricerca di maniaci assassini. Se lo ritenete opportuno potremmo chiedere al professore di collaborare con noi.» Il magistrato rifletté pochi secondi poi, dopo essersi acceso la solita vuota sigaretta, domandò al questore: «Dottor Tini, c'è qualche difficoltà a entrare in contatto, tramite l'Interpol, con i responsabili della polizia federale americana?» «Non credo. Per quello che mi risulta ci sono ottimi rapporti con i nostri superiori. Ma lo psichiatra deve essere solo consultato, oppure è necessario farlo venire qui?» «Ritengo sia più utile averlo tra noi. Mi faccia il piacere di provvedere.» Il suicidio di Gioschi mi lasciò piacevolmente di stucco. Neanche Lacenaire avrebbe saputo prevedere, nelle sue poe-

sie, una coincidenza così spettacolare: la morte dell'omicida ufficiale nella stessa ora in cui davo vita a una nuova opera. Il tutto andava gustato nella sua pienezza; più di quanto avessero saputo fare, la sera precedente, le mie fameliche amiche con il fresco macinato. Sollevai il ricevitore. «Daniela! Desidero restare solo per una mezz'ora... Domani deve essere pronta la relazione sul noazom e non voglio essere disturbato.» «Va bene. Io comunque debbo inserire nel suo archivio i promemoria del mese scorso. Vengo più tardi?» «Ok.» Gli articoli parevano redatti da cronisti drogati. Urlavano, in ogni colonna, il loro sdegno, la loro inaccettabile impotenza. Gli inetti ritenevano esistesse solo un sistema per esorcizzare la frustrazione ormai imperante: ironizzare sugli investigatori. Immaginai le facce depresse di Fabrizi, di Cadone e, soprattutto, quella del colonnello Lanciotti: mi facevano pena. «Che cosa ne sanno», rimuginai, «questi pennivendoli da due soldi, di quanto sia difficile opporsi a me. Probabilmente ritengono di trovarsi di fronte a un demente che vaga, con la bava alla bocca, alla ricerca delle sue vittime. Mostro! Mostro! continuano a definirmi... Chissà, forse per gli eterni sognatori del premio Pulitzer sono uno a cui, nelle notti senza luna, il corpo si riempie di peli e la testa si trasforma in quella di un lupo. Tutto è plausibile per questi stronzi; esclusa, ovviamente, l'eventualità che ci sia in giro qualcuno più intelligente di loro... Il prossimo colpo glielo dedicherò.» Mi sentii stranamente agitato nello scorrere i quotidiani; più di quanto lo fossi stato, la notte del sabato precedente, quando avevo dovuto affrontare l'inaspettata reazione di Mandini. Quel cretino non poteva certo immaginare che il buio, per me, rappresenta ormai soltanto un ricordo spiacevole dell'infanzia; con gli occhiali comprati a Los Angeles, inoltre, sono come un gatto a passeggio in un istituto per ciechi. Anche l'urlo della ragazza mi aveva scosso. Non avevo mai sentito uno strillo come quel-

lo: fu un grido che mi accartocciò le viscere e fece accelerare, curiosamente, il battito cardiaco. Ma ciò impedì che andassi fuori di testa. Chiusi gli occhi. Allungai le gambe sotto la scrivania e tirai un respiro così pieno da gonfiare in un solo attimo lutti i bronchi. Accesi una sigaretta e tirai ancora; questa volta il petto si riempì di fumo caldo. Udii un paio di nocche cozzare due volte sulla porla. «Posso?» Daniela entrò indossando un abito aderentissimo di cotone bianco con uno spacco laterale che arrivava a tre quarti della coscia. Passando vicino alla finestra il vestito lasciò il posto a un velo e all'ombra delle gambe. Le donava, e lei ne era consapevole. Era più bella del solito; alta un metro e settanta, snella, movimenti rapidi, a volte sincopati, mani forti, non abituate di certo all'uncinetto. Si avvicinò all'archivio metallico. «Metto a posto queste carte.» «Fai pure.» Appoggiai la sigaretta sul portacenere di onice e serrai nuovamente gli occhi. Il suo corpo, da quando era stata trasferita nel mio ufficio, mi era sempre apparso uno specchio fedele della sua anima, dei suoi sentimenti. Se era triste, preoccupata, soprattutto per quelle che lei definiva le «stronzate di mio marito», si inaridiva, s'ingobbiva e, al posto del sorriso, le apparivano due labbra così sottili da svanire nel cereo colore della pelle. In quei momenti manifestava un netto desiderio di confidare i suoi problemi. Io, per non essere scortese, l'ascoltavo, in silenzio. Ormai conoscevo quasi tutto di lei: gli atteggiamenti grezzi e infantili del coniuge, le conseguenze spiacevoli di una depilazione troppo radicale, lo scarso attaccamento allo studio del figlio maggiore, la sinusite, che le provocava continui e fastidiosi mal di testa, i tentativi, poco signorili, del capo del personale di convincerla ad avere una storia con lui. A volte cercavo, guidato dal buon senso, di propinarle qualche consiglio e la sollecitavo a godersi di più la sua residua giovinezza. Il suggerimento, con mia grande sorpresa, pro-

vocava quasi sempre risultati tangibili. Il mattino successivo arrivava in ufficio radiosa, con le labbra colme di uno stimolante rossetto, i capelli ben curati e indossando qualcosa che evidenziasse, senza mezzi termini, le sue non poche attrattive. Dopo qualche tempo cominciai a commentare quelle piacevoli trasformazioni. «Stai attenta», le dissi una volta, «quei jeans sono talmente stretti che, se mangi un solo cioccolatino, la lampo scoppia... Andando in giro in questo modo tutti noteranno le smagliature delle tue cosce.» Le sue guance divennero paonazze e cercò di schermirsi: «Non dica stupidaggini. Chi se ne accorge qui dentro?» Ricordando quei momenti percepii una tensione in mezzo alle gambe. Le allargai per non comprimere la palla superstite. Ciajp. Qualcosa le era caduto. Sollevai per un attimo le palpebre; Daniela si era inchinata per raccogliere un depliant e non fui affatto tranquillizzalo alla vista di ciò che appariva dalla scollatura. Lei indugiò, e io richiusi gli occhi. «Come vanno le cose?» «Al solito, dottore.» «Lo sai, Daniela, spesso mi capita di riflettere sulla tua condizione, sulla tua vita, e sono arrivato a una conclusione.» «Quale?» «Per esprimerti pienamente dovresti dare maggiore ascolto ai tuoi istinti, alle tue paure, alla parte della tua anima che chiede. Viceversa sarebbe opportuno prestassi meno attenzione alla parte razionale che ti costringe a controllare e soffocare i desideri.» Mi sentivo come Fabrizi: avevo imparato bene la lezione. Avvertii il suo respiro affrettarsi. Rimasi al buio, ma intuii il rossore sulle sue guance. «Quello che dice è sacrosanto. Lei ci è mai riuscito?» «Non molte volte, anche perché è difficile trovare persone capaci di sintonizzarsi sulla tua stessa lunghezza d'onda: io ci riesco solamente quando riconosco nell'altro una persona pronta ad accettare le parti più nascoste della mia vi-

ta. Per esempio, ora, in questo preciso momento, con te sento di poter far defluire liberamente la mia mente.» Seguì qualche istante di silenzio. Percepii il mordere tormentato delle sue labbra. «Come mai in passato», sussurrò tremante, «non ha provato questa sensazione?... Che strano, però, in questo momento ce l'ho anch'io.» «Su questo ti sbagli. Io l'ho avuta diverse volte, ma temevo che mi prendessi in giro; in fondo, la tua vita è piena e i miei vissuti possono rappresentare per te solo una sgradevole complicazione.» «Non dire così...» Era passata spontaneamente al «tu». Mi sforzai di non spalancare gli occhi. Mandini e Diventi erano lontani. Tutto mi appariva indeterminato. «Non hai paura di ciò che sta vivendo la mia mente?» chiesi sottovoce. «Forse dovrei, ma la curiosità è molto più forte. Cerco d'immaginarlo, è molto piacevole. Però potrei sbagliarmi.» «Non ti sbagli.» Socchiusi per un attimo le palpebre. Riuscii a scorgere solo la sigaretta; la cenere si era tanto allungata da ricadere, come un bastoncino, sull'onice. «Ed è quello che penso io?» balbettò. «Sì... Lo desideri anche tu.» «Sì. Oh, Dio, è tutto così strano.» «Te ne eri accorta prima di adesso?» domandai. «Penso di sì.» «Quando?» I secondi trascorsero, divennero un minuto interminabile. Poi udii un rumore; un lieve scricchiolio seguito da un breve colpetto. Arguii che il suo corpo si era addossato allo scaffale. «Be'! Non vorrei apparire presuntuosa, ma a volte sentivo la tua voce diversa...» «In quei giorni eri vestita come oggi?» Si schermì. «Riflettendoci bene mi pare proprio di sì... Certo sei proprio stronzo a dirmelo così.» Mentre mi alzavo aprii gli occhi. Il suo viso era come

