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REST RES TAURI IN EMI EMILIA LIA�ROMAGNA �ROMAGNA
ATTI A TTIVIT VITÀ À DEGLI DE GLI IST ISTITUT ITUTII MiBAC NEL N EL 2008
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REST RES TAURI IN EMIL EMILIA� IA�R ROMAGNA ATT A TTIVI IVIT TÀ DEGLI DE GLI IST ISTITU ITUTI TI MiBAC MiB AC NEL NE L 2008 Atti del Convegno organizzato organizzato dalla Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesagg Paesaggistici istici dell’Emilia-Romagna nell’ambito del XVI Salone del Restauro e della Conservazione dei Beni Culturali e Ambientali (Ferrara, 25-28 marzo 2009)
a cura di
Paola Monari e Andrea Sardo Presentazione Presen tazione di
Carla Di Francesco
TTI A TTI
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FERRARA 27 27
MARZO 2009
RESTAURI IN EMILIA�ROMAGNA ATTIVITÀ DEGLI ISTITUTI MiBAC NEL 2008
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a cura di Paola Monari e Andrea Sardo
Direttore editoriale : Roberto Mugavero Grafica e impaginazione di Paolo Tassoni
© 2009 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. ISBN: 978-88-7381-285-2 M E Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 http://www.minervaedizioni.com e-mail:
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INDICE
CARLA DI FRANCESCO Presentazione
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FRANCESCA BORIS, MANUELA MATTIOLI Il globo terrestre di Vincenzo Coronelli dell’Archivio di Stato di Bologna
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ANTONIETTA FOLCHI Un esempio di restauro: l’archivio notarile antico di Ferrara GIANLUCA BRASCHI Il restauro del Cabreo AB 265 “Terreni appartenti ai Pavolotti di Rimini” ANDREA DE PASQUALE Le carte nautiche della Biblioteca Palatina di Parma SILVANA GORRERI Le carte nautiche della Biblioteca Palatina di Parma: un piano strategico di restauro
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CORRADO AZZOLLINI, LUCIANO SERCHIA Inediti dal restauro: paesaggi dipinti nel Palazzo del Giardino di Parma
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GRAZIELLA POLIDORI Il duomo di Modena “capolavoro del genio creatore umano”. Il restauro del paramento lapideo
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ANTONELLA RANALDI Restauri della chiesa del SS. Salvatore a Bologna
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ANDREA CAPELLI Il palazzo ex Enpas a Bologna. Restauro delle superfici esterne
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GIANFRANCA RAINONE Gli altari delle chiese di S. Giuliano a Bologna e di S. Domenico a Budrio ANTONELLA RANALDI I chiostri di S. Pietro a Reggio Emilia. Note sui restauri ELENA DE CECCO, VALTER PIAZZA, CETTY MUSCOLINO La chiesa dell’abbazia di S. Leonardo a Montetiffi, Sogliano al Rubicone
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MANUELA CATARSI, CRISTINA ANGHINETTI, PATRIZIA RAGGIO, GIOVANNI SIGNANI, BARBARA ZILOCCHI Il recupero strutturale dell’oratorio di S. Enrico di Calcaiola di Valmozzola
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MARIA GRAZIA MAIOLI, MAURO RICCI, MONICA ZANARDI, CETTY MUSCOLINO, CLAUDIA TEDESCHI Il complesso archeologico in piazza Ferrari a Rimini. Situazione attuale e ipotesi di restauro
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ANTONELLA POMICETTI La Stele delle Spade: aspetti conservativi SCHEDE TECNICHE
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PRESENTAZIONE
L
a pubblicazione degli Atti del convegno Restauri in Emilia-Romagna: attività degli Istituti MiBAC nel 2008, svoltosi a Ferrara in occasione
del Salone del Restauro 2009, presenta ad un pubblico di esperti, studiosi e conoscitori una selezione di interventi tra i numerosi svolti all’interno delle attività istituzionali di Soprintendenze, Archivi di Stato, Biblioteche e Direzione regionale dell’Emilia-Romagna nel corso del 2008. Si tratta di lavori di restauro e conservazione che hanno interessato manufatti (chiese, conventi, complessi archeologici, documenti, libri, ecc.) e materiali (dalla carta al lapideo, dall’intonaco al legno, dagli affreschi al mosaico) tra loro eterogenei e diversi e che, proprio per questo, costituiscono una significativa esemplificazione di quel lavoro ordinario che è la ragione stessa dell’esistenza degli uffici di tutela ed il fondamento della loro attività. Ciascuno per la propria competenza - archeologi, architetti, archivisti, bibliotecari, restauratori, storici dell’arte - ha spiegato, semplicemente, un caso di studio scelto tra quelli dei quali si è occupato durante l’anno. Progetto e realizzazione hanno seguito un percorso metodologico ormai codificato dalla moderna riflessione sulla teoria e s ulla prassi del restauro: una metodologia che parte dall’ indi viduazione dei valori storico culturali, dalla lettura e dallo studio del manufatto, finalizzati ad acquisire le conoscenze necessarie sia alla valutazione storico-critica che alle scelte per l’intervento più appropriato e, passando per le indagini di laboratorio sui materiali e lo studio delle tecniche esecutive, arriva all’individuazione delle tipologie e delle cause del degrado che rendono necessario l’intervento. Un percorso normalmente seguito, come si comprende leggendo i singoli contributi, sia quando si tratti di specifici e puntuali problemi di conservazione di materiali cartacei o lapidei, come nei casi più complessi di restauro e miglioramento strutturale di un grande complesso architettonico, o di approccio alla manutenzione di pavimenti mosaicati in ambito archeologico. Una unità di metodo che è, davvero,
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il linguaggio comune per la conservazione delle diverse forme in cui si presenta il patrimonio storico e artistico. Restauro e conservazione sono mezzo fondamentale per il raggiungimento della finalità più alta della tutela, la trasmissione alle future generazioni del bene culturale. In un momento storico in cui il dibattito sulle funzioni e sul futuro del Ministero sembra ripiegarsi su se stesso, tra continue e contraddittorie riforme organizzative, la Direzione regionale dell’Emilia-Romagna ha sentito il bisogno di riunire gli Istituti territoriali del Ministero nella giornata ferrarese per tornare a riflettere insieme su questo concetto primario: infatti la tutela è oggi pressoché assente dalle preoccupazioni generali, si dà per scontata, quasi non avesse bisogno per essere attuata con effettivi risultati di personale tecnico-scientifico adeguatamente preparato e moti vato e di sufficienti risorse economiche, che invece ne sono l’indispensabile nutrimento. Nel recente dibattito sui beni culturali, tutto sbilanciato verso la valorizzazione , questa complessa attività definita dal D.Lgs. 42/2004 sembra essere interpretata dai più soprattutto come mostre spettacolari, grandi eventi, numero di visitatori eccezionale, ribalta dei media, anziché come atto conclusivo del processo che inizia con il riconoscimento di valore del bene e si adopera per la sua conservazione. Proprio in questo difficile momento gli Istituti del Ministero in Emilia-Romagna hanno risposto alla proposta di con vegno della Direzione regionale con grande partecipazione, mostrando tra l’altro, anche attraverso l’attento ascolto dei temi proposti, il bisogno di uno scambio di esperienze e di più approfondita conoscenza delle tematiche conservative affrontate dai colleghi di altra professionalità: non c’è dubbio infatti che una delle conseguenze positive della riforma organizzativa del MiBAC introdotta con il D.P.R. 233/2007 deve essere riconosciuta nel ricongiungimento di tutti gli Istituti presenti sul territorio all’interno della Direzione regionale, e quindi nella rinnovata possibilità di conoscenza tra il settore “arti” e quello “archivi e biblio-
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teche”, nella certezza che la discussione nella pluralità dei temi tecnico-scientifici costituisce un arricchimento reciproco. Il convegno, intenso e serrato nei tempi e nei contenuti, è stato un modo semplice per riaffermare la vitalità mai persa dei compiti di tutela affidati agli Istituti del territorio, proprio, e soprattutto, nel 2009, anno in cui si celebra il primo centenario della legge 364/1909, varata dall’ancor giovane Stato italiano dopo anni di dibattito a salvaguardia del suo immenso patrimonio storico e artistico, un caposaldo i cui principi si sono riversati senza modifica nei successivi provvedimenti di legge, dalla 1089/1939 al decreto legislativo 42/2004, oggi in vigore. Dalle relazioni annuali di Raffaele Faccioli, primo direttore dell’Ufficio regionale per la conservazione dei monumenti dell’Emilia, ai contributi raccolti in questo volume sono passati decenni di lavoro, di studio, di risultati, di crescita di qualità tecnico scientifica a cui purtroppo non ha fatto seguito altrettanta crescita dell’Amministrazione. Per questo, a maggior ragione, va un ringraziamento sincero per il loro impegno ai soprintendenti, ai direttori di archivi e biblioteche e a tutto il personale che ha dato il suo apporto alla realizzazione del convegno e del volume che ne raccoglie gli Atti. Carla Di Francesco
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IL GLOBO TERRESTRE DI V INCENZO CORONELLI DELL’ARCHIVI O DI STATO DI B OLOGNA
LE VICENDE CONSERVATIVE
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u Vincenzo Coronelli (Venezia 16501718) si accentrano curiosità e interessi ed anche una associazione, la Internazionale Coronelli, fondata a Vienna nel 1952, che si occupa della ricerca scientifica sulle antiche rappresentazioni terrestri e celesti. Coronelli, geografo, cartografo, editore e inventore, fu inoltre un religioso e superiore dell’Ordine francescano dei Frati Minori Con ventuali, teologo del collegio San Bonaventura di Roma e cosmografo della Repubblica di Venezia. Costruì i primi globi che rappresentavano la terra e i corpi celesti per il duca di Parma, Ranuccio II Farnese. In seguito ne costruì altri che oggi si tro vano in varie città d’Italia e d’Europa. I più famosi sono forse i grandi globi attualmente conservati alla Bibliothèque Nationale de France: Coronelli si recò a Parigi a costruirli per Luigi XIV, dal 1681 al 1683, su commissione del cardinale D’Estrées, ambasciatore francese a Roma. Le due sfere dedicate al re Sole erano coperte in tela, rappresentavano uno la terra allora conosciuta e l’altro il cielo al momento della nascita di Luigi, con le costellazioni dipinte e miniate da Jean-Baptiste Corneille; misuravano 3 metri e 80 di diametro e pesavano circa 2 tonnellate ciascuna. Erano cave all’interno e, si dice, capaci di sostenere il peso di 30 uomini1. La loro prima sede fu il castello di Marly, e poi il Louvre, Versailles, la Villette; ora sono esposti, sospesi, all’ingresso Ovest della sede François Mitterrand della Bibliothèque Nationa-
le, a Tolbiac. Fu forse la loro bellezza a diffondere per tutta Europa la fama di Vincenzo Coronelli, che scrisse varie opere. Pubblicò, tra l’altro, un Atlante Veneto , di cui faceva parte un Libro dei globi , e una Epitome Cosmografica dove pure descrive in maniera dettagliata le tecniche di realizzazione dei globi e i materiali da utilizzare2. In Italia i globi Coronelli si trovano in biblioteche e musei di tutta la penisola. A Venezia, dal settembre 2007 al febbraio 2008, si è svolta al Museo Correr la prima interessante mostra sull’argomento3, che ha illustrato la nascita dell’età d’oro dei globi terrestri avviata dalle scoperte scientifiche del secolo XVI e proseguita nel XVII con i grafici ed editori olandesi. A Bologna i globi Coronelli erano, a metà dell’Ottocento, almeno sette; e varrebbe forse la pena di riallacciare le fila di un racconto lacunoso, ricostruendo l’attuale situazione delle opere coronelliane bolognesi. Si potrebbe partire dalla descrizione delle sfere italiane tracciata da un professore universitario, Matteo Fiorini. Nella sua opera “Sfere terrestri e celesti di autore italiano oppure fatte e conservate in Italia”, edita dalla Società Geografica Italiana nel 1899, si parla di due globi alla Biblioteca Comunale, due all’Archivio di Stato, due al Convento dell’Osser vanza e uno solo, terrestre, in una libreria privata, la libreria Liuzzi4. I due dell’Archivio di Stato, terrestre e celeste, vengono descritti da Fiorini come già danneggiati dai traslochi subiti5, mentre anche quelli dell’Osservanza sono, dice l’autore, “in uno stato miserando”. A tutt’oggi, i globi dell’Osser vanza e quelli dell’Archiginnasio risultano man*
01. Il globo prima del restauro
La prima parte del saggio, sulle vicende conservative del globo, è di Francesca Boris, la seconda, sul restauro, è di Manuela Mattioli.
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02. Effige del Coronelli
canti, forse distrutti da bombardamenti, mentre non si hanno notizie del globo Liuzzi. Trasferimenti rischiosi, intrighi politici, bombardamenti, vicende conservative al limite del pericolo si intrecciano anche nell’avventura secolare dei globi di proprietà dell’Archivio di Stato. Il globo celeste che affiancava il terrestre in seguito fu separato dal nostro e viene considerato perduto.
I due globi, dal diametro di poco superiore al metro, apparivano intatti, ma come “due mappamondi in cattivo stato”6, nel 1877, fra le suppellettili conservate nell’Archivio Demaniale, presso l’antico convento dei Celestini, che raccoglieva gli archivi delle Corporazioni religiose soppresse nel periodo napoleonico e oltre. Erano quindi un retaggio proveniente dal mondo dei conventi e
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03. Particolare di un cartiglio
delle chiese bolognesi. Da un’opera recente7 è stato supposto, ma senza citare prove documentarie, che il Senato di Bologna avesse ricevuto l’omaggio dei due globi Coronelli dal Senato veneziano, intorno alla fine del Seicento o all’inizio del Settecento, e li avesse poi esposti in una chiesa, Santa Maria dei Servi. In ogni caso, come si è visto, nella seconda metà dell’Ottocento i globi,
già malconci, si trovavano all’Archivio Demaniale, nell’ex convento dei Celestini; quindi è molto probabile che provenissero da una chiesa. E con tutto il materiale archivistico delle Corporazioni religiose confluirono nell’appena costituito Archivio di Stato, nella sua prima sede di palazzo Galvani, di fianco all’Archiginnasio. Qui vengono appunto segnalati nel 1899 da Matteo Fiorini,
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04. Interno del globo
che nota come soprattutto uno di loro sia stato ulteriormente danneggiato dal trasporto. Tali condizioni conservative precarie indussero probabilmente la Direzione dell’Archivio a ordinare un intervento di restauro nei primi decenni del Novecento, come è risultato dalla analisi del globo terrestre nel corso delle indagini attuali: ma anche di questa operazione non è rimasta traccia documentaria. Dalla successiva sede dell’Archivio di Stato, di nuovo il convento dei Celestini, i globi dovevano ripartire dopo più di sessant’anni, nel novembre 1941, per un’altra complessa spedizione, che sarebbe stata fatale per il globo celeste. Il ministero dell’Interno li reclamava a Roma, per un inaspettato quanto necessario restauro: si ricordi che l’Istituto di Patologia del Libro era stato fondato da pochi anni, per espressa volontà del regime8. La comunicazione era secca: “Essendo intenzione di questo Ministero di provvedere al restauro dei due mappamondi esistenti in codesto Archivio, si
05. Immagine del degrado
dispone che i mappamondi stessi siano trasmessi all’Archivio di Stato di Roma”9. I globi furono ingabbiati per il trasporto e spediti separatamente ai loro sostegni, che li raggiunsero nell’aprile del 1942. Nel fascicolo di aprile-giugno 1942 del “Bollettino del R. Istituto di Patologia del Libro” (Anno 4, n.2) il restauro viene già dato per terminato. Nella relazione di quell’anno del Direttore dell’Istituto, il professor Alfonso Gallo, si precisa che “il lavoro è stato eseguito dal cav. Mancia dell’Amministrazione degli Archivi”10. Nel “cavalier Mancia” è forse da riconoscere Renato Mancia, che fu dirigente dei Laboratori di ricerche scientifiche dell’Accademia Nazionale del Restauro, ed autore di diverse pubblicazioni sull’arte del restauro11. Non si parlava però di un ritorno a Bologna dei due oggetti restaurati. Gli intenti dovevano essere altri per i globi, i quali (come affermano fonti orali) si vociferava fossero destinati ad avere sede, una volta pronti, a Palazzo Venezia. Si occupò della loro sorte in particolare
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l’allora sottosegretario agli Interni Guido Buffarini Guidi, personaggio di spicco della cerchia di Mussolini e membro del Gran Consiglio del Fascismo, che arrivò a separare i due globi portando a Pisa, dove risiedeva la sua famiglia, il forse più affascinante globo celeste. Questo si deduce da una lettera del Ministero all’Archivio del 1950, dove si parla della distruzione del globo celeste sotto i bombardamenti: “Venne a suo tempo sequestrato presso il magazzino della ditta Marcacci, di Pisa, ove l’ave vano depositato i familiari dell’ex sottosegretario di Stato Buffarini, ma andò poi disgraziatamente distrutto in Pisa stessa in seguito all’incursione aerea del 31 agosto 1943” 12. Non pare siano state svolte ulteriori inchieste sulla scomparsa di questo bellissimo manufatto, forse appartenente all’edizione del globo celeste dedicata da Coronelli nel 1692-93 al cardinale Pietro Ottoboni, nipote di papa Alessandro VIII e illustre mecenate; è definita come edizione convessa, cioè in cui le costellazioni sono rappresentate come osservate dall’esterno, e la posizione delle stelle è quella dell’anno 1700 13. La stessa lettera del Ministero dell’Interno che comunica la perdita del globo celeste indica la sopravvivenza di quello terrestre, che risultava nel 1950 conservato all’Archivio di Stato di Roma, e di cui si stava completando il restauro. Ma dovevano passare ancora diciassette anni, e le proteste di molti studiosi, perché l’Archivio di Bologna riuscisse a ottenere la restituzione del globo superstite14, da allora collocato nel corridoio della Direzione, e in seguito all’interno del locale stesso della Direzione. Le condizioni del globo, nonostante o forse proprio a causa di operazioni di restauro interrotte e riprese più volte attraverso il tempo, rimanevano precarie, e non sono migliorate nei successivi quarant’anni. Sul finire del 2007 la necessità urgente di
un restauro conservativo moderno e di una nuova collocazione più adeguata dal punto di vista della conservazione hanno indotto la Direzione dell’Archivio di Stato di concerto con la Soprintendenza per i Beni storici, artistici ed etnoantropologici di Bologna ad affidare il restauro del globo terrestre a un laboratorio bolognese di provata esperienza, e a richiedere la sua successiva esposizione presso il Museo di Palazzo Poggi, dove già si trova un globo Coronelli di provenienza privata, e dove potrà essere meglio ammirato dalla città a cui fu donato alcuni secoli fa. L’Università si è dimostrata lieta di accogliere la proposta. E ora il globo è collocato in una delle sale più suggestive del Museo, la sala IV, antica sede della biblioteca dell’Istituto delle Scienze, fra arredi settecenteschi e preziosi volumi che ne costituiscono uno sfondo adeguato, in un gioco di rimandi allusivi all’ambiente illuminista che accolse la visione del mondo illustrata dalla sfera. Una teca di plexiglass lo racchiude in un microclima controllato che consentirà di prolungare i benefici del recente restauro e di assicurare le modalità di una conservazione preventiva. Il restauro ha consentito di apprezzare in pieno gli splendidi cartigli, con tracce di colore fra cui un rosso pastoso, e l’espressivo ritratto dell’autore. Il globo terrestre di Vincenzo Coronelli, restituito alla sua primitiva bellezza dal restauro eseguito con perizia da Manuela Mattioli, con la sua superficie dorata gremita di cartigli e raffigurazioni fantasiose di popoli e paesi, è insieme uno sguardo sulla cultura eclettica del Seicento e il ritorno alla luce di un’opera importante del patrimonio artistico e scientifico bolognese, di cui si erano in parte perse le tracce, e che ha percorso una lunga storia avventurosa prima di tornare fra noi.
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06. Fase di pulitura
I L RESTAURO
Coronelli definiva se stesso cosmografo, lo prendiamo ora in esame come ingegnoso costruttore di globi. La datazione del globo si può dedurre dal grande cartiglio posto sotto la Nuova Hollanda, dove abbiamo la dedica che celebra il Doge Morosini e ai piedi del putto, la citazione dell’Atlante Veneto, che il nostro pubblica
nel 1690. Le lastre per realizzare i fusi dei globi della dimensione di tre piedi e mezzo, vennero utilizzate solo fino alla morte dell’autore, ma le stampe dell’ultima edizione vennero montate anche successivamente. I globi del Coronelli ebbero molta fortuna e vennero anche copiati. Se ne conoscono riproduzioni settecentesche manoscritte.
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I globi sono affascinanti oggetti polimaterici. Problematici in ambito conservativo e con la doppia valenza di essere stati usati come strumenti di studio e oggetti di grande prestigio. Nel suo tempo Coronelli sfruttò completamente questa opportunità anche dal punto di vista commerciale. Ciò che differenzia un globo da una carta geografica o da un documento è la complessità e la peculiarità dell’esecuzione e del montaggio che assembla materiali diversi e richiede diverse competenze. L’attuale restauro ha mostrato chiaramente tutto questo. Inoltre ha dato la possibilità di entrare anche materialmente dentro all’oggetto, di arricchire la nostra conoscenza sul modo di operare dell’autore. È stata indagata la superficie del globo con fluorescenza ultravioletta e riflettografia infrarossa per acquisire informazioni preliminari. Successivamente utilizzando il frammento rinvenuto all’interno, privo di sostanze sovrammesse nei precedenti restauri, è stato possibile eseguire la spettroscopia infrarossa FTIR-ATR e la microspettroscopia Raman, in laboratorio15. Con la spettroscopia si è evidenziata la presenza di ossalato di calcio. È una sostanza inorganica, prodotta dalla mineralizzazione di sostanze organiche (particellato atmosferico, patine etc.) esposte all’aria. Con la seconda indagine, si è definitivamente accertata la presenza di gommalacca fortemente ossidata, riconosciuta come la vernice originale.
ed è stata ritrovata in altri suoi globi. Internamente notiamo che in più ci sono delle stecche poste diagonalmente, da riferire a interventi di restauro. La struttura lignea serviva per creare il guscio, sostenere l’asse centrale ed irrobustire tutto l’insieme. Al contempo era abbastanza leggera per essere trasportata facilmente. Abbiamo numerato i fusi partendo dal primo, il meridiano di Greenwich e una iscrizione di Coronelli lo rammenta. Alcuni studiosi iniziano la numerazione dal cartiglio dedicatorio al Cardinale D’Estrées ma purtroppo questo cartiglio a noi manca, assieme a tutto il rispettivo fuso nell’ emisfero Sud. Il fuso n°12, emisfero Nord, risulta sezionato e montato in due porzioni. Vediamo sbordature della colla usata per incollare i fusi e tracce degli inconvenienti di montaggio. Anche se le carte venivano bagnate si formavano spesso pieghe lungo il margine. Durante il restauro queste irregolarità vanno rispettate. Sotto ai fusi abbiamo uno strato a modo di fodera, costituito da fogli stampati, meno spessi, forse un’opera del Coronelli stesso. In altre occasioni ha ripetuto questa procedura e ha anche usato pagine di un suo diario16. Le carte poggiano su di un sottile ed irregolare strato di gesso, che serviva per regolarizzare la superficie della sfera. Coronelli descrisse dettagliatamente le colle, i colori e le vernici da usare per i suoi lavori, anche se poi si adattava ai materiali che trovava in loco e alle possibilità economiche del committente La collatura era data sulla carta stampata prima di acquerellarla, per evitare che il colore trapassasse le carte. Qui abbiamo poche tracce delle acquerellature originali e notiamo che la vernice originale, gommalacca, si è meglio ancorata dove c’è il colore. I pigmenti usati sono i consueti: rosso, bruno, ocra, giallo, verde.
N OTE COSTRUTTIVE
Quasi mai coerente e lineare nell’esecuzione, Coronelli realizza la struttura interna di questo globo in legno, secondo lo schema da lui descritto e maggiormente usato. Di fattura un po’ grossolana, questa struttura è stata rivestita di cartapesta. Manca qui la tela sotto la cartapesta, come è descritta
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07. La sfera a restauro concluso
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Un oggetto curioso, trovato all’interno, potrebbe riferirsi alle fasi costruttive. Si tratta di un dischetto di pergamena manoscritta (molto più antica dell’epoca di Coronelli) tenuto da un laccetto in pelle annodato. Potrebbe trattarsi di una sorta di “tirante” usato per facilitare alcune operazioni di fissaggio. Altrove abbiamo legacci in corda per fissare le calotte al resto. Originale il contrappeso, un mattone scavato ai lati per essere legato ad uno dei traversi della struttura; restano corde e filo di ferro appesi in un punto appena sotto all’equatore. Non tutti i globi di Coronelli erano forniti di contrappeso. Dopo l’attuale restauro, montato nel basamento, rimosso il contrappeso, è orientabile a piacere. È stato fermato quindi nella posizione prescelta. Il globo ha un meridiano di legno e carta manoscritta recante i gradi, dove si innestano in apposite sedi di ottone i perni metallici inseriti nell’asse centrale della struttura. Molto belle le carte poste sul circolo dell’orizzonte che evidenziano i segni zodiacali e i mesi. S TATO DI CONSERVAZIONE
Si riscontrano strati di sporcizia, particellato atmosferico su tutte le superfici cartacee con maggiore concentrazione sull’emisfero Nord. Abbiamo anche abrasioni, consunzioni della carta con perdita di leggibilità, causate da manipolazioni, contatto con l’anello meridiano e tentativi di pulitura. Strati tenaci e di diverso tipo di colle dei precedenti incollaggi, soprattutto all’equatore ed emisfero Sud; incollaggi eseguiti maldestramente con arricciature e deformazioni della curvatura della calotta, sfibramento della carta resa fragile dalle colle. Residui discontinui e frammentari della vernice originale che sulle carte dell’orizzonte è molto scurita ed alterata. Le stuccature del precedente restauro,
eseguite con fibre di carta e colla animale forte, sono ricoperte di carta giapponese debordante. Ci sono un paio di fenditure dovute a strappo dal materiale originale, con conseguente rottura della calotta. I fusi sono in molti punti staccati dal supporto, poiché lo strato di gesso sottostante, molto sottile, si è sbriciolato a seguito di traumi e ha perso elasticità. Distacchi notevoli anche sulle carte dell’orizzonte. P RECEDENTI INTERVENTI DI RESTAURO
Restauri individuati e/o documentabili: -Primo quarto del XX secolo in ambito bolognese. -Anni quaranta e sessanta del XX secolo presso l’Istituto di patologia del libro di Roma. Sembra ci siano state riparazioni di fratture e scollature della carta eseguite precedentemente rispetto all’intervento dell’Istituto di patologia del libro. Nelle zone periferiche delle lacune e degli incollaggi si notano tracce di colla forte tenacissima e molto scura, diversa da quella utilizzata per impastare lo stucco di fibre e collare la carta a fine lavoro. C’è un vecchio innesto cartaceo manoscritto conservato anche nell’ultimo restauro romano. Risalenti a un primo restauro sono parte degli interventi, difficilmente da quantificare, all’interno del globo. Testimoniati dai frammenti cartacei tardo-ottocenteschi reperiti. Questi sono manoscritti, probabilmente degli elenchi, riciclati in ambito archivistico per le riparazioni da eseguire all’interno. Infatti alcuni sono sagomati come le parti della struttura interna e sarebbero la prova che alcuni pezzi di legno sono stati rifatti o aggiunti. La cosa più interessante è ciò che leggiamo su queste carte: appare il cognome Ranuzzi , di ambito bolognese. Il mattone venne ancorato meglio alla sua sede.
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Questo primo importante restauro venne effettuato dopo che il Fiorini descrisse questi globi già in pessime condizioni, e forse molti anni prima della sfortunata partenza per Roma durante la guerra, nel 1941. L’autore di questo restauro avrebbe potuto documentarsi visionando la rara copia del Libro dei Globi di Coronelli già presente all’Archiginnasio dal 1907. È certo che anche durante il restauro romano siano entrati all’interno del globo. Vediamo una riparazione fatta in un legno tipo compensato. Alcuni dei vecchi incollaggi sono stati ripresi poiché sotto alle carte riposizionate abbiamo trovato lo stesso stucco a base di fibre di cellulosa impiegato nelle grandi lacune. Stesse modalità di restauro le troviamo sulle carte dell’orizzonte. M ATERIALI E METODI
Il restauro ha dovuto affrontare ed in parte accettare, i danni irreversibili causati non solo dal tempo, ma dall’uso e da gravi traumi subiti durante i vari spostamenti. Scriteriati e ormai obsoleti interventi di riparazione hanno favorito il degrado. Il criterio scelto è stato prettamente conservativo. Si è deciso di rispettare alcuni dei precedenti interventi poiché la rimozione avrebbe causato ulteriori traumi alla struttura e soprattutto alla carta, in molte parti abrasa e deteriorata da procedure e colle inadatte. È stato necessario entrare all’interno per rimuovere l’inedito contrappeso, un mattone, che staccatosi, stava causando danni alla struttura. La pulitura di tutte le superfici cartacee da sporco, vecchie colle e maldestre integrazioni, ha permesso di recuperare la leggibilità del globo e dell’orizzonte. I residui della vernice originale del globo sono stati conservati, rimossi invece sulle carte dell’orizzonte dove erano fortemente alterati ed
anneriti. Sono stati fatti saggi di pulitura preliminari per individuare le sostanze sovrammesse e le migliori metodologie da usare. Ai gel acquosi prescelti sono state addizionate piccole percentuali di sostanze basiche. Migliorano l’effetto detergente e hanno azione deacidificante. Per alleggerire e rimuovere la vernice alterata sulle carte dell’orizzonte, sono stati necessari impacchi con gel alcolico17. In molte parti gli stessi eteri di cellulosa in acqua o alcol sono serviti come consolidante e protettivo per la superficie cartacea. Ulteriori residui di cera e di sporco sono stati alleggeriti a secco, cautamente, con l’ausilio di un bisturi. A seconda delle zone sono stati variati i prodotti e i materiali per ottenere un migliore risultato. I residui di colle, per lo più nell’emisfero Sud, sono stati parzialmente rimossi con acqua calda. Il mistero di una persistente patina grigiastra è stato poi risolto dalle indagini diagnostiche, che ci hanno anche confortato nella decisione di conservare quasi interamente i residui di vernice originale. Alcuni dei precedenti incollaggi sono stati revisionati, per ripristinare una migliore curvatura della superficie, consolidarla e appianare le carte dei fusi. Gli adesivi oggi a disposizione, a differenza da quelli usati nel passato, sono perfettamente compatibili con carta e cartapesta e più facilmente reversibili nel tempo. Sono state fatte prove di incollaggio per trovare un adesivo compatibile con i vari materiali, che consolidasse lo strato di gesso e cartapesta e al tempo stesso in grado di penetrare bene e di essere iniettabile, oltre ad essere tenace, poco igroscopico e reversibile nel tempo. La scelta è caduta su una miscela variabile di beva e di klucel G. 18 Questa formula in dispersione acquosa, a differenza di altre resine acriliche o viniliche è garantita reversibi-
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8. Particolare dell’orizzonte
le nel tempo in solventi polari 19. L’intervento si è concluso con un’intonazione neutra ad acquerello delle vaste lacune, opportunamente ripristinate. Durante questo restauro sono state fatte delle scelte operative, motivate dalle condizioni critiche dell’oggetto. Abbiamo usato il criterio rigoroso di non asportare o modificare nulla di quanto fatto e da Coronelli costruito, fatta eccezione per il contrappeso, per le motivazioni già illustrate 20. Tutti i distacchi di porzioni di carta sono stati effettuati dove già erano stati rimossi nei precedenti restau-
ri e solo dove possibile senza ulteriori rischi, per migliorare l’adesione o la planarità delle superfici. Nessuna nuova vernice è stata applicata poiché la teca svolgerà una buona protezione. È stata valutata questa opera di Coronelli nella sua peculiarità di essere una creazione così eterogenea e in un certo modo unica per la sua storia conservativa. Molti materiali e vicende si intersecano, sarebbe un errore pensare di circoscriverne l’atto del restauro nell’ esclusivo ambito dei materiali cartacei.
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F. Bonoli, Coronelli astronomo ed i globi celesti, in Vincenzo Coronelli astronomo e intellettuale , a cura di M. G. Tavoni, Pieve di Cento 1998, pp. 2-12. F. Bonoli, Vincenzo Coronelli e il globo terrestre Giovanni Enriques, Bologna 1991; L. Franco, Vincenzo Coronelli: vita e opere. Aggiornamenti , in “Nuncius” 1994, pp. 517541; F. Bonasera, Per una classificazione dei globi celesti di Vincenzo Coronelli , in “Coelum” 1951, pp. 161-164. “Sfere del cielo sfere della terra. Globi celesti e terrestri dal XVI al XX secolo” Venezia, Museo Correr, 28 settembre 2007- 29 febbraio 2008. M. Fiorini, Sfere terrestri e celesti di autore italiano fatto o conservate in Italia , Roma 1899, p. 474. Ibidem, p. 352. ASBo, Archivio della Direzione, “Inventario degli oggetti mobili che trovansi nell’Archivio Demaniale già esistente nell’ex convento dei Celestini ed ora trasportato nel Palazzo Galvani, dati in consegna, per ordine del Ministero delle Finanze, al Direttore dell’Archivio di Stato di Bologna”, 1877. F. Nicolini Di Marzio, Vincenzo Coronelli (1650-Venezia-1718). Epitome storica veneziana nel culto ambivalente della loro identità. Memorie e risonanze , Napoli 2005.
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L’Istituto nasce a Roma nel 1938 per iniziativa di Alfonso Gallo, con la finalità di “coniugare discipline scientifiche e studio storico dei materiali librari”. ASBo, Archivio della Direzione, 1941. Per la ricerca archi vistica sul fondo della Direzione in Archivio di Stato, desidero ringraziare Alessandra Scagliarini e Licia Tonelli.
9. Il globo al museo
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ICPAL, Archivio dell’Istituto di Patologia del Libro, “Relazione del Direttore”, 1942. Per le informazioni e la ricerca ringrazio Cinzia Pacilli dell’Istituto centrale per il restauro e la conservazione del patrimonio archivistico e librario. R. Mancia, L’esame scientifico delle opere d’arte e il loro restauro, Milano 1944. ASBo, Archivio della Direzione , 1950. Sul restauro di un globo celeste concavo di Coronelli, N. Scianna, Restaurare il cielo. Il restauro del globo celeste faentino di Vincenzo Coronelli , Bologna 2007. È dell’8 aprile 1967 la lettera del Ministero dell’Interno con cui si comunica che “Questo Ministero…ha disposto che il mappamondo del Coronelli, inviato a Roma circa 30 anni or sono per l’esecuzione di alcuni restauri, sia restituito a codesto Archivio di Stato, al quale originariamente apparteneva” (ASBo, Archivio della Direzione , 1967). Si ringraziano la Dott.ssa Rosa Brancaccio del Dipartimento di Fisica dell’Università di Bologna e il Dott. Diego Cauzzi della Pinacoteca di Bologna. Comunicazione verbale del Prof. N. Scianna, che si ringrazia. Klucel G.(idrossipropilcellulosa) in acqua distillata, ammoniaca, alcol. BEVA etilvinilacetato, idrossipropilcellulosa, acqua distillata. Es. in alcol e acqua. È depositato assieme agli altri reperti rinvenuti all’interno, presso l’Archivio di Stato.
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UN ESEMPIO DI RESTAURO: L’ARCHIVIO N OTARILE A NTICO DI F ERRARA
Antonietta Folchi
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resso l’Archivio di Stato di Ferrara si conserva il fondo degli Atti dei notai di Ferrara, Codigoro e Comacchio, e frammenti di atti notarili di Argenta, il cui archivio andò distrutto durante la seconda guerra mondiale. È costituito da circa 9.000 pezzi tra buste, mazzi, volumi e registri, per un arco cronologico compreso tra 1334 e il 1907 (Fig. 1). All’interno del fondo si conserva la serie dei protocolli in cui i notai scrivevano le minute dei loro atti (dette anche imbreviature), da cui si traeva poi l’atto definitivo. Il notaio – stabilivano gli Statuti1doveva indicarvi la data, il luogo del contratto, i nomi dei testimoni e il contenuto del negozio con tutte le precisazioni formali e sostanziali opportune. Doveva inoltre il notaio porre al principio del suo protocollo e comporre di sua mano il proprio segno di tabellionato e sotto tale segno far seguire la descrizione: «questo è il libro o il protocollo di me tale, figlio del tale, del tale luogo, pubblico e autentico notaro secondo l’autorità apostolica o imperiale o collegiato inscritto nella matricola dei notari della città di Ferrara, contenente in sé tutte e singole imbreviature, dei contratti e degli scioglimenti di contratti e delle ultime volontà, delle quali sarò incaricato; scritto e descritto e confezionato nel millesimo e sotto la tale indizione e nei mesi e nei giorni infrascritti» (Fig. 2 ). Accanto ai protocolli e da essi distinte, si conser vano le schede che costituiscono una prima stesura per esteso del contratto o di ciascun istrumento. Occorreva infatti, stabilivano gli Statuti, che 01. Archivio di Stato di Ferrara. Atti di Notai
le imbreviature fossero scritte «bene e per esteso, ordinatamente e distintamente, parola per parola, con tutte le formalità solenni e le clausole opportune che siano proprie della natura e sostanza di quel contratto o istrumento». Il notaio teneva perciò «un libro o quaderno di schede» che dove va provvedere a conservare bene rilegandole ogni millesimo. Anche in questo quaderno il notaio doveva apporre il segno di tabellionato. Si tratta, in altre parole, delle scritture notarili servite di base alla redazione dell’instrumentum dotato di publica fides (Fig. 3). Nel fondo notarile si conservano anche gli indici dei nomi delle parti contraenti (1613-1816), i repertori e le matricole dei
02. Esempi di signum tabellionis di notai ferraresi
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03. Schede del notaio Girolamo Bonsignori, 1571
notai (Fig. 4 ) nonché le serie delle copie degli atti registrati, sec. XIX, di Codigoro e Comacchio. Per quanto riguarda invece Ferrara, in seguito agli eventi della fine della guerra, sono andate distrutte nel 1945 le copie degli atti versate all’ufficio estense dei Memoriali (1422-1613) e poi a quello pontificio del Registro (1613-1796), nonché le copie di atti di epoca napoleonica. L’esercizio del notariato a Ferrara, che com’è noto, risale all’ordinamento comunale, poi signorile, fu disciplinato negli statuti di Obizzo II, 1287 (li-
bro II) che furono successivamente adeguati alle mutate condizioni politiche attraverso le parziali riforme del 1320 e 1456 (Borso) e le successive revisioni fino al 1534, sotto Ercole II, e al 1567, sotto Alfonso II d’Este ( Fig. 5 ). I punti di riferimento della regolamentazione a Ferrara della professione notarile, in epoca medioevale e moderna, sono gli statuti del 1287 e quelli del 1534. Non intervennero infatti sostanziali modifiche nel successivo periodo della Legazione pontificia fino alla Rivoluzione francese.
04. La matricola dei notai di Ferrara, 1458-1514
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05. Statuti della città di Ferrara, 1567
Il regolamento napoleonico del 17 giugno 1806 disciplinò organicamente la materia del notariato e degli archivi notarili nell’allora Regno d’Italia, fra cui rientrava Ferrara. Furono aboliti i collegi e i consigli notarili (poi ricostituiti con la prima legge unitaria sul notariato del 1875); fu istituito a Ferrara, capoluogo del dipartimento, un archi vio generale notarile e furono creati archivi notarili sussidiari a Codigoro e Comacchio, con il compito di concentrare tutte le scritture dei notai cessati dall’esercizio.
06. Il progetto di restauro
Per la ricchezza del materiale custodito e le vastissime possibilità di utilizzazione delle scritture in ogni settore degli studi storici, in campo politico o economico, per la storia del diritto o per quella dell’arte, gli archivi notarili costituiscono, com’è noto, fonti insostituibili su tutto il territorio nazionale. Il fondo notarile ferrarese, che è tra i più cospicui e indenni da perdite tra quelli conservati presso l’Archivio di Stato, è anche uno dei più consultati e ciò ha rappresentato un criterio, non il solo, che ha guidato nella scelta del materiale da
07. Rilevamento dello stato generale
sottoporre all’opera di recupero: ha inciso infatti l’importanza del fondo, ma anche la constatazione del precario, spesso pessimo, stato di conservazione in cui versavano le carte prima dell’acquisizione da parte dello Stato, in particolare, come vedremo, per i danni provocati dall’umidità. Pertanto sono stati finanziati dal Ministero per i beni e le attività culturali tre interventi conser vativi. Essi sono stati realizzati su progetto del Centro di fotoriproduzione legatoria e restauro di Roma, e hanno riguardato la documentazione più antica e più danneggiata conducendo in tal modo al recupero di circa 36.000 carte di atti (protocolli e schede) dei notai che rogarono a Ferrara tra il 1399 e il 1641. Tra di essi figurano quelli che stesero atti anche per gli Este, signori di Ferrara fino al 1598, i quali sono di particolare importanza per le ricerche in loco, in quanto tutto l’archivio segreto estense fu trasferito a Modena quando il ducato di Ferrara passò sotto il diretto dominio della Santa Sede.
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Aggiungo che con il finanziamento dello Stato sono stati realizzati anche altri interventi di restauro così sulla serie Mappe del Catasto gregoriano che proseguiranno anche quest’anno grazie alle somme stanziate dal Ministero nella programmazione dei lavori pubblici, per un importo di circa 52.000 euro. I lavori di restauro sono stati affidati a ditte esterne e ciò ha comportato lo svolgimento di una serie di adempimenti di natura tecnico-amministrativa svolti dalle due archiviste preposte al Servizio di conservazione dell’Istituto. In primo luogo l’indi viduazione del materiale da sottoporre al restauro, che presuppone l’elaborazione di una mappa aggiornata dei fondi d’archivio in precario stato di conservazione e la determinazione delle priorità di intervento. La cartulazione ex novo dei pezzi selezionati, quindi la progettazione e l’inserimento dell’intervento nella programmazione triennale dei lavori pubblici. Segue l’indizione della gara d’appalto che dà luogo ad un’altra serie di adempimenti: direzione dei lavori, sopralluoghi in corso d’opera, consegna, riconsegna e collaudo finale. Per queste ultime operazioni e per la progettazione, ci si è av valsi del personale tecnico-scientifico del Centro di fotoriproduzione legatoria e restauro, con sede a Roma. Al centro di tutto il procedimento resta naturalmente il progetto di restauro che spetta all’archi vista e che rappresenta «il momento metodologico di riconoscimento» del bene culturale «nella sua consistenza fisica e nella sua duplice valenza estetica e storica in vista della sua trasmissione al futuro»2. Il restauro, che è il momento estremo della conser vazione, si definisce pertanto nel riconoscimento del «valore archeologico» del supporto scrittorio,
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08. Stato di conservazione
della legatura e di tutte le tracce delle vicende alle quali il documento è stato sottoposto attraverso i secoli, e nella consapevolezza che la scomposizione dell’unità determina la perdita delle informazioni storiche in esso contenute che non potranno mai più essere ricostruite interamente nella loro status originale3. Il progetto assume anche una forte valenza amministrativa: le offerte delle ditte invitate alla gara devono essere formulate sulla base del progetto medesimo e ciò pone tutti i partecipanti sullo stesso piano; inoltre è parte integrante del contratto per le obbligazioni poste a carico dell’appaltatore Il progetto sul quale ci soffermeremo riguarda 14 pezzi della serie Atti dei notai di Ferrara (14561594 ), per un totale di 8.476 carte. Il progetto è stato elaborato dall’archivista Cecilia Prosperi con la collaborazione dei tecnici Silvia Di Franco, Gabriella Rava e Ciro Di Simone ( Fig. 6 ). I documenti erano conservati all’interno di pacchi in carta paglierina, chiusi con una fettuccia,
09. Stato di conservazione
sui quali sono riportati il numero di matricola del notaio, il cognome e nome, gli estremi cronologici del protocollo e il numero del pezzo all’interno della serie dei protocolli degli atti rogati dal medesimo notaio (Fig. 7 ). All’interno di ogni pacco erano contenuti una serie di fascicoli e/o volumi raggruppati per anni (dal 1456 al 1594). I fascicoli erano a volte conservati in coprifascicoli di carta-paglia con l’indicazione a matita dell’anno di appartenenza. A volte erano cuciti ognuno singolarmente e in questo caso avevano una coperta in cartoncino pesto leggero o erano privi di coperta. In altri casi ancora i fascicoli erano cuciti insieme con nervi in pelle o con ancoraggio diretto con o senza tassello in pergamena e avevano coperte in pergamena floscia o in cartoncino. A una rilevazione a campione della solubilità degli inchiostri, gli stessi sono risultati stabili, ma il test è stato comunque eseguito sistematicamente prima di ogni trattamento per via umida. I danni maggiormente riscontrati sono stati causati dall’umidità e da infiltrazioni d’acqua che
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10. Stato di conservazione
hanno reso i supporti fragili, feltrosi (fenomeno per cui le fibre cellulosiche si uniscono tra loro) e gorati fino, talvolta, a scolorire gli inchiostri e a causare la perdita di parti del supporto ( Figg. 8-10 ). Sporadicamente si è rilevata la presenza di erosione murina e di camminamenti di anobidi. Le carte erano generalmente sporche, soprattutto in prossimità dei margini che, a causa di un non idoneo pregresso condizionamento, erano anche sfrangiati e indeboliti. Sono presenti anche tagli e lacune, specie sulle prime e sulle ultime carte (Fig. 11). Anche le coperte in pergamena erano danneggiate. Qui vediamo il volume dell’a. 1571 del notaio Girolamo Bonsignori che presenta una coperta in pergamena floscia con 3 corregge - di cui una mancante - in cuoio con intreccio in pelle allumata (Fig. 12 ). Le operazioni preliminari al restauro sono state: 1. la cartolazione, ovvero la numerazione progressiva delle carte mediante matita di grafite. Il numero viene posto generalmente in alto a destra sul
11. Stato di conservazione
recto della carta. L’operazione è di competenza del
soggetto appaltante; 2. la fascicolazione, che consiste nel controllo dei fascicoli costituenti il volume da effettuarsi annotando su apposito diagramma la composizione dei fascicoli, le particolarità della sequenza delle carte e l’eventuale presenza di allegati; 3. la documentazione fotografica a campione dello stato di conservazione del pezzo prima del restauro con particolare riguardo agli elementi visibili che lo compongono, legature e danni presenti. Le operazioni di restauro sono state le seguenti: -scucitura da effettuare recidendo, all’interno dei fascicoli, i fili di cucitura con bisturi o forbici a punta sottile; -spolveratura da eseguire utilizzando un pennello a setole morbide; -test di solubilità degli inchiostri nei confronti dei prodotti – solventi o soluzioni – successivamente utilizzati, che viene eseguita in più punti di ciascun pezzo e di norma per ciascun tipo di inchiostro presente;
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12. Stato di conservazione
-lavaggio in acqua deionizzata ad una temperatura massima di 30°; -deacidificazione (trattamento a base di sostanze alcaline che neutralizza l’acidità e fornisce alle carte una riserva alcalina per preservarle da future insorgenze di acidità) per immersione delle carte in soluzione di carbonato di calcio (o,3g/l) e acqua deionizzata, fatta gorgogliare con anidride
carbonica fino alla trasformazione del carbonato in bicarbonato; -leafcasting che che ha riguardato oltre la metà delle carte. Per leafcasting si si intende una serie di operazioni eseguite utilizzando un un’apparecchiatura ’apparecchiatura costituita da una macchina ponitrice di fibre di cellulosa che consente di risarcire le lacune, suturare le lacera-
13. I nuovi contenitori
zioni, ricostruire i margini. Sostituisce alcune fasi del tradizionale restauro manuale, reintegrando le zone mancanti del documento4; -velatura indiretta totale, ovvero operazione di consolidamento e rinforzo del supporto consistente nell’applicazione di un velo giapponese sulla superficie delle carte. Si è proceduto alla velatura delle carte restaurate dopo leafcasting applicando applicando i veli precedentemente collati e posti ad asciugare applicata su tutta la superficie di una facciata del supporto (e scegliendo naturalmente, ove possibile, quello con minore presenza di testo). -rifilatura delle eccedenze di velo e carta giapponese nel rispetto dei margini originali;
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-ricomposizione delle carte in fascicoli, ricontrollando e rispettando la numerazione e l’assemblaggio degli stessi secondo la sequenza originaria. Per i fascicoli restaurati manualmente, dopo la deacidificazione, sono state eseguite: a) la ricollatura (operazione di consolidamento e rinforzo successiva ai lavaggi); b) lo spianamento per eliminare ondulazioni e arricciamenti; c) il mending , che consiste nel risarcimento manuale della carta, ovvero operazione di restauro di carta lacera o lacunosa mediante apposizione, con adesivo, di carta giapponese di grammatura idonea e di tono cromatico adeguato all’originale e rinforzo dei margini con velo giapponese, che è uno speciale tipo di carta fatta a mano, di fibre vegetali e con altre caratteristiche che la rendono durevole e stabile nel tempo; d) velatura parziale o totale ove necessario; e) rifilatura; f) ricomposizione dei fascicoli. La diversità originaria dei tipi di cucitura e legatura delle carte ha comportato una differenziazione delle tipologie di condizionamento condizionamento.. Passando Pas sando dagli originari pacchi di carta paglierina a contenitori rigidi (scatole) si è ritenuto di ridurre al minimo lo spessore totale delle nuove camicie utilizzate per separare gli anni all’interno dello stesso nucleo. Mentre un cartoncino durevole (0,76mm) è stato riservato al condizionamento dei fascicoli di carte sciolte lasciando l asciando naturalmente i fogli non cuciti (Fig. 13). Precise indicazioni sono state date anche per la cucitura dei fascicoli determinando, per esempio, lo spessore del dorso, fino a 2,5 cm per la cucitura diretta dei fascicoli alla coperta in cartone durevole e fino ad un numero di tre fascicoli.