un semaforo che segna lo stop, ma le sue labbra annunciavano il verde. Sembrava sul punto di cadere, tuttavia teneva ben strette sul petto le carte. Mi avvicinai, tolsi le relazioni dalle sue mani e le poggiai sulla scrivania. Lei mi lasciò fare senza opporsi. Le sue pupille parevano due nocciole. Presi il viso tra le mie mani. La fissai e poi la baciai. La sua lingua si agganciò immediatamente alla mia, l'afferrai per la vita e l'avvinsi al mio corpo. Staccai le labbra un attimo, il tempo di rivedere i suoi occhi e la ribaciai. Con la punta della lingua riuscii a sentire la parte metallica di un ponte sui molari; forse mi ferii, ma non ci badai. La girai e tenendo le sue natiche appoggiate al mio sesso mi avvicinai alla porta. «Oh, Dio! Siamo pazzi. Che cosa facciamo? Ho paura di sbagliare...» «No... Avremmo sbagliato nel reprimere tutto.» Chiusi la porta a due mandate e sempre baciandola l'avvicinai alla scrivania. «Ci possono sentire... Aspettiamo... Che cosa vuoi fare?» singhiozzò arrochita. «Non ci sente nessuno, e non posso più aspettare.» Le accarezzai le cosce. Erano bollenti. Non ebbi difficoltà a sollevare il vestito. Le mutandine, bianche e strette, avevano una macchia di umido nel mezzo. Infilai la mano e la scoprii gonfia, priva di difese. In un baleno le sfilai il vestito e il reggipetto. Nonostante i due allattamenti aveva i seni stupendi.. «Ti voglio», sussurrò. La presi e, di peso, la poggiai sulla poltrona. Quasi le strappai lo slip e affogai le mie labbra nel suo cespuglietto. Si lasciò andare completamente. Il sudore scendeva dalla fronte infiammandomi gli occhi. Dopo un po' sentii le sue dita raggiungere la mia lingua. «Ti desidero... Penetrami, ti prego», implorò. Alzai lo sguardo e la vidi stringersi i seni con l'altra mano. «Voglio che vieni sulla mia bocca», dissi con voce rauca. Le infilai l'indice di dietro, e lo mossi con lo stesso ritmo della lingua. Le sue gambe si allargarono sempre di

più fino a quando non percepii le contrazioni sul mio dito. Volevo penetrarla, ma avevo timore di mostrare il mio «coso buffo». Mi appoggiai sul suo pube e scoppiai alla maniera di un adolescente al primo approccio. Le gocce di sudore cadevano come piombo e bagnavano il suo petto. Daniela capì. «Fermo un attimo», bisbigliò. Si alzò in piedi tremante, mi fece sedere sulla poltrona e tirò giù la lampo dei pantaloni. «Questo non l'ho mai fatto a nessuno, neanche a mio marito.» Afferrò il coniglio, privo di orecchie e senza una zampa, e lo succhiò fino a un nuovo orgasmo. Rimase qualche secondo con la bocca chiusa, poi prese un fazzolettino di carta e sputò il mio seme. «Che strano, sa di varechina.» Probabilmente diceva il vero. Non lo aveva mai fatto. Di corsa, senza mai guardarmi in viso, si rivestì e mise a posto le pratiche nell'archivio. Gettò il Kleenex nel cestino. «Come ti è andata?» mi chiese. «Benissimo, e a te?» «Bene... Ma perché è successo?» «Doveva accadere molto prima. Sarebbe stato meglio per tutti e due.» «I voli intercontinentali, in genere, portano parecchio ritardo?» gridò Cadone avvicinandosi alla testa di Fabrizi. Erano da circa mezz'ora sulla terrazza principale dell'aeroporto Leonardo da Vinci; ogni paio di minuti il rombo dei motori copriva la loro voce e faceva tremare i soprabiti, mentre i reattori si lasciavano dietro strie nere di gas combusto. Lo psicologo, come un assiduo frequentatore di scuole materne comunali, restò alcuni minuti a osservarle salire in cielo, per poi vederle disperdersi per il vento forte che spirava dal mare. Il volo numero 438 della PanAm, con a bordo il professor Ferri, doveva concludere il suo viaggio alle 10.45 esatte. Il commissario, dopo aver per-

so, a settembre, l'occasione di visitare New York, sembrava ritornato nella dimensione di chi calcola l'eventuale ritardo in funzione della distanza; come se l'aereo dovesse fermarsi a ogni isolotto dell'oceano Atlantico. «Se non ci sono venti contrari», rispose Fabrizi con l'aria di chi è avvezzo all'uso dell'aereo, «tra cinque minuti dovrebbe essere sulle nostre teste; da Londra è partito in orario. I problemi potrebbero nascere nell'atterraggio, ma gli intercontinentali hanno la precedenza.» Il criminologo aveva accettato volentieri di accompagnare il poliziotto. Era curioso di conoscere Ferri e voleva approfittare delle due ore di autostrada per discutere con lui, da solo, alcuni aspetti della vicenda. Per tale motivo aveva chiesto a Cadone di portare dietro tutti i documenti, in modo da essere pronto a soddisfare eventuali richieste dello psichiatra italo-americano. «Come potrò riconoscerlo?» aveva chiesto, la sera precedente, il commissario a Ranelli. «Non so che cosa dirti. Ti leggo il telex dell'Interpol: 'Il professor Ferri arriverà da solo punto Inviare due funzionari, ci penserà lui a identificarli punto...' Tutto qui.» «Che aria tira in questura?» domandò Fabrizi mentre scendevano le scale che portavano nel salone degli arrivi internazionali. «Bah! C'è chi mi squadra come se avessi avuto un lutto in famiglia; Steri, comunque, sta peggio di me. Alcuni, tra cui Ranelli, lo trattano come se fosse un deficiente. L'altro ieri l'ho visto uscire infuriato dall'ufficio del capo di gabinetto. Pare che il questore abbia voluto riesaminare tutti gli atti. Andiamo, quelli del volo da New York stanno per uscire dal gate 3.» Rintracciare il professor Ferri apparve subito una cosa complicata. Più di trecento passeggeri, in gran parte turisti attempati, si accalcavano, con la carta d'imbarco in mano, davanti al gabbiotto «controllo passaporti». Un annoiato steward li controllava come se fossero fanciulli. Era tutto un fiorire di dentiere luccicanti e di cappelli rosa antico o blu oltremare. Alcuni avevano lo sguardo appanna-

to, caratteristico di chi ha abbondantemente approfittato dei superalcolici offerti dalla compagnia. Al di qua delle transenne decine di persone si agitavano nel tentativo di riconoscere e di salutare parenti o amici. Pochi metri più dietro qualcun altro, meno emozionato, aspettava tenendo un cartello in mano. Cadone, sempre curioso, li vagliò: «Mr. Barley, Hotel Hermitage». Per un attimo pensò che avrebbero fatto meglio a munirsi anche loro di quel ridicolo cartoncino. «Che cosa facciamo, Ivo?» chiese al criminologo. «Bah! Cerchiamo di controllare coloro che viaggiano da soli.» «Il professore parla italiano?» «Credo di sì. Comunque con l'inglese me la cavo e...» Fabrizi non potè finire la frase. Una panciuta e colorita turista americana, nel tentativo di raggiungere per prima il tappeto mobile dei bagagli, lo spostò indietro di un metro. «Qui è un casino!» gridò il poliziotto. «Se tra dieci minuti non lo troviamo, lo faremo chiamare attraverso l'altoparlante.» Appariva, con il passar del tempo, l'unica soluzione. «Dottor Fabrizi? Mr. Cadone?» I due si girarono di scatto e si trovarono di fronte un uomo alto più di un metro e ottanta, di circa sessantanni, con gli occhi chiari e la testa liscia e lucida come una palla da biliardo. Dal colore delle sopracciglia si poteva intuire che, qualche decennio prima, dei riccioli rossi avevano giocherellato con le sue orecchie. La bocca, piegata ali'insù in un sorriso cordiale, sorreggeva una sigaretta senza filtro. L'uomo indossava una giacca di gabardine grigia su una camicia assurda: rossa con disegnate delle improbabili palme cariche di noci di cocco. Sembrava un pensionato di Miami fuggito, di notte, dal solito uragano. «You are dottor Ferri?» riuscì a balbettare, sgrammaticato, Fabrizi. «Sì, sono io. Ma non preoccupatevi, trent'anni negli States non sono riusciti a rovinare il mio italiano.» Aveva ragione, lo parlava bene. Nonostante il pesante accen-

to californiano, si esprimeva perfettamente nella sua lingua madre. «Come ha fatto a riconoscerci, professore?» domandò Fabrizi facendogli strada verso la zona bagagli. «Non ci vuole molto per individuare una coppia formata da uno strizzacervelli e un poliziotto», rispose accendendo con lo zippo la sigaretta. «Certo, pure io non sono vestito in modo del tutto anonimo. Ma quelli di Quantico non potevano immaginare che venissi direttamente da San Diego... Spero solo abbiano fatto imbarcare da New York quanto ho richiesto. Ecco i miei bagagli. Potete darmi una mano?» Cadone guardò perplesso il criminologo. Ferri, oltre una piccola valigia, aveva con sé tre scatoloni così pesanti che il commissario dovette fermarsi, per prendere fiato, più di una volta prima di raggiungere la macchina al parcheggio. Il consulente dell'FBI rivolse numerose domande ai due investigatori durante il viaggio, evitando, però, di esaminare le carte. «Le leggerò questo pomeriggio, mentre cercherò di smaltire il fuso orario.» Dopo circa un'ora di autostrada rifletté a voce alta: «Certo questa storia del Gioschi complica terribilmente le cose... La logica spinge a credere che, tra il delitto della prostituta e gli omicidi delle coppiette, esista in effetti un nesso; tuttavia ritengo sia più corretto considerare come valida l'ipotesi che il maniaco si stia prendendo gioco di voi... Io, da adesso in poi, lo chiamerei Pan». «La telefonata al commissario, secondo lei, è stata fatta dall'assassino?» chiese Fabrizi. «Non ho motivi per credere il contrario.» «Il Gioschi era un suo complice?» «E possibile, ma non voglio pensarci. Guardi, le cose sono così complicate che è meglio affrontarle attraverso il percorso più semplice. Farò finta che l'assassino della Punthel, il suo arresto, le sue confessioni, il suo suicidio, non esistano. Di sicuro il rischio di un abbaglio è alto... Eppure nella vita di uno scienziato occorre, a volte, dare