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Ferrarini, 1543 14. Scheda progetto n.10 - Notaio Giacomo Ferrarini,
Per gli 8 volumi originariamente con coperta in pergamena floscia sono state previste nuove coperte in pergamena semifloscia con lacci di chiusura e ribattiture fissate con punti in pelle allumata. Per ciascun pezzo è stato previsto un contenitore del tipo a conchiglia in cartone Cagliari, rivestito esternamente in tela Buckram e internamente in carta barriera (dello spessore di 0, 38 mm).
La progettazione prende in dettagliato esame il singolo manufatto sia esso registro, codice, filza, protocollo, ecc., in ogni sua componente, come possiamo vedere dalla scheda progetto n. 10 delle quattordici predisposte (legatura, nervi, ribattiture, piatti, carte di guardia, dorso, cucitura, capitello, materiale del capitello, danni alle coperte, stato di conservazione delle carte, danni alle carte, danni ai fogli membranacei, in-
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15. Protocollo del notaio Giacomo Ferrarini, 1543 ante restauro
chiostri) (Fig. 14 ). Una scheda assai complessa e articolata, che tuttavia, è stato osservato 5, «presenterà sempre delle lacune, perché non tutto può essere previsto e contemplato». Da ciò deriva che il restauro del libro o del documento diventa un’operazione di recupero del pezzo e delle informazioni deducibili dall’oggetto «attraverso la lettura storica del manufatto e si realizza, nel migliore dei casi, nel consolidare le strutture originali riducendo al minimo le operazioni invasive»6. Trattandosi di un bene che assol ve la propria funzione quando viene consultato, un’ulteriore finalità che deve perseguire l’opera del restauratore è quella di «restituire un bene nuovamente fruibile». Nel difficile equilibrio tra le due esigenze, cioè rispetto dell’originalità e della fruibilità, solo quando risulti indispensabile, sono studiate e ammesse minime variazioni rispetto alla struttura originaria 7.
16. Notaio Giacomo Ferrarini, 1543 dopo il restauro
A tale regola fondamentale è stata improntata l’opera di recupero dei protocolli notarili ferraresi come possiamo constatare dalle immagini ante e post restauro di alcuni di essi ( Figg. 15 -19). È auspicabile che l’azione di restauro e di salvaguardia del patrimonio documentario custodito nell’Archivio di Stato di Ferrara possa contare anche sul contributo di altri enti e istituzioni sensibili alla conservazione delle memorie storiche in un’era, qual è quella attuale, in cui, se da un lato il cartaceo sta cedendo sempre di più il passo ad altre forme di comunicazione e trasmissione delle informazioni - con tutti i pericoli che l’uso delle nuove tecnologie comporta quanto a durevolezza delle medesime, dall’altro, senza un’efficace azione di conservazione del patrimonio, si rischia di non poter più leggere neanche le testimonianze delle epoche passate per ricostruirne la storia.
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17. Schede del notaio Giovanni Battista Codegori 1568-1579
18. Notaio Giovanni Battista Codegori 1568-1579 dopo il
ante restauro
restauro
19. Scheda progetto n. 9 - Notaio Marco Bruno Anguilla 1547-1575 dopo il restauro
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A. La Rosa, Il notariato ferrarese negli statuti comunali del 1287 e del 1534 , Ferrara, 1968 (Deputazione provinciale ferrarese di storia patria, Atti e memorie, serie III, vol. VIII). C. Brandi, Teoria del restauro, Torino, 1970. F. Alloatti, Restauro: un concetto in evoluzione, in «Biblioteche oggi», a. XXII n.5, 2004.
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5 6 7
C. Prosperi, Il restauro dei documenti di archivio. Dizionarietto dei termini , Roma, 1999. F. Alloatti, art. cit . Ibid . E. Tonetti, Il restauro delle carte notarili dell’Archivio di Stato di Venezia alluvionate nel 1966 , in www.archiviodistatodivenezia.it
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IL RES TAURO DEL CABREO AB 265 “TERR ENI AP PARTENENTI AI PAVOLOTTI DI RIM INI”
Gianluca Braschi
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in dall’inizio, la manifestazione “Terra nostra. Quattro passi nella storia di Rimini ”, è stata pensata come un evento
culturale complesso: complesso perché, promosso e ospitato dall’Archivio di Stato di Rimini, è stato, in realtà, reso possibile dalla determinante e stretta collaborazione dell’Associazione “Quei de’ borg ad Sant’Andrea ” e del Comune di Rimini e dai contributi accordati a diverso titolo dalla Fondazione Cassa di risparmio di Rimini e dall’Ente Fiera di Rimini, con il patrocinio del Fondo per l’Ambiente Italiano, degli Ordini Riminesi degli Ingegneri e degli Architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori, e dell’Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Rimini. Un evento complesso soprattutto perché, oltre alla pubblicazione di un libro e del DVD C’era una volta, a Rimini, la Fornace Fabbri, catalogo filmato della mostra a cura di Manuela Fabbri e altri, ha compreso la mostra documentaria “ Porte aperte all’Archivio di Stato. II territorio della fabbrica di mattoni in Borgo Sant’Andrea ”, la proiezione del film C’era una volta, a Rimini, la Fornace Fabbri , una vi-
sita guidata alla chiesa di san Bernardino (uno fra i monumenti più interessanti e probabilmente meno conosciuti della città) e la presentazione della pubblicazione I Poderi della Ghirlandetta a Rimini: dai Malatesta ai fratelli Davide e Luigi Fabbri , di Oreste Delucca nella magnifica cornice della piazzetta San Bernardino, per l’occasione sgomberata dalle auto e chiusa al traffico, pedonalizzata e ricondotta, grazie a un sapiente e scenografico arredo urbano, al suo ruolo di punto di incontro e pubblico salotto del rione Montecavallo. * Cabreo AB 265, 2r, Saludecio (dopo il restauro)
E proprio da quest’esperienza ha preso le mosse l’organizzazione della mostra documentaria, “ Porte Aperte all’Archivio di Stato. II territorio della fabbrica di mattoni in Borgo Sant’Andrea ”, e della relati-
va pubblicazione di Oreste Delucca (peraltro già presente, col suo contributo, nel catalogo filmato). Seguendo la propria vocazione, I’Archivio di Stato ha trascelto dal suo vasto patrimonio documentario i documenti più adatti a tracciare la storia del territorio su cui, poi, è sorta la Fornace Fabbri: atti notarili del XV e XVI secolo, nonché cabrei del XVIII secolo, sono stati esposti in virtù della loro importanza storico-documentaria, ma anche con un occhio alla particolare valenza estetica (innegabile nel caso dei cabrei settecenteschi). Non a caso – come già provveduto per tutte le pergamene del Diplomatico Riminese, ora integralmente riprodotte in formato digitale ad alta definizione e presto disponibili in linea nel Sistema informati vo degli Archivi di Stato (www.archivi-sias.it) – si pensa a un’acquisizione digitale anche per i cabrei. Il saggio di Oreste Delucca sui Poderi della Ghirlandetta rende conto di questa complessa e puntua-
1. Lo stato di conservazione della copertura esterna del Cabreo
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Cabreo AB 265, 3r, Dichiarazione dell’estensore del cabreo Alessandro Bertolucci, scrivano (dopo il restauro) 02.
le ricerca documentaria, tracciando la storia di una specifica area urbana dal XV secolo ai nostri giorni, un’area – è bene ricordarlo – su cui già erano presenti insediamenti romani, se proprio nel territorio della fornace è stato ritrovato un ritratto bronzeo di Agrippina Minore, ora al Metropolitan Museum di New York. Si profila così una linea ideale tra il passato romano e il presente contemporaneo. La successione dei vari passaggi di proprietà (da quando, il 27 luglio 1452, Isotta degli Atti acquista per 250 lire un podere di sei tornature e poi, il 21 maggio 1471, un altro podere di otto tornature espressamente citato come Ghirlandetta, fino ai nostri giorni) mette in mostra (è proprio il caso di dirlo) un bel pezzo di storia locale, evidenziando, oltre alle confische e agli espropri di epoca napoleonica, i pesanti interventi sul territorio passato e presente: la deviazione del fiume Ausa, i vari inserimenti edilizi, i nuovi tracciati viari e la stessa costruzione della fornace e relativa cava, di cui rimane traccia tutt’oggi nel cosiddetto laghetto PEEP. L’idea di abbinare il restauro di un documento tanto importante quanto finora così poco consultato come
03. Cabreo AB 265,
6v, Santa Giustina e Cabreo AB 265, 7r , Saludecio (prima del restauro)
il Cabreo AB 265 più noto come Cabreo del Borgo di sant’Andrea all’esposizione Porte Aperte all’Archivio di Stato: il territorio della fabbrica di mattoni in Borgo Sant’Andrea è sorta spontaneamente proprio durante le ricerche d’archivio che hanno portato e alla mostra e alla pubblicazione di Oreste Delucca. Due erano, infatti, gli obiettivi cui si mirava coll’allestimento della mostra: sviluppare una tematica di storia locale sia secondo la modalità espositiva o, se vogliamo, visuale tipica di una mostra secondo un percorso che è insieme didascalico e narrativo sia secondo quella di un saggio storico nato da un lavoro di attento scavo e studio accurato delle fonti conservate presso quest’Istituto. Se da una parte una mostra documentaria come quella che è stata allestita nei locali dell’Archivio rende visibili, anzi tangibili, i documenti che con la fitta trama delle loro interrelazioni costituiscono concretamente ogni storia, se non addirittura la Storia, viene presto il momento di trarre le fila di questa trama e farne una narrazione completa. Attraverso l’escussione di quelle che sono le serie documentarie più importanti sia per l’aspetto gra-
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fico e visuale sia per quello documentario e di testimonianza fra quelle conservate presso l’Istituto si snoda un percorso narrativo che affronta passo per passo la linea delle successioni di proprietà e delle destinazioni d’uso del podere della Ghirlandetta sui cui è stata costruita ed ha operato la Fornace e su cui in un futuro ormai prossimo saranno costruiti il Pala Congressi e l’Auditorium della città di Rimini nel solco di una tradizione che pare non volersi mai estinguere per questo lembo di territorio un tempo. II rispecchiamento puntuale fra la mostra documentaria e la pubblicazione, che da quegli stessi documenti è tratta, ha in primo luogo un intento didascalico: vuole svelare al pubblico quella che potremmo definire I’officina dello storico, gli attrezzi del mestiere di cui si serve per raccontare le sue storie. È sembrato un modo abbastanza concreto di mostrare quale sia I’importanza di un Archivio di Stato e, soprattutto, di darne un’immagine più amichevole e, se possibile, dinamica. È sembrato, per tanto, ovvio portare alla luce un reperto così importante e così particolarmente attinente al tema trattato dalla mostra anche in considerazione del fatto che il documento non aveva finora ricevuto l’attenzione che gli sarebbe spettata sia in virtù della sua importanza documentaria sia in virtù della sua valenza – per così dire – estetica condivisa, per altro, dalla grande maggioranza dei documenti di questo tipo (cabrei, mappe catastali) del periodo. Sembra superfluo rammentare che in archivistica parlare di reperti è sempre un po’ fuorviante. Dal punto di vista di un archivio i vari documenti sono sempre lì: è solo la ricerca che li porta all’attenzione di volta in volta e portare all’attenzione di volta in volta i documenti è prima di tutto e fondamentalmente un’avventura intellettuale.
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Se – come si dice – niente è più inedito dell’edito, per quanto vero che il Cabreo da sempre era regolarmente registrato negli inventari dell’Archivio di Stato di Rimini (all’Inventario del Comune di Rimini e delle congregazioni religiose soppresse compilato nel 1865 da G. Corsi deve, infatti, la sua attuale denominazione), è solo col restauro che è potuto entrare a tutti gli effetti fra i documenti normalmente consultabili in sala di studio: in un certo senso, è diventato, solo così, pienamente documento. Il documento compare, appunto, negli inventari con la segnatura AB 265 (che indicava allora una collocazione fisica) e la dicitura Terreni appartenenti ai Pavolotti di Rimini nel fondo Corporazioni Reli giose Soppresse ed è datato 1775 ed è relativo all’area dell’allora Borgo di Sant’Andrea attualmente parte del tessuto urbano di Rimini immediatamente a ridosso della restaurata Porta Montanara. I Frati Minimi di san Francesco di Paola (volgarmente, appunto, chiamati Paolotti) hanno lasciato questo cabreo dei loro possedimenti in Rimini redatto il 22 gennaio 1775. L’estensore « Alessandro Bartolucci, primo scrivano dello studio de’ signori Calindri» riporta che le sue rilevazioni trattano «delle piante de’ terreni di questo venerabile convento di san Francesco di Paola, estratte dalle mappe originali (…) all’occasione del nuovo appasso eseguito dalli geometra signori Serafino e Giovanni, fratelli Calindri». La rilevazione è, dunque, parte delle grandi rilevazioni attuate dal geometra Serafini Calindri per conto del Comune di Rimini che vanno sotto il nome, appunto, di Catasto Calindri pure conservate presso l’Archivio di Stato di Rimini. Il documento in seguito alle soppressioni napoleoniche del 1813 è confluito nel grande fondo collettaneo in via di reinventariazione e ordinamento delle Corporazioni Religiose Soppresse .
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04.
Cabreo AB 265, 9r, Sant’Andrea dell’Ausa (prima del restauro)
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Cabreo AB 265, 2r, Saludecio (prima del restauro)
Purtroppo, la consultazione ha subito messo in evidenza il precario stato di conservazione dello stesso, che è stato, comunque, riprodotto digitalmente e messo in mostra. Grazie al finanziamento di due sponsor riminesi Tina & Mary e Hotel Memory è stato possibile restaurarlo. Ha provveduto al restauro integrale del documento il dott. Riccardo Bolognesi della Cooperativa Sociale “Centofiori” onlus. È importante mettere in evidenza come solo grazie alla manifestazione è stato possibile contattare e interessare gli sponsor e sensibilizzare la cittadinanza sull’importanza dei documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Rimini e, soprattutto, sull’importanza del loro restauro. Consultato probabilmente per la prima volta in epoca moderna proprio in quest’occasione iI volume del Cabreo AB 265 si presentava con cucitura salda e coperta non particolarmente deteriorata o, comunque, in grado di assolvere la sua funzio-
ne di protezione delle carte. I piatti della coperta risultavano deformati probabilmente a causa della conservazione del volume in un luogo particolarmente umido. La pelle della coperta era mancante di varie porzioni di fiore e nel complesso risultava essere in superficie. Tutti gli angoli avevano perso rigidità. La pelle del piatto anteriore presentava una piccola lacuna centrale provocata da rosura di insetti cosi come risultava leggermente intaccato anche il cartone sottostante. La pelle del morso nella zona del piede posteriore era fessurata. Mancavano tutti i lacci in pelle allumata di chiusura del volume tranne quello anteriore lato testa. Molte carte risultavano essere incollate a causa della solubilizzazione della vernicetta posta a protezione delle mappe colorate, solubilizzazione dovuta probabilmente alla permanenza del volume in un luogo umido. In particolare, le carte contrassegnate in collazione con i numeri 6v-7r con le mappe rispetti-
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Cabreo AB 265, 1v, Santa Giustina particolare , (prima del restauro) 06.
vamente di S. Giustina e di Saludecio presentavano entrambe due notevoli strappi dovuti probabilmente al tentativo di apertura delle carte incollate. Le carte con i numeri 8v-9r, 10v-11r, 14v-15r, 16v-17r, 18v-19r, 22v-23r, 24v-25r, 26v-27r, risultavano incollate. Le carte con le altre mappe presentavano numerosi distacchi provocati presumibilmente dall’apertura delle stesse dopo l’adesione anomala della vernicetta. Solo la mappa contrassegnata in collazione con il numero 48v-49r (Verucchio) si presentava in buone condizioni. Il filo di cucitura era spezzato fra le carte 38v39r. Sono stati, pertanto, effettuati i seguenti interventi. Il distacco delle carte incollate mediante solubilizzazione della vernicetta attraverso impacchi di alcol etilico 50% e acqua 50% (l’intervento non
ha potuto eliminare completamente le macchie dovute al precedente assorbimento del pigmento fra le fibre della carta). Nelle carte che presentavano mappe con lacune di colore dovuto presumibilmente ad una forzatura in apertura si è provveduto al distacco dei frammenti dalla pagina opposta con impacchi di acqua e alcol al 50% e successiva riapplicazione nelle rispettive mancanze, utilizzando come adesivo la Tylose MH 300p. Dopo avere riposizionato i frammenti nelle zone di distacco si è provveduto a uniformare ad acquerello le piccole mancanze di colore per le quali non è stato trovato il frammento corrispondente. È stata ripristinata la cucitura fra le carte 38v -39r. Il volume è stato condizionato con dei pesi e degli spessori per fargli riassumere la forma originaria corretta. La coperta in pelle a stata parzialmente distaccata per permettere: i1 rinsaldo degli angoli effettuato con iniezioni di Tylose MH 300P al 2% circa; il risarcimento della lacuna nel piatto anteriore con un frammento di pelle nuova; colorata con anilina ed incollata con Tylose MH 300P al 6% addizionata con 10% di vinavil 59; il risarcimento della rosura nel sottostante cartone con stucco di cellulosa in Tylose MH300p al 6%; la riadesione della fessurazione al morso con brachetta di carta giapponese incollata su tela di cotone adesa con Tylose Tylose MH 300P al 6% e 10% di vinavil 59; ripristino dei lacci di legatura con pelle allumata nuova. •
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Esternamente sono state incollate con Tylose Tylose MH 300p al 6% le porzioni di fibre distaccate e dove mancanti stato ristabilita l’uniformità cromatica con limitate riprese ad acquerello. Per limitare gli eventuali danni dovuti ad un immagazzinamento in condizioni climatiche critiche si è provveduto a montare tra i bifili dipinti, dei fogli di carta giapponese da 11gr/mq fissati con 3 punti di Tylose MH 300p al 6% che potranno essere eliminati con estrema facilità. Si è optato per questa soluzione in quanto l’introduzione di fogli di maggiore spessore avrebbe fatto aumentare eccessivamente lo spessore del corpo delle carte con conseguente tensione anomala sulla coperta.
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Tutti gli interventi sono stati documentati fotograficamente. Completato il restauro, il documento è stato rimesso in consultazione ed esposto. Come rientra tra i compiti istituzionali, che ogni Archivio Archiv io di Sta Stato to si riserva, quello quello della conservazione del documento in quanto bene culturale così rientra pure quello della sua valorizzazione. Valorizzare un documento è comunicarlo, ridargli la dignità del suo contesto e renderlo fruibile al pubblico sia come contenuto e testimonianza materiale di un fatto storico sia come forma, anche estetica, con cui il contenuto stesso si manifesta. Ecco perché lo strumento della mostra e delle pubblicazioni che da questa scaturiscono naturalmente, è risultato
Cabreo AB 265, 1v, Santa Giustina e Cabreo AB 265, 7r , Saludecio (dopo il restauro)
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Cabreo AB 265, 1v, Santa Giustina e Cabreo AB 265, 7r , Saludecio, visione d’insieme (dopo il restauro)
particolarmente adatto all’illustrazione dell’argomento e all’illustrazione dell’Istituto stesso: si va a mettere in mostra non solo la Fornace Fabbri attraverso i documenti che se ne conservano la storia, ma anche l’Archivio di Stato stesso. Molte sono le iniziative che, recentemente, l’Archivio di Stato di Rimini ha potuto mettere in cantiere nell’ambito della valorizzazione e della tutela del patrimonio documentario che ha in consegna come la digitalizzazione, appena completata, di tutte le circa 5000 pergamene del cosiddetto Diplomatico Riminese (anche col sostegno della Fondazione Carim) o – col finanziamento della Provincia di Rimini – delle mappe del Catasto Calindri: due acquisizioni che si spera di potere presto presentare alla cittadinanza con la dovuta risonanza in altre occasioni. Ed è proprio
in considerazione dell’impegno di quest’Archivio nell’ambito della conservazione digitale che anche per il Cabreo AB 265 si pensa a una copia digitale da mettere a disposizione del pubblico sul sito dell’Archivio di Stato di Rimini (http://www (http://www.. archiviodistato.rimini.it). L’augurio è certamente quello che - ancora una volta grazie alla collaborazione dei vari enti e realtà locali (Comune, Provincia, Regione, Fondazione Carim tanto per fare qualche esempio) in un’ottica di collaborazione e complementarità - questa manifestazione sia soltanto l’inizio di un dialogo fra l’Archivio e la Città di Rimini che si vuole quanto più serrato e duraturo possibile e che il restauro del Cabreo del Borgo di Sant’Andrea sia sia il primo di una lunga serie di documenti restaurati e restituiti alla cittadinanza e agli studiosi.
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LE CARTE NAUTICHE DELL A BIBLI OTECA PALATINA DI PARMA
Andrea De Pasquale
L
e carte nautiche, disegnate e miniate su pergamena in fogli sciolti o organizzate su più unità per formare un atlante, indicando le rotte da seguire e i porti e gli approdi sicuri, rappresentavano tra Medioevo ed età moderna lo strumento fondamentale per effettuare la navigazione lungo le coste del Mediterraneo e dei territori europei che si affacciano sull’Atlantico. Contraddistinte dal fatto di non recare, se non raramente, perché inutile, la toponomastica all’interno delle regioni, la loro precisione si arricchì con l’avanzare delle scoperte geografiche che portarono ad esplorare l’Atlantico e ad individuare il Nuovo Mondo e arcipelaghi fino a quell’epoca ignoti, e a perfezionare la conoscenza delle coste africane. Così, da una primitiva rappresentazione del Mediterraneo con il posizionamento dei rombi di venti, esse si trasformarono in vere e proprie carte piane con l’indicazione dell’Equatore, dei Tropici e delle latitudini. Le tecniche di produzione, così come i luoghi, i principali porti del Mediterraneo, non mutarono comunque nel corso dei secoli, così come rimase invariato il fatto che la fabbricazione continuò a concentrarsi nelle mani di pochi individui che generalmente tramandavano i saperi di padre in figlio. Tali carte recano spesso elementi decorativi accessori, di pressoché nulla utilità per la navigazione, che denotano sia le differenti committenze, sia la maestria dei cartografi: oltre a cartigli e nastri, spesso, generalmente dal XVI secolo, si riscontrano, soprattutto sulle carte sciolte, soggetti religiosi quali il Crocifisso, la Madonna con Bambino o Santi, e rappresentazioni più o meno stilizzate o realiste * Il Ms. parm. 1616 prima del restauro (part.)
di città, anche localizzate non sul mare, bandiere dai vivaci colori, rappresentazioni di sovrani sia europei, generalmente in trono o appoggiati ad uno scudo con emblemi araldici, sia africani o asiatici, seduti su un cuscino o un tappeto e affiancati da tende arabescate, navi di vario genere, animali reali (elefanti, dromedari, cammelli, leoni, scimmie, ecc.) e mitologici (draghi, unicorni, sirene ecc.), catene montuose e foreste, elementi vari floreali o altri particolari (teste di putti che soffiano, cornici varie). L’eccezionale raccolta di portolani della Biblioteca Palatina di Parma, composta da 14 pezzi circoscri vibili cronologicamente tra la seconda metà del XIV secolo e poco oltre la metà del primo ventennio del XVII, rappresenta emblematicamente una significativa esemplificazione di tale particolare produzione documentaria. Essa deve la sua costituzione all’indefessa opera dei principali e più celebri bibliotecari dell’istituzione, il padre teatino Paolo Maria Paciaudi, chiamato a Parma dal duca don Filippo per costituire la Biblioteca, fine bibliografo e figura di eccezionale importanza per la storia della biblioteconomia italiana, e Angelo Pezzana, il bibliotecario che contraddistinse la storia dell’istituzione per buona parte del XIX secolo. È merito del primo avere individuato sul mercato antiquario e acquisito il maggior numero dei pezzi (Ms. parm. 1612-1621) ( Fig. 1) e di averne disposto l’inserimento all’interno della raccolta Parmense procedendo pure ad interventi conser vativi. Anche se non disponiamo di informazioni specifiche sugli effettivi canali di acquisizione per tutti i pezzi, ma soltanto per la celebre carta nautica redatta da Francesco e Domenico Pizigano (Ms. parm. 1612), datata 1367, che venne donata al padre Paciaudi nel 1770 dall’amico Girolamo Zanetti, professore di diritto a Padova, archeologo e
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01. Il Ms. parm. 1616 prima del restauro
storico veneziano, e per altri non individuabili cinque pezzi, che fonti d’archivio indicano acquistati da Annibale degli Abati Olivieri di Pesaro, insieme al rotolo greco di San Giovanni Crisostomo (Ms. parm. 1217/2), il 2 gennaio 1769, possiamo a ragione pensare che si debba far risalire all’intervento del Paciaudi l’acquisizione dei primi dieci pezzi del fondo sia per le omogenee caratteristiche relati-
ve al trattamento conservativo e alla modalità di montaggio subite, sia soprattutto per il fatto che risultano oggetto di studio da parte sua attraverso la redazione di specifiche schede dettagliate descrittive e di commento individuate all’interno dei suoi manoscritti. Questi materiali infatti sono stati quasi tutti disposti in cartelle di cartone ricoperto di cuoio marezza-
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to, decorate con i gigli borbonici e con indicazione di datazione e di numerazione progressiva impressa con numeri romani, per le quali è ben evidente la mano del legatore di corte Antoine Louis Laferté. Tale paternità è documentata da fonte contabile del 1768 che indica il pagamento a tale legatore di «7. cartelle carte nautiche; quali cartelle ritrouasi ora coperte di bazana». Anche la carta dei Pizigano (Ms. parm. 1612) era protetta da cartella con le medesime caratteristiche ancora nel 1907, ma essa andò perduta in anni successivi in concomitanza ad un maldestro intervento di restauro; altra fonte d’archivio indica infatti che, per commissione del 15 giugno 1771, venne realizzata dal legatore «una cartella di grandezza di quatro cartoni imperiale coperta in bazana marmorata, con sfrigi larghi d’oro bordata dentro e fuori con una inscrizione in damaschino e cordoni verde di detta, dentro la quale è incolata una famosa antica mapa del mondo donata dal R.do P.dre Paciaudi alla Reale Biblioteca». Dell’importanza e della pregevolezza di questi materiali il Paciaudi si gloriava, e a ragione, nella Memoria sulla R. Biblioteca di Parma , da lui redatta verosimilmente nel 1770 per difendersi dalle accuse di mala gestione della Biblioteca da lui diretta, ricordandoli come “Tavole nautiche” nel capitolo sui Manoscritti, con il quale intendeva confutare l’accusa di aver trascurato nella sua politica degli acquisti questo specifico patrimonio. In effetti si tratta di pezzi di straordinaria importanza per la storia della cartografia nautica. È infatti fondamentale per la cartografia veneziana del XV secolo la carta Ms. parm. 1612 caratterizzata da una controversa iscrizione che la indicherebbe compilata il 12 dicembre 1367 da Francesco e Domenico Pizigano, membri di una quasi sconosciuta famiglia appartenente forse al ceto marinaresco. Due portolani si collocano nel secolo seguente:
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mentre il primo è anonimo (Ms. parm. 1621), l’altro (Ms. parm. 1613) ( Fig. 2 ), datato al luglio 1435, è una delle due testimonianze, la più recente, dell’attività di un poco noto cartografo genovese, Battista Beccari. Ancora a produzione della città ligure si deve attribuire il Ms. parm. 1614, redatto dal genovese Vesconte Maggiolo, attivo tra il 1504 circa e il 1559, capostipite di una delle più celebri dinastie di cartografi professionisti originaria di Rapallo, che tra il 1511 e il 1516 trasferì temporaneamente la sua attività a Napoli, allettato da un mercato fiorente e dalla presenza di un grande porto. Proprio a questi anni si deve la compilazione del portolano palatino, del 10 marzo 1512, uno dei tre sopravvissuti della sua attività napoletana, interessante anche per recare una maldestra cancellatura del circolo a matita di piombo, fatto che denota sicuramente l’impiego di un lavorante poco esperto. Si colloca invece nell’Italia meridionale la realizzazione di due portolani prodotti da Jacopo Russo, uno datato 1540 (Ms. parm. 1615), il secondo invece senza indicazione cronologica, ma verosimilmente più tardo (Ms. parm. 1620). Tale cartografo risulta attivo a Messina, altro porto importante e strategico per le rotte del Mediterraneo, per un arco temporale amplissimo, dal 1520 al 1588, tanto esteso che in passato si è pure ipotizzata l’esistenza di due omonimi cartografi, ed è noto per aver prodotto carte geografiche contraddistinte da una ricca toponomastica, tanto che si può ipotizzare che queste fossero non tanto utilizzate dai marinai, quanto piuttosto da studiosi come veri e propri atlanti. Sempre all’ambito dell’Italia meridionale, messinese in particolare, si deve assegnare pure il portolano, datato 1608 (Ms. parm. 1618) di Joan (Giovanni) Oliva, cartografo verosimilmente appartenente ad una celebre famiglia di cartografi di Majorca, attestato conti-
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nuativamente nella città Cesani che si qualifica siciliana tra il 1592 e il ydruntinus (di Otran1599 e quindi ancora to), ma verosimilmentra il 1606 e il 1608, ma te discendente della attivo anche in numerofamiglia di cartografi si altri porti del Medi veneziani de Cesanis terraneo, e distinto dal a ttiva nel XV secolo, il quasi coevo Joan Riczo quale reca, unico caso Oliva, anch’egli operandel lotto della Bibliote a Messina tra il 1590 teca Palatina, la sua e il 1594. A produzione originaria coperta in majorchese è attribuibimarocchino rosso con le un altro pezzo, raplo stemma impresso presentante il bacino del in oro della famiglia Mediterraneo e contradGonzaga del ramo di distinto da prospetti di principi di Molfetta e città tra cui emerge, per marchesi di Guastalla. grandezza, Venezia (Ms. Il Frabetti ne aveva atparm. 1617), del 1581, tribuito l’acquisizione siglato da Matteo Griual padre Ireneo Affò, sco, cartografo altrimensuccessore del Paciauti sconosciuto. Ad area di nella direzione deltoscana invece si attrila Biblioteca (1778buisce un atlante di tre 1785) e originario di carte del 1654, redatto Busseto, terra nel feua Livorno da Giovanni do dei Gonzaga, ma Battista e Pietro Cavalè sicura l’acquisizione lini (Ms. parm. 1619), del pezzo da parte del Ms. parm. 1613 02. evidentemente padre e padre Paciaudi, forse figlio, forse opera escluper tramite dell’Affò siva di Pietro, attestato stesso, all’epoca sottoda sette atlanti firmati datati tra il 1665 e il 1668, bibliotecario, visto che il teatino compilò per il pezper la mancanza della correzione dell’asse del Medizo una scheda descrittiva manoscritta ritrovata tra terraneo, caratteristica costante dell’opera del primo, le sue carte. Tale pezzo è inoltre di straordinaria imnoto cartografo di origine genovese attivo a Livorno portanza poiché l’intervento di restauro ha permesso tra il 1635 e il 1656. Spettacolare per la ricchezza di ritrovare all’interno della foderatura della coperta della decorazione è l’atlante nautico (Ms. parm. alcuni disegni originari preparatori dell’opera realiz1616) del 1574, siglato dallo sconosciuto Aloisio zati a punta d’argento, fatto eccezionale e di estremo
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interesse per lo studio della fabbricazione di questo materiale. Per la mancanza di fori in corrispondenza dei disegni che implicherebbero l’utilizzo della tecnica dello spolvero, sembra verosimile pensare che il trasferimento del disegno sulla pergamena sia stato ottenuto attraverso una delle tecniche illustrate da Bartolomeo Crescenzio nella sua Nautica mediterranea , e cioè che il foglio disegnato e la pergamena fossero stati entrambi tesi in un telaio e che, agevolati dalla vicinanza di una sorgente luminosa, sia stato effettuato il ricalco per trasparenza. A anni successivi alla direzione del Paciaudi, ma se ne ignorano le circostanze, si collocano le acquisizioni dei portolani Ms. parm. 1622, Ms. parm. 1623, Ms. parm. 1624 (di anonimo, della metà XV secolo). Il primo invece è l’unica testimonianza, del 1494, dell’attività di un cartografo veneziano altrimenti sconosciuto, attivo alla fine del XV secolo, Giorgio di Giovanni. Il secondo è una produzione genovese del già citato cartografo Vesconte Maggiolo, che, per la prima volta, in questa occasione, dell’8 luglio 1525, si associava a Giovanni [Antonio], verosimilmente il giovane figlio maggiore, dichiarandone quindi l’intenzione a eleggerlo suo successore nella gestione dell’attività. Ben documentato è l’arrivo del portolano Ms. parm. 1624, recante una pregevole coperta in cuoio decorato con fregi impressi a secco del XVI secolo (Ms. parm. 1624). Attraverso la corrispondenza del bibliotecario Angelo Pezzana, direttore tra il 1804 e il 1862, artefice di notevoli incrementi di fondi e materiali bibliografici grazie ai finanziamenti ottenuti dalla duchessa Maria Luigia, si sa che esso venne sicuramente acquisito nel 1840 dal marchese Francesco Albergati Capacelli di Bologna (1728-1804), il quale propose al Pezzana «l’acquisto di molte lettere d’uomini illustri, le più indiritte al celebre suo avo Francesco Albergati
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(notissimo autore drammatico), e di un portolano del sec. XV, e di altri manoscritti». Scrivendo verosimilmente al ministro Mistrali per giustificare l’acquisto il Pezzana sottolineava che il portolano «che si aggiugnerebbe alla magnifica nostra serie di Carte nautiche manoscritte, è molto pregevole, e parmi del principio del Sec. XV., ed è sicuramente anteriore allo scoprimento delle Azzorre, ché niuna ve n’è indicata; l’E.V. sa che niuna n’era conosciuta avanti il 1492». Tutt’altra storia ha invece la più grande carta nautica posseduta dalla Biblioteca Palatina, il portolano del 1561 realizzato da Diogo Homem (Ms. Pal. 0), prolifico cartografo portoghese, attivo tra il 1557 e il 1576, figlio di Lopo e fratello di André, entrambi cartografi. Noto per la sua vita avventurosa, nel 1544 venne coinvolto in un omicidio e costretto all’esilio in Marocco, da cui fuggì, dirigendosi in Inghilterra; dopo aver ottenuto il perdono dal re del Portogallo nel 1547, continuò a lavorare, ma non si sa in quale città, per mancanza di informazioni sulle carte prodotte, per poi operare a Venezia sicuramente tra il 1568 e il 1576, anche se alcuni studiosi hanno retrodatato la sua attività nella Serenissima dal 1557, fatto che consentirebbe di ricomprendere anche il pezzo in questione. La carta pervenne in Biblioteca nel 1865, dopo l’Unità d’Italia, a seguito dell’acquisizione del fondo Palatino, originariamente proprietà personale dei duchi di Borbone, caldamente sostenuta dal bibliotecario del tempo Federico Odorici (1862-1876). L’eccezionale raccolta di portolani della Biblioteca Palatina di Parma è stata oggetto di studi importanti fin dal XVIII secolo. Dopo il padre Paciaudi che, come si è visto, fu il primo ad analizzare tali carte redigendo apposite schede conservate all’interno di una sua raccolta di studi intitolata Illustrazione dei codici della Parmense , anche il Pezzana risulta autore di uno studio sul
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mappamondo dei Pizigano, atto a confutare le accuse del padre Pellegrini di non autenticità, come pure l’Odorici, dedicò al fondo due saggi nuovamente relativi ai materiali più antichi. Successivamente il fondo venne censito da Gustavo Uzielli nel 1875 e da Mario Longhena del 1907, in occasione del Congresso tenutosi a Parma della Società geografica della Società Italiana. A quest’ultimo si deve pure la redazione di altri tre contributi sull’argomento. Il contributo più esaustivo resta comunque quello del Frabetti del 1978, il quale costituì la base per l’inclusione del fondo all’interno di un’esposizione più generale sui fondi cartografici parmensi dei secoli XIV-XIX tenutasi in Biblioteca, in collaborazione con l’Archivio di Stato di Parma, del settembre dell’anno successivo, dal titolo Il territorio rappresentato, in concomitanza con il XV Convegno Nazionale di Cartografia. Ancora nel 1992 alcuni portolani della Biblioteca parteciparono alla mostra su Cristoforo Colombo e l’apertura degli spazi tenutasi a Genova in occasione del quinto centenario della scoperta dell’America. Da tempo la raccolta non suscitava particolare interesse da parte degli studiosi sia del manoscritto
03. Ms.
parm. 1623
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che di storia della geografia. Recentemente essa è stata oggetto di una mirata campagna di restauri diretta da Silvana Gorreri, che ne hanno restituito l’originaria lucentezza dei colori e la loro funzionalità e fruibilità, consentendo di apprezzarne particolari ed aspetti finora inediti. Tale campagna è stata realizzata con finanziamenti statali e sponsorizzazioni private, quali la Società Value Retail Management (Fidenza Village ) per il Ms. parm. 1616 e la Banca Popolare dell’Emilia Romagna per il Ms. parm. 1623 (Fig. 3), ed affidata per la quasi totalità allo Studio Paolo Crisostomi di Roma. Contestualmente, grazie alla collaborazione con la casa editrice MUP, impresa strumentale della Fondazione Monte di Parma, si è dato vita alla prima collana di volumi di alta divulgazione scientifica inerenti la Biblioteca Palatina, dal titolo Mirabilia Palatina : è stato quindi spontaneo dedicare il primo numero alla collezione dei portolani (Carte per navigare. La raccolta di portolani della Biblioteca Palatina di Parma , 2009) e organizzare, per l’occasione, un’apposita esposizione nella splendida Galleria Petitot, che ha permesso di ripresentare al pubblico l’eccezionale raccolta in una veste inedita e completa.
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LE CARTE NAUTICHE D ELLA BIBLI OTECA PALATINA DI PARMA: UN PIAN O STRATEGICO DI RESTAURO
Silvana Gorreri
È
risaputo tra gli studiosi che a Parma, presso la Biblioteca Palatina, è conservata una consistente e prestigiosa raccolta di antiche testimonianze cartografiche; nel 1907 la città aveva
ospitato il I Congresso della Società Italiana per il progresso delle Scienze e in quell’occasione era stata allestita nelle sale della biblioteca un’esposizione di carte nautiche, atlanti e portolani presenti a Parma e Piacenza; nel 1978 ben dodici carte nautiche della Palatina erano state censite da Pietro Frabetti nel suo studio sistematico ( Carte nautiche italiane dal XIV al XVII secolo conservate in Emilia Romagna , Firenze 1978), ancor oggi valido stru-
mento di valutazione scientifica; nel settembre 1979 era stata organizzata di concerto con l’Archivio di Stato di Parma la mostra storico-documentaria Il territorio rappresentato, nella quale, in concomitanza con il XV Convegno nazionale di Cartografia , erano stati proposti temi e problemi della cartografia nelle collezioni pubbliche parmensi dei secoli XIV-XIX. Questo patrimonio, fortemente suggestivo, popolato da velieri, teste di uomini soffianti, guerrieri, città turrite, tende, animali fantastici e bandiere sventolanti tra rotte marittime, rose dei venti e località costiere, che documenta le conoscenze pratiche, frutto di esperienze personali di marinai, mercanti ed esploratori, unite alle informazioni fantasiose e alle credenze leggendarie della cultura contemporanea, non era noto tuttavia al grande pubblico. Nell’intento di promuoverne la conoscenza e di valorizzarlo adeguatamente, è stata realizzata nella primavera del 2009 in collaborazione con il FAI una mostra nella quale sono 01. Il Ms. parm. 1618 nella fase di distacco
state presentate le carte nautiche appartenenti alla Biblioteca Palatina, comprese le due carte, una di Matteo Griusco (Ms. parm. 1617) e una di Diogo Homem (Ms. pal. 0), trascurate dal Frabetti. Grazie a un felice connubbio tra risorse finanziarie pubbliche e private, con la direzione della scrivente, con competenza quasi trentennale nel campo del restauro, e la professionalità di un laboratorio esterno, al quale è stata affidata l’esecuzione dei lavori (lo Studio Paolo Crisostomi di Roma), si è realizzato il risanamento dell’intera raccolta con l’adozione di soluzioni conservative innovative. Dieci carte nautiche (Mss. parm. 1612-1621) figurano entrate nella Bibliotheca parmensis nel primo periodo della sua istituzione con Paolo Maria Paciaudi (1710-1785), successivamente le altre: una ancora nel 1837 apparteneva al Marchese Francesco Albergati Capacelli (Ms. parm. 1624), mentre la carta di Homem fu acquisita con l’intero Fondo Palatino dei Borbone Parma nel 1865, ma persosi l’antico numero di inventario (Pal. 40), fu elencata tra i cimeli con nuova segnatura. Tutte le carte nautiche del nucleo originale, nell’intento di preservarle meglio, furono affidate da Paciaudi a Louis Antoine Laferté, legatore di corte, che le organizzò, quelle singole, ripiegandole in due o tre e incollandole a cartoni in cartelle ricoperte in cuoio marezzato, mentre quelle multiple degli atlanti le ripiegò in due e le incollò metà dell’una alla metà dell’altra, verso contro verso, con le prime e ultime metà utilizzate spesso come controguardie, in una struttura a libro, con uguale coperta; solo per l’ Atlante nautico di Aloisio Cesani (Ms. parm. 1616) fu mantenuta la legatura originale in marocchino rosso con super libros della famiglia Gonzaga; su tutti i piatti anteriori venne impresso in oro il super libros della Biblioteca con
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i tre gigli borbonici. Dei successivi acquisti, due rimasero arrotolate (Mss. parm. 1622-1623), una (Ms. parm. 1624) conservò la struttura a libro con coperta coeva su assi decorati a secco, mentre la carta di Homem rimase appesa in cornice per oltre cent’anni ad una parete della stanza adibita a Direzione. Ancora nel 1907 è testimoniato che la Carta nautica di Francesco e Domenico Pizigano del 1367 (Ms. parm. 1612) conservava l’assetto settecentesco, ma negli anni a seguire fu la sola ad essere staccata dai cartoni della grande cartella e ad essere conservata arrotolata in un grosso cilindro in cartone; nel 2007 fu oggetto di un importante intervento di restauro, del quale si è dato conto nell’edizione ministeriale di Restaura di quell’anno a Venezia. Un esame della situazione nella sua globalità palesava che non era idonea né la sistemazione settecentesca a cartella o a libro, che aveva determinato lacerazioni nelle linee di piegatura delle tavole, parziale distacco della pergamena dai cartoni, e a volte grossi strappi per l’eccessiva tensione meccanica conseguente all’apertura dei lembi ripiegati, gore da colla e generalizzate erosioni da anobidi, acidità da tannino nei punti di rimbocco della pelle della coperta; né offriva garanzia di migliore stoccaggio il condizionamento a volumen: tagli, strappi e lacune marginali per movimentazioni meccaniche, erosioni da roditore, ondulazioni del supporto diventato nel tempo oltremodo rigido e srotolabile con difficoltà, cadute o trasferimenti di colore per le abrasioni prodotte dalle mani nello srotolamento e per le 02. Il Ms. parm. 1618 restaurato
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sollecitazioni meccaniche conseguenti alla posizione srotolata forzata nella consultazione. Era necessario intervenire quindi al loro restauro realizzato con il distacco dai cartoni di tutte le ta vole, e a seguire test di solubilità e fissaggio, ammorbidimento, distensione su telaio con barre magnetiche, asciugatura a temperatura ambiente e risarcimento delle lacune; ma cruciale a livello progettuale era soprattutto adottare una corretta metodologia di conservazione; si optava per una sistemazione delle varie tavole sciolte e distese singolarmente in cartelline in carta Barriera Japico con riserva alcalina; per il mantenimento di ogni unità bibliografica con l’allestimento di una cartella in tela Bukram verde per le carte nautiche singole comprensiva anche delle loro legature, se preesistenti; con l’esecuzione di una custodia rigida, sempre in tela Buckram verde, caratterizzante l’intera raccolta, a contenimento di tavole e vecchia coperta per le strutture a libro: una metodologia di conservazione che evita forzature di apertura nella consultazione e che favorisce la visione contemporanea delle tavole degli atlanti, senza perdita di informazioni sul pregresso. Questa soluzione, frutto di una lunga meditazione progettuale, è stata corroborata da un’eccezionale e imprevista scoperta: tra le tavole incollate l’una all’altra dell’Atlante nautico di Aloisio Cesani (Ms. parm. 1616) sono stati rinvenuti ulteriori quattro fogli cartacei con il disegno a penna dei contorni costieri tracciato nella fase di preparazione delle carte nautiche stesse, lavoro propedeutico alla loro realizzazione del quale si conservano poche testimonianze e che fanno luce sulla metodologia adottata, in questo caso a ricalco e non a spolvero, altra tecnica utilizzata.
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I N E D I T I D A L R E S T AU R O : PAESAGGI DIPINTI NEL PALAZZO DEL GIARDINO DI PARMA
Corrado Azzollini, Luciano Serchia I N T R O D U Z I O N E
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lavori di restauro al Palazzo Ducale di Parma (noto anche come Palazzo del Giardino), sono iniziati nel novembre 2007, grazie ad un finanziamento straordinario del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, nell’ambito della Programmazione Lotto del triennio 2004-2006 di cui alla Legge n. 662 del 1996. L’intervento è curato dalla Direzione regionale per i beni e le attività culturali dell’Emilia-Romagna e diretto dalla Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di Parma. I lavori sono stati aggiudicati mediante selezione con procedura aperta a cui hanno partecipato circa 60 ditte. Il consorzio CIPEA, vincitore dell’appalto, ha poi indicato quale Impresa consorziata, esecutrice dei lavori, la Idroter con sede in S. Lazzaro di Savena (BO). L’importo complessivo del progetto di restauro ammonta a circa 750.000,00 euro, distribuito su due annualità finanziarie (2004 e 2006), con interventi che inizialmente avrebbero interessato la facciata sud, l’atrio a piano terra, lo scalone d’onore, e le salette poste a nord del piano terra. L’organizzazione e le dimensioni artigianali della ditta esecutrice dei restauri pittorici ha permesso il mantenimento di un buon livello di qualità. Nel campo del restauro, infatti, com’è noto, la necessità di tener conto anche di problematiche storiche, artistiche, estetiche, oltre che, naturalmente, di quelle tecnologiche, nonché del fatto che la valutazione dei possibili effetti futuri di un intervento vada dilatata nel tempo, impone * Paolo Ponzoni, Pianta di Parma, 1572, particolare
di seguire alcuni principi operativi (quali quello di reversibilità, di compatibilità e di minimo intervento), che non hanno equivalenza in altri settori, anche se tecnologicamente più avanzati. Spesso, purtroppo, i soggetti concessionari di grandi opere di restauro, sembrano privilegiare un atteggiamento produttivistico, a scapito del raggiungimento di un livello minimale di qualità, che è un fattore essenziale per il buon andamento del cantiere di restauro. Gli interventi di descialbo, effettuati nelle salette a piano terra, hanno rivelato la presenza di importanti affreschi e, come quasi tutti i cantieri di restauro che si rispettino, anche quello in questione si sta rivelando una preziosa fonte di informazioni sia di carattere storico che tecnico, riferibili talvolta non soltanto al monumento oggetto di restauro ma, più in generale, alla storia dell’arte e alle caratteristiche costruttive e decorative dell’epoca in questione. D’accordo con il progettista e direttore dei la vori, dopo aver verificato che alcune lavorazioni previste nel progetto iniziale non rivestivano carattere d’urgenza, si è deciso di intervenire con una variante in corso d’opera e un contestuale recupero del ribasso d’asta, per poter meglio ridefinire, fra le altre, il restauro delle due salette affrescate. Successivamente, a lavori quasi ultimati, attingendo alle somme a disposizione (poche ma sufficienti) del quadro economico dell’intervento, si è deciso di operare sulle pavimentazioni dei due ambienti, al fine di eliminare i dislivelli che si erano creati nelle manomissioni precedenti e per ridare unitarietà alle due salette, vere e proprie proiezioni anticipatrici del paesaggio circostante.
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01. Paolo Ponzoni, Pianta di Parma, 1572, particolare con il giardino e il castello
L’attenzione e la costante dedizione, dimostrate dal direttore dei lavori e dai restauratori, hanno reso possibile la restituzione, nel grande ambiente occupato dallo scalone monumentale, di emozionanti atmosfere celate sotto incauti interventi ottocenteschi. Nel cantiere in questione, vero e proprio cantiere di progetto, grazie alle possibilità offerte dall’at-
tuale normativa sui lavori pubblici, in particolare gli articoli riguardanti il settore dei beni culturali, si è potuto aggiornare il progetto, modificandolo giorno dopo giorno, scoperta dopo scoperta. Corrado Azzollini
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CONTESTO : PAESAGGI DIPINTI NELLA DELIZIA DEL
DUCA O TTAVIO F ARNESE
I restauri diretti da chi scrive e tuttora in corso nella cinquecentesca residenza del Giardino di Parma, voluta dal duca Ottavio Farnese (1524-1586) che nel 1561, all’indomani del raggiunto equilibrio politico, economico e finanziario conseguente alla pace europea di Cateau – Cambrésis, acquistò i terreni circostanti l’antico castello e ne affidò il progetto a Vignola, hanno portato alla luce interessanti affreschi con paesaggi in due sale al piano terreno. Non sono ancora del tutto chiare le vicende costruttive della delizia farnesiana ultra flumen, nota anche come Palazzo del Giardino, visibilmente monumentale nella sua magnificenza, il cui ideatore, il duca Ottavio di concerto con il fratello, il gran cardinale Alessandro (1520-1589), vi ha trasferito la cultura del Rinascimento e l’ideologia della villa sviluppatasi nella Roma successiva al Sacco del 1527, ma già codificata nella trattatistica e nella pratica architettoniche rinascimentali. Il riferimento è a villa Giulia, nel cui cantiere è documentato Vignola, apprezzato architetto dei Farnese a Caprarola, a Parma e a Piacenza. Senza entrare nel merito delle vicende del cantiere farnesiano, la cui complessità e durata si evincono dallo spoglio dei Mastri Farnesiani , e della cultura romana che sostanzia l’invenzione della celebre fontana in costruzione nel 1569 (e oggi scomparsa), sottolineo l’importanza del disegno del palazzo, di pianta approssimativamente quadrata, raffigurato entro un quadrilatero bastionato, ma mai realizzato, nella notissima pianta di Parma incisa dal piacentino Paolo Ponzoni (1572). La pianta è la prima a registrare la nuova forma urbis , fortemente caratterizzata dall’ampio settore farnesiano,
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ossia dal castello e dal giardino, nell’oltretorrente, nella parte nord occidentale della città. Rispetto all’iconografia precedente, nuovo è anche il punto di vista settentrionale. Esso rispecchia la volontà di enfatizzare il settore farnesiano del Giardino, termine con il quale, nei documenti, spesso si usava riassumere l’intero sistema palazzo-giardino. Il palazzo ritorna, con buona attendibilità, ma con sensibili varianti, nella mappa che Smeraldo Smeraldi, ingegnere ducale, esegue nel 1592. Il palazzo, che vi compare con l’annessa fontana, pare già ampliato verso i lati e sul retro. Le decorazioni connotano le due sale terrene (sala est e sala ovest) come vere e proprie stanze-paese antelitteram, poiché la narrazione dipinta oltre a proporre un’ariosa ambientazione naturalistica nella dilatazione del campo visivo, con luminosi paesaggi dagli orizzonti lontani, coinvolge lo spazio, distendendosi dalle volte a botte alle pareti con una rappresentazione continua, rivestendo completamente la superficie muraria scandita in parte anche da elementi architettonici dipinti intorno alle porte di accesso. Il tema della stanza paese, ossia il giardino in una stanza, cui si dedicheranno, con esiti di indiscussa qualità, numerosi pittori sul volgere del Settecento, ha però una antica tradizione e origini remote nella cultura romana, non senza riferimenti espliciti nel trattato di Vitruvio. Il teorico dell’età augustea suggeriva di dipingere «porti, promontori, spiagge, fiumi, fonti, rocce, villaggi, monti...». Paesaggi fluviali con una sapiente esecuzione delle architetture e della verità botanica della vegetazione, sono quelli dipinti sulle pareti della sala sud est del Palazzo Ducale del Giardino. Particolarmente interessante è l’impaginazione dello spazio condotta sulla parete verso l’ingresso principale della sala: qui la trama disegnativa e lo
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Parma, palazzo Ducale, particolare della decorazione della volta della Camera degli uccelli (sala est)
stesso programma iconografico denunciano un’invenzione colta e ricercata in cui il paesaggio non è citazione erudita o divagazione fantastica. Tema ancora raro, condotto su modelli di cultura figurativa che coniugano suggestioni fiamminghe a elementi di cultura decorativa di ambito romano. Dagli affreschi recuperati si evince che il paesaggio si sviluppava maestosamente sulla volta, su tutte quattro le pareti e, su quella fra le due finestre, con invenzioni di seducente bellezza. Il pittore ha infatti impaginato la scena con un unico, arioso
paesaggio, attraversato da un fiume e popolato da alberi in un lussureggiante giardino, nell’esibita, implicita celebrazione della natura e dell’acqua, arricchendola con inserti architettonici, con cavalli e popolandone il cielo con volatili dai colori accesi. A due successivi interventi, cronologicamente scalati nel XVII e nel XVIII secolo, si devono le decorazioni emerse sugli sguinci delle finestre, in origine più piccole di quelle attuali, sia nella sala sud est, o Camera degli Uccelli, sia in quella sud ovest, o Camera delle architetture dipinte.
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Parma, palazzo Ducale, Camera degli uccelli, particolare della parete
Si tratta di un fregio di verdi racemi che si intrecciano scivolando lungo la parete e di un più articolato fregio a volute, interrotte da grandi medaglie che, sull’architrave, simulano uno sfondato architettonico. Il Palazzo del Giardino è stato infatti interessato da interventi di ristrutturazione riferibili a due differenti ambiti cronologici. La prima, profonda modifica della delizia farnesiana avvenne verosimilmente entro gli anni ottanta del Seicento. A questa fase risale l’intervento decorativo sugli sguinci delle finestre. Il duca Ranuccio II Farnese
fu responsabile di significative trasformazioni nel giardino e nella residenza suburbana di la dall’acqua, dopo il relativo disinteresse per gli interventi architettonici manifestato da suo padre Odoardo. Sono invece riconducibili alla fase settecentesca post farnesiana e all’epoca dell’architetto di corte E. Alexandre Petitot, altri lavori, avvenuti intorno al 1767, in seguito ai quali sono state ulteriormente ampliate le finestre degli ambienti terreni e occultati sia le pitture di paesaggio sulle pareti sia ciò che restava dell’appartato decorativo seicentesco sugli sguinci.
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Parma, palazzo Ducale, Camera delle architetture dipinte (sala ovest), decorazione sugli sguinci della finestra
All’interno dell’antica dimora farnesiana che fin dall’origine era al centro di una estesa area di orti, poi trasformati in sontuoso giardino, e che le testimonianze documentarie ricordano con i termini di “castello” e di “fontana”, la decorazione cinquecentesca, tra artificio e natura, delle sale terrene e di altri ambienti, mirava alla gradevole fusione di esterno e interno, giardino e residenza, con riferimenti anche all’elemento idrico. La villa suburbana di Ottavio Farnese, circondata da un ampio giardino, ospitò un articolato e raffinato cantiere pittorico all’interno del quale operarono protagonisti e comprimari della scuola bolognese e artisti attenti alla tradizione parmen-
se di eleganza e vaghezza di forme di memoria parmigianinesca. Nel 1601, il cronista e poeta Francesco Maria Violardo, ricorda alcune stanze «meravigliosamente depinte dal Mirola e principalmente d’una rovina che è opera stupenda in pittura». Si tratta del bolognese Girolamo Mirola (1535/401570), pittore nonché già collaboratore, a Bologna (1552-1553), di Pellegrino Tibaldi (15271596) nella cappella Gozzadini della chiesa dei Servi. A contatto con i Farnese dal 1557, Mirola è pittore regolarmente stipendiato dal duca Ottavio Farnese dal 3 aprile 1561 fino alla morte (1570). Una precedente, autorevole testimo-
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nianza relativa alla sua presenza nel cantiere del Palazzo del Giardino è quella di Giorgio Vasari. Lo storiografo aretino, in visita a Parma nel 1566, ricorda anche che Girolamo Mirola «aveva dipinto a fresco molte storie in un palazzotto che ha fatto fare il (…) signor duca nel castello di Parma». Dalla recente ricostruzione cronologica e documentaria Mirola si configura come il vero responsabile del cantiere della decorazione, con un ruolo di indiscusso prestigio, ideatore dell’impaginazione pittorica di un numero maggiore di stanze, oltre la Sala dell’Ariosto e quella del Bacio, o del Boiardo, al primo piano. Allo stesso artista è stata attribuita la stanza della Rovina, dipinta nel 1563, verosimilmente affiancato da Jacopo Zanguidi, detto il Bertoja (1544-1573?), cui sono state ricondotte l’affrescatura della sala di Perseo e quella della sala del Paesaggio (1571), al piano nobile sul lato sud occidentale del Palazzo. La stanza della Rovina è una delle numerose sale del piano nobile ricordate dall’architetto svedese Nicodemus Tessin che nel 1687-1688 descriveva compiaciuto le stanze ornate dagli affreschi ispirati ai poemi di Ariosto e di Boiardo, ricordando anche «un’ampia loggia, alta, interamente coperta a volte» ove Giovanni Fiammingo aveva dipinto grandi paesaggi con «taluni palazzi […]e alberi che svettano attraverso l’intera volta». Oltre alla loggia ricorda una sala «chiamata Stanza della Ruina perché gli stucchi si presentano come fossero rotti e rovinati…». Nel Palazzo del Giardino aveva dipinto anche un altro artista, l’infaticabile frescante attivo nei castelli di Torrechiara, Soragna e S. Secondo: Cesare Baglione (Bologna, 1550 c.-Parma,1613), stipendiato fisso del duca a partire dal 1574 di cui Cesare Malvasia, suo biografo, ricorda l’abilità nell’imitare
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i paesaggi dipinti dai fiamminghi. Di Baglione, attivo al piano terreno del Palazzo Ducale del Giardino ove gli spazi di servizio, quali cucine e lavanderie, erano ambienti consoni ad ospitare soggetti meno aulici, si conservano i soffitti affrescati in tre sale, con prospettive, sfondati, fregi e animali. Sono elementi propri del repertorio di questo fecondo frescante che aveva meritato l’elogio di Malvasia. È un viaggiatore inglese, Richard Symonds, in visita al Palazzo del Giardino nel settembre 1651 che ricorda, ammirato, il “Camerino del Vento del Baglione”. Puttini che soffiano, emergono dal restauro, tuttora in corso, nella sala terrena sud ovest, le cui pareti conservano ampie tracce di paesaggi e precise testimonianze di lussureggianti alberature. Queste decorazioni, venute alla luce dopo l’abbattimento di una parete che impropriamente divideva in due parti distinte la sala sud ovest del Palazzo del Giardino, invadono interamente la superficie muraria. Si tratta di un’acquisizione di indubbia rilevanza scientifica. Anche in questo caso, come nella sala sud est, le raffigurazioni naturalistiche non costituiscono lo sfondo di scene di soggetto storico, letterario e/o mitologico, nelle quali i veri protagonisti sono le figure umane. Il paesaggio non è subordinato o parte integrante della scena principale. È esso stesso protagonista. Il cielo solcato da soffici nubi, i bellissimi uccelli in volo presenti in entrambe le sale, le architetture e gli specchi d’acqua oltre alle fronde leggere degli alberi resi con pennellate di tocco, sono del tutto confacenti a un luogo di delizia, e in linea con quanto suggeriva Leon Battista Alberti. In particolare, le pareti della sala sud ovest, tra volatili, vegetazione e architetture si spalancano su ariose vedute inondate da ampi spettri di luce di straordinaria modernità. Il richiamo al nord sembra ineluttabile nella tematica, negli aspetti spaziali e
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Parma, palazzo Ducale, Camera delle architetture dipinte, particolare
nei particolari, e sollecitano a ripensare alcune delle lunette affrescate provenienti dalla rocca Boiardo di Scandiano, considerati i primi paesaggi conosciuti di Nicolò dell’Abate, intorno al 1540 circa. La concezione dello spazio, articolato in primo o in secondo piano da alberi con fogliame di fattura sottile, le piccole architetture sullo sfondo, proprio come quelle dipinte nella sala sud est del Palazzo di Parma sono, benché non esclusivamente, propri della pittura fiamminga. E rapporti con la pittura di paesaggio nordica sono rintracciabili, sulla metà del Cinquecento, nel fregio della sala dei Paesaggi di Palazzo Poggi a Bologna (1550-1552). La conoscenza della cultura nordica sostanziata dalla rilettura della
pittura di Nicolò dell’Abate, si evince anche nei bellissimi fregi con paesaggi in una sala della palazzina adiacente Palazzo Vitelli a S. Egidio, restituiti a Cesare Baglione e datati 1565-1570 c. Il paesaggio recuperato sulla volta e i lacerti visibili sulle pareti della sala sud ovest del Palazzo del Giardino, ancorché non brani di un paesaggio reale e inequivocabilmente identificabile, le puntuali citazioni di architetture oltre gli speroni di roccia presenti nella sala sud est che dominano la pianura solcata da un corso d’acqua, le tonalità del cielo, il disegno dei volatili e, soprattutto, l’importanza conferita all’architettura dipinta intorno alle porte di accesso, funzionale a suggerire la piena integra-
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zione fra interno e giardino esterno, attingono a un repertorio di sfondi classici e fiamminghi. Gli elementi architettonici dipinti, che l’artista inserisce con maggiore evidenza in questa sala, secondo quanto già emerso dal restauro, rimandano ad un vocabolario classico, come bene si evince dall’architrave dalla quale si affaccia un putto gioioso, così come il frammento di cornice centinata ben visibile vicino alla finestra. La qualità e la sapienza descrittiva con le quali l’artista ha reso sia le fronde degli alberi mosse dal vento, ottenute con un gioco di tocchi leggeri, la luminosità del cielo nel quale volano uccelli variopinti, gli inserti architettonici ben visibili sulla parete sulla quale si riconosce anche il disegno di una recinzione con inserti floreali, ed altre tracce di decorativismo architettonico illusionistico connotano questi ambienti, nonostante le lacune, nella complessità della narrazione, con il prestigio e l’appeal di una decorazione preziosa ed esclusiva. I restauri confermano la sfolgorante bellezza di questi paesaggi che avevano ammagliato i viaggiatori stranieri in visita a Parma ben prima delle ampie ristrutturazioni condotte dall’architetto E. Alexandre Petitot, per Ferdinando di Borbone (1751-1802), nella seconda metà del Settecento. C ONSIDERAZIONI SULLA CULTURA E SULLA PITTURA DI PAESAGGIO
In Italia gli umanisti relegavano il genere paesaggistico a un ruolo secondario, a parerga, ossia accessori, secondo il termine, mutuato da Plinio, che Paolo Giovio utilizza per Dosso Dossi. La pittura di paesaggio, ad opera di specialisti nordici o di pittori versatili, era comparsa nella ornamentazione di spazi sacri, a conferma del successo di questo genere in ambito manierista.
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In attesa che ulteriori approfondimenti possano meglio definire le coordinate geografiche e temporali, oltre che di cultura artistica, nonché la fisionomia dell’artista o degli artisti attivi nel Palazzo del Giardino, ritengo si possano avanzare alcune ipotesi di lavoro. La cultura e la tecnica pittorica che supportano queste decorazioni sembrerebbero riconducibili ad un contesto nord italiano, se non addirittura fiammingo, e ad un arco cronologico intorno alla metà del Cinquecento, quello stesso cui appartengono Lambert Sustris, autore delle marine e degli ariosi paesaggi nella villa dei Vescovi, a Luvigliano (Padova) e Cornelis Loots, fiammingo attivo per i Farnese e ben inserito nell’ambiente romano degli anni sessanta del Cinquecento. Le piccole architetture e il paesaggio dipinto nella sala sud est del Palazzo del Giardino di Parma potrebbero forse essere indagate a confronto con quelle dipinte da Girolamo Mirola sulla volta della Sala del Bacio (1561-1563) al piano nobile dello stesso Palazzo. La Sala del Bacio e la Sala dell’Ariosto sono infatti le due stanze del nucleo centrale del palazzo non interessate dai rifacimenti settecenteschi. Le note decorazioni di questi due ambienti costituiscono allegorie dal preciso significato, e il travestimento letterario è funzionale a dilettare e istruire, secondo precetti di oraziana memoria (ut pictura poesis ). Ciò nonostante, la componente naturalistica e gli sfondi paesaggistici, sulla volta e lungo le pareti, hanno grande importanza nell’iterato rimando e nell’elogio dell’acqua e del giardino. Anche i paesaggi dipinti sulla volta della Sala del Bacio sembrerebbero riconducibili ad artisti fiamminghi, forse al pittore Cornelis Loots, e la cronologia, ipotizzata da Meijer entro i primi anni sessanta del Cinquecento, non solo avvalorerebbe
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l’intervento dell’artista, ma rientrerebbe nella logica del cantiere farnesiano. Originario di Malines, Loots è documentato a Parma dall’ottobre 1563 al novembre 1566 (Meijer 1988, p. 30 nota 41). Del resto la presenza nei Paesi Bassi di Margherita Farnese, moglie del duca Ottavio, in qualità di governatrice delle Fiandre dal 1559, favorì l’arrivo a Parma di artisti fiamminghi e di dipinti. Dall’aprile 1575 è documentato paesaggista di corte Jan Soens, e dello stesso Giovanni “Fiamengo” si tramanda che fossero anche gli affreschi raffiguranti «ampi paesaggi (…) con alberi (…) alla volta» (Meijer 1988, p.238) che ornavano il loggiato soprastante la fontana di Giovanni Boscoli e nel vicino casino «eretto sopra la Porta di Santa Croce» (De Grazia 1987). I restauri della Camera degli uccelli (sala sud est) e quelli della sala sud ovest del Palazzo hanno consentito di recuperare ampie porzioni di affreschi cinquecenteschi e brani di decorazioni riferibili cronologicamente alla metà, o poco oltre, del XVII secolo. A seguito di questi lavori si aprono nuove prospettive. Il Palazzo del Giardino si configura come realtà architettonica unitaria, al cui interno tuttavia sono documentati dalle fonti, e si individuano, tempi e aspetti della vicenda architettonica e della decorazione differenti per cronologia, per provenienza geografica e ambito culturale degli artisti. La decorazione delle sale terrene sud est e sud ovest, verosimilmente opera di uno stesso frescante, afferisce al medesimo clima di cultura che ha prodotto i più noti e celebrati affreschi con paesaggi visibili al piano nobile del Palazzo. La luminosità degli affreschi appena riscoperti nelle due sale terrene, privi delle grottesche tipiche del repertorio decorativo di Cesare Baglione, l’esecuzione brillante e la vivace cromia della vegetazione e dei volatili, la seducente bellezza di un paesaggio dilagante e i dettagli
studiati con cura, confermano la sapiente e colta regia esecutiva di un artista, forse fiammingo e aggiornato sulle novità che si andavano elaborando nell’ambiente romano, la cui identità va ricercata nell’ambito dei pittori che operarono nel Palazzo intorno alla metà del Cinquecento. I L RESTAURO
L’intervento di restauro nella Camera degli Uccelli, o camera sud est, condotto da Felsina Restauri srl, ha comportato in primo luogo la demolizione del muro che divideva questo ambiente, premessa necessaria alla rimozione dei vari strati di intonaco e di colore che ricoprivano interamente gli affreschi. Dopo il consolidamento dell’intradosso con iniezioni di acqua di calce e primal diluito in acqua, e l’inietto di ledan, si sono fissate le pitture su un supporto più solido. Il fissaggio del colore è stato realizzato con prodotti reversibili; le campiture neutre nelle zone in cui l’affresco era del tutto scomparso o sostituito da rattoppi di nuovo intonaco, sono state effettuate con colori a base di calce albazzana, mantenendo lo stesso livello tra superficie dipinta e superficie neutra. Nella Camera delle architetture dipinte, o sala sud ovest, ove il restauro è in fase di ultimazione, l’intervento è stato preceduto dalla rimozione della parete divisoria, dalla riapertura dell’originario varco di comunicazione con la sala contigua contornato da stipiti e architravi dipinti, e dall’asportazione dell’intonaco che ricopriva interamente le pareti e gli affreschi. Per la fase di consolidamento la procedura e i materiali utilizzati sono gli stessi di quelli impiegati nell’operazione condotta nella Camera degli Uccelli (sala sud est). Luciano Serchia
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IL DUOMO DI MODENA “CAPOLAVORO DEL GENIO CREATORE UMANO” RESTAURO DEL PARAMENTO LAPIDEO
Graziella Polidori
Il restauro come opportunità di studio e approfondimento del Duomo, iscritto nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità: analisi delle forme di de grado lapideo, acquisizione e mappatura dei litoti pi, approfondimento scientifico sui restauri e le loro interazioni con le metodologie odierne.
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l Duomo di Modena, il monumento più insigne della città, fra le massime espressioni della cultura medievale e modello esemplare dell’architettura romanicopadana, dal dicembre 1997, su richiesta della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di Bologna, è un bene protetto dall’Unesco. È infatti inserito, con esso la Ghirlandina e la Piazza Grande, nella lista delle meraviglie uni versali da proteggere per i suoi caratteri di unicità e di originalità nel contesto della scultura e dell’architettura romanica italiana, in un insieme omogeneo e inscindibile di insediamento urbano legato ai valori della civiltà comunale, con il suo peculiare intreccio di funzioni economiche, religiose e civili. Quindi un maggior prestigio internazionale, un maggior credito presso gli organismi europei, un nuovo veicolo attraverso il quale la città turistica potrà trarre vantaggi. L’iscrizione è comunque un impegno gravoso e impone obblighi conservativi del bene pena l’eliminazione dall’elenco dei beni inseriti nel patrimonio mondiale dell’Umanità. Nell’ambito della salvaguardia e della promozione del patrimonio culturale un obiettivo che le autorità responsabili del sito modenese intendono perseguire, aderendo alle direttive dell’Unesco, 01. Il Duomo di Modena dopo il restauro del 1893-94
è l’attuazione del Piano di Gestione redatto nel 2007 dal gruppo di lavoro composto da rappresentanti della Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici dell’Emilia-Romagna, del Comune di Modena, del Capitolo Metropolitano del Duomo e delle Soprintendenze territoriali. È importante però, prima di entrare nel merito del restauro in corso, osservare come gli interventi realizzati a partire dalla fine dell’Ottocento abbiano in parte modificato l’originale stato chimicofisico della materia. Fino a quel momento gli interventi avevano avuto un carattere episodico ma con l’istituzione dell’Ufficio regionale per la conservazione dei monumenti dell’Emilia, avvenuta nel 1891, il restauro fu ricondotto nell’ambito di una attività programmata. Tre sono stati i progetti che hanno visto realizzare importanti interventi sulla facciata del Duomo. Il Barberi iniziò nel 1877 la stesura del programma di restauro, per conto del Capitolo, con una serie di progetti il primo dei quali fu sottoposto alla Commissione Provinciale nel 1887 dopo una sistematica ricerca sul Duomo durata 15 anni e tradotta in massima parte in rilievi e studi grafici. Il Barberi nella sua relazione esponeva gli inter venti ritenuti più urgenti: «I due pinnacoli che s’innalzano nel lato orientale e la grande rosa della facciata principale essendo gravemente danneggiati dalle filtrazioni dell’ acqua e dell’azione del gelo, abbisognano di riparazioni per evitare il deperimento». Le linee del suo programma di restauro individuavano le operazioni di ripristino da anni sollecitate da artisti e architetti locali. Il progetto di riparazione della facciata del Barberi fu valutato dal direttore dell’Ufficio regionale Raffaele Faccioli per stabilire il grado di compatibilità con i criteri conservativi richiesti dal Mini-
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stero della pubblica istruzione; lo stesso Faccioli fece alcune riserve sull’intervento di scrostatura totale delle pareti della navata dove coesistevano antiche pitture murali. Solo nel 1891 venne dato corso ai lavori di restauro ed il Ministero chiamò l’Ufficio regionale ad occuparsi direttamente dei restauri del Duomo in base al progetto del Barberi, rivisto successivamente anche dal Genio Civile. Si intervenne quindi sulla copertura con l’eliminazione dei sopralzi in muratura protetti da coppi situati sui salienti minori della facciata e con la copertura delle cornici dentellate con fogli di rame opportunamente adattati. Gli interventi sulla facciata interessarono le due finestrelle quadrilobate poste sopra i portali laterali, la cui demolizione permise di ritrovare la traccia delle antiche monofore alte 193 cm e larghe 26 cm. L’importanza dei ritrovamenti convinse il Faccioli ad attuare il ripristino delle monofore in una versione più corta che non interferisse con i rilievi della genesi. I lavori poterono proseguire sino al 1893 con la totale riparazione del rosone: la grande rosa campionese di pietra fu ampiamente rappezzata, in particolare nel semicerchio inferiore, con nuovi blocchi di biancone di Verona tagliati e torniti sul modello di quelli esistenti. A protezione delle vetrate istoriate della raggiera furono applicati i telai con rete che si conservano ancora oggi. Il paramento laterizio dei loggiati fu scrostato dell’intonaco imitante la pietra, mentre alcune lastre del paramento di facciata, nascoste fino a quel momento da manifesti e annunci funerari, vennero sostituite con nuove lastre di pietra di Verona. (Fig. 1)
Negli anni a seguire fino ai primi anni del Novecento furono intrapresi molti altri lavori come l’isolamento del Duomo e le demolizioni al suo interno. Un’ulteriore tornata di restauri venne promossa dal progetto del Barbanti e da Tommaso Sandonnini, segretario del Comitato promotore per il restauro del Duomo, che già negli anni 1893-1894 aveva auspicato il recupero dei due leoni romani sostituiti nel 1851 con copie dello scultore Luigi Righi. Nonostante la richiesta presentata in quegli anni dal Faccioli, i leoni stilofori, nel frattempo trasferiti nel lapidario, vennero effettivamente ricollocati nel protiro della facciata solo nel 1923. Lo stato incompleto dei due torrini, dovuto al terremoto del 1671, portò il Comitato ad aprire una sottoscrizione per ricostruire, su progetto del Barbanti, le edicolette cuspidate con otto colonne che insistevano in origine su basi prismatiche. Il progetto teneva conto delle ricerche d’archivio e dell’iconografia storica. L’approvazione del Ministero venne emessa a condizione che venisse utilizzata una pietra diversa dalle pietre istriane e veronesi usate in Duomo. Fu usato così il marmo bianco bronzetto ma ciò non fermò le critiche successive. I capitelli a foglie delle colonnette e tutte le modanature delle edicole furono giudicate troppo finite e perciò falsificanti da Gustavo Giovannoni nel 1938. Il ciclo di restauri che interessarono il Duomo di Modena riprese, dopo la parentesi bellica, nel corso degli anni Cinquanta, per la necessità di interventi con opere di restauro per la salvaguardia delle sculture e dei prospetti esterni, più direttamente minacciate dall’azione di degrado. Più tardi, nel 1968, l’attenzione si spostò sui fenomeni di degrado localizzati in facciata e in particolare
sui bassorilievi della Genesi che cominciavano a dare segni di deperimento. Dopo numerosi studi e convegni la Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di Bologna predispose il progetto di restauro ma i finanziamenti tardarono ad arrivare, tanto che si ritenne opportuno installare un ponteggio a protezione della facciata. Proprio grazie a tale struttura fu possibile constatare il gravissimo stato di degrado in cui versava la grande rosa campionese, in particolare il semicerchio inferiore, già ricostruito in epoca ottocentesca. Il progetto di restauro della Soprintendenza pre vedeva tecniche di restauro adottate a quell’epoca ed in particolare la pulitura ed il trattamento consolidante, secondo modalità già sperimentate in altri importanti monumenti come ad esempio nel Portale di Palazzo Schifanoia, nella facciata della cattedrale di Ferrara, nei portali di San Marco a Venezia e nel rivestimento lapideo della basilica di San Petronio a Bologna. Come consolidamento e protezione delle superfici esposte venne applicata a pennello una soluzione di resina paraloid dosata al 5% mescolata con clorotene e diluente nitro con l’aggiunta dell’1% di silicone; una soluzione concentrata delle due resine, rispettivamente 15% di paraloid e 5% di silicone, venne applicata nelle piccole fessurazioni fino a riempimento; quale strato di finitura fu eseguita una protezione a base di cera vergine diluita in soluzione al 10% in essenza di trementina stesa a pennello. Al riguardo il comitato di studiosi composto da Cesare Brandi, da Cesare Gnudi e da Raffaella Rossi Manaresi del Centro per la conservazione delle sculture all’aperto di Bologna, convocati per prendere visione dei rilievi del Wiligelmo, con-
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venne di rimuovere lo strato ceroso steso sui rilie vi di Wiligelmo e di optare per la sola protezione, analogamente a quanto fatto per San Petronio a Bologna, a base di paraloid e silicone, perché la patinatura a base di cera avrebbe provocato un rapido scurimento. Anche il Comitato di Settore del Ministero per i beni e le attività culturali, con la nota del 1979 che approva gli interventi per il Restauro della Facciata del Duomo, ritiene che dovesse «essere evitata l’applicazione di cere perché attirano la polvere». La caduta di una porzione di materiale lapideo, avvenuta nel 2005 in corrispondenza della cornice dello spiovente destro del tetto della facciata, ha determinato l’avvio, da parte della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di Bologna, di una serie di indagini scientifiche sullo stato di conservazione delle strutture del Duomo e del successivo intervento di consolidamento e restauro della facciata. Le indagini petrografiche, chimico-fisiche e la ricostruzione storica degli eventi hanno permesso di sviluppare l’intervento di restauro sulla facciata e successivamente sul lato settentrionale, dove i lavori sono potuti continuare con finanziamenti della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena. Attualmente (marzo 2009) è stato avviato sempre a cura della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di Bologna, il cantiere di restauro del lato meridionale del Duomo, su piazza Grande, del portale wiligelmico e dei portali laterali della facciata. Questo progetto prevede un difficile intervento di pulitura dalle croste nere presenti su tutto il lato della navata centrale, coerentemente a quanto effettuato sul lato nord, secondo le modalità
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02.
Lato sud interessato da croste nere
operative già condivise con l’Istituto superiore per la conservazione e il restauro (Fig. 2). Le metodologie del restauro e i materiali saranno definiti solamente a seguito dei riscontri ottenuti dalle analisi chimiche che hanno già preannunciato un elevatissimo fenomeno di solfatazione in atto sul paramento lapideo interessato dalle croste nere. Anche qui gli interventi da realizzare sul paramento lapideo, articolati nelle fasi canoniche di
pulitura, consolidamento ed eventuale protezione, saranno preceduti, come consuetudine, dalla fase propedeutica di documentazione e di ricerca e dalla realizzazione di mappature grafiche di localizzazione dei fenomeni di degrado. Questa fase di documentazione e di ricerca, in relazione ai lavori sulla facciata e sul lato settentrionale, ha permesso di acquisire dati ad oggi sconosciuti mediante lo sviluppo di rilievi grafici per
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03. Mappatura dei Litotipi a cura di Stefano Lugli (Università degli studi di Modena e Reggio Emilia)
l’identificazione litotipica dei singoli elementi del il paramento lapideo del Duomo. (Fig. 3) I rilievi fotografici generali e particolareggiati e la mappatura grafica delle forme di degrado hanno permesso inoltre di catalogare le varie pietre in base alla natura dei processi degenerativi riscontrati; insieme alle ricerche d’archivio tendenti a risalire agli eventuali trattamenti subiti in passato ed alle indagini chimico-fisiche
finalizzate alla caratterizzazione composizionale dei prodotti del degrado ed al loro legame con gli ultimi interventi di restauro, si è ottenuta la documentazione necessaria per sviluppare gli interventi in atto. A soli trent’anni dall’ultimo intervento, si possono osservare forme degenerative quali decoesioni, erosioni, esfoliazioni, croste nere, dilavamenti e alterazioni cromatiche.
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04.
Il degrado presente sulla facciata
Sono state individuate vaste zone lapidee ricostruite con malte cementizie e stucchi sintetici ed aree interessate da disomogenee patinature alterate e viranti in gialli traslucidi, originate dalla polimerizzazione delle resine sintetiche e delle cere utilizzate come protettivi. La cera si presenta come un film staccato dalla superficie, quindi non assorbito mentre il paraloid è totalmente assorbito nelle zone più protette ed è visibile sottoforma di variazioni cromatiche. (Fig. (Fig. 4) Il principale degrado riscontrato sulla facciata e sul lato settentrionale era generato dalla mancanza di traspirabilità da parte della pietra, che risultava più o meno accentuato a seconda della densità del litotipo interessato. In particolare la ricostruzione storica degli eventi ha permesso di appurare che il lato settentrionale del Duomo era stato segnato
da numerose sostituzioni lapidee con elementi in pietra tenera di Vicenza, a grana fine, a differenza della facciata caratterizzata per lo più dalla stessa pietra di Vicenza ma a grana grossa. In occasione del sopralluogo effettuato dall’Istituto superiore per la conservazione ed il restauro sono emerse osservazioni interessanti in merito allo stato conservativo del paramento lapideo prima dell’attuale intervento. Stranamente le parti protette della facciata e del lato settentrionale, sia lisce che modellate (sotto mensole e retro delle colonne), risultavano prive di depositi coerenti e di croste nere, a differenza del paramento laterizio interno i nterno alle archeggiature. (Fig. 5) Il lato settentrionale su via Lanfranco fu oggetto nel corso degli anni Settanta-Ottanta di una pulitura con impacchi AB57 per rimuovere il completo annerimento testimoniato dalle foto scattate in precedenza ma che non interessò la parete della navata centrale. L’esame di queste due zone, interessate da vicende conservative diverse, ha messo in evidenza che la superficie lapidea restaurata negli anni Ottanta ha avuto un intervento di restauro forse troppo aggressivo, come emerge dalla scabrosità della superficie lapidea. I riscontri ottenuti successivamente, con le indagini scientifiche eseguite proprio per l’identificazione dei processi di degrado in atto, hanno confermato tale ipotesi. Infatti un prelievo eseguito su una lastra di pietra di Vicenza caratterizzata da superficie scabra con rigature e microcavità irregolari ha messo in evidenza un incipiente fenomeno di solfatazione: la consistente concentrazione di solfati pari a 1,74% e la presenza di una alta percentuale di ione ammonio sono imputabili
Particolaree delle Loggette Logge tte prima del restauro 05. Particolar
all’utilizzo di una sostanza corrosiva che potrebbe aver provocato una forte aggressione della pietra. Ulteriori analisi stratigrafiche hanno messo in luce la presenza in diverse zone del paramento lapideo di una scialbatura a base di calce pigmentata stesa anche al di sopra di residui di crosta nera, probabilmente al fine di coprire alcuni risultati non soddisfacenti della pulitura e di rendere omogeneo il risultato estetico finale.
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Le campagne diagnostiche hanno inoltre confermato la ricostruzione storica sui precedenti inter venti di restau restauro, ro, risco riscontran ntrando do la la prese presenza nza di resine resine acriliche, in particolare di paraloid, una delle resine acriliche più utilizzate tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta per operazioni di fissaggio e consolidamento dei materiali litoidi. Sono state esaminate quindi tutte le patine osservabili sulla superficie, sottoponendone i campioni prelevati allo studio al microscopio elettronico a scansione, alla microanalisi chimica elementare, alla microsonda elettronica in dispersione di energia e al FT/IR (microanalisi spettrofotometrica spettrofotometr ica all’infraross all’infrarosso). o). Tutte le patine sono formate da quantità variabili di gesso e da ossalati, quest’ultime derivanti dal degrado di sostanze organiche proteiche utilizzate in passato sia per la protezione superficiale sia per la stesura di scialbature a calce; i saggi immunoenzimatici hanno individuato in maniera diversificata la presenza di caseina di capra, caseina di vacca, colla di bue e di albume. Nell’impossibilità, Nell’im possibilità, da parte del laboratorio, di sezionarle in stratigrafia, si è cercato di collocarle nello spazio temporale in base alle notizie storiche in nostro possesso. L’albume ritrovato sulle torrette è da datare successivamente al 1937, anno in cui i torrini furono ricostruiti; la stessa sostanza proteica è stata ritro vata sia sul rosone che sul rilievo di Wiligelmo, probabilmente utilizzata come legante degli strati pittorici e quindi di origine più antica. La presenza della colla di bue è significativa nella zona bassa dei contrafforti in facciata, sostituiti intorno al 1924, e successivamente scialbati come riportato nella ricostruzione storica delle edizioni Panini. La presenza di una scialbatura a calce, ora completamente solfatata, è stata riscontrata in alcuni
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06.
Il degrado del rosone in arenaria
07.
Particolare Particol are del rosone prima del restauro
campioni di colore bianco-avorio ed in quelli di colore giallo-aranciato a causa della presenza di ocre, come nel campione prelevato dalla seconda metopa di facciata. L’ultima patinatura delle superfici lapidee, documentata dalla ricostruzione Panini, può essere fatta risalire al restauro eseguito nell’immediato dopo-guerra. L’utilizzo della caseina di capra, ritrovata in particolare sul prospetto Nord nel corso dell’intervento di restauro conclusosi nel novembre del 1985 con le stesse modalità tecniche adottate per la facciata, può essere ascrivibile a tale fase di lavori. La presenza di resina acrilica conferma l’intento dell’ultimo intervento di restauro degli anni ’80 di impermeabilizzare le superfici. Al contrario che sulla facciata sul lato nord, nessun prelievo ha mostrato la presenza di cera microcristallina. Ritornando ai processi di degrado riscontrati e campionati durante la fase diagnostica, particolarmente grave si presentava lo stato conservativo degli elementi in arenaria, in particolare del rosone nel semicerchio inferiore completamente ricostruito nell’Ottocento; questo tipo di arenaria (denominato formazione di Pantano) ha subito numerosi interventi di restauro che comunque non sono riusciti ad arginare il problema. L’arenaria si presentava con profonde spaccature, disgregazioni e distacchi in corrispondenza delle vecchie stuccature a base di resina sintetica, delaminazione del substrato e interi conci sollevati senza più continuità materica e presenza di piante infestanti. (Figg. (Figg. 6-7) Il degrado materico in cui versava l’arenaria del rosone ha reso indispensabile un lungo e meticoloso intervento di consolidamento volto a ridare al substrato incoerente la compattezza perduta, con l’eliminazione delle resine sintetiche delle
08. Il rosone dopo il restauro
09. Particolare dopo il restauro
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malte non più idonee e coerenti utilizzate negli ultimi interventi. A differenza di molti interventi di restauro indirizzati verso la ricostruzione di quei modanati architettonici che per varie concause sono andati perduti, si è preferito non interferire ulteriormente con malte riportate o con ricostruzioni arbitrarie. Si è scelto quindi di limitare l’intervento alla sola chiusura delle vie d’infiltrazione di acqua con malte idonee con un accenno di modellato solo in alcune parti completamente degradate e di trattare adeguatamente le zone con creste pericolose che avrebbero potuto creare problemi di infiltrazioni d’acqua. (Figg. 8-9) Al restauro completo del rosone che ha riguardato anche la parte interna del Duomo, ha fatto seguito il difficile lavoro di restauro delle vetrate istoriate quattrocentesche. Le vetrate sono state smontate dalla struttura obsoleta che le conteneva, pulite dai depositi e dalle incrostazioni di vecchie malte e siliconi, consolidate nella pellicola pittorica in superficie, ricollocate nella posizione originaria tramite una nuova griglia di contenimento in piombo. Sono state eliminate le incongruenze storico-stilistiche create dai precedenti restauri in particolare i tasselli vitrei ricostruiti con resina e le tessere disposte a caso senza un nesso stilistico-grafico. Di natura più strutturale è stato l’intervento che ha riguardato il cornicione in pietra di Vicenza e le torrette sommitali. Il cornicione soggetto a continue infiltrazioni di acqua piovana è stato ancorato nelle parti disgregate (Fig. 10) e successivamente ne è stata migliorata la protezione superiore. Gli aggetti esterni (capitello del saliente) erano stati ricostruiti con cemento grigio e sabbia grossa
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10.
Particolare del rosone disgregato
ed erano stati ancorati all’arenaria con perni filettati in acciaio di dimensioni spropositate rispetto alla consistenza lapidea. Per evitare inoltre ulteriori cadute di materiale è stata applicata una rete metallica tassellata direttamente al capitello del saliente.
11. A
sinistra, torrette absidali; a destra torrette lato ovest
Per quanto riguarda le torrette soggette a disgregazione materica per la natura marmorea della pietra utilizzata sono stati studiati dei rinforzi esterni in acciaio inox per aiutare le colonnine e le lastre superiori nella loro funzione strutturale. (Fig. 11) Le foto mostrano la colonnina in marmo bronzetto del torrino di facciata e la colonnina in marmo di Verona del torrino absidale ed evidenziano forme di degrado simili molto preoccupanti con fenomeni di fessurazione verticale e veri e propri distacchi di parte del materiale. Il restauro delle superfici del paramento e degli ornati ha previsto una prima fase di preconsolidamento realizzata su quelle porzioni lapidee con avanzati fenomeni di disgregazione, esfoliazione e scagliatura a cui è seguita la messa in sicurezza di scaglie, schegge e frammenti di maggiori dimensioni. Le zone interessate da patine biologiche, concrezioni di muschi e licheni, sono state trattate con soluzioni biocide idonee scelte dopo l’individuazione dell’agente patogeno. Le stuccature eseguite con malte cementizie che non assicuravano più una perfetta chiusura della lacuna sono state rimosse e sostituite con impasti costituiti da calce idraulica esente da sali ed inerti a granulometria e composizione variabile, a seconda del litotipo da reintegrare. I prodotti utilizzati per l’attuale restauro sono stati oggetto di un’accurata campagna di analisi chimiche condotta sia in laboratorio sia in cantiere: in particolare è stata verificata la capacità di penetrazione nei diversi tipi di materiale lapideo dei consolidanti, l’assenza di variazioni cromatiche dopo l’applicazione e la corretta esecuzione della pulitura nel rispetto delle patine ad ossalati e delle varie scialbature. Sono stati utilizzati materiali conosciuti e impiegati nel campo del restauro da anni, i cui risultati
12. Particolare delle lesioni presenti nella zona matronei
13. Consolidamento strutturale
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sono ancora oggi visibili su importanti monumenti, limitandone comunque l’utilizzo in funzione della reale necessità riscontrata dalle analisi di laboratorio. Di tutto l’intervento di restauro sono stati sviluppati una serie di rilievi grafici che riportano l’esatta localizzazione degli interventi con le specifiche chimiche dei materiali utilizzati e le relative schede tecniche al fine di lasciare ai posteri tutta la documentazione necessaria per futuri interventi. A seguito delle lesioni riscontrate nella zona dei matronei di facciata il Comitato Scientifico del Duomo, composto da docenti universitari e dai rappresentanti dalla Soprintendenza di Bologna e della Direzione Regionale, ha valutato gli opportuni interventi di consolidamento strutturale. Su queste lesioni, (Fig. 12) presenti da tempo nella zona dei matronei erano già intervenuti in passato (presumibilmente nell’Ottocento) con cuciture in staffe di ferro e resine naturali: un particolare interessante è l’analisi effettuata su uno stucco utilizzato per l’adesione di un pezzo distaccato da una colonnina, che ha rilevato l’utilizzo di resina colofonia. L’intervento di consolidamento strutturale appena ultimato ha previsto la posa di cerchiature di acciaio in corrispondenza delle fratture nelle colonnine e negli architravi e la posa di profilo di acciaio lungo il bordo del cornicione a doppia pelta collegato alla muratura delle loggette con staffe e tiranti in acciaio. (Fig. 13) Il tutto è completamente nascosto dalla vecchia copertina in piombo che è stata riposizionata sui matronei e stagnata nelle giunture. Per verificare inoltre la struttura costruttiva del Duomo sono state eseguite indagini video-endoscopiche sulla facciata che hanno portato a interes-
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14.