retta all'istinto.» Guardò fuori dal finestrino e aggiunse: «L'Italia è sempre bella». Poi si addormentò. La notizia dell'arrivo del consulente dell'FBI apparve su tutti i giornali. Per questo motivo Brezzi ritenne inutile sforzarsi a ricercare un luogo riservato, e convocò tutti nella biblioteca della questura alle ore nove. Per la prima volta Lanzi non coordinò la riunione. Da un mese il magistrato era in pensione e il nuovo procuratore capo, impegnato a tempo pieno nel curare le public relation con le autorità locali, pensò bene di non legare la sua immagine a una imbarazzante vicenda riguardante il suo predecessore. «Posso rubarvi un quarto d'ora per un giochetto?» domandò Ferri accendendosi l'ottava Lucky Strike senza filtro della mattinata. «Prego, professore, siamo a sua disposizione», rispose Brezzi incurante dell'eventuale dissenso delle altre persone. «Non è niente di particolare. Si tratta di un test mentale, l'Adjectives Check List, noi però lo chiamiamo l'ACL... Dottor Fabrizi, ne potrebbe dare una copia a ognuno?» «Certo, dia a me.» «Come potete vedere è una semplice lista di centocinquanta aggettivi qualificativi. Alcuni di essi sono molto usati, altri vi potranno apparirvi inconsueti. Questo test viene, in genere, compilato dal soggetto che indica quali sono, secondo lui, gli attributi più adatti a descrivere la propria personalità. Ora, invece, tutti voi cercherete d'immaginare la psiche e gli atteggiamenti dell'assassino, e segnerete con una crocetta gli aggettivi che ritenete idonei a caratterizzare questo personaggio. Per esempio, il primo: abile, verrà di sicuro indicato da tutti voi. Potete sceglierne un numero illimitato. A questo punto, buon lavoro.» Il compito fu per tutti chiaro e la maggioranza lo trovò anche divertente. Lanciotti prima di iniziare scrutò a lungo il professor Ferri. Gli era risultato immediatamente

simpatico; sia quando, divertito da qualche battuta, sghignazzava facendo saltare dalla bocca fili di tabacco, sia nei momenti in cui, ad alta voce, esprimeva le sue audaci riflessioni. Per il linguaggio forbito e decadente, ma, allo stesso tempo, concreto, sembrava un professore di lettere siciliano andato, per un po' di anni, a sciacquare la lingua nella west coast. Il consulente della polizia federale americana, nel frattempo, aiutato da un agente, montò un personal computer IBM e una stampante. Prese quindi ad armeggiare con i floppy disk e a battere, con abilità e decisione, istruzioni sulla tastiera. Cadone lo guardò un istante, incuriosito dal riflesso verde che il monitor provocava sul suo cranio nudo. Il primo a consegnare il test fu Fabrizi, seguito da Lanciotti, Brezzi e Collini. L'ultimo fu Ranelli. Il capo della scientifica si avvicinò a Cadone e gli sussurrò all'orecchio: «Di sicuro avrà cercato di copiare dal questore». Lo psichiatra italo-americano raccolse i fogli; quindi fece scorrere una penna ottica sulla colonna delle risposte. Lanciò un altro programma e, dopo aver inserito alcuni parametri, rimase in attesa della risposta. Questa non si fece attendere. Sul monitor apparve una linea spezzata con alcuni vertici lampeggianti. Ferri l'osservò per qualche minuto prendendo appunti sul blok notes. Poi pigiò con forza un tasto ed esclamò: «Gof Go!» La stampante incominciò a ronzare. Quando l'attrezzo ebbe l'ultimo sussulto il consulente dell'FBI staccò i fogli, li piegò e riprese il suo posto intorno al tavolo. «Ok. Di questo giochetto parleremo tra qualche minuto...» Si schiarì rumorosamente la voce, poi proseguì. «Negli Stati Uniti vi sono stati, negli ultimi decenni, una trentina di criminali che hanno compiuto omicidi in modo simile al vostro amico. Alla BSU abbiamo svolto uno studio sulle caratteristiche comportamentali, psicologiche, famigliari, culturali di questi soggetti e siamo riusciti a configurare due profili: il primo, chiamato il 'tipo Peter', il secondo 'tipo Jack' Peter può essere descritto come un lupo solitario, impulsivo, intollerante, violento, incapace di

controllare le frustrazioni anche se lievi, poco curato nel suo aspetto e nei suoi comportamenti, inadatto a razionalizzare e programmare azioni criminali che, spesso, si svolgono sotto la spinta di una vera e propria furia omicida. A volte penetra le vittime con oggetti strani oppure si cosparge il corpo con il sangue e con i resti di quei poveretti raggiungendo, durante tale operazione, l'orgasmo.» Ferri bevve un sorso del suo caffè lungo e aprì un altro pacchetto di sigarette. «Il tipo Jack pare somigliare di più al vostro Pan. È metodico, generalmente lucidissimo, previdente, prudente, astuto. Programma con comodo la sua tecnica criminale e, verificatane l'efficienza, la ripropone in ogni delitto senza operare eccessivi cambiamenti. Prende ogni tipo di precauzione, non lascia nulla al caso e non agisce mai precipitosamente. Può modificare il suo piano criminale solo se disturbato durante l'azione. Ha, inoltre, una cura maniacale delle armi utilizzate e non è motivato a cambiarle, anche se può farlo in tutta tranquillità. In genere non vive nei pressi dei luoghi dove vengono compiuti gli omicidi, e sposta continuamente il suo raggio d'azione alla ricerca della situazione più adatta al suo scopo. Ha con le vittime un rapporto indifferente e distaccato. Non può essere definito un sadico anzi, potrebbe trovarsi in difficoltà in presenza di persone che soffrono. Di solito Jack svolge un lavoro abbastanza anonimo, e conduce una vita ordinata e priva di grossi exploit. Quasi sempre vive in solitudine, sebbene agli altri possa apparire amabile e disponibile. Percepisce negativamente la società e le cosiddette autorità. È abbastanza metodico sul posto di lavoro: orario, percorsi, tipo di attività. La mattina, verosimilmente, si alza presto per andare a lavorare e non ama fare tardi la sera. Nel suo tempo libero regna quasi sempre il vuoto.» «Scusi, professore», interruppe Brezzi misurando le parole, «perché un tipo così normale è spinto a uccidere?» «Vede, Jack ammazza per soddisfare un bisogno repres-

so e fantasticato per lungo tempo, e quasi mai in preda a un raptus. La motivazione sessuale può essere alla base della sua patologia criminale, ma la stessa perde significato con il trascorrere del tempo. Egli colpisce prima l'uomo, per esigenze tattico-militari. Poi, neutralizzata la donna, si avventa su di lei con coltelli, mazze o martelli colpendola prevalentemente ai genitali. Spesso completa l'opera mutilandola. Ogni azione viene compiuta a distanza ravvicinata. Ciò, probabilmente, gli serve per esprimere la sua sessualità deviata e abnorme. Difficilmente c'è lo stupro; è possibile, viceversa, una forma di masturbazione, rare volte di tipo manuale. L'orgasmo, infatti, frequentemente coincide con i colpi del coltello o dell'arma bianca utilizzata.» «Lei ha descritto questo Jack come un assassino solitario, ma è sempre così?» chiese il questore incurante di apparire monotono. «Nella quasi totalità dei casi questi soggetti operano da soli e poche volte utilizzano armi da fuoco. La pistola o il revolver vengono giudicati, da costoro, impersonali e, secondo alcuni esperti, con simbolismi sessuali ridotti. Da questo punto di vista il vostro Jack si differenzia dal nostro profilo... Questi assassini, inoltre, non sono interessati a rubare oggetti di valore alle vittime, ma spesso s'impadroniscono di qualche souvenir e lo conservano, sullo stile di un collezionista, per motivi simbolici spesso oscuri. Possono prendere una scarpa, una ciocca di capelli, o una parte del corpo della vittima che ha una forte connotazione sessuale. A volte ricompongono gli abiti dei malcapitati con cura e al riparo dalle intemperie. Spesso rivendicano le loro azioni con lettere ai giornali, o lasciando segnali altamente identificativi della loro presenza.» «Quali altre caratteristiche avete riscontrato?» domandò a testa bassa Fabrizi. «Negli Stati Uniti, la quasi totalità ha un'età compresa tra i 30 e i 45 anni, è di razza bianca e tutti sono di sesso maschile.» «Scusi, professor Ferri, mentre riesco facilmente a com-