Particolare delle lesioni sul fianco nord
santi scoperte ancora in fase di approfondimento; al momento i prelievi, che hanno raggiunto una profondità di 136 cm, sono stati eseguiti in tre sezioni del Duomo per determinarne la consistenza muraria: sulle arcature superiori dei matronei, nella zona interna ai matronei in corrispondenza del laterizio e prossimità degli archetti pensili. Il primo dato interessante è lo spessore del rivestimento lapideo che, mentre nella zona delle arca-
ture superiori varia da 13 a 36 cm, al di sotto dei matronei diminuisce partendo da un minimo di 7 cm ed arrivando ad un massimo di 30 cm. La muratura dietro al rivestimento lapideo in tutte e tre le sezioni è costituita da alternanze di mattoni messe in piano e a coltello e giunti di malta di dimensioni variabili. Tra le mappature che si stanno realizzando è di notevole importanza quella del quadro fessurati-
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vo presente su tutti i prospetti del Duomo che fornirà informazioni più dettagliate sulle problematiche inerenti al fenomeno della subsidenza del complesso costituito dal Duomo e dalla Ghirlandina. (Fig. 14 ) Il Comitato dovrà affrontare anche il tema della salvaguardia del bene dal rischio sismico poiché è noto che del nostro patrimonio culturale, quindi anche del Duomo, sappiamo qualcosa sullo stato di conservazione, ma quasi nulla sul modo di preservarlo. A tale proposito l’azione del Comitato dovrà mirare ad un’adeguata attività conoscitiva della fabbrica del Duomo per garantirne la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione. Per affrontare quest’argomento sono di grande aiuto le Linee Guida per la valutazione e riduzione del rischio sismico del Patrimonio culturale definite dal Ministero per i beni e le attività culturali in coerenza con l’ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri del 12.11.2007 che consentono di agire in modo metodologicamente corretto.
15. Particolare delle lesioni sul fianco nord
RESTAURI DE LLA CHIESA DEL S S. SALVATORE A BO LOGNA
Antonella Ranaldi
S INTESI STORICO -CRITICA
A
ppartenente sin dalle sue antichissime origini all’ordine dei Canonici Regolari del SS. Salvatore, poi acquisita al Demanio statale nel 1866, la chiesa fu ricostruita dapprima nel 1473-78 e poi tra il 1605 e il 1623 su progetto del milanese Giovanni Ambrogio Mazenta, padre barnabita. Ne seguì l’esecuzione, adattando il progetto originario di Mazenta alle condizioni del luogo, il bolognese Tommaso Martelli, indicato nei documenti come “architetto della nostra chiesa”. La fama di Mazenta in quegli anni è confermata dall’essere stato l’architetto prescelto dal capitolo della cattedrale bolognese di San Pietro per il progetto di ricostruzione della preesistente chiesa romanica, in continuità con l’opera di rinnovamento avviata con la realizzazione della cappella maggiore di Domenico Tibaldi del 1570. Si deve a Mazenta inoltre la chiesa di San Paolo dell’ordine barnabita a cui apparteneva, sita nelle vicinanze del SS. Salvatore, su via Barberia. Le alterne e controverse vicende della realizzazione seicentesca del SS. Salvatore seguirono in parallelo quelle coeve della cattedrale bolognese, tanto che la prima può dirsi l’alter ego della seconda, con la differenza che nel SS. Salvatore il compimento fu perseguito in modo più coerente ai propositi del Mazenta, tanto da potersi considerare come il suo capolavoro. Né incisero più di tanto sull’idea spaziale generale i successivi interventi (tranne quelli moderni di cui si dirà), fatto di per sé eccezionale se si considera quanto siano rari gli esempi dell’epoca * Chiesa del SS. Salvatore a Bologna, l’interno dopo i restauri
che non hanno subito nel tempo, anche in modo invadente, l’aggiunta di decorazioni ed ornamenti, come è avvenuto in molte chiese della Controriforma, che in origine ne erano prive. I restauri eseguiti dalla Soprintendenza nel SS. Salvatore hanno di fatto privilegiato l’aspetto delle finiture e coloriture chiare del primo Seicento che sono state trattate come un affresco da riportare in luce, operando una scelta selettiva su quelle successive. Insieme ai lavori è stata condotta l’indagine storico documentaria, pervenendo a nuove acquisizioni sul controverso dibattito che accompagnò la realizzazione, documentato nei carteggi della fabbrica, che tra oppositori e fautori meglio chiarisce l’apporto originale di Mazenta e il senso e il significato di questa architettura 1. È stato inoltre possibile ricostruire la sequenza dei lavori, le fasi di preparazione e allestimento del cantiere, gli accorgimenti per utilizzare quanto più possibile le muraglie preesistenti nuovamente sottofondate. Nuove osservazioni, come si vedrà, evidenziano la particolare tecnica utilizzata nelle finiture interne. I riscontri iconografici restituiscono inoltre come doveva essere il sagrato, rimosso nell’Ottocento, che ne costituiva il podio sopraelevato. Il SS. Salvatore appare solo in parte conforme al modello delle chiese della Controriforma, sul tipo del Gesù a Roma. L’aula a sviluppo longitudinale è alta il doppio della larghezza, con tre cappelle sui due lati; il transetto, compreso nel perimetro rettangolare del corpo della chiesa, è coronato da una cupola nascosta all’esterno da un tiburio ottagonale (Mazenta l’avrebbe voluta estradossata e a collo lungo); l’abside si presenta semicircolare all’interno e poligonale all’esterno. A partire da queste componenti, similari a molte chiese congregazionali di quegli anni, con significative varianti Mazenta seppe eman-
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01. Gio. Carlo Sicinio Galli Bibiena, chiesa del SS. Salvatore a Bologna, pianta (1752)
cipare lo schema di partenza, orientando la ricerca verso inedite soluzioni. Innanzitutto variò il passo delle tre campate dell’aula, enfatizzando la campata centrale resa più larga rispetto alle altre e coperta a crociera, dilatata nei due vani delle cappelle laterali a tutta altezza, con finestroni che inondano di luce diretta l’ambiente interno. Tale accorgimento conferisce all’aula longitudinale un’idea di centralità, creando inoltre un’asse trasversale, a formare quasi
un secondo transetto (Fig. 1). L’idea risulta ancora più chiara nel disegno dell’articolata facciata lungo il fianco della chiesa. I due alti volumi, corrispondenti al transetto e alla campata centrale, sono denunciati all’esterno duplicandone il disegno in modo speculare, separati dai corpi più bassi delle due campate più strette, alle quali si accompagnano le cappelle laterali con le finestre a serliana, alternate a doppie finte finestre rettangolari, secondo il ritmo bina-
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02. Gio. Carlo Sicinio Galli Bibiena, chiesa del SS. Salvatore a Bologna, prospetto laterale (1752)
raste e dell’impaginazione parietale ( Fig. 2 ). A questa sapiente e composta articolazione, si aggiungono le spettacolari otto colonne libere che all’interno segnano il passo delle campate dell’aula, in luogo delle più tradizionali paraste o semicolonne. Mazenta sviluppa qui i presupposti di soluzioni appena enunciate in San Salvatore in Lauro a Roma di Ottaviano Mascherino, in San Fedele a Milano di Pellegrino Tibaldi, nella cappella maggiore della cattedrale bo-
lognese di San Pietro di Domenico Tibaldi, in parallelo al Sant’Alessandro milanese di Lorenzo Binago, dove grandi colonne monolitiche in marmo rosso furono poste nel 1623, in adiacenza dei pilastri sotto la cupola, volgendo ad esiti di ricerche convergenti che contraddistinguono il contributo degli architetti barnabiti del tempo Binago e Mazenta. Proprio le novità introdotte, la variazione del passo delle campate dell’aula, con quella centrale
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più dilatata, e l’impiego delle colonne libere, attirarono le critiche del tempo, tanto che la chiesa rischiò di non essere portata a termine. Si voleva da Roma cambiare il progetto a favore di uno più conforme alle chiese che, in quegli stessi anni, si andavano realizzando nella città della sede pontificia. Le controverse vicende, che accompagnarono i momenti più difficili nel corso dei lavori, sono documentate nei carteggi e nelle missive tra il priore del SS. Salvatore Alfonso Bavosi e il canonico Candido Avanzi, mandato a Roma a difendere la causa del progetto di Mazenta e la prosecuzione dei lavori. La disputa che ne emerse mette in luce il dibattito di quegli anni su temi di squisita natura architettonica, a partire dalle scelte compositive dell’impianto biassiale e della colonna libera. Su questi temi si espressero a proposito del SS. Salvatore i maggiori architetti del tempo, Onorio Longhi e Carlo Maderno, il primo insindacabilmente critico, il secondo più indulgente; le loro posizioni dimostrano quanto le soluzioni del Mazenta, antesignane dei futuri sviluppi, non fossero in quegli anni comprese a pieno, e in una certa misura anche osteggiate. Mazenta stesso, che nel frattempo aveva assunto ruoli di maggiore responsabilità come generale dell’ordine dei barnabiti, scese in campo per controbattere alle critiche rivolte al suo progetto. E di questo, difese le proporzione, l’ordine architettonico, il ricorso alle colonne libere, argomentando le sue scelte e dichiarando ancora una volta, come aveva fatto nei suoi appunti autografi al disegno di progetto iniziale del 1605, i propri modelli di riferimento, ripresi dall’architettura tardo imperiale romana della Basilica di Massenzio, che si riteneva a quel tempo fosse il Tempio della Pace, e delle Terme di Diocleziano,
che evidentemente Mazenta doveva conoscere nell’aspetto conferitogli da Michelangelo nel mirabile e rispettoso adattamento della chiesa di Santa Maria degli Angeli (Fig. 3). Nel SS. Salvatore si volle dunque ricreare, e la scelta di portare le colonne fuori dai pilastri lo conferma, l’effetto delle aule termali antiche, quali si potevano solo immaginare, in uno spazio architettonico luminoso e arioso, destinato alla liturgia religiosa. Pur rifacendosi quindi ad uno schema ampiamente diffuso, Mazenta introdusse alcune significative novità nell’articolazione planimetrica e nell’alzato della navata, che resero il SS. Salvatore un modello riprodotto in molte chiese emiliane2, per divenire poi il punto di avvio delle sperimentazioni barocche sul tema della pianta composita e della colonna libera, che da lì si svilupperanno a pieno e con effetti ben più scenografici. Tanto che può rintracciarsi, come riconosciuto da Wittkower3, una linea evolutiva che dal SS. Salvatore di Mazenta porta alla realizzazione della chiesa romana di Santa Maria in Campitelli di Carlo Rainaldi. E al meglio delle sue qualità, la chiesa venne apprezzata da numerosi e colti visitatori. Jean Mabillon a Bologna nel maggio del 1686 la definiva «una splendida basilica, d’architettura moderna». Filippo Juvarra, di passaggio a Bologna nel 1716, ne riportava la pianta nel suo taccuino4. Secondo Montesquieu, a Bologna nel 1729, la chiesa «per l’architettura è una delle più belle di Bologna …»5. Charles De Brosses, appassionato cultore delle antichità romane, a Bologna nel settembre del 1739, non esitava a definirla tra le chiese bolognesi «la più bella chiesa di tutte» paragonandola all’antica architettura greca e romana 6. Seguirono da lì a poco gli interventi settecenteschi. Dapprima nel 1744 venne nuovamente pavimentato il sagrato che correva sui due lati
03. Maerten Fransz van der Hulst, veduta dell’aula trasversa
della chiesa di S. Maria degli Angeli a Roma, come si presentava dopo gli interventi di Michelangelo all’interno della sala a tre crociere delle Terme di Diocleziano (da S toria dell’architettura italiana. Il secondo Cinquecento, a cura di C. Conforti e R. Tuttle, Milano 2001, p. 41)
liberi della chiesa, davanti alla facciata e sul fianco lungo la via delle Asse, dal mirabile disegno a forme geometriche e stellari, documentato nella pianta di Sicinio Galli Bibbiena, pubblicata da G. G. Trombelli nel 1752 ( Fig. 1). Dopo la caduta di un fulmine il 15 giugno 1758, che danneggiò le coperture e le volte, si eseguirono nel 1759-60 consistenti restauri e vari abbellimenti interni. La cronaca di Pedini riferisce che i restauri compiuti dall’abate Clemente Ambrosi, costati lire ottomila, iniziarono il 2 luglio del 1759 e terminarono il 10 settembre. Riguardarono la sagrestia, tutto il coperto della chiesa e il tiburio, la facciata e il fianco della chiesa 7. Nel 1760 i lavori proseguirono all’interno, dove fu rifatto l’altare maggiore in marmo e in bronzo dorato, costato circa lire ventimila, e rinnovate le dorature delle ancone in
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legno delle cappelle. Nel transetto i lavori interessarono anche le quattro cantorie che, riportate in luce negli ultimi restauri, mostrano la finezza degli ornati e degli stucchi in bianco e oro e le coloriture a finto marmo azzurre e rosse. Il restauro terminò nel 1760 in occasione del capitolo tenutosi il 28 aprile, che portò alla nomina del nuovo priore del monastero Giovanni Grisostomo Trombelli. Appassionato cultore delle arti, egli aveva già dedicato alla chiesa approfondite ricerche pubblicate nelle Memorie istoriche … del 1752, corredate dalle belle incisioni di Sicinio Galli Bibbiena, che illustrano la chiesa in pianta, sezione e prospetti (Figg. 1-2 )8. Di altro tenore furono le vicende che interessarono la chiesa dopo le confische napoleoniche e le soppressioni post unitarie del 1866. Il complesso abbaziale divenne da allora di proprietà demaniale e la chiesa appartiene oggi al Fondo degli edifici di culto (FEC). Alla fine dell’Ottocento, l’Intendenza di Finanza eseguì una nuova pavimentazione in mattonelle esagonali di graniglia di cemento, sovrapposta a quella preesistente in ammattonato a spina di pesce, e nel 1899 fu ritinteggiato l’interno. All’inizio del Novecento, la chiesa tornò ad ospitare i canonici (divenuti dal 1823 canonici regolari lateranensi). Fu allora che il nuovo rettore pose mano al rinnovamento delle mense degli altari delle cappelle (1907 e 1918), e nel 1927-28 fu realizzata ad ornamento dell’altare maggiore una pavimentazione in marmo cipollino delimitata da una nuova balaustra. Durante l’ultima guerra l’aula fu utilizzata come deposito sanitario e militare, proteggendo le cappelle con paratie in laterizio9. Sebbene colpita, si salvò miracolosamente dai bombardamenti. Una mina infatti ne forò la cupola, ma cadde rimbalzando
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tettura, un posto di rilievo già riconosciutogli in primis proprio da Wittkower, tra le selezionate eccellenze bolognesi dell’architettura del Seicento11. I L RESTAURO
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L’interno dopo i restauri
senza esplodere. Seguirono i lavori di riparazione e più tardi furono tamponate le finestre che illuminavano l’abside. A chiusura di questa sintetica illustrazione delle principali fasi storiche della chiesa, preme qui evidenziare come la ricerca documentaria e storicocritica sia stata condotta in parallelo ai restauri, costituendone un essenziale momento conoscitivo e di approfondimento critico. Rimandando agli esiti di queste ricerche10, e auspicando la pubblicazione del significativo apparato documentario sulla chiesa, l’esperienza dei lavori compiuti si pone secondo gli assunti brandiani «del restauro come momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte, nella sua duplice polarità estetica e storica». Appare quindi utile disvelare con il restauro della materia, i significati e gli strumenti per apprezzarne l’estetica e comprenderne la storia, nella fattispecie collocando l’opera del SS. Salvatore nella sua giusta dimensione nel panorama ampio della storia dell’archi-
Il restauro degli interni è stato impostato e avviato nel 2000 e portato a termine nel 2008 12, grazie ai fondi della programmazione ordinaria del Ministero per i beni e le attività culturali, suddivisi in sei lotti di intervento (Figg. 4-6 ). Si è scelto di procedere a piccoli passi, senza mai interrompere l’attività liturgica propria della chiesa, mettendo a frutto i finanziamenti distribuiti negli anni, piuttosto che aggredire il monumento con un unico intervento, dagli esiti difficilmente valutabili sin dall’inizio, con fondi che sarebbe stato improbabile ottenere se elargiti in una unica soluzione. Questa strategia si è rilevata
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L’interno dopo i restauri
06. L’interno dopo i restauri
coerente, alla luce dei risultati raggiunti, e più adatta alle modalità di intervento proprie della Soprintendenza, pervenendo al completamento del restauro di tutte le parti interne con esiti unitari e coerenti all’impostazione iniziale. Prima degli ultimi restauri, la Soprintendenza si era già presa cura di questo importante monumento già a partire dagli ultimi anni Ottanta, con interventi che sebbene non siano visibili ne costituiscono il presupposto. Nel 1984 si pose mano al consolidamento delle volte e alla sistemazione dell’intera copertura, assicurando la stabilità complessiva, agendo sulle cause delle gra vose infiltrazioni d’acqua che provenivano dal tetto a danno degli intonaci interni, localmente ammalorati con visibili macchie di umidità. Furono inoltre sostituite le grandi vetrate con nuovi infissi. Avviando quindi il restauro degli interni, nel 2000 si scelse di procedere all’intera descialbatura delle successive tinteggiature sovrapposte nel tempo, riportando in luce le coloriture chiare della chiesa del primo Seicento, riconoscendo in esse un valore primario da restituire in modo coerente all’architettura.
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Prima del restauro, l’interno si presentava uniformemente di colore marrone-verde; si trattava della tinteggiatura eseguita dall’Intendenza di Finanza nel 1899, dopo che era stata realizzata la nuova pavimentazione13. Il colore dell’ultima tinteggiatura si presentava ulteriormente scurito dal tempo e dai depositi superficiali, le parti alte e le volte erano interessate da macchie di umidità dovute alle infiltrazioni dal tetto. L’aspetto complessivo comprometteva la resa spaziale dell’architettura, nell’insieme luminosa e ariosa, uniformando sfondati, membrature, risalti, partiture e decorazioni, il tutto coperto da un colore pesante e omogeneo, scurito dal tempo. Il restauro è stato esteso a tutte le superfici interne con trattamenti di descialbatura e consolidamento degli stucchi. Gli intonaci si presentavano di per sé di ottima fattura e ben aderenti al supporto murario, con una finitura originale di colore chiaro con sottili differenziazioni negli ornati e nell’ordine architettonico. L’esame in sito e in laboratorio delle stratigrafie 14 ha permesso di evidenziare la particolare tecnica esecutiva delle finiture interne, che porta ad ipotizzare il ricorso a sistemi, già utilizzati in area milanese da Pellegrino Tibaldi, sperimentati a Bologna da Mazenta sia nella cattedrale, che nel SS. Salvatore. Il trattamento si differenzia nelle parti lisce degli sfondati e nelle parti a rilievo degli apparati decorativi dell’ordine architettonico. Sulle pareti, al normale strato finale dell’arriccio dell’intonaco si sovrappone la scialbatura a calce; diversamente nelle membrature architettoniche (colonne, capitelli e trabeazione), si nota, applicato sopra il rinzaffo, uno strato ben lisciato di colore rosso mattone, costituito da malta di calce e polvere di mattone (Fig. 8 ). A questo intonachino in cocciopesto si sovrappone la scialbatura a calce data a quattro mani, finita con una velatura
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Stratigrafia sulla trabeazione con la coloritura marroneverde precedente al restauro 07.
sottile colore ambrato. È interessante quindi notare che il trattamento in polvere di mattone, tradizionalmente riservato all’esterno, come nella maggior parte delle fabbriche bolognesi, si ritrova in questo caso anche all’interno e consisteva nella “ sfregatura ” e “sagramatura ” richiamata nei documenti della fabbrica a cui seguiva l’“imbiancatura ”. Questo strato in cocciopesto finissimo assolveva ad una funzione idraulica che consentiva soprattutto alle parti modellate di far presa in tempi rapidi15, consentendo l’applicazione della successiva scialbatura di calce stesa a quattro mani con applicato sopra un velo di patinatura ambrata, raggiungendo così un effetto pregiato di trasparenza e vibrazione della superficie, che nobilitava il modellato degli elementi architettonici, lisci e a rilievo, in modo da farli apparire come se fossero realizzati in materiale lapideo. Invece la maggior parte degli elementi sono in muratura finita ad intonaco e a stucco, le uniche parti in pietra di macigno (arenaria) si trovano nelle basi delle co-
lonne e nella cornice della trabeazione. Le colonne sono in muratura di mattoni con scanalature, diversamente da quanto previsto da Mazenta, che aveva pensato di realizzare le colonne interne in rocchi di macigno. Anche i capitelli sono in stucco, realizzati da Giovanni Tedeschi, autore anche delle statue interne. Quelle sulla facciata invece sono di Orazio Provaglia. Ma tornando all’aspetto tecnico ed esecutivo, se la sagramatura applicata alle murature esterne faceva parte di una tradizione bolognese di lunga data, la finitura a cocciopesto macinato finissimo estesa alle superfici interne trova motivi di stretta parentela con alcune fabbriche milanesi tardo cinquecentesche, in particolare quelle di Pellegrino Tibaldi, che oltre ad aver lavorato a Bologna, era anche il fratello di Domenico Tibaldi, attivissimo a Bologna, in particolare nella cattedrale di San Pietro, dove lavorò Mazenta negli stessi anni del SS. Salvatore, e dove si ritrova un’analoga stratigrafia con sottofondo in polvere di mattoni e scialbatura a calce. Particolarissimo è inoltre il fondo delle superfici nella terza cappella a sinistra, la cappella Orsoni, che presenta una sagramatura estesa per intero alle superfici interne, del tutto rara e singolare per la qualità del trattamento. Fu realizzata allo scopo di difendere le murature dalla risalita dell’acqua per capillarità dal terreno (sotto la chiesa scorre un canale). Si tratta di uno strato in cocciopesto finito con patinatura ad olio, lisciato alla perfezione tanto da apparire come una ceratura lucida, applicato in aderenza ai mattoni, che appaiono in trasparenza soprattutto nelle parti basse, creando in altre parti l’effetto di una superficie marmorizzata, perfettamente idraulica, sulla quale era data la scialbatura di finitura. Nella cappella Orsoni fu risolto in questo modo il problema dell’umidità, che invece rimase nelle altre parti della chiesa. Un altro felice
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08. Microfotografia della sezione di un campione prelevato su una lesena del transetto. La stratigrafia al microscopio mostra sopra
l’intonaco (-a, rinzaffo); uno strato (-b) in cocciopesto su cui sono applicate 4 mani di scialbatura in grassello di calce, che costituiscono le finiture più antiche. Tra lo strato (- c) e (- d) insiste uno stacco costituito da uno strato di polvere Si sovrappongono poi gli strati a calce addizionata a gesso con terre di colore verde e nero carbone (indagini eseguite dal laboratorio della Fondazione Cesare Gnudi).
ritrovamento è stato quello delle finiture in stucco e oro e delle coloriture in finto marmo rosso e azzurro dei coretti aggiunti nel Settecento, anch’essi irriconoscibili perché coperti dalla stessa tinta verdemarrone data sul resto della chiesa. D EUMIDIFICAZIONE
Tra le varie indicazioni progettuali autografe di Mazenta nelle note del disegno redatto a Milano il 27 febbraio 1605, c’era quella che sotto alla chiesa ci fosse una “sotterranea chiesa luminosa e asciutta”, che invece non fu realizzata. È probabile che pensasse a tale soluzione per le sepolture e per isolare meglio la chiesa superiore e preservarla dall’umidità proveniente dal terreno. Sotto la chiesa corre infatti un canale sotterraneo, per cui è fisiologico che la chiesa sia interessata da feno-
meni di risalita dell’acqua per capillarità. Tanto più che questa fu una delle ragioni per cui sulle pareti interne della cappella Orsoni, l’ultima ad essere realizzata, si eseguì il particolare trattamento idraulicizzante in cocciopesto sopra descritto. Prima dei lavori di restauro, si è verificato che l’acqua arrivava per risalita capillare ad un’altezza di ca. m. 1,20 su tutte le murature perimetrali, con la formazione di efflorescenze, esfoliazioni e distacchi, con il risultato che nel giro di poco tempo si sarebbe presentato lo stesso problema anche dopo il restauro. Si è pensato al modo meno invasivo di intervenire, ricorrendo al sistema brevettato “Kalibra dry” con l’impiego di piccoli apparecchi alimentati ad elettricità. Se ne sono utilizzati cinque a coprire l’intera superficie della chiesa di mq. 1.790; essi creano un leggero campo elettro-magnetico che
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impedisce la risalita dell’acqua agendo su un raggio sferico di 15 metri. Nel corso dei lavori si è dapprima utilizzato un solo apparecchio, in modo da monitorarne l’efficacia nel tempo con la misurazione periodica del contenuto dell’acqua nella muratura; sulla scorta dei risultati raggiunti, nel 2008 si sono poi installati gli altri 4 apparecchi. Le ultime misurazioni, compiute nel gennaio 2009, provano l’abbattimento del contenuto dell’acqua pari all’80% rispetto al dato iniziale per l’apparecchio installato nel 2006 e del 69% per quelli montati nel 2007. Si sono salvati in questo modo gli intonaci della parti basse, dove è più facile che cada l’occhio, evitando il formarsi di efflorescenze e di esfoliazioni. I LLUMINAZIONE E VALORIZZAZIONE
Per ultimo si sono rimontati gli storici lampadari in vetro di Murano, di cui si aveva testimonianza in alcune fotografie degli anni Cinquanta. Questi erano stati smontati e smembrati in tanti pezzi e accatastati in alcuni scatoloni. Il rimontaggio non è stato affatto facile, ma sulla scorta delle fotografie se ne è venuti a capo, grazie alla pazienza dei restauratori che vi hanno lavorato. Si tratta dei lampadari originali, presumibilmente degli anni Venti-Trenta, in tutto otto, posti ognuno davanti alle cappelle, e altri due grandi ai lati dell’abside e dell’altare. L’effetto di luce e atmosfera che essi creano non ha eguali e porta anche a confrontarne l’efficacia rispetto agli attuali e più in voga moderni sistemi di illuminazione degli edifici di culto. I lampadari pendenti, fissati all’estradosso delle volte, sono stati dotati di argano che ne permette la calata per le operazioni di manutenzione. L’illuminazione si completa con quella installata all’inizio dei lavori sopra il cornicione che rigira lungo il perimetro della chiesa.
L’inaugurazione non ufficiale di questi ultimi lavori è stata a pasqua del 2008 con la rappresentazione della Passione di Cristo da parte del coro Arcanto, nella suggestiva cornice della chiesa illuminata a tratti con candele, a tratti con i lampadari, collaudati in quell’occasione: uno spettacolo che ricrea l’ambientazione scenografica della chiesa seicentesca che era, insieme all’annesso monastero dei canonici, un centro vitale di cultura e spiritualità. A restauri pressoché conclusi, c’è stato il pericolo che la chiesa rimanesse chiusa e lasciata a sé stessa, per l’abbandono nel 2008 da parte dei canonici della loro sede originaria. Per interessamento dell’Arcidiocesi, la chiesa è stata invece affidata ai frati della giovane comunità di S. Giovanni, che insediatasi nel marzo 2009 siamo sicuri assicurerà con rinnovata energia la continuità di una tradizione così significativa, nella spiritualità della celebrazione liturgica. La chiesa coagula attorno a sé una serie di attività culturali, tra cui quelle promosse dal Centro culturale e spirituale del SS Salvatore, erede della Congregazione dei bambini di Gesù, che ha celebrato nel 2005 il suo centesimo anno. Eventi e spettacoli hanno luogo nell’ex complesso abbaziale, grazie alle iniziative della compagnia teatrale Il Chiostro e dell’Associazione culturale Novarcanto. La vocazione al canto e allo studio, che contraddistingueva l’abbazia, si rinnova nella chiesa restaurata che, specialmente in occasione delle solennità liturgiche e di incontri e visite guidate, tra cui quelle organizzate dalla Soprintendenza, senza troppi clamori mediatici raduna gli affezionati vecchi e nuovi al SS. Salvatore. In particolare, si segnalano: il nutrito programma di spettacoli teatrali della compagnia Il Chiostro e i concerti del coro Arcanto, che da alcuni anni propone nel SS. Salvatore un repertorio tradizionale e sacro, in una forma di ricerca corale e scenica itinerante all’interno della chiesa. Il
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loro scopo è giocare con il pubblico attraverso echi di canti vicini e lontani che risuonano fra le colonne, le navate e le cappelle: architetture di corpi sonori in movimento. Da valorizzare è inoltre il prezioso organo seicentesco. P ROSPETTIVE
DI RIQUALIFICAZIONE DEL CONTESTO
CIRCOSTANTE
La chiesa del SS. Salvatore occupa una posizione di prestigio negli itinerari turistici e culturali della città di Bologna. Situata circa a metà strada tra S. Petronio e S. Francesco, si raggiunge seguendo gli stessi itinerari battuti dai pellegrini e dai numerosi visitatori stranieri e non. Venendo da S. Francesco, superati l’antica seliciata della IIa circla (attuale piazza Malpighi) e il Torresotto della Porta Nova, si arriva proseguendo su via Porta Nova allo slargo dove sorge la bella chiesa del SS. Salvatore. Dalla parte opposta si raggiunge venendo da piazza Maggiore, seguendo l’antica via delle Asse (attuale via IV Novembre). All’interno della chiesa si conservano importanti opere d’arte, dal trittico dell’Incoronazione della Vergine di Vitale da Bologna (1353), alla pala d’altare con il SS. Salvatore di Guido Reni e Francesco Gessi (1620), insieme a numerose opere del Cinquecento e del Seicento16. Visitando la chiesa si rende omaggio inoltre al Guercino, sepolto nella chiesa e commemorato nella lapide tombale posta al centro della chiesa. L’iscrizione sul fianco della chiesa ricorda che nella zona vi erano, nei secoli XIII, XIV e XV, le sedi delle scuole di medicina, filosofia, retorica e delle altre arti. Mentre proprio di fronte, la lapide posta sulla facciata di palazzo Dall’Armi-Marescalchi, sede della Soprintendenza, ricorda che lì nacque Guglielmo Marconi. Accanto alla chiesa si estende l’ex monastero che occupa l’intero isolato compre-
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so tra via IV Novembre, via del Volto Santo, via Santa Margherita, via Cesare Battisti. Rinnovato a partire dal 1517, il monastero è ricordato nella guida d’Italia di Leandro Alberti del 1550 tra i più considerevoli in Italia. L’Abate Trombelli nel 1752 ne elogia l’architettura, dimostrando il suo stupore per l’impiego esteso dei marmi, tanto rari a Bologna, notando nel chiostro le colonne in pietra d’Istria, i tondi in verde serpentino tra le arcate e le tracce, già consunte a quell’epoca, delle decorazioni ad arabeschi che ne ornavano le facciate. Nel primo Seicento l’intera area fu oggetto di un radicale rinnovamento, qualificato dalla contestuale riedificazione della chiesa. Si aprirono circa negli stessi anni tre imponenti cantieri adiacenti l’uno all’altro: nel 1601-1603 quello di palazzo Caprara, attuale sede della Prefettura; nel 1605 si iniziò la riedificazione del SS. Salvatore, portata a termine nel 1623, dopo la sospensione dei lavori durata dal 1607 al 1613; mentre nel 1613 si rinnovò il palazzo Dall’Armi, per le cui similitudini con Palazzo Zani si è fatto il nome di Floriano Ambrosini, senza escludere un possibile contributo di Mazenta, con cui del resto l’Ambrosini aveva collaborato nel primo progetto per la cattedrale di S. Pietro. Ne emerge un piano di riedificazione di un’area nevralgica della città, che a ragione può leggersi come portato avanti sotto un’unica regia, e per la quale, ancora una volta a fronte dell’assenza di prove documentarie certe che riportino i nomi degli architetti che vi lavorarono, si può supporre il contributo del nostro padre barnabita Mazenta, esperto architetto anche nell’affrontare problemi tecnici, esecutivi e strutturali, come dimostrano i suoi scritti, ma quanto mai schivo a farsi pubblicità, in quanto investito nel ruolo conferitogli dall’ordine a cui apparteneva. Per cui la sua partecipazione nei maggiori cantieri bo-
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lognesi di quegli anni, in particolare a partire dal 1605 in quello della stessa cattedrale, era supportata dagli architetti locali, Floriano Ambrosini e Niccolò Donati, nei lavori per la cattedrale, e Tommaso Martelli per il SS. Salvatore. Si vuole qui sottendere un legame dell’architettura bolognese di quegli anni con quella di area milanese, in continuità con quanto avevano impostato i due fratelli Pellegrino e Domenico Tibaldi, nei loro reciproci scambi tra Milano e Bologna. Questo legame con Milano, che abbiamo avuto modo di leggere anche nell’uso della particolare tecnica di finitura interna a cocciopesto, trovò nel primo Seicento motivi di rafforzata continuità con l’ingresso a Bologna di Mazenta. Questi doveva essere ben conosciuto dai Caprara, quando a Bologna già nel 1602-03 risiedeva nel vicino collegio di S. Michele Arcangelo su via Agresti, e fu proprio un esponente della stessa famiglia, Giuseppe Caparara, a chiedergli il progetto per la chiesa del SS. Salvatore, che Mazenta gli mandò da Milano il 27 febbraio del 1605. Si riconosce nelle facciate, comprese quelle delle residenze senatorie dei Caprara e dei Dall’Armi, l’unitarietà di stile al volgere del passaggio nel segno della continuità tra l’architettura della seconda metà del ’500 con quella del primo ’600, con una certa inflessione verso partiture più monumentali, segnate da una maggiore rigidità, accentuata anche dai restauri compiuti nel tardo Ottocento e nel Novecento. Ma preme qui evidenziare la scala urbana che si volle imprimere a questi interventi, soprattutto ad opera dei canonici del SS. Salvatore, che per dare maggiore luce e prospettiva al bel prospetto sul fianco della chiesa si convinsero a demolire le case di loro proprietà ivi addossate. Venne così rettificato il profilo della strada che costeggiava il lato lungo della chiesa, in modo da creare uno slargo davanti al
palazzo Dall’Armi, chiuso dallo spigolo ben enunciato nel cantonale bugnato di palazzo Caprara. E sul lato libero della chiesa, al posto delle case, venne creato un sagrato che rigira ad L davanti alla facciata, originariamente pavimentato a riquadri campiti in quadrelli di cotto, poi rifatto nel 1744 e nobilitato dal disegno del nuovo selciato di forme geometriche e stellari. La colonna isolata all’angolo esterno del sagrato, qui posta nel 1624 a conclusione dei lavori della fabbrica seicentesca, ne caratterizzava il cannocchiale visivo da via Porta Nova, fornendo il segnale visivo da cui guardare in prospettiva angolata l’intera fabbrica, ad abbracciare la facciata ed il fianco ( Fig. 8 ). Rinviando a quanto già evidenziato in altra sede sul significato di questo sagrato, come spazio sacro proprio della chiesa al pari di quello interno, oltre che intervento alla scala urbana e architettonica, finalizzato a creare, fatto raro a Bologna, un vero e proprio piazzale che valorizza le architetture che prospettano su di esso, si vuole qui sottendere alla sua riproposizione, come momento di riqualificazione dell’area e come atto dovuto per la chiesa. Il sagrato esisteva ancora nel 1811, quando i Marescalchi, che abitavano il palazzo già dei Dall’Armi, ottennero nel 1811 di restringere il sagrato della chiesa per portarlo in linea con la casa dei Morelli, all’angolo tra via Porta Nova e via Barbaziana 17. In quegli anni i canonici, erano già stati costretti ad abbandonare il loro monastero a seguito delle confische napoleoniche. Ne ripresero possesso nel 1824, solo momentaneamente fino al 1866, ritornando poi a prendersi cura della chiesa a partire dai primi anni del secolo successivo. Nelle foto d’inizio Novecento il sagrato non esiste più. Lo spazio sacro è oggi occupato dalle macchine che usualmente vi parcheggiano sul fianco della chiesa; diversamente il Piano regolatore delimita questo spazio come di
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10. Pio Panfilj, veduta della chiesa del SS. Salvatore in Bologna. La veduta angolata inquadra la chiesa in modo da abbracciare la
facciata e il fianco; in primo piano si riconosce la colonna con la croce posta nel 1624 all’angolo del sagrato che sopraelevava la chiesa su un podio. Sia il sagrato che la colonna sono oggi scomparsi. La pavimentazione settecentesca del sagrato (1744) è riprodotta nella pianta di Gio. Carlo Sicinio Galli Bibbiena (Fig. 1)
pertinenza della chiesa. Per apprezzarne le forme e il significato rimangono le numerose vedute storiche che ritraggono la chiesa, privilegiandone le visuali d’insieme, di chi arriva da via Porta Nova, con in primo piano il caposaldo della colonna isolata, in modo da abbracciare la vista della facciata e del fianco (Fig. 10 ). Tra le altre, anche la veduta dalla parte opposta si rileva interessante, venendo
dalla via delle Asse con in primo piano il palazzo Caprara, e sullo sfondo arretrato il fianco del SS. Salvatore. Oggi l’antica strada intercetta la piazza Roosevelt, lo slargo creato a seguito delle opere di liberazione e demolizione del 1933-1935, con la costruzione del palazzo di Melchiorre Bega sul lato nord. La piazza è rimasta da allora un invaso vuoto. E in attesa di una sua appropriata definizione è
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occupata oggi da un grande parcheggio, che invece potrebbe essere collocato interrato rendendo libero lo spazio in superficie, e creando anche l’occasione per ricerche e scavi archeologici su questa area. E perché no, non potrebbe essere un concorso di idee a definirne il nuovo assetto? E il sagrato del SS. Salvatore? Sulla base della documentazione certa, che va dalle vedute storiche alla pianta di Sicinio Galli Bibiena, che ne raffigura in modo dettagliato il disegno della pavimentazione (Fig. 1), considerando l’impronta ben leggibile alla base delle murature esterne della chiesa, che dà l’altezza reale del sagrato sopraelevato su quattro gradini, possediamo tutti gli elementi che ne renderebbero possibile la sua fedele riproposizione anche à l’identique 18. Ma prima di questo, altre priorità si rendono impellenti, come il restauro dell’ex monastero del SS. Salvatore, accanto alla chiesa di cui la Soprintendenza nel 1991-92 aveva iniziato il recupero e il restauro, rimasto da allora interrotto.
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A. Ranaldi, Il controverso progetto di Giovanni Ambrogio Mazenta per la chiesa del S. Salvatore a Bologna , in «Palladio», 37, 2006, pp. 39-64, con appendice documentaria, a cui si rimanda anche per la bibliografia precedente; A. Ranaldi, Il sagrato della chiesa del S. Salvatore a Bologna, in Strenna storica bolognese , 56, 2006, pp. 361-386. Notizie sintetiche sul restauro sono in A. Ranaldi, Bologna: chiesa del SS. Salvatore. Il restauro , in Terza Mostra internazionale del restauro monumentale. Dal restauro alla conservazione , II, Firenze 2008, p. 131. Tra queste ricordiamo, S. Maria del Voto del 1630 di Cristoforo Malagola a Modena, dove tra l’altro si riprese l’idea di realizzare la cupola estradossata a collo lungo, come l’avrebbe voluta Mazenta nel SS. Salvatore, e la chiesa di S. Filippo Neri a Reggio Emilia, realizzata tra il 1672 e il 1743 su progetto dell’architetto reggiano Girolamo Beltrami. W. Wittkower, Art and Architecture in Italy : 1600 to 1750, Harmondsworth 1958, ediz. ital. Arte e architettura in Italia 1600-1750 , Torino 1972 e 1993, pp. 234-235 a proposito di Santa Maria in Campitelli e p. 103 per il SS. Salvatore. Cfr. A. M. Matteucci, Carlo Francesco Dotti e l’architettura bolognese del Settecento, Bologna 1979, pp. 10, 50n, fig. 9. A. Sorbelli, Bologna negli scrittori stranieri , V, Bologna 1933, p. 70. Charles De Brosses: “S. Salvatore, la più bella chiesa di tutte, per quanto non molto grande; la sua architettura corinzia del Magenta si può paragonare all’antica architettura greca e romana…”, in A. Sorbelli, Bologna negli scrittori stranieri , ediz. a cura di G. Roversi, Bologna 1973, p. 158. Cfr. M. Poli, La chiesa canonicale del SS. Salvatore , Bologna 2001, p. 21, che riporta gli estratti ripresi dal manoscritto di Carlo Vincenzo Maria Pedini, Bologna, Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio, Manoscritti Gozzadini, Bologna vecchia e nuova , vol. 181, f. 158. G. G. Trombelli, Memorie istoriche concernenti le due Canoniche di S. Maria di Reno, e di S. Salvatore insieme unite , Bologna 1752.
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Le notizie riferite agli eventi dalla fine dell’Ottocento sono tratte dai documenti conservati presso l’ Archivio storico della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici per le province di Bologna, Modena e Reggio Emilia (d’ora in poi citato in forma abbreviata Bologna, Archivio SBAP), faldone BO-M63. Vedi sopra nota 1. W. Wittkower, op. cit. alla nota 3; si vedano inoltre i fondamentali contributi di Anna Maria Matteucci, in particolare il suo Giovanni Ambrogio Mazenta e il dibattito a Bologna sulla “colonna libera” , e M. Pigozzi, Giovanni Ambrogio Mazenta architetto a Bologna, entrambi in Lorenzo Binago e la cultura architettonica dei Barnabiti , a cura di M. L. Gatti Perin e G. Mezzanotte, Atti del convegno: Milano, settembre 2001, in «Arte Lombarda», 134, 2002, 1, pp. 45-62 e pp. 63-78; nell’ambito di più recenti trattazioni generali cfr. A. Antinori, Roma 1600-1623: teorici, committenti, architetti , in Storia dell’architettura italiana. Il Seicento , a cura di A. Scotti Tosini, I-II, Milano 2003, vol. I, pp. 115-118, e ibidem, vol. II, F. Ceccarelli, Le legazioni pontificie: Bologna, Ferrara, Romagne e Marche , pp. 341-342. I lavori sono stati eseguiti e diretti dalla Soprintendenza: nel 2000 sotto la direzione dell’ing. Domenico Rivalta e negli agli successivi dalla scrivente, con la collaborazione dell’arch. Francesco Eleuteri. Hanno eseguito i restauri le imprese con qualifica OS2, specializzate nel restauro degli apparati decorativi: nei primi due lotti di intervento nel 2000 e 2001, l’impresa Arte e Restauro di Padova; nei restanti quattro lotti nel 2002-2008, l’impresa Biavati di Bologna. Bologna, Archivio SBAP, Bo-M63, note del 14 marzo e 17 marzo 1899, relative ai lavori «Imbiancatura e restauro dell’intonaco nell’interno della chiesa» proposti dall’Intendenza di Finanza della Provincia di Bologna. In un’altra lettera, sempre del 17 marzo 1899, il Soprintendente Faccioli lamenta di non essere stato interpellato a suo tempo sulla ricostruzione del pavimento, che altrimenti non sarebbe stata approvata, deplorando l’intervento eseguito di ricostruzione in «esagoni di cemento colorato, stonando
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troppo questo modernissimo sistema colla severità del monumento». Le analisi delle sezioni sottili sono state eseguite dal Laboratorio della Fondazione Cesare Gnudi, con sede a Pieve di Cento (Bologna), si ringrazia per la collaborazione l’amico Andrea Rattazzi. Cfr. S. Della Torre, Costruire a Milano nel Rinascimento, in Storia dell’architettura come storia delle tecniche costruttive , a cura di M. Ricci, Venezia 2007, pp. 95-115, in particolare p. 107, che rileva l’impiego di tale tecnica in opere milanesi di Pellegrino Tibaldi, come nella cupola di Sant’Ambrogio , rinviando a A. Bonavita, Pellegrino Tibaldi a Milano: lavori alla cupola della basilica di S. Ambrogio, in «Arte lombarda», 140, 2004, pp. 89-91; ugualmente ricorre inoltre nella parti realizzate da Mazenta nella cattedrale bolognese di San Pietro, si ringrazia per l’informazione Andrea Santucci. Vedi la guida storico-artistica di M. Poli, op. cit. alla nota 7. G. Guidicini, Cose notabili della città di Bologna, ossia storia cronologica de’ suoi stabili sacri, pubblici e privati , Bologna 1868, vol. I, p. 116. Sempre nel 1811 i Marescalchi acquistarono il palazzo Sora Menarini, poi casa natale di Guglielmo Marconi, che insiste davanti al fronte nord del SS. Salvatore, attiguo al palazzo Dall’Armi. Quest’ultimo era passato ai Marescalchi già nel 1614, per successione ereditaria, alla morte di Aurelio Dall’Armi, cfr. P. Monari, M. S. Trombetti, Palazzo Dall’Armi - Marescalchi , in «Il Carrobbio», 16, 1990, pp. 259-269. La proposta di una ricostruzione à l’identique sulla base degli elementi qui esposti è stata avanzata dalla scrivente nel concorso del 2004: Primo Premio Nazionale di Idee di Architettura «I Sagrati d’Italia» , indetto dal Consiglio Nazionale degli Architetti Pianificatori Paesaggistici e Conservatori, da Di Baio Editori e da «Chiesa Oggi. Architettura e comunicazione» - progetto vincitore ex aequo, in mostra e pubblicato in «Chiesa oggi. Architettura e comunicazione», 70/2005, pp. 32-33; cfr. A. Ranaldi, Il sagrato…, op. cit. alla nota 1.
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IL PALAZ ZO EX ENPAS A BOLOGNA RESTAURO DELLE SUPERFIC I ESTERNE
Andrea Capelli EDIFICIO L’
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l palazzo sito a Bologna nella centralissima via dei Mille angolo via Montebello, progettato quale sede provinciale Enpas, rappresenta una delle migliori e più significative opere di Saverio Muratori (1910-1973, Premio Einaudi per l’Architettura nel 1952) il grande maestro d’origine modenese dell’architettura italiana del Novecento. L’edificio per uffici, ambulatori, laboratori, negozi ed abitazioni fu progettato fra il 1952 ed il 1957, edificato fra il 1959 ed il 1961 ed inaugurato il 4 Aprile 1963. L’Impresa costruttrice fu la ditta GarbarinoSciaccaluga di Bologna con la direzione tecnica dell’ing. David Sciaccaluga e con Silingardi di Modena per l’arredamento del salone sportelli. La scultura in bronzo rappresentante l’infermiera, posizionata nell’atrio del detto salone al piano terra, è opera del prof. Assen Peikov, noto artista Bulgaro operante a Roma con lo studio, assieme al fratello pittore Ilia, in via Margutta. Direttore lavori fu l’ing. Silvio Canella coadiuvato dall’ arch. Eugenio Abruzzini, tecnico interno dell’Enpas. L’iter di progettazione dell’edificio pubblico risulta essere stato particolarmente lungo e travagliato. Saverio Muratori iniziò la progettazione di massima nel 1952, avendo mandato formale dall’Enpas per un primo esecutivo (con incarico per i calcoli statici agli ingegneri Carè e Gianelli) nel giugno 1954, ma la Commissione Edilizia del Comune di Bologna, ad ottobre, respinse il progetto, e Muratori dovette elaborare un secondo disegno in parte differente dal primo (che prevedeva otto campate in aggetto sul portico basamentale ed una campa-
ta iniziale differente in accostamento al contiguo edificio su via dei Mille) rifiutato anch’esso dalla Commissione Edilizia Bolognese nel settembre 1956. Muratori fu quindi obbligato a modificare ulteriormente il progetto, presentando una seconda variante sostanziale la quale venne finalmente approvata dalla municipalità bolognese nel luglio 1957; tale progetto variato corrisponde sostanzialmente al progetto alfine realizzato. Sebbene il progettista avesse sempre dimostrato impegno, presentando vari tipi complementari richiesti e vari plastici e dichiarandosi sempre disponibile al dialogo ed alle modifiche, seppur amareggiato dalle motivazioni di diniego portate dall’ente bolognese da lui mai comprese, la Commissione Edilizia Bolognese per un lungo periodo non ritenne che l’opera di Muratori «per forma e dimensioni ornamentali possa essere approvata». I lavori di costruzione iniziarono nel maggio 1958 per concludersi nel maggio 1961 e lo stabile fu occupato a far tempo dall’agosto di quell’anno. L’incarico rientrava nell’ambito del programma di realizzazione delle nuove sedi provinciali decentrate avviato in tutta Italia dall’Enpas nei primi anni Cinquanta che comportò l’affidamento di un gran numero di incarichi professionali ai migliori architetti italiani. In quegli anni Saverio Muratori era professore straordinario presso la cattedra di Caratteri Distributivi degli edifici nell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, che tenne dal 1950 sino al 1954, quando passò a Roma quale professore ordinario presso la cattedra di Composizione Architettonica della Facoltà di Architettura, che mantenne fino al 1973. Negli anni veneziani egli condusse le ricerche che lo porteranno a pubblicare, nel 1959, gli Studi per
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Pulitura e saggio di preparazione su una colonnetta di travertino 02.
una operante storia urbana di Venezia, testo di fondamentale importanza, vero precursore nell’ambito degli studi di tipologia urbana. L’area di via dei Mille all’angolo con via Montebello era disponibile a seguito di distruzioni belliche ed anche l’edificio ivi preesistente era stato completamente demolito, tant’è che l’Enpas acquisì dalla proprietà Gualandi il lotto libero, avviando immediatamente la procedura per l’edificazione con richiesta di contributo statale previsto per i danni di guerra. L’opera progettuale di Muratori per Bologna, nella sua architettura di essenziale caratterizzazione, riassume in sé, in primis , lo studio approfondito del carattere del luogo in stretta connessione con il novero costitutivo del tessuto urbano bolognese, dei suoi tipi edilizi e dei suoi elementi strutturali principali. Il Palazzo Enpas, ora Inpdap, mostra grande rilievo disciplinare impersonificando la critica motivata al soggettivismo autoreferenziale dell’archi-
tettura moderna, origine di quell’edonismo linguistico che rende l’ambiente urbano incoerente e semanticamente sovraesposto, istituendo altresì, nel puro ambito progettuale, la ripresa di un rapporto tra architettura e città filologicamente basato sullo studio della struttura del contesto urbano nel suo continuo evolvere. L’edificio non è più solo o tanto una quinta urbana ma molto di più: diviene una struttura progettata e costruita, frutto rigoroso della relazione tra tipologia edilizia e morfologia urbana precipua del contesto senza eccezione alcuna, anzi, con un grande risultato nell’imponenza compositiva del testo architettonico. Il manufatto architettonico bolognese di Muratori riprende, fra l’altro, il particolare sistema seriale costruttivo ‘bolognese’, di derivazione lignea, riproponendo elegantemente il portico con lo sporto, le lesene ed il coronamento superiore merlato e presenta anche una gerarchizzazione verticale nell’utilizzo dei materiali e dei componenti costruttivi, come nell’uso dei pilastrini in travertino, proposti solo per il cosiddetto piano nobile, peraltro correttamente di maggior altezza. Il tema metodologico-progettuale pregnante nel palazzo ex Enpas è infatti il linguaggio architettonico, inteso non come codice convenzionale a-storico applicabile in ogni luogo, ma come portato specifico di una determinata area culturale (nella fattispecie quella bolognese). In particolare, come bene ha già sottolineato nei suoi scritti Giancarlo Cataldi, qui Muratori sperimenta una nuova forma di collaborazione tra ossatura elastica e parete continua di materia solida, facendo benissimo convivere due materiali, cioè i mattoni ed il cemento armato (materiale moderno), secondo il concetto di continuità di materiale in superficie,
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03. Fase di pulitura
quindi, qui, di mattoni che chiudono e ricoprono il traliccio, il quale collabora come una cassaforma stabile, percorrendo la strada della sperimentazione tecnica di un nuovo materiale (il cemento armato). La reinterpretazione in chiave di adeguamento ambientale, perviene così al risultato di risolvere il quesito linguistico dell’integrazione della nuova architettura in un contesto storicamente consolidato. Nel dettaglio costruttivo il progettista utilizza un mattone industriale di formato bolognese prodotto da una fornace locale e poi, seguendo la consuetudine per l’architettura emiliana, le finiture in pietra: con l’arenaria imitata dai curatissimi cementi a vista martellinati manualmente e i marmi, precisando che, nel progetto originale, aveva previsto rivestimenti in marmo botticino, sostituiti, in fase esecutiva, da travertino chiaro di minor costo. Di grande interesse dal punto di vista costrutti vo sono le velette in cemento armato traforate da losanghe, asole di memoria medioevale che Mu-
ratori ripropone anche nei dettagli delle porte interne a decoro delle maniglie in ottone cromato. Di grande rilevanza è proprio l’abilità del progettista - che in questi elementi bene si coglie - nel riproporre un tema di luce filtrante di rimando gotico che risulta perfetto per l’uso ad uffici/laboratori, ove la luminosità naturale dei locali rende l’ambiente di la voro oltremodo gradevole ed utilizzabile in ogni ora del giorno ed in ogni stagione (ciò unito alla matura flessibilità della tipologia edilizia proposta che consente uffici modificabili in pianta con grande facilità ed adattabilità come dimostra l’intervento ora in corso negli interni, che riaggiorna le mutate esigenze dell’ente oltre al fatto di essere, l’edificio, ancora oggi in completo ed efficiente uso). Muratori con il progetto di questo edificio esce dalla visione soggettiva che privilegia la personalità individuale dell’architetto che opera trasferendo indifferentemente in ogni luogo i suoi stilemi, per passare ad una visione oggettiva che chiama in causa, invece, le sue capacità interpretative di sintetizzare in maniera diversa, a seconda dei luoghi, i caratteri ambientali della città. Tema questo di straordinaria rilevanza per l’architettura contemporanea per il quale Muratori risulta geniale anticipatore. L’ INTERVENTO DI RESTAURO
Il palazzo ex Enpas è stato oggetto sinora di due successivi interventi di restauro delle facciate su via dei Mille e su via Montebello (nel corso del 2007) e di uno ulteriore nel porticato (nel 2008), tutti operati con progettazione, appalti e direzione lavori, dalla Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici per le province di Bologna, Modena e Reggio Emilia, utilizzando finanziamenti del Ministero Beni e le Attività Culturali.
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04. Saggio di pulitura in corso su una parete su fronte strada
L’intervento del Ministero sulle facciate si è svolto contestualmente ad un più corposo intervento di ristrutturazione e riammodernamento dell’impiantistica riguardante gli interni, finanziato ed appaltato dall’Inpdap con propri fondi. L’edificio sin dall’epoca della sua inaugurazione non aveva mai subito interventi di complessiva manutenzione negli esterni. Presentava, quindi, la necessità di un’azione di revisione compiuta con metodo rigoroso ed attento alle particolari valenze progettuali volute ed attuate dal Muratori nello spirito dell’architettura del periodo.
Nel corso degli anni, le parti in mattoni (mattoni a macchina di formato bolognese da 28 cm di lunghezza), i cementi e le pietre naturali si erano in parte ricoperte di incrostazioni e di annerimenti, dovuti ad alcune problematiche legate allo scolo delle acque meteoriche, a causa della mancata manutenzione delle grondaie. Nella parte alta, ove l’acqua piovana aveva imbevuto le pareti, si sono riscontrati mattoni e marmi talora deteriorati con distacchi di piccole porzioni di travertini e cadute di scaglie sia di cotto che di marmo. Inoltre si è riscontrato l’effetto deleterio di agenti inquinanti, specie da traffico, visto l’affaccio su una via parti-
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05. Il lungo fronte su via dei Mille in corso lavori
colarmente movimentata. Lo smog aveva causato infatti vari annerimenti, talora intensi e di non facile pulizia e rimozione. In alcune piccole porzioni particolarmente esposte, per non attuare una pulizia troppo forte solo su alcuni mattoni, causando una disomogeneità cromatica all’insieme, oltre ad un vero e proprio danno materico alle facce dei mattoni stessi, si è pulito con gradualità operando con la tecnica della tonalizzazione. Più semplice è invece risultata la pulizia e protezione sui travertini di pasta compatta, di buona
qualità e ben conservati, che hanno reagito bene all’opera di revisione complessiva. Di particolare impegno è invece risultato l’inter vento sui cementi realizzati in opera ad imitazione della pietra arenaria, specie nelle travi sagomate che sostengono i piani sul portico e su tutti i livelli fra lesena e lesena in mattoni. Queste travi presentavano alcune fessurazioni rilevanti, seppur localizzate, e soprattutto distacchi dovuti all’esecuzione in due fasi costruttive: dapprima furono casserati e gettati in opera i cementi
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06. Pulizie sulla zona sommitale
strutturali a grana grossa, con inerti di grande dimensione, e poi, ad essiccazione avvenuta, fu riportata una velatura di 5 millimetri di cemento a grana finissima, realizzata davvero a regola d’arte, per assicurare l’effetto visivo e materico della pietra arenaria d’Appennino. Tale strato però, specie nel portico e nelle zone sottoposte a patologie localizzate, talora si è distaccato dalla trave sottostante, oppure si è lesionato sino a determinare aree di probabile distacco.
Su tutte queste travi si è pertanto intervenuti in fase di restauro, richiudendo le microlesioni ed ancorando dall’interno con iniezioni di malte bicomponenti a basso modulo elastico e la posa di perni in vetroresina. Tale intervento preventivo, specie nelle architravi ammalorate presentanti scollamenti fra i due distinti strati in getto dei calcestruzzi, ha consentito di ricondurre ai minimi termini l’intervento di ricostruzione dello strato cementizio a finire, limitato così solo alle poche porzioni già cadute.
07. La facies restaurata
I rifacimenti sono stati comunque eseguiti con strato a finire simile all’originale con minima differenza cromatica impercettibile a una visione in distanza ma, utile ad identificare ogni area ricostruita seppur piccola. L’altro esempio di pietra imitata, quindi le velette in cemento armato chiaro in due pezzi accostati con asole a losanghe - che tanto caratterizzano il traforo goticheggiante dei bellissimi fronti Enpas, erano invece in ottimo stato di conservazione, grazie ad una accuratissima esecuzione fuori opera.
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Su di esse è stato sufficiente compiere una adeguata pulizia e protezione, con resa cromatica mirata ad omogeneizzarsi a quella ottenuta dalla pulizia dei travertini chiari compatti e levigati utilizzati per le colonnette binate con capitellini trapezoidali. Circa i travertini è bene sottolineare che si tratta di materiale costruttivo introdotto in opera nel corso dei lavori, per i piastrini ed i davanzali, per ragioni sostanzialmente di costi, poiché Muratori nel progetto esecutivo aveva previsto marmo botticino chiaro con riferimento all’uso più tipico delle finiture marmoree in ambito Bolognese (si pensi ai palazzi gotici, ma anche di epoche successive, fino all’età barocca e neoclassica, ove i travertini sono pressoché assenti). La forma però ideata da Saverio Muratori per i capitelli sia dei piccoli pilastrini monolitici che di quelli più grandi, rivestiti in lastre di cm 5 di spessore con ciglio bisellato e levigato, è comunque, oltrechè efficace compositivamente, tale di rendere massimamente efficiente il capitello per la protezione dalle acque meteoriche, grazie alla sua particolare forma triangolare che fa scivolare verso l’esterno l’acqua piovana, garantendo una eccezionale efficienza nel tempo degli elementi costitutivi e minimizzando la manutenzione. L’edificio di via dei Mille è infatti straordinariamente moderno, specie per la sua grande attenzione all’uso ed alla durabilità nel tempo e proprio l’occasione dell’opera ora eseguita di manutenzione/restauro ha ben reso evidente. L’aver progettato le facciate con una efficace teoria di minime rientranze fra i vari piani materici consegue l’ottenimento una continua protezione di ogni elemento costitutivo, mattoni, cementi e pietre. Anche il portico, perfettamente riparato dallo splendido sporto di rimando medioevale e provvisto an-
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08.
Il restauro delle architravi realizzate in cemento e prefabbicato
che di rivestimento con robuste lastre di marmo granitello su tutte le colonne del portico e sulla parete sottoportico, è particolarmente ben conservato. Anche le curatissime stuccature a cemento dei mattoni si sono conservate davvero benissimo in questi cinquant’anni e lì veramente agevole è stata l’opera di pulitura e manutenzione, per gran parte proprio in virtù della forma progettuale (mentre i
rivestimenti delle architravi dei negozi in lamiera di ferro martellinata, ora ripuliti con grande cura, mostrano la perfetta imitazione dell’arenaria voluta originariamente anche sulle lamiere per omogeneizzare l’insieme dei caratteri architettonico/ cromatici del sottoportico). Ed è proprio nell’occasione del restauro che ci si è avveduti di come l’edificio, grazie proprio alla
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09. Le iniezioni consolidanti sui cementi in opera spesso fessurati
sua originaria cura progettuale pensata e proiettata nel tempo a venire alla stregua degli edifici antichi, sia risultato in buone condizioni di conservazione, con la sola eccezione delle peculiarità patologiche puntuali testé indicate. Gli interventi di manutenzione e restauro eseguiti, grazie alla consapevolezza della facies originaria ancora oggi conservata, hanno consentito di
ridare ai fronti esterni principali ed al porticato una completa restaurata immagine in tutto simile all’originale opera Muratoriana. L’intervento ha così pulito e consolidato ogni porzione sia dei mattoni che dei travertini/marmi e cementi, conservando e recuperando i valori metrici, cromatici ed ambientali della tradizione locale precipuamente ricercati dalla sapienza progettuale ed
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Veduta d’insieme su via dei Mille angolo via Montebello
esecutiva di Saverio Muratori, vero protagonista di quella particolare fase degli anni Cinquanta del Novecento dell’architettura europea. L’opera di restauro ha infatti messo in evidenza anche lo studio degli effetti cromatici voluti dall’architetto modenese per il palazzo Enpas. Infatti il mattone scelto è quello, oltrechè di misure bolognesi, di colore rosso/giallino, con inserimento anche di alcuni mattoni giallastri, men-
tre le stuccature a cemento, molto evidenti, sono eseguite con cemento scuro - a ricordo della calce idraulica locale - e sabbia di colore giallognolo. I cementi ad imitazione dell’arenaria contengono sabbie di tonalità gialla in modo da far risultare una chiara visione d’insieme che rimanda e richiama alfine le cromie delle sabbie costitutive delle pietre sedimentarie dell’Appennino bolognese oltre ad un colore dei mattoni che nasce
11. Il sottoportico di via dei Mille
dalle argille che producono i tipici rossi frammisti alle peculiari tonalità giallognole. Le tecniche di intervento di restauro e pulitura sono state differenziate in relazione ai vari materiali costruttivi, attuando lavaggi e poi accurate puliture con rimozione di croste, patine, colature e graffiti sui pilastri nelle zone basse; quindi, terminata la pulizia, si sono attuati i consolidamenti differenziati per tipologie di materiali con rifaci-
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menti di piccole porzioni deteriorate e la posa a finire di vernici protettive adeguate. Il risultato, che ha comportato anche una generale tonalizzazione di alcune zone della facciata principale, specie di alcune limitate zone di mattoni nella parte sommitale, ha consentito di ripristinare una gradevolezza della visione della mirabile Architettura del Muratori e, soprattutto, di avviare un’azione di salvaguardia nel tempo dei materiali di finitura. Una grande cura è stata dedicata al restauro dei cementi, peraltro di curatissima esecuzione, sempre martellinati manualmente sui quali talora, in zone limitate, si sono operate piccole ricostruzioni con protezione dei ferri d’armatura, e dei mattoni e dei travertini, nella prospettiva e con la finalità di una più lunga conservazione negli anni a venire nello spirito radicato dell’opera del progettista. L’intervento è stato eseguito dalla ditta Marmiroli s.r.l. di Bagnolo in Piano di Reggio Emilia con una spesa complessiva di €150.000,00 divisa in tre stralci esecutivi di €50.000,00 cadauno In corso lavori si sono utilizzati prodotti d’uso nella consuetudine del restauro su edifici del No vecento quali: malte cementizie anticorrosive per i ferri d’armatura, malte tissotropiche bicomponenti a basso modulo elastico per il risanamento del calcestruzzo, fissativo impregnante acrilico a base acquosa, ammonio bicarbonato, protettivo idrorepellente con gruppi fluorati, malte a ritiro controllato fibrorinforzate a presa rapida per il calcestruzzo, stucco decorativo a base di calce pura spenta a lunga stagionatura e terre naturali per le tonalizzazioni delle parti in mattoni, ancoranti chimici con barre filettate, fondi ai silicati per le superfici in cemento.
G L I A LTA R I D E L L E C H I E S E D I S . G I U L I A N O A B O L O G N A E DI S. DOMENICO A BUDRIO
Gianfranca Rainone
P REMESSA
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l presente saggio si propone di contribuire alla conoscenza artistica ed alla valorizzazione dei bassorilievi in cotto che decorano gli altari delle chiese di S. Giuliano a Bologna e di S. Domenico nella vicina Budrio, partendo dalle osservazioni maturate durante il percorso di ricerca e analisi che ha accompagnato il processo di restauro del secondo dei due insiemi; intervento già oggetto di un precedente saggio tecnico1. Le attuali riflessioni scaturiscono dal confronto stilistico delle due serie di altari, arricchito dagli elementi emersi grazie a un recente ritrovamento: i putti originali degli altari laterali di S. Giuliano, rimossi in un intervento del 1966. Il confronto da ultimo é stato esteso ad un terzo edificio di culto del territorio emiliano, la chiesa della Madonna del Rosario di Cento (Ferrara), dove si è riscontrata la presenza di elementi in cotto del tutto analoghi G LI ALTARI IN COTTO E STUCCO
Gli altari di S Giuliano e di S Domenico rappresentano raffinate testimonianze dell’arte decorativa della fine del Settecento bolognese. Nascono da un progetto ben definito in ogni dettaglio, sebbene realizzati con materiali poveri, facilmente reperibili e largamente diffusi nella tradizione artistica e artigianale del territorio emiliano: il cotto e lo stucco. Il loro progetto prevede un assemblaggio di più elementi in cotto incentrato sull’unicità artistica ed espressiva dei bassorilievi ottagonali centrali, affiancati nella composizione da elementi decora* S. Giuliano putto ritrovato
tivi d’alta qualità, ma riprodotti con matrici tratte da calchi, realizzati nella bottega d’arte. I singoli cotti, rifiniti uno ad uno, vengono successivamente inseriti nella intelaiatura muraria degli altari, il loro assemblaggio viene ultimato con elementi in stucco: le cornici orizzontali che costituiscono il basamento e il coronamento delle mense, i riquadri aggettanti intorno ai bassorilievi-candelabre e la sequenza di piccole foglie di palma che circondano i bassorilievi centrali (Fig. 1). C OMPOSIZIONE DEGLI ALTARI
Ogni altare presenta cinque bassorilievi con una ricorrente tipologia iconografica e decorativa, basata sulla presenza d’elementi ripetuti ed univoci per ognuno dei motivi. Si ritrova inoltre anche il medesimo ordine compositivo, simmetrico rispetto al bassorilievo centrale. Tre sono gli schemi ricorrenti rappresentati: - un bassorilievo ottagonale centrale per ogni altare, raffigurante un soggetto religioso unico e mai ripetuto; - un bassorilievo rettangolare, con elemento decorativo a candelabre (due per altare), collocato ai lati del bassorilievo centrale; - un elemento scultoreo posto negli angoli a chiusura della composizione, raffigurante un putto ornato di volute e festoni, racchiuso entro una foglia d’acanto (due per altare). Un analogo filo conduttore creativo si riscontra negli elementi tratti da matrici; così nelle candelabre osserviamo, posti simmetricamente su entrambi i lati del vaso antropomorfo, un piccolo volto di putto alato di profilo, dotato di drappo e festone simile al grande putto angolare.
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01.
S. Domenico, Deposizione
R ISULTANZE
STORICO -DOCUMENTARIE E LETTURA
CRITICA
Per gli altari di S. Domenico di Budrio, le scarse fonti archivistiche superstiti e le fonti storiche non hanno potuto colmare le lacune delle attuali conoscenze circa la loro committenza e le ragioni della loro costruzione, pur trattandosi di un intervento unitario di una certa rilevanza, che interessò tutte le cappelle sovrapponendosi a quanto vi preesisteva. Malgrado ciò, basandosi in primo luogo sull’analisi materiale e stilistica, si può dedurre la stretta affinità progettuale e di esecuzione di questa serie con quella degli altari di S. Giuliano a Bologna.
Notando tale affinità, nel 1965 Eugenio Riccomini attribuiva allo scultore bolognese Giacomo Rossi (1748-1817) i bassorilievi centrali adornanti gli altari laterali di S. Domenico e successivamente, nel 1991, anche Stefano Tumidei vi riconosceva lo stile dell’artista 2. Quanto agli altari di S. Giuliano, l’attribuzione a Giacomo Rossi si ritiene definitivamente confermata da una importantissima testimonianza coeva al lavoro dell’artista, presente nell’edizione del 1782 della guida di Bologna di Carlo Cesare Malvasia, dove si legge testualmente: «la scoltura d’ornato non meno che di figura in esso intro-
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dotta sì nelle candeliere su le pilastrate, che negli altari, e loro mense è di Giacomo Rossi» 3. La presenza dello scultore e della sua bottega in S. Giuliano è peraltro documentata negli anni 1780-1781, dove partecipa al rinnovamento complessivo della chiesa insieme ad altri artisti, scultori e plasticatori del calibro di Ubaldo Gandolfi, Carlo Prinetti, Petronio Tadolini e Antonio Moghini, eseguendo oltre ai bassorilievi per gli altari, anche le statue dei profeti Daniele ed Ezechiele e le quattro ancone in stucco realizzate congiuntamente ad Antonio Moghini, che diventano le monumentali cornici degli altari laterali. Nei bassorilievi tratti da matrici è possibile leggere alcuni caratteri tipici del linguaggio figurativo vivace in voga tra gli artisti bolognesi del periodo. Del tutto simile al motivo che adorna il putto angolare dei nostri altari risulta poi l’articolazione di foglie e fiori nel festone che orna la Vestale che Giacomo Rossi esegue in Palazzo Aldrovandi a Bologna. Così come l’impostazione dei paliotti centrali ed il vaso con elementi zoomorfi delle candelabre sembrano accostabili ad alcuni schizzi e disegni riferiti allo scultore (Bologna, Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio), la cui vasta produzione grafica, tuttavia, attende ancora uno studio approfondito4. C ONFRONTO MATERIALE E STILISTICO , ZIONI SULLA TECNICA ESECUTIVA: U NICITÀ E SINGOLARITÀ DELLE MATRICI
CONSIDERA-
Dall’osservazione degli altari emergono interessanti elementi di confronto e di conoscenza riguardo alle tecniche di produzione impiegate, nonché alla metodologia di lavoro della bottega d’arte, dove venivano realizzati i calchi e le matrici
degli elementi decorativi ricorrenti. Dal disegno dell’artista era in uso trarre il prototipo, dal quale venivano realizzati due o tre calchi considerati originali, avviando con questi ultimi la produzione delle matrici per l’esecuzione dei pezzi. Tale modalità operativa permetteva di salvaguardare il pezzo originario assunto a modello. Anche inserite in una composizione rigidamente simmetrica, le matrici utilizzate per i bassorilievi a candelabre ed i putti angolari mantengono la loro specificità compositiva: così nel decoro a candelabre riscontriamo che il motivo del fuoco che si sprigiona dal vaso superiore è diretto sempre verso destra, anche quando posizionato nell’angolo sinistro dell’altare. Ciò vale anche per l’elemento scultoreo angolare, dove il volto del putto risulta incorniciato da due piccole ali che si uniscono, sovrapponendosi sotto il mento, sempre da sinistra verso destra. ( Fig. 1). È importante sottolineare che negli altari laterali di S. Giuliano e di S. Domenico tutti i bassorilievi ottagonali centrali presentano misure analoghe e sono rifiniti con le medesime cornici in stucco dal motivo vegetale. La sola differenza é la raffigurazione del soggetto religioso, mai ripetuto in quanto creazione artistica unica per ogni altare, collegata al culto specifico di ciascun santo. Invece, i bassorilievi con motivo a candelabre risultano composti sempre da due elementi, presentando una linea di taglio trasversale rispetto alla loro lunghezza, eseguita per limitarne le deformazioni nel processo di essiccazione e cottura dell’argilla, dato che il rapporto lunghezza/spessore è considerevole. È opportuno osservare che questa modalità operativa risulterebbe una scelta individua-
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02. Confronto delle linee di taglio dei bassorilievi con candelabre (da sinistra 2 bassorilievi in San Domenico e uno in San Giuliano)
le di carattere squisitamente tecnico, adottata nel seno della singola bottega d’arte, avendo riscontrato altrove soluzioni diverse: nel confronto esteso alle candelabre della chiesa della Madonna del Rosario di Cento si può infatti notare come queste ultime siano composte da singoli pezzi. In San Giuliano si può osservare un’analoga linea di taglio per gli otto decori; questo ci induce a ipotizzare la provenienza da una medesima unica matrice. In San Domenico invece, si riscontrano due linee di taglio diverse; suggeren-
doci la realizzazione di almeno due matrici per i quattordici elementi posti in opera ( Fig. 2 ). Questi elementi, una volta usciti dalla fornace e prima di trovare la loro collocazione all’interno della composizione, venivano ricomposti nel manufatto definitivo, ritoccati e accuratamente rifiniti. È importante osservare che da una matrice potevano duplicarsi soltanto un numero limitato di pezzi, perché essa si logorava con l’usura. Da ciò deriverebbero le differenze nella nitidezza plastica del modellato riscontrate in alcune candelabre di San Domenico.
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03. (Sopra) Budrio (BO), chiesa San Domenico, foto concessione
di Vittorio Bonaga (Sotto) Bologna, chiesa San Giuliano (a.1966) su concessione del Ministero per i beni e le attività culturali –Archivio fotografico Soprintendenza BSAE di Bologna.
AN G IULIANO E S AN D OMENICO : G LI ALTARI DI S , UNA DUPLICE REALIZZAZIONE . SOLO PROGETTO I L RITROVAMENTO DEI PUTTI ANGOLARI
UN
Si può affermare che il progetto posto in opera per gli altari di entrambi gli edifici religiosi risulta lo stesso, ma vi sono sostanziali differenze nella realizzazione, come vedremo più avanti. Due importanti documenti, attestanti lo stato degli altari di San Giuliano prima dell’intervento di decurtazione subito nel 1966, ci confermano in modo
04. San Giuliano putto ritrovato
inequivocabile l’unicità del progetto. Il primo è costituito dalle schede storiche conservate presso l’Ufficio Catalogo della Soprintendenza BSAE di Bologna, ove vengono descritti in dettaglio i cinque bassorilievi agli altari della chiesa bolognese così come si presentavano nel 1931. Il secondo dalle foto che li ritraggono ancora per poco intatti nel 1966, conservate nell’Archivio fotografico Soprintendenza BSAE di Bologna (Fig. 3). Purtroppo oggi gli altari laterali di San Giuliano appaiono in un’altra veste, privata degli elementi angolari raffiguranti putti. Tuttavia il recente ri-
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05. Confronto candelabre (da sinistra Chiesa di San Domenico, Chiesa del Rosario, Chiesa di San Giuliano
trovamento da parte di chi scrive (febbraio 2009) di questi importanti elementi ha permesso di verificarne morfologia e dimensioni esatte. Come quelli di Budrio, anch’essi risultano costituiti da due elementi, che si raccordano perfettamente sotto l’ala che incornicia il volto del putto, e sono distinti da una numerazione, che conta tredici pezzi, cinque in più rispetto a quelli smontati dalle cappelle (Fig. 4 ). Si osserva inoltre che gli stes-
si putti compaiono anche nell’altare maggiore di San Giuliano e tutti misurano 80 cm di altezza e 17,50 di larghezza. Il confronto dimensionale che ne consegue con quelli di San Domenico, alti in vece 71 cm, e larghi 16,00 é assai avvincente, portando a riscontrare oltre ad una differenza dimensionale, dovuta al ritiro dell’argilla, anche piccole variazioni nella definizione del modellato. Ciò fa ipotizzare che per San Domenico di Budrio,
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06. Confronto putti algolari (da sinistra Chiesa di San Domenico, Madonna del Rosario, Chiesa di San Giuliano)
siano state impiegate matrici eseguite copiando i positivi, precedentemente posti in opera in San Giuliano di Bologna 5. Estendendo successivamente il confronto dei putti a quelli della chiesa della Madonna del Rosario di Cento, riscontriamo similitudini dimensionali e di modellato soltanto tra questi ultimi e quelli di San Giuliano (Fig. 5 ). Analizzando ora in dettaglio i bassorilievi con candelabre in San Domenico di Budrio per metterli a
confronto con quelli in tutto simili fra loro di San Giuliano e della Madonna del Rosario, verifichiamo sostanziali differenze nelle dimensioni (56 cm di altezza contro i 61 cm dei bassorilievi di Bologna e Cento) e nel modellato (nella definizione dei vasi, delle foglie, nel posizionamento dei piccoli volti di putto rispetto al vaso zoomorfo nella composizione) (Fig. 6 ). Le differenze di modellato chiaramente riscontrabili nella Fig. 5, ci parlano del modo di operare in seno alla bottega d’arte, dove si lascia
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S. D B
07. Sezioni sottili sui putti di San Giuliano (BO): A.- Sezione sul putto ritrovato, si osservi lo strato bianco di zinco e lo strato di finitura
finale di colore rosso mattone. B .- Sezione sul putto dell’altar maggiore, si osservi la preparazione con il bolo e la foglia d’oro
spazio alla singola creatività del plasticatore per definire o rifinire alcuni elementi che non vengono riprodotti conformemente al calco originale, o perché esso non viene accuratamente eseguito, oppure perché la matrice ha perso la sua definizione. Si può affermare che, tratti da matrici, i decori delle candelabre e dei putti degli altari di San Domenico siano successivi e derivanti da quelli di San Giuliano, in quanto ottenuti da positivi precedentemente realizzati. Si conclude pertanto alla luce delle similitudini e differenze analizzate, che in San Domenico e San Giuliano é presente la medesima impostazione progettuale, che ha mantenuto per i bassorilie vi ottagonali centrali le medesime dimensioni e l’unicità dei soggetti rappresentati, ma viene espressa con una realizzazione in parte diversa, per l’impiego di bassorilievi di serie -putti e candelabre- ottenuti da positivi precedentemente realizzati. Il ritrovamento dei putti di San Giuliano ha permesso inoltre di aprire un approccio parziale di indagine sulle finiture applicate su questi decori,
che si spera possa essere approfondito in futuro. Va premesso che durante le operazioni di pulitura condotte nel restauro degli altari di San Domenico, sono emerse finiture colorate soltanto sugli stucchi, mentre erano assenti sui cotti (putti e candelabre)7. Sui putti ritrovati in San Giuliano, é stato possibile eseguire semplificate analisi stratigrafiche, riscontrando anche in questo caso la totale assenza di finiture colorate. È stata rinvenuta invece direttamente sopra la terracotta uno strato bianco di zinco, sul quale compare una preparazione con l’aggiunta di colore, rosso mattone. Ciò può essere assimilabile ad un intervento finale nella preparazione dei cotti prima del loro assemblaggio, con lo scopo di uniformare la loro cromia nell’insieme definitivo. Un’annotazione speciale va fatta per gli elementi costitutivi dell’altar maggiore di San Giuliano, costruito su disegno dell’architetto Venturoli, modificato nel 1856 secondo il progetto degli architetti Davide Venturi e Costantino Dalbuono, dove i putti angolari in cotto appaiono con finiture dorate ad eccezione del volto
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e delle ali. Per uno di questi elementi é stato possibile analizzare un frammento, riscontrando sopra il cotto la preparazione per il bolo e la successiva stesura della foglia d’oro ( Fig. 7 ). Altro particolare interessante di questo altare lo troviamo nelle sue bellissime candelabre, ugualmente dimensionate rispetto a quelle in cotto degli altari laterali, ma eseguite in legno finemente intagliato e dorato, che, a differenza di quelle in cotto delle cappelle laterali, si specchiano nella simmetria della composizione, verso il lato destro e sinistro. D IFFUSIONE DEI MODE LLI E DELLE MATRI CI NEL TERRITORIO
Al momento è stato riscontrato nel territorio l’impiego delle stesse matrici negli altari in cotto della Madonna del Rosario in Cento (FE), dove i medesimi bassorilievi con putto e candelabre, trovano collocazione secondo uno schema differente di aggregazione, ad eccezione di due cappelle, di cui una del Guercino, dove si rinnova la disposizione simmetrica, rispetto ad un diverso decoro centrale. Dal confronto dei bassorilievi tratti da matrici emerge una similitudine sia dimensionale che formale, nonostante la differenza di trattamento finale e di colore, solamente con quelli di San Giuliano, similitudine che qui ci limitiamo a segnalare per motivi di brevità. Il fatto che la collocazione temporale di questi elementi nella chiesa del Rosario risulti secondo alcuni studiosi posteriore di quasi un secolo non fa che confermare la grande diffusione e l’impiego che questi elementi plastici, particolarmente radicati nella tradizione artistica ed artigianale, hanno avuto nel tempo.
N OTE CONCLUSIVE
Il triplice confronto fin qui realizzato, che non s’intende esaustivo sull’argomento, lascia contestualmente aperti alcuni interrogativi sulle modalità di diffusione e commercializzazione che nel tempo ha avuto questa particolare produzione artistica, della quale risultano ancora sconosciuti molti elementi, compresi i passaggi dei modelli da una bottega d’artista all’altra nel tempo, come può essere accaduto per la Madonna del Rosario. L’argomento merita certamente un futuro accurato approfondimento, finalizzato alla miglior comprensione del percorso seguito dalle opere, ed al filo conduttore che ne lega contestualmente produzione, riproduzione ed evoluzione artistica dei modelli, continuamente elaborati, trasformati e reinventati secondo la sensibilità ed il gusto dell’epoca. A riguardo dell’evoluzione dei modelli, si vuole concludere con un rapido accenno ad un esempio di ulteriore evoluzione estetica dell’elemento scultoreo raffigurante il putto angolare, esempio riscontrato nell’altar maggiore della chiesa di San Giacomo Maggiore a Bologna (in numero di 2 elementi), ma proveniente dalla chiesa parrocchiale di San Lorenzo in Grecchia, sull’Appennino bolognese. Inserito anch’esso in una composizione simmetrica rispetto ad un elemento centrale, fu realizzato nel 1802 dall’abile intagliatore del legno Silvestro Pozzi e ci mostra con ardito slancio una raffinata tridimensionalità. Come i putti sopra analizzati, esso presenta tutti gli elementi precedentemente riscontrati, ma composti secondo una nuova interpretazione artistica: il volto del putto, le ali, la foglia di acanto, la voluta, il festone (Fig. 8), e a differenza dei primi, tratti
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2
08. S. Giacomo Maggiore putto
da matrici, costituisce una singola creazione artisitica, trasformazione ed evoluzione acquisita e consolidata anch’essa, di un modello classico ben più antico di qualche secolo. Un ulteriore e doveroso approfondimento sull’evoluzione ancora poco conosciuta di tutta la produzione artistica degli scultori e plasticatori bolognesi della fine del XVIII sec., non può prescindere dal prendere metodicamente in considerazione l’intensa attività didattica e culturale esercitata dall’ Accademia Clementina, fulcro creatore e propulsore di ideali e cultura, dentro e fuori l’ambito bolognese.
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R INGRAZIAMENTI
Agli amici Lorenza Servetti, Francesco Caprara e Mara Gualdoni, che con i loro preziosi suggerimenti hanno arricchito questo testo.
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Il saggio sul restauro appare nella pubblicazione MiBAC Conservare Restauro Innovare dedicata al Salone del restauro e della conservazione dei Beni Culturali e Ambientali, Ferrara, 2006. Per l’attribuzione dei bassolrilievi ottagonali a Giacomo Rossi: E. Riccomini in Mostra della scultura bolognese del Settecento, catalogo della mostra, Bologna, 1965, p. 152;. E. Riccomini Vaghezza e Furore. La scultura del Settecento in Emilia Romagna, Bologna, 1977, p. 151; S. Tumidei,Terrecotte bolognesi di Sei e Settencento: collezionismo, produzione artistica, consumo devozionale, in Presepi e Terracotte nei musei civici di Bologna. Bologna, 1991, p. 47. La proposta attributiva è stata di recente ripresa, a seguito di una generale ricognizione storico-documentaria sugli altari, da Eleonora Melloni: Approfondimento della ricerca storica sugli altari in cotto e stucco della chiesa di San Domenico in Budrio (BO) per la Soprintendenza BASE di Bologna, protocollo 7.342 del 11/11/2008; Eadem, La chiesa di San Domenico a Budrio. Guida storico-artistica, a cura di F. Caprara e L. Servetti, Bologna, 2008, pp. 48-53. C.C. Malvasia, Pitture, scolture ed architetture delle chiese luoghi pubblici, palazzi e case della città di Bologna, e suoi sobborghi, Bologna, 1686; ed.cit. Bologna, 1782. S. Tumidei, Contributo a Giacomo Rossi scultore e disegnatore, in Arte a Bologna bollettino dei musei civici di arte antica, pag 125-137, la raccolta di schizzi e disegni presentati a pag. 127, figura 7:Foglio di schizzi; pag.128, fig.9: Scene all’antica; pag 130, fig. 11 Studio per Sacra Famiglia; pag.134,fig.23 Vestale. Si ritiene doveroso correggere quanto abbiamo precedentemente affermato (La chiesa di San Domenico… cit., p. 57) sulle uguali dimensione dei putti angolari della chiesa di San Domenico e San Giuliano. La scoperta dei putti degli altari laterali di San Giuliano nel gennaio del 2009, ha permesso l’esecuzione di riscontri e confronti diretti sulle opere, verificando le differenze di dimensioni e di modellato qui rappresentate. Per approfondimenti si veda il saggio della scrivente in La chiesa di San Domenico a Budrio… cit., pp. 54-61.
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C.C. Malvasia, Pitture, scolture ed architetture delle chiese luoghi pubblici, palazzi e case della città di Bologna, e suoi sobborghi , Bologna, 1686; ed.cit.
Bologna, 1782. E. Riccòmini, Mostra della scultura bolognese del Settecento, catalogo della mostra, Bologna, 1965 G. Roversi Gli arredi sacri di San Giacomo Mag giore in Il tempio di San Giacomo Maggiore in Bologna, pag. 187-214. Bologna, 1967. E. Riccòmini, Vaghezza e Furore - La scultura del settecento in Emilia Romagna Bologna, Zanichelli, 1977. S.Tumidei, Terrecotte bolognesi di Sei e Settencento: collezionismo, produzione artistica, consumo devozionale, in Presepi e Terracotte nei musei civici di Bologna . Pag. 21-51, Bologna 1991. S. Tumidei. Contributo a Giacomo Rossi scultore e disegnatore, in Arte a Bologna bollettino dei mu-
sei civici di arte antica n° 2, pag 125-137, Bologna 1992. A.N. Cellini, La scultura del settecento in Storia dell’Arte in Italia. Utet, Torino, 1982. N. Roio. Le opere d’arte in san Giuliano, in S. Giuliano e S. Cristina, due chiese in Bologna, storia, arte e architettura . Pag.143-177. Bologna 1997.
G. Gresleri. San Giuliano una chiesa in forma di tempio antico in S. Giuliano e S. Cristina, due chiese in Bologna, storia, arte e archit ettura . Pag. 60-103. Bologna 1997. I grandi disegni italiani della Pinacoteca Nazionale di Bologna di Bologna. Bologna, 2002. L. Samoggia. Valori urbanistici e interventi architettonici in La Chiesa del Rosario, pag 47-65. Bologna 2003. S. Tumidei. Disegni di scultori bolognesi nella collezione Certani, in Saggi e Memorie di Storia dell’Arte, pag. 399-438. Fondazione Giorgio Cini. Istituto di Storia dell’Arte. Venezia 2003 E. Melloni in La Chiesa di San Domenico a Budrio, guida storico-artistica . Pag. 26-35. Bologna 2008. Schede dell’Ufficio Catalogo della Soprintendenza BSAE di Bologna. 1931, Chiesa di San Giuliano. 1996, chiesa della Madonna del Rosario di Cento Foto
La fotografia in b/n dell’altare di San Giuliano proviene dall’Archivio Fotografico della Soprintendenza BASE di Bologna, MiBAC. Le foto a colori sono di Vittorio Bonaga, Eleonora Melloni e Gianfranca Rainone
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I CHIOSTRI DI S. PIETRO A REGGIO EMILIA N O T E S U I R E S T AU R I
Antonella Ranaldi*
I
n questi ultimi anni la Soprintendenza ha svolto consistenti lavori di restauro nell’ex monastero benedettino dei SS. Pietro e Prospero a Reggio Emilia, più noto con il nome di Chiostri di S. Pietro1. Dal 1861 caserma militare e dagli ultimi anni Ottanta abbandonato a se stesso, questo monumento dell’architettura del Cinquecento è rimasto chiuso al pubblico e praticamente sconosciuto, se non a pochi specialisti della materia. Tra questi, Bruno Adorni e Elio Monducci ne hanno evidenziato la qualità architettonica, l’opera di Bartolomeo Spani nel chiostro piccolo e il contributo di Giulio Romano nelle facciate del chiostro grande2, queste ultime già restaurate dalla Soprintendenza nel 1989-94. Alle evidenze critiche e documentarie già messe in luce, si aggiungono oggi le scoperte e i rinvenimenti effettuati negli ultimi lavori, che permettono di apprezzare ancora di più l’eccezionale monumento-documento, che i lunghi anni di abbandono e di permanenza dei militari avevano fortemente compromesso nella sua immagine e struttura. Appena entrati l’impressione che si aveva era quella di una caserma abbandonata e danneggiata dall’incuria, luogo dei rave estivi, che avevano lasciato il loro segno ‘artistico’ nei murales improvvisati sulle pareti. I due chiostri rinascimentali avevano gran parte delle arcate tamponate, i portici apparivano sfregiati, chiusi e frazionati, per ricavarne le camerate per i soldati e gli altri ambienti ad uso della caserma (cucine, servizi igienici etc.). È questa un’opera d’arte disvelata, che ha richiesto tempi lunghi di lavoro, dedicati nella fase iniziale alla descialbatura delle incongrue stratificazioni di pittura sovrapposte agli intonaci antichi, agli stucchi e agli apparati decorativi. Si è passati poi alle ope-
re di liberazione con la demolizione dei tanti muri che chiudevano i portici e frazionavano gli ambienti interni, riportando in luce, sulla scorta delle piante storiche e delle evidenze in sito, l’impianto ancora leggibile e fortemente connotativo del monastero, nelle sue documentate fasi storiche che precedono la trasformazione in caserma (Fig. 1).
monastero dei SS. Pietro e Prospero a Reggio Emilia, pro getto di restauro e recupero funzionale. Nei lavori eseguiti dalla Soprintendenza nel 2005-’09 i portici tamponati sono stati ria perti e liberati gli ambienti dalle incongrue aggiunte e tramezzature interne. Importanti scoperte e rinvenimenti hanno permesso di riportare in luce e restaurare: gli affreschi del 1526 di Simone Fornari nel braccio ovest del chiostro piccolo (in basso a sinistra); gli affreschi a grottesche e scene di paesaggio nella Cappellina adiacente al chiostro piccolo; le decorazioni della Sala del 1820; le decorazioni nelle Sette sale a nord (nella pianta in alto)
Chiostri di S. Pietro a Reggio Emilia, portico del chiostro piccolo dopo il restauro
* Con la collaborazione di Francesco Eleuteri e di Domenico Rivalta per la parte strutturale
01. Ex
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02. Chiostro
piccolo, dopo il restauro e la riapertura delle arcate tamponate
In queste note dedicheremo brevi menzioni agli affreschi e agli apparati decorativi, che scoperti e restaurati sono oggi ben visibili, e saranno oggetto di studio e approfondimento da parte degli specialisti della materia. Dopo una sintesi sugli esiti dei restauri architettonici e pittorici, ci è sembrato interessante dare spazio anche ad altri aspetti forse meno eclatanti, ma comunque significativi, che riguardano tecniche e sistemi costruttivi della fabbrica cinquecentesca e gli interventi di consolidamento e miglioramento strutturale progettati ed eseguiti dalla Soprintendenza.
Portico del chiostro piccolo, braccio ovest. Affreschi di Simone Fornari del 1525-26. La volta è affrescata a finti lacunari ottagonali. Il motivo delle archeggiature su colonne binate è riprodotto nella parete di fronte ad incorniciare le scene di pinte a monocromo 03.