prendere le osservazioni riguardanti l'età e il sesso, mi risulta poco chiaro il rapporto con la razza.» «Lei saprà certamente che negli USA per 'razza' non s'intende soltanto una questione di colore della pelle, ma anche di cultura, di livello economico e sociale. Se vogliamo fare un paragone con l'Italia possiamo dire che è improbabile che questi crimini siano opera di meridionali.» «Si spieghi meglio», pretese Tini che, essendo di Matera, recepì con un certo fastidio il paragone con neri e ispanici. «Badi bene», sorrise Ferri, «io sono nato e cresciuto in provincia di Siracusa... Ogni comportamento, anche criminale, porta con sé le radici del proprio ambiente. Vi faccio un esempio banale. Ve li immaginate i milanesi, il giorno della festa di sant'Ambrogio, avere le stesse reazioni dei fedeli napoletani di fronte al periodico miracolo di san Gennaro? Le differenze etniche e culturali influiscono sempre sulle scelte comportamentali dei criminali. L'omicida dei fidanzati ha uno stile che potremmo definire 'nordico', e non mi meraviglierei se, in futuro, venisse fuori che si tratta di uno dei tanti stranieri di cultura anglosassone residenti in questa zona.» «Professore, lei ha studiato le carte... Quale idea si è fatto dell'assassino?» domandò Brezzi. «Bisognerebbe prestare maggiore attenzione alle modalità con cui gli omicidi vengono commessi più che al movente psicopatologico. Pan, comunque, intende colpire il peccato a suo parere più grave, vuole purificare, con un amplesso di sangue, un amplesso molto più banale... Nei suoi delitti stupisce sia l'efficacia sia la facilità esecutiva del suo operato. A differenza di Jack non ama toccare le vittime, anzi sembra piuttosto averne timore. Forse in passato è stato affetto da un disturbo fobico-ossessivo. Non è, tuttavia, né uno stupido né uno psicopatico puro. Sfrutta la sua patologia per raggiungere fini a noi sconosciuti. Il delitto non scaturisce da un raptus improvviso; la sua massima soddisfazione, infatti, consiste nel preparare

l'azione e nell'osservare la reazione del mondo, la paura e, spesso, l'imbecillità della gente. Quando questo piacere comincia a decadere, l'omicida inizia un nuovo programma criminale, magari prevedendo un tentativo di fuorviare, in chiave narcisistica, le indagini... Comunque valutiamo il risultato del giochetto con l'ACL. Tenetene conto, per quanto possibile, nel prosieguo del vostro lavoro.» Ferri inforcò un paio di occhialini e cominciò a leggere: «Scusatemi qualche errore, ma traduco al volo dall'inglese: 'Profilo ottenuto attraverso il calcolo della media e deviazione standard: soggetto riservato, introverso, guardingo, apparentemente insicuro, scarsamente ambizioso a livello sociale, sfugge le situazioni competitive e le prove che considera difficili. Non evita i rapporti di gruppo, sebbene preferisca collocarsi ai margini assumendo un tono difensivo. Detesta i legami affettivi e pur di restare libero soffoca i propri sentimenti. Potrebbe essere percepito come un tipo noioso, abitudinario, con scarsi interessi. Egli, comunque, vive la routine in modo soffocante e il mondo circostante come una minaccia alla sua persona. Forse è impotente, oppure affetto da una malformazione che gli impedisce di avere rapporti sessuali totalmente soddisfacenti con le donne. Non riesce ancora a liberarsi dei ruoli di dipendenza tipici dell'età infantile'». Dopo una lunga pausa, Brezzi chiese cautamente: «In che modo possono essere catturati questi delinquenti?» Ferri non alzò la testa, roteò quei suoi occhi chiari finché non furono puntati sul magistrato. «È quasi impossibile prenderli. Il loro arresto è spesso sempre casuale anche se, in alcuni casi, strategie raffinate ed elaborate hanno portato a qualche successo.» «A quali strategie si riferisce?» «È arduo elencarle. Bisognerebbe innanzitutto spingerlo a comunicare; fargli arrivare messaggi giusti attraverso i giornali in modo da costringerlo a scrivere oppure a telefonare. Certo il rischio è grosso in quanto, come ha già dimostrato in passato, è convinto che il mezzo migliore per manifestarsi sia quello dell'omicidio. C'è un altro sistema,

però, forse ancora più rischioso... Si potrebbe programmare una strategia che lo banalizzi, lo sminuisca, lo faccia sentire 'scippato' del suo potere. Per esempio trasformandolo in un eroe dell'epoca moderna, utilizzando le sue gesta a scopo pubblicitario, oppure organizzando visite guidate nei luoghi dove ha compiuto gli assassinii. In poche parole dobbiamo indurgli un senso di impotenza e di incontrollabilità rispetto alla vicenda che lo vede protagonista. In questo modo è probabile una sua reazione depressiva e scompensata, tale da indurlo a suicidarsi o a compiere azioni poco programmate e razionali... Ciò può comportare dei costi. Ma se fossi in voi rischierei.» «Professore», invocò preoccupato Brezzi, «in termini pratici c'è il pericolo che l'omicida innalzi il suo livello criminale?» «Sì. Credo, comunque, che abbiate poche altre alternative.» «Perché insiste nel chiamarlo Pan? Ormai è quasi certo sia stato l'assassino a telefonare a Cadone, ma ho difficoltà a pensare a un riferimento simbolico.» «Chissà... Sbaglierò», rispose Ferri sorridendo, «eppure, secondo me, c'è una spiegazione anche nella scelta di questo nomignolo. Nella mitologia greca Pan era considerato il dio sia della natura sia del mondo instintuale. È sempre stato additato come il violentatore di numerose ninfe, e la sua immagine viene spesso associata a quella dell'incubo, dell'angoscia, del terrore, del panico. Parola che, appunto, deriva dall'appellativo di questa divinità. Certo non poteva scegliere un nome di battaglia più adatto.» «Come non averci pensato prima!» sussurrò Fabrizi. «Mi è venuta un'idea!» esclamò Ferri torturando il suo zippo. «Fate diffondere, da un gruppo rock, una canzone su Pan l'assassino... Gli darà fastidio non riscuotere i diritti d'autore.» Quasi tutti in ufficio furono sorpresi dal mio cambiamento. Ero diventato più brillante, più disponibile al col-

loquio e alle battute feroci che sempre facevano da coro alle discese al bar. Con il passare dei giorni avevo, inoltre, constatato una maggiore prontezza a risolvere problemi che, in passato, non molto elegantemente, avevo lasciato ricadere sugli altri. Daniela, forse senza volerlo, mi aveva creato nuovi stimoli per continuare a vivere. Ogni venti minuti, con la scusa di voler controllare la bozza di una relazione, oppure verificare gli ordini delle agenzie periferiche, la convocavo e, a mezza bocca, le bisbigliavo: «Vuoi sapere che cosa ti farei in questo momento?» Lei, cercando di evitare di incrociare i miei occhi, mi soffiava nell'orecchio: «Non fare lo scemo... Gli altri potrebbero accorgersi di qualcosa». Nel frattempo, però, mi sfiorava la mano oppure lasciava più del solito poggiare i fianchi sulla mia spalla. Almeno due volte alla settimana ci trattenevamo, con la scusa di un lavoro straordinario, nell'ufficio ormai deserto. Il marito era ben felice di trovare nella busta paga qualche decina di migliaia di lire in più e noi, in compagnia del solo ronzio dei neon, avevamo la possibilità di trasformare in realtà le fantasie coltivate sin dalle prime ore del mattino. «Che follia», era la frase con cui, di solito, condiva le mie prime avance. «Scopo con le pur sapendo di amare mio marito. Comincio ad avere il sospetto di non essere normale.» «Ma a te, piace?» «Certo. Come posso, però, far coesistere le due storie ? A volte ho la sensazione di essere posseduta da due personalità.» Un giorno, parlando di Francesca, Fabrizi mi aveva spiegato come questo tipo di conflitto sia frequente nelle donne che decidono, per la prima volta, di cornificare il coniuge. Tale banalità, su di me, così poco esperto della personalità femminile, aveva un effetto stimolante. «Succede, non preoccuparti. Lo sai perché in questo momento godi così tanto mentre ti tocco?» Daniela socchiuse le palpebre facendosi, contempora-

neamente, scorrere la lingua sulle labbra: «No, e non lo voglio sapere». «Sì che vuoi.» Muoveva su e giù il bacino non badando all'elastico delle mutandine che le irritava la vulva. «Vedi», continuai, «il piacere è legato a due fattori: il rischio e il senso di colpa.» «Dici!» quasi gridò, guidando il mio dito nei ritmi da lei preferiti. «Maggiore è il rischio», sostenni mugugnando, «più forti sono i sensi di colpa...» «È più ardente è il piacere... Uhm!» concluse. «Sì, è così. Il rischio qui non manca. I sensi di colpa verso tuo marito, verso i tuoi figli, sono colossali. Quindi il godimento, per soffocarli, deve essere più forte... Vieni, lasciami entrare.» Daniela era bravissima nell'inventarsi sempre qualcosa di nuovo, concedendomi l'illusione di essere io a guidare la situazione. Solo due comportamenti si ripetevano costantemente, al punto che mi sarei parecchio meravigliato se un giorno li avesse omessi. Appena completavamo il nostro frenetico rapporto mi lasciava per terra o sulla poltrona come un salame; si vestiva con la rapidità di Fregoli e iniziava a riassettare l'ufficio togliendo le cicche dal portacenere, la polvere sulla scrivania, i capelli sul tappeto. Poi si accendeva una sigaretta e, tra uno scatto e l'altro dei muscoli facciali, asseriva apparentemente convinta: «Oggi è l'ultima volta che lo facciamo... Non ha senso tutto ciò. Per favore, non insistere un'altra volta». Io evitavo di oppormi a questo suo rituale, al tentativo, un po' infantile, di cancellare il tutto lasciando il niente. Quando vide per la prima volta i miei genitali fu molto discreta. Mi accarezzò tutto il tempo; successivamente, mentre tentava di battere il record mondiale della vestizione, domandò: «Hai avuto un'operazione da bambino?» Feci cenno di no con la testa: «Un incidente». Mentre tentava di chiudere la lampo sorrise: «Quando

te le rompono potrai dimostrare che è vero... Su, gioia, accompagnami». Non compravo più giornali che scrivevano di Gioschi, dei nove omicidi, del mostro vagante per la città. Evitavo di dissipare i frammenti della mia vita, anzi ripensavo spesso a tutta la mia storia; tuttavia era come se avessi preso una vacanza, una lunga vacanza. La Beretta, il coltello, le scatole di H-Winchester, i guanti, il libro su Lacenaire e tutti miei cimeli li avevo imballati e nascosti nella cantina di Vurgoli. Solo i pezzi di Sofia Diventi erano rimasti nel freezer; alle mie piante, comunque, elargivo esclusivamente porzioni di manzo o di vitella. Non doveva mancar nulla a loro; le volevo in forma per il giorno in cui Daniela sarebbe venuta a casa mia. Avrei potuto, come sosteneva Fabrizi, essere felice, addirittura entusiasta; per alcuni aspetti, nonostante occasionali guizzi d'inquietudine, lo ero. Per un po' di tempo, infatti, tentai di vivere con sufficiente distacco quei bislacchi avvenimenti che iniziarono a sovrapporsi alla mia storia d'amore con Daniela. Il primo segnale giunse una mattina di maggio mentre attendevo il segnale verde di un passaggio a livello. Si avvicinò un uomo di circa cinquantanni con ai piedi un paio di sandali da frate minore; portava a tracolla un borsone blu e bianco con scritto di lato Alitalia. Istintivamente pensai volesse offrire agli automobilisti delle sigarette di contrabbando; quando fu il mio turno ero pronto ad accoglierlo con un: «Grazie, ho già due pacchetti». Questi, invece, appoggiò la sua smisurata pancia allo specchietto retrovisore e, guardandosi intorno, mi chiese: «Le vulite accattà?» «Dipende, cosa devo 'accatta'?» risposi divertito. «Originali, magliette veramente originali. Quattromila una, tre diecimila. Sono di cotone al cento per cento, misura unica, ne abbiamo a sfondo blu, rosso, bianco e nero; ma con questo caldo vi consiglio quella bianca.» Dopo avere pubblicizzato la qualità della mercanzia, cacciò fuori una polo avvolta nel cellofan e la dispiegò di

fronte ai miei occhi in modo da farmi notare le qualità grafiche della scritta: ATTENTI AL MOSTRO! Sotto l'enorme scritta spiccava il disegno, sullo stile satirico di Jacovitti, di due ragazzi in fuga inseguiti da una specie di lupo mannaro fornito di coltello, pistola e bava di ordinanza. Scambiò la mia reazione attonita come perplessità verso le qualità merceologiche del prodotto e ribatté: «Potete toccare, è cotone, il marchio è pure registrato... Non possiamo vendere ai negozi del centro perché i famigliari delle vittime hanno minacciato di denunciarci». «Me ne dia una.» Gli allungai cinquemila lire. «Quale colore?» «Non ha importanza.» «Gliela do rossa, perché ha una faccia simpatica. Ecco il resto.» «Lo tenga. Ma ne avete vendute molte?» «Da ieri mattina una settantina. Domani viene anche mio figlio, e si piazzerà all'ingresso della stazione. Prevedo di fame stampare almeno tremila.» In meno di una settimana i ragazzi che, indossando le polo del napoletano, passeggiavano per il centro gustandosi un gelato erano diventati numerosi. Ne vidi un paio anche tra le ragazze del reparto spedizioni della mia compagnia. Quella che avevo acquistato rimase per un po' nel cellofan prima che mi decidessi a regalarla a Daniela: «Donala a uno dei tuoi figli». Volevo dare scarso peso all'accaduto, malgrado il crescere di un sordo malessere. Dopo qualche giorno Daniela mi venne incontro nel corridoio appena varcai la porta dell'ascensore. «Senti, oggi non posso rimanere. E il compleanno di Roberto e a cena vengono i miei genitori. Mi dispiace.» «Anche a me. Avevo un programmino per questa sera...» «Non ti preoccupare. Ho detto a mio marito che dobbiamo chiudere gli ordini trimestrali e che, quindi, domani mi devo trattenere più del solito... Cerca di mantenere intatte le tue fantasie.»

«Se ti metti le mutandine rosse, quelle con la farfalla ricamata, accetterò di rimandare il nostro incontro. Altrimenti esco con quella bionda dell'ufficio del personale.» «Fai pure. Non so se ti conviene; sei proprio un cretino!» Cercò di assumere l'espressione dell'offesa, poi con aria di sfida mi fissò. «E se le indossassi oggi?» «Ho già controllato, sono bianche.» «Che ti venga un... Ora basta. Senti, ti posso far vedere il regalo per mio figlio?» «Certo, ti aspetto in stanza.» Arrivò dopo un minuto con una scatola impacchettata da una carta azzurrognola. «Un momento, cerco di sciogliere i nodi senza rovinare il pacco... Devi sapere che Roberto è un patito di giochi da tuvolo. Guarda cosa ho trovato ai grandi magazzini. Dicono sia l'ultima novità.» Era una scatola nera e lucida, poco più grande di quella del Monopoli, con scritto in giallo: ACCHIAPPA IL MOSTRO!

Avvertii una fitta acuta alla bocca dello stomaco, forse impallidii, ma lei non se ne accorse. «Di che si tratta?» chiesi a denti stretti. «Ora vedrai.» Purtroppo era ben fatto. Sul tabellone avevano disegnato la mappa della zona; alcune stelle indicavano i luoghi dove erano avvenuti i delitti; in rosso, invece, era tracciato il possibile percorso dell'assassino, in verde quello delle vittime. I contendenti potevano assumere il ruolo degli investigatori, del mostro stesso oppure dei ragazzi in fuga. Mi risparmiai la lettura del corposo libretto di istruzioni. «Simpatico», commentai amaro. «Il negoziante mi ha confidato che vanno a ruba.» «La polizia e i parenti dei ragazzi stanno zitti?» «Pare di sì... Ma tu non sai l'ultima: il comune ha deciso di destinare il parcheggio dello stadio per le coppiette in cerca d'intimità. Pensa, la zona sarà presidiata dai vigili urbani e ogni macchina potrà parcheggiare a dieci

metri di distanza dall'altra. Intendono, inoltre, montare uno schermo gigante per far trasmettere le partite dei mondiali di calcio. In seguito hanno pure organizzato concerti di gruppi rock. Tutto gratis. Indovina come hanno chiamato l'iniziativa? 'Scaccia il mostro!' Troppo forte! Se potevamo uscire la sera, ci andavamo.» «Sì, è una bella iniziativa... Be', ci vediamo dopo, ora debbo scrivere una memoria per il capo.» Ero furente. Stava accadendo qualcosa di cui non avevo il controllo. Dove vogliono arrivare? Tentano di provocare una mia reazione... Quasi quasi gli spedisco un paio di regalini. Stai calmo, mi ripetei, la loro intelligenza è limitata. Certo non è piacevole osservare, senza poter fare nulla, un volgare bottegaio sfruttare la situazione per speculare qualche milioncino, o qualche assessore cercare di guadagnare credito, e voti per le elezioni comunali di settembre, organizzando serate gaudenti per amanti asfittici. «Sei sorpreso?» Scrutai la finestra. «Sei sorpreso?» ripetè. «Che cosa vuoi, papà... Ti fai vivo sempre e solo per farti beffa di me?» «Hai visto. Ti prendono in giro e tu perdi tempo dietro quella puttanella.» «Non dire stronzate.» «Ormai sei tornato a far parte del coro... Sembra quasi che tu non incuta più terrore.» «Ma io mica scherzo. Posso sempre far cantare la Beretta.» «Lo hanno previsto, lo hanno previsto. Se ne ammazzi altri due non sarà una novità. Si fa l'abitudine a tutto...» «Fermati! Aspetta! Voglio farti qualche altra domanda.» Silenzio. «Stronzo!!» gridai. «Torna indietro! Ti debbo parlare.» Silenzio. «Stronzooo!!» «Dottore, ha chiamato?» Era Lamberti, l'usciere del