B REVE CRONISTORIA
DELLA FABBRICA
L’antico monastero si articolava intorno ai due chiostri rinascimentali, ed occupava l’area intra moenia, vicina alla chiesa dei SS. Pietro e Prospero, che dalla via Emilia arrivava in origine, con gli orti retrostanti, fino alla vecchia cinta muraria. Si iniziò l’edificazione a partire dal chiostro piccolo, dal lato della via Emilia, opera di Bartolomeo Spani e Leonardo Pacchioni del 1524-26, affrescato da Simone Fornari nel 1526 (Figg. 2-5 ). Seguì a partire dal 1542 la realizzazione del chiostro grande, ispirato da Giu-
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04. Simone Fornari alias Moresini, affreschi del 1525-26 nel
05. Simone Fornari alias Moresini, affreschi del 1525-26 nel
portico delchiostro piccolo
portico delchiostro piccolo
lio Romano, per il tramite degli architetti locali Alberto e Roberto Pacchioni ( Fig. 7 ). In questa prima fase di lavori, fino ai primi anni Sessanta del Cinquecento, si realizzò il braccio ovest, che si snoda dal chiostro piccolo, e a seguire quello nord con il dormitorio. Quest’ultimo fu ricostruito o riparato, perché minacciava rovina, da Prospero Pacchioni nel 1580, forse con la consulenza di Giulio della Torre, che figura tra i periti della fabbrica, autore da lì a poco del progetto della contigua chiesa del 1584-85. Il bolognese della Torre era del resto legato ai
benedettini e realizzò per essi il monastero di San Procolo a Bologna. Nel 1584-88 si demolì la chiesa vecchia che occupava l’area libera del chiostro grande e quella ancora non edificata sul lato est e sud. A quel punto si poté proseguire la costruzione del chiostro, che si protrasse fino al 1622, quando venne completato l’intero peribolo. Nel 1636 e nel 1680 fu progressivamente abbassato il livello dell’area libera del chiostro grande. Nel 1676 e nel 1697 si ripararono le volte e le coperture del dormitorio sul lato nord del chiostro grande. Trasformato in “Ritiro del-
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06. La
Cappellina affrescata con grottesche e scene di paesaggio, presenta al centro della volta una rota porfiretica dipinta. Prima del restauro l’ambiente era destinato a locale tecnico della caserma ed alloggiava una caldaia, con una tubazione che traforava la volta. Metà degli affreschi cinquecenteschi sono andati perduti, l’altra metà era coperta da più strati di pittura. Gli affreschi che si sono salvati sono stati riportati in luce e restaurati
le dame” dal 1783 al 1796, subito d opo, durante il periodo della dominazione napoleonica, si voleva diventasse la sede dei tribunali. Risalgono a questo periodo le decorazioni della Sala della Giustizia. Con la restaurazione estense, dopo il 1815, il complesso divenne “Educandato per fanciulle”. La facciata sulla via Emilia fu riprogettata in veste neoclassica da Domenico Marchelli nel 1818 ( Fig. 9 ) e nel 1818-1820 gli ambienti dell’ex cellerario furono trasformati e adibiti a tempio ebraico o a sala massonica. Dal 1861 il complesso fu infine d estinato a caserma
militare e tale rimase fino all’inizio degli ultimi anni Ottanta. Da allora l’edificio fu abbandonato e rimase misconosciuto al pubblico e in attesa di una nuova destinazione. S COPERTE , RINVENIMENTI E RESTAURI C HIOSTRO PICCOLO
Sin dai primi sondaggi, al di sotto dei tanti strati di tinteggiature comparivano tracce significative di affreschi e decorazioni: autentici capolavori, soprattutto alcuni, riportati in luce e restaurati. Tra questi, primeggiano gli affre-
schi nel chiostro piccolo del 1526 di Simone Fornari alias Moresini (1479-1529), noti dalle testimonianze documentarie e dalle esigue porzioni che rimanevano a vista 3, che malamente restaurate in passato non rendevano la qualità dei dipinti; la gran parte di essi era invece coperta dalle successive tinteggiature, anche recenti (Fig. 3-5 ). Dopo un’attenta opera di descialbatura e di rimozione degli strati sovrapposti, è ricomparsa la decorazione della volta a botte del portico ovest, interamente affrescata a lacunari ottagonali in rosso di Verona, su fondo chiaro dalle venature ambrate, espressione di ricercata simbiosi tra pittura e architettura ( Fig. 3). Sulle pareti le parti meglio conservate rappresentano una Natività , in un ambiente accentuatamente muliebre, che raffigura in sequenza scene legate al parto, e a seguire una raffigurazione, purtroppo mutila nella parte bassa, con in primo piano un gruppo di figure, vestite secondo i costumi del tempo, e sullo sfondo il paesaggio che sconfina dietro mura di città in morbide colline (Fig. 5 ). Le scene dipinte a monocromo sono inquadrate da arcate e colonnine doppie, che riproducono speculari l’architettura policroma del portico, a colonne binate e alternate in biancone e rosso di Verona, riproducendone forme e materiali. Anche gli elementi in cotto delle cornici e dei sottarchi erano trattati a simulare i pregiati rivestimenti in marmo rosso di Verona, come dimostrano sia le tracce in sito, visibili soprattutto nelle parti più protette e sotto le tamponature, sia la loro fedele rappresentazione nell’affresco ( Fig. 4 ). Tali aspetti costituiscono un’alta espressione del sincretismo tra le arti, che connota l’eccezionale qualità del chiostro piccolo, dove lavorarono lo scultore Bartolo-
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meo Spani, l’architetto Leonardo Pacchioni e il pittore Simone Fornari. L’architettura sconfina nella pittura e l’architettura si connota di forti cromatismi, negati invece alle scene dipinte a parete, dove si scelse invece il monocromo. Il programma di questo importante ciclo pittorico è enunciato già chiaramente nell’incarico conferito dai padri benedettini nel 1525 a Simone Fornari ( alias Moresini), dove il testo che descrive l’oggetto della convenzione pone l’accento proprio sull’architettura picta del cassettonato, dei cornisamenti contrafacti de marmori , delle colonne ficte de marmore de Verona 4. Nel chiostro piccolo la riapertura delle arcate tamponate ha ricreato le condizioni della corretta percezione sia dell’architettura che degli affreschi, in un gioco di rimandi dall’architettura picta a quella reale. Quest’ultima colpisce per l’arditezza della soluzione dei sostegni: esili e affusolate colonnine doppie, che rendono il portico magnificamente aereo, sensazione accentuata dal contrasto con la massa muraria della fascia superiore, interamente chiusa per ragioni costruttive, dettate dalla scelta di voltare a botte i portici, che presentano inoltre quattro cupolini agli angoli ( Fig. 2 ). Le bifore sul terzo registro risalgono invece ad un restauro stilistico, di marca ottocentesca. Le colonnine binate, liberate dai muri che vi si addossavano, una volta pulite hanno riacquistato la loro colorazione, a seguito del trattamento con olio di lino, alleggerito con solventi al nitro e successi va patinatura a cera. La scelta del sobrio tuscanico si addiceva a celebrare i due santi Pietro e Prospero; il ritmo binato, che richiama anche la doppia dedicazione, invece, offre una rara rielaborazione, tutta rinascimentale, dei chio-
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benedettini di Montecassino e di S. Paolo fuori le mura a Roma, rivisitati per il tramite della cultura antiquaria, che in modo convincente Bruno Adorni riferisce al disegno di Cesariano del Gymnasium vitruviano (1521)5. Accanto al portico, nel piccolo locale dove c’era la caldaia della caserma, le cui condutture foravano la volta, è ricomparso il gioiello della Cappellina, ornata a grottesche e scene di paesaggio. Metà delle pitture sono andate perdute, l’altra metà è stata riportata in luce e restaurata. Nel soffitto voltato si riconosce la rota porfiretica dipinta al centro, nelle grottesche esotiche figure africane busti nei pennacchi e scene di paesaggi nelle pareti (Fig. 6 ). C HIOSTRO GRANDE
Le ricerche di Bruno Adorni hanno introdotto nuovi elementi nello studio del chiostro grande: anticipando l’inizio della costruzione, ritenuta in passato tardo cinquecentesca, ai primi anni Quaranta del Cinquecento; ricostruendo quindi su base documentaria le fasi di edificazione; infine riconoscendo nell’ideazione dell’opera, come già aveva intuito Adolfo Venturi nel 1924, l’influenza determinante di Giulio Romano, attivo in quegli anni nel vicino monastero benedettino di S. Giovanni in Polirone. Come conferma l’analisi stilistica, la paternità del progetto spetterebbe quindi a Giulio Romano. Gli esecutori dei lavori furono gli architetti reggiani, dapprima Alberto Pacchioni, che realizzò il braccio ovest, nord e parte di quello est con il dormitorio sul lato nord, seguito da Prospero Pacchioni, a cui si deve la ricostruzione del dormitorio sul lato nord a partire dal 1580. In fase di progetto si è affrontata l’annosa questione della quota del chiostro grande. Si riteneva in passato che la quota attuale fosse il risultato di un
abbassamento dovuto ai militari, e da lì erano state avanzate ipotesi di rialzare il livello ad una quota presunta originaria. Una foto della seconda metà dell’Ottocento 6 mostra invece l’intero piano basamentale chiuso a bugnato e, sotto le arcate, la serie di aperture quadrate a bocca di lupo del piano sottostante. Sebbene sia molto probabile che la quota di progetto fosse effettivamente più alta di quella attuale, fatto questo non indifferente per capire la lettura delle facciate d’impronta giuliesca, è difficile pensare che a quella quota si arrivò mai, in quanto ciò avrebbe richiesto consistenti opere di riporto di terreno, non documentate. Al contrario, finito il peribolo del chiostro, la cui realizzazione si protrasse dal 1542 fino al 1622, si pensò non solo a non rialzare il terreno, bensì, dapprima nel 1636 e successivamente nel 1680, per rendere più salubri gli ambienti seminterrati, si levò progressivamente la terra, per giungere alla quota attuale, realizzando inoltre nel 1680 una grotta ninfeo posta al centro della facciata sud, riconoscibile nella nicchia rinvenuta nel corso dei lavori. Si è previsto quindi il ripristino del bugnato e della continuità del piano basamentale con le aperture originarie delle bocche di lupo, nell’aspetto documentato dalla fotografia tardo ottocentesca, mantenendo la quota attuale con una sistemazione a giardino che a livello solo percettivo restituisca la lettura dei prospetti e delle proporzioni, come era stata concepita nel progetto iniziale7. Ulteriori elementi a favore dell’ipotesi di una quota di progetto più alta di quella attuale vengono dalla posizione delle bocche di lupo originarie, richiuse dai militari, e ora riportate in luce (Fig. 7 ). L’edificazione si protrasse quindi nel tempo, attraversando fasi costruttive e rifacimenti. La fattura delle singole parti, soprattutto nelle finiture, in
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07. Chiostro grande ispirato da Giulio Romano, lato est dopo la riapertura delle serliane e delle bocche di lupo, tamponate dai mi-
litari.
quanto ad accuratezza e tecnica esecutiva, rende conto delle diverse fasi di realizzazione. La fattura pregiata dei bei capitelli ionici ‘all’antica ‘all’antica’’ in stucco del portico ovest, il primo ad essere realizzato, non venne eguagliata nelle restanti parti, dove si ricorse anche a capitelli in cotto. Le stesse policromie della fabbrica cinquecentesca vennero presto occultate da successive pitture di colore ocra. Mentre si completava la fabbrica, nel Seicento i
benedettini pensavano già ad un possibile ampliamento sul lato est, con l’addizione di un altro dormitorio, di impianto analogo a quello realizzato sul lato nord, servito da una scala posta all’angolo nord-est. In previsione di realizzare l’addizione rimasta sulla carta, di cui abbiamo testimonianza nelle aggiunte al disegno di Giulio della Torre 8, la facciata esterna verso oriente non venne mai completata, come dimostrano le impronte delle aper-
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ture predisposte al piano superiore, per accedere alla galleria di progetto sul lato est, poi non realizzata. Gli stessi portali, sulla parete perimetrale del portico verso oriente, rimasero a lungo aperti, vennero infatti tamponati solo successivamente dai militari. Il progetto ne prevede la riapertura. P ORTICO ORTICO DEL
CHIOSTRO GRANDE .
I NDAGINI STRATIGRAFICHE NDAGINI STRATIGRAFICHE E E LETTURA
DELLE CROMIE
Le lesene in mattoni del portico, con i raffinati capitelli di ordine ionico in stucco bianco (o in cotto finito in stucco bianco), riecheggiano il bicromatismo del chiostro piccolo. Il fusto era colorato con un sottile strato di pittura rosso intenso, ancora ben leggibile nelle lesene del portico nord (verso le Sette sale). Le analisi di laboratorio precisano le stratigrafie rilevate: - laterizio rossastro di sottofondo (parte muraria); - sagramatura di colore nocciola a base di calce carbonatata e pochi inerti di natura prettamente carbonatica, taluni di colore rossastro; - sottile pennellata di colore rosso riconducibile ad una stesura, probabilmente data a colla, a base di ocra rossa e poco carbonato di calcio. Seguono i numerosi strati sovrapposti: brunastro, bianco, grigio bluastro chiaro etc., fino a ben 13 strati. Nel capitolato del 1582, si specificano le tecniche tecnic he di stabilitura, fregatura e pulitura dei fusti, che erano trattati e lisciati in modo da ricevere e mantenere il colore, da dare non solo alle lesene, ma anche ai fregi, cornici e basi: «et fregar la colonna acciò possa ricever et mantener il colore che se gli darà, et essi maestri saranno obbligati a darli quel colore che gli sarà ordinato non solo a dette colonne, ma anco ai frisi, cornise et base 9».
Il documento, senza specificare quali colori si volessero usare, prova che il trattamento cromatico era previsto già nella fase di preparazione del fondo. Questa testimonianza datata 1582 si riferisce ai lavori di aggiustamento e adattamento del portico sul lato nord, compiuti dal reggiano Prospero Pacchioni con il contributo del bolognese Giulio della Torre, a seguito della parziale demolizione del dormitorio. L’intonaco delle parti murarie (sfondati) ha il colore sabbia dell’inerte usato nella miscela della malta. Vi è applicato sopra uno strato pittorico bianco dato a tre mani. Le cornici, frontoni, fregi dei portali sono bianchi, con parti di colore rosa (conchiglia sul portale in fondo al portico ovest sulla parete nord) e fiaccole di colore rosso. La scelta del bianco e del rosso conferma le cromie dominanti nel chiostro piccolo. Concorda inoltre con l’architettura delle facciate del chiostro grande, restaurate dalla Soprintendenza nel 1989-1994. La relazione di Giorgio Torraca, Torraca, sulle indagini effettuate a quell’epoca, evidenziava nelle conclusioni: «La policromia originale della facciata sembra quindi riconducibile a tre colori: grigio-azzurro per tutte le superficie bugnata (con eccezione dei fusti delle lesene), bianco per l’ornamentazione architettonica (cornici, modiglioni, architravi, capitelli, basi, frontoni, cimase, ecc.) e rosso per le fasce orizzontali ed i riquadri». Torraca rileva inoltre che l’ultimo strato era di colore giallo ocra. Questo strato ocra di natura pulvirulenta, steso sulle lesene, sui capitelli in gesso, sulle basi e sugli archivolti, si riscontra anche all’interno del portico sopra le cromie originali. L’immagine architettonica e pittorica del chiostro grande rimanda ad ambientazioni di ispirazione tardo-imperiale, come ritratte nelle pitture rinascimentali. Si risente l’influenza di Giulio Ro-
mano, il policromatesmi di villa Lante e di San Benedetto in Polirone. La scelta del rosso per le lesene può avere anche un significato simbolico, è il colore prescelto per rappresentare il martirio dei Santi Pietro e Prospero. L’intervento nel portico, sebbene non portato a termine, è stato impostato e realizzato nelle prime campate del braccio ovest. Per le lesene del portico si è voluto conservare l’immagine segnata dal tempo, rinunciando a vani ripristini e imitazioni. Nello stesso tempo, si è tenuto conto della necessità di omogeneizzare l’immagine e facilitare la lettura d’insieme, suggerendo le principali cromie degli elementi architettonici, con trattamenti lie vi, sottotono e non coprenti. È da evitarsi infatti l’enfatizzazione del color cotto dei mattoni delle lesene, che non è propria di questa architettura, quanto mai lontana dalle intenzioni degli artefici, che sia nel chiostro piccolo che nel chiostro grande si affidarono a sapienti tecniche di simulazioni, volte ad imitare i marmi colorati. L’intervento L’intervento riproduce sottotono i cromatismi originali dell’ordine architettonico: basi, capitelli e trabeazione di colore bianco; fusto delle lesene di colore rosso. È indispensabile inoltre minimizzare gli inestetismi degli inserti murari nuovi e degli strati di catrame sovrapposti. In particolare, particolare, il colore dei capitelli e dei fusti acquista particolare evidenza. Le lesene infatti scandiscono lo spazio e la sequenza delle campate nel magnifico cannocchiale visivo del portico con i monumentali portali sullo sfondo. ETTE SALE L E S , LA SULLA VIA E MILIA
SALA DEL 1820 E LA FACCIATA
Passando all’ala nord del chiostro grande, dopo aver percorso il braccio ovest del portico, si attraversano le Sette sale. I due ambienti più
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grandi furono interamente affrescati sulle volte e sulle pareti tra la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento. Troviamo la sala con pitture di paesaggi e architetture dipinte (Fig. 8 ) e la sala della Giustizia con la raffigurazione dei Dodici Cesari sul sul fregio e le decorazioni a grottesche su fondo rosa, di età napoleonica. Anche queste del tutte ignote, ed entrambe riportate interamente in luce. Nel locale dell’ex cellerario, nel corpo ovest accanto alla chiesa, si è scoperta la del tutto inedita sala del 1820 che, per la simbologia delle decorazioni e l’impianto spaziale, fa pensare o ad un tempio ebraico o ad una sala massonica. Fu realizzata probabilmente da Domenico Marchelli, lo stesso autore che nel 1818 aveva fornito il disegno della facciata sulla via Emilia. Il rinnovamento compiuto dopo la restaurazione estense interessò dapprima la facciata, inserita nel progetto più ampio alla scala urbana della quinta stradale che abbracciava i prospetti sulla via Emilia fino all’Arco del Follo. Marchelli realizzò una facciata d’impronta neoclassica, interamente cieca, con ampie porzioni a bugnato liscio e cornicione sporgente. L’affaccio, chiuso all’esterno, dava invece verso il chiostro interno. Sebbene non ci siano finestre sulla facciata verso la strada, l’architetto ne ripropose il disegno nella serie di finte finestre su due registri, sopra l’alto piano basamentale, rappresentate a persiane chiuse. Il restauro ha riproposto le coloriture della facciata del 1818 e le finte persiane dipinte, sulla base delle tracce ancora riconoscibili sul prospetto laterale verso il sagrato della chiesa ( Fig. 9 ). ). Tra i disegni di Domenico Marchelli, insieme a quelli della facciata compare una sezione che
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Sala decorata con quadrature, paesaggi e architetture dipinte, riportata in luce durante il restauro (ala nord del chiostro grande, Sette sale) 08.
raffigura l’ambiente dell’ex cellerario 10; presumibilmente si tratta di uno studio preliminare alla trasformazione della sala dell’ex cellerario che, sulla base dell’iscrizione ancora leggibile, possiamo datare al 1820. In quegli anni, successivi
alla restaurazione estense, tramontato il progetto napoleonico di trasformare l’ex monastero in sede dei tribunali, il complesso venne adibito a “Educandato per fanciulle”. Ma evidentemente la porzione ovest che aveva accesso dal sagrato
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09. Facciata sulla via Emilia. Il restauro ha privilegiato l’aspet-
to della facciata neoclassica, realizzata su progetto di Domenico Marchelli del 1818, profondamente snaturata dal tempo e dagli interventi dei militari. La facciata fu progettata interamente chiusa, con partiture a bugnato liscio e finte finestre; nel restauro si sono riproposte le cromie originarie e le decorazioni delle finte finestre con persiane chiuse
della chiesa era separata e autonoma dal resto. La sala è decorata secondo il repertorio della simbologia ebraica con il candelabro a sette bracci, l’aurora, le are votive, finti cassettonati, pareti di colore verde e zoccolatura rossastra.
il comportamento strutturale, nella prospettiva di un miglioramento delle condizioni generali, con interventi non invasivi, formulati tenendo conto dei principi propri del restauro: minimo intervento, compatibilità, reversibilità; conciliando le esigenze della tutela e della conoscenza delle specifiche tecniche impiegate nella costruzione storica, con il recupero funzionale e la nuova destinazione del complesso. Le maggiori debolezze strutturali riguardavano il corpo est del chiostro piccolo e l’ala del dormitorio sul lato nord del chiostro grande. Rispetto ad alcune soluzioni che evidenziavano una notevole vulnerabilità strutturale, si sono valutati gli accorgimenti propri della struttura originaria tardo cinquecentesca, e contestualmente gli interventi successivi che ne avevano inconsapevolmente compromesso il comportamento strutturale. Gli interventi sono stati improntati al ripristino della continuità e solidità muraria e dello schema strutturale originario, migliorato nei punti di maggiore vulnerabilità, soprattutto attraverso presidi in ferro di varia foggia, catene, cerchiature, tiranti, staffe, controventature, che interagiscono tra loro in modo assicurare alle strutture un maggiore grado di sicurezza. D ORMITORIO
I L MIGL IORAM ENTO STRUTTURALE
L’iter metodologico degli interventi strutturali qui illustrati si pone nella logica del miglioramento, come inteso nelle Raccomandazioni del 198611 e nelle più recenti Linee guida per la valutazione e riduzione del rischio sismico (2006)12, con l’obiettivo quindi di aumentare il grado di sicurezza della costruzione, senza stravolgerne
La costruzione del dormitorio, sul lato nord del chiostro grande, aveva dato già in origine grossi problemi di stabilità. Dopo non molti anni dalla sua realizzazione (ca. 1560-’64), le coperture minacciavano rovina, tanto che nel 1575 fu necessario demolirle. Furono quindi nominati nel 1579 e nel 1580 i periti per valutare i danni alla fabbrica, e dal 1580 fino al 1585 fu ricostruita quasi integralmen-
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te dalle fondamenta l’ala nord del chiostro grande, recuperando tratti delle muraglie della costruzione precedente. Nel 1676 e nel 1697 si ripararono le volte e le coperture del dormitorio, probabilmente danneggiate dal terremoto che colpì Reggio nel 1671. A partire dal periodo napoleonico e negli anni successivi furono effettuate consistenti demolizioni, tra cui quelle delle partiture trasversali che dividevano le celle dei monaci al piano superiore, mentre al piano inferiore vennero demoliti i muri interni di partizione delle due sale accanto a quella centrale. Nel rilievo-progetto di Pietro Marchelli del 186013, che precede di un anno l’insediamento dei militari, si riconosce che la galleria centrale del dormitorio era stata divisa in due, e sulle ali in luogo delle celle correvano due corridoi liberi. I muri longitudinali del dormitorio, privati dei contrasti trasversali, divennero in questo modo assai più vulnerabili. Dopo l’insediamento dei militari, si aprirono grandi arcate nella galleria e sulla volta si aggiunsero alle catene originarie altrettante catene doppie ancorate ai muri verticali delle lunette, invece che nella posizione corretta alle reni. Tiranti in ferro furono posti paralleli ai muri lunghi, ancorando ad essi la parete corta est. Massicce furono anche le aperture di canne fumarie e tamponamenti in muratura in foglio, che hanno contribuito in modo consistente ad indebolire le strutture verticali. Ragionando per macro elementi e osservando la sezione del dormitorio e l’articolazione in pianta ai vari piani, si evidenziano le situazioni di maggiore vulnerabilità, confermate dai cinematismi e dalle patologie di danno rilevate sulle strutture. Nelle coperture e nel sottotetto, i puntoni sulle ali esercitano una spinta verso l’esterno, i cui effetti si riversavano specialmente nel muro nord del sottotetto,
Sezione del dormitorio, ala nord del chiostro grande. Interventi finalizzati al contenimento della spinta dei puntoni sulle ali e al miglioramento strutturale della galleria voltata del dormitorio, mediante: nuove catene poste alle reni della volta in aggiunta a quelle esistenti, con capo chiave costituito da un profilato che corre lungo i muri longitudinali, a cui si collegano i tiranti, posti nel sottotetto sulle ali della volta, di ancoraggio dei puntoni liberi, con staffe a forchetta; controventature a croce di S. Andrea sulle ali al piano primo, poste all’interno dei muri ricostruiti, di ripartizione delle celle 10.
ruotato verso l’esterno; fisiologicamente debole anche perché costituito da un muro di mattoni ad una testa intervallato da pilastrini, in corrispondenza dei puntoni. Porzioni della copertura e del solaio su questo lato erano difatti già crollate per effetto della rotazione del muro verso l’esterno e lo sfilamento delle travi. Rimosse nel corso dei lavori
11. Galleria del dormitorio al piano primo. Lungo il muro lon-
gitudinale insiste l’arco di scarico, che sgravava la volta sottostante dal peso del muro ‘in falso’ soprastante. In passato, l’arco di scarico, dotato anche di catene alle reni, era stato tagliato, compromettendo il sistema strutturale originario. La foto illustra l’intervento di ripristino dell’arco di scarico nel corso dei lavori
le più recenti tinteggiature, si è potuto riscontrare nel dormitorio un quadro fessurativo non rilevabile all’inizio, costituito da lesioni ad andamento prevalentemente verticale, talune delle quali attra versavano la volta della galleria, già richiuse in cemento dai militari, che avevano poi ritinteggiato le pareti. Si trattava quindi di lesioni comunque non di recente formazione, ma indicative di passati cinematismi e di una situazione di vulnerabilità, rispetto soprattutto ad eventuali azioni di natura sismica. La galleria del dormitorio lunga mt. 45 è coperta con una volta a botte ribassata e lunettata, costituita da mattoni posti in piano. Le volte degli ambienti più grandi al piano sottostante si presentavano lesionate in chiave nel punto dove poggia il muro superiore del dormitorio ‘in falso’ che, come si legge nella sezione, è privo del corrispondente
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muro longitudinale al piano sottostante ed appoggia invece sui setti trasversali che dividono le sottostanti sette sale ( Fig. 10 ). Le volte e le murature del piano inferiore al seminterrato si presentavano in buone condizioni, con volte solide costituite da muratura a una testa. Nel progetto si era posta l’attenzione sul muro cosiddetto ‘in falso’ del dormitorio, prevedendo di rendere più solidale la struttura muraria della galleria con tirantature attive e pretese, allo scopo di conferire al muro un comportamento similare ad una trave appoggiata. Tale intervento si è rilevato nel corso dei lavori non idoneo alla reale consistenza dei muri, che soprattutto nelle parti alte della galleria presentavano fessurazioni, vuoti interni e una malta fortemente decoesa. Le murature non offrivano quindi una resistenza e una compattezza tali da assicurare le condizioni preliminari per intervenire in sicurezza con tiranture attive interne. Alla luce di quanto si è potuto verificare, ci si è convinti sempre di più che lo schema strutturale di partenza obbediva ad una sua intrinseca logica di progetto. Come spesso avviene, la debolezza di alcuni elementi era dovuta invece in massima parte agli incongrui interventi successi vi. Per contenere gli effetti del muro ‘in falso’ del dormitorio, i costruttori originari ricorsero all’ausilio di archi di scarico a direzionare il carico del muro nei punti di maggiore resistenza, corrispondenti ai setti trasversali delle sale sottostanti. Quello meglio visibile è l’arco di scarico che insiste sopra la grande volta dell’ex refettorio, dotato anche di una catena in ferro posta alle reni e annegata nella muratura (Fig. 11). Soluzione questa del tutto particolare, che dimostra una ricerca sperimentale di nuove tecnologie con presidi in ferro che risalgono alla riedificazione del 1580. Tale sofisticato e attento sistema strutturale era stato del tutto invalidato dagli inconsapevoli
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interventi successivi, quando dopo la conversione a caserma del 1861, nei muri lunghi del dormitorio vennero aperte grandi arcate. Una delle quali tagliò in modo incongruo l’arco di scarico con catena, di cui si è detto. I sondaggi effettuati hanno permesso di verificare che la catena appariva svincolata dai capochiave e inflessa a seguire il seppure leggero abbassamento della volta in chiave. L’intervento eseguito è stato orientato a ristabilire lo schema strutturale originario, con la ricomposizione dell’arco di scarico e la leggera ritesatura della catena. Come si riconosce nella pianta di progetto di Prospero Pacchioni del 1580, l’appoggio del muro soprastante era assicurato, al piano di sotto, anche dai setti che dividevano i due ambienti simmetrici al lato di quello centrale, in modo da contenere la spinta degli arconi di rinforzo delle volte e degli archi di scarico superiori. Anche la pianta di poco successiva del bolognese Giulio della Torre conferma questa distribuzione degli ambienti. Lo stesso schema veniva proposto successivamente con l’ampliamento, poi non realizzato, sul lato orientale del chiostro grande. La presenza in origine di questi brevi setti trasversali, poi demoliti, è confermata poi dalle tracce al livello della pavimentazione. Per meglio contenere, la spinta delle volte grandi, visto il mutato assetto subito dalle strutture, il progetto prevede, ad ulteriore compensazione, di incatenare almeno le volte dei due ambienti più grandi. L’intervento più significativo ha riguardato il miglioramento del sistema di copertura. La volta della galleria del dormitorio presentava le catene originarie intervallate da doppie catene poste dai militari e fissate sui muri verticali delle lunette, invece che alle reni della volta. Queste catene più recenti erano fissate all’esterno del muro con un profilato in ferro che correva sull’intera lunghezza
dei muri longitudinali nel sottotetto, caricando di un peso eccessivo lo stesso muro ‘in falso’. Nell’intervento eseguito sono state rimosse le catene aggiunte dai militari, sostituite con catene fissate alle reni, infittendo quindi il passo delle catene antiche. Dall’altra era necessario contrastare la spinta dei puntoni liberi sulle ali del sottotetto. La soluzione a cui si è pervenuti è stata di creare un sistema con presidi in ferro, rispondente ad una logica e ad una tecnologia di tipo tradizionale, del tutto reversibile, che fungesse anche da collegamento con i puntoni sulle falde laterali e da irrigidimenti dei due muri longitudinali della galleria, mediante l’ausilio di controventature a croce di Sant’Andrea poste sulle ali della galleria (Fig. 10 ). Dopo aver eseguito le necessarie riprese murarie, le catene nuove sono state fissate e collegate tra loro mediante un profilato che corre longitudinalmente ai muri, rinforzati nel senso longitudinale con fibre di carbonio e alla sommità con una cordolatura in muratura armata in mattoni. Agli stessi profilati, e quindi tramite quest’ultimi alle catene della volta, sono stati fissati i tiranti in ferro, uno per ciascun puntone, dell’una e dell’altra falda, collegati all’estremità dei puntoni mediante staffe a forchetta (Fig. 12-13). In questo modo si è contenuta la spinta delle coperture sulle ali, mentre la muratura esterna ad una testa del sottotetto, che si presentava ruotata verso l’esterno, è stata ispessita e portata a due teste, creando sulla sommità una cordolatura di collegamento orizzontale con muratura armata negli ultimi filari. Si procederà poi, secondo il progetto, alla ricostruzione delle partizioni trasversali dei muri delle celle, alcune rinforzate con croci di S. Andrea, poste all’interno della muratura, in modo da creare un sistema di controventature complanari tra loro, che renda più stabili i due muri lunghi della galleria.
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12, 13. Il sottotetto a lavori eseguiti. I tiranti, collegati alle catene delle volte, ancorano l’estremità opposta dei puntoni mediante
staffe a forchetta I NTERVENTI DIFFUSI
A lavori avviati ci si è resi conto delle condizioni delle murature, che si presentavano più dissestate di quanto ci si aspettasse, a causa di numerosi vuoti interni aperti per ricavarvi una moltitudine di camini e canne fumarie. Si è intervenuti quindi a riparare le tante discontinuità, che di volta in volta, al di là di ogni plausibile ragionevolezza, apparivano nei punti più impensati, provvedendo quindi a numerosi risarcimenti, volti a ripristinare la continuità della compagine muraria. Nelle parti alte, coeve ai successivi rifacimenti delle coperture, la muratura presentava in molti punti una struttura ‘a cassetta’ con pilastrini e muratura a sacco di riempimento, fortemente decoesa, che non assicurava un solido appoggio e collegamento alle coperture. Allo scopo di migliorare l’appoggio delle strutture di copertura sono state previste cordolature a livello sommitale, con tralicci tipo ‘murfor’ posti in opera nei giunti orizzontali, e
dormienti in legno di collegamento orizzontale. Nei sottotetti erano frequenti gli appoggi delle catene lignee e dei puntoni direttamente su pilastrini liberi, che sono stati resi più stabili, rispetto all’eventuale azione sismica, con cerchiature e angolari in ferro e cordolature in muratura di collegamento. Le volte al piano rialzato del chiostro grande si presentavano generalmente di fattura accurata. La valutazione sul loro stato di conservazione si è resa fattibile verificando in primo luogo il sistema costruttivo all’estradosso. Le volte sono realizzate in mattoni in piano sulle unghie, rinforzate sulle diagonali delle crociere con nervature estradossate, formate da mattoni posti, a spina di pesce, in piano e in foglio. Il sistema si completa con i frenelli ad irrigidire le volte, soprattutto agli angoli. Sulle volte del lato ovest del chiostro grande, quello verso la chiesa, la pavimentazione originaria in cotto era posta direttamente sopra i mattoni a coltello, spaziati tra loro della lunghezza
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Schema delle capriate del corpo est del chiostro piccolo
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Le capriate del corpo est del chiostro piccolo, nel corso dei lavori
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del mattone superiore. Sulle volte delle Sette sale, nel corpo nord del chiostro grande, si riscontrano numerosi accorgimenti costruttivi, anche con centinature in legno sopra le volte, in modo da ridurre i riempimenti, e rinforzi murari invece nei punti di maggiore vulnerabilità, lungo le direttrici e agli angoli.
volte, il solaio superiore in legno, il cui peso in parte gravava sulle volte sottostanti tramite appoggi puntuali costituiti da pilastrini in mattoni, disposti in modo disordinato tra l’estradosso della volta ed il solaio. Qui si è sgravata la volta del peso del solaio, che è stato ricostruito con nuove travi in legno, tavolato, soletta di ripartizione, in modo da scaricare il peso sui muri perimetrali. L’intervento ha riguardato inoltre le coperture, realizzando: la ricostruzione della sommità delle murature molto decoese ed irregolari; parziali sostituzioni degli elementi più ammalorati dell’orditura principale e secondaria; interventi tesi a conferire maggiore stabilità alla capriata soprastante. Questa ha una struttura asimettrica con due catene allineate ma disgiunte, le cui estremità appoggiano sui muri perimetrali e sul muro intermedio. Si è intervenuti con l’aggiunta di saette inclinate, migliorando il collegamento tra i singoli elementi e l’equilibrio dei nodi, in modo tale da assimilare la struttura ad una reticolare; ma soprattutto si sono rese le due catene della capriata tra loro solidali e continue (Fig. 14-15 ).
C HIOSTRO PICCOLO
Le volte a botte lunettate dei due grandi ambienti del corpo est del chiostro piccolo presentavano un quadro fessurativo più preoccupante, aggravato dalle condizioni precarie delle strutture murarie e dai cinematismi che interessavano le strutture verticali e orizzontali all’angolo libero verso la via Emilia. Nel corpo est, vicino all’ingresso, i militari avevano creato l’appartamento del generale con controsoffittature e tramezzature interne e con i servizi igienici che invadevano uno dei bracci del chiostro piccolo con le arcate tamponate. Liberate le strutture interne, sono tornate in luce le due sale originarie coperte da grandi volte lunettate in muratura. All’estradosso insisteva, staccato dalle
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I lavori finanziati dal Ministero per i beni e le attività culturali nell’ambito della programmazione straordinaria (L. 513/1999, € 5.164.568,99) sono stati condotti in due distinti appaltati: uno per i lavori di categoria OS2 relativi agli apparati decorativi e al restauro degli intonaci (€ 1.185.000,00), eseguiti dalla Cooperativa Archeologia di Firenze, iniziati il 14/10/2004 e terminati il 18/05/2009; l’altro per i lavori edili e impiantistici (€ 3.237.018,88), realizzati dal Consorzio Consta di Padova. Committente dei lavori è stata la Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici per le province di Bologna, Modena, Reggio Emilia, soprintendente arch. Sabina Ferrari; l’ing. Domenico Rivalta, seguito nel 2009 dall’arch. Elisabetta Pepe sono stati responsabili del procedimento; il progetto è stato redatto dagli architetti Francesco Eleuteri, Maria Luisa Mutschlechner, Antonella Ranaldi, Paola Zigarella, con la consulenza dell’arch. Pier Luigi Cervellati; i lavori sono stati diretti dall’arch. Antonella Ranaldi e dall’ing. Domenico Rivalta. È in corso il collaudo da parte dell’arch. Graziella Polidori. B. Adorni, E. Monducci (a cura di), I benedettini a Reg gio Emilia. Dall’abbazia di San Prospero extra moenia ai chiostri e alla chiesa di San Pietro. Architettura e arte , I-II, Reggio Emilia 2002, corredato dell’intero corpus
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di documenti della fabbrica, provenienti dall’Archivio di Stato di Reggio Emilia, Monastero dei Santi Pietro e Prospero di Reggio Emilia, d’ora in poi citato in forma abbreviata ASRe, MSPP. Cfr. A. Mazza, “…di non poco ornamento alla nostra
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de marmori da Verona, et le cupolete, in quelli volti ge ha da far dui profeta per cupoleta, cioè uno per quadra, de chiaro scuro, et li cornisamenti contrafacti de marmori, sotto poi a dite cornixe ge va la vita de S.to Pedro depincta de chiaro scuro, interposito da un capitelo a lato; le colone dopie fincte de marmore de Verona…”, ASRe, MSPP, Liber Pactorum “Q”, c. 34r, in Adorni - Monducci, op. cit. alla nota 2, II,
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bellezza nel monastero benedettino di San Pietro a Reggio Emilia , Modena, 2008, i prospetti sarebbero proporzio8
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città”: affreschi, dipinti, sculture nel complesso monastico dei Santi Pietro e Prospero a Reggio Emilia , in Adorni Monducci, op. cit. alla nota 2, I, pp. 159-165. Simone
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Fornari è citato tra i pittori reggiani del Cinquecento da L. Lanzi, Storia pittorica , tomo III, Firenze 1834, 3a edizione, libro II, p. 28. Convenzione del 1 ottobre 1525 in cui Don Lorenzo abate e don Leonardo, cellerario del monastero di S. Prospero, affidano al maestro Simone Fornari (alias Moresini), la pittura ad affresco del chiostro piccolo di S. Pietro, parte con figure e parte con quadrature, per il prezzo di 400 lire di Milano. Sono testimoni dell’atto, i maestri Bartolomeo Clementi e Leonardo Pacchioni: “… Et primo ha depingere tute le volte a quadroni cornixati, a colori
doc. 65, p. 27. Si prevedeva di decorare tutti e quattro i portici, al contrario i lavori si interruppero alla decorazione completa del braccio ovest che porta la data marzo 1526. B. Adorni, in Adorni - Monducci, op. cit. alla nota 2, pp. 19-20. Reggio Emilia Biblioteca Panizzi, Archivio Fotografico, in Adorni - Monducci, op. cit. alla nota 2, I, p. 90; le bocche di lupo sono documentate anche nella pianta di Pietro Marchelli del 1860, pianta del piano seminterrato, ASRe, Fondo mappe e disegni Marchelli. Secondo F. Manenti Valli, Oltre misura. Il linguaggio della
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nati secondo la serie matematica del Fibonacci. ASRe, MSPP, mappe e disegni, in Adorni - Monducci, op. cit. alla nota 2, I, p. 24. ASRe, MSPP, Registro 1550-1575, cc. 68r-v, in Adorni Monducci, op. cit. alla nota 2, II, doc. 733, pp. 93-94. Domenico Marchelli, ASRe, Fondo mappe e disegni Marchelli. Circolare del Ministero per beni culturali e ambientali n. 1032/1986 (Comitato Nazionale per la Prevenzione Patrimonio Culturale dal Rischio Sismico, 18 luglio 1986), Interventi sul patrimonio monumentale a tipolo gia specialistica in zone sismiche: raccomandazioni , nota anche come Circolare Ballardini. Linee Guida per la valutazione e riduzione del rischio del patrimoni culturale, del 2006, adottate con la Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri per la valutazione
e riduzione del rischio sismico del patrimonio culturale, del 12 ottobre 2007, entrata in vigore il 29 aprile 2008. Pietro Marchelli, progetto per la trasformazione del monastero in caserma di cavalleria, 1860, ASRe, Fondo mappe e disegni Marchelli, pianta del piano primo, documenta lo stato della fabbrica nel momento che precede l’insediamento della caserma Taddei.
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LA CHIESA DELL’ABBAZIA DI S. LEONARDO A MONTETIFFI, SOGLIANO AL RUBICONE �FC�
Elena De Cecco, Valter Piazza, Cetty Muscolino
L’
intervento conservativo realizzato alla chiesa dell’abbazia di San Leonardo a Montetiffi, nel territorio del comune di Sogliano al Rubicone, è stato finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri con il fondo dell’8 per mille dell’IRPEF. Criterio informatore delle opere di restauro progettate ed eseguite è stato quello di restituire leggibilità al manufatto, rimuovendo le parti aggiunte nel corso dei secoli che avevano occultato elementi caratterizzanti e privato della luce naturale l’interno dell’edificio e i suoi apparati decorativi, interrompere ove possibile i fenomeni di degrado presenti nel paramento murario esterno e garantire un’ulteriore sopravvivenza nel tempo, utilizzando metodologie e materiali scelti e impiegati con la massima attenzione e perizia, stante l’impossibilità di restituire la completa integrità fisica ai materiali costituenti che i processi secolari di degrado ave vano fortemente compromesso. Sono state inoltre compiute indagini, analisi e studi conoscitivi dell’intero manufatto e dell’ammasso roccioso su cui è stato edificato al fine di conoscere materiali, caratteristiche e tecniche costruttive necessarie per impostare un corretto intervento di restauro. La chiesa dell’abbazia di San Leonardo è un manufatto imponente e austero che si erge sulla sommità di un costone roccioso sovrastante la valle dell’Uso, edificato nel secolo XI in onore dei santi Martino e Bartolomeo e donato ai monaci benedettini dagli abitanti del borgo, artefici della costruzione. È del 1120, come scolpito nell’altare a cippo del transetto a nord, la dedicazione ai santi Vicinio, 01. Veduta dell’abbazia di San Leonardo a Montetiffi
titolare della vicina Diocesi di Sarsina, Agostino, Nicola, Leonardo, Giorgio e Giovanni Evangelista. La chiesa fu dedicata anche ai santi Michele arcangelo e Barnaba apostolo, a Quirico, Giulitta e Agnese, come scolpito nella coeva mensa d’altare del transetto a sud. L’abbazia fu oggetto nel corso dei secoli di restauri, addizioni e demolizioni che non ne hanno alterato la struttura, compatta e solida, con poche aperture che evidenziano lo spessore dei muri, e arricchita all’interno da pitture e da elementi che articolano e scandiscono in senso plastico le pareti quali lesene, nicchie e motivi che discendono dall’architettura ravennate. L’intero edificio, al momento della sua edificazione, era a croce latina con una navata massiva e avvolgente orientata est-ovest, con ingresso a est obbligato dalla conformazione del monte, che si presentava irto, circondato da calanchi e con un ristretto passaggio in sommità, e con un alto campanile che si innalzava dal transetto nord. La navata, sviluppata in profondità con abside e transetti ruotati verso nord, era in origine completamente voltata a botte. Si concludono con volte in pietra anche i transetti, con gli archi della crociera di quello a nord che partono da peducci in pietra tutti diversi tra loro. Subì durante i secoli numerosi lavori di restauro e rinnovamento. Notizie si ricavano dalle descrizioni fatte dai curatori abbaziali e testimoniate dalle epigrafi presenti all’interno del manufatto: due, murate nel lato sinistro della navata, ricordano che «Nell’anno del signore 1334, nel giorno 20 agosto, al tempo del reverendo signor Bartolo abate di Montetiffi, questo lavoro fece a onore della Beata Vergine Maria dei cieli e finì la chiesa a onore di S. Maria, San Leonardo e S. Quirico e
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02. Facciata prima e dopo l’intervento di restauro
Giulitta. Questo fecero i nostri maestri con danaro di Matteo, Marco e Giacomo». I primi interventi documentati risalgono dunque al XIV secolo per rimediare ai danni causati dall’assalto dei ghibellini: la chiesa venne fortificata e si munirono le aperture di inferriate, come testimoniato dalla presenza delle sedi per l’alloggiamento delle zanche. Nel 1600 la tradizione vuole che un incendio abbia fatto crollare la volta in pietra della navata e la sala capitolare presente sopra l’atrio di accesso; la copertura venne ricostruita con cinque capriate
lignee sostenenti un tetto a due falde e l’atrio venne ricoperto con volta a botte. Sono invece da ascrivere a interventi compiuti nel Settecento le due cappelle laterali che si innestano a circa metà della navata e anche la messa in opera dell’altare maggiore in scagliola composto da sessantadue elementi di diversa grandezza, a meschia non unica, ma risultato della scomposizione di più paliotti riassemblati in base alla simmetria dei decori. Non è noto quando sia stata messa in atto la trasformazione e quali e quanti fossero i pezzi originali; le
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03. Riapertura delle finestre precedentemente tamponate
scagliole sono a fondo nero con decori bianchi, realizzati graficamente a imitazione della tecnica incisoria, con sottili e accurati tratteggi, con al centro dell’altare il simbolo della croce. Nella metà del 1800, dopo il periodo napoleonico, numerosi e importanti interventi di restauro furono compiuti da don Pietro Gasperoni. L’abbazia era in forte stato di degrado: nell’Inventario Abbaziale compilato il 6 marzo 1843 viene descritta con «muri senza intonacatura. Vi si rimirano sopra imagini di Santi dipinti alla grossolana. Ora conta sei altari, ma uno è sospeso, perché manca di pie-
tra consacrata. Il pavimento è tutto frantumato. In ogni parte spira antichità. Da alcuni anni a questa parte si ritrova in uno stato deplorabile, perché minacciava in più parti rovina. Quantunque abbia muri di una ampiezza tale, che sembrano inalzati per l’eternità, pure l’ingiuria de’ tempi, e la trascuratezza di chi vi prescedette l’aveano condotta..ad un masso di pietra. In vista dei ristauri ricevuti, gli Adoratori vi si potrebbero trattener dentro senza alcun pericolo, se non fosse minacciata da un cantone del Campanile labente, che vi resta sopra. Ro vinando questo porterebbe vistosissimo danno»1.