piano che, udendo la mia voce concitata, si era allarmato e aveva spalancato la porta. «No. Un cretino continua a telefonare con la scusa di aver sbagliato numero... Mi faccia portare un caffè, per cortesia.» «Ho una grande notizia: mio marito parte per due giorni con i suoi amici. Hanno organizzato un viaggio per andare a vedere la finale del campionato del mondo. Sembrano tutti impazziti», mi annunciò Daniela con indosso un vestito nero che lasciava abbondantemente scoperte le cosce, impreziosito da una coccardina tricolore sul seno sinistro. «Non è l'unico. Personalmente, a dire la verità, il calcio mi lascia indifferente. Ritengo ci siano imprese più esaltanti nella vita.» «Se vuoi, domani sera lascio i ragazzi dai miei genitori... Potremmo per la prima volta uscire insieme.» «Proposta accettata. Alla faccia del mondiale.» Impiegai tutto il pomeriggio a sistemare la casa. Escludendo mia madre e la signora Beatrice, nessuna donna aveva mai varcato la porta d'ingresso. A dire il vero neanche uomini; ci era stato, due mesi prima, l'idraulico per cambiare lo scaldabagno. Diedi una pulita ai mobili, cambiai qualche lampadina, misi dello champagne in frigorifero. Mi domandai più volte se la casa a Daniela sarebbe piaciuta. La risposta fu sempre affermativa. Tuttavia c'era una nota stonala, che mi incuteva turbamento. Cercai d'intuire che cosa potesse essere. Girai per le stanze e all'improvviso capii: staccai la foto del matrimonio di mamma e papà dalla parete del salotto e la chiusi nel secondo cassetto del comò. Mi sembrò di captare un ghigno. Riaprii il cassetto e lo richiusi. Ripetei l'operazione tre o quattro volte prima di convincermi che avrei dovuto ingrassare cerniere e scorrevoli. 11 mattino successivo evitai di incontrare Daniela. Volevo mantenere la tensione inalterata fino alla sera. Era stu-

penda. Depilata di fresco, indossava un vestitino di lino rosso. In realtà era un etereo pareo tenuto su da una spilla da balia. Sapevo che togliendola sarebbe scivolato ai suoi piedi. Mi immaginai la scena decine di volte provando sempre un'eccitazione crescente. Quando l'ultimo impiegato abbandonò l'ufficio al grido di «Forza Italia!» mi lasciai andare sulla poltrona osservando il fumo della sigaretta salire verso il soffitto. «Sei pronto?» mi chiese. «Prontissimo.» «Hai fame?» «Dipende dal cibo.» «Che ne pensi di questo aperitivo?» Fece volare un lato del pareo e realizzai che sotto non portava nulla. «È meglio di un Martini.» «Allora ho indovinato le pietanze?» bisbigliò. «Una cuoca perfetta, direi.» «Dove le vuoi gustare?» «Mi era venuto in mente casa mia», risposi con un po' di batticuore. «Io avevo pensato a un altro posticino.» La guardai disorientato, ma non reagii. «A te la scelta!» Salimmo in macchina e affrontammo il buio di una città in fermento. Mancavano ancora quarantott'ore alla finale, tuttavia la tensione e la certezza della vittoria trasparivano da ogni gesto. «Dove vuoi andare?» chiesi appena usciti dal parcheggio della compagnia. «Fuori città... Prendi la strada che porta verso le colline del Mascheno.» «Va bene. Tu, però, indicami il percorso. Sono poco pratico della zona.» Non poteva cogliere la mia bugia. Restammo in silenzio, lei accese una sigaretta e io, di sbieco, a ogni tirata vidi il suo profilo illuminarsi di rosso. 1 rami frondosi degli alberi ai bordi della strada ondeggiavano, spostati da un vento caldo che saliva con la notte.

«Tra cinquecento metri c'è un bivio sulla destra. Rallenta, non ci sono indicazioni.» Mi trovai su un viottolo stretto che si inerpicava su un poggio. «Ecco, avvicinati a quei pioppi. Non c'è nessuno.» Rimasi interdetto. Avevo presunto che Daniela mi volesse condurre a una casa di campagna data in prestito, forse, da un'amica complice e compiacente. Invece no; per prati come due amanti non organizzati. «Fermati qui. Penso vada bene.» Avvertii le orecchie ronzare e le sopracciglia incurvarsi; per fortuna il buio velava le mie emozioni. Avvicinò la sua faccia alla mia e, con goffa naturalezza, piegò la gamba in modo da far scivolare il vestito su un fianco. «Sei sudato... Oggi si crepa dal caldo. Toglili la camicia. Senti come sono bagnata anch'io.» Allungai la mano verso il suo petto, era caldo. Daniela me l'afferrò facendola calare in basso, sempre più in basso. «Lo vedi come sono zuppa?» mormorò, affannata, al mio orecchio. «Non credo sia per l'afa.» «Lo so... Ma il tuo cuore sembra un treno.» Ecco che il muscolo cardiaco mi tradiva. Certo, poverello, il cervello lo stava strapazzando: la 127 scura, Maria Chiari, Alessandra De Felice, la matura amante con i capelli freschi di acconciatura nella Mercedes, il pianto di Sofia Diventi, mio padre con il violino al posto del cazzo, il dottor Bindi che gioca a golf con il mio coglioneCome può un cuore reggere questa ondata d'immagini, questa piena improvvisa di ricordi? Cercai di essere dolce; in realtà mi uscì un'espressione piatta come quella di una gallina di fronte a un crocifìsso: «Lo sai perché corre tanto?» «Non ho difficoltà a immaginarlo», mi rispose. Sentivo il solletico dei suoi capelli sull'ombelico. «Ahia! Questo cambio mi trafigge il fianco... Come si può fare?» domandò sollevando leggermente la testa.

«Perché sei voluta venire qui? Avevo preparato tutto a casa mia: champagne, cioccolatini, stereo, ventilatore in camera da letto... Non hai paura che da un momento all'altro possa spuntare l'assassino delle coppiette? 11 posto sembra proprio adatto per un agguato.» Lei, giudicando sufficientemente gagliardo il mio sesso, buttò il pareo sul sedile posteriore e mi salì sopra. «A casa tua ci andremo un altro giorno», sussurrò, in modo quasi sincopato. «Lo so, questo è il posto ideale per il mostro. Pensa, due ragazzi li ha massacrati a meno di trecento metri da qua... Non ho paura; anzi ne ho parecchia, ma tutto ciò mi eccita in un modo tremendo. L'hai detto tu, più c'è il rischio più il sesso s'infiamma. Devi sapere che anche alcune mie amiche fanno la stessa cosa; corrono a scopare in postacci come questo con i loro mariti o con i ragazzi rimorchiati in discoteca. Mi hanno raccontato che il sabato sera, nei luoghi dove il mostro ha seviziato quei poveretti, c'è la fila delle macchine... Mio marito non c'è mai voluto andare.» Mi continuò a cavalcare, ma io restai immobile. Sentivo addosso a me una tale rabbia da temere, per un attimo, che si trasformasse in furia omicida. Era troppo, troppo. Questi figli di puttana, pensai, dopo avermi rubato il coglione vogliono scipparmi il cervello, il prodotto del mio cervello. I mostri sono loro, non io. In un attimo la mente si congelò. Dovevo verificare più soluzioni, sebbene una sola apparisse, con il passar del tempo, chiara, netta, lineare. «Daniela», la voce sembrava quella di un robot. «Vorrei penetrarti dal di dietro.» Non rispose, ma si girò offrendosi tutta. La penetrai. Mugugnò. «Mi vengono in mente cose strane.» Il tono non era mutato. «Quali?» «Ho voglia di farti del male, di colpire questo culo bianco, di morderlo, di ferirlo.»

«Sì amore, fallo, non aspettare, sto impazzendo, lo desidero da morire...» Mi fermai. Per tre giorni non uscii di casa. Il lunedì mattina evitai pure di andare in ufficio. Nessuno ci fece caso; erano tutti ammattiti per la vittoria della nazionale. Io non li vidi, ma le loro voci, i loro canti, la loro gioia, i loro sfottò, varcarono invadenti, salendo dalla strada, la finestra della camera da letto e si andarono a frantumare sulle lugubri mura. Mi scrutai allo specchio; facevo schifo. La barba lunga, il viso magro, gli occhi come pestati da un peso medio; sul collo due succhiotti di Daniela, mentre un'intensa puzza di sudore aggrediva le narici. Ero senza sigarette. Uscii cercando di assumere una faccia così truce da far desistere la gente dal coinvolgermi nelle loro baldorie. Pareva che nessuno riuscisse più a parlare a voce bassa. Non fu facile raggiungere il bar di piazza Servosti; mi feci largo tra la folla come un nuotatore abituato a fendere l'acqua. Risultò, tuttavia, decisamente impossibile comprare due pacchetti senza essere costretto a subire la faccia gaudente del commerciante. Sarebbe stato meglio se il marito di Daniela avesse visto la partita a casa sua. Uscii dal locale tastandomi le natiche; avevo la sensazione che stessero cercando di rubarmi il portafoglio. Distratto incespicai in qualcosa di piccolo: un bambino di poco più di quattro anni. Aveva i capelli e gli occhi così neri da sembrare finti, il viso abbronzato faceva da corona a denti bianchissimi. Si girò ridendo, ostentando fiero la sua nuova maglietta: le maniche erano rosse, il collo verde, il resto bianco. Al centro: IL MOSTRO NON È RIUSCITO A UCCIDERE PAOLO R o S S l ! Sotto la caricatura di un bruto in fuga con indosso una casacca tedesca, inseguito da un calciatore in azzurro. Il riso del bimbo si spense in un attimo. Non dovevo avere una bella espressione, ma forse lui esagerò. «Ah mostrooo!» una pernacchia seguita da una rapida ritirata.

M'incantai a fissare l'asfalto molliccio per un minuto. La soluzione che si era fatta strada durante la notte trascorsa con Daniela occupò definitivamente il mio cervello. «Ma io l'amo!» gridai dentro lo stomaco. «Lei ama le tue espressioni, i tuoi effetti, non la tua scelta di vita... Lei è come gli altri.» Che palle! Mio padre non perdeva occasione di sottolineare, con i suoi messaggi ambigui, lo stato in cui versavo. «Può prestarmi diecimila lire, vorrei festeggiare anch'io.» Volteggiai di scatto pronto a mandarlo a quel paese. Non avevo lo stato d'animo per tollerare un fastidioso mendicante. A dire il vero questi, appoggiato a una macchina in sosta, non appariva come un vagabondo. Un abito di cotone, in condizioni non proprio ottimali, ma ben stirato, forse il taglio era un tantino antiquato; le scarpe di tela bianca, un cappello tondo ormai consunto. Osservai il suo viso pallido e sciupato, la barba incolta e chiazzata di bianco, le spalle magre e curve. Il naso sembrava quello di un cane levriero, gli occhi incavati ombreggiati da sopracciglia ormai candide. Non potei frenarmi e dissi: «Io ti conosco». Mi squadrò impaurito: «No, non credo... Manco dalla città da quattro anni». La voce e il berretto favorirono la messa a fuoco dei miei ricordi. «Ti chiami Gianni, vero?» «Sì», balbettò. Gianni il professore dei guardoni, Gianni con gli occhi da gufo, Gianni l'inseminatore di ortiche, era lì, invecchiato, con qualche dente in meno, spettinato e senza una lira. «Dove ci siamo incontrati?» domandò sospettoso. «Durante le perlustrazioni del sabato sera.» «Ah! Sì! Ora ricordo», ribatté. Dal suo sguardo, però, captai perplessità e scarsa confidenza con le immagini di quell'archivio, non sempre organizzato, che è la memoria. No, in realtà non mi aveva riconosciuto. «Come te la passi?» gli chiesi.

«Lo puoi immaginare... Sono stato tre anni dentro. Mi hanno rilasciato una settimana fa e l'assegno per il lavoro svolto in carcere è ancora bloccato alla posta.» «Andiamo a bere qualcosa... Sono solo anch'io. Se ti va di parlarne mi puoi raccontare quello che è successo.» Scolò due whisky tutto di un fiato. Gettò lo sguardo sul mio bicchiere di coca cola ancora colmo, ma non evidenziò imbarazzo. «I soldi non bastano mai. Diventa così facile cercare soluzioni sbrigative...» Represse un rutto. «Traffico di droga; ecco spiegati i tre anni. Bella vita, belle macchine, rispettato da tutti; tuttavia si può arrivare a chiedere diecimila lire per un pranzo alla tavola calda.» «Hai un lavoro?» «Lo avevo. Adesso, a sessant'anni, chi può aver bisogno di me... Ma non c'è problema; al fresco s'imparano mille modi per non restare a secco... Lo sai qual è la lezione principale?... Ogni cosa ha il suo prezzo.» «Tieni... Sono centomila.» «Ma che cosa fai?» farfugliò mentre come un falco infilava la banconota nella tasca. «Non ti preoccupare, servono di più a te...» «Be', hai ragione. Te li rendo tra qualche giorno.» «Che stronzata!... Facciamo così; dimmi dove abiti, verrò a trovarti e sistemiamo tutto.» Prese un fazzolettino dal banco e, con la mano un po' tremante, segnò il suo indirizzo. Lo lasciai mentre si accingeva a prosciugare il terzo bicchiere di whisky. «Ehi, senti!» gridò con la voce impastata. «Vai ancora a fare l'indiano?» In ufficio mostrarono abbastanza stupore alla notizia delle mie dimissioni. Qualcuno, tra cui Daniela, arrivò addirittura allo sbigottimento. «Cercate di capire, mi hanno proposto, in un modo che non posso rifiutare, la rappresentanza della Gholers Farmaceutica a Ginevra.» Il venerdì successivo offrii, nella

sala conferenze, dello champagne a tutto il personale, ringraziai per l'orologio d'oro e promisi: «Verrò a trovarvi prima di trasferirmi in Svizzera». Quelle riunioni avevano ogni volta il potere di deprimermi. Il dovere di sentirsi a proprio agio, di essere di buona compagnia, di rendersi simpatico, mi era sempre apparso una cosa ridicola. Baciai sulla guancia Daniela che mormorò al mio orecchio un caldo «ti amo». Non si era ancora resa conto che, in verità, il nostro rapporto non si era mai sollevato, nell'arco di quei mesi, dalla superficialità. II ragioniere Landucci, che da decenni curava i pochi contributi al fisco della famiglia, fu ben felice di acquistare le proprietà immobiliari e l'Alfa Romeo al quaranta per cento in meno del prezzo di mercato. «Le lascio anche i mobili», gli dissi salutandolo, «ma non può rifiutarmi l'ultima cortesia: ecco le chiavi, però vorrei restare lì fino a settembre. Sa, il trasferimento sarà un po' oneroso...» La casa di Gianni si trovava in un casermone di otto piani alla periferia ovest della città. Non aveva telefono, e il citofono era un'anonima sfilza di tasti bianchi. «Cerca qualcuno?» Un balenottero in libera uscita con tre buste di plastica, piene di spesa, agganciate ai wurstel che sostituivano le dita mi guardò biecamente. Forse qualche lustro prima non era stata male come donna; in quel momento, però, aveva lo stesso sex-appeal di una damigiana di aceto. «Vorrei sapere dove abita Gianni.» «Ah! Capisco, capisco... Quarto piano, interno dodici. A piedi perché l'ascensore è rotto.» «Bene. Farò un po' di ginnastica.» Varcai il portone e, dopo aver dato un'occhiata a un atrio lugubre illuminato da una lampada schermata, affrontai la scalata. Al terzo piano il fischio del mio principio di enfisema e l'echeggiare delle parole della cicciona, «Capisco, capisco...» mi bloccarono. La carenza di ossigeno non aiutò le mie meningi a trovare una spiegazione plausibile a quella

espressione. La soluzione arrivò senza farsi attendere. Gianni mi aprì in condizioni peggiori di quando l'avevo incontrato; sembrava non fosse uscito da quella fogna da almeno una settimana. Si asciugò con un fazzoletto sporco la bocca unta di grasso: «Entra... Ti avrei cercato io». Come avrebbe fatto non lo so, gli era ignoto anche il mio nome. L'appartamento sembrava un magazzino scampato per miracolo a un'alluvione; mercanzia e oggetti disposti in ogni parte senza un apparente ordine o logica. C'era di tutto: autoradio, borse di cuoio, orologi, un paio di televisori, persino un frullatore. Osservai quella roba e compresi l'atteggiamento della donna. Gianni era un ricettatore per ladruncoli e io dovevo essere stato scambiato per un cliente bisognoso di liberarsi della refurtiva. «Vanno meglio le cose?» gli chiesi. «Ci si arrangia... Comunque ho le centomila che mi hai prestato.» «Non ti preoccupare... C'è un posto dove sederci?» Liberò un paio di sedie da alcuni giacconi di pelle e mi fece accomodare. Sulle nostre teste pendeva una lampada rotonda, di quelle che nelle osterie di periferia vengono utilizzate per simulare le locande di campagna. «Un caffè, un whisky, una birra...» «Grazie», lo interruppi, «per ora niente. Vivi solo qui?» «Sì», rispose malinconico. «Veniamo subito al motivo della mia visita... Ho da proporti un affare, se t'interessa...» «Dipende da che cosa si tratta.» Mi squadrò tra il diffidente e lo speranzoso. «Di per sé è una stronzata; però, per me, riveste un'importanza estrema... Per te, al contrario, sarà un buon sistema per guadagnare senza fatica un sacco di soldi.» «Quanto?» domandò sospettoso. «All'inizio del lavoro cinquanta milioni... Se non ci saranno intoppi alla fine ne avrai altrettanti.» Riempì un bicchiere di cognac, ne prese un sorso, si sciacquò la bocca e lo inghiottì lentamente. «Perché hai cercato me?»