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04. L’interno dell’abbazia dopo i restauri
È sempre da ascrivere all’Ottocento la sostituzione dei confessionali e della via Crucis e la posa in opera della cantoria lignea, in origine dipinta con motivi a finto marmo e attualmente con disegni di gusto popolaresco con raffigurazione di strumenti musicali. Nel 1920 vennero compiuti lavori di sistemazione della facciata fortemente degradata e compromessa nel suo apparato lapideo che compresero la posa in opera di una sorta di foderatura della muratura con rifacimento dei due cantonali in
mattoni pieni ammorsati agli elementi in pietra e la sostituzione del cornicione di sommità. In seguito ai danni causati dalla seconda guerra mondiale il Genio Civile di Rimini intervenne con opere di consolidamento sul campanile, sulla copertura della chiesa, sul paramento lapideo, asportandone internamente l’intonaco e tutti gli strati pittorici presenti, con successiva stuccatura dei paramenti portati a facciavista, sulla pavimentazione deteriorata, sugli infissi e con il rifacimento della scala di accesso e di quella esterna per il campanile. Gli ultimi interventi sono da ascrivere al 2002, a opera della Diocesi di Rimini, e hanno riguardato la copertura e opere di consolidamento della cappella laterale destra, in stato di forte degrado, che purtroppo hanno causato la distruzione dell’altare. La chiesa nella sua parte originaria risulta costruita con il materiale scavato e prelevato direttamente dal monte su cui poi fu fondata, un’arenaria giallo-ocra discretamente cementata, che le analisi mineralogico-petrografiche compiute hanno identificato come calcarenite a bioclasti e tendenzialmente microconglomeratica, con laminazioni ad andamento pseudoparallelo generanti piani di distacco preferenziale del materiale. Sull’ammasso roccioso su cui è stata edificata è stato effettuato uno studio geologico-geomorfologico con caratterizzazione geomeccanica, mediante rilevamento di campagna, indagini geognostiche in sito (con esecuzione di un sondaggio a carotaggio continuo con prelievo di campioni fino alla profondità di 7 m) e un rilievo strutturale di dettaglio eseguito in parete al fine di caratterizzare lo stato di fatto e determinare le condizioni di stabilità del pendio, che sono risultate buone. Lo studio effettuato sul versante occidentale della rupe ha evidenziato alcuni potenziali cinematismi
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05. Camminamento interno che originariamente conduceva
all’aula capitolare, oggi non più esistente
quali lo scivolamento planare e lo scivolamento a cuneo, che interessano esclusivamente la parte superficiale dello stesso, mentre l’affioramento torbiditico al suo interno presenta un’alterazione e una disgregazione fisica sensibilmente inferiori, tali da identificare la roccia come resistente. Parallelamente alle indagini sulla pietra sono state condotte analisi mineralogico-petrografiche e granulometriche delle malte di allettamento ascrivibili alla primitiva costruzione che hanno eviden-
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ziato la presenza di calce aerea, sabbia di fiume locale, con piccoli resti conchigliari fossiliferi e rari frammenti litici di arenaria giallastra e siltiti, coccio pesto in tracce, scarsi frustoli carboniosi e frammenti di roccia calcarea rosata a spigolo vivo, probabili resti del calcare (Scaglia rossa o Rosso Amminitico) calcinato per la realizzazione della calce. Il rapporto legante-aggregato è risultato tendenzialmente di 1 a 2. Il paramento esterno della costruzione originaria aveva blocchi lapidei posti in opera quasi a secco, con uno strato di malta di massimo 3 mm. Unici elementi decorati e modanati all’esterno erano le aperture del lato a sud a trifora, una colonna tortile in corrispondenza dell’apertura del transetto sinistro e il motivo del coronamento dell’abside ad archetti pensili a doppio rincasso con superiore motivo con elementi in laterizio contrastante rispetto alla muratura in pietra. Il paramento lapideo si presentava fortemente degradato con diffusi fenomeni di esfoliazione e scagliatura lungo i piani di sedimentazione, presenza di croste nere sui paramenti murari al riparo dalla pioggia e crescita di vegetazione infestante. Il progetto di restauro e consolidamento delle strutture murarie ha previsto il preconsolidamento degli elementi in precario stato di conservazione, seguito da opere di disinfestazione ed eliminazione della vegetazione infestante, dalla pulitura e rimozione di depositi superficiali coerenti, dalla rimozione e abbassamento delle connessure eseguite durante interventi precedenti con materiali che per composizione potevano interagire con la pietra o che avevano perduto la loro funzione conservativa o estetica, dalla posa in opera di nuo va stuccatura con composizione simile all’originaria, dal consolidamento con puntuali operazioni
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di microstuccatura eseguite sulle singole pietre e da trattamenti di protezione finale. Il preconsolidamento degli elementi in precario stato di conservazione è stato effettuato mediante ristabilimento parziale della coesione con silicato di etile con impregnazione per mezzo di pennelli e siringhe, fino a rifiuto. Si è poi proceduto alle opere di disinfestazione ed eliminazione della vegetazione infestante mediante applicazione di biocida con rimozione manuale completa della vegetazione infestante aggrappata ai paramenti murari, comprese le radici profonde, poi a opere di disinfezione da colonie di microorganismi autotrofi o/e eterotrofi mediante applicazione di biocida (benzalconio cloruro al 4% in soluzione acquosa) e successiva rimozione meccanica, sia in caso di incrostazioni che in caso di pellicole. È stata eseguita la pulitura e rimozione di depositi superficiali coerenti, incrostazioni, concrezioni e fissativi alterati, mediante applicazioni di impacchi di soluzioni di sali inorganici, di carbonato e bicarbonato d’ammonio, preceduta da saggi per la scelta della soluzione e dei tempi di applicazione idonei; tra questi anche le colature di resina presenti all’esterno nella cappella a nord molto tenaci e difficili da rimuovere con rischio di degrado del materiale lapideo. Le opere di restauro sono proseguite con operazioni di rimozione o abbassamento delle connessure eseguite durante interventi precedenti con materiali che per composizione potevano interagire con la pietra o che avevano perduto la loro funzione conservativa o estetica, anche in presenza di elementi particolarmente fragili. Tale rimozione ha cercato di eliminare anche i residui delle iniezioni effettuate durante i sopraddetti interventi del 2002 all’esterno della cappella laterale destra;
durante tali operazioni sono stati scoperti tutti i tubuli in plastica verde utilizzati per le iniezioni, alcuni dei quali sono purtroppo rimasti in vista. Successivamente, sulla base anche delle risultanze delle analisi mineralogico-petrografiche compiute sulle malte è stata posta in opera la nuova stuccatura, avente come legante grassello di calce stagionato quarantotto mesi, e come aggregante arenaria setacciata (del medesimo litotipo dell’originale) e sabbia fine del fiume Po con una proporzione tra legante e aggregato di 1 a 2. Sugli elementi lapidei in precario stato di conservazione poiché soggetti a forte degrado da esfoliazione, disgregazione, microfratturazione, microfessurazione, scagliatura e distacchi per impedire o rallentare l’accesso dell’acqua piovana e/o dell’umidità atmosferica all’interno della pietra degradata si è intervenuti con opere di preconsolidamento, con iniezioni di calce idraulica naturale, pozzolana micronizzata e fluidificanti e, successivamente, con microstuccature a base di malta a base di grassello di calce in modo da chiudere completamente i distacchi ed evitare che gli agenti patogeni possano continuare la loro opera distruttiva. Ogni elemento lapideo, seppure privo di modanature e decori, è stato restaurato puntualmente e meticolosamente, variando nelle stuccature delle microfratturazioni e microfessurazioni gli additivi a base di polveri di marmo per fare in modo che queste si armonizzassero alla singola pietra e all’insieme e non risultassero interruzioni ed elementi di disturbo per la leggibilità complessiva dell’apparato murario. Le opere di restauro sono proseguite con la rimozione dei depositi superficiali e delle macchie solubili con impianto di nebulizzazione; parallelamente sono stati asportati gli intonaci in malta cementizia
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dell’imbotte della finestra della cappella a sud e della tamponatura dell’apertura sempre lato sud. Il paramento murario è stato consolidato con Silicato di Etile con impregnazione per mezzo di pennelli e siringhe, fino a rifiuto, mentre la protezione finale per il controllo della microflora (licheni, muffe, micro-funghi), è stata eseguita con prodotto a base di 2,3,5,6-tetracloro-4 metil sulfonil piridina. Rispetto a quanto previsto dal progetto esecutivo non è invece stato possibile eseguire la rimozione del paramento di foderatura in pietre e laterizi legati da malta di calce e con stilature in cemento presente nella facciata e nel lato nord e sud, eseguita nel 1920; infatti in seguito a indagini si è verificato che all’interno la muratura era incoerente, a sacco e con scarso legante. Si è perciò proceduto esclusivamente alla rimozione della parte sommitale, ricostruendo e consolidando la muratura con operazioni di “scuci-cuci”, eseguite in maniera assolutamente limitata ai casi effettivamente necessari, con pietre idonee e omogenee alle preesistenti, poste in opera a forza negli ammorsamenti e sulla superficie superiore di contatto e legate con malta di calce, a sostituzione di elementi lapidei che avevano perso le caratteristiche di resistenza, e dei materiali diversi (scaglie di pietra, mattoni nuovi) che risultavano non armonizzanti con il contesto. Le integrazioni sono state sia di recupero che nuove, provenienti da una cava in località Tre Cavoli (Alfero), l’unica che presentava caratteristiche litologiche e di coloritura simili agli elementi lapidei originali. Durante le operazioni di rimozione dell’intonaco dagli stipiti del portone di accesso sono venute alla luce le originali mensole che reggevano l’architra ve in pietra, occultate dall’arco in laterizi; al fine di poterle lasciare in vista e di sgravare l’architrave
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dal peso della muratura soprastante è stato effettuato un intervento di consolidamento ponendo in opera al di sopra di questo tre putrelle in ferro poggianti su piastre tirantate da barre filettate ai lati e fissate con dado e controdado. Inizialmente era stata messa in opera una cerchiatura metallica al di sotto dell’arco a sesto acuto in pietra, con funzione portante e coadiuvante durante le operazioni di consolidamento. Sempre in facciata si è provveduto a sostituire il parapetto in ferro della scala di accesso posto in opera durante i lavori di restauro del dopoguerra effettuati dal Genio Civile di Rimini negli anni 1950-1960, in stato di forte degrado, con altro in acciaio Cor-ten, sia per i gradini che per il ballatoio, realizzato mediante elementi imbullonati tra loro e non saldati e fissati alla base. Le opere sono proseguite con il “restauro della luce”. Rimosse le tamponature delle aperture presenti nella navata, poste in opera nei secoli passati, sono state scoperte sei finestrature diverse tra loro e uguali due a due: quelle del lato sud della navata (con motivo a bifora) e le due della zona presbiteriale (a feritoia) ascrivibili al primitivo impianto; quelle del prospetto nord, probabilmente successive, a forma rettangolare. È stata inoltre riaperta anche la piccola finestra a feritoia presente nel transetto a sud, tamponata e mascherata da una armadiatura, la cui luce va a illuminare direttamente l’altare a cippo posto nel transetto a nord. Durante le operazioni di restauro delle decorazioni presenti nella nicchia dell’apertura del transetto sinistro, rimuovendo lo strato di intonaco e gesso presente all’intorno dell’infisso, si è verificato quanto era già stato ipotizzato, e cioè che la posizione, forma e dimensione dell’apertura non
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06. Transetto sinistro
era sicuramente quella originaria; in origine aveva dimensioni contenute ed era conclusa superiormente con arco a tutto sesto, tipologicamente del tutto simile a quello presente tra atrio e navata. È stato consolidato l’architrave e posta in opera una cerchiatura metallica che funge sia da controtelaio del nuovo infisso, che da elemento di sostegno della muratura soprastante. Importante e significativo doveva essere il ruolo della luce all’interno dell’architettura della chiesa: la disposizione delle aperture e della luce che da esse entra può essere letta e interpretata con un significato che va al di là del valore visivo. Luce che allontana il buio, che permette di vedere, che indica Dio, che illumina il percorso verso la sal vezza e che diventa la protagonista di riti religiosi durante particolari momenti liturgici o giorni ed eventi astronomici. Luce quindi che può essere paragonata a un’opera d’arte in cui la forma non può essere disgiunta dal contenuto, luce che di venta materia che dà forma, sostanza e significato a elementi e simboli.
Le opere di conservazione sono poi proseguite all’interno con il consolidamento delle testate delle capriate lignee, poste in opera nel XVII secolo in seguito ai danni riportati dalla struttura per il crollo della sala capitolare, e della volta del camminamento esistente nello spessore del muro di sinistra della navata, che in origine conduceva alla sala summenzionata situata sopra il vano d’ingresso e che attualmente porta alla cantoria ottocentesca. È stata restaurata la pavimentazione in cotto, preceduta da indagini esplorative con il metodo georadar GPR, basato sul principio della propagazione di impulsi elettromagnetici nei materiali e sulla loro riflessione in corrispondenza delle superfici di discontinuità, sotto la sorveglianza della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna: la profondità di indagine è arrivata a 2 m dal piano calpestabile e sono risultate cavità locali (tombe), tre zone con materiali di sottofondo molto rimaneggiati, un evidente allineamento di fratturazione nella roccia di substrato in direzione nord-sud con piccoli vuoti in corrispondenza di tale fenomeno di detensionamento e una presunta struttura di fondazione posta in opera probabilmente durante precedenti interventi di restauro e consolidamento del manufatto. Si è provveduto a dipingere a latte di calce con colori che si armonizzano con il paramento lapideo le pareti delle due cappelle laterali, che presenta vano una coloritura azzurra non consona al luogo: tale dipintura era stata realizzata sopra lo strato a finto marmo ascrivibile al tardo Settecento, come evidenziato dai saggi stratigrafici eseguiti durante i lavori di restauro del 2004-2007. Relativamente agli elementi decorativi in pietra presenti all’interno, si sono restaurati il pulvino con ornato fitomorfo incassato a parete lato destro
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07. Dipinti del XIV secolo, transetto sinistro
dell’atrio, risalente ai secoli X-XI, di ambito ravennate; l’acquasantiera murata all’ingresso del campanile, a forma di mano porgente; relativamente al transetto a sud la mensa d’altare, la lapide documentaria eseguita nel 1562 murata a parete in nicchia, il lavabo da sacrestia incassato in parete e la pietra tombale a terra parzialmente occultata dalla pedana dell’armadiatura settecentesca rimossa al fine di scoprire le decorazioni esistenti. Purtroppo è stato possibile procedere a opere di conservazione del paramento lapideo del solo transetto a sud, ricco di pitture visibili e che cela va, nascoste dal mobile in legno di fattura romagnola, interessanti pitture. Anche se da numerose tracce superstiti si hanno chiari indizi che la decorazione pittorica dovesse interessare tutte la pareti dell’abbazia, i numerosi interventi e i molteplici rinnovamenti effettuati nel corso dei secoli hanno cancellato buona parte della primitiva ornamentazione che contribuiva con la ricca policromia a renderla particolarmente suggestiva. Brani di sinopia sono ancora visibili, a un’osservazione accurata, sulla parete sinistra in prossimità
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dell’incrocio col transetto, dove sembra di poter individuare una grande figura aureolata, e altri segni si intravedono sulle pareti della cappella in corrispondenza del transetto destro. Ma la decorazione più cospicua, se si eccettua la piccola edicola sul lato sinistro della navata, interessa in particolar modo il transetto sinistro, ed è collocabile in un arco cronologico che va dal XII al XVI secolo. Nella volta è presente un ampio brano dell’intonacatura originaria su cui insistono tracce della sinopia che mostrano i segni che scandivano le vele e una croce latina. La realizzazione pittorica più antica si dispone sull’intradosso di una nicchia che ha subito una significativa trasformazione e ampliamento della finestra centrale: l’ispezione dei conci murari ha chiarito che in origine la nicchia doveva avere un’apertura centrale a feritoia e che la successiva modifica, determinata probabilmente dal desiderio di rendere più visibili altri affreschi successi vamente eseguiti nell’arcata al centro della parete del transetto, ha comportato la totale perdita della raffigurazione che insisteva sul lato destro. Sul lato sinistro dell’intradosso è affrescata una figura femminile aureolata, probabilmente si tratta della rappresentazione della Vergine Annunciata, collegata visivamente e iconograficamente con l’opposta immagine dell’arcangelo Gabriele, perduta. La Vergine è posta all’interno di un riquadro chiaro bordato da una fascia rossa e da una seconda color giallo intenso. Il manto rosso, che ricopre anche il capo, è impreziosito da un bordo decorato da candide perle che delimitano anche l’aureola. La tunica, segnata da ombreggiature verticali che suggeriscono le pieghe, è profilata
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al collo e ai polsi dal medesimo motivo a perle bianche. La mano destra è sollevata all’altezza del petto, la sinistra tesa a trattenere goffamente il mantello; l’espressione del viso e lo sguardo severo esprimono un senso di turbamento. Pur nell’estrema semplificazione formale, che nella resa delle mani diviene quasi grossolana, la figura risulta estremamente efficace ed emana un forte senso di mistero e di interna vitalità. La decorazione prosegue sulla parete, e anche sull’intradosso della nicchia, con un raffinato motivo a girali da cui fuoriescono pomi rossi e bruni su fondo bianco. La materia pittorica è sottilissima, quasi incorporea, e i pigmenti aderiscono ai conci murari quasi senza preparazione sottostante. Nella grande nicchia della parete che conclude il transetto, prima dell’inizio dei lavori di restauro, era inserita una armadiatura a sportelli che, una volta aperti, hanno fatto intravedere sulla muratura sottostante abbondanti tracce di colore. Dopo aver rimosso il mobile si è potuto vedere che la nicchia e l’intradosso dell’arcata a tutto sesto che la delimita erano completamente affrescati. Nonostante le vistose cadute di colore e i danni irreparabili conseguenti alla lunga permanenza del mobile a ridosso delle pitture il recupero è certo di grande interesse. Al centro si colloca la Madonna col Bambino in trono, affiancata a destra dalla Maddalena, ben riconoscibile per la lunga e fluente chioma bionda e per la pisside che regge in mano, e a sinistra da un’altra santa di incerta identificazione per la mancanza di ulteriori attributi iconografici specifici oltre al libro che sostiene con entrambe le mani. Della Vergine, il cui viso è del tutto sparito, si intra vedono unicamente le mani dalle proporzioni di-
08. Vergine Annunciata, XII-XIII secolo
latate e alquanto sgraziate e alcuni brani del manto dalle pieghe mosse e curvilinee. Il Bambino, di cui si legge parte del viso e dei capelli ricciuti, benedice con la destra e tiene la sinistra chiusa a trattenere un elemento oggi non più visibile. Nell’intradosso dell’arcata sul lato sinistro è affrescata l’elegante figura di santa Lucia, che reca nella destra la palma della gloria e nella sinistra gli occhi, simbolo del suo martirio.
E D C , V P , C M
Sulla destra compare la figura di un santo francescano, col saio e il cordone con i caratteristici tre nodi. La presenza, alla sinistra del santo, di un elemento circolare circondato da raggi serpentiformi, fa ipotizzare che si tratti di S. Bernardino da Siena con in mano il caratteristico monogramma IHS. Le mani di tutti i personaggi risultano estremamente sommarie ed eccessivamente dilatate. La decorazione continua con un’ornamentazione floreale che nell’estremità superiore circonda il medaglione centrale completamente abraso. Tutti gli elementi formali, quali panneggi mossi e arricchiti da movimenti curvilinei, e i particolari accorgimenti tecnici della definizione delle aureole a rilievo e accuratamente incise con tratti rettilinei ed elementi circolari, inducono a datare il dipinto alla seconda metà del XIV secolo. La decorazione pittorica del transetto mostra inoltre sulla parete destra S. Benedetto con lunga barba bianca, libro e pastorale e al suo fianco san Giovanni Battista con la croce attorno a cui si snoda il cartiglio con l’iscrizione Ecce Agnus Dei ; di fronte S. Scolastica, sorella di Benedetto, che tiene nella destra la croce e il rosario e nella sinistra il libro, e una santa, ritenuta da alcuni S. Giulitta, ma che per la presenza di un’ornata pisside e per la fluente chioma bionda, potrebbe essere S. Maria Maddalena. Tutte le figure sono poste all’interno di riquadri profilati da diverse cornici rettilinee. I dipinti, ascrivibili per la struttura formale alla fine del XVI secolo, purtroppo sono stati molto deturpati da drastici trattamenti di pulitura che hanno totalmente asportato le cromie delle carnagioni, in special modo nelle figure femminili che conservano nei visi solo la preparazione a terra verde. I santi
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sono riconducibili alla mano di un unico artista, di levatura particolarmente modesta. Sempre allo stesso periodo, ma a una diversa mano, può ricondursi la decorazione pittorica che riveste la piccola arcata sulla parete sinistra della navata, dove originariamente si doveva trovare un confessionale: al centro il monogramma IHS, sulla destra la figura di S. Leonardo in veste di diacono, che tiene nella mano destra, un turibolo e un libro nella sinistra e sulla sinistra un giovane angelo. La fattura è mediocre e un po’ di maniera. Come spesso avviene, anche riconsiderando tutte le modifiche, i cambiamenti strutturali e l’inserimento di successive cappelle in epoca barocca, per quanto riguarda questi brani pittorici non si può fare a meno di notare una diminuzione di qualità artistica dalle prime alle ultime decorazioni.
N OTA 1
Don A. Bartolini, Montetiffi e la sua Abbazia, Cesena, Stilia Editore, 1967, p. 78.
IL RECUPERO STRUTTURA LE DELL’ORATORIO DI S. ENRICO DI C ALCAIOL A DI VALMOZ ZOLA
anuela Catarsi, Cristina Anghinetti, atrizia Raggio, Giovanni Signani, Barbara Zilocchi
L’
oratorio di Sant’Enrico, dedicato anticamente a San Quirico e citato come tale per la prima volta in un documento del 1449 1, si trova nella media valle del Taro sulla sponda sinistra del fiume, su una paleofrana non completamente assestata, che reca tracce di frequentazione nel Mesolitico (fine IV millennio a.C.-inizio III)2 e i resti di un insediamento rustico di età romana. Si trattava probabilmente di uno dei possedimenti di quel Vario Felice citato nella Tabula Alimentaria veleiate, tra i proprietari di vaste tenute nel pago Dianio, ubicato nella valle del Mozzola, tra le quali un Fundus Iu...inatus , del valore di 6.300 sesterzi, tradizionalmente riconosciuto proprio nella zona di Carcaila o nei pressi dei prati Carcaiolli citati negli estimi farnesiani, di cui il toponimo Calcaiola sembra essere la derivazione3. L’edificio versava in uno stato di grave degrado (Fig. 2 ) quando nel 2002 il Comune di Valmozzola iniziava, con fondi propri, l’iter progettuale per intraprenderne il recupero e la valorizzazione. Ad aula unica e abside semicircolare, aveva un ingresso centrale in facciata e uno laterale murato, in uso almeno fino alla seconda metà dell’800. 01. Materiali dallo scavo archeologico (scala 1:2) (disegno di
I. Fioramonti) 1.1 fr. di accettina in pietra verde levigata 1.2 fr. ceramico di età romana a pareti sottili 1.3 chiave in ferro d’età romana 1.4 lama di coltellino in ferro 1.5 fusaiola in terracotta 1.6 olla da fuoco medievale 1.7 moneta di Giovanni di Boemia 1.8 fr. di ceramica ingobbiata 1.9 anello con castone
1.10 fr. di ceramica graffita.
Unica fonte di luce era rappresentata da una finestra sul lato meridionale dell’aula e una piccola monofora nella conca absidale. Dell’oratorio rimanevano in piedi solo l’abside con il catino e la sua copertura in pietra, i muri longitudinali e parte di quello ovest (facciata). Erano crollate la copertura in legno e piane di pietra e la volta a botte lunettata soprastanti l’aula, quindi la facciata e la testata del lato longitudinale ovest, per altro ancora documentate in essere nel 1988. Il dilavamento dei letti di malta, che ne era conseguito, aveva causato il rilassamento delle murature e lo spostamento dei blocchi lapidei. I muri longitudinali liberi e senza ammorsature strutturali erano pertanto roto-traslati verso l’esterno e il materiale di crollo nascondeva sia i livelli pavimentali che i setti murari fino ad una altezza variabile tra i 100 e i 140 cm. Sulla superficie interna della conca dell’abside rimanevano limitate porzioni di un affresco che, almeno fino alla prima metà del secolo scorso, do veva estendersi a tutta la semicupola del catino. Il degrado, sotto forma di rigonfiamenti, di cadute di intonaco, di sollevamento della pellicola pittorica e di macchie scure, dovute ad attacchi di agenti biodeteriogeni e a umidità, aveva compromesso sia la leggibilità che l’aderenza al supporto murario. Solo nel 2005, grazie ad un finanziamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri, affidato dalla Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici in gestione alla Comunità Montana Ovest, potevano iniziare i lavori. Dopo lo spostamento dei blocchi – accatastati secondo tipo e dimensione per essere riutilizzati nella successiva ricostruzione -, vennero alla luce la pavimentazione in pietra, quasi del tutto integra, una parte del muro di facciata, l’accesso e l’imposta del portone. Tale scoperta mise in discussione il progetto appro-
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02.
Oratorio di S. Enrico (interno) prima del restauro
Tale scoperta mise in discussione il progetto approvato, che prevedeva una copertura ed una chiusura frontale in acciaio satinato e vetro smerigliato, tanto da richiedere una soluzione integrativa. Per attuare il progetto di risanamento e di consolidamento, necessariamente pensato per fornire un appoggio omogeneo ed un legame strutturale alle pareti, che non avevano fondazione propria, si iniziò con il presidiare e rimettere in asse i setti murari roto-traslati con spinte controllate, per poi smontare tutte le la-
stre pavimentali, dopo averle opportunamente rilevate e numerate. Lo scavo archeologico che ne è seguito, e di cui si danno qui di seguito i risultati principali, funzionale alle operazioni di restauro, ha consentito di riconoscere almeno quattro fasi edilizie (Fig. 3) e di retrodatare la fondazione dell’edificio sacro all’altomedioevo4. Un primo oratorio, già orientato est-ovest e di circa m 8,00 x 3,50 5, iscritto solo parzialmente all’interno dell’attuale, era sorto con funzioni probabilmente
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e una breve aula rettangolare che risultava spingersi fino a poco oltre la facciata odierna. Ad esso sono da relazionare i resti di un altare intravisto sotto l’attuale, realizzato come le murature dell’alzato in pietra locale, e almeno tre sepolture. Una tomba infantile in fossa terragna, orientata ovest-est, con copertura piana costituita da due embrici romani di riutilizzo, contenente un piccolo scheletro supino, con braccia lungo i fianchi e viso rivolto all’altare. Un frammento di coltellino in ferro, di cui rimane la lama triangolare (Fig. 1.4 ), e una fusaiola in terracotta, di forma biconica molto schiacciata (Fig. 1.5 ), emerse in giacitura secondaria nei riempimenti di successive inumazioni nei pressi del perimetrale nord attestano l’utilizzo sepolcrale, purtroppo sconvolto da deposizioni successive, anche dell’esterno. Una seconda chiesa si era quindi sovrapposta alla precedente in epoca medievale. I suoi muri risultavano edificati con pietrame molto più regolarizzato, anche se di dimensioni più ridotte, e legante di malta e cocciopesto. Di medesimo orientamento della precedente, essa aveva proporzioni maggiori (m 9,70 x 4,95). In un momento non esattamente precisabile le murature, probabilmente a causa della ripresa del movimento franoso e delle infiltrazioni d’acqua, subirono importanti interventi di restauro, in pietrame e piccoli frammenti laterizi di reimpiego, legati da una malta poco tenace. Si possono probabilmente attribuire a questa fase edilizia alcune delle sepolture ad inumazione, in nuda terra e cassa litica, trovate in parte sconvolte, all’esterno dell’edificio. Si può porre con un buon margine di sicurezza la fine di questa seconda fase costruttiva entro i primi decenni del XIV secolo, data la presenza, nei terreni contenenti le sepolture, di frammenti di
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olle da fuoco di epoca medievale ( Fig. 1.6 ) e, nel vespaio pavimentale della chiesa successiva, di un denaro mezzano della zecca di Parma di Giovanni di Lussemburgo re di Boemia, databile tra il 1333 e il 13357 (Fig. 1.7 ). Il terzo oratorio (XIV sec. – primi decenni XVIII sec.), realizzato dopo il completo abbattimento del precedente, di cui aveva utilizzato parte del pietrame, vide un ulteriore allungamento dell’aula verso ovest (m 11,10 x 4,95) ( Fig. 4 ). Al suo interno sono state ritrovate due sepolture in cassa litica e due lacerti di un piano pavimentale in pietra coperto dal suolo successivo e dalle fondazioni della facciata attuale; all’esterno una tomba singola e due ossari, il primo addossato al perimetrale sud del sagrato contenente anche alcune ceramiche graffite, il secondo, da cui provengono due anelli con castone ( Fig. 1.9 ) e ceramiche grezze, in prossimità dell’angolo sudovest della facciata. L’area circostante all’oratorio vide la prosecuzione dell’utilizzo cimiteriale con tombe ad inumazione ed ossari: lo studio preliminare osteologico ha evidenziato un’intenzionale riduzione delle ossa lunghe attuata per ripulire l’area sepolcrale e renderla libera per nuove inumazioni. Allo stesso orizzonte cronologico sembrano appartenere frammenti di ceramiche graffite ( Fig. 1.10 ) e i resti di un boccale a corpo piriforme e bocca trilobata, ingobbiato e dipinto a raminaferraccia, a pennellate verticali ( Fig. 1.8 ). Si tratta di un tipo ceramico il cui uso è documentato anche nella pittura di natura morta sin dall’ultimo ventennio del ‘500, come ad esempio nelle tele di Annibale Carracci con i tipi del “Mangiafagioli”, oggi alla galleria Colonna di Roma e del “Mangiapolenta”, conservato a New York 8. Notizie di questa fase edilizia sono desumibili an-
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I ’ S. E C V
03. Planimetrie delle fasi edilizie (elaborazioni di C.
Anghinetti e D. Botti Abacus s.r.l)
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04. Ricostruzione tridimensionale della chiesa di terza fase
(elaborazioni D. Romani Abacus s.r.l)
rossa, di cui rimangono solo parzialmente leggibili due figure, una con calzari e veste gialla, l’altra con manto rosso, libro e bastone, conservato nel catino dell’abside (Fig. 5 ). Nel 1784 Giovanni Granelli Arciprete di S. Maria di Gusaliggio, dalla cui Pieve San Quirico dipendeva, dopo una visita all’oratorio, scrive che nella parete del coro “ fornito di volta bassa ma sufficiente ” si trova una pittura “vile e svasata e rappresentante diverse indecenti figure ”12. Nel 1827 sono stati realizzati nuovi importanti lavori di ristrutturazione che comportarono la realizzazione di una volta a botte e delle murature su cui la stessa si appoggiava, che risultano addossate ai muri longitudinali preesistenti (Fig. 6 ). La relazione della visita parrocchiale del Loschi (10 luglio 1827) attesta che il pavimento in quella data era ancora da ultimare e che andava apposto un vetro o un telo all’unica finestra fonte di illuminazione. I lavori di ristrutturazione erano stati così importanti che addirittura comportarono un cambio di dedicazione, con conseguente necessità di una nuova benedizione (“Oratorium pene ex integro reconstructum est et visum est nova indigere benedictione ”)13. Il nuovo Santo titolare diventa S. Enrico
05. Particolare dell’affresco a fine restauro
che dalla visite parrocchiali sia del Vescovo Castelli (1576)9, che dei Vescovi Rangoni (1609) 10 e Zandemaria (1739)11. La chiesa successiva, edificata intorno alla metà del XVIII secolo, presentava una facciata più arretrata e un sagrato che ricalcava il perimetro di una parte demolita dell’edificio precedente (m 7,50 x 4,95). Ad essa è riferibile l’affresco raffigurante quattro Santi all’interno di una cornice
Imperatore, celebrato a Calcaiola con una messa sempre il 15 luglio “a spese de’ parroci ”. Contestualmente alla fase di scavo sono proseguite le operazioni di cucitura dei muri dell’aula, di restauro dei paramenti con la stesura di biocida a largo spettro, la conseguente stuccatura a malta di calce idraulica della tonalità e consistenza di quella antica, confezionata secondo i risultati delle analisi chimico-petrografiche e applicata secondo un criterio distintivo tra superfici esterne ed interne e tra quelle esistenti e le parti di muratura rimesse in opera. In particolare la stuccatura dei paramenti murari esterni superstiti è stata attuata con una stilatura
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S. E C V
07. Particolare del massetto alleggerito con rete
posto all’estradosso del catino absidale e arco presbiteriale ricostruito
06. Interno dell’edificio di ultima fase con murature di rinfor-
zo longitudinali e imposta di volta a botte
ca, confezionata secondo i risultati delle analisi chimico-petrografiche e applicata secondo un criterio distintivo tra superfici esterne ed interne e tra quelle esistenti e le parti di muratura rimesse in opera. In particolare la stuccatura dei paramenti murari esterni superstiti è stata attuata con una stilatura meno regolare, parzialmente sbordante, in maniera da uniformarsi alla tessitura antica, su cui permanevano le tracce di una tenacissima malta di calce (faccia esterna della conca absidale). Il paramento murario di facciata, ad esempio, è stato trattato con stilatura dei giunti a livello, mentre
sulla superficie del muro nord sono state eseguite stuccature meno regolari. Mentre procedevano le operazioni di scavo archeologico, sia all’esterno che all’interno dell’edificio, parallelamente si susseguivano le lavorazioni di restauro dei paramenti murari esistenti (stesura di silicato di etile sui blocchi lapidei, protettivo silossanico, stuccature a malta di calce) e di cucitura muraria. Particolare cura è stata riservata all’arco di scarico del catino absidale, sul quale sarebbe gravato il carico concentrato della trave di colmo del tetto. Per la sua parziale integrazione muraria è stata realizzata un’esatta centinatura e sono stati impiegati i blocchi lapidei provenienti dallo stesso cantiere e opportunamente lavorati ( Fig. 7 ). È seguito quindi il ripristino della copertura, costituita da struttura di legno di castagno, pannello di coibentazione e manto a piane di pietra arenaria. Per ottemperare alle norme in materia di mi-
M C, C A , P R , G S, B Z
glioramento antisismico, sono state individuate le seguenti operazioni migliorative: 1 - cordolature con dormienti in legno massello di castagno, fissati alla muratura con tassellature in acciaio inox; 2 - arco armato interno al setto murario poggiante sopra l’arco dell’abside, eseguito in struttura metallica e opportunamente inglobato nella struttura muraria in pietra. Parallelamente alle lavorazioni esterne, ovvero al completamento dello scavo archeologico ed al restauro dello pseudo-sacrato (cioè quanto rimaneva della chiesa della II-III fase), sono state avviate le procedure per il restauro dell’affresco presente nella conca absidale. Le sue superfici e quelle del catino sono state trattate, conservando le tracce di malta rinvenute e soprammesse tra loro operando un intervento rigorosamente conservativo, optando per la stesura di un intonachino di lieve spessore, nelle parti di muratura in vista, al fine di intravedere le pietre da costruzione; utilizzando malta di calce idraulica
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(come per le stuccature del paramento murario in vista) e sabbione lavato. Per quanto riguarda i lacerti dell’affresco si sono eseguite le seguenti operazioni: fissaggio con carta giapponese e alcool polivinilico, consolidamento in profondità con malta di calce a basso peso specifico, pulitura con bicarbonato di ammonio e acqua demineralizzata deionizzata; consolidamento superficiale limitatissimo (in quanto le parti superstiti dell’affresco erano tenacemente ancorate al supporto/intonaco) con alcool polivinilico, piccole stuccature con calce idraulica, con aggiunta di polvere di marmo bianco botticino e sabbia di tonalità gialla del Ticino; integrazione pittorica ad acquerello a rigatino (le integrazioni sono risultate minime). Sono seguite quindi le operazioni di consolidamento con cordolature perimetrali passanti (chiavi di taglio) a livello del piano di appoggio dei setti murari longitudinali e trasversale di facciata; inizialmente tali lavorazioni hanno interessato il lato sud e interno ovest, per poi estendersi a tutto il complesso (Fig. 8 ). Una volta terminato anche lo scavo archeologico all’interno dell’edificio, si è provveduto a risanare con vespaio la superficie pavimentale e al rimontaggio delle lastre di pietra. Oggi l’oratorio di S. Enrico (Fig. 9 ), la cui cura spetta per lunga tradizione agli abitanti del luogo14, è riaperto al culto.
Particolare dell’armatura del cordolo lungo il lato sud, in corrispondenza dell’abside 08.
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09. L’Oratorio di Calcaiola oggi dopo i restauri
Il consolidamento degli apparati architettonici e decorativi ,
Atti del Convegno di Studi di Bressanone, Padova 2007.
U. Raffaelli (a cura di), Oltre la porta. Serrature, chiavi e forzieri dalla preistoria all’età moderna nelle Alpi orientali , Trento 1996.
Le pietre nell’architettura:struttura e superfici , Atti del Con-
vegno di Studi di Bressanone, Padova 1991. S. Lusuardi Siena (a cura di), Ad mensam. Manufatti da contesti archeologici fra tarda antichità e Medioevo, Udine 1994. E. Nasalli Rocca, Le giurisdizioni territoriali delle Pievi piacentine secondo gli studi di A. Wolf , in “ASPP “, 1930. Pavimentazioni storiche , Atti del Convegno di Studi di Bres-
sanone, Padova 2006.
C. Ravanelli Guidotti (a cura di), Musei Civici di Imola. Le Ceramiche , Imola (BO), s.d. Vivere il Medioevo. Parma al tempo della Cattedrale , Catalo-
go della Mostra, Parma 7 ottobre 2006 – 14 gennaio 2007, Parma 2006. M. ZANZUCCHI CASTELLI, La Tabula Alimentaria di Veleia. Nuovi contributi di ricerca , Parma 2008.
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E. Nasalli Rocca, Le giurisdizioni territoriali delle Pievi piacentine secondo gli studi di A. Wolf , in “ASPP”, 1930, pp. 117-139. Schegge di selce alpina e la penna di un’accettina in pietra verde levigata ( fig. 1.1) provengono da un livello superficiale contenenti resti di sepolture sconvolte (US 16). M. Zanzucchi Castelli, Parma 2008, p. 186. “Ignorasi da chi, quando e come sia stato fondato” recita infatti la visita del Vescovo mons. Cerati del 1784 (Archivio Vescovile di Piacenza, visite parrocchiali Cerati). La sua attestazione più antica è in un documento del 23 febbraio 1449 concernente un’immissione in possesso di un Arciprete della Pieve di S. Maria di Gusaliggio), dov’è definito “di antica, ma sufficiente struttura ”. Quelle riportate d’ora in avanti sono le misure interne di lunghezza e larghezza dell’edificio. Nel campo a ovest della chiesa affiorano pietrami e laterizi di epoca romana. Frammenti di mattoni di età romana sono stati recuperati anche nello strato di preparazione, costituito da macerie, del sagrato (US 94) e nel già citato US 16, dove sono associati a ceramica a vernice nera e a ceramica a pareti sottili grigie decorate a strigilature (Fig. 1.2 ), databili nell’ambito della prima età imperiale. Al IV-V sec. d.C. si può invece datare una chiave in ferro a scorrimento ( Fig. 1.3) [U. Raffaelli (a cura di), Trento 1996, p. 106, Fig. 41]. D/ + iohanes ·r [· ?] Nel campo, entro contorno, corona. Contorno esterno. R/ + · p·a ·r ·m·a Nel campo, entro contorno, croce patente. Contorno esterno. Per i confronti si veda M. Bazzini, scheda n. 199, p. 269, in Vivere il Medioevo, Parma 7 ottobre 2006 – 14 gennaio 2007, Parma 2006. Vedi ad esempio C. Ravanelli Guidotti (a cura di), pp. 178-179. 29 agosto 1576: il Vescovo Castelli relaziona che l’oratorio di S. Quirico appartiene alla Parrocchia di S. Giacomo di Branzone e S. Siro, che fanno riferimento alla Pieve di Gusaliggio. Il suo reddito ammonta a tre staia
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di frumento e uno di spelta e vi si celebra la messa una volta sola all’anno in occasione della festa del Santo titolare il 15 luglio. Il Vescovo evidenzia inoltre le cattive condizioni delle pareti dell’edificio (“ parietes incrustati noviter indigente restauratione et dealbatione ”) e poiché le porte non sono dotate di chiavistelli di ferro ordina che si provveda. Si parla inoltre di un altare “lapideum cum mensa ex lapidibus et calce ” (Archivio Vescovile di Piacenza, visite parrocchiali Castelli). La relazione stesa dal Vescovo Rangoni in visita all’oratorio ritorna sul problema della necessità di un restauro e non fa cenno all’affresco, ma manifesta la necessità che vengano imbiancate le pareti e dipinta l’immagine del santo titolare sopra l’ingresso principale. La Chiesa aveva infatti due accessi: il minore, sul lato nord, fu tamponato quando venne eseguita la parete interna per l’appoggio della volta a botte crollata. Si notano ancora i gradini di accesso. (Archivio Vescovile di Piacenza, visite parrocchiali Rangoni). Il Vescovo Zandemaria, in visita il 25 maggio 1739, constata che l’oratorio è “quasi distructum” e sentenzia che quasi tutto è da rifare: il pavimento, il soffitto, la porta, l’altare. I cancelli sono inadeguati e le pareti risultano ancora da intonacare e ridipingere (Archivio Vescovile di Piacenza, visite parrocchiali Zandemaria). Archivio Vescovile di Piacenza, Visite Parrocchiali Cerati. Archivio Vescovile di Piacenza, Visite Parrocchiali Loschi 1827. In occasione della ricostruzione del 1827 dalla Curia Piacentina venne confermato che l’onere di manutenzione generale non toccava alla chiesa ma ai titolari del giuspatronato Giuseppe Conti, Don Antonio Granelli, Giovanni Madoni e Antonio Fratta, tutti abitanti a Calcaiola. Le stesse famiglie compaiono titolari del giuspatronato il 23 luglio 1856 in occasione della visita del Vescovo Mons. Ranza (Archivio Vescovile di Piacenza, Visite Parrocchiali Ranza 1856) e il 7 luglio 1879 per quella di Mons. Scalabrini (Archivio Vescovile di Piacenza, Visite Parrocchiali Scalabrini 1879).
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IL COMPLESSO ARCHEOLOGICO DI PIAZZA FERRARI A RIMINI SITUAZIONE ATTUALE E IPOTESI DI RE STAURO
Monica Zanar i, Cetty Musco ino, C au ia Te esc i S TORIA DEL RITROVAMENTO
N
el 1989, durante lavori di manutenzione ordinaria nel giardino di Piazza Ferrari, a Rimini, nello scavo per la rimozione della ceppaia di un albero abbattuto, vennero casualmente intercettati i resti dell’edificio residenziale di epoca romana imperiale oggi noto come domus del chirurgo. Lo scavo archeologico, condotto dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna sotto la direzione, prima, del dott. Jacopo Ortalli, allora funzionario della Soprintendenza per i Beni Archeologici, e successivamente dalla scrivente, in qualità di ispettore archeologo di zona per la stessa Soprintendenza, ha messo in luce parte di un’abitazione costruita in epoca romana repubblicana, poi modificata nel corso del II sec. d.C. con la creazione di un appartamento separato, localizzato su un lato di un cortile a peristilio. La domus repubblicana doveva avere la facciata sul secondo decumano est della città, e si sviluppava fra questo e la zona in cui allora passava il fiume Marecchia, con una costa a strapiombo che chiudeva la città dalla parte del mare. Presentava, nei pochi sondaggi che si sono potuti aprire, pavimenti in cocciopesto decorato e un ampio cortile a peristilio chiuso verso il mare da un portico a colonnato doppio entro il quale venne ricavato, nel II secolo d. C., il piccolo appartamento. Questo nuovo settore presentava pareti dipinte, motivi stilizzati derivati dal cd. III stile, con inserimento di piccoli paesaggi e di nature morte. Era servito da un ingresso secondario sul cardo e da un corridoio parallelo al cortile che collegava 01. Rimini, Piazza Ferrari: veduta generale della Domus del
Chirurgo in fase di scavo
una serie di ambienti dotati di pavimenti in mosaico geometrico bianconero, e di uno policromo, con la raffigurazione del cantore Orfeo fra gli animali, nonché un ambiente dotato di riscaldamento e una piccola latrina. Era presente anche un secondo piano, anch’esso con pavimenti in mosaico i cui resti sono stati rinvenuti in crollo sui pavimenti sottostanti. Particolarmente interessante è la tecnica edilizia delle murature che presentano la parte inferiore in mattoni e quella superiore in argilla pressata. Il piccolo appartamento fu utilizzato nel III secolo da un medico-chirurgo, presumibilmente di estrazione militare e forse proveniente dai confini orientali dell’Impero, che vi impiantò uno studiolo con annesso ambulatorio, dotato di una imponente attrezzatura medica sistemata in vario modo entro armadi, contenitori diversi o direttamente sul pavimento. Sempre durante il III secolo, probabilmente durante una incursione barbarica, il complesso fu distrutto da un incendio che, causando il crollo dei soffitti, ha conservato in posto tutti i materiali, dai mobili ai materiali d’uso. I reperti della domus comprendono una straordinaria dotazione medica che costituisce uno dei più importanti complessi mai rinvenuti nel mondo romano, composta, oltre che da più di 150 strumenti chirurgici, da mortai, bilance e contenitori per la preparazione e la conservazione dei farmaci. Tutti questi oggetti erano localizzati entro la camera di Orfeo, presumibilmente lo studio del chirurgo, e nell’ambiente annesso, da identificarsi come l’ambulatorio. Gli scavi hanno anche recuperato, sia in posto che dal crollo, vasellame da cucina e da mensa, un grande bacile marmoreo, un frammento marmoreo restituente la base con il nome e il piede di una statua del filosofo Ermarco che ornava il portico. È stato inoltre rin-
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02. Rimini, Piazza Ferrari: planimetria dell’area archeologica (disegno C. Negrelli)
M G M, M R, M Z, C M, C T
venuto, e ricomposto dai frammenti, un raffinato quadretto in pasta vitrea di produzione orientale ( pinax ) che riproduce un fondale marino con tre pesci dai vivaci colori, che doveva ornare la parete di uno degli ambienti. Fondamentale per la datazione dell’evento bellico che causò la distruzione del complesso è il rinvenimento di un gruzzolo di un’ottantina di monete per le spese quotidiane, che ne fissa la data entro il 260 d.C., nonché di punte di lancia e giavellotto abbandonate sui pavimenti durante i rovinosi scontri che dovettero precedere l’incendio con la conseguente distruzione della domus e l’abbandono dell’area. Sopra i resti della domus venne poi costruito un edificio palaziale di epoca tardoimperiale, databile attorno alla metà del V sec. d.C., dotato di un’aula absidata, impianto di riscaldamento e ambienti con mosaici policromi. Nella zona venne successivamente ubicata una necropoli (con tombe a cassa e alla cappuccina) e infine un’abitazione medioevale in legno, dotata di un grande focolare, che presenta varie fasi. L’area presentava anche occupazioni di epoca malatestiana e successiva, con preziosi rinvenimenti di maioliche e di oggetti d’uso. Data l’importanza del rinvenimento e delle strutture, si decise, congiuntamente al Comune di Rimini, di conservare mosaici e murature in posto e di musealizzare l’area mediante un contenitore progettato ad hoc. Il progetto per la costruzione del suddetto contenitore ha avuto vari impedimenti ed è stato completato solo nel 2007 con la realizzazione della teca che copre attualmente il complesso; in attesa le strutture sono state protette ma lo scorrere del tempo ha portato necessariamente a problemi di conservazione e di manutenzione; la costruzione della teca ha allargato lo scavo, mettendo in luce
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altre strutture e mosaici che non erano incorporati nel primo progetto e che sono stati conservati in vista mediante piani di percorrenza in vetro, illuminazione e spazi ad hoc; la loro musealizzazione tuttavia, al momento, non è da considerarsi soddisfacente, dato che deve essere ancora dotata degli impianti presenti nella restante area. Maria Grazia Maioli D ALLO SCAVO ALLA MUSEALIZZAZIONE
Dal punto di vista della conservazione, il contesto archeologico di Piazza Ferrari è risultato molto complesso da gestire, dal momento che conserva un’ampia gamma di materiali eterogenei, quali strutture di laterizi e argilla pressata, materiale lapideo, intonaci dipinti e pavimenti musivi composti da malte che nel corso dei secoli hanno reagito e continuano a reagire in modo disomogeneo alle aggressioni operate, nel tempo, dal clima e dall’uomo. Bisogna tenere sempre presente che nel momento in cui le strutture e i reperti archeologici vengono portati alla luce, i loro processi di degrado
Rimini, Piazza Ferrari: serie di mortai al momento del ritrovamento 03.