«Sei uno che non ha niente da difendere, niente da perdere», risposi gelido. Aprii la borsa e tirai fuori due buste: una rossa, la più spessa, e una bianca. «Qui ci sono i soldi; tutti biglietti da cinquantamila.» La lasciai planare sul tavolo cercando di accentuare il sordo rumore della caduta. «Nella bianca ci sono quattro missive con già annotato l'indirizzo... Su questo foglio, invece, sono riportate le date e i luoghi dove le devi spedire. In media sei tenuto a lavorare ogni cinque o sei mesi. Non c'è bisogno di altro.» Soppesò la busta rossa, quindi fissandomi diritto negli occhi, domandò: «Dov'è la fregatura?» «Non c'è. Nel caso fossi curioso, potrai capire qualcosa leggendo i giornali... Per te, comunque, se ti comporti correttamente, non ci sono rischi.» «Cerca di essere più preciso.» «Quando sei stato in galera avrai di sicuro conosciuto gente che reputa l'assassinio un mestiere come un altro... Quanto chiedevano per eliminare una persona?» «Ce ne erano alcuni disposti ad ammazzare per meno di dieci milioni.» «Appunto... Se spedirai le lettere come ti indicherò avrai l'altra metà del malloppo. Viceversa, se farai il furbo, quei soldi li darò a qualcuno per sistemarti. Vedi di farti passare, tra l'altro, la voglia di dare un'occhiata al contenuto delle buste... Me ne accorgerei e per te sarebbe finita. Sono stato chiaro?» Sospirò compiaciuto, poi aggiunse: «Nel frattempo, però, potrei crepare di morte naturale.» «Ti conviene stare in salute. Altrimenti morirai due volte... Allora, accetti?» «Si può fare... Qua la mano!» Mentre cercavo un varco tra vecchi giradischi, domandò inquieto: «Ti rivedrò?» «Se ti comporterai da bravo ci incontreremo alla fine del lavoro, al contrario ti verrò a trovare all'inferno.» Gianni non poteva certo immaginare che ogni messag-

gio, da far pervenire alla questura o alla procura della repubblica, indicava, in modo abbastanza chiaro, una pista su cui basare l'indagine per scoprire l'assassino delle coppiette. Avrei dato dieci anni della mia vita per vedere la faccia di Lanciotti mentre scopriva, nella canonica di San Giusto, il percussore e la canna della Beretta; oppure mentre ritrovava nei magazzini di medicina legale l'abbonamento al teatro comunale di Alessandra De Felice. L'ultima lettera, un po' pretenziosamente, la consideravo un vero capolavoro: portava direttamente a casa di Gianni. Il giorno successivo donai, all'associazione per l'assistenza ai barboni della città, le valigie contenenti tutti i miei vestiti. Era un gesto per me inusuale; avevo sempre trovato sciocco regalare cose per me inutili a persone a cui, spesso, manca il necessario. Lasciai nel garage di Landucci la macchina e chiamai un taxi. «Pfui», sospirai. «Quanto è complicato sparire dalla circolazione.» «Senta, dobbiamo coprire un percorso piuttosto lungo...» Il tassista si lisciò i baffi. «Superati i confini del comune la tariffa raddoppia.» «Lei non si preoccupi; prenda la provinciale e si diriga verso i monti Giunai.» «Ci vorrà un'ora e mezza.» «Lo so. Per piacere, mi lasci filmare e faccia poche domande.» «Positivo per entrambe le richieste», disse cominciando a ruminare una gomma americana. Non badai molto alla bellezza della campagna. Le creste immobili dei pini, mescolate all'ancora tenero verde dei faggi, offrivano un armonico contrasto con il profilo scuro delle montagne. Piccole, nere figure umane si muovevano, indaffarate, nei pendii coltivati a vite, spruzzando nuvole di verderame. Appena la strada iniziò a salire il tassista mi comunicò: «È la prima volta che vengo da queste parti. Per quanto mi risulta non ci sono paesi lassù». «È cosi... Tra un paio di chilometri incontreremo le prime baracche del villaggio minerario. Lei prosegua diritto

per la strada sterrata. Le indicherò io dove deve fermarsi.» «Ah! Ora ricordo, me ne ha parlato qualche volta mio padre. Prima della guerra avevano aperto alcune miniere di ferro; negli anni Cinquanta, tuttavia, erano stati costretti a chiuderle... L'estrazione era diventata troppo costosa.» Il conducente della vettura aveva ragione; l'area delle miniere languiva da almeno trent'anni e, da circa dieci, pure gli studenti delle superiori avevano smesso di considerare il luogo interessante per le gite scolastiche. Qualcuno aveva cercato di utilizzare gli impianti come stabilimento termale; l'esperimento, però, fallì. Un paio di produzioni cinematografiche avevano sfruttato il villaggio decadente per alcuni film del tipo western-spaghetti; ma da quel momento, se si escludeva la presenza sporadica di alcuni gruppi di cacciatori, il tutto era tornato nell'abbandono e nell'oblio. «Ecco, si fermi qui.» Vidi i suoi occhi cercarmi attraverso lo specchietto retrovisore. Questo o è tutto matto o ha in mente qualcosa di losco, arguì. «Quanto devo?» «Settantasettemila. Sa, la tariffa extraurbana.» Gli lasciai un centone e attesi, avvolto in una nube di gas di scarico particolarmente fetida, che la polvere nera sollevata dalla sua macchina tornasse a coprire il suolo. Mi avviai verso la galleria numero cinque; era l'unica con l'ingresso non coperto da massi e sterpaglie. Evitai che i miei piedi affondassero nello sterco solcato dagli zoccoli fessi dei bovini; miriadi d'insetti sorvolavano impazziti quei solchi profondi. Raccolsi un po' di carta, alcuni cardi secchi e organizzai un piccolo falò. Quando le fiamme divennero particolarmente vive presi il portafoglio e lo lasciai cadere sopra. Rivoltai le tasche e buttai il contenuto nel fuoco. Rimasi qualche minuto a osservare le vampate salire verso il cielo controllando, al contempo, che ogni cosa si trasformasse in cenere. Recuperai i resti ancora fu-

manti con un cartone e gettai tutto al vento. Poi affrontai l'oscurità. Più di una persona mi aveva narrato come tanti di quelli che si erano avventurati a perlustrare le miniere abbandonate non avessero fatto più ritorno, e nessuno si fosse mai preso la briga di andare a scovare i loro corpi. Le gallerie avevano, infatti, ceduto in più punti e le carte topografiche non erano state aggiornate. Le suole delle scarpe scricchiolavano sullo strato di cocci che ricopriva il terreno. Mi girai e guardai per l'ultima volta il cielo; il sole mi apparve come un tenue disco arancione circondato da una nebbiolina violacea. Le pozzanghere riflettevano migliaia di piccoli lampi di luce. L'aria era pesante. Cercai di allargare i polmoni e di parlare con me stesso. Non ebbi il tempo di seguire i miei pensieri. «Alla buon'ora. Sei arrivato!» Non risposi. «Che fai, il finto tonto?» insistè con voce stridula. «Mi rompi i coglioni anche qui?» «Il coglione, ricordalo, il coglione.» Cominciai a respirare con fatica e fui costretto a spegnere per un po' l'accendino; mi stava cuocendo il pollice. Era proprio buio, là sotto. La galleria, di almeno dieci metri di diametro, pendeva sempre di più. Attaccate alle pareti poche e inutili lampade industriali, scrostate e arrugginite, rendevano lo scenario ancora più sinistro. «Bene, bene; sei giunto alla stessa mia soluzione», riprese. «Così sarai contento.» «No, per te è solo una sconfitta.» «Che cazzo dici? Come padre sei stato un cesso, ma come osservatore di vissuti umani sei proprio un fallimento... Io sarò etemo. Tra decine di anni si parlerà ancora del mio caso. Scriveranno libri sulle mie gesta, gireranno film sulle mie imprese... Sarò Jack lo squartatore del ventesimo secolo.» «Non ti illudere. Visto in che modo sei finito? Ci mancava poco ti chiedessero di girare uno spot pubblicitario.»

Afferrai un sasso e lo scagliai contro il buio. L'eco della botta sulla volta della galleria si confuse con la sua beffarda risata. Qualcosa mi cadde sulla clavicola destra, sobbalzai e lo spazzai via con la mano prima di rendermi conto di vedere cosa fosse. Tremai un pochino in quanto le dita avevano percepito un oggetto caldo, vivo e viscido. «Chi sei?» gridai. Avvertii qualcosa che si muoveva vicino ai piedi, riaccesi l'accendino e, con cautela, m'inchinai. Un musetto scuro, con dei canini aguzzi e gli occhi rossi. «Guardate il 'mostro' del ventesimo secolo... Ha paura di un topo. Ah, ah, ah! Buuuuu!» «Vattene! Vattene! Lasciami il posto vicino alla mamma.» Scalciai freneticamente e corsi via verso il fondo, verso l'intestino della terra. Poi, la fine. Chiusi il volume rilegato in cartoncino celeste e mi stiracchiai. Avevo impiegato meno di tre ore per rileggerlo. Sentivo freddo alle gambe, battei per un po' i piedi a terra in modo da favorire la circolazione. Spostai il portacenere pieno fino all'orlo di cicche accartocciate e ripresi in mano la lettera della Medium Editori. La conoscevo a memoria, ma non trovai sciocco rileggerla. La ringraziamo di averci sottoposto il Suo testo che siamo costretti, tuttavia, a rifiutare perché, come potrà verificare nei nostri cataloghi, non abbiamo collane adatte a ospitare manuali o libri di cucina. Le auguriamo di trovare una sistemazione soddisfacente per i Suoi lavori. Distinti saluti, Il direttore editoriale della Medium Editori. Risi di nuovo a crepapelle. Gettai la missiva nel cestino e mi avvicinai il telefono. Composi il numero un tantino emozionato. Tre squilli.

«Pronto.» «Sei tu Francesca?» «Sì.» «Oggi è martedì...» «Lo so.» «Perché, allora, non cucini un coniglio per tuo marito?» FINE

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