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04. Rimini, Museo della Città, Sezione Archeologica: Serie di
05. Rimini, Museo della Città, sezione Archeologica: Pinax
strumenti chirurgici in ferro e bronzo con resti del loro contenitore
in pasta vitrea
subiscono un’accelerazione perché dal punto di vista microclimatico la stabilità che si è venuta a creare nel sottosuolo è compromessa da nuovi fattori chimici e fisici. Per questo il protrarsi negli anni delle campagne di scavo è stato un’ulteriore aggra vante, anche se, contemporaneamente alla messa in luce, si sono effettuate operazioni di pronto intervento (pulitura, consolidamento e stuccatura) mirate esclusivamente alla conservazione e alla messa in sicurezza dell’intero sito e con periodiche applicazioni di biocida, si è affrontato il problema del biodeterioramento (presenza di alghe, e piante infestanti) che poteva creare seri problemi di conservazione alle strutture archeologiche e agli apparati decorativi, sia dal punto di vista estetico che strutturale. Una volta terminati gli scavi, e in attesa della musealizzazione definitiva, è stata posta direttamente sulle strutture archeologiche, verticali ed orizzontali, una protezione con geo-tessile, aggiungendo poi sui mosaici pavimentali uno strato di argilla espansa.
A questi lavori è seguita una sospensione di alcuni anni durante i quali sono state portate avanti le diverse fasi progettuali del contenitore museo e la sua realizzazione. La struttura che è stata costruita è un ambiente climatizzato costituito da leggere strutture metalliche ed ampie vetrate nel quale è stato creato un percorso perimetrale di visita interno raccordato a passerelle sospese sui ruderi, prive di appoggi sulle superfici di scavo e allineate secondo gli stessi assi costruttivi delle murature antiche. In questo caso la valorizzazione del patrimonio archeologico in situ è garantita da una piena e diretta fruizione da parte della comunità. Nel 2007, dopo l’edificazione della grande tecacontenitore, si è proceduto alla rimozione delle protezioni, operazione non facile perché le piante infestanti avevano proliferato su tutta l’area archeologica, attecchendo diffusamente in superficie e infiltrando le radici anche attraverso il geo-tessile. Questa crescita biologica ha attec-
, , C M, C
chito anche sotto il tessellato dei pavimenti musivi contribuendo alla decoesione delle malte di allettamento e provocando, in molti casi, il sollevamento o la perdita di tessere. In questa fase i lavori si sono concentrati sulla pulitura dell’intera area, mettendo in evidenza la stratigrafia: ogni situazione è stata mantenuta nell’originaria giacitura, così come ritrovata al momento dello scavo. Tutti gli elementi conservati nel sito sono stati trattati con biocidi e messi in sicurezza attraverso stuccature e infiltrazioni localizzate di consolidante. Nei pavimenti musivi, oltre alle sopracitate operazioni, sono stati ripristinati i cordoli di contenimento per impedire la perdita di tessere nei bordi perimetrali e nelle lacune; sono state anche inserite delle puntellature mediante martinetti e muretti in laterizio per conferire stabilità strutturale nei punti in cui i bordi si presentano a sbalzo. In situ sono state mantenute anche le sepolture presenti nell’area palaziale tardo antica e la scelta museale ha optato per la chiara lettura della loro funzionalità: le ossa degli inumati sono state ripulite e mantenute al loro interno, gli elementi in laterizio della tomba alla cappuccina sono stati incollati e ricollocati. La musealizzazione della domus del chirurgo ha riguardato non solo il sito archeologico, ma anche tutti gli oggetti rinvenuti in esso -ora esposti nella Sezione Archeologica del Museo della Città di Rimini, adiacente all’area archeologica- che sono stati oggetto di minuziosi restauri eseguiti nel Laboratorio di Restauro della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna. Le alterazioni più comuni riscontrate nei reperti rinvenuti nella domus sono quelle causate dall’in-
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cendio avvenuto al momento dell’abbandono della casa e da incrostazioni e depositi di varia natura causate dalla lunga giacitura nel terreno; ognuna di queste alterazioni ha interagito con la struttura materica e con il naturale degrado propri di ogni tipologia di materiale. I reperti in bronzo sono quelli che maggiormente hanno risentito dell’effetto dell’incendio: il calore ha favorito la fusione e l’unione tra loro di diversi strumenti chirurgici che si presentavano particolarmente fragili e quasi totalmente mineralizzati e attaccati da corrosione ciclica. Per loro è stato necessario alternare la pulitura di tipo meccanico con bagni in acqua distillata che favorissero l’eliminazione dei sali solubili dei prodotti di corrosione, eseguendo di volta in volta i test per la loro misurazione. In seguito si è proceduto al trattamento di stabilizzazione, consolidamento, incollaggio dei frammenti, integrazione delle lacune e protezione finale. Anche i reperti in ferro si presentavano molto alterati nella forma e nelle dimensioni originarie, e quindi di non facile lettura. Oltre allo strato di incrostazioni terrose frammiste ai prodotti di corrosione, quali ossidi ed idrossidi di ferro, erano presenti rigonfiamenti e fessurazioni che ne determinavano la fragilità e ne pregiudicavano la conservazione. All’operazione di pulitura, eseguita meccanicamente, sono seguite le operazioni di stabilizzazione del ferro, consolidamento, incollaggio dei frammenti, integrazione delle lacune e infine di protezione. Le alterazioni più comuni riscontrate nelle ceramiche recuperate durante le varie campagne di scavo sono le fratture, spesso accompagnate da lacune, deformazioni e annerimenti. Sul materiale ceramico, dopo un’accurata pulitura ese-
168 S
06. Rimini, Piazza Ferrari: Domus del Chirurgo, veduta della stanza dell’Orfeo
guita meccanicamente, si sono susseguite le fasi di lavaggio (in acqua distillata con tensioattivi), essiccamento, consolidamento e incollaggio dei frammenti. L’integrazione delle lacune (formale e pittorica) si è resa necessaria non solo per conferire stabilità all’oggetto ma per consentirne una chiara lettura stilistica. I vetri rinvenuti si presentavano deformati e fusi per effetto del calore: questa condizione ha aggra vato notevolmente la loro conservazione dal momento che il vetro antico è un materiale instabile
anche in condizioni ambientali ottimali. L’inter vento di pulitura è stato eseguito meccanicamente e dove possibile si sono effettuati lavaggi in acqua distillata. A questa delicata operazione sono seguiti il consolidamento e l’incollaggio dei frammenti. I reperti lapidei si presentavano molto frammentati e ricoperti da concrezioni calcaree seppure in buono stato di conservazione dal punto di vista materico. Il restauro di questi oggetti si è concentrato principalmente sulla difficile rimozione della concrezioni calcaree, pulitura
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prodotti e in assenza di un progetto unitario perché sempre eseguiti nell’ottica dell’emergenza. La recente musealizzazione offre ora l’occasione per poter realizzare una revisione generale del sito e individuare e programmare, mediante un progetto unitario, gli interventi finalizzati ad un corretto restauro filologico e alla redazione di un piano di manutenzione. Mauro Ricci, Monica Zanardi I L
RESTAURO DEI MOSAICI : PROPOSTE E PUNTI DI VI -
S CUOLA
07. Rimini, Piazza Ferrari: allievi della Scuola per il Restauro
STA DALLA
del Mosaico di Ravenna
DI R AVENNA
eseguita sia meccanicamente che chimicamente. Prima di essere incollati, i frammenti sono stati protetti con un primer applicato sulle superfici di frattura. Le integrazioni delle lacune sono state eseguite a livello rispetto alle superfici originali con l’applicazione di una malta molto tonalizzante. Preme sottolineare che se l’area archeologica di Piazza Ferrari, ora inglobata nel suo contenitoremuseo, ha riacquistato la propria leggibilità ed è ammirabile in tutta la sua bellezza, dal punto di vista conservativo il lavoro è appena iniziato. Nonostante la presenza di impianti di climatizzazione e deumidificazione, il nuovo assetto ha causato modifiche al microclima e il primo problema da affrontare è proprio la sua stabilizzazione. Altro motivo da non sottovalutare è che tutti gli interventi conservativi sulle strutture e sui pavimenti musivi che si sono succeduti negli anni, e che hanno permesso la loro conservazione fino ad oggi, sono stati effettuati da mani diverse, con l’utilizzo di svariati
PER IL
R ESTAURO DEL M OSAICO
Nell’agosto del 2008, nell’ambito delle attività di collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna, la Scuola per il Restauro del Mosaico di Ravenna ha svolto una campagna di studio e pronto intervento sui pavimenti musivi dell’area archeologica finalizzata all’analisi del loro stato di conservazione. La valutazione delle morfologie di degrado si è estesa su tutta la superficie musiva ma, a causa della brevità dell’intervento dettata da ragioni didattiche, si è deciso di intervenire in maniera generale su tutti i mosaici e approfonditamente solo nelle aree a rischio di perdita. L’obiettivo era comunque quello di comprendere l’area, studiarne le caratteristiche e porle in relazione con i mosaici e i loro deterioramenti. Nonostante le numerose cure di cui sono sempre stati oggetto, i mosaici soffrono di alcune patologie croniche, quali il distacco del tessellato musivo dagli strati sottofondali delle malte di allettamento e la crescita biologica di alghe ed erbe infestanti su alcuni strati e strutture archeologiche.
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S
08. Rimini, Piazza Ferrari: rilievo metrico
Le moderne tecniche di restauro e conservazione hanno permesso di mantenere questi straordinari manufatti nel loro sito originario attraverso mirati e minimi interventi, senza dover operare forti decontestualizzazioni, come strappi dei mosaici e trasferimenti in altri luoghi espositivi, come accadeva in passato. Dal luglio 2008 i mosaici sono stati interessati da una serie di studi ed interventi, quali rilievi metri-
ci ed iconografici, studi delle antiche tecniche di costruzione, osservazioni macroscopiche dei materiali unitamente a operazioni di pulitura fisica e consolidamento di tutti gli elementi mobili e a rischio di perdita. È stato rivolto un particolare interesse anche all’aspetto di fruizione estetica dei preziosi tappeti, oggi disturbata da una serie di elementi come ad esempio i cordoli di contenimento delle lacune
, , C M, C
09. Rimini, Piazza Ferrari: cantiere scuola della Scuola per il
Restauro del Mosaico di Ravenna, fissaggio delle tessere mobili
,
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e dei bordi perimetrali che, se prima della musealizzazione hanno rappresentato una salvaguardia temporanea dei mosaici, ora devono essere rimossi e sostituiti da interventi che valorizzino maggiormente le opere. Di fatto, il restauro, a maggior ragione in casi di aree archeologiche conservate in sito, ha il compito di risolvere positivamente e aiutare la comprensione di alcuni aspetti che da un punto di vista storico-archeologico potrebbero risultare poco chiari e difettivi per il godimento dell’area. Infatti, la mancanza di completezza delle strutture murarie – caratteristica con la quale il sito ci si è consegnato – rappresenta, storicamente parlando, un’istanza negativa: con il restauro, al contrario, abbiamo la possibilità di rendere reversibile questo valore negativo, mediante la valorizzazione degli aspetti tecnici di costruzione degli antichi mosaici. È una possibilità che il sito stesso ci offre in questo caso: l’intervento da noi proposto oltre alle tradizionali tecniche di restauro vede dunque la rimozione dei vecchi bordi di contenimento ed il consolidamento di tutte le sezioni perimetrali dei mosaici attraverso la realizzazione di malte composte con stesse composizioni e granulometrie delle antiche; intervento questo che potenzia l’esistente attraverso una operazione di educazione visiva per il fruitore che può cogliere durante la sua visita anche aspetti più insoliti. Cetty Muscolino, Claudia Tedeschi
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LA STEL E DELLE SPADE: ASPET TI CONSERVATIVI
N
ell’inverno del 2007, in occasione della costruzione di nuo ve abitazioni in località Marano di Castenaso, all’immediata periferia di Bologna, sono state rinvenute tracce di frequentazione antropica riferibili all’età del Ferro. Per meglio definire la realtà archeologica, si è organizzato un gruppo di lavoro costituito da Ispettori Onorari e volontari. Le nuove indagini hanno individuato, dapprima, un segnacolo tombale, quindi alcune fosse, pertinenti -come si è poi appurato con lo scavo archeologico- a sepolture. Data la complessità dell’indagine archeologica, lo scavo è stato affidato dalla committenza alla ditta Fenice archeologia e restauro. Nel corso dello scavo, diretto dal soprintendente dott. Luigi Malnati e dalla dott.ssa Caterina Cornelio, della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna, sono state riportate in luce nove sepolture, tutte contrassegnate da segnacolo funerario, databili al VII e VI secolo a.C. Il ritrovamento più eclatante è la stele pertinente alla tomba 7, un rettangolo sormontato da un disco, con decorazioni a bassorilievo: la cosiddetta Stele delle Spade. La stele si presentava adagiata sul terreno, in posizione obliqua rispetto alla linea di terra, con il lato posteriore rivolto verso l’alto. Tutto intorno i ciottoli del tumulo che, insieme alla stele, erano sprofondati all’interno della cassa lignea contenente il corredo. (Fig. 1) Prima di rimuovere la stele dal terreno sono stati eseguiti alcuni saggi di pulitura sul lato anteriore, ancora appoggiato sull’argilla, poiché si supponeva potesse essere de01. La Stele sullo scavo
corato. Questi hanno confermato la presenza di tracce di decorazione a bassorilievo. Allo scopo di minimizzare i possibili danni causati dalle manovre messe in atto durante il prelievo, la stele è stata asportata creando sul retro -non decorato- un supporto rigido realizzato con bende gessate, avendo cura di proteggere preventivamente la superficie con più strati di pellicola trasparente. Le operazioni di scavo sono state eseguite dagli archeologi della ditta Fenice affiancati, per le operazioni di pronto intervento, dal personale tecnico del laboratorio di restauro della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna. La stele, che si presentava fratturata in tre parti, è un manufatto in arenaria, roccia sedimentaria che si forma per litificazione di originarie sabbie di natura sia marina che alluvionale. Si tratta di una roccia che, a fronte di una facile lavorabilità, presenta problemi connessi ai processi di degrado. Al momento della messa in luce, l’arenaria -che interrata aveva trovato per secoli un microclima nel quale si era stabilizzata- è venuta a contatto con valori di umidità e temperatura totalmente diversi. Il fatto poi che fosse impregnata d’acqua rendeva la pietra ancora più fragile. Per questo motivo, una volta prelevata dal cantiere e trasportata al laboratorio di restauro della Soprintendenza, è stata fatta asciugare lentamente, evitando bruschi sbalzi di temperatura allo scopo di ridurre al minimo i danni causati dall’evaporazione dell’umidità presente. La superficie era interessata da micro fessure e rigonfiamenti che, un’asciugatura veloce e la conseguente migrazione massiccia di sali, avrebbero potuto accentuare. Prima di avviare qualsiasi operazione di restauro, è stato redatto un progetto d’intervento che ha scandito modi e tempi, definendo con precisione
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L S S :
il programma che si intendeva attuare. In questa fase del lavoro ci si è avvalsi della collaborazione di diverse professionalità quali archeologi, esperti in diagnostica dei beni culturali, restauratori, disegnatori, fotografi, progettisti di strutture per la musealizzazione. I principi base che hanno regolato l’intervento conservativo sono la reversibilità dell’intervento, la durabilità e stabilità nel tempo dei prodotti usati, la compatibilità degli stessi col materiale costitutivo, la salvaguardia della possibilità di intervenire con ulteriori interventi conservativi (ritrattabilità) e il principio del minimo intervento e minima invasività. Il progetto d’intervento ha posto l’accento sulle principali problematiche evidenziate dall’osservazione macroscopica della superficie, prendendo in esame e sviluppando i seguenti aspetti: -documentazione sulle fasi del rinvenimento e del prelievo; -relazione dell’archeologo; -documentazione fotografica particolareggiata dello stato di fatto pre restauro (presunte tracce di policromie, aree degradate, tracce di lavorazione); -indagini diagnostiche preliminari su presunte tracce di policromie, caratterizzazione del materiale lapideo e cause del degrado; -prove in situ condotte su aree circoscritte ma rappresentative del manufatto volte a individuare la corretta metodologia dell’intervento di restauro (pulitura, consolidamento ecc.) sulla base dei risultati delle indagini eseguite; -intervento di restauro, con preconsolidamento localizzato delle zone decoese del materiale lapideo, pulitura della superficie, consolidamento, incollaggio dei frammenti e stuccature;
-progettazione e realizzazione di supporto per l’esposizione in sicurezza della stele; L’osservazione macroscopica della superficie ha consigliato di approfondire alcuni aspetti: 1) per definire meglio la metodologia dell’intervento di restauro 2) per dare risposte certe ai dubbi relativi, soprattutto, alla presunte tracce di policromia. S TATO DI CONSERVAZIONE PRELIMINARE ALL’ INTER VENTO DI RESTAURO
La stele è decorata a bassorilievo su un solo lato; il retro si presenta disomogeneo a causa di scagliature del materiale lapideo che in alcuni casi hanno causato la perdita di porzioni della superficie. In alcuni punti dello spessore della stele sono apprezzabili fessurazioni più o meno profonde lungo le linee di sedimentazione dell’arenaria. La superficie appariva, in entrambi i lati, ricoperta da uno strato di argilla – ben adeso al substrato – che in parte celava alcuni particolari del bassorilievo. (Fig. 2 ) Il manufatto, soprattutto nel lato decorato, era localmente interessato da vere e proprie incrostazioni di natura calcarea fortemente ancorate alla superficie; in altri punti appariva in buono stato di conservazione mentre in una porzione del disco la disgregazione granulare dell’arenaria aveva causato la perdita di alcuni elementi decorativi. In alcune zone del bassorilievo, l’arenaria si presentava con una cromia che ha fatto supporre che la stele recasse tracce di colore. Risultano presenti infatti una diffusa colorazione gialla, anche nella sezione di rottura, una limitata cromia rossastra, soprattutto in corrispondenza di alcuni rilievi rappresentanti armi, e un materiale brunastro di diversa consistenza rilevabile in vari punti ma soprattutto sui dischi solari. (Fig. 3)
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02. La Stele prima del restauro con l’individuazione dei punti di prelievo dei campioni
Le analisi per identificare la presenza di residui di policromia sono state eseguite dal prof. Pietro Baraldi del Dipartimento di Chimica dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Si riporta di seguito un estratto dalla sua relazione. «La superficie della stele presenta zone nelle quali appare una cromia differente dal fondo generale del lapideo, in particolare zone gialle,
rossastre e brune. Al microscopio appaiono determinate da una serie di frammenti minuscoli e granulari colorati rispettivamente in giallo, in rosso e in marrone. Per poter identificare la presenza di residui di policromia occorre procedere a identificare materiali pigmentari, leganti e componenti normali del materiale lapideo di supporto.
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03.
Policromie presunte
Sono stati eseguiti alcuni microprelievi nei punti precedentemente individuati a rappresentare la cromia evidente sulla pietra. (Fig. 2) I microprelievi sono stati numerati e portati al Dipartimento di Chimica. Le polveri sono state depositate su una superficie piana e analizzate in microscopia Raman granulo per granulo per verificare statisticamente quali materiali fossero presenti. I materiali rinvenuti sono ossidi di
ferro (ematite, goethite e magnetite), quarzo, albite, anatasio (impurezze), carbone. Il quarzo appare colorato con gli ossidi di ferro. Non appaiono segni di stesure o strati di materiali colorati sopra la superficie del lapideo. Sono sparsi a gruppi in posizioni casuali granuli rossi o gialli. I granuli di carbone fanno pensare a un processo o di degrado di materiale organico presente ab antiquo sul lapideo o di prodotti di com-
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05. Particolare prima dell’intervento di pulitura
bustione di materiale organico; la stessa presenza di magnetite in alcuni punti fa pensare a ossidi di ferro che hanno subito un riscaldamento a temperature superiori ai 500°C. Per una più precisa ricerca di policromia superstite è stato fatto riferimento alle indagini sul materiale lapideo costitutivo della stele (arenaria) per verificare quali fossero i componenti normalmente presenti in esso. Il prof. Stefano Lugli, che ha eseguito le analisi sull’arenaria, identifica nelle sezioni lucide gli stessi componenti identificati con la microscopia Raman sui presunti residui di policromia. L’identificazione di materiali insoliti, come ad esempio il cinabro, già impiegato in ambito etrusco per le pitture tombali, sarebbe stata una prova decisiva della presenza di policromie, considerato che questo composto non è presente nella composizione dell’arenaria. Allo stato attuale delle indagini archeometriche non si hanno prove sufficienti per affermare che la stele fosse policroma».
05. Particolare dopo la pulitura
Le analisi mineralogico petrografiche sono state eseguite dal Prof. Stefano Lugli del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Si riporta, di seguito, un estratto dalla sua relazione. «Il campione di roccia è stato consolidato attra verso impregnazione sottovuoto in resina epossidica bicomponente (araldite). Dal campione consolidato è stata ricavata una sezione sottile per l’osservazione al microscopio ottico in luce trasmessa secondo metodologia standard. - Caratteristiche macroscopiche (secondo normativa UNI EN 12407): Arenaria a grana fine poco cementata di colore grigio-giallastro. Sono presenti estese superfici macchiate da ossidi e/o idrossidi di ferro derivanti dall’alterazione naturale della roccia. - Caratteristiche al microscopio ottico (secondo normativa UNI EN 12407): Arenaria a grana finissima a cemento carbonatico. Componenti principali:
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L S S :
quarzo (sia cristalli singoli che granuli policristallini), frammenti di rocce carbonatiche microcristalline e spatiche, feldspati, biotite, muscovite, frammenti di gusci di foraminiferi, glauconia, noduli di ossidi e/o idrossidi di ferro, frammenti di selce. Il contenuto paleontologico è caratterizzato dalla presenza di foraminiferi planctonici globigeriniformi non identificabili (analisi effettuata dal dott. Cesare Andrea Papazzoni). La porosità della roccia è notevole. F ENOMENI DI DEGRADO
Le tipologie dei fenomeni di degrado individuabili all’esame macroscopico e microscopico vengono di seguito descritte utilizzando le raccomandazioni UNI 11182:2006 13/04/06 Beni culturali - Materiali lapidei naturali ed artificiali - Descrizione della forma di alterazione - Termini e definizioni .
Il degrado è legato principalmente alla caratteristica di scarsa cementazione e di notevole porosità della roccia. L’effetto è quello di marcata disgregazione granulare. È presente anche il fenomeno della macchia legata all’ossidazione naturale di solfuri di ferro presenti in grande quantità nella roccia.
06. Pulitura della superficie
fuori Porta Castiglione (località Le Grotte), Santa Margherita al Colle e Barbiano. La marcata disgregazione granulare del litotipo è stata sicuramente accentuata dalla parziale dissoluzione dello scarso cemento carbonatico per dilavamento da parte delle acque meteoriche e/o di falda. Il fenomeno della macchia doveva essere in gran parte presente nella lastra di roccia già al momento dell’estrazione in cava». I NTERVENTO DI RESTAURO
C ONCLUSIONI
Si tratta probabilmente di arenaria proveniente dalle formazioni arenacee pleistoceniche a cementazione variabile tipiche del margine appenninico bolognese. Potrebbe trattarsi di arenaria appartenente alla formazione delle Sabbie di Imola (sabbie gialle Pleistocene Medio, circa 650.000-800.000 anni fa). Rocce arenacee di questo tipo venivano cavate nelle immediate vicinanze della città di Bologna appena
Le indagini erano necessarie al progetto di restauro ma insufficienti a definirlo. Servivano a elaborare un’ipotesi dell’intervento ma la verifica dell’efficacia di prodotti, tempi e modi non poteva avvenire se non attraverso una serie di test pratici condotti su aree circoscritte ma rappresentative del manufatto. Sono state eseguite prove di pulitura e consolidamento allo scopo di definire la metodologia dell’intervento che ha previsto le seguenti fasi.
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- Preconsolidamento localizzato delle aree a forte decoesione o a rischio di caduta di materiale, eseguito con silicato di etile. - Pulitura superficiale del fronte e del retro della stele: dato lo stato di conservazione e le prove di pulitura in situ, si è deciso di non intervenire con un lavaggio generalizzato della superficie. I depositi argillosi sono stati ammorbiditi con acqua demineralizzata e tensioattivo e asportati -ove il substrato lo consentiva- meccanicamente con bisturi a lama arrotondata, utilizzando, secondo necessità, o il microscopio ingranditore o lampade dotate di lente. Leggera spolveratura con pennello a setole lunghe e morbide per rimuovere i residui della pulitura meccanica e lavaggi localizzati con acqua demineralizzata e tensioattivo, irrorando la soluzione con spruzzette e tamponando la superficie con compresse di carta assorbente. Il tutto con la massima cautela data la fragilità dello strato superficiale. In alcuni casi, erano presenti durissime concrezioni di natura calcarea che, dove il substrato in arenaria risultava coerente, sono state abbassate fino alla totale eliminazione; in altri punti si è deciso di conservarle per evitare che la forte adesione col substrato decoeso, causasse la perdita di superficie decorata. La pulitura ha messo in luce particolari fino al momento inediti dell’apparato decorativo, nuovi elementi che sono allo studio del soprintendente dott. Luigi Malnati, che ne curerà la pubblicazione. (Figg. 4,5,6,7 ) - Consolidamento e incollaggio. A pulitura conclusa, la stele è stata consolidata per immersione con silicato di etile e i tre elementi fratturati sono stati posti in connessione ed incollati con resina epossidica applicata sulle fratture precedentemente trattate con resina acrilica. La resina acrilica
07. Pulitura quasi conclusa
(Paraloid B72), reversibile in solvente, rende possibile la reversibilità dell’incollaggio eseguito con resina epossidica. La scelta di non inserire perni di rinforzo è stata motivata, oltre che dall’esiguo spessore e dalla tipologia della roccia, dal rispetto del principio della minima invasività. ( Fig. 8) Le stuccature, eseguite solo sul retro, in corrispondenza della frattura al di sotto del disco, sono state realizzate con un impasto composto da polvere di arenaria, sabbia e resina acrilica in emulsione acquosa.
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08.
La Stele a restauro concluso (fronte)
L S S :
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P ROGETTO PER LA MUSEALIZZAZIONE DELLA STELE
La musealizzazione della stele è frutto della collaborazione, ciascuno per le proprie competenze, tra chi scrive e i progettisti, BFA Bartolini Fiamminghi Architetti. Il progetto espositivo è stato condizionato dalla scelta di non utilizzare un sistema di perni per ricomporre i tre frammenti della stele. Per realizzare il supporto è stato individuato un sistema di appoggio e uno di ancoraggio. Il primo è stato ottenuto modellando il supporto sul profilo inferiore della stele, per garantire il sostegno verticale, mentre per il secondo sono state utilizzate staffe metalliche di ancoraggio che impedissero il ribaltamento anteriore e laterale. Le staffe sono state protette nel punto di contatto con l’arenaria con materiale inerte (Etafoam). Per esaltare al massimo le qualità materiche e i rilievi di lavorazione della stele è stata scelta una luce a spot radente. La direzione dal basso ha consentito di aggiungere un effetto di sospensione al reperto. Per il supporto sono stati scelti i colori blu oltremare scuro, per la parte alta, e rosso di Marte, per il pannello inferiore. La quota superiore di quest’ultimo pannello ricostruisce il piano ipotetico di sezione dell’originario suolo di posa della stele. (Fig. 9 ) Dall’8 maggio 2009, la stele è esposta al pubblico nel MUV, Museo della Civiltà Villanoviana, inaugurato lo stesso giorno a Villanova di Castenaso, a poca distanza dal luogo del ritrovamento. Va sottolineato lo sforzo finanziario dell’amministrazione comunale di Castenaso che ha contribuito a sostenere i costi di restauro della stele e realizzato la struttura museale che la ospita.
L’intervento è stato realizzato da personale interno al Laboratorio di Restauro della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna. A tale proposito un ringraziamento ai colleghi Mauro Ricci e Micol Siboni per la collaborazione prestata in alcune fasi del lavoro e al soprintendente dott. Luigi Malnati per la fiducia e l’opportunità che mi ha accordato.
09. Progetto di musealizzazione. BFA Architetti
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S T
FRANCESCA BORIS, M ANUELA M ATTIOLI
A NTONIETTA FOLCHI
Il globo terrestre di Vincenzo Coronelli dell’Archivio di Stato di Bologna
Un esempio di restauro: l’archivio notarile antico di Ferrara MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI
MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELL ’EMILIA -ROMAGNA
DELL ’EMILIA -ROMAGNA
Archivio di Stato di Bologna Piazza De’ Celestini, 4 – 40123 - Bologna DIRETTORE Dott.sa Elisabetta Arioti TEL. 051 223891 FAX 051 220474 E-MAIL
[email protected] SITO www.archiviodistatodibologna.it
R IFERIMENTI TECNICI BENE OGGETTO DELL’INTERVENTO Globo terrestre di Vincenzo Coronelli PROPRIETA’ Statale IMPORTO COMPLESSIVO DEI LAVORI € 13.200,00 FINANZIATORE Ministero per i beni e le attività culturali PROGETTISTA Dott.sa Francesca Boris DIRETTORE DEI LAVORI Dott. Gian Piero Cammarota DIRETTORE OPERATIVO Manuela Mattioli IMPRESA Ditta Manuela Mattioli – Restauro opere d’arte - Bologna
Archivio di Stato di Ferrara Corso della Giovecca 146 – 44100 - Ferrara DIRETTORE Dott.sa Antonietta Folchi TEL. 0532 206668 – 0532 208700 FAX 0532 207858 E-MAIL
[email protected]
R IFERIMENTI TECNICI BENE OGGETTO DELL’INTERVENTO “Atti dei notai di Ferrara” (aa. 1465-1594) PROPRIETA’ Statale IMPORTO COMPLESSIVO DEI LAVORI € 10.938,39 FINANZIATORE Ministero per i beni e le at tività culturali PROGETTISTA Cecilia Prosperi DIRETTORE DEI LAVORI Cecilia Prosperi DIRETTORE OPERATIVO IMPRESA Salvarezza Restauro s.r.l., Roma
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S T
GIANLUCA BRASCHI
A NDREA DE P ASQUALE
Il restauro del Cabreo AB 265 “Terreni appartenti ai Pavolotti di Rimini”
La raccolta di carte nautiche della Biblioteca Palatina
MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI
SILVANA GORRERI Le carte nautiche della Biblioteca Palatina di Parma: un piano strategico di restauro
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI DELL ’EMILIA -ROMAGNA
MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
Archivio di Stato di Rimini Piazzetta San Bernardino 1 - 47900 Rimini DIRETTORE Dott. Gianluca Braschi TEL. 0541 784474 FAX 0541 784474 E-MAIL
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R IFERIMENTI TECNICI BENE OGGETTO DELL’INTERVENTO Cabreo AB 265
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Biblioteca Palatina - Parma Strada alla Pilotta 1 – 43100 - Parma DIRETTORE Andrea De Pasquale TEL. 0521 220411 FAX 0521 235662 E-MAIL
[email protected] SITO www.bibliotecapalatina.beniculturali.it
R IFERIMENTI TECNICI
PROPRIETA’ Statale
BENE OGGETTO DELL’INTERVENTO Carte e Atlanti nautici (Ms. pal. 0; Mss. parm. 1613, 16151624)
IMPORTO COMPLESSIVO DEI LAVORI € 400,00
PROPRIETA’ Statale
FINANZIATORE Tina & Mary, Hotel Memory
IMPORTO COMPLESSIVO DEI LAVORI € 73.576,00 IVA inclusa
PROGETTISTA Riccardo Bolognesi
FINANZIATORI Ministero per i beni e le attività culturali; Società Value Retail Management (Fidenza Village) s.r.l.; Banca Popolare dell’Emilia-Romagna
DIRETTORE DEI LAVORI Dott. Gianluca Braschi DIRETTORE OPERATIVO Dott. Gianluca Braschi IMPRESA Cooperativa Sociale Cento Fiori Onlus
PROGETTISTE Dott.sa Silvia Scipioni e dott.sa Silvana Gorrieri DIRETTORE DEI LAVORI Dott.sa Silvana Gorrieri DIRETTORE OPERATIVO Prof. Paolo Crisostomi IMPRESA Studio Paolo Crisostomi s.r.l., via Clementina 6, 00100 Roma
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CORRADO A ZZOLLINI, L UCIANO SERCHIA
GRAZIELLA POLIDORI
Inediti dal restauro: paesaggi dipinti nel Palazzo del Giardino di Parma
Il duomo di Modena “capolavoro del genio creatore umano”. Il restauro del paramento lapideo
MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI
MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DELL ’EMILIA -ROMAGNA
DELL ’EMILIA -ROMAGNA
Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici per le province di Parma e Piacenza Piazza Bodoni 6 – 43100 - Parma
Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici per le province di Bologna, Modena e Reggio Emilia Via IV Novembre n° 5 – 40123 - Bologna
SOPRINTENDENTE Arch. Luciano Serchia
SOPRINTENDENTE Arch. Paola Grifoni
TEL. 0521 212311 FAX 0521 212390 E-MAIL
[email protected]
TEL. 051 64513114 FAX 051 264248 E-MAIL
[email protected]
R IFERIMENTI TECNICI
R IFERIMENTI TECNICI
BENE OGGETTO DELL’INTERVENTO Palazzo Ducale del Giardino
BENE OGGETTO DELL’INTERVENTO Duomo di Modena
PROPRIETA’ Comunale
PROPRIETA’ Capitolo Metropolitano
IMPORTO COMPLESSIVO DEI LAVORI € 750.000,00
IMPORTO DEI LAVORI
FINANZIATORE Ministero per i beni e le attività culturali
€ 150.000,00 + 150.000,00 (MiBAC) - € 1.075.000,00 (Capitolo Metropolitano)
PROGETTISTA Arch. Luciano Serchia
FINANZIATORE Ministero per i beni e le at tività culturali; Capitolo Metropolitano
DIRETTORE DEI LAVORI Arch. Luciano Serchia
PROGETTISTA Arch. Graziella Polidori, ing. Mario Silvestri
IMPRESA Felsina Restauri srl
DIRETTORE DEI LAVORI Arch. Graziella Polidori. ing. Mario Silvestri DIRETTORE OPERATIVO Geom. Vincenzo Vutera IMPRESA Candini Arte s.r.l. – Castelfranco Emilia (MO)
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A NTONELLA R ANALDI
A NDREA C APELLI
Restauri della chiesa del SS. Salvatore a Bologna
Il palazzo ex Enpas a Bologna. Lavori di restauro delle superfici esterne
MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI
DELL ’EMILIA -ROMAGNA
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI DELL ’EMILIA -ROMAGNA
Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici per le province di Bologna, Modena e Reggio Emilia Via IV Novembre n. 5 – 40123 - Bologna SOPRINTENDENTE: Arch. Paola Grifoni TEL. 051 6451311 FAX 051 264248 E-MAIL
[email protected]
R IFERIMENTI TECNICI
Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici per le province di Bologna, Modena e Reggio Emilia Via IV Novembre, 5 – 40123 - Bologna SOPRINTENDENTE Arch. Paola Grifoni TEL. 051-6451311 FAX 051 264248 E-MAIL
[email protected]
R IFERIMENTI TECNICI BENE OGGETTO DELL’INTERVENTO Chiesa del SS. Salvatore a Bologna PROPRIETA’ Demanio dello Stato IMPORTO COMPLESSIVO DEI LAVORI € 103.290,00 per i lavori condotti nel 2007-08 (in continuità con i precedenti cinque lotti di intervento di importo ciascuno di € 206.580,00) FINANZIATORE Ministero per i beni e le attività culturali PROGETTISTA Arch. Antonella Ranaldi e arch. Francesco Eleuteri DIRETTORE DEI LAVORI Arch. Antonella Ranaldi
BENE OGGETTO DELL’INTERVENTO Palazzo ex ENPAS ora INPDAP PROPRIETA’ INPDAP IMPORTO COMPLESSIVO DEI LAVORI : € 150.000,00 (in tre stralci € 50.000,00 ciascuno) FINANZIATORE Ministero per i beni e le at tività culturali PROGETTISTA Arch. Andrea Capelli DIRETTORE DEI LAVORI Arch. Andrea Capelli DIRETTORE OPERATIVO Geom. Dario Biondi
DIRETTORE OPERATIVO Geom. Umberto Frassinella IMPRESA Studio Biavati di Bologna
IMPRESA Marmiroli srl di Bagnolo in Piano (Reggio Emilia)
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GIANFRANCA R AINONE
A NTONELLA R ANALDI
Gli altari delle chiese di S. Giuliano a Bologna e di S. Domenico a Budrio
I chiostri di S. Pietro a Reggio Emilia. Note sui restauri MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI
MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI DELL ’EMILIA -ROMAGNA
DELL ’EMILIA -ROMAGNA
Soprintendenza per i beni storici, artistici ed etnoantropologici per le province di Bologna, Ferrara, ForlìCesena, Ravenna e Rimini Via delle Belle Arti 56 – 40126 - Bologna SOPRINTENDENTE Dott. Luigi Ficacci TEL. 051 42 09 411 FAX 051 25 13 68 E-MAIL:
[email protected] SITO: www.pinacotecabologna.it R IFERIMENTI TECNICI
BENE OGGETTO DELL’INTERVENTO Altari in cotto e stucco della chiesa di S. Domenico a Budrio (BO) PROPRIETA’ Azienda pubblica di servizi alla persona –“Donini-Damiani”, Via Marconi, 6 Budrio IMPORTO COMPLESSIVO DEI LAVORI € 50.000,00 FINANZIATORE Ministero per i beni e le attività culturali PROGETTISTA Arch. Gianfranca Rainone DIRETTORE DEI LAVORI Arch. Gianfranca Rainone IMPRESA Roberta Baruffaldi, Via Pirani, 11, Casumaro di Cento (Ferrara)
Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici per le Province di Bologna, Modena e Reggio Emilia Via IV Novembre n. 5 – 40123 - Bologna SOPRINTENDENTE: Arch. Paola Grifoni TEL. 051 6451311 FAX 051 264248 E-MAIL
[email protected] R IFERIMENTI TECNICI
BENE OGGETTO DELL’INTERVENTO Ex monastero dei SS. Pietro e Prospero a Reggio Emilia, denominato Chiostri di San Pietro PROPRIETA’ Comunale IMPORTO COMPLESSIVO DEI LAVORI € 4.422.018,88 di cui € 1.185.000,00 per i lavori di restauro degli apparati decorativi e intonaci antichi (OS2); € 3.237.018,88 per i lavori edili e impiantistici (OG2 e OG11) FINANZIATORE Ministero per i beni e le at tività culturali PROGETTISTI Architetti Francesco Eleuteri, Maria Luisa Mutschlechner, Antonella Ranaldi, Paola Zigarella, con la consulenza dell’arch. Pier Luigi Cervellati DIRETTORE DEI LAVORI Arch. Antonella Ranaldi e ing. Domenico Rivalta DIRETTORI OPERATIVI Geom. Dario Biondi e Geom. Antonio Noto IMPRESE “Cooperativa Archeologia” di Firenze per i lavori di categoria OS2; “Consorzio Consta” di Padova per i lavori di categoria OG2 e OG11
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ELENA DE CECCO, V ALTER PIAZZA , CETTY MUSCOLINO La chiesa dell’abbazia di S. Leonardo a Montetiffi, Sogliano al Rubicone MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI DELL ’EMILIA -ROMAGNA
: Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici per le province di Ravenna, Ferrara, Forlì-Cesena, Rimini Via san Vitale, 17 – 48121 - Ravenna SOPRINTENDENTE: Arch. Antonella Ranaldi TEL. 0544 543711 FAX 0544 543732 E-MAIL
[email protected] SITO www.soprintendenzaravenna.beniculturali.it
R IFERIMENTI TECNICI BENE OGGETTO DELL’INTERVENTO Chiesa dell’abbazia di San Leonardo, località Montetiffi, Sogliano al Rubicone (FC) PROPRIETA’ Parrocchia di S. Lorenzo Martire di Sogliano al Rubicone (FC) IMPORTO COMPLESSIVO DEI LAVORI € 700.000,00 FINANZIATORE Presidenza del Consiglio dei Ministri (L. 128/2004) PROGETTISTA Arch. Elena De Cecco Rimini
DIRETTORI DEI LAVORI Arch. Domenico Cardamone, arch. Valter Piazza DIRETTORI OPERATIVI Dott.ssa Cetty Muscolino, arch. Elena De Cecco, geom. Danilo Pantieri
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IMPRESE TRIADE s.r.l., Afragola NA (per gli interventi di restauro del paramento lapideo) Laboratorio di Restauro di Giunchi Andrea, Cesena FC ( per le opere di restauro delle decorazioni pittoriche all’interno della chiesa)
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M ANUELA C ATARSI, CRISTINA A NGHINETTI, P ATRIZIA R AGGIO, GIOVANNI SIGNANI, B ARBARA Z ILOCCHI Il recupero strutturale dell’oratorio di S. Enrico di Calcaiola di Valmozzola MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI DELL ’EMILIA -ROMAGNA
Soprintendenza per i beni archeologici dell’Emilia-Romagna Museo Archeologico Nazionale Palazzo della Pilotta – 43100 - Parma SOPRINTENDENTE dott. Luigi Malnati TEL. 0521 233718 FAX 0521 386112 E-MAIL
[email protected]
R IFERIMENTI TECNICI BENE OGGETTO DELL’INTERVENTO Oratorio di S. Enrico Valmozzola, loc. Calcaiola - Parma PROPRIETA’ Diocesi di Piacenza IMPORTO COMPLESSIVO DEI LAVORI € 150.000,00 FINANZIATORE Presidenza del Consiglio dei Ministri (L. 128/2004) PROGETTISTI arch. Giovanni Signani e arch. Barbara Zilocchi con la collaborazione per le ricerche d’archivio della dott.sa Cornelia Bevilacqua DIRETTORI DEI LAVORI arch. Barbara Zilocchi (Supervisione: Soprintendenza B.A.P. per le province di Parma e Piacenza, arch. Paola Madoni, Soprintendenza B.S.A.E. per le province di Parma e Piacenza, dott.sa Lucia Fornari Schianchi e dott.sa Mariangela Giusto) DIRETTORI OPERATIVI arch. Barbara Zilocchi (restauro architettonico); dott.sa Manuela Catarsi (scavo archeologico)
IMPRESE Abacus s.r.l. (scavo archeologico); Socei s.r.l. (restauro architettonico)
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M ARIA GRAZIA M AIOLI, M AURO R ICCI, MONICA Z ANARDI, CETTY MUSCOLINO, CLAUDIA TEDESCHI Il complesso archeologico in piazza Ferrari a Rimini. Situazione attuale e ipotesi di restauro MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI
FINANZIATORE Comune di Rimini PROGETTISTA DIRETTORI DEI LAVORI Dott.sa Maria Grazia Maioli e dott.sa Cetty Muscolino
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI DELL ’EMILIA -ROMAGNA
Soprintendenza per i beni archeologici dell’Emilia-Romagna Via delle Belle Arti 52 – 40126 - Bologna SOPRINTENDENTE Dott. Luigi Malnati TEL. 051 223773 – 051 220675 FAX 051 227170 E-MAIL
[email protected] SITO www.archeobologna.beniculturali.it SOPRINTENDENZA Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici per le province di Ravenna, Ferrara, Forlì-Cesena e Rimini Via S. Vitale 17– 48100 - Ravenna SOPRINTENDENTE Arch. Antonella Ranaldi Tel. 0544 543711 Fax 0544 543732 e-mail
[email protected] www.soprintendenzaravenna.beniculturali.it
R IFERIMENTI TECNICI BENE OGGETTO DELL’INTERVENTO Domus del Chirurgo – Rimini, Piazza Ferrari PROPRIETA’ Demanio dello Stato e Comune di Rimini IMPORTO COMPLESSIVO DEI LAVORI Spese di funzionamento
DIRETTORI OPERATIVI Mauro Ricci, Monica Zanardi, Claudia Tedeschi IMPRESA Scuola per il Restauro del Mosaico di Ravenna
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A NTONELLA POMICETTI
La Stele delle Spade: aspetti conservativi MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI DELL ’EMILIA -ROMAGNA
Soprintendenza per i beni archeologici dell’Emilia-Romagna Via delle Belle Arti 52 – 40126 - Bologna SOPRINTENDENTE Dott. Luigi Malnati TEL. 051 224402 - 223773 FAX 051 227170 E-MAIL
[email protected] SITO www.archeobologna.beniculturali.it R IFERIMENTI TECNICI
BENE OGGETTO DELL’INTERVENTO Stele in arenaria PROPRIETA’ Demanio dello Stato IMPORTO COMPLESSIVO DEI LAVORI Spese di funzionamento FINANZIATORE Ministero per i beni e le attività culturali e Comune di Castenaso PROGETTISTA Dott.sa Antonella Pomicetti, restauro eseguito presso il laboratorio di restauro della Soprintendenza per i beni archeologici dell’Emilia-Romagna DIRETTORE DEI LAVORI Dott.sa Antonella Pomicetti
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Finito di stampare nel mese di settembre 2009
